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ALLA CORTE DEGLI EROI (1980) a cura di GIANNI MONTANARI INDICE Presentazione Gianni Montanari Karl Edward Wagner La crociata nera Norvell W. Page Venti di fuoco John Jakes Sangue di strega PRESENTAZIONE Per questo secondo appuntamento con la fantasy, come promesso, dobbiamo prepararci ad un'intrusione nel campo specifico della sword and sorcery, ossia nel regno in cui dominano appunto incontrastate la spada e la stregoneria. Lasciando per il momento le dolenti o satiriche connotazioni dell'ottica fantastica che affonda le radici fra le mitologie mediterranee, prepariamoci ai gelidi furori delle divinità di nordica ascendenza che abbondano in questo settore che è forse il più violento - e truce - dell'intera fantasy: i mondi sui quali spazieremo, infatti, sono soggetti al capriccio degli dèi e della magia (quale più nera non si saprebbe immaginare), e le loro strade sono percorse da eroi il cui peso medio si aggira fra i 100 e i 130 chili (ovvero, secondo canoni più adeguati, fra le 280 libbre inglesi e le 400 libbre italiane antiche). I tre eroi prescelti per l'occasione posseggono, è vero, alcune caratteristiche comuni - l'audacia, la mole e l'abilità con le armi - ma al tempo stesso ostentano voci indiscutibilmente individuali. Kane, il gigante fulvo e spietato che dal 1970 (sebbene nato nel 1960, con l'inizio del romanzo Bloodstone) imperversa sulle pagine firmate da Karl Edward Wagner, è nientemeno che la reincarnazione del biblico Caino condannata a vagare per secoli in un mondo ignaro della perenne lotta fra la staticità dell'Ordine e il violento mutare del Caos: Kane, il cui nome in inglese possiede lo stesso suono di Cain, rappresenta naturalmente una versione lievemente diversa del personaggio biblico in quanto, se il Genesi costituisce la versione 'ufficiale' dell'intera storia, il peregrinare di Kane offre invece la versione 'ufficiosa', quella vista dalla parte del primo grande ribelle dell'umanità.
Il secondo personaggio, Prester John, alias John degli Uragani o Wan Tengri, è invece la reinterpretazione di quel mitico Prete Gianni che numerose cronache medievali (prima fra tutte il Chronicon del vescovo Otto di Freising, nel 1045) vollero vedere come un prete-sovrano del lontano oriente. Dominatore di un enorme impero individuato dapprima oltre la Persia e l'Armenia, e in seguito nell'Etiopia o nell'Abissinia, il Prete Gianni era ritenuto discendente di uno dei Magi che visitarono la culla di Betlemme, un possente monarca guerriero cristiano con l'unico difetto di essere Nestoriano, ovvero appartenente ad una chiesa cristiana scismatica, ma Norvell Page ci spiega diffusamente come 'potrebbe' essere andata la storia con un briciolo in più di fantasia, e con una più concreta interpretazione del termine latino Prester, ovvero turbine. Un particolare interessante in merito a questo romanzo, che risale al 1939 e costituisce la prima delle due avventure di Prester John: la stessa storia è stata utilizzata, agli inizi degli anni '70, come sceneggiatura di base per un'avventura a fumetti avente come personaggio non più Prester John, ma bensì il Conan di R. E. Howard. Come terzo ed ultimo eroe, Brak il Barbaro, creato da John Jakes nel 1963 e qui colto nella sua seconda avventura, forse la migliore: Brak non può vantare come nei due casi precedenti ispirazioni illustri, ma non per questo va trascurato. È infatti il prototipo perfetto di tanti altri eroi successivi che hanno avuto a loro disposizione soltanto un coraggio indomito e una tempra d'acciaio, senza poter usufruire direttamente di ausili magici o stregoneschi. Anche in questa storia, come già nelle due precedenti, sarà interessante notare la comparsa non certo fugace di un elemento che di solito è assente nel campo della fantasy e della sword and sorcery in particolare: il cristianesimo. Con i Nestoriani che adorano il loro Dio Senza Nome e una 'croce dai bracci uguali' nella vicenda di Brak, con il 'Christos' e il frammento della 'vera croce' che Prester John porta superstiziosamente al collo, e con la matrice biblica di Kane, abbiamo in questi tre romanzi altrettante testimonianze di una contaminazione i cui esempi si possono davvero contare su una mano. Altro elemento comune a queste opere è il tema del viaggio che sottende ogni sviluppo narrativo: Kane è diventato generale di Sandotneri durante una pausa del suo secolare vagabondaggio, e alla fine dovrà riprendere la sua strada; Prester John vaga in cerca di ricchezze provenendo dalle arene di Alessandria, e a sua volta dovrà poi proseguire il suo pericoloso itinerario; Brak il Barbaro è addirittura in fuga dalla sua terra natale, e
spera di potersi arricchire in una favoleggiata landa del sud. Tutti e tre, dapprima, sembrano in grado di lottare vittoriosamente contro i pericoli del mondo violento e subdolo che li ospita, e perfino di scalfire gli ordinamenti dello statu quo che li circonda, ma ecco che infine ce li ritroviamo dinanzi senza troppi risultati concreti fra le mani. Merito della fantasia? O del mondo moderno che si rispecchia perfino in questi splendidi eroi? Gianni Montanari
LA CROCIATA NERA (Dark Crusade, 1976) di Karl Edward Wagner Karl Edward Wagner è nato a Knoxville (Tennessee) il 12 dicembre 1945. Ha iniziato a scrivere le avventure di Kane nel 1960, ma il suo debutto è avvenuto soltanto nel 1970 con il romanzo Darkness Weaves (ampiamente mutilato in questa edizione, e ristampato fedelmente solo nel 1978). Da allora ha pubblicato altri tre romanzi del ciclo di Kane - Death Angel's Shadow (1973), Bloodstone (1975) e Dark Crusade (1976) - e un'antologia di racconti, Night Winds (1978). Accanto ad un'altra trentina di racconti, ha poi proseguito le avventure di un eroe creato da R. E. Howard - Bran Mak Morn - con due romanzi, e insieme a due amici ha fondato la casa editrice Carcosa con l'intenzione di ristampare e di far conoscere i classici perduti della fantasy. Prologo «Non c'è scampo laggiù.» «Come?» L'inseguito si girò, studiando a fatica le ombre. Là, nell'angolo più scuro dell'arco di sostegno, una figura vestita di nero che non aveva visto prima... quando con gambe malferme si era trascinato verso le pareti scure della vecchia torre. Dalle strade buie lungo le quali era fuggito giungevano le urla e i rumori degli inseguitori armati. Nel silenzio nero ai piedi della torre si udiva solo il suo ansimare rauco e lo sgocciolìo soffice del sangue che gli colava dal braccio. La sua spada si levò goffamente in direzione
della voce. «Non c'è scampo per te, laggiù» ripeté la sagoma vestita di nero. «Non nella Tana di Yslsl.» Una mano secca sgusciò dal mantello scuro e indicò la torre di pietra nera che si levava nel cielo senza stelle. Il guerriero ferito seguì con gli occhi quel gesto, alzando il capo verso la massa scura della torre abbandonata. Si diceva che fosse più vecchia della città di Ingoldi. Perfino più antica di Ceddi, la fortezza le cui strutture si univano un tempo alla torre scura. Ormai abbandonata, la torre era diventata soggetto di innumerevoli leggende sinistre. Ma quella notte le guardie munite di torce e spade facevano apparire un rifugio ben gradito perfino la bocca spalancata del suo portone e la sua scala a chiocciola zeppa di ragnatele. «Che ne sai tu, vecchio?» ringhiò l'inseguito. «So solo che le guardie che seguono le tue traccie di sangue non esiteranno a frugare nella torre. Non c'è scampo nella Tana di Yslsl... e il coraggioso Orted farà la sua ultima battaglia guardato alle spalle solo da pipistrelli e ragni.» Il guerriero allargò le spalle taurine. «Dunque mi conosci, vecchio?» «Per tutta Shapeli è nota la fama di Orted. E tutta Ingoldi parla della trappola che oggi si è chiusa su te e i tuoi lupi, quando hai osato entrare in città per depredare la Fiera delle Corporazioni.» Il bandito sghignazzò, amaro. «Non uno degli abitanti di Shapeli alzerebbe una mano contro di noi... uno dei miei uomini mi ha tradito.» Si avvicinò alla figura vestita di nero. «Io ti conosco, vecchio... dalla tonaca nera e il medaglione d'oro, sei un sacerdote di Sataki. Pensavo che i Sataki se ne stessero nelle sale polverose di Ceddi, lontano dal mondo comune.» «Non abbiamo dimenticato il mondo fuori di Ceddi» rispose il sacerdote. «E non siamo neppure amici di coloro che opprimono i poveri per costruire le loro ricchezze terrene.» Le dita ossute tirarono la manica sporca di sangue con forza sorprendente. «Vieni. Ti daremo rifugio a Ceddi.» «È forse un altro tranello? Ti avverto... non vivrai abbastanza per spendere la taglia che cerchi di guadagnarti!» «Non essere sciocco. Se ti avessi voluto morto avrei potuto dare subito l'allarme. Andiamo. Stanno arrivando. Poco lontano c'è un passaggio tra le mura.» Non avendo nulla da perdere, Orted cedette al vecchio che lo tirava per
la manica. Il sacerdote scivolò attraverso le ombre della torre facendo strada nello spiazzo coperto di ciottoli fino a una parete crollata. Una lastra di pietra ruotò all'interno nei pressi dell'angolo della parete, scoprendo alcuni scalini che scendevano verso il basso. Il sacerdote li percorse con sicurezza. Leggermente a disagio, il capo dei banditi lo seguì. Si sapeva molto poco dei Sataki, ma quello che si sentiva dire dell'antico culto non era molto piacevole. Tuttavia, le torce erano ormai vicine e le frecce conficcate nella schiena e nel fianco stavano esaurendo le sue forze. Appena fu all'interno dell'oscuro passaggio, l'apertura si richiuse silenziosamente. Orted si voltò per vedere chi l'avesse chiusa. Dietro di sé avvertì il movimento rapido del sacerdote. Poi nient'altro. Qualche tempo dopo riprese i sensi. Gli doleva la nuca. La pietra gelida premeva contro la sua carne nuda. Le sue membra erano allargate, immobili. Aprì gli occhi. Sopra di lui era appeso un uomo nudo, con le braccia e le gambe aperte nel buio. Orted scosse il capo, lottando contro il dolore e la nausea. La vista gli si schiarì. Stava guardando in uno specchio nero appeso al soffitto sopra di lui. L'uomo nudo era lui stesso. Era steso con le membra allargate su un cerchio di pietra nera, tenuto fermo da cinghie assicurate ai polsi e alle caviglie. Le braccia e le gambe erano allineate lungo solchi scavati nella pietra, e nello specchio Orted riconobbe l'anello di glifi scolpiti sul cerchio. Era lo stesso che aveva visto sul medaglione d'oro del sacerdote... la croce avellana circondata da un anello di antichi glifi. Ma sulla croce c'era lui, e quello era l'altare di Sataki. Orted grugnì una maledizione e tese le cinghie che lo legavano. Anche se non fosse stato ferito, sarebbe stato uno sforzo inutile. Le figure in nero che circondavano l'altare lo guardavano con volti inespressivi che emergevano come chiazze dalle ombre dei cappucci. Orted si infuriò. «Dove sei, maledetto bastardo mentitore! È questo il rifugio che mi avevi promesso? Perché non hai lasciato che affrontassi le guardie... almeno sarebbe stata una morte onorata!» «Sarebbe stata una morte inutile» sibilò la voce che ben conosceva. «In questi tempi tristi è raro trovare vittime per i sacrifici, e i miei fratelli sono troppo pochi e troppo vecchi. Sono passati mesi dall'ultima volta che sia-
mo riusciti ad attirare a Ceddi qualche sciocco la cui scomparsa non venisse notata. Nonostante la tua vita di malvagità e saccheggi, audace Orted, il tuo ultimo atto servirà a qualcosa. Da tanti anni non abbiamo offerto a Sataki un'anima forte come la tua!» I sacerdoti ignorarono le sue imprecazioni e diedero inizio alla loro evocazione. Il bandito urlava di rabbia e si contorceva nei vincoli, ma le sue grida non riuscivano ad aver ragione del loro canto profondo così come le sue membra non riuscivano a spezzare le cinghie che le trattenevano. Orted, un uomo che non aveva dio, invocava ora Thoem, Vaul, e tutte le altre divinità di cui conosceva il nome. Poiché queste lo ignoravano, il fuorilegge supplicò l'aiuto di Thro'ellet dai Sette Occhi, del Signore Tloluvin, di Sathonys e altre entità demoniache di cui non è bene pronunciare il nome. Se anche quelle lo udirono, non furono certo smosse dalle sue invocazioni. «Il nostro dio è molto più antico di quelli che tu hai invocato invano!» sussurrò sarcastico un sacerdote che gli stava dipingendo sul petto il simbolo di Sataki con un pennello intinto nelle sue ferite sanguinanti. Un profumo agrodolce di incenso si levò nell'aria, offuscandogli i sensi e placando i suoi sforzi convulsi per liberarsi. Il canto, monotono e incomprensibile alle orecchie del bandito, si fece vago e lontano. Nello specchio nero appeso al soffitto, la sua immagine riflessa si oscurò... No. Dallo specchio sopra di lui stava prendendo forma una foschia nera che nascondeva la sua immagine in una cortina di sostanza nebulosa. Allora Orted urlò... inarcando il corpo sull'altare, noncurante del dolore delle ferite. Stavano strappandogli qualcosa di dosso... Il cerchio di sacerdoti interruppe il canto e si ritrasse nell'anticipazione... Ma ciò che si attendevano non accadde... e neppure gli annali più vetusti del loro culto antichissimo avevano previsto ciò che avvenne in seguito. Migliaia di volute nebbiose scesero dal cerchio di vetro nero sopra di lui. Simili a ragnatele di vapore calarono roteando fino ad avvolgere la figura che si contorceva sull'altare. E tra spirali scure, l'ombra appena visibile di qualcosa strisciò verso il basso per inghiottire l'uomo sconvolto dal terrore. L'altare e la vittima vennero completamente coperti da una massa scura ondeggiante. Coloro tra i presenti che non erano fuggiti o morti di paura non poterono sapere quanto a lungo quell'ombra si fosse trattenuta. Addossati uno all'altro nell'implorazione si coprirono il viso con i mantelli. Come c'erano nomi che non era saggio pronunciare, c'erano anche visioni che era bene non
guardare. Dopo qualche istante di terrore una voce si rivolse loro in tono imperioso: «Alzatevi in piedi davanti a me!» Sollevando i volti sconvolti dal panico, i sacerdoti di Sataki contemplarono un prodigio di cui non riuscivano a darsi spiegazione. I L'uomo che non faceva ombra La Fiera delle Corporazioni a Ingoldi era al suo terzo giorno. Situata centralmente rispetto alle vie commerciali che attraversavano quella regione della foresta tropicale, la città era la sede più adatta alla manifestazione annuale. Da tutta Shapeli gli artigiani giungevano per esporre i loro lavori sotto gli occhi attenti dei mercanti e dei commercianti che venivano dalla foresta e da ancora più lontano... marinai bruciati dal vento le cui navi mercantili solcavano il Mare Interno verso ovest, cavalieri abbronzati le cui carovane attraversavano le pianure erbose dei regni meridionali, dove la foresta diventava savana al confine sud di Shapeli. Anche per coloro che non erano artigiani o mercanti la Fiera delle Corporazioni era un grande avvenimento... una vacanza in un'esistenza condotta lavorando faticosamente nei campi. Da innumerevoli città e paesi, coloro che erano in grado di viaggiare si recavano a Ingoldi per una settimana di baldoria. Sui banchi e nei padiglioni, da carri e tendoni eretti in fretta, per tutta la Piazza delle Corporazioni e lungo le strade che la imboccavano, compratori e venditori schiamazzavano mercanteggiando sui prezzi dei prodotti della foresta. Pelli e pellicce, vesti di cotone e lino intessute finemente. Robuste casse di legno tropicale per proteggere le mercanzie acquistate durante il viaggio di ritorno, oppure pettini delicati di ebano e pelle di vipera per la bellezza dei capelli femminili. Posate di stagno e rame, stoviglie e bicchieri soffiati, taglieri di legno e piatti d'argento. Gioielli meravigliosi in argento e oro, smeraldo e opalina... e per proteggerli, archi di legno duro e frecce dalla punta di ferro ricurva, pugnali e spade con lame di puro acciaio di Carsultyal... Taverne e osterie improvvisate servivano birra e vino alla folla assetata, oppure acquavite o bevande alcoliche ancora più strane. Ambulanti distribuivano frutta fresca e verdura, o stufato alle spezie, o carne marinata cotta alle braci davanti agli occhi dei passanti. Sotto lo sguardo tollerante delle guardie della città, tagliaborse e truffatori si aggiravano tra la folla in cerca
di prede. Prostitute intraprendenti con sorrisi automatici e risate aspre cercavano di distogliere i commercianti dai loro affari. Acrobati, mimi e cantanti di strada aggiungevano alla folla immensa le loro frenetiche esibizioni. La fiera delle Corporazioni era un intrico di colori vistosi, odori esotici, suoni stridenti e corpi che si spingevano. Tutta Ingoldi era pervasa da un'atmosfera di festa, e il tentativo fallito di Orted e del suo branco di fuorilegge di depredare la Fiera il giorno prima era già diventato privo di interesse come argomento di conversazione. Per il Capitano Fordheir, che comandava la guardia cittadina, l'argomento era però strettamente attuale. Erano stati gli arcieri di Fordheir che il giorno precedente avevano trasformato in una carneficina l'incursione che Orted aveva preparato con cura. Tentato dalla taglia posta sul capo del famoso fuorilegge, uno della sua banda aveva rivelato al capitano delle guardie i piani che Orted aveva meticolosamente disposto. Ingoldi era una città pigra che stava allargandosi lentamente: dopo secoli di pace le mura di cinta erano state oltrepassate e smantellate per trarne pietra da costruzione. Con la Fiera delle Corporazioni in pieno svolgimento, si concentravano immense quantità di denaro e merci di valore facilmente trasportabili... protette solo da un esiguo corpo di guardia cittadino. Era un progetto rischioso, ma la gente comune guardava con ammirazione il bandito audace e coraggioso e non avrebbe aiutato le guardie mercenarie o i ricchi mercanti. Perché affrontare le armi dei fuorilegge per proteggere dell'oro che non sarebbe mai andato nelle loro mani? Orted aveva pensato di confondere tra la folla un centinaio dei suoi uomini mentre lui irrompeva a cavallo nella Piazza delle Corporazioni. L'occhio dell'informatore era stato però acuto come un dente di vipera, e solo meno della metà erano riusciti a farla franca quando Orted e il resto della banda avevano attaccato la stretta Via Commerciale. All'improvviso i carri dei mercanti si erano trasformati in barricate e dai negozi sovrastanti erano spuntati gli arcieri. Solo pochi si erano salvati dal macello. Con gran dispiacere di Fordhein tuttavia, Orted, fino a quel momento, era riuscito a sfuggirgli. Quando la trappola era scattata, il capitano aveva visto il bandito, colpito già due volte, infrangere con il cavallo la grata della finestra di un negozio. In qualche modo il fuorilegge ferito si era aperto un varco tra gli arcieri all'interno, dileguandosi nell'intricato labirinto di vicoletti e cortili nascosti e perdendosi tra la confusione della folla presa dal panico. Avevano continuato a cercarlo per tutto il pomeriggio e la sera,
ma in qualche modo Orted era riuscito a svignarsela. Fordheir si rabbuiò pensando a come le tracce di sangue svanivano inspiegabilmente nei pressi delle antiche mura di Ceddi. Il bandito era quasi tra le sue mani e qualcuno doveva averlo aiutato. Forse i suoi uomini, e in quel caso ora Orted si trovava sicuramente molto lontano da Ingoldi... o forse era stato qualcuno della città a offrirgli un rifugio. Fordheir aveva considerato a lungo l'assurda popolarità del bandito. Per la gente comune Orted era un eroe... un vagabondo coraggioso che rubava solo ai ricchi. Il capitano fece una smorfia: cosa ci avrebbe guadagnato a rubare ai poveri? Conosceva abbastanza il bandito e i lati crudeli e meno picareschi delle sue imprese criminose. Il capitano Fordheir e le sue guardie, invece, erano considerati solo mercenari degni di disprezzo... assoldati dai mercanti e dagli aristocratici per conservare l'ordine a Ingoldi. Per una paga da fame - che rendeva necessaria la corruzione per mantenersi ed equipaggiarsi - la guardia cittadina teneva abbastanza al sicuro gli uni dagli altri gli abitanti di Ingoldi. La popolazione li scherniva e la borghesia sbraitava a gran voce per sapere come avesse fatto Orted ad eclissarsi. Ce n'era abbastanza, pensò il capitano, a cui i capelli biondi cominciavano a diradarsi e le giunture delle ossa a scricchiolare per l'età, per rimpiangere i giorni della giovinezza e le lunghissime guerre di confine dei regni meridionali. Ma un anziano mercenario era costretto a campare come meglio poteva. Si stiracchiò a fatica sulla sella, muovendo le dita dei piedi negli stivali stretti. Insieme a venti guardie a cavallo stava tornando lentamente in città dopo alcune ore di ricognizione infruttuosa nei dintorni di Ingoldi. Uscendo dalla foresta il profilo incerto della città con i suoi tetti a punta, i camini curvi e i palazzi a cupola dei ricchi, gli apparve come una visione gradita. Le mura scure di Ceddi facevano sembrare la tetra fortezza una cosa separata dalla città in festa. Era stato un lungo pomeriggio, preceduto da una notte insonne. Le giunture stanche cominciavano a dolergli e il ventre a bruciargli, ed inoltre aveva il morale a pezzi. A malincuore riconobbe tra sé di essersi letteralmente lasciato sfuggire dalle mani il capo dei banditi. Una buona cena, un boccale di birra e la sua cuccetta in caserma, avrebbero forse migliorato la situazione. Un uomo a cavallo gli si fece incontro al galoppo venendo dalla città. Dalla camicia e dai calzoni verdi, e dalla striscia rossa lungo le gambe, Fordheir comprese che si trattava di uno dei suoi. Si chiese cosa significas-
se tutta quella fretta. «Il tenente Anchara mi ha ordinato di rintracciarvi, signore» disse ansimando il cavaliere quando lo raggiunse. «Un gruppo di sacerdoti di Sataki sta arringando la folla. Il tenente teme che succeda qualche guaio.» Fordheir bestemmiò. «Se quelle dannate facce raggrinzite non hanno abbastanza buon senso da starsene nascosti tra le loro rovine durante la Fiera delle Corporazioni, non possiamo certo impedire che la folla li faccia a pezzi!» «Non è questo» disse la guardia con un'espressione inquieta. «Il tenente Anchara pensa che la folla sia dalla loro parte.» «Per lo scroto di Thoem! Prima i banditi, ed ora un gruppo di dannati fanatici! Anchara pensa che sia il caso di dispederli? Ha i suoi uomini... perché non li usa?» «Non saprei, signore. Ma c'è qualcosa di strano nell'aria. Il tenente Anchara crede di aver individuato qualcuno degli uomini di Orted tra la folla che circonda i sacerdoti.» «Il tenente Anchara crede! Perché non lo chiede a Tapper, se sono uomini di Orted? L'abbiamo pagato per questo, quel serpente!» «L'informatore è scomparso, signore.» Il tono della guardia era piuttosto triste. Fordheir sputò, irritato. «Avanti, allora. Andiamo a vedere di che razza di assurdità si tratta!» Mentre guidava i suoi uomini verso la Piazza delle Corporazioni, Fordheir si sforzò di dare un senso a ciò che stava accadendo. Per quanto ne sapeva, i seguaci di Sataki se ne stavano nella loro cittadella in rovina e non si preoccupavano del mondo esterno. Di tanto in tanto la scomparsa di qualche ragazzo di strada o di un pezzente ubriaco veniva attribuita ai Sataki, ma nessuno era mai giunto al punto di andare a controllare all'interno della fortezza. Si diceva che adorassero divinità demoniache di qualche mondo antico e che Ceddi (che si diceva significasse "L'Altare") fosse stata costruita sulle rovine di una fortezza ancora più antica, di cui restava solo la Torre di Yslsl. Di certo il loro era un culto antichissimo, ma ormai quasi completamente scomparso. Il fanatismo religioso si era estinto qualche secolo prima, quando l'eresia dei Dualisti aveva attizzato le fiamme che avevano abbattuto il vasto Impero di Serranthon. Ormai nel Grande Continente Settentrionale coloro che si sentivano obbligati a seguire un dio adoravano Thoem o Vaul, o entrambi, e Sataki e Yslsl erano diventati nomi estranei a
qualsiasi pantheon di cui si conoscesse l'esistenza. I rari sacerdoti vestiti di nero che si vedevano di tanto in tanto erano guardati con sospetto dalla popolazione, e solo pochi osavano avventurarsi dalle parti di Ceddi dopo il tramonto. Sebbene non si sapesse quasi nulla del loro culto, erano sorte su loro alcune dicerie niente affatto rassicuranti. La Piazza delle Corporazioni era affollata come Fordheir non ricordava di aver mai veduto. Largo più di cento metri, il vasto spiazzo era talmente assiepato che ci si poteva muovere a fatica. C'era nell'aria un'atmosfera di energia repressa a stento e di eccitazione crescente tra la folla. Facendosi largo a fatica verso il punto in cui il tenente Anchara lo attendeva con un altro contingente di guardie, il capitano Fordheir stabilì che quella storia non gli piaceva. Troppe persone erano state distolte dagli affari della Fiera per seguire lo sparuto gruppo di sacerdoti vestiti di nero che si erano impadroniti di una piattaforma al centro della piazza. A quella distanza, Fordheir non riusciva ad udire ciò che dicevano... ma i mormorii della gente non lasciavano presagire nulla di buono. Il tenente gli sorrise nervosamente, allentando le redini. «Spero di non avervi distolto da qualcosa di importante...» Fordheir scosse la testa bionda. «Al contrario.» Anchara era al suo servizio fin dai vecchi tempi dei regni meridionali. Si fidava del suo giudizio e per di più anch'egli cominciava ad avvertire un senso di pericolo. «Da quanto sta andando avanti?» «Circa un'ora fa mi sono accorto che un gruppetto si era arrampicato su uno dei palchi e aveva cominciato con le solite dannate prediche. Qualcuno ha gridato loro di scendere, ma se guardate attentamente vi accorgerete che attorno al palco c'è un cordone di facce maledettamente poco raccomandabili. C'è stata qualche scazzottata, niente di più, e mi chiedevo se fosse il caso di intervenire quando mi è sembrato di riconoscere qualche viso del cordone. Quel maledetto Tapper si è fatto dare i suoi soldi e se l'è svignata come se avesse il diavolo alle costole... ma giurerei che quel bastardo alto con gli orecchini è uno di quelli che Tapper ci aveva indicato poco prima di dileguarsi.» Fordheir studiò gli uomini dai visi rudi che formavano il cordone. Negli abiti sporchi e male in arnese avevano qualcosa in comune... indossavano tutti un bracciale di stoffa rossa sul quale era impresso in inchiostro nero una "X" all'interno di un cerchio. Fordheir ricordò vagamente che si trattava del simbolo di Sataki. «Hai ragione» disse il capitano. «È proprio una brutta teppaglia quella
che protegge quel gruppo di sacerdoti rincoglioniti. Mi chiedo dove abbiano trovato i soldi per pagarli...» «Giurerei che sono uomini di Orted.» «Potremmo controllarlo. Da quanto tempo la gente sta ad ascoltarli?» «Be', come ho già detto, all'inizio c'è stato qualche fischio di disapprovazione, ma le proteste sono state immediatamente represse. Poi la gente ha cominciato ad avvicinarsi per vedere cosa stava succedendo. Qualcuno se n'è andato, ma la maggior parte è rimasta e la folla ha continuato ad aumentare sempre più, curiosa di ascoltare... In breve la piazza si è riempita di gente e nessuno riesce più ad avvicinarsi alle bancarelle o a muoversi.» «Faremmo meglio a disperderli» decise Fordheir, ricordandosi chi gli pagava il salario. Il discorso dei sacerdoti vestiti di nero stava per giungere al culmine del parossismo. Alla distanza a cui si trovava, Fordheir riuscì ad afferrare solo qualche parola di ciò che dicevano. Molto spesso venivano ripetute le parole "profeta" e alcune frasi: "una nuova era", "un mondo rinato nelle tenebre", "un profeta inviato da Sataki". Ad un tratto l'attenzione del capitano venne attratta da un sacerdote alto che se ne stava in mezzo al gruppo... silenzioso e immobile... coperto da un grosso cappuccio di seta nera sul quale era impresso il simbolo di Sataki in modo che la striscia di glifi gli ricadesse attorno al petto come un cerchio scarlatto, e la croce avellana gli fregiasse il busto e la schiena, lasciando la testa al centro della "X". I gesti e le parole degli altri sacerdoti erano spesso rivolti all'indirizzo di quel loro silenzioso confratello. La folla, sempre più eccitata, dirigeva la sua attenzione a quell'enigmatica figura. All'improvviso il discorso dei sacerdoti si interruppe. Fordheir li udì gridare: «Guardate! Ecco il Profeta che viene dall'Altare!» Con un movimento teatrale, il sacerdote silenzioso si sfilò il cappuccio. Anchara rimase senza fiato e puntò il dito. «Thoem! Avete visto?» Fordheir aveva visto. Tutti avevano visto. Con la maestosità di un semidio, Orted stava in piedi davanti a loro. La sua testa leonina di capelli castani e il suo viso senza barba erano inconfondibili... per quanto fossero più ordinati del solito. Con le mani sui fianchi, e il corpo avvolto da calzoni stretti e una camicia a maniche larghe di seta nera, appariva gigantesco. Il simbolo d'oro di Sataki gli pendeva sul petto poderoso, riflettendo i raggi del sole del tardo pomeriggio. I suoi occhi neri e scintillanti scrutarono le centinaia di visi di fronte a lui, come per incontrare lo sguardo di ognuno di essi.
Orted non faceva ombra. «Bloccate tutte le strade che escono dalla piazza» ordinò Fordheir. «E mandate una staffetta a cavallo in caserma per chiamare tutti gli uomini disponibili. Non so cosa significhi tutto questo, ma certamente Orted non sta scherzando.» Con una smorfia si aprì un varco tra la folla. «Fate venire gli arcieri» continuò. «Non possiamo rischiare che si dilegui nella confusione.» «Signore...» La voce di Anchara era incerta. «Mi sembra che non faccia ombra.» «Lo so.» La Piazza delle Corporazioni si calmò dopo il mormorio iniziale di sorpresa che l'aveva percorsa quando la folla aveva riconosciuto il capo dei banditi. L'aria di festa era satura di un'atmosfera di meraviglia e attesa. Nel silenzio, Orted cominciò a parlare in tono misurato e con voce chiara e potente. «Io sono l'uomo che un tempo era Orted, chiamato bandito e fuorilegge dagli altri uomini. Non sono più quell'uomo. Un dio è entrato in me, e la sua volontà è la mia; le sue parole sono le mie. Ascoltatemi, perché sono Orted Ak-Ceddi; il Profeta di Sataki! «La Parola della Luce è condannata e gli Dei della Luce periranno con essa, e i Figli della Luce verranno distrutti completamente nella loro caduta. Prima della Luce c'erano le Tenebre, prima dell'Ordine il Caos. La Luce e l'Ordine sono fragili aberrazioni nello stato naturale del Cosmo. Non possono durare a lungo. Gli Dei delle Tenebre e del Caos sono molto più vecchi ed enormemente più potenti. Contro la loro sapienza e la loro forza gli dèi usurpatori dovranno cedere il passo. «Le guerre che essi intraprendono sono al di là della comprensione umana, ma sta per giungere il tempo in cui il vincitore avrà il sopravvento e lo sconfitto sarà distrutto. È vicino il giorno in cui il nostro mondo sarà inghiottito dalle tenebre e le imbelli divinità degli uomini verranno abbattute, e con esse i loro templi e gli sciocchi che vi avranno cercato rifugio.» Le ombre della sera stavano scendendo sulla piazza, conferendo un'enfasi drammatica alle parole cupe dell'uomo che non faceva ombra. Fordheir poté rendersi conto dell'atmosfera di paura che si era impossessata della folla in ascolto. La voce di quell'uomo aveva un che di ipnotico, di trascinante. Il capitano sentì un senso di irreparabilità strisciargli nella mente. «C'è una sola speranza di salvezza...» La folla assiepata attese nel silenzio più assoluto.
«I Figli della Luce moriranno insieme ai loro dèi... ma gli Dei delle Tenebre salveranno tutti quelli che li adoreranno. Il nostro mondo rinascerà nelle Tenebre e ci sarà rinascita per chiunque abbia impegnato l'anima alle Tenebre. Per i figli delle Tenebre ci sarà una nuova era ed essi potranno dividersi il bottino della vittoria. Tutti conosceranno la pura libertà del Caos e tutti vivranno come dèi. Nessun piacere sarà negato, nessun desiderio resterà irrealizzato. Gli dèi sconfitti saranno schiavi, e le dee concubine, e i Figli della Luce saranno fango sotto le suole dei Figli delle Tenebre!» Grida di esultanza cominciarono a levarsi da tutta la piazza. Orted Ak-Ceddi attese che le urla aumentassero, poi alzò le braccia chiedendo silenzio. «Sataki, il più grande Dio delle Tenebre, è entrato in me e mi ordina di dirvi questo: Che lui, Sataki, ormai quasi dimenticato dall'umanità, non ha dimenticato l'umanità. Che lui, Sataki, ha perdonato gli uomini per la loro negligenza perché ha capito che sono stati a lungo ingannati da false divinità. Che lui, Sataki, ha deciso che l'uomo venga risollevato dall'ignoranza in modo che molte migliaia siano coloro che divideranno il trionfo delle Tenebre. Che lui, Sataki, ha scelto me, Orted Ak-Ceddi, come suo Profeta per condurre l'umanità alla nuova era!» «Gli uomini sono ai loro posti, signore» bisbigliò Anchara trattenendo nervosamente il cavallo. «Le strade sono bloccate, ma se la folla si rivolta contro di noi...» Fordheir sentì il ventre irrigidirsi. «Non pretendo di capire ciò che sta accadendo» disse accigliato. «Ma comprendo quali sono i nostri doveri. Tenete pronti gli arcieri. Se riusciremo a concludere questa faccenda nel migliore dei modi, tanto meglio. Ma in tutti i casi la concluderemo.» Orted Ak-Ceddi alzò di nuovo le braccia, chiedendo silenzio. «Sataki mi ordina anche di dirvi che Egli ha stabilito che l'umanità renda onore al suo nome e al suo altare. Il giorno della vittoria finale si avvicina, e Sataki comanda che i Figli della Luce vengano abbattuti dai Figli delle Tenebre allo stesso modo in cui gli Dei della Luce e dell'Ordine saranno abbattuti dagli Dei delle Tenebre e del Caos. «Questa è dunque la volontà di Sataki: Che ogni uomo scelga... Sataki o la morte! A tutti coloro che onoreranno il suo nome, Sataki donerà ricchezza e piaceri in questo mondo e la promessa dello splendore eterno nella nuova era che verrà! A tutti quelli che rifiuteranno di adorarlo, Sataki darà la morte in questo mondo e l'eterna degradazione nella nuova era che verrà. Le loro divinità e le loro ricchezze saranno conquistate da Sataki e
tutti i suoi seguaci si divideranno in modo equo il bottino! E l'unica legge sarà: Servite Sataki e fate ciò che desiderate! E l'unico ordine sarà: Servite Sataki o morite!» La folla era in delirio... per tutta la piazza scoppiavano zuffe furiose come conseguenza alle diverse reazioni provocate dal discorso infuocato del Profeta. La situazione stava diventando difficile da controllare, concluse tra sè Fordheir abbandonando le speranze di poter arrestare senza problemi il fuorilegge convertitosi al fanatismo. Diede un ordine agli arcieri, che si erano avvicinati fin dove la calca lo aveva loro permesso. Un nugolo di frecce sibilò verso il palco, rischiando di colpire chi si trovava nelle vicinanze. Una mezza dozzina di dardi si abbatterono su Ortek Ak-Ceddi. Il suo corpo poderoso barcollò sotto l'impatto, mentre le punte di ferro gli rimbalzavano contro il petto. Dalla folla si levarono grida e urla di rabbia. Il Profeta rimase in piedi. «Deve avere una maglia di ferro sotto gli abiti!» esclamò meravigliato Anchara. «Vorreste uccidermi? Sciocchi!» ruggì il Profeta, strappandosi dal petto la camicia lacerata dalle frecce. «L'acciaio non può scalfire la carne che Sataki ha toccato!» Orted Ak-Ceddi non indossava alcuna maglia di ferro. La sua carne nuda non presentava segni di ferite, né vecchie né recenti. «È un incantesimo!» sibilò Anchara. «L'acciaio non può nulla contro la magia!» «Lo sapremo presto!» ringhiò Fordher. «Preparatevi ad avanzare.» Gli arcieri erano rimasti immobili, allibiti da ciò che avevano veduto. L'urlo di Orted si levò al di sopra del tumulto della folla. Con un gesto trionfale alzò le braccia al cielo. «Vedete come Sataki protegge il suo Profeta! Allo stesso modo proteggerà e ricompenserà chi lo servirà! Scegliete subito... Sataki o la morte! Servirete Sataki?» «Sataki» ruggì la folla. «Sataki» urlò di nuovo il Profeta. «Sataki» rispose la folla ancora più forte... sempre più forte, fino a intonare una specie di canto. «E allora, per chi non crede... morte!» Ordinò Orted, sovrastando il fragore. Poi puntò il dito verso gli arcieri. «Morte!» «Morte!» ripeté la folla. Rendendosi conto del pericolo, gli arcieri tentarono di ritirarsi verso il grosso delle guardie. Troppo tardi. La calca era quasi impenetrabile e la
folla si stava stringendo su loro brandendo pietre e bastoni. I soldati cominciarono a scagliare frecce a distanza ravvicinata contro la massa inferocita. Molti colpi andarono a segno, ma un arciere può estrarre e lanciare solo una freccia alla volta, e così... Fordheir estrasse la lunga sciabola in preda alla nausea per l'improvvisa carneficina. La piazza assiepata era teatro di infinite zuffe individuali. Le prime bancarelle e le tende che vi si affacciavano furono travolte dalla ressa. Dall'alto del palco, Orted Ak-Ceddi esultava. «Riusciremo a disperderli?» si chiese Anchara. Meno di cento cavalieri contro una folla inferocita... Il capitano Fordheir era certo che in condizioni normali il pronostico sarebbe stato a suo favore. Ma questa volta? «Estrarre le sciabole!» ordinò. «Avanti. Sgomberare la piazza!» Le guardie avanzarono, spingendo i cavalli al passo contro la folla in tumulto. Gli ultimi bagliori del sole che tramontava sfiorarono i loro volti e le sciabole affilate. Al loro avvicinarsi rispose il ruggito di migliaia di grugni inferociti. «Disperdetevi! Sgombrate la piazza!» La massa ondeggiò, indietreggiando e comprimendosi ancor più per evitare gli zoccoli e le lame d'acciaio. Alcuni cominciarono a fuggire nei vicoli laterali. Poi un comando squillante. «Per Sataki! Colpite e uccidete!» Pietre e bastoni cominciarono a volare, insieme a un nugolo di frecce. Pugnali e spade apparvero nelle mani dei ribelli. «Avanti!» Le sciabole si abbatterono sui visi lividi di rabbia. Gli zoccoli dei cavalli calpestarono corpi che si dibattevano a terra. Davanti ai soldati il fronte della folla si infranse, allargandosi sulla piazza sporca di sangue. Ma la pressione da dietro spingeva la marea in modo sempre più incontenibile. La calca impediva di fuggire e lo spazio era troppo esiguo per permettere alle guardie di muoversi velocemente. I soldati a cavallo si facevano largo a fatica nella massa... alzando ed abbassando con terribile abilità le sciabole arrossate. Tuttavia, la folla premeva e avanzava tra le fila dei mercenari ed alcuni con impeto suicida circondavano gruppetti isolati di cavalieri, travolgendoli nella calca. I cavalli cadevano a terra tra alti nitriti, trascinando con sé i soldati verso una terribile morte. Pietre e bastoni completavano lo sterminio in modo sistemati-
co. Come scorpioni contro un esercito di formiche, le guardie falciavano gli uomini fino al momento in cui venivano abbattuti essi stessi. I soldati superstiti si raggrupparono a fatica in un punto della piazza dove la gente si preoccupava più di saccheggiare le esposizioni dei gioiellieri che di affrontare le lame affilate. Erano rimasti in meno di venti, stremati dallo sforzo e dalle ferite. In breve vennero circondati dalla folla urlante... belve assetate di sangue nelle quali il Profeta aveva risvegliato l'innata inclinazione umana alla violenza. Il tenente Anchara era semiaccecato da una ferita sopra l'occhio. In modo meccanico si bendò la fronte. «Abbiamo la possibilità di uscirne?» chiese con poca convinzione. Fordheir lanciò un'occhiata verso le strade lontane, dove già erano in corso saccheggi e scontri. Tutte le giunture gli dolevano e avrebbe desiderato un boccale di birra. «Credo di no» disse. «Per ogni uomo giunge il momento di morire. Penso che questo sia il nostro.» II L'uomo che temeva le ombre L'uomo dal viso scarno si affacciò alla porta aperta del Frontone Rosso a Sandotneri, nei regni meridionali. All'improvviso si voltò, allungando il collo per controllare la strada dalla quale era arrivato e dove la gente si occupava delle proprie faccende tra il caldo e la polvere del tardo pomeriggio. Poi si girò di nuovo, furtivo, per osservare coloro che avevano cercato rifugio dal sole all'interno della locanda. Una mano secca asciugò il sudore da un viso scavato, dove due occhi impauriti luccicavano nelle orbite scure. L'uomo lanciò un'occhiata interrogativa al proprietario della taverna, che scosse il capo. Poi, dopo aver di nuovo scrutato la stanza, prese la via delle scale e scomparve verso le stanze del piano di sopra. «Si direbbe che quel tipo abbia paura della propria ombra» commentò un cliente del bar. Il proprietario lo guardò. «È proprio così.» «Che significa?» L'altro scrollò le spalle tarchiate. Il Frontone Rosso non era una taverna dove gli affari dei clienti interessavano il proprietario. Tuttavia... «Ha paura della propria ombra. Si chiude in camera appena cala il sole e ci resta finché non è giorno pieno. Tiene la stanza illuminata a giorno...
consumerà più di cinquanta candele ogni notte.» «Tiene accese le candele tutta la notte?» «Certo. Anche dieci o quindici alla volta, tutte attorno al letto. E tre lampade a petrolio... È una fortuna che non faccia incendiare tutto l'albergo. Vorrei sbatterlo fuori, ma paga bene.» «Ma allora, di cosa ha paura?» «Delle ombre.» «Delle ombre?» «È quello che ha borbottato una mattina quando è sceso a fatica dalle scale, chiedendo da bere pur essendo già ubriaco fradicio. 'Ombre', ha detto.» «Ma è la luce che crea le ombre.» «No, la luce permette di vedere quello che le ombre stanno per fare.» Il taverniere si batté un dito sul capo calvo. «Questo è quanto dice lui.» «Ne ho visti altri come quello» confermò un cliente. «Sono inseguiti da qualcosa. E di solito si tratta di cose che escono da una pipa di hashish o da troppe coppe di vino» concluse, svuotando rapidamente il boccale. «A volte vengono da qualche altra parte» disse una sagoma vestita di nero che nessuno aveva visto entrare. L'uomo che aveva paura percorse in fretta il corridoio reggendo in mano una pesante chiave di bronzo. Il Frontone Rosso era una delle poche locande del quartiere con le porte delle camere munite di quel tipo di serratura. Costava di più, ma c'erano alcune persone che non badavano a spese. Con un senso di sicurezza l'uomo armeggiò con la chiave nella toppa e scivolò all'interno della stanza. Chiuse la porta e lanciò un gridolino spaventato, vedendo l'uomo che lo stava aspettando. Il visitatore non aveva un aspetto rassicurante. Con un corpo grande e grosso più del doppio di quello dell'altro, se ne stava seduto a fatica sull'unica sedia della stanza. Dalla sua figura enorme si levava un'aura di forza quasi animalesca. La sagoma poteva essere quella di uno scimmione coperto da un paio di calzoni di pelle nera e un panciotto senza maniche. Un'intelligenza crudele appariva sul suo viso brutale incorniciato da capelli rossi e lunghi sulla nuca e da una barba color ruggine: il collo robusto era avvolto da una sciarpa di seta rossa, e al di sopra della spalla destra spuntava l'elsa di una spada di Carsultyal assicurata al torace possente. Nei suoi occhi selvaggi si poteva leggere la certezza di un massacro nel caso la ma-
no sinistra di quella creatura si fosse allungata verso l'elsa della spada. Tuttavia l'uomo che aveva paura emise un sospiro di sollievo: «Kane!» L'altro aggrottò la fronte. «Che ti prende, Tapper? Sei nervoso come un gatto nella bottega di un macellaio. Hai commesso qualche passo falso...?» Tapper scosse il capo. «No, va tutto bene, Kane.» «Ti ho ingaggiato perché si diceva che eri un uomo di coraggio» nella voce di Kane c'era una nota di ammonimento. «Mi sembra che ti comporti come un uomo che stia per fuggire.» «Non è così, Kane. C'è qualcos'altro.» «Che cosa, dunque? Sto correndo su un rasoio troppo affilato per rischiare tutto su un uomo che non riesce a portare a termine i suoi compiti.» Tapper annuì nervosamente, umettandosi le labbra secche. Forse era tornato il momento di fuggire. Se fosse riuscito a raggiungere la costa... «Io sono a posto» ribadì in tono accigliato. «Per Thoem, Kane! Non sai cosa sia stato uscire da Shapeli. Quei Sataki sono ovunque... niente può resistergli! Ho levato i tacchi da Ingoldi qualche ora prima che uccidessero le guardie e saccheggiassero la città. Me la sono svignata da Brandis la notte stessa in cui l'hanno circondata e bruciata. A Emleoas sono sfuggito per un pelo al massacro legandomi attorno al braccio una fascia di Sataki e partecipando al saccheggio... e non parliamo di ciò che è successo ai mercenari del generale Cumdeller diretti alla frontiera. Il Profeta ha attirato sotto il suo stendardo decine di migliaia di uomini, Kane. Dovendo scegliere tra unirsi ai saccheggiatori o morire tra le ceneri, non perdono neppure il tempo di ascoltare quell'imbonitore del demonio per consacrare la loro anima a Sataki!» «Ci sono cento miglia di savana tra Sandotneri e le foreste di Shapeli» gli ricordò asciutto Kane. «Non credo proprio che Orted Ak-Ceddi verrà a cercarti fin qui.» Tapper trasalì, guardando l'altro di sottecchi per capire se l'osservazione di Kane implicasse qualcosa di più di una nota di scherno. Per quanto il suo tradimento del capo dei fuorilegge fosse stato tenuto segreto, Kane era incredibilmente bene informato. L'uomo che aveva paura tremò, sforzandosi di reprimere i ricordi di settimane di fuga e terrore. I tentacoli scuri dei Sataki si allungavano a dismisura. Ogni volta le orde del Profeta avevano messo a sacco le città in cui egli aveva trovato rifugio. E di notte... di notte era ancora peggio. L'oro della taglia non era durato a lungo, e neppure i soldi che gli erano passati per le mani in seguito.
Poi, era uscito da Shapeli per entrare nei regni meridionali, dove le ombre della Nera Crociata non erano ancora giunte. Là, per la spia assassina era pronto altro oro. Abbastanza per raggiungere la costa e pagarsi il viaggio nel Continente Meridionale o in terre ancor più lontane. I regni meridionali avevano una designazione geografica più grandiosa che reale. A sud delle foreste di Shapeli, il Gran Continente Settentrionale si piegava verso ovest in una vasta regione di savana attorno al Mare Interno a nord e lo Stretto Meridionale a sud... e poi verso nord vicino alla costa occidentale del Mare Interno, dove le zone verdi si elevavano nelle Montagne di Altanstand. Al di là della loro cresta rocciosa, la parte maggiore del continente si stendeva per oltre seimila miglia prima di congiungersi alla fine con il Mar Glaciale del Nord. Molti secoli prima, HalbrosSerrantho aveva tentato di unire questa parte settentrionale del continente, ma ora l'Impero di Serrantho era crollato e l'unico altro grandioso tentativo di rivendicare per intero il Gran Continente Settentrionale si perdeva nei ricordi della sfortunata guerra fra Ashertiri e Carsultyal agli albori dell'umanità. Il numero dei regni meridionali poteva variare da cinquanta a cento a seconda dei più recenti matrimoni ed eredità in ossequio ad annessioni e secessioni, alleanze e guerre civili. Sparsi su duemilacinquecento miglia di territorio bruciato dal sole, gli ostinati e autonomi possedimenti ereditari erano in continuazione ai ferri corti per diritti territoriali e acquatici. Feroci guerre di confine e intrighi di corte erano la consuetudine accettata dei regni meridionali. Un uomo come Tapper poteva diventare ricco in una sola notte. Oppure morire nel giro di un secondo. Tapper scrutò a disagio il visitatore. L'oro che gli serviva comportava certi rischi e l'uomo che aveva paura conosceva terrori ben maggiori dei pericoli di una cospirazione politica. Con un brivido notò il cielo sempre più grigio oltre i vetri tondi della finestra. «Come hai fatto ad arrivare fin qui?» chiese preoccupato. La finestra senza persiane, chiusa accuratamente con un chiavistello, si trovava a cinque spade di altezza rispetto alla strada sottostante. «Sono entrato» rispose Kane semplicemente. Poi fece una smorfia di impazienza, mentre l'altro si agitava nella stanza per accendere alcune candele con le lampade a petrolio che ardevano per tutto il giorno. «Non ti piace il buio» osservò Kane in tono sarcastico. «No, non mi piace. E nemmeno le ombre.» «Una spia che ha paura del buio!» ghignò Kane. «Temo di aver com-
messo un errore quando mi sono fidato di te...» «Io sono a posto, ti dico!» insistette Tapper. «Ho eseguito il mio compito!» Kane sorrise. «Ah, davvero? Fammi vedere.» «Hai l'oro?» «Ma certo. Ti avevo detto che pago bene le informazioni utili.» Estrasse dalla cintura un pesante sacchetto e lo fece tintinnare nel palmo della mano. «D'accordo. Conosci i rischi che corro» mormorò Tapper, sedendosi sul bordo del letto. «Li corriamo entrambi. Che cosa hai da dirmi?» «Be', è vero che Esketra riceve in segreto Jarvo nelle sue stanze» cominciò Tapper. «Questo lo sapevo già quando ti ho ingaggiato.» «No... lo sospettavi solo. Mi hai chiesto di scoprire come Jarvo passasse dalla sua casa al palazzo senza essere visto da nessuno dei tuoi uomini.» «Ebbene?» «L'ho scoperto.» «Questa sì che è un'informazione per cui pagherò.» «Avevi ragione a pensare che ci fosse qualche passaggio segreto» disse Tapper. «E hai indovinato anche il resto.» «Esketra ha la mappa!» «L'aveva» ghignò Tapper estraendo da sotto la giubba un riquadro di pergamena ripiegato. «Fino ad oggi pomeriggio.» Kane gli lanciò il sacchetto. «Se si tratta di ciò che spero, per te ce ne sarà dell'altro.» «Si tratta proprio di quello che volevi» lo rassicurò Tapper con orgoglio, allungandogli il foglio ingiallito. «Ho avuto tutti i particolari e la mappa da una delle sue serve... che vorrà in cambio altro oro. Non potendo incontrare Jarvo a suo piacere senza compromettersi, Esketra ha frugato tra gli incartamenti segreti di Owrinos e ha rubato la vecchia mappa dei passaggi nascosti del palazzo. Ha segnato il percorso che dalle sue stanze raggiunge le cripte reali del tempio di Thoem passando sotto le mura. Jarvo ha fatto preparare un tunnel per collegare la sua casa con le celle del settore degli appartamenti, dall'altra parte della strada. Quando vuole, passa sotto le tue guardie e si infila nel tempio... raggiungendo le camere di Esketra attraverso la vecchia rete di passaggi segreti. Esketra ha conservato la mappa per non correre il rischio di perdersi nel labirinto e non si è mai azzardata a ri-
portarla al suo posto. L'ancella gliel'ha rubata.» Con ansia, Kane srotolò l'antica pergamena. Quel foglio era più di quanto avesse osato sperare... una pianta dettagliata del Palazzo di Sandotneri, che metteva in evidenza in modo completo la fitta ragnatela di stanze segrete e passaggi nascosti all'interno dell'enorme struttura di pietra. Ogni palazzo aveva i suoi passaggi segreti e spesso chi li aveva costruiti moriva proprio a causa della loro conoscenza. Si trattava di particolari tenuti gelosamente sotto chiave e tramandati di padre in figlio. A volte la loro complessità rendeva necessaria una mappa simile a quella spiegata sotto lo sguardo attento di Kane. «Eccellente!» si complimentò con il ladro. «Ma dovrai fare in modo che sia rimessa al suo posto prima che si accorgano della sua sparizione. Ne farò una copia.» «Riportarla significa rischiare molto di più.» «Sarai pagato. Manda a prendere carta e penna. La copierò immediatamente.» Kane attese con impazienza l'arrivo dell'occorrente per scrivere. Quella era stata una fortuna insperata. L'attuale re di Sandotneri e delle terre sottomesse a quella città era Owrinos. Ma la salute cominciava a mancargli, e non avendo figli maschi avrebbe presto lasciato il trono a un cugino. La successione era caldamente contestata da due potenti rami della famiglia reale, le cui fazioni erano comunemente note come i Rossi e gli Azzurri. Kane, un mercenario straniero salito al grado di generale della cavalleria di Sandotneri, era un potente alleato dei Rossi. Jarvo, che rivendicava una lontana parentela con Owrinos, era un fermo sostenitore degli Azzurri la cui fazione stava guadagnando in prestigio. Era anche un feroce avversario di Kane da quando Owrinos l'aveva promosso lo straniero generale in riconoscimento dei suoi meriti nelle ultime campagne. Nella migliore delle ipotesi Kane aveva sperato, scoprendo la tresca, di screditare Jarvo e gli Azzurri e denunciare la relazione del giovane ufficiale con Esketra come un tentativo di influenzare per mezzo della seduzione la figlia di Owrinos. Ma la speranza più ambita di Kane, basata su alcune informazioni e su accurate deduzioni, era quella di mettere le mani proprio su un documento come quello che ora era steso sul tavolo davanti a lui. Kane era intento a copiare la pergamena ingiallita, mentre Tapper passeggiava nervoso nella stanza fissando le candele. Le sue mani enormi usavano carta e calamaio con molta maggiore destrezza di quanto ci si po-
tesse aspettare da un mercenario. Dentro di sè, Kane immaginava passaggi segreti zeppi dei suoi uomini e porte nascoste che si aprivano di scatto per lasciar uscire i suoi sicari... Un colpo improvviso alla porta mise fine ai suoi sogni di colpi di stato. Imprecando, Kane balzò in piedi. Nella concentrazione non si era accorto dell'ingresso furtivo di numerosi uomini nel corridoio e nemmeno dello strano quietarsi dei rumori al piano di sotto. La porta tremò sotto un altro colpo. Gli uomini che erano fuori non si preoccupavano di chiedere permesso. Kane spalancò la finestra. Nella strada buia, alcuni uomini con una sciarpa azzurra attorno al collo alzarono lo sguardo verso l'alto. Kane richiuse la finestra. La porta tremò di nuovo. Era una porta robusta, ma gli uomini stavano usando un ariete. «Kane, che cosa facciamo?» «Sta' calmo!» ringhiò l'altro. «Cerchiamo di ingannarli!» Dando un'ultima occhiata alla mappa e alla sua copia, le gettò entrambe nel camino e vi avvicinò una candela. La vecchia pergamena bruciò in fretta e Kane aveva già ridotto in briciole le ceneri quando il chiavistello e la porta cedettero verso l'interno. Gli Azzurri irruppero nella stanza, trovandosi di fronte Kane e la sua lunga spada minacciosamente serrata nella sinistra. «Ebbene?» chiese il mercenario con tutta calma. Facendosi largo tra i suoi uomini, il colonnello Jarvo entrò baldanzosamente nella stanza. Sul bel viso effemminato dell'ufficiale apparve un sorriso di trionfo. La sua corazza argentata era coperta da un fine mantello di colore azzurro che gli ondeggiava elegantemente attorno. Più piccolo di Kane di una testa e di corporatura robusta, aveva un aspetto tozzo che contrastava con la grazia dei suoi movimenti. «Generale Kane, siete in arresto per i crimini di alto tradimento e cospirazione. E anche quest'uomo con voi» aggiunse, indicando Tapper. «Consegnate la spada.» L'arma che Tapper non aveva ancora finito di estrarre cadde a terra. La spada di Kane non si mosse. «Che razza di scherzo è questo, Jarvo?» ringhiò, mettendosi con le spalle alla parete. «Se volete la mia spada, sapete come prenderla.» Jarvo gli lanciò un'occhiata velenosa ricordandosi tardivamente che avrebbe dovuto portare con sé gli arcieri. «È inutile Kane, il vostro gioco è
finito. Trenta dei miei uomini circondano la taverna.» «Credete forse che sia venuto solo?» ghignò Kane. «Ci sono cinquanta dei miei pronti ad un mio ordine.» «State tentando di ingannarmi, Kane» esclamò Jarvo, mostrandosi molto più sicuro di quanto fosse in realtà. Dopo tutto, la presenza di Kane nella taverna faceva parte del piano di quest'ultimo, mentre la sua irruzione era frutto di una decisione improvvisa. Proseguì con sicurezza: «Il vostro uomo è stato visto parlare di nascosto con una delle ancelle di Esketra. Il suo comportamento era furtivo ed è sorto il sospetto che la ragazza avesse rubato alcuni beni della sua padrona per consegnarli a lui... ma quando l'abbiamo interrogata ha confessato un furto di natura inaspettata. Il vostro nascondiglio era già stato individuato e quando mi hanno riferito che eravate entrato al Frontone Rosso non ho perso tempo a far circondare la taverna.» Kane fissò Jarvo fingendo sorpresa. «Volete dire che quest'uomo ha ricevuto dei gioielli rubati? Devo ammettere di aver sospettato di lui quando mi ha offerto un elegante pendente di smeraldi ad un prezzo tanto basso. Ma per una simile cifra non potevo fare a meno di esaminare le gemme...» «Kane, il gioco è finito» insistette Jarvo con fare stanco. «Naturalmente, se avessi riconosciuti i gioielli come appartenenti a Esketra...» «Kane, Kane. La ragazza ha confessato tutto mentre il cavalletto le spezzava le membra.» Jarvo sapeva che, anche se le circostanze erano incriminanti, la ragazza era a conoscenza solo della partecipazione di Tapper alla faccenda. Kane era abbastanza forte da tentare una sortita, e forse poteva riuscire a farcela. Inoltre, la sua relazione con Esketra avrebbe gettato il discredito su di lui una volta venuta a galla. Il colonnello indicò il camino e la cenere che sporcava lo stivale di Kane. «Vedo che l'oggetto del furto è svanito nella notte... ma come prova ci resta sempre il ladro.» «Certo» confermò Kane. «Io e i miei uomini lo porteremo in prigione per interrogarlo.» «A questo penserò io» dichiarò Jarvo. Kane scosse il capo. «In tutta sincerità, colonnello Jarvo, considerando la vostra dichiarata antipatia e la serietà delle accuse verso di me, devo insistere affinché siano i miei uomini a tenere in custodia il prigioniero.» «Oh, Kane. Stiamo sprecando tempo» disse Jarvo invidiando la calma gelida dell'altro. Nonostante il suo odio nei confronti dello straniero, c'era-
no molte cose di lui che avrebbe desiderato possedere. Una volta, in un momento di serenità, aveva perfino pensato che potesse piacergli, se non l'avesse invidiato tanto. «Stammi vicino, Tapper» consigliò Kane. «Temo che questi uomini non vogliano farti avere un processo regolare.» L'altro obbedì impaurito... sapendo che se anche Kane aveva intenzione di ucciderlo con un gesto improvviso, certamente gli Azzurri non sarebbero stati più misericordiosi di lui. Jarvo vacillò, niente affatto desideroso di affidare tutto alla fortuna lanciandosi addosso a Kane. Sul piano del tavolo una delle candele si spense lentamente. Tapper ne seguì con terrore l'ultima esalazione di fumo bianchiccio. Jarvo ricordò che le spie gli avevano raccontato qualcosa di strano. «C'è troppo chiaro qui dentro» osservò. «Certamente possiamo fare a meno di tutte queste candele.» Fece un cenno ad uno dei suoi uomini che si mosse con precauzione per spegnerle... tenendo però d'occhio la spada di Kane, di cui tutti conoscevano la sanguinosa efficacia. «Kane...» mormorò Tapper con voce tremante. «Niente paura» lo tranquillizzò l'altro. «Sono qua io.» «Kane, non...» cominciò Tapper, bloccandosi immediatamente nel vedere l'occhiata di Kane che prometteva una morte istantanea alla prima mossa falsa. Jarvo sogghignò. «E tutte quelle lampade. Certamente tre sono troppe per una stanza piccola come questa.» Un altro degli Azzurri spense due delle lampade a petrolio. Ora ne restava accesa una sola, sul davanzale della finestra accanto a Kane. Tapper vi si accucciò vicino, lamentandosi a bassa voce. «Vieni a parlare con me, Tapper» lo invitò Jarvo con voce melliflua. «C'è un sacco di luce in corridoio.» «Resta qui!» ordinò Kane. Avrebbe dovuto uccidere Tapper entro pochi istanti. Aveva esitato fino a quel momento per non compromettere con una conclusione violenta i piani che aveva accuratamente preparato. La luce della lampada tremò. Il petrolio stava esaurendosi. Tapper seguiva il livello del liquido nell'ampolla di vetro soffiato. «Aspetterò in corridoio» esclamò Jarvo. Tapper avrebbe ceduto, oppure Kane si sarebbe condannato da solo, uccidendolo... entrambi i casi andavano bene. «Presto la lampada si spegnerà e in questa stanza calerà il buio.
Tanto, tanto buio. Ma io ti aspetterò là fuori, alla luce, Tapper!» «Un momento!» Tapper si allontanò con un guizzo da Kane. «Aspettate, io...» «Prendete anche questa lampada, Jarvo» disse Kane. La punta della sua spada si infilò nell'anello della lampada, scagliandola attraverso la stanza. Jarvo si girò nel vano della porta proprio mentre il recipiente di vetro si schiantava contro lo stipite. La lampada esplose, spruzzandogli il petrolio infiammato su un lato del viso. Con un urlo di dolore, Jarvo uscì di corsa dalla stanza premendosi le mani contro il viso e tentando di estinguere le fiamme tra le pieghe del mantello, mentre i suoi uomini indietreggiavano indecisi sul da farsi. La stanza fu invasa dal buio completo. Tapper cominciò a gridare. La finestra si aprì con uno schianto. Si intravide per un attimo una figura enorme balzare nella notte senza luna. Poi la porta si chiuse di scatto. Afferrandosi al davanzale per frenare la caduta, Kane si lasciò precipitare sulla strada. Come un grosso gatto atterrò sul selciato... roteando la spada. Due degli uomini di Jarvo morirono prima che l'espressione di sorpresa fosse svanita dai loro volti. «Rossi! A me!» ruggì Kane. «Andiamo, Tapper! Salta!» Con uno strepito di zoccoli una mezza dozzina di cavalieri si lanciarono lungo la strada angusta. Gli Azzurri si precipitarono a cercare rifugio all'interno della taverna. Kane si aggrappò a una sella senza cavaliere e balzò in groppa. «Tapper! Che ti venga un colpo, salta!» Gli Azzurri, rendendosi conto che i Rossi non erano molto numerosi, stavano uscendo di nuovo in strada. Kane bestemmiò. «E va bene, l'hanno preso... Fa parte del gioco! Andiamo, adesso. Dobbiamo metterci in salvo!» All'interno del Frontone Rosso, gli uomini di Jarvo stavano aiutando il loro comandante a rialzarsi. Il bruciore al viso gli dava un senso di nausea e da un occhio non vedeva che un alone rossastro e doloroso. «Kane è scappato!» gli disse qualcuno. «C'erano alcuni dei suoi uomini a cavallo ad attenderlo.» Jarvo imprecò. «E l'altro?» «Dalla finestra non è uscito nessun altro.» «Allora è ancora qui... in mano nostra!» ghignò Jarvo scuro in volto. «Dalla porta non è passato nessuno. Portate una luce!»
Qualcuno portò una lanterna. La porta fu spalancata con un calcio e la luce illuminò la stanza silenziosa. Il corpo di Tapper, inerte e con il collo spezzato, era accasciato a terra. E per quanto si fosse dissolta un attimo dopo che la luce aveva messo in evidenza la macabra scena, la sagoma fuligginosa che stringeva alla gola il corpo di Tapper era chiaramente quella della sua stessa ombra. III Pesci rossi Il giardino odorava di rose, gialle e calde nel sole che volgeva ad occidente, e di pietre di calcare bagnate dagli spruzzi fruscianti della fontana gelida. Sul piano sottostante, dove l'acqua della sorgente si raccoglieva in un profondo vascone dopo essere scivolata tra rocce coperte di muschio, Esketra rideva piano. I salici d'argento allungavano le loro fronde nella pigra brezza della sera, facendo eco al riso della ragazza in piedi sotto la loro ombra. Sulla superficie grigia e nera dell'acqua, un guizzo di colore. Con gli occhi sporgenti e le pinne pompose e sgraziate, alcuni pesci rossi danzavano saettando a caccia delle briciole che le dita lunghe e delicate della ragazza lasciavano cadere. Piccole creature grottesche, pensò Jarvo accigliato. Nonostante le loro pinne bizzarre e i colori stravaganti e lucidi, erano piacevoli a vedersi solo da lontano. Strascicò gli stivali con impazienza e si schiarì la gola. Esketra finse di accorgersi di lui solo in quel momento. Spalancò gli occhi grigi e tese le labbra in un ampio sorriso di saluto. «Oh, colonnello... anzi, generale Jarvo, ora! A cosa devo l'onore di questa visita... dopo una così lunga assenza?» «Ho creduto opportuno usare un po' di discrezione» rispose Jarvo impassibile. Il sole della sera penetrava l'intreccio dei salici creando giochi di luce e ombra sul viso chiaro e i capelli lunghissimi e neri della donna, il cui corpo sinuoso era fasciato da una lunga tunica grigia e trasparente. Jarvo dimenticò che da una settimana cercava invano di incontrarla. «Ma certo» ribatté lei in tono affettatamente comprensivo. «Discrezione. E...?» Jarvo si fermò all'ombra dei salici. «Possiamo parlare, qui?» «Ci sentono solo i miei pesciolini rossi» rise Esketra guardando oltre il giardino illuminato dal sole. Avvicinandosi alla donna, Jarvo cominciò a parlare a bassa voce. «Cre-
do di aver coperto abbastanza bene la nostra piccola tresca. Si sa solo che la ragazza ha rubato la mappa per consegnarla a un uomo di Kane. I primi due sono morti, e Kane è fuggito chissà dove. La galleria è stata sigillata accuratamente e nessuno potrà collegare i nostri nomi a questa faccenda.» «Perfetto, mio generale» esclamò Esketra studiando intenzionalmente le bende che gli fasciavano la metà sinistra del viso. Poi abbassò gli occhi. «Forse dovremo rinunciare ai nostri incontri per qualche tempo... fino a quando nuovi scandali faranno scattare le lingue dei chiacchieroni di corte.» «Sarà un'attesa difficile da sopportare» mormorò Jarvo, cercando di attirarla verso di sé. «La sopporterai se mi ami!» insistette Esketra sfuggendo all'abbraccio. «Non vorrai che il mio nome venga sbandierato come quello di una puttana da caserma, vero?» Jarvo agitò le mani goffamente. «No... no, certo. Farò come vuoi. Dobbiamo stare attenti.» «Avrai molto da fare con il tuo nuovo incarico» disse Esketra. «E Kane è ancora in libertà.» La metà destra del viso di Jarvo sogghignò. «Se l'è data a gambe con quegli che gli erano fedeli. Ormai sarà oltre frontiera. Per quanto ne so, Kane se n'è tornato da dove era venuto. Il suo fallito tradimento ha gettato lo scompiglio tra i Rossi. Quelli che non hanno immediatamente dichiarato la loro adesione agli Azzurri, hanno ritenuto opportuno ritirarsi dalla corte in silenzio. I Rossi sono screditati. Perfino se Kane osasse tornare, i danni alla loro reputazione sarebbero ormai irreparabili.» «Che uomo strano, era» mormorò Esketra con un brivido. «Si è mai scoperto qualcosa del suo passato?» «No» rispose Jarvo, mentendo. «Ma potrebbe tornare» insistette Esketra. «Le sue ambizioni erano chiare. Un uomo con la sua intelligenza e la sua abilità...» Jarvo allargò le spalle, allungandosi il più possibile; i tacchi alti dei suoi stivali da cavalleria lo portarono per un attimo all'altezza della fronte di Esketra. «Kane è finito» sbottò. «Se quel gigante bastardo sarà tanto sciocco da tornare a Sandotneri con i suoi progetti, gli farò fare la fine che si merita!» Esketra ridacchiò e tese un pezzetto di pane sul pelo dell'acqua. Una testa dorata emerse dalla vasca e dopo aver afferrato il boccone dalle dita della ragazza si immerse nuovamente tra i suoi compagni meno veloci.
Jarvo arrossì. Dentro di sé sapeva che la fuga precipitosa di Kane era stata un passo falso del suo rivale e che se questi avesse saputo della morte di Tapper avrebbe potuto comportarsi come se nulla fosse accaduto. Nella migliore delle ipotesi quella spiacevole situazione di stallo sarebbe continuata, oppure, molto più probabilmente, ci sarebbe stata guerra aperta tra le due fazioni. Jarvo aveva paura di Kane, e di conseguenza l'odiava. La sua vittoria momentanea era colma d'amarezza, perché si era trattato solo di un colpo di fortuna... una mossa falsa di Kane, non un suo merito. Si domandò se Esketra si rendesse conto di ciò e non lo prendesse in giro. «Dunque il mio generale mi proteggerà da Kane» sorrise la donna con un tono che non era sarcastico e neppure adulatorio. Con un gesto di impazienza gettò in acqua l'ultima manciata di briciole. «E quelle voci sinistre che si sentono da Shapeli? È vero che qualche pazzo ha armato un esercito con metà della popolazione e ha massacrato l'altra metà?» «Così si dice» rispose Jarvo stringendosi nelle spalle. «E i profughi che premono alle nostre frontiere giurano che sia la verità.» Il viso di Jarvo bruciava per il dolore e le sue mani erano umide di sudore. Le asciugò fregandole contro i fianchi e si avvicinò a Esketra. Gii unici rumori nel giardino erano lo sciacquìo della fontana e il fruscio dei salici. Lontani, lungo l'alto muro di cinta del giardino, alcuni uomini scavavano vicino ad un albero secco. Il rumore delle loro zappe contro le radici non raggiungeva la vasca. «Sicuramente dovrai restare per qualche tempo nei pressi delle nostre frontiere settentrionali» continuò Esketra. «Per assicurarti personalmente dell'entità del pericolo di Shapeli. Kane l'avrebbe fatto.» Jarvo si sentì toccato. «L'esercito di pezzenti di Orted non rappresenta alcuna minàccia per Sandotneri» ringhiò. «Una massa di contadini male armati non può affrontare una carica di cavalleria pesante.» «Mi sbaglio o ho sentito che i Sataki hanno massacrato un esercito di mercenari?» «Cumdeller era uno sciocco! Credeva di poter sfidare Orted sul suo campo... in una foresta dove un serpente non riuscirebbe a passare tra due alberi senza trattenere il fiato. Ci vogliono quattro giorni di marcia allo scoperto nella savana per raggiungere Sandotneri... Quattro giorni per una fanteria addestrata. Per i Sataki non ci sarebbe ritorno.» «Ma tutti si aspetteranno che il nuovo generale voglia rendersi conto personalmente della situazione» insistette Esketra.
Jarvo rimase in silenzio. La brezza increspava il suo mantello azzurro, rinfrescandogli la corazza argentata e portandogli il profumo di lei misto a quello delle rose. Il generale si premette di nuovo i palmi sudati contro i calzoni attillati, mentre Esketra si girava appena mostrandogli il profilo delicato. «Sei stato ferito seriamente dal fuoco?» chiese lei, guardando di sghembo il suo viso fasciato. Jarvo si sentì la bocca asciutta. «I chirurghi mi hanno applicato unguenti e compresse per ammorbidire le cicatrici. Dicono che l'occhio sinistro non distinguerà mai più il giorno dalla notte.» «Accecato!» mormorò Esketra con un brivido. «Mutilato per sempre per salvare il mio nome dall'ignominia. Ti devo molta gratitudine.» Abbassò le dita sottili sull'acqua. Un corpo iridescente e coperto di scaglie apparve in superficie e le sfregò il muso contro la mano vuota. Un attimo dopo si immerse di nuovo, circondato dagli altri pesci che credevano avesse afferrato qualcosa. Esketra unì la sua risata ai suoni della sorgente e dei salici. Poi tese le dita per ricevere il bacio di Jarvo. «Non dimenticare di venirmi a trovare» gli sorrise «quando tornerai dal tuo giro delle frontiere settentrionali.» IV Ombre assassine Il terrore strisciava dal profondo della foresta. I suoi tentacoli avanzavano senza sosta come le infinite e intricate radici silvestri... radici enormi che s'intrecciavano una sull'altra nel terreno, sbriciolando le rocce friabili del sottosuolo. Il terrore significava forza. Forza irresistibile di migliaia di braccia pronte ad uccidere; forza diretta da una mente sinistra che ordinava alle sue innumerevoli creature di uccidere e saccheggiare. Una forza basata sul terrore. Uscendo dalla notte e dalla foresta, i Sataki avevano circondato le mura della città. Da alcune ore ormai Erill ne sentiva i canti monotoni. Dalla sua posizione soprelevata in cima al tetto piatto, poteva vedere le loro torce guizzare tra gli alberi imponenti. Torce più numerose delle stelle nel cielo senza nuvole, e che circondavano Gillera allo stesso modo in cui la notte stellata circondava la foresta. La ragazza avvertì il puzzo delle torce lontane e pensò che ben presto il
cielo senza nuvole sarebbe stato oscurato dal fumo di Gillera. Dentro di sé maledisse il sindaco e i suoi consiglieri per essere stati tanto stupidi da credere che le mura della città potessero sopportare un simile assedio. Poi maledisse la fortuna avversa che aveva voluto che la sua carovana incappasse nell'avanzata dei Sataki, rimanendo intrappolata a Gillera. Per ultimo maledisse la sorte ingiusta che l'aveva costretta a diventare mimo in una vecchia e malridotta compagnia di saltimbanchi girovaghi. Aveva vissuto e visto molto per non avere ancora vent'anni, e a quel punto vivere e vedere ancora le appariva problematico. Se la vita era stata dura con lei, a sua volta l'esperienza aveva indurito la ragazza, temprandola con una risolutezza e una forza d'animo che le insegnavano quando si doveva cedere o quando impugnare il coltello. Era una durezza che le era tornata utile da bambina, quando ricordava vagamente che i suoi genitori l'avevano venduta a un bordello di Ingoldi. Il vecchio Wurdis, che comandava una troupe eterogenea di acrobati, prestigiatori, mimi e imbonitori, l'aveva trovata nascosta in uno dei carri mentre il gruppo se ne andava da Ingoldi e dai suoi ufficiali poco ospitali. Non avendo motivi per amare la città e i suoi comandanti, Wurdis le aveva permesso di restare con loro senza però mai dimenticarsi di ricordare alla ragazza che tutti i membri della compagnia dovevano fare la loro parte guadagnandosi da vivere e trascinando la loro porzione di carico. Con le sue prediche petulanti sempre nelle orecchie, Erill aveva imparato a fare questo e quello, ora per lui, ora per la carovana. Quando una notte qualcuno aveva infilato un aspide in uno stivale di Wurdis, la gestione della compagnia era passata nelle mani di qualcun altro ed Erill aveva seguito liberamente la propria strada. Era magra, con muscoli lisci e membra agili da acrobata e una figura che sembrava aver raggiunto il massimo sviluppo. Aveva un viso fermo, con il mento quadrato, labbra piene e naso diritto, e lineamenti scattanti ma capaci di rimanere immobili sotto una maschera dipinta. I capelli erano una massa fitta di riccioli biondi, e gli occhi verdi si accompagnavano alla fascia di perle di giada che portava sempre attorno alla fronte. Di giada era anche la minuscola pipa dalla quale Erill stava tirando l'ultima boccata pungente di hashish oppiato. La ragazza soffiò il fumo in direzione delle torce che guizzavano oltre le mura, poi tossicchiò e osservò con tristezza il mucchietto di cenere oleosa nel fornello scolorito. Ormai non era rimasta che cenere. Erill imprecò di nuovo. Quello era l'ultimo che aveva.
«Avresti fatto meglio a restare lucida questa notte» la rimproverò Boree, avvicinandosi a lei lungo il parapetto. «Se i Sataki entreranno in città avremo la possibilità di fuggire durante il combattimento.» «Che accidenti cambierebbe, Boree?» sbottò Erill verso l'indovina dal volto butterato che divideva il carro con lei. «A Gillera non c'è via di scampo. Siamo in trappola. I Sataki irromperanno oltre le mura... e ci massacreranno tutti per colpa di questi maledetti idioti che hanno osato opporsi a loro.» Boree scrollò le spalle mascoline. «Finché c'è vita c'è speranza.» «Speranza, maledizione!» Boree estrasse una scatoletta di ebano dalla borsa che portava appesa alla cintura. L'aprì e fece scivolare un mazzo di carte laccate di nero nel palmo della mano. «Vediamo quale sarà la tua sorte» disse, porgendo il mazzo a Erill. La ragazza fece il gesto di prendere le carte, poi le respinse con decisione. «Per l'inferno, affronterò la mia sorte quando la incontrerò.» «O quando lei incontrerà te» ribatté Boree in tono oscuro. «Tormenta qualcun altro, stasera! D'accordo?» scattò Erill. «Qualsiasi cosa succeda voglio essere abbastanza sballata da non accorgermi di nulla.» «Prendi le carte» insistette Boree. Tanto per liberarsi della donna, Erill afferrò il mazzo delle ventisette carte nere. Le mischiò con mano esperta, ne estrasse tre e le appoggiò a faccia in giù sul parapetto. Le dita adunche di Boree raccolsero le carte. Erill tentò di sbirciare, ma l'intrico di capelli della donna le impedì di vedere le figure. Senza dire una parola, Boree ripose di nuovo le carte nella scatola di ebano. «Ebbene?» «Sei troppo piena di hashish per aver scelto bene» rispose severa l'altra, ed evitando lo sguardo della ragazza si voltò e scese dalla tettoia. Erill imprecò, stringendosi le spalle. Indossava solo un corpetto sottile e una gonna di cotone lunga fino al polpaccio. Si accorse all'improvviso di aver freddo, là, sola nella notte. Forse l'ultima notte della sua vita. Maledetta Boree! Erill era salita lassù in cerca di solitudine e dell'oblio variegato dell'hashish. La visita della donna aveva fatto calare sulla sera un senso di malinconica realtà. «Non voglio morire» mormorò la ragazza nella notte. «Naturalmente» rispose la notte.
Erill trattenne il fiato, girandosi di scatto. Era un effetto dell'hashish... Certamente. «Non è necessario che tu muoia» continuò la notte in tono rassicurante. Erill si premette il pugno chiuso sulla bocca e tastò il pugnale dalla lama triangolare che portava alla cintura. Una parte dell'oscurità si aprì, lasciando apparire una figura vestita di nero con il viso nascosto da un cappuccio. Da bambina, a Ingoldi, Erill aveva visto i sacerdoti di Sataki. Ora si rese conto di averne uno di fronte. «Solo chi si opporrà a Sataki morirà» bisbigliò la sagoma incappucciata. «Sono i governanti di Gillera che non riconoscono il suo potere, non il popolo. È un peccato che le masse debbano pagare gli errori dei loro capi.» Erill scrutò la figura scura, incapace di stabilire se si trattasse della realtà oppure di qualche diabolica apparizione dovuta all'hashish mescolato con l'oppio. «La scelta è tua» sussurrò il sacerdote avanzando, mentre Erill premeva la schiena contro il parapetto. «Sataki o la morte. Scegli ora, ragazza!» La mano di Erill si strinse sull'impugnatura del pugnale, poi si bloccò, congelata. All'improvviso la notte illuminata dalla luna le mostrò che al di sotto della tonaca nera non c'era altro che un'ombra. «Scegli!» «Sataki!» sussurrò Erill, mentre quella creatura di ombra le si parava dinanzi. «Ottima scelta, ragazza. Ma bada a non tornare indietro!» Erill annuì in silenzio. «Prendi questo.» Una manica piena di ombra si allungò verso la mano tesa della ragazza. Qualcosa di liscio e gelido le cadde nel palmo. Un disco di ambra, nero come la notte. Ad Erill ricordò vagamente il medaglione d'oro che portavano i sacerdoti di Sataki. Quel contatto estraneo la fece rabbrividire. «Nessuno si accorgerà di te» continuò sussurrando la figura. «Per mezzo di questo simbolo renderai onore a Sataki.» Poi l'ombra bisbigliò altri ordini frammisti a promesse e a previsioni che bruciarono nella coscienza di Erill come acido sulla pelle nuda. Ad un tratto la ragazza urlò, come per svegliarsi da un incubo. Con una risata asciutta la tonaca nera si afflosciò su se stessa sulla tettoia e si dissolse con un fruscio. Quando Erill guardò terrorizzata ai suoi piedi, non vide altro che le tegole del tetto. Un incubo dovuto all'hashish?
Stretto nel palmo, sentì il contatto gelido e sinistro del disco di ambra. Dentro di sé una voce le urlava di scagliarlo nella notte. Ma l'ombra le aveva impartito certi ordini e non poteva fare a meno di obbedire. Muovendosi come in sogno, Erill si volta e scese lungo le strade della città sconvolte dal terrore. C'era stato un tentativo di imporre un coprifuoco, ma la massa di profughi che aveva cercato invano rifugio all'interno della città l'aveva talmente affollata che il tentativo era stato subito abbandonato. Taverne, locande e caravanserragli erano colmi fino all'inverosimile. Quando anche le abitazioni abbandonate e i vecchi tuguri erano state riempiti ai limiti della capienza, i profughi si erano riversati lungo le strade e nelle piazze, in baracche improvvisate, tende, carri o qualsiasi altra cosa capitasse loro sotto mano. Altri ancora erano scesi in strada coperti solo dei loro stracci. I capi della città avevano pensato sulle prime di poter rinforzare i ranghi difensivi accogliendo all'interno delle mura tutti coloro che cercavano rifugio, ma quando alla fine le porte erano state chiuse la massa di profughi aveva contribuito all'esaurimento delle scorte di acqua e viveri e aveva gravato sulle strutture sanitarie della città. Anche se le mura potevano resistere all'attacco dei Sataki, Gillera non sarebbe mai riuscita a sostenere un lungo assedio. Il terrore attanagliava la città con migliaia di tentacoli gelidi. Gillera era condannata. Tutti si rendevano conto dell'inesorabilità della fine. Non restava che attenderne l'ora. I Sataki erano spietati. Nessun esercito, nessuna città poteva opporsi a loro. La scelta era cedere o essere annientati. Gillera aveva scelto di sfidare la Crociata Nera. I canti dei Sataki provenienti dalla foresta superavano le mura e echeggiavano nelle strade percorse dal panico. Centomila persone ascoltavano la voce della loro condanna, certi che forse entro un'ora o entro un giorno sarebbe scesa inesorabile su di loro. Erill passò senza che nessuno la notasse tra centinaia di visi privi d'espressione. Le taverne erano zeppe di persone che vi si trattenevano fino ad esaurire le scorte di vino e birra. Uomini e donne si riversavano per le strade, confusi e noncuranti nell'attesa della fine. Alcune case erano sbarrate dall'interno e gli occhi impauriti di coloro che vi si erano barricati guizzavano da dietro le persiane chiuse. I templi erano affollati di gente in lacrime che implorava Thoem o Vaul affinché la proteggesse dalle orde di un dio molto più antico di loro. Nei loro nascondigli reconditi, alcuni fanatici compivano con ansia frenetica i loro riti orrendi e misteriosi.
Di tanto in tanto, qualcuno attirava l'attenzione di Erill per invitarla a dividere una coppa o un abbraccio, o per mendicare cibo e denaro; oppure ancora per richiamarla alla preghiera e al sacrificio prima dell'ultima ora. La ragazza non si fermava, come se non udisse le loro voci e non vedesse i volti sconvolti dal terrore. Aveva parlato con un'ombra e tutto il resto sembrava avvolto da un alone di sogno e irrealtà. La notte era serena e le stelle brillavano gelide, ma ad Erill sembrava che il cielo fosse oscurato da una schiera di nuvole che si raccoglievano marciando intorno a una luna cupa e sinistra. Radunandosi dagli abissi della notte le ombre danzavano agili tra le stelle, seguendola come un'orda infernale mentre percorreva le strade e i vicoli tortuosi di Gillera. Lo strascicare dei suoi sandali le giungeva lontano ed attenuato, e il resto della città sembrava avviluppato da una ragnatela nera che smorzava perfino il battito del suo cuore. La pelle della ragazza era pallida per il gelo della notte, ma l'unica cosa di cui si rendeva conto era il disco freddo e sinistro che le bruciava il palmo serrato con forza. Giunta nei pressi del chiarore accecante della porta della città, esitò per un attimo, poi proseguì nel cammino. I portali di Gillera, antichi cimeli di guerra dei secoli passati, erano poderosi baluardi di bronzo fuso fortificati da due robusti barbacani. Guardie dal viso accigliato presidiavano le fortificazioni sapendo che, a meno che i Sataki non fossero disposti a subire perdite disastrose attaccando le mura, l'assalto sarebbe giunto da quella parte. Anche se gli assedianti avessero potuto superare con le scale la cinta della città, avrebbero dovuto prima attraversare allo scoperto il fossato asciutto e un terrapieno irto di pali sotto il tiro micidiale degli arcieri appostati oltre il parapetto. Alcuni uomini guardavano nervosamente la notte, scrutando il mare di torce che ondeggiava nel buio. Soldati e cittadini armati si assiepavano all'interno della porta, parlando tra loro a bassa voce, oppure occupandosi di qualche incarico e riposandosi di tanto in tanto. Solo pochi sembravano accorgersi della ragazza pallida che attraversava quella calca... e vedendo il suo sguardo fisso dovevano pensare che stesse cercando qualcuno tra i difensori. Molti altri si aggiravano come lei alla ricerca di un'estremo saluto. Ma la missione di Erill era un'altra. Quando fu davanti ai portali di bronzo, la ragazza si fermò. Il gelo si insinuò nel suo petto e per un attimo il suo cuore parve fermarsi. Il calore insopportabile dei fuochi e delle torce la colpì al viso. Molti si voltarono per
guardare la ragazza bionda ferma davanti alla porta della città. Muovendosi come in sogno, Erill scagliò il disco di pietra nera contro i portali di bronzo e gridò le frasi che l'ombra le aveva sussurrato. Per un istante sulla folla calò un presentimento di distruzione. Quelli che erano più vicini alla ragazza si girarono urlando per catturarla e farla tacere. Poi il buio oscurò i fuochi e le torce, e la schiera di ombre calò dal cielo per uccidere e distruggere. Erill gridò e cadde all'indietro... proteggendosi il viso con le braccia. Vedere un uomo contorcersi sotto la stretta soffocante della propria ombra era una cosa mostruosa, e il vedere la stessa scena moltiplicata centinaia di volte non serviva a renderla meno ripugnante. L'oscurità, rotta dalle urla strozzate, era completa e stringeva la zona della porta come un ragno enorme e mostruoso. Erill udì la propria voce che urlava, sentì l'incantesimo ipnotico dell'ombra levarsi dalla propria anima. Era come risvegliarsi da un incubo in una realtà che non offriva scampo dalla stretta del terrore. Guardando con gli occhi semichiusi la ragazza vide lo stuolo di ombre entità grottesche più nere della notte - sbarazzarsi delle loro vittime e accalcarsi verso le porte di bronzo. Il simbolo di Sataki, diventato enorme, sovrastava i portali nel punto in cui l'aveva gettato Erill. Mani di ombra fecero scorrere i chiavistelli di ferro e sagome scure premettero contro i baluardi di metallo. Con la lentezza maestosa di un albero che cade, i portali di bronzo di Gillera si spalancarono pesantemente. Priva di energie e quasi senza conoscenza, Erill crollò a terra tra i corpi contorti, mentre la schiera di ombre defluiva attraverso la porta spalancata nell'oscurità. Vagamente le parve di udire un rombo selvaggio, come di due venti terrificanti. Uno era formato dalle urla di panico degli abitanti di Gillera che si rendevano improvvisamente conto che qualcosa era uscito dal buio per schiudere le porte della città ai loro carnefici. L'altro era composto dalle grida assetate di sangue dei Sataki che si riversavano all'interno della porta incustodita. V Squali Le acque plumblee del Mare Interno si infrangevano irregolarmente contro gli spuntoni del promontorio che sovrastava il porticciolo della Baia di
Bern. La marea stava calando e l'odore agrodolce delle alghe e della salsedine veniva portato dalla brezza incerta e si fondeva con la puzza stantìa del campo profughi che si stendeva lungo la riva come un ammasso di rottami disseminati da una marea. Parecchi mesi prima nella Baia si erano rifugiate poche centinaia di pescatori con le loro famiglie. Ora il piccolo villaggio e le spiagge rocciose poco distanti pullulavano di un numero incalcolabile di profughi. Tende e baracche offrivano un riparo a coloro che potevano permettersi certi lussi. Altri si ammassavano negli anfratti sparsi del promontorio scavato dalle tempeste. Il sole equatoriale si abbatteva implacabile sulla spiaggia dalla quale si levavano miasmi di sudore misto al tanfo dei rifiuti e della sporcizia. Il tifo mieteva più vittime della fame e del caldo, e già si sentiva parlare con terrore di un'epidemia di colera. Dopo che Sandotneri aveva chiuso le frontiere alla marea crescente di profughi fuggiti all'avanzata del Profeta, coloro che cercavano rifugio dai tentacoli della Crociata Nera si erano riversati nelle cittadine e nei villaggi di pescatori sparsi sulla costa occidentale del Mare Interno. Chi ne aveva la possibilità tentava di pagarsi un posto a bordo della prima imbarcazione in partenza. Le navi erano poche e ben presto i prezzi per l'imbarco erano saliti alle stelle. Gran parte dei profughi, invece, se ne restava in attesa sulla spiaggia... confidando nell'arrivo di navi più accessibili e sopportando il caldo e le sofferenze nella speranza di una possibile fuga. Altri ancora aspettavano semplicemente... senza nessuna speranza. Al villaggio, il costo di un giaciglio per una notte avrebbe permesso qualche mese prima di acquistare qualsiasi abitazione della Baia di Bern. Cibo e bevande venivano messi in vendita a prezzi astronomici a seconda del capriccio dei mercanti. I pescatori proprietari di un'imbarcazione qualsiasi più grande di una barca a remi non sapevano se incrementare i loro guadagni vendendo il pesce che riuscivano a catturare a chi poteva pagarlo a caro prezzo, oppure se arrischiarsi a sfidare le tempeste improvvise del Mare Interno in cambio dell'oro promesso da chi voleva essere accompagnato su lidi lontani e sicuri. Tra il villaggio e il campo profughi era sorto un groviglio improvvisato di tende e baracche che contenevano i numerosi mercanti e opportunisti di ogni specie che si raccoglievano ovunque le sventure della guerra potessero creare rapidi guadagni. Più a nord, al di là del mare e della savana, le foreste di Shapeli erano oscurate dall'ombra dei Sataki. Che quell'ombra terribile potesse presto espandersi oltre i confini della foresta, inghiottendo
ciò che avrebbe incontrato lungo il cammino, non preoccupava minimamente la fame degli avvoltoi. All'ombra di una tenda ricavata da una vela, il capitano Steiern si asciugò il sudore dal viso tondo con una sciarpa di seta e sorseggiò un po' di vino da una bottiglia dorata. Dopo aver appoggiato il recipiente sul tavolo di legno massiccio che aveva al fianco, si abbandonò sulla sedia e sorrise ai visi preoccupati che gli facevano corona oltre l'ombra. «Chi è il prossimo?» chiese in tono stanco, mentre la seggiola scricchiolava sotto la sua mole bovina. Alcune monete d'oro tintinnarono mentre un aiutante le faceva cadere contandole all'interno di un forziere appoggiato sul tavolo. Il Cormorano, la caravella del capitano Steiern, aveva gettato l'ancora nei pressi del promontorio per alimentare le speranze di fuga di coloro che si trovavano sulla spiaggia affollata. Le sue vele latine erano state ammainate con cura e da lontano nessuno poteva accorgersi dei loro rattoppi malfatti e dell'albero maestro percorso da crepe e venature. L'imbarcazione era entrata in porto solo quella mattina, eppure tra non molto sarebbe stata carica di passeggeri fino ai limiti della sua capacità. «Affrettatevi» gridava Steiern. «Restano solo poche cuccette, poi non potrò prenderne più. Chi è il prossimo? Datemi solo dieci pezzi d'oro o qualcosa di equivalente. Dieci pezzi, amici miei, per un passaggio sicuro fino a Krussin. Dieci pezzi in cambio della vita e della libertà.» «Con dieci pezzi si potrebbe comprarla di peso, quella vostra bagnarola» sbottò irritato uno degli astanti. Alcuni degli aiutanti di Steiern si irrigidirono, pronti a scattare, ma il capitano continuò a sorseggiare tranquillamente il suo vino. «Ebbene, mio potenziale acquirente» disse con voce melliflua «risparmiate il vostro denaro per la prossima bagnarola che entrerà in porto. Forse ne arriverà una prima che i Sataki vi appendano a seccare al sole. Andiamo, amici, solo dieci pezzi per un passaggio sicuro fino a Krussin, lontano dagli eserciti del Profeta.» «Accidenti! Krussin!» grugnì un altro, voltandosi verso l'uomo che gli stava al fianco. «Andiamocene da qui. Quella tinozza galleggia abbastanza bene all'ancora, ma quanto ad attraversare il Mare Interno...» «Che altra scelta ci rimane?» chiese il suo compagno seguendolo tra la folla. «O la peste, o la morte per fame... oppure i Sataki. Marciremo su questa spiaggia prima di aver trovato un passaggio. Thoem maledica Sandotneri per averci chiuso in faccia le frontiere! I regni meridionali rim-
piangeranno le migliaia di persone che hanno respinto, quando il Profeta passerà come una scia di fuoco attraverso le loro terre!» «Quel pazzo e i suoi fanatici non oseranno uscire da Shapeli!» ringhiò un terzo, voltandosi con una smorfia di disgusto. Dalla divisa stracciata si poteva capire che era un ufficiale delle guardie municipali di una delle tante città abbattute dai Sataki. I tre - i primi due sembravano mercanti che nella fuga erano riusciti a salvare ben poco oltre alla vita - osservarono un compagno di sventura più fortunato di loro farsi largo nella calca per rovesciare un gruzzolo di monete d'oro sul tavolo del capitano. Steiern le raccolse con dita avide e cominciò a contarle. «Orted non oserà uscire da Shapeli?» chiese un altro alle loro spalle. I tre si voltarono a guardare il nuovo interlocutore. Cavalcava uno stallone nero che doveva misurare non meno di diciassette palmi. Un uomo che possedeva un simile animale doveva certamente avere dieci pezzi d'oro per pagarsi l'imbarco, e i tre rimasero a guardarlo con un'espressione ammirata e adulatoria. «No, non oserà farlo» sbottò l'ex mercenario. «È pazzo da legare ma non fino al punto di azzardarsi ad affrontare la cavalleria dei regni meridionali con il suo esercito di straccioni. Dovrà accontentarsi di consolidare il suo potere a Shapeli.» «Ma allora, perché la gente paga dieci pezzi d'oro al capitano Steiern in cambio di un passaggio?» chiese laconicamente l'ultimo arrivato. «Perché restare a Shapeli significa morire... a meno che non ci si voglia unire ai Sataki» bofonchiò il più piccolo dei due mercanti con l'aria di chi spiegava una cosa decisamente ovvia. «E i Sataki spazzeranno certamente la Baia di Bern» piagnucolò l'altro stiracchiandosi i capelli bianchi che gli incorniciavano il viso rossastro. «Orted schiaccerà le città di frontiera solo per il gusto di punire chi è sfuggito alla Crociata Nera. Il Profeta è pazzo... o indemoniato!» «Proprio così» confermò il suo compagno. «Non si tratta di sete di potere o ambizione. Orted è proprio pazzo da legare. Io penso che non si accontenterà di Shapeli e vorrà estendere il suo dominio anche ai regni meridionali. La Crociata Nera non conoscerà ostacoli.» «I soldati a cavallo e le lunghe marce sotto il sole cocente lo fermeranno, invece!» ribatté il mercenario. «Se Orted guiderà i suoi fanatici nella savana, la cavalleria di Sandotneri li ridurrà a pezzi.» «Ci guadagneremo molto, noi» borbottò il mercante più piccolo. «A
quell'ora saremo morti... schiacciati tra Sandotneri e Shapeli. Sono sicuro che il Profeta invaderà i regni meridionali.» «E allora riceverà un benvenuto che non si scorderà mai più» insistette il soldato. «Non si può affrontare una carica di cavalleria con un esercito di pezzenti... ecco che cos'è l'invincibile armata di Orted!» «Amico, non mi sembrate un uomo privo di mezzi» cominciò in tono adulatorio il più alto dei due mercanti. «Forse potreste aiutarci a pagare il viaggio al capitano Steiern. Ho qualche possedimento dalle parti di Krussin e il mio compagno conosce alcune persone facoltose. Abbiamo con noi solo una parte del denaro: il vostro prestito sarà generosamente ricompensato una volta giunti a destinazione.» Lo sconosciuto lo fissò per un attimo, governando le redini dello stallone. «Mi avete risparmiato un viaggio... e voglio restituirvi il favore» disse in tono brusco. «Non ci sono speranze di salvezza a bordo del Cormorano. Ho cavalcato lungo tutta la costa e ho visto il capitano Steiern fare i suoi sporchi giochi in ogni porto. Una volta al largo, i suoi passeggeri vengono gettati in pasto ai pescicani e il Cormorano è pronto ad accogliere un altro carico di sciocchi.» «Dieci pezzi, amici!» gridò di nuovo la voce di Steiern. «Non si tratta certamente di un prezzo troppo caro!» «Thoem!» esclamò il più alto dei mercanti pallido in viso. «Ma aspettate... Qual è il favore che vi abbiamo fatto?» «Stavo cercando come voi un passaggio verso un'altra spiaggia» rispose il cavaliere. «Ma le vostre parole mi hanno fatto capire che qui c'è lavoro per me.» E con un colpo di speroni, Kane fece partire il cavallo dirigendolo verso nord. VI Messe di sangue «Per Thoem! Hanno un esercito che copre la terra!» Jarvo grugnì irritato: «Esercito? Per l'inferno! Guardali bene, Ridaze. Non sono altro che un'accozzaglia confusa.» Il sole batteva cocente sull'immensa savana, e quando avesse raggiunto lo zenith dal mare sconfinato d'erbe incolte si sarebbero levate ondate di riflessi verdi e gialli. Non pioveva da settimane. Due enormi nuvole di polvere che si alzavano agli estremi opposti dell'orizzonte indicavano l'avan-
zata di due eserciti. Scendendo da nord, procedeva una marea di carne umana che sembrava non dover finire mai. Duecentomila? Cinquecentomila? Jarvo non sapeva dirlo. I rapporti delle staffette propendevano per la seconda ipotesi o addirittura indicavano un numero ancora maggiore. Alcuni erano a cavallo, ma la stragrande maggioranza avanzava a piedi; Jarvo rifiutava di prendere in considerazione quella marmaglia in termini di cavalleria e fanteria. I carri e le salmerie erano sparsi a caso in quel fiume di corpi per tutta la sua lunghezza. L'esercito del Profeta possedeva l'ordine e la disciplina di una folla in rivolta bramosa di azzuffarsi. Jarvo si stupì che avesse resistito alla marcia di due giorni attraverso il territorio che si stendeva a sud delle foreste di Shapeli. «Potevamo risparmiarci un giorno di marcia e lasciarli proseguire fino in fondo» si lagnò Ridaze asciugandosi il viso. «Un altro paio di giorni sotto questo sole avrebbero reso il nostro compito ancora più facile. I Sataki sarebbero stati tanto stremati da non poter neppure reagire al nostro attacco.» «Sono in troppi per rischiare di lasciarli avvicinare ai nostri confini» fece notare Jarvo al suo subordinato. «In questo modo i superstiti torneranno a Shapeli anziché vagare nei pressi della frontiera di Sandotneri.» Ridaze aggrottò la fronte. «Pensate che qualcuno possa sfuggirci?» Gli altri ufficiali ridacchiarono sarcastici. «Sono troppi per ucciderli tutti in un giorno solo» sogghignò Jarvo. «Ora date le istruzioni ai vostri uomini, e ricordate: niente saccheggi, finché non saranno stati tutti sbaragliati; poi avrete carta bianca. Oh... e non prendete prigionieri.» «Neppure quelle carine?» insinuò maliziosamente un altro ufficiale. «Quello fa parte del saccheggio» sghignazzò Ridaze. «Buona caccia!» augurò Jarvo, licenziandoli. I suoi colonnelli lo salutarono e partirono a cavallo verso il luogo in cui li aspettavano i loro uomini. Jarvo aggrottò le sopracciglia, grattandosi la vistosa cicatrice che gli deturpava il lato sinistro del viso. Il sole cocente gli batteva con insistenza sui tessuti induriti e scarnificati e il sudore si insinuava al di sotto della benda nera che copriva un occhio più simile a un uovo sodo che a un organo della vista. Nonostante il caldo, Jarvo si rimise l'elmetto con la visiera. Erano trascorsi alcuni mesi da quella notte al Frontone Rosso. Le bruciature erano guarite, ma nonostante le assicurazioni e gli unguenti dei medici gli erano rimaste delle orrende cicatrici. Esketra si era dimostrata molto comprensiva. Jarvo l'aveva vista solo tre volte dal loro incontro nel giardi-
no, ed ogni volta al braccio di un diverso corteggiatore. In quelle occasioni la donna si era dimostrata molto interessata alle sue condizioni, ma tutti i tentativi di Jarvo di incontrarla privatamente erano stati respinti in modo gentile ma categorico. Jarvo si diceva che non c'erano motivi di essere geloso. Bisognava essere discreti ancora per qualche tempo. Kane era scomparso dalla faccia della terra e nessuno aveva la minima idea di dove potesse essersi dissolto. Per Jarvo quella era una sofferenza molto maggiore di quella che provava ogni volta passando davanti ad uno specchio. Il generale si era reso conto che il suo odio per Kane aumentava sempre più con il passare del tempo. Poiché la vita a Sandotneri era diventata per lui insopportabile a causa della strana freddezza di Esketra, aveva accolto con piacere la notizia che Orted Ak-Ceddi stava spingendo il suo esercito di straccioni verso i confini dei regni meridionali. Gli sembrava incomprensibile che un condottiero astuto come Orted decidesse di imbarcarsi in una simile spedizione suicida. Tutta la regione di Shapeli era ormai sotto il controllo dei Sataki e con tutto quel territorio da dominare Orted doveva essere pazzo a tentare di conquistarne dell'altro. Forse si trattava della solita figura di tiranno le cui conquiste servivano solo ad aizzare una nuova sete di potere. Forse il Profeta era veramente pazzo. Jarvo scrollò le spalle. Non gli importavano molto i motivi che avevano spinto la Crociata Nera ad avventurarsi oltre i confini delle foreste di Shapeli. Si era sentito dire che i sacerdoti di Sataki facevano uso della magia per aiutare il Profeta nelle sue conquiste, ma Jarvo era propenso a non dar credito a certe dicerie, anche se la mancanza di informazioni a proposito del culto di Sataki era piuttosto imbarazzante. Ad aumentare l'incertezza, c'erano anche le innumerevoli testimonianze di coloro che erano fuggiti da Shapeli ed avevano riferito come le vittorie del Profeta fossero basate su una violenza di massa seriza precedenti. Un numero impressionante di uomini e una crudeltà terrificante erano le armi segrete di Orted. Poco dignitose, ma molto efficaci... sul terreno del Profeta. Oggi, però, il campo di battaglia era stato scelto da Jarvo. La savana era caratterizzata da un impercettibile inclinazione del terreno. Sebbene fosse inesatto considerare Sandotneri in posizione soprelevata rispetto al resto della regione, la città sorgeva su una piccola altura che permetteva di controllare da lontano l'avanzata dei Sataki. Mentre l'orda disorganizzata si avvicinava lentamente, Jarvo provò per la prima volta
una sensazione di insicurezza. L'esercito di Orted copriva l'orizzonte. Jarvo non aveva mai visto neppure la metà di un simile ammasso di uomini. Per seguire la Crociata Nera dovevano essersi svuotate le foreste di Shapeli. Qualche settimana prima i Sataki avevano sopraffatto le ultime città ai bordi della foresta e lungo la costa. Da quel momento, gli esploratori di Sandotneri li avevano tenuti strettamente sotto controllo. Alle prime avvisaglie di una probabile invasione, Jarvo si era trasferito al nord con dieci reggimenti di cavalleria leggera e cinque di pesante. Radunando le divisioni in avamposto alla frontiera, aveva avuto a disposizione altri dieci reggimenti di cavalleria leggera... la metà dei quali era composta da arcieri. Trentamila uomini contro una massa probabilmente dieci volte più numerosa. Soldati addestrati ed equipaggiati, contro un'accozzaglia confusa e senza disciplina. Jarvo provò un impeto d'orgoglio al pensiero di essere al comando di un simile esercito. L'incertezza scomparve immediatamente, lasciando posto all'insoddisfazione di dover annientare un semplice esercito di straccioni. Balzando in sella, diede il segnale dell'attacco. Sul fronte dei Sataki non si formò alcuna linea di combattimento... solo un'enorme massa di corpi che continuava ad avanzare a piedi senza preoccuparsi dell'imminente carica di cavalleria. Alcuni ufficiali addestrati avrebbero potuto impartire gli ordini per far loro assumere una posizione difensiva, ma i Sataki avevano scrupolosamente massacrato tutti gli uomini che avevano difeso invano la città di Shapeli dai loro assalti. Gli ufficiali che Orted si era scelto erano i peggiori tagliagole e delinquenti di tutta quella plebaglia. Erano abituati a farsi obbedire con il terrore e la paura ma non avevano la minima idea di come si combattesse in campo aperto, e meno ancora di come ci si dovesse difendere da una carica di cavalleria. Temendo qualche insidia nascosta, Jarvo diede inizio alla battaglia con una puntata di assaggio di quattro reggimenti di cavalleria leggera contro il fronte nemico, mentre i sei reggimenti di arcieri a cavallo si dividevano in due ali per attaccare ai fianchi. La cavalleria pesante sarebbe rimasta inattiva fino a quando i primi scontri non avessero saggiato l'efficienza dell'esercito di Sataki. Il fronte dei nemici si mosse lentamente per assumere una posizione riparata contro l'attacco di Sandotneri. Alcuni gruppi sparsi di uomini a cavallo si staccarono dal corpo principale, galoppando incontro alla cavalleria leggera che caricava. Alle loro spalle la massa di soldati a piedi si compresse lungo il fronte per formare una barriera di scudi e lance. Da dietro la
massa di corpi partì un lancio poco convinto di frecce... molto più pericoloso per i cavalieri Sataki che per gli uomini di Sandotneri ancora abbondantemente fuori tiro. Luccicante sotto il sole del mattino, la cavalleria leggera di Jarvo si fece incontro ai cavalieri dei Sataki. Ogni soldato indossava una maglia di ferro sottile e reggeva uno scudo rotondo e la lunga sciabola comune a tutti i regni meridionali. Come tutti gli uomini della savana, quei soldati erano abituati a cavalcare fin dalla nascita. I cavalieri Sataki montavano invece cavalli razziati durante i saccheggi a Shapeli ed erano armati e equipaggiati con tutto ciò che era capitato loro sotto mano. Per quanto superassero numericamente i quattro reggimenti di Sandotneri, galoppavano con lo stesso ordine di un branco di bisonti in fuga. Manovrando abilmente, gli arcieri di Sandotneri li strinsero ai fianchi. Da lontano apparivano come due masse più scure, poiché al posto delle sciabole sguainate reggevano gli archi corti e maneggevoli in dotazione alla cavalleria di tutti i regni meridionali. Armi potenti, in grado di scagliare frecce che potevano perforare una maglia di ferro. Potretti anch'essi da una robusta corrazza, gli arcieri tenevano le sciabole infilate nei foderi appesi alle selle, pronti ad usarle in caso di carenza di frecce. Dall'alto della sua postazione, Jarvo osservava la scena con i cinque reggimenti di cavalleria pesante al centro e il resto dei cavalleggeri schierati ai lati. Con il fiato sospeso attendeva il momento dell'impatto, preoccupandosi di non impegnare altri uomini prima di essere certo della forza del nemico. Al di là del mare d'erba, vide la cavalleria di Sandotneri penetrare tra gli avversari come una falce nel grano maturo. Le sciabole scintillavano sotto il sole, abbattendo inesorabilmente i Sataki. Dal terreno si levarono nuvole di polvere giallastra e le erbe incolte vennero spezzate e calpestate e arrossate del sangue dei soldati caduti. I cavalieri di Orted non impensierivano neppure le truppe addestrate di Sandotneri. Inesperti tanto nel cavalcare quanto nell'uso delle armi, avrebbero potuto cavarsela meglio a piedi. Al primo attacco cedettero rovinosamente, e la scaramuccia - difficilmente si sarebbe potuta definire battaglia - terminò dopo pochi minuti di carneficina. Poi i superstiti si diedero alla fuga precipitosa verso il grosso dell'esercito del Profeta. Ma solo alcuni riuscirono a rientrare, perché gli arcieri a cavallo li attaccarono ai fianchi con un nutrito lancio di frecce che si abbatté su di loro
con conseguenze disastrose. Il fuoco di reazione del nemico - frecce tirate con poca precisione e lance scagliate fuori misura - provocò perdite irrilevanti tra le fila degli attaccanti. Mentre gli ufficiali dei Sataki urlavano invano di conservare le lance per poter far fronte alle cariche successive, i loro uomini, presi dal panico, si liberavano con lanci insensati delle uniche armi difensive a loro disposizione. Demoralizzato dal massacro della cavalleria e decimato dai tiri degli arcieri di Sandotneri, il fronte dei Sataki ripiegò rovinosamente contro il resto dell'esercito che stava ancora avanzando alle sue spalle, creando un'enorme confusione. In sella al suo cavallo, Jarvo sogghignò crudelmente. Oggi non ci sarebbero stati incantesimi a favore dei Sataki; era il momento di dare inizio al massacro. «Lancieri! Avanti, ooh-oh!» Un urlo poderoso fece eco al comando di Jarvo... seguito dal clangore assordante di seimila soldati che abbassavano le loro lance dalla punta d'acciaio. I corni ritrasmisero immediatamente il segnale di carica. Ora gli uomini di Jarvo sarebbero stati tutti impegnati. Una volta partiti alla carica, tutto si sarebbe svolto secondo i piani prestabiliti. Simile ad una mostruosa valanga di metallo, la cavalleria pesante rintronò sul terreno sollevando una scia di polvere al suo passaggio. Le armature d'acciaio luccicavano sotto il sole, proiettando riflessi mortali mentre le seimila lance acuminate brillavano come stelle in una notte tropicale. Cinque reggimenti di soldati ben equipaggiati e addestrati al combattimento... la forza militare più temibile di quei tempi. Creata dopo secoli di guerre sanguinose sulle pianure sconfinate dei regni meridionali, la cavalleria pesante di Sandotneri rappresentava la gloria bellica della nazione. In condizioni normali una simile carica sarebbe stata rivolta contro una forza militare di ugual peso di qualche regno rivale... con la soluzione temporanea di una delle interminabili liti di frontiera o guerre di successione in corso. Ma i Sataki non erano una forza che potesse contrastarli, erano solo una massa enorme e brulicante di uomini che attendevano la carica dei soldati di Jarvo. I primi reggimenti di cavalleggeri - praticamente senza perdite - si allargarono davanti alla carica poderosa. Gli arcieri scagliarono ancora qualche freccia contro il fronte dei Sataki, quindi avanzarono attorno ai fianchi del nemico mentre i loro compagni si lanciavano sul centro. Alle spalle della
cavalleria pesante procedevano come rinforzo i restanti reggimenti di cavalleggeri. Tra le file dei Sataki apparvero sguardi vacui e impauriti, e ancor prima che gli attaccanti irrompessero contro di loro gli uomini scagliarono via le armi che reggevano e tentarono di darsi alla fuga. La carica di Sandotneri penetrò nell'esercito del Profeta come gli zoccoli di un cavallo in un mucchio di letame. Sfiancate dalla lunga marcia e completamente incapaci di reagire di fronte all'attacco nemico, le orde di Shapeli abbandonarono le loro posizioni scappando all'impazzata qua e là. Non si trattava di soldati ma di una moltitudine unita dall'avidità e dalla paura... una moltitudine che poteva uccidere e depredare, ma pur sempre una moltitudine di uomini che non avevano né il coraggio né la capacità di opporsi a truppe disciplinate e ben armate. Una moltitudine che non poteva fare altro che morire. Perfino la fuga venne loro negata. Quando il fronte dei Sataki tentò di ritirarsi, si scontrò con gli uomini che alle loro spalle continuavano ad avanzare alla cieca senza rendersi conto di ciò che stava accadendo e della sorte che li attendeva. In breve il panico si allargò a macchia d'olio, mentre coloro che fuggivano terrorizzati si facevano largo nella confusione di corpi, riuscendo a distanziare i loro inseguitori solo perché ci voleva più tempo ad uccidere che ad addentrarsi nella calca. Perfino quando l'intera orda dei Sataki tentò di voltarsi per fuggire non si poté parlare di ritirata ordinata... ed ancor meno di cedimento momentaneo o di azione di retroguardia. Appesantita da carri ingombranti carichi di bagagli e da vagoni pieni di donne e bambini, la Crociata Nera assomigliava più ad una migrazione tribale che ad un esercito in marcia. I fuggitivi furono respinti dai loro stessi compagni, premuti alle spalle dai carri di bagagli e dalla calca impaurita. Poco dopo l'inizio della carica, Jarvo lasciò la propria lancia conficcata nella schiena di un nemico. Ora il generale delle forze di Sandotneri sferrava fendenti qua e là con la sciabola. Solo la resistenza dei corpi pressati uno contro l'altro poté fermare la carica, arrestandola come erbe di palude che impedissero l'avanzata di una barca. Aggirandosi come lupi in un gregge, i cavalleggeri si strinsero attorno ai loro compagni abbattendo i Sataki fino ad averne le braccia indolenzite e le lame offuscate dal sangue. Ora la strategia e la tattica erano concetti inutili; l'unico compito era quello di fare a pezzi quella massa informe e sanguinante che si contorceva disperatamente nel tentativo di sottrarsi alla morte.
Sul campo di battaglia inzuppato di sangue rappreso, Jarvo conduceva le sue truppe verso una vittoria schiacciante. Solo alcuni tentavano una debole resistenza e pochi erano quelli che avevano il coraggio di morire affrontando l'acciaio del nemico a viso aperto anziché fuggendo. Nemmeno per un istante l'esito dello scontro poté essere messo in dubbio. Le regole della guerra erano inesorabili: quando un esercito si dava alla fuga non poteva esserci che una fine. Jarvo si chiese dove fosse Orted Ak-Ceddi... e se il condottiero fosse morto oppure nascosto tra i cadaveri. Aveva promesso dieci pezzi d'oro a chi gli avesse portato la sua testa ma per tutto il corso della battaglia non c'erano stati rapporti sulla sua presenza. Alla fine Ridaze gli portò la risposta. Annoiatosi di partecipare al massacro, si era fermato ad interrogare alcuni prigionieri. Probabilmente avrebbero usato il loro ultimo respiro per dire la verità. «Non è qui» riferì al generale Jarvo. «E non è nemmeno venuto. Il Profeta ha ordinato ai suoi generali di condurre la Crociata Nera fino a Sandotneri... ma se n'è rimasto a casa, rintanato nel suo palazzo di Ingoldi, mentre i suoi seguaci saggiavano la forza della nostra cavalleria.» Jarvo sputò una boccata di polvere. «Almeno non si potrà dire che gli aneddoti a proposito della sua astuzia fossero esagerati...» La massa dei Sataki era ormai completamente smembrata e i superstiti stavano fuggendo in mille direzioni, inseguiti inesorabilmente dai soldati a cavallo. Jarvo decise che la caccia non dovesse protrarsi oltre la sera. Era pomeriggio inoltrato. VII Crisi Sorgendo dall'orizzonte privo di alberi, la luna piena illuminò come un carbone incandescente la savana simile a un mare di sangue. Lontani sull'orizzonte, al di sotto del disco bianco della luna, apparvero un cavallo e un cavaliere. Sulla scena era calato un silenzio innaturale. Solo gli uccelli radunatisi poco prima del tramonto gracchiavano assonnati continuando pigramente il loro banchetto interminabile e gli sciacalli si aggiravano qua e là guaendo e ringhiando. Di tanto in tanto uno scrosciare sinistro di risa o lo scricchiolio di qualche osso spezzato rivelava la presenza di una iena. Dalle decine di migliaia di morti non si levava alcun rumore.
All'avvicinarsi degli zoccoli del cavallo, gli animali che stavano festeggiando alzarono lo sguardo verso gli intrusi. Gli avvoltoi allargarono nervosamente le ali. I curiosi macropi e le altre minuscole creature notturne si bloccarono per un istante, poi scivolarono via timidamente. Le decine di migliaia di morti non si mossero affatto. Lentamente - poiché nella notte limpida le distanze sembravano fantastiche ed irreali - il cavaliere raggiunse il campo di battaglia. La sua sagoma scura si stagliava contro l'orizzonte rischiarato dalla luna come quella della Morte a cavallo di un nero stallone. Una leggera brezza increspava l'erba dove l'impeto della battaglia non aveva lacerato il terreno, portando l'odore della carne martoriata e del sangue raggrumato. Il cavaliere si fermò ad osservare il mare di sangue, poi condusse lentamente il cavallo lungo le sue sponde. I passi pesanti dello stallone risuonavano sordi come battiti di tamburo contro il suolo molle ed inzuppato. Qua e là la carcassa di un cavallo, spogliato della sella e dei finimenti. I vincitori avevano raccolto i loro morti e i feriti - a giudicare dalla scena non dovevano essere stati tanti - e avevano lasciato il campo agli sconfitti. Una pianura coperta di morti... uomini, donne, bambini, uno accanto all'altro, a migliaia. Per la maggior parte si trattava di straccioni e mendicanti, e solo pochi erano quelli che avevano l'aspetto di soldati esperti. Niente altro che carne da macello per le sciabole della cavalleria di Sandotneri. Armi improvvisate e insufficienti contro lame affilate e corazze robuste. I cadaveri non erano stati spogliati dei loro averi, e nemmeno ne sarebbe valsa la pena. Il campo non era che una distesa di carne morta, interessante solo per gli animali che si sarebbero saziati fino quando non fossero rimaste che ossa. Poi sarebbe di nuovo cresciuta l'erba, più alta e rigogliosa, e le ossa sarebbero scomparse nel mare verdeggiante. Al di là dell'enorme ammasso i corpi, più distanziati uno dall'altro, indicavano il punto in cui gli sconfitti avevano cominciato a ritirarsi e quindi a fuggire. Un vasto tratto di savana era stato inondato dal fiume del massacro, con la sua deriva di morti falciati alle spalle dagli inseguitori a cavallo. La pista di cadaveri si allungava verso l'orizzonte, perdendosi per chilometri in direzione delle foreste, fino a dove i soldati si erano stancati di uccidere... fino a dove non c'era stato più nessuno da uccidere. Scuro contro il cielo illuminato dalla luna, il cavaliere si addentrò tra i morti immaginando la battaglia e il massacro che ne era stato la conseguenza. I suoi occhi esperti rividero gli scontri. I morti si alzarono per combattere di nuovo e morire una seconda volta, mentre nelle sue orecchie
echeggiavano i clamori della lotta e le urla di morte. Gli avvoltoi gracchiarono allontanandosi con le ali spiegate. I predatori ringhiarono ritirandosi dal banchetto. Il cavaliere non si preoccupò di loro più che dello scenario macabro che li circondava. I suoi pensieri erano rivolti altrove e il campo di battaglia aveva ormai perso ogni interesse. Scene simili ne aveva viste a migliaia, e forse ne avrebbe viste ancora altrettante. La brezza leggera sibilò un canto spettrale frusciando tra l'erba, e si insinuò sotto il suo mantello rosso con il profumo della morte. Seguendo la pista coperta di cadaveri, Kane si allontanò lentamente fino a scomparire all'orizzonte. VIII Dove nascono le tempeste I venti della tempesta tropicale spazzavano Ingoldi. Perfino all'interno delle solide fortificazioni di Ceddi, il fragore dei tuoni si abbatteva contro i muri di pietra riversandosi lungo i corridoi tetri. Scrosci d'acqua sferzavano le mura penetrando dalle feritoie. Il chiarore dei fulmini si insinuava attraverso le aperture, aggiungendo la loro luce occasionale al bagliore delle torce che illuminavano i passaggi. Paragonabile alla furia della tempesta era la rabbia di Orted Ak-Ceddi. Un anno aveva apportato molti cambiamenti all'ex capo dei banditi, allo stesso modo in cui centomila paia di mani avevano trasformato Ceddi da un ammasso di rovine in una fortezza inattaccabile e Ingoldi da un grosso borgo in una cittadella militare. L'uomo che non faceva ombra possedeva ancora l'agilità felina e la forza del vecchio fuorilegge, ma i mesi di dissolutezza sfrenata cominciavano tuttavia a lasciare il segno... ricoprendo la figura muscolosa con un accenno di grasso, oppure ammorbidendo i lineamenti rudi con le ombre e le rughe della sregolatezza. Gli occhi, un tempo vivi e sprizzanti di astuzia, ardevano ora delle fiamme scure del fanatismo e del fuoco del potere assoluto. Per il momento la sicurezza di quel potere assoluto era stata scossa, e con l'incertezza crescevano la rabbia e la delusione cocente. Assieme al convincimento di possedere potere divini era calata sul Profeta la consapevolezza di un'ira in tutto simile a quella di un dio. Neppure l'agonia di tutti i suoi capitani impalati era servita a placarlo. Ora se ne stava da solo nelle sue stanze, a fissare dalle finestre della sua
torre personale la cittadella spazzata dalla tempesta. Neppure i sacerdoti di Sataki osavano avvicinarsi alla sua rabbia demoniaca. Nel cortile sottostante, il vento furioso scuoteva i corpi impalati degli ufficiali dando alle loro membra inanimate una falsa impressione di vitalità. «Sconfitti!» sbottò Orted, fissando con occhi fiammeggianti le marionette che danzavano per lui anche da morte. «Un massacro!» Poco importava che i suoi generali gli avessero invano sconsigliato l'invasione suicida dei regni meridionali, affermando che la catena ininterrotta di vittorie riportate in Shapeli erano dovute solo alla mostruosa violenza di massa e che una folla disordinata, per quanto superiore numericamente, non poteva sperare di prevalere in uno scontro vero e proprio contro forze bene armate e addestrate. Il Profeta aveva immediatamente messo a tacere i loro argomenti, ricordando che disobbedire ai suoi ordini era un atto ancor più suicida di qualsiasi missione rischiosa. Sataki ordinava che i regni meridionali fossero invasi. Sataki doveva essere obbedito. Il fatto che quei generali avessero avuto la temerarietà di evitare la sua ira, affrontando per primi la morte contro la cavalleria di Sandotneri, aumentava ancor più la rabbia del Profeta. Ad un tratto Orted spalancò la finestra, lasciando che la pioggia gli battesse sul viso livido e il vento gli scompigliasse i capelli profumati. I fulmini frantumavano la notte rischiarando con la loro luce spettrale la figura del Profeta e gettando riflessi sinistri sui corpi nel cortile. I movimenti di Orted sembravano spasmodici, irreali nel chiarore stroboscopico. Con il collo teso per lo sforzo e la bocca spalancata, Orted-AkCeddi urlò la sua rabbia e la sua sfida nella notte di tempesta in cui nessuna anima viva avrebbe osato avventurarsi. «Non debbono esserci sconfitte!» ruggì. «Vincerò! Devo vincere!» Un tremendo fulmine sconvolse la notte, accecandolo con il suo bagliore e assordandolo con il fragore del tuono. Per un istante, Orted-Ak-Ceddi non vide altro che il buio più completo e udì solo il battito del proprio cuore. Poi, dietro di lui, una voce. «Per vincere hai bisogno di una cavalleria pesante.» Orted si girò di scatto. La porta della stanza era aperta. Illuminata contro la soglia dal chiarore dei fulmini si stagliava una sagoma possente. Un paio di occhi azzurri e diabolici guizzarono sotto una massa di capelli rossi scompigliati dalla bufera. «Io sono Kane. Ora hai bisogno di me.» IX
La forgiatura Le risate acute dei bambini rimbalzavano tra la polvere del campo di esercitazione. Attirati dalla distesa di terreno fuori delle mura di Ingoldi, i piccoli si radunavano in gruppetti chiassosi per ammirare lo scintillìo della cavalleria che si addestrava e per giocare le loro interminabili gare con la palla. All'interno della capitale del Profeta i visi degli anziani potevano anche essere tesi e preoccupati, ma qui, sotto le mura della città, incuranti del pericolo degli zoccoli e delle armi, i bambini scorrazzavano con tutta l'esuberanza della loro giovanile innocenza. Kane aveva chiesto un campo di addestramento per esercitare la cavalleria del Profeta. Kane chiedeva. Orted Ak-Ceddi ordinava. Centomila obbedivano. Due miglia quadrate di foresta tropicale erano state rase al suolo. Le radici erano state scavate faticosamente e le pietre e le rocce trascinate lontano. Il terreno era poi stato meticolosamente livellato e pressato fino a formare un fondo duro come la pietra. Dove un tempo c'era la giungla, si stendeva ora un quadrato di terra nuda, piatto e liscio come il piano di un tavolo. Kane era rimasto impressionato. Gli erano venuti in mente i pesci carnivori che infestavano i fiumi e la parte sud-occidentale del Gran Continente Settentrionale, e le marce devastatrici degli eserciti di formiche che brulicavano nella giungla. Il campo di esercitazione era stato pronto prima ancora che i primi reggimenti di cavalleria cominciassero ad attraversare la foresta per raggiungere Ingoldi. «La Crociata Nera è un colosso... un gigante» aveva detto Kane ad Orted. «Ma nonostante la sua grandezza e la sua forza, è un gigante indifeso perché privo di armi e armature. Io posso forgiare le armi che servono al tuo gigante per diventare invincibile.» «Dammi l'oro e l'autorità che ti chiedo» aveva aggiunto. «E io forgerò la Spada di Sataki.» «Chi sei?» aveva mormorato il Profeta, ma dentro di sé aveva pensato: Che cosa sei? Oro ed autorità. Orted Ak-Ceddi aveva abbondanza di entrambi. Per aumentare le sue conquiste, aveva dato a Kane tutto ciò che lo straniero gli aveva chiesto. Kane aveva promesso l'oro sbandierando la notizia ai quattro venti, e dalle regioni attorno a Shapeli gli uomini avevano risposto alla sua chia-
mata. «Da quanto ho visto del tuo esercito» aveva detto ad Orted «sarò costretto a fare uso massiccio di truppe mercenarie per formare la cavalleria. Non si può fare molto e in poco tempo con uomini così poco esperti. Spero solo che alcuni di essi possano diventare buoni alabardieri.» «Sono i Figli di Sataki!» era scattato Orted-Ak-Ceddi. «Sono una marmaglia» aveva ribattuto Kane. «Non posso forgiare una spada dal fango e dallo sterco.» «I tuoi mercenari non saranno mai veri credenti!» aveva tuonato il Profeta. «Saranno soldati. E questo basterà» aveva risposto Kane. «Quanto alla religione, crederanno in tutto ciò per cui li pagherai. Le spade non hanno anima.» Oro. Orted Ak-Ceddi aveva i forzieri colmi delle ricchezze depredate in tutta la regione di Shapeli. Aveva commesso un passo falso ed aveva perduto un esercito. Kane prese il suo oro e gli comperò un secondo esercito... più efficiente e potente del primo; perché Kane sapeva come spendere il denaro in modo saggio. Era un gioco che conosceva molto bene. A sud, Sandotneri proteggeva le proprie frontiere con una muraglia di armature d'acciaio. Pago dell'annientamento dell'esercito del Profeta, Jarvo non se la sentiva di tentare una spedizione punitiva nelle foreste inestricabili di Shapeli. Nel suo palazzo di Sandotneri, il re Owrinos languiva sul letto di morte, consumato inesorabilmente dal cancro che lo divorava giorno per giorno. Gli intrighi di corte per decidere chi dovesse succedergli si moltiplicavano, e l'eroe della vittoria su Shapeli aveva guadagnato in prestigio e popolarità. Dovendo preoccuparsi di ciò che accadeva nella capitale, Jarvo aveva lasciato alla frontiera gli ufficiali che si erano dimostrati meno favorevoli alla sua causa e ora si chiedeva come mai Esketra sembrasse tanto infatuata di uno squallido adulatore come Ridaze. Essendo poco probabile che un nuovo esercito avanzasse da Shapeli, le guardie di frontiera non si preoccupavano affatto degli uomini che si dirigevano verso la regione nemica. Dapprima erano stati solo pochi cavalieri isolati o riuniti in gruppi sparuti; poi - quando l'oro clandestino aveva riempito i forzieri dei comandanti degli avamposti - nessuno si era più opposto ai movimenti notturni di militari armati. Altrove, lungo la costa occidentale di Shapeli, alcune navi attraversarono
ininterrottamente il Mare Interno, dirette verso la parte occidentale del Gran Continente Settentrionale, dove parecchi uomini richiamati dall'oro radunavano armi ed equipaggiamenti e partivano alla volta delle foreste di Shapeli. Le coste settentrionali e orientali della penisola erano battute dalle onde del Mar d'Oriente. Mille miglia al di là delle sue acque azzurre si stendeva il continente di Lartroxia, dove gli uomini chiamavano lo stesso tratto d'oceano il Mar d'Occidente. Le navi erano in grado di attraversare quella vasta distesa d'acqua, ma i viaggi erano diventati sempre meno frequenti man mano che i due grandi continenti settentrionali si abbandonavano sempre più alle barbarie. Kane non aveva bisogno di attraversare un oceano per trovare gli uomini che cercava. Perfino all'interno di Shapeli trovò individui che si prestavano ad essere forgiati nel modo che lui richiedeva. Alcuni dei Sataki - grazie a doti naturali o a qualche addestramento rudimentale - erano in grado di reggere un'arma e di cavalcare, e soprattutto di non rappresentare un pericolo per i compagni piuttosto che per gli avversari. Kane li scelse tra la massa e dopo averli armati di tutto punto cominciò ad addestrarli. Un'amnistia generale - proclamata da Kane nonostante le obiezioni di Orted - fece uscire dai loro nascondigli parecchi ex-appartenenti al corpo di guardia ridotti alla fame. «Hanno osato sfidare Sataki!» era esploso il Profeta. «Da allora hanno avuto modo di pentirsi; sii magnanimo» aveva risposto Kane. «Ho bisogno di uomini esperti per i miei ufficiali.» Un nucleo di ufficiali che sapeva il fatto loro - soldati di mestiere - ed attorno a loro una cornice di esperti veterani. Quella era la base dei disegni ambiziosi di Kane. Da quel nucleo avrebbe creato un esercito, attingendo dalla massa dei Sataki gli uomini che gli servivano ed addestrandoli ai limiti del possibile. Con l'oro e l'autorità che aveva a disposizione, sarebbe stata solo una questione di tempo. Nel frattempo le fucine di Shapeli annerivano il cielo e gli artigiani lavoravano notte e giorno per forgiare le armi e le armature richieste da Kane. Lo straniero frugava in lungo e in largo la regione per riempire le scuderie di Ingoldi e spese oro a palate per procurarsi i cavalli di cui aveva bisogno. Era un'impresa grandiosa e assolutamente irrealizzabile senza le migliaia di mercenari che avevano risposto ai suoi appelli. Considerare quegli uomini veri cavalieri sarebbe stato impreciso. Per
quanto alcuni vantassero origini aristocratiche, in un'epoca caratterizzata da imperi frantumati e da secoli privi di dinastie degne di nota certe pretese erano esclusivamente accademiche. Non si trattava neppure di piccoli proprietari terrieri di origine nobile legati a qualche signore feudale, per quanto qualcuno possedesse tenute considerevoli ed eserciti privati. Era un'epoca di quasi totale anarchia, in cui un uomo poteva impadronirsi di tutto ciò di cui era capace e la legge del più forte aveva il sopravvento su tutte le altre leggi temporali, spirituali o naturali. Adattandosi ad un riflusso bucolico di città-stato e villaggi agricoli, Shapeli non era altro che una risposta alla propria era. Le armi, l'armatura e il cavallo di un mercenario rappresentavano un vero e proprio investimento, e l'abilità nel farne uso richiedeva anni di addestramento. In un'epoca di guerre continue un soldato di ventura poteva arricchirsi vendendo i propri servigi, oppure impegnandosi in attività private di natura meno gloriosa. Che venissero chiamati soldati di ventura, condottieri o mercenari poco importava; si trattava di una categoria di guerrieri senza altro codice morale che quello del proprio interesse personale, capaci di vendere la loro fedeltà alla causa che pagava meglio e i cui ranghi erano aperti a chiunque fosse in possesso delle armi e dell'equipaggiamento richiesto dal caso. Chi possedeva anche l'abilità necessaria poteva, con un po' di fortuna, godersi una lunga vita e una carriera avventurosa. Erano questi gli uomini che Kane aveva attirato a sé. Per la maggior parte erano arrivati già muniti di armi e cavalli; altri avevano solo le cicatrici, ma formavano un esercito che con un minimo di coesione sarebbe stato pronto a combattere. Per i Sataki, invece, era una faccenda diversa. Kane selezionò i più promettenti e li consegnò ai suoi ufficiali più anziani, confidando che lunghi mesi di addestramento potessero fare di loro dei cavalleggeri accettabili. Quanto al resto... forse sarebbe riuscito a ricavarne qualche reggimento di alabardieri e di soldati appiedati. Per quanto sembrasse incredibile, i seguaci del Profeta ammontavano ancora a centinaia di migliaia... prima che Orted avesse lanciato la Crociata Nera le foreste di Shapeli avevano dato rifugio a milioni di persone. Se il meglio dell'esercito del Profeta era stato annientato dalle cariche di Sandotneri, Kane immaginava come dovesse essere il resto. «Sanno reggere una spada; possono combattere» argomentava Orted AkCeddi.
