IL MULINO RICERCA
GAETANO KANIZSA !
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VEDERE E PENSARE
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INDICE
Premessa
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Vedere e p...
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IL MULINO RICERCA
GAETANO KANIZSA !
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Cs
VEDERE E PENSARE
IL MULINO
,I
S
INDICE
Premessa
I.
Vedere e pensare
9
p.
15
1. Una premessa per evitare fraintendimenti. 2. «Sense data» o oggetti visivi? - 3. «Vedere» in senso stretto. - 4. Percezione come «problem-solving». - 5. Completamento percettivo e completamento mentale. - 6. La tesi «interpretazionista» è falsificabile? - 7. Appunti di metodologia: contro il «soggetto ingenuo».
II.
La presenza amodale
45
1. Vedere e pensare: una dicotomia solo fenomenica? - 2. La presenza amodale: un fenomeno da rivalutare. - 3. Effetti funzionali del completamento amodale. - 4. Uno strumento di analisi. 5. Osservazioni conclusive.
III.
Comunicare per immagini
77
1. Percezione naturale e percezione pittorica. 2. Doppia natura dei completamenti da sovrapposizione. - 3. Continuazione amodale e rappresentazione pittorica. ISBN 88-15-02921-4
IV. Copyright © 1991 by Società editrice il Mulino, Bologna. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.
Le ambiguità della pregnanza
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1. La pregnanza: l'eredità più cospicua e più contestata della Gestalttheorie. - 2. Una prima ambi-
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guità: pregnanza come «singolarità» e pregnanza come «semplicità e stabilità». - 3. Una seconda ambiguità: tendenza alla semplicità del process~ e tendenza al risultato singolare. - 4. SegmentazlOne precategoriale del campo visivo e identificazione degli oggetti visivi. - 5. Le «prove» della tendenza alla singolarità. - 6. Considerazioni conclusive.
VIII. La validazione delle diagnosi di personalità 1. Valutazione intuitiva della personalità. - 2. I reattivi caratterologici. - 3. I criteri di validazione. - 4. Descrizione dell'indagine. - 5. Esposizione dei risultati. - 6. Discussione dei risultati.
Riferimenti bibliografici V.
È mascherato solo ciò che può essere smascherato
289
319
149
1. Paradosso o sofisma? - 2. Quando una struttura è mascherata. - 3. Le «textures». - 4. Altre tecniche di mascheramento. - 5. In conclusione.
VI.
L'attrazione fenomenica
187
1. Introduzione. - 2. Modalità sperimentali. 3. L'Effetto Attrazione. - 4. Forme di attrazione e fenomeni analoghi. - 5. Considerazioni teoriche. - 6. Conclusioni.
VII. La percezione della reazione intenzionale
225
A. Posizione e storia del problema
225
1. Premessa. - 2. Heider e Simmel. - 3. Michotte. - 4. Minguzzi. - 5. Una classificazione dei movimenti. - 6. Programma della ricerca ed esperimenti preliminari.
B. Contributo sperimentale
247
1. Descrizione di un caso tipico di movimento «reattivo». - 2. Il rapporto fra le velocità dei due mobili. - 3. La velocità assoluta dei due mobili. 4. I fattori temporali. - 5. La distanza fra i due mobili. - 6. Lo spazio percorso dai due mobili. 7. Il raggio d'azione. - 8. La polarizzazione dei movimenti. - 9. Altre condizioni. - 10. Riepilogo.
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PREMESSA
Il tema che dà il titolo allibro e che, da varie angolature, viene affrontato nei saggi che lo compongono è sempre stato nel fuoco del mio interesse scientifico per la percezione visiva. Il rapporto tra «vedere» e «pensare», cioè tra la elaborazione primaria o, come viene anche chiamata, preattentiva o precategoriale, dell'input visivo ed i processi cosiddetti superiori che in o su quella elaborazione intervengono, è una questione tutt'altro che pacifica. Non c'è accordo sul ruolo che, nel costituirsi del mondo visivo, hanno questi due tipi di attività cognitiva. Il dissenso principale è tra chi le considera come attività di due sistemi autonomi che interagiscono senza perdere nell'interazione la propria specificità, e chi invece nega che si possa parlare di distinzione e di autonomia, perché si tratterebbe di aspetti o momenti indistinguibili di una globale attività cognitiva. In quest'ultimo caso non avrebbe senso chiedersi che parte abbia il pensiero nel processo percettivo, poiché esso (sotto forma di categorizzazioni, schemi anticipatori, congetture, inferenze) pervaderebbe ogni fase del processo, a partire dalla formazione stessa degli oggetti visivi. Non esisterebbe alcun momento del vedere in cui non sia presente una qualche traccia di attività razionale, anche se soltanto sotto forma di un ragionamento o giudizio inconscio. Ho sempre pensato e penso tuttora che il ricorso ai giudizi inconsci sia un modo non di risolvere ma di eludere un problema, dichiarandolo inesistente. Perciò preferisco la prima ipotesi, non tanto perché sono convinto che sia vera, ma perché la ritengo almeno verifica bile , mentre i giudizi 9
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inconsci sono per definizione destinati ad essere inverificabili per sempre. Infatti, se l'organizzazione primaria è impermeabile alle influenze provenienti da altri sistemi, se quindi le attività di tipo razionale, pur operando sui dati forniti dal sistema visivo, non possono però interferire nella loro formazione né sono in grado di modificarli, allora ci possiamo sensatamente porre alcuni interrogativi: a) Secondo quali principi avviene la formazione degli oggetti nel sistema o «modulo» visivo, quali sono le leggi dell'organizzazione propriamente visiva, del vedere in senso stretto? b) Queste leggi sono identiche, simili, o diverse da quelle valide nell'ambito del «pensiero»? c) È possibile accertare una qualche influenza delle istanze razionali sulla formazione degli oggetti visivi e, in caso affermativo, quali sono le condizioni ed i limiti di tale azione? Sono problemi sensati perché per affrontarli è possibile escogitare situazioni concrete nelle quali la natura è costretta a dare una risposta. Mi sono posto spesso interrogativi di questo genere e la maggior parte delle mie ricerche, da quelle contenute nella Grammatica del vedere a quelle qui raccolte, sono tentativi di trovare a quegli interrogativi risposte che non siano meramente speculative ma nascano sul terreno empirico della fenomenologia sperimentale. Nel corso di queste ricerche mi sono spesso servito del completamento amodale come di un utile strumento di indagine e, un po' alla volta, mi sono convinto che un fenomeno talmente onnipresente nell'esperienza quotidiana merita un'attenzione maggiore di quanta gli viene in genere prestata. Così, accanto al tema dei rapporti tra vedere e pensare, il completamento amodale è diventato per me un altro soggetto privilegiato di ricerca. A questo tema sono dedicati in particolare il secondo ed il terzo capitolo. Sono certo che valga la pena continuare a lavorare in questa direzione. Come risulta dalla nota che segue, alcuni articoli sono firmati anche da Metelli, da Vicario, da Gerbino e da Luccio. La revisione di questi lavori, prima della loro ristampa, 10
mi ha fatto riandare con la mente a momenti felici della mia vita di scienziato. Infatti poche esperienze nella mia attività di ricerca sono state così gratificanti come lavorare sperimentalmente e discutere creativamente con gli amici che ho avuto la fortuna di avere per collaboratori. Ricordo con nostalgia soprattutto i periodi trascorsi nel laboratorio di Padova a studiare con Metelli le condizioni nelle quali si produce l'attrazione fenomenica, e le lunghe giornate passate nell'Istituto di Trieste a cercare di individuare con Vicario i sottili mutamenti nelle strutture cinetiche che trasformano un declenchement fenomenico iq una reazione intenzionale. Un lavoro molto artigianale, con il metodo dei dischi di Michotte, che richiedeva ingegnosità, tempo e tanta pazienza. Allora non c'erano ancora i computer che avrebbero certamente semplificato ed abbreviato il nostro lavoro, anche se probabilmente Ci avrebbero tolto una buona parte del divertimento. Devo aggiungere che se non ho continuato a coltivare questo promettente filone di ricerca sulla espressività dei movimenti, che avevo iniziato ad esplorare con Metelli, Vicario e Minguzzi, è proprio perché, non essendo disponibili all'epoca tecniche agili quali la computer grafica, mi sono arreso di fronte all'ostacolo costituito dalla complicatezza e dal costo dei procedimenti che si potevano allora utilizzare, e cioè la produzione meccanica dei movimenti o, in alternativa, il film di animazione. Anche questi lavori, riprodotti nel sesto e nel settimo capitolo, affrontano, accanto ai temi specifici dell'attrazione fenomenica e della reazione intenzionale, il problema del rapporto tra vedere e pensare. Il modo più semplice di spiegare l'espressività dei movimenti è quello di attribuirla all'azione assimilatrice del sistema di conoscenze: un certo tipo di movimento o una certa sequenza di movimenti ricorda, somiglia, è associata ad una situazione espressiva incontrata nel passato, perciò acquista per assimilazione quella qualità .espressiva. Ma affinché un evento del presente possa richiamare un evento del passato e venire ad esso assimilato, è necessario che anzitutto esista, che sia «presente» come entità visiva. Deve inoltre essere simile, cioè possedere una 11
struttura isomorfa, all'evento rievocato. Gli esperimenti sulla attrazione e sulla reazione fenomeniche erano diretti a individuare le condizioni spazio-temporali che danno luogo a queste impressioni. Ed è risultato che la loro comparsa non è arbitraria né casuale, ma che soltanto ben· precise strutture cinetiche sono in grado di innescare una elaborazione cognitiva che porta a determinate interpretazioni. Anche questi due lavori rientrano dunque nel tema generale del libro in quanto guardano al vedere come ad una premessa o precondizione del pensare. Mi resta da spiegare perché ho voluto includere una ricerca che non rientra nello schema generale del libro, in quanto non si occupa del vedere. Non riguarda il vedere ma riguarda certamente il pensare, perché i suoi risultati dimostrano quanto sia facile far accettare alla gente come veritiere affermazioni anche molto impegnative, senza che venga fornita alcuna seria garanzia sulla attendibilità scientifica dei procedimenti con cui quelle affermazioni sono state ottenute. È una ricerca antica di cui nessuno si ricorda, ma che ritengo istruttiva ancor oggi. Anzi, forse oggi più di ieri, perché da molti segni sembra che vada aumentando l'in~ teresse acritico per tutti i tipi di pseudoscienze, soprattutto per quelle che sostengono di essere in grado di diagnosticare il carattere, la personalità o lo stato di salute. Questa sorprendente facilità a credere nella fondatezza di simili pseudodiagnosi ricavate dalla interpretazione dei «segni» più svariati ed improbabili sta anche alla base della fiducia nell'efficacia di interventi terapeutici condotti con procedure altrettanto prive di un serio fondamento scientifico. Comunque, indipendentemente dal suo eventuale valore di attualità, è una ricerca che mi ha divertito quando l'ho fatta e che spero sia trovata divertente anche da coloro che la leggeranno.
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Fonti
I capitoli del libro riproducono, con alcune non sostanziali modifiche, articoli già apparsi in diverse occasioni e sedi. E precisamente: Cap. I: Vedere e pensare, in «Ricerche di Psicologia», 4, 1984. Cap. II: Il completamento amodale tra vedere e pensare, in «Giornale Italiano di Psicologia», 8, 1981 (in collaborazione con W. Gerbino). Cap. III: Comunicare per immagini: problemi di lettura percettiva, in: Linguaggi visivi, Storia dell'Arte, Psicologia della Percezione (a cura di L. Cassanelli), Roma, Multigrafica Editrice, 1988. Cap. IV: La pregnanza e le sue ambiguità, in «Psicologia italiana», 1, 1985 (in collaborazione con R. Luccio). Cap. V: È mascherato solo ciò che può essere smascherato, in Sul mascheramento visivo (a cura di G. Kanizsa e G.B. Vicario), Padova, Cleup, 1982. Cap. VI: Récherches expérimentales sur la perception visuelle d'attraction, in «Ioumal de Psychologie», 4, 1961 (in collaborazione con F. Metelli). Cap. VII: La percezione della reazione intenzionale, in Ricerche sperimentali sulla percezione, (a cura di G. Kanizsa e G. Vicario), Trieste, Pubblicazioni dell'Università, 1968 (in collaborazione con G. Vicario). Cap. VIII: Sulla validazione delle diagnosi di personalità, in «Archivio di Psicologia Neurologia e Psichiatria», 14, 1953.
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CAPITOLO PRIMO
VEDERE E PENSARE
1. Una premessa per evitare fraintendimenti Gli occhi ci mettono in contatto con il mondo esterno, ci informano sulla presenza in esso di cose lontane da noi, fuori dalla portata delle nostre mani e dal raggio d'azione degli altri organi sensoriali. In questo senso il vedere è senza dubbio una forma di conoscenza, uno strumento del conoscere. Altre forme più evolute di conoscenza sono le operazioni con cui la mente integra e va oltre le informazioni che l'organismo raccoglie mediante la percezione. Operazioni di astrazione, categorizzazione, inferenza che nel loro insieme chiamiamo «pensare». Mentre dunque vedere e conoscere sono termini che non si riferiscono ad attività in qualche modo contrapposte o che si escludono a vicenda, esiste un problema per quanto riguarda il rapporto tra vedere e pensare. Il rapporto tra queste due forme di conoscenza è un problema antico e complicato che la psicologia ha ereditato dalla riflessione filosofica. Un problema che è ben lungi dall'aver trovato una soluzione unanimamente accettata dato che per alcuni le due attività sono qualitativamente differenti e governate da leggi diverse, per altri non sussistono differenze sostanziali perché ambedue i processi obbedirebbero alle stesse regole e, più precisamente, nella percezione visiva sarebbero rintracciabili, almeno in embrione, le medesime leggi che presiedono al pensiero. Se si facesse un referendum tra gli studiosi di percezione, sono certo che il secondo punto di vista risulterebbe di 15
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gran lunga il più diffuso. Per quanto mi riguarda, farei in questo caso parte della minoranza. So anche, per lunga esperienza, che tra i sostenitori di queste due posizioni esistono notevoli difficoltà di comunicazione, tanto che può sembrare che essi siano per così dire impermeabili alle reciproche argomentazioni. Tra le possibili cause che possono essere considerate responsabili di tale incomunicabilità, le principali mi sembrano essere le seguenti: a) Sono convinto che, come spesso avviene nelle discussioni infruttuose, l'incomprensione reciproca sia dovuta, oltre che alla radicale diversità delle impostazioni teoriche di fondo, anche al diverso significato attribuito ai concetti intorno ai quali si discute. Nel nostro caso è il concetto di «percezione» che sembra non essere chiaramente definito, dato che troppo spesso si ha la netta impressione che gli interlocutori stiano parlando di cose diverse. Si può avere una definizione estensiva per cui con «percezione visiva» si intende l'intero processo che, a partire dalla registrazione sensoriale, porta al mondo articolato degli oggetti visivi, al loro riconoscimento ed alla loro interpretazione. Poiché la concreta attività cognitiv:a ci si presenta come un processo unitario nel quale ogni distinzione può sembrare arbitraria e artificiosa, ci sono buone ragioni che giustificano un uso così ampio del termine. Ma è chiaro che, se è questo che si intende per «percezione», è ozioso domandarsi se nel vedere siano individuabili operazioni caratteristiche del pensare, poiché data quella definizione la risposta non può che essere affermativa. E ciò per la semplice ragione che in tal caso nel processo si deve necessariamente trovare quello che vi è stato messo. Eppure c'è qualcosa di insoddisfacente in questo uso allargato del concetto. Ed è il fatto che, ponendo l'accento su quegli aspetti che possono essere assimilati alle operazioni del categorizzare e dell'inferire tipiche del pensare, rimane in ombra l'aspetto peculiare che differenzia questo processo da altri processi cognitivi, cioè l'aspetto per cui parliamo di percezione visiva. Infatti ciò che caratterizza la percezione 16
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visiva non sono quelle operazioni mentali, ma il fatto che esse si svolgono mediante il o accompagnate dal vedere. Tutte quelle operazioni possono avvenire anche senza essere accompagnate dal vedere. Si può cioè pensare senza vedere: il cieco certamente non vede ma altrettanto certamente pensa, cioè usa concetti, ricorda, inferisce, ragiona. Perciò il termine «percezione visiva» può avere una accezione più ristretta e riferirsi soltanto a quella forma di attività conoscitiva - fenomenicamente diversa e logicamente distinguibile da altri modi di conoscere - che nell'uso comune viene chiamata «vedere». Se l'esistenza di una parola è dovuta alla esigenza di distinguere un' oggetto, un evento, un'idea da altri oggetti, eventi o idee, allora il fatto che in tutte le lingue esistano due parole diverse per designare il «vedere» e il «pensare» indica che si tratta di due attività che gli uomini sentono come diverse. Anche se non sono sempre in grado di darne una definizione esatta, tutti sanno che cosa intendono quando dicono di vedere una cosa e quando invece dicono di pensarla. Solo se si usa il termine «percezione visiva» in questa accezione più ristretta - intendendo riferirsi a ciò che giustifica l'attributo di visivo ad un atto conoscitivo - diventa sensato porsi il problema dei suoi rapporti con il pensare. b) Una seconda fonte di disturbi comunicativi proviene dalle diverse finalità che vengono assegnate allo studio del vedere. Il vedere è, per chi ha occhi, la cosa più semplice e naturale del mondo, come il respirare per chi ha polmoni. Le difficoltà sorgono quando, a proposito del vedere, ci si pongono alcune domande. Le domande che, in ordine di tempo, gli uomini si sono poste per prime sono all'incirca: «In quale misura ciò che vediamo corrisponde a ciò che è? Fino a che punto possiamo fidarci dei nostri occhi? Quanto sono attendibili e veridiche le informazioni che ci dà la vista?» È il problema gnoseologico, il problema del rapporto . tra il fenomenico ed il transfenomenico, intorno al quale - . dai presocratici ai giorni nostri - si sono affaticati i filosofi di tutte le epoche. Un secondo tipo di domande può essere così formulato: «Come è possibile il vedere? Quali sono le 17
sue leggi? Da quali fattori è influenzato? Quali sono i rapporti tra il vedere e le altre attività psicologiche?» In questo caso l'interesse si sposta dal vedere come strumento di conoscenza al vedere come oggetto di conoscenza. Ma studiare il vedere come fenomeno naturale. e discuterne il valore conoscitivo sono due imprese distinte. La prima è un compito della ricerca empirica (se si vuole: un'impresa scientifica), la seconda è un compito della riflessione filosofica. Nella ricerca sulla percezione visiva non sempre questi due compiti rimangono, come a me sembra che debbano rimanere, ben distinti. Molto spesso all'interesse per la natura del vedere e per la determinazione delle leggi che lo governano si intrecciano preoccupazioni di tipo gnoseologico che riguardano la veridicità della percezione, la precisione e la qualità delle informazioni che essa ci fornisce. Anche l'insufficiente attenzione a tenere separati questi due ordini di problemi contribuisce alle incomprensioni e alla sterilità delle discussioni. c) Un'altra fonte di possibili incomprensioni riguarda il livello di analisi al quale si ritiene vada ricercata la «spiegazione» dei fatti visivi. Negli ultimi decenni sono stati compiuti enormi progressi nell'indagine sulle basi neurofisiologiche della visione. Molti scienziati, giustamente entusiasmati da questi successi, sembrano convinti che ormai sia aperta la via che ci porterà, in tempi più o meno lunghi, ad una completa comprensione dei fenomeni della percezione visiva. Ad altri questa certezza non appare giustificata. Alla radice del disaccordo ci sono valutazioni di natura epistemologica. Da una parte si può credere che quando sia stato scoperto il correlato neurofisiologico di un fenomeno lo si sia per ciò stesso spiegato. Si può invece ritenere che il vedere costituisca un livello di realtà che - pur essendo causalmente legato all'attività del settore ottico del cervello - non è ad esso riducibile. Da questo secondo punto di vista, la più completa conoscenza dei processi che si svolgono al livello di realtà neurofisiologica non sarà mai sufficiente a «spiegare» le proprietà emergenti di questi processi: i fenomeni visivi, il vedere come esperienza psicologica cosciente. 18
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È evidente che se le diverse opzioni a proposito dei punti sopra esaminati (ampiezza di significato con cui il termine «percezione» viene usato, finalità che vengono poste allo studio del vedere, livello di analisi a cui viene ricercata una spiegazione) non vengono esplicitamente dichiarate, è difficile che non sorgano fraintendimenti. E, per limitare le possibilità di essere frainteso, dichiaro che in seguito: i) userò il termine «percezione» nella sua accezione ristretta, ii) che non intendo discuterne la veridicità, ma mi pongo nell'ottica di chi vuole trovare le leggi del suo funzionamento, iii) che considero i fenomeni visivi uI} dominio di realtà «emergente», non riducibile ad altri domini di realtà, da studiare quindi con i metodi della fenomenologia sperimentale adeguati alla sua specificità.
