ANNE & SERGE GOLON ANGELICA ALLA CORTE DEL RE (Le Chemin De Versailles/Seconda Parte, 1958) Parte prima La taverna della...
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ANNE & SERGE GOLON ANGELICA ALLA CORTE DEL RE (Le Chemin De Versailles/Seconda Parte, 1958) Parte prima La taverna della “Maschera Rossa” 1 Mentre Angelica s'infilava il più discretamente possibile nel cortile della rosticceria del «Gallo Ardito», venne fuori padron Bourgeaud, armato di un mestolo, e le si precipitò addosso. Ella se lo aspettava e fece giusto in tempo a porsi al riparo dietro il piccolo pozzo. Girarono così l'uno dietro l'altra intorno alla pietra dell'orlo. «Fuori di qui, sgualdrina, p...!» sbraitava il rosticciere. «Che ho fatto al Cielo per avere questa invasione di evasi dall'Ospedale Generale o da Bicêtre... o da qualche luogo peggiore? Sappiamo che cosa significa una testa tosata come la tua... Ritorna al Castelletto da dove sei venuta... o ti ci faccio tornare io... Non so chi mi ha tenuto dal far venire una guardia, ieri... Sono troppo buono. Ah! che direbbe la mia devota moglie al vedere la mia bottega disonorata a questo modo?» Angelica, pur sottraendosi ai colpi di mestolo, cominciò a gridare più di lui. «E che direbbe la vostra devota moglie di un marito così disonorevole... che comincia a bere alla prima alba?...» Il rosticcere si fermò di colpo. Angelica approfittò del vantaggio. «E che direbbe della sua bottega coperta di polvere e della mostra con polli di sei giorni secchi come pergamena, e della sua cantina vuota, dei suoi tavoli e delle sue panche sudice?...» «Per il diavolo!» sbottò l'uomo. «Che direbbe di un marito che bestemmia? Povera signora Bourgeaud che, dall'alto dei cieli, contempla un simile disordine! Posso assicurarvelo, senza tema di sbagliarmi, ma ella non sa dove nascondere la sua vergogna dinanzi agli angeli e a tutti i santi del paradiso!» L'espressione di padron Bourgeaud diveniva sempre più smarrita. Finì col sedere pesantemente sulla pietra del pozzo. «Ahimè!» si lamentò, «perché è morta? Era una padrona di casa così accorta, sempre decisa e allegra. Non so che cosa mi trattenga dal cercare
l'oblio in fondo a questo pozzo!» «Ve lo dirò io che cosa vi trattiene. È il pensiero ch'ella vi accoglierà lassù dicendovi: "Ah! eccoti qui, padron Pietro..."» «Prego, padron Giacomo.» «"... Eccoti qui, padron Giacomo! Non posso farti i miei complimenti. Lo avevo sempre detto che non avresti saputo arrangiarti da solo. Peggio d'un bambino!... Lo hai ben dimostrato! Quando vedo quel che n'hai fatto della mia bottega così lucida e pulita quando ero viva io... Quando vedo la nostra bella insegna tutta arrugginita e che, nelle notti di vento, cigola in modo da impedire il sonno ai vicini... E i miei vasi di stagno, le mie tortiere, le mie padelle per il pesce tutte rigate perché quell'idiota di tuo nipote me le pulisce con la cenere invece di usare una creta morbida, che si acquista al Quadrato del Tempio... E quando vedo che ti lasci derubare da tutti quei bricconi di pollivendoli o di mercanti di vino, che ti rifilano galli senza cresta in luogo di capponi e botti di agresto invece di vino buono, come vuoi ch'io goda del mio cielo, io che sono stata una santa e onesta donna?..."» Angelica tacque, senza fiato. Padron Bourgeaud sembrava improvvisamente in estasi. «È vero,» balbettò, «è vero... Direbbe proprio così. Era così... così...» Le sue grosse guance tremolarono. «Non serve a niente piagnucolare,» fece duramente Angelica, «non è così che eviterete la scarica di scopate che vi aspetta dall'altra parte di questa vita. È mettendosi al lavoro, padron Bourgeaud. Barbara è una brava ragazza, ma piuttosto lenta; bisogna dirle quel che deve fare. Vostro nipote mi ha l'aria di un perfetto stordito. E i clienti non entrano in un locale dove li si accoglie brontolando come un cane da guardia.» «Chi è che brontola?» domandò padron Bourgeaud riprendendo un'aria minacciosa. «Voi.» «Io?» «Sì. E vostra moglie, ch'era così gaia, non vi avrebbe sopportato tre minuti con il muso che avete davanti al vostro bicchiere di vino.» «E tu credi che avrebbe sopportato di vedere nel suo cortile una pulciosa insolente della tua specie?» «Io non sono pulciosa,» protestò Angelica raddrizzandosi. «Le mie vesti sono pulite, guardate.» «Credi che avrebbe sopportato di veder circolare nella sua cucina quelle
semenze di tagliaborse che sono i tuoi sfrontati ragazzetti? Li ho sorpresi mentre stavano rimpinzandosi di lardo nella mia cantina, e sono certo che sono stati loro a rubarmi l'orologio.» «Eccolo, il vostro orologio,» esclamò Angelica cavando di tasca con gesto sdegnoso l'oggetto. «L'ho trovato sotto i gradini delle scale. Suppongo che lo abbiate perduto ieri sera mentre salivate a coricarvi, sbronzo com'eravate...» Tese l'orologio al disopra del pozzo verso il rosticcere, e aggiunse: «Come vedete, non sono neppure una ladra. Avrei potuto tenermelo.» «Non lasciarlo cadere nel pozzo,» disse lui preoccupato. «Non chiedo di meglio che portarvelo, ma ho paura del mestolo.» Bofonchiando un'ingiuria, padron Bourgeaud buttò per terra la sua arma, e Angelica gli si accostò con aria vivace e furbesca. Si rendeva conto che la sua esperienza della notte con il capitano della guardia le aveva insegnato alcune cosette dell'arte di sedurre i burberi e di tener testa ai brutali. Ne aveva acquistata una disinvoltura nuova, che non le sarebbe stata, ormai, inutile. Non si affrettò a restituire l'orologio, ma lo esaminò con molto interesse. «È un bell'orologio.» Subito, il volto del rosticcere s'illuminò. «Vero? Lo comprai da un venditore ambulante del Giura, uno di quei montanari che passano l'inverno a Parigi con le loro mercanzie. Posseggono dei veri tesori, nelle tasche... Ma, in verità, non li tirano fuori per chiunque, anche se son principi: bisogna che sappiano con chi hanno a che fare.» «Preferiscono trattare con veri commercianti anziché con i gonzi... specie per queste cose meccaniche che sono vere opere d'arte.» «È proprio come dici: vere opere d'arte,» ripeté il rosticcere facendo risplendere la cassa d'argento dell'orologio al timido sole che si affacciava tra due nuvole. Se lo rimise quindi nel taschino, ne fissò le numerose catene e i ciondoli alle asole, e gettò nuovamente uno sguardo sospettoso ad Angelica. «Mi sto proprio chiedendo come abbia potuto fare, quest'orologio, a cadere dal taschino, come tu sembri insinuare. E mi sto chiedendo dove vai a prendere il tuo modo di parlare da nobildonna, mentre l'altra sera parlavi in gergo da farci drizzare i capelli sulla testa. Ho paura che tu stia cercando di menarmi per il naso, da quella sgualdrina che sei.» Angelica non si lasciò smontare.
«Non è divertente parlare con voi, padron Giacomo,» disse in tono di dolce rimprovero. «Voi conoscete troppo bene le donne.» Il rosticcere incrociò le braccia sul ventre e fece un'aria feroce. «Le conosco e non mi lascio prendere in giro.» Lasciò passare un greve silenzio, con gli occhi fissi sulla colpevole, che stava a capo chino. «E allora?» riprese con tono perentorio. Angelica, ch'era più alta di lui, lo trovava assai spassoso, tondo come una botte, col suo berrettone sull'orecchio e l'aria severa. Ma disse con voce umile: «Farò quel che mi direte, padron Bourgeaud. Se mi scacciate con i miei due piccini, me ne andrò. Ma non so dove andare, dove portare i bambini per ripararli dal freddo e dalla pioggia. Credete che vostra moglie ci avrebbe scacciati? Sto nella camera di Barbara. Non vi disturbo. Ho la mia legna e il mio cibo. I ragazzetti e la fanciulla che sono con me potrebbero farvi qualche piccolo servizio: portare l'acqua, spazzare il pavimento. I bebè resteranno di sopra...» «E perché dovrebbero restare di sopra?» ruggì il rosticcere. «Il posto dei bambini non è in una piccionaia, ma in cucina, vicino al focolare, dove possono scaldarsi e muoversi a piacer loro. Ecco le sgualdrine!... Meno viscere delle bestie! Porta giù i tuoi figli in cucina, se non vuoi che mi arrabbi! Senza contare che finirai per appiccarmi il fuoco lassù, con il tetto di legno!...» Angelica risalì con la leggerezza di un elfo i sette piani che portavano alla soffitta di Barbara. Le case erano altissime e strette in quel quartiere commerciale dove s'erano ammucchiate nel Medio Evo sotto la spinta tumultuosa della città in pieno sviluppo. Non v'erano che due stanze per piano, più spesso una, incastrata nella scala a chiocciola che pareva decisa a portarvi fino in cielo. Su un pianerottolo, Angelica incontrò una figura furtiva, in cui riconobbe il nipote del padrone. Il garzone si strinse al muro e le gettò uno sguardo pieno di rancore. Angelica non si ricordava più delle parole dure che gli aveva buttato in faccia la prima volta ch'era venuta a trovare Barbara al «Gallo Ardito». Gli sorrise, decisa a farsi degli amici in quella casa in cui voleva riprendere un'esistenza onorevole. «Buongiorno, piccolo.»
«Piccolo?» tuonò lui, sussultando. «Ti faccio notare che, all'occasione, ti potrei mangiare dei pasticcini sulla testa. Ho compiuto sedici anni alla vendemmia.» «Oh! scusatemi, messere! Ecco, da parte mia, un grave errore. Non potreste, con la vostra galanteria, perdonarmi?» Il garzone, che evidentemente non era abituato a tali scherzi, sollevò goffamente le spalle e balbettò: «Può esser di sì.» «Troppo buono. Ne sono commossa. E non potreste anche, con la vostra buona educazione, non dare del tu così familiarmente a una dama di qualità?» Il povero apprendista rosticcere sembrava di colpo al supplizio. Aveva occhi neri abbastanza belli in un volto scarno e pallido di scioccolone. La sua sicurezza lo aveva abbandonato. A un tratto, Angelica, che aveva ripreso a salire, si fermò. «Tu, con quell'accento, sei del meridione, sicuramente!» «Sì, signora. Sono di Tolosa.» «Tolosa!» esclamò lei, «oh, "fratello del mio paese!"» Gli saltò al collo e lo baciò. «Tolosa!» ripeté. Il garzone era rosso come un pomodoro. Angelica gli disse ancora qualche parola in lingua d'oc, e l'emozione di David s'accrebbe. «Anche voi siete di lì, allora?» «Quasi.» Era felice in modo ridicolo di quell'incontro. Che contrasto! Essere stata una delle gran dame di Tolosa e giungere a baciare uno sguattero solo perché ha nella lingua quell'accento di sole, con il suo odore di aglio e di fiori! La casa le parve scura e nauseabonda. «Che bella città!» mormorò. «Perché non sei rimasto a Tolosa?» David spiegò: «Anzitutto, mio padre è morto. Poi, voleva sempre che venissi a Parigi, dove si possono fare grosse vendite, per imparare il mestiere di limonaio. Lui, era droghiere. Ho fatto come lui ed ero anzi sul punto di passare il mio "capolavoro" di cera, pasta, zucchero e spezie, quand'egli è morto. Allora son venuto a Parigi, e sono arrivato proprio il giorno in cui mia zia è morta di vaiolo. Io non ho mai avuto fortuna. Capito sempre a sproposito.» Si fermò, per mancanza di saliva. «Tornerà, la fortuna,» gli promise Angelica continuando a salire.
Trovò nella soffitta Rosina che si grattava la testa sorvegliando con occhio bovino i divertimenti di Florimondo e di Cantor. Barbara era alle sue faccende. I ragazzi erano andati «a zonzo». Nel linguaggio della pitoccheria ciò significava ch'erano andati a chiedere l'elemosina. «Non voglio che vadano a mendicare,» fece Angelica in tono fermo. «Non vuoi che rubino, non vuoi che chiedano l'elemosina, e allora, che vuoi che facciano?» «Che lavorino.» «Ma è lavoro, quello,» protestò la fanciulla. «No. Suvvia, svelta! Aiutami a portare i piccini in cucina. Tu li sorveglierai e aiuterai Barbara.» Fu lieta di lasciare i due piccoli in quel vasto locale pieno di calore e di profumi culinari. Il fuoco ardeva sul focolare con rinnovata intensità. «Che non debbano più patire né il freddo né la fame!» si ripeté Angelica. «Non potevo far meglio, per questo, che portarli in una rosticceria!» Florimondo era tutto infagottato in un vestitino di buratto grigio bruno, un corsetto di saia gialla, e un grembiulino di saia verde. Aveva in capo una cuffietta pure di saia verde. Quei colori facevano apparire ancor più malaticcio il suo visino. Ella gli toccò la fronte e gli posò le labbra nel cavo della piccola mano per sentire se avesse febbre. Ma pareva in buona salute, anche se un po' capriccioso e brontolone. Cantor, invece, passava il tempo sin dal mattino a sbarazzarsi delle fasce con cui Rosina aveva cercato, in verità poco abilmente, di avvolgerlo. Nel cesto dove lo misero, subito si drizzò, nudo come un angioletto, e voleva uscir fuori per andare a prendere le fiamme. «Questo bambino non è stato allevato,» fece osservare Barbara. «Gli hanno almeno fasciato le braccia e la gambe come si conviene? Non si reggerà ritto e rischia anche di diventar gobbo.» «Per il momento, sembra piuttosto ben messo per un bimbo di nove mesi,» disse Angelica, ammirando le piccole natiche rotondette del bimbo. Ma Barbara non si sentiva tranquilla: la preoccupava la libertà di movimenti di Cantor. «Appena avrò un momento libero gli taglierò delle strisce di tela per fasciarlo. Per questa mattina, non se ne parla. Padron Bourgeaud sembra invasato. Figuratevi che ha ordinato di pulire i pavimenti, di lucidare i tavoli, e, oltre a ciò, mi tocca correre al Tempio per comprarvi della creta morbida
per lavare le pentole. C'è da perder la testa...» «Chiedi a Rosina di aiutarti.» Dopo aver sistemato tutti, Angelica si avviò allegramente verso il Ponte Nuovo. La fioraia non la riconobbe. Angelica dovette precisarle il giorno in cui l'aveva aiutata a fare i mazzolini e in cui aveva ricevuto i suoi complimenti. «Eh! Come vuoi che ti riconosca?» esclamò la brava donna. «Quel giorno avevi i capelli ed eri senza scarpe. Oggi hai le scarpe e niente capelli. Be', spero che le tue dita non siano cambiate!... Vieni a sederti vicino a noi. Il lavoro non manca, ora ch'è la festa di Tutti i Santi. Presto i cimiteri e le chiese saranno pieni di fiori, senza parlare dei ritratti dei defunti.» Angelica sedette sotto il parasole rosso e si pose al lavoro con coscienza e destrezza. I fiori della fine d'autunno spargevano sul terrapieno i colori scarmigliati e vivi dei crisantemi, sostenuti dalle punte d'oro delle calendule, dalle sfumature degli allegri garofani, dalla grave nota dei tulipani in vaso, questo fiore asiatico, laccato, severo, di cui l'Europa si era invaghita nel secolo precedente. Angelica respirava l'aria del Ponte Nuovo con un misto segreto di soddisfazione e di terrore. Il vento che proveniva dalla Senna le posava sulle labbra una carezza umida. Grevi nuvole passavano, ma il sole vi si mescolava e, sull'orizzonte colorato del fiume, si disegnava il profilo incantevole di Parigi. Molto stranamente, Angelica poteva leggervi in riassunto la sua vita nella capitale. Sulla riva dèstra, ella vedeva il Louvre come un'altera fortezza, sulla riva sinistra la vecchia torre di Nesle in rovina. Navi, chiatte, barche, passavano dall'una all'altra e, incessante, era il canto dei barcaioli e il tintinnio dei mulini montati su battelli. Così, lo stesso canto della Senna culla gli abitanti del Louvre e quelli della torre di Nesle. Angelica preferiva volger lo sguardo e guardare a monte. Scorgeva la torre gotica di San Germano di Auxerre che spuntava da un'oasi di verde, il Ponte San Michele con il suo carico di case. Ma il suo sguardo finiva con l'arrestarsi sul Palazzo di Giustizia, che proiettava l'ombra delle sue torri sul Ponte Nuovo e le richiamava altri ricordi. Ma che importava, tutto questo? Che importava che ogni sasso del Ponte Nuovo l'avesse veduta passare volta a volta «superba e miserabile»? Ella vi si sentiva a suo agio, sicura come a casa propria. È dunque vero che si torna sempre verso il Ponte Nuovo come il sangue torna al cuore.
Ella canticchiò l'aria tanto ripetuta dai suonatori di ghironda: Ponte Nuovo, teatro abituale Dei venditori d'unguenti e impiastri Dei cantori di nuove canzoni Di mezzani di damigelle Di tagliaborse, di gente del gergo Di operatori e di chimici E di medici spegirici Di avidi giocatori di dadi... La fioraia, ascoltandola, scosse il capo e raccontò che il Poetastro era in prigione e che lo avrebbero impiccato questa volta davvero, senza dubbio ad una delle forche, elevate sin dalla sua costruzione, all'estremità del Ponte Nuovo. «Sarebbe il meno che lo impiccassero sul "teatro abituale" delle sue gesta.» La figlia della fioraia tirò su per il naso e si asciugò gli occhi. «Lei piange, naturalmente!» gridò la madre. «Come se non fosse tempo di sbarazzare un luogo di buon commercio da quel malefico uccellaccio! Ah! ma quello là, per canzonare le ragazze, bisogna dire che se ne intendeva come il Grande Matteo quando gli prende fantasia di strapparvi un chiodo di garofano!» Angelica domandò perché non si sentiva urlare, come al solito, il Grande Matteo. Seppe così che, durante quel periodo, egli s'installava alla fiera di San Germano che, non lontano di lì, seguitava la sua esistenza forsennata ma passeggera. Il Ponte Nuovo subiva una eclissi, cedendo il passo alla sua allegra e pericolosa sorella. V'erano meno sfaccendati, meno ciarlatani, meno mendicanti. Angelica si rallegrava di non riconoscere nessun viso noto tra i poveri diavoli che si trascinavano lì. Doveva pensare che fosse per sempre terminato il regno di Calembredaine, l'illustre furfante del Ponte Nuovo? Gli sforzi della polizia e dei suoi fratelli della pitoccheria pareva si fossero uniti per schiacciarlo. Dov'era? Impiccato? Annegato? Ella guardava i densi flutti della Senna, d'un grigio azzurro temporalesco. Non provava alcuna emozione. Sentiva anzi come un sollievo per essere sfuggita a quel pugno di ferro che l'aveva difesa, è vero, ma anche più strettamente imprigionata nel cerchio del decadimento.
Angelica non era senza timore di vederlo ricomparire. Era tutta presa dall'ebbrezza della riconquistata libertà. La propria forza le pareva immensa. A passo a passo, avrebbe risalito la china, avrebbe ridato un nome ai suoi figli. Essi non avrebbero più patito la fame e il freddo... Le fioraie parlavano con grandi esclamazioni della battaglia alla fiera di San Germano. Stavano ancora contando, a quanto pareva, i cadaveri di quella rissa particolarmente sanguinosa. Ma, una volta tanto, la polizia non era stata al disotto del suo compito. Da quella sera famosa, si vedevano passare per le vie infornate di pitocchi, accompagnati dagli arcieri dei poveri all'Ospedale Generale, oppure catene di forzati che partivano per le galere. Quanto alle esecuzioni, ogni nuova alba illuminava in piazza di Grève due o tre impiccati. «Vedrete, signore,» assicurava la grassa venditrice che pareva avesse un rango abbastanza importante nella corporazione delle fioraie, «il nostro giovane re ci sbarazzerà da questa lebbra. Dicono che sia deciso a fare grandi riforme. Tra poco, tutti i mendicanti all'angolo delle strade, tutti i vagabondi che non potranno indicare la loro abitazione, saranno arrestati e chiusi di forza negli asili. Quando sono andata a portare ceste piene di tuberose e di gelsomini in casa della signora Seguier, la sua cameriera, che è mia nipote, mi ha riferito quello che sente dire dalla sua padrona. Il giovane re lavora quasi cinque, sei ore al giorno con i suoi ministri, anche quando è nei suoi castelli per i calori. E dice che vuol fare riforme per il bene del popolo.» «Ecco un re come piace a noi,» esclamò una graziosa ragazza che portava un cestino di garofani. «È bello! Un giorno l'ho riconosciuto mentre passava in carrozza, in via del Panieraio. Ho gridato "Viva il re!" e gli ho lanciato un mazzolino di fiori.» «Sfacciata!» «Il mazzolino è caduto nel rigagnolo, ma egli ha veduto il mio gesto e ha sorriso.» «Sembra che sia innamorato di una damigella d'onore della regina, che ne abbia fatto la favorita e che la" copra di gioielli.» «Questi sono i pettegolezzi di quel piccolo serpente del Poetastro. Non risparmia neppure il suo re!» «Perché il re non dovrebbe essere innamorato, zia? Ha uno sguardo così dolce, così carezzevole, così...» «Taci, Ninetta, o ti manderò a confessarti. Non devi parlare di un uomo
a questo modo, neppure se si tratta del re.» La grassa venditrice disse compunta: «Lo sappiamo, caspita, che gli uomini valgono poco. Eppure, io dico che il Poetastro ha mentito, perché, per quanto maiali siano, non ci sono uomini che farebbero una cosa simile alla loro moglie quando questa è sul punto di sgravarsi del suo primogenito. Più tardi, be', tutto è possibile. La natura è debole. E chissà quanti specchietti ci saranno per attrarre quel bell'uccello!» «Madrina, ripeterò al Poetastro quel che avete detto del re.» «È inutile che ti prepari la lingua, bella mia. Lui è in prigione e sarà impiccato.» «Io non credo che lo impicchino. Esce sempre, di prigione. E poi, bisogna pure che torni per scrivere il nostro complimento alla regina.» «Immagina! Con quella lingua all'aceto ci farebbe dire delle sudicerie senza che nemmeno ce ne accorgiamo.» «Non abbiamo bisogno di quello spilungone pieno di livore,» assicurò la grassa venditrice che, decisamente, non lo amava. «Ci sono ben altri poeti che si stanno preparando per le nostre canzoni; e saranno installati otto uffici per distribuirle al primo colpo di cannone che annuncia la nascita.» «Al venticinquesimo colpo sapremo se è un maschio o una femmina. Ventiquattro colpi per una principessa, cento per un delfino.» «Oh! come sono impaziente!» gridò una giovane bottegaia saltando di gioia. «Il primo segnale partirà dall'orologio del Palazzo. La sua campana più grande non suona che in questa occasione. Sarà poi la nostra Samaritana a ripeterlo con il suo più allegro scampanio. E, quindi, i cannoni della Bastiglia.» «Andremo al Louvre a salutare la regina?» «Io indosserò la gonna di saia con le passamanerie di velluto nero orlate d'azzurro, il cappuccio di velluto a quadri, e metterò gli anelli d'oro guarniti di corniola e il vezzo di corallo.» «E io mi metterò il vestito di ferrandina rossa, i braccialetti di perle e di agate, la catenella d'oro e gli orecchini.» Discussero animatamente sugli ornamenti che sì sarebbero messi le fioriste e le venditrici di arance del Ponte Nuovo allorché si sarebbero recate, assieme alle pescivendole dei mercati, a presentare i loro complimenti alla giovane regina puerpera e a monsignor il delfino. «In attesa,» riprese la padrona di Angelica, «ho per la testa un'altra pre-
occupazione: dove andrà la nostra confraternita a fare un buon pranzo per festeggiare degnamente il giorno di San Valbonne? L'oste dei "Buoni Ragazzi" ci ha derubate come fossimo state in un bosco, l'anno passato. Non voglio mettere più nemmeno un soldo nella sua scarsella.» Angelica entrò nella conversazione che sino a quel momento aveva ascoltato a bocca chiusa, come si conviene a una apprendista rispettosa. «Conosco un'eccellente rosticceria in via della Valle di Miseria, non cara, e dove fanno piatti nuovi e succulenti.» Citò in fretta, cercando di ricordarsi le specialità della tavola del Gaio Sapere, cui ella aveva messo mano un tempo. «Pasticci di gamberi, tacchini al finocchio, trippe di agnello in casseruola, senza parlare delle paste di mandorle al pistacchio, degli involtini di carne, delle cialde all'anice. Ma, signore, voi potete mangiare lì qualcosa che neppure Sua Maestà Luigi XIV ha mai veduto sulla sua tavola: delle piccole focacce calde e leggere contenenti del fegato d'oca congelato, una cosa miracolosa.» «Caspita, figlia mia, ci fai venire l'acquolina in bocca,» esclamarono le fioraie, con il viso congestionato dal desiderio, «in quale taverna abiti?» «Al "Gallo Ardito", l'ultima rosticceria in via della Valle di Miseria, verso il Lungosenna dei Conciatori.» «Non credo, in verità, che ci si faccia una così buona cucina. Il mio uomo, che lavora al Macello Grande, ci va qualche volta a fare uno spuntino e dice che il luogo è triste e poco accogliente.» «Siete stata informata male, amica mia. Padron Bourgeaud ha accolto da Tolosa un nipote che è un ottimo cuoco e conosce ogni specie di piatti meridionali. Non dimenticate che Tolosa è una delle città della Francia dove i fiori sono i re. San Valbonne non potrà che esser felice di vedersi festeggiato sotto tale egida! E c'è anche, al "Gallo Ardito", una scimmietta che fa un mucchio di smorfie. E un suonatore di ghironda che sa tutte le canzoni del Ponte Nuovo. Insomma, tutto quel che ci vuole per divertirsi in buona compagnia.» «Ragazza mia, tu mi sembri ancor più dotata per fare l'imbonitrice che per legare i fiori. Ti accompagnerò alla rosticceria.» «Oh! no, non oggi. Il cuoco tolosano è andato in campagna a scegliere lui stesso i cavolfiori per uno squisito piatto al prosciutto fritto di cui ha il segreto. Ma, domani sera, aspetteremo voi e due signore della vostra compagnia, per discutere sulla lista che più vi aggrada.» «E tu, che ci fai in quella rosticceria?»
«Sono una parente di padron Bourgeaud,» assicurò tranquillamente Angelica. Ricordandosi che, la prima volta in cui la fioraia l'aveva veduta, ella era ridotta piuttosto male, spiegò: «Mio marito era un piccolo artigiano pasticcere. Non aveva ancora passato il suo "capolavoro" per diventare socio lavorante quando mori di peste, durante l'inverno; mi lasciò nella miseria per i grossi debiti fatti dal farmacista durante la sua malattia.» «Lo sappiamo quel che sono i conti dei farmacisti!» sospirarono le buone donne alzando gli occhi al cielo. «Padron Bourgeaud ebbe pietà di me e io l'aiuto nel suo commercio. Ma, siccome la clientela è rara, cerco di guadagnare altrove un po' di denaro.» «Come ti chiami, mia cara?» «Angelica.» In quella, s'alzò in piedi e disse che sarebbe andata ad avvertire il rosticcere. Mentre tornava in fretta vèrso via della Valle di Miseria, si stupiva di tutte le frottole che aveva raccontate in una sola mattina. Non cercava di rendersi conto dell'idea che l'aveva spinta reclutando quelle clienti per padron Bourgeaud. Voleva dimostrare la sua riconoscenza al rosticcere che, infine, non l'aveva cacciata via? Sperava una qualche ricompensa da parte sua? Non si poneva domande. Seguiva la corrente che la spingeva a fare una cosa, poi un'altra. L'istinto della madre che difende i suoi piccoli, improvvisamente acuito, la gettava in avanti. Di menzogna in menzogna, di idea in idea, di audacia in audacia, sarebbe riuscita a salvarsi, a salvarli. Ne era sicura. Alla svolta del Lungosenna dei Conciatori, sorsero le torri del Castelletto. Ma il pensiero della notte passata le parve lontano. Fece un gesto disinvolto, come gettasse una pietra da sopra la spalla. Così rigettava dietro di sé quel ricordo, assieme a molti altri. 2 L'indomani mattina, Angelica si alzò alle prime luci dell'alba e svegliò Barbara. Era evidente che la ragazza non si era resa ben conto della parte che An-
gelica si attribuiva nella preparazione del pranzo della corporazione. «Continuate a dormire, padrona,» sbadigliò fregandosi gli occhi, «nella vostra famiglia non eravate abituata ad alzarvi al mattutino.» «Ti sbagli, Barbara. A me piace essere mattiniera: vecchia abitudine della campagna. Quanto alla mia famiglia, tu non la conosci, Barbara, eccettuata mia sorella, di cui in verità preferisco che non parli. Inoltre, il passato è passato e, se vuoi farmi piacere, non vi farai più allusione.» Barbara rimase interdetta. Si soffiò rumorosamente il naso e protestò contro un'accusa che le pareva pericolosa. «Io, allusioni? Oh! signora!» Con una pedatina, Angelica aveva svegliato Linot e Flipot che dormivano per terra avvolti in coperte. Linot si unì alla discussione. «Anch'io farò delle allusioni; perché quel fannullone di David se la dorme ancora e scende in cucina solo quando il fuoco è acceso, la pentola è calda e tutta la sala spazzata? Non è mica cosi che si fa l'apprendistato, poiché tu hai detto che bisognava lavorare. Marchesa, dovresti rimproverarlo per bene!» «Attenti, ragazzi, io non sono più marchesa degli Angeli e voi non siete più pitocchi. Per il momento, siamo domestici, serventi e garzoni, ma ben presto diventeremo borghesi.» «Caspiterina!» disse Flipot. «Non mi piacciono i borghesi. Ai borghesi si taglia la borsa, si ruba il mantello. Non voglio diventare borghese.» «E come dobbiamo chiamarti se non sei più la marchesa degli Angeli?» chiese Linot. «Chiamatemi: signora, e parlatemi col "voi".» «Soltanto questo?» beffò Flipot. Angelica gli allungò uno scapaccione che gli fece capire che la vita cominciava subito a farsi seria... Mentre egli piagnucolava, ella verificò il vestito dei due ragazzi, che avevano indosso panni di poveri mandati dalla contessa di Soissons, rappezzati e brutti, ma puliti e decenti. Avevano inoltre grosse scarpe solide, chiodate, che sembravano prese a prestito ma che li avrebbero preservati dal freddo durante tutto l'inverno. «Flipot, tu accompagnerai David al mercato. Tu, Linot, farai quel che dirà Barbara: prendere l'acqua, la legna, ecc.. Rosina starà attenta ai piccoli e agli spiedi in cucina.» Avvilito, Flipot sospirò: «Non è divertente, questo nuovo mestiere. Come mendicante e taglia-
borse si fa la vita dell'alta società. Un giorno si è pieni di denaro: si mangia da crepare e si beve da annegare. Un altro giorno non c'è più niente. Allora, per non sentire la fame, ci si mette in un cantuccio e si dorme finché si vuole. Qui, invece, non c'è che da faticare e mangiare bollito.» «Se vuoi tornare dal Grande Coesre, non ti tengo mica.» I due ragazzetti protestarono. «Oh! no. Del resto, ora non ci sarebbe più possibile. Ci faremmo ammazzare. Grazie tante!...» Angelica sospirò. «Vi mancano le avventure, ragazzi miei. Vi capisco. Ma c'è anche, alla fine, la forca. Mentre, su questa strada, riempiremo più modestamente le nostre scarselle, ma diventeremo persone per bene. Su, svelti!» Tutti scesero rumorosamente le scale a chiocciola. Angelica si fermò ad uno dei piani; tamburellò sulla porta della camera del giovane Chaillou e finì con l'entrare. «In piedi, apprendista!» L'adolescente tirò su dal lenzuolo un viso offeso e stupito. Egli balbettò: «Dite un po'!... Sappiate che... Che io non sono il domestico della casa, e neppure l'apprendista, dato che... che io sono il nipote del padrone e anche... il figlio di mio padre, il signor Chaillou di Tolosa.» «Molto interessante quel che dici,» notò Angelica. «Figurati che ognuno è figlio o figlia di suo padre!» Poi s'interruppe di colpo, al pensiero ch'ella stessa aveva l'impressione di non avere radici e che non aveva neppure più il diritto, come quel giovane di famiglia, di pronunciare fieramente il nome di suo padre, né quello di suo marito. Alzò le spalle e, chinandosi, afferrò alle spalle il ragazzo, ch'era nudo sotto il lenzuolo. «In piedi, David Chaillou!» ordinò allegramente. «Non dimenticare che, a cominciare da oggi, tu sei un famoso cuoco di cui tutta Parigi vorrà conoscere le ricette.» Egli s'era raggomitolato con aria feroce sotto le coperte e restava in silenzio. Lo vide arrossire e poi impallidire al punto da esserne colpita. «Che hai, David? Ti senti male? In tal caso, bisognerà curarti. Eppure, sembri robusto.» Si chinò ancor più e gli pose una mano sulla fronte, come avrebbe fatto con Florimondo o Linot. Le tempie del garzone si coprirono di sudore. Se-
guendo la direzione del suo sguardo, Angelica vide che gli occhi dell'adolescente fissavano il petto della giovane donna, apparso nello scollo del corsetto. Ella si raddrizzò un po' impacciata, e si strinse di più il fazzoletto da collo. «Se sei malato, resta qui. Vuol dire che andrò a far la spesa senza di te.» «No! No!» protestò egli col fiato corto, «voglio accompagnarvi. Ma uscite, perché io possa lasciare il letto e alzarmi.» Angelica gettò uno sguardo rassegnato a Flipot, che l'aveva seguita. Il discolo, con una mimica molto significativa, indicava l'apprendista, poi si pizzicava le chiappe, ciò che, in gergo, poteva tradursi così: «Egli è pizzicato di voi» (Egli è preso di voi). La giovane finì col riderci sopra e lo condusse via. «Non sarà molto comodo lavorare con quel giovane vitello in muda,» disse fra sé. «Tanto peggio! Se insiste, riceverà qualche schiaffone in faccia, e del resto credo che non sia così sciocco come sembra, almeno in ciò che concerne il suo mestiere di cuoco. Che è quel che conta!» Padron Bourgeaud, commosso e galvanizzato suo malgrado dall'autorità di Angelica, pur lamentandosi acconsentì a consegnarle una borsa piuttosto ben fornita. «Se avete paura che vi derubi, potete seguirmi al mercato,» gli disse lei, «ma fareste meglio a restar qui a preparare capponi, tacchini e anatre da arrostire questa mattina stessa. Capirete che le signore che verranno tra poco, vogliono trovarsi in una cornice che ispiri loro fiducia. Una mostra vuota o con pollame polveroso, una sala sudicia e puzzolente di vecchio tabacco, un'aria di povertà e di disagio economico sono tutte cose che non attirano la gente che vuol fare un buon pranzo. Sarebbe inutile ch'io promettessi loro la più eccezionale lista di pietanze, non mi crederebbero.» «Ma che cosa vai a comprare questa mattina, dato che quelle persone non hanno ancora deciso?» «Vado a comprare lo scenario.» «Lo... che cosa?» «Tutto ciò che occorre perché la vostra rosticceria assuma un aspetto allettante: conigli, pesce, salumi, frutta, bei legumi.» «Ma io non ho trattoria,» si lamentò il grassone, «io sono rosticcere. Vuoi farmi denunciare dalle corporazioni dei cuochi e dei pasticceri?» «Che volete che vi facciano?» «Le donne non capiscono mai nulla di queste cose serie,» gemette pa-
dron Bourgeaud sollevando al soffitto le corte braccia. «I giurati di quelle corporazioni mi faranno causa, mi trascineranno davanti ai giudici. Insomma, vuoi rovinarmi?» «Lo siete già,» gli rispose Angelica, «non avete dunque nulla da perdere a tentare qualche altra cosa e a scuotervi un poco. Mettete allo spiedo il pollame e poi andate a fare un giro al porto della Grève. Ho sentito un banditore di vino che annunciava un buon arrivo di botti dalla Borgogna e dallo Champagne.» I Mercati di Parigi avevano fama di essere notevolmente riforniti, salvo, dicevano i maligni, «in tempo di fame, di guerra, di peste e di sommossa», il che significava due o tre volte all'anno. In realtà, la carestia vera e propria era rara, e se in tali occasioni i miserabili, che formavano da soli una classe importante, morivano come le mosche, le tavole della maggior parte degli altri parigini riuscivano ad essere sempre ben fornite. I commercianti, i borghesi, i magistrati, per non dire dei finanzieri e dei principi, si preoccupavano molto del mangiare. Poteva ben dirsi, senza timore di sbagliare, che quel popolo bellicoso e fiero cedeva a un solo padrone: la raffinatezza del palato più che non quella dello stomaco. Al tempo della Fronda, la città in rivolta destandosi un bel mattino privata dei suoi panini di Gonesse a seguito dell'assedio che la separava da quel sobborgo, parlò subito di resa. L'abbondanza e la varietà caratterizzavano l'approvvigionamento dei Mercati. Ciò provocava in quel quartiere di alte case puntute e strette l'una all'altra, un mucchio di odori, un disordine e uno spreco che non facilitavano certamente acquisti minuziosi, pur se favorivano l'attività dei tagliaborse. Quando Angelica giunse nella piazza centrale della Berlina,i credenziari del re vi erano passati da poco per prelevare la decima delle cucine reali, e anche il carnefice aveva terminato il suo giro per le botteghe che gli dovevano il canone, sia per antico privilegio, sia perché più o meno gli appartenevano. Era l'ora buona per le massaie attive e mattiniere. Angelica prese piacere a tastare la selvaggina ancor tiepida, i conigli dal pelo soffice; ad annusare i formaggi e i meloni, a voltare i pesci dai riflessi argentati. I solidi cavalli dei pescivendoli li trasportavano in meno di due giorni, protetti dal ghiaccio, dalle più vicine coste della Normandia. Fece gli acquisti avendo cura di non farsi troppo rubare sui prezzi dalle
imperiose venditrici dalla gola robusta, vere regine del Quadrato dei Mercati, la cui parlantina e la mancanza di scrupoli potevano dar lezione ai ciarlatani del Ponte Nuovo sull'arte di rifilare ai clienti timidi merce guasta o di cattiva qualità. Gli insegnamenti della Corte dei Miracoli furono preziosi ad Angelica quando divenne indispensabile per lei rispondere sullo stesso tono. Ell'era sempre costretta a fare uno sforzo per lanciarsi in quelle discussioni rabbiose, crude, violente, spesso pittoresche, di cui il popolino di Parigi si spassa un mondo. Il grido gli è necessario come il migliore esutorio del suo spirito brillante e ribelle. Lo preferisce all'azione. Il grido vola via, l'azione resta. Ciò è spiacevole. Una volta lanciata, Angelica si abbandonava all'ebbrezza di quello scambio di parole dure e cangianti come palle colorate. Vinta, l'avversaria aveva almeno la soddisfazione di aver venduto a caro prezzo la propria sconfitta. La vittoriosa ne traeva un aumento di potenza. Il suo trionfo non doveva essere modesto, perché il vicinato intero era stato chiamato - nel senso letterale della parola - a contare i colpi. Il passaggio di Angelica fra mostre, banchi, botteghe, suscitò una certa curiosità fra le comari. Quella donna poveramente vestita, il cui linguaggio si arricchiva facilmente di espressioni in gergo poco rassicuranti e che, tuttavia, andava diritta alla scelta più bella e faceva la difficile, non ispirava fiducia. La tenevano d'occhio, assieme al suo Flipot. E siccome, da qualche tempo, padron Bourgeaud s'era dimostrato un cliente meno fedele e al tempo stesso più spilorcio, la vista di suo nipote non serviva a migliorare quella generica cattiva impressione. Angelica riuscì però a portare a termine alla meno peggio i suoi acquisti. Per complicare la sua iniziazione in quel mondo per lei nuovo, il giovane David non cessava di ripetere: «È troppo bello! È troppo caro! Che dirà mio zio?...» «Sciocco!» gli lanciò lei alla fine, «non ti vergogni, tu, il figlio del signor Chaillou, di vedere le cose con l'occhio di un avaro?» Il garzone arrossì. «Ma voi, allora, avete sentito parlare della celebrità di mio padre?» fece con voce soffocata. «È vero, siete di Tolosa!» Angelica rinunziò a spiegargli il sale dei suoi frizzi. Era chiaro che il giovane Chaillou mancava di spirito e che le più acuminate frecce raggiungevano difficilmente il cuoio della sua ingenuità. Ma quella parola:
Tolosa, la riportò una volta di più a lontani pensieri. Non era piuttosto l'adolescente che aveva sentito parlare della celebrità di suo marito? Ella inghiottì faticosamente la saliva. Avrebbe dovuto parlarne ancora a Barbara. La vita si faceva molto difficile. Nell'ascesa ch'ella voleva intraprendere per sfuggire definitivamente alla miseria, i suoi trabocchetti sì aprivano ad ogni crocicchio. Si accorse che il garzone aspettava la sua risposta ansimando un poco. «Sì, certo,» disse tentando di riprendersi, «tuo padre... Ah! sì, il suo nome non mi era sconosciuto. Che faceva di preciso?» Il dinoccolato David parve deluso come un bambino cui è stato tolto uno zuccherino. «Ma lo sapete bene, via! Il grande droghiere, in piazza della Garonna? L'unico che avesse erbe esotiche per profumare i piatti!» «A quel tempo,» pensò lei, «non facevo la spesa da me.» «Aveva portato molte cose sconosciute dai suoi viaggi, essendo stato cuoco sui vascelli del re. Sapete bene... È lui che voleva lanciare il cioccolato a Tolosa.» Angelica fece uno sforzo per ricordare un incidente che quella parola le riportava alla mente. Sì, si era parlato di questo nei salotti. Le tornò alla memoria la protesta di una signora tolosana: «Il cioccolato?... Ma è una bevanda da indiani!» David parve assai turbato da quei dubbi: i pareri di Angelica stavano già assumendo per lui un'enorme importanza. Le si avvicinò e le disse che, per convincerla della bontà delle idee di suo padre, le avrebbe confidato un segreto da lui non ancora comunicato a nessuno, neppure allo zio. Assicurò che suo padre, gran viaggiatore ai tempi della giovinezza, aveva gustato il cioccolato dei diversi paesi stranieri dove già lo si fabbricava con semi importati dal Messico. Così, aveva potuto persuadersi sia in Spagna che in Italia, e persino in Polonia, dell'eccellenza del nuovo prodotto, ch'era piacevole al gusto e aveva in sé ottime qualità terapeutiche. Avviato su quell'argomento, il giovane David non la finiva più. Nel desiderio di suscitare l'interesse della dama dei suoi pensieri, cominciò a esporre, con voce stridula in modo anormale, tutto ciò che sapeva della questione. «Oh!» fece Angelica che ascoltava solo da un orecchio, «non ho mai bevuto questa roba e neppure mi attira. Dicono che la regina, che è spagnola, ne vada pazza; ma la corte intera è seccata di quello strano gusto e si fa
beffe di lei.» «Questo accade perché le persone della corte non sono abituate al cioccolato,» affermò non senza logica l'apprendista cuoco. «Anche mio padre lo pensava e ottenne un regio rescritto per valorizzare nella società quel nuovo prodotto. Ma purtroppo egli è morto e, siccome mia madre era già morta anch'essa, non resto che io per utilizzare quel rescritto. Ma non so come fare. Perciò non ne ho parlato a mio zio. Temo ch'egli si beffi di me e di mio padre. Non fa che dire che mio padre era pazzo.» «L'hai con te, la lettera?» chiese Angelica ponendo a terra i cesti per guardare in faccia il suo giovane spasimante. Questi si sentì quasi venir meno sotto lo splendore di quello sguardo verde. Quando la mente di Angelica era occupata da una riflessione più o meno intensa, i suoi occhi acquistavano una luminosità quasi magnetica che sempre impressionava il suo interlocutore, tanto più che non sempre se ne poteva spiegare la causa. Il povero David era, per quegli occhi, una vittima già in anticipo condannata. Egli non resistette. «L'hai con te, la lettera?» ripeté Angelica. «Sì,» sussurrò lui. «In che data?» «Del 28 maggio 1659, e l'autorizzazione vale per ventinove anni.» «Insomma, per ventinove anni, sei autorizzato a fabbricare e a mettere in commercio quel prodotto esotico?» «Proprio così.» «Bisognerebbe sapere se il cioccolato non è pericoloso,» mormorò Angelica sovra pensiero, «e se il pubblico potrebbe prenderci gusto. Tu ne hai bevuto?» «Sì.» «Che cosa ne pensi?» «Be'!» fece David, «lo trovo piuttosto dolciastro. Se però ci si mette un po' di pepe e del pimento, acquista un po' di sapore, ma, per conto mio, preferisco un buon bicchiere di vino,» aggiunse ostentando un'aria da uomo maturo. «Attenti all'acqua!» gridò una voce sopra di loro. Fecero appena in tempo a saltare di lato evitando la fetida doccia. Angelica aveva preso per un braccio l'apprendista e lo sentì tremare. «Volevo dirvi,» balbettò questi in fretta, «che non ho mai visto una...
una donna bella come voi.» «Ma sì, ne hai viste, povero ragazzo,» fece lei irritata, «non hai che da guardarti intorno invece di mangiarti le unghie e di trascinarti come una mosca scoppiata. Intanto, se vuoi farmi piacere, parlami del tuo cioccolato piuttosto che farmi dei complimenti superflui.» Poi, vedendo la sua aria avvilita, cercò di confortarlo, dicendo fra sé che non doveva trattarlo male. Poteva diventare interessante con quel rescritto di cui era in possesso. Disse ridendo: «Io non sono più, ahimè, una sartina quindicenne, ragazzo mio. Guardami, sono vecchia. Ho già dei capelli bianchi.» Trasse di sotto la cuffia quella ciocca di capelli divenuti così stranamente bianchi durante la paurosa notte del sobborgo San Dionigi. «Dov'è Flipot?» seguitò poi guardandosi intorno. «Se n'è andato a spasso, quello sbarazzino?» Si sentiva un po' inquieta, temendo che Flipot, ritrovandosi in mezzo alla folla, tentasse di rimettere in pratica gli insegnamenti di Jactance il tagliaborse. «Fate male a preoccuparvi di quel piccolo mariuolo,» fece David, aspramente geloso. «L'ho visto poco fa scambiare un segno con un pitocco coperto di pustole che chiedeva la carità davanti alla chiesa. Poi è filato via... con la sua gerla. Come si arrabbierà, mio zio!...» «Tu vedi sempre tutto nero, povero David.» «Caspita, non ho mai avuto fortuna!» «Torniamo indietro, lo troveremo certo, quel monellaccio.» Ma già il ragazzetto appariva correndo. Angelica lo trovò grazioso con quei suoi occhi vivaci di passerotto parigino, il suo nasino rosso, i lunghi capelli lisci sotto un cappellaccio ammaccato. Gli si stava affezionando, come pure al piccolo Linot, che aveva strappato due volte alle grinfie di Gian Putrido. «Lascia che ti dica, marchesa degli Angeli,» ansimò Flipot dimenticando nella sua emozione gli ordini ricevuti, «sai chi è il nostro Grande Coesre? Cul di Legno, sì mia cara, Cul di Legno della torre di Nesle!» Abbassò la voce e aggiunse in un mormorio spaventato: «Mi hanno detto: "Attenti a voi, ragazzi, che vi nascondete tra le gonne di una traditrice! "» Angelica si sentì gelare il sangue.
«Credi che sappiano che sono stata io a uccidere Rolin il Tozzo?» «Non mi hanno detto niente. Sì... Pane Nero ha parlato degli arcieri che tu andasti a chiamare per gli egiziani.» «Chi c'era?» «Pane Nero, Piè Leggero, tre vecchie dei nostri, e due "tormentati" di un'altra banda.» La giovane donna e il fanciullo s'erano scambiate quelle frasi in gergo, che David non poteva capire, ma di cui riconosceva facilmente le temibili intonazioni. Era preoccupato e, insieme, pieno di ammirazione nel sentire la misteriosa familiarità della sua nuova passione con quella inafferrabile e onnipresente malavita che aveva tanta forza in Parigi. Angelica, durante il ritorno, rimase silenziosa ma, appena varcata la soglia della rosticceria, si scosse di dosso risolutamente le sue apprensioni. «Ragazza mia,» disse a se stessa, «può bon darsi che, una bella mattina, ti svegli con la gola aperta o a frollare nell'acqua della Senna. È un male che ti perseguita da molto tempo. Quando non ti minacciano i principi, lo fanno i pitocchi! Che importa! Bisogna lottare, anche se questo è l'ultimo giorno che tu vedi risplendere. Non si esce dai guai senza afferrarli a piene mani e senza pagare un po' di persona... Non fu il signor Molines a dirmi questo, un giorno?...» «Avanti, ragazzi,» riprese a voce alta, «è necessario che quelle signore della corporazione dei fiori si sentano intenerite come burro al sole, quando varcheranno questa soglia.» Quelle signore, infatti, rimasero incantate quando, più tardi, scesero i tre gradini del «Gallo Ardito». Non solo vi regnava un delizioso odore di cialde, ma la sala si presentava in modo originale e tale da stuzzicare l'appetito. Il gran fuoco nel focolare lanciava, crepitando, la sua luce dorata. Con l'ausilio di alcune candele posate sui tavoli vicini, esso gettava i suoi riflessi su tutta la batteria di vasellame e di utensili di stagno disposti con arte sulle credenze: vasi, brocchette, padelle per il pesce, tortiere. Angelica aveva inoltre requisito i pezzi di argenteria che padron Bourgeaud chiudeva gelosamente nelle sue casse, e cioè due boccali, un'ampollina per l'aceto, due portauovo, due bacinelle per lavarsi le dita. Quest'ultime erano piene di frutta, uova e pere, ed erano egualmente disposte sui tavoli, con belle bottiglie di vino rosso e bianco in cui il fuoco accendeva riflessi di rubino e d'oro. Furono proprio questi particolari che più colpirono le comari.
Poiché erano state chiamate spesso a portare fiori in grandi case principesche, in occasione di qualche festino, esse ritrovavano nella disposizione dell'argenteria, delle frutta e dei vini non sapevano che segno dei ricevimenti della nobiltà, che segretamente le lusingava. Da furbe commercianti, non vollero dimostrare troppo apertamente la loro soddisfazione, gettarono un'occhiata critica alle lepri e ai prosciutti appesi ai travicelli; annusarono con aria sospettosa i piatti di antipasto, di carne fredda, i pesci in salsa verde; tastarono con dito avveduto la tenerezza del pollame. La decana della corporazione, chiamata Maggiorana, trovò infine ciò che non andava in quel troppo perfetto quadro. «Ma qui mancano i fiori,» disse. «Questa testina di vitello, con due garofani nelle narici e una peonia in mezzo alle orecchie, farebbe ben altra figura.» «Signora, non abbiamo voluto tentare di lottare, sia pure con un gambo di prezzemolo, con la grazia e l'abilità da voi dimostrata in questo campo in cui siete regine,» rispose molto galantemente padron Bourgeaud. Fecero accomodare le tre accorte signore dinanzi al fuoco e offrirono loro una mezzina del vino migliore fatto venir su dalla cantina. Il graziosissimo Linot, seduto sulla pietra del focolare, girava adagio la manovella della sua ghironda, e Florimondo giocava con Piccolo. La lista del pranzo fu convenuta in un'atmosfera di viva cordialità. L'accordo si stabilì assai facilmente. «Ed ora,» si lamentò il rosticcere, dopo aver accompagnato con molti inchini le fioraie alla porta, «che ne faremo di tutte queste "furfanterie" che guarniscono i nostri tavoli? Adesso arriveranno gli artigiani e gli operai per il manzo condito. Non saranno certo loro a mangiare queste delicatezze, e tanto meno a pagarle. Perché tutte queste spese inutili?» «Mi meraviglio di voi, padron Giacomo,» protestò Angelica severamente. «Vi credevo più addentro per quel che riguarda il commercio. Questa spesa inutile vi ha permesso di accalappiare un ordine che vi renderà dieci volte di più di quel che avete speso oggi. Senza contare che, una volta lanciate nella festa, non sappiamo fino a che punto quelle signore si daranno alle spese. Le faremo cantare e ballare e i passanti, vedendo questa rosticceria dove ci si diverte tanto, vorranno entrare anch'essi.» Per quanto non volesse farsi illusioni, padron Bourgeaud condivideva le speranze di Angelica. Il brio e l'attività che impiegò nei preparativi del festino di San Valbonne gli fecero dimenticare la sua inclinazione al bere.
Ritrovò, saltando sulle corte gambe, la sua agilità di capocuoco, la sua voce autoritaria coi venditori, e la naturale e untuosa amabilità di ogni albergatore che si rispetti. Avendolo Angelica convinto che l'apparenza era necessaria al successo del suo negozio, egli giunse persino a ordinare un completo di garzone per suo nipote e... per Flipot. Berrettoni, giacche, brache, grembiuli, insieme con le tovaglie e le salviette, furono mandati dalle lavandaie e tornarono inamidati e bianchi come la neve. La mattina del gran giorno, padron Bourgeaud si avvicinò ad Angelica, sorridendo e fregandosi le mani. «Piccina mia,» le disse amichevolmente, «in verità tu hai saputo riportare nella mia casa la gaiezza e il brio che vi faceva regnare un tempo la mia santa e buona moglie. Così, m'è venuta un'idea. Vieni un po' con me.» Incoraggiandola con una complice strizzatina d'occhi, le fece segno di seguirlo. Ella salì dietro di lui le scale a chiocciola della casa. Al primo piano si fermarono. Angelica, entrando nella vasta camera matrimoniale di padron Bourgeaud, fu presa da un timore che, sino a quel momento, non l'aveva ancora sfiorata. Per caso, il rosticcere non accarezzava il progetto di chiedere a colei che stava sostituendo così vantaggiosamente sua moglie, di spingere un po' più oltre la compiacenza in quella delicata parte? La sorridente e sorniona espressione di lui, mentre richiudeva la porta e si dirigeva con aria misteriosa verso il guardaroba, non era molto rassicurante. Presa da paura, Angelica si chiese come avrebbe affrontato quella situazione catastrofica. Avrebbe dovuto rinunciare ai suoi bei progetti, abbandonare quel confortevole tetto, andarsene ancora una volta con i due figli in braccio, seguita dalla sua triste banda? Cedere? Il sangue le affluì alle gote ed ella guardò angosciata la camera di quel piccolo commerciante con il suo lettone dalle cortine di saia verde, le due sedie scricchiolanti, il gabinetto in noce con il suo catino e la bacinella d'argento. Sopra il focolare c'erano due quadri raffiguranti scene della Passione e, appoggiate su rastrelliere, le armi, orgoglio di ogni artigiano e borghese: due piccoli fucili, un moschetto, un archibugio, una picca, una spada con l'elsa e il guardamano d'argento. Il padrone del «Gallo Ardito», pur mostrandosi così molle nella vita d'o-
gni giorno, era sergente nella milizia borghese, ciò che non gli dispiaceva affatto. Si recava volontieri al Castelletto, al contrario di molti suoi colleghi, quando gli toccava il suo turno di guardia. Frattanto, Angelica lo sentiva ansare e muoversi rumorosamente nel piccolo locale vicino. Egli riapparve spingendo un cassone di legno annerito. «Aiutami, ragazza.» Ella gli diede man forte per tirare il baule in mezzo alla stanza. Padron Bourgeaud si asciugò la fronte. «Ecco,» diss'egli, «ho pensato... Insomma, tu stessa mi hai ripetuto che, per questo pranzo, dovevamo esser tutti sgargianti come guardie svizzere. David, i due ragazzi ed io stesso, saremo magnifici. Io metterò le brache di seta marrone. Ma sei tu, povera figliola, che non ci fai onore, nonostante il tuo bel visino. Allora, ho pensato...» S'interruppe, esitò, poi aprì la cassa. Sistemate con cura e profumate con lavanda, v'erano lì le gonne della moglie, i suoi corsetti, le sue cuffie, i suoi fazzoletti da collo, il suo bel cappuccio di stoffa incrostata di quadrati di seta. «Era un po' più grassa di te,» fece il rosticcere con voce soffocata, «ma con qualche spilla...» Fece saltar via una lagrima col dito e urlò: «Non restare lì a guardarmi! Scegli.» Angelica sollevò le vesti della defunta, modeste come stoffa, ma di cui le passamanerie di velluto, gli ornamenti a colori vivaci, la finezza della biancheria provavano che, verso la fine della sua vita, la padrona del «Gallo Ardito» era stata una delle più ricche commercianti del quartiere. Aveva persino posseduto un piccolo manicotto di velluto rosso a fogliami d'oro, che Angelica fece andare su e giù intorno al polso con evidente piacere. «Una pazzia!» fece padron Bourgeaud con un sorriso indulgente. «Lo aveva visto alla Galleria del Palazzo e non faceva che parlarmene. Io le dicevo: "Che ne farai, Amandina, di quel manicotto? Va bene per una nobildonna che se ne va a civettare alle Tuileries o al Corso della Regina in una bella giornata d'inverno." "Be'," mi rispondeva lei, "andrò a civettare alle Tuileries o al Corso della Regina." E questo mi mandava in bestia. Glielo comprai il Natale scorso. Che gioia ne provò!... Chi avrebbe detto che pochi giorni dopo... sarebbe... morta...» Angelica dominò la propria emozione. «Sono certa che le farà piacere vedere dall'alto del cielo quanto siete
buono e generoso. Non porterò questo manicotto perché è cento volte troppo bello per me, ma accetto assai volontieri il vostro dono, padron Bourgeaud. Vedrò quello che mi conviene. Potreste mandarmi Barbara perché mi aiuti ad aggiustare questi vestiti?» Ella registrò come un primo passo verso lo scopo prefissosi il fatto di trovarsi dinanzi a uno specchio con una cameriera ai suoi piedi. Con la bocca piena di spilli, anche Barbara lo sentiva e moltiplicava i «signora» con evidente soddisfazione. «E dire che ho, per tutta ricchezza, soltanto i pochi soldi datimi dalle fioraie del Ponte Nuovo e l'elemosina che mi manda ogni giorno la contessa di Soissons,» diceva fra sé Angelica, divertita. Aveva scelto un corsetto e una gonna di saia verde con passamani di raso nero. Un grembiule di raso nero punteggiato di fiorellini d'oro completava il suo abbigliamento di commerciante agiata. L'ampio petto della signora Bourgeaud non consentiva che il vestito aderisse esattamente ai piccoli seni duri e alti di Angelica. Un fazzoletto da collo rosa, ricamato in verde, nascose lo scollò un po' troppo aperto del corsetto. Angelica trovò in un sacchetto i semplici gioielli della rosticcera: tre anelli d'oro guarniti di corniola e di turchesi, due croci, degli orecchini e otto bei rosari, uno dei quali in grani di giaietto nero e gli altri in cristallo. Ella ridiscese portando sotto la cuffia inamidata che le nascondeva i capelli tagliati, gli orecchini di agata e di perle e, al collo, una crocetta d'oro tenuta da un nastro di velluto nero. Il buon rosticcere non nascose la sua gioia dinanzi a quella graziosa apparizione. «Per San Nicola, tu somigli a quella figlia che avevamo sempre sperato e che non avemmo mai! A volte, ne sognavamo. Avrebbe ormai quindici anni, sedici anni, dicevamo. Sarebbe vestita proprio così... Sarebbe andata su e giù per la nostra bottega ridendo gaiamente con i clienti...» «Siete gentile, padron Giacomo, a farmi questi bei complimenti. Purtroppo, come dicevo ieri a vostro nipote, non ho più né quindici né sedici anni. Sono madre di famiglia...» «Io non so che cosa tu sia,» fece lui scuotendo commosso la sua grossa faccia rossa, «ma non sembri del tutto reale. Da quando ti sei messa a girare come un turbine per la mia casa, ho l'impressione che il tempo non sia più lo stesso. Non sono sicuro che tu un giorno non scompaia come sei venuta... Mi sembra lontana quella sera, quando sei uscita dal buio della notte con i capelli sciolti sulle spalle e mi hai detto: "Non avete una servente di
nome Barbara?" Queste parole mi risuonarono nel cranio come un colpo di campana... Significava già che avresti avuto una parte da rappresentare, qui dentro.» «Lo spero bene,» pensò Angelica, ma protestò in tono di affettuoso rimprovero. «Eravate ubriaco, ecco perché vi ha dato un colpo di campana sul cranio.» Poiché il momento era dedicato alle sfumature sentimentali, ai presentimenti mistici, le sembrava poco opportuno parlare con padron Bourgeaud dei compensi economici ch'ella sperava di ricavare, per sé e i suoi, dalla loro collaborazione. Quando gli uomini si mettono a sognare, non bisogna riportarli bruscamente verso un realismo che sono anche troppo propensi a professare. Angelica decise di usare di tutte le risorse della propria natura impetuosa per rappresentare senza errori, per qualche giorno, la parte deliziosa di figlia dell'albergatore. Il pranzo della Confraternita di San Valbonne fu un successo e lo stesso santo rimpianse una cosa sola: di non potersi reincarnare per approfittarne anch'egli. Tre cesti di fiori erano serviti a ornare le tavole. Padron Bourgeaud e Flipot, sgargianti, facevano gli onori e passavano i piatti. Rosina aiutava Barbara in cucina. Angelica andava dagli uni agli altri, sorvegliava le pentole e gli spiedi, rispondeva con prontezza ai cordiali saluti delle clienti e incoraggiava con complimenti alternati a rimproveri il talento di David, promosso gran cuoco di specialità meridionali. In realtà, ella non s'era spinta troppo avanti presentandolo come abile capocuoco. Egli sapeva molte cose, e solo la sua pigrizia e, forse, la mancanza di occasioni, gli avevano impedito sino allora di dimostrare quanto valesse. Soggiogato dal brio di Angelica, trasportato dalle sue apparizioni, guidato da lei, egli superò se stesso. Quand'ella lo trascinò, tutto rosso, nella sala, gli fecero un'ovazione. Le fioraie, messe in allegria dal buon vino, trovarono che aveva begli occhi, gli fecero domande indiscrete e piuttosto spinte, lo abbracciarono, lo accarezzarono, gli fecero il solletico... Linot prese la sua ghironda, e furono allora canti, con il bicchiere in mano, e poi grandi risate quando Piccolo fece il suo numero, imitando senza pietà i capricci della Maggiorana e delle sue compagne. Nel frattempo, una banda di moschettieri che vagabondava in via della
Valle di Miseria in cerca di distrazioni, udì quegli scoppi allegri di voci femminili e si precipitò nella sala del «Gallo Ardito» reclamando: «Arrosto e pinte.» La cerimonia prese allora un andazzo che sarebbe dispiaciuto assolutamente a San Valbonne se questo buon santo provenzale amico del sole e della gioia, non fosse stato indulgente per natura verso i disordini che fatalmente provocano le riunioni di fioraie e di galanti militari. Non si dice forse che la tristezza è un peccato? E, se si vuol ridere, e ridere davvero, non vi sono venti modi per riuscirvi. "Il migliore è ancora quello di trovarsi in una sala calda e tutta piena dell'odore dei vini, delle salse e dei fiori, con un piccolo suonatore di ghironda instancabile che vi fa ballare e cantare, una scimmia che vi lascia a bocca aperta, e alcune fresche donne allegre, per nulla fiere, che si lasciano baciare con l'indulgente incoraggiamento di grasse comari panciute e svelte di lingua. Angelica si riprese solo quando il campanile della chiesa di Santa Opportuna suonava l'Avemmaria. Con le guance arrossate, le palpebre pesanti, le braccia spezzate per aver portato i piatti e le mezzine, le labbra infocate da qualche bacio ardito e baffuto, ella si rianimò vedendo padron Bourgeaud che contava le monete d'oro con aria astuta. Ella esclamò: «Non abbiamo lavorato bene, padron Giacomo?» «Certo, figlia mia. Era da un pezzo che la mia bottega non vedeva una festa simile! E quei signori non si sono mostrati così cattivi pagatori come potevano far temere le loro piume e i loro spadoni.» «Non credete che ci porteranno i loro amici?» «È probabile.» «Ecco ciò che propongo,» dichiarò Angelica. «Io seguito ad aiutarvi con tutti i ragazzi: Rosina, Linot, Flipot, la scimmia. E voi mi date un quarto dei vostri guadagni!» Il rosticcere aggrottò le ciglia. Quel modo di vedere il commercio continuava a parergli insolito. Non era molto sicuro di non avere, un giorno, qualche noia dalle corporazioni o dal podestà dei commercianti. Ma le allegre libagioni della notte gli annebbiavano la mente e lo abbandonavano senza difesa alla volontà di Angelica. «Faremo un contratto notarile,» riprese costei, «ma resterà segreto. Non avete bisogno di andare a raccontare gli affari vostri ai vicini. Dite ch'io sono una giovane parente che voi avete accolto in casa e che lavoriamo in
famiglia. Vedrete, padron Giacomo, credo che faremo ottimi affari. Tutti, nel quartiere, vanteranno la vostra abilità nel commercio e la gente vi invidierà. Già la vecchia Maggiorana mi ha parlato del pranzo della Confraternita delle venditrici di arance del Ponte Nuovo, che cade nel giorno di San Fiacre. Credete a me, è tutto vostro interesse tenerci qui con voi. Ecco, per questa volta, mi dovete questo.» Contò rapidamente la parte che le spettava e se ne andò, lasciando il buon uomo perplesso ma già convinto di essere un commerciante pieno di audacia. Angelica uscì nel cortile per respirare l'aria fresca del mattino, stringendosi forte al petto le monete d'oro che teneva in mano: la chiave della libertà. Padron Bourgeaud non era stato derubato, certo. Ma Angelica calcolava che, beneficiando la sua piccola truppa, per nutrirsi, degli avanzi dei festini, tutto ciò ch'ella avrebbe ricavato e che sarebbe aumentato in proporzione dei loro sforzi, avrebbe finito col costituire una fortuna. Avrebbe allora tentato di lanciarsi in qualche altra cosa. Ad esempio, perché non sfruttare la patente, che David Chaillou affermava di possedere, per la fabbricazione di una bevanda esotica chiamata cioccolato? La gente del popolo non l'avrebbe certo apprezzata, ma i «mughetti» e le «preziose», avidi di novità e di stranezze, ne avrebbero forse lanciato la moda. Angelica vedeva già le carrozze delle nobildonne e dei signori arrestarsi in via della Valle di Miseria. Scosse il capo per dissipare i sogni. Non bisognava mirare tanto lontano, troppo in alto. La sua vita era ancora precaria, instabile. Quel che occorreva, soprattutto, era accumulare, accumulare, come una formica. La ricchezza, è la chiave della libertà, il diritto di non morire, di non veder morire i figli, il diritto di vederli sorridere. Se i suoi beni non fossero stati confiscati, ella avrebbe certamente potuto salvare Goffredo. Ma subito la giovane donna scosse la testa. A questo, non doveva più pensare, perché allora il gusto della morte le si insinuava nelle vene ed ella era presa dal desiderio di dormire in eterno come si può dormire sul filo di un'acqua che vi trascina. Non avrebbe più pensato a questo. Aveva altri compiti: salvare Florimondo e Cantor. Avrebbe ammucchiato, ammucchiato...! Avrebbe chiuso il suo oro nel cofanetto di legno, preziosa reliquia di un'epoca sordida, nel quale avrebbe riposto il pugnale di Rodogone l'Egiziano. Accanto all'arma, ormai inutile, si sarebbe ammucchiato l'oro, l'arma della potenza.
Angelica alzò gli occhi al cielo umido in cui il riflesso dorato dell'alba andava scomparendo per lasciare il posto a un pesante grigiore. Il venditore di acquavite lanciava per le vie il suo richiamo. Un mendicante, fuor del cortile, salmodiò il suo lamento. Guardandolo, ella riconobbe Pane Nero. Pane Nero con tutti i suoi cenci, tutte le sue piaghe, tutte le sue conchiglie di eterno pellegrino della miseria. Presa da paura, corse a prendere un pane e una tazza di brodo e glieli portò. Il pitocco la fissava con aria selvaggia dietro le folte sopracciglia bianche. Nessuno dei due pronunciò una parola. 3 Per qualche giorno ancora, Angelica divise i suoi talenti fra le pentole di padron Bourgeaud e i fiori della vecchia Maggiorana. La fioraia le aveva chiesto di aiutarla, perché la nascita del regale erede si avvicinava e il lavoro cresceva a dismisura. Un giorno di novembre, mentre stavano sedute sul Ponte Nuovo, l'orologio del Palazzo prese a suonare, il campanaro della Samaritana afferrò il suo martello e si udirono, lontano, i colpi sordi del cannone della Bastiglia. Tutto il popolo di Parigi parve impazzire. «La regina si è sgravata! La regina si è sgravata!» Col fiato sospeso, la folla contava: «20, 21, 22...» Al ventitreesimo colpo, la gente cominciò ad attaccar lite. Alcuni dicevano ch'era il venticinquesimo, altri che era il ventiduesimo. Gli ottimisti erano in avanzo, i pessimisti in ritardo. E gli scampanii e i colpi di cannone continuavano a piovere su Parigi in delirio. Più alcun dubbio: un maschio! «Un delfino! Un delfino! Viva il delfino! Viva la regina! Viva il re!» Tutti si abbracciavano. Il Ponte Nuovo scoppiò in canzoni. Si formarono farandole. Le botteghe e gli studi chiusero. Le fontane vomitarono fiotti di vino. A grandi tavole apparecchiate per le vie dai camerieri del re, si mangiarono pasticcini e zuccherini. La sera, i fuochi d'artificio sulla Senna, dinanzi al Louvre, mandarono tutti in estasi. Una nave galleggiava sul filo dell'acqua, circondata da scintillanti mostri marini che raffiguravano i nemici della Francia. Un bel cavaliere, montato su un cavallo alato, sorse dal tetto della galleria del Louvre e trapassò i mostri con la sua lancia. Le loro viscere scoppiarono in mille serpentine multicolori. Infine, in un fascio di razzi, un sole luminoso
e sereno salì attraverso la notte e gli spettatori videro apparire in esso, formati da centinaia di stelle, i nomi di Luigi e di Maria Teresa. Angelica, che aveva guardato lo spettacolo dalle prime logge del Ponte Nuovo, tornò in compagnia di un gruppo di vicini del quartiere. Pieni di contentezza, si commuovevano sulla giovane regina. «Dicono che abbia sofferto per venti ore!» «È stata per morire!» «Il re non la lasciava mai. Ha pianto.» «L'abate di San Germano dei Prati ha portato fino a Fontainebleau il reliquiario di Santa Margherita, che aiuta le partorienti.» «Appena il reliquiario è stato posto sulla tavola, il delfino è nato.» Una vecchia che aveva avuto quindici anni sotto Enrico IV e aveva conosciuto l'infanzia di Luigi XIII e di Luigi XIV, disse, scuotendo la sua bella cuffia di pizzo: «Bella giornata, amici miei. Il nostro re è giovane e ha già un figlio. Siamo al sicuro dalle reggenze. Le reggenze sono l'infelicità dei popoli.» E aggiunse: «Ma, alla nascita del piccolo Luigi XIV, Luigi Deodato come lo chiamavano per averlo atteso vent'anni, i fuochi d'artificio furono più belli di questi. Ai miei tempi, il cielo scendeva sulla terra quando i signori ingegneri del re mettevano in moto i loro meccanismi e le loro granate. Ora, invece, non son più che cose da poco.» «Piano! Piano! zietta,» protestò la compagna, «noi ci siamo divertiti. Il nostro re è un grande re. Il suo emblema è il sole!...» Quando la regina tornò da Fontainebleau e si istallò nuovamente al Louvre con il suo reale neonato, le corporazioni della città si prepararono a recarle i loro omaggi. La vecchia Maggiorana disse ad Angelica, cui si era affezionata: «Verrai anche tu. Non è una cosa normale, ma io ti designerò come apprendista per portare i miei cesti di fiori. Ti farà piacere, eh, vedere la dimora dei re, quel bel palazzo del Louvre? Dicono che le camere siano più alte e vaste di chiese!» Angelica non osò rifiutare. L'onore che le faceva la brava donna era grande. La pungeva anche una curiosità, che non voleva confessare a se stessa, di ritrovarsi in quei luoghi per lei testimoni di tanti avvenimenti e tragedie. Avrebbe veduto la Grande Mademoiselle con gli occhi gonfi di lagrime di commozione, la sfrontata contessa di Soissons, il vivace Lau-
zun, il tenebroso Guiche, di Vardes?... Chi mai, tra quelle dame e quei gran signori, avrebbe potuto riconoscere, in mezzo alle fioraie, quella donna che un tempo, nei suoi vestiti di corte, gli occhi ardenti, seguita dal suo impassibile moro, percorreva i corridoi del Louvre, andava dall'uno all'altro, ansiosa, poi supplichevole, reclamando l'impossibile grazia per uno sposo già condannato?... Il giorno stabilito, ella si trovò nel cortile del palazzo dove le fioraie, le venditrici di arance del Ponte Nuovo e le pescivendole del Mercato mescolavano le loro voci sonore e le gonnelle inamidate. Le accompagnavano le loro merci, simili per bellezza ma diverse per gli odori. Ceste di fiori, panieri di frutta e barilotti di aringhe sarebbero stati disposti a fianco a fianco, dinanzi a Monsignore il delfino, che doveva toccare con la sua manina sia le dolci rose che le brillanti arance e i bei pesci argentati. Mentre le donne, in gruppi chiassosi e odoranti, salivano lo scalone che conduceva agli appartamenti reali, incontrarono il nunzio apostolico che si recava a portare il corredo all'erede presunto del trono di Francia, offerto tradizionalmente dal papa «a testimoniare che lo riconosceva come figlio primogenito della Chiesa». Nell'anticamera dove le fecero aspettare, le brave donne si estasiavano sulle meraviglie tratte fuori da tre casse di velluto rosso con serrature d'argento. Era quello, davvero, il corredo per un figlio degli dei! Che altro fare se non rimanere a bocca aperta dinanzi a quelle lunghe fasce in tela d'argento ornate e disseminate di fiori d'oro, a quelle stoffe inglesi scarlatte con ricami ad api d'oro o bianche con api d'argento, dinanzi a quel manto di taffetà cremisi guarnito di pizzi d'oro, quel grande cuscino di velluto rosso con lo stemma di Sua Maestà e sul quale Monsignore il delfino sarebbe stato presentato il giorno del battesimo? Le donne si commuovevano mostrandosi le fini camicie in tela di Cambrai con polsini e colli in tela di seta e con bottoni d'oro al collo e ai polsi; le fodere per guanciale; le cuffiette ornate a punto di Ginevra; i bavaglini e le lunghe fasce di tela ricamate in seta bianca e argento, e che avrebbero avvolto il neonato come una piccola mummia preziosa. V'erano inoltre due grandi cuscini di velluto a ricami d'oro, che si potevano aprire come cofanetti e che erano pieni di ambra e di eccellenti profumi. Nella camera della regina in cui furono fatte passare, le donne delle cor-
porazioni mercantili s'inginocchiarono e fecero i loro discorsi. In ginocchio come tutte le altre sui tappeti dai colori vivaci, Angelica vedeva, nella penombra del letto screziato di dorature, la regina coricata in un vestito sontuoso. Aveva sempre quell'espressione un po' gelida che presentava a Saint Jean de Luz, uscita dagli oscuri palazzi madrileni. Ma la moda e la pettinatura francesi le stavano meno bene che non i suoi fantastici vestiti d'Infanta, che non i capelli gonfi di posticci, incornicianti con grandi linee ieratiche il suo volto e la sua figura di giovane idolo promesso al Re Sole. Madre soddisfatta, innamorata, rassicurata dalle attenzioni del re, la regina Maria Teresa si degnò di sorridere al gruppo variopinto, truculento, che succedeva al suo capezzale alla compagnia piena di unzione dell'ambasciata apostolica. Il re le stava a fianco, in piedi sui gradini del letto. Anch'egli sorrideva con una affabilità più sincera di quella della moglie, e tuttavia Angelica stentò a riconoscerlo. La trasformazione risiedeva nel contegno del sovrano. La grazia del robusto giovane ch'ella aveva intravisto a Saint Jean de Luz, s'accompagnava ormai a una più altera prestanza, a un riserbo dietro il quale tutta la volontà e il grande coraggio del re finivano per comunicare a chi gli stava intorno un senso di straordinaria potenza. Dall'inizio di quell'anno, Luigi XIV aveva veduto morire Mazarino, e scomparire un grande vassallo della Linguadoca. Aveva ridotto in disgrazia Fouquet, sedotto La Vallière, iniziato i lavori a Versailles. Una parola, ormai, s'imponeva a chi lo guardava: maestoso. Era già quel Luigi XIV i cui fulminei inizi sulla via del potere assoluto avevano stupefatto la corte e cominciato a intimidire l'Europa. Nella crudele emozione che la invase allorché si vide in ginocchio, ai piedi del re, mescolata a quelle umili donne, Angelica si sentì come accecata e paralizzata. Non vedeva più che il re. Più tardi, quando si ritrovò fuori dell'appartamento reale con le sue compagne, le dissero che era stata presente la regina madre, nonché la signora d'Orléans, e la signorina di Montepensier, il duca d'Enghien, figlio del principe di Condé, e molti giovani e fanciulle del loro seguito. Ella non aveva visto nulla. Da una oscura, penosa visione solo si liberava la figura del re. Colui che sorrideva, ritto sui gradini del gran letto della regina, le aveva fatto paura. Non somigliava all'altro, al re che l'aveva ricevuta alle Tuile-
ries e ch'ella aveva avuto tanta voglia di scuotere, afferrandolo per lo sparato della camicia. Erano stati, allora, l'uno di fronte all'altra, come due giovani esseri di pari forza e che si battevano ferocemente, ciascuno di essi sicuro di meritare la vittoria. Quale follia! Come non aveva capito subito che, sotto l'apparenza di una sensibilità ancora vulnerabile, v'era in quel sovrano un carattere fiero che, nella sua vita, non avrebbe mai tollerato il minimo attacco alla sua autorità! Fin dagli inizi, egli era il re che doveva trionfare, mentre lei, Angelica, per non averlo compreso, era stata spezzata come vetro. Ora, ella seguiva il gruppo delle apprendiste che si avviava all'uscita. Le dame giurate delle corporazioni erano rimaste per assistere a un grande festino, ma le apprendiste non avevano diritto a quelle agapi. Mentre attraversavano le dispense dove le portate già preparate e le carni ammonticchiate aspettavano d'esser recate nelle sale, Angelica udì fischiare dietro di sé: un colpo lungo, due brevi. Riconobbe il segnale della banda di Calembredaine e le parve di sognare. Lì, al Louvre?... Si volse. Nello spiraglio di una porta, una piccola figura proiettava la sua ombra sul pavimento. «Barcarola!» Corse verso di lui in uno slancio di gioia sincera. Il nano si gonfiava, degno e fiero. «Entrate, sorellina. Entrate carissima marchesa. Venite, faremo quattro chiacchiere insieme.» Ella rise. «Oh! Barcarola, come sei bello! E come parli bene!» «Sono il nano della regina,» disse Barcarola, pieno di boria. La fece entrare in una specie di piccolo parlatorio, le mostrò il suo giustacuore di raso per metà arancione e per metà giallo, stretto da una cintura guarnita di sonagli. Si lanciò quindi in una serie di capriole, perché ella potesse apprezzare l'effetto di tutti quei campanelli. Con i capelli tagliati sulla nuca a filo dell'ampio collare increspato e inamidato, e il piacevole viso rasato con cura, il nano appariva felice e pieno di salute. Angelica gli disse che lo trovava ringiovanito. «In verità, è un po' quel che provo qui,» confessò modestamente Barcarola. «La vita è piuttosto piacevole e io credo, a conti fatti, di andare abbastanza a genio alle persone di questa casa. Sono felice di aver raggiunto,
alla mia età, il coronamento della mia carriera.» «Che età hai, Barcarola?» «Trentacinque anni. È il culmine della maturità, il pieno sviluppo di tutte le facoltà morali e fisiche dell'uomo. Vieni dunque, sorellina. Voglio presentarti a una nobile dama per la quale non ti nascondo di provare un tenero sentimento... e che lo ricambia affettuosamente.» Ostentando un'aria da conquistatore, il nano guidò con molto mistero Angelica attraverso il dedalo tenebroso delle dipendenze del Louvre. La introdusse in una stanza oscura dove Angelica scorse, seduta dietro una tavola, una donna d'una quarantina d'anni, bruttissima e bruna, che stava cucinando qualcosa su un fornelletto di argento dorato. «Donna Teresita, vi presento donna Angelica, la più bella madonna di Parigi,» annunciò pomposamente Barcarola. La donna puntò su Angelica il suo sguardo scuro e perspicace, e disse una frase in spagnolo in cui si potevano distinguere le parole «marchesa degli Angeli». Barcarola fece l'occhietto ad Angelica. «Ha chiesto se sei tu quella marchesa degli Angeli di cui io le parlo sempre. Vedi, sorellina, che non dimentico gli amici.» Avevano fatto il giro della tavola e Angelica si accorse che i minuscoli piedi di donna Teresita oltrepassavano appena l'orlo dello sgabello su cui si era appollaiata. Era la nana della regina. Angelica si prese la gonna con due dita e abbozzò un piccolo inchino per mostrare la considerazione in cui teneva quella dama di alto rango. Con un cenno del capo, la nana fece segno alla giovane donna di sedere su un altro sgabello, e seguitò a mescolare lentamente il suo miscuglio. Barcarola era saltato sulla tavola e, mentre raccontava alla sua compagna delle storielle in spagnolo, rompeva e mangiava nocciuole. Un bel levriero bianco andò ad annusare Angelica e le si coricò ai piedi. Agli animali piaceva istintivamente di starle vicino. «È Pistola, il levriero del re,» presentò Barcarola, «ed ecco Dorinda e Graziosa, le levriere.» Si stava bene e tranquilli in quell'angolo del palazzo dove i due nanerottoli, fra una capriola e l'altra, venivano a cercare un rifugio per il loro amore. Il naso di Angelica palpitava di curiosità al profumo che sfuggiva dalla casseruola. Era un odore indefinibile, piacevole, in cui dominava una punta di cannella e di peperone, ma la cui base le era sconosciuta. Osservò gli
ingredienti che si trovavano sulla tavola: nocciuole e mandorle, un mazzo di peperoni rossi, un vaso di miele, un pane di zucchero in parte pestato, alcune coppe piene di grani di anice e di pepe, scatole di cannella in polvere. Infine, una specie di fave che non aveva mai visto. Tutta assorta nella sua operazione, la nana sembrava poco disposta a darsi da fare per la nuova venuta. I discorsi volubili di Barcarola finirono tuttavia per strapparle un sorriso. «Le ho detto che mi avevi trovato ringiovanito e che dovevo questo alla felicità che lei mi procura. Mia cara, che vita comoda faccio qui! In verità, mi sto imborghesendo e, a volte, me ne preoccupo. La regina è una buonissima donna. Quando è troppo triste mi chiama presso di sé e mi accarezza le guance dicendomi: "Ah! Mio povero ragazzo! Mio povero ragazzo!" Io non sono abituato a questi modi e le lagrime mi vengono agli occhi, a me, Barcarola, così come tu mi vedi.» «Perché la regina è triste?» «Caspita, comincia a capire che il suo uomo la cornifica!» «Allora è vero quello che si racconta, che il re ha una favorita?» «Certo! La tiene nascosta, la sua La Vallière, ma la regina prima o poi lo verrà a sapere. Povera donnetta! Non è molto furba e non conosce affatto la vita. Vedi, sorellina, a guardar bene, la vita dei principi non differisce poi molto da quella dei loro umili soggetti. Se ne fanno di tutti i colori e litigano in famiglia, proprio come sgualdrine e compagni. Bisogna vederla, la regina di Francia, quando aspetta, la sera, il ritorno del marito che, durante quel tempo, si consuma le reni fra le braccia di un'altra. Se c'è una cosa di cui possiamo andar fieri, noi francesi, è della capacità amorosa del nostro signore. «Mia cara, non molto tempo fa Sua Maestà è rimasta da mezzogiorno alle quattro del mattino dalla sua amante. Sedici ore di fila! Che ne dici? La regina aspettava dinanzi al fuoco, con indosso solo la gonna, assieme alla sua dama di compagnia, la signora Chevreuse. Quando il re rientrò: "Che fate qui?" disse irritato. "Sire, vi aspettavo," rispose la regina con le lagrime agli occhi. "Mi aspettavate, mi aspettavate... ciò vi capita piuttosto spesso, credo." "Ahimè! sire, non è che troppo vero!" "Di che vi lamentate, signora? Forse che non dormo tutte le notti nel vostro appartamento?" "Nel mio appartamento, sì," interruppe la regina con aria indispettita, "ma..." "Capisco benissimo... Che volete farci, signora, neppure i re possono aver tutto a comando. Andate dunque a coricarvi con il vostro cervellino." La
regina gli si getta ai piedi e gli dice: "Vi amerò sempre, qualunque cosa farete!" E la dama di compagnia si è ritirata discretamente. Il nostro signore si corica accanto alla sua marchesa. Ma cuccù! Le richieste della regina venivano a sproposito, dopo che Sua Maestà era stato sedici ore con la signorina di La Vallière. Cinque secondi dopo ronfava come una trottola. E lei, la sentivamo piangere piano piano.» «Voi dormite nell'appartamento della regina?» chiese Angelica, curiosa. «Anche i cani vi dormono. E che altro siamo, noi, se non animali domestici? Eppure, io, col mio cervello di uomo in questo strambo corpicino, mi diverto a sondare il cuore dei potenti. Vuoi che ti racconti un'altra storia?» «Sei chiacchierone come un cortigiano!» «Vero? E puoi credermi se ti dico che fornisco al mio amico, il Poetastro del Ponte Nuovo, molti particolari che lo mandano in estasi. Eccoti dunque un'altra scenetta: l'altro giorno la regina madre ha rimproverato aspramente Sua Maestà. È al corrente della sua infedeltà coniugale e teme che a Pasqua si comunichi in peccato mortale. Gli fece dunque un lungo sermone. Quand'ebbe finito, il re, che stava alla finestra, vi rimase a lungo, poi voltandosi fece un grande inchino e se ne andò. La regina madre disse allora alla signora di Motteville: "Pensavo che sarebbe stato ingrato e che avrebbe voluto fare di testa sua, ma non credevo che sarebbe diventato così duro!" E si mise a piangere. E io, nascosto dietro una tenda, mi dicevo: "Cuore di madre, cuore di donna, sono pur gli stessi sotto la corona o sotto la cuffia."» Decisamente, il cinico Barcarola praticava ora una filosofia commossa. Vide il sorriso di Angelica e le fece l'occhietto. «Fa bene, non è vero, marchesa degli Angeli, avere qualche volta dei buoni sentimenti? Sentirsi onesti, bravi, guadagnandosi la vita con un buon lavoro coraggioso?» Ella non rispose, perché il tono mellifluo del nano non le piaceva. Per cambiare argomento, chiese: «Potresti dirmi che cos'è quello che donna Teresita fa cuocere a fuoco lento con tanta cura? Ha uno strano odore, al quale non riesco a mettere un nome.» «Ma è il cioccolato della regina!» Angelica si alzò in piedi di scatto e andò a guardare nella casseruola. Vide qualcosa di nerastro, di denso, che non aveva nulla di molto appetitoso. Per mezzo di Barcarola, intavolò una conversazione con la nana, la
quale le disse che, per giungere al punto estremo di quel capolavoro che stava facendo, le occorrevano cento semi di cacao, due granellini di pepe del Messico, un pugno di anice, sei rose di Alessandria, un baccello di campeggio, due dramme di cannella, dodici mandorle e dodici nocciuole e un mezzo pane di zucchero. «Mi sembra terribilmente complicato,» disse Angelica, delusa. «Ma, almeno, è buono? Potrei assaggiarlo?» «Assaggiare il cioccolato della regina! Una empia, una sgualdrina della tua specie? Che eresia!» esclamò il nano con finta indignazione. Per quanto anche la nana considerasse la richiesta assai ardita, si degnò tuttavia di porgere ad Angelica, in un cucchiaio d'oro, un po' della pasta in questione. Scottava ed era dolce all'eccesso. Angelica disse per educazione ch'era eccellente. «La regina non potrebbe farne a meno,» commentò Barcarola. «Gliene occorrono parecchie tazze al giorno, ma gliele portiamo di nascosto, perché il re e tutta la corte si beffano della sua passione. Soltanto Sua Maestà e la regina madre, anch'essa spagnola, ne bevono al Louvre.» «Dove si possono procurare questi semi di cacao necessari per fabbricarlo?» «La regina li fa venire appositamente dalla Spagna per mezzo dell'ambasciatore. Bisogna arrostirli, brillarli, sgrassarli.» Aggiunse a mezza voce: «Non capisco che si faccia tanto baccano per un simile orrore.» In quel momento, si precipitò nella stanza una bimbetta chiedendo, in un velocissimo spagnolo, il cioccolato per Sua Maestà. Angelica riconobbe Filippa. Si diceva che quella fanciulla fosse una bastarda di Filippo IV di Spagna e che l'infanta Maria Teresa, avendo trovato il bebè abbandonato in un corridoio dell'Escuriale, l'avesse fatto allevare. Filippa faceva parte del seguito spagnolo che aveva attraversato la Bidassoa. Angelica si alzò e prese congedo da donna Teresita. Il nano l'accompagnò fino a una porticina che dava sul lungosenna. «Non mi hai neppure chiesto che cosa faccio,» disse Angelica. A un tratto, aveva l'impressione che il nano si fosse trasformato in una zucca, perché non vedeva di lui che l'enorme cappello di raso arancione. Barcarola guardava a terra. Angelica sedette sul pavimento per poter essere all'altezza dell'omino e guardarlo negli occhi.
