LINDA FAIRSTEIN SENZA SCAMPO (Likely To Die, 1997) Ad Alice Atwell Fairstein, la migliore. Capitolo 1 Al quarto irritant...
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LINDA FAIRSTEIN SENZA SCAMPO (Likely To Die, 1997) Ad Alice Atwell Fairstein, la migliore. Capitolo 1 Al quarto irritantissimo squillo, partì la segreteria telefonica. La mia voce registrata annunciò che non ero disponibile; rimasi ad ascoltare mentre furiosi martelletti picchiavano dentro la mia testa. La sera prima avevo decisamente bevuto un whisky di troppo. Sbirciai con un occhio solo il quadrante della sveglia che verdeggiava nel buio. Segnava le cinque e trentotto del mattino. «Coop, se sei lì alza la cornetta, dai.» Non mi commossi: grazie a Dio quel giorno non ero di servizio. «È prestissimo e fa freddo: non lasciarmi qui appeso all'unico telefono pubblico funzionante di Manhattan, visto che sto cercando di farti un piacere. Tira su la cornetta, Blondie. Non spacciarmi questa roba del "non disponibile". L'ultima volta che ti ho vista eri la più disponibile della città.» «Buongiorno, ispettore Chapman, e grazie per il voto di fiducia», mormorai nella cornetta, riportando subito il braccio al caldo sotto la trapunta, mentre ascoltavo Mike. Che idea, lasciare spalancata la finestra per far entrare un po' d'aria fresca prima di andare a dormire. La camera era gelida. «Ho una cosa per te. Grossa, se sei pronta a tornare in pista.» Ebbi un sussulto a sentirmi ricordare che da quasi cinque mesi non mi toccava nessuna inchiesta d'un certo peso. L'ultimo caso di cui mi ero occupata, in autunno, l'assassinio della mia amica attrice Isabella Lascar, mi aveva messa professionalmente fuori combattimento. Aveva indotto il procuratore distrettuale a ridistribuire quasi tutto il mio lavoro ad altri, per cui, quando l'assassino era stato catturato, mi ero presa una bella vacanza. Per tutto l'inverno Mike mi aveva accusata di fare del piccolo cabotaggio, evitando le faccende difficili di cui ci eravamo tante volte occupati insieme in passato. «Cos'è che hai per le mani?», domandai. «Oh no, signorina Cooper. Non è uno di quei casi "fa' vedere, ché se è abbastanza sexy me lo tengo". O accetti la missione per fede o seguo la
strada regolamentare e chiamo uno dei tuoi colleghi depressi, chiunque sia di servizio oggi per i casi di omicidio. Ci sarà pure qualche assatanato che non vede l'ora di addentare questa faccenda: non posso farci niente se mi capita uno che non sa la differenza tra il DNA e la NBC. Per lo meno non avrà paura che...» «Va bene, va bene.» Chapman aveva pronunciato la parola magica e io ormai mi ero messa a sedere. Non sapevo se i brividi erano dovuti all'aria gelida che entrava dalla finestra spalancata o alla spaventosa prospettiva di ripiombare nel paesaggio violento, abitato da stupratori e assassini, che da quasi una decina d'anni dominava la mia vita professionale. «È un sì, Blondie? Sei dei nostri, in questa storia?» «Ti prometto che dopo il caffè mostrerò più entusiasmo, Mike. Sì, sono dei vostri.» La sua esuberanza in un momento del genere, alimentata dalla morte innaturale di un essere umano, sarebbe stata offensiva per chiunque non appartenesse alla famiglia dei poliziotti e pubblici ministeri che lavorava nella sua stessa orbita. L'unico conforto era che la vittima in questione avrebbe beneficiato dell'attenzione totale del miglior investigatore di omicidi in circolazione: Mike Chapman. «Ottimo. E adesso, giù dal letto, vestiti, prenditi qualcosa per i postumi della sbornia...» «Stai tirando a indovinare, Sherlock Holmes, o mi stai facendo pedinare?» «Mercer mi ha detto che ieri è stato in ufficio da te. Ha sentito per caso i tuoi progetti per la serata: alla partita di basket con i tuoi ex colleghi di università e poi cena al 21. Elementare, signorina Cooper, elementare. L'unica cosa che non riusciva a immaginare era se, telefonando a quest'ora, avremmo interrotto qualcosa di piccante. Gli ho assicurato che quando la smetterai con l'astinenza saremo i primi a saperlo.» Ignorai la stoccata e accolsi con gioia la notizia che anche Mercer Wallace era della partita. Già poliziotto nella squadra Omicidi, adesso era il miglior investigatore alla Vittime Speciali, e si sobbarcava il peso di tutti i casi più gravi di maniaci sessuali e di serial killer. «Prima di finire i gettoni, vuoi mettermi al corrente della faccenda e darmi l'imbeccata su come venderla al capo oppure no?» Paul Battaglia non gradiva che gli investigatori girassero per il suo ufficio a scegliersi i sostituti procuratori per i crimini più complessi. Era procuratore distrettuale della contea di New York da vent'anni, e aveva sempre operato col sistema del servizio permanente, il cosiddetto modulo omi-
cidi: tutti i giorni, ventiquattr'ore su ventiquattro, c'era sempre un sostituto anziano di turno, pronto a occuparsi dei casi d'omicidio secondo le istruzioni del dipartimento di polizia di New York. Interrogare sospetti, redigere mandati di perquisizione, autorizzare arresti e parlare con testimoni: tutti i compiti ricadevano sul sostituto che era nel modulo, e che veniva contattato per primo dalla polizia. «È un caso fatto apposta per te, Alex. Dico sul serio. La vittima ha subito violenza sessuale. Mercer ha ragione: abbiamo davvero bisogno del tuo aiuto in questo caso.» Mike si riferiva al fatto che io ero capufficio dell'unità speciale Reati Sessuali, fiore all'occhiello di Battaglia, addestrata a trattare con le vittime di stupro e violenza carnale con il dovuto tatto. Spesso molti di questi delitti sfociavano in omicidi e i miei colleghi e io venivamo incaricati anche delle indagini e dei conseguenti processi. Presi dal cassetto del comodino il modulo omicidi del mese, per controllare se pestavo i piedi a uno dei cocchi del procuratore e a quale fuoco di sbarramento andavo incontro: «Be', fino alle otto del mattino è Eddie Fremont a ricevere». «Oh no, salvami!», implorò Mike: «Figlio di senatore. È utile come mettere mia madre a badare alla stazione di polizia. Fremont è un pallone gonfiato di prim'ordine: non credo che riconoscerebbe una causa risolvibile nemmeno sotto tortura». Chapman si divertiva spesso a dare spettacolo al bar di Forlini, la bettola frequentata da tutto il palazzo di giustizia: calendario alla mano, elencava ad alta voce i sostituti di turno del mese e rievocava gli episodi più imbarazzanti delle loro carriere, sfottendoli pubblicamente. Fremont era un bersaglio facile, uno di quei brillanti studenti dalle credenziali accademiche impeccabili che però non riuscivano a dimostrarle in aula. Erano tutti convinti che fosse un raccomandato perché il padre, ex senatore dell'Indiana, era stato compagno di stanza di Battaglia alla facoltà di legge della Columbia University. «Oppure, se lasci passare le otto, puoi avere Laurie Deitcher», proposi, sapendo che sarebbe stata lei a occuparsi dei casi segnalati per tutte le successive ventiquattr'ore. «La principessina? Non ci siamo, Blondie. L'unica volta che ho trattato un caso importante con lei è stato un disastro. All'ora di pranzo, invece di preparare i testimoni o di fare la scaletta dei controinterrogatori, ci faceva aspettare in corridoio mentre lei si metteva in testa i bigodini caldi o si spalmava un altro dito di trucco sulla faccia. Poi incedeva verso il banco
della giuria come fosse Norma Desmond pronta per il primo piano. Grande per le telecamere, ma intanto quel porco scopatore è stato assolto. No, no. Telefona a Battaglia e digli che Wallace e io ti abbiamo svegliata in piena notte perché sei l'unica persona in grado di rispondere alle nostre domande. Mettila giù dura, Cooper. È il caso giusto per te.» «Domande di che tipo, Mike?» «Tipo: è stata violentata prima o dopo essere stata ammazzata? Tipo: stabilire l'ora del decesso ha qualcosa a che fare con il tempo di deterioramento dello sperma a causa dell'interferenza dei fluidi organici della vittima?» «Adesso sì che parli la mia lingua. Certo che un caso così me lo dà. Di che cosa hai bisogno?» «Credo che dovresti venire qui appena puoi. Fa' venire anche i tuoi della squadra Video. La Scientifica ha già esaminato la stanza e ha fatto le fotografie, ma hanno dovuto sgomberare alla svelta. Ho paura che potremmo aver trascurato qualcosa di importante, per cui mi piacerebbe che i tuoi andassero sul posto e riprendessero l'intera zona. Quando salterà fuori la notizia, il posto formicolerà di giornalisti e non riusciremo a conservarlo così com'è.» «Un attimo, Mike: frena e riattacca dal principio. Dove sei?» «Al Mid-Manhattan Medical Center. Al sesto piano del Minuit Building.» 48a Est, appena fuori la Franklin Delano Roosevelt Drive. Il più antico e il più grande complesso ospedaliero della città. La vittima probabilmente era stata trasportata lì nell'estremo tentativo di rianimarla. «Bene, dove ci incontriamo? Dov'è successo?» «Te l'ho appena detto. Al sesto piano del Mid-Manhattan.» «Vuoi dire che è stata ammazzata dentro l'ospedale?» «Stuprata e uccisa dentro l'ospedale. Un pezzo grosso. Neurochirurgo, primario di reparto al policlinico, docente universitaria. Si chiamava Gemma Dogen.» Dopo dieci anni di mestiere, erano poche ormai le cose che mi stupivano, ma la notizia era impressionante. Gli ospedali mi erano sempre sembrati santuari, posti dove si curano feriti e ammalati, dove si alleviano le sofferenze degli ultimi giorni dei moribondi. Ero entrata e uscita dal Mid-Manhattan innumerevoli volte, non solo a far visita a vittime di violenze, ma anche a dare lezioni al personale medico su come occuparsi di questo genere di traumi. Grazie a un restauro, gli edifici di mattoni rossi, vecchi di quasi un secolo, avevano ripreso l'ori-
ginario aspetto di antico sanatorio e, più recentemente, generosi benefattori avevano prestato il proprio nome a un gruppo di grattacieli di granito che ospitavano tecnologie sanitarie d'avanguardia e una struttura universitaria eccezionale: il Minuit Medical College. La sensazione di avere un groviglio di nodi nello stomaco mi fece dimenticare l'insistente pulsare della testa: succedeva sempre, quando venivo a sapere di un delitto insensato e del sacrificio di una vita umana. Cominciai a evocare immagini della dottoressa Dogen, e decine di domande presero forma nella mia mente molto prima che nelle parole: domande sulla sua vita, la sua morte, la carriera, la famiglia, gli amici e i nemici. «Quando è successo, Mike? E come...» «Quindici o venti ore fa... Ti metto al corrente di tutto quando vieni qui. Ci hanno chiamati subito dopo mezzanotte. Sei coltellate. Un polmone disfatto, probabilmente un paio di organi vitali compromessi. L'assassino l'ha lasciata lì credendola morta, in un lago di sangue, ma lei invece ha retto ancora un po'. L'abbiamo presa per un caso "senza scampo". E infatti, prima ancora che arrivassimo nelle vicinanze dell'ospedale, è morta.» Senza scampo. Nome disgraziato per una categoria di casi trattati dalla squadra Omicidi di Manhattan. Vittime trovate dalla polizia in condizioni talmente gravi che, nonostante gli sforzi giganteschi di medici e preti, la stazione successiva per quei poveri corpi sarebbe stato senza dubbio l'obitorio. Basta perder tempo, rimproverai a me stessa. Ti basterà qualche ora con Chapman e Wallace per saperne anche più di quello che vorresti. «Sarò lì fra meno di tre quarti d'ora.» Scesi dal letto e chiusi la finestra. Sollevai la veneziana e, dal mio appartamento al ventesimo piano di una torre dell'Upper East Side, gettai uno sguardo alla città che cominciava a svegliarsi in quella giornata di marzo grigia e orribile. Mi era sempre piaciuto il pungente freddo autunnale che preannuncia le vacanze invernali e i manti di neve di gennaio e febbraio. I miei mesi preferiti erano aprile e maggio, quando in città i parchi si colorano di gemme primaverili e della promessa di calde giornate estive. Scrutando l'orizzonte e vedendo solo tinte smorte e melanconiche, immaginai che Gemma Dogen sarebbe stata d'accordo con me: a dispetto dei grandi poeti, è marzo, in realtà, «il più crudele dei mesi». Capitolo 2
«Mi spiace, signora, è vietato parcheggiare davanti all'ospedale.» Ero appena arrivata, poco prima delle sette. Il poliziotto in uniforme mi faceva cenno di togliermi dal bordo del marciapiede, così abbassai il finestrino del mio gippone nuovo di zecca per spiegare che cosa ci facevo lì e risparmiare i dieci minuti per andare fino all'autosilo, due isolati più a sud. Prima che potessi aprir bocca, una voce aspra abbaiò qualcosa al novellino e io, voltandomi di scatto, vidi il capo McGraw sbattere la portiera dell'auto priva di contrassegni: «Lasciala passare, agente, se non vuoi ritrovarti di ronda a Staten Island. La infili dietro la mia, Alex, e metta il contrassegno sul parabrezza. Immagino che stiamo andando nello stesso posto». Accidenti. A vedermi diretta sulla scena di un delitto, Danny McGraw non era più contento di quanto lo fossi io a vedere lui. Una volta sul posto, ai pezzi grossi della polizia piaceva avere il controllo della situazione e facevano volentieri a meno di ricevere istruzioni dai pubblici ministeri. Probabilmente avrebbe sgridato Chapman per avermi chiamata subito: in casi come questo preferiva avere la possibilità di informare esaurientemente il capo della polizia prima che la procura ne venisse a conoscenza. Pescai dal borsone la targhetta identificativa del dipartimento di polizia e la appoggiai sul volante, rivolta in alto, per segnalare che ero lì di servizio. Quei contrassegni numerati erano più difficili da ottenere dei biglietti vincenti di una lotteria, e la maggior parte dei capi ufficio miei colleghi li consideravano l'extra più allettante di quel mestiere. Scesi dal gippone affondando in una poltiglia di fango e neve, e mi affrettai a raggiungere McGraw per superare con lui le barriere di poliziotti e salire dagli investigatori. Quella mattina i bassotti - il nomignolo affibbiato da quelli della polizia alle guardie giurate che sorvegliano ospedali, grandi magazzini, cinema e campi sportivi - sembravano tenere gli occhi più aperti del solito e a ogni banco delle informazioni e a ogni pianerottolo d'ascensore erano affiancati da poliziotti veri. Al nostro passaggio tutti riconoscevano il capo della squadra Investigativa e lo salutavano portandosi la mano alla visiera. Percorremmo rapidamente l'enorme corridoio centrale del policlinico, superando quattro serie di doppie porte a vento, finché un agente investigativo che non conoscevo ci introdusse nel padiglione del Minuit Medical College. McGraw camminava due volte più veloce del solito. Ero pronta a scommettere, dalle ripetute occhiate che gettava ai miei tacchi alti, che stava cercando di darmi la polvere per stare qualche minuto da solo con i suoi
agenti investigativi di punta, prima che ci ficcassi il naso io. Ma tre pacchetti di sigarette al giorno non potevano competere con l'aerobica delle mie regolari lezioni di danza. Quando arrivammo agli ascensori era talmente a corto di fiato che mi venne la tentazione di suggerirgli una sosta in cardiologia, lungo il tragitto per arrivare al reparto di neurochirurgia. Come tanti suoi colleghi, McGraw non si ricordava che Ginger Rogers faceva esattamente le stesse cose di Fred Astaire in quei filmoni d'una volta... tranne che lei le faceva all'incontrano e portando tacchi alti quanto i miei. Entrammo in ascensore con un giovane investigatore e io premetti il pulsante del sesto piano. Cercai di far chiacchierare il ragazzo per dare al suo capo la possibilità di riprendere fiato, ma rimase impassibile e restio a fornire qualsiasi informazione finché c'era McGraw a portata d'orecchio. Fu un sollievo arrivare e vedere i volti familiari della squadra B, una delle quattro unità della Omicidi, riunita nell'atrio. Maniche rimboccate, taccuini alla mano con qualche appunto scribacchiato, tazze di caffè disseminate ovunque e corpi che immagazzinavano adrenalina per i giorni e le notti che sarebbero inevitabilmente seguiti, salvo risolvere il caso velocemente con un colpo di fortuna. Il mio arrivo suscitò reazioni diverse. Qualche saluto amichevole dai vecchi amici e da chi aveva già lavorato con me, un paio di grugniti accompagnati da un «Salve, sostituto» da quelli che restavano indifferenti alla mia partecipazione e assoluta incuranza da parte di altri due. Il robot di McGraw gli bisbigliò qualche cosa all'orecchio; mi fece cenno di aspettare fuori, e insieme proseguirono oltre l'atrio fino a una porta a metà del corridoio. George Zotos, un ispettore il cui lavoro apprezzavo da anni, mi si avvicinò sorridendo: «Chapman avrà delle rogne: McGraw gli farà una lavata di testa. L ultima cosa che vuole e uno della procura qui a quest'ora... e donna, per di più. Il capo della polizia era a un convegno a Portorico e sta rientrando per via di questa faccenda. Il nostro superiore deve andare a prenderlo all'aeroporto a mezzogiorno con tutti gli elementi già in mano, compresa l'identità del colpevole, se possibile. Siediti, prendi un po' di caffè: vado a chiamarti Mike. Ti metterà in moto lui». Mi offrì il caffè che stava bevendo, lungo, con tre zollette di zucchero. Arricciai il naso a quell'odore dolciastro e domandai se non c'era del caffè nero. George mi indicò lo scatolone che conteneva ancora una mezza dozzina di tazze sigillate. Ne trovai una con la scritta a matita «Nero», appena tiepida ma forte abbastanza da riscuotermi. Ne avevo già ingollate due, avevo sfogliato i giornali del mattino abban-