2. «Sense data» o oggetti visivi? Fatta questa premessa, vengo ora al tema dei rapporti tra vedere e pensare. Vedere significa avere di fronte a sé, «incontrare», un mondo segmentato in oggetti discreti, di varia grandezza, forma e colore, fermi o in movimento in uno spazio tridimensionale. Possiamo avere incertezza sulla loro identità, qualche oggetto può non essere visibile per intero perché parzialmente coperto da un altro oggetto, o può essere male illuminato, o presentare lacune, o può sparire troppo presto alla vista. In questi casi facciamo delle ipotesi sulla loro identità, cerchiamo altri dati per confermarle, integriamo mentalmente le lacune, interpretiamo in base alle nostre conoscenze o al contesto, e così via. Queste ipotesi ci vengono suggerite da _qualche caratteristica di ciò che vediamo e vengono confrontate con una «rappresentazione interna» o «conoscenza del mondo» di cui il nostro sistema cognitivo deve essere fornito. Ma posso anche pensare ad una situazione nella quale, aprendo gli occhi, mi trovo circondato, oltre che da oggetti che sono in grado di riconoscere, da cose sconosciute. Non le ho mai viste, non so a che cosa servono, che cosa posso19
o HG. 1.1. Oggetti visivi facilmente categorizza bili e quindi descrivibili.
no fare. Come farò a dare un senso a una scena del genere? Immaginiamo di eseguire il seguente esperimento a cui prendono parte due soggetti. Il primo soggetto deve descrivere ciò che vede nella fig. 1.1 ad un secondo soggetto che deve disegnare la figura che non può vedere. Possiamo supporre che dirà all'incirca: «Ci sono quattro figure: la prima a sinistra è un triangolo equilatero nero di circa 2 cm. di lato, ecc .... ». In base a queste indicazioni il secondo soggetto sarà in grado di disegnare con buona approssimazione ciò che l'altro vede. Diamo ora al primo soggetto il compito di descrivere la figura 1.2. È molto improbabile che i risultati siano in questo caso anche lontanamente soddisfacenti. In che cosa differiscono le due situazioni? Nel primo caso riesco a descrivere le entità visive che ho davanti, perché ho in mente gli schemi a cui posso assimilarle, categorie nelle quali posso farle rientrare, spesso posso dar loro un nome. Nel secondo caso mi trovo davanti degli oggetti visivi sconosciuti, irregolari e perciò difficili da descrivere. Come avviene con le macchie di Rorschach, essi possono «ricordarmi» qualcosa, posso cercar di interpretarli. Una incoercibile ricerca di significato mi spinge a esplorarli e scrutinarli nel tentativo di farli rientrare in una categoria meno generica che quella di «oggetti visivi sconosciuti di forma irregolare». Ma onestamente: nonostante i miei sforzi per trovar loro un qualche significato, essi rimangono proprio entità visive sconosciute. D'altra parte - e ciò va sottolineato con forza - se la seconda situazione differisce dalla prima perché è priva di significato, non c'è differenza tra le due sotto l'aspetto specificamente visivo. Il non essere di sicura interpretazione non
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FIG. 1.2. Oggetti visivi sconosciuti, senza significato, ma perfettamente visibili e stabili per forma, colore, grandezza, rapporti spaziali.
impedisce a quegli oggetti visivi di esse~e quello che sono: forme nere su uno sfondo bianco ben delimitate da contorni netti. Non c'è significato ma c'è organizzazione, cioè segmentazione, articolazione, precisi rapporti spaziali, cromatici, dimensionali, topologici. Tutto meno che i sense data cari ai filosofi anglosassoni', materiale grezzo, disorganizzato oltre che privo di senso, «macchie di colore» in attesa di venir ordinate. Quali «schemi» o «anticipazioni», quale «rappresentazione interna» o «conoscenza del mondo» dobbiamo supporre agire in questo caso per dare a ciò che vedo proprio la forma che ha, stabile e netta, non ambigua anche se non classificabile con sicurezza? Ma se può esserci organizzazione senza significato, vuoI dire che anche nel caso della figura 1.1, che esemplifica la normalità della percezione visiva di ogni giorno, il significato viene attribuito ad una realtà visiva già segmentata in oggetti distinti e dotati di forma. Anche se il processo di incorporazione del significato non è in genere osservabile, il costituirsi dell'oggetto visivo deve necessariamente precedere il suo riconoscimento. Può essere riconosciuto solo in quanto già esiste.
3. «Vedere» in senso stretto Se codificazione, riconoscimento e interpretazione presuppongono necessariamente i dati visivi che sono oggetto di quelle operazioni, e se questi dati possiedono già una
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loro organizzazione, il problema che si pone a questo punto è quello della loro formazione. In altre parole: come si svolge il processo che porta proprio a quella organizzazione dell'input visivo? Come si formano gli indizi (cues) che devono essere interpretati? Occuparsi di questa fase dell'attività conoscitiva - che è stata chiamata in vario modo: processo primario o precategorico o preattentivo - significa per me studiare il vedere in senso stretto. Mentre, sempre secondo me, studiare Ili fase successiva di interpretazione (processo secondario) è già studiare il pensiero. Anche se è un pensiero che si esercita su materiale visivo. Sulla natura del processo primario l'ipotesi più accreditata è quella «interpretativa» o «raziomorfica» proposta da Helmholtz e adottata ai nostri giorni con sfumature diverse da numerosi studiosi. Per citare solo i più autorevoli: Ames, Arnheim, Bruner, Gregory, Hochberg, Rock e la maggior parte dei teorici dell'human information processing. Come è noto, secondo tale ipotesi non ci sarebbero differenze sostanziali, per quanto riguarda la loro natura, tra il processo di formazione dei cues (processo primario) ed il processo di interpretazione dei cues stessi. In ambedue i casi si tratterebbe di procedure raziomorfe, analoghe a quelle che in forma pura si riscontrano nel pensiero discorsivo e scientifico (operazioni di categorizzazione, formazione di ipotesi, produzione di inferenze). Pertanto le regole del ragionare dominerebbero il percepire in tutte le sue fasi: ciò che vediamo verrebbe non soltanto utilizzato dai processi inferenziali nella fase di interpretazione ma sarebbe anche il prodotto di inferenze inconscie nel processo primario. È una posizione ampiamente diffusa e che anche recentemente è stata sostenuta con ricchezza di argomentazioni da I. Rock nel suo The Logic of Perception [1983]. Ma è una tesi nient'affatto pacifica e che suscita qualche ben fondata perplessità. Infatti si può affermare che il sistema visivo segmenta la stimolazione prossimale in oggetti distinti con le loro specifiche forme, in base a calcoli probabilistici e a principi di raggruppamento e di segregazione che esso 22
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«conosce». Si può anche dire che gli oggetti che cosÌ si costituiscono esibiscono una notevole costanza di colore, di grandezza, di forma perché il sistema «conosce» ed applica le leggi dell'ottica, della geometria proiettiva, dell'analisi vettoriale. Ma ci si può anche chiedere quali vantaggi presenti questa formulazione (che richiede tra l'altro l'intervento di un homunculus) rispetto a quella che sostiene che il sistema visivo non conosce e non applica nessuna regola ma semplicemente funziona secondo principi che fanno parte della sua natura o, detto altrimenti, secondo principi in base ai quali è programmato. Si può ritenere che in fondo si tratti di una divergenza di carattere soprattutto speculativo, non dirimibile sul piano empirico. Ai fini pratici della ricerca empirica non sarebbe poi tanto importante decidere tra le due posizioni: aderire all'una piuttosto che all'altra sarebbe soltanto una questione di gusto o di preferenza personale. Ma se, come penso, lo scopo principale dello studio della percezione è la scoperta e la determinazione precisa dei principi e delle regole del suo funzionamento, dubito fortemente che la scelta sia davvero indifferente. In primo luogo, una caratteristica di una teoria «raziomorfica» è che non è facile confutarla, perché per qualunque rendimento percettivo si possono sempre trovare le procedure logiche che lo giustificano. La non-falsificabilità è senz'altro una debolezza di tale posizione ma, con tutto il rispetto per Popper, non sarebbe ancora una prova sufficiente che essa è sbagliata. La mia diffidenza nei suoi confronti non è alimentata tanto da considerazioni di natura epistemologica, quanto da preoccupazioni circa le conseguenze negative che essa può avere sul piano della motivazione alla ricerca. Mi sembra infatti una teoria tipicamente non euristica, poiché di qualunque fenomeno dà per scontata in anticipo la spiegazione. È quello che si chiama «spiegar via» un problema, cioè eliminarlo dando l'impressione che in realtà non c'è niente da spiegare.
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4. Percezione come «problem-solving»
Per una teoria raziomorfica della percezione ogni fenomeno visivo sarebbe dunque il prodotto di inferenze inconscie mediante le quali il sistema visivo partendo da un insieme di assiomi e di premesse (naturalmente inconscie) giunge, con un processo che ha fondamentalmente le caratteristiche di un ragionamento, a determinate conclusioni (che sono appunto i fenomeni visivi stessi). Una particolare categoria di fenomeni viene poi considerata come il risultato di processi simili a quelli di una vera e propria attività di problem-solving. Quando la stimolazione prossimale è plurivoca, può cioè essere «letta» in più di un modo, il sistema visivo si troverebbe nelle necessità di scegliere fra un certo numero di possibili soluzioni. La soluzione scelta sarebbe la più logica, la più coerente, parsimoniosa ed elegante tra quelle teoricamente possibili. Arnheim [1969] e Rock [1983] citano, come esempio particolarmente evidente di problem-solving percettivo, la trasparenza fenomenica che si instaura quando più superfici opache sono giustapposte in particolari condizioni. Altri esempi sarebbero la creazione di superfici anomale e gli effetti stereocinetici. Va anzitutto detto che non è la plurivocità in quanto tale l'aspetto che distingue queste situazioni da tutte le altre. Infatti la stimolazione prossimale è sempre potenzialmente ambigua, suscettibile in via teorica di essere segmentata in un numero indefinito di modi diversi. Direi piuttosto che ciò che può fare di queste situazioni una categoria speciale è il fatto che in esse la plurivocità è spesso fenomenicamente constatabile. Anche perché non è raro che in questi casi il rendimento percettivo attraversi tipicamente alcune fasi prima di stabilizzarsi. L'emergere fenomenico della plurivocità è una caratteristica che presentano anche tutte le situazioni reversibili o multistabili (figura-sfondo, cubo di Necker, mascheramento figurale, ecc.). Ma a parte queste considerazioni, che tuttavia hanno il loro peso, si ripropone ancora una volta il quesito sulla utilità di una definizione in termini di problem-solving. Dire 24
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che in questi casi il sistema visivo «risolve un problema» può essere accettato come un parlare per metafora. Oltre che nella poesia, le metafore possono essere utili anche nella scienza - a patto che rimangano tali e non vengano scambiate per spiegazioni. Ora, un problema presuppone per definizione la consapevolezza di un ostacolo che impedisce il raggiungimento di una meta. Risolvere il problema consiste nella scoperta del modo di superare l'ostacolo. Non esistono problemi nella natura, si ha un problema solo quando vi è una mente che vive una certa situazione come problemica. Come dicono Mosconi e D'Urso [1973]: «il problema si crea nella mente, sempre». Altrimenti q\Ialsiasi risultato finale di un processo naturale può essere considerato come la soluzione di un problema. In questo senso, anche di un uovo di gallina si può dire che è una costruzione perfettamente funzionale che rappresenta la soluzione di un certo numero di problemi fisici e biologici. Ma a chi verrebbe in mente l'idea che questa affermazione sia in qualche modo la «spiegazione» della formazione dell'uovo? E così, dire che quando vediamo la trasparenza questa è il risultato di un processo inconscio di problem-solving non aggiunge assolutamente niente alla comprensione del fenomeno. Per quanto riguarda la conoscenza delle leggi che lo determinano, delle condizioni che lo favoriscono e di quelle che lo ostacolano o lo rendono impossibile, ne sappiamo quanto prima. Una metafora non può sostituire una spiegazione. Senza contare che sarebbe comunque una spiegazione che ha il difetto di valere solo per i casi positivi. Quando un fenomeno non si verifica, si può sempre dire che il sistema non è in grado di risolvere il problema, che ha commesso qualche errore, che si è lasciato ingannare o che ha applicato in modo inappropriato una regola. Ma bisogna ammettere che è un modo non molto brillante di aggirare una difficoltà. In conclusione, non mi sembra epistemologicamente corretto il tentativo di attenuare, fino a farle scomparire, le differenze tra vedere e pensare ponendo l'accento sulle loro presunte analogie. Ma soprattutto, come ho già detto, non
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genere non sono eventi isolati, sono la regola nella nostra interazione quotidiana col mondo. Molto spesso si tratta di vere e proprie soluzioni di problemi, di decisioni a cui si perviene mediante ragionamenti, valutando gli indizi disponibili alla luce delle conoscenze e del contesto. Come quando decidiamo che una zona bianca che vediamo sul pendio della montagna di fronte a noi non è una macchia di neve ma l'intonaco di una baita. Questa decisione trasforma il significato della macchia ma non modifica per nulla il suo aspetto visivo. Per questa ragione non dobbiamo considerare percettive queste soluzioni, se vogliamo conservare al termine «percettivo» la sua specificità, riservandolo a quelle esperienze che viviamo come «incontrate», comé dati che troviamo di fronte a noi, in larga misura non influenzabili dai nostri atteggiamenti, dalle nostre conoscenze, dalla nostra volontà.. Quindi, quando il processo di interpretazione stabilisce nuovi collegamenti tra gli elementi di una scena o fa immaginare l'oggetto nascosto o coperto di cui è visibile solo una parte, senza che nulla di veramente percettivo si aggiunga ad essi, è preferibile parlare di integrazione o completamento mentale.
riesco a vedere i vantaggi di una simile operazione, mentre ne vedo i pericoli. Sostenere che un campo di fenomeni va spiegato mediante i principi validi in un altro campo non può avere, secondo me, un effetto stimolante sulla ricerca. Una teoria del genere, che in ultima analisi trascura o sottovaluta la specificità del vedere, rischia di spegnere la curiosità e la voglia di indagare fenomeni per i quali esiste sempre e comunque una spiegazione preconfezionata. Da questo punto di vista è preferibile mettere a fuoco le differenze perché queste, indicando la possibilità che i due campi di fenomeni obbediscano a regole diverse, possono metterci sulla strada della loro scoperta.
5. Completamento percettivo e completamento mentale
I fenomeni di completamento sono i più adatti a mettere in luce le analogie e le differenze tra vedere e pensare e per valutare quando ha senso parlare di soluzione di problemi e quando se ne può parlare solo in termini metaforici. E in questo secondo caso si può mostrare quanto spesso la metafora non regge. . a) Completamento mentale. Nell'attività cognitiva si va sempre oltre l'informazione sensoriale. I dati immediati della visione vengono identificati in base alle nostre conoscenze, vengono arricchiti mediante operazioni inferenziali basate su principi logici o su calcoli probabilistici. Anche una scena molto impoverita, lacunosa o in condizioni di scarsa illuminazione non rimane di norma priva di senso ma riceve una qualche interpretazione. Spesso è sufficiente un particolare minimo o l'inserimento in un contesto spazi aIe o temporale perché avvenga l'identificazione e il riconoscimento. Un bravo. caricaturista riesce a suggerire un personaggio con un UnICO tratto di penna, siamo in grado di riconoscere un amico dalla sola andatura, la vista di una coda o di una zampa ci avverte della presenza di un determinato animale e così via. Integrazioni ed interpolazioni cognitive di questo
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b) Completamento percettivo. Oltre e accanto alle integrazioni cognitive esistono anche le interpolazioni percettive, quando l'integrazione è cioè direttamente visibile, ha il carattere di una presenza «reale», non solo immaginata o pensata. I fenomeni più noti di interpolazione percettiva sono il movimento beta, il completamento della zona corrispondente alla macula cieca, la comparsa di oggetti visivi stereoscopici con stereogrammi di punti disposti casualmente, la formazione di superfici anomale. Un onnipresente fenomeno di integrazione percettiva è la continuazione amodale di una superficie visiva dietro ad un'altra superficie. Quando nella stimolazione prossimale due regioni contigue hanno un margine in comune, nella percezione visiva si ha tipicamente sovrapposizione parziale di due superfici. Si può sostenere che la sovrapposizione è il
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risultato di un processo raziomorfo. Nell'esperienza di ogni giorno avviene continuamente che un oggetto occulti alla vista una parte di un altro oggetto, mentre è molto più raro che una linea visiva corrisponda al margine comune di due oggetti giustapposti. Quindi è altamente probabile che il confine che separa due regioni del campo visivo corrisponda al margine di una superficie occludente dietro alla quale continua la superficie occlusa. In base a questo «ragionamento» la figura 1.3 viene interpretata (e quindi vista) come A sopra B. Una spiegazione alternativa, che non ipotizza alcun ragionamento da parte del sistema visivo, può essere: una linea nel campo visivo tende a rifiutare una doppia funzione, cioè a servire contemporaneamente da margine a due superfici. Per questa ragione, nella figura 1.3, m è margine della regione A; ergo in quella zona la regione B è senza margine, non finisce lì, quindi continua sotto o dietro ad A. La continuazione è amodale, cioè senza gli attributi cromatici della modalità visiva, ma è una presenza genuinamente percettiva, che cioè si impone coercitivamente e non può essere modificata a volontà come una presenza solo pensata. Si pongono a questo punto due quesiti, relativi il primo all'ordine della stratificazione e il secondo alla forma che assume la parte che si continua amodalmente. Quanto al primo quesito (cioè quale delle due regioni sta davanti e quale dietro) vale la cosiddetta legge di Helmholtz-Ratoosh, secondo cui la stratificazione dipende dal modo come si incontrano i contorni delle due regioni. Se la giunzione è a T, si unificano i due segmenti collineari, che cioè giacciono nella medesima direzione. In forza di questa regola, il segmento m viene a far parte del contorno della regione A, quindi B deve continuare sotto A. L'inverso vale per l'ordine di stratificazione delle due regioni della figura 1.4. Solo nei casi in cui la giunzione è del tipo a Y e quindi la linea che divide le due regioni può continuare altrettanto bene in ciascuno degli altri due segmenti - si ha giustapposizione fenomenica, come nella figura 1.5. Il secondo quesito (come la superficie occlusa continua
FIG. 1.3. La regione A occlude la regione B. L'ordine della stratificazione dipende dal modo in cui si incontrano i contorni delle due regioni.
FIG.
1.4. Qui la giunzione a T determina l'occlusione di A da parte di B.
FIG. 1.5. Con la giunzione a Y non si ha occlusione ma giustapposizione fenomenica.
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dietro all'altra) offre una possibilità ideale per mettere a confronto il modo di operare dei due tipi di completamento. Infatti nella «continuazione amodale», una situazione in cui è assente il supporto sensoriale, il sistema visivo è «libero» di scegliere la forma della continuazione. Quindi, se il risultato percettivo è diverso da quello a cui perviene la mente secondo un ragionamento logico, questo può significare due cose: o il sistema visivo non doveva risolvere alcun problema, oppure ha risolto il problema secondo una
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FIG. 4.2. Rappresentazione delle zone di pregnanza attraversate da un angolo che passa gradualmente da O a 180 gradi. Una ristretta zona di «approssimazione» che fiancheggia l'angolo retto comprende gli angoli quasi-retti. Le zone degli angoli acuti o ottusi sono molto più estese [Rausch 1966].