«Rispondimi!» «Lo so quello che fai. Hai piantato Calembredaine e sei in preda a buoni sentimenti.» «Si direbbe che m'accusi di qualche cosa! Non hai sentito parlare della battaglia alla fiera di San Germano? Calembredaine è scomparso. Io sono riuscita a fuggire dal Castelletto. Rodogone è alla torre di Nesle.» «Non fai più parte della pitoccheria.» «Nemmeno tu.» «Oh! Io ne faccio sempre parte. Ne farò sempre parte. È il mio regno,» disse Barcarola con una strana solennità. «Chi ti ha detto questo su me?» «Cul di Legno.» «Hai riveduto Cul di Legno?» «Sono andato a rendergli omaggio. È lui, ora, il nostro Grande Coesre. Lo sai, no?» «Infatti.» «Sono andato a sputare nella catinella una borsa piena di luigi d'oro. Uh! Uh! mia cara, ero il più ricco dell'assemblea.» Angelica prese la mano del nano, una curiosa manina tonda e grassottella come quella di un bimbo. «Barcarola, credi che vogliano farmi del male?» «Credo che non vi sia a Parigi una donna la cui bella pelle sia meno attaccata al suo corpo.» Intanto esagerava una smorfia malvagia. Ma ella capì che la minaccia non era vana. Scosse il capo. «Tanto peggio. Morirò. Ma non potrei tornare indietro. Puoi dirlo a Cul di Legno.» Il nano della regina si coprì gli occhi con un gesto tragico. «Ah! com'è orribile vedere una così bella ragazza con la gola squarciata!» Mentre lei se ne andava, egli l'afferrò per un lembo della gonna. «Detta fra noi, sarebbe meglio che parli tu stessa con Cul di Legno.» Pioveva. Angelica, affrettando il passo, aveva nel cuore una indefinibile tristezza e, nella bocca, l'amaro del cioccolato. «Credo,» disse fra sé, guardando il fiume che scorreva tumultuoso, «che non vi sia un'altra donna che abbia conosciuto in così poco tempo tante diverse fortune. Poco più di un anno fa, quando andavo al Louvre, ero rice-
vuta dalla Grande Demoiselle e parlavo con il re. Ora, il nano della regina mi fa un onore ricevendomi nel suo alloggio privato.» Ma quando entrò al «Gallo Ardito», gli avventori seduti a tavola l'accolsero con una ovazione, battendo sui piatti con i coltelli. «La bella Angelica! La bella Angelica!» «Che Iddio mi danni se sono troppo orgogliosa,» pensò lei, «ma preferisco essere regina nella mia rosticceria che domestica al Louvre. Ricordati, mia bella Angelica, che il giorno in cui ricomparirai dinanzi al re, ti ci vorranno sul vestito diamanti per almeno cinque milioni!» Quel pensiero la fece ridere, e fu con animo gaio ch'ella si recò in cucina. 4 A partire dal mese di dicembre, Angelica dedicò tutto il suo tempo al commercio della rosticceria. La clientela aumentava. La soddisfazione delle fioraie produsse i suoi buoni effetti. Il «Gallo Ardito» si specializzò in pranzi per le confraternite. Gente di mestiere lieta di bagnarsi la gola e di rimpinzarsi in compagnia, per la maggior gloria dei santi patroni, vennero a organizzare le loro agapi sotto i travicelli verniciati di nuovo e sempre guarniti di quanto di meglio potevasi trovare in fatto di cacciagione e di salumi. Persino la sacrosanta corporazione dei macellai, la più potente e antica di Parigi, venne a farvi il suo pranzo annuale di San Silvestro. Ci si imbarcava nel chiassoso seguito delle feste. Dopo Natale, il Capodanno, poi il baccanale dell'Epifania, poi il Carnevale. Cortei di pazzi percorrevano le vie scuotendo i loro sonagli, e il parossismo dei divertimenti si concentrava proprio nelle taverne, nelle bettole, nelle rosticcerie, in tutti i posti dove si poteva bere e mangiar bene. L'ubriachezza era il vizio ammesso dell'epoca, e la ghiottoneria il suo peccatuccio. Angelica s'era dedicata a saziare le gole e gli stomaci esigenti così come avrebbe inforcato un cavallo restio, dalle narici fumanti, ma che l'avrebbe portata in fretta e lontano. Dopo gli operai, gli artigiani e i commercianti, si cominciavano a vedere al «Gallo Ardito» bande di libertini, filosofi dissoluti e raffinati, che professavano il diritto a tutti i godimenti, il disprezzo della donna e la negazione di Dio. Non era facile evitare le loro familiarità, ma, in compenso, si
mostravano delicati sulla scelta dei cibi. E, per quanto fosse a volte spaventata dal loro cinismo, Angelica contava molto su essi per fare al locale una giustificata propaganda, che le avrebbe portato una clientela più scelta. Vi fu anche la gente di teatro che, senza togliersi i finti nasi rossi, veniva in gruppo ad ammirare le prodezze della scimmia Piccolo. «Questo è il maestro di tutti noi,» dicevano. «Ah! se questa bestia fosse stato un uomo, che grande attore sarebbe diventato!» Con la fronte in sudore, le guance cotte dal fuoco, le mani unte e sporche, Angelica si dava al suo lavoro senza pensare ad altro se non al momento presente. Ridere, lanciare una frase lesta, abbassare vigorosamente una mano troppo ardita, non le costava fatica. Girare le salse, tagliare a pezzetti la verdura, preparare i piatti, la divertiva. Ricordava che, quand'era bambina, a Monteloup, le piaceva aiutare in cucina. Ma soprattutto a Tolosa aveva acquistato il gusto della culinaria, sotto la direzione del raffinatissimo Goffredo di Peyrac, la cui tavola del Gaio Sapere era famosa in tutto il regno. Ricomporre certe ricette, ricordarsi di certi principi sacrosanti dell'arte gastronomica, le dava a volte una malinconica gioia. Una sola cosa non riusciva a sopportare: sentir tossire Florimondo. Subito l'afferrava il timore ch'egli fosse colpito da una malattia ch'ella non avrebbe potuto guarire. Egli era troppo gracile. Non sarebbe riuscita ad allevarlo. Un giorno o l'altro avrebbe dovuto portare quel lieve tesoro al cimitero dei Santi Innocenti. Le vicine glielo dicevano, scuotendo la testa dinanzi agli occhi cerchiati del fanciullo. «Non riuscirete ad allevarlo. Io ne ho perduti tre... io cinque...» La mortalità infantile era spaventosa. I medici ignoranti uccidevano le piccole creature praticando loro i due rimedi alla moda: il salasso e la lavanda intestinale. E poi, la gente del popolo non era abbastanza ricca da poter chiamare il medico. Le madri si rovinavano dai farmacisti acquistando alcune erbe, dette medicinali, che assai spesso non avevano richiesto al loro preparatore che la fatica di raspare i viali del suo giardino. I bambini morivano e i funerali salmodiavano per le vie, mentre alle finestre della casa del morticino venivano esposti drappi neri punteggiati di fiori bianchi, simbolo dell'innocenza. «Dio l'aveva dato, Dio l'aveva ripreso.» V'era una grande rassegnazione in quell'umile gente: artigiani, operai, piccoli commercianti. Una fede profonda ne aveva fatto, nel corso dei secoli, la classe più laboriosa e paziente del regno. Essi subivano con semplicità le prove,
la sorte spesso penosa, e presto la loro naturale gaiezza riprendeva il sopravvento, e li si udiva cantare. «Forse, se amassi Dio, non soffrirei tanto a sentir tossire Florimondo,» diceva fra sé Angelica. «Ma se muore, il cuore mi si spezzerà. Odierò la vita.» Con il freddo, il naso di Florimondo prese a colare, le orecchie suppurarono ed egli si ammalò. Venti volte al giorno, Angelica approfittava di un momento di calma per salire di corsa i sette piani che portavano alla soffitta dove il piccolo corpo palpitante di febbre proseguiva, solitario, la sua lotta contro la morte. Ella tremava, accostandosi al giaciglio, e mandava un sospiro vedendo ch'egli respirava ancora. Pian piano, carezzava l'ampia fronte convessa imperlata di un sottile sudore. «Amore mio! Bellezza mia! Oh! Lasciatemi il mio gracile fanciullo!... Non chiederò altro alla vita, mio Dio! Tornerò ad andare in chiesa, farò dire messe. Ma lasciatemi il mio bambino...» Il terzo giorno della malattia di Florimondo, padron Bourgeaud «ordinò» arcigno ad Angelica di trasferirsi nella grande camera al primo piano, dove egli non dormiva più dopo la morte della moglie. Che modo era quello di curare un bambino in una soffitta non più larga di un guardaroba e dove, la notte, si ammucchiavano in otto, compresa la scimmia? Proprio maniere da zingara, da sgualdrina senza cuore!... Florimondo guarì, ma Angelica rimase nella grande camera al primo piano, con i due piccoli, mentre un'altra soffitta era destinata a Flipot e a Linot. Rosina seguitava a dividere il letto di Barbara. «E vorrei anche,» concluse padron Bourgeaud, rosso di collera, «che tu non continuassi a impormi la vergogna di vedere, ogni giorno, un sacripante di servitore scaricar legna nel mio cortile sotto il naso di tutti i vicini. Se vuoi scaldarti, non hai che da servirti in legnaia.» Angelica fece quindi sapere alla contessa di Soissons, per mezzo del suo lacchè, che non aveva più bisogno dei suoi doni e che la ringraziava del suo caritatevole aiuto. L'ultima volta che il domestico venne, gli diede una mancia. Costui, che non s'era ancora riavuto dallo sbalordimento del primo giorno, scosse il capo. «Questo posso dirlo: sono stato costretto a fare molte cose nella mia vita, ma non avevo mai visto una donna come te!» «Sarebbe stato poco male,» rispose Angelica, «se anch'io non fossi stata
costretta a veder te.» Negli ultimi tempi, aveva regalato i cibi e i vestiti mandati dalla signora di Soissons ai mendicanti e ai poveri che, sempre più numerosi, si raggruppavano nei paraggi del «Gallo Ardito». Tra costoro, venivano fuori molti visi conosciuti, minacciosi e taciturni. Angelica donava loro, come si cerca di conciliarsi forze malvagie. Silenziosamente, ella reclamava da loro il diritto alla libertà. Ma, di giorno in giorno, si facevano più esigenti. Il flutto dei loro cenci e delle loro stampelle saliva all'assalto del suo rifugio. Gli stessi clienti del «Gallo Ardito» protestavano contro quell'invasione, dicendo che le vicinanze della rosticceria erano più frequentate dai poveri che l'atrio di una chiesa. Il loro odore e la vista delle loro piaghe purulente non servivano certo a stuzzicare l'appetito. Padron Bourgeaud urlava, e questa volta senza fingere. «Tu li attiri come lo zibetto attira i serpenti e i centogambe. Smettila di far loro l'elemosina e liberami di quella lebbra, altrimenti sarò costretto a separarmi da te.» Ella rispondeva: «Perché credete che la vostra bottega abbia da soffrire più delle altre a causa dei mendicanti? Non avete sentito le voci di carestia che si spargono per il regno? Dicono che i contadini affamati entrino come eserciti nelle città e che i poveri si moltiplichino... È l'inverno che porta questo, è la penuria...» Ma aveva paura. La notte, nella grande camera silenziosa in cui solo si udiva il respiro dei due bimbi, ella si alzava e guardava dalla finestra brillare sotto la luna i flutti densi della Senna. Ai piedi della casa c'era un greto invaso dai rifiuti e i detriti della rosticceria: penne, zampe, interiora, avanzi che non potevano più servire. Cani e miserabili venivano a cercarvi qualcosa da mangiare. Li si vedeva frugare. Era l'ora in cui le grida e i fischi dei banditi si levavano in Parigi. Angelica sapeva che, a pochi passi di lì, oltre la punta del Ponte del Cambio, cominciava il Lungosenna di Gesvres, la cui volta sonora accoglieva la più bella caverna di briganti della capitale. Si ricordava di quell'antro umido e vasto, in cui scorreva a fiotti il sangue dei macelli di via della Lanterna Vecchia.
Ora, Angelica non era più mescolata al maledetto popolo della notte, ma faceva parte di coloro che, nelle case ben chiuse, si fanno il segno della croce allorché un grido d'agonia sale dai vicoli oscuri. Era già molto, ma il peso del passato non l'avrebbe fermata a mezza via? Angelica tornava accanto al letto dove dormivano Florimondo e Cantor. Le lunghe ciglia di Florimondo gli ombravano la gota madreperlacea. I capelli gli facevano una grande aureola scura che si fondeva con quella dei capelli di Cantor, i quali s'andavano facendo anch'essi folti e abbondanti. Ma quest'ultimo aveva i riccioli d'un castano dorato, mentre quelli di Florimondo erano neri come un'ala di corvo. Angelica riconosceva che Cantor aveva preso da lei. Apparteneva alla razza, raffinata e rustica insieme, dei Sancé di Monteloup. Non molto cuore ma una certa passione. Poca educazione, ma una certa semplicità. Le ricordava Giovannino per la fronte testarda, Raimondo per la sua calma, Gontrano per il suo gusto della solitudine. Fisicamente, somigliava molto a Maddalena, senza averne la sensibilità. Quel piccino rotondetto, dagli occhi chiari e intelligenti, era già tutto un mondo, un riassunto di virtù e di bizzarrie secolari. A patto che lo si lasciasse libero e padrone della propria indipendenza, lo si allevava senza alcuna fatica. Ma una volta che Barbara aveva voluto rimetterlo nelle fasce della sua età ed era riuscita ad avvolgerlo ben stretto, il pacifico Cantor, dopo qualche secondo di stupore, era stato preso da un tremendo accesso di rabbia. Dopo due ore, il vicinato assordito aveva reclamato la sua liberazione. Barbara diceva che Angelica non si preoccupava del suo cadetto e preferiva Florimondo. Angelica rispondeva che, infatti, non v'era bisogno di preoccuparsene. L'atteggiamento di Cantor in tutte le cose mostrava chiaramente ch'egli apprezzava soprattutto d'essere lasciato in pace, mentre Florimondo, sensibile, voleva che ci si occupasse di lui, che gli si parlasse, che si rispondesse alle sue domande. Aveva bisogno di molte cure e attenzioni. Fra Angelica e Cantor il contatto si stabiliva senza parole né gesti. Erano della stessa razza. Approfittando di un istante di tranquillità, nelle ore vuote del pomeriggio, le piaceva prenderlo sulle ginocchia, dinanzi al fuoco. Lo contemplava, ammirava le sue carni rosee e grassottelle, ed anche il raro vigore di quel piccino che non aveva ancora un anno e che, da quando
era nato, anche da prima, pensava lei, da quando lo portava nel grembo ancora, aveva lottato per vivere, respingendo cocciutamente la morte che, così spesso, aveva minacciato la sua fragile esistenza. Egli succhiava un osso di pollo e di tanto in tanto i suoi occhi verdi, così simili a quelli di lei, le gettavano uno sguardo allegro e condiscendente. Cantor era la sua forza e Florimondo la sua fragilità: rappresentavano i due poli della sua anima. La carestia di cui Angelica aveva parlato non era una parola buttata lì a caso, ma cominciò a battere alle porte di Parigi dopo l'Epifania. Il raccolto dell'annata era stato scarsissimo. Troppi soldati erano ancora sparsi per le campagne e soprattutto il sistema fiscale lasciava campo libero agli speculatori. L'arresto del signor Fouquet aveva distrutto un sistema di frode sfacciata, ma la reazione del signor Colbert si era dimostrata troppo energica. In certi luoghi s'eran viste riserve di grano bruciate o gettate nel fiume dalle guardie. Venuto l'inverno, i granai erano vuoti. La grande miseria si spandeva col freddo ogni giorno più duro. Era un inverno buio, rigido come una spada, che pareva fatto apposta per originare ogni specie di flagello. In pochi giorni, l'approvvigionamento di Parigi si fece difficilissimo. Protetti dalle loro corporazioni, tutti i mestieri che avevano relazione con il nutrimento ne risentivano meno degli altri. Rosticcieri, macellai, pasticceri, avrebbero avuto sempre da mangiare, ma le difficoltà del loro commercio aumentavano al doppio. La clientela si fece rara. Angelica si desolava, pensando che la buona stagione delle feste non «rendeva» com'ella avrebbe voluto. Ma, ringraziando Iddio, lei e i suoi compagni erano al sicuro. Una volta di più ella si felicitava di essersi rifugiata in una rosticceria: altrimenti, lei e i suoi figli sarebbero certamente morti durante quei tragici mesi. A Parigi, ancora una volta, il popolo aveva fame, ancora una volta la peste, sua compagna di sempre, si portava via la gente. E le processioni invocavano l'intervento del Cielo trasportando ancora una volta l'oro dei reliquiari e degli stendardi attraverso le strade gelide dove i corpi stramazzavano, portati via dall'epidemia o folgorati dal freddo. Al Louvre, il re fece distribuire ai poveri del grano importato. Lo chiamavano «il grano del re». La fiumana degli affamati, dei mal nutriti, degli eterni cenciosi cosi come dei poveri che, vergognosi, si nascondevano per morire, si ingrossava ogni giorno. A quell'epoca, uno straniero scrisse di avere l'impressione che la popolazione di Parigi fosse composta unicamen-
te di mendicanti e di sciancati. Era un nuovo flagello che si aggiungeva agli altri. Gli arcieri furono incaricati di far piazza pulita. Li chiudevano a infornate nei grandi asili di Bicêtre e della Salpetrière. In via della Valle di Miseria, che voleva tenere in scacco il suo nome menagramo, si rifugiavano molti di coloro che erano abbastanza ricchi per non risentire della carestia, se non un certo incomodo di cui la loro borsa faceva le spese. Passato il primo momento di confusione, Angelica si disse che occorreva in realtà approfittare della situazione. Non era forse giusto di far pagare a quei bei signori le difficoltà che s'incontravano per procurare pollame e arrosto? Non si dovevano far pagar loro i rischi ch'ella correva durante le spedizioni che faceva, accompagnata da David, nei dintorni di Meudon o di Grenelle, per acquistare clandestinamente montoni e polli? Tutti e due si armavano di lardatoi per il caso di qualche cattivo incontro, e Angelica aveva ripreso a infilarsi sotto il corsetto il pugnale di Rodogone l'Egiziano. Più volte, dovette la propria vita e quella del suo compagno alla conoscenza del gergo. Erano costretti a far lunghi giri per evitare gli arcieri, i pedaggi alle porte... Sì, tutto ciò doveva farsi pagare caro. I clienti lo capirono benissimo. Erano ricchi, ma non potevano mangiarsi il loro denaro, mentre i rosticcieri, i macellai, i pasticceri avrebbero avuto sempre qualcosa da mangiare. Furono tre mesi terribili. Il freddo aumentava, la carestia aumentava, i poveri aumentavano e si facevano minacciosi. Angelica decise di andare a trovare Cul di Legno. Avrebbe dovuto farlo da molto tempo; Barcarola glielo aveva consigliato, ma ella si sentiva venir meno al pensiero di ritrovarsi dinanzi alla casa del Grande Coesre. Una volta di più, dovette dominarsi, superare una nuova tappa, vincere una nuova battaglia. In una notte gelida e oscura, raggiunse il sobborgo San Dionigi. Fu accompagnata dinanzi a Cul di Legno. Costui se ne stava in fondo alla sua casa di fango, su una specie di trono, in mezzo al fumo e alla fuliggine delle lampade ad olio. Dinanzi a lui, per terra, era posata la catinella di rame. Ella vi gettò una borsa piuttosto pesante e offrì un altro dono: una enorme coscia di castrato sanguinolenta e un pane, vivande tra le più rare, a quell'epoca.
«Mica male!» bofonchiò Cul di Legno. «Era un pezzo che ti aspettavo, marchesa. Sai che hai giocato un giuoco pericoloso?» «So che, se sono ancora in vita, è a te che lo debbo.» Gli si avvicinò. Ai due lati del trono di Cul di Legno v'erano i personaggi da incubo della sua spaventosa regalità: il Grande e il Piccolo Eunuco con le loro insegne di buffoni, la scopa e la forca con un cane sgozzato, e Gianni il Barbone con la sua barba fluente e le sue verghe di ex maestro del collegio di Navarra. Cul di Legno, sempre incravattato in modo impeccabile, aveva un magnifico cappello con due giri di piume rosse. Angelica si impegnò a portargli, o a fargli portare, ogni mese la stessa somma, e gli promise che la sua «tavola» non avrebbe mai mancato di nulla. Ma, in cambio, ella voleva che la si lasciasse libera nella sua nuova esistenza. Chiese anche che i mendicanti fossero allontanati dalla soglia della «sua» rosticceria. Comprese dall'espressione del viso di Cul di Legno che aveva finalmente agito come doveva: da «rispettosa», e ch'egli si dichiarava soddisfatto. Lasciandolo, gli fece con molta gravità un bell'inchino. Angelica si sentiva ormai leggera e attiva come un uccello. C'era ancora fame, a Parigi, molta fame, gli affari andavano male, ma si avvicinava la primavera. Per distrarre il popolo dalle sue preoccupazioni, il re organizzò un grande Carosello, che costò da solo il prezzo di una nave di grano. Ma questo genere di calcoli non era accessibile alle menti. Poiché avevano sofferto, volevano divertirsi. E, a parte le esecuzioni e le processioni, i soli divertimenti del popolo giravano intorno al re e alla sua corte. I secoli futuri, che dovevano così stranamente deificare i ballerini, gli artigiani del pennello e i poveracci della penna, avrebbero potuto scrivere che, a quell'epoca, il re e i principi erano i grandi «divi» del tempo, cui gli uomini della strada avevano sete di donare il loro cuore e interessamento. Per aver scorto il profilo di Sua Maestà in carrozza, il ciabattino riprendeva più allegro il suo canto. Il borghese leggeva con applicazione la «Gazzetta», dove i particolari delle feste reali, degli abiti delle principesse e delle parole del re, erano scritti in versi dal signor Loret, poeta ditirambico e adulatore. E, la domenica, tutti correvano a San Germano, a Saint-Cloud o a Versailles, per il piacere di veder Luigi XIV mangiarsi da solo un mezzo ca-
priolo, circondato da vasellame d'oro e d'argento. Come gli altri, Angelica ammirò, in via Richelieu, le quadriglie che si recavano nella piazza situata fra le Tuileries e il Louvre, in cui dovevano disputarsi le competizioni equestri. Il re, in testa alla sua biga romana, in livrea gialla e fuoco, abbagliava gli sguardi nel suo costume di broccato d'argento. Portava alla cintura una scimitarra d'oro ornata di pietre preziose, e la sua abbondante capigliatura era chiusa in un casco d'argento a rameggi, arricchito di pietre preziose e di rose di diamanti e sormontato da un pennacchio color fuoco. Fu acclamato dalla folla in delirio. Passò quindi Monsieur alla testa della sua quadriglia persiana, in livrea rosa e bianca. Venne quindi la quadriglia turca del principe di Condé, dai turbanti e le vesti costellati di mezze-lune d'oro. La brigata americana del duca di Guisa, che chiudeva la marcia, ebbe i suffragi della folla per la sua singolarità e il suo esotismo. Tutti i cavalli erano coperti di pelli di pantere e avevano il frontale bizzarramente ornato con un corno diritto, che dava loro l'aspetto di animali apocalittici. Strani esseri li scortavano: satiri barbuti coronati di pampini, mori che si trascinavan dietro degli orsi, uomini dipinti di rosso e con in capo berretti ornati di conchiglie e di coralli o mascherati con orribili teste di draghi criniti. Pelli di tigri o rasi color glauco con decorazione di pesci abbigliavano i cavalieri, armati di mazze, di archi e di frecce. Il duca di Guisa, con la testa in una maschera mostruosa, il busto stretto in una corazza a pelle di drago, rappresentava abbastanza bene il selvaggio re di quel misterioso impero delle Indie Occidentali, perduto al di là degli oceani. Dopo aver contemplato quella sfilata da mille e una notte, Angelica se ne tornò in via della Valle di Miseria. Raccontò a Florimondo le meraviglie da lei vedute. La descrizione degli indiani della brigata americana lo mandò in estasi e, contrariamente a ciò ch'ella temeva, non ne provava timore ma si sentiva attratto da quei racconti, come Angelica un tempo. La sera, a volte, le diceva con una vocina appassionata: «Mamma, quando partiremo per le Americhe?» 5
«Ragazza mia, che Iddio mi danni se rimetterò più piede in una bettola in cui ci si permette d'ingannare in tal modo i più fini palati di Parigi!» Barbara, udendo questa solenne dichiarazione, corse in cucina. Il cliente si lamentava! Era la prima volta da quando veniva a mangiare solo, silenzioso e coperto di raso e di nastri, alla rosticceria del «Gallo Ardito». Preparato egli stesso come un piatto di lusso, mangiava con religione e pagava il doppio del conto che gli veniva presentato. Perciò la sua dichiarazione, scoppiata come un fulmine a ciel sereno, meritava che vi si prestasse attenzione. Angelica si presentò subito da lui. Il gentiluomo la squadrò dal capo alle piante. Sembrava assai di malumore, ma la bellezza, e forse l'inaspettata distinzione della giovane ostessa, lo sorpresero. Dopo una breve esitazione, egli riprese: «Ragazza mia, desidero avvertirvi che non rimetterò più piede nel vostro locale se, ancora una volta, mi si ingannerà in tal modo.» Angelica si sforzò di assumere il suo tono più umile per chiedere ciò che non andasse. A questa domanda, il cliente si alzò in piedi in preda a grandissima agitazione. Era rosso in faccia, ed ella aveva voglia di battergli sulla schiena, chiedendosi se, alla fin fine, non gli fosse rimasto di traverso nella gola un osso di pollo. L'altro ritrovò finalmente la parola. «Voi potete, bellezza mia, capire dal mio aspetto che ho nel mio palazzo abbastanza servitori per non aver bisogno di venire a far colazione in albergo. La prima volta, sono quindi entrato qui per puro caso, attratto dall'odore assolutamente divino che aleggiava intorno alla vostra porta. E ben me ne incolse perché, con mia grande sorpresa, mangiai una di quelle "omelettes" come neppure io capite, io, consigliere del Parlamento, so farne!» Angelica, dopo un rapido sguardo alla tavola, aveva potuto convincersi, vedendo la bottiglia di borgogna appena incominciata, che l'ebbrezza non entrava per nulla nella stranezza di quel discorso. Represse dunque la voglia di ridere e disse con tono innocente: «Signore, modesti trattori della nostra specie hanno ancora tutto da imparare. Ignoravo, lo confesso, che al Parlamento si tenessero agapi culinarie.» Tutto preso dal suo argomento, il cliente seguitava a esporre la sua la-
mentela. L'«omelette» che oggi gli avevano servita non aveva nulla a che fare con quella di cui aveva conservato un divino ricordo. «Eppure, le uova son fresche...» azzardò Angelica. Ma il consigliere del Parlamento la interruppe con un gesto di tragica ira: «Ci mancherebbe altro che non lo fossero! Non è qui la questione. Io voglio sapere chi ha fatto l'"omelette" dell'altro giorno, perché non dovete credere di farmi mangiare questa allo stesso titolo della prima.» Ripensandoci, ad Angelica venne in mente ch'era stata lei a cucinare la famosa «omelette». «Sono lieta che vi sia piaciuta,» diss'ella, «ma confesso ch'è stato un po' per caso ch'essa vi sia stata fatta lì per lì. In genere, bisogna ordinarla in anticipo, perché io possa avere tutti gli ingredienti che la compongono.» Un lampo di desiderio si accese negli occhietti porcini dell'individuo. Con voce implorante, egli la supplicò di confidargli la ricetta, ed ella dovette difendere il suo segreto culinario con la stessa civetteria che avrebbe usato per difendere la propria virtù. Da donna pratica, aveva subito giudicato il tipo, e decise che era da tenersi buono, perché sarebbe stato una sorgente inestinguibile di guadagno per il «Gallo Ardito». Con tutta calma, si mise le mani ai fianchi per rappresentare la parte di albergatrice accorta ma furba, e gli disse che, dato che sembrava intendersene così bene, doveva sapere che, per tradizione secolare, i capocuochi non comunicavano le loro migliori ricette se non contro monete sonanti. Nonostante la sua elevata posizione sociale, il grosso signore mandò due o tre bestemmie, poi, con un sospiro, convenne che la cosa era giusta. Intesi, avrebbe pagato bene, ma a condizione che la riedizione del capolavoro fosse stata in tutto conforme alla prima. Si proponeva di condurre, per tale arbitraggio, una tavolata dei più sopraffini ghiottoni del Palazzo e del Parlamento. Angelica accettò la scommessa e ricevette molti complimenti dagli eleganti convitati. Quindi, la ricetta fu scritta e consegnata, in cambio di una borsa assai pesante, al consigliere del Bernay, che la lesse con voce rotta dall'emozione come se si fosse trattato di una lettera d'amore. «Mettere in una dozzina di uova battute un pizzico di cipollina verde, uno o due creste di galli arrostite, sei bucce di grano, tre o quattro ramo-
scelli di pimpinella, due o tre foglie di acetosella, uno o due di timo, due o tre foglie di tenera lattuga, un po' di maggiorana, di issopo e di crescione. Far saltare il tutto in un tegame in cui sarà stato messo una metà di olio e una metà di burro di Vanves. Spruzzare di crema fresca...» Dopo la lettura, si fece un religioso silenzio, e il consigliere disse gravemente ad Angelica: «Madamigella, devo riconoscere ch'io stesso non avrei mai saputo decidermi a render noto un tale segreto, degno solo degli dei, neppure per una somma più grossa di quella che vi abbiamo testé consegnata. Mi piace vedere in ciò, oltre tutto, il vostro desiderio di farci cosa gradita, e i miei amici ed io lo riconosceremo frequentando spesso questo accogliente locale.» Fu così che Angelica ottenne la raffinata clientela dei «buongustai». Ebbe nella rosticceria il conte di Broussin, Bussy-Rabutin, il marchese di Villandry. Per questi signori, i piaceri della tavola superavano tutti gli altri, compresi quelli d'amore. E le carrozze e le portantine cominciarono a fermarsi sotto l'insegna del «Gallo Ardito», così com'ella aveva sognato. Vennero anche borghesi, letterati, medici. Il più assiduo era un certo dottor Lamberto Martin, celebre, dicevano, per due tesi da lui difese alla Sorbona: Est ne foemina opus naturae imperfectum? (La donna è un'opera imperfetta della natura?) e: An quo salacior mulier eo fecundior? (Una donna è tanto più feconda quanto più è lasciva?) Aveva l'abitudine di parlare fino a perderne il fiato sulle proprietà terapeutiche dei cibi che gli venivano presentati. «Vi raccomando questa lombata di capriolo al ragù, signori,» diceva ai suoi amici. «Affermiamo che i movimenti di questo animale, la sua leggerezza e la sua vivacità, purificano le carni da tutto ciò che può esservi di superfluo... E dopo questo ragù, che ci darete, bellezza?» «Corna di cervo fritte, 1 » rispondeva Angelica. «Dicono che siano eccellenti per mantenere al loro posto quelle di certi mariti.» Padron Bourgeaud era molto impressionato e turbato dall'invasione di quella nuova clientela. Il successo di cui beneficiava la sua rosticceria rischiava di trascinarlo in difficoltà innumerevoli, e la sua nativa pigrizia ne soffriva. Eppure, per molte cose del suo mestiere, il grosso cuoco non aveva riva1
Era, a quel tempo, un piatto assai ricercato.
li. Era abilissimo nello scegliere e arrostire il pollame, la carne e la selvaggina, e anche nello spezzarli, traendone i bocconi migliori. La sua abilità era però minore per quanto riguardava il pesce. Ciò dipendeva soprattutto dal fatto che, essendo rosticcere, il suo locale non avrebbe avuto, di regola, il diritto di preparare il pesce, che si doveva andare a prendere da un trattore specializzato. Ma Angelica, dopo aver chiesto l'intervento di alcuni clienti presso il podestà dei mercanti, ottenne dalla sottocorporazione dei trattori la patente per servire pesce, formaggi e dolci dietro versamento di cento lire alla sovrintendenza dei giurati di corporazione. Come cuciniere, padron Bourgeaud era rimasto alla cucina grossolana e al tempo stesso complicata degli ultimi secoli, alla carne coperta di salse misteriose in cui nessun palato avrebbe potuto riconoscere l'origine dei molteplici ingredienti gettativi alla rinfusa. Inoltre, era ancora fermo alla fastidiosa moda di profumare i piatti. Angelica faticava assai per impedirgli di versare fiotti di giaggiolo nel ragù e di acqua di rose sui polli. Ella ammetteva, a rigore, di pagar più caro al pollivendolo le pernici nutrite con timo e maggiorana, i capponi ingrassati con droghe muschiate, ma si ribellava dinanzi alla lingua di maiale al mughetto, alle creme ambrate, alla marmellata e al marzapane muschiati. A quell'epoca, si abusava di ambra e di muschio, che erano considerati afrodisiaci. Angelica, insomma, riponeva tutte le sue speranze in David, che seguiva scrupolosamente le sue direttive e i suoi consigli. Senza parere, eliminava padron Bourgeaud dalla cucina e lo mandava in sala, dove la sua faccia, tornata gioviale, piaceva ai clienti, lasciandogli campo libero per quanto riguardava il vino e la preparazione dei piatti usuali per la clientela del popolino: operai e artigiani. Ma questi, dinanzi all'invasione dei polsi di pizzo e dei feltri piumati, disertavano l'albergo. Furono però presto rimpiazzati da un'altra categoria di clienti che, in una sera, gettavano sulla tavola quanto un modesto artigiano in un mese. Dopo i «buongustai», anche i «ghiottoni» trovarono la via del «Gallo Ardito». Un giorno, la tavolata dei signori fece un'ovazione a un uomo assai panciuto, apparso sulla soglia. Lo chiamavano Montmaur. Era vestito con molta semplicità e aveva un volto colorito e allegro. Il nuovo cliente, dopo aver risposto con un sorriso condiscendente agli appelli dei buongustai, andò a sedersi a un tavolino a parte e ordinò a voce alta: «Un cappone allo spiedo, un lattonzo farcito, un carpione al prezzemolo e sei piccioncini!» Nel gruppo dei raffinati epicurei vi fu grande ilarità.
Il conte di Rochechouart si alzò e andò ad appoggiarsi al tavolo del solitario ghiottone. «Questo buon Montmaur, sempre incorreggibile, dunque? Avreste dovuto incarnarvi sotto la forma di un'oca, per avere il piacere di essere ingozzato fino a schiattare. Aprite la bocca. Sarei curioso di sapere se madama Natura si sia dimenticata di dotarvi di un palato!...» Il grosso mangione prese il tempo di deglutire una enorme palla fatta con pan buffetto, burro e formaggio, che si concedeva come antipasto, poi roteò gli occhi bianchi pieni di candore e riuscì a borbottare: «Be', che c'è? Ciascuno a suo gusto.» «Questa è bella, amico mio! Come avete il coraggio di parlare di gusto quando voi, professore erudito e celebre del Collegio di Francia, riuscite tutt'insieme a commettere tre mostruose colpe contro il più elementare gusto culinario?» Il sapiente professore bofonchiò, buon diavolaccio: «Siete degli spilluzzicatori! Il gusto di quel che mangio mi basta, e non vedo, caspita, in che cosa consistano le pretese colpe che mi attribuite.» «Ebbene! Anzitutto sappiate che non si comincia un pranzo con il formaggio. E una! Poi, è inconcepibile mettere il prezzemolo su un carpione! Infine, è inaudito mangiare il pesce dopo la carne e la selvaggina! E tre! Ma, ora che ci penso: non basta. Avete anche commesso una colpa più sottile ma importante! Chi me la sa dire» Tutta l'assemblea si mise a pensare. Mortemart sospirò: «Signori, signori, oggi mancate di spirito! Ma, del resto, vi capisco. Solo all'udire la lista del pranzo del signor professore, il cervello si vuota. Mi dispiace che la nostra cara e nobile amica, la marchesa di Sablé, non sia qui per rispondermi, lei che conosce tutte le sfumature dell'etichetta gastronomica. Suvvia, signori, non perdetevi d'animo di fronte a questo grasso e barbaro rappresentante della compagnia dei ghiottoni! Chi troverà?...» «L'ostessa ha diritto alla parola?» chiese Angelica. Mortemart si girò sugli alti tacchi, sorrise e le cinse la vita. «Una semplice ostessa non sarebbe ascoltata dalla nostra epicurea e sofistica società. Ma una fata qual voi siete ha tutti i diritti.» «Ebbene, ecco, signori, la quarta colpa di cui accusate il signor di Montmaur: consiste nell'aver messo nella sua lista dei piccioncini dopo la Pasqua...» «Buon Dio! ma è vero, in fede mia!» esclamò, entusiasta, il consigliere del Bernay. «In questa stagione i piccioncini sono o troppo vecchi o troppo
giovani per la seconda covata.» Angelica fu applaudita e il marchese di Mortemart la baciò. Piccoli incidenti di questo genere affermavano la reputazione di Angelica. Era cosa rara trovare un'albergatrice che cucinasse a meraviglia e potesse rispondere a tono ai gentiluomini abituati al chiacchierio della corte e delle camere da letto. Sapevano ch'era virtuosa, ma la sua gentilezza e la sua allegria curavano le ferite degli spasimanti delusi. Con l'abitudine in lei rimasta del suo antico ambiente, Angelica sapeva dosare il sale dei suoi frizzi. Non temeva una certa volgarità, così come poteva, al pari di una preziosa, fare appello, nelle sue risposte, alle divinità mitologiche. Si andò al «Gallo Ardito» per incontrarla. Ma ella s'impaurì il giorno in cui riconobbe il duca di Lauzun e alcuni giovani della corte. Quella volta, si presentò con la sua maschera rossa. Si applaudì quella fantasia, e uno dei giovani celebrò in versi «lo splendore dei suoi occhi di smeraldo in uno scrigno di porpora». In seguito, quand'ella temeva d'incontrare nella sala un volto conosciuto, si mascherava, e la gente a poco a poco prese l'abitudine di andare a vedere la «Maschera rossa». Tuttavia, tra i buongustai e i ghiottoni, Angelica perdeva l'appetito, pur facendosi piuttosto rotondetta. Le capitava di sognare ch'era soffocata da pezzi di cibarie e annegata nei sughi. La fame insaziabile di alcuni dei suoi ospiti la spaventava. «A dire il vero,» diceva loro, «la Quaresima sarà la benvenuta per la vostra salute.» «Non parlate di quella miseria!» gemevano i ghiottoni. Le disposizioni sulla Quaresima, infatti, erano divenute molto severe dopo la riforma predicata da Calvino. Questo apostolo non aveva avuto il coraggio di affermare che si faceva peccato sia mangiando un pollo che un luccio? Le disposizioni avevano dovuto moltiplicarsi per riportare alla stretta osservanza del digiuno un popolo che in verità avrebbe accettato di essere crocifisso, ma non di essere privato di carne. I fedeli erano dunque tenuti, sotto pena di peccato mortale, a non mangiare alcuna specie di carne durante i quaranta giorni precedenti la Resurrezione di Cristo. Dovevano fare solo due pasti al giorno, e non si accordavano dispense che ai malati e ai vecchi di più di settant'anni. Rosticcieri, pollivendoli, rivenditori, rischiavano la multa per un infimo cappone.
Quell'anno, padron Gardy, macellaio in via della Lanterna Vecchia, fu esposto alla gogna del Grande Castelletto, con frattaglie di vitello appese al collo, per non aver rispettato le interdizioni. Gli sfaccendati andavano a vederlo soprattutto per le frattaglie, che facevan loro venire l'acquolina in bocca. Durante la Quaresima, un gran disagio cominciava a regnare nelle relazioni sociali. Le donne diventavano nervose e sgarbate. C'erano, sì, dei libertini e dissoluti che se ne andavano a gruppi fino a Charenton per divorarvi, sotto l'egida delle libertà protestanti, arrosti e pollame. Ma la maggior parte della gente teneva alla salvezza eterna, o rinunciava a causa del viaggio. Si soffriva, dunque, e il meno che si possa dire è che non si soffriva in silenzio. Quindici giorni dopo l'inizio della Quaresima, tutti avevano egualmente in orrore pesci e legumi. Gli sfortunati buongustai andavano ad aggirarsi nei pressi delle rosticcerie e delle macellerie, come gli ebrei accanto al Muro del Pianto. Angelica, per incoraggiarli, si rallegrava con i più apoplettici dei suoi clienti sul loro ottimo colorito e serviva loro belle insalate dai colori vivaci ch'essi accoglievano con l'aria afflitta di un bambino che si deve purgare. Inoltre, faceva del suo meglio per preparare ogni specie di animali acquatici: lontre, rane, tartarughe. Alla fine, però, bisognava bene adattarsi alla celebre, all'inevitabile folaga, una specie di grossa oca selvaggia di cui, in quella stagione, le spiagge del Nord abbondavano e che aveva il vantaggio di entrare nell'elenco dei cibi autorizzati, dato ch'era un uccello-pesce a sangue freddo. La folaga nasceva dai relitti di legno imputridito che fluttuavano sul mare, ai quali essa rimaneva attaccata per il becco fino allo sviluppo completo. Allora, volava via. Altri dicevano ch'era il frutto di un albero coltivato nelle Orcadi. Giunto a maturità, il frutto cadeva, si apriva e ne usciva un uccello: la folaga. Un certo viaggiatore osò affermare di aver veduto, in un'isola di Settentrione, una spiaggia piena di questi uccelli che avevano nidi e sembrava deponessero uova come qualsiasi altro volatile normale e... proibito. Ma fu subito mandato dal dottor Ettore Bocis, che aveva potuto osservare di persona il fenomeno di generazione spontanea di quell'uccello dalle onde. «In verità,» scriveva egli, «l'origine di questo animale ha suscitato i più assurdi racconti. Mi limiterò a esporre il risultato delle mie personali ricerche: ecco tale risultato: se gettate in mare un pezzo di legno, vi vedrete ben
presto apparire dei vermi. A poco a poco, questi vermi mostrano una testa, dei piedi, delle ali, delle penne. Acquistano infine la grossezza di un'oca e prendono a volare.» Grazie al suo autorizzato parere, si poté seguitare a mangiare folaga di Quaresima, con la coscienza tranquilla. I poeti la celebravano con il lirismo della riconoscenza del ventre: Così il vecchio frammento di una barca si muta In anatre volanti, o strano cambiamento! Lo stesso corpo un tempo fu albero, poi nave; Non molto tempo prima fungo, ed infine uccello. Le sue carni erano scure, dure e fetide, un vero cibo da penitenza, ma, insomma, erano carne! Nel 1663, Angelica approfittò degli ozi forzati della Quaresima per realizzare tre progetti che le stavano a cuore. Anzitutto, cambiò alloggio. Non le era mai piaciuto quel quartiere stretto e agitato, all'ombra del Grande Castelletto, con quelle grida degli animali sgozzati, dei polli strangolati, con quegli odori di carni, di pesci, di rifiuti d'ogni genere su cui passavano oltre tutto gli effluvi del cimitero dei Santi Innocenti. Trovò nel bel quartiere del Marais, una casetta a un piano, con tre stanze, che le parve un palazzo, situata in via dei Franchi Borghesi, non lontano dall'incrocio con via Vecchia del Tempio. Sotto Enrico IV, un finanziere aveva cominciato a costruire un bel palazzo in mattoni e pietre da taglio, ma, rovinato dalla guerra o dalle sue truffe, aveva dovuto abbandonare incompiuta la costruzione. Era stato soltanto terminato il portico fiancheggiato da due logge che precedevano il grande cortile interno. Una vecchiettina che, non si sa bene a qual titolo, ne era proprietaria, abitava da un lato dell'androne e affittò l'altro lato ad Angelica per un prezzo modico. Al pianterreno, due finestre solidamente sbarrate illuminavano un piccolo corridoio che conduceva a una minuscola cucina e a una camera abbastanza ampia, dove si sistemò Angelica, riservando ai bambini la bella camera al piano di sopra: essi vi si installarono in compagnia della loro governante, Barbara, che lasciava il servizio di padron Bourgeaud per entrare a quello della signora Morens. Era così che Angelica aveva deciso di farsi chiamare. Forse, un giorno, avrebbe potuto aggiungere a quel nome la par-
ticella «di». In tal modo, i figli avrebbero portato il nome del padre: di Morens. E, più tardi, ella avrebbe tentato di rivendicare per loro i titoli, se non il patrimonio. Aveva folli speranze. Il denaro può tutto. Non era già riuscita ad avere una casa per sé? Non era che l'abitazione di un portinaio, ma, quando si entrava, il portico illudeva. Per quanto non vi fossero mai state sistemate le porte di quercia che gli erano destinate, le sculture erano però compiute: due teste di ariete fra ghirlande di fiori e frutta. La porta del piccolo appartamento dava sotto la volta. Barbara aveva lasciato senza rimpianto la rosticceria: quel lavoro non le piaceva, mentre amava molto stare con i «suoi piccoli». Già da un po', ella si occupava esclusivamente di loro. Per sostituirla, Angelica aveva assunto due ragazze di cucina e uno sguattero. Con Rosina, che si stava facendo una brava e fresca cameriera, con Flipot come sguattero, e con Linot, incaricato in modo particolare di distrarre i clienti e di vendere ciambelle, polpette di carne e cialde, il personale del «Gallo Ardito», o meglio della «Maschera Rossa» era divenuto abbondante. Angelica era felice di poter finalmente strappare Florimondo all'atmosfera tumultuosa della taverna. A lui non piacevano grida e violenze e Dio sa se ve n'erano tra quella gente detta di buona famiglia, e soprattutto tra loro. I nobili si recavano nelle taverne per svagarsi liberi dall'etichetta. Le allegre effusioni dell'ubriachezza a volte andavano a finire in risse: si lanciavano vasellame in testa, si snudavano le spade e Angelica non esitava a gettarsi nel pieno della battaglia. In tali occasioni, ella sentiva passare dentro di sé l'anima della Polacca e il suo energico eloquio faceva effetto sugli inferociti. Ancora una volta, ciò non le costava nessuna fatica: era, questa, la sua lotta di ogni giorno, ch'ella era decisa a condurre, senza cedere, sino all'ultimo. Ammiravano quella femminetta che non esitava ad afferrare per la collottola un moschettiere alto due volte lei. Il pensiero che, di sopra, Florimondo piangesse e tremasse destato dal chiasso, decuplicava la sua ira. Qui sarebbe stato tranquillo. In luogo degli odori di rifritto e di avanzi, avrebbe respirato i freschi effluvi dei giardini e degli orti che in ogni parte costellavano quel bel quartiere in cui, dal principio del secolo, l'aristocrazia faceva costruire i propri palazzi.
I bimbi sarebbero andati a passeggiare con Barbara nei giardini del Tempio, dove avrebbero bevuto latte di capra, in quello dei Cappuccini o del palazzo di Guisa, o ancora nell'orto dei Celestini, tanto noto per le sue belle frutta e i pergolati coperti di verdura. La prima sera in cui si trasferì in via dei Franchi Borghesi, Angelica, seguitò, eccitatissima, a salire da un piano all'altro. Non v'erano molti mobili: un letto in ogni stanza, oltre a un lettino per bimbi, due tavoli, tre sedie, alcuni cuscini di felpa per sedersi. Ma il fuoco danzava nel camino e la sala era piena del profumo delle frappe. Con queste, infatti, si inaugura un alloggio. Patù, il cane, muoveva la coda, e la servetta Giasmina sorrideva a Florimondo, che le restituiva il sorriso. Angelica, infatti, era andata a prendere a Neuilly gli antichi compagni di miseria di Florimondo e di Cantor. Sistemandosi in via dei Franchi Borghesi, ella aveva pensato alla necessità di avere un cane da guardia. Il quartiere del Marais era isolato e pericoloso alla notte, con i suoi vasti terreni incolti e gli orti che separavano le case le une dalle altre. Angelica aveva, sì, la protezione di Cul di Legno, ma, nell'ombra, i ladri possono sbagliare indirizzo. Le era così tornato il ricordo della bimba alla quale i suoi due figli dovevano senza dubbio la vita, e dell'animale che aveva protetto l'angosciato Florimondo. La nutrice non la riconobbe di certo, perché Angelica aveva messo la maschera ed era andata lì in carrozza da nolo. Per la somma che le venne offerta, la buona donna fu tutta sorrisi e lasciò partire senza rimpianto la fanciulla, ch'era sua nipote, e il cane. Angelica si chiedeva quale sarebbe stata la reazione di Florimondo, ma i due nuovi venuti non parvero che ricordargli cose buone. Era lei, Angelica, che, in fin dei conti, guardando Giasmina e Patù, si sentiva il cuore straziato ricordandosi di Florimondo nella cuccia, e giurava a se stessa una volta di più che i suoi figli non avrebbero avuto mai più né fame né freddo. Quella sera, si era data a spese pazze per comprar loro qualche giocattolo. Non quei mulini o quelle teste di cavallo piantate su un bastone che possono acquistarsi per pochi soldi sul Ponte Nuovo, ma i giocattoli della Galleria del Palazzo, che dicevano fabbricati a Norimberga: una piccola carrozza di legno dorato con quattro bambole, tre cagnolini di vetro, un fi-
schietto d'avorio, e, per Cantor, un uovo di legno dipinto che ne conteneva diversi altri. Guardando la sua famigliola, Angelica diceva a Barbara: «Barbara, un giorno questi due giovanotti andranno all'Accademia del Mont-Parnasse, e li presenteremo a corte.» E Barbara rispondeva giungendo le mani: «Ne sono certa, signora.» In quel momento, passò per la via l'annunciatore dei morti. Ascoltate, gente che dormite, Pregate Dio per i Trapassati! Angelica, furibonda, corse alla finestra e gli gettò sulla testa l'acqua di un vaso. Il secondo progetto di Angelica consisteva nel mutare l'insegna della rosticceria del «Gallo Ardito», divenuta, in seguito all'impulso da lei dato e al gusto dei clienti, la taverna della «Maschera Rossa». Ella aveva grandi ambizioni perché, oltre a una «frasca» in ferro battuto, sistemata in modo da sporgere sulla strada e che avrebbe dovuto raffigurare una maschera di carnevale, voleva una insegna dipinta da mettere al disopra della porta. Un giorno, tornando dal mercato, si fermò dinanzi all'insegna di un mercante d'armi. La tavola dipinta rappresentava un vecchio soldato dalla barba bianca nell'atto di bere del vino nel suo casco, mentre la picca, appoggiata accanto a lui, brillava con tutto il suo fulgido acciaio. «Ma quello è il vecchio Guglielmo!» esclamò, precipitandosi nella bottega, dove il padrone le disse che il capolavoro ch'egli teneva sopra la sua porta era di mano di un pittore che si chiamava Gontrano Sancé e abitava nel sobborgo San Marcello. Angelica, con il cuore che le batteva forte, vi corse. Al terzo piano di una casa di modesta apparenza le venne ad aprire una giovane donna rosea e sorridente. Nello studio, Angelica scorse Gontrano al cavalletto in mezzo a tele e colori: l'azzurro, il bruno rosso, l'azzurro cenere, il verde d'Ungheria... Egli fumava la pipa e dipingeva un angioletto ignudo il cui modello era una bella bimbetta di pochi mesi, distesa su un tappeto di velluto azzurro. La visitatrice, che era mascherata, prese a spiegare i propri desideri per
l'insegna, poi, togliendosi la maschera e ridendo, si diede a conoscere. Le parve che Gontrano fosse sinceramente lieto di rivederla. Somigliava sempre più al padre, aveva la stessa maniera di posar le mani sulle ginocchia, come un mediatore, per ascoltare. Le disse ch'era riuscito ad avere bottega sua e che aveva sposato la figlia del suo antico padrone, Van Ossel. «Ma ti sei sposato con una borghese!» esclamò lei spaventata, approfittando che la giovane olandese era in cucina. «E tu? Se ho ben compreso, sei la gerente di una taverna e servi da bere a persone molto al disotto della mia condizione.» Dopo un istante di silenzio riprese, non senza acume: «E sei corsa a vedermi, senza esitazione, senza falsa vergogna: Saresti corsa egualmente per annunciare la tua presente situazione a Raimondo, che è stato ora nominato confessore della Regina Madre, a Maria Agnese, damigella d'onore della Regina e che fa la p... al Louvre, secondo la regola di quello sciame di belle ragazze, oppure al piccolo Alberto, che è paggio in casa del marchese di Rochant?» Angelica riconobbe che se ne stava piuttosto lontana da quella parte della sua famiglia e chiese che cosa ne fosse di Dionigi. «È nell'esercito. Nostro padre è felice. Finalmente un Sancé al servizio del re! Gianmaria, l'ultimo, è in collegio. Può darsi che Raimondo gli procuri un beneficio ecclesiastico, perché è in ottimi rapporti con il confessore del re, che ha in mano i fogli di nomina. Finiremo con l'aver un vescovo, in casa!» «Non ti pare che siamo una singolare famiglia?» chiese Angelica scuotendo il capo. «Vi sono Sancé dall'alto al basso della scala.» «Ortensia naviga fra due acque con il suo marito procuratore. Hanno molte relazioni, ma vivono miseramente. Con la storia del riscatto delle cariche, son già quattro anni che lo Stato non dà loro un soldo.» «Li vedi, qualche volta?» «Sì. Come vedo Raimondo e gli altri. Nessuno è mai molto soddisfatto d'incontrarmi, ma non disdegnano di avere i loro ritratti.» Angelica ebbe una breve esitazione. «E... quando v'incontrate... parlate di me?» «Mai!» fece duramente il pittore, «tu sei un ricordo troppo atroce per noi, una catastrofe, una caduta che ci ha spezzato il cuore, per quel poco che ne abbiamo. Per fortuna, pochi hanno saputo che tu eri nostra sorella... tu, la moglie dello stregone bruciato vivo in piazza di Grève!» Tuttavia, mentre parlava, le aveva preso la mano nella propria, macchia-
ta e callosa per gli acidi. Le allargò le dita, toccò quella palma minuscola che conservava la traccia delle scottature, delle bruciature del forno, e vi posò la guancia in un gesto di tenero affetto. Gesto assai raro, che qualche volta aveva fatto quand'erano bimbi. La gola, ad Angelica, doleva tanto ch'ella credette di non poter trattenere il pianto. Ma da troppo tempo non aveva sparso lagrime! Le ultime, le aveva versate assai prima della morte di Goffredo. Ne aveva perso l'abitudine. Ella ritrasse la mano e disse quasi seccamente, guardando attorno le tele appoggiate al muro: «Fai delle cose molto belle, Gontrano.» «Sì. Eppure, i gran signori ostentano di darmi del tu, e i borghesi mi guardano con superbia, perché queste belle cose io le faccio con le mie mani. O che vorrebbero, che lavorassi coi piedi? E perché il fatto di maneggiare la spada rappresenta un'opera meno manuale e disprezzabile che non maneggiare i pennelli?» Scosse il capo e un sorriso gl'illuminò il volto. Il matrimonio lo aveva reso più allegro e chiacchierone. «Io ho fiducia, sorellina. Un giorno, noi andremo a corte, tutti e due, a Versailles, dove il re chiede gran numero di artisti. Io dipingerò i soffitti degli appartamenti, il ritratto dei principi e delle principesse, e il re dirà: "Voi fate delle bellissime cose, signore." E a te dirà: "Signora, voi siete la più bella donna di Versailles."» Scoppiarono a ridere insieme. 6 Il terzo progetto di Angelica consisteva nel lanciare nella golosa società parigina quella bevanda esotica che chiamavano cioccolato. L'idea non le era uscita di mente, nonostante la delusione causatale dal suo primo contatto con quella strana mistura. David le aveva mostrato la famosa lettera-patente di suo padre. Essa parve alla giovane donna che presentasse tutti i segni di autenticità e di legalità. Recava persino la firma del giovane re Luigi XIV in persona, accordando al signor Chaillou la fabbricazione e la vendita in esclusività del cioccolato su territorio francese, e specificando che detta lettera era valida per ventinove anni. «Questo scioccone non si rende assolutamente conto del tesoro che ha
ereditato,» pensò Angelica. «Bisognerebbe riuscire a mettere in valore questo pezzo di carta.» Chiese al giovane se avesse avuto occasione di fabbricare del cioccolato con suo padre. E di quali mezzi si fosse servito. L'apprendista cuoco, troppo felice di accaparrare in tal modo l'attenzione della sua Dulcinea, le spiegò con aria d'importanza che il cioccolato proveniva dal Messico ed era stato introdotto alla corte di Spagna nel 1500 dal celebre navigatore Fernando Cortez. Di lì, l'uso si era propagato nelle Fiandre. Quindi, agli inizi del secolo, Firenze e l'Italia si erano incapricciati della nuova bevanda, i principi tedeschi pure, ed ora se ne beveva sino in Polonia. «Mio padre mi ripeté queste storie, da quando ero piccolo, un'infinità di volte,» spiegò David un po' confuso della sua inaspettata erudizione. Gli occhi attenti di Angelica, posati su di lui, lo facevano volta a volta arrossire e impallidire. Ella lo pregò un po' seccamente di seguitare le sue spiegazioni. Il giovane le confidò che v'era ancora, nella sua casa natale di Tolosa, un piccolo materiale di cui si serviva suo padre per fabbricare il cioccolato e che ora era custodito da lontani parenti. La fabbricazione del cioccolato era al tempo stesso semplice e complicata. Suo padre aveva fatto venire dapprima i semi dalla Spagna, poi direttamente dalla Martinica, da dove gliene mandava un mercante ebreo di nome Costa. Bisognava lasciar fermentare i semi, non troppo, ma abbastanza a fondo. L'operazione doveva aver luogo in primavera, quando la temperatura non era alta. Dopo la fermentazione, si doveva metterli a seccare, anche qui non troppo, in modo da non frantumarli durante la triturazione che li scortecciava. Bisognava quindi farli seccare ancora per renderli fragili al pestello, ma senza esagerare, in modo che l'essenza aromatica non li volatilizzasse. Dopo di che, li si brillava. In questa operazione consisteva il grande segreto della riuscita del cioccolato. Bisognava procedere in ginocchio e il mortaio doveva essere mezzo di legno e mezzo di lamiera di ferro, leggermente riscaldato. Questo utensile si chiamava «metal», nome datogli dagli aztechi, che sono gli uomini rossi d'America. «Ho veduto una volta, sul Ponte Nuovo, uno di questi uomini rossi,» disse Angelica. «Si potrebbe forse rintracciarlo. Il cioccolato sarebbe certo anche migliore se fosse lui a brillarlo.»
«Mio padre non era rosso e il suo cioccolato aveva una buona reputazione,» disse Chaillou, insensibile all'ironia. «Ci si può quindi arrangiare senza indiani. Per la cottura, occorrono grosse marmitte di ghisa. Ma bisogna prima vagliare le scorze, le pelli e i germi, e soprattutto tritare assai finemente. Poi aggiungere zucchero in giusta proporzione, spezie e altri ingredienti.» «In definitiva,» concluse Angelica, «supponiamo di poter far venire qui il materiale di tuo padre e i semi: sapresti fabbricare questa bevanda?» David parve perplesso, poi, dinanzi all'espressione di Angelica, disse di sì e ne fu ricompensato da un sorriso radioso e da un amichevole schiaffetto sulla guancia. A partire da quel momento, Angelica cercò in ogni occasione d'informarsi su ciò che già si sapeva in Francia circa l'uso di quella bevanda non alcolica. Un vecchio farmacista suo amico da cui ella acquistava certe spezie ed erbe rare, le disse che il cioccolato era considerato ottimo contro i vapori della milza. Quest'ultima proprietà era stata messa in luce dagli studi, ancora inediti, del celebre medico Renato Moreau, il quale l'aveva riscontrata nel maresciallo di Gramont, uno dei pochi, a corte, cui piacesse il cioccolato. Angelica prese accuratamente nota di tali informazioni e del nome del dottore. Il vecchio farmacista la guardò allontanarsi scuotendo il capo. Era preoccupato. Aveva conosciuto tante donne che cercavano mezzi impossibili per abortire. Questo gli riportò alla mente, all'improvviso, uno spaventoso ricordo. Mandando un grido, mastro Lazzaro abbandonò di colpo l'alambicco in cui stava distillando un qualche sciroppo e corse per la via dietro la giovane donna. Riuscì a raggiungerla, poi che costei s'era fermata udendo dietro di sé lo schiocco delle ciabatte del vecchio. Quand'ebbe ripreso fiato, questi gettò intorno uno sguardo sospettoso, e le sussurrò all'orecchio: «Ragazza mia, nonostante le favorevoli informazioni ch'io ho potuto raccogliere su quella bevanda, credo di dovervi mettere in guardia contro gli inconvenienti del suo uso. Mi è tornata in mente una terribile notizia riguardante quel prodotto.» «Dite subito, maestro.» «Parlate più piano, ragazza mia! Pensate che mi mettete in una penosa
situazione, perché quasi tradisco il segreto professionale cui noi farmacisti siamo tenuti, allo stesso modo dei medici. Be', è per il vostro bene! Non ignorate che il 18 novembre 1662 la nostra giovane regina diede alla luce una bambina che morì appena un mese dopo. Ebbene! quella bimba era un piccolo mostro nero e peloso come il diavolo, e che non sapevano dove nascondere. I medici dissero che tale disgrazia era dovuta alle innumerevoli tazze di cioccolato che Sua Maestà beve di continuo. Capite, ragazza mia! Diffidate di quella bevanda.» «Ne prendo nota, signore, state tranquillo,» disse Angelica, che la storia di mastro Lazzaro non spaventava affatto. Nonostante quegli inizi poco incoraggianti, ella aveva fiducia nel cioccolato. Tornò a trovare la nana della regina e, questa volta, poté gustare il prodotto quando non era ancora bruciato dal pepe e reso denso da troppo zucchero. Trovò ch'era gustoso. Donna Teresita, fiera del suo segreto, l'assicurò che ben poche persone, anche provenienti dall'estero, erano capaci di prepararlo, ma il maligno Barcarola le disse di aver sentito parlare di un giovane borghese ch'era andato in Italia per studiarvi la cucina e che dicevano preparasse il cioccolato in modo eccellente. Questo tale, di nome Audiger, era attualmente maggiordomo del conte di Soissons, e stava per ottenere la licenza per fabbricare il cioccolato in Francia. «Ah! questo no,» disse fra sé Angelica sobbalzando; «sono io che ho la patente esclusiva della fabbricazione.» Decise d'informarsi più a fondo sul maggiordomo Audiger. Ad ogni modo, ciò provava che l'idea del cioccolato era nell'aria, e che bisognava affrettarsi a realizzarla per non lasciarsi distanziare da concorrenti più abili o che beneficiavano di più alte protezioni. Qualche giorno dopo, un pomeriggio in cui, aiutata da Linot, ella stava disponendo dei fiori in vasi di stagno posti sulle tavole, un bel giovane, lussuosamente vestito, scese i gradini della soglia e andò verso di lei. «Mi chiamo Audiger e sono maggiordomo del conte di Soissons,» disse. «Mi hanno riferito che avevate in mente di fabbricare del cioccolato, ma che non avete la patente. Ebbene, io la patente ce l'ho, e vengo perciò ad avvertirvi in via amichevole ch'è inutile da parte vostra continuare in una
concorrenza in cui siete sicura di perdere.» «Vi sono molto obbligata della vostra attenzione, signore,» rispose lei, «ma se voi siete talmente sicuro di vincere non capisco perché veniate a trovarmi, perché rischiate invece di tradirvi mostrandomi una parte delle vostre armi, e, forse, la debolezza dei vostri progetti.» Il giovane sussultò, sconcertato. Osservò più attentamente la sua interlocutrice e un sorriso gli stese le labbra, poste in rilievo da sottili baffetti bruni. «Dio, come siete bella, amica mia!» «Se aprite il fuoco in tal modo, mi chiedo quale battaglia siete venuto a ingaggiare,» disse Angelica, non riuscendo a trattenere un sorriso. Audiger gettò il mantello e il feltro su una tavola e sedette di fronte ad Angelica. Pochi istanti dopo, erano diventati quasi amici. Audiger aveva una trentina d'anni. La sua lieve grassezza non nuoceva alla sua bella figura. Come tutti i dispensieri a servizio di un gran signore, egli portava la spada ed era abbigliato altrettanto bene del suo padrone. Raccontò che i suoi genitori erano piccoli borghesi di provincia abbastanza agiati, i quali gli avevano permesso di fare qualche studio. Egli aveva acquistato una carica di dispensiere nell'esercito e, dopo alcune campagne, si era divertito a ottenere il diploma di cuoco. Quindi, per completare le sue conoscenze, si era recato due anni in Italia, per studiare le specialità di sorbetteria e dolceria, i gelati e anche il cioccolato come bevanda, confetti e pastiglie. «Fu al mio ritorno dall'Italia, nel 1660, che ebbi la buona fortuna di piacere a Sua Maestà, in modo che il mio avvenire è ormai assicurato. Ecco per quale motivo: mentre attraversavo la campagna nei dintorni di Genova, notai nei campi degli stupendi piselli. Eravamo a gennaio. Ebbi l'idea di farli raccogliere e mettere in casse e, quindici giorni dopo, trovandomi a Parigi, li presentai al re per mezzo del signor Bontemps, suo primo cameriere. Sì, mia cara, non c'è da guardarmi con quegli occhi sbarrati. Ho veduto il re da vicino ed egli mi ha intrattenuto con grande bontà. A quanto ricordo, Sua Maestà era accompagnato da Monsieur, dal signor conte di Soissons, dal signor maresciallo di Gramont, dal marchese di Vardes, dal conte di Noailles e dal signor duca di Créqui. Quei principi esclamarono, tutti d'accordo, alla vista dei piselli, che non avevano mai visto nulla di più bello. Il signor conte di Soissons ne sbucciò alcuni dinanzi al re, il quale, dopo avermi testimoniato la sua soddisfazione, mi ordinò di portarli al signor Beaudoin, maggiordomo addetto ai cibi, e dirgli di usarne una parte
per fare un piattino per la regina madre, uno per la regina, uno per il signor Cardinale, che stava ancora al Louvre, e conservasse il resto per lui, che lo avrebbe mangiato quella sera assieme a Monsieur. Nello stesso tempo, Sua Maestà ordinò al signor Bontemps di farmi dare un regalo in denaro, ma io lo ringraziai. Allora Sua Maestà insistette e disse che mi avrebbe accordato ciò che avessi chiesto. Due anni dopo, avendo realizzato una certa fortuna, gli presentai la mia richiesta chiedendo l'autorizzazione di aprire una gelateria che avrebbe distribuito, fra gli altri prodotti, anche il cioccolato.» «Perché non siete ancora installato?» «Adagio, bella mia. Queste cose hanno bisogno di maturare. Ma ultimamente il cancelliere Séguier, dopo aver esaminato la mia lettera-patente reale, mi ha promesso di registrarla apponendovi il sigillo reale e la sua firma per renderla subito esecutiva. Come vedete, amica bella, con tale esclusività di vendita non vi sarà facile superarmi, anche supponendo che otteniate una patente analoga.» Nonostante la simpatia che la gaia franchezza del visitatore le ispirava, la giovane donna provava una vera delusione. Fu sul punto di contraddirlo con forza e di abbassare un poco la sua superbia rivelandogli che anch'ella, o piuttosto il giovane Chaillou, era in possesso di una simile esclusività, che aveva il vantaggio di essere stata registrata anteriormente. Ma si trattenne a tempo dallo svelare le sue carte. Uno dei due documenti poteva non essere valido; avrebbe dovuto informarsi ancora presso le corporazioni e il podestà dei mercanti. Siccome non s'intendeva molto di quelle storie di corporazioni, decise di usar prudenza di fronte a quel concorrente che aveva su lei il vantaggio della ricchezza, delle sue alte relazioni, e una sicura conoscenza del mestiere. Dopo aver respirato come se stesse per tuffarsi in acqua, disse insidiosamente: «Supponendo che lanciate il vostro cioccolato, a quale corporazione pretendete appartenere?» «A nessuna, dato che ho un'autorizzazione reale speciale.» «Buono a sapersi, perché la stessa cosa dev'essere per il documento di David,» disse subito fra sé la giovane donna, che però riprese ad alta voce: «Padron Bourgeaud, ch'è mio parente e che vi presenterò appena tornerà dal mercato, ha dovuto acquistare per il nostro commercio una lettera-
patente di trattore al semplice scopo di poter servire ai clienti pesce nei giorni di magro o di grasso. Perciò avevamo pensato che, arrangiandoci con le corporazioni, avremmo potuto ottenere le lettere-patenti riguardanti quei mestieri.» Audiger alzò al cielo gli occhi e le mani. «Mia cara ragazza, in quali guai vi sareste cacciata! Supponendo che poteste assumervi simili spese, dovreste poi pagare ogni volta tutti i revisori giurati del re. Vi rovinereste e vi passereste tutto il vostro tempo.» «Che bisogna fare, allora?» «Nulla, dato ch'io solo ho l'autorizzazione per vendere il cioccolato.» «Oh, questo è troppo,» esclamò Angelica pestando i piedi, «non siete gentile, signore, a contrariare in tal modo i capricci di una donna. E se desidero pazzamente, io, vendere del cioccolato, e se sogno di trovarmi in mezzo a giovani dame golose, alle quali reco tazze profumate...» «Allora, è semplicissimo.» «Come? Se poco fa dicevate ch'era molto complicato, anzi impossibile?» «Accidenti alle donne che ragionano! Si direbbe che frequentiate il salotto della signorina di Scudéry. Confesso che non mi dispiace andarvi di tanto in tanto, ma non conosco nulla di più spiacevole di quelle donne che pretendono di possedere un cervello mentre, da quando il mondo è mondo, si sa di preciso che non ne hanno. Ma torniamo a noi. Se ci tenete assolutamente a vendere cioccolato, c'è un modo alquanto semplice di realizzare questo sogno: sposatemi!» Si udì in cucina un grido soffocato, poi un rumor di piatti rotti. La porta si apri spinta con violenza e apparve David che si tirava le maniche sui magri bicipiti. Audiger non parve rendersi conto di che cosa volesse quello sguattero. «È vostro fratello?» «No, è il nipote di padron Bourgeaud e già cuoco eccellente.» «Non sembra molto grasso, per essere un cuoco... e per nulla socievole. Perché si ostina a mostrarmi i pugni?...» E Audiger posò con noncuranza la mano sull'impugnatura della spada. «Non avete il coraggio di battervi solo con le mani, eh?» gridò David con la sua voce di falsetto. Ma il maggiordomo seguitò a sorridere, impassibile. «Suvvia, David, basta con queste sciocchezze! Di che t'impicci?» fece severamente Angelica. Il povero ragazzo lasciò ricadere le mani e la sua espressione fu quella di
un bambino rimproverato. Ma non si decideva ad andarsene e alla fine brontolò: «A mio zio non piacciono i clienti che non consumano e fanno perdere tempo.» «Hai ragione, ragazzo mio. Portaci dunque una brocca di buon vino.» «Questa non è un'osteria. Ci si viene per mangiare.» «Verso che ora?» «Non prima delle otto, in questa stagione.» «In altre parole, mi metti alla porta. Va bene, non litighiamo. Tornerò.» Audiger si alzò in piedi, gettandosi sulle spalle il mantello con gesto elegante. Sorrise ad Angelica, la quale pensò ch'egli aveva belle labbra carnose e ben disegnate. «Ma tornerò, bella ostessa... a prendere la risposta. È una cosa seria, credetemi. Pensateci bene!» Angelica ostentò di riderci sopra. «Come potete essere così imprudente? Non sapete nulla delle mie qualità di padrona di casa.» «So che in cucina siete una fata e, del resto, ciò non avrebbe importanza, perché anch'io sono cuoco. E per il resto, be', credo che me ne contenterei,» rispose lui gaiamente, lasciandola con un gran saluto cortigianesco. La sera, Angelica attese che l'ultimo cliente se ne fosse andato, per poter mettere il padrone al corrente della visita di Audiger. «Per quanto egli afferrai che la cosa è imminente, non possiede ancora la relativa lettera-patente. Ho ben riflettuto e credo che non vi sia un minuto da perdere. Siete d'accordo che...» «Certo che sono d'accordo!» esclamò il rosticcere agitando le corte braccia. «Se anche non lo fossi, che cosa cambierebbe?» «Mi lasciate libera di agire a mio talento?» «Forse che hai agito qualche volta diversamente? Agisci, figlia mia, agisci. Sai bene che, a me, tutti questi grandi progetti mi agitano e mi preoccupano. La cosa finirà male, lo sento.» «Si può anche non riuscire, ma tentar non nuoce.» «Tenta, figlia mia, tenta.» E siccome era il suo turno di guardia al Castelletto, andò a prendere le armi. Angelica gli chiese se poteva restare a dormire alla rosticceria, nella camera che aveva abitato prima di trasferirsi in via dei Franchi Borghesi. Era
tardi e si sentiva assai stanca. " «Ma certo, resta pure. La casa è tua... tutto è tuo...» «Padron Bourgeaud,» disse Angelica rattristata, «mi parlate come se la mia presenza vi desse fastidio, e...» Il rosticcere si mise a ridere e le pizzicò la gota. «Tu sei il sole della mia dimora, ma io sono un vecchio papà burbero. Buon Dio, dovresti conoscermi, ormai!» Ella lo guardò con un sorriso indulgente mentre si allontanava con in una mano l'alabarda e, nell'altra, la lanterna. Poi mise le imposte, chiuse tutte le serrature e salì al primo piano. Dopo una rapida toeletta, stanca e con il mal di testa, si coricò sospirando soddisfatta. Ma il sonno stava appena invadendola che un passo fece scricchiolare i gradini delle scale. La porta si aprì e la luce tonda di una candela precedette la figura sgangherata di David. «Signora Angelica?» Ella si mise a sedere. «Che cosa c'è? Che vuoi?» La luce trasaliva stranamente. David tremava in tutte le membra. «Non è vero, no? Voi non lo, non lo sp... Non vi mariterete con lui?...» Angelica sbadigliò. «Ah! È questo che ti tormenta, mio povero David? Non hai dunque capito niente, scioccone! Quel signore è bello, ricco, crede di essere irresistibile e cerca di dirmi paroline dolci per addormentarmi e per riuscire nel suo affare. Ma non perde nulla, ad aspettare. Domani andremo insieme, io e tu, alla prepositura dei mercanti per sapere esattamente la validità della lettera-patente, e poi faremo valere i suoi diritti di priorità.» «Allora... è... è vero? Non era sul serio? Quel giovane non vi è piaciuto?... Lo guardavate con un sorriso!...» «Bisognava pure che addormentassi i suoi sospetti. E poi, con quale diritto mi giudichi, del resto? Da quando sono qui, ti sei mai accorto ch'io abbia avuto una sola avventura? Con il lavoro della rosticceria e le cure per i miei figli, credi che abbia anche il tempo da perdere in sciocchezze?...» L'adolescente si accostò lentamente al letto e posò il candeliere sul tavolino da notte. Poi sospirò come uno che torni alla superficie dell'acqua. «Come sono felice!» disse estatico. «Solo al pensiero che quell'uomo potesse posarvi la mano sulla vita, mi sentivo impazzire.» Chiuse gli occhi, parve cercare qualche cosa e disse:
Ella ha cinque strumenti di cui sono innamorato: I due primi le mani, gli altri due gli occhi Per l'ultimo e quinto che resta Bisogna esser galante e lesto... «Oh, David!» esclamò Angelica soffocando dal ridere, «dove sei andato a prendere queste licenziosità da salotto?» «È stato il Poetastro a farmi questo poema. Gli chiedevo come avrei potuto farvi capire che vi amavo. Ma voi ridete,» gridò il povero giovane con voce acuta, «mi prendete in giro!...» «Zitto! Sveglierai il vicinato! Rido perché sei uno scioccone. Tu sai bene, come tutti, che quel Poetastro è un burlone e un sudicione. Suvvia, tornatene a letto.» Ma David fece un passo innanzi e si chinò su lei. La luce della candela scavava grandi ombre nel suo volto, che s'era fatto duro perdendo ogni espressione infantile. Macchinalmente, ella rimise a posto la spallina della camicia, che le era scivolata sul braccio. «Vi amo,» disse lui con voce densa e bassa. «Non v'è una donna più bella di voi. La notte, sogno che poso la mano sul vostro petto, le labbra sulle vostre labbra. Vorrei trovarmi in questo letto con voi, stringere fra le braccia il vostro corpo fino a farvi gridare, e mi sembra allora che accadrebbe qualche cosa di talmente meraviglioso da farmi morire di gioia...» «Mica male,» disse fra sé Angelica. «Anzi, è abbastanza bello. Questi meridionali hanno un naturale lirismo che non si potrà mai negar loro... Ma dovrò forse battermi con questo bietolone di diciassette anni?» Intanto, i lineamenti di David s'erano di colpo contratti. Egli fece una smorfia. Un'espressione di angoscia trasformò il suo viso ed egli si abbandonò singhiozzando sull'orlo del letto. «Oh! non arrabbiatevi, ve ne supplico! Non so che cosa ho... Divento pazzo! Sono malato, vero?» Angelica sorrise, e avanzando la mano accarezzò maternamente i duri capelli del giovane. «Ma no, non sei malato. Anzi, è una cosa normale. Sei diventato un uomo. Forse non ancora del tutto... Sei mai ancora stato con una donna, David?» L'adolescente volse via il capo per nascondere un rossore che Angelica ben difficilmente avrebbe potuto distinguere nella penombra.