donati in un angolo e avevo parlato della partita di basket della sera prima con alcuni agenti, quando finalmente McGraw lasciò uscire Chapman dalla stanza. Mi informarono che quello era l'ufficio della vittima, dove era stata massacrata e lasciata moribonda, e dove era stata trovata soltanto molte ore dopo. Non c'erano sospetti né indizi facili, niente scie di orme insanguinate che portavano al laboratorio di qualche scienziato pazzo con manie omicide. La squadra si apprestava al lungo e tedioso compito professionale che piaceva tanto a ciascuno di loro, con la collaborazione degli esperti di medicina legale e dei criminologi, che avrebbero studiato minuziosamente ogni fibra e ogni sostanza affidatagli. «Uff, Blondie», esclamò Chapman affrettandosi lungo il corridoio verso l'atrio, «vedere te per prima di mattina presto ha mandato in bestia quell'uomo. Neanche un po' di considerazione per il buon gusto, eh?» Chapman era nel suo ambiente. Io avrei sempre passato qualche momento della giornata a pensare al lato emotivo della morte di quella donna, a chiedermi chi lasciava e chi la piangeva; Mike, invece, era pronto alla caccia. Gli piaceva occuparsi di assassinii perché non c'erano superstiti, mentre per me aiutare le vittime di violenze sessuali a riprendersi era l'aspetto più importante. Molto più gratificante dei casi di omicidio, in cui al massimo si poteva sperare di vendicare una morte mettendo in gabbia un assassino che avrebbe trascorso le sue lunghe e vuote giornate a verificare i punti deboli del sistema giudiziario. Ma questa non era giustizia, se non si poteva restituire la vita che era stata tolta. Osservai Mike, felice di vedere che, qualsiasi cosa gli avesse detto, McGraw non era riuscito a cancellare quell'inconfondibile marchio di fabbrica che era il suo gran sorriso. La massa di capelli neri era insolitamente scomposta, segno che ciò che aveva visto quella notte lo aveva turbato. Lui non se ne rendeva nemmeno conto, ma io sapevo bene che, quando una cosa lo metteva più sottosopra del solito, si passava continuamente le dita fra i capelli. Il blazer della marina e i jeans, l'abbigliamento che aveva adottato quindici anni prima, quando frequentava il Fordham College, equivalevano per Chapman a una divisa, e lo distinguevano dal resto della prestigiosa squadra Omicidi, tutti in completo grigio o marrone. «Andiamo a sederci lì nell'angolo che ti racconto che cosa ho qui», disse, indicando il grande atrio aperto, nella speranza di appartarci per un po'. «Hai sentito qualche notiziario, stamattina? Ne hanno già parlato?» «Ho sentito la WINS, venendo qui. Neanche una parola. I titoli principali sono ancora lo sciopero dei netturbini e le trattative sindacali. E poi il
prezzo dell'ultimo regalo fatto a Lady Diana dal suo principe arabo.» «Quindi abbiamo ancora qualche ora. Hai le telecamere?» «Certo. Verrà Bannion in persona a fare le riprese.» Per essere sicura di avere il lavoro ben fatto, avevo telefonato a casa al capo della nostra squadra Tecnica. «Mi ha promesso di essere qui alle otto.» «Ecco quello che abbiamo: Gemma Dogen, sesso femminile, bianca.» Sfogliava il taccuino, ma non aveva bisogno degli appunti per ricordarsi le cose fondamentali: «Cinquantotto anni, ma devo dire», adesso Chapman era passato ai commenti, «che era una vecchia di bell'aspetto». «Cinquantotto anni non significa essere vecchi, Mickey.» «Be', non era certo un bocconcino invitante. Quando penso a un delitto sessuale, immagino una ragazza molto attraente che...» «È questo il problema: pensi con le parti intime. Che probabilmente non sono più grandi del cervello.» I casi di violenza sessuale, soprattutto quando lo stupratore è un estraneo, raramente hanno qualcosa in comune con gli atti sessuali consensuali come noi li intendiamo. Si tratta di un crimine odioso e brutale in cui il sesso è l'arma usata dall'aggressore per dominare, degradare e umiliare la vittima. Mike lo sapeva bene quanto me. «Insomma, era una cinquantottenne molto in forma e molto forte che ha ingaggiato una bella lotta. Neurochirurgo. Divorziata, senza figli.» «Chi è l'ex e dov'è?» «Appena me lo dicono, ti faccio sapere. Sono sul caso solo da qualche ora e non abbiamo avuto grandi aiuti, a notte fonda. I colleghi della vittima e il personale paramedico sono arrivati solo un'ora fa, per cui conto di ottenere presto qualche risposta.» Annuii e Mike proseguì: «Da come si presenta l'ufficio, la pista della vita personale della vittima non è molto feconda. Niente foto di famiglia, niente istantanee di cane o di gatto, niente cuscini all'uncinetto con iniziali o aforismi ricamati. Solo file di testi scientifici, dozzine di raccoglitori di radiografie e referti medici, una trentina di modelli di cervello in plastica... e quello che una volta era un magnifico tappeto orientale, tutto inzuppato di sangue». «Chi l'ha trovata?» «Il guardiano notturno faceva il solito giro, poco prima di mezzanotte, per l'ultimo controllo al piano. Era già passato due volte da quel corridoio e non aveva sentito niente. Questa volta, ha detto che si sentivano dei lamenti. Ha preso il passe-partout, ha aperto la porta della dottoressa Dogen,
ha chiamato il pronto soccorso, e subito dopo se l'è squagliata... una fortuna, per i ragazzi della Scientifica.» «Era ancora viva?» «In un senso molto allargato del termine, sì. Il corpo era un colabrodo... quasi completamente dissanguato. Scommetto che era svenuta, quando l'assassino se n'è andato. È rimasta lì per ore, probabilmente, poi ha ingoiato un'ultima boccata di ossigeno, quanto basta per quel paio di rantoli che il guardiano ha sentito. I medici del pronto soccorso sono arrivati di corsa, hanno cercato di attaccarla a tutti i marchingegni di sopravvivenza e l'hanno portata in sala operatoria per dare ossigeno ai polmoni e rappezzare le lesioni interne, ma ormai era troppo tardi. Niente avrebbe potuto salvarla. "Senza scampo" era una definizione ottimistica, per le condizioni della dottoressa Dogen.» «Il medico legale ti ha detto a che ora è stata accoltellata?» «Ma che cosa credi che sia, un film? Dopo l'autopsia, e dopo che avrò chiesto ai collaboratori, agli amici e ai vicini quando l'hanno vista e le hanno parlato l'ultima volta, e dopo che avrò detto al medico legale che ho ristretto i margini di tempo del delitto a quindici minuti del giorno in cui la buona dottoressa è scomparsa, lui mi guarderà negli occhi e mi dirà in tutta sincerità l'ora esatta che io gli avrò appena servito su un piatto d'argento.» Una professionista non sposata, senza figli, senza animali domestici, senza nessuno che dipendesse da lei. Cercai di scacciare dalla mente qualsiasi confronto con la mia situazione e di concentrarmi sui fatti. Mike mi stava fornendo materiale, ma nella mia mente continuava a presentarsi l'immagine del mio cadavere disteso a terra, dietro una porta chiusa all'ottavo piano della procura distrettuale, la gente che ci passa davanti senza che nessuno provi a dare un'occhiata dentro per vedere se c'è qualcuno. Possibile? «Tu credi che sia stata davvero in quella stanza tutto il giorno senza che nessuno lo sapesse o la cercasse? È raccapricciante.» «Alex, Gemma aveva dei ritmi molto simili a quelli che cerchi di sostenere tu. Era già tanto se mano destra e mano sinistra riuscivano a essere presenti contemporaneamente in sala operatoria. Insegnava alla facoltà di medicina, operava qui in ospedale, andava in giro per tutto il mondo a tenere conferenze, veniva chiamata a consulto in un sacco di casi gravi, e nel tempo libero il governo la metteva su un aereo diretto in zone di guerra come la Bosnia e il Ruanda, per missioni di emergenza. E questo è solo quel che ho potato ricavare dall'agenda del mese di marzo che aveva sul
tavolo.» «Che impegni aveva, ieri?» «Ho svegliato il preside della facoltà per chiedergli di controllarlo. La Dogen ha passato il fine settimana fuori città e doveva rientrare lunedì. Ma non era di servizio in ospedale prima delle otto di mattina di martedì, ieri: un collega la aspettava per un intervento. Tutta l'équipe si era già lavata ed era in sala operatoria, il paziente era sotto anestesia, col cranio rasato... e hanno quell'anfiteatro in cui tutti gli studenti possono assistere...» «Lo so, è una clinica universitaria di prim'ordine.» «Be', lei non s'è fatta vedere, né allora né dopo. Il chirurgo, Bob Spector, ha mandato un'infermiera a telefonarle. C'era la segreteria telefonica, ancora con l'annuncio che la Dogen era fuori città. Spector non ha fatto altro che prendere un paio di interni o di praticanti dall'anfiteatro, per dargli una mano, ha imprecato contro Gemma e la sua agenda troppo piena, e si è messo a trapanare un bel buco in mezzo al cervelletto di quel poveraccio.» «Questo mi insegnerà a chiamare più regolarmente Laura per aggiornarla sui miei movimenti», borbottai. Troppe volte scomparivo dalla circolazione, correndo dall'Accademia di polizia a un ufficio della Omicidi, al reparto per le emergenze nei casi di stupro di qualche ospedale, con in mezzo un boccone in fretta e furia con un'amica. C'erano giorni in cui Laura, la mia segretaria, impazziva per starmi dietro e immaginare dove fossi. «Ma cosa vai a pensare, Blondie? Se non ti si trova, dopo un po' il giudice ordina di guardare nel camerino di prova del reparto intimi da Saks: è probabile che ti trovino strangolata da qualcuno meno svelto di te a mettere le mani sugli articoli in saldo. Ehi, girati e saluta McGraw» Tornando all'ascensore, il capo si fermò quanto bastava per dire forte a Chapman: «Fa' fare un giro qui attorno alla signorina Cooper, Mike, poi lasciala tornare in ufficio, al suo lavoro. Chissà quanto ha da fare oggi». «Andiamo. Hai sentito la domanda ieri sera?» Mike si riferiva alla domanda finale che veniva posta nel programma di quiz televisivi «Ultimo Azzardo», del quale eravamo tutt'e due appassionati. «No, ero già uscita per andare alla partita di basket.» «Sta' a sentire, allora. L'argomento era "Trasporti". Quanto ci avresti puntato?» «Venti sacchi.» Ormai era un'abitudine passarci l'un l'altra una decina di dollari ogni due o tre giorni, perché avevamo punti di forza e punti deboli diversi, ma quello non sembrava un argomento troppo astruso, o religioso. «Benissimo, la domanda è: qual è l'aeroporto americano col maggior
volume quotidiano di scambio merci?» La solita fortuna: una domanda trabocchetto. Non poteva essere l'O'Hare di Chicago perché sarebbe stato troppo ovvio, e poi era specificato merci, non passeggeri. Mentre ci dirigevamo verso l'ufficio della Dogen, passai rapidamente in rivista tutte le città principali. «Tempo scaduto. Allora?» «Miami?», buttai lì, pensando ai chili di droga che passano regolarmente da lì ogni giorno, ma sapevo che gli autori del programma non potevano puntare sul contrabbando. «Sbagliato, Cooper. Ci crederesti? Memphis. È lì che atterrano tutti gli aerei della Federal Express per poi far rotta su qualunque altra destinazione finale. Interessante, eh? Fuori i soldi, bimba.» «Perché? Tu avevi indovinato?» «Noo. Ma non è questo il punto della nostra scommessa, vero?» Mike bussò alla pesante porta di legno, su cui risaltavano a lettere d'oro nome, cognome e titolo di Gemma Dogen. Mercer Wallace aprì e io barcollai alla vista del tappeto celeste zuppo di sangue umano. Era incredibile che la vittima ne avesse ancora una goccia nelle vene, e ancor più che avesse la forza per cercare di salvarsi, come era evidente che aveva fatto. Mi ci volle qualche istante per distogliere lo sguardo, e qualche giorno per togliermi dalla mente quella scura macchia rossa. Capitolo 3 Mercer mi prese per mano e mi condusse attraverso l'ufficio fino alla scrivania, aggirando la larga macchia di sangue sul pavimento. Raymond Peterson, tenente incaricato della Omicidi e veterano con oltre trent'anni di esperienza, parlava al telefonino e, dandomi le spalle, guardava fuori dalla finestra che si affacciava sull'East River e la costa di Queens. Uno degli agenti della Scientifica era ancora chino sullo schedario, con i guanti di gomma, a sfogliare i fascicoli per vedere su quali superfici cospargere la polvere per rilevare le impronte più recenti. Peterson, di solito molto laconico, era ovviamente in preda all'agitazione e gridava al telefono: «Stronzate. Non me ne frega niente di quanti agenti devi togliere da quella scorta o autorizzare agli straordinari. Ne abbiamo bisogno qui per rovistare nella spazzatura. Sì, ho detto proprio così. Spazzatura. Chiunque sia stato, doveva essere coperto di sangue della vittima, quando è uscito dalla stanza. Di qui non esce nemmeno una pagliuzza fin-
ché non abbiamo passato tutto al setaccio per trovare indumenti, armi...». Chapman scuoteva la testa, rivolto a Mercer e a me: «Non c'è recipiente di questo ospedale che non contenga rifiuti sporchi di sangue umano. È un centro medico, non una scuola materna. Per questa strada, non ci arriveremo mai a risolvere il caso». «Va fatto, caro mio», replicò Mercer. «Magari sarà una gran perdita di tempo e di energie, ma non si può evitare.» «Buongiorno, tenente», dissi a Peterson. «Grazie di avermi fatto essere della partita.» Peterson premette il pulsante di fine chiamata, poi si voltò e mi sorrise. «Felice di averti qui, Alex. Questi buffoni pensano che tu possa aiutarci a fare un po' di luce sulla faccenda.» L'accoglienza del tenente mi fece piacere. Lui e il capo McGraw erano della stessa generazione, quanto ad anzianità di servizio: venivano da un'epoca in cui alle donne non era consentito essere né investigataci nella Omicidi né pubblici ministeri. Tutti e due erano entrati all'Accademia nel 1965, quando gli assassinii erano considerati un lavoro da uomini. Era stato Paul Battaglia, una decina d'anni dopo, a cambiare faccia al mestiere aprendo i ranghi alle giovani laureate in legge, sempre più numerose. L'ufficio del procuratore distrettuale della contea di New York era arrivato a contare, negli anni Novanta, circa seicento legali. Ormai la metà dei sostituti procuratori, per qualsiasi tipo di reato, dal minimo furtarello all'omicidio premeditato di primo grado, erano donne. «Le ho dato le informazioni essenziali, capo. Ha qualcosa da chiederle fintanto che l'abbiamo qui?» «L'avrò dopo l'autopsia, Alex. Il movente sembra la violenza sessuale. Il posto non ha l'aria di essere stato rovistato alla ricerca di roba di valore. Il portafogli è ancora nel cassetto della scrivania. Per il momento partiamo tutti dall'idea che sia stata violentata. Il tizio l'ha imbavagliata con un indumento per farla star zitta... l'abbiamo mandato in laboratorio. Era con la gonna sollevata, senza collant e senza mutandine. Pensi che il tempo che è rimasta qui influisca sulla possibilità di trovare delle... hmm... be', cose che colleghino vittima e assassino?» «Intende tracce di DNA?» Chapman interloquì: «Intende che, anche se ha deciso di fare lo sbirro e non il prete, non gli riesce facile parlare di funzioni corporali e di organi sessuali. È un cattolico irlandese, Cooper: prima di tutto e sopra a ogni cosa. Che possibilità ci sono che nella vagina della dottoressa sia rimasto del-
lo sperma e che ci torni utile? Ecco il tipo di cose che il tenente vuole sapere». «Le variabili sono troppe, a questo punto. Se l'assassino ha eiaculato e se l'ha fatto nel cavo vaginale o sul corpo della dottoressa, allora conterei di trovare del liquido seminale», cominciai. «Ameno che non avesse il preservativo. Ci crediate o no, adesso ci sono perfino degli stupratori che si portano dietro i preservativi.» Chapman scosse la testa incredulo, mentre io proseguivo: «Sono sicura che quelli che l'hanno soccorsa erano più interessati a cercare di rianimarla che a raccogliere prove, per cui non c'è modo di sapere nemmeno se qualcuno le abbia fatto un esame interno. Comunque glielo farà il medico legale nel corso dell'autopsia. Era sdraiata di pancia o di schiena?». «Di pancia, quando il guardiano l'ha trovata», disse Mercer. «Bene, se è stata qui per delle ore, di pancia è meglio.» «E perché?», domandò Peterson. «Legge di gravità, tenente. In quel modo è meno probabile che il liquido seminale fuoriesca. E quanto meno tempo passa tra la violenza sessuale e la morte, minori sono le possibilità che le secrezioni della vittima contribuiscano al deterioramento dello sperma. Per cui ci può essere qualcosa di utile. «Un altro problema», proseguii, «è trovare qualcuno che sappia a quando risale l'ultimo amplesso della dottoressa. Ci potrebbe essere del seme ancora intatto depositato da un amante o da un amico ieri o l'altro ieri. L'assassino può avere delle disfunzioni o non aver eiaculato, ecco un buon motivo che potrebbe averlo fatto infuriare fino ad accoltellare la vittima, e il seme proverrebbe da un amplesso precedente, consumato del tutto consensualmente. E la cosa ci manderebbe fuori strada. Mike, quando parli col medico legale, raccomandagli di controllare bene i peli del pube. Anche lì è possibile trovare DNA.» «Ecco come faremo», disse il tenente. «Non è il caso di chiacchierare troppo in giro finché non avremo maggiori elementi. Non solo su questa roba, ma sull'intera situazione. Il capo affiderà l'indagine a un'unità specifica. Mi darà anche investigatori di altre sezioni per collaborare con la Omicidi, oltre a Mercer e a qualcuno della Vittime Speciali, per via della componente sessuale dell'aggressione.» «Dove faremo base?», domandò Mercer. «Ce ne occuperemo da un ufficio nel 17° distretto. Chapman, tu andrai ad assistere all'autopsia e a sbrigartela con il medico legale, va bene?»