Per mesi e mesi lo straniero li addestrò sul campo che aveva fatto preparare ad Ingoldi. Con precisione chirurgica eliminava gli incapaci e dava mansioni di comando ai migliori, organizzandoli e riorganizzandoli instancabilmente. Alla fine le lunghe ore di fatica cominciarono a dare i primi risultati. Stringendosi attorno al nucleo centrale di mercenari, inesperti e poco avvezzi all'uso delle armi diventavano lentamente soldati. Sotto la guida dei veterani prendevano forma i reggimenti dei Sataki... scaglioni di mercenari temprati dalle battaglie e di reclute fresche di addestramento recuperate dalle orde del Profeta. Kane era abbastanza soddisfatto dei progressi fatti; la Spada di Sataki in parata o in esercitazione era uno spettacolo impressionante, e sebbene la prova vera e propria del combattimento dovesse ancora venire, lo straniero riponeva una certa fiducia nei suoi uomini. In realtà, qualcuno avrebbe potuto obiettare che la stragrande maggioranza degli ufficiali di Kane era composta da uomini che erano stati ai suoi ordini a Sandotneri; ma se Orted gli avesse portato questa argomentazione, Kane avrebbe potuto rispondere in modo credibile affermando che aveva bisogno di ufficiali di cui essere certo di potersi fidare. E fu con una certa soddisfazione che quel giorno Kane, dopo aver visionato l'addestramento quotidiano della cavalleria, ripercorse il terreno del campo con parecchi dei suoi ufficiali. «Direi che la Spada di Sataki è stata temprata» affermò rivolgendosi al gruppo. «Ora resta solo il compito di affilarla.» "E di sporcarla di sangue", aggiunse tra sé. Nonostante le piogge abbondanti cadute su Shapeli, il sole tropicale aveva asciugato rapidamente il terreno di esercitazione. Sulla polvere fine scivolavano le risa dei bambini intenti a giocare. Incuranti dell'avvicinarsi dei cavalieri, i piccoli giocavano a palla quasi sotto gli zoccoli degli stalloni, gridando allegramente e spingendo a calci gli oggetti tondeggianti sul terreno secco. «Attenzione!» Kane tirò con forza le redini, facendo deviare il cavallo proprio mentre una ragazzina si lanciava incautamente dietro qualcosa che rotolava sulla pista. L'enorme stallone indietreggiò scalciando e spaventando la piccola che si ritrasse con un urlo. «Era il generale Kane!» le bisbigliarono attorno alcune voci impaurite. «L'hai fatta grossa! Scappa!» Il gruppetto di bambini si disperse in un lampo. La ragazzina rimase immobile, in attesa che Kane calmasse il cavallo
per potersi riprendere la palla. Ammirando il suo coraggio, il generale si sporse dalla sella e raccolse la palla, prendendola per i capelli. Con noncuranza diede un'occhiata ai lineamenti malconci della testa di una giovane donna, irriconoscibili per lo sporco e il sangue rappreso. I piedi nudi dei bambini avevano quasi ridotto a brandelli la palla nel corso delle loro partite. Kane porse il macabro oggetto alla bambina che sembrava impaziente e sorpresa di ricevere attenzione da un uomo tanto importante. «Questa ormai è distrutta» le disse, indicando la fila di teste impalate lungo le mura della città. «Faresti meglio a riportarla indietro e a prenderti un'altra palla.» Ogni mattina le teste delle persone sospettate di slealtà nei confronti di Orted e quindi di Sataki erano esposte in mostra. I bambini di Shapeli erano svelti ad inventare nuovi giochi con quegli orrendi trofei. «Oh, no, signore» ribatté la piccola, prendendo con serietà tra le mani la testa malridotta. «Questa voglio conservarla. È mia madre.» X Alla Torre di Yslsl Il velo della notte si stendeva su Ingoldi con la sua notte tropicale punteggiata da stelle che sembravano troppo vicine e troppo luminose. Mancava ancora più di un'ora alle prime luci dell'alba e le strade erano deserte. Le case erano silenziose dietro le porte e le finestre sbarrate, e perfino i Difensori di Sataki, lo speciale corpo di polizia del Profeta, a quell'ora doveva essere addormentato. Lungo le strade vuote risuonavano i tonfi sordi degli zoccoli di un cavallo. Se anche qualcuno si fosse svegliato, sarebbe rimasto con il fiato sospeso in attesa che quei passi si allontanassero. I passi erano quelli di un grande stallone nero e a quell'ora della notte nessuno avrebbe incontrato volentieri né il cavallo né il suo cavaliere. In quelle notti Kane cavalcava insonne lungo la città deserta, assorto nei propri pensieri. Quel girovagare notturno gli dava però poco conforto, perché odiava Ingoldi con tutte le sue forze. La capitale dei Sataki non assomigliava in nulla alla città di due anni prima. Un buon terzo di Ingoldi era stato bruciato durante i disordini seguiti alla rivolta della Fiera delle Corporazioni e quasi tutto ciò che era rimasto era stato raso al suolo per ordine del Profeta. I meravigliosi templi e i palazzi dei ricchi erano stati depredati e distrutti pezzo per pezzo dai Sa-
taki inferociti. Mentre le orde del Profeta scorrazzavano per la capitale sull'onda della vittoria, venivano abbattute costruzioni ed edifici pubblici in piedi da secoli. Dagli ammassi di macerie erano sorti, enormi ed informi come funghi, dormitori ed abitazioni comuni. Le corti pittoresche e le stradine tortuose erano state inghiottite dai larghi viali a struttura geometrica... per permettere il transito delle orde militari in marcia. I giardini e le ville periferiche erano stati ridotti in cenere e al loro posto era stato costruito un alto muraglione che circondava la nuova città e le sue masse turbolente. Quella che due anni prima era una città estesa e pigra, sviluppatasi durante secoli di trasformazioni fantastiche, era diventata una caserma orrenda e brulicante, satura di violenza. A Kane ricordava un mastodontico formicaio, creato al solo scopo di alloggiare le unità anonime della macchina omicida del Profeta. Perfino Ceddi, l'antica cittadella dei sacerdoti di Sataki, non era sfuggita alla trasformazione. Le sue mura in rovina e le torri spigolose - già vecchie quando la città di Ingoldi era sorta - erano state abbattute per procurarsi materiale da costruzione. Dalle antiche fondamenta erano spuntate mura più alte e fortificazioni più solide. Torrioni sgraziati e sale enormi avevano preso il posto delle guglie spezzate e dei vetusti edifici dell'antichissima Ceddi. Solo sotto il livello del suolo, nei sotterranei segreti di Ceddi, i rinnovamenti del Profeta non avevano provocato conseguenze. Kane conosceva bene la vecchia città e la sua sinistra fortezza, e soffriva nel vedere architetture secolari abbattute sotto il fanatismo utilitaristico della Crociata Nera. Il sacrificio di tanti esseri umani senza volto non lo impressionava tanto quanto la scomparsa di una parete di pietra secolare. All'improvviso, il generale sorrise sarcasticamente della propria malinconia. Aveva visto troppe vite umane passare e troppe mura di pietra crollare per permettersi di pensarci sopra quella notte. Tirò le redini per arrestare il cavallo. C'era un edificio in cui i fantasmi dei secoli passati erano rimasti indisturbati. Kane l'aveva di fronte: la Torre di Yslsl. La torre di pietra se ne stava al suo posto da tempo immemorabile, quando i sacerdoti di Sataki erano giunti nella regione di Shapeli per erigere le palizzate di Ceddi. Erano venuti per scavare nel tempio sepolto della loro antica divinità, per riesumare il culto del dio o demonio preistorico i cui segreti erano stati rivelati ai loro capi. Della torre e di chi l'avesse costruita si conoscevano solo leggende frammentarie e confuse. Di Yslsl,
poi, si sapeva ancor meno. Le pareti della torre erano ancora solide e possenti come un tempo. Costruendo Ceddi, i sacerdoti di Sataki l'avevano incorporata all'interno della palizzata di tronchi, con l'intenzione di usarla come rifugio contro gli attacchi delle tribù selvagge che vivevano nella grande foresta. Per quanto gli incidenti veri e propri fossero stati piuttosto rari, la torre era al centro di infinite leggende oscure e fosche superstizioni. Non era mai stata occupata o adibita a qualcosa per un lungo periodo di tempo, e quando la palizzata di tronchi era stata sostituita dalle mura di pietre, la Torre di Yslsl era stata lasciata all'esterno della cinta muraria. Ed ora, anche le nuove linee di fortificazione costruite dal Profeta non racchiudevano all'interno l'antico baluardo. Non c'erano stati tentativi di usufruire delle sue pietre come materiale da costruzione. O forse, se c'erano stati, erano rimasti isolati. All'ombra della cittadella fortificata del Profeta e quasi inghiottita dall'informe formicaio che la circondava, la Torre di Yslsl sembrava distaccata da quelle cose come lo era stata dalla vecchia città e ancor prima dalla foresta impenetrabile. Silenziosa e sinistra, la Torre di Yslsl incombeva sulla notte come da prima dell'alba dell'umanità. Kane scrutò la massiccia costruzione, e con una certa inquietudine smontò da cavallo. Angel sbuffò irritato e si impennò, tentando di allontanarsi dalla torre. Kane lo calmò accarezzandolo sul collo e parlandogli con dolcezza. Attorno al baluardo si stendeva un'area di macerie e di costruzioni crollate; Kane vi lasciò lo stallone senza legarlo. Angel l'avrebbe aspettato tranquillamente senza che nessuno avesse osato avvicinarsi. La torre era perfettamente cilindrica, alta più di sessanta cubiti e larga forse quindici. Era costruita con grossi blocchi di pietra nera che assomigliavano al basalto, incastrati con precisione uno sull'altro senza l'aiuto di calce. Perfino dopo secoli e secoli i punti di congiunzione delle pietre non presentavano la minima erosione. Fatta eccezione per l'ampio portale, sulle pareti della torre non s'affacciavano finestre o altre aperture. C'era una porta, di legno e ferro, annerita dal tempo, che qualche secolo prima era stata adattata all'apertura durante uno degli sporadici tentativi di utilizzare la torre. I Sataki avevano rimosso i chiavistelli di ferro e avevano ripulito l'interno dalle macerie con l'intenzione di usare ancora una volta la struttura come rifugio, ma non appena le nuove fortificazioni erano state completate, la Torre di Yslsl era stata come al solito abbandonata alla polvere e alle ombre.
Kane spinse la porta ed entrò. All'interno la notte era ancora più fonda, ma quello non era certo un ostacolo per lo straniero. Direttamente dalla terra nuda sorgeva una scala a chiocciola addossata alla parete interna. Ogni scalino si inseriva nel muro e sporgeva verso l'interno per una larghezza difficilmente percorribile da due uomini appaiati. In vari periodi erano stati fatti tentativi di costruire dei piani lungo differenti livelli della parete, ma col tempo le travi erano marcite e crollate ed erano rimasti solo i muri esterni. I Sataki avevano rimosso quasi tutte le macerie e ora, guardando verso l'alto, Kane poté cogliere una visione completa dell'interno della torre. La scala saliva, formando una spirale perfetta lungo le pareti che sembravano assolutamente perpendicolari al suolo. Dall'alto filtrava un semicerchio di luce stellare. Kane cominciò tranquillamente a salire. Aveva già percorso altre volte quegli scalini e procedeva del tutto a suo agio. Nel suo punto più alto la scala dava su un pianerottolo semicircolare... una mezzaluna di pietra ricavata da un'unica lastra. Al di sopra di essa le pareti della torre continuavano per altri tre metri circa, per poi interrompersi bruscamente. Durante il corso dei secoli molte voci autorevoli avevano finito per concludere che al momento della costruzione la torre dovesse avere un tetto e delle camere interne... strutture in legno che con il tempo erano marcite e crollate come quelle costruite in seguito, e che avevano fatto la stessa fine. Se non fosse stato così, sostenevano, la torre non avrebbe avuto alcuno scopo logico. La spiegazione di come fossero riusciti gli ingegneri a sollevare quell'enorme semicerchio di pietra all'altezza di sessanta cubiti era meno soddisfacente. Ma la torre racchiudeva un altro strano mistero. Incastonato nella parete in cima alla scala, dove un uomo poteva fermarsi sul pianerottolo semicircolare ad osservarlo, c'era un enorme disco di pietra nera. La forma circolare si estendeva dal pianerottolo fino al punto più alto della parete ed assomigliava ad una rappresentazione stilizzata del sole. Il disco era disposto sullo stesso livello della parete, ma anziché ricordare il basalto si presentava lucido come l'ossidiana, per quanto la somiglianza con entrambi i minerali ignei fosse decisamente relativa. Alcuni ipotizzavano che fosse stato ricavato da una pietra separata e quindi inserito abilmente nel muro; altri erano certi che quello fosse il risultato di antichi processi di levigatura e lucidatura. Nonostante l'età, il disco non presentava graffi o scalfitture.
Era credenza popolare che Yslsl fosse stato una divinità solare, che quello fosse il suo tempio e che il disco ne fosse la rappresentazione simbolica. La spiegazione era abbastanza credibile, per quanto gli scettici obiettassero che i raggi di quel sole assomigliavano troppo a dei tentacoli e che certe leggende confuse lasciavano dubitare che Yslsl fosse tutt'altro che un dio del sole. Kane, se avesse voluto, avrebbe potuto fornire informazioni molto più precise. Avrebbe potuto, ad esempio, raccontare come una copia esatta di quella torre sorgesse sul lato opposto della terra... in una regione dove gli uomini facevano gli stessi sciocchi tentativi di nascondere le leggende confuse che ancora esistevano. Sull'esistenza di altre torri simili a quelle, invece, Kane non poteva fare altro che congetture. Quella notte, quando il generale raggiunse il pianerottolo semicircolare, si accorse di non essere solo. Accovacciata sotto il disco di pietra, una ragazza esile lo guardava con occhi sbarrati. Kane la scrutò incuriosito. La ragazza stringeva un pugnale come se avesse intenzione di usarlo, ma Kane non tentò neppure di porre mano alla spada. «Metti via quello spillo» disse con noncuranza. «Siete il generale Kane, vero?» sussurrò la ragazza senza muoversi. «Perché mi avete seguito quassù?» Kane scoppiò a ridere. «E tu perché mi hai aspettato quassù?» La ragazza pensò per un attimo. «Se non mi avete seguito, allora cosa siete venuto a fare sulla Torre di Yslsl?» «E se tu non sei un'assassina, cosa sei venuta a fare nella Tana di Yslsl?» ribatté l'altro. «È facile. Sono venuta per buttarmi giù.» «E allora che t'importa se ti ho seguito o no? Salta e falla finita!» La ragazza sorrise amaramente e ripose il pugnale nel fodero, I suoi occhi spiritati guizzarono sotto la fascia che portava tra i capelli. «Non ne ho il coraggio. È sempre così. Una notte forse mancherò uno scalino e sarà la stessa cosa...» Kane scrollò le spalle e fece un passo in avanti. La ragazza indietreggiò, fissandolo attentamente. Era graziosa ed esile, ma non sembrava affatto fragile e delicata. Dopo uno sguardo superficiale, Kane l'ignorò. Era salito lassù in cerca di solitudine e la ragazza si era intromessa nei suoi piani. «Perché l'avete chiamata la Tana di Yslsl?» Kane la studiò. «Vuoi veramente saperlo?»
La voce del generale aveva un tono convincente. «Certo. Ditemelo. Ho smesso di aver paura l'anno scorso, a Gillera.» Kane sfiorò il disco di pietra. Era gelido in modo innaturale. «Questa è una porta... Se si sa come aprirla» disse. «E dietro questa porta, Yslsl aspetta paziente come un ragno nella tana.» «Chi è Yslsl?» «Un demonio, più o meno» rispose vagamente Kane. «Nella vostra lingua non esiste un termine adatto. Prova a pensare che questo mondo sia una singola camera di un enorme castello, e immagina che Yslsl sia qualcosa di vecchio e crudele che vive nella camera accanto... qualcosa di molto astuto che ha scoperto il modo di aprire un varco nel muro che separa le due camere. Solo che non è capace di attraversarlo e deve aspettare che qualcuno lo attraversi fino a lui.» «Ma perché qualcuno dovrebbe provarci?» protestò la ragazza. «Immagina di sapere che al di là della Tana di Yslsl ci siano altre stanze... stanze piene di ricchezze e meraviglie superiori ad ogni fantasia... e di sapere che queste stanze si possono raggiungere se si supera Yslsl.» «E se si cade nelle sue mani?» «Nessuno sa cosa accadrebbe» rispose Kane. «Nessuno è mai sfuggito alla Tana di Yslsl.» La ragazza rabbrividì, più per il tono misterioso di Kane che per le sue parole. «E voi sapete aprire quella porta?» «Certamente.» La ragazza rabbrividì di nuovo, osservando con attenzione il disco nero. «Allora apritela per me, generale Kane. Non ho alcun motivo per cui vivere.» «Sarebbe infinitamente più piacevole saltare da questa piattaforma e morire in modo rapido, che attraversare questa soglia. Non avresti scampo nella Tana di Yslsl.» La ragazza scattò irritata, pensando di essere stata presa in giro fino a quel momento. «Non c'è scampo neppure nella morte!» «Così mi hanno detto» sbottò Kane in tono amaro. «Così mi hanno detto.» Poi il generale si voltò di scatto e scese la scala come una furia. La ragazza stava ancora chiedendosi il motivo di quella rabbia improvvisa quando il rumore degli zoccoli del cavallo svanì nella notte. XI
Lamentazioni postume «Liberati di lui.» «Kane?» «Ti distruggerà.» «Nulla può distruggermi.» «Ci distruggerà tutti.» «Non siate sciocchi.» «Che cosa sai di Kane?» «So che può portare il mio esercito alla vittoria.» «Il tuo esercito! Quello è l'esercito di Kane.» «Sciocchi! È il mio esercito. È il mio oro che ha comprato la loro fedeltà.» «Ma è Kane che li comanda.» «E Kane obbedisce ai miei ordini.» «E se disobbedisse?» «Kane non è che un uomo. Può essere sostituito in qualsiasi momento.» «Allora fallo subito.» «E chi guiderà il mio esercito vittorioso a Sandotneri?» «Guidalo tu stesso.» «Sciocchi! Avete mai visto un dio interessarsi di battaglie?» «Kane è pericoloso. Non dovresti fidarti di lui.» «Kane è solo una spada. Ucciderà dietro mio ordine.» «Si rivolterà contro di te.» «In quel caso troverò un'altra spada.» «Devi liberartene subito.» «Osate darmi degli ordini? Sciocchi! Un dio agisce secondo i propri voleri.» «Kane è pericoloso. Non rischiare di fidarti troppo di lui.» «Non rischiare? Non voglio perdere altro tempo con i vostri piagnistei!» «Kane non è ciò che sembra.» «Mi importa solo che domani conduca il mio esercito vittorioso contro Sandotneri.» «E contro di te il giorno dopo.» «Quello sarà il giorno dopo. Kane non vivrà abbastanza da vederne l'alba.» La stanza odorava di profumi e vino rovesciato, e la brezza tiepida por-
tava dalla finestra aperta un aroma di rose. All'interno c'era buio e le tende di garza ondeggiavano morbide. La notte era completamente silenziosa, avviluppata dalle nuvole esili che coprivano il cielo. Perfino lo scricchiolìo del cuoio sulla pietra sembrava un rumore non più forte di un breve respiro. Jarvo aveva ordinato alle guardie di spostarsi in un'altra zona del giardino, e mentre quelli obbedivano si era arrampicato sul cornicione. Si sentiva simile ad un ladruncolo alle prime armi o ad uno sciocco, ma non poteva fare a meno di parlarle. I rapporti delle spie erano stati frammentari e confusi per la paura, ma qualcosa era certo. Kane stava ritornando a Sandotneri, e non da solo. Con disinvoltura, scavalcò il muretto di pietra del balcone. Era una strada che aveva percorso tante notti e che aveva ricordato spesso durante i mesi trascorsi senza vederla. Lei gli aveva detto di aspettare finché non l'avesse chiamato di nuovo, ma i mesi si susseguivano inutilmente. Certo, era necessaria molta discrezione... Soprattutto ora che il padre di lei era entrato nel coma finale. Nessuna ombra di disonore doveva intaccare il suo nome; questo era chiaro. In silenzio si avvicinò alla finestra che dava sul balcone. All'interno tutto era tranquillo; a quell'ora di notte lei stava sicuramente dormendo. L'avrebbe chiamata dolcemente, come aveva fatto tante altre volte, e lei si sarebbe svegliata con un sorriso e si sarebbe precipitata alla finestra per accoglierlo con un bacio che prometteva... Sapeva di rischiare andando da lei in quel modo furtivo, ma lei l'avrebbe perdonato sorridendo della sua audacia come un tempo. All'alba sarebbe partito in marcia verso nord, per andare incontro a Kane. Forse non l'avrebbe rivista mai più... Ma no! Avrebbe sconfitto Kane e qualsiasi esercito i Sataki gli avessero affidato. Sarebbe tornato a Sandotneri ancora una volta vincitore. Ormai la vita di Owrinos era appesa ad un filo esilissimo; era questione di ore. Quando la figlia del re l'avesse accolto sorridente dopo la vittoria trionfale sui Sataki, la scelta del nuovo sovrano di Sandotneri sarebbe caduta certamente su di lui. Ma ora doveva vederla... Sporse il capo oltre le tende morbide della finestra e mosse le labbra per pronunciare il suo nome. In quel momento le nuvole si schiusero, lasciando filtrare un pallido chiarore di luna sulle sete profumate del suo letto. Il fiato gli si mozzò in gola e l'unico suono che emise fu il pulsare impazzito del proprio cuore.
Esketra non dormiva, ma né lei né il suo amante si accorsero della maschera di dolore che li fissava da dietro le tende, e neppure udirono il tonfo del suo balzo nel cortile sottostante e il rumore dei suoi passi che si allontanavano in fretta. Kane cavalca solo nella notte. Dove cavalchi questa notte, Kane? Domani condurrai un esercito alla vittoria. Ma questa notte per te non c'è riposo, Kane. Antichi sogni ti perseguitano, la notte; Nel sonno per te non c'è rifugio. Il giorno sei inseguito dalla maledizione del tuo passato; E così tu continui il tuo gioco. Ancora condurrai un esercito sulla via della morte; Di nuovo abbatterai città per mietere il rosso raccolto; Di nuovo maledirai gli dèi del destino Mentre muterai il fato dei regni Per continuare il tuo gioco. Quante volte, Kane? Quante di queste vigilie di guerra? Quanti eserciti hai condotto? Quante battaglie hai combattuto? Quante volte hai spezzato la tela del destino? E che cosa hai vinto ogni volta? Cavalca nella notte, Kane, tu solo, Come una cometa che passa e distrugge, E prosegue senza fermarsi. Conduci il tuo gioco fino alla fine, Kane. Forse questa volta... XII Il massacro Marciando verso sud da Ingoldi, Kane guidava il suo esercito lungo il sistema completamente rinnovato di strade militari che attraversavano le foreste del territorio del Profeta. Le vecchie piste e le vie commerciali erano state ristrutturate ed allargate abbattendo larghi tratti di foresta, dato che se gli alberi servivano come protezione contro le invasioni potevano anche
impedire l'avanzata regolare di qualsiasi esercito che intendesse uscire dalla regione. Approfittando della stagione asciutta, Kane aveva fatto trasferire in fretta i suoi uomini fino ai margini della foresta. Al di là di quella zona non c'erano altre strade, solo un'immensa estensione di terreno bruciato dal sole. A Seeming, all'estremo limite della foresta, Kane aveva fatto arrestare la marcia per riordinare i reggimenti e permettere ai convogli delle salmerie di unirsi al grosso dell'esercito. Là venne raggiunto il giorno dopo da venti reggimenti di fanteria radunati dalle roccaforti dei Sataki a sud di Ingoldi. Altri dieci reggimenti erano stati sparsi lungo la linea di marcia per proteggere il ritorno da eventuali inseguimenti. Kane non aveva alcuna intenzione di lasciare indifesa la porta della capitale del Profeta, e tutta Shapeli era protetta da quaranta reggimenti di fanteria - il grosso dell'esercito non mercenario di Orted - con il sostegno delle masse inesperte e male armate nell'eventualità di un assedio. Il destino della Crociata Nera dipendeva dalla vittoria di Kane e del suo esercito rinnovato. Se la Spada di Sataki fosse stata spezzata da Sandotneri, certamente Ingoldi sarebbe stata oggetto di misure punitive da parte dei regni meridionali. Era per questo che il Profeta di Sataki se ne stava chiuso nella sua cittadella e attendeva gli esiti della formidabile impresa di Kane. Lo straniero era giunto a Seeming alla testa di tutto il suo esercito di mercenari, con l'aggiunta dei Sataki che avevano risposto in modo soddisfacente all'addestramento. Il che significava che Kane aveva a disposizione otto reggimenti di cavalleria pesante e ventuno di cavalleggeri, per un totale di circa trentacinquemila uomini. Tra questi, la cavalleria pesante era composta quasi esclusivamente di soldati di ventura bene addestrati e muniti di equipaggiamenti personali. Le file dei cavalleggeri erano invece composte da molti Sataki nei quali Kane aveva una certa fiducia, e che aveva affidato al comando dei veterani affinché ottenessero da loro la necessaria coesione. C'erano anche sette reggimenti di arcieri a cavallo... anch'essi formati quasi del tutto da mercenari, essendosi i Sataki rivelati alquanto maldestri nell'uso dell'arco e delle frecce. Era questa dunque la Spada di Sataki; un esercito eterogeneo di professionisti temprati e di principianti. Kane aveva provveduto alla sua forgiatura. Tra poco ne avrebbe saggiato la tempra contro l'acciaio collaudato delle armi di Sandotneri. Lo straniero sapeva perfettamente che era impossibile tentare di assalire Jarvo di sorpresa. Ormai il suo avversario sarebbe stato avvisato della sua
avanzata verso la frontiera, e Kane sapeva che la cavalleria nemica gli si sarebbe fatta incontro molto presto. Le sue intenzioni erano ben precise: scontrarsi con l'esercito di Sandotneri e distruggerlo... per lasciare poi la città scoperta dinanzi all'assedio delle masse del Profeta che avrebbero potuto penetrare indisturbate nella capitale nemica. Dietro insistenze del Profeta, Kane era stato costretto ad accettare la scorta di venti reggimenti appiedati reclutati nelle città periferiche di Shapeli che sulla carta fornivano una forza addizionale di ventiquattromila unità. Kane, tuttavia, li considerava un peso morto in quanto avrebbero agito da freno all'avanzata della cavalleria. Orted aveva replicato che la loro presenza poteva costituire una forza supplementare nell'assedio di Sandotneri, e Kane aveva finito per cedere. Il suo piano era quello di attirare Jarvo allo scoperto per scontrarsi con lui, e in fondo la perdita di qualche giorno non avrebbe avuto conseguenze troppo gravi. Dentro di sé, tuttavia, Kane aveva deciso di abbandonare i soldati appiedati al proprio destino nel caso avessero messo in pericolo la cavalleria. Un combattimento in piena savana era simile ad una battaglia in alto mare. Il terreno scoperto si stendeva per chilometri e chilometri senza alcuna barriera naturale e non c'erano posizioni difensive che potessero essere aggirate. Per lo stesso motivo era assolutamente inutile impadronirsi di vaiti tratti di territorio che non potevano essere protetti e servivano solo ad assottigliare le linee e a rendere difficoltose le comunicazioni. Inoltre, se per i cavalli era facile trovare foraggio, i rifornimenti per le truppe erano limitati alle proprietà agrarie sparse nella regione. L'acqua era reperibile solo in pochi pozzi lontani uno dall'altro e nelle paludi insidiose formate dai ruscelli della zona. La savana ricordava un immenso mare d'erba alta attraverso il quale gli eserciti a cavallo procedevano come flotte corazzate. La velocità e la potenza di impatto erano di capitale importanza. Come in una grande battaglia navale lo scontro era rapidissimo e la lotta si svolgeva confusa e turbinosa tra le truppe pesanti e i reparti agili e mobili. Lo scopo era quello di annientare le forze del nemico in modo che il regno degli avversari restasse sguarnito e vulnerabile di fronte all'esercito invasore. La fanteria non possedeva caratteristiche di velocità necessarie ad una simile tecnica di combattimento e neppure la forza per resistere ad una carica di cavalleria pesante. In assenza di fortificazioni e protezioni naturali, un esercito non in grado di manovrare agilmente poteva essere aggirato ai fianchi e circondato con la massima facilità. La savana era una distesa de-
solata e deserta, capace di divorare interi eserciti come un oceano divorava flotte gigantesche. Poco prima dell'alba Kane abbandonò Seeming, avanzando lungo una linea di località bagnate da corsi d'acqua che conduceva verso Sandotneri. Intendeva scontrarsi con l'esercito di Jarvo quanto prima, e solo puntando direttamente sulla città era certo di forzare l'incontro. Le pesanti armature di metallo erano una pessima protezione contro il sole cocente e Kane voleva attaccare prima che i suoi uomini fossero troppo esausti per combattere. La Spada di Sataki procedeva protetta da uno spesso scudo di cavalleria, formato da sei reggimenti di cavalleggeri che avanzavano su un fronte di circa dieci miglia, con un vantaggio di non più di cinque rispetto alle truppe intermediarie. Altri due reggimenti di cavalleggeri erano distaccati ai fianchi, e dietro quella specie di scudo avanzava il grosso, diviso in due colonne di tre reggimenti di cavalleggeri seguiti da quattro di cavalleria pesante e quindi da altri tre di cavalleggeri. Dietro ancora procedeva la poderosa carovana dei bagagli e delle salmerie, seguita dai venti reggimenti appiedati che, secondo la tradizione, mangiavano la polvere. Un ultimo reggimento di cavalleggeri fungeva da retroguardia. L'ordine di marcia era compatto, poiché Kane attendeva l'attacco di Jarvo e voleva mantenere le sue forze concentrate per uno sviluppo istantaneo non appena le staffette fossero entrate in contatto con l'esercito di Sandotneri. Se fosse stato necessario era pronto a sacrificare i convogli delle salmerie, e la sua preoccupazione principale a proposito dei reggimenti di fanteria era che non intralciassero i suoi movimenti. Le due colonne avanzavano ordinatamente su una linea larga circa un miglio dietro lo scudo di cavalleria e a una distanza di circa un altro miglio dall'ultimo reggimento di fanteria che seguiva. Nonostante le forti lamentele da parte dei soldati appiedati del Profeta, Kane fece loro percorrere almeno venticinque miglia fin dal primo giorno per raggiungere i Pozzi di Charia. Gli avamposti di Sandotneri di quella località erano già stati pagati da Kane e la minuscola cittadina capitolò senza combattere. Kane vi si accampò per la notte, dando precise disposizioni per i turni di guardia e le vedette. All'alba del giorno seguente le colonne erano di nuovo in movimento, disposte secondo lo stesso ordine di marcia. Via via che il giorno avanzava e il sole diventava più caldo, cominciarono tra i reggimenti di fanteria le prime diserzioni. Kane diede ordine alla retroguardia di abbattere chiunque
rimanesse indietro e questo servì a scoraggiare ulteriori tentativi di defezione. Poiché quegli uomini non erano per lui di alcuna utilità, il generale si preoccupava che non potessero cadere nelle mani di Jarvo e non rivelassero ciò che sapevano dei suoi piani. Quel giorno Kane avanzò di altre venti miglia... una distanza poco impegnativa per la cavalleria, ma abbastanza sfiancante per i soldati appiedati che dovettero spesso essere incitati a non staccarsi dal grosso. Alla sera Kane si accampò a Fonte Truce, un piccolo villaggio i cui abitanti fuggirono prima del loro arrivo. La notte trascorse senza incidenti ed anche il mattino seguente i resoconti delle vedette non parlavano dell'esercito di Jarvo. La marcia del terzo giorno procedette alquanto monotona. Le diserzioni e le proteste erano diminuite. Ormai le colonne si erano addentrate parecchio nel territorio di Sandotneri e l'eccitazione e la tensione crescevano con l'avvicinarsi del momento della battaglia. Quel giorno avanzarono di altre venti miglia e si accamparono ai Pozzi Now. In quella località doveva esserci un piccolo avamposto di Sandotneri, ma le staffette mandate in avanscoperta la trovarono completamente deserta. Quella notte Kane raddoppiò i turni di guardia, immaginando che ormai Jarvo dovesse essere a conoscenza della sua posizione ed avesse ritirato tutti gli avamposti di frontiera per rinforzare il grosso del suo esercito. Sandotneri era a sole quaranta miglia... Un giorno di marcia per la cavalleria. Jarvo avrebbe dovuto muoversi molto presto. Verso mezzanotte alcuni esploratori riferirono in preda all'agitazione che Jarvo era accampato al villaggio di Deserved, dieci miglia a sud della loro linea di marcia. Il generale di Sandotneri aveva radunato i suoi uomini ad un giorno di marcia dalla capitale; la velocità di Kane l'aveva colto di sorpresa e per opporsi alla sua avanzata non gli restava che l'indomani. Da quel momento i rapporti si susseguirono. Jarvo era fiducioso nella vittoria ed aveva buoni motivi per esserlo. Un anno prima, contro l'orda dei Sataki, il suo esercito aveva riportato perdite assolutamente irrilevanti ed ora si presentava ancora più forte... Secondo le stime delle staffette doveva essere composto da ventiquattro reggimenti di cavalleggeri e sei di cavalleria pesante. Per quanto Jarvo fosse al corrente che Kane guidava un corpo di cavalleria piuttosto consistente, sapeva anche che in fondo si trattava di un esercito rappezzato alla meglio e inesperto al combattimento. Le spie gli avevano fornito solo vaghe informazioni a proposito della sua forza e lo scudo della cavalleria di Kane aveva in effetti tenuto nascosto il grosso della
truppa. Gli esploratori di Jarvo avevano visto solo la lunga fila di soldati a piedi e i pesanti convogli delle salmerie, traendone l'impressione che l'esercito dei Sataki fosse formato da un'accozzaglia di fanti sorretta da reggimenti sparsi di cavalleggeri. Si sapeva che Kane aveva ai suoi ordini alcuni contingenti di cavalleria pesante, ma nascosti come erano al centro delle colonne, la loro reale consistenza era stata grossolanamente sottovalutata. Solo un anno addietro il Profeta non aveva avuto alcuna forza corazzata, ed era impensabile che potesse aver messo assieme più di qualche reggimento in un tempo tanto esiguo. Jarvo era fiducioso. Kane conosceva bene Jarvo e sapeva che sarebbe stato troppo fiducioso. Il generale dei Sataki si mise in marcia prima dell'alba e quando il sole ebbe asciugato la rugiada leggera dall'erba insonnolita, i due eserciti si trovarono uno di fronte all'altro. L'ora del massacro era inesorabilmente vicina. I reggimenti di Jarvo erano già in formazione e stavano avanzando. Il piano del generale era quello di piombare sui Pozzi Now e di circondare l'esercito dei Sataki prima che avesse il tempo di assestarsi. La sua strategia era solida, basata sull'informazione che gli invasori erano principalmente appiedati e sorretti da pochi reggimenti di cavalleria. Sebbene la rapidità di spostamento di Kane avesse dovuto metterlo in guardia, Jarvo pensava che non ci fossero motivi di supporre che quell'esercito fosse più addestrato di quello che il Profeta aveva mandato al massacro l'anno precedente. Il generale di Sandotneri fu in un certo senso sconcertato nel vedere la nuvola di polvere che si muoveva rapidamente verso di lui avanzando da nord, ma ancora del tutto fiducioso diede gli ordini per lo sviluppo dei suoi... sei reggimenti di arcieri a cavallo lungo la prima linea, sostenuti al centro dalla cavalleria pesante, con sei reggimenti di cavalleggeri su ogni lato e i restanti dietro il centro come riserva. Il campo di battaglia era una distesa sconfinata priva di ostacoli naturali o punti fortificati. Poteva assomigliare ad un immenso tappeto giallo disteso sul pavimento di una enorme camera dalla volta azzurra. Verso nord il piano saliva in modo impercettibile, per ridiscendere poi nelle paludi al di sotto di Deserved. Tutto ciò per Jarvo era assolutamente irrilevante. Una nuvola di polvere copriva l'avanzata dei Sataki, rendendo impossibile la valutazione di quanto stava dietro la linea frontale nemica. Jarvo pensò che Kane avesse disposto le sue truppe lungo una linea troppo lunga
e immaginò che dipendesse dal fatto che la cavalleria nemica non fosse riuscita a distendersi in modo efficace lungo il grosso delle forze di fanteria. Tentando di approfittare dell'errore dell'avversario, Jarvo ordinò alla linea frontale di arcieri di attaccare. Il viso rude di Kane si tese in un sorriso felino nel vedere le linee nemiche. Conosceva la loro forza almeno quanto Jarvo e sapeva di poterle superare. Chiunque altro sarebbe stato innervosito dal dover affrontare uomini che un tempo erano stati ai suoi ordini, ma per Kane quella situazione non era affatto nuova. A quel punto le linee frontali dei due eserciti si trovavano a poco più di un chilometro l'una dall'altra ed entrambe avanzavano al passo. Kane aveva sviluppato le sue colonne a forma di mezzaluna, disponendo gli arcieri sui fianchi e i restanti quattordici reggimenti di cavalleggeri su due linee da una parte all'altra del fronte. Lungo una terza linea erano sviluppati gli otto reggimenti di cavalleria pesante, tenuti di riserva finché Jarvo non avesse messo in movimento la propria armata. In coda, la fanteria era disposta su cinque falangi compatte con le alabarde e le picche minacciosamente levate. Non appena gli arcieri a cavallo di Jarvo si staccarono dal fronte di Sandotneri, Kane diede ordine ai suoi arcieri di attaccare dai fianchi. Lo straniero stabilì che si trattasse di una mossa di studio di Jarvo, più per saggiare le forze dei Sataki che per altro. Conservatore per natura, il generale seguiva la medesima strategia che aveva sconfitto i Sataki nella precedente battaglia. Quella mossa dimostrò la sua poca stima nei confronti dell'esercito avversario. Mentre gli arcieri potevano gettare lo scompiglio tra soldati appiedati e non convenientemente riparati, la loro forza diventava irrilevante contro la cavalleria. Le punte metalliche delle loro esili frecce potevano perforare le maglie di ferro ma non certo le corazze d'acciaio della cavalleria pesante. D'altra parte, i cavalli dei cavalleggeri erano privi delle bardature di protezione di cui erano muniti i reggimenti corazzati e un fitto lancio di frecce poteva decimare una formazione azzoppando i cavalli e rendendoli ingovernabili. Precedute da una nera pioggia di morte, le due forze contrapposte si scontrarono sulla pianura giallastra. Gli arcieri di Kane erano riconoscibili a distanza per le sciarpe nere e il largo bracciale di panno rosso decorato con il simbolo nero di Sataki. Jarvo, notò sarcasticamente Kane, sembrava
aver imposto la propria sciarpa azzurra a tutto l'esercito di Sandotneri. Gli arcieri caricavano turbinosamente, ingaggiando scaramucce che mietevano vittime su entrambi i fronti.. e abbattendo spesso cavalli e cavalieri. Di solito un arciere portava nella faretra ventiquattro frecce. Su quel terreno, ognuno di essi poteva scagliare con una certa precisione almeno sei frecce al minuto... o di più se le circostanze lo richiedevano. Le faretre si svuotavano nel giro di pochi minuti, dopo di che bisognava ritornare tra le linee, oppure raccattare proiettili sul campo. Da entrambe le parti le perdite erano notevoli, anche se non gravose. L'esercito di Kane si presentava più compatto e la carica degli avversari non riusciva a penetrare. I due gruppi di arcieri si scambiarono lanci nutriti di frecce fino a svuotare le proprie faretre... poi si ritirarono verso le rispettive linee che avanzavano lentamente. Il combattimento, incerto e rapido, ricordava i fulmini che precedevano un temporale all'orizzonte. Jarvo, irritato per il contrattempo ed impaziente di assumere l'iniziativa della battaglia, ordinò alla propria cavalleria pesante di caricare il centro della linea avversaria, spingendo contemporaneamente i reggimenti di cavalleggeri contro i due corni della mezzaluna in modo da proteggersi i fianchi. Gli arcieri che rientravano nelle linee accostarono lungo i lati per unirsi alle forze di riserva che sarebbero entrate in azione in un secondo tempo quando ve ne fosse stata la necessità. La tattica di Jarvo mirava a spezzare le file della cavalleria nemica, tagliandole in due e penetrando fino alla fanteria priva di protezione. Era un ottimo piano... ammesso che la cavalleria di Kane avesse ceduto, rovinando addosso ai soldati appiedati che la seguivano. In realtà, la polvere che copriva l'avanzata di Kane aveva nascosto il fatto che la fanteria era molto spostata all'indietro e che immediatamente alle spalle dello schermo di cavalleggeri attendevano otto reggimenti di cavalleria pesante. La carica di Sandotneri avanzava rumorosamente verso la Spada di Sataki, incalzando gli arcieri di Kane che si ritiravano come schiuma spinta da un'onda sulla riva. In sella al suo stallone, Kane diede gli ordini ai trombettieri. Un aiutante di campo gli porse una coppa di acquavite che egli svuotò d'un fiato prima di frantumarla nel pugno guantato. Poi, abbassando la visiera dell'elmo, Kane afferrò la lancia e spinse Angel al trotto. Le trombe squillarono lungo tutta la mezzaluna, portando gli ordini del generale attraverso il velo di polvere che oscurava gli stendardi di segnalazione. Gli ufficiali urlarono i comandi al di sopra del rombo profondo di
centomila zoccoli. Precedendo di parecchie centinaia di metri la cavalleria pesante, le prime due linee di cavalleggeri si aprirono improvvisamente al centro, spostandosi verso i corni della mezzaluna. Gli arcieri che si ritiravano si inserirono velocemente nell'apertura, passando attraverso i ranghi allargati della terza linea per riunirsi alla retroguardia. Quando gli arcieri furono passati e mentre l'apertura al centro si allargava ulteriormente, la terza linea di Kane serrò i ranghi e si spinse in avanti. Quasi diecimila lance d'acciaio scintillarono nel sole, simili allo spaventoso sorriso di un pescecane infuriato. In un attimo Jarvo comprese di essere caduto nella trappola di Kane, ma era troppo tardi per porvi rimedio. La terra tremò sotto l'impeto della carica. Gli zoccoli dei cavalli che sostenevano il peso poderoso dei guerrieri corazzati e delle bardature d'acciaio sbriciolarono il terreno secco in migliaia di nuvolette di polvere e roccia frantumata. Simili a due valanghe d'acciaio e carne i due eserciti nemici galoppavano uno contro l'altro, lacerando la terra nella loro frenesia di scontrarsi e uccidere. Meno di mezzo miglio separava ora le due linee di cavalieri che sembravano divorare le distanze con gli zoccoli dei loro cavalli. Il tempo si fermò in un'immobilità misteriosa contro l'avanzata impetuosa dello spazio. I secondi si frantumarono in insignificanti schegge di eternità. Il tempo era irreale. Incastonati in un universo d'acciaio: sguardi fissi verso le punte delle lance, rumori soffocati dai rombo degli zoccoli, odori confusi dal calore e la polvere, lingue secche per la tensione, sensazioni di precipitare a capofitto nello spazio. Che ne sa del tempo una meteora nell'attimo del suo estremo tuffo infuocato? Acciaio e spazio... e il tempo?... è adesso. Clangore d'acciaio e urla di rabbia e agonia. L'esplosione mortale di un vulcano che vomiti il proprio sangue fiammeggiante in un mare congelato. Due ondate d'acciaio che si scontrano. Il tempo è immobile; lo spazio è fermo. L'acciaio è il tutto. Acciaio contro acciaio. I muscoli e le ossa ci dirigono, l'acciaio ci protegge. Acciaio contro acciaio. Lance che penetrano scudi, pettorali e cappe. Punte che mordono scintillando, aste di legno che si scheggiano. I due eserciti si lanciavano uno contro l'altro come le fauci dentate di un inimmaginabile mostro marino, serrandosi con una furia pazzesca e mandando in frantumi le loro interminabi-
li file di zanne acuminate. Le armi da taglio erano quasi inutili contro le corazze d'acciaio. Guidate dalla spinta di quella massa di metallo e muscoli, solo le lance affilatissime potevano penetrare le piastre metalliche di protezione con effetti mortali. Perfino se la punta si piegava o l'asta di legno si spezzava era sufficiente l'impatto ad uccidere... disarcionando l'avversario in piena velocità con tutto il peso dell'armatura. Se anche lo sfortunato cavaliere sopravviveva alla caduta, la gravosa corazza poteva lasciarlo irrimediabilmente immobilizzato in balìa degli avversari. Tuttavia, il pericolo non proveniva solo dalle punte delle lance. Un lanciere inesperto, dato che l'impatto si trasmetteva lungo l'impugnatura fissata sul fianco destro della corazza, poteva essere disarcionato dallo stesso colpo che si abbatteva contro il nemico. Kane cavalcava alla testa della carica... terrificante nella sua armatura nera. Lo stallone, gigantesco e bardato d'acciaio, sembrava un demonio schiumoso con gli zoccoli infuocati. Gli uomini, consapevoli del loro capo, l'avrebbero seguito all'inferno senza nemmeno pensarci. Il rombo cupo degli zoccoli... poi l'attimo della collisione. Una lancia puntò verso Kane attraverso la breccia di uno spazio senza tempo. Il generale roteò con forza la propria lancia abbattendola su quella dell'avversario e avvertendone l'impatto sull'impugnatura... poi la punta della lancia cambiò angolazione e si alzò per scivolare accanto allo scudo dell'assalitore e colpirlo poco al di sotto della gola. La lancia arrestò la sua corsa per un istante, piegandosi per l'urto, poi proseguì guizzante, mentre il cavaliere di Sandotneri veniva sbalzato violentemente di sella con il collo spezzato. Il clangore della caduta echeggiò lungo tutto il fronte, simile a un lamento stridente dell'acciaio nel rombo sordo degli zoccoli delle parti avverse che si scontravano. Kane, con la lancia momentaneamente impigliata, superò quella specie di marionetta d'acciaio senza fili trovandosi subito di fronte una seconda lancia puntata. Il generale disimpegnò la propria arma in posizione di guardia e la punta dell'avversario, colpita dall'alto, si abbassò contro lo stallone del generale. La bardatura d'acciaio del cavallo deviò il colpo mentre la lancia di Kane, sfiorando lo scudo dell'altro, lo centrava in pieno petto trapassando la corazza e sollevandolo per un istante a mezz'aria... un attimo prima che l'asta di legno si spezzasse. Imprecando, Kane scagliò l'impugnatura scheggiata contro un terzo lanciere e con lo scudo deviò il colpo, proprio mentre l'asta di legno, cadendo tra le gambe del cavallo di Sandotneri, lo faceva crollare rovinosamente a
terra con il peso del cavaliere e dell'armatura. Il generale avanzò nella mischia, estraendo dalla sella la grossa ascia da combattimento. Mentre sollevava l'arma pesantissima, un altro lanciere gli si fece incontro. Kane ruotò su se stesso, ricevendo il colpo con lo scudo. All'impatto l'asta si spezzò, spingendo Kane violentemente all'indietro. Anche l'avversario mantenne l'equilibrio con difficoltà e nel momento in cui i due si incrociarono Kane vibrò il colpo. La possente arma si abbatté contro la visiera dell'altro. Kane tirò con forza l'impugnatura, mentre i due cavalli si allontanavano, e l'ascia si liberò tra spruzzi di cervello dell'avversario. Ormai Kane aveva superato la prima linea di Sandotneri. Oltre a quella alcuni cavalleggeri formavano una seconda linea, ma Kane per il momento decise di lasciarli perdere. Tirando le redini, riuscì a fare deviare Angel sulla destra, controllandone l'impeto. In quell'attimo scrutò il campo oscurato dalla polvere. La carica di Sandotneri si era frantumata contro i reggimenti corazzati avversari. Quasi tutti i combattimenti avevano già perduto le lance e stavano lottando con le picche e le mazze ferrate. Nella mischia Kane individuò alcune spade a due mani, il cui peso bastava ad uccidere un uomo anche quando la lama veniva arrestata dalla corazza d'acciaio. Il frastuono ricordava le fucine infernali... una cacofonia assordante di acciaio fracassato, zoccoli, corpi che si scontravano, urla di guerra e lamenti di morte e agonia. La polvere e le zolle roteavano nell'aria come una tormenta giallastra. Al di là della massa di soldati corazzati, i reggimenti di cavalleggeri avevano ingaggiato un fulmineo carosello di sciabole e zoccoli che sprofondavano nel terreno. In breve si allontanarono dal gruppo dei soldati armati più pesantemente... le loro sciabole erano come giocattoli contro i cavalieri corazzati e le maglie di ferro non avrebbero potuto ripararli dalle loro armi distruttrici. La polvere oscurava parti del campo di battaglia, ma Kane vide che i corni della mezzaluna, rinforzati dalle linee frontali di cavalleggeri, avevano quasi completamente inghiottito la carica di Sandotneri. Gli uomini di Jarvo erano circondati e la battaglia stava diventando una zuffa enorme nella quale Kane aveva la supremazia numerica. L'unica possibilità per Jarvo di sfuggire alla distruzione era quello di riuscire a infrangere la trappola avversaria e rimettere in sesto i propri ranghi per una ritirata strategica. In quel momento Kane si accorse che le falangi di fanteria stavano avan-
zando con cautela per prendere parte alla lotta. La carica dei Sataki aveva sospinto in avanti gli avversari, spostando la battaglia dal suo punto iniziale. La terra lacerata era coperta di corpi, molti dei quali ancora vivi ma impossibilitati a muoversi sotto il peso delle armature o incastrati sotto i cavalli abbattuti. Spietati come sciacalli, i soldati appiedati si aggiravano tra loro, infiggendo spade e pugnali tra le piastre metalliche delle corazze e fracassando elmi e armature con pesanti picche e mazze chiodate. Kane si augurò che nella loro frenesia assassina sapessero distinguere i compagni dagli avversari. In quel momento, i componenti della guardia personale di Kane uscirono dalla mischia di corpi e armi e si radunarono attorno al loro generale in attesa di ordini. La battaglia aveva superato la fase strategica, diventando un turbinare confuso di zuffe individuali e di lotte corpo a corpo. Kane inviò un certo numero di aiutanti di campo ad ordinare ai fanti di aiutare a risalire in sella i cavalieri ancora in grado di combattere... poi si rigettò nella mischia. Mazza e scudo. Picca e martello. Niente più lancia... La lotta era troppo ravvicinata per permettere l'uso. Alcuni guerrieri corazzati irruppero tra la cavalleria leggera disorientata di Sandotneri, simili a mostruosi ed enormi pescicani. Circondata dalla mezzaluna dei Sataki, la cavalleria di Jarvo non riusciva a manovrare. I cavalli nitrivano e si impennavano, sfuggendo al controllo dei cavalieri e abbattendosi contro i loro compagni. Nella calca era impossibile reagire alla morsa strangolatrice dei Sataki. Per quanto all'inizio della battaglia la superiorità numerica dei Sataki non fosse stata schiacciante, Jarvo aveva commesso due terribili errori per eccessiva sicurezza. Aveva lasciato che le sue ali venissero circondate e non aveva usufruito di una riserva adeguata di uomini. Kane si aggirava rapido sul campo di battaglia, sforzandosi di individuare Jarvo. Ad ogni minuto la polvere si faceva sempre più fitta, avvolgendo l'intera scena come in una cortina di fumo. Nella foschia giallastra si poteva vedere a non più di venti passi mentre la battaglia si svolgeva su quasi un miglio quadrato di terreno rendendo impossibile l'individuazione del suo avversario nel vortice turbinoso di lotta e morte. Inoltre, sottomano c'era parecchio lavoro. Enorme nella sua armatura nera - ora impolverata e spruzzata di sangue rappreso - Kane sembrava il dio della guerra che avanzasse tra i suoi adoratori. La sua presenza nel folto del combattimento infondeva coraggio ai suoi ma attirava su di lui gli attacchi disperati dei nemici sul punto di soccombere. La sua caduta, infatti,
avrebbe dato loro nuove speranze di vittoria. Kane maneggiava la sua ascia come uno strumento di morte, spaccando scudi e armature con la sua lama enorme e abbattendo sugli elmi la parte posteriore appuntita dell'arma. Il manico dell'ascia era avvolto d'acciaio e capace di resistere a colpi di spada senza spezzarsi. Lo scudo del generale era ammaccato e segnato dai colpi, e l'armatura sfregiata e coperta di intaccature provocate dai nemici che si lanciavano su di lui. Non riuscendo ad abbattere quella specie di demonio infuriato, molti si accanivano contro il suo destriero... cercando di colpirlo da ogni parte. Kane si faceva largo tra loro come un leone tra gli sciacalli, abbattendone molti e mettendo in fuga gli altri. Avanzando implacabile e senza tregua il generale procedeva nel suo elemento, seminando il terreno di morti e di acciaio fracassato. L'attacco di Kane era simile a quello di un guerriero mitologico... furioso ed inarrestabile. Tuttavia, un osservatore attento si sarebbe accorto che non era certo in preda a frenesia suicida... anzi, ogni movimento, ogni colpo, ogni parata erano calcolati con intelligenza e abilità. Ed era proprio quella consapevolezza che lo rendeva terrificante agli occhi degli avversari. La battaglia si era nel frattempo spostata verso sud, in direzione di Deserved, dove la notte precedente si era accampato l'esercito di Sandotneri. I soldati appiedati dei Sataki avanzavano lungo la scia di cadaveri e di feriti con le loro armi insanguinate, mentre l'esercito di Sandotneri, stretto nella morsa implacabile dei nemici, stava per essere annientato. Ad un tratto, nel folto della battaglia, Kane udì da oltre la cortina di polvere alcuni squilli di tromba. Jarvo stava tentando di radunare i propri uomini. Kane abbatté un ultimo avversario sfondandogli il petto con la forza del colpo, poi si fermò per permettere alla propria guardia personale di raccogliersi attorno a lui. All'improvviso sembrò che sul campo di battaglia non vi fossero più cavalieri di Sandotneri. Qualche istante più tardi giunse la notizia che Jarvo, alla testa degli ultimi disperati superstiti della sua cavalleria, era riuscito a disimpegnarsi dalla morsa delle truppe di Kane e ad aprirsi un varco verso sud seguito da tutti gli uomini di Sandotneri che erano stati in grado di farlo. Kane chiamò immediatamente i trombettieri e gridò loro gli ordini da trasmettere, ma avrebbe potuto risparmiare il fiato; la sua cavalleria si era già lanciata all'inseguimento dei fuggiaschi. Era una corsa disperata fino alla salvezza delle mura della città, ed era chiaro che Jarvo era del tutto privo di forze di riserva che gli salvaguardassero la ritirata.
Stringendo attorno a sé la propria guardia personale, Kane partì all'inseguimento... tentando di spingere in avanti le ali allo scopo di tagliare la strada al nemico esausto. Passò al galoppo accanto al campo deserto di Sandotneri, rendendosi conto con amarezza che alcuni suoi uomini si erano già dati al saccheggio anziché inseguire il nemico. Poco più a sud del villaggio, irruppe al galoppo in mezzo ad un gruppetto di suoi uomini che girovagavano senza meta. I più vicini, che udirono le sue imprecazioni, tremarono. Il terreno a sud di Deserved si stendeva in una vasta palude coperta di canne, alimentata da uno dei torrenti sotterranei della zona. Stretto tra il villaggio e la cavalleria Sataki, Jarvo aveva tentato di condurre i suoi al di là dell'acquitrino... che in quella stagione secca sembrava ingannevolmente solido. Ora, invece, uomini e cavalli si dibattevano inutilmente nella fanghiglia gravati dal peso delle armature e delle bardature che li trascinava verso il fondo senza permettere loro di liberarsi. Solo qualche cavallo e cavaliere, che erano riusciti ad attraversare a fatica la palude, avanzavano ora barcollando sull'altro lato dell'acquitrino dopo essersi trascinati all'asciutto. «Mandate laggiù tutti i soldati appiedati» ordinò Kane. «Fateli spogliare, in modo che non possano sprofondare nel fango. Potranno usare i pugnali come hanno fatto finora. E che portino delle corde... tante quante ce ne sono. Dovranno recuperare tutto ciò che possono in armature e cavalli, prima che sprofondi ogni cosa. E portatemi Jarvo... non importa se vivo o morto.» Con lo stesso zelo frenetico dei bambini che saltellano giocosi sotto la pioggia, i Sataki si lanciarono nel fango per eseguire il massacro. L'acquitrino pullulò di uomini fino a quando l'oscurità nascose il campo di battaglia. Verso il tramonto uno dei predatori, inzaccherato di fango, porse con gesto orgoglioso a Kane un elmo ammaccato con la visiera che assomigliava ad una orrenda maschera demoniaca... l'aveva raccolta in fondo a una pozza. Kane si mosse verso la palude sempre più scura. XIII L'assedio Re Owrinos di Sandotneri diede un ultimo frenetico scossone, emise un sospiro gorgogliante, sorrise e rimase immobile. Avrebbe potuto essere una comoda stiracchiata seguita da uno sbadiglio prima di addormentarsi
tranquillamente; ma quel sorriso sarebbe rimasto fissato per sempre, ed il sangue si coagulò e si seccò in fretta. Il re non si sarebbe svegliato mai più, nemmeno sotto gli impatti poderosi delle pietre che si abbattevano pesantemente sul suo palazzo mandandolo in frantumi. Sua figlia, convocata dai medici di corte all'inizio dell'emorragia, osservò il cadavere emaciato e si strinse nelle spalle. Owrinos ci aveva messo troppo a morire. Dopo tutti quei mesi di aspettativa la sua morte non era che una cosa di poco conto rispetto alla condanna imminente della città assediata. «Ora Sandotneri guarda verso di voi, Ridaze» mormorò Esketra. «Generale Ridaze...» A breve distanza... un urto violento, seguito dal crollo di una parete. Esketra avvertì l'odore stantìo della calce e della polvere di mattoni e udì in lontananza grida e lamenti. «Almeno ciò che resta di essa» si corresse. Il bel viso di Ridaze si tese in una smorfia preoccupata. «Le macchine belliche di Kane stanno riducendo in polvere le mura esterne. Esketra, dobbiamo portarvi in un luogo sicuro.» «Lasciate perdere» rispose la donna con accento triste. «Sappiamo entrambi che a Sandotneri non esistono luoghi sicuri.» La città era rimasta sconvolta quando i primi cavalieri in preda al panico avevano portato la notizia della sconfitta. Per le prime ore c'erano state smentite e incredulità al diffondersi delle voci. Poi erano giunti i gruppetti di fuggitivi... i superstiti della disfatta, feriti e sporchi e mezzo morti per la fuga. Il giorno dopo, era giunto l'esercito vittorioso di Sataki. Mentre Kane disponeva gli appostamenti attorno alle mura della città, i Sataki avevano saccheggiato le ville e le costruzioni più periferiche. Il generale vincitore aveva mandato alcuni ambasciatori affinché enunciassero i vantaggi di una resa pacifica, ma i loro argomenti non erano stati convincenti... in parte perché la popolazione di Sandotneri aveva fiducia nelle loro mura e in qualche aiuto dell'ultimo momento da parte dei regni vicini; in parte perché, con Owrinos in coma e Jarvo probabilmente morto, non c'era in città un personaggio che avesse l'autorità di arrendersi al nemico. Kane si era messo al lavoro per costruire macchine da guerra con l'equipaggiamento ed il legname che aveva fatto portare nel convoglio delle salmerie, ed il mattino seguente alcune grosse catapulte bombardavano la città con macigni e blocchi di materiale da costruzione. Nel frattempo gli
zappatori scavavano sotto le mura. Parecchi reggimenti di cavalleria vennero mandati indietro per scortare l'ingombrante massa delle forze d'assalto del Profeta che provenivano da Shapeli. Con la cavalleria pesante che non esisteva più, i resti dell'esercito di Sandotneri non avrebbero osato rischiare una sortita contro le forze di Kane. Lo straniero attendeva che la città si rendesse conto di essere condannata. Poteva permettersi di portare pazienza per qualche tempo. Aveva ampie scorte d'acqua e viveri, sia per gli uomini che per i cavalli, ed era certo che nessun esercito si sarebbe mosso per fargli togliere l'assedio. Dai regni meridionali confinanti con Sandotneri non sarebbero certamente giunti aiuti. Ripestnari, che confinava con Sandotneri lungo il Mare Interno, era un suo tradizionale nemico. Desdrindeli, più a sud, era in guerra lungo le sue frontiere occidentali e non poteva sprecare truppe; Vegliari, ancora più a sud, era stata devastata da una lunga e sanguinosa guerra civile ed era sull'orlo dello scisma; Bavotsni, che si affacciava al Mare Orientale e confinava parzialmente con Shapeli, aveva perduto solo un anno prima una amara guerra territoriale contro Sandotneri... ed al momento attuale era per Kane la maggior fonte esterna di rifornimento di uomini ed equipaggiamenti. Tutti sarebbero rimasti a guardare finché i Sataki non avessero inghiottito Sandotneri. Che i prossimi regni sul sentiero della Crociata Nera potessero essere proprio i loro, sembrava una minaccia troppo distante per essere presa in considerazione. Dopo tutto Shapeli era lontanissima e al di là della savana, e sicuramente Orted Ak-Ceddi sarebbe rimasto soddisfatto quando la conquista di Sandotneri gli avesse assicurato i confini e risollevato il prestigio militare. E così Kane aspettava che la massa delle truppe lo raggiungessero da Shapeli... divertendosi nel frattempo a bombardare la città. All'inizio, dalle macchine difensive di Sandotneri c'erano stati lanci di reazione, ma le catapulte di Kane avevano presto individuato la loro posizione e le avevano distrutte. Lo scopo del generale era principalmente psicologico, perché non vedeva la ragione di abbattere le mura della città prima dell'arrivo del grosso delle truppe da spingere attraverso la breccia. I suoi soldati erano troppo preziosi. In realtà, Kane si accontentava di demoralizzare i cittadini assediati dimostrando loro che le sue catapulte potevano abbattere le loro case e i loro palazzi a piacimento. Si trattava di macchine da guerra molto voluminose, in grado di scagliare con precisione mortale pesi terribili... la mira veniva aggiustata spostando un peso mobile lungo il braccio più corto del raggio montato su perni, oppure accorciando le cinghie di lancio del
braccio più lungo. Non tutti i proiettili erano di pietra. Nella regione le rocce scarseggiavano, ma c'era grande disponibilità di altri tipi di munizioni. Dal campo di battaglia saccheggiato erano giunti carri carichi fino all'inverosimile. I cavalli morti erano un cibo migliore di quello a cui erano avvezzi i Sataki, questo era chiaro, ma i cadaveri spogliati degli ufficiali di Sandotneri potevano benissimo essere caricati sulle cinghie delle catapulte. Non erano molto efficaci contro le mura della città, ma il loro effetto sul morale dei difensori era addirittura sconvolgente. Tuttavia, Kane si stancò ben presto di quel gioco. Gli serviva a ricordare che il cadavere di Jarvo non era ancora stato rinvenuto. Le spie e i disertori di Sandotneri avevano affermato che il generale nemico non era rientrato in città con i superstiti del disastro di Deserved. Jarvo avrebbe in quel caso ricevuto un'accoglienza piuttosto fredda, poiché la vittoria schiacciante di Kane aveva gettato il discredito sul suo nome. Il generale aveva lasciato la capitale nelle mani di Ridaze, in modo da non dividere con lui il trionfo della vittoria. Quell'espediente aveva scisso le responsabilità dei due, ed ora i cittadini lo ripagavano addebitando completamente la sconfitta alla sua imperizia nel comando. La morte di Owrinos lasciava Sandotneri priva perfino di un monarca titolare. Il generale Ridaze, a cui era stato ordinato all'ultimo minuto di rimanere al comando della guarnigione cittadina, era stato elevato al rango occupato precedentemente da Jarvo. Grazie ai favori di Esketra era diventato governante senza corona di Sandotneri, ma c'erano buone possibilità che l'improvvisa realizzazione delle sue vecchie ambizioni ora non gli apparisse tanto meravigliosa come aveva sognato. Kane lo ricordava come un buon ufficiale, ben accetto agli uomini e ancor più alle donne. Scuro di carnagione, slanciato e audace, l'ideale romantico di un ufficiale di cavalleria... ma non particolarmente abile o geniale. Ridaze non era certo un problema per lui; non era alla sua altezza. Al contrario, Kane avrebbe voluto essere certo che Jarvo fosse definitivamente scomparso nel fango a Deserved. Come uomo lo disprezzava, e come generale lo considerava privo di immaginazione... ma tuttavia possedeva una certa tenacia che, aiutata dalla fortuna, poteva renderlo pericoloso. La sua scherma, ad esempio, era caratteristica; abbastanza buona da resistere anche contro qualcuno migliore di lui nell'inconsapevolezza della propria inferiorità, fino al punto di mettere in difficoltà l'avversario... Kane aveva spesso visto maestri di scherma abbattuti da dilettanti imperturbabili
che avevano avuto un pizzico di fortuna al momento giusto. L'assedio procedeva snervante... Kane non voleva attaccare, Ridaze non se la sentiva di tentare una sortita. Il generale dei Sataki se ne stava nella sua tenda, lasciando che i suoi ufficiali si occupassero dell'esercito e passando il tempo a sorseggiare acquavite e a ponderare le prossime mosse. Lontano, si levavano le nubi di polvere del palazzo bombardato. Kane si fermò a pensare alla distruzione del palazzo. Gli sembrava che fossero passati solo pochi giorni da quando aveva progettato di scoprirne i passaggi segreti. Ora lo stava abbattendo. Sembrava che da sempre fosse costretto a distruggere tutto ciò che non riusciva a possedere. Il generale imprecò, chiedendo un altro orcio di acquavite. La depressione che ben conosceva peggiorava dopo ogni battaglia. Si chiese quanto a lungo quel gioco avrebbe continuato a divertirlo e a distogliere il gravoso peso dei secoli dal suo spirito. L'inattività e il conseguente abbandono rendevano la noia sempre più insopportabile della volta precedente. Si accorse di fantasticare di nuovo sulla Torre di Yslsl. Per troppi secoli era stato perseguitato dalla stessa angosciosa tentazione... La sera portò con sé due avvenimenti che lo distolsero dai suoi foschi pensieri. Da Sandotneri giunse una delegazione con la bandiera di tregua. Il generale Ridaze desiderava discutere i termini di una resa onorevole. Una massa nera di esseri umani avanzava lungo l'orizzonte settentrionale. L'orda dei Sataki era giunta a Sandotneri. Né l'uno né l'altro dei due avvenimenti era stato previsto. Tuttavia, c'era ancora qualcos'altro che Kane non si aspettava. Orted Ak-Ceddi cavalcava alla testa della Crociata Nera. XIV Trattati ed evocazioni Lo svolgersi degli eventi non piaceva affatto a Kane. Il generale aveva immaginato che il Profeta se ne sarebbe rimasto al sicuro a Ceddi a sognare le ricche prede che i suoi adoratori gli avrebbero riportato a casa; inoltre, aveva sperato che gli avrebbe lasciato il comando della Spada di Sataki. La sua presenza era di cattivo auspicio. Tuttavia, se così si poteva dire, la sera era cominciata abbastanza bene per il generale vincitore. All'ombra della sua tenda, Kane si appoggiò alla sedia attendendo con
distacco che gli ambasciatori nemici si avvicinassero. Aveva disteso entrambi i piedi sul tavolo da campo e osservava i loro volti preoccupati guardandoli tra gli stivali. I messi sconfitti erano impauriti e rigidamente formali, mentre Kane indossava un paio di calzoni della cavalleria e la giubba priva di maniche che portava di solito sotto l'armatura. Era abbastanza ubriaco da non preoccuparsi di nulla. Paragonato alla finezza ufficiale degli ambasciatori di Sandotneri, ricordava uno scimmione sgraziato. Lo sguardo sarcastico del volto, però, non lasciava dubbi su chi fosse il padrone della situazione. «L'assedio è a un punto di stallo» cominciò il capo della delegazione. «Voi non avete truppe a sufficienza per attaccare le mura. Noi, d'altra parte, non possediamo una cavalleria che ci permetta di spezzare l'assedio. Non abbiamo nulla da guadagnare dal perdurare di questi bombardamenti, ed anche voi, continuando questo inutile assedio, rischiate di esaurire le vostre scorte e di essere attaccati dai nostri alleati.» Kane l'interruppe bruscamente. «Prima che continuiate a scocciarmi, devo informarvi che le mie vedette hanno già avvistato l'avvicinarsi di nuove truppe del Profeta. Dato che il loro numero supera le centomila unità, li avrete probabilmente visti anche dalle torri di Sandotneri. E poiché quella è certamente la causa di questo colloquio, non diciamo più sciocchezze a proposito di situazioni di stallo.» «Queste nuove 'truppe'» sbottò il messo «non sono altro che un'accozzaglia di Sataki. Non dovrei ricordare a voi che le mura di Sandotneri sono ben difese.» «Grazie. Conosco abbastanza bene le difese della città» rispose calmo Kane. «E so che le mie macchine da guerra possono abbatterle ad un mio cenno.» Voi, naturalmente, non avete mai avuto la sfortuna di sperimentare personalmente che cosa può fare l'accozzaglia di Sataki ad una città nemica una volta penetrata al suo interno, anche se sono sicuro che avrete sentito infinite testimonianze terrificanti e allarmistiche. Vi assicuro che tutto ciò che avete sentito non potrà che essere eufemistico al confronto di ciò che potete aspettarvi prima del tramonto di domani. Quelle parole pronunciate in tono acceso misero sete al generale. In un sol fiato svuotò il calice che aveva di fronte. «Mi avete stancato» disse. «E anche questo assedio mi ha stancato. Voglio essere generoso nei termini della resa. Chi di voi è autorizzato a trattare?» Il capo della delegazione guardò i suoi colleghi, che distolsero lo sguar-
do confusi. «Fino all'elezione del nuovo re, Esketra funge da reggente e il generale Ridaze da governatore militare.» Kane annuì, gratificandoli di un sorriso animalesco. «D'accordo allora, fate venire questa sera Esketra e Ridaze e firmeremo il trattato di resa.» «E i termini?» chiese l'ambasciatore. «Li deciderò io» rispose Kane. «Ma non preoccupatevi... ho intenzione di offrire i soliti termini di resa onorevole. Ne parleremo con i vostri superiori.» Poi, tagliando corto con le loro proteste, aggiunse: «Se prima di sera non avrò notizie, i Sataki terranno una grande festa lungo le strade di Sandotneri. E quei termini non vi piaceranno di certo.» In uno stato d'animo decisamente risollevato, Kane seguì con gli occhi gli ambasciatori che se ne andavano in preda all'agitazione. In un impeto di correttezza, ordinò di sospendere i bombardamenti, poi chiamò un segretario affinché mettesse per iscritto gli articoli che trattavano la resa della città. Era una procedura piuttosto comune. Con il continuo stato di guerra in cui si trovavano i regni meridionali, i rituali concernenti vittorie e sconfitte erano stati quasi formalizzati per convenzione. Facilitato dalla sua lunga esperienza, il generale trattava di cessazione delle ostilità, e consegna delle armi, pagamenti dei danni, secessioni territoriali, riconoscimento di sovranità e così via, dettando in fretta al segretario che trascriveva diligentemente. Si trattava di un documento preciso e corretto, e Kane si sentì compiaciuto del modo in cui lo stava formulando. Gli sconfitti potevano accettarlo oppure no, ma con l'orda dei Sataki in arrivo sulla città era prevedibile che l'avrebbero firmato molto presto. Kane era contento di aver risolto la questione senza ricorrere alla forza preponderante degli uomini del Profeta. Quando l'inchiostro si fu asciugato, Kane rilesse il documento e pensò che avrebbe potuto servire da modello per altre simili occasioni. Poi, ordinò al segretario di trascriverlo in triplice copia e ordinò un altro orcio di acquavite. Nel frattempo la staffetta di cavalleria inviata come scorta alle truppe d'assalto del Profeta stava avvicinandosi al campo seguita da una massa caotica e stanca di uomini, donne e bambini, che si allungava per miglia. Come l'altra volta, l'esercito dei Sataki era composto da un'innumerevole accozzaglia di esseri umani... guidati dal fervore e dalla paura. Kane, però, cominciò a preoccuparsi solo quando gli ufficiali gli riferirono che in mezzo a loro cavalcava anche Orted Ak-Ceddi. Con un senso di vaga premonizione il generale alzò gli occhi verso il mare di corpi che
avanzava lentamente nel crepuscolo. L'arrivo di un folto gruppo di persone da Sandotneri, precedute da una bandiera bianca, interruppe i suoi pensieri. Da lontano riconobbe la figura slanciata di Esketra che montava un elegante cavallo color panna. Sorridendo tra sé si alzò per indossare la sua più bella veste da camera di broccato. Nel frattempo, inviò un messaggero ad Orted per informarlo della resa imminente della città. Aveva intenzione di concludere presto la questione per poi scoprire cosa aveva trascinato il Profeta fuori della propria tana. Non fu un incontro amichevole, ma in fondo Kane non aveva avuto rapporti cordiali con nessuno dei componenti la delegazione neppure quando era ancora capo delle forze di Sandotneri. Esketra era visibilmente atterrita e aveva scelto di nascondere la paura dietro una maschera di alterigia. Ridaze era pallido per la rabbia trattenuta a stento... la rabbia di un uomo che aveva raggiunto la realizzazione delle proprie ambizioni solo per essere umiliato di fronte ad un rivale che odiava. Gli altri sembravano desiderosi di sapere se Kane indossasse una maglia di ferro sotto la vestaglia. Il generale lasciò perdere le formalità. «Penso che questo sia sufficientemente chiaro» disse, porgendo il documento a uno dei delegati. Questi l'esaminò attentamente, leggendolo ad alta voce per Esketra e il suo generale. Visi di pietra, labbra serrate, occhi adirati... la scena ricordava dei condannati che ascoltassero il giudice pronunciare la sentenza. «È impossibile!» ringhiò Ridaze. Kane aggrottò la fronte. «Sciocchezze! Si tratta delle medesime condizioni che abbiamo offerto a Bavotsni quattro anni fa. Il cappio duole solo quando è stretto attorno al proprio collo.» La sera stava facendosi sempre più scura. Kane indicò la marea di corpi che ormai aveva circondato le mura della città. Da lontano non si potevano distinguere i visi ma da centinaia di migliaia di gole si udivano levarsi terribili canti di guerra. «Se credete che chieda un tributo troppo gravoso, immaginate voi stessi cosa accadrà domani quando quella gente avrà messo le mani sulla città. Se accetterete queste condizioni, garantisco per la vostra incolumità. Una volta che la folla avrà fatto irruzione oltre le mura non posso assicurarvi neppure una morte onorevole.» Gli altri esitarono, ma Kane capì che si trattava solo di un estremo tentativo di rifiuto dell'inevitabile. Sapevano di dover accettare le sue condizioni, altrimenti né Esketra né Ridaze si sarebbero recati al campo nemico. «Avrete notato» sottolineò il generale «che il trattato riconosce Esketra
come erede di Owrinos e Ridaze come suo primo ministro... soggetti, naturalmente alla sovranità di Ingoldi.» «Un governo fantoccio!» scattò Esketra. «Che brutta parola» mormorò Kane. «Consideratevi come un monarca titolare. Ci sono modi peggiori di penzolare che quelli di un fantoccio o di una marionetta.» «Per il bene di Sandotneri, consiglio di firmare» eclamò Ridaze. La situazione era insostenibile e le condizioni del trattato garantivano loro almeno il governo nominale del regno. In seguito le cose avrebbero potuto cambiare, e il trattato sarebbe rimasto un semplice pezzo di carta. Kane li osservò sottoscrivere con una certa riluttanza il documento, poi aggiunse il suo nome e impresse sulla pergamena il simbolo di Sataki. "Un buon lavoro", rifletté tra sé. «Si è fatto buio» osservò ad alta voce. «Direi che l'occasione vada festeggiata con un rinfresco. Ho dato disposizioni al mio cerimoniere di preparare una cena fredda. Possiamo aspettare nella mia tenda che i vostri inviati annuncino alla città la firma del trattato.» «Non ho intenzione di accettare la vostra ospitalità» ribatté freddamente Esketra. «Mi dispiace... credete forse che sia un invito?» disse Kane in tono minaccioso. «Non lo è. Sarete miei ospiti finché non avrò verificato come i cittadini di Sandotneri intendono rispettare i patti. Mi auguro che i vostri inviati sappiano essere convincenti.» Di malavoglia, i due si accomodarono all'interno della tenda di Kane dove stava per essere servita la cena. Il generale impartì alcuni ordini ai suoi uomini e inviò un secondo messaggero incontro al Profeta per informarlo della resa ufficiale della città, poi raggiunse i suoi ospiti forzati. Il capo dell'esercito vittorioso non sembrava tuttavia partecipare all'esultanza dei suoi ufficiali che gli si erano stretti attorno per celebrare la firma del trattato. Dal suo aspetto poco interessato e pensieroso avrebbe potuto essere scambiato per uno degli sconfitti. Kane non aveva dubbi sull'origine della propria preoccupazione: Orted Ak-Ceddi. Che cosa era venuto a fare il Profeta? E perché non si era ancora messo in contatto con lui? Fino a quel momento tutti i piani di Kane avevano funzionato alla perfezione... la firma del trattato che lo rendeva virtualmente padrone di Sandotneri non era che il coronamento della prima fase del suo grandioso progetto. C'erano motivi di esultazione, se non fosse stato per la presenza inaspettata del Profeta che costituiva un'incognita tuttora da verificare.
Kane si era dato da fare per scoprire tutto ciò che poteva su Orted AkCeddi. Sapeva che nonostante le sue pose da eroe popolare e difensore degli sfruttati era stato uno spietato fuorilegge che aveva lasciato una scia di morte e desolazione ovunque la sua banda fosse passata. Quale ascendente avesse Orted Ak-Ceddi sul culto oscuro di Sataki - o viceversa - restava tuttora un enigma per Kane. La sua ipotesi era che Orted fosse un astuto opportunista che aveva scelto il ruolo di Profeta di Sataki allo scopo di nascondere i suoi misfatti sotto il pretesto di una crociata religiosa. Potere di massa raggiunto grazie all'isterismo di massa... folle orgogliose di morire per la gloria della santa causa, e un'élite soddisfatta di raccogliere ricchezze e poteri sulla pelle dei fedeli. Era una storia consueta. Kane non vedeva nulla in Orted che lasciasse intendere che il bandito-profeta fosse diverso dai soliti modelli. Orted era astuto e avido; non c'erano dubbi. Possedeva una certa conoscenza delle tattiche di guerriglia e di violenza della folla, ma non era assolutamente in grado di dirigere una guerra tradizionale contro un nemico preparato. Era per quello che era entrato in gioco Kane. Orted si preoccupava abbastanza del suo benessere personale da lasciare che fossero i suoi sudditi a combattere e a rischiare; lui si limitava a contemplare il frutto delle loro fatiche, restandosene tranquillamente al sicuro nel proprio palazzo. Ma allora, perché questa volta era venuto di persona? Forse il generale si era sbagliato a giudicarlo? Se Orted avesse deciso di prendere il comando attivo della Spada di Sataki, le cose sarebbero presto giunte ad un punto di rottura. Forse, pensò Kane, il Profeta aveva stimato che la situazione fosse abbastanza tranquilla e aveva deciso di venire ad assistere al trionfo del proprio esercito. Ma in quel caso avrebbe dovuto trattarsi di una commedia grandiosa, piena di pompa e magnificenza. Orted, invece, arrivava senza farsi annunciare. Qualcosa dentro di sé fece pensare a Kane di aver commesso qualche errore. I canti dei Sataki in lontananza sembravano sottolineare il suo dubbio angoscioso. Nonostante poco prima avesse deciso di non bere, si ritrovò a non perdere neppure uno dei brindisi festosi dei suoi ufficiali. Un rumore di zoccoli si avvicinò alla tenda e si udì un tintinnio di catenelle. Kane si fermò in attesa di qualcosa... avvertendo un senso di tensione nelle sentinelle fuori della tenda. Poi, numerose macchie scure apparvero nell'ombra dell'apertura. Seguito da molti dei suoi sacerdoti, Orted AkCeddi fece il suo ingresso nella tenda. Il Profeta si era attardato a ripulirsi dalla polvere del viaggio prima di unirsi ai suoi seguaci, ed il suo ingresso fu trionfale. La massa di capelli
castani era pettinata in riccioli profumati e i suoi lineamenti felini apparivano languidi sotto l'espressione dissoluta. Indossava calzoni di pelle aderenti e una camicia di seta nera a maniche svasate, con il sigillo d'oro di Sataki bene in vista nella scollatura. Esibì un sorriso sardonico in segno di saluto e per un istante i suoi occhi si incontrarono con quelli di Kane. I due creavano uno strano contrasto. Orted aveva fianchi esili e spalle larghe e si muoveva con gesti felini e potenti. Nonostante i mesi di dissolutezza era rimasto forte come l'acciaio malgrado il sottile strato di grasso e i movimenti affettati. Dietro di lui se ne stavano i sacerdoti vestiti di nero, con i volti seminascosti dai cappucci. Kane, invece, possedeva un torace possente e fianchi muscolosi, e nonostante la sua mole da orco era agile come un gatto. Sul suo viso appariva un'intelligenza demoniaca e per quanto avesse assunto una posa rilassata, aveva un aspetto decisamente minaccioso. Dietro di lui i suoi ufficiali presentavano visi tesi e si tenevano pronti al peggio. In mezzo ai due, Esketra e Ridaze apparivano spaventati e pallidi per la tensione del momento. Gli occhi neri di Orted si puntarono su quelli azzurri di Kane. I primi, scuri di una crudeltà cosmica; gli altri, ardenti di bramosia assassina. Il tocco nascosto di un'antica divinità: il Marchio di Kane. Orted distolse lo sguardo, rompendo la tensione. «Orted Ak-Ceddi, Profeta di Sataki!» Lo presentò Kane, senza che ve ne fosse bisogno. «Esketra di Sandotneri e il generale Ridaze. Credo che i miei assistenti di campo vi abbiano informato che abbiamo appena formalizzato il trattato di resa.» Kane fece un cenno verso il documento spiegato sul tavolo. Gli occhi di Orted si mossero appena verso il foglio, poi si fermarono su Esketra. La donna lo guardò con un sorriso arrogante, ma freddamente indagatore. «Certo, generale Kane. Mi hanno informato.» Orted tese una mano e un sacerdote gli porse il documento. Il Profeta lo scorse con noncuranza. «Certo, sembra tutto in regola.» Era una scena d'effetto, per quanto Kane sapesse che l'ex bandito era analfabeta. Orted restituì il documento al sacerdote. «Non sapevo che aveste l'autorizzazione a firmare trattati, Kane» esclamò, facendo segno ad un valletto di portargli un calice. «Come generale del vostro esercito, questo era sottinteso» rispose in tono suadente Kane. «Dopo tutto le decisioni si devono prendere sul campo, e voi non sempre avete il tempo di occuparvi di certe cose di poco conto.
Resta inteso che ogni accordo intrapreso da me è soggetto alla vostra approvazione.» «Naturalmente. Questo è inteso» confermò Orted. «Voi sapete la fiducia che ripongo nelle vostre scelte.» Il Profeta ingollò il contenuto del calice. «È abbastanza buono» disse. «Ne prenderò dell'altro.» Si guardò attorno nella tenda addobbata riccamente, mentre il valletto gli riempiva di nuovo il calice. «Non troppo» precisò. Dietro di lui, i sacerdoti immobili sembravano ombre macabre. «Bene, Kane» disse Orted, asciugandosi il mento con la manica. «Ve la siete cavata bene da solo. Sono veramente compiaciuto del vostro lavoro svolto per la gloria di Sataki. Avete annientato l'esercito di Sandotneri e avete conquistato la città, riportando perdite irrisorie. Mi congratulo.» «Grazie» rispose Kane, teso a cogliere ciò che si celava dietro il sorriso formale di Orted. «Tuttavia, avete commesso un errore» aggiunse il Profeta con finta grazia. «A dire il vero, non ve ne faccio una colpa. Avete agito senz'altro in buona fede.» "Forse questo sciocco ha capito qualcosa?" L'espressione di Kane era vagamente inquisitoria. In un lampo la sua mano poteva scattare sul manico del pugnale e di lì al cuore di Orted. «Un errore?» «Proprio così. Sandotneri ha sfidato due volte la Crociata Nera. Sandotneri ha massacrato migliaia di Figli di Sataki.» La voce del Profeta si iniettò di veleno. «Non può esserci pace per Sandotneri! Dovranno morire tutti per i loro peccati!» Fuori nella notte, il canto monotono dei Sataki che in quegli ultimi istanti si era fatto sempre più potente si interruppe di colpo. Poi si udì un lamento indistinto, come di vento lontano che ululasse tra gli alberi scheletrici. Sembrava che centinaia di migliaia di gole avessero levato un grido d'orrore acutissimo al di là di una cortina di nebbia. Un brivido d'indescrivibile estasi velò gli occhi del Profeta. L'urlo di agonia di una città divenne un lamento terrificante. Il panico sconvolse la notte e chi udiva comprese che la morte aveva scoperto il proprio viso. «Demonio!» ringhiò Ridaze. Sporgendosi verso l'apertura della tenda, Kane vide quello che intendeva, ma non fece una mossa per intervenire. Gli altri erano paralizzati dall'atmosfera terrificante che faceva tremare la notte.
Ridaze estrasse un pugnale dalla manica e con uno scatto disperato si lanciò contro il Profeta, colpendolo al cuore con l'arma affilatissima. In cuor suo Kane esultò, sapendo che anche se Orted avesse indossato una maglia di ferro protettiva, la punta del pugnale si sarebbe incuneato tra gli anelli di metallo. Orted barcollò. La punta triangolare si spezzò in due e la scheggia d'acciaio rimbalzò dall'altra parte della tenda. Ridaze indietreggiò, pallido per l'incredulità. La camicia strappata non presentava tracce di sangue. Orted non si curò di lui... anche perché i sacerdoti circondarono immediatamente l'assalitore in un fruscio di tonache nere e un agitarsi di lame grigie. Ridaze scivolò a terra con un'espressione incredula sul suo viso di morte. Kane si voltò di scatto - era successo tutto in un batter d'occhio - e si mosse verso l'apertura. All'interno della tenda Esketra urlò disperata, mentre gli ufficiali di Kane lo seguivano all'esterno e i sacerdoti si stringevano attorno al Profeta sghignazzante. La notte era senza stelle. Kane vide l'anello di torce che circondava la città. Laddove avrebbero dovuto sorgere le torri e i palazzi di Sandotneri non si vedeva nulla. Nessuna luce. Nessuna torre. Niente altro che il buio più assoluto. Kane, i cui occhi penetravano l'oscurità più acutamente di quelli di chiunque altro, vide l'ammasso di ombre contorcersi saziato, e allontanarsi da Sandotneri nell'immenso golfo della notte senza stelle. XV Il presagio La luce del giorno dissolse il velo funebre della notte e rischiarò una città morta. Nessun attacco, nessuna pestilenza, nessun veleno poteva aver compiuto una simile devastazione. Kane, cavalcando all'alba per la città assassinata, pensò all'effetto di gas velenosi... per quanto sapesse fin troppo bene che quei morti erano stati vittime di qualcosa di molto meno terrestre. I cadaveri erano sparsi ovunque... visi grigi e alterati, occhi sbarrati per il terrore, lingue gonfie e sporgenti e membra irrigidite nelle convulsioni della morte. Soldati riversi accanto alle fortificazioni, bambini raggomitolati vicino ai giocattoli, mercanti stesi presso i loro oggetti e madri cadute
assieme ai loro piccoli. Lungo le strade, nelle case o nelle taverne, nei vicoli, nei negozi... Per un istante terribile i portali di un mondo oscuro si erano spalancati e ne era strisciato fuori qualcosa di alieno e terrificante. Ora i Sataki sciamavano come larve all'interno del cadavere di Sandotneri... spogliando i morti, saccheggiando i negozi e le case silenziose, rubando armi e armature che non erano servite a difendere la città contro un antico orrore. I carri cigolavano sotto il peso dei beni saccheggiati e le spalle larghe dei Sataki si piegavano sotto i sacchi carichi. Le ricchezze di Sandotneri venivano depredate pezzo per pezzo, pronte a prendere la via delle foreste di Shapeli. Kane, per quanto avvezzo a simili scene, appariva contrariato mentre si faceva incontro a Orted Ak-Ceddi. Il Profeta si guardò attorno con l'espressione soddisfatta di un artista che contempli il proprio capolavoro. Kane non l'aveva più rivisto da quando l'altro se n'era andato dalla tenda, portando con sé i sacerdoti e una Esketra sconvolta dal terrore. Il generale aveva trascorso la notte a pensare mentre i Sataki scorrazzavano trionfanti per le strade della città e i suoi ufficiali tentavano di mantenere l'ordine tra i soldati. Di tanto in tanto, nel corso della notte, Kane aveva chiamato alcuni uomini di cui era certo di potersi fidare e si era trattenuto a parlare con loro. Quella notte, qualcuno era partito per una missione nota solo a Kane. All'alba, abbastanza risollevato nel morale, Kane era montato in sella ad Angel e si era recato in città, dove i suoi gli avevano detto che avrebbe potuto trovare Orted Ak-Ceddi. Lo trovò, infatti, intento a distribuire benedizioni ai suoi fedeli seguaci. «Il vostro viso è piuttosto scuro, questa mattina, generale Kane» lo salutò il Profeta. «Non sarete certo sconvolto dalla visione di un massacro?» «Era un massacro inutile» ribatté Kane. «La città si era arresa.» «Si era arresa a voi, Kane» gli fece notare il Profeta. «Non a me.» «Avevo firmato un trattato.» «E il trattato non è stato rispettato. Non c'è nulla di nuovo in questo. Certamente l'accaduto non potrà gettare il disonore sul nome di Kane...» Il generale fissò Orted con uno sguardo tagliente, chiedendosi fino a che punto in quelle parole vi fosse un accento canzonatorio. «No, Kane... non fate quella faccia scura. Avete mantenuto le promesse, e sono compiaciuto con voi. Avete forgiato la Spada di Sataki e l'avete impugnata vittoriosamente contro i nemici della fede. Conoscete a perfezione
la guerra e le sue regole, Kane... ma non potete capire la missione sacra della Crociata Nera. Siete solo una spada, Kane... e come mi avete detto una volta, le spade non hanno anima. Il vostro compito è vincere i nemici di Sataki, ma quello che decido di fare di loro dipende dal volere di Sataki. Non cercate di comprendere cose che esulano dalla vostra competenza... e dalla vostra autorità.» Orted si interruppe e gesticolò verso l'ammasso di morti sparsi lungo le mura. «La notizia della condanna di Sandotneri si diffonderà in un lampo per tutti i regni meridionali. Sandotneri ha sfidato la Crociata Nera; Sandotneri non esiste più. Credo, Kane, che la sorte di questa città servirà di lezione a tutti, quando attraverserete con la Spada di Sataki i regni meridionali.» «Non ho dubbi che la lezione servirà» confermò Kane, fissando gli occhi guizzanti del Profeta. «Molto bene, allora» sogghignò senza umorismo Orted. «Direi che il prossimo ostacolo sul nostro cammino sia Ripestnari.» «Quando cadrà Ripestnari, anche i regni confinanti si arrenderanno senza resistere» disse Kane. «Quindi, fate in modo che cada!» concluse Orted. «Conoscete il vostro dovere.» «Perfettamente» rispose Kane. XVI La spada spezzata Il morto riverso nell'erba emise un gracidìo aspro quando il dingo gli conficcò i denti in una gamba. L'animale ne fu sorpreso. Stava mangiando cadaveri da un'intera settimana ma non gli era ancora capitato di sentire protestare il proprio pasto. Con le orecchie tese, osservò il morto immobile nella luce del crepuscolo. Il rumore si abbassò a un debole brontolìo. Rinfrancato, il dingo serrò la presa sulla gamba nuda. Questa volta il morto lanciò un mugghio simile a quello di un toro che stesse affondando nelle sabbie mobili, e si contorse parossisticamente. L'urlo richiamò un grido di risposta da un ruscelletto poco distante. Qualcosa corse sull'erba verso il corpo morto che scalciava. C'erano prede meno difficili di quella, decise il dingo dandosi alla fuga. Con una certa cautela, la ragazza si avvicinò alla cosa che si lamentava
tra l'erba, mentre il pugnale che stringeva nella mano rifletteva gli ultimi raggi del sole morente. «Che cos'è, Erill?» si udì gridare dal carro fermo accanto al ruscello. «È un uomo, Boree!» rispose la ragazza. «Mi sembra vivo.» Imprecando, la vecchia afferrò una scure e corse verso di lei. «Non toccarlo!» L'uomo indossava solamente una giubba lacera impregnata di sangue rappreso e sporcizia. Le sue membra erano seccate e gonfie per il sole e tagliate dall'erba affilata. Sotto uno strato di sudiciume apparivano numerose vecchie ferite in suppurazione, e dai morsi alla gamba colava un rivolo di sangue rosso brillante. L'uomo emise un mugolìo e si mosse lentamente, contorcendosi verso l'acqua vicina. Non sembrava essersi accorto della presenza delle due donne. Una scia d'erba piegata indicava che si era trascinato fin lì da una certa distanza... le forze dovevano essergli venute meno proprio al momento di raggiungere il ruscello. «È un soldato» esclamò Boree. «È uno della grande battaglia.» «È uno dei nostri o no?» «Che importa? Sarà meglio aiutare questo povero bastardo a farla finita.» Boree sollevò la scure. «No!» protestò prontamente la ragazza. «Non sembra ferito gravemente. Forse ha solo bisogno di acqua.» «Ha bisogno di molto di più, mia cara. Dentro potrebbe avere tutto sottosopra... Per l'inferno, che cosa vuoi fare?» La ragazza si era chinata e aveva cominciato a tirare l'uomo per le spalle. «Dammi una mano, Boree. Lo trascineremo fino all'acqua. Ne ho già visti troppi di morti.» «E allora uno in più non dovrebbe preoccuparti» grugnì la vecchia. «Lascia che lo prenda io per le braccia. Tu afferralo ai piedi. Presto avrà finito di soffrire.» Sollevandolo per le spalle, la vecchia imprecò. «Per l'inferno, mia cara. Non capisco come possa vivere. Ha mezza faccia mangiata dalle bestie.» «Boree, vuoi startene zitta e tirare?» Faticosamente, le due donne lo trascinarono fino al campo. Qualche giorno prima il loro carro aveva fatto parte dell'orda di Sataki calati su Sandotneri... non tanto per zelo religioso quanto perché restare indietro poteva essere scambiato per infedeltà nei confronti di Sataki. Ora, tornando dalla città saccheggiata, erano rimaste staccate dal grosso perché il loro
cavallo si era azzoppato e ben presto avevano perso di vista l'orda dei Sataki. Erill aveva preso in considerazione l'idea di fuggire al sud, ma ora che Sandotneri era caduta la Spada di Sataki spazzava i regni meridionali come un vento sterminatore. La Crociata Nera stava inghiottendo il continente e non c'erano posti in cui fuggire. Le due donne avevano dunque deciso di tornarsene a Shapeli e si erano accampate per la notte prima di affrontare l'ultimo giorno di viaggio. Con attenzione, stesero l'uomo ferito accanto all'acqua. Il soldato ebbe appena la forza di ingollare alcune sorsate prima di perdere nuovamente conoscenza. Erill gli strappò la giubba e cominciò a ripulirgli le ferite insudiciate. Boree, che nel frattempo era andata a controllare la cena sul fuoco, ritornò per vedere se era ancora vivo. Scosse il capo, poi aggrottò la fronte strizzando gli occhi nel buio. «Quella sul viso è una ferita vecchia» disse. «La cicatrice è enorme.» «Sembra una vecchia scottatura» commentò Erill. «Non mi sembra ferito gravemente... deve solo essere consumato dalla sete.» «E dalla febbre» osservò Boree. «Ne è arso. L'ucciderà, anche se le ferite non dovessero fare infezione.» «Non sono gravi... sembrano brutte solo perché sono in suppurazione» rispose Erill. «E tutte quelle contusioni...» «Pobabilmente indossava un'armatura» osservò la vecchia. «Non è facile perforare una corazza d'acciaio.» Le due donne si soffermarono a guardare quel viso privo di conoscenza. La metà cicatrizzata contrastava per il pallore contro l'altra arrossata dàlia febbre. Un tempo doveva essere stato un bel viso. «Erill, lo sai chi è?» mormorò all'improvviso Boree. «Certo...» «Erill, questo è Jarvo! Non può essere che lui!» «Lo so. L'ho immaginato quando l'abbiamo tirato su.» Boree si umettò le labbra. «C'è una grossa taglia su di lui. Vivo o morto.» «Lo terremo in vita...» disse Erill. «Se ce la faremo.» «La taglia non cambia.» «Non sarà per la taglia.» «Niente taglia?» Boree si sforzò di capire lo scherzo. «Lo nasconderemo finché si riprenderà.»
«Erill, sei impazzita!» «No» rispose dura la ragazza. «Una volta i Sataki si sono serviti di me per distruggere una città. Ora io salverò una spada in grado di abbattere la Crociata Nera.» «Oh Erill!» mormorò Boree. XVII L'ora dei bambini «Nuucii! Nuucii! Nuucii!» Alle grida dei bimbi, Jarvo si girò di scatto e vide che stavano semplicemente giocando lungo un vicolo. Si rilassò, guardandosi attorno per controllare che nessuno avesse scorto il suo scatto. «Nuucii! Nuucii!» Uno strillo, poi alte risate. Nuucii. Si trattava di un inuciri... o meglio di un nuucii, come il gergo corrente l'aveva abbreviato. Nel mondo erano rimasti solo due tipi di persone: i Sataki e gli inuciri... letteralmente "colui che non tradisce la vera fede". Vale a dire: i vivi e i morti... perché dove la Nera Crociata gettava la propria ombra non c'erano alternative. Jarvo si raggelò, sforzandosi di apparire il più naturale possibile. Dall'altra parte della strada due guardie, con indosso la divisa rossa dei Difensori di Sataki, lo stavano guardando. Forse stavano chiedendosi se il grido "nuucii" fosse stato rivolto al suo indirizzo. Fingendosi incuriosito, Jarvo continuò a camminare verso l'imboccatura del vicolo, dove i bambini giocavano allegramente. Con la coda dell'occhio sano vide le due guardie attraversare la strada verso di lui. Per un attimo pensò di infilarsi nel vicolo. Due cose lo trattennero. Primo: avrebbe confermato i loro sospetti e li avrebbe convinti ad estrarre i fischietti che davano il segnale della caccia al nuucii. Secondo: il vicolo era cieco. Jarvo guardò in fondo alla viuzza come se fosse curioso di vedere cosa facessero i bambini. Per un istante il buio nascose il fondo della strada, poi l'occhio si abituò all'oscurità. I bambini avevano inchiodato assieme due pezzi di legno, formando una X ad imitazione della croce avellana di Sataki. Una bambina - non avrà avuto più di sei anni - pendeva a testa in giù dalla croce, contorcendosi contro i chiodi conficcati in malo modo. Il viso della piccola era deformato dal dolore e dalle ferite, e i suoi gemiti si udivano appena all'imboccatura
del vicolo. «Nuucii! Nuucii!» urlavano gli altri bambini, correndole attorno e lanciando verso di lei rifiuti e sassi. «Nuucii! Nuucii! Nuucii!» Jarvo fece per muoversi, ma si sentì posare una mano sulla spalla. Si girò. Colto da disgusto per quella scena, aveva dimenticato i due Difensori di Sataki. «Niente paura, amico» ghignò uno dei due. «È solo una piccola bastarda di nuucii. Abbiamo arrestato i suoi genitori l'altra notte, ma i bambini sono riusciti a scovarla solo questa mattina.» «Sembra che abbiano impiantato la loro piccola Piazza della Giustizia, proprio come quella dei grandi» ridacchiò il suo compagno. «È incredibile come i bambini imparino presto le cose.» «È tutta la mattina che stiamo a guardarli» continuò il primo. «Qualcuno c'è rimasto male, proprio come te, amico, ma in fondo si tratta solo di una mocciosa di nuucii.» Jarvo sogghignò. I due difensori lo stavano guardando in modo che lasciava intendere cosa sarebbe successo a chi avesse osato interferire con l'esecuzione di un nuucii. All'improvviso sentì il ventre contorcersi. Aveva un pugnale nascosto nello stivale... nell'interesse della pubblica sicurezza, il Profeta aveva decretato che ai privati cittadini non fosse permesso girare armati. I Difensori indossavano elmi d'acciaio e usberghi ed erano armati di tutto punto. Se il loro sguardo indagatore avesse penetrato il cerone ed il trucco di Jarvo, sarebbe stata la fine. «Come ti chiami, amico?» chiese il primo. «Juntos» rispose Jarvo, usando l'identità che Erill gli aveva insegnato ad assumere. «Una faccia come la tua mi sembra di ricordarla. Da dove vieni?» «Dalla Corporazione del Teatro. È lì che lavoro, ma non esco quasi mai.» «E adesso dove stai andando, Juntos?» «Abbiamo una pausa, e vado a bere qualcosa.» «E cosa è successo alla tua faccia?» «Facevo parte della prima ondata che ha scalato le mura di Emleoas.» «Ah, sì? Il muro occidentale...» disse l'altro con noncuranza. «No» rispose Jarvo avvertendo l'insidia. «Il muro occidentale era quello del fiume... su quella fanghiglia non c'era modo di erigere una scala. Siamo saliti dalla parte orientale. Ho fatto appena in tempo a superare il parapetto
e ad evitare il getto di olio bollente che ha spazzato tutti quelli dietro di me. Be'... l'ho evitato solo in parte.» «Uno del primo gruppo, eh?» disse l'altro con un accento di simpatia rispettosa. «Be'... non me la sento di biasimarti se non vai troppo in giro con quella faccia.» «Senza il cerone è ancora peggio.» «Mi sembrava... che fossi truccato.» «Ci sono!» esclamò ad un tratto l'altra guardia, battendosi il pugno sul palmo della mano. «Jarvo!» «Eh?» bofonchiò l'altro. «Ma certo! Jarvo!» ripeté l'altro eccitato. «Questo è il tipo che recita la parte di Jarvo nel nuovo spettacolo allestito questo mese dalla Corporazione del Teatro. L'Invincibile Marcia della Spada di Sataki. L'ho già visto tre volte.» «Io non ci sono ancora andato.» «Dovresti farlo. È la miglior commedia che abbia mai visto.» «Non pensavo che qualcuno mi avrebbe riconosciuto fuori della scena» commentò Jarvo, sperando che la voce non lo tradisse. «Non l'avrei mai capito se non tu avessi parlato della Corporazione del Teatro, amico. Con quella faccia, direi che la parte di Jarvo ti sta a pennello. Forse non sei abbastanza alto, ma sul palcoscenico non si nota molto.» «Be'... forse è meglio che vada a farmi quella bevuta prima di tornare al lavoro» disse Jarvo. «La prossima volta che venite in teatro fatevi sentire.» «Certamente! È una rappresentazione meravigliosa. Forse la Corporazione del Teatro non produce armi e corazze, ma senz'altro anche voi fate la vostra parte in favore della Crociata. Ogni volta che ho visto la commedia sono tornato in caserma pensando di arruolarmi nella Spada di Sataki e di dividerne la gloria.» «Anche i Difensori di Sataki hanno un compito molto importante.» «L'hai detto, Juntos. L'unica cosa è che non riceviamo le acclamazioni dei cavalieri quando passiamo per strada.» Jarvo emise un grugnito di comprensione e scivolò verso una taverna poco lontana. Non era stata una buona idea, dopo tutto, avventurarsi da solo lungo le strade di Ingoldi. Erill si sarebbe infuriata, ma dopo due intere settimane di inattività se non fosse uscito avrebbe finito con l'impazzire. Sicuro che i due lo stessero ancora guardando - i Difensori di Sataki non si fidavano di nessuno - Jarvo entrò nella taverna. Prima di quel momento non aveva avuto sete, ma ora si sentiva la bocca
riarsa. Chiese un boccale di birra, trovandolo ad un prezzo tanto caro da domandarsi se aveva denaro abbastanza. Pagò con le nuove monete, coniate con il simbolo di Sataki su un lato e il profilo di Orted Ak-Ceddi sull'altro. Le monete dovevano essere d'argento, ma suonavano sorde come se fossero state di stagno. Il Profeta fondeva in lingotti tutto l'oro e l'argento ricavato dalle sue conquiste, con il pretesto di coniare nuove monete... che invece erano composte da leghe sempre più vili, dato che i metalli preziosi finivano nei sotterranei di Ceddi per pagare le spese della Spada di Sataki. Il taverniere non sembrò contento delle nuove monete, ma i due Difensori erano lontani solo pochi passi e non sarebbe stato prudente lamentarsi. Con il boccale in mano, Jarvo andò a sedersi su una panca accanto alla parete, da dove poteva osservare la strada da una finestra aperta. Il sapore della birra lasciava intendere che era stata abbondantemente annacquata, ma Jarvo bevve senza protestare. La sala era praticamente deserta. Terrore. Si leggeva sul viso di tutti coloro che transitavano lungo la strada. Servire Sataki oppure morire, quella era la legge. Era scritta sui muri di tutta la città e sugli stendardi in tutta la regione di Shapeli. Probabilmente era lo stesso anche in quello che restava dei regni meridionali, visto che ogni settimana giungevano notizie di vittorie schiaccianti riportate da Kane e dalla Spada di Sataki. Il Profeta aveva detto che avrebbe imposto la legge a tutto il mondo. Forse ci sarebbe riuscito. Jarvo terminò di bere, osservando l'affresco dipinto sulla parete della taverna. Raffigurava Orted Ak-Ceddi nell'atto di condurre i suoi eroici seguaci nella prima grande battaglia della Fiera delle Corporazioni... sciabole grondanti del sangue della popolazione disarmata, guardie dai visi truci che tentavano di fuggire. Jarvo si girò di nuovo verso la finestra. Terrore. I Sataki distruggevano o assimilavano tutto ciò che incontravano lungo il percorso della Crociata Nera. Non c'erano mezzi termini. O si impegnava l'anima a Sataki unendosi all'orda vincitrice, oppure si sfidava il dio e si raggiungeva l'orda ancora più numerosa dei morti. Tuttavia, era necessaria una accorta vigilanza per controllare che i nuovi adepti non fossero in realtà degli inuciri camuffati. C'era chi mentiva solo per salvare la pelle, sperando di riuscire un giorno o l'altro a fuggire. I Difensori di Sataki controllavano in continuazione tali tradimenti. La slealtà verso Sataki significava morte sicura e atroce... sulla Piazza della Giustizia, o nelle celle segrete dei sotterranei di Ceddi. I nuucii si nascondevano ovunque. Complottavano contro la Crociata. Bestemmiavano contro Sataki. Tramavano contro Orted Ak-Ceddi. Quan-
do il Profeta ordinava ai suoi fedeli di partecipare alle fatiche comuni di qualche grandioso progetto, i nuucii brontolavano. Quando il Profeta sequestrava il bottino della vittorie per pagare nuovi soldati e armi per la difesa comune, i nuucii si lamentavano. Quando il Profeta chiedeva che i fedeli imparassero i canti e partecipassero ai riti di Sataki, i nuucii davano dimostrazione di scarso zelo. Per fortuna c'erano i Difensori che davano loro la caccia. Jarvo decise di non sfidare ulteriormente la fortuna. Aveva avuto la prova che poteva camminare per le strade di Ingoldi senza troppi problemi. Ora era il momento di pensare ad altre cose. Mentre usciva dalla taverna, udì il lamento disperato in fondo al vicolo diventare un atroce urlo di agonia al di sopra delle grida e le risate dei bambini. Vide del fumo, e per un istante pensò si trattasse solo di rifiuti bruciati. «Dannati bambini!» I due Difensori di Sataki si precipitarono lungo il vicolo. «Se non fate attenzione, darete fuoco a tutta la città!» «Nuucii! Nuucii!» XVIII Sogno e delirio Ouando Erill si arrabbiava, gli occhi le si stringevano e scintillavano verdi come la fascia di perle di giada che le cingeva la fronte. Ora era arrabbiata. «Dannazione, Jarvo! Te l'avevo detto di non uscire ancora per la città! E tu invece vai proprio a sbattere in due Difensori di Sataki!» Era veramente furiosa. Era stata lei a imporsi di chiamarlo Juntos... ma di tanto in tanto, quando nessuno poteva sentirla, si lasciava scappare il suo vero nome. «Sono mesi che sono prigioniero» ribatté Jarvo. «Maledizione, ragazza! Ti sono grato per ciò che hai fatto, ma non potrò stare nascosto per sempre sotto il tuo letto, mentre Esketra soffre nell'harem di quel maledetto!» Erill serrò le mascelle per l'irritazione. «Dannazione, non mi importa nulla se vuoi rischiare la testa! Ma ficcati nel cervello che se commetterai qualche errore li trascinerai tutti qui... e finiremo appesi sulla Piazza della Giustizia!» «Mi dispiace Erill» mormorò Jarvo. «Hai rischiato molto per me e non ho il diritto di mettere te e Boree e tutti i tuoi amici in pericolo. Ma, dan-
nazione, non posso restarmene qui nascosto senza far nulla. Se penso a quello che deve subire Esketra...» Erill si maledisse tra sé, guardandolo scura in volto. Era stata pazza a lasciare che Jarvo scoprisse che il suo Grande Amore era ancora in vita e languiva tra sete e pellicce nella torre del Profeta a Ceddi. Il morale di Jarvo era già sottoterra quando aveva saputo che Sandotneri era stata annientata e lei gli aveva allora riferito della prigionia di Esketra, sperando che quello potesse aiutarlo a scuotersi di dosso l'umore nero che lo consumava più di ogni febbre. Da quel momento in effetti la malinconia gli era passata... ma aveva cominciato a fremere nervosamente, progettando piani per liberare la donna dalla fortezza del Profeta. Durante il delirio aveva invocato ripetutamente il nome di Esketra ed anche ora che si era ripreso ne parlava in continuazione. Erill si era ritrovata ad odiare una donna che non aveva mai conosciuto. La ragazza ruppe il silenzio. «Ascoltami, devo sbrigare qualche faccenda. Mi prometti di non muoverti finché non sarò tornata?» «Non scenderò dal carro nemmeno per pisciare!» grugnì Jarvo. Erill uscì senza salutarlo e Jarvo non alzò neppure la testa. In un certo senso, pensò lui, non doveva sentirsi in colpa. Dopo tutto, Erill era di origini umili e popolari. Gli aveva salvato la vita rischiando la propria, d'accordo, ma era di natali troppo vili per poter capire i doveri e le necessità che l'onore richiedeva ai nobili, allo stesso modo in cui lei era troppo rozza per concepire un amore profondo e non egoista come quello che lui provava per Esketra. Erill e i suoi amici avevano fatto molto per lui e Jarvo sentiva verso di loro la stessa altezzosa gratitudine che ogni grande signore riservava ai propri fedeli servitori. Non poteva esserci di più. Non doveva esserci di più. Jarvo aveva solo qualche ricordo nebbioso delle settimane trascorse in preda alla febbre. Era rimasto a letto nel carro tra il coma e il delirio, mentre Erill lo costringeva a trangugiare infusi e decotti di eucalipto, elisir di radice di cincona, e altre polveri procurate da Boree. Per tutto il tempo erano rimaste accampate presso il ruscello, timorose di muoversi prima che la febbre si fosse calmata. Erano passati molti altri Sataki ritardatari accanto al carro e quando avevano chiesto qualcosa, Erill aveva risposto che l'uomo era il suo amante, un certo Juntos ferito nella grande battaglia di Deserved. Nessuno aveva voluto saperne di più. C'erano migliaia di feriti e molti avevano il viso fasciato allo stesso modo del coraggioso Juntos. Dopo parecchi giorni, Jarvo aveva cominciato a restare conscio per pe-
riodi abbastanza lunghi da guardarsi attorno nel carro e riconoscere la ragazza bionda che lo curava e la vecchia dai capelli scuri che aveva sempre il viso torvo. A poco a poco le nebbie del delirio si erano alzate, lasciandogli comprendere la situazione. Era stato allora che la disperazione aveva cominciato a torturarlo più crudelmente di qualsiasi febbre. Jarvo ripensava alla battaglia, alla percezione della sconfitta inevitabile, al tentativo disperato di portare in salvo i superstiti e all'orrenda scena finale in cui la ritirata li aveva condotti nella palude insidiosa di Deserved. I ricordi continuavano a torturarlo, sia che fosse conscio o in preda al delirio. Stremato dalla battaglia, ferito in numerosi punti sotto l'armatura lacerata, gli ci era voluto qualche istante prima di rendersi conto della tremenda condanna che li attendeva in mezzo all'acquitrino. L'erba alta aveva lasciato improvvisamente spazio alle canne e il terreno duro si era trasformato in fango. Il suo cavallo era ruzzolato nella melma, disarcionandolo. Appesantito dall'ingombro dell'armatura il generale non era più riuscito a rialzarsi, e i suoi sforzi erano serviti solo a trascinarlo sempre più verso il fondo. Colto dal panico, si era reso conto che presto il fango avrebbe cominciato a filtrare attraverso la visiera dell'elmo, finché non ci sarebbe stato più nulla da fare. Poi, mani sconosciute avevano tirato disperatamente il suo corpo e dita frenetiche gli avevano slacciato l'elmo, sfilandoglielo dal capo. Alcuni dei suoi cavalleggeri, meno appesantiti dai loro usberghi, erano strisciati nel fango fino a lui e fedeli fino alla morte avevano lottato accanitamente per estrarlo dalla corazza impantanata. Era una lotta frenetica, sotto il tiro degli arcieri Sataki. Alla fine, esausto e debole come un bambino appena nato e quasi nudo, Jarvo si era steso sul ventre, boccheggiando nella melma soffocante. Alcuni dei suoi uomini stavano annaspando sull'altra sponda dell'acquitrino e si trascinavano faticosamente verso l'erba alta in cerca di salvezza, ma Jarvo sapeva che Kane avrebbe inviato i suoi cavalleggeri per tagliar loro la ritirata. Non c'era via di scampo, ma nemmeno poteva restare dove si trovava. Molto meglio affondare nella fanghiglia, che cadere nelle mani di Kane. Rimaneva un'unica disperata possibilità, e Jarvo aveva deciso di tentarla. Strisciando nel fango come una salamandra aveva cominciato a spostarsi, seguendo un rigagnolo riparato dalle canne che portava lontano dai rumori del massacro. Attorno a lui regnava la più completa confusione. I Sataki
scorrazzavano nella palude immersi fino alla vita per trucidare gli avversari impantanati, ma Jarvo era riuscito a sgusciare al riparo e ad allontanarsi dal luogo del macello prima che l'oscurità scendesse sul campo di battaglia. I giorni seguenti erano stati confusi e annebbiati come quelli trascorsi nel carro di Erill. Il dolore delle ferite in suppurazione e l'estrema debolezza lo torturavano... finché la febbre attutì ogni sensazione. Ricordava di aver bevuto da alcune pozze fetide e di aver divorato serpenti e rospi e altri animaletti che era riuscito a catturare. Ricordava i morsi di miriadi di insetti e il terribile calore del sole. Una volta, un serpente velenoso gli si era accovacciato davanti; il suo morso avrebbe significato la fine di quei tormenti, ma Jarvo l'aveva ucciso con una pietra e l'aveva mangiato. Ora, nel carro, pensò a quanto era stato pazzo in quella occasione. Non aveva mai avuto ben chiaro ciò che doveva fare. All'inizio aveva sentito il bisogno di tornare a Sandotneri, ma quello sarebbe stato impossibile perché la città doveva essere assediata da Kane e prima o poi sarebbe caduta. Altre volte, aveva pensato che fosse suo dovere recarsi a Ingoldi... e che l'unico modo di espiare la sua colpa fosse cercare Kane e ucciderlo. Solo raramente i suoi sogni di vendetta avevano preso in considerazione anche Orted Ak-Ceddi. Dopo molti altri giorni di girovagare senza meta, Jarvo si era reso conto che l'unica cosa su cui concentrarsi veramente era la necessità di sfuggire alla cattura. Alla fine anche quella consapevolezza si era dissolta. Era seguito un intervallo imprecisato di giorni oscuri, terminati quando aveva cominciato a riconoscere il viso di Erill sul carro. Quando Jarvo era stato in grado di nutrirsi da solo e reggersi in piedi senza barcollare, il suo viso era coperto da una folta barba color paglia. Unita alla cicatrice, la barba gli conferiva un aspetto miserabile, ma dovevano passare molti altri giorni prima che lui desse peso alla cosa. Solo allora Erill aveva avuto il coraggio di dargli la notizia della fine di Sandotneri. Jarvo ne era rimasto sconvolto e aveva desiderato di essere morto in battaglia. Più che mai, aveva giurato vendetta nei confronti di Kane. In seguito aveva conosciuto anche la sorte di Esketra... trascinata in schiavitù dal Profeta per servirlo a Ceddi. Quando l'aveva saputo era rimasto in silenzio a lungo, e quando aveva finalmente ripreso a parlare era stato con un nuovo senso di calma e tranquillità, perché si era convinto di aver ritrovato uno scopo per la propria vita. Sarebbe tornato a Ingoldi con Erill e Boree, ed avrebbe atteso il momento per tentare di liberare Esketra. Era possibile; di questo Jarvo era certo. Pensare altrimenti sarebbe stata
una tortura insopportabile. Non aveva che da studiare un piano e attendere l'occasione opportuna. D'accordo, Esketra l'aveva ingannato, ma si sentiva di perdonarla sapendo che il cuore della donna avrebbe di nuovo pulsato per lui quando l'avesse liberata coraggiosamente dalla cittadella del Profeta. Il loro vecchio mondo non esisteva più; il loro amore ne avrebbe ricostruito uno nuovo. Da allora, aveva trascorso i suoi giorni progettando migliaia di piani pazzeschi. Avrebbe assaltato la cittadella con un esercito segreto. Avrebbe organizzato una rivolta. Sarebbe piombato su Orted nella sua torre e l'avrebbe fatto a pezzi sotto gli occhi di Esketra. Si sarebbe infilato di notte nella cittadella per rapirla con l'abilità di un ladro professionista. Avrebbe teso una trappola a Kane e l'avrebbe battuto in un duello epico... risparmiandogli la vita in cambio del rilascio della donna... I piani e le loro variazioni erano infiniti e tutti terminavano con immagini di trionfo e felicità. Erill li ascoltava tutti pazientemente, controbattendoli a volte con commenti sarcastici. Alla fine, la febbre era scomparsa del tutto e le forze del generale erano tornate normali. Erano stati costretti a tornare a Shapeli... o a rischiare di essere scambiati per inuciri dalle pattuglie di Sataki che passavano in numero sempre maggiore da quando Kane aveva condotto la Spada all'interno degli altri regni meridionali. All'inizio Erill non aveva avuto altra intenzione oltre a quella di aiutare Jarvo a riprendersi e fuggire, ma quando l'uomo era stato in grado di andarsene con le proprie gambe si era accorta di desiderare che restasse. Quando Jarvo aveva proposto di andare a Ingoldi, la ragazza non si era opposta con troppa insistenza. Dopo tutto, non c'erano posti al sicuro dalla Crociata Nera, e inoltre il generale Jarvo era ormai dato per morto nella palude... Anche se poi fosse riuscito a fuggire e a salvarsi, quale luogo sarebbe stato per lui meno pericoloso di Ingoldi? Certo, Ingoldi era proprio il posto in cui si doveva andare. Se Erill era d'accordo, tanto meglio. Altrimenti sarebbe andato da solo. E così, Erill lo portò a Ingoldi. Da solo, sapeva che non sarebbe mai riuscito a sopravvivere. Jarvo rideva delle paure della ragazza quando lei gli ricordava ciò che l'avrebbe atteso nella capitale del Profeta. Come nella maggior parte dei casi, quelle risate erano dettate dall'ignoranza. Un carro di tespi con due donne e un veterano ferito non destava sospetti neppure a Shapeli, ed Erill aveva preso le necessarie precauzioni affinché questi sospetti non dovessero mai verificarsi. Jarvo era diventato Juntos, un fedele servitore di Sataki il cui viso era
stato sfigurato a Emleoas. Le ferite gli avevano impedito di arruolarsi nella Spada di Sataki, ma tuttavia aveva fatto parte dell'orda dei Sataki che avevano saccheggiato Sandotneri. Al ritorno, l'uomo aveva trovato ristoro nel carro di Erill e i due avevano finito per innamorarsi. Baree aveva riso di quell'ultima dichiarazione e Jarvo aveva concordato che quella mascherata avrebbe destato qualche sospetto. I gesti umanitari a Shapeli erano decisamente rari. A parte i dialetti regionali, la lingua era la stessa sia in Shapeli che nei regni meridionali. L'accento di Jarvo, tuttavia, non era perfetto, ed Erill ne aveva corretto la pronuncia fino a farlo assomigliare a quella di un originario di una città di confine imbastardita dagli anni di rivolgimenti sociali di Shapeli. Jarvo era stato curato nella persona e sbarbato; Juntos aveva una barba lunga e ispida. Jarvo aveva portato una benda sull'occhio, mentre l'occhio sinistro di Juntos luccicava immobile di fronte al mondo. Che lo guardassero pure, gli aveva detto Erill... non avrebbero notato gli altri lineamenti. Il cerone e i trucchi avrebbero fatto il resto, alterandone completamente la fisionomia. Alcune striscie di gomma estendevano la cicatrice al di là del naso, fin sul lato integro del viso, e il cerone dava l'impressione che egli volesse in un certo senso camuffare al meglio il proprio aspetto. Erill aveva anche pensato di ricorrere a raffinatezze come cuscinetti di gomma all'interno delle guancia per distorcere i tratti del viso, o mollette d'argento all'interno delle narici o delle orecchie, ma aveva finito con l'abbandonare l'idea. Avrebbero impegnato troppo tempo per la preparazione e richiesto continua attenzione. Era molto meglio cercare di ottenere un aspetto semplice, tanto più che erano pochissimi quelli che avevano visto Jarvo di persona, e che la regione pullulava di veterani feriti o orrendamente mutilati. Juntos, però, aveva bisogno di una copertura. Erill e Boree avevano mantenuto contatti con la commedia dell'arte durante tutto il tempo, riuscendo in quel modo a guadagnarsi da vivere e ad evitare le squadre di lavoro dei Sataki. Ora che la guerra si era allontanata da Ingoldi, la Corporazione del Teatro aveva cominciato a fiorire. C'erano rappresentazioni patriottiche per risollevare il morale delle masse, commedie morali che ricordavano ai cittadini i loro doveri verso Sataki e la nuova era che sarebbe giunta dopo la vittoria finale della Crociata Nera. Erill era esperta nell'arte della pantomima e non aveva avuto nessuna difficoltà a riprendere il lavoro. Jarvo poteva aiutarli senza destare sospetti, fino a quando si fosse pre-
sentata l'occasione che sognava. Le settimane si susseguivano dolorose per il generale nascosto, che pur continuando a pensare ad Esketra era del tutto impossibilitato ad agire. Jarvo si consolava raccogliendo informazioni dettagliate sulla fortezza del Profeta e sull'operato della Crociata Nera. Forse quelle informazioni potevano essere inutili per un esercito invasore, ma si sarebbero rivelate importantissime per penetrare nella cittadella di Ceddi allo scopo di liberare Esketra. Il suo progetto era tuttavia molto più complicato di quanto avesse pensato. Ingoldi era coperta da un drappo funebre di sospetto e terrore. I Difensori di Sataki erano dappertutto e le denunce dei cittadini arrivavano dove loro non riuscivano a vedere. Erano state disposte ricompense per chi denunciava i nuucii, e Ceddi era ermeticamente chiusa alle persone non autorizzate. Nessuno poteva entrarne o uscirne se non sotto le più rigorose norme di controllo. Nessuno, tranne i sacerdoti di Sataki, sapevano con certezza cosa accadeva all'interno della cittadella del Profeta. Probabilmente i prigionieri che venivano trascinati nelle segrete sotterranee lo avevano scoperto, ma nessuno di essi aveva fatto mai ritorno per raccontarlo. Dopo mesi di frustrazione, Jarvo non era stato in grado di vedere Esketra ma era venuto a sapere che la concubina preferita del Profeta era ancora in vita. Era riuscito a non impazzire solo progettando centinaia di piani assurdi per liberarla... immaginando passaggi segreti, pareti scalate, spie nascoste e altre vane speranze. Alla fine, aveva perfino pensato di rischiare il tutto per tutto diventando sacerdote di Sataki, ma nessuno aveva saputo indicargli con certezza come venissero reclutati i nuovi confratelli. Quando era stata messa in scena la nuova rappresentazione e qualcuno aveva suggerito che Juntos era la persona più adatta a impersonare il malvagio Jarvo, questi aveva accettato senza protestare troppo. Si trattava di qualcosa per cui avrebbe dovuto fare appello a tutta la sua audacia, ma per lui aveva il sapore di una burla segreta; come se avesse sbeffeggiato il nemico mentre gli girava le spalle. Tuttavia, il generale sapeva che presto avrebbe dovuto trovare il modo di allentare la propria tensione, prima di essere colto da furia omicida. E così, i mesi si erano susseguiti. Sconfitto e disonorato, riportato in vita dall'orlo del baratro, viveva ora all'ombra della cittadella del suo rivale alle spalle di una ragazza non ancora del tutto adulta... un'attrice da pantomima dai modi strani e dal temperamento volubile. E mentre lui si nascondeva, Kane scorrazzava nei regni meridionali e Orted Ak-Ceddi accumulava bot-
tini nei suoi sotterranei; e quel che era peggio, Esketra era schiava dei voleri del Profeta. Ed ora Erill era infuriata con lui perché aveva osato avventurarsi fuori senza di lei. Mentre Jarvo pensava preoccupato alla sua situazione, Erill rientrò nel carro. Sembrava scura in volto. «Che cosa c'è?» chiese lui prontamente. «Guai, purtroppo! Ho appena parlato con il direttore della corporazione.» «Guai con la censura?» Sarebbe stato molto spiacevole. «Magari! No, la nuova rappresentazione ha incontrato i favori ufficiali. È una descrizione toccante della vittoriosa avanzata della Crociata Nera. Tutti i fedeli dovrebbero vederla due volte, hanno detto.» «E allora?» «Siamo troppo bravi. Il Profeta ha ordinato che ne sia data una rappresentazione all'interno del gran salone di Ceddi.» Con un sorriso d'esultanza, Jarvo scattò in piedi. «È troppo bello per essere vero!» gridò. «Finalmente! È l'occasione che aspetto da sempre per riuscire ad entrare nella cittadella! Potrò vedere Esketra, forse riuscirò a parlarle, forse addirittura...» «Sarà un banchetto di vittoria... per festeggiare il ritorno di Kane.» XIX La dea Le dita esperte di Boree mescolarono di nuovo le carte e spinsero il mazzo sul tavolo, verso Erill. «Prova ancora, mia cara.» Erill si rabbuiò scuotendo il capo carico di riccioli biondi. «Due volte mi bastano, maledizione. Ho altro da fare. Perché non mi lasci in pace?» Il viso di Boree era privo d'espressione, ma i suoi occhi erano preoccupati. «Un'altra volta.» «Va' all'inferno. Non hai neppure voluto dirmi ciò che hai visto le due ultime volte.» La ragazza avvicinò un tizzone alla pipa per accenderla. «È difficile leggere le carte questa sera, mia cara.» «Questo significa che sono brutte e non vuoi spaventarmi. Ebbene, leggerle di nuovo non servirà a cambiare il mio destino.»
«Posso essermi sbagliata.» «Allora non vale la pena di perdere altro tempo.» «Ti prego. Una volta ancora.» Imprecando, la ragazza prese il mazzo con mani tremanti. Jarvo si guardò le mani ed imprecò. Il tremore non accennava a diminuire. "Nervi", disse tra sè, serrando le mandibole con determinazione. Quel gesto lo tradì. Uno spasmo percorse i suoi muscoli e per un istante i denti batterono rumorosamente. Non erano i nervi, era la febbre. "Per Vaul! Non questa sera..." Freneticamente si asciugò il sudore che gli imperlava il viso pallido. Si chiese ancora una volta come fosse possibile sudare con le budella congelate. Non importava. La solita febbre e i brividi di freddo l'avevano tradito di nuovo... proprio quando era certo di aver ripreso in pieno le proprie forze, quando era sicuro che le notti di gelo sotto le coperte inzuppate di sudore fossero per sempre finite. Non importava; era come essere tornato indietro. Erill non doveva saperlo. La ragazza aveva rinunciato a tentare di dissuaderlo ad apparire nella rappresentazione comandata dal Profeta... ma solo perché sapeva che nessun argomento sarebbe riuscito a convincerlo. Ora, però, se avesse scoperto la sua ricaduta gli avrebbe ingiunto di starsene a letto mentre un altro avrebbe preso il suo posto, e sicuramente nel suo stato... Jarvo fece una smorfia. Riusciva perfino ad immaginare la voce adirata di Erill. A volte la ragazza sapeva essere molto convincente. Non c'era da meravigliarsi che anche la grintosa Boree cedesse sempre di fronte al carattere pungente della giovane. Guardò il sole alto nel cielo. Mancavano ancora molte ore al momento in cui la compagnia si sarebbe riunita per essere ammessa a Ceddi. Forse per quell'ora l'attacco febbrile sarebbe scomparso. Non importava. Quella notte sarebbe andato a Ceddi. Avrebbe visto Esketra anche a costo di non rivedere mai più la luce del sole. Con fare cauto, scivolò all'interno del carro e aprì la cassa che teneva accanto al letto. Con mani tremanti tolse la solita fiala e prese una dose di polvere di cincona, confondendone il sapore amaro con una sorsata di acqua. Orted Ak-Ceddi inalò dal dorso della mano una porzione di foglie di coca triturate. Sbuffò, starnutì, deglutì. Poi ingollò una sorsata di acquavite
per rimuovere il sapore aspro e penetrante, un attimo prima che il torpore gli attaccasse il naso e la gola. Il formicolìo frenetico della droga gli riscaldò le membra annientando l'effetto del sonno come una fiamma vicino a una ragnatela. Si sfregò il viso, rinfrescandosi, mentre gli ultimi segni della sbornia se ne andavano. Di fianco a lui, sul letto, Esketra si lamentò senza svegliarsi. Orted guardò con noncuranza il suo corpo nudo, allo stesso modo in cui un crapulone osserva i resti di un banchetto. Indossando una vestaglia di seta, il Profeta si avvicinò a una finestra e ne scostò le tende. La luce del giorno invase la camera ma l'uomo in piedi nel riquadro della finestra non proiettò alcuna ombra. Mezzogiorno era passato da un pezzo... era più o meno l'alba quando Orted aveva chiamato Esketra e aveva lasciato la sala del banchetto. Kane gli aveva augurato la buona notte senza mostrare il minimo segno di stanchezza, nonostante le ore di gozzoviglie. Ripensando a Kane, Orted alzò gli occhi verso le migliaia di fuochi dai quali si levava un velo di fumo al di là delle mura di Ingoldi. La Spada di Sataki era rientrata vittoriosa portando con sé un numero incalcolabile di neofiti dalle città conquistate dei regni meridionali. Orted pensò ai carri carichi di tesori che avevano continuato ad affluire oltre le porte di Ceddi. Se non fosse stato per le spese di guerra, la sua fortezza sarebbe ormai stata sepolta sotto una valanga d'oro... proprio come le mura di Ingoldi minacciavano di scoppiare per il numero sempre crescente di nuovi fedeli. Quella notte ci sarebbe stato un altro grande banchetto in onore delle incontrastate vittorie della Crociata Nera. In onore di Kane. Guardando il fumo che si levava dal campo di Kane, Orted aggrottò la fronte. Qual era il motivo segreto del ritorno del generale? Le sue spie gli avevano riferito che a Shapeli circolavano voci a proposito della capacità di Kane di reggere un impero con la stessa facilità con cui guidava un esercito... Il Profeta prese un altro pizzico di foglie di coca dalla scatoletta d'oro. Kane gli era stato molto utile... fino a quel momento. Ma entrambi sapevano di giocare una partita tremenda, e nessuno dei due intendeva perderla. Orted fiutò con forza e si fregò il naso sorridendo appena. Sarebbe stato lui a dettare le regole del gioco, e Kane avrebbe avuto modo di rimpiangere la sua marcia trionfale a Ceddi. Dopo aver rimesso al suo posto la scatoletta, allungò la mano verso il calice.