In questi casi «pregnante» coincide con «regolare», e lo stesso vale per altre configurazioni che, come il cerchio, il quadrato, la sinusoide, ecc., sono costruite secondo una formula matematica abbastanza evidente. Ma sono «buone gestalten» anche tutte le forme per le quali non è facile enunciare la formula secondo -cui è costruito lo stimolo, ma che hanno la caratteristica di essere fenomenicamente «singolari» o privilegiate, proprio come l'angolo retto è unico o singolare rispetto a quelli acuti o ottusi. Sono strutture fenomeniche ordinate, ben riuscite, che incorporano in modo ottimale una qualità terziaria, configurazioni dotate di coerenza interna, cioè costruite secondo il medesimo principio in tutte le loro parti. Parti che stanno bene insieme, «si appartengono», si richiedono reciprocamente. Sono configurazioni ausgezeichnet in confronto a configurazioni simili ma non altrettanto ben riuscite, che pertanto sono fenomenicamente «meno buone», o addirittura «cattive» 2. 2
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Le qualità terziarie, o fisiognomiche (come l'allegria o la tristezza, la
Ma Wertheimer parla di pregnanza in un secondo senso: è pregnante un evento che si svolge in modo non casuale, ma è regolato da principi di semplicità ed economia e porta ad un risultato che rappresenta un massimo di equilibrio delle forze in gioco e perciò un massimo di stabilità e di resistenza al mutamento. Come. è noto, egli elenca ed illustra un certo numero di «principi di unificazione» (Zusammenfassung, Gruppierung) in base ai quali avviene la segmentazione del campo visivo e si costituiscono gli oggetti visivi. Contrariamente a quanto spesso si afferma, tra questi principi (le cosiddette «leggi di Wertheimer») non figura un «principio della pregnanza», inteso come fattore che agisce accanto agli altri fattori di unificazione. Egli parla della pregnanza come di un principio generale a cui si uniforma l'azione degli altri fattori. Tali fattori agirebbero cioè tutti in funzione di una Tendenz zur Resultierung in «guter» Gestalt. Così egli afferma, ad esempio, che la legge della somiglianza è solo un caso speciale del principio della buona gestalt e che il fattore della continuità di direzione agisce in modo che l'unificazione (o raggruppamento) dia luogo ad una gute Fortsetzung, sia kurvengerecht, avvenga secondo l'innere Zusammengehoren, risulti in una gestalt che obbedisce ad una sua «neces-
calma o la tensione, la monotonia, la solennità, ecc.) sono percepite in una configurazione o in un evento altrettanto direttamente del loro colore e delle loro dimensioni. In genere non siamo ancora in grado di stabilire con precisione la struttura dello stimolo che sta alla base di queste impressioni, anche se sappiamo distinguere con sicurezza le configurazioni che possiedono in pieno quella caratteristica globale (pregnanti) da quelle malriuscite che la possiedono in modo approssimativo (non pregnanti). Ciò vale per le configurazioni visive statiche come per le strutture cinetiche, ed ancor più per quelle acustiche e musicali. Ad esempio, la fine di una melodia darà un'impressione di finito, di conchiuso solo con la presenza di certi intervalli tra le ultime due note. Secondo la cosiddetta legge di Lipps-Meyer [Lipps 1905; Meyer 1900], tale impressione si ha quando il rapporto tra le frequenze delle due note finali è un rapporto tra un numero pari e un numero dispari, e la nota terminale è pari. Per esempio, una seconda minore (do e do diesis) corrisponde a un rapporto 15/16, e la sensazione di «conchiuso» si ha se i toni sono eseguiti in quest'ordine, altrimenti la sensazione è di incompletezza, di sospensione, di tensione terminale.
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sità interna» (innere Notwendigkeit), ed è per questa ragione una gute Gestalt [Wertheimer 1923, 324]. Egli si rendeva conto che si trattava di una formulazione provvisoria (sehr vorliiufige Benennung), che doveva trovare una strengere Priizisierung. Una precisazione che. di fatto egli non ci ha mai dato, per cui è rimasta nella letteratura gestaltista una fondamentale ambiguità del concetto di pregnanza o «bontà», usato sia in funzione descrittiva per indicare la «singolarità» di un risultato fenomenico, sia in funzione esplicativa per indicare la conformità a leggi del processo percettivo e la sua tendenza verso uno stato finale di equilibrio stabile. Due concetti che non sono affatto equivalenti, poiché un risultato fenomenico può essere massimamente stabile, ma non per questo deve essere anche ausgezeichnet nel senso di fenomenicamente «singolare», anzi lo è raramente. È lecito a questo punto chiedersi quanto sia stato opportuno usare lo stesso termine per due fatti così differenti: per indicare da una parte la qualità di un risultato fenomenico, direttamente constatabile nell'esperienza, qual è la «bontà» di alcune configurazioni, e per designare dall'altra le caratteristiche ipotetiche di un processo. Col senno di poi si può affermare che sarebbe stato meglio riservare il termine «pregnanza» per la prima classe di fenomeni e destinare ai secondi una denominazione più specifica, come «principio di economia», o «legge di minimo», come del resto hanno fatto K6hler, Koffka o Metzger in alcune occasioni, senza tuttavia operare esplicitamente la netta distinzione che noi riteniamo non solo utile ma necessaria 3. 3 0\
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a FIG.
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4.15. Le figure di Kopfermann come prova della tendenza alla singolarità. In b. mediante la tridimensionalità apparente. gli angoli acuti ed ottusi diventano retti e le superfici che sono irregolari se viste nel piano si trasformano in rettangoli [Kopfermann 1930].
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FIG. 4.16. Controprova della figura 4.15. Non è la tendenza aIrortogonalità a produrre la tridimensionalità fenomenica.
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4.17. Il pattern a. quando è visto come un cubo acquista una singolarità che manca nella versione piana. mentre il pattern b. che è già regolare nel piano. difficilmente è visto come tridimensionale.
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FIG. 4.IH. Falsificazione della dimostrazione precedente. a è visto come tridimensionale pur senza diventare più singolare. e b. pur essendo irregolare. rimane confinato nel piano.
FIG. 4.20. Mediante un'opportuna convergenza degli assi oculari si ottiene la perfetta sovrapposizione dei due anelli, ma la fusione delle due immagini non elimina la lacuna dell'anello di destra, che non viene riempita dal nero dell'anello continuo [Ki:inig 1962].
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FIG. 4.19. Se all'occhio destro viene presentato il gruppo «incompleto». e all'occhio sinistro il punto singolo. quest'ultimo non mostra alcuna tendenza ad occupare il posto «giusto» [Erke e Crabus 1968].
di una simile tendenza, ed ancor più significative in questo senso sono le ricerche di Kanig [1962] (figure 4.20, 4.21 e 4.22).
g) I fenomeni stereo cinetici e il movimento. Secondo Musatti [1924; 1937], l'esistenza di una tendenza alla pregnanza capace di indurre modificazioni reali nel mondo fenomenico sarebbe dimostrata dal modo in cui si realizzano gli effetti stereocinetici. Se si fa motare lentamente un disco nero alla cui periferia è disegnato in bianco un cerchio all'interno del quale si trova un punto in posizione eccentrica (figura 4.23), normalmente, dopo un breve periodo di os130
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FIG. 4.21. La sovrapposizione delle due semiimmagini potrebbe dar luogo ad un anello ininterrotto. Un risultato che non è possibile ottenere: si vedono soltanto frammenti ed interruzioni. Prevale, come nel caso della figura 4.20, la rivalità binoculare [Ki:inig 1962].
servazione, si assiste all'insorgere del fenomeno stereocinetico. In un primo tempo il cerc9io gira intorno al centro del disco, mantenendosi stabilmente orientato: esso, cioè, non volge sempre la stessa parte v4rso il centro del disco, come avviene in realtà, ma verso un~ determinata direzione assoluta dello spazio, ad esempio vhso l'alto. Come conseguenza, si vede il punto girare all'interno del cerchio: esso appare cioè del tutto scollegato dal cerchio, e in movimento relativo rispetto ad esso. Ben presto si produce la trasformazione stereocinetica: il punto si sposta dal piano del disco e 131
a
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FIG. 4.22. Dei tre cerchi concentrici di a, ad un occhio viene presentato il cerchio di mezzo, all'altro il cerchio interno e quello esterno. Risultato: i tre cerchi non danno luogo alla «buona gestalt» di a. C'è invece una tendenza alla fusione tra linee: il cerchio di mezzo tende a fondersi con quello interno o con quello esterno, ma, data la differenza di grandezza, ciò non riesce e si realizzano soltanto soluzioni parziali irregolari e instabili (ad esempio, b o c). L'unica soluzione «singolare» possibile (a) non si verifica mai. Al suo posto si danno soltanto soluzioni «cattive» [Ki:inig 1962].
si porta in avanti, verso l'osservatore, oppure indietro, via da esso. Esso diventa allora solidale con il cerchio, ed appare, nel primo caso, come il vertice di un piccolo cono di cui il cerchio costituisce la base. Si vede questo cono, col verti-
FIG. 4.23. Il disco nero ruota lentamente sul proprio centro. Il cerchio bianco in un primo tempo gira intorno al centro del disco mantenendosi stabilmente orientato, e di conseguenza il punto bianco gira all'interno del disco. Dopo la trasformazione stereocinetica il punto si stacca dal piano e diventa solidale con il cerchio, apparendo come il vertice di un cono che si libra nello spazio e compie una rivoluzione attorno al centro del disco [Musatti 1924].
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ce rivolto verso chi guarda e con l'asse leggermente inclinato, librarsi nello spazio ed effettuare, oscillando lievemente, la sua rivoluzione attorno al centro del disco. Nel secondo caso si ha l'impressione di un cono veduto dalla parte della base, una specie di imbuto che compie movimenti analoghi a quelli del cono. In ambedue i casi lo spostamento del punto nello spazio tridimensionale ha come conseguenza la scomparsa del movimento relativo: punto e cerchio vengono _ a far parte di un unico corpo solido. Se sul disco ruotante è disegnata un'ellisse con il proprio centro coincidente con il centro di rotazione (figura 4.24), le fasi che precedono la stereocinesi sono diverse. Dopo una prima fase, durante la quale l'ellisse ruota intorno al centro in conformità al suo moto reale, si produce una prima trasformazione: la rotazione cessa, e l'ellisse si trasforma in un anello elastico che si deforma in continuazione, pur mantenendosi stabilmente orientato. A questo punto si produce in genere la trasformazione stereocinetica: la figura si stacca dal piano del disco e sembra librarsi nello spazio, cessa dall'apparire in continua trasformazione e diventa un dischetto rigido che, imperniato sul proprio centro, oscilla in modo da presentare sempre la stessa parte obliqua all'osservatore. Secondo Musatti, la trasformazione stereocinetica sarebbe la conseguenza di una scomposizione cinematica del movimento reale, attraverso la quale si realizza la più semplice ed economica organizzazione cinetica finale. Poiché ad essa si accompagna la formazione di corpi tridimensionali appa~enti regolari e simmetrici (cono, tronco di cono, disco), Musatti conclude che la scomposizione cinematica che l'occhio applica al movimento reale è in funzione di un miglioramento formale, è una manifestazione di una generale tendenza alla singolarità da cui è dominato il sistema visivo. A ben vedere, la coincidenza tra massima semplicità della soluzione cinetica e «singolarità» degli oggetti visivi risultanti sembra legata alle condizioni particolari dell'esperimento di Musatti, in cui il fenomeno stereocinetico si realiz-
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FIG. 4.24. Sul disco ruotante è disegnata un'ellisse con il proprio centro coincidente con il centro di rotazione. In una prima fase l'ellisse non ruota ma diventa un anello elastico che si deforma in continuazione pur mantenendosi stabilmente orientato. A questo punto si produce in genere la trasformazione stereocinetica: la figura cessa dall'apparire in deformazione e diventa un dischetto rigido che, imperniato sul proprio centro, si libra oscillando nello spazio. [Musatti 1924].
za con il movimento rotatorio di figure piane. In questa situazione, soltanto nel caso del cerchio e dell'ellisse la scomposizione cinematica può dar luogo alla stabilità di orientazione e quindi ai movimenti relativi o di deformazione che sarebbero le premesse necessarie della stereocinesi e del miglioramento formale che con essa si realizza. Infatti non si ottiene questo esito con figure non curvilinee, per esempio un quadrato con all'interno un punto posto in rotazione non si trasforma mai in una piramide tridimensionale. È facile dimostrare che, se si toglie la condizione del moto rotatorio, si possono separare i due effetti della semplificazione cinetica e della «singolarità» del dato fenomenico. Effetti stereo cinetici di grande evidenza si ottengono con il dispositivo di Metzger [1934] e di Wallache O'Connell [1953] per mezzo del quale si fanno muovere nel piano con moto armonico punti o segmenti rettilinei o le proiezioni di solidi ruotanti. La tridimensionalità apparente che si impone coercitivamente in queste situazioni rappresenta certamente una semplificazione in quanto assicura la costanza delle distanze tra le parti di un corpo rigido, ma non I
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FIG.
4.15. Se si proietta su uno schermo traslucido l'ombra di un groviglio disordinato di fil di ferro, essa appare del tutto confmata nel piano. Se il groviglio si mette in rotazione, o?ni punto dell'ombra si sposta con moto armonico da destra a SInistra e. viceversa. L'effetto fenomenico è coercitivamente la rotazione di un corpo rigido. La soluzione tridimensionale può essere considerata una forma di «miglioramento» in quanto assicura la costanza dell'oggetto. Ma costanza è' sinonimo di stabilità, non di singolarità [Metzger 1975].
assicura nec~ssaria~ente. la p~e.gnan~a intesa com.e singo~a rità fenomemca del CorpI che SI reahzzano. InfattI la prOIezione di un ammasso disordin~to di elementi o di un groviglio di filo di ferro del tutto irregolare in moto rotatorio assumono, per effetto della trasformazione stereocinetica, tridimensionalità e quindi stabilità e costanza dei rapporti interni, ma non certamente singolarità fenomenica (figura 4.25). . Altrettanto si può dire delle leggi che sembrano presie. dere alla percezione dei movimenti reali. La scomposizione vettori aIe dei movimenti, come definita da Johannson [1950; 1974a; 1974b], è al servizio della semplificazi~ne dei movimenti, non della singolarità della forma. Il mOVImento in profondità di corpi rigidi o semirigidi è un mezzo con cui il sistema visivo raggiunge un massimo di stabilità, costanza ed economia (tra tutti i movimenti possibili, è quello che avviene per la via più breve ed è il più lento). Quando, come nel caso dei fenomeni stereocinetici di Musatti i due 135
effetti coincidono, ciò è per puro caso, poiché si possono ottenere per «stereocinesi» movimenti stabili di oggetti rigidi del tutto irregolari, e tutt'altro che singolari. A meno che non si voglia identificare semplicità ed economia con «singolarità», e pertanto la tendenza alla prima con una tendenza alla seconda. A conferma di quanto detto riportiamo anche alcuni risultati di un esperimento che abbiamo appena concluso e che devono ancora essere pubblicati. Il problema che con tale esperimento ci eravamo posti riguardava la possibilità di individuare percettivamente le traiettorie di punti in moto lungo percorsi «singolari». A tale scopo sono stati fatti muovere su uno schermo dei punti lungo traiettorie circolari parzialmente intersecantesi 17 (cfr. figura 4.26).
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FIG.4.26. I tre gruppi di sei punti seguono le traiettorie circolari indicate dalle linee tratteggiate. Nonostante la loro «singolarità», non è possibile vedere tali percorsi.
17 L'esperimento è stato realizzato sullo schermo standard di un PET 2001 Commodore. II diametro delle traiettorie circolari era di 4 cm, e ogni punto era di un pixel. Quando per ognuna delle traiettorie circolari vi era più di un punto, questi erano equidistanti tra di loro. La traiettoria veniva compiuta da ogni punto in 5/6 di secondo.
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Ci limitiamo qui a discutere il risultato relativo alla presenza di collettività di punti su tre traiettorie. Se vi è un solo punto per ogni traiettoria, queste sono assolutamente invisibili, e l'impressione che si riceve è quella di un triangolo elastico in rotazione e torsione nello spazio. Aumentando il numero dei punti, da due a sei, le traiet~ torie continuano a rimanere invisibili. Nella zona in cui le tre traiettorie circolari si sovrappongono si costituiscono raggruppamenti di punti, in continuo mutamento, che si formano e si disgregano, con uò'impressione collettiva di grande disordine, di spostamento su piani tridimensionalmente diversi, sempre mutevoli. Solo nelle zone più «esterne» delle traiettorie si riesce a seguire per qualche tratto il moto circolare, ma non appena i punti si approssimano alle zone di intersezione vengono come «attratti» da questo moto caotico. È solo con più di sei punti per traiettoria che l'osservatore riesce a vedere i moti circolari. In questo caso. evidentemente, prevale il fattore della vicinanza lungo la traiettoria, che riesce a far «chiudere» la configurazione circolare. Si badi che l'osservatore è perfettamente consapevole del fatto che si tratta di tre traiettorie distinte: il suo compito, anzi, è proprio quello di riuscire ad individuarle. L'impressione fenomenica è però coercitiva, e la conoscenza dell'esistenza delle traiettorie circolari non aiuta assolutamente a rintracciarle. In questo caso, quindi, non solo non vi è alcuna tendenza alla percezione di una configurazione singolare (la traiettoria circolare) che pure esiste nelle condizioni di stimolazione, ma il risultato è addirittura un'impressione di disordine. h) L'evidenza basata sulle illusioni ottico-geometriche. Rimane da esaminare ancora una linea di argomentazione a favore dell'esistenza di una tendenza alla singolarità, che si fonda sull'analisi di alcune cosiddette illusioni ottico-geometriche. La tesi è stata avanzata da vari autori in ambito gestaltista, ed è stata più ampiamente sviluppata e vigorosamente sostenuta da Rausch [1952; 1966]. Egli ha dimostrato 137
con accuratIssIme ricerche sperimentali che un parallelogramma fenomenico non corrisponde mai esattamente al parallelogramma presentato distalmente, ma che si verificano in modo sistematico scostamenti dei valori di alcuni suoi parametri dai corrispondenti valori della figura presentata (in particolare: ampiezza degli angoli, lunghezza delle diagonali, altezza e larghezza della figura). La sua proposta esplicativa per tale costante non-corrispondenza è la seguente: un parallelogramma è, secondo il suo modello dei gradi di pregnanza, una figura derivata da una figura di riferimento (Leitfigur) , che in questo caso è il rettangolo. Ora, il fenomeno che si osserva costantemente in tutti i parallelogrammi è un raddrizzamento (Entzerrung), una diminuzione delle differenze che sussistono tra la figura presentata e un rettangolo: il parallelogramma fenomenico tende ad avvicinarsi al rettangolo. Poiché la figura di riferimento (il rettangolo) è una gestalt buona o singolare in una serie di figure simili meno pregnanti che da lei derivano, questa tendenza al raddrizzamento andrebbe vista come una tendenza alla singolarità. Ciò che «migliora» è, secondo Rausch, la configurazione globale, quindi le deformazioni che subiscono le dimensioni parziali (altezza, diagonali) sono una conseguenza di quella tendenza che riguarda la figura complessiva. Ciò sarebbe illustrato in modo convincente dalla illusione di Sander (figura 4.27) nella quale la differente lunghezza fenomenica delle diagonali dei due parallelogrammi sarebbe una conseguenza del raddrizzamento o rettangolarizzazione degli stessi. Del resto, la tendenza di un parallelogramma alla rettangolarità è, secondo Rausch, solo un caso speciale di una più generale tendenza alla ortogonalità (due linee o direzioni che si incontrano tenderebbero sempre ad apparire più simili ad un angolo retto di quanto in realtà non siano). Egli ritiene che con la tendenza alla ortogonalità trovino spiegazione numerose illusioni ottico-geometriche classiche, come l'illusione di Z611ner, quella di Hering, quella di Poggendorff (figure 4.28, 4.29 e 4.30), mentre una tendenza al138
a
b FIG. 4.27. L'illusione di Sander. I due lati del triangolo is~sc~le a, quando diventano le diagonali dei due parallelogramml dI b non sono più di eguale lunghezza. Secondo Rausch, ciò sarebbe ~na c~n seguenza della tendenza dei parallelogrammi a «raddnzzarsl», cioè ad avvicinarsi alla forma rettangolare.