Mike annuì e. annotò ancora qualcosa sul taccuino. «Voglio anche che tu faccia una bella chiacchierata con qualcuno dell'amministrazione dell'ospedale. Devi avere una mappa completa e una descrizione di questi edifici, uno per uno: come sono collegati tra loro, come vi si accede, dove dovrebbe trovarsi ogni porta, ogni serratura, ogni guardiano, e dove si trovano davvero. Voglio un elenco di tutti i dipendenti del policlinico: medici, infermiere, studenti, tecnici, fattorini, inservienti. Di tutti i pazienti, degenti e non. Tutti i nomi di quel manicomio di ospedale psichiatrico qui accanto... e non voglio sentire fesserie su informazioni riservate. O cooperano o quando avrò finito si ritroveranno in camicia di forza.» Anche Mercer era lì pronto con la penna, in attesa di ordini. «Wallace, tu cominci con gli aspetti personali. Trova l'ex, interroga i vicini e i colleghi, fatti un quadro delle abitudini e delle frequentazioni. Zotos ti aiuterà, in questo. Ci serve un controllo sul luogo - tutti i delitti già commessi qui in precedenza - per poi passare a tutti gli altri ospedali della città.» «Fatto, capo.» «Dopo di ché, controllate i centri ospedalieri di Philadelphia, di Washington e di Boston, per vedere se da qualche altra parte è successo qualcosa del genere. Oggi pomeriggio farò dirigere a qualcuno la faccenda della spazzatura e farò collegare una linea telefonica diretta per le soffiate. Alex, tu fai controllare dai tuoi tutti i dati di archivio riguardanti un modus operandi analogo o che abbiano a che fare con una struttura medicoospedaliera.» «Ci mettiamo subito al lavoro. Mi piacerebbe anche dare un'occhiata all'appartamento della Dogen, se è possibile. Non tanto per eventuali prove... a quello può pensarci Mercer. Ma quando avrà finito, mi piacerebbe tornarci di nuovo con lui. È una cosa che mi serve per conoscere la vittima, per farmi un'idea di come viveva.» Nei casi di omicidio, a differenza degli stupri, non c'era una superstite a collaborare con me, non c'era modo di penetrare in uno spirito andato distrutto con la morte. E in assenza di familiari che mi parlassero di quella persona, di quell'esistenza, non avevo altro modo per saperne qualcosa ai fini dell'indagine. «Nessun problema, capo. Ho già fatto perlustrare l'appartamento, quindi ci possiamo tornare con la Cooper quando vuole.» «Okay, Mercer. Ma assicurati che sia sigillato... Non voglio che qualche parente o amico si porti via qualcosa prima che ci siamo fatti un'idea del
posto.» «Che ne dice se alla fine della giornata ci riuniamo per vedere che cosa abbiamo in mano?», chiese Chapman a Peterson. «Perfetto. Tutti alla stazione di polizia del 17° alle sette. Sono sicuro che il capo vorrà un rapporto sulla situazione, per cui arrivateci preparati. Anche tu, Alex.» Lo ringraziai di nuovo e uscii con Mike, aggirando il tappeto insanguinato. Guardavo a terra per non calpestare la scia di morte di Gemma, e mi cadde l'occhio su una chiazza rosso scuro che sembrava quasi tracciata intenzionalmente sul pavimento. Era piena e nitida, in contrasto con le impronte scolorite che segnavano il percorso della vittima dal punto in cui era iniziata l'aggressione. «Tu che cosa credi che sia, Mercer?», domandai senza voltarmi all'investigatore che si trovava ancora alle mie spalle. «Che cosa?» «Quel segno sul pavimento, in mezzo al sangue.» «Non andare a cercarmi dei fantasmi, Coop. È solo sangue.» Anche Mike si era voltato a guardare e tutti e due ci eravamo chinati sul punto che avevo individuato: «Assomiglia a uno di quei marchi che si fanno al bestiame... Forse la fibbia di una cintura o qualche fermaglio che ha lasciato l'impronta o è stato premuto in quel punto. La Scientifica l'ha fotografato». Secondo me non aveva nemmeno lontanamente l'aria di una cosa del genere. «Sembra come se Gemma avesse voluto scrivere qualcosa, come se fosse parte di una parola.» Chapman mi sovrastava: «Non aveva neanche la forza di respirare, Blondie, figurati di scrivere. Stava cercando di sfangarla, non di fare la lista della spesa». Lo ignorai e tracciai il disegno nell'aria per Mercer. «Sembra la lettera F, vedi, una F maiuscola... o forse una R, ma con gli angoli squadrati... e poi una coda che va in questa direzione, tutta contorta», dissi disegnando una linea invisibile dall'estremità verso il basso, a sinistra. «No?» «Diremo ai tuoi ragazzi della squadra Video di farne qualche ripresa, Alex, ma sono sicuro che si tratta solo di pie illusioni.» «Scattami una polaroid, Mercer.» L'agente annuì, ma mentre se lo annotava sul taccuino fischiettava Just My Imagination, il vecchio motivo dei Temptations. Mike ci fece uscire, disse al poliziotto di guardia di non lasciar entrare
nessuno senza autorizzazione, richiuse la porta e mentre ci avviavamo lungo il corridoio, ammiccò: «Immagino già l'arringa finale... è questo che cominci a preparare appena hai un caso tra le mani, vero?... con una di quelle sparate drammatiche sulla mano che esce dalla tomba a indicare l'assassino. Buona idea, Cooper. Magari la giuria riderà, ma la stampa ne sarà entusiasta». Capitolo 4 Erano le otto e mezza quando parcheggiai il gippone nel vicolo davanti all'ingresso della procura distrettuale e tolsi dall'agendina il tesserino di riconoscimento che mi avrebbe permesso di superare il metal-detector alla porta principale. Presi il terzo caffè della mattinata dal venditore ambulante che tutti i giorni stazionava all'angolo di Centre Street col carrello di pasticcini yiddish e passai davanti alla guardia, troppo intenta a guardare una rivistaccia per accorgersi del mio arrivo. Mi piaceva essere alla scrivania almeno un'ora prima delle nove, quando l'immenso ufficio si animava di magistrati, avvocati, poliziotti, testimoni, giurati e malfattori di ogni tipo, oltre a migliaia di telefoni che squillavano senza sosta per tutto il giorno. Nella pace del primo mattino, potevo leggere le comparse attinenti ai casi di cui mi occupavo e rispondervi, analizzare attentamente i rapporti inoltrati dai sostituti appartenenti alla mia unità e rispondere a qualcuna delle chiamate che inevitabilmente si accumulavano durante i turni di lavoro. Nel mio corridoio, l'ala dirigenti della divisione Processi, non c'era ancora nessuno. Quindi accesi l'interruttore generale, aprii la porta dell'ufficio e, passata davanti alla scrivania della mia segretaria, Laura, andai ad appendere la giacca nell'armadietto d'angolo. Nel locale c'erano dieci gradi, per cui tolsi le scarpe e mi arrampicai sul tavolino del computer di Laura, armata di cacciavite, per arrivare al termostato che un tecnico particolarmente sadico aveva rinchiuso dietro una grata metallica fuori dalla portata di un essere umano. Regolata la temperatura a livelli più sopportabili, riuscii finalmente a sedermi alla scrivania. Ai miei colleghi e a me veniva affidata la sicurezza e la tranquillità dei milioni di persone che abitavano in quella città e che ogni giorno vi si riversavano, ma non il controllo della temperatura nelle stanze fatiscenti del palazzo di giustizia. Composi il numero interno della mia vice per lasciarle un messaggio nella casella vocale: «Ciao, Sarah. Chiamami appena arrivi. Abbiamo un
omicidio con Chapman al Mid-Manhattan e dovremo effettuare una ricerca a tappeto sui casi che hanno a che fare con medici e infermieri, ospedali e istituti psichiatrici. È probabile che abbia bisogno di aiuto anche per rivedere i miei impegni». La telefonata successiva fu alle mie due assistenti praticanti, che avevano l'ufficio nel corridoio accanto. Erano due ragazze in gamba che si erano diplomate in primavera e facevano con me un anno di praticantato prima di andare a studiare legge all'università: «Riunione da me alle dieci. Ci sono un nuovo caso e molte faccende da sbrigare. Non se ne parla di andare a quella conferenza alla questura centrale... ho bisogno di voi qui». Chiamai il numero memorizzato della mia amica Joan Stafford, sicuramente fuori a fare ginnastica con un allenatore personale, e trovai la segreteria telefonica: «Sono Alex. Cancella cena e teatro stasera e vedi se Ann Jordan vuole il mio biglietto. Ho da lavorare. Scusami con le altre, ci sentiamo domani». Joan aveva preso per tutto un gruppo di amiche i biglietti di una nuova commedia di Mamet in scena da due settimane, ma non ce l'avrei fatta ad andare con loro. Rose Malone, assistente esecutiva del procuratore distrettuale, era già al lavoro quando la chiamai per chiederle di lui: «A che ora dovrebbe arrivare Paul?». «Ha un intervento in consiglio comunale alle nove, credo che arrivi qui prima di mezzogiorno. Ti devo aggiungere alla lista?» «Sì, grazie. Ho preso un caso di omicidio stamani e devo assolutamente metterlo al corrente.» «Lo è già, Alexandra. Mi ha appena telefonato dalla sua auto e mi ha detto che il capo della polizia lo ha informato. Non so se sapevi che la signora Battaglia è nel consiglio d'amministrazione del Mid-Manhattan.» Mai che riuscissi a dire a Paul Battaglia qualcosa che lui non sapesse già. Aveva più fonti d'informazione lui che hamburger un fast food. «Io sono in ufficio, Rose, quando ha bisogno di me non fai altro che chiamarmi.» Diedi un'occhiata all'agenda e feci un elenco delle riunioni e degli interrogatori di testimoni di cui Sarah poteva occuparsi in vece mia, cerchiando in rosso quei pochi che volevo tenere per me. Accesi il computer e digitai rapidamente la replica a un'istanza stereotipata presentata dal difensore in un caso di violenza di un marito ai danni della moglie, con la quale il mio avversario, senza crederci molto nemmeno lui, cercava di ritrattare la confessione resa dal suo assistito ai poliziotti. Appena arrivata, Laura l'avreb-
be impaginata e stampata, io avrei corretto la bozza e firmato il testo definitivo per sottoporlo al giudice ben prima delle tre, termine di presentazione delle mie pratiche. Avevo appena finito di scrivere quando nel mio ufficio comparve Sarah Brenner, le braccia cariche di scartafacci e fascicoli. «E non è che l'inizio», annunciò scuotendo la testa. «Prendo un caffè e torno subito... l'arpia mi ha tenuta sveglia per metà nottata. Sta mettendo i denti.» Quella giovane legale, dotata di grande fascino e di un piacevolissimo carattere, lavorava con la mia stessa diligenza ma riusciva contemporaneamente a fare da madre affettuosa a una esigente bimbetta, ribattezzata «arpia» per la portentosa capacità di aggrapparsi a Sarah e far la lagna, di solito nel cuore della notte, quando lei cercava di dormire. Ora aspettava il secondo figlio e tuttavia aveva più energia ed entusiasmo per il lavoro di gran parte dei legali con cui mi ero trovata gomito a gomito nel corso delle indagini più impegnative. Tornata dal distributore di caffè, Sarah si sedette all'estremità della mia scrivania: «Hai voglia di tenertela tu per qualche notte? Esprimere il tuo istinto materno eccetera eccetera?». «Io ce l'ho già la mia arpia. Chapman. Stamattina mi ha svegliata per darmi un caso. Vorrei tenerlo, se il capo me lo permette, ma se per te è troppa fatica lascio perdere.» «Non essere ridicola. Ne ho ancora per cinque mesi. Sto benone e preferisco mille volte stare qui che a casa.» Esitò: «Non vedevo l'ora che qualcosa risvegliasse il tuo interesse. Ti ci vuole un caso tosto per scuoterti. Mi occupo io di tutto il tuo sovrappiù. Promesso. Di che si tratta, questa volta?». Le raccontai quello che avevo visto e sentito al Mid-Manhattan e gli incarichi che il tenente Peterson aveva assegnato a ciascuno. «Fa' solo in modo che si risolva prima che mi vengano le doglie. Non voglio partorire a casa, come in Rosemary's Baby, ma il pensiero che in ospedale si aggiri un maniaco è agghiacciante. Te ne accorgerai passando in rassegna i casi che abbiamo. Cioè, sono tutti in strutture diverse e a distanza di molto tempo l'uno dall'altro, ma sarà certamente utile.» Di alcuni di quei casi mi ero occupata io, negli anni passati lì alla Reati Sessuali, ma non erano mai stati presi in considerazione come categoria a sé. Sarah e io cominciammo a ripescarli dalla memoria, ricordandoci a vicenda casi di cui avevamo sentito in interrogatori recenti o in rapporti di polizia. Alle dieci arrivarono anche le due praticanti, Maxine ed Elizabeth,
e affidammo loro la ricerca manuale negli schedari di tutte le segnalazioni di violenze sessuali subite o testimoniate negli ultimi dieci anni a Manhattan. «Tirate fuori ogni caso in cui siano menzionate, al di fuori dei referti riguardanti la vittima, le parole ospedale, medico, infermiera, perito radiologo, paziente psichiatrico o qualsiasi altra cosa che sembri avere a che fare con un ambiente medico-sanitario. Una fotocopia per me e una per Sarah di ogni documento. Voglio tutto quel che riuscite a trovare prima di andare via stasera.» Poco dopo le dieci era arrivata anche Laura e le affidammo lo stesso incarico per quanto riguardava i dati memorizzati nel computer. Non risalivano tanto indietro quanto gli archivi cartacei, ma sarebbe stato un controllo più rapido della tediosa esplorazione di tutti i documenti manoscritti che Sarah e io avevamo raccolto da quando avevamo creato quell'unità: l'archivio sulla devianza sessuale più completo del mondo. «C'è altro che posso fare, stamattina?», chiese Sarah. «No, grazie. Da un momento all'altro verrà giù Margie Burrows. Devo reinterrogare una sua testimone. La prima volta lei si è dimenticata alcune questioni essenziali.» Niente di strano. La Burrows aveva chiesto di essere assegnata al nostro reparto e, per verificare le sue capacità, le avevamo dato un paio di casi di cui occuparsi con la nostra supervisione. Possedeva la compassione e il tatto che occorrono per trattare con le vittime di stupro - doti rare tra gli inquirenti -, ma non aveva ancora acquisito l'occhio critico per individuare le incoerenze. Si trattava di un equilibrio delicato per il quale certi addetti agli interrogatori, come Sarah, sembrano avere un istinto e che altri non riuscirebbero mai a imparare. Quando Margie si presentò da Laura, Sarah se ne andò. Feci entrare la giovane collega e preparai un'altra sedia per la vittima accusatrice, Clarita Salerios. Avevo letto gli appunti di Margie e sapevo che la Salerios aveva quarantasette anni ed era impiegata nell'ufficio spedizioni di una grande azienda. Era divorziata e i suoi figli, già adulti, vivevano a Santo Domingo. Di recente era caduta in un grave stato depressivo a causa della morte dell'ex marito, con il quale aveva tentato di riconciliarsi. Un'amica le aveva presentato un santero, un guaritore di sessantasei anni, Angel Cassano, arrestato con l'accusa di aver cercato di violentarla parecchie settimane prima. Mi presentai a Clarita e le spiegai che, anche se Margie l'aveva già inter-
rogata a lungo, c'erano ancora fatti che non mi erano chiari. Per esempio, perché un santero? «No è problema, signorina Alex. Le dirò tutto quello che vuole. Immagino che voi lo chiamereste uno stregone.» Quella faccenda mi avrebbe occupata per qualche ora, impedendomi di pensare a Gemma Dogen. Fra le migliaia di casi che avevo trattato da dieci anni a quella parte, non m'era mai capitato uno stregone. Clarita mi spiegò di essere andata qualche mese prima dall'imputato per farsi aiutare a superare il trauma della morte dell'ex marito. Angel - nome appropriato al mestiere - per prima cosa l'aveva portata nel cimitero di Queens dove era sepolto il señor Salerios, e aveva compiuto certi riti. Siccome era parzialmente cieco, Clarita aveva accettato di riaccompagnarlo a casa nel quartiere ispanico. Al quarto o quinto viaggio, Angel l'aveva invitata a salire in casa per compiere un rito supplementare. Verso metà febbraio, Clarita e Angel avevano saltato la visita al cimitero e lei era andata direttamente a casa del santero. In quella occasione il rito magico aveva subito un piccolo cambiamento. Angel aveva detto alla fiduciosa donna di togliersi tutti i vestiti e sdraiarsi su una coperta stesa sul pavimento. «Le è parsa una cosa strana, Clarita?» «No problema, signorina Alex. È quasi cieco, il vecchio.» Annuii, pensando a tutte le volte che avevo raccomandato a poliziotti e colleghi di non essere prevenuti nei confronti delle vittime di violenza. Angel l'aveva fatta cadere in una specie di trance, raccontò, e mentre lei meditava, lui le si era inginocchiato accanto e aveva cominciato a toccarla. «Dove esattamente, Clarita?» «Nella bagina.» «Capisco. Vada avanti.» Dopo poco, lei aveva detto ad Angel di smetterla e lui aveva smesso. «Non era strano che un santero facesse una cosa del genere?» «Io gli chiedo perché lo fa. Lui mi dice che gli spiriti gli hanno detto di farlo.» «Ci ha creduto, Clarita?» La donna si mise a ridere: «No era certo nessuno spirito di Nestor Salerios, glielo dico io. Lo so di sicuro. Nestor mi picchiava se uno soltanto mi guardava, signorina Alex. È uomo geloso, anche se adesso è morto». Diedi un'occhiata al verbale d'arresto, steso dall'agente di polizia quando Cassano era stato catturato. Si segnalava che l'alito dell'arrestato odorava
pesantemente di alcol. «Mi dica, Clarita: che cosa stava bevendo Angel, quel giorno in casa sua?» Margie non ne aveva fatto parola, ma probabilmente perché Clarita aveva trascurato di parlarne. «Vediamo», disse, alzando gli occhi al soffitto come se cercasse di decidere che cosa dirmi. «Rum. Sono sicurissima che era rum.» «E l'ha fatto bere anche a lei?» «Oh sì. Mi dice che agli spiriti piace. Ma io assaggio solo un sorsetto. No molto.» Pozione d'amore numero nove. Mancava solo la zingara col dente d'oro, ma probabilmente sarebbe comparsa alla successiva visita di Clarita. La donna aveva pagato il santero per la seduta - mi morsi la lingua per non domandarle se gli aveva lasciato una mancia per il rito extra effettuato nel finale - e se ne era andata. La parte più sorprendente della storia fu che lei aveva telefonato di nuovo ad Angel due giorni dopo, per un'altra seduta. Sì, ammise la donna, le era passato per la mente che forse l'uomo voleva solo qualche tipo di rapporto sessuale e forse non era poi quel santo che lei aveva creduto. Ogni volta, a quel punto della storia, mi venivano in mente certi giochetti enigmistici per bambini, col disegno di una bella cameretta ordinata in cui un oggetto è capovolto o fuori posto e, sotto, la didascalia: «Cerca l'errore». Nel nostro caso, Clarita era già stata molestata sessualmente da Cassano, sapeva che quello che lui le aveva fatto era anomalo e sconveniente e poteva già dirsi fortunata di essersi liberata dalle avances andando via alleggerita di qualche dollaro, ma senza subire molestie peggiori. Tornarci per subirne ancora? La solitudine, la confusione e la vulnerabilità di Clarita erano lampanti ai miei occhi, proprio come a quelli del santero cieco. Alla visita successiva, dopo un po' di rum e qualche invocazione agli spiriti, Clarita era caduta di nuovo in trance, si era spogliata e si era sdraiata per terra. Ma questa volta l'incanto era stato rotto: Angel le era montato addosso e aveva cercato di penetrarle la vagina con il pene. «Devo fermarla qui e chiederle di tornare indietro un momento per domandarle alcune cose», la interruppi. Cose che non comparivano negli appunti di Margie. «Questa "trance" di cui parla... lei era cosciente? Era sveglia e consapevole di quel che accadeva?» Dovevo essere sicura che non avesse perso i sensi o fosse stata drogata o narcotizzata. «Oh, certo, signorina Alex. Questa volta io resto con occhi bene aperti.»
«E questa volta, Angel ha cominciato toccandola con le dita?» «Nossignora. Sono mica stupida. Mi alzavo e gli davo uno schiaffo, se lo faceva.» «Per cui, la prima cosa che è successa è stata che lui si è sdraiato sopra di lei per fare sesso?» Di nuovo Clarita cercò la risposta sul soffitto. Poi tornò a guardarmi e disse: «Giusto». Angel doveva essersi tolto i pantaloni, o averli abbassati, o aver aperto la lampo ed estratto il pene, prima di montarla... ma una qualsiasi di queste azioni, avrebbe dato alla vittima il tempo di mettersi al sicuro. «Mi può dire quando è stato esattamente che Angel si è tolto i pantaloni per fare del sesso?» «Ha ragione, signorina Alex», disse Clarita, puntando vagamente il dito verso di me con aria costernata: «Questa è una domanda muy muy importante, credo. Quando si è tolto i pantaloni? Devo pensarci su un altro po' prima di poterglielo dire». «Ci torneremo. Va benissimo. So che questa è la parte più difficile, per lei.» La lasciai arrivare alla fine della storia, quando il comportamento dell'accusato era passato dal semplice approfittare di Clarita a una condotta propriamente delittuosa. Una volta che la donna aveva deciso di non essere disposta a ricevere gli spiriti, aveva respinto Cassano e si era alzata in piedi. Ma quando, ancora nuda, aveva fatto per correre alla porta, il guaritore cieco le era corso dietro con un machete che nel frattempo aveva afferrato da un cassetto della cucina. Sotto quella minaccia, ricacciatala a forza dentro la stanza, le aveva imposto di fargli sesso orale. Clarita era riuscita scappare soltanto offrendosi di scendere al negozio sotto casa per prendere un'altra bottiglia di rum, e invece aveva chiamato il numero di emergenza della polizia. La ringraziai della collaborazione e della pazienza, le consigliai di andare a bere un bicchier d'acqua per riposarsi un momento, e riesaminai il caso con Margie Burrows, mettendo in chiaro quali elementi dell'incidente si configurassero come criminosi e quali no. Laura aprì la porta per avvertirmi che aveva telefonato Rose Malone. Il procuratore distrettuale era arrivato e voleva vedermi appena possibile, prima di pranzare con il caporedattore del «New York Times». Congedai Margie dopo averle fornito le istruzioni per presentare il caso davanti al Gran Giurì, più tardi, e, armata degli appunti che avevo raccolto sul caso Gemma Dogen, mi diressi all'ufficio di Battaglia.