«No,» disse trucemente, «io non amo le donne. Mi fanno paura.» «E io? Io che ti perseguito tutto»il giorno, che ti spingo e ti ingiurio, non ti faccio paura?» «Sì, un poco, specie quando mi guardate in un certo modo. Però mi sembra che voi non sareste né beffarda, né cattiva... Da quando mi baciaste...» «Io, ti ho baciato?» «Sì, il giorno in cui sapeste che ero di Tolosa. Ebbene, quel giorno capii che voi eravate anche buona. E ho pensato che avreste potuto insegnarmi...» «Che cosa potrei insegnarti, David?» Egli soffiò, con uno sguardo che si dilatava posandosi su lei. «Questo... quella cosa meravigliosa...» «L'amore? Così come ti ho insegnato la cucina? No, ragazzo mio. Vedi, queste cose s'imparano con una ragazzina della propria età, o al contrario... Insomma, io non sono più né abbastanza giovane né abbastanza vecchia per una simile parte!» «Non volete?» gridò lui col suo timbro acuto. Angelica era imbarazzata. Doveva confessare a se stessa che la violenza di un desiderio così primitivo, così nuovo, riusciva un poco a turbarla. In altre circostanze, si sarebbe forse lasciata tentare alla novità di quel ruolo d'iniziatrice, ma, per il momento, non sapeva come far comprendere a quel giovincello inesperto che nella vita delle donne vi sono giorni nefasti in cui la più ardente cortigiana si trova nell'obbligo di mostrarsi crudele. Una volta di più il povero David aveva il destino contrario. «Ascolta,» decise allora; «credo che tu ti faccia molte illusioni sul sentimento che io ti ispiro. In verità, ti accorgerai presto che, di notte, in un letto, spenta la candela, tutte le donne si somigliano. Ma ciò che ti manca è, appunto, non sapere in che cosa somigliano. Dammi dunque il mio mantello, là, sulla sedia, e lascia che mi alzi.» Andò al tavolino, scrisse alcune parole su un foglio di carta, vi unì cinquanta scudi e consegnò tutto a David. «Ecco! Adesso esci, attraversa il Ponte del Cambio, vai in via Glatigny. Bussa alla terza casa, sulla tua destra, dove c'è una lanterna rossa, vicino a un San Nicola in legno dipinto. Chiedi di parlare con una donna chiamata la Polacca. Le dirai che vieni da parte di Angelica. Essa non sa leggere ma Bel Ragazzo lo farà per lei e i cinquanta scudi le faranno capire di che si tratta e che deve trattarti come un signore. Va', ragazzo mio, e non aver ti-
more. Suvvia, scappa. Comincio ad aver freddo, con i piedi per terra.» Egli si lasciò spingere fuori a testa bassa. Siccome aveva l'abitudine di obbedirle, lo udì lasciare la casa e, dalla finestra, lo vide attraversare il Ponte del Cambio, inondato dal chiaro di luna. «Non è molto morale quel che ho fatto,» disse fra sé Angelica ricoricandosi, «ma è caritatevole. E, quanto a me, come direbbe la nostra vicina, la zia Alice, non ho tempo da perdere in cose superflue.» 7 L'indomani mattina, Angelica, per pudore, evitò di far domande al giovane Chaillou. Vide tuttavia che aveva l'aria soddisfatta, per quanto il suo fiato e i suoi occhi indicassero ch'egli aveva bevuto in quella serata alla valle d'amore più che nel resto dell'anno. Come gli aveva promesso, ella si recò con lui alla prepositura dei mercanti, dove furono ricevuti da un grassone in sudore, dal colletto più o meno sudicio, il quale confermò che la lettera-patente rilasciata al giovane Chaillou era valida, a condizione tuttavia di pagare nuovi diritti. Angelica obiettò: «Ma per la nostra rosticceria noi abbiamo già rinnovato il pagamento della carica di rosticcere, di cuoco e, infine, di trattore, per avere il diritto di friggere noi stessi il pesce. Perché dovremmo pagare ancora per servire una bevanda non alcolica?» «Avete ragione, ragazza mia, perché questo mi fa pensare che, oltre ai consoli di spezieria che la questione concerne, dovrete anche indennizzare le sottocorporazioni della caffetteria. Se tutto va bene per voi, avrete il privilegio di pagare due patenti supplementari: una alla corporazione di seconda classe, quella della spezieria; l'altra a quella di terza classe della caffetteria.» Angelica tratteneva a stento la propria indignazione. «E non ci sarà altro?» «Oh! no,» rispose quegli compunto. «Non parliamo, beninteso, delle corrispondenti tasse reali, né di quelle dei consoli visitatori, né dei misuratori per il controllo del peso e della qualità...» «Ma come potete pretendere di controllare questo prodotto, dal momento che neppure lo conoscete?» «La questione non è qui. Questo prodotto è una merce e tutte le corporazioni da cui dipende debbono averne il controllo e la loro parte di benefi-
cio. Poiché il vostro cioccolato è, come dite, una bevanda drogata, dovete avere presso di voi un mastro speziale e anche un mastro caffettiere, rimunerarli largamente, alloggiarli, pagare il prezzo della maestranza della nuova impresa commerciale nei confronti di ciascuna delle corporazioni. E, siccome non mi avete l'aria "spartitrice", vi prevengo subito che vigileremo dappresso a che siate in regola.» «Ciò significa esattamente che cosa?» domandò Angelica assumendo la sua aria più audace, i pugni sui fianchi. Ma questo divertì i seri mercanti e uno di loro, più giovane, credette doverle spiegare: «Ciò significa che, entrando nella corporazione per mezzo dell'ammissione di due nuovi mastri di mestiere, vi impegnate per ciò stesso ad ammettere anche che questo nuovo prodotto possa esser messo in vendita presso tutti i vostri colleghi speziali e caffettieri, supponendo che questa strana cosa piaccia ai clienti, naturalmente.» «Non si potrebbe essere più incoraggianti di voi, signori. Grazie! Sicché, noi dovremmo fare tutte le spese, assumere nuovi mastri con la loro marmaglia, fare la propaganda, asciugare i muri, come si dice, e poi, o ci roviniamo, oppure dividiamo il beneficio dei nostri sforzi e del nostro segreto con coloro che non hanno fatto nulla per aiutarci?» «Che avranno, al contrario, fatto tutto, bella mia, accettandovi e non ostacolando il vostro commercio.» «Insomma, è una specie di pedaggio che voi reclamate?» Il giovane console cercò con le buone di calmarla. «Non dovete dimenticare che le corporazioni hanno crescente bisogno di denaro, dato che certo sapete, essendo voi stessa commerciante, che a ogni nuova guerra, vittoria o nascita reale o anche principesca, ci si fa riacquistare un'altra volta i nostri privilegi faticosamente acquisiti. E, per di più, il re ci rovina fabbricando ad ogni occasione, o anche senza occasione, nuove maestranze o cariche, un po' sul genere di quella che voi ci presentate in nome di questo signor Chaillou...» «Il signor Chaillou sono io,» fece notare l'apprendista, «o almeno lo era mio padre, signori, dato ch'egli è morto, e vi assicuro che dovette pagar salata la sua patente.» «A proposito, giovanotto, voi non siete in regola con noi: anzitutto, non siete e non sarete mai mastro speziale, e la nostra corporazione non ha dunque riscosso nulla da voi.» «Ma poiché suo padre apporta una scoperta alla vostra corporazione...»
prese a dire Angelica. «Dimostratecelo dapprima a vostre spese, poi impegnatevi anche a farcene beneficiare.» «Ma la corporazione non ha fatto proprio nulla né per questo giovane, né per suo padre!» «Allora, se non apportate niente, la corporazione neppure potrà accettarvi.» «In fondo, è proprio necessario?» disse brevemente Angelica. «Poiché questo giovane ha, da parte del re, il privilegio unico di fabbricare e di vendere questo prodotto, e poiché suo zio ed io stessa, siamo decisi a dargli i fondi necessari e a dirigere questo affare, non vedo perché saremmo obbligati a subire le vostre esigenze.» Dalla rapida occhiata che i consoli si scambiarono, ella comprese di aver toccato il punto debole della fortezza delle corporazioni, di cui quelli ch'essi chiamavano i «capricci» del re disorganizzavano le leggi stabilite da quasi quattro secoli. Il giovane mercante disse vivamente: «Non fate la furba, bella mia, e non crediate di poterci sfidare impunemente. Vi farò d'altronde notare che, rimanendo in seno alla corporazione, beneficiate di protezione e di importanti vantaggi.» «Quali? Volete almeno assicurarmi che i mercanti dell'acqua non porranno ostacoli alla venuta dei miei semi e delle spezie, e non reclameranno anch'essi la loro parte? Potete assicurarmi, se divido con voi il segreto di questa novità, che neppure i farmacisti se ne immischieranno, oppure i medici, i quali pretendono che il cioccolato è un prodotto di prima forza medicamentosa?...» «Per questo, potete star tranquilla, ragazza mia. I medici e i farmacisti non sono mai d'accordo.» Ma l'altro console intervenne: «Questa volta, invece, ho sentito dire che la facoltà di medicina approvava il cioccolato e che raccomandava ai farmacisti di approvvigionarsene.» «In tal caso, ragazza mia, il vostro affare si complica, perché la corporazione degli speziali non può incaricarsi della distribuzione di un medicamento.» Ad Angelica parve che la testa le scoppiasse, ed emise un profondo sospiro. Si congedò dicendo che avrebbe riflettuto sugli inestricabili arcani
delle amministrazioni mercantili e d'esser sicura che, la prossima volta, avrebbero ancora trovato un eccellente motivo per impedirle di fare qualche cosa di nuovo. Sulla via del ritorno, si rimproverava di non essere stata prudente lasciando vedere il suo nervosismo. Ma già aveva capito che, anche con i sorrisi, non sarebbe riuscita a nulla, con quella gente. Aveva ragione Audiger, affermando che, con l'autorizzazione del re, avrebbe fatto a meno della protezione delle corporazioni e se ne sarebbe trovato certamente meglio. Ma egli era ricco e aveva appoggi potenti, mentre Angelica ed il povero David si trovavano piuttosto disarmati di fronte all'ostilità dei mestieri. Chiedere la protezione del re per quella prima patente, accordata cinque anni prima, le pareva delicato e difficile. Cominciò a cercare il mezzo per intendersi con Audiger. Dopo tutto, invece di combattersi, non sarebbe stato meglio riunire i loro sforzi e dividersi il lavoro? Angelica, con la sua patente e il materiale necessario, avrebbe potuto incaricarsi di far giungere i semi di cacao e di ridurli adatti al consumo, cioè fino alla fabbricazione della polvere zuccherata e cannellizzata o vanigliata. Il maggiordomo avrebbe potuto trasformarla in bevanda e in ogni specie di dolciumi. Durante la loro prima conversazione, ella si era resa conto che il giovane non aveva ancora seriamente pensato alle fonti di approvvigionamento. Rispondeva con noncuranza che «la cosa non presentava alcuna difficoltà», «che c'era tempo di pensarci», che ne avrebbe avuto quanto ne voleva «da suoi amici». Ora, dalla nana della regina, Angelica sapeva che far venire in Francia alcuni sacchi di cacao necessari alla golosità di Sua Maestà, rappresentava una vera e propria missione diplomatica, necessitando di numerosi intermediari, di relazioni alla corte di Spagna o a Firenze... Non era così che si poteva pensare all'approvvigionamento di consumo corrente, e, sino allora, solo il padre di David sembrava essersene preoccupato seriamente. Audiger tornava spesso alla taverna della «Maschera Rossa». Al modo del «ghiottone» Montmaur, sedeva a un tavolo a parte, sempre solo, ed evitava visibilmente il prossimo. Dopo inizi assai intraprendenti e burlevoli, s'era fatto taciturno d'un subito e Angelica non poteva fare a meno di sentirsi un po' offesa perché quel collega già famoso non le faceva nessun
complimento sulla sua cucina. Egli, del resto, mangiava di malavoglia e non abbandonava con gli occhi Angelica che andava su e giù per la sala. Lo sguardo serio e tenace di quel bel ragazzo ben fatto e sicuro di sé finiva con l'intimidire la giovane donna, che rimpiangeva i loro scherzi del primo giorno e non sapeva come abbordare l'argomento che le stava a cuore. Audiger si era senza dubbio reso conto ch'ella sarebbe stata più difficile da eliminare come concorrente di quanto pensasse, e la sorvegliava? Spingeva anzi la sorveglianza un po' lontano perché varie volte, durante le passeggiate che tutta la famiglia faceva la domenica in campagna, si vide spuntare Audiger a cavallo che, fingendo di riconoscerli, s'invitava cordialmente a dividere la loro colazione sull'erba. Come per caso, aveva nelle sacche della sella un pasticcio di lepre e una bottiglia di champagne. Oppure lo si incontrava sul battello che conduceva a Chaillot per il fiume, o nella vettura pubblica di Saint-Cloud in cui i suoi nastri, le sue piume e le sue vesti di stoffa pregiata facevano una strana figura. Era estate e la domenica, all'alba, tutte le strade principali intorno a Parigi erano affollate, nel giro di una lega e più, da persone in carrozza, a cavallo e a piedi, che correvano a prendere l'aria e a godersi il cielo azzurro, gli uni nelle loro case di campagna, gli altri nei villaggi all'intorno. Si ascoltava la messa in una chiesetta, si andava a ballare sotto l'olmo con i contadini, si gustavano i vini bianchi, i chiaretti di Vanves, d'Issy e di Suresnes. E il Poetastro, una volta tanto meno amaro, celebrava in una canzone l'eterno bisogno di evasione dei parigini: Di festa, se il giorno è bello, Parigi trabocca come acqua, La terra appare coperta Di gente seduta sull'erba. Papà Bourgeaud e tutti i suoi seguivano il movimento. «A Chaillot! A Chaillot! Andiamo, un soldo a persona,» gridavano i battellieri. L'imbarcazione passava dinanzi al corso della Regina, al convento dei Bonshommes2 e più oltre si sbarcava per andare a far colazione nel bosco di Boulogne. A volte, i battelli conducevano fino a Saint-Cloud. E tutti correvano a 2
Attuale Trocadero.
Versailles per vedere il re che mangiava. Ma Angelica rifiutava quella passeggiata. Si era ripromessa che sarebbe andata a Versailles solo se ricevuta a corte dal re. Era un giuramento fatto a se stessa. Come dire che non sarebbe mai andata a Versailles. Tanto peggio! Se ne rimaneva sulla riva della Senna con i suoi due figlioletti inebriati d'aria pura. Scendeva la sera. «A Parigi! A Parigi! Andiamo, un soldo a persona!» gridavano i battellieri. David e il galante di Rosina, figlio di un rosticcere che doveva sposare in autunno, prendevano sulle spalle i bambini. Alle porte della città, s'incontravano reggimenti di ubriachi. L'indomani di una bella passeggiata, Audiger uscì di colpo dal suo riserbo e disse ad Angelica: «Più vi osservo e più mi lasciate perplesso, mia bella amica. C'è in voi qualche cosa che mi turba...» «A proposito del vostro cioccolato?» «No... o piuttosto sì... indirettamente. Da principio ho creduto che foste fatta per le cose del cuore... ed anche dello spirito. E poi m'accorgo che in realtà siete molto pratica, persino materiale, e che non perdete mai la testa.» «Lo spero bene,» pensò lei, limitandosi a sorridere nella maniera più affascinante. Poi disse: «Nella vita, vedete, ci sono periodi in cui si è obbligati a fare intieramente una cosa, poi un'altra. In certe epoche, è l'amore che domina, in genere quando l'esistenza è facile. In altre, è il lavoro, uno scopo da raggiungere. Non vi nascondo perciò che per me la cosa che più m'interessa attualmente è di guadagnare denaro per i miei figli di cui... di cui il padre è morto.» «Non vorrei essere indiscreto, ma, dal momento che volete parlarmi dei vostri figli, credete che in un commercio faticoso come questo, e soprattutto così poco conciliabile con una vera esistenza familiare, voi riuscireste ad allevarli e a renderli felici?» «Non ho scelta,» rispose Angelica duramente. «E poi, non debbo lamentarmi di padron Bourgeaud, ed ho trovato presso di lui una situazione insperata in rapporto alla mia modesta condizione.» Audiger tossicchiò, giocherellò un momento con le nappine del bavero e disse con voce esitante: «E... e se io vi dessi la possibilità della scelta?»
«Che volete dire?» Lo guardò e scorse nei suoi occhi castani una contenuta adorazione. Il momento le parve ottimo per spingere oltre i negoziati. «A proposito, avete avuto la patente?» Audiger sospirò. «Vedete bene che siete interessata e neppure lo nascondete. Be'! a dirvi la verità, non ho ancora il timbro della cancelleria e non credo di poterlo avere prima di ottobre perché, con il caldo, il presidente Séguier si trova nella sua casa di campagna. Ma, dopo, tutto si farà rapidamente, avendo io stesso parlato del mio affare al signor conte di Guiche, genero del cancelliere Séguier. Come vedete, fra poco non avrete più alcuna speranza di diventare una bella cioccolataia... a meno che...» «Già... a meno che...» disse Angelica. «Statemi a sentire.» E senza complimenti lo mise a parte delle proprie intenzioni. Gli rivelò di possedere una patente anteriore alla sua, con la quale avrebbe potuto causargli «delle noie», ma il meglio sarebbe stato di mettersi d'accordo. Ella si sarebbe incaricata della fabbricazione del prodotto, lui lo avrebbe preparato. E, per aver parte nel beneficio della cioccolateria, Angelica lo avrebbe aiutato e proponeva di metterci dei capitali. «Dove contate d'installare la cioccolateria?» «Nel quartiere di Sant'Onorato, vicino alla Croce del Trahoir. Ma questa storia non sta in piedi!» «Sta in piedi perfettamente, e voi lo sapete bene. Il quartiere di Sant'Onorato è eccellente. Il Louvre è vicino, il Palazzo Reale anche. Non ci vorrebbe una bottega che sembri una taverna o una rosticceria. Ma già vedo bei quadrelli bianchi e neri, specchi e intarsi dorati, e, dietro, un giardino con pergole a grate come nel recinto dei Celestini... pergole per innamorati.» Il maggiordomo, che le spiegazioni di Angelica avevano messo di malumore, spianò un poco il volto a quest'ultima descrizione. «Siete davvero incantevole, quando vi abbandonate così alla vostra natura impetuosa, amica mia. Amo la vostra gaiezza e il vostro fuoco, cui sapete unire una giusta modestia. Vi ho osservata attentamente. Voi avete la parola facile, ma i vostri costumi sono onesti e ciò mi piace. Quel che mi urta in voi, non Io nascondo, è il vostro spirito troppo pratico e il vostro modo di voler trattare da pari a pari con uomini esperti. La fragilità delle donne mal s'accorda con un tono perentorio, con maniere ruvide. Esse
debbono lasciare agli uomini la cura di dibattere queste questioni in cui i loro cervellini si perdono e si confondono.» Angelica sbottò a ridere. «Mi immaginavo padron Bourgeaud e David discutere di queste questioni!» «Non si tratta di loro.» «E allora? Non avete ancora capito che io sono sola per difendermi?» «Precisamente, vi manca un protettore.» Angelica fece orecchio da mercante. «Andiamo adagio, padron Audiger. In verità, voi siete un cattivo geloso che volete bere da solo il vostro cioccolato. E siccome quello che vi dico vi mette in forte imbarazzo, cercate di cavarvela con discorsi sulla fragilità delle donne. In realtà, nella guerricciola che ci combattiamo, la soluzione che vi propongo è ottima.» «Ne conosco una cento volte migliore.» Sotto il pesante sguardo del giovane, Angelica non insistette. Gli tolse il piatto, pulì la tavola e chiese che cosa volesse per pietanza. Ma mentre si allontanava verso la cucina, egli si alzò e la raggiunse con due passi. «Angelica, amica mia, non siate crudele,» supplicò. «Accettate di venire sola con me a passeggio, domenica prossima. Vorrei parlarvi seriamente. Potremmo andare al mulino di Javel. Mangeremmo un pesce alla marinara e poi cammineremo per i campi. Volete?» Le aveva posato una mano sul fianco. Ella sollevò lo sguardo, attratta da quel fresco volto, soprattutto dalle labbra fortemente disegnate sotto le scure virgole dei baffi. Labbra che dovevano essere elastiche sotto i baci, prima di aprirsi, che dovevano imporsi, esigenti, alla carne che sfioravano. Un'onda di piacere che non dominò la scosse, e fu con voce malferma che accettò di andare con lui domenica al mulino di Javel... La prospettiva di quella gita agitava Angelica assai più di quanto avrebbe voluto. Invano tentava di ragionare, ogni volta che pensava alle labbra di Audiger e alla sua mano sul fianco, un dolcissimo brivido la percorreva. Da molto tempo non provava una simile sensazione. Riflettendovi, si accorse che da quasi due anni, dopo l'avventura con il capitano della guardia, nessun uomo l'aveva toccata. Be', era per modo di dire, perché quella esistenza monacale s'era svolta in un'atmosfera di sensualità piuttosto difficile da superare; ella non conta-
va più i baci e le libertine carezze che aveva dovuto respingere a schiaffi. Varie volte, nel cortile, era stata assalita da qualche bruto avvinazzato, aveva dovuto difendersi a colpi di zoccolo, chiamare aiuto. Tutto ciò, aggiunto alla prova del capitano della guardia e ai rudi abbracci di Calembredaine, le lasciava un acre ricordo di violenza che aveva raggelato i suoi sensi. Si stupiva di ritrovarne il risveglio, così improvviso e dolce: sarebbe stata assolutamente incapace di prevederlo due o tre giorni prima. Quell'Audiger avrebbe forse approfittato del suo turbamento per farle promettere di non ostacolarlo nei suoi affari? «No,» diceva Angelica a se stessa. «Il piacere è una cosa, gli affari un'altra. Una giornata in buon accordo non può nuocere alla riuscita dei miei progetti futuri.» Per soffocare i rimorsi ch'ella provava sin d'ora di una inevitabile disfatta, si persuase che ve la incoraggiava l'interesse dei suoi affari. Del resto, perché pensare che sarebbe accaduto qualcosa? Audiger si era mostrato sempre perfettamente corretto. Si lisciava con un dito, davanti allo specchio, le lunghe sopracciglia sottili. Era ancora bella? Glielo dicevano, ma il calore della cucina non aveva ancor più scurito la sua pelle naturalmente opaca? «Sono diventata un po' più grassa. Non mi sta troppo male. E poi, questo genere di uomini deve amare le donne grassottelle.» Si vergognò delle sue mani indurite e annerite dal lavoro della cucina e si recò al Ponte Nuovo per comprare dal Grande Matteo un vasetto di unguento per sbiancarle. Tornando indietro per il Palazzo di Giustizia, salì fino alla Galleria dei Merciai e acquistò un collo di pizzo a punto di Normandia, che avrebbe messo intorno al modesto vestito blu verde. Avrebbe avuto così l'aria di una piccola borghese e non di una domestica o di una commerciante. Completò la toeletta con l'acquisto di un paio di guanti e di un ventaglio. Una pazzia! I capelli la preoccupavano. Rinascendo, s'eran fatti più ondulati e biondi, ma non si allungavano. Ricordava con rimpianto la cascata greve e serica che un tempo ella scuoteva sulle spalle. La mattina del gran giorno, li nascose sotto un bel fazzoletto di raso azzurro scuro appartenuto alla moglie di Bourgeaud. Allo scollo portava un cammeo di cornalina e, alla cintura, una borsa ricamata a perle, anch'esse eredità della povera donna. Angelica attese sotto il portone. La giornata prometteva di essere bella.
Il cielo, fra i tetti, era limpido. Quando la carrozza di Audiger apparve, ella si precipitò con l'impazienza di una collegiale il giorno di libera uscita. Il maggiordomo era davvero magnifico. Indossava brache gialle con nastri color fuoco. Il farsetto di velluto camoscio ricamato a piccoli galloni dorati si schiudeva su una camicia pieghettata del più bel lino. I pizzi delle guarnizioni, dei polsi e della cravatta erano sottili come tela di ragno. Angelica li toccò ammirata. «È punto d'Irlanda,» commentò il giovane, «mi sono costati una piccola fortuna.» Sollevò un po' sdegnosamente il modesto collarino della compagna. «Più tardi ne avrete di altrettanto belli, mia cara. Mi sembra che siate capace di portare con grazia la toeletta. Vi vedo benissimo in veste di seta e anche di raso.» «E anche di broccato d'oro,» pensò Angelica stringendo i denti. Ma pochi istanti dopo, allorché la carrozza prese a costeggiare la Senna, ella riprese il suo buonumore. Il mulino di Javel drizzava, fra le greggi della pianura di Grenelle, le sue grandi ali di pipistrello, il cui dolce tic-tac accompagnava i baci e le promesse delle coppie di amanti. Si andava a Javel di nascosto. Un grande fabbricato ad albergo accoglieva la compagnia e il padrone era discreto. «Se non si sapesse tacere in una casa come la nostra,» diceva, «sarebbe un bell'affare! Metteremmo lo scompiglio in tutta la città.» Si vedevano passare asinelli carichi di sacchi panciuti. Aleggiava un odore di farina e di grano caldo, di zuppa di pesce e di gamberi. Angelica respirava con delizia l'aria pura. Piccole nubi bianche passavano nell'azzurro del cielo. Sorrideva loro paragonandole a chiare d'uovo ben sbattute. Guardava di tanto in tanto le labbra di Audiger e assaporava il piccolo, delizioso brivido che subito provava. Non avrebbe cercato di baciarla? Sembrava un po' compassato nei suoi bei vestiti, e tutto preso nel comporre il menu del pranzo con il padrone dell'albergo, assai onorato della sua visita. Nella sala, dove regnava una propizia penombra, altre coppie sedevano a tavola come loro. A mano a mano che le bottiglie di vino bianco si vuotavano, gli atteggiamenti si facevano più liberi. S'indovinavano gesti arrischiati, sottolineati dalle risatine gorgoglianti delle donne. Angelica beveva per ingannare il suo nervosismo, e le gote le divenivano brucianti.
Audiger s'era messo a parlare dei suoi viaggi e del suo mestiere. Ne faceva un elenco preciso, non omettendo né una data, né una ruota d'assale spezzata. «Come potete rendervene conto, mia cara, la mia situazione riposa su basi solide che non consentono più sorprese. I miei genitori...» «Oh! usciamo di qui,» pregò Angelica dopo aver posato il cucchiaio. «Ma è un caldo soffocante!» «Fuori, almeno, c'è un po' di vento... e poi non si vede tutta questa gente che si bacia,» aggiunse a mezza voce. Dinanzi al sole accecante, Audiger protestò che si sarebbe rovinata la pelle. Le pose in testa il suo ampio cappello dalle piume bianche e gialle ed esclamò, come aveva fatto il primo giorno: «Dio, come siete bella, amica mia!» Ma, fatti pochi passi, mentre percorrevano un piccolo sentiero lungo la Senna, egli riprese il racconto della sua carriera. Disse che quando la cioccolateria fosse stata avviata, avrebbe cominciato a scrivere un libro assai importante sul mestiere di credenziere, in cui si sarebbero trovate tutte le indicazioni necessarie per i paggi e i cuochi desiderosi di perfezionarsi nella loro arte. «Leggendo questo libro, il maggiordomo imparerà l'ordine di ben servire una tavola e di sistemarvi i servizi. Egualmente, al dispensiere sarà insegnata la maniera di piegar bene la biancheria, e di fare ogni sorta di marmellate, sia secche che liquide, ed ogni specie di confetti e altre cose buone per tutti. Il maggiordomo vi imparerà che, nell'ora dei pasti, deve prendere un tovagliolo bianco che piegherà per lungo e aggiusterà sulla spalla. Gli farò ben notare che il tovagliolo è indizio del suo potere e il segno dimostrativo e particolare di questo potere. Io sono così. Posso servire con al fianco la spada, il mantello sulle spalle, il cappello in testa, ma sempre il tovagliolo deve essere posto al modo che ho detto.» Angelica fece un risolino beffardo. «E quando fate l'amore, in qual modo lo ponete?» Subito si scusò, dinanzi alla faccia scandalizzata e stupefatta del giovane. «Scusatemi. Il vino bianco mi dà sempre delle idee stravaganti. Ma voi, perché mi avete pregata in ginocchio di venire al mulino di Javel, per parlarmi della posizione dei tovaglioli?...» «Non prendetemi in giro, Angelica. Vi parlo dei miei progetti, del mio mestiere. E ciò quadra con le intenzioni che ho avuto chiedendovi di venire
oggi sola con me. Vi ricordate di una frase che vi dissi il primo giorno che ci vedemmo? Allora, fu quasi uno scherzo: "Sposatemi!" Da allora, ho molto riflettuto e ho capito che voi eravate davvero la donna che...» «Oh!» esclamò lei, «vedo dei pagliai. Andiamoci subito. Si starà meglio che in pieno sole.» Si mise a correre reggendo con la mano il grande cappello e andò a buttarsi, senza fiato, nel fieno tiepido. Facendo buon viso a cattiva sorte, il giovane la raggiunse ridendo e le si sedette accanto. «Pazzerella! Decisamente, mi sconcertate sempre. Credo di parlare a un'astuta donna d'affari, e invece è una farfalla che vola di fiore in fiore.» «Una volta non è sempre. Siate gentile, Audiger, toglietevi la parrucca. Mi fate venir caldo con quella grossa pelliccia sulla testa, e vorrei poter accarezzare i vostri freschi capelli.» Egli fece un piccolo balzo indietro. Tuttavia, dopo un po', si tolse la parrucca e si passò con sollievo le dita nei corti capelli bruni. «Ora tocca a me,» disse Angelica avanzando la mano. Ma egli la trattenne impacciato. «Angelica!... Che vi prende! Diventate davvero diabolica!... E io che volevo parlarvi di cose serie!» La sua mano era sul polso della giovane donna, che ne provava come una bruciatura. Ora ch'egli era così turbato, chino su lei, ella ritrovava la sua emozione. La labbra di Audiger erano belle davvero, la sua pelle era liscia e fresca, bianche le sue mani. Sarebbe stato assai piacevole ch'egli diventasse il suo amante. Ella avrebbe trovato accanto a lui solidi abbracci, sani, quasi coniugali, che l'avrebbero riposata della sua esistenza di lotta e di lavoro. E poi, coricati tranquillamente l'uno accanto all'altro, avrebbero parlato dell'avvenire del cioccolato. «Ascoltate,» mormorò lei, «ascoltate il mulino di Javel. La sua canzone protesta. Non si parla di cose serie alla sua ombra. È proibito... Ascoltate, guardate, il cielo è azzurro. E voi siete bello. E io, io...» Non osò terminare, ma lo fissava arditamente con gli occhi verdi pieni di luce. Le sue labbra dischiuse, un po' umide, il fuoco delle gote, la precipitosa palpitazione dei seni ch'egli intravvedeva nello scollo di pizzo, dicevano più chiaramente delle parole: «Vi desidero.» Egli fece un gesto verso di lei, poi si raddrizzò di colpo e rimase un momento in piedi, girato di spalle.
«No,» disse infine con voce netta. «Voi no. Mi è già accaduto, certo, di prendere nel fieno delle ragazze da soldato o delle serventi. Ma voi no. Voi siete la donna ch'io ho scelto. Sarete mia la sera delle nozze, benedette da un santo prete. È una cosa cui mi sono impegnato in mezzo ai peggiori disordini. Rispetterò colei che sceglierò come sposa e madre dei miei figli. E siete voi quella ch'io ho scelto, Angelica, quasi nel medesimo istante in cui vi scorsi. Mi ero proposto di chiedervi oggi il vostro consenso, ma voi mi avete sconvolto con le vostre maniere stravaganti. Voglio credere che non sia questo il fondo della vostra natura. La reputazione d'essere una vedova incorruttibile è forse esagerata?» Angelica scosse mollemente il capo. Mordicchiava un fiore osservando il giovane di tra le ciglia. Cercava di immaginare la moglie del maggiordomo. Una brava borghesuccia che le gran dame avrebbero salutato con degnazione al Corso della Regina allorché vi sarebbe andata in una modesta carrozza foderata di verde oliva, con le iniziali circondate da un fregio, un cocchiere vestito di scuro e un piccolo lacchè. Invecchiando, Audiger avrebbe messo pancia e si sarebbe fatto rosso in volto. E quando avesse raccontato per l'ennesima volta ai figli o agli amici la storia dei piselli di Sua Maestà, ella avrebbe avuto voglia di ucciderlo. «Ho parlato di voi con padron Bourgeaud,» riprendeva Audiger pensieroso, «ed egli non mi ha nascosto che, se è vero che conducevate una vita esemplare e che eravate ottima lavoratrice, mancavate però di sentimento religioso. È appena se ascoltate la messa della domenica e non assistete mai ai vespri. Ora, la religione è una virtù femminile per eccellenza: l'armatura della sua anima, forzatamente debole, e un pegno della sua buona condotta.» «Che volete farci, non si può essere al tempo stesso religiosi e lucidi, credenti e logici.» «Che dite mai, povera figliola? Sareste per caso eretica? La religione cattolica...» «Oh! ve ne prego,» gridò ella infiammandosi di colpo, «non parlatemi di religione. Gli uomini hanno corrotto tutto ciò che hanno toccato. Di quel che Iddio ha loro donato di più sacro, la religione, essi hanno fatto un guazzabuglio di guerre, d'ipocrisia e di sangue che mi fa venire il vomito. In una giovane donna che ha voglia di essere baciata in un giorno d'estate, penso che Dio riconosca almeno l'opera della sua creazione, visto ch'è stato lui a farla così.» «Angelica, voi perdete la testa. È tempo che vi strappi via da quella so-
cietà di cui avete il torto di ascoltare i discorsi. Io credo in realtà che vi occorra non solo un protettore ma un uomo che vi domini un poco e vi rimetta al vostro posto di donna. Tra vostro zio e quel cretino di suo nipote che vi adorano, vi credete tutta permesso. Siete stata troppo viziata, avete bisogno d'essere ammaestrata...» «Oh! sì, davvero?» rispose Angelica sbadigliando. E si stirò. Quella discussione aveva placato il suo desiderio. Si distese comodamente sul fieno, non senza aver sollevato senza farsi accorgere la lunga gonna sulle caviglie sottili inguainate di seta. «Tanto peggio per voi,» disse. Cinque minuti dopo dormiva. Audiger contemplò con il cuore che gli batteva forte lo svelto corpo abbandonato. Ne osservava ad una ad una tutte le meraviglie che conosceva a memoria, come una litania: fronte di angelo, bocca provocante, bel petto. Ell'era di statura media, ma così ben proporzionata che faceva figura d'esser più alta. Egli non le aveva mai veduto le caviglie, che lasciavano indovinare le gambe ben tornite che le prolungavano, belle gambe di donna che dovevano stringere nervosamente il corpo di colui che se ne fosse reso padrone. Audiger, con la fronte sudata, decise di allontanarsi, fuggendo la tentazione cui si sentiva vicino a soccombere. Angelica sognava di andare per mare in un battello da fieno. Una mano l'accarezzava dicendole: «Non piangere.» Si destò e vide che non c'era nessuno. Ma il sole, calando all'orizzonte, l'avvolgeva nel suo tepore. «Per colpa di quell'idiota di Audiger, eccomi ridotta a folleggiare con il sole,» disse fra sé con un sospiro. In lei s'attardava un certo languore. Si accarezzò le braccia lanuginose. «Le tue spalle sono due palle d'avorio, i tuoi seni sono fatti giusto per la mano di un uomo...» Dov'era andato a finire quel curioso uccello nero, l'uomo del battello da fieno? Diceva parole sognanti e poi a un tratto beffarde. Le aveva dato un lunghissimo bacio. Ma esisteva davvero, poi? Si alzò, scosse le erbe aggrappate al vestito e, raggiungendo Audiger all'albergo del mulino, gli chiese immusonita di riaccompagnarla a Parigi. 8
In quel crepuscolo autunnale, Angelica passeggiava sul Ponte Nuovo. Veniva a comprarci dei fiori e approfittava dell'occasione per vagare di bottega in bottega. Si fermò dinanzi al palco del Grande Matteo e trasalì. Il Grande Matteo stava strappando un dente a un uomo inginocchiato davanti a lui. Il paziente teneva la bocca aperta e slargata dalla tenaglia dell'operatore, ma Angelica ne riconobbe i capelli biondi e radi come paglia di granturco, e il nero mantello logoro. Era l'individuo del battello da fieno. La giovane donna lavorò di gomito per mettersi in prima fila. Benché facesse abbastanza freddo, già il Grande Matteo sudava a goccioloni. «Diavolo, è ben duro, questo qua! Buon Dio, quanto è duro!» Interruppe il lavoro per asciugarsi il sudore, ritrasse lo strumento dalla bocca della sua vittima e gli chiese: «Soffri?» L'altro si volse al pubblico e sorrise scuotendo negativamente il capo. Non v'era alcun dubbio. Era lui, con la sua faccia pallida, la lunga bocca, le smorfie da babbeo stupefatto. «Vedete dunque, signore e signori!» gridò il Grande Matteo. «Non è meraviglioso? Ecco un uomo che non soffre eppure ha i denti duri, credetemi! E per quale miracolo non soffre? In grazia di questo balsamo miracoloso con cui ho unto la sua gengiva prima dell'operazione. In un piccolo flacone, signore e signori, è contenuto l'oblio di tutti i mali. Da me non si soffre, grazie al balsamo miracoloso, e vi si strappano i denti senza che ve ne accorgiate. Suvvia, amico mio, riprendiamo il lavoro.» L'altro aprì prontamente la bocca. Con bestemmie e gran sforzi, il ciarlatano riprese ad applicarsi sulla mascella restia. Alla fine, con un grido di trionfo, il Grande Matteo brandì con la tenaglia il molare recalcitrante. «Ecco fatto! Avete sofferto, amico mio?» L'altro si rialzava, sempre sorridendo. Fece segno di no. «Che dirò di più? Ecco un uomo al supplizio del quale voi avete assistito e che si allontana fresco e giulivo. Grazie al miracoloso balsamo di cui io sono l'unico a usare fra i medici empirici, nessuno esiterà più a sbarazzarsi di quei puzzolenti chiodi di garofano che disonorano la bocca di un onesto
cristiano. Si verrà con il sorriso sulle labbra dal cavadenti. Non esitate più, signore e signori. Venite! La sofferenza non esiste più! La sofferenza è morta!» Il cliente, intanto, s'era messo in testa il cappello a punta e scendeva dal palco. Angelica lo seguì. Desiderava fermarlo, ma si chiedeva se l'avrebbe riconosciuta. Egli percorreva il Lungosenna degli Intirizziti, sotto il Palazzo di Giustizia. A pochi passi dinanzi a sé, ella vedeva fluttuare nella nebbia della Senna la strana e magra sagoma di lui. Pareva, di nuovo, che non fosse reale. Procedeva assai lentamente, si fermava, poi riprendeva a camminare. Ad un tratto scomparve e Angelica mandò un lieve grido. Ma capì che l'uomo era semplicemente disceso per tre o quattro gradini, dal Lungosenna giù sulla riva. Vi si inoltrò senza riflettere e quasi si urtò allo sconosciuto, appoggiato al muraglione. Piegato in due, gemeva sordamente. «Che c'è? Che avete?» chiese Angelica. «Vi sentite male?» «Oh! sto morendo,» rispose lui con voce spenta. «Quel bruto quasi quasi mi strappava la testa. E debbo avere certamente la mascella staccata.» Sputò un filo di sangue. «Ma dicevate di non soffrire!» «Non dicevo niente, come avrei potuto parlare? E il Grande Matteo mi ha pagato bene per fare quella piccola commedia.» Gemette, sputò ancora. Ella credeva che sarebbe svenuto. «Che sciocchezza! Non dovevate accettare una cosa simile.» «Non ho mangiato nulla da tre giorni.» Angelica mise il braccio intorno alla magra vita dello sconosciuto. Era più alto di lei, ma così leggero ch'ella si sentiva la forza di sostenere quella povera carcassa. «Venite, questa sera mangerete bene,» promise. «E non vi costerà nulla. Neppure un soldo... né un dente.» Tornata in albergo, corse in cucina a prendere quel che avrebbe potuto andar bene a una vittima della fame e di un cavadenti. V'era del brodo e una bella lingua di bue con contorno di cetrioli. Gli portò ogni cosa, insieme a un recipiente di vino rosso e a un grande vaso di mostarda. «Intanto cominciate con questo, poi vedremo.» Il lungo naso del povero diavolo palpitò. «O penetrante profumo delle zuppe,» mormorò lo sconosciuto raddrizzandosi come se risuscitasse. «Benedetta essenza delle divinità degli orti!»
Ella lo lasciò, perché potesse saziarsi in pace, Dopo aver dato gli ordini e verificato se fosse tutto pronto per l'arrivo dei clienti, si recò nella retrocucina per preparare una salsa. Era quello un piccolo locale dov'ella si chiudeva quando doveva comporre un piatto particolarmente delicato. Dopo poco, la porta si aprì e il suo ospite passò la testa nel vano. «Dimmi, bellezza, sei proprio tu la sgualdrinella che conosce il latino?» «Sono io... e non sono io,» disse Angelica, che non sapeva se fosse contrariata o lieta d'essere stata riconosciuta. «Sono ora la nipote di padron Bourgeaud, proprietario di questa taverna.» «Cioè a dire, non sei più sotto la sospettosa giurisdizione del signor Calembredaine?» «Dio me ne guardi!» Egli scivolò nel locale, le si accostò col suo passo leggero e, prendendola per la vita, la baciò sulle labbra. «Be'! messere, vedo che siete perfettamente rimesso,» disse Angelica quand'ebbe ripreso fiato. «Lo si sarebbe con meno. È da molto tempo che ti cerco per Parigi, marchesa degli Angeli!» «Zitto!» fece lei guardandosi intorno spaventata. «Non aver timore. Non ci sono guardie in sala. Non ne ho vedute e puoi credermi, le conosco tutte. Allora, sgualdrinella, tu conosci i posticini buoni, a quanto vedo. Ne hai avuto abbastanza dei battelli da fieno? Si lascia un fiorellino pallido, anemico, sudicio di fango, che piange dormendo, e si ritrova una comare grassoccia, ben sistemata... Eppure, sei proprio tu. Le tue labbra sono sempre così buone, ma ora hanno un sapore di ciliege, non più di lagrime amare. Vieni ancora...» «Ho fretta,» disse Angelica respingendo le mani che le volevano imprigionare le gote. «Due secondi di felicità vincono due anni di vita. E poi, ho ancora fame, sai!» «Volete delle frappe e dei dolci?» «No, voglio te. La tua vista e il tuo contatto bastano a saziarmi. Voglio le tue labbra a ciliegia, le tue gote di pesca. Tutto di te è diventato commestibile. Non si può sognar di meglio per un poeta affamato... La tua carne è tenera. Ho voglia di morderti. E hai caldo!... È meraviglioso! L'odore delle tue ascelle mi fa morire di fame...» «Oh! siete impossibile,» protestò lei liberandosi. «Con le vostre dichiarazioni liriche e triviali insieme, mi fate impazzire.»
«È ciò che spero. Suvvia, non far la civetta.» Con un gesto perentorio che provava il ritorno delle sue forze, la riprese contro di sé e, rovesciandole il capo sul braccio, riprese a baciarla. Il colpo di un ramaiolo di legno battuto sulla tavola li separò bruscamente. «Per San Giacomo!» urlava padron Bourgeaud, «questo gazzettiere maledetto, questo ministro di Satana, questo calunniatore, nella mia casa, nella mia cucina, che sta molestando mia figlia! Fuori di qui, furfante, o ti caccio in strada a pedate nel sedere.» «Pietà, messere, pietà per le mie brache! Sono talmente consunte che il vostro augusto piede rischierebbe di provocare uno spettacolo indecente per le dame.» «Fuori, briccone, scribacchino, rosicatore di unghie! Tu disonori la mia bottega coi tuoi stracci bucati e quel cappello da buffone...» Ma l'altro, facendo smorfie, ridendo e tenendosi a due mani il sedere minacciato, era corso fino alla porta di strada. Fece un palmo di naso e scomparve. Angelica disse un po' vilmente: «Quell'individuo è entrato qui e non riuscivo a liberarmene.» «Uhm!» brontolò il rosticcere, «una volta tanto non avevi l'aria così scontenta. Calma, bella mia, non protestare! Non è contro questo che insorgo: un po' di moine di tanto in tanto servono a rallegrare una bella ragazza. Ma, francamente, Angelica, mi deludi. Non vengono forse persone oneste nella nostra casa? Perché andare a scegliere un giornalista?» La favorita del re, la signorina di La Vallière, aveva la bocca troppo grande. Zoppicava leggermente. Si diceva che ciò le donasse una grazia particolare e non le impedisse di ballare stupendamente, ma il fatto era questo: zoppicava. Era senza petto. La paragonavano a Diana, parlavano del fascino degli esseri androgini, ma il fatto era questo: aveva i seni piatti. La sua pelle era arida. Le lagrime causate dalle infedeltà regali, le umiliazioni della corte, i rimorsi, le avevano infossato gli occhi. Diventava magra e secca. Infine, in seguito alla seconda gravidanza, soffriva di un incomodo d'alcova di cui solo Luigi XIV avrebbe potuto svelare i particolari. Ma il Poetastro li conosceva, lui. E di tutte quelle miserie nascoste e conosciute, di quelle disgrazie fisi-
che, egli fece uno stupefacente libello, pieno di spirito, ma di una cattiveria e di una crudezza tali che i borghesi meno pudibondi evitarono di mostrarlo alle mogli, le quali se lo fecero dare dalle loro serventi. Siate zoppa, abbiate quindici anni Niente petto, assai pochi sensi. Genitori? Lo sa Dio. Fate da ragazza inesperta I figli in anticamera, In fede mia, avrete il primo degli amanti, E la Vallière ne è la prova. Si trovarono questi libelli un po' dappertutto a Parigi, a palazzo Biron dove alloggiava Luisa di La Vallière, al Louvre e persino dalla regina che, a quel ritratto della rivale, si mise a ridere per la prima volta dopo molto tempo e si sfregò per la gioia le piccole mani. Ferita, morta di vergogna, la signorina di La Vallière si gettò nella prima carrozza capitatale e si fece condurre al convento di Chaillot, dove voleva prendere il velo. Il re le diede l'ordine di tornare e di mostrarsi alla corte. Mandò a prenderla dal signor Colbert. In quel richiamo v'era meno affetto indignato che furiosa sfida di un sovrano che il suo popolo osava beffare, ma che cominciava a temere che la sua amante non gli facesse onore. I più abili segugi della polizia furono lanciati sulle tracce del Poetastro. Questa volta, tutti erano sicuri che sarebbe stato impiccato. Angelica stava terminando di prepararsi per la notte nella sua stanzetta di via Franchi Borghesi. Giasmina si era ritirata con un inchino. I bambini dormivano. Si udì, fuori, il rumore di una corsa. I passi erano smorzati dal sottile strato di neve che, quella sera di dicembre, s'era messa a cadere lentamente. Alcuni colpi risuonarono alla porta. Angelica infilò la veste da camera e andò a tirare lo spioncino. «Chi è?» «Aprimi, presto, sgualdrinella, presto. Il cane!» Prima di avere il tempo di riflettere, Angelica tirava i catenacci. Il gazzettiere incespicò contro di lei. Nel medesimo istante una massa bianca sorse dall'ombra, balzò e lo prese alla gola.
«Sorbona!» gridò Angelica. Si slanciò e la sua mano trovò il pelo umido del molosso. «Lascialo, Sorbona. Lass ihn! Lass ihn!» Gli parlava in tedesco, ricordando vagamente che Desgrez gli dava ordini in quella lingua. Sorbona ringhiava, le zanne saldamente cacciate nel bavero della vittima. Ma, dopo un istante, la voce di Angelica giunse al suo intelletto. Mosse la coda e consentì a lasciare la preda, pur seguitando a ringhiare. L'uomo ansimava. «Son morto!» «Ma no. Svelto, entrate.» «Il cane resterà dinanzi alla porta e avvertirà il poliziotto.» «Entrate, vi dico!» Lo spinse dentro, poi rimase sotto la vòlta, tirandosi dietro la porta. Reggeva saldamente Sorbona per il collare. All'ingresso del portone, vedeva turbinare la neve nel riflesso di una lanterna. Distinse infine l'avvicinarsi di un passo smorzato, il passo che sempre si udiva dietro il cane, il passo del poliziotto Francesco Desgrez. Ella si fece avanti. «Cercate forse il vostro cane, avvocato Desgrez?» Questi si fermò, poi entrò anch'egli sotto la vòlta. Ella non ne vedeva il volto. «No,» rispose egli con molta calma, «cerco un libellista.» «Sorbona passava. Figuratevi che un tempo lo conobbi, il vostro cane. L'ho chiamato e mi sono permessa di trattenerlo.» «Ne è stato certo felicissimo, signora. Prendevate il fresco sulla porta, con questo splendido tempo?» «Stavo chiudendo la porta. Ma noi parliamo al buio, avvocato Desgrez, ed io sono sicura che non indovinate chi sono.» «Non lo indovino, signora, lo so. Da molto tempo ho indovinato chi abitava questa casa, e siccome nessuna taverna di Parigi mi è sconosciuta, vi ho visto alla "Maschera Rossa". Vi chiamate signora Morens e avete due figli di cui il maggiore ha nome Florimondo.» «Non vi si può nascondere nulla, poliziotto. Ma poiché sapete chi sono, perché è solo per caso che ci parliamo?» «Non ero certo che la mia visita vi facesse piacere, signora. L'ultima volta che ci siamo visti, ci siamo lasciati in assai cattivi termini.»
Angelica ricordò la notte di caccia nel sobborgo San Germano; le parve di non avere più una goccia di saliva in bocca. Chiese con voce atona: «Che volete dire?» «Nevicava proprio come questa notte, e la postierla del Tempio non era meno oscura di questa vòlta.» Angelica soffocò un sospiro di sollievo. «Non eravamo in cattivi termini, eravamo vinti, e non è la stessa cosa, avvocato Desgrez.» «Non dovete più chiamarmi avvocato Desgrez, signora, perché ho venduto la mia carica di avvocato, essendo stato, del resto, radiato dall'Università. Però l'ho venduta assai bene e ho potuto acquistare una carica di capitano di polizia, in virtù della quale mi dedico a un compito più redditizio e non meno utile: la caccia ai malfattori e ai malintenzionati di questa città. Così, dalle altezze del verbo, sono sceso al bassofondo del silenzio.» «Parlate sempre molto bene, avvocato Desgrez.» «Quando capita. Ritrovo allora il gusto di certi periodi oratori. È certo a causa di ciò che sono particolarmente incaricato della sorta di quegli incontinenti della parola scritta o no: i poeti, i gazzettieri, gli scribacchini d'ogni specie. Così, questa sera, do la caccia a un personaggio virulento, un certo Claudio Le Petit, chiamato anche il Poetastro. Quell'individuo dovrà certo benedirvi del vostro intervento.» «E perché mai?» «Perché voi ci avete trattenuto sulla buona via, mentre lui ha continuato a correre.» «Mi scuso per avervi trattenuto.» «Ne sono personalmente felice, per quanto il salottino in cui mi ricevete manchi un po' di comodità.» «Perdonatemi. Dovrete tornare a trovarmi, Desgrez.» «Tornerò, signora.» Si chinò sul cane per mettergli il guinzaglio. I fiocchi di neve diventavano sempre più fitti. Il poliziotto rialzò il collo del mantello, fece un passo, poi si fermò. «Mi torna a mente una cosa,» disse ancora. «Quel Poetastro aveva scritto crudeli maldicenze al momento del processo di vostro marito. Aspettate... E la bella signora di Peyrac
Pregando che non s'apra la Bastiglia E ch'egli resti nella sua prigione... «Oh! per pietà, tacete!» esclamò Angelica portandosi le mani agli orecchi. «Non parlate mai di quelle cose. Non ricordo più nulla. Non voglio più ricordarmene...» «Il passato è dunque morto per voi, signora?» «Sì, il passato è morto!» «È il meglio che c'era da fare. Non ve ne parlerò più. Arrivederci, signora... e buona notte!» Angelica rimise i catenacci, battendo i denti. Era gelata fino alle midolla da quella sosta al freddo con la veste da camera per tutto vestito. Al freddo si aggiungeva l'emozione di essersi ritrovata con Desgrez e delle rivelazioni di lui. Rientrò nella sua camera e chiuse la porta. L'uomo dai capelli biondi stava seduto sulla pietra del focolare, le braccia strette intorno ai magri ginocchi. Sembrava un grillo. La giovane donna si appoggiò alla porta. Disse con voce atona: «Siete voi il Poetastro?» «Sì.» «Siete voi che avete scritto quelle ignominie sul conto della signorina di La Vallière? Non potete dunque lasciare che la gente si ami in pace? Il re e quella ragazza hanno fatto tutto quanto potevano per tener segreti i loro amori, ed ecco che voi date pubblicità allo scandalo in termini odiosi! La condotta del re è biasimevole, certo, ma è un uomo giovane, ardente, che è stato sposato per forza con una principessa senza spirito né bellezza.» Egli sogghignò. «Come lo difendi, bellezza mia! Quel libertino ti ha avvinto il cuore?» «No, ma mi fa orrore vedere insudiciato un sentimento rispettabile e regale.» «Non v'è nulla, al mondo, né di rispettabile, né di regale.» Angelica attraversò la stanza e andò ad appoggiarsi all'altro lato del camino. Si sentiva debole e nervosa. Il poeta la guardava di sotto in su. Ella vedeva danzare nei suoi occhi le punte rosse delle fiamme. «Non sapevi chi fossi, io?» chiese lui. «Nessuno me l'ha detto, e come avrei potuto indovinarlo? La vostra pen-
na è empia e libertina, e voi...» «Ed io?» «Voi mi eravate apparso buono e allegro.» «Io sono buono con le sgualdrinelle che piangono sui battelli da fieno, e sono cattivo con i principi:» Angelica sospirò. Faticava a riscaldarsi. Fece un gesto col mento verso la porta. «Ora, dovete andarvene.» «Andarmene!» esclamò lui. «Andarmene quando Sorbona mi aspetta per afferrarmi le brache e quel poliziotto del diavolo sta preparando le catene?» «Se ne sono andati.» «Andati?... Oh, no! Aspettano nell'ombra.» «Vi giuro che non pensano affatto che voi siete qui.» «Come saperlo? Forse tu non conosci quei due amici, bellezza mia, tu che hai fatto parte della banda di Calembredaine?» Ella gli fece segno vivamente di tacere. «Vedi? Tu stessa li senti in agguato, nella neve. E vorresti che me ne andassi!» «Sì, andatevene!» «Mi scacci?» «Vi scaccio.» «A te, però, non ho fatto del male.» «Sì.» Egli la fissò a lungo, poi tese la mano verso di lei. «Allora, dobbiamo fare la pace. Vieni.» E siccome lei restava immobile: «Noi siamo tutti e due inseguiti dal cane. Che ci resterà se litighiamo?» Seguitava a tendere la mano. «I tuoi occhi sono divenuti duri e freddi come smeraldo. Non hanno più il riflesso del fiumicello sotto le foglie pieno dello splendore del sole e che sembra dire: Amami, baciami...» «È il fiume che dice tutto questo?» «Sono i tuoi occhi, quando io non sono tuo nemico. Vieni!» Ella cedette di colpo e andò ad accoccolarsi accanto a lui, che subito le mise un braccio intorno alle spalle. «Stai tremando. Non hai più la tua aria sicura di buona ostessa. Qualche
cosa ti ha fatto paura e ti ha fatto male. È stato il cane? Il poliziotto?» «È stato il cane. È stato il poliziotto e siete stato anche voi, signor Poetastro.» «O sinistra trinità di Parigi!» «Voi, che siete al corrente di tutto, sapete quel che facevo prima di stare con Calembredaine?» Egli fece una faccia annoiata e qualche smorfia. «No. Da quando ti ho ritrovata, mi sono reso pressappoco conto di come te l'eri cavata e come avevi menato pel naso quel rosticcere. Ma prima di Calembredaine, ebbene, no, la pista si ferma lì.» «Lo preferisco.» «Quel che mi fa rabbia è che sono quasi sicuro che quel poliziotto del diavolo, lui, lo conosce il tuo passato.» «Fate a gara d'informazioni?» «Ce le ripassiamo spesso, lui ed io, le informazioni.» «In fondo, vi somigliate molto, voi due.» «Un poco. Ma c'è tuttavia una grande differenza fra lui e me.» «Quale?» «Che io non posso ammazzarlo, mentre lui può condurmi a morte. Se, questa sera, tu non mi avessi aperto la porta, ora io sarei al Castelletto, e mi ci avrebbe messo lui. Sarei già cresciuto di tre pollici grazie al cavalletto di mastro Aubin e, domani all'alba, mi sarei dondolato a una corda.» «E perché dite che voi, invece, non potete ammazzarlo?» «Io non so uccidere. La vista del sangue mi fa star male.» Ella si mise a ridere della sua faccia disgustata. La mano nervosa del poeta le si posò sul collo. «Quando ridi, sembri un piccioncino.» Si chinò sul volto di lei. Ella vedeva in quel sorriso tenero e beffardo la breccia d'ombra provocata dalla tenaglia del Grande Matteo, ciò che le dava desiderio di piangere e d'amarlo. «Bene,» mormorò lui, «non hai più paura. Tutto s'allontana... C'è solo la neve che cade fuori, e noi che ce ne stiamo qui bene al caldo... Non mi capita spesso di essere alloggiato in un albergo così bello!... Sei nuda sotto questa veste?... Sì, lo sento. Non ti muovere, amica mia... Non dire più nulla...» La sua mano s'insinuava, scostava la veste per seguire la linea della spalla, scivolava più in basso. Egli rise perché lei trasaliva. «Ecco le gemme della primavera. Eppure, è inverno!...»
Le prese le labbra. Poi si distese innanzi al fuoco e l'attrasse piano contro di sé. Ma ascolta un po', te ne prego Odo il venditore di acquavite E credo, scherzi a parte Cara amica, che sia già tardi!... Il poeta si era rimesso il gran cappello e il mantello bucato. Era l'alba, invasa di neve, e nel candore della via silenziosa il venditore d'acquavite, imbacuccato, andava incespicando come un orso. Angelica lo chiamò. Egli servì a entrambi, sulla soglia, un bicchierino di alcool. Quando l'uomo si fu allontanato, si sorrisero. «Dove andrete, ora?» «A render conto a Parigi di un nuovo scandalo. Il signor di Brienne, questa notte, ha trovato sua moglie con un amante.» «Questa notte? Come potete saperlo?» «Io so tutto. Addio, bellezza.» Ella lo trattenne per un lembo del mantello e gli disse: «Ritornate.» Egli tornò. Arrivava la sera, grattava ai vetri secondo un segnale convenuto. Lei andava ad aprirgli senza far rumore. E nel tepore della piccola stanza, accanto a quel compagno a volta a volta chiacchierone, caustico e amoroso, ella dimenticava il duro lavoro della giornata. Egli le raccontava tutti gli scandali della corte e della città. Ciò la divertiva, perché conosceva la maggior parte dei personaggi di cui egli parlava. «Io sono ricco di tutta la paura delle persone che mi temono,» diceva. Ma il denaro non lo interessava. Ella aveva tentato invano di vestirlo più decentemente. Per un buon pranzo che accettava, senza d'altronde fare il gesto di aprire la scarsella, egli scompariva una settimana, e quando si ripresentava smagrito, affamato, sorridente, invano ella lo interrogava. Perché, visto che se la intendeva così bene con le bande dei fuorilegge di Parigi, non andava a farvi bisboccia, quando se ne presentava l'occasione? Non lo si era mai visto alla torre di Nesle, eppure, essendo uno dei personaggi importanti del Ponte Nuovo, il posto gli era riservato. E, con tutti i segreti ch'egli conosceva, avrebbe potuto far «cantare» molta gente.
«È più divertente farli piangere e arrotare i denti,» diceva. Accettava aiuti solo dalle mani delle donne che amava. Una giovane fioraia, una ragazza di piacere, una servente, dopo essersi abbandonata alle sue carezze, aveva il diritto di viziarlo un poco. Gli dicevano: «Mangia, mio caro,» e lo guardavano con tenerezza inghiottire. Poi s'involava. Come la fioraia, come la ragazza di piacere o la servente, Angelica provava a volte il desiderio di trattenerlo. Distesa, nel calore del letto, accanto a quel lungo corpo il cui abbraccio era così vivo e leggero, ella gli passava un braccio attorno al collo e lo attirava accanto a sé. Ma già egli apriva gli occhi, notava la luce del giorno dietro i piccoli vetri incorniciati di piombo. E balzava dal letto, vestendosi in fretta. In verità, non sapeva star fermo. Era posseduto da una smania abbastanza rara a quell'epoca è che in ogni tempo si è pagata assai a caro prezzo: la smania della libertà. 9 Non aveva sempre torto di fuggire a quel modo. Assai spesso, mentre Angelica, con la finestra aperta, terminava di abbigliarsi, un'ombra scura si profilava dietro le sbarre. «Fate le visite di buon mattino, signor poliziotto.» «Non vengo in visita, signora. Cerco un libellista.» «E pensate di trovarlo da queste parti?» chiedeva disinvolta Angelica, gettandosi il mantello sulle spalle per recarsi alla taverna della «Maschera Rossa». «Chi sa?» rispondeva lui. Ella usciva e Desgrez l'accompagnava per le vie piene di neve. Sorbona correva e saltava dinanzi a loro. Ciò ricordava ad Angelica il tempo in cui avevano già camminato a quel modo per Parigi. Desgrez, un giorno, l'aveva accompagnata alle stufe di San Nicola. Un'altra volta, il bandito Calembredaine era sorto dinanzi ad essi. Ora si ritrovavano, ciascuno tenendo per sé la parte d'ombra degli ultimi anni. Angelica non provava vergogna ch'egli sapesse del suo lavoro in una taverna. Egli aveva seguito abbastanza da vicino il crollo della sua fortuna per capire la necessità nella quale ella si trovava di lavorare umilmente con le proprie mani. Ella sapeva che non la disprezzava. Poteva respingere al fondo di sé il ricordo della sua vita con Calembredaine. Gli anni erano passati. Calembredaine non era ricomparso. Angelica sperava ancora ch'egli
avesse potuto fuggire nella campagna. Forse si era unito con briganti di strada? Oppure era caduto fra le mani di un arruolatore di reggimenti? Il suo istinto l'avvertiva che non lo avrebbe più riveduto. Angelica poteva procedere a testa alta verso il suo scopo. L'uomo che le camminava accanto con passo elastico, abituato al silenzio, non la sospettava. Anch'egli era mutato. Parlava meno, e la sua gaiezza aveva lasciato il posto a una ironia che s'imparava a temere. Dietro le più semplici parole, assai spesso s'indovinava una minaccia nascosta. Ma Angelica aveva l'impressione che Desgrez non le avrebbe mai fatto del male. Sembrava anche meno povero. Aveva bei stivali. Spesso portava la parrucca. Giunti dinanzi alla taverna, il poliziotto salutava cerimonioso Angelica e seguitava la via. Angelica ammirava, sopra la porta, la bella insegna dai colori vivaci dipinta dal fratello Gontrano. Il quadro raffigurava una donna avvolta in un mantello a riquadri di raso nero. Gli occhi verdi brillavano dietro la maschera rossa. Intorno a lei, il pittore aveva abbozzato l'aspetto di via della Valle di Miseria, con le sagome stravaganti delle sue vecchie case erette contro il cielo stellato, e le luci rosse delle sue rosticcerie. Il venditore di vino, mattiniero, usciva dall'albergo, col suo recipiente in mano. «Al buon vino sano a chiaro! Accorrete tutte, brave donne. I cerchi scoppiano!...» La vita riprendeva vivamente, al suono delle campane. E, la sera, Angelica avrebbe messo uno sopra l'altro i bei scudi e, dopo averli contati, li avrebbe chiusi in sacchetti che avrebbero preso posto nella cassaforte fatta comprare da padron Bourgeaud. Audiger tornava periodicamente a chiederla in matrimonio. Angelica, che non dimenticava i suoi progetti circa il cioccolato, lo riceveva con un sorriso. «E la vostra patente?» «Tra qualche giorno l'affare è fatto!» Angelica finì col dirgli: «La vostra patente, non l'avrete mai!» «Davvero, signora indovina? E perché?» «Perché vi siete fatto raccomandare dal signor di Guiche, genero del signor Séguier. Ora, voi ignorate che la famiglia del signor di Guiche è un inferno, e che il signor Séguier sostiene la figlia. Lasciando ammuffire la
vostra patente, il cancelliere vede una occasione, fra le altre, di far indispettire il genero, e non se la lascerà sfuggire.» Aveva avuto quei particolari dal Poetastro. Ma Audiger, offeso, gettò alte grida. La registrazione della sua patente era sulla buona strada e la prova è che aveva già cominciato a far costruire la sala di distribuzione, in via Sant'Onorato. Visitando i lavori Angelica constatò che il maggiordomo aveva seguito i suoi suggerimenti. Vi sarebbero stati specchi e intarsi dorati. «Penso che questa novità attirerà le persone avide di originalità,» spiegò Audiger, dimenticando completamente a chi era debitore di quell'idea. «Dato che si lancia un prodotto nuovo, ci vuole un ambiente nuovo.» «E avete pensato a far venire il prodotto in questione?.» «Una volta avuta la patente, le difficoltà si appianeranno da sole.» La giovane donna approfittava di quell'ottimismo un po' negligente, per informarsi sulle possibilità di far giungere in Francia grandi quantità di cacao. Audiger sarebbe stato costretto, allora, di rivolgersi a lei, che assaporava sin d'ora la propria rivincita. Ma David non riuscì a ritrovare la pista dell'ebreo da cui suo padre aveva acquistato i suoi primi carichi alla Martinica. Si rivolse quindi da un'altra parte. Si cominciava a parlare molto, fra i grossi mercanti e finanzieri che frequentavano la taverna, del lancio della Compagnia delle Indie Occidentali, sostenuta e incoraggiata dal signor Colbert e dallo stesso re, che desiderava far concorrenza in quel campo agli olandesi e agli inglesi. Una sera, Claudio Le Petit le portò il testo della notizia pubblicitaria che il re aveva fatto comporre da uno dei sei membri dell'Accademia Francese. «È un capolavoro, mia cara. Ascolta! «E che paradiso, il Madagascar, quando ci si pensa! L'aria vi è temperata, la terra stupenda non chiede che di essere coltivata. Vi si trova di tutto in abbondanza. Le acque sono eccellenti, i frutti deliziosi, le vene d'oro si scoprono da sole, lungo pendici e sulle montagne. «E soprattutto quali abitanti! Bonaccioni, apparentemente assai ben disposti a ricevere il Vangelo, lieti di veder lavorare i cristiani!» Claudio Le Petit s'interruppe per commentare: «Ciò che bisogna evidentemente tradurre così: In questa grande isola si crepa di caldo e per la cattiva acqua delle paludi, vi si butterà dell'oro che la terra inghiottirà, e gli abitanti sono talmente pigri da preferire di vedere lavorare i bianchi e andare a messa piuttosto che mettersi loro a muover le mani...»
Angelica gli tirò i capelli. «Ribelle! Perché vedere il peggio dappertutto? V'è certamente qualcosa da sfruttare, laggiù: zucchero, tabacco, cotone e, giusto, cacao. La notizia su questo è formale. Si manderà in cambio vino, acquavite, carne salata, formaggi...» «Non dimenticate il traffico degli schiavi, così lucroso.» «Il re ha già messo nell'affare cinque milioni di lire sui diciotto necessari.» «Il re non è stupido e spera che sotto altri cieli lo spirito dei suoi sudditi si aprirà alla luce degli affari. È stato lui a chiedere a Charpentier di aggiungere la frase seguente: «"Abbiate fiducia nelle imprese lontane e non basatevi, per la speranza della loro riuscita, sui fallimenti che potreste constatare nel vostro paese. I francesi, infatti, faticano tanto a sopportare gli uni gli altri, le loro società sono talmente incostanti che i migliori affari muoiono fra le loro mani, per non so quale fatalità della natura, senza di cui sarebbe quasi impossibile resister loro..."» Angelica rimase un momento silenziosa, poi sospirò. «A conti fatti credo che avrei potuto andare d'accordo col re,» disse. «Ma è troppo tardi. Non c'è che la lotta per me, ora!» 10 Angelica posò la penna sullo scrittoio e rilesse soddisfatta il conto che aveva annotato. Tornava dalla «Maschera Rossa», dove aveva potuto registrare il turbolento arrivo d'una banda di giovani signori i cui colli di pizzo a punto di Ginevra e l'ampiezza delle guarnizioni le avevano fatto ben augurare sul valore delle loro borse. Erano mascherati, prova supplementare del loro rango elevato. Certi personaggi della corte preferivano conservare l'incognito per andare a rifarsi, in cordiali taverne, delle schiavitù dell'etichetta. La giovane donna, come ormai le accadeva spesso, aveva lasciato a padron Bourgeaud, a David e ai loro servitorelli l'incarico di riceverli. Ora che la fama della casa era assicurata e che David si era impratichito delle specialità culinarie, ella pagava meno di persona, dedicando maggior tempo al mercato e alla gestione economica dell'azienda. Si era alla fine del 1664. La situazione era gradualmente giunta a uno stato di cose che, se fosse stato previsto tre anni prima, avrebbe fatto scop-
piar dal ridere tutta la via della Valle di Miseria. Ma, senza aver riscattato ancora l'azienda di padron Bourgeaud, come ne aveva la segreta intenzione, Angelica ne era diventata in un certo senso la padrona. Il rosticcere rimaneva proprietario, ma lei assumeva tutte le spese, e aveva sostituito padron Bourgeaud che riscuoteva una percentuale sull'eccedenza e si stimava soddisfatto di essersi sbarazzato di ogni preoccupazione e di vivere agiatamente nel proprio albergo, ammucchiando nel frattempo un piccolo peculio per la vecchiaia. Angelica non aveva che da ammassare tutto il denaro che desiderava. Quello che padron Bourgeaud chiedeva era di rimanere sotto la sua protezione, di sentirsi circondato da un affetto chiaroveggente e perentorio. A volte, parlando di lei, egli diceva «mia figlia» con tanta convinzione che molti clienti della «Maschera Rossa» erano convinti della loro parentela. Facilmente malinconico e sempre convinto della sua prossima fine, egli raccontava che il suo testamento, senza ledere gli interessi del nipote, sarebbe stato molto vantaggioso per Angelica. Del resto, David non avrebbe potuto formalizzarsi delle decisioni prese dallo zio nei riguardi di una donna che seguitava a soggiogarlo intieramente. Egli si stava facendo un ragazzo abbastanza bello, se ne rendeva conto e, forte di un'esperienza che la Polacca aveva voluto completa e senza alcuna lacuna, non disperava di fare un giorno la sua amante di colei che adorava. Angelica si accorgeva dei progressi di David nella scienza amorosa. Li misurava dalle proprie reazioni, perché se le goffaggini dell'adolescente l'avevano un tempo assai irritata, certi sguardi di lui, ora, le cagionavano un piacere un po' torbido. Seguitava a trattarlo duramente, in modo burbero, come un giovane fratello; ma nelle sue maniere ella si rimproverava di mettere, a volte, una certa civetteria. Le risate e gli scherzi che si scambiavano intorno agli spiedi non erano sempre privi di una mordente provocazione che la donna e l'uomo, attirati l'una dall'altro, scambiano, nascondendo sotto innocenti parole un appello che lo è assai meno. Con una smorfia un po' beffarda verso se stessa, Angelica finiva col chiedersi se un giorno o l'altro non avrebbe ceduto, per distrazione, a quella tumultuosa e fresca passione. E poi, aveva bisogno di David. Egli era uno dei pilastri su cui riposava il successo delle sue future imprese. Ad esempio, quand'ella avesse acquistato due o tre botteghe alla fiera di San Germano, sarebbe toccato a David assicurarne il lancio e la celebrità. L'altro pilastro era Audiger, responsabile delle prospettive riguardanti la cioccolateria e le caffetterie. Anche con lui bisognava intendersi, trattenerlo e non scoraggiare
quell'innamorato più serio, più profondamente preso, il cui riserbo, accentuandosi non poteva significare che un sentimento sempre più profondo. Con lui, non poteva esser questione di tenerlo buono con qualche compiacenza. David, per una notte in cui gli avrebbe accordato il diritto di toccare a suo piacere quel «corpo divino», le sarebbe rimasto senza dubbio perdutamente asservito. Angelica temeva un po', in Audiger, la tenacia di un uomo adulto che ha superato l'età dei capricci, senza aver mai avuto quello delle passioni. Quel tranquillo borghese, domestico senza bassezza, militare per eredità nazionale, sincero, coraggioso e prudente come altri sono biondi o bruni, non si sarebbe lasciato burlare. Angelica scosse la sabbia dal foglio dove aveva annotati i suoi conti. Fece una risatina indulgente. «Eccomi a posto fra i miei tre cuochi traboccanti di affetto nei miei riguardi, ciascuno per ragioni diverse! Debbo credere che sia il mestiere a voler questo... Il calore dei fornelli fa loro fondere il cuore come il grasso dei tacchini.» Giasmina entrò per aiutarla a svestirsi e a spazzolare i capelli. «Che cosa si ode nell'entrata?» chiese Angelica. «Non so. Sembra che ci sia un topo che rosicchia contro la porta, da un po'.» Il rumore si accentuava, la giovane donna andò nell'anticamera e constatò che il rosichio non proveniva da in fondo alla porta, ma dallo sportellino nel centro di essa. Scostò la piccola imposta e mandò un lieve grido di repulsione, perché subito una manina nera s'era cacciata tra la griglia dello sportello e si tendeva tragicamente verso di lei. «È Piccolo!» esclamò Giasmina. Angelica tirò tutti i catenacci, sempre messi con cura, aprì la porta e la scimmia le si precipitò fra le braccia. «Che succede? Non è mai venuto solo fin qui. Si direbbe... davvero, si direbbe che ha spezzato la catena.» Non sapendo che pensare, portò la bestiola nella sua stanza e la posò sulla tavola. «Oh là là!» esclamò la servente ridendo, «in che stato è mai! Ha il pelo tutto appiccicoso e rosso. Dev'essere caduto nel vino.» Angelica, infatti, che accarezzava Piccolo, ritrasse le dita, impiastricciate e rosse. Le annusò e subito si sentì impallidire. «Non è vino,» disse, «è sangue!» «È ferito?»
«Adesso vedo.» Lo sbarazzò del giustacuore ricamato e delle brache, entrambi umide di sangue. Tuttavia, l'animale non aveva alcun segno di ferite, per quanto fosse agitato da un tremito convulso. «Che c'è, Piccolo?» fece Angelica a mezza voce... «Che succede, mio piccolo amico? Dimmi!» La scimmia la fissava con occhi vivi e dilatati, balzò indietro, afferrò una scatoletta di cera per sigillare e cominciò a. camminare con molta serietà agitando dinanzi a sé la piccola scatola. «Oh! questo buffone,» esclamò Giasmina scoppiando a ridere, «ci spaventa, e poi eccolo che si mette a imitare Linot e il suo paniere di cialde. Non è bravo, signora? Sembra proprio Linot quando presenta così serio e gentile il suo cesto.» Ma l'animale, dopo aver fatto il giro della tavola evocando la figura del piccolo venditore di cialde, sembrava di nuovo inquieto. Girava, si guardava intorno, indietreggiava. Il suo muso si increspava in una espressione pietosa e spaurita insieme. Alzava il viso a destra, poi a sinistra. Pareva si rivolgesse pregando a qualche persona invisibile. Sembrò infine dibattersi, lottare. Abbandonò di colpo la scatola, contrasse le mani sul ventre e cadde all'indietro con un grido acuto. «Ma che cos'ha? Che cosa ha?» balbettò Giasmina sgomenta. «È malato, è impazzito?» Ma Angelica, che aveva seguito attentamente il maneggio della scimmia, andò con passo rapido verso il guardaroba, staccò il mantello e prese la maschera. «Credo che sia capitata una disgrazia a Linot,» disse con voce atona, «bisogna che vada laggiù.» «Vi accompagno, signora.» «Se vuoi. Terrai la lanterna. Prima, però, porta su la scimmia a Barbara perché la pulisca, la riscaldi e le dia del latte.» Il presentimento del dramma si era abbattuto su Angelica in modo ineluttabile. Nonostante le parole di conforto che le mormorava Giasmina, neppure per un attimo durante il tragitto ella dubitò che la scimmia avesse assistito a una scena terribile. Ma la realtà superava le sue peggiori apprensioni. Era appena arrivata all'ingresso del Lungosenna dei Conciatori, quando un bolide lanciato di corsa fu lì per rovesciarla: era Flipot, fuori di sé. Ella lo afferrò alle spalle e lo scosse per aiutarlo a riprendersi.
«Venivo a cercarti, marchesa degli Angeli,» balbettò il ragazzetto. «Hanno... hanno ucciso Linot!» «Chi è stato?» «Quegli uomini, i clienti.» «Perché? Che è accaduto?» Il povero garzoncello inghiottì la saliva e disse precipitosamente, come recitando una lezione: «Linot stava nella strada con il suo cestello di cialde: "Cialde! Cialde! Chi chiama il cialdaio?..." Cantava come ogni sera. Uno dei clienti che era lì da noi, sapete, uno dei signori mascherati, con il collo di pizzo, ha detto: "Che bella voce. Ho voglia di cialde. Andate a chiamare il venditore." Linot è venuto. Allora il signore ha detto: "Per San Dionigi, ecco un fanciullo ancor più seducente della sua voce..." Ha preso Linot sulle ginocchia e si è messo a baciarlo. Sono venuti gli altri e volevano baciarlo anch'essi... Erano tutti ubriachi fradici... Alla fine, hanno preso Linot e volevano levargli le brache... Lui ha lasciato andare il paniere e ha cominciato a gridare e a tirar loro calci. Ma il signore che lo aveva chiamato per primo, ha tratto la spada e gliel'ha ficcata nel ventre. Anche un altro gli ha ficcato la spada nel ventre. Lui è caduto e gli usciva dal ventre tanto "mosto cotto... "» «Padron Bourgeaud non è intervenuto?» «Sì, ma lo hanno castrato.» «Eh! Cosa dici? Ma chi!» «Padron Bourgeaud.» «Sei pazzo!» «No, io non lo sono, ma quelli sì, certamente. Quando padron Bourgeaud ha udito Linot che gridava, è venuto dalla cucina. Diceva: "Monsignori! Suvvia! Monsignori!" Ma loro gli son saltati addosso. Ridevano e lo riempivano di botte dicendo: "Botticione! Barilotto!" Tanto che io ho cominciato a divertirmi. E poi uno ha detto: "Lo riconosco, è il vecchio del 'Gallo Ardito'..." Un altro ha detto: "Non mi hai un'aria molto ardita per un gallo, adesso farò di te un cappone." Ha preso un coltellaccio per la carne, tutti si sono precipitati addosso a lui e gli hanno tagliato...» Il ragazzo terminò il racconto con un gesto energico che non lasciava alcun dubbio sull'orrenda mutilazione di cui era stato vittima il povero rosticcere. «Urlava come un asino. Ora, non lo si sente più urlare. Forse è morto. Anche David voleva fermarli. Gli hanno tirato sulla testa un gran colpo di
spadone. Allora, quando abbiamo visto questo, David ed io, con gli altri garzoni e le serventi e Susanna, siamo tutti scappati.» La via della Valle di Miseria aveva un aspetto insolito. Sempre animata in quella stagione di carnevale, i numerosi clienti che riempivano le rosticcerie seguitavano a cantare e a brindare, ma verso l'estremità c'era un mucchio anormale di figure bianche con in capo alti berretti. I rosticceri vicini e i loro garzoni, armati di lardatoi e di spiedi, si agitavano dinanzi alla taverna della «Maschera Rossa». «Non si sa cosa fare,» gridò uno di essi ad Angelica. «Quei demoni hanno bloccato la porta con delle panche. E hanno una pistola...» «Bisogna andare a chiamare le guardie.» «David è già corso, ma...» Il padrone del «Cappone Spennato», ch'era vicino della «Maschera Rossa», disse abbassando la voce: «Alcuni valletti lo hanno fermato in via della Tripperia. Gli hanno detto che i clienti che si trovavano in quel momento alla «Maschera Rossa» erano signori di alto lignaggio, gente del seguito del re e che le guardie avrebbero fatto una strana faccia quando si fossero visti imbarcati in quella storia. David è andato egualmente al Castelletto, ma i valletti avevano già avvertito le guardie. Gli hanno detto che non aveva che da sbrogliarsela con i suoi clienti.» Dalla taverna della «Maschera Rossa» si levava un fracasso tremendo: risate enormi, canti avvinazzati e grida così selvagge che i capelli dei bravi rosticceri si drizzavano sotto i loro tocchi. Tavole e panche erano state ammucchiate anche dinanzi alle finestre, non si poteva distinguere nulla di quel che accadeva all'interno, ma si udivano i rumori dei bicchieri e dei piatti rotti e, di tanto in tanto, il secco colpo di una pistola che doveva prendere per bersaglio le belle bottiglie di vetro prezioso di cui Angelica aveva adornato le tavole e la cappa del camino. Angelica scorse David: era bianco come il suo grembiule, la fronte avvolta in una benda macchiata da una stella di sangue. Egli le si avvicinò e completò balbettando il racconto dell'orrendo saturnale: i signori erano stati subito molto esigenti. Avevano già bevuto in altri locali. Avevano cominciato col rovesciare una zuppiera piena, quasi bollente, sulla testa di uno dei garzoni. Avevano faticato moltissimo, poi, a cacciarli via dalla cucina, dove volevano impadronirsi della Susanna, preda
tuttavia poco allettante. Infine, c'era stato il dramma di Linot, il cui bel viso aveva ispirato loro orrendi desideri... «Vieni,» disse Angelica afferrando l'adolescente per un braccio, «bisogna andare a vedere. Passerò per il cortile.» Venti mani la trattennero. «Non sarai mica pazza!... Ti farai infilzare! Sono dei lupi!...» «Siamo forse ancora in tempo per salvare Linot e padron Bourgeaud...» «Andremo quando cominceranno a sonnecchiare.» «E quando avranno spaccato, distrutto e bruciato ogni cosa?» Si strappò dalle mani di coloro che volevano trattenerla e, trascinandosi David, entrò nel cortile e, di là, nella cucina. La porta di questa, comunicando con la sala, era stata accuratamente chiusa a catenaccio da David, quando era fuggito con gli altri domestici. Angelica mandò un sospiro di sollievo. Le importanti provviste che vi erano ammucchiate non erano state, almeno quelle, in preda al furore distruggitore, dei miserabili. Aiutata dal giovane, spinse la tavola contro la parete e si issò fino all'imposta che, a mezza altezza, permetteva di gettare uno sguardo all'interno. Scorse la sala devastata, costellata di vasellame e di piatti, di tovaglie sporche, di bicchieri spezzati. I prosciutti e le lepri erano stati staccati dai travi. Gli ubriachi v'inciampavano, allontanandoli con gran calci. Si udivano ora distintamente le parole oscene delle loro canzoni, le imprecazioni, le bestemmie. La maggior parte si erano radunati intorno a una delle tavole presso il focolare. Dai loro gesti e dalle voci sempre più impastate si capiva che non avrebbero tardato a precipitare per terra. Alla luce del fuoco, la vista di quelle bocche aperte e sbraitanti sotto le maschere nere, aveva qualcosa di sinistro. I loro vestiti sontuosi erano macchiati di vino e di salsa, e fors'anche di sangue. Angelica cercava di distinguere i corpi di Linot e del rosticcere, ma il fondo della sala si trovava in penombra perché le candele erano state rovesciate. «Chi è stato il primo ad assalire Linot?» chiese a voce bassa. «Quello piccolo, là, a capotavola, con i nastri rosa su un giustacuore pervinca. È lui che pareva desse il via e trascinava gli altri.» Nello stesso istante, colui ch'egli indicava si alzò faticosamente e, sollevando un bicchiere con mano tremante, gridò con voce di falsetto:
«Signori, bevo alla salute di Astrea e di Asmodeo, principi dell'amicizia.» «Oh! questa voce!» esclamò Angelica traendosi indietro. L'avrebbe riconosciuta tra mille. Era la voce che, nei suoi peggiori incubi, ancora la destava a volte: «Signora, voi morirete!» Dunque era lui, sempre lui. Era stato scelto forse dagli inferi per raffigurare di continuo per Angelica il demone di un destino malvagio? «È stato lui, non è vero, che ha anche dato a Linot il primo colpo di spada?» «Sì, e subito dopo, quello alto, là dietro, in brache rosse.» Neppure quello aveva bisogno di togliersi la maschera perché ella lo riconoscesse. Il fratello del re e il cavaliere di Lorena! Ed era ben certa, ormai, di poter dare un nome a ciascuno di quei volti mascherati. A un tratto, uno degli ubriachi cominciò a gettare le sedie e gli sgabelli nel fuoco. Uno di essi afferrò una bottiglia e, da lontano, la lanciò attraverso la sala. La bottiglia andò a fracassarsi nel fuoco: era acquavite. Una fiamma enorme sprizzò, aggrappandosi subito ai mobili. Un fuoco d'inferno s'ingolfò ronfando nel camino, e i tizzoni schizzarono crepitando sul pavimento. Angelica si precipitò giù dal suo posto d'osservazione. «Incendieranno la casa! Bisogna fermarli!» Ma l'apprendista la strinse fra le braccia nervose. «Non andrete. Vi uccideranno!» Lottarono un istante. La collera e il timore del fuoco da cui Angelica era posseduta decuplicarono le sue forze. Riuscì a liberarsi e a respingere David. D'altronde, a contatto di quel corpo tanto desiderato, il giovane perdeva ogni energia. Angelica si aggiustò la maschera. Neppure lei si preoccupava di essere riconosciuta. Spinse risolutamente i catenacci e spalancò con fracasso la porta della cucina. L'apparizione sulla soglia di quella donna avvolta in un mantello nero e così stranamente mascherata di rosso, causò un istante di stupore tra i festaioli. Il tono dei canti e dei gridi scemò. «Oh! la Maschera Rossa!» «Signori!» disse Angelica con voce vibrante, «avete perso la testa? Non
temete la collera del re quando la voce pubblica gli farà conoscere i vostri delitti?...» Al silenzio inebetito che seguì, ella comprese che aveva lanciato l'unica parola capace di penetrare nei cervelli annebbiati degli ubriachi e di riaccendervi un bagliore di lucidità: il re! Approfittando del suo vantaggio, procedette avanti arditamente. Il suo scopo era di giungere al focolare e di trarne via i mobili infiammati per attenuare il braciere ed evitare così che bruciasse il camino. Fu allora che scorse sotto la tavola il corpo orrendamente mutilato di padron Bourgeaud. Accanto a lui, Linot, col ventre aperto, il viso bianco come la neve, tranquillo come quello di un angelo, pareva dormisse. Il loro sangue si mescolava ai rivoli di vino, sparso dappertutto fra le bottiglie spaccate. L'orrore di quello spettacolo la paralizzò un secondo. Come un domatore che, preso dal panico, volge via un istante lo sguardo dalle sue belve, ella perdette il controllo della muta. Ciò fu sufficiente per scatenarla di nuovo. «Una donna! Una donna!» «Ecco quel che ci vuole!» Una mano brutale le si era abbattuta sulla nuca. Ella ricevette un colpo violento sulla tempia. Tutto divenne oscuro. Era soffocata dalla nausea. Non sapeva più dove fosse. In qualche posto, una voce di donna mandava un grido acuto e continuo. Si accorse ch'era lei a gridare. Stava distesa sulla tavola, e le maschere nere si chinavano su lei con grandi singulti di risa. Aveva i polsi e le caviglie immobilizzati da pugni di ferro. Le gonne le furono sollevate con violenza. «A chi tocca? Chi si gode la sgualdrina?» Ella gridava come si grida negli incubi, in un parossismo di terrore e di disperazione. Un corpo si abbatté su lei. Una bocca divorata dal riso si incollò alla sua bocca. Vi fu quindi come un foro di silenzio, così profondo e improvviso che Angelica poté credere di essere svenuta di nuovo. Ma non era così. Quegli uomini scatenati s'erano taciuti e immobilizzati come per miracolo. I loro sguardi torbidi e stravolti fissavano a terra qualche cosa che Angelica non vedeva.
Colui che, un attimo prima, si era arrampicato sulla tavola e si apprestava a violarla, s'era scostato precipitosamente. Le braccia e le gambe di Angelica erano ridiventate libere. Ella si raddrizzò e tirò giù in fretta le lunghe gonne. Non capiva quale improvvisa bacchetta magica avesse pietrificato i forsennati. Si lasciò lentamente scivolare a terra, e scorse allora Sorbona che aveva atterrato il piccolo uomo in giustacuore pervinca e gli teneva saldamente la gola fra le sue feroci zanne. Il molosso era entrato per la porta della cucina, e il suo attacco era stato rapido come un lampo. Uno dei libertini farfugliò: «Richiamate il cane... Dove... dov'è la pistola?» «Non muovetevi,» ordinò Angelica. «Se uno solo di voi si muove ordino a questa bestia di strangolare il fratello del re!» Le gambe le tremavano come quelle di un cavallo che ha corso troppo, ma la sua voce era netta. «Non muovetevi, signori,» ripeté, «altrimenti porterete tutti la responsabilità di questa morte dinanzi al re.» Poi, calmissima, Angelica fece qualche passo. Guardò Sorbona che teneva la vittima come glielo aveva insegnato Desgrez. Una sola parola e le mandibole d'acciaio avrebbero triturato quelle carni ansanti, avrebbero fatto scricchiolare le ossa. Dalla gola del signor d'Orleans sfuggivano indistinti barbugliamenti. Il suo volto era violetto. «Warte,» disse piano Angelica. Sorbona mosse lievemente la coda per mostrare che aveva capito e che aspettava ordini. Intorno ad essi, gli autori dell'orgia rimanevano immobili, nell'atteggiamento in cui li aveva sorpresi l'irruzione del cane. Erano tutti troppo ebbri per tentare di capire ciò che avveniva. Vedevano solo che Monsieur, fratello del re, era sul punto d'essere strangolato, e ciò bastava a terrorizzarli. Angelica, senza lasciarli con lo sguardo, aprì uno dei cassetti della tavola, prese un coltello che sapeva esser lì e si avvicinò a colui che le si trovava più vicino: quello dalle brache rosse. Vedendola alzare il coltello, egli fece per indietreggiare. «Non muovetevi!» fece lei imperiosamente. «Non voglio uccidervi. Voglio solo sapere com'è fatto un assassino coperto di merletti.» E, con un gesto improvviso, tagliò il laccio che tratteneva la maschera del cavaliere di Lorena. Quand'ebbe guardato quel bel volto consumato dalle orge e ch'ella conosceva anche troppo bene per averlo veduto chinar-
si su di lei, minaccioso, una notte al Louvre che mai avrebbe dimenticato, andò verso gli altri. Inebetiti, giunti all'ultimo grado dell'ubriachezza, la lasciavano fare ed ella li riconosceva tutti: Brienne, il marchese di Olona, il bel di Guiche, suo fratello Louvigny, e quello che, quand'ella lo scoprì, abbozzò una smorfia beffarda e mormorò: «Maschera nera contro maschera rossa.» Era Péguillin di Lauzun. Ella riconobbe anche Saint-Thierry, Frontenac. Un elegante signore, disteso per terra, nelle pozze di vino e nei vomiticci, russava. La bocca di Angelica si riempì di amarezza colma d'odio allorché ella distinse i tratti del marchese di Vardes. Ah! i bei giovani del re! Ella ne aveva ammirato, un tempo, le piume multicolori, ma la taverniera della «Maschera Rossa» non aveva diritto che all'immagine della loro anima corrotta. Tre di essi le erano sconosciuti. L'ultimo, tuttavia, destò in lei un vago ricordo che non riuscì a precisare. Era un giovane alto e ben fatto, con una magnifica parrucca d'un biondo dorato. Meno ebbro degli altri, si appoggiava contro uno dei pilastri della sala e ostentava di limarsi le unghie. Quando Angelica gli si accostò, egli non attese ch'ella tagliasse il cordone della sua maschera e la sollevò da solo, con un gesto grazioso e indifferente. I suoi occhi, d'un pallido azzurro, avevano un'espressione gelida e sprezzante. Ella ne fu turbata. La tensione nervosa che la sosteneva cadde e una grande stanchezza la invase. Il sudore le scendeva sulle tempie, perché il caldo della sala s'era fatto insostenibile. Ella tornò verso il cane e lo prese al collare per fargli lasciare la presa. Aveva sperato che Desgrez sarebbe apparso, ma era sola e abbandonata fra quei pericolosi fantasmi. L'unica presenza che le appariva reale, era quella di Sorbona. «Rialzatevi, Monsignore,» disse con voce stanca, «e voi tutti, ora, andatevene. Avete fatto abbastanza male.» Vacillando, trascinandosi i corpi del marchese di Vardes e del fratello del re, i cortigiani se ne fuggirono, trattenendo le maschere con una mano. Nella via, dovettero difendersi con la spada contro gli spiedi degli sguatteri, che li inseguirono con grida di collera e di rivolta. Sorbona fiutava il sangue e ringhiava, con le nere labbra rialzate. Angelica trasse a sé il corpo leggero del piccolo venditore di cialde e accarezzò
la fronte pura e gelida. «Linot! Linot! Mio caro fanciullo... mio povero piccolo seme di miseria...» Un clamore che veniva da di fuori, la strappò al suo dolore. «L'incendio! L'incendio!» Il fuoco del camino era scoppiato, comunicandosi al tetto della casa. Rottami cominciarono a crollare nel focolare e un denso fumo invadeva la sala. Portando Linot, Angelica si precipitò fuori del locale. La via era illuminata come in pieno giorno. Clienti e rosticceri si mostravano con terrore il pennacchio di fiamme che coronava il tetto della vecchia casa. Fasci di scintille piovevano sui tetti vicini. Corsero alla Senna, lì vicino, per organizzare una catena di secchi e di mastelli. Ma l'incendio si era sviluppato in alto. Dovettero issare l'acqua attraverso i piani delle due case vicine, perché la scala della «Maschera Rossa» sprofondava. Angelica, seguita da David, aveva voluto tornare nella sala per trarre fuori il corpo di padron Bourgeaud. Entrambi dovettero indietreggiare, soffocati dal fumo. Allora, attraverso il cortile, poterono entrare nella cucina e portar fuori alla rinfusa tutto ciò che vi si trovava. Intanto, giunsero i Cappuccini. La folla li acclamò. Il popolo amava quei monaci che avevano nei loro statuti l'obbligo di correre in aiuto degli incendiati, e avevano finito col rappresentare l'unico corpo di pompieri della città. Recavano con loro scale e uncini di ferro e grosse siringhe di piombo destinate a lanciare lontano potenti getti d'acqua. Appena sul luogo del sinistro, si rimboccarono le maniche delle tonache e, senza curarsi dei pezzi di legno infiammati che cadevano loro sul cranio, s'infilarono nelle case vicine. Li si vide comparire sui tetti e cominciare a demolire all'interno a gran colpi di uncino. Grazie a quel vigoroso intervento, la casa in fiamme fu isolata e, siccome non c'era vento, l'incendio non si propagò al resto del quartiere. Si era temuto uno di quei grandi flagelli che, due o tre volte per secolo, capitavano a Parigi, dato l'ammucchiarsi di vecchie case di legno. Una vasta breccia, ingombra di rottami e di cenere, s'era aperta là dove ieri ancora si trovava l'allegra taverna della «Maschera Rossa», ma il fuoco era spento.