Kane svuotò la coppa e l'allontanò con noncuranza. Il dado che aveva appena gettato si era fermato sul due. Allungandosi sul tavolo spostò di uno spazio sul tabellone esagonale uno dei numerosi cubetti di giada. Di fronte a lui il colonnello Alain, suo luogotenente, grugnì sotto la barba giallastra e lanciò il dado a sua volta. Cinque. Studiò il tabellone in silenzio e alla fine mosse uno dei cubetti di uno spazio, davanti al pezzo che Kane aveva appena mosso. Increspò le labbra. «Sfida!» «Accettata.» Kane rovesciò il cubo di giada, scoprendo un tre. Alain fece lo stesso con il suo pezzo: quattro. Kane spostò il pezzo dell'altro, prese il proprio e lo pose nello spazio liberatosi. Alain si grattò la barba. Il generale ne aveva già catturati nove dei suoi ventun pezzi, perdendone solo due. «Continua con il rapporto» esclamò Kane prendendo il dado. Dolnes distolse l'attenzione dal tabellone, stringendosi nelle spalle quadrate. «È tutto.» Il generale lanciò un tre, esitò per un istante, poi ritirò di una casella un pezzo avanzato. Si rivolse di nuovo all'informatore. «Sei sicuro che sia lei?» «Direi di sì» lo rassicurò Dolnes. «Dovete tener conto che è quasi impossibile ottenere informazioni di qualsiasi tipo. Da queste parti ci sono stati troppi sconvolgimenti. Nessuno ricorda nulla e ci sono troppo pochi sopravvissuti che possano parlare. Bisogna trovare gente che possa sapere, che possa ricordare, e che se la senta di parlare. E fare domande non è molto salutare.» «Conosco le difficoltà» disse freddo il generale. «Se fosse una cosa facile, non ti pagherei tanto generosamente.» Poi aggiunse: «Per i risultati.» «Be', lei è proprio quella che cercate... a quanto sono riuscito a sapere senza chiederglielo direttamente.» «Non è necessario» disse Kane muovendo un altro pezzo. «Sfida!» «Rifiutata» rispose di malavoglia Alain, ritirando il proprio pezzo e lasciando che l'altro occupasse la casella vuota. «A cosa serve il dado?» chiese Dolnes, incapace di trattenere la propria curiosità. «A stabilire da quale faccia dell'esagono si può muovere un pezzo» rispose Kane. «Puoi trovare la ragazza, vero?» «Naturalmente.» Dolnes studiò la strana tavola da gioco. «Qual è il valo-
re gerarchico dei pezzi?» «Crescono in valore dall'uno al sei. Ogni grado è composto da un numero di pezzi uguale al proprio valore nominale.» «Non conosco molto bene questo gioco» commentò Dolnes sempre più incuriosito. «È piuttosto antico» rispose asciutto Kane. «Voglio che mi porti quella ragazza. Questa sera. Assolutamente. Il colonnello Alain ti farà avere gli uo'mini adatti.» Dolnes annuì. «I pezzi sembrano tutti uguali. Come si fa' a riconoscerne il valore prima di rovesciarli?» «A memoria» disse Kane. «E con un po' di deduzione e calcolo. E in ogni momento si può lanciare una sfida.» «E se si calcola male?» «Tu che ne dici?» rispose Kane. XX Le sue labbra sono tinte di rosso La rappresentazione dell'Invincibile Marcia della Spada di Sataki aveva ottenuto un grandioso successo, aiutata anche dall'ebbrezza esuberante del pubblico. Certamente i tetri sacerdoti vestiti di nero non si sarebbero mai lasciati andare ad applausi entusiastici o a lodi esagerate. All'interno della cittadella del Profeta, uno dei grandi saloni era stato sgombrato per allestirvi un palcoscenico. Prima di sera erano entrati a Ceddi interi carri di scenari teatrali e costumi da rappresentazione, guidati da attori, coristi e molti altri appartenenti alla corporazione che erano riusciti a trovare un pretesto per partecipare al divertimento del Profeta. Già dopo le portate principali, il pubblico era in uno stato d'animo eccitato e gli attori erano ansiosi di cominciare. La rappresentazione in sé era lunga e disordinata... un susseguirsi continuo di scene e cortei, separate da dialoghi drammatici e finte battaglie. Un narratore provvedeva alla continuità della storia e spiegava le azioni, mentre il coro strillava canti marziali, i musicisti maltrattavano i loro strumenti e gli inservienti di scena si davano da fare tra le quinte con vari effetti sonori. L'effetto finale era una via di mezzo tra un'opera morale, una parodia e una conferenza. Il pubblico rispondeva con grida entusiastiche e alti fischi d'approvazione. Gli attori, vestiti e truccati accuratamente brandivano armi di legno, e i
cavalieri galoppavano con finti cavalli di vimini appesi alle spalle. Con almeno cinquanta personaggi sul palco che urlavano correndo qua e là nelle scene di battaglia, il frastuono era assordante. Molte delle parti erano irrilevanti e così accadeva che soldati uccisi e massacrati si rialzassero tra una scena e l'altra per partecipare ad un altro macello e essere nuovamente uccisi. I personaggi chiave del dramma dovevano invece prendere spesso la parola - di solito per soliloqui e dialoghi commoventi - e occupavano il centro del palco gesticolando e assumendo pose altamente teatrali. L'attore che impersonificava Orted Ak-Ceddi aveva il ruolo principale... alto e slanciato, e vestito di seta nera, pronunciava spesso discorsi trascinanti e caricava il nemico in modo intrepido in ogni battaglia. Tuttavia, la maggior parte del pubblico faceva il tifo per Kane... un attore robusto con una corazza fuori misura, che correva sul palco in continuazione urlando ordini e imprecazioni, e fracassando tutto ciò che gli si parava dinanzi. Le parti minori erano riservate agli ufficiali importanti, tutti intrepidi e coraggiosi, e ai capi delle forze nemiche, crudeli e codardi. Il personaggio di Jarvo, interpretato da un certo Juntos, era un tipico esempio di avversario del Profeta: in parte sbruffone, in parte vile e infingardo. Il malvagio condottiero di Sandotneri era facilmente riconoscibile per la cicatrice sul viso, orrendamente esagerata dal trucco di scena. Inoltre, Juntos portava un'assurda parrucca bionda e scarpe con tacchi alti per aumentare in statura, e parlava con un tono di voce stridulo e biascicato. Era un'interpretazione perfetta, una di quelle che il pubblico preferiva e premiava con grida e applausi esultanti. Jarvo fece una breve introduzione farneticante, in cui bestemmiava il nome di Sataki e prometteva l'annientamento della Crociata Nera. Sghignazzando in modo diabolico, saltellò sul palco, massacrando poveri contadini disarmati e madri che proteggevano i loro piccoli piangenti. Dopo una pausa - durante la quale si erano cambiate le scene e i morti si erano ritirati oltre le quinte tra i cori e le spiegazioni del narratore - apparvero Kane e Orted in un dialogo lungo e improbabile, amichevolmente abbracciati tra loro. Poi, Kane sollevò la spada. Gli attori risorti gli si strinsero attorno con le finte cavalcature e le corazze di scena per accompagnarlo lungo tutta la lunghezza del palcoscenico al grido di "La Spada di Sataki è stata sguainata". Il pubblico era in delirio. Di nuovo un cambio di scena. Dal lato opposto, Jarvo e la sua banda di assassini irruppero sul palco boriosamente, ma alla vista della Spada di Sataki che avanzava intrepida, la cavalleria di Sandotneri si bloccò terrorizza-
ta. Jarvo strillò impaurito, implorando i suoi uomini di proteggerlo. Inutile. La Spada di Sataki spazzò il palco, seminando la morte tra i soldati di Sandotneri. Jarvo saltellò qua e là in cerca di salvezza... ma finì ingenuamente di fronte alla carica di Kane. Implorando pietà e invocando il perdono di Sataki, il generale di Sandotneri morì miseramente sotto l'ascia di legno di Kane, in un tumulto di urla esultanti. La rappresentazione continuava per un'altra ora, ma la parte di Jarvo era terminata. Con un sorriso feroce si tolse il costume di scena e l'armatura, mentre Kane e il suo esercito vittorioso marciavano sul palco gridando "La Spada di Sataki Colpisce Possente". In teoria Jarvo avrebbe dovuto restare con la compagnia per aiutare nei cambi di scena e di costumi nonché come comparsa... ma per l'occasione chiunque avesse avuto a che fare con la corporazione era riuscito a procurarsi un permesso di ingresso e la sua assenza non sarebbe stata notata da nessuno. Per completare l'abito da cerimonia i partecipanti alla festa indossavano strane maschere... che coprivano solo la metà superiore del viso per permettere di mangiare e bere comodamente. Jarvo si sfilò la parrucca e si tolse il trucco di scena, indossò un farsetto elegante preso dal deposito dei costumi e si adattò sul viso la maschera che aveva portato con sé. Si trattava di una caricatura in cera di se stesso. Così acconciato, si dileguò furtivo approfittando della confusione del retropalco, e scivolò tra le ombre della sala mescolandosi con i servi e gli ospiti. Dopo la rappresentazione ci sarebbero stati acrobati e ballerini, e ulteriori libagioni e festini. Gli attori avrebbero potuto prendere parte al divertimento purché si fossero tenuti in disparte. Nessuno avrebbe fatto caso a lui e nella confusione avrebbe trovato il modo di raggiungere Esketra. Da quel momento non aveva piani definiti da seguire. La prima mossa era stata fatta... poiché né Kane né gli altri si erano accorti di nulla nel Jarvo che recitava sul palco. E in fondo, perché avrebbero dovuto sospettare? Jarvo era morto. Eppure, con Kane... Non importava. Quella notte la fortuna era dalla sua parte: la febbre se n'era quasi andata; e lui era entrato senza essere riconosciuto nella fortezza del nemico. Dopo aver raggiunto Esketra, avrebbe sicuramente trovato una strada da seguire. Nell'atmosfera ebbra della festa e nell'incredibile confusione che avrebbe fatto seguito alla rappresentazione, tutto era possibile. Dopo aver ricevuto da un servitore un calice di vino, Jarvo si infilò con sicurezza tra le ombre che circondavano i tavoli del banchetto. C'erano parecchie centinaia di ospiti... ufficiali della Spada di Sataki, membri dei Di-
fensori di Sataki, adulatori del Profeta e altri personaggi importanti. Accanto a loro, ma senza per questo condividere l'ilarità degli altri, c'erano parecchi sacerdoti di Sataki che indossavano le loro caratteristiche tonache nere e i cappucci che ne nascondevano il viso. Al di là dei tavoli si raccoglieva un'accozzaglia di servitori, personaggi del seguito, figure di secondo piano, guardie e, sicuramente, spie. Jarvo prese posto dietro una colonna da dove si poteva vedere il tavolo più alto. Là era seduto Kane, con la sua figura massiccia e inconfondibile malgrado una maschera dalle fattezze leonine. Alla sua sinistra era seduto Orted Ak-Ceddi, coperto da una maschera nera informe. Nonostante l'atmosfera generale di festa, sembravano discutere tra loro ignorando del tutto la rappresentazione. A sinistra del Profeta... Jarvo si sentì il sangue ribollire alle tempie. La maschera da falco non bastava a nascondere i lineamenti fieri di Esketra. La collera di Kane stava facendo capolino da sotto la maschera da leone e attraverso la cortesia forzata che ostentava per l'occasione. «Ma è del tutto temerario continuare la nostra avanzata» ringhiò il generale. «E perché?» chiese il Profeta. «Stiamo vincendo tutte le battaglie. Continuiamo finché non sarà caduta anche l'ultima città.» «Ma ogni vittoria ci costa delle perdite. Mi servono altri uomini, altri cavalli, altri...» «Vi ho già fatto avere rinforzi in quantità...» «Me ne servono ancora. Tanto più allontaniamo il fronte di Shapeli, tanti più uomini devo lasciare in retroguardia e per garantire i rifornimenti. Maledizione, ormai ho falciato una striscia di terreno di quasi duemila miglia all'interno dei regni meridionali.» «E potete ancora avanzare di altre duemila» l'interruppe Orted. «Ma avete idea di cosa significhi in termini di spostamenti a cavallo? Non si tratta di galoppare su un campo d'addestramento. Significa stare a cavallo per settimane, mesi... cercare cibo e acqua e procedere miglio dopo miglio in territori ostili.» «Questa è la Crociata Nera, Kane... non una passeggiata a cavallo. Se non riuscite a risolvere dei semplici problemi militari, troverò qualcuno in grado di farlo.» «La soluzione è semplice» sbottò Kane. «Mi serve una cavalleria più numerosa, e tempo per consolidare le conquiste effettuate.»
«Farò in modo che abbiate ciò che vi serve» promise Orted. Kane imprecò tra sé e fissò il calice che aveva davanti. Avrebbe preferito fare quella discussione in privato, ma fin dal giorno del suo arrivo il Profeta l'aveva accuratamente evitato. «Alcune delle vostre mosse sono incomprensibili» incalzò il generale. «Già Ingoldi è affollata al di là di ogni limite, eppure insistete perché vi porti nuovi fedeli dai regni conquistati. In effetti queste mura contengono più gente di quanto siano in grado di fare.» «Allora costruirò nuove mura.» «Per avere la città più estesa mai costruita?» chiese Kane. «A che scopo? Questa gente dovrà pur mangiare, avere una casa in cui vivere, dovrà...» «Sono i figli di Sataki. Sarà sufficiente che abitino davanti al tempio del loro dio.» Kane osservò attentamente il Profeta. Sotto il suo apparente fanatismo doveva esserci qualcosa di logico... qualche motivazione di interesse personale che spiegasse la sua retorica e le sue insulsaggini. «Sarebbe meglio - naturalmente dopo essere stati indottrinati convenientemente - che i neofiti venissero rimandati alle loro città. Data la difficoltà di tenere sotto controllo vaste estensioni di territorio sarebbe molto saggio avere fedeli alleati nelle città che ci lasciamo alle spalle. Ho conquistato regno dopo regno... ma se le nazioni ancora libere a ovest dovessero coalizzarsi e inserirsi tra noi e le nostre linee di rifornimento...» «Dunque, dovrete fare in modo che ciò non accada mai!» ammonì Orted. «I miei ordini non sono cambiati. Non pretendo che li comprendiate, ma insisto affinché li eseguiate. Altrimenti...» Il Profeta non ritenne necessario terminare la frase. La rappresentazione giunse al termine tra le ovazioni più entusiastiche. Gli attori ringraziarono e si sparpagliarono per dividersi i resti del banchetto, mentre una nuova compagnia di musicisti e ballerine proseguiva lo spettacolo. Kane e Orted Ak-Ceddi osservarono una tregua, guardandosi in cagnesco mentre sete e membra nude si agitavano freneticamente e servitori premurosi riempivano i calici vuoti. Alla fine le ballerine si fermarono. Nella calma momentanea, Orted si alzò per declamare un'orazione interminabile che esprimeva la gratitudine di Sataki per la direzione brillante di Kane, il coraggio della Spada di Sataki, la fedeltà dei Figli di Sataki e la devozione dei sacerdoti... inoltre, lui, il Profeta di Sataki, era grato e orgoglioso degli sforzi comuni che avevano
reso possibili grandi imprese, anche se nuovi sacrifici e nuovi sforzi erano necessari per condurre la Crociata Nera alla vittoria finale. Urla e applausi interruppero spesso la sua declamazione. Dopo di lui si alzò Kane per esprimere i medesimi ringraziamenti... dichiarando il proprio umile orgoglio e il senso di appagamento personale per aver avuto la possibilità di servire Sataki nel suo piccolo, oltre alla sensazione di adempimento e gloria che ogni soldato divideva con gli altri lottando per l'avanzata della Crociata Nera contro le forze dell'oppressione e della tirannia che si opponevano all'unica vera fede. Altri applausi ed ovazioni. Alla fine anche Kane si sedette, decisamente assetato. Musici e ballerine ricomparvero sulla scena, mentre i convitati si apprestavano a continuare le loro libagioni e le loro baldorie. Jarvo aspettava impazientemente nell'ombra. Per un attimo pensò che con un assalto suicida avrebbe potuto assassinare il Profeta e Kane, salvando così moltissime vite innocenti... ammesso che l'assalto avesse avuto successo. Ma in quel modo non avrebbe mai conquistato Esketra. Esketra. Le piume bianche e nere della maschera da falco le incorniciavano il viso, evidenziando il becco acuto e ricurvo che copriva il naso nobile della donna. Dietro i ciuffi di piume i suoi occhi grigi vagavano instancabilmente per tutta la sala, frugando ovunque senza vedere nulla. I capelli neri come l'ebano contrastavano con il pallore dei suoi lineamenti perfetti. Fredda e distaccata, appariva desiderabile come il bacio di un'ultima alba. Giocherellava con un piatto di cacciagione, stritolando tra i denti gli ossicini dei piccoli volatili. I minuti passavano senza sosta. Rendendosi conto di non dover attirare l'attenzione su di sé, Jarvo beveva moderatamente, dialogando con altri convitati. Il banchetto cominciava ad assumere un aspetto concitato che lasciava presagire una lunga notte di sfrenatezze. Alcuni ospiti avevano abbandonato il loro posto e si aggiravano tra i tavoli conversando tra loro in piccoli gruppi, mentre i servitori si affrettavano a togliere di mezzo i tavoli vuoti. Contigua alla sala da pranzo, si apriva una vasta sala adibita al ballo e gran parte degli invitati erano confluiti in quel nuovo spazio. I musicisti suonavano strumenti a corde e flauti e tamburi, e parecchie coppie avevano cominciato a ballare. Molti altri ospiti erano però rimasti nella sala principale per raccogliere gli avanzi del banchetto e continuare a bere. Un gruppo di ufficiali di cavalleria requisì alcuni musicisti affinché cantassero ad
alta voce "Gioiosamente Marciano Incontro Alla Morte", accompagnandoli con i bicchieri battuti sul tavolo. Anche Kane era rimasto e stava cantando e bevendo con gli altri. Nella confusione generale, Orted era scomparso... a Jarvo era sembrato che fosse stato trascinato via da una biondina con una maschera da picchio. Esketra si era fatta accompagnare nella sala da ballo al braccio di un ufficiale con una maschera da diavolo, e Jarvo l'aveva seguita a distanza. I due si erano uniti agli altri nelle danze e Jarvo era stato costretto ad attendere ai bordi della sala per conservare una parvenza di cordialità con gli altri ospiti mascherati. Era una vera tortura essere tanto vicino ad Esketra e non poter far nulla mentre danzava tra le braccia di uno dei suoi aguzzini. Il generale si chiese quante altre delle donne che erano in sala appartenessero al serraglio del Profeta. Esketra indossava una lunga gonna d'argento e garza grigia che le lasciava scoperto il ventre, e un corpetto attillato dello stesso materiale tagliato proprio al di sotto del seno. La sua carne nuda balenava nel vortice della danza e Jarvo si sentiva afferrare da un impeto di furia ogni volta che un nuovo compagno la prendeva tra le braccia. Molto presto - se la fortuna l'avesse aiutato - Esketra sarebbe stata libera. I suoi rapitori avrebbero fatto i conti con lui. Sebbene fosse possibile farsi strada fino alla donna e chiederle di ballare, Jarvo pensò che non fosse prudente. Lo stupore di lei avrebbe potuto tradirli. Era molto meglio avvicinarla in privato. Rimase in attesa, e alla fine la sua pazienza venne premiata. La notte era ormai inoltrata e moltissimi invitati se n'erano già andati. Nella grande sala i musicisti erano esausti. Parecchi invitati russavano negli angoli, oppure stesi sui tavoli. Nella sala da ballo le coppie si erano via via diradate per proseguire l'intrattenimento in modo più privato. I servitori avevano abbandonato i signori al loro torpore e quasi tutti gli attori avevano lasciato la sala da un pezzo. Esketra, respingendo bruscamente il suo ultimo compagno di danze, si guardò attorno nella sala. Sembrava irritata da qualcosa. Con passo malfermo si allontanò dalla sala da ballo facendosi largo tra gli ultimi convitati rimasti. Jarvo la seguì. La donna passò accanto alle varie coppie disperse e agli ubriachi in coma che si erano ritirati nei corridoi adiacenti la sala principale. Sembrava avere in mente una precisa destinazione. Jarvo attese che non vi fossero in vista altri ospiti, poi la chiamò a bassa
voce: «Esketra!» Lei si girò di scatto, mentre stava salendo una scalinata che conduceva ai piani superiori. Aveva le labbra di un rosso profondo e il viso pallido, ma la maschera da falco ne nascondeva l'espressione. Soppresse a stento la rabbia, con voce gelida. «Che cosa c'è?» «Esketra!» ripeté Jarvo stupito, avvicinandosi in fretta. Gli occhi della donna erano gelidi sotto la maschera. «Cosa volete da me?» «Esketra! Non mi riconosci?» «Siete mascherato, buffone. E lasciatemi aggiungere che considero la vostra maschera piuttosto di cattivo gusto.» «Mascherato?» «Certo, sciocco. Toglietela se volete parlarmi... oppure tornatevene alla vostra botte di vino.» Jarvo esitò, cercando le parole adatte. Con dita impazienti, Esketra strappò dal viso dell'altro la maschera di cera che imitava le fattezze di Jarvo. «Esketra!» mormorò lui facendo un passo in avanti. Lei indietreggiò. «Dannato ubriacone! Ne avevate due di queste maschere insulse!» «Non ho nessuna maschera, Esketra.» «Oh!» La donna si portò una mano tremante alla bocca. «Oh, no!» «Sono venuto a portarti via, Esketra!» «Tu sei morto, Jarvo.» Lui rise, comprendendo la sua repulsione. «Questo è stato l'errore maggiore di Kane, mia adorata. Sono sopravvissuto alla battaglia e mi sono nascosto nella fanghiglia. Due amiche mi hanno aiutato a riprendermi e mi hanno portato con loro a Ingoldi. Da molte settimane vivo con loro alla Corporazione del Teatro, preparando piani per liberarti da qui.» Esketra lo guardò fissamente. La sua carne non rispondeva all'abbraccio di lui. Jarvo sentì un brivido nella donna e comprese lo stupore di lei nel vederlo all'improvviso nel cuore della fortezza dei suoi rapitori. «Liberarmi da qui?» chiese lei a bassa voce. «Certo!» Jarvo si guardò attorno, soffocando l'emozione. Nessuno in vista. «Questa notte stessa. Mezza fortezza dorme e il resto è in preda all'alcool. Puoi indossare un mantello e sgusciare sotto gli occhi delle guardie rimaste. Centinaia di ospiti se ne sono già andati a casa barcollando. Non
saremo diversi dagli altri.» Lei lo guardò di nuovo, poi annuì lentamente. «Ma certo, naturalmente. Sei venuto a liberarmi.» «Fra un'ora saremo fuori!» esultò Jarvo, rinviando al domani il problema di come uscire da Shapeli. Per il momento l'importante era uscire da Ceddi. «Naturalmente» mormorò Esketra. «Ma mi servono altri abiti, e un'altra maschera. Aspettami qui, le mie stanze sono vicine. Andrò a prendere ciò che mi serve.» «Vengo con te.» Lei lo respinse. «È troppo pericoloso! Se ti vedesse qualcuno, potrebbe sospettare. Resta qui. Tornerò in un attimo.» «Ma se...» «Fai come ti dico! Aspettami qui! Vuoi sprecare questa occasione unica?» «No, certo! Aspetterò. Ma fai presto!» «Sarà questione di un attimo» promise lei, lanciandogli un bacio mentre si affrettava lungo la scalinata. «Non muoverti di qui.» Jarvo aspettò finché i passi di lei si allontanarono... poi l'agonia dell'attesa annientò la sua momentanea beatitudine, allungando ogni secondo in un'ora penosa. Cominciò a passeggiare guardingo lungo il corridoio. Si trovava nel cuore di Ceddi, probabilmente poco lontano dagli alloggi del Profeta. Nessuno avrebbe osato avventurarsi fin là... ma questo rendeva la sua presenza decisamente sospetta. Imprecò in silenzio, guardandosi attorno in cerca di un nascondiglio. "Cosa starà trattenendola?" Impossibile calcolare da quanto se n'era andata. Quanto tempo era trascorso? Quanto ancora ne sarebbe passato? Un pensiero lo sconvolse... l'immagine di Esketra che entrava nella sua camera e trovava Orted Ak-Ceddi ubriaco. Jarvo vide il Profeta stringersi al petto la ragazza recalcitrante e forzarla ai suoi voleri... mentre lui passeggiava attorno come uno sciocco! Era un pensiero insostenibile. Jarvo cominciò furtivamente a salire la scala lungo la quale era scomparsa Esketra. La scala portava ad un piano superiore dal quale si dipartivano corridoi in ogni direzione. A intervalli regolari si aprivano sui corridoi numerose porte... come aveva sospettato, doveva trattarsi degli alloggi dei padroni di Ceddi. Si fermò per un istante, indeciso, imprecando contro se stesso. Non c'era
modo di sapere dove fosse andata Esketra. Se si fosse mosso alla cieca avrebbe potuto perdersi e mancare all'appuntamento. Fece per tornare indietro. No, era arrivato fin là per un buon motivo; avrebbe rischiato ancora senza allontanarsi troppo dalla scalinata. Aveva fatto solo pochi passi, quando le sue orecchie tese intercettarono un suono metallico che ben conosceva. Alcune guardie stavano percorrendo il corridoio. Jarvo si guardò attorno terrorizzato. Non c'era tempo per scappare e la sua presenza avrebbe sicuramente destato dei sospetti. Provò la prima porta sottomano. Era aperta. Jarvo la spinse e scivolò all'interno nel buio... proprio mentre un gruppo di guardie si immetteva nel corridoio da dietro un angolo. Jarvo lasciò la porta accostata e rimase in attesa che il gruppo passasse. Gli giunsero alcune voci. «Fate piano. Lo prenderemo prima che possa fuggire.» Era stato Orted Ak-Ceddi a parlare. Ma come... «Oh, quello sciocco non fuggirà certamente. Gli ho fatto promettere di non muoversi.» «Mi sembra impossibile che Jarvo se ne sia rimasto nascosto per tutto questo tempo!» borbottò il Profeta. «Ha detto di essere stato aiutato dalla Corporazione del Teatro» ridacchiò Esketra. «Quello che è incredibile è che pensava di liberarmi. L'amante del più potente e ricco signore del mondo... e quello sciocco voleva salvarmi dal mio destino!» «Se lo prenderemo vivo glielo spiegherai direttamente» rise il Profeta. «Fate piano, adesso!» XXI ... e lei sembra ormai sazia Davanti alla porta sfilarono una dozzina di guardie... radunate in fretta dopo che Esketra si era precipitata nella camera dove si trovavano Orted e la sua bionda compagna di banchetto. Il Profeta, che si aspettava una scenata di gelosia dalla sua amante, non lasciò che la sorpresa rallentasse le sue reazioni all'incredibile notizia. Il mondo sembrò crollare addosso a Jarvo. Per un intervallo di tempo non calcolabile, rimase paralizzato e con il cuore e il fiato sospesi e la mente stordita. Se qualcuno l'avesse scoperto in quel momento avrebbe po-
tuto tagliarlo a pezzi senza la minima reazione. E in un certo senso, fu proprio quel suo congelarsi a salvargli la vita... perché se non fosse stato paralizzato dallo stupore non avrebbe esitato ad uscire dal nascondiglio per lanciarsi alla gola di Esketra. Gli uomini gli passarono accanto senza sospettare della sua presenza. Un'anima in agonia non poteva urlare, e quando Jarvo scivolò a terra lungo la parete con le mani al viso si udì solo un debole sfregare. Tutte le sue speranze ed ambizioni, tutte le sciocche illusioni che l'avevano sorretto fino a quel momento erano crollate in un attimo. Per un istante la sua mente fu sull'orlo della pazzia. Poi venne la rabbia. Muoia il cuore. Muoia l'anima; muoia il cervello. Niente vita. Niente amore. Solo odio. Jarvo non ricordò mai come uscì da Ceddi. Un cieco potrebbe vagare in una città in fiamme senza la minima ustione. Uno sciocco ubriaco potrebbe ridere in un fossato, mentre migliaia di uomini combattono a morte. Le guardie non potevano accorgersi di un fantasma. Jarvo si allontanò indisturbato da Ceddi tra le grida d'allarme di chi lo cercava. Passò barcollando accato a soldati ubriachi e a invitati intontiti, troppo presi dagli effetti dei bagordi per afferrare il significato dei rintocchi stridenti della campana d'allarme. Un istinto animale guidava il fuggiasco alla larga da chi poteva sbarrargli il passo. Un pagliaccio dal viso troppo grottesco per essere reale. Troppo ebbro e spensierato per provocare più di un motteggio ilare. Jarvo girovagò lungo i corridoi deserti, accanto a guardie addormentate e danzatrici che barcollavano qua e là, sfiorò soldati che annaspavano nel buio e sacerdoti accecati dalla frenesia. In breve l'allarme percorse tutta la ragnatela di corridoi della fortezza, ma nella confusione nessuno si accorse dell'uomo dall'aspetto cadaverico che si aggirava barcollando con una maschera da demonio sul volto. Ad un tratto, si ritrovò davanti ad un cancello. Era aperto. Jarvo l'attraversò, sgusciando nella notte... senza neppure immaginare che le guardie che dovevano sbarrargli la strada giacevano in pozze scarlatte con gli occhi vitrei. I morti non sfidavano i morti. Jarvo vagò nell'oscurità, senza accorgersi di nessuno e senza che nessu-
no si accorgesse di lui. Attorno a lui danzavano urlando le divinità della guerra. Molti cavalieri gli sfilarono accanto al galoppo. Uomini armati percorrevano le strade di corsa. Le urla acute che laceravano il silenzio non raggiungevano però il suo cervello annebbiato. Jarvo non sapeva e non si preoccupava che quella notte a Ingoldi la morte tenesse le sue orge sanguinose. La sua anima era morta, ma dalle ceneri si era levata la furia. Non fu l'istinto di conservazione a guidare i suoi passi, perché anche la volontà di vivere era morta. Fu la rabbia ad animare il suo corpo febbricitante, mentre dalle ceneri della sua anima si accendeva la fiamma della vendetta. Girovagò per le strade terrorizzate di Ingoldi, senza accorgersi di quanto accadeva nelle ore fredde che precedevano l'alba. La febbre lo attanagliò sempre più, mentre lentamente il torpore se ne andava. Il dolore aumentava, ma la rabbia gli faceva dimenticare ogni altra sensazione. Era come un uomo che avesse ricevuto una ferita mortale e non provasse che il desiderio di uccidere il proprio assassino. Camminando lungo le ombre delle mura di Ceddi si ritrovò di fronte una massa più grande e più scura. Era la Torre di Yslsl. La porta era spalancata. Jarvo entrò nell'oscurità silenziosa della torre. Senza convinzione salì la scala che si ergeva nel buio. Giunse in cima. Reso cieco dalla febbre e la rabbia, Jarvo si fermò sulla piattaforma, fissando il disco di pietra nera che brillava contro la parete opaca. Ebbe un attimo di lucidità. "Cosa mi ha trascinato fin qui?" Quello non era posto in cui cercare rifugio. Il disco attirò la sua attenzione confusa. In un impeto di furia, vide che si trattava di una soglia dietro la quale si celava qualcosa in attesa, qualcosa che lo invitava ad aprire quella porta. Qualcosa che avvertiva l'insopportabile dolore della sua anima. Qualcosa che aveva fame di quel dolore... Jarvo indietreggiò per allontanarsi da quella pietra gelida. Con i talloni sentì il bordo della piattaforma. Tentò di gettarsi in avanti, mentre i piedi mancavano la presa e le gambe scivolavano lungo il bordo di pietra. Per un istante le sue mani si aggrapparono alla pietra levigata della piattaforma, mentre le gambe scalciavano nel vuoto. Poi, strisciando e scalciando, riuscì ad arrampicarsi di nuovo sul piano. Rimase steso a lungo, troppo intontito dalla febbre e dallo spavento per potersi alzare in piedi. La vicinanza della morte diede un taglio netto allo stato di trance che gli ottenebrava il cervello. La paura di cadere, l'istintiva paura che ogni neonato conosce prima ancora di respirare lo riportò alla
conoscenza, richiamandolo dagli abissi della pazzia. Quando alla fine si riprese completamente dallo stordimento, le luci dell'alba coloravano di grigio il cerchio sopra di lui. Jarvo si rialzò come se si fosse svegliato dal sonno dell'oppio... ripensando alle scene che aveva visto, fantasticando sui vuoti di memoria, incapace di riconoscere il sogno dalla realtà. Si sfregò il viso, sforzandosi di fare il punto della situazione. Era nella Torre di Yslsl. Non c'era da meravigliarsi che nessuno fosse salito fin lassù mentre era rimasto disteso. Ricordò la strana illusione che aveva avuto vedendo il disco di pietra. Un incubo creato dalla febbre e dal dolore. Ma il resto della sera non era stato un incubo. Di malavoglia, Jarvo ripercorse gli avvenimenti della notte precedente. Il ricordo del tradimento di Esketra era simile al dolore di un osso spezzato e riassestato. Un dolore ineluttabile. Jarvo imprecò. Ora avrebbero passato al setaccio la città per cercarlo. Grazie al suo terribile errore, Ingoldi era diventata per lui una trappola mortale. Non c'era altro da fare che fuggire... o affrontare la cattura e la morte. Nel rendersi conto del pericolo, provò un nuovo senso di panico. Aveva rivelato a Esketra dove era rimasto nascosto e chi l'aveva aiutato. La vendetta di Orted non si sarebbe limitata ad uno sciocco con una cicatrice sul viso... Scese precipitosamente la scala a chiocciola. La sua vita non aveva importanza... ma non doveva permettere che Erill dividesse la sua condanna. Avrebbe avuto tempo a sufficienza? Quanto a lungo era rimasto lassù? Il Profeta avrebbe colpito molto in fretta. Jarvo richiuse la pesante porta e si lanciò lungo le strade illuminate dall'alba. Non aveva percorso che pochi passi quando incontrò il primo cadavere. In silenzio osservò i morti... riconoscendo guardie del Profeta, Difensori di Sataki e di tanto in tanto qualche cavaliere abbattuto. Alcuni quartieri della città erano in preda alle fiamme, e la scia di morti conduceva verso la porta principale. Jarvo non era certo in grado di valutare la situazione... ma era evidente che la tensione tra Kane e Orted Ak-Ceddi aveva superato il punto di rottura. Si fermò il tempo necessario a spogliare un Difensore morto della divisa cremisi e dell'usbergo. Poi si legò un pezzo di stoffa insanguinato attorno
al viso, infilò l'elmo e si assicurò la spada alla vita. Solo pochi cittadini impauriti fecero capolino da dietro le porte e nessuno osò fermare un Difensore di Sataki che correva lungo le strade coperte di cadaveri. La Corporazione del Teatro non era molto lontana, e Jarvo capì subito che il fumo si levava proprio da quel quartiere. Svoltando attorno all'ultimo angolo, vide i carri rovesciati e distrutti. Una folla di curiosi si era radunata attorno ai resti fumanti. Jarvo si sentì congelare le budella. Un gruppetto di bambini scorrazzava intorno alle macerie. «Che cosa è successo qui?» chiese Jarvo. «Non lo sapete?» si meravigliò una ragazzina. «Durante la notte hanno fatto incursione in un covo di nuucii. Poi il generale Kane è uscito dalla città, senza che nessuno sia riuscito a fermarlo.» «Si è salvato qualche nuucii?» mormorò Jarvo... poi osservò la ragazzina. «Naturalmente no» rispose lei, tentando di aggiustarsi la fascia di perle di giada attorno alla fronte. XXII Scorra il sangue Nonostante Kane avesse preparato da giorni gli avvenimenti di quella notte, la presenza inaspettata di Jarvo aveva gettato nel caos tutti i suoi piani. La difficile alleanza tra Kane e Orted Ak-Ceddi poteva sfociare solo nella morte di uno o dell'altro. Entrambi comprendevano la situazione; ognuno aveva la sua idea personale su chi dovesse morire. Fino a quel momento si era mantenuto un equilibrio potenzialmente esplosivo unicamente per due motivi. Orted non osava eliminare Kane perché da lui dipendevano le continue vittorie della Spada di Sataki. Gli ufficiali di Kane e la maggioranza della cavalleria mercenaria erano fedeli al generale. Fino a quando il Profeta non fosse riuscito a rimpiazzare gli uomini di Kane con un certo numero di suoi seguaci, ogni mossa contro il generale avrebbe significato rischiare una rivolta disastrosa. Kane, d'altra parte, era riluttante ad attaccare apertamente Orted fino a quando non avesse compreso la natura dei poteri magici del Profeta. All'inizio aveva sottovalutato l'ex fuorilegge, considerandolo solo un avido opportunista o un fanatico religioso. Ad ogni modo il progetto del generale
era stato quello di convincere il Profeta a finanziare un esercito ai suoi ordini e, al momento opportuno, mandarlo a ricevere la meritata ricompensa all'altro mondo. Tuttavia, sembrava esserci un fattore sconosciuto. Orted Ak-Ceddi non era solo un imbroglione. Kane aveva bisogno di saperne di più... ma le continue e crescenti interferenze del Profeta gli stavano forzando la mano. Aveva colpito per primo per rompere la situazione di stallo. Aveva conquistato metà dei regni meridionali, e prima o poi avrebbe finito per conquistare anche gli altri. Oltre a Shapeli, più di un terzo del Gran Continente Settentrionale poteva essere sotto il suo dominio. Poi, col tempo, sarebbero cadute le antiche province e i regni dell'Impero Serranthoniano. Quindi il resto del continente... Ma per il momento, l'esercito di Kane non era ancora abbastanza forte. Gli servivano altri uomini e armi, e tempo per consolidare le proprie vittorie. Orted, invece, continuava a fargli pressioni perché conquistasse immediatamente altri regni e portasse nuovi fedeli a Shapeli. La seconda richiesta era addirittura incomprensibile; la prima significava rischiare una disfatta militare. Kane allora aveva colpito. Doveva essere un vero e proprio colpo di stato. Durante la notte del grande banchetto, una cortigiana pagata da Kane doveva convincere Orted ad abbandonare i festeggiamenti. Poi, ad ora inoltrata e quando la fortezza fosse stata sprofondata nel torpore, gli assassini prezzolati di Kane avrebbero fatto irruzione nella camera del Profeta intontito dalle libagioni e dalle droghe. Forse il corpo del Profeta era a prova d'acciaio, ma gli assassini di Kane non sarebbero certo stati a corto di fantasia... Esketra, colta da gelosia quando Orted si era dileguato dalla festa, si stava già recando nelle sue camere quando Jarvo l'aveva avvicinata. La donna era corsa dal Profeta, proprio mentre i sicari stavano liquidando le guardie ad un ingresso secondario della fortezza. Quando quelli erano giunti nella stanza del Profeta, l'avevano trovata vuota. Orted stava dando la caccia a Jarvo con un manipolo di guardie. Kane, rimasto nella sala principale con un gruppo di suoi fedeli, fraintese l'improvviso allarme e la comparsa delle guardie armate. Immaginando che il complotto fosse stato sventato e che il Profeta tentasse di intrappolarlo all'interno di Ceddi, era scattato insieme ai suoi uomini. In pochi istanti l'equilibrio instabile della situazione si era trasformato in uno scontro
aperto. In una bolgia selvaggia, Kane si era aperto la strada fuori da Ceddi e dalla città. Ne erano derivati combattimenti feroci lungo le strade poiché Orted, reagendo prontamente all'attacco lungamente atteso, aveva tentato di imbottigliare Kane all'interno di Ingoldi, isolandolo così dal grosso del suo esercito. Ma quella notte nessuno avrebbe potuto imbottigliare Kane. All'alba, una scia di Sataki morti segnava il suo passaggio lungo le strade della città, e il suo accampamento fuori delle mura era completamente deserto. Kane osservò il corpo esanime steso sulla branda. Alzò gli occhi verso Dolnes con un grugnito. «È ancora viva... Te lo garantisco. Ma cos'è successo?» Il suo uomo di fiducia si staccò una crosta fresca dalla fronte sporca. Fuori dalla tenda del generale echeggiavano i rumori degli uomini e dei cavalli accampati. Ingoldi era a più di un giorno di galoppo e per raggiungere il campo Dolnes aveva dovuto impegnarsi duramente. «Non lo so con precisione. Quando siamo andati a prenderla, la folla stava buttando all'aria il quartiere. Evidentemente i Difensori di Sataki erano arrivati prima di noi... qualcuno aveva denunciato un rifugio di nuucii. Non era rimasto molto.» «Lo vedo bene» commentò amaramente Kane. «Non potevamo prevederlo» protestò Dolnes. «Siamo già stati abbastanza fortunati a trovarla ancora viva. Quando hanno finito con lei, l'hanno lasciata inchiodata alla fiancata del carro. La gente non voleva che la tirassimo giù e abbiamo dovuto farne fuori qualcuno per andarcene. In quel momento, alla porta principale era scoppiato l'inferno. Vi abbiamo seguito e ce l'abbiamo fatta per un pelo. Credo che nemmeno la galoppata per raggiungervi le abbia giovato molto.» Kane scrutò da vicino il viso escoriato della ragazza. «Che mi venga un colpo» mormorò. «Povera piccola, avresti fatto meglio a gettarti una di quelle notti.» «Come?» «Non importa. Fatti pagare dal colonnello Alain. Ma prima mandami nella tenda i chirurghi. Dopo tutto il tuo oro te lo sei guadagnato.» XXIII Oltre la soglia
Se vivere era una bella cosa, Erill decise di essere fortunata ad essere ancora viva. Come rivivendo un incubo, ricordò l'attacco dei Difensori di Sataki, le grida strazianti nella notte, le porte abbattute, i carri rovesciati e il terrore cieco che aveva provato quando era stata afferrata da mani brutali. Le ondate incessanti di dolore... Alcune visioni indimenticabili le apparivano davanti agli occhi durante le pause dell'agonia e del terrore. Boree, con in mano la scure insanguinata, travolta dà un gruppo di soldati armati. I suoi amici abbattuti senza neppure conoscere il motivo della loro morte. Un susseguirsi interminabile di facce che sghignazzavano, grugnivano, insultavano. Il dolore che le mordeva la carne. L'incredulità, quando aveva visto i chiodi premuti contro il suo corpo immobilizzato e la mazza che calava inesorabile. Nella confusione di voci deliranti, Erill aveva capito. Jarvo aveva trovato Esketra e la donna l'aveva tradito. Jarvo era prigioniero a Ceddi e lei era appesa a chiodi d'acciaio. Non ricordò di essere stata cosciente quando gli uomini di Kane l'avevano tirata giù, trascinandola via dalla folla inferocita. Il vento del mattino proveniente dal mare soffiò gelido sul suo viso mentre le onde dello Stretto Meridionale le lambivano i piedi nudi. Erill si guardò le cicatrici ai piedi che stavano rimarginandosi. Un mese prima non avrebbe potuto camminare, a causa delle ferite aperte e delle ossa spezzate. Osservò i palmi delle mani forati, ricordando come per molti giorni era stata impossibilitata a cibarsi da sola. Anche il dolore e il ricordo sarebbero scomparsi, col tempo. Erill pensò di essere in grado di sopportare qualsiasi prova. Guardò verso il mare. Al di là delle sue acque si stendeva il Gran Continente Meridionale; bastava attraversare lo Stretto Meridionale. Là, riposavano le rovine della favolosa Carsultyal... la prima grande città dell'umanità. Kane gliene aveva parlato spesso. La sua spada era stata forgiata in quella città, molti secoli addietro. Certe spade antiche valevano più del loro peso in oro, perché dalla caduta di Carsultyal non ne erano più state create di uguali. Sarebbe stato bello visitare quella città, perdersi addirittura nelle distese gelide di Herratlonai, il deserto a sud-est di Carsultyal di cui Kane le aveva raccontato. Non c'era più nulla di vivente, nulla in assoluto. Quelle lande battute dal vento non avevano mai sentito parlare della Crociata Nera. Forse Kane l'avrebbe lasciata andare. E perché no? Erill aveva smesso di tentare di indovinare le motivazioni del generale.
Si era risvegliata nella tenda di lui, curata e bendata dietro suo ordine. Era rimasta priva di conoscenza per parecchi giorni... perduta in una specie di sogno creato dal delirio e dal laudano che Kane le faceva ingurgitare. Mentre era rimasta in coma su un carro, si erano spostati di parecchie miglia. Lungo il percorso c'erano stati combattimenti feroci, ma questo Erill l'aveva saputo solo in seguito. La Spada di Sataki era stata incrinata dalla ribellione quando Kane aveva raccolto attorno a sé tutti coloro che non volevano continuare a seguire un pazzo. Per il momento era come se Kane reggesse per l'elsa una spada spezzata... visto che i suoi mercenari erano molto più numerosi della parte arruolatasi per fede religiosa. Quando Erill si era ristabilita abbastanza per rendersi conto di ciò che la circondava, Kane era provvisoriamente accampato a Intantemri, una delle roccaforti dei regni meridionali che aveva conquistato prima della rottura con i Sataki. Si era risvegliata sotto gli occhi di Kane. Il generale era seduto sulla branda di fianco a lei e la fissava con due occhi azzurri e gelidi che sembravano ancora far parte dell'incubo. Non era stato un risveglio piacevole. Erill richiuse gli occhi aspettando che il sogno finisse. «Sei sveglia, ora» le aveva detto Kane. Era sveglia. Nelle parole del generale c'era stata una forza capace di sollevarla dal torpore, come due mani poderose che sollevassero un bimbo in procinto di annegare in una vasca di ebano. Erill aveva riaperto gli occhi, guardandosi attorno senza capire, senza collegare quel mondo al mondo del dolore e del terrore della folla. Quella consapevolezza sarebbe giunta in seguito, quando le ferite si fossero rimarginate. «Voglio che tu risponda alle mie domande» aveva detto Kane. Se lui chiedeva, doveva rispondere. La sua volontà era ancora persa nella vasca di ebano. «Una volta sei stata in una città di nome Gillera» aveva mormorato il generale. Ecco un altro dolore. Un'altra cicatrice. «Era notte» aveva proseguito lui. «I Sataki avevano circondato la città.» Erill aveva singhiozzato, cercando di distogliere gli occhi dallo sguardo di Kane ma non c'era riuscita. «Voglio che tu mi dica tutto ciò che è successo quella notte.» «No» aveva risposto lei. «Dimmi cos'è successo!»
«No!» «Erill, tu devi dirmelo.» Gli occhi di Kane si erano impadroniti della sua volontà, e sebbene la ragazza non avesse gridato quando la mazza le aveva spinto i chiodi nella carne, lo fece ora. Ma gli occhi di Kane le avevano ordinato di parlare e alla fine lei aveva finito per cedere. Perfino ora, quella notte terribile la raggelava più del ricordo della sua crocifissione. Erill guardò di nuovo verso il mare. Dopo essersi sfilata la gonna e il corpetto, appoggiò con cura gli indumenti sulla sabbia asciutta e si tuffò nell'acqua tiepida. Il mare era limpido. Le sue onde la trasportavano senza sforzo, il suo respiro salmastro rendeva pungenti i suoi baci, il suo pulsare era il battito del cuore di lei. Erill amava il mare. Kane l'aveva avvertita dei pescicani, delle correnti mortali. Erill amava il mare, e non si preoccupava. Lui era un uomo strano. Erill lo conosceva poco. Perfino a Ingoldi non si parlava mai del passato di Kane... c'era da stupirsene, nel caso di una persona tanto in vista. Per tutto il periodo della sua guarigione aveva chiesto di lui. Certi avevano detto una cosa, altri una diversa; nessuno aveva avuto molto da rispondere. Kane era un buon generale. Lo seguivano volentieri. A un soldato doveva bastare. Kane era un mistero. Quel mistero incuriosì sempre più Erill durante i lunghi mesi di battaglie e intrighi, attacchi e ritirate. Lei sospettava che se gliel'avesse chiesto, Kane le avrebbe risposto a proposito del suo passato. Fu proprio per quello che non glielo chiese mai. «Perché mi tieni con te?» gli aveva detto una volta. «Non ti tengo. Va' pure dove vuoi.» «Non ci sono posti in cui andare.» «E allora resta.» Ma non era l'inerzia che l'aveva fatta restare con Kane. Erill sentiva di cavalcare nell'occhio del ciclone, e che attorno a lei le guerre della Crociata Nera e gli orrori del mondo delle ombre annientavano tutto ciò che si opponeva loro. «Dove si può trovare rifugio, Kane?» gli aveva chiesto una notte, ispirata dai fumi dell'hashish. «In questo mondo non c'è rifugio» le aveva detto lui. «E in un altro?» «Non posso dirlo. Conosco solo questo. Tuttavia penso che in un altro
debba essere lo stesso.» Lei aveva tirato una boccata di fumo. «E allora cercherò rifugio nei sogni.» «Non cercare rifugio nei sogni. Non esistono.» «Gli incubi però esistono» aveva risposto lei amaramente. «Si può trovare rifugio in un incubo?» «Si può conquistare un incubo.» «Quando non è lui a conquistarti.» Erill tornò a nuoto sulla spiaggia, lasciando che il vento e il sole le asciugassero il corpo. Il mare, notò, le aveva lasciato un leggero strato di sale sulla pelle. Si rivestì e tornò dove Kane scavava nella sabbia. «Perché mi hai fatto cercare?» gli aveva chiesto un'altra volta. «Sei un frammento del rompicapo che sto cercando di risolvere.» «Un frammento?» «Tu eri a conoscenza dell'Incantesimo delle Ombre dei Sataki.» «Non sapevo nulla di quella magia.» «Ma mi hai detto abbastanza.» «Ci sono altri frammenti?» «C'erano. È un rompicapo molto difficile. La mia prima ipotesi era sbagliata. Si è trattato di un errore costoso. Dovevo acquisire il massimo di conoscenza per recuperare il controllo.» «Ed ora hai risolto il tuo rompicapo?» «Sì.» «E hai recuperato il controllo?» «Lo farò.» «Puoi spiegarti?» gli aveva chiesto Erill un'altra notte, mentre il vento della savana scuoteva la tenda. «Forse» aveva risposto Kane. «Ricordi quando mi hai chiesto della Tana di Yslsl?» «Pensavo mi avessi preso in giro.» Kane rise in tono sarcastico. «Avevi detto che il mondo era una stanza di un castello enorme, e che Yslsl aspettava dietro una porta dalla quale non sapeva passare, al contrario di noi.» «Abbastanza bene» aveva annuito Kane. «L'allegoria è piuttosto semplice, ma funziona.» «Ma che cosa c'entra Yslsl con Orted Ak-Ceddi?» «Ricorda che il castello è enorme, forse addirittura senza fine. Ci sono
molte altre stanze. Certi esseri - chiamiamoli dèi, oppure demoni, per convenienza - vivono in alcune di queste camere. Uno di quegli esseri è Yslsl. Un altro è Sataki.» Kane aveva poi aggrottato la fronte, come se non fosse stato del tutto soddisfatto della metafora. Aveva mormorato qualcosa in una lingua sconosciuta, poi aveva continuato. «Ci sono molte altre porte come quella della Torre di Yslsl. Le leggi che governano le porte variano, proprio come gli esseri che vi abitano possono essere diversi sotto molti aspetti. Una delle chiavi della magia è la capacità di aprire alcune di quelle porte e controllare e comandare gli esseri che vi stanno dietro. Questa capacità, usata opportunamente, può condurre a un potere enorme; un solo passo falso può significare la fine.» «Come i demoni e i cerchi magici» aveva aggiunto Erill. «Brava! In questo caso la tua idea del mago e del pentacolo è abbastanza valida, anche se generalmente un mago evoca un essere che ha pochi interessi in ciò che accade nella stanza che noi chiamiamo universo. Ricorda che il castello è grandissimo. Molti dei suoi abitanti non conoscono o non si preoccupano delle nostre piccole stanze. Altri guardano affamati il nostro mondo, rendendo il più accessibile che possono la porta che li separa da noi. I posti sulla terra dove si aprono tali porte diventano presto stregati ed evitati dai prudenti.» «Come la Torre di Yslsl...» «E l'altare di Sataki sotto Ceddi... Ceddi significa altare nell'Antica Lingua.» Kane si interruppe, scrollando le spalle. «Nei sotterranei di Ceddi si trova l'Altare di Sataki. Il simbolo di Sataki ne è una raffigurazione. È anch'esso una porta, come il disco di pietra nera in cima alla Torre di Yslsl. I sacerdoti di Sataki ne hanno imparato i segreti molti secoli fa. Dopo averlo dissotterrato vi hanno costruito sopra un culto degenerato.» «Ma chi costruisce queste porte?» «I che'eyl'rhy... le creature stesse» spiegò Kane. «O almeno, questo è ciò che penso io. Si tratta di strutture simili a ragnatele... ma molto più complicate. Trappole elaborate per catturare prede inconsapevoli. «Non si sa più molto di loro. Io penso che Yslsl e Sataki siano entità simili tra loro... e che le condizioni della regione di Shapeli fossero adatte a far sì che le due porte si aprissero simultaneamente, più o meno come certe regioni sono soggette ad eruzioni vulcaniche mentre altre non lo sono. La differenza principale è che Yslsl non ha avuto bisogno di fedeli per mantenere in vita il proprio cerimoniale. Tutto il contrario di Sataki, anche se il
suo culto non è mai stato molto importante.» «Finché Orted non l'ha abbracciato» aveva mormorato Erill. «Proprio così» aveva annuito Kane. «E qui comincia il rompicapo.» Era rimasto in silenzio per qualche istante, ascoltando la voce del vento. «È allora che mi sono sbagliato. Conoscevo la reputazione di Orted, e vista la potenza della Crociata Nera avevo pensato che ne usasse l'aspetto religioso per costruirsi un impero personale. «Mi sbagliavo. Orted Ak-Ceddi è esattamente ciò che i sacerdoti dicono di lui. È un uomo nel cui corpo si è incarnato un dio... oppure, se preferisci, è un uomo posseduto da un demonio.» Erill ricordò di aver tremato a quelle parole. Tremò anche ora, solo a ripensarci, sebbene il vento fosse caldo e il mare le si fosse asciugato sulla pelle. Si arrampicò sulla duna e guardò giù, dove Kane e i suoi uomini stavano scavando tra le rovine di quella che un tempo era stata Ashertiri, distrutta durante le antiche guerre contro gli stregoni di Carsultyal. «I frammenti del rompicapo sono sparsi e difficili da rinvenire» le aveva detto Kane quella notte. «Molti di essi ho potuto ricostruirli solo per congetture; ma ora penso di averli tutti. «Il culto di Sataki stava morendo. Non era mai stato molto vitale, ma ora i suoi riti erano seguiti solo da una manciata di fanatici. I sacerdoti eseguivano sacrifici al dio, procurandosi vittime inconsapevoli e offrendole sull'Altare di Sataki e recitando le formule che aprivano la porta alla vittima condannata. «In qualche modo devono aver catturato Orted. Forse si era ferito durante l'incursione alla Fiera delle Corporazioni, altrimenti non l'avrebbero preso. Lo posero sull'altare, intonando i canti rituali. La porta si aprì. Solo che questa volta fu Sataki ad uscirne. «Non so come sia successo. In certe condizioni favorevoli si possono verificare simili rovesciamenti d'effetto. Forse una posizione inconsueta delle stelle; un'incrinatura temporanea nell'ordito del cosmo. La mia opinione è che Sataki fosse prossimo all'estinzione a causa della mancanza di fedeli e della carenza di sacrifici in suo onore... un leone rabbioso per la fame. Orted non era un uomo qualunque; un fisico potente, una personalità dinamica, intelligente, un capo con una forza di volontà straordinaria. Forse Sataki ha approfittato di qualche condizione bizzarra per uscire dalla porta... oppure l'anima di Orted è stata tanto forte da attrarre su se stessa il dio indebolito. «Il rovesciamento deve essere durato pochissimo. Poi la porta si è ri-
chiusa e solo una parte della forza vitale di Sataki è rimasta dalla nostra parte... intrappolata nel corpo di Orted Ak-Ceddi.» Kane sorrise. «Sataki ha rubato l'ombra di Orted, ma gli ha donato una carne che non può essere penetrata dal ferro. Mi meravigliavo della mancanza d'ombra del Profeta, ma non si tratta certo di un fenomeno raro nel campo del soprannaturale. I vampiri non proiettano ombre né riflessi... non è un incantesimo difficile. Un trucchetto per spaventare le masse, niente di speciale. E neppure la sbandierata invulnerabilità del Profeta mi spaventa. Se Orted non potesse essere ferito da nessuna arma, perché non dovrebbe guidare il suo esercito in battaglia? Un altro trucco, ho pensato... qualcosa che non si sente di mettere alla prova in un vero combattimento.» «Ma allora può essere ferito?» «Non dal ferro o dall'acciaio. Tuttavia subisce l'impatto dei colpi... me ne sono accorto spesso. I sicari che gli avevo mandato contro erano armati di lame d'argento, lance con la punta di legno e mazze di pietra. Se Orted non temesse alcuna arma, condurrebbe di certo il suo esercito contro di me.» «E invece manderà i suoi reggimenti di ombre assassine.» «No, se non mi lascerò intrappolare» aveva risposto Kane. «È stata quella la frusta che ha usato per ridurmi all'obbedienza... la minaccia del suo esercito di ombre. E quello è stato il frammento essenziale del rompicapo che mi hai fornito tu.» «Io?» «Prima che un atto di magia possa avere luogo bisogna che vengano rispettate e obbedite alcune leggi e procedure. Non si possono evocare demoni con un semplice cenno della mano, allo stesso modo in cui non si può uccidere un nemico solo chiedendogli di morire. A Gillera sei stata una pedina, ma quella notte la tua esperienza ha rivelato una parte dell'incantesimo. Altre pedine, altri testimoni mi hanno fornito ulteriori informazioni. Sapevo che la magia delle ombre di Sataki doveva avere qualche restrizione... altrimenti il Profeta avrebbe fatto a meno di un esercito per portare a compimento le sue conquiste. «Si tratta di una variazione del rito del sacrificio che evoca i servitori che vivono sulla soglia del regno di Sataki. Sono necessari il buio e una raffigurazione dell'Altare di Sataki. All'inizio i Sataki lo usavano solo per individui condannati a morte. Una volta punirono un mio emissario che aveva tradito Orted. Un sacerdote lo seguì fino a Sandotneri e lo colpì quando il povero diavolo si fece sorprendere dal buio.
«In seguito, il culto si rinforzò di nuovi adepti in grado di evocare l'incantesimo su una vasta area... ma a volte avevano bisogno di una pedina che piazzasse il simulacro dell'altare e levasse il canto finale quando nessun sacerdote poteva avvicinarsi tanto da eseguire il compito lui stesso. «Più cresceva il loro numero, più erano potenti. Il culmine fu quando il Profeta in persona condusse la sua orda di fedeli a distruggere Sandotneri... per vendetta e monito. Nonostante la mostruosità dell'esercito di ombre sguinzagliate per la città, l'azione non fu altro che l'estensione di massa dei riti sacrificali cantati da un cerchio di sacerdoti attorno all'Altare di Sataki.» Kane aveva continuato in tono trionfale. «Un terribile incantesimo, che funzionerebbe solo se fossi tanto disattento da lasciare che i Sataki lo eseguano. Ho preso le mie precauzioni. Nessun sicario o sacerdote mi può avvicinare durante la notte... e Orted sa che la mia cavalleria farebbe a pezzi qualsiasi orda declamante che tentasse di mandarmi incontro. Jarvo gli ha insegnato una lezione che i Sataki non dimenticheranno mai.» Gli occhi di Erill si erano oscurati nel sentire il nome di Jarvo. Kane se n'era accorto, ma non aveva fatto commenti. Sapeva che la ragazza gli aveva dato rifugio a Ingoldi ed ora aveva sentito che il suo vecchio avversario era riuscito a scappare durante il caos della rivolta e aveva raggiunto i territori ancora liberi dei regni meridionali, dove tentava di mettere in piedi un esercito da contrapporre a Orted e Kane. Kane non ce l'aveva con Erill per aver salvato la vita a Jarvo. Sentiva che la ragazza aveva avuto l'opportunità di meditare sul suo gesto mentre era stata appesa ai chiodi dalla folla. «Ed ora cosa farai?» gli aveva chiesto lei. «Aspetterò che la ribellione si estenda in tutta Shapeli... Orted non può affrontare il mio esercito nella savana. Ho eliminato ogni elemento della vecchia Spada di Sataki rimasto fedele al Profeta e ho il controllo delle province conquistate nei regni meridionali. Non posso permettere che Orted viva... è un avversario troppo pericoloso. Se la popolazione di Shapeli non si ribellerà, dovrò penetrare con la forza nella sua fortezza e fargliela crollare in testa. E non sarà facile.» «E Orted cosa farà?» «Avrà il suo da fare a controllare un popolo il cui zelo religioso si raffredderà presto senza la minaccia della Spada di Sataki. Orted ha rischiato molto insistendo affinché tutti i popoli conquistati fossero portati in Shapeli.»
«Se era un rischio, perché l'ha corso? Poteva delegare il comando a governi territoriali, come in ogni altro impero.» Kane aveva riso. «È stato l'errore che ho commesso anch'io, giudicando il Profeta. Avevo sempre pensato che la meta di Orted fosse un impero. Ma non era così. Era per quello che non riuscivo a prevedere le sue mosse.» «Ma allora qual è il suo scopo?» «I mezzi usati da Orted servivano a conseguire una meta, ma si è sempre trattato di una meta ambita solo da Sataki. Ha bisogno di milioni di anime di fedeli per portare a termine la sua evocazione finale. Mi chiedo quali altri adepti debba reclutare il Profeta per ottenere abbastanza potenza da aprire la porta di Sataki una volta per tutte... e permettergli di uscire completamente.» XXIV Sotto il mare di sabbia Kane scese nella fossa di sabbia, fino al livello dello scavo. «Eccolo!» urlò. «Fermi con quelle pale! Se rompete il sigillo moriremo tutti!» I suoi uomini si ritrassero mentre Kane si inginocchiava sul fondo dello scavo, cominciando a rimuovere la sabbia umidiccia con le dita. Stavano scavando tra le rovine di Ashertiri da almeno una settimana alla ricerca di pareti sepolte, come aveva detto Kane. Cosa cercasse, nessuno lo sapeva con precisione. Il giorno precedente era affiorato quello che sembrava un insieme di pietre verdi fuse tra loro. Kane aveva esultato, ordinando di continuare a scavare, e dopo ore di lavoro era emerso qualcosa che doveva essere stato una torre di ceramica color smeraldo, della quale tutto, tranne le fondamenta, era stato bruciato e semifuso da una forza incredibilmente potente. Dopo aver rimosso alcuni strati di terriccio, era apparso alla fine il pavimento sepolto del livello più basso. L'eccitazione di Kane era cresciuta quando le pale avevano scoperto una lastra di metallo esagonale al centro del pavimento. Le dita del generale avevano ripulito l'esagono di colore argenteo, largo poco più di due spade. Alcune incrinature appena visibili lo dividevano in sei sezioni triangolari, e al centro, dove i vertici convergevano, si trovava un sigillo che sembrava fuso in vetro scarlatto. «Lasciatemi solo, ora» disse Kane, osservando il sigillo. Il suo ordine fu
eseguito prontamente. Mentre gli altri si allontanavano, Erill raggiunse l'orlo della fossa spinta dalla curiosità. Si affacciò all'interno dello scavo appena in tempo per vedere le sezioni triangolari dell'esagono d'argento scivolare dolcemente, rientrando nel pavimento di pietra. Alcuni scalini conducevano verso il basso, nel buio. Dal di sotto si levò roteando un'invisibile esalazione, simile al tremolìo del calore dell'acciaio rovente. Kane eseguì alcuni gesti complicati davanti all'apertura... poi entrò nel buio, dove da millenni non erano più entrati esseri viventi. Dal profondo della terra Erill avvertì, piuttosto che sentirlo, un sibilo minaccioso. Perfino lei aveva un limite, e tornò dove gli uomini di Kane stavano aspettando. Passarono i minuti. Il sole raggiunse lo zenith e cominciò a piegarsi verso occidente. Nessuno osava avventurarsi verso lo scavo. Ad un tratto, Kane riapparve portando con sé un cofanetto di metallo grigio-argento, chiuso con un sigillo simile a quello sulla porta apertasi sotto la sabbia. Il generale sembrava esausto. «Ricoprite tutto» ordinò. «Completamente!» Le pale rigettarono in fretta la sabbia nella fossa, colmando lo scavo. Erill colse in un lampo un'immagine del fondo della fossa. L'esagono d'argento era chiuso di nuovo, con il sigillo assolutamente intatto. Poi, la sabbia della città morta ricoprì ancora una volta i propri segreti. «Che cos'è, Kane?» gli chiese, osservando il cofanetto. «Qualcosa che non sopporta le ombre.» XXV Nemesi All'alba del giorno seguente avevano lasciato le rovine stregate di Ashertiri. Durante la notte alcuni messaggeri stremati avevano portato al campo cattive notizie. Ciò che si diceva, una volta tanto, era vero. Jarvo aveva raccolto un nuovo esercito. Era passata una stagione dal tentativo di colpo di stato di Kane, e mentre quest'ultimo e Orted si contendevano il comando della Crociata Nera, Jarvo aveva lavorato negli stati liberi dei regni meridionali. I suoi sforzi non erano stati inutili. Kane aveva conquistato metà della regione solo perché i regni separati non erano stati in grado di opporsi a lui come una forza compatta. Secoli di guerre interne, gelosie sgretolanti e odi li avevano tenuti separati uno dal-
l'altro. Alcuni regni avevano addirittura pensato di allearsi con Kane per distruggere i loro tradizionali avversari, altri avevano capito che era impossibile opporsi alla Spada di Sataki ed erano capitolati senza combattere. Uno alla volta erano stati tutti inghiottiti dalla Crociata Nera. Lo sconvolgimento provocato dalla ribellione di Kane aveva convinto gli altri regni a riconsiderare la loro posizione. Ormai gli eccessi dei Sataki erano troppo noti per pensare a qualche possibile alleanza con loro. Inoltre le continue vittorie della Spada di Sataki rendevano chiaro a qualsiasi regnante che il Profeta si sarebbe fermato solo quando ogni città fosse stata ai suoi piedi. In una simile atmosfera di panico generale, Jarvo aveva imposto la sua presenza. Essendo l'unico generale ad avere sconfitto i Sataki, aveva guadagnato immediatamente una vasta popolarità. Era una figura trascinante... il viso deturpato, il suo spirito mai sazio di vendetta. Era penetrato nella cittadella del Profeta e ne era uscito per proclamare al mondo le atrocità della Crociata Nera. Ferito nell'animo oltre che nel fisico, Jarvo era diventato un angelo distruttore. Le folle lo ascoltavano rapite, la popolazione vedeva in lui un salvatore e i soldati lo consideravano un condottiero invincibile, mentre i sovrani chiedevano il suo appoggio e i suoi consigli. Era il potere che Jarvo aveva sempre sognato di possedere. Ora che l'aveva ottenuto, non gli interessava più. La soluzione che presentava era semplice; opporsi alla cavalleria di Kane con un esercito ancora più numeroso. Rompendo con il passato, gli stati liberi dei regni meridionali strinsero un'alleanza provvisoria; la Grande Coalizione. I vari regni misero tutti i loro eserciti a disposizione di Jarvo. Quando la notizia della sua avanzata raggiunse Ashertiri, Jarvo stava già marciando con un esercito di duecentomila unità che comprendeva almeno cinquanta reggimenti di cavalleria pesante. Si trattava del più numeroso esercito mai sceso in campo in quel continente. Kane non poteva sperare di affrontarlo. L'esercito della Grande Unione era quasi due volte più forte della Spada di Sataki al suo massimo fulgore. Ad ogni nuova conquista c'erano state continue tensioni, e nuove rivolte avevano decurtato ulteriormente l'esercito di Kane. Ormai non poteva contare che su venticinquemila uomini. Non c'era altra scelta che la fuga. E poiché Kane aveva bisogno di un posto in cui fuggire, mandò alcuni
ambasciatori a Orted Ak-Ceddi. Era una mossa disperata, ma la situazione lo era altrettanto. Kane sapeva che l'esercito della Coalizione avrebbe annientato il suo in caso di scontro aperto, mentre lui poteva evitare il combattimento solamente ritirandosi sempre più nella savana. Jarvo avrebbe continuato ad inseguirlo fino allo stremo. Le Provincie conquistate erano state devastate e spogliate dai Sataki; nessun rifornimento o soccorso sarebbe mai giunto da Shapeli. Kane poteva solo fuggire in una landa nuda, inseguito da una forza ampiamente più numerosa e organizzata. Ad ogni miglio Kane sarebbe stato più debole, e prima o poi avrebbe finito per cedere. Se tutto ciò era evidente, altrettanto lo era il destino di Shapeli. Jarvo era un nemico implacabile, e la Grande Coalizione si era impegnata a distruggere la Crociata Nera e a liberare i regni conquistati delle pianure orientali. Questa volta le foreste di Shapeli non sarebbero servite come difesa... l'esercito della Coalizione era troppo potente per essere fermato, e Jarvo aveva giurato di ridurre Ceddi in briciole. La grande alleanza si sarebbe aperta la strada entro Shapeli anche a costo di sradicare ogni albero della foresta, né tantomeno l'esercito decurtato del Profeta poteva sperare di opporsi. La sconfitta era inevitabile... per Kane e Orted Ak-Ceddi. C'era una sola possibilità, e Kane la propose. Trattare una tregua e combattere insieme contro la Grande Coalizione. Per Kane la logica era al di sopra di ogni sacrificio. Se la situazione attuale si fosse conservata, avrebbe significato distruzione certa per entrambi. Se le due fazioni in guerra tra loro della Spada di Sataki si fossero riunite, avrebbero avuto una possibilità di strappare una vittoria in una posizione altrimenti insostenibile. Kane aveva ai suoi ordini venticinquemila veterani... tutto ciò che restava della Spada di Sataki. Orted Ak-Ceddi, comprendendo anche i Difensori di Sataki, poteva contare un numero tre volte superiore di soldati appiedati, bene addestrati e equipaggiati. Usufruendo anche dell'orda dei Sataki, il Profeta poteva raccogliere una milizia di centinaia di migliaia di uomini... ma restava sempre il problema di armare un numero sufficiente di uomini di cui ci si potesse fidare affinché non si rivoltassero contro la gerarchia di Sataki. In campo aperto, una simile riunione di forze non avrebbe avuto speranze contro la potenza della Grande Coalizione. Nella foresta era un'altra cosa. Jarvo poteva avanzare solo alla velocità permessa dalle condizioni ambientali. Probabilmente avrebbe mandato una forza avanzata lungo la stra-
da militare che conduceva a Ingoldi, affinché abbattesse gli alberi e rendesse più agevole la marcia assaltando e distruggendo le città e gli avamposti che incontrava lungo il cammino. La milizia dei Sataki non poteva opporsi in battaglia alle truppe della Coalizione... le masse poco addestrate ed equipaggiate erano pane per le spade dei soldati addestrati. Il piano di Kane consisteva nell'usare la milizia come continua forza di disturbo per rallentare l'avanzata della Coalizione... lanciandogliela contro in varie ondate suicide mentre avanzava attraverso la foresta. Non avrebbero procurato molti danni agli avversari, ma almeno avrebbero loro impedito di tagliare gli alberi senza difficoltà. Il massacro sarebbe stato spaventoso, ma la marcia di Jarvo sarebbe stata rallentata e le sue truppe esauste quando avessero raggiunto Ingoldi. Là, protetto dalle mura della città, Kane contava di organizzare una difesa efficace usando la fanteria del Profeta per controllare le mura e contrattaccando con la sua cavalleria. Se tutto fosse andato per il meglio, Kane sapeva di avere buone possibilità di sostenere l'assedio di Jarvo, costringendo l'esercito della Coalizione a ritirarsi... e una volta in ritirata poteva essere decimato nella foresta ostile. In quel caso la vittoria sarebbe andata oltre ogni previsione e avrebbe significato aumentare ulteriormente i territori conquistati. I regni occidentali avevano impegnato tutto nell'esercito della Grande Coalizione; se Kane avesse respinto l'invasione di Jarvo, avrebbe aperto definitivamente le porte della conquista dei regni meridionali alla Crociata Nera. Fino a quel momento tutto pendeva a favore dei Sataki. La logica della guerra era chiara. Sotto quelle circostanze Kane era certo che Orted AkCeddi avrebbe accettato la tregua che gli aveva proposto. Orted accettò. «Possiamo fidarci di lui?» chiese Alain. «Possiamo fidarci di lui per lo stesso motivo per cui lui deve fidarsi di me» rispose Kane. «La vita di ognuno di noi dipende dall'altro.» Si interruppe, ricordando. «Una volta entrai in una taverna per uccidere un uomo. Eravamo rivali, nemici giurati l'uno dell'altro. Lui era in gamba e non mi riusciva di sorprenderlo. Mentre stavamo combattendo, la taverna venne circondata e la guardia cittadina irruppe all'interno. Avevano giurato di ucciderci entrambi. «E così combattemmo spalla a spalla, lui ed io... contro le guardie. Nessuno di noi temeva un colpo a tradimento dall'altro, perché immediatamente le guardie avrebbero sopraffatto chi fosse rimasto solo. Ne uccidemmo
forse venti, prima che i pochi che erano rimasti vivi si dessero alla fuga.» «E poi?» chiese prontamente Alain. «Poi...» rispose Kane, sorridendo al ricordo. «Poi lo uccisi.» XXVI Desperado Un'enorme colonna di polvere si levava all'orizzonte seguendo la ritirata di Kane all'interno di Shapeli, come se il generale fuggisse incalzato da una tempesta di forza incalcolabile. Jarvo lo inseguiva implacabile, distruggendo ogni cosa che incontrava. Kane era riuscito a mantenere le distanze dalla sua nemesi, ma solo tenendo un passo che uccideva i cavalli e lasciava gli uomini esausti. Kane si chiedeva se la cavalleria della Coalizione se la passasse meglio. Probabilmente sì... essendo partiti con cavalli freschi e carichi di provviste. Il tempo perso nel trattare la tregua con Orted stava per significare la sua rovina. La Coalizione avanzava ad una velocità che egli aveva ritenuto impossibile per un esercito tanto vasto... anche considerando che Jarvo si muoveva senza pericoli di imboscate. Una volta raggiunta la pista di Kane, sarebbe bastato seguire la scìa di erba calpestata e di cavalli morti abbandonati. Via via che la corsa continuava, il vantaggio iniziale di un giorno si assottigliava come cera sul fuoco. Quando raggiunse la foresta, Kane pensò che Jarvo lo seguisse a non più di qualche ora di cammino. Ormai era inutile pensare di interrompere la strada o di tendere un'imboscata all'avversario. Era troppo tardi per organizzare una difesa... c'era solo il tempo di correre a perdifiato a Ingoldi. Si doveva dormire in sella, ficcandosi in bocca tutto ciò che era rimasto da mangiare, senza mai smettere di cavalcare. I cavalli potevano fermarsi per bere, mangiare e riposare, ma agli uomini non era permesso. Non c'erano più cavalli freschi e ogni cavallo morto significava un cadavere in più quando fosse sopraggiunto l'esercito della Coalizione. Bisognava galoppare verso Ingoldi, pregando che le sue mura non diventassero tombe. Dopo Seeming, ai margini della foresta, Kane riuscì ad aumentare il suo vantaggio su Jarvo. Ingoldi era a parecchi giorni di distanza dal confine, al di là di un territorio sfavorevole all'avanzata della Grande Coalizione. Jarvo doveva incuneare le sue numerosissime truppe nelle strade militari che attraversavano la foresta, preoccupandosi di imboscate e sacche di resistenza che in realtà non esistevano. Il suo obiettivo non si sarebbe mosso, e
il nemico era imbottigliato. Aveva tempo per risparmiare cavalli e uomini prima dell'assalto a Ingoldi. Che la preda si esaurisse pure nella fuga. Ora che la fine della caccia era a portata di mano, non faceva differenza che Jarvo raggiungesse Ingoldi un giorno più tardi. Lo scontro non poteva che avere un solo esito. Kane osservò con una smorfia le porte di Ingoldi chiudersi dietro l'ultimo dei suoi cavalieri esausti. Era pomeriggio, e i suoi uomini avevano cavalcato per tutta la notte. Con un po' di fortuna, stimò il generale, avrebbero avuto tutto il giorno seguente per prepararsi all'attacco della Coalizione. A quella velocità di marcia Jarvo non poteva avere con sé macchine da assedio. Per costruirle ci sarebbero voluti alcuni giorni e se fino a quel momento i soldati di Orted fossero riusciti a tenere le mura, la sua cavalleria sarebbe stata riposata abbastanza per tentare una sortita. Non che una sortita potesse costringere Jarvo a levare l'assedio, meditò Kane tra sé, ma certe tattiche - incursioni rapide e immediate ritirate oltre le mura - potevano infliggere perdite costose, oppure distruggere le attrezzature da assedio avversarie. L'unica speranza era resistere finché il Profeta non avesse radunato i suoi seguaci dalle città periferiche di Shapeli. Un esercito di pezzenti poteva minacciare la retroguardia di Jarvo, sempre che il loro numero fosse sufficientemente alto. Con il tempo, la Grande Coalizione avrebbe potuto essere schiacciata tra due fronti. Kane si chiese se i seguaci del Profeta avrebbero risposto alla sua convocazione... oppure se fuori di Ingoldi non si preferisse la vittoria di Jarvo su un tiranno depravato come Orted. Una guardia d'onore composta da Difensori di Sataki gli si avvicinò. Il loro capo lo informò che il Profeta l'attendeva a Ceddi. «Non andare!» gli bisbigliò Erill. Kane sogghignò. «Dobbiamo coordinare i piani di difesa prima che Jarvo venga a dire la sua. Mi riposerò più tardi.» «Per l'inferno! Hai capito ciò che intendo. Non fidarti di lui.» Kane la guardò scrollando le spalle. «Orted sa che dobbiamo combattere insieme se vogliamo avere una possibilità. Se ha intenzione di tradirmi dovrà sbrigarsi prima che Jarvo metta fine alla nostra lite. «Alain, avrò bisogno di voi. Dolnes, tu conosci la città.» Poi chiamò altri uomini del suo corpo di guardia e aggiunse: «Sono certo che Orted non avrà nulla da obiettare se porterò con me la mia guardia personale.» «Kane» lo chiamò Erill. «Portami con te.»
«Perché?» «E perché no? Sono arrivata fin qui.» «Come vuoi.» Kane non aveva mai chiesto alla ragazza perché era rimasta con lui fino a quel momento. Avrebbe potuto andarsene per la sua strada o restare in una delle città incontrate lungo la ritirata. Kane sapeva che lei non provava amore o gratitudine nei suoi confronti. Erill era troppo dura per mostrare qualche emozione, anche la paura. Voleva solo essere presente al momento opportuno. Gli ufficiali di Kane condussero gli uomini esausti alle loro vecchie caserme affinché si riposassero prima della battaglia imminente. Kane, accompagnato dai suoi, seguì la staffetta di Orted fino a Ceddi. Il Profeta lo ricevette gentilmente ma l'incontro non fu più cordiale di quanto richiedesse la forma. Avevano discusso di strategia e tattica in molte altre occasioni... sempre sapendo che la loro alleanza doveva finire in un solo modo. Questa volta non era differente dalle altre. Quando finirono di parlare stava calando l'oscurità. Orted si era dichiarato d'accordo su tutte le proposte di Kane, evidentemente soddisfatto di lasciargli l'organizzazione della difesa come già gli aveva affidato il comando della Spada di Sataki. Anche Kane, che aveva temuto interferenze, era piuttosto soddisfatto. Durante l'incontro erano stati serviti cibi e bevande, e lo stesso trattamento era stato riservato alla guardia del generale che attendeva nel cortile sottostante. Ora il sonno era più che mai un imperativo, e Kane decise che era ora di tornare all'accampamento. Si alzò per raggiungere i suoi uomini, chiedendosi dove fosse finita Erill. Esketra era immersa nel suo bagno profumato e osservava la lucentezza delle bolle che roteavano frantumandosi. I suoi folti capelli neri erano avvolti in trecce tenute ferme da spille d'oro. Li avrebbe lavati il mattino seguente, prima di farseli spazzolare e profumare dalle ancelle. Ormai era sera e non aveva voglia di aspettare che si asciugassero prima di andare da Orted. Durante gli ultimi giorni il Profeta era stato di un umore strano, pensò la donna passandosi le dita sulla pelle bianca e morbida. Sembrava trovarsi in uno stato di eccitazione repressa... più simile a un uomo che vedesse avvicinarsi una meta lungamente agognata, piuttosto che a un sovrano il cui impero fosse in bilico sull'orlo di un precipizio. Forse il ritorno di Kane aveva riacceso le sue speranze nella vittoria finale. Vittoria. Contro l'esercito invincibile che Jarvo stava guidando contro di
loro. Si diceva che fosse l'armata più numerosa mai radunata e che avrebbe abbattuto le mura di Ingoldi come un'ondata abbatteva un castello di sabbia, senza lasciare superstiti. I nuucii che mettevano in giro certe voci false, però, erano stati presto messi a tacere. Tuttavia, l'atmosfera di rovina imminente non si era dissolta affatto. Forse Esketra aveva commesso un errore legando la propria sorte a quella di Orted Ak-Ceddi. Ma chi poteva immaginare che quel piccolo rospo di Jarvo avrebbe minacciato la sua potenza? E se Jarvo avesse distrutto Ingoldi, cosa ne sarebbe stato di lei? La donna sorrise, ricordando la sua stupida infatuazione per lei. Le sarebbe bastato piangere, lamentarsi di qualche orrenda crudeltà, e il deturpato Jarvo avrebbe gonfiato il petto per giocare la parte del salvatore. Una lacrimuccia, un sorriso, la promessa di un bacio... e il piccolo Jarvo sarebbe stato di nuovo ai suoi piedi. Dunque, decidessero pure gli dèi chi doveva vincere o perdere. Le sorti della guerra erano sulla bilancia, ma per Esketra sarebbe stata una vittoria in ogni caso. Era ora di vestirsi. La donna uscì dalla vasca dorata, afferrando un asciugamano. Le sue ancelle dovevano essere poco lontano... dove si erano cacciate quelle maledette? Esketra le chiamò con rabbia, asciugandosi delicatamente la pelle vellutata. Qualcuno entrò nella sala da bagno. Quando abbassò l'asciugamano dal viso, Esketra si accorse che non era una delle sue ancelle. Era una ragazza magra che indossava abiti sporchi da amazzone. Aveva il viso incrostato di polvere e sudore, e segnato dalla fatica. Gli occhi erano verdi come quelli di un gatto. «Che cosa fai qui?» chiese Esketra. «Porto un messaggio da parte di Jarvo» disse quella strana ragazza avvicinandosi lesta come un felino. «Jarvo!» Per gli dèi, era forse già entrato in città? «Jarvo ti manda tutto il suo amore» disse la ragazza allungando la mano. Esketra guardò per vedere cosa dovesse darle la ragazza. Era un pugnale. Uscendo dalla stanza dell'incontro, Kane si fermò un attimo alla finestra della torre. C'era buio, notò. L'indomani probabilmente sarebbe giunto l'esercito della Coalizione, e prima di allora, lui aveva bisogno di riposo. Gli sarebbe servita tutta la sua forza per evitare la sconfitta. Non c'erano molte speranze, ma in passato aveva superato situazioni molto peggiori.
Guardò distrattamente oltre la città. Strizzò gli occhi. Nella notte si levavano già fumo e fiamme. Un quartiere nei pressi delle mura era stato incendiato. Non era possibile che Jarvo... Kane imprecò. Erano le sue caserme a bruciare. I suoi uomini... Da lontano udì il ruggito animalesco della folla che attaccava. «Alain!» gridò il generale. «Chiama gli altri! Dobbiamo andarcene! Subito!» In un lampo la spada di Kane apparve nella sua mano sinistra. Erano rimasti soli nel corridoio... i consulenti del Profeta si erano ritirati discretamente subito dopo la riunione. Kane si era trovato in situazioni simili troppo spesso per capire che cosa significava tutto ciò. In un attimo raggiunsero la grande sala... sinistramente deserta. La porta principale era aperta, quasi invitante verso il cortile dove gli uomini di Kane dovevano aspettare il suo ritorno. Pur non osando sperare che Orted fosse in ritardo di qualche istante nel chiudere la trappola, Kane si lanciò verso il cortile buio. I suoi uomini erano fermi nei pressi della recinzione e si sorpresero nel vedere Kane e i suoi ufficiali uscire con le armi in pugno. «Montate a cavallo!» gridò Kane. «Dobbiamo uscire alla svelta!» Come per schernire il suo ordine, la pesante grata del portone principale si abbatté a terra rumorosamente. Alle spalle del generale le porte della sala principale si richiusero con uno sferragliare metallico. Kane si guardò attorno nel cortile. Le poche porte che conducevano all'interno della cittadella erano anch'esse chiuse. A meno di forzare la grata o scalare le mura alte trenta cubiti, Kane e i suoi erano intrappolati nel cortile. Una risata risuonò da una finestra della torre. La risata di Orted. Kane vide la sagoma del Profeta esultare dietro la finestra. «Hai così fretta di andartene, Kane?» lo sbeffeggiò il Profeta. «Non vorrai perdere lo spettacolo dell'incoronazione di questa notte, spero.» «Orted, maledetto idiota!» gridò a sua volta Kane. «Devi essere impazzito del tutto!» «No, Kane» ruggì il Profeta. «Questa volta sei tu il pazzo! Hai dimenticato l'avvertimento che ti avevo dato a Sandotneri?» «Sei pazzo, Orted! Hai bisogno di me per difendere la tua città da Jarvo!» «Jarvo morirà un'altra notte, Kane... quando proverà il suo acciaio contro il mio esercito di ombre! Avanza verso il suo destino proprio come tu hai
raggiunto il tuo! Sciocchi! Pensavate di poter offendere impunemente l'Altare di Sataki? Eri forse tanto pazzo da pensare che avrei perdonato il tuo tradimento verso Sataki? Tu e la tua banda di traditori siete tutti inuciri... e conoscete la pena per il vostro peccato!» «Orted, sei pazzo! Così moriremo entrambi!» «È falso, Kane! Questa notte nutrirò il mio esercito di ombre con le vostre anime... e tra qualche notte con quelle dell'armata di Jarvo! Dopodiché il mondo tremerà di fronte alla potenza di Sataki!» Mentre le risate del Profeta echeggiavano nel cortile, gli uomini di Kane si stringevano disperatamente contro la recinzione. La trappola era ben solida. Con un po' di tempo, avrebbero potuto abbattere qualcuna delle porte interne, aprirsi un varco nel barbacane e alzare la grata. Ma non avevano tempo. Già il terribile canto dei sacerdoti raggiungeva le orecchie dei soldati condannati. Orted li aveva semplicemente trattenuti fino al calare dell'oscurità affinché i suoi sacerdoti potessero intonare le formule che evocavano le ombre assassine. Non ci sarebbe voluto molto. Kane ignorò le risate trionfali del Profeta. Aveva commesso un ultimo errore. Aveva creduto di trattare con una mente razionale, con Orted il capo dei banditi, che avrebbe accettato la logica dell'alleanza proposta da Kane. Invece aveva trattato con un dio vendicativo. Si avvicinò ad Angel, frugò nella sacca della sella mentre lo stallone scalpitava nervoso. La tensione nell'oscurità della notte era simile all'atmosfera che precede una tempesta. Le dita del generale toccarono un pacchetto avvolto con cura. In fretta, Kane rimosse i rotoli di ovatta... e scoprì il cofanetto grigio-argento che aveva recuperato faticosamente tra le rovine sepolte di Ashertiri, sapendo che un giorno avrebbe dovuto eliminare Orted Ak-Ceddi. Aveva sperato che le circostanze fossero state diverse da quelle, ma non aveva altra scelta. Pronunciando una formula segreta, infranse il sigillo scarlatto del cofanetto. Sentì l'energia agitarsi all'interno della scatola di metallo. Un'energia mortale, ma che avrebbe trascinato con sé anche Orted Ak-Ceddi. Dal coperchio del cofanetto d'argento stavano già filtrando alcuni filamenti di luce azzurrina. Kane non ebbe bisogno di avvertire i suoi uomini di ritirarsi. Gridando ad alta voce una formula in una lingua ancora più antica di Ashertiri, corse attraverso lo spiazzo in direzione della torre centrale della cittadella. Sembrava stringere tra le mani una stella bianco-azzurra.
Sebbene avesse pronunciato la formula dell'incantesimo, Kane sentiva la pelle delle mani bruciare per l'energia che si agitava nel cofanetto. Girando il viso, urlò un'ultima frase e lanciò la scatola d'argento. Il cofanetto, già infuocato, esplose in una sfera incandescente prima ancora di cadere. Kane saltò all'indietro, pregando che la formula fosse in grado di controllare la forza terribile che aveva liberato. Il cortile crepitò di una luce accecante, più luminosa del sole. Sembrò che una stella fosse esplosa contro la base delle mura della cittadella. I cavalli si ritrassero in preda ad un terrore inimmaginabile. Gli uomini si coprirono il volto con le mani. Immersa in un'aura di fuoco primordiale, la salamandra allungò le membra, guardandosi attorno pigramente. Kane urlò un ordine nella lingua degli stregoni che millenni addietro avevano imprigionato il fuoco primordiale. Lentamente la salamandra si voltò ad ascoltare le tremende formule. La sua testa grottesca roteò verso la parete di pietra e, obbedendo all'ordine di Kane, scattò in avanti. Il fuoco primordiale sfiorò la pietra, e la parete si trasformò in una fontana di lava incandescente. La salamandra si insinuò nell'apertura. Macigni enormi di pietra semifusa si abbatterono sul suo corpo orrendamente gonfio... dissolvendosi in frammenti incandescenti per il terribile calore. Agitando la coda come una spaventosa cometa, l'animale infuocato si aprì la strada verso il centro della fortezza, scavandovi un cammino incandescente tra i sotterranei di Ceddi. Il canto dei sacerdoti, le risate sprezzanti di Orted... tutto era cessato. Semiaccecati dal chiarore delle fiamme, gli uomini di Kane udirono le grida di terrore di chi si trovava all'interno di Ceddi. La salamandra era scomparsa nelle profondità dell'enorme fortezza. Dalla fossa incandescente si levavano nella notte alte fiamme. «Tenetevi vicini alla cinta esterna!» ordinò Kane. «Non sono sicuro di cosa accadrà quando...» E nel tempio nascosto di Sataki, la salamandra strisciava alla ricerca dell'Altare di Sataki... come le aveva ordinato Kane. E Kane le aveva ordinato di distruggere... Il fuoco primordiale si abbatté sulla pietra aliena. Per un istante lo specchio nero rifletté un cerchio incandescente di energia... dietro al quale qualcosa sembrava dibattersi, contorcersi nell'agonia... Le pietre del cortile parvero saltare verso l'alto. Sembrava che dal centro
della terra infuriasse la potenza di una stella esplosa. Uomini e cavalli sobbalzarono, cadendo a terra in un'ammasso di carne stordita e sanguinante. Dietro di loro, una parte del muro di cinta del cortile crollò nel fossato. Come un castello di incastri per bambini, la torre centrale di Ceddi si abbatté su se stessa in un ammasso di fiamme e pietre fuse che fino a qualche secondo prima era stato il tempio antichissimo di un dio che ora non vi dimorava più. Sembrò che le pietre continuassero a cadere per un periodo interminabile. Gli echi delle esplosioni laceravano la notte. Poi ci fu un attimo di silenzio assoluto... prima che le orecchie ottenebrate dall'olocausto cominciassero ad udire le urla angosciate e il crepitare delle fiamme dall'interno della fortezza crollata. Dalle strade lontane si udivano grida spaventate. Un terzo di Ceddi era ridotto in briciole. Kane si accorse con tristezza che la torre personale del Profeta era tuttora in piedi, pur incrinata dagli scoppi. Ma ora Orted non avrebbe più riso. Il suo dio l'aveva abbandonato. Non restava che darsi alla fuga. Kane si rialzò prontamente e vide che Angel se l'era cavata senza ferite. Non tutti i suoi uomini erano stati tanto fortunati. Il generale balzò in sella allo stallone e sguainò la spada. «Forza bastardi!» ringhiò. «A cavallo! Non siamo più desiderati qui. Non vorrete restarvene ad aspettare Jarvo!» Quando l'esplosione la fece sobbalzare, Erill stava prendendo in considerazione la possibilità di passare di nascosto davanti alle guardie che presidiavano una delle porte posteriori della fortezza. Aveva concluso che le possibilità erano nulle... che non sarebbe passato molto prima che qualcuno controllasse cosa c'era sotto l'acqua scarlatta della vasca dorata. Per quanto non fosse preoccupata delle conseguenze del suo gesto, ora che aveva compiuto la sua piccola vendetta non aveva particolari desideri di espiazione. L'esplosione la scagliò lontano come una bambola gettata da una bambina arrabbiata. Solo la sua abilità acrobatica impedì che si spezzasse l'osso del collo. Le guardie alla porta non poterono contare sullo stesso vantaggio. Senza pensarci due volte, Erill si lanciò tra le macerie prima ancora che la terra cessasse di tremare. Continuò a correre nella confusione delle strade che circondavano la cittadella. Quando le gambe cominciarono a dolerle per lo sforzo, aveva ormai raggiunto le mura della città.
I bastioni erano protetti da cadaveri. Orted aveva ordinato al grosso delle sue truppe di attaccare i reggimenti di cavalleria di Kane mentre questi erano addormentati nelle caserme. Solo forze esigue erano rimaste a controllare le mura della città. Jarvo era però più vicino di quanto Orted avesse immaginato. Erill si nascose nell'ombra, studiando con occhio esperto la situazione. I morti erano stati colpiti da frecce... probabilmente all'inizio dell'attacco. Trovando una città divisa dal tradimento e sconvolta dagli incantesimi, Jarvo aveva attaccato immediatamente con l'avanguardia delle sue truppe. Ora la battaglia sembrava accentrarsi intorno alla porta principale. Da ciò che si vedeva sembrava che l'esercito della Coalizione avesse già forzato l'ingresso. In quel caso Ingoldi, Ceddi, i Sataki e le Crociata Nera erano condannati. Erill ne fu divertita. Il mondo stava sprofondando nel caos più completo, e lei sembrava essersi salvata. Una vecchia torre di guardia abbandonata non sarebbe probabilmente stata disturbata durante la notte. Erill vi scivolò all'interno e aprì lo scatolino di foglie di coca triturate che aveva preso nella camera di Esketra. Era l'atto finale della partita e lei ne aveva una splendida visione. Kane non aveva percorso che un breve tratto a cavallo, quando si rese conto della situazione disastrosa. La città era in armi contro i traditori nuucii della sua cavalleria. Alcuni dei suoi uomini gli si fecero incontro coperti di sangue... riferendogli particolari orrendi del massacro in corso. Non immaginando il tradimento suicida dei Sataki, gli uomini esausti si erano ritirati e addormentati profondamente. I soldati di Orted avevano dato fuoco alle caserme, uccidendo i cavalieri che uscivano barcollando tra il fumo e lo scompiglio. Tuttavia gli uomini di Kane erano combattenti abituati ad ogni situazione ed erano stati svelti a riprendersi. Gruppi sparsi di soldati si erano aperti dei varchi nella trappola, riuscendo a trasformare in un'aperta battaglia un massacro sicuro. Con tutta la città contro di loro, i mercenari disperati erano affluiti verso la porta principale della città pensando di trovare rifugio nella foresta. Nell'oscurità e nella confusione del combattimento non si erano resi conto di aprire le porte all'esercito di Jarvo. Indietreggiando da questo nuovo attacco, l'ex invincibile armata di Kane si trovò il terreno franato sotto i piedi. Le truppe della Coalizione stavano entrando in città... mentre i fanatici di Sataki erano decisi ad uccidere i
nuucii fino all'ultimo uomo. Kane era stretto in una morsa le cui mascelle si serravano troppo in fretta per poter fuggire. Restava solo un'esilissima speranza di salvezza, attraversando tutta la città e forzando la porta posteriore per raggiungere la foresta. Gli uomini della Coalizione non avrebbero mai potuto dare la caccia a tutti i fuggitivi. Alcuni di essi ce l'avrebbero fatta e avrebbero potuto trovare scampo in terre meno ostili, oppure unirsi in nuove bande di ribelli. Orted Ak-Ceddi, ferito dalle pietre cadute ma tuttora temibile, aveva ordinato ai suoi fanatici seguaci di uccidere Kane e quelli che restavano del suo esercito... affinché non un solo traditore inuciri potesse lasciare la città morente. Di fronte a Kane si ergevano Jarvo e l'esercito della Grande Coalizione. Dietro i Sataki sopravvissuti al tremendo olocausto. La morte guizzò negli occhi di Kane quando si rivolse a ciò che restava della sua armata. Gli uomini sapevano che la fine era vicina, ma si aspettavano che il generale eseguisse un ultimo miracolo. «Vediamo se Ceddi ha ancora qualcosa da offrirci» ringhiò Kane. «Dopodiché ci vedremo all'inferno... e facciamo in modo di non andarci da soli.» Gli uomini voltarono i cavalli, dirigendosi attraverso le strade di Ingoldi, coperte di morti, in direzione delle macerie fumanti di Ceddi. Non erano rimaste che poche centinaia di soldati... ultimi superstiti della poderosa Spada di Sataki. Stremati, feriti, armati alla meglio e con cavalli in altrettanto cattive condizioni. Mercenari che avevano trascorso tutta la vita impugnando una spada. E questa era la loro ultima battaglia. Si lasciarono alle spalle la popolazione della città che correva qua e là in preda al panico... poveri ingenui coinvolti in un incubo che esulava dalla loro comprensione e dal loro controllo. Fuggivano, per trovare la morte altrove. Gli uomini di Kane non dovettero cavalcare molto per incontrare la massa dei fanatici di Sataki che dava loro la caccia. Non c'era tempo per pensare e nemmeno per studiare la situazione. Il generale spronò Angel, guidando i suoi al galoppo contro i Sataki. La notte divenne un incubo di fumo e tanfo, di acciaio che guizzava e visi contorti, di sangue e sudore, di ferite sottili che superavano appena il dolore dei muscoli esausti. Le ferite che contavano erano quelle che non si sentivano affatto.
Kane irruppe nel gruppo come un dio possente e assetato di vendetta, finché i fianchi schiumosi di Angel furono inzuppati di sangue come gli zoccoli. Gli uomini si lanciavano contro Kane ed egli li abbatteva con la facilità di un contadino che mietesse, sebbene quelli lo colpissero ripetutamente. Una pietra scagliata con forza gli sfilò l'elmo e un assalitore suicida gli strappò lo scudo aggrappandovisi, mentre i suoi compagni colpivano Kane al braccio. Con la spada di Carsultyal nella sinistra, il generale impugnò allora con la destra una sciabola da cavalleria. Ormai non era più una questione di colpire, parare, scansare... si trattava solamente di uccidere, uccidere, uccidere finché la morte avesse messo fine perfino alla furia del guerriero. Uno dopo l'altro gli uomini di Kane cadevano. Non ne vedeva più nemmeno i volti. Ma non poteva abbandonarsi al dolore o alla rabbia. Le emozioni richiedevano energie e tutte le sue energie erano impegnate nella lotta omicida. Ormai Kane e gli ultimi uomini della sua guardia erano giunti in vista delle mura di Ceddi. Per entrare avrebbero dovuto aprirsi la strada a forza tra la marea di Sataki che li circondava. Al generale rimaneva un solo grande desiderio... raggiungere Orted e strappargli il cuore con le mani nude. Ma Orted non era con i suoi seguaci. Non era neppure a Ceddi, mentre il suo nemico entrava a forza nella cittadella. Kane sapeva dove il Profeta poteva trovarsi. Aveva ordinato ai suoi di tenere la battaglia lontano da Ceddi... mentre lui, con la sua tipica astuzia, era fuggito portando con sé tutto ciò che era riuscito ad arraffare. Quel pensiero fece infuriare ancora di più Kane. Una cosa era morire in battaglia, un'altra era sapere che il nemico la cui pazzia l'aveva trascinato in quella situazione se ne stava scappando tranquillamente. Kane vacillò sulla sella, indebolito dalla fatica e dalle numerose ferite. Era simile a un leone attaccato da un'orda di topi. Ne uccideva quanti più possibile, ma c'era un limite anche alla sua resistenza. Alzando gli occhi per un istante si accorse che Ceddi era attaccata da nuovi nemici. La prima ondata dell'esercito della Coalizione era penetrata in città e stava affluendo all'interno della fortezza crollata. Spronando Angel oltre il cortile si rese conto che Ceddi era circondata. L'esercito di Jarvo, senza preoccuparsi di quale terribile forza avesse abbattuto la fortezza, stava superando gli ultimi fanatici seguaci di Sataki. Guardandosi attorno, Kane vide che anche l'ultima delle sue guardie personali era caduta.
Non c'era tempo per respirare, e ancor meno per compiangere i compagni. Kane continuò a caricare i Sataki che gli si facevano incontro con noncuranza. Un bambino rotolò sotto gli zoccoli di Angel, colpendolo con una lancia. Lo stallone si abbatté con un nitrito... scaraventando Kane in avanti. Il generale cadde in piedi e con un fendente all'indietro tagliò in due il ragazzo. Per un istante la folla gli si strinse addosso, ma le due lame guizzarono come fiamme scarlatte. La folla si ritirò di poco, lasciandogli lo spazio per indietreggiare barcollante lungo le mura della fortezza. Ormai appiedato, la fine era imminente. Nell'urlo riconobbe un accento di odio selvaggio... Jarvo. Kane fece una smorfia di disprezzo. Il suo nemico l'aveva riconosciuto nel chiarore della fortezza che ardeva. Preso da frenesia, Jarvo stava tentando di aprirsi un varco nella calca che li separava. A cavallo, armato, e con i suoi uomini a portata di mano, l'avrebbe ammazzato come un cane. Kane si guardò attorno, cercando un cavallo senza cavaliere. Intrappolato com'era, poteva considerarsi un uomo morto. In quell'attimo un'ombra scura lo sfiorò come un sospiro gelido. Era indietreggiato fino alla Torre di Yslsl. Perfino durante l'infuriare della battaglia la torre era deserta. Solo qualche cadavere davanti alla porta spalancata. Perché avventurarsi all'interno? Non c'erano nascondigli, e neppure possibilità di difesa. Di nuovo l'urlo di Jarvo e lo scalpitare degli zoccoli. Entro un attimo tutto sarebbe finito. Kane si chiese se ce l'avrebbe fatta a portare Jarvo con sé. Impossibile. Jarvo combatteva troppo bene e lui era troppo esausto e ferito per sperare di farcela. La porta era aperta, invitante. Ce n'era un'altra, più strana, all'interno... in cima alle scale... Kane si era spesso chiesto quanto di vero ci fosse nella leggenda. Sarebbe riuscito a ricordare come si apriva quella porta? Era difficile pensare. Difficile perfino reggersi in piedi. Un altro secondo e avrebbe avuto il tempo di riposare. Kane oltrepassò la porta vacillando e la richiuse a fatica, assicurandola con i chiavistelli di ferro un attimo prima che fosse scossa da un tremendo impatto dall'esterno. Nella gelida oscurità Kane si riprese per un attimo. La porta tremò sotto nuovi urti. Il generale udì debolmente la voce furio-
sa di Jarvo che chiedeva un ariete. Lentamente cominciò a salire la scala a chiocciola. XXVII Nella Tana di Yslsl Un istante prima il puzzo della città in fiamme, ora la muffa stantìa dell'antica torre... Un istante prima il ruggito caotico della battaglia, ora gli impatti inesorabili dell'ariete contro la porta... La pressione della carne insanguinata contro il disco gelido di pietra nera... Poi il gelo tutto attorno a lui e un'oscurità senza fine. Kane stava cadendo... un granello di coscienza che precipitava senza tempo... Migliaia di tentacoli gelidi gli penetrarono nell'anima... Mai... Dal nulla il sospiro gelido strisciò nella sua consapevolezza... FAME E la materia emerse dal nulla... Kane si trovava in un corridoio... grigio, con gli spigoli confusi e somigliante in modo spiacevole ad una galleria che conduceva a una ragnatela. I suoi passi avanzavano come in sogno, silenziosi, senza determinazione. Davanti a lui il corridoio si allungava grigio e senza fine. Dietro le sue spalle... girò faticosamente la testa... Dietro a lui il corridoio si dissolveva nel vuoto... un precipizio sull'infinito che lo seguiva ad ogni passo. Il piede avanzava spontaneamente e il precipizio lo incalzava di un passo. Lontanissimo, in fondo all'abisso, gli sembrò di cogliere un luccichio di stelle... Lottando contro le vertigini, Kane avanzò di un altro passo... L'orso polare tornava nella caverna di ghiaccio. Il suo tossire rabbioso si trasformò in un ruggito di sfida quando con occhi infuriati riconobbe l'intruso. Con movimenti goffi si mosse verso di lui, reggendosi sulle zampe posteriori. Alzò gli artigli per attirarlo a sé con forza. Reagendo per istinto, Kane schivò il colpo. Indietreggiò di scatto e i suoi stivali scivolarono nel vuoto. Con agilità felina si gettò in avanti, annaspando sulla lastra di ghiaccio. Per un attimo scivolò verso il bordo... poi le sue dita si aggrapparono disperatamente ad una crepa della lastra. Si tirò di nuovo in piedi a fatica sulla lastra, mentre gli stivali frantumavano il
ghiaccio in pezzetti che cadevano silenziosamente nell'abisso, nella nebbia che velava la lontanissima base del ghiacciaio. L'orso polare avanzò proprio nel momento in cui Kane si rialzava sulla lastra di ghiaccio. L'uomo allungò la mano verso la spada ma trovò la guaina vuota. Gli restava il pugnale, ma contro una potente massa che pesava più di mille libbre... La lastra di ghiaccio serpeggiava lungo il baratro nebbioso... troppo stretta, troppo scivolosa per fuggire. L'orso si avvicinò torreggiante. Kane ringhiò, mentre la lama guizzava velocissima. Più di duecentocinquanta libbre di muscoli e ossa umane colpirono una massa più che quadrupla di carne e pelo, e l'impatto fece vacillare l'impulso omicida dell'orso. Il pugnale di Kane, almeno una spanna d'acciaio, penetrò fino all'impugnatura nel petto della bestia. Kane lo estrasse immediatamente... una costola aveva deviato il colpo dal cuore. Un fiotto di sangue arrossò la lama e l'elsa del pugnale rendendola scivolosa alla presa, mentre Kane calava il secondo colpo. Poi artigli taglienti, lunghi un dito e appuntiti come aghi, lacerarono lo spesso mantello di pelliccia e la giubba di cuoio, e si inzupparono di sangue nelle spalle e nella schiena di Kane. Il generale sibilò per il dolore e colpì ancora una volta con il pugnale. Il fiato gli mancò nei polmoni quando le terribili zampe anteriori cominciarono a stringerlo in una morsa irresistibile. I denti dell'animale gli affondarono in una spalla, rendendogli insensibile il braccio. Urlando di dolore, Kane colpì ancora con il pugnale, conficcandolo sempre più profondamente nel petto insanguinato dell'orso. Il sangue luccicava tremulo sul ghiaccio tutt'intorno, la nebbia gli pulsava dolorosamente nel cranio... C'era qualcos'altro nel suo cranio... Qualcosa che si nutriva... L'orso polare tossì e allentò la presa, spruzzando sangue dal muso dalla lingua nera... sangue che non era di Kane. Poi all'improvviso crollò addosso all'uomo, trascinandolo a terra sotto il suo peso tremendo. L'impugnatura scivolosa del pugnale sfuggì di mano a Kane. Le zampe dell'animale lo stringevano ancora nell'abbraccio mortale, ma la loro potenza sembrava meno irresistibile. Kane si contorse disperatamente sotto l'orso, slittando verso i fianchi della bestia che gli crollava addosso. L'orso, ferito a morte, cadde senza energia verso il bordo dell'abisso, rimanendo per un istante in equilibrio e
scivolando poi come una valanga oltre l'orlo, e di lì verso la nebbia che attendeva molto più in basso. Barcollando, Kane continuò ad avanzare. Era in una caverna, umida e fetida di carogne. Sulle stalattiti sgocciolanti apparivano funghi gelatinosi e bianchicci. Il pavimento era reso insidioso da fanghiglia e pozze fetide di profondità imprecisata. L'acqua gelida gli inzuppava la carne mentre avanzava e le catene spezzate che aveva ai polsi insanguinati risuonavano sinistre. Ricordava appena l'istante scarlatto di rabbia insopportabile, quando le urla di lei che stava scomparendo l'avevano quasi reso pazzo, mentre le catene arrugginite che lo legavano alla pietra si erano infrante come corda marcita. Per miglia lunghe e tortuose aveva seguito gli echi sarcastici delle grida di lei, mentre la disperazione soffocava il fuoco della sua rabbia. Quelli che l'avevano lasciato là... l'avevano forse fatta giungere fino a lui affinché tentasse un salvataggio impossibile? Una figura pallida era stesa nella pozza davanti a lui. Kane vi si tuffò senza esitare, riconoscendo all'improvviso l'esile figura femminile e i capelli biondo cenere. La chiamò per nome. Un paio di occhi vacui lo fissarono da un viso ridotto a fango. Ma l'orrendo era che lei viveva ancora... Negli occhi fissi di lei sembrò guizzare un lampo di conoscenza quando Kane si inginocchiò di fianco a quel corpo mutilato. Le sue dita premettero quel collo lacerato. Sui lineamenti allentati di lei si leggeva solo orrore. Il suo attacco fu silenzioso, dal punto alto e buio sul quale si era arrampicato con le membra a ventosa. L'istinto selvaggio di Kane si inserì sul dolore, ed egli si ritrasse all'ultimo momento. L'enorme cumulo di carne gommosa guardò la pelle nuda di Kane mentre questi si voltava, ma ormai il balzo assassino era finito fuori misura. Tra spruzzi d'acqua stagnante, il diavolo-sanguisuga rimbalzò dal salto... con il corpo elastico per nulla scosso dalla caduta. Si rialzò simile ad un uomo... simile a un pupazzo di fango costruito da un bambino. Le gambe e le braccia tronche terminavano in grovigli di appendici a ventosa simili a enormi larve, e il sottopancia pendeva viscido come una lumaca. Sulle spalle larghe, la testa senza collo si sporgeva in avanti come il cappuccio di un cobra. Un'intelligenza malefica scintillava nei suoi occhi di seppia, incastrati molto all'indietro rispetto al grugno sporgente.
Il diavolo-sanguisuga saltò verso di lui rimbalzando dalla caduta come spinto da molle d'acciaio. I piedi di Kane scivolarono sulla pietra incrostata di funghi, mentre tentava di respingere l'attacco. In un groviglio di muscoli freddi e untuosi, il diavolo-sanguisuga gli fu addosso. Kane grugnì, cercando un appiglio su quel corpo gommoso. Le sue dita scivolarono inesorabilmente su quella carne viscida, tentando di respingere la presa delle zampe del demone. Quella massa implacabile lo premeva mentre lui tentava disperatamente di liberarsi dal peso opprimente. Contorcendosi in modo febbrile, Kane riuscì solo a sprofondare ancora di più in una pozza stagnante, semisoffocato dagli spruzzi fetidi. Il muso del demone, munito di denti simili a quelli di una gigantesca lampreda, cercò il collo di Kane, mentre le dita dell'uomo annaspavano inutilmente contro il cappuccio da cobra di quell'essere immondo... Le mani di Kane scivolarono e le braccia del diavolo-sanguisuga lo immobilizzarono a terra. Il muso da lampreda si avvicinò. Kane si contorse. La bocca succhiante aderì con forza al suo petto nudo. Migliaia di coltelli spuntati gli graffiarono la carne. Per un istante il sangue schizzò, poi quel suggere disgustoso cominciò a lacerargli l'anima. Kane urlò. Qualcos'altro si sta nutrendo... La furia pazzesca che poco prima aveva spezzato il ferro si scatenò di nuovo. Mugghiando di rabbia, Kane si ritrasse con tutta la sua enorme forza. Liberò le braccia e con dita frenetiche si strappò dal petto la bocca succhiante. Il sangue si allargò sul cerchio di carne lacera. Un cerchio simile a quelli che macchiavano la carne pallida e immobile di lei. Le ginocchia di Kane scattarono, spingendo lontano il diavolosanguisuga. Poi l'uomo balzò in piedi, ululando di rabbia. A mani nude si lanciò contro quella creatura demoniaca che si era nutrita di innumerevoli vittime nella sua tana fetida. Le dita poderose si strinsero su ogni lato del grugno della creatura. Le labbra affilate gli lacerarono le dita fino alle ossa nello sforzo di serrarsi. Kane rinsaldò la presa e tirò con forza, facendo leva sulle spalle possenti. La carne priva di ossa si distese oltre ogni limite. Il diavolo-sanguisuga tentò di sfuggire a quella presa mentre sulla sua carne straziata apparivano delle striature che si allargavano fino a lacerarsi completamente. Come da una ferita putrida, il sangue nerastro spruzzò con forza fin sulle braccia di Kane. L'uomo rise, senza allentare la presa mortale. Tirò al massimo della for-
za, strappando la carne come un guscio di noce di cocco. Ora la pozza era satura di sangue, mentre gli sforzi della creatura per liberarsi diventavano sempre più deboli. Le arterie - ammesso che quel demonio possedesse sangue proprio - dovevano essersi lacerate. Un oceano fetido sgorgò da quella gola distrutta, mentre le risate pazze di Kane echeggiavano per tutta la caverna... Ma ora stava di nuovo avanzando nell'antro. No, era un corridoio... un cunicolo umido di blocchi di pietra grezza. Il corridoio non era illuminato; l'oscurità puzzava di corpi non lavati. Le mani di Kane sembrarono appesantirsi; procedeva con un'andatura strascicata e rumorosa. Era legato con grosse catene. Tentò di fermarsi, e il collare di ferro gli tirò la testa in avanti. C'erano alcuni soldati, davanti a lui, che lo trascinavano in catene. Nell'oscurità non li aveva ancora visti. Sforzandosi di pensare, si lasciò tirare lungo il cunicolo. Salvo uno straccio lacero, era completamente nudo e coperto di ferite semichiuse. Il dolore e la fatica gli rendevano le gambe talmente deboli da non riuscire quasi a reggere il suo peso. Uno stridore di chiavistelli; un cigolìo di cardini. Una porta ferrata venne aperta. Un chiarore di torce si riversò nel cunicolo. Kane strizzò gli occhi sorpreso, accecato da quella luce improvvisa, mentre i soldati lo trascinavano all'interno. Una volta dentro, gli apparve il profilo noto e odiato di Jarvo, seduto su una sedia a fianco di un braciere ardente. Dai carboni incandescenti spuntava l'elsa di una spada. L'unico occhio del generale brillava in segno di trionfo, e il suo viso giovanile - il lato non paralizzato dalla cicatrice - era teso in un sorriso. Non del tutto nascosti dalle ombre, gli strumenti di tortura luccicanti nella sala sembravano aspettarlo alle spalle di Jarvo. «Dunque, hai ripreso conoscenza, Kane» grugnì quest'ultimo. «O forse hai solo finto il delirio di queste ultime ore?» «Ore?» chiese Kane mentre la sua mente si sforzava di radunare i pensieri. Che cosa ci faceva là? Delirio...? «Dunque, fingi di non sapere?» Jarvo lo osservò pensoso. «Forse non lo sai veramente. Come stratagemma non servirebbe a nulla. Certo, ore... Più di un giorno intero dalla battaglia finale. Da quando abbiamo fatto irruzione in quella vecchia torre dove ti eri nascosto. Eri steso a terra privo di sensi, mezzo morto per le ferite. Pensavi di avercela fatta, vero? Rimpiangerai di non aver usato le tue ultime energie per gettarti sulla tua spada. I
miei chirurghi ti hanno curato le ferite e riportato alla vita con i loro elisir.» «Perché?» Il viso cicatrizzato di Jarvo sghignazzò orrendamente. Si toccò il profilo deturpato. «Hai già dimenticato, Kane? Pensavi di cavartela con una morte veloce? Orted Ak-Ceddi mi è sfuggito di mano, ma almeno il nostro popolo assisterà alla tua punizione! Tu, Kane... tu, il generale che ha forgiato la spada con la quale il culto demoniaco di Sataki ha terrorizzato i nostri paesi!» La voce di Jarvo, che aveva cominciato ad alzarsi, si calmò di nuovo. «Quando mi hanno chiesto di condurre gli eserciti della Coalizione ho giurato che avrei fatto crollare la fortezza del Profeta addosso a tutti i suoi sacerdoti, che i seguaci di Sataki sarebbero penzolati da tutti gli alberi di Shapeli, e che Orted e i suoi tirapiedi sarebbero morti tra i tormenti più atroci di fronte agli occhi del mio esercito. Ebbene, Ceddi è crollata a pezzi e i corvi stanno festeggiando nella foresta... e anche se Orted mi è sfuggito, il suo generale è mio prigioniero!» Jarvo si alzò in piedi, fissando il viso di Kane con l'unico occhio. «Tra poco sarà l'alba. A quell'ora sarai portato nella piazza centrale, dove di fronte al mio esercito vittorioso ti saranno spezzate le membra una ad una sulla ruota. Poi la pelle ti verrà strappata dalla carne e sarai bruciato sul rogo. I miei aguzzini sono degli artisti, e mi hanno assicurato che con alcune droghe e un lavoro attento potresti sopravvivere fino a sera.» La mano di Jarvo si mosse verso il braciere ardente, prese la spada dalla lama incandescente. La sua voce tremava d'odio. «Ed ecco qualcosa su cui pensare questa notte!» Kane tentò di piegare il capo, ma le catene lo tennero fermo. L'acciaio incandescente lo frustò sul viso, cauterizzandolo mentre penetrava nella carne fumante. Il dolore strappò un sibilo dalle mascelle contratte di Kane. Il puzzo della propria carne bruciata lo soffocò. Il generale si accasciò all'indietro, con metà viso orrendamente carbonizzata. «Ti restituisco il favore» ringhiò Jarvo «e ti lascio un occhio per poter vedere il resto. Riportatelo nella sua cella!» Semiaccecato e stordito dal dolore, Kane quasi non si rese conto che i soldati lo stavano trascinando in cella. Appesantito dalle catene, cadde sulle pietre luride della stanza buia. La porta si richiuse dietro di lui. Una sofferenza atroce e lancinante sembrava perforargli il cranio. Il fendente di Jarvo gli aveva staccato di netto un orecchio, lacerandogli la carne fino al-
l'osso e aprendogli l'occhio come un uovo scoppiato. Entro poche ore sarebbero venuti a prenderlo. Sarebbe morto nel modo più orribile... umiliato di fronte ai suoi nemici. Avrebbero gioito delle sue sofferenze, riso delle urla di dolore che nemmeno la sua volontà di ferro sarebbe riuscita a trattenere. E non c'erano speranze di salvezza. Incatenato, mezzo morto per le ferite, senza risorse, nelle mani dei nemici vittoriosi. Nessuno avrebbe alzato un dito per aiutarlo. Era la fine. Non c'erano vie di scampo. Una vita durata secoli interi sarebbe finita nel dolore e nella vergogna. Tristemente. Senza speranza. Qualcosa... qualcosa si sta nutrendo... Kane si afferrò il cranio. Anche nel dolore del viso mutilato riusciva a sentire dei tentacoli gelidi penetrargli nel cervello, risucchiando energia dal dolore della sua anima torturata. Che cos'era... Cosa aveva fatto... Non avrebbe dovuto cadere prigioniero di Jarvo. Aveva avuto una speranza di salvezza... di fuga disperata. Era così difficile pensare. Il dolore e la disperazione gli annebbiavano la mente. Cosa era successo... Una battaglia, aveva detto Jarvo... Kane ricordò la battaglia. Il caos del sangue, dell'acciaio e del fuoco, mentre l'esercito nemico distruggeva la Crociata Nera in una notte selvaggia di violenza e devastazione. Ricordò con rabbia il tradimento del Profeta, il suo pazzo rifiuto di accettare la tregua dopo il suo fallito colpo di mano, l'idiozia che aveva dato alla Coalizione la possibilità di abbattere l'invincibile Spada di Sataki. Ricordò l'ultima resistenza della sua guardia personale, intrappolata tra le truppe dei fanatici di Orted e l'esercito incalzante di Jarvo. Quando anche l'ultimo dei suoi era caduto, Kane aveva fatto per un attimo il vuoto attorno a sé. E poi? Ricordò la nera disperazione del momento, quando si era reso conto di essere tagliato fuori. C'era solo la vecchia torre... Anche nella zuffa tremenda in corso, gli uomini avevano avuto soggezione di quell'antico baluardo. Kane vi si era rifugiato, chiudendo la porta in faccia ai suoi inseguitori. Perché? L'aveva fatto pur sapendo che sarebbero bastati pochi minuti ad abbatterla... sapendo di essere in trappola. Perché aveva chiuso la torre? Kane si sforzò di pensare. Si era rifugiato nella torre in ultimo gesto di speranza impossibile. Perché? Perché... la torre... La Torre di Yslsl... No! La Tana di Yslsl! Yslsl! Mago di un tempo antichissimo... oppure demonio? Rimanevano solo
leggende vaghe. La sua torre di pietra nera era già al suo posto prima che i più antichi sacerdoti di Sataki arrivassero in Shapeli, questo era ciò che si diceva. O forse, come sosteneva qualcuno, Sataki e Yslsl erano demoni fratelli nel pantheon di qualche antica razza dimenticata? Ma il culto di Sataki viveva ancora - sebbene per secoli fosse stato trascurato - e riguardo a Yslsl restavano solo leggende confuse. E la sua torre, o meglio come dicevano le leggende, le sue due torri... Quando Ceddi era stata costruita, i suoi primi abitanti avevano compreso la torre all'interno della cinta di tronchi. Nonostante fosse gelida e sinistra, le sue pietre sembravano solide... e i fondatori della città avevano altro di cui preoccuparsi che non strane leggende. Dopo molte generazioni la torre era sempre al suo posto... solida, gelida, e circondata da cattivi presagi come un tempo. Ora Ceddi aveva fortificazioni più robuste, e l'antico rifugio era stato virtualmente abbandonato. Secondo le leggende, c'erano due torri. Una a Ceddi, l'altra a mezzo mondo di distanza. E tra le due torri abitava Yslsl... il mago-demonio, la cui ragnatela interdimensionale era agganciata a questo mondo per mezzo di quelle due foci di energia. Forse la ragnatela, toccava anche altri mondi... Si poteva entrare nella Tana di Yslsl e attraversarla fino al punto in cui si ancorava un nuovo capo della ragnatela. Con un rituale si poteva aprirne la porta, grazie a una formula nota a sacerdoti morti da eoni e ai seguaci dei lori riti. Conoscendo la formula si poteva viaggiare lungo quel corridoio fra le dimensioni. Ma per farlo, bisognava affrontare Yslsl... Kane, la cui comprensione dell'occulto spaziava attraverso i secoli, conosceva la formula... e i suoi rischi. Ma con i nemici che incalzavano alla porta della torre, non aveva avuto altra scelta. Di nuovo ricordò. Ricordò di aver pronunciato la formula con il fiato strozzato. Gli urti dell'ariete che mandavano in frantumi la porta della torre. Il gelo del disco di pietra premuto contro la carne ferita... la caduta nel vuoto... Che cosa era successo...? Jarvo aveva detto che l'avevano trovato a terra privo di sensi. Forse la sua ultima speranza non era stata altro che uno stupido gioco d'azzardo con un'antica leggenda? Oppure era tuttora irretito nella Tana di Yslsl... torturato da illusioni coltivate nella sua mente dal demone dissanguatore? Era così difficile pensare... Concentrarsi, nonostante il dolore lancinante del viso ustionato e quello sordo delle ferite, nonostante la disperazione...
"Giaci, Kane. È inutile. Giaci e lascia che vengano a prenderti..." Yslsl! Il dolore... era reale, troppo reale. Come si poteva provare dolore, se quella era solo un'illusione? E anche le sequenze da incubo vissute prima di risvegliarsi in catene... anche quelle erano dolorose. Sogni? Delirio? Jarvo aveva detto che era stato in delirio. Illusione! Era un'illusione. È un'illusione! Il corridoio... «Yslsl!» urlò Kane. La sua voce risuonò soprannaturale. «Yslsl!» Fuori della cella udì le guardie muoversi nervosamente. No! Non ci sono celle! Non ci sono catene! Yslsl, sono entrato nella tua tana! Sciocco... sei caduto privo di sensi sul pavimento della torre. Fra un attimo i tuoi aguzzini verranno a prenderti. Poi la rabbia bruciò attraverso le pastoie della disperazione. Kane si alzò in piedi, obbligando la propria mente alla chiarezza. «Yslsl! Dove sei?» Doveva liberarsi dell'illusione... credere che quella fosse un'illusione... altrimenti sarebbe morto al suo interno e Yslsl si sarebbe nutrito della disgregazione stridula della sua anima. «Yslsl!» Kane scattò in avanti a testa bassa verso la porta di ferro. Ora. Ora doveva spezzare l'illusione! Non c'erano celle, né catene, né porte... si lanciò verso la porta... enorme, possente, sicuro... Si trovava in un corridoio. I suoi passi sembravano avanzare in sogno, e dietro di lui il corridoio svaniva in un abisso. Niente catene, niente ferite. Illusioni. Tutto era stato un'illusione... Kane provò una rabbia confusa... e, per un istante, paura. Poi soddisfazione... e fame. Una fame rabbiosa, ingorda. «Yslsl!» Risate, risate profonde. Una sagoma si mosse verso di lui. Una ragazza. Danzava nuda nella sua direzione, con i lunghi capelli scintillanti come stelle intorno al suo corpo sinuoso. Il viso di lei... bello, crudele come quello di una dea. «Povero Kane!» strillò come una bimba la ragazza. «Povero Kane, è completamente pazzo.» «Chi sei?» chiese lui. «Chi sei?» lo canzonò la ragazza. «Non lo sai? Non lo sai?»
«Yslsl!» «Povero Kane. Povero Kane impazzito. Yslsl? Vuoi Yslsl?» «Tu sei Yslsl!» «Forse lo sono. Forse lo sei tu. Vuoi Yslsl?» «Sì, maledetta! Dov'è Yslsl?» Lei rise, eseguendo una piroetta. «Povero Kane, povero Kane. È completamente pazzo. Yslsl è nella sua mente. Si nutre del tuo dolore. Povero Kane. Perché non muori?» Kane fece per afferrarla. Lei si ritrasse, ma lui riuscì a prenderla per il polso. La ragazza si rivoltò affondandogli i denti nella mano. Vinto dal dolore, Kane lasciò la presa e la ragazza scomparve in un turbinìo di luce. Kane si strinse la mano pensando di veder comparire del sangue, ma non vide altro che un'escoriazione verdastra gonfiarsi sempre più sotto i suoi occhi. Scrollò la mano, e il gonfiore crebbe come un fungo velenoso... poi scoppiò. Dal bubbone putrido non proruppe sangue. Ragni. Piccoli ragni nerastri che uscivano strisciando dalla sua carne. Ragni luccicanti come pezzetti di vetro. Sentiva le loro minuscole mandibole appuntite mordergli la carne per uscirne e li sentiva strisciare lungo il braccio come una spessa vena di chitina nerastra. Kane urlò, tentando di strapparseli di dosso, ma quelli resistevano, mordendogli le dita e il braccio. Ogni morso si gonfiava in un fungo verdastro, fino a scoppiare. E dalla nuova ferita sgorgavano altri ragni... che si arrampicavano sempre più... verso il viso... "Fai un passo indietro, Kane..." No! Dietro di lui si apriva l'abisso. Questa è un'illusione! I ragni erano scomparsi. Le sue mani erano di nuovo sane. Kane rabbrividì e continuò ad avanzare. Risate. Risate demoniache. Con corna d'ariete e grugno da rospo, il demone si acquattò sopra di lui tra la nebbia. Un enorme rospo gonfio bloccava il cunicolo con il suo corpo squamoso. La sua risata echeggiò sinistra e assordante lungo il corridoio, mentre la sua bocca si allargava sempre più... a dismisura. Una lingua appiccicosa e incredibilmente lunga scattò verso Kane. Schifato, l'uomo si ritrasse. No! Non devo indietreggiare! Con i tacchi sull'orlo dell'abisso, Kane si sforzò di conservare l'equilibrio
e di restare immobile, mentre la lingua del demone saettava davanti a lui. Ora il muso di rospo bloccava completamente il passaggio. Dal soffitto al pavimento spuntarono zanne ingiallite, simili a stalattiti e stalagmiti rese marce dal tempo. Un alito fetido esalò da quell'esofago fino a nausearlo. Kane barcollò. Non era più in un corridoio. Si trovava in piedi sulla lingua fetida del demone e avanzava verso la gola di quell'orrenda creatura. L'orrore e la repulsione lo fecero vacillare. "Fuggi! Torna indietro!" Illusione! "Torna indietro! Finirai inghiottito!" No! Yslsl, questa è un'altra illusione! Kane continuò ad avanzare, seguito dall'orlo dell'abisso. Lungo la lingua sdrucciolevole, entro quelle fauci sgocciolanti, in fondo alla gola spalancata, dove vermi senza occhi gli strisciavano sui piedi nudi. Le mascelle cominciarono a chiudersi. Kane si sentì spingere verso l'esofago del demone. «Illusione!» ruggì Kane, procedendo in avanti alla cieca. Si trovava in un cunicolo, e dietro di lui avanzava l'orlo dell'abisso... «Naturalmente è un'illusione, Kane. Sei pazzo.» Orted Ak-Ceddi lo guardò sghignazzando. «Sei pazzo, Kane... non capisci? Completamente pazzo pazzo pazzo. Questa è un'illusione... e anche tu.» Kane si lanciò su di lui. Il Profeta rimase immobile, con un sorriso sprezzante. Le mani poderose del generale si serrarono attorno al collo di Orted. Non era Orted. Era una ragazza, col viso contorto per la paura. La conosceva... Lyuba, l'aveva amata. Lyuba, morta e dissolta da secoli... per mano sua... «Kane! Fermati!» boccheggiò Lyuba, contorcendosi sotto la stretta. Ma le sue mani non si fermavano. Si chiusero sempre più inesorabilmente, di propria volontà. Kane tentò di allontanarle, ma la stretta mortale non si allentò. Il bel viso di Lyuba divenne bluastro. Gli occhi si gonfiarono per la pressione. La lingua si protese all'infuori, sempre di più... Era la lingua di un serpente. Kane stringeva un serpente per la gola viscida. Con un guizzo improvviso, l'animale si liberò della stretta e gli affondò i denti nel petto. Kane urlò di dolore, strappandosi dal petto quella testa orrenda. Il serpente esplose in una luce corrusca, accecandolo. Kane si ritrasse...