Davanti a uno degli schedari allineati lungo tutto il perimetro dell'ufficio, Rose rovistava tra i fascicoli che straripavano dai cassetti come quei buffoni che salgono in numero spropositato dentro un'utilitaria: «Sto cercando gli ultimi editoriali del "Times" sui reati riguardanti la qualità della vita in città. Paul vorrebbe convincere il giornale a dedicare una serie di pezzi ai successi che stiamo ottenendo nelle retate di prostitute e spacciatori di marijuana». Mi sorrise da sopra la pila di fogli ingialliti che stava esaminando: segno che il procuratore era in buona. Rose era il mio sistema d'allarme personale. «Sarà libero tra un momento, Alex. È solo al telefono con sua moglie.» Impiegai l'attesa per ripassare i pochi fatti di cui ero stata messa al corrente durante la sosta all'ospedale, sapendo che Battaglia era un maniaco dei dettagli e avrebbe richiesto più informazioni di quante ne avessi io. La sua voce rimbombò, da dentro l'enorme ufficio, rivolta a Rose: «È arrivata la Cooper?». Risposi io stessa affacciandomi alla porta, e lui mi fece cenno di entrare con le due dita della sinistra che tenevano ben saldo l'eterno sigaro. «Se vuoi contribuire alla mia tranquillità domestica, di' ai tuoi amici della Omicidi di risolvere questo caso alla svelta. Mia moglie sta organizzando la raccolta di fondi per il Mid-Manhattan, il galà di primavera, e pensavano di esaurire i biglietti in due settimane. Il ristoratore dello stramaledetto Plaza le ha telefonato stamattina alle otto, appena saputa la notizia, per chiederle un assegno a garanzia delle cinquecento porzioni di saumon en croûte per la cena, nel caso che il numero dei sostenitori risultasse inferiore. E questo è quanto per quel che riguarda la povera dottoressa. È tuo, il caso?» «Vorrei che lo fosse, Paul. È un omicidio con stupro e io...» Mi interruppe subito. Non voleva sentire cose già note: «Immagino tu sia già stata sulla scena del delitto...». «Il tenente Peterson ha permesso a Chapman di portarmici. Sono andata a vedere come stavano le cose e poi sono venuta qui a controllare precedenti analoghi per modus operandi e scenario. Non c'è ospedale di Manhattan dove non siano accaduti crimini in passato, credo, per cui c'è un sacco di materiale da esaminare.» Battaglia sbuffò un po' di fumo, appoggiò un piede sul bordo della scrivania e spinse indietro la poltrona tenendola in equilibrio sulle due gambe posteriori. Mi guardò negli occhi, fisso, per costringermi a rispondere sen-
za perifrasi. «È un caso fatto apposta per te, Alexandra, se te la senti. Anche se ci sei arrivata dalla porta posteriore. Nessuno ne sa più di te in fatto di reati sessuali, e dubito che la risonanza del caso sulla stampa, che immagino sarà notevole, ti darà fastidio.» Non aggiunse «dopo l'ultima volta», ma io colsi il suo sguardo e glielo restituii, dicendogli che non vedevo l'ora di mettermi al lavoro con la Omicidi. «Per questo caso dipendi direttamente da me. E se Chapman si fa venire una delle sue idee brillanti, tipo metterti l'uniforme da infermiera e farti fare il turno di notte all'ospedale per raccogliere informazioni, mi fai il santo piacere di rifiutare.» Scoppiai a ridere e assicurai a Battaglia che non mi sarei mai sognata di fare una cosa simile, ma intanto mi annotavo mentalmente di suggerire alla squadra il nome di Maureen Forester, la mia agente preferita quando si trattava di far da esca: potevamo farla ricoverare al reparto neurologico del Mid-Manhattan, in osservazione. Capitolo 5 Il resto della giornata passò alla svelta, con la solita dose di problemi e richieste dei miei collaboratori. Per pranzo, Sarah e io avevamo mangiato un'insalata e sorseggiato una Diet Coke in una sala riunioni, compilando un elenco di schedati e sospetti che meritavano particolare attenzione nelle indagini sul caso Dogen. Laura mi fece da filtro per le telefonate di scarsa importanza, e prima di andarmene sbrigai quelle che non potevano aspettare fino all'indomani. Alle sei e mezza spensi le luci, passai dal capo della divisione Processi, Rod Squires, per dirgli che andavo alla riunione della task force e quindi uscii dal palazzo col fascicolo dei riassunti di casi, verso il gippone. L'ora di punta per il traffico era ormai quasi passata per cui feci rotta per la 1a Avenue senza troppi problemi, approfittando del percorso per telefonare alla mia migliore amica, Nina Baum: come quasi tutti i giorni, lasciai un messaggio in segreteria allo studio legale dove lavorava, a Los Angeles. Parcheggiai vicino alla stazione di polizia della 51a Est, mostrai il tesserino di riconoscimento per entrare, spiegando all'agente di guardia il motivo della visita, e lui, annuendo, mi indicò le scale. Salii al piano di sopra e, spinta a fatica la pesante porta metallica, entrai nel corridoio a mattonelle
verdi. A destra c'erano gli armadietti metallici per gli agenti in uniforme, di fronte l'ufficio della squadra Anticrimine, ma quasi tutto lo spazio disponibile del piano, a sinistra, era occupato dalla sala della squadra Investigativa. Entrare nel quartier generale di un'importante indagine per omicidio in pieno corso era, come sempre, un'occasione per vedere all'opera il fior fiore del dipartimento di polizia di New York. Il clima si faceva incandescente, man mano che gli uomini, scelti a uno a uno dal tenente Peterson per formare la task force, si radunavano per la riunione che sarebbe cominciata da lì a un'ora, appena arrivavano i capi. Diedi un'occhiata in giro per vedere quelli che avrebbero collaborato con me, soppesandoli inconsciamente non soltanto come investigatori ma anche come eventuali testimoni ed esperti in aula. In questa prima fase, il loro lavoro, per valido che fosse, poteva essere compromesso o valorizzato dalla qualità dei rapporti che avrebbero steso e dall'attenzione ai dettagli: il rispetto dei passaggi nei trasferimenti di custodia e nei metodi di rilevamento dei minimi particolari di prova, per un'accurata raccolta degli indizi; o, al contrario, la trascuratezza su importanti elementi di indagine. Vista da fuori, la sala sembrava una conigliera. Attorno alle dodici scrivanie che ne occupavano un intero lato si accalcavano più di venti agenti investigativi. Su ogni scrivania c'erano una macchina da scrivere meccanica, un paio di telefoni, un cestino di fil di ferro: vuoto, per il momento, ma in procinto di riempirsi di risme di fogli carta rosa contenenti i rapporti chiamati Divisione Investigativa 5 o, più semplicemente, DI5. L'era dei computer, notai, aveva influito ben poco sulla vita quotidiana di questi funzionari. Le due scrivanie vicine all'ingresso erano occupate ognuna da un poliziotto in borghese dall'aria tetra: appartenevano evidentemente alla squadra del 17° distretto, a cui la task force aveva requisito gli spazi, e che erano stati esclusi dal caso Dogen - loro di diritto - e relegati a occuparsi della solita routine e dei rapporti con la gente del quartiere. Guardavano l'elite dei colleghi come Cenerentola deve aver guardato le sorellastre che si vestivano per il ballo. A destra c'era un enorme gabbione: una cella, arredata soltanto con una lunga panca di legno, destinata agli arrestati per le poche ore intercorrenti tra la cattura e il trasferimento all'ufficio Indagini Preliminari. Quando arrivavo per un confronto o per un interrogatorio ero abituata a vedere due o tre uomini dietro le sbarre, distesi sulla panca o sul pavimento. Non mi era mai capitato quello che vidi quella sera. Dentro e intorno alla cella aperta
c'erano otto uomini: alcuni seduti, altri chinati, uno seduto fuori con la schiena appoggiata alle sbarre, un altro che entrava e usciva continuamente dalla gabbia. Dagli indumenti sporchi e male assortiti e dall'aspetto trasandato, sembravano reietti usciti da un ricovero di senzatetto. Nessuno ci faceva caso e loro non sembravano particolarmente turbati. C'era solo un'altra donna, oltre a me, seduta a una scrivania all'estremità opposta della sala. Era Anna Bartoldi, un pilastro della Omicidi, alla quale Peterson aveva senza dubbio assegnato il compito di occuparsi della registrazione dettagliata fase per fase di un'indagine che si prevedeva molto complicata. La memoria fotografica di Anna, insieme con la chiarezza espositiva dei suoi rapporti scritti avrebbero aiutato il tenente a tenere in ordine le centinaia di documenti prodotti dai funzionari, addetti e non addetti al caso, per registrare le dichiarazioni dei testimoni o dei cittadini che telefonavano per collaborare: un lavoro destinato a costruire il castello di prove accusatorie del colpevole. Anna aveva un ricevitore applicato all'orecchio e scriveva su un enorme registro che occupava tutta la scrivania, dal che dedussi che stava già gestendo la linea riservata alle segnalazioni dei cittadini, annunciata per radio e televisione appena un'ora prima. Nel corridoio alle spalle di Anna c'era l'ufficio del comandante. Chiunque fosse, era stato temporaneamente fatto sloggiare da Peterson, il quale aveva una fretta del diavolo di arrivare ad arrestare qualcuno in una faccenda così importante. Mercer Wallace, l'uomo più grosso e più nero nella sala, fu il primo ad accorgersi che ero arrivata e venne a liberarmi di soprabito e sciarpa. «Non fare quell'aria stupita, Cooper», mi disse invitandomi a entrare e accennando all'accozzaglia di vagabondi nella gabbia: «Benvenuta nel nostro avamposto dell'Esercito della Salvezza. Salta a bordo». Conoscevo quasi tutti gli agenti della squadra e, facendomi strada verso la scrivania di Mercer, scambiai qualche battuta con quelli che la mattina non erano in ospedale. Quando arrivai da lui, Wallace proseguì: «Peterson è di là ad aspettare McGraw. Il capo della polizia e McGraw sono apparsi al notiziario della sera. La solita manfrina: raccomandazioni alla calma, richieste di collaborazione da parte della gente. Il sindaco ha offerto una ricompensa di diecimila dollari a chi fornirà informazioni utili alla cattura dell'assassino. Il numero riservato ha cominciato a squillare subito: tutti pronti a dar via anche la madre, per quei soldi». Sbirciai oltre la spalla di Anna e vidi che sul librone era già arrivata alla
quarantasettesima segnalazione. Anni prima mi aveva detto che solo una telefonata su sessanta aveva qualche rilevanza per l'indagine in corso, per cui non mi stupì vederla rovesciare il capo all'indietro verso di me roteando gli occhi con un'espressione di drammatica rassegnazione, per poi tornare ad annotare appunti che con ogni probabilità erano assolutamente inutili. Sarebbe stato compito di un paio di agenti della squadra verificare uno per uno i messaggi, anche quelli apparentemente più estranei al caso, perché nascosto tra tanti poteva esserci anche quello giusto: la telefonata di qualcuno che conosceva l'assassino ed era disposto a vendersi l'anima per quella taglia. «Ehi, Blondie, metti i soldi nel piatto. Subito dopo la pubblicità tocca a noi.» Nello stanzone rimbombò la voce di Chapman che, masticando un trancio di pizza, comparve in quel momento dal corridoio adiacente all'ufficio del capo. «Il televisore è qui dietro, nel locale armadietti. Muovi il culo!» Mercer si alzò e mi sospinse ad andare: «Dai, Alex. Io punto su di te. E poi, lì c'è da mangiare, quindi è meglio che ce lo teniamo buono». Seguii Mercer fino in fondo al corridoio. Dietro l'angolo, lungo le pareti di una stanzetta di circa sei metri per quattro, erano allineati alcuni armadietti di metallo verde tutti ammaccati. L'arredamento era costituito da un antidiluviano distributore automatico di caffè, un frigorifero anni Quaranta, un televisore e un grande tavolo rettangolare coperto di lattine, tre cartoni di pizza, una confezione da due dozzine di ciambelle, ormai vuota; e poi pacchetti aperti di nachos, tarallucci e sigarette di tutte le marche. L'unico decoro, sulla parete libera da armadietti, era il paginone centrale di un vecchio numero di «Penthouse» con la testa di Janet Reno sul corpo voluttuoso della manicure diciannovenne che aveva posato per il fotomontaggio. Ricordavo che la Reno aveva fatto visita al distretto verso la fine del 1996, per un servizio fotografico in cui consegnava al capo della polizia una parte dei finanziamenti provenienti dalla legge anticrimine, e sogghignai nel vedere quale appassionato ricordo conservavano gli agenti di quella visita. «Stasera l'argomento è "Personaggi famosi", Coop. Ci metto cinquanta dollari. Facciamo partire questa indagine con una nota d'ottimismo.» Chapman tolse la banconota dal portafogli, la mise sul tavolo e ne approfittò per prendere un altro trancio di pizza. Sospinse il cartone verso di me e io alzai il coperchio perché Mercer si servisse, vedendo che il contenuto era ormai gelido e coperto di macchie di unto. «Accidenti, questa ro-
ba sta qui dalle quattro, figliola. Passo. I miei cinquanta sulla ragazza, Chapman.» «Frena, Mercer. È il suo campo questo», lo avvertii mentre cercava i soldi. A Fordham, Chapman si era specializzato in storia e quello era un argomento in cui mi poteva battere agevolmente. «Ehi, una volta avevi le palle, Cooper. Che ti è successo? Personaggi famosi... tu leggi il giornale tutti i giorni... magari è uno di adesso, mica vecchio, uno della cronaca. Se e un parente di Mercer che sta a capo di una tribù Tutsi nel continente nero, oppure il presidente baltico di un Abracadabrastan che fino a tre settimane fa non esisteva neppure, mi farai venire il batticuore. Dai, forza, ecco Trebek.» «Fa' conto che abbia accettato la puntata. Ho lasciato il portafogli di là.» Alex Trebek aveva appena rivelato la risposta finale di «Ultimo Azzardo» ai tre concorrenti. Vidi sullo schermo il nome Medina Sidonia e rimasi istupidita. Chapman aveva l'espressione del giocatore di poker, aspettando che fossi io a fare la prima mossa. Con tutta l'autorevolezza che riuscii a mettere nella voce, gli posi la domanda: «Chi era il capo della fazione brookliniana della famiglia Gambino prima di John Gotti?». «Sbagliato», mi fulminò lui, mandando giù la pizza con un biscottone alla gelatina. «Il señor Sidonia - un nobile spagnolo, fra l'altro, e non un "compare", signorina Cooper - era il comandante in capo della Invencible Armada che guidò i disgraziati marinai spagnoli lungo la costa, mentre sulla terraferma aveva l'appoggio dell'esercito comandato da Alessandro Farnese, duca di Parma...» «Mi sa che vado a prendermi qualcosa da mangiare», buttai lì allontanandomi, come al solito impressionata dalla cultura quasi enciclopedica di Mike sulla storia militare. «Scusa se ti ho fatto perdere, Mercer. Ti sono debitrice. Devo tornare di là a parlare con Anna.» Uscii dal locale degli armadietti in tempo per vedere il capo McGraw sulla porta dell'ufficio di Peterson. Accanto alla scrivania del tenente c'era un vecchio cavalletto di legno con un grande blocco per appunti su cui campeggiava la scritta «Ospedale Mid-Manhattan». McGraw stava proponendo di tenere la riunione nel retro, in modo da vedere anche come trattava l'argomento New York 1, l'emittente locale che ripeteva le notizie principali ogni mezz'ora. Mercer si era fermato alle mie spalle e mi sussurrò all'orecchio: «Probabilmente McGraw si è visto in televisione solo sei o sette volte da quando
ha tenuto la conferenza stampa un'ora fa, ma sembra non averne mai abbastanza, eh?». I due uscirono insieme dall'ufficio. Peterson ci fece segno di tornare nel locale degli armadietti e, consegnando il cavalletto a Mercer, si affaccio nella sala a chiamare 1 due o tre uomini che voleva presenti alla riunione. Visto che McGraw non badava a me, lo precedetti per assicurarmi che Mike non stesse davanti al televisore a fare la sua solita imitazione del capo. Guardava la rassegna stampa, che mostrava i titoli dei quotidiani dell'indomani, con l'immagine ben nota dell'entrata dell'ospedale: «Violenza al Mid-Manhattan». Il sindaco, assediato dai giornalisti, si diceva addolorato per la triste fine di Gemma Dogen e ribadiva la propria fiducia nelle strutture sanitarie della città. «Vedrai quando scopre che non gli hanno dato spazio...», borbottò Chapman. «Odia essere messo in ombra dal sindaco.» «Magari vuoi dirglielo tu stesso. È proprio qui dietro di noi», lo avvisai. Con me c'era Mercer, che andò a collocare il cavalletto e sollevò il foglio col titolone, mostrando il primo di una serie di schizzi in cui un disegnatore della polizia aveva rappresentato la pianta degli edifici dell'ospedale, in modo che i capi potessero rendersi conto del territorio. Benché l'approssimativo diagramma non riportasse le cifre, noi tutti sapevamo bene che il complesso ospedaliero aveva una popolazione superiore a quella di metà delle città e dei paesi di tutti gli Stati Uniti. C'erano dozzine di entrate e uscite su strade, garage o altre strutture; c'erano chilometri e chilometri di corridoi su cui si affacciavano uffici, laboratori, depositi, sale operatorie; e tutti i giorni migliaia di persone vi lavoravano, o facevano visita ai ricoverati, o si servivano delle strutture dell'ospedale. Il tenente Peterson condusse McGraw nella stanza ingombra di roba, seguito dai tre agenti investigativi della task force: erano quelli che avevano passato là giornata a fare le prime indagini all'ospedale, parlando pazientemente con ciascun testimone per sapere se qualcuno aveva visto o sentito qualcosa di insolito il giorno e la notte precedenti. Peterson si tolse gli occhiali, ci fece accomodare intorno al tavolo e ordinò a Mercer di cominciare con quel che aveva saputo della vittima. Il capo McGraw se ne stava da una parte, braccia incrociate e sigaretta appesa all'angolo delle labbra strette, posizionato in modo da vedere tutti noi ma anche lo schermo televisivo, a cui era stato tolto l'audio ma che continuava a trasmettere l'immagine frenetica all'ingresso dell'ospedale. Laura mi aveva munita di uno dei soliti raccoglitori della procura distret-
tuale per gli omicidi, una grossa cartelletta a fisarmonica color ruggine, che nel corso di questo tipo di indagini si sarebbe gonfiata e si sarebbe moltiplicata rapidamente. Presi i blocchi gialli che Laura vi aveva riposto alcuni nuovi e due pieni di appunti raccolti da Sarah e da me in preparazione di questa riunione -, e gli agenti aprirono i taccuini tascabili che sarebbero stati un'ancora di salvezza durante le indagini. Avremmo tutti preso appunti, ascoltando Mercer. «Gemma Dogen. Come sapete, signori, la dottoressa aveva cinquantotto anni, era bianca, in ottima forma fisica e un'autentica solitaria. Era inglese, nata e cresciuta in un cittadina costiera del Kent che si chiama Broadstairs. Ha fatto tutti i suoi studi in Inghilterra e si è trasferita qui una decina di anni fa, in seguito all'offerta di un posto nel reparto neurochirurgico di cui poi ha assunto la direzione. Una cosa eccezionale per una donna, in questo mestiere. Metteteci anche il prestigio di una cattedra ben retribuita alla facoltà di medicina. Molto rispettata in ambito accademico, non soltanto un buon chirurgo. Ha divorziato prima di stabilirsi qui. Niente figli. Il marito, Geoffrey Dogen, non ci interessa. Anche lui medico, aveva conosciuto Gemma all'università. Si è risposato nel 1991 e la sposina se lo è portato a fare trekking sull'Himalaya proprio questa settimana. Vivono a Londra e, da certe lettere che ho trovato in casa della Dogen, si deduce che erano ancora in ottimi rapporti. Dovrebbe rientrare la settimana prossima: parleremo con lui per vedere che cosa sa della vita privata della vittima, ma non è certamente sospettabile.» Il capo non era ancora coinvolto. Teneva gli occhi fissi sul televisore e, come suo solito, non si era accorto che la sigaretta era ormai tanto consumata da spegnersi a causa della saliva. A quel punto avrebbe meccanicamente frugato nel pacchetto e ne avrebbe accesa un'altra, come gli avevamo visto fare migliaia di volte. Proseguì Wallace: «La Dogen abitava a Beekman Place, poco distante dall'ospedale. Condominio con custode in livrea, affitto molto elevato, camera con un letto a una piazza e mezza e una terrazza che si affaccia sul fiume. In questo momento George Zotos si trova ancora lì. Ci sono tonnellate di carte da spulciare. La signora era una vera maniaca, conservava tutto, per cui è difficile dire se c'è qualcosa di utile oppure no. Ma anche a casa come in ufficio: non ci sono molte tracce di vita privata. Le foto sono quasi tutte vecchie immagini di famiglia risalenti all'infanzia o suoi ritratti in occasione del conferimento di titoli accademici e premiazioni». La bocca di McGraw si aprì per il cambio di sigaretta: «Trovati vicini o