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FIG. 4.28. L'illusione di Zbllner. Perdita del parallelismo come conseguenza della tendenza all'ortogonalità.
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la rettilinearità, cioè sempre ad una tendenza in direzione di una forma più singolare, potrebbe essere ricondotta l'illusione di Lipps (figura 4.31). Pur riconoscendo un'indubbia forza di persuasione al ragionamento di Rausch, esso suscita alcune non lievi perplessità. In sostanza, nel caso della tendenza alla ortogonalità, avverrebbe che una forza destinata a ridurre lo scostamento di un angolo rispetto all'angolo retto provoca nel contempo l'eliminazione di una regolarità esistente nello stimolo: la collinearità nella Poggendorff, il parallelismo nella Z611ner e nella Hering, l'eguaglianza dei segmenti nella Sander e nella Mueller-Lyer. Nel caso dell'illusione di Sander si può sostenere, come fa Rausch, che la spinta alla pregnanza riguarda la figura nella sua globalità (il parallelogramma tende al rettangolo) mentre le deformazioni conseguenti interessano aspetti parziali di quella figura. Che dire allora della figura 4.32, dove la suppos~a rettificazione di alcuni angoli non retti conduce alla deformazione di altri angoli effettivamente retti? E inoltre provoca la trasformazione fenomenica di una Leitfigur (il rettangolo) in una forma certamente «derivata» da quella (il trapezio)? Tanto più che deformazioni simili si producono anche quando gli angoli nella presentazione sono tutti retti, e quindi non si può invocare per spiegarle una tendenza alla ortogonalità, dato che non c'è nulla da rettificare (figura 4.33). La perplessità più grave è prodotta dalla seguente considerazione. Ricordiamo che la «bontà» o «singolarità» è una proprietà fenomenica e quindi ha senso parlare di una tensione in quella direzione soltanto se il suo effetto è constatabile nell'ambito fenomenico. Ora, nelle situazioni esaminate il risultato netto di questa supposta tendenza al miglioramento è solo una deformazione, in quanto la ortogonalizzazione non ha realtà fenomenica, non compare come tale nell'esperienza visiva. Conclusione paradossale, ma inevitàbile: l'unico effetto constatabile di una forza che spinge verso un miglioramento è un peggioramento. Ma soprattutto vien fatto di chiedersi come mai la te n140
FIG.
4.29. L'illusione di Hering. Anche in questo caso l'incurvatura ?elle due parallele sarebbe una conseguenza della tendenza degh angoli verso l'angolo retto.
FIG.
4.30. L'illusione di Poggendorff. Ancora un presunto effetto sec~nda rio della ortogonalizzazione degli angoli: perdita della colhnearità.
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FIG. 4.31. L'illusione di Lipps. Le parti centrali delle cinque spezzate sono parallele. La seconda e la quarta appaiono però meno oblique delle altre tre. Sarebbe, secondo Metzger. una conseguenza della tendenza delle spezzate verso la linea diritta.
FIG. 4.32. Il rettangolo (figura «singolare») diventa fenomenicamente un trapezio (figura «derivata» dalla prima). Gli angoli effettivamente retti del rettangolo si deformano come conseguenza della tendenza all'ortogonalità degli angoli non retti. Il primo effetto si vede. il secondo non ha realtà fenomenica.
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FIG. -L13. La deformazione dell'esagono non può essere lIna conseguenza della tendenza all'ortogonalità. dato che gli angoli sono tutti retti [Gerbino 197K].
denza alla ortogonalità, nel caso delle illusioni, agisca per angoli ben lontani da una zona di pregnanza con tanta forza da causare come conseguenza collaterale deformazioni chiaramente constatabili, e non riesca a produrre la minima modificazione fenomenica all'interno di una zona di pregnanza nel caso di scostamenti anche minimi dalla struttura corrispondente alla forma «singolare». Infatti nelle zone di pregnanza, cioè nelle immediate vicinanze di una forma singolare, non avviene alcuna assimilazione fenomenica a quella forma; al contrario, si riscontra un aumento della sensibilità al mutamento o, detto altrimenti, un abbassamento della soglia di discriminazione per gli scostamenti dalla forma singolare. Come abbiamo già detto, l'assimilazione in questi casi è soltanto categoriale. i) Ordinamento e giudizio di bontà. Spesso si trovano citati, come prova dell'ipotesi, risultati di esperimenti che
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non riguardano il processo di formazione degli oggetti visivi, ma sono chiaramente ricerche sulle preferenze dei soggetti per configurazioni ordinate e regolari. Questo vale anzitutto per quelle ricerche nelle quali il soggetto deve ordinare o disporre un certo materiale [Meili 1926], o deve giudicare il grado di bontà di determinate configurazioni [Garner e Clement 1963; Prinz 1966; Palmer 1978; Ruppe 1984] o deve decidere a quale di due configurazioni «appartiene» un pezzo che in teoria potrebbe combaciare sia con l'una che con l'altra [Wehrenfennig 1968] (figura 4.34). Ed ancora l'osservazione può valere per le numerose ricerche nelle quali si chiede al soggetto di aggiungere (o levare) uno o più elementi ad una configurazione [Bear 1973] (figura 4.35). Da queste ricerche risulta in genere che le aggiunte (o le sottrazioni) si accordano con le valutazioni (ottenute indipendentemente) sulla «bontà» delle configurazioni risultanti. Ma in tutti questi casi sono evidentemente in gioco processi di categorizzazione più che principì di organizzazione percettiva precategoriale. Le configurazioni che vengono «migliorate» dall'inter-
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4.35. Dove va il quinto punto? Il risultato conferma la spiccata preferenza dei soggetti per pattern ordinati e regolari [Bear 1973].
vento del soggetto hanno la stessa caratteristica degli elementi che si trovano nella zona di approssimazione ad un punto di singolarità: sono «quasi singolari», ?anno .«qualc~ sa in più» o «in meno» per esserlo, sono msoddisfacentl. Ma questo non basta a modificarle ~ercetti:amente: anche se in questi casi si fa sentire una spmta ~ I~terve~lfe mediante manipolazioni, aggitinte~ spostamentl, ntocchI. Queste «richieste» che prqvengono dalle situazioni no~ perfettamente singolari (la loro «esigenzialità»), che confe:Iscono loro quel carattere dinamico in cui secondo Arnh~Im risiede una parte non piccola della loro valenza. estetlca, sembrano a molti autori [Metzger 1975; Arnhelm 1969; Rausch 1952] una prova indiretta ma convinc~nte, u~ ,sintomo sicuro della tendenza o spinta verso la smgolanta. Un problema che va meditato alla luce del fatto. che t.ale. tendenza rimane sempre tale, non ha altre mamfestazlOm che questa inquietudine o senso soggettivo d~ tensione,. non ha mai una conseguenza sul piano della realta fenomemca.
6. Considerazioni conclusive
FIG. 4.34. Se si chiede a quale delle due figure «appartiene» il quadrato centrale, la maggioranza dei soggetti lo assegna alla figura di sinistra «
l continua invece a deformarsi. Questo esperimento differisce dunque da quelli precedenti per l'assenza dell'arresto brusco di A, ma anche per il tipo di movimento eseguito da A e per la centralità di A in rapporto agli oggetti B. Queste condizioni avevano intensificato l'effetto causale di attrazione negli esperimenti n. 4, 5 e 6, grazie alla supremazia gerarchica di A su B. Sembra dunque che nelle condizioni particolari del movimento in senso opposto dei due oggetti, l'arresto brusco di A non sia indispensabile alla produzione dell'effetto attrazione, dato che la sua assenza può essere compensata da altri fattori. Dall'esperimento seguente risulta che l'arresto può non essere necessario neppure quando i movimenti dell'oggetto A e dell'oggetto (o degli oggetti) B non sono di senso opposto: Esp. 14. - Le condizioni sono quelle dell'esperimento n. 5, ad eccezione del fatto che il movimento stroboscopico del rettangolo centrale è sostituito da un movimento continuo di rotazione (velocità angolare 24%ec). I quadrati avanzano verso la lancetta ad una velocità di 3 cm/sec finché vengono in contatto con essa, poi tornano alla loro posizione iniziale dopo il passaggio della lancetta, con una velocità di 1.2 cm/sec. (vedi la figura 6.14).
Su 31 soggetti, 29 hanno un'impressione molto netta di attrazione; un soggetto percepisce una forma di «scatenamento» e l'altro descrive il movimento dei quadrati come spontaneo. Per le sue caratteristiche, questa forma di attrazione potrebbe essere messa in rapporto con l'effetto entrainement, in cui l'agente continua il movimento anche dopo avere «messo in azione» il paziente. Alcuni soggetti descrivono così il fenomeno: «Le cose avvengono come se l'oggetto B, che a intervalli regolari si trova di fronte all'oggetto A, fosse tirato da questo mediante una cordicella». In questo caso ci troveremmo quindi di fronte a quella forma dell'effetto entrainement che è l'effetto «trazione» (l'altra forma è lo «spingimento» ). Va tuttavia osservato che si tratterebbe di una particola-
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re forma di trazione a distanza, in cui l'agente si sposta a una velocità ben più elevata del paziente, e in direzione perpendicolare al movimento di quest'ultimo.
4.4. L'attrazione «pura»
. Rim~ne infine da stabilire se si produca un'impressione dI a~trazlOne quando le condizioni sono ridotte a quelle che abbIamo considerato essenziali per una definizione dell'eff~tto .attraz~one, e cioè il movimento di uno o più oggetti in d~rezIone dI un altro oggetto, sinché questo non viene raggmnto. Non sono necessari particolari esperimenti per dimostrare che un oggetto che si avvicina ad un altro immobile non produce, per questo solo fatto, l'impressione d'essere attirat~ ~a questo ..Tuttavia a scopo di controllo abbiamo pensato ~I I?trodurre m questa situazione elementare quelle carattenstlche (grandezza, centralità) che si sono rivelate in grado
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6.15.
di intensificare l'effetto causale, mediante l'instaurazione di un rapporto gerarchico tra gli oggetti. È stato perciò realizzato il seguente esperimento: Esp. 15. - L'oggetto A è costituito da un disco di 50 mm di diametro. Attorno ad esso sono disposti simmetricamente 4 quadrati, BI> B 2 , B 3 , B4 di 5 mm di lato, che si mettono in movimento alla velocità di 4,4 cmlsec in direzione radiale, finché raggiungono il disco (vedi la figura 6.15).
Il risultato dell'esperimento è stato negativo per quel che concerne l'impressione di attrazione. Su 31 soggetti, solo uno ha parlato di attrazione in questa situazione. Tuttavia, dopo la nostra prima comunicazione in proposito, Gemelli e Cappellini [1958]. hanno pubblicato una ricerca sull'effetto causale di attrazione, in cui sono riportati i risultati di una serie di esperimenti del tipo che segue: Un disco nero B è situato nell'angolo superiore destro di un rettangolo bianco, e un secondo disco nero A è situato nell'angolo inferiore sinistro. A comincia a spostarsi orizzontalmente fino alla regione centrale del rettangolo; successivamente, spostandosi più rapidamente e descrivendo una curva parabolica, va verso B e s'arresta al suo fianco [Gemelli e Cappellini 1958].
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lo trasportatore: il movimento del proiettile appartiene fenomenicamente all'oggetto che provoca l'urto. c) L'affermazione, in apparenza paradossale, che il movimento che fa dislocare il proiettile appartiene all'oggetto motore che, dopo l'urto, resta immobile, esige. che si ammetta la possibilità: in primo luogo, che il movimento sia un fenomeno sui generis, suscettibile, in certe condizioni, di «staccarsi» dagli oggetti; e, in secondo luogo, che questo movimento possa essere vissuto ancora per un certo tempo come appartenente all'oggetto da cui si è staccato percettivamente. Michotte riferendosi anche al ben noto esperimento di Wertheimer [1911] sul movimento puro, ha dimostrato sperimentalmente che in condizioni adeguate possono prodursi entrambe le eventualità fenomeniche. Ne conclude che, quando si realizza l'effetto lancio, al momento dell'impatto il movimento dell' oggetto motore sembra estendersi al proiettile, di cui realizza la dislocazione. In altri termini, in condizioni spaziali, temporali e cinetiche adeguate, il movimento si sdoppia nell'istante dell'urto, e viene vissuto nello stesso tempo come la continuazione del movimento dell'oggetto motore, e come la realizzazione del cambiamento di posizione del proiettile. Da questa definizione, risulta chiaramente che, benché da un punto di vista oggettivo si tratti di due movimenti, il lancio comporta da un punto di vista fenomenico un unico movimento, quello dell'oggetto motore, che continua dopo l'arresto di quest'ultimo, e «trasporta» il proiettile. È dunque in questa continuazione del movimento dell' agente e nella sua estensione al paziente (e cioè, nell'ampliamento del movimento) che risiede il punto essenziale della teoria. E poiché Michotte è riuscito a ricondurre a questa nozione fondamentale tutti i casi nei quali si produce un'impressione causale da lui studiati, ne ha concluso che si può vivere una connessione causale tra due avvenimenti percettivi soltanto se sussistono le condizioni che consentono la realizzazione dell'ampliamento. È possibile accettare la teoria di Michotte, senza accet212
tare nello stesso tempo la sua affermazione (che egli considera conseguenza logica della teoria stessa) sulla impossibilità di produrre quei fenomeni di tipo causale di cui noi abbiamo dimostrato sperimentalmente l'esistenza? Pensiamo che sia possibile farlo, perché non ci sembra che la conclusione negativa ",Ila quale perviene Michotte discenda necessariamente dalla teoria dell'ampliamento. Infatti nella teoria sono precisate solo le condizioni generali dell'ampliamento del movimento. Si tratta sia delle condizioni che assicurano la distinzione dell'agente dal paziente, sia delle condizioni che favoriscono la fusione dei loro due movimenti in un movimento solo, che passa dall'uno all'altro. Ma le condizioni specifiche che permettono o meno l'unificazione dei movimenti possono essere stabilite con certezza soltanto sperimentalmente. Se ne trova un esempio particolarmente evidente nel libro di Michotte. In teoria si potrebbe pensare che, tanto nel caso del lancio che in quello del trascinamento, i movimenti dell'agente e del paziente richiedano, per potersi unificare, oltre all'identità di direzione dei movimenti lo stabilirsi di un contatto tra gli oggetti. In realtà, Michotte stesso ha mostrato che la unificazione può prodursi a distanza, e dalle ricerche di Yela [1952a] risulta che, se il concorso delle altre condizioni favorevoli è ottimale, il lancio a distanza assume un'evidenza fenomenica particolare. A nostro avviso, non c'è motivo per negare a priori la possibilità che tra due movimenti di senso opposto si stabilisca quella identificazione che è necessaria affinché, con il prodursi dell'ampliamento, si abbia un'impressione di causazione. Ciò equivarrebbe a ritenere che l'identità di senso costituisca una condizione assoluta perché tra due movimenti si possa cogliere una somiglianza o un certo grado di affinità. Ma ciò non è affatto vero; infatti, per dare un esempio, due oggetti che siano i soli a muoversi in un campo per il resto assolutamente statico, hanno, a prescindere dal tipo di orientamento delle loro traiettorie, un'affinità fondamentale dal punto di vista percettivo, affinità costituita precisamente dal fatto che sono dotati di movimento. 213
Secondo noi, non si può sostenere che nel caso di movimenti di senso opposto non esistono le condizioni per una identificazione, come non si può neppure affermare che l'unificazione deve obbligatoriamente aver luogo; la comparsa o meno del fenomeno dipenderà dalla presenza di altre condizioni favorevoli, dal loro numero e dalla forza della loro azione. 2. Per mettere in evidenza queste condizioni, e stabilire le conseguenze teoriche che derivano dalle nostre osservazioni, conviene esaminare i risultati quantitativi degli esperimenti condotti in condizioni rigorosamente controllate con lo stesso gruppo di 40 soggetti. Abbiamo raccolto questi risultati nella seguente tabella:
Esperimenti Lancio (Michotte esp. 1) Allungamento multiplo (esp. 6) Lancetta (esp. 5) Allungamento (esp. 4) Disco immobile (esp. 16) Apparizione istantanea (esp. 3) Salto stroboscopico (esp. 2, figura 6.2) Calamita (Michotte, esp. 36)
N. dei soggetti che percepiscono l'effetto causale 37 32 30 27 26 21 lO
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(92.5%) (80%) (75%) (67.5%) (65%) (52.5%) (25%) (17.5%)
Come si vede, per avere un termine di riferimento, sono state presentate anche due situazioni sperimentali di Michotte: quella paradigmatica del lancio, e l'esperimento negativo relativo all'attrazione, che riproduce l'avvicinamento della limatura di ferro alla calamita. Se le classifichiamo in base alla frequenza dei risultati positivi, queste due situazioni compaiono, come era prevedibile, al primo e all'ultimo posto. Però, contrariamente alle previsioni, la prima non raggiunge la totalità delle risposte positive e le risposte alla seconda non sono tutte negative. Come vanno interpretati questi risultati? Si può avanzare l'ipotesi che certi soggetti
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non abbiano capito bene cosa ci si attendeva da loro, o che si siano rifiutati di cOllabora/1- Ma, anche ammettendo che ciò sia vero per i tre soggett~ che non hanno percepito l'effetto lancio lO, è più difficile che sia vero per i 7 soggetti che hanno dichiarato di percepire l'attrazione nell'esperimento 36 di Michotte. È dunque probabile che almeno qualche soggetto abbia percepito l'attrazione anche in questa situazione. Quali conseguenze comporta questa interpretazione? Consideriamo innanzi tutto il significato che va attribuito al fatto che nelle varie situazioni sperimentali un diverso numero di soggetti ha percepito l'effetto causale. È chiaro che il fatto che di fronte alla stessa situazione sperimentale alcuni soggetti hanno risposto in modo diverso dagli altri non può dipendere che da una differenza nelle condizioni soggettive: impostazioni o atteggiamenti spontanei che esercitano un'influenza favorevole o sfavorevole sull'impressione causale. Le differenze nelle percentuali dei risultati positivi registrati nei vari esperimenti potrebbero anche dipendere da fluttuazioni casuali degli atteggiamenti soggettivi, ed è probabile che di fatto ne dipendano quando le differenze sono piccole. Ma quando le differenze sono tali che non si ha che una minima probabilità che siano casuali, è legittimo e normale cercare un'altra spiegazione. Nel caso qui descritto si potrebbe pensare che le situazioni sperimentali sono differenti tra loro per la maggiore o minore facilità con cui possono dar luogo ad un'impressione di connessione causale: in certe situazioni sarebbe necessario un atteggiamento particolarmente favorevole perché si produca l'effetto causale; in altre, può essere sufficiente che l'atteggiamento non sia sfavorevole; in altre, infine, l'effetto causale è coercitivo, o,' in altri termini, si produce praticamente sempre, e non si verifica solo in caso di condizioni soggettive estremamente sfavorevoli. Secondo questa spiegazione, l'esperi-
lO Sembra tuttavia improbabile che ciò possa essersi verificato senza che gli sperimentatori se ne accorgessero.