No! «Chi è?» All'improvviso, delle voci attorno. «Cosa gli è successo? Sta bene?» La sala da ballo era piena di gente coperta di gioielli e vesti preziose che danzava sul pavimento di ossidiana. Molti visi erano rivolti verso di lui con espressioni preoccupate. «Vi sentite bene?» gli chiese una ragazza con un abito di perle. «Qualcosa che non va?» gli domandò il suo accompagnatore. Indossava una maschera da gufo. «Io... non lo so» rispose Kane. Dove si trovava? Conosceva quella gente? Cosa gli era successo? Una coppia gli si avvicinò. «Attento, vecchio mio» sghignazzò uno di loro. «Ne hai bevuti troppi, vero?» «Posso chiedervi cosa state facendo qui?» si informò il compagno della ragazza con le perle. «Siete uno degli invitati?» Kane aggrottò la fronte. Lo era? «Sto bene, adesso.» «Penso che non si senta troppo bene» suggerì qualcuno in tono preoccupato. «Chi è? C'è qualcuno che lo conosce?» Chi era? Il panico cominciò ad afferrarlo. Chi era? Come era arrivato là? Kane non ricordava nulla oltre all'ultimo minuto. Si guardò intorno spaventato, pensando di scappare. I ballerini stavano chiamando aiuto. Un momento, uno sprazzo di memoria. Yslsl... «Basta!» urlò Kane. I ballerini si fermarono a guardarlo. «Basta!» La sala da ballo luccicò. Non era una sala da ballo. Era un dolmen. Kane era steso su una grossa lastra di pietra. Tentò di muoversi. Non ci riuscì. Le sue membra erano fredde, rigide. Aveva il capo appoggiato a qualcosa e gli occhi aperti. Vedeva il proprio corpo steso. La sua carne era inaridita e corrosa dal tempo. Indossava una maglia di ferro arrugginita e una pelliccia consunta. Non avera fiato per urlare. All'interno del dolmen sfilavano numerose figure, passandogli davanti per osservarlo. Morti, di cui riconosceva i lineamenti decomposti... nemici morti per mano sua durante gli anni passati. Morti, come lui, che lo guardavano con una gioia nascosta nei visi corrotti. Cantavano un lamento funebre. «Povero Kane. Era completamente pazzo.» «Povero Kane. Ha delle larve nel cervello.» Non larve... qualcosa di più spregevole... Yslsl.
Le labbra decomposte di Kane si raggrinzirono in una smorfia: «Yslsl!» Poi, più nulla. Kane, nudo e solo, che galleggiava nel nulla. Gelo, dolore, nulla. I suoi pensieri vagavano dolorosamente. «Sono pazzo? Sono pazzo? JSIon dovrei capire qualcosa? Non dovrei essere da qualche parte? E dove sono qui... E chi sono... sono qualcuno?» Un orrore cosmico gli attanagliò l'anima... un orrore che superava tutti i precedenti. Non capiva. Non capiva. Dove. Come. Perché. Quando. Chi. Se. Chi. «Pazzo pazzo (Yslsl gli ha divorato il cervello) pazzo pazzo.» E la rabbia guizzò ardente nella sua anima a pezzi. «Sono Kane!» ruggì nel vuoto. «Sono Kane!» E di nuovo stava camminando lungo un corridoio, e alle sue spalle il baratro lo seguiva. «No, sono io, Kane.» Davanti a lui era accovacciato un uomo robusto con la barba rossa. Il suo viso brutale era contorto dalla rabbia, e le fiamme della morte gli danzavano negli occhi azzurri e gelidi. Kane pensò di scorgere un riflesso di se stesso. Poi lo vide muoversi. «Io sono Kane» gli disse Kane. Le labbra gli si tesero in un ringhio. «Yslsl!» Era quasi una preghiera. Kane si lanciò alla gola di Kane. Kane schivò l'attacco... ma si era trattato di una finta. Ruotando su se stesso, Kane saettò con la mano aperta verso il collo di Kane. Kane evitò parzialmente il colpo mortale e nello stesso istante sferrò un calcio a Kane. Kane si sforzò di conservare l'equilibrio, avvinghiandosi a Kane. Un gomito colpì Kane al viso, accecandolo per il dolore. Ruotò sul fianco, mentre Kane tentava di approfittare del vantaggio, schivando così un secondo colpo a mano aperta. I due ansimavano pesantemente. La pelle si lacerava sotto la presa d'acciaio delle loro dita. Ogni finta, ogni presa segreta era nota ad entrambi. La forza e la velocità dei due erano identiche... lo stesso valeva per la furia rabbiosa che spingeva Kane contro Kane in un odio disperato. Ai piedi dei due gemelli che lottavano, attendeva inesorabile l'abisso che li seguiva ad ogni passo. Sprizzando sangue dagli occhi, Kane spezzò la presa soffocante alla gola con un colpo secco al collo dell'altro. Quello si ritrasse tossendo, con un attimo di ritardo per deviare il calcio di Kane al plesso solare. Procedendo
lungo il corridoio indietreggiò barcollando, per eludere l'attacco incalzante di Kane. Kane gli fu addosso, colpendolo al cuore e al viso. L'altro vacillò sulle gambe. Implacabile, Kane lo afferrò alla gola. L'altro lo colpì alla testa con incredibile violenza, e Kane sentì con i talloni l'orlo dell'abisso. Disperatamente Kane si piegò di lato nel corridoio, spingendo l'altro verso il baratro. Già sbilanciato in avanti, il suo avversario non riuscì a conservare l'equilibrio e, agitando le braccia goffamente, precipitò nel vuoto. Per un attimo Kane vide qualcosa che ricordava in modo orrendo un uomo, con il viso simile a una massa di filamenti tentacolari translucidi, che tentava di aggrapparsi al bordo del precipizio con mani ad artiglio. Quegli artigli si serrarono nel vuoto, mentre la creatura lentamente roteò nel baratro... Il corridoio parve urlare silenziosamente per l'orrore, mentre i suoi contorni ondeggiavano. Lottando per rimanere in piedi, Kane vide proprio davanti a sè... quella che sembrava un'apertura. Senza neppure pensare dove potesse condurre, l'attraversò... E nella Ceddi accesa dalla battaglia, la porta di un'antica torre andava in frantumi sotto l'ultimo colpo d'ariete, e Jarvo, assetato di vendetta, si precipitava all'interno... per frugare nella sua furia ottusa uno spazio pieno di polveri ed echi... E a mezzo mondo di distanza, una ragazzina cenciosa si aggrappò all'improvviso al braccio di suo padre. «Papà! Là, in cima alle scale! C'è un uomo steso a terra!» «Cosa?» Il padre seguì il dito puntato della piccola. Quando il temporale li aveva costretti a cercare rifugio per la notte in quel vecchio ammasso di pietre, lui si era guardato attorno circospetto «si sentivano delle strane dicerie» ma non aveva visto nulla all'interno. Eppure, la fiamma del falò che avevano acceso tremolava incerta e quell'ultimo fulmine era caduto tanto vicino che pareva volesse incendiare la torre. Chiamò ad alta voce, senza ricevere risposta. Togliendo un ramo dal fuoco, salì con cautela la scala a chiocciola con la mano sulla vecchia spada che era tutto ciò che gli restava dei suoi beni. La figlia lo seguì, più incuriosita che spaventata. «È vivo?» «Sì, anche se è ferito gravemente. Sembrerebbe un cavaliere. Deve aver
lottato disperatamente... forse ha incontrato dei predoni. Fasciamogli alla meglio le ferite.» Kane aprì gli occhi, li guardò, e perse di nuovo conoscenza. «Vivrà?» «A giudicare dall'espressione dei suoi occhi, direi di sì... per sventura di chi l'ha ridotto in queste condizioni.» La ragazza si strinse le costole scarne. «Ho visto la furia in quegli occhi.» Il padre grugnì. «Cercherò di portarlo da basso, accanto al fuoco. Puoi aiutarmi? È un gigante.» «Cos'ha in mano?» La piccola rabbrividì. «Fammi vedere.» Sollevò la mano insanguinata e imprecò guardando i frammenti sgretolati che aderivano alle dita e alle unghie di Kane. «Contro qualsiasi cosa abbia lottato, doveva essere morto da un pezzo.» VENTI DI FUOCO (Flame Winds, 1939) di Norvell W. Page Norvell W. Page, nato a Richmond nel 1904 e scomparso nel 1961; ha iniziato la sua carriera come giornalista nel 1924, dedicandosi poi a tempo pieno alla narrativa. Dopo essersi conquistato una discreta popolarità come autore di romanzi polizieschi - con un centinaio di romanzi, fra cui quasi tutte le avventure di The Spider fra il 1933 e il 1943, alcune di The Octopus nel 1939 e di The Scorpion sempre nel 1939 - si è dedicato anche alla fantascienza, e in questo campo ricordiamo il notevole romanzo But Without Horns (1940 - La morte azzurra). Nel genere fantasy si è distinto con due soli romanzi, quello qui presentato e Sons of the Bear Good (1939), protagonista Prester John. È stato presidente dell'American Fiction Guild, e a lui dobbiamo anche numerosi racconti horror. I Quando il bordo rosso del sole toccò le colline di Suntai indorando le alte torri aggraziate di Turgohl, una singola nota, tenue ma lacerante, si librò nelle ombre del crepuscolo. Gli uomini alzarono sguardi preoccupati verso la torre centrale, la più alta di tutte, incoronata da una spirale d'oro simile ad una fiamma e scintillante di meravigliosi mosaici di marmo color malva
e rosa. Tutti serrarono i pugni sui fianchi e piegarono i pollici nel segno protettivo di Balass, dio del tuono. «Che il tengri e l'imponente fuoco del cielo ci proteggano» mormorarono gli uomini nei bazar, e solerti cominciarono a sprangare gli ingressi dei loro negozi. Le portantine dei facoltosi si affrettarono a cercare il riparo offerto dai cancelli d'ottone e dagli alti recinti appuntiti delle dimore dei loro proprietari. Sulle ricche acque azzurre del Baikul gli staffili dei guardiani schioccarono sui dorsi curvi degli schiavi, spingendo le prue slanciate delle galee da pesca in direzione della chiusa. Nei campi, altri schiavi nudi caricarono in spalla i rudimentali attrezzi agricoli e si avviarono a passo svelto, cupi sotto le fruste dei sorveglianti. Al successivo echeggiare di quella esile nota lamentosa, che avrebbe potuto provenire dal cuore dell'aria o risuonare addirittura nelle viscere dell'uomo stesso, il Vento Infuocato avrebbe cominciato a soffiare dal Karakorum e dal deserto delle Sabbie Nere. Era un fenomeno al di là dell'umana comprensione, opera dei maghi di Kasimer, e contro di esso solo le mura di Turgohl o gli uomini di Kasimer potevano avere il sopravvento. Dalle ombre che volgevano a est degli abeti che ammantavano le colline di Suntai, un carro trainato da un paio di buoi sbucò traballando e proseguì sferragliante lungo la nera strada che conduceva alla Porta Meridionale. Un uomo che indossava il bianco cappello conico delle tribù mongole punse le natiche delle bestie con un bastone acuminato, spronandole ad un trotto goffo e pesante. L'uomo sembrava solo, eppure mormorò senza muovere praticamente le labbra: «Siamo ormai vicini, Wan Tengri.» Dal cumulo di lana alle sue spalle una profonda voce sbottò in un'imprecazione tonante. «Per Ahriman, sarà sempre troppo tardi! Nemmeno tutti i fuochi di Ormazd o questo vento d'inferno di cui vai cianciando, possono battere come calore questa tua lana!» «Silenzio!» avvertì il guidatore con tono spaventato. «Nelle vicinanze di Turgohl il vento stesso ha orecchie!» Una faccia rossa e sudata sbucò fuori dal carico di lana, e lo stesso sole che stava tramontando non era più fiammeggiante della folta massa dei suoi capelli o dell'ispida barba che si arricciava attorno a quella bocca. «Ah, se questi venti di cui parli volessero usare le loro orecchie per farmi vento!» L'uomo si passò una manica sulla fronte, sputando ciocche di lana. «Puàh! Non ho mai odiato le pecore come in questo momento!» «Nasconditi, sciocco!» gracchiò il mongolo. «Non ti ho forse avvisa-
to...» Dall'aria che si addensava sulle teste dei due, una voce si levò a parlare. Una voce sibilante e sottile, e ancora una volta nessun uomo avrebbe potuto dire, meno di chiunque altro il rosso gigante chiamato Wan Tengri, se essa provenisse dall'aria o dall'interno di lui stesso. «Affrettatevi, schiavi» mormorò la voce «altrimenti assaggerete il respiro del Vento Infuocato!» Il mongolo cominciò a tremare; si tolse il copricapo conico, scoprendo in segno di rispetto la scomposta capigliatura nera, e con gesti frenetici punzecchiò le natiche dei buoi. «Ti udiamo e obbediamo, Signore!» Wan Tengri afferrò saldamente nel pugno l'affusolata forma d'acciaio di una daga, e i suoi scaltri occhi grigi scrutarono l'aria con una fredda espressione di sfida. «Per la barba di Ahriman» fece sottovoce «se solo potessi trovare la gola che mi ha chiamato schiavo...!» «No.» Il mongolo respirava affannosamente. «I Maghi parlano dove vogliono. Essi sentono e vedono dove vogliono. Il nostro destino è segnato, Wan Tengri! Fuori dalle mura, il Vento Infuocato. E dentro... dentro, i Maghi di Kasimer!» «Se mi nascondo» osservò truce Wan Tengri «è solo per rispetto verso di te, Kassar, amico mio. Per quanto riguarda la vista di questi Maghi, non mi hai forse detto che i soldati sonderanno il tuo carico di lana con le punte delle loro lance? Se i Maghi possono vedere così bene, dov'è la necessità di questo controllo?» Il mongolo non rispose e Wan Tengri, con un ultimo sguardo di sfida verso il cielo, tornò ad infilarsi sotto il mucchio di lana. Il puzzo di letame del carico era soffocante nelle sue narici e i riccioli di lana gli punzecchiavano in modo irritante la pelle inzuppata di sudore, ma le sue labbra forti erano tese in un sorriso arcigno. Un uomo che era stato braccato dai guerrieri dei Faraoni, che aveva disprezzato il potere del Trono Aureo del Khitai, non poteva certo spaventarsi per una semplice voce che sussurrava nell'aria. Un trucco di qualche stregone, ecco cos'era quella voce. Superstizione. Un uomo che portava al collo un frammento della Vera Croce, entrando così sotto la potente protezione di quel nuovo dio chiamato "Christos", non doveva sicuramente temere quei barbari. Attorno a sé, Wan Tengri sentì ora il suono di piedi frettolosi, i ragli degli asini e il muggito di protesta di un cammello lanciato di corsa. Udì, sopra il frastuono attutito dalla sabbia delle ruote dei carriaggi, il sibilo e lo
schiocco di uno staffile dei guardiani di schiavi e l'urlo strozzato di dolore di un uomo. I Maghi governavano con il pugno di ferro; quello era un paese dove un uomo forte poteva accumulare i beni che voleva, procurarsi ingenti ricchezze e una di quelle veloci galee. Dopo di che Wan Tengri sarebbe ripartito per tornare in patria. Perfino la morsa d'acciaio di Roma poteva venire evitata con l'oro. Una villa sulle purpuree colline del Libano dove il vento era sempre mite, dove vi erano spezie e sete, e fanciulle del Caucaso dagli occhi dolci e dalla pelle d'avorio... Wan Tengri distese le sue gambe dai muscoli d'acciaio, e il carro si fermò traballando. Wan Tengri riconobbe il tono arrogante delle guardie alla Porta Meridionale, e tese l'udito. Sì, parlavano la lingua dei mongoli che lui aveva appreso nell'ultimo rigido inverno tra le tribù del Karakorum. Sentì Kassar rispondere, deciso e baldanzoso. Kassar non temeva alcun mortale, lo intimorivano solo quelle voci che sussurravano dal cielo. E Wan Tengri non temeva nemmeno quelle! Un tonfo sordo contro il fondo del carro indicò a Wan Tengri che delle lance stavano frugando il carico di lana. Tre tonfi... Dunque tre lance si muovevano a tentoni in cerca di carne umana! Si coprì il ventre con uno scudo di cuoio e imprecò tra i denti. Per Ahriman, se una di quelle punte di metallo l'avesse trovato, presso quella porta sarebbe scoppiato un parapiglia tale da indurre i Maghi a strapparsi dall'afflizione i capelli serpentini! Wan Tengri impugnò saldamente nella sinistra la daga e accarezzò colla destra l'elsa della sua scimitarra di Damasco dalla lama ricurva. Il suo nome, Wan Tengri, nella lingua dei mongoli significava John Demone del Vento. Nelle arene dei gladiatori di Alessandria lo conoscevano con un altro nome. Dopo aver visto i suoi combattimenti furibondi e i suoi assalti cui nulla poteva resistere, i poetici greci lo avevano ribattezzato attribuendogli il nome del terrore che maggiormente infestava i loro stretti bracci di mare, l'uragano che riduceva a brandelli grandi come stuzzicadenti le loro navi, e che colpiva con lampi ignei simili a spade di fiamma. Prester, l'uragano... da cui ecco il nome di Prester John. Lo scoprissero pure, quelle guardie! Avrebbero così imparato cosa poteva fare un prester anche nel remoto Karakorum. Un'imprecazione balzò alle labbra barbute di Wan Tengri, a stento soffocata. Una delle lance aveva trovato la sua coscia. Rimase immobile, in attesa, tendendo ogni suo muscolo. Se la lama appuntita avesse sondato di nuovo...
«Entra, mongolo» risuonò la voce arrogante di una guardia. «E non dimenticare la sentinella, quando domani uscirai!» Il carro si rimise in moto traballante e, nella calda oscurità del suo riparo, Wan Tengri ghignò feroce. Lui non avrebbe affatto dimenticato la guardia della Porta Meridionale! Sbottando in una bestemmia premette una manciata di lana sul taglio prodotto dalla lancia. La nota lacerante echeggiò un'altra volta e in lontananza si udì il clangore delle cancellate che si chiudevano, accompagnato da un urlo umano. Qualche poveraccio era rimasto intrappolato tra i denti metallici di quei grandi portali. Be', Wan Tengri almeno era dentro. Cautamente scostò la lana che gli copriva il capo e la fresca aria notturna raggiunse le sue avide narici, portando con sé gli aromi di Turgohl, la città dalle mura marmoree. Il fondo stradale emanava un odore di fanghiglia e di sterco, che era comunque sovrastato dall'aroma piccante dei magazzini di spezie e dal profumo dolce e intenso del gelsomino. Wan Tengri sentì il sangue ravvivarglisi e gettò da parte la lana. In quelle stradicciole lerce le ombre bluastre del crepuscolo erano fitte. «A questo punto ti lascio, Kassar» disse con voce tonante. «La protezione dell'Unico Vero Dio sia con te.» I denti giallastri del mongolo luccicarono in un largo sorriso. «Vedo che la buona sorte ti è molto amica, Wan Tengri. Pensavo che le loro lance ti avessero trovato.» Wan Tengri grugnì e con un movimento agile balzò a terra. Torreggiava più alto della fiancata del carro, e fu ancora più imponente quando si calcò un cappello mongolo sulla chioma fiammeggiante. Era una figura maestosa e massiccia con un paio di occhi grigi che spiccavano impavidi sopra la massa arruffata della barba. Gettò allora sul carro una piccola borsa che tintinnò delicatamente. «Un dono di congedo, fratello!» Cessando di sorridere, Kassar raccolse la borsa. «No, è il bottino sottratto ad un Mago. Non oso accettarlo.» Wan Tengri si strinse nelle spalle. «Mi ha forse stregato? Affatto, anzi la sua zucca di Mago rintronerà per parecchi giorni a causa del colpo che gli ho assestato! Prendi questo, allora.» Sfilò dal fodero la lunga lama affilata della sua daga e ne conficcò la punta nel fianco del carro. L'arma vibrò con una nota simile ad una campana argentina. «Addio, fratello.» Wan Tengri si allontanò a grandi passi nelle tenebre di quella strana città dei Maghi, inoltrandosi nelle strade dalle finestre sprangate e dalle alte pareti bianche sormontate da recinti appuntiti. I suoi occhi scaltri si levarono
verso le torri, fissandosi incuriositi su una di esse, la cui sommità riluceva d'oro screziato sotto un'ultima lingua indugiante del rosso tramonto. I suoi denti brillarono per un breve istante tra la fitta barba. Per un uomo della sua statura, Wan Tengri si muoveva silenzioso, torreggiante con quel cappello conico di feltro bianco e spiccando possente nel bianco mantello che lo avvolgeva; erano entrambi doni mirabili del khan della tribù di Kassar. Quei selvaggi abitanti del desolato Karakorum lo avevano saggiato in combattimento e non avevano trovato in lui alcun punto debole. Dopo, essi avevano mescolato il sangue e spezzato la freccia dell'amicizia. I vigorosi guerrieri dell'Imperatore di Chin avevano assaggiato il suo acciaio, e prima di loro lo avevano assaggiato altri miliziani, lungo la via che dall'Egitto portava a Ceylon e proseguiva ancora più a oriente attraverso il mare di Chin, terra in cui uomini della sua razza non si erano mai avventurati prima d'ora. Era questo il motivo per cui Wan Tengri doveva spingersi in direzione nord, nella speranza di attraversare l'azzurro mare di Baikul e di piegare poi alla volta del suo paese. Non poteva assolutamente tornare seguendo la strada da cui era venuto. Lì lo attendevano troppi potenti nemici. E poi un uomo come Prester John doveva forse tremare ora, di fronte ad alcuni Maghi e alle loro guardie? Wan Tengri inclinò indietro il capo massiccio e tuonò in una fragorosa risata che echeggiò stranamente nelle strada deserta. Di colpo una pallida luce rossa risplendette sopra la sua testa, ed egli indietreggiò contro un muro di marmo lucente. Con un sibilo lamentoso la sua spada sgusciò dal fodero, formando un baluginio filiforme di metallo azzurrastro nel crepuscolo e riflettendo il soprastante alone rosso con guizzi di sangue appena versato. Nell'aria, l'acuta voce beffarda parlò di nuovo. «Rimani dove sei, schiavo, finché non arriveranno le guardie!» La luce svanì e i denti di Wan Tengri luccicarono in una risata silenziosa. Le aspettassero gli sciocchi terrificati da quel fenomeno, le guardie! Wan Tengri aveva altre faccende da sbrigare... Eppure poteva rivelarsi utile, provare la sua lama sulle guardie di Turgohl. «Che Ahriman si porti questi Maghi di Kasimer!» mormorò, toccando il frammento della Vera Croce appeso al collo, e avvertendone il contatto rassicurante contro la pelle. Poi, alle sue spalle udì un suono che conosceva fin troppo bene, un suono che echeggiava da un confine all'altro del mondo civilizzato... il calpestio ordinato dei soldati in marcia e il clangore delle loro armi. Per un istante i denti di Wan Tengri si scoprirono in un
ringhio bestiale mentre lui poneva mano alla scimitarra... ma alla fine scosse il capo. Avrebbe potuto massacrare tutti quanti, però così facendo si sarebbe trascinato alle calcagna tutti i soldati di Turgohl. No, per il momento era meglio filar via. Il rumore della pattuglia in marcia si era intanto avvicinato; proveniva proprio da dietro la curva di quella straducola tortuosa piena di solchi e di fango. Non vi era alcun buco dove acquattarsi in attesa che le guardie passassero oltre, né alcuna svolta nelle vicinanze. Comunque vi era un muro rivestito di spuntoni metallici. In un batter d'occhio Wan Tengri infilò la spada tra i denti, mentre le sue braccia poderose raggiungevano l'appiglio degli spuntoni. Si issò, togliendo i suoi stivali di daino dal fondo fangoso con una rapida spinta oscillante, e ruotò verso la sommità del muro, dove giacque immobile. La sua mano sinistra si accostò all'elsa della spada. Dall'angolo intanto sbucava la pattuglia di soldati muniti di elmetto. Erano in dieci, e marciavano con passo pesante seguendo il loro capitano. Portavano appesi a tracolla arco, faretra e giavellotti, e dai loro fianchi pendevano le lunghe spade ricurve degli abitanti della pianura. Wan Tengri valutò in modo accurato le loro forze. Dal punto elevato in cui si trovava poteva abbatterne una buona metà prima che quelli riuscissero ad individuare il loro obiettivo. E in quanto al resto? Le sue labbra si tesero scoprendo la solida dentatura. Era un sistema buono quanto un altro per aprirsi un varco... solido acciaio in pugno e un duro scontro armato. Wan Tengri avvertì la collera crescere in lui, la furia rabbiosa che gli era valsa l'appellativo di Prester John. Nei suoi occhi vi erano ora luci simili a pallidi lampi, e i cordoni della sua gola stavano tendendosi. La spada si librò verso l'alto... «Per Belass!» esclamò in un soffio il capo degli armigeri. «Per Ormazd e i venti del Tengri! Quell'uomo ha rotto l'incantesimo!» Il capitano indicò con mano tremante il punto in cui le orme di Wan Tengri cessavano di colpo. Gli uomini si guardarono attorno nel buio con espressione spaventata, ma il bordo dei loro elmetti fece sì che non guardassero in alto, verso la morte vendicatrice che incombeva sotto forma di una lama d'acciaio. «Qualche grande Mago» disse il capitano. «Qualche grande Mago ha rotto l'incantesimo dei Supremi!» E scrutò nell'ombra alle proprie spalle. «Ora è sparito. È inutile che noi restiamo qui. Da questa parte, uomini. Da questa parte...» Fatti un paio di passi, il capitano si lanciò di corsa, seguito precipitosamente dalla pattuglia in un selvaggio clangore di spade inguai-
nate. Wan Tengri sentì una risata sgorgargli in gola, ma la soffocò, lanciando un'occhiata di sfida nell'aria notturna dove poco prima era sbocciata la sfocata luminosità rossastra. Di nuovo toccò il frammento della Vera Croce. «Gli uomini governati con la paura» mormorò tra i denti «sono codardi nel loro intimo. In questo luogo non vi è nulla che possa fare del male a un individuo libero, dall'animo libero.» Wan Tengri si drizzò in piedi sulla sommità del muro, spiccò un balzo elastico giù nella fanghiglia, e prese rapidamente la direzione presa dalle guardie. Si fermò un attimo ad un incrocio di quel dedalo di viottoli per orientarsi, poi si affrettò a proseguire. Alla fine si fermò di fronte ad una porta decorata a strisce verdi e dorate, e la percosse violentemente con l'elsa della spada. Le indicazioni fornitegli da Kassar si erano rivelate preziose. D'ora in poi, egli era padrone di se stesso, artefice delle proprie decisioni e della propria sorte. Canticchiando sommessamente, attese con impazienza che rispondessero alla sua bussata. Ed ecco che nella porta si aprì uno spioncino, e una faccia gialla dall'espressione melliflua lo fissò con un paio di occhi a mandorla. «Apri, Tsien Hui!» ordinò secco Wan Tengri. «Vengo per affari, e reco pingui profitti per le tue gialle dita avide. Mi manda Kassar il mongolo.» Lo sportellino si chiuse e un istante dopo la porta si spalancò. Il cinese si inchinò tenendo le mani mollemente congiunte sul ventre obeso, e fece strada attorno allo schermo costruite per tener fuori i demoni del Regno Giallo; i demoni che potevano muoversi solamente attraverso porte e finestre, e solo in linee rette. Raggiunse con passo strascicato una stanza le cui pareti erano decorate con preziosi tappeti Sarouk e Bukhara, e con un cenno cortese invitò Wan Tengri a sedersi. «Tu non sei un mongolo» mormorò Tsien Hui con le labbra atteggiate ad un sorriso perenne, mentre i suoi occhi cerchiati di grasso ispezionavano meticolosamente il gigante che gli sedeva di fronte a gambe incrociate. «Sei un barbaro che proviene dall'occidente.» Wan Tengri trasalì, ma controllò i propri muscoli con uno sforzo. Ormai avrebbe dovuto essersi abituato all'astuzia di quei diavoli dalla pelle gialla. Grugnì allora una risposta d'assenso. «Comunque non è una faccenda che ti riguardi, ladro color zafferano» ribatté, tagliando corto. «Ho bisogno di denaro.» Pescò un paio di orecchini di rubino dalla borsa di bottino che aveva offerto a Kas-sar, e li gettò con noncuranza sulla stuoia di fronte a
sé, ghignando leggermente sotto la rossa barba. Quel Mago avrebbe avuto mal d'orecchie per un pezzo! Poi, Wan Tengri scosse il capo con espressione afflitta. «Rubini Balass» riprese mesto. «Li ho presi circa due lune or sono dalle orecchie di mia madre morta. Sì, era una donna meravigliosa, ma non avrebbe certo voluto che il suo figliolo morisse di fame.» «Hmm.» Tsien Hui mosse quelle gocce rosso sangue con un indice sormontato da una lunga unghia. «Dunque... dunque sono rubini Balass.» Li raccolse, soppesandoli nel palmo della mano. «Provengono dalle orecchie della tua defunta madre, tu dici.» La mano di Wan Tengri si serrò attorno all'elsa della spada. «Certo» ripeté sottovoce. «Dalle sue delicate e soavi orecchie, infedele.» Quelle gocce di gemma scarlatta affascinarono gli occhi di Wan Tengri. Avrebbero adornato degnamente le orecchie di qualsiasi principessa, di una principessa come quella che lui avrebbe corteggiato quando, colmo di onori e di ricchezze, sarebbe salpato sulla sua galea personale per fare ritorno all'ovest. Sorrise... poi i suoi occhi si spalancarono in maniera paurosa. Di colpo, nel palmo giallo del cinese non vi era più nulla... nulla dove fino a un attimo prima rifulgevano quei gioielli squisiti! Tsien Hui sorrise e inchinò la testa amichevolmente. «È come pensavo, barbaro» proclamò. «Gioelli rubati a qualche Mago.» Come un serpente che svolgesse di colpo le sue spire, Wan Tengri balzò nello spazio che li separava. La sua mano sinistra ghermì la pappagorgia zafferano dell'altro, e i suoi occhi avvampavano di collera, infuocati come i rubini Balass. «Ladro!» ruggì. «Bugiardo! Rendimi quei gioielli. Credi forse di derubarmi? Di derubare proprio me, Prester John?» Scosse il cinese come fosse una scimmia, ed un terrore indicibile affiorò negli occhi del trafficante, che tremava in quella morsa selvaggia. «No, barbaro, non sto mentendo. In questa mirabile città accadono strane cose. Nessun uomo può rubare, perché se egli ruba, quando il proprietario scopre che i suoi beni sono scomparsi, tali beni cessano di esistere. I Maghi che regnano in questo luogo hanno detto che le cose esistono solo perché noi crediamo nella loro esistenza, mentre ciò in cui nessuno crede non esiste. Vedi, vi è forse suono se un grande albero cade dove non v'è alcun orecchio per sentire? Così, è solo pensando le cose che esse possono esistere. Se un Mago perde la propria ricchezza, la cancella dal pensiero, ed essa smette di esistere.»
Wan Tengri sbottò in un ghigno bestiale. «Frottole, frottole belle e buone, grasso furfante! Se ciò fosse vero, allora non potrei certo trovare alcunché nascosto nei tuoi abiti, no?» Guardingo, spogliò Tsien Hui delle sue vesti. Dopo di che tastò la stuoia con le dita e si alzò, fissando come una bestia in gabbia le pareti della stanza. I gioielli non potevano essere stati occultati in nessun altro posto, eppure... «Visto, barbaro?» si lagnò il nudo Tsien Hui, stringendosi le gambe giallognole. «È come ti ho detto. Non esiste nulla a meno che non lo si pensi... e il proprietario di quei ninnoli...» Wan Tengri tuonò infuriato: «Stupide menzogne! Perché ti sei fatto piccolo dalla paura, grasso ladro, se non in ricordo dei miei pensieri per quei gioielli?» All'improvviso Wan Tengri si rammentò dei preziosi che portava alla cintola. Estrasse la borsa di cuoio dalla cintura e la capovolse sul palmo della mano. Non ne uscì alcun gioiello! Nemmeno una sola gemma della piccola fortuna che aveva rubato al mago... dalla sacca sbucò invece una maligna testa appiattita di forma triangolare, e le zanne di un serpe saettarono verso la mano aperta di Wan Tengri. II Solo muscoli allenati al combattimento erano in grado di muovere un uomo più velocemente dello scatto di un serpente, solo l'abilità di un uomo battezzato con il nome dell'uragano dalla volubile plebe di Alessandria. Wan Tengri agì d'istinto, con l'incredibile rapidità di chi è vissuto grazie alla prontezza della mano e degli occhi. Le sue mani entrarono in azione contemporaneamente. Il rettile e la borsa furono scagliati verso il soffitto drappeggiato di sete. La spada di Wan Tengri cantò sibilando, uscendo dal fodero... e il rettile si divise a mezz'aria in due tronconi innocui. Le labbra di Prester John erano piegate in un sorriso sprezzante. La sua destrezza non lo gonfiava minimamente d'orgoglio. Non aveva forse dimezzato frecce al volo? Non aveva forse usato la guizzante sferza della sua spada come scudo contro il morso dei dardi? Lanciò la scimitarra in aria e la afferrò poi con precisione per l'elsa. «Ho la mezza idea, tartaruga gialla» disse pacatamente «che tu sia un Mago! Questi arzigogoli di uomini che fanno esistere le cose pensandole, io non li capisco. Ma nell'Indo ho conosciuto stati d'intontimento mentale che mi hanno perfino fatto vedere tigri dove di tigri non vi era ombra. Sì, penso proprio che tu sia come uno di quegli imbroglioni dell'Indo... che tu
sia un Mago. E credo che sia stato tu a sottrarre dalla mia borsa quei frammenti di cristallo colorato, servendoti di una malia. Ebbene, conosco una prova infallibile per stabilire se uno è un Mago. Tutti sanno, naturalmente, che solo l'acciaio incantato può ferire un mago. Per cui, se non sopravviverai quando io affetterò quella tua gola traboccante di grasso, saprò di averti fatto un torto, e onorerò la tua memoria come quella di un onest'uomo.» Il sorriso di Tsien Hui era più che mai forzato. «È un ben misero scherzo il tuo, barbaro. Comunque il mio onore è stato toccato. In effetti i gioielli sono svaniti dalle mie stesse mani. Quindi...» la sua voce era colma di dispiacere «quindi permettimi di offrirti un regalo.» Prima che Wan Tengri potesse terminare di abbozzare un sorriso, la porta risuonò sotto una gragnuola di colpi vibrati dall'elsa di parecchie spade. «Apri, Tsien Hui!» tuonò una voce. «Apri e consegna lo schiavo del Supremo!» Il sorriso di Wan Tengri non vacillò. «Orbene» disse lentamente «è la terza volta che mi si chiama schiavo questa sera. È un nome che non gradisco in modo particolare.» Dopo aver ispezionato la stanza con uno sguardo, raggiunse con un'ampia falcata lo schermo che riparava la porta. «Vai nella tua tesoreria, Tsien Hui, e prepara il piccolo dono che così gentilmente mi hai offerto. Intanto io sbrigherò quest'altra faccenduola.» Lanciò una rapida occhiata alle proprie spalle in direzione del cinese, ma l'uomo era. già scomparso. I tappeti appesi alle pareti non mostravano il minimo ondeggiamento che potesse indicare da che parte se n'era uscito, e Wan Tengri imprecò sottovoce. Doveva dunque combattere con la prospettiva di un colpo a tradimento alle spalle? Piegando indietro la testa, fece tuonare la sua profonda risata. «Avanti, sciocchi» urlò. «Venite... venite a prendere lo schiavo!» Con la punta della spada scostò la sbarra che bloccava la porta, e un manipolo di uomini s'incuneò nell'apertura. Avevano tutti le armi spianate, e il tremulo lucore giallognolo della grande lanterna cinese che penzolava dal soffitto traeva riflessi rosso-oro dalle loro piastre pettorali e dai loro elmi scolpiti a sbalzo. Wan Tengri rise di nuovo e la sua spada sibilò come la carezza di una lingua di serpe. Un tocco di punta orizzontale attraverso una gola, poi la scimitarra s'impennò per mozzare un braccio. Fu solo dopo quel secondo colpo che dalle labbra di Wan Tengri scaturì un grido di rabbia e sgomento. I suoi fendenti erano stati precisi. Su ciò non nutriva affatto dubbi perché, nel corso degli anni, la sua vita era dipesa dalla fulminea prontezza
dei suoi occhi e della sua mano destra. Avrebbero dovuto esserci due morti sul pavimento, uno con la testa quasi staccata e l'altro privo di un braccio. Avrebbero dovuto... ma non c'erano. Non vi era alcuna macchia sull'acciaio lucente della spada di Wan Tengri, né sgorgava il lieto fiotto cremisi annunciatore di vittoria. Al contrario, era la spada del capitano a puntare contro il petto di Wan Tengri. «Non puoi ferire le guardie incantate di Turgohl, sciocco» disse sprezzante il capitano. «Getta la spada!» Wan Tengri spiccò un balzo all'indietro per sottrarsi alla minaccia della spada. Il suo respiro era aspro e concitato, e la furia gli stava iniettando di sangue gli occhi. Incantesimi! In qualsiasi luogo si spingesse, si trovava di fronte alle macchinazioni di quei Maghi maledetti. E dunque la sua scimitarra, il suo magnifico acciaio di Damasco, non poteva recar loro alcun danno. Eppure... eppure questi soldati indossavano l'armatura. Se indossavano la corazza allora significava che potevano essere feriti! Gli uomini stavano sbucando in massa dall'altro lato dello schermo, apprestandosi a circondare Wan Tengri con mosse caute... erano in dieci, più il capitano. Con un gesto rapido, Wan Tengri infilò la spada nella guaina. La sua mole si stagliava enorme sullo sfondo lucente dei tappeti cresimi, azzurri e dorati che addobbavano le pareti. Il suo copricapo conico era caduto al suolo, e i suoi riccioli di fiamma erano un degno alone per l'espressione feroce del viso. I pugni serrati e villosi riposavano come mazze ai suoi fianchi. «Voi mi avete chiamato schiavo» disse Wan Tengri, con voce che tuonava dal profondo del suo torace. «Non vedo proprio perché dei guerrieri invulnerabili debbano tenersi a rispettosa distanza da uno schiavo.» Il capitano sorrise con un'espressione sorniona e felina. «Consegna la tua spada, schiavo» ordinò. Fece un lieve cenno con la mano, e i suoi uomini avanzarono ai suoi fianchi, le spade bilanciate nelle loro mani come giavellotti pronti al lancio. Wan Tengri sembrò riflettere mentre, sotto le sopracciglia aggrottate, i suoi occhi vagliavano ogni possibilità. Egli borbottò i suoi pensieri ad alta voce: «Consegnare la mia spada? Be', è una cosa che non ho mai fatto, nemmeno quando avevo di fronte due dozzine dei più forti guerrieri dell'Imperatore di Chin. È vero che quelli non erano incantati, comunque si battevano per una causa che ritenevano legittima. Quindi stai bene attento,
capitano.» Wan Tengri fece un mezzo passo all'indietro, e avvertì il contatto sericeo di un tappeto contro i suoi pugni ondeggianti. «Stai bene attento, quelli non combattevano per una bazzecola, dal momento che io avevo rapito la concubina preferita dell'Imperatore Han in persona, e...» A questo punto compì un'impresa mirabile. I tappeti Bukhara sono morbidi e sericei, e possono passare attraverso la circonferenza di un piccolo bracciale femminile, ma restano comunque pesanti; tenendo poi conto delle loro dimensioni e della resistenza dell'aria, il piano di Wan Tengri aveva dell'incredibile. Con un unico strattone delle sue mani, egli strappò il tappeto dai ganci e, prima che le spade, a meno di un passo da lui, potessero raggiungerlo, lanciò il massiccio drappo sulla testa delle guardie, dimostrando la medesima destrezza con cui un retiarius nell'arena scaglia la propria rete contro il gladiatore rivale. Wan Tengri avrebbe potuto fuggire allora, ma la sua collera, la collera di Prester John, si era ormai destata. «Dunque io sarei uno schiavo!» esclamò. Mentre gli uomini menavano fendenti al tappeto che li imprigionava, si chinò e allungando le mani sotto l'orlo del drappo afferri) le caviglie del capitano. Se portavano la corazza significava che li si poteva ferire... e nessuno poteva permettersi di chiamare schiavo Prester John e di sopravvivere. Le spalle poderose di Wan Tengri si inarcarono e le sue cosce si tesero. Poi, drizzandosi, egli fece sbattere la testa del capitano contro il pavimento, come un ragazzo che avesse spaccato il capo di un serpente contro una roccia. L'elmo rimbalzò via, e finalmente Wan Tengri vide il sangue scorrere. Era come vino rosso per la sua gola riarsa dalla collera. Wan Tengri piegò la testa verso l'alto erompendo in una risata mugghiante, senza mollare le caviglie del capitano. Sollevò il corpo dal capo frantumato e lo fece oscillare contro il perno delle sue braccia una, due, tre volte, mentre lame affilate laceravano il tappeto ed un paio di soldati si liberavano da quella rete incespicando e balzando in avanti con le spade pronte ad uccidere. Wan Tengri fece oscillare il cadavere tre volte, dopodiché lo fece ruotare in un ampio cerchio attorno alla propria testa, prorompendo in un ruggito belluino. La sua mazza da guerra umana colpì una guardia sul torace, sollevandola dal suolo come un giocattolo e mandandola a urtare contro un altro armigero. Era una mazza da guerra rivestita di ottone. Gli uomini colpiti giacquero immobili. Il possente staffile di Wan Tengri frustò un altro paio di volte, poi gli uomini che riuscivano ancora a reggersi in piedi fuggirono urlando nelle
strade, mentre Wan Tengri scagliava contro di loro il cadavere dilaniato del capitano. Il tappeto che aveva strappato dalla parete rivelò allora l'esistenza di un passaggio ed egli, raccolto il cappello di feltro, vi si inoltrò con piede leggero e con il sangue che gli cantava nelle vene. Delle strida femminili spaventate giunsero alle sue orecchie. Una porta gli si parò dinanzi, resistendo alla sua mano; allora piegò le spalle e la scardinò, varcando la soglia vacillante per la spinta. «Vieni fuori, Tsien Hui, rognoso topo di fogna» tuonò. «Vieni fuori, prima che io faccia a pezzi questa tua stamberga!» Si trovava in una stanza pervasa da un languido aroma di incenso e di muschio, dove una fontana profumata gorgogliava delicatamente. Lì le luci erano soffuse... sì, era il quartiere delle donne. Wan Tengri sbuffò. Tsien Hui era proprio il tipo d'uomo che si sarebbe nascosto tra le sue concubine. Con tre ampie falcate attraversò la stanza, e in quell'attimo un velo di finissima seta trasparente si aprì nella parete di fronte a lui, lasciando entrare una donna che avanzava con passo tranquillo. I suoi seni erano racchiusi in due coppe d'oro tempestate di pietre preziose, ed una cintura parimenti decorata di gemme sorreggeva una gonna di seta traslucida che ondeggiava seguendo quei lenti passi armoniosi. I suoi capelli, neri come la notte, erano raccolti aderenti attorno ad una testa finemente plasmata e impreziosita da un mento orgoglioso. «Ah, adesso Tsien Hui ricorre a incantesimi più umani» commentò Wan Tengri con leggerezza. «Comunque è un dono che un uomo può ben accettare!» E torreggiò imponente sopra la fanciulla, che alzò lo sguardo fissandolo dritto in faccia con due occhi scuri e per nulla intimoriti. «Ma sei solo una bambina!» tuonò allora Wan Tengri. «Quel vecchio cane dovrebbe vergognarsi. Tuttavia non posso che ammirare la sua scelta.» Con un gesto rapido le strappò il prezioso reggiseno e girò sui tacchi ridacchiando. «Ho più bisogno di soldi che di donne, figliola» disse. «E questo farà al caso mio. Sì, proprio al caso mio! Dì a quel grasso sciocco di Tsien Hui che se vuole conservare integra la sua gola, farà meglio a non usarla per reclamare questi gioielli.» La ragazza rimase accanto alla tenda dove zampillava la fontana profumata, incrociando le snelle braccia sul seno con un'espressione di meraviglia negli occhi. Per un istante Wan Tengri esitò sulla soglia, poi ripercorse con passo deciso il cammino da cui era venuto. La sua vendetta non era completa, ma forse era meglio che Tsien Hui vivesse. Non poteva certo fi-
darsi del cinese, ma poteva tenerlo in pugno con la paura. Wan Tengri uscì in strada e si fermò a scrutare il cielo nero. Era una città ricca, e un uomo poteva combattere gli incantesimi con armi umane. Guardò il cadavere straziato del capitano riverso a faccia in giù nel fango, e brontolò un'imprecazione strozzata. Un soldato meritava un trattamento migliore di quello, anche se era al servizio di vili Maghi. Raccolse il corpo e andò a deporlo sulle sete preziose di Tsien Hui; poi, con un sogghigno sforzato, Wan Tengri s'incamminò per le serpeggianti stradicciole di Turgohl... e si tenne al centro della strada. Che i cani codardi si muovessero pure furtivamente nell'ombra; che le guardie percorressero pure, tra uno sferragliare d'armi, vicoli fangosi e vie lastricate. Un guerriero era in grado di scegliere la strada che più gli aggradava! Di tanto in tanto, Wan Tengri colse il tintinnio di un liuto o il suono lamentoso del violino monocorda dei trovatori, provenienti da dietro mura inaccessibili. Di tanto in tanto il tepore dell'incenso o delle spezie solleticò le sue narici, mentre trascinava i suoi stivali nel fondo limaccioso dei vicoli. Nell'aria galleggiava un suono insistente e smorzato, che cresceva e diminuiva con un gemito gutturale, e in cui occasionalmente echeggiava uno stridio acuto, simile alla risata di un demone. Il vento infuocato... il vento infuocato di Turgohl stava spirando? Eppure lì nelle strade l'aria era fresca. Nell'animo di Wan Tengri vi era un senso di inquietudine, collegato in qualche modo al pensiero di essere rinchiuso in quella città. Per un uomo libero, qualsiasi limitazione era irritante. Intrappolato... Sì, quando le porte della città si chiudevano e il vento infuocato cominciava a soffiare lugubre sulla distesa delle Sabbie Nere, nessuna creatura vivente avrebbe potuto scampare entro un raggio di due gittate d'arco dalle mura. Quel vento avrebbe bruciato le viscere di un uomo e l'avrebbe soffocato; ne avrebbe trasformato il corpo in una carogna arrostita a dovere sulle piane esterne. Wan Tengri alzò la testa impavida e orgogliosa, e i suoi occhi si posarono sull'alta torre centrale di Turgohl. Sotto la sferza del vento infuocato, essa sfavillava come una gemma multicolore dalla bellezza terrificante, con un fascino magico e sinistro. Wan Tengri fu assalito per un istante interminabile dal dubbio ma subito l'accantonò, e riprese a canticchiare a bocca chiusa. Ora nella sua sacca vi erano dei gioielli che Tsien Hui non avrebbe osato reclamare. Doveva scovare un altro usuraio e venderli. Dovevano esserci dei modi che permettessero ad un uomo forte di emergere in potenza. Chissà, forse Wan Tengri
era destinato a farsi strada edificandosi un impero in quelle misteriose terre d'oriente... Con un punto d'appoggio adeguato e la possibilità di procurarsi un valido seguito, Prester John avrebbe spazzato i Maghi nelle acque cristalline del Baikul. Avrebbe avuto schiavi ai suoi ordini, e concubine simili alla soave fanciulla cui aveva strappato i preziosi. Incantesimi... puah. Wan Tengri, i pugni piantati sui fianchi, lanciò un'occhiata colma d'ira e di minaccia a quella torre esoterica. Per Ahriman! Dal momento che lui era un fedele di Christos e portava al collo un frammento della Vera Croce, era in pratica suo dovere combattere i Maghi e illuminare quei poveri sciocchi. Il modo migliore per riuscirvi era di diventare egli stesso il sovrano di quelle genti; allora esse avrebbero accettato Christos, oppure lui avrebbe squarciato le loro gole; senza contare poi che negli scrigni del sovrano si sarebbero riversate ingenti ricchezze. Wan Tengri annuì soddisfatto. Bene, era tutto deciso. Avrebbe raccolto un contingente di uomini validi. Doveva trattarsi però di abitanti della città, non di mongoli superstiziosi. E sapeva chi faceva al caso suo... i ladri! Euforico, Wan Tengri lanciò in aria la scintillante scimitarra. Per prima cosa doveva trovare i ladri, e credeva già di sapere dove cercare. Se i Maghi potevano richiamare indietro i propri beni, allora ai ladri non restava che dedicarsi al furto delle armi e dei generi alimentari dai magazzini centrali della città. Inevitabile; i ladri non potevano non rubare. Lo avevano nel sangue. Wan Tengri sogghignò bestialmente. Chi poteva saperlo meglio di lui? Continuò con passo deciso per le strade finché non udì di nuovo lo sferragliare di una pattuglia in marcia. La seguì. Alla fine quei soldati lo avrebbero guidato al posto di guardia, e là lui avrebbe scoperto la fonte delle loro scorte. Tra l'altro lui stesso aveva bisogno di armi; una daga per rimpiazzare quella donata a Kassar, e una mazza da combattimento meno ingombrante del corpo del capitano, dato che sembrava proprio che le guardie fossero a prova del suo acciaio di Damasco. I militi entrarono in fila in una bassa costruzione addossata alle mura settentrionali di Turgohl. Wan Tengri sentì l'odore pungente dell'acqua di mare penetrargli nelle narici, e si acquattò in un angolo buio ad aspettare. Sullo sfondo blu del cielo intravide il profilo massiccio di una sentinella che camminava sul muro di cinta della città, e riuscì perfino a sentire il lento calpestio dei sandali attraverso il lamento incessante del vento infuocato. Wan Tengri attese che la sentinella fosse giunta alla fine del proprio tratto di perlustrazione, quindi raggiunse l'ombra del posto di guardia con
alcuni balzi silenziosi. Le uniche aperture da cui filtrava luce erano lunghe feritoie, troppo strette per un uomo della sua mole... ma la parete era di fango essicato al sole. E il tetto? Wan Tengri attese il momento opportuno, poi, con una breve rincorsa, spiccò un balzo e afferrò il bordo del tetto, issandosi facilmente sopra il basso edificio. Con un grugnito soddisfatto, si rannicchiò contro il muro marmoreo della città, e iniziò a perforare con la punta della spada il terriccio pressato. Aveva appena raggiunto una profondità di pochi centimetri, quando udì una spada lanciare l'allarme percuotendo uno scudo. La testa di Wan Tengri si drizzò di scatto, ma il guerriero non riuscì a vedere se era stato lui ad essere individuato. Probabilmente si trattava di uno dei ladri che stava cercando. Wan Tengri annuì tra sé, soddisfatto. Che importanza avevano tutti quegli incantesimi, quando un uomo poteva vantare un cervello come quello di Prester John? Quel successo immediato rappresentò per lui un presagio favorevole. Sì, indubbiamente la sua missione era di convertire i pagani... traendone pure congrui profitti per se stesso, naturalmente. Si drizzò allora in tutta la sua statura e si portò sull'orlo del tetto. Tra le ombre del muro opposto, un ometto curvo stava sgambettando con passo lieve e furtivo. Era vestito di cenci marroni, e occorreva una vista acuta per scorgerlo. Sembrava più un animale delle colline che un essere umano, con quel suo modo di fuggire sgaiattolando grazie ad un rapido movimento di gambe. Tre guardie arrancavano al suo inseguimento. Ormai l'allarme veniva diffuso da una dozzina di scudi percossi, e in quel frastuono metallico Wan Tengri colse le urla di altri armigeri che si riversavano prontamente nelle vie di Turgohl, unendosi a quelli che stavano uscendo in massa dal posto di guardia. Nell'oscurità, un arco vibrò con una nota aspra, e una freccia si librò attraversando lo spiazzo antistante. Il fuggitivo si abbassò, si drizzò subito di scatto, ma la sua andatura era rallentata. Wan Tengri sfilò con decisione l'arco di corno laminato, donatogli alla partenza dalla tribù di mongoli. «Da questa parte, fratello!» urlò con tono calmo. «Da questa parte! Ti aiuterò io!» Le facce pallide delle guardie si volsero nella sua direzione, mentre dall'alto del muro giungeva il grido rauco della sentinella. Wan Tengri girò su se stesso agilmente e la freccia dalla punta d'acciaio, piumata con crini di cavallo secondo il sistema adottato dai mongoli, si tese all'indietro fino a toccargli l'orecchio. La vibrazione della corda dell'arco, paragonata a quell'altra debole nota, era come il ruggito di un leone ferito tra i guaiti degli
sciacalli. La freccia era una saettante striscia scura nelle ombre della notte, lanciata in una traiettoria quasi perfettamente rettilinea. L'uomo di ronda in cima al muro urlò. Le sue braccia annasparono verso il cielo, poi il soldato s'incurvò all'indietro e scomparve. «Ottimo tuffo, amico» sussurrò Wan Tengri. L'aria vibrava percorsa dal sibilo delle frecce. L'attenzione generale si era spostata dal ladro ferito alla minaccia ben più ostica sul tetto del posto di guardia, ma Wan Tengri era impegnato nel compito che gli piaceva maggiormente... oltre a quello di maneggiare l'acciaio guizzante della propria spada. Le frecce formavano un getto continuo proveniente dal suo arco poderoso, e ad ogni vibrazione della corda di minugia echeggiava in risposta dallo spiazzo sottostante un gemito. I suoi continui spostamenti disturbavano la controffensiva delle guardie, ed il riso sgorgava dalle labbra del guerriero; riso accompagnato da insulti beffardi. «Incantatemi, sciocchi» li esortò. «Incantatemi, altrimenti all'alba qui non resterà un solo uomo vivo! Forza, tirate fuori i vostri Maghi. Come, sono vulnerabili ad un pezzo di legno e di acciaio? Non possono nulla contro una freccia lanciata da un insignificante corno di uro e da un budello di leone? Ehi, per caso quei Maghi si sono scolati tutto il vostro coraggio virile?» Un gruppo di guardie si radunò a ridosso del muro. Gli uomini unirono i loro scudi sulla testa, formando un solido riparo, poi avanzarono mentre gli arcieri sfruttando quella posizione coperta scagliavano frecce contro la terribile figura appostata sul tetto. «Ben fatto» li incoraggiò Wan Tengri. «Contro un altro uomo potrebbe anche funzionare! Ma come potete sperare di combattere il Tengri, il vento demoniaco dei cieli supremi?» L'arco di corno si piegò in modo impressionante, mentre Wan Tengri imprimeva una tensione formidabile alla corda. Il budello, una volta liberato, ruggì e la freccia si abbatté sugli scudi traendone un suono di tamburo... di tamburo infranto. Il soldato che guidava quella testuggine umana cadde con il cranio trapassato dal dardo, e la formazione si sciolse. Continuando a far piovere una gragnuola di frecce, Wan Tengri udì un passo leggero al suo fianco. Ruotò allora con una nuova freccia incoccata, e vide una faccina raggrinzita intenta a fissarlo con espressione maliziosa. «Mi hai chiamato, fratello» sussurrò rauco l'uomo. «Eccomi, sono venuto!»
Il sibilo delle frecce cessò, sostituito dal calpestio dei piedi delle guardie che correvano al riparo. Wan Tengri abbassò lo sguardo, sorridendo all'indirizzo della figura contorta del ladro coperto da stracci. L'uomo era gobbo e un braccio gli penzolava inerte lungo un fianco, ma i suoi occhi sfavillavano e vi erano anche coraggio e astuzia su quel piccolo viso ripugnante. Wan Tengri tese la mano destra e fece un segno curioso con le dita intrecciate. «Pendiamo dalla stessa corda» disse ridacchiando. «No di certo, finché la corda del tuo arco funziona!» rispose il ladro. «Dunque sei uno di noi? Vieni. Questo è un luogo misero per la fratellanza.» Si girò sgaiattolando via lungo i tetti dei magazzini, e Wan Tengri, dopo un'occhiata di rammarico verso la piazzuola, ora occupata solo dai cadaveri delle guardie infiocchettati di frecce, seguì il ladro. Ora la sua conquista di Turgohl era iniziata. Con quel piccolo demonio e i suoi compari, Wan Tengri avrebbe ben presto soggiogato i Maghi e arraffato le loro ricchezze! «Mi pare, fratello» tuonò Wan Tengri «che un arco di corno ed una buona freccia di abete abbiano in parte poteri magici. Credo che sia opportuno trovare un modo per migliorare le misere condizioni della confraternita.» «Non parlare così forte, fratello» sussurrò timorosa la sua guida storpia. «Il vento infuocato ha orecchie!» «E noi gliele tireremo.» Wan Tengri piegò il capo indietro e rise. «O forse potremmo sforacchiargliele, o dargli una spuntatina...» «In nome del Tengri, amico, zitto!» Wan Tengri scosse il capo poderoso scoppiando di nuovo a ridere, e in quell'attimo la pallida luce rossa che aveva visto prima tornò a fluttuare su di lui. «Non muoverti, schiavo» sibilò la solita voce incorporea. «Non muoverti e aspetta i tuoi padroni!» Con i denti che gli luccicavano tra la barba fulva, Prester John tese l'arco e scoccò una freccia nel centro della macchia luminosa che galleggiava nell'aria. «Questo per il tuo sibilante vento infuocato!» ruggì. «Forza, buon ladro, proseguiamo.» Si voltò nella direzione dell'ometto gobbo, ma quello era sparito. Con un'imprecazione, Wan Tengri si lanciò da quella parte... e cadde a faccia in giù. Si drizzò con uno scatto violento e fissò stupefatto i propri piedi. Erano quelli i colpevoli. Lui aveva ordinato loro di muoversi, ma i piedi non
avevano risposto al comando. Imprecando rabbiosamente, Wan Tengri allungò le braccia per dare uno strattone alle sue gambe piegate e immobili... inutile, i piedi non volevano seguire il suo ordine. Per Ahriman, erano sprofondati nel tetto! «Attendi i tuoi padroni!» sospirò il vento. Gli occhi di Wan Tengri, spalancati in un'espressione di collera, colsero il baluginio incandescente di quel chiarore soffuso che andava spegnendosi. La sua mano corse decisa alla faretra. Gli restavano solo una decina di frecce. La spada sgusciò allora con un gemito dal fodero, vibrandogli nel pugno. «Bloccato da un incantesimo» mormorò Wan Tengri. «Ah! Questi Maghi sono più potenti di quanto pensassi. Forza, venite, Maghi! Venite, demoni! Vedremo chi è il padrone, se lo siete voi e le vostre arti magiche... o invece Prester John!» III La sua sfida non ottenne risposta alcuna; si udivano solo il soffio del vento infuocato e le urla lontane dei soldati che si radunavano. La notte avvolgeva ogni angolo con il suo manto d'ombra, e la torre centrale con la sua cresta di fiamma aurea avvampava come un gioiello contro il cielo. Wan Tengri sentì l'odio crescere in lui. Tese tutta la propria forza per liberare i piedi dalla morsa che li bloccava al tetto, ma invano. Colto da una furia selvaggia, percosse con la spada la terra ostinata. L'arma risuonò come il gong di un tempio, ma la superficie rimase pressoché priva di graffi. Wan Tengri si sforzò di restare calmo. D'accordo essere coraggiosi, però, una volta scoccate le sue dieci frecce, sarebbe stato in balìa delle guardie che, tenendosi a debita distanza, potevano trasformarlo in un porcospino. «Solo che le punte saranno girate all'interno, o stolto» mormorò. «E la cosa non sarà affatto piacevole, otre gonfiato che non sono altro.» Si guardò attorno. Stendendo il braccio riusciva a toccare il muro della città con la punta della spada. Ad un'altezza di quattro metri scarsi sopra la sua testa, gli spuntoni acuminati che sormontavano il muro riflettevano scintillanti le stelle. Da quella parte nessuna possibilità di fuga. Wan Tengri abbassò amaramente lo sguardo ai suoi piedi imprigionati. Era oltremodo restio a perderli. Erano stati suoi preziosi servitori per innumerevoli leghe di cammino. Meglio morire che trascinarsi sulle caviglie mutilate.
Con risolutezza, sondò di punta il terriccio compatto del tetto. Immediatamente attorno ai suoi piedi era duro come quercia stagionata, ma ad un cubito di distanza diventava più molle. Con fretta frenetica, Wan Tengri maneggiò l'acciaio della scimitarra, scavando il blocco che gli immobilizzava i piedi. Le urla delle guardie erano pressoché cessate, segno che gli uomini stavano riorganizzandosi, e l'eco di un secco comando giunse alle sue orecchie. Dunque avevano rinserrato i ranghi e stavano tornando all'attacco! Per Ahriman, si era sbagliato quando li aveva chiamati codardi. Sì, in tutta franchezza doveva ammettere che sapevano combattere. Erano solo le magie e i sortilegi incomprensibili dei Maghi di Kasimer la causa del loro rammollimento. Wan Tengri serrò i denti in un lamento. Il terreno cedeva troppo lentamente sotto la punta della sua scimitarra! Eppure s'impegnò allo spasimo sorretto come sempre da un notevole senso dell'umorismo. Gli pareva proprio di essere un uomo appollaiato sul ramo di un albero, e intento a tagliarlo vicino al tronco. Una volta scavato abbastanza in profondità, Wan Tengri sarebbe precipitato di sotto, nel magazzino dei Maghi. Trucemente, piegò le labbra in un sorriso. Se era fortunato, avrebbe trovato altre frecce là sotto, e il suo possente arco avrebbe fatto udire di nuovo il suo canto vibrante. Se era fortunato... Il passo regolare dei soldati in marcia giunse ancora alle sue orecchie. Continuando a lavorare di lena, lanciò un rapido sguardo intorno a sé. Come lo avrebbero raggiunto le guardie? Servendosi di una scala a pioli per salire sul tetto? Be', le sue frecce le avrebbero tenute in scacco per un po'. Ma dopo? Wan Tengri si passò una manica sugli occhi che gli bruciavano per il sudore che grondava dalla fronte, poi riprese a scavare. Ormai aveva tracciato intorno a sé un canaletto poco profondo. Ma quanto era spesso il tetto? Troppo spesso, per tutti i diavoli! Spesso e duro come il suo cranio. Perché si era lasciato trascinare dal proprio orgoglio smisurato e aveva sfidato quella forza sconosciuta? Il baluginio della torre infuocata sembrava schernirlo. Ecco, adesso gli uomini avevano smesso di marciare. Ecco risuonare un comando stridulo. Stavano salendo sul tetto. Come un pazzo, Wan Tengri scrutò attorno a sé. Non era il pensiero della morte a turbarlo, bensì quello della sconfitta. Prester John non aveva mai piegato il capo dinanzi ad alcun vincitore, non aveva mai dovuto alzare il pollice implorante alla turba di Alessandria. Christos! Forse non lo avrebbero ucciso. Forse sarebbe caduto schiavo dei sortilegi dei Maghi, diventando una bestia da soma priva di intelletto che lavorava nei campi
sotto gli staffili dei sorveglianti... I suoi occhi si levarono disperati verso la sommità del muro, dove luccicavano gli spuntoni di recinzione. Era abbastanza facile agganciarne uno con il laccio che aveva imparato ad usare tra i mongoli, laccio che ora portava avvolto ai fianchi. Ma a che sarebbe servito? Non poteva liberare i piedi dal blocco. No, non poteva proprio... Improvvisamente una risata gli eruppe dai polmoni. Le sue mani svolsero febbrilmente il laccio. «Aspettate, sciocchi!» annunciò alle guardie, e la sua voce era simile al sussurro morente del vento infuocato. «Aspettate, sciocchi. Credete che i vostri Maghi siano davvero potenti? Ebbene, io sono un Mago più grande di loro. Questa notte ho spezzato per ben due volte i loro incantesimi, come se fossero una catena intessuta con capelli di fanciulla! Se una sola guardia oserà porre piede su questo tetto, io abbatterò le mura di Turgohl!» Il laccio roteò tre volte attorno alla sua testa e il cappio si innalzò nell'arra, agganciando lo spuntone incastrato nel blocco di marmo più alto. Dunque quei Maghi credevano di poterlo sconfiggere! Bene, vi erano dei segreti che non avevano imparato. Le loro mura di marmo erano state erette facendo combaciare i blocchi in maniera pressoché perfetta, ma non erano consolidate dalla calcina. La fune di Wan Tengri avrebbe agito come una leva sullo spuntone metallico, facendo rotolare il blocco di pietra dalla sua base d'appoggio. Ma quanto pesava quel blocco? Cinquecento, forse seicento libbre? Le sue possenti spalle avevano sollevato ben altri pesi... e i suoi piedi erano ancorati. Wan Tengri non poteva staccarli! Alle sue parole tonanti era seguito il silenzio. Wan Tengri fissò la parte agganciata del laccio, poi lo tese cingendosi il corpo con un secondo cappio e attorcigliandoselo alle braccia. Quell'operazione richiedeva un calcolo accurato. Lo spostamento del masso avrebbe richiesto l'impiego di tutte le sue forze, però non appena il blocco avesse cominciato a rotolare, lui avrebbe dovuto rallentare la tensione per non farselo precipitare addosso! Di nuovo il riso echeggiò nel suo torace poderoso. Be', era meglio farla finita con un unico colpo che diventare schiavo di Maghi e stregoni! «Tornatevene ai vostri alloggiamenti» sibilò Wan Tengri «o io abbatterò le mura! L'incantesimo è già entrato in funzione. Allora, non ve ne andate?» Dal vento infuocato giunse in risposta un sussurro. «Avanti! Portatemi questo stolto spaccone. Lavorerà tra gli schiavi!»
Wan Tengri replicò: «È l'ultimo avvertimento!» Si drizzò in tutta la sua altezza e afferrò la fune di crine intrecciato. Con quel laccio aveva bloccato e atterrato uno stallone selvaggio delle pianure, aveva imprigionato una tigre infuriata. E quel laccio non lo avrebbe tradito proprio in quel frangente. Wan Tengri inarcò il torace traendo un profondo respiro, poi scaricò tutte le energie in uno strattone violento. Serviva a sbloccare il masso, incastrato nella sua base. La fune morse in profondità i muscoli gonfi delle braccia di Wan Tengri. Ora sentiva un mormorio di voci vicine, e lo scricchiolio del legno mentre una guardia metteva piede sulla scaletta. Non c'era tempo per calcoli accurati. Quella pietra doveva cadere! Prester John strinse di nuovo la corda. Inarcò le spalle; i muscoli delle cosce gli si inturgidirono, le vene delle tempie guizzarono come serpenti. Il mantello gli si lacerò sulla schiena, con un sussurro sibilante simile a quello di un dardo in volo. Ma il masso non si spostò! La collera avvampò in lui, ardente come la carezza del vento infuocato. Le caviglie erano prossime a slogarsi sotto la tensione impressa dalle braccia. Con violenza selvaggia, Wan Tengri si sottopose alla tortura di uno sforzo ulteriore. I muscoli dei lombi parvero sul punto di strapparsi. Un altro strattone... Ah! Questa volta si era avvertito un movimento. Le ombre del muro erano cambiate. Il blocco stava pendendo verso di lui! Chiamando a raccolta i residui delle sue forze, Wan Tengri tirò ancora la fune come una belva al guinzaglio. Il blocco cedette ulteriormente con un aspro stridore di pietra contro pietra. «Siete avvisati!» sussurrò Wan Tengri accasciandosi indietro sul tetto. Per quanto si sforzasse la sua voce era solo un fievole mormorio. «Siete avvisati! Il primo blocco sta cadendo!» I suoi occhi erano inchiodati a quel masso enorme che si inclinava verso di lui con una lentezza splendida e grave. Gli avrebbe portato la morte... o la libertà? Troppo presto per dirlo. Era troppo presto per stabilire dove avrebbe scaricato la sua mole poderosa. Wan Tengri udì l'urlo atterrito di una guardia. «Indietro!» esclamò allora, con i polmoni ansanti. «Indietro, prima che io abbatta le mura di Turgohl!» Ah, quel masso era magnifico! Lo spuntone aguzzo che lo sormontava coglieva ogni riflesso baluginante... Un blocco bianco e lucido... Se la morte era quella... Wan Tengri drizzò in piedi il proprio corpo spossato. Se quella era la morte, ebbene, avrebbe trovato Prester John pronto ad acco-
glierla. Il blocco stava acquistando velocità; la sua rotazione rimaneva lenta e grave, ma la velocità di caduta era progressivamente sempre più rapida. Wan Tengri rise. Impugnò la spada e la levò al cielo in segno di saluto! «Ave!» gridò. «Ave et vale!» Quante volte il suo urlo di "Salve e addio" era risuonato nell'arena? Ma il "salve" era stato per lui, e "l'addio" per gli altri. Ora... Il risucchio dell'aria gli fece svolazzare gli abiti, mentre la sua mano sollevata sentiva il bacio ruvido della pietra che lo sfiorava vicinissima. Il blocco di marmo si abbatté sul tetto con il tonfo terrificante di un enorme tamburo dalla risonanza cupa, e a quel tuono fecero eco le urla frenetiche dei soldati in fuga. Wan Tengri avvertì una torsione mostruosa alle caviglie, poi sprofondò, seguendo la corsa del blocco che aveva sfondato il tetto. Per alcuni interminabili attimi non riuscì a rendersi conto con sicurezza se era ancora vivo o meno. Giaceva riverso sul masso, la mente vuota e il corpo insensibile, semisvenuto nel magazzino sottostante. Forse vi era una preghiera nel suo cervello, ma Wan Tengri non la proferì consciamente. Solo le sue labbra si schiusero in maniera impercettibile, pronunciando la parola: «Christos.» Alla fine l'indolenzimento estremo dei muscoli sfibrati agì come stimolo a muoversi. Wan Tengri sollevò il proprio corpo a fatica e, nel debole spiraglio di luce che filtrava attraverso lo squarcio del tetto, vide lo spuntone metallico incastrato nel blocco di marmo. La punta aveva lacerato lo spesso feltro del suo mantello mongolo, infilandosi giusto tra braccio e fianco. Wan Tengri si spinse in piedi e sbottò in una sonora risata. La polvere aleggiava fitta attorno a lui, rendendo ancora più compatta l'oscurità, e attraverso quella cortina risuonavano tuttora i passi spaventati dei soldati in fuga. Era libero... Mosse i piedi, e lanciò uno sguardo torvo in basso. Adesso si spostavano separatamente, ma su ognuno gravava un peso notevole. Comunque, Wan Tengri era in grado di camminare. Li sollevò con cautela, procedendo goffamente a tentoni nel buio magazzino, e riavvolgendosi nello stesso tempo il laccio ai fianchi. «Devo ringraziare i Supremi di Kasimer per questo altro paio di stivali» commentò, ridacchiando. «Serviranno a tenermi caldi i piedi!» Camminare era un'operazione faticosa, e il suo corpo era ormai esausto. Sondando il cammino con la spada, si trascinò pesantemente, finché non raggiunse una porta. L'uscio resistette alla sua spinta, e allora Wan Tengri
sollevò un piede, racchiuso nel blocco di terra compatta, e affibbiò un calcio all'ostacolo. Il legno si scheggiò e la porta si spalancò ondeggiando. Con un'altra debole risata egli proseguì vacillante, sbucando nel posto di guardia. La stanza era deserta; vi scorse solo il cadavere trafitto di un soldato che si era trascinato lì a morire. Wan Tengri si fermò per rifornire di frecce la propria faretra, poi uscì nella piazzetta. Anche quella era occupata solo dalle guardie morte. «Questa magia ha i suoi aspetti economici» bisbigliò il guerriero tra sé. «Guarda un po' quante vite sono state risparmiate grazie al mio sortilegio. Se non fossero fuggiti, avrei dovuto ucciderli tutti.» Scrutò attorno a sé incerto, poi vide una figuretta ingobbita che usciva da una porta sul lato opposto della piazza. Con un grugnito di collera in gola, Wan Tengri afferrò una freccia dalla faretra e cercò a tastoni il proprio arco. Ah, per Ahriman! Aveva lasciato il suo fido compagno sul tetto! «Vieni qui, tu che invochi falsamente il nome di fratello» tuonò Wan Tengri. «Fatti avanti, mostro di audacia!» L'uomo avanzò di corsa, e alle sue spalle guizzarono un'altra dozzina di ombre. Sembravano lupi, sembravano sciacalli che accorrono a raccogliere gli avanzi della tigre. E mentre sgattaiolavano lesti, spogliavano i cadaveri delle armi. Solo lo storpio salvato da Wan Tengri non li imitò, bensì corse a prostrarsi ai piedi del guerriero. «Padrone» piagnucolò «sono solamente andato in cerca di aiuto. Quando il vento infuocato parla, bisogna correre... correre come il vento stesso, altrimenti il terreno si apre e ti ingoia i piedi. Io ti ho chiamato, padrone, poi sono corso via... in cerca di aiuto.» Wan Tengri abbozzò un debole sorriso. «A me pare, mio prode, che tu abbia usato l'incantesimo dei Maghi per scomparire. Se non avessi minacciato le mura stesse di Turgohl con i sortilegi di cui dispongo, tu ed i tuoi sciacalli sareste arrivati troppo tardi! Andiamo ora, prima che il vento infuocato parli di nuovo. Per Ahriman, con questi miei nuovi stivali non ho certo la velocità di un turbine! Alzati, mio fedele fratello, mio campione d'ardimento, e mettiti in marcia. Prendi uno dei tuoi prodi soldati, e mandalo a recuperare l'arco che ho lasciato sul tetto. E sbrigati, altrimenti il mio acciaio saggerà la magia del battito del tuo cuore!» Il pezzente chinò la fronte nella polvere in segno di gratitudine e di sottomissione. I suoi capelli grigi e stopposi erano appiccicati al cranio dal sudore, e il braccio sinistro era bendato affrettatamente nel punto in cui era stato trafitto da una freccia. Le gambe del ladro erano scheletriche come
quelle di un contadino affamato, e Wan Tengri avrebbe potuto spezzare quel corpo storpio quasi fosse un fuscello. «D'accordo, Faccia di Scimmia» disse il guerriero con tono arcigno. «Credo alla terza parte di quanto tu dici, e so di essere stolto e ingenuo per questo. Il mio arco... e un posto dove nascondermi finché non potrò cambiarmi gli stivali!» La faccia bruna e scaltra del ladro si piegò verso l'alto. La vista di quegli occhietti allegri e maliziosi, della piega storta di quella bocca dalle labbra sciolte, era talmente comica che Wan Tengri eruppe in una risata altisonante... finché non si ricordò del vento infuocato. Allora imprecò, scrutando il cielo dove le stelle ormai impallidivano di fronte all'avanzata dell'alba imminente, e attraversò con incedere rigido la piazzetta, mentre Faccia di Scimmia lanciava ordini striduli e avanzava saltellando per indicare la via. Bisognava affrettarsi. La luce, nemica dei ladri, si sarebbe riversata ben presto sulla città, e si udivano già degli zoccoli equini calpestare una strada lastricata. Dal loro ritmo serrato, Wan Tengri capì che uno squadrone di guardie stava tornando all'attacco. Pigiò le sue ampie spalle in uno stretto passaggio tra due capanne di fango. Dietro di lui si sentivano i mormorii quasi impercettibili dei ladri e lo strusciare dei loro piedi impazienti. Se li avessero sorpresi in mezzo a quella carneficina, per loro sarebbe stata morte sicura. Come morte sarebbe stata pure per Prester John, se lo avessero catturato. E uno come lui, che aveva combattuto in quelle terre d'oriente, sapeva fin troppo bene quanto potesse essere orribile quella morte... Sputò, sprezzante. Non l'avrebbero mai preso vivo per una simile bagatella da donnicciole! Non aveva forse predisposto i suoi piani? E non stavano forse funzionando con rapidità notevole? Il capo dei ladri aveva già giurato fedeltà prostrando la testa nella polvere. Una volta legata a sé l'intera banda con vincoli che i ladri non avrebbero osato troncare, Wan Tengri sarebbe stato pronto a colpire. Fino a quel momento poteva starsene tranquillo, attendendo l'occasione favorevole... e tenendo a freno la lingua. Faccia di Scimmia stava armeggiando con un macigno incastrato nella parete di una capanna di fango, ma il braccio ferito limitava la sua efficienza. Wan Tengri lo spinse da parte e appoggiò la sua mole sulla roccia, facendola ruotare all'interno su cardini ingrassati, e fissò l'apertura con aria dubbiosa. «Se queste tue gallerie da sorcio si restringono, Faccia di Scimmia» si lamentò «mi toccherà cercare un'altra tana.»
Fu tutt'altro che comodo far passare la sua mole gigantesca in quell'apertura, per poi scendere con una scala a pioli in un cunicolo verticale. La scala vibrava sotto il suo peso, e i suoi piedi privi di sensibilità scivolavano maldestramente sui pioli. Faccia di Scimmia parlottava proprio sotto di lui, guidando i suoi passi con rapidi tocchi delle abili dita. Finalmente, Wan Tengri sbucò in un basso cunicolo illuminato da una torcia. Le pareti del tunnel sprigionavano candidi riflessi cristallini, e per un istante egli pensò, abbacinato, che si trattasse di gemme. «Le vecchie miniere di sale, padrone» farfugliò Faccia di Scimmia. «I Maghi non sono mai venuti a sapere della loro esistenza. Risalgono ai vecchi tempi, quando Turgohl era libera e sul trono sedeva un semplice re... quando anche noi eravamo liberi, e il bottino rimaneva tra le dita di un ladro almeno per qualche ora.» Dopo un lungo tragitto serpeggiante nelle vecchie gallerie della miniera, Wan Tengri emerse in una camera a volta, scavata nella massa compatta del sale. Una mezza dozzina di donne sudicie era accovacciata attorno ad una timida fiamma da cui si levava verso il soffitto una colonna di fumo. Lentamente, Wan Tengri avanzò con andatura goffa nella caverna puzzolente, dirigendosi verso un giaciglio su cui era stesa una stuoia logora. Vi si lasciò cadere sopra e gettò via il mantello di feltro, scoprendo la giubba e i calzoni di seta trapuntata che indossava da quando aveva lasciato le terre remote di Chin. Erano abiti di una sfarzosa tinta dorata, sui quali il fulvo della sua barba e delle sue chiome ardeva come un sole. Da quella posizione favorevole, Wan Tengri osservò i ladri entrare in fila nella caverna, una sparuta dozzina di uomini vestiti di cenci, con i volti scavati dalla fame e il passo furtivo degli sciacalli. Le sue narici fremettero di disgusto, mentre apriva la giubba per grattare il petto villoso. Così lui avrebbe dovuto rovesciare il potere dei Maghi e sconfiggere i loro gagliardi armigeri con quella banda di miserabili che vivevano nell'ombra e si accontentavano di rifiuti! Faccia di Scimmia si affrettò a raggiungerlo, portando una ciotola che conteneva una poltiglia fumante. Puzzava di carne semiputrefatta, ma Wan Tengri aveva mangiato di peggio durante la sua marcia attraverso una buona metà del mondo civilizzato. Trangugiò il contenuto e gettò la ciotola da parte. «È tutta qui la tua fratellanza, scimmiotto?» domandò allora. Faccia di Scimmia scosse il capo con espressione costernata. «Padrone, noi che un tempo eravamo ricchi e potenti siamo ormai caduti in queste misere condizioni. Le nostre sale erano adorne del bottino di intere caro-
vane, prima che questi Maghi maledetti venissero a scatenare il loro vento infuocato contro i nostri uomini, arrostendoli come pecore allo spiedo!» Cautamente, Wan Tengri iniziò a spaccare i blocchi di terra che ancora gli ingombravano i piedi. «Adesso le cose cambieranno» promise con tono sbrigativo. «E come, padrone, dal momento che i gioielli tornano al volo nelle mani dei proprietari, non appena quelli si accorgono della perdita subita?» Wan Tengri lanciò con fare noncurante il reggiseno tempestato di gemme della schiava di Tsien Hui sul giaciglio accanto. «È forse necessario che i proprietari debbano vivere per scoprire la perdita subita?» chiese. «Ami dunque a tal punto questi Maghi che hanno usurpato il dominio della tua città?» Faccia di Scimmia scoprì i denti ingialliti in un sorriso, e il volto gli si raggrinzì in mille rughe. «Questo si chiama parlare da uomo!» esclamò. «Purtroppo è impossibile uccidere un Mago.» «Puah!» Wan Tengri sputò per terra. «Credi dunque che un uomo possa respirare con la gola tagliata?» I ladri si accovacciarono attorno a lui, studiandolo con occhi sornioni, dandosi colpetti di gomito e lasciandosi sfuggire risolini soffocati. Wan Tengri li squadrò senza nascondere un'espressione di disprezzo. Era un'arma debole e incrinata quella che doveva maneggiare. Ebbene, ne avrebbe forgiata una migliore. «Al calar della notte» disse distrattamente «mi guiderai alla casa del capo dei Maghi. Vedremo cosa succederà quando il mio acciaio gli accarezzerà la gola.» «Ma, padrone, prima bisogna scoprire chi sia questo Mago!» Faccia di Scimmia cominciò a fare smorfie disperate nel tentativo di non suscitare la collera di Wan Tengri. «Nessuno sa chi sia il capo, né chi siano i Sette! Nessuno sa dove dormono e dove tengono le loro ricchezze! Senza contare che quelli hanno spie ovunque.» Wan Tengri si stese sul giaciglio. «Toglimi questi stivali, Faccia di Scimmia» ordinò. «Al mio risveglio troveremo questo Mago... nella Torre di Fiamma. E adesso voglio silenzio!» Chiuse gli occhi, e per un po' i pensieri turbinarono vorticosamente dietro le sue palpebre abbassate. Lo attendeva un'impresa ardua, ma lui era l'uomo adatto per portarla a compimento. Maghi sconosciuti che sussurravano nel vento ed erano invulnerabili? Sciocche superstizioni! Con un tocco di lama ben assestato, qualsiasi uomo moriva. Presto lui sarebbe stato il signore di quella ricca città... per
la maggior gloria di Christos, naturalmente. Appoggiò le dita al frammento della Vera Croce, e le sue labbra massicce si piegarono in un sorriso soddisfatto. Faccia di Scimmia stava intanto scrostando il terriccio che gli imprigionava i piedi, ma quell'operazione non disturbava Wan Tengri. Il guerriero ormai dormiva. IV Wan Tengri sembrò porsi completamente alla mercé della confraternita dei ladri, ma il suo sonno, per quanto rumoroso, era leggero. Se uno di quei pezzenti avesse osato minacciare l'incolumintà personale del guerriero, avrebbe trovato ad accoglierlo una furia e sarebbe andato incontro ad una morte istantanea. Nessun uomo che fosse passato indenne attraverso le guerre e le pericolose avventure di cui era disseminato il cammino di Wan Tengri, avrebbe potuto sopravvivere se non tenendo i propri sensi all'erta perfino durante il sonno. Comunque, il coraggio di Prester John nell'ignorare il pericolo mostrando di dormire avrebbe impressionato favorevolmente quegli uomini. Era necessario che essi si affidassero ciecamente al suo comando, se lui doveva guidarli contro i Maghi. Wan Tengri si svegliò ad intervalli regolari per tutto il tempo che giacque disteso sul giaciglio, e ascoltò attentamente i mormorii che riempivano la caverna, rendendosi conto che i ladri erano in pratica al corrente di tutto quanto accadeva a Turgohl. Sapevano già il modo in cui si era introdotto nella città. «... in un carro carico di lana» mormorò una voce. «Hanno trovato delle tracce di sangue sul fondo. Uno degli alabardieri...» «Kassar il mongolo dovrà affrontare il giudizio di Ahriman.» Wan Tengri frenò a malapena un sobbalzo dei suoi muscoli sentendo la notizia. Per tutti i diavoli, quei Maghi erano in gamba se avevano scoperto così tempestivamente il modo in cui era entrato in città, e se avevano già imprigionato Kassar! Continuò a fingere di russare, ma tenendo le labbra serrate lanciò un sibilo che venne udito in tutta la caverna. «Kassar sarà liberato!» Sentendo le grida soffocate e spaventate dei ladri, Wan Tengri sorrise sotto la fulva barba. Tanto di guadagnato se quella gente credeva che anch'egli possedesse poteri magici. Comunque nella piega delle sue labbra, mista ad un'espressione di allegria, affiorava pure un'ombra di ferocia. Per portare il proprio fratello di sangue all'interno di Turgohl, Kassar, che non
temeva nemmeno la morte in persona, aveva sfidato il terrore delle proprie superstizioni. Prester John non poteva evitare di accorrere in suo aiuto. La sua mente era sgombra da qualsiasi dubbio. Egli era spietato e ambizioso, ma non sordo al grido di soccorso di un fratello. Anzi, sarebbe intervenuto spontaneamente anche senza essere chiamato. Inoltre, tutto ciò quadrava alla perfezione con i piani di Wan Tengri. Avrebbe suscitato il terrore di Christos in quei pagani, e reso più unita la sua sparuta combriccola di malandrini. Quando si destò, stiracchiandosi, trovò Faccia di Scimmia ad accoglierlo con un largo sogghigno accanto al letto. «Padrone, abbiamo notizie per le tue orecchie» annunciò lo storpio. Wan Tengri abbozzò un lento sorriso. «A quando il giudizio di Ahriman?» Gli occhietti vispi di Faccia di Scimmia si spalancarono, e la smorfia del volto attempato disegnò sulla pelle miriadi di rughe. «Oh! Tu sei certamente un Mago!» bisbigliò. «Rispondi, sciocco!» Il ladro si prostrò nella polvere. «Domani, padrone, nell'Ora della Scimmia.» Wan Tengri annuì lentamente. «Prima che giunga quell'ora, Kassar sarà liberato. Tu scoprirai dove lo tengono rinchiuso. Ed ora, sciocco, i nomi dei Maghi!» Il gobbo strusciò la fronte nella polvere. «Credimi, padrone, è una cosa che nessuno può affermare con certezza.» Poi alzò rapido lo sguardo con una luce maliziosa negli occhi. «Si può solo tentare di indovinare.» Wan Tengri grugnì: «Cerca di indovinare allora, Faccia di Scimmia. Stasera io riempirò i forzieri della confraternita... e affilerò il mio acciaio con ossa di mago.» Il ladro rabbrividì. «Le guardie ti danno la caccia, padrone! Non ho mai assistito ad un setacciamento simile. E la tua testa, in quanto a vistosità, è brillante come l'occhio di Ormazd. È meglio che tu resti nascosto qui per una luna, finché non sospenderanno le ricerche. O forse, se ti tingessi quella barba di fiamma, potresti passare per un mongolo.» Pettinandosi con le dita i riccioli della barba, Wan Tengri sbottò in una secca risata. Andava fiero di quelle sue ciocche di sole... e poi gli occhi di tutti i ladri erano posati su di lui. «Mi trovino pure... a loro rischio e pericolo.» Con gesti pigri, Wan Tengri indossò il mantello, allacciò ai fianchi il
laccio e il cinturone con la spada, e infilò a tracolla arco e faretra. Un paio di stivali di daino attendeva i suoi piedi liberi dai blocchi di terra. Egli li calzò con un senso infinito di sollievo, avvertendo di nuovo la forza elastica dei muscoli delle gambe; poi prese il reggiseno ingemmato sottratto a Tsien Hui e lo lanciò in mezzo al gruppo di ladri. «Se non riuscite a rubare del cibo decente, vendete questo agli usurai e comprate del cibo nei bazar. Io sono pronto, Faccia di Scimmia. Avanti... guidami alla Torre di Fiamma.» «Ti sento e obbedisco, padrone!» Attraversarono così un'altra sinuosa caverna cristallina, diretti verso le strade di Turgohl immerse nelle ombre della notte. Le fiamme rosse delle torce trasformavano le pareti saline in gioielli di sangue. Wan Tengri avanzò distendendo le proprie lunghe e possenti gambe, bramando la lotta imminente, mentre Faccia di Scimmia sgambettava al suo fianco chiacchierando. «Padrone, pretendo troppo se ti chiedo di non umiliarmi di fronte ai tuoi altri servi?» implorò timidamente il ladro. «Il mio indegno nome è Bourtai.» Wan Tengri sbuffò. «Un nome Bourchikoun, gli uomini dagli occhi grigi? Non sei uno di loro, Faccia di Scimmia. I tuoi occhi sono come due freddi carboni.» «Eppure questo è il mio nome, padrone.» Il ladro storpio sgaiattolò in avanti, muovendosi lateralmente come un granchio, per fissare con espressione supplichevole il volto fulvo di Prester John. «Non vuoi accrescere il tuo prestigio facendo al tuo servo l'onore di chiamarlo con un nome?» Wan Tengri fece tuonare la sua possente risata. «Ben detto, Faccia di Scimmia! D'ora innanzi, di fronte ai tuoi fratelli, sarai Bourtai. E adesso parlami di questa Torre di Fiamma, e del Mago che vi dimora.» Bourtai sbirciò dietro di sé con aria furtiva, poi i suoi occhietti da uccello lanciarono una rapida occhiata su per un pozzo laterale. «Non qui, padrone» bisbigliò. «È una cosa che nessuno sa... nessuno all'infuori dei Maghi e di Bourtai.» Il suo torace incassato parve gonfiarsi leggermente, mentre il ladro vi batteva contro con il piccolo pugno sporco. «Io... io ho rubato nel tempio di Ahriman, e il dio mi ha parlato. Ora dobbiamo arrampicarci, padrone. Lascia che salga io per primo... non vorrei che le guardie fossero in agguato. Non dobbiamo assolutamente perderti, padrone. Tu rappresenti la nostra libertà.»
Wan Tengri osservò Faccia di Scimmia arrancare lungo la parete del pozzo usando come scala le sporgenze saline, e spostò la faretra sulla schiena. Non era così pazzo o sprezzante del pericolo come voleva far credere a quella banda di furfanti. D'accordo, la prospettiva di affrontare una decina di guardie non lo spaventava certo, comunque era meglio pazientare e risparmiare i suoi dardi per il momento del bisogno. Ed esisteva sempre la possibilità che una freccia vagante gli passasse la gola da parte a parte. Prester John era un uomo che non temeva la morte, tuttavia riteneva che per il momento fosse preferibile restare in vita. Lo attendevano altre lotte e, alla fine della strada, ricchezze quali lui non aveva mai sognato. Se fosse morto... ebbene, gli dèi non dimenticavano gli uomini che morivano per la loro santa causa! E, sia che Wan Tengri combattesse nel nome di Christos, o di Mithra, o di Ormazd signore del sole, essi avrebbero onorato colui che aveva tagliato le gole di quel manipolo di stregoni dediti alla magia nera. Così, col sorriso sulle labbra e la lama della spada stretta tra i denti, Wan Tengri si aggrappò alle sporgenze saline e si arrampicò nell'oscurità seguendo il richiamo della vocina stridula di Bourtai. Alla fine sbucò in una cavità buia, dove intravide appena alcuni mucchi di pellicce. Il tanfo della concia e del grasso rancido gli colpì le narici, frammisto all'aroma ricco ed eccitante del muschio. «Da questa parte, padrone» pigolò Bourtai. «Questa botola è troppo pesante per le misere forze del tuo servo.» Wan Tengri sogghignò all'evidente adulazione, ma minimizzò lo sforzo sollevando il peso con una mano sola, mentre i muscoli parevano stridergli per la tensione. S'inerpicarono quindi in una stanza dalle pareti di fango pervasa da una tremolante luce rosata che filtrava danzante da un'alta feritoia. «Un magazzino, padrone» mormorò Bourtai. «È grazie a questi magazzini che noi riusciamo a raggranellare qualcosa. Vedi, se non si rendono conto della mancanza del bottino, i Maghi non possono richiamarlo a sé! Bene, da questo tetto potremo dominare il cortile della Torre di Fiamma.» Ripresero a salire e alla fine Bourtai, con un cenno ossequioso, invitò Wan Tengri a stendersi accanto a lui sul tetto dell'edificio, vicino al basso parapetto. Wan Tengri si accovacciò e levò lo sguardo verso la guglia incappucciata d'oro della Torre di Fiamma. Dinanzi a tanta bellezza, egli trattenne il respiro, poi fissò in basso... e vide donde proveniva quella luce infuocata. Attorno alla base della torre, e per una ventina di cubiti in ogni
direzione, le fiamme divampavano da un fossato, impennandosi verso l'alto in una danza di faville frenetiche. Fiamme striate di rosso, bianco e porpora, che ondeggiavano come estatiche odalische, lanciavano le loro lunghe braccia in aria accarezzando amorevolmente la torre, per ritrarsi poi quasi in un moto di paura improvvisa e riversarsi infine tutte assieme in un rinnovato impeto di lingue di fiamma adoranti. «Padrone» sussurrò Bourtai «quelle fiamme danzano sempre così, tranne una notte, e anche allora solo mentre Ahriman recita la preghiera della Luna Feconda.» Wan Tengri sbuffò. Se il capo dei Maghi si nascondeva dietro un simile scudo, sarebbe davvero occorso un potente incantesimo per arrivare fino a lui. Pensò dubbioso alle cose che aveva visto nel remoto Indo dove gli uomini camminavano sui carboni roventi, e alle storie raccontate dai seguaci di Christos... tre bambini scagliati in una fornace ardente per poi uscirne incolumi. Il guerriero scosse il capo in preda al dubbio. Era veramente necessario credere in una causa più che santa per affrontare quel calore. «Di cosa si nutrono quelle fiamme?» domandò con tono aspro. «Dei corpi degli schiavi, padrone» sussurrò Bourtai, come se le fiamme potessero sentire. «E se non ne muoiono a sufficienza, vengono gettati nel fuoco uomini vivi. Alle fiamme la cosa piace, padrone.» I brillanti occhi grigi di Wan Tengri si strinsero, mentre egli scrutava la torre con la mente strategica del soldato. Fu allora che scorse una seconda barriera da superare. Nel cortile, oltre la cortina ignea, una grande fontana proiettava al cielo spruzzi simili a gioielli lucenti, e nel suo getto danzava una grande sfera di cristallo che rimbalzando sull'acqua si alzava e cadeva quasi a scandire un ritmo serrato per la danza delle lingue di fuoco. Attorno alla fontana erano schierate sette file di guardie. Gli uomini di ogni fila indossavano una divisa differente. Le loro tuniche erano di sette colori: cremisi, azzurro, porpora, oro, argento, verde, e nero per lo schieramento più interno. Teste e gole erano scoperte. Gli uomini della prima fila erano voltati verso l'esterno, spade sguainate nella mano; le altre sei file invece si fronteggiavano a due a due, ed ogni soldato teneva la propria spada appoggiata alla gola dell'uomo che gli stava di fronte. «Che pagliacciata è mai questa?» domandò bruscamente Wan Tengri. «Li hanno pietrificati in piena battaglia? O cominceranno ad uccidersi l'un l'altro ad un qualche comando?» Bourtai ridacchiò. «Vedi, padrone, si tratta semplicemente del fatto che i Maghi non si fidano l'uno dell'altro. Ognuna di quelle guardie indossa il
colore del proprio signore. In questo modo le guardie di un singolo mago non possono sopraffare le altre e raggiungere la sfera di cristallo. Se un uomo riuscisse a penetrare il segreto di quella sfera, le fiamme e il Vento infuocato e chiunque potrebbero arrivare alla principessa... Alla principessa chiusa nella torre. Questo è quanto mi ha detto Ahriman nel tempio.» Con un accenno di sorriso sulle labbra, Wan Tengri sfilò il massiccio arco di corno dalla spalla e lo piegò con un ginocchio per tendere la corda di minugia. «Mi pare ovvio» annunciò «che una sfera di cristallo sia fatta apposta per rompersi!» Bourtai gli afferrò il braccio, gettandosi con la faccia a terra. «In nome di Ahriman» implorò «non farlo! Non servirebbe a nulla fino all'Ora del Porco della tredicesima notte del Rosso, nella fase della Luna Feconda!» Wan Tengri, con riluttanza, distolse gli occhi da quel bersaglio saltellante di cristallo. Non era un bersaglio particolarmente difficile per un buon arciere; un colpo netto, in modo che la freccia non scivolasse di striscio, e in un batter d'occhio la sfera sarebbe andata in frantumi. E la principessa nella torre...? Visto com'era strettamente sorvegliata, era ovvio che in qualche modo principessa e torre erano depositarie della chiave d'accesso al dominio della favolosa città di Turgohl. «L'ora del Porco» sussurrò Wan Tengri. «Corrisponde alla dodicesima ora, a mezzanotte. E questa fase della Luna Feconda quando sarebbe?» Bourtai sollevò il viso atterrito, e indicò il punto in cui le colline di Volapoi innalzavano le loro nere groppe contro il cielo orientale. Sopra la sommità degli abeti, l'occhio inettato di sangue di una luna cremisi ammiccava. «Padrone, questa è la prima notte della Luna Feconda. Al calare della tredicesima notte...» «Sputa il rospo!» ordinò Wan Tengri con un ringhio. «Mi stai facendo sprecare tempo! E stanotte abbiamo molte faccende da sbrigare.» Per un istante il lampo che guizzò negli occhi di Bourtai allarmò Wan Tengri, che portò la mano all'elsa della spada. Il gobbo era ancora rannicchiato in ginocchio, ma anche da quella posizione aveva emanato per un attimo un che di perfido e di mortale. Prester John sentì un brivido attraversare il proprio imponente corpo, lo stesso brivido che lo aveva colpito durante l'assedio di Antiochia, quando il macigno di una catapulta lo aveva scagliato a terra sfiorandolo con il solo spostamento d'aria. «Piccola vipera senza denti» sibilò Wan Tengri. «Forse sarebbe bene che
ti staccassi subito quella testa dal collo!» La voce di Bourtai si fece piagnucolosa. «Padrone, come credi che io possa sapere queste cose, se ti avessi mentito riguardo quanto è avvenuto nel tempio di Ahriman?» L'attesa sul tetto del magazzino era snervante. Il lamento del Vento infuocato sembrava calare d'intensità e, attraverso il silenzio, giungeva il crepitio tremolante della cortina di fiamme. Senza staccare la mano dall'elsa, Wan Tengri ruggì: «Come può un vile sciacallo della tua specie apprendere certi segreti? Io credo, vipera dalla faccia di scimmia, che tu mi abbia mentito. Che tu conosca almeno un Mago.» Bourtai ridacchiò sottovoce. «Sei davvero scaltro, padrone. Quanto hai detto risponde a verità. Ho cercato solo di aggiungere un cubito alla mia statura, di fronte ai tuoi occhi.» «Forza, procedi con questa storia, sciocco» grugnì Wan Tengri. Sentì che l'ala del demone della morte lo aveva solo sfiorato, ma continuava a incombere nell'aria, sospesa su di lui; e provò un lieve senso di rispetto per quello storpio che capitanava i ladri. C'era qualcosa di misterioso nel gobbo... ma al momento vi erano misteri ben più grandi da svelare. Bourtai riprese a parlare sommessamente. «Questa, padrone, è la storia della principessa nella Torre di Fiamma. Vittima di un incantesimo, ella è mantenuta bambina nella statura e nella mente, sebbene in verità conosca molte cose segrete. La principessa è la vera signora di Turgohl, ma quando i Maghi giunsero segretamente dal Taghdumbash, il tetto del mondo, costruirono questa torre in una sola notte, e la circondarono con le Fiamme di Kasimer. Tutti i poteri magici della principessa ottennero unicamente che la sfera di cristallo danzasse nel getto profumato della fontana, e che, per la durata della preghiera di Ahriman nella tredicesima notte della Luna Feconda, ella stessa riacquistasse la propria autentica statura di corpo e di mente.» Wan Tengri continuò a fissare il piccolo servo con aria circospetta, ma mascherò i propri sospetti socchiudendo le palpebre. «Non esiste incantesimo che non si possa spezzare» ribatté secco. «Quali altri segreti ha sussurrato Ahriman nelle tue orecchie... orecchie che senza dubbio mozzerò quanto prima?» «No, padrone» disse Bourtai umilmente «non potrei dirti altro, anche se tu dovessi mozzarmi il collo. Non dubito che si possa spezzare l'incantesimo, e so che bisogna farlo nell'Ora del Porco del tredicesimo giorno. Forse
le tue grandi magie...» «Forse...» mormorò Wan Tengri, lanciando uno sguardo calcolatore alla saltellante sfera di cristallo, e accarezzando con le dita l'arco di corno. «Andiamo. Tornerò nell'ora propizia. Ma adesso la mia spada ha sete di carne di Mago, e i forzieri della confraternita sono vuoti! Conducimi da questo Mago dal quale hai appreso tanti segreti. Se uno come te è riuscito a vincerne gli incantesimi e a penetrarne i segreti, credi forse che Prester John sia da meno?» «No. Sei veramente grande, John degli Uragani» mormorò Bourtai. Wan Tengri sentì la collera strisciargli nei muscoli. Non poteva esserne sicuro, eppure gli sembrava di cogliere un tono di scherno nella voce pigolante di quella scimmietta umana. Una volta fatto vuotare il sacco a Bourtai, e una volta liberato Kassar, Wan Tengri avrebbe regolato pure quel conto. «Andiamo» ordinò. «Fammi strada. Discesero di nuovo nel pozzo delle miniere di sale,» poi salirono verso la superficie sbucando in una capanna che si affacciava su una stradicciola serpeggiante e fangosa. «La Strada dei Calderai, padrone» annunciò Bourtai. «Ormai siamo arrivati.» Wan Tengri sostò ad ascoltare il vicino calpestio di una pattuglia. Non era certo una decuria, quella. A quanto pareva, quella notte i soldati marciavano in gruppi di venti. Era un tributo alla sua forza, ed un avvertimento da non prendere alla leggera. Per Ahriman, era riuscito a incutere la paura di Prester John alle viscere stesse di quei soldati! Quando raggiunsero un punto in cui tre viuzze tortuose si incrociavano, Bourtai indietreggiò portandosi a fianco di Wan Tengri e indicandogli la direzione con un cenno del mento. «Ecco, padrone, quello è il muro del giardino di Tsien Hui, il Mago.» I muscoli del guerriero sobbalzarono, e il suo pugno si serrò attorno al collo ossuto del ladro. «Bugiardo!» tuonò. «Sciocco, mi hai forse preso per un pazzoide imbecille? Tsien Hui non è un Mago del Kasimer, bensì un gretto usuraio di Chin!» Wan Tengri sbottò in una risata. «La scorsa notte... la scorsa notte l'ho costretto a fuggire nudo nel suo harem. E ho strappato i gioielli alla schiava che lui mi ha mandato incontro per corrompermi. Credi dunque che i tuoi potenti Maghi permetterebbero un affronto simile?» «I tuoi poteri magici sono invero grandi, Wan Tengri» piagnucolò Bourtai. «Eppure quanto ti dico risponde a verità. Né Tsien Hui, né nessun altro Mago, avrebbe rivelato la propria identità, a meno che non si fosse trovato
in pericolo di vita. O forse le sue stelle erano deboli, e le tue onnipotenti.» Il sospetto balzò di nuovo nella mente di Wan Tengri. D'accordo, lui aveva soccorso quel vile demonietto, ricevendone poi in cambio aiuto; Bourtai rimaneva comunque un tipo infido, che non avrebbe esitato a sfruttare la forza di Wan Tengri per i propri fini. Forse lo infastidiva il fatto di perdere prestigio di fronte alla marmaglia di ladri passata agli ordini di Prester John. Il guerriero tese di colpo l'udito. Le guardie stavano venendo nella loro direzione Lo sferragliare delle armi si avvicinava, echeggiando come un tuono sordo tra i muri incombenti. «Aspettami nel pozzo presso la Strada dei Calderai» ordinò Wan Tengri. «E se scopro che mi hai mentito...» «No, padrone. In questo caso potrai strapparmi la lingua» disse Bourtai dimenandosi in quella stretta d'acciaio. «Benissimo» convenne Wan Tengri. «Sei stato tu a suggerirmelo.» Spinse via bruscamente Bourtai e, dopo due ampi passi di rincorsa, spiccò un balzo afferrando la cancellata che cingeva la sommità del muro di Tsien Hui, e si issò. Sebbene le sue labbra barbute fossero mute, nei suoi occhi grigi vi era un freddo sorriso. Se Bourtai era convinto che quel rammollito giallo fosse un Mago, tanto meglio. Wan Tengri avrebbe riempito i forzieri dei ladri, quella notte. Prima di liberare Kassar, oltre che con la paura, li avrebbe legati a sé con vincoli di ricchezza. Era necessario per irrobustire le loro molli spine dorsali, dato che l'attacco alle segrete dei Sette Maghi di Turgohl non era una cosa da tentare con leggerezza e soprattutto da solo. Wan Tengri balzò agilmente nel giardino di Tsien Hui e si acquattò al suolo, mentre i raggi della Luna Feconda irroravano del loro soffuso lucore rossastro gli alti viticci rampicanti e le fronde piumate degli alberi di ailanto. Il mormorio liquido di una fontana gli cullò le orecchie, e il suo profumo gli rinfrescò le narici. La parete interna della dimora di Tsien Hui mandava riflessi opalescenti in quell'ombra venata di porpora. Wan Tengri avanzò lentamente tra i cespugli di oleandri... ma con un brusco scarto si gettò immediatamente di lato! Sbucando dall'ombra, una feroce mano pelosa era saettata verso la sua gola, accompagnata da un fugace visione di una faccia bestiale e dal bagliore di zanne sbavanti. La spada di Wan Tengri sgusciò sibilando dal fodero, ma il guerriero frenò il fendente. Lo scimmione era tenuto prigioniero da un collare d'ottone che gli bloccava la gola; saltellava incessantemente, provocando un clangore di catene, e si percuoteva la grancassa del to-
race, ma dalla sua bocca urlante usciva solo l'ansito del fiato. Un incantesimo... o forse corde vocali tagliate. Sulle labbra di Wan Tengri si disegnò un debole sorriso. Aveva sottovalutato Tsien Hui. I suoi occhi setacciarono rapidi l'intrico arboreo del giardino, cogliendo qui e là i bagliori gemelli degli occhi di altre belve. Wan Tengri avanzò zigzagando tra la minaccia di una tigre fulva e le fauci scattanti di un lupo, mentre entrambe le bestie lottavano tendendo al massimo le loro catene. No, lì non vi erano stregonerie. Comunque lo stesso Imperatore di Chin avrebbe invidiato simili difese, ed era strano trovarle proprio nel giardino di un usuraio della remota Turgohl. Wan Tengri, strisciando verso i viticci che coprivano simili a spire di serpi la parete della casa, ricordò altri particolari riguardanti Tsien Hui. Era dalle sue mani che i gioielli erano svaniti e, altro fatto strano, le guardie erano venute a bussare proprio alla sua porta. Inoltre il vecchio era sparito in un batter d'occhio, quasi fosse uno spiritello demoniaco. Sì, forse vi era un fondo di verità nelle parole di Bourtai. Wan Tengri afferrò i viticci e iniziò la scalata verso il balcone che si affacciava sul giardino. Ma alla terza presa si accorse che il viticcio si muoveva lentamente sotto la sua mano! Di colpo si rese conto che la liana era gelida come la pelle di un serpente, e che muscoli poderosi guizzavano sotto la corteccia! Le labbra di Wan Tengri si schiusero in urlo muto. Le spire stavano avanzando verso di lui. Con una spinta frenetica, egli abbandonò la prese proiettandosi indietro e tenendo gli occhi sbarrati verso l'alto. Mentre cadeva, una testa a forma di cuneo saettò nella sua direzione, una testa in cui splendevano gli occhi vitrei di un serpe. Wan Tengri atterrò bilanciandosi elasticamente sulle ginocchia e balzò via dal muro. Avvertì una ventata d'alito sul viso ed uno strappo alla massa arruffata dei capelli, e schivò appena in tempo le fauci fameliche della tigre incatenata. Quello spostamento improvviso fu un vero colpo di fortuna, perché nel medesimo istante la bocca spalancata del serpente gli sfiorava la spalla. Con l'acume della disperazione, la sua mente di guerriero soppesò e valutò il pericolo. Sguainando la spada, vibrò un fendente contro il collo proteso del rettile e si gettò verso la parete della casa. Lì, la tigre e il lupo non avrebbero potuto raggiungerlo, e il serpente prima di colpire avrebbe dovuto voltarsi e riavvolgere le sue lunghe spire. Sentì che la lama centrava la gola del rettile proprio dietro la testa; ma invece di ferire, l'acciaio rimbalzò, quasi avesse colpito della pietra. Wan Tengri soffocò un grido disperato e inchiodò le spalle al muro. Non bisognava provocare alcun rumore, altrimenti Tsien Hui avrebbe potuto svegliarsi é mandargli contro
nuovi incantesimi. La spada gli penzolava inutile nella mano; l'arco e le frecce gli premevano contro la schiena. Inservibili... tutte le sue armi erano inservibili. Il serpente scagliò le sue spire contro di lui, ma Wan Tengri piantò saldamente le spalle al muro e affondò i tacchi nel terreno. L'urto del corpo del rettile fu doloroso quanto il colpo inferto da una mazza da guerra, ma i muscoli giganteschi del guerriero resistettero con tenacia. Dietro il luccichio rabbioso degli occhi, il suo cervello lavorava forsennatamente per calcolare ogni possibilità. Era proprio quel cervello il potere magico di Prester John. Per Ahriman, avrebbe dimostrato che i mostri di Tsien Hui non potevano avere la meglio contro la furia scatenata dell'uragano Prester John! Ecco, il serpe era pronto a sferrare un secondo colpo! La sua bocca non aveva zanne avvelenate, ma denti che sembravano la punta ricurva di una lancia persiana. Qundo quei denti si fossero chiusi sul corpo di un uomo, le spire avrebbero poi completato rapidamente l'opera, stritolando anche uno che possedeva la focosa vitalità di Prester John. Il guerriero si piazzò saldamente, facendo appello a tutte le proprie forze e alzando la scimitarra. Un'arma micidiale; ogni centimetro del suo filo ricurvo era sagomato per mordere in profondità, eppure prima era rimbalzata... Comunque la spada aveva una punta. E fu proprio quella, che Wan Tengri puntò davanti a sé mentre il rettile tendeva i muscoli d'acciaio per prepararsi a colpire. Certo, la pelle della belva poteva essere coriacea, tuttavia Wan Tengri era convinto che del buon acciaio potesse lacerare quella rossa gola spalancata. Wan Tengri non tentò di contrattaccare. Rimase immobile, il braccio rigido culminante nell'appendice curva della scimitarra... e attese. La testa del serpente saettò in avanti con una velocità che nemmeno i dardi scagliati dall'arco di Wan Tengri potevano eguagliare. La punta della spada ondeggiò... e l'intera lama svanì! Ma svanì nella gola del gigantesco serpente incantato. Wan Tengri tolse appena in tempo la mano dalla morsa di quelle titaniche fauci che si chiudevano di scatto. Si gettò di lato, rotolando sul terreno, e vide la punta gocciolante della spada che sporgeva dal dorso del rettile. Quel corpo agonizzante si dibatteva con furia frenetica. La tigre, colpita da una sferzata laterale di quella coda cieca, venne scagliata per tutta la lunghezza della catena che la teneva legata, e morì con il collo spezzato. Il lupo indietreggiò spaventato in un angolo.
Wan Tengri si alzò barcollando e fissò la scena, mentre il petto gli fremeva ansante. Lentamente le sue labbra si curvarono in un sorriso, e i suoi occhi si levarono verso il balcone. Doveva agire in tutta fretta, prima che il frastuono causato dagli spasmi agonizzanti del serpente svegliasse Tsien Hui. Purtroppo gli toccava rinunciare alla spada in attesa che l'ultimo guizzo di vita abbandonasse quella spire dai muscoli d'acciaio. Comunque poteva farne a meno. Con un gesto rapido si agganciò l'arco al collo; una breve rincorsa, e spiccò un balzo, aggrappandosi al ramo basso di un albero. Il ramo scricchiolò, piegandosi sotto il suo peso, e Wan Tengri sfruttandone la successiva oscillazione si librò nello spazio, le mani protese in alto. Riuscì ad afferrare la ringhiera del balcone, ed il suo corpo sbatté contro il muro con la violenza tale da fargli tintinnare i denti. Wan Tengri attraversò con un guizzo il balcone, e scostò bruscamente le tende di seta che velavano la porta. Come le mani avide di una donna, il tessuto gli cinse le braccia... ma il vigore di quella morsa era maschio! Soffocando un'imprecazione, egli tese i muscoli in un violento strappo e le tende si staccarono dai ganci, seguendolo nella stanza mentre lui si precipitava verso un letto drappeggiato di seta. Il guerriero sfilò l'arco dal collo, incoccando una freccia, e si piazzò ai piedi del giaciglio con la corda di minugia tesa fino a toccargli l'orecchio. «Prova a muoverti, Tsien Hui!» sibilò. «Prova a muoverti, e t'inchioderò per sempre al tuo letto.» Gli occhi a mandorla dell'usuraio di Chin si levarono a fissare il volto contratto di Wan Tengri. Le mani giallastre dalle lunghe unghie rimasero immobili sulle coperte di seta e pelliccia. «Non sei soddisfatto, barbaro?» chiese sottovoce Tsien Hui. «Non ho richiamato i miei gioielli.» La risata acuta di Wan Tengri pareva il latrato di un lupo. «Ma a me servono altri gioielli, Tsien Hui, e a Turgohl circola voce che tu sia un Mago. In qualità di fedele figlio di Christos, è mio sacro dovere sgozzare qualsiasi Mago. Dal momento che la mia spada è stata inghiottita da quella tua liana vivente serpiforme, dovrò servirmi di una freccia. E sono convinto che funzionerà altrettanto bene.» Tsien Hui disse con tono sommesso: «Ah, dunque hai sconfitto la liana incantata! Barbaro, stai davvero diventando troppo molesto.» I suoi occhi sembrarono aprirsi ulteriormente, e Wan Tengri poté scrutare nelle loro profondità, dove pareva celarsi un segreto, un segreto che lui doveva svelare, che il suo animo doveva scandagliare se voleva sopravvivere. Era forse quel bagliore di fiamma verde negli occhi di Tsien Hui... il segreto?
«Sì» continuò l'usuraio con voce quasi assonnata «stai diventando una seccatura eccessiva, barbaro. Ma ora ho troppo sonno per sistemarti nella maniera adeguata. Anche tu hai sonno, vero, barbaro? Ebbene, ti permetto di dormire. Allenta il tuo arco, barbaro, adagio... adagio.» Wan Tengri tentò di scuotere il capo per liberare i propri occhi dalla forza persuasiva dello sguardo del Mago, ma non vi riuscì. La collera lo invase, e cercò di staccare le dita dalla corda dell'arco per conficcare il suo dardo in quella faccia gialla che lo stava beffeggiando con un lieve sorrisetto. «Tu non puoi scoccare la freccia, Wan Tengri» proseguì Tsien Hui «e il tuo braccio è stanchissimo. Ora non riesci più a tenere tesa la corda. Allentala, barbaro.» Wan Tengri tése i poderosi muscoli del corpo, combattendo contro quell'ordine che pareva provenire dal suo stesso cervello. Lottò... ma allentò l'arco come gli aveva comandato Tsien Hui. Il Mago fece un largo sorriso, scoprendo i denti ingialliti. «Adesso lascia cadere l'arco, barbaro. E allontanati dal mio letto. Ecco, così. Ora fai tre passi indietro, barbaro, e resta lì ad aspettare il comodo mio, fino a domattina. Come ti ripeto, pezzo di verme, adesso ho sonno!» Wan Tengri si allontanò di tre passi dal letto, disarmato. Non sapeva come gli fosse successa una cosa simile, eppure era successa. Era inerme, e quell'odiosa faccia gialla gli stava sorridendo. Per alcuni istanti, o alcune ore, Tsien Hui continuò a sorridere, poi gli occhi a mandorla si chiusero, e Wan Tengri vide che il Mago giallo si era assopito. Capiva solo vagamente di essere vittima di un incantesimo, che i suoi muscoli lottavano allo spasimo nel semplice tentativo di muoversi, di spostare un piede, di sollevare una mano... ma tutto si rivelava inutile, completamente inutile. Per Ahriman, ora aveva davvero un gran sonno! Poteva perfino dormire rimanendo in piedi. Wan Tengri lottò contro il peso inaudito che gli gravava sulle palpebre. Non poteva restare in quella stanza ad aspettare. Doveva portare del bottino alla confraternita dei ladri; doveva liberare Kassar, che l'indomani avrebbe affrontato il giudizio di Ahriman. Doveva fare tutte queste cose, eppure era in preda ad una sonnolenza inarrestabile. Le sue palpebre si arresero al peso che le schiacciava. E il possente Prester John, ritto rigidamente in piedi accanto al letto di Tsien Hui, sprofondò in un sonno incantato. Wan Tengri ebbe l'impressione di camminare nel sonno, di muoversi tra
grandi folle. Udì grida, o echi di grida; udì il riso flautato delle donne, e a sovrastare quei suoni il pesante calpestio marziale degli uomini ed il battito selvaggio dei tamburi mongoli, il clangore dei cembali e lo squillo delle lunghe trombe d'ottone. Poi quel frastuono svanì e il controcanto corale di uomini e donne, simile agli inni che i sacerdoti e le sacerdotesse d'Egitto innalzavano al sole nascente, invase il suo cervello. Alla fine, egli si risvegliò. Per attimi interminabili, il viso giallo e sorridente di Tsien Hui sembrò fluttuargli dinanzi agli occhi; poi scomparve, e Wan Tengri poté vedere chiaramente. Si trovava solo, al centro di un ampio atrio, sotto una volta a ogive che si innalzava altissima sulla sua testa. Su entrambi i lati vi erano colonne a spirale di avorio, alabastro, e di cedro dal dolce profumo. Attorno ad esse si contorcevano dragoni aurei dalle lingue di fuoco. Sotto di esse si assiepava una calca di gente, che pareva piccolissima sovrastata da tanta mole architettonica. Gli occhi di Wan Tengri seguirono la distesa di colonne, e si spalancarono impressionati sulla figura che riempiva interamente l'estremità della grande sala. Un enorme corpo dalle molte braccia si ergeva in una tunica d'oro scintillante di gemme, e il suo volto era un'orrida maschera accesa di azzurro e scarlatto. Dalle labbra grondanti di sangue spuntavano lunghe zanne, e dalle tempie partivano corna dalla punta di fiamma... Christos, si trovava dinanzi ad Ahriman per essere giudicato! Le ossa di Wan Tengri parvero sul punto di sciogliersi, ed un urlo gli gonfiò il petto. Egli lo soffocò a stento, e lo sforzo gli inturgidì le vene delle tempie, e gli soffuse gli occhi con un velo rossatro e tremolante. Lui era Prester John! Nessuno, nemmeno Ahriman tra il suo fuoco infernale, doveva vederlo mostrare timore. Serrò i pugni giganteschi, e si rese conto del metallo che lo avvinceva. Lentamente la vista gli si schiarì, e Wan Tengri osservò il proprio corpo segnato da lividi e cicatrici. Gli avevano lasciato addosso solo un perizoma, ed i muscoli delle gambe erano, al pari delle braccia, adorni di catene che tintinnavano come campanelli d'argento ad ogni suo movimento, come i campanelli d'argento ornamentali che cingevano la gola dei tori sacrificati a Iside. Ogni muscolo del guerriero guizzò gonfiandosi rigido, mentre egli tendeva i polsi per vincere la morsa delle catene. Sembravano così beffardamente fragili, eppure tutta la sua forza non riusciva nemmeno ad allentare un solo anello. Un altro incantesimo, dunque. Ah, per Ahriman e tutti i suoi seguaci! Il capo ardente di Prester John si sollevò e la sua fulva barba si arruffò in un'espressione di sfida. I suoi occhi grigi si posarono decisi sul baluginante
sguardo di fiamma del dio. Il frammento della Vera Croce si sollevò, seguendo il respiro del possente torace. «Io aspetto» tuonò il guerriero. «Aspetto il giudizio di Ahriman. E possano i demoni del vento, da cui sono nato, travolgere voi tutti.» Un mormorio percorse la folla in attesa, mentre gli echi della sua sfida si spegnevano nelle ogive del soffitto. Una schiera di sacerdoti stava uscendo in fila da oscure soglie e, come i soldati che circondavano la fontana incantata, le loro tuniche erano di sette colori, ed ogni fila era guidata da un uomo che indossava i paramenti di un Mago diverso. Nonostante la certezza della morte imminente, le labbra di Wan Tengri si arricciarono in un sorriso. Perfino lì, nel tempio di Ahriman, i maghi non si fidavano l'uno dell'altro. Egli si chiese, distrattamente, quali di quei sacerdoti fossero gli uomini di Tsien Hui. E il suo solito buon umore gli venne in aiuto infondendogli nuovo coraggio. In fondo, che altro era Ahriman se non un idolo di legno o di pietra costruito dall'uomo, e vestito di abiti d'oro tessuti da mani umane? Certo, gli uomini sostenevano che lo spirito di una divinità entrava a dimorare nell'immagine che i seguaci facevano oggetto di culto. Ma Christos proibiva tutto ciò. Alcuni suoi fedeli erano stati crocifissi per aver infranto i piccoli idoli di terracotta che proteggevano le dimore dei Romani. Era confortante ricordare che erano state le mani degli uomini, e non gli dèi, a punire i cristiani per quel gesto. Prester John fece tintinnare le catene dei polsi seguendo la cadenza della lenta salmodia intonata dai preti, e traendone un suono simile ad una lieve risata. Vide così che erano assicurate da un masso del pavimento. Ah, nonostante i loro incantesimi, i Maghi non volevano correre rischi con lui. Poi lanciò un'occhiata alla calca in attesa. Una fanciulla dall'espressione sbarazzina lo fissava sbirciando da dietro una colonna d'alabastro; un armigero lo guardava in cagnesco da sotto il bordo dell'elmo. Su una portantina, un facoltoso mercante vestito di seta e pelliccia si sollevò fiaccamente su un gomito contemplando la scena con occhi annoiati. Un rombo improvviso, simile a tuoni lontani, richiamò l'attenzione di Wan Tengri sul simulacro di Ahriman. Dagli occhi orribili del dio stavano levandosi scintille, mentre le feroci fauci cominciarono a masticare rumorosamente. Dalla folla si levò un grido di terrore. I sacerdoti s'inginocchiarono e, come un sol uomo, tutti i presenti si prostrarono battendo la fronte sul pavimento in segno di supplica. Prester John impallidì, ma rimase ritto in piedi, e portò le mani ammanettate alla gola, toccando il frammento del-
la Vera Croce. «Ti ho dimostrato devozione» sussurrò Prester John. «A modo mio ti ho dimostrato devozione. Se la parola di un soldato ha qualche valore, ascolta il mio patto in questo istante. Stammi al fianco, stammi dinanzi e alle spalle, ed io porterò mille, centomila uomini a prostrarsi al tuo cospetto. Sì, centomila, Christos, anche a costo di tagliare a tutti la gola per convincerli.» Così Prester John rimase eretto sulle gambe incatenate e, aggrottando i suoi occhi grigi, fissò il volto fiammeggiante di Ahriman. Quei rombi di tuono stavano prendendo forma, stavano diventando parole. Ed Ahriman si espresse nella lingua dei mongoli: «Costui sosterrà le tre battaglie, e si guadagnerà l'onore... o la morte!» Uno sbuffo di fumo e una vampata di fiamma posero fine alle parole di Ahriman. Un grido confuso, apparentemente di protesta, si levò dai sacerdoti; un'acclamazione soffocata percorse la folla in attesa, e con un remoto brontolio di tuoni Ahriman tornò silenzioso. Wan Tengri avvertì dei tremiti in tutto il corpo. «È il logorio» sussurrò tra sé. «Il logorio dei miei muscoli. Tre battaglie, eh? Puah! Potrei farcela con una mano sola... con il tuo aiuto, Christos. So che hai sentito e ascoltato le mie parole. Ho detto che centomila uomini si inchineranno a te? Ebbene, così sarà... E non solo; aggiungo pure la mia parte del patto! Turgohl sarà la prima a piegarsi...» Gli occhi di Prester John lanciarono una truce occhiata calcolatrice alla folla che stava alzandosi in piedi rumorosa. Una tenda intessuta d'oro calò di fronte all'orrida statua del dio, e i sacerdoti uscirono in fila, intonando un canto. «Il giudizio di Ahriman è equo. Il giudizio di Ahriman è infallibile. Grande è la potenza di Ahriman, e il suo regno durerà mille anni.» I sacerdoti sfilarono accanto al prigioniero, e nel medesimo istante la catena si tese, strattonando i polsi di Prester John. Nessuno l'aveva toccata, eppure l'anello che lo teneva legato al blocco del pavimento si era aperto e stava scivolando in avanti trascinandolo tra le file dei sacerdoti. Wan Tengri spalancò gli occhi e per un istante oppose i propri muscoli giganteschi contro quel guinzaglio metallico. Era inesorabile come il tempo. Allora si rilassò e s'incamminò a grandi passi circondato dai preti. La sua testa era alta. Avvolto dalle catene, egli marciava con il portamento di un conquistatore. «Dimmi, amico» disse con fare disinvolto al sacerdote che gli stava ac-
canto, un uomo arcigno che indossava una tunica scarlatta «dimmi, quali saranno queste tre battaglie, e quando dovrò sostenerle?» L'uomo gli lanciò un'occhiata torva. «Tu ci hai privato ingiustamente del nostro giusto sacrificio, sciocco» sibilò «ma non sopravviverai alle tre battaglie! La battaglia delle belve, la battaglia degli uomini, e la battaglia degli dèi. Sì! Riderò quando vedrò scorrere il tuo dannato sangue.» Prester John rispose con un ghigno della sua poderosa dentatura. «Oh certo, può darsi. Prima che sia finita ci sarà un sacco di sangue, in un modo o nell'altro. Comunque, se vincerò, mio caro fraticello, guadagnerò degli onori. E il primo onore che chiederò sarà di vedere la tua brutta testa infilata su un palo. Servirà a spaventare i bambini.» Piegando il capo all'indietro, Wan Tengri fece echeggiare la sua tonante risata, e udì da parte della folla un mormorio che pareva di consenso. Nel medesimo istante il pavimento di pietra sembrò sciogliersi sotto i suoi piedi, ed egli si sentì sprofondare nelle tenebre. Anche nel suo cervello la luce svanì di colpo. V Quando Wan Tengri si stirò con un gemito, quell'oscurità lo avvolgeva ancora, opprimendogli la mente in modo tangibile. E vi era pure un tanfo orribile che gli toglieva il respiro, un odore acre di umidità tipico delle fosse sotterranee dove l'acqua gocciolava incessante e i topi addentavano carne in decomposizione; dove animali umani erano incatenati immobili a pareti di pietra massiccia e la dolce luce solare di Ormazd non giungeva mai. Un tanfo rancido, nauseabondo, marcio... Prima che i suoi occhi si aprissero per tentare di sondare nell'oscurità pressoché assoluta, Wan Tengri capì di trovarsi nelle segrete sotterranee del tempio di Ahriman. Per lunghi attimi di consapevolezza parziale, il guerriero combatté contro un impeto di panico, e ricordò l'odio che era avvampato negli occhi di quel sacerdote. Avrebbero dunque osato trasgredire agli ordini pronunciati dalla bocca della loro divinità? Con un gemito strozzato tra i denti, cercò di sollevarsi dal giaciglio di roccia, freddo e bagnato, su cui era riverso. Ma catene che parvero spezzargli le ossa lo tennero bloccato in quella posizione. Allora si sforzò di rilassare tutti i muscoli del corpo e rimase in attesa... Suoni lievi cominciarono a farsi strada nella sua coscienza. Dell'acqua stillava in lente gocce dalla roccia vicina. Drip... drip... drip. Inconscia-
mente, Wan Tengri cominciò a contare tra quello stillicidio monotono, insistentemente regolare. Drip... Il battito lento e sordo nella sua gola pulsava quindici volte, poi un altro drip. Quindici pulsazioni. Poi ancora drip... Con frenesia, egli tese al massimo l'udito nel tentativo di afferrare qualche altro rumore, qualsiasi suono, purché fosse diverso da quel liquido ticchettio ossessivo. Aveva sete. Per un attimo, lo sgambettare lesto di un topo che attraversava la cella gli giunse come un sollievo, sollievo che sconfinò subito nel terrore. Se quelle viscide bestie lo avessero attaccato, lui era completamente indifeso. E i topi lo sapevano, perché da mille generazioni la loro preda era costituita dalle vittime inermi rinchiuse in quelle segrete. Lo zampettio si avvicinò, guizzando con una sensazione gelida sulle sue gambe. I muscoli di Wan Tengri sussultarono, ma il ratto se n'era andato. Se fosse tornato... Drip... drip... drip... Il silenzio opprimente fu lacerato da un urlo improvviso. Un grido strappato da una gola umana agonizzante, un suono rauco, inarticolato... il gemito stridulo di un animale in preda ad una sofferenza atroce. Il suono si propagò attutito nell'aria fetida, poi si spense in un rantolo di vomito. Dunque lì accanto vi erano pure le camere di tortura! Wan Tengri si ritrovò a lottare contro il vincolo delle catene. Era la sua totale impotenza a minare il suo coraggio. Temeva la morte non più di qualsiasi altro uomo, e meno di tanti. Era una cosa che un guerriero imparava ad affrontare. Ma il silenzio... e lo sgocciolio dell'acqua... Con uno sforzo, distolse la propria mente dal contemplare le intenzioni dei sacerdoti di Ahriman, e da ciò che poteva riservargli il destino. Si attaccò invece disperatamente alla speranza di quelle tre battaglie che gli erano state promesse. Belve... uomini... e dèi. Forse stavano soltanto indebolendogli lo spirito in previsione dello scontro. Forse... All'inferno Ahriman e tutti i suoi scagnozzi! Prester John sarebbe stato pronto alla lotta. La torre avvolta dalle fiamme danzanti pareva un lontano ricordo del passato, ora; come pure il tetto su cui si era appostato insieme a Bourtai. Era stato quello gnomo maligno a cacciarlo in questa dannata situazione? O la colpa non era forse della spavalderia con cui si era introdotto nella casa di Tsien Hui? Ma che importanza aveva, adesso? Drip... drip... drip... Quel rumore gli stava scardinando il cervello! Sette maghi, aveva detto Bourtai, sette maghi che non si fidavano l'uno dell'altro. Ah, una volta uscito da quel pasticcio... Un senso di autoironia gli si agitò nella mente, e ancora una volta l'umorismo gli venne in aiuto, tratteggiandogli sulle lab-
bra un amaro sorriso. «Forza, Prester John» disse, burlando se stesso. «Tu hai la forza di un uragano, no? Quel prete di Christos ha detto che la fede smuove le montagne. Su, solleva un po' questa tua montagna di carne! In fondo cosa sono per te un paio di catene?» Nell'oscurità una voce parlò: «Wan Tengri? No, sto sognando, maledizione ai demoni di Ahriman...» «Kassar! Kassar, fratello mio!» La voce di Wan Tengri esplose gioiosa nel buio. «Tu qui? Allora non tutto è perduto! Cosa c'è che non possiamo fare insieme, fratello?» Il silenzio era rotto solo dal respiro stremato del mongolo, poi Kassar replicò con voce rauca. «Sei incatenato, John figlio dell'Uragano?» «Sì, incatenato, fratello» ammise Wan Tengri «ma almeno non saremo costretti a udire questo silenzio. Prima o poi verranno a prenderci, e se dovremo affrontare la morte... ebbene, abbiamo già visto la morte prima d'ora.» Kassar rise, stridulo. «Sì, così sarà più facile. Avevo sperato che questi cani di maghi non fossero riusciti a prenderti. Quel maledetto Bourtai...» Il corpo di Wan Tengri si tese sotto le catene. «Come hai detto... Bourtai? Quale Bourtai?» «Colui che chiamano il Supremo» rispose conciso il mongolo. «Il capo dei sette Maghi di Kasimer. Possa Ahriman accecarlo e fulminargli le budella! Possa Ahriman sconvolgergli il cervello con la pazzia!» Wan Tengri, fissando nel buio, strinse gli occhi pensieroso. Quello storpio avvizzito, rintanato nelle miniere di sale in compagnia di sudici ladri, il Supremo? No, certamente si trattava di un altro Bourtai. Oppure il gobbo era un asino che aveva voluto indossare per un'ora la pelle del leone... Eppure Wan Tengri ricordava ancora l'attimo in cui aveva avuto paura di quel sorcio delle miniere; proprio lui, Prester John! Inoltre, un Mago poteva usare benissimo come spie quell'accozzaglia di ladri dal passo felpato. Wan Tengri disse con tono deciso: «Io pensavo che questi Maghi fossero sconosciuti, che si celassero dietro i loro incantesimi. Uno mi ha riferito che lo stesso Tsien Hui, l'usuraio, era un Mago. E, in tutta sincerità, la cosa deve essere vera, dato che Tsien Hui mi ha trasformato il sangue in acqua e mi ha fatto sprofondare in un sonno incantato proprio quando stavo per trafiggerli quel cuore codardo che si ritrova!» «In questa città maledetta» ribatté Kassar «tutti gli uomini sono Maghi
da quando i neri ladri giunsero da Kasimer. E questo stesso Bourtai potrebbe aver mentito. Venne alla tenda del khan chiedendo aiuto per scacciare i suoi sei fratelli stregoni, e promettendo molte cose. Il khan, mio fratello, lo fece allontanare a colpi di frusta. Il khan adora l'Unico Vero Dio, e non gli piacciono i Maghi. Se fosse veramente stato il Supremo, questo Bourtai avrebbe lanciato una maledizione contro mio fratello. Questa è una cosa che non capisco. Ma una cosa la so di certo, e cioè che presto morirò. È scritto.» «Ciò che è scritto nel destino, l'uomo non può evitarlo» annuì Wan Tengri. «Comunque ho la sensazione che la morte non sia poi così vicina. Non ora che ti ho ritrovato, fratello. Inoltre ho fatto un voto che non posso mancare di adempiere, e per farlo devo essere vivo.» Le ore scorsero lente nelle tenebre, e nessuno venne alla loro cella, né udirono alcun suono. La tortura della sete li oppresse sempre più, finché lo stillicidio delle gocce divenne per i due prigionieri una sofferenza quasi insopportabile. Alla fine, quando furono stanchi di discorsi senza speranza, Wan Tengri impose il sonno al proprio cervello sofferente, e riuscì a non svegliarsi finché un lontano strusciare di passi non esplose come un tuono nella sua coscienza. «Kassar» disse sottovoce «credo che vengano a prenderci.» «A prendere me» rispose Kassar, mostrando una certezza assoluta. «Addio, fratello. Mi sarebbe piaciuto vederti combattere ancora.» «No, ci incontreremo di nuovo!» «Se è scritto» annuì calmo Kassar. «O forse ci incontreremo quando tornerò nella resurrezione della carne. Certamente noi due ci riconosceremo. Fino a quel giorno, il mio onore è al sicuro nelle mani del mio fratello di sangue.» «È al sicuro» confermò laconicamente Wan Tengri, «Ed io non potrò mai dimenticare che tu sei finito in questo infernale covo di Maghi per causa mia. È stato il mio sangue a tradirti. E il mio sangue farà il possibile per liberarti.» Il guerriero colse il chiarore rossastro di una torcia riflesso sulle pareti impregnate di umidità, mentre i passi si avvicinavano sempre più. D'un tratto il bagliore fumoso delle fiaccole gli accecò gli occhi, abituati ormai alla tenebra, e quando fu nuovamente in grado di vedere scorse, sull'ingresso spalancato della segreta, sette sacerdoti, ognuno in una tunica di diverso colore. Ma la luce gli rivelò pure qualcosa che prima non aveva sospettato. Kassar era appeso per i pollici ad un uncino del soffitto, e il volto
del mongolo era contratto da una smorfia di atroce sofferenza. La bocca di Wan Tengri digrignò furiosa a quella vista. «Ah, preti della malora!» urlò. «Quest'uomo è il mio fratello di sangue. Prendete me al suo posto, e concedetegli il diritto alle tre battaglie. Assisterete ad una lotta tale da soddisfare lo stesso Ahriman!» Kassar disse con fermezza: «Lascia perdere, fratello.» I sacerdoti non replicarono alle imprecazioni di Prester John. Calpestarono il suo corpo impotente e incatenato, e tolsero il mongolo dallo strumento di tortura, trascinandolo poi via in catene, seguiti dall'eco furioso della collera di Wan Tengri. Il bagliore delle torce svanì, il calpestio dei loro piedi si perse in lontananza, e il silenzio tornò a incombere più grave di prima. Quando, nell'oscurità, gli giunse una voce sussurrata, Wan Tengri non rispose. Era un trucco del cervello, pensò, un'illusione evocata dalle sue privazioni. Ma la voce insisté: «Wan Tengri, il prossimo turno sarà il tuo. Mi senti?» Prester John imprecò con voce rotta. «Ti sento, vigliacco imboscato! Liberami, Bourtai, Faccia di Scimmia! Kassar...» «No, nessuno può aiutare Kassar» rispose debolmente il ladro. «Ed io non posso liberarti. Anche se potessi spezzare quelle catene incantate, la roccia che ci separa è troppo spessa. Ma ascolta, Wan Tengri. Quando entri nell'arena, cerca il portale degli scarlatti. Dietro di esso, ti aspetterà un cavallo veloce. Con un tuo balzo fulmineo dovresti riuscire a conquistare la libertà.» Wan Tengri lanciò un'occhiata di fuoco nel buio. «Prima ho un conticino da regolare con quei sacerdoti!» La risatina di Bourtai gli giunse con un fievole eco. «Credo che varrebbe la pena di vederti in azione! No, ascolta padrone, quelli ti defrauderanno dei tuoi onori, perché è scritto che se un uomo supererà la battaglia delle belve e degli uomini, avrà i sacerdoti schierati contro di lui nella battaglia degli dèi. E pur ammettendo che egli riesca a uscire vincitore anche da quel contesto, ebbene...» Wan Tengri si dimenò frenetico e le catene tintinnarono con un delicato suono argentino. Il guerriero sbottò in un'imprecazione. «Ah, maledizione a te, faccia di topo! Deciditi a sputare quello che devi dire, anche se è uno sforzo estremo per il tuo coraggio da ratto! Se un uomo riesce a superare la battaglia degli dèi, che succede dopo?»