portieri pettegoli?». «Il tizio giù al portone conferma gli orari irregolari. Avanti e indietro dall'ospedale, gran viaggiare all'aeroporto, corsette lungo il fiume la mattina presto e spesso verso il tramonto. Pochissime visite. Di tanto in tanto, una festicciola tutta la notte con un tipo - con diversi tipi, a dir la verità ma non ricorda nessun nome. E, fino a questo momento, i vicini di casa non sono stati di nessun aiuto. Una coppia è andata ad abitare lì appena due mesi fa, quelli di fronte sono stati fuori casa tutto il giorno e la vita dello stabile prosegue invariata.» Mercer passò alla pagina successiva del blocchetto d'appunti: «Abbiamo anche cominciato la verifica sul posto... per controllare l'esistenza di altri reati commessi presso il centro ospedaliero, ma non avrò l'esito dei controlli al computer prima di domani in mattinata. Probabilmente su questo punto Alex ne sa più di me. «Sul lato professionale, dobbiamo interrogare tutti i suoi colleghi nel corso della settimana. Quello di neurochirurgia è un reparto piuttosto piccolo: per il fine settimana dovremmo averli sentiti quasi tutti. Per farla breve, quello che sappiamo per il momento è che non era Madre Teresa, ma non sembra nemmeno che avesse nemici giurati. Come primario era dura ed esigente, ma doveva esserlo per forza: si tratta di una specializzazione in cui una frazione di millimetro fa la differenza tra la vita e la morte del paziente. «Avevo anche il compito di controllare precedenti analoghi nelle principali città della East Coast. A Washington abbiamo due medici ammazzati a revolverate nel garage al momento di rientrare a casa, a distanza di un mese l'uno dall'altro. Entrambi maschi, in entrambi i casi sembra che si sia trattato di rapina, alla ricerca di droga e di ricettari. Le pallottole provengono dalla stessa pistola. Nessun sospetto. Una clinica privata di Philadelphia ha avuto una paziente - attenzione: paraplegica - violentata da un balordo che era entrato di notte per rubare degli aghi ipodermici, ma era ancora addosso alla vittima quando è stato beccato da un'infermiera che faceva un giro di ispezione. Quelli di Boston non hanno saputo dirmi niente, ma devono richiamarmi entro domani o dopo. Questo è tutto quello che ho, capo». McGraw emise un grugnito e Peterson fece cenno con la testa a Chapman di andare accanto al cavalletto. Mercer venne a sedersi accanto a me e Mike si alzò. Canticchiando a bocca chiusa la sigla della serie televisiva «Zone d'om-
bra», prese il pennarello nero che pendeva da uno spago attaccato al cavalletto e si produsse nella sua migliore imitazione di Rod Serling: «Buona sera. Lei sta per entrare in una nuova dimensione, capo McGraw: un luogo in cui le persone stanche e ammalate si recano per cercare sollievo, i feriti per guarire, gli zoppi per riprendere a camminare. E cosa troviamo, invece? Il Mid-Manhattan Medical Center». Serling tornò a essere Chapman: «Uno spazio invaso da tutti i fottuti pazzi lasciati andare dal Bellevue e dal Creedmore e dal Manhattan State Hospital e da tutti gli altri manicomi che vi vengono in mente, tutti accampati negli atrii e nei bagni e nei sotterranei di questo ospedale come se fossero ospiti paganti al Pierre Hotel». Wallace mi mormorò: «Ormai ha catturato l'attenzione del capo, Cooper. Tienti forte». McGraw concentrò lo sguardo su Mike e si accese un'altra sigaretta. «Mi spiace, capo, ma è proprio una vergogna. Quando avremo finito questa inchiesta, nessuno di noi si sentirà più tranquillo in ospedale. È grande come una piccola città, senza nemmeno un vero poliziotto ai confini, ed è un merdoso incubo di prim'ordine, quanto a merdosa sicurezza.» «D'accordo, Mike», lo interruppe Peterson. «Ma adesso modera i termini.» Il tenente non sopportava che i suoi agenti parlassero in modo sboccato davanti alle donne. «Non si preoccupi per la Cooper, tenente. Le sue amiche di Wellesley mi hanno detto che ha passato l'anno da matricola fuori, al campo d'addestramento dei marines a Parris Island. Non arrossire davanti a loro, Blondie: tu hai proprio una linguaccia.» Inutile protestare. La verità, come dicono nelle facoltà di legge, è una difesa assoluta. Chapman faceva il pagliaccio come Charlie Brown e la canzone dei Coasters diceva bene: prima o poi si sarebbe fatto beccare. «Va bene, torniamo alla scena del delitto. Secondo il suggerimento del tenente, ho passato un paio d'ore in giro per l'ospedale in compagnia del direttore, William Dietrich. Ci siamo andati tutti in uno di quegli edifici a trovare un ricoverato o a farci visitare o a sentire un testimone. Vi dico che oggi ci ho visto cose che vi spaventerebbero a morte e vi farebbero rimpiangere i tempi in cui i medici facevano le visite a domicilio. «Cominciamo dalla disposizione generale del complesso. Conoscete tutti le linee fondamentali di questa piantina. L'entrata principale, sulla 48a, costituisce l'accesso più agevole. Si tratta di otto serie di doppie porte che danno direttamente dalla strada alla parte cosiddetta riservata dell'ospedale. L'ospedale è una struttura tecnologicamente avanzata che contiene mil-
lecinquecentosessantaquattro letti disposti su oltre ventisei piani. Quando sarete pronti per i dettagli, vi mostrerò uno spaccato di tutti i piani dei reparti di medicina e di chirurgia. L'atrio è un po' più piccolo della sala principale della Pennsylvania Station e altrettanto piacevolmente popolato.» «Vigilanza e sicurezza, Mike?», chiese il tenente. «Vigilanza? Sicurezza? Questo sì che è usare i termini a casaccio, capo. Cartellini di lasciapassare. Ci fosse mia madre al banco delle informazioni, a consegnare i passi mentre segue le sue telenovele, sarebbe la stessa cosa. Qui si parla di gente senza autorizzazione, senza addestramento e senza qualifica per qualsiasi tipo di compito davvero serio.» Poi riprese: «E non ce ne sono neanche tanti, considerata la quantità di gente che entra ed esce incessantemente giorno e notte. E quasi tutti, a guardar bene come ho fatto io oggi, fermano le vecchiette e i visitatori dall'aspetto bonario con cui possono fare gli spacconi, e poi lasciano passare indisturbati quelli che hanno l'aria di provocare guai. «E questo è solo l'ingresso principale. Poi ci sono porte che danno sulla strada su ogni lato dell'edificio. Dovrebbero essere usate solo come uscite, sicché sono chiuse dall'esterno. Ma se ci si trova lì a due passi quando esce qualcuno, non ci vuol niente a entrare, senza che nessuno ti fermi. Poi c'è un'altra serie di porte sul retro, di fronte al parcheggio. Sarebbero riservate ai dipendenti, ma è facile accodarsi a uno di loro ed entrare». McGraw invitò Chapman a proseguire: «E della facoltà universitaria, dove è stata ammazzata la Dogen, che mi dici?». «Il Minuit Medical College: eretto nel 1956 e finanziato dagli eredi di Peter Minuit, il direttore generale della colonia della Nuova Olanda, l'uomo che ha rubato Manhattan agli indiani per ventiquattro verdoni.» Chapman disegnò delle frecce dall'edificio principale verso la moderna torre che ospitava il college. «Un capolavoro dell'architettura moderna, capo, e non solo è collegato al Mid-Manhattan da un bel numero di corridoi e di ascensori a ogni piano, ma anche, cosa che mi era del tutto ignota fino a oggi, da una serie di tunnel sotterranei costruiti ai tempi in cui i vostri amiconi pensavano che i rifugi ci avrebbero preservato dal disastro atomico. La clinica universitaria è stata costruita negli anni Cinquanta - era destinata a funzionare da quartier generale in caso di esplosione atomica in città - e ci sono sottopassaggi e cunicoli lunghi come da qui alla Cina, se li mettiamo uno in fila all'altro.» «E dentro che cosa c'è?», chiese Peterson. «Sbagliato, tenente. Dentro chi c'è, non che cosa c'è. Li avete visti, quei
relitti di là, nella gabbia della sala agenti? Tunnel e topaie sono abitati da centinaia di senzatetto. Stamattina ci siamo passati dentro... ci trovi dei poveretti rannicchiati a dormire lungo i muri, ci trovi dei balordi con fiale di crack sparse tutt'intorno, ci trovi un dormitorio femminile di straccione, vestite come i Rockettes, sedute a parlar da sole. In un tratto di strada ho visto tre tizi che avevo messo sotto chiave nel '94 in una retata antidroga. Credo che il vecchio grassone con addosso quella calzamaglia da acrobata di lamé argentato che pisciava in un angolo quando siamo passati di lì fosse davvero Elvis Presley... ma non sono sicuro.» «Chapman», chiese il capo, «c'è qualche possibilità che questi salgano su, dentro gli edifici dell'ospedale?» «Certo, la metà indossa camici da chirurgo o giacche da laboratorio... rubati di sopra, ovviamente. Hanno vassoi con avanzi dei pasti dei pazienti e boccette vuote di medicinali. Usano per cuscino le padelle da letto e i guanti di gomma per tener calde le mani. Non scherzo: la notte, quando siete nella camera riservata per la quale la vostra assicurazione scuce un migliaio di dollari, aprite gli occhi e vedrete un bel po' di creature del genere che vaga per i corridoi. Lo spettacolo o vi guarisce o vi ammazza, non c'è via di mezzo.» Mike passò al foglio successivo e vi fece scorrere la punta del pennarello dall'angolo superiore fino al centro. «E non dimentichiamo il terzo elemento del puzzle, gente. Non abbiamo ancora parlato di quei simpaticoni dello Stuyvesant Psychiatric Center, subito a sud del Mid-Manhattan e, naturalmente, avete indovinato... collegato a ogni piano, sopra e sotto terra, agli altri due edifici.» Wallace, cercando di reprimere un sorriso, mi avvicinò di nuovo la bocca all'orecchio: «Adesso fa Nicholson... entra nella parte del Nido del cuculo. McGraw finisce al tappeto». Mike era partito e si esibiva nella nuova imitazione, guidandoci nel giro che aveva fatto la mattina tra i novecentoquarantasei letti dell'ospedale psichiatrico. Descrisse i pazienti e i vari gradi di costrizioni a cui erano sottoposti, dai reparti chiusi a chiave in cui erano detenuti i criminali dichiarati incapaci di intendere e di volere in attesa di giudizio, ai pazzi furiosi costretti in camicia di forza, ai malati immaginari e agli psicotici inguaribili che, grazie alla familiarità che hanno col posto e alla lunga degenza, godono di maggiore libertà e se ne vanno in giro per gran parte del giorno. Peterson cercò di farlo tornare serio: «Non dirmi che questi pazienti non sono sorvegliati?».
«I più gravi sì, certamente, ma ci sono certi habitué che sembrano dirigere loro il posto.» «Cioè entrano ed escono dall'edificio e passano nel resto dell'ospedale?» «Non c'è niente che li fermi, tenente. Si mettono le loro brave pantofole e via per il corridoio.» «E superano la vigilanza?» «Tenente, l'ho già detto: se uno di loro arriva davanti alle guardie interne con cui ho parlato oggi e gli dice "Ciao, mi chiamo Jeffrey Dahmer e ho fame", questi deficienti gli danno un passi e lo mandano alla clinica per adolescenti.» McGraw sembrava incredulo: «Cristo santo, quel posto era tutto un delitto in incubazione. C'è da stupirsi che questo sia stato il primo». «Non corra troppo, capo. Cooper ha in serbo qualche sorpresa, tanto per allargare un po' il campo. Se crede che io non ne abbia abbastanza, di gente sospetta, l'infermiera Ratchett le darà altro materiale su cui riflettere. Io credo che le migliori probabilità di scoprire l'assassino le abbiamo cercando tra i relitti umani del sottosuolo, ma Alex ha da raccontare cose che suggeriscono di tenerci aperte tutte le possibilità.» Capitolo 6 «Voi sapete bene quanto mi secchi iniziare dando ragione a Chapman», esordii aprendo il taccuino, «ma sembra proprio che siano i ricoverati a gestire la casa di cura per la maggior parte del tempo, e per di più è lo stesso personale a contribuire a un bel numero di problemi.» «Capo», spiegò Peterson rivolto a McGraw, che non era abituato a vedere pubblici ministeri a una riunione di poliziotti, «ho pregato Alex di passare in rassegna tutti i casi di violenza degli ultimi due anni in qualsiasi ospedale della contea. I miei uomini non potrebbero sapere nulla se non si trattasse di omicidi, quindi ho pensato che sarebbe stato utile, visto il modo in cui è morta la Dogen.» «Sarah e io abbiamo tirato fuori tutto quello che siamo riuscite a immaginare, ma sì tratta soltanto di una campionatura. Se qualcuno a cui tenete sta meditando di sottoporsi a un'operazione chirurgica non indispensabile nel prossimo futuro, ditegli di provare alla Clinica Veterinaria o con un servizio a domicilio: questi grossi ospedali possono uccidere. Comincerò da quello che abbiamo sott'occhio. «Qui al Mid-Manhattan abbiamo in corso alcune indagini. La I7a squa-
dra ha appena messo sotto chiave un portiere che vi lavorava da tre mesi. Gli piaceva infilarsi un camice bianco e cercare le camere occupate dalle pazienti che non parlavano inglese: a quanto pare non facevano domande, forse perché non erano in grado. Lo prendevano per un medico, e quando quello cominciava a tirar su le coperte e a esaminare la vagina lo lasciavano fare. Si chiama Arthur Chelenko: arrestato e licenziato due settimane fa. Soltanto a quel punto l'ufficio del personale ha controllato i precedenti. Era stato licenziato dal Samaritan del Bronx l'anno scorso per aver fatto esattamente le stesse cose. Gli è bastato mentire nel curriculum... nessuno l'ha controllato... ed eccolo di nuovo all'opera.» «È dentro?» «No. È fuori su cauzione... in attesa di processo.» McCabe, Losenti e Ramirez, i tre agenti investigativi a cui veniva appioppato il lavoro di verifica in giro per la città, si annotavano le informazioni. Passai loro una copia dell'atto d'accusa contro Chelenko, con il recapito e le informazioni sul suo passato. «Niente storie di violenza?», chiese Wallace. «Secondo l'imputazione, no. Ma naturalmente dobbiamo tener conto del rancore come possibile movente, o della possibilità di un accesso di follia, se l'intenzione era quella di compiere una violenza sessuale e la Dogen si è opposta con la forza. «Poi c'è Roger Mistral. Anestesista. Abbiamo ricevuto un avvertimento dalla procura distrettuale della contea di Bergen, nel New Jersey, stamattina, quando hanno avuto notizia del delitto. Un mese fa hanno arrestato il dottor Mistral per stupro: l'hanno trovato in una camera operatoria impegnato in un amplesso con una paziente appena uscita da un intervento a una gamba e che lui aveva riaddormentata con una dose di sedativo da stendere un cavallo.» «Che c'entra col Mid-Manhattan?» «Forse niente, comunque stiamo controllando anche i suoi trascorsi. Ci credereste? Gli impiegati statali che rilasciano le licenze di esercizio della professione qui a New York, si sono basati sul verdetto della giuria secondo il quale Mistral non è colpevole fino alla sentenza definitiva, in maggio: e gli hanno concesso una licenza provvisoria. Per cui per altre sei settimane il dottore può svolgere lavori temporanei dovunque, da questa parte del fiume Hudson.» McGraw domandò se sapevamo qualcosa dei suoi movimenti nelle ultime quarantott'ore. «Ha un alibi a partire da lunedì sera, quando la Dogen è
rientrata in città?» «Per adesso nessuno gli ha ancora parlato», azzardai. «Dopo il processo del New Jersey, la moglie lo ha sbattuto fuori casa, perciò non abbiamo il suo recapito attuale. Si dice che dorma in qualsiasi ospedale gli capiti di lavorare, su un tavolo di analisi del laboratorio radiologico, perché è troppo a corto di soldi per permettersi un albergo. Qualcuno gli parlerà quando si presenterà al lavoro domattina. Stiamo controllando tutto il personale interno.» «Parlargli?», intervenne impetuosamente Chapman. «Io gli strizzerei fuori tutta la merda che ha in corpo. L'unica differenza che c'è tra quello che ha fatto lui e la necrofilia è che il corpo era ancora caldo. Che accidenti di perversione è, quella?» «Vieni a sentire la conferenza che terrò domani sera alle debuttanti del Lenox Hill: cercherò di spiegarlo. Dunque: Sarah Brenner ha un caso in corso. Ha ricevuto una denuncia contro un ostetrico-ginecologo, un pezzo grosso con tanto di studio sulla 5a Avenue, famoso per i problemi della fertilità. Gode di privilegi al Mid-Manhattan così come in altri tre ospedali dell'East Side, per cui entra ed esce da lì continuamente. Niente precedenti... si chiama Lars Ericson. La vittima lo accusa di averla violentata quando è venuta in città dal New Hampshire un mese fa.» «È stato già fermato?» «Non...» «E che aspettate?», mi abbaiò McGraw. «Be', capo, la vittima soffre di sdoppiamento della personalità... è trenta o quaranta donne diverse, a seconda dei giorni della settimana. A quanto pare, due o tre di quelle personalità vorrebbero fare del sesso con il dottor Ericson, ma almeno una delle altre non è d'accordo. Sarah sta cercando di capire quale sia la personalità che ha sporto denuncia.» Wallace mi passò dietro le spalle per prendere una bibita dal frigorifero e chinandosi mi sussurrò: «Benvenuti nello stravagante mondo del delitto sessuale. Questo dovrebbe aprire gli occhi al capo». Ma McGraw non era affatto divertito. «E poi abbiamo il nostro supercacciatore: Mohammed Melin. Vi ricordate De Niro in Taxi Driver? Be', al confronto con questo impallidisce. Melin guida un taxi. Porta un medaglione. Pare che avesse un'infezione alla prostata, così una volta, a notte fonda, si è presentato al pronto soccorso del Mid-Manhattan. Lo ha curato una giovane interna: ottima dottoressa, e anche carina. Lo ha esaminato, gli ha prescritto dei medicinali e gli ha
semplicemente strofinato un po' d'unguento sul pene... quindici minuti di amorevoli cure e da quel momento non è più riuscita a liberarsi di lui.» «A dir la verità, capo, è così che è cominciata anche tra Coop e me», intervenne Chapman. «Una carezza e da dieci anni le vado dietro come uno schiavetto. L'amore è davvero una cosa meravigliosa.» Feci finta di niente e proseguii la litania: «Adesso, tutte le volte che si trova in zona, Mohammed si ferma ad aspettare fuori dell'ospedale. Elena Kingsland - la dottoressa - finisce il turno, esce esausta dall'ospedale nel cuore della notte. Si ferma sull'orlo del marciapiede per prendere un taxi ed ecco Mohammed. Non c'è ancora nessuna accusa a suo carico. E quale, poi? Se ne sta seduto nel suo taxi sulla pubblica via, senza far nulla di male a nessuno, stando al codice penale. È stato beccato due volte a vagare all'interno dell'ospedale alle tre o alle quattro di notte, in cerca della Kingsland. Ma questi fermi per violazione di domicilio erano soprusi, per cui entrambe le volte è stato preso e subito rilasciato. Abbiamo cercato di incastrarlo per qualcosa di più serio. Finalmente abbiamo scovato una frode nei confronti della previdenza sociale e adesso abbiamo il mandato d'arresto, ma sono almeno tre settimane che non si fa vedere lì dentro». Era tutto quel che avevo, per quanto riguardava il Mid-Manhattan Medical Center. Wallace mi guardò mentre posavo il primo taccuino e prendevo il successivo in cima alla pila, dove avevo annotato i casi accaduti in altre strutture sanitarie. «Ehi, Alex, non dimenticarti quello di cui mi sto occupando io allo Stuyvesant. Tra poche settimane avremo una risposta.» «Parlargliene tu, Wallace. Non l'ho nemmeno inserito nella mia rassegna. Scusa, colpa mia.» «C'è una donna di ventisei anni ricoverata nell'ala psichiatrica. Da ragazza aveva disturbi emotivi. Ha cercato di ammazzarsi con un'overdose quando aveva diciassette anni. Da allora è in coma. Quasi dieci anni e il massimo che riesce a fare di tanto in tanto è sbattere le palpebre. Da allora la tengono in vita artificialmente allo Stuyvesant.» Mi ricordavo l'orrore che avevo provato quattro mesi prima a sentire quella storia, quando Mercer era venuto a portarmi il caso. Mi faceva ancora male sentirgli descrivere l'impensabile. «Be', fra quattro settimane circa partorirà. Il fatto che sia priva di conoscenza da un decennio non ha impedito a qualcuno di saltarle addosso e abusare di lei. La vigilanza in quell'ala è strettissima, per cui se non è stato il suo vecchio - dopo tanti anni, gli unici visitatori sono i genitori e le so-
relle -, deve essere per forza qualche bastardo pervertito che lavora lì dentro.» McGraw e gli altri che non erano al corrente del caso scuotevano la testa increduli. «Sospetti?», chiese il tenente Peterson. «Chiunque, dall'ultimo uomo delle pulizie che spazza la camera allo strizzacervelli di turno», rispose Mercer. «La Cooper ha fatto emettere un'ordinanza giudiziaria che ci permetterà di analizzare il sangue del feto per il controllo del DNA. Poi faremo lo stesso a tutti i maschietti che hanno accesso alla camera. Lo incastreremo.» Proseguii la mia odissea tra le istituzioni di Manhattan, dalla quale risultava che da tre anni a quella parte non c'era un solo ospedale, né pubblico né privato, a cui fosse stata risparmiata la vergogna di qualche violenza sessuale. In qualche caso gli aggressori erano stati individuati tra lo stesso personale medico e paramedico; in molti casi, invece, erano operai e tecnici addetti a reparti vitali per il funzionamento di questi villaggi in miniatura: manutenzione, cucine, personale di portineria, inservienti, fattorini. In altri casi ancora si trattava di pazienti liberi di muoversi da una parte all'altra dell'ospedale e spesso di intrusi che vagavano senza nessun motivo in quelle enormi strutture. «È ovvio che dobbiamo tener d'occhio tutti, dal personale qualificato alla popolazione dei sotterranei.» Avevo imparato a mie spese che all'inizio dell'inchiesta era meglio gettare una rete molto ampia per non rischiare di trascurare nessun possibile sospetto. Quando ciascuno dei presenti ebbe raccontato quel che aveva combinato durante il giorno, erano ormai quasi le dieci. McGraw disse a Wallace di alzare il volume del televisore e di sintonizzarsi sul canale Fox 5 per vedere le ultime notizie. Un agente della Omicidi in pensione seguiva la cronaca giudiziaria per quell'emittente e, dall'espressione attenta che il capo McGraw assunse improvvisamente, era ovvio che aveva passato qualche notizia al suo ex protetto, pur di vedere la propria faccia sullo schermo. Mike scosse la testa e represse un'osservazione maligna, e tutti smettemmo di lavorare per permettere a McGraw di rimirarsi sul teleschermo mentre diceva che i suoi investigatori avevano in mano moltissime tracce e contavano di mettere dentro qualcuno già per il fine settimana. Gli agenti che si trovavano nella stanza non sembravano sorpresi da questo falso ottimismo, ma solo seccati. Appena la telecamera si spostò sul viso del sindaco, McGraw tornò a unirsi a noi.