Angelica, con le guance annerite, contemplava il crollo delle sue speranze. Accanto a lei stava Sorbona. «Dov'è Desgrez? Vorrei vedere Desgrez,» pensò Angelica. «Mi dirà quel che debbo fare.» Prese il molosso per il collare. «Conducimi dal tuo padrone.» Non dovette andare lontano. A pochi metri, nell'ombra di un portone, ella distinse il feltro e l'ampio mantello del poliziotto, che grattugiava tranquillamente un po' di tabacco. «Buongiorno,» fece questi con la sua voce calma. «Brutta notte, vero?» «Eravate qui!» esclamò Angelica soffocata, «a due passi? E non siete venuto?» «Perché avrei dovuto venire?» «Non mi avete sentito gridare?» «Non sapevo ch'eravate voi, signora.» «Non importa! Era una donna che gridava.» «Non posso precipitarmi in aiuto di tutte le donne che gridano,» fece Desgrez allegramente. «Tuttavia, credetemi, signora, se avessi saputo che si trattava di voi, sarei venuto.» Ella biascicò piena di rancore: «Ne dubito!» Desgrez sospirò. «Non ho già una volta arrischiato la vita e la carriera per voi? Potevo ben rischiarla una seconda volta. Voi siete nella mia vita, signora, ahimè, una deplorevole abitudine, e temo davvero che, nonostante la mia naturale prudenza, sarà per questo che finirò col rimetterci la pelle.» «Mi hanno tenuto su una tavola... Volevano violarmi.» Desgrez abbassò su lei lo sguardo sarcastico. «Solo questo? Avrebbero potuto far di peggio.» Angelica si passò la mano sulla fronte, smarrita. «È vero. Avrebbero potuto far di peggio. Ho provato una specie di sollievo quando ho capito che volevano solo quello. E poi, è arrivato Sorbona... a tempo.» «Ho sempre avuto grande fiducia nelle iniziative di quel cane.» «Siete stato voi a mandarlo?» «Evidentemente.» La giovane donna emise un lieve sospiro e, con un gesto spontaneo di
debolezza e di scusa, appoggiò la gota alla spalla ruvida di Desgrez. «Grazie.» «Capite,» riprese il giovane con quel tono tranquillo che la esasperava e la calmava insieme, «io appartengo solo apparentemente alla polizia di Stato. Sono soprattutto poliziotto del re. Non spetta a me turbare i deliziosi svaghi di quei nobili signori. Suvvia, mia cara, non avete ancora vissuto abbastanza per ignorare a questo modo in che mondo vivete? Chi non seguirebbe la moda? L'ubriachezza è uno scherzo, la corruzione spinta fino alla lubricità è un dolce capriccio, l'orgia spinta fino al delitto è un piacevole passatempo. Il giorno, sono inchini alla corte e tacchi rossi; la notte amore, bische, taverne. Non è, questa, un'esistenza bene intesa? Vi sbagliate, mia povera amica, se immaginate che quella gente è temibile. In realtà, i loro piccoli spassi non sono pericolosi! L'unico nemico, il peggiore nemico del regno, è colui che con una parola può corrompere la loro potenza: è il gazzettiere, il giornalista, il libellista. Io cerco i libellisti.» «Ebbene! potete mettervi in caccia,» disse Angelica raddrizzandosi, con i denti stretti, «perché vi prometto del lavoro.» Le era venuta un'idea improvvisa. Si scostò e stava allontanandosi, ma rivenne indietro. «Erano tredici. Ce n'è tre di cui non conosco i nomi. Bisogna che me li procuriate.» Il poliziotto si tolse il cappello e s'inchinò. «Ai vostri ordini, signora,» disse ritrovando la voce e il sorriso dell'avvocato Desgrez. 11 Come la prima volta che l'aveva incontrato, ella scovò Claudio Le Petit che dormiva in un battello da fieno, dalle parti dell'Arsenale. Lo destò e gli narrò gli avvenimenti della notte. Tutti i suoi sforzi erano stati ridotti a nulla. I libertini ornati di pizzi avevano di nuovo devastato la sua vita come un esercito di predoni devasta il paese che attraversa. «Mi devi vendicare,» ripeteva, con gli occhi lucidi di febbre. «Tu solo puoi vendicarmi. Tu solo, perché sei il loro peggiore nemico. Lo ha detto Desgrez.» Il poeta sbadigliava con gran sbattere di mandibole e si strofinava le ciglia bionde impolverate di sonno. «Strana donna!» disse infine. «Ora mi dai di colpo del tu. Perché?»
La prese per la vita per attirarla a sé, ma lei si liberò con impazienza. «Ascolta quel che ti dico!» «Fra cinque minuti mi chiamerai: pezzente. Non sei più la sgualdrinella, ma una gran dama che dà ordini. Sta bene: sono ai vostri ordini, marchesa. Del resto, ho capito tutto. Da chi vuoi che cominci? Brienne? Ricordo che ha corteggiato la signorina di La Vallière e che sognava di farla dipingere da Maddalena. Da allora, il re lo sopporta appena. Metteremo Brienne in salsa per il pranzo di Sua Maestà.» Volse il bel viso pallido verso oriente, dove nasceva il sole. «Sì, per il pranzo, la cosa è possibile. Le macchine da stampa di padron Gilbert sono sempre attive quando si tratta di moltiplicare l'eco dei miei digrignar di denti contro il potere. Ti ho detto che il figlio di padron Gilbert era stato condannato un tempo alle galere per non so quale peccatuccio? Ecco per noi un'ottima cosa, non è vero?» E, traendo dalla sua casacca una vecchia penna d'oca usata e spelacchiata, il Poetastro cominciò a scrivere. Era il mattino. Tutte le campane delle chiese e dei conventi suonavano allegramente l'Avemmaria. Intanto, verso il termine della mattinata, il re, uscendo dalla cappella dove aveva ascoltato la messa, attraversò l'anticamera dove lo attendevano i presentatori di suppliche. Egli notò che il pavimento era costellato di foglietti bianchi che un valletto confuso si affrettò a raccogliere come se li avesse veduti solo in quel momento. Ma, un po' più oltre, scendendo le scale che conducevano ai suoi appartamenti, Luigi XIV trovò lo stesso disordine e manifestò il suo malcontento. «Che cosa significa? Qui piovono pergamene come foglie d'autunno sul Corso della Regina. Portatemene una, per favore.» Il duca di Créqui, rosso in volto, s'interpose. «Maestà, queste elucubrazioni sono prive d'interesse...» «Ah! capisco di che si tratta,» disse il re che tendeva una mano impaziente, «qualche altra elucubrazione di quel maledetto Poetastro del Ponte Nuovo, che sfugge come un'anguilla tra le mani degli arcieri e giunge a deporre le sue sporcizie nel mio palazzo, sotto i miei passi. Datemi, per favore... È proprio di lui! Quando vedrete il signor tenente civile e il signor podestà di Parigi, potrete far loro i miei complimenti, signori...» Sedendo a tavola per il pranzo, dinanzi a tre pernici all'uva, a una pentola di pesce, a un arrosto con cetrioli e a un piatto di frittelle di lingua di ba-
lena, Luigi XIV pose accanto a sé il foglio sudicio, il cui inchiostro ancora umido gli macchiava le dita. Il re era un formidabile mangiatore e da molto tempo aveva imparato a dominare la propria sensibilità. Il suo appetito non fu dunque turbato da ciò che lesse. Ma, allorché la lettura fu terminata, il silenzio che regnava in quella stanza dove di solito i gentiluomini chiacchieravano piacevolmente con il signore, era pesante come quello di una cripta. Il libello era scritto in quel linguaggio crudo e volgare le cui parole, tuttavia, pungevano come dardi, e che, da oltre dieci anni, aveva caratterizzato, agli occhi di tutta Parigi, lo spirito ribelle della città. Vi si narravano le gesta del signor di Brienne, primo gentiluomo del re, di colui che, non contento d'aver voluto portar via «la ninfa dai capelli di luna» a un padrone al quale doveva tutto, non contento di causare con il disaccordo con la moglie uno scandalo permanente, si era recato la notte scorsa in una rosticceria di via della Valle di Miseria. Lì, quel galante giovane e i suoi compagni, dopo aver violentato un piccolo venditore di cialde, lo avevano trafitto con le spade, avevano castrato il padrone, che n'era morto, spaccata la testa del nipote di questi, violato la figlia, e avevano terminato le loro distrazioni appiccando fuoco alla bottega, di cui non restavano che ceneri. Vogliono farci credere che tali delitti e saccheggi Siano triste gesta di alcuni sconosciuti. Ora essi erano tredici, tutti nobili personaggi. Uno ha fatto questo. Un altro ha fatto quest'altro. Ogni giorno darà un nome, e l'ultimo venuto Sarà di chi ha ucciso un fanciullo in tenera età, Un nome famoso di cui tutti avrete udito. Chi è l'assassino del piccolo venditore di cialde? «Per San Dionigi,» disse il re, «se questo è vero, Brienne merita la forca. Qualcuno di voi ha udito parlare di questi delitti, signori?» I cortigiani balbettarono, allegando ch'erano poco a conoscenza degli avvenimenti della notte. Chiamati dalla mattina ad assistere all'alzarsi del re, quindi ad accompagnarlo fino alla porta del Consiglio, poi ad aspettarlo nell'anticamera, infine ad ascoltare con lui la santa messa, era restato loro poco tempo per informarsi delle notizie di fuori. Péguillin e di Vardes, che avevano entrambi una faccia assai brutta, si scambiarono uno sguardo, e il
duca di Lauzun, senza lasciarsi sgomentare, dichiarò che in verità aveva udito parlare di un incendio che aveva avuto luogo dalle parti del Ponte del Cambio. Allora il re, vedendo un giovane paggio che aiutava i dispensieri, gli disse all'improvviso: «E voi, ragazzo mio, che certo siete ficcanaso e curioso come lo si è alla vostra età, ripetetemi un po' quel che si dice, stamane, sul Ponte Nuovo.» L'adolescente arrossì, ma era di buona famiglia e rispose senza troppo turbarsi: «Sire, si dice che tutto ciò che racconta il Poetastro è esatto, e che ciò è accaduto questa notte alla taverna della "Maschera Rossa". Io stesso tornavo con dei compagni dopo aver ballato la farandola, quando abbiamo visto le fiamme, e siamo corsi a vedere l'incendio. Ma già i Cappuccini erano riusciti a domare il fuoco. «Dicono che il sinistro è stato causato da alcuni gentiluomini?» «Sì, ma non si sapevano i loro nomi perché erano mascherati.» «Che altro sapete?» Gli occhi del re fissavano quelli del paggio. Questi, da ragazzo già cortigiano, temeva di pronunciare una parola che avrebbe potuto nuocergli. Ma, obbedendo all'ingiunzione di quello sguardo imperativo, chinò il capo e mormorò: «Sire, ho veduto il corpo del piccolo venditore di cialde. Era morto e aveva il ventre aperto. Una donna lo aveva tratto fuori dal fuoco e lo stringeva fra le braccia. Ho anche visto il nipote del padrone della taverna con la fronte bendata.» «E il padrone della taverna?» «Non sono riusciti a portar via il corpo dall'incendio. La gente diceva...» Il paggio abbozzò un sorriso nella lodevole intenzione di distendere l'atmosfera. «La gente diceva che era una bella morte per un rosticcere.» Ma il viso del re rimase gelido e i cortigiani si portarono rapidamente le mani alle labbra per nascondere un'espressione di sconveniente gaiezza. «Andate a chiamare il signore di Brienne,» disse il re, «e voi, signor duca,» aggiunse volgendosi al duca di Créqui, «fate comunicare al signor d'Aubrays le seguenti istruzioni: anzitutto, che siano prese tutte le informazioni e i particolari sull'incidente di questa notte, e che il rapporto mi sia rimesso non appena completo. Quindi, che ognuno che porti o venda di questi fogli sia immediatamente arrestato e condotto al Castelletto. Che
ogni passante sorpreso a raccogliere o a leggere uno di questi fogli sia tassato con una severa ammenda e minacciato di citazione e di arresto. Infine, che siano prese immediatamente le più energiche misure per scoprire il tipografo e il signor Claudio Le Petit.» Trovarono il conte di Brienne in casa sua, messo in letto dai suoi servitori a smaltire la sbornia. «Mio caro amico,» gli disse il marchese di Gesvres, capitano delle Guardie, «sono incaricato di un penoso dovere. Senza che ciò sia precisato, credo che, in realtà, vengo per arrestarvi.» E gli mise sotto il naso il poema di cui si era dilettato durante il tragitto senza preoccuparsi che gli facessero pagare l'ammenda. «Sono un uomo perduto,» constatò Brienne con voce pastosa. «Accidenti!... Le cose vanno svelte, in questo regno. Non sono ancora riuscito a... evacuare tutto il vino che ho bevuto in quella maledetta taverna, e già me ne fanno pagare il prezzo.» «Signor ministro,» gli disse Luigi XIV, «una conversazione con voi mi è penosa per molte ragioni. Saremo brevi. Riconoscete di aver partecipato questa notte a quegli ignobili attentati denunciati in questo foglio, sì o no?» «Sire, mi trovavo lì, ma non ho commesso tutte quelle turpitudini. Il Poetastro riconosce lui stesso che non sono stato io ad assassinare il piccolo venditore di cialde.» «E chi è stato?» Il conte di Brienne restò in silenzio. «Vi approvo di non gettare intieramente su altri una responsabilità che condividete ampiamente. Si vede dal vostro viso. Tanto peggio per voi, signor conte, avete avuto la sfortuna di farvi riconoscere. Pagherete per gli altri. Il popolino mormora... a giusto titolo. Bisogna dunque che giustizia sia fatta, e subito. Voglio che questa sera, sul Ponte Nuovo, si possa dire che il signor di Brienne si trova alla Bastiglia... e che sarà duramente punito. Quanto a me, sono felice di una occasione che mi sbarazza di un viso che sopportavo ormai solo a fatica. E voi sapete perché.» Il povero Brienne sospirò pensando ai timidi baci che aveva cercato di rubare alla tenera La Vallière quando ancora ignorava la predilezione del suo padrone per quella bella persona. Significava pagare insieme un amoruccio innocente e una svergognata
orgia. Vi fu a Parigi un gentiluomo di più per maledire la penna del poeta. Sulla strada della Bastiglia, la carrozza che lo conduceva fu fermata da un gruppo di mercantesse che, brandendo i foglietti del libello e i coltellacci, reclamavano che si consegnasse loro il prigioniero per fargli subire... ciò ch'egli aveva fatto subire al povero cuoco Bourgeaud. Brienne respirò solo quando le pesanti porte della prigione si richiusero su lui e sulla sua virilità salvata. Ma, l'indomani mattina, un altro volo di bianchi foglietti si abbatté su Parigi. Per colmo d'insolenza, il re trovò l'epigramma sotto il piatto da cui stava per servirsi, prima di recarsi alla caccia del daino nel bosco di Boulogne. La caccia fu rimandata e il signor d'Olone, sopraintendente alla caccia reale, prese una direzione opposta a quella che contava di seguire. Cioè, invece di discendere il Corso della Regina, risalì il Corso Sant'Antonio, che lo conduceva alla Bastiglia. Il nuovo libello, infatti, lo nominava esplicitamente come colui che aveva tenuto fermo padron Bourgeaud mentre lo assassinavano. Ogni giorno darà un nome e l'ultimo venuto Sarà di chi ha ucciso un fanciullo in tenera età, Un nome famoso di cui tutti avrete udito. Chi è l'assassino del piccolo venditore di cialde? Poi fu la volta di Lauzun. Il suo nome fu gridato per le vie mentre si recava in carrozza ad assistere al risveglio del re. Subito Péguillin fece girare i cavalli e andò alla Bastiglia. «Preparate il mio appartamento,» disse al governatore. «Ma, signor duca, non ho ordini a vostro riguardo.» «Ne riceverete, non abbiate timore.» «Ma dov'è il rescritto regio?» «Eccolo,» disse Péguillin porgendo al signor di Vannois il foglio a stampa che aveva comprato poco prima per dieci soldi da un ragazzetto pulcioso. Frontenac preferì fuggire senza aspettare. Di Vardes lo sconsigliò vivamente di agire a quel modo. «La vostra fuga è una confessione, vi denuncerà di certo. Mentre, segui-
tando a protestarvi innocente, forse passerete attraverso questa cascata di denunce. Guardate me. Ho forse un'aria turbata? Scherzo, rido. Nessuno mi sospetta, e lo stesso re mi confida quanto questo affare lo tormenti.» «Smetterete di ridere quando verrà il vostro turno.» «Ho come un presentimento che non verrà: "Erano tredici," dice la canzone. Eccone appena tre nominati e già si dice che alcuni venditori arrestati hanno confessato, sotto la tortura, il nome dello stampatore. Fra pochi giorni, la caduta delle foglie cesserà e tutto rientrerà nell'ordine.» «Non condivido il vostro ottimismo sulla breve durata di questa penosa stagione,» disse il marchese di Frontenac, rialzando freddolosamente il collo del mantello da viaggio. «Per me, preferisco l'esilio alla prigione. Addio.» Aveva raggiunto la frontiera tedesca allorché il suo nome apparve e passò quasi inosservato. Proprio il giorno innanzi, infatti, di Vardes era stato sacrificato alla vendetta pubblica, e in termini tali che il re n'era rimasto colpito. Il Poetastro accusava infatti, né più né meno, quello «scellerato mondano» di essere l'autore della lettera spagnola che, due anni prima, era stata introdotta nell'appartamento della regina, al solo scopo di istruirla caritatevolmente sulle infedeltà del suo sposo con la signorina di La Vallière. L'accusa riapriva una ferita viva nel cuore del sovrano, perché egli non era mai riuscito a porre la mano sui colpevoli e più d'una volta ne aveva parlato con di Vardes, chiedendogli consiglio su ciò. Mentre egli interrogava il capitano delle Guardie Svizzere, mentre faceva venire la signora di Soissons, sua amante e complice, mentre sua cognata Enrichetta d'Inghilterra, anche lei implicata nella faccenda della lettera spagnola gli si gettava ai piedi, mentre di Guiche e il «Petit Monsieur» litigavano aspramente in privato con il cavaliere di Lorena, la lista dei criminali della taverna della «Maschera Rossa» continuava imperturbabile a offrire, ogni giorno, alla folla, una nuova vittima. Louvigny e Saint-Thierry, rassegnati in anticipo e avendo già preso le loro disposizioni, seppero un bel mattino che Parigi ora conosceva il numero esatto delle loro amanti e le loro particolarità amorose. Tali informazioni accompagnavano l'abituale ritornello: Ma chi dunque ha ucciso un fanciullo in tenera età? Chi è l'assassino del piccolo venditore di cialde?... Beneficiando del turbamento in cui le rivelazioni fatte su di Vardes get-
tavano il re, quei signori furono soltanto pregati di abbandonare le cariche che avevano e di ritirarsi nelle loro terre. Un vento di eccitazione soffiava su Parigi. «A chi tocca? A chi tocca?» muggivano ogni mattina i venditori di canzoni. La gente si strappava i foglietti. Dalla via alle finestre si gridava «il nome» del giorno. La gente della migliore società prese l'abitudine di abbordarsi dicendo con aria di mistero: «Ma chi dunque ha ucciso il piccolo venditore di cialde?» e sbuffavano a ridere. Poi, una voce cominciò a circolare e le risate si gelarono. Al Louvre, un clima di panico e di profondo imbarazzo succedette al divertimento di coloro che, forti della loro coscienza, seguivano gaiamente lo svolgimento di quel giuoco massacrante. Varie volte la stessa regina madre fu veduta recarsi al Palazzo Reale per intrattenersi con il suo secondogenito. Nei dintorni del palazzo abitato dal «Petit Monsieur», gruppi di sfaccendati ostili, muti, stazionavano. Nessuno ancora parlava, nessuno affermava, ma la voce correva che il fratello del re avesse partecipato all'orgia della «Maschera Rossa» e che fosse stato lui ad assassinare il piccolo venditore di cialde. Angelica venne a sapere da Desgrez le prime reazioni della corte. L'indomani stesso dell'attentato, mentre Brienne, condotto alla Bastiglia, penava non poco a giungervi, il poliziotto bussava alla casetta di via dei Franchi Borghesi dove Angelica s'era rifugiata. Ella ascoltò con un'espressione chiusa il racconto ch'egli le fece delle parole e delle decisioni del re. «Crede che tutto sia finito con Brienne,» mormorò lei a denti stretti, «ma, attenzione, questo non è che il principio. Anzitutto i meno colpevoli. E poi aumenterà, aumenterà fino al giorno in cui lo scandalo scoppierà, in cui il sangue di Linot schizzerà sui gradini del trono.» Torse convulsamente le piccole mani livide e gelide. «L'ho accompagnato ora al cimitero dei Santi Innocenti. Tutte le comari del mercato hanno abbandonato le loro bancarelle e hanno seguito quel povero esserino che aveva ricevuto dall'esistenza solo la sua bellezza e la sua gentilezza. E dei principi viziosi dovevano toglierli il suo unico bene: la vita. Ma, per il suo funerale, ha avuto un bellissimo corteo.» «Quelle comari del mercato stanno ora facendo un po' di scorta al signor di Brienne...»
«Lo impicchino, diano fuoco alla sua carrozza, diano fuoco al Palazzo Reale! Appicchino il fuoco a tutti i castelli dei dintorni: San Germano, Versailles...» «Incendiaria! Dove andrete a ballare, allora, quando sarete ridiventata una gran dama?» Ella lo guardò intensamente e scosse il capo. «Mai, mai più tornerò ad essere una gran dama. Ho tentato di tutto, e ho tutto di nuovo perduto. Sono loro i più forti. Avete i nomi che vi ho chiesto?» «Eccoli,» fece Desgrez traendo dal mantello un rotolo di pergamena. «Risultato di un'inchiesta strettamente personale e che sono solo a conoscere: Sono entrati alla taverna della "Maschera Rossa", questa sera d'ottobre 1664: il signor d'Orléans, il cavaliere di Lorena, il signor duca di Lauzun...» «Oh! ve ne prego, niente titoli,» sospirò Angelica. «È più forte di me,» fece Desgrez ridendo. «Voi sapete che io sono un funzionario assai rispettoso del regime. Diciamo allora: i signori di Brienne, di Vardes, del Plessis-Bellière, di Louvigny, di Saint-Thierry, di Frontenac, di Cavois, di Guiche, di La Vallière, di Olone, di Tonnes.» «Di la Vallière? Fratello della favorita?» «Proprio lui.» «È troppo bello,» mormorò lei, con gli occhi che le brillavano per il piacere della rivincita. «Ma... aspettate, sono quattordici. Ne avevo contati tredici.» «In partenza erano quattordici, perché il signor di Tormes era con loro... Quell'uomo anziano ama dividere gli eccessi della giovinezza. Però, quando si rese conto delle intenzioni di "Monsieur" nei riguardi del ragazzo, s'è ritirato dicendo: "Buonasera, signori, non voglio accompagnarvi per vie oblique; mi piace seguire il mio bravo sentiero e me ne vado semplicemente a letto dalla marchesa di Raquenau." Nessuno ignora che quella grossa dama è la sua amante.» «Eccellente storia per fargli scontare la sua vigliaccheria!» Desgrez guardò un istante il volto contratto di Angelica e sorrise lievemente. «La cattiveria vi sta bene. Quando vi conobbi, eravate piuttosto del tipo commovente, di quello che attira la folla.» «E voi, quando vi conobbi, eravate del tipo affabile, allegro, franco. Ora mi sento a volte disposta a odiarvi.»
Gli dardeggiò in viso il raggio dei suoi occhi verdi e masticò fra i denti: «"Sgarbato" del diavolo!» Il poliziotto si mise a ridere con aria divertita. «A sentirvi si direbbe, signora, che abbiate frequentato quelli del gergo.» Angelica alzò le spalle e si diresse verso il caminetto, prendendo un pezzo di legno con le pinze per darsi un contegno. «Avete paura, vero,» riprese Desgrez con la sua voce strascicata di parigino dei sobborghi, «avete paura per il vostro piccolo Poetastro? Questa volta preferisco avvertirvi, ma egli andrà sulla forca.» La giovane donna evitò di rispondere pur se la muoveva il desiderio di gridare: «Mai egli andrà sulla forca! Non s'impicca il poeta del Ponte Nuovo. Si involerà come un magro uccello e andrà ad appollaiarsi sulle torri di Notre-Dame.» Era in uno stato di esaltazione che le tendeva i nervi da spezzarli. Riattizzò il fuoco, tenendo il volto chino verso la fiamma. Aveva sulla fronte una piccola bruciatura, causata la notte avanti da una scintilla. Perché Desgrez non se ne andava? Eppure le piaceva che fosse lì. Vecchia abitudine, certo. «Che nome avete detto?» esclamò a un tratto, «del Plessis-Bellière? Il marchese?» «Volete i titoli, ora? Bene, si tratta infatti del marchese del PlessisBellière, maresciallo di campo del re... Sapete, il vincitore di Norgen.» «Filippo!» mormorò Angelica. Come aveva fatto a non riconoscerlo quando aveva sollevato la maschera e posato su lei quello stesso sguardo d'un gelido azzurro che posava, un tempo, così sprezzantemente, sulla cugina vestita di grigio? Filippo del Plessis-Bellière! Le apparve il castello del Plessis, posato sul suo stagno come una bianca ninfea. «Com'è strano, Desgrez. Quel giovane è un mio parente, un cugino che abitava a qualche lega dal nostro castello. Abbiamo giocato insieme.» «E ora che il cuginetto viene a giocare con voi nelle taverne, lo risparmierete?» «Forse. Dopo tutto, erano tredici. Con il marchese di Tormes, il conto tornerà.» «Non vi mostrate imprudente, amica mia, a raccontare tutti i vostri segreti a questo "sgarbato" del diavolo?» «Quel ch'io vi dico non vi farà trovare dove sono stampati i libelli del Poetastro, chi sia a diffonderli per Parigi, e come essi penetrino al Louvre.
E poi, del resto, voi non mi tradirete!» «No, signora, non vi tradirò, ma non v'ingannerò neppure. Questa volta il Poetastro andrà sulla forca.» «È ciò che vedremo!» «Ahimè! È infatti ciò che vedremo,» ripeté egli. «Arrivederci, signora.» Quand'egli l'ebbe lasciata, ella penò a calmare il lungo brivido che l'aveva afferrata. Il vento d'autunno sibilava nella via dei Franchi Borghesi. La tempesta trascinava il cuore di Angelica. Non aveva mai provato nel profondo di sé una simile tormenta. L'ansia, la paura, il dolore le erano familiari, ma questa volta ella raggiungeva una disperazione acuta e senza lagrime, per la quale rifiutava ogni acquietamento, ogni consolazione. Audiger era accorso, col suo onesto viso sconvolto. L'aveva presa fra le braccia e lei s'era lasciata andare contro quella solida spalla. «Mia povera cara, è un vero dramma, ma non dovete lasciarvi abbattere. Non fate questa faccia tragica. Mi spaventate!» «È una catastrofe! Una tremenda catastrofe! Ora che la taverna della "Maschera Rossa" è scomparsa, come mi procurerò di nuovo il denaro? Le corporazioni non hanno alcun obbligo di difendermi, al contrario. Il mio contratto con padron Bourgeaud non ha più valore. Le mie economie finiranno tra breve. Avevo investito ultimamente ingenti capitali per le riparazioni della sala e in riserve di vino, d'acquavite, di liquori. In verità, David potrà farsi rimborsare dall'ufficio incendi, ma si sa quanto quella gente sia avara. E comunque, poiché il povero ragazzo ha perduto tutta l'eredità, io non potrò chiedergli il poco denaro che riuscirà a strappar loro. Tutto ciò che avevo così faticosamente costruito è crollato... Che farò mai?» Audiger appoggiò la guancia ai morbidi capelli della giovane donna. «Non abbiate alcun timore, amor mio. Finché ci sarò io, voi e i vostri figli non mancherete di nulla. Non sono ricco, ma posseggo sufficiente denaro per aiutarvi. E appena il mio commercio sarà avviato, lavoreremo insieme, come eravamo d'accordo.» Ella si liberò dall'abbraccio. «Ma non era questo ciò che volevo!» esclamò. «Non ci tengo affatto a lavorare con voi come servente...» «Non come servente, Angelica.» «Servente o moglie, è la stessa cosa. Io volevo portare la mia parte, in quest'affare. Essere a pari diritti...» «Ecco il vostro guaio, Angelica, e non sono alieno dal pensare che Dio
abbia voluto punirvi del vostro orgoglio. Perché parlate sempre dell'eguaglianza della donna? È quasi un'eresia, mia cara. Se voi rimaneste modestamente al posto che Dio ha assegnato alle persone del vostro sesso, sareste più felice. La donna è fatta per vivere nella sua casa, sotto la protezione del marito ch'ella circonda delle sue cure, insieme ai figli nati dalla loro unione.» «Che quadro delizioso!» sogghignò Angelica. «Sappiate che una simile esistenza non mi ha mai tentato. È per gusto mio personale che mi sono lanciata nella mischia con i miei due bimbetti fra le braccia. Be', andatevene, Audiger! Mi sembrate di colpo talmente stupido da farmi venir voglia di vomitare.» «Angelica!» «Andatevene, ve ne prego.» Non poteva più sopportarlo. Così come non poteva più sopportare la vista della piagnucolosa Barbara, dell'inebetito David, della smarrita Giasmina e persino la presenza dei bambini che, con l'istinto degli esseri giovani che sentono in pericolo il loro universo, raddoppiavano i gridi e i capricci. Era stanca di tutti. Perché mai, dunque, si aggrappavano a lei? Ella aveva perduto il timone, e la tempesta la trascinava nel suo turbine, dove volavano come grandi uccelli i foglietti bianchi del velenoso Poetastro. Il marchese di La Vallière, rendendosi conto che sarebbe venuto anche il suo turno, decise di andarsi a confessare con la sorella, al palazzo di Biron, dove Luigi XIV aveva installato la sua favorita. Luisa di La Vallière, spaventata, consigliò tuttavia al giovane fratello di confidarsi lealmente al re. Ciò ch'egli fece. «Mi dispiacerebbe di far piangere, castigandovi troppo severamente, due begli occhi che mi sono cari,» gli disse Sua Maestà. «Lasciate Parigi, signore, e raggiungete il vostro reggimento nel Rossiglione. Soffocheremo lo scandalo.» Ma la cosa non era così semplice. Lo scandalo non voleva lasciarsi soffocare. Arrestavano, imprigionavano, torturavano, e ogni giorno, con la regolarità di un fenomeno della natura, un nuovo nome usciva fuori. Quello del marchese di La Vallière non avrebbe molto tardato, né quello del cavaliere di Lorena, né quello del fratello del re! Tutte le stamperie erano visitate, sorvegliate. La maggior parte dei rivenditori del Ponte Nuovo eran fi-
niti al Castelletto. Ma i libelli venivano trovati perfino nella camera della regina. Le persone che entravano e uscivano dal Louvre furono sorvegliate, gli ingressi guardati come quelli di una fortezza. Tutti gli individui che vi penetravano nelle prime ore del giorno: portatore d'acqua, lattaia, valletti ecc., furono frugati fino alla pelle. Le finestre e i corridoi avevano le loro sentinelle. Non era possibile che un solo uomo potesse uscire dal Louvre o potesse rientrarvi senza farsi notare. «Un uomo, no, ma un mezzo uomo, forse?» si diceva il poliziotto Desgrez, sospettando assai che il nano della regina, Barcarola, fosse il complice di Angelica. Così come erano suoi complici i pitocchi all'angolo delle vie, che nascondevano i fasci di libelli sotto i loro cenci, seminandoli sui gradini delle chiese e dei conventi; come erano suoi complici gli spadaccini notturni che, dopo aver spogliato un borghese ritardatario, gli davano «in cambio» alcuni foglietti da leggere «per consolarsi», le fioraie e le venditrici di arance del Ponte Nuovo, il Gran Matteo, che distribuiva, col pretesto di ricette gratuite offerte all'amabile clientela, le nuove elucubrazioni del Poetastro. Cosi come era suo complice lo stesso Grande Coesre, Cul di Legno, nel cui feudo Angelica, in una notte illune, aveva fatto trasportare tre casse piene di fogli contenenti le ultime cinque vittime della lista. Una incursione della polizia nelle catapecchie pidocchiose del sobborgo San Dionigi era poco probabile. Il momento sembrava scelto male per assalire un quartiere la cui resa avrebbe richiesto una vera e propria battaglia. Nonostante la loro vigilanza, arcieri, uscieri, guardie, non potevano essere dappertutto. La notte rimaneva onnipotente e la marchesa degli Angeli, aiutata dai suoi «uomini,» poté senza incidenti trasferire le casse dal quartiere dell'università sino al palazzo di Cul di Legno. Due ore dopo, lo stampatore e i suoi lavoranti venivano arrestati. Un rivenditore, imprigionato al Castelletto, e che aveva dovuto bere, per mano del carnefice, cinque coccome d'acqua fredda, aveva dato il nome del padrone. Furono trovate presso lo stampatore le prove della sua colpevolezza, ma nessuna traccia delle future denunce. Qualcuno sperò ch'esse non avessero ancora veduto la luce. Persero ogni illusione allorché, in mattinata, Parigi apprese la viltà del signor marchese di Tormes che, invece di difendere il piccolo venditore di cialde, aveva lasciato i suoi amici dicendo:
«Arrivederci, signori. Io vado a coricarmi dalla marchesa di Raquenau, secondo la mia abitudine.» Il marchese di Raquenau non ignorava affatto la sua disgrazia coniugale. Ma, vedendola proclamata in tutta la città, si trovò in obbligo di andare a provocare il rivale. Si batterono e il marito fu ucciso. Mentre il signor di Tonnes si rivestiva, uscì fuori il marchese di Gesvres e gli presentò l'ordine di arresto. Il marchese di Tormes, che non aveva ancora letto il libello accusatore, credeva che lo conducessero alla Bastiglia perché si era battuto in duello. «Restano solo quattro! Restano solo quattro!» contavano i monelli ballando la farandola. «Restano solo quattro! Restano solo quattro!» si gridava sotto le finestre del Palazzo Reale. Le guardie disperdevano a colpi di scudiscio la folla che le ingiuriava. Stanco morto, inseguito di nascondiglio in nascondiglio, Claudio Le Petit andò a rifugiarsi da Angelica. Era più pallido che mai, mal rasato, con un sorriso convulso. «Questa volta, bellezza, c'è odor di bruciato. Ho una certa idea che non riuscirò a scivolare tra le maglie della rete.» «Non dire così! Tu stesso m'hai detto cento volte che non ti possono impiccare.» «Si dice così quando nulla ha ancora diminuito la nostra forza. E poi, di colpo, la forza se ne fugge attraverso un'incrinatura e allora si vede chiaro.» Era stato ferito mentre fuggiva da una finestra di cui aveva dovuto spezzare i vetri e torcere i piombi. Ella lo fece coricare sul letto, lo medicò, gli diede da mangiare. Egli ne seguiva i movimenti con penetrante attenzione e lei era preoccupata di non ritrovare nelle pupille di lui l'abituale luce beffarda. «L'incrinatura sei tu,» diss'egli a un tratto. «Non avrei dovuto incontrarti... né amarti. Da quando hai cominciato a darmi del tu, ho capito che avevi fatto di me il tuo servitore.» «Claudio,» diss'ella, ferita, «perché vai a cercare una simile spiegazione? Io... Io ho sentito che tu mi eri molto vicino, che avresti fatto tutto per me. Ma, se vuoi, non ti darò più del tu.» Sedette sull'orlo del letto e gli prese la mano, posandovi la gota con un gesto affettuoso.
«Il mio poeta...» Egli si liberò e chiuse gli occhi. «Ah!», sospirò, «è questo, per me, il brutto. Vicino a te ci si mette a sognare di una vita in cui tu saresti sempre lì. Ci si mette a ragionare come un borghese idiota. Ci si dice: Mi piacerebbe rientrare ogni sera in una casa calda e luminosa dove lei mi starebbe ad aspettare. Mi piacerebbe ritrovarla ogni notte nel mio letto, tutta tiepida e grassottella, e sottomessa al mio desiderio. Mi piacerebbe avere una pancetta da borghese e starmene sulla soglia, la sera, e dire: mia moglie, parlando di lei con i vicini. Ecco ciò che uno si dice quando ti ha conosciuta. E si comincia a trovare che le tavole delle osterie sono dure per dormirvi sopra, che fa freddo tra le zampe del cavallo di bronzo, e che si è soli al mondo, come un cane senza padrone.» «Parli come Calembredaine,» fece Angelica pensierosa. «Anche a lui hai fatto del male, perché, in fondo, non sei che un'illusione, fuggitiva come una farfalla, ambiziosa, lucida, inafferrabile...» La giovane donna non rispose. Era al di là delle dispute e delle ingiustizie. Le apparve il volto di Goffredo di Peyrac, il giorno innanzi l'arresto, e anche quello di Calembredaine un po' prima della battaglia di San Germano. Certi uomini, nell'ora della sconfitta, ritrovano l'istinto delle bestie. Chi non ha notato la tristezza dei soldati che vanno al combattimento, dove li aspetta la morte? Questa volta, non bisognava lasciarsi prendere alla sprovvista: bisognava lottare contro la sorte. «Lascerai Parigi,» decise. «Il tuo compito è terminato poiché gli ultimi libelli sono scritti, stampati e in luogo sicuro.» «Lasciare Parigi? E dove andrei?» «Dalla tua vecchia nutrice, quella donna che ti ha allevato nelle montagne del Giura e di cui mi hai parlato. Presto verrà l'inverno, le strade saranno piene di neve, nessuno verrà a cercarti laggiù. Ora lascerai la mia casa insicura e ti rifugerai da Cul di Legno. A mezzanotte, stasera stessa, raggiungerai la porta Montmartre, sempre mal vigilata. Vi troverai un cavallo e, nella sacca della sella, del denaro e una pistola.» «D'accordo, marchesa,» diss'egli sbadigliando, e si alzò per partire. La sua fatalistica sottomissione tormentava Angelica più che una imprudente audacia. Era la stanchezza, la paura o l'effetto della ferita? Sembrava che agisse come un sonnambulo. Prima di lasciarla, la guardò a lungo, senza sorridere.
«Ora,» disse, «sei molto forte e ci puoi lasciare per via.» Ella non capì che cosa volesse dire. Le parole non penetravano più in lei e il corpo le doleva come fosse stato battuto. Non si attardò a guardare allontanarsi, sotto la pioggia sottile, la magra e scura figura del Poetastro. Nel pomeriggio, si recò al mercato degli animali della fiera di San Germano, comprò un cavallo che le costò una parte dei suoi risparmi, poi andò in via Valle d'Amore per «prendere a prestito» da Bel Ragazzo una delle sue pistole. Fu deciso che, verso mezzanotte, Bel Ragazzo, La Pivoine e alcuni altri si sarebbero recati con il cavallo alla porta Montmartre. Claudio Le Petit vi sarebbe giunto per suo conto, con alcuni uomini di fiducia di Cul di Legno. Lo avrebbero scortato durante la traversata dei sobborghi, fino alla campagna. Stabilito il piano, Angelica ritrovò un po' di calma. La sera, salì nella camera dei piccini, poi in soffitta, dove aveva alloggiato David ferito. Il ragazzo aveva una forte febbre, perché la ferita, mal curata, s'era infiammata. Più tardi, Angelica, nella sua stanza, cominciò a contare le ore. I bambini e le domestiche dormivano, la scimmia Piccolo, dopo aver grattato all'uscio, era andata ad accucciarsi sulla pietra del focolare. Angelica, i gomiti sulle ginocchia, contemplava il fuoco. Fra due ore, fra un'ora, Claudio Le Petit sarebbe stato fuor di pericolo. Ella avrebbe respirato meglio, e allora sarebbe andata a coricarsi e avrebbe cercato di dormire. Da quando c'era stato l'incendio della taverna della «Maschera Rossa», le pareva di aver dimenticato che cosa fosse il sonno. Il passo di un cavallo risuonò per la via, poi si fermò. Fu bussato alla porta. Con il cuore che le batteva forte, ella andò a scostare l'imposta della finestrella. «Sono io, Desgrez.» «Venite in nome dell'amicizia o della polizia?» «Apritemi. Poi ve lo dirò.» Ella tirò i catenacci pensando che la visita di un poliziotto nella sua casa era davvero spiacevole, ma che, in fondo, era lieta di vedere Desgrez piuttosto che rimanere sola a sentire ogni minuto dell'orologio caderle sul cuore come una goccia di piombo fuso. «Dov'è Sorbona?» chiese. «Non è con me, questa sera.»
Ella notò che, sotto il vestito bagnato, egli indossava un giustacuore di stoffa rossa guarnito di nastri neri e ornato di un collare e di polsi di pizzo. Con la spada e gli stivali muniti di speroni, sembrava quasi un piccolo gentiluomo di provincia assai fiero di trovarsi nella capitale. «Vengo da teatro,» diss'egli allegramente. «Una missione piuttosto delicata mi ci chiamava accanto a una bella dama.» «Non date più la caccia ai libellisti?» «Può darsi che, in questa occasione, abbiano capito che non avrei data intiera la mia misura...» «Avete rifiutato di occuparvi dell'affare?» «Non esattamente. Mi si lascia molto libero, capite. Sanno che ho il mio piccolo sistema personale.» Ritto dinanzi al fuoco, si fregava le mani per riscaldarle. Aveva posato su uno sgabello i guanti neri e il feltro. «Perché non vi siete arruolato nell'esercito del re?» gli chiese Angelica, ammirando la prestanza dell'ex avvocato miserabile. «Vi troverebbero un bel giovane e non dareste fastidio a nessuno... Non muovetevi... vado a prendervi un boccale di vino e delle cialde.» «No, grazie! Penso che, nonostante la vostra gentile ospitalità, sia meglio che mi ritiri. Ho ancora da fare un giro dalle parti della porta Montmartre.» Angelica sussultò e diede un'occhiata al suo orologio: le undici e mezzo. Se Desgrez si fosse diretto ora verso la porta Montmartre, era assai probabile che capitasse sul Poetastro e i suoi complici. Era un caso ch'egli vi si volesse recare, oppure quel diavolo d'uomo aveva fiutato qualcosa? No, era impossibile! Ella s'era decisa e aveva agito con estrema rapidità. Desgrez si rimetteva il mantello. «Così presto!» protestò Angelica. «Non capisco proprio i vostri modi. Arrivate a un'ora impossibile, mi fate scendere dal letto e subito ve ne andate.» «Non vi ho fatto scendere dal letto, non eravate svestita. Stavate fantasticando davanti al fuoco.» «Proprio così... Mi annoiavo. Suvvia, sedetevi.» «No,» fece lui annodando il cordone del colletto. «Più rifletto è più credo che farei meglio ad affrettarmi.» «Oh! questi uomini!» esclamò lei facendo il broncio. Si lambiccava il cervello per trovare un pretesto per trattenerlo.
Temeva meno per il poeta che per Desgrez l'inevitabile incontro che sarebbe accaduto se lo avesse lasciato andar via verso la porta Montmartre. Il poliziotto aveva una pistola e una spada, ma anche gli altri, e sarebbero stati numerosi. Inoltre, Sorbona quella sera non c'era. Ad ogni modo, era mutile che l'evasione di Claudio Le Petit si accompagnasse a una rissa, durante la quale un capitano delle guardie avrebbe rischiato d'essere ucciso. Bisognava assolutamente evitare che ciò accadesse. Ma già Desgrez lasciava la stanza. «Oh, è troppo da sciocchi,» pensò Angelica. «Se non sono capace di trattenere un uomo per un quarto d'ora, mi domando perché mai Dio mi ha fatto nascere di sesso femminile.» Lo seguì nell'anticamera e, mentre egli afferrava la maniglia della porta, ella posò la mano su quella di lui. La dolcezza del gesto parve sorprenderlo ed ebbe una lieve esitazione, come se ne cercasse la causa. «Buona notte, signora,» fece con un sorriso. «La notte non sarà buona per me se ve ne andate,» mormorò lei. «La notte è troppo lunga... quando si è soli.» Gli appoggiò la gota alla spalla. «Mi conduco come una cortigiana,» pensava, «ma tanto peggio! Qualche bacio mi farà guadagnare tempo. E anche se chiede di più, perché no? Dopo tutto, ci conosciamo da tanto tempo!» «Ci conosciamo da tanto tempo, Desgrez,» riprese ad alta voce, «e non avete mai pensato che tra noi... che...» «Non è vostra abitudine gettarvi addosso agli uomini,» disse Desgrez perplesso. «Che vi succede questa sera, bella mia?» Ma la sua mano aveva lasciato la maniglia della porta ed egli le prendeva la spalla. Con molta lentezza, come a malincuore, l'altro suo braccio si sollevò e andò a circondare la vita della giovane donna. Ma egli non la stringeva a sé. La teneva piuttosto come un oggetto leggero e fragile di cui non si sa che fare. Ella intuì tuttavia che il cuore del poliziotto Desgrez batteva un po' più rapido. Non sarebbe stato divertente riuscire a commuovere quell'uomo così indifferente e sempre padrone di sé? «No,» diss'egli infine rispondendo alla interrotta domanda di lei, «no, non ho mai pensato che noi due avremmo potuto "andare a letto insieme. Vedete, mia cara, per me l'amore è qualcosa di molto volgare. In questa, come in molte altre cose, ignoro il lusso ed esso non mi tenta. Il freddo, la fame, la povertà e le verghe dei miei maestri non hanno contribuito a darmi gusti raffinati. Sono un uomo da taverna e da bordello. Chiedo a una
sgualdrina di essere un buon animale, solido, un oggetto confortevole che si può maneggiare a proprio piacere. A dirvi la verità, mia cara, voi non siete il mio genere di donna.» Ella lo ascoltava piuttosto divertita, e senza togliere la fronte dal cavo della sua spalla. Sentiva sulla schiena le calde mani di Desgrez. No, non era così sprezzante come voleva affermare. Una donna come Angelica non s'ingannava. Troppe cose la legavano a Desgrez. Fece un risolino soffocato. «Mi parlate come se fossi un oggetto di lusso... non confortevole, come voi dite. Ammirate senza dubbio la ricchezza del mio vestito e della mia dimora?» «Oh! il vestito non conta; voi conservate sempre la coscienza della vostra superiorità che vi traspariva negli occhi una certa mattina, quando foste presentata a un avvocato miserabile e plebeo.» «Molte cose sono passate da allora, Desgrez!» «Molte cose non passeranno mai, e fra l'altro, l'arroganza di una donna i cui antenati erano, con Giovanni II il Buono, alla battaglia di Poitiers, nel 1356.» «Decisamente, voi sapete sempre tutto su tutti, poliziotto.» «Sì... Proprio come il Poetastro vostro amico.» La prese per le spalle e dolcemente, ma con fermezza, la staccò da sé guardandola in faccia. «Allora?... È dunque vero che a mezzanotte doveva essere alla porta Montmartre?» Ella trasalì, poi pensò che, ormai, il pericolo era passato. In lontananza, un orologio sgranava gli ultimi colpi della mezzanotte. Desgrez captò il lampo trionfante dei suoi occhi. «Già... già, è troppo tardi,» mormorò scuotendo la testa con aria pensierosa. «C'era molta gente che si era data appuntamento questa notte alla porta Montmartre. Tra gli altri, il signor comandante civile in persona, e venti arcieri del Castelletto. Forse, se fossi arrivato un po' prima, avrei potuto consigliare loro di andare ad aspettare la selvaggina altrove... O forse avrei potuto segnalare alla selvaggina imprudente di prendere un'altra strada?... Ma ora credo davvero... già, credo davvero che sia troppo tardi.» Flipot partiva di buon mattino per andare a prendere il latte fresco dei bambini al mercato della Pietra del latte. Angelica s'era appena addormentata d'un breve sonno agitato, allorché udì che tornava di corsa. Dimenti-
cando di bussare alla porta, egli passò la testa scapigliata nel vano. Gli occhi gli uscivano dalle orbite. «Marchesa degli Angeli,» mormorò, «ho visto... in piazza di Grève... il Poetastro.» «In piazza di Grève?...» ripeté lei. «Ma è proprio pazzo! Che fa lì?» «Tira la lingua,» rispose Flipot. «Lo hanno... lo hanno impiccato!» 12 «Ho promesso al signor d'Aubrays, comandante di polizia di Parigi, lui stesso impegnato dinanzi al re, che gli ultimi tre nomi della lista non sarebbero stati conosciuti dal pubblico. Questa mattina, nonostante l'impiccagione degli autori del libello, il nome del conte di Guiche è stato dato in pasto ai parigini. Sua Maestà ha capito benissimo che la condanna del principale colpevole non avrebbe arrestato la mano della giustizia immanente che si abbatterà su "Monsieur", suo fratello. Da parte mia, ho fatto comprendere a Sua Maestà che conoscevo il o i complici che, nonostante la morte del libellista, ne avrebbero continuato l'opera. E lo ripeto, ho promesso che i tre ultimi nomi non sarebbero apparsi.» «Appariranno!» «No!» Angelica e Desgrez si trovavano di nuovo faccia a faccia, in quello stesso luogo dove la sera innanzi Angelica aveva appoggiato la testa alla spalla del poliziotto. Ella non si sarebbe mai abbastanza rimproverata quel gesto. Ora, gli sguardi dei due interlocutori s'incrociavano come spade. La casa era deserta. Soltanto David, ferito e febbricitante, si trovava di sopra nella soffitta. Si udiva appena qualche rumore venir dalla strada. L'eco dell'agitazione popolare non giungeva in quel quartiere aristocratico. Le grida della folla che, sin dal mattino, sfilava nella piazza di Grève dinanzi alla forca da cui penzolava il corpo di Claudio Le Petit, Poetastro del Ponte Nuovo, si fermavano sulla soglia del Marais. Dopo quindici anni ch'egli inondava Parigi con i suoi epigrammi e le sue canzoni, nessuno poteva credere ch'egli fosse davvero morto e impiccato. La folla si mostrava i suoi capelli biondi smossi dal vento, le sue scarpe scalcagnate dai chiodi consumati. All'angolo di via della Conceria, la vecchia Hurlurette, col volto inondato di lagrime, gracchiava accompagnata dallo strumento di papà Hurlurot, il celebre ritornello:
Quando io me ne andrò All'abbazia di Sali-a-Malincuore, Per voi pregherò Tirando fuori la lingua... La folla, ascoltandolo, si agitava. In mancanza di meglio, tendevano il pugno verso il Municipio. Nella casetta di via dei Franchi Borghesi, la lotta proseguiva, aspra, implacabile, eppure a bassa voce, come se Angelica e Desgrez avessero sospettato la città intiera di spiare le loro parole. «Io so dove sono i fasci di foglietti che contate di far ancora distribuire,» diceva Desgrez. «Potrei chiedere l'aiuto dell'esercito, assalire il sobborgo San Dionigi e far tagliare a pezzi tutti i malintenzionati che si opponessero all'ispezione della polizia in casa del Grande Coesre, messer Cul di Legno. Tuttavia, c'è un modo più semplice di arrangiare le cose. Ascoltatemi, piccola sciocca, invece di guardarmi come una gatta furastica... Claudio Le Petit è morto. Doveva essere così. Le sue insolenze duravano da troppo tempo e il re non ammetterà mai di essere giudicato dalla plebaglia.» «Il re! Il re! Ve ne riempite la bocca. Un tempo eravate più fiero.» «La fierezza è un peccato di gioventù, signora. Prima di essere fieri bisogna sapere con chi si ha da fare. Io mi urtai, per forza di cose, contro la volontà del re. Ho rischiato di essere fatto a pezzi. Ecco la dimostrazione: il re è il più forte. Sto dunque dalla parte del re. A mio parere, signora, voi che avete la responsabilità di due giovani figli, dovreste seguire il mio esempio.» «Tacete, mi fate orrore!» «Ho udito parlare di una lettera-patente che desiderereste ottenere per la fabbricazione di una bevanda esotica, o qualche cosa del genere... E non pensate che una forte somma, ad esempio 50.000 lire, sarebbe ottima per iniziare un qualsiasi commercio? Oppure qualche privilegio, esenzione di diritti, che so? Una donna come voi non dev'essere a corto di idee. Il re è pronto ad accordarvi ciò che volete in cambio del vostro definitivo e immediato silenzio. Ecco la miglior maniera di terminare, per tutti, questo dramma. Il signor tenente colonnello sarà felicitato, a me accorderanno una nuova carica, Sua Maestà trarrà un sospiro di sollievo, e voi, mia cara, avendo rimesso a galla la vostra barca, seguiterete a vogare verso i più alti destini. Suvvia, non tremate come una puledra sotto lo scudiscio dell'alle-
vatore. Riflettete. Tornerò fra due ore a prendere la vostra risposta...» Avevano trasportato su una carretta, in piazza di Grève, lo stampatore Gilbert e due suoi lavoranti. Altre tre forche erano rizzate per essi accanto a quella del Poetastro. Mentre mastro Aubin passava nel nodo scorsoio la testa canuta dello stampatore, una voce nacque e si sparse ingrossandosi: «La grazia! Il re accorda la grazia.» Mastro Aubin esitò. Accadeva a volte che, ai piedi del patibolo, la grazia del re giungesse a strappare un condannato alle sue mani diligenti. In previsione di quegli improvvisi mutamenti del sovrano il carnefice doveva mostrarsi puntuale, ma senza fretta. Egli attese pazientemente che gli fosse presentato il ricorso di grazia firmato da Sua Maestà. Ma nulla comparve. Era un malinteso. La carretta dei Cappuccini, infatti, che veniva a prendere i corpi dei condannati a morte, non potendo aprirsi un passaggio tra mezzo a quella folla troppo densa, il monaco che guidava s'era messo a gridare: «Guarda! Guarda!» Avevano capito: «Grazia! Grazia!» Vedendo di che si trattava, mastro Aubin si rimise tranquillamente al lavoro. Ma padron Gilbert, rassegnato pochi istanti prima, non voleva più morire. Si dibatté e cominciò a gridare con voce terribile: «Giustizia! Giustizia! Mi appello al re! Mi si vuole uccidere mentre gli assassini del piccolo venditore di cialde e del rosticcere Bourgeaud se la godono in libertà. Mi si vuole impiccare perché mi sono fatto strumento della verità! Mi appello al re! Mi appello al re!» Il patibolo su cui erano drizzate le tre forche, scricchiolò sotto la pressione della folla. Assalito a colpi di pietra e di randello, il boia dovette abbandonare la presa e rifugiarsi sotto il palco. Mentre alcuni correvano a prendere un tizzone per dargli fuoco, sbucarono sulla piazza le guardie municipali a cavallo che, con gran sferzate, riuscirono a fare il vuoto intorno. Ma i condannati erano volati via... Fiera di avere strappato tre dei suoi figli alla forca, Parigi sentiva rinascere in sé lo spirito della Fronda. Si ricordava che, nel 1650, era stato il Poetastro a lanciare per primo le frecce delle «mazarinate». Finché era vivo lui, finché si poteva esser sicuri di udire di tanto in tanto la sua lingua acuminata farsi eco dei nuovi rancori, si potevano lasciar dormire rancori
antichi. Ma, ora ch'egli era morto, un terrore panico afferrava il popolo: l'impressione di essere a un tratto imbavagliato. Tutto risaliva alla superficie: le carestie del 1656, del 1658, del 1662, le nuove tasse. Peccato che l'italiano fosse morto! Sarebbero andati a incendiare il suo palazzo... Farandole corsero per i lungosenna gridando: «Chi ha sgozzato il piccolo venditore di cialde?» Mentre altre scandivano: «Domani... noi sapremo! Domani... Noi sapremo!» Ma, l'indomani, la città non ebbe la sua quotidiana fioritura di pagine bianche. Né i giorni che seguirono. Il silenzio ricadde. L'incubo si allontanava. Non si sarebbe mai saputo chi aveva ucciso il piccolo venditore di cialde. Parigi comprese che il Poetastro era morto davvero. Egli stesso, d'altronde, lo aveva detto ad Angelica. «Ora sei molto forte e ci puoi abbandonare per via.» Ella lo udiva di continuo ripeterle questo. E, durante le lunghe notti in cui non trovava un istante di riposo, se lo vedeva dinanzi, che la guardava con i suoi occhi chiari e brillanti come l'acqua della Senna quando vi si specchia il sole. Non aveva voluto andare in piazza di Grève. Le bastava che Barbara vi avesse accompagnato i due bambini, con più cura che al sermone, e non le avesse risparmiato alcun particolare del sinistro spettacolo: né i biondi capelli del Poetastro che gli ondeggiavano dinanzi al viso tumefatto, né i calzini scesi sui magri polpacci, né il calamaio di corno e la penna d'oca, che il boia, superstizioso, aveva lasciato nella cintura. «Taci, detesto le storie d'impiccati di cui siete così avidi, voi serventi e valletti,» protestava Angelica. Barbara pensava che la sua padrona aveva il cuore ben duro. Non si trattava, è vero, che di un povero gazzettiere affamato, uno di quei pazzi di giornalisti, ma, insomma, per quanto poetastro, quello lì aveva avuto la sua piccola celebrità. E poi, Barbara non era né cieca, né sorda. Da servente che si rispetta, non aveva impiegato molto a sapere chi era il discreto visitatore della sera che a volte grattava alla porta del loro padiglione, in via dei Franchi Borghesi. Barbara s'era più d'una volta lamentata con Giasmina dolendosi che quello strano uccellaccio nero fosse l'amante della bella Angelica, piuttosto del signor Audiger, così ben fatto e rispettabile. Tuttavia, le dispiaceva che la signora non desse, con qualche lagrima, una scusa sentimentale a quella strana passione. Delusa, Barbara si mostrò brontolo-
na e distante, ciò che non era nelle sue abitudini. Era stanca di salire in soffitta per curare quello scioccolone di David. Giasmina si offriva sollecita, ma Barbara non voleva saperne... C'erano già abbastanza scandali, sotto quel tetto, e non spettava a una ragazzetta di quattordici anni far moine a un giovane diciassettenne. Allora la ragazza, che in realtà non era insensibile ai begli occhi di David, teneva il broncio e faceva il suo servizio di malagrazia. Florimondo e Cantor approfittavano di quelle perturbazioni per battersi come due piccoli zingari e per strapparsi abbondanti ciuffi delle loro arruffate capigliature. A tre anni e mezzo Cantor era quasi forte come Florimondo a cinque. Angelica aveva l'impressione che non la smettessero mai di litigare e urlare. Alzandosi di letto, il terzo giorno, dopo una notte d'insonnia, Angelica disse fra sé: «Non posso più sopportare una simile esistenza.» Quel giorno, verso sera, doveva raggiungere Desgrez in casa di lui, in via del Ponte di Notre-Dame e di lì egli l'avrebbe accompagnata presso importanti personaggi con i quali si sarebbe concluso l'accordo segreto che avrebbe posto termine allo strano affare che ormai tutti avrebbero chiamato: l'affare del piccolo venditore di cialde. Le proposte di Angelica erano state accettate. In cambio, ella avrebbe consegnato a chi di diritto le tre casse di libelli stampati ma non diffusi, di cui i signori della polizia avrebbero fatto, di certo e con grande velocità, un bel fuoco. E la vita sarebbe ricominciata. Angelica avrebbe avuto di nuovo molto denaro. E solo lei avrebbe avuto il privilegio di fabbricare e vendere, in tutto il regno, la bevanda chiamata cioccolato. «Non posso più sopportare una simile esistenza,» ripeté Angelica fra sé. Accese la candela perché la luce del giorno ancora non spuntava. Lo specchio posato sul tavolino da toeletta le rinviò il riflesso del suo volto pallido e tirato. «Occhi verdi: un colore che porta disgrazia. È dunque vero,» si disse. «Io porto disgrazia a chi mi ama... o a chi amo.» Claudio il poeta?... Impiccato. Nicola?... Scomparso. Goffredo... Bruciato vivo. Si passò lentamente le mani sulle tempie. Tremava cosi forte dentro di
sé che respirava a fatica. Eppure, le sue palme erano calme e gelide. «Che sto facendo, a lottare contro tutti questi uomini forti e potenti? Non è il mio posto. Il posto di una donna è a casa, accanto al marito che ama, nel calore del fuoco, nella pace dell'intimità domestica e del bimbo che dorme nella sua culla di legno. Ti ricordi, Goffredo, di quel piccolo castello dove nacque Florimondo?... La tempesta dei monti sferzava i vetri, e io mi sedevo sulle tue ginocchia, appoggiando la guancia alla tua guancia. E guardavo con un po' di paura e una deliziosa fiducia il tuo strano viso su cui si agitavano i riflessi del fuoco... Come sapevi ridere mettendo in mostra i candidi denti. Oppure, mi coricavo nel nostro gran letto e tu cantavi per me, con quella voce profonda e vellutata che pareva come un'eco proveniente dai monti. Allora, mi addormentavo e tu venivi a distenderti accanto a me nella frescura delle lenzuola ricamate, profumate di giaggiolo. Ti avevo dato molto, lo sapevo. E tu, tu mi avevi dato tutto... E io mi dicevo, sognando, che saremmo stati estremamente felici...» Oscillò attraverso la stanza, andò a cadere in ginocchio presso il letto, nascose il viso nelle coperte. «Goffredo, amor mio!...» Sgorgava il grido da lei troppo a lungo trattenuto. «Goffredo, amor mio, ritorna, non mi lasciare sola... ritorna.» Ma egli non sarebbe più ritornato, lei lo sapeva. Era andato troppo lontano. Dove avrebbe potuto raggiungerlo, ormai? Non aveva neppure una tomba dove recarsi a pregare... Le sue ceneri erano state disperse al vento della Senna. Vide il fiume con il suo fluire ampio e vivo, e quella corazza d'argento che riveste al tramonto. Angelica si rialzò, il viso in lagrime. Sedette al tavolo, prese un foglio bianco e tagliò la penna. «Quando leggerete questa lettera, signori, io avrò cessato di vivere. So che attentare alla propria vita è un grande delitto, ma per questo delitto, Iddio che conosce le anime nel profondo, sarà il mio solo rifugio. Mi abbandono alla sua misericordia... «Affido la sorte dei miei due figli alla giustizia e alla bontà del re. «In cambio di un silenzio da cui dipendeva l'onore della famiglia reale, e che io ho rispettato, chiedo a Sua Maestà di chinarsi come un padre su quelle due piccole esistenze, iniziatesi sotto il segno delle più grandi disgrazie. Se il re non rende loro il nome e il patrimonio del padre loro, il
conte di Peyrac, almeno procuri loro i mezzi di sussistenza nella loro infanzia e, più tardi, l'educazione e le somme necessarie alla loro posizione...» Scrisse qualche altro particolare per la vita dei figli, chiedendo anche protezione per il giovane Chaillou, orfanello. Fece anche una lettera per Barbara, pregandola di non abbandonare mai Florimondo e Cantor, e lasciandole le povere cose che lei possedeva, vesti e gioielli. Mise la seconda lettera nel piego e la suggellò. Allora si sentì meglio, si dedicò alla propria toeletta, si vestì, ma trascorse la mattinata nella camera dei figli. Era come intormentita. La loro vista le fece bene, ma il pensiero che li avrebbe lasciati per sempre, non la turbava. Non avevano più bisogno di lei. Avevano Barbara, che conoscevano e che li avrebbe portati a Monteloup. Sarebbero stati allevati al sole e all'aria buona della campagna, lungi da quella Parigi fangosa e fetente. Lo stesso Florimondo aveva perso l'abitudine della presenza di quella madre che rientrava tardi, la sera, in una casa di cui avevano fatto il loro piccolo regno fra le due serventi, il cane Patù, i giocattoli e gli uccelli. Siccome però era Angelica che portava i giocattoli, si affrettavano quando la vedevano e brontolavano tirannicamente, reclamando ancora qualche cosa. Quel giorno, Florimondo si aggrappò al suo bel vestito di draghetto rosso dicendo: «Mamma, quando mi darai delle brache da ragazzo? Sono un uomo, ormai, sai?» «Mio caro, hai già un gran cappello con una bella piuma rossa. Molti bambini della tua età non ne hanno uno eguale, e si accontentano di una cuffia come quella di Cantor.» «Voglio le brache!» gridò Florimondo gettando a terra la sua trombetta. Angelica se ne andò, temendo una collera che l'avrebbe costretta a mostrarsi severa. Dopo pranzo, approfittò del sonno dei bambini per indossare il mantello e lasciare la casa. Recava con sé il piego suggellato. Sarebbe andata a consegnarlo a Desgrez, chiedendogli di portarlo alla famosa riunione segreta. Quindi, lo avrebbe lasciato e avrebbe camminato lungo le sponde. Avrebbe avuto parecchie ore dinanzi a sé. Aveva intenzione di camminare abbastanza a lungo. Voleva raggiungere la campagna, portarsi via come estrema visione l'immagine di prati ingialliti dall'autunno, degli alberi dorati,
voleva respirare un'ultima volta l'odore del muschio che le avrebbe ricordato Monteloup e la propria infanzia... 13 Angelica attese Desgrez nella sua casa del Ponte di Notre-Dame. Al poliziotto piaceva abitare sui ponti, mentre quelli cui dava la caccia vi abitavano sotto. Ma lo scenario era mutato dalla prima visita che Angelica gli aveva fatto, molti anni prima, in una delle case in rovina del Piccolo Ponte. Egli possedeva ora in proprio una casa sul ricchissimo Ponte di NotreDame, quasi nuovo e d'un cattivo gusto di borghese benestante, con le sue facciate adorne dei Termini che reggevano frutta e fiori, con i suoi medaglioni di re, le sue statue, tutto ciò dipinto «al naturale» con colori squillanti. La stanza dove Angelica era stata introdotta dal custode rifletteva il medesimo confort plebeo, ma la giovane donna gettò appena un'occhiata al vasto letto il cui baldacchino era sostenuto da colonne ritorte, e al tavolo da lavoro guarnito di oggetti in bronzo dorato. Non si faceva domande sulle circostanze che avevano potuto condurre l'avvocato a quella modesta agiatezza. Desgrez era al tempo stesso una presenza e un ricordo. Ella aveva l'impressione ch'egli sapesse tutto di lei, e ciò la riposava. Egli era duro e indifferente ma sicuro come un pilastro. Consegnando a Desgrez il suo supremo messaggio, ella avrebbe potuto allontanarsi a cuore tranquillo: i suoi figli non sarebbero rimasti abbandonati. La finestra aperta dava sulla Senna. Si udiva un rumore di remi. Grondarono come una cascata allorché, al passaggio del ponte, si ripiegarono tutti insieme. Fuori faceva bello. Il tempo era dolce. Un delicato sole di autunno brillava sul pavimento nero e bianco, accuratamente lucidato. Infine, Angelica udì nel corridoio lo sbatter di sperone di un passo deciso, nel quale riconobbe quello di Desgrez. Questi entrò, non mostrando, alla vista di lei, alcuna sorpresa. «Signora, vi saluto. Sorbona, resta fuori, con le tue zampe infangate.» Anche questa volta era vestito, se non con ricercatezza, almeno con comodità. Un passamano di velluto nero metteva in risalto il collo dell'ampio mantello, ch'egli gettò su una sedia. Ma ella ritrovò l'antico Desgrez al ge-
sto senza cerimonie con cui si liberò del cappello e della parrucca. Poi si slacciò la spada. Sembrava di ottimo umore. «Sono stato dal signor d'Aubray. Tutto va per il meglio. Incontrerete, mia cara, le più alte personalità del commercio e della finanza. È probabile che lo stesso signor Colbert assista alla seduta.» Angelica sorrise cortesemente. Quelle parole le apparivano vane, e non riuscivano a scuoterla dal suo inebetimento. Ella non avrebbe avuto l'onore di conoscere il signor Colbert. Nell'ora in cui quegli onnipotenti personaggi si sarebbero riuniti in qualche quartiere lontano, il corpo di Angelica di Sancé, contessa di Peyrac, marchesa degli Angeli, se ne sarebbe andato a fior dell'acqua fra le sponde dorate della Senna. Sarebbe stata libera, allora; più nessuno avrebbe potuto colpirla. E, forse, Goffredo l'avrebbe raggiunta... Trasalì perché Desgrez aveva parlato e lei non aveva udito. «Che cosa avete detto?» «Ho detto che siete in anticipo per l'appuntamento.» «Non è per questo che sono qui. In verità, passo da voi di corsa, perché un affascinante zerbinotto mi aspetta per accompagnarmi ad ammirare le ultime novità alla Galleria del Palazzo. Forse, dopo, mi condurrà alle Tuileries. Queste distrazioni mi permetteranno di aspettare senza nervosismo l'ora fatidica dell'appuntamento. Ma ho qui un plico che mi impiccia. Potreste tenermelo voi? Lo riprenderò passando.» «Ai vostri ordini, signora.» Egli prese il plico suggellato e, andando a una piccola cassaforte posata su una mensola, l'aprì e ve lo depose. Angelica si volse per prendere il ventaglio e i guanti. Tutto era molto semplice, si svolgeva senza urti. Altrettanto semplicemente ella avrebbe camminato, senza affrettarsi. Sarebbe solo bastato, a un certo momento, mutar direzione e andare verso la Senna... Il sole avrebbe fatto brillare l'acqua del fiume come un pavimento nero e bianco... Il rumore di una serratura le fece rialzare la testa. Vide Desgrez che girava la chiave della porta per chiuderla. Con aria del tutto naturale egli si fece scivolare la chiave in tasca, tornò sorridendo verso di lei e disse: «Accomodatevi ancora per qualche minuto. È da molto tempo che desidero farvi due o tre domande, e l'occasione della vostra visita mi sembra propizia.» «Ma... sono aspettata!»
«Vi aspetteranno,» fece Desgrez sempre sorridendo. «Del resto, credo che faremo presto. Sedete, vi prego.» Le indicava una sedia dinanzi al tavolo, ed egli stesso prese posto dall'altra parte. Angelica era troppo stanca per sollevare altre obiezioni. Da molti giorni, i suoi gesti non avevano maggior realtà di quelli di una sonnambula: alzarsi, sedersi, aspettare, ripartire... C'era però qualche cosa che non andava. Che cosa?... Ah! Ecco! Perché Desgrez aveva chiuso la porta a chiave? «Le informazioni che debbo chiedervi riguardano un affare piuttosto grave, di cui mi sto ora occupando. Ne dipende la vita di varie persone. Sarebbe troppo lungo, e del resto inutile, che ve ne spieghi la genesi. Basta che rispondiate alle mie domande. Ecco...» Parlava assai lentamente e senza guardarla. Con la mano posata a schermo sugli occhi semichiusi, sembrava assorto in una lontana visione. «Circa quattro anni fa, una notte, durante lo svaligiamento della casa di un farmacista nel sobborgo San Germano, il signor Glazer, due malfattori di basso rango furono arrestati. Per quel che mi ricordo, avevano, nell'ambiente del gergo, i soprannomi di Torciserratura e di Prudente. Furono impiccati. Tuttavia, prima di morire, durante la tortura, il nominato Prudente pronunciò certe parole che ho ultimamente ritrovato in un processo verbale del Castelletto e che illuminano singolarmente la mia attuale inchiesta. Concernono ciò che il signor Prudente ha visto in casa del signor Glazer durante la visita improvvisa che quella notte gli fece. Purtroppo, i termini sono imprecisi. Ê un discorso confuso che lascia sospettare molte cose e non prova nulla. Vorrei perciò chiedervi di illuminarmi maggiormente su tale argomento. Che cosa c'era in casa del vecchio Glazer?» Il mondo diveniva sempre più irreale. Lo scenario della stanza svaniva. Restava una sola luce, quella delle pupille marroni di Desgrez di colpo aperte e che avevano una specie di rosso e strano irradiamento, il bagliore di una squama traslucida. «È a me che fate questa domanda?» chiese Angelica. «Sì. Che cosa avete visto, quella notte, in casa del vecchio Glazer?» «Come volete che lo sappia? Mi pare che perdiate la testa.» Desgrez emise un sospiro e la luce dei suoi occhi si spense dietro le palpebre abbassate. Egli prese sul tavolo una penna d'oca e prese a rigirarla macchinalmente fra le dita. «C'era una donna, quella notte, dal vecchio Glazer, che accompagnava i
ladri. Non importa chi fosse! Una donna che portava un nome in quel ceto pericoloso, ho potuto rendermene conto: la marchesa degli Angeli. Non ne avete mai udito parlare? No? Quella donna era la compagna di un famoso bandito della capitale: Calembredaine. Calembredaine?... Fu agguantato nel 1661, alla fiera di San Germano, e fu impiccato...» «Impiccato!...» esclamò Angelica. «No, no,» fece dolcemente Desgrez, «non vi emozionate così, signora... No, non è stato impiccato. In verità, fuggì saltando nella Senna e... annegò. Il suo corpo fu ritrovato con due libbre di sabbia nella bocca, e gonfio come un otre. Peccato, un così bell'uomo! Capisco che impallidite! Torniamo dunque alla marchesa degli Angeli, degna compagna di quel figuro, che era, come sapete, un famoso ladrone, varie volte assassino, condannato alle galere, evaso, ecc.. Il regno di lei fu breve, ma edificante: partecipò a numerose ruberie, assalti a mano armata a carrozze come quella della figlia del comandante della guardia civile: ha a suo carico vari assassinii, fra cui quello di un arciere del Castelletto, cui aprì il ventre assai abilmente, vi prego di crederlo...» La mente di Angelica usciva dal suo torpore. Il panico l'assalì. Sentiva la trappola chiudersi su lei. Il suo sguardo si volse alla finestra aperta, da cui saliva il rumore dell'acqua. La Senna era lì... La suprema evasione! «Colerò fino in fondo. L'avrò finita con il mondo degli uomini, questo mondo odioso!...» «La marchesa degli Angeli si trovava con Prudente nella casa di Glazer. Essa ha visto quel che ha visto lui, e...» Di slancio, ell'era balzata verso la finestra. Vi trovò, più pronto di lei, Desgrez che le afferrò i polsi e la fece indietreggiare fino alla sedia, dove la rigettò brutalmente. La sua espressione si era trasformata. «Ah! questo no,» brontolò, «niente giochétti simili, con me!» Chinava su di lei il suo crudele volto della notte, il cui sorriso faceva paura. «Suvvia, sputa fuori e sbrigati, se non vuoi che ti faccia muovere io. Che hai visto da Glazer?» Angelica lo fissò. Il cuore le ribolliva di sentimenti tumultuosi, in cui si mescolavano timore e collera. «Vi proibisco di darmi del tu.» «Do sempre del tu a una sgualdrina che sto interrogando.» «Siete diventato pazzo del tutto?»
«Rispondi? Che hai visto da Glazer?» «Chiamerò aiuto.» «Puoi urlare finché vuoi. La casa è abitata da arcieri. Interdizione di entrare da me, anche se sentono gridare all'assassino.» Il sudore cominciò a stillare sulle tempie di Angelica. «Non debbo,» disse tra sé, «non debbo sudare. Nicola diceva che è un brutto segno. Significa che si è pronti a denunziare...» Uno schiaffo potente le si abbatté sulla guancia. «Vuoi parlare? Che hai visto da Glazer?» «Non ho nulla da dirvi. Villanzone! Lasciatemi andar via.» Desgrez le si accostò, e prendendola sotto i gomiti, la fece alzare con precauzione, come s'ella fosse stata gravemente malata. «Non vuoi parlare, tesoruccio mio?» fece con dolcezza inattesa, «non è gentile, sai. Vuoi proprio che mi arrabbi?...» La teneva stretta a sé. Con molta lentezza, le sue mani scivolavano lungo le braccia della giovane donna e le portavano indietro i gomiti. A un tratto, ella fu attraversata da un dolore spaventoso e lanciò un grido acuto. Sembrava che una tenaglia di ferro le avesse strappato le braccia. La presa del poliziotto era tale ch'ella non poteva fare un movimento senza avere l'impressione di ricevere una pugnalata nei fianchi. Ma erano soprattutto le dita che la facevano orribilmente soffrire, le dita divaricate, distese e di cui la minima pressione della mano di Desgrez rendeva la tortura ancor più intollerabile. «Su, parla! Che c'era da Glazer?» Angelica era bagnata di sudore. Uno spasimo insopportabile le martellava la nuca, le scapole, le invadeva le reni. «Eppure, non è terribile quel che ti chiedo. Una semplice informazione per un affare che non riguarda neppure te, né quei pezzenti dei tuoi compagni... Parla, bellezza, ti ascolto. Non vuoi ancora?» Fece un impercettibile movimento e le dita fragili della sua vittima scricchiolarono. Angelica urlò. Senza commuoversi, egli riprendeva: «Suvvia, l'amico Prudente, al Castelletto, parlava di una farina, di una polvere Manca... Anche tu l'hai vista?» «Sì.» «Che cos'era?» «Veleno... arsenico.» «Ah! sapevi anche ch'era arsenico?» fece lui ridendo. E la lasciò. S'era fatto serio e sembrava pensare ad altro. Spezzata dal
dolore, Angelica riprendeva fiato. Dopo un po', egli uscì dalle sue riflessioni, la spinse di nuovo sulla sedia e, attirando a sé uno sgabello, sedette dinanzi a lei. «Be', ora che sei ragionevole, non ti faremo più la bua.» Le stava vicinissimo e stringeva fra le ginocchia quelle tremanti di Angelica, che si guardava il palmo delle mani livide e come morte. «Adesso, racconterai la storia.» Chinava un po' la testa di lato e non la guardava più. Tornava ad essere il duro confessore dei sinistri segreti. Ella cominciò a parlare con voce monocorde. «Da Glazer c'era una stanza con delle storte... un laboratorio.» «Certo... tutti sanno ch'è farmacista.» «Quella polvere bianca stava sopra un piatto di bronzo. L'ho riconosciuta dal suo odore di aglio. Prudente volle assaggiarla ma glielo impedii dicendogli ch'era veleno.» «Che altro notasti?» «Vicino al piatto di arsenico c'era un pacchetto di carta pesante, con suggelli rossi.» «C'era scritto qualcosa?» «Sì: per il signor di Santa Croce.» «Benissimo. E poi?» «Prudente aveva rovesciato una storta che si ruppe. Il rumore dovette svegliare il proprietario della casa. Siamo scappati via, ma, mentre attraversavamo l'ingresso, lo abbiamo udito scendere per le scale, gridando: "Ninetta" - o qualcosa del genere - "avete dimenticato di chiudere i gatti?" E poi disse: "Siete voi, Santa Croce? Siete venuto a prendere il rimedio?"» «Benissimo! Benissimo!» «Dopo...» Il poliziotto fece un gesto di sprezzo. «Dopo non m'interessa. So quel che mi occorre...» Ella rivedeva la strada oscura in cui era balzato il cane Sorbona. Riviveva la sua tragica corsa. Il passato non voleva morire. Rinasceva, nero, sordido, cancellando di colpo i quattro anni di paziente e onesto lavoro. Tentò di inghiottire la saliva, ma aveva la gola dura come legno. Riuscì infine ad articolare: «Desgrez... da quanto tempo sapete?...» Egli le lanciò un'occhiata beffarda. «... Che tu sei la marchesa degli Angeli? Ecco, da quella notte. Credi che
sia mia abitudine lasciar andare una ragazza dopo averla presa, e specialmente di restituirle il coltello?...» Sicché, l'aveva riconosciuta! Sapeva tutte le tappe del suo decadimento. Si sentì bruciare di vergogna. Disse in fretta: «Debbo spiegarvi. Calembredaine era un contadino del mio paese... un compagno d'infanzia. Parlavamo lo stesso dialetto.» «Non ti chiedo di raccontarmi la tua vita,» brontolò Desgrez duramente. Ma ella gli si aggrappò, quasi urlando con voce lamentosa: «Sì... bisogna che dica... bisogna che comprendiate. Era il mio compagno d'infanzia. Era valletto al castello. Poi scomparve. Mi ritrovò quando venni a Parigi... Capite, mi voleva da quando eravamo laggiù... E tutti mi avevano abbandonata... Anche voi m'avevate abbandonato... in mezzo alla neve. Allora mi prese, mi sottomise... Ë vero ch'io lo seguii, ma non ho commesso tutti i delitti di cui mi accusate. Non fui io, Desgrez, a uccidere l'arciere Martin, ve lo giuro... Ho ucciso una volta sola. Sì, è vero, uccisi il Grande Coesre. Ma fu per salvare la mia vita, per strappare mio figlio a una sorte orrenda...» Desgrez alzò un sopracciglio con aria divertita e sorpresa. «Fosti tu a uccidere il Grande Coesre? Quel Rolin il Tozzo di cui tutti avevano paura?» «Sì.» Egli si mise a ridere piano. «Ah be'! Che razza di tipo questa marchesa degli Angeli! Tu, da sola? col tuo coltellaccio? Zàcchete!» Ella impallidì: il mostro era là, a due passi, accasciato su se stesso, con la gola aperta da cui il sangue sprizzava con gran singulti. Credette di dover vomitare. Desgrez le diede qualche colpetto sulla guancia ridendo. «Su, non fare quella faccia! Sembri tutta ghiacciata! Vieni qui che ti riscaldo.» L'attrasse sulle ginocchia, stringendola forte, poi le morse le labbra con violenza. Ella mandò un grido di dolore e si strappò alle braccia di lui. Aveva ripreso, di colpo, il suo sangue freddo, «Signor Desgrez,» disse, raccogliendo tutta la dignità che le rimaneva, «vi sarei grata se prendeste una decisione a mio riguardo. Mi arrestate o mi lasciate andar via?» «Né l'una cosa, né l'altra, per il momento,» rispose lui con disinvoltura. «Dopo una piccola conversazione come la nostra, non ci si può lasciare
così. Penseresti che il poliziotto è un gran lazzarone. Mentre io posso, quando voglio, essere tanto dolce!» Le si drizzò accanto. Sorrideva, ma i suoi occhi avevano ritrovato la loro luce di scaglia rossa. Senza ch'ella potesse accennare un gesto di difesa, la sollevò tra le braccia e mormorò, col volto chino su quello di lei: «Vieni, mia bella bestiola.» «Non voglio che mi parliate a questo modo,» gridò ella. E scoppiò in singhiozzi. Bruscamente, un uragano di lagrime, uno scatenamento di singhiozzi, che le strappavano il cuore, la soffocavano. Desgrez la portò sul letto dove la mise a sedere e rimase a lungo a guardarla tranquillamente, con molta attenzione. Poi, quando la violenza di quella disperazione si fu un poco calmata, cominciò a svestirla. Ella sentì sulla nuca il contatto delle dita di lui che toglievano le spille del corsetto con l'abilità di una cameriera. Inondata di lagrime, non aveva più un grammo di forza per resistere. «Desgrez, come siete cattivo!» singhiozzò. «Ma no, bellezza, non sono cattivo.» «Credevo che foste mio amico... Credevo che... Oh! Mio Dio! Come sono infelice!» «Zitta! Zitta! Che idee,» fece lui con tono di indulgente rimprovero. Con mano abile sollevava le ampie gonne, slacciava le giarrettiere, avvolgeva le calze di seta, le toglieva le scarpe. Quand'ella, non ebbe più che la camicia, si scostò ed ella lo udì che si svestiva a sua volta, fischiettando, gettando gli stivali, il giustacuore, il cinturone, ai quattro angoli della stanza... Poi con un salto la raggiunse sul letto e tirò le cortine. Nella penombra calda dell'alcova il gran corpo peloso di Desgrez pareva rosso e vellutato di nero. L'uomo non aveva perduto nulla della sua disinvoltura. «Ecco qua, ragazza mia! Che sono queste maniere? Basta piangere, ora ridiamo. Vieni un po' qui, su!» Le strappò la camicia e al tempo stesso le affibbiò sulle reni una pacca così sonora ch'ella balzò, rabbiosa per l'umiliazione, e gli piantò nella spalla i suoi dentini aguzzi. «Ah cagna!» gridò lui, «questo merita una correzione!» Ma ella si dibatté. Lottarono. Angelica gli gridava le più basse ingiurie
che riusciva a trovare. Ci passava tutto il vocabolario della Polacca e Desgrez rideva come un matto. Lo scoppio di quella risata, quei denti bianchi, l'acre odore di tabacco che si mescolava a quel sudore virile, sconvolgevano Angelica fino alle midolla. Era sicura di odiare Desgrez, di desiderarne la morte. Gli gridava che lo avrebbe ammazzato con il suo coltello. Ma egli rideva ancor più. Riuscì infine ad abbatterla sotto di sé e ne cercò le labbra. «Baciami,» diceva, «bacia il poliziotto... Obbedisci, o ti do un sacco di botte di cui ti ricorderai per tre giorni... Baciami... Meglio di così. Sono certo che sai baciare assai bene...» Ella non poteva più resistere all'imperiosa suggestione di quella bocca che la mordeva senza pietà ad ogni rifiuto. La sua risposta alle labbra di Desgrez segnò la fine della lotta. Con la stessa violenza con cui il rifiuto della sua collera l'aveva strappata da lui, il flusso del desiderio la rigettò, accecata, contro quel corpo che l'aveva vinta. La loro lotta acquistò un altro senso, quello dell'eterna lotta dei satiri e delle ninfe nei boschi d'Olimpo. L'allegria di Desgrez nell'amore era prodigiosa, inalterabile. Si trasmetteva ad Angelica come una febbre. Ella si diceva che Desgrez la trattava senza alcun rispetto, che mai nessuno l'aveva trattata a quel modo, neppure Nicola, neppure il capitano. Ma, con la testa riversa contro la sponda del letto, si udiva ridere come una ragazza solleticata. Aveva molto caldo, ora. Il suo corpo scosso da fremiti, si distendeva. L'uomo la riportò infine verso di sé con braccio imperioso. Per un attimo, ella intravide una maschera diversa: palpebre chiuse, gravità appassionata, un volto su cui era scomparso ogni cinismo; ogni ironia svaniva sotto la spinta di un sentimento unico. L'istante dopo, ella sentì che gli apparteneva. E lui rideva di nuovo, in maniera golosa e selvaggia. Non le piacque così. In quel momento, aveva bisogno di tenerezza. Un nuovo amante destava sempre, in lei, alla prima stretta, un riflesso di stupore e di paura, forse di disgusto. La sua eccitazione cadde. Una stanchezza pesante come piombo la invase. Si lasciava prendere, inerte, ma egli non pareva formalizzarsi. Ella ebbe l'impressione che usasse di lei come di una qualsiasi sgualdrina. Allora, si lamentò, rotando la testa da destra a sinistra. «Lasciami... Lasciami!» Ma egli si accaniva, come avesse voluto sfinirla completamente.