«Prima che il dio muoia, padrone, rivolgigli una domanda. Il dio, morente, deve per forza rispondere. Chiedigli questo: Come può un uomo governare Turgohl?» «Bene!» Wan Tengri rise stridulo. «Lo chiederò!» Il chiacchierio del ladro riprese con tono smorzato. «Comunque sarebbe probabilmente una soluzione più saggia montare sul cavallo e fuggire. In diciassette anni, padrone, nessuno è sopravvissuto fino al punto di poter rivolgere questa domanda. E sono stati in molti a tentare le tre battaglie. Davvero molti, padrone...» Wan Tengri eruppe in un'altra serie di improperi, poi interrogò di nuovo il ladro ma non ottenne risposta alcuna. Bourtai se n'era andato, strisciando come un topo nel labirinto di cunicoli sotterranei della città. Non restava quindi che aspettare... aspettare in compagnia del buio, del silenzio, e dello snervante stillicidio d'acqua. E Kassar... dov'era Kassar? Un'altra domanda senza risposta. Infine uno scalpiccio di sandali e il bagliore sanguigno delle torce annunciarono il ritorno dei sacerdoti rappresentanti i sette maghi. Il loro capo, vestito di scarlatto, si chinò a toccare le catene di Wan Tengri, che allentarono la loro morsa. Il guerriero si levò in piedi con un balzo, le labbra tirate in una truce espressione di scherno. Come era accaduto prima, però, le catene continuarono a stringergli polsi e caviglie, e l'anello che le bloccava alle pietre del pavimento cominciò inesorabilmente a strisciare sul suolo, trascinando via Wan Tengri. Il tragitto percorso nel tanfo delle segrete fu lungo, e a Wan Tengri parve ancora più lungo di quanto non fosse in realtà. Egli avanzò con un incedere leggero e ferino, le spalle protese ansiosamente in avanti. Le parole d'avvertimento di Bourtai era quasi svanite dalla sua mente. Prester John sapeva solo che lo attendeva la lotta e che, se fosse sopravvissuto abbastanza a lungo, avrebbe potuto saldare il conto a quella masnada di preti incappucciati e dal cipiglio torvo che avevano torturato Kassar. Ad un certo punto le pietre della parete cigolarono su un perno, e il caldo fulgore del sole colpì i suoi occhi come una staffilata. Quel tocco di luce era altrettanto doloroso del contatto di un ferro rovente, ma per Wan Tengri fu il benvenuto. Il suo corpo parve assorbire il tepore dell'astro, e l'odore del sangue ancora caldo versato sulla sabbia ardente dell'arena era fresco e ristoratore paragonato al lezzo della cella. Appena oltrepassato il cigolante portale di pietra, Wan Tengri si fermò, mentre i suoi occhi si stringevano abituandosi alla luminosità improvvisa e il calore gli asciugava la dolorosa sensazione di umidità di cui aveva le ossa impregnate. Adesso
cominciava ad intravedere vagamente la folla multicolore assiepata sulle gradinate dell'arena. Vi erano sette portali oltre a quello dal quale era uscito, ognuno dipinto con le insegne araldiche di uno dei Sette Maghi. È dinanzi a quelle porte erano schierati sacerdoti e armigeri vestiti dei medesimi colori partigiani. Un ruggito proveniente da una moltitudine di gole gli tuonò nelle orecchie, e le labbra incorniciate di fulva barba di Wan Tengri si mossero in un accenno di sorriso. «Ave et vale» mormorò. Sì, era un grido che aveva già udito nell'arena di Alessandria. Spostando rapidamente lo sguardo, cercò allora qualche traccia di Kassar. Quando scorse infine l'amico, un urlo selvaggio gli eruppe con un tonante eco metallico dalla gola. Al centro dell'arena sorgeva un'ara, e sul blocco di pietra dell'altare giaceva Kassar, le braccia penzolanti inerti nel rilassamento tipico della morte; il viso contorto, riverso oltre il bordo dell'ara sacrificale, rivelava l'atrocità della sua fine. Allargando le possenti braccia in un gesto colmo di feroce bramosia di vendetta, Wan Tengri si girò in direzione dei sacerdoti... ma quelli erano scomparsi. Il massiccio portale di roccia si era richiuso. Solo allora il guerriero si rese conto che polsi e caviglie non erano più avvinti dalle catene. Esse giacevano luccicanti ai suoi piedi. Prester John le raccolse, stringendole in pugno al pari di una sferza metallica, poi si voltò verso gli spalti dell'anfiteatro. Nella sua mente non vi era alcun pensiero riguardante la morte, ma solo l'immagine di Kassar... e la prospettiva di affrontare nella terza battaglia i sacerdoti dei Sette Maghi che avevano decretato la fine dell'amico. Lentamente, i muscoli delle gambe tesi, Wan Tengri avanzò con passo solenne attraverso lo spiazzo di nere sabbie ardenti. La sua testa fulva sfolgorava sotto i raggi del sole, le spalle caracollavano in un rigido atteggiamento di sfida, la destra brandiva le catene ondeggianti. Il fondo surriscaldato dell'arena arrecava una sensazione benefica ai suoi piedi nudi. Le narici del guerriero fremettero aspirando avide i caldi odori della lotta che lui conosceva fin troppo bene. Sì, non aveva il minimo dubbio. Avrebbe vissuto per vendicare l'onore di Kassar! Nessun nemico era ancora uscito ad affrontarlo. La battaglia delle belve, sì, era quello il primo scontro. Ebbene, Prester John era pronto. Sotto all'ara sacrificale dove giaceva il cadavere di Kassar, egli si fermò e fissò il viso esanime dell'amico. Gli avevano riservato una morte atroce, squarcian-
dogli il ventre mentre era vivo ed estraendo le viscere per un'interpretazione divinatoria. Quale maledetta profezia avevano letto quegli aruspici nelle interiora del suo fratello di sangue? Le labbra di Wan Tengri si allargarono in un sorriso selvaggio. Avrebbero dovuto leggervi la loro inesorabile condanna! Anche se non ne aveva bisogno, ora il valore del guerriero aveva uno stimolo più che sufficiente. Wan Tengri si volse verso il biancore indistinto dei volti che gremivano le gradinate dell'arena, e la sua voce sgorgò tonante, minacciosa come il mare tempestoso. «Ascoltate, uomini e donne di Turgohl» urlò. «Di ogni goccia di sangue stillata dalle vene di mio fratello, dovranno rispondere cinque vite! E se il suo sangue griderà ancora vendetta, ebbene, cinquecento vite non saranno sufficienti a completarla. Prester John ha parlato!» Un silenzio di tomba scese tra la moltitudine degli spettatori, che ora parevano una massa di cadaveri immobili. Poi squillò una tromba, accompagnata da un mormorio generale simile al levarsi del vento, e Wan Tengri udì alle proprie spalle il ringhio di una belva affamata. Roteando su se stesso verso la direzione da cui era provenuto il rumore, spiccò un balzo di tre metri, toccando il suolo con movenza elastica. Nella base dell'altare si era aperto uno spiraglio, e in quel quadrato buio era accovacciato l'avversario di Prester John per la battaglia delle belve: una tigre dal vistoso manto a strisce. Per un attimo la fiera si appiattì sul fondo sabbioso, sbattendo le palpebre per proteggere i grandi occhi baluginanti dal repentino sfolgorio solare. Poi avvistò la preda umana, e le sue fauci ornate di zanne simili a sciabole si spalancarono in un ruggito che coprì la voce corale della folla di spettatori. Wan Tengri, bilanciato in posizione elastica, rimase immobile in attesa dell'attacco. La catena, sua unica arma, ondeggiava leggermente contro i muscoli tesi della sua coscia. Prima d'ora il guerriero aveva già affrontato la carica della tigre delle pianure, quando la stagione di caccia dei mongoli, lunga un mese, arrivava al gurtai e ci si preparava al massacro finale. In quelle circostanze, comunque, Wan Tengri aveva sempre avuto una lancia in mano, e la scimitarra affilata pronta alla cintura. Nonostante ciò, nei suoi guardinghi occhi grigi non vi era traccia di paura e le solide labbra erano piegate nel solito sorriso. Lentamente, strisciando con il ventre al suolo, la tigre avanzò di tre passi. Ora i muscoli delle zampe posteriori stavano preparandosi alla carica. La grande coda sericea era rigida come una verga metallica, solo l'estremi-
tà si contraeva quasi impercettibilmente. Wan Tengri persistette nella propria immobilità, conscio della muta attesa spasmodica della folla. Anche la lieve brezza che aveva accarezzato l'arena era scemata nel medesimo istante... E Wan Tengri continuò ad attendere. La maschera della tigre si contrasse. Il suo ruggito esplose, profondo e rauco, un'arma terrificante già di per sé. Nella gola di Wan Tengri echeggiò in tutta risposta un urlo di sfida e, mentre la belva faceva scattare le molle muscolari delle zampe librandosi a mezz'aria, il guerriero caricò. Il suo guizzo in avanti disorientò l'attacco dell'animale. La preda di solito non reagiva in quella maniera, ma si dava alla fuga cercando di sottrarsi agli artigli sguainati. Le possenti gambe anteriori della tigre erano protese in avanti e gli artigli tentarono di stringersi in una morsa che avrebbe mozzato di netto la testa di un uomo, eppure l'assalto andò praticamente a vuoto. La belva si contorse a mezz'aria, mentre Wan Tengri operava una finta sulla destra. Quel lieve scarto del suo corpo guizzante servì perfettamente allo scopo e quando il guerriero di scagliò a sinistra, piegandosi a schivare la sferzata di quegli artigli implacabili, la tigre non riuscì a centrarlo. Wan Tengri si rese conto della precisione millimetrica del proprio calcolo solo qando avvertì di striscio il contatto della zampa sericea della belva sul torace. Allora il suo braccio destro si levò solcando l'aria. La catena scintillò in un guizzo dorato sotto il riflesso del sole, poi colpì inesorabilmente il muso della tigre. Per un brevissimo istante Wan Tengri rimase immobile, quindi, trascinato dallo slancio del colpo inferto, si piegò in avanti, centrando il fianco della belva. La tigre lanciò un ruggito di dolore e di rabbia e, quando toccò il suolo, piroettò su se stessa, balzando nel punto dove un istante prima si trovava l'avversario... ma Wan Tengri si era già spostato. Per la seconda volta, appena al di fuori della portata degli artigli dell'animale, roteò la propria frusta metallica. Intravide di sfuggita la maschera ringhiante, poi si lanciò di corsa, attraversando l'arena a grandi balzi, e udendo alle spalle il ruggito della tigre e lo scatto delle fauci che si serravano mentre l'animale si abbatteva pesantemente al suolo. Non c'era assolutamente il tempo per voltarsi e guardare. Wan Tengri percorse cinque passi giganteschi, poi facendo perno su una gamba scartò di lato piegandosi. La tigre avanzò barcollando incerta, ruggendo e sollevando con le zampate nuvole di nera polvere. Era una furia fulva, una belva impazzita e mortale... ma ormai quasi del tutto inerme. Infatti la sferza
improvvisata di Wan Tengri aveva colpito con precisione nel segno, accecando quel paio di occhi d'ambra. Il sangue, grondando nelle nari della belva, ne offuscava l'olfatto già debole per natura, eppure la tigre continuava a cercare con insistenza la preda. Un poderoso ruggito scosse l'aria, ma quel suono venne letteralmente sommerso dall'ovazione frenetica che si levò d'un tratto da diecimila gole umane. La tigre ne fu atterrita. Cieca, si rannicchiò al suolo ringhiando, ma indubbiamente la ferocia ben più grande della belva umana l'aveva spaventata. Wan Tengri si bloccò un istante, bilanciandosi sulla punta dei piedi, poi si scagliò in avanti in uno scatto furioso, il volto contorto in un'espressione crudele. Sì, forse quella fiera era intimorita, comunque quegli artigli simili a spade e quei denti terrificanti potevano uccidere ancora tranquillamente una dozzina di uomini. Bisognava dare alla tigre il colpo di grazia, dato che senza dubbio gli avrebbero sguinzagliato addosso altre belve. Non poteva permettere che quel terrore vivente fosse libero di attaccarlo di nuovo, quando tra poco avrebbe dovuto impegnare tutta la propria forza e astuzia in un'altra lotta. Wan Tengri corse così in direzione della tigre, roteando ancora nel pugno la pesante catena. Spiccò un balzo... e atterrò a cavalcioni del dorso della belva! Le sue ginocchia si strinsero sotto il ventre dell'animale e, nel medesimo istante, la catena cinse la gola pelosa. Wan Tengri serrò in pugno gli anelli metallici e con tutta la forza delle possenti spalle tirò la catena, torcendola e annodandola dietro quel cranio famelico. La tigre scattò librandosi in aria come una molla, cercando di colpire contemporaneamente con gli artigli delle quattro zampe, poi cadde su un fianco, rotolandosi come un'ossessa al suolo... ma la sua gola era muta. Wan Tengri restò senza fiato per la violenza selvaggia di quel balzo, ma le sue gambe non mollarono la presa, presa che poteva segnare la differenza tra la vita e la morte. Entrambe le mani erano avvinghiate saldamente alla catena e, mentre uomo e belva rotolavano sul terreno, continuavano a serrare quel nodo di garrota strangolando la tigre. Bagliori di sole e tenebre vorticarono nella mente del guerriero. Muscoli d'acciaio vibrarono e si dimenavano sotto le sue gambe mentre veniva ripetutamente sbattuto contro il fondo sabbioso dell'arena. Poi i suoi occhi non furono più in grado di vedere e i suoi polmoni si svuotarono delle ultime riserve di fiato... ma la gola della tigre era sempre muta. Wan Tengri avvertiva il pulsare impazzito dei possenti polmoni dell'animale, il martellare concitato del cuore contro la sua gamba sinistra. Quel-
l'ansito si fece serrato come il rullio degli zoccoli di un cavallo al galoppo; divenne una mazza da guerra quasi sul punto di sconfiggere la presa disperata di Wan Tengri. Ma ecco che cominciò a rallentare. Vi fu una spasmodica contrazione finale che scagliò il guerriero a qualche metro di distanza, poi la belva giacque inerte al suolo. Wan Tengri si alzò barcollante. L'arena gli vorticava tutt'intorno e un ansito affannoso gli squassava il petto. Boati di ovazione gli rintronarono i timpani. Si guardò attorno cercando il corpo della tigre, lo vide e si avviò in quella direzione con andatura stranamente intorpidita; la sua mente acuta, comunque, era già al lavoro. Lottando con l'animale, egli si era spinto fino a una mezza dozzina di passi dal cancello scarlatto. Durante lo scontro, le guardie e i sacerdoti vestiti di quel colore avevano cercato riparo dietro l'inferriata che ne sbarrava l'uscita, e ora stavano invece rientrando nell'anfiteatro. Dietro di loro, secondo quanto aveva affermato Bourtai, era in attesa un cavallo. Ma Wan Tengri aveva già deciso la propria condotta futura. Certo, oltre quel branco di codardi vestiti di rosso vi era un'allettante possibilità di fuga; prima però Prester John doveva regolare un conto. I suoi occhi corsero verso l'ara sacrificale che accoglieva le spoglie di Kassar. La porta alla base dell'altare era aperta, e questa volta sulla soglia si pararono due leoni dalla criniera nera, che si fermarono disorientati. Wan Tengri sbottò in un'amara risata. Non vi era da meravigliarsi se, in diciassette anni, nessun uomo aveva superato incolume le tre battaglie! Con la rapidità di un dardo che guizza attraverso un raggio di luce, Wan Tengri elaborò il proprio piano. Si chinò sulla carcassa della tigre tendendo la poderosa muscolatura, e in un baleno sollevò l'animale sopra la testa. Quasi nel medesimo istante, con un balzo di rincorsa, lo scagliò contro le guardie scarlatte. Dopo il lancio, Wan Tengri continuò a correre in direzione del cancello. Si levarono delle grida soffocate, mentre gli armigeri tentavano in tutta fretta di scansarsi. Un uomo estrasse inutilmente la spada, poi la massa fulva della tigre si abbatté sul manipolo. Due soldati caddero urlando. L'uomo che aveva sguainato la spada cercò di saltare sotto alla carcassa, ma inciampò e si schiantò bocconi sul fondo sabbioso. Wan Tengri gli fu subito addosso, piantandogli le ginocchia nella schiena e bloccandolo sotto il mento con le mani. La sua forza si scaricò in uno strappo esplosivo, ed il debole lamento tremolante della guardia fu soffocato all'istante dalla morsa che gli spezzava il collo. Senza arrestarsi un solo attimo, Prester John afferrò la pesante scimitarra
della vittima e si lanciò attraverso l'arena, mentre alle sue spalle udiva le urla adirate delle altre guardie e il brusco ordine del loro comandante che le esortava a rinserrare i ranghi. Wan Tengri rise, senza smettere di correre. «Anche voi avrete la vostra occasione! Verrà il turno anche per voi, per voi che vi definite uomini! Dopo la Battaglia delle Belve...» I leoni intanto lo avevano avvistato e stavano strisciando fuori dall'oscurità della porta. Avevano i fianchi scavati dal digiuno e le fauci bianche di saliva. Le loro teste ondeggiarono lentamente, poi dal petto della belva più grande scaturì un ruggito rauco. Wan Tengri non arrestò la propria corsa, bensì rispose a quella sfida bestiale con un grido che echeggiò contro gli spalti gremiti dell'anfiteatro. Per un istante le due belve si acquattarono, disorientate da quell'essere umano che si lanciava alla carica con un urlo selvaggio quanto il loro. Il leone più piccolo si rannicchiò accanto alla base dell'altare; il secondo invece, dopo la momentanea esitazione, ruggì di nuovo e partì all'attacco. L'animale e l'uomo correvano direttamente l'uno incontro all'altro, e la distesa di sabbia nera che li separava si faceva sempre più piccola. Correvano avvolti dal silenzio, un silenzio assoluto che era sceso sul pubblico strozzandogli il respiro in gola. Poi, con un ruggito finale traboccante di boria, il leone si lanciò, protendendo gli artigli luccicanti verso la fragile pelle della vittima umana. Sfruttando la velocità della propria carica, Wan Tengri scartò lateralmente, come aveva già fatto per schivare la tigre; questa volta però il suo braccio brandiva una lama affilata di micidiale acciaio. Non era un'arma valida quanto la scimitarra personale, comunque l'abilità del guerriero sopperì alla mancanza, e il filo curvo morse in profondità la carne e l'osso. Il leone si accasciò al suolo afflosciandosi, e vi giacque inerte. La testa dell'animale, quasi mozzata, era piegata in modo orrendo. Il taglio netto della spina dorsale lo aveva ucciso sul colpo, senza che il corpo fosse scosso da un solo spasmo. Sferrato il fendente, Wan Tengri ruotò sui talloni e partì all'attacco del secondo leone. Per un momento la belva parve sul punto di opporsi all'urlo di sfida di Prester John, poi voltò la coda e sgaiattolò lesta nel buio passaggio da cui era venuta. La folla esplose in un boato di risate e di strepiti d'approvazione e, dalla gradinata più alta, uno squillare di trombe aggiunse stridule note metalliche a quel pandemonio. La porta alla base dell'altare si richiuse e Wan Tengri si drizzò in tutta la propria statura, simile ad una statua di bronzo, scintillante di sudore sullo sfondo di candido alabastro. Il
suo petto si gonfiò ad aspirare avidamente aria. Le sue braccia erano di nuovo in posizione lungo i fianchi, mentre la mano destra sollevata la punta della scimitarra per soppesare il bilanciamento. La mente del guerriero era assolutamente calma, e nel suo cuore non vi era traccia di stanchezza. Prester John cominciava solo adesso a riscaldarsi per la strage. Un secondo squillo di tromba gli risuonò nelle orecchie, ed egli girò il capo fulvo, facendo sporgere con espressione feroce la mascella coperta di barba rosso fuoco. La Battaglia delle Belve era terminata; stava per avere inizio la Battaglia degli uomini. Un sorriso sprezzante gli incurvò il profilo rigido e deciso della bocca. Sette buffoni agghindati con abiti multicolori stavano marciando verso di lui, sette guardie che indossavano ognuna le tinte araldiche del rispettivo padrone. Quella vestita di scarlatto pareva comunque più smaniosa delle altre, e avanzava con un portamento sicuro di sé e impettito. Wan Tengri annuì con un cenno del capo, e si passò sulla coscia la parte piatta della scimitarra per togliervi il sangue dell'animale ucciso. Tra poco sarebbero scorsi fiumi di sangue, e quel liquido era particolarmente sdrucciolevole e infido quando grondava sulla mano che impugnava l'elsa. I sette avanzarono; il sole scintillava sugli elmi, sulle corazze e sugli scudi scolpiti che i soldati reggevano. Gli occhi di Wan Tengri si strinsero in un'espressione calcolatrice. Aveva un unico vantaggio da sfruttare. Un uomo nudo poteva muoversi più velocemente di un soldato ingombrato dall'armatura. Avrebbe potuto farcela, tutto sommato... se non fossero entrati in gioco altri incantesimi. Wan Tengri rimase immobile, piantato solidamente sui piedi, ad attendere l'avanzata degli avversari, saldo e massiccio come l'ara di alabastro. Ora riusciva a distinguere le loro facce rasate, tese in espressioni torve. Puah! Quegli uomini sembravano dei preti. Wan Tengri sputò sdegnosamente nella sabbia. Quasi avesse impartito un ordine, le sette spade balenarono fuori dalle rispettive guaine e gli armigeri formarono un semicerchio per chiuderlo contro la base dell'altare. Lentamente e con fare guardingo, i sette ripresero ad avanzare, gli scudi pronti al braccio sinistro, la punta delle spade protesa verso l'unico avversario. Wan Tengri sputò di nuovo. «Il rosso» disse provocatorio «deve essere il colore dei vigliacchi, da queste parti!» Con un urlo furioso, la guardia scarlatta si scagliò all'attacco e la sua scimitarra luccicò alta, descrivendo un ampio arco. Wan Tengri si mosse con l'agilità elastica di un felino. Non tentò nemmeno di parare il colpo dell'altro, ma scattando in avanti usò la propria spada quasi si trattasse di
una lancia, puntandola alla gola avida e sbraitante dello scarlatto. Poi un grido di disappunto affiorò sulle labbra di Prester John. Un incantesimo, per Ahriman! La sua spada, la valida arma che in un sol colpo aveva mozzato la testa ad un leone... si era mutata, mentre la impugnava, in un serpente! VI Prester John sentì i muscoli freddi e vibranti del rettile che, contorcendosi, tentava di avvolgersi per affondargli le zanne nella mano. Dalla gola della guardia scarlatta sgorgò un urlo di trionfo e la sua scimitarra scintillante cominciò a calare verso il capo fulvo e indifeso di Wan Tengri. Gli altri sei uomini stavano intanto separandosi in due schiere di tre ciascuno per schiacciarlo tra le lingue malvage delle loro spade, e sotto il peso dei loro scudi. La morte era vicinissima; una morte frutto di un incantesimo. Prester John aveva combattuto finora con freddezza e raziocinio, ma in quegli istanti sentì dilagargli nelle vene la gioiosa rabbia della lotta che gli era valsa il terribile nome che portava. Allora lanciò un urlo di sfida, rauco e bestialmente gutturale. Il suo braccio destro si levò, descrivendo una traiettoria circolare sopra il capo, e colpì proprio come la saetta del medesimo uragano di cui egli portava il nome. Drizzata dalla furia di quella rotazione repentina, la testa del serpente cozzò contro il volto della guardia scarlatta. Si udì un lamento debole e stridulo. La spada del soldato vacillò nel suo affondo letale, e cadde al suolo. Prester John la schivò, chinandosi, e si portò alle spalle dell'avversario. Non si fermò a infliggergli il colpo di grazia da tergo, bensì con due poderosi balzi uscì al di fuori della morsa delle due schiere che stava chiudendosi rapidamente. La guardia nera tentò di bloccargli la fuga, scattando e partendo in affondo con la punta della scimitarra, ma il peso dell'armatura rese troppo lenta la sua sortita. Prester John la superò come un lampo, si fermò e scagliò il rettile dalla testa stritolata contro la scura maschera truce del volto della guardia nera. Lo scudo del soldato si levò a parare il colpo, e Prester John udì un clangore simile a metallo che colpisse altro metallo temperato. Non vi era tempo per pensare a cosa significasse quel suono, ma quel ricordo rimase impresso nella mente di Wan Tengri, mentre il guerriero entrava in azione col proprio corpo luccicante come il bronzo. Approfittando della momentanea cecità del nemico, causata dal subitaneo sollevamento
dello scudo, Prester John si sottrasse al fendente brancolante della scimitarra e le sue mani si serrarono intorno al polso dell'uomo. Servendosi poi della violenza della propria carica, della forza dei muscoli d'acciaio e dell'abilità nella lotta appresa presso i mongoli, passò il braccio armato della guardia nera sopra una spalla e, con una flessione elastica del tronco, sollevò l'armigero dal terreno, proiettandolo con mira precisa contro lo scudo e la spada della guardia successiva. Poi, in una frazione di secondo, raccattò la scimitarra della guardia nera e indietreggiò rapido di una mezza dozzina di passi. Infine si volse a fissare i suoi nemici, mentre la spada ruotava sibilante, tracciando un arco sopra la sua testa. «Ehi, che fate? Perché indugiate tanto?» urlò, sbeffeggiando i soldati con una risata cavernosa. «Non c'è più sangue nelle vostre vene? Ve lo hanno rubato? O un incantesimo vi ha inchiodato i piedi al terreno?» Solo allora notò che la guardia rossa giaceva immobile, mentre il sangue che gli zampillava dalla gola veniva assorbito avidamente dalla sabbia assetata. La guardia dalla tunica color argento, invece, stava lottando per estrarre la propria spada conficcata in profondità nel corpo dell'armigero vestito di nero. Dunque erano solo quattro gli uomini che, brandendo scudi e scimitarre, avanzavano pesantemente ad affrontarlo. Prester John sorrise nel constatare con quanta goffaggine e impaccio essi muovessero all'offensiva. Ora gli giungeva distinto il costante vociare degli spettatori che affollavano l'arena. I muscoli delle sue gambe erano guizzanti e impazienti, e la sua gola continuamente solleticata dal riso. Sprezzante del pericolo, volse le spalle ai soldati, intenti ad avanzare, e sollevò la spada in segno di saluto verso le gradinate. «Ancora un istante» urlò «e vi mostrerò un combattimento degno di essere chiamato tale. Forza, le trombe annuncino l'entrata dei vostri dèi!» Per poco quel gesto non costò la vita a Prester John. Mentre tornava a girarsi, un pugnale massiccio guizzò nell'aria, sfiorandolo. Wan Tengri avvertì il bacio freddo e pungente della lama sulla guancia, poi l'arma si impigliò nella sua fulva capigliatura che gli scendeva fino alle spalle. Era stata la guardia gialla a scagliarla. «Ottimo tiro, sciocco vestito d'oro!» esclamò. «Grazie a questo tuo gesto, ti ucciderò per ultimo!» Dopo essersi asciugato il rivolo tiepido di sangue dalla guancia, strinse con la sinistra l'elsa del pugnale. I quattro soldati gli erano quasi addosso. Con un paio di balzi, Prester John si portò sul loro fianco sinistro, aggiran-
doli, e si scagliò contro la guardia color argento, ancora impegnata a liberare la spada dal cadavere, prorompendo in un ruggito d'avvertimento. L'uomo lo vide arrivare e, con un ultimo strappo disperato, riuscì a sbloccare l'arma, assumendo immediatamente una posizione di difesa e proteggendosi ventre e petto con lo scudo. Prester John si arrestò appena fuori della portata della guardia, che nel fratempo brandiva la scimitarra facendola balenare verso l'alto per sferrare un fendente mortale. John si gettò in avanti... e qualcosa gli ghermì i piedi, mandandolo goffamente a cadere sulle ginocchia! Allora, spinto dalla disperazione, protese la scimitarra, rivolgendone la punta in direzione dell'ascella del nemico, non protetta dalla corazza. Uno zampillo di sangue sgorgò in risposta alla carezza dell'acciaio, e le dita inerti della guardia abbandonarono fiaccamente la spada, mentre il braccio si accasciava rigido come un bastone. Il ferito tentò di controbattere accanitamente con un colpo di scudo, ma le forze lo stavano abbandonando, concentrandosi nella chiazza rossastra che gli inzuppava la tunica argentata. Le ginocchia gli si piegarono, ed egli cadde prono al suolo, agonizzante. Le gote di Prester John erano impallidite. Il sangue della ferita sulla guancia gli gocciolava lungo la fulva barba, bagnandogli il petto ansante. Il guerriero si levò rabbiosamente in piedi... e si rese conto che erano sprofondati nella sabbia fino alle caviglie! Diede allora un violento strattone di gambe e, con un sospiro di sollievo, sentì che riusciva a liberarli dalla morsa della terra... ma dopo un altro passo si trovò di nuovo sprofondato fino alla caviglia! Per opera di questo ennesimo maledetto incantesimo, Prester John si muoveva adesso in maniera ancora più goffa e pesante delle guardie oppresse dalle corazze. Eppure la linea delle sue labbra era curvata dal suo perenne sorriso di battaglia. Con grande fatica, si girò per affrontare l'assalto delle quattro guardie superstiti. Esse avanzavano con decisione, scintillanti nelle loro corazze, sfarzose nelle loro tuniche azzurre e porpora, verde e oro; si avvicinavano con un sorriso torvo e fiducioso dipinto sulle labbra. Prester John arretrò lentamente di due passi, in modo di trovarsi a ridosso dell'altare. Era un'immagine terrificante con la spada arrossata nella mano, la barba insanguinata ed il torso nudo macchiato e lucente di sudore. E quantunque fosse sprofondato nella nera sabbia fino alle caviglie continuava a torreggiare sui quattro nemici, che ora si erano schierati fianco a fianco, formando un mortale semicerchio d'acciaio. La folla era silenziosa
e la pressione ardente del sole si rifletteva abbacinante sul candido marmo dell'ara sacrificale, circondando il gerriero dalla pelle color bronzo in un mirabile alone di fiamma. «Avanti, miei valenti macellai» esordì Prester John con tono garbato. «Venite, e lasciate che vi baci con il mio acciaio.» Sul volto dei quattro uomini apparve un sorriso di risposta che non riusciva tuttavia a celare la loro circospezione nei confronti della morte; i loro visi erano tesi in un'espressione truce, i loro occhi crudelmente attenti e calcolatori. Con un largo sogghigno, Prester John constatò che erano sufficientemente vicini. La sua spada saettò rivolta alla faccia della guardia azzurra. Lo scudo si sollevò... e la mano sinistra del guerriero scagliò il pugnale! L'arma tracciò una perfetta traiettoria rettilinea dai riflessi argentei nella luce solare e centrò il bersaglio, conficcandosi sotto il bordo della corazza. L'acciaio affilato penetrò fino all'elsa nella giuntura inguinale della guardia, proprio nel punto in cui un'arteria pulsava appena sotto la pelle. Con un urlo, la guardia azzurra barcollò in avanti, piegandosi su se stessa, e menò un frenetico fendente laterale con la scimitarra. Dimenticandosi della sabbia che gli imprigionava i piedi, Prester John cercò di scostarsi di lato e il suo colpo di parata partì troppo tardi. Sentì lo stridore dell'acciaio contro l'acciaio, ma quando toccò con le spalle la base dell'altare, la sua coscia era ormai macchiata di sangue. Un muggito furioso gli eruppe dalla gola. Incurante della morsa del terreno, si gettò contro le tre guardie superstiti. La sua spada risuonò fragorosamente contro l'ottone di uno scudo. La guardia porpora balzò indietro; quella verde e quella d'oro strinsero lateralmente il loro accerchiamento, brandendo alte le spade. Prester John roteò la propria lama in un ampio cerchio sopra la testa. Un cresta dorata cadde dal pennacchio di un elmo, e la lama della guardia che si fregiava di quel colore araldico si frantumò a mezz'aria, ma l'arma del secondo avversario stava calando verso il bersaglio. Prester John si lasciò cadere su un ginocchio, rannicchiandosi di lato. La sua scimitarra rispose pronta al colpo della guardia verde ed il pugno dell'uomo, continuando a brandire selvaggiamente l'elsa, rotolò sul fondo sabbioso. Da pochi metri di distanza, la guardia porpora scagliò il proprio pugnale. Non vi era il tempo di schivarlo, ma Prester John, grazie alla sua abilità che già gli aveva permesso di tranciare dardi in volo, fece entrare in azione il suo acciaio con tempismo perfetto. Il pugnale proseguì la sua corsa sibilando innocuo, colpendo la pietra dell'ara con un acuto tintinnio metallico. Nel frattempo la guardia porpora e quella dorata indietreggiarono, mentre
il soldato vestito di verde stringeva il moncone insanguinato del braccio, barcollando sullo spiazzo di sabbia nera. In un punto dell'arena una tromba squillò ed una freccia saettò dal cancello di recinzione. La guardia verde gemette sotto il morso dello strale, accasciandosi al suolo e affondando il volto nella sabbia proprio mentre risuonava con qualche attimo di ritardo la vibrazione dell'arco. Prester John, sollevandosi ancora una volta in piedi, sorrise amaramente. Quelle guardie venivano rette con una disciplina assai rigida. Dovevano trionfare... Oppure morire. I due uomini superstiti stavano riarmandosi accanto ai corpi dei compagni trucidati, e Prester John mosse nella loro direzione, sempre vittima dell'incantesimo che lo faceva sprofondare fino alle caviglie. Gli avversari indietreggiarono un poco, riluttanti a riprendere uno scontro ravvicinato, e per altre due volte la guizzante spada del guerriero si levò a deviare altrettanti pugnali scagliati da lontano. Dalla cancellata una tromba fece echeggiare la propria nota di avvertimento, minacciando l'invio di ulteriori frecce disciplinari. Pallidi in viso, gli uomini si volsero nella direzione del suono, poi strinsero disperatamente le spade e si decisero ad avviarsi verso lo scontro con Prester John. Il guerriero avanzava inesorabile. Ad ogni passo le sue possenti cosce si flettevano e i muscoli guizzavano come serpi sotto la carne. E ad ogni passo la sabbia assetata e riarsa beveva il suo sangue. Non vi era più alcuna traccia di sorriso sulle sue labbra, e i denti gli baluginavano in un ghigno feroce tra la cornice di fuoco della barba irsuta. Wan Tengri si chinò a raccogliere lo scudo di una vittima, e per l'ennesima volta fu consapevole dell'attesa spasmodica e assetata di sangue della folla. La folla aveva capito che i trucchi e le fughe strategiche erano terminate. Ora la situazione era equilibrata per Prester John; due uomini contro la sua forza poderosa. Nessuna tregua, nessun indugio. Le guardie avvertirono quel senso di amara minaccia e rimasero immobili, gli scudi in posizione. A tre metri di distanza da loro, Wan Tengri si fermò. «Uomo dalla tunica d'oro» avvisò con voce sommessa «ti ho promesso che saresti morto per ultimo, grazie a quel tuo scaltro lancio di pugnale. Quindi, uomo dalla tunica color porpora...» Fu praticamente impossibile vedere il tendersi del muscolo di Prester John, che scagliò lo scudo impugnato dalla mano sinistra. Lo scatto fu altrettanto improvviso quanto la vibrazione di rilascio della corda di un arco. E parimenti simile alla nota sibilante di quella vibrazione della minugia, fu il clangore dello scudo che cozzava contro il capo della guardia dorata pro-
tetto dall'elmo. E la forza di quel colpo era la forza del maglio degli dèi! L'armigero vacillò, stramazzando al suolo, e Prester John lanciò il proprio urlo di guerra all'indirizzo della volta celeste, liberò i piedi dalla sabbia e si scagliò contro la guardia porpora. Per un istante l'acciaio risuonò contro l'ottone, cozzò con fragore metallico e scivolò contro un'altra lama. Per un istante i due combattenti, piantati pesantemente sui piedi, stettero faccia a faccia impegnandosi in una dura schermaglia. Poi il ruggito leonino di Prester John echeggiò di nuovo e la sua spada, un arco di luce nel sole abbacinante, penetrò oltre l'orlo dello scudo. Le sue spalle furono incurvate dallo slancio dei muscoli, il suo corpo titanico si piegò interamente per sferrare quel fendente. Quando la scimitarra si ritrasse, i due avversari stettero immobili l'uno di fronte all'altro per una frazione di secondo, dopodiché la folla vide cos'era accaduto. Una testa, ancora racchiusa in un elmo dal cimiero color porpora, stava rotolando come una goffa palla sulla sabbia. Con una brusca spinta della mano, Prester John fece cadere all'indietro il troncone da cui sgorgava un fiotto di sangue, quindi si voltò verso l'uomo dalla tunica dorata, che stava trascinandosi con passo vacillante ed espressione smarrita. «Vieni e affronta la morte» disse Prester John. La guardia dorata sollevò la spada in segno di saluto. «No, fratello» rispose senza esitazione. «Per quanto mi riguarda tu vivrai. Ricordatelo, quando ci incontreremo in qualche altra vita, e chiamami amico. Tu sei l'uomo. Infilò quindi la spada nel fodero, si voltò e, rigido come una sentinella, la testa alta e lo scudo abbassato, marciò in direzione della cancellata, verso la tromba e la freccia che avrebbero sancito la sua morte.» «Due battaglie sono state superate» mormorò Prester John tra la barba insanguinata, piantato rigidamente sulle gambe e piegando le massicce spalle, non come se fossero oppresse da un peso, bensì in un atteggiamento che esprimeva minaccia e potenza. Il guerriero si rese conto, in quel momento, che ombre purpuree avanzavano striscianti lungo il bordo occidentale dell'arena, e che avevano steso un pietoso velo di ombra sul viso reclino di Kassar. Volgendo il capo verso il cadavere del fratello di sangue, e sorridendo, egli disse: «Alcune gocce del tuo sangue sono vendicate, fratello mio.» Poi inarcò le spalle all'indietro e innalzò la spada, facendola sfavillare rossa e minacciosa nei raggi crepuscolari. «Mandate fuori i vostri dèi!» ruggì, rivolto alla folla. «O il loro sangue
rifugge forse timoroso dalla carezza di Prester John?» Vi fu un sussurro simile al sibilo del Vento Infuocato, che giunse alle sue orecchie formando un'eco delle ultime parole pronunciate dalla guardia dorata: «Tu sei l'uomo!» Prester John aggrottò la fronte in un moto di impazienza. Non sapeva cosa significasse quel sussurro, sapeva comunque che i propri arti scaldati dalla lotta stavano ora intorpidendosi. Ondeggiando la spada, trascinò di nuovo i piedi pesantissimi verso il candido altare che adesso era lordato di macchie scarlatte. Gli occhi grigi del guerriero, incavati sotto l'espressione aggrottata delle sopracciglia, indirizzarono uno sguardo indagatore verso il Cancello Rosso dove, stando alle parole di Bourtai, era in attesa un cavallo. No, non l'avrebbe mai raggiunto. Gli dèi stavano arrivando, e i sacerdoti dei sette colori araldici avrebbero inoltre unito le loro forze al potere delle divinità. Prester John fletté la spada tra le mani ed essa si spezzò nettamente in due tronconi. Stringendosi nelle spalle, si chinò allora a raccattare una nuova arma. La piegò e, quando fece scattare la punta, la scimitarra vibrò sibilando con una nota elastica nella sua mano. Con un fuggevole sorriso soddisfatto, Prester John drizzò fieramente il capo incoronato di sangue, ed ecco che in quel preciso istante le trombe intonarono il loro squillo. La terza battaglia era iniziata. Prester John lanciò una rapida occhiata alla porta nella base dell'ara, ma quella era chiusa ermeticamente; inoltre dai vari cancelli non stava uscendo alcun uomo. Si rabbuiò in volto, avvertendo quasi fisicamente la pressione della folla in attesa, poi ecco che i suoi occhi si spalancarono, e una risata breve e secca gli scosse il torace. Dalle chiazze di sangue sulla sabbia stavano sorgendo sottili lingue di fiamma immacolata! Le fiamme cominciarono ad unirsi e, continuamente ravvivato da nuove lingue di fuoco, il nucleo centrale balzò sempre più alto e ardente, diventando ben presto un accecante stelo radioso. Wan Tengri sentì lo sfrigolio crepitante del fuoco che bruciava levandosi nell'aria immobile, levandosi fino a torreggiare con un'altezza doppia sulla figura del gigante fulvo che attendeva impugnando in mano un debole oggetto d'acciaio costruito dall'uomo e sfoggiava la perenne espressione indomita degli occhi grigi. Nella scia delle fiamme, gli abiti delle guardie stavano bruciando lentamente. Nere colonne di fumo si alzarono dal terreno, e le narici di Prester John si dilatarono all'odore della carne consumata dal fuoco e della sabbia rovente inzuppata di sangue. Maestoso e di bellezza abbacinante, quel fuoco magico ondeggiò di fronte al guerriero, poi, lentamente e con il piglio
deciso di una colonna di soldati in marcia, piegò nella direzione di Prester John. Il suo pugno si serrò con forza intorno all'elsa della spada. Nel suo cuore non albergava più speranza alcuna, tuttavia egli avrebbe tentato quanto era umanamente possibile per opporsi a quella manifestazione divina. La sua mano sinistra corse all'amuleto appeso al collo, al frammento della Vera Croce, ed un sorriso torvo gli increspò le labbra. «Centomila... in centomila si prostreranno dinanzi a te, Christos» mormorò. «Ah, no... che altro potrei promettere? Non alletterò gli dèi con corruzioni del genere. Forza, John degli Uragani, in fondo un uomo può morire una volta sola. E non vi è modo migliore di morire che morire combattento contro i falsi dèi!» Salutò le fiamme con un gesto della spada e, tenendola al proprio fianco, marciò verso quel nucleo divampante di candida radiosità. Dita di fuoco gli vennero incontro, guizzanti come altrettante stoccate di scimitarra. La pelle di Wan Tengri parve raggrinzirsi per il calore, ed il guerriero dovette stringere gli occhi per difendersi da quell'assalto. Ora sentiva nettamente il puzzo di bruciaticcio della propria barba; era giunto così vicino che avrebbe potuto protendere la punta della spada e vibrare fendenti al fuoco. Ma a che sarebbe servito? L'elsa gli scottava nella mano. La corrente di risucchio della fiamma si era fatta violentissima, e per un istante perfino l'indomito coraggio di Prester John vacillò. Poi, aprendo le labbra in un urlo inarticolato e lasciando cadere la spada, il guerriero si scagliò, brancolando con le braccia, verso il nucleo incandescente. Vi fu un attimo di dolore atroce, di calore che pareva consumare e avvizzire ogni cosa... poi tutto cessò. Il fulgore accecante svanì e Prester John si ritrovò, vacillante, ad abbracciare il cadavere decapitato della guardia porpora. Con un'imprecazione, sollevò di forza la carcassa e la gettò lontana, dardeggiando occhiate minacciose nell'arena. Dunque era quello il modo in cui gli dèi combattevano... mettendo alla prova fino al limite le forze e il coraggio di un uomo... e poi svanendo all'improvviso dalle sue mani? Prester John levò le braccia al cielo in un gesto di sfida, e verso il cielo urlò la propria furiosa indignazione. Poi spalancò gli occhi. Le sue braccia non recavano traccia alcuna del tocco bruciante di quel fuoco magico. Si passò le dita tra la barba, e la trovò folta e lunga, quasi non fosse stata accarezzata affatto dalle fiamme crepitanti. Anche l'odore del calore intenso era svanito, lasciando il posto unicamente al tanfo di sangue rappreso e di sudore del suo corpo. Il suono di una fievole risata di scherno turbinò all'improvviso intorno al
guerriero che, impedito ancora dai piedi sprofondati nella sabbia, incespicò e per poco non cadde. Nell'aria di fronte a Wan Tengri luceva un arcobaleno vorticoso e multicolore, un arco sfavillante in cui spiccavano i colori dei sette maghi. Mentre egli contemplava quel nuovo fenomeno, aggrottando la fronte dubbioso, l'arcobaleno gli calò addosso quasi fosse una lama. Prester John si chinò ed avvertì sul cuoio capelluto lo sfioramento di qualcosa simile ad acciaio affilato! Una ciocca dei suoi capelli si staccò e cadde lentamente al suolo. Prester John eruppe in una secca risata. Con un balzo frenetico staccò i piedi, bloccati nella sabbia, e riuscì ad agguantare la propria spada, piazzandosi poi in posizione di combattimento, brandendo di fronte a sé la scintillante lama ricurva. Ora la lotta era finalmente su un piano di parità per un guerriero. La spada d'arcobaleno calò contro di lui, e Wan Tengri levò di scatto il proprio acciaio per pararne il fendente. Non vi fu alcun suono, ma l'arcobaleno gli sfiorò sibilando la gola, e quando lui si voltò pesantemente per affrontarlo di nuovo, si trovò dinanzi non più ad una, bensì a due di quelle comete lucenti dal taglio affilato e mortale! La collera rabbuiò gli occhi grigi di Prester John. Se, usando la spada, un uomo non sconfiggeva i nemici bensì li moltiplicava, allora poteva quasi essere certo che il suo destino era tragicamente segnato. I due nastri di luce guizzavano come fiamme, sferzando l'aria come i veli di una danzatrice; fintavano verso la gola del guerriero, muovendosi sempre assieme e calando rapidamente dall'alto al basso, come le mazze di un suonatore di tamburo mongolo. Prester John si piegava, si scansava e girava su se stesso, cercando di servirsi delle parate con la sua lama solamente nei momenti disperati. Eppure in poco tempo, attorno alle sue orecchie, saettavano rapide come la folgore sette spade magiche di luce. Nella sua mente i pensieri si accavallavano come impazziti, ma in un recesso remoto del suo cervello cominciò a prendere forma un'idea ben precisa. Nessun uomo avrebbe potuto opporsi alla magia con strumenti umani, questo era ormai assodato... però, accanto a lui e pronte ad essere impugnate dalla sua mano, vi erano ben sette spade magiche! Doveva solo spiccare un balzo e afferrarle. Le sette lame di luce lo stavano circondando, vibrando pressoché immobili nell'aria, preparandosi a calare nell'assalto decisivo che lo avrebbe steso al suolo, tagliato in sette singoli monconi. Era il momento di tentare, altrimenti non ne avrebbe più avuto la possibilità. Con un gesto furioso, Prester John si liberò della scimitarra e, scattando faticosamente in avanti, protese entrambe le possenti mani a ghermire quei
frammenti di luce colorata. Un dolore simile al morso lacerante di un pugnale gli attraversò le dita e i palmi. Egli serrò la presa con vigore spasmodico sulle due armi incantate di cui era riuscito a impossessarsi, e le roteò attorno al capo... ma d'improvviso l'aria attorno a lui era sgombra! Aprì le mani, e della sabbia nera gli scivolò tra le dita cadendo al suolo. Prester John rimase allora immobile, con le braccia penzoloni lungo i fianchi e le spalle incurvate dalla stanchezza, la stanchezza di combattere contro l'ignoto, di affrontare un nemico che mani d'uomo non potevano ghermire, un nemico che svaniva trasformando la gioia del trionfo in una manciata di sabbia. Non vi era nulla da colpire, eppure Prester John sapeva con terribile certezza che se il suo coraggio avesse conosciuto un solo momento di esitazione, lui sarebbe perito orribilmente tra le lame affilate di un fascio luminoso multicolore. Aveva affrontato le belve con una ferocia pari alla loro; aveva affrontato gli uomini con astuzia e prontezza di mente e di corpo. Ma a cosa poteva fare appello per sconfiggere quegli spiriti aerei? Aspirò lentamente una profonda boccata d'aria e con eguale lentezza sollevò il capo con l'orgoglio che gli era abituale. Le sue guance barbute era scavate da solchi marcati, quasi il dolore e la disperazione avessero agito come scalpelli sulla sua carne, ma dentro di lui, in qualche angolo nascosto, sfavillava ancora una tiepida scintilla di coraggio. Sì, l'ardimento non gli era ancora venuto meno, e lui doveva approfittare di quella perenne fiammella... Prester John tentava di afferrare quella idea che sfuggiva alla sua mente di guerriero quand'ecco che, remoto come i declivi ammantati di abeti delle colline di Suntai o forse vicino quanto lo era il battito del suo stesso cuore, un suono attutito di tamburi cominciò a pulsare ritmico, accompagnato dal melodioso tintinnio di cembali percossi delicatamente. Ruotando sulle gambe irrigidite dallo sforzo, Prester John si voltò e vide che la porta alla base dell'ara si era di nuovo aperta. E da quella porta uscì... una donna! Prester John trattenne il fiato di fronte a tanta bellezza femminea coperta di semplici veli svolazzanti, impalpabili come tele di ragno. La donna aveva capelli lisci e corvini, una cascata nera come inchiostro che pareva quasi macchiare le sfumature rosee e candide della sua pelle. Lentamente, mentre Prester John non cessava di contemplarla, la donna cominciò ad agitare i piedi seguendo quel ritmo remoto di tamburi ed il salice aggraziato del suo corpo si piegò e ondeggiò in una danza vecchia quanto la carne e nuova quanto il desiderio giovanile. Prester John si passò stancamente una mano sugli occhi stravolti. Gli avevano promesso onori in
caso di vittoria. Tutto ciò faceva dunque parte della coppa di idromele spettante al vincitore? Mosse un passo incerto in avanti e gli sembrò di cogliere la tensione della folla che attendeva con il fiato sospeso. Aggrottando lo sguardo, si fermò. Una debole brezza sfiorò il fetido pavimento dell'arena, ma alle narici del guerriero portò un fragrante aroma di gelsomino e di muschio. Prester John rabbrividì, ma rimase immobile. Doveva trattarsi sicuramente dell'ennesimo trucco diabolico. Ma come poteva una schiava danzante rappresentare una minaccia? Lo sventolio dei suoi veli intesseva un incantesimo; e, mentre quel corpo ancheggiante narrava la propria antica storia, a Wan Tengri parve di cogliere sulle labbra rosse e carnose della fanciulla il mormorio di una canzone. «I miei capelli» sussurrava «hanno la fragranza della lavanda e della mirra, e le mie braccia sono meravigliosamente morbide. Vi è oblio nei miei occhi, e pace nel respiro della mia bocca. Farò da guanciale alla tua stanca testa e ti donerò un sonno senza sogni. Vieni a me, valoroso guerriero, vieni!» Il tocco di farfalla dei suoi veli sfiorò il volto di Prester John, che capì di essere stanchissimo e bramoso di un dolce riposo, capì l'inutilità di ulteriori lotte, di battaglie che offrivano alle labbra del vincitore solamente coppe vuote. «Ti canterò canzoni melodiose» sussurrava la fanciulla «e placherò il battito furioso del tuo cuore. Le mie mani profumate di muschio calmeranno la febbre della tua fronte, e il turbinio dei crucci della vita sarà presto dimenticato... dimenticato...» A Prester John parve che i tamburi battessero più lentamente e che il tintinnare dei cembali si affievolisse. La pace del riposo, pensò. Il riposo... Si coprì con le mani gli occhi infiammati, e la pesantezza del proprio corpo lo fece accasciare sulle ginocchia. La sabbia era soffice. Lasciò scivolare le mani, e i veli gli ondeggiarono dinanzi al viso come uccelli morenti. Lo splendore di quel corpo femminile era infinitamente desiderabile. Ma era strano che, attraverso quei veli, lui potesse vedere un'altra cosa, una cosa pallida simile ad una faccia, che gli farfugliava un messaggio con labbra mute. Prester John cercò di scacciare quell'immagine, ma inutilmente. Voleva riposare, e quella cosa lo disturbava. Come reazione serrò i pugni... e all'improvviso capì cosa rappresentasse quella visione. Stava fissando il volto esanime e torturato di Kassar! Con una spinta possente, Prester John si drizzò in piedi, incrociò le brac-
cia davanti agli occhi e indietreggiò lentamente, spostandosi su gambe di piombo. Il pulsare dei tamburi accelerò e, perfino attraverso la carne delle braccia, egli scorse la danza furiosa della donna, una danza trionfante'e di sfrenata allegria. E anche gli occhi della fanciulla, prima scuri e profondi, esprimevano ora la medesima allegria, mentre dietro le sue rosse labbra si scorgevano piccoli denti acuminati. Abbassando pesantemente le braccia, Prester John esclamò con voce roca e cadaverica: «Ti conosco, donna! Tu sei la morte!» Un grido eruppe dalle labbra della danzatrice; improvvisamente i suoi veli si annerirono e dalle loro pieghe si affacciarono cose orride e innominabili. Il volto della ragazza si contorse e la carne si afflosciò, si raggrinzì e scomparve. La morte fissò allora Prester John nella tremenda quiete dell'arena. Il guerriero sentì un impeto irrefrenabile di forza fluirgli nel corpo, e scattò nella direzione di quell'orribile spettro. Una frenesia folle si era impadronita di lui. Ora, ora, avrebbe sconfitto la morte! Avrebbe staccato quella testa spettrale dai veli immondi che la coprivano, l'avrebbe stritolata, spargendone i frammenti sulla sabbia. Mentre il guerriero si avventava all'attacco, la donna gli indirizzò un'occhiata maliziosa, protendendo le braccia scheletriche per cingerlo. Prester John si arrestò, rabbrividendo. Irrigidì il braccio, puntandolo nella direzione dell'antro da cui lo spettro era sbucato, e ingiunse: «Vattene! Vattene. Mi abbraccerai fin troppo presto, ma fino a quel giorno... vattene via!» Le braccia scheletriche si afflosciarono, e la figura cominciò a dissolversi in un biancore diffuso. Per alcuni istanti gli abiti dello spettro rimasero ritti, svuotati; poi scivolarono al suolo confondendosi con il nero della sabbia. «Aspetta, fermati!» gridò Prester John. Nell'aria, una voce si materializzò e rispose in un sussurro: «Mi inviti a restare, uomo?» «Ho vinto» ribadì deciso Prester John «e vi sono certe domande alle quali devi rispondere, poiché ho fatto un voto. Come può un uomo dominare Turgohl?» Il mormorio remoto, svanendo, rispose: «Chi domina la principessa domina Turgohl.» «In che modo si può avere in pugno la principessa?» Il sussurro era ormai così fievole da confondersi con il silenzio, tuttavia nella mente di Prester John risuonò una risposta: "Chiedilo alla sfera di
cristallo!" Prester John rabbrividì e si guardò intorno. Nell'aria si era levato un grido di trionfo, e le ombre avevano attraversato le nere sabbie per spostarsi verso il lato orientale dell'arena. I raggi inclinati del sole al tramonto accendevano i cieli di tinte rosso-oro e, attraverso lo spiazzo sabbioso, fitte schiere di sacerdoti e di armigeri stavano avanzando compatte per combattere la battaglia in cui i loro dèi erano usciti sconfitti. Prester John squadrò quegli uomini con espressione torva, poi fece tuonare la risata altisonante che lo aveva accompagnato in mille scontri. A mani vuote, con il corpo striato di sangue, Prester John si volse e marciò a fronteggiare l'attacco di quel migliaio di uomini. I loro volti lo fissarono con sguardi minacciosi e le loro spade scintillanti si levarono, pronte ad abbatterlo. Ma Prester John continuò ad avanzare senza la minima esitazione, risoluto come non mai, e un raggio di luce dorata guizzò ad accendergli il fuoco della fulva capigliatura. In quell'attimo gli uomini abbandonarono le armi che caddero dalle loro mani, e si prostrarono in ginocchio sulla nera sabbia affondando la fronte nella polvere. Come il remoto sussurro impercettibile della morte, un sospiro corale sorse da quella moltitudine prostrata e dalla folla ormai sazia di sangue: «Tu sei l'uomo.» VII Il Cancello Rosso si apriva di fronte a Prester John. Egli spalancò l'inferriata e attraversò l'oscura arcata sotto le file dei posti a sedere. Nel baluginare rossastro del sole, intravide la calca multicolore dei sacerdoti e degli armigeri che si assiepavano fitti come avvoltoi sopra un cadavere. I suoi occhi lasciarono impazienti quella scena e sondarono lo stretto cortile in cerca del cavallo che Bourtai aveva promesso. Per una volta, anch'egli era sazio di carneficine. Comunque, se quei preti della malora gli si fossero spinti troppo vicino... «Fermati, uomo!» tuonò di colpo una voce, e gli occhi saettanti di Prester John si spostarono a inquadrare una figura alta e magra, che indossava un abito e una maschera d'oro ed era attorniata da numerose schiere di socerdoti abbigliati del medesimo colore araldico. «Fermati, uomo! E rispondimi. Cosa ti ha detto la Morte?» Prester John sbuffò e prese un'altra direzione, facendosi largo a forza con alcuni colpi delle braccia nerborute. Ma una seconda voce stridula lo
chiamò: «Non rispondergli, uomo. Rivela a me il tuo segreto, ed io ti renderò ricco più di quanto tu possa sognare.» «No, rivelalo a me!» «No, a me!» Da tutte le direzioni, gruppi di uomini si riversavano caoticamente nel cortile, formando schiere compatte di vari colori. Vi era un uomo che indossava una maschera porpora, un secondo una maschera scarlatta, un altro si celava dietro una maschera verde... erano i Maghi che come avvoltoi si tuffavano verso la preda. Prester John levò le possenti braccia al cielo, in un gesto imperioso. «Ascoltatemi, voi tutti» urlò «io rivelerò il mio segreto a uno solo! Venite dunque da me quando uno di voi avrà il dominio totale di questa città. Non prima di allora. E adesso risolverete la questione lottando tra di voi!» Per un istante, un silenzio stupefatto scese sulla calca che stipava la piazzetta, e proprio nel medesimo istante un cancello si spalancò e attraverso di esso Prester John intravide di sfuggita una mano che gli rivolgeva un cenno di richiamo e i riflessi argentei del mantello di un destriero. Con un ruggito Prester John si gettò in quella direzione. Alcune mani lo afferrarono per le spalle, ma si trattava di una debole morsa frenata dalla paura reverenziale, una morsa a cui era facile sottrarsi. Chino in avanti, il guerriero raggiunse il cancello in una mezza dozzina di passi e lo varcò. Il viso raggrinzito e scimmiesco di Bourtai lo accolse con un largo sorriso. «Padrone, sapevo che avresti vinto senz'altro!» Senza una parola, Prester montò lesto sul cavallo; le sue mani d'acciaio abbrancarono gli abiti cenciosi del ladro, ed i suoi calcagni si piantarono nei fianchi dell'animale. Gli zoccoli risuonarono con fragore di tuono sul selciato, e ben presto il chiasso tumultuoso dell'arena si perse alle spalle dei due. Prester John issò bruscamente il corpo di Bourtai, che continuava a dimenarsi, sul garrese del cavallo dinanzi a sé, poi spronò con decisione il destriero. Lasciò alla propria destra il sole al tramonto e si spinse al galoppo verso la Porta Meridionale. Quando passò tra le alte torri sfumate di riflessi d'oro, lanciò una rapida occhiata al sole. Era basso, ma non aveva ancora toccato le colline di Suntai. Se Prester John si fosse affrettato, avrebbe fatto in tempo. Con una veloce corsa attraverso le colline, avrebbe lasciato dietro di sé la terra dove spirava il vento infuocato. E una volta raggiunte le piane selvagge che si stendevano oltre il crinale, avrebbe raccolto i clan di Kassar e spazzato quella masnada di Maghi dalla faccia della terra. Dopodiché, ci sarebbero stati bottino e ricchezze per tutti... e Pre-
ster John avrebbe avuto in mano il dominio della città! «Dove... dove stai... dove stai andando, padrone?» balbettò Bourtai a fatica, rimbalzando ripetutamente a pancia in giù sul dorso del cavallo. «A salutare Ahriman, o all'inferno» rispose con espressione brutale John degli Uragani. «La cosa ha forse qualche importanza?» «N-nno, padrone. Ma perché fuggire? L-la città è ormai alla tua mercé. Aspetta solo che tu la conquisti.» Prester John non rispose. La sua destra massiccia calò a inchiodare Bourtai sul dorso dell'animale, mentre la sinistra serrava le briglie. I muscoli che guizzavano tra la stretta delle sue cosce gli davano una sensazione di gioia, come pure il soffio dolce e pulito dell'aria che gli accarezzava il volto. Il ritmo degli zoccoli al galoppo sembrava fluirgli nel sangue. Bourtai non cessò di articolare a fatica ripetute domande, ma quando capì che dalle torve labbra barbute di Wan Tengri non sarebbe uscita risposta alcuna, si fece silenzioso. Prester John cominciava ad avvertire una certa spossatezza. La ferita alla coscia gli pulsava, la guancia sfregiata dalla lama del pugnale stava irrigidendosi. Il vento ora gli sferzava con un tocco gelido il petto nudo imperlato di sudore, poi, finalmente, la Porta Meridionale si profilò dinanzi a lui. A quella vista si piegò in avanti al massimo e percosse con i calcagni i fianchi del cavallo. Alcune guardie sopra il portale lo stavano fissando, e in disparte vi era anche una figura curva e incappucciata, una figura vestita completamente di nero, con il volto coperto da una maschera di eguale colore! Il petto di Prester John si gonfiò di collera. Fra un istante vi sarebbe stato un Mago in meno, un mago che non avrebbe più potuto radunare le proprie coorti di armigeri per combattere gli uomini del khan! Tra un istante... Il cavallo s'impennò di colpo, sferzando l'aria freneticamente con gli zoccoli, e un nitrito di terrore scaturì dalle nari spalancate. Prester John lottò con furia selvaggia e percosse lo stallone tra le orecchie. La cavalcatura tornò a toccare il suolo pesantemente, ma scartò di lato e non volle proseguire nella direzione di prima. Il Mago non si era mosso, ma Prester John avvertiva la pressione di quegli occhi malvagi celati dietro le fessure della maschera. Per la seconda volta, Prester John tentò di spronare lo stallone alla carica, e per la seconda volta il cavallo s'impennò e per poco non lo disarcionò. Infuriato, Prester John balzò a terra e si lanciò verso quella figura immobile. Percorse un paio di lunghi passi, poi qualcosa di invisibile lo colpì violentemente sulla fronte e sul torace, quasi il guerriero avesse cozzato
contro il muro. Con la testa che gli rintronava per l'urto, vacillò per un attimo all'indietro, poi tentò ancora una volta di proiettarsi all'attacco. Questa volta il tremendo impatto lo arrestò dopo che aveva percorso un solo passo. «Tu sei mio prigionero, uomo!» cantilenò con voce sommesso l'individuo abbigliato in nero. «Tu devi andare dove io comando.» «A salutare Ahriman in tua compagnia!» ringhiò Prester John. Aggrappandosi con una mano alla criniera del cavallo, rimontò in groppa e lanciò l'animale verso la Porta Meridionale. Lo stallone spiccò un unico balzo in avanti, poi reclinò la testa, e si udì il rumore scricchiolante di ossa spezzate da un urto tremendo. Prester John fu proiettato a terra... e il cavallo morì. «Da questa parte, presto, Wan Tengri!» lo chiamò Bourtai. Prester John si alzò vacillando e si volse in direzione del richiamo, scorgendo il ladro che gli faceva un cenno da un vicolo buio che si apriva tra due catapecchie di fango. Lo sguardo colmo di sfida di Prester John solcò velocemente la piazzuola antistante alla porta della città. Dalle stradicciole attigue sbucarono altre due imponenti figure mascherate, una vestita d'argento, l'altra d'azzurro. «Fermati, uomo!» gridarono. Con un'imprecazione, Prester John si infilò nel vicolo dove Bourtai lo attendeva accucciato nell'oscurità, e seguì inciampando il tocco leggero della mano del ladro. «Non ti permetteranno di lasciare Turgohl, Wan Tengri» mormorò Bourtai. «Ognuno di loro ti ucciderà, piuttosto che lasciarti cadere in mano ad un altro Mago. Se poi uno riuscirà a catturarti e tu non vorrai parlare, potrà trasformarti in uno scimmione e metterti di guardia al suo giardino, oppure diventerai uno stupido schiavo e verrai posto ai remi delle galee finché non avrai imparato l'obbedienza. Gli onori promessi da Ahriman, padrone, dovrai conquistarteli.» «Li conquisterò!» ringhiò selvaggiamente Prester John. «Ne uscirò vincitore. E Ahriman farà bene a stare in guardia e a badare a se stesso!» Con passo silenzioso si inoltrò nelle tenebre, guidato da Bourtai. Più di una volta inciampò, e la mano del ladro corse lesta al suo braccio, offrendogli sostegno. Wan Tengri era completamente esaurito dalla stanchezza. Quando infine Bourtai gli indicò una soglia avvolta dall'oscurità che si affacciava su un cunicolo in discesa, il guerriero si proiettò in avanti con una foga tale che questi gli costò una rovinosa caduta. Il chiarore tremulo e fumoso delle torce e il puzzo fetido dei tunnel della miniera di sale furono
accolti con infinito sollievo dalle sue narici. Prester John si puntellò alla parete con un braccio intorpidito, e si fermò un istante, ansando convulsamente. «Bourtai» mormorò «devo riposare. Che notte è questa?» «La quinta notte della Luna Feconda, padrone.» Prester John deglutì, sollevato, e poté riprendere il cammino con andatura più spedita, finché non giunse nella caverna fumosa dove i topi di Turgohl, dagli occhi febbrili, erano accovacciati intenti a mangiare. Senza una parola, egli si abbandonò sul giaciglio e sprofondò nel sonno. Di solito, quando un uomo ha esaurito anche le ultime riserve di energia, il suo sonno è profondo e privo di sogni. Stranamente, invece, il cervello di Prester John cominciò ad assere attraversato da visioni fugaci e grottesche. Nell'assopimento, rivisse le tre battaglie di Ahri-man, udì di nuovo la voce allettante della Morte, e la propria voce tonante urlare maestosa la domanda: «Come può un uomo dominare Turgohl?» A Prester John sembrò che dovesse essere la sua stessa gola a rispondere a tale domanda, e ben presto egli si trovò a lottare con un incubo. Vi era una parte di lui che voleva pronunciare quella risposta, e vi era un'altra parte che contrariamente non lo voleva. Uscendo alla fine dagli abissi del sonno, il guerriero aprì gli occhi, trovando china su di lui la faccia grinzosa e scaltra di Bourtai. Con un torvo sorriso, Prester John richiuse di nuovo gli occhi. «Vai pure avanti con i tuoi incantesimi, Bourtai» disse con voce rauca. «Quando vorrò parlare, lo farò spontaneamente. Ma non prima. Questa è soltanto la quinta notte della Luna Feconda.» «Perdona, padrone.» Nella voce di Bourtai vi era un tono beffardo di umiltà. «Questa è la sesta notte, e siamo nella buia ora del Cane. Hai dormito parecchio.» Pesantemente, Prester John appoggiò al suolo le gambe intorpidite, e stiracchiò il corpo massiccio. La ferita sulla sua coscia era stata lavata e chiusa con balsamo. Con un gesto irritato, egli strappò il medicamento resinoso. «Le ferite aperte guariscono meglio, sciocco» sbottò sgarbatamente. «E dov'è il cibo che vi avevo ordinato di comprare?» La faccia di Bourtai si contorse in un'espressione deliziata. «I tuoi gioielli, padrone, sono stati fatti scomparire col pensiero. Non hai dunque squarciato la gola di Tsien Hui?» Per un attimo Prester John fulminò con un'occhiata di fuoco quel volto
scimmiesco, poi un sogghigno di risposta gli increspò le labbra massicce. «Sì, credo che, tra tante gole, quella mi sia proprio sfuggita» convenne. «Dammi un po' della vostra brodaglia, allora, dato che questa notte bisogna compiere un lavoro da uomini!» Con un baluginio avido negli occhi, Bourtai sfrecciò via a riempire una ciotola di terracotta. Prester John fissò cupamente il soffitto della caverna, dove il fumo si concentrava contorcendosi in volute bluastre. Il bruciore del fumo negli occhi e nelle narici alleviava comunque il tanfo insopportabile di quella lurida tana. Poi il suo sguardo si posò sul giaciglio, dove scorse infine i propri abiti di seta gialla ed il bianco mantello del khan. Il suo arco di corno, la spada e il laccio erano appesi ad un luccicante spuntone cristallino della parete, e a quella vista il cuore di Wan Tengri si colmò improvvisamente di gioia e di rinnovata vitalità. «Sei un buon ladro, Bourtai» disse, accettando la ciotola fumante che lo storpio gli portava. «O forse un buon Mago. Sei stato tu a richiamare indietro le mie armi?» «Affatto padrone» rispose umilmente Bourtai. «Non vi è alcun dubbio che siano stati i tuoi grandi poteri magici. Mentre dormivi immerso nell'oscurità, i tuoi abiti e le tue armi sono tornati.» Prester John grugnì, e i suoi occhi sospettosi si fissarono su quelli scaltri di Bourtai. «Queste sono le tue parole, Faccia di Scimmia» riconobbe il guerriero con tono piatto. «Spero solo che poi tu non debba rimangiartele.» Trangugiò d'un fiato il cibo caldo e ne avvertì il tepore fluirgli nelle vene. Si stiracchiò una seconda volta e si infilò la tunica di seta trapuntata, allacciandosi quindi il laccio intorno ai fianchi. Poi proseguì la vestizione gettandosi sulle spalle il mantello e sistemando la spada e la faretra. Quando anche l'arco fu al proprio posto attorno al suo collo, Prester John si sentì di nuovo un uomo, ed una vampata di buon umore gli accese gli occhi grigi. «Si comincia, Bourtai» dichiarò. «Innanzitutto guidami ad una torre vicina al luogo in cui le fiamme danzano e la sfera di cristallo rimbalza nella fontana.» «Vuoi che ti conduca su quel tetto da cui abbiamo già spiato l'altra volta, padrone?» «No, quello non è abbastanza alto. Dobbiamo trovarci in un punto tale che mi permetta di entrare in comunione con gli spiriti dell'aria, con il mio padrino e la mia madrina, con il tengri.» Bourtai esitò, poi alzò le spalle ingobbite. «Da questa parte, padrone» annuì. «Tu sei l'uomo, e tu sai.» E s'incamminò verso uno dei tanti tunnel
della miniera. «Io sono l'uomo» ribadì solennemente Prester John, avviandosi con portamento impettito, e cominciando a canticchiare sottovoce. Si sentiva di nuovo nel pieno del proprio vigore, ed il suo ventre era caldo. Durante le tre battaglie aveva appreso alcune cose, e sfruttandole sarebbe presto divenuto il signore di Turgohl. Avrebbe così saldato il conto per la morte di Kassar, conquistato ricchezze per sé e mantenuto il voto fatto. Ormai era quasi riuscito a dimenticare che in tutta la città i Maghi mascherati, con il loro seguito di sacerdoti e di guardie, lo stavano cercando; a dimenticare quale destino lo attendeva se fosse caduto nelle loro mani. Ah, se quelli avessero solo lontanamente immaginato che Prester John ne sapeva in pratica quanto loro stessi... Il guerriero gettò indietro il capo e la sua tonante risata si diffuse fragorosa lungo la galleria striata di fumo. Bene, finché i Maghi non avessero scoperto la verità, lo avrebbero temuto, e lui avrebbe potuto dettar legge. Quindi era assurdo attendere la tredicesima notte e l'Ora del Porco. Bisognava assolutamente affrettarsi, prima che i mille armigeri che setacciavano la città finissero per scoprire le miniere di sale... nel qual caso Prester John sarebbe stato spacciato. «Il mio padrone è felice» mormorò Bourtai. «La cosa riempie di allegria anche il mio cuore.» «Vi sono alcune cosette che devo ancora sapere, mia valorosa scimmietta» disse Wan Tengri con fare noncurante. «E poi... e poi, per Ahriman, attingeremo a piene mani dai tesori di Turgohl!» «E la principessa?» Il tono di Bourtai era sornione. «Be', ti dirò, scimmia ciarliera...» rispose Wan Tengri. «Ho sempre considerato le principesse come tipi piuttosto freddi e bisbetici. Ma il tempo risponde a tutte le domande, Bourtai... Perfino a quelle della Morte.» Dopo essersi arrampicati su scalette traballanti, raggiunsero un pozzo comunicante con una cantina, dalla quale una rampa di scale saliva serpeggiando attorno alla circonferenza di una torre. «Questi tuoi tunnel conducono proprio ovunque, scimmia» commentò Wan Tengri. «Mi stupisce il fatto che non arrivino anche nelle viscere della Torre di Fiamma... o alle casse del tesoro di Turgohl.» Bourtai, salendo lesto lungo la scala a chiocciola, si voltò continuando a procedere di lato come un granchio, e alzò lo sguardo verso Prester John, scuotendo violentemente il capo. «No, quelle sono protette da un incantesimo, padrone. Dalle magie dei sette, in modo che nessuno di loro possa
violarle.» «Ma tu avrai comunque tentato, vero, scimmia senza coda?» Gli occhi di Bourtai, sfuggendo lesti allo sguardo del guerriero, sprizzarono una scintilla di perfidia. «Padrone, il mio nome è Bourtai.» «Ah, è difficile ricordarsene quando ti guardo. Credo però che tu stia eludendo la mia domanda!» «No, padrone. In effetti, esiste una galleria che porta alla Torre di Fiamma. Ma intersecava una parete incantata, attraverso cui si sprigiona certe volte il calore delle fiamme. E noi non abbiamo mai osato spingerci oltre.» Prester John grugnì e fissò la sommità della torre. Gli scalini di pietra, privi di ringhiera, conducevano ad una porticciola che si apriva nel muro e molto probabilmente dava accesso ad una stanza e ad un balcone. «È la tua torre, Bourtai?» chiese sottovoce Prester John. «Come può un ladro possedere una torre dove non vi è alcun bottino?» Wan Tengri rispose, sempre sottovoce: «Non lo so, scimmietta. E adesso, vieni un po' qui!» La sua mano scattò, afferrando il ladro per un polso, e spingendolo bruscamente all'esterno, tenendolo sospeso nel vuoto. Quindi il guerriero si chinò, mantenendosi in perfetto equilibrio sull'orlo degli scalini, mentre la faccia rugosa del ladro si levava a fissarlo con un'espressione di sorpresa. «Sì, questo punto mi pare sufficientemente alto, Bourtai» disse pacato Wan Tengri. «Dovrebbero esserci almeno sessanta cubiti buoni, da qui al selciato là sotto. Credo che nemmeno le tue diaboliche magie potrebbero salvarti la pelle. No, non divincolarti, a meno che tu non voglia che tutti e due spicchiamo un tuffo verso l'eternità!» Con la sinistra, cercò a tastoni il gancio visto poco prima nella parete, lo trovò e ne provò la robustezza con uno strattone. Poi riprese: «E adesso, mio piccolo Mago bugiardo, io e te parleremo con lingua veritiera! Chiaro?» «Quando mai ti ho mentito, padrone?» piagnucolò il ladro. «Bourtai» mormorò Wan Tengri «tu sei il Supremo. Oggi, secondo i tuoi ordini, un coltello è stato conficcato nel ventre di mio fratello e sulle sue viscere sono stati letti presagi. Qual è stato il responso della divinazione?» «No, padrone, non lo so.» «Oggi gli uomini mi hanno accolto dicendo: "Tu sei l'uomo". Cosa intendevano, Bourtai?» Gli occhi di Bourtai si fissarono impazienti in quelli di Prester John. «Padrone, riguardo a certe cose ti ho mentito. Sapevo, fin dal primo mo-
mento che ti ho visto, che tu avresti dovuto affrontare le tre battaglie. Perché nelle stelle è scritto che questa città potrà essere completamente dominata solo da un uomo la cui chioma rivaleggia con il fulgore del sole!» «Sì, io dominerò la città» esclamò Wan Tengri con un ruggito. «Dunque i Maghi sottopongono ogni uomo alla prova delle tre battaglie per individuare quello giusto. Dopo di che, il Mago che soggiogherà quest'uomo potrà distruggere i suoi fratelli di stregoneria. Vedo che tra voi Maghi regna un simpatico amore fraterno!» «Adesso, padrone, lascia che il tuo schiavo deponga di nuovo i piedi sulla terraferma.» Wan Tengri lo scrollò leggermente. «Non ancora, piccolo insetto malefico. Devo ancora chiederti della profezia e di un'altra cosa. E, per Ahriman, ti consiglio di rispondere se non vuoi mettere alla prova le tue risorse magiche contro quelle pietre là sotto!» Le dita d'acciaio di Wan Tengri cominciavano ad avvertire una certa stanchezza, sebbene il ladro pesasse pochissimo e stesse ormai del tutto immobile. Guardando il selciato sottostante, Wan Tengri ebbe un istante di capogiro... poi vide che gli occhi di Bourtai erano incollati ai suoi con un'espressione penetrante. Ridacchiando, scosse di nuovo il ladro. «Mi pare che tu non abbia risposto!» Le labbra di Bourtai si dischiusero in un ringhio. «Ascolta dunque, cane. Ascolta il tuo destino! Tu regnerai per un solo giorno, dopo di che al tuo posto rimarrà a governare un unico Mago!» Gli occhi grigi di Wan Tengri si accesero di fiamme guizzanti. «Comunque credo che quel Mago non sarai tu, Bourtai» disse il guerriero con voce calma. «Ora mi rivelerai un'altra cosa. Tutti sanno che ogni Mago, per la propria incolumità futura, cela la propria anima in un luogo segreto. Chi si impossessa di quell'anima, diventa pure padrone del Mago. Anche tu hai cercato invano le anime dei tuoi sei fratelli, vero, Bourtai? È per questo che a volte giri agghindato in tale maniera, e usi i ladri come spie. Sì, è come pensavo. Comunque, Bourtai, dov'è nascosta la tua anima devi saperlo certamente!» La collera mutò la faccia del Mago in una maschera animale colma d'odio e Wan Tengri, attonito, si ritrovò a stringere non più. il polso di un uomo, bensì la zampa artigliata di una poderosa tigre! Le fauci del felino si spalancarono ringhianti... eppure la tigre aveva il medesimo peso di Bourtai. Wan Tengri si sporse ulteriormente sul baratro, e il suo sorriso tradiva
una certa tensione. «Se tenti di graffiarmi coi tuoi artigli, mio piccolo Mago» avvertì con tono pacato «cadrai là sotto... e ricorda che una tigre muore più lentamente di un uomo!» Dalla gola della belva sgorgò un ringhio di rabbia mista a terrore e la maschera dell'animale svanì, tramutandosi nel viso dolce e attraente di una fanciulla dagli occhi imploranti e dalle labbra esangui di paura. «Padrone» mormorò la ragazza «questa è la vera immagine di Bourtai. Non vedi che i miei occhi sono grigi? Sollevami tra le tue braccia, ed io sarò la tua schiava!» «Oh, su questo non ho alcun dubbio» ribatté Wan Tengri. «Dove hai nascosto la tua anima?» «Non mi lascerai cadere, padrone? Così non potrei mai venire tra le tue braccia!» «Dove hai nascosto la tua anima?» La fanciulla svanì e, al suo posto, nel palmo di Wan Tengri rimase dell'acqua limpida e fredda. Il guerriero inclinò leggermente la mano, lasciando cadere una goccia nel vuoto, e l'acqua lanciò un grido. Una mano si avvinghiò al polso di Wan Tengri, che si trovò a reggere di nuovo il corpicino gobbo di Bourtai. Ora il braccio gli doleva fino all'altezza della spalla, e le sue dita stavano rapidamente intorpidendosi. I due uomini si fissarono negli occhi, e in quelli di Prester John non vi era alcun segno di cedimento. «Sei dunque deciso a uccidermi?» chiese Bourtai. «Senza di me non riuscirai mai ad arrivare alla principessa... non riuscirai mai a dominare Turgohl.» «Correrò il rischio, re dei bugiardi» rispose Wan Tengri. «Dov'è la tua anima?» La faccia di Bourtai si contorse, ma dalle sue labbra non uscì alcuna parola. Poi il suo capo si afflosciò. «Creatura spietata, è nella mia scarpa. Chi credi si sognerebbe mai di rubare la scarpa di un ladro, Wan Tengri?» Con un robusto strattone delle spalle, Wan Tengri scagliò Bourtai sugli scalini e lo immobilizzò all'istante, levandogli di forza le scarpe. «Sì, sono abbastanza sudice ma contenere la tua anima, essere immondo!» Quindi si alzò e torse prima una scarpa, poi l'altra. Quando strinse quella che impugnava nella mano sinistra, Bourtai rabbrividì e cadde in ginocchio. Wan Tengri ripeté allora l'operazione, e il ladro lanciò urla di dolore, «Benissimo» disse il guerriero. «Non mi hai mentito. Mi condurrai attraverso le gallerie, fino alla parete incantata da cui si sprigiona a volte il
calore delle fiamme che circondano la torre. Stanotte, nell'Ora del Bue, io spegnerò il fuoco magico, spazzerò via le guardie e scoprirò il segreto della sfera di cristallo.» Dal sorriso corrugato di Bourtai trapelava un'espressione di scherno. «Come farai, padrone, a spazzar via tutte quelle guardie? Sappi che il loro numero è stato triplicato, dall'ultima volta che hai osservato la fontana e la torre. Ti prego di credermi, padrone. Te lo giuro. Io non c'entro. Dal momento che tieni in pugno la mia anima, la cosa non è in mio potere. Quelle guardie sono state messe in quel punto dal potere dei Sette, e nessuno può spazzarle via. Nemmeno le mie grandi arti magiche.» Wan Tengri si rabbuiò, assumendo un'espressione truce. «Conosco alcune delle tue arti magiche, e alcune delle mie. Nelle terre dell'Indo, vi erano maghi capaci di sollevare una nebbia talmente fitta e nera da impedire a un uomo di scorgere ciò che gli stava attorno. Sei in grado di farlo, tu?» «Oh, questo certamente, padrone.» «Quando sarà trascorsa la dodicesima parte dell'Ora del Bue» disse sottovoce Wan Tengri «tu sprigionerai la nebbia, poi mi raggiungerai presso l'entrata della Torre di Fiamma. Nel frattempo, quei parassiti dei tuoi compari ladri riempiranno dodici sacchi di sale, in modo che sembrino cadaveri di schiavi destinati ad alimentare le fiamme. All'Ora del Bue, porteranno i sacchi di sale all'ingresso della torre... e rimarranno ad attendermi.» «E tu, padrone? Non credere che mi preoccupi di quanto possa succedere alla tua testa fulva, mio padrone... ma la mia anima nella scarpa mi sta a cuore.» Wan Tengri piegò il capo e la sua risata vibrante salì verso la sommità della torre. «Se tu non fossi un Mago, Bourtai, potresti anche piacermi.» Sollevò in piedi il ladro e gli batté la mano sulle spalle gobbe. «Sì, potresti piacermi... ora che sono io a custodire la tua anima. E dal momento che sono io a custodirla, Bourtai, assicurati che i miei ordini vengano eseguiti. Prego, dopo di te, piccolo furfante d'un Mago!» Ridiscesero la lunga rampa di scale e ai piedi della torre, nel punto sopra il quale Prester John aveva tenuto sospeso Bourtai, vi era una minuscola goccia sparsa sulla pietra; e non si trattava di acqua, bensì di sangue. I due attraversarono la cantina e con la solita scaletta traballante raggiunsero le gallerie sotterranee, dirigendosi verso la Torre di Fiamma. Wan Tengri segnò il percorso che conduceva in superficie al deposito di pellicce. Perfino a quella profondità il loro tanfo arrivava pungente. Un centinaio di cubiti
più in là, Bourtai conficcò una torcia fumosa in una fenditura della parete e con un cenno indicò la fine del cunicolo, ostruita da blocchi di pietra. «Ecco, padrone, quella è la parete incantata.» Wan Tengri squadrò l'ostacolo e piegò le labbra in un sorriso arcigno. «Bene. Ho deciso di aumentare il numero di sacchi di sale, piccolo Mago. Tutti gli uomini e le donne di queste caverne dovranno portarne uno; e bada che non vi siano ritardi dopo l'Ora del Bue!» Sul volto di Bourtai era tuttora presente una lieve traccia di scherno. «Ti ascolto e obbedisco, padrone.» Poi si allontanò, zoppicando a piedi nudi nell'oscurità, e Wan Tengri, dopo aver appeso intorno al collo i sandali del ladro, si voltò a fissare la parete di pietra, canticchiando sottovoce e apprestandosi ad intervenire con le proprie arti magiche. Una dozzina di uomini robusti con l'ausilio di un ariete si sarebbero sbarazzati in brevissimo tempo di quel muro incantato; purtroppo lui era solo... e non disponeva di un ariete. Senza ulteriori esitazioni, Wan Tengri tornò al passaggio che conduceva al deposito di pellicce, si arrampicò e lasciò armi e abiti sul pavimento del magazzino. Tenne solo la spada ed il laccio, appesi ai fianchi nudi, quindi ridiscese rapidamente nel tunnel salino. Con l'acciaio affilato della scimitarra cominciò a scavare il terriccio compresso e indurito che cementava assieme le pietre della parete incantata. Di tanto in tanto, mentre lavorava, canticchiava a bocca chiusa, oppure ridacchiava tra sé. I Maghi avevano questo punto debole: poiché facevano affidamento esclusivamente sulla stregoneria, non avevano alcuna forza al di fuori di tale campo. Anche in questa occasione, non vi era alcun problema che un uomo forte e intrepido non potesse risolvere, come si era già verificato in precedenza nell'arena. Wan Tengri si era concesso due ore per portare a termine lo scavo della parete del fossato fiammeggiante che circondava la torre, e possedeva un acuto senso del tempo. Quando aveva iniziato il lavoro l'Ora del Porco era passata, e l'Ora del Topo trascorse poi rapidamente. Finalmente la sua spada penetrò scivolando nel terriccio compatto. Quando Wan Tengri la estrasse dalla fenditura, la lama era bagnata, ed uno zampillo di liquido sgorgò dalla parete, scintillando alla luce della torcia e facendosi progressivamente impetuoso. Wan Tengri riprese allora lo scavo con rinnovato vigore, aiutato dall'acqua che, unitamente alla sua spada, minava l'equilibrio del terriccio che sosteneva il blocco. D'un tratto il massiccio masso levigato si piegò verso di lui. Il guerriero si gettò prontamente con le spalle contro di esso. Non era
ancora giunta l'Ora del Bue. Quell'operazione si era dimostrata più facile del previsto. Con una mano slacciò il cinturone che reggeva la guaina della scimitarra, e agganciando la fibbia piatta alla punta della lama, la infilò nella crepa. Quando fu penetrata nettamente nel fossato dietro la parete, Wan Tengri tirò con forza il cinturone, e la fibbia si bloccò facendo presa. Rapidamente, egli annodò il laccio al cinturone, mentre un fiotto di acqua tiepida gli spruzzava le cosce. Adesso era tutto pronto. Wan Tengri prese la torcia, spegnendola nella fanghiglia che cominciava a coprire il fondo del cunicolo, e la usò per puntellare il bordo inferiore del masso. Quindi tolse lentamente il sostegno del proprio peso, e sospirò soddisfatto quando il tocco sensibilissimo delle sue dita gli confermò che la pietra non si era mossa... e che non si sarebbe mossa finché lui non fosse stato pronto. Canticchiando, svolse il laccio, lo passò intorno al puntello e, stringendo la spada in pugno, avanzò a tentoni nella totale oscurità della galleria. Giunto alla fine della corda, la annodò alla scimitarra e la conficcò nel suolo, al centro del passaggio. L'ora dell'azione stava avvicinandosi. Molto attentamente, Wan Tengri risalì il tunnel con andatura regolare, contando i passi, mentre la sua mano strisciando lungo la parete cercava gli spuntoni che conducevano verso il magazzino di pelli in superficie. «Ventinove» mormorò ad un certo punto, mentre le sue dita trovavano il segno di riferimento finale. Per non correre rischi, Wan Tengri controllò il pozzo arrampicandosi per un buon tratto, poi si lasciò cadere sul fondo della galleria sottostante, e contò di nuovo i passi in senso opposto. Giunto al ventinovesimo si fermò e allungando una mano sentì l'elsa della scimitarra. Mentre rimaneva in attesa, giunse fioca alle sue orecchie una serie di grida lontane. Per Ahriman, possibile che avesse calcolato male il tempo? O che Bourtai avesse sprigionato troppo presto la sua nebbia contro le guardie della fontana? Non vi era tempo da perdere. Dando uno strappo al laccio, Wan Tengri fece cadere la torcia che puntellava il blocco di pietra, strinse la spada tra i denti, poi attorcigliò la corda intorno agli avambracci e la tese, inarcando la schiena possente. Piantato solidamente sui piedi, il guerriero iniziò con calma a scaricare la forza dei suoi muscoli. Il laccio gli morse la carne delle braccia, mentre il respiro gli usciva sibilando tra l'acciaio che reggeva in bocca. Le gambe e la schiena erano impegnate allo spasimo... eppure la parete non accennava a cedere. Con impeto selvaggio, Wan Tengri si divincolò, spostandosi da un lato all'altro del cunicolo, e facendo vibrare il laccio con strattoni forsennati. Poi si piegò in avanti e cambiò appiglio, mentre il coro di urla
remote cresceva costantemente d'intensità. C'era del liquido sul fondo della galleria, un liquido tiepido che gli scorreva all'altezza delle caviglie; ma non era sufficiente. Se non crollava l'intero muro, sarebbe stato tutto inutile. Wan Tengri era stato uno sciocco a non ricorrere all'aiuto di qualche ladro... Ah, maledizione alla sua vanità! Ora il suo corpo era curvo come un'arco. Con forza esplosiva, scaricò tutto il proprio peso e le proprie energie in un unico, poderoso strattone all'indietro. La corda gli si afflosciò di colpo tra le mani, e Wan Tengri perse l'equilibrio cadendo supino sul fondo del tunnel. La sua mano scattò come un lampo, e riuscì ad afferrare la lama che stringeva tra i denti un attimo prima che la sua schiena nuda toccasse l'acqua. Mentre si risollevava tempestivamente in piedi, Wan Tengri temette per un istante di avere fallito, poi ecco che udì il tonfo sinistro di un peso gigantesco che cadeva, ed il ruggito crescente dell'acqua che dilagava inarrestabile attraverso la breccia. Girando su se stesso, il guerriero aggrottò la fronte, concentrato al massimo, e con decisione iniziò a percorrere il numero di passi prefissato. Purtroppo la caduta aveva rovinato i suoi calcoli e l'acqua stava già crescendo, urtandogli con forza le gambe. Wan Tengri affrettò il passo, tastando la parete con la mano. Se non avesse trovato la sporgenza giusta, non avrebbe più avuto una seconda possibilità! «Ventitré, ventiquattro, venticinque... ventisei...» Ormai avrebbe dovuto trovarsi nel punto giusto; ma come poteva controllare la lunghezza del proprio passo, con l'acqua che gli scorreva quasi all'altezza delle ginocchia? Le sue dita sfiorarono uno spuntone della parete. Era quello che cercava? Si issò verso l'alto, allungando le braccia, ma non trovò altri appigli. Il posto sbagliato! Nell'oscurità, Wan Tengri rise. Finora aveva avuto successo... ma le acque che aveva liberato minacciavano di porre fine alle sue vittorie. Era scritto che Prester John dovesse regnare per un giorno. E forse tale giorno era trascorso mentre lui dormiva, mentre la gente nelle strade lo acclamava ancora intonando: "Tu sei l'uomo!" Inutile contare, ormai. Aveva perso completamente il senso della distanza, ma le sue dita annaspavano ancora lungo la parete. £cco un'altra sporgenza. Era quella giusta? Wan Tengri sapeva che si trattava della sua ultima possibilità. L'acqua ora gli superava le ginocchia, e sgorgava con una violenza tale da produrre sibilanti folate di risucchio. Doveva assolutamente tentare la sorte. Si issò allora nel buio più fitto e trovò un secondo spuntone, un terzo... Sì, era proprio il cunicolo che conduceva al magazzino. Il
tanfo delle pellicce filtrava lievemente verso il basso, risucchiato dalla fiumana, e arrivava fino alle sue narici. Wan Tengri coprì il tratto finale del tragitto canticchiando, e una volta arrivato si infilò frettolosamente gli abiti. Aveva perso un buon laccio ed un eccellente fodero per la scimitarra, ma aveva salvato la pelle e, se gli dèi gli fossero stati propizi, se Christos gli fosse stato propizio... avrebbe conquistato la città entro l'alba! Sfrecciò attraverso la cantina del deposito e si scagliò con le spalle contro la botola, affiorando barcollante in superficie. Dalla feritoia non filtrava alcun bagliore delle fiamme danzanti, e quel fatto non poteva significare che un'unica cosa. Era impossibile che la sua opera di scavo avesse già prosciugato il fossato ardente. Quindi, Bourtai aveva sprigionato la sua nebbia impenetrabile. Con ampie falcate, Wan Tengri raggiunse la porta e la sua impazienza si rivelò un mezzo efficace e rapido per sbarazzarsi di quell'ostacolo. Poi balzò all'esterno, nella purezza dell'aria notturna, e venne istantaneamente accecato dalla nebbia impenetrabile che stagnava sul cortile, addensandosi fino a livello del terreno. Emanava un odore pungente di spezie bruciate, e Wan Tengri sorrise a quell'espediente magico di Bourtai mentre volgeva i suoi passi verso le urla furiose che si levavano al cielo... verso la sfera di cristallo e la fontana. Infilata la spada in una fenditura del candido mantello dono del khan, con pochi, rapidi movimenti, il guerriero agganciò la corda dell'arco. Quindi si fermò, e per tre volte la minugia vibrante fece udire il suo canto, tre dardi si librarono nella tenebra viaggiando ad altezza di cuore umano. Al frastuono di voci concitate già esistente, si aggiunsero così nuove urla strozzate. Avanzando lentamente e orientandosi rispetto al deposito da cui era sbucato, Wan Tengri sondò lo spazio di fronte a sé impiegando le proprie frecce. Se le guardie multicolori non stavano già combattendo, era sua convinzione che lo avrebbero fatto assai presto. Si girò dunque verso sinistra e scagliò tre frecce in quella direzione, ripetendo poi la medesima operazione sulla propria destra. Ah, ecco che finalmente udiva il gradito clangore dell'acciaio e le grida rabbiose degli uomini impegnati nella lotta! Allora poté riporre l'arco a tracolla e brandire la scimitarra. Se soltanto nell'arena avesse avuto con sé quella splendida arma, le tre battaglie non sarebbero durate così a lungo. Facendola sibilare dinanzi a sé, avanzò con rinnovata fiducia. Un'ombra si profilò indistinta nella nebbia, e la spada di Prester John colpì senza esitazione. Un uomo si abbatté al suolo, e quando Wan Tengri gli si accostò vide il debole luccichio di una tunica dorata. Vi erano altri
cadaveri sul suo cammino; due recavano in corpo il ciuffo di piume delle sue frecce, ma molti altri avevano la gola tagliata. Probabilmente i soldati si erano massacrati l'un l'altro nel momento in cui era calata la nebbia. Wan Tengri cominciò a correre stendendo le gambe in ampie e silenziose falcate. Ora che il tumulto degli scontri stava scemando, riusciva ad udire in sottofondo il tintinnio liquido della fontana profumata. La raggiunse all'improvviso, inciampando coi piedi sul bordo, e aguzzando lo sguardo vide... vide che la sfera di cristallo non danzava più sul getto d'acqua. Un urlo spaventoso di rabbia straziò la gola di Wan Tengri. Ora sapeva con certezza di non aver commesso errori nel calcolare il tempo. Bourtai aveva osato ingannarlo, tradendolo con vile scaltrezza. Bourtai aveva in mano la chiave per impadronirsi della città e dei suoi tesori. Bourtai aveva sottratto la sfera di cristallo! VIII Nonostante il bruciore agli occhi, Wan Tengri cercò di penetrare con lo sguardo attraverso la cortina di nebbia che accennava a diradarsi, e scrutò in direzione della Torre di Fiamma. Riuscì allora a distinguere debolmente il profilo bianco della costruzione, ed il baluginio delle fiamme del fossato, ormai morenti grazie alle sue arti magiche. Era là che avrebbe trovato di certo il rapace Bourtai. Le labbra di Wan Tengri si contorsero in un torvo sorriso, e la sua mano si levò, cercando a tastoni i sandali che portava appesi al collo. Di colpo il guerriero sbottò in una risata sommessa. «Sì, questo Bourtai è proprio una bella canaglia! Ha richiamato a sé la sua anima. La cosa è senza dubbio in suo potere. Se è capace di nasconderla dove vuole, certamente è pure capace di farla tornare a suo piacimento.» Ora Wan Tengri non disponeva più di alcuna arma per tenere in scacco Bourtai, tranne le sue stesse arti magiche e le cose imparate nel sostenere le tre battaglie. Aveva un acuto sospetto che le rivelazioni fattegli dalla Morte, ammesso poi che fosse stata realmente la Morte a parlargli, costituissero solo una piccola parte di quanto gli occorresse sapere. Comunque Wan Tengri era convinto di avere imparato in quale modo un uomo passato indenne attraverso le tre battaglie potesse dominare Turgohl. Intravide allora un gruppetto di figure stagliarsi in maniera confusa contro le ultime vampe rossastre delle fiamme morenti. E vide la sfera di cristallo sorretta da un omiciattolo gobbo che di tanto in tanto lanciava oc-
chiate furtive attraverso gli squarci che ormai diradavano il nero velo di nebbia. La vocina gracchiante di Bourtai si levò allora, con tono lamentoso: «Principessa, ti reco il dono della sfera di cristallo. Apri dunque al tuo amico Bourtai!» «Fermati!» tuonò Wan Tengri. «Fermati dove sei, scimmiotto privo di anima!» Bourtai si volse verso il guerriero, e la sua figura gobba emanava un'oscura malvagità che contrastava con la luminosità iridescente del globo di cristallo. Dietro di lui vi era il suo gruppo di scagnozzi, ognuno dei quali portava sulle spalle un fardello dalla forma di cadavere. Continuando ad incedere con decisione, Wan Tengri avvertì su di sé lo sguardo furente e minaccioso di Bourtai; poi, d'un tratto, un bagliore rossastro sbocciò nell'aria sopra la sua testa, ed il sussurro sibilante e beffardo, che il guerriero aveva imparato a riconoscere e a temere, gli parlò giungendo dall'aria o forse dal suo stesso cuore. «Fermati, schiavo, e aspetta i tuoi padroni! Vedi, la terra ha imprigonato i tuoi piedi!» Wan Tengri aggrottò la fronte, rammentando le cose apprese nell'arena: una spada si era tramutata in un serpente mentre l'impugnava, eppure era ugualmente servita ad uccidere un avversario, e quando Wan Tengri l'aveva scagliato, il serpente aveva cozzato con clangore metallico contro lo scudo del nemico. La colonna di fuoco, in seguito, lo aveva praticamente arrostito, eppure quando Wan Tengri aveva afferrato le fiamme... il fuoco era scomparso. «Le mie arti magiche sono ben più potenti delle tue, Mago dall'animo contorto» tuonò Wan Tengri. «Gli stivali di Kasimer non possono arrestare la mia avanzata.» E ne era pienamente convinto, infatti l'alone rossastro tremolò e si spense... e il terreno non si aprì a bloccargli i piedi, che allungarono il passo verso Bourtai. Il braccio ossuto del Mago si levò di scatto tra i cenci marroni che lo coprivano, e nella sua mano rifulse improvvisamente una spada fiammeggiante. «A me, guardie rosse» gridò. «A me guardie porpora, guardie d'oro e d'argento. Accorrete in difesa del Supremo!» Il suo richiamo venne sommerso dal calpestio di piedi in marcia, dal frastuono metallico delle lame e degli scudi, ed un ruggito corale si levò da parecchie gole. Gli sparuti mendicanti che circondavano Bourtai lasciarono cadere i loro cenci rivelando le tuniche scarlatte e le armature scintillanti
delle guardie. I fardelli che recavano sulle spalle si animarono di vita, mutandosi anch'essi in altrettanti armigeri. Il pugno di Wan Tengri si serrò attorno all'elsa della scimitarra, mentre l'altra mano correva lesta verso l'arco... poi il guerriero abbandonò le mani lungo i fianchi e gettando il capo all'indietro scoppiò a ridere. «Le mie arti magiche sono più potenti delle tue, Faccia di Scimmia» ribadì. «Le tue schiere fantasma non possono minimamente nuocermi!» Avanzò senza ulteriori esitazioni, mentre il calpestio di piedi in marcia Si spegneva; i mendicanti cenciosi, con aria intimorita, abbandonarono goffamente i pugnali e sgattaiolarono in disparte, caricandosi di nuovo sulle spalle i sacchi di sale... E finalmente Wan Tengri si trovò faccia a faccia con Bourtai. «Bene, Bourtai» disse con voce pacata «ti ringrazio di aver compiuto questo incarico per conto del tuo padrone. Ora prenderò io la sfera di cristallo!» Gli occhi del Mago sprizzavano fulmini di nera fiamma, e il suo viso scimmiesco e rugoso era una maschera di rabbia bestiale. Le sue spalle si curvarono sul globo, simili alle ali di un avvoltoio; poi, improvvisamente, il ladro eruppe in una risata chioccia e porse al guerriero la sfera di cristallo. «Sì, Wan Tengri... Tu sei il figlio dei demoni del vento! Tu sei l'uomo!» Wan Tengri accettò il globo nella mano sinistra; le sue dita si piegarono a sorreggerne la base, mentre i suoi occhi fissavano il vortice di mille colori racchiuso in quella sfera trasparente, leggera come una piuma. Quindi il guerriero si volse verso la Torre di Fiamma, levando alto il capo. «Abbassate il ponte» ingiunse senza inutili preamboli. «Io sono l'uomo!» Si accostò al parapetto del fossato, accanto al punto in cui doveva scendere il ponte, e fece un cenno al gruppo di ladri. «Laggiù vi è un buco, attraverso il quale la mia magia ha risucchiato le fiamme. Gettate i vostri sacchi di sale nel fossato.» Poi passò una mano sulla sfera di cristallo con un gesto mistico, sorridendo sotto la barba. «Venti del cielo che mi avete generato» intonò «io vi ordino di chiudere questo fossato!» Alle proprie spalle, udì lo scricchiolio del ponte levatoio che si abbassava, e con la coda dell'occhio studiò Bourtai. L'omiciattolo stava strofinandosi la faccia scimmiesca con un mano scarna. «Sì, Wan Tengri» mormorò il mago «tu hai davvero appreso certe cose dalla Morte.» Le assi del ponte si posarono con un tonfo sordo sul parapetto del fossa-
to e Wan Tengri, salendo con aria indifferente, ingiunse sottovoce: «Fuggite, ladri. Fuggite dinanzi all'ira dei sei Maghi e delle loro schiere multicolori. Bourtai, tu seguimi!» Senza voltarsi, Wan Tengri s'incamminò attraverso quel ponte levatoio che pareva allungarsi all'infinito. Sopra di lui, la torre era incredibilmente alta e la sua bellezza si rispecchiava su entrambi i lati nelle ultime pozzanghere del fossato, che solo ora iniziava a colmarsi di nuovo. Wan Tengri avvertiva nettamente gli acri miasmi putrescenti che provenivano dalla fanghiglia limacciosa, e rammentò un tanfo ancora più intenso che aveva colpito le sue narici in un'occasione precedente, quando il fossato di Antiochia, cinta d'assedio, era scoppiato in fiamme. Sorridendo tra sé, ascoltò il ritmo deciso dei propri piedi sulle assi, e lo sgambettare lieve di Bourtai che si affrettava a seguirlo. Dalla parete della torre scaturì una stretta lingua di fiamma gialla, che si propagò danzando sul fondo del fossato. Wan Tengri non accelerò il passo. La grata era già sollevata e l'arco acuto dei portali stava spalancandosi. In lontananza, intanto, si udirono nuovi scoppi di urla. Questa volta non doveva però trattarsi del frutto di un incantesimo. Senza dubbio erano le guardie dei Maghi che stavano radunandosi dopo lo scontro. Wan Tengri pose piede sulla scala marmorea che si innalzava di fronte ai portali, e le catene del ponte levatoio cominciarono a cigolare sulle carrucole sollevandosi verso la torre, sbarrando di nuovo l'accesso. Bourtai inciampò e cadde, imprecando con voce stridula; poi si fece silenzioso e seguì il guerriero oltre il portone spalancato. Un vecchio ed una vecchia si prostrarono sulle ginocchia ossute, ed esclamarono con un sussurro stentoreo: «Sì, tu sei l'uomo!» Wan Tengri borbottò: «Togliete le vostre ossa scricchiolanti da quel freddo pavimento, o vi doleranno per un mese. Portatemi dalla principessa.» I suoi occhi scandagliarono ogni angolo. Gli arazzi appesi alle pareti erano laceri e ammuffiti, e ovunque regnavano la polvere ed il decadimento. Un ragno aveva tessuto la sua tela sopra un'armatura accanto al muro. Puah! Era dunque quello il tesoro di Turgohl per cui lui aveva combattuto, e che era costato la vita a Kassar? Wan Tengri sputò sul pavimento di marmo. Delle torce proiettavano nella sala bagliori lividi e fumosi, e attraverso le feritoie delle pareti cominciò a filtrare la danza delle fiamme. Ombre giallognole si inseguivano sugli alti soffitti. Un grande camino di pietra era
buio e freddo. Bourtai tirò Wan Tengri per un braccio, e si rivolse a lui con un malizioso tono di allegria nella voce stridula. «Certamente, padrone, le tue arti magiche ben più efficaci delle mie sapranno mutare tutto ciò in oro e preziosi, vero?» «Poi tutto quanto si volatilizzerebbe tra le mie mani come è già avvenuto con la tua anima, Faccia di Scimmia» replicò il guerriero con tono sarcastico. Il vecchio e la vecchia si alzarono faticosamente e si inchinarono, indietreggiando. Raggiunsero l'ampia scalinata di marmo che conduceva ai piani superiori e si fermarono, facendo cenno a Wan Tengri di salire. Gli scalini erano coperti di polvere e di impronte di piedi sporchi, e mentre Wan Tengri si avviava in quella direzione un grasso topo grigio sbucò dall'oscurità attraversandogli il cammino. Intanto le grida al di là del fossato erano cresciute d'intensità, ma la danza delle fiamme guizzanti aveva ormai frapposto la propria cortina invalicabile. Bourtai sgattaiolò davanti a Wan Tengri, saltellando lungo le scale, e si volse fissandolo con i vivaci occhi neri. «Non puoi dirmi cosa ti ha rivelato la Morte, padrone?» Il guerriero atteggiò le labbra barbute a un ghigno torvo. «Credi ancora di ingannarmi, Mago? Ebbene, provaci dunque, e fai del tuo meglio! La Morte mi ha detto: "Chi dominerà la principessa, dominerà la città." E mi ha detto di chiedere alla sfera di cristallo come fare.» Wan Tengri lanciò in alto il globo trasparente e lo riprese al volo nel palmo della mano mentre alle sue spalle i due servitori trattenevano il respiro inorridendo di paura. «Forse, mio caro scimmiotto, avrai già interpretato l'enigma della sfera, vero? Sì, sì, lo so che il tuo nome è Bourtai, comunque rispondi alla mia domanda.» Bourtai scosse il capo con un movimento tremante e nervoso. «Se la sfera ha parlato, lo ha datto in un linguaggio ignoto a queste mie orecchie. E nel suo interno non ho potuto vedere che un vortice colorato.» Le scale, descritto un giro completo intorno alla circonferenza della torre, raggiungevano una piattaforma di marmo, e in quel punto nella parete si apriva una porta, opaca come il piombo. Sopra di essa spiccava una strana scritta, intagliata in caratteri elaborati. «Annunciami, Bourtai» ordinò Wan Tengri con tono canzonatorio. «Annunciami a questa tua famosa principessa, in modo che si possa vedere cosa dobbiamo dominare.»
Bourtai sgattaiolò verso la porta, poi indugiò un istante e voltò la grigia testa scarmigliata. «Dominare per un solo giorno, padrone. Così affermava la profezia.» Le sue dita graffiarono la superficie opaca e la porta si aprì cigolando verso l'interno. Wan Tengri udì il debole tintinnio scordato da un liuto e intravide un grande letto sormontato da un baldacchino impolverato, ed una bambola di legno vestita con un ritaglio di broccato che aveva ormai perso qualsiasi riflesso lucente. Attraversò quindi la soglia, mentre Bourtai gracchiava: «Principessa, ecco l'uomo.» Gli occhi di Wan Tengri scandagliarono rapidi la squallida stanza e trovarono una figurina curva a gambe incrociate su un cuscino, dinanzi ad un caminetto in cui guizzava una debole fiamma. Un paio di gravi occhi grigi di bambina lo fissarono sotto una fronte candida e calma, incorniciata da una cascata di capelli dai riflessi d'oro. Le dita affusolate della piccina accarezzavano distrattamente un liuto con alcune corde spezzate. Esitante, la principessa sorrise... era proprio una bambina di sette anni. «Entra, uomo» invitò con una voce esile e armoniosa. «Mi hai portato un giocattolo nuovo?» Sorpreso, Wan Tengri corrugò la fronte, poi sogghignò, ma non vi era alcuna traccia di stizza nell'espressione del suo viso. «Be', certo, madamigella» rispose gentilmente «se vuoi puoi anche considerarlo un giocattolo. Degli uomini hanno combattuto e sono morti per questo globo. Comunque, in fondo, non è altro che un ninnolo grazioso.» E protese il palmo aperto che reggeva la sfera di cristallo. La luce del caminetto danzava sulla sua superfice lucente e mille brillanti colori ardevano dentro di essa, cremisi, porpora, azzurro e verde, oro e argento, insieme a due minuscole chiazze nere, riflesso queste ultime degli occhi invidiosi di Bourtai. La principessa abbandonò il liuto e batté le fragili manine. «Oh, un giocattolo nuovo per me! Sono diciassette anni che non ricevo alcun giocattolo nuovo.» E allungò le mani, unendo i palmi a coppa per accogliere la sfera. «Padrone» protestò Bourtai con voce strozzata «non darle quella sfera. Ne deriveranno infauste conseguenze!» Wan Tengri rise, e la sua risata si ripercosse come un tuono attutito nella angusta stanza. «Per Ahriman, devi proprio essere il più spietato dei ladri, scimmiotto, per rubare un ninnolo ad una bambina. Prendi, principessa.» La sfera di cristallo si librò leggera nell'aria, ruotando come una bolla di sapone, rimbalzò sulle mani della principessa e colpì, con un fievole tintinnio, le pietre del caminetto, scoppiò e cadde infrangendosi in mille
schegge scintillanti. La principessa strinse il viso tra le mani. «Finalmente» sussurrò. «L'incantesimo è rotto.» E mentre parlava, la sua statura aumentò, e gli abiti che indossava cominciarono a sfavillare di gemme. Un soave profumo si diffuse nella stanza e, nel punto in cui era caduta la sfera, sbocciarono dei fiori... fiori dai petali di rubino, diamante e crisoberillo. Contemplando la metamorfosi, contemplando la splendida donna dal viso rigato di lacrime, Wan Tengri gettò indietro il capo e non poté trattenere un'altra risata. «Non ti avevo forse detto, Bourtai, che un globo di cristallo è fatto apposta per infrangersi?» La principessa lo fissò con gli occhi grigi, ed un lieve rossore le sfiorò furtivamente il volto. Il sorriso si fece incerto sulle labbra del guerriero, ed i suoi occhi assunsero un'espressione circospetta. «Tu sei l'uomo» sussurrò la fanciulla. «Tu sei venuto a salvare me e la mia città. Chiedimi la tua ricompensa. Esprimi tre desideri e, entro i limiti della mia città e del mio potere, essi saranno esauditi.» Le sue gote si tinsero di un colorito roseo e la sua testa si piegò come la corolla reclinata di un fiore. Wan Tengri si schiarì la gola e scostò con una spinta Bourtai, che lo stava tirando per la manica per suggerirgli qualche consiglio. «Be', riguardo a questo, principessa» esordì il guerriero con tono solenne «mi pare leggermente prematura parlare di ricompensa. Nella tua città vi sono ancora sei Maghi liberi, che dispongono di migliaia di armigeri. E vi è un piccolo Mago, proprio tra queste mura, che richiede un trattamento accurato.» «Verrà impiccato» intervenne la principessa senza indugi. «Per quanto concerne gli altri Maghi e le loro guardie, ebbene, tu li distruggerai.» Wan Tengri la osservò, e il sorriso gli affiorò di nuovo agli angoli della bocca. «Oh, sì, certamente... certamente, principessa» annuì. Poi girò sui tacchi, mentre Bourtai lo seguiva, sgambettandogli a fianco. «Proteggimi, padrone» sussurrò il ladro. «Contro le sue magie sono del tutto indifeso. È stato necessario unire il potere di sette Maghi per soggiogarla, e anche a questo punto noi non siamo stati in grado di impedire il tuo arrivo. Proteggimi. Il mio collo è troppo fragile per sopportare il morso di una corda.» «Fermati, uomo» ingiunse la principessa. «Dove stai andando?» Wan Tengri si arrestò sulla soglia. «Per Ahriman, devo sbrigare questa
faccenduola della distruzione di certi Maghi, prima di poter esigere la mia ricompensa» spiegò. «Una ricompensa che sono piuttosto ansioso di agguantare a piene mani.» Le splendide labbra della fanciulla si curvarono in un sorriso di approvazione e di promessa. «Ti aspetterò.» «Oh, non ne dubito» mormorò Wan Tengri tra sé, uscendo dalla stanza e cominciando a salire la scalinata di marmo. «Certo che aspetterà. Non ti avevo forse detto, Bourtai, che queste principesse sono tipi bisbetici e arroganti?» «Eppure, padrone, non mi è sembrata ostile.» Wan Tengri sbuffò. «La principessa ha rotto il suo giocattolo» disse, e non aggiunse altro. Le fredde pareti della torre erano ora rivestite di sete preziose e le scale lucevano di un candore scintillante. Anche i cenci dei due vecchi servitori, che stavano salendo verso la stanza della principessa, si erano tramutati in vesti sfarzose, e le loro schiene non erano più curve. Wan Tengri sbuffò una seconda volta, a quella vista. Aveva sentito storie che narravano di queste principesse incantate e dei loro castelli. A questo punto sarebbe stato provvidenziale l'intervento di qualche spiritello per sistemare la situazione e trasportare Wan Tengri in un'isola accogliente e lussureggiante, lontano dai fastidi causati dai Maghi con relativi eserciti. Purtroppo Wan Tengri, mancando di tale genio magico, avrebbe dovuto impegnarsi in ulteriori combattimenti prima di poter raccogliere il meritato bottino. Traendo un lento respiro, Wan Tengri oltrepassò un'altra porta che ora non pareva più di piombo, bensì sprigionava delicati riflessi d'oro brunito. Il guerriero strinse leggermente gli occhi. Per Ahriman, se avesse potuto portare con sé quella porta quando avrebbe fatto ritorno alle terre da cui era giunto, il suo sogno della villa sulle colline del Libano avrebbe potuto trasformarsi tranquillamente in realtà! Attraversò una stanza sfarzosa ed uscì con passo lesto su un balcone che si affacciava sul cortile della Fontana Magica. Perfino a quell'altezza, il calore delle fiamme danzanti imperversava con raffiche ardenti. Wan Tengri guardò la corte attraverso quel velo tremolante, e vide che pullulava letteralmente di schiere di soldati. Sette raggi di colori differenti si dipartivano dal centro del fossato, i colori araldici dei sette Maghi, uniti ora a formare un unico grande esercito. «Ci sono anche le tue guardie scarlatte, scimmiotto» mormorò Wan Tengri al ladro. «Puoi averle sotto controllo?» Bourtai allargò le mani. «E come potrei, padrone?» rispose con aria pre-
occupata. «In queste condizioni non mi conoscono. Mi conoscono solamente come una figura alta e mascherata, vestita di rosso.» Bourtai colse il bagliore sardonico negli occhi di Wan Tengri, e si affrettò ad aggiungere: «Be', forse con le mie arti magiche potrei. Comunque è raro che noi Maghi scendiamo tra i nostri uomini. Abbiamo dei capitani per questo.» In lontananza, oltre la candida distesa della città dalle torri aggraziate, la luna rossa stava sorgendo e stendeva arabeschi scarlatti sulle nere acque del Baikul. Wan Tengri scorse l'albero ondeggiante di una nave, e le sue narici si dilatarono come se, nonostante l'odore della fornace sottostante, egli riuscisse a percepire i puri aromi del mare. Un desiderio struggente lo pervase... ma ecco che dal cortile un urlo corale di diecimila voci colpì bruscamente le sue orecchie. Wan Tengri abbassò lo sguardo. Sopra una portantina, che spiccava alta al centro della calca di armigeri, vi erano sei figure imponenti e mascherate, circondate da una nube vorticante di vapori bianchi, rosa e azzurri. Le braccia scarne di quegli spettri erano sollevate e intente a compiere gesti rituali. Un'ondata di fiamma passò rasente all'orda di soldati, piegando in direzione della torre. Wan Tengri strinse gli occhi, mentre la folata di fiamme guizzanti parve impegnarsi in un combattimento contro le altre fiamme che nascevano dal cerchio di scuro liquido del fossato. Un urlo trionfante sorse dalla moltitudine di guardie, e per un attimo Wan Tengri imprecò rabbioso. Poi comunque rise. «Se gli uomini dei tuoi fratelli Maghi cercheranno di attraversare il fossato, andranno incontro ad un triste olocausto, Bourtai. Credono che le nostre fiamme siano fredde illusioni.» E con un sogghigno che gli increspava gli angoli delia bocca, concluse: «Vedremo presto i risultati delle mie modeste arti magiche.» Wan Tengri si levò dal collo il potente arco di corno. I soldati intanto stavano riversandosi oltre il bordo del fossato, e le loro grida si innalzavano tragicamente nella notte mentre le fiamme continuavano a danzare, per nulla sazie. «Voi Maghi credete ciecamente nella vostra medicina, vero, sciamano?» disse Wan Tengri. «Be', in fondo è giusto che sia così.» Tese la minugia fino all'orecchio, ed una freccia vibrò sibilando verso il basso, attraversando quel velo di luce tremolante. Prima che il primo dardo potesse colpire nel segno, il guerriero ne aveva scoccati altri due. Una figura mascherata, vestita d'oro, alzò le braccia al cielo e si accasciò all'indietro, precipitando
tra le fitte schiere di soldati; un istante dopo, il Mago che indossava gli abiti color porpora portò convulsamente le mani al petto, dove una freccia era penetrata in profondità nella carne, piantando le sue radici fatali. Come un sol uomo, gli altri balzarono dalla portantina, ed il terzo dardo di Wan Tengri s'infisse vibrando nel pianale di legno, oscuro avvertimento di un tragico destino. Un turbine di nera nebbia si sprigionò sopra la portantina e, dal centro di quel vortice, un essere mastodontico dalle ali rugose e dalle fauci fiammeggianti si librò in volo nella volta della notte. Quattro poderosi colpi delle ali, e la creatura puntò decisa verso il balcone su cui si trovava Wan Tengri. Il guerriero rise e, con la massima tranquillità, allentò la corda dell'arco, mentre Bourtai si precipitava all'interno della torre urlando. Quando Wan Tengri sollevò di nuovo lo sguardo, la creatura alata era svanita nella fitta nube di nebbia sfuggendo alla sua mira infallibile. Aveva veramente scoperto certe cose nell'arena... e non vi era quindi da meravigliarsi che i sacerdoti tentassero di uccidere coloro che sopravvivevano alla prova dei loro dèi! Wan Tengri lanciò un'ultima occhiata al mare, poi il suo sguardo si posò sui ranghi dell'esercito che invadeva il cortile, che si frapponeva tra lui e la lontano distesa marina come estremo ostacolo alla sua libertà e alla sua ricchezza. Infine il guerriero rientrò nella sala, ed una donna gli si inchinò di fronte, riferendogli: «Mio signore, la principessa desidera vederti.» Wan Tengri accolse la richiesta con una smorfia, ma annuì gravemente e la seguì al piano più basso della torre, in una stanza che non aveva finora visto. La principessa lo attendeva, seduta su un trono e vestita con abiti da cerimonia. A quella vista, Bourtai si rannicchiò piccolo piccolo nell'ombra di Wan Tengri. «Sono dunque morti i miei nemici?» chiese con tono distaccato la principessa. «Alcuni lo sono» rispose con aria grave Wan Tengri. «Comunque è necessaria una magia assai potente per annientarli tutti quanti. Occorre tempo.» «Possono aspettare» ribatté la fanciulla con un moto di impazienza. «Vorrei darti la ricompensa che ti spetta.» Wan Tengri serrò i pugni sui fianchi, divaricando le gambe muscolose. La sua fronte si aggrottò dinanzi a quella splendida principessa dalle chiome d'oro, mentre Bourtai gli ridacchiava alle spalle. Eppure la sua voce tonante rispose con un tono calmo e paziente.