«Chi ha fatto l'autopsia?» «La farà il capo dell'ufficio Medicina Legale in persona, domani mattina», rispose Chapman. «Io vado ad assistere.» Buone notizie per me. Nutrivo un rispetto enorme per il capo dell'ufficio Medicina Legale, Chet Kirschner, e avevo con lui ottimi rapporti personali. Era probabile che riuscissi ad avere i risultati preliminari già l'indomani pomeriggio. «Moventi?», proseguì McGraw. «Qualcuno ha un'idea?» «Potrebbe essere una violenza sessuale pura e semplice», buttò lì Jerry McCabe. «Prendiamo uno qualsiasi di quei tizi strampalati che se ne vanno in giro in piena notte per i corridoi deserti. Mettiamo che lunedì sera tardi, verso mezzanotte, incrocia una donna sola soletta nel suo ufficio. Lei è una donna forte. Pensa di poterlo buttar fuori. Contro il coltello però non ce la fa. Bingo.» «Potrebbe anche essere semplicemente un furto, e la Dogen potrebbe averlo sorpreso in flagrante», replicò Wallace. «Anche se il portafogli è ancora lì, non significa che non manchi qualcosa e noi non sappiamo ancora cosa.» Wallace era uno degli investigatori più attenti con cui avessi mai lavorato. La sua mente metodica si era certamente soffermata su ogni oggetto presente nello studio della dottoressa, aveva esaminato ogni pezzo di carta, fascicolo o libro spostato o frugato. L'agente proseguì: «Magari era lì dentro e aveva cominciato a cercare qualcosa da portar via quando lei è comparsa improvvisamente. Lui si è fatto prendere dal panico e quella che era cominciata come una rapina è diventata una violenza sessuale». «Sì, ma c'è stato prima lo stupro o l'accoltellamento?» McGraw era troppo testardo per fare quella domanda direttamente a me e troppo stupido per capire che non sarei stata in grado di rispondere. Quasi tutti volevano credere che logicamente l'abuso sessuale fosse stato compiuto prima che il corpo sodo e ben tenuto di Gemma Dogen fosse ridotto a brandelli di pelle sanguinolenta. Ma in questo mondo di pazzi assassini non c'è logica. Mi erano capitati altrettanti casi in cui l'aggressore si era eccitato nell'atto folle di uccidere e, in seconda battuta, aveva commesso la violenza sessuale. Chapman disse: «Dobbiamo aspettare e vedere che cosa trova Kirschner. A questo punto stiamo solo tirando a indovinare». McGraw era ancora alla ricerca del movente: «Tanto per discutere, mettiamo che non sia stato uno di quei pazzi. Tenete gli occhi aperti su chiun-
que potesse avere motivo di farlo. Quando parlate con i colleghi della dottoressa, vedete un po' chi trae vantaggio dalla sua eliminazione. Chi la sostituisce nel primariato. Mettete le mani sul testamento e vedete chi si prende la grana. Insomma, non trascurate le solite cose soltanto perché questa volta è successo in un ospedale». Gli uomini attorno al tavolo, chiusi i taccuini, cominciarono ad alzarsi per sgranchirsi le gambe. Avevano saputo quello per cui erano venuti ed erano pronti a scaricare McGraw per cenare e farsi una dormita. Nonostante quello che il capo aveva detto al notiziario circa una chiusura rapida del caso, sapevano bene che, molto più probabilmente, si prospettavano settimane e settimane di interrogatori e indagini, ventiquattr'ore su ventiquattro, a meno che, o finché, a uno di loro non fosse capitato un colpo di fortuna. Mi vennero in mente gli otto uomini rinchiusi nella gabbia della sala agenti e mi avvicinai a Peterson: «Cosa ci stanno a fare?», chiesi. «Gesù, Alex, sono tra quelli che abbiamo trovato accampati nei corridoi dell'ospedale. Ed era solo la prima retata di stamane al Mid-Manhattan. Non parlo dei tunnel né dell'ala di psichiatria né dei sotterranei. Un paio erano in camere non occupate e uno dormiva su una lettiga in corridoio, vicino a un deposito. Ramirez ti dirà dove si trovava esattamente ciascuno. Ha fatto una mappa. Ho messo adesso un paio di uomini a interrogarli.» «Sono sos...?» «Non so se sono sospettati o testimoni o semplicemente dei poveracci senza un tetto sopra la testa, quindi non chiedermelo. Erano solo in un posto dove non avrebbero dovuto essere... vivevano dentro un ospedale, ecco tutto: per cui adesso si trovano nel bel mezzo di un'indagine per omicidio e non so neanch'io che cosa farne.» Stavamo pensando tutt'e due la stessa cosa. Ognuno di quei disgraziati poteva offrire una traccia potenziale alla soluzione del caso e molto probabilmente, nel momento stesso in cui li avessimo lasciati uscire dalla porta della stazione di polizia, non li avremmo mai più ritrovati. Mi muovevo su un terreno minato. Se li si teneva chiusi lì dentro, in una cella temporanea, allora qualsiasi domanda degli investigatori doveva essere sottoposta all'autorità giudiziaria in quanto interrogatorio in stato d'arresto. La condotta della polizia sarebbe stata considerata illegale. Il giudice che alla fine si sarebbe dovuto occupare del caso avrebbe criticato la durata eccessiva della detenzione senza assistenza legale, e avrebbe valutato severamente le condizioni in cui erano stati trattenuti.
Era ovvio che gli uomini di Peterson non potevano ignorare questi clandestini del Mid-Manhattan, ma occorreva tener conto delle conseguenze dal punto di vista giuridico. E occorreva farlo subito. Il valore delle informazioni che quegli individui potevano fornire sarebbe stato compromesso dalla liceità o meno del modo in cui le avremmo ottenute. Ci riprovai: «Che cosa avete intenzione di fare di quegli uomini, una volta che saranno stati interrogati?». McGraw mi schioccò le dita sotto il naso mentre sollevava la cornetta del telefono per fare una chiamata. A momenti inspirava anche il mozzicone che gli pendeva dalle labbra, per la fretta di aprir bocca e parlare: «Sono nostri ospiti, signorina Cooper. Lo capisce? Ho concesso loro ospitalità al distretto... per stanotte e per tutto il tempo che vogliono. Quindi, prima di farmi rapporto con il suo superiore, veda di guardarsi attorno per bene». Il capo riabbassò la cornetta del telefono e, mentre Peterson si stringeva nelle spalle, mi fece cenno di seguirlo sotto l'arcata che portava in sala agenti. La voce stentorea continuava a risuonare: «La porta della gabbia è spalancata. Lo vede? Questi signori sono liberi di dormire per terra oppure sulla panca. Gli abbiamo dato da mangiare come non si sognavano da anni. Non è vero, Camice?». Un vecchio incartapecorito, senza capelli e con gli avambracci pieni di croste, appollaiato sull'orlo della scrivania di un agente, alzò gli occhi. «Quello lì lo chiamano Camice. Dice di non ricordarsi come si chiama. Quattro anni e mezzo fa, quando lo hanno dimesso dal reparto di psichiatria dello Stuyvesant, non sapeva dove andare, per cui non ha fatto altro che trasformare l'ospedale in casa sua. Giù nel garage del distretto di polizia c'è il suo carrello della spesa, pieno di camici verdi e Dio solo sa che cos'altro. Ruba - facciamo che prende a prestito - camici di chirurgia dagli armadietti della biancheria e li vende agli altri senzatetto che non hanno nulla da mettersi. «Fame, Camice?» «Signornò.» «Ti ha dato da mangiare qualcuno dei miei, oggi?» «Signorsì, signor capo. Mi hanno dato due dolci e un panino al pastrami. E cinque Coca Cola.» «Di' alla signora che cos'altro hai fatto oggi.» «Ho guardato la televisione. Proprio nella stanza dove state voi adesso. Ho visto i cartoni, ho visto la lotta, ho visto una foto della dottoressa che hanno ammazzato giù da me.»
«La conosci?» «No, l'ho vista solo in video.» «Dove vuoi andare stasera, Camice?» Ebbi la netta impressione che il povero vecchio avesse già sentito la stessa domanda, quel giorno, prima di esibirsi davanti a me. «Contentissimo di restar qui da voi, finché mi tenete.» McGraw si voltò e mi lanciò uno sguardo eloquente: «Glielo dica, glielo dica, a Paul Battaglia, eh! Non voglio che qualcuno pensi che tratto male questi barboni. Finché non saprò che cosa ho per le mani, me ne occuperò con molta cura. Questi sono i miei ordini». Pensai che avrei fatto meglio a tener da parte la domanda da un milione di dollari per Peterson. Mentre McGraw si allontanava come una furia. Mi rivolsi al tenente e gli domandai tranquillamente: «E se uno di questi dice che vuole andarsene di qui, stasera? Sono liberi di farlo?». In quel momento uno degli agenti addetti ai telefoni strillò il nome di Chapman che, passandomi accanto per andare a rispondere, mi sfiorò: «Lasci che se ne porti a casa un paio per la notte, tenente. Coop ha proprio un debole per i vecchietti, vero bimba? Non gli farà da mangiare, ma le garantisco che domani mattina saranno qui tutti e due con un aspetto molto migliore». «Alex, sai benissimo che non posso permettere a nessuno di questi qui di varcare quella porta. Naturalmente a loro non piace stare in gattabuia e non ce n'è uno che possa fornire il nome anche di un solo familiare. Non li rivedremmo mai più. Abbiamo preso le impronte a tutti...» «Voi cosa?» «Ma Alex, ci hanno dato il consenso.» «Un consenso dato così non reggerà neanche dieci secondi quando si arriverà in aula. Lei lo sa anche meglio di me. Dio non voglia che tra costoro ci sia qualcuno che ha a che fare con l'assassinio della Dogen: qualsiasi prova riuscirete a ricavarne andrà in fumo.» «A dire il vero, da qualche controllo al computer risulta che per almeno tre di loro ci sono dei carichi pendenti. Roba da poco: entrati in metropolitana senza pagare, furtarelli, violazioni di domicilio. Nulla che implichi violenza, ma giusto quanto ci basta per tenerli sotto chiave fino a quando li porteremo davanti al giudice per metterli in stato d'arresto.» Altre complicazioni. «Perciò lei sa se hanno già un avvocato per le accuse di cui sono oggetto?» «Tranquilla, Alex. Abbiamo controllato i nominativi solo dopo avergli
fatto tutte le domande di rito. So che non ti piace il modo in cui abbiamo gestito questo aspetto della faccenda, ma date le circostanze non avevamo davvero scelta.» Era un problema che non potevo risolvere quella sera, ma l'indomani sarebbe stato il primo di cui avrei discusso con Rod Squires. Nella sua veste di capo della divisione Processi, Rod aveva affrontato McGraw più spesso e con più successo di dozzine di miei colleghi messi insieme. Misi nel raccoglitore i blocchi di appunti e attraversai la sala agenti per andare a sedermi alla scrivania di Mercer e aspettare con lui che Chapman finisse la telefonata. «Che ne dici di andare a cena?», domandai. «Ho proprio una gran voglia di mangiare cinese, stasera.» «Il Shun Lee Palace?» «Grande, Cooper. È il meglio che ci sia.» Chapman riattaccò, salutò tutti e ci raggiunse mentre ci alzavamo per andarcene. «Potrebbe essere lo spiraglio di cui avevamo bisogno. Era una sensitiva, al telefono. Ha saputo di Gemma Dogen dal notiziario del mattino e da quel momento ha avuto le vibrazioni. Mi ha detto che se le fornisco qualche altro dettaglio, entro domattina potrebbe indovinare l'identità dell'assassino. Non storcere il naso, Blondie. Che ne sai che non funzioni?» «Tu che cosa le hai detto?» «Le ho detto di venire a cena con noi e ne avremmo parlato.» «Mike, non me la sento proprio di passare la serata con...» «Rilassati, Cooper, non perdere il senso dell'umorismo già il primo giorno. Dove si va? Non le ho detto il nome del ristorante e non le ho detto a che ora ci saremmo andati. Le ho solo detto che se era una vera sensitiva, sarebbe stata in grado di trovarci. Dai, Mercer, andiamocene da qui.» Capitolo 7 Erano le undici quando entrammo nel ristorante della 55a, quasi vuoto. Patrick Chu ci salutò con un leggero inchino del capo e ci precedette in sala da pranzo, passando davanti al banco del bar e alla fila di tavoli lungo il muro. Le pareti blu cobalto, arredate con vetrinette che esponevano piatti di porcellana antica e boccette di profumi, creavano un'atmosfera di lusso e di raffinatezza che non era molto comune nei locali cinesi di Manhattan. «Piacere di vederla, signora procuratrice», disse Patrick sorridente, con-
segnandoci i menu. «Va già meglio dell'altra volta», fece notare Chapman a Wallace. «Coop e io siamo venuti qui qualche settimana dopo la chiusura del caso Lascar, quando la faccia di Alex era su tutte le prime pagine. E io sento Patrick, il maître, dire al padrone che è appena arrivata la "famosa prostituta".» «Mio inglese molto meglio ora, signor Mike. Mai più faccio questo errore.» «Ti è andata bene una volta, Patrick. Prostituta... procuratrice: non c'è poi tanta differenza, per conto mio. Non so chi delle due si dovrebbe sentire più insultata dalla confusione.» Ordinammo da bere, dicendo a Patrick che il menu non era necessario: «Zuppa piccante all'agro, involtini primavera, polpette di gamberi e un'anatra alla pechinese», disse Chapman senza neanche tirare il fiato. «Se poi avrò ancora fame, vedremo di aggiungere qualcosa. Non ho dimenticato niente?» «Non so tu, Alex, ma io credo che sia proprio quel che volevo mangiare», mi disse Mercer strizzandomi l'occhio. «Mike, quali sono i tuoi piani?» «Domattina per prima cosa vado all'obitorio. Perché non passi a prendere Alex in ufficio verso l'ora di pranzo e venite anche voi? A quell'ora sono sicuro che Kirschner avrà l'esito dell'autopsia. Nel pomeriggio devo dare una mano a interrogare i dipendenti dell'ospedale e credo che per voi due sia un buon momento per dare un'occhiata all'appartamento della Dogen.» Avanzai la proposta di far ricoverare Maureen in incognito al MidManhattan. Sia Chapman che Wallace la colsero al balzo, ma fummo tutti d'accordo che, una volta informato Peterson, sarebbe stato stupido far sapere della talpa a chi lavorava all'interno dell'ospedale. Avevo lavorato con Maureen Forester in dozzine di indagini. Era figlia di uno dei primi agenti investigativi neri della polizia di New York. La corporatura esile e il bel viso mascheravano una forza, una rapidità e una grinta che ne facevano un poliziotto di prim'ordine. Quattro anni prima Battaglia aveva fatto richiesta al capo degli agenti investigativi di trasferirla al suo reparto - il nucleo di polizia presso la procura distrettuale -, in modo che collaborasse con noi in indagini particolarmente delicate. Io beneficiavo spesso del suo talento, e sempre della sua sincera amicizia. «Come si fa a farla entrare?», domandò Wallace. «David Mitchell.» Il mio carissimo amico e vicino di casa era uno degli psichiatri più in vista della città. «Domattina gli telefono. Emicrania, vista
sdoppiata, amnesia intermittente... ha tutta l'autorità per farla ricoverare in osservazione neurologica il giorno stesso in cui lo chiede.» «Ma lei lo sa già?» «Ho pensato che sarebbe meglio se le telefonassi tu, Mercer. Non credo che avrà niente da ridire. Probabilmente non vede l'ora di stare alla larga dai bambini per una settimana, servita e riverita di tutto, compresa la colazione a letto. Se la cosa viene da te, invece che da me, il marito la prenderà meglio, no?» «Considerala cosa fatta. Lo sai, vero, che nessuno di noi potrà andare a trovarla? Lo sanno tutti che siamo investigatori, ormai.» «Certo. E se a Charles non va l'idea, prenderemo un agente per fare la parte del promesso sposo, e qualcuno come Sarah per quella delle amiche che vanno a trovarla. Credo che dovremo metterle un microfono addosso e installare nella stanza una telecamera nascosta, in modo che dal reparto tecnico possano tenerla sotto controllo quando dorme. Succedono troppe cose lì dentro, di notte, per lasciarla senza sorveglianza.» Nell'umida e fresca serata di marzo, stanca com'ero, la zuppa era proprio quello che ci voleva. Misi una manciata di vermicelli nella tazza di brodo fumante che il cameriere mi aveva messo davanti e gli dissi di portarmi del tsintao, dopo il whisky. Il calore della minestra mi rilassava, il gusto piccante mi ridava energia. Mi isolai dalla conversazione dei due agenti. Chi mai sulla faccia della terra avrebbe sentito la mancanza di Gemma Dogen, quella sera? Nel domandarmelo, rammentai a me stessa quanto ero fortunata ad avere tanti amici e parenti su cui contare per sostenere il peso emotivo del mio lavoro. E alzai il bicchiere in un tacito brindisi a Mike e Mercer, divenutimi cari come nessun altro collega in vita mia. Avevo conosciuto Mike Chapman dieci anni prima, durante il mio praticantato da procuratore presso l'ufficio di Paul Battaglia. Venivo da un famiglia benestante e privilegiata che mi aveva assicurato un'istruzione di prim'ordine presso il Wellesley College prima, e la facoltà di legge dell'Università della Virginia poi. Ma dai miei genitori avevo ereditato anche l'ammirazione per i mestieri al servizio della collettività, che mi aveva indotto a diventare sostituto procuratore distrettuale. Dopo alcuni incarichi alla divisione Processi, che indagava su casi di criminalità generica, ero approdata - un po' per caso e un po' per l'infallibile istinto di Paul Battaglia - alla nuova sezione specializzata nei reati sessuali. La gratificazione che ricevevo da quel lavoro, la soddisfazione di assistere le vittime durante le
indagini e il processo con esiti migliori di quel che il sistema giudiziario avesse mai ottenuto, mi avevano trattenuto presso quell'ufficio per sempre. Le origini di Chapman erano in netto contrasto con le mie. Il padre era un immigrato irlandese di seconda generazione: aveva conosciuto la futura moglie a Cork, visitando i luoghi d'origine della famiglia, e se l'era portata negli Stati Uniti. Brian Chapman era stato nel corpo di polizia di New York per ventisei anni ed era morto di infarto due giorni dopo aver riconsegnato distintivo e pistola. Mike e le tre sorelle maggiori erano cresciuti a Yorkville, un quartiere operaio di Manhattan tuttora noto più per i pub e per le macellerie tedesche che per i ristoranti chic e i saloni di bellezza coreani della zona sua, Lenox Hill. Mike frequentava il primo anno a Fordham, grazie al prestito studentesco che, dopo la morte del padre, aveva chiesto per integrare quello che guadagnava facendo il cameriere. Aveva completato gli studi ed era andato dritto all'Accademia di polizia, seguendo sfacciatamente le orme dell'uomo che aveva idolatrato. Brian Chapman aveva passato tutta la carriera in uniforme, di ronda nella Harlem ispanica, dove conosceva per nome, faccia e soprannome ogni bottegaio, ogni scolaretto e ogni componente di banda criminale. Da recluta, Mike si era distinto il giorno di Natale del primo anno di servizio, arrestando i responsabili del massacro di una famiglia di colombiani di Washington Heights collegata al traffico di droga. Aveva risolto il caso utilizzando gli informatori che il padre si era coltivato nel quartiere. Otto mesi dopo ottenne la promozione salvando una ragazza incinta che stava tentando di suicidarsi buttandosi in acqua dalla riva sotto il George Washington Bridge. A trentacinque anni, Mike sembrava destinato a rimanere scapolo, nel suo minuscolo appartamento-studio di un quinto piano senza ascensore che lui chiamava «la bara». Lui e Mercer Wallace avevano lavorato insieme alla squadra Omicidi, prima che Wallace fosse trasferito alla Vittime Speciali, dove era l'uomo di punta di quasi tutte le indagini sui più gravi casi di stupro di Manhattan. Mercer aveva ormai trentanove anni, quasi cinque più di me. Sua madre era morta mettendolo al mondo e lui era stato allevato dal padre in un quartiere piccolo borghese di Queens. Spencer Wallace faceva il meccanico alla Delta, all'aeroporto La Guardia, e gli piaceva ricordare al figlio che a momenti gli veniva un infarto quando Mercer, grazie alle sue doti di giocatore di football, aveva vinto una borsa di studio per andare all'Università del Michigan e diventare poliziotto.