Tutto diveniva oscuro. La tensione nervosa che l'aveva sostenuta da molti giorni cedeva dinanzi a una stanchezza schiacciante. Non ne poteva più. Era senza forze, senza più lagrime, senza più voluttà... Si vide, destandosi, coricata sul letto devastato, braccia e gambe distese come una stella di mare, nella posizione in cui il sonno l'aveva afferrata. Le cortine del letto erano sollevate. Un raggio di sole rosa danzava sul pavimento. Udiva cantare l'acqua della Senna fra gli archi del ponte di NotreDame. Vi si mescolava un altro rumore, più vicino, una specie di grattare attivo e discreto. Volse il capo e scorse Desgrez che scriveva al suo tavolo. Aveva un alto colletto bianco inamidato e la parrucca. Appariva assai calmo e assorto nel suo lavoro. Lo contemplò senza capire. I suoi ricordi erano vaghi. Le pareva di avere il corpo pesante e la testa leggera. Si rese conto della sua posa impudica e raccolse a sé le gambe. In quel momento, Desgrez sollevò il capo e, vedendo ch'ella si era destata, posò la penna sullo scrittoio e si avvicinò al letto. «Come state? Avete dormito bene?» La sua voce era assolutamente cortese e naturale. Ella lo guardò con aria un po' stralunata. Non era molto sicura di lui. Dove dunque lo aveva veduto terrificante, brutale, dissoluto? In sogno, certamente. «Dormito?» balbettò. «Credete che abbia dormito? Da quanto tempo?» «In fede mia, sono almeno tre ore che ho sotto gli occhi questo grazioso spettacolo.» «Tre ore!» ripeté Angelica sobbalzando e tirando a sé le lenzuola per coprirsi, «ma è spaventoso! E l'appuntamento con il signor Colbert?» «Vi resta un'ora per prepararvi.» Andò verso la stanza vicina. «Ho lì una comoda stanza da bagno e tutto ciò che occorre per la toeletta delle dame: belletti, nei, profumi, ecc..» Tornò con sul braccio una serica veste da camera che le lanciò. «Mettetevi questo e sbrigatevi, bellezza.» Un po' stordita e con l'impressione di muoversi in un'atmosfera ovattata, Angelica prese a lavarsi e a rivestirsi. I suoi vestiti erano ripiegati con cura sopra una cassa. Dinanzi a uno specchio, c'era anche un gran numero di accessori, per lo meno strani in quel guardaroba di celibe. Vasi di biacca e di vermiglio, nero per le palpebre, una intera gamma di boccette di profu-
mi... La memoria tornava a poco a poco ad Angelica: non senza fatica, perché la mente le pareva completamente distaccata e incapace di rimettersi in moto. Si ricordò del sonoro schiaffone con cui il poliziotto l'aveva mezzo accoppata. Oh! era spaventoso; l'aveva trattata come una sgualdrina, senza il minimo rispetto. E sapeva ch'ella era la marchesa degli Angeli. Che ne avrebbe fatto di lei, ora? Udiva stridere la penna di Francesco Desgrez. A un tratto egli si alzò e chiese: «Riuscite a sbrigarvela? Posso servirvi da cameriera?» Senza attender risposta, entrò e prese ad annodare abilmente i cordoni della sua gonna. Angelica non sapeva più che pensare. Al ricordo delle carezze ch'egli aveva osato su lei, lo sgomento la paralizzava. Ma, in verità, Desgrez pareva a cento leghe dal pensarci. Ella poteva credere di aver sognato, se lo specchio non le avesse mostrato il proprio viso, un viso di donna sensuale e soddisfatta, dalle palpebre ammaccate dal piacere, dalle labbra gonfie del morso dei baci. Che vergogna! Il suo volto, anche agli occhi meno avvertiti, recava i segni dei violenti sollazzi in cui Desgrez l'aveva trascinata. Si posò macchinalmente due dita sulle labbra gonfie che continuavano a bruciarle quasi dolorosamente. Incontrò, nello specchio, lo sguardo di Desgrez, che accennò un sorrisetto. «Oh! sì, si vede,» disse, «ma non ha alcuna importanza. I grandi personaggi che incontrerete non ne saranno che più soggiogati... e forse vagamente invidiosi.» Senza rispondere, ella terminò di pettinarsi, e si applicò un neo all'angolo di uno degli zigomi. Il poliziotto si era allacciato il budriere e prendeva il cappello. Era veramente elegante, per quanto la sua tenuta avesse qualcosa di cupo e di austero. «State salendo la scala, signor Desgrez,» disse Angelica sforzandosi d'imitare la sua disinvoltura. «Ora portate la spada e il vostro appartamento è davvero molto borghese.» «Ricevo molto. Vedete, la società progredisce stranamente. È forse colpa mia se le piste ch'io fiuto mi portano sempre un po' più in alto? Sorbona diventa vecchio. Quando morirà, non lo sostituirò perché non sarà più ne-
gli antri pulciosi che bisognerà andare a cercare i peggiori assassini del nostro tempo, ma in altri luoghi.» Parve riflettere e aggiunse scuotendo il capo: «Nei salotti, ad esempio... Siete pronta, signora?» Angelica prese il ventaglio e accennò di sì. «Debbo restituirvi il plico?» «Quale plico?» «Quello che mi avete affidato giungendo qui.» Le sopracciglia della giovane donna si aggrottarono sotto lo sforzo della riflessione, poi di colpo ella si ricordò e sentì un lieve rossore salirle alla fronte: si trattava del plico contenente il proprio testamento ch'ella aveva consegnato a Desgrez con l'intenzione di andare poi a uccidersi? Uccidersi? Che strana idea. Ma perché mai voleva suicidarsi? Non era davvero il momento. Quando, per la prima volta dopo tanti anni, era sul punto di far giungere a buon fine tutti i suoi tentativi! Quando teneva quasi alla sua mercé il re di Francia!... «Sì, sì,» disse in fretta. «Rendetemelo.» Egli aprì la cassetta e le porse il plico suggellato. Ma, nel momento in cui ella stava per prenderlo, lo trattenne ed Angelica alzò su lui uno sguardo interrogativo. Desgrez aveva di nuovo negli occhi quel riflesso rosso che pareva penetrare come un raggio nel profondo dell'anima. «Volevate morire, è vero?» Angelica lo sogguardò, come una bimba colta in fallo, poi abbassò la testa con un cenno affermativo. «E ora?» «Ora?... Non so. Non è il caso, comunque, ch'io non approfitti della debolezza di tutta quella gente per trarne un utile. L'occasione è unica e sono convinta che, se riesco a lanciare il cioccolato, dopo potrò rifare di sicuro la mia fortuna.» «Ottimamente.» Le riprese il plico e andò a gettarlo nel fuoco che ardeva nel caminetto. Allorché l'ultimo foglio si fu consumato, tornò da lei, sempre calmo e con un lieve sorriso. «Desgrez,» mormorò Angelica, «come avete indovinato?...» «Oh! mia cara,» esclamò lui ridendo, «credete ch'io sia tanto poco furbo da non trovare sospetta una donna che capita da me con aria smarrita, senza cipria né rossetto, e che racconta oltre tutto di avere appuntamento con uno zerbinotto per andare a passeggiare alla Galleria del Palazzo?... E
poi...» Parve sopra pensiero. «Vi conosco troppo bene. Ho capito subito che qualche cosa non andava, che era grave e che bisognava agire presto e con forza. In considerazione delle mie amichevoli intenzioni, signora, mi perdonerete per avervi trattata brutalmente, non è vero?» «Non lo so ancora,» diss'ella con un certo rancore, «rifletterò.» Ma Desgrez si mise a ridere, covandola con un caldo sguardo. Ella ne fu umiliata. Ma, al tempo stesso, diceva fra sé che non aveva, al mondo, un amico migliore. Egli riprese: «Quanto alla informazione che mi avete dato... con tanta buona grazia, non preoccupatevene. Mi è preziosa, ma non era che un pretesto. La tengo per me, ma ho già dimenticato chi me l'ha fornita. Ancora un consiglio, signora, se lo permettete a un modesto poliziotto: guardate sempre davanti a voi, non volgetevi mai al passato. Evitate di rimuoverne le ceneri... quelle ceneri che sono state disperse al vento. Perché, ogni volta che ci penserete, vi verrà desiderio di morire. E io non sarò sempre lì per risvegliarvi in tempo...» Mascherata e, per maggior precauzione, con gli occhi bendati, Angelica fu condotta con una carrozza dalle cortine abbassate in una casetta nei pressi di Vaugirard. Le fu tolta la benda soltanto in un salotto rischiarato da pochi candelieri, in cui si trovavano quattro o cinque personaggi in parrucca, assai compassati e che non parevano molto soddisfatti di vederla. Senza la presenza di Desgrez, Angelica avrebbe temuto di essersi lasciata prendere in un tranello da cui non avrebbe dovuto uscir viva. Ma le intenzioni del signor Colbert, un borghese dalla fisionomia fredda e severa, erano leali. Nessuno più di quel plebeo che disapprovava le orge, e le spese pazze della gente di corte, poteva meglio ammettere la giustizia delle richieste che Angelica rivolgeva al re. Sua Maestà lo aveva capito, un po' di controvoglia e forzatovi, bisogna riconoscerlo, dallo scandalo dei libelli del Poetastro. Angelica si rese presto conto che si discuteva solo per la forma. La sua posizione personale era eccellente. Quand'ella lasciò, due ore dopo, la dotta assemblea, recava con sé la promessa che un dono di 50.000 lire le sarebbe stato consegnato sui fondi privati del re, per la ricostruzione della taverna della «Maschera Rossa».
La patente di cioccolateria accordata al padre del giovane David Chaillou sarebbe stata confermata. Questa volta vi avrebbe figurato il nome di Angelica, e fu ben specificato ch'ella non avrebbe dipeso da alcuna corporazione. Erano accordate ogni sorta di facilitazioni per ottenere le materie prime. Infine, a titolo di riparazione personale, ella chiedeva, per sé, di diventare proprietaria di un'azione della Compagnia delle Indie Occidentali, fondata di recente. Quest'ultima clausola sorprese assai i suoi interlocutori. Ma quei signori finanzieri si accorsero che la giovane donna conosceva perfettamente gli affari. Ella fece loro notare che il suo commercio interessava in modo particolare derrate esotiche e che la Compagnia delle Indie Occidentali non avrebbe potuto che rallegrarsi di una cliente che aveva ogni interesse a che la detta Compagnia prosperasse e fosse sostenuta dai capitalisti del regno. Il signor Colbert riconobbe brontolando che le rivendicazioni di quella persona erano sì pesanti, ma pertinenti e ben fondate. Nel complesso, tutto fu accordato. In cambio, gli sbirri del signor d'Aubray, comandante di polizia, dovevano recarsi in una catapecchia in aperta campagna per prendervi una cassa deposta lì anonimamente e piena di libelli su cui si leggevano in grassetto i nomi del marchese di La Vallière, del cavaliere di Lorena e del signor d'Orleans, fratello del re. Nella stessa carrozza dalle imposte chiuse che la riconduceva a Parigi, Angelica cercava di non manifestare il proprio ottimismo e la propria gioia. Non le sembrava decente esser così contenta, soprattutto quando pensava da quali orrori era uscito quel trionfo. Ma, insomma, così com'erano ormai messe le cose, ci sarebbe voluto il diavolo perché essa non giungesse, un giorno, ad essere una delle persone più ricche di Parigi. E con il denaro, dove non avrebbe potuto arrivare? Sarebbe andata a Versailles, sarebbe stata presentata al re, avrebbe ripreso il suo rango e i suoi figli sarebbero stati educati come giovani signori. Al ritorno, non le erano stati bendati gli occhi, perché era notte fonda. Era sola nella carrozza, ma tutta presa dai suoi calcoli e dai sogni, il tragitto le parve breve. Udiva intorno a sé lo schiocco degli zoccoli dei cavalli d'una piccola scorta. A un tratto, la vettura si fermò e una delle tendine fu sollevata dall'esterno. Al lume di una lanterna, ella vide il volto di Desgrez sporgersi allo sportello. Era a cavallo. «Vi lascio qui, signora. La carrozza vi condurrà a casa. Fra due giorni,
penso che vi rivedrò per consegnarvi quanto dovuto. Va tutto bene?» «Credo. Oh! Desgrez, è meraviglioso. Se riuscirò a lanciare la cioccolateria, sono certa che la mia fortuna sarà fatta.» «Ci riuscirete. Evviva il cioccolato!» disse Desgrez. Si tolse il cappello e, inchinandosi, le baciò la mano forse un po' più a lungo di quanto autorizzasse la cortesia. «Addio, marchesa degli Angeli!» Ella fece un sorrisetto. «Addio, poliziotto!» Parte seconda Le signore del Marais 14 Il salumaio di piazza di Grève prendeva il fresco davanti alla sua bottega. Era uno dei primi giorni di primavera. Il cielo si mostrava radioso. Non v'era alcun impiccato sulla forca, nessun preparativo di esecuzione, e dall'altra parte della Senna le torri quadrate di Notre-Dame si drizzavano nel cielo color pervinca, in un gran volo di piccioni e di cornacchie. L'aria era così pura che, dalla bottega, si poteva udire il tic tac del mulino a ruota di padron Hughes giù sulla sponda del fiume. Non c'era molta gente sulla piazza, quella mattina. Si capiva che la Quaresima non era lontana. La gente cominciava a camminare più adagio, a far già il muso lungo, come se sacrificarsi una volta l'anno per Nostro Signore, fosse stata una catastrofe. Padron Lucas, il salumaio, sarebbe stato costretto a chiuder bottega, è vero. Avrebbe perso del denaro e sua moglie avrebbe brontolato come una scrofa rabbiosa. Ma la penitenza è la penitenza! Che cristiani sono quelli che vogliono far penitenza senza soffrire? Padron Lucas ringraziò nel suo cuore la Santa Chiesa di aver istituito la Quaresima che gli consentiva di associare i suoi crampi di stomaco ai dolori di Cristo in croce. Una bella carrozza sbucò sulla piazza, fermandosi non lontano dalla salumeria. Ne scese una donna, una donna assai bella, pettinata alla nuova moda delle signore del Marais: capelli corti, in stretti ricciolini, con due ricci più lunghi che scivolavano giù per il collo e andavano a posarsi graziosamente sul petto. Padron Lucas vedeva anche in ciò un segno della pazzia dei tempi: le donne si tagliavano i capelli, il più bell'ornamento do-
nato loro da Dio. Sarebbe stato proprio bello che sua moglie, oppure la loro figlia Giovannina, si fossero tagliate i capelli per imitare le gran dame! Anche ai giorni della più dura carestia, nel 1658, quando in casa mancava il denaro, padron Lucas si era opposto che sua moglie vendesse la sua chioma a quei dannati parrucchieri sempre avidi di averne per i signori. Così andava il mondo nella sua follia: si tagliavano i capelli alle donne per metterli sulla testa degli uomini! La dama guardava le insegne e sembrava cercare qualche cosa. Quand'ella si avvicinò alla salumeria Sant'Antonio, padron Lucas la riconobbe. Gliela avevano indicata una volta al mercato dove aveva due magazzini. Non era una nobile, come il suo portamento e la bellezza delle sue vesti avrebbero potuto far supporre, ma una delle più ricche mercantesse di Parigi, una certa signora Morens. Avendo avuto l'ingegnosa idea di lanciare la moda del cioccolato, aveva fatto fortuna. Non soltanto ella dirigeva la cioccolateria «La Nana Spagnola», nel sobborgo Sant'Onorato, ma era anche proprietaria di diversi ristoranti e taverne ben conosciuti. Ella aveva inoltre le mani in pasta in imprese più modeste ma redditizie come quella delle «carrozze a cinque soldi» e alcune botteghe della fiera di San Germano, oltre al monopolio di vendita degli uccelli sui lungosenna della Mégisserie. Quattro fra i commercianti che seguivano la corte nei suoi spostamenti le pagavano le tasse di esercizio. Dicevano che fosse vedova, che avesse cominciato con poco, ma che fosse abile negli affari tanto che le maggiori personalità della finanza e perfino il signor Colbert amavano intrattenersi con lei. Ricordandosi di tutto ciò, padron Lucas, quand'ella gli sì rivolse, si levò il berretto e s'inchinò per quanto glielo permetteva il piccolo ventre rotondo. «Abita qui padron Lucas, salumaio all'insegna di Sant'Antonio?» chiese lei. «Sono io, signora, per servirvi. Se volete degnarvi di entrare nella mia umile bottega...» La precedeva, già calcolando la grossa ordinazione che poteva sperarne. «Ho qui cervelle, salsicciotti più belli da vedere dell'agata, più saporiti del nettare, del salume che profuma la minestra e tutti i piatti cui si mescola, anche se con un pezzetto non più grande di un dado; ho anche questo prosciutto rosso che...» «Lo so... lo so che tutto ciò che fabbricate è ottimo, padron Lucas,» in-
terruppe lei gentilmente, «e vi manderò fra poco un servitore per farvi la mia ordinazione. Ma, se sono venuta io stessa, questa mattina, è per un'altra cosa... Ecco. Io ho un debito verso di voi, padron Lucas, da molti anni, e non l'ho ancora saldato.» «Un debito?» ripeté il salumaio stupito. Guardò attentamente il bel viso dell'interlocutrice ma scosse il capo, sicuro di non averle mai rivolto la parola. Ella sorrise. «Sì. Vi debbo il prezzo della visita di un medico e di un farmacista che faceste venire per curare una povera ragazza che cadde malata dinanzi alla vostra porta... Sono trascorsi quasi cinque anni.» «Be', ma questo non mi dice chi voi siate,» fece egli benevolmente, «perché non mi è capitato una volta sola, davvero, di curare le persone che si sentono male sulla mia porta. Con tutto ciò che accade in piazza di Grève, avrei fatto meglio a fare il monaco ospitaliero che non il salumaio. Non è un posto per chi vuol vivere tranquillo. In compenso, ci sono delle distrazioni. Raccontatemi un po' come andarono le cose, in modo che mi tornino in mente.» «Era una mattina d'inverno,» disse Angelica con voce che, senza ch'ella lo volesse, si alterò. «Bruciavano uno stregone in piazza di Grève. Volli assistere all'esecuzione e venni qui ma feci male perché ero incinta e quasi a termine. Il fuoco mi spaventò. Svenni e mi risvegliai in casa vostra. Voi avevate chiamato un medico.» «Sì! Sì! Ora ricordo,» borbottò lui. Il sorriso gioviale era scomparso dal suo viso. Fissava Angelica con espressione perplessa, in cui c'era pietà e anche un certo timore. «Sicché, eravate voi,» disse piano. «Povera donna!» Angelica si sentì infuocare le guance. Sapeva che quel passo le avrebbe riportato dolorosi ricordi. S'era ripromessa di non gettare neppure uno sguardo dietro di sé e di ripetersi ch'essa era la signora Morens, provveduta d'una solida fortuna e di una reputazione quasi senza macchia. Ma l'esclamazione del brav'uomo liberò la sua emozione ed ella si rivide, perduta nella folla, urtata, pestata d'ogni parte, così pietosa coi suoi grandi occhi smarriti, il suo povero corpo sformato. Si raddrizzò, lisciò la gonna di seta azzurra, i merletti che sbuffavano ai polsi ornati di gioielli. Disse, sforzandosi di sorridere: «È vero. Ero una povera donna, allora, e voi foste molto buono, padron Lucas. Ma vedete, la vita, in seguito, si è mostrata più clemente per me, e
oggi posso ringraziarvi come meritate.» Dicendo ciò, trasse una pesante borsa di cuoio che aveva preparato e la depose sul banco. Il salumaio parve non farci caso. Seguitava a guardarla con aria attenta e sospettosa. «Elisa, vieni un po' qui,» gridò di sopra la spalla. La salumaia si avvicinò e s'inchinò nelle sue numerose sottane di ferrandina guarnite di velluto. Aveva udito la conversazione. «Siete molto cambiata, è vero,» diss'ella, «ma vi avrei riconosciuto non foss'altro che dagli occhi. Mio marito ed io ci siamo spesso rimproverati per avervi lasciata andar via in quello stato e abbiamo spesso desiderato di ritrovarvi.» «Tanto più...» «... che pensavamo che avremmo dovuto dirvi la nostra idea...» «... su ciò ch'era accaduto prima.» «... Al caso foste stata della sua famiglia...» Parlavano imbarazzati, interrogandosi con lo sguardo e rispondendosi come in una litania. «Di quale famiglia?» chiese Angelica stupita. «Della famiglia dello stregone, caspita!» La giovane donna scosse la testa, sforzandosi di mostrarsi indifferente. «No, in verità, non appartenevo alla sua famiglia.» «Questo capita. Ci sono molte mogli che vengono per l'esecuzione e svengono dinanzi alla mia porta. Ma in tal caso... se non siete della sua famiglia...» «Che m'avreste detto se fossi stata della sua famiglia?» «Be'! Quello che era accaduto nella bottega dell'oste della "Vite azzurra", nostro vicino, quando la carretta si fermò e lo stregone fu fatto scendere perché bevesse un bicchiere prima di salire sul rogo.» «Che avvenne?» L'uomo e la donna si gettarono un'occhiata. «Oh! capite,» disse padron Lucas, «non sono cose da raccontare a chiunque... voglio dire, insomma, a persone cui non riguardano. C'è qualcuno della sua famiglia al quale ciò potrebbe interessare... e... dato che voi non lo conoscete...» Gli occhi di Angelica andavano dall'uno all'altro dei due visi rubicondi. Vide in essi soltanto bontà, ingenua cortesia. «Sì, lo conoscevo,» mormorò con voce soffocata. «Era... mio marito!» Il salumaio scosse il capo.
«Lo pensavamo... Ascoltate, allora.» «Aspetta...» disse la donna. Andò alla porta, la chiuse con cura e mise le due imposte di legno dinanzi alla mostra dove erano esposti i prodotti all'occhio dei passanti. Nella penombra impregnata dell'odore appetitoso delle salsicce, del lardo, del prosciutto, Angelica, con il cuore che le batteva forte, si chiedeva quali rivelazioni l'attendessero. Il suo passo era stato senza secondi fini. Si era spesso rimproverata per non avere ancora rimborsato quella brava gente che l'aveva soccorsa, ma rimandava sempre quel momento. Che avrebbero potuto dirle ch'ella già non sapesse?... Il boia non aveva acceso il rogo?... Il corpo di Goffredo di Peyrac non era stato consumato, le sue ceneri non erano state disperse al vento?... «Fu padron Gilbert, l'oste, a raccontarci questo,» spiegò il salumaio. «Parlò una sera che aveva bevuto e il segreto gli pesava. Dopo, ci fece giurare di non ripetere nulla perché, con simili storie, non ci vuol molto a ritrovarsi una bella sera con una spada nella gola. Disse che, la vigilia dell'esecuzione, alcuni uomini mascherati andarono a trovarlo e gli offersero un sacco pieno di scudi. Che cosa volevano in cambio? Che padron Gilbert lasciasse loro l'osteria per tutta la mattinata seguente. Certo, un'osteria in piazza di Grève, nelle mattine di esecuzione, fa buoni affari, ma ciò che stava nel sacco avrebbe superato di almeno tre volte quello che avrebbe potuto guadagnare. Allora disse: "Qua la mano, caspita, siete in casa vostra!" L'indomani, quando gli uomini mascherati tornarono, egli mise le imposte e si ritirò in camera con la famiglia e le serventi. «Di tanto in tanto, per distrarsi, guardava per un buco del tramezzo quel che facevano gli amici mascherati. Non facevano niente. Stavano seduti intorno ai tavoli e sembrava che aspettassero. Alcuni s'erano tolti la maschera, ma Gilbert non li conosceva. Bisogna dire che immaginava la ragione per cui gli avevano chiesto di cedere la bottega. Ci sono dei grandissimi scantinati, sotto la bottega, che sono antiche fondazioni romane, e c'è pure un sotterraneo mezzo crollato che comunica con le rive della Senna. Detta fra noi, certe volte egli se ne serve per farsi venire in casa qualche botte senza pagare diritti a quei signori del Municipio. «Non si stupì molto, perciò, quando vide gli amici alzarsi e sollevare il tavolato della cantina. In quel momento, la folla cominciava a gridare perché la carretta del condannato stava giungendo sull'angolo di via della Coltelleria e della piazza. Tutti erano alle finestre meno Gilbert, che teneva l'occhio al tramezzo perché s'interessava a ciò che avveniva nella sua oste-
ria. «Vide altri uomini uscire dalla cantina. Portavano un pacco abbastanza lungo, avvolto in un sacco... Non poté vedere quel che c'era dentro, ma pensò: "Parola mia, ha tutta l'aria di un cadavere". «Fuori, gridavano sempre più forte. La carretta era giusto dinanzi all'insegna della "Vite azzurra" e c'era una specie di confusione, di spinta contraria della folla che le impediva di avanzare. Mastro Aubin urlava e i suoi aiutanti tiravano frustate; ma la carretta non andava più avanti. In attesa che si sgombrasse, mastro Aubin decise di entrare alla "Vite Azzurra" per cercare di dare un po' di forze al suo cliente con un bicchierino di acquavite. Lo fa spesso. Anche lui bevve, insieme ai suoi aiutanti. Bisogna riconoscere che il mestiere di boia richiede un po' di rinforzante, non è vero? «Quando la porta si aprì, Gilbert vide benissimo il condannato. Aveva la camicia bianca macchiata di sangue, i lunghi capelli neri che pendevano fino a terra... Perdonatemi, signora, se vi faccio del male. Elisa, va' a prendere una bottiglia con dei bicchierini.» «No, vi prego, continuate,» supplicò Angelica ansante. «È che... non c'è più molto da dire, in verità. Gilbert stesso lo confessa. Non vide nulla. La bottega era oscura. Udiva mastro Aubin gridare perché non c'era nessuno per servirgli da bere. Gli arcieri, fuori, impedivano di entrare. Avevano deposto il condannato su una tavola.» «E che facevano gli uomini mascherati?» «Stavano in piedi, seduti, come saperlo? Era scuro. Gilbert lo dice: non ho visto nulla. Ma è più forte di lui. Non può fare a meno di pensare che il pacco che gli altri si sono portati via, dopo, non aveva lo stesso contenuto del precedente e che... che fu il primo cadavere uscito dalla cantina quello che bruciarono quel giorno in piazza di Grève!» Angelica si passò una mano sulla fronte. La storia le sembrava pazzesca ed ella si chiedeva perché gliela raccontavano. Non riusciva a rendersi ben conto del significato nascosto di quel racconto. La luce penetrò a poco a poco attraverso il suo stupore. Ciò significava che, forse, Goffredo non era morto. Ma era mai possibile? Lo aveva visto bruciare, grande sagoma nera legata al palo. Era rimasta sola, preda di tutti... Mai una luce si era alzata nella sua notte, una parola, un messaggio, un segno amico... Goffredo vivo! E lei avrebbe dovuto aspettare più di cinque anni perché gliene fosse fatto un cenno... da un salumaio che, per sua confessione, non aveva visto nulla, limitandosi a ripetere le parole di un ubriaco... Che pazzia!
Goffredo vivo... Avrebbe potuto rivederlo, toccarlo... Rivedere il suo viso misterioso, affascinante, unico, il suo viso». Spaventoso e così bello! Dov'era mai? Perché non era ancora tornato? Ah! Se non era ancora tornato, è perché era morto. Era morto! Non c'era alcuna speranza. «Calmatevi,» diceva la salumaia. «Non tremate così. Non è che una supposizione, quella che vi si dice. Suvvia, bevete un po' di vino.» Il vino, assai forte, le fece bene. Ella respirò profondamente due o tre volte e riprese gli spiriti. Ma rimaneva stroncata come dopo una malattia breve e violenta. Scosse tristemente il capo: «Quel che mi avete raccontato è strano, in verità. Ma come interpretarlo? Se ci fosse stata sostituzione di condannato, mastro Aubin se ne sarebbe in seguito accorto, quando gli mise addosso il mantello con cappuccio prima di legarlo al rogo. Bisognerebbe pensare che mastro Aubin fosse stato pagato in cambio della sua complicità e...» Rabbrividì. «Se aveste visto una sola volta il boia come lo vidi io, capireste che ciò è impossibile.» Le due buone persone fecero un gesto d'impotenza. «Non sappiamo niente di più, mia povera signora! Abbiamo pensato che la cosa vi avrebbe interessato. Ci dicevamo spesso: "Perché quella poveretta non è più tornata? Forse la nostra storia potrebbe ridarle un po' di speranza!"» «Cinque anni,» mormorò Angelica. «E nulla durante tutto questo tempo! Se avesse avuto amici tanto devoti - ma quali? - da strapparlo a quel modo, all'ultimo momento, dalle mani del carnefice, tanto ricchi da pagare la somma enorme che sarebbe occorsa per circonvenire mastro Aubin, perché nessuno, da allora, mi avrebbe dato un sol segno? No, tutto questo è pura follia!» Si alzò. Le gambe le tremavano. Non poté fare a meno di gettare uno sguardo preoccupato sui suoi interlocutori: «Perché mi avete raccontato una cosa simile? Volete tradirmi?» «Oh no! Per chi ci prendete, amica mia?» «Allora, perché? Volete altro denaro?» «Voi perdete la testa,» disse il piccolo salumaio raddrizzandosi con improvvisa dignità. «Mi piace render servizio al prossimo, ecco tutto. E più pensavo a questa storia, più ero sicuro che aveva un certo significato e che era a voi che dovevo dirla.»
Sollevò devotamente gli occhi sulla statua della Vergine. «Prego spesso la Madonna perché m'ispiri atti di vera carità, quella ch'è utile e benefica, non quella di cui ci si gloria e che umilia colui che la riceve.» «Se siete così buon cristiano, avrete dovuto rallegrarvi della morte di uno stregone e non desiderarne la resurrezione.» «Io non mi rallegro di nessuna morte,» mormorò il salumaio, i cui occhi infossati nelle pieghe di grasso brillarono di pura luce. «Ogni uomo dinanzi alla morte non è più che un'anima in pericolo. Neppure un condannato è passato per questa piazza senza ch'io abbia chiesto alla Madonna di salvargli la vita perché avesse il tempo di riscattarsi, o di viver meglio, avendo misurato la sua debolezza dinanzi all'abisso dell'eternità. E ciò succede, a volte: un messaggero del re porta la grazia oppure... come è accaduto non molto tempo fa, scoppia una sommossa durante la quale i tre condannati a morte hanno potuto scappare. Sì, è di queste cose ch'io mi rallegro...» La moglie era andata a riaprire la porta. Il sole che entrava di nuovo non illuminava sul viso del salumaio che sentimenti sinceri. Angelica, che la sua esperienza aveva reso estremamente perspicace, non vedeva in quel commerciante alcuna ipocrisia. «Perché siete buono?» fece stupita. «Le persone della vostra corporazione sono dure e terra terra. Non farebbero alcun piacere se non rendesse loro almeno un soldo.» «Perché non dovrei essere buono?» rispose il salumaio con la allegrezza di un figlio di Dio. «La vita è così breve e non desidero perdere il mio paradiso per qualche truffa o cattiveria che mi renderebbero appena più ricco e potente degli altri.» Angelica, dopo averli salutati, rimandò via la carrozza e decise di tornare a piedi in piazza dei Vosgi. Si sentiva debole, ma aveva bisogno di camminare per rimettere un po' d'ordine nei propri pensieri. Seguì la Senna per una via che avevano costruito da poco e che costeggiava il recinto dei Celestini. Le pergole del bel giardino monastico cominciavano a guarnirsi di foglie e di viticci d'un tenero verde. Il pubblico poteva passeggiare nel recinto. Le porte venivano chiuse solo quando i grappoli maturi avrebbero potuto tentare i visitatori e venivano riaperte dopo la vendemmia. Angelica vi entrò e andò a sedersi sotto uno dei pergolati. Si recava
spesso in quel luogo in compagnia di amiche, di galanti che le recitavano versi, o più semplicemente la domenica, da madre di famiglia, con Florimondo e Cantor. Quella mattina, il recinto era ancora semideserto. Alcuni Padri in tonaca marrone e con un grembiule di tela pesante, vangavano le aiuole o innestavano le viti. Saliva dal convento un ronzio di preghiere, di salmodie, e una campana suonava senza interruzione. Da quell'accumularsi di voci preganti, di cantici, di ceri accesi, d'incenso, da quell'insieme di riti, di osservanze, di dogmi, s'elevava a volte, nel corso dei tempi, un fiore di santità vero, perfetto, come il signor Vincenzo, come quel salumaio di piazza di Grève. Santità quotidiana, impregnata di indulgente saggezza, che cancellava secoli di turpitudini, di meschinerie, d'intolleranza religiosa. «Perché ci sono questi esseri eccezionali,» disse Angelica fra sé, «si potrebbe perdonare.» 15 Seduta sotto il pergolato, ella riandava col pensiero alla visita dal salumaio. La mente continuava a girare intorno alla benedetta persona di padron Lucas con la speranza di attingervi la certezza o il dubbio. Il racconto assumeva, secondo l'idea ch'ella si faceva del salumaio, un diverso aspetto. A volta a volta, ella voleva vedervi il frutto di una immaginazione mistica, una manovra interessata per cavarle denaro oppure semplicemente le confidenze di un chiacchierone sempre felice di saperne più degli altri. Dopo tanti anni, che potevano significare le azioni e le gesta di alcuni burloni, un mattino d'esecuzione? Supponendo che la memoria annebbiata di un ubriaco come il padrone della «Vite Azzurra» non avesse confuso due avvenimenti in uno solo, chi aveva potuto preoccuparsi di far fuggire Goffredo di Peyrac? Angelica sapeva meglio di chiunque in quale abbandono ella e suo marito si erano trovati dopo la loro disgrazia. Andijos, a quell'epoca, non era che un fuggiasco. Più tardi, è vero, s'era venuto a sapere ch'egli aveva sollevato la Linguadoca contro il re. Era stata dichiarata una lotta sorda fatta di guerriglie e di ostilità: rifiuto di pagare le tasse, scaramucce con le truppe reali. Alla fine, lo stesso re aveva dovuto recarsi, l'anno prima, in Linguadoca per mettere fine a quella pericolosa
tensione. Andijos era stato preso. Tutto ciò, Angelica l'aveva saputo dalle chiacchiere dei cortigiani che venivano a gustare il cioccolato da «La Spagnola.» Tutto ciò aveva forse vendicato Goffredo di Peyrac, ma non lo aveva salvato. E mastro Aubin? Come accettare la sola idea della sua complicità? Quel perfetto funzionario del regno aveva rifiutato, dicevano, intere fortune. E come, da cinque anni, Angelica non avrebbe potuto avere la minima eco su un cosi strano complotto? A mano a mano che le ore passavano, il ragionamento preciso della signora Morens distruggeva la folle speranza della piccola Angelica. Ahimè! ella non era più una giovane romanesca. La vita s'era incaricata di convincerla della sua solitudine senza speranza. Che suo marito fosse morto sul rogo, oppure più tardi, in qualche luogo sconosciuto, era però morto davvero! Non lo avrebbe mai più rivisto. Strinse le mani l'una contro l'altra, in un gesto che le era divenuto consueto quand'ella voleva dominare le sue troppo vive emozioni. Il suo volto di giovane donna aveva a volte l'espressione lontana e dolce che dà la rassegnazione. Ma poche persone le conoscevano quel volto perché le necessità del suo commercio la volevano allegra e accorta, persino un poco chiassosa. Ella si piegava volontieri a quel ruolo: era nella sua natura mostrarsi animata. Ciò serviva a stordirla. Non aveva più il tempo di pensare e, durante quell'anno, non aveva esitato a lanciarsi in iniziative azzardate che facevano gemere Audiger. Tutto o quasi le era riuscito. Angelica, adesso, era ricca. Possedeva una carrozza; abitava in piazza dei Vosgi. Non era più lei che, alla cioccolateria, versava l'odorosa bevanda nelle tazze delle belle civettuole, ma un esercito di negretti ch'ella aveva fatto venire da Sète e che aveva addestrati a tale scopo. Non si occupava più, personalmente, che dei conti e delle fatture. La sua esistenza era quella di un'agiata borghese. Angelica si alzò e riprese a camminare per il Lungosenna dei Celestini. Per evitare di riflettere troppo sulla confidenza fattale da padron Lucas, andava rammemorando le diverse tappe percorse dal giorno in cui era comparsa in segreto dinanzi al signor Colbert. V'era stata anzitutto la cioccolateria, divenuta in breve uno dei luoghi alla moda di Parigi, la cui insegna recava «La Nana Spagnola». Vi avevano
ricevuto la visita della regina, felice di non essere più sola a bere il cioccolato. Sua Maestà era venuta scortata dalla sua nana e dal suo nano, il degno Barcarola. La cioccolateria, da allora, non aveva cessato di prosperare. Angelica riconosceva volontieri che un'associazione con un uomo innamorato come quel bravo Audiger presentava seri vantaggi. Troppo debole per resisterle e, persuaso d'altronde ch'ella sarebbe stata un giorno o l'altro sua moglie, la lasciava libera di fare ciò che voleva. Scrupolosa nell'applicare i termini del loro contratto, Angelica cercava tuttavia di far fruttare specialmente la propria parte. Aveva preso così interamente a suo carico l'installazione delle annesse cioccolaterie ch'ella aveva aperto nelle cittadine intorno a Parigi: San Germano, Fontainebleau, Versailles, e persino a Lione e a Nantes. Era abilissima nello scegliere senza sbagliare coloro che poneva a capo delle sue nuove imprese. Concedeva loro grossi guadagni ma esigeva una onesta resa di conti e stipulava nel contratto che l'azienda, nei sei primi mesi, doveva mostrarsi in continuo progresso, altrimenti il gerente sarebbe stato sostituito. Questi, sospinto da tale minaccia, spiegava una febbrile attività per convincere i provinciali sulla necessità di bere il cioccolato. Angelica non aveva il difetto di molti commercianti e finanzieri dell'epoca: quello di tesaurizzare. Con lei, «il denaro si muoveva». Lo investi in altri piccoli affari come quello delle carrozze pubbliche di Parigi, che partivano dall'albergo Saint-Fiacre e raccoglievano lungo il percorso valletti, paggi, mercanti e sartine, soldati con le grucce e impiegati frettolosi, conducendoli dove volevano per cinque soldi in tutto. Si era anche, inoltre, associata al suo antico parrucchiere di Tolosa, Francesco Binet. Angelica lo aveva ritrovato un giorno in cui, dinanzi allo specchio, rimpiangeva una volta di più i suoi lunghi capelli, sacrificati un tempo dalle guardie del Castelletto. I suoi «nuovi» capelli non erano brutti, più dorati e ricciuti dei precedenti, ma rimanevano disperatamente corti. Ora ch'ella era ridiventata una dama e non poteva nasconderli sotto una cuffia, ne provava un po' d'impaccio. Le sarebbero occorsi dei posticci. Ma avrebbe trovato facilmente una tinta assortita alla sua, dalle sfumature d'oro brunito piuttosto rare? Si ricordò delle parole del soldato che le aveva tagliato i capelli:
«Andrò a venderli al signor Binet, in via Sant'Onorato.» Era forse il suo Binet di Tolosa?... Comunque fosse, c'erano poche probabilità perché il parrucchiere avesse ancora, nella sua bottega, la chioma di Angelica. Ma la curiosità di rivedere quel familiare dei tempi felici non l'abbandonò più ed ella finì col recarsi da lui. Era proprio Francesco Binet, discreto, gentile... chiacchierone. Con lui, si era tranquilli. Avrebbe parlato di tutto, ma senza fare la minima allusione al passato. Aveva sposato una donna assai abile nell'acconciare le donne: la Martina. Fra tutti e due, attiravano una clientela già molto scelta. Angelica poteva presentarsi senza falsa vergogna dinanzi all'antico barbiere di suo marito. La signora Morens, cioccolataia, era una personalità molto nota a Parigi. Tuttavia, mentre le acconciava i capelli, Binet seguitava a chiamarla a mezza voce: «Signora contessa,» ed ella non sapeva se ciò le facesse piacere o le desse voglia di piangere. Binet e sua moglie composero per Angelica una pettinatura audace. Tagliarono decisamente i suoi capelli assai corti, scoprendo le orecchie perfette, e, con quel che avevano tolto, fecero due o tre riccioli posticci che riposavano graziosamente lungo il collo e le spalle e davano una falsa apparenza di lunghezza. L'indomani, mentre Angelica passeggiava al Mail con Audiger, due dame la fermarono per chiederle chi l'avesse acconciata in modo così conveniente. Ella le mandò da Binet. Questo le diede l'idea di associarsi con il parrucchiere e sua moglie. Avrebbe inviato da loro le gran dame sue clienti e avrebbe ricevuto una percentuale sugli affari. Prestò loro anche del denaro per mandare vetture in provincia, cariche di garzoni parrucchieri che dovevano acquistare le chiome delle belle ragazze di campagna. Parigi non bastava più all'enorme consumo di capelli provocato dalla fabbricazione delle parrucche". L'ultimo affare di Angelica, infine, fu il più importante. Comprò alcune «parti di navi» da un mercante di Honfleur chiamato Giovanni Castevast, con cui era già in rapporto per l'approvvigionamento del cacao. Padron Castevast faceva un traffico piuttosto complesso che andava dal noleggio dei battelli da pesca per i banchi di Terranova alla vendita del merluzzo a Parigi, dagli acquisti all'ingrosso di sale sulle coste del Poitou e della Bretagna all'armamento delle navi per l'America, donde riportava i
prodotti esotici. Armava anche navi corsare. I suoi affari procedevano bene. Prestava a forti interessi e per breve tempo ai marinai dei propri equipaggi; riassicurava al quattro per cento crediti dubbi che gli stranieri giudicavano poco sicuri, ma che lui sapeva essere validi; riacquistava e scambiava gli schiavi cristiani contro mori catturati dalle sue navi, e ciò con l'intervento dei religiosi della Trinità, dei quali uno dei convenuti si trovava a Lisieux. Quest'ultima attività permetteva a padron Castevast di passare per un benefattore dell'umanità, pur chiedendo «anticipi» alle famiglie dei prigionieri e accettando l'espressione sostanziosa della loro riconoscenza. Gli affari del mercante Castevast erano di solito assai prosperi, ma egli assumeva grossi rischi e ultimamente s'era trovato di colpo sull'orlo del fallimento. Una delle sue navi era stata catturata dai barbareschi, un'altra era scomparsa a seguito di una ribellione dell'equipaggio, e l'aumento dell'imposta sul sale gli aveva fatto perdere un carico intero di merluzzo. Angelica ne aveva approfittato per fingere di volare in soccorso dello scaltro mercante di cui aveva già apprezzato il coraggio e l'abilità. Lo aiutò dapprima prestandogli denaro. Poi, con le sue relazioni, lo fece eleggere procuratore del re al municipio di Honfleur. Ottenne pure per il fratello di lui la carica di procuratore del re all'ammiragliato della stessa località. Grazie a queste due cariche reali, Giovanni Castevast si trovava del tutto al riparo dalla rapacità del fisco. Inoltre, quale azionista della Compagnia delle Indie Orientali e Occidentali, Angelica aveva ottenuto da Colbert l'autorizzazione per le navi di Castevast all'accesso alla Martinica e a non pagare che un minimo canone ai funzionari reali dell'isola. L'esenzione dalle imposte era la prima soddisfazione ch'ella aveva cercato di ottenere, quasi una incosciente rivincita sull'esattore che aveva perseguitato la sua infanzia. O forse si ricordava dei primi insegnamenti commerciali inculcati in lei dal signor Molines. Uno dei principi della signora Morens e forse il segreto del suo successo era questo detto personale ch'ella si guardava bene dal confidare agli altri: «Qualunque commercio è buono... senza il fisco.» In cambio dei suoi prestiti e servigi, Angelica aveva ottenuto da Castevast non solo due parti sulle sue navi, ma di essere la sua unica accomandataria a Parigi per quel che concerneva i prodotti esotici: il cacao, s'intende, ma anche la tartaruga, l'avorio, gli uccelli delle isole, i legni preziosi. Ella forniva legname alle nuove Manifatture reali del mobile che il si-
gnor Colbert aveva allora fondato. Quanto alle scimmie e agli uccelli, li vendeva alle parigine... Tutto ciò le consentiva di guadagnare molto denaro. Angelica si accorse che, tutta presa dai suoi calcoli, aveva abbandonato i lungosenna e si era avviata per via del Beautreillis. Il movimento che vi regnava la ricondusse alla realtà. Le dispiaceva di aver rimandato via la carrozza. Non si addiceva alla sua nuova condizione andare a piedi fra i portatori d'acqua e le serventi che correvano. Ella non indossava più vestiti fino alla caviglia come le donne del popolo e l'orlo delle sue gonne pesanti era insudiciato di fango. Un movimento della folla la spinse contro il muro di una casa, ed ella protestò con violenza. Il grosso borghese che quasi la schiacciava si volse per gridarle: «Pazienza, bellezza! Passa il signor principe.» Un grande portone si apriva infatti e ne usciva una carrozza a sei cavalli. Dietro il vetro, Angelica fece in tempo a riconoscere il profilo severo del principe di Condé. Qualcuno gridò: «Viva il signor principe!» Egli sollevò, burbero, il polsino di merletto. Per il popolo rimaneva sempre il vincitore di Rocroi. Purtroppo, la pace dei Pirenei lo costringeva a un ritiro che non gli piaceva affatto. Quando fu passato, la circolazione riprese. Angelica passò dinanzi al cortile del palazzo che il principe aveva allora lasciato. Vi gettò uno sguardo curioso. Da qualche tempo, il suo bell'appartamento in piazza dei Vosgi non le bastava più. Anch'ella sognava di possedere un palazzo con portone, cortile da girarvi la carrozza, cortile delle scuderie e delle cucine, alloggio della servitù e, dietro, un bel giardino con aranceto e aiuole fiorite. La dimora ch'ella scorse quella mattina era di costruzione relativamente recente. La sua facciata chiara e sobria, dalle altissime finestre, dai balconi di ferro battuto, il suo tetto di ardesia assai liscio con abbaini arrotondati, erano secondo il gusto degli ultimi anni. La porta si richiudeva lentamente. Senza rendersene conto, Angelica si attardava. Notò che, sopra la porta, lo stemma scolpito pareva fosse stato spezzato. Né il tempo, né le intemperie potevano aver cancellato a quel modo le armi principesche, ma certamente lo scalpello di un operaio. «A chi appartiene questo palazzo?» chiese a una fioraia che aveva bottega lì vicino.
«Ma... al signor principe,» rispose l'altra ringalluzzendosi. «Perché il signor principe ha fatto togliere lo stemma da sopra la porta? Peccato, le altre sculture sono così belle!» «Oh! Questa è un'altra storia,» fece la brava donna, abbuiandosi. «Erano le armi di colui che fece costruire il palazzo. Un gentiluomo maledetto. Faceva della stregoneria e convocava il diavolo. Lo condannarono al rogo.» Angelica restò immobile. Poi sentì che il sangue abbandonava lentamente il suo viso. Ecco perché, dinanzi a quella porta di quercia bionda che brillava al sole, provava l'impressione di aver già visto quel luogo. Era venuta lì appena giunta a Parigi. Su quella porta aveva veduto apposti i suggelli della giustizia del re... «Dicono che quell'uomo fosse molto ricco,» continuava la donna. «Il re ha distribuito i suoi beni. Il signor principe ne ha avuto la maggior parte, fra cui il palazzo. Prima di entrarvi, fece grattar via lo stemma dello stregone e gettare acqua benedetta dappertutto. Voleva dormire tranquillo, capite?» Angelica ringraziò la fioraia e si allontanò. Attraversando la via del sobborgo Sant'Antonio, già pensava all'abile manovra con cui avrebbe potuto farsi presentare al principe di Condé. Angelica, dopo qualche mese dall'apertura della cioccolateria, si era installata in piazza Reale. Già il denaro affluiva. Lasciando la via dei Franchi Borghesi per il centro del quartiere aristocratico, la giovane donna saliva di un gradino la scala sociale. In piazza Reale, i gentiluomini si battevano in duello e le belle dame discutevano di filosofia, di astronomia e di poesia. Fuor dagli odori del cacao che la perseguitavano, Angelica si sentì rinascere e aprì occhi pieni di simpatia su quel mondo chiuso e così parigino. La piazza, inquadrata dalle sue case rosa, con i suoi alti tetti di ardesia e l'ombra delle sue arcate che accoglievano al pianterreno piccole botteghe di frivolezze, le offrì un rifugio in cui si riposava del suo lavoro. Lì si viveva in modo discreto e prezioso. Gli scandali vi assumevano una finta aria di teatro. Angelica cominciò a gustare il piacere della conversazione, questo strumento della cultura che, da circa mezzo secolo, trasformava la società francese. Ma temeva di sentirsi impacciata. La sua mente era stata per tan-
to tempo lontana dai problemi posti da un epigramma, da un madrigale, da un sonetto! Inoltre, a causa della sua origine plebea o che si credeva tale, i migliori salotti le erano chiusi. Pazientò per conquistarli. Si abbigliava riccamente, ma senza essere molto sicura di seguire la moda. Quando i suoi figli andavano a passeggio sotto gli alberi della piazza, la gente si voltava a guardarli, tanto erano belli e ben vestiti. Florimondo e anche Cantor indossavano ora veri costumi da uomo, in seta, in broccato, in velluto, con grandi colli di pizzo, calze con fibbie, scarpini con rosette e tacchi alti. Sui bei capelli ricciuti portavano feltri piumati, e Florimondo aveva persino una piccola spada, di cui era fierissimo. Sotto un aspetto fragile e nervoso, egli aveva la passione della guerra. Sfidava a duello la scimmia Piccolo o il pacifico Cantor, il quale, a quattro anni, parlava appena. Se non fosse stato per l'intelligenza del suo sguardo verde, Angelica lo avrebbe creduto un po' tardivo. Ma egli era soltanto taciturno e non vedeva la necessità di parlare, dato che Florimondo lo comprendeva e la servitù preveniva i suoi minimi desideri. Angelica aveva, in piazza Reale, una cuoca e un secondo valletto. Con Flipot, promosso piccolo lacchè, e il cocchiere, la signora Morens poteva fare abbastanza buona figura tra le vicine. Barbara e Giasmina portavano cuffie di pizzo, croci d'oro e scialli indiani. Ma Angelica si rendeva perfettamente conto che, agli occhi degli altri, ell'era pur sempre una plebea arricchita. Voleva salire più in alto, e i salotti del Marais, precisamente, permettevano alle ambiziose di «passare» dalla plebe all'aristocrazia, perché borghesi e gran dame vi si ritrovavano sotto il segno dello spirito. Ella cominciò con l'entrare nelle buone grazie della vecchia signorina che occupava l'appartamento sopra il suo. Costei aveva conosciuto i bei giorni delle «Preziose» e della «Disputa delle donne». Aveva conosciuto la marchesa di Rambouillet, frequentava la signorina di Scudéry. Parlava in modo delicato e incomprensibile. Filonide di Parajonc assicurava che v'erano sette specie di stima e divideva i sospiri in cinque categorie. Disprezzava gli uomini e odiava Molière. L'amore era, per lei, «la catena infernale». Non era stata, però, sempre così fiera. Si mormorava che, nella sua giovinezza, invece di accontentarsi dell'insipido Paese del Tenero, non aveva disdegnato il Regno di Civetteria e aveva spesso raggiunto la sua capitale
Godimento. Lei stessa confessava alzando i suoi occhi pallidi: «L'amore mi ha terribilmente dissodato il cuore!» «Se non avesse dissodato che quello!» brontolava Audiger, che vedeva di malocchio Angelica frequentare quella vecchia Preziosa. «State diventando pedante. Un proverbio delle nostre parti dice che una donna è abbastanza sapiente quando può distinguere fra la camicia e il farsetto del marito.» Angelica rideva e lo disarmava con una smorfietta civettuola. Andava quindi ad assistere, con la signorina di Parajonc, alle conferenze del Palazzo Prezioso dove costei l'aveva fatta iscrivere con tre doppie. Vi si incontrava il fior fiore della gente onesta, cioè molte donne della media borghesia, ecclesiastici, giovani sapienti, provinciali. Il programma della società era allettante: «Desideriamo, con solo tre doppie, fornire durante tre mesi, dal primo di gennaio a mezza Quaresima, tutti i divertimenti che una mente ragionevole possa immaginare. «Il lunedì e il sabato, ballo o commedia, con distribuzione di limoni dolci e arance del Portogallo. «Martedì, concerto di liuti, di voci e di strumenti. «Mercoledì, lezione di filosofia. «Giovedì, lettura delle gazzette e delle nuove commedie sottoposte al giudizio. «Venerdì, strani argomenti sottoposti al giudizio.» Tutto era previsto per rassicurare le dame che poteva preoccupare un ritorno a casa durante la notte: «Si dà buona scorta alle persone che ne avranno bisogno per la sicurezza del loro denaro, dei gioielli e delle trine. Forse non avremo che farne essendo sul punto di trattare con tutti i borsaioli di Parigi, i quali ci promettono dei lasciapassare per mezzo dei quali si potrà andare e venire in tutta sicurezza, dato che quei signori hanno dimostrato che sono abbastanza religiosi per mantenere la parola, una volta data.» A tanta sollecitudine, il Palazzo Prezioso aggiungeva una scelta di conferenzieri di buon nome. Roberval, professore di matematica al Collegio Reale, andava lì a parlare della cometa che, nel 1665, metteva in agitazione i parigini. Si discuteva sulla piena del Nilo, sull'inclinazione amorosa, ma anche sulle cause della luce, sulla questione del vuoto e sulla pesantezza dell'aria.
Angelica si accorse che, ascoltando le conferenze scientifiche, soffriva come una dannata in una pila d'acqua santa. Quando udiva certi termini, trasaliva credendo di udire la voce appassionata di Goffredo di Peyrac e di veder brillare il fuoco del suo sguardo. «Ho un cervello troppo piccolo,» disse un giorno alla signorina di Parajonc. «Tutte quelle grandi questioni mi spaventavano. Non voglio andare al Palazzo Prezioso se non per il ballo e la musica.» «Il vostro sublime è troppo profondamente immerso nella materia,» si desolò la vecchia signorina. «Come volete brillare in un salotto se non siete al corrente di ciò di cui si parla? Non volete saperne di filosofia, di meccanica, né d'astronomia, e non sapete rimare. Che cosa vi resta?... La devozione. Avete letto, almeno, San Paolo e Sant'Agostino? Ecco dei buoni operai per affermare la sovrana volontà di Dio. Ve li presterò.» Ma Angelica rifiutò San Paolo e Sant'Agostino, e anche il libro della signorina di Gournay: «Sull'eguaglianza degli uomini e delle donne» in cui avrebbe tuttavia potuto attingere solidi argomenti da opporre alle dichiarazioni di Audiger. Si sprofondava invece con ardore e quasi di nascosto nel «Trattato di smancerie e di bei modi» della signorina di Quintin e nell'«Arte di piacere alla corte» della signorina di Croissy. 16 L'indomani del giorno in cui si era recata in piazza di Grève, Angelica aveva chiesto alla signorina di Parajonc di accompagnarla alle Tuileries. La signorina di Parajonc era la sua compagna abituale. Conosceva tutti e indicava per nome questi e quelli ad Angelica, che imparava così a conoscere i nuovi volti della corte. Le serviva anche da difesa, del tutto inconsciamente, però, perché la povera Filonide, impiastricciata di biacca fino agli occhi e con le palpebre cerchiate di nero come una vecchia civetta, credeva d'essere ancora irresistibile come ai tempi in cui faceva sospirare interminabilmente i suoi spasimanti. Insegnava ad Angelica il modo migliore per passeggiare alle Tuileries, mimando i gesti necessari con molto impegno, ciò che faceva ridere gli insolenti. Ella non vedeva in ciò che un omaggio alle sue grazie. «Alle Tuileries,» diceva, «bisogna passeggiare con aria disinvolta nel grande viale. Bisogna parlare sempre senza dire mai nulla per apparire spiritose, ridere senza motivo per apparire allegre... raddrizzarsi ogni momen-
to per mettere in mostra il petto... aprire gli occhi per ingrandirli... mordersi le labbra per farle più rosse... parlare con la testa ad uno e col ventaglio all'altro... Insomma, addolcitevi, mia cara! Scherzate, gesticolate, fate leziosaggini e sostenete tutto ciò con aria svenevole...» La lezione, in verità, non era malvagia e Angelica l'applicava con maggior misura e successo, anche, della compagna. Le Tuileries erano, secondo la signorina di Parajonc, «l'arengo della gente di mondo» e il Corso della Regina «l'impero delle occhiate». Si andava alle Tuileries per aspettare l'ora del corso e ci si ritrovava lì la sera dopo il corso, poiché la passeggiata in carrozza si alternava con quella a piedi. I boschetti del giardino erano favorevoli ai poeti e agli amanti. Gli abati vi preparavano i loro sermoni, gli avvocati le loro difese. Tutte le persone di qualità vi si davano appuntamento e a volte vi si incontravano il re o la regina, e spesso Monsignore il delfino con la sua governante. Quel giorno, Angelica trascinò la sua compagna verso la grande aiuola, dove stavano di solito i grandi personaggi. Il principe di Condé vi si trovava quasi ogni sera. Rimase delusa di non vederlo, si stizzì e pestò il piede. «Sarei molto curiosa di sapere perché avevate tanto desiderio di vedere Sua Altezza,» si stupì Filonide. «Dovevo assolutamente vederlo.» «Avevate da rivolgergli una supplica?... Ma non piangete più, mia cara, eccolo che giunge.» Il principe di Condé stava infatti sopraggiungendo e avanzava per il gran viale, circondato da gentiluomini del seguito. Angelica s'accorse allora che non v'era alcun punto possibile d'incontro fra lei e il principe. Avrebbe potuto forse dichiarargli a bruciapelo: «Monsignore, restituitemi il palazzo di via del Beautreillis che m'appartiene e che voi avete ricevuto indebitamente dalle mani del re...?» Oppure: «Monsignore, io sono la moglie del conte di Peyrac di cui avete fatto grattar via lo stemma ed esorcizzare il palazzo...?» L'impulso che l'aveva condotta alle Tuileries per vedere il principe di Condé era sciocco e puerile. Ella non era che una cioccolataia arricchita. Nessuno poteva presentarla a lui; e poi, che gli avrebbe detto?... Furiosa contro se stessa, si rivolse violenti rimproveri:
«Idiota! Se ti conducessi sempre in maniera così impulsiva e irragionevole, che succederebbe dei tuoi affari?...» «Venite,» disse alla vecchia zitella. E, con un brusco movimento, si allontanò dal gruppo colorito e ciarliero che le passava vicino. Nonostante la radiosa giornata e la dolcezza primaverile del cielo, Angelica restò immusonita per tutto il resto della passeggiata. Filonide le chiese se sarebbe andata al corso. Ella rispose di no. La sua carrozza era troppo brutta. Uno zerbinotto le fermò: «Signora,» disse ad Angelica, «il mio amico ed io ci stiamo interrogando su di voi. Uno ha scommesso che voi siete la moglie di un procuratore. L'altro, che siete signorina e Preziosa. Volete dirci chi ha ragione?» Ella avrebbe potuto riderne. Ma era di cattivo umore e non poteva soffrire quegli zerbinotti imbellettati come bambole e che ostentavano di portare l'unghia del mignolo più lunga delle altre. «Scommettete sempre di essere uno stupido e non perderete mai,» rispose. E lo piantò lì tutto sbalordito. Filonide di Parajonc era rimasta offuscata. «La vostra risposta non mancava di spirito, ma era troppo volgare. Non avrete mai successo in un salotto se...» «Oh! Filonide,» esclamò Angelica fermandosi di colpo, «guardate... là.» «Che cosa?» «Là,» ripeté Angelica con voce ridotta solo a un sussurro. A pochi passi da lei, nel riquadro verde di un boschetto, un giovane se ne stava appoggiato pigramente al piedistallo di una statua di marmo. Era di notevole bellezza, che rendeva ancor più perfetta la ricercatezza dei vestiti. Il suo abito di velluto verde mandorla era incrostato di ricami d'oro raffiguranti uccelli e fiori. Era un po' stravagante ma bello come la livrea della primavera. Un feltro bianco ornato di piume verdi copriva la sua abbondante parrucca bionda. Nella cornice dei lunghi riccioli, il volto bianco e roseo, addolcito da un po' di cipria, si adornava di baffetti biondi e sottili. Gli occhi erano grandi, d'un azzurro trasparente che l'ombra del fogliame inverdiva. I lineamenti del giovane erano impassibili e fermo il suo sguardo. Fantasticava? Meditava?... Le sue pupille azzurre parevano vuote come quelle di
un cieco. Avevano la fissità di quella fantasticheria senza oggetto, la freddezza del serpente. Lo sconosciuto non pareva rendersi conto dell'interesse che suscitava. «Ebbene, Angelica,» fece aspramente la signorina di Parajonc, «state perdendo la testa, in verità! Questo modo di contemplare un uomo è proprio da borghesucci.» «Come... come si chiama?» «È il marchese del Plessis-Bellière, via! Che c'è da stupirsi? Sta certamente aspettando il suo galante. Voi, cui non piacciono gli zerbinotti, non vedo perché ve ne restiate piantata qui come un albero che abbia messo radici.» «Scusatemi,» balbettò Angelica, riprendendosi. Per un attimo, ella s'era ritrovata fanciulla ammirativa e selvatica. Filippo! Quel cugino sprezzante. Oh! Monteloup, e l'odore della sala dove il calore della zuppa faceva fumare la tovaglia umida. Sofferenze e dolcezze mescolate assieme!... Passarono dinanzi al giovane, che parve notarle, si mosse e, togliendosi il cappello con un gesto di noia profonda, le salutò. «È un gentiluomo del seguito del re, non è vero?» chiese Angelica quando furono un po' più lontano. «Sì. È stato in guerra con il signor principe quando questi era con gli spagnoli. Dopo, è stato nominato sovraintendente alle cacce reali al lupo. È così bello e ama tanto la guerra che il re lo chiama Marte. Si raccontano su lui, però, cose orribili.» «Cose orribili?... Vorrei proprio sapere di che specie.» La signorina di Parajonc fece un sorrisetto rassegnato. «Eccovi già offuscata udendo denigrare quel bel signore. Ah! Tutte le donne sono come voi. Gli corrono dietro e vanno in estasi davanti ai suoi capelli biondi, al suo fresco colorito, alla sua eleganza. Non si arrendono sinché non sono riuscite a entrare nel suo letto. Allora, però, la musica cambia. Già, già, ho ricevuto confidenze da Armanda di Circé e dalla signorina Jacari... Il bel Filippo sembra gentile ed educato. È distratto come un vecchio sapiente, e ciò fa sorridere a corte. Ma pare che, in amore, sia di una estrema brutalità: un palafreniere ha più riguardo per sua moglie che lui per le sue amanti. Tutte quelle che sono passate per le sue braccia lo odiano...» Angelica l'ascoltava con un orecchio solo. La visione di Filippo, appoggiato alla statua di marmo, immobile e irreale quasi come un'apparizione,
non l'abbandonava. Un tempo, egli l'aveva presa per la mano per condurla a ballare. Era al Plessis, in quel bianco castello misteriosamente avvolto dalla grande foresta di Nieul. Angelica non poteva spiegare alla sua amica che Filippo era del Poitou, cioè che, nonostante fosse biondo, aveva in sé un po' di sangue arabo. La passione, la sottile crudeltà di quella razza, sembrano dormire nel seno dei popoli del Sud Ovest. Sono gentili, rustici e a volte taciturni. Il sangue dell'Infedele non s'è incorporato in loro ma li abita e può avere improvvisi risvegli. «Sembra che abbia una raffinata fantasia per torturare le sue amanti,» continuava Filonide. «Per una cosa da nulla ha battuto la signora di Circe così tremendamente che non poté quasi muoversi per una settimana, cosa assai imbarazzante a causa del marito. E in guerra, il modo con cui si conduce quando è vincitore, è un vero scandalo. Le sue truppe sono più temute di quelle del famoso Giovanni di Werth. Le donne sono inseguite fin nelle chiese e ridotte a male senza discernimento. A Norgen, fece venire le figlie dei notabili, quasi le accoppò perché resistevano e, dopo una notte di orgia con i suoi ufficiali, le abbandonò alla truppa. Parecchie ne morirono, o divennero pazze. Se non fosse intervenuto il principe, Filippo del Plessis sarebbe certo caduto in disgrazia.» «Filonide, voi siete una vecchia gelosa!» esclamò Angelica, presa da subita irritazione. «Quel giovane non è, non può essere l'energumeno che voi descrivere. Vi piace gonfiare le chiacchiere che avete raccolto su lui.» La signorina di Parajonc si fermò, soffocando per l'indignazione. «Io!... Chiacchiere!... Eppure sapete quanto ne abbia orrore, delle storie del vicinato e di tutto ciò che sa di visita alla puerpera. Io! Chiacchiere!... Mentre sono così distaccata dalle cose: volgari! Se vi parlo così è perché è vero!» «Ebbene, se è vero, non è del tutto colpa sua,» decretò Angelica. «È così perche le donne gli hanno fatto del male a causa della sua bellezza.» «Come... Come lo sapete? Lo conoscete?» «N... no.» «Ma allora, siete pazza!» gridò la signorina di Parajonc facendosi rossa di collera. «Non vi avrei mai creduto capace di perder la testa per un farfallino di quella specie. Addio...» La lasciò, dirigendosi a gran passi verso il cancello d'uscita. Ad Angelica non rimase che seguirla, perché non voleva guastarsi con la signorina di Parajonc, alla quale voleva bene.
Se Angelica e la vecchia Preziosa non avessero litigato, quel giorno, alle Tuileries, a proposito di Filippo del Plessis-Bellière, non sarebbero andate via così presto. E, se non fossero uscite in quel momento, non sarebbero state vittima di una volgare scommessa fatta dai lacchè ammucchiati dinanzi ai cancelli. Il signor di Lauzun e il signor di Montespan non si sarebbero battuti in duello per i begli occhi verdi della signora Morens. E Angelica avrebbe dovuto certamente aspettare ancora molto tempo prima di poter frequentare di nuovo i grandi del mondo. Ciò prova ch'è bene, a volte, aver la lingua lunga e la testa vicino alla cuffia. L'ingresso del giardino essendo infatti vietato con una scritta «ai lacchè e alla canaglia», c'era sempre dinanzi ai cancelli una folla chiassosa di lacchè, valletti, cocchieri che dividevano le ore di attesa fra le partite a carte seduti per terra, le battaglie e l'osteria all'angolo. Quella sera, i lacchè del duca di Lauzun avevano fatto una scommessa. Avrebbero «pagato una bottiglia» a quello tra loro che avrebbe avuto l'audacia di andare a sollevare la gonna della prima dama che fosse uscita dalle Tuileries. E accadde che costei fosse Angelica, che aveva raggiunto Filonide e cercava di calmarla. Prima che avesse il tempo di prevedere il gesto dell'insolente, si. trovò afferrata da uno spilungone che puzzava di vino, e con le gonne rialzate nel più villano dei modi. Quasi subito la sua mano si abbatté sulla faccia dell'individuo. La signorina di Parajonc, intanto, lanciava grida di strige. Un gentiluomo che stava risalendo in carrozza e che aveva visto la scena, fece un gesto ai suoi servi che, felici dell'occasione, si precipitarono sul servitorame del signor di Lauzun. Ne seguì un pugilato tremendo fra lo sterco dei cavalli e il cerchio degli sfaccendati. La vittoria rimase alla livrea del gentiluomo, il quale applaudiva calorosamente. Egli si avvicinò ad Angelica e la salutò. «Grazie, signore, del vostro intervento,» diss'ella. Si sentiva furibonda e umiliata, soprattutto spaventata perché era stata sul punto di dare ella stessa una lezione all'ubriaco, alla buona maniera della taverna della «Maschera Rossa», accompagnandola con alcune parole energiche uscite pari pari dal vocabolario della Polacca. Tutte le cure che Angelica poneva per ridiventare una gran dama sarebbero andate perdute. L'indomani, le signore del Marais avrebbero fatto gran risate sull'incidente. Era pallida d'emozione a quel pensiero e decise di svenire leggermente, secondo le buone tradizioni.
«Ah! signore... che indecenza. È spaventoso! Essere esposte agli oltraggi di questi villanzoni!» «Riprendetevi, signora,» diss'egli sostenendole la vita con un braccio premuroso e forte. Era un bel giovane dagli occhi vivaci e il cui accento cantante non lasciava dubbi. Un altro guascone, certamente! Si presentò: «Luigi Enrico di Pardaillan di Gondrin, cavaliere di Pardaillan e altri luoghi, marchese di Montespan.» Angelica conosceva quel nome: apparteneva all'alta e antica nobiltà della Guienna. Ella sorrise con tutta la seduzione di cui era capace e il marchese, chiaramente incantato dell'incontro, insistette per sapere dove e quando avrebbe potuto far prender notizie di lei. Ma ella non volle nominarsi e gli disse: «Venite alle Tuileries domani a quest'ora. Spero che le circostanze saranno più favorevoli e ci consentiranno di chiacchierare piacevolmente.» «Dove vi aspetterò?» «Vicino all'eco.» Il luogo prometteva assai. L'eco era il luogo dei ritrovi galanti. Felice, il marchese le baciò la mano. «Avete una portantina? Posso accompagnarvi?» «La mia carrozza non è lontana,» affermò Angelica, che non ci teneva a far vedere il suo troppo modesto equipaggio. «Allora a domani, misteriosa bellezza.» Le diede un rapido bacio sulla gota e in fretta si allontanò per raggiungere la sua vettura. «Mancate di pudore...» cominciava la signorina di Parajonc. Ma compariva in quel momento al cancello il duca di Lauzun che, vedendo lo stato in cui si trovavano i suoi valletti, uno sputando i denti, l'altro sanguinando dal naso, tutti strappati e impolverati, si mise a urlare con voce di falsetto. E siccome gli spiegavano che la colpa era stata della servitù di un gran signore, esclamò: «Bisogna bastonare quei lazzaroni e il loro padrone. Quella gentaglia non è degna di esser toccata con la spada.» Il marchese di Montespan non era ancora seduto nella sua carrozza. Udendo quelle parole, balzò dal predellino, corse dietro il duca, lo afferrò per un braccio, gli fece fare una giravolta e, dopo avergli ficcato il cappello sugli occhi, lo trattò per giunta da villanzone e furfante.
Un attimo dopo, il lampo di due spade brillava e i due guasconi si battevano in duello sotto l'occhio sempre più interessato degli sfaccendati. «Signori, di grazia!» gridava la signorina di Parajonc. «Il duello è proibito. Questa sera dormirete alla Bastiglia.» Ma il duca e il marchese non si curavano di quelle ragionevoli predizioni e sferragliavano con ardore mentre la folla opponeva una vera e propria resistenza passiva alla squadra di guardie svizzere che tentava di fendere le sue file per giungere fino ai duellanti. Per fortuna, il marchese di Montespan riuscì a ferire alla coscia il duca di Lauzun. Péguillin traballò, lasciando cadere la spada. «Venite via subito, carissimo!» gridò il marchese sostenendolo. «Evitiamo la Bastiglia! Aiutatemi, signore.» La carrozza si mise in moto nel momento in cui, tra ceffoni e colpi di alabarda, le guardie svizzere, con la gorgiera di traverso, giungevano vicino ad essa. Mentre la vettura scendeva con gran frastuono la via Sant'Onorato, Angelica, tenendo la propria sciarpa sulla ferita di Péguillin, si ritrovò pigiata con il giovane duca, con il marchese, con la signorina di Parajonc e persino con il lacchè che aveva provocato l'incidente, e che avevano gettato mezzo morto sul pavimento della carrozza. «Sarai condannato alla gogna e alle galere,» gli disse Péguillin tirandogli una pedata nello stomaco, «e non sarò io a pagare neppure una lira per il tuo riscatto!... Caspita, mio caro Pardaillan, grazie a voi, il mio chirurgo non avrà bisogno di cavarmi sangue, per questa stagione.» «Dovreste fasciarvi,» disse il marchese. «Venite a casa mia. Credo che ci sia mia moglie, oggi, con alcune sue amiche.» Angelica riconobbe, nella moglie del signor di Montespan, la bella Atenaide di Mortermart, antica amica di collegio di Ortensia, con la quale erano andate, tanto tempo prima, ad assistere al trionfale ingresso del re. La signorina di Mortermart, chiamata nella sua giovinezza signorina di Tonnay-Charente, si era sposata nel 1662. Si era fatta ancora più bella. Il suo colorito di rosa dagli occhi azzurri, i suoi capelli dorati e il celebre spirito della sua famiglia, facevano di lei una delle donne più in vista a corte. Per disgrazia, se le famiglie del marito e la propria erano del più alto lignaggio, esse si valevano egualmente per la loro mancanza di denaro. Oppressa dai debiti e dai creditori, la povera Atenaide non poteva dare alla sua bellezza il lustro che meritava, e le accadeva di mancare ad alcune fe-
ste a corte per mancanza di nuovi vestiti. L'appartamento dove entrarono i duellanti delle Tuileries, accompagnati da Angelica e dalla signorina di Parajonc, recava il segno di quella povertà quasi miserabile e di quell'eleganza quasi opulenta cui li obbligava il loro rango. Sontuosi vestiti erano abbandonati sui mobili impolverati. Non v'era fuoco nonostante la stagione ancora fresca e, quando arrivarono, Atenaide, in veste da camera di taffetà, si batteva come una megera con il commesso di un orefice venuto a reclamare una caparra per l'ordinazione di una collana di argento e d'oro che la giovane donna doveva portare la prima volta a Versailles la settimana seguente. Il signor di Montespan prese subito in mano la situazione e cacciò il commesso a pedate. Atenaide protestò. Voleva la sua collana. Una rabbiosa disputa sorse fra i due mentre il sangue del povero Lauzun gocciava sul pavimento. La signora di Montespan se ne accorse infine e chiamò la sua amica Francesca d'Aubigné ch'era venuta ad aiutarla per mettere un po' d'ordine in casa, perché le serventi se n'erano andate il giorno prima. La vedova del poeta Scarron subito comparve, così eguale a se stessa con il suo vestituccio, i suoi larghi occhi neri e l'espressione riservata della sua bocca, che Angelica ebbe l'impressione di averla lasciata al Tempio il giorno innanzi. «Tra un istante, vedrò comparire Ortensia,» pensò. Aiutò Francesca a trasportare su un canapè il duca di Lauzun che era svenuto. «Vado a prendere dell'acqua in cucina. Vogliate avere la cortesia di mantenere la benda sulla ferita... signora,» disse la vedova. All'impercettibile esitazione, Angelica capì che anche la signora Scarron l'aveva riconosciuta. Ma la cosa era senza importanza. Anche la signora Scarron era di coloro che debbono nascondere una parte della loro esistenza. Ad ogni modo, un giorno o l'altro, Angelica era decisa ad affrontare i volti del suo passato. Ignorava quale avrebbe potuto essere la reazione: chiacchiere, pettegolezzi o silenzio? Lo stato di spirito della corte si rinnova così presto! Tanti scandali erano venuti ad appassionare le menti dopo il processo del conte di Peyrac: quello di Fouquet aveva eclissato tutti gli altri. Rimasta sola accanto al ferito, Angelica lo guardò con una certa emozione. Egli era sempre «l'enfant terrible» della corte. I suoi lineamenti ap-
pena tocchi da tante orge e follie, erano rimasti spirituali e graziosi. Quando lo aveva veduto l'ultima volta, il piccolo Péguillin di Guascogna? Al Louvre, quando s'era battuto per lei con il signor di Orléans? No!... Ebbe un lungo brivido. L'ultima volta che lo aveva veduto era stato alla taverna della «Maschera Rossa». «Come si dimentica presto,» pensò, «come presto svapora L'amaro rancore, quando si mangia ogni giorno finché si ha fame e si hanno le dita cariche di anelli!» Angelica posò la mano inanellata, che le pareva un simbolo della propria resa, su quella di Péguillin. La vita girava!... Non si poteva sempre rifiutare la conciliazione... I coniugi Montespan, nella stanza vicina, seguitavano a litigare. «Ma come avete fatto a non riconoscerla? È la signora Morens, caspita! Adesso vi battete in duello per una cioccolataia?» «È adorabile e non dimenticate che ha fama d'essere una delle donne più ricche di Parigi. Se è proprio di lei che si tratta, non rimpiango il mio gesto.» «Mi fate orrore!» «Mia cara, volete, sì o no, il monile di diamanti?» «Bene,» disse Angelica fra sé, «ecco in qual modo debbo dimostrare la mia riconoscenza a questi nobili. Un ricco dono, fors'anche una borsa ben pesante ma il tutto circondato da discrezione e delicatezza.» Le palpebre del duca di Lauzun batterono. Egli fissò su Angelica uno sguardo vuoto. «Sogno,» balbettò, «siete proprio voi, bellezza mia?» «Sì, sono io,» diss'ella sorridendogli. «Sa il diavolo se mi aspettavo di rivedervi, Angelica! Molto spesso mi son chiesto dove eravate andata a finire.» «Ve lo siete chiesto, ma confessate che non avete cercato di saperlo.» «È vero, bellezza. Io sono un cortigiano. Tutti i cortigiani sono un po' vili verso quelli o quelle che cadono in disgrazia.» Egli esaminò il vestito e i gioielli della giovane donna. «Pare che le cose si siano arrangiate,» disse. «Per San Severino, ho udito parlare di voi! Vendete cioccolato, non è vero?» «Mi distraggo. C'è chi si occupa di astronomia, o di filosofia. Io invece, vendo cioccolato. E voi, Péguillin? L'esistenza è sempre così piacevole? Il
re vi vuol sempre bene?...» Péguillin si fece serio e parve dimenticare la propria curiosità. «Ah! mia cara, l'equilibrio del mio favore è instabile. Il re crede ch'io fossi d'accordo con di Vardes nella faccenda della lettera spagnola, sapete, quella che fecero giungere alla regina per avvertirla delle infedeltà del suo augusto sposo con la Vallière... Non riesco a dissipare quel sospetto e Sua Maestà mi tratta a volte con una durezza!... Fortuna che la Grande Demoiselle è innamorata di me!» «La signorina di Montpensier?» «Sì,» sussurrò Péguillin roteando gli occhi, «credo persino che voglia chiedermi in matrimonio.» «Oh! Péguillin,» esclamò Angelica scoppiando a ridere, «siete impagabile, incorreggibile. Non siete mutato!» «Neppur voi siete mutata. E siete bella come una resuscitata.» «Che ne sapete della bellezza delle resuscitate, Péguillin?» «Quel che ne dice la Chiesa, caspita!... Un corpo glorioso! Venite qui, cuoricino mio, che vi baci.» Le prese il viso a due mani, e l'attrasse a sé. «Accipicchia!» esclamò Montespan dalla soglia della porta, «non ti basta che ti apra una coscia per impedirti di correre, bisogna ancora che tu venga a tagliarmi l'erba sotto i piedi in casa mia, Péguillin del diavolo! Ho fatto davvero male a non lasciarti andare alla Bastiglia!» 17 In seguito a quell'incontro, Angelica rivide spesso alle Tuileries e al Corso della Regina il duca di Lauzun e il marchese di Montespan. Questi le presentarono i loro amici. E, a poco a poco, riapparvero i volti del passato. Una volta, mentre Angelica passeggiava per il corso con Péguillin, la loro carrozza incrociò quella della Grande Mademoiselle, che la riconobbe. Non fu fatta alcuna allusione. Prudenza o indifferenza? Tutti avevano altre gatte da pelare. Dopo averle fatto il viso dell'armi, Atenaide di Montespan si era improvvisamente incapricciata di lei e la invitava. Aveva notato che la cioccolataia parlava poco ma le rispondeva in modo ammirevole. Poi, la signora Scarron, che Angelica vedeva spesso dai Montespan, la introdusse in casa di Ninon di Lenclos. Il salotto della celebre cortigiana non era considerato un luogo di liberti-
naggio, ma come la scuola, per eccellenza, del buon gusto. «Da lei,» scriveva il cavaliere di Méré, «nessun discorso di religione o di governo, ma molto spirito e assai ornato, notizie antiche e moderne, notizie di galanteria pur senza aprir la porta alla galanteria. La gaiezza, il brio, l'estro della padrona di casa consentivano a tutti d'incontrarsi con piacere.» L'amicizia che unì la signorina di Lenclos con Angelica di Sancé è rimasta discreta. Restano poche lettere a testimonianza di quell'amicizia, e né l'una né l'altra fece mostra dei sentimenti veri e profondi che le legarono sin dal primo momento. Appartenevano entrambe a quelle razza di donne che attirano gli uomini, più o meno inconsciamente, con un fascino in cui si fondono in parti uguali le attrattive del corpo, del cuore e dell'intelligenza. Avrebbero potuto essere nemiche. Conobbero invece l'una per l'altra l'unica amicizia femminile della loro esistenza. Angelica, dato la lotta accanita da lei fatta per sopravvivere, era in condizioni di apprezzare, in Ninon, quelle qualità di rettitudine, di coraggio e di semplicità, così rare nelle loro simili, e che facevano della cortigiana «un uomo onesto». E, da parte sua, costei comprese presto che Angelica voleva servirsi di lei per sollevarsi quanto più poteva in alto nella scala sociale. Vi si dedicò del suo meglio, guidandola, consigliandola, presentandola a tutti. Perché la giovane donna non s'ingannasse, le disse un giorno: «La mia amicizia è ciò ch'io posseggo di meglio, Angelica. È capace di tutti i sacrifici, le delicatezze e la longanimità che l'amore non possiede. Ve l'offro con tutto il cuore. Starà in voi farla durare per tutto il tempo della nostra vita.» Conoscendo meglio di chiunque altro il valore di una vita voluttuosa, Ninon si compiaceva di indurvi le nature veramente sensibili. Ella incoraggiò Angelica a prendere un amante con un grande titolo. Ma Angelica non voleva saperne. Poiché la sua esistenza materiale era assicurata dalle sue attività commerciali, ella pensava che la strada della galanteria fosse in realtà la meno sicura per giungere al sommo degli onori. La Compagnia del Santo Sacramento, occulta e potente, regnava fin sui gradini del trono. C'erano devoti dappertutto. Nel giuoco da lei condotto, Angelica si appoggiava con una mano su loro per la sua reputazione di virtù, con l'altra sui libertini per la sua gaiezza e il suo brio in tutte le feste. «Prendete almeno un amante per il piacere,» consigliava ancora Ninon. «Non vorrete farmi credere che l'amore non vi piaccia!»
...Angelica rispondeva che non le restava tempo per pensarci. Ella stessa si stupiva della tranquillità del suo corpo. Si sarebbe detto che la sua testa, a forza di lavorare in continuità e di accumulare progetti, l'avesse svuotata del desiderio più elementare. Quando, la sera, crollava sul letto, morta di stanchezza e dopo aver terminato la sua giornata con un'ultima partita a nasconderella con i suoi figli, non aveva che un pensiero: dormire profondamente, riparare le proprie forze per riprendere, l'indomani, il suo compito. Non si annoiava mai e spesso, per la donna disoccupata, l'amore è un diversivo. Le infiammate dichiarazioni dei suoi spasimanti, le loro carezze furtive, le «scene coniugali» di Audiger che terminavano a volte con baci dai quali il maggiordomo si strappava a fatica, tutto ciò rappresentava, per lei, solo «giuochi utili o inutili», a secondo del vantaggio che ne ritraeva. Ninon, dopo aver ascoltato le sue confessioni, le disse che quella mentalità confinava con la malattia. Per guarirne, doveva tralasciare per un po' di tempo i suoi lavori e approfittare dei piaceri che una vita libera offriva agli sfaccendati: gite, balli mascherati, teatro, cene, e il giuoco a tutte le ore. Angelica, in casa di Ninon, incontrò tutta Parigi. Il principe di Condé vi si recava ogni settimana a fare una partita di oca. Varie volte ella vide Filippo del Plessis. Gli si fece presentare. Il bel giovane lasciò cadere su lei uno sguardo di cui aveva già potuto apprezzare il peso sprezzante, e, dopo aver riflettuto, disse con la punta delle labbra: «Ah! Siete voi dunque la signora Cioccolato?» Il sangue di Angelica diede un tuffo. Fece un profondo inchino rispondendo: «Per servirvi, cugino mio.» Il giovane aggrottò le ciglia. «Vostro cugino? Mi pare, signora, che siate molto ardita a...» «Non m'avete riconosciuto?» diss'ella fissandolo con gli occhi verdi sfolgoranti d'ira. «Sono vostra cugina Angelica di Sancé di Monteloup. Ci incontrammo un tempo al Plessis. Come sta vostro padre, il gentile marchese? E vostra madre?» Parlò ancora così un po' per convincerlo della propria identità, poi lo lasciò mordendosi la lingua per la sciocchezza commessa. Visse per qualche giorno nel timore di vedere il suo segreto divulgato. Quando rivide di nuovo il signor del Plessis, lo pregò di non ripetere ciò
ch'ella gli aveva detto. Filippo del Plessis parve cader dalle nuvole. Dichiarò infine che la confidenza lo lasciava del tutto indifferente e che, del resto, non ci teneva affatto si sapesse ch'egli era imparentato con una signora che si era abbassata a vendere cioccolato. Angelica lo lasciò furiosa, ripromettendosi di non prestargli più attenzione. Sapeva che il padre di Filippo era morto e che la madre, fattasi devota in compenso delle passate follie, si era ritirata al Val-de-Grace. Il giovane dilapidava la sua fortuna in stravaganze. Il re lo amava per la sua bellezza e il suo coraggio, ma la sua reputazione era scandalosa e persino preoccupante. Angelica si rimproverava di pensare a lui così spesso. Una inattesa dichiarazione d'amore e una sensazionale partita di oca sconvolsero la sua esistenza e la distolsero per alcuni mesi dai suoi pensieri. Ell'era piuttosto fiera di figurare nella lista delle persone cui la signorina di Montpensier aveva accordato il permesso di entrare nel giardino del Lussemburgo. Un giorno che vi giungeva, le aprì la moglie dello svizzero di guardia, perché il marito era assente. Angelica s'inoltrò fra le belle aiuole orlate di salici e di ciuffi di magnolie. Dopo un poco, si accorse che il giardino, di solito assai animato, era quel giorno quasi deserto. Scorse solo due valletti in livrea che correvano a gran velocità e si cacciarono in un boschetto. Poi più nulla. Incuriosita e vagamente inquieta, seguitò la sua passeggiata solitaria. Mentre passava vicino a una piccola grotta di conchiglie, le parve udire un lieve rumore e, voltandosi, distinse una forma umana accoccolata in una siepe. «Ohi! Ohi! qualche vassallo di Cul di Legno in cerca di fare un colpo. Sarebbe divertente sorprenderlo e parlargli in gergo per vedere che faccia farebbe.» Ne sorrise al pensiero. Non doveva certo accadere tutti i giorni che un tagliaborse in agguato si trovasse di fronte a una gran dama che parlava perfettamente il linguaggio della torre di Nesle e del sobborgo San Dionigi. «E poi gli darò la borsa perché si rimetta della sua emozione, poveretto!» pensò, felice di una malizia che non avrebbe avuto testimoni. Ma, mentre si avvicinava con passo cauto, si accorse che l'uomo era riccamente vestito, anche se i suoi abiti erano sporchi di fango. Egli stava in
ginocchio, col busto chino in avanti, appoggiato sui gomiti, in uno strano atteggiamento. Girò a un tratto la testa nervosamente, come se porgesse l'orecchio, ed ella riconobbe il duca di Enghien, figlio del principe di Condé. Lo aveva già incontrato durante il passeggio alla moda, alle Tuileries, e al Corso della Regina. Era un adolescente assai brillante, ma che dicevano insopportabile sulle questioni di etichetta, e che mancava di misura. Angelica vide ch'era pallido, con un'espressione smarrita e stravolta. «Che cosa fa lì? Perché si nasconde? Di che ha paura?» si chiese, presa da un indefinibile malessere. Dopo aver esitato, si ritrasse senza rumore e raggiunse uno dei grandi viali del giardino. Incontrò lo svizzero che, vedendola, fece un'aria turbata. «Oh! Signora,» balbettò, «che fate qui? Ritiratevi subito!» «Perché? Sai bene che sono nell'elenco della signorina di Montpensier. E tua moglie mi ha lasciato entrare senza difficoltà.» Il guardiano si guardò intorno con aria desolata. Angelica era sempre molto generosa con lui. «La signora mi perdoni,» sussurrò avvicinandosi, «ma mia moglie non era a parte del segreto che ora vi dirò: oggi il giardino è interdetto al pubblico, perché da questa mattina vi si insegue il duca di Enghien, il quale crede di essere un coniglio.» E siccome Angelica spalancava gli occhi, egli si toccò la tempia con un dito. «Già, ogni tanto gli capita, povero giovane. Pare sia una malattia. Quando crede d'essere un coniglio o una pernice, ha paura che lo uccidano e corre a nascondersi. Son due ore che lo stiamo cercando.» «È lì, nel boschetto vicino alla piccola grotta, l'ho visto.» «Gran Dio! Bisogna andare ad avvertire il signor principe. Ah! eccolo.» Si avvicinava una portantina. Il principe di Condé sporse la testa dal finestrino. «Che fate qui, signora?» disse irato. Lo svizzero si affrettò a intervenire: «Monsignore, la signora ha scorto proprio ora il signor duca presso la piccola grotta di conchiglie.» «Ah! bene. Aprite lo sportello, bricconi. Aiutatemi a scendere, perbacco! Non fate tanto rumore, lo spaventerete. Tu, corri a cercare il suo primo cameriere. E tu, raccogli tutti gli uomini che puoi trovare per bloccare le uscite...»