«Principessa, io sono ansioso di ricevere la ricompensa dalle tue mani, però... se ben rammento, ho fatto un voto che devo assolutamente mantenere prima di reclamare quanto mi spetta.» «Io ti sciolgo da questo voto, mio signore.» «La cosa non rientra nei tuoi poteri, mia piccola principessa» disse Wan Tengri con un sogghigno. «No, perché è stato fatto ad un dio di cui tu non hai mai sentito parlare, ma di fronte al quale anche tu dovrai inginocchiarti. Per Ahriman, sarà pure mio dovere genuflettermi subito in segno di gratitudine. Ed ora, principessa, devo lavorare.» Voltandosi per uscire dalla sala, scorse i due servitori. «Mi serve il vostro aiuto» disse bruscamente. «Portate tutte le lance, tutti i tappeti e moltissima corda robusta, nella stanza più alta della torre. Bene, principessa, vado a preparare i miei strumenti magici per toglierti dalla soglia di casa gli insetti nocivi che la infestano.» La fanciulla sollevò regalmente il volto, impallidendo. «E quanto occorrerà perché i tuoi strumenti magici agiscano?» Wan Tengri si inchinò con un movimento rigido e impacciato, dato che la sua schiena orgogliosa non era avvezza a simile cerimoniale. «Fino a quando il vento infuocato non si spegnerà e spirerà ancora, principessa» rispose in modo spiccio. Si incamminò quindi verso la porta, ed ecco che un nutrito manipolo di soldati, protetti da bianche armature, si parò improvvisamente a sbarrargli la strada. Wan Tengri li fissò con espressione annoiata e avanzò, piombando con decisione in mezzo al gruppo che gli sbarrava l'uscita... e come per incanto gli armigeri svanirono nel nulla. Alle sue spalle, udì la principessa singhiozzare. «Puoi averla in pugno, padrone» esultò Bourtai, portandosi con lesti passettini al fianco di Wan Tengri. «Credimi, puoi dominare quella donna!» «Sì, per un giorno» sbottò Wan Tengri. «In effetti, queste tue profezie sono valide. È forse possibile che un uomo riesca a dominare una donna per più di un giorno? Puah! Il mio senso dell'umorismo mi sta abbandonando. Su, andiamo, mio caro seguace di Ahriman dalle dita svelte. Prima che possiamo cominciare a sfruttare a modo mio il vento infuocato, ho del lavoro da affidare alle tue dita leste... Poi spero che le nostre mani possano posarsi su una ricompensa leggermente diversa da quella che la principessa si prefigge... Perché vedi, Bourtai... a me interessa solo l'oro!» IX
Nella stanza più alta della torre, dove il lamento del vento infuocato sibilava incessante accarezzando le pareti con dita roventi, Wan Tengri lavorò per tutta la notte, e ai suoi ordini lavorarono pure senza un attimo di sosta Bourtai e i due servi. «Mai vista una magia più faticosa di questa» si lagnò Bourtai. «I miei incantesimi sono cose ben più semplici, e li si ottiene con maggior facilità.» Wan Tengri rise. «Li si spezza anche con altrettanta facilità, Faccia di Scimmia! Questa è una magia che nemmeno tutto il potere dei Maghi di Kasimer potrà vincere, e nemmeno i loro diecimila soldati.» Bourtai sospirò e trascinò un altro tappeto attraverso la stanza, per legarlo all'ultimo. «Comunque anche il mio debole cervello riconosce che questo spiegamento di arti magiche è necessario... In effetti, nemmeno i miei più forti incantesimi hanno prevalso contro di te, e lo stesso vale per quelli operati dai miei sei cari fratelli.» Wan Tengri si drizzò in piedi e si diresse alla porta. «Mio piccolo Mago, è la magia di diecimila spade che mi spaventa. Quello che l'uomo ha fatto, altri uomini possono disfare... e io non so per quanto tempo ancora il fossato di fiamme servirà a tenere in scacco tutti quei soldati. Sì, credo proprio, Bourtai, che non mi verrebbero concesse altre tre battaglie nell'arena... e anche il tuo destino è ormai segnato inesorabilmente, piccolo ladro, o dalla corda del cappio della principessa, o dagli incantesimi dei tuoi fratelli!» «Ah, non dire cose simili, padrone» supplicò Bourtai. «Sono certo che la tua ombra mi proteggerà!» Wan Tengri si congedò sogghignando e scese rapidamente la scalinata, diretto alla sala del trono; qui trovò la principessa intenta a giocherellare con lo scettro ingemmato. La fanciulla sollevò il capo all'ingresso del guerriero, poi distolse subito lo sguardo. Wan Tengri si piegò in un inchino solenne. «Mi occorreranno anche le tue arti magiche, principessa» esordì con tono cupo. «Dov'è la fonte che alimenta il tuo fossato fiammeggiante?» La principessa si agitò spazientita sul trono. «Simili argomenti non mi riguardano minimamente.» «Tuttavia, è indispensabile che io lo sappia» ribatté Wan Tengri avanzando verso il trono. «In caso contrario i miei incantesimi si riveleranno inutili. Se io cadrò in battaglia, credi forse che i quattro Maghi che dettano ancora legge oltre il fossato ti riserveranno un trattamento gentile? O non
pensi invece... che ti assoggetteranno di nuovo?» Negli occhi della donna apparve un'espressione implorante. «Tu dici questo solo per spaventarmi, mio signore.» Per un attimo la principessa parve una bambina atterrita, ed il sorriso di Wan Tengri si raddolcì. «No. Se ti spavento, è solo perché la paura dimora anche in me. Diecimila uomini, principessa, costituiscono una magia insuperabile per qualsiasi Mago. È una magia curva come lo stelo di un fiore, ma tagliente come il vento del nord! È una magia chiamata spada...» La principessa si alzò rigidamente e posò la piccola mano tremante in quella di Wan Tengri. «Vieni, ti mostrerò. Vi è un serbatoio che non si vuota mai, se lo usiamo con attenzione. Fu costruito molti anni fa da mio padre, e raccoglie le acque di alcune sorgenti. Ma sono acque imbevibili, acque magiche dal gusto immondo e dall'odore acre... ma il fatto meraviglioso è che tali acque bruciano!» Quando Wan Tengri ebbe controllato il grande e oscuro serbatoio, e imparato a regolarne il flusso, riaccompagnò la principessa nel salone del trono. «Tra poche ore, nell'Ora del Serpente, mia principessa» disse con gentilezza «il vento infuocato scemerà, e si potranno fare certe cose. Il tuo araldo suonerà allora uno squillo di tromba, ed io annuncerò a quell'esercito che al ritorno del vento infuocato, nell'ora serale del Drago, tu... tu tratterai con i tuoi nemici. Credo che così potremo guadagnare alcune ore di tregua, principessa.» Risalendo la scalinata, Wan Tengri aggrottò la fronte, stanco e in preda al dubbio. Forse stava trattando ingiustamente la principessa; forse le profezie erano false, e quella era davvero la terra che lui era destinato a governare. La cosa certa era che le sue mani avrebbero accolto avidamente i tesori della città. Di colpo, il guerriero scoppiò a ridere. Per Ahriman, era uno sciocco a preoccuparsi del domani! Quando entravano in gioco quelle diecimila spade, chi poteva sapere se per lui sarebbe giunto un domani? Canticchiando tra sé, Wan Tengri aprì con un pugno la porta della stanza più alta. All'alba, quando il vento infuocato si spense, Wan Tengri uscì sul balcone che cingeva la sommità della torre. Una dozzina di piedi sopra di lui vi era la grande fiamma dorata, ed egli la fissò con espressione concentrata. Poi fece roteare sul capo l'estremità zavorrata di una corda, e la scagliò attorno alla base della fiamma. Al terzo tentativo, la fune gli ritornò in mano,
permettendoli di assicurare un nodo scorsoio attorno al pennacchio ardente, pronto ad essere usato. Dopo aver controllato nella stanza i due enormi rotoli di tappeti e le due file di lance, Wan Tengri annuì soddisfatto e ridiscese veloce le scale. Giunto sul balcone dal quale aveva avvistato la prima volta le schiere di soldati, chiamò l'araldo al suo fianco affinché lanciasse il segnale. Lo squillo della tromba scese sull'orda multicolore delle guardie dormienti, e gli uomini balzarono in piedi urlando. Wan Tengri sventolò dal parapetto una sciarpa di seta immacolata. «Ascoltate, uomini» tuonò la possente voce del guerriero. «Ascoltate le parole della Principessa di Turgohl! Ella saluta i suoi leali sudditi in nome di Christos, e nel nome di Christos ella sconfigge i suoi nemici e opera le sue conquiste. Nell'Ora del Drago, la principessa negozierà con i vostri signori, i Maghi di Kasimer. Li invita dunque a presentarsi nell'Ora del Drago!» Finché Wan Tengri parlò, la calca di soldati rimase silenziosa, ma non appena le sue parole cessarono scoppiò una serie di grida confuse, e nugoli di frecce si levarono nella sua direzione. Una sfiorò la sciarpa bianca che stringeva in mano, un'altra colpì il trombettiere sotto lo sterno. L'araldo si accasciò in avanti, sputando sangue; Wan Tengri invece rimase rigidamente ritto alla balaustra, tra una nube di dardi, e i suoi occhi, con espressione amareggiata, cercarono di nuovo l'azzurro della rada e le lontane acque luccicanti del Baikul. Una freccia, con un sibilo lamentoso, gli sfiorò un orecchio strappandogli una ciocca di capelli, ed un'altra volò rasente al parapetto, ferendogli di striscio una mano. Allora Wan Tengri rientrò stancamente nella torre. Quegli uomini avrebbero atteso fino all'Ora del Drago, pensò. Anzi, avrebbero di certo attaccato proprio allora. Se la sua magia avesse funzionato, vi sarebbero stati parecchi morti prima che giungesse nuovamente l'Ora del Serpente... e Wan Tengri avrebbe potuto benissimo far parte di quelle vittime. Era scritto che il guerriero dovesse regnare per un sol giorno... E l'Ora del Bue avrebbe segnato la fine di tale giorno. Il guerriero cercò inutilmente di trovare conforto nel proprio senso dell'umorismo. Poi si abbandonò su un letto e dormì. Era già tardi quando si svegliò. Bourtai era accovacciato accanto a lui, e le fragili ossa del Mago tremavano scosse da un sussulto incessante. «Padrone» sussurrò Bourtai «l'Ora del Drago si avvicina!» Wan Tengri si sollevò a fatica in piedi, piazzandosi con le mani sui fian-
chi. Tra poco avrebbe saputo... Con un sorriso amaro, ordinò: «Vieni nella stanza alta della torre, Bourtai. Oggi dovremo unire le nostre magie in una lotta comune, altrimenti...» «Altrimenti un cappio mi aspetta!» mormorò il ladro. «È tutto il giorno che la principessa mi fissa con avidi occhi da gatto... e nel mio petto vi è un animo di sorcio che sta tremando.» Wan Tengri eruppe in una secca risata. «Una storia narra che una volta un topo aiutò un lupo, scimmiotto. Prega i tuoi vari dèi che l'analogia sia valida, e che io combatta come un leone in questo giorno decisivo.» «Ma i tuoi poteri magici, padrone?» «I miei poteri magici avranno bisogno anche della forza del mio braccio» replicò in modo spiccio il guerriero. «Diecimila uomini, Bourtai, e diecimila spade... diecimila archi pronti a scagliare i loro dardi contro questa torre. Le tue dita smaniano ancora di tuffarsi nell'oro, Bourtai?» Senza ulteriori indugi, Wan Tengri salì la scalinata della torre. Dapprima il piccolo ladro gli si affiancò, tempestandolo con mille domande, ma alla fine desisté e si limitò a seguire ansando l'incedere deciso delle gambe muscolose del padrone. Una volta nella stanza più alta della torre, Wan Tengri iniziò con solerzia a lavorare. Controllò la robustezza della doppia fila di lance che aveva legate assieme, poi fissò ad ognuna un rotolo di tappeti e trasportò infine il pesante carico sul balcone. Lì, collocò in posizione i due rotoli, facendoli sporgere da entrambi i lati della torre, quindi iniziò rapidamente a legarli con tiranti di corda, e una volta ultimata l'operazione le file di lance sembravano un pennone disposto trasversalmente rispetto all'albero maestro della torre. «Il tuo compito, piccolo sorcio» disse Wan Tengri, rivolgendosi ansante a Bourtai «sarà di rosicchiare queste corde al secondo squillo di tromba. Ma fa in modo che i tappeti non si svolgano troppo in fretta, altrimenti le lance potrebbero spezzarsi. Nel qual caso, sarà impossibile che tu riesca a salvare il tuo collo!» Bourtai sporse la testa, giocherellando nervosamente con le dita. «Certo, padrone, i tappeti caleranno lentamente... comunque non riesco proprio a capire questo tuo strumento magico.» «Se tu riuscissi a capirlo» osservò Wan Tengri «non sarebbe più magico. E mi raccomando, aspetta il secondo squillo di tromba!» Uscì dalla stanza e si recò dalla principessa, che lo attendeva pallida e spaventata nel vasto salone a pianterreno. Al di là delle pareti echeggiava il
frastuono caotico delle voci rabbiose dei soldati nemici. Le mani della fanciulla cercarono la protezione di quelle del guerriero. «Presto, mio signore» invocò. «Presto, intervieni con le tue arti magiche!» Wan Tengri sorrise, quantunque i muscoli delle sue spalle stessero irrigidendosi per lo scontro imminente, e la sua fulva testa fosse inclinata in posizione sprezzante, quasi a sfidare la morte. «No, principessa» ribatté con gentilezza. «Non si può affrettare la magia. Non sono forse occorsi diciassette anni perché fosse infranto l'incantesimo che ti teneva relegata in una condizione infantile?» Gli occhi della fanciulla si raddolcirono. «Eppure esistono incantesimi che richiedono meno tempo!» «E vi sono incantesimi che durano un solo giorno» commentò Wan Tengri con tono severo; poi si diresse all'armatura accostata alla parete e con gesti esperti indossò corazza ed elmo. «Quando la tromba squillerà per la seconda volta, principessa, devi assolutamente aprire al massimo il flusso d'uscita di quella stupefacente fonte di tuo padre. Il tuo potere magico, unito al mio, libererà la tua città dai parassiti... almeno, così spero.» Portando con estrema disinvoltura il peso della corazza risalì quindi nella stanza dove aveva dormito, si assicurò la spada al fianco e prese l'arco, che aveva munito di una nuova minugia. Se i Maghi avessero rotto la tregua muovendo all'attacco con nugoli di frecce, avrebbero trovato una degna risposta alla loro iniziativa. Wan Tengri uscì sul balcone e abbassò lo sguardo verso il cadavere dell'araldo trafitto dal dardo nemico. Gli ultimi raggi del sole tingevano di sfumature dorate i lineamenti dell'uomo, tesi nella smorfia estrema della morte. «E tu hai atteso diciassette anni solo per questo...» commentò Wan Tengri. «Be', forse anch'io andrò incontro alla medesima fine, oggi!» Raccolse la tromba e si avviò alla balaustra, dove sventolava ancora la sciarpa bianca. Il sole nel frattempo era stato assorbito per metà dalle colline Suntai. Accostò la tromba alla bocca e le sue labbra, non avezze allo strumento, ne trassero uno squillo tremolante e spezzato, comunque sufficientemente rumoroso. Poi calò il silenzio, ma il riso era ben visibile sui visi delle guardie delle file più vicine. Ah, dunque a quegli uomini non piaceva il suo modo di suonare la tromba? Wan Tengri li fulminò con uno sguardo carico di minaccia. «Io sono l'uomo» gridò. «Parlo a nome della principessa. Dove sono quei buffoni dei vostri Maghi?»
I ranghi delle guardie si separarono a quelle parole, e Wan Tengri scorse le figure mascherate dei quattro Maghi superstiti, ritte e silenziose. Accanto a loro, nascosti tra la calca di soldati, vi erano alcuni uomini pronti con l'arco nella mano. L'occhio circospetto del guerriero li individuò subito, ma del resto si era aspettato una cosa simile. «Fachiri di Kasimer» tuonò allora la sua voce «tre di voi sono morti. A voi quattro che siete sopravvissuti, e lo sarete ancora per poco, io reco il messaggio della principessa. Ritirate i vostri eserciti e congedateli, ed arrendetevi alla sua misericordia! Se rifiutate, morirete!» Risate di scherno e urla esplosero tra le truppe, poi ecco che dai ranghi compatti si levò lo squillo nitido di una tromba. Wan Tengri imprecò, ma subito sogghignò con espressione crudele, mentre una gragnuola di dardi partiva in direzione del balcone. Bene, erano stati loro stessi a dare il via, a segnalare l'entrata in azione dei suoi strumenti magici! Mentre incoccava una freccia, l'ultimo bagliore rossastro del sole si spense dietro il crinale delle colline e rimasero solo le fiamme guizzanti del fossato a proiettare la loro sanguigna luce minacciosa sulle facce dei nemici. Le quattro figure mascherate spiccavano nette in quel baluginio di fuoco, ma le schiere di armati avevano cominciato prontamente a serrarsi attorno a loro quando lo squillo di tromba aveva lanciato il segnale. Il massiccio arco di corno vibrò alla massima velocità possibile perché la mano potesse incoccare una freccia, e sei dardi calarono verso il cortile in un batter d'occhio. Una guardia si inarcò di fronte ad una figura mascherata... e si accasciò con lo scudo inchiodato al cranio. La seconda freccia, seguendo la stessa traiettoria, trafisse la gola di un Mago, che cadde a terra contorcendosi. Ma gli altri strali morsero carne di rango inferiore. Poi Wan Tengri sentì la trafittura di una freccia che gli penetrava nel braccio sinistro, e imprecando indietreggiò fuori dalla portata del nemico. Poteva fare ben poco, ormai. Meglio risparmiare le frecce, e aspettare che entrasse in azione la sua magia... Le dita del guerriero corsero verso il dardo conficcato nel braccio, mentre i suoi occhi scrutavano verso la sommità della torre fin dove arrivava il riflesso delle fiamme. Sì, i rotoli di tappeti stavano svolgendosi. Poi con circospezione Wan Tengri si sporse oltre la balaustra. Benissimo, le fiamme del fossato cominciavano a guizzare più alte di prima. Bourtai e la principessa avevano compiuto la loro parte di lavoro. Finalmente, aggrottando la fronte e stringendo i denti, poté strappare la freccia dalla carne,
accompagnando con una bestemmia la dolorosa operazione. Meglio lasciare che la ferita sanguinasse per un po'. Mentre si accingeva a rientrare nella stanza, si fermò in ascolto di un nuovo rumore. Il cielo era ora percorso da un sibilo, un sibilo che mutò gradualmente trasformandosi in un canto lamentoso, e che entro breve tempo sarebbe divenuto un ululato lacerante. Il vento infuocato aveva iniziato a spirare! Wan Tengri osservò di nuovo i rotoli di tappeti. Ora stavano calando rapidamente, perché senza dubbio Bourtai si era rintanato al riparo dentro la torre fin dal primo debole soffio del vento infuocato. I tappeti si gonfiarono come vele sui lati della torre e, come vele, avrebbero imprigionato il vento infuocato, dirigendolo in basso, nel cuore della città, unitamente alle fiamme che divampavano nel fossato. La prima raffica incandescente del vento turbinò attorno a Wan Tengri. Il calore colpì come un pugno le sue narici e si insinuò nelle viscere con una morsa formata da mille artigli roventi. Soffocando, in preda a conati di vomito, Wan Tengri rientrò barcollando nella torre e si affrettò a chiudere ermeticamente la porta del balcone. Poi vi si appoggiò, ansante, e a poco a poco le sue labbra cominciarono a sorridere. Dunque non avevano mentito a proposito della forza scatenata del vento infuocato! Corse verso la scalinata, proprio mentre Bourtai stava ciabattando sui gradini scendendo dalla stanza alla sommità della torre. Sotto di sé, udì il richiamo della voce chiara della principessa ed i passi frettolosi della serva che si affannava a seguirla. «La tua magia, mio signore?» domandò la principessa. «La tua magia... è riuscita?» «Ora lo vedremo» rispose Wan Tengri, tesissimo nonostante il tono calmo. Fece quindi strada verso i piani superiori, fermandosi presso una cupoletta di cristallo che si apriva nella parete della torre; attraverso quella osservò il pandemonio che si era scatenato nel Cortile della Fontana. Le alte fiamme del fossato non si ammassavano più attorno alla torre, bensì, sospinte verso terra dalla tremenda pressione del vento infuocato, saettavano come affilate lance oro e cremisi sul pavimento della corte. I venti infuocati della sera, soffiando nei cieli sopra la città, venivano imprigonati dalla vela di tappeti e indirizzati lungo la parete della torre e quindi sopra il fossato di petrolio grezzo. Come una gigantesca torcia alimentata dalle correnti surriscaldate deviate da quella vela improvvisata da Wan Tengri, le fiamme imperversavano in lingue fameliche e rabbiose, spazzando ineso-
rabile la corte. Un ammasso di corpi anneriti costeggiava la circonferenza del fossato, mentre nella parte esterna del cortile, dove si trovavano le schiere più lontane, gli uomini stavano lottando selvaggiamente per mettersi in salvo. Le spade roteavano in guizzi lucenti sulle loro teste, e la morte strisciava implacabile verso di loro. Alcuni si accasciarono al suolo dibattendosi sotto il morso del fuoco, altri, sebbene fuori dalla portata delle fiamme, barcollarono, portandosi freneticamente le mani alla gola. La principessa rise ad alta voce e batté le mani di contentezza. «La tua magia funziona, mio signore. I miei nemici muoiono a centinaia, a migliaia.» Le dita della fanciulla si serrarono attorno al braccio di Wan Tengri. Bourtai si gettò in ginocchio e batté la testa sul pavimento, premendo le vecchie labbra frementi sui piedi del guerriero. «Sei il Mago più grande che esista, padrone. Perdona il tuo schiavo che ha avuto l'impudenza di dubitare di te e di ostacolarti.» Wan Tengri contemplò la scena del massacro con occhi infossati e amareggiati, e non vi era alcuna traccia di sorriso sulle sue. labbra, né tanto meno nel suo cuore. Sì, quegli uomini che perivano a centinaia potevano senz'altro annoverare nelle loro file parecchi soldati coraggiosi, uomini con cui perfino Prester John avrebbe incrociato volentieri la scimitarra. Ed ora venivano sterminati da una morte atroce... Wan Tengri si liberò dalla mano della principessa e dalla stretta di Bourtai, e scese con aria abbattuta la scalinata. La fedele spada gli sbatteva contro la coscia, ed il morso familiare della minugia dell'arco gli accarezzava la gola. «Prester John, il Mago» disse con voce rauca. «Proprio io... un Mago, ah!» All'esterno udiva solo il sibilo del vento ed il muggito del fuoco. Le grida agonizzanti dei morenti venivano pietosamente annullate da quelle due forze della natura, o forse si erano già spente da tempo, strozzate nelle gole delle vittime. L'aria era viziata dal lezzo della pietra arroventata e dai miasmi del fuoco del fossato; fortunatamente, gli altri e ben più ripugnanti odori venivano spazzati dal vento verso la città. Wan Tengri si fermò nell'ampio corridoio, piazzandosi rigido sulle gambe, e attese. Di sopra, la principessa continuava a lanciare gridolini di esultanza, come del resto avrebbe dovuto fare pure lui. Quegli uomini avevano trucidato Kassar, e molti altri validi soldati... ed avevano rappresentato l'estremo ostacolo per le sue mani avide di ricchezze. Il guerriero si strinse nelle spalle, sollevando il capo, e scorse Bourtai rannicchiato timidamente dinanzi a lui.
«Padrone, anche l'ultimo dei nemici è morto o fuggito» annunciò concitato il ladro. «Non vi è mai stato un massacro simile a questo provocato dalla tua arte magica. Ma ora, mentre i nemici sono in fuga, noi dovremmo colpire. Dobbiamo marciare sul tempio di Ahriman e impadronirci del tesoro.» Wan Tengri abbozzò stancamente un sorriso. «Dunque, mio piccolo Mago, è venuta a galla un'altra delle tue menzogne! Tu sapevi dov'era nascosto il tesoro...» «Ora quel tesoro è tuo, padrone.» Wan Tengri grugnì. «Me lo sono guadagnato, credo. Ora vai nella mia stanza. Troverai due vasi pieni di un liquido nero e puzzolente. Vuotali sui tappeti e poi getta una torcia su di essi. In breve ci sbarazzeremo del vento infuocato, ora che non ci serve più.» «Ma le fiamme attorno alla torre, padrone?» protestò Bourtai. «Come potremmo oltrepassarle?» Wan Tengri rispose in modo sbrigativo: «Non ricordi, Bourtai, che anche tu hai collaborato alla preparazione di quel mio incantesimo?» «Io ti ho aiutato, padrone? No... noi non abbiamo fatto altro che gettare alcuni sacchi di sale nel fossato.» Il volto di Bourtai aveva un'espressione perplessa e supplichevole. «Proprio non riesco a capire...» «Il sale si scioglie nell'acqua bollente» spiegò Wan Tengri in maniera concisa. «Si scioglie molto in fretta. Sono occorsi parecchi sacchi di sale, altrimenti perfino le fredde acque su cui scorre quel nero intruglio magico si sarebbero in poco tempo sbarazzate dell'ostacolo. Entro un'ora il fossato sarà di nuovo asciutto. Il fuoco si propagherà lungo le gallerie saline, probabilmente, ed alcuni edifici verranno distrutti. Ma il marmo non viene intaccato dal fuoco, per cui l'incendio si estinguerà presto. Ora vai, distruggi i miei tappeti magici, poi annuncia alla principessa di indossare gli abiti da cerimonia.» Il guerriero sogghignò amaramente. «La principessa camminerà sui corpi dei suoi nemici fino al tempio di Ahriman. Dovrà per forza farlo... altrimenti non attraverserà mai più la Corte della Fontana Magica!» I piedi di Bourtai si mossero lesti e silenziosi lungo la scalinata, simili alle zampette di un topo. Dopo alcuni minuti le fiamme del fossato si impennarono in una serie di guizzi più alti, ed il sibilo del vento si levò al cielo, allontanandosi. L'odore della carne bruciata penetrò d'un tratto nelle narici di Wan Tengri, che tese le labbra in una smorfia. L'indomani, o il giorno successivo, avrebbe iniziato a gloriarsi di questa sua ultima impre-
sa, una sfida in cui aveva massacrato diecimila uomini usando unicamente la propria forza magica. Comunque non avrebbe avuto bisogno di gloriarsi... I trovatori girovaghi avrebbero sentito e diffuso la sua storia e, forse per secoli, tramandate anche da padre in figlio, le gesta del guerriero sarebbero state narrate con l'accompagnamento delle note lamentose dei violini monocorda. Wan Tengri cominciò a passeggiare lentamente, avanti e indietro, per il corridoio, canticchiando tra sé. Poi la sua attenzione fu attratta dal lento passo regale della principessa che stava scendendo; si voltò verso la scalinata e trattenne il fiato in ammirazione. La fanciulla indossava un candido e lungo vestito, e i suoi capelli di sole ricadevano soffici sotto la corona d'oro. Dietro di lei, la serva reggeva lo strascico dell'abito da cerimonia, seguita da Bourtai che si sporse dal corrimano mormorando eccitato: «Le fiamme del fossato stanno estinguendosi, padrone... proprio come avevi detto. Le tue arti magiche, quantunque strane, agiscono davvero su ogni cosa!» Wan Tengri accennò un debole sorriso. Vi era una sola cosa, ora, che le sue arti magiche non potevano ottenere: conservare immacolato l'abito della principessa mentre lei avrebbe attraversato la Corte della Fontana. Celando un sogghigno sotto la barba, Wan Tengri si piegò in un rigido inchino, quindi indietreggiò per spalancare i portali della torre e far scendere così il ponte levatoio. La principessa sollevò il mento con espressione arrogante, incamminandosi senza alcuna fretta verso l'uscita. Le ultime lingue di fiamma stavano ormai morendo sul fondo del fossato: a un centinaio di metri di distanza, un magazzino cominciò a bruciare, lanciando nubi di fumo nero e puzzolente verso i candidi edifici marmorei di Turgohl. La principessa uscì allo scoperto, e Wan Tengri la seguì sulla sinistra tenendosi indietro di un paio di passi. Gli occhi del guerriero sondarono le ombre tra gli edifici; i cani ribelli sfuggiti alla sua magia distruttrice si trovavano probabilmente là, in agguato nell'ombra, e Prester John disponeva di un manipolo miserevolmente sparuto per muovere al saccheggio della città. La sua mano si serrò sull'elsa della spada... ed ecco che la principessa si fermò. L'odore nauseabondo della carne umana bruciata fece rivoltare lo stomaco di Wan Tengri, ma il suo volto era impassibile. Egli si portò al fianco della principessa, giunta ora alla fine del ponte levatoio. Immediatamente dinanzi alla fanciulla non vi era nulla che potesse definirsi umano, ma poco più avanti alcuni lembi di tuniche sericee bruciavano ancora sui corpi delle vittime, e oltre quei poveri resti gli uomini uccisi dal vento in-
fuocato giacevano riversi a grappoli nella caotica scompostezza della morte. «È una giornata memorabile per te, principessa» commentò Wan Tengri con voce velata di ironia. «Pochi sovrani hanno il privilegio di incamminarsi verso il trono calpestando i corpi dei loro nemici!» La fanciulla sollevò il volto pallido e lo fissò con un gelido sorriso. «Fa piacere vederli morti, e tuttavia il loro tanfo è un insulto per me. Sarai tu, mio signore, a portarmi attraverso il cortile.» Dietro la torre, il rosso spicchio della Luna Feconda stava sorgendo e diffondeva un lucore spettrale sulla distesa delle vittime e sui candidi edifici di Turgohl. Ora un altro edificio era divorato dalle fiamme, l'alta torre di Bourtai, dove Wan Tengri era riuscito per poco tempo a impadronirsi dell'anima del piccolo Mago. «La cosa è impossibile, principessa» rispose seccamente Wan Tengri. «Il mio braccio deve essere libero, poiché alcuni tuoi nemici si annidano sicuramente tra quegli edifici, celandosi al cospetto della mia magia. Avanza con passo fiero, principessa... e solleva il tuo strascico.» Indietreggiato di un paio di passi, il guerriero setacciò coi propri occhi sardonici i cumuli di morti. Chissà se tra quelle vittime vi erano pure i Maghi di Kasimer? O chissà se i Maghi controllavano ancora i superstiti delle loro truppe nell'ombra del tempio di Ahriman? «Bourtai» mormorò Wan Tengri «puoi riunire i tuoi ladri?» «Credo di sì, padrone.» «Fallo, dunque. Armali con le armi dei morti, e ordina loro di seguirci di nascosto. E ricorda, Bourtai, la mia forza magica è superiore alla tua, e si spinge oltre i limiti della Morte... queste parole ti vengono dette da colui che ha sconfitto la Morte nella battaglia dell'arena!» Bourtai si prostrò in ginocchio. «Padrone, signore, sire... se mai ti tradirò...» «Per Ahriman, se lo farai ti spezzerò il collo, scimmiotto. Ora vattene!» Il ladro sfrecciò come un'ombra tra le vittime e scomparve; allora la principessa sollevò il mento e cominciò ad attraversare con aria decisa e aggraziata la Corte della Fontana Magica che da quel giorno in poi, a giudizio di Wan Tengri, sarebbe stata ribattezzata con un nome più macabro. Gli occhi del guerriero si posarono sulla fanciulla dalla capigliatura d'oro. La principessa aveva davvero la stoffa della sovrana, visto il modo deciso in cui avanzava, assolutamente sicura di sé. La serva la seguiva barcollando e inciampando, ed a un certo punto lasciò cadere lo strascico regale
premendosi entrambe le mani sul ventre torturato dalla nausea. La principessa aprì la strada attraverso gli orrori della piazza e, costantemente all'erta, Wan Tengri la seguì. Sulla corda del suo arco era incoccata una freccia, pronta a colpire. L'andatura lenta e regale della fanciulla si adattava perfettamente ai piani di Wan Tengri, poiché avrebbe permesso a Bourtai di disporre di un lasso di tempo sufficiente a radunare la banda di ladri. Erano una masnada piuttosto sparuta, comunque era probabile che quegli uomini prendessero un po' di coraggio grazie alla descrizione dei poteri magici di Prester John che Bourtai avrebbe sicuramente fatto loro. Il guerriero si accostò al fianco della principessa. «Sto camminando nel modo giusto, mio signore?» chiese debolmente la fanciulla. «Nessun sovrano conquistatore» rispose in tutta sincerità Wan Tengri «potrebbe camminare meglio. Hai imparato una lezione, piccola principessa. Fissati sulla cosa che desideri e non permettere che nulla ti distolga da tale scopo. Sii sempre tenace e ardita. Sii spietata, in modo che in seguito tu possa per contrasto essere generosa. Se un uomo si oppone al tuo volere, abbattilo.» Erano indubbiamente ottimi consigli i suoi, ma restava pur sempre la questione della ricompensa. «E» aggiunse il guerriero, pensieroso «mantieni sempre la tua parola.» «Queste tue lezioni hanno una certa acutezza, mio signore» disse la principessa con voce strozzata. «Puah... da vivi i miei nemici dovevano essere un branco immondo, per puzzare così dopo morti!» Wan Tengri non riuscì a frenare una risata, ed i suoi occhi grigi si colmarono di ammirazione guardando il capo eretto e aureo della fanciulla. I corpi divorati dal fuoco erano ormai alle loro spalle, e ora dovevano superare i cumuli sparsi delle vittime soffocate dal vento infuocato. Erano in pratica giunti all'uscita della Corte della Fontana Magica, e non si notava ancora alcun segno di vita, né alcuna traccia di Bourtai e della sua banda di furfanti. Una lieve preoccupazione si insinuò nella mente di Wan Tengri. Aveva forse sbagliato a credere che Bourtai fosse definitivamente soggiogato e schiavo del suo volere? Il guerriero pizzicò la minugia dell'arco. Be', quello era lo strumento più adatto a risolvere eventuali dubbi... Finalmente raggiunsero il limite della corte, da cui partiva l'ampio viale centrale di Turgohl che conduceva direttamente alla struttura torreggiante del tempio di Ahriman. La principessa lasciò cadere lo strascico dell'abito,
tuttora sorprendentemente candido, e si avviò tenendosi nel mezzo della strada. Gli occhi di Wan Tengri erano più che mai impegnati a sondare le ombre, e le dita appoggiate alla corda dell'arco erano talmente tese da tremare quasi. In lontananza, nell'oscurità, un cane o un lupo lanciò un acuto ululato. Poi su tutto calò di nuovo un silenzio pressoché assoluto, violato solo dal lugubre lamento del vento infuocato. Turgohl sembrava una città morta, visto il modo in cui la gente si era rintanata al sicuro dietro porte sprangate e alti muri di cinta. Era un comportamento saggio e accorto che caratterizzava i cittadini di ogni landa della terra. La conquista da parte di nuovi eserciti non attirava la loro attenzione, e questa indifferenza risparmiava loro di venir depredati. Nelle strade delle loro città la battaglia poteva impervesare furiosamente e le orde rosse avrebbero annientato quelle verdi o le truppe argentate avrebbero sconfitto quelle dorate, ma solo alla fine le porte delle case si sarebbero di nuovo riaperte e le cose avrebbero ripreso il proprio corso più o meno come prima della lotta... Solo che adesso qualcuno sarebbe stato più ricco, e qualcun altro più povero. Fortunatamente in questa circostanza Wan Tengri apparteneva al gruppo di quelli più ricchi. Il guerriero girò le spalle rigide per la tensione, e qualcosa gli strusciò sulla pelle del petto... il frammento della Vera Croce. «Stai tranquillo, Christos» mormorò Wan Tengri. «La promessa era di centomila uomini, e la mia parola di soldato è sempre valida, come uno scrigno di argento depositato in una tesoreria. Stanotte riceverai il primo acconto di quanto ti ho promesso... ed io sarò ancora vivo, grazie al tuo aiuto. Vedi, la principessa mi ha accordato tre desideri... Naturalmente sarà opportuno che io mi attenga ai desideri che lei cercherà di impormi, comunque vedrai che troverò il modo di...» L'attacco fu annunciato unicamente da un urlo rauco proveniente dalle tenebre. All'improvviso, dai viottoli oscuri che partendo da entrambi i lati del viale principale si intrecciavano in un fitto dedalo tra alte mura di pietra, sbucarono degli uomini. Wan Tengri non riuscì a scorgere il colore delle loro tuniche, comunque le loro corazze sprigionavano deboli riflessi sotto i fiochi raggi lunari. Il guerriero scaricò tutta la tensione accumulata in un ruggito che gli scaturì impetuoso dalla gola. Il suo arco cominciò tempestivamente a vibrare, tessendo l'armonia del santo della Morte. Le frecce, sgusciando con rapidità fulminea dalla faretra, sibilarono nell'oscurità, ed ognuna di esse trovò una nuova faretra fatta di carne di soldato. Dopo che il suo arco ebbe intonato una decina di note, sulla sinistra di
Wan Tengri non rimase più alcun nemico. In quel preciso istante, la principessa gridò, ma si trattava di un urlo di collera e non di paura. Un uomo l'aveva afferrata tra le braccia, sollevandola da terra. Wan Tengri balzò in quella direzione sguainando la scimitarra, ma prima che potesse raggiungere il punto dell'agguato, il braccio candido della principessa si alzò e calò sull'aggressore, facendolo accasciare al suolo. Wan Tengri scattò immediatamente oltre la fanciulla per affrontare gli altri avversari, e la sua spada guizzava come una fiamma. «Ah, ti dà forse fastidio la tua gola? Ebbene, ancora per poco! E quel braccio? Tranquillo, ora non lo sentirai più... Ah!!!» Il suo urlo di battaglia si alzò in un ruggito verso la volta dei cieli. Era Prester John che combatteva; John degli Uragani, con la sua spada ratta come la folgore! Due uomini lo caricarono con le lame spianate, e Prester John balzò tra di loro. La sua scimitarra tagliò di netto la testa al primo soldato, e roteò prontamente verso il secondo. L'acciaio cozzò contro l'acciaio, e la lama dell'aggressore volò in aria, spezzata in due luccicanti tronconi. L'uomo cadde in ginocchio. «Pietà, sire. Ti riconosco, ora. Tu sei...» Il braccio della principessa lo colpì a tergo, e il suo pugnale affilato penetrò nella colonna vertebrale dell'uomo interrompendogli le parole sulle labbra. Negli istanti di tregua che seguirono, gli occhi grigi della fanciulla fissarono quelli grigi del guerriero. «Sii spietata, hai detto, mio signore» spiegò la principessa. Poi la minugia di un arco vibrò, e Wan Tengri sentì tra le scapole la puntura di una freccia. Ondeggiò, stringendo il proprio arco nella mano, e si portò la spada alla bocca, serrandola tra i denti. Il gusto del sangue era tiepido e acre... le frecce di Wan Tengri ripresero a saettare. E il colpo ricevuto... il dardo era dunque penetrato nell'armatura? Erano pochi gli uomini che possedevano la forza necessaria a piegare un arco in quel modo; comunque Wan Tengri non sapeva di che metallo fosse fatta la sua corazza. Nei muscoli delle spalle cominciava ad avvertire un certo indolenzimento fastidioso... Puah! In fondo non era altro che la puntura di uno spillo! Nell'oscurità si levarono d'un tratto nuove grida stridule. Delle ombre sgusciarono veloci alle spalle degli aggressori, ed una vocina gracchiante avvisò: «Risparmia le tue frecce, sire; ora non sono più necessarie!» Wan Tengri allentò la tensione dell'arco. «Ogni volta che Bourtai apre bocca» sussurrò «io ricevo una piccola promozione di grado. Adesso mi ha chiamato sire. La prossima volta mi nominerà dio. Beninteso, senza offesa,
Christos! Principessa, ho una freccia piantata nella schiena. Fammi l'onore di toglierla.» Avvertì uno strappo leggermente doloroso nella schiena, poi si voltò verso la principessa che ora stringeva in mano la freccia estratta e il pugnale. L'abito candido della fanciulla adesso era in condizioni pietose, ma si trattava di macchie degne di onore. Wan Tengri disse, con la massima sincerità: «Principessa, tu sarai una grande sovrana. Non ho mai avuto il minimo dubbio in propòsito. Ora credo che sia opportuno affrettarci al tempio di Ahriman.» E, alzando la voce, ordinò: «Bourtai, seguici!» «Obbedisco, sire!» I minuscoli piedi della fanciulla echeggiarono di nuovo sul selciato, con passo lieve, ma quel rumore venne subito sommerso dal calpestio disordinato della banda di ladri che si avviava in marcia. Wan Tengri udì al proprio fianco una vocina stridula che gli sussurrava: «Dammi retta, sire, la tua principessa è una combattente nata. In tutto il mondo non potresti trovarne una più coraggiosa!» Wan Tengri si limitò a rispondere con un grugnito e seguì la schiena dritta e slanciata della principessa lungo la scalinata d'accesso del tempio di Ahriman, e poi nel vasto salone dalle colonne scanalate. I mulinelli di fumo d'incenso cancellarono il ricordo delle scene raccapriccianti viste poco prima. Wan Tengri si guardò attorno e soffocò a stento una sonora risata. I ladri si erano effettivamente armati di tutto punto. Le corazze, fatte per uomini veri, oscillavano larghe attorno ai loro toraci rachitici. Gli elmi scivolavano sulle loro teste, eppure i ladri si muovevano con passo agile nonostante fossero gravati da tanto peso... e le loro spade sguainate erano degnamente macchiate di sangue nemico. Wan Tengri volse prontamente il capo alle prime note di una lenta salmodia. I sacerdoti di Ahriman, in sette file di sette colori, stavano uscendo dinanzi al simulacro del dio. Per la seconda volta Wan Tengri scorse i lampi di fuoco negli occhi dell'orribile statua, e udì il rombo che annunciava l'inizio del discorso dell'idolo. «Ti chiedo scusa, sire» sussurrò allora Bourtai. «Devo andare a compiere una mia piccola magia.» Mentre il Mago spariva nell'oscurità tra le colonne del tempio, Wan Tengri fece cenno alla banda di ladri di stringersi attorno a lui e alla principessa. «Questi sacerdoti ti incoroneranno, dal momento che ora tu sei forte» mormorò quindi nell'orecchio della fanciulla, «ma se tu ti lascerai incoronare, loro diventeranno più forti di te. Ahriman è un falso dio, lo dimostra
il fatto che non è riuscito ad annientarmi. Io ti farò conoscere il vero dio. Convoca a te quei sacerdoti.» La principessa annuì. «Io non so nulla in fatto di dèi» disse con voce piatta «comunque quei sacerdoti mi sembrano troppo arroganti.» Avanzò e alzò le braccia macchiate di sangue. «Cessate questa nenia!» esclamò senza esitare. «Io sono la vostra principessa, e ve lo ordino!» I sacerdoti fissarono cinicamente la principessa, e Wan Tengri pizzicò la minugia dell'arco facendola risuonare nella volta del tempio. A quel gesto del guerriero, i ladri percossero gli scudi con l'acciaio delle spade. «È l'ordine della principessa» tuonò Wan Tengri. Un prete dal volto magro si staccò dagli altri e avanzò dicendo: «Qui... qui, gli ordini li dà solo Ahriman. Noi attendiamo le sue parole.» Wan Tengri mosse un passo in avanti, portando subito la mano all'elsa della scimitarra, ma nel medesimo istante le fauci dell'idolo si spalancarono ed una voce cominciò a parlare. Era una voce gracchiante, stranamente artefatta e con toni profondi, ma l'orecchio esperto di Prester John la riconobbe. Celando un sorriso tra la barba, Wan Tengri esclamò: «Sì, lasciamo che sia Ahriman a decidere!» Il giudizio di Ahriman tuonò nel tempio: «La principessa deve regnare! La sua parola è legge! Fuggite, preti della malora, e fate largo alla legittima sovrana di Turgohl!» Le file dei sacerdoti vacillarono in preda al panico e, con un gesto tempestivo, Wan Tengri mandò i suoi ladri contro di loro. A quella vista, gli adoratori di Ahriman ruppero i ranghi e si diedero alla fuga. La principessa avanzò tremando e sussurrò: «Ma questo falso dio parla!» «No» ribatté seccamente Wan Tengri. «È solo Bourtai, il nostro caro maghetto, che sta operando la sua piccola magia.» Poi si volse dinanzi all'altare e ordinò: «Chiamate al tempio il popolo di Turgohl! Chiamate tutti quanti al tempio dove la principessa si incoronerà con le sue stesse mani!» Mentre una cortina d'argento calava davanti al mostruoso simulacro di Ahriman, il guerriero dalle chiome di fuoco e l'esile fanciulla dalle trecce d'oro rimasero ritti sugli scalini dell'altare. «Adesso» esordì sottovoce la principessa «credo proprio che tu possa chiedere la tua ricompensa, mio signore.» Prester John fissò, dall'alto della propria statura, l'abito di seta macchiato di sangue della fanciulla, e il fuoco che ardeva nei suoi occhi grigi. «Sì,
forse è giunto il momento» tuonò. «Ascolta le mie parole, principessa. Con i miei poteri magici, io posso vedere nel futuro. Tu regnerai a lungo e bene, poiché possiedi le doti del comando. Tu sei spietata e forte... eppure la tua pietà di donna risparmierà i deboli. E mi pare anche chiaro che tu intenda mantenere la tua regale parola.» La fanciulla arrossì. «Oh, sì... sì, certamente!» Prester John trasse un respiro lento e profondo, gonfiando il petto a stento trattenuto dalla corazza. Poi, esitando e con uno sguardo circospetto, riprese: «Ora ti chiederò due cose. Quando arriverà il tuo popolo e tu sarai incoronata, riconoscerai Christos come tuo vero dio, dal momento che sei salita al trono grazie a lui.» «E questo Christos è pure il tuo dio, mio signore?» Wan Tengri rise. «Per Ahriman, non potrebbe essere diversamente, dato che mi ha fatto passare incolume attraverso numerose battaglie. Dunque io devo adempiere il mio voto fatto a luì... e cioè che in centomila si sarebbero prostrati in ginocchio riconoscendolo come loro dio.» «Centomila» ripeté la principessa stupita. «Gli abitanti di Turgohl arriveranno a stento alla metà di quella cifra.» «Ah, davvero?» si meravigliò Wan Tengri, celando un sorriso. Forse la cosa sarebbe stata più facile di quanto avesse pensato. «Oh, davvero? Per Ahriman, è una faccenda seria, principessa, perché se un uomo non rispetta i voti fatti agli dèi, gli dèi lo privano della loro protezione. Ah, comunque si può facilmente rimediare. Tu, principessa, mi fornirai una possente galea e delle ricchezze, così io potrò scorrere il mare di Baikul nel nome tuo, e in quello di Christos. In questo modo la tua fama e la tua potenza aumenteranno, ed io potrò adempiere il mio voto.» Era un'ottima scusa, improvvisata sotto l'impulso del momento. La principessa aggrottò lievemente la fronte. «Va bene... comunque mi pare che tu sia eccessivamente ansioso di adempiere questo tuo voto. Non mi sembri un... un uomo devoto!» Prester John sollevò il braccio destro e puntò l'indice verso l'alto. «Nessuno può scherzare impunemente con gli dèi!» tuonò. E convinse quasi anche se stesso. La principessa parve leggermente sgomenta. «Sì... certo, credo che tu abbia ragione, Prester John. Forse mi ero fatta un'opinione errata sul tuo conto.» La gente cominciava a riversarsi attraverso le porte del tempio ammassandosi lungo le pareti dietro le colonne, e fissava quell'uomo e quella
donna macchiati di sangue dinanzi al drappo d'argento di Ahriman; fissava il curioso gruppo di guardie che parevano troppo piccole per le armature che indossavano; fissava l'ometto rugoso che indossava una sontuosa tunica d'oro e se ne stava acquattato ai piedi del guerriero e della principessa. L'ometto allungò un braccio e tirò la manica della tunica fiammeggiante di Wan Tengri. «Sire» sussurrò Bourtai «sire, la gente sta arrivando.» «Sì» rispose Prester John. Poi si piegò verso la principessa fissandola con uno sguardo di fuoco e disse: «Principessa, ti comunicherò il mio terzo desiderio solo dopo che avremo sbrigato questo cerimoniale.» La fanciulla arrossì. «Ah, davvero?» balbettò. «Benissimo, allora.» Si voltò quindi verso la folla e ancor prima che parlasse non vi fu alcun dubbio che ella avesse in mano il potere. Infatti, dinanzi alla fiera arroganza del suo viso, la gente si prostrò in ginocchio. «Molto bene» esordì freddamente la principessa. «Vedo che riconoscete in me la vostra sovrana. Per questo oggi sarò magnanima. Dimenticherò che per diciassette anni voi tutti mi avete lasciato soffrire, vittima di un incantesimo, nella mia torre... finché uno straniero non è giunto a liberarmi. Se desiderate vedere cosa succede a coloro ai quali non concedo la mia pietà... ebbene, guardate la Corte della Fontana Magica!» Un mormorio si levò dalla folla inginocchiata: «Tu sei la nostra sovrana.» Per le orecchie di Wan Tengri quel mormorio non era che una cantilena monotona. Si agitò a disagio, poi vide che dal basso Bourtai lo stava fissando con occhi supplichevoli. Il mago si alzò sulla punta dei piedi e sussurrò: «È davvero incantevole, Wan Tengri, ed è una compagna adatta a te.» Wan Tengri lo fulminò con lo sguardo e non rispose. Aveva sentito l'attrazione del coraggio della fanciulla, e anche del suo corpo sublime. Forse quella donna faceva parte veramente del regno che lui si sarebbe edificato in quelle leggendarie e ricche lande d'oriente. Forse... «Ora alzatevi, miei sudditi» ordinò la principessa. «E inginocchiatevi di nuovo al cospetto del nuovo dio, Christos, che mi ha liberata per mezzo del suo discepolo, Prester John.» La gente obbedì, e la principessa si rivolse con impazienza a Prester John. «Come hai visto, in cinquantamila oggi si sono prostrati dinanzi al tuo Christos... Domani, magari, gli stessi cinquantamila potrebbero ingi-
nocchiarsi di nuovo e...» «No» tuonò Prester John. «Non sarebbe valido. Ho la tua promessa, principessa!» «Sì, certo.» Gli òcchi di lei erano freddi. «Sì... e c'è ancora il terzo desiderio.» «Infatti» annuì Prester John. La principessa si rivolse ai presenti. «Cinquanta uomini rimarranno qui» disse con tono sbrigativo. «Quelli che possiedono galee e schiavi. Non cercate di sottrarvi al mio volere, perché i miei Maghi vi conoscono tutti quanti.» Un gruppo di uomini si fece avanti con passo strascicato, e la sovrana li fissò con una calma espressione di possesso. «La più grande galea del porto dovrà essere attrezzata per Prester John, che è ora primo consigliere e comandante del mio esercito e della mia flotta. La equipaggerete di schiavi e di soldati. E manderete qui cinquanta schiavi affinché portino preziosi su quella galea. Questo è tutto; potete andare.» Poi si voltò verso Prester John, e nella sua voce vi era un tono di monito. «Come vedi, Prester John, io mantengo le mie promesse.» Il guerriero la fissò dall'alto, con gli angoli della bocca tesi in una smorfia arcigna. Una parte di lui desiderava una cosa, un'altra parte desiderava una diversa. E la sua ragione vedeva perfettamente l'intoppo. «Principessa» esordì con voce aspra «io sono un uomo libero e un animo libero, esattamente come lo sei tu. Tu ed io siamo due individui forti.» «Certo, siamo due individui forti» annuì la fanciulla con circospezione. «Ti inginocchieresti dunque dinanzi a me?» domandò rudemente Prester John. «Oh, con piacere, Prester John!» «E per quanto tempo?» Bourtai tirò allora la manica del guerriero, e mormorò: «Attento, sire. Attento a dove poni i piedi! Stai incamminandoti lungo una strada da cui è poi impossibile tornare indietro. Una volta dette certe cose...» Il peso schiacciante della mano del guerriero calò sulla spalla di Bourtai, zittendolo. «Per quanto tempo, principessa?» insisté Prester John. «Tu che sai essere decisa e spietata... tu che sai governare il tuo popolo con pugno di ferro... Per quanto tempo riuisciresti a piegare il tuo ginocchio dinanzi a un uomo?» I denti candidi della principessa spiccarono tra le labbra rosse e carnose,
ma non si trattava certamente di un sorriso. «Credo» disse con voce sommessa «credo che sia giunto il momento di chiedere il tuo terzo desiderio!» Prester John trattenne il respiro per istanti interminabili, quindi rispose caparbio: «Principessa, ti chiedo il permesso di prendere la mia galea e di andarmene.» «Ah!» La mano della fanciulla corse al petto, verso l'elsa del pugnale. «Ah...» «Esattamente» ribadì Prester John. «Tu ed io siamo due individui forti... e tu, mia principessa, sai mantenere le promesse fatte.» Il volto della principessa aveva la bianca freddezza del marmo dell'altare. Le sue narici si dilatarono, ed il candido scintillio dei suoi denti spiccò di nuovo tra le labbra vermiglie. Quando riprese a parlare la sua voce era gelida, ma da quel tono piatto traspariva un'acredine pungente quanto le zanne di un serpe, e Prester John avvertì il tremito di Bourtai accovacciato alle sue spalle. «Fino a dove arriva la portata del mio potere» disse la nuova sovrana «ed entro i confini di Turgohl, io ti ho promesso che avrei esaudito i tuoi desideri. Dunque, hai il mio permesso di andare.» «Con la mia galea, principessa, e con le ricchezze, naturalmente.» «Con la galea e le ricchezze, Prester John.» Prester John si prostrò rigidamente su un ginocchio. «Ora, principessa, faccio qualcosa che non ho mai fatto prima. Mi inginocchio dinanzi ad una donna. Spero che tu serbi il ricordo della mia devozione!» La fanciulla si lasciò sfuggire un grido soffocato, e le nocche della mano che stringeva il pugnale divennero bianche. «Hai il mio permesso di andare!» Prester John si rizzò in piedi e si allontanò, affrettando il passo e ondeggiando leggermente nella cadenza tipica di chi è abituato a marciare. La scimitarra gli batteva sul fianco, producendo un lieve clangore metallico che echeggiava sotto la volta del tempio. Gli occhi del guerriero penetrarono l'oscurità notturna, scorgendo il remoto luccichio delle stelle che si riflettevano sulle acque del Baikul. Al suo fianco, saltellando incessantemente con rapidi movimenti nervosi e gracchiando una serie di proteste, avanzava Bourtai, per metà incollerito e del tutto spaventato. «Sei uno sciocco, Prester John» disse il Mago. «Non arriverai mai alla tua galea, e pure ammettendo che tu vi riesca, non salperai mai da questo porto con le tue ricchezze. Sei uno sciocco, Prester John. E, ahimé... io pu-
re lo sono, dal momento che devo seguirti... se non voglio sentire attorno alla gola la corda di quella principessa bisbetica.» La galea era la più grande che si trovasse all'ormeggio nel porto, e nel buio della notte gli schiavi stavano trasportando a bordo le ricchezze di Prester John. Bourtai rimase ad osservare le operazioni a fianco del guerriero, ora ridacchiando ora tremando, in un susseguirsi di speranza e di paura. «Sire» sussurrò il ladro «forse avevi ragione. Te lo dirò domani, quando saremo al sicuro lontani da qui. La principessa è certamente una creatura dolce e adorabile agli occhi di un uomo, ma il suo animo è d'acciaio. Quella donna ti assoggetterebbe o ti spezzerebbe, sire.» Prester John eruppe in una sonora risata, mentre i suoi occhi correvano alla lontana linea dell'orizzonte del mare di Baikul. «Vedo che godo ancora di un certo prestigio gerarchico ai tuoi occhi, eh, Bourtai? Dunque sono tuttora il tuo sire?» «Certo, adesso e sempre, sire» risposte Bourtai con fervore. Prester John sbuffò e urlò un ordine agli schiavi. L'Ora del Cane era trascorsa, ed ormai mancava pochissimo all'Ora del Bue. Prester John aveva strappato cospicue ricchezze a Turgohl, Kassar era stato vendicato, ed una piccola parte del voto fatto a Christos era stata adempiuta. Toccando il frammento della Vera Croce che portava al collo, il guerriero mormorò: «Sì, centomila, Christos... e anche loro crederanno, come credo io... a costo di tagliare non so quante gole.» Poi si chinò e sussurrò a Bourtai: «Gabberemo questa gelida principessa, scimmiotto. Lei si aspetterà che noi ci fermiamo ad attendere che anche l'ultima inezia, l'ultimo centimetro di seta venga caricato a bordo. Ma sulla nave vi è già una fortuna favolosa. Scendi sottocoperta e metti gli schiavi ai remi. Quando ti darò il segnale, falli partire a tutta forza! Perché, detto tra noi, piccola scimmia, non mi fido eccessivamente della nostra cara principessa. Apri le orecchie, come segnale batterò due volte il piede sul ponte.» Bourtai sgaiattolò sottocoperta e la sua voce stridula arrivò fino a Prester John sul ponte. Il guerriero, agendo con circospezione, fece guizzare due volte la scimitarra mozzando due delle tre gomene che tenevano la galea ormeggiata al molo. La nave tremò leggermente sotto i suoi piedi, ed egli aggrottò la fronte. Strano che una galea di quella stazza dovesse tremare per così poco... Si affrettò verso l'ultima gomena. Una fila di schiavi, curvi sotto il loro carico, stava accostandosi, ma Prester John pensò bene di por
fine ad ulteriori indugi. La spada calò per l'ultima volta, e il suo piede percosse due volte le assi del ponte. A Prester John sembrò di nuovo che la nave tremasse sotto i suoi piedi, stranamente inconsistente, ma forse si trattava della spinta dei remi che sferzavano all'improvviso l'acqua. Forse... Il guerriero si affrettò a raggiungere il timone e, con una poderosa levata di spalle, lo sistemò nell'apposita incavatura. Il bordo dorato del sole si sollevò sopra le colline di Volapoi ed inviò un raggio ad accendere di nuova fiamma la fulva chioma di Prester John. Egli gettò il capo all'indietro e la sua risata echeggiò fino alla volta celeste. Era al largo, finalmente... lontano da Turgohl, con la stiva colma di ricchezze e l'azzurra distesa del mare di fronte. Bourtai lo raggiunse ridacchiando soddisfatto. Per l'ingente carico che portava, quella galea affiorava stranamente alta dal pelo dell'acqua. Sobbalzava ad ogni minima onda, ma filava dritta sulla sua rotta, guidata dalla mano di Prester John che serrava decisa il timone. «Tu mi hai chiamato sciocco, Faccia di Scimmia» disse Prester John con tono canzonatorio. «Ah, sire, mi sono sbagliato sul tuo conto. Tu sei grande quanto la tua magia.» «No» ribatté Prester John. «L'uomo è più grande della sua magia.» E cominciò a canticchiare, mentre il tempo scorreva e si avvicinava l'Ora del Bue, l'ora nella quale il suo giorno di dominio sarebbe terminato. Una distesa di mare azzurro li circondava e le rive di Turgohl si perdevano in una linea quasi impercettibile dietro di loro. Solo la lievissima sporgenza di un'isola, all'orizzonte, spezzava la fusione pressoché perfetta di cielo e mare. «Bourtai, come pensi che io abbia usato il mio unico giorno di dominio?» chiese Prester John. «Quando la sabbia di questa clessidra sarà scesa tutta, questo mio giorno sarà terminato.» «Ah, benissimo, sire! Benissimo!» Bourtai era mollemente sdraiato su un prezioso tappeto steso sul ponte, eppure sembrava ugualmente curvo e inquieto. «Osserverò questi ultimi granelli di sabbia scorrere, e gioirò. Tu sei stato davvero grande!» Prester John avvertì una certa apprensione nel fissare la sabbia scivolare sempre più rapida, o almeno così gli pareva, attraverso la strozzatura centrale della clessidra. E tale apprensione sarebbe rimasta finché anche l'ultimo granello non fosse sceso nell'ampolla inferiore. Abbassando lo sguardo verso Bourtai, egli disse con voce lenta: «La
principessa è stata generosa. E non penso che il nostro possa considerarsi un furto, dato che ci siamo guadagnati quanto ci ha dato. Sei d'accordo, Bourtai?» «Certo! Non si può assolutamente considerarlo un furto, sire» gracchiò il Mago. «E poi, la principessa non ha fatto scomparire col pensiero le cose date! Mi pare questa una prova più che evidente. Sire, gli ultimi granelli di sabbia stanno scorrendo.» Prester John incollò gli occhi alla clessidra, gonfiando il petto. Il suo giorno di dominio era quasi finito, ed era stato un ottimo giorno, ottimo davvero. Era straordinariamente ricco, e soprattutto libero... rimaneva la questione del voto, naturalmente, ma poteva aspettare. Anche gli ultimi granelli scivolarono sotto. La galea si sollevò più pigramente sulle onde, e... Prester John chiuse gli occhi con un senso di sollievo. Il suo giorno di dominio era finito e... Bourtai lanciò un urlo strozzato, facendogli aprire gli occhi. Il guerriero imprecò rabbiosamente e si guardò attorno. Si strofinò le palpebre e guardò una seconda volta. Dov'erano la galea carica di ricchezze, e lo sciacquio dei remi? Dov'erano l'equipaggio di schiavi e l'albero maestro? L'imbarcazione su cui si trovava ora non era altro che una minuscola chiatta piena di fessure, che affondava sempre più nelle acque azzurre trascinata dalle correnti del Baikul! «Christos!» mormorò Prester John. «Adempirò il mio voto!» Bourtai riuscì a malapena a parlare con voce strozzata. «È scomparsa all'improvviso, in un batter d'occhio, come un gioiello. Per Ahriman, la principessa ha fatto sparire i suoi doni col pensiero!» «Cosa?» sussurrò Prester John. «Come hai detto?» «La principessa ha fatto svanire col pensiero le sue ricchezze e la sua galea, come qualsiasi altro Mago di Turgohl, sciocco!» Il guerriero fissò gli occhi avvampanti d'ira di Bourtai, poi gettò il capo all'indietro e scoppiò in una tonante risata. «Cosa diceva la profezia, Bourtai? Che io avrei governato per un solo giorno, dopo di che sarebbe rimasto al potere un solo Mago, vero? Ebbene, quell'unico Mago è... è la nostra piccola principessa! E come sono sottili le sue arti magiche... oh, proprio sottili quanto le tue, Bourtai! Sì, sì, quella principessa fa proprio per te. Per te, ma non per me! Grazie a Christos vi sono leghe di mare tra lei e noi.» «Sei uno sciocco!» ringhiò Bourtai.
«Come... non più sire?» ribatté Prester John sopprimendo a fatica un'altra risata. «Per Ahriman, una specie di barca ci è pur rimasta, piccolo Mago contorto dall'animo di sorcio. Vi è un'isola di fronte a noi, e più in là altre terre e altre ricchezze... ma non altre principesse, speriamo! Per Ahriman, per Mithra e per Christos, ben fatto, cara principessa. Mi levo tanto di elmo!» Portò la mano alla fulva testa, e un'espressione comica gli attraversò il volto. Si accorse allora di essere nudo... aveva indosso solo la scimitarra, l'arco e la faretra... al che scoppiò di nuovo in una risa irrefrenabile. «Per tutti gli dèi» balbettò ansante «ci ha... ci ha lasciato addosso solo la nostra pelle!» Un ghigno amaro apparve sulle labbra di Bourtai. «Sei uno sciocco, Prester John» borbottò il Mago. «Ma sei uno sciocco pieno di allegria e di coraggio... e, per Christos, come dici tu, ci terremo compagnia... sperando che la cosa rallegri te quanto me!» Poi ridacchiò, e quel debole suono stridulo si fuse con la risata tonante di Prester John, mentre i due andavano alla deriva a bordo di una minuscola chiatta sulle acque cerulee del Baikul, verso un'isola colma di promesse che ardeva di riflessi porpora ai raggi del sole. SANGUE DI STREGA (Brak Versus The Sorcerss, 1969) di John William Jakes John William Jakes è nato a Chicago il 31 marzo 1932, e ha debuttato nel campo della fantasy nel 1950 con il racconto The Dreaming Trees. Due anni dopo ha debuttato anche in fantascienza. La sua serie di otto romanzi storici pubblicata dalla Pyramid Books per il Bicentenario degli Stati Uniti ha venduto 11 milioni di copie in tutto il mondo. Nel genere fantasy è noto soprattutto per il ciclo di Brak il Barbaro, iniziato nel 1963 con il racconto Devils in the Walls e proseguito poi con altri racconti e con i romanzi When the Idols Walked (1964) Brak the Barbarian (1968), Brak versus the Sorceress (1969) e Brak versus The Mark of the Demons (1969). Sempre in questo campo, Jakes è anche autore della storia finale del ciclo howardiano di Bran Mak Morn, e del romanzo Mention My Name in Atlantis (1972), spassosa satira delle più recenti deformazioni del personaggio di Conan.
I Il pozzo dell'Uomoverme Quando Brak si svegliò, poco dopo il sorgere del sole, scoprì che durante la notte era accaduto qualcosa di strano. Negli ultimi tre giorni la terra non aveva fatto che inerpicarsi dal piacevole e lussureggiante delta del fiume verso questa regione desolata di ardesia grigia, vegetazione avvizzita e vette aguzze che si scorgevano in lontananza, ma i cui picchi erano nascosti da banchi di nebbia turbinante. Era una landa deserta e sembrava che niente di umano potesse allignarvi, ma rispecchiava esattamente i malinconici pensieri di Brak. Era passato meno di un mese da quella triste sera nel boschetto di fichi, fuori le porte della grande città: là lui era stato costretto, suo malgrado, a separarsi dalla giovane donna dai capelli neri, la bella Rhea. La regina Rhea di Phrixos. Era difficile per l'incolto barbaro del selvaggio nord pensare alla ragazza in termini di titoli ufficiali, di potere: lui l'aveva salvata dalla morte nell'infernale fiume Phrixos, poi l'aveva sottratta a coloro che volevano usurparne il trono con la violenza; nella grande città aveva lavorato come una bestia, per lei, in una cava di granito, piegando la schiena per sei mesi per accumulare i dinshas necessari a pagare i fabbri in cambio di un grande scudo. E quello scudo, su cui era scolpito un disegno simbolico, era stato il suo regalo a Rhea. Con esso lei avrebbe potuto tornare presso la sua gente, che la credeva morta, e convincerla che aveva superato la prova del fiume sacro ed era tornata con un talismano donatole dagli stessi dèi in segno di approvazione. Avrebbe potuto reclamare il trono che le apparteneva, e governare saggiamente... Ma poco c'era mancato che non si lasciassero più: quella sera, nel boschetto, il barbaro aveva scoperto di amarla, e aveva quasi deciso di seguirla nel suo regno. Poi il pensiero della dorata Khurdisan, la sua sospirata meta nel sud, l'aveva trattenuto. E non solo quello: sapeva che una regina non avrebbe mai potuto dividere il trono con un barbaro che era stato scacciato dal suo stesso popolo, nelle steppe del nord. Così si erano dolorosamente separati, e lui aveva cavalcato fino alle colline solitarie, a questa regione desolata e senza vita, dove svegliandosi aveva notato qualcosa di strano e decisamente inspiegabile.
Al tramonto, la sera prima, aveva raggiunto un bivio: una parte della strada conduceva a ovest, serpeggiando fra le rocce, verso alcune basse cime; il viaggiatore che avesse preso quella direzione sarebbe arrivato alle Colonne di Ebon e all'estremità occidentale del mondo conosciuto. L'altra via piegava a sudovest e puntava verso i bastioni avvolti nella nebbia che erano l'inizio delle Montagne di Fumo, limite orientale del mondo e luogo di nascita - così diceva la gente - dei vari dèi che esercitavano il loro potere sui reami grandi e piccoli. E in qualche modo, durante la notte, questa seconda strada era stata cancellata: completamente sommersa, ostruita da un'immane valanga di massi. Alzando lo sguardo, il barbaro vide la parete d'ardesia da cui erano caduti i macigni e gli altri detriti, come a impedire al pellegrino di seguire quella strada. Quando si tolse la pelliccia di lupo che aveva usato per proteggersi dal freddo notturno, Brack ebbe un brivido. Accanto a un grande masso il suo pony sbuffava e scalciava docilmente. Brak gli accarezzò il muso, mormorando qualche parola per calmarlo, poi frugò nella borsa che portava alla vita e ne trasse una manciata di chicchi che diede all'animale affamato. Continuò a fissare quell'incredibile pioggia di roccia. Ora, che lo volesse o no, avrebbe dovuto prendere la strada per l'occidente. Lentamente si passò la lingua sul palato, e strinse gli occhi. I massi erano caduti durante la notte, ma in una terra straniera come questa lui dormiva con un occhio solo. Perché, allora, non aveva sentito alcun rumore? E poi una voce gli riecheggiò nel cervello e una visione spaventosa gli tornò alla memoria. Vide un uomo dal cranio rasato, il naso aquilino, le labbra sottili, il mento estremamente appuntito. Anche le orecchie erano appuntite alle estremità. Aveva occhi grandi, oscuri, quasi tutti pupilla, che lo fissavano, senza lasciare posto al bianco. Non aveva palpebre: evidentemente erano state rimosse con un terribile intervento chirurgico. Ritagli di pelle viva, coperta di cicatrici, si erano incrostati sopra le occhiaie che ospitavano quegli occhi eternamente spalancati... E la pelle di quella faccia era viva. Brulicava... Ogni centimetro di epidermide era coperto di sottili figure umane, nude, intrecciate fra loro e che si contorcevano in positure di eterno tormento. Erano centinaia, ed erano come imprigionate tra gli strati di carne, dove
strisciavano lentamente, si muovevano, agonizzavano in un infinito disegno di corpi, braccia, gambe, torsi... Improvvisamente Brak strizzò gli occhi, schiacciandosi le palpebre, ma questo non fece sparire la visione: era troppo profondamente inculcata nella sua mente. E la voce sepolcrale sembrava beffarlo e sfidarlo: "Io sarò là, barbaro. Io sarò là." Così gli aveva promesso il signore del Male in terra, Septegundus. Il ricordo della carne brulicante di Septegundus aveva infestato i sogni di Brak per molto tempo non sarebbe mai riuscito a dimenticare le sue prime esperienze nel cosiddetto mondo civile, nelle Marche del Ghiaccio, subito dopo essere calato dalle steppe. Il suo popolo l'aveva scacciato perché si era burlato degli dèi della guerra una volta di troppo; così, Brak aveva dovuto andare altrove a cercar fortuna: e quando aveva scoperto i popolosi regni del mondo civile li aveva trovati ben presto sconcertanti. Nelle Marche del Ghiaccio, per esempio, aveva sentito parlare per la prima volta della continua, titanica battaglia fra le due grandi forze soprannaturali che dominano l'universo e di Yob-Haggoth, l'Oscuro, l'essere che si erge sul genere umano come una grande nuvola nera, mettendo continuamente a repentaglio la sopravvivenza dell'onore e di ogni altro giusto sentimento al mondo; almeno, così dicevano i suoi avversari, quegli strani santoni dalla religione segreta che si facevano chiamare Nestoriani. Nelle Marche del Ghiaccio Brak aveva conosciuto uno di loro, fratello Jerome, e aveva sentito parlare dell'eterna battaglia per il dominio della terra combattuta dalle forze del Dio Senza Nome, il cui primo apostolo era stato il beato pastore Nestoriamus, e i poteri di Yob-Haggoth, il cui vicario fra gli uomini era il malvagio stregone Septegundus. Brak ricordava vividamente l'orrore della cerimonia che per poco non si era conclusa col suo sacrificio all'enorme idolo di pietra in rovina che rappresentava Yob-Haggoth: una cosa mostruosa, schiacciata e semiumana, i cui pugni di pietra riposavano sulle cosce incrociate e la cui bocca pendula sembrava maledire tutta l'umanità. Alla base dell'idolo Brak e fratello Jerome erano stati destinati al sacrificio di sangue, in un rito disgustoso officiato da Septegundus e Ariane... Ariane. Bella com'era bella Rhea, giovane, la pelle bianca come panna, la bocca tentatrice come una prugna matura... Aveva offerto se stessa, i suoi poteri e la sua influenza a Brak, ma ne era stata respinta: e nello spaventoso pande-
monio che si era scatenato quando il barbaro e il religioso si erano aperti un varco verso la salvezza combattendo, Brak era riuscito a fare in modo che Ariane si trovasse tra lui e il saettante pugnale magico scagliato da suo padre, lo stregone. Il pugnale era affondato nella schiena della Figlia dell'Inferno, mentre l'idolo mostruoso si disintegrava tra lampi rossi. Brak, fratello Jerome e un vecchio menestrello cieco di nome Tiresia erano fuggiti, e il religioso aveva pregato il grande barbaro di accettare il dono del Dio Senza Nome. Aveva cercato di ficcargli in mano il simbolo divino - una croce di pietra con le braccia di uguale lunghezza - ma Brak, confuso e adirato per i modi del cosiddetto mondo civile, aveva respinto il talismano. E aveva ripreso la strada per il Khurdisan, il remoto paradiso meridionale dove, come gli avevano detto gli sciamani prima che venisse scacciato dalla tribù, le città erano fatte d'oro. In quella occasione si era messo sulla strada di Septegundus e del potere di Yob-Haggoth. Mentre si allontanava dalle Marche del Ghiaccio, la voce spettrale dello stregone scomparso così l'aveva minacciato: "La strada per il Khurdisan è lunga, barbaro. Io sarò là. Io sarò là..." Adesso, guardando l'inspiegabile frana, Brak rabbrividì, chiedendosi se non si trattasse proprio dell'opera di Septegundus. Una valanga silenziosa? Non era naturale. Era impossibile... E tuttavia, forse la sua immaginazione stava lavorando troppo, evocando i demoni della paura; forse aveva dormito più profondamente del solito, anche se ne dubitava: comunque, non c'era modo di stabilirlo. Una nuvola passò davanti al sole, oscurandolo, e il barbaro rabbrividì nuovamente, poi scosse la testa e si avviò verso il cavallo. Avrebbe preso l'unica strada che gli rimaneva: quella occidentale. Masticando un pezzo di carne salata che aveva preso dalla borsa, Brak saltò in sella e partì; la nuvola si allontanò dalla faccia del sole, che prese a brillare di nuovo come un disco metallico. La strada era tortuosa, a serpentina, e la giornata si faceva sempre più calda; gli zoccoli del pony sollevavano nuvole di polvere. Il barbaro non scorgeva anima viva: non vedeva un uomo da tre giorni. Perciò, quando l'urlo lacerò il sussurro del vento, lui sobbalzò violentemente e afferrò l'impugnatura della grande spada che gli pendeva al fianco. «Quella era una voce umana» mormorò al suo cavallo. «O è il vento che si prende gioco di me?»
La bestia obbedì alla pressione del ginocchio di Brak e si arrestò. Col mento piegato in avanti, il barbaro dai capelli gialli si fermò ad ascoltare. Turbini di polvere oscuravano i fianchi delle colline irregolari, dove massi enormi sporgevano con angolature pazzesche. Adesso Brak si era quasi convinto che fosse stato il vento a ingannarlo: non conosceva il nome di quel paese, ma certo non gli piaceva. Voleva andarsene, e spinse di nuovo il cavallo avanti, facendolo procedere ad andatura lenta. Senza dubbio i ricordi che l'avevano ossessionato tutta la mattina - quelli spaventosi di Septegundus e quelli malinconici di Rhea - gli avevano riempito l'immaginazione di fantasmi. Ma, alto e acuto, l'urlo si ripeté ancora. Allora Brak balzò a terra, lasciando il cavallo a una curva della strada rocciosa e mentre si inerpicava verso i massi alti sopra di lui la grande spada scintillò nel sole del mattino. Adesso era sicuro. Quel grido era inconfondibilmente umano, inconfondibilmente femminile. Ed era un grido di terrore. Si mosse rapidamente, in risposta a quell'invocazione. La coda della pelle di leone che gli cingeva i fianchi ondeggiava da una parte all'altra, proprio come la treccia gialla che gli pendeva sulla grande schiena nuda. Brak individuò la provenienza dell'urlo: veniva da un contrafforte d'ardesia piuttosto recente alla sua destra, la cui base era nascosta dai grandi macigni attraverso i quali si stava arrampicando adesso. Si avvicinò all'ultimo spuntone di roccia e si tirò su. Il grido si ripeté una terza volta, disperato, lamentoso: adesso il barbaro non vedeva più alcun possibile sentiero, e rinfoderata la spada fece un grande salto verso l'alto. Le sue dita potenti si aggrapparono alla pietra più elevata, poi cominciò ad arrampicarsi con l'agilità di un animale. Giunto in cima al masso si riparò gli occhi un momento, stagliandosi contro il cielo come una sagoma gigantesca dalle spalle enormi e completamente nuda, salvo per la pelle di leone dalla lunga coda. Per un attimo si chiese se non si fosse imbattutto in un'altra stregoneria. Alla base della scarpata non si vedeva nessuna donna: tutto quello che poteva scorgere era una colonna di roccia, di colore bluastro e attraversata da venature di un minerale scintillante. La colonna era due volte più alta di lui, e il vento e le intemperie antiche quanto il tempo l'avevano modellata in una forma particolare: larga alla base, poi sempre più stretta e di nuovo svasata in cima.
Sulla sommità, a gambe incrociate e con le braccia piegate sul petto magro, sedeva un vecchio. Una tunica grigia grossolana, sbiadita e sbrindellata, gli proteggeva il torace emaciato e le gambe. La faccia si vedeva a malapena: il cranio, le guance e il mento sembravano un unico groviglio di lineamenti pallidi. L'aspetto del vecchio stava per far scoppiare Brak in una sonora risata, ma due particolari lo convinsero al silenzio: uno era l'oggetto che l'uomo teneva appeso al collo. Si trattava di una di quelle strane croci del Dio Senza Nome, le cui braccia orizzontali e quelle verticali erano di lunghezza uguale. L'altra era la faccia stessa dell'uomo. Il vecchio sedeva con la testa reclinata all'indietro, gli occhi chiusi. Le labbra formavano una linea bianca, e lui ondeggiava, in trance, come posseduto da una forza sconosciuta. Scendendo la parete rocciosa Brak mormorò a se stesso: «Che razza di trucco è? Imitare il grido di una ragazza per spaventare i viaggiatori... O forse per attirarli? Sì, ecco la spiegazione. Probabilmente nelle vicinanze si nascondono dei predoni, pronti a balzarmi addosso...» Ma il grido si ripeté ancora una volta, portato dal vento dolce e penetrante. Il barbaro lanciò un'occhiata alla colonna di roccia su cui il vecchio si dimenava avanti e indietro, abbracciando se stesso, perso nei suoi sogni o mistiche visioni. Poi notò un'apertura alla base della parete rocciosa, mezzo nascosta da un mucchio di pietre. Adesso Brak era sicuro che il grido veniva da quella specie di caverna. Superò la colonna a grandi falcate, ma intravide sul terreno un bastone da pastore: se quelli che lo stavano aspettando erano briganti pronti all'imboscata, certo adoperavano armi ben strane. Pronto a impugnare la spada, Brak fece un passo nell'ingresso buio della caverna. Uno strano odore lo avvolse, e la sua bocca si piegò disgustata. Era il fetore della decomposizione, il puzzo nero del fango primevo intento a putrefarsi. E veniva dalle tenebre davanti a lui. Sentì il lamento della donna, continuo e perduto, e poi ci fu un altro suono, il muggito rabbioso di una belva. Nessun verso bestiale era mai sembrato a Brak così tremendo: gli fece rimbombare il cervello e battere il cuore all'impazzata. Per un istante l'istinto di Brak si ribellò: doveva voltarsi e fuggire dalla caverna! Poi davanti a sé udì un fracasso di tuono, e un'eco mostruosa. La terra sotto i suoi piedi tremò debolmente.
Che cosa viveva in quelle tenebre? Che cosa emetteva quei versi agghiaccianti, scuotendo la montagna col suo passo? Adesso gli occhi di Brak si erano abituati all'oscurità, attenuata soltanto dalla fioca luce che veniva dall'ingresso, e lui poté vedere che la caverna descriveva un angolo, digradando verso il basso, e che sembrava finire non molto più avanti. Con una mano premuta contro la parete umida e l'altra stretta intorno all'impugnatura della spada, il barbaro proseguì. Il verso animalesco si ripeté: sembrava venire dalle tenebre dove il pavimento del budello terminava. C'era forse un abisso? Da parecchi secondi Brak non udiva più i lamenti della donna in pericolo, ma tutt'a un tratto, quando si fu avvicinato al bordo dell'abisso sentì un altro grido disperato. Si mise a pancia in giù, strisciò fino all'orlo e guardò nel buio. Molto più in basso brillavano due grandi luci rosse. Occhi? Occhi così enormi? E a che razza di creatura appartenevano? Certo a qualcosa di completamente diverso da tutto ciò che Brak aveva incontrato finora. Più vicino vide la donna. Per l'esattezza si trattava di una ragazza, appena un po' più giovane di lui. Accanto a sé il barbaro notò un rozzo sandalo dalla fibbia spaccata: chiunque fosse, la ragazza era scivolata in quel nero pozzo atterrando su uno stretto costone di roccia a cui si aggrappava disperatamente, figura indistinta ma visibile grazie al candore della veste e del volto. Non aveva visto Brak: guardava in basso, verso la caverna dove luccicavano gli enormi occhi rossi. «Ragazza!» la chiamò Brak dolcemente, per non spaventarla. «Ragazza, guarda quassù! Credo di poterti raggiungere.» La faccia di lei si levò e Brak sentì un sospiro, ma anche un rovinìo di pietre mentre un piede nudo le scivolava nel vuoto. I sassi impiegarono vari secondi a colpire il fondo della caverna, poi mandarono un'eco spiacevole. La ragazza intanto aveva ripreso a fissare la cosa nelle tenebre che apriva e chiudeva gli occhi rossi. Poi ci fu un ruggito, e la terra tremò quando il mostro si mosse. Lo stomaco di Brak si rimescolò dal terrore: l'odore di morte e corruzione salì come una vampa dal fondo del pozzo. «Dammi una mano» disse Brak. «Sei troppo lontano!» rispose la ragazza. «Ho paura di cadere.» «Non c'è altro modo. Tienti salda con una mano e cerca di darmi l'altra.»
Lei esitò solo un momento, poi tese la destra. Brak si puntellò con le gambe potenti, irrigidì il petto contro il bordo del pozzo e allungò la mano destra verso il basso. La ragazza singhiozzò. Per quanto si sforzassero, le due mani restavano sempre divise dalla lunghezza di un manico di spada. «Alzati sulla punta dei piedi» grugnì Brak nello sforzo di raggiungerla. «Ancora un poco...» Lei strinse la sinistra ancora più strettamente intorno allo spuntone di roccia a cui si era aggrappata, e il barbaro tese i muscoli delle gambe fino allo spasimo, sforzandosi di avanzare di un altro centimetro, finché sporse di tutto il torso oltre l'orlo del baratro. Solo la forza delle gambe e la violenza con cui stringeva, con la sinistra, una sporgenza rocciosa gli impedivano di precipitare. La lunga treccia gialla pendeva dal collo sudato, facendogli un insopportabile solletico. Intanto i rossi occhi soprannaturali, grandi come lune d'estate, si erano spalancati di nuovo, e guardavano, guardavano dall'abisso nero da cui veniva il lezzo infernale. Da quel pozzo usciva qualcosa di più che un semplice puzzo: era una sostanza maligna, senza nome ma palpabile, come una nube. La faccia di Brak si contrasse in una smorfia, perché finalmente la distanza che separava le due mani si stava accorciando. I sassi più aguzzi gli martoriavano il ventre, le cosce, come piccoli strali dolorosi; anche le spalle gli facevano male. E proprio allora la ragazza, tendendosi per raggiungere il suo braccio, perse l'equilibrio. Mandò un grido e precipitò, ma il barbaro si buttò in avanti con tutto il corpo e la trattenne per le dita. Il peso torceva il braccio dell'uomo. «Tienti forte» ansimò. «Tienti forte ancora un momento...» Adesso la teneva bene, era riuscito a passarle le dita intorno al fragile polso. Quello che restava da fare era tirarla su. Pregò di avere la forza necessaria. La ragazza penzolava nel vuoto sopra il costone di roccia. Brak sapeva che le stava facendo male. Lentamente irrigidì i muscoli del braccio e cominciò a sollevarla di pura forza. Gli si appannarono gli occhi. Si morse le labbra finché assaggiò il suo stesso sangue salato. Più in alto. Un poco più in alto... Improvvisamente la sporgenza a cui si era tenuto aggrappato con la sinistra cedette, smossa dalla stessa forza del barbaro. Brak si irrigidì nello
sforzo di non cadere nel pozzo, ma il polso della ragazza gli scivolò tra le dita. Per un istante infinito il barbaro dai capelli gialli seppe che la morte era sopra di lui, e naturalmente sulla ragazza. Nel cuore tenebroso della terra, dove gli occhi rossi guardavano, si udì un altro ruggito: un urlo di benvenuto per le vittime. Anche il mostro sapeva che la morte era vicina. Poi, come se un fiume sconosciuto di energia fosse corso nel grande corpo, l'avesse attraversato e fatto schiumare di nuova forza, il braccio destro di Brak cominciò a tremare e a pulsare. Era potente, così potente da essere quasi doloroso. Con un gemito Brak strinse la mano saldamente intorno alla pelle della ragazza e tirò verso di sé, levandosi in ginocchio. Il sangue gli pulsava nelle tempie, gli occhi vedevano solo macchie confuse. Ma il braccio destro possedeva una forza che poteva superare qualunque ostacolo, una forza che, si rese conto a malapena, non gli apparteneva. La testa della ragazza apparve sull'orlo del pozzo. Brak si arrischiò ad abbandonare il debole appiglio cui si teneva con la sinistra e prese la ragazza alla vita, dando un ultimo strattone. Caddero l'uno sull'altra, ansimando, alla ricerca d'aria. Un istante dopo il barbaro si alzò: quello strano dolore pulsante al braccio destro lo stava abbandonando. Restava solo un lieve pizzicore, come se tante punte di coltello gli pungessero la carne. Infine anche quella sensazione svanì. Anche la ragazza si era rialzata: diede un'occhiata al baratro nero che si apriva solo a un passo da lei, poi girò il volto verso il suo soccorritore. Nell'oscurità della caverna Brak poté a stento rendersi conto che era carina. Aveva un volto ovale, una bocca larga e dolce, e grandi occhi scuri. I capelli castani, ovviamente spettinati, le ricadevano sulle spalle. Nonostante l'esilità giovanile, sotto la veste bianca di lana fermata da una cinghia di cuoio si intravvedeva il corpo della donna fatta. Il viso di lei esprimeva stupore. «Stavo per cadere... Per cadere verso quella... cosa, là sotto. Stavamo per cadere tutti e due, eppure adesso sono qui, salva come te.» Un sorriso malizioso aleggiò sulla bocca del barbaro. «Ragazza, sono sorpreso anch'io. Il mio braccio è piuttosto forte, ma non fino a quel punto!» «Allora come hai potuto farcela?» «Non lo so.»
Una lucertola sporse la testa scagliosa da una nicchia nella parete di roccia. Lanciò un'occhiata intorno, poi si ritirò. Il fetore che saliva dal pozzo rivoltò ancora lo stomaco del barbaro. C'erano troppi misteri in quell'incredibile buco nella terra, per i suoi gusti. E non ultimo, il mistero della forza che gli era affluita nel braccio nel momento critico. Prese la mano della ragazza: «Comunque adesso siamo liberi. Andiamo a parlare alla luce del sole.» Uscirono insieme dalla caverna, correndo. Quando la ragazza si rese conto della grandezza di Brak, spalancò gli occhi: un torace simile, e lineamenti così selvaggi, non li aveva mai visti. La treccia gialla e la pelle di leone che gli cingeva i fianchi ondeggiavano al vento. Il respiro della ragazza si fece più regolare, ma lei si mantenne vicina alla parete di roccia: per timidezza, o forse per paura. «Mi chiamo Brak. Stavo seguendo la mia strada quando ti ho sentita gridare.» «Dall'aspetto si direbbe che tu venga da molto lontano.» «Le alte steppe del nord. Le terre selvagge. Miglia e miglia da qui... Ma sono diretto a sud. E tu, chi sei? Come hai fatto a cadere in quel buco? Penso che conduca diritto all'inferno.» «No, porta solo alla tana dell'Uomoverme.» Brak sentì un brivido lungo la spina dorsale: «L'Uomoverme?» «Così lo chiamano in questo paese. E nessuno è mai tornato indietro per descriverlo.» «Qualcosa che è sopravvissuto dall'inizio del tempo» mormorò Brak. «Comunque, ha proprio l'odore di una cosa vecchia.» «Non sono andata là dentro per curiosità» disse la ragazza. I suoi sguardi e le parole si facevano sempre più nervosi, come se la mascolinità di Brak l'atterrisse. Raccolse il bastone da pastore, che evidentemente le apparteneva, e continuò: «Mi chiamo Elinor. Vivo lassù, su quelle alture.» Indicò i picchi circostanti. «Sono cresciuta con mio padre che allevava pecore, proprio come faccio io adesso che lui è morto. Ogni sei lune le vado a vendere al mercato, giù al bivio.» «Una vita solitaria, per una ragazza così giovane.» «Ma è la sola che conosco. E deve essere meglio che vivere in mezzo alla gente, se i racconti che sento al mercato sono veri. Comunque stamattina una femmina mi è scappata, e io l'ho seguita giù per la montagna. È entrata nella caverna e quando l'ho seguita là dentro è caduta nel pozzo dell'Uomoverme. Mi si è rotto un sandalo e così sono caduta anch'io; in qualche
modo sono finita su quel piccolo cornicione: ero così spaventata che ho cominciato a urlare, e... Adesso ringrazio gli dèi di averlo fatto.» Diede un'occhiata timida al gigante davanti a sé. Era arrossita, come se parlando a quel modo avesse peccato d'immodestia. «Questo paese sembra pieno di cose strane» disse Brak. «Come segno di riconoscenza, Elinor, vuoi dirmi qualcosa di più sull'Uomoverme? E magari su quel vecchio lassù, in cima alla colonna?» Brak si fece scudo agli occhi. «È sempre addormentato, o così sembra.» Gli occhi di Elinor ruotarono. «Addormentato, o... in viaggio verso qualche luogo ignoto.» «In viaggio?» «Si chiama Ambrosio lo Stilita. Adora un dio molto particolare, che secondo lui domina tutti i regni della terra. Ma chi ha mai sentito di un dio capace di oltrepassare i confini del suo paese?» Brak non disse niente, e lei continuò: «Così lui siede lassù, giorno dopo giorno, e sogna. Un cliente, al mercato, mi ha detto una volta che Ambrosio ha certi strani poteri. Che può mandare la sua mente in viaggio: dove, non lo so; forse nel mondo delle visioni.» Brak si raddrizzò, usando la coda di leone per pulirsi il sangue dalla pancia, dove le pietre aguzze avevano bucato la pelle color mogano. Disse: «Quanto a me, sono partito poco tempo fa per cercar fortuna nei climi caldi del Khurdisan, nel lontano sud. Mi limito a seguire la strada, e questa volta sembra che mi abbia portato in un posto veramente poco raccomandabile.» Divertito dal nervosismo della bella pastora, il barbaro rise. «Ma è stata certo la buona sorte a farmi passare proprio di qui, oggi.» Fece un passo verso di lei, col solo intento di mostrarsi amichevole, ma Elinor la prese diversamente: forse pensò che lui venisse a esigere il suo compenso in natura, e in qualche modo Brak se ne rese conto. Ma era comunque troppo tardi: lei brandì il bastone. «Ti ringrazio per la prodezza di avermi salvato la vita, e dirò una preghiera nella mia caverna perché gli dèi ti concedano un viaggio tranquillo. Ma adesso devo andarmene: ci sono i lupi, ai piedi delle colline, e il gregge è incustodito.» «Aspetta!» «No, devo andare.» «Dimmi almeno dove posso trovare una locanda...» «Grazie ancora, Brak, grazie ancora.» Le parole della pastora vennero portate dal vento mentre lei scompariva
dietro l'angolo alla base della roccia. Momentaneamente adirato, Brak le corse dietro: la vide scappare, svelta e agile, sul fianco della collina, dove macchie di foglie verde scuro proiettavano sulla pietra ombre perlacee. La ragazza volava come una freccia, e col vantaggio che aveva acquistato Brake non l'avrebbe raggiunta mai. Borbottando una maledizione sulla volubilità delle donne, lui si guardò intorno: si sentiva osservato. Ambrosio lo Stilita si agitava come al solito in cima al sottile fuso di pietra, ma oltre la colonna Brak vide un movimento veloce e un lampo, come se qualcuno avesse ritirato all'improvviso un elmo d'ottone mettendosi al riparo della montagna. Osservatori invisibili? Un altro enigma! E Brak ne aveva abbastanza, per quel giorno. Estrasse la grande spada e si precipitò verso la piccola altura. Salendo verso le rocce scoprì una piccola gola: era sicuro che l'osservatore, o gli osservatori, si fossero nascosti qui. Ma adesso la gola era deserta. Brak si inginocchiò e fece passare un grosso dito sulla dura superficie del terreno: non c'erano tracce di impronte umane. Rimase ad ascoltare. Il vento gemeva, e al di sopra di quel suono Ambrosio lo Stilita emise un lamento, poi un grido acuto, doloroso. Fu il grido a far decidere Brak: probabilmente la cosa migliore da fare era svegliare il vecchio e farsi dare le risposte che cercava sui misteri di quello strano paese; non che intendesse restare ancora per molto nei suoi confini, ma la curiosità era troppo forte. Scendendo giù per la gola, Brak arrivò a convincersi che il misterioso osservatore se lo era immaginato lui. Senza dubbio il lampo di luce era stato il riflesso del sole che si faceva strada tra le nubi per un momento; da quando Septegundus gli aveva fatto la sua macabra promessa ("Io sarò là") il barbaro era stato turbato da tutta una serie di fantasticherie senza fondamento. Perciò, stringendo la grande spada, si incamminò deciso alla base della colonna. Ambrosio era sveglio, e guardò Brak con un'espressione stupita dipinta negli occhi color dell'ambra. Gli occhi sembravano stranamente giovani, splendenti, in contrasto con la faccia incartapecorita. «Finalmente ti sei svegliato» disse Brak. Il vecchio toccò la croce di pietra che gli pendeva dal collo, attaccata a un laccio. «Un poco, un poco.» «Abbastanza per capire quello che dico?»
«Talvolta dormire è come essere svegli. Talvolta no.» «Qualunque cosa tu voglia dire, vecchio, sappi che il mio nome è Brak. Sono uno straniero, e sto attraversando questo paese. Mentre tu ti facevi un sonnellino, avrei potuto aver bisogno del tuo aiuto. Una ragazza era caduta nel pozzo della caverna, laggiù.» Gli occhi dell'eremita si rischiararono, puntandosi acutamente sull'uomo nerboruto che stava sotto di lui. «Certo, era la pastora delle colline. Si chiama Elinor, e andava in cerca di una femmina smarrita.» «Per uno che sta sempre con gli occhi chiusi, direi che hai visto abbastanza.» I grandi occhi d'ambra si velarono. «Non interrogare troppo la tua buona sorte, barbaro.» «Che buona sorte?» «Non importa. Non c'è nessun'altra donna, nella regione, che avrebbe potuto finire nella caverna per caso; da queste parti non vive nessuno, tranne Elinor. E poiché la ragazza nella caverna era Elinor, non poteva che esserci andata per inseguire una delle sue pecore. Il fatto che tu l'abbia salvata con la forza delle tue grandi braccia - lo Stilita strinse le labbra, come per contenere un'ilarità di cui solo lui conosceva il motivo - è pure evidente, dal momento che lei non è qui, e tu sei perfettamente calmo. Non ti comporteresti così, se lei fosse morta o caduta nella tana dell'Uomoverme.» Quel nome fece dimenticare a Brak la prossima domanda, e cioè come faceva il vecchio a sapere che Elinor stava inseguendo proprio una femmina. «L'Uomoverme» ripeté. «Che cos'è, vecchio? Un serpente?» Ambrosio annuì. «In parte. Ma il suo cervello è molto più acuto; è un mostro enorme, coperto di fango, l'ultimo della sua razza. Vive in quella caverna da secoli e secoli, nessuno può dire da quanto. Qualcuno dice che è stato creato dall'Oscuro.» «Yob-Haggoth» disse Brak. Gli occhi d'ambra fiammeggiarono: «Ne hai sentito parlare?» «Conosco soltanto il nome» si schermì il barbaro. «gli dèi non m'interessano.» Ambrosio rifletté un momento, poi disse: «L'Uomoverme è una delle ragioni per cui questa terra è maledetta.» Prima che Brak potesse replicare, gli occhi del vecchio divennero ancora più grandi e la sua mano nodosa strinse la croce di pietra. «Prendi il tuo cavallo, barbaro, montaci sopra e non guardarti indietro. Corri a sud, come
avevi programmato: questo è un luogo del male, e adesso è il tempo del male. Di tutte le grotte e i buchi della terra, l'Uomoverme ha scelto questo e là urla e scuote la roccia coi suoi contorcimenti. Questa è la terra dove l'assassinio di Celso, l'alchimista, ha scatenato la rovina, nonché la furia di Faucirosse. Temo l'accrescersi dei poteri di Yob-Haggoth: corri, barbaro, fuggi da questa dannazione.» Quel momento rimase impresso per sempre nella mente di Brak: il vecchio assiso sul suo trono aghiforme sembrava fragile e indifeso, ma non così i suoi occhi luminosi color ambra. Quegli occhi sembravano toccare Brak, attraversarlo e estendersi nell'infinito, abbracciando tutto il corso del tempo e le sue maledizioni oscure che il barbaro non poteva nemmeno capire. Si sentì intimorito, sospettoso di Ambrosio e delle sue troppo facili spiegazioni. L'anacoreta sapeva troppo di lui: che aveva un cavallo, che era diretto al Khurdisan, nel sud... Qual era la vera natura della sua chiaroveggenza? E di colpo Brak si chiese se l'improvvisa, inspiegabile forza che era corsa nel suo braccio destro non fosse collegata in qualche modo ai poteri del vecchio. Era stata una grazia del Dio Senza Nome? Ma il barbaro non credeva a questo tipo di miracoli. Pure, una forza che non era la sua era entrata nel braccio di Brak: ma di dove fosse venuta rimaneva un mistero. Forse la mente di Ambrosio aveva in qualche modo... Era tutto maledettamente confuso, e Brak scosse la testa. Avvertiva ancora un lieve formicolio lungo la spina dorsale, ma non di paura: di timore reverenziale. «Non capisca niente di ciò che dici» grugnì rivolto al vecchio, in un tono di mezza sfida. «Meglio così» rispose Ambrosio, anche lui col tono lievemente alterato. «Non ti ho ammonito abbastanza?» «Vecchio, non sono un bambino. Ho combattuto per difendere la mia vita centinaia di volte, e se i venti della malasorte soffiano contro di me, voglio almeno sapere da quale parte del cielo vengono.» Lo Stilita sorrise debolmente: «Venti? Cielo? È strano che tu parli di queste cose... Perché in effetti, fra non molti giorni, in questa terra si alzeranno i venti, e soffieranno e urleranno come in nessun'altra regione del mondo civile, incluso il Khurdisan. Dicono che sarà lei a evocare i venti, e che i venti saranno parte della sua magia.»
Furioso, Brak pestò un piede per terra. «Dannazione ai tuoi indovinelli! Chi evocherà i venti? La pastora? E chi o che cosa è Faucirosse, di cui cianciavi qualche momento fa? Hai anche detto che un tale di nome Celso è stato assassinato: adesso fai l'uomo civile, vecchio, e spiegami tutto, o prenderò questa spada e...» In quell'istante le urla mortali del suo cavallo riecheggiarono tra le colline rocciose, e la furia che si era impadronita di Brak svanì all'istante. Le guance gli si fecero pallide ed egli si precipitò giù da dove era venuto con la spada sfoderata, scintillante nella mano gigantesca. Sbucando sulla strada Brak lanciò una maledizione, poi restò a guardare, sbalordito. Al centro della via a serpentina giacevano i resti del pony, con le ossa e le interiora affogate nel loro stesso sangue. Dove bagnava la terra, il sangue sembrava nero. In distanza Brak avvertì un tintinnio, uno strepito di bronzo. Corse oltre la curva e vide un cocchio d'ottone trainato a tutta velocità da cavalli neri e ormai già quasi fuori vista. Si lasciavano dietro un lezzo ancora più nauseante di quello che aveva sentito nella tana dell'Uomoverme. L'odore ricordava quello caldo e peloso che emettono i cani da traino, ma era molto più intenso, e mischiato all'aroma del sangue. Brak sapeva che un cane - o qualcosa che gli assomigliava - aveva fatto a pezzi il suo cavallo; ma che razza di cane poteva ammazzare in quel modo un animale tre volte più grande di lui? Nessuna bestia normale avrebbe potuto farlo. A meno che - e Brak rabbrividì, mentre l'odio gli faceva ribollire il sangue - il cane, proprio come l'odore che si lasciava dietro, non fosse di proporzioni abnormi. Il fetore era intossicante, e penetrò nel cervello di Brak. Il cocchio in tanto era scomparso, tra una nuvola di polvere, oltre la prossima curva. Il barbaro allora si arrampicò di nuovo su per il fianco della collina: «Vecchio! Vecchio! È passato un carro, e qualche belva...» Ma sotto la colonna scanalata dal tempo Brak si fermò, e le sue spalle ebbero un tremito. Ancora una volta, un presagio di malefici incombenti gli riempì il cuore. Ambrosio lo Stilita aveva chiuso gli occhi e aveva ripreso ad agitarsi debolmente e a cantare tra sé. Il barbaro gridò un paio di volte, ma senza risultato, e l'eco delle urla si perse tra le rocce d'ardesia. Il sole scivolò dietro una nuvola e l'oscurità prese il sopravvento sul giorno.
II La belva del caravanserraglio Dopo aver rinunciato a svegliare il santone assopito, Brak rinfoderò lo spadone. Si appese il fodero a tracolla e s'incamminò per la strada a serpentina nella direzione presa dal cocchio: era la stessa via che stava percorrendo lui, prima di sentire il grido di Elinor. Ben presto arrivò ad un incrocio: il carro di un contadino, trascinato da buoi, arrancava nella sua direzione. Il contadino guardò Brak con notevole sospetto, ma lo informò che proseguendo per quella via e girando sulla destra sarebbe arrivato a un altro incrocio. Lì avrebbe trovato un caravanserraglio. «Di questi tempi il posto non è molto affollato» disse il contadino. «I mercanti delle isole nel Mare di Cham non mandano più i loro carri, come facevano un anno fa: le parole viaggiano veloci, quando il tempo del male si avvicina.» «Che cosa minaccia la tua terra, contadino?» «Nulla di cui voglia discutere con uno straniero. Una lingua troppo sciolta può attirare gli spiriti maligni. Buona giornata.» Il contadino incitò le beste e il carro si allontanò. Stupito, Brak proseguì per la sua via: la nuova strada sembrava più frequentata di quella che serpeggiava fra le colline, almeno a giudicare dalle tracce, e seguendola Brak sbucò in un'ampia valle dove l'aria era tanto limpida da permettergli di vedere le cime delle montagne circostanti incapucciate di nubi. Qua e là si scorgeva un casolare solitario: una donna in un frutteto vide il barbaro e fece un segno contro il malocchio. Quando si accorse che Brak si dirigeva dalla sua parte a grandi falcate, gli voltò la schiena. I campi sembravano poveri: forse, quando avesse raggiunto il caravanserraglio, avrebbe appreso quale malattia affliggeva la terra, perché dopo la fredda risposta del contadino Brak aveva deciso di non fare altre domande ai braccianti che si scorgevano nei campi. Adesso le nuvole opprimenti si erano un poco diradate, e quando Brak arrivò all'incrocio successivo il sole si avviava al tramonto, rosso e dilatato. Come il contadino gli aveva promesso, una serie di carri era parcheggiata nella stazione carovaniera. Gli edifici erano sconquassati, e una fila di asini infestati dalle zecche sostava nel cortile, ammorbato dall'odore pesante del letame. I guidatori
della carovana degli asini, meridionali dalle barbe ricce e con orecchini d'oro alle orecchie, occupavano un unico tavolo all'interno dell'edificio principale, il posto di ristoro. Sorseggiavano un vino aspro e discutevano fra loro con voci acute, e ogni tanto indirizzavano a Brak un'occhiata poco amichevole. «Basterà questo per un pezzo di carne, una bottiglia e un alloggio per la notte?» chiese Brak allo smilzo albergatore, traendo di tasca uno degli ultimi dinshas e lanciandolo sul banco. La moneta tintinnò nel silenzio. «Ti ci potrai comprare mezza locanda, straniero, perché diventa sempre più vuota, notte dopo notte. Hai portato il tuo cavallo nel recinto? Ci baderemo noi.» «Ci ho già pensato da solo. Ho seppellito quello che ne rimaneva lungo la strada, un bel pezzo prima di arrivare qui.» L'albergatore guardò il barbaro con curiosità: «Tu devi essere uno che passa qui per caso, non per sua scelta. E chissà da dove vieni.» «Dalle steppe del nord.» Brak accettò la fiasca di vino che l'altro gli passò: era fatta di pelle di capra. Bevve un sorso lungo e profondo, poi si pulì la bocca con l'avambraccio, aggiungendo: «Non è un paese prospero il vostro.» «Già. Una volta, non più di dodici mesi fa, era una terra dolce e fruttifera; oh, non la più ricca terra del mondo, questo no, a giudicare da quel che dicono i mercanti, perché questo primato spetta a Khurdisan nell'estremo sud; ma ce la passavamo dignitosamente, e ne eravamo orgogliosi. Poi tutto è cambiato.» Le folte sopracciglia di Brak si aggrottarono: «Che cosa è accaduto? Forse il potere è passato nelle mani di un tiranno?» «No, il nostro signore è sempre lo stesso, Strann delle Bilance d'Argento.» «Strano nome.» «Lo chiamano così perché ha una grande abilità nel risolvere velocemente ogni disputa, e mantiene la pace grazie alla sua tolleranza e saggezza. Ma adesso si sta facendo vecchio, l'esercito è piccolo, e i pochi soldati ai suoi ordini sono inermi.» «Perché inermi, albergatore? Che cosa ha colpito la vostra terra come una malattia?» «Il terrore» rispose il padrone della locanda. «Il terrore di cose ignote e spaventose.» Brak carezzò lo spadone che aveva appoggiato su un rozzo tavolo vicino
al banco. «Mi sono imbattuto in pochi terrori che questa non potesse mettere in fuga.» "E quelle eccezioni erano i poteri di Septegundus e di sua figlia", aggiunse silenziosamente a se stesso. L'albergatore sospirò: era un sospiro di tristezza, ma anche di rassegnazione. «Prova, prova pure a usare il ferro contro un fantasma, contro una strega. Prova a trapassare con la tua lama un animale con gli occhi grandi come...» Mentre Brak aggrottava la fronte, l'uomo si riprese e scosse la testa: «Ah, è inutile tentare di spiegare l'inspiegabile. Non sono un mago, non so niente della magia, e personalmente non me ne importa affatto.» «Magia? Che magia?» «Quella che ha rovinato le nostre terre, e che rovinerà il nostro futuro» rispose l'altro con voce cupa. «Ma l'esercito di cui mi hai parlato...» «Sicuro, l'esercito di Strann. E allora?» «È la magia che lo rende inerme? Ed è la magia che vi ha ridotti tutti così?» Per far vedere quel che pensava di una simile idea, Brak fece una smorfia d'impazienza. L'albergatore guardò allora, allarmato, nell'ombra di un angolo coperto di ragnatele, come se temesse una minaccia che si celeva laggiù. «Faresti meglio a non burlarti delle cose che non capisci, straniero.» «Ma almeno spiegami...» «Altre faccende mi aspettano» tagliò corto il suo interlocutore. E benché i carovanieri barbuti che confabulavano al loro tavolo sotto una delle finestre piombate non l'avessero affatto chiamato, il locandiere li raggiunse unendosi al coro di ciance. Brak si legò la fiasca all'avambraccio e sedette al suo tavolo, a disagio. Non era troppo abituato a trovarsi in un luogo coperto, e la limitatezza dello spazio chiuso era estranea alla sua natura, al modo di vivere che aveva conosciuto nelle steppe prima di essere costretto a fuggire verso terre più popolose. Mentre il crepuscolo cedeva il posto alla sera, il barbaro bevve, rimuginando sulle misteriose parole del locandiere, e più ci rifletteva più la reticenza dell'altro lo innervosiva. Aveva già deciso di partire alla carica con un nuovo interrogatorio quando un tintinnare di armi e di scudi nel cortile esterno attirò la sua attenzione. Una pattuglia di soldati aveva varcato la porta della carovaniera: erano
circa due dozzine di uomini dall'aspetto avvilito e sconfortato. Il comandante era un individuo alto, solido, con la barba nera. Il suo vestiario era in condizioni un poco migliori di quello dei suoi uomini. Ordinò ai soldati di smontare da cavallo, al che mormorii di scontento e lamentele varie giunsero alle orecchie di Brak attraverso la finestra aperta accanto a cui stava seduto. Il locandiere si precipitò all'esterno. «Benvenuto, mastro Iskander.» «Dormiremo al riparo della tua palizzata, stanotte» replicò il comandante. «Procura una razione di vino per tutti gli uomini.» «Subito. Siete riusciti a trovare i disertori?» «No. È come se fossero scomparsi. Devono essere corsi al castello per offrire i loro servigi a lei, suppongo.» L'uomo sputò, poi si tolse l'elmo crestato. «E quanto ai galantuomini che sono con me, hanno minacciato di ammutinarsi se li avessi costretti a continuare la marcia. Così siamo arrivati a un compromesso, e passeremo qui la notte. Ancora un po' di diserzioni e Strann si troverà senza nemmeno un soldato.» Così dicendo Iskander scosse la testa con disapprovazione e si ritirò in un angolo nel cortile. Lì si sistemò in attesa del vino. Dopo averne tracannato un sorso abbondante chiuse gli occhi; sembrava che dormisse. Brak osservava i soldati che parlavano fra loro. Nei suoi viaggi aveva visto molti eserciti al servizio di altrettanti monarchi e potentati, ma non gli era mai capitato di imbattersi in uomini demoralizzati come quelli. Mentre il buio si infittiva, i militari sembravano volersi stringere sempre più vicini, e tenevano le armi a portata di mano. Finita la fiasca di vino Brak si alzò: aveva intenzione di andare fuori e parlare coi soldati, ma aveva appena raggiunto la porta che i cavalli di quella gente, legati fuori vista, cominciarono a scalciare e nitrire. Immediatamente il comandante balzò in piedi, estraendo la spada: da qualche parte si udì un tremendo fracasso di legname spaccato, e subito dopo uno dei cavalli piombò nel cortile come se si fosse liberato dei legacci a viva forza e avesse sfondato la parete della stalla. Iskander fece un balzo, togliendosi dalla traiettoria dell'animale ma fu quasi travolto quando la bestia si precipitò fuori dal cancello del caravanserraglio, la criniera al vento, gli occhi grandi e bianchi come lune. Poi si udì un rumore di ruote che stridevano nelle tenebre, e due luci rossastre illuminarono il sudiciume del cortile: erano i fuochi di un paio di torce montate agli angoli di un cocchio. Il carro si fermò davanti alla porta, e gli intestini di Brak si contrassero.
Scalciando e sbuffando, i due purissimi cavalli neri del cocchio si agitavano senza requie, calpestando le proprie orme. Molti soldati erano corsi intanto alle stalle per calmare gli animali atterriti, e gli altri si erano raggruppati presso il muro di cinta del cortile, aspettando. I capelli neri di Iskander brillavano alla luce delle torce: anche lui aspettava. Molti inservienti della stazione carovaniera affollarono la porta alle spalle di Brak; il grande barbaro guardò gli occupanti del cocchio alla luce delle torce. La prima era una giovane donna, slanciata e alta, che indossava una lussuosa tunica verde-mare. Dietro di lei, e ancora più alto, si vedeva un uomo dall'aspetto cadaverico, con un copricapo di tessuto d'argento e un mantello scuro fornito di cappuccio. Il bordo del mantello era ornato da una trama d'argento con i simboli dei vari elementi naturali: terra, aria, acqua e fuoco. Brak ricordò di aver visto un mantello simile in una piazza di mercato, al nord, e che l'uomo che la indossava apparteneva al culto dei Maghi: gente che praticava riti occulti nelle calde terre del sud, presso i confini del Khurdisan. Questo Mago ostentava una certa superiorità, come se fosse compiaciuto della propria altezza e dei lineamenti bruciati dal sole, culminanti in un formidabile naso a rostro. E tuttavia il rapporto tra i due era chiaro: il Mago non era che il seguito, mentre chi comandava era la giovane donna. Alla luce delle torce i capelli della ragazza brillavano come un filone di rame appena scoperto; aveva zigomi alti, aristocratici, e le labbra erano piene e rosse. Sembrava un tipo autoritario, anche se conservava tutta la sua grazia femminile. Gli occhi color giada, leggermente rivolti all'insù, non si fermavano mai un momento, e passavano da un dettaglio all'altro della stazione carovaniera, da una faccia all'altra tra quelle che affollavano il cortile. Il suo sguardo rivelava chiaramente che aveva fermato il cocchio con l'espressa intenzione di dimostrare il suo potere, reale o immaginario che fosse. Posò gli occhi su Brak, incrociando per un momento lo sguardo del barbaro, poi passò avanti. Ma inaspettatamente tornò a fissare l'uomo dai capelli gialli, e per un momento gli occhi sembrarono risplendere come schegge di giada, illuminate da un fuoco soprannaturale nascosto dietro lo sguardo della ragazza; un'ondata di nausea afferrò improvvisamente lo stomaco di Brak, e il suo cervello vacillò per la vertigine. Forse era solo la stanchezza, forse erano le fatiche che aveva affrontato durante il giorno...
Ma gli occhi della ragazza sembravano scavargli l'anima, e ad un tratto lui non vide altro che quelle immense luci, che bruciavano, che si consumavano... Poi, improvvisa com'era venuta, la straordinaria sensazione passò. In qualche modo sapeva di essere stato soggiogato, e un curioso pensiero gli passò come un lampo nella mente frastornata. Sapeva che era un pensiero della massima importanza, ma non riusciva a trattenerlo. La ragazza lo gratificò di un sorriso lento, lascivo, poi, rompendo la tensione della scena, afferrò l'orlo della tunica verde-mare. Quell'orlo toccò la gamba nuda di Brak mentre lei si allontanava, e lui provò un breve, innaturale bruciore. Poi annusò l'odore della ragazza, un profumo dolce, greve, che sembrava contenere una sfumatura sulfurea di decomposizione. L'odore rimase nell'aria come una nuvola, mentre la ragazza superava Brak e varcava la soglia della carovaniera, seguita dal Mago. «Locandiere!» gridò. «Dove sei? Muovi quella pigra carcassa, avanti!» Immediatamente l'albergatore rispose con voce stridula: «Eccomi, eccomi. È un grande piacere riceverti, mia signora.» «Il nostro piacere, invece» si intromise il Mago «dura solo quanto la nostra pazienza. Portaci due bottiglie del vino migliore, petto di pollo e un pezzo di agnello arrosto.» «Tamar, mio signore,» disse l'altro uomo «questa sera non abbiamo preparato agnello allo spiedo. Io...» deglutì, poi si asciugò le mani sulle braghe macchiate «...Posso farvelo preparare immediatamente, se me lo comandate.» La ragazza rise, e fu una risata dolce, squillante. «Grazie lo stesso, locandiere, apprezzo il tuo rispetto. Ecco il motivo di questa nostra escursione: scoprire chi è rispettoso e chi non lo è.» Dalla sua posizione accanto alla porta, Brak guardò la coppia prendere posto a tavola; il locandiere mobilitò in fretta tutto il personale, mandando i cuochi in cucina e gli inservienti nelle cantine. Iskander guardava dalla finestra della locanda, con le labbra strette. L'odio gli tirava il volto. Brak allora attraversò il cortile: «Comandante?» L'altro a stento gli rispose: «Cosa?» «Mi chiamo Brak, e sono appena arrivato nel vostro paese...» «Da dove?» Uno sguardo superficiale, poi gli occhi dell'ufficiale tornarono a puntarsi sulla scena che si svolgeva all'interno. «Dal nord, eh?» «Già, e mi stavo domandando chi sono quei due, l'uomo e la donna. Per-
ché tutti li temono?» «Gira al largo, straniero, non ho tempo da perdere con stupide domande.» Poi, ripensandoci, Iskander diede un'occhiata meno distratta al gigantesco barbaro. Ai lineamenti spietati. Alla statura colossale. E al braccio destro gonfio di muscoli... A quella vista i suoi occhi si strinsero un poco. «Ora che ci penso, sarà meglio che ti risponda.» «Buon per te» disse Brak, con un grugnito di scherno. Questo divertì Iskander, ma lo distolse solo per un attimo dai suoi pensieri. Fece un debole sorriso: «Se avessi con me un centinaio d'uomini della tua taglia non dovrei starmene qui, a nascondermi da lei. E se per caso l'idea ti solletica, sappi che nel mio esercito c'è un posto per te. Cento posti, cinquecento! Chi è quella donna? È colei che mi ha portato via metà delle truppe, con l'allettamento della ricchezza.» Quando riprese a parlare, nella sua voce si avvertì una malcelata nota di timore: «Nordica Chioma di Fuoco. Dicono che sia una strega, e io comincio a crederlo.» Brak aggrottò la fronte, con sguardo torvo. «Una strega? Direi che è troppo giovane.» «Questo dimostra che sei proprio uno straniero. Lei possiede i segreti di cento, di mille anni di sapienza! È l'unica figlia di Celso Hyrcano, l'alchimista. Ah, vedo che cambi espressione. Conosci quel nome?» «L'ho sentito oggi per la prima volta» rispose Brak «da... uno che ho incontrato sulla strada.» «L'uomo invece si chiama Tamar Zed, e appartiene alla setta dei Maghi. È arrivato otto lune fa, come generato dall'aria. Qualcuno giura che è venuto con un normalissimo cavallo, per godere dell'ospitalità del vecchio Celso. Altri, con uguale fermezza, sostengono che è spuntato dal nulla, senza altri averi all'infuori degli abiti che indossa. Nordica, come ti ho detto, era la figlia dell'alchimista.» Di nuovo Brak aggrottò la fronte. «Era? Perché parli al passato? È ancora viva, mi pare.» «Non è più la Nordica che tutti conoscevamo» rispose Iskander. «Qualche cosa l'ha trasformata, avvelenando la sua bocca, gli occhi, la mente. Solo un anno fa era una figlia esemplare, bella e virtuosa, gentile con tutti. Poi, poco dopo l'arrivo del Mago, è avvenuto il cambiamento. Forse lui l'ha indemoniata, ma in ogni caso hanno stretto un'alleanza veramente innaturale. E l'hanno suggellato con la lussuria e l'assassinio del vecchio
Celso.» «Perché l'hanno ucciso?» Iskander si strinse nelle spalle. «Fino al momento della morte, Celso Hyrcano era considerato da tutti un innocuo e amabile gentiluomo; la magia di cui era a conoscenza non era volta al male. Poco prima di morire, però, corse voce che avesse fatto una grande scoperta: dopo aver speso tutta la vita nella ricerca, alla fine era giunto a svelare il mistero supremo dell'alchimia.» Brak sentì un brivido lungo la schiena. «Il segreto per mutare i metalli in oro?» «Sì, la Trasmutazione. Nordica afferma che si tratta proprio di questo, e sostiene di possederne la conoscenza. Ecco come è riuscita a rubarci decine e decine di uomini. Li ha mandati a vegliare il suo covo di predatrice, sulle montagne, e ha promesso di dividere con loro i tesori che lei e Tamar creeranno dal semplice piombo. Se poi ci riusciranno davvero nessuno lo sa, ma è certo che i disertori ci credono, e questo taglia la testa al toro. Come risultato le forze del nostro signore, Strann, si indeboliscono, e il terrore di Nordica si spande ovunque. Ma che abbiano appreso il segreto o meno, sono sicuro di una cosa: quella donna e Tamar hanno ucciso il vecchio padre per carpiglielo. Lei è cambiata, te l'ho detto: forse è diventata proprio una strega, come proclama lei stessa. E la maledizione è scesa su queste terre.» Prima che Brak potesse replicare, avvertì la zaffata di un odore fin troppo familiare, portato dalla brezza notturna che aveva cambiato direzione. Le torce ondeggianti sul cocchio lanciavano ombre dure sui suoi lineamenti quando si voltò verso la porta. «Comandante, questo è l'odore di qualcosa che è appena uscito dalla tomba!» «Gli animali nella stalla l'hanno sentito molto prima che il cocchio di Nordica arrivasse. Ed è questo il vero terrore che sconvolge il nostro paese, Brak. Questo è il motivo per cui la gente si rintana nei casolari sia di giorno che di notte, questo fa tremare come conigli i miei uomini. Ed è per questo, che gli dèi delle tenebre mi maledicano, razza di codardo, che non ho il coraggio di fare ciò che dovrei: correre là dentro e sbudellarlo con questa spada.» L'odore si rimescolava nell'aria intorno a Brak, soffocando ogni altro sentore. Il barbaro rivide con gli occhi della mente il suo cavallo macellato, e allora si diresse verso il cancello che dava sulla strada.
Dietro il cocchio, tenuta ferma da una catena, vide una creatura accucciata a terra. Quando si fece più vicino, dovette fare uno sforzo per accettare razionalmente ciò che vedevano i suoi occhi. Nessun cane sulla terra era mai cresciuto fino a simili proporzioni. «Che cos'è?» ansimò Brak, estraendo a metà la spada. «Che razza di mostro è?» Iskander lo aveva seguito. «Un mostro come non se ne sono mai visti in queste terre, e forse in nessun luogo, finché Nordica non ha subito il suo straordinario cambiamento. Anche lui è apparso un giorno, al seguito del cocchio, come vomitato dal nulla.» La faccia di Brak era pallida: ricordava le parole di Ambrosio lo Stilita sulla doppia maledizione che affliggeva il paese. «Ha un nome?» chiese. Iskander sussurrò: «Faucirosse.» Faucirosse: era questa, dunque, la belva che aveva dilaniato il suo cavallo. Non potevano esserci dubbi sul puzzo malefico. Steso a terra con la grande testa poggiata sulle zampe anteriori, il cane era lungo forse una volta e mezzo quanto Brak era alto, i suoi fianchi riflettevano la luce delle torce in modo particolare, come se il pelo fosse di metallo grigio. Il mostro sonnecchiava, e due delle zanne anteriori sporgevano dalle labbra chiuse: erano bianche, umide, lunghe e aguzze come pugnali. «Deve essere proprio una strega, se ha creato un mostro simile» mormorò Brak. «Già» acconsentì Iskander, a voce bassa. «Lo tengono alla catena la maggior parte del tempo, ma di tanto in tanto Nordica lo libera, per divertirsi. E già una dozzina di persone sono morte. Adesso cominci a capire perché i miei uomini si tengono al riparo?» Brak estrasse completamente la grande spada, mentre una rossa collera montava dentro di lui. «È un cane» disse «niente di più. Ma ha ucciso il mio cavallo.» Gli occhi di Iskander si dilatarono: «Sta' attento, straniero! La sua pelle è come un'armatura.» Ma le parole svanirono nel vento mentre Brak superava con un balzo il cocchio, la spada alzata. Gli occhi della belva si aprirono, e le grandi narici umide emisero un soffio. Con incredibile velocità l'animale si levò sulle quattro zampe. Brak strinse l'impugnatura della spada con entrambe le mani, sollevò la lama sopra la testa e poi l'abbassò con tutta la forza del suo corpo immen-
so. La bocca di Faucirosse si spalancò mostrando una lingua spessa, livida, e denti che sembravano altrettante file di punte d'avorio. La lama si abbatté sul fianco dell'animale, con violenza sufficiente a spaccare un leopardo a metà. Ma Brak imprecò, mentre il dolore cominciava a invadergli il braccio: lo spadone aveva fatto a Faucirosse lo stesso danno che una gocciolina di pioggia farebbe a una pietra. Il barbaro barcollò, sbilanciato dall'irruenza dell'attacco fallito, e le gigantesche mascelle del mostro si aprirono ancora di più, schiumanti di bava. Con la zampa anteriore destra Faucirosse menò un colpo distratto alla coscia di Brak, come se volesse giocare. Ciò nonostante riuscì a scaraventare il barbaro nella polvere. Adesso il mostro si era accovacciato, facendo tintinnare la catena che portava al collo. I suoi occhi risplendevano di un giallo sinistro, e fissavano il potente avversario. I soldati di Iskander si precipitarono fuori, mentre il loro comandante si rivolgeva al barbaro: «Ho cercato di avvertirti, straniero! Nessuna lama può scalfire la sua corazza.» All'improvviso Faucirosse saltò; Brak rotolò su se stesso, nel tentativo di portarsi fuori tiro, ma il cane fu più veloce: adesso era sopra di lui, la bocca spalancata. Il barbaro rotolò sul fianco sinistro, prese la spada e la fece roteare con tutta la sua forza. Quando la lama colpì il collo corazzato della belva, Brak urlò per la violenza della ripercussione. La bocca cavernosa di Faucirosse sembrò diventare più grande, più grande ancora mentre si ritirava di pochi passi per tornare poi di nuovo alla carica, pronto a staccare con un morso la testa del barbaro. Brak non era riuscito a rotolare abbastanza lontano dall'animale, e quindi la catena non costituiva un ostacolo per il mostro. Eppure, quella era la sua unica speranza... Torcendo il grande corpo, Brak strisciava nella polvere, cercando di guadagnare terreno, anche se non abbandonava mai lo spadone; poi due suoni giunsero contemporaneamente alle sue orecchie: il rumore della catena tirata violentemente e l'imperioso ordine di una donna. «Cuccia! A cuccia, bestia! Lascialo andare!» Un momento dopo il barbaro era di nuovo in piedi, anche se barcollante.
I capelli gialli gli piovevano sugli occhi, e il corpo era sporco e segnato di tagli sanguinosi. Attraverso il velo di furia e di sudore scorse un viso dolce e un viso scuro, barbuto, più indietro. Si incamminò verso Nordica Chioma di Fuoco, che lo guardò attentamente, con un misto di rabbia, divertimento e qualcos'altro ancora negli occhi di giada. Ai suoi piedi Faucirosse uggiolava e faceva le fusa, scavando il terreno con le zampe anteriori. Gli incredibili fianchi corazzati del cane si alzavano e si abbassavano ritmicamente. Nordica chiese: «Da dove vieni, barbaro? Certo non sei uno del posto, altrimenti sapresti che è meglio non provocare il mio animale. O me.» Ancora scosso dalla rabbia, Brak sputò a terra. «Vengo da una certa strada, signora.» «Una strada?» «Sì, qui vicino. E là, quell'orrore a quattro zampe mi ha ammazzato il cavallo.» Gli occhi di lei si dilatarono leggermente. «Così sei tu, la vittima. Stavamo scorazzando da quelle parti, e la povera bestia era affamata. Abbiamo visto il cavallo, e poiché non si vedeva nessun proprietario...» Sorvolò sul massacro con una scrollata di spalle, da cui si capiva che per lei la vita del cavallo non aveva alcun valore. «Allora non avrai nessuna obiezione se a mia volta ho attaccato quell'assassino» disse Brak. Indicò gli astanti con la grande spada: «Questi sempliciotti sono atterriti dal mostro. Be', anch'io. Ma io sono un uomo, e vendo cara la pelle.» Nordica annuì lentamente, e il suo sorriso divenne più ampio. Nello stesso momento tornarono a brillare nei suoi occhi quelle luci fatali, mutevoli, corrusche, che lo tormentavano come una spaventosa malìa. Brak fu colpito di nuovo dalla certezza che un segreto importante che riguardava la donna misteriosa fosse racchiuso nel suo cervello in subbuglio. Eppure, non riusciva a portare quel pensiero a livello conscio; al contrario si sentiva trascinato dal potere di quegli occhi, e cercò quindi di spostare la testa di lato. Il riso di Nordica lo riportò alla realtà: «Sì, nonostante il tuo aspetto selvatico e i modi poco urbani è chiaro che sei un uomo. Non ce ne sono molti, da queste parti.» Il Mago era rimasto dietro di lei per tutta la conversazione, ma adesso si fece avanti. «Permetterai che uno zoticone come questo ti insulti, Nordica? Libera il
cane, dàglielo in pasto. E che il barbaro provi la sua spada ancora una volta, se ha tanta fiducia in essa.» Brak diede un'occhiata minacciosa all'uomo dalle guance scure. «Potrei provarla su di te, ciarlatano.» Con un'imprecazione Tamàr Zed corse con la mano al pugnale che teneva attaccato alla cintura, ma la mano di Nordica saettò, afferrandolo al polso. Brak vide le unghie piantarsi profondamente nella carne. «No, Tamar.» «Maledizione, lasciami!» «Te lo ripeto: no!» La faccia della ragazza aveva perso un poco della sua grazia. Tamar arrossì, poi agitò la testa per indicare una riluttante sottomissione. Nordica gli lasciò libera la mano e disse: «Ricorda chi sono, Mago. Ricorda che cosa posseggo, e chi di noi è il padrone.» Umiliato, Tamar Zed rinfoderò il pugnale con uno scatto, poi guardò Brak sopra la spalla di Nordica; era talmente assoggettato alla ragazza dai capelli di rame che preferiva la vergogna al timore di perderne il favore. Ma gli occhi con cui fissava il barbaro erano pieni di odio. Nordica cominciò a passeggiare intorno a Brak, in un lento circolo. E lui si ricordò di qualcosa che gli aveva detto Iskander, qualcosa che aveva a che fare con Tamar e l'invasamento diabolico della ragazza a opera del Mago. Ma non poteva darsi il contrario? Chiaramente era lei la più forte dei due. Tuttavia quest'ipotesi non si sarebbe accordata con le dichiarazioni del comandante circa il comportamento della ragazza prima che il Mago facesse la sua comparsa. C'era un terribile mistero, in tutta la faccenda, e Brak pensò che la cosa migliore sarebbe stata quella di tenersene alla larga. Ma sfortunatamente era troppo tardi: Nordica continuava a girargli intorno, osservandolo, come un gatto. Poi di colpo si fermò. «Ho deciso che non mi piaci, barbaro.» «Nemmeno tu, donna.» «Detesto chiunque si metta contro di me.» La faccia di lui era cupa, come se volesse sfidarla. Nordica rise. «Ma, come ho detto, qui non sono molti i tipi rudi e baldanzosi. Sei una novità.» Si fece avanti e gli toccò una guancia. Aveva una mano morbida, profumata di balsami esotici nonostante il sinistro sottofondo di corruzione. Quando gli si rivolse di nuovo, ridendo, gli occhi le brillarono:
«Non metterti più sulla mia strada, barbaro. Ormai me ne manca uno solo, e tu, forte come sei, potresti incarnare benissimo l'elemento che mi serve, la terra, quello con cui chiuderò il cerchio dei quattro venti.» Le sue parole erano incomprensibili: elementi? Quattro venti? Un rompicapo. La mente di Brak cercò ancora una volta di portare a galla la cosa che sapeva ma non poteva afferrare; e le parole di lei erano sfide arcane. Ne era sicuro, quelle semplici frasi erano maschere dietro cui si nascondeva una verità che Nordica usava per tormentarlo. Ma quale? Ecco ciò di cui non riusciva a venire a capo. «Comunque» continuò lei «non mi aspetto che tu badi al mio avvertimento. E in un certo senso mi fa piacere. In un altro...» Scuri come smeraldi, adesso, gli occhi continuavano a beffarlo. «Rimpiango la sorte della tua anima dannata, Tamar!» Col Mago al suo seguito balzò agilmente sul cocchio, afferrò le redini e fece partire il veicolo di metallo. I soldati di Iskander si sparpagliarono per non essere travolti; Faucirosse seguiva i suoi padroni alla catena, e ben presto scomparve anche lui nelle tenebre. Ma il tristo effluvio rimase nell'aria come un avvertimento. Brak restò a guardare, finché le torce agli angoli del cocchio non furono che puntini luminosi ammiccanti in lontananza. Lentamente si sfregò la fronte; gli faceva male, e inoltre non era facile liberarsi dalla suggestione degli occhi di Nordica. Poi, senza nessun preavviso, il pensiero che aveva tanto lottato per emergere alla coscienza divenne chiaro: L'ho già vista prima. Si guardò intorno torvamente, poi si sfregò un polso sulle labbra umide. Già vista prima? Era impossibile. Eppure l'impressione era questa, e anzi la sentiva con assoluta certezza in ogni muscolo del corpo. Sbatté gli occhi nel buio. Forse ciò che aveva visto non era lei in carne e ossa, ma il male di cui si serviva: il male dell'Oscuro e dei suoi seguaci; lo sguardo di Nordica aveva evocato un'eco di quel potere insano, ecco la spiegazione. E se il potere della strega era simile a quello dello spaventoso dio Yob-Haggoth, allora Brak aveva di fronte una formidabile avversaria. Perché era certo che si sarebbero incontrati ancora. Per lei la vita di un cavallo era una cosa da nulla, e in questo stava la sua malvagità; ma per il barbaro era molto più importante. Così Brak fece la sua scelta. Non sarebbe fuggito dinanzi alle sue minacce: l'avrebbe punita.
Perché lui era Brak, un uomo, e l'avrebbe punita anche se lei avesse chiamato in sua difesa tutti i demoni dell'abisso. III La campana del pericolo Ouella notte Brak dormì male: i suoi sogni furono infestati da cani fantasma dalle grandi fauci rosse, da occhi di giada e dall'immagine del Mago barbuto, la cui espressione era di odio acerrimo e gelosia. Il mattino andò un poco meglio, anche se il cielo era coperto da un grigiore malato; l'acqua scorreva dalle grondaie del caravanserraglio, formando larghe pozzanghere nel cortile deserto. Mentre divorava un pezzo di pane stantio e un piatto di pappa d'avena, il barbaro decise che doveva trovarsi un altro cavallo; poi proprio mentre finiva di mangiare, la porta della locanda si aprì. Immobile contro il riquadro di cielo nebbioso stava un giovanotto basso ma ben piantato, le braccia abbronzate e un volto piacevole, dai lineamenti sgrossati alla buona. Il nuovo venuto si diresse verso di lui. Brak gli lanciò un'occhiata torva: era per caso uno sbirro di Nordica? Fuori, nel fango, Brak intravide un asino rognoso e un bel pony color mogano, la sella decorata di placche d'argento. Il ciuco dalle orecchie pendenti faceva il paio con gli abiti sgualciti e l'aspetto povero del contadino esattamente come il cavallo vi contrastava. Il giovanotto si fermò davanti a Brak e si ficcò i pollici nella cintura di corda. «Dal momento che mi sembri l'unico straniero nei paraggi, devi essere tu quello che cerco. Sei tu che hai attaccato il cane di Nordica?» Brak annuì acido, non ancora certo delle intenzioni dell'altro. «Quella belva ha ucciso il mio cavallo.» «Io vengo dal palazzo di Strann, il signore delle Bilance d'Argento: per cercare di risarcirti, se è possibile.» Una smorfia disgustata fu la risposta del barbaro. «E perché? Sono stato sconfitto.» «Almeno hai avuto il coraggio di affrontare Nordica. Non è una cosa che fanno in molti, di questi tempi. Sono lieto di incontrare un uomo che considera quella donna proprio come me: una maledizione, un abominio.» Per la prima volta in quella giornata Brak si sentì divertito. Proruppe in una sonora risata: «Sicuramente sottovalutano il tuo valore, a palazzo. Per un servo sei uno che parla proprio come si deve.»
Adesso fu la volta del giovane tarchiato a mostrarsi divertito. «Sono il servitore di una sola persona, Brak. È questo il tuo nome, vero? Ebbene, obbedisco soltanto a mio padre, Strann.» Il piatto della pappa d'avena cadde dalle mani di Brak e finì sul pavimento. Il barbaro guardò a bocca aperta i miseri indumenti dell'altro. «Tu... il figlio del signore?» «Sì. Il mio nome è Pemma: principe Pemma, a voler essere pignoli. Ma francamente non credo che i titoli nobiliari servano a molto, in tempi tristi come questi.» Senza troppe formalità Pemma agganciò con un sandalo il piede di uno sgabello, lo tirò verso di sé e sedette. Il rossore sulla faccia di Brak scomparve rapidamente. «Mio padre è stato informato di ciò che è accaduto qui stanotte, Brak. Iskander è tornato a palazzo prima dell'alba per prendere altre provviste, capisci...» Il barbaro annuì: «Avevo già notato che i soldati se ne erano andati.» «Già. E quando Strann ha saputo ciò che avevi fatto, mi ha svegliato e mi ha ordinato di scegliere il più bel pony delle nostre stalle, con finimenti adeguati. Ora vorrebbe che tu venissi con me a palazzo, perché desidera ringraziarti personalmente. Avrai il cavallo, e cibo e alloggio, se lo desideri. Forse riusciremo perfino a convincerti a restare un poco.» Gli occhi di Pemma si erano incupiti: «Abbiamo bisogno di uomini valorosi.» Il barbaro fece segno di sì con la testa. «Questo mi sembra evidente. Ma non è solo un problema di coraggio: anche i migliori guerrieri possono fare ben poco contro la magia.» «Abbastanza giusto. Ma almeno, se uno prova ha già compiuto metà dell'impresa. Troppi di noi non hanno più nemmeno il coraggio di tentare.» Fece una pausa: «Tu ce l'hai, vero?» «Sì» rispose Brak senza esitazione. «Quella donna merita una lezione. Principe, io non sono un uomo di grande erudizione, e non ne capisco molto di incantesimi e stregoneria, anche se ho già avuto occasione di vederne all'opera i poteri. Ma nelle alte steppe dove sono nato chi uccide un cavallo viene preso e squartato. Ammazzare il cavallo di un uomo è come tagliargli le gambe.» «Ben detto. Accetterai l'ospitalità di mio padre, e il cavallo?» Brak si alzò: «Sì.» I due uomini lasciarono insieme la stazione carovaniera. Cavalcarono
lungo la strada in salita che conduceva ai piedi delle montagne, e lungo il percorso Pemma gli indicò i contadini che lavoravano la terra con attrezzi alquanto rozzi. «Queste terre appartengono a mio padre, e io gli faccio da sovrintendente. È un'occupazione noiosa per il figlio di un re, suppongo, ma quando ero piccolo e questo paese felice Strann mi insegnò ad amare la terra, il miracolo delle cose che crescono. Così oggi preferisco immergere le mani nelle zolle nere invece di stringerle intorno all'elsa di una spada.» Brak osservò i braccianti intenti al loro lavoro nei campi. «Le vostre messi mi sembrano piuttosto povere: anche questo è colpa della strega?» «In parte. I raccolti sono scarsi perché siamo demoralizzati.» «Nordica è veramente tanto terribile?» «Peggio di quanto credi. Ma non è stata sempre così.» A questo punto Brak annuì: «Ho sentito la storia questa notte, alla locanda. Iskander l'ha definita una figlia modello.» «Sì, finché l'inferno, o Tamar Zed, o tutti e due, non l'hanno trasformata» disse Pemma. «C'è qualcosa di pazzesco, di sovrumano nel suo cambiamento. Così istantaneo, così completo! E poi c'è quel cane abominevole, anche lui venuto dal nulla. Forse c'è qualcosa di vero nei racconti secondo cui Nordica adora un dio-bestia.» Un brivido corse per la schiena di Brak: «E di che dio si può trattare?» «Nessuna delle nostre divinità locali, questo è certo.» Il principe aggrottò le sopracciglia. «I nostri dèi sono tutti grassi, gioviali e beoni. L'unica cosa che oserebbero schiacciare è un acino d'uva, per berne il succo! No, deve trattarsi di una divinità straniera e malvagia, anche se non ne conosco il nome, né sono certo se le cose che riferisce Nordica sul suo conto sono vere. Non possiamo permetterci di sprecare tempo a fare ipotesi su fatti così arcani: le cose sono già abbastanza oscure per conto loro. E poi, c'è il rischio che forze ancora più blasfeme si scatenino sopra di noi.» Gli occhi del barbaro erano puntati sulla strada davanti a lui, ma internamente rifletteva. Rivide con la mente i ciechi occhi di pietra di YobHaggot e gli parve di udire ancora la voce ammonitrice di fratello Jerome, il Nestoriano, chiara e vicina come se l'orrore che avevano condiviso nelle Marche del Ghiaccio fosse accaduto solo il giorno prima: "Ogni regno e principato di questo mondo è soggetto al suo dio, o dèi. Alcuni sono potenti e fanno grandi miracoli e magie: ma più potenti di tutti sono le due entità che si combattono incessantemente per la supremazia finale. La loro esistenza è praticamente ignorata dai signori, principi e
maghi che concentrano la loro attenzione su cose più piccole e meschine, su dèi più deboli e insignificanti. "Secoli fa, prima che il papiro della storia fosse anche di poco srotolato, uno dei due antagonisti regnava sul mondo intero, e la sua immagine malefica veniva adorata nel corso di riti disgustosi. Un simile culto è stato ormai bandito da anni, ma il dio del Male non è morto: egli dorme." "E ultimamente si sono avuti segni," aveva detto il religioso dolorosamente, "che Yob-Haggoth ha ritrovato il suo potere..." Per fare di Nordica la sua discepola?, si chiese Brak. Certo doveva esserci una spiegazione per il potere soprannaturale dei suoi occhi di giada, come per l'impressione che lui aveva avuto di averla già incontrata in passato. Forse ciò che aveva scorto in fondo a questo sguardo era il riflesso del rinato potere di Yob-Haggoth. Un pensiero sconcertante, e di cui non gli andava di discutere col principe: c'erano troppo poche prove a suffragio dei suoi sospetti. Preferì quindi chiedere: «Tuo padre non potrebbe venire a patti con Nordica?» Sorpreso, Pemma diede un'occhiata incredula a Brak. «E tu verresti a patti con lei dopo quello che ha fatto al tuo cavallo?» «No, Pemma. Ma tu sei il figlio di un re: e un re deve proteggere il suo popolo.» «Se Nordica avrà via libera» disse Pemma «tra non molto rimpiazzerà mio padre nel governo di questo paese. Quando il vecchio Celso era vivo, nessuno temeva i segreti occulti che la sua famiglia si trasmetteva di padre in figlio da generazioni; Celso Hyrcano era un uomo che bruciava dal desiderio di conoscenza, di comprensione, ma non era crudele e non aveva mire politiche. Aveva passato tutta la vita alla ricerca della formula suprema dell'alchimia, ma solo per la soddisfazione di scoprirla; inoltre si era impegnato con Strann a custodire gelosamente il segreto, se mai fosse riuscito a svelarlo. Il vecchio alchimista voleva che il regno prosperasse, ma poi venne il Mago, Nordica subì la trasformazione e il povero Celso scomparve. Sono sicuro che è stato ucciso. Ucciso... o peggio.» L'asino del principe si era fermato accanto a una pietra miliare al bordo della strada. A lato della piccola piramide di pietra cominciava una via laterale che finiva nei campi. «Forse» rimuginò Pemma «lo spirito di Celso Hyrcano è ancora vivo, negli inferi o da qualche altra parte.» «Ma non è morto?» chiese Brak.