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mento 36 di Michotte farebbe parte delle situazioni che possono dar luogo a un effetto causale soltanto a patto che ci sia un atteggiamento soggettivo particolarmente favorevole. È accettabile questa conclusione? È chiaro che l'atteggiamento soggettivo non è onnipotente, poiché altrimenti si potrebbe sempre percepire una relazione causale tra due oggetti o due eventi qualsiasi. Ciò significa che anche la situazione dell'esperimento 36 di Michotte deve contenere delle condizioni favorevoli alla percezione di una relazione causale. Non è difficile precisare, pur se solo ipoteticamente, alcune di queste condizioni: il fatto che entrambi gli oggetti entrino in movimento, che uno d'essi abbia la priorità temporale, che il movimento del primo cessi al momento in cui il secondo entra in movimento 11. Anche per le altre situazioni sperimentali è possibile mettere in evidenza l'azione dei fattori favorevoli che giustificano le differenze nelle percentuali dei risultati positivi. L'esperimento n. 3 (Apparizione istantanea), che ha dato risultati positivi molto elevati, se confrontati a quelli dell'esperimento 36 di Michotte (Calamita) (X2 = 7.58; P < .01) 12, se ne distingue sotto diversi aspetti: a) il rapporto delle velocità dei due oggetti è discendente, e noti ascendente; b) il senso del movimento che compare improvvisamente non è opposto a quello dell'altro oggetto; c) l'oggetto motore è ben più grande ed è perciò probabile che anche la differenza di grandezza, in quanto fattore gerarchizzante, agisca in senso favorevole al prodursi di un effetto causale. L'esperimento n. 4 (Allungamento), i cui risultati differiscono nettamente da quelli dell'esperimento n. 2 (Salto stroboscopico) (X2 = 13.47; P < .01), si distingue da quest'ulti11 Oggettivamente, il movimento del primo cessa quando cessa quello del secondo; ma data la rapidità del salto stroboscopico, la localizzazione temporale soggettiva dell'arresto del primo oggetto dipende dall'organizzazione percettiva dell'avvenimento. Dalle osservazioni effettuate, sembra che l'organizzazione percettiva sia quella indicata nel testo. 2 12 Trattandosi di esperimenti effettuati con gli stessi soggetti, il X è stato calcolato con la formula proposta da Edwards con la correzione di Yates.
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ma in quanto l'oggetto motore è (o, più esattamente, diventa) più grande dell'oggetto che subisce l'attrazione. Inoltre anche la deformazione che accompagna il movimento agisce in senso favorevole all'effetto causale. Infatti il carattere gerarchicamente superiore del movimento accompagnato da deformazione è stato messo in evidenza da Michotte nello studio della «propulsione». Dal confronto tra l'esperimento n. 3 (Apparizione istantanea) e esperimento n. 5 (Lancetta) (X2 = 3.37; non significativo) e n. 6 (Allungamento multiplo) (X2 = 6.66; p < .01) (in cui i risultati sono nettamente superiori a quelli dell'esperimento n. 3), risulta che queste situazioni, oltre alle condizioni già discusse, si differenziano per la posizione centrale dell' oggetto motore che inoltre è unico di fronte a una molteplicità di oggetti periferici. Con tutta probabilità, questa condizione ha accentuato il rapporto gerarchico. Il peso relativo di questi diversi fattori non è certamente lo stesso. Infatti, benché nella situazione dell'effetto lancio non si abbia né un rapporto discendente delle grandezze, né centralità, né movimento d'ordine superiore dell'oggetto motore, la sola identità di direzione dei due movimenti porta a risultati positivi per quasi tutti i soggetti. 3. Sulla base dei risultati dello studio di Michotte e delle ricerche effettuate da noi e da altri autori, tentiamo ora di precisare le condizioni del fenomeno causale: a) Condizioni relative all' oggetto Carattere d'oggetto. L'effetto causale è generalmente percepito come esercitato da oggetti su altri oggetti. Si pone perciò il problema di sapere se il «carattere di oggetto» costituisca una condizione necessaria, o almeno favorevole, al prodursi di un effetto causale. Il problema è stato affrontato indirettamente da Michotte, quando ha dimostrato che l'impressione causale è indipendente dal carattere fenomenico di oggetto. Il fatto che si possa percepire il lancio di una biglia di legno come se fosse effettuato da un cerchio di luce [Michotte 1954, esp. n. 28]
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dimostra che il carattere di oggetto (inteso nel senso per cui un cerchio di luce, o un'ombra, ne sono sprovvisti) non è una condizione necessaria per la produzione dell'effetto causale. Se invece si considera come «oggetto» ogni unità discreta nel campo visivo, questo carattere si rivela, almeno negli esperimenti effettuati finora, come una condizione costante degli effetti causali. Numero degli oggetti. M1chotte, con la scoperta dell'autolocomozione, ha dimostrato che la condizione che poteva sembrare implicita nel concetto stesso di causalità (la presenza di almeno due oggetti, l'agente e il paziente) non è una condizione necessaria in modo assoluto, datQ che un effetto causale può prodursi anche quando è presente un solo oggetto. Grandezza relativa degli oggetti. Sulla base dei risultati degli esperimenti descritti nel paragrafo precedente un rapporto decrescente tra le grandezze sembra favorire la produzione di un effetto causale tra due oggetti. b) Condizioni temporali Successione dei movimenti 13. Nei due esperimenti fondamentali di Michotte (esperimenti n. 1 e n. 2), l'oggetto percepito come causa del movimento entra in moto per primo. Questa condizione si rivela importante per stabilire un rapporto gerarchico tra l'agente e il paziente 14; non si tratta tuttavia di una condizione necessaria per la produzione dell'effetto causale: Michotte stesso [1954, 67] nei suoi esperimenti di «lancio al volo» ha presentato situazioni nelle quali
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13 Dai lavori di Michotte deriva la necessità di distinguere tra questa condizione (l'agente entra in movimento prima del paziente) e la condizione fondamentale, secondo la quale l'agente deve essere in movimento prima del momento in cui si produce l'effetto causale (negli effetti di lancio e trascinamento, prima dell'incontro dei due oggetti). Riserviamo la denominazione di priorità temporale a quest'ultima condizione, mentre chiamiamo successione dei movimenti quella qui esaminata. 14 Questa condizione è presente in tutti i nostri esperimenti, ad eccezione dell'ultimo.
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l'effetto causale si determina, nonostante che i due oggetti entrino simultaneamente in movimento 15. Intervallo temporale tra i movimenti. La rapidità di successione dei movimenti 16 sembra essere una condizione essenziale per l'insorgere dell'effetto causale: Michotte ha mostrato che, aumentando l'intervallo temporale tra i due movimenti, si passi rapidamente dall'impressione fenomenica di «lancio» a quella di due oggetti che eseguono dei movimenti indipendenti in successione. È stato però trovato che in certi casi un piccolo aumento di tale intervallo è favorevole all'effetto causale [Passi Tognazzo 1958] 17. Sembra quindi che non si tratti di una condizione assoluta, ma di una condizione legata ad altri aspetti del fenomeno. Non si hanno dati sperimentali per stabilire se, e in quali limiti, questa condizione, che appare come una delle più coercitive' dell'effetto causale, possa essere compensata da altre. Priorità temporale. Chiamiamo così, con Michotte, il fatto importantissimo che l'oggetto motore inizia il suo movimento prima del momento in cui si produce l'effetto causale. Nondimeno, dagli stessi esperimenti di Michotte sembra che neppure questa condizione sia indispensabile, poiché, nella propulsione, l'effetto causale si realizza senza la priorità temporale, la cui assenza viene ad essere compensata dall'azione gerarchizzante del movimento d'ordine più eJevato [vedi Michotte 1954, cap. 11] 18.
15 Anche nelle ricerche di Passi Tognazzo [1958] l'effetto causale compare in tutta una serie di esperimenti nei quali i due oggetti entrano in movimento simultaneamente. 16 Nella descrizione delle condizioni dell'effetto causale si adotta il punto di vista fisico-oggettivo; di fatto, come si è detto, fenomenicamente si tratta di un solo movimento. 17 Quando, nel trascinamento, l'oggetto motore effettua un movimento di andata e ritorno, l'introduzione di una pausa prima del movimento comune favorisce l'effetto causale. 18 Allo stesso modo, dagli esperimenti di Passi Tognazzo risulta che, in condizioni particolari, si percepisce come motore l'oggetto che non ha la priorità del movimento. I
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c) Condizioni spaziali Direzione e verso dei movimenti. L'identità del verso dei due movimenti è considerata da Michotte una condizione sine qua non perché si produca l'effetto causale: infatti ciò che renderebbe possibile l'identificazione parziale tra i due oggetti, identificazione che permette l'estensione del movimento dal primo al secondo, sarebbe precisamente il fatto che i due movimenti sono in continuazione l'uno dell'altro. Tuttavia, nel corso dei nostri esperimenti, abbiamo constatato che l'effetto causale può realizzarsi tra oggetti i cui movimenti sono di verso opposto. Si deve dunque concludere che anche questa condizione è molto favorevole ma non indispensabile all'effetto causale 19.
Orientamento relativo dei movimenti. Secondo Michotte, perché l'impressione causale si produca in modo ottimale, sarebbe necessaria un'identità, o almeno una divergenza molto piccola dell'orientamento dei movimenti. L'impressione causale sparirebbe totalmente quando le traiettorie sono perpendicolari tra di loro, o quando si ha uno scarto parallelo tra una traiettoria e l'altra [Michotte 1957a, 97 ss, 121, 225]. I nostri esperimenti 5, 8 e 14 mostrano che queste condizioni non escludono però affatto il verificarsi di un effetto causale 20. Posizione. Nei nostri esperimenti, la posizione (centrale o periferica) sembra esercitare un'influenza sull'effetto causale, particolarmente quando si ha movimento senza dislocazione dell'oggetto motore (rotazione o cambiamento di forma). 19 Del resto, nell'esperimento 58 di Michotte [1954, 158 - effetto trazione] il movimento dell'agente prim,a dell'incontro va in direzione opposta a quello del paziente, nonché dell'agente stesso dopo l'incontro. Anche in questo caso, come osserva Michotte, la direzione opposta dei movimenti rappresenta un ostacolo, e pertanto l'effetto causale è evidente solo se le . altre condizioni sono favorevoli. 20 Gli esperimenti n. 5 e n. 14. provano la possibilità di un effetto causale quando i movimenti sono fo'rtemente divergenti, mentre l'esperimento 8 fornisce la stessa prova per i casi in cui le traiettorie sono sfasate tra di loro.
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d) Condizioni cinetiche Movimento deltoggetto motore. È la condizione che si incontra in tutti gli esperimenti di Michotte, e che è alla base della teoria stessa dell'ampliamento del movimento. La sola eccezione è costituita dall'esperimento di Gemelli e Cappellini, ripetuta da noi nell'esperimento 18, e i cui risultati attendono di venir interpretati alla luce di ulteriori ricerche. Velocità assoluta. Le ricerche di Michotte hanno messo in luce l'importanza della velocità che, nel fenomeno del lancio, non deve essere né troppo elevata (perché allora impedirebbe l'effetto causale unificando i due oggetti in movimento, e trasformando così radicalmente la struttura dell'evento), né troppo bassa (perché costituirebbe un ostacolo indiretto all'effetto causale, favorendo l'azione dei fattori di segregazione. Le nostre conoscenze sull'azione esercitata dalla velocità assoluta sulle altre condizioni dell'effetto causale sono attualmente incomplete. Trattandosi tuttavia di una azione che può operare nel senso di una maggiore unificazione, o di una maggiore segregazione, è chiaro che questa azione può essere compensata da altri fattori unificanti o segreganti. Velocità relativa. Una scala decrescente delle velocità (agente più veloce del paziente) è una condizione particolarmente favorevole ad un effetto causale ottimale. Essa sembra indispensabile quando occorre compensare la presenza di altre condizioni sfavorevoli, come nel caso del lancio a distanza [Yela 1952] e nei nostri esperimenti, in cui si tratta sempre di un effetto a distanza complicato da altre condizioni sfavorevoli all'effetto causale (la principale è il verso opposto dei movimenti). Tuttavia, già dall'esperimento paradigmatico di Michotte [1954, esp. 1, 18] risulta che non si tratta di una condizione indispensabile. Gerarchia dei movimenti. La scala discendente dei movimenti, come la scala decrescente delle velocità, esercita una funzione gerarchizzante, per cui diviene oggetto motore l'oggetto con un movimento di ordine più elevato (rotazione, deformazione, ecc.). Anche questa è una condizione faj
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Rapporto limo sup./lim. inf.
Ii tanto rilevante dall'osservatore, una loro determinazione più esatta diventa priva di senso. Non dobbiam? ,dime~ti~a re che l'oggetto della misurazione è una quahta terziana, anche se particolarmente evidente dal punto di vista percettivo. Dobbiamo inoltre notare, che il metodo dei dischi non si è rivelato il più adatto per compiere questo tipo di misurazione. Alle velocità più basse, infatti, le deformazioni dei due mobili A e B risultano ovviamente molto evidenti: il loro movimento diventa perciò oltremodo espressivo; possiamo pertanto ritenere che i valori esposti nella t~bella risultino più bassi di quelli che si sarebbero ?ttenutl co~ u~ sistema che evitasse la deformazione (rombOldale, con lllchnazione nel verso del movimento) dei due mobili. Alle velocità più alte, d'altra parte, con l'aumentare del numero dei giri del disco al minuto, aumenta anche il ritmo di successione delle presentazioni (una ogni 4 sec quando la velocità di A è di 4 cm/sec e quella di B di 36 cm/sec): si instaura pertanto prevalentemente una impressione di «meccanicità» nei movimenti dei due mobili, ad evidente scapito di una eventuale «intenzionalità». Possiamo ritenere pertanto che anche nel caso dei limiti superiori di velocità
259
I
J
I
1~ j
l
per i quali si ha una impressione di reazione, i valori esposti nella tabella risultino più bassi di quelli che si sarebbero ottenuti con un metodo di presentazione diverso. Abbiamo cercato di ovviare in qualche modo all'inconveniente presentato dalle alte velocità di rotazione scoprendo la zona dello schermo in cui avveniva la presentazione soltanto a tratti, quando il soggetto si dichiarava pronto ad effettuare l'osservazione. Nonostante tutte le sopraddette limitazioni, il presente esperimento ha conseguito almeno due risultati: a) il costituirsi della configurazione cinetica della reazione trova dei limiti nella velocità assoluta dei due mobili, rimanendo fermo beninteso il rapporto ottimale 1 : 9 fra le due velocità; inoltre quei limiti non si identificano con le soglie inferiore e superiore della percezione di movimento; b) la gamma di velocità per le quali si instaura la configurazione cinetica della reazione appare piuttosto variabile , da soggetto a soggetto: per due dei nostri osservatori potrebbe essere definita «ristretta», dal momento che il valore limite superiore è soltanto 5.00 (GV) o 6.34 (PB) volte il valore del limite inferiore; per gli altri due osservatori è invece «ampia», essendo i rapporti tra i due limiti 11.12 (GT) e 13.00 (GK). Quali altre configurazioni espressive si sostituiscono a quella della reazione al di sotto del limite inferiore e al di sopra di quello superiore? Nel primo caso «i due mobili A e B sembrano animati da forze indipendenti» (PB, GV). Nel secondo caso, tutti e quattro gli osservatori hanno parlato di «movimenti meccanici indipendenti» oppure di «movimenti automatici legati da causalità meccanica».
q~ello di B, i fattori temporali dei quali dobbiamo tener conto sono di due specie: a) rapporti di prima/dopo fra i due movimenti, o più precisamente fra le loro fasi salienti (inizio e termine degli spostamenti dei due mobili); b) durate degli intervalli di tempo fra le predette fasi salienti dei due movimenti. In altre parole, dobbiamo accertare non soltanto in quale ordine devono susseguirsi certe fasi salienti degli spostamenti dei due mobili, ma anche a quanto devono ammontare gli intervalli fra quelle fasi, affinché si generi nell'osservatore l'impressione di «reattività» del movimento di B. A questo scopo abbiamo preparato 16 situazioni stimolo che sono costruite tutte secondo il seguente schema:
/
X. A e B si presentano fermi sulla sinistra dello schermo. In seguito si hanno due movimenti: A si porta verso destra .alla velocità di 4 cm/sec, e si ferma dopo aver percorso 4 cm. AdIacente al luogo in cui A si arresta (o si è arrestato, o si arresterà) c'è B, ,che si sposta egualmente verso destra, coprendo 4 cm alla veloclta dI 36 cm/sec. Lo spostamento di A dura 900 msec; quello dI B dura 110 msec circa.
Quello che abbiamo fatto variare, nello schema X, è il momento in cui si verificano gli spostamenti dei due mobili, come si può vedere nella tabella 7.5, dove sono elencate le 16 varianti. Più precisamente, abbiamo variato l'intervallo di tempo fra due fasi salienti qualsivoglia dei due movimenti (per esempio, la partenza di A e la partenza di B): poiché la durata di ciascun movimento è costante, variano solidalmente anche gli intervalli di tempo fra tutte le altre fasi (per esempio, la partenza di A e l'arrivo di B, l'arrivo di A e la partenza di B, ecc.). Col variare degli intervalli di tempo, inoltre, cambiano anche i rapporti di prima/dopo fra le fasi salienti dei due movimenti. Se si compie una esplorazione abbastanza ampia, avremo situazioni in cui il movimento di B precede interamente il movimento di A (vedi la tabella 7.5, variante 1), altre in cui B parte prima di A, ma si arresta dopo che
4. I fattori temporali
Il rendimento percettivo di una configurazione cinetica è ovviamente legato alla successione temporale in cui iniziano e terminano le sue varie' fasi. Siccome la situazione che stiamo studiando è composta da due movimenti, quello di A e 260
261
L
'.("f.:.·: A è partito (var. 2), altre in cui B parte dopo di A ma si ar~esta prima ~i esso (var. 3-7), altre ancora in cui parte pnma che A SI arresti, ma si arresta dopo di esso (var. 8lO),. altre infin: in cui il movimento di B è interamente postenore al mOVImento di A (var. 11-16). Cerchiamo ora di precisare il quesito a), cioè quali devono essere i rapporti prima/dopo fra le fasi salienti dell'intera configurazione cinetica, affinché si abbia l'impressione della «reazione». Nell'intera situazione stimolo abbiamo 4 «fasi salienti»: la partenza di A, l'arrivo di A, la partenza di B e l'arrivo di B. I possibili rapporti di prima/dopo fra queste fasi assommano a 12. In teoria, per sapere qual è il rapporto più importante nel costituirsi della reazione, si dovrebbe esaminare il rendimento percettivo di tutt'e 16 le varianti dello schema X per ciascuno dei 12 possibili rapporti. In realtà non è necessario prendere in esame tutte le 12 possibilità (partenza di Alpartenza di B; partenza di Alarrivo di B, e~c.): facendone semplicemente l'elenco ci si accorge che 4 dI esse non vanno prese in considerazione perché riguardano le fasi salienti del movimento di un singolo quadratino, mentre altre 4 non sono che ripetizioni con i termini invertiti delle restanti quattro, quelle che dunque dobbiamo esaminare. Queste relazioni sono: partenza di Alpartenza di B' partenza di Alarrivo di B; arrivo di Alpartenza di B' arriv~ di Alarrivo di B. ' . Quale criterio ci permette di individuare il rapporto più Importante nello strutturarsi della configurazione cinetica della «reazione»? Partendo da una situazione in cui i movimenti dei due oggetti sono ben separati nel tempo e addirittura invertiti rispetto alla situazione ottimale (vedi la tabella 7:5, variante 1), e variando progressivamente gli intervalli dI temp~ fra .il prodursi dei due movimenti fino a raggiunge:e la SItuazIOne 10 e a superarla, accade che i rapporti di pnma/dopo delle 4 anzidette relazioni mutino uno dopo l'altro. Lo SI vede dal segno degli intervalli temporali fra le fasi salienti-.considerate in ciascuna relazione: nel caso della partenza dI A e della partenza di B si passa da valori negativi
B
262
r' I
)
(B parte prima di A) a valori positivi (B parte dopo A), passando per un punto zero (B ed A partono insieme). Ci sembra che sia da considerare importante soltanto quel rapporto che in prossimità del punto zero, o della sua inversione, produce un significativo cambiamento del rendimento percettivo. L'esperimento è consistito nel presentare ai quattro soggetti esperti le 16 varianti dello schema X in un'unica seduta, con questo ordine: 3; 8; 13; 14; 1; 6; 10; 9; 16; 12; 2; 4; 11; 15; 7; 5. Come al solito, essi erano liberi di osservare ciascuna situazione finché lo volevano, e soltanto alla fine esprimevano la loro impressione. I risultati sono esposti nella tabella 7.5. Nella prima colonna si trovano i numeri che contraddistinguono le varianti della situazione base, nella seconda colonna gli intervalli in msec fra la partenza del mobile A e del mobile B, nella terza i corrispondenti intervalli fra l'arrivo di A e la partenza di B, nella quarta quelli fra l'arrivo di A e l'arrivo di B, nella quinta quelli fra la partenza di A e l'arrivo di B. Nell'ultima colonna si vede quanti e quali soggetti hanno percepito la «reazione» nel movimento di B: i casi positivi sono segnalati da una pallina nera. Dato lo scarso numero di soggetti che hanno compiuto le osservazioni, ci asterremo dal commentare quantitativamente l'esito dell'esperimento. Viceversa faremo alcuni rilievi di carattere qualitativo che servono a chiarire il ruolo dei fattori temporali nel costituirsi della configurazione cinetica della «reazione»: a) la relazione più importante fra le quattro fasi salienti nelle quali si può articolare l'intera situazione è quella fra l'arrivo del primo mobile e la partenza del secondo mobile; esaminando infatti la tabella 7.5, si può vedere che si verifica un significativo cambiamento del rendimento percettivo in prossimità dello zero (cioè del mutamento dei rapporti di prima/dopo), soltanto della seconda colonna e non in concomitanza dei punti zero delle altre tre colonne; b) perché si abbia la percezione della reazione è necessario che il secondo mobile parta prima dell' arrestarsi del pri263
I
i
i,
Il
~ ~.~.~ ~.'~ ·'Ì~ ..