Pochi istanti dopo, si udirono fra i cespugli balzi disordinati, poi una rapida corsa. Venne fuori il duca d'Enghien, lanciato a gran velocità. Ma due domestici che lo inseguivano riuscirono ad afferrarlo e a trattenerlo. Fu subito circondato e tenuto fermo. Il suo primo cameriere, che lo aveva allevato, gli parlò dolcemente: «Nessuno vi ucciderà, monsignore. Non sarete chiuso in gabbia... Tra poco vi lasceranno e potrete correre di nuovo per la campagna.» Il duca d'Enghien era livido. Non parlava, ma, nel suo sguardo, c'era l'espressione commovente e interrogativa delle bestie inseguite. Suo padre si avvicinò. Il giovane si dibatté furiosamente, sempre in silenzio. «Conducetelo via,» disse il principe di Condé. «Chiamate il medico e il chirurgo. Gli cavino sangue, lo purghino e, soprattutto, lo leghino. Non ho proprio voglia, stasera, di ricominciare una partita a rimpiattino. Farò bastonare colui che lo lascia scappare di nuovo.» Il gruppo si allontanò. Il principe si avvicinò ad Angelica, che aveva assistito, tutta sconvolta, a quella triste scena, e che era quasi altrettanto pallida del povero infermo. Condé le si piantò dinanzi e la osservò con faccia scura. «Ebbene,» disse, «lo avete visto? Bello, eh! il discendente dei Condé e dei Montmorency?... Il suo bisavolo aveva qualche mania, sua nonna era pazza. Dovetti sposarne la figlia. A quel tempo, già cominciava a strapparsi i capelli ad uno ad uno con una pinza. Sapevo che sarei stato colpito nella mia discendenza, ma dovetti egualmente sposarla, per ordine del re Luigi XIII. Essa è morta, pazza da legare. Ed ecco mio figlio. A volte crede d'essere un cane e lotta per evitare di abbaiare dinanzi al re. Oppure immagina d'essere un pipistrello e teme di urtare contro le pareti del suo appartamento. L'altro giorno, s'è sentito diventare una pianta e i suoi servitori dovettero innaffiarlo... È divertente, non è vero? Non ridete?» «Monsignore... come potete pensare che abbia voglia di ridere?... Evidentemente, non mi conoscete...» Egli l'interruppe con un subitaneo sorriso che gl'illuminò il viso burbero: «Ma sì! Ma sì! Vi conosco bene, signora Morens. Vi ho veduta in casa di Ninon e di altre persone. Siete allegra come una fanciulla, bella come una cortigiana e avete il cuore riposante di una madre. Inoltre, sospetto che siate una delle dame più intelligenti del regno. Ma non ne fate mostra, perché siete furba e sapete che gli uomini temono le donne sapienti.» Angelica sorrise a sua volta, stupita per quella inattesa dichiarazione.
«Monsignore... voi mi lusingate... E sarei curiosa di sapere chi vi ha dato su me queste informazioni...» «Non ho bisogno di alcuno per informarmi,» fece lui col suo modo brusco e sgarbato di vecchio soldato. «Vi ho osservata. Non vi siete accorta che vi guardavo spesso? Credo che mi temiate un poco. Eppure, non siete timida...» Angelica alzò gli occhi sul vincitore di Lens e di Rocroi. Non era la prima volta che lo fissava così, ma il principe era certamente molto lontano dal ricordo della piccola alzavola grigia che gli aveva tenuto testa e alla quale aveva detto: «Prevedo che, quando sarete donna, gli uomini s'impiccheranno per voi.» Ella aveva sempre creduto di nutrire un profondo rancore verso il principe di Condé e dovette difendersi contro un sentimento di simpatia, di comprensione che nasceva fra loro. Non li aveva fatti spiare per anni interi, lei e suo marito, dal valletto Clemente Tonnel? Non aveva egli ereditato i beni di Goffredo di Peyrac? Da molto tempo Angelica si chiedeva come avrebbe potuto sapere con esattezza la parte avuta dal principe di Condé nel suo dramma. Il caso la serviva stranamente. «Non mi rispondete,» disse il principe. «Ê dunque vero che vi intimidisco?» «No, ma mi sento indegna di conversare con voi, monsignore. La vostra fama...» «Poh! la mia fama... Voi siete troppo giovane per saperne qualcosa. Le mie armi sono arrugginite e se Sua Maestà non si decide a dare una lezione a quei lazzaroni di olandesi o di inglesi, rischio davvero di morire nel mio letto. Quanto a conversare, Ninon mi ha detto cento volte che le parole non sono palle di cannone che si spediscono nello stomaco del proprio avversario, e pretende ch'io non ho ancora capito del tutto la lezione. Ah! Ah!» Scoppiò a ridere forte e le prese il braccio con aria disinvolta. «Venite dunque. La mia carrozza mi aspetta fuori, ma, per camminare, sono costretto ad appoggiarmi su un braccio caritatevole. Ecco cosa le debbo, alla mia fama: dolori contratti nelle trincee piene d'acqua e che, certi giorni, mi fanno trascinare la gamba come un vecchio. Volete farmi un po' compagnia? La vostra presenza è l'unica che mi paia sopportabile dopo la penosa giornata che abbiamo avuto. Conoscete il mio palazzo del Beautreillis?» Angelica disse, con il cuore che le batteva forte: «No, monsignore.»
«Dicono che sia una delle cose più belle costruite da Mansart. A me non piace starci, ma so che le donne vanno in estasi dinanzi a quella dimora. Venite a vederla.» Per quanto non volesse riconoscerlo, Angelica apprezzava l'onore di essere seduta nella carrozza di un principe del sangue che gli sfaccendati acclamavano al passaggio. Era sorpresa per l'attenzione ch'egli le dimostrava e che sentiva sincera. Si diceva spesso che il principe di Condé, dopo che la sua amica Marta del Vigean era entrata nel convento delle Carmelitane del sobborgo San Giacomo, non accordava più alle donne la considerazione e le cortesie che la nobiltà di Francia era usa render loro. Non chiedeva ormai che un piacere soltanto fisico e, da anni, non gli si conoscevano che avventure di breve durata e di origini piuttosto basse. Nei salotti, la sua durezza nei riguardi del bel sesso scoraggiava le migliori intenzioni. Questa volta, però, il principe pareva si sforzasse di piacere alla sua compagna. La carrozza girò nel cortile del palazzo del Beautreillis. Angelica salì lo scalone di marmo. Ogni particolare di quella dimora armoniosa e chiara le parlava di Goffredo di Peyrac. Era stato lui a volere quelle linee svelte come viticci ai ferri battuti dei balconi, delle rampe; quei fregi di legno scolpito coperti d'oro che incorniciavano le alte superfici lisce dei marmi e degli specchi, quelle statue e quei busti, quegli animali e quegli uccelli di pietra, dappertutto presenti come graziosi geni di un felice focolare. «Non dite nulla?» si stupì il principe dopo ch'ebbero percorso i due piani degli appartamenti di rappresentanza. «Di solito, le mie visitatrici danno in esclamazioni come pappagalli. Forse non vi piace? Eppure, si dice che v'intendiate molto di ciò che concerne la sistemazione d'una casa.» Si trovarono in un salottino foderato di raso azzurro a ricami d'oro. Un cancello di ferro battuto di squisita eleganza li separava dalla lunga galleria che dava sui giardini. Sul fondo, il camino inquadrato da due leoni scolpiti, recava sul frontale una ferita fatta di fresco. Angelica sollevò il braccio e vi posò la mano: «Perché è stato spezzato questo ornamento? Non è la prima volta che noto questo. Guardate, persino dalle finestre di questo salotto è stato cancellato il disegno, in certi punti.» Il volto del principe si oscurò:
«Sono gli stemmi dell'antico proprietario del palazzo, ed io li ho fatti grattar via. Un giorno, h farò restaurare, ma davvero non so quando!... Preferisco dedicare le mie spese a sistemare la casa di campagna di Chantilly.» Angelica teneva ancora la mano posata sullo stemma mutilato. «Perché non avete lasciato le cose come stavano, invece di rovinarle così?» «La vista degli stemmi di quell'uomo mi dava fastidio. Era un maledetto!» «Un maledetto?» ripeté lei come un'eco. «Sì. Un gentiluomo che fabbricava l'oro con un segreto datogli dal diavolo. Fu arso vivo. E il re mi fece dono dei suoi beni. Non sono ancora del tutto sicuro che Sua Maestà non abbia cercato, con quel gesto, di portarmi sfortuna.» Angelica si era avvicinata alla finestra e guardava fuori. «Lo conoscevate, monsignore?» «Chi? Il gentiluomo dannato?... No davvero e tanto meglio per me.» «Mi pare di ricordarmi di quell'affare,» diss'ella, spaventata della propria audacia eppure calmissima. «Non era forse di Tolosa? un certo signor Peyrac?» «Sì, infatti,» approvò lui indifferente. Ella si passò la lingua sulle labbra riarse. «Non si disse che lo avevano condannato soprattutto perché conosceva un importante segreto sul signor Fouquet, che a quell'epoca era molto potente?» «È possibile. Il signor Fouquet si è considerato per molto tempo re di Francia. Aveva abbastanza denaro per questo. Fece fare delle sciocchezze a molta gente. A me, per esempio. Ah! Ah! Ah!... Be', tutto questo appartiene al passato.» Angelica si volse un poco per osservarlo. S'era lasciato cadere in una poltrona e seguiva con la punta del bastone i fioroni del tappeto. Se aveva sogghignato amaramente pensando alle sciocchezze fattegli fare dal signor Fouquet, non aveva però reagito alle allusioni concernenti Goffredo di Peyrac. Ella acquistò la certezza che non era stato lui a porre accanto a lei, per tanti anni, il valletto Clemente Tonnel. Chi sa, forse quel Tonnel era stato già messo come spia, dal signor Fouquet, presso il principe di Condé. Si erano visti, nei complotti di quell'epoca, intrighi ancor più complicati e i nobili facevano bene a praticare la politica della memoria corta.
Quale necessità aveva ora il signor principe di ricordarsi che, un tempo, aveva deciso di avvelenare Mazarino, e che si era venduto a Fouquet? Aveva abbastanza da fare per rientrare nelle grazie di un giovane re ancora sospettoso e per familiarizzarsi, oggi, con quella giovane donna la cui segreta malinconia, sotto il gaio riso, lo aveva sedotto più profondamente di quanto volesse riconoscere. «Mi trovavo nelle Fiandre all'epoca del processo di Peyrac,» riprese il principe, «e non seguii l'affare. Non importa! Ebbi il palazzo e confesso che non ne sono affatto lieto. Lo stregone non lo abitò mai, a quanto pare. Ma io non posso impedire a me stesso di trovare in queste pareti qualche cosa di triste e di sinistro. Sembrerebbe uno scenario preparato per una scena che non è mai stata rappresentata... I graziosi oggetti qui raccolti aspettano un ospite che non sono io. Ho tenuto con me un vecchio palafreniere che apparteneva alla servitù del conte di Peyrac. Egli afferma che, certe notti, ne vede il fantasma... È possibile. Si respira qui una presenza che respinge, che scaccia. Io ci resto il meno possibile. Provate anche voi questa penosa impressione?» «No, al contrario,» mormorò lei. Il suo sguardo errava intorno. «Qui sono a casa mia,» pensava. «Io e i miei figli, ecco gli ospiti che queste pareti attendono.» «Vi piace, dunque, questo palazzo?» «Mi piace. È stupendo. Oh! vorrei viverci!» esclamò lei giungendo le mani sul cuore con inaspettata passione. «Potreste viverci, se lo voleste,» disse il principe. Ella si volse di scatto a lui, che la fissava con quello sguardo ancora nobile e imperioso, di cui un giorno il signor Bossuet avrebbe parlato in termini eloquenti: «Quel principe... che portava nei suoi occhi la vittoria...» «Viverci?» ripeté Angelica. «A quale titolo, monsignore?» Egli sorrise ancora e si alzò di colpo per avvicinarsi a lei. «Ecco, io ho quarantaquattro anni, non sono più giovane, ma non sono ancora vecchio. Ho a volte qualche dolore alle ginocchia, è vero, ma il resto è abbastanza resistente. Ve lo dico senza complimenti. Credo, insomma, di poter essere un amante sopportabile. Penso che non vi offuschiate per questa mia dichiarazione. Ignoro da dove veniate fuori, ma qualcosa mi dice che ne avete sentite ben altre e, almeno, non vi prendo a tradimento. Non ho mai fatto troppe storie con le donne; trovo inutile complicar le cose per giungere sempre alla stessa domanda: "Volete o non volete?..." No,
non rispondete ancora. Voglio che conosciate bene i pochi vantaggi ch'io potrei procurarvi. Avreste una pensione... Sì, lo so, voi siete molto ricca. Be', ascoltate, vi darei questo palazzo, dato che vi piace. Mi occuperei dei vostri figli e li raccomanderei per la loro educazione. «So anche che siete vedova e piuttosto gelosa della vostra reputazione di castità. È vero ch'è un bene prezioso, ma... considerate che non vi chiedo di perderla per un disgraziato qualsiasi. E, poiché mi parlavate della mia fama, consentitemi di farvi notare...» Esitò, con una modestia vera e abbastanza commovente. «... che non è disonorevole essere l'amante del principe di Condé. La nostra società è così fatta. Vi presenterò dovunque... Perché quel sorriso scettico e un pochino sprezzante, signora?» «Perché,» disse Angelica sorridendo, «mi veniva in mente il ritornello che Hurlurot, un vecchio saltimbanco, canta all'angolo delle vie: «I principi sono strana gente. Beati quelli che non li conoscono. Più beati quelli che non sanno che farsene...» «Accidenti all'insolente!» gridò il principe con finta collera. L'afferrò per la vita e l'attrasse a sé rudemente: «È per questo che vi amo, amica mia,» fece con voce contenuta. «Perché ho notato che, nel vostro mestiere di donna, avevate una bella audacia da guerriera. Attaccate al momento buono, approfittate della debolezza dell'avversario, con machiavellica abilità e gli date colpi terribili. Ma non avete ripiegato abbastanza in fretta sulle vostre posizioni. Ora vi tengo! Come siete fresca e resistente! Avete un corpicino saldo e rassicurante!... Ah! come vorrei che mi ascoltaste non come principe ma quale io sono, un pover’uomo piuttosto infelice. Voi siete così differente dalle civette dal cuore arido!» Appoggiò il viso ai capelli di Angelica. «C'è nei vostri capelli biondi una ciocca di capelli bianchi che mi commuove. Sembra che, sotto le vostre arie giovani e gaie, abbiate l'esperienza che danno i grandi dolori. Mi sbaglio?» «No, monsignore,» rispose dolcemente Angelica. Pensava che, se quella mattina, qualcuno l'avesse avvertita che, prima di sera, ella sarebbe stata fra le braccia del principe di Condé e che avrebbe appoggiato senza ribellarsi la fronte contro quella augusta spalla, avrebbe
gridato che la vita non era così pazza. Ma la sua vita non era mai stata molto semplice ed ella cominciava ad abituarsi alle sorprese della sorte. «Dalla mia giovinezza,» seguitò egli, «non ho amato che una sola donna. Non le fui sempre fedele, ma non ho amato che lei. Era bella, buona ed era la compagna della mia anima. Gli intrighi e i complotti che si formavano di continuo per separarci, la stroncarono. Da quando prese il velo, che mi rimane? In tutta la mia vita ho avuto solo due amori: lei e la guerra. La mia amata si ritirò in un chiostro e quell'imbecille di Mazarino firmò la pace dei Pirenei. Non sono più che un fantoccio che fa la corte al giovane re nella speranza di ottenere, Dio sa quando, qualche governo militare e forse un comando, se mai gli venisse la felice idea di richiedere la dote della regina ai fiamminghi. Se ne parla... Ma lasciamo queste storie, non voglio annoiarvi. La vostra vista ha risvegliato in me una viva fiamma che pareva stesse spegnendosi. La morte del cuore è terribile... Vorrei tenervi accanto a me...» Angelica s'era dolcemente svincolata mentre egli parlava, e si faceva un po' indietro. «Monsignore...» «È sì, non è vero?» diss'egli ansioso. «Oh! Ve ne supplico... Chi vi trattiene? Amate qualcun altro? Non ditemi che provate del sentimento per quel valletto di bassa origine, quell'Audiger che vi accompagna in città come un cane fedele.» «Audiger è mio socio in affari.» «Ciò non toglie,» brontolò lui di colpo geloso, «che ieri siate stata vista alla commedia con il maggiordomo del conte di Soissons. È una cosa inammissibile!» «Monsignore,» rispose Angelica, «sappiate che io non rinnego mai i miei amici fin quando mi sono utili. Ho ancora bisogno del maggiordomo Audiger.» Egli si morse le labbra. «Caspita! Siete pericolosa quando parlate così.» «Vedete bene che non sono soltanto rassicurante,» fece lei con un sorrisetto. «Che importa! Vi desidero come siete!» Egli non poteva rendersi conto del dilemma che le proponeva. Che avrebbe ella risposto se le avesse fatto quella proposta in qualche altro luo-
go? Non lo sapeva. Ma lì, in quel palazzo dove entrava per la prima volta, ella si trovava circondata da antichi fantasmi. Accanto al principe di Condé, sorto dal passato con le sue brache un po' fuori moda, c'era la dura e luminosa figura di Filippo nei suoi pallidi rasi, e, dietro di loro, quell'ombra mascherata, vestita di velluto nero e d'argento, con un solo rubino sanguinante al dito, il gentiluomo ch'era stato il suo padrone, il suo unico amore. Fra tutti coloro che la vita o la morte avevano liberati, ella soltanto rimaneva prigioniera dell'antico dramma. «Che avete?» disse il principe. «Perché quelle lagrime nei vostri occhi? Che dolore vi ho dato? Restate qui, dove pare vi piaccia stare. Lasciate che vi ami. Sarò discreto...» Ella scosse lentamente la testa: «No, monsignore, è impossibile.» 18 Quando Angelica ebbe occasione di rivedere il principe di Condé, questi non le dimostrò rancore. Non aveva, in amore, l'arroganza che mostrava alla corte e sui campi di battaglia. Avendo sofferto fin da giovane, sapeva che, nel campo dei sentimenti, i grandi sono spesso più impacciati e sfortunati che non i semplici borghesi o i pastori delle campagne. Sarebbe stato assai riconoscente ad Angelica, se lo avesse amato. «Non mi abbandonate, almeno, per le partite di oca,» le disse. «Conto su di voi, da Ninon, ogni lunedì.» Ella fece com'egli desiderava, lieta di dimostrargli la propria amicizia. La protezione del principe non era neppur essa da disdegnare. E ogni volta che Angelica pensava al palazzo del Beautreillis, si mordeva le dita. Non rimpiangeva, però, di aver rifiutato il mercato. Ma il palazzo del Beautreillis era suo. La indignava di esserne esclusa, di non poter rivendicarlo senza contropartita. Il personaggio di commerciante arricchita le pesava sempre di più. Un giorno, udendo Ninon pronunciare il nome di Sancé, disse vivamente: «Conoscete dunque qualcuno della mia famiglia?» «La vostra famiglia?» si stupì la cortigiana. Angelica si riprese alla bell'e meglio: «Mi pareva di aver udito Rancé. Sono lontani parenti... Ma di chi parlavate?»
«Di un'amica che deve venire qui fra poco. Ha del brio e mi piace ascoltarla, per quanto la si tema assai: la signora Fallot di Sancé.» «Fallot di Sancé,» ripeté Angelica balzando in piedi di colpo. Gli occhi le si dilatarono. «E verrà qui?» «Ma certo. Apprezzo il suo estro... spesso cattivo, è vero. Ma ci vogliono queste lingue che distillano aceto per portare un po' di pepe nella conversazione. Un mondo di benevolenza e di bontà sarebbe insipido.» «Io me ne accontenterei, ve lo assicuro.» «A quanto pare, non potete soffrire la signora Fallot di Sancé.» «È dir poco.» «Sarà qui fra un istante.» «Le strapperò la pelle.» «No, amica mia... questo non si fa, qui da me.» «Ninon, voi non potete sapere... non potete capire...» «Mia cara, se tutte le persone che s'incontrano in casa mia decidessero di sistemare i loro litigi lì per lì, io assisterei ogni giorno a tre o quattro morti violente... Dunque, starete buona. Vi fa molto male, questo?» «Sì, molto male,» disse Angelica tutta pallida. «Cercherò di andarmene.» «Perché non cercate di rimanere? Tutte le passioni possono dominarsi, amica mia, anche il più giustificato rancore. Non v'è giustificazione per la follia e tutti i gesti di collera lo sono. Volete un consiglio? Allontanatevi dalla vostra collera come da una stufa incandescente. Se vi bruciate, vi farà più male che bene. Ritraetevi in voi stessa ed evitate di gettare uno sguardo sui motivi del vostro odio.» «Mi sarà difficile se dovrò stare a parlare con mia sorella.» «Vostra sorella?» «Oh! Ninon, non so più quel che dico,» mormorò Angelica, «è una prova al disopra delle mie forze.» «Non vi sono prove al disopra delle vostre forze, mia cara Angelica,» rispose Ninon ridendo. «Più vi conosco, più sono convinta che voi siete capace di tutto... anche di questo. Suvvia, ecco la signora Fallot. Restate qui in quest'angolino un momento, finché avrete ritrovato il vostro sangue freddo.» Si allontanò per recarsi incontro a un nuovo gruppo di ospiti. Angelica sedette su uno scanno ricoperto di felpa. Come in sogno, riconosceva la voce stridula della sorella che dominava lo scambio di saluti.
Era la stessa voce che un tempo le aveva gridato: «Vattene! Vattene!». Angelica si ritrasse in se stessa, come le aveva raccomandato Ninon, e cercò di dimenticare quel grido. Dopo un poco, osò risollevare la testa e guardare verso il salotto. Riconobbe Ortensia in un vestito assai bello di taffetà rosso scuro. Si era fatta ancor più magra e brutta, se possibile, ma si imbellettava e si pettinava bene. La sua voce era acuta ma suscitava le risate. Ella aveva perduto quell'aria sostenuta che aveva in via dell'Inferno. Frequentando l'ambiente mondano e colto che aveva sempre sognato di raggiungere, Ortensia aveva trovato il meglio della sua personalità: uno spirito caustico, giudizi senza appello ma che non cadevano a vuoto, e la potenza che conferisce il dono di creare o di distruggere le altrui reputazioni con l'arma del ridicolo. Ninon la prese a braccetto e la condusse verso l'angolino dove stava Angelica. «Cara Ortensia, è da molto tempo che desideravate conoscere la signora Morens. Vi ho fatto questa sorpresa. Eccola.» Angelica non aveva fatto in tempo a fuggire. Vide, vicinissimo al proprio, l'orrendo viso di Ortensia increspato di una dolciastra espressione di benevolenza. Ma, ora, si sentiva calmissima. «Buongiorno, Ortensia,» disse. Ninon le guardò entrambe un attimo, poi si eclissò. La signora Fallot di Sancé aveva sobbalzato con violenza. Gli occhi a seme di mela le si spalancarono. Divenne gialla sotto il belletto. «Angelica!» sussurrò. «Sì, sono io. Siedi, dunque, mia cara Ortensia... Perché fai un'aria così stupita? Pensavi davvero ch'io fossi morta?» «Infatti,» disse violentemente Ortensia che si stava riprendendo. Strinse il ventaglio nel pugno come un'arma. Le sue sopracciglia si avvicinarono, la bocca le si contrasse. Angelica la ritrovò tutta intiera. «Com'è brutta! Com'è orrenda,» disse fra sé con lo stesso giubilo puerile della sua infanzia. «E permettimi di dirti,» continuava Ortensia aspramente, «che, secondo l'opinione della famiglia, era il meglio che avresti potuto fare.» «Non ho condiviso l'opinione della famiglia, come vedi.» «Peccato. Che figura faremo, ora? Appena comincia a calmarsi il risucchio di quel terribile affare, appena siamo riusciti a far dimenticare che tu eri nostra parente, ed ecco che tu ricompari per nuocerci ancora!»
«Se è di questo che hai paura, non temere, Ortensia,» disse Angelica tristemente. «La contessa di Peyrac non ricomparirà mai più. Sono conosciuta con il nome di signora Morens, ormai.» Questo non calmò la moglie del procuratore. «Sei tu dunque la signora Morens? Una originale che conduce vita scandalosa, una donna che commercia come un uomo, come la vedova di un panettiere. Passerai dunque la tua esistenza a distinguerti per disonorarci? Pensare che c'è una sola donna, a Parigi, che vende cioccolato e questa dev'essere proprio mia sorella!» Angelica alzò le spalle. Le geremiadi di Ortensia non la toccavano. «Ortensia,» disse bruscamente, «dammi notizie dei miei figli.» La signora Fallot s'interruppe di colpo e guardò la sorella con aria idiota. «Sì, i miei figli,» ripeté Angelica, «i miei due figli che ti avevo affidato quando mi scacciavano da ogni parte.» Vide Ortensia riprendersi nuovamente, prepararsi alla lotta. «È tempo d'informarti dei tuoi figli, davvero! È perché mi hai incontrata che pensi a loro,» disse ironicamente. «Ecco decisamente un tenero cuore di mamma...» «Ho avuto delle difficoltà...» «Prima di pagarti dei vezzi come quelli che porti, avresti potuto, mi pare, informarti sulla loro sorte.» «Li sapevo al sicuro presso di te. Parlami di loro. Come stanno?» «Io... io non li ho più visti da molto tempo,» disse con uno sforzo Ortensia. «Non sono dunque in casa tua? Li hai mandati da una nutrice?» «Che altro fare?» esclamò la signora Fallot con un ritorno di collera. «Avrei dovuto tenerli con me quando non ho potuto mai pagare una nutrice a domicilio per i miei figli?» «Ma sono grandi, ora, che fanno?» Ortensia si guardava intorno con aria smarrita. I suoi lineamenti, a un tratto, si fecero convulsi e gli angoli della bocca le caddero in giù in maniera pietosa. Angelica ebbe la sorprendente impressione che sua sorella sarebbe scoppiata in singhiozzi. «Angelica,» fece questa con voce soffocata, «non so come dirtelo... I tuoi figli... è spaventoso... I tuoi figli sono stati portati via da un'egiziana!» Volse via il capo. Le labbra le tremavano. Vi fu un lungo silenzio. «Come lo hai saputo?» chiese infine Angelica. «Dalla nutrice... quando andai a Neuilly. Era troppo tardi per avvertire la
polizia... Già da sei mesi i bambini erano stati rapiti...» «Sicché, tu rimanesti sei mesi senza andare a trovare la nutrice, e magari senza pagarla?» «Pagarla?... Con che cosa? Avevamo appena di che vivere. Dopo lo scandalo del processo di tuo marito, Gastone perse quasi tutta la clientela; dovemmo cambiar casa. Ed era l'anno in cui ci trovavamo costretti a ricomprare le cariche reali. Appena potei farlo, mi recai a Neuilly. La nutrice mi raccontò il dramma... Sembra che, un giorno, una zingara, una donna in cenci, entrò nel cortile e reclamò i due bambini affermando di essere la madre. E siccome la nutrice voleva chiamare i vicini, quella la feri con un grande coltello... Fui costretta a pagare le spese del farmacista, a causa di quella ferita...» Ortensia tirò su per il naso e cercò il fazzoletto nella borsa. Angelica rimaneva a bocca aperta. Le lagrime che arrossavano gli occhi di Ortensia la sbalordivano ancor più che non sapere che sua sorella era ritornata dalla nutrice. La moglie del procuratore parve accorgersi del proprio insolito comportamento: «È questo, allora, tutto l'effetto che ciò ti produce?» sibilò. «Io ti comunico che i tuoi figli sono scomparsi e tu resti più indifferente di un pezzo di legno... Ah! siamo ben sciocchi, Gastone ed io, a esserci guastato il sangue per anni e anni pensando a quel povero piccolo Florimondo trascinato per le strade dagli zingari!» La voce si spezzò sull'ultima parola. «Calmati, Ortensia,» balbettò Angelica. «Non è accaduto nulla ai bambini. Quella donna che andò a prenderli... ero io.» «Tu?» Negli occhi inorriditi di Ortensia, Angelica vide passare la immagine di una donna in cenci, armata di un puntuto coltello. «La nutrice ha esagerato: non ero in cenci e non la minacciai con un coltello. Dovetti solo gridare piuttosto forte perché i bambini erano in uno stato da far paura. Se non me li fossi portati via, non li avresti trovati egualmente, perché sarebbero morti. Un'altra volta, cerca di scegliere un po' meglio la nutrice...» «Evidentemente, con te si può sempre prevedere "un'altra volta",» disse Ortensia alzandosi in piedi, fuori di sé. «Sei di una sbalorditiva noncuranza, d'una arroganza, d'una... Addio.» Se ne andò infuriata, rovesciando lo sgabello.
Rimasta sola, Angelica stette a lungo con le mani congiunte sulla gonna, in un gesto meditativo. Diceva fra sé che non sempre le persone sono cattive come potrebbero essere. Una Ortensia che, sotto il colpo di una tremenda paura, la gettava fuori di casa senza pietà, era capace di provare rimorso pensando al piccolo Florimondo trasformato in zingaro. Un allegro meridionale come Andijos, giusto buono a perdere al giuoco e a far sbuffare i polsi di merletto, se ne andava a un tratto in guerra contro il re e teneva per quattro anni, come capobanda, una intera provincia in rivolta. Un principe di Condé salvava un regno, complottava assassinii, tradiva, poi si umiliava per tornare in grazia, e non era, in fondo, che un uomo semplice, veramente modesto, rattristato dalla pazzia del figlio, e di cui la vita intera era stata dominata da un solo amore tenero e appassionato. Il giorno dopo, Angelica avrebbe mandato Florimondo e Cantor dai Fallot di Sancé con doni per i cugini e per la zia. «Siete qui?» disse Ninon sollevando la tenda. «Ho veduto la signora Fallot andar via. Sembrava in buona salute, pur se di umore nero. Ma non dovevate strapparle la pelle?» «Dopo averci riflettuto,» rispose soavemente Angelica, «ho pensato ch'era più crudele lasciargliela com'era.» Quello stesso giorno avrebbe potuto essere segnato con una pietra bianca. Si giocò infatti proprio quella sera, tra la signora Morens e il principe di Condé, la famosa partita di oca che doveva far le spese della cronaca mondana, scandalizzare i devoti, mandare in estasi i libertini e divertire tutta Parigi. La partita cominciò come al solito nel momento in cui venivano portate le candele. A secondo delle diverse fortune dei giocatori, essa poteva durare tre o quattro ore. Vi sarebbe stata, dopo, una cenetta. Dopo, ciascuno sarebbe tornato a casa. L'oca cominciava con un numero illimitato di partecipanti. Quella sera, una quindicina di giocatori presero il via. Si giocava forte. I primi colpi eliminarono una metà dei concorrenti. La partita rallentò quindi il suo ritmo. A un tratto, Angelica, ch'era distratta e pensava a Ortensia, si accorse
stupita ch'ella proseguiva arditamente una serratissima lotta contro il principe, il marchese di Thianges e il presidente Jomerson. Era lei, da un po' di tempo, a «menare» il giuoco. Il giovane duca di Richemont, che l'adorava, segnava le sue tavolette e, gettandovi un'occhiata, ella vide di aver guadagnato una piccola fortuna. «Stasera siete in vena, signora,» le disse il marchese di Thianges con una smorfia. «È quasi un'ora che tenete la puntata e non sembrate disposta a lasciarla,» «Non ho mai visto un giocatore mantenere la puntata per tanto tempo!» esclamò il duchino eccitatissimo. «Non dimenticate, signora, che, se perdete, dovete rimborsare a ciascuno di questi signori la stessa somma ora vinta. Siete ancora in tempo a fermarvi. Ne avete il diritto.» Il signor Jomerson si mise a gridare che gli spettatori non avevano il diritto d'intervenire e che, se ciò continuava, avrebbe fatto sgombrare la sala. Lo calmarono facendogli notare che non era al Palazzo, ma in casa della signorina Ninon de Lenclos. Si aspettava la decisione di Angelica. «Continuo,» disse. E distribuì le carte. Il presidente respirò. Aveva perduto molto e sperava che un colpo della sorte, un momento dopo, lo avrebbe pagato al centuplo delle sue imprudenze. Non si era mai visto un giocatore mantenere la puntata così a lungo come quella dama. Se la signora Morens s'intestardiva, era fatalmente perduta e sarebbe stato tanto meglio per gli altri. Solo una donna poteva intestardirsi a quel modo! Per fortuna, ella non aveva un marito cui render conto, altrimenti il pover'uomo avrebbe già potuto prepararsi a chiamare il proprio amministratore per contare il denaro liquido disponibile. Il presidente Jomerson, nel frattempo, dovette mostrare un giuoco pietoso e abbandonò la partita assai avvilito. Angelica conduceva tuttora il giuoco. Tutti si affollavano intorno ai giocatori e persone che erano sul punto di andar via non si decidevano a farlo e restavano dritte su un piede, tendendo il collo. Per qualche giro, ci fu parità. In tal caso, Angelica riscuoteva la puntata ma nessun giocatore era eliminato. Poi, il signor di Thianges perse e si alzò asciugandosi il sudore. La serata era stata tremenda! Che avrebbe detto sua moglie venendo a sapere che dovevano pagare alla signora Morens, la cioccolataia, la rendita di due anni? Se lei avesse vinto, naturalmente! In caso contrario, i debiti degli altri giocatori sarebbero toccati a lei ed ella avrebbe dovuto pagare al principe di Condé il doppio della somma che a-
veva vinto. Venivano le vertigini solo a pensarci! Quella donna era pazza! Correva alla sua rovina! Al punto in cui era giunta, nessun giocatore, neppure il più folle, avrebbe avuto il coraggio di continuare. «Fermatevi, amor mio,» pregava il duchino all'orecchio di Angelica. «Non potete più vincere.» Angelica teneva la mano posata sul mazzo di carte. Era un piccolo mattone liscio e duro che le bruciava il palmo. Fissò uno sguardo penetrante sul principe di Condé. Eppure, la partita non dipendeva solo da lui, ma dalla sorte. La sorte le stava dinanzi. Aveva assunto il viso del principe di Condé, i suoi occhi di fuoco, il suo naso a rostro, i suoi denti bianchi da carnivoro che un sorriso scopriva. E non erano più carte, quelle ch'egli teneva in mano, ma un cofanetto in cui brillava la boccetta verde del veleno. Intorno a lui, non c'era che tenebra e silenzio. Poi, il silenzio si spezzò come cristallo sotto l'urto della voce di Angelica: «Continuo.» Per quel colpo, vi fu ancora parità. Villarceaux andò alla finestra: chiamava i passanti, gridando loro che salissero, che non si era mai veduta una partita così sensazionale dopo quella in cui suo nonno si era giocato la moglie e il reggimento, al Louvre, con il re Enrico IV. La gente si ammucchiava nel salotto. Persino i valletti erano saliti sulle seggiole per seguire da lontano il combattimento. Le candele fumavano. Nessuno pensava a smoccolarle. Faceva un caldo soffocante. «Continuo,» ripeté Angelica. «Pari.» «Altri tre giri pari e ci sarà la "scelta della puntata".» «Il colpo supremo dell'oca... Un colpo che si vede solo ogni dieci anni!» «Ogni venti, mio caro.» «Una volta ogni generazione.» «Ricordatevi del finanziere Tortemer che chiese a Montmorency il suo blasone.» «Il quale aveva chiesto a Tortemer l'intera sua flotta.» «Fu Tortemer che perse...»
«Continuate, signora?» «Continuo.» Un movimento fra gli spettatori per poco non faceva rovesciare la tavola e quasi schiacciò i due giocatori. «Accidenti!» imprecò il principe cercando il bastone. «Vi giuro che, se non ci lasciate respirare, vi accoppo tutti. Fatevi indietro, che diavolo!...» Il sudore scorreva sulla fronte di Angelica. Solo il caldo ne era la causa. Ella non provava alcuna ansietà. Non pensava né ai figli né a tutti gli sforzi fatti e ch'era sul punto di annullare. Tutto, in verità, le appariva perfettamente logico. Aveva lottato per troppi anni contro la sorte con sistemi da talpa rissosa. Ecco che la incontrava a faccia a faccia sul suo terreno, nella sua follia. L'avrebbe afferrata alla gola, l'avrebbe pugnalata. Anche lei era pazza, pericolosa e incosciente come la stessa sorte. Erano pari! «Parità.» Si udì un rumore, poi delle grida. «La scelta della puntata! La scelta della puntata!» Angelica attese che il disordine si fosse un poco calmato per chiedere con voce saggia di scolaretta in che cosa consisteva quel colpo supremo di oca. Tutti si misero a parlare insieme. Poi il cavaliere di Méré andò a sedersi accanto a loro e, con voce tremante per l'eccitazione, espose la cosa. Nel corso di quell'ultima mano, i giocatori ripartivano da zero. Debiti e vincite precedenti erano annullati. Ciascuno, invece, poneva la puntata, non quello che offriva, ma quello che chiedeva. E ciò doveva essere enorme. Furono citati esempi: il finanziere Tortemer, il secolo scorso, aveva chiesto i titoli di nobiltà di Montmorency e il nonno di Villarceaux aveva accettato, se perdeva, di cedere all'avversario la moglie e il reggimento. «Posso ancora ritirarmi?» chiese Angelica. «È vostro più assoluto diritto, signora.» Ella rimase immobile, sovra pensiero. Si sarebbe sentito volare una mosca. Per molte ore Angelica aveva «menato il giuoco». In quel colpo supremo, la fortuna l'avrebbe abbandonata?
Il suo sguardo parve destarsi e prese a brillare con un'intensità quasi selvaggia. Ma ella sorrise. «Continuo.» Il cavaliere di Méré inghiottì la saliva e disse: «Per la "scelta della puntata" la frase regolamentare è questa: "Partita accettata. Se vinco chiedo..."» Angelica chinò docilmente la testa e, sempre sorridendo, ripeté: «Partita accettata, monsignore. Se vinco, chiedo il vostro palazzo del Beautreillis.» La signora Lamoignan emise un'esclamazione che il marito soffocò subito con mano furiosa. Tutti gli occhi erano rivolti al principe, che aveva il suo sguardo iroso. Ma era un giocatore serio e onesto. Sorrise anch'egli, rialzò la fronte altera: «Partita accettata, signora. Se vinco, sarete la mia amante.» Lo stesso movimento delle teste girò questa volta verso Angelica, che continuava a sorridere. Le luci posavano riflessi sulle sue labbra dischiuse. Il madore che stillava alla superficie della sua pelle dorata la rendeva brillante, lucida come petalo inumidito dall'alba. La stanchezza che le inazzurrava le palpebre, le dava una strana espressione di sensualità e di abbandono. Gli uomini presenti fremettero. Si fece un silenzio greve e torbido. Il cavaliere di Méré disse a mezza voce: «Avete ancora la scelta, signora. Se rifiutate: Partita rimandata, e si torna al colpo precedente. Se accettate: Partita convenuta.» La mano di Angelica prese le carte: «Partita convenuta, monsignore.» Non aveva che fanti, donne e carte basse. Il suo peggior giuoco dall'inizio della partita. Tuttavia, dopo alcuni scambi, riuscì a comporre una figura di poco valore. Le restavano due soluzioni: calare subito e rischiare che il giuoco del principe di Condé fosse superiore al suo. Oppure, tentare di comporre, con l'aiuto della «pesca», una figura più importante. In tal caso, il principe, forse mal messo in quel momento, po-
teva riprendersi e calare, prima di lei, una figura di re e assi. Ebbe un attimo di esitazione, poi calò. Non ci fu un gran chiasso, ma una cannonata non avrebbe maggiormente pietrificato gli astanti. Il principe, gli occhi fissi alle proprie carte, non si muoveva. Si alzò di scatto, scoperse il giuoco, poi s'inchinò profondamente: «Il palazzo del Beautreillis è vostro, signora.» 19 Angelica non riusciva a credere ai propri occhi. Un colpo di dadi e la più sfacciata, la più assurda fortuna le aveva restituito il palazzo di Beautreillis! Tenendo per mano i suoi figli, ella percorse la sontuosa dimora. Non osava dir loro: «Questo apparteneva a vostro padre.» Ma ripeteva: «Questo è vostro! È vostro!» Non si stancava di osservarne le meraviglie: l'allegra decorazione di dee, pargoli e foglie, le inferriate in ferro battuto, i rivestimenti di legno nello stile del tempo, che respingevano nel passato la moda delle pesanti tappezzerie. Nella penombra delle scale e dei corridoi, si vedeva brillare l'abbondanza dell'oro e delle ghirlande di fiori, il cui sottile scintillio era interrotto di tanto in tanto dal braccio scintillante di una statua che sorreggeva una lumiera. Il principe di Condé non aveva messo in ordine quel palazzo che non amava. Aveva solo tolto alcuni mobili. Quelli che restavano, li lasciò ad Angelica con la generosità di un gran signore. Buon giocatore, si teneva da parte dopo aver consegnato la posta della partita a colei che l'aveva vinta. Era forse più offeso di quanto volesse confessare per l'assoluta indifferenza della giovane donna nei suoi riguardi. Ella non aveva occhi che per il palazzo del Beautreillis, ed egli si chiedeva con triste malinconia se l'amicizia che gli era parso di leggere a volte negli occhi del suo grazioso vincitore non fosse stata, anch'essa, che una manovra interessata.
Il principe temeva inoltre un poco che l'eco di quella partita sensazionale giungesse agli orecchi di Sua Maestà, la quale non amava le eccentricità troppo chiassose. Il principe decise di ritirarsi a Chantilly. Angelica rimase sola di fronte al suo sogno esaltante. Con un piacere perfetto, ella prese a ornare il suo palazzo con tutto ciò che si faceva di più nuovo. Ebanisti, orefici e tappezzieri furono convocati. Ella fece fare dal signor Boulle alcuni di quei mobili in legno traslucido, adorni di avorio, di tartaruga, di bronzo dorato. Il suo letto scolpito, le sedie e le pareti della sua camera furono coperti di raso bianco-verde a gran fiori color arancio chiaro. Nel suo salottino, la tavola, il tavolinetto rotondo e il legno delle sedie erano coperte di una bella vernice azzurra. Il pavimento di queste due stanze era a intarsio, d'un legno così odoroso che il profumo si attaccava ai vestiti di coloro che lo calcavano. Ella chiamò Gontrano per dipingere il soffitto del grande salotto. Comprava mille cose, soprammobili cinesi, quadri, biancheria, vasellame d'oro e di cristallo. Lo scrittoio era considerato un pezzo raro, di scuola italiana, ed era quasi il solo mobile antico del palazzo. Era in ebano smaltato di rubini rosa, di rubini rosso ciliegia, di granate e di ametiste. Nella sua febbre di acquisti, ella comprò anche una piccola chinea bianca per Florimondo perché egli potesse galoppare per i viali del giardino, da lei fatto ornare con aranci in casse. Cantor ebbe due grandi mastini severi e dolci ch'egli poteva attaccare a una piccola carrozza di legno dorato, nella quale prendeva posto. Ella stessa sacrificò alla moda offrendosi uno di quei cagnolini da compagnia a pelo lungo che facevano furore. Lo chiamò Crisantemo. Florimondo e Cantor, cui piacevano le grandi bestie feroci, disprezzavano chiaramente quella miniatura scapigliata. Infine, per completare la sua installazione, ella decise di offrire un gran pranzo seguito da un ballo. Quella festa avrebbe consacrato la nuova situazione della signora Morens, non più cioccolataia nel sobborgo Sant'Onorato, ma divenuta una delle nobili dame del Marais. In occasione di quel pranzo, si ricordò di Audiger. Il maggiordomo le sarebbe stato utilissimo. Angelica si accorse che non lo aveva più veduto da tre mesi. Aveva trascurato un po' i suoi affari, in quel tempo, ma, per fortuna, aveva potuto spendere senza rimorsi perché due delle sue navi erano
tornate senza incidenti da una prima campagna nelle Indie Orientali, ed ella aveva veduto raddoppiare di colpo i suoi guadagni. Angelica sapeva che il duca di Soissons aveva accompagnato il re nel Rossiglione e pensava che Audiger avesse fatto parte del seguito. Tuttavia si stupiva che il suo socio, sempre così rispettoso e sollecito, avesse lasciato Parigi senza salutarla. Gli fece, ad ogni buon conto, portare un biglietto chiedendogli notizie e dicendogli che sarebbe stata lieta di vederlo. Egli si presentò l'indomani, con aria scura e puritana. «Che ne pensate del mio palazzo?» gli disse Angelica accogliendolo gaiamente. «Non è forse uno dei più bei palazzi di Parigi?» «A dire il vero, non ne penso nulla,» rispose Audiger con voce cavernosa. Angelica fece una smorfia di delusione. «Siete arrabbiato un'altra volta! Suvvia, non siete contento del mio successo?» «C'è successo e successo,» disse il maggiordomo, rigido. «Mi inchino dinanzi a quello ch'è frutto del lavoro e dell'intelligenza. Ma mi hanno detto che avete vinto questo palazzo al giuoco.» «Esatto.» «E mi hanno anche detto che, in cambio della puntata, il principe di Condé, che era vostro compagno, vi chiese di divenire la sua amante.» «Anche questo è esatto.» «Che avreste fatto, se aveste perduto?» «Sarei divenuta la sua amante, Audiger! Sapete come me che un debito di giuoco è sacro.» Il tondo viso del maggiordomo si fece di bragia ed egli respirò profondamente. Angelica si affrettò ad aggiungere: «Ma non ho perduto! E ora sono proprietaria di questa magnifica dimora. Non valeva forse il rischio di far la civetta?» «Piantate semi di civetta e raccogliete cornuti,» disse con faccia scura Audiger. «Le vostre riflessioni sono sciocche, mio povero amico. Ma guardate in faccia la realtà. Io non ho perduto e voi non siete cornuto... per la semplice ragione che non siamo sposati. Non dimenticate velo cosi spesso.» «Come potrei dimenticarlo?» si lamentò lui con voce alterata. «Mi con-
sumo pensandoci, Angelica.» Tese verso di lei le mani. «Angelica, sposiamoci, ve ne supplico, sposiamoci finché siamo ancora in tempo.» «Ancora in tempo?...» ripeté lei sorpresa. Stava in piedi sull'ultimo gradino delle scale, da dove lo aveva interpellato andandogli incontro. La sua manina adorna di anelli riposava sulla balaustra di pietra lavorata. Indossava una veste da casa in velluto nero che poneva in risalto la sua carnagione ambrata. Al collo, un vezzo di perle. Nei capelli ricci dai riflessi d'oro, la ciocca bianca attorta come una rosa d'argento, pareva un altro gioiello, commovente... La sua persona era l'immagine di una giovane vedova troppo fragile per vivere, così isolata, nel grande palazzo semideserto. Ma i suoi occhi verdi rifiutavano ogni clemenza. Con un lento sguardo essi raccolsero insieme il grandioso scenario del vestibolo dai mosaici in pietra dura, le alte finestre aperte sul cortile, il soffitto a cassettoni, guarnito di stemmi che non erano riusciti a cancellare. «Ancora in tempo?» ripeté a voce bassa, come per se stessa. «Oh! no davvero, non credo proprio.» Con la sensazione di aver ricevuto uno schiaffo, Audiger misurò l'abisso che lo separava da lei. Il poveretto non capiva per quale implacabile evoluzione la modesta servente della «Maschera Rossa» si fosse trasformata in quella gran dama sprezzante. Non vedeva in lei che un'ambiziosa. Nella sua ingenua bontà sprovvista d'istinto, il maggiordomo non poteva indovinare quale tragica figura si drizzasse, proprio lì, dietro la giovane donna solitaria: quella di Goffredo di Peyrac, conte di Tolosa, l'amato sposo ch'era stato bruciato come stregone in piazza di Grève e che, anche morto, restava padrone incontestato di quei luoghi. Conoscendo la nobiltà, i denti affilati, l'inveterata stupidità, là presunzione di quella classe, egli era persuaso che la povera ragazza si sarebbe spezzata contro barriere insuperabili e sarebbe un giorno tornata a lui, ansante, umiliata ma, infine, rinsavita. Del resto, non aveva ella desiderato di rivederlo, non lo aveva forse chiamato, prendendo finalmente coscienza della propria follia e desiderosa di un consiglio amichevole e prudente quale soltanto lui poteva darle? «Mi avete scritto,» diss'egli pieno di speranza, «che desideravate vedermi?»
«Oh! sì, Audiger,» esclamò Angelica, lieta di quella diversione. «Figuratevi che ho molta voglia di dare un gran pranzo e vorrei che voi vi occupaste di apparecchiare la tavola e di comandare i valletti per il servizio.» Egli arrossì penosamente. Ella si accorse del suo errore, cercò di riprendersi. «Non è naturale che mi rivolga a voi? Siete il più perfetto maggiordomo ch'io conosca e nessuno meglio di voi sa piegare i tovaglioli per dar loro ogni specie di forma curiosa e nuova...» Audiger passava per tutti i colori dell'arcobaleno. Avrebbe voluto nello stesso tempo ingiuriare Angelica, riempirla di botte, andarsene in silenzio, obbedirle e farsi saltare le cervella. Si diceva amaramente che non c'erano che le donne per rendere ridicolo un uomo, qualunque sia il partito ch'egli scelga. Optò tuttavia per il più degno. «Sono spiacente, ma non contate su me,» fece con voce roca. E, con un gran saluto, la piantò lì. Ella dovette fare a meno di lui, ma la festa che la signora Morens diede nel suo palazzo del Beautreillis fu tuttavia un grande successo. Le persone meglio titolate di Parigi non sdegnarono di recarvisi. La signora Morens ballò con Filippo del Plessis-Bellière, abbagliante in un abito di raso azzurro pervinca. Il vestito di Angelica, in velluto azzurro guarnito d'oro, si accordava con il costume del compagno. Formavano la più bella coppia dell'assemblea. Angelica fu sorpresa nel vedere il freddo volto aprirsi in un sorriso mentre, reggendo alta la mano di lei, egli la guidava per un trescone attraverso l'ampio salotto. «Oggi non siete più la baronessa del Triste Vestito,» le disse. Ella conservò quella frase nel proprio cuore con il geloso sentimento di un bene prezioso, infinitamente raro. Il segreto della sua origine li rendeva complici. Egli si ricordava della piccola alzavola grigia la cui mano aveva tremato in quella del bel cugino. «Com'ero sciocca!» diceva fra sé Angelica sorridendo, china sulle memorie della sua adolescenza. Dopo quella festa, ella fu presa da un profondo abbattimento. La solitudine della sua principesca abitazione le pesava... Il palazzo del Beautreillis significava troppe cose per lei, una dimora mai abitata e che tuttavia sem-
brava impregnata di ricordi, invecchiata da una lunga pena. «I ricordi di ciò che avrebbe dovuto essere!» pensava lei. Seduta dinanzi al fuoco o dinanzi alla finestra, nelle dolci notti primaverili, Angelica lasciava passare le ore. La sua abituale attività l'aveva abbandonata. Era in preda a un male che non riusciva a comprendere. Perché il suo corpo di giovane donna era solitario, mentre il suo cuore e il suo spirito subivano la presenza di un fantasma. Le accadeva di levarsi dal letto d'improvviso e, tenendo in mano il candeliere, di andare alla soglia per spiare, nell'ombra della galleria, non sapeva che cosa. Veniva qualcuno?... No!... Soltanto silenzio. I bambini dormivano nel loro appartamento, vigilati dalle devote serventi. Ella aveva restituito loro la casa del padre. Angelica si coricava nel suo magnifico letto. Sentiva freddo. Si toccava le carni lisce e resistenti, le accarezzava con una specie di tristezza. Nessun uomo vivente avrebbe potuto accontentare il suo desiderio. Ella era sola per tutta la vita! Quella zona del Marais in cui si trovava il palazzo Beautreillis era piena di vestigia medievali, perché occupava il luogo del palazzo San Paolo che era stato, sotto Carlo VI e Carlo VII, la residenza preferita dei re. Costruito dal sovrano e dai suoi principi, aveva raggruppato numerose abitazioni collegate per mezzo di gallerie, divise da cortili e giardini in cui si trovavano l'uccelliera, gli animali da allevamento, i terreni di giuoco e da torneo. I grandi vassalli avevano il loro palazzo nelle immediate vicinanze del re. Quei palazzi, assai belli, come quello di Sens o di Reims, fondevano ancora i loro tetti e le loro torrette aguzze alle nuove residenze. Dovunque, la pietra medievale, tormentata e torta come una fiamma, sopravviveva e andava all'assalto delle belle facciate disegnate da Mansart o Perrault. Angelica, in fondo al suo giardino, possedeva così un antico pozzo, dentellato e finestrato come un oggetto di oreficeria. Dopo aver salito i tre gradini circolari che lo sopraelevavano, ci si poteva sedere sull'orlo e fantasticare a piacimento, sotto la sua cupola di ferro battuto, accarezzando con un dito le salamandre o i cardi di pietra muschiosa che l'ornavano. Una sera ch'ella passeggiava (la luna era piena e l'aria tiepida), Angelica trovò accanto al pozzo un vecchio dai capelli bianchi che attingeva acqua. Riconobbe il domestico che portava nelle stanze la legna e si occupava delle candele. Egli si trovava già nel palazzo quando ella vi si era stabilita.
Era colui del quale il principe di Condé diceva che aveva servito l'antico proprietario. Una curiosità nuova la spinse verso il pozzo. Aveva parlato raramente con il vecchio. Gli altri lo chiamavano «nonno». Ella gli chiese come si chiamasse. «Pasquale Arrengen, signora, per servirvi.» «Ecco un nome che dice chiaro da dove vieni. Sei guascone o bearnese, non è vero?» «Sono di Baiona, signora. Sono basco, precisamente.» Ella si passò la lingua sulle labbra e si chiese se doveva parlare. Il vecchio aveva ritirato il secchio dal pozzo. L'acqua spruzzava sulla pietra dell'orlo e brillava sotto la luna. «È vero che quegli che fece costruire questo palazzo era di laggiù, della Linguadoca?» «Sì che lo era... di Tolosa!» «Come si chiamava?» Voleva udire quel nome, provare la dolcezza amara di sentirlo ancora vivo nel ricordo di un pover'uomo che lo aveva avvicinato e forse amato. Ma il vecchio si fece in fretta il segno della croce e si guardò intorno spaventato. «Sss! Non bisogna pronunciare il suo nome. È maledetto!» Il cuore di Angelica sanguinò. «È vero, allora?» chiese seguitando a far la sua parte. «Dicono che sia stato ucciso come stregone...» «Lo dicono.» Il vecchio la fissava attentamente. I suoi occhi chiari sembravano interrogarla, come s'egli esitasse sull'orlo di una confidenza. A un tratto, si mise a sorridere e le sue rughe s'impregnarono di una sottile malizia. «Lo dicono... ma non è vero.» «Perché?» «Fu un altro, già morto, che bruciarono in piazza di Grève.» Questa volta, il cuore di Angelica prese a batterle nel petto come un tamburo. «Come lo sai?» «Perché l'ho rivisto.» «Chi?» «Lui... il conte maledetto.»
«L'hai rivisto? Dove?» «Qui... una notte... nella galleria inferiore... L'ho visto.» Angelica sospirò e chiuse gli occhi, stanca. Quale follia cercare una speranza nelle divagazioni di un povero servitore che aveva creduto di vedere un fantasma! Aveva ragione Desgrez quando diceva che non bisognava mai parlare di «lui», mai pensare a «lui». Ma il vecchio Pasquale era lanciato. «Era una notte, poco dopo il rogo. Dormivo nella scuderia sul cortile ed ero solo perché anche il portinaio era andato via. Io, invece, ero rimasto. Dove volete che vada? Ho sentito del rumore nella galleria e ho riconosciuto il suo passo.» Un riso muto gli fendette la bocca sdentata. «Chi non riconoscerebbe il suo passo?... Il passo del Grande Zoppo della Linguadoca?... Ho acceso la lanterna e sono entrato. Il passo camminava davanti a me, ma io non vedevo nessuno perché la galleria fa un gomito. Ma quando sono arrivato alla curva, l'ho visto. Si appoggiava alla porta della cappella e si voltava verso di me...» La pelle di Angelica fu percorsa da un lungo brivido. «Lo hai riconosciuto?» «L'ho riconosciuto come un cane riconosce il padrone, ma non ho visto il suo volto. Portava una maschera... Una maschera di acciaio brunito... A un tratto, s'è cacciato nel muro e non l'ho più visto.» «Oh! vattene,» gemette Angelica, «mi fai morire di paura.» Il vecchio la guardò stupito, si passò la manica sotto il naso, prese il secchio e si allontanò docilmente. Angelica tornò nella sua camera in uno stato di panico indescrivibile. Ecco perché, fra quelle mura, ella si sentiva oppressa a volta a volta di gioia e di dolore. Perché vi errava il fantasma di Goffredo di Peyrac. Goffredo di Peyrac... un fantasma! Oh! quale triste destino per lui ch'era solo vita, che adorava la vita in tutte le sue forme e il cui corpo era così stupendamente disposto alle voluttà! Lasciò cadere la testa fra le mani e le parve che avrebbe pianto. Allora, dal seno della notte, nacque un canto, un canto celestiale e delizioso che somigliava a quello degli angeli quando si spandono sopra le
campagne, la notte di Natale. Angelica credette dapprima a un'allucinazione. Ma, accostandosi al corridoio, distinse chiaramente la voce di un fanciullo che cantava. Prendendo una candela, si diresse verso la camera dei figli. Sollevò piano il tendaggio e si fermò di colpo, incantata dal quadro che aveva sotto gli occhi. Un lumino da notte rischiarava dolcemente l'alcova dove dormivano i bimbi. In piedi sul grande letto, Cantor, in camicia bianca, con le mani grassottelle congiunte sul ventre e gli occhi al cielo, cantava, simile a un angeletto del paradiso. La sua voce era di straordinaria purezza ma la sua dizione di bambino storpiava le parole in maniera commovente: «È il ziorno di Natale Che Ziesù è nato. È nato in una stalla, Sopra la paglia; È nato in un cantuccio, Sopra il fieno.» Florimondo, coi gomiti sul cuscino, lo ascoltava con visibile piacere. «San Ziuseppe col suo cappello gli fece una culla...» Un lieve rumore trasse Angelica dalla sua contemplazione. Vide Barbara al suo fianco che si asciugava due lagrime di commozione. «La signora non sapeva che il nostro tesoro cantava così bene?» sussurrò la servente. «Volevo farne una sorpresa alla signora. Ma lui è selvaggio. Non vuol cantare che per Florimondo.» La gioia prendeva di nuovo il posto della pena nel cuore di Angelica. L'anima dei trovatori era passata in Cantor. Egli cantava. Goffredo di Peyrac non era morto poi che riviveva nei suoi figli. Uno gli somigliava, l'altro aveva la sua voce... Già ella decideva di far dare lezioni a Cantor dal signor Lulli, musicista del re. 20
Così Angelica organizzava la propria esistenza in quel bel quartiere dove s'incontrava il fior fiore della società parigina. Si costruivano molte case alte e chiare, dalle facciate lievemente inclinate. I giardini e i cortili dei palazzi privati creavano, fra quelle costruzioni venute su in fretta, isolotti di verde in cui si mescolavano i diversi odori degli aranceti e delle scuderie. La signora Morens possedeva due carrozze, sei cavalli, due palafrenieri, quattro lacchè. Il suo personale era completato da due camerieri, da un capocuoco, da uno scritturale, da diverse serventi e da un numero illimitato di piccoli camerieri e di sguatteri. Ella avrebbe potuto completare la sua personalità di signora del Marais recandosi in chiesa con un lacchè recante il cuscino, un altro la coda e il terzo la borsa ricamata dove si metteva il libro di preghiere. Ma Angelica andava raramente in chiesa, e per dir così, mai. Ne provava un gran dispiacere perché ciò nuoceva alla sua reputazione. Ma l'asilo di Dio era per lei un luogo di tormento. Si ricordava di aver commesso un delitto, di aver fatto vita libera. Rivedeva il rogo in piazza di Grève, il crocifisso alzato del monaco Bécher... Sollevata da una nausea fisica, si ritrovava sul sagrato della chiesa fra i lamenti dei mendicanti accasciati sui gradini... Aveva dovuto rinunciare ad accompagnare le amiche alle funzioni, ciò ch'era, per chi le stava intorno, ragione di stupore. La sua vita casta e la sua irreligiosità turbavano, in un'epoca in cui non si conosceva che la conversione della carne, o quella dell'eresia, ma non della fede in Dio. La signora Scarron aveva tentato segretamente di ricondurla alla pietà. Angelica le sembrava una preda più facile che non l'affascinante Ninon, il cui libero pensiero si basava su una filosofia attinta alle fonti greche e si traduceva in una scandalosa esistenza. Angelica aveva frequenti occasioni di incontrare la vedova sia alle serie riunioni del palazzo d'Aumont, sia ai più agitati ricevimenti in casa di Montespan. Al ritorno, Francesca le proponeva di accompagnarla. Tornavano a piedi, amichevolmente, avendo entrambe conservate della povertà il gusto di camminare per le vie e di rifiutare la schiavitù della carrozza. Era quel passato di miseria, durante il quale si erano furtivamente unite presso il focolare della vecchia Cordeau, che le legava così profondamente? Angelica temeva e amava la signora Scarron per uno stesso motivo: che costei sapeva ascoltare le confidenze. Con la sua voce armoniosa, le sfumature della sua comprensione, un interesse non finto, ella dava al cuore
più chiuso il desiderio di effondersi, e Angelica tremava sempre al pensiero di lasciarsi sfuggire una parola imprudente. Da parte sua, la signora Scarron si ricordava d'essere nata in una prigione; che a quindici anni, a La Rochelle, andava a prendere un piatto di minestra dai gesuiti, e che, più tardi, in casa della zia di Navailles, trattata appena meglio di una domestica viaggiava su uno dei muli che tenevano la lettiga di sua cugina. Entrambe si tenevano nascoste le loro antiche miserie, pur sentendo l'affinità che quei destini pieni di turbamenti creavano fra loro, e s'incontravano con grande piacere. Un'altra amica di vicinato che Angelica frequentava assiduamente era l'affascinante marchesa di Sévigné. Anche costei, come la signora Scarron, si teneva lontana dall'amore, che l'aveva fatta dolorare per troppo tempo, ma mentre Francesca aveva sostituito questa passione con un'ambizione altrettanto smisurata che segreta, la signora di Sévigné, per sua propria confessione, «aveva riempito il suo cuore di amicizia». Era un vero incanto passare qualche ora con lei e più ancora ricevere le sue lettere vivaci e piene di spirito. Angelica si recava a casa sua per udir parlare di Versailles, dove la marchesa andava ogni tanto su espresso invito del re, cui piaceva la sua compagnia. Ella raccontava con molto ardore e brio i divertimenti che vi si davano: corse ad anelli, balletti, commedie, fuochi d'artificio, gite, e quando vedeva un troppo grande rimpianto negli occhi di Angelica, esclamava: «Non desolatevi, carissima. Versailles è il regno del disordine, la folla è tale che, quando c'è qualche festa, i cortigiani diventano rabbiosi perché il re non si cura affatto di loro. L'altra sera, i signori di Guisa e d'Elbeuf non riuscivano quasi a trovare un buco dove mettersi e hanno dovuto andare a dormire nella scuderia.» Ma Angelica era convinta che i signori di Guisa e d'Elbeuf, piuttosto che essere esclusi dai fasti di Versailles, preferissero ancora dormire nella scuderia: e non aveva torto. Quel castello reale, di cui tutti parlavano, e ch'ella non voleva vedere prima di potercisi presentare in tutto il suo splendore, aveva assunto, agli occhi di Angelica l'attrattiva e il meraviglioso di un miraggio. Era diventato il fine unico e insieme inverosimile della sua ambizione. Andare a Versailles! Ma una cioccolataia, sia pure la più ricca di Parigi, avrebbe forse potuto trovare il suo posto alla corte del Re Sole?
Era persuasa che, un giorno, ciò sarebbe accaduto. Era già riuscita in tante cose! Luigi XIV spendeva somme enormi per l'abbellimento di Versailles. «Si preoccupava della bellezza del suo palazzo come una bella donna del suo volto,» diceva la signora di Sévigné. Quando la regina madre morì di un cancro, il re, ch'era svenuto al capezzale di lei, corse a Versailles. Vi rimase tre giorni, errando per i viali di tigli, fra i boschetti di bosso tagliati a sfera e il popolo di marmo delle dee e degli dei. Versailles pose un balsamo sulla sua cocente ferita. Egli poté piangere, evocare dolcemente l'augusta presenza di colei che aveva fatto di lui un re e ch'egli rivedeva nelle sue vesti nere ravvivate da soggoli o da merletti, con il magnifico vezzo di perle che le scendeva fino ai ginocchi, la sua bella croce di diamanti, e le sue stupende piccole mani. Si attardò nell'appartamento dove l'aveva accolta e ch'era adorno delle due cose che Anna d'Austria preferiva: mazzi di gelsomini grandi come cespugli e sovrammobili cinesi in filigrana d'oro e d'argento. A Versailles, almeno, non aveva fatto piangere sua madre. In quella stessa epoca, la signora di Montespan perdette anche lei la madre e quel lutto, unito a quello della corte, trattenne per un po' in casa la pazza donna. Si recò più spesso da Angelica, fuggendo i creditori e i fastidi della sua dimora. La sua gaiezza era velata da un tormento segreto. Parlò della propria infanzia. Suo padre era un libertino e sua madre una bigotta. Così, mentre questa era in chiesa durante il giorno, l'altro partecipava ad orge notturne, e mai si vedevano. Non si sapeva come avessero trovato modo di fare dei figli. Atenaide parlava anche della corte, ma con reticenze e una mal dissimulata impazienza: la regina era una sciocca e La Vallière una disgraziata imbecille. Quando, dunque, il re si sarebbe deciso a ripudiarla? Non mancava di persone decise a prenderne il posto... Si raccontava che le signore di Roure e di Soissons, erano andate a trovare La Voisin per avvelenare La Vallière, Si parlava molto di veleno, a Parigi, eppure non c'erano più, al Marais, che alcune vecchie dame che si facevano portare vicino, al momento dei pasti, la credenza, armadietto contenente gli oggetti usati per la prova. Vi si vedevano alcune tazze con le batrachiti o con i pezzetti di corno di liocorno, oltre a una specie di saliera d'oro o d'argento in cui stavano le lingue
di serpente. Tutte cose destinate a combattere gli effetti del veleno. La nuova generazione ostentava di disprezzare quelle pratiche. Tuttavia, molte persone morivano in modo misterioso e i medici trovarono i loro visceri bruciati da un fuoco corrosivo. Qualcuno, apparentemente, aveva dato loro, secondo l'espressione del poliziotto Desgrez, «un colpo di pistola nel bollito». Angelica aveva come vicina la marchesa di Brinvilliers, che abitava a pochi passi, in via Carlo V. Fu però solo per caso che Angelica si trovò dinanzi a colei ch'ella aveva aggredito dalle parti della porta di Nesle, al tempo in cui apparteneva alla banda di Calembredaine. La signora di Brinvilliers non la riconobbe, almeno Angelica lo sperò, ma quest'ultima si sentì orribilmente impacciata durante tutta la visita, pensando al braccialetto d'oro che riposava in un cofanetto accanto al pugnale di Rodogone l'Egiziano. La signora Morens si era recata in casa della figlia del comandante della polizia, signor d'Aubrays, per presentarle una supplica. Il signor d'Aubrays era morto da poco, ma suo figlio aveva ereditato le sue funzioni e Angelica sperava che la signora di Brinvilliers sarebbe intervenuta presso suo fratello. Si trattava di ottenere la liberazione di un poveretto, imprigionato per mendicità e che la signora Morens, che lo aveva conosciuto tempo addietro, desiderava prendere al proprio servizio. Il povero in questione era Piè Leggero. Un giorno che Angelica passava in carrozza per la piazza della Gogna, aveva scorto, esposto alla berlina, il lungo viso dagli occhi tristi di Piè Leggero. Il sangue le si rivoltò perché Piè Leggero era un innocente che lo sfibrante mestiere di valletto corridore aveva reso infermo e ridotto alla miseria. Neppure alla torre di Nesle Angelica lo aveva mai visto rubare. È appena se mendicava, e Calembredaine trovava giusto nutrirlo e alloggiarlo senza chiedergli contropartita. Angelica fece fermare la carrozza e balzò a terra. Senza preoccuparsi degli sfaccendati, si rivolse al condannato: «Piè Leggero, amico mio, che fai lassù?» «Ah, sei tu, marchesa degli Angeli?» rispose il povero infelice. «Che ne so, di quel che faccio qui? Le guardie mi hanno preso e mi hanno messo in questo loro campanile. Sapere perché, è un altro affare.»
«Abbi un po' di pazienza, tornerò a liberarti.» Per non perdere tempo in vane pratiche, Angelica corse direttamente dal signor d'Aubrays. Ottenne che l'inchiesta sul giovane fosse rapida e la liberazione firmata l'indomani. La signora di Brinvilliers invitò Angelica alla sua prossima riunione. Avrebbe incontrato molta gente simpatica, fra cui il cavaliere di Santa Croce. Nessuno ignorava che costui era l'amante della signora... Piè Leggero, rivestito d'una bellissima livrea, fu nominato cameriere di Florimondo e di Cantor. Non poteva far molto, ma era buono e gentile e sapeva raccontare storie ai bambini. Non gli si chiedeva di più. Non era il primo sopravvissuto della torre di Nesle che Angelica accoglieva nel palazzo del Beautreillis. Gli altri, gli irriducibili mendicanti, sciancati, vagabondi, avevano presto imparato la strada della sua casa dove, tre volte alla settimana, li attendeva una zuppa ben calda, pane e vestiti. Questa volta, Angelica non aveva chiesto a Cul di Legno di sbarazzarla dei suoi pitocchi. Ricevere i poveri rientrava nelle sue attribuzioni di gran dama, ed ella avrebbe voluto ospitarli tutti, senza disgusto né rimpianti. Mentre la familiarità di un Audiger cominciava a diventarle odiosa ricordandole la sua umiliata condizione di servente, i poveri restavano i suoi fratelli, i suoi compagni, ed ella non temeva, abbassando la voce per non esser udita dai valletti, di parlare in gergo con loro. I pitocchi scoppiavano allora nella loro gran risata spaventosa, quella risata ch'ella conosceva così bene... Oh! la risata dei pitocchi nelle profondità della capitale addormentata... Poteva forse dimenticarsi? Si può dimenticare la torre di Nesle, l'odore dell'intingolo che bolle nella pentola, le vecchiette che rosicano i cadaveri dei topi portati dallo Spagnolo, la danza mostruosa dei coniugi Hurlurot, il canto della vecchia Hurlurette, le risatacce, gli urli, i rantoli?... Non si può dimenticare, questo. Meglio, allora, consentire a ritrovarlo. Ritrovare gli stracci, le piaghe, gli occhi lucidi. Apriva la sua porta. E, nei mattini gelidi d'inverno, quei mattini silenziosi di neve in cui il fiato guasto dei pitocchi si condensava in nubi opache, ella li vedeva avanzare verso di lei come belve. «I poveri sono terribili,» diceva il signor Vincenzo.
Sì, erano terribili. Ma Angelica sapeva come angoscia e malvagità possano mordere le carni, sino al cuore. Anche lei era stata trascinata nel flutto purulento. La vecchia voce calorosa che aveva destato quel secolo alla carità, la voce del signor Vincenzo, trovava in lei la sua eco. «I poveri... che non sanno dove andare né che fare, che vagano nella solitudine della loro miseria e che già si moltiplicano, ahimè... sono il mio peso e il mio dolore!» Inginocchiata sul pavimento, Angelica lavava i loro piedi, medicava le loro piaghe. Essi soli, assieme ai due figli, avevano il potere di rianimare la sorgente dell'amore nel suo cuore indurito. Poco dopo l'incidente di Piè Leggero, ella rivide Pane Nero. Il vecchio non era mutato, sempre con le sue conchiglie a tracolla e i suoi rosari di finto pellegrino. Mentre lei gli medicava la solita ulcera che gli rodeva le gambe: «Sorellina,» le disse lui, «son venuto per avvertirti. Se ci tieni alla pelle, non devi continuare a ricevere una certa persona.» «Che dici, Pane Nero? Che ho fatto ancora?» «Tu niente. Ma è l'altra.» «Quale altra?» «L'amica che ti fa le moine da circa una settimana. Ecco, l'ho vista uscire dalla tua casa non più tardi di oggi.» Angelica si ricordò che la signora di Brinvilliers era venuta a farle visita. «Quella signora piccolina con un mantello amaranto?» «Non so se sia amaranto, ma quella piccola signora la conosco abbastanza per dirti di starne alla larga... come dal diavolo.» «Ma come, Pane Nero, è la signora di Brinvilliers, la sorella del capo della polizia!» «Può darsi! Ma ti dico di starne alla larga.» «Ma tu, come la conosci?» «È tutta una storia. Un giorno che faceva freddo, mi addormentai sul sagrato della chiesa di Santa Opportuna e mi svegliai all'Ospedale Maggiore. «Coperte, un materasso, tendine e, in testa, un berretto annodato... La mia carogna non era mai stata così al caldo. Ma avevo le gambe che non si volevano più muovere... Sono rimasto all'ospedale... Per forza!... C'era quella signora che ci visitava. Portava dolci, prosciutto... Davvero una buona signora. Solo che, ecco, tutti i malati che mangiavano quello ch'essa
portava crepavano come mosche. Io ci ho la vista lunga. Non ho bisogno che me lo dicono. Sicché, quando un giorno venne e mi disse tutta miele: "Ecco qualche dolciume, poveretto." "No," le dico, "non ho ancora voglia d'andare a vedere il Padreterno, non ho voglia di morire, ecco!" Gli occhi che mi fece! C'era dentro il fuoco dell'inferno. Per questo ti dico: Stai attenta, marchesa degli Angeli, quella non è una persona da frequentare.» «Ma che vai a pensare, mio povero Pane Nero!» «Pensare!... Pensare!... Io credo a quel che vedo. E conosco anche un valletto che si chiama La Chaussée e che appartiene al signor di Santa Croce, il galante di quella Brinvilliers, e questo La Chaussée mi ha raccontato delle strane cose.» Angelica era rimasta sovra pensiero. Il nome di Santa Croce era stato mescolato alla spedizione in casa del vecchio Glazer, dove ella aveva scoperto l'arsenico. E Desgrez non diceva forse: «I criminali del nostro tempo non è più nelle strade che bisogna cercarli, ma in altri luoghi... forse nei salotti..?» Rabbrividì. Bel quartiere tranquillo dei Marais!... Quanti drammi si nascondevano ancora dietro i portoni sormontati dagli stemmi di pietra! Non c'era davvero pace, in questo mondo... «D'accordo, Pane Nero. Non frequenterò più quella signora. Grazie per avermi avvertito.» Andò a prendere una bottiglia di vino e un pezzo di lardo. «La tua bisaccia non è molto pesante, mio povero Pane Nero.» Il vecchio guardava la prospettiva bianca di neve della via, sua sola dimora. Fece l'occhiolino: Ahimè, i pitocchi pieni di disavventure Non sono ricchi che di cose future... Subito dopo il vecchio delle conchiglie, giunse il poliziotto dal lungo naso. Angelica aveva riveduto di rado Desgrez, durante gli ultimi anni e, ogni volta, con un certo imbarazzo. Nonostante i modi cortesi del poliziotto, non le riusciva di dimenticare del tutto la prova brutale e insieme voluttuosa alla quale egli l'aveva sottoposta. Si sentiva, dinanzi a lui, in condizioni d'inferiorità e, da quel giorno, ne aveva un po' timore. Quando l'avvertirono della presenza di lui, fece una smorfia e scese, di malumore. Lo avevano fatto entrare in un salottino dov'ella riceveva di so-
lito gli scritturali e i fornitori. «Non avete un'aria soddisfatta, signora,» fece allegramente Francesco Desgrez. «Forse perché vedete me? Eppure, venivo a congratularmi per la vostra stupenda dimora dove avete avuto l'abilità d'istallarvi. Dio sa come avete fatto per riuscirvi!» «Dio forse non lo sa,» rispose Angelica, «ma sono invece sicurissima che voi lo sapete. Non fate l'ipocrita, signor poliziotto, e ditemi a che cosa debbo l'onore della vostra visita.» «Sempre in gamba negli affari, a quanto vedo. Bene! Veniamo al fatto. Voi avete quale vicina e amica, mi pare, quella deliziosa signora di Brinvilliers. Potreste, all'occasione presentarmi a lei?» «Perché? Voi siete un poliziotto e, a tal titolo, potreste benissimo introdurvi per mezzo di suo fratello.» «Giusto, ma non voglio presentarmi a tal titolo. Potrei essere, ad esempio, un giovane gentiluomo vostro amico, sedotto dai suoi begli occhi e che arde dal desiderio di farle la corte.» «Perché,» ripeté Angelica torcendosi le mani con un'angoscia di cui non si rendeva conto, «perché chiedete questo proprio a me?» «Voi siete già al corrente di parecchie cose, mia cara, e potreste essermi utile.» «Io non voglio esservi utile!» scoppiò lei. «Non voglio introdurvi nei salotti per farvi il vostro sudicio lavoro di "sgarbato" Non voglio frequentare quella donna... Non voglio aver nulla a che fare con tutti voi... con tutti questi orrori. Lasciatemi in pace!...» Tremava in tutte le membra. Il giovane la guardò sorpreso. «Che vi prende? Avete i nervi in poppa, parola mia. Vi ho già vista spaventata o disperata, ma mai così paurosa, senza motivo. Eppure, siete arrivata in alto, mi pare. Siete tranquilla, qui, siete al riparo.» «No, non sono al riparo, dato che voi tornate ancora... tornate sempre! Venite a ricattarmi sul mio povero passato per farmi confessare... non so che. Non so niente, non voglio saper niente, non voglio sentire niente, non voglio vedere niente... Non capite che ho già perduto la mia vita per essermi mischiata negli intrighi degli altri?... Ho da percorrere ancora una lunga strada e, se tremo, è perché ho paura di voi urti che vi unite per perdermi un'altra volta... Lasciatemi, dimenticatemi, oh! Desgrez, ve ne supplico!»
Egli l'ascoltava sovra pensiero, e Angelica credette di vedere in fondo ai suoi occhi marroni una. espressione inusitata, lo sguardo malinconico di un cane bastonato. Desgrez avanzò una mano come se avesse voluto accarezzarle la gota e la lasciò ricadere senza terminare il gesto. «Avete ragione,» disse con un sospiro, «vi abbiamo fatto abbastanza male. Restate tranquilla. Non vi tormenteremo più, cuore mio.» Se ne andò ed ella non lo rivide. Ella ne conservava una pena inconfessata, ma, anche, si sentiva liberata. Non voleva più saperne di quel passato che cominciava a strapparsi di dosso come un vestito ignominioso. La Brinvilliers era libera di avvelenare tutta la famiglia, se le faceva piacere. Angelica se ne infischiava. Non sarebbe stata lei ad aiutare un poliziotto a smascherarla. Aveva altro da fare. Voleva essere ricevuta a Versailles. Ma gli ultimi metri della sua ascensione erano i più penosi. Ella perdeva il fiato. Sentiva che, per arrivare alla meta, avrebbe dovuto combattere un'ultima battaglia, la più dura, la più aspra di tutte... Segnò un punto importante a proprio favore allorché il caso la rimise in rapporto con suo fratello, il gesuita Raimondo di Sancé. 21 Una sera, ad ora avanzata, mentre Angelica asciugava una lettera per la sua cara amica Ninon di Lenclos, vennero ad avvertirla che un chierico tonsurato la desiderava d'urgenza. La giovane donna trovò nell'ingresso un abate, il quale le disse che suo fratello, il reverendo padre di Sancé, desiderava vederla. «Subito?» «All'istante, signora!» Angelica risalì a prendere un mantello e una maschera. Strana ora perché un gesuita e sua sorella vedova, e vedova di uno stregone bruciato vivo in piazza di Grève, si ritrovassero! L'abate disse che non era lontano. In pochi passi si trovarono dinanzi a una casa d'apparenza borghese, un antico palazzetto medievale, adiacente alla nuova collegiata dei gesuiti. Nel vestibolo, la guida di Angelica scomparve come un nero fantasma. Ella salì le scale, con gli occhi sollevati verso il primo piano da cui si sporgeva un'alta figura con in mano un candeliere.