«Nessuno lo sa.» «È scomparso senza lasciare tracce?» «Sì.» Il barbaro aggrottò la fronte. «E Nordica possiede il suo segreto?» «Anche di questo nessuno può essere certo. Ma d'altra parte non riesco a immaginare altra ragione per la morte... voglio dire, la sparizione di suo padre. Lei afferma di avere la formula, ma di fatto non l'ha ancora messa in pratica: nessun mercato ha registrato l'immissione di lingotti di nuovo conio. I soldati che hanno disertato sono stati pagati con speranze e promesse. Be', qui devo lasciarti, Brak, perché mi aspetta il lavoro nei campi. Continua per questa strada, e presto vedrai il palazzo. Forse ci incontreremo di nuovo questa sera, a tavola, e là potremo pensare al modo migliore per colpire la bella Nordica Chioma di Fuoco. Tutti noi, credo, non vogliamo altro che la sua caduta.» Brak annuì: «Se precipitasse al centro della terra non sarebbe ancora abbastanza, per me.» Il principe Pemma rise, spronò l'asino e trottò lungo la strada laterale che conduceva a una vasta estensione di vigneti. Brak si strinse un rozzo mantello di lupo intorno alle spalle, perché la nebbia si era infittita, e incitò il cavallo a proseguire. La bestia che Pemma gli aveva dato piaceva al barbaro: era un cavallo piccolo ma sicuro sulle zampe, con un carattere vivace che prometteva velocità e resistenza alla fatica. Procedendo verso la meta l'umore del barbaro migliorò, e man mano che la strada saliva lui scrutava davanti a sé in cerca del palazzo. Finalmente vide i bastioni che si stagliavano contro il cielo color della pietra; una porta possente era dominata da una torre alta e quadrata, e nella torre si vedeva una grande campana. Due sentinelle montavano la guardia, rabbrividendo, oltre la porta attraverso la quale Brak fece il suo ingresso dopo aver superato il ponte sul fossato. A parte i due uomini, e un filo di fumo che usciva da uno degli edifici, il grande palazzo si sarebbe detto deserto. Col fodero della spada che gli pendeva da una spalla, Brak salì le ampie scale e un'altra guardia si materializzò da un chiostro avvolto nell'ombra, indicando al barbaro la direzione per la sala centrale. Dopo aver superato molte camere deserte e quasi prive di arredamento, Brak entrò in una sala dal soffitto a volta. Ad una estremità un'alta porta d'argento immetteva in un salone più vasto ancora.
Un paio di guardie svogliate, con le divise in disordine, stavano curve sulle lance davanti all'ingresso. Sull'arco che sormontava la porta era scolpita una bilancia d'argento con piatti allo stesso livello. Mentre Brak entrava notò che il rivestimento argentato si era scrostato in più punti: del resto tutto il palazzo aveva un aspetto scabro e decrepito, come se stesse morendo. Il barbaro attraversò il pavimento di marmo sconnesso della sala delle udienze verso l'uomo che lo attendeva su un podio. Strann indossava vesti di porpora che una volta dovevano essere state sontuose, ma che adesso erano stinte. Aveva la barba d'argento, come le bilance raffigurate sul portale, e il bel volto virile era smagrito e pallido. Era disteso su un divano, e quando tentò di alzarsi all'arrivo di Brak emise un gemito di dolore. Quando fu più vicino il barbaro si rese conto che il suo ospite era molto malato, infatti si ridistese subito al suo fianco, reggendo con mano incerta una pergamena. Ai piedi del sovrano un nano con un costume ricavato da brandelli di vari colori russava sonoramente. A parte lui non si vedevano altri servitori. «Mi chiamo Brak, signore. Sono stato mandato qui da tuo figlio, il principe Pemma.» Strann annuì; gli occhi scuri, decisi e quasi febbrili avevano una vitalità tutta diversa da quella del povero corpo. «Benvenuto, Brak. Spero che nessuno abbia tentato di contrastarti il passaggio.» «Nessuno, signore.» «Non che siano rimaste molte guardie, per farlo. Non abbiamo nemmeno abbastanza inservienti per tenere accesi i fuochi.» Fece un gesto verso il grande camino dove brillavano solo pochi tizzoni. Ma non c'erano sfumature di autocompatimento nella voce di Strann: solo la constatazione di un fatto inevitabile. «Siediti ai miei piedi, Brak, mentre ordino del vino.» Strann scosse la spalla del nano, e quando l'ebbe svegliato lo mandò a prendere ciò che desiderava. Poi continuò: «La storia di come hai attaccato Faucirosse mi è giunta alle orecchie stamattina presto, tramite Iskander.» «Lo so, signore, me l'ha detto tuo figlio.» «Ritengo che un'impresa simile meriti un premio.» «Già, ma il coraggio non è servito a molto, contro quella strega.» «È vero: benché Nordica sia una comune mortale, le fonti dei suoi poteri
segreti sono al di là della comprensione degli uomini. E io me ne sto qui, ora dopo ora, a cercare di escogitare un sistema per sconfiggerla prima che con le sue promesse mi porti via tutti gli uomini validi. Ma è inutile: non posso contrastare la sua magia, e non sono abbastanza forte da impugnare una spada contro di lei. I medici dicono che la mia sola malattia è la vecchiaia: sarà, ma le gambe rifiutano di obbedirmi, la vista mi si accorcia continuamente, e solo la volontà in me resta forte. E attraverso questa volontà intendo realizzare il più forte dei miei desideri: distruggere Nordica e la cosa mostruosa che le fa da cane da guardia.» Strann si allungò verso l'anfora di vino che il nano aveva appoggiato sul podio. Di colpo la sua espressione si fece cupa, e Brak si sentì addolorato nel vedere un viso così nobile e fiero devastato dalla vecchiezza, dalla malattia e dal terrore. «Sicuramente» disse il barbaro «esiste un modo per uccidere quella belva.» Il nano intanto gli aveva versato una coppa di vino dolce. «Sicuramente esiste qualcosa capace di distruggerla.» Strann si tirò su un gomito: «È per questo che hai accettato il mio invito, straniero? Perché hai deciso di lottare?» Brak annuì. «Il tuo problema non è il mio. O meglio, non lo era fino a quando sono arrivato nel tuo regno. Ma ciò che è accaduto ieri, sulla strada prima o poi alla stazione carovaniera, riguarda anche me. Questa lotta è la mia lotta.» «Oh, buone notizie!» disse il re, con un debole sorriso. «Io non posseggo poteri magici, signore. Ho solo il mio braccio e la spada.» «E il coraggio! Anche mio figlio Pemma ne ha in abbondanza, ma non possiede il fisico del guerriero. Forse tu e Iskander potrete elaborare un piano...» Poi scosse la testa: «Perdonami: senza dubbio sarai stanco. Stasera, a tavola, penseremo al da farsi, ma per il momento parlami di te: chi sei? Dove sei diretto?» Il barbaro dai capelli gialli descrisse alcune delle avventure che gli erano capitate da quando aveva lasciato la sua tribù nel nord, anche se non si soffermò eccessivamente sull'inquietante vicenda dell'incontro con Septegundus nelle Marche del Ghiaccio. Non menzionò nemmeno la minaccia dello stregone di tornare sulla strada che lui avrebbe percorso verso il sud, perché non c'era alcun motivo di raccontare al suo ospite fatti personali che forse non avrebbero avuto alcun peso sul futuro. Tuttavia, quando descrisse il modo in cui era giunto in quel regno «co-
stretto a imboccarne la strada perché non c'era altra scelta» gli occhi del sovrano risplendettero d'interesse. «È come se la tua venuta qui ti fosse stata imposta» commentò Strann. «Preferisco considerarlo semplicemente un incidente dovuto al caso» replicò Brak senza convinzione. Il re sembrò sprofondare allora in una specie di fantasticheria personale; quando ne emerse, qualche minuto dopo, tentò un debole sorriso. «Le tue storie sono molto colorite e interessanti, Brak, ma temo di averti trattenuto troppo a lungo, mentre avrai certo bisogno di rinfrancarti.» Il barbaro adocchiò i piatti di carne fredda che il nano aveva portato insieme al vino, e Strann annuì. «Basta con la conversazione, quindi. Mangia e rifocillati.» Brak si buttò a capofitto sulla carne, staccando grandi morsi e mandando giù enormi bocconi. Il re osservava lo spettacolo con cortese divertimento. Brak se ne preoccupava assai poco: era affamato, ed era piacevole dedicarsi alla normale attività del mangiare in una terra dove tutto sembrava così anomalo. Mentre il gigantesco barbaro mandava giù gli ultimi bocconi di carne con grandi sorsate di vino, l'aria fu scossa da un clangore massiccio e cupo. Strann s'irrigidì sul suo divano: la mano destra tremò, urtando una caraffa piena di vino. La caraffa cadde, si ruppe e il liquido rosso si sparse a terra come sangue. «La campana del pericolo» sussurrò il re. «Sopra la porta...» Brak era balzato in piedi: «Che cosa segnala? Un attacco?» «No, viene suonata solamente quando avviene un disastro nei campi.» «Tuo figlio!» esclamò Brak. «Signore, io devo andare.» «Sì, e sii veloce. I soldati sono pavidi e lenti.» Come un fulmine il barbaro si precipitò fuori dal salone, ripercorse le stanze in abbandono della casa reale e sbucò nel cortile dove lo aspettava il cavallo. Un piccolo manipolo di soldati di Strann si era già formato, ma sembravano incapaci perfino di preparare i cavalli e montare le selle. Brak si lanciò sul suo pony mentre i rintocchi della campana si succedevano lenti e funesti; il batacchio produceva un tuono metallico che faceva scoppiare i timpani del barbaro. Volando al galoppo attraverso la porta vide una delle guardie attaccata alla fune della campana: l'uomo tremava. Vento e nebbia sibilarono sulle guance di Brak mentre percorreva velo-
cissimo la grande strada; la coda di leone e la treccia gialla volavano letteralmente dietro di lui, e intanto il cavaliere frugava impaziente la nebbia per individuare il motivo dell'allarme. Improvvisamente vide un uomo dall'espressione stravolta in un fossato. Aveva la testa spaccata, e il sangue gli scorreva nero sulla guancia. Brak tirò le redini bruscamente. «Perché suona la campana?» urlò. «Che è accaduto nei campi?» «Pemma ha bisogno d'aiuto» ansimò l'altro levandosi su un gomito, pallidissimo. «Ma tu sei il solo che è venuto dal palazzo? Dove sono gli altri?» Brak estrasse la spada dal fodero e si piegò sulla sella. Aveva una faccia terrificante. «Parla chiaro, amico, o ti faccio saltare la testa. Che cos'è successo?» «Soldati» piagnucolò il contadino. «Soldati che una volta erano di Strann, ma che adesso sono... di Nordica.» Con la mano scarna indicò i campi avvolti nel sudario di nebbia. Brak percepì un rumore ovattato di acciaio che picchiava sull'acciaio, e delle urla. «Laggiù» continuò l'uomo «passata la pietra miliare, nei... nei vigneti. I soldati di Nordica danno la caccia al principe...» Brak diede uno strattone alla testa del pony e lo fece volare lungo la strada che gli era stata indicata. Man mano che si avvicinava, dopo aver superato la pietra miliare e aver girato a destra, nei campi, il rumore della battaglia diventava sempre più forte. Le urla delle donne gli riempivano le orecchie, insieme allo scalpitare selvaggio degli zoccoli. Percorse al galoppo la strada laterale mentre figure spaventose emergevano dalla nebbia davanti a lui: cavalieri armati di spada e di lancia, alcuni muniti di torce di cui si servivano per incendiare gli arbusti. Brak sorpassò il cadavere macellato e senza braccia di una donna, poi vide il corpo di un giovane contadino, ugualmente fatto a pezzi. Storcendo la faccia volò avanti. Il centro della mischia sembrava un confuso guazzabuglio di corpi su una piccola altura. Lì, molti contadini appiedati combattevano una battaglia senza speranza contro cavalieri armati che erano il doppio di loro. La nebbia rendeva difficile la vista al barbaro e ai suoi nemici, ma se non altro consentiva il vantaggio della sorpresa. Brak caricò i cavalieri di Nordica prima che si rendessero conto che non era uno dei loro.
«Tornatevene di dove siete venuti!» urlò. «Tornatevene via, sciacalli, macellai di bambini!» La grande spada descrisse un arco enorme da sinistra a destra: un soldato cercò di contrastarla con la sua lama, ma quella di Brak entrò nella guardia dell'altro e gli tagliò di piatto il collo, continuando il suo viaggio mortale verso il prossimo. Finalmente il barbaro liberò lo spadone dall'ultimo nemico ucciso, e proprio in quell'istante una lancia gli sfiorò le costole. Brak spronò il pony con un calcio, grato per la sua immediata risposta. Uomo e cavallo fecero un balzo avanti, a tempo per evitare un secondo colpo che sarebbe stato fatale. Nello stesso istante Brak afferrò la lancia con la mano sinistra, proprio sotto la punta, e tirò. Il nemico che la impugnava fu scaraventato in avanti, e Brak lo passò a fil di spada. «Pemma!» gridò il barbaro, falciando altri avversari per aprirsi la strada. «Pemma!» «Barbaro!» Il debole grido veniva da dietro un vigneto in fiamme. «Da questa parte...» «Non preoccupatevi di testagialla» urlò un soldato. «È il principe quello che...» Vedendo Brak che correva verso di lui, la spada snudata, quello che aveva urlato fece uno scarto all'indietro col cavallo, ma perse l'equilibrio e fu disarcionato. Brak galoppò verso il vigneto in fiamme, aprendosi la strada con lo spadone: era una strada rossa di sangue. Facce crudeli fluttuavano a destra e a sinistra, ma pochi osavano attaccare direttamente il gigante che cavalcava come una furia tra le incerte volute di fumo e di nebbia. E poi, tutto a un tratto, Brak vide Pemma. Il principe era in ginocchio, e cercava di respingere tre cavalieri che lo colpivano con le aste delle lance usate come mazze. Brak caricò gli attaccanti, colpendo selvaggiamente. La sua lama scivolò sotto l'orlo di un giaco nemico, spaccando a metà la gabbia toracica dell'uomo. Immediatamente Pemma sfruttò il suo aiuto per uscire dalla trappola, e si attaccò al braccio libero del barbaro, saltando in sella dietro di lui. In quel momento Brak vide con la coda dell'occhio un uomo alla sua sinistra, quasi dietro le spalle: il cavallo scalpitò e si buttò in avanti, ma il barbaro ebbe la sensazione che il nemico si apprestasse ad affondargli una lancia nella schiena, e allora passò rapidamente la spada dalla mano destra alla sinistra per fronteggiare l'attacco.
Ma quella strategia fallì: il nemico penetrò col fusto della lancia nella guardia di Brak, e colpì il barbaro alla tempia con una tremenda mazzata, accendendogli scintille rosse davanti agli occhi. «Prendi il principe!» gridò qualcun altro. «Nordica vuole il principe...» Brak tentò disperatamente di disarcionare l'avversario, ma il grande colpo di spada mancò il bersaglio; una volta ancora il soldato, usando il manico della lancia come una mazza, colpì il barbaro sulla testa. Brak cadde da cavallo, maledicendosi mentre urtava il principe e scivolava nella polvere. Quando toccò il suolo, gli zoccoli tutto intorno a lui scalpitarono furiosamente nel tentativo di sfondargli il cranio. Pemma urlò, un cavallo tirò un calcio, e la punta dello zoccolo colpì la fronte di Brak. Il gigantesco guerriero biascicò una maledizione e sprofondò nel buio. Clang, clang, clang. Il rintocco della campana risuonava nel cervello del barbaro come il suono di un martello sull'incudine degli dèi. Lentamente, con la testa che gli girava, riprese i sensi. Aveva la bocca piena di terra e il corpo era tutto indolenzito. La nebbia si era diradata sui campi, e un minaccioso tramonto rosso faceva risaltare nettamente ogni dettaglio del paesaggio intorno a lui: i tralicci bruciati delle viti, i solchi rovinati su cui gli uomini di Nordica avevano cavalcato all'impazzata, i cadaveri dei braccianti orrendamente mutilati. Brak si mise in piedi, poi scosse la testa per schiarirsi le idee. Quando infine ricordò, si mise a correre. «Pemma! Petnma, dove sei? Pemma, rispondi!» Ma il principe non era più lì. Nel tramonto scarlatto la campana continuò a suonare. IV Ascesa nella nebbia Brak capì di dovere la vita al fatto che i suoi nemici lo avevano creduto morto. Dopo aver esplorato solchi e fossati per qualche tempo, ritrovò la grande spada mezzo sepolta in un mucchio di ceneri, tutto ciò che rimaneva di una vite distrutta. Un'ultima occhiata a quella scena di desolazione - i cavalieri di Nordica avevano assassinato metodicamente tutti i lavoranti del campo, un centinaio in totale - e il gigantesco barbaro volse la
schiena al carnaio e si avviò alla volta del palazzo. Nel cortile tuttavia si fermò, e la sua faccia si contrasse in una smorfia. C'erano tracce di zoccoli per terra, e quindi i rinforzi erano partiti dal castello: perché non lo avevano raggiunto? Immaginò che fosse perché Iskander non era sul posto e non aveva potuto guidare personalmente le truppe. Senza dubbio, atterriti al pensiero di scontrarsi con le forze di Nordica, gli uomini di Strann erano scappati in un'altra direzione. Attraversate di corsa le grandi stanze echeggianti, Brak trovò il sovrano nella sala delle udienze dove lo aveva lasciato. Il vecchio signore indicò il vano di una finestra: il nano stava appollaiato lassù. «Il buffone ha visto fumo nei campi» disse Strann. «Nelle vigne dove mio figlio stava lavorando.» Brak annuì cupamente. «I cavalieri della strega lo hanno catturato, signore.» Strann si nascose il volto fra le mani, le spalle scosse dai singhiozzi. Cercando di confortarlo in qualche modo, Brak aggiunse: «Ma era vivo, credo. Tutti gli altri invece sono stati uccisi senza pietà.» Per un momento il barbaro temette che il vecchio dalla barba d'argento avesse un collasso; ma, benché il corpo del re fosse provato allo stremo, la sua volontà non cedeva. Si controllò, si ricompose, poi cercò di nascondere il suo dolore. Si puntellò con la mano destra e riuscì quasi a mettersi seduto. La luce del tramonto, che pioveva dai vani delle finestre, dava a metà del suo viso il colore del sangue fresco. «Se mio figlio non è morto» disse Strann «è stato catturato per qualche scopo preciso. E questo è ancora più terribile.» Brak si piegò sul podio, le ciglia aggrottate. «Ma di che scopo si può trattare? Costringerti a cedere il regno a Nordica, in cambio della sua vita?» «Forse. Ma non è escluso che lei voglia servirsene per uno dei suoi esperimenti occulti. Ci sono brutte dicerie secondo cui i segreti scoperti da Celso Hyrcano implicavano rituali che richiedevano...» Il vecchio esitò «...il sacrificio di una vita umana.» Brak non disse niente. Un momento dopo, le spalle di Strann tornarono erette. «Non le permetterò di distruggermi. Pemma mi disprezzerebbe se lo facessi. Dove esserci un modo per scoprire se mio figlio è vivo o morto, e, se è vivo, perché quella donna lo vuole per sé.» Mentre il barbaro rifletteva su queste ultime parole, Strann batté le mani
e il nano si precipitò giù dalla finestra per accorrere al divano del re. Prima che il suo signore potesse parlare, tuttavia, si udì un rumore di zoccoli nel cortile esterno. Brak sbuffò: «Le tue truppe che ritornano, sire. Non so come, ma non sono riuscite a raggiungere le vigne.» Più che ira il sentimento che si leggeva sul volto di Strann era compassione. Scosse la testa, come a dire che lui sapeva la ragione per cui i soldati, pur armati di tutto punto, avevano preferito scappare ed evitare il confronto col nemico. Quando si trovano di fronte all'ignoto anche i più esperti mercenari non possono più essere giudicati secondo i parametri normali del coraggio e della vigliaccheria. Ecco quello che Brak lesse negli occhi di Strann, benché lui non condividesse affatto la tolleranza del sovrano. Il re disse al nano: «Prendi un asino e corri più veloce che puoi alle colline dove siede Ambrosio lo Stilita. Digli che lo prego di vedere dov'è mio figlio, se può, e quali piani ha Nordica nei suoi confronti. Poi ritorna altrettanto veloce.» Il nano annuì e corse via. Brak chiese, con una punta di curiosità: «Ma come può un vecchio seduto su una colonna di pietra darti quelle informazioni?» «Ambrosio sta su quella colonna fin da quando io sono nato, Brak. Nessuno conosce la sua vera età, ma una cosa è certa: lui ha una mente diversa dalle nostre, e può vedere ciò che accade a molte leghe di distanza senza muoversi dalla sua colonna.» «Vede quando dorme?» rabbrividì Brak. «Non chiedermi spiegazioni, perché non le conosco. Ambrosio è un mistico, e adora un dio speciale, senza volto, il cui simbolo è una croce e il cui nome non può essere scritto. Può darsi che il potere dello Stilita venga dal suo dio, ma comunque egli vedrà Nordica dovunque si trovi, quali che siano i mezzi che impiega per far viaggiare la mente. E ci farà sapere dove si trova Pemma.» Con una tazza di vino in mano, il barbaro dai capelli gialli si accomodò su una sedia curule per aspettare il ritorno del nano. Più a lungo si tratteneva in quella terra maledetta e più cresceva la sua meraviglia. Di che aiuto poteva essere, in una situazione come questa, un vecchio, sporco eremita? Brak non nutriva grandi speranze nell'aiuto del Dio Senza Nome dei Nestoriani, e pensava che i poteri mentali di Ambrosio fossero un misto di saggezza senile e di superstizioni locali. Eppure, mentre aspettava in silenzio, il barbaro rammentò la misteriosa
forza che era affluita nel suo braccio quando Elinor, la pastora, aveva rischiato di cadere nel pozzo dell'Uomoverme. Era stato Ambrosio a dargli la forza? Era impossibile trovare una risposta. Passò un'ora. Un'altra. Un servitore dalla livrea consunta scivolò nella sala delle udienze per accendere le torce e invertire la clessidra sul piedistallo dietro il podio reale. Le ombre diventavano sempre più fitte, e i tizzoni nel camino si facevano sempre più tiepidi. Brak fu assalito dal torpore. Quando si svegliò, dopo un sonnellino, il nano era tornato; era tutto coperto di polvere, e stava accoccolato sul divano, borbottando all'orecchio del suo signore. L'espressione di Strann rivelava che le notizie non erano affatto buone. «Che cos'ha detto lo Stilita?» volle sapere Brak. «Dormiva così profondamente che non è stato possibile svegliarlo.» «Allora è venuto il momento di pensare a un rimedio più efficace delle visioni» fece il barbaro. «Sire, tuo figlio è stato generoso con me, questa mattina. Generoso e gentile. E quando sono corso alle vigne non sono stato abbastanza veloce per salvarlo. Sento perciò che quello che gli è capitato mi riguarda personalmente, e che devo fare di tutto per riportarlo indietro, se è possibile.» «Rischierai la tua vita?» «Quando sono in debito con qualcuno intendo ricambiarlo: non importa a quale costo.» Strann annuì gravemente: «Accetto la tua offerta, ma intanto prendi la tua sedia e dormi un po'. Iskander tornerà presto, e quando arriverà stabiliremo il nostro piano d'azione.» «Anche tu dovresti dormire, signore.» Con lo sguardo incupito Strann disse: «Non posso, con Pemma prigioniero nel castello di Nordica.» Per altre due volte la clessidra fu rovesciata prima che Brak riemergesse dal suo sonno gelato, stiracchiandosi, la pelle di lupo ammantata intorno alle spalle. Poi sul marmo si udì un rumore di stivali, e Iskander entrò nella sala, inchinandosi su un solo ginocchio. «Sire, non abbiamo trovato neppure l'ombra di un disertore. Quelli che ci hanno lasciato non si sono dispersi per le campagne, ma sono tutti andati
ad arruolarsi da Nordica.» «La tua ricerca è avvenuta nel momento sbagliato, anche se non è colpa tua. Mentre eri via, Pemma è stato catturato» disse Strann. Iskander impallidì; il vecchio regnante gli fornì i dettagli, poi concluse: «Brak vuole tentare di salvarlo.» «Una pazzia» replicò Iskander, ma rapidamente alzò una mano. «Non che io sia contrario; francamente sono nauseato di dare ordini a un branco di codardi le cui budella vanno in acqua appena si nomina quella puttana dai capelli rossi. Ma temo che il barbaro non abbia afferrato la situazione.» Stuzzicato, Brak disse: «Allora spiegamela, comandante.» Iskander fece un mezzo sogghigno. «Benissimo. Il castello di Nordica si trova sul cocuzzolo della montagna, ed è un edificio possente con mura eccezionali. Usando gli uomini che ci ha sottratto, lei potrebbe difenderlo da un assedio praticamente all'infinito. Come se non bastasse, la strada che conduce alla vetta è delle più infide; la nebbia di notte è molto fitta, ma quello è l'unico momento in cui un attacco diventa concepibile.» Brak fece scorrere il pollice sul bordo della spada. «E che succederebbe se invece che in cento attaccassimo con un solo uomo? Se andassi lassù soltanto io?» A questo punto Iskander scoppiò in una franca risata. Rivolto a Strann, disse: «Signore, abbiamo trovato un uomo coraggioso.» Il vecchio annuì, d'accordo. Ma Brak era impaziente: «C'è qualche altra via per arrivare al castello, a parte quella che hai menzionato?» Iskander scosse la testa: «Nessuna» disse. «La strada è l'unica.» Di colpo si fermò. «A che stai pensando?» s'informò il barbaro. «Oh, è impossibile.» «Dimmelo.» «Per un momento avevo pensato alla parete di roccia, a strapiombo sul lato occidentale. In quel punto è la montagna stessa che forma la parte bassa del muro del castello. Ci sono finestre, credo, e non dovrebbero esserci sbarre. Ma non riusciresti mai a scalarla, di notte e con la nebbia. E' troppo pericoloso.» «Posso provare» disse Brak a bassa voce. «E anzi lo farò, una volta che sapremo per sicuro dove si trova Pemma.» I tre uomini cominciarono a sussurrare fra loro i particolari, e prima che la notte fosse finita e la luce dalle finestre si fosse mutata nel rosa conchi-
glia dell'alba avevano abbozzato un piano. Iskander stava inginocchiato accanto al divano del re; disegnava una mappa della fortezza sulla montagna tracciando le linee nella cenere del camino, che aveva in precedenza sparpagliato sul marmo. Brak osservava i tratti che simboleggiavano la strada, i dirupi e il castello, e infine annuì. «Adesso non ci resta che scoprire se Pemma è vivo, e dove lo tengono.» Iskander si grattò il mento: «Da queste parti passano parecchi commercianti e venditori ambulanti. Forse...» Brak fece un ghigno da lupo: «Forse possiamo persuaderne uno ad aiutarci.» Così dicendo, sguainò la grande spada e lasciò la sala. Iskander lo seguì di corsa. Poco dopo il sorgere del sole il cortile principale del palazzo cominciava a riempirsi dei carri dei fornai e dei contadini, tutti intenti a scaricare le provviste per le dispense reali. Brak si acquattò contro il muro della stalla; aspettava e guardava. Ben presto un corpulento vasaio fece il suo ingresso, guidando un carro; stava cominciando a tirar fuori la sua merce da sotto una coperta quando un inserviente del palazzo venne a informarlo che nel tesoro reale non c'erano fondi per gli acquisti inutili; dopodiché, gli voltò le spalle. Come il vasaio cominciò a rimettere via la mercanzia, Brak si fece avanti. «Buondì, venditore.» Il barbaro sorrise in un modo che fece alzare gli occhi al pover'uomo e gli procurò un sobbalzo. «Ehm... buongiorno a te, signore.» Brak continuò a sfoderare il suo ghigno. «Non faresti male a portare quelle cianfrusaglie al castello della donna che chiamano Nordica Chioma di Fuoco. In verità, re Strann ha una missione da affidarti.» Il venditore lo guardò inorridito: «Non metterei piede in quel posto maledetto per niente al mondo! Ho sentito un mucchio di racconti sui poteri maligni di quella donna, e... No, non lo farò assolutamente! Signore... ma che stai facendo?» Il barbaro aveva appoggiato la grande spada sul carretto; la lama splendeva come fuoco bianco. «Venditore» sussurrò Brak «dopo aver lasciato questo posto andrai al castello di Nordica, oppure non uscirai vivo di qui.» Quando il barbaro indicò, con un gesto inconfondibile, ciò che avrebbe
fatto se l'altro non avesse ubbidito, il ventre grasso del venditore ebbe un tremito. L'espressione di Brak, unita alla minaccia della spada sul carro, vinse ben presto la riluttanza del mercante. In pochi minuti furono presi gli accordi. Il barbaro chiamò allora i servi e ordinò di staccare dal carro i quattro muli del vasaio; tre di essi, il carro stesso e buona parte della merce sarebbero rimasti al palazzo, per essere sicuri che il venditore ritornasse. Dopodiché Brak e Iskander osservavano il vasaio uscire dalla porta del castello a dorso del quarto mulo, con le poche mercanzie che gli restavano chiuse in un sacco che si portava a spalla. Faceva veramente pietà. Passarono due giorni prima che il venditore tornasse indietro, e trovò Strann, Brak e Iskander ad attenderlo nella sala delle udienze. L'uomo appariva giallastro e sudato, e sembrava aver perso qualche chilo. Disse, con voce piccina piccina: «Come temevo, al castello non hanno comprato niente.» «Ma sei riuscito a entrare?» chiese Iskander. «Sì.» Il venditore ebbe un brivido. «Per un'ora. Ed è stata un'ora di troppo.» «Per il tuo bene» intervenne Brak «mi auguro che tu l'abbia spesa bene, quell'ora.» Il vasaio deglutì, poi fece un cenno affermativo col capo. «Sì, sì, il principe è vivo.» Strann si agitò sul divano: «E dove... dove lo tengono?» «Da quanto ho potuto arguire, parlando con alcuni servi, sta in una cella.» Iskander fece una smorfia: «E dove, se no, maledetto testone? Ma quello che vogliamo sapere è in che parte del castello si trova, la cella!» «N-nell'ala occidentale. Dalla parte dello strapiombo. La sua finestra sta nella fila più bassa: credo che mi abbiano detto che è la seconda da sinistra, guardando dalla strada sottostante. Io ho inventato che il principe mi aveva offeso, e che volevo gridargli qualche insulto come si deve quando mi fossi allontanato. Mi è parsa un'idea astuta.» Silenzio. L'espressione sollevata del venditore crollò. «Non mi sono comportato bene, signori? Ho rischiato la vita, per voi! Ora dovete ridarmi in cambio le mie cose.» «Avrai indietro la tua mercanzia, con in più gli interessi. Una borsa di dinshas per il nostro amico, Iskander. E che sia pesante.» Poco dopo il venditore fu accompagnato fuori dal palazzo da una scorta
di tre cavalieri: volevano accertarsi che raggiungesse sano e salvo il confine, ma soprattutto che non tornasse indietro da Nordica, tradendoli in vista di un profitto extra. Al calare della notte, mentre cominciava a cadere una pioggerella gelata, Brak, Iskander e una mezza dozzina d'uomini recalcitranti partirono dal palazzo di Strann. Il freddo congelava le guance di Brak mentre procedevano in salita verso l'oscurità più completa. Finalmente la pioggia cessò, ma solo per essere sostituita da una nebbia spettrale, avvolgente, che si strinse come un manto intorno a loro. Dopo un tempo interminabile Iskander diede un ordine a bassa voce e la fila di cavalieri si arrestò. «È lì, Brak» mormorò il comandante, indicando davanti a loro. Molto più in alto, nel buio, il barbaro colse dei bagliori rossastri. «Torce sui bastioni?» chiese. «Sì.» Scese da cavallo; sebbene la notte fosse fredda e resa più gelida dalla presenza della nebbia, Brak si tolse il mantello di lupo e lo buttò da una parte. Si incamminò verso la base dello strapiombo e la esaminò: gli sembrò che la parete rocciosa fosse incredibilmente alta e priva di appigli. Fece scorrere un palmo sulla roccia. «Bagnato. Non mi aiuterà di certo nella scalata.» «Un'altra notte non sarebbe meglio» gli disse Iskander. «Qui la nebbia è quasi perenne.» «Allora dammi la fune.» Uno dei soldati gli porse una matassa di corda robusta, che Brak si avvolse parecchie volte sulla spalla destra. Con lo spadone che gli batteva contro la coscia sinistra, si arrampicò sul primo contrafforte della scarpata e guardò un'ultima volta indietro, verso il basso. Iskander e i suoi sembravano fantasmi nell'oscurità. «Pemma sarà quello che scenderà per primo, sempre che riesca a trovarlo» gridò il barbaro. «Capito» gli fece eco il comandante. «Che gli dèi siano con te.» Limitandosi a un grugnito di risposta Brak si avviò verso l'alto. Cercò un appiglio, si issò su un costone di pietra, ansimò. La parete di roccia non era così liscia come sembrava a vederla dal basso; al contrario era piuttosto scabra e offriva un buon numero di appigli. Ma la nebbia, pur diradata dal vento che qui soffiava con maggiore violenza, aveva ricoperto gli spuntoni rocciosi di uno strato viscido e scivoloso. Brak riprese la scalata con estrema cautela.
Aveva percorso una distanza pari forse a cinque volte la sua altezza quando scivolò con un piede. Le gambe gli vennero meno, e cercò disperatamente un appiglio con le dita. Scalciando col ginocchio destro colpì uno stretto cornicione, e il dolore divampò immediato attraverso il suo corpo. La gamba sinistra penzolava nello spazio. Con una maledizione soffocata si puntellò allo spuntone che aveva afferrato e con estrema lentezza tirò su la gamba sinistra, finché riuscì a issarsi di nuovo sullo stretto cornicione. Sopra di lui le torce brillavano con maggior vividezza; sotto, solo la nebbia si agitava in lente spirali. Iskander e i suoi cavalieri erano scomparsi, come del resto era scomparsa la terra. Brak piegò una guancia verso la parete e deglutì. La grande spada che gli pendeva sull'anca rendeva la scalata più difficile, e le sue dita erano già lacerate da tagli e ferite che si era fatto sulla roccia aguzza. Come se non bastasse, la matassa di fune che si era assicurato alla spalla destra pesava come pietra. Per un momento venne sopraffatto dalla sensazione di essere perduto fra terra e cielo in un limbo fatto di nulla. Dopo aver riposato per un momento sul cornicione dal quale aveva rischiato di scivolare incontro alla morte, Brak si allungò verso l'alto e riprese a salire. Il vento si faceva sempre più forte: sembrava il lamento di un'anima perduta, abbandonata al suo dolore, ma finalmente il barbaro cominciava a distinguere la sagoma confusa dei bastioni del castello. E improvvisamente la corda cominciò a srotolarglisi dalla spalla. Istintivamente Brak allungò la mano sinistra per afferrarla; come conseguenza ondeggiò nel vuoto, volò all'indietro e si sentì precipitare... Freneticamente allungò la mano verso la parete, trovando una sporgenza cui riuscì ad aggrapparsi, mentre con la destra, che gli restava libera, cominciò a riavvolgere la fune. Il petto possente gli doleva per lo sforzo, e l'umidità della nebbia si mischiava sulla sua pelle con le gocce di sudore. Spenzolava nel vuoto, senza poter aderire alla parete di roccia; solo la mano sinistra, stretta intorno allo spuntone, gli impediva di precipitare nell'abisso. Poi, serrando i muscoli del braccio sinistro, Brak si avvicinò lentamente alla parete. Un uccello notturno lo sfiorò sbattendo le ali. Il barbaro deglutì a fatica,
quindi cominciò di nuovo a salire. Quando si fu avvicinato al punto in cui la parete di roccia si trasformava nel muro del castello, trovò col piede un costone sporgente che tuttavia si sbriciolò non appena vi fece gravare il suo peso. I pezzetti di pietra si persero nel vuoto con un caratteristico acciottolìo che a lui sembrò un baccano infernale. Brak si appiattì contro la parete: sopra di lui si udivano delle voci che si chiamavano l'un l'altra. Arrischiò un'occhiata in direzione dei bastioni, e vide alcuni elmi disegnati contro il chiarore delle torce. Brak trattenne il fiato: tutto il corpo gli doleva mentre penzolava sull'orlo dell'abisso spaventoso. Finalmente le guardie scomparvero. Il barbaro ricominciò ad arrampicarsi, dirigendosi verso il davanzale della seconda apertura nera nella fila inferiore di finestre. Le sue gambe penzolarono nel vuoto e si aggrappò al davanzale con entrambe le mani. Si tirò su soltanto con la forza delle braccia: quello era il momento critico. All'interno della cella c'era silenzio. Brak avrebbe fatto di tutto per non sorprendere Pemma, e tantomeno le sue guardie, ma sapeva che ci sarebbe stato ugualmente rumore. Non c'era modo di evitarlo. Si tesesi issò, facendo volare le gambe sul davanzale. La grande spada batté sonoramente contro la pietra, mentre lui entrava dalla finestra e si buttava sul pavimento, con un tonfo. Prima ancora che avesse il tempo di rialzarsi qualcuno gridò. Brancolando nel buio con la mano destra Brak incontrò un viso umano, e coprì con le dita la bocca di Pemma. Il principe si divincolava, nel tentativo di raggiungere un rude giaciglio di pietra. «Non fare rumore!» sussurrò Brak. «Non fiatare nemmeno, o di qui non usciremo più. Sono Brak, e ho una corda.» Lentamente Pemma si calmò, e il barbaro lo lasciò andare, ma attraverso una piccola grata nella porta scorse il bagliore di luci che si avvicinavano. La faccia irregolare di Pemma brillava di sudore. Brak individuò una pietra che sporgeva un poco dal muro e vi assicurò la corda saldamente, poi spinse Pemma verso la finestra. «Va' fuori, e buona discesa. E corri, mi raccomando.» Il prigioniero non perse tempo in domande, ma si arrampicò sul davanzale, si afferrò alla corda e scivolò nella nebbia. Respirando pesantemente Brak aspettava: con una mano saggiava la
corda, per accertarsi che fosse tesa. Un passo nel corridoio lo fece sobbalzare, e lui si girò di scatto. Il fodero della spada urtò contro il giaciglio di pietra, facendo "clang". La testa della sentinella apparve oltre la grata della porta. «Prigioniero, cos'è questo trambusto? Rispondi!» Improvvisamente Brak si rese conto che la corda non era più tesa: Pemma aveva raggiunto il suolo rapidamente. Il barbaro si trovava di fronte a un dilemma: se fuggiva adesso, destando i sospetti della sentinella, probabilmente avrebbe fatto scoprire il gruppo di Iskander ai piedi del dirupo. Ma se restava... La guardia stava già trafficando con una chiave nella serratura arrugginita. «Prigioniero! Maledizione, rispondi!» «È tutto a posto» rispose il barbaro, sforzandosi di modulare la sua voce in un confuso grugnito. «Ho avuto un incubo e ho gridato, ecco tutto.» Ma la sentinella fu pronta a replicare: «Credo che farò meglio a controllare.» La chiave sferragliò nella vecchia toppa. Maledicendo la sua malasorte Brak liberò la fune dalla pietra dove l'aveva assicurata, e prima che la porta si aprisse ne lanciò l'estremità fuori dalla finestra. Poi si distese sul giaciglio di pietra, tirò su la coperta sfilacciata e rimase immobile sul fianco sinistro, con la schiena alla porta. Sperò che il suo corpo e la coperta nascondessero la grande spada. «Lasciami dormire» mormorò. «Vattene via e lasciami dormire.» La guardia era immobile sulla soglia, scrutando la forma indistinta sul giaciglio. Infine grugnì: «Be', mi sembra tutto in ordine. Ma niente più strilli, intesi? Voglio dormire anch'io.» La porta si chiuse con un pesante clangore. Brak rimase fermo per un bel pezzo, fissando il nero della parete. Pemma era stato liberato, ma a caro prezzo. All'alba, tra urla e maledizioni, le guardie lo scoprirono e lo trascinarono per i corridoi ammuffiti al cospetto di Nordica Chioma di Fuoco. V L'antro della strega Stranamente Brak si scoprì a ridere tra sé di quella tragica situazione. Tre guardie lo scortarono per una serie di corridoi di pietra fino a una sala
alta, oscura, le cui finestre erano coperte da sottili pannelli di giada. La luce esterna arrivava nella stanza con un colore smeraldino come se si trovassero in fondo al mare. Brak scese tre gradini di marmo e notò numerosi globi di filo dorato, una specie di cannocchiale risplendente e altri oggetti tipici della sapienza occulta disposti su panche e scaffali. In un angolo si vedevano più di cento grosse pergamene arrotolate. L'intera autoironia, che era stata il sentimento dominante fino a quel momento, fu rimpiazzata dallo stupore. Non aveva mai immaginato che al mondo potessero esistere tanti libri. La guardia più robusta, un tipo dal grugno untuoso con tanto di cicatrice a zigzag sulla mascella, disse: «Tenetelo stretto finché avrò svegliato la padrona.» L'uomo attraversò la sala e passò oltre un tendaggio. Si udì il suono di una campanella, e stavolta Brak non riuscì a trattenersi dal ridere. «Smettila!» disse una delle guardie. «Farai infuriare la padrona ancora di più.» Per tutta risposta Brak buttò indietro la testa e lasciò che la sua ilarità esplodesse completamente. Quella risata gigantesca nella sala sommersa dalla luce verde fu una liberazione. La sua situazione era più che disperata e il barbaro lo sapeva benissimo, ma lui non era mai stato abituato a crogiolarsi nella paura; preferiva senz'altro, quando poteva, farsi burla del pericolo e quindi esorcizzarlo. Il suo era un riso terapeutico, e otteneva immancabilmente l'effetto sperato. «Ho detto smettila!» esclamò la guardia, scuotendo il braccio del prigioniero. «Lasciami andare e ti accontenterò» ruggì Brak fra gli scoppi di risa. «È pazzo» sussurrò l'altro carceriere. «Un posseduto.» «Un invasato?» fece il primo. «Già, gli occhi sono proprio quelli, hai ragione...» «Maledetti testoni, lasciatemi!» tuonò il barbaro. «Non tenterò di scappare, e nemmeno di combattere! Altrimenti...» una boccata d'aria, poi un'altra fragorosa risata «...Altrimenti, perché credete che vi avrei lasciato prendere la mia spada?» «Non ha torto» osservò la seconda guardia. «Attento!» lo ammonì l'altro. «Hai detto che c'è un demone nel suo cervello, e io ci credo!» «Sbagliato» ansimò Brak. «Mi limito solo a vedere le cose come stanno.
Ho notato com'erano le vostre facce quando siete entrati nella cella e avete scoperto chi ero in realtà: erano bianche come panni lavati, ecco come! Dopotutto questo è il primo trucco ai danni della vostra signora di cui sento parlare da quando sono arrivato quaggiù. E mi sembra divertente: a voi no?» Ma la risata gli morì in gola, soffocata da un rumore oltre il tendaggio. Era un lamento quanto mai femminile. Poi, una voce di donna: «Giù da una corda? Giù da una corda, maledetti imbecilli?» Quando la guardia più grossa riapparve, barcollando, il barbaro vide che aveva la guancia destra lacerata da una lunga ferita sanguinosa. Nordica lo seguì nella sala; impugnava un pugnale dal manico a mezzaluna, e tremava visibilmente. I capelli color del rame brillarono nella luce verdastra, mentre seguiva l'uomo ferito: «Levati dai miei occhi prima che ti tagli la pancia per buona misura!» L'altro si ritirò e Nordica venne avanti, la veste bianca di seta frusciante intorno ai piedi nudi. L'allegria di Brak stava sparendo rapidamente, perché la luce che brillava negli occhi della ragazza era una fonte di puro veleno. Lo sguardo di giada si puntò sul barbaro. «Ridi finché puoi, straniero» gli disse. «Ti avevo avvertito di non rimetterti sulla mia strada. Ti pentirai di non avermi dato ascolto.» Brak incrociò quegli occhi implacabili e si sforzò di sorridere. «Hai già perso una parte del gioco, strega.» Nordica fremeva di collera. «Guardie, lasciatemi sola con lui. Due di voi rimangano davanti alla porta, uno vada dal comandante. Mettete gli uomini al lavoro, perché prima del tramonto voglio che tutte le finestre del lato occidentale vengano murate con pietra e calcestruzzo. Andate!» Quando le guardie furono uscite dalla sala, Brak provò l'impulso di afferrare la strega per il bianco collo sottile e strozzarla. Forse sarebbe riuscito a ucciderla prima che gli sgherri lo raggiungessero, ma esitò. E non fu per paura, quanto per il desiderio di scoprire ciò che la strega stava tramando nel castello dalle finestre verdi. Quelle informazioni sarebbero state preziose per Strann e il principe Pemma: sempre che, naturalmente, lui vivesse abbastanza da poterglielo comunicare. Incrociando le braccia, Nordica cominciò a camminare avanti e indietro sotto gli occhi del barbaro. «Sei salito per la scarpata?» «Sì.» «Nessuno ha mai scalato quella parete, prima di te. Nessuno.»
«E adesso l'abbiamo fatto in due: io sono venuto su, e Pemma è sceso giù.» «Già, ma a te è toccata la parte peggiore: morirai, per questo.» «Può darsi» disse Brak «ma quello che volevi era il principe, e adesso non ce l'hai più. Posso quindi permettermi di riderti un poco alle spalle.» Un curioso silenzio calò sulla sala. Nordica chinò il capo, osservando il grande petto di Brak, le gambe muscolose sotto la pelle di leone che portava alla vita. E le chiazze rosse dell'ira sbiadirono dal suo volto: un sorriso le incurvò gli angoli della bocca. Di colpo il barbaro si rese conto che l'allegria gli era passata completamente; sentiva un brivido lungo la schiena, mentre gli occhi della ragazza esploravano lentamente ogni parte del suo corpo come se lui fosse un manzo o un vitello di cui il macellaio controlla la qualità prima di infilzarlo sullo spiedo. La luce smeraldina si stava facendo più cupa, ma gli occhi di Nordica erano sempre più splendenti: sottili turbini, scintille che ruotavano in fondo a orbite insondabili. E una volta ancora Brak fu afferrato dalla spaventosa, ignota sensazione che aveva sperimentato alla stazione carovaniera. Quella donna era il male personificato. E, peggio ancora... si trattava di una malvagità che lui avrebbe dovuto riconoscere. «Forse» disse finalmente lei «posso escogitare qualcosa di meglio che la morte pura e semplice. In tal caso la fuga di Pemma si rivelerà una fortuna, non un inconveniente.» «Di' chiaramente quello che intendi, donna.» Nordica si diresse lentamente verso una pila di cuscini di seta; sedette, cingendo le ginocchia con le braccia. Lo fissava con uno sguardo che sembrava nascondere un divertimento privato, intimo. Il suo odore si spandeva pesante, simile a quello del muschio, e la dolcezza nascondeva un'opprimente sfumatura di putrefazione. Poi la sua voce risuonò allegra: «Voglio dire, straniero, che tu servirai ai miei scopi meglio ancora del principe. O per essere più precisi» una risata argentina «mi servirà la tua carcassa.» «E per quale fine ti servono i nostri corpi, donna? Ancora la tua magia?» «Ma quale astuzia! Naturalmente. Qualcosa di veramente straordinario sta per aver luogo in questo angolo di mondo selvaggio e provinciale. E quando sarà accaduto... be', cambiamenti altrettanto notevoli seguiranno in tutti i reami, dalle steppe al Khurdisan.»
Lei esitò, come se si aspettasse che quel nome gli fosse familiare, ma Brak mantenne un'espressione imperscrutabile. Tuttavia l'istinto gli diceva che questa creatura sapeva di lui molte più cose di quante sospettasse. «E qual è questo evento straordinario?» «Qualcosa che il mio scomparso padre era troppo pavido per provocare.» «Ha a che fare con un segreto alchimistico?» La risata di Nordica suonò crudelmente beffarda. «Hai sentito i racconti degli stupidi nei campi.» «Sono storie molto interessanti» replicò lui. «Parlano di una figlia esemplare che un giorno si trasformò in qualcosa di diverso.» A questo punto lei non riuscì a nascondere la sua irritazione. «Non sono diversa da ciò che sono sempre stata. Sono la figlia di Celso Hyrcano.» «Qualcuno la pensa diversamente.» Nordica tremò, poi si tirò indietro: «Come?» «Qualcuno dice che il cambiamento è stato così brusco che non sei più la stessa donna.» «Questo dimostra quanto sono ignoranti quei porci contadini!» Gli volse le spalle, ma non senza che lui avesse il tempo di scorgere un velo curioso sugli occhi di giada, come se cercasse di mascherare o nascondere il segreto per mezzo del quale lo aveva tormentato silenziosamente. «Per anni» continuò, di sopra la spalla «ho detestato gli scrupoli di mio padre e la sua fissazione nell'usare i poteri per fini rispettabili. Rispettabili! Che parola vile, ipocrita. Non esiste al mondo rispettabilità che non sia falsa. Il male è la natura dell'uomo, del cosmo!» Brak si limitò a rispondere piuttosto stolidamente: «Non ho un'opinione precisa sull'argomento.» «Allora sei uno sciocco, come lo era mio padre. Aveva scoperto il segreto, ma si rifiutava di usarlo.» «Mi è sembrato di capire che lo avesse messo a disposizione di Strann, il vostro signore.» «E questo equivaleva a buttarlo via!» «Dimmi, allora, donna: tu a che scopo te ne servirai?» La risposta fu un sibilo: «Per conquistare!» «Conquistare che cosa?» Ma lei eluse la domanda. «A suo tempo, barbaro. A suo tempo.» Brak sbuffò. «Non dire altro. Ti ho compresa fin troppo bene.»
«Non hai capito che io sono e sono sempre stata la figlia di Celso.» «Dobbiamo discuterne ancora? Non mi sembra più tanto importante.» «Sei tu che hai insinuato che non sono ciò che sembro. Sei tu che hai messo in mezzo questa faccenda.» «Errore mio, d'accordo.» Poi mentì: «Non mi interessa affatto chi tu sia.» «Ah!» Le luci arcane, corrusche, riapparvero nei suoi occhi. Si stava nuovamente facendo beffe di lui. «Eppure mi era parso che tu riconoscessi qualcosa di familiare... in me.» «È vero» grugnì lui «mi è già capitato di vedere il male, in passato.» La battuta non la turbò minimamente. Anzi. Nordica ne sembrò quasi compiaciuta. «Bene, per quanto riguarda le ridicole congetture sul mio presunto cambiamento di personalità, posso solo dirti che fino al momento in cui mio padre è andato incontro... ah...» un gesto vago «...al suo prematuro destino, io ho finto. Sapevo da anni che se Celso avesse scoperto il massimo segreto dell'alchimia non avrebbe osato trarne vantaggio. Per questo fingevo di essere la più modesta delle figliole: in modo che continuasse il lavoro senza sospettare che spiavo i suoi studi.» Un rapido, quasi involontario contrarsi del pugno sottile. «E che intendevo sfruttarli a modo mio.» Mentre parlava Nordica si era allontanata da Brak, scivolando in una parte della sala dove le ombre si addensavano e l'oscurità rendeva difficile leggerle negli occhi. E questo, in un certo senso, per lui era un sollievo. Il barbaro decise che lei si era difesa più del necessario. Gli aveva raccontato la storia dei suoi rapporti col padre come se l'avesse imparata a memoria, ed era certo che non gli avesse detto tutta la verità. Ne fu ancora più sicuro quando Nordica emerse dalle ombre per mettersi di nuovo davanti a lui. Nei suoi occhi danzavano quelle luci verdi come gemme che sembravano parlare un linguaggio autonomo, un linguaggio infernale: "Attento alle mie parole, barbaro," sembravano dire. "Attento ai miei segreti, che tu puoi solo indovinare". Se lei insisteva a recitare la commedia e prentedeva di essersi comportata sempre allo stesso modo - bramando segretamente le conoscenze del padre e disprezzandone i princìpi - evidentemente non lo faceva a beneficio del barbaro, ma per qualcun altro. Per i contadini che vivevano intorno al castello, forse? Per i cortigiani? Non lo sapeva, ma Nordica gli aveva ammannito la storia esattamente co-
me pensava che ci si aspettasse da lei. E allo stesso tempo gli occhi di giada avevano parlato in modo completamente diverso, quasi per sfidarlo a scoprire quale fosse la sua vera identità. Le tempie di Brak cominciarono a dolere mentre lui si lambiccava su quel mistero. Ma forse era solo la stanchezza, la tensione seguita alla cattura che gli faceva immaginare tutto. A ogni modo, se Nordica possedeva davvero il segreto che maghi e sapienti avevano cercato dall'inizio del tempo, allora il suo sogno di conquista avrebbe potuto tranquillamente avverarsi. Ma conquista di che cosa? Di questo regno? Dei regni confinanti? No, lei aveva parlato del mondo intero. Brak si soffermò a pensarci un momento. Col segreto alchimistico quale fonte di potere, Nordica avrebbe potuto devastare il mondo, spingersi da un confine all'altro della terra; i soldati di tutti gli eserciti sarebbero corsi da lei come pecore, come avevano già fatto nel regno di Strann, e poi sarebbero seguite guerre apocalittiche. Il gigantesco barbaro ebbe una terrificante visione di eserciti in marcia, città in fiamme, cieli ribollenti di nuvole nere e fuoco, e moribondi che si lamentavano nelle trincee e nelle fosse comuni. E Nordica Chioma di Fuoco che correva sul suo cocchio con Faucirosse al fianco, e un globo d'oro purissimo in una mano alzatasi scosse da quella fantasticheria d'incubo e decise che era meglio restare sul pratico per scoprire se la base di tante minacce esisteva davvero. «Dimmi una cosa, donna.» «Quale?» «Sai veramente come tramutare il piombo in oro? O è un'altra delle tue finzioni?» «Non ti ho detto che conosco il segreto?» «Come l'hai avuto da tuo padre?» «Questi sono affari miei.» «Ancora misteri, eh? No, è tutta una colossale bugia.» Fece un sorriso barbaricamente sfottente. Gli occhi di Nordica sprizzavano collera. Le punzecchiature del prigioniero la esasperavano, e lei percorreva il pavimento di marmo avanti e indietro con la stessa foga di un uomo adirato. «La trasmutazione dei metalli non è un mito, è realtà. Ma richiede un rituale, e esso ti proverà che il segreto è nelle mie mani.» Il barbaro avvertì di nuovo un brivido lungo la spina dorsale. «Di che si
tratta?» «Una parte del rito esige la presenza di quattro esseri umani. Ognuno di loro rappresenta uno dei quattro elementi della creazione: la terra, l'aria, il fuoco e l'acqua.» Fece una pausa. «Non capisci ora perché Pemma è stato portato qui, mentre gli altri contadini sono stati ignorati?» «Vuoi dire massacrati e fatti a pezzi» ribatté Brak con voce piatta. «Comunque: Pemma doveva essere uno dei quattro?» «Sì, la terra» disse Nordica. «Non è un guerriero, benché nelle sue vene scorra sangue reale. Ha un grande amore per la terra, e nel cuore è un contadino.» «E con quattro... prigionieri, tu puoi eseguire il rituale?» «Sì. Questo è il segreto che mio padre ha cercato per tutta la vita.» «Quanti altri uomini sono già caduti nella tua rete? Quanti quartetti di sventurati hai già trucidato, provando questo rito infernale?» «Nessuno, barbaro. Tu e le altre tre vittime, che si trovano già incatenate nelle loro celle, siete i primi quattro. Avrei dovuto già mandare Pemma nei sotterranei fin dal primo momento, ma prima volevo parlargli. Purtroppo tu sei arrivato prima che avessi l'opportunità di distogliermi dai miei studi per convocarlo qui.» «Strega» disse Brak, facendo un passo verso di lei «hai usato una parola che non mi piace: hai detto "vittime".» Nordica indietreggiò, mettendosi al riparo di un basso tavolinetto ornato di gemme. «Mantieni le distanze, o chiamerò le guardie che sono là fuori e ti troverai con una lancia nella schiena. Comportati da uomo civile, Brak. Se sarai gentile con me, renderò il tuo trapasso molto meno doloroso.» Un muscolo spesso come una corda vibrò nel collo del gigante, e la sua bocca si piegò in una smorfia: «Vittime! Sacrifici di sangue! Sono cose abominevoli.» Nordica si limitò a sorridere. «Forse sì, ma spero che si riveleranno fruttuose. E io sono impaziente di cominciare: presto mi vedrai all'opera.» Si accostò con movenze eleganti a una delle finestre di giada. «Là fuori, barbaro, i venti soffiano più o meno forti a seconda della stagione. Tra pochi giorni essi si alzeranno, e io dovrò evocarli, prima di poter compiere il rituale della trasmutazione. Anche i venti sono quattro, Brak, perché vengono dai quattro angoli della terra. Uniti ai quattro elementi compiranno il prodigio. Io conosco il modo di evocare i venti, e quando il rito sarà compiuto, e il metallo vile sarà diventato oro, non ci saranno più limiti al mio potere.»
Osservò il prigioniero nel cupo silenzio che seguì, poi: «Penso proprio di essermi sbagliata a rimpiangere la fuga di Pemma. Forse tu non sarai un contadino come lo è lui, ma a tuo modo sei anche tu un uomo della terra. Sei forte, e hai la forza della terra nelle braccia. Sì, credo che andrai benissimo, quando i quattro venti si alzeranno.» Brak le lanciò un'occhiata torva. «Prima di fare la fine che mi hai assegnato ammazzerò ogni uomo che oserà anche soltanto avvicinarmisi. E se è necessario morirò nella mischia.» «Povera me, come sei feroce! Che ne è delle tue risate?» «Finite, spiacente. Ho permesso ai tuoi scagnozzi di portarmi qui dalla cella dove mi hanno trovato, ma forse avrei fatto meglio a morire là dentro piuttosto che facilitare di un passo i tuoi piani.» Un'improvvisa furia lampeggiò nello sguardo della ragazza, ma, controllandola, Nordica descrisse un cerchio intorno a Brak, che stava in piedi con le gambe divaricate, le braccia incrociate e le spalle tremanti di furia. «Brak, Brak...» La voce di lei era musicale, piena di note incantate. «Perché ti agiti tanto?» «Che altro ti aspetti, strega? Che approvi ciò che stai per fare?» «Potresti comportarti con buona creanza, anche se la fine del gioco è già preordinata.» Di nuovo gli toccò un braccio, stringendolo con le dita profumate. Le unghie gli scavarono la carne. «Non ti ho detto forse, quella notte al caravanserraglio, quanto ammiro gli uomini coraggiosi? Anche se adesso il tuo coraggio è inutile, è pur sempre una facoltà apprezzabile. Mi servirà la tua forza, quando si alzeranno i venti. Allora, morirai. Ma nel frattempo, possiamo conoscere insieme momenti indimenticabili.» Il cervello del barbaro turbinava, si annebbiava. Per un fugace, confuso momento non vide davanti a sé il volto e gli occhi di giada di Nordica, ma gli incredibili capelli neri, la pelle pallida e lo sguardo inquieto di Ariane. Ariane, la figlia di Septegundus, colei che i Nestoriani chiamavano Figlia dell'Inferno. Ricordò come l'avesse trasportato nel cielo in un carro favoloso... O si era trattato solo d'illusione? In un caso o nell'altro, gli aveva mostrato un'incredibile visione: le città del mondo distese ai suoi piedi, e tra esse il barbaro aveva scorto il Khurdisan baciato dal sole, nel remoto sud. La bocca di Ariane era piena di parole dolci, seducenti. Gli aveva pro-
messo tutto ciò che vedeva sotto di sé, in quel volo incantato, se lui l'avesse amata; gli aveva promesso piaceri da far impazzire anche il più consumato amatore, e la sua bellezza era tale che il barbaro era stato tentato di rispondere sì. Ma il suo prezzo - l'unico prezzo - era stato la sottomissione di Brak a Yob Haggoth, che sarebbe diventato il suo padrone e il custode della sua anima. Per questo lui l'aveva respinta, e aveva sputato su quei fantastici sogni. Senza dubbio lei era morta odiandolo, in quella notte di caos sotto l'idolo in rovina nelle Marche del Ghiaccio; e tutto gli tornò chiaramente alla memoria, immagini e suoni e particolari orripilanti, non appena guardò di nuovo Nordica Chioma di Fuoco e vide, brillante e mutevole dietro la sua faccia, un secondo volto. Quello di Ariane. Brak si allontanò dalla ragazza, disgustato dalla sua capacità di condannarlo a morte un momento prima e offrirglisi nel modo più esplicito un momento dopo. Aveva la fronte sudata, e il petto possente luccicava di piccole goccioline. Respirava a fatica, rendendosi conto di essere quasi arrivato alla spaventosa verità, ma che qualcosa ancora gli sfuggiva, e lottava per sottrarsi alla sua mente... Quante sciocchezze! E tutto a causa della tensione del momento, nient'altro. La somiglianza fra il comportamento di Ariane e quello di Nordica era pura coincidenza. Oppure no? Nordica sembrava incerta sulla prossima mossa, e mentre lei esitava Brak decise che aveva già rimandato troppo a lungo l'azione. Percorse la sala con lo sguardo in cerca di un oggetto che potesse adoperare come arma: non riusciva a sopportare oltre la strega dai capelli rossi, né di essere trattato come un animale in catena, un Faucirosse umano destinato a subire trucchi che non avrebbe mai capito ma che procuravano a Nordica un sadico piacere. Tuttavia lei non gli permise di continuare la ricerca: si buttò letteralmente su di lui, la calda chioma contro le sue guance: aveva addosso quell'odore dolciastro, quasi corrotto. «Le mie proposte sono così rivoltanti, Brak? Sono forse brutta?» «Esternamente? No. Ma dentro, nel profondo, tu sei...» La parola che era venuta spontanea alle labbra di Brak era un epiteto volgare, da strada. Non la pronunciò nemmeno. Le guance della ragazza
diventarono scure, la rabbia le accese gli occhi e lei arretrò. «Io sono la padrona, qui! Non tollererò questo affronto!» Ingannato da quel comportamento Brak si preparò a difendersi, nel caso che lei sfoderasse una lama nascosta. Fu quindi sorpreso quando Nordica lo superò di corsa, ignorandolo, per raggiungere una grata ornamentale che decorava una parete della sala. Si fermò un momento davanti al disegno intrecciato delle sbarre di legno, poi salì in fretta una scalinata. In pochi secondi fu all'esterno. «Guardie, da questa parte! Preparate le spade. Brak era solo, e completamente giocato.» Da qualche parte fra i corridoi di pietra, all'esterno, i soldati di Nordica gridavano: così faceva pure un altro uomo, che sembrava atterrito. Brak si lanciò su per le scale: questa poteva essere la sua occasione per fuggire! Ma aveva percorso solo metà scalinata quando si arrestò bruscamente: le guardie ormai affollavano la soglia, spingendo davanti a loro un uomo che cercava di lottare e difendersi. Era Tamar Zed. Nordica apparve dietro i soldati, e avanzò verso il Mago dalle guance rosse. Tamar agitò una mano verso le guardie: «Questi cani mi hanno messo le mani addosso!» «Per mio ordine!» precisò Nordica. «Quando ti ho mostrato lo spioncino dietro la grata, Mago, era inteso che ce ne saremmo serviti solo per controllare mio padre, qui nel suo studio!» L'altro arrossì ancora più violentemente. Nordica si avvicinò a Brak, poi indicò la grata. «Lo vedi, barbaro? Nel terzo interstizio, quinta fila. Il buco si apre su una piccola stanza contigua, e un momento fa mi è parso di scorgervi uno scintillìo bianco. Proprio come se qualcuno stesse premendo una guancia sul buco. E avevo ragione.» Adesso che lei glielo aveva indicato, Brak notò il foro oltre la grata; il Mago, intanto, si aggiustò la veste spiegazzata e sollevò le spalle, sembrando per un momento arrogante com'era sempre stato. «Ci stava osservando?» chiese Brak. Nordica annuì. «La sua gelosia mi commuove.» «Sono stato un pazzo a credere a tutto quello che mi hai detto» esclamò Tamar. «Come quando ti ho confessato che le tue carezze mi eccitavano, vero?» Di nuovo Nordica rise, poi si avvicinò al Mago e gli toccò una guancia.
«Forse una volta era così, ma adesso non più.» Senza avvertimento gli affondò le unghie nella carne, e quando lui urlò la strega rise e si allontanò di nuovo. C'era sangue fresco, sulla guancia di Tamar. «Dunque, perché mi spiavi?» chiese Nordica. I neri sopraccigli del Mago sembrarono fondersi in uno. Si passò un dito sulla guancia insanguinata. «Vuoi svergognarmi davanti a lui, Nordica?» borbottò. «Non farlo, ti avverto. Non farmi un torto simile.» «Torto? Ma chi te lo ha fatto, razza di geloso imbecille? Te lo sei fatto da solo!» Tamar era così scosso che poté a stento fare un gesto verso Brak. «Che tu debba scomporti, fare queste scenate davanti a un... uno zotico, un bifolco ignorante... è incredibile.» «È più uomo lui di quanto lo sarai tu in dieci vite.» Questa volta si era spinta troppo oltre. Tamar fece due rapidi passi avanti, e la ragazza fece un segnale. Le guardie prepararono le lance, pronte a scagliarle. Il Mago avvertì quel movimento con la coda dell'occhio ed esitò, ma poi la sua insana passione nei confronti della strega gli strappò le parole dalle labbra: «Trattarmi in questo modo quando sai benissimo ciò che provo per te!» Si arrestò, guardando le lance, e si chiuse in un amaro silenzio. «Che mi suggerisci di fare, con lo straniero?» gli chiese Nordica, tormentandolo. «Uccidilo. Dallo in pasto a Faucirosse.» «E se rifiuto? Che farai allora? Te ne andrai dalla mia casa? Ne dubito, Mago, ne dubito per molti motivi. È la mia mente, e la mia solo, che custodisce il segreto: le invocazioni finali per far alzare i venti, per prendere la vita dai corpi dei prigionieri, le conosco solo io. E poi, ricordati i piaceri che posso offrirti, a patto che tu non mi faccia arrabbiare troppo.» Per un lungo momento Tamar Zed fissò Nordica, odiandola e amandola al tempo stesso. Finalmente, con voce tremante, parlò: «Tu mi conosci troppo bene. Sai che non potrei mai lasciare questo posto, o te.» Stavolta la risata di Nordica fu sincera, compiaciuta. «Vattene, adesso, e non farti più sorprendere a spiarmi, o gli stupidi contadini di questo paese avranno un'altra misteriosa scomparsa su cui lambiccarsi, dopo quella di Celso Hyrcano.» Sollevando le pieghe della tunica Tamar Zed si allontanò, e cercando di
salvare la dignità con un atteggiamento arrogante salì la scala. Si voltò una volta, per fissare Brak: e ciò che i suoi occhi neri promettevano al barbaro non era niente di rapido e pulito come la morte. Dopo che il Mago se ne fu andato, Nordica allontanò le guardie. Quando la porta si fu richiusa indicò i cuscini in mezzo al pavimento. «Siedi con me ancora un poco, Brak. Beviamo un calice di vino.» «Non ne vedo il motivo.» Lei gli toccò la faccia, e i muscoli del ventre del barbaro si contrassero, perché si aspettava che gli ficcasse le unghie nella carne come aveva fatto con Tamar Zed. Invece lo sfiorò con la più dolce delle carezze. Gli occhi sembravano allargarsi come grandi lune, quasi a schiudere ancora una volta il loro strano segreto. La mente di Brak era annebbiata: vedeva grandi luci turbinanti, in quegli occhi, e un sibilo gli cresceva nelle orecchie. Al di sopra di tutto udì la voce di lei che diceva: «Trattami con dolcezza, barbaro.» Dolcezza! Quando la sua intenzione era di ucciderlo... Avrebbe voluto urlare. Ma in qualche modo non ci riusciva. Il potere di quegli occhi luminosi lo lasciò senza parole, e lei intanto cominciò a cantilenare: «Sì, con dolcezza. Tu hai forti appetiti, e anch'io; penserai che sono una donna quale non hai mai incontrato, ma non è così. Nói due non siamo estranei, Brak. Non te ne rendi conto? Non vedi? Non siamo estranei...» La repulsione lo aiutò a scacciare il tremendo languore provocato dalla voce e dagli occhi di lei. Nordica chiuse la bocca, e le sue labbra brillarono. «La mia proposta di poco fa ti è così sgradita, Brak? Giaci con me...» «No, signora» disse lui con voce strozzata. «Lascia pure che il Mago sbavi per te, ma io non ci vengo. Sei merce usata.» Lo colpì due volte in piena faccia, e la testa di Brak scattò sotto l'inattesa violenza degli schiaffi. Ma la sua mente si schiarì. «Stai attento!» ansimò lei. «Potrei farti desiderare di non essere mai nato. Ti ho offerto il piacere, un interludio d'amore, e...» «Signora» la interruppe quieto «preferirei piuttosto baciare un cadavere.» Nordica impallidì. «E così sia! Vediamo se preferisci davvero le prigioni dove sono incatenati gli altri tre. Vediamo se ti va davvero di marcire con loro nelle tenebre!»
E, seguita dallo strascico della tunica, salì in fretta le scale e spalancò le porte. «Soldati, prendetelo! Il puzzo di quel bifolco mi disgusta. Mettetelo insieme agli altri tre, di sotto.» Le guardie sciamarono intorno al barbaro, afferrandolo per le braccia, poi lo spinsero su per la scalinata. Quando emersero nel corridoio, Brak lanciò un'ultima occhiata a Nordica Chioma di Fuoco, sola al centro della sala cupa, verdastra: i suoi occhi erano enormi, arcani e furibondi. Nonostante l'anello d'acciaio intorno al collo e gli spintoni dei carcerieri, Brak era contento di essersi liberato della presenza di quella donna, e mentre caracollava dietro le guardie cercava di afferrare il significato di ciò che finora aveva solo intuito. Si lambiccava il cervello con le parole di lei: "noi due non siamo estranei," e un pensiero che era puro orrore si insinuò nella sua coscienza. Di dove gli venisse una simile idea non poteva dirlo: forse dalla stanchezza, forse dalla considerazione che il suo arrivo in questo regno, apparentemente dovuto al caso, era stato invece predisposto, o comunque predestinato: la frana notturna, al bivio, rimaneva un mistero. E improvvisamente si ritrovò a porsi terribili interrogativi: la figlia di Septegundus era veramente morta, nelle Marche del Ghiaccio? Ariane, la fanciulla generata dall'Inferno, era veramente uscita di scena, con il pugnale magico del padre piantato nella schiena? Septegundus lo aveva avvertito: "Io sarò là..." Basta! Nordica era Nordica, e nient'altro. Ma era vero? Sono pazzo, decise Brak. Aveva pensato ad Ariane solo perché aveva respinto entrambe le donne in maniera simile, vincendo il fascino che esse esercitavano sulla parte più lasciva della sua natura. Per un momento doloroso si ricordò della regina Rhea di Phrix: come sarebbe stato facile restare con lei e risparmiarsi tutti questi guai... "Basta!" disse a se stesso; era venuto il momento di pensare a quello^che gli sarebbe successo fra poco. Le guardie lo condussero per corridoi umidi e male illuminati finché a un certo punto sbucarono all'esterno, sotto un modesto bastione che collegava due torri rotonde. Brak rabbrividì al tocco umido della nebbia contro il viso. Poi udirono, dal basso, un rumore di armature, alcune urla e il verso di
una belva. Le guardie si fermarono e una corse al parapetto, sporgendosi a guardare. «Il principe Pemma» esclamò, con un ghigno «e una banda di armigeri. Devono essere venuti a salvare questo bruto, ci scommetterei. Ma la padrona ha già sguinzagliato Faucirosse.» Brak si allungò verso il parapetto, mentre le mani dei soldati lo afferravano alla schiena e le punte delle lance gli si puntavano alla nuca. Si affacciò al parapetto e fissò per un interminabile momento la scena di orrore che si svolgeva sulla strada sotto il castello. Il gigantesco cane dal pelo simile al ferro fece un balzo e si avventò fra i soldati di Pemma, che erano una dozzina. Le grandi spade si spezzavano sul corpo metallico del mostro, e uomini e cavalli cadevano, fatti a pezzi, col sangue che sprizzava dappertutto. Poi una lancia colpì l'orecchio di Brak e i bordi della scena divennero confusi; il barbaro gridò il nome di Pemma, ma il principe non lo udì: quando vide l'ultimo dei suoi uomini perire, girò il cavallo e si diede a una fuga disperata. Faucirosse lo seguì, a grandi balzi, ma dopo un po' tornò indietro, la lingua penzoloni, come se avesse rinunciato all'ultima preda. Brak seppe che adesso per lui non c'erano più speranze. Con un grido selvaggio si girò verso le guardie, deciso a vender cara la pelle. Ma quando caricò, una mezza dozzina di aste si abbatté sul suo cranio, e la disperazione lo assalì un momento prima che tutto, intorno a lui, diventasse nero. VI Terra, aria, fuoco, acqua Quando riaprì gli occhi, Brak pensò che il tempo doveva essere impazzito. Pensò di essere tornato indietro, di essere finito in qualche modo nella tana dell'Uomoverme; china su di lui vide una faccia dolcemente modellata, e quando tentò di muoversi sentì i ferri che gli appesantivano i polsi. I ceppi risuonarono sinistramente. Brak sentiva un dolore alla nuca, e voci sussurranti intorno a lui. Il viso della ragazza sembrava galleggiare, vicino al suo, nella luce incerta. Poi di colpo non fu più una chiazza sfocata e lui riuscì a vederlo chiaramente. La ragazza si girò, parlando a qualcuno che si trovava nel buio:
«Si è svegliato. È lo straniero di cui ti dicevo, quello che mi ha aiutato. Si chiama Brak.» «Vediamo se ha qualche idea su come uscire di qui» replicò una voce maschile ma acuta. «Ma dove...» Brak si mise in piedi, barcollando, e sbatté gli occhi. «Che posto è questo? Un'altra cella?» «Già» disse una terza voce. Era più rude delle altre, un basso brontolìo. «Nelle viscere della tana di quella strega. E se mi fossi nascosto, invece di resistere ai cavalieri che hanno attaccato la mia fucina, non sarei incatenato qui con voi altri maiali.» La voce querula disse: «Siamo nella stessa barca, Runga. Non litighiamo.» «Io penso a me, zampadilegno» rispose Runga. «Tu fa' lo stesso.» Adesso Brak riusciva a distinguere meglio i dettagli della prigione: era un locale ampio, dal soffitto a volta, con un mucchio di paglia sparsa sul pavimento. Le voci rimbalzavano contro le pareti in un'eco arcana, sotterranea. La sola illuminazione era costituita dalla luce di una lampada che filtrava attraverso un'apertura munita di sbarre nella porta. A quel debole chiarore Brak riconobbe il volto della pastora inginocchiata accanto a lui. «Elinor» disse. «Come sei arrivata qui?» «Potrei farti la stessa domanda. Due sgherri di Nordica mi hanno catturata sulle alture che circondano il pozzo dell'Uomoverme; è successo lo stesso giorno che ho incontrato te, e da allora mi trovo qui, in catene e senza la minima idea di quello che accadrà a me o agli altri due uomini.» Così dicendo la ragazza sollevò il polso destro per mostrare i ceppi di ferro. Gli anelli della catena collegavano il suo bracciale a quello di Brak, fissato al braccio sinistro. A metà strada della catena comune ne cominciava un'altra, che era assicurata a un anello fissato nella pietra viscida del muro. Gli altri due occupanti della cella si avvicinarono. Runga era grosso, dal petto possente e di aspetto poderoso. L'altro uomo invece era vecchio, smilzo, e al posto della gamba sinistra aveva un pezzo di legno. Gli uomini erano incatenati l'uno all'altro, proprio come Brak e Elinor. «Vuoi sapere cosa accadrà di noi?» ripeté Brak. «Posso dirtelo, Elinor, ma aspetta un momento.» Si girò verso di lei: «Dopo che tu mi sfuggisti, presso la grotta dell'Uomoverme, ebbi l'impressione che qualcuno mi osservasse da dietro le roc-
ce. Dovevano essere i soldati di Nordica.» «Già, sicuro» convenne lei. Il barbaro le toccò una mano gentilmente. «Da quanto posso dedurre da ciò che Nordica mi ha detto, tu sei stata portata qui perché vivi sulle montagne più alte, e quindi puoi simboleggiare l'aria nel rito che lei si appresta a compiere. Io sono stato preso al posto del principe Pemma per simboleggiare la terra. Tu» indicò Runga, la cui faccia ruvida non era affatto amichevole. «Ho sentito che parlavi di una fucina. Sei un fabbro?» L'altro annuì: «Il migliore da queste parti, prima che quella diavolessa mi facesse portare qui.» «Deve averti scelto perché sei il più direttamente associato al fuoco. Mentre tu, straniero...» «Mi chiamo Darios» pigolò l'uomo con la gamba di legno, che portava un anello d'oro infilato all'orecchio sinistro. «Non capisco di che stai parlando, ma comunque è chiara la mia parte nel gioco. Io sono, o meglio ero, il secondo di bordo su un mercantile di Porto dei Coltelli. Due settimane fa ho lasciato la costa e sono tornato verso l'interno perché mio fratello era morto. Dopo i riti funebri sono ripartito per il porto, e stavo passando per queste terre quando una banda di soldati mi ha catturato nella locanda dove mi ero fermato a riposare. Ma adesso ho una domanda: ci troviamo chiaramente nelle mani di una pazza. Ognuno di noi rappresenta un elemento della creazione, e il mio suppongo sia l'acqua. Qual è la ragione di tutto questo?» In parole povere Brak spiegò la storia di Nordica e il suo passato, almeno secondo la versione ufficiale; tenne i suoi sospetti per sé. Descrisse poi la natura del rito di cui loro sarebbero stati involontari protagonisti: la cerimonia richiedeva quattro vittime, ognuna delle quali doveva rappresentare uno degli elementi fondamentali della creazione. Infine concluse: «Ma perché il rituale abbia successo la strega deve aspettare che si levino i venti stagionali. Lei afferma di poter evocare i quattro grandi venti che corrispondono ai quattro angoli della terra, ed è allora che verrà il nostro momento.» «Misericordia!» gridò Darios, il marinaio. «Misericordia, o dèi! Pensare che avrei conosciuto un simile fato...» Con un brutto grugnito Runga si allungò e diede uno scapaccione all'uomo più debole. «Finiscila con la tua lagna! Questa faccenda non piace nemmeno a me, ma piagnucolare tutto il tempo non servirà a niente.» «E nemmeno fare a botte con uno più piccolo di te» disse placido Brak.
«Siamo nella stessa barca, proprio come ha detto il marinaio.» Le grosse labbra di Runga fecero una smorfia: «Davvero? Per caso qualcuno ha stabilito che tu sei il nostro capo e puoi sputare sentenze come ti pare?» Il gigantesco barbaro sentì la rabbia che montava dentro di lui, ma la combatté e represse la voglia di dare al fabbro il fatto suo. Elinor, intanto, aveva cominciato a piangere silenziosamente, e le lacrime lasciavano un solco argentato sulle sue guance. Brak le cinse con un braccio le spalle coperte dalla veste di lana. Al suo tocco lei si calmò un poco. «Deve esserci un modo per fuggire» disse il barbaro, anche se non ci credeva sul serio. «Lo troveremo: c'è ancora tempo, prima che venga il momento del sacrificio.» Elinor tremava contro il suo petto, fragile, atterrita. «No, non c'è nessun modo.» «Francamente» disse il fabbro Runga, accosciandosi in un angolo come una scimmia troppo cresciuta «non me ne importerebbe di dare la mia vita a quella baldracca dai capelli rossi, se fosse disposta a farmi un piacere o due. Ah, non c'è niente che non farei per avere una donna come quella, anche solo per un'ora. E nel caso che voialtri pensiate che io sia un tipo sleale, avete perfettamente ragione.» Darios si tirò l'orecchio bucato da cui pendeva l'orecchino, poi disse a Brak: «La strega ti ha tentato, eh, amico? Non hai fatto altro che parlare di lei, da quando ti hanno portato qui.» Un grugnito d'irritazione fu la risposta del barbaro: «Non hai nemmeno idea di quanto la sua mente è corrotta, fabbro.» Runga sputò sulla paglia che copriva il pavimento. «Mi prenderò il corpo, e me ne fregherò del resto. E poi i miei affari sono miei e di nessun altro.» La stanchezza e la frustrazione accumulate sopraffecero Brak: si mise in piedi, facendo risuonare le catene ai polsi. «Parla più chiaro, amico. Siamo in quattro, chiusi in questa cella di pietra e legati alla stessa sorte. Per conto mio non me ne starò a girare i pollici fino al momento del sacrificio, e non credo che lo faranno la ragazza e il nostro amico marinaio. Ma tu? Sei con noi o no?» Una smorfia corrugò la faccia di Runga. «Io sto per conto mio, straniero, faccio quello che voglio e quando voglio. E se quella tizia coi capelli rossi piega un dito e mi chiede di andare da lei, magari ci vado. E se a voialtri la cosa non garba, andate all'inferno! Sono stato abbastanza chiaro, adesso?
Perfino un selvaggio mezzo nudo lo dovrebbe capire...» Con un piccolo grido Brak balzò attraverso la cella, ma la catena lo trattenne. Tuttavia riuscì a mettere le mani sulla gola di Runga: «Ti venderesti a quella strega bastarda e ci lasceresti morire?» Tossendo, annaspando, il fabbro si afflosciò sotto le grandi mani del barbaro, e Brak si rese conto che la sua rabbia si stava trasformando in un gesto insano, spropositato. Allentò la stretta. Ma ormai Runga era stato sfidato, e restituì il colpo. Col ginocchio piegato colpì il barbaro alla cintola, con estrema violenza; l'altro boccheggiò, e in un lampo il fabbro formò un cappio con la sua catena, cercando di serrarlo intorno alla gola di Brak. Con la treccia gialla al vento, l'uomo del nord riuscì a sventare la mossa e si piegò a metà, pronto a riprendere il combattimento che lui stesso aveva provocato. «Benissimo» brontolò Runga «vediamo chi comanda, nel nostro regno piccolo come una cella.» Darios, il marinaio, si mise fra loro. «Finitela, tutti e due! Non ne guadagneremo nulla.» Elinor si avvicinò al braccio di Brak, ma lui la spinse via: «Darò a questo farabutto quello che si merita.» «Ma non pensi a noi?» si lamentò Elinor. «Un minuto fa hai detto che non si può uscire da questo posto, a meno di lavorare uniti. Ti ho creduto! E adesso vuoi compromettere ogni cosa: non facciamo altro che diminuire le probabilità di salvezza, se ci ammazziamo a vicenda!» Runga si fece una risata: «Mi piacerebbe proprio vedere un po' di sangue. Magari il suo è giallo, come gialla è la sua spina dorsale!» Brak fece un passo avanti, pronto a uccidere: ma le implorazioni del marinaio e della pastora finalmente ebbero la meglio nel suo cervello sconvolto dalla furia. Con una smorfia disgustata lasciò cadere il pezzo di catena di cui intendeva servirsi come arma. Poi il barbaro si passò un braccio sulla fronte e disse: «Avete ragione. Abbiamo bisogno di ogni mano, di ogni pezzetto di cervello che abbiamo a disposizione, per piccolo che sia.» Quella dichiarazione divertì Runga: «Ti riferisci al tuo, eh, barbaro?» Gli girò la schiena e si avviò verso un angolo della cella, ridacchiando: evidentemente pensava di essersi guadagnato la giornata. Brak fissò il fabbro, disgustato con se stesso per aver permesso a quel bullo di farsi beffe di lui; ma d'altro canto sapeva che la sorte degli altri
due prigionieri era nelle sue mani. Lui era più forte di loro, e chiaramente più abituato a combattere; inoltre, ciò che avevano detto sul fatto che bisognava lavorare uniti era vero. Tornò accanto al muro e si lasciò cadere sotto l'anello a cui era assicurata la catena. Elinor lo imitò, sedendosi a poca distanza: non parlava. Darios si accucciò sulla paglia e cercò di dormire. Ogni tanto Brak lanciava un'occhiata a Runga: i grandi occhi neri del fabbro brillavano alla luce che veniva dal corridoio. Sarebbe stato meglio, pensò il barbaro, se l'avesse ucciso quando ne aveva avuto l'occasione. Il desiderio che il fabbro provava per Nordica poteva costituire un serio pericolo. E allora, tutto a un tratto, Brak rise di sé: pericolo? Ma non c'erano già dentro fino al collo? Per lui, illudersi che fosse possibile scappare in qualche modo da quei sotterranei era pura pazzia: le mura erano solide, le catene robustissime. Si mise a conversare un po' con Elinor, a bassa voce; le raccontò altri particolari del piano di Nordica, e lei gli spiegò dettagliatamente com'era stata catturata dai cavalieri della donna dalla chioma rossa. Dopo un po' furono interrotti da uno sferragliare nella serratura. La porta si aprì e apparvero due soldati, uno dei quali portava una lanterna. Il primo saggiò il petto poderoso di Brak con la punta della lancia. «Alzati, capelli gialli. Abbiamo l'ordine di riportarti dalla padrona.» «Pensavo che non avessimo più niente da dirci.» «Questo lo deciderà la padrona.» Al suo compagno il soldato aggiunse: «Stacca l'anello dal muro. Per portare lui dovremo portare anche la ragazza.» La seconda guardia inserì una grande chiave di ottone in un'apertura sotto l'anello. Il barbaro aggrottò le sopracciglia. Perché volevano che Elinor l'accompagnasse? Non ci sarebbe voluto niente ad aprire i bracciali che gli legavano i polsi... Ma non ebbe il tempo di porsi troppi interrogativi. Le guardie liberarono lui e la ragazza; Brak mise un braccio intorno alle spalle tremanti di lei e poi si avviarono. Una guardia teneva l'estremità della catena, l'altra portava la lanterna. Mentre uscivano Runga gli lanciò un'occhiata d'invidia. Di nuovo Brak si stupì della cecità del fabbro: il fatto che desiderasse così fortemente Nordica era inconcepibile.
«Prendete il tunnel a sinistra» li istruì la guardia. «Quello che porta verso il basso.» «In basso?» disse Brak. «Pensavo che fossimo già all'ultimo livello.» L'altro non rispose. Elinor diede un'occhiata al suo compagno, perché anche lei sentiva la stranezza della situazione, e quando cominciarono a scendere il piano inclinato che costituiva il pavimento del tunnel videro tanti piccoli occhi rossi che li spiavano da nicchie scavate nelle mura del sotterraneo. Si udiva un orribile rumore, simile a un cicaleccio, e in una delle nicchie Brak pensò di aver scorto una piccola faccia semiumana. Una statua, forse? Ma la sorpassarono troppo in fretta perché potesse esserne sicuro. Perché Nordica li aveva convocati nelle viscere più profonde del castello? La sala delle udienze si trovava a un livello superiore, e i sospetti del barbaro aumentarono ad ogni passo. Dopo una serie di tortuosità interminabili, il tunnel cominciò a procedere in linea retta; in questa zona le torce erano molto distanziate, e l'aria era calda ma aveva il caratteristico odore dell'umidità. Le crepe nel muro rivelavano strane zolle bluastre e iridescenti: poi finalmente davanti a loro Brak vide un rettangolo di luce. Proveniva da una spessa porta di quercia, semiaperta, e le sentinelle che vi montavano la guardia spinsero rudemente il barbaro all'interno. Lui inciampò in un pezzo di catena e arrivò nella stanza a quattro zampe. Elinor mandò un grido per lo strattone al braccio, quando la catena si tese. Brak alzò la testa. La prima cosa che vide fu un buco nero spalancato nel muro: era grande quanto un uomo e due volte più largo; dal buco veniva un odore insieme disgustoso e familiare. Un grande masso era stato spostato dall'ingresso del buco per mezzo di una leva di legno che poggiava su un fulcro di pietra. Brak sentì un fruscio di pantofole di seta, girò la testa... ...E si trovò di fronte a Tamar Zed. Il Mago fece alcuni passi. «Un piccolo strattagemma, barbaro. A quest'ora Nordica Chioma di Fuoco sta dormendo. E non potrà salvarti.» Elinor si strinse accanto al barbaro, terrorizzata: «Ma i soldati hanno detto che era Nordica che ti aspettava!» «Una menzogna» spiegò Brak. «Quest'uomo è l'amante della strega, ma la sua degna comare mi ha fatto gli occhi dolci. E sebbene io non l'abbia nemmeno toccata, lui è diventato così geloso da ricorrere a questo trucco
per liberarsi di me.» Il tono offensivo di Brak non fece altro che aumentare l'ilarità del Mago dalla barba nera. Infine il barbaro sbottò: «Sta bene, allora. Uccidimi e ti sarai tolto il pensiero.» Ma Tamar Zed scosse la testa: «Non così in fretta.» Scivolò verso l'apertura nel muro e batté le nocche sul macigno che ne era stato l'uscio. «Per la verità, non intendo nemmeno toccarti. Vedi quei due bravi soldati? Un paio di borse di denaro sono bastate a far loro giurare di mantenere il silenzio su quello che accadrà stanotte. Ti condurranno nel tunnel, poi rimetteranno a posto il macigno. Si tratta dello stesso buco nel quale Nordica e io abbiamo ficcato il vecchio Celso; qualcuno sostiene che la galleria conduca al centro della terra. Laggiù, nel buio, potrai fare quattro chiacchiere con le ossa dell'alchimista finché morirai di fame o impazzirai. Una degna fine.» Brak scosse la testa, stupito: «Rischierai la collera di Nordica per liberarti di me?» «Correrei rischi anche dieci volte maggiori, pur di averla per me solo.» «Allora sei ancora più depravato di quanto pensassi» fu la cupa risposta di Brak. Le guance del Mago si infiammarono: «Zoticone ignorante! Che ne sai tu del suo potere?» «So che in qualche modo ti tiene nelle grinfie come fa l'avvoltoio con gli uccellini. Ma gli uccellini non possono lottare: un uomo sì!» Un'ombra paurosa passò sugli occhi del Mago. «Bastardo! Ma se non sai nemmeno quali sono i sentimenti di un uomo!» «Sentimenti così forti da farlo strisciare ai piedi degli altri?» «Faccio ciò che devo, in presenza di lei» si difese Tamar. «Anche quando questo vuol dire prostrarsi e umiliarsi?» «Ci sono delle ragioni!» Il tono era quello dell'uomo che urla, anche se la voce era bassa. «Non c'è potere all'inferno, o in qualunque altro luogo, che possa rendere schiavo lo spirito di un uomo, a meno che lui non lo voglia!» Di colpo la furia di Tamar Zed sembrò ritirarsi, e la sua bocca si piegò in un sorriso debole, sconsolato. Intorno ai suoi occhi si disegnarono ombre profonde e la bocca si rilassò, come vinta da una grande stanchezza. «Tu non sai, straniero» disse. «Non sai.» Poi, un imbarazzante silenzio. Tamar si sfregò la guancia che luccicava di sudore, sbattendo gli occhi,
quindi indicò i ceppi di Brak e ordinò ai soldati: «Slegatelo e gettatelo nel tunnel.» Gli uomini avanzarono per eseguire l'ordine, e uno, che impugnava un coltello, sfiorò con la lama la gola di Elinor. L'avvertimento era chiaro: se Brak tentava di lottare avrebbero ucciso la ragazza. Furioso, ma preoccupato per ciò che poteva capitare alla pastora, Brak rimase immobile come un animale imbalsamato mentre la chiave girava e i bracciali si aprivano. Da un angolo oscuro della camera Tamar tornò con un oggetto lungo e luccicante. Con sorpresa Brak vide che era la sua spada. «Prendila, barbaro» disse il Mago, con gli occhi che brillavano. «Portala giù con te, dovunque conduca quel sotterraneo. Forse ti toccherà trascorrere il resto dei tuoi giorni combattendo contro le tenebre. Almeno, potrai dimostrare il tuo coraggio.» Tamar fece un cenno alle guardie: «Gettatelo dentro!» Gli uomini si mossero velocemente, mentre uno teneva sempre Elinor immobilizzata per un braccio. Brak fu spinto oltre il masso che faceva da porta nel tunnel nero. Tamar gli gettò la spada ai piedi. «Prendo io il pugnale» disse il Mago, scivolando alle spalle della ragazza. Mentre la teneva sotto controllo i due soldati si diressero alla leva, liberando il peso che la bloccava, e con un poderoso cigolìo e rumore di pietruzze sminuzzate sotto, il macigno cominciò a muoversi. Tamar si piegò su Elinor e le sussurrò qualcosa all'orecchio. La ragazza avvampò. Ridendo, il mago chiese le chiavi dei suoi ceppi, che una guardia gli lanciò prontamente. Tamar le raccolse, aprì la serratura e un momento dopo le catene che tenevano imprigionata la pastora caddero al suolo. Brak, la spada in pugno, stava nell'imboccatura del tunnel osservando l'orlo del masso che si avvicinava, ostruendo inesorabilmente l'apertura. Ormai era già chiusa a metà, e il cigolìo di pietra diventava sempre più forte. Le dita di Brak si contrassero sull'impugnatura della spada, perché il suo unico desiderio era tornare nella camera e infilzare guardie e Mago: ma il coltello di Tamar era troppo vicino alla gola di Elinor. Poi, le parole sibilanti dello stregone lo raggiunsero nel buio: «Quando la pietra si sarà chiusa, mi divertirò con te, ragazza. Nordica non è stata troppo tenera con me, ultimamente, e per la verità, neppure
troppo generosa. Ti opporresti se io...?» Ma il resto della frase gli sfuggì, perché Tamar si era chinato sull'orecchio di Elinor. Con la mano libera il Mago scivolò sul braccio nudo di lei, in una carezza che non fu gradita. Il macigno mostruoso continuava la sua marcia, e ormai l'apertura era chiusa per tre quarti. Boccheggiando, Elinor respinse il Mago e lui rise, sussurrandole ancora qualcosa. Con un grido che era insieme di paura e di pudore la pastora si divincolò e cominciò a correre, Tamar alzò un braccio: «Fermatela!» Ma le guardie furono troppo lente a reagire, cozzando l'una contro l'altra. Tamar allora afferrò il pugnale per la punta e lo lanciò con tutta la sua forza: ma Elinor fu più svelta. La lama fischiò sulla sua testa andando a colpire il muro, mentre lei infilava l'ingresso del tunnel. «Rimuovete il macigno!» gridò il Mago. «Nordica deve avere la ragazza per...» «Signore, è troppo tardi!» gridò un soldato. «È il suo stesso peso che lo spinge avanti.» Elinor andò a sbattere contro Brak, aggrappandosi a lui come ad un appiglio. Il sottile spiraglio di luce tra il macigno e la parete si strinse sempre più, poi scomparve. Le urla furiose di Tamar sfumarono e Brak sbatté gli occhi nel buio. Poi toccò Elinor e la scosse finché i suoi singhiozzi si calmarono. «Ragazza, adesso dobbiamo seguire il tunnel, da qualunque parte conduca. E dobbiamo sparire di qui prima che rimuovano il macigno. Ho la spada, come vedi, e sono sicuro che abbiamo più possibilità qui che in quella stanza infernale. Mi segui?» «S-sì» rispose lei. «Allora prendimi la mano. Io andrò avanti.» Le dita della ragazza erano fredde, e tremavano. Lui allungò cautamente il piede nudo sul pavimento sdrucciolevole del sotterraneo. Fece un passo, poi un altro. Si muoveva più veloce che poteva, in quelle condizioni, tastando il buio davanti a sé con la grande spada e saggiando il terreno a ogni passo, nel caso si imbattessero in un improvviso crepaccio. «Il Mago ha detto che il tunnel portava al centro della terra» sussurrò Elinor.
Brak annusò l'aria nera, greve: «O in un posto ancora peggiore.» «Che vuoi dire?» «Non preoccuparti.» Si affrettarono, con Brak combattuto tra la necessità di allontanarsi il più presto possibile dall'apertura e quella di scansare eventuali trabocchetti. Una volta, molto indietro alle loro spalle, il barbaro ebbe l'impressione di udire grida, imprecazioni, perfino passi: come se, rimosso il macigno, le guardie avessero cominciato a dar loro la caccia. Si voltò ad ascoltare. Ma alla fine i rumori cessarono: evidentemente Tamar Zed e i suoi scagnozzi corrotti avevano rinunciato all'inseguimento. E improvvisamente lui non fu più tanto sicuro di preferire quel budello alla stanza del Mago e a una lotta a viso aperto. Il puzzo diventava sempre più opprimente, e Brak cominciò a seguire la strada tastando il muro del tunnel. Il pavimento continuava a scendere, attraverso le tenebre impenetrabili. Poi, di colpo, la spada di cui si serviva per esplorare il cammino davanti a sé toccò il vuoto, e il suo piede destro slittò. «Indietro!» Il grido d'avvertimento si perdette nel fragore dei sassi smossi che precipitavano nell'abisso. Elinor gli si strinse forte al braccio, col risultato di farli cadere entrambi. Brak si rizzò lentamente sulle mani e sulle ginocchia, poi tese una mano. Il tunnel era finito e ora si trovavano su uno stretto cornicione che costeggiava la parete di roccia: avevano rischiato di fare un salto nel vuoto. Ansimando, Brak si rimise in piedi. «Ecco come si sono liberati di Celso, l'alchimista: non con l'assassinio, ma richiudendolo in un budello che finisce nel nulla. Ma magari il vecchio è caduto nel... nel...» Le parole gli si strozzavano in gola. Quasi senza accorgersene era diventato consapevole di una debole luce tutto intorno a loro, e adesso alzò la testa verso la sua sorgente. Molto più in alto, un pallido bagliore filtrava attraverso quella che doveva essere un'apertura rotonda al livello della superficie terrestre. Quando si sporsero oltre il cornicione, Brak strinse convulsamente la mano di Elinor. Sentiva la paura serpeggiargli fredda nelle viscere. «Non c'è da stupirsi che Celso Hyrcano non sia mai tornato indietro, ragazza. Il Mago non sa dove conduce il tunnel, ma io adesso lo so.» «Brak, ascolta! Là sotto! Rumori...» «I sassi che ho fatto cadere l'hanno svegliato» mormorò il barbaro. La
grande spada gli sembrava leggera come il giocattolo di un bambino. «Avrei dovuto riconoscere quel fetore. Ci troviamo...» Ma non riuscì a costringersi a dirglielo a chiare lettere. Invece diede un'occhiata da oltre l'orlo del cornicione. Sotto, due grandi occhi rossi si aprirono. Elinor li vide e in un attimo li riconobbe. Si morse un labbro, con un gemito di terrore. Gli occhi splendevano e ad ogni istante diventavano più grandi. Come una cosa generata dall'inferno, il mostro alzò la testa retta da un collo lungo, scaglioso, incredibilmente flessibile. Le grandi mascelle bianche dalle zanne aguzze come lance brillavano nella fioca luce che pioveva dall'alto. Per un momento spaventoso Brak si sentì completamente perduto, sopraffatto dal terrore. Guardava, orribilmente affascinato, quella testa spettrale che si ergeva davanti a loro. E che si alzava. Si alzava... L'Uomoverme fremette, pronto all'incontro con le insignificanti creature che avevano disturbato il suo dormiveglia. VII Prigionieri nel pozzo Elinor, la pastora, aveva riconosciuto la creatura nella cui tana il Mago li aveva involontariamente sospinti. Le sue dita si serrarono sull'avambraccio muscoloso del barbaro. Gli si strinse accanto, la faccia ridotta a una maschera di terrore appena illuminata dalla debole luce che filtrava dalla grotta in superficie. Poi cominciò a gemere, sconvolta. «Sta' zitta, ragazza! Forse se non facciamo rumore il mostro non ci vedrà nemmeno.» Ma lei aveva visto abbastanza, e prima che Brak potesse impedirglielo, urlò. Tremava violentemente in tutto il corpo, e quando si schiacciò contro Brak, in cerca di protezione, fece cadere una valanga di sassolini oltre il bordo del cornicione. Le pietre precipitarono nell'abisso. Era troppo tardi, ma comunque Brak piazzò la mano libera sulla bocca della ragazza per impedirle di gridare ancora. Lei lottò contro la stretta del
grande palmo, si dibatté, gli morse la mano. La pazienza del barbaro si era esaurita. La scosse violentemente e poi disse a voce bassa, ma feroce: «Ho detto zitta! Con tutto questo fracasso hai già eccitato quel mostro.» Lei spalancò gli occhi, poi finalmente comprese quello che l'altro le stava dicendo. Fece ancora un piccolo lamento, poi annuì debolmente. Brak allentò un poco la stretta sulla bocca. E improvvisamente le pareti dell'abisso sembrarono generare un brontolìo di tuono. Il cornicione tremò sotto i colpi della grande coda del mostro. Intanto il puzzo abominevole aveva saturato l'atmosfera; Elinor smise di singhiozzare e Brak la lasciò, spingendola dietro di sé, contro la parete dello stretto cornicione. Poi, impugnando freneticamente la spada, si affacciò a guardare oltre il bordo. La testa dell'Uomoverme sembrava un'orribile nuvola in cima al lungo collo scaglioso, e il cranio era tre volte più lungo di quanto Brak era alto. Nelle orbite brillavano occhi ovali dalle pupille nere: per il resto erano di un profondo, luminoso scarlatto. Il barbaro dai capelli gialli non poteva sapere che razza di corpo sorreggesse quella testa perché la creatura era avvolta quasi interamente dalle tenebre del pozzo, ma probabilmente era lungo e serpentiforme. Intravvide due duttili zampe anteriori, e notò che ognuna era munita di artigli grandi come falci: il mostro li usava per scavare la parete dell'abisso e scalarla, se ne aveva bisogno. Adesso la testa scagliosa si era girata, e gli occhi rossi frugavano il buio. Ora la testa era quasi a livello del cornicione, e la creatura lanciò un altro dei suoi spaventosi muggiti. Fu così forte che le orecchie di Brak cominciarono a dolere. La coda gigantesca si sollevò dalle tenebre, fremendo; colpiva in ogni direzione, con rabbia, scuotendo le pareti sotterranee e facendo tremare tutta la caverna. Brak sentì il cornicione ondeggiare sotto i suoi piedi, e una stretta fessura, lunga forse come il suo braccio, si aprì nella superficie. La testa dell'Uomoverme era proprio di fronte a loro. Brak indietreggiò facendo scudo a Elinor, ma continuando a fronteggiare il mostro. Impugnava la spada, ma aveva il corpo coperto di sudore freddo. Pure, stava lì fermo come una statua, piegato, respirando a stento. La testa dell'Uomoverme scattò avanti. Le grandi fauci spalancate mostravano le zanne grandi come punte di
lancia e un alito fetido e corrotto si riversava dalla sua bocca, rivoltando lo stomaco del barbaro. Il mostro chinò il capo verso il cornicione come per annusare, e dietro Brak Elinor ricominciò a gemere, piano ma incontrollabilmente. Il barbaro non osò zittirla: anche il più piccolo movimento poteva attrarre l'attenzione di quell'orrore. E lei gemette più forte. Più forte ancora... L'Uomoverme emise il suo verso agghiacciante, gli occhi rossi splendenti come fari, così vicini al barbaro e alla ragazza che Brak avrebbe potuto allungare la spada e toccare il muso scaglioso con la lama. Dietro la testa della creatura, la grande coda ondeggiava nell'aria: infine si abbatté sulla parete opposta del pozzo in un improvviso accesso di furia. Si udì un rumore secco, e dal muro di roccia venne giù una valanga di pietre: sembrava che ci fosse un terremoto. I massi caduti precipitarono sulla testa dell'Uomoverme. Furiosa, la bestia si sollevò ancora di più sul collo serpentino lanciando urla spaventose e continuando a dimenare la coda, ma la pioggia di macigni la distrasse abbastanza a lungo perché Brak riuscisse a girarsi e a mettere una mano sulla bocca di Elinor. In questa scomoda posizione, col fiato che gli usciva sibilando fra i denti, il barbaro sentì il tonfo della valanga che si abbatteva sul fondo del pozzo. Un momento dopo la testa della belva riprese ad abbassarsi, scendendo sotto il loro livello. Per alcuni istanti interminabili Brak tenne la mano premuta strettamente sulle labbra della ragazza. Pregò che la valanga avesse impedito a quell'essere di vederli, e quando gli giunse il prossimo muggito, da una profondità ancora maggiore, capì che era andata proprio così. Il barbaro mollò Elinor: «Non fiatare, o lui tornerà su! Se non lo fa, possiamo considerarci salvi, per il momento.» Appoggiando i palmi sull'orlo del cornicione, si sporse a guardare verso il fondo. L'apertura in cima al pozzo era così lontana dall'abisso in cui si trovavano loro che la luce giungeva debole, ingannevole; e tuttavia Brak ebbe l'impressione di scorgere grandi spirali iridescenti che si avvolgevano e riavvolgevano su se stesse. I due occhi rossi fluttuavano come due grandi lanterne. Poi si restrinsero, come se una specie di palpebre membranose fossero calate a velarli, e nel volgere di un istante si spensero, diventando neri.
Il barbaro si lasciò sfuggire un debole fischio: era in un bagno di sudore gelato, e a stento riuscì a fare un sorriso che in realtà non sentiva. «Adesso puoi metterti seduta, ragazza. Quella cosa infernale se ne è andata a dormire.» Elinor sedette e il tremito che la scuoteva cessò. Ma le sue guance erano ancora pallide. «Per quanto tempo dormirà?» sussurrò. «Non posso dirlo. Forse abbastanza per permetterci di uscire da questo buco, o almeno di provare. Adesso, se... ehi, che cosa c'è?» Elinor scuoteva la testa: «Non posso. Non mi resta un grammo di forza.» Lui le afferrò le spalle con rabbia. «Preferisci aspettare qui che venga a cercarci?» «No, Brak, ma non possiamo tornare indietro: gli uomini di Tamar Zed hanno richiuso la soglia una volta per tutte.» Indicò le tenebre che si stendevano impenetrabili dietro il cornicione, nel tunnel dove il Mago li aveva gettati. Brak invece prese la spada e la puntò verso l'alto: «Quella via è aperta.» «Come faremo a raggiungerla?» «Ci arrampicheremo» rispose lui, cupo «finché non arriveremo alla bocca del pozzo e saremo fuori.» Il pensiero di uno sforzo simile gettò nuovamente Elinor nel pianto. Con una rudezza che era soprattutto reazione al terrore appena passato, il barbaro la spinse con la schiena contro il muro di roccia. «Piagnucolare e lamentarsi non servirà a niente, ragazza! O cerchiamo di fuggire mentre il mostro dorme, o restiamo qui e aspettiamo che ci divori. E se anche non ci trovasse lui, moriremo di fame. Quale di queste prospettive preferisci? Io dico che dobbiamo tentare la nostra unica possibilità: salire.» Controllandosi con visibile sforzo, Elinor annuì. «Va... va bene. Tenterò.» «Riposati un minuto o due, poi cominceremo.» Brak si mise in piedi e puntò la grande spada verso la parete di roccia. «In un crepaccio laggiù ho visto delle piante. Aspetta.» Saggiando cautamente la superficie incrinata, il barbaro si mosse stancamente lungo il cornicione finché non raggiunse la sbrecciatura nella parete. Là crescevano verdi piante umide dagli steli lanuginosi. Brak strappò parecchi steli e li annusò, poi ne spezzettò uno sul palmo e lo masticò: la fibra era dolce, relativamente tenera. Dopo un attimo ne
mangiò un altro pezzetto. Soddisfatto, raccolse tutti quelli che poteva e li portò a Elinor. «Si possono mangiare, credo. Prendine qualcuno: servirà a darti forza.» Lieta di potersi dedicare a un'attività normale come quella di mangiare, la pastora spezzettò diversi steli nel modo che lui le mostrava e li mangiò. Anche se non era molto pieno, lo stomaco di Brak non brontolava più, e una certa calma si impadronì di entrambi. Alla fine Elinor si scostò una ciocca di capelli bruni che le era piovuta in faccia. «Quanto sarà lontana la cima, Brak?» «Non dobbiamo pensare in questo modo, ragazza, altrimenti non ci arriveremo mai. Pensa piuttosto che non è troppo lontana, e che un uomo e una donna forti possono farcela. Ora strappa un pezzo di stoffa dall'orlo del tuo vestito: voglio fare una cinghia per tenere la spada.» La ragazza gli girò la schiena: il suo pudore fece sorridere il gigante, ma il fatto che Elinor pensasse alla vergogna in un momento come quello era un buon segno. Il barbaro lanciò un'altra occhiata verso il fondo dell'abisso: buio totale. Solo il terribile odore di corruzione stava a ricordare la presenza dell'Uomoverme che dormiva nelle tenebre. Ma senza dubbio il minimo rumore lo avrebbe destato di nuovo, e purtroppo la scalata che stavano per fare non sarebbe stata silenziosa. Tuttavia non potevano permettersi di restare sul cornicione, a morire di fame o a impazzire, o tutte e due le cose. Questo era precisamente ciò che voleva Tamar Zed, e adesso Brak aveva un conto da regolare col Mago, oltre che con Nordica Chioma di Fuoco. Elinor gli passò la striscia di lana e lui l'assicurò all'impugnatura dello spadone, poi se la passò intorno alla spalla sinistra. «Sono pronto» disse Brak. «Da dove cominciamo?» «Laggiù, sulla sinistra. Vedi quello spuntone? Da quel punto in su la parete diventa ruvida e offre molti appigli. Andrò avanti io.» Le strinse brevemente la mano, cercando di darle una fiducia che nemmeno lui sentiva. «Attaccati alla pelle di leone alla mia vita. Quando cominceremo la scalata porterò il peso di tutti e due.» Lei cercò di sorridergli, ma non ci riuscì. Tendendo il braccio sinistro, Brak raggiunse lo spuntone che le aveva indicato, poi superò il piccolo dislivello tra il cornicione e la protuberanza
di pietra di cui intendeva servirsi come punto di partenza. Tenendosi aggrappato alla parete di roccia con la mano sinistra tese la destra a Elinor, dietro di lui. La ragazza gli afferrò il polso e saltò a sua volta. Quando toccò coi piedi lo spuntone cozzò contro di lui, e per un momento barbaro e ragazza corsero il serio pericolo di volare giù nel tunnel vuoto. Ma Brak si teneva ancorato saldamente, i muscoli tesi e guizzanti nelle spalle potenti. Elinor si aggrappò alla pelle di leone e se l'annodò strettamente intorno alla vita. Quando ebbero riacquistato entrambi l'equilibrio lei fece un sorriso, e stavolta gli occhi mostravano davvero un po' di coraggio, un po' di speranza. Quel primo piccolo passo sullo spuntone aveva dimostrato che una possibilità c'era, che forse potevano sopravvivere. Brak le restituì il sorriso. Era un ottimismo vuoto, comunque: la parete del pozzo era alta, molto alta sulle loro teste, e la vaga apertura al livello del suolo era appena una chiazza di lucore grigiastro. Con un grugnito Brak si attaccò alla pietra successiva e cominciò a salire. Un momento dopo tirò Elinor dietro di sé. Salì ancora. Quanto tempo impiegasse in quella spaventosa scalata Brak non avrebbe saputo dire; si muovevano cautamente, e lui saggiava ogni appiglio con estrema cautela prima ai attaccarvisi con tutto il peso o di appoggiarvi i piedi. La loro linea di ascesa non era diretta: molte volte furono costretti a muoversi verso sinistra o destra per trovare il prossimo appiglio sicuro. Dopo un po' il braccio di Brak cominciò a dolere, ma lui non disse niente. La pallida luce sopra di loro cominciava a sembrargli irraggiungibile. Fermatosi a riposare su un altro cornicione, Brak ansimò: «Come va, ragazza?» «Sento dolore. Tutto il corpo è un dolore.» «Te la senti di continuare?» «Se siamo arrivati fin qui, tanto vale fare il resto.» «Bene» fu tutto ciò che lui le rispose. E là, perduti nel pozzo misterioso dove dormiva l'Uomoverme, abbandonati perfino dai loro nemici, di fronte a ostacoli che qualunque uomo sano di mente avrebbe rinunciato ad affrontare fin dal principio, Brak provò un improvviso affetto per la ragazza magra, timida che era con lui. Si protese verso di lei, goffamente: nelle alte steppo, dove era nato, le maniere fini erano sconosciute. Le posò una mano sulla guancia. La pelle di Elinor era calda; lei chiuse la sua mano sulle dita di Brak, poi, imbarazzata, lasciò la stretta.
Il barbaro rise piano. Quel nuovo senso di cameratismo con la ragazza gli diede un rinnovato vigore. «Siamo quasi a metà strada» disse. «Vedi quell'ombra nera, laggiù? Penso che sia un altro cornicione, e sembra grande. Arrivati là potremo riposare.» Elinor annuì e Brak alzò la gamba destra per salire sulla prossima sporgenza di roccia. Il cornicione si trovava a meno di quattro spade sopra di loro: sembrava quasi uno scherzo raggiungerlo. Quando l'avessero fatto, la prima parte della scalata sarebbe finita. Brak trainava sempre anche il peso di Elinor: adesso, con uno sforzo, toccò l'estremità del cornicione che si stendeva proprio sopra la sua testa. «Difficile» mugugnò. «Dovrò piegarmi e fare un salto, altrimenti non ci arrivo. Quando sarò saltato su ti attaccherai alle mie gambe, e io cercherò di tirare su entrambi.» Elinor inspirò profondamente, segno che aveva capito il pericolo della manovra, e Brak si sistemò meglio la cinghia improvvisata che reggeva la spada. Si passò un braccio sulla bocca e scostò i capelli gialli dalla fronte. Poi unì le gambe e saltò. Per un istante folle ebbe la sensazione di fluttuare senza scampo proprio sulla testa dell'Uomoverme addormentato; poi, con un grido involontario, allungò le mani e afferrò il costone di pietra. Ma la sinistra scivolò. Adesso si teneva solo con la destra, e i muscoli si torcevano, vibrando. Dondolava nello spazio, appeso a cinque dita. Gradualmente, con cautela, alzò di nuovo la mano sinistra e infine afferrò la presa. Quando si sentì sicuro, si voltò verso la ragazza: «Avanti, ora. Salta e afferrati alle mie gambe.» Nello stesso momento in cui pronunciò le parole si tese, pronto a sopportare il nuovo peso; il fardello arrivò improvviso, trascinante, e il barbaro si sentì attratto irresistibilmente verso il basso. «Brak! Brak, non ce la faccio a tenermi... Sto cadendo!» Era vero, lo sentiva. Le braccia di lei, serrate intorno alle gambe possenti, stavano scivolando. Lui si affondò i denti nelle labbra, poi lentamente, molto lentamente, con uno sforzo inumano cominciò a tirarsi su. La sua fronte raggiunse l'orlo del cornicione. Poi fu la volta del mento.
Ma il peso di Elinor lo trascinava ancora verso il vuoto, e tutta la sua forza non sarebbe servita a niente. Ormai lei scivolava sempre più in fretta. Brak si issò più in alto... Più in alto... Adesso era il collo a trovarsi all'altezza del costone. E poi il petto. E il ventre. Elinor si lamentava piano, ma perdeva la presa inesorabilmente. Brak si tuffò in avanti con la testa e il petto, toccando la superficie del cornicione. Sfinito, giacque in quella posizione solo per qualche istante, poi cominciò a strisciare col corpo sulla pietra. «Afferra il cornicione con una mano» disse, strozzato. «Poi ti tirerò su.» Elinor si lasciò sfuggire un debole gemito, ma Brak sentì che il peso alle gambe diminuiva. Girò la testa e vide le dita bianche di lei che si tendevano verso il bordo di pietra. Quando l'ebbero afferrato, lui volò con le gambe verso l'alto, in modo che adesso tutto il suo corpo si trovava sul cornicione. Nello stesso istante afferrò disperatamente il braccio di Elinor, proprio mentre la mano sinistra della ragazza scivolava e lei cominciava a cadere. Ma ora la teneva: prima per una mano, poi per tutte e due. Un momento dopo, stremato, issò la sua compagna sul costone di roccia, la salvezza. Ansimando e tremando incontrollabilmente giacquero uno accanto all'altro per parecchio tempo. Finalmente Brak si alzò per esplorare il costone. Era vagamente triangolare, e i lati superiori convergevano in una zona tenebrosa dietro di loro. Il nero di quelle ombre era ancora più assoluto che nel resto del pozzo, e Brak si chiese se non potesse trattarsi dell'imbocco di una caverna. Stava per muovere un passo in quella direzione e scoprirlo, quando s'irrigidì. «Elinor» sussurrò, senza girarsi «resta ferma e immobile. C'è qualcosa che respira, là in fondo.» Non c'era da sbagliarsi: avvertiva chiaramente il sibilo di un ansito. Brak liberò cautamente la grande spada, piantandosi saldamente sulle gambe divaricate. Il rumore che avevano fatto arrampicandosi doveva aver svegliato l'essere che abitava nella caverna, di qualunque cosa si trattasse. Oltre al rumore del respiro si sentiva un passo strascicato, incerto, come di qualcuno o qualcosa che si trascinasse fuori dalla sua tana. Brak fece un passo avanti, piegato, nella posizione del combattimento. E
poi, con un fruscio della veste, un grido rauco e una zaffata d'aria muffosa, l'apparizione sbucò dalla caverna. Unghie che erano veri e propri artigli si avventarono contro la guancia di Brak, e i cenci ammuffiti svolazzarono tutto intorno. Momentaneamente accecato, Brak strinse entrambe le mani sull'impugnatura della spada, alzando la lama sulla testa per dare un colpo che avrebbe spaccato quella cosa a metà. «No!» gridò Elinor. «È solo un vecchio!» Con un gesto rabbioso il barbaro sviò il colpo di spada e arretrò, toccando con la schiena il muro di roccia. Adesso la cosa che era uscita barcollando dalla caverna era meglio visibile, grazie alla luce che veniva dall'alto. Brak strabuzzò gli occhi: era una specie di scheletro camminante, ed era incredibilmente sudicio. Le sopracciglia e la barba erano cespugli bianchi, arruffatissimi. La "veste" si era ridotta ormai a una serie di brandelli cenciosi, su uno dei quali il barbaro notò tuttavia una luna crescente cucita con filo dorato. I piccoli occhi tutt'altro che incassati nella pelle rugosa, sporcogiallastra, saettavano continuamente dalla spada di Brak alla sua faccia. L'apparizione sembrava temere per la propria vita, e mugolava continuamente: «Uhhh, uhhh, uhhh.» Il barbaro sentì un brivido salirgli lungo la spina dorsale, perché adesso pensava di sapere il nome di quell'orrore umano. «Alchimista...» sussurrò. «Uhhh.» «Sei Celso Hyrcano?» Il vecchio si fece schermo con le mani, come per evitare dei colpi immaginari. «Uhhh! Uhhh!» «Alchimista, ascolta! Questa ragazza e io non vogliamo farti del male.» La figura tremante pronunciò qualche parola che suonò vagamente come: «Via! Via! Non vi conosco.» «Siamo stati intrappolati dallo stesso nemico che ha rinchiuso te. Il Mago...» Piccole bollicine di saliva si formarono intorno alle sue labbra screpolate, e il poveretto agitò le braccia ancora una volta: «Si chiama Tamar. È cattivo, cattivo, come voi.» «Sì, Tamar. È lui che ci ha gettati qui. È in combutta con tua figlia.» «Non mia!» gridò il vecchio, stavolta con penetrante chiarezza. «Non mia, adesso! È posseduta, il male l'ha presa per sé... Il male ha trasformato
mia figlia in... uhhh! Uhhh!» Il vecchio si coprì la faccia barbuta con le mani, come se il ricordo di Nordica l'avesse sopraffatto. Brak si passò un braccio sulla bocca, poi si morse un labbro e cominciò a pensare alle parole che il vecchio aveva borbottato un momento prima: "È posseduta". Ma posseduta da cosa? O chi? Ancora una volta la sensazione del maleficio incombente gli riempì il cuore, e ripensò al volto di Ariane. Impossibile! Era morta. Ma non gli avevano detto, i Nestoriani, che il male fatto da YobHaggoth e dai suoi protetti poteva solo sopirsi, mai morire? La frana misteriosa al bivio, lo sguardo beffardo negli occhi di Nordica Chioma di Fuoco, l'inquietante certezza di averla già vista in passato, e ora l'orrore di questo vecchio disgraziato secondo cui sua figlia era posseduta da una potenza esterna: tutto combaciava come in un sinistro mosaico. La figura scheletrica aveva ripreso a cantilenare, rivolta a lui: «Voi siete... uhhh... nemici come loro... Via! Via!» «Non siamo nemici» insisté Brak. L'apparizione tuttavia urlava e agitava le braccia: «Uhhh! Uhhh!» Il barbaro fece un ultimo tentativo, tendendo lentamente la mano in segno di pace, ma il vecchio si rannicchiò terrorizzato contro il muro, tremando e gemendo. I suoi occhietti erano piccole scintille umide nelle tenebre che lo circondavano. Alle spalle del barbaro Elinor sussurrò: «È veramente l'alchimista?» «Guarda i simboli del sole e della luna cuciti sui brandelli del vestito.» «Ma allora è vivo, Brak!» «Evidentemente né la strega né il Mago sapevano che il tunnel conduceva a questo pozzo: è l'unica spiegazione. Oppure lo sapevano ma pensavano che il vecchio sarebbe morto di fame e di stenti. Invece è riuscito a sopravvivere abbastanza da raggiungere il cornicione: senza dubbio le piante che abbiamo mangiato noi, o altre simili, lo hanno sostenuto. Voglio dire, hanno sostenuto il suo corpo. Il resto di lui, la mente...» Brak fece una smorfia, indicando Celso Hyrcano. Anche quel semplice movimento terrorizzò il disgraziato. «Uhhh, uhhh, uhhh!» Quasi gridando l'inerme apparizione fece un passo, scostandosi dal muro e agitando le braccia disperatamente. Per un momento la sua faccia fu illuminata meglio, e con orrore Brak vide che i pochi tratti di pelle non na-
scosti dalla barba selvatica erano coperti da orribili pustole verdegrigiastro. I piccoli occhi che sembravano voler schizzare dalle orbite brillavano del terrore dell'uomo il cui regno di follia è stato improvvisamente invaso. I suoi gemiti diventavano sempre più acuti. «Non ti faremo nulla, vecchio» ricominciò Brak. «Se mi ascolti un momento...» Ma l'altro non gli prestò attenzione. Ricominciò a lamentarsi: «Via, via!» «Celso Hyrcano!» ruggì il barbaro. «Noi siamo tuoi amici, e ti porteremo fuori di qui!» «È inutile» disse Elinor. «Nella sua testa non è rimasto niente, tranne il terrore.» Brak si rese conto che era vero: quella pietosa creatura avanzava zoppicando, attenta a ogni passo che faceva, come i bambini; con le unghie lunghissime artigliava l'aria inutilmente, ripetendo i suoi lamenti insensati. L'unico istinto vigile nella sua mente doveva essere l'oscura volontà di difendere quel suo nido di sudiciume, ed era stato quello a spingerlo a uscire. Poi il barbaro si rese conto che l'alchimista stava urlando come un dannato, e sentì un nodo allo stomaco. In fondo al pozzo si udì un brontolìo, simile a un muggito riuscito male. Non c'era più tempo per gli scrupoli: Brak fece un balzo e strinse il gomito intorno al collo ossuto del vecchio. «Sta' zitto!» gli ordinò, spingendolo verso la caverna. Ma l'alchimista si rivelò soprendentemente forte: tirava colpi con le mani e scalciava con la furia del demente. Più d'uno schiaffo raggiunse Brak, che divenne furibondo: «Sta' zitto, ho detto! Sveglierai il mostro che dorme là sotto, e saremo tutti...» Il cornicione tremò, e un rumore di tuono salì dal buio, provocato dalla coda del mostro. Celso s'irrigidì un momento nella stretta di Brak, come se anche lui riconoscesse la natura di quel suono. Ai margini della bocca del vecchio luccicava la bava. Ripeté un'unica parola: «Uomoverme.» Un muggito seguiva l'altro, e Brak gettò da una parte l'alchimista, imprecando per la disperazione. Elinor si allontanò dal bordo del costone e il barbaro si rese conto che il braccio destro, quello con cui avrebbe dovuto impugnare la spada, era stanco e intorpidito.
Celso si ritirò nella caverna, continuando a urlare; le grida echeggiarono tra le pareti del pozzo finché i versi agghiaccianti dell'Uomoverme lo sommersero completamente. Brak si mise in posizione sul bordo del cornicione. Disse a Elinor: «Mettiti dietro di me, e stai nascosta.» Gli occhi rossi nella testa gigantesca sorgevano rapidamente dal buio. La coda percuoteva come una furia le pareti di roccia. Questa volta la battaglia era inevitabile. VIII Spada contro demonio Nel suo viaggio verso il Khurdisan, Brak aveva attraversato terre sconosciute e aveva visto non pochi spettacoli innaturali e spaventosi. Ma tutte le passate esperienze furono dimenticate in un istante quando si ritrovò su quel lembo di roccia a fronteggiare l'Uomoverme che emergeva dall'abisso. Il fetore che usciva dalle fauci spalancate del mostro era l'odore della terra, niente altro: ma della terra decomposta, corrotta dal trascorrere dei secoli infiniti. Ed era opprimente, disgustoso. Paragonato al colossale abitatore del pozzo, Brak sembrava una figuretta inerme nonostante le sue dimensioni. Stava fermo sulle gambe divaricate, la testa leggermente piegata, gli occhi fissi e circospetti puntati in basso, dove cresceva la cosa mostruosa a forma di rettile. Poi, come se avesse bevuto una sorsata di vino ristoratore, il barbaro alzò il mento e cominciò a ridere, piano ma seccamente. Si sistemò la pelle di leone sulle anche, ridendo ancora. È vero, aveva paura, ma si rendeva conto che probabilmente sarebbe morto comunque, nel tunnel; quindi, poiché la sua vita non aveva valore, non doveva permettere che il timore di perderla lo indebolisse proprio mentre l'Uomoverme attaccava. Alle sue spalle Elinor cercò di appiattirsi contro la parete di roccia, mentre dalla caverna in cui Celso si era rifugiato continuavano a uscire i suoi folli lamenti. Adesso il mostro era quasi al livello di Brak. Quell'incubo a forma di serpente non riuscì a localizzare immediatamente la sua preda, e la coda scagliosa saettò invano, con movimenti ritmici. Era così lunga e forte che ogni frustata contro le pareti della caverna provocava la frana di grossi pezzi d'ardesia, che precipitavano nel fondo dell'abisso.
Quando i grandi occhi rossi furono a livello del cornicione l'Uomoverme mandò un urlo terrificante: tra le fauci spalancate e le zanne alte quanto un uomo saettò la sua lingua sbavante, triforcuta. Quell'orrida appendice scattava nella speranza di catturare un immaginario boccone nell'aria; Brak sollevò la grande spada all'altezza della spalla mentre l'eccitazione si impadroniva di lui. La lingua triforcuta colpiva alla cieca, e questo voleva dire che il mostro non sapeva che lui era sul cornicione, a soli due passi. Stavolta la lingua balenò più vicina. Più vicina. Un attimo prima che l'Uomoverme finisse il tremendo muggito e la lingua, adesso completamente esposta, cominciasse a ritirarsi, Brak calò la lama e colpì con tutta la forza del suo braccio. L'Uomoverme avvertì lo spostamento d'aria mentre la spada si abbassava, e per un istante i grandi occhi diventarono ancora più rossi. Il lungo collo tubolare si torse, la testa girò, tentando di sottrarsi istintivamente al dolore che gli martoriava la bocca. La lama di Brak affondò in profondità nella carne untuosa; due delle tre punte della lingua furono recise, mentre dalla ferita sprizzava su Brak un icore nerastro, putrescente. Adesso il mostro lo aveva visto, e sapeva che lui era la piccola cosa insignificante che gli aveva causato tanto dolore. Indietreggiò verso la parete opposta del pozzo, urlando in toni sempre più agghiaccianti. Era un ruggito così terribile che il barbaro pensò che una lancia gli stesse spaccando il cervello; la pelle spruzzata dalle goccioline di icore gli bruciava fortemente. L'Uomoverme allungò la testa sul collo flessibile, e Brak indietreggiò immediatamente verso il fondo del cornicione, mentre il mostro colpiva la parete del pozzo. Un'altra spruzzata di icore gli piovve addosso, terribilmente dolorosa. Il liquido ruscellava dalla lingua ferita mentre il mostro frustava la roccia con la coda, ritmicamente, a indicare la furia che si era impadronita di lui. Il ruggito nel pozzo era continuo. Mentre si ritirava, Brak vide la lingua saettare ancora: si protendeva verso il cornicione come una mano esploratrice, e lui alzò la spada per menare un altro colpo, ma urlò di dolore perché era scivolato con un piede in una pozza del nero liquido vitale del mostro. Da qualche parte, nel buio, Elinor vide Brak cadere e gridò.