~
:
TAB. 7.5. Esame dei fattori temporali. Nella prima colonna le varianti della
I
situazione stimolo; nella seconda, terza, quarta e quinta colonna gli intervalli di tempo fra le varie fasi salienti di ogni variante; in ultima colonna i risultati degli esperimenti: sono annerite le caselle di quei soggetti che hanno percepito la nel tempo dei due movimenti produce il medesimo risultato. M~ è po~sibile che l'eccessiva separazione delle due traiettone abbIa un effetto più sottile, che non è da ricondursi alla distanza spaziale in quanto tale. Com'è noto le relaz~~ni ~emporali fenomeniche tra eventi diventan~ via via pm sVIncolate dalla sequenza obiettiva degli stimoli col cres~ere delle. dissi~iglianze fr~ i medesimi, e la diversa posiz~one spazlale del due movImenti può rientrare nel novero dI tali dissimiglianze 3. È ovvio quindi che non si può ave-
3
268
Vedi Fraisse [1957, 107 ss.] ed anche Vicario [1964, 224 ss.].
re alcuna configurazione cinetica stabile se le relazioni temporali fra le sue parti risultano incerte o determinate da altri fattori (diverso rilievo fenomenico tra le parti, spostamento del punto di fissazione, ecc.), estranei agli intervalli temporali predisposti sull'apparecchio che produce gli stimoli. A questo proposito, due soggetti (PB, GK) hanno chiaramente riferito che il rendimento percettivo di talune situazioni ambigue (in cui la distanza fra le due traiettorie era di 10 o di 55 mm) variava a seconda dell'impostazione dell' osservatore, e precisamente nel seguente modo. Se l'attenzione veniva appuntata sulla fase centrale della situazione (arresto di A e partenza di B), l'impressione si concretava facilmente in quella di movimento reattivo; se invece l'attenzione era «dispersiva» o «globale», le medesime situazioni davano luogo all'impressione di due movimenti indipendenti, per lo più di tipo meccanico. Quali sono infine le impressioni riferite dagli osservatori quando la distanza fra le due traiettorie è troppo piccola o troppo grande? Nel primo caso (all'estremità sinistra della curva di figura 7.7) si hanno per lo più impressioni di movimenti meccanici del tipo scatenamento; nel secondo caso (all'estremità destra della curva) l'impressione prevalente è quella di due movimenti indipendenti.
6. Lo spazio percorso dai due mobili
In questa sezione esamineremo il ruolo giocato sul costituirsi dell'impressione di reazione dalla diversa lunghezza del percorso dei due mobili. Nelle osservaziòni preliminari avevamo infatti notato che, a parità delle ~ltre condizioni, l'evidenza della «reattività» nel movimento di B variava a seconda della lunghezza delle traiettorie dell'uno o dell'altro mobile. Allo scopo di chiarire questo punto, abbiamo preparato la seguente situazione sperimentale:
269
I :1
XII. A e B si presentano fermi sulla sinistra dello schermo, separati da una distanza di 1, 3 o 6 cm. Dopo 1 sec, A inizia a spostarsi verso destra in direzione di B alla velocità di 4 cm/sec, e si arresta dopo aver percorso una certa traiettoria. 100 msec prima che A si arresti, B inizia a spostarsi pure verso destra, percorre una certa traiettoria alla velocità di 36 cm/sec, quindi si arresta a sua volta. La situazione viene presentata in 9 varianti, a seconda dello spazio percorso dai due mobili, e precisamente: 1 cm per A e 1 cm per B (XII!); 1 e 3 (XII2 ); 1 e 6 (XII 3); 3 ed 1 (XII 4); 3 e 3 (XIIs); 3 e 6 (XII 6); 6 ed 1 (XII7); 6 e 3 (XIIs); 6 e 6 (XII 9).
Queste nove varianti della situazione XII sono state presentate ai quattro soggetti esperti nel corso di quella serie di 21 situazioni della quale abbiamo parlato nel paragrafo precedente. All'interno della serie le XII I_9 occupavano i seguenti posti: -; XII 3 ; XII 9 ; -; -; -; XII 7 ; -, XIII; -; -; XIIz; XIIs; -; -; -; XII4 ; -; XII 6 ; -; XII 5 . Come abbiamo già detto nel paragrafo precedente, l'intero lotto di situazioni veniva presentato ai soggetti per tre volte in tre sedute diverse: nella prima seduta si cominciava dalla prima situazione del lotto per terminare con la ventunesima, nella seconda seduta si cominciava dalla ottava, per terminare con la settima, nella terza seduta si cominciava dalla quindicesima per terminare cori la quattordicesima. Ciascuna situazione veniva in tal modo sottoposta complessivamente a 12 valutazioni. Non abbiamo ritenuto necessario moltiplicare il numero delle prove perché già alla seconda ripetizione i soggetti dicevano di riconoscere talune situazioni - e tutto ciò malgrado il loro ordine di apparizione fosse mutato. I risultati dell'esperimento vengono esposti nella tabella 7.6, dove vengono elencate, in ordine di frequenza, le impressioni alle quali hanno dato luogo le presentazioni di tutte le varianti della situazione XII. Come si vede, l'impressione di movimento reattivo è molto netta quando il percorso di A è di 3 o 6 cm ed il percorso di B è di 3 cm. L'impressione di reazione è meno buona - essa divide infatti il primo posto con altre configurazioni - quando il percorso di A è di 1, 3 o 6 cm ed il
270
TAB. 7.6. Risultati dell'esperimento sull'influenza della .lunghezza dei per-
corsi dei due mobili nel costituirsi dell'impressIone dI «reazIOne» Variazione della situazione (XII)
Spazio pere. daA, in cm
1
1
rendimenti percettivi di ciascuSpazio pere. na variante, elencati secondo la frequenza, su un totale di 12 da B, valutazioni (3 per ciascuno dei 4 in cm soggetti)
1
reazione (6) due movimenti indipendenti (6)
2
1
3
incertezza (6) reazione (2) lancio (2) scatenamento (2)
3
1
6
scatenamento (6) lancio (5) incertezza (1)
1
reazione (3) lancio (3) due movimenti meccanici (3) incertezza (2) scatenamento (1)
3
reazione (8) incertezza (2) lancio (1) scatenamento (1)
6
lancio (4) incertezza (3) reazione (2) scatenamento (2) due movimenti indipendenti (1)
4
5
6
3
3
3
7
6
1
reazione (4) lancio (4) incertezza (3) due movimenti meccanici (1)
8
6
3
reazione (9) incertezza (2) due movimenti meccanici (1)
6
due movimenti indipendenti (6) reazione (2) lancio (2) incertezza (2)
9
6
percorso di B è di 1 cm. Riuniamo questi dati nel seguente specchietto:
Reazione buona
Reazione non buona
3-3 6-3
1-1 3-1 6-1
dove i numeri separati da un trattino rappresentano i percorsi dei due mobili A-B. A nostro parere, ciò significa che nello strutturarsi della configurazione cinetica della reazione ciò che conta è soprattutto la lunghezza dello spazio percorso dal secondo mobile. Vediamo infatti che il risalto fenomenico del movimento re attivo viene deciso unicamente dalla lunghezza della traiettoria di B: nella casella delle reazioni «buone» ci sono soltanto situazioni in cui B percorre 3 cm, mentre nella casella delle reazioni «non buone» ci sono soltanto situazioni in cui B percorre 1 cm. Al contrario, nell'una e nell'altra casella troviamo situazioni in cui A percorre, 1, 3 o 6 cm. (Il quadro sarebbe perfetto se la situazione XII2 , quella in cui gli spazi percorsi da A-B sono 1-3 cm, non facesse eccezione: essa infatti ha dato impressioni in cui domina soltanto l'incertezza).
7. Il raggio d'azione
In una nostra precedente ricerca sul movimento re attivo [Kanizsa e Vicario 1965], era risultato che la situazione stimolo deve possedere un'altra caratteristica, non sufficiente, ma necessaria, affinché venga percepita la reazione nello spostarsi del mobile B. Deve essere infatti visibile un arresto di quest'ultimo, altrimenti la struttura cinetica nel suo insieme - pur essendo rispettate tutte le altre condizioni ot272
timali - si configura come uno scatenamento, cioè come la «liberazione» di un'energia posseduta in proprio dal secondo mobile. Ci troviamo quindi di fronte ad un nuovo caso di struttura temporale in cui l'evento che si verifica per ultimo (l'arresto del secondo mobile) condiziona il modo di apparire degli eventi che precedono (partenza e spostamento del secondo mobile). Dallo studio di fenomeni consimili sappiamo però che la «disponibilità» degli elementi che precedono non dura a lungo, generalmente 100-200 msec per le strutture più semplici (ad es. il movimento stroboscopico) oppure 1.000-1.200 msec per quelle più complesse (ad es. l'effetto tunnel acustico) [Vicario 1964]. Anche nel caso del movimento re attivo succede lo stesso: la «reazione» si vede soltanto se il secondo mobile si arresta, ma ciò non è sufficiente: deve anche arrestarsi in t~mpo. Questo complesso di fatti, che viene interpretato come «raggio d'azione» del primo segmento della configurazione cinetica sui successivi [Yela 1952a] e che più propriamente dovrebbe essere inteso come una spia delle dimensioni che può raggiungere la configurazione cinetico-temporale prima di dissolversi [Vicario 1964, 181], esige che anche nel presente caso si provveda ad una misurazione del massimo spazio che può essere coperto dal mobile B (o del massimo intervallo di tempo che può essere impiegato dal mobile B nel percorrere la sua traiettoria) prima dell'arresto, senza che si abbia a perdere l'evidenza percettiva della «reazione» di B per effetto dell'avvicinarsi di A. Un'esplorazione sistematica in, questo senso appare del resto necessaria anche in considerazione dei risultati ottenuti nell'esperimento descritto nel precedente capitolo. Nella tabella 7.6 si vede infatti: a) che l'impressione di movimento reattivo divide il primo posto con altri effetti quando il percorso di B è di 1 cm; b) che l'impressione di movimento re attivo è prevalente nei casi in cui il percorso di B è di 3 cm (salvo l'eccezione della quale abbiamo già parlato); c) che l'impressione di movimento reattivo è presente in modesta percentuale, o addirittura assente, quando il per273
corso di B è di 6 cm. Si può pertanto immaginare che allungando convenientemente il percorso di B (e di conseguenza aumentando la durata del suo spostamento, ovvero posponendo l'istante del suo arrestarsi) si giunga ai limiti del raggio d'azione del movimento di A sul movimento di B, cioè ai limiti della configurazione cinetica della reazione. A questo scopo abbiamo preparato una situazione stimolo ottimale sotto ogni aspetto, tranne che per lo spazio percorso (o il tempo impiegato) dal mobile B prima del suo arrestarsi, che viene opportunamente graduato in 6 diverse varianti: XIII. A e B si presentano fermi sulla sinistra dello schermo, a 35 mm di distanza l'uno dall'altro. Dopo 1 sec, A inizia a spostarsi verso destra in direzione di B alla velocità di 4 cm/sec, e si arresta dopo 3 cm di percorso. 100 msec prima che A abbia raggiunto la posizione di arresto, B inizia a spostarsi pure verso destra, alla velocità di 36 cm/sec. Lo spazio percorso ed il tempo impiegato da B assumono i seguenti valori nelle 6 varianti della situazione: 10 mm e 27.8 msec (XIII!); 20 mm e 55.5 msec (XIII2); 35 mm e 97.2 msec (XIII3); 50 mm e 139 msec (XIII4); 70 mm e 194 msec (XIIIs); 95 mm e 264 msec (XIII 6).
Le 6 varianti della situazione XIII sono state presentate ai 4 soggetti esperti nel corso del gruppo di 21 situazioni del quale abbiamo già parlato. All'interno di esso le XIII l _6 occupavano i seguenti posti: -; -; -; XIIh; -; -; -; XIIIs ; -; -; XIII 6 ; -; -; XIIIl; -; XIII 4 ; -; -; -; XIII 3 ; -. Ovviamente queste situazioni - come le XI e le XII - sono state esaminate 12 volte ciascuno, e cioè 3 volte da ogni soggetto. I risultati dell'esperimento sono indicati nella figura 7.8, dove la percentuale di risposte «movimento re attivo di B» è considerata in funzione dello spazio percorso dal secondo mobile (o del tempo impiegato a percorrere tale spazio, in quanto la velocità di B è sempre la stessa, cioè 36 cm/sec). Come si vede, anche nel caso della «reazione», il secondo segmento della configurazione - cioè il movimento di B non può superare certe dimensioni temporali senza che venga compromessa l'esistenza della struttura percettiva della «reazione». Un movimento che dura 194 msec dà luogo sol274
% 100
110
75.0 66.7
60
40
20
o
107
10 27.8
20 55.6
35 97.2
50 139
70
QS
lQ4
204
mm msec.
FIG. 7.8. Incidenza delle risposte: «movimento reattivo di B», in funzione dello spazio percorso dal secondo mobile - o dal tempo impiegato a percorrere tale spazio.
tanto al 50% di risposte positive, le quali si riducono ad una esigua minoranza (8.3%) già quando l'arresto di B si verifica a 264 msec dalla partenza del medesimo. Con l'aumentare dello spazio percorso (e quindi del tempo impiegato), l'impressione di movimento re attivo viene sostituita da impressioni diverse, che vanno da «una reazione debole» (PB), ad effetti di causalità meccanica: «è uno scatenamento» (GK), «B viene soffiato via» (GT). Non mancano impressioni di «mero allontanarsi di B» (PB, GV), oppure di «due movimenti indipendenti» (GV).
8. La polarizzazione dei movimenti Com'è noto, i movimenti percepiti posseggono, insieme con le più svariate caratterizzazioni espressive, anche una «polarizzazione». Un oggetto che si muove non soltanto si sposta, ma anche si «avvicina» o si «allontana» rispetto agli altri oggetti presenti nel campo. Inoltre, malgrado l'oggetto possa essere simmetrico dal punto di vista geometrico, fenomenicamente possiede una «testa» e una «coda»: la prima si 275
trova di solito nel senso della marcia, l'altra dalla parte opposta. In taluni casi può invece verificarsi il contrario - tutto dipende dalle condizioni del campo - e quando la «testa» fenomenica si trova nella direzione opposta a quella di marcia, si percepisce l'«arretrare» dell'oggetto. Nel nostro caso è accaduto sovente che gli osservatori segnalassero siffatta polarizzazione dei due oggetti in movimento A e B, nel senso che il primo sembra avere la «testa» sul suo lato destro, ed il secondo sul suo lato sinistro. In tali condizioni, il quadratino A è visto «dirigersi verso», «avanzare», «aggredire» il quadratino B, mentre B a sua volta è visto «allontanarsi», «ritirarsi», «indietreggiare», mantenendo la «testa» dalla parte di A. Teniamo però presente che non mancano i casi in cui l'osservatore vede B allontanarsi «facendo un balzo in avanti» (così ha detto uno dei soggetti ingenui del primo esperimento), per esempio come una cavalletta che sia molestata all'estremità posteriore. Si pone pertanto il problema se la polarizzazione dei movimenti possa avere un qualche influsso sulla percezione di re attività nel movimento di B. Se si introducono nella situazione - a parità delle altre condizioni - elementi che favoriscono la percezione del movimento di A come un arretramento e quella del movimento di B come uno scatto in avanti, probabilmente l'impressione globale di reazione deve risultare notevolmente diminuita od anche annullata. Abbiamo cercato quindi di determinare a nostra volontà la polarizzazione dei movimenti di A e di B, modificando l'aspetto dei due mobili in modo tale da favorire la presenza della «testa» o della «coda» a qualsivoglia delle loro estremità. Abbiamo pertanto apportato un cambiamento alla situazione tipica ottimale (I), sostituendo ai due quadratini due rettangoli bianchi con una estremità dipinta in arancione, ottenendo così quattro nuove situazioni, le quali esauriscono le possibili distribuzioni degli elementi testa e coda nei due mobili A e B (figura 7.9). Precisiamo che le dimensioni dei rettangoli sono di 5 x 10 mm, e che la larghezza della banda colorata è di 3 mm; tutte le altre caratteristiche spaziali, temporali e cinetiche 276
A
B
XIV XV XVI XVII FIG. 7.9. Situazioni sperimentali XIV-XVII. destinate allo studio dell'influenza della polarizzazione dei movimenti sull'impressione di movimento reattivo. La parte colorata di ciascun mobile (qui rappresentata dall'area tratteggiata) dovrebbe favorire la percezione di quella parte dell'oggetto come «testa».
delle situazioni XIV-XVII sono quelle ottimali della situazione L Va da sé che il metodo adottato per provocare la polarizzazione dei movimenti di A e di B - colorando una delle loro estremità - è soltanto uno dei numerosi possibili. Avremmo avuto certamente un eguale risultato disegnando un puntino vicino al lato minore dei rettangoli, o rendendo puntuta una delle loro estremità. L'impiego del metodo da noi descritto è dovuto soltanto a necessità tecniche contingenti, facilmente intuibili quando si rammenti che il movimento dei rettangoli era ottenuto con i dischi di Michotte. Precisiamo che non necessariamente l'estremità arancione deve essere vissuta come «testa», anche se questa era la nostra intenzione nel preparare le situazioni: l'importante è che sussistano le condizioni perché le estremità dei mobili vengano di volta in volta polarizzate in modo differente. Le situazioni sono state presentate in ordine casuale ai 4 soggetti esperti, i quali le hanno valutate dopo un conveniente periodo di osservazione. Quasi senza eccezioni, i soggetti hanno identificato nell'estremità dipinta in arancio277
r
ne la «testa» di ciascun mobile. Ecco i risultati dell'esperimento: XIV. per tre soggetti (GK, GT, GV) si tratta di un discreto esempio di movimento reattivo da parte di B; per il quarto (PB), il movimento di B è «uno scarto un po' meccanico»; XV. per due soggetti questa situazione è negativa: «un movi-. mento strano» (GK), «la reazione è scarsa, B se ne va quasi spontaneamente» (GV); un terzo soggetto giudica la situazione «una .buona reazione» (GT); il quarto (PB) non soltanto l'ha giudicata «buona», ma ha aggiunto di aver avuto l'impressione che il mobile B rinculasse; XVI. per tutti e quattro i soggetti questa situazione dà un effetto di reazione di gran lunga migliore di tutti gli altri; XVII. un soggetto ha giudicato questa situazione «buona» (GT); gli altri tre l'hanno giudicata negativa: «si tratta di un déclenchement» (PB), «sembrano molle» (GK), «più che altro sembra una staffetta» (GV).