«Siete voi, sorella?» «Sono io, Raimondo.» «Venite, vi prego.» Lo seguì senza fare domande. Subito si riannodava il segreto legame dei Sancé di Monteloup. Egli là fece entrare in una cella di pietra appena rischiarata da un lumino da notte. In fondo all'alcova, Angelica distinse un pallido volto delicato - donna o fanciulla? - dagli occhi chiusi. Le braccia del gesuita, avanzando il candeliere, lo illuminò. «È malata. Forse morirà.» «Chi è?» «Maria Agnese, nostra sorella.» Dopo un istante di silenzio, aggiunse: «È venuta a rifugiarsi da me. L'ho fatta riposare, ma, data la natura del male, mi occorreva un aiuto e i consigli di una donna. Ho pensato a te.» «Hai fatto bene. Che cos'ha?» «Perde sangue in abbondanza. Credo che abbia abortito.» Angelica esaminò la sorella. Aveva mani materne, precise e che sapevano curare. L'emorragia non sembrava violenta, ma era lenta e continua. «Bisogna fermarla al più presto, altrimenti morirà.» «Ho pensato a chiamare un medico, ma...» «Un medico!... non saprebbe far altro che cavarle sangue, e farla morire.» «Non posso, purtroppo, introdurre qui una levatrice, certamente curiosa e pettegola. La nostra regola e molto libera e, insieme, molto stretta. Non riceverei nessun rimprovero per aver soccorso segretamente mia sorella. Ma devo evitare le chiacchiere. Mi è difficile tenerla in questa casa, annessa al grande seminario, mi capisci, vero?» «Appena avrà ricevute le prime cure, la farò trasportare nel mio palazzo. Bisogna, intanto, andare a chiamare il Grande Matteo.» Un quarto d'ora dopo, Flipot galoppava verso il Ponte Nuovo, fischiando di tanto in tanto per farsi riconoscere dai vagabondi. Angelica era già ricorsa al Grande Matteo per un incidente capitato a Florimondo, rovesciato a terra da una carrozza. Sapeva che l'empirico possedeva un rimedio quasi miracoloso per arrestare il sangue. Egli poteva anche, al caso, quando gli veniva raccomandato, avvolgersi nella discrezione e in un mantello color muraglia. Venne subito e curò la giovane paziente con l'energia e l'abilità di una
lunga pratica, monologando secondo le sue abitudini: «Ah! damigella, perché non aver usato a tempo quell'elettuario di castità che il Grande Matteo vende sul Ponte Nuovo? Ë composto di canfora, di regolizia, di semi di uva e di fiori di ninfea. Basta prenderne mattina e sera due o tre grammi bevendoci sopra un bicchiere di latte nel quale si sarà spento un pezzo di ferro arroventato... Credete a me, damigella, non c'è nulla di meglio per reprimere i troppo grandi ardori di Venere, che si pagano così caro...» Ma la povera Maria Agnese non era certo in condizione di ascoltare quelle tardive raccomandazioni. Le gote diafane, le palpebre livide, il viso smagrito negli abbondanti capelli neri, sembrava una dolce figura di cera priva di vita. Angelica poté infine constatare che l'emorragia pareva arrestarsi, mentre un po' di colore ritornava sulle gote della giovane sorella. Gran Matteo se ne andò lasciando ad Angelica una tisana che la malata doveva prendere ogni ora «per sostituire il sangue che aveva perduto». Aveva raccomandato che si aspettasse qualche ora prima di muoverla. Quando se ne fu andato, Angelica andò a sedersi accanto al tavolino dove un crocifisso nero con piedestallo proiettava sulla parete un'ombra gigantesca. Dopo poco, Raimondo la raggiunse e sedette dall'altra parte del tavolo. «Penso che, all'alba, potremo farla trasportare da me,» disse Angelica, «ma è meglio aspettare un poco che abbia ripreso le forze.» «Aspettiamo,» approvò Raimondo. Chinava il profilo smorto, forse un po' meno magro di un tempo, nel gesto della meditazione. I capelli neri e lisci gli ricadevano sul collare bianco della sottana. La sua tonsura s'era un po' allargata sotto i primi assalti della calvizie, ma egli non era mutato. «Come hai saputo, Raimondo, ch'io abitavo nel palazzo del Beautreillis, e che vivevo lì sotto il nome di signora Morens?» Il gesuita fece un gesto vago con la bella mano bianca. «Mi era facile informarmi, riconoscerti. Ti ammiro, Angelica. La terribile vicenda di cui fosti vittima è ormai molto lontana.» «Non ancora molto lontana,» sospirò ella amaramente, «dato che non posso ancora mostrarmi alla luce del sole. Molti nobili di nascita inferiore alla mia mi considerano una cioccolataia arricchita e non potrò mai tornare alla corte, né andare a Versailles.» Egli le gettò uno sguardo penetrante. Conosceva tutte le maniere per ag-
girare le difficoltà mondane. «Perché non sposi un grande nome? Non manchi di innamorati e la tua fortuna, se non la tua bellezza, possono attirare più di un gentiluomo. Ritroveresti così un nome e nuovi titoli.» Angelica pensò subito a Filippo e si sentì arrossire a quel pensiero. Sposarlo? Marchesa del Plessis-Bellière?... Sarebbe stato meraviglioso... «Raimondo, perché non avevo mai pensato prima a questo?» «Perché forse non ti sei ancora del tutto assuefatta all'idea di essere vedova e libera,» rispose egli con fermezza, «ma pensaci bene, e pensa che ti è possibile accedere a un alto rango in maniera onesta. È una posizione che ha molti vantaggi, ed io posso aiutarti con tutto il mio credito.» «Grazie, Raimondo. Sarebbe meraviglioso,» ripeté pensosamente. «Vengo di tanto lontano, Raimondo, tu non puoi sapere. Di tutta la famiglia, io sono quella caduta più in basso, eppure non si può dire che il destino degli altri sia stato molto brillante. Perché siamo riusciti così male?» «Ti ringrazio per quel "siamo",» fece lui con un breve sorriso. «Oh! anche farsi gesuita è un modo di non riuscire. Ricordati che nostro padre non era contento. Avrebbe preferito vederti in possesso di un buono e solido beneficio ecclesiastico. Giovannino, lui, è scomparso in America. Dionigi, l'unico militare della famiglia, ha fama di testa matta e di giocatore disonesto, ciò ch'è più grave. Gontrano? Non parliamone. Si è declassato per il piacere di imbrattare la tela come un artigiano. Alberto è paggio presso il maresciallo di Rochant. Fa l'amore con il cavaliere, a meno che non sia riservato alle abbondanti grazie della marescialla. E Maria Agnese...» Tacque, ascoltò il respiro quasi impercettibile che veniva dall'alcova, e riprese a voce più bassa: «Debbo dire che, fin da piccola, aveva già il diavolo in corpo e si rotolava nella paglia con i ragazzi del paese. Ma, alla corte, credo che le abbia provate tutte. Si sospetta chi fosse il padre di quel bimbo?» «Credo che non lo sappia lei stessa,» disse crudamente il gesuita, «ma quel che vorrei vederti soprattutto chiarire è se si tratta di una nascita clandestina o di un aborto. Fremo al pensiero che abbia potuto abbandonare un esserino vivente fra le mani di quella Caterina Monvoisin.» «Ê andata dalla Voisin?» «Credo. Ha balbettato questo nome.» «E chi non ci va?» disse Angelica alzando le spalle. «Poco tempo fa ci andò il duca di Vendôme camuffato da savoiardo, per cavarle qualche rive-
lazione su un tesoro che il signor di Turenna avrebbe nascosto. E Monsieur, fratello del re, la chiamò a Saint-Cloud perché gli mostrasse il diavolo. Non so se ci riuscì, ma la pagò come se lo avesse visto. Indovina, esperta di pratiche abortive, commerciante di veleni, ha molto talento...» Raimondo ascoltava senza sorridere quelle chiacchiere. Chiuse gli occhi e sospirò profondamente. «Angelica, sorella mia, sono spaventato,» disse lentamente. «Il secolo in cui viviamo è testimone di costumi così infami, di delitti così atroci, che i tempi futuri ne fremeranno. Solo in quest'anno, varie centinaia di donne si sono accusate, al mio confessionale, di essersi sbarazzate del loro frutto. Questo è nulla: è la solita conseguenza che la licenza dei costumi e gli adulteri recano con sé. Ma quasi una metà delle mie penitenti confessano di aver avvelenato qualcuno dei loro, di aver tentato di far scomparire, per mezzo di pratiche demoniache, colui o colei che dava loro impaccio. Siamo ancora barbari? Facendo vacillare le barriere della fede, le eresie ci hanno svelato il fondo della nostra natura? V’è un tremendo disaccordo tra le leggi e i gusti. E spetta alla Chiesa ritrovare la via, in questo disordine...» Angelica ascoltava sorpresa le confidenze del grande gesuita. «Perché racconti a me queste cose, Raimondo? Io sono forse una di quelle donne che...» Lo sguardo penetrante del religioso tornò verso di lei. Egli parve esaminarla, poi scosse il capo: «Tu sei come il diamante,» disse, «una pietra nobile, dura, intransigente... ma semplice e trasparente. Ignoro quali colpe tu abbia potuto commettere durante questi anni in cui sei scomparsa, ma sono convinto che, se le hai commesse, è stato perché, spesso, non potevi fare diversamente. Tu sei davvero come i poveri, Angelica, pecchi senza saperlo, contrariamente ai ricchi e ai grandi...» Una ingenua gratitudine invadeva il cuore di Angelica nell'ascoltare quelle sorprendenti parole in cui ella scorgeva come un appello alla Grazia e l'espressione di un perdono venuto da più in alto. La notte era tranquilla. Un odore di incenso vagava nella cella e l'ombra di quella croce che vegliava fra loro al capezzale della sorella in pericolo parve ad Angelica, per la prima volta dopo lunghi anni, dolce e rassicurante.
Con un movimento spontaneo, scivolò in ginocchio sul pavimento. «Raimondo, vuoi ascoltarmi in confessione?» 22 La guarigione di Maria Agnese prosegui al palazzo del Beautreillis in maniera soddisfacente. Ma la fanciulla restava dolente e senza vitalità. Sembrava avesse dimenticato il suo riso cristallino che incantava la corte, e non mostrava del suo carattere che il lato esigente e impulsivo. Agli inizi, non mostrò alcuna riconoscenza per le gentilezze di Angelica. Ma, siccome riprendeva le forze. Angelica ne approfittò per tirarle, alla prima occasione, un magnifico schiaffo. Da allora, Maria Agnese decise che Angelica era l'unica donna con la quale avrebbe potuto andare d'accordo. Mostrò grazie carezzevoli per andarsi a rannicchiare presso la sorella durante le sere d'inverno in cui, accanto al fuoco, ci si poteva attardare suonando il mandolino o facendo un ricamo. Si scambiavano le loro impressioni sulle comuni conoscenze e, siccome avevano la lingua affilata e lo spirito vivace, ridevano a volte pazzamente delle loro trovate. Guarita, Maria Agnese non sembrava affatto decisa a lasciare la sua «amica Morens». Tutti ignoravano che fossero sorelle e questo le divertiva. La regina s'informò della salute della sua damigella d'onore. Maria Agnese fece rispondere che stava bene ma che sarebbe entrata in convento. Ciò era più serio di quanto paresse. Maria Agnese si rifiutava nel modo più assoluto di vedere chiunque, ma si sprofondava nella lettura delle epistole di San Paolo e seguiva Angelica alle funzioni. Angelica era molto lieta di aver avuto il coraggio di confessarsi a Raimondo. Questo le consentiva ormai di presentarsi dinanzi all'altare del Signore senza secondi pensieri né falsa vergogna, e di poter fare alla perfezione la sua parte di dama del Marais. Ritrovava con soddisfazione l'atmosfera delle lunghe cerimonie impregnate d'incenso, attraversate dalla voce tonante dei predicatori e dal canto degli organi. Era assai riposante avere, così, il tempo di pregare e di pensare alla propria anima. La voce della loro conversione conduceva al palazzo del Beautreillis gentiluomini emozionati. Spasimanti di Angelica o ex amanti di Maria Agnese, tutti protestavano. «Che ci hanno raccontato? Fate penitenza? Vi fate monache?»
Maria Agnese opponeva alle domande una maschera di piccola sfinge sdegnosa. Più spesso, preferiva non farsi vedere, oppure apriva apposta un libro di preghiere. Angelica, per quanto le concerneva, smentiva energicamente le chiacchiere. Il momento le pareva scelto male. Così, avendola la signora Scarron accompagnata dal proprio direttore spirituale, l'onesto abate Godin, Angelica si ribellò appena questi le parlò di cilicio. Proprio mentre faceva progetti per sposare Filippo, non si sarebbe di certo rovinata la pelle e le attraenti curve del bel corpo con le cinture di crine e altri oggetti di penitenza. Avrebbe avuto bisogno di tutte le sue seduzioni per vincere l'indifferenza di quello strano giovane che, con i suoi biondi capelli e gli abiti di raso chiaro, sembrava impastato e rivestito di ghiaccio. Egli era però abbastanza assiduo al palazzo del Beautreillis. Arrivava, indifferente, parlava poco. Angelica non si interrogava sulla intelligenza di lui. Nel contemplarlo, in quella sua sdegnosa bellezza, ritrovava ogni volta una sensazione lontana, un po' umile e ammirativa, di bambina dinanzi all'elegante cugino più anziano. Inoltre, quand'ella vi pensava, quello spiacevole ricordo si coloriva di una voluttà piuttosto torbida. Ricordava le mani bianche di Filippo sulle sue cosce, la scalfittura causata dagli anelli di lui... Ora che lo vedeva così freddo e distante, le capitava di rimpiangere quel contatto, e la propria fuga. Filippo ignorava certo ch'era lei la donna ch'egli,quella sera, aveva aggredita. Quando i suoi occhi chiari si posavano su Angelica, costei aveva l'impressione deprimente che il giovane non avesse mai notato la sua bellezza. Non le faceva il minimo complimento, nemmeno il più banale. Era poco cortese, e i bambini, invece di essere sedotti dalla sua presenza, ne avevano paura. «Hai una maniera di guardare il bel Plessis che mi preoccupa,» dichiarò una sera Maria Agnese alla sorella maggiore. «Tu che sei la donna più sensata ch'io conosca, Angelica, non dirmi che ti lasci prendere dalla seduzione di quel...» Parve cercare un epiteto lapidario, non lo trovò e lo sostituì con una smorfia di disgusto. «Che gli rimproveri?» si stupì Angelica. «Che gli rimprovero? Be', proprio di essere così bello, così seducente e
di non saper prendere fra le braccia una donna. Perché è questo che conta, confessalo: il modo con cui un uomo prende una donna fra le braccia...» «Maria Agnese, ecco un soggetto di conversazione piuttosto frivolo per una fanciulla che ha intenzione di entrare in convento!» «Proprio per questo. Devo approfittarne finché non ci sono ancora. Per me, giudico anzitutto un uomo dal modo con cui vi afferra. Il gesto del braccio perentorio e dolce, da cui si sente che non ci si potrebbe sciogliere e che pure vi lascia libera. Ah! che piacere, in quel momento, essere una fragile donna!» Il suo volto sottile di gatta crudele si addolcì in una estasi fantasticante e Angelica sorrise nel vederle di sfuggita la maschera di voluttà ch'ella non mostrava che agli uomini. Poi, la fanciulla aggrottò nuovamente le sopracciglia. «Bisogna riconoscere che assai pochi hanno questo dono, ma ciascuno, almeno, fa del suo meglio. Mentre Filippo non tenta neppure. Conosce solo una maniera di agire con le donne: le rovescia e le violenta. Deve avere imparato l'amore sui campi di battaglia. Neanche Ninon è riuscita a farne nulla. Forse, egli riserva le sue grazie ai suoi amanti!... Tutte le donne lo odiano in proporzione di quanto le delude.» Angelica, china sul focolare dove faceva arrostire delle castagne, si irritava per la collera che le parole della sorella le cagionavano. Aveva già deciso di sposare Filippo del Plessis. Era la soluzione migliore, quella che sistemava tutto e avrebbe messo il punto finale alla sua ascesa e alla sua riabilitazione. Ma avrebbe voluto illudersi su colui che si era scelta quale secondo marito e sui sentimenti che la spingevano verso di lui. Avrebbe voluto ch'egli fosse «amabile» per avere il diritto di amarlo. In uno slancio di sincerità verso se stessa, l'indomani corse in casa di Ninon e iniziò per prima l'argomento. «Che ne pensate di Filippo del Plessis?» La cortigiana rifletté, un dito sulla gota. «Penso che, quando lo si conosce bene, ci si accorge che è molto peggiore di quanto appare. Ma, quando lo si conosce meglio, ci si accorge che è molto migliore di quanto appare.» «Non riesco a capirvi, Ninon.» «Voglio dire che non ha alcuna delle qualità che la sua bellezza promette, neppure il piacere di farsi amare. Se, invece, si va al fondo delle cose, egli suscita stima perché rappresenta il campione di una razza quasi scom-
parsa: è il nobile per eccellenza. Va in bestia per questioni di etichetta. Teme una macchiolina di fango sulle sue calze di seta. Ma non teme la morte. E, quando morirà, sarà solo come un lupo e non chiederà aiuto ad alcuno. Appartiene soltanto al re e a se stesso.» «Non gli conoscevo tanta grandezza!» «Ma non vedete neppure la sua piccolezza, mia cara. La meschineria di un vero nobile è ereditaria. Il suo blasone gli ha nascosto da secoli il resto dell'umanità. Perché credere sempre che una virtù e il suo contrario non possono trovarsi nello stesso essere? Un nobile è al tempo stesso grande e meschino.» «E che pensa egli delle donne?» «Filippo?... Mia cara, quando lo saprete, verrete a dirmelo.» «Dicono che sia terribilmente brutale con loro.» «Lo dicono...» «Ninon, non vorrete farmi credere che non ha fatto l'amore con voi!» «Ohimè, sì, mia cara, ve lo farò credere. Debbo pur riconoscere che, con lui, tutta la mia abilità non è servita a nulla.» «Ninon, mi spaventate!» «A dire il vero, quell'Adone dagli occhi duri mi tentava. Si diceva che fosse poco abile nelle cose d'amore, ma io non temo una certa foga maldestra e mi piace disciplinarla. Mi diedi quindi da fare per attirarlo nella mia alcova.» «E allora?» «Allora, niente. Avrei forse avuto più fortuna con un pupazzo di neve raccolto in cortile. Finì col confessarmi che aveva una certa amicizia per me, che non lo attraevo affatto. Credo che, per sentirsi in forma, gli occorra l'odio e la violenza.» «È un pazzo!» «Può darsi... O piuttosto no, è solo in ritardo sulla sua epoca. Avrebbe dovuto nascere cinquant'anni prima. Quando lo vedo, mi commuove stranamente, perché mi ricorda la mia giovinezza.» «La vostra giovinezza, Ninon?...» disse Angelica guardando la pelle delicata, senza una ruga, della cortigiana. «Ma siete più giovane di me!» «No, amica mia. Per consolare qualcuno, a volte si dice: il corpo invecchia, l'anima resta giovane. Ma, per me, è un po' il contrario: il mio corpo resta giovane, - grazie agli dei! - ma la mia anima, però, è invecchiata. Il tempo della mia giovinezza fu quello della fine dell'ultimo regno e degli inizi di questo. Gli uomini erano diversi. Ci si batteva dovunque: gli ugo-
notti, gli svedesi, i ribelli di Gastone d'Orléans. I giovani sapevano fare la guerra ma non l'amore. Erano dei gran selvaggi in collare di pizzo. «Quanto a Filippo... Sapete a chi somiglia? A Cinque Marzo. Quel gentiluomo così bello che fu il favorito di Luigi XIII. Povero Cinque Marzo! Si era innamorato di Marion Delorme. Ma il re era geloso. E il cardinale Richelieu non penò troppo a farlo cadere in disgrazia. Cinque Marzo posò la bella testa bionda sul ceppo. V'erano molti destini tragici, a quell'epoca!» «Non parlate come una nonna, Ninon! Non vi si addice affatto.» «Bisogna pure che assuma un tono da nonna per rimproverarvi un poco, Angelica. Ho paura, infatti, che stiate per fare una sciocchezza!... Angelica, bellezza mia, voi che sapete che cos'è un grande amore, non mi direte di esservi innamorata di Filippo. È troppo diverso da voi. Vi deluderebbe più di qualsiasi altro.» Angelica arrossì e gli angoli della bocca le tremarono infantilmente. «Perché dite che io ho avuto un grande amore?» «Perché si vede nei vostri occhi. Sono così rare le donne che portano in fondo alle pupille quella traccia malinconica e meravigliosa. Sì, lo so bene... per voi è finito, ora. In che modo? Che importa? Forse avete saputo ch'era sposato? Forse vi ha tradito, forse è morto...» «È morto, Ninon!» «Meglio così. La vostra profonda ferita è senza veleno, ma...» Angelica si raddrizzò con fierezza. «Ninon, non dite più nulla, ve ne prego. Voglio sposare Filippo. Bisogna che sposi Filippo. Non potete capirne il perché. Non lo amo, è vero, ma mi. attira. Mi ha sempre attirato. E ho sempre pensato che, un giorno, sarebbe stato mio... Non dite più nulla...» Provvista di quelle poche informazioni sentimentali, Angelica ritrovava nel proprio salotto lo stesso enigmatico Filippo. Egli si recava da lei, ma l'intrigo non procedeva. Angelica finì col chiedersi s'egli non venisse per Maria Agnese; ma, essendosi la sorella ritirata presso le carmelitane del sobborgo San Giacomo per prepararvi la comunione pasquale, egli seguitò a presentarsi di frequente. Ella venne un giorno a sapere che Filippo si vantava di bere da lei il miglior rosolio di Parigi. Forse veniva soltanto per gustare quel liquore che ella stessa preparava con gran quantità di finocchio, di anice, di coriando-
lo, di camomilla e di zucchero, il tutto macerato in acquavite. Angelica era fiera della sua abilità di padrona di casa e nessun allettamento era trascurabile, ma si sentì offesa, a quel pensiero. Né la sua bellezza, né la sua conversazione attraevano dunque Filippo? Quando vennero i primi giorni di primavera, ella si sentì disperata, tanto più che una rigorosa Quaresima la indeboliva. Si era troppo entusiasmata, in segreto, all'idea di sposare Filippo per avere il coraggio di rinunciarvi. Diventata marchesa del Plessis, infatti, sarebbe stata presentata alla corte, avrebbe ritrovato la sua terra natale, la sua famiglia, e avrebbe regnato sul bel castello bianco che aveva entusiasmato la sua giovinezza. Snervata da alternative di speranza e di scoraggiamento, ardeva dalla voglia di andare a consultare la Voisin per farsi dire il proprio avvenire. L'occasione le fu offerta dalla signora Scarron, che si recò da lei a trovarla un pomeriggio. «Angelica, vengo a prendervi perché dovete assolutamente accompagnarmi. Quella pazza di Atenaide si è messa in testa di andare a domandare non so che cosa a quella diabolica indovina ch'è Caterina Monvoisin. Mi pare che non saranno di troppo due pie donne per pregare e lottare contro i malefici che forse si abbatteranno su quella disgraziata imprudente.» «Avete perfettamente ragione, Francesca,» si affrettò a dire Angelica. In mezzo ai due angeli guardiani, Atenaide di Montespan, trepidante e per nulla emozionata, entrò nell'antro della strega. Era una casa assai bella nel sobborgo del Tempio, poiché la strega arricchita aveva abbandonato la sinistra topaia dove il nano Barcarola aveva a lungo introdotto furtive signore. Ora, si andava da lei quasi apertamente. Ella riceveva le visite, di solito, su una specie di trono, avvolta in un mantello ricamato con api d'oro. Ma, quel giorno, Caterina Monvoisin, che la frequentazione del gran mondo non toglieva alle sue popolaresche abitudini, era ubriaca fradicia. Sulla soglia del parlatorio dove furono introdotte, le tre donne capirono che non ci sarebbe stato nulla da fare. Dopo averle contemplate a lungo con uno sguardo torbido, la pitonessa finì col discendere oscillando dal suo seggio e si precipitò su Francesca Scarron spaurita, di cui afferrò la mano. «Ah, voi,» disse, «ah voi! Avete un destino per niente comune. Vedo il mare e poi la notte e poi soprattutto il sole. La notte, è la miseria. Si sa che cos'è! Non c'è nulla di più nero. Ma il sole, è il re. Ecco, bellezza, il re vi
amerà e persino vi sposerà.» «Ma vi sbagliate,» gridò fuori di sé Atenaide. «Sono io che son venuta a chiedervi se il re mi avrebbe amato. Voi confondete tutto.» «Non vi arrabbiate, mia piccola signora,» protestò l'altra con voce pastosa, «non sono tanto ubriaca da confondere il destino di due persone. A ciascuno il suo, non è vero? Datemi la vostra mano. Anche da voi c'è il sole. E poi la fortuna. Sì, il re amerà anche voi, però non vi sposerà.» «Accidenti all'ubriacona!» borbottò Atenaide ritraendo rabbiosa la mano. Ma la Voisin voleva accontentare tutte e tre. Si impadronì della mano di Angelica, girò gli occhi, scosse il capo. «Un destino prodigioso! La notte, ma soprattutto il fuoco, il fuoco che domina tutto.» «Vorrei sapere se sposerò un marchese.» «Non posso dirvi se è un marchese, ma vedo due matrimoni. Qui, questi due segni. E poi, sei figli...» «Signore!...» «E poi... quante relazioni!... Una, due, tre, quattro, cinque...» «Non è il caso,» protestò Angelica volendo ritrarre la mano. «Ma aspettate!... Questo fuoco è davvero sorprendente. Brucia tutta la vostra vita... fino alla fine. Ë così violento, da nascondere il sole. E re vi amerà, ma voi non lo amerete a causa di quel fuoco...» Nella carrozza che le riconduceva, Atenaide era ancora rabbiosa. «Quella donna non vale neppure il primo soldo di tutto il denaro che le si dà. Non ho mai udito un simile mucchio di sciocchezze. Il re vi amerà!... Il re vi amerà!... Racconta a tutte la stessa cosa!» Angelica seppe la notizia dalla signorina di Parajonc. Non se lo aspettava e impiegò un certo tempo prima di tirar fuori la verità dal gergo della vecchia Preziosa. Costei, al suo solito, si recò a trovarla verso l'ora di pranzo, sorgendo dalla sera nebbiosa come una scura civetta, con un mucchio di nastri scompigliati, gli occhi fissi e intenti. Angelica le offrì generosamente della focaccia, accanto al fuoco. Filonide parlò a lungo della loro vicina, la signora di Gauffray, che «aveva finalmente sentito il contraccolpo dell'amore permesso», che cioè, dopo dieci mesi di matrimonio, aveva messo al mondo un bel maschio; si diffuse quindi sui malanni dei suoi «cari sofferenti». Angelica credette ch'ella parlasse dei suoi vecchi
genitori, ma si trattava soltanto dei piedi della signorina di Parajonc. I «cari sofferenti», avevano qualche callo. Infine, dopo aver tagliato i capelli in quattro e i sentimenti in otto, dopo aver sospirato guardando la pioggia che batteva sui vetri: «Il terzo elemento cade.» Filonide, piena di gioia nel poter annunciare la notizia, decise di parlare come tutti: «Sapete che la signora di Lamoignon dà marito alla figlia?» «Buon pro' le faccia! La piccina non è bella ma ha abbastanza denaro per sistemarsi brillantemente.» «Come sempre, voi vedete subito giusto, mia cara. Solo la dote di quella piccina, infatti, può tentare un così bel gentiluomo come Filippo del Plessis.» «Filippo?» «Non ne sapevate nulla?» chiese Filonide, che sbatté gli occhi attenti. Angelica s'era ripresa. Disse, alzando le spalle: «Forse... Ma non vi avevo dato importanza. Filippo del Plessis non può abbassarsi a sposare la figlia di un presidente, in alta posizione, è vero, ma di origine plebea.» La zitella sogghignò. «Un contadino delle mie terre diceva sempre: "Il denaro si raccoglie solo per terra e, per raccoglierlo, bisogna abbassarsi." Tutti sanno che il giovane del Plessis si trova sempre in difficoltà. Gioca d'azzardo a Versailles, e per l'equipaggiamento della sua ultima campagna, ha speso una fortuna; si portava dietro una fila di dieci muli che recavano il suo vasellame d'oro e non so che altro ancora. La seta della sua tenda era cosi ricamata che gli spagnoli la vedevano dalle loro trincee e l'avevano presa come bersaglio... Riconosco del resto che quell'insensibile giovane è terribilmente bello...» Angelica la lasciava chiacchierare. Dopo una prima reazione d'incredulità, si sentiva scoraggiata. Quell'ultima soglia da superare per ritrovarsi finalmente nella luce del Re Sole: il matrimonio con Filippo, crollava. Aveva sempre saputo, del resto, che la cosa sarebbe stata difficile e che non ne avrebbe avuto la forza necessaria. Era consumata, sfinita... Non era che una cioccolataia, e non avrebbe potuto mantenersi più per lungo tempo a livello della nobiltà, che non l'avrebbe mai accolta. La ricevevano, non l'accoglievano... Versailles!... Versailles!... Lo splendore della corte, la luce del Re Sole! Filippo! Bel dio Marte inaccessibile!... Sarebbe ricaduta al
livello di un Audiger. E i suoi figli non sarebbero mai stati gentiluomini... Presa dai suoi pensieri, non si rendeva conto del tempo. Il fuoco si stava spegnendo nel camino, la candela filava. Angelica udì Filonide rivolgersi aspramente a Flipot, che stava di guardia presso la porta: «Disutile, togliete il superfluo a quell'ardente.» Siccome Flipot rimaneva a bocca aperta, Angelica tradusse stancamente: «Lacchè, smoccola la candela.» Filonide di Parajonc si alzava soddisfatta in piedi. «Mia cara, sembrate pensierosa... Vi lascio alle vostre muse...» 23 Quella notte, Angelica non riuscì a chiuder occhio. Al mattino, assisté alla messa. Ne uscì serena. Non aveva però preso alcuna decisione e quando, nel pomeriggio, giunse l'ora del passeggio e salì in carrozza, non sapeva ancora che cosa avrebbe fatto. Ma aveva posto una cura particolare nella sua toletta. Accomodandosi con colpetti della mano l'abito di seta, si rimproverò nella solitudine della vettura. Perché aveva indossato proprio quel giorno per la prima volta quel vestito a tre gonne alterne, color castagna d'India, foglia morta e verde tenero? Un ricamo finissimo in oro, rilevato da perle, copriva come una rete di fronde scintillanti la prima gonna, il mantello e il corsetto. I merletti del collo e delle maniche con nodi verdi riproducevano il disegno dei ricami. Angelica li aveva fatti fare appositamente dai laboratori di Alençon, su progetto del signor di Moyne, ornatista delle case reali. Angelica aveva dapprima riserbato quella toletta austera e insieme sontuosa, per le riunioni di gran dame come quelle offerte dalla signora d'Albret, in cui le chiacchiere mondane non volevano essere troppo frivole. Angelica sapeva che il vestito le si addiceva stupendamente al colorito della pelle e agli occhi, per quanto la invecchiasse un poco. Ma perché l'aveva indossato per recarsi al passeggio? Sperava così di abbagliare l'implacabile Filippo? Oppure, con la severità del suo abbigliamento, ispirargli fiducia?... Si fece vento nervosamente per attutire l'ondata di calore che le saliva alle gote. Crisantemo raggrinzò il nasetto umido e le gettò uno sguardo perplesso. «Credo che sto per fare una sciocchezza, Crisantemo,» gli disse la gio-
vane donna tristemente, «ma non posso rinunciare, davvero, non posso rinunciare.» Poi, con grande sorpresa del cagnolino, chiuse gli occhi e si abbandonò nel fondo della vettura, come se avesse perduto ogni forza. Tuttavia, arrivando nei pressi delle Tuileries, Angelica si rianimò di colpo. Prese con occhi scintillanti lo specchietto che le pendeva alla cintura e verificò il belletto. Palpebre scurite, labbra rosse. Erano i soli eccessi che si concedeva. Non tentava di schiarire la pelle, avendo finito col notare che il colore della sua carnagione le attirava più omaggi che non le difficili prove di ritocchi alla moda. I suoi denti, sfregati con cura con polvere di ginestre e risciacquati con vino caldo, avevano un umido splendore. Ella si sorrise. Prese Crisantemo sotto un braccio, e, trattenendo con una mano il mantello, oltrepassò il cancello delle Tuileries. Per un attimo si disse che, se Filippo non c'era, avrebbe rinunciato alla lotta. Ma egli era lì. Lo vide vicino all'aiuola centrale, accanto al principe di Condé, il quale perorava in quel luogo favorito dove gli piaceva mostrarsi agli sfaccendati. Angelica avanzò arditamente verso il gruppo. Sapeva a un tratto che, poi che il destino aveva condotto Filippo alle Tuileries, si sarebbe compiuto ciò ch'ella aveva deciso. La fine del pomeriggio era dolce e fresca. Un'acquata leggera caduta poco prima, aveva scurito la sabbia dei viali e lustrato le prime foglie degli alberi. Angelica passava salutando, sorridente. Diceva fra sé, contrariata, che il suo vestito non andava affatto d'accordo con l'abito di Filippo. Egli, sempre vestito di chiaro, quella sera indossava uno straordinario insieme azzurro pavone con spesse asole ricamate in oro. Sempre all'avanguardia della moda, aveva già dato al suo abito la nuova forma di un ampio gonnellino che, dietro, la spada sollevava. I suoi polsini erano belli, ma le guarnizioni quasi inesistenti, e le brache strette al ginocchio. Quelli che portavano ancora brache larghe, arrossivano incontrandolo. Belle calze scarlatte, con angoli d'oro, accompagnavano i tacchi rossi delle scarpe di cuoio con fibbie di diamanti. Filippo portava sotto il braccio un piccolo cappello di castoro così fine che si sarebbe detto di vecchio argento lucente. Il giro di piume era azzurro cielo, e siccome il giovane era giunto allora, non aveva avuto la noia di vedere quel capolavo-
ro guastato dalla pioggia di primavera... Con la parrucca bionda che gli ricadeva sulle spalle, Filippo del PlessisBellière era simile a un bell'uccello pieno di colori, drizzato sugli speroni. Angelica cercò con lo sguardo la piccola Lamoignon, ma la sua brutta rivale non c'era. Con un sospiro di sollievo, si affrettò verso il Principe di Condé il quale, ogni volta che la incontrava, faceva mostra di un affetto deluso e rassegnato. «Dunque, amor mio,» sospirò egli sfregando il lungo naso contro la fronte di Angelica, «o mia crudele, ci farete l'onore di venire al passeggio nella nostra carrozza?» Angelica fece un gridolino, poi finse di gettare uno sguardo imbarazzato verso Filippo e mormorò: «Vostra Altezza mi perdoni, ma il signor del Plessis mi aveva già invitato.» «Accidenti a quei galletti impennacchiati,» brontolò il principe. «Olà, marchese, avreste la pretesa di tenere a lungo, per vostro uso personale ed esclusivo, una delle più belle dame della capitale?» «Dio me ne guardi, monsignore,» rispose il giovane che, evidentemente, non aveva udito il dialogo e ignorava di quale donna si trattasse. «Benissimo. Potete condurla via. Ve lo concedo. Ma, in avvenire, degnatevi di scendere a tempo dalla vostra nuvola per considerare che non siete solo al mondo e che altri hanno diritto al più splendente sorriso di Parigi.» «Ne prendo buona nota, monsignore,» affermò il cortigiano spazzando la sabbia con la sua piuma azzurra. Già Angelica, dopo una profonda riverenza alla compagnia, aveva posato la sua manina su quella di Filippo e lo trascinava con sé. Povero Filippo! Perché sembrava che lo temessero? Egli era invece così disarmante con la sua superba distrazione, di cui si poteva così facilmente abusare. Mentre la coppia passava dinanzi a una panchina, il signor di La Fontaine, che vi si trovava in compagnia di Racine e di Boileau, disse: «Il fagiano e la sua fagiana!» Angelica capì l'allusione dal contrasto che formano i loro vestiti: lei, scura e discreta nel suo splendore, lui, smagliante di colori contrapposti e di gioielli. Da dietro il ventaglio, ella fece una smorfietta al poeta, che vi rispose con un allegro strizzar d'occhi. Ma Angelica pensava: «Il fagiano e la sua fagiana?... Dio lo voglia!» Teneva gli occhi bassi e guardava, con il cuore che le batteva, il passo
sicuro e nobile di Filippo, che pestava con i suoi tacchi rossi la sabbia umida del viale. Nessun signore sapeva posare il piede come lui, nessuno aveva gambe così belle, piene e inarcate. Neppure il re, checché se ne dicesse. Del resto, per giudicarne, avrebbe dovuto vedere il re un po' più da vicino e, per questo, andare a Versailles. Sarebbe andata a Versailles! Così, la mano su quella di Filippo, avrebbe percorso la galleria reale. Il fuoco degli sguardi della corte avrebbe ammirato punto per punto la sua meravigliosa toletta. Si sarebbe fermata a pochi passi dal re... «La signora marchesa del Plessis-Bellière...» Le sue dita si contrassero leggermente. La voce di Filippo disse con sgarbato stupore: «Non ho ancora capito perché il signor principe mi abbia imposto la vostra presenza.» «Perché ha pensato di farvi piacere. Sapete che vi ama più che non il duca. Siete il figlio del suo spirito guerriero.» Aggiunse, facendo scivolare su di lui uno sguardo civettuolo: «La mia presenza vi annoia a tal punto? Aspettavate qualcun'altra?» «No! Ma, questa sera, non contavo di andare al passeggio.» Ella non osò chiedergli il perché. Forse non c'era alcuna ragione. Con Filippo, era spesso così. Le sue decisioni non avevano nessun motivo serio, ma nessuno osava interrogarlo. Lungo il corso, v'erano ancora poche persone che passeggiavano. Un odore fresco di legno e di funghi impregnava l'aria sotto l'ombrosa vòlta dei grandi alberi. Angelica, salendo nella carrozza di Filippo, aveva notato la gualdrappa a frange d'argento pendenti fino a terra. Dove aveva potuto trovare il denaro occorrente per quella nuova eleganza? Eppure, lo credeva alquanto indebitato, dopo le follie del carnevale. Era già forse un effetto della generosità del presidente Lamoignon nei riguardi del suo futuro genero? Mai Angelica aveva sopportato con tanta impazienza il silenzio di Filippo. Fingeva di interessarsi ai giuochi di Crisantemo o alle carrozze che incontravano. Aprì la bocca a varie riprese, ma il profilo imperturbabile del giovane le faceva perder coraggio. Lo sguardo perduto lontano, egli muoveva lentamente le guance, succhiando qualche pasticca di muschio o di finocchio. Angelica disse a se stessa che, quando fossero stati sposati, gli avrebbe fatto perdere quell'abitudine. Quando si ha una bellezza così fine
si ha il dovere di rinunciare a tutto ciò che può farvi somigliare a un ruminante. Era più buio, ora, perché gli alberi si facevano più folti. Il cocchiere fece chiedere da un lacchè se doveva voltare oppure seguitare attraverso il bosco di Boulogne. «Seguitate,» ordinò Angelica senza aspettare il consenso di Filippo. E appena il silenzio fu rotto, continuò vivamente: «Sapete che sciocchezza raccontano, Filippo? Sembra che sposiate la figlia di Lamoignon.» Egli chinò la bella testa bionda. «Quella sciocchezza è esatta, mia cara.» «Ma...» Angelica prese fiato e si lanciò: «Ma non è possibile. Voi, arbitro di eleganza, non vorrete farmi credere che vi piace quella povera cavalletta?» «Non ho alcuna opinione sulle sue grazie.» «Ma insomma, che cosa vi attrae in lei?» «La sua dote.» La signorina di Parajonc non aveva dunque mentito. Angelica trattenne un sospiro di sollievo. Se non era che una questione di denaro, tutto avrebbe potuto arrangiarsi. Ma si sforzò di dare al proprio volto un'espressione addolorata. «Oh! Filippo, non vi credevo così materialista.» «Materialista?» ripeté egli sollevando le sopracciglia con aria d'ignoranza. «Così attaccato alle cose terrene, voglio dire.» «A che cosa volete che sia attaccato? Mio padre non mi ha destinato alla carriera ecclesiastica.» «Senza appartenere alla Chiesa, si potrebbe considerare il matrimonio diversamente da un affare di denaro!» «E che altro è?» «Be'! sì... anche un affare d'amore.» «Oh! se è questo che vi preoccupa, carissima, posso dirvi che ho assoluta intenzione di dare una serie di figli a quella piccola cavalletta.» «No!» gridò Angelica in un moto di rabbia. «Ne avrà per il suo denaro.» «No!» ripeté Angelica pestando il piede. Filippo volse a lei un viso profondamente stupito.
«Non volete che dia dei figli a mia moglie?» «Non si tratta di questo, Filippo. Non voglio che sia vostra moglie, ecco tutto.» «E perché non dovrebbe esserlo?» Angelica emise un sospiro d'irritazione. «Oh! Filippo, non posso capire come voi, che avete frequentato il salotto di Ninon, non abbiate acquistato un po' di senso della conversazione. Con i vostri "perché" e quelle arie sbalordite date ai vostri interlocutori, alla fine, l'impressione che siano stupidi del tutto.» «Ma forse lo sono,» fece lui con un sorrisetto. Per quel sorriso, Angelica, che aveva voglia di picchiarlo, fu invasa da un'assurda tenerezza. Egli sorrideva... Perché sorrideva così di rado? Le pareva ch'essa sola sarebbe riuscita a comprenderlo e a farlo sorridere così. «Uno sciocco,» dicevano gli uni. «Un bruto,» dicevano gli altri. E Ninon di Lenclos: «Quando lo si conosce bene ci si accorge ch'è molto meno per bene di quanto sembri, quando lo si conosce meglio ci si accorge ch'è molto meglio di quanto sembri... È un nobile... non appartiene che al re e a se stesso...» «Anche a me appartiene,» pensò Angelica selvaggiamente. La conversazione che avevano avuto lo lasciava del tutto indifferente. Ella si struggeva dalla rabbia. Gli ci voleva solo l'odore della polvere da sparo per uscire dalla sua noncuranza? Ebbene, poi che così voleva, avrebbe avuto la guerra. Allontanò nervosamente Crisantemo che le mordicchiava le nappine del mantello, poi fece uno sforzo per dominare la propria irritazione e disse gaiamente: «Se non si tratta che d'indorare di nuovo il vostro blasone, Filippo, perché non sposate me? Ho molto denaro che non rischia di essere ipotecato in caso di cattivi raccolti. Sono affari ottimi e sicuri e che non faranno che aumentare.» «Sposarvi?» ripeté lui. Il suo stupore era sincero. Scoppiò in una sgradevole risata. «Io? Sposare una cioccolataia!» fece con supremo disprezzo. Angelica arrossì violentemente. Non credeva, dopo tutto ciò che aveva passato, di poter conservare la facoltà di arrossire a quel modo. Quel Filippo avrebbe sempre avuto l'arte di sconvolgerla di vergogna e d'ira. Disse, con gli occhi che le scintillavano: «Non si direbbe ch'io proponga di unire il mio sangue plebeo a un sangue reale? Non dimenticate che mi chiamo Angelica di Ridoué di Sancé di
Monteloup. Il mio sangue è puro come il vostro, cugino mio, e più antico perché la mia famiglia discende dai primi Capetingi, mentre, per via di maschi, non potete onorarvi che di un qualsiasi bastardo di Enrico II.» Senza batter ciglio, egli la guardò piuttosto a lungo e un sottile interesse parve destarsi nel suo pallido sguardo. «Oh! già mi diceste qualche cosa di simile, tanto tempo fa. Me ne ricordo. Eravamo a Monteloup, nella vostra fortezza in rovina. Un piccolo orrore spettinato e vestito di stracci mi aspettava a piè della scala per farmi notare che il suo sangue era più antico del mio. Oh! una cosa davvero divertente e ridicola.» Angelica si rivide nel gelido corridoio di Monteloup, gli occhi alzati su Filippo. Ricordò come le sue mani erano fredde, la sua testa cocente, il ventre doloroso mentre lo guardava scendere lo scalone di pietra. Il suo giovane corpo travagliato dal mistero della pubertà aveva tremato all'apparizione del bell'adolescente biondo. Era svenuta. Quando aveva ripreso i sensi, nel gran letto della sua camera, sua madre le aveva spiegato che non era più una bambina e che un nuovo fenomeno si era compiuto in lei. Che Filippo fosse stato mescolato così alle prime manifestazioni della sua vita di donna, la turbava ancora, dopo tanti anni. Sì, com'egli diceva, era una cosa ridicola, ma non priva di dolcezza. Lo guardò con aria incerta, sforzandosi di sorridere. Come quella sera lontana, si sentiva pronta a tremare dinanzi a lui. Mormorò con voce bassa e supplichevole: «Filippo, sposatemi. Avrete tutto il denaro che vorrete. Io sono di sangue nobile e la tara del mio commercio sarà presto dimenticata. E poi, molti nobili, alla nostra epoca, non credono di diminuirsi occupandosi di affari. Il signor Colbert...» S'interruppe. Egli non l'ascoltava. Forse pensava ad altro... o a nulla. Se le avesse chiesto: «Perché volete sposarmi?» gli avrebbe gridato: «Perché vi amo!» In quel momento, si rendeva conto che lo amava di quello stesso amore nostalgico e ingenuo di cui aveva abbellito la propria infanzia. Ma egli non faceva alcuna domanda e Angelica riprese, impacciata, presa da disperazione: «Comprendetemi... voglio ritrovare il mio ambiente, avere un nome, un gran nome... Essere presentata a corte... a Versailles...» Non era così che avrebbe dovuto parlare. Si dolse subito per quelle con-
fessioni, sperò ch'egli non avesse udito. Ma Filippo mormorò con un lieve sorriso: «Si potrebbe considerare il matrimonio diversamente da un affare di denaro!» Poi, con lo stesso tono con cui avrebbe rifiutato una bomboniera: «No, mia cara, davvero no...» Ella comprese ch'era irrevocabile e tacque. Aveva perduto. Dopo qualche istante, Filippo le fece notare ch'ella non aveva risposto al saluto della signorina di Montpensier. Angelica si avvide che la carrozza era tornata verso i viali del Corso della Regina, ora assai animato. Prese a rispondere macchinalmente ai saluti che le erano rivolti. Le pareva che il sole si fosse spento, che la vita avesse acquistato sapore di cenere. Che Filippo le fosse seduto accanto e ch'ella si trovasse disarmata, l'avviliva. Non v'era dunque nulla da fare?... I suoi argomenti, la sua passione scivolavano su lui come su un guscio gelido e liscio. Non si può costringere un uomo a sposarci quando non ci ama, quando non ci desidera e quando il suo interesse ha già trovato un'altra soluzione. Soltanto la paura potrebbe costringerlo, ma quale paura riuscirà a curvare la fronte del dio Marte? «Ecco la signora di Montespan,» disse Filippo, «con la sua sorella badessa e la signora di Thianges. Sono davvero stupende creature.» «Credevo che la signora di Montespan si trovasse nel Rossiglione. Aveva pregato il marito di condurvela per sfuggire ai creditori.» «Se debbo credere alla sua carrozza, i creditori si sono lasciati commuovere. Avete notato che bel velluto? Ma perché nero? È un colore sinistro.» «Le Montespan portano ancora il lutto della madre.» «Un lutto molto relativo. Ieri, la signora di Montespan ha ballato a Versailles. Era la prima volta che ci si divertiva un po' dopo la morte della regina madre. Il re ha invitato la signora di Montespan.» Angelica fece una sforzo per chiedere se ciò significava che la signorina di La Vallière sarebbe caduta presto in disgrazia. Sosteneva a fatica quella conversazione mondana. Le era indifferente che il signor di Montespan fosse cornuto e che la sua audace amica divenisse l'amante del re. «Il signor principe vi fa segno,» disse ancora Filippo. Con qualche colpo di ventaglio, Angelica rispose ai mulinelli del basto-
ne che il principe di Condé rivolgeva loro attraverso lo sportello della sua carrozza. «Siete davvero l'unica donna alla quale Sua Eccellenza rivolge ancora qualche complimento,» osservò il marchese con un lieve ghigno che non si capiva se fosse beffardo o ammirativo. «Dopo la morte della sua dolce amica, la signorina Le Vigean, al Carmelo del sobborgo San Giacomo, ha giurato che avrebbe chiesto alle donne soltanto un piacere carnale. È stato lui a confidarmelo. Mi domando che cosa potesse chiedere prima.» E, dopo un elegante sbadiglio: «Sua Eccellenza non desidera ormai che una cosa: riavere un comando. Da quando ha saputo che ci sono in aria idee di guerra, non manca un giorno alla partita con il re e paga le perdite con monete d'oro.» «Che eroismo!» sogghignò bruscamente Angelica, che il tono stanco e prezioso di Filippo cominciava a esasperare. «Sin dove non si trascinerebbe un perfetto cortigiano per rientrare nelle grazie?... Quando si pensa che, un tempo, tentò d'avvelenare il re e suo fratello!» «Che cosa dite, signora?» protestò indignato Filippo. «Che Sua Eccellenza sia stato in rivolta contro il signor di Mazarino, egli stesso non lo nega. Il suo odio lo ha trascinato più oltre di quanto avrebbe voluto, ma il pensiero di attentare alla vita del re non ha potuto sfiorarlo. Queste sono proprio chiacchiere avventate di donne!» «Oh! non fate l'innocente, Filippo. Voi sapete come me che ciò è vero, dato che il complotto si tramò proprio nel vostro castello.» Dal silenzio che seguì, ella si rese conto di averlo colpito nel vivo. «Siete pazza!» esclamò egli con voce alterata. Angelica si voltò di scatto verso di lui. Aveva dunque trovato così presto la via della sua paura, della sua unica paura?... Lo vide pallido, grave, con gli occhi che la spiavano con espressione fattasi attenta di colpo, ed ella si sentì invasa da una gioia terribile. Disse sottovoce: «Ero lì. Li udii. Li vidi. Il principe di Condé, il monaco Exili, la duchessa di Beaufort, vostro padre e molte altre persone viventi che ora fanno la loro corte devota a Versailles. Li udii vendersi al signor Fouquet.» «È falso!» Socchiudendo gli occhi, ella recitò: «Io, Luigi II, principe di Condé, do al signor Fouquet l'assicurazione di non appartenere ad altra persona all'infuori di lui, di consegnargli le mie piazzeforti, fortificazioni e altro, tutte le volte...»
«Tacete!» gridò egli inorridito. «Fatto al Plessis-Bellière il 20 settembre 1649». Lo vide, con intenso giubilo, impallidire sempre di più. «Piccola sciocca,» esclamò egli alzando le spalle con disprezzo, «cosa andate a riesumare quelle vecchie storie? Il passato è il passato. Lo stesso re rifiuterebbe di crederci.» «Il re non ha mai avuto fra le sue mani tali documenti. Non ha mai saputo con precisione sino a che punto poteva giungere il tradimento dei grandi.» S'interruppe per salutare la carrozza della signora d'Albert, poi riprese dolcemente: «Non sono ancora trascorsi cinque anni, Filippo, da quando il signor Fouquet è stato condannato...» «E con ciò? Dove volete arrivare?» «A questo: che, per molto tempo ancora, il re non potrà vedere di buon occhio i nomi di queste o quelle persone unite al nome del signor Fouquet.» «Non li vedrà. Quei documenti sono stati distrutti.» «Alcuni no.» Il giovane le si accostò sul sedile di velluto. Ella aveva sognato un gesto simile per un bacio d'amore, ma era chiaro che il momento non si prestava alla galanteria. Egli le afferrò il polso, e lo strinse nella propria mano sottile le cui giunture sbiancarono. Angelica si morse le labbra dal dolore, ma il suo piacere fu più forte. Preferiva mille volte vederlo così, violento e grossolano, che non indifferente, sfuggente, inattaccabile nel rifugio del suo disprezzo. Sotto il leggero rossetto con cui si imbellettava, il viso del marchese del Plessis era livido. Ella ricevette in volto il respiro di lui che sapeva di muschio. «Il cofanetto con il veleno?...» sibilò egli. «Foste voi, dunque, a prenderlo?» «Proprio così!» «Sgualdrina! Oh! Sgualdrinella! Sono sempre stato convinto che voi ne sapeste qualche cosa. Mio padre non ci credeva. La scomparsa di quel cofanetto lo torturò fino alla morte. Ed eravate stata voi! E lo possedete ancora?...» «Lo posseggo ancora.»
Egli prese a imprecare fra i denti. Angelica pensava ch'era una cosa stupenda vedere quelle labbra fresche sfilare un così bel rosario di bestemmie. «Lasciatemi,» disse, «mi fate male.» Mentre egli si ritraeva lentamente, il suo sguardo ebbe un lampo. La giovane donna ne comprese il senso. «Sì, vorreste farmi ancora più male. Farmi male fino a che io taccia per sempre. Ma non ci guadagnereste nulla, Filippo. Il giorno stesso in cui io morirò, il mio testamento dovrà essere consegnato al re, che vi troverà le rivelazioni necessarie e l'indicazione del nascondiglio dove si trovano i documenti.» Con caute smorfiette, staccava dal polso la catena d'oro di cui le dita di Filippo le avevano incrostato le maglie nella carne. «Siete un bruto, Filippo,» disse con tono leggero. Poi fece finta di guardare dallo sportello. Era calmissima, ora. Fuori, il sole al tramonto aveva finito di trascinare i suoi ori attraverso i tronchi degli alberi. La carrozza era tornata nel bosco di Boulogne. Era ancora chiaro, ma la sera era prossima. Angelica sentì l'umidità che penetrava sotto gli alberi ed ebbe un fremito. I suoi occhi rivennero verso Filippo. Egli stava bianco e immobile come una statua, ma ella notò che aveva i baffetti biondi bagnati di sudore. «Amo il principe,» diss'egli, «e mio padre era un uomo onesto. Penso che non si possa far questo, a loro... Quanto volete in cambio di quei documenti? Farò un debito, se occorre.» «Non voglio denaro.» «Che volete, allora?» «Ve l'ho detto poco fa, Filippo. Che mi sposiate.» «Giammai!» diss'egli ritraendosi. Gli ripugnava dunque a tal punto? Eppure, non c'erano state fra loro soltanto relazioni mondane. Non aveva egli cercato la sua compagnia in modo insolito? Lo aveva notato anche Ninon. Rimasero in silenzio. Solo quando la carrozza si fu fermata dinanzi al portone del palazzo del Beautreillis, Angelica si accorse che erano tornati a Parigi. Ormai era scuro ed ella non vedeva più il viso di Filippo. Meglio così. Ebbe il coraggio di chiedere in tono mordace:
«E allora, marchese, a che punto siete con le vostre meditazioni?» Egli si mosse e parve destarsi da un brutto sogno. «D'accordo, signora, vi sposerò! Vogliate presentarvi domani sera nel mio palazzo di via Sant'Antonio. Discuterete con il mio amministratore i termini del contratto.» Angelica non gli tese la mano: sapeva ch'egli l'avrebbe rifiutata. Non volle saperne della cena che il cameriere le presentava e, contro il solito, non salì nella camera dei bambini, ma si recò direttamente nel familiare rifugio del suo studio cinese. «Lasciami sola,» disse a Giasmina che si presentava per svestirla. Spense le candele, perché aveva paura di vedersi in uno specchio. Restò a lungo immobile, appoggiata all'angolo oscuro di una finestra. Dal bel giardino le giungevano, attraverso l'ombra, profumi di fiori novelli. Il fantasma nero del Grande Zoppo dalla maschera di ferro la spiava? Ma non voleva voltarsi, non voleva guardare dentro di sé. «Mi hai lasciata sola! E che potevo fare?» gridava al fantasma del suo amore. Diceva fra sé che presto sarebbe diventata marchesa del Plessis-Bellière, ma non c'era alcuna gioia nel suo trionfo. Provava solo come se il suo intiero essere fosse spezzato, senza più forze. «Quello che hai fatto è ignobile, orrendo!...» Le lagrime le scorrevano giù per le gote e, con la fronte appoggiata ai vetri da cui una mano sacrilega aveva cancellato lo stemma del conte di Peyrac, ella piangeva adagio giurando a se stessa ch'erano quelle le ultime lagrime di debolezza che avrebbe Versato. 24 Quando l'indomani, in serata, la signora Morens si presentò al palazzo di via Sant'Antonio, aveva ritrovato un po' d'orgoglio. Aveva deciso di non compromettere con tardivi scrupoli le conseguenze di un atto che aveva tanto faticato a compiere. «Il vino è spillato, bisogna berlo,» avrebbe detto padron Bourgeaud. Entrò a testa alta in un'ampia sala solo illuminata dal fuoco del camino. Non v'era alcuno. Ebbe il tempo di togliersi il mantello, di levarsi la maschera e di porgere le mani alla fiamma. Per quanto volesse mostrarsi libera da ogni apprensione, si sentiva le mani fredde e il cuore in tumulto. Pochi istanti dopo, una tenda si sollevò e un vecchio modestamente ve-
stito di nero le si avvicinò, salutandola profondamente. Angelica non aveva pensato neppure per un attimo che l'amministratore del Plessis-Bellière non potesse essere altri che il signor Molines. Riconoscendolo, ella mandò un grido di sorpresa e gli afferrò con gesto spontaneo le mani. «Oh! Signor Molines!... è mai possibile? Che... oh! come sono felice di rivedervi!» «Mi fate molto onore, signora,» rispose egli inchinandosi di nuovo. «Vogliate sedere su quella poltrona, vi prego.» Egli stesso sedette accanto al focolare dinanzi a un tavolinetto rotondo su cui erano disposti alcuni taccuini, un calamaio e una vaschetta di sabbia. Mentre egli tagliava una penna, Angelica, ancora stupita per quella apparizione, lo osservava. Era invecchiato, ma i suoi lineamenti erano rimasti saldi, lo sguardo rapido e inquisitore. Solo i capelli, coperti da una papalina nera, erano diventati tutti bianchi. Angelica non poteva fare a meno di evocare accanto a lui la robusta figura di suo padre, che tante volte era andato a sedersi vicino al caminetto dell'amministratore ugonotto per conversare e far progetti sull'avvenire della propria nidiata. «Potete darmi notizie di mio padre, signor Molines?» L'intendente soffiò sui rimasugli della penna d'oca che aveva grattato. «Il signor barone sta benissimo, signora.» «E i muli?» «Quelli dell'ultima stagione vengono su bene. Credo che quel piccolo commercio dia soddisfazione al signor barone.» Angelica si rivedeva seduta accanto a Molines, fanciulla pura, un po' assolutista, ma così diritta. Era stato lui a negoziare il suo matrimonio con il conte di Peyrac. Ora, lo vedeva comparire dietro Filippo. Come un ragno che tesseva pazienti fili, Molines s'era sempre trovato mischiato alla trama della sua vita. Era rassicurante averlo ritrovato. Non era forse il segno che il presente si riannodava al passato? La pace della terra natale, la forza attinta al seno del patrimonio familiare, tutto ciò ricompariva per lei assieme alle preoccupazioni della sua infanzia, agli sforzi del povero barone per sistemare la sua progenitura, alle inquietanti generosità dell'intendente Molines. «Vi ricordate?» fece sovra pensiero. «Eravate presente la sera delle mie nozze a Monteloup. Ce l'avevo terribilmente con voi. Eppure, grazie a voi, sono stata immensamente felice.» Il vecchio le gettò uno sguardo da sopra i grossi occhiali di tartaruga.
«Siamo qui per perderci in commoventi considerazioni sul vostro matrimonio, o per trattare gli accordi del secondo?» Le gote della giovane donna si fecero di bragia. «Siete duro, Molines.» «Anche voi siete dura, signora, se debbo credere ai mezzi usati per convincere il mio giovane padrone a sposarvi.» Angelica trasse un profondo sospiro ma il suo sguardo non sfuggì. Capiva che non era più il tempo in cui, bambina intimidita, fanciulla povera, ella guardava di sotto in su l'onnipossente amministratore Molines, che teneva in mano le sorti della sua famiglia. Era la donna di affari con cui il signor Colbert non sdegnava di parlare e i cui lucidi ragionamenti mettevano in scacco il banchiere Pennautier. «Molines, un giorno mi diceste: "Quando si vuole raggiungere uno scopo, si deve accettare di pagare un po' di persona." Così, in questo affare, credo che perderò qualche cosa di molto prezioso: la stima di me stessa... Ma tanto peggio!... Ho uno scopo da raggiungere.» Un lieve sorriso apparve sulle labbra severe del vecchio. «Se la mia umile approvazione può esservi di qualche conforto, signora, ve l'accordo.» Fu Angelica, ora, a sorridere. Si sarebbe sempre intesa con Molines. Quella certezza le diede coraggio per affrontare la discussione del contratto. «Signora,» riprese egli, «in questo affare si tratta di essere precisi. Il signor marchese mi ha fatto ben capire che le poste in giuoco sono importanti. Vi esporrò quindi alcune condizioni alle quali dovreste sottostare. Mi esporrete dopo le vostre. Redigerò infine il contratto e ne darò lettura alle due parti. Anzitutto, signora, vi impegnerete a giurare sul crocifisso che conoscete il nascondiglio di un certo cofanetto del quale il signor marchese desidera espressamente entrare in possesso. Soltanto a seguito di tale giuramento, le scritture qui sotto avranno valore...» «Sono pronta a farlo,» affermò Angelica tendendo la mano. «Fra poco, il signor del Plessis sarà qui con il suo cappellano. In attesa, mettiamo in chiaro la situazione. Convinto che la signora Morens è in possesso di un segreto che lo interessa moltissimo, il signor marchese del Plessis-Bellière accetterà di sposare la signora Morens, nata Angelica di Sancé di Monteloup, ai seguenti patti: Appena compiuto il matrimonio,
cioè immediatamente dopo la benedizione nuziale, voi vi impegnate a consegnare il cofanetto in questione alla presenza di due testimoni, che saranno senza dubbio il cappellano che avrà benedetto il matrimonio e io stesso, vostro umile servitore. Inoltre, il signor marchese esige di poter disporre liberamente della vostra fortuna...» «Oh! prego,» disse vivamente Angelica. «Il signor marchese disporrà di tutto il denaro che vorrà ed io sono pronta a fissare la cifra della rendita che gli verserò annualmente, ma resterò unica proprietaria e gerente dei miei beni. Mi oppongo anche a che vi partecipi in qualsiasi modo perché non ci tengo ad aver lavorato così duramente per ritrovarmi in mezzo a una strada, sia pure con un grande nome. Conosco il genio di dilapidazione dei gran signori!» Senza batter ciglio, Molines cancellò alcune righe e ne scrisse altre. Chiese quindi ad Angelica di fargli una esposizione particolareggiata dei diversi affari di cui ella si occupava, e di indicargli i personaggi importanti presso i quali egli avrebbe potuto verificare la verità delle sue dichiarazioni. Tale cautela non offuscò Angelica perché, da quando si dibatteva fra gli arcani della finanza e del commercio, aveva imparato a considerare che ogni parola vale in quanto appoggiata da fatti controllabili. Mise perciò al corrente, piuttosto orgogliosa, l'amministratore sulle sue imprese, godendo di poter sostenere la discussione con quella vecchia volpe. Notò negli occhi di lui un lampo di ammirazione quando ebbe spiegato la sua attuale posizione nella Compagnia delle Indie e come vi fosse giunta. «Confessate che non me la sono cavata troppo male, signor Molines.» Egli scosse il capo. «Lo avete meritato. Riconosco che le vostre combinazioni mi sembrano abili. Tutto dipende, è naturale, da ciò che avete potuto impegnare in partenza.» Angelica fece una risatina amara e dura. «In partenza?... Non avevo nulla, Molines, meno che nulla. La povertà in cui vivevamo a Monteloup non era niente in confronto di quella ch'io ho conosciuto dopo la morte di Goffredo di Peyrac.» Dopo ch'ella ebbe pronunciato quel nome, ci fu un lungo silenzio. Siccome il fuoco andava smorzandosi, Angelica prese un pezzo di legno nella cassa posta vicino al focolare e lo mise sui tizzoni. «Bisogna ch'io vi parli della vostra miniera d'Argentières,» disse finalmente Molines con lo stesso tono tranquillo di poc'anzi. «Essa ha contri-
buito molto, questi ultimi anni, a sostenere la vostra famiglia, ma è giusto che, ora che siete ricomparsa, voi possiate ricevere, cosi come i vostri figli, l'usufrutto di quella produzione.» «La miniera non fu dunque messa sotto sequestro e data ad altri, come tutti i beni del conte di Peyrac?» «Sfuggì alla rapacità dei controllori reali. Quella miniera, allora, rappresentava la vostra dote. La sua situazione di proprietà è rimasta piuttosto incerta...» «Come tutte le cose di cui vi occupate voi, signor Molines,» disse ridendo Angelica. «Avete l'abilità di poter servire diversi padroni.» «Ma no,» protestò l'intendente con aria offesa, «io non ho diversi padroni, signora, ho diversi affari.» «Capisco la sfumatura, signor Molines. Parliamo dunque dell'affare di Plessis-Bellière figlio. Accetto gli impegni richiestimi circa il cofanetto, sono pronta a studiare la cifra per una rendita necessaria al signor marchese. In cambio di ciò, chiedo il matrimonio e di essere riconosciuta marchesa sovrana delle terre e titoli appartenenti a mio marito. Chiedo egualmente di essere presentata ai suoi parenti e conoscenti come sua legittima moglie. Chiedo anche che i miei due figli trovino accoglienza e protezione nella casa del loro patrigno. Vorrei essere infine messa al corrente dei valori e dei beni di cui egli dispone.» «Uhm!... Qui, signora, credo che troverete ben poco. Non vi nascondo che il mio giovane padrone è assai indebitato. Egli possiede, oltre a questo palazzo, due castelli, uno in Turena, ereditato dalla madre, l'altro nel Poitou; ma le terre sono ipotecate.» «Avreste per caso amministrato male gli affari del vostro padrone, signor Molines?» «Ahimè, signora! Lo stesso signor Colbert, che lavora quindici ore al giorno per sistemare le finanze del regno, non può far nulla contro lo spirito di prodigalità del re, che manda per aria tutti i suoi calcoli. Così, il signor marchese sperpera le poche rendite, già assai ridotte dal fasto di suo padre, in campagne di guerra o frivolità della corte. Il re gli ha donato a varie riprese importanti cariche ch'egli avrebbe potuto far fruttare. Ma, per pagare un debito di giuoco o per comprare una carrozza, si affrettava a rivenderle. No, signora, l'affare del Plessis-Bellière non è, per me, un affare interessante. Me ne occupo per abitudine... diciamo sentimentale. Permettete che scriva le vostre proposte, signora.»
Per un po', non si udì nella stanza che lo stridere della penna, che rispondeva al crepitio del fuoco. «Se mi sposo,» pensava Angelica, «Molines diverrà il mio intendente. Strano, non avevo mai immaginato una cosa simile. Egli cercherà senza dubbio di mettere le sue lunghe dita nei miei affari. Bisognerà stare attenti. Ma, in fondo, la cosa non mi dispiace. Avrò in lui un ottimo consigliere.» «Posso permettermi di suggerirvi una clausola supplementare?» chiese Molines sollevando il capo. «A vantaggio mio o di lui?» «A vantaggio vostro.» «Credevo che rappresentaste gli interessi del signor del Plessis.» Il vecchio sorrise senza rispondere e si tolse gli occhiali. Poi si appoggiò allo schienale della poltrona e fissò su Angelica quello stesso sguardo vivo e penetrante che aveva posato su lei dieci anni prima mentre le diceva: «Credo di conoscervi, Angelica, e vi parlerò in maniera diversa che a vostro padre...» «Io penso,» disse lentamente, «che sia un'ottima cosa che voi sposiate il mio padrone. Credevo che non vi avrei più ritrovato. Siete qui, invece, contro ogni verosimiglianza, e il signor del Plessis si trova in obbligo di sposarvi. Vogliate riconoscere, signora, ch'io non entro per nulla nelle circostanze che vi hanno condotto a questa conclusione. Ma si tratta, ora, che questa unione riesca bene: nell'interesse del mio padrone, nel vostro e, in verità, nel mio, perché la felicità dei padroni fa quella dei servitori.» «Sono del vostro parere, certamente, Molines; qual è dunque la clausola?» «Che esigiate la consumazione del matrimonio...» «La consumazione del matrimonio?» ripeté Angelica spalancando gli occhi come una collegiale appena uscita dal convento. «Mio Dio, signora... Spero che comprendiate ciò che voglio dire.» «Sì... certo... comprendo,» balbettò Angelica riprendendosi, «ma mi avete stupito. È chiaro che sposando il signor del Plessis...» «Non è affatto chiaro, signora. Il signor del Plessis, sposandovi, non fa un matrimonio d'amore. Credo di non meravigliarvi molto se vi dico che i sentimenti che voi ispirate al signor del Plessis sono lungi dal somigliare all'amore e si accostano piuttosto alla collera e persino al furore.» «Lo penso anch'io,» mormorò Angelica alzando le spalle con un gesto che avrebbe voluto essere disinvolto. Ma, al tempo stesso, fu invasa da dolore al pensiero di tutte le ingiurie di
cui Filippo aveva dovuto coprirla confidando al proprio intendente la trappola nella quale era caduto. Esclamò con forza: «E con ciò?... Che volete m'importi, se non mi ama? Tutto quello che chiedo è il suo nome, sono i suoi titoli. Il resto mi è indifferente. Può anche disprezzarmi e andare a letto con le serve, se gli piace. Non sarò certo io a corrergli dietro!» «Avreste torto, signora. Credo che conosciate poco il gentiluomo che state per sposare. Per il momento, la vostra posizione è assai forte, ed è per questo che lo credete debole. Ma poi, bisognerà che lo dominiate in un modo qualunque, altrimenti...» «Altrimenti?...» «Sarete terribilmente infelice.» Il volto della giovane donna si fece duro ed ella disse a denti stretti: «Sono già stata terribilmente infelice, Molines. Non ho intenzione di ricominciare.» «Per questo vi propongo un mezzo di difesa. Ascoltatemi, Angelica, sono abbastanza vecchio per potervi parlare crudamente. Dopo il matrimonio, non avrete più alcun potere su Filippo del Plessis. Il denaro, il cofanetto, li avrà avuti. L'argomento del cuore non ha per lui nessun valore. Bisogna dunque che riusciate a dominarlo con i sensi.» «È un potere pericoloso, Molines, e ben vulnerabile.» «Ma è un potere. Spetta a voi renderlo invulnerabile.» Angelica era assai turbata. Non pensava affatto ad adombrarsi di simili consigli nella bocca di un austero ugonotto. Molines era impregnato di una scaltra saggezza che non aveva mai tenuto conto dei principi, ma solo delle fluttuazioni della natura umana a servizio degli interessi materiali. Anche quella volta, egli doveva aver ragione. Angelica si ricordava, a tratti improvvisi, degli accessi di timore ispiratile da Filippo e della sensazione d'impotenza ch'ella provava dinanzi all'indifferenza e all'aria gelida di lui. Si accorse che, nel fondo dell'animo, era già sulla loro notte di nozze ch'ella faceva affidamento per asservirlo. Quando una donna tiene fra le braccia un uomo è, comunque, potentissima. Viene sempre il momento in cui la difesa dell'uomo cede dinanzi all'abisso del piacere. Egli diventa debole e cieco. Una donna abile deve saper approfittare di quel momento. Più tardi, l'uomo più arrogante tornerà, anche contro voglia, alla sorgente della voluttà. Angelica sapeva che, quando lo stupendo corpo di Filippo si fosse congiunto al suo; che, quando quella bocca morbida e fresca si fosse posa-
ta sulla sua, ella sarebbe diventata la più viva e la più sapiente delle amanti. Avrebbero goduto insieme, nell'anonimato della lotta amorosa, un accordo che Filippo avrebbe ostentato di dimenticare, il giorno dopo, ma che li avrebbe legati più sicuramente di qualsiasi ardente dichiarazione. Il suo sguardo un po' vago ritornò verso Molines. Questi doveva aver seguito sul suo volto il filo dei pensieri perché fece un sorrisetto ironico e disse: «Penso anche che siate abbastanza bella per giocare la partita. Ma bisognerebbe... che potesse cominciare. Ciò, del resto, non implica che vincerete la prima mano.» «Che volete dire?» «Il mio padrone non ama le donne. Le conosce, certo, ma si tratta per lui di un frutto amaro e nauseante.» «Gli attribuiscono però avventure clamorose. E quelle celebri orge durante le campagne all'estero, a Norgen...» «Riflessi di soldato inebriato dalla guerra. Egli prende le donne come appiccherebbe un incendio, come trapasserebbe, con un colpo di spada, il ventre di un bambino... Per fare il male.» «Molines, voi dite cose spaventose!» «Non voglio spaventarvi ma solo prevenirvi. Voi siete di famiglia nobile ma sana e cresciuta in campagna. Sembra che ignoriate il genere di educazione cui è sottoposto un giovane gentiluomo i cui genitori sono ricchi e mondani. Fin dall'infanzia, è il giocattolo delle serventi e dei lacchè, poi dei signori presso i quali vien mandato come paggio. Nelle pratiche italiane che gli insegnano...» «Oh! Tacete. Tutto ciò è assai spiacevole,» mormorò Angelica guardando il fuoco con aria impacciata. Molines non insistette e si rimise gli occhiali. «Debbo aggiungere questa clausola?» «Aggiungete quel che volete, Molines... io...» Il rumore della porta che si apriva la interruppe. La figura di Filippo, vestito di raso chiaro, apparve nella penombra del salotto come una statua di neve e, a poco a poco, andò precisandosi. Bianco e biondo, coperto d'oro, sembrava pronto per recarsi a un ballo. Salutò Angelica con indifferente alterigia. «A che punto siete, Molines, con i negoziati?» «La signora Morens non chiede di meglio che accettare gli impegni proposti.»
«Siete pronta a giurare sul crocifisso che conoscete davvero il nascondiglio del cofanetto?» «Posso giurarlo.» «In tal caso, potete avvicinarvi, signor Carette...» Il cappellano, la cui magra e nera figura era rimasta invisibile dietro il suo abbagliante padrone, apparve con un crocifisso, sul quale Angelica giurò di conoscere in verità il nascondiglio del cofanetto e d'impegnarsi a consegnarlo al signor del Plessis dopo il loro matrimonio. Quindi, Molines enunciò la cifra della rendita che Angelica avrebbe più tardi accordato al marito. La cifra era elevata ma doveva corrispondere all'insieme delle spese del giovane gentiluomo quali l'intendente aveva l'abitudine di rilevare ogni anno. Angelica fece una piccola smorfia ma non mosse ciglio: se i suoi affari fossero rimasti buoni e avessero prosperato, ella non si sarebbe trovata in difficoltà. D'altronde, quando fosse stata marchesa del Plessis, avrebbe badato a far rendere al massimo i due poderi di Filippo. Il giovane non elevò alcuna obiezione. Ostentava un'aria di noia profonda. «Sta bene, Molines,» fece dissimulando uno sbadiglio. «Cercate di regolare con la maggiore rapidità questo spiacevole affare.» L'intendente tossicchiò e si fregò le mani, imbarazzato. «Vi è ancora una clausola, signor marchese, che la signora Morens, qui presente, mi ha pregato di inserire nel contratto. Eccola: Le condizioni finanziarie saranno eseguite solo se ci sarà consumazione del matrimonio.» Filippo parve impiegare un poco a comprendere, poi si fece rosso in viso. «Oh! Questa poi!» disse. «Questa poi!...» Era talmente a corto di espressioni che Angelica provò per lui quello strano senso di pietà e di tenerezza ch'egli le ispirava talvolta. «È il colmo!» esalò infine. «L'Impudicizia unita all'impudenza!» Era diventato pallido di rabbia. «E potete dirmi, Molines, come dovrei provare al prossimo che ho onorato il giaciglio di questa persona? Deteriorando la verginità di una p... che ha già due figli e che è stata in tutti i letti dei moschettieri e dei finanzieri del regno?... Presentandomi davanti a un tribunale come quell'idiota di Langey che doveva sforzarsi dinanzi a dieci persone di provare la propria virilità? 3 La signora Morens ha pensato ai testimoni che dovranno assistere a tale cerimonia?» 3
Allusione a un processo di divorzio, di quell'epoca.
Molines fece un gesto con le mani come per calmarlo. «Non capisco perché, signor marchese, questa clausola vi metta in tale stato. Essa è, in verità, altrettanto... posso permettermi di dirlo? altrettanto interessante per voi che per la vostra futura moglie. Pensate che, se in uno scatto di cattivo umore, di ben comprensibile rancore, voi trascuraste i vostri doveri coniugali, la signora Morens sarebbe in diritto, tra qualche mese, di reclamare l'annullamento del matrimonio e di trascinarvi in un processo ridicolo e costoso. Io appartengo alla religione riformata ma credo di sapere che la non consumazione del matrimonio è una delle clausole di annullamento riconosciute dalla Chiesa. Non è forse vero, signor cappellano?» «Esattamente, signor Molines. Il matrimonio cristiano e cattolico ha un solo scopo: la procreazione.» «Ecco dunque!» disse con voce dolce l'intendente, di cui solo Angelica, che lo conosceva bene, poteva scoprire l'ironia. «Quanto alla prova della vostra buona volontà,» continuò con aria melata, «mi pare che la migliore sia che vostra moglie vi doni al più presto un erede.» Filippo si volse ad Angelica che, durante quella conversazione, cercava di restar calma. Tuttavia, quand'egli la guardò, non poté fare a meno di alzare gli occhi su lui. L'espressione ipocrita e dura di quel bel viso le diede un brivido involontario e che non era di piacere. «Va bene, d'accordo,» disse lentamente Filippo mentre un sorriso crudele gli stirava le labbra, «ci adopereremo, Molines, ci adopereremo...» 25 «Mi avete fatto fare una parte più odiosa di quanto pensassi,» disse Angelica a Molines. «Un po' più odiosa, un po' meno, che importa? Quando si è scelta una parte odiosa, signora, non bisogna guardare per il sottile, ma puntellare saldamente le proprie posizioni.» La seguiva, sagoma nera leggermente curva, riaccompagnandola alla carrozza. Con la sua papalina nera, il gesto cauto delle mani secche che sfregava l'una contro l'altra, rappresentava un'ombra sorta dal passato. «Torno fra i miei,» disse a se stessa Angelica con una sensazione di pienezza che respingeva lontano dietro di lei le umilianti ferite causatele dal disprezzo di Filippo. Riprendeva piede, ritrovava il suo mondo. Sulla soglia, l'intendente par-
ve esaminare attentamente il cielo stellato, mentre la carrozza della signora Morens girava nel cortile per andarsi a fermare dinanzi a loro. «Mi domando,» disse con una certa preoccupazione nella voce, «come abbia potuto morire un uomo simile.» «Quale uomo, Molines?» «Il signor conte di Peyrac...» Angelica si contrasse tutta. Da qualche tempo, la disperazione che provava al pensiero di Goffredo, si aggravava di oscuri rimorsi. Anche i suoi occhi cercarono istintivamente il cielo notturno. «Credete che... che me ne vorrà... se sposo Filippo?» disse infantilmente. Il vecchio parve non udirla. «Che un simile uomo muoia è un pensiero inaccettabile,» riprese scuotendo la testa. «Forse, il re lo ha capito in tempo...» Angelica gli afferrò un braccio con un gesto impulsivo. «Molines, voi sapete qualcosa?» «Avevo udito dire che il re lo aveva graziato... all'ultimo momento.» «Ahimè! Lo vidi con questi occhi bruciare sul rogo.» «Allora, lasciamo in pace i morti,» disse Molines con un gesto da pastore che gli andava assai bene e che doveva essergli di aiuto per ingannare il prossimo. «Che la vita si compia!» Nella carrozza che la riconduceva a casa, Angelica stringeva l'una contro l'altra le mani inanellate. «Goffredo, dove sei? Perché questa luce che si precisa quando la fiamma del rogo si è spenta da cinque anni... Se tu erri ancora sulla terra, ritorna da me!» Tacque, spaventata dalle parole che mormorava. Al passaggio della vettura, le lanterne delle strade, di cui il signor di La Reynie aveva ordinato la collocazione, proiettavano schizzi di luce sul suo vestito. Ella avrebbe voluto sprofondare, cieca, in quella oscurità. Aveva paura. Paura di Filippo, paura soprattutto di Goffredo, morto o vivo che fosse!... Giunta al palazzo del Beautreillis, Florimondo e Cantor le si fecero incontro. Erano vestiti di raso color rosa con colli di pizzo, due minuscole spade e cappelli con piume rosa sui bei capelli ricciuti. Si appoggiavano al collo di un grande mastino dal pelo rosso, alto quasi come Cantor. Angelica si fermò, con il cuore che le batteva forte, dinanzi alla grazia di quegli adorabili esserini. Com'erano seri e persuasi della loro importanza!
Come camminavano adagio per non sciupare i begli abiti! Forti della loro debolezza, sorgevano tra Filippo e il fantasma di Goffredo. «Che la vita si compia,» aveva detto il vecchio amministratore ugonotto. E la vita, erano essi. Era per essi ch'ella doveva continuare a tracciare il suo cammino, lentamente, senza cedere. 26 I terrori e gli scrupoli che, durante quel periodo, assalirono Angelica e ne turbarono le notti, non furono sospettati dalla servitù e dalle amiche. Mai ella era parsa così bella, così sicura di sé. Affrontò con un sorriso condiscendente e insieme naturalissimo la curiosità dei salotti dove si sparse, come una striscia di polvere da sparo, al tempo stesso la notizia del suo futuro marchesato e quella della sua origine aristocratica. La signora Morens! La cioccolataia! Una Sancé?... Famiglia decaduta nel corso degli ultimi secoli, ma imparentata attraverso una rete di rami gloriosi ai Montmorency e persino ai Guisa. Gli ultimi rampolli di quella famiglia avevano cominciato a onorarla di nuovo lustro. Anna d'Austria non aveva forse chiamato al suo capezzale di morente quel gesuita dagli occhi di fuoco, il reverendo padre di Sancé, del quale tutte le gran dame della corte desideravano ricevere la direzione spirituale? La signora Morens, la cui originale esistenza e la rapida ascesa, erano, anche se non lo si voleva riconoscere, un piccolo soggetto di scandalo, sarebbe stata dunque la sorella di quell'intelligente e abile ecclesiastico, già quasi celebre?... Se ne dubitava. Ma a un ricevimento offerto dalla signora di Albret, che era riuscita a metterli uno di fronte all'altra, si vide il gesuita baciare la futura marchesa del Plessis-Bellière, darle apertamente del tu e stare a lungo in conversazione con lei su tono di un'affettuosa fraternità. L'indomani del suo incontro con Molines, Angelica era corsa da Raimondo. Sapeva che avrebbe avuto in lui un sicuro alleato che, senza aver l'aria di occuparsene, avrebbe organizzato a meraviglia la sua riabilitazione mondana. Ciò che avvenne. Non era trascorsa una settimana che già era caduta la barriera di alterigia elevata fra la sua presunta origine plebea e la simpatia delle nobili signore del Marais. Le parlarono della sua deliziosa sorella Maria Agnese di Sancé, la cui grazia aveva incantato la corte per due stagioni. La sua conversione era solo momentanea, non è vero? Comunque, la corte si sarebbe o-
norata della presenza di un'altra Sancé, la cui bellezza non aveva nulla da invidiare alla prima e il cui spirito era già celebre nei salotti letterari. Andarono a trovarla i suoi fratelli Dionigi e Alberto, paggio, quest'ultimo, della signora di Rochant e, dopo effusioni per nulla imbarazzate, le chiesero denaro. Non si parlò del fratello pittore, che veniva ignorato, e sì e no del primogenito, un giovane pazzo partito molto tempo fa per le Americhe. Né si insistette affatto sui motivi che avevano spinto la discendente di un'autentica famiglia principesca a fabbricare cioccolato, così come non si parlò del suo primo matrimonio. Quei cortigiani e quelle piccole dame sapevano perfettamente dimenticare, nelle confidenze sussurrate, ciò che gli uni e le altre avevano interesse di dimenticare. Ad eccezione del solo di Guiche, tutti i favoriti di un tempo, le cui malefatte provocavano ogni giorno più la loro disgrazia, avevano imparato ad essere più discreti. Di Vardes era in prigione dopo l'affare del piccolo venditore di cialde, che aveva svelato quello della lettera spagnola. La profonda bontà della Grande Mademoiselle fece sì ch'ella tenesse la bocca chiusa, nonostante il suo amore dei pettegolezzi. Abbracciò Angelica a lungo e le disse: «Siate felice, molto felice, mia cara,» asciugandosi alcune lagrime di commozione. La signora di Montespan si ricordava, è vero, di qualche cosa di piuttosto strano nella vita di quella Angelica di Sancé, ma tutta presa dai propri intrighi, non se ne occupò. Si rallegrava che Angelica fosse presto presentata a corte. Con la triste Luisa di La Vallière e una regina musona e piagnucolosa, la corte mancava di vivacità. Ora, il re, serio e un po' contegnoso, era tuttavia amante di gaiezza e di piaceri come un adolescente troppo a lungo tenuto a freno. Il carattere allegro di Angelica sarebbe stato adattissimo per consentire, a quello scintillante di Atenaide, il suo sboccio. La loro coppia, formata da quelle due bellezze ridenti e che si rimandavano così vivacemente botta e risposta, non era già forse ricercata nei salotti come una certezza di animazione e della riuscita di una serata? Atenaide di Montespan accorse e diede alla sua amica un mucchio di consigli sui vestiti e sui gioielli necessari per la presentazione a Versailles. Quanto alla signora Scarron, si poteva esser certi della sua discrezione. L'intelligente vedova era troppo interessata ad aver riguardo del presente, del passato e dell'avvenire delle persone che potevano esserle utili, per ri-
schiare di commettere un'imprudenza. Per tacito, generale accordo, gli ultimi anni della vita di Angelica parvero sprofondare in un nero abisso. Ella stessa, tra ansiosa e sollevata, accettò tale situazione. Una sera, dopo aver guardato ancora una volta il pugnale di Rodogone l'Egiziano, si convinse che tutto ciò non era stato che un sogno atroce e che non bisognava pensarci più. La sua esistenza si saldava di nuovo lungo una linea continua e stabilita in anticipo, l'esistenza di Angelica di Sancé, nobile fanciulla del Poitou, alla quale già un tempo Filippo del Plessis-Bellière pareva promesso. 27 La scomparsa di un pezzo della sua esistenza non si compì tuttavia senza qualche difficoltà. Una mattina che Angelica era alla sua toletta, il maggiordomo del conte di Soissons, Audiger, si fece annunciare. Sul punto di infilare un vestito e di scendere per riceverlo, ella cambiò parere e restò seduta dinanzi alla specchiera. Una gran dama poteva benissimo ricevere in veste da camera un subalterno. Quand'egli entrò, Angelica non si volse, seguitando a incipriarsi adagio con un grande piumino il collo e l'inizio del petto. Nel grande specchio ovale dinanzi a sé, poteva assai bene vederlo avanzare, rigido in un semplice abito borghese. Aveva l'espressione severa che gli conosceva, quella che fra loro precedeva l'esplosione delle «scene coniugali». «Entrate dunque, Audiger,» disse cordialmente, «e sedete accanto a me su questo sgabello. È molto tempo che non ci si vede, ma i nostri affari procedono così bene che con quel bravo Marchandeau, che non era necessario.» «Mi dolgo sempre quando rimango molto tempo senza incontrarvi,» disse il giovane con voce contenuta, «perché in genere ne approfittate per fare qualche sciocchezza. È vero ciò che si dice che state per sposare il marchese del Plessis-Bellière?» «È tutto ciò che v'è di più vero, amico mio,» rispose negligentemente Angelica togliendo dal suo collo di cigno una traccia di cipria con un morbido spazzolino. «Il marchese è un mio cugino e in verità credo di esserne sempre stata innamorata.» «È così, siete finalmente riuscita a realizzare i progetti del vostro cervellino ambizioso! Avevo capito da molto tempo che nulla sarebbe stato trop-
po alto per voi. Ad ogni costo, e come se ciò ne valesse la pena, volevate far parte della nobiltà...» «Io appartengo alla nobiltà, Audiger, e vi ho sempre appartenuto, anche all'epoca in cui servivo i clienti di padron Bourgeaud. Voi, che siete così bene al corrente di tutto ciò che si racconta in giro, avrete certo saputo, nei giorni scorsi, che in realtà io mi chiamo Angelica di Sancé di Monteloup.» Il volto del maggiordomo si contrasse. S'era fatto rosso. «Dovrebbe farsi cavare un po' di sangue,» pensò Angelica. «L'ho saputo, infatti. E questo mi ha illuminato sul senso del vostro disprezzo. Era per questo che rifiutavate di diventare mia moglie!... Perché vi facevo vergogna.» Si apri con un dito il colletto che, nella sua collera, lo soffocava. Dopo aver tirato il fiato, riprese: «Ignoro per quali motivi, voi, di sì alto lignaggio, siate caduta in basso tanto ch'io vi conobbi povera servente, nascondendovi alla vostra stessa famiglia. Ma conosco troppo il mondo e penso che siate stata vittima di intrighi sordidi e criminali come sempre accadono all'ombra delle corti. Ed ecco che volete ritornare a quel mondo!... No, non posso ancora considerarvi così. Seguito perciò a parlarvi con un tono familiare che forse già vi offende... No, voi non scomparirete, Angelica, più crudelmente che se foste morta. «Bella soddisfazione, davvero, appartenere a un ambiente vile, ipocrita e sciocco! Come potete, Angelica, voi di cui ammiravo l'intelligenza e il solido buon senso, come potete non vedere i difetti di quel mondo a cui dite di appartenere?... Come potete respingere così facilmente la sana atmosfera di cui avete bisogno per espandervi, lo so, la fraterna, cordiale bontà dei semplici che avete trovato fra noi? Vedete, non mi vergogno, io, di mettermi allo stesso piano di un padron Bourgeaud... Resterete sola fra gli intriganti la cui vanità e bassezza urteranno il vostro gusto della realtà, la vostra franchezza, oppure, come loro, anche voi vi corromperete...» Angelica posò con un gesto un po' irritato la spazzola d'argento sull'orlo della specchiera. Ne aveva abbastanza delle scene coniugali di Audiger. Avrebbe dovuto subire fino a Versailles i sermoni di un maggiordomo? Gettò uno sguardo a quel volto pieno e liscio dagli occhi onesti, dalle belle labbra e si disse ch'era un peccato, per un uomo, essere così simpatico e, insieme, così stupido. Con un sospiro deciso, si alzò: «Mio caro amico...» «Non sono più vostro amico. Dio me ne guardi,» disse egli alzandosi a
sua volta. Aveva capito il significato del gesto. «La signora marchesa notifica il suo congedo al maggiordomo?...» Da rosso, s'era fatto pallidissimo. Il suo viso si alterò, la voce gli tremò come sotto il colpo di un improvviso smarrimento. «Illusioni!..» brontolò. «Mi sono fatto su voi solo illusioni. Essere arrivato a sognare... Voi, mia moglie! Povero idiota! È vero... voi appartenete davvero al vostro mondo. Giusto una sgualdrina buona da rovesciare sul letto.» Le fu accanto in due passi, le prese la vita e la rovesciò sul divano. Ansimando, con rabbia tremenda, le afferrò i polsi con una sola mano, mantenendoli fermi contro il petto della giovane donna per immobilizzare il busto, mentre, con l'altra mano, strappava l'accappatoio, la fine camicia, cercando di denudarla del tutto. Il primo impulso di Angelica era stato di inarcarsi ma, ben presto, s'immobilizzò e rimase senza un movimento, abbandonata a quel forsennato assalto. L'uomo, che si aspettava una lotta, sentì a poco a poco la inutilità e il ridicolo della sua violenza. Sconcertato, rallentò i gesti, poi aprì la stretta. I suoi occhi folli cercarono il viso di Angelica, gettato all'indietro, impassibile e calmo come quello di una morta. «Perché non vi difendete?» balbettò. Ella lo fissò con le sue pupille verdi, senza batter ciglio. Il volto di Audiger non era mai stato così vicino al suo. Gravemente, ella affondò il suo in quello sguardo duro in cui si accendevano e si spegnevano, a volta a volta, la follia, la disperazione, la passione. «Siete stato un amico assai utile, Audiger,» mormorò Angelica, «e debbo riconoscerlo. Se è questo che volete, prendetemi. Non mi difenderò. Sapete bene che non indietreggio mai quando giunge l'ora di pagare i miei debiti.» Silenzioso, egli la contemplò. Il significato di quelle parole penetrava solo con molta lentezza nella sua mente. Poteva sentire sotto di sé, contro la gamba, quelle carni flessibili e resistenti il cui profumo estraneo e familiare lo faceva venir meno. Ella non era affatto contratta. Doveva renderle giustizia: si abbandonava senza riserve. Ma quello stesso abbandono era insultante. Era un involucro senza anima quello ch'ella gli offriva.