La lingua dell'Uomoverme lambì il ventre del barbaro, si soffermò sulle sue costole e finalmente guizzò sotto di lui. Menando inutili fendenti con la spada, Brak venne sollevato dal cornicione di pietra e trasportato nell'aria verso la bocca del mostro. Le file di zanne si avventavano verso di lui, mentre la lingua lo stritolava, minacciando di finirlo prima ancora. Tra un istante sarebbe stato schiacciato, o inghiottito dalle fauci gigantesche che cominciavano già a chiudersi. Adesso il barbaro era sospeso sul vuoto dell'abisso, bruciando dalla testa ai piedi a causa dell'icore che gli pioveva addosso dalle ferite del mostro. E le fauci erano più vicine, più vicine... Pur contorcendosi nel dolore intollerabile, Brak riuscì a impugnare la grande spada con entrambe le mani e ad alzarla verso l'alto. Diresse la punta verso una cresta cartilaginosa, bianco-rosata, proprio sopra gli alveoli delle zanne superiori dell'Uomoverme. Se per caso la cresta era più dura di quello che lui si aspettava, a parte l'effetto della luce ingannevole, la sua vita era finita... Tese il corpo, preparandosi al contatto della spada contro la cartilagine, e quando la grande lingua lo attirò fra le zanne bianche, gocciolanti, la lama colpì e affondò nel bersaglio. La lingua si strinse ancora più ferocemente intorno al ventre del barbaro, che cominciò a scalciare follemente. Le piante nude dei piedi corsero sulla superficie dura, umida, di due enormi zanne inferiori. Richiamando ogni oncia di forza, con gli occhi che bruciavano e le tempie che gli dolevano come se il sangue dovesse scoppiare, Brak irrigidì il grande corpo: con le gambe puntate contro i due denti inferiori del mostro e la spada conficcata nella cartilagine, il barbaro si era trasformato in un cuneo umano che obbligava le fauci dell'Uomoverme a restare aperte. Solo questa posizione gli avrebbe evitato di venire inghiottito nella bocca del mostro: ma quanto avrebbe potuto resistere in quell'assurda tensione, rischiando di spezzarsi la schiena, era un'altra faccenda. L'Uomoverme sentiva la resistenza della preda, e i muscoli della lingua cominciarono a stringere di nuovo. Brak si sentiva il ventre schiacciato, maciullato, devastato dal dolore; il piede destro scivolò dal dente contro cui si era puntellato e disperatamente cercò un altro punto su cui fare resistenza. Invece di esercitare una pressione continua, la lingua del mostro aveva cominciato a stringersi ritmicamente, ma ad ogni colpo la violenza della spirale che avviluppava il barbaro aumentava, costringendolo a urlare di
dolore. Poteva resistere in questa posizione solo per un altro secondo: un attimo di più e la spina dorsale gli si sarebbe spezzata. Sopportò la tremenda pressione della stretta successiva, poi, nella breve pausa che seguì, Brak liberò la spada dalla cartilagine e colpì con violenza il centro della lingua mostruosa. L'Uomoverme diede uno scarto, e il barbaro fu quasi accecato dalla luce rossa riflessa dagli occhi orrendi. Ma aveva centrato il bersaglio: le sue gambe furono tormentate dagli spruzzi dell'icore urticante. La stretta intorno alla sua vita si allentò; colpendo all'impazzata con la spada libera, Brak riuscì a liberarsi dalle spirali che lo imprigionavano: prima mise fuori le anche, poi tutta la parte inferiore del corpo. La lingua stava cominciando ad afflosciarsi. Il barbaro fece un salto e si arrampicò sul muso del mostro: era una protuberanza cornea grande come un tumulo su una collina. Si arrampicò sull'aculeo che divideva il muso della bestia. Di nuovo l'Uomoverme torse la testa e Brak fu scagliato contro la parete piatta che stava fra gli enormi occhi rossi: tuttavia le scaglie di cui il rettile era ricoperto gli offrivano un buon appiglio. Si attaccò ad una di esse mentre l'Uomoverme si dimenava come un ossesso, in preda al dolore. La testa enorme si abbassava, ondeggiava, si muoveva di lato. Alle estremità gli occhi bruciavano come ovali rossi, due volte più alti di Brak, ma come un insetto tenace lui resisteva, e invano il mostro cercava di scrollarsi dal muso il nemico irritante che si nascondeva fra le sue scaglie. Quasi impazzito nel delirio della battaglia, Brak respirava a scatti, come se singhiozzasse. Il corpo gli doleva in mille parti, e tuttavia non poteva abbandonare adesso, né lo voleva. La furia dell'invasato si era impadronita di lui, trasformandolo in una belva con un solo scopo, lo stesso dell'Uomoverme: uccidere il suo nemico. Le convulsioni del gigantesco mostro continuavano a provocare crolli; i macigni sprofondavano con immenso fragore nel fondo dell'abisso, e il pozzo tremava sotto la luce che diventava sempre più fioca. Poi, improvvisamente, Brak vide ciò che forse avrebbe potuto dargli la vittoria. Se fosse riuscito ad avvicinarsi a uno degli occhi e ad affondare la grande spada nell'orbita, probabilmente avrebbe raggiunto il cervello della belva. L'icore nero che gli copriva il corpo rifletteva il maligno bagliore rossastro di quegli occhi enormi. Il barbaro si assicurò con la mano sinistra a
una scaglia, poi mosse un passo in direzione dell'orbita destra. Benché la pelle dell'Uomoverme fosse del tutto coriacea, sembrava avere una sua bizzarra sensibilità: il movimento di Brak rivelò al mostro dove si trovava la sua preda, e una delle zampe anteriori emerse dal pozzo, simile a una mano deforme. L'altra zampa stringeva invece il bordo del cornicione dove era cominciata la battaglia. La zampa libera volò nell'aria: Brak si appiattì di nuovo tra gli occhi del rettile, mentre dodici artigli affilati come falci si richiudevano lentamente, cercando di afferrarlo nel suo nascondiglio. Gli artigli formavano un circolo bianco di punte aguzze che frugavano dappertutto, graffiando la pelle corazzata, ma non riuscirono a trovare il barbaro. L'Uomoverme si colpì di nuovo il muso, alla cieca, sperando di intrappolare il nemico che sentiva ma non poteva vedere. Un artiglio sfiorò la coscia destra di Brak, aprendo un largo squarcio. Le grinfie tornarono alla carica una terza volta: mancarono il barbaro per un pelo e lui si rese conto che più aspettava fermo in quella posizione meno possibilità aveva di rimanere vivo e di dare il colpo mortale al mostro. L'Uomoverme ritirò la zampa preparandosi al prossimo colpo. I suoi muggiti diventavano sempre più profondi, tra il rintronare dei massi che franavano. Prima che gli artigli avessero un'altra possibilità, il barbaro balzò verso l'occhio destro. Inciampò con un piede fra le scaglie, e finì lungo disteso. La zampa mostruosa scendeva verso di lui, ma un macigno, simile al proiettile di una catapulta, la centrò in pieno, provocando nell'Uomoverme un urlo di dolore. Gli artigli si aprirono e afferrarono freneticamente l'aria vuota: il masso, che il mostro aveva scambiato erroneamente per Brak, continuò la sua corsa precipitosa verso le tenebre. Avendo guadagnato quell'istante prezioso, il barbaro ne approfittò per puntellarsi sulle gambe e slanciarsi in avanti, col braccio destro teso verso il bersaglio. La grande spada brillava come se fosse fatta di fuoco, riflettendo la luce rossa dell'immenso occhio. La punta colpì le scaglie dure dell'orbita. Brak spinse, spinse con tutta la sua forza, e infine l'estremità della lama perforò un'ultima scaglia e affondò nella materia morbida oltre l'orlo dell'orbita. Con un folle grido di trionfo il barbaro prese l'impugnatura con entrambe le mani e immerse la lama a fondo, fino all'elsa, rigirandola nella ferita. L'occhio del mostro, così fiammeggiante un momento prima, cominciò a
velarsi di una nera oscurità, mentre l'Uomoverme, colpito a morte, fremeva in una disperata convulsione. La testa si sollevò in alto, sempre più in alto, nelle tenebre della caverna, animata dal dolore che travolgeva il colosso. Brak riuscì ad aggrapparsi a una scaglia tra i due occhi, e notò che anche il sinistro aveva cominciato a spegnersi. Al culmine dell'arco descritto dal suo grande corpo tormentato, l'Uomoverme emise un muggito più forte di tutti quelli che lo avevano preceduto, e a quella vibrazione la gigantesca caverna sembrò crollare letteralmente. Sotto i piedi del barbaro le scaglie del muso erano inzuppate di icore, e il liquido nero zampillava dalla ferita tutto intorno all'elsa della spada. E infine Brak scivolò, perse il sostegno mentre il mostro dava un ennesimo scarto con la testa nel vano tentativo di liberarsi della punta di ferro conficcata nel cervello. Il barbaro precipitò giù, giù, attraverso il vuoto, senza trovare appigli possibili per le mani o i piedi: c'era solo il buio. Aveva vinto, ma aveva anche provocato la sua fine: l'Uomoverme era riuscito a scrollarselo di dosso, e adesso lui sarebbe andato a sfracellarsi nelle remote profondità del pozzo, schiacciato per giunta dalla carcassa puzzolente che stava crollando con la violenza di un'apocalisse. Poi, inaspettatamente, le gambe del barbaro urtarono qualcosa di duro ma ricoperto di fango: Brak alzò le braccia disperatamente, per non precipitare oltre quell'unico appiglio. Immediatamente ricevette una scossa inaudita, e per evitare colpi ancora più violenti buttò indietro la testa, a rischio di spezzarsi l'osso del collo. Attraverso il dolore e la confusione riuscì a capire ugualmente di essere atterrato sulla coda dell'Uomoverme: coda che, come il mostro, si dibatteva freneticamente in una disperata agonia. A suon di colpi il barbaro fu portato verso un lato del pozzo: ancora un momento e sarebbe stato ridotto in poltiglia... Ma un attimo prima di essere schiacciato contro la parete di roccia, Brak lasciò la presa. Tuttavia la coda gli aveva già impresso una notevole accelerazione, che lo scaraventò lontano: il barbaro urtò brutalmente la roccia, e solo l'istinto gli fece cercare un appiglio quando si rese conto che le gambe non lo sostenevano. Con un brusco movimento strinse le ginocchia intorno alla protuberanza su cui era caduto e infilò le dita in un sottile interstizio nella parete, incu-
neandovele nonostante il dolore. Chiuse gli occhi e rimase inerte nel buio. I massi aguzzi continuavano a precipitare nell'abisso, ma l'Uomoverme era caduto molto lontano da lui. Gli occhi rossi del moribondo erano soltanto due macchie opache, e confuse. Perfino il verso agghiacciante della belva era udibile a stento. Poi ci fu un ultimo tonfo, un'ultima percossa rabbiosa della coda contro la parete rocciosa, e infine la calma. Non cadevano più massi, e il terribile ruggito aveva lasciato il posto al silenzio. Le luci rosse si affievolirono e finalmente si spensero. Con la guancia contro la fredda parete, le dita infilate nell'intestizio, il barbaro chiuse di nuovo gli occhi. Lasciò che le calde, salate lacrime dello sfinimento e del trionfo scorressero liberamente sulle sue guance. Quando riacquistò la padronanza di sé, tirò fuori le dita dal loro momentaneo rifugio e spazzando ogni pensiero di dolore dal suo corpo cominciò la scalata in direzione del costone su cui aveva lasciato Elinor. Si sentiva terribilmente solo e sconsolato nella semioscurità. Aveva perso la spada, forse era stato ferito gravemente: non era più capace, per esempio, di vedere chiaramente, mentre prima la luce che pioveva dall'apertura in alto gli aveva permesso di distinguere i particolari della caverna con una certa precisione. E se riusciva nella scalata era soprattutto per istinto e forza di volontà; mentre saliva, comunque, chiamò nel buio: «Elinor!» Silenzio. Chiamò un'altra volta. Aveva quasi abbandonato la speranza di udire la sua voce, pensando che magari il vecchio Celso, nella sua follia, l'avesse uccisa, quando lei rispose. «Brak!» E allora una nuova forza corse dentro di lui, aiutandolo a salire più velocemente. «Continua a gridare, ragazza. Più forte che puoi, così capirò esattamente dove ti trovi.» E da qualche parte sopra la sua testa il barbaro sentì le esclamazioni di sorpresa e di gioia della sua compagna. Come le aveva chiesto di fare, Elinor gridò il suo nome più e più volte nel silenzio del pozzo. Con le ultime forze che gli restavano, Brak si diresse verso il punto da cui proveniva la voce. Poi di colpo la parete si allargò sopra di lui; adesso il richiamo di Elinor
era vicinissimo. Brak si tirò su, prima una gamba, poi l'altra, e ansimando si ritrovò sul cornicione. Puzzava degli umori dell'Uomoverme, del suo stesso sangue e di sudore. La ragazza si fece piccola davanti a lui. «Il mostro... morto» mormorò il barbaro tra le labbra insanguinate. «Adesso possiamo andarcene... fuori... fuori del...» Aveva la testa piena di piccole luci danzanti, e il dolore lo scuoteva a ondate. Un abisso nero inghiottì la sua mente, tutto il suo essere, poi Brak piombò a terra e rimase supino sulla grande schiena, privo di sensi. Quando si svegliò, il gigantesco barbaro udì un debole parlottìo e si rese conto di sentirsi molto diversamente da prima. Con un grugnito si girò sul fianco. Scosse la testa, per schiarirsi le idee. Pallida, emaciata, Elinor era inginocchiata accanto a lui. Con il suo aiuto Brak riuscì a tirarsi in piedi. Fu uno sforzo doloroso, ma a parte la stanchezza gli sembrava di non avere niente di rotto. Infine localizzò la fonte del parlottìo: la caverna di Celso. «L'alchimista è ancora nascosto nella sua tana?» s'informò. «Sì, Brak. L'ho chiamato parecchie volte perché mi aiutasse, ma non ha mai risposto.» «Per quanto tempo ho dormito?» «Parecchie ore, credo, ma non lo so con esattezza. Ho fatto un sonnellino anch'io, seduta accanto a te. Facevo la guardia.» Indicò una macchia di piante in cattivo stato, simili al muschio, che crescevano lì vicino e continuò: «Ho usato quelle per ripulirti di quella roba nera. Ho fatto quel che ho potuto. Ma che cos'era? Ne eri completamente coperto.» «Il sangue dell'Uomoverme. Adesso non ne scorrerà più.» Si mise in piedi e strinse la mano di lei. L'attirò a sé e guardò verso il vago soffitto della caverna. Non le disse niente a proposito del fatto che nel pozzo la luce gli era sembrata più fioca: adesso, poi, non si vedeva quasi più. Disse invece: «Dobbiamo cercare di uscire di qui. Salirò da solo per accertarmi che non ci siano pericoli. Tu rimarrai qui fino al mio ritorno.» «No» replicò lei prontamente. «Non qui, vicino a quel vecchio pazzo nascosto nel suo buco.»
I miagolii e le ciance che uscivano dalla caverna di Celso erano un'insensata parodia del linguaggio degli uomini. Brak studiò attentamente il viso di Elinor: gli occhi avevano uno splendore vitreo, come se le esperienze che avevano attraversato fossero più di quanto la sua mente riuscisse a sopportare. Era meglio non farle pressioni. «Benissimo, allora» disse Brak stancamente. «Saliremo tutti e due fino al prossimo cornicione, poi ti lascerò là e continuerò da solo.» Elinor convenne che era un buon compromesso. Il barbaro le prese la mano e la condusse oltre l'orlo del costone. Ancora una volta, Brak in testa e la pastora assicurata alla sua pelle di leone, la coppia cominciò la scalata verso la salvezza. A poca distanza dal cornicione dove viveva Celso ne trovarono un altro più stretto; qui il barbaro lasciò la ragazza mentre lui continuava l'ascesa da solo. Il corpo gli doleva ancora a causa della terribile battaglia con l'Uomoverme, ma cercò di sopire la sofferenza costringendosi a pensare alla fuga, e a quanto desiderava vendicarsi di Nordica Chioma di Fuoco e di Tamar Zed. Poi, molto prima di raggiungere l'apertura in cima al pozzo, si rese conto del perché la luce si era tanto affievolita. Col cuore in gola percorse la strada che rimaneva, e quando fu arrivato spese parecchio tempo, e altrettante maledizioni, nel tentativo di rimuovere il grosso macigno che bloccava l'uscita. Non ci riuscì affatto. Era uno di quelli che, nello squasso generale, si erano staccati dalle pareti del budello che collegava il pozzo dell'Uomoverme con l'esterno. Batté inutilmente i pugni contro il masso, maledicendo tutti gli dèi oscuri della terra. Poi cominciò la laboriosa discesa. Quando raggiunse Elinor le disse: «Le convulsioni del mostro hanno fatto cadere parecchi macigni, e adesso la nostra uscita è bloccata: c'è solo un'apertura piccolissima, dove può passare a stento una mano. Oltre l'apertura, nel budello che conduce all'esterno, deve esserci stata una vera frana. Per quello che ne so, il budello potrebbe essere completamente ostruito. Ecco perché la luce è così debole.» Vedendo l'espressione sconfortata sul viso di Brak, Elinor disse: «Allora, dopo tutto questo, resteremo imbottigliati?» «Non è detto. Noi...» «Sì invece! Imbottigliati fino alla morte!» «Non gridarmi nelle orecchie, ragazza.» «Ho paura, Brak.»
«E di che?» fece lui, con una smorfia. «L'Uomoverme è morto.» «Di...» Il suo corpo sembrò scosso da un tremito strano, involontario. «...Di tutto. Il vecchio nella caverna, la strega, il Mago. È come se gli dèi del male ci avessero maledetti.» «Sciocchezze» rispose il barbaro, ma abbassò gli occhi: gli pareva di vedere una figura semi-umana, acquattata, coi pugni di pietra sulle cosce incrociate e la bocca di pietra incurvata in una smorfia maligna. I grandi occhi scolpiti vedevano la situazione disperata in cui si trovavano il barbaro e la ragazza, e ne erano soddisfatti... Ma perché continuava a tormentarsi con quei fantasmi? Perché gli veniva in mente l'idolo di Yob-Haggoth in una situazione come quella? Apparentemente non c'era motivo, eppure qualcosa lo turbava, qualcosa che aveva visto o sentito nel castello di Nordica. Che cos'era? Ma la sua mente esausta rifiutava di dargli una risposta. Cercò di scacciare quei misteri come meglio poteva, perché Elinor gli aveva stretto un braccio e le lacrime scorrevano come fili d'argento sulla sua faccia sconsolata: «Io ho pregato i miei dèi, Brak. Ma non è servito a niente.» «Forse sì, invece: mi hanno aiutato contro l'Uomoverme» replicò lui con una punta di cinismo. «Siamo nella stessa situazione in cui eravamo prima dell'arrivo del mostro.» «Ma almeno siamo vivi, e il peggio è passato.» Naturalmente mentiva: erano all'opera forze potenti e sinistre, e non solo nel pozzo, ma nel complesso ordito dei piani di Nordica. C'erano un mucchio di interrogativi senza risposta, un mucchio di segreti da svelare, e lui non era nemmeno certo di voler conoscere la soluzione. Mentiva a Elinor per proteggerne come poteva la sensibilità già messa a dura prova, ma i suoi sforzi non ebbero successo. La mano della ragazza gli si strinse più forte intorno al braccio: «Cerca di pregare con me perché non ci siano più pericoli, Brak.» «Andiamo, ragazza, a che servirà implorare le tue piccole divinità locali?» «Prega allora quelle più grandi, Brak! Prega, qualunque sia il dio in cui hai fede.» Per un attimo pensò alla croce nestoriana, ma poi con voce dura disse: «Non ce n'è nessuno.» Eppure, avrebbe desiderato il contrario.
«Allora che possiamo fare? Cosa ci resta...?» Il suo scatto d'impazienza le fece temere che volesse colpirla, e la zittì. Il barbaro disse: «Se smetterai di lamentarti forse riuscirò a pensarci.» Elinor era sul punto di piangere, e lui borbottò un goffo "scusami". Per fortuna la ragazza rimase un po' in silenzio, e la sensazione di orrore incombente che Brak aveva provato si attenuò un poco alla luce di considerazioni più pratiche. Alla fine disse: «C'è solo una cosa che possiamo tentare, anche se ci sono poche probabilità. Inoltre, dipende da quanta forza ti è rimasta.» «Di che si tratta?» «Possiamo tornare nel tunnel dove ci ha cacciati Tamar Zed, e tentare di richiamare l'attenzione di qualcuno nel castello. Una volta che saremo di nuovo nelle mani di Nordica avremo poche possibilità di uscirne vivi, ma qui praticamente non ne vedo nessuna.» Elinor si alzò rapidamente: forse fu il terrore estremo a darle coraggio, a costringerla a ricomporsi e a prendere la decisione: «D'accordo, proviamo.» «Non hai più paura?» «Sì, ne ho. Ma perfino il castello è preferibile a queste tenebre.» Scesero nuovamente sul costone dove viveva l'alchimista e il barbaro gridò: «Celso! Celso Hyrcano! Siamo amici, e stiamo tornando a casa di tua figlia Nordica, per punirla come si merita. Vuoi venire con noi?» Il parlottìo del forsennato si arrestò. Poi: «Uhhh! Uhhh! Andate via!» E ricominciò a biascicare cose senza senso. Elinor e Brak si scambiarono un'occhiata di compassione, poi abbandonarono il vecchio demente dove voleva restare: solo nel buio del pozzo, e nelle tenebre ancora più profonde del suo cervello sconvolto. Lentamente, dolorosamente, fermandosi molte volte a riposare, la coppia discese la parete di roccia e finalmente raggiunse il cornicione che immetteva nel tunnel. Metà del costone roccioso era stata spazzata via, probabilmente in seguito alle convulsioni dell'Uomoverme. L'imbocco del tunnel era parzialmente ostruito da massi e detriti, ma si poteva entrare senza troppe difficoltà. Lungo tutto il cammino c'erano stati crolli, e ampie crepe si erano aperte nelle pareti. Dopo un tempo che parve interminabile, Brak emise un basso grugnito. Davanti a loro, oltre un'ultima pila di pietre franate, brillava una luce gialla.
Il macigno rotondo che bloccava l'ingresso del tunnel mostrava una profonda screpolatura a forma di V: la furia dell'Uomoverme era arrivata così lontana, dunque. E, a quanto pareva, aveva spaccato il masso a metà. Brak si girò a guardare la ragazza tremante: l'ingresso al castello di Nordica era praticamente aperto. Ora però era il barbaro ad esitare: si sentiva stanco, non aveva spada e non era sicuro se il macigno spaccato davanti a loro fosse una benedizione o l'ultima beffa. Al di là di esso avrebbe trovato risposte a interrogativi che preferiva ignorare, a segreti coperti da veli che era meglio non sollevare. E di nuovo sentì intorno a sè l'odore quasi palpabile dell'orrore, della malvagità incombente e abominevole. Ma quando guardò per la seconda volta la faccia di Elinor seppe quale sarebbe stata la sua scelta. La vita era quello che contava: dovevano continuare. Afferrata la mano della ragazza, Brak la condusse con sé in silenzio oltre il macigno spaccato e nella casa dei loro nemici. IX Nei sotterranei di Yob-Haggoth Gli occhi di Brak esplorarono cautamente ogni angolo della stanza sotterranea in cui erano emersi, ma scoprirono che era deserta. La lampada da cui veniva il chiarore si era quasi esaurita, e lo stoppino galleggiava in una piccola pozza d'olio. Ogni tanto la fiamma sembrava esaurirsi definitivamente, ma poi aveva un guizzo e proiettava contro la parete umida l'ombra delle robuste spalle del barbaro. Le pieghe crudeli intorno alla bocca del gigante si rilassarono un momento. «Gli sciacalli hanno fatto il loro lavoro e sono tornati di sopra a festeggiare la vittoria.» Indicò la seconda delle due aperture che conducevano ad altrettanti corridoi neri e puzzolenti di muffa. «Quella deve essere la via che porta su al castello; l'altro è l'ingresso da cui ci hanno fatto passare quando ci hanno portati qui.» «Ero troppo spaventata per ricordare questi particolari» ammise Elinor. «Dobbiamo cercare di raggiungere i due prigionieri che sono ancora nella cella. Il marinaio e Runga, il fabbro - che è quello che mi piace di meno - hanno braccia forti, e possono combattere. Tre uomini insieme avranno più possibilità di uscire da queste mura che uno solo.»
Così dicendo Brak si avviò verso il corridoio di sinistra, con Elinor alle calcagna. Gli occhi di lei erano incerti, e mostravano ancora molta paura. In discesa il percorso era stato facile, ma rifare la strada verso le prigioni in senso inverso fu ben più faticoso. Brak si lasciava guidare dall'istinto, dal suo fiuto di cacciatore: più di una volta quella specie di sesto senso lo aveva fatto arrivare in posti dove chiunque avrebbe ritenuto impossibile trovare della selvaggina. Del resto, era l'unica guida di cui poteva disporre: il corridoio era nero e ostile, e ad ogni incrocio in quel labirinto di mura ciclopiche il barbaro era costretto a fermarsi. Respirava pesantemente per qualche secondo, come annusando l'aria, poi grugniva: «Da questa parte.» Il duello con l'Uomoverme aveva richiesto un caro prezzo: più Brak saliva e più le gambe gli dolevano, e Elinor cadde varie volte. Poi videro una luce gialla davanti a loro. Il barbaro spinse la ragazza dietro di sé e strisciò avanti silenziosamente. Il muro alla sua sinistra finì. Brak si azzardò a dare un'occhiata oltre l'angolo e vide un piccolo corridoio che incrociava il loro e terminava in un arco di pietra. Al di là dell'arco parecchie deboli lampade in altrettante nicchie illuminavano ciò che sembrava essere una stanza piuttosto larga. Inspiegabilmente il barbaro si sentì la pelle d'oca. «C'è una specie di stanza, laggiù» sussurrò. «Andrò a darci un'occhiata.» «Vengo con t...» «No!» Fu sorpreso lui stesso dalla rudezza della propria voce, ma il senso di pericolo e malignità incombente aumentava ad ogni istante: il corpo di Brak era coperto di sudore gelido. Spinse Elinor contro il muro d'angolo e scivolò da solo verso l'arco. Sulla parete la sua ombra si disegnava deforme, allungata, e Brak ebbe l'impressione che fossero i suoi stessi muscoli a comandargli di proseguire curvo, più circospetto. La treccia gialla e la coda di leone penzolavano dietro di lui mentre avanzava con le narici frementi, le labbra arricciate sui denti, gli occhi fissi e feroci. Per istinto infallibile sapeva che oltre l'arco c'era l'orrore, un orrore d'inferno, anche se dall'interno della stanza di pietra non veniva alcun rumore. In quella calma soprannaturale i sottili riccioli di fumo che si alzavano dalle lampade fluttuavano nell'aria simili a serpi trasparenti. E allora Brak percepì un odore strano eppure familiare. Appoggiò cautamente le dita sul bordo dell'arco, mentre i visceri gli si
rivoltavano perché aveva riconosciuto l'odore: qualcuno era morto, nella camera illuminata dalle lampade. Il puzzo era quello del sangue vecchio. Brak avanzò veloce, pronto a incontrare un eventuale avversario, ma il colpo che ricevette fu mentale anziché fisico. Gli occhi e il cervello impiegarono un secondo a inquadrare la scena: mura vecchie e segnate dal tempo, scavate dagli eoni, e un altare quadrato, che invece per contrasto era nuovo. Era fatto di pietra grigia che sfumava verso il bianco, ma la luce di una dozzina di lampade sistemate nelle nicchie del muro mostrava strane macchie di tutt'altro colore. Qualcosa era sprizzato sulla sommità dell'altare ed era colato dai bordi chiazzando i lati: e non doveva essere successo da molto. Le chiazze formavano una traccia marrone che catturò lo sguardo di Brak come un maledetto incantesimo. Sangue che colava. Sangue umano. Dietro l'altare, anch'essa fatta di pietra recente, sorgeva una statua alta fino al soffitto. Gli occhi scolpiti si facevano beffe di lui. La bocca pendula era insopportabilmente crudele, e le mani di pietra, le mani scolpite, sembravano premere realmente sulle cosce incrociate. Come un ossesso Brak girò la schiena e tornò indietro di corsa. Adesso la sua mente ricordava: c'era un'altra effigie, a stento visibile, in un corridoio del castello. Lui l'aveva adocchiata, senza vederla realmente, mentre scendevano per l'incontro con Tamar Zed, ne era sicuro. Aveva visto una versione più piccola dell'idolo ridente e lascivo che dominava l'altare insanguinato. Ce n'erano altri in questa casa maledetta? Idoli recenti, il cui culto era cominciato simultaneamente all'arcana "possessione" di Nordica, un tempo figlia devota...? La paura gli faceva sentire la bocca amara; finalmente vide Elinor davanti a sé, la faccia simile ad una macchia indistinta. Come dirle che il castello era dominato dalla più terribile potenza del mondo? Come dirle che si trovavano nel covo degli adoratori di Yob-Haggoth? E in quel momento Brak seppe perché la frana misteriosa l'aveva costretto ad abbandonare la via verso il sud; seppe perché gli era parso di riconoscere un che di familiare nelle luci beffarde in fondo agli occhi di Nordica. Seppe, infine perché lui era stato scelto tanto facilmente come sostituto di Pemma per il sacrificio.
Septegundus, il vicario di Yob Haggoth in terra, aveva detto: "Io sarò là." Ma forse, dopotutto, aveva lasciato il compito di castigare Brak a sua figlia. Il cervello di Brak turbinava, oppresso da giganteschi terrori; si allungò verso Elinor e lesse l'impellente curiosità del suo sguardo. «Che hai scoperto, Brak?» Lui sentì una stretta allo stomaco, ma si costrinse a parlare. «Niente. È solo una specie di magazzino, non vale la pena di fermarci ancora.» Lei allora si avviò verso l'arco. «Posso vedere...?» Il barbaro le afferrò il braccio: «Non c'è tempo.» La spinse di nuovo nel corridoio che stavano seguendo. L'occhiata di Elinor gli disse che aveva capito benissimo che c'era un mistero, ma probabilmente gli orrori cui aveva già assistito le bastavano, per cui non fece altre domande. Brak fu lieto quando si furono finalmente allontanati dai bagliori del corridoio a croce. Nella mente gli martellavano come al solito dubbi, paure, interrogativi... Ariane, la figlia di Septegundus, si era davvero impossessata di Nordica? Ma se era così, perché si dava tanto da fare per eseguire il rituale dei poteri alchemici? Non riusciva a capirlo. Forse Ariane inseguiva un piano completamente diverso dalla semplice vendetta contro di lui, forse la sua presenza fra quelle montagne le aveva fatto venire l'idea di deviare il percorso del barbaro e prendere così due piccioni con una fava. Adesso capiva i velati riferimenti di Tamar Zed al potere di Nordica, come pure l'apparente condiscendenza del Mago alle umiliazioni inflittegli dalla strega. Nessun uomo che si fosse venduto a Yob-Haggoth poteva fare altro che prostrarsi davanti alla figlia del suo vicario in terra. Con uno sforzo supremo Brak scacciò quei terrori dalla mente e riportò l'attenzione al corridoio nero attraverso il quale lui e Elinor avanzavano a lenta andatura. Più avanti vide un altro bagliore giallo: ancora una volta si lanciò in avanscoperta, chiedendosi che cosa avrebbe trovato questa volta, ma il corridoio che incrociò offriva uno spettacolo molto meno allarmante. Il barbaro fece qualche passo indietro premendosi un dito sulle labbra, ma si accorse troppo tardi che Elinor gli era venuta dietro; urtò con la spalla quella della ragazza e lei gridò. Brak cercò di allontanarsi dal punto in cui i due corridoi facevano ango-
lo, perché a man destra, a pochi metri da loro, una guardia appisolata sulla sua lancia aveva spalancato gli occhi allarmata al grido della ragazza. Il barbaro si mise in ginocchio e premette la testa di Elinor contro la spalla, poi anche lui abbassò il capo, in modo che le loro facce non riflettessero la luce della lampada del soldato. «Chi va là?» L'armigero puntò la lancia, e benché sembrasse un poco esitante cominciò ad avanzare nel corridoio. «Rispondi, chiunque tu sia!» Brak si lambiccò disperatamente il cervello per trovare una via d'uscita a questo nuovo dilemma: poi sotto il ginocchio sentì dei sassolini, e si affrettò a raccoglierne una manciata che scagliò nel buio. Contemporaneamente emise un verso acuto, gracchiante. Quel rumore arcano echeggiò tra le pareti del lungo corridoio nero e la guardia sobbalzò, cercando invano di scrutare nel buio. La speranza del barbaro era che il rumore dei sassolini e il verso che aveva imitato convincessero il soldato che si trattava soltanto di grassi topi grigi. L'armigero esitava, e comunque procedeva a mezza andatura. La guancia di Elinor era fredda sul fianco del barbaro, e Brak raccolse un'altra manciata di pietruzze, che scagliò nell'aria. Stavolta l'acciottolìo fu più debole. Le spalle del soldato si abbassarono di sollievo. «Ancora quei fetenti roditori!» Dopodiché, borbottando, volse loro la schiena e tornò al suo posto, rimettendosi a sonnecchiare sulla lancia. Brak si lasciò sfuggire un sospiro. Ce l'avevano fatta, ma quante volte ancora avrebbe trovato il sistema di cavarsela prima che la stanchezza e la paura lo sopraffacessero, rallentandogli i riflessi, specialmente ora che sapeva che il castello era sotto l'influsso di Yob-Haggoth? Poiché la guardia si era appisolata, il barbaro e la ragazza superarono l'incrocio con un balzo e presto si lasciarono la luce alle spalle. Ancora una volta il corridoio prendeva a salire ripidamente, ma qui l'aria sembrava un poco più fresca, meno soffocata dal lezzo di muffa e di sangue dei livelli inferiori. Più lontano udirono delle urla, e Brak si fermò ad ascoltare: «Se il cervello non mi è andato in pappa, ragazza, questo è il clamore di una battaglia.» Elinor fu subito d'accordo: «Hai ragione, sento gli uomini che urlano.» Il barbaro puntò un dito: «Guarda là davanti, quel lucore grigiastro. Una
finestra? Il rumore viene da quella parte.» Si misero a correre, e presto il rettangolo di luce si rivelò essere il vano alto e stretto di un'ampia feritoia. Spire di nebbia perlacea si intrufolavano dall'apertura nella parete, condensandosi in goccioline gelate sulla pelle di Brak quando il gigante si sporse dal davanzale nel tentativo di vedere all'esterno. Sembrava quasi l'alba, ma la nebbia della notte non aveva smesso di turbinare; Brak ebbe l'impressione di trovarsi molto in alto rispetto alla scena della battaglia, perché le urla e il clangore delle armi gli arrivavano indeboliti dalla distanza. Una volta gli capitò di vedere un lampo giallastro, prodotto forse da parecchie torce, e dopo altri momenti di attento ascolto identificò il fragore delle spade, i nitriti dei cavalli, lo schianto del legno dei carri. Tutto contento si ritirò dalla feritoia. «È proprio vero, c'è un esercito laggiù. È piccolo, perché non sono rimasti molti soldati, nel regno, ma è pur sempre un esercito.» Mentre gli occhi della ragazza s'illuminavano di nuova speranza, le note acute e squillanti di una tromba militare si diffusero nell'alba grigia. Elinor trattenne il fiato. «È il principe Pemma? O magari suo padre, il signore Strann...» «Penso di sì, e hanno portato con loro abbastanza uomini da dare l'assalto alle mura. Senti quel brontolio? Macchine da guerra, ci giurerei. Adesso per prima cosa dobbiamo liberare gli altri prigionieri: con un attacco in corso gli uomini di Nordica saranno occupati, e questa è la miglior occasione per scappare. Muoviti, su!» Il gigante si lanciò di corsa nel corridoio, fremente per la furia della battaglia; Elinor riusciva appena a tenere il passo. In quella Brak sentì un altro rumore: il pesante frastuono dei massi lanciati dalle catapulte contro le mura. Superarono una curva e videro ancora la luce. «Dobbiamo essere vicini alle prigioni» grugnì il barbaro. Riprese a correre, così impaziente di sfruttare il vantaggio offertogli dalla confusione della battaglia che non vide avvicinarsi l'ombra di un soldato. La guardia apparve dopo la curva: correva, portando un corno militare. A quella vista inattesa Elinor mandò un grido. I due uomini si videro contemporaneamente. La guardia posò il corno, sfoderò lo spadone e caricò Brak per infilzarlo. Nello stesso tempo aprì la
bocca per mandare un grido d'allarme, ma Brak gli fu addosso con un balzo e glielo impedì. Le grosse dita del barbaro si serrarono sulla trachea dell'avversario, mentre la lama della spada gli sfiorava le costole con un sibilo e per poco non gli squarciava un fianco. Il soldato lottava per guadagnare una posizione migliore e tirare un fendente al cranio di Brak, ma intanto il barbaro aveva stretto tutte e dieci le dita sul suo collo magro, per strangolarlo. Ecco finalmente un nemico di carne, un uomo come lui! Fu come se si fossero aperte in Brak le cateratte di una furia primordiale: la guardia colpì, cercando di raggiungere la testa del barbaro, ma la lama si abbatté sul muro. Brak sbatté gli occhi sotto la pioggia di scintille azzurre, evitò il fendente successivo e scagliò l'avversario con tutta la sua forza contro la parete di pietra. L'elmo cadde dalla testa dello sventurato e rotolò sul pavimento in forte pendenza. Grugnendo Brak attirò l'uomo verso di sé e lo sbatté ancora contro il muro, nello stesso momento in cui, con un ultimo tentativo, il soldato puntava la spada al collo taurino del barbaro. Sempre con le mani serrate sulla trachea dell'altro uomo, Brak gli fracassò il cranio contro la parete un attimo prima che la spada gli raggiungesse la gola. Quando la testa del soldato si aprì, l'angolatura del fendente deviò e il colpo andò a vuoto. Con gli occhi sporgenti e l'orrore dipinto sul volto, il morto si irrigidì; Brak lo lasciò andare ansimando, e quello si afflosciò al suolo. Il barbaro fece una risata gutturale, poi diede un calcio al cadavere facendolo rotolare in fondo al corridoio, finché si arrestò contro un muro, a una curva. E là finalmente giacque immobile, la nuca trasformata in una macabra poltiglia di sangue e materia cerebrale. Brak raccolse la spada caduta, e al tocco del ferro una nuova forza gli corse nelle vene. Si girò e fece segno a Elinor di seguirlo. Con una specie di perverso divertimento si rese conto che adesso lei lo temeva più di qualunque altra cosa, e per la verità la sua faccia era diventata spaventosa, come accadeva ogni volta che il fuoco della battaglia ardeva e cantava nel suo sangue. «Non tremare così, ragazza» disse. «Ucciderò solo quelli che sono al servizio di Ar... ehm, della strega. E adesso corriamo, il tempo passa in fretta.» Il barbaro e la ragazza si diressero velocemente alla luce davanti a loro;
emersero così finalmente nel corridoio delle prigioni, e lo trovarono deserto. In distanza si udiva il rumore martellante di uomini in corsa, cui facevano eco gli schianti e i tremori provocati dalle macchine da guerra di Pemma o di Strann. Evidentemente, il vecchio signore possedeva armi abbastanza potenti da scuotere le mura del castello. Elinor indicò la fila di porte sbarrate: «La nostra cella era là.» Brak si precipitò nella guardiola del carceriere, al termine del corridoio fiocamente illuminato. Trovò facilmente il mazzo di chiavi di bronzo: a quanto sembrava, dopo l'attacco inatteso le sentinelle avevano abbandonato le loro postazioni. Il barbaro si affrettò verso le celle: «Darios! Runga!» Rispose la voce ruvida del fabbro: «La porta è questa! Qui!» Rapidamente il loro liberatore provò la chiave, la girò e corse dentro. «Abbiamo una possibilità di fuga: i soldati di Strann stanno attaccando le porte. Dobbiamo... Ehi, ma che ha il marinaio?» Darios era steso su un giaciglio di paglia, la faccia color del gesso tranne per due chiazze rosse sulle guance. Gli occhi sembravano di vetro. Brak si piegò su di lui, appoggiandogli una mano sulla fronte. La pelle ruvida come il cuoio scottava. «Ha la febbre, tutto qui» grugnì Runga. «Sta male da ore.» Le labbra del malato si aprirono, e lui cercò di tirarsi su, riconoscendo Brak: «Il fabbro... durante la notte hanno preso il fabbro...» Runga gli allungo un calcio, colpendolo a una spalla. «Preso un accidenti, pezzo di salame. Hai il delirio, ecco cosa.» Poi il fabbro si affrettò a rivolgersi a Brak, che ormai era furibondo. «Non volevo colpirlo, barbaro. Ma non ho molta pazienza, e quel povero disgraziato continua a lamentarsi e a vedere fantasmi da quando gli è venuta la febbre. Dobbiamo lasciarlo qui.» La mano destra di Darios si alzò debolmente: «Attento al fabbro. È stato... È stato...» Poi rabbrividì e ricadde sul fianco, il corpo squassato dai tremiti. Adesso le sue parole erano incomprensibili. Brak scelse nella collezione di chiavi quella che gli sembrava delle giuste dimensioni e la inserì nel bracciale al polso di Darios. Fece scattare la serratura e poi guardò Runga: «Non lo lasceremo qui o da nessun'altra parte, fabbro. Era un prigioniero, proprio come noi.» Intravvedendo la possibilità di fuggire Runga fu più cordiale del solito:
«E va bene, va bene. Vedo che hai sempre la tua aria autoritaria, ma non litigherò. Portatelo pure dietro, se credi, ma puoi star certo che le sue grida e i lamenti ci.attireranno addosso le guardie come mosche.» Brak cercò di mettere in piedi il malato. «Non fa niente, viene lo stesso.» Runga prese il mazzo di chiavi e si liberò rapidamente, poi corse fuori dalla cella. Il barbaro portò Darios nel corridoio; la gamba di legno del marinaio grattava il pavimento di pietra. «Aiutami a trasportarlo» disse Brak a Runga. Con un grugnito l'altro si prese la sua parte di fardello, ma il barbaro notò che aveva gli occhi stranamente luccicanti. Si stava per caso ammalando anche lui? Cominciarono a risalire il corridoio; Brak aveva la mano destra libera, e con essa impugnava la spada del soldato morto. Darios continuava a borbottare cose incomprensibili, le labbra inumidite dalla febbre. Il corridoio descrisse una curva, poi si biforcò: il ramo sinistro correva parallelo al muro del castello, e in fondo a esso il barbaro scorse una porta di quercia aperta. Oltre la porta si vedeva un bastione affollato di soldati che imprecavano, scoccavano un colpo di balestra dietro l'altro e scagliavano lance. Dal basso arrivavano frecce e proiettili d'ogni genere, volando oltre l'orlo del bastione. «Andare da quella parte è inutile» sussurrò Brak al fabbro. «Prenderemo l'altra direzione.» Poco dopo attraversavano un corridoio dove le torce pendevano dai loro supporti a intervalli regolari; Brak disse a Elinor: «Afferrane una, ragazza. Ci farà comodo per illuminarci la strada.» Adesso il barbaro non aveva idea di dove fossero diretti: la parte superiore del castello gli era completamente sconosciuta. Quella fuga comunque era preferibile ad un incontro con le orde di Nordica, e forse prima o poi avrebbero trovato una via d'uscita. Darios barcollava e ogni tanto si lamentava. Per un momento le sue parole sembrarono coerenti: «Attento al fabbro... Lo hanno preso...» Preso, preso, preso... Poi, inaspettatamente, l'eco della voce del malato si diffuse sul gruppetto da tutte le direzioni; una folata fredda, umida, raggiunse il corpo del barbaro, che si bloccò. L'eco sorgeva e si diffondeva attraverso quello che sembrava un vasto spazio; allungando una mano Brak scoprì che il muro del corridoio era finito, e che quindi si trovavano in un'altra sala o caverna all'interno del pa-
lazzo. Il colpo d'aria aveva quasi spento la torcia di Elinor, da cui si levava uno spesso filo di fumo nero; ed ecco che udirono, sulle loro teste, qualcosa che stormiva e un fruscio sinistro. Brak fu prontissimo ad appiattirsi contro il muro. Fu un suono dapprima smorzato, poi sempre più forte: come tante ali che si spiegassero in volo. Brak prese la torcia e l'alzò sopra di lui: la luce venne riflessa da centinaia di piccoli puntini scarlatti. E i puntini si muovevano, ondeggiando e guizzando nell'aria. Il frusciò divenne ancora più forte. «Siamo capitati in un covo di pipistrelli!» gridò Brak. «Torniamo da dove siamo venuti!» Ali secche, dalle grosse nervature, lo colpirono in piena faccia, e lui dovette abbandonare Darios per cercare un riparo mentre un pipistrello gli volava sul braccio. Runga mandò un grido e cominciò a correre. L'animale, di un colore bianco-grigiastro, aveva un'apertura alare ampia quanto le braccia tese di Brak, e adesso dall'avambraccio era scivolato sul gomito del barbaro. Lui tirò indietro la testa, accecato da un dolore peggiore di qualunque altra sofferenza avesse mai conosciuto. Torse il braccio, cercando di scuoterne via il vampiro, ma con un urlo di dolore e d'orrore vide che al posto degli artigli la creatura aveva delle piccole sacche o vesciche trasparenti che aderivano alla sua pelle: nelle vesciche scorreva un fluido nerastro. Il sangue di Brak... Tutto intorno a loro c'era una vera e propria nuvola di pipistrelli. Uno si avventò su una guancia di Elinor, ma lei cercò di scacciarlo colpendolo alla gola e sottraendosi alle micidiali vesciche. Ogni vescica terminava con una piccola bocca aspirante: erano vampiri, vampiri usciti dall'inferno che succhiavano il sangue e la vita degli uomini... Contorcendosi, dando scossoni, Brak tentava di togliersi il pipistrello dal braccio, ma quello vi si aggrappava con assoluta tenacia, e ormai le vesciche erano piene per un quarto; come facesse il sangue a passare attraverso la pelle senza che venisse prima praticata una ferita Brak non lo sapeva, e del resto non gliene importava, tormentato com'era dall'insopportabile dolore del contatto. La grande spada gli scivolò dalle dita intorpidite, mentre dozzine di vampiri turbinavano e picchiavano sul gruppo di uomini assediati, cercando il punto più favorevole da cui colpire.
Uno si sistemò sulla fronte di Darios e Brak, presa la torcia di mano a Elinor, avventò la debole fiamma contro la testa piccola ma oscenamente gonfia del mostro. Il vampiro lanciò un grido acutissimo, perché le lingue di fuoco gli stavano divorando la testa, e immediatamente le bocchevesciche sulla fronte di Darios lasciarono la presa. Il barbaro schiacciò quella cosa immonda che si era abbattuta sul pavimento gocciolando sangue dalle vesciche, poi concentrò la sua attenzione sul proprio braccio nudo, che l'altro vampiro aveva abbandonato quando lui aveva preso la torcia. Sulla pelle Brak vide il segno di tanti minuscoli morsi, profondi e sanguinosi. Un altro mostro stava attaccando Elinor, ma il barbaro gli bruciò l'ala destra con la torcia. Il vampiro frusciò via, rifugiandosi nel buio profondo, ed emise un acuto gemito di sofferenza. Elinor intanto si era messa in ginocchio, cercando inutilmente di respingere a mani nude un altro di quegli abominii bianchicci che miravano alla sua faccia. E le piccole bocche-vesciche avevano quasi raggiunto la pelle... Urlando, Brak afferrò la torcia con entrambe le mani e cominciò ad agitarla nell'aria come una spada: su e giù, su e giù la nuova arma guizzava in una scia di fuoco e scintille, e per fortuna anche la favilla più modesta bastava a mettere in fuga i vampiri. Il barbaro e la ragazza stavano, schiena contro schiena, al centro di un cerchio di luce, ma appena fuori la portata della torcia le tenebre erano un sol fremito di ali minacciose. «Aiutalo a tirarsi su» ansimò Brak a Elinor, indicando Darios. La ragazza cercò di sollevarlo per le spalle, e nonostante fosse esausto, gli occhi lucenti come marmo, il marinaio capì che lei voleva aiutarlo e lottò per mettersi in piedi. «Raccogli la spada» disse ancora il barbaro. «Forse con l'aiuto del fuoco riusciremo a tirarci fuori di qui. Runga può portare Dar... Ma dov'è finito?» «È scappato» singhiozzò Elinor. «Se l'è data a gambe appena questi mostri ci hanno attaccato.» E prima ancora di poter mandare un'imprecazione, il barbaro sentì un rumore nuovo: molti uomini, in corsa. Poi l'abbaiare di una voce familiare: «Da questa parte, soldati! Nella caverna. Ho detto a Nordica che l'avrei servita bene, e adesso lo dimostro. Là dentro troverete i prigionieri; qualcuno mi dia una torcia.» Improvvisamente le pareti della caverna sembrarono incendiarsi, e Brak,
furente, vide un gruppo di uomini di Nordica riversarsi dall'entrata. Ognuno portava una fiaccola accesa. Naturalmente, dietro i soldati c'era Runga. Ridendo, il fabbro alzò la torcia per scacciare i vampiri: accecate da tanta luce le creature della notte si ritirarono a frotte verso i loro rifugi sotto le ombre del soffitto. Sagome grottesche si disegnarono sul pavimento quando il barbaro abbassò la torcia, e, presa la spada dalle mani di Elinor, si lanciò in avanti pronto a combattere. Sentì il lamento di Darios: «Attento al fabbro! Ho cercato di avvertirti, l'hanno preso...» «Prendeteli!» gridò Runga ai soldati. «Poi andate a riferire a Nordica chi vi ha permesso di catturarli.» La voce del traditore si perse nel rintronare degli stivali e fra le maledizioni dei combattenti che sciamavano da tutte le parti addosso al gigantesco barbaro. Brak tirò una stoccata al collo di un nemico, ma lo mancò. Le mani degli assalitori gli afferrarono il braccio e il polso destro, e gli portarono via la spada. Lo colpirono alla testa con le impugnature delle loro armi e le aste delle lance. Insanguinato e cieco di collera, lui si difendeva ancora coi pugni forti come magli. Ma i soldati erano troppi, e il barbaro cadde in ginocchio. Pochi secondi dopo, mentre lui oscillava fra la coscienza e l'incoscienza, fu sollevato da quattro nemici e portato fuori da quelle catacombe. Gli armigeri di Nordica presero anche Darios e Elinor, e infine tutto il gruppo emerse all'aria aperta, nel cortile del castello. Brak fu depositato sulle gambe malferme e ad una certa distanza vide Runga, con le braccia incrociate, che rideva. Non era sorvegliato, e nessun soldato si prendeva cura di lui. X Le porte della stregoneria Quando i soldati lo fecero fermare in mezzo al cortile circondato da alte mura, Brak abbassò gli occhi; il vento, che soffiava ora da una direzione e ora dall'altra, gli faceva volare negli occhi la polvere della corte. Stretto fra due guardie e circondato dalle altre, il barbaro fissò le vette dei monti visibili oltre i bastioni. I banchi di nebbia mattutina superavano velocemente i
picchi, e dai movimenti delle nuvole Brak giudicò che il vento doveva soffiare a forti raffiche, e che stava aumentando ancora: benché avesse spazzato la nebbia bassa, la mattina era lugubre come un sudario. «Si alzano i venti» disse il barbaro tra sé. «Lei l'aveva detto.» Elinor, trattenuta da due armigeri nerboruti, sentì quelle parole e gli lanciò un'occhiata apprensiva: «È il tempo delle grandi tempeste stagionali, e ben difficilmente una creatura vivente oserebbe arrampicarsi sulle montagne.» «Lei l'aveva detto.» «Nordica?» «Sì, ragazza. E mi ha detto...» Un brivido d'incertezza: chi si nascondeva veramente dietro gli occhi di giada della strega? «...Mi ha detto che avrebbe eseguito il rito quando si fossero alzati i venti. Avrebbe preso i nostri corpi e...» Ma non continuò, vedendo che l'aveva spaventata. Disse invece al comandante delle guardie, un tipo in armatura: «Dov'è la tua padrona, soldato? Finiamola presto.» Il comandante lo colpì duramente alla mascella, e il gigante fu scaraventato indietro, tra le grinfie dei suoi catturatori. Aprì la bocca in un ruggito selvaggio, poi, ripresosi, si buttò in avanti per rispondere, ma sentì una punta di lancia sulla schiena. «L'uomo che è dietro di te» disse il comandante «ti farebbe fuori volentieri, straniero. Ma io devo consegnarti alla mia padrona, Nordica. Il fabbro, nostro amico» indicò Runga, che rideva sotto i baffi «ci ha reso un grande servigio rivelandoci dove eri scappato. Quindi, per il tuo bene, non muoverti, e parla solo se sei interrogato.» Brak si morse le labbra. Il corpo gli doleva ovunque, e parecchie ferite sanguinavano; cercò di concentrarsi sulla scena che lo circondava, sul cortile, mentre il capo delle guardie si avviava verso una figura quasi invisibile, acquattata nelle ombre presso le grandi porte sbarrate. Alto sulla montagna un uccello volò fuori da una nuvola battendo le ali freneticamente, come se cercasse di sfuggire a una forza soprannaturale. Brak sentì un brivido lungo la spina dorsale e si rese conto che adesso poteva sentire l'ululato del vento perché il clamore delle spade e il cigolìo delle macchine da guerra oltre le mura del castello era cessato. Nordica non si vedeva da nessuna parte, benché le sue truppe affollassero gli spalti che dominavano la spianata dove si trovavano gli assedianti. Il comandante intanto era arrivato alle porte, raggiungendo la figura ombrosa
e ricurva che sembrava intenta a osservare qualcosa. All'arrivo del soldato l'uomo nell'ombra si alzò, e una parte della sua faccia fu esposta alla luce: era Tamar Zed. La veste del Mago si agitava al vento. Finora non aveva fatto che spiare ciò che accadeva all'esterno da un buco praticato nel legno massiccio della porta. Ma che cosa voleva vedere? L'esercito di Strann che si preparava a un nuovo attacco? Il comandante delle guardie indicò Brak, Elinor e Darios. Il marinaio era steso a terra, e delirava. Tamar diede al barbaro una lunga occhiata carica d'odio, poi tornò a girarsi verso lo spioncino, più interessato, almeno per il momento, a ciò che accadeva fuori. Ignorando l'ammonimento del comandante, Brak si rivolse a uno dei soldati che li sorvegliavano: «Che è accaduto alle truppe del principe Pemma? Si sono ritirati?» L'altro fece una smorfia di scherno: «Puoi metterla anche così.» «Vuoi dire che l'assedio al castello è finito?» «E chi lo sa? Nessuno può dire che stanno facendo, tranne starsene impalati come salami.» «Ma perché si sono fermati?» «Basta così, bastardo! Il comandante ti ha già detto di fare silenzio.» Brak si guardò intorno. Runga si stava avvicinando ai prigionieri, e quando fu a portata di mano il barbaro fece automaticamente il gesto di estrarre una spada. Immaginò il piacere di far saltare quella testa arrogante dalle spalle massicce del traditore. Il fabbro si fermò davanti a Brak coi pugni sui fianchi: «Molto bene, straniero. Chi è che comanda, adesso?» Ma il riso di scherno sparì subito dalle sue labbra: il pugno del fabbro vibrò un terribile colpo alla mascella di Brak, facendogli ruotare la testa. Come un grande albero, il barbaro non arretrò di un centimetro e incassò il colpo senza cadere. «E pensare che lei ti voleva come amante!» sibilò Runga. «Tu, un bruto incivile e ignorante! Ma in me ha trovato qualcosa di meglio, te l'assicuro. Le ho promesso di ripagarla dei suoi favori, e ho mantenuto la parola.» «Maledetto imbecille! Ti sei dato a...» «A un piacere che non puoi nemmeno immaginare, stupido» tagliò corto Runga. «Sì, dopo che tu e la pastorella siete stati portati via dagli uomini di Tamar, lei mi ha chiamato. Era adirata col Mago, e così...» una risata odiosa «...ha pensato di distrarsi dedicandosi ad altri passatempi. Quello che è
accaduto in quella camera da letto è incredibile. Il genere di esperienze che un uomo sogna sempre, ma non realizza mai.» Runga si arrestò, la fronte luccicante di sudore. Afferrò il braccio del barbaro, e Brak si sarebbe scrollato di dosso quelle dita insolenti se non fosse stato per la luce particolare negli occhi del fabbro. Adesso sapeva che anche Runga era invasato, posseduto. Quella non era la follia che si prova per una donna: era la follia dell'Oscuro, di Yob-Haggoth. La voce del fabbro era roca: «Non hai idea di chi è quella donna.» «Sì, invece.» L'altro sembrò non udirlo: «Non è quella che sembra.» Ricordando l'ingannevole bellezza di Ariane, Brak rispose: «Lo so.» Il fabbro sussultò: «Lo sai? E com'è possibile?» «Non è affar tuo.» Il barbaro guardò Runga negli occhi, e in fondo vi lesse la paura. «Spero che brucerai per l'eternità, fabbro. E penso che lo farai. So quello che hai dovuto fare per ottenere quello che volevi: tu hai conosciuto Yob-Haggoth!» La faccia di Runga si contrasse, e il fabbro fece un segno contro il malocchio. Le maniere arroganti erano scomparse di colpo, e adesso si leccava le labbra. «Ho dovuto tradirvi» si lamentò «per poter andare da lei almeno una volta. Per poterla toccare, per sperimentare le arti di cui è maestra e che fanno impazzire un uomo. Poi mi ha mandato via, senza speranza di rivederla a meno che non le provassi la mia fedeltà. Io ho dovuto farlo!» «Sì» fu la secca risposta. «Ha tentato anche me, una volta.» Le sopracciglia del fabbro si alzarono per lo stupore: «Nordica?» «No, non Nordica. Quell'altra.» E allora Runga capì che il barbaro sapeva veramente tutto. Meravigliata da quella conversazione, buona parte della quale le era riuscita incomprensibile, Elinor riuscì tuttavia ad afferrarne l'essenza. «Che gli dèi ti maledicano, fabbro.» Runga rise, ma senza traccia di trionfo o di allegria. Quella risata era il suono di un cuore spezzato. «L'hanno già fatto» disse. Volse loro la schiena e si allontanò, cercando di darsi un contegno. Fu una misera finzione. Brak spostò gli occhi sul vecchio marinaio: Darios fissava, senza vederli, i cieli tormentati dal vento e dalle nebbie. Il barbaro disse alla ragazza:
«Aveva cercato di avvertirci. Ha detto che Runga era stato "preso": vorrei che avessimo capito subito quello che intendeva.» Angosciata, Elinor annuì. Seguì un silenzio. I venti ululavano, e le spaventose immagini di YobHaggoth fluttuavano nella mente di Brak come i lembi di un incubo. Il barbaro osservò le guardie: compiaciute della facilità con cui avevano avuto ragione dei prigionieri, si erano rivolte alla porta alta e sbarrata dove Tamar Zed ancora spiava dal buco. Sembrava che gli uomini aspettassero un segnale, o almeno qualche notizia di quello che accadeva all'esterno. Sicuramente l'esercito di Pemma si stava radunando per un nuovo attacco, perché nes-sun'altra ragione avrebbe potuto spiegare quella calma innaturale. Brak valutò le porte del castello, che un tronco gigantesco poggiante su rebbi a forma di L teneva chiuse. Aggrottò la fronte: un piano rischioso, ma realizzabile, gli aveva attraversato il cervello. Diede un'occhiata alle torri affastellate l'una sull'altra e alle mura del castello dietro di sé, e sperò che Nordica (strano come continuasse a pensare a lei con questo nome) non finisse proprio adesso le diavolerie che la tenevano occupata all'interno. Tese le orecchie: sperava di sentire un suono qualsiasi - le catene di un cocchio, le ruote di una catapulta - che gli rivelasse che Pemma era pronto ad attaccare di nuovo. Ma non udì niente, né gli riusciva di indovinare la verità dalle espressioni degli uomini di Nordica sui bastioni: stavano immobili come statue, le balestre e le lance pronte all'uso, l'attenzione completamente assorbita dalla strada sotto di loro. Brak si asciugò il sangue che gli scorreva da una ferita sul fianco sinistro, poi trasse un profondo respiro. Mise le mani a coppa intorno alla bocca e gridò: «Mago!» Tamar Zed si levò dallo spioncino. «Mago, ascolta! Ho una storiella divertente da raccontarti!» Il volto barbuto di Tamar Zed era impietrito in una maschera di odio; il comandante delle guardie si mosse in direzione di Brak per tacitarlo personalmente. I soldati gli si strinsero intorno, le spade snudate. «Fallo tacere!» ordinò il Mago al comandante. «Non deve esserci confusione, non si può turbare ciò che sta accadendo là fuori!» «Il parapiglia» gli gridò Brak di rimando «è già successo qua dentro, Mago. Roba che le molle del letto cigolavano! Lo riconosci questo segno?» E, con un'aspra risata, tese l'indice e il mignolo di ciascuna mano,
piegando le altre dita. Vedendo le corna Tamar si fece bianco, poi, afferrato il lembo della tunica, si precipitò come una furia verso il barbaro. Brak torreggiava nel vento sempre più forte, l'enorme braccio destro allungato. Agitò le corna, per aumentare la beffa. «Mettiti un po' queste, Mago: adesso ti andranno a pennello!» E così dicendo si mise il dorso della mano sulla fronte, per dare al cornuto l'esatta immagine di se stesso. Il comandante delle guardie ruppe il cerchio dei suoi uomini, strappò la lancia dalle mani di uno di loro e la puntò su Brak. «Brutto imbecille! Ti avevo detto di stare zitto.» «Fermo!» Il capitano girò la testa di scatto, ma Brak continuò a inalberare le corna. L'ordine di fermarsi era venuto da Tamar Zed. Il Mago avanzava a passo veloce, le guance pallide. Superò Runga, la cui espressione stupita cominciava a velarsi di preoccupazioni: il fabbro fece un passo avanti, ma di colpo colse un segnale del comandante e vide uno dei soldati alzare la lancia e puntargliela al ventre. Runga rabbrividì. Ormai Tamar aveva raggiunto Brak, e quando lo schiaffeggiò i suoi occhi neri brillarono come il fuoco. Con una mano ripiegò le dita insolenti del barbaro. Brak abbassò il braccio senza protestare, ma rise. «Stai attento, barbaro» disse Tamar. «Nordica ti vuole vivo, ma anch'io ho voce in capitolo.» «Non è vero affatto. Lei ti tiene in pugno.» «Bada a come parli, davanti a questi uomini!» sibilò il Mago. «Presto sapranno la verità. Sapranno chi è lei, veramente.» Tamar Zed deglutì: «Tu sai?» «Sì.» «E di che altro sei a conoscenza?» «Che è stata lei a obbligarmi a venire in questo paese, provocando una frana magica. In questo modo mi è rimasta una sola strada.» Quelle parole fecero brillare per un momento gli occhi di Tamar, come se si divertisse. A quanto pareva quella parte non era un segreto per l'accolito di Nordica. Ma il Mago tornò rapidamente all'argomento di prima, perché i soldati avevano sentito le beffe di Brak e adesso guardavano i due con evidente curiosità. Tamar fu perciò costretto a sfoggiare come meglio poté la sua aria autoritaria:
«Posso disporre di te come voglio, straniero. Posso dire a Nordica che c'è stato uno spiacevole incidente, che hai tentato di scappare e che questi uomini e il loro valoroso comandante sono stati costretti a ucciderti. Come hai fatto a tornare dal tunnel in cui ti avevo mandato insieme alla ragazza non posso dirlo, ma...» «Mi dicono che Nordica ti ha dato una bella strigliata, per quella prodezza» ridacchiò il barbaro. Il colpo andò a segno. Sudando, Tamar si sforzò di ostentare arroganza. «Ho autorità sufficiente a spedirti in un luogo ancora più buio e tenebroso: l'inferno. E se solo ti azzardi a continuare con quella disgustosa burla delle corna, lo farò.» «Chiamala burla, se preferisci. Resta il fatto che sei becco.» «Tu menti» sussurrò il Mago. Strinse le dita intorno all'elsa del pugnale smaltato che portava al fianco. «Non ammetteresti mai una cosa del genere: sai quello che ho fatto quando ti ho sorpreso con Nordica. Ebbene, lo rifarei, se sapessi che voi due...» «Che cosa puoi fare? Ti tengono in pugno. Lei, suo padre e il padrone che servono.» Un altro colpo andato a segno: Tamar Zed sbiancò. Gli occhi di Brak si spostarono dal Mago alle guardie che li fissavano. La sua voce si fece più profonda: «Devo ripeterlo forte, il nome di quel padrone? Devo provare che lo conosco davvero?» Un muscolo guizzò incontrollato nella guancia di Tamar. La sua voce adesso era un fruscio: «I servitori di colui del quale parli non sono i miei padroni!» «Menti.» «Ti dico che non sono i miei padroni!» urlò Tamar, puntando il pugnale alla gola di Brak. Poi qualcosa trattenne la mano del Mago all'ultimo momento: si limitò a scalfire la pelle del barbaro, facendo sgorgare una sola goccia vermiglia e luccicante. Elinor emise un grido soffocato. «Hai paura, straniero» ansimò Tamar, come se dicendolo potesse veramente spaventare il gigante. «Hai paura e cerchi di ritorcerla su di me. No, tu non puoi avermi tradito con Nordica. Sei stato nel tunnel tutto il tempo; in qualche maniera sei riuscito a uscirne, e adesso vuoi farmi adirare con le tue burle. È così, non è vero? Ammettilo!» Tutto, compresa la vita di Brak, si trovava ora in equilibrio precario. La punta del pugnale gli solleticava la gola, ma nonostante questo lui agì.
Con una mossa fulminea abbassò il braccio sul pugnale, facendo uno scarto indietro. Il colpo fu così veloce che i soldati non ebbero il tempo di reagire. Brak afferrò il polso teso di Tamar e lo torse, finché la lama del Mago non fu puntata contro Runga. «Apri gli occhi, sciocco, o hai sempre la testa fra le nuvole? Eccolo quello che si fa beffe di te. Chiedi a lui che razza di delizie può offrire Nordica a un uomo, chiedigli chi è che lo ha mandato a chiamare ad un'ora in cui era certa di non averti fra i piedi!» Le labbra di Tamar Zed cominciarono a tremare. Per la prima volta sembrava debole, fragile, annientato. «Non è vero» disse. «Lei non farebbe mai...» «Chiediglielo!» Lentamente il Mago si voltò a guardare Runga. Il fabbro cercò di bluffare, facendo una smorfia, ma le labbra di Tamar si strinsero fino a diventare esangui. Il suo sguardo era tremendo, omicida. E nel confronto che seguì Tamar apparve subito come il dominatore. La sua arroganza di Mago contribuiva certo a quest'effetto, ma comunque le difese di Runga cedettero. Il battito tropo nervoso delle ciglia, l'incapacità di guardare a viso aperto Tamar Zed lo perdettero. Il Mago tornò a guardare Brak: «Adesso so chi è che devo punire.» Non più abbattuto Tamar pareva un colosso, ed era furibondo. Si avvicinò al fabbro, che cercò di fuggire ma fu troppo lento. Il pugnale del Mago scattò, descrivendo un arco. Runga emise un gemito, allungò le braccia per parare il colpo, e così si sbilanciò. Con un grido di terrore il fabbro perse l'equilibrio e cadde, e Tamar ne approfittò per affondargli la lama nel braccio. Il sangue sprizzò ovunque, e i soldati intorno a Brak trattennero il respiro. Il Mago estrasse il pugnale dalla carne della vittima, cercando di rimediare al fallimento del primo colpo assestandone un altro, fatale. E in quel momento, mentre tutte le teste erano voltate per seguire la lotta, Brak si tuffò sul polso della guardia più vicina, costringendola a mollare la spada. L'uomo urlò sotto la pressione che gli aveva spezzato le ossa del polso, e il barbaro raccolse l'arma caduta. «A terra, ragazza!» gridò, dando a Elinor una spinta che la mandò lunga distesa sul corpo di Darios. Il barbaro rise, ma stavolta era un riso di vittoria che presto si trasformò in un ruggito di battaglia. Brak cominciò ad aprirsi la strada nel cerchio di soldati attoniti. La punta di una lancia balenò in cerca della sua gola, ma con un fenden-
te il barbaro spezzò l'asta a metà, mentre la sua spada raggiungeva l'occhio del nemico e gli si piantava nell'orbita. Il soldato crollò, investendo due compagni. Adesso Brak si era aperto un varco, ma prima di approfittarne finì il micidiale carosello, ruotando su se stesso con la spada protesa come un altro braccio. I soldati si scansarono per evitare quella falce saettante, ma due non riuscirono a salvarsi e caddero; Brak saltò sui corpi dei morti e si precipitò verso le porte del castello. Gli uomini sui bastioni lo videro, e l'aria si oscurò sotto una pioggia di frecce scoccate dalle balestre. Il barbaro si piegò, cercando per quanto poteva di procedere a zigzag, e dimezzò la distanza che lo separava dalle porte. Ormai gli restavano solo pochi metri. Runga, intanto, aveva cercato di alzarsi e nonostante il braccio ferito era riuscito a evitare il colpo mortale. Senza pensare più a lui, Tamar Zed rincorse il barbaro e gli si parò dinanzi come un'apparizione, il pugnale alzato. Il Mago caricò, con la tunica dai mistici disegni d'argento sollevata dal vento; Brak si preparò ad un affondo con la grande spada, ma Tamar schivò il colpo e avventò il pugnale contro la faccia del suo rivale. La punta d'acciaio tracciò una striscia lunga e bruciante dallo zigomo del barbaro all'orecchio destro, ma la violenza della rincorsa sbilanciò il Mago e gli fece perdere l'equilibrio. Brak si preparò a colpire dal basso in alto. «E adesso che si provi a salvarti il tuo Yob-Haggoth!» gridò il barbaro, affondando la lama nelle viscere di Tamar Zed con furia assassina. Il Mago mandò un grido e si abbatté al suolo, morente. Brak cominciò a correre: la ferita sulla guancia gli sanguinava, e così pure un altro squarcio aperto nella spalla da una freccia. Ma adesso si trovava all'ombra dei bastioni, e una volta raggiunte le porte solo la pesante trave di legno si sarebbe interposta fra lui e l'esercito di Pemma. Correndo alla massima velocità Brak andò a sbattere contro la porta: appoggiò la spalla sinistra sotto l'enorme sbarra di quercia proprio nel punto in cui le due metà della porta si univano. Si piegò, e cominciò a sollevarla. La sbarra era pesantissima, e il barbaro l'aveva spinta solo per metà fuori dagli alveoli a forma di L su cui riposava quando le guardie sopravvissute alla sua sortita lo attaccarono contemporaneamente. Una lancia gli sfrecciò accanto al viso, conficcandosi nella metà destra della porta. Il peso sulle spalle di Brak sembrava insopportabile e tutto il
corpo gli doleva dallo sforzo mentre lui spingeva, spingeva, difendendosi contemporaneamente dagli attaccanti con la spada che reggeva nella destra. Il comandante delle guardie avanzò, coperto dalle lunghe lance dei suoi uomini, e Brak cercò invano di pararne la stoccata. La bocca dell'altro si piegò in un ghigno di trionfo e il tempo sembrò fermarsi nel cortile cupo, spazzato dai venti. Brak vide la spada del comandante precipitarsi come un lampo d'argento alla sua gola, poi ebbe l'impressione che il peso terrificante della sbarra gli schiantasse le gambe tese dallo sforzo. Ma infine l'enorme fusto di legno uscì dai rebbi: l'ultimo strattone del barbaro lo fece rovinare con violenza giù dalla porta, e lui si scansò per evitare di essere schiacciato. La spada del comandante affondò nell'estremità penzolante della trave, che gli cadde addosso. Si sentì un urlo di sofferenza atroce, e quando gli astanti si furono ripresi videro il cadavere del soldato troncato letteralmente a metà, con la vita e i fianchi ridotti a una poltiglia sanguinolenta sotto l'immenso fusto di legno chiazzato di rosso. Brak afferrò con tutta la forza un anello di ferro nero e spalancò la porta sinistra, precipitandosi all'esterno. «Pemma! Principe Pemma!» gridò il barbaro sfrecciando con la spada in pugno: era una figura terrificante, il corpo bronzeo e la pelle di leone chiazzati di sangue. Scese verso lo spiazzo della battaglia con la treccia gialla al vento. «Principe, ordina alle truppe di entrare nel castello! Adesso, prima che richiudano le porte!» Poi frenò e osservò la china davanti alle mura del castello. L'eco della sua voce morì, mentre un ringhio bestiale riempiva il silenzio. Brak si sentì agghiacciare in un orrore senza limiti. Nordica Chioma di Fuoco non era nascosta nel castello: si trovava davanti a lui, a pochi passi. Gli occhi di giada mostrarono dapprima sorpresa, poi divertimento. «Ti riconosco, Ariane!» urlò il barbaro. «Adesso non ha più importanza, Brak» rise lei. I magnifici capelli danzavano nel vento, come l'orlo della sua veste. Al polso della ragazza era legata l'estremità di una leggera catena d'argento; al capo opposto il guinzaglio passava intorno alla gola di Faucirosse. Il cane enorme ebbe un fremito, si alzò sulle zampe anteriori e dondolò la testa mostruosa per fissare il barbaro con gli occhi di un assassino.
Poi, Brak vide qualcosa di ancora peggiore. Al di là di Nordica, in fondo alla china, il principe Pemma stava seduto su un cavallo da guerra. Accanto a lui, su una lettiga, giaceva suo padre Strann. Alle spalle dei due capi si vedevano alcune centinaia di soldati armati pesantemente, macchine da guerra e carri per il trasporto delle provviste: ma neppure uno degli uomini alzò una mano per aiutare Brak, e lui capì che la partita era persa. L'inspiegabile silenzio era quello di un esercito soggiogato, messo con le spalle al muro: un esercito stregato. Stregato dall'esile fanciulla e dal gigantesco cane legato alla catena d'argento. XI Soffiate, venti dell'inferno! La scena si impresse nel cervello di Brak per sempre: la giornata tetra, le montagne aguzze e selvagge, solo parzialmente visibili dietro la nebbia, il vento che prima sembrava soffiare da una parte, poi dall'altra. E dovunque si alzano nuvole di polvere. Dapprima Brak stentò a credere a quello che vedeva; poi, guardando meglio i soldati, scorse le espressioni impaurite e apatiche e capì la verità. La polvere si sollevò e lo colpì su entrambe le guance: il vento soffiava da due direzioni contemporaneamente! Con uno sforzo concentrò la sua attenzione su Nordica, che era rimasta silenziosa, altera, guardandolo di sopra una spalla. Nella mezza luce del giorno i suoi occhi brillavano come due scintille verdi. Poi improvvisamente il corpo della strega cominciò a tremolare e sbiadire: al suo posto il barbaro vide un'altra donna, una donna la cui bellezza era ancora più incredibile di quella di Nordica. Il corpo dalle curve perfette era modellato da un costume aderente, color della notte; gli occhi erano bui come il cielo d'inverno senza stelle, e i capelli neri fluttuavano come una nube. Sorrideva con le labbra lascive, color prugna. Ariane, figlia dell'Inferno, era esattamente come la ricordava dall'ultimo incontro nelle Marche del Ghiaccio, bella come la tentazione più irragionevole: e infatti lo aveva tentato, ma Brak l'aveva respinta, rifiutando l'offerta di tutti i regni del mondo in cambio della fedeltà a lei e al dio osceno che serviva.
Ed eccola di nuovo, splendente nell'aria al di là dell'illusoria presenza di Nordica: ma potevano vederla, i soldati? Il barbaro ne dubitava, perché anche questa doveva essere una stregoneria fatta a suo solo beneficio. Lei voleva che Brak guardasse l'espressione dei suoi occhi: era un odio immortale, omicida. Poi l'apparizione ondeggiò e l'aria sembrò fremere, rimescolarsi: Nordica era riapparsa in tutta la sua consistenza, ma gli occhi erano ancora quelli di Ariane. Brak fece uno sforzo per trovare la voce: «Pemma! Ordina alle truppe di attaccare. Muovetevi!» Il cavallo del principe si dondolò e sbuffò atterrito, cercando di non guardare Faucirosse; il mostro teneva la bocca aperta, con la lingua rossa e umida penzoloni fra le zanne. Dietro di lui il barbaro sentì un cigolìo e un rumore di ferro: l'occasione era perduta. Gli uomini di Nordica stavano richiudendo le porte del castello. Ma la strega fece un gesto imperioso: «Tornate indietro! Voglio vedere se questo barbaro è capace di convincere quegli uomini a sfidarmi.» I soldati del castello si ritirarono nel cortile, mentre Nordica continuava a guardare Brak con divertimento. Lui serrò le dita sulla spada e cominciò ad avanzare, pur tenendosi alla larga da Faucirosse che si era alzato sulle quattro zampe. L'odore di corruzione che veniva dalla pelle corazzata del cane gli fece venire il voltastomaco. Brak superò Nordica evitandone gli occhi crudeli e si avvicinò a Pemma e Strann. Il Signore delle Bilance d'Argento era pallido, e le armi non bastavano a nasconderne la debolezza. Si puntellava col gomito sulla lettiga. Il barbaro decise di bluffare: agitò la spada descrivendo un ampio arco che abbracciava tutto l'esercito. «Che succede ai tuoi uomini? Le porte sono aperte, e una donna non può fermarvi. E nemmeno quel mostro a quattro zampe: Faucirosse non può niente contro un esercito!» Fila dietro fila, i soldati fedeli alla bandiera di Strann rimanevano immobili, guardando Brak con aperta ostilità. Il barbaro capì allora uno dei motivi di quel comportamento: anche se non si rendevano conto della vera identità di Nordica (o, più esattamente, della strega che si era impossessata del suo corpo e della sua mente per i propri scopi perversi) gli uomini capivano che era all'opera una grande magia. Quindi, restava solo una speranza: che i soldati scoprissero la verità su Nordica... Prima che Pemma potesse rispondere ai ripetuti inviti di Brak, Strann si
sollevò sulla lettiga: «Non puoi immaginare le cose che lei ha detto ai miei uomini, Brak. Le cose che gli ha promesso...» Lui lo immaginava benissimo, ma finse di niente e replicò: «Ricchezze? Potere? Si terrà tutto per sé, alla faccia di quello che vi promette adesso. Io lo so, perché so chi è veramente.» Sia il vecchio Strann che il principe Pemma erano troppo confusi per afferrare il significato di quell'ultima frase. Col cuore che gli martellava nel petto possente, il barbaro aggirò il cavallo di Pemma e si diresse verso la prima fila di armati. Si piazzò davanti a un ufficiale chino sulla sua spada. «La lealtà a Strann non significa niente, per te? La dimentichi tanto facilmente?» L'ufficiale gli lanciò un'occhiataccia: «Vattene fuori dai piedi, straniero. Qui comanda lei.» Brak avrebbe affondato immediatamente la spada nelle budella di quel vigliacco se non avesse visto espressioni simili in tutte le facce che lo circondavano: i soldati stavano a bocca aperta, con gli occhi luccicanti di cupidigia. Con una maledizione Brak si girò e tornò di nuovo da Pemma: era venuto il momento di tentare il tutto per tutto con la rivelazione finale. Ma, prima che potesse parlare, Nordica alzò la mano destra, come per imporre il silenzio. Brak sussurrò al principe sul cavallo: «Nel nome degli dèi, che cosa ha potuto rammollirli a questo punto?» Il pennacchio sull'elmo di Pemma ondeggiava al vento. «Innanzi tutto il fatto che è una donna: lei è venuta fuori sola, a parte il cane, e questo li ha trattenuti. Poi, mentre con uno sforzo cercavano di ricordare che quella è più che una donna, che è il nemico, lei ha messo all'opera le altre arti, e allora è stato troppo tardi. Quello che li ha rammolliti è la cupidigia.» Pemma sembrava perduto nei suoi pensieri. E in quel momento la voce dolce, squillante di Nordica dai capelli di fuoco risuonò alle spalle di Brak: «Ciò che vi ho promesso, soldati, non è millanteria. Non sono sogni, è realtà. Il vecchio che sta sdraiato su quella lettiga è malato, prossimo alla morte. Il suo potere su queste terre è finito, ma un nuovo potere sta sorgendo, quello del dio più potente del mondo. Io lo onoro perché è un dio che parla al cuore degli uomini, e conosce le loro più profonde brame e desideri. E conoscendoli, li esaudisce! Io sono orgogliosa di servire l'Oscuro, l'immortale Yob-Haggoth!»
Esaltata, Nordica tese in alto le mani: la sua innaturale bellezza era accresciuta dall'espressione di beatifica lascivia. Qua e là un soldato tremò, diede di gomito al suo compagno o semplicemente fremette a udire il nome del dio. Ma nella maggior parte degli uomini quell'invocazione al male supremo provocò solo indifferenza, e sguardi vacui. Gli ignari si fecero più attenti, ansiosi di conoscere quali vantaggi personali avrebbero ricavato dal loro tradimento in favore di Nordica. Brak era disgustato alla vista di tanta aperta cupidigia. Come in un delirio, continuò ad ascoltare le parole di Nordica: «Non importa se non conoscete il dio che servo. Preoccupatevi solo di servire me! Voltate la schiena a Strann, che non ha più forze, e venite a me, perché io sola posseggo il segreto di Celso Hyrcano. E se l'ho custodito è per un preciso motivo: creare ricchezze come non se ne sono mai viste, ricchezze che a loro volta genereranno armate invincibili; e a capo di quegli eserciti estenderemo il regno dell'Oscuro fino ai confini del mondo.» Adesso era tutto chiaro: Septegundus aveva affidato a sua figlia Ariane il compito di impadronirsi del corpo di Nordica proprio perché il segreto dell'alchimista diventasse proprietà degli adoratori di Yob-Haggoth. Quello che un simile potere, nelle loro mani, avrebbe potuto significare, atterrì il barbaro. Con la possibilità di trasformare in oro i metalli vili, i seguaci dell'Oscuro avrebbero potuto allestire eserciti di sconfinata potenza: e questo avrebbe preparato la strada alla lunga notte di peccato in cui il male avrebbe governato il mondo, come aveva paventato fratello Jerome nelle Marche del Ghiaccio. Nordica urlava, adesso, per sovrastare l'ululato del vento, e ogni sua parola era come una coltellata per Brak: «Approfittate dell'occasione che vi offro! Del resto la scelta che dovete fare è chiara: rimanere con Strann, un vecchio malato, e attaccare il mio castello, rischiando la vita contro i miei uomini e il mio cucciolo...» all'estremità della catena d'argento Faucirosse fremette, sbavando. «Oppure venire con me. Venire con me perché io posseggo il segreto che i sapienti hanno cercato da sempre, venire con me e conoscere una ricchezza, un potere che non avranno limiti. Un manipolo d'uomini, non più grande di quello radunato qui, può costituire il nucleo dell'esercito che sciamerà dalle Colonne di Ebon alle Montagne di Fumo, dalle Marche del Ghiaccio alla dorata Khurdisan. E quell'esercito potrà impadronirsi di tutto!»
"Per conto di Yob-Haggoth!" urlò mentalmente Brak. Ma la sua voce rimase muta. Gli occhi di Nordica sembravano allungarsi verso la faccia di ogni singolo soldato, tentatori, infernalmente brillanti. Il barbaro aveva il cervello in fiamme, perché ancora una volta ricordava quanto subdolamente fosse stato tentato lui stesso. «Allora, chi mi seguirà?» gridò lei. «Chi verrà con me e dominerà il mondo?» Re Strann sembrava annaspare in cerca d'aria; il vento gemeva nel generale silenzio. Un soldato pestò a terra lo stivale: «Come facciamo a sapere che possiedi il segreto, donna?» «Non ce l'ha» gridò qualcun altro. «Anzi non esiste, e non esisterà mai.» Un grosso guerriero dalla barba rossa che troneggiava su tutti gli altri scosse il pugno: «Io correrò il rischio! Non ho mai sentito parlare di quel suo dio, ma se anche un decimo di quello che promette è vero, saremo ricchi come sovrani. Perciò dico: corriamo il rischio e all'inferno Strann!» Tra i commilitoni corse un vocìo di consensi. Solo qua e là un uomo isolato scuoteva la testa o si mordeva le labbra, riconoscendo in qualche modo l'insidia dolce e maligna che si nascondeva nelle parole di Nordica. Strann cercò di girarsi sulla lettiga per fronteggiare i suoi uomini e ci riuscì, ma con uno sforzo che lo fece sbiancare ancora di più. Per un momento, tuttavia, la sua voce si levò chiara, forte, spassionata: «Tradire me vuol dire tradire qualcosa di più dell'ufficio che svolgo. Vuol dire tradire il popolo di questo paese, forse di tutti i paesi! E la gente pensa che voi siate qui per distruggere questo covo di sortilegi e di delitti! Ascoltatemi, io ho sentito parlare del dio della strega: è un essere abominevole! Non datele ascolto, vi prego. Prendete le spade e le lance, e la ributteremo nella sua casa e poi nell'inferno da cui proviene!» Ansimando, Strann ricadde sulla lettiga. Pemma scese da cavallo e corse accanto al padre, inginocchiandosi. Il suo volto semplice da contadino era contratto dall'angoscia. Brak guardò di nuovo i soldati: le parole di Strann avevano prodotto, come unico effetto, un coro di versacci di derisione e risate. Rendendosi conto di essere in vantaggio, Nordica allentò la catena di Faucirosse; il mostro fece per balzare avanti e i soldati delle prime file indietreggiarono, con divertimento della strega. «Ebbene?» gridò. «Chi seguirete, me o quel vecchio rimbambito? Statemi a sentire: i codardi restino dove sono. Quelli che invece vogliono ve-
nire con me a conquistare i regni della terra lascino le armi a terra, voltino la schiena alla battaglia e tornino alle loro case!» Il mercenario dalla barba rossa abbaiò: «Conta pure su di me! Sono stufo di rischiare la pelle per un re che non è capace nemmeno di alzarsi dal suo letto. Non conosco il tuo dio, ma verrò volentieri!» Così dicendo buttò la lancia a terra, facendola seguire dalla spada, poi si girò e si aprì la strada a spallate verso le ultime file. Parecchie teste si girarono a guardare; un soldato dall'espressione idiota fece una risatina che suonò particolarmente spiacevole nel vento sibilante, si asciugò un filo di saliva dalle labbra pendule, poi buttò elmo e armi su quelle del barbarossa, seguendolo. «Voi due!» La voce di Brak era come un tuono. Barbarossa e l'idiota si girarono. «Io conosco Yob-Haggoth» gridò il barbaro. «Nei miei viaggi ho già incontrato i suoi seguaci, e poco ci è mancato che venissi sacrificato su uno dei loro altari. Quello che vi offre questa donna è l'orrore. Voi tutti ricordate il cambiamento che è avvenuto nella figlia dell'alchimista, vero?» Grugniti, cenni d'assenso. «La gente pensava che Nordica fosse posseduta. Be', è vero: quella donna non è più Nordica; di lei è rimasto soltanto il corpo, e ogni somiglianza finisce lì. In realtà è una strega, la strega più malvagia dell'universo, la figlia del vicario del Male in terra. Si è impadronita del corpo di Nordica, poi ha portato qui i suoi lacché, il Mago e quel cane d'inferno, perché ciò di cui si nutre Yob-Haggoth è la corruzione delle anime che le false lusinghe possono comprare. Non so come questa strega sia venuta a sapere di Celso e del suo segreto, ma i suoi poteri di chiaroveggenza...» «Attento, Brak!» Le parole di Nordica furono come un sibilo nel vento. Il barbaro si girò verso di lei e rimase quasi accecato dalle luci corrusche nei suoi occhi. Lottò contro le vertigini e continuò, in un ringhio: «Mi hai condannato a morte appena mi hai visto sulla strada che conduce in questo paese, vero, Ariane?» «Molto prima: mio padre ti aveva avvertito.» «Capisco. Così hai visto la possibilità di prenderti la tua vendetta e al tempo stesso continuare i preparativi per impadronirti del segreto alchemico, nel nome di Yob-Haggoth.» Il barbaro si interruppe improvvisamente, la faccia coperta di sudore gelato. Si girò di nuovo. Durante lo scambio di battute con Nordica aveva perso d'occhio i soldati; adesso vide che, istigati dal barbarossa e dal suo
compagno idiota, parecchi uomini agitavano i pugni contro di lui, aggiungendo commenti insolenti sul suo aspetto e il suo comportamento barbarico. Peggio di tutto, molti soldati ridevano: non avevano creduto alle sue parole. «Vi dico che vi porterà tutti alla rovina!» ruggì Brak. «Ascoltatemi, ascoltatemi!» Ma non serviva a niente. A gruppi di due o tre, poi in bande di cinque o dieci per volta, i soldati fecero un grande mucchio delle armature e cominciarono a percorrere la via del ritorno. Alcuni facevano ancora battute, altri si limitavano a sgattaiolare via, ma quando un'intera dozzina di uomini della prima fila girò le spalle al vecchio sovrano per raggiungere gli altri disertori che ormai erano una fiumana, Brak non poté più contenere la furia e si lanciò con un grido verso i suoi nemici. Faucirosse balzò a contrastare l'attacco del barbaro, le zanne snudate, mente la spada di Brak correva veloce verso il petto di Nordica. La strega diede uno strattone alla catena d'argento e mormorò una parola che il barbaro non poté capire: come se avesse ricevuto un ordine, il cane cambiò direzione puntando alla lettiga di Strann. Brak ebbe un attimo d'esitazione, e un attimo prima che Nordica tirasse ancora una volta il guinzaglio del cane capì che si trattava di una trappola. Faucirosse si fermò, scavando solchi con gli artigli nella pietra. Il mostro si trovava a pochi metri da Strann e da Pemma, in ginocchio accanto al padre. «Colpiscimi e la mia mano mollerà la catena» ansimò la strega. «Il primo a morire sarà Strann, il secondo suo figlio.» A Brak sembrò che di colpo la spada fosse diventata di piombo, e la testa cominciò a pulsargli di nuovo. Gli vennero le lacrime agli occhi, la bocca gli bruciò, e poi, come in un incubo, gli parve che il volto di Nordica Chioma di Fuoco si dissolvesse. Sotto c'era il ghigno biancastro di un teschio. Il barbaro si mise un braccio davanti agli occhi e il teschio svanì, ma, grandi come soli neri, gli occhi spudorati di Ariane occupavano tutto lo spazio della sua mente. I capelli le fluttuavano intorno dolcemente, una cascata di serpi d'ebano... Sconfitto, il gigante abbassò la spada, si portò le mani agli occhi e pre-
mette con assurda ferocia sulle orbite, lamentandosi come una bestia che soffre. La visione svanì e lui alzò la testa, ansimando. Gli occhi di giada di Nordica lo scrutavano con fredda fiducia nei propri poteri. Gli sussurrò: «Lasciati guidare dal cervello, non dall'odio, Brak. Anch'io ti detesto a causa di ciò che è avvenuto, ma ho ancora bisogno di te.» Nordica indicò il cielo dove le nuvole venivano spinte dal vento oltre le vette più alte. «Entro questa sera i venti raggiungeranno il culmine. Io ne evocherò la potenza per il rituale, e stanotte farò la prima trasmutazione, la prima di una lunga serie che aumenterà di mille volte il potere di Yob-Haggoth sulla terra. Dunque, dammi la risposta: la tua vita, o la loro.» Strann gridò con tutte le forze: «Non darle ascolto, Brak! Uccidila!» Faucirosse tirava la catena, scavando la terra con le zampe; Pemma sembrava incerto, e diede prima un'occhiata a suo padre, poi a Brak. L'espressione della strega divenne impaziente. «Allora, barbaro? Devo liberare la bestia o verrai con me al castello e farai la tua parte?» Paura e furia assalirono Brak contemporaneamente, con uguale violenza, ma finalmente con un brivido lui gettò la spada. «Lasciali andare» disse. Nordica sorrise: «Lo farò. Io so stare ai patti.» «No, per gli dèi della guerra!» abbaiò Pemma. «Anche se questo significa la morte di mio padre, non posso starmene a guardare come un codardo! Brak!» Il barbaro aveva raccolto la spada nella polvere e si era incamminato verso le porte del castello. «Brak!» urlò di nuovo Pemma. Il barbaro non si girò. Camminando come un automa Brak attraversò le grandi porte che gli era costato tanta fatica aprire. L'ultimo richiamo del principe morì alle sue spalle, tra l'ululato del vento. Nordica, che lo seguiva con Faucirosse a breve distanza, scoppiò in una risata di pura gioia. Il senso del fallimento opprimeva il barbaro, gli oscurava la mente, gli ottundeva i sensi. Sentì le porte richiudersi con un cigolìo e la pesante sbarra di legno scivolare nei rebbi. Poi, orrore degli orrori, udì la voce della strega forte e imperiosa:
«Sui bastioni, arcieri! Uccidete quei due prima che riescano a fuggire. Una borsa d'argento a chi colpirà Pemma e Strann. Avanti, per la gloria dell'Oscuro!» Immediatamente il cortile si trasformò in una baraonda di arcieri che si precipitavano alle postazioni. E a quella vista Brak diventò pazzo di furia, si girò intorno come una belva cieca e finalmente individuò Nordica vicino alla porta. Le frecce intanto sibilavano nel vento. «Bugiarda sgualdrina!» ruggì il barbaro. «Puttana!» «Padrona!» Nordica alzò la testa: «Li avete colpiti?» L'uomo dai bastioni annuì: «Strann e suo figlio sono morti, trapassati dalle nostre frecce.» «Puttana dell'inferno!» Brak non ci vedeva più, correva verso la strega. «Figlia del demonio!» I soldati gli si buttarono addosso da tutte le parti, colpendolo con le aste delle lance e tirando calci. Lo tenevano per le spalle, le braccia, le gambe, e lui lottava selvaggiamente. Poi cominciarono a dargli colpi sulla testa. Nel cervello sentiva solo il sibilo arcano del vento, misto al riso isterico di una donna: "Troppo tardi, Brak, troppo tardi! Ho atteso questo momento, l'ho aspettato e desiderato fin da quando mi hai respinto nelle Marche del Ghiaccio, fin quando mi hai spedito nel limbo col pugnale di mio padre nella schiena. Ma i suoi poteri taumaturgici e la grandezza di YobHaggoth mi hanno riportato indietro per servire ancora l'Oscuro. E stasera il circolo si chiude." «Ariane!» ruggì lui, nel delirio. «Tu sei Ariane!» "Sì, sì! E stanotte evocherò i quattro venti e cambierò il metallo vile in oro grazie alla tua vita. Mio padre Septegundus te l'aveva detto: 'Io sarò là'. Non era una falsa minaccia!" Poi i colpi dei soldati lo sprofondarono nel buio completo. XII Il piombo diventa oro, ciò che è morto diventa vivo "Svegliato, svegliato, svegliato, svegliato." La voce martellava, echeggiava, cantilenava in lontananza. Un momento era più forte, quello dopo si affievoliva.
Brak grugnì, cercando uno spiraglio nelle tenebre fitte e gelide che lo avvolgevano. Poi si rese conto di avere le braccia immobilizzate. Aprì gli occhi. Le tenebre svanirono, e il soldato che lo sorvegliava disse: «Padrona, il barbaro si è svegliato.» Brak ritrovò la memoria: la strana eco di poco prima non era che l'ultima parola detta dalla guardia, riflessa dalle pareti della sua mente semicosciente. Distese i muscoli lentamente, guardandosi intorno; il vento gli colpiva il volto, e quando vide dove era, e in compagnia di chi, provò una stretta allo stomaco. Era in una sala piuttosto grande e rotonda, aperta lungo tutta la circonferenza. Una serie di arcate dava su un portico che circondava la sala. Attraverso uno degli archi Brak scorse le vette aguzze delle montagne sfiorate dalle luci grige del crepuscolo. La sala aveva un aspetto spazioso e di grande altezza; si rese conto che doveva trovarsi nella parte alta del castello, perché la prospettiva delle montagne era diversa da come appariva dal cortile. Il vento entrava come una sferza invisibile attraverso le arcate, e qua e là alcune raffiche sembravano solidificarsi in deboli ma distinte spirali lattiginose. Le spirali svanivano un attimo dopo essersi formate, ma davano l'impressione che le correnti d'aria che attraversavano la sala possedessero una specie di vita autonoma e soprannaturale. Brak ebbe un altro sussulto, quando notò che tutte le colonne su cui poggiavano gli archi contenevano una piccola nicchia, e che in ogni nicchia c'era un'immagine di Yob-Haggoth, lo sguardo fisso, i pugni di pietra serrati dalla furia, la bocca pendula che ricordava un amo mostruoso. Sul pavimento grezzo e consunto era stato disegnato un grande cerchio di gesso bianco, e alcune strane croci erano state tracciate lungo la circonferenza in quattro punti equidistanti. Una delle croci era disegnata davanti ai piedi di Brak. Di fronte a lui, dalla parte opposta del cerchio, c'era un'altra croce, dietro la quale si trovava Runga: non legato come Brak, ma sorvegliato da tre soldati che gli puntavano le lance alla schiena. La ferita del fabbro era stata fasciata accuratamente, ma gli occhi del traditore erano colmi di terrore. Alla sinistra del barbaro, e in corrispondenza della terza croce, stava il vecchio Darios, il marinaio, la barba agitata dal vento e anche lui sorve-
gliato da tre sgherri. Alla destra di Brak Elinor era tenuta sotto controllo da altrettanti carcerieri. Di colpo Brak si rese conto dello spaventoso significato del cerchio, delle croci e della loro posizione in quel disegno: le quattro vittime erano racchiuse in un circolo che rappresentava la creazione, ognuna in corrispondenza di uno dei quattro punti cardinali da cui soffiavano i venti della terra. Al centro un blocco di pietra formava una bassa predella, intorno alla quale erano stati disegnati un'infinità di simboli mistici e occulti, che si irradiavano dal blocco di pietra fino ai bordi del cerchio. Mentre cercava, invano, di decifrare il significato di quei pentagrammi e quelle stelle magiche, Brak udì un fruscio che dominava il sibilo del vento. E apparve Nordica, il volto bianco come l'abito virginale. I capelli si gonfiavano dietro di lei come uno stendardo color del sangue; era a piedi nudi, stranamente priva di espressione, e nelle mani portava una piccola barra di metallo grigio. Avanzò lentamente fino al centro del cerchio magico, poi depositò la barra sulla predella e si fermò a guardarla; la veste frusciò intorno ai polpacci aggraziati, alzandosi prima da una parte e poi dall'altra a seconda della spinta dei venti. Lentamente la testa della maga si alzò, si girò, diede un'occhiata a Brak. Le labbra scarlatte si curvarono appena, ma si esprimevano meglio di qualunque parola. Su di esse Brak vide il sorriso di vittoria e di vendetta di Ariane, mentre gli occhi di Nordica si facevano stranamente opachi; e mentre quello sguardo quieto, pacifico, lo avviluppava, il barbaro sentì un'immensa, totale disperazione. Ariane aveva vinto, lo sapeva, e non c'era bisogno di altri trucchi per provarlo. Brak cercò di concentrarsi sulle volute perlacee, simili a onde generate dall'aria, dove il vento sembrava acquistare solidità; poi udì il lamento di Runga. Una delle guardie aveva colpito il fabbro alla testa, e quel gemito sembrò infrangere la calma di Nordica. La maga alzò gli occhi e vide le guardie che bloccavano Runga per impedirgli di agitarsi nel cerchio. Brak riuscì a passarsi una mano sugli occhi: i legacci lo tenevano saldo, ma non gli impedivano tutti i movimenti. Si sentiva debole e la sofferenza era sia fisica che mentale, come se si fosse reso conto della vanità di tante battaglie contro difficoltà insuperabili. Finalmente Runga si calmò e il barbaro diede un'occhiata a Elinor: tre-
mava, esattamente come aveva tremato il fabbro, ma almeno faceva ogni sforzo per mantenere la propria dignità, nonostante tutto. Adesso la barra metallica sul blocco di pietra brillava, e solo Darios, il marinaio, sembrava non essersene accorto Aveva le guance in fiamme per la febbre, ed era sostenuto dalle guardie che avevano il compito di sorvegliarlo. Nordica alzò la mano destra e indicò le cime delle montagne e il cielo, visibili oltre un'arcata. Quando parlò mosse appena le labbra, ma Brak la udì chiaramente nonostante il fragore del vento, che adesso soffiava così forte da costringere le guardie a uno sforzo per mantenersi in piedi. Per non perdere l'equilibrio dovevano piegarsi, e tra i presenti solo Nordica sembrava invulnerabile alla violenza degli elementi. «Nel nome osannato di Yob-Haggoth l'Oscuro, io invoco i quattro venti» disse, puntando l'indice al cielo ribollente. «I quattro venti uniti hanno la potenza. I quattro venti dalla fine del tempo, dalle estremità della creazione, dall'abisso nero oltre la vita dove dimora il mio Signore, adesso vengono!» Una raffica sibilò nella sala e Brak ebbe l'impressione di sentire il pavimento di pietra ondeggiare. «Yob-Haggoth, manda il vento del nord!» cantò Nordica. «Manda il celeste gelo del vento del nord!» Dall'arcata alle spalle di Runga venne una folata urlante, viva. Brak sentì l'alito freddo della tempesta sul petto, e la sala affondò in una nebbia bluastra. Nordica urlò: «Yob-Haggoth, manda il vento del sud! Manda il soffio verde del calore che corrompe!» E ubbidendo al richiamo una raffica d'aria calda, vomitevole, strisciò nella sala di pietra, densa del puzzo di vegetazione marcita da secoli in qualche foresta tropicale. Una delle guardie dietro Brak cominciò a vomitare. «Yob-Haggoth, manda il vento dell'est! Manda l'alito rosso come il veleno del papavero!» Elinor e le guardie barcollarono sotto la spinta del terzo vento che entrò dietro di loro, carico di un'aroma intossicante, dolciastro. «Yob-Haggoth, manda il vento dell'ovest! Mandaci la voce del vento nero dai confini della terra!» Darios e i suoi carcerieri sparirono in una nuvola di aria scura come l'inchiostro, che spiraleggiò, danzò e infine si avventò verso la predella al cen-
tro del cerchio. A questo punto la sala fu presa in un unico turbine. Strane macchie colorate danzavano davanti agli occhi di Brak, e sopra di lui, al centro del mulinello multicolore formato dai quattro venti, cominciò a formarsi un'immagine: un grande cranio rasato, un formidabile naso a rostro, labbra sottili e spietate... Il cuore del barbaro sembrò scoppiare nel petto. E poi fu la paura: paura degli occhi che si formavano dalla tromba d'aria, occhi grandi dalle immense pupille; paura dei ritagli di pelle coperti di cicatrici, raggrinziti come croste purulente sugli occhi che cercavano il barbaro con sguardo disumano. Infine dal vento emersero i lineamenti e venne l'orrore della pelle viva, brulicante di figure umane che si contorcevano nel tormento. Gli occhi lo individuarono. Septegundus, il vicario del male sulla terra, vide la sofferenza di Brak e il suo volto-fantasma se ne compiacque. Poi, mentre la danza abominevole delle figure dannate continuava tra gli strati della sua pelle, lo sguardo dello stregone si spostò altrove per contemplare il lavoro di sua figlia Ariane; anche stavolta il volto mostrò approvazione. Le spirali tempestose danzavano e ululavano quasi con gaiezza, e in quel frastuono Brak sentì Septegundus beffarsi lietamente di lui. Lo accoglieva finalmente, col dovuto sarcasmo, nel dominio di Yob-Haggoth, nei blasfemi inferni del dio le cui fiamme consumano tre volte. E una voce gli parve cantare come tuono: "Io sarò là!" Brak chiuse gli occhi con quanta forza poté; quando li riaprì solo Nordica stava al centro del turbine, senza che il vento le sfiorasse la veste o le facesse volare un solo capello. Con tutte e due le mani alzate si girò verso il barbaro: «Per la gloria di Yob-Haggoth, si congiunga il vento del sud con la terra, e infonda la vita nell'oro!» Brak sentì un pizzicore nelle gambe che si trasformò in dolore acuto. Il dolore invase velocemente il corpo intero, finché egli fu avviluppato da una nube di sofferenza. Poi Nordica si volse a Darios: «Per la gloria di Yob-Haggoth, si congiunga il vento dell'ovest con l'acqua, e infonda la vita nell'oro!» Darios urlò, stringendosi il petto. Il debole corpo sembrava rinsecchirsi, rimpicciolire. «Per la gloria di Yob-Haggoth, si unisca al fuoco il vento del nord, e in-
fonda la vita nell'oro!» Runga singhiozzava, mentre le lacrime gli scorrevano sulle guance. Ebbe un brivido, e strinse i pugni lungo i fianchi. «Per la gloria di Yob-Haggoth, si sposi con l'aria dell'est, e infonda la vita nell'oro!» Elinor mandò un gemito, e sarebbe crollata se una delle guardie atterrite non l'avesse sostenuta. «Terra, aria, fuoco, acqua! Raccoglietevi, elementi del creato! Raccoglietevi, venti! Soffiate e bruciate, e che l'oro sia vivo!» Brak si sentiva più debole a ogni momento che passava. La testa gli pesava, gli occhi erano velati di nebbia e le gambe erano molli come quelle di un bambino. Si chiese per quanto tempo sarebbe riuscito a mantenersi in piedi. Poi, come se Nordica avesse voluto schiarirgli ad arte il cervello, un angolo remoto della sua coscienza gli fornì la risposta. La sbarra grigia sulla pietra emetteva già da un po' di tempo un debole bagliore giallastro, come se possedesse una specie di vita arcana, e il barbaro capì che quella vita proveniva dal suo corpo, dove i venti rabbiosi, furenti, la succhiavano e la trasferivano nel metallo. Come sabbia che filtra in una clessidra, la forza stava abbandonando i suoi muscoli, e a Brak sembrava di non avere più ossa, ma di essere diventato una creatura fatta di gelatina. Quando l'ultima goccia di vita gli fosse stata rubata, lui si sarebbe accasciato sul pavimento, morto, nient'altro che una chiazza fangosa sulla pietra. E questo era ciò che stava accadendo anche agli altri tre prigionieri. Sembravano tutti diventare più piccoli e più pallidi, mentre i venti si erano fatti scuri come nebbia sporca. La sala ondeggiava più violentemente, e Brak ebbe l'impressione di udire un brontolìo lontano, come se le stesse fondamenta del castello scricchiolassero. Lottò per tenere la testa alzata e vide una crepa che si allargava a zigzag nell'arco di pietra sopra Runga. Una guardia da qualche parte mandò una maledizione, perchè aveva visto la crepa e aveva capito la pericolosità della bufera. Ma le guance di Nordica brillavano di luce gialla, riflessa dalla sbarra di metallo sulla pietra, e la stessa era incapace di vedere altro: «Venti, prendete la vita dai vivi! Venti, soffiate la vita in ciò ch'è morto! Prendete la vita dal fuoco e dall'acqua, dalla terra e dall'aria, e cambiate il vile piombo nell'oro splendente! Così sia, perché il regno di Yob-Haggoth non conosca
più fine!» La sbarra di piombo pulsava sempre più luminosa. Più luminosa. Prima poche venature, poi gialle macchie brillanti si formarono e si estesero sul pezzo di metallo inerte, che cominciò a cambiare. Nordica si piegò sulla barra, le mani contratte come artigli, ma la sua voce fu sommersa dalla furia devastatrice del vento che si era trasformato in un ciclone. Tutta la forza del cielo convergeva in un ululato spaventoso. Brak ebbe la sensazione di cadere e seppe che la vita stava lasciando il suo corpo, risucchiata attraverso la sala per confluire nella barra di metallo splendente. Perduta ogni speranza seppe di essere finito, e che agli altri non sarebbe toccata sorte migliore. Eppure una feroce, selvaggia voglia di vivere, un istinto profondo e viscerale che era nato con lui nelle steppe del nord si rifiutava di abbandonarlo. La sua mente annebbiata esplorò la sala palmo a palmo, alla ricerca di una via di salvezza o di un'arma con cui, insieme a sè stesso, potesse almeno distruggere Nordica, o meglio Ariane. Ma era troppo debole per lottare e i venti infernali lo stringevano come artigli. Ormai gli restava molto poco. Eppure, soccombere... Permettere che la sua vita venisse succhiata in una sbarra di metallo, che la strega avrebbe usato per comprare altre vite, altre anime, per conquistare nuovo potere all'Oscuro... No, questo no! Lentamente, sinuosamente, Nordica Chioma di Fuoco cominciò a muoversi intorno alla predella, formando segni che Brak non capiva. La sua bocca ripeteva parole che il barbaro non riusciva a sentire, e l'unico suono restava l'urlo del vento scatenato attraverso le arcate, un turbine di forze allucinanti e senza pace. Vagamente il barbaro si rese conto che il cielo era diventato più scuro, e che molto sotto di loro le fondamenta del castello tremavano ancora. Fu in quell'istante che il cervello di Brak, teso nello sforzo, riuscì a ricordare. Ricordò come avesse maledetto fin dal primo giorno quel paese stregato in cui era stato costretto ad avventurarsi; ricordò il grido nella tana dell'Uomoverme, e come poco fosse mancato che non riuscisse più a salvare Elinor. Ricordò la forza misteriosa che era affluita nel suo braccio, e la fonte di quella forza, una mente che poteva spingersi molto al di là dei limiti umani. Le labbra del barbaro tremarono: giù, nel pozzo, Celso Hyrcano era an-
cora vivo. Pazzo, sì, ma vivo. E Nordica - ammesso che una parte di Nordica esistesse ancora nella mente e nel corpo di cui Ariane si era impossessata - non lo sapeva. "Ambrosio?" Brak cercava di espandere la sua mente, di afferrare l'immagine del vecchio seduto sulla colonna con la strana croce di pietra appesa a una catena intorno al collo. "Ambrosio! Ambrosio!" Il vento ululava, sferzando il corpo del barbaro come una gigantesca frusta. "Ambrosio, ascoltami. Ascoltami, dove sei?" Poi, debole, molto distante, in una lingua che non si esprimeva con le parole, udì la risposta: "Qui." Il dolore, la snervante debolezza che lo avevano afferrato sembrarono ritirarsi un poco. L'immagine di Nordica ondeggiante intorno alla pietra su cui brillava la sbarra gialla era confusa; in un limbo dove non c'erano immagini, ma solo freddo nero e pensiero puro, Brak cercò lo Stilita e implorò: "Aiutaci. Se possiedi veramente il potere del Dio Senza Nome, aiutaci prima che moriamo e quella strega e suo padre sguinzaglino il loro potere, come uno stallone furioso, su tutta la terra." Fredda e debole, la voce che non adoperava parole rispose da lontano: "La forza del Dio Senza Nome è mia. Proverò: adesso chiedi." "Nel pozzo... nel pozzo dell'Uomoverme..." Era difficile mantenere il contatto. Brak si era avventurato in una regione fredda, vuota, la cui natura non comprendeva. "Nel pozzo vive un vecchio, pazzo e mezzo morto dalle privazioni. Portalo qui, muovilo, come tu o il tuo dio avete mosso il mio braccio quel primo giorno. Trasportalo in questa sala prima che io e gli altri moriamo." Quando la risposta venne, fu così secca che a Brak sembrò di avvertire un ago di fuoco nel cervello: "No, questo è troppo! Ci vorrebbe tutto il mio potere, e io sono vecchio. Non posso trasportarlo, a tanta distanza." La cantilena magica di Nordica si era trasformata in un grido acuto e continuo che emergeva attraverso la forza dell'uragano. Runga era caduto in ginocchio, le mani giunte in preghiera mentre la vita lo abbandonava. Darios aveva già ceduto e giaceva supino, con la bocca aperta; Elinor era
afflosciata tra le braccia delle guardie, terrorizzate a loro volta. Tranne un leggero movimento con la testa ogni tanto, sembrava. morta. Adesso la sala era piena di un'intesa luce gialla, che feriva gli occhi, e la forza vitale delle vittime prese a fluire nel metallo ancora più velocemente. "Porta qui l'alchimista!" urlò il cervello di Brak nell'incommensurabile vuoto che divideva le due menti. "Provaci, eremita, stringi la tua croce, prega! Implora il tuo dio, se deve essere implorato, ma prova! Se non lo farai, i poteri del male si spanderanno da questa stanza fino ai quattro angoli della terra!" E come in un'eco: "Non ho la forza." E Brak urlò con tutto il suo essere: "Prova, prima che cadano le tenebre! Prova!!" Improvvisamente, il limbo tenebroso in cui aveva spinto la sua mente scomparve. Brak si sentì di nuovo debole come prima, esausto; aveva le gambe pesanti, e sentiva che si irrigidivano sempre più. Aveva perso il contatto. "Ambrosio! Ambrosio!" Urlava in silenzio il nome del sant'uomo, ma i suoi pensieri si scontrarono con un muro di dolore oltre il quale non poteva spingersi. Emise un debole, selvaggio gemito di disperazione e finalmente si abbandonò ai venti che gli rubavano la vita. Un altro crepaccio si aprì nell'arco dietro Elinor, più largo del primo, provocando una cascata di polvere. Uno dei soldati cercò di lanciare un avvertimento a Nordica, ma lei non sentì. Era perduta nel rituale perverso, disumano, e non faceva che girare intorno al metallo in trasformazione. Il suo corpo sembrava una statua d'oro animata dalla luce riflessa. Sotto i piedi di Brak la terra tremò ancora; mentre si chiedeva per quanto tempo la sala avrebbe resistito, un'ondata di dolore gli sconvolse gli intestini. Buttò indietro la testa, urlando. Le guardie si allontanarono da lui e si scontrarono fra loro; Brak cadde in ginocchio, premendosi le tempie mentre il dolore diventava sempre più forte. Attraverso i turbini di vento vide il volto dorato di Nordica aprirsi in un sorriso, e al posto degli occhi di giada apparvero quelli neri di Ariane. Il dolore era diventato insopportabile, e lui urlò ancora. Poi inaspettatamente il suo cervello fu capace ancora una volta di rompere il muro, e allora udì il grido mentale di Ambrosio: "Verrà. Io muoio, ma lui verrà, per-
ché il Dio Senza Nome lo vuole. La sofferenza mi tormenta, ma lui arriverà dal pozzo. Sii pronto! L'alchimista sta arrivando. " «Donna!» gridò Brak, trascinandosi oltre l'orlo del cerchio. «Nordica, Ariane, strega, qualunque sia il tuo nome, ascoltami!» Vedendo il barbaro che strisciava verso di lei la Figlia dell'Inferno gridò ai soldati degli ordini che lui non udì. Nelle sue tempie pulsava una forza, un'energia che sentiva crescere di momento in momento, bilanciando il potere letale, vampiresco dei venti. Brak dimenticò i soldati, che dovevano lottare contro il loro stesso terrore e cercavano invano di costringere le membra annichilite a obbedire agli ordini. Adesso il pavimento della sala cominciava ad aprirsi, attraversato da lunghe crepe che s'intersecavano l'una con l'altra. La chiave di volta di uno degli archi esterni crollò con un fragore di tuono. «Donna!» urlò Brak. «Strega! La tua magia è inutile ormai! La mia è più forte.» Il dolore continuava a tormentarlo, prossimo a un culmine che non avrebbe potuto sopportare. «Io posso far resuscitare i morti! Io porterò qui il fantasma di chi hai ucciso per cupidigia e bramosia.» Dietro gli occhi del barbaro esplosero tanti fuochi bianchi, e per un momento lui non vide niente. Poi i venti cessarono completamente. La voce di Nordica era un urlo gutturale, incapace di esprimere parole, ma solo terrore. Brak aprì gli occhi e vide, accanto alla pietra dove la barra di piombo stava tornando grigia e opaca, un'apparizione amorfa che poco a poco si condensò in un busto, un paio di gambe, due braccia... Molto, molto lontano il barbaro sentì il lamento di agonia mentale dello Stilita, poi la figura di Celso Hyrcano si materializzò del tutto. Nordica proruppe in un grido: «Padre! Padre mio Septegundus, aiutami!» L'alchimista folle borbottò: «Ma dove...? Dove...?» Girò la testa intorno e finalmente incontrò il viso di Nordica. Le mura della follia si sbriciolarono in un istante, la vecchia lingua screpolata leccò le labbra inaridite e Celso Hyrcano ritrovò la sua lucidità: «Nordica! Carne della mia carne, figlia degenere, hai tentato di uccidermi. Sei proprio tu?» Le vecchie palpebre umide sbatterono: «C'è qualcosa, in te, di diverso. Ah, i tuoi occhi! No, non sono quelli di mia figlia, io riconosco il tuo sguardo!» Fece un passo avanti, incerto. «Lì ho già visti, quegli occhi, un attimo
prima che tentassi di uccidermi. Ma chi sei, ragazza? Non certo mia figlia, la carne della mia carne. Chi c'è allora dentro di te?» Le mani protese come artigli, Celso si avventò con forza, con sicurezza, alla gola di sua figlia. Nordica invocò ancora il nome di Septegundus, ma l'urlo fu soverchiato da uno schianto infernale: la sbarra di piombo sulla predella si era spaccata a metà. Nei secondi che seguirono la sbarra si tramutò in polvere, e i quattro venti si abbatterono contemporaneamente al centro della sala, dove per un istante il corpo di Celso Hyrcano li aveva tenuti in scacco. Da qualche parte una voce sofferente (quella di Ambrosio?) gemette con improvviso sollievo. Nella confusione che seguì il terribile schianto Brak si precipitò contro le sue guardie: ad una strappò la lancia, con tale forza che i legami che lo tenevano si spaccarono. Si guardò intorno, mezzo piegato, non più uomo ma belva dai denti snudati, la faccia contratta dalla ferocia. Dall'arco dove era caduta la chiave di volta cominciarono a cadere altre pietre, mentre il pavimento della sala tremava. Altri archi erano già spaccati e qualcuno crollava. Mentre correva verso Elinor il barbaro vide una grossa pietra travolgere un soldato e il povero Darios, che ne restò spappolato. Un altro uomo in fuga incrociò Brak sul bordo del cerchio di gesso e tentò di fermarlo con la spada: il barbaro gli ficcò la lancia nelle budella, lo buttò da una parte e raggiunse Elinor. La sollevò da terra e se la mise in spalla, poi corse verso quella che sembrava la porta di una scala. I venti scatenati infuriavano sulla sala da tutte le parti, e tra un momento quel luogo infernale sarebbe stato distrutto; Brak sentiva solo il fragore dei crolli e l'urlo parossistico del ciclone. Urtò contro un uomo e si rese conto che era Runga: il grosso fabbro colpì il barbaro con i pugni, cercando di precederlo giù per le scale. Pur ingombrato dalla ragazza che portava in spalla Brak riuscì a puntare la lancia e ad affondarla nei visceri del traditore. Il fabbro urlò, poi rotolò al suolo, con l'asta piantata nel corpo. Uno spruzzo di sangue arrivò fino alla spalla del barbaro. Un altro soldato si precipitò nelle scale, inciampò sul primo gradino e con un grido spaventoso precipitò nel buio. Brak scese in fretta, tra le pareti di pietra che sembravano tende di seta tanto tremavano violentemente. A una curva trovò l'uomo che era caduto, col collo spezzato. Il barbaro gli prese lo spadone e proseguì la discesa. La scala sembrava continuare all'infinito, come un'eterna spirale, e Brak
diventava più debole ad ogni secondo che passava. Sentì Elinor fremere contro di lui, poi finalmente scorse il bagliore di una luce. Quasi gridando dal sollievo attraversò una porta che immetteva su uno dei bastioni esterni, e alla fine del bastione trovò una scala da cui si scendeva nel cortile. Non era molto lontano dalle porte del castello, attraverso cui i soldati di Nordica si stavano dando alla fuga come animali terrorizzati. Il barbaro si fermò il tempo necessario a mettere Elinor in piedi, poi la sostenne finché non fu sicuro che avesse riacquistato i sensi e l'equilibrio. «Puoi camminare, ragazza? Siamo quasi liberi.» «Posso camminare, ma prendimi la mano: è tutto l'aiuto di cui ho bisogno.» «Dobbiamo correre. I venti della torre potrebbero distruggere tutto il castello, prima di placarsi.» Quelle ultime parole furono soffocate da un nuovo schianto: Brak alzò la testa verso l'alta torre di pietra alla cui sommità poteva distinguere a malapena la sala degli archi, mezzo nascosta dalla nebbia. La sala, e tutta la parte superiore della torre, stavano crollando nell'abisso che si spalancava sotto il castello. «Per la strega è finita, e la sua magia è stata sconfitta con lei» sussurrò Brak, senza sapere in tutto quel caos se intendeva riferirsi a Ariane, a Nordica o a tutte e due. «E noi siamo vivi, ragazza.» Afferrò la mano di Elinor e cominciò a correre. Avevano percorso metà del bastione quando sentirono il lezzo terrificante. Il barbaro si fermò immediatamente, si girò e il cuore perse un battito: poco più indietro, sbucato dalla stessa porta da cui erano usciti loro, stava Faucirosse, gli occhi grandi come lune e le zanne snudate. L'unica arma di Brak era la grande spada, ma sarebbe stata completamente inutile contro la pelle corazzata del cane. «Bestia!» Il grido fece girare Brak dalla parte opposta, e giù, nel cortile, vide Nordica. «Bestia, prendili!» Ma era veramente lei? Il barbaro riconobbe la veste bianca, chiazzata del sangue che le scorreva dalle costole fracassate, dalla gola sguarciata, dalla coscia semimaciullata. E riconobbe i capelli di rame, insudiciati di polvere e calcestruzzo: ma come aveva fatto, donna o demonio che fosse, a scappare dalla
torre? Non poteva dirlo. Sapeva solo che adesso era lì, che era stata distrutta e schiacciata solo per risorgere ancora. E una parte del sangue sulla sua veste apparteneva forse a Celso Hyrcano? Probabilmente sì. Brak si sentiva la bocca secca e bruciante, e mentre guardava la strega le guance tese, martoriate di quella faccia scomparvero, e lui ebbe di nuovo l'impressione di fissare un teschio. Poi anche il teschio si dissolse, e al suo posto vide la bocca rossa come una prugna, gli occhi scuri e profondi come le fornaci dell'inferno: un viso intatto, perfetto. Quello di Ariane. Poi dietro la strega sorse una nube color del fuoco, che si andava progressivamente scurendo, dalla quale emerse il volto brulicante di Septegundus. Le belle labbra di Ariane si piegarono in un sorriso malefico, perché il cane si stava avventando su Brak. Il gigantesco barbaro guardò la spada che teneva in mano e che non poteva aiutarlo, e Elinor lanciò un urlo d'orrore. Brak sapeva che questa era l'ultima battaglia. La spada gli sembrava inutile come se fosse di latta, e passandosi un braccio sugli occhi per asciugarli la buttò via. Il gesto del barbaro raggiunse vagamente il cervello di Elinor, ottenebrato dalla paura, e la ragazza balbettò qualcosa a proposito di un errore fatale. Brak non le prestò troppa attenzione, perché si preparava allo scontro con la belva che acquistava sempre più velocità. Elinor urlò ancora più forte, maledicendolo nel terrore, rinfacciandogli di aver buttato la sola speranza che avevano. Faucirosse si alzò da terra, fece un balzo formidabile e con la bocca spalancata e gli artigli protesi attraversò l'aria sopra di loro. Brak il barbaro sapeva che era venuta la sua ora, ma non indietreggiò: era di nuovo invasato dalla furia del combattimento, e voleva morire nella lotta. Si lanciò sotto il ventre dell'animale mentre questi stava per toccare terra, e sollevò entrambe le mani: quando il peso mostruso della belva si abbatté su di lui, Brak si morse le labbra a sangue, ma gli restò forza per un'ultima spinta. La diede, sollevando Faucirosse in alto, in alto, e poi verso il parapetto del bastione. Gli artigli gli scavarono la schiena, i fianchi, le spalle, e per un attimo Brak pensò che si sarebbe spaccato a metà. Ma spinse più forte, più in alto, e finalmente il mostro precipitò nel vuoto, scaraventato nel cortile sotto il
bastione. Mezzo tramortito il barbaro si piegò a guardare in basso e vide che la belva si era schiantata al suolo, ma ora goffamente tentava di rialzarsi. «Bestia, mia bella bestia» disse la strega con voce incredula «aveva la forza di Yob-Haggoth, eppure lui ti ha... noo!» Faucirosse aveva fiutato il sangue sulla veste di Nordica. Lentamente, trascinando penosamente la zampa posteriore sinistra, strisciò verso la padrona. Nordica cominciò a correre, ma inciampò. Faucirosse fece l'ultimo balzo. La creatura che occupava il corpo di Nordica, ma che adesso aveva ripreso il volto di Ariane, urlò una sola volta. Forse fu un'invocazione al nome del padre, forse a Yob-Haggoth. La nube color del fuoco turbinò verso di lei, per avvolgerla, per proteggerla. Ma era troppo tardi. Le sue stesse gambe la tradirono, barcollando, allontanandola dalla nuvola. Fece un passo, poi un altro, incespicò. Faucirosse spiccò un balzo. Brak prese la mano di Elinor e le piegò la testa sul suo petto. Ci fu solo un altro urlo, altissimo e penetrante. Poi il fracasso delle ossa maciullate. Il sangue del corpo che era appartenuto a Nordica Chioma di Fuoco scorreva come un fiume nel cortile. Badando che Elinor non guardasse, Brak fissò il corpo della donna trascinato per il cortile e fatto a pezzi dalle zanne del cane gigantesco. La nuvola scura, lambita di rosso, in cui si trovavano gli occhi maligni di Septegundus si posò sul cadavere, da cui sembrò levarsi un ricciolo sottile, simile a un fil di fumo. E da qualche parte venne una risata, la risata crudele di una donna che si faceva beffe di lui. La nube emise un brontolìo, poi risplendette di un fuoco interno e inghiottì tra le sue volute la faccia brulicante del vicario del male. Nordica era morta, ma in qualche modo Ariane, la Figlia dell'Inferno, aiutata dai poteri di suo padre, era riuscita ad abbandonare il cadavere all'ultimo momento. E adesso viveva ancora: temporaneamente sconfitta, è vero, ma solo temporaneamente. La nuvola magica si disperse nell'aria del mattino e sparì.
Quasi incapaci di ricordare come avessero potuto scamparla, Brak e Elinor raggiunsero la scala che conduceva al cortile, vicino alle porte. Una volta in strada continuarono a correre mano nella mano. Non si erano allontanati molto che la terra sotto di loro tremò, e quando Brak si girò vide che tutte le torri superiori del castello stavano crollando nella turbinante oscurità della tromba d'aria. Si abbatterono lentamente l'una contro l'altra, sfasciandosi, e seppellirono sotto una valanga il cadavere di Nordica, Faucirosse, gli idoli di Yob-Haggoth e l'immensa malvagità che aveva trasformato quel luogo. Tutto fu distrutto nel crollo: tutto tranne Ariane e suo padre Septegundus. Nella mente di Brak le parole dello stregone risuonarono agghiaccianti: "Io sarò là." Una promessa rinnovata, e carica di un nuovo significato. Brak e la ragazza raggiunsero un gruppo di uomini di Nordica, disarmati e non più ostili. Il barbaro aveva la sensazione di non poter più camminare. Si avvicinarono ai soldati, e gli uomini non fecero nessun tentativo di fermarli, ma rimasero a guardarli in un cupo silenzio. Il vento fischiava nelle orecchie di Brak. Diede un ultimo sguardo al castello maledetto, che sotto l'impeto dei venti dai quattro angoli della terra si era trasformato in una gigantesca montagna di rovine: ma era la tomba di Nordica, non quella di Ariane. Alcuni giorni più tardi, in una bella giornata di sole, Brak il barbaro salì sul suo cavallo nel cortile del palazzo di Strann, il Signore delle Bilance d'Argento. Al suo fianco pendeva una spada nuova, e vicino a lui stava il principe Pemma, ora proclamato nuovo sovrano. La nuova posizione del giovane era indicata da un diadema d'avorio che conferiva ai suoi lineamenti semplici, piacevoli, un'aura regale. Ma l'espressione del giovane era grave. Al fianco di Pemma stava Elinor: aveva appena fatto il bagno, si era profumata, aveva indossato vesti nuove e si era quasi ripresa dalle terribili avventure. Pemma aveva insistito che sia lei, sia Ambrosio lo Stilita trovassero ospitalità a palazzo finché non si fossero ristabiliti. Ambrosio era in uno stato semi-comatoso, ma ogni tanto mormorava una preghiera al Dio Senza Nome. Pemma si fece avanti; il farsetto gli si gonfiava un po' sotto il braccio si-
nistro a causa delle fasciature che i medici vi avevano apposto. Gli arcieri di Nordica avevano ucciso Strann, il cui corpo era stato sepolto in gran pompa nella cappella del palazzo, ma la freccia che aveva colpito Pemma alla schiena non era stata fatale, e il giovane era sopravvissuto per prendere il posto del padre. Brak accarezzò le borchie d'argento che Pemma aveva fatto applicare ai finimenti del suo cavallo. «Rimarrò, signore» disse rivolgendosi al giovane «finché i medici non saranno sicuri della sorte dello Stilita. Gli devo parecchio.» A lui, e forse al suo dio. Ma di questo Brak non era sicuro. «No, ci prenderemo noi cura di lui» rispose Pemma. «Anche se i dottori non sanno spiegare l'esatta natura del suo male, hanno buone speranze che sopravviverà. Non importa quali saranno le sue condizioni quando si riprenderà: avrà un posto d'onore nella mia casa fino al giorno della sua morte, se lo vorrà.» Dalle file di soldati in armatura schierati nel cortile si fece avanti Iskander. «Io sarei felicissimo se tu restassi, barbaro. Mi servono uomini forti, e mi serve l'aiuto di quelli che hanno il tuo coraggio. Avresti una paga generosa e una vita facile... ora che lei è morta.» Ma Brak scosse la testa: «No, io sono diretto al sud. Vado nel Khurdisan.» Ispezionò l'orizzonte per un momento, sentendosi lievemente a disagio. E allora Elinor si staccò dal fianco del giovane sovrano e corse al cavallo del barbaro. Prese la mano di lui, e sebbene evitasse di guardarlo negli occhi c'era un inconfondibile rossore sulle sue guance. «Ti ho ringraziato molte volte, Brak, ma diecimila altre ancora non basterebbero.» Alzò il capo e lo guardò: «Forse se tu rimanessi troveresti la tua fortuna anche qui.» Quello che il barbaro vide, dietro il velo di timidezza della ragazza, fu un'emozione che in qualche modo gli fece battere il cuore. Era bella, nella luce del sole... Poi pensò alla regina Rhea, che aveva lasciato a Phrixos. Sospirò e le carezzò la mano, stringendola fra le sue: «Ragazza, io non sono un uomo adatto a stare in una corte o nella casa di un re. Probabilmente prima di finire i miei giorni cavalcherò fino alla fine del mondo. È nel mio sangue, da quando sono nato.» Poi notò che Pemma seguiva quelle battute con una strana attenzione, e un'espressione inconfondibile sul viso. Il giovane sovrano era geloso!
Allora Brak sorrise, rinfrancato per la prima volta dopo tanti giorni. Aveva ragione ad essere geloso; guardata per il verso giusto, Elinor era veramente una bella puledra. Il barbaro ritirò lentamente la sua mano da quella di lei. «Ora che i poteri maligni di Nordica non infestano più la vostra terra, il nostro giovane Pemma si rivelerà un ottimo sovrano, ragazza. E quando io me ne sarò andato forse lo guarderai sotto un altro aspetto. Forse un giorno arriverai perfino a pensare che la vita in un palazzo sia preferibile alla solitudine delle montagne. Almeno» aggiunse con un sorriso nello sguardo «ti conviene rifletterci.» Sorpresa, Elinor si voltò verso Pemma, e arrossì violentemente prima di spostare gli occhi. Pemma sorrise a sua volta, poi si fece di nuovo grave: «Non hai risposto alla mia domanda principale, barbaro.» «Già, anche se tu me l'hai ripetuta almeno mille volte da quando siamo tornati da quel covo del male» grugnì Brak, caracollando in cima al cavallo. I finimenti tintinnarono, e la bestia scalciò, soffiò, come se fosse ansiosa di partire. «D'accordo. Però alle porte del castello tu hai chiamato Nordica con un altro nome.» «Non ero in me» replicò Brak, ma fu un attimo troppo frettoloso. «Puoi certo capire: la confusione del momento...» «Hai detto» insisté Pemma «che lei serviva un dio chiamato l'Oscuro. Quindi eri perfettamente lucido, Brak.» «Ti dico che non è vero!» «Essere informati in anticipo dei pericoli è un'ottima difesa, Brak. Tu devi dirmi di lei. Devo essere preparato, se mai tornasse a tormentarci.» «Non sei tu quello che tormenterà» disse Brak, con un'altra occhiata cupa verso sud. «Come signore di questo paese, ti ordino di spiegarmi...» Ma il barbaro affondò le ginocchia nei fianchi del cavallo «Portami a sud, bello.» E mentre Pemma gridava e agitava le braccia dietro di lui, Brak uscì dalla porta sotto la torre nella quale la Campana del pericolo pendeva silenziosa. Galoppò tra le vigne in cui i contadini lavoravano di nuovo sotto la luce del sole: rimuovevano la terra e piantavano nuove viti per rimpiazzare quelle bruciate, e cantavano una canzone dei campi. Le note allegre alleggerirono un poco il cuore del barbaro.
Seguì la strada fino alla curva successiva, che conduceva a sud. Con un ultimo sguardo all'orizzonte, Brak scrollò le spalle e diresse il cavallo verso ciò che lo aspettava. FINE