Possiamo sintetizzare i risultati dell'esperimento nel seguente specchietto, dove le risposte dei 4 soggetti sono sommariamente divise in «impressioni di reazione» e «altre impressioni» :
XIV XV XVI XVII
Impressioni di reazione
Altre impressioni
3 2
1 2
4
O
1
3
Come si vede, le impressioni di reazione sono prevalenti (7 contro 3) in quelle situazioni in cui la «testa» del mobile B è rivolta verso il mobile A (XIV e XVI, vedi figura 7.9). Meno importante sembra la polarizzazione del movimento del rettangolino A, dato che si ha un egual numero di impressioni di reazione in quelle situazioni in cui la «testa» di A è nella direzione di marcia (XIV e XV, totale: 5), come in quelle in cui la «testa» è dalla parte opposta (XVI e 278
XVII, totale: 5). Diciamo meno importante, ma non irrilevante, perché esiste una differenza fra il rendimento percettivo della situazione XIV e quello della XVI: quando anche la «testa» di A è rivolta verso B, il numero di soggetti che vede il movimento reattivo cresce e l'impressione medesima acquista maggior vivezza. Si può pertanto affermare che - almeno nelle condizioni da noi utilizzate - l'impressione di movimento reattivo di un oggetto è migliore se è associata con l'impressione di «arretramento» dell'oggetto medesimo. La cosa sembra ancor più verosimile se prendiamo in considerazione la risposta del soggetto PB alla situazione XV: il mobile B è visto contemporaneamente «reagire» ed «arretrare», ma poiché quest'ultima caratteristica è incompatibile con la presenza della «testa» sul lato destro, le due aree cromatiche del mobile B cambiano ruolo: la presenza fenomenica della. «testa» si sposta dalla parte arancione (quella che è sempre stata individuata come «testa») alla parte bianca (quella che è sempre stata vissuta come «corpo» o «coda» del mobile B). In questo caso, evidentemente, le componenti cinetiche e temporali della struttura hanno avuto la meglio sulla naturale tendenza ad orientare i due rettangolini nella direzione della più stretta banda arancione. In altre parole, sembra che la polarizzazione del movimento di A e di B sia in parte dovuta anche al realizzarsi della struttura della reazione; non altrimenti si può spiegare l'equipartizione delle risposte nella situazione XV. La XV è infatti omologa alla situazione XVI, quella che ha dato la totalità di risposte di reazione, solo che si ammetta l'inversione di ruolo fra le parti bianche e arancione di entrambi i mobili. Se questa inversione si verifica, si ricostituisce la posizione «faccia a faccia» dei rettangolini, che verosimilmente è la più propizia al realizzarsi del movimento re attivo di B. Si può quindi concludere che la polarizzazione dei movimenti dei due mobili A e B, oltre che una condizione, è anche un effetto del costituirsi della struttura della «reazione».
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9. Altre condizioni
In questo paragrafo esamineremo i risultati di osservazioni qualitative condotte su situazioni stimolo particolari; il tipo di risultati ottenuti ci ha convinto che, per gli scopi che ci eravamo proposti, un'indagine più approfondita sarebbe stata superflua. a) Lo stato di quiete o di moto dei due oggetti. Nel caso tipico di movimento reattivo (I), ed in quasi tutte le situazioni che abbiamo esaminato, le condizioni cinetiche dei due mobili sono sempre le medesime: dapprima A e B sono fermi, si mette in moto A e poi si arresta, si mette in moto B e poi si arresta. Possono variare i tempi in cui si succedono le varie fasi, ma lo schema cinetico resta sempre lo stesso. Ci è sembrato quindi opportuno osservare il rendimento percettivo di talune situazioni (fra le numerose possibili), in cui le condizioni cinetiche sono differenti da quelle tipiche. Le elenchiamo qui sotto: XVII. La situazione è in tutto eguale alla I, con la sola differenza che il mobile B non si arresta e, dopo aver percorso 8 cm, sparisce dietro uno schermo. In questo caso non viene percepita la «reazione» nel movimento di B, ma si ha piuttosto un'impressione di causalità meccanica, per lo più della specie dello scatenamento, e molto raramente del lancio. XIX. In questa situazione il mobile A compare sullo schermo già dotato di moto. B è fermo in mezzo al campo; A si spo~ta da sinistra verso destra alla velocità di 4 cm/sec, e dopo 2 sec SI arresta in una posizione adiacente a quella di B. 100 msec prima che raggiunga tale punto, B inizia a spostarsi verso destra alla v~locità di 36 cm/sec, e si arresta dopo aver percorso 4 cm. Il rend1ment? percettivo di questa situazione non differisce da quello del caso t1pico. XX. In questa situazione è il mobile B a comparire sullo schermo già dotato di moto. A è fermo sulla sinistra, quando compare B in moto da sinistra verso destra alla velocità di 3 cm/sec. Dopo 600 msec anche A si mette in moto da sinistra verso destra alla velocità di 4 cm/sec. Durante questa fase, quindi, entrambi i quadratini sono in moto, ed A «insegue» B, riducendo progressivamente la distanza che li separa. Quando questa distanza si è ridotta a 15 mm il che accade circa 1 sec dopo che A si è messo in moto, la veÌocità di B passa a 36 cm/sec, ed entrambi i mobili si
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arrestano dopo 100 msec. La distanza che li separa in quel momento è di 52 mm. Il rendimento percettivo di questa situazione non differisce da quello del caso tipico. XXI. In questa situazione è il mobile A che, una volta in moto, non si arresta più. La situazione è in tutto identica alla I, con la sola differenza che A continua a spostarsi - alla velocità costante di 4 cm/sec - anche dopo che B ha iniziato il suo moto. B si mette in moto alla velocità di 36 cm/sec quando la distanza che separa i due quadratini è di lO mm. La presentazione termina con B fermo sulla destra ed A ancora in moto verso B, a 5 mm da quest'ultimo. Il rendimento percettivo di questa situazione non differisce da quello del caso tipico I.
In conclusione, soltanto la situazione XVIII ha dato qualche risultato degno di nota, ed è che l'impressione di «reazione» nel movimento di B è legata soltanto ad un arresto visibile di quest'ultimo; le altre condizioni cinetiche del-
l'insieme non sembrano avere alcuna influenza sul fenomeno. La situazione XVIII può a buon diritto essere considerata come il caso limite del gruppo XIII, quello in cui l'arresto del secondo mobile veniva sempre più differito, allo scopo di misurare l'estensione del cosiddetto raggio d'azione. Vengono così confermate le tesi sostenute nel sesto e nel settimo paragrafo. b) Il verso dei due movimenti. In tutte le situazioni che abbiamo finora esaminato il verso degli spostamenti di entrambi i mobili è da sinistra· a destra. Non ci è sembrato fuor di luogo accertare se, a parità di tutte le altre condizioni, il mutamento di verso del moto di A, di B o di entrambi, abbia un qualche influsso sul costituirsi della configurazione della «reazione». I risultati delle nostre osservazioni sono esposti qui sotto. XXII. La situazione è identica alla I, salvo gli spostamenti dei quadratini A e B, che ora avvengono da destra verso sinistra; spazi, tempi e velocità sono quelli della situazione ottimale. Il rendimento percettivo di questa situazione non differisce da quello del caso tipico I. XXIII. In quest'altra situazione, A e B si presentano immobili nel mezzo dello schermo, a 5 mm l'uno dall'altro. Dopo 1 sec A inizia a spostarsi verso sinistra alla velocità di 4 cm/sec, e si arresta dopo aver percorso 4 cm 100 msec. Prima che A abbia raggiunto la
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poslZlone di arresto, B inizia uno spostamento verso destra alla velocità di 36 cm/sec, e si arresta dopo aver percorso 4 cm. Il rendimento percettivo di questa situazione è quello di due movimenti che si svolgono indipendentemente. XXIV. Questa situazione è identica alla precedente, con la so-
la differenza che B inizia il suo spostamento dalla parte opposta di A non 100 msec prima che A si fermi, ma 100 msec dopo che A è partito. Il rendimento percettivo di questa situazione è ambiguo: accanto all'impressione generica di due movimenti che hanno funzioni o scopi diversi, sussiste l'impressione che l'uno «abbia a che fare» con l'altro.
XXV. In quest'altra situazione, i quadratini A e B si presentano alle due estremità del campo, e muovono l'uno «contro» l'altro. All'inizio A e B si trovano a 85 mm di distanza l'uno dall'altro, fermi; dopo 1 sec, A inizia uno spostamento da sinistra verso il centro dello schermo, alla velocità di 4 cm/sec, e si arresta dopo aver percorso 4 cm 100 msec dopo che A ha iniziato il suo spostamento; si mette in moto B, che dalla destra si porta verso il centro dello schermo alla velocità di 36 cm/sec, e si arresta dopo aver percorso 4 cm. Perciò A continua a spostarsi anche dopo che B si è arrestato, e si accosta a quest'ultimo fermandosi quando la distanza è ridotta a 5 mm. Il rendimento percettivo di questa situazione è per lo più di due movimenti indipendenti, benché talvolta possa sembrare che A si è fermato «perché» B gli ha sbarrato la strada. XXVI. Questa situazione è identica alla precedente, con la sola differenza che B non inizia il suo spostamento poco dopo che A ha iniziato il suo, ma poco prima (200 msec) che A abbia raggiunto il centro dello schermo. Perciò B si arresta circa 100 msec prima di A (essendo più veloce), quando quest'ultimo deve percorrere ancora 4 mm. Il rendimento percettivo di questa situazione è costituito dalla impressione che B «aggredisce» A, oppure che si . prepari attivamente a sbarrargli la strada.
Ci sembra che i risultati di questo gruppo di osservazioni offrano materia di riflessione per precisare sia il concetto di dipendenza fenomenica fra movimenti, sia il concetto di «qualità specifica» o del «significato» di una configurazione cinetica. Per quanto riguarda il primo punto, sembra che la dipendenza fenomenica fra due movimenti si instauri stabilmente soltanto quando c'è integrazione spazio-temporale fra i medesimi. Nella XXIII, dove i mobili si allontanano e la
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congruenza temporale si ha soltanto fra gli istanti dei rispettivi arresti, l'impressione è quella di due movimenti indipendenti. Nella XXIV, in cui i mobili si allontanano, ma c'è congruenza fra gli istanti delle rispettive partenze - cioè quando i due mobili sono vicini - si ha un'impressione sia pur vaga di interdipendenza fra i due eventi. Altrettanto si può dire per la XXV, in cui i mobili si avvicinano, ma c'è congruenza fra gli istanti delle rispettive partenze - cioè quando i due mobili sono distinti fra loro. Nella XXII e nella XXIV, dove c'è congruenza di luoghi e di tempi (B parte press'a poco dove A si arresta, e quasi nello stesso momento in cui A si arresta; B si arresta press'a poco dove si arresta A, e quasi nello stesso momento), si vive una stretta dipendenza fenomenica fra i due movimenti: nel primo caso il movimento di B è una reazione di «fuga» nel secondo caso una reazione di «aggressione». A questo punto giova mettere in risalto il fatto che la XXVI è strutturalmente identica alla XXII e, in definitiva, alla I: stessi spazi percorsi, stesse velocità, stessi tempi che separano gli eventi salienti della configurazione. Quello che cambia è soltanto il verso del secondo movimento, e ciò è sufficiente per cambiare radicalmente il rendimento percettivo delle due situazioni: in un caso abbiamo l'aggressione, nell'altro la fuga. Questo ci conduce a considerare il secondo punto, che riguarda la caratterizzazione espressiva di una configurazione cinetica. Quali sono i fattori dai quali dipendono la «qualità», il «colorito», il «significato» di una certa situazione? Dopo quanto abbiamo detto, sembra lecito affermare che il fattore temporale determina soltanto la connessione di due o più movimenti in un evento unitario, mentre il «tipo» di configuzione che si vede dipende da altri fattori. Ad esempio, è sufficiente un cambiamento di verso per mutare una «fuga» in una «aggressione», oppure un mutamento dei rapporti di velocità per cambiare un effetto tipicamente «meccanico» come quello del lancio, in uno tipicamente «intenzionale» come quello della reazione (vedi secondo paragrafo).
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..... ' ' l' Se volessimo fare un'analogia tra configurazioni cinetiche e configurazioni visive statiche, potremmo dire che il ruolo del fattore temporale nel primo caso equivale in qualche modo a quello sostenuto nel secondo caso dalla vicinanza, dalla buona continuazione o dalla chiusura, fattori che garantiscono egualmente bene sia la visione di una circonferenza che quella di un quadrato, cioè di figure che hanno un ben diverso aspetto e carattere espressivo. Il ruolo di altri fattori, nel caso di configurazioni cinetiche (verso del movimento, rapporto delle velocità, ecc.) sarebbe analogo a quello esercitato nel campo delle configurazioni statiche da quei fattori (grado di curvatura, parallelismo, equidistanza, ecc.) che danno alle singole figure la loro specifica struttura ed espressività, e cioè fanno sì che il cerchio sia un cerchio e il quadrato un quadrato. c) Movimenti di altro tipo. In tutti i casi che abbiamo fin qui esaminato, gli oggetti A e B sono costituiti da quadratini che si spostano lungo una traiettoria orizzontale. Abbiamo perciò deciso di sondare - utilizzando sempre il metodo dei . dischi - il rendimento percettivo di situazioni in cui l'uno o l'altro dei quadratini sono sostituiti da rettangoli che si allungano o si accorciano, come è indicato nella figura qui sotto:
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A
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O
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XXVII. È la situazione illustrata nella figura 7.10. Nel campo ci sono, all'inizio: sulla sinistra un rettangolo arancione A disposto orizzontalmente, di 40 X 5 mm; sulla destra un quadratino bianco B di 5 x 5 mm; fra i due oggetti c'è una distanza di 50 mm. Dopo 1 sec, A comincia ad allungarsi in direzione di B alla velocità di 4 cm/sec, finché la sua lunghezza è diventata di 80 mm. 100 msee prima che A abbia raggiunto la fase di massimo allungamento, B inizia a spostarsi verso destra alla velocità di 36 cm/sec, e si arresta dopo aver percorso 4 cm. Il rendimento percettivo di questa situazione è di movimento reattivo di B, ottimale da ogni punto di vista; esso è quindi identico a quello reso dalla situazione I. XXVIII. La situazione è analoga alla precedente, con i seguenti cambiamenti. La velocità di allungamento di A è di 36 cm/sec; fra la fine dell'allungamento di A e l'inizio dello spostamento di B corre un intervallo di tempo di 100 msec, durante il quale tutto è fermo; la velocità di spostamento di B è di 4 cm/sec. Il rendimento percettivo di questa situazione è una impressione di vaga connessione meccanica di tipo causale fra i due movimenti (lancio, espulsione). XXIX. Nel campo ci sono: sulla sinistra un quadratino arancione A di 5 x 5 mm di lato; sulla destra un rettangolo bianco B disposto orizzontalmente, di 80 x 5 mm; fra A e B esiste una distanza di 50 mm. Dopo 1 sec, A inizia a spostarsi verso Balla velocità di 4 cm/sec, e si arresta dopo aver percorso 4 cm. 100 msec prima che A si arresti, B incomincia ad accorciarsi: il suo lato verticale di sinistra si sposta verso destra alla velocità di 36 cm/sec. L'accorciamento termina allorché B ha raggiunto i 40 mm di lunghezza. Il rendimento percettivo di questa situazione è l'impressione che B si contragga come per effetto di una scossa, con un effetto di reazione intenzionale in tutto simile a quello della situazione tipica (I). XXX. La situazione è come la precedente, ad eccezione delle seguenti modifiche: la velocità di spostamento di A è di 36 cm/sec; un intervallo positivo di tempo - 100 msec - fra l'arrestarsi di A e l'inizio della fase di accorciamento di B; la velocità con cui B si accorcia è di 4 cm/sec. Il rendimento percettivo di questa situazione è una impressione di vaga connessione meccanica di tipo causale (urto).
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7.10. Schema delle fasi in cui si articola la situazione XXVII. Il quadratino in movimento di sinistra della I è stato sostituito da un rettangolo che si allunga con la medesima velocità con la quale si spostava il quadratino.
La prima conclusione che si può trarre da questi risultati è che i movimenti dei due oggetti A e B non devono essere necessariamente degli spostamenti in toto: la reazione può essere egualmente percepita in movimenti «interni» agli oggetti, in questo caso l'accorciarsi di un rettangolo che però
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viene vissuto come fermo al suo posto. Una seconda conclusione è che non è la dimensione delle superfici interessate, né la loro forma, ad influire sul configurarsi della reazione, ma piuttosto il comportamento dei loro margini. Se questi ultimi si spostano secondo le leggi empiriche stabilite nei precedenti esperimenti, si ha percezione di reazione (confrontare tempi e velocità della XXIX con quelli della I). Negli altri casi si configurano altre strutture cinetico-temporali, identiche a quelle che si ottengono con analoghi spo.stamenti di oggetti (confrontare la XXX con la V, o con altra situazione che dia luogo all'effetto lancio). Ad analoga conclusione eravamo giunti osservando il rendimento percettivo di variazioni sistematiche della situazione cinematografica (F1). Avevamo constatato infatti che il formarsi della protuberanza nel cerchio grande appariva come una reazione del medesimo all'avvicinarsi del piccolo ovale soltanto se compariva in maniera· brusca (cioè con un'alta velocità di espansione) ed al momento giusto (un po' prima che il piccolo ovale avesse raggiunto il punto di massimo avvicinamento al cerchio). d) Direzioni diverse del moto di B. Abbiamo preso in esame l'opportunità di studiare questa variabile mediante variazioni sistematiche della situazione cinematografica (F3). In essa, come si ricorderà, un piccolo oggetto attraversava diagonalmente il campo, passando al di sotto di un oggetto grosso: poco prima che la distanza fra i due si riducesse al minimo, l'oggetto grosso «emetteva» delle punte, e l'oggetto piccolo percorreva la restante traiettoria a velocità molto maggiore che nel primo tratto. Nella (F3) l'intera traiettoria era rettilinea; nelle varianti essa assunse la forma di una spezzata, nel senso che la metà di sinistra fu fatta ruotare verso il basso di 30, 45, 60, 90 e 120 gradi. Accadeva così che nel momento in cui l'oggetto grosso emetteva le sue punte, quello piccolo si allontanava, oltre che a velocità elevata, anche con una traiettoria radiale, compiendo cioè un mutamento di direzione. Abbiamo quindi potuto osservare che l'impressione di reazione è migliore quando la traiettoria di fuga si scosta dal
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semplice prolungamento del primo tratto del percorso di B; fa eccezione il mutamento di rotta di 90°, che favorisce l'impressione di un cambiamento di strada «deciso in modo autonomo da B».
lO. Riepilogo
Riassumendo i risultati principali della nostra ricerca, possiamo classificare le condizioni della percezione del movimento «reattivo» nelle seguenti quattro categorie: A. Condizioni spaziali: 1) Una certa separazione fra la traiettoria percorsa dal primo mobile e quella percorsa dal secondo mobile (vedi il quinto paragrafo). 2) Una certa lunghezza della traiettoria percorsa dal secondo mobile (vedi settimo paragrafo). B. Condizioni temporali: 1) Un certo intervallo di tempo fra la partenza e l'arresto del secondo mobile (vedi settimo paragrafo). 2) Un certo intervallo di tempo negativo o un intervallo nullo fra l'arresto del primo mobile e la partenza del secondo mobile (vedi quarto paragrafo). C. Condizioni cinetiche: 1) Un certo rapporto - che è ottimale intorno ad 1/9 - fra la velocità del primo e quella del secondo mobile (vedi secondo paragrafo). 2) Una certa velocità assoluta dei due mobili, fermo restando il rapporto anzidetto (vedi terzo paragrafo). D. Condizioni figurali e di campo: 1) Esistenza di un punto di arresto per il secondo mobile (se tale arresto non c'è, si ha percezione di «scatenamento», vedi nono paragrafo). 2) Polarizzazione dei movimenti dei due oggetti, nel senso di un «avanzamento» del primo e di un «indietreggiamento» del secondo (vedi ottavo paragrafo). 3) Direzione del movimento del secondo oggetto il più possibile «in allontanamento» rispetto alla direzione del movimento del primo oggetto (vedi nono paragrafo). 4) Attenzione del soggetto appuntata sull'evento centrale preso nel suo insieme (arresto del primo mobile e partenza del secondo, vedi quinto paragrafo).