In tutti i comandi o distretti di polizia in cui aveva lavorato, Mercer Wallace era noto per la meticolosità e la pignoleria con cui affrontava le indagini. Un breve matrimonio con una donna che commerciava in abbigliamento nel quartiere in cui era nato era finito in divorzio. Mercer affermava che lei non gli credeva, non capiva le esigenze del suo lavoro, che lo tenevano lontano da casa tutte le ore del giorno e della notte. Un secondo matrimonio, con un'agente investigativa che lavorava con lui alla sede centrale, era finito altrettanto ingloriosamente per motivi che lei non gli aveva mai voluto rivelare. E quest'uomo grosso e dolce era sempre alla ricerca di una persona che sapesse stargli vicino ma che, nello stesso tempo, lo lasciasse libero di muoversi. I miei genitori erano entrambi vivi e in buona salute, e si godevano la pensione in un'isola dei Caraibi. Per me era strano entrare in un complesso ospedaliero considerandolo la scena di un delitto, perché mi ero trovata sempre perfettamente a mio agio tra il personale in camice bianco e i medici professionisti impegnati a salvare vite umane. Benjamin Cooper, mio padre, era un cardiologo e, insieme a un collega, aveva inventato una valvola di plastica rivoluzionaria per la cardiochirurgia. La valvola venne usata in quasi tutte le operazioni a cuore aperto per più di quindici anni, e io ero perfettamente consapevole del tenore di vita che quel tubicino pieghevole mi aveva reso possibile. Della mia infanzia, non mi è rimasto impresso nessun profumo di cucina, come accade a tanti altri bambini. Il mio ricordo olfattivo più nitido è l'odore pungente di etere, di cui il bel viso e le mani affusolate di mio padre restavano impregnate dopo le lunghe giornate in sala operatoria, e che mi avvolgeva quando lui, rientrando a sera tarda, si chinava a baciarmi per darmi la buona notte. Ciò accadeva prima del ricorso al pentothal come anestetico, e io accoglievo con gioia l'arrivo di quello sgradevole odore, perché era il simbolo del ritorno a casa del mio impegnatissimo e affettuoso papà. Le rare volte che Ben riusciva a tornare a casa in tempo per cenare con noi, la conversazione a tavola verteva sempre su argomenti medici. Il diploma di infermiera permetteva a mia madre di sostenere alla pari quelle conversazioni, e per tutta la durata del pasto io e i miei fratelli venivamo informati di tutte le procedure chirurgiche più aggiornate. Più volte avevo accompagnato mio padre al lavoro in ospedale durante il fine settimana ed ero abituata agli odori di antisettico, di medicinali e alla vista di un reparto d'ospedale.
«Guarda come muove il machete quello lì», disse Mike. Smisi di sognare a occhi aperti e rientrai nella conversazione di Chapman e Wallace. Il cameriere disossava l'anatra con rapidità e precisione impressionanti, ripiegava le fette di carne e le avvolgeva in sfoglie sottilissime di pasta ripiene di scalogno e salsa agrodolce. «Questo non mi è mai capitato, Mercer, e a te? Dico, mi sono capitati un sacco di ammazzamenti col machete, ma uno scarnificatore di anatra pechinese mai. È un fulmine.» Ancora prima che la nostra porzione toccasse il piatto, Mike stava già addentando il primo boccone che gli avevano servito. «Che novità ci sono nella sua vita sentimentale, signorina Cooper: niente che io debba sapere?», chiese Mercer. «Credo che aspetterò il disgelo primaverile.» «Le concedo ancora qualche mese e poi la arruolo nelle Dame della Carità. Non pensi che farebbe un figurone come suora, Mercer? Tutti quegli scolaretti di parrocchia ti farebbero venire in mente me o McGraw, Blondie, e tu potresti andartene tutto il giorno in giro a sculacciarli col righello. Non ti lamenteresti continuamente di andare in bianco e non ti crucceresti se il telefono non squilla il sabato sera. Potresti farti disegnare l'abito da Oscar de la Renta, Mercer ti farebbe scrivere qualche melodia adatta da Smokey Robinson...» «Piantala di ridere, Mercer. Non dargli corda. Perché non parliamo della tua vita sentimentale, invece? Come va fra te e Franchie?» Da qualche tempo Wallace si vedeva con Franchie Johnson, una mia collega della divisione Antidroga della procura. «Funziona, funziona ancora, Cooper. Se non la butto all'aria io, stavolta potresti farmi da damigella d'onore, ti va?» Mike era ansioso di cambiare argomento prima che toccasse a lui render conto della sua vita sociale. «Che ne sapete di neurochirurgia? Avremo bisogno di capire in che cosa consisteva esattamente la pratica professionale della Dogen e quali erano i suoi compiti, in modo da sapere che cosa cercare quando quei medici cominceranno a chiacchierare. Sia all'ospedale sia alla facoltà, perché i ruoli che ricopriva erano proprio distinti.» «Chi hai intenzione di vedere dopo l'autopsia?», domandai. «I primi colloqui deve fissarmeli William Dietrich, il direttore sanitario che oggi mi ha portato a fare il giro dell'ospedale. Ma da lui ho già saputo gran parte di quello che volevo. Poi parlerò con Spector, il chirurgo che aveva chiesto a Gemma di assisterlo in sala operatoria.»
«I neurochirurghi si considerano l'élite della professione», spiegai: «È una specializzazione di altissimo rango, e anche tra le più pagate in medicina». «Dopo Spector, ho in agenda un altro paio di professori e un po' di studenti e praticanti. Dietrich vuole che io parli con i due che hanno sostituito la Dogen al tavolo operatorio quando lei non s'è fatta vedere. Tu che ne pensi, Coop, è come in 42a Strada, no? Quando Ruby Keeler entra in scena per sostituire la star e sfonda a Broadway. «Questa volta...» Spalancò il taccuino per controllare i nomi della lista, continuando ad armeggiare sul pesce con le bacchette nell'altra mano: «Ehi, questa sì che è una bella combinazione: un pachistano e un WASP, uno di quegli americani purissimi, bianchi anglosassoni e protestanti, con tanto di doppio cognome. Il pachistano... Banswar Desai... mi sa che questo qui finirà nel mio programma di assistenza sanitaria. Bisognerà che gli dica di non farsi troppo il culo a lavorare in mezzo a quel manipolo di snob. Tutti i medici che ho in lista portano il turbante, ci giurerei». «Quando imparerai che è veramente fastidioso questo modo di parlare?» Le sconcezze dialettali di Mike erano costante motivo di irritazione, tra noi due. «Tranquilla, Coop. Io non faccio preferenze quando si tratta di offendere. L'altro chirurgo è Coleman Harper. A voi non danno noia questi nomi da romanzo? Probabilmente l'ho già insultato: senza dubbio sarà un Coleman Harper III, o IV, o V che ha ereditato il nome della bisnonna materna del nonno.» «Il mio preferito è quel traumatologo che aveva l'ufficio accanto alla Dogen», disse Mercer, «quel giovanotto coi capelli impomatati e il sorriso più falso che abbia mai visto. Denti assicurati, senza dubbio. Te lo vedi? Scommetto che crede di essere Ben Casey. Credo che l'unica cosa di cui si preoccupa sia che riescano a togliere le macchie di sangue dall'ufficio della Dogen per potercisi trasferire lui: si avvicinerebbe di una porta all'ufficio del preside di facoltà e lui è smanioso di far carriera.» Ancora prima che il pesce arrivasse in tavola e scomparisse in un baleno, io ero già sazia. Patrick aveva registrato la mia carta di credito. Gli dissi di portare ai miei due colleghi quello che volevano e di aggiungere il venti per cento per il servizio. «Ci vediamo domani», dissi, tirando indietro la sedia. «Non lo vuoi il bicchierino della staffa?» «No, grazie. Sono pronta per la cuccia.»
«Non puoi andartene senza biscotto della fortuna. Ehi, Patrick, danne uno buono alla signorina Cooper, mi raccomando.» «Solo biglietti buona fortuna al Shun Lee, signor Mike. Nessuna notizia cattiva.» Scartai il biscotto fragrante, lo ruppi a metà e ne estrassi la strisciolina di carta che mi avrebbe predetto il futuro: «Grazie, Mike, proprio la notizia di cui avevo bisogno: "Le cose andranno molto peggio prima d'andar meglio. Pazienza"». Non era giornata. «Vuoi che ti accompagni alla macchina?», chiese Mercer. «No, grazie. Ho parcheggiato qua davanti e vado direttamente a casa, in garage.» «Passo da te in ufficio verso mezzogiorno.» E mi salutò in italiano: «Ciao». Dissi al custode notturno del garage che l'indomani non avrei avuto bisogno della macchina, aprii con la chiave la porta che dava nel condominio e salii nell'atrio. Un portiere mi consegnò la biancheria lavata e la posta, che non entrava nella cassetta per via delle troppe riviste. Spostai il borsone nell'altra mano per riuscire a trasportare la pila di carta, cercando di non pizzicarmi le dita, e premetti il pulsante del ventesimo piano. Appena aperta la porta di casa, adocchiai, sul pavimento dell'ingresso, un foglietto di carta intestata di David Mitchell. Mi liberai del carico e raccolsi da terra la missiva. Diceva: «Vado alle Bermuda per il fine settimana, via da questo clima orrendo. Puoi tenermi Prozac o devo ricorrere al canile? Ti telefono domani mattina in ufficio. David». Questo facilitava le cose. Io facevo da baby sitter alla sua adorata cagnetta da caccia, Zac, mentre lui era via - con la sua ultima conquista, senza dubbio - a rilassarsi e a prendersi un po' di sole sulla spiaggia. In cambio potevo chiedergli di trovare un letto al Mid-Manhattan per Maureen Forester, la nostra nuova finta malata. Entrai in soggiorno togliendomi le scarpe e ispezionando la posta. Con l'avvicinarsi della primavera, si trattava soprattutto di riviste di moda, decorazione d'interni e giardinaggio; i quattro cataloghi di vendite per corrispondenza, pieni di cianfrusaglie e attrezzi da ginnastica di quart'ordine, erano destinati a sepoltura immediata nel secchio della spazzatura; misi da parte sulla credenza le fatture di negozi e rosticcerie da asporto; portai in camera da letto la cartolina di Nina, mi tolsi il collant e lo buttai nella cesta del bucato.