Egli lo comprese. Si raddrizzò con una specie di singhiozzo, indietreggiò di qualche passo vacillando, senza abbandonarla con lo sguardo. Ella non si era mossa, restava lì, semidistesa sul divano, senza fare neanche il gesto di sollevare sul petto il merletto strappato dell'accappatoio o di abbassare la camicia ch'egli aveva selvaggiamente rialzato sulle belle gambe madreperlacee. Egli poteva vederle, quelle gambe alle quali aveva tanto pensato e ch'erano perfette come le aveva immaginate: lunghe, affusolate, terminate da piedi piccolissimi che si staccavano sul velluto dei cuscini come squisiti gingilli di avorio rosa. Audiger respirò profondamente. «Lo rimpiangerò certamente per tutta la vita,» disse con voce soffocata, «ma, almeno, non mi disprezzerò. Addio, signora! Non voglio la vostra elemosina.» Indietreggiò ancora fino alla tenda e uscì. Angelica rimase a lungo a riflettere sovra pensiero. Poi esaminò i danni della toletta: il collo in pizzo di Malines era perduto. «Accidenti agli uomini!» disse fra sé irritata. Ricordava come avesse desiderato, durante la gita al mulino Javel, che Audiger divenisse il suo amante. Ma le circostanze erano diverse. A quell'epoca, Audiger era più ricco di lei, e il collo che ella portava quel giorno, non costava che tre lire... Con un sorrisetto, Angelica tornò a sedersi dinanzi alla specchiera. «Ninon di Lenclos ha ragione,» disse ancora a se stessa; «quel che provoca, in amore, i maggiori malintesi, è che gli orologi del desiderio non suonano sempre alla stessa ora.» L'indomani, ella ricevette da una sua cameriera de «La Nana Spagnola», un breve biglietto di Audiger che la pregava di recarsi in serata nel negozio per esaminare con lui i libri contabili. Il pretesto le parve ingenuo: il povero ragazzo, dopo una notte d'insonnia e di tormenti, aveva certo buttato al diavolo la sua dignità e la sua grandezza d'animo per cercar di riafferrare la cuccagna ch'ella gli aveva offerto. Angelica non si fece pregare. Come aveva detto il giorno innanzi, era decisa a far le cose correttamente, sapendo di dover molto a Audiger. Perciò, senza entusiasmo, ma decisa a provargli con quell'unico abbraccio tutta la sua riconoscenza, si recò all'appuntamento con il maggiordomo. Lo trovò dinanzi al piccolo ufficio attiguo alla sala di degustazione. Era in giustacuore di cavaliere e con stivali da caccia. Appariva calmissimo e persino allegro. Non fece la minima allusione alla loro scaramuccia dal
giorno prima e le si rivolse con naturalezza. «Scusatemi, signora, se vi ho disturbato, ma, prima di partire, mi è parso necessario esaminare con voi gli affari della cioccolateria, anche se la gerenza di Marchandeau possa darci intero affidamento.» «Partite?» «Sì. Ho firmato un ingaggio per la Franca Contea, dove dicono che Sua Maestà, questa primavera, dovrebbe conquistare alcune città. Parto fra una settimana ma, in questi giorni, debbo occuparmi dell'approvvigionamento del signor del Bellay: lardo, prosciutti, salsicce, lingue e cosciotti di bue salato, formaggi pregiati, senza contare i barili di acciughe, di olive, le spezie, le candele di cera gialla e i candelieri. Credo perciò di non potervi incontrare durante questa settimana e ho voluto approfittare di un'ultima sera di libertà per vedere con voi a che punto è il nostro commercio.» Per oltre un'ora, aiutati da Marchandeau, controllarono i libri dei conti, si recarono nel laboratorio per esaminare le macchine e nei magazzini per verificare le scorte di cacao, di zucchero e di spezie. Poi, a un certo momento, Audiger si alzò e uscì come se avesse dovuto andare a prendere un altro pacco di fatture. Ma, poco dopo, Angelica udì il passo di un cavallo che si allontanava. Capì che Audiger era partito e che non lo avrebbe più riveduto. 28 Angelica terminò di scrivere una lettera al suo armatore di La Rochelle, quindi, dopo averla asciugata e sigillata, si rimise la maschera e riprese il mantello. Ascoltava il baccano proveniente dalla sala piena zeppa di gente, perché una pioggia violenta ma breve aveva scacciato gli avventori dai pergolati dov'erano seduti. L'odore dolciastro del cioccolato misto a quello delle mandorle tostate, penetrava in quel piccolo ufficio dove, per due anni, Angelica, vestita di nero, con colletto e polsi bianchi, una penna d'oca in mano, aveva penato su infinite fatture. Con un gesto abituale, si spinse sulla soglia della sala e osservò i «suoi» clienti attraverso il discreto interstizio della tenda. Quando fosse divenuta marchesa del Plessis-Bellière, non sarebbe stata più questione, per lei, di entrare in quella sala se non per andarvi a sua volta con una schiera di giovani galanti a gustare il «divino» cioccolato. Sarebbe stata una cosa piutto-
sto buffa, una rivincita piuttosto piccante. I grandi specchi nelle loro cornici dorate riflettevano l'elegante animazione ch'ella aveva sempre saputo mantenere a «La Nana Spagnola», del resto senza gran fatica, poi che il cioccolato è una bevanda che invita più alle dolci parole che agli aspri litigi. Proprio vicino alla tenda dietro cui si nascondeva, ella notò un uomo seduto solo dinanzi a una tazza fumante e che sminuzzava malinconicamente dei pistacchi. Dopo averlo guardato due volte, Angelica disse fra sé che lo conosceva, e la terza volta cominciò a sospettare che quel personaggio abbastanza riccamente vestito non poteva essere che il poliziotto Desgrez, abilmente truccato. Ne provò una gioia puerile. Tra i gelidi rancori del suo futuro sposo, i rimproveri di Audiger, la curiosità degli amici, Desgrez era davvero l'unico essere con cui avrebbe potuto ora conversare senza sentirsi obbligata a prendere il coraggio a due mani o a far la commedia. Ella uscì dal suo nascondiglio e gli si avvicinò. «Mi pare che vi abbandonino, avvocato Desgrez,» gli mormorò. «Posso tentare di sostituire, oh! molto modestamente, la crudele che vi fa aspettare?» Egli sollevò gli occhi e la riconobbe. «Nulla può onorarmi più che avere al mio fianco la padrona di questo luogo affascinante.» Ella gli sedette accanto ridendo e fece segno a uno dei negretti di portarle una tazza e dei biscotti. «Di chi venite in caccia nella mie terre, Desgrez? Di un feroce giornalista?» «No. Soltanto del suo equivalente nel sesso femminile, voglio dire una avvelenatrice.» «Oh! è molto comune. Ne conosco, io, di avvelenatrici!» fece storditamente Angelica, che pensava alla signora di Brinvilliers. «Lo so. Ma il meglio che potete fare è di dimenticare che ne conoscete.» Siccome non sorrideva, ella fece segno di aver capito. «Quando avrò bisogno delle vostre informazioni, saprò bene chiedervele,» notò Desgrez con una piccola smorfia ironica. «So che me le confidate molto volentieri.» Angelica non rispose e si assorbì nella degustazione della bevanda bollente che il negretto Tom le aveva versato. «Che ne pensate di questo cioccolato, signor Desgrez?»
«È una vera penitenza! Ma, in fondo, quando si compie una inchiesta, si sa che vi saranno piccole prove di tal genere da affrontare. Debbo riconoscere che, durante la mia carriera, ho dovuto spesso entrare in luoghi più sinistri di questa cioccolateria. È abbastanza graziosa...» La giovane donna era convinta che Desgrez fosse perfettamente al corrente dei suoi progetti di matrimonio con Filippo, ma, siccome egli non ne parlava, era in imbarazzo per affrontare l'argomento. Il caso le venne in aiuto conducendo lì, ira un'allegra schiera di signore e di dame, lo stesso Filippo. Angelica, mascherata e seduta in un angolo appartato della sala, non rischiava di essere riconosciuta da lui. Disse, indicandolo a Desgrez: «Vedete quel gentiluomo in raso azzurro? Ebbene, tra poco lo sposerò.» Desgrez finse di stupirsi. «Ah!... Ma non è il cuginetto che, una sera, giocò con voi, alla taverna della "Maschera Rossa"?» «Proprio lui,» confermò Angelica con un gesto provocante del mento. «Be', che ne pensate?» «Di che cosa? Del matrimonio o del cuginetto?» «Di tutti e due.» «Il matrimonio è un soggetto delicato e lascio al vostro confessore la cura di parlarvene, ragazza mia,» disse Desgrez con aria dottorale; «in quanto al cuginetto, constato con dispiacere che non è affatto il vostro tipo di uomo.» «E perché? È molto bello, mi pare.» «Proprio per questo. La bellezza è ciò che, meno d'ogni altra cosa, vi seduce negli uomini. Quel che amate in essi non sono le qualità che li avvicinano alle donne, ma ciò che da esse li differenzia: la loro particolare intelligenza, il loro modo di vedere le cose del mondo, non sempre esatto, forse, ma che vi sembra nuovo, e anche il mistero della loro funzione virile. Sì, signora, voi siete fatta così. Non guardatemi con quell'aria offesa, dietro la maschera. Aggiungerò che, più un uomo si stacca dal comune gregge e più lo riconoscete come padrone. Per questo amate gli originali, i paria, i ribelli. Ed ecco perché i vostri amori non finiscono sempre bene. Basta che un uomo sappia distrarvi e farvi ridere, siete pronta a seguirlo in capo al mondo. Se, oltre tutto, egli ha la robustezza e la scienza necessarie per soddisfare le esigenze del vostro raffinato corpicino, gli perdonerete qualsiasi cosa. Ora, quello lì non è sciocco, ma è senza spirito. Se vi ama,
temo che rischiate assai di annoiarvi a morte, con lui.» «Non mi ama.» «Tanto meglio. Potrete sempre distrarvi cercando di farvi amare. Ma, per quel che riguarda l'amore fisico, scommetto facilmente ch'è meno abile d'un contadino. Non mi è stato detto che faceva parte della banda di Monsieur? Sembra che, tempo addietro, sia stato l'amante del cavaliere di Lorena e del principe di Ligne.» «Non mi piace che si parli così di Filippo,» disse Angelica accigliandosi. «Oh! Desgrez, mi sento imbarazzata ma voglio farvi una domanda. Quelle pratiche possono impedire a un uomo di... di avere dei figli, ad esempio?» «Dipende da quale genere di uomo si tratta, mia bella innocente,» disse Desgrez ridendo. «Così come quel giovane mi sembra costruito, penso che abbia tutto ciò che occorre per fare felice una donna e per regalarle una sfilza di figli. Ma è il cuore che gli manca. Quando sarà morto, il suo cuore non potrà essere più freddo nel petto di quanto lo è ora. Bah! Vedo che volete gustare alla bellezza. Ebbene, gustatela, mordetevi a pieni denti e, soprattutto, non abbiate alcun rimpianto. Vi lascio.» Si alzò per baciarle la mano. «La mia avvelenatrice non è venuta. Me ne dispiace. Grazie della vostra piacevole compagnia.» Quando si fu allontanato fra i tavoli, Angelica restò agghiacciata da un senso di ansietà e di dolore che le stringeva bruscamente la gola. «Vi lascio, aveva detto Desgrez. Ella si rendeva conto, d'improvviso, che nel mondo in cui stava per tornare: la corte, Versailles, San Germano, il Louvre, non avrebbe più incontrato il poliziotto Desgrez e il suo cane Sorbona. Sarebbero svaniti, sarebbero rientrati in quello scenario di valletti, di mercanti, di popolino che gira intorno ai grandi e che gli occhi di questi ultimi non vedono. Angelica si alzò a sua volta e raggiunse rapidamente la porta da cui egli era uscito. Lo scorse che si allontanava per i viali in ombra del giardino, seguito dalla sagoma chiara di Sorbona. Gli corse dietro chiamandolo: «Desgrez!» Questi si fermò e tornò sui suoi passi. Angelica lo spinse nell'ombra di una pergola e gli mise le braccia intorno al collo. «Baciatemi, Desgrez.»
Egli sussultò lievemente. «Che vi succede? devo salvare un libellista?» «No... ma io...» Non sapeva come dirgli il panico che l'aveva afferrata al pensiero che non lo avrebbe più riveduto. Turbata, sfregò carezzevolmente la gota contro la spalla di Desgrez. «Capite, sto per sposarmi. Allora, dopo, non mi sarà più possibile ingannare mio marito.» «Al contrario, mia cara. Una gran dama non deve cadere nel ridicolo amando il proprio marito e restandogli fedele. Ma vi capisco. Quando sarete la marchesa del Plessis-Bellière, non sarà per voi elegante avere fra i vostri amanti un poliziotto di nome Desgrez.» «Oh! Perché cercate delle ragioni?» protestò Angelica. Avrebbe voluto ridere ma non riusciva a dominare l'emozione. E gli occhi le si empirono di lagrime quando ripeté: «Perché cercare delle ragioni? Da quando il mondo è mondo chi dunque, signore, riuscirà a spiegare il cuore delle donne e il perché delle loro passioni?» Egli riconobbe l'eco della propria voce, quando, un tempo, si era drizzato nel pretorio per difendervi il conte di Peyrac. In silenzio, richiuse le braccia su lei, stringendola a sé. «Voi siete mio amico, Desgrez,» mormorò Angelica con voce lamentevole. «Nessuno è migliore di voi. Non ne avrò mai uno migliore. Ditemi, voi che sapete tutto, ditemi che non sono diventata indegna di "lui". Era un uomo che aveva dominato le proprie disgrazie e la povertà sino a regnare sulla mente degli altri come a pochi esseri è concesso di fare... Ma io, che cosa non ho io dominato?... Voi solo che sapete da dove ritorno, Desgrez, ricordatevi e ditemi... Sono indegna di quel prodigioso fenomeno di volontà ch'era il conte di Peyrac?... Nella forza che ho impiegato per strappare i suoi figli alla miseria non riconoscerebbe egli la sua propria?... S'egli tornasse...» «Oh! Non vi lambiccate il cervello, angelo mio,» fece Desgrez con la sua voce lenta. «S'egli tornasse... ebbene, s'egli tornasse, per quel che ho potuto giudicarlo, penso che comincerebbe per amministrarvi una scarica di bastonate. Poi vi prenderebbe fra le braccia e farebbe l'amore fino a che gli chiedereste grazia. Poi, tutti e due, pensereste a trovare un luogo tranquillo per aspettarvi le vostre nozze d'oro. Calmatevi, angelo mio, e seguitate la vostra strada.»
«Non è strano, Desgrez, ch'io non possa distruggere in me la speranza di rivederlo un giorno? Qualcuno ha detto che non era lui ad esser bruciato in piazza di Grève.» «Non date ascolto alle chiacchiere,» fece lui duramente. «Si cerca sempre di creare delle leggende su un essere straordinario. Egli è morto, Angelica. Non sperate dunque più, consuma l'anima. Guardate dinanzi a voi e sposate il vostro marchesino.» Ella non rispose. Il cuore le si gonfiava di una pena immensa, smisurata, infantile. «Non ne posso più!» gemette. «Sono troppo triste. Baciatemi, Desgrez.» «Oh! queste donne!» brontolò lui. «Vi parlano del loro più grande amore, dell'essere unico. E poi, un attimo dopo, vi chiedono di baciarle. Che razza di tipi!» Con un gesto un po' brusco, le abbassò le maniche del corsetto fino ai gomiti, mettendo a nudo le spalle, ed ella sentì le mani pelose di Desgrez scivolarle sotto le ascelle, di cui egli parve gustare con piacere il segreto calore. «Siete una vera delizia, non posso negarlo, ma non vi bacerò.» «Perché?» «Perché ho altro da fare che amarvi. E, se una volta, vi ho presa, era solo per farvi un favore, dato che è già troppo una volta per la pace della mia anima.» Ritrasse lentamente le mani, dopo averle sfiorato i seni gonfiati dalle stecche del busto. «Non abbiatevene a male, mia cara, e ricordatevi di me qualche volta. Ve ne sarò grato. Buona fortuna, marchesa degli Angeli!» 29 Filippo le aveva detto subito che il matrimonio avrebbe avuto luogo al Plessis. Non voleva dare il minimo fasto alla cerimonia. Ciò soddisfaceva perfettamente Angelica, ponendola così nella possibilità di ritrovare il famoso cofanetto senza dover ricorrere ad atti che avrebbero attirato l'attenzione. A volte, un improvviso sudore freddo l'assaliva allorché si chiedeva se fosse ancora allo stesso posto, nella finta torretta del castello. Se qualcuno lo avesse trovato? Ma era poco probabile. Chi avrebbe pensato di andarsi ad avventurare su una gronda appena abbastanza larga per un bambino e di guardare nell'interno di una torretta così insignificante all'aspetto?
Ed ella sapeva che, durante quegli ultimi anni, il castello del Plessis non era stato oggetto di alcuna demolizione né restauro. Era dunque certo ch'ella avrebbe potuto ritrovare in quel luogo la posta del suo trionfo. Avrebbe potuto consegnarla a Filippo al momento stesso del matrimonio. I preparativi della partenza per il Poitou furono animati. Conduceva con sé Florimondo, Cantor e tutto il seguito: Barbara, Piè Leggero, cani, scimmia e pappagallo. Con i bauli e i servitori, ci vollero una carrozza e due vetture. L'equipaggio di Filippo avrebbe seguito per suo conto. Egli ostentava d'essere estraneo a tutto quell'affare, seguitando a frequentare le feste e i ricevimenti a corte. Se qualcuno faceva allusione al suo matrimonio, inarcava le sopracciglia con aria stupita ed esclamava con tono sprezzante e sdegnoso: «Ah! già! è vero!» Durante l'ultima settimana, Angelica non lo vide neppure una volta. Con brevi biglietti che Molines trasmetteva, egli le dava i suoi ordini. Ella doveva partire in tal giorno. L'avrebbe raggiunta in tale data. Sarebbe arrivato con l'abate e Molines. Il matrimonio avrebbe avuto luogo immediatamente. Angelica obbediva, da sposa docile. Avrebbe pensato poi a far mutare tono a quello sbarbatello. Dopo tutto, gli portava una fortuna e non gli aveva spezzato il cuore separandolo dalla figlia di Lamoignon. Gli avrebbe fatto comprendere che, se pure aveva dovuto agire un po' bruscamente, trovavano tuttavia entrambi il loro interesse in quell'affare e che il suo modo di comportarsi con lei era ridicolo. Sollevata e insieme delusa di non vederlo, Angelica si sforzò di non pensare troppo a lui. Il «problema Filippo» piantava una spina nel seno della sua gioia, e, quand'ella rifletteva, si accorgeva d'aver paura. Meglio non pensarci. Le vetture divorarono la strada fino a Poitiers, in meno di tre giorni. Le vie erano piuttosto in cattivo stato, rovinate dalle piogge primaverili, ma non vi furono incidenti, a parte un assale spezzato poco prima di giungere a Poitiers, dove fu necessario fermarsi ventiquattro ore. Il posdomani in mattinata, Angelica cominciò a riconoscere i luoghi. Passarono non lontano da Monteloup. Si trattenne dal corrervi, ma i bambini erano stanchi e sudici. La notte precedente, avevano dovuto dormire in un alberguccio pieno di pulci e di topi. Avrebbero trovato al Plessis le necessarie comodità. Con un braccio intorno alle spalle dei figli, Angelica respirava l'aria pura della campagna in fiore, chiedendosi come aveva potuto vivere tanti anni
in una città come Parigi. Mandava gridi di gioia e nominava i villaggi che attraversavano, ciascuno dei quali le rammentava aneddoti della sua infanzia. Da molti giorni, Angelica aveva fatto ai figli particolareggiate descrizioni di Monteloup e dei magnifici giuochi che ci si potevano fare. Essi conoscevano il sotterraneo che le era servito da caverna di strega e il granaio dagli angoli incantati. Florimondo quasi quasi pensava che vi avrebbe trovato una bambina chiamata Maddalena e un ragazzetto di nome Gontrano. Finalmente apparve il Plessis, bianco e segreto sull'orlo del suo stagno. Parve ad Angelica, che aveva conosciuto le sontuose dimore e i palazzi di Parigi, più piccolo di quanto ricordasse. Si presentarono alcuni. servitori. Nonostante l'abbandono nel quale i signori del Plessis lasciavano il loro castello in provincia, esso era ben tenuto grazie alle cure di Molines. Un corriere inviato una settimana prima, aveva fatto riaprire le finestre e il fresco odore della cera per lucidare combatteva quello di muffito delle tappezzerie. Ma Angelica non provò il piacere che se ne aspettava. Le sue sensazioni pareva fossero a un tratto attenuate. Avrebbe forse dovuto piangere o mettersi a ballare, a gridare, a baciare Florimondo e Cantor. Non potendo far ciò, si sentiva l'anima morta. Incapace di sopportare l'eccessiva emozione di quel ritorno, era talmente colpita da non avere più alcuna reazione. S'informò dove avrebbero dormito i bambini, si occupò lei stessa di sistemarli e li lasciò solo dopo averli veduti, lavati e vestiti con abiti caldi e puliti, sedere dinanzi a una colazione di latticini e di dolciumi recati in dono dai contadini. Si fece allora accompagnare nella camera sull'ala nord che aveva raccomandato le preparassero: la camera del principe di Condé. Dovette accettare ancora i servigi di Giasmina, rispondere ai saluti dei due valletti che portavano le tinozze d'acqua bollente nella attigua sala da bagno. Distrattamente, udendo il loro francese approssimativo, rispose loro in dialetto. Quelli rimasero a bocca aperta dallo stupore, udendo quella gran dama di Parigi, il cui abbigliamento appariva loro certamente stravagante, esprimersi nel loro gergo come se lo avesse parlato dalla culla. «Ma davvero,» disse Angelica ridendo, «non mi riconoscete? Sono Angelica di Sancé. E tu, Guillot, mi ricordo che sei del villaggio di Maubuis, vicino a Monteloup.» Il nominato Guillot, con il quale ella aveva fatto, un tempo, scorpacciate
di more e ciliege, nei bei giorni d'estate, fece un sorriso estasiato. «Siete dunque voi, signora, che avete sposato il nostro padrone?» «Sono io, infatti.» «Oh! questo farà piacere a tutti. Ci si chiedeva chi fosse la nuova padrona.» Così, la gente del paese non era neppure al corrente. O meglio, quel che sapeva non corrispondeva a verità, poi che la si credeva già sposata, laggiù a Parigi. «Peccato che non abbiate atteso di essere tra noi,» seguitò Guillot scuotendo la testa irsuta. «Si sarebbero fatte così belle nozze!» Angelica non osò sconfessare Filippo dicendo a quel paesano che il matrimonio avrebbe avuto luogo lì e che anch'ella contava su feste che le avrebbero consentito di rivedere tutta la contrada. «Ci saranno ugualmente feste,» promise. Fece quindi fretta a Giasmina perché terminasse di aiutarla. Allorché la piccola cameriera si fu ritirata, Angelica, avvolta nella veste da camera di seta, andò in mezzo alla stanza. Lo scenario, dopo dieci anni, non era mutato, ma Angelica non lo vedeva più con i suoi occhi stupiti di fanciulla e trovava assai fuori di moda i pesanti mobili di legno nero d'ispirazione olandese, e il letto dalle quattro massicce colonne. Abituata al delicato pavimento di legno della sua stanza, quello lì, cosparso di fiori e di erbe, le pareva un po' rustico per una futura marchesa. Sulla parete, il quadro dell'Olimpo aveva perduto il suo fascino fresco e conturbante. La giovane donna si diresse alla finestra e l'aprì. Rimase spaventata vedendo quanto fosse stretto il cornicione dove, un tempo, si arrampicava e camminava così agilmente. «Sono diventata troppo grassa, non riuscirò ad arrivare alla torretta,» pensò desolata. Di solito, vantavano il suo corpo slanciato, ma tutto dipendeva, evidentemente, dall'uso che ne faceva. Angelica, quella sera, misurò amaramente l'implacabile cammino del tempo. Non solo non aveva più la leggerezza necessaria, ma le sarebbe mancata l'agilità, e rischiava di rompersi l'osso del collo. Dopo aver riflettuto, decise di richiamare Giasmina. «Giasmina, ragazza mia, tu sei sottile, piccola e più agile di una canna. Devi cercare di salire su questo cornicione e arrivare fino alla torretta sull'angolo. E stai attenta a non cadere, sarebbe un bel guaio!»
«Bene, signora,» rispose Giasmina, che sarebbe passata attraverso la cruna di un ago per far piacere alla padrona. Sporta alla finestra, Angelica seguì ansiosamente la progressione della fanciulla lungo la gronda. «Guarda all'interno della torretta. Vedi qualcosa?» «Vedo qualcosa di scuro, una scatola,» rispose subito Giasmina. Angelica chiuse gli occhi e dovette appoggiarsi allo stipite della finestra. «Va bene. Prendila e portamela. Ma fai attenzione!» Pochi istanti dopo, Angelica aveva fra le mani il cofanetto del monaco Exili. Una crosta di terriccio, accumulata dalla umidità, lo ricopriva, ma era legno di sandalo e né le bestie, né la muffa avevano potuto intaccarlo. «Vai pure,» disse Angelica con voce atona a Giasmina, «e non dire nulla su ciò che hai fatto. Se tieni la lingua a posto, ti regalerò una cuffia e un vestito nuovo.» «Oh! signora, con chi volete che chiacchieri?» protestò Giasmina. «Non capisco neppure in che lingua parlano!» Era assai pentita di aver abbandonato Parigi e andò sospirando a raggiungere Barbara per poter parlare con lei delle persone di conoscenza e, in particolare, del signor David Chaillou. Angelica, ripulito il cofanetto, faticò molto a farne scattare la molla arrugginita. Il coperchio infine si sollevò e, sopra i fogli, apparve la boccetta di veleno colore smeraldo. Dopo averla contemplata, richiuse il cofanetto. Dove avrebbe potuto nasconderlo in attesa che giungesse Filippo per consegnarglielo in cambio della fede nuziale? Lo chiuse in quello stesso scrittoio da dove l'aveva preso così impulsivamente quindici anni prima. «Se avessi saputo, allora! Ma si può, a tredici anni, misurare la portata delle proprie azioni?» Con la chiave dello scrittoio al sicuro nel suo corsetto, ella seguitò a guardarsi intorno, disperata. Quei luoghi non suscitavano in lei che dolore. A causa di quel furto compiuto con tanta sventatezza, Goffredo, il suo unico amore, era stato condannato, la loro vita distrutta!... Cercò di riposare. Poi, appena un pigolio di giovani voci sul prato le disse che i bambini erano alzati, li raggiunse e li fece salire assieme a Barbara, Giasmina. Flipot e Piè Leggero, su una vecchia carretta ch'ella stessa condusse. E tutti partirono allegramente per Monteloup. Il sole declinava, gettando una luce sulfurea sui vasti prati verdi dove pascolavano i muli. I lavori di prosciugamento delle paludi erano stati considerevoli e trasfiguravano il paesaggio.
Il dominio dei fiumi sotto gli archi degli alberi pareva fosse indietreggiato più lontano, verso occidente. Ma, oltrepassando il ponte levatoio dove i tacchini si pavoneggiavano come una volta, Angelica vide che il castello della sua infanzia non era mutato. I relativi agi di cui il barone di Sancé e la sua famiglia avevano goduto non avevano però consentito loro di apportare al vecchio fabbricato le necessarie riparazioni. Il torrione, i bastioni merlati erano tuttora cadenti sotto un rivestimento di edera e l'ingresso principale restava quello della cucina. Vi trovarono il vecchio barone accanto alla nutrice, che sbucciava cipolle. La nutrice era sempre diritta e svelta, ma aveva perduto i denti e i capelli tutti bianchi facevano apparire bruno il suo volto come quello di una donna moresca. Forse s'ingannava? Ma parve ad Angelica che la gioia con cui I suo padre e la vecchia l'accoglievano aveva qualche cosa di un po' forzato, come accade quando si ritrova vivo qualcuno che s'era creduto morto. Lo si è pianto, certo, ma la vita si è svolta senza di lui ed ecco che bisogna rifargli un posto. La presenza di Florimondo e di Cantor dissipò l'imbarazzo. La nutrice ci piangeva, nello stringersi al cuore «questi bei pupi». Dopo qualche minuto, essi ebbero le gote rosse dei suoi baci, le mani piene di mele e di noci. Cantor, arrampicatosi sulla tavola, le cantò tutto il suo repertorio. «E il fantasma di Monteloup, la vecchia signora, va sempre in giro?» chiese Angelica. «È molto che non la vedo,» disse la nutrice scuotendo il capo; «da quando l'ultimo, Gian Maria, è andato in collegio, non è più comparsa. Lo avevo sempre pensato, ch'era un bambino quello che lei cercava...» Nel salotto oscuro, la zia Marta continuava a regnare dinanzi al suo lavoro di tappezzeria come un grasso ragno nero in mezzo alla sua tela. «Non sente più e ha il cervello che non funziona,» informò il barone. Tuttavia, la vecchia, dopo aver fissato Angelica, la riconobbe e disse con voce roca: «È venuto anche lo Zoppo? Credevo l'avessero bruciato.» Fu quella l'unica allusione fatta a Monteloup sul primo matrimonio di Angelica. Quella parte della sua vita era lasciata nell'ombra. Del resto, il vecchio barone sembrava non si ponesse molte domande. A mano a mano
che i figli partivano, si sposavano, tornavano o non tornavano, egli li confondeva un poco nella sua mente. Parlava molto di Dionigi, l'ufficiale, e di Gian Maria, l'ultimo. Non si preoccupava di Ortensia ed era chiaro che non sapeva nulla di Gontrano. In verità, il grande, immutabile argomento della sua conversazione erano sempre i muli. Dopo che Angelica ebbe percorso il castello, si sentì rasserenata. Monteloup era rimasto lo stesso. Tutto v'era sempre un po' triste, un po' miserabile, ma così cordiale! Vide con gioia che i suoi figli si installavano nella cucina di Monteloup come fossero nati fra i vapori della zuppa di cavoli e le storie della nutrice. Insistettero per rimanere a cena e a dormire, ma ella li ricondusse al Plessis, perché temeva l'arrivo di Filippo e voleva esser li a riceverlo. Il giorno dopo, siccome nessun corriere lo annunciava ancora, ella ritornò sola da suo padre. Percorse assieme a lui le terre ed egli mostrò le nuove sistemazioni. Il pomeriggio era lieve e profumato. Angelica aveva voglia di cantare. Quando la passeggiata finì, il barone si fermò di colpo e prese a guardare attentamente la figlia. Sospirò poi profondamente. «Sicché, sei ritornata, Angelica?» disse. Le posò una mano sulla spalla, e ripeté varie volte, con gli occhi umidi di lagrime: «Angelica, mia figlia Angelica!...» Ella disse, commossa: «Sono tornata, papà, e ci rivedremo spesso, ora. Sapete che fra qualche giorno avrà luogo il mio matrimonio con Filippo del Plessis Bellière, per il quale ci avete mandato il vostro consenso.» «Credevo che il matrimonio fosse già avvenuto!» diss'egli stupito. Angelica strinse le labbra senza insistere. Quali erano le intenzioni di Filippo nel lasciar credere alla gente del paese e alla famiglia di lei che il matrimonio era stato celebrato a Parigi?... 30 Sulla via del ritorno, si sentiva in apprensione e il cuore le batté più forte quando riconobbe, nel cortile, la carrozza del marchese. I lacchè le dissero ch'egli era arrivato da oltre due ore. Angelica si affrettò verso il castello. Mentre saliva le scale, udì i bambini che gridavano. «Qualche capriccio di Florimondo o di Cantor,» disse fra sé contrariata,
«l'aria della campagna li ha scatenati.» Non bisognava che il loro futuro patrigno potesse considerarli insopportabili. Si precipitò verso la camera dei piccini per richiamarli severamente all'ordine. Riconobbe la voce di Cantor. Gridava su un tono di indicibile terrore e, alle sue grida, si mescolavano feroci latrati. Angelica aprì la porta e restò pietrificata. Dinanzi al camino, dove il fuoco ardeva, Florimondo e Cantor stretti l'uno all'altro, erano incalzati da tre enormi cani lupo, neri come diavoli dell'inferno e che abbaiavano ferocemente contro di loro, tirando i guinzagli di cuoio la cui estremità era riunita nella mano del marchese del Plessis. Questi, pur trattenendo le bestie, sembrava divertirsi assai al terrore dei bambini. Angelica vide sul pavimento, in un mare di sangue, il cadavere di Parthos, uno dei mastini dei fanciulli, ch'era stato certo strangolato nel tentativo di difenderli. Cantor gridava, il tondo visetto inondato di lagrime. Ma il viso livido di Florimondo aveva una straordinaria espressione di coraggio. Aveva tratto la sua piccola spada e la puntava contro le bestie, cercando di proteggere il fratello. Angelica non ebbe neppure il tempo di mandare un'esclamazione. Più rapido del suo pensiero, un riflesso le fece afferrare un pesante sgabello di legno ed ella lo lanciò contro i cani, che urlarono e si ritrassero gemendo di dolore. Ella aveva già preso fra le braccia Florimondo e Cantor, che le si aggrapparono. Cantor subito tacque. «Filippo,» diss'ella ansando, «non bisogna spaventare così i bambini... Avrebbero potuto cadere nel fuoco... Cantor, vedete, ha già avuto la mano bruciata...» Il giovane volse verso di lei le pupille dure e limpide come ghiaccio. «I vostri figli sono codardi come femmine,» disse con voce impastata. Aveva il viso più colorito del solito e vacillava leggermente. «Ha bevuto,» diss'ella fra sé. Comparve in quel momento Barbara senza fiato, con una mano appoggiata sul petto per contenere i battiti del cuore. I suoi occhi andarono, con espressione di spavento, da Filippo ad Angelica, poi si fermarono sul cane morto. «La signora mi scusi. Ero andata a prendere il latte in cucina per la colazione dei bambini. Li avevo lasciati sotto la sorveglianza di Flipot. Non immaginavo...»
«Nulla di grave, Barbara,» disse con calma Angelica. «I piccini non sono abituati a vedere cani così feroci. Bisognerà pure che ci si abituino, se vorranno in seguito cacciare il cervo e il cinghiale come veri gentiluomini.» I futuri gentiluomini gettarono uno sguardo poco entusiasta alle tre bestie ma, siccome erano fra le braccia di Angelica, non avevano più paura. «Siete degli scioccherelli,» disse loro piano, con voce di rimprovero. Ritto sulle gambe divaricate, nel suo costume da viaggio di velluto bruno rossiccio, Filippo contemplava il gruppo della madre e dei figli. Fece bruscamente schioccare il frustino sui cani, cacciandoli indietro, e uscì dalla stanza. Barbara si affrettò a chiudere la porta. «Flipot è venuto a chiamarmi,» mormorò. «Il signor marchese lo aveva mandato via. Non mi toglierete dalla mente che voleva far divorare i bambini dai cani...» «Non dire sciocchezze, Barbara,» troncò seccamente Angelica. «Il signor marchese non ha pratica di bambini: voleva solo giocare...» «Caspita! Giuochi di principi! Sappiamo dove possono arrivare. Conosco un povero piccino che l'ha pagata ben cara.» Angelica tremò pensando a Linot. Il biondo Filippo non era forse stato fra i carnefici del piccolo venditore di cialde o, quanto meno non era rimasto indifferente alle sue preghiere, alle sue torture?... Poiché i bambini si erano tranquillati, tornò nella sua camera e sedette dinanzi alla specchiera per rifarsi i ricci. Che significato poteva avere, quell'incidente? Doveva prenderlo sul serio? Filippo era ubriaco, se n'era subito accorta. Tornato in sé, si sarebbe scusato per essere stato causa di quello scompiglio... Ma una parola di Maria Agnese saliva alle labbra di Angelica: «Un bruto!» Un bruto nascosto, ipocrita, crudele, «quando vuole vendicarsi di una donna, non esita dinanzi a qualunque cosa». «Non giungerà mai a prendersela con i miei figli,» disse a sé stessa posando il pettine e alzandosi in piedi agitata. In quell'istante, la porta della camera sbatté ed ella vide, sulla soglia, Filippo che posò su lei uno sguardo pesante. «Avete il cofanetto del veleno?» «Ve lo consegnerò il giorno del matrimonio, Filippo, come convenuto
nel contratto.» «Ci sposiamo questa sera.» «Allora, ve lo consegnerò questa sera,» rispose lei, sforzandosi di non mostrare il proprio sgomento. Sorrise e gli tese la mano. «Non ci siamo ancora salutati, Filippo.» «Non ne vedo la necessità,» rispose questi, richiudendo bruscamente la porta. Angelica si morse le labbra. Era chiaro che il padrone che si era scelta non sarebbe stato facile da vincere. Le tornò alla mente il consiglio di Molines: «Cercate di dominarlo con i sensi.» Ma, per la prima volta, ella dubitava della sua vittoria. Si sentiva senza potere su quell'uomo di gelo. Non aveva mai osservato in lui, nei propri confronti, il sorgere di un desiderio ed ella stessa, soffocata dall'ansietà, non provava per lui, in quel momento, nessuna attrazione. «Ha detto che ci sposiamo questa sera. Non sa più quel che dice. Non è stato neppure avvertito mio padre...» Era a questo punto delle sue riflessioni, quando fu bussato piano alla porta. Angelica andò ad aprire e vide i suoi figli, ancora stretti l'uno all'altro in maniera commovente. Ma, questa volta, Florimondo estendeva la sua protezione di primogenito alla scimmia Piccolo, che reggeva fra le braccia. «Mamma,» diss'egli con una vocetta tremante ma ferma, «vorremmo andare dal nonno. Qui, abbiamo paura.» «Paura è una parola che un ragazzo che porta la spada non deve pronunciare,» disse Angelica severamente. «Sareste dei vili, come è stato insinuato poco fa?» «Il signor del Plessis ha già ucciso Pathos. Forse ucciderà anche Piccolo.» Cantor si mise a piangere con brevi singhiozzi soffocati. Cantor, il tranquillo Cantor, sconvolto! Era più di quanto Angelica potesse sopportare. Non v'era da indagare se la cosa fosse stupida o no: i bambini avevano paura ed ella aveva giurato a se stessa che non avrebbero mai più conosciuto la paura. «Va bene, andrete con Barbara a Monteloup, e subito. Promettetemi solo di fare i bravi.» «Il nonno mi ha detto che mi avrebbe fatto montare su un mulo,» disse Cantor riconfortato.
«Oh! a me darà un cavallo,» affermò Florimondo. Meno di un'ora dopo, Angelica li imbarcava sul carretto assieme ai loro domestici e alla loro roba. V'erano abbastanza letti a Monteloup per alloggiare loro e il seguito. Anche i domestici parevano lieti di andarsene. L'arrivo di Filippo aveva portato nel bianco castello una atmosfera irrespirabile. Il bel giovane che rappresentava la grazia alla corte del Re Sole, faceva regnare nella sua solitaria signoria il pugno di un despota. Barbara mormorò: «Signora, non vi lasceremo qui, sola con quel... quell'uomo.» «Quale uomo?» chiese fieramente Angelica, aggiungendo: «Barbara, una confortevole esistenza ti ha fatto dimenticare certi episodi della nostra vita comune! Ricordati che so difendermi contro tutti.» E baciò la servente sulle guance tonde, perché si sentiva il cuore gelato. 31 Quando le sonagliere della piccola carovana si furono spente nella sera azzurrina, Angelica tornò a passi lenti verso il castello. Si sentiva sollevata al sapere i suoi figli sotto l'ala tutelare di Monteloup, ma il castello del Plessis non ne appariva che più deserto, quasi ostile, nonostante la sua grazia di ninnolo rinascimentale. Nel vestibolo, un servitore le si inchinò dinanzi, avvertendola che il pranzo era pronto. Ella si recò nella sala da pranzo, dove la tavola era apparecchiata. Filippo apparve quasi subito e, senza una parola, sedette ad una delle estremità. Angelica prese posto all'altra. Erano soli, serviti da due camerieri e da uno sguattero che portava i piatti dalla cucina. Tre candelabri riflettevano le loro fiammelle nelle preziose argenterie. Per tutto il desinare non si udì che il rumore dei cucchiai e il tintinnio dei bicchieri, dominato dal richiamo stridente dei grilli, fuori nel prato. Attraverso l'invetriata aperta, si scorgeva la notte nebbiosa invadere la campagna. Angelica, dopo aver detto a se stessa che non avrebbe potuto ingoiare neppure un boccone, mangiò di buon appetito, secondo la particolare reazione del suo temperamento. Notava che Filippo beveva molto ma, invece di divenire più espansivo, il vino lo rendeva sempre più freddo e rigido. Quand'egli si alzò, dopo aver rifiutato la frutta, a lei non restò che seguirlo nell'attiguo salotto, dove trovò Molines e il cappellano, oltre a una
vecchia contadina che, come seppe più tardi, era la nutrice di Filippo. «È tutto pronto, abate?» chiese Filippo, uscendo dal suo mutismo. «Sì, signor marchese.» «Allora, andiamo nella cappella.» Angelica trasalì. Il matrimonio, il «suo» matrimonio con Filippo, avrebbe avuto davvero luogo in quelle lugubri condizioni? Ella protestò: «Non pretenderete mica che tutto sia pronto per il nostro matrimonio e ch'esso sia subito celebrato!» «Lo pretendo, signora,» rispose beffardamente Filippo. «Abbiamo firmato il contratto a Parigi. Questo per la società. Il signor abate qui presente ci benedirà e ci scambieremo gli anelli. Questo per Dio. Non mi sembrano necessari altri preparativi.» La giovane donna guardò incerta i testimoni della scena. Un solo candeleriere li rischiarava, retto dalla vecchia. Fuori, era notte fonda, ormai. I domestici si erano ritirati. Se non ci fosse stato Molines, l'aspro, il duro Molines, che però amava Angelica più della propria figlia, ella avrebbe temuto di esser caduta in un tranello. Cercò lo sguardo dell'intendente, ma il vecchio teneva gli occhi bassi con quel particolare servilismo ch'egli ostentava dinanzi ai signori del Plessis. Non le restava che rassegnarsi. Nella cappella illuminata da due grosse candele di cera gialla, un contadinello sbalordito, vestito con una pianeta da chierichetto, recò l'acqua benedetta. Angelica e Filippo presero posto sui due inginocchiatoi già preparati. Il cappellano andò a porsi dinanzi a loro e recitò con voce borbottante le preghiere e le formule d'uso. «Filippo del Plessis-Bellière, volete prendere per moglie Angelica di Sancé di Monteloup?» «Sì.» «Angelica di Sancé di Monteloup, volete prendere per marito Filippo del Plessis-Bellière?» Ella disse: «Sì,» e tese la mano verso Filippo perché le infilasse l'anello. Il ricordo di uno stesso gesto, compiuto alcuni anni prima nella cattedrale di Tolosa, l'attraversò. Non era, allora, meno tremante di ora, e la mano che aveva preso la sua
l'aveva stretta dolcemente, come per rassicurarla. Nel suo smarrimento, ella non aveva compreso il significato di quel gesto discreto. Ora, quel particolare le tornava alla mente, la straziava come una pugnalata, mentre vedeva Filippo semiebbro, accecato dai vapori del vino, andar tentone, non riuscendo a infilarle nel dito l'anello. Vi riuscì infine. Tutto era compiuto. Il gruppo uscì dalla cappella. «Ora tocca a voi, signora,» disse Filippo guardandola con il suo insopportabile, gelido sorriso. Ella comprese e lo pregò di seguirla nella sua camera. Lì giunta, trasse dallo scrittoio il cofanetto, fece scattare il meccanismo che lo chiudeva e lo consegnò al marito. La fiamma dei candelieri fece brillare la boccetta. «È proprio questo il cofanetto perduto,» disse Filippo dopo un istante di silenzio. «Tutto è in ordine, signori.» Il cappellano e l'intendente firmarono una dichiarazione secondo cui erano stati testimoni della consegna del cofanetto da parte della signora del Plessis-Bellière, in base alle clausole del contratto di matrimonio. Piegarono quindi la schiena una volta ancora dinanzi alla coppia e si allontanarono a piccoli passi, preceduti dalla vecchia, che faceva luce. Angelica dominò il desiderio da cui era presa di trattenere ancora l'intendente. Era davvero una cosa ridicola. Il panico ch'ella provava era senza ragione. Non è mai piacevole, è vero, affrontare il rancore furibondo di un uomo, ma fra lei e Filippo vi sarebbe stato forse un modo d'intendersi, di giungere a una tregua. Gli gettò uno sguardo furtivo. Ogni volta che osservava la perfezione della sua bellezza, si rassicurava. L'uomo chinava sul cofanetto il profilo d'una purezza da medaglia, appena rilevato, sopra le labbra, dai baffetti biondi. Le lunghe ciglia folte proiettavano un'ombra sulle guance, ma egli era più colorito del solito e il forte odore di vino ch'emanava era davvero sgradevole. Vedendo che sollevava con mano poco ferma la boccetta del veleno, Angelica disse vivamente: «State attento, Filippo. Il monaco Exili assicurava che una sola goccia di quel veleno rischiava di sfigurare per sempre.» «Davvero?» Alzò gli occhi su lei e una luce malvagia li attraversò. La sua mano fece dondolare la boccetta. Ella intuì in un lampo ch'era tentato di gettargliela in viso. Paralizzata dal terrore, esitando a comprendere, non mosse tuttavia
ciglio, seguitando a fissarlo con aria tranquilla e ardita. Egli fece una specie di ghigno, poi riposò la fiala e richiuse il cofanetto, ponendoselo sotto il braccio. Senza una parola, afferrò Angelica per il polso, e la trascinò fuor della stanza. Il castello era silenzioso e oscuro, ma la luna, appena sorta, proiettava sul pavimento il riflesso delle sue alte finestre. La mano di Filippo teneva il fragile polso della giovane donna così duramente ch'ella sentiva le proprie pulsazioni. Ma preferiva questo, saperlo vivo e rude, piuttosto che un indifferente fantasma. Filippo, nel suo castello, acquistava una realtà che, a corte, non aveva. Certo, in guerra era così, abbandonando l'apparenza del bel cortigiano sognatore per la sua vera personalità di nobile guerriero, laconico, duro, ancora barbaro. Scesero le scale, attraversarono il vestibolo e uscirono in giardino. Una nebbiolina argentea fluttuava sopra lo stagno. Giunti al piccolo imbarcadero di marmo, Filippo spinse Angelica verso una barca. «Salite!» disse brevemente. Prese posto a sua volta, posando con precauzione il cofanetto su una delle panche. Ella udì sfilare la gomena, poi lentamente la piccola barca si staccò dalla riva. Filippo aveva preso un remo. Portò l'imbarcazione verso il centro dello stagno. I riflessi della luna scivolavano sulle pieghe del suo vestito di raso bianco, sui ricci dorati della parrucca. Lo spettacolo aveva qualcosa d'irreale e affascinante. Non si udiva che il fruscio dello scafo contro le foglie delle ninfee, aderenti l'una all'altra. Timide, le rane tacevano. Quando ebbero raggiunto l'acqua nera e limpida al centro dello stagno, Filippo immobilizzò la barca. Parve guardarsi intorno attentamente. Erano distanti dalla terra e il bianco castello non era che una lontana apparizione fra le due sponde oscure del parco. In silenzio, il marchese del Plessis riprese fra le mani quel cofanetto la cui scomparsa aveva ossessionato i giorni e le notti della sua famiglia e lo gettò con gesto risoluto nell'acqua. L'oggetto affondò e le onde che avevano segnato il punto della sua caduta, presto scomparvero. Filippo, allora, guardò Angelica, ed ella tremò. Egli si mosse e andò a sederlesi accanto. Quel gesto che, a quell'ora, in quello scenario fantastico, avrebbe potuto essere quello di un innamorato, la agghiacciò di paura.
Lentamente, con la grazia che caratterizzava ogni suo movimento, egli sollevò le mani e le posò sul collo di Angelica. «E ora, vi strozzerò, bellezza mia,» disse a mezza voce, «e andrete a raggiungere in fondo all'acqua quel maledetto cofano.» Ella s'impose di non muoversi. Era ubriaco o pazzo. Ad ogni modo, era capace di ucciderla ed ella era in suo potere. Non poteva né chiamare né difendersi. Nel lieve movimento che fece, la sua testa andò ad appoggiarsi alla spalla di Filippo. Sentì sulla fronte il contatto di una guancia non rasata dal mattino, una guancia di uomo, che suscitava tenerezza. Tutto scomparve... La luna viaggiava nel cielo, il cofanetto riposava in fondo all'acqua, la campagna sospirava, l'ultimo atto della tragedia stava per terminare ed era giusto che Angelica di Sancé morisse per mano di un giovane bello come un dio che si chiamava Filippo del Plessis. A un tratto le tornò il fiato e la stretta che la soffocava si allentò. Ella vide Filippo col viso contratto dall'ira, i denti stretti. «Per il diavolo,» imprecò, «nessuna paura farà dunque curvare questa maledetta testa orgogliosa? Nulla vi farà gridare, pregare?... Pazienza, bisognerà pure arrivarci!» La respinse brutalmente e riportò a riva la barca. Appena ebbe toccato la terra ferma, ella resistette all'impulso di fuggire. Non sapeva con precisione che cosa avrebbe dovuto fare. Le idee le si confondevano nella mente. Sentiva un forte dolore al collo e vi teneva la mano. Filippo la sorvegliava con una sospettosa attenzione che gli oscurava lo sguardo. Quella donna non pareva di una specie comune. Né lagrime, né grida; non tremava neppure. Lo sfidava, per giunta, mentre era lui l'offeso. Lo aveva costretto, umiliato come nessun uomo può sopportare di esserlo senza augurarsi la morte. Un gentiluomo deve rispondere di un simile affronto con la spada, un plebeo con il bastone. Ma una donna?... Quale riparazione esigere da quelle creature viscide, deboli, ipocrite, il cui contatto era come quello di un animale velenoso e che vi attorcigliavano nelle loro parole al punto che ci si ritrovava imbrogliati e, per giunta, colpevoli? Oh! le donne non vincevano sempre, con lui! Sapeva come vendicarsi. Si era dilettato dei loro singhiozzi, delle suppliche di quelle ragazze che, le sere di combattimento, violentava e gettava poi in pasto ai suoi uomini. Si vendicava così delle umiliazioni che gli avevano fatto subire nell'adolescenza. Ma questa, come dominarla? Ella riuniva dietro la sua fronte convessa,
liscia, dietro quello sguardo d'acqua verde, tutte le scaltrezze femminili; l'astuta forza del suo sesso. Così, almeno, egli credeva. Non sapeva che Angelica stava tremando e si sentiva stanca da piangerne. Se gli faceva fronte, è perché aveva l'abitudine di far fronte ai dolori, di lottare. Egli le riprese il braccio con un gesto da guardiano malvagio e la ricondusse al castello. Mentre salivano lo scalone, ella lo vide tendere la mano verso il lungo scudiscio per i cani attaccato alla parete. Angelica indietreggiò. «Filippo, lasciamoci qui. Siete ubriaco, mi pare. A che scopo litigare ancora? Domani...» «Oh! no,» fece lui sarcastico. «Non ho forse il dovere di adempiere al mio dovere coniugale? Ma, prima, voglio darvi una piccola lezione, per farvi passare il gusto del ricatto. Non dimenticate, signora, ch'io sono il vostro padrone e che ho su voi ogni potere.» Ella voleva sfuggirgli, ma Filippo la trattenne e la frustò come avrebbe fatto con una cagna restia. Angelica mandò un grido ch'era più d'indignazione che di dolore. «Filippo, siete pazzo!» «Mi domanderete perdono,» fece lui a denti stretti, «mi domanderete perdono di quel che mi avete fatto!» «No!» Egli la spinse nella camera, chiuse la porta e cominciò a batterla con una forza e una precisione che provava un lungo allenamento. La sua carica di sovrintendente reale alle cacce del lupo non era certo immeritata. La povera Angelica lo imparava a sue spese. Si era messa le braccia dinanzi al viso per proteggerlo. Indietreggiò fino alla parete, voltandosi con un gesto istintivo. Ogni colpo la faceva trasalire e si mordeva le labbra per non lamentarsi. Uno strano sentimento tuttavia la invadeva e la sua iniziale rivolta cedeva dinanzi a una specie di accettazione, a uno strano gusto di giustizia. A un tratto gridò: «Basta, Filippo, basta!... Vi domando perdono.» E, poiché lui si fermava, stupito per la facile vittoria, ella ripeté: «Vi domando perdono... È vero, ho avuto dei torti verso di voi.» Indeciso, egli rimase immobile. Pensava ch'ella lo schernisse ancora,
sottraendosi alla sua ira con bugiarda umiltà. Cagne servili, tutte! Arroganti nella vittoria, striscianti sotto lo scudiscio. Ma l'accento di Angelica aveva qualche cosa di sincero, che lo turbava. Che non fosse davvero come le altre? Che il sottile ricordo impressogli nella memoria dalla piccola «baronessa dal Triste Vestito» non fosse una ingannevole apparenza?... Respirava affannosamente. Nella penombra in cui si fondevano il chiarore lunare e la luce del candelabro, la vista di quelle bianche spalle contuse, di quella fragile nuca, di quella fronte nascosta contro la parete come quella di un bambino contrito, destò in lui un desiderio violento ma insolito e quale nessuna donna gli aveva mai ispirato. Non era solo un'esigenza bestiale e cieca. Vi si univa un'attrazione un po' misteriosa, quasi dolce. Ella non era come le altre. Ebbe d'improvviso il presentimento che, con lei, avrebbe raggiunto qualche cosa di nuovo, quel punto sconosciuto dell'amore invano cercato attraverso tanti corpi dimenticati. Si sentì le labbra aride, assetate, avide di dissetarsi al contatto di una carne arrendevole e profumata. Respirando forte, gettò lontano lo scudiscio e si liberò del farsetto e della parrucca. Angelica che, inquieta, si voltava, lo vide di colpo mutato e disarmato, diritto nell'ombra come un arcangelo, con quei corti capelli biondi che gli facevano una testa di antico pastore, la camicia di pizzo schiusa sul petto liscio e bianco, le braccia aperte in un gesto indeciso. D'improvviso andò a lei, l'afferrò e, goffamente, le appoggiò le labbra nel cavo ardente del collo. Ma ella soffriva ancora proprio in quel punto ed era lei, ora, a sentirsi inasprita. Inoltre, era abbastanza onesta da riconoscere i propri torti, ma troppo fiera perché il trattamento subito potesse disporla all'amore. Si strappò di scatto dalle mani del suo nuovo sposo: «Ah! no, questo no!» Quel grido lo rese nuovamente furioso. Svaniva così un'altra volta l'apparenza di sogno. Ella non era che una donna come le altre, caparbia, calcolatrice, vendicativa, l'eterna, malvagia femmina. Indietreggiò, sollevò il pugno e la colpì in pieno volto. Angelica vacillò, poi, afferrandolo a due mani per i risvolti della camicia, lo mandò con una spinta contro il muro. Egli rimase un attimo stupefatto. Ella aveva avuto, per difendersi, un gesto da cantinera abituata agli ubriachi. E, del resto, ne aveva ora l'atteggiamento, ben piantata sulle
gambe, le mani pronte alla lotta, con una espressione di sfida che voleva dire: «Riprovaci, ragazzo mio, se ne hai il coraggio!» Non aveva mai veduto una donna di mondo difendersi a quel modo. La cosa gli parve assai buffa e irritante. Cosa credeva, ch'egli si sarebbe ritirato, che l'avrebbe lasciata libera?... Conosceva troppo bene quella razza! Se non la dominava quella notte stessa, sarebbe stata lei, il giorno dopo, ad asservirlo. Digrignò i denti, invaso dall'acre desiderio di vincere, di distruggere. Fingendo di perdere l'equilibrio, fece qualche passo malsicuro, poi, all'improvviso, balzò agilmente, l'afferrò per il collo e le sbatté selvaggiamente la testa contro il muro. Angelica, sotto il colpo, quasi perdé la coscienza e scivolò a terra. Lottava per non venir meno mentre il terrore la invadeva. Una certezza le si imponeva: alla taverna della «Maschera Rossa» era stato proprio Filippo, ne era sicura, ora, che l'aveva mezzo accoppata, prima che gli altri si fossero impadroniti di lei per violarla. Oh! era un bruto, un orribile bruto! Egli le si era buttato sopra e, con tutto il peso del corpo, la schiacciava sul pavimento gelato. Ella aveva di colpo l'impressione di essere preda di una belva scatenata che, dopo averla sforzata, la martellava senza tregua, selvaggiamente. Dolori terribili le attraversavano le reni... Nessuna donna poteva sopportare una cosa simile senza morire... L'avrebbe mutilata, distrutta!... Un bruto! Un orribile bruto!... Alla fine, non potendone più, ella mandò un grido straziante: «Pietà, Filippo, pietà!...» Egli rispose con un sordo grugnito di trionfo. Ella aveva gridato, finalmente. E lui ritrovava finalmente l'unica forma di amore che potesse soddisfarlo, la gioia infernale di stringere una preda irrigidita dal dolore, terrorizzata, supplichevole, che lo vendicava delle passate umiliazioni. Il suo desiderio, eccitato dall'odio, lo tese come una sbarra di ferro. Si appesantì su lei con tutta la sua forza. Quando infine la lasciò, ell'era quasi svenuta. Ansimando, il volto madido di sudore, egli la contemplò, stesa ai suoi piedi. Ella non gemeva più, ma, cercando vagamente di riprender coscienza, si muoveva un poco sul pavimento, come un bell'uccello ferito. Filippo sentì che, di colpo, il petto gli doleva da urlare. Ebbe come un
rantolo che sembrava un singhiozzo. «Che cosa mi accade?» pensò spaventato. Il mondo non era più, a un tratto, che tenebre e disperazione. Ogni luce era spenta. Tutto era per sempre distrutto. Tutto ciò che aveva potuto essere, era morto. Egli aveva ucciso persino il timido ricordo di una fanciullina vestita di grigio la cui mano aveva tremato nella sua, quel ricordo che di tanto in tanto gli tornava alla memoria e che gli piaceva, senza saperne il perché... Angelica riapriva gli occhi. Filippo la toccò con la punta del piede e disse, con un sogghigno: «Ebbene! Penso che siate soddisfatta! Buona notte, marchesa del Plessis.» Ella lo udì allontanarsi urtando i mobili e uscire dalla stanza. 32 Restò a lungo stesa a terra, nonostante il freddo della notte che le mordeva le carni ignude. Si sentiva ferita a sangue e la gola le si stringeva in un infantile desiderio di pianto. Tornava costante, spontaneo, il ricordo delle sue prime nozze, sotto il cielo di Tolosa. Si rivedeva coricata, inerte, il cervello vuoto, le membra grevi d'una stanchezza sino allora ignota. Al suo capezzale si chinava l'alta figura di Goffredo di Peyrac. «Povera piccola ferita!» aveva detto. Ma la sua voce non era pietosa. E, di colpo, era scoppiato a ridere, d'un riso trionfante, il riso esaltato dell'uomo che, per primo, ha marchiato la carne della compagna amata. «Anche per questo lo amo,» aveva pensato allora, colma di felice umiliazione, «perché è l'uomo per eccellenza. Che importa il suo volto sfigurato? Ha la forza dell'intelligenza, la virilità, la sagace intransigenza dei conquistatori, la semplicità dei dominatori, tutto ciò che fa l'uomo, il primo degli esseri, il re delle creature...» Ed era quell'uomo che lei aveva perduto, che ora aveva perduto una seconda volta! Sentiva infatti oscuramente che lo spirito di Goffredo di Peyrac la rinnegava perché lo aveva tradito. Angelica prese a pensare alla morte, al piccolo stagno sotto le ninfee. Poi si sovvenne di ciò che Desgrez le aveva detto:
«Evitate di smuovere quelle ceneri che sono state disperse dal vento... Perché ogni volta che ci penserete avrete desiderio di morire... Ed io non potrò essere sempre lì...» A causa di Desgrez, a causa del poliziotto suo amico, la marchesa degli Angeli allontanò una volta ancora da sé la tentazione della disperazione. Non voleva deludere Desgrez. Rialzandosi, si trascinò alla porta, spinse i chiavistelli e tornò ad abbattersi come un corpo morto sul letto. Meglio era non pensare troppo. Del resto, Molines l'aveva avvertita: «Può darsi che perdiate la prima mano.» La febbre le faceva batter le tempie ed ella non sapeva come calmare i cocenti dolori del corpo. Uscì fuori da un raggio di luna il lieve fantasma del Poeta col suo cappello a punta e i suoi chiari capelli. Lo chiamò. Ma già egli scompariva. Le parve udire Sorbona che abbaiava e il passo di Desgrez allontanarsi. Desgrez, il Poetastro: li confondeva nella mente, il cacciatore e l'inseguito. Figli entrambi della grande Parigi, entrambi beffardi e cinici, smaltavano di latino il loro gergo. Ma invano ella ne reclamava la presenza: svanivano, perdevano ogni realtà. Non facevano ormai più parte della sua vita. La pagina era voltata. Angelica s'era separata da loro per sempre. Si destò di colpo mentre non credeva di essersi addormentata. Tese l'orecchio. Il silenzio della foresta di Nieul circondava il bianco castello. Il bel carnefice russava certo in una delle stanze, abbrutito dal vino. Una civetta ululò e il suo richiamo recò ad Angelica tutta la poesia della notte e della selva. Una grande pace la invase. Si girò sul guanciale e cercò il sonno. Aveva perduto la prima mano, ma era comunque diventata la marchesa del Plessis-Bellière. Tuttavia, il mattino, ch'ella affrontava a testa alta, le portò una nuova delusione. Mentre scendeva, dopo aver fatto da sé la propria toletta per evitare là curiosità di Giasmina e dopo essersi cosparsa il viso di biacca e di cipria per nascondere una lividura troppo visibile, seppe che il marchese, suo marito, se n'era tranquillamente ripartito all'alba per Parigi. O meglio, per Versailles, dove la corte si riuniva per le ultime feste prima della villeggiatura estiva. Il sangue le diede un tuffo. S'illudeva forse, Filippo, che sua moglie a-
vrebbe accettato di restarsene seppellita in provincia mentre a Versailles si davano festeggiamenti? Quattro ore dopo, una carrozza tirata da sei cavalli che sprizzavano faville da tutti i ferri, si lanciava per le strade sassose del Poitou. Angelica, piena di ammaccature, ma ferma nella sua volontà, tornava anch'ella a Parigi. Non aveva avuto il coraggio di affrontare lo sguardo perspicace di Molines, lasciandogli solo una lettera in cui gli raccomandava i figli. Fra Barbara, la nutrice, il nonno e l'amministratore, Florimondo e Cantor sarebbero stati vezzeggiati, avrebbero avuto ogni comodità. Ella poteva andarsene con la coscienza tranquilla. A Parigi, corse da Ninon di Lenclos. Costei era fedele da tre mesi all'amore che le ispirava il duca di Gassempierre. Questi era a corte per tutta la settimana e Angelica trovò in casa dell'amica il desiderato rifugio. Passò quarantott'ore distesa nel letto di Ninon, con un cataplasma di balsamo del Perù sul viso, due compresse di allume sulle palpebre, il corpo cosparso d'olii e unguenti vari. Aveva attribuito a un disgraziato incidente di carrozza le numerose lividure e gli sfregi che le rovinavano il volto e le spalle. Il tatto della cortigiana era così grande che neppure Angelica seppe mai se le aveva creduto o no. Ninon le parlò con la massima naturalezza di Filippo, che aveva veduto al suo ritorno, prima che si recasse a Versailles, dov'era previsto un programma di piacevolissimi divertimenti. La città risonava dei cicalecci di coloro ch'erano invitati e del digrignar di denti di coloro che non lo erano. Ninon, seduta al capezzale di Angelica, accarezzando il liuto con mano distratta, parlava di continuo perché la sua paziente non fosse tentata di aprir bocca, essendo necessaria la tranquillità per ritrovare rapidamente un colorito di gigli e rose. Ninon diceva che non le importava d'ignorare Versailles, dove la sua reputazione non le consentiva d'essere ricevuta. Il suo dominio era altrove, in quel palazzetto del quartiere del Marais, dov'ella era davvero regina e non dama del seguito. Le bastava sapere che, a proposito di questo o di quell'incidente di corte, il re avrebbe talvolta chiesto: «E che ne ha detto la bella Ninon?» «Ma, quando sarete festeggiata a Versailles, non mi dimenticherete, è vero, amica mia?» chiese. Con un cenno, di sotto gli impiastri, Angelica rispose di no.
33 Il 21 giugno 1666, la marchesa del Plessis-Bellière si recò a Versailles. Non aveva alcun invito, ma, in compenso, possedeva il più grande coraggio del mondo. La sua carrozza, guarnita di velluto verde dentro e fuori, con frange e galloni d'oro, con cassa e ruote interamente dorate, era tirata da due grandi cavalli pomellati. Ella indossava un vestito di broccato verde cenere a fioroni d'argento. Come gioielli, aveva uno splendido vezzo di perle composto di vari giri, che le scendeva più in basso della punta del corsetto. Anche i capelli, acconciati da Binet, erano adorni di perle e con due lievi piume immacolate come una guarnizione di neve. Il suo volto, imbellettato con gran cura ma senza esagerazione, non recava più traccia delle violenze di cui era stata vittima alcuni giorni prima. Restava solo un segno livido sulla tempia, che Ninon aveva nascosto con un neo di taffetà a forma di cuore. Con un altro neo più piccolo all'angolo della bocca, Angelica era perfetta. Ella s'infilò i guanti di Vendôme, aprì il ventaglio dipinto a mano e, sporgendosi allo sportello, gridò: «A Versailles, cocchiere!» Ansia e gioia la rendevano così nervosa che aveva condotto con sé Giasmina per poter parlare con qualcuno durante il tragitto. «Andiamo a Versailles, Giasmina,» ripeteva alla fanciulla, che stava seduta dinanzi a lei con una cuffietta di mussola e un grembiule ricamato. «Oh! io ci sono già stata, signora. Con la barca di Saint-Cloud, la domenica... per vedere il re a pranzo...» «Non è la stessa cosa, Giasmina, non puoi capire.» Il viaggio le parve interminabile. La strada era cattiva, con solchi profondi provocati dal passaggio dei duemila carretti che, ogni giorno, passavano e ripassavano di lì, portando pietre e calce per la costruzione del castello, oltre a blocchi conchigliferi, tubi di piombo e statue per i giardini. Carrettieri e cocchieri s'ingiuriavano abbondantemente. «Non avremmo dovuto passare di qui, signora,» disse Giasmina, «ma da Saint-Cloud.» «No, era troppo lunga.»
Ad ogni istante, Angelica sporgeva la testa dalla portiera, a rischio di rovinare l'abile pettinatura di Binet e di farsi spruzzare di fanghiglia. «Più in fretta, cocchiere! Sono lumache, questi cavalli!» Ma già vedeva innalzarsi all'orizzonte un'alta scogliera rosea, screziata di scintille e che sembrava irradiare tutto il sole della mattinata primaverile. «Che cos'è, cocchiere? Che cos'è, laggiù?» «È Versailles, signora.» Un viale di alberi piantati di recente ombreggiava gli ultimi metri della strada. Nei pressi del primo cancello, la carrozza di Angelica dovette fermarsi per lasciarne passare un'altra che giungeva a gran velocità, dalla via di Saint-Cloud. La carrozza rossa, tirata da sei cavalli bai, era scortata da cavalieri. Dissero che si trattava di Monsieur. Seguiva la carrozza di sua moglie, a sei cavalli bianchi. Angelica fece entrare la sua vettura dietro le loro. Non credeva più ai cattivi incontri, ai malefici. Camminava sulle acque, protetta da una specie di immunità. Una certezza, più forte di tutti i timori, le diceva che l'ora del suo trionfo era vicina, perché l'aveva pagata a caro prezzo. Attese tuttavia che lo scompiglio provocato dall'arrivo dei due grandi personaggi si fosse un po' calmato, poi discese dalla vettura e raggiunse il cortile di marmo salendo i gradini che vi accedevano. Flipot, con la livrea dei del Plessis - azzurro, bianco e giallo - reggeva la coda del suo mantello. «Non asciugarti il naso con la manica,» gli disse, «non dimenticare che siamo a Versailles.» «Sì, marchesa,» sospirò l'ex bambino della Corte dei Miracoli, che si guardava intorno a bocca aperta per l'ammirazione. Versailles non aveva ancora la superba maestà che dovevano conferirgli le due ali bianche aggiunte da Mansart verso la fine del regno. Era un palazzo fiabesco che si elevava sul suo stretto monticello con la sua allegra architettura color di rosa e rosolaccio, con i suoi balconi di ferro lavorato, i suoi alti camini chiari. I pinnacoli, i mascheroni, le lastre di piombo, le marmitte dei suoi tetti erano interamente in oro battuto e scintillavano come tanti gioielli che ornassero un prezioso cofanetto. L'ardesia nuova aveva, a secondo degli angoli che l'ombra o la luce riflettevano, la profondità del velluto notturno o lo splendore dell'argento, e
le vivaci linee dei tetti sembrava si fondessero nell'azzurro del cielo. Intorno al castello regnava una grande agitazione, perché le livree multicolori dei valletti e dei lacchè si mescolavano alle scure bluse degli operai che andavano e venivano con carriole e arnesi. Il rumore cadenzato degli scalpelli che martellavano la pietra rispondeva ai tamburi e ai pifferi di una compagnia di moschettieri in parata al centro del cortile principale. Angelica, guardandosi intorno, non vide alcun viso noto. Entrò alla fine nel castello per una porta dell'ala sinistra attraverso cui andava su e giù molta gente. La vasta scalinata di marmi colorati la condusse in un grande salotto dove si ammucchiava una folla modestamente vestita e che la guardò con stupore. Chiese informazioni. Le dissero che si trovava nella sala delle guardie, dove ogni lunedì i sollecitatori andavano a deporre le loro suppliche o a prendere la risposta alle precedenti domande. In fondo alla sala, la nave d'oro rappresentava la persona del re, ma si sperava che Sua Maestà apparisse, come, a volte, usava fare. Angelica, con le sue piume e il suo paggio, si sentì fuori posto fra quella folla di vecchi soldati, di vedove e di orfani. Stava per andarsene, allorché vide la signora Scarron. Le saltò al collo, lieta di incontrare finalmente una persona conosciuta. «Cerco la corte,» le disse, «mio marito dev'essere nella stanza da letto del re e desidero raggiungerlo.» La signora Scarron, più povera e modesta che mai, sembrava poco indicata per informarla su ciò che facevano i cortigiani. Ma, da quando frequentava le anticamere reali in cerca di una pensione, la giovane vedova era a conoscenza del programma particolareggiato della corte più che non lo stesso gazzettiere Loret, incaricato di scrivere ora per ora la cronaca degli avvenimenti. Molto gentilmente, condusse Angelica verso un'altra porta che dava su una specie di vasto balcone, 4 oltre il quale si vedevano i giardini. «Credo che il re sia già in piedi,» diss'ella. «Si è recato nel suo gabinetto, dove si tratterrà un po' con le principesse di sangue reale. Scenderà poi nei giardini, a meno che non venga qui. Ad ogni modo, il meglio per voi sarebbe di seguire questa galleria coperta. Proprio in fondo, sulla vostra destra, troverete l'anticamera che porta al gabinetto del re. A quest'ora, sono tutti lì. Troverete facilmente vostro marito.» Angelica diede un'occhiata sul balcone, dove non si vedevano che alcu4
chi.
Al posto di questo balcone si trova attualmente la Galleria degli Spec-
ne guardie svizzere. «Muoio di paura,» disse. «Perché non venite con me?» «Oh! mia cara, e come potrei?» si spaventò Francesca gettando uno sguardo confuso al proprio vestito. Solo allora Angelica si avvide del contrasto delle loro tolette. «Perché siete qui come postulante? Siete ancora in difficoltà?» «Più che mai, purtroppo! La morte della regina madre ha portato con sé la soppressione della mia pensione. Vengo qui nella speranza di farla rinnovare. Il signor d'Albret mi ha promesso il suo appoggio» «Vi auguro di riuscirvi. Sono veramente desolata...» La signora Scarron sorrise gentilmente e le accarezzò la gota. «Non dovete esserlo. Sarebbe un peccato. Sembrate così splendidamente felice e meritate davvero la vostra felicità, mia cara. Mi rallegro di vedervi così bella. Il re è assai sensibile alla bellezza. Sono certa che sarà affascinato da voi.» «Io comincio a dubitarne,» pensò Angelica, mentre il cuore le batteva in modo disordinato. Lo splendido scenario di Versailles la incoraggiava a spingere sino in fondo la propria audacia. Era pazza, assolutamente pazza. Ma tanto peggio! Non avrebbe agito come il corridore che si accoscia a pochi metri dalla mèta... Dopo un sorriso alla signora Scarron, si lanciò attraverso la galleria, camminando così in fretta che Flipot, dietro di lei, perdeva il fiato. Mentre giungeva a metà strada, spuntò dall'altra parte un gruppo di persone che parve farlesi incontro. Anche a quella distanza, Angelica riconobbe subito, al centro dei cortigiani, la maestosa figura del re. Reso più alto dai tacchi rossi e dall'abbondante parrucca, Luigi XIV si distingueva dagli altri per un'ammirevole arte del camminare. Inoltre, nessuno meglio di lui sapeva servirsi di quei lunghi bastoni da passeggio di cui egli lanciava la moda e che, sino allora, sembravano riservati ai vecchi e agli infermi. Egli ne faceva uno strumento di sicurezza, di bell'atteggiamento e anche, nel suo caso, di seduzione. Avanzava dunque, appoggiato al bastone di ebano dal pomo d'oro, scambiando allegre parole con le due principesse che gli stavano ai fianchi: Enrichetta d'Inghilterra e la giovane duchessa d'Enghien. Quel giorno, la favorita in titolo, Luisa di La Vallière,non partecipava alla passeggiata.
Sua Maestà non ne era scontento. La povera fanciulla diventava sempre meno decorativa. V'era ancora un certo piacere a ritrovarla nella intimità. Ma, in quelle belle mattine in cui gli splendori di Versailles sbocciavano, il pallore e la magrezza della signorina di La Vallière pareva si accentuassero. Meglio ch'ella se ne restasse nel suo ritiro, dov'egli l'avrebbe presto raggiunta per informarsi della sua salute. La mattinata era davvero splendida e Versailles meraviglioso. Ma non era la stessa dea della primavera che veniva verso di lui nella persona di quella donna sconosciuta?... Il sole le poneva intorno al capo un'aureola e i gioielli le scorrevano fino alla vita come perle di rugiada... Angelica si era subito resa conto che, se fosse tornata indietro, si sarebbe coperta di ridicolo. Seguitava perciò ad avanzare, ma sempre più lentamente, con quella strana sensazione d'impotenza e di fatalità che si prova a volte nei sogni. Nella nebbia che la circondava, non distingueva più che il re e lo fissava come attratta da una calamita. Se avesse voluto abbassare gli occhi, non lo avrebbe potuto. Era ormai così vicina a lui come, un tempo, in quella stanza oscura del Louvre dove l'aveva affrontato, e tutto in lei si aboliva all'infuori di quel tremendo ricordo. Non aveva neppure coscienza dello spettacolo che offriva, sola al centro di quella galleria inondata di luce, con le vesti magnifiche, la sua aperta e calda bellezza, la sua affascinata espressione. Luigi XIV si era fermato e, dietro di lui, i cortigiani. Lauzun, che aveva riconosciuto Angelica, si morse le labbra, nascondendosi, felice, dietro gli altri. Avrebbe assistito a una scena sorprendente! Con molta cortesia, il re si tolse il feltro ornato di piume color fuoco. Facilmente colpito dalla bellezza delle donne, la tranquilla arditezza con la quale costei lo fissava con occhi di smeraldo lo affascinava invece di irritarlo. Chi era?... Come mai non l'aveva prima notata?... Intanto, seguendo un impulso, Angelica riusciva e prostrarsi in una splendida riverenza. Semi inginocchiata, avrebbe voluto non rialzarsi più, ma, con gli occhi irresistibilmente attratti dal viso del re, si risollevò. Lo guardava, senza volere, in modo provocante. Il re ne era stupito. V'era qualche cosa d'insolito nell'atteggiamento di quella sconosciuta, e anche nella sorpresa e nel silenzio dei cortigiani. Volse uno sguardo intorno, aggrottò leggermente le ciglia. Angelica credette di svenire. Le mani presero a tremarle sotto le pieghe del vestito. Era senza forza, perduta.
In quel momento, una mano prese la sua, gliela strinse da farla gridare, ciò che la rianimò di colpo, mentre la voce di Filippo diceva, calmissima: «Sire, Vostra Maestà mi conceda l'onore di presentarle mia moglie, la marchesa del Plessis-Bellière.» «Vostra moglie, marchese?» disse meravigliato il re. «La notizia è sorprendente. Avevo, sì, udito qualche cosa del genere, ma mi aspettavo che sareste venuto voi stesso a parlarmene...» «Sire, non mi è parso necessario informare Vostra Maestà di una cosa così poco importante.» «Poco importante, un matrimonio? State attento, marchese, che non vi oda il signor Bossuet!... E queste dame! Per San Luigi, da quando vi conosco, ancora mi chiedo, a volte, di che stoffa siate fatto. Sapete che la vostra discrezione nei miei riguardi è quasi un'offesa?...» «Sire! Sono davvero spiacente che Vostra Maestà interpreti così il mio silenzio. La cosa era tanto poco importante!» «Tacete, signore, la vostra incoscienza oltrepassa i limiti e non vi permetterò neppure per altri cinque minuti di dire così spiacevoli cose dinanzi a questa affascinante signora ch'è vostra moglie. Parola mia, non siete che un soldataccio. Signora, che ne pensate di vostro marito?» «Cercherò di accontentarmene, Sire,» rispose Angelica che, durante quel dialogo, aveva ripreso un po' d'animo. Il re sorrise: «Siete una donna ragionevole. E, inoltre, assai bella. Le due cose non vanno sempre d'accordo! Marchese, ti perdono per la buona scelta che hai fatto... e per i suoi begli occhi. Occhi verdi?... Un colore raro, che non ho avuto occasione di ammirare sovente. Le donne dagli occhi verdi sono...» S'interruppe, stette un attimo sovra pensiero, osservando attentamente il viso di Angelica. Il suo sorriso scomparve e tutta la persona del monarca parve immobilizzata come colpita dal fulmine. Sotto gli occhi dei cortigiani, dapprima perplessi, poi spaventati Luigi XIV impallidì. La cosa non poté sfuggire a nessuno. perché il re era di carnagione sanguigna e il suo chirurgo lo salassava spesso. In pochi secondi, divenne bianco come la gala della sua camicia, per quanto i suoi lineamenti restassero immobili. Angelica, smarrita, lo guardava di nuovo e, senza volerlo, in maniera provocante, come certi bambini colpevoli guardano colui dal quale deve venir loro il castigo. «Non siete forse originaria del Sud, signora?» chiese il re con improvvisa rudezza. «Di Tolosa?...»
«No, Sire, mia moglie è originaria del Poitou,» disse subito Filippo. «Suo padre è il barone di Sancé di Monteloup, le cui terre si stendono nelle vicinanze di Niort.» «Oh! Sire, confondere una dama del Poitou con una del Sud!» esclamò Atenaide di Montespan scoppiando in una delle sue belle risate. «Voi, sire!» La bella Atenaide si sentiva già abbastanza nelle grazie del re per non indietreggiare dinanzi a un'audacia del genere. Ogni imbarazzo scomparve. Il re ritrovò il suo colorito abituale. Sempre padrone di sé, lanciò un'occhiata divertita ad Atenaide. «Ë vero che le donne del Poitou sono affascinanti,» sospirò. «Ma state attenta, signora, che il signor di Montespan non sia costretto a misurarsi con tutti i guasconi di Versailles. Costoro potrebbero volersi vendicare dell'insulto fatto alle loro donne.» «Un insulto, sire? Non era certo nelle mie intenzioni. Volevo soltanto dire che, se il fascino delle due razze è uguale in qualità, non è però confondibile. Vostra Maestà mi perdoni questa umile osservazione.» Il sorriso dei grandi occhi azzurri era senz'altro contrito, ma certo irresistibile. «Conosco la signora del Plessis da molti anni,» continuava la signora di Montespan. «Siamo state allevate insieme. La sua famiglia è imparentata alla mia...» Angelica, per tutta la vita, non avrebbe mai dimenticato quanto doveva ad Atenaide di Montespan. Qualunque fosse .stato il motivo cui la giovane donna aveva obbedito, ella aveva salvato la sua amica. Il re s'inchinò di nuovo, con un sorriso rasserenato, dinanzi ad Angelica del Plessis. «Ebbene!... Versailles è lieta di accogliervi, signora. Siate la benvenuta.» E aggiunse a bassa voce: «Siamo felici di rivedervi.» A quelle parole, ella capì che l'aveva riconosciuta ma che la riceveva e desiderava cancellare il passato. La fiamma di un rogo sembrò ardere un'ultima volta fra loro. Prostrata in una profonda riverenza, Angelica sentì un fiotto di lagrime gonfiarle le palpebre. Per fortuna, il re aveva ripreso a camminare. Ella poté rialzarsi, asciugarsi furtivamente gli occhi e gettare uno sguardo impacciato verso Filippo.
«Come posso ringraziarvi, Filippo?» «Ringraziarmi!» diss'egli fra i denti, con le mascelle serrate dall'ira. «Ma era il mio nome che dovevo difendere dal ridicolo!... Siete mia moglie, perbacco! Vi prego di pensarci, da questo momento... Arrivare in questo modo a Versailles! senza invito! senza presentazione!... E guardare il re con una sfacciataggine!... Nulla può dunque abbassare la vostra infernale sfrontatezza? Avrei dovuto uccidervi l'altra sera.» «Oh! ve ne prego, Filippo,» fece lei con un gesto del ventaglio, «non rovinatemi questo bel giorno!» Erano giunti, seguendo gli altri cortigiani, nei giardini. L'azzurro del cielo, i getti d'acqua, lo splendore del sole che si frangeva sulla superficie delle due grandi vasche della terrazza superiore, abbagliarono Angelica. Le pareva di camminare in un paradiso, dove tutto era lieve e ordinato secondo la segreta armonia degli antichi elisi. Dall'alto dei gradini che dominavano una vasca a piramide tonda, ella poteva vedere lo stupendo disegno dei grandi alberi a scacchiere, circondati dalla farandola delle bianche statue di marmo. Le aiuole gettavano intorno e fino all'orizzonte le loro multicolori tappezzerie. Angelica, con le mani giunte sulle labbra in un gesto d'infantile fervore, restava immobile, piena di un'estasi in cui l'entusiasmo dei suoi sogni si confondeva con una sincera ammirazione. Il lieve zefiro le muoveva sulla fronte le bianche piume dell'acconciatura. In fondo ai gradini, giungeva la carrozza del re. Ma, sul punto di salirvi, egli tornò sui suoi passi, salì di nuovo la scalinata. Angelica se lo vide d'improvviso a fianco, solo accanto a lei, perché, con un gesto appena percettibile, egli aveva trattenuto gli altri in disparte. «Ammirate Versailles, signora?» disse il re. Angelica s'inchinò e rispose con molta grazia: «Sire, ringrazio Vostra Maestà di aver messo tanta bellezza sotto gli occhi dei sudditi. La storia gliene sarà riconoscente.» Luigi XIV restò un poco in silenzio, non perché fosse turbato dalle lodi cui era abituato, ma perché ciò che voleva dire non gli era facile. «Siete felice?» chiese infine. Angelica volse via gli occhi e, nel sole e nel vento, parve a un tratto più giovane, quasi infantile, come una fanciulla che non abbia conosciuto né
pene, né tormenti. «Come non essere felici, a Versailles?» «Allora, non piangete più,» disse il re; «e fatemi il piacere, oggi, di venire nella mia carrozza. Desidero mostrarvi il parco.» Angelica pose la mano in quella di Luigi XIV e, con lui, scese i gradini della vasca di Latona; i cortigiani s'inchinavano al loro passaggio. Mentre ella sedeva accanto ad Atenaide di Montespan, di fronte alle due principesse e a Sua Maestà, scorse il volto del marito. Filippo la fissava con una espressione enigmatica non priva di un improvviso interesse. Cominciava a rendersi conto di avere sposato un vero fenomeno. Angelica avrebbe potuto volare, tanto si sentiva leggera. L'avvenire, ai suoi occhi, era azzurro come l'orizzonte. Diceva a se stessa che i suoi figli non avrebbero mai più conosciuto la miseria. Sarebbero stati educati all'Accademia del Mont-Parnasse e sarebbero divenuti due gentiluomini. Angelica sarebbe stata una delle più festeggiate donne della corte. E, poi che il re ne aveva espresso il desiderio, avrebbe cercato di cancellare l'amarezza dal suo cuore. Nel profondo dell'anima, Angelica sapeva che il fuoco dell'amore che l'aveva consumata, il terribile fuoco che aveva consumato il suo amore non si sarebbe mai spento. Sarebbe durato tutta la vita. La Voisin lo aveva detto. Ma il destino, che non era ingiusto, voleva che Angelica facesse una sosta, per un certo tempo, sulla collina incantata, per potervi riacquistare forza nell'ebbrezza del successo e nel trionfo della sua bellezza. Più tardi, avrebbe ripreso il cammino della sua avventurosa esistenza. Ma, ora, non aveva più paura di nulla. Era a Versailles! FINE