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CAPITOLO OTIAVO
Di quèste condizioni si può affermare che: a) tutte hanno in comu~e la caratteristica di essere necessarie, ma non sufficienti); b) la polarizzazione dei movimenti appare ad un tempo come condizione ma anche come effetto dello strutturarsi della configurazione cinetica della reazione; c) gli effetti dello stato attentivo del soggetto sono almeno altrettanto dubbi quanto difficili da controllare, Abbiamo altresÌ preso nota di talune caratteristiche della situazione stimolo che non influenzano (almeno nelle zone da noi esplorate) la percezione della reazione. Esse sono: 1) La grandezza relativa degli oggetti (vedi parte prima, sesto paragrafo, e parte seconda, nono paragrafo). 2) La forma, il colore, la posizione relativa dei due oggetti (ibidem). 3) Il tipo di movimento degli oggetti, sia esso traslazione o espansione-contrazione (ibidem). 4) La condizione cinetica dei due mobili anteriormente all'inizio del movimento del secondo oggetto (vedi nono paragrafo). 5) In generale, ogni caratteristica spaziale o temporale (per esempio la lunghezza del percorso, o il tempo impiegato a coprirlo) che riguardi soltanto il primo oggetto.
LA VALIDAZIONE DELLE DIAGNOSI DI PERSONALITÀ
1. Valutazione intuitiva della personalità Tutti gli uomini, si sa, sono convinti di essere più o meno buoni psicologi, in grado cioè di giudicare i propri simili in base all'aspetto, al comportamento abituale, all'espressione dei loro sentimenti e delle loro emozioni. Ed in realtà una tale convinzione non manca di un certo fondamento. Senza un minimo di capacità di comprensione allopsichica o di intuito psicologico non sarebbe pensabile una vita di relazione; e non sarebbe possibile il costituirsi di complessi rapporti sociali se non esistesse la possibilità di quella reciproca comprensione su cui si fondono le scelte, le valutazioni, le previsioni del comportamento altrui e l'adattamento del proprio comportamento alle caratteristiche ed alle esigenze, anche inespresse, degli altri. Certo, esistono gradi molto diversi di questa capacità ed una completa sicurezza di giudizio nessuno la possiede: ad ognuno infatti è avvenuto di essersi sbagliato nel giudicare la personalità ed i moventi della condotta altrui, di veder smentite dai fatti le proprie impressioni e di dover correggere talvolta profondamente le proprie valutazioni. Comunque è incontestabile che i sentimenti, le preferenze, le preoccupazioni, il carattere degli altri ci sono in qualche modo accessibili ed è un dato di fatto che gli uomini hanno sempre atteggiato la propria condotta nei confronti di coloro che li circondano facendosi guidare da una supposta loro conoscenza, più o meno perfetta, più o meno sicura. Si può anche dire che in complesso il comportamento e le reazioni
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dei propri simili costituiscono per la maggior parte degli uomini piuttosto conferme che non smentite ai propri giudizi ed alle proprie previsioni. Del resto anche gli argomenti per sostenere una pretesa inconoscibilità della personalità interiore altrui hanno soltanto una validità astratta di principio, ma vengono smentiti dal quotidiano comportamento pratico di coloro stessi che una tale tesi sostengono, i quali non appena si distolgono dai loro ragionamenti in apparenza inconfutabili e si trovano nuovamente di fronte ai loro parenti, colleghi e conoscenti, esplicitamente od implicitamente li giudicano e li classificano come buoni, pazienti, testardi, malevoli, invidiosi, generosi e così via, e differenziano il proprio modo d'agire nei loro riguardi proprio in base a questa conoscenza: che in teoria negano ma di cui in pratica si servono e della cui esattezza nella maggior parte dei casi non dubitano. Una cosiffatta nozione empirica della personalità si fonda, oltre che sulla conoscenza delle manifestazioni della vita pregressa e delle condizioni ambientali nelle quali una personalità si è venuta sviluppando, sull'osservazione di una quantità di segni esteriori: che vanno dall'aspetto generale al modo di muoversi, di parlare, di gestire, al tono della voce, al sorriso, allo sguardo, alla mimica facciale in genere, alla scrittura, e via dicendo. L'interpretazione di questi vari lineamenti esteriori avviene in base alla esperienza individuale ed in base ad una specie di lettura diretta per cui determinate caratteristiche del comportamento suggeriscono in modo immediato date qualità psichiche; così un gesticolare animato e scattante sembra testimoniare una natura esuberante, vivace ed eccitabile, ed il tono della voce, lo sguardo, il sorriso possono esprimere direttamente la timidezza, l'imbarazzo oppure la sicurezza di sé. Indubbiamente tutti questi aspetti del comportamento manifesto possiedono una qualche significatività, immediata od acquisita, per cui indicano qualche cosa che sta dietro ad essi e possono quindi servire a farlo conoscere o intravvedere. Ma i dati ottenuti attraverso una tale «lettura» diretta
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devono, per condurre ad una adeguata valutazione caratterologica, essere interpretati alla luce di una ampia esperienza psicologica. Soltanto dal confronto con le reazioni tipiche di persone della medesima età, sesso, costituzione, classe sociale, ecc. in analoghe situazioni, una determinata manifestazione potrà ad esempio essere considerata normale o meno, espressione di una qualità costante oppure dovuta a particolari condizioni transitorie di tensione o di rilassamento. Intuito psicologico unito dunque ad una vasta esperienza sono premesse indispensabili alla comprensione e valutazione corretta della personalità altrui; e sono doti che in effetti possiedono coloro che, come uomini politici, come uomini d'affari, come educatori, come medici, riescono con successo a scegliere, guidare, dominare, educare, aiutare i propri simili. Ma è chiaro altresì che in queste condizioni le cause di errori e di false interpretazioni non possono che essere molto numerose. Scarso potere di penetrazione psicologica da una parte e difetto di esperienza dall'altra, o esperienza unilaterale, o deformata per effetto di meccanismi inconsci, tendenza alla schematizzazione, alla classificazione per tipi rigidi senza sfumature e plasticità, possibilità di simulazione e di maschera tura da parte dei soggetti, e soprattutto la plurivocità dei segni o sintomi che devono servire alla interpretazione, sono alcune delle principali fonti di giudizi erronei e di diagnosi illusorie, quando la valutazione della personalità viene empiricamente elaborata sui dati forniti dall'impressione individuale. In conclusione, se si può affermare che un minimo di capacità di comprensione dell'altrui personalità fa parte del corredo attitudinale di ogni persona normale, è altrettanto certo che essa è distribuita molto inegualmente fra gli uomini e costituisce comunque una specie di «talento» innato, che solo fino ad un certo punto può venire affinato dall'esperienza e dall'esercizio, per cui l'interpretazione dei segni o tratti rivelatori del carattere interiore sembra debba rimanere pur sempre un'arte e non un'attività tale da assumere la obbiettività ed il rigore dei procedimenti scientifici.
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2. I reattivi caratterologici È naturale e ben comprensibile il desiderio di sfuggire alla natura incerta ed aleatoria delle valutazioni soggettive, sostituendo all'impressione individuale norme di· giudizio più sicure, determinate con criteri obbiettivi, in base all'osservazione sistematica e con il controllo dei metodi esatti e positivi di una scienza. A questa aspirazione - di fornire cioè all'intuizione personale uno strumento preciso, esente da fluttuazioni e deformazioni individuali, di passare in una parola dall'arte alla scienza del carattere - devono la propria origine i tentativi antichi e sempre rinnovati di fondare una tecnica di interpretazione della personalità sulla scorta degli elementi offerti dall'aspetto della costituzione fisica, della fisionomia, della mimica, della conformazione delle mani, della scrittura, del comportamento motorio ed espressivo in genere. Oltre all'assenza di senso critico e di prudente equilibrio nella maggior parte dei loro cultori, al loro fanatismo, alla unilateralità ed arbitrarietà dei punti di vista, alla puerilità dei ragionamenti analogici, alla insufficienza metodologica dei criteri di validazione dei risultati, ciò che la maggior parte di tali «scienze» hanno in comune è il desiderio, legittimo in sé, di sistematizzare le osservazioni caratterologiche, di fornire criteri di valutazione uniformi, in modo da svincolare l'interpretazione dei caratteri dalla soggettività e renderla indipendente dalla capacità intuitiva più o meno sviluppata e dalle sue oscillazioni nel medesimo individuo. Alla medesima esigenza, di eliminare o di ridurre al minimo il margine di errore dovuto alla soggettività dei giudizi, si ispira il lavoro ormai pluridecennale degli psicologi che in numero sempre maggiore si dedicano alla elaborazione di metodi di esame e di diagnosi della personalità che abbiano le caratteristiche di strumenti di misura e valutazione sicura, obbiettiva e costante. Oltre alla determinazione di particolari tecniche ed accorgimenti per rendere più sistematica ed esauriente la raccolta dei dati attraverso i metodi più tradizionali di esplorazione e valutazione costituiti dai
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questionari, autobiografie e colloqui, nei quali in ultima analisi si chiede al soggetto di dare notizie ed opinioni su se stesso, vengono introdotti quei speciali procedimenti di esame che, sull'esempio delle prove di intelligenza, si chiamano test o reattivi caratterologici. Il metodo dei re attivi viene considerato obbiettivo perché, a differenza degli altri metodi, non tende a 'far esprimere al soggetto opinioni su se stesso, ma permette di osservare direttamente il suo comportamento in situazioni ben definite nelle quali le sue qualità, abitudini, aspirazioni, bisogni hanno modo di manifestarsi. Le particolarità di tale comportamento possono venir confrontate con il comportamento, nelle medesime situazioni standardizzate, di altri soggetti le cui caratteristiche sono per altra via ben conosciute. È evidente che attraverso un simile confronto l'impressione soggettiva dell'esaminatore possa venir notevolmente disciplinata ed obbiettivata. Appartengono a questo gruppo di accertamenti obiettivi le cosiddette «miniature», ossia situazioni artificialmente predisposte e riproducenti situazioni della vita reale, la osservazione e registrazione all'insaputa del soggetto del suo comportamento motorio e verbale in tali condizioni (ripresa cinematografica, magnetofono), molteplici misurazioni fisiologiche (pressione sanguigna, curva respiratoria, conducibilità galvanica, ecc.). Ad essi si aggiunge il gruppo di reattivi che, dal meccanismo psicologico che mettono in azione, vengono detti proiettivi, con i quali si tende ad ottenere indizi sulla personalità interiore e soprattutto su quella profonda, attraverso il modo con il quale il soggetto conferisce organizzazione e significato ad un materiale costituito da stimoli indefiniti, ambigui o plurivoci. Il metodo si fonda s~l presupposto che il soggetto imprima le tracce della proprib struttura interiore nelle sue produzioni, sia che queste si ottengano attraverso un meccanismo espressivo-motorio (scrittura, disegno, scarabocchio), o percettivo-strutturale (macchie d'inchiostro, Szondi, tautofono), o appercettivo-dinamico (TAT, gioco, produzione di fantasie). La maggior parte dei re attivi caratterologici, quelli
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proiettivi inclusi, si pongono su una via intermedia tra i due estremi della completa soggettività incontrollata da una parte e della esatta quantificazione dall'altra. Utilizzano il giudizio soggettivo al quale cercano di conferire sicurezza ed attendibilità, costringendolo ad adeguarsi ad un sistema di regole e correggendolo mediante molteplici controlli elaborati in base a criteri di carattere statistico. Rimangono perciò nella loro essenza metodi qualitativi, nei quali le singole determinazioni vengono affidate alla valutazione individuale; non corrono perciò il pericolo della considerazione atomistica e dei suoi risultati astratti, meccanici, lontani dalla realtà viva della personalità, ma sono esposti molto di più al rischio di subire l'influenza della incapacità valutativa dell'esaminatore e di tutte le deformazioni che con una attività di interpretazione e valutazione dei segni o sintomi sono connesse. La definizione di qualitativi non può essere intesa come un appunto critico sufficiente a toglier valore ai procedimenti considerati. Una volta riconosciuta la vanità e l'insensatezza di una quantificazione rigorosamente esatta, sul modello delle misure fisiche, in un campo per sua natura così complesso come quello dei tratti della personàlità, ed ammessa d'altra parte l'esistenza di una effettiva possibilità di comprensione e di giudizio da parte di un uomo del comportamento di un altro uomo, la via veramente scientifica di procedere è proprio quella di prendere a base del procedimento tali atti di giudizio, ponendo la massima cura nell'istituire da una parte regole fisse per la rilevazione dei dati, stabilendo dall'altra norme precise per l'assegnazione di un valore comparativo alle varie componenti che entrano a far parte del giudizio complessivo, disciplinando la elaborazione dei quadri sintetici e delle valutazioni finali di un esame in modo da assicurare che i singoli fattori messi in luce entrino con il loro proprio peso in tale giudizio conclusivo, senza che abbiano troppo a subire spostamenti od alterazioni dovute alla particolare «equazione personale» dell'esaminatore. È mia convinzione che non ci si debba o possa attendere molto di più dalla caratterologia scientifica, senza parlare 294
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delle assurde aspirazioni ad una tecnica di diagnosi meccanizzata ed infallibile che qualche profano pretenderebbe come risultato dei nostri studi. Qualunque metodo per quanto perfezionato non potrà offrirci che indizi e sintomi; la loro interpretazione ed integrazione corretta, la vera e propria diagnosi, sarà sempre affidata all'intuito clinico individuale. L'importante è riuscire a restringere la zona dell'arbitrario, a limitare e compensare le deviazioni sistematiche derivanti dall'angustia degli angoli visuali, dall'esperienza necessariamente ristretta e dalle particolari idiosincrasie e debolezze dell'esaminatore. Giungere cioè a fare della caratterologia una semeiotica positiva, una scienza dei segni rivelatori della personalità, che offra alla diagnosi il sostegno del maggior numero possibile di dati attendibili di valore sperimentato ed univoco. A che punto siamo oggì in questa opera? Quale fiducia possiamg riporre nelle diagnosi che, con procedimenti più o meno complicati, si ottengono mediante i re attivi che in numero sempre crescente vengono posti a nostra disposizione? Rispondere a queste domande significa porsi il problema dei criteri di validazione dei risultati ottenuti con i reattivi, ossia esaminare i metodi della verificazione sperimentale della esattezza delle diagnosi.
3. I criteri di validazione
Perché uno strumento o un procedimento possa venir considerato idoneo a fornire «misure» o anche soltanto a rivelare in forma qualitativa la presenza e l'entità di un fenomeno, è necessario che tale idoneità sia stata accertata in modo preciso e le sue determinazioni controllate obiettivamente così da offrire la garanzia di un funzionamento che soddisfi determinate esigenze minime di attendibilità, di precisione e di costanza. Per quanto concerne in particolare la attendibilità o validità, di cui ora ci occupiamo, la situazione è alquanto diversa per i test di attitudine e per quelli caratterologici. 295
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I primi vengono validati in base a criteri di rendimento, obiettivamente accertabili, spesso misurabili con una certa esattezza. Così ad esempio la validità di una batteria di re attivi mentali, che si suppone mettano in evidenza l'attitudine di riuscire in una data specializzazione professionale, viene stabilita dal grado di correlazione esistente tra la classificazione di un gruppo di individui ottenuta in base ai risultati nei reattivi e quella ottenuta in base all'effettivo rendimento professionale ?egli st1s~i sog?et~i,. determinato qu~ st'ultimo sulla scorta dI eleme tI obblettlVl come: la quantItà e qualità di lavoro svolto o 'entità del guadagno realizzato nei cottimi, il numero degli errori di lavorazione, delle punizioni o multe, degli incidenti e così via. Le difficoltà in questo campo sono molteplici ed esigono una grande cautela nella scelta degli indici di rendimento e di riuscita profèssionale, ma in complesso una lunga esperienza dimostra che è perfettamente possibile predire con buona approssimazione il rendimento di un individuo in base alle sue prestazioni in prove psicotecniche. Molto maggiori diventano le difficoltà quando, anzi che di accertare un'abilità e predire il grado di rendimento, si tratta di stabilire se la diagnosi di una caratteristica della personalità corrisponda in realtà alla sua effettiva presenza nell'individuo considerato; e ciò tanto più se il giudizio ha pretese quantitative, e verte cioè sull'importanza di quella caratteristica nella personalità complessiva e nel modo come essa venga ostacolata, bilanciata o esaltata da altre funzioni. Come è possibile stabilire una correlazione significativa tra le diagnosi -ottenute con un determinato metodo e la effettiva struttura caratterologica dei soggetti? I criteri che possono venir seguiti e che in realtà sono stati adottati, singolarmente o variamente combinati, dai vari ricercatori in questo campo, sono fondamentalmente i seguenti.
a) Controllo del metodo su materiale patologico, di cui cioè sia nota per via clinica la struttura delle funzioni psichiche. b) Osservazione accurata per lunghi periodi di tempo
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del comportamento in circostanze reali della vita dei soggetti esaminati. c) Raccolta dei giudizi convergenti espressi da persone che, per rapporti familiari, d'impiego o di amicizia, dovrebbero conoscere l'individuo sottoposto ad esame. d) Giudizio del soggetto stesso sul grado di esattezza delle affermazioni relative alla sua vita interiore.
a) Il «criterio patologico» si uniforma ad .uno sc~em.a dimostrativo al quale nelle scienze biologiche VIene attnbmto un alto valore probatorio. Esso parte dall'ammissione di , una fondamentale continuità fra stati normali di un organismo e stati morbosi, questi ultimi rappresentando alterazioni dell'equilibrio vitale provocate dall'ipertrofia o dal deficit di una o più funzioni «normali». I processi morbosi non sarebbero pertanto qualcosa di completamente 1976 Subjective contours in «Scientific American», 234, pp. Il 48-52. I 'I 1979 Organization in Vision, New York, Praeger. 1980 Grammatica del vedere, Bologna, Il Mulino. 1985 Seeing and thinking, in «Acta Psycologica», 59, pp. 23I 33. il Kanizsa, G. e Gerbino, W. 1981 Amodal completion: seeing or thinking?, in J. Beck (a Il ~
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IL MULINO
RICERCA
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Finito di stampare nel marzo 1991 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino
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l'inizio del Novecento Fausto Curi, Struttura del risveglio. Sade, Sanguinetz; la modernità let-
teraria Stefano Agosti, Enunciazione e racconto. Per una semiologia della voce
narrativa Giovanni Cacciavillani, I segni dell'incanto. Prospettiva psicoanalltica
sui linguaggi creativi Andrea Battistini, Lo specchio di Dedalo. Autobiografia e blògrafzà
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vita e nell'opera di D'Annunzio PSICOLOGIA
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di adolescenti e processi di socializzazione
Guglielmo Gorni, Lettera nome numero. L'ordine delle cose in Dante Giuliana Carugati, Dalla menzogna al silenzio. La scrittura mistica
della «Commedia» di Dante Paolo Trovato, Con ogni diligenza corretto. La stampa e le revisioni
editoriali dei testi letterari italiani (1470-15 70) Gilberto Sacerdoti, Nuovo cielo, nuova terra. La rivelazione copernicana di «Antonio e Cleopatra» di Shakespeare Vanna Gentili, La Roma antica degli elisabettiani Arnaldo Pizzo russo, Letture di romanzi. Saggi sul romanzo francese del Settecento Stefano Calabrese, Una giornata alfierana. Caricature della Rivoluzione francese Gilberto Lonardi, Ermengarda e il pirata. Manzonz; dramma epico, melodramma
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della società come problema sistemico e negoziale Ida Regalia, Al posto del conflitto. Le relazioni di lavoro nel terZlànO Silvia Gherardi, Le micro-decisioni nelle organizzazioni Paolo Perulli, Società e innovazione. Teorie, attori epolitiche in Italzà e
negli Stati Uniti Loredana Sciolla -Luca Ricolfi, Vent'annidopo. Saggio su una genera-
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Paolo Pini, progresso tecnico e occupazione. Analisi economica degli ef-
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L'approccio ad agenda fissa
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Mutamenti e tendenze nella divisione internazionale del lavoro
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