Leggere le sue impressioni sul fine settimana a Malibu, scritte sul retro di una veduta marina di Winslow Homer, mi fece venir voglia di una bella chiacchierata a quattr'occhi con la mia migliore amica. Eravamo state compagne di camera al college e, benché separate da tre fusi orari e due vite frenetiche, cercavamo di tenerci in contatto con messaggi quotidiani e cartoline postali artistiche, che tutt'e due collezionavamo. Ci scrivevamo tutto quello che succedeva o che ci passava per la testa. Ci furono anni in cui, tra il serio e il faceto, Nina si lamentava che la mia vita era tanto più interessante della sua. Ci eravamo scritte vivaci descrizioni dei nostri innamorati e dei nostri idilli sentimentali, e lei mi era stata di grande conforto quando il mio fidanzato era morto in un incidente automobilistico, l'anno in cui mi ero laureata in legge. Negli ultimi tempi, ricevendo le sue notizie di fine settimana al mare col marito Jerry e il figlioletto, e di un elettrizzante lavoro nell'ufficio legale dei Virgo Studios, il mio inverno era apparso ancora più squallido e solitario. Ma stasera, tornata nel pieno dell'eccitazione di un nuovo caso, non vedevo l'ora di far sapere a Nina che tutto andava bene. Mentre mi toglievo il tailleur e lo appendevo nell'armadio, ascoltai i tre messaggi in segreteria telefonica. Il primo era di mio padre, che chiamava dalla casa a St. Bart: un ex collega gli aveva telefonato per raccontargli della tragedia al Mid-Manhattan e lui ora si metteva a mia disposizione se avevo bisogno di aiuto. Poi Nina: aveva trovato il mio messaggio dell'ora di pranzo, e voleva sapere i particolari del caso. L'ultima era Joan Stafford, che mi ricordava la cena a casa sua, sabato sera alle otto: «E, per favore: niente scuse che puzzano di balla lontano un miglio, tipo un assassinio». Cercai di rilassarmi e liberarmi del peso della giornata con il libro di Trollope che tenevo sul comodino. Durante il fine settimana avevo cominciato I diamanti di Eustace, e sapevo che bastavano dieci o dodici pagine di quel gustoso giallo ottocentesco per farmi cadere le palpebre e convincermi a spegnere la luce. Credevo di avere scacciato il pensiero di Gemma Dogen dal cervello affaticato, ma non potevo evitare di chiedermi se la sua morte stava tenendo sveglio qualcun altro, in quel momento: per il dolore, per la sensazione di aver perduto qualcosa, o per senso di colpa. Capitolo 8 Don Imus può anche non essere ciò che comunemente si intende per
sveglia, ma su di me aveva un potere magico. La radio si accese automaticamente alle sette. Imus aprì il notiziario con il delitto del Mid-Manhattan, spaziando su tutto, dall'assassinio alla vita sotterranea che brulicava nelle viscere del complesso ospedaliero: «A quanto pare è un posticino che non ha nulla da invidiare al Bates Motel, questo», commentò, lanciandosi nella sua solita imitazione di un paziente dello Stuyvesant che fa il cicerone in giro per la casa di cura psichiatrica. Finii di vestirmi, ma non avevo voglia di spegnere la radio e uscire, nel timore che Imus e i suoi, che sul processo Simpson avevano svolto un lavoro di commento quotidiano più approfondito di quanto avesse fatto tutto il giornalismo americano messo insieme, indovinassero l'identità del colpevole prima dei poliziotti. Indossai la giacca di montone nero e mi preparai ad affrontare i dieci gradi sotto zero della 3a Avenue, per andare a prendere un taxi che mi portasse in ufficio. Il tassista conosceva la strada per il palazzo di giustizia, a Lower Manhattan, per cui mi accomodai sul sedile e diedi una scorsa ai titoli del «New York Times». La morte di Gemma Dogen si era conquistata una posizione in prima pagina, invece della solita cronaca cittadina. La parte era dovuto al prestigio professionale della vittima, ma soprattutto aveva a che fare con il luogo in cui la violenza era stata consumata. I lettori del «Times» erano fisicamente ed emotivamente molto lontani dai terreni edificabili e dai territori delle bande giovanili, frequenti teatri degli ammazzamenti metropolitani, scenari scontati della violenza e dell'omicidio. Ma fa' fuori uno dell'ambiente che frequentiamo «noi» - un grande ospedale, Central Park, il Metropolitan - ed ecco che la morte assume subito un'altra dimensione. Pagina uno, taglio alto. Lessi l'articolo con molta attenzione per vedere fino a che punto era precisa la ricostruzione dei fatti e se dall'interno del dipartimento di polizia qualcuno aveva lasciato trapelare informazioni. Fino a quel momento, tutto a posto: nessuno aveva commesso l'errore di fare il nome di probabili sospetti, nemmeno quelli dei nostri ospiti chiusi in gabbia, né di puntare prematuramente il dito. Il tempo di leggere gli editoriali, le recensioni letterarie e l'articolo dell'inserto casa del giovedì dedicato a una prossima asta di antiquariato, e il mio taciturno tassista era arrivato davanti a Centre Street 100: aprì il vetro separatore e riscosse i suoi quattordici dollari e trenta centesimi. «Il solito?», chiese il mio amico del carrello del caffè, vedendomi arriva-
re. «Fallo doppio, per favore. Due bei caffè senza latte, lunghi.» Quasi tutti i dipendenti avrebbero timbrato dopo le nove, ma uno stillicidio di giovani legali e di addetti al tribunale convergeva sull'edificio da ogni direzione, rovesciato sulle vie attorno al palazzo di giustizia dalle varie fermate d'autobus e stazioni della metropolitana. Johanna Epstein salì in ascensore con me. Non era molto che lavorava nel mio reparto, ma affrontava le cause e le portava in aula con molta grinta. «Hai tempo per esaminare con me un atto di accusa? Il caso che ho preso lo scorso fine settimana: ti ricordi i fatti?» «Furto con scasso nella 9a Strada Est... la ragazza fatta di crack?» «Proprio quello.» «È andata bene davanti alla giuria?» Nell'appartamento della donna aveva fatto irruzione un altro balordo che contava sulla riluttanza della vittima a rivolgersi alla polizia, a causa del vizio della droga. Ma lei, col suo candore e la sua disponibilità a cooperare con la legge, aveva sorpreso sia lui che Johanna. Il giorno prima era stata chiamata a testimoniare davanti al Gran Giurì nel tentativo di ottenere un rinvio a giudizio. «Sì, benissimo. Ho solo qualche domanda da farti su quante imputazioni di violenza addossargli. Voglio dire: lui ha cominciato ad aggredirla, poi si è alzato ed è andato in cucina a prendersi una birra, poi è tornato e ha ricominciato. Si tratta di due reati distinti o di un solo stupro?» «Portami il fascicolo verso le undici. Lo esaminerò e ti ascolterò con più attenzione, così potremo prendere una decisione. Non serve sovraccaricarlo di capi di accusa, ma se si tratta di atti sessuali distinti, intervallati da altri fatti, si può parlare certamente di reati multipli.» Johanna si fermò al sesto piano e io proseguii fino all'ottavo, dove si trovava il mio ufficio da quando avevo assunto la direzione della Reati Sessuali: ero dalla parte opposta degli uffici di Battaglia e nello stesso corridoio degli altri magistrati della divisione Processi, che si occupavano delle migliaia di reati di strada portati dagli agenti di polizia notte e giorno, incessantemente. Accesi la luce nella stanzetta della mia segretaria, anticamera del mio ufficio, e aprii la porta con la chiave. Vidi con piacere che l'ufficio era più in ordine del solito. Ma sapevo già che da lì a poco sarebbe stato sommerso dai mucchi di pratiche, rapporti di polizia, diagrammi, appunti, ritagli di giornale che costituiscono la materia prima di una indagine importante. Mi
piaceva cominciare con il cartone verde ben visibile sotto le pile di rapporti, in modo da avere sempre sotto controllo le cose più rilevanti da fare o da esaminare. Per prima cosa telefonai in studio a David Mitchell. Aveva già letto i giornali e sapeva che mi era stato affidato il caso del Mid-Manhattan: «Non ti avrei mai lasciato quel biglietto, ieri sera, se avessi saputo che eri così occupata. Scusami di averti dato questa seccatura con Zac». «Scherzi? Sarà un piacere trovarla a casa ad aspettarmi, David. E poi, magari mi convincerà a fare due passi, durante il fine settimana. Lo sai che mi piace stare con Zac. Se quando parti non sono ancora a casa, falla entrare aprendo con le tue chiavi.» «Fantastico. Domani mattina la porto fuori e poi la lascio da te.» «Hai tempo di farmi un piacere, prima di andar via?» «Sempre. Di che cosa hai bisogno?» Gli raccontai sommariamente ciò che accadeva nell'ospedale e spiegai che volevamo introdurre Maureen come osservatrice, all'insaputa del personale sia amministrativo che sanitario. «Non dovrebbe essere un gran problema, purché abbiano letti liberi. E purché tu mi spalleggi quando l'Ordine cercherà di togliermi l'abilitazione alla professione per...» «Non preoccuparti. L'operazione deve essere approvata dal capo della polizia: tu agirai su suo mandato, appena lo avremo informato. E i letti ci sono. Due di quei senzatetto dormivano da quattro giorni in camere a pagamento vuote. E una volta tanto non ci saranno nemmeno lamentele sul mangiare.» «Va bene, ecco la mia idea. Fammi telefonare da Maureen per metterci d'accordo sui sintomi. Poi chiamerò un neurologo col quale ho avuto occasione di collaborare...» «No, David. La Dogen era un neurochirurgo. Noi vogliamo che Maureen sia al reparto di neurochirurgia.» «Il reparto è lo stesso, al Mid-Manhattan. È normale fare riferimento prima di tutto a un neurologo.» «Non so che differenza ci sia. Perché non me lo spieghi, tanto per cominciare?» «Ma certo. I neurologi sono i medici che studiano e curano la struttura e le malattie del sistema nervoso. In questa fase un neurochirurgo non viene coinvolto, a meno che tu non voglia spedire Maureen in camera operato-
ria.» «Collaborano tra loro, neurologi e neurochirurghi?» «Sì, ma i neurologi non operano, non sono preparati per la chirurgia.» «La Dogen operava soprattutto al cervello.» «L'ho visto dal coccodrillo sul giornale. Tieni presente che il cervello, la colonna vertebrale e anche l'occhio fanno parte del sistema nervoso centrale, Alex. Ecco perché tra queste specializzazioni - psichiatria, oftalmologia e ortopedia - ci sono tante sovrapposizioni. La signora Forester avrà tanti di quei dolori, tic e spasmi da tenere occupato tutto lo staff fino al mio ritorno, lunedì. Va bene?» «Grazie, David. Mercer deve chiamare Mo per chiederglielo e, appena lei accetta, io la metto in contatto con te. E adesso che abbiamo sistemato le questioni di lavoro, posso chiederti chi è la tua compagna di viaggio?» «Quando torniamo te la presento. Si chiama Renee Simmons: è una psicologa specializzata in terapia di coppia. Credo proprio che ti piacerà.» Ebbi la sensazione che il nostro appuntamento fisso della domenica, per vedere «60 Minuti» in televisione e prendere un aperitivo, stesse per diventare una riunione a tre. «È quella brunetta magra col sorriso perfetto e le gambe stupende che ti aspettava al bar di Lumi martedì sera?» Una sera, la settimana prima, uscivo da uno dei miei ristoranti italiani preferiti e David mi era sfrecciato accanto per prenotare un tavolo all'ultimo momento. «Proprio lei. Tra il suo lavoro e il tuo, probabilmente riuscirete a eliminare un po' dei disturbati che ci sono in giro.» «Magari! Ci risentiamo in giornata.» Il tempo di riattaccare e buttare via le tazze vuote del caffè, e in ufficio entrarono Marisa Bourgis e Catherine Dashfer. Lavoravano da tempo nella sezione ed erano mie care amiche. Come Sarah, avevano qualche anno meno di me. Tutte sposate, tutte madri di un figlio piccolo e tutte capaci di tenere in equilibrio vita privata e professionale conservando un bell'aspetto e un inesauribile umorismo. «E così, tanti saluti al pranzo da Forlini», disse Marisa indicando i titoli del giornale sulla mia scrivania. «Sarà anche l'unico vantaggio di un'inchiesta di primo piano, ma è grande: perdita di peso immediata e garantita.» Mangiare di corsa, dieta liquida a base di caffè e bevande gassate, nervi tesi e attività fisica quotidiana molto superiore al necessario. E questo per settimane e mesi. «Quando sarà finita, se sarò tornata alla taglia 42 di quando andavo a scuola, propongo una
bella giornata di shopping per ritrovare l'equilibrio mentale. Vi va?» «Affare fatto. Ti serve niente, nel frattempo? Marisa e io possiamo dare una mano a Sarah a sbrigare il tuo sovrappiù mentre tu ti dedichi all'assassinio.» «Splendida offerta. Stamattina controllo l'agenda. La settimana prossima ci devono essere un paio di colloqui che potreste fare al posto mio. Naturalmente, se non troviamo una pista prima del fine settimana, tutto passerà nelle mani della task force, non nelle mie.» Laura Wilkie, la mia segretaria da anni, si affacciò alla porta per dare il buongiorno e avvertire che Phil Weinberg aveva bisogno di vedermi prima di andare in tribunale. Urgentemente. Quando Weinberg «il frignone», come lo avevamo soprannominato, sgattaiolò furtivamente nel mio ufficio, Marisa, Catherine e io ci scambiammo un sorrisetto. Con Phil niente andava mai liscio. Era un buon legale e un patrocinatore appassionato, ma aveva più bisogno lui di essere tenuto per mano durante i processi di quanto ne avesse la stessa vittima. Fu contrariato, vedendo che avevo compagnia. Sapeva benissimo che appena se ne fosse andato avremmo sparlato di lui, ma, seppure con riluttanza, mi espose il problema. «Non puoi credere che cosa è successo ieri pomeriggio con un giurato.» «Sentiamo.» Non c'era mai fine alle storie che i colleghi raccontavano sui candidati a formare le giurie, uomini o donne che fossero. «Sono nel pieno dell'indagine preliminare sul caso Tuggs.» Lunedì e martedì Sarah e io ci eravamo date il cambio per seguire Phil in aula quasi tutto il tempo. Lo facevamo spesso per i dibattimenti in cui erano impegnate le nuove leve dell'ufficio, per poter formulare critiche dettagliate, consigli tecnici e pratici che aiutassero i pubblici ministeri così promettenti a svolgere meglio il loro lavoro. Conoscevo benissimo i fatti. Si trattava di uno stupro commesso da un conoscente della vittima, la quale aveva accettato l'invito a casa dell'imputato dopo averlo incontrato a una festa. La fotografa ventitreenne era inevitabilmente testimone a carico e affermava senza incertezze che non era andata a casa di Ivan Tuggs con l'intenzione di fare sesso. Il nostro ufficio aveva affrontato centinaia di casi del genere, da dieci anni a quella parte, tuttavia restava intrinsecamente difficile trattarli in tribunale. Non era colpa della legge ma dell'atteggiamento prevalente nell'opinione pubblica, che spesso induceva i giurati poco avveduti a non prendere sul serio la questione. Il problema fondamentale delle donne violenta-
te da uomini di loro conoscenza è che la difesa classica punta a presentarle come bugiarde o pazze. Il reato non è mai avvenuto e la donna si è inventata tutto. Oppure tra le parti qualcosa è successo, ma lei è troppo stramba per rendersene conto. Per l'accusa, quindi, più di metà della battaglia consiste nel selezionare come si deve la giuria. I cittadini intelligenti, dotati di buon senso e di quel tanto di democratica civiltà acquisita vivendo in una metropoli, comprendono benissimo queste faccende. Ma ci sono donne che non vanno tanto per il sottile, e tendono a essere molto più critiche degli stessi uomini nei confronti della condotta di altre donne: di solito sono più adatte a giudicare i casi di violenza sessuale commessa da estranei piuttosto che da conoscenti. Troppe volte avevo fatto quest'esperienza in tribunale, e avevo cercato di insegnarlo ai miei collaboratori. «Hai visto la giuria, vero Alex?» «Sì, perché?» «Be', che ne pensi?» «Per i miei gusti in casi del genere, ci sono troppe donne, ma mi hai detto che la lista dei candidati era squilibrata.» «Ti giuro, Alex, c'era una marea di donne ma non ho potuto farci niente.» «Smettila di frignare, Phil. Qual è il problema?» «È andato tutto bene fin verso la fine della seduta. Faceva così freddo nell'aula 82, che i giurati hanno chiesto al giudice di accendere il riscaldamento, un attimo prima che il poliziotto arrivato sulla scena del reato andasse a testimoniare. Un'ora dopo faceva tanto caldo che eravamo tutti zuppi di sudore. La giurata numero tre si è alzata e, davanti a tutti, ha buttato lì uno "scusatemi" e si è tolta il golfino. «E che aveva sotto? Una maglietta delle dimensioni di un francobollo che le tratteneva a stento un seno extralarge e su cui campeggiava a caratteri cubitali color fucsia la scritta: MIKE TYSON LIBERO.» Cercai di non scoppiare a ridere, ma Marisa e Catherine furono meno discrete. «Non c'è niente da ridere, gente, davvero. Quando hanno processato Tyson? Nel '91? Il che significa che quella lì o non si compra uno straccio di maglietta da sei anni e non aveva altro da mettersi, oppure ci crede sinceramente. E se le cose stanno così, siamo fregati.» «Che cosa ha detto la giudice?», domandò Marisa. «Be', niente. Ci siamo giusto scambiati un'occhiata, ma...»
«Vuoi dire che non le hai chiesto di riesaminare la giurata in separata sede? Muovi il culo, Phil: subito. Ero presente all'esame della giuria, quando hai chiesto se credevano che il rapporto esistente tra le parti ne facesse un "affare privato" e non un crimine. Tutti hanno risposto correttamente. Hai davanti un'ottima giudice per questioni come queste. Dille che vorresti un colloquio privato e chiedile di fare qualche domanda alla giurata numero tre, prima di proseguire.» «Non credi che dovrei essere io a fargliele?» «Niente affatto. Saremo noi a fornirtele, adesso, e tu le metterai giù per iscritto alla giudice. La giurata non deve pensare che sia stato tu a pizzicare proprio lei. Se supera la prova e resta nella giuria, lasciale credere che era la giudice a non condividere i suoi gusti in fatto di abbigliamento, non tu. Noi non vogliamo che se la prenda con te come un fatto personale.» Catherine si offrì di dare una mano a Phil, in modo che io potessi proseguire con quel che avevo da fare. Laura mi chiamò con l'interfono: «Ha telefonato Mo, un momento fa, mentre parlavi con Phil. Dice che puoi contare su di lei. Le è bastato parlare con Mercer per cominciare ad accusare i primi sintomi da ricovero». Presi un taccuino, controllai l'ora e dissi a Laura che andavo al Gran Giurì, al nono piano, per avviare l'inchiesta sulla morte di Gemma Dogen. C'erano otto Gran Giurì in seduta tutti i giorni, nella contea di New York: restavano in carica un mese, durante il quale esaminavano decine e decine di casi. Quattro di essi si riunivano alle dieci della mattina. Non c'era reato che potesse essere sottoposto a procedimento giudiziario senza una sentenza del Gran Giurì. Ancor prima di preoccuparmi di come e quando avrei identificato un sospetto da accusare del delitto, avevo la ben più pressante necessità di presentarmi davanti alle ventitré persone che componevano il Gran Giurì. Soltanto su loro autorizzazione la pubblica accusa aveva il potere legale di emettere mandati per raccogliere le prove in un'inchiesta penale. Questo sistema sarebbe stato presto abolito in più di metà degli Stati Uniti, ma non in quello di New York. Nessuna procura distrettuale dello stato di New York aveva il potere di richiedere la produzione di documenti o la presenza di testimoni nei propri uffici. Per ottenere i rapporti di polizia e gli esiti autoptici mi bastavano un paio di telefonate. Ma referti medici, registrazioni telefoniche, registri di controllo delle guardie giurate e altri documenti potenzialmente probanti in un caso come quello della Dogen, avevano bisogno del permesso del Gran Giurì.
Pochi cittadini hanno motivo di conoscere scopo e funzioni di questo organismo, detto Gran Giurì per distinguerlo dalla piccola giuria di dodici membri dei processi penali. Derivante dal sistema giudiziario inglese, il Gran Giurì è stato creato per impedire ai pubblici ministeri di avviare azioni giudiziarie ingiustificatamente o per motivi politici. Ed è sottoposto a norme completamente diverse rispetto alle giurie dibattimentali. Il procedimento si svolge a porte chiuse, nessun estraneo è ammesso ad assistervi; l'imputato ha diritto alla testimonianza giurata, anche se ciò accade raramente; e i testimoni convocati dall'accusa non vengono sottoposti a controinterrogatorio. Se esistono prove sufficienti a garantire il processo, il compito dei giurati è quello di votare un'ordinanza di rinvio a giudizio contenente i capi d'accusa. La sala d'attesa era piena di sostituti procuratori con i loro testimoni. I primi avevano per lo più gli occhi che brillavano, impazienti di fare il primo passo verso il processo con il loro carico di umane miserie. Quello era il lavoro dei giovani legali che entravano a far parte di uffici come quello di Battaglia, e in genere erano felicissimi quando potevano far volteggiare in aria un bel numero di palline contemporaneamente. Li osservai redigere le accuse in triplice copia sui moduli che il custode avrebbe consegnato al membro di ciascun Gran Giurì designato presidente. Stavano tutti accalcati a un enorme bancone, davanti all'aula, a lavorare l'uno contro l'altro e contro il tempo per ottenere l'atto d'accusa per il proprio caso. I testimoni erano un'accozzaglia squallida e tetra: persone che erano state aggredite o accoltellate, alleggerite del portafogli o dell'automobile, truffate da parenti o da estranei, e che erano in ansia sia per quello che avevano subito, sia in previsione del lungo e frustrante confronto col sistema giudiziario che li aspettava. Soltanto due dei miei colleghi si accigliarono apertamente quando li oltrepassai per andare dal custode che stabiliva la priorità dei casi da sottoporre al Gran Giurì nel corso della seduta. La mia presenza in sala d'attesa e il fatto che mi fosse stato appena affidato un caso di grande rilievo significavano che ero venuta a chiedere di scavalcare tutti i furti e i droga party per i quali quella gente era in coda da più di un'ora. «Rilassati, Gene. Ne avrò solo per un minuto. Niente testimoni. Devo soltanto aprire l'inchiesta in modo da poter cominciare a emettere dei mandati. Non ti farò tardare.» «Debbie ha giù in ufficio una bambina di cinque anni. Il padre l'ha ustionata con l'acqua bollente perché non la smetteva di piangere. È un
gran...» «Quello va per primo, è ovvio. Io entro un minuto appena ha finito lei.» Quando il custode annunciò che il Gran Giurì aveva raggiunto il numero legale, chiamai l'interno di Debbie per dirle di portare la bambina a testimoniare. La piccola, orribilmente deturpata, senza capelli e con la cute escoriata gravemente a sinistra del cranio, passò attraverso la selva di legali, poliziotti e gente qualunque aggrappandosi alla mano della procuratrice. Debbie si fermò un momento davanti alla pesante porta di legno dell'aula per rassicurarla con uno sguardo e chiederle se si sentiva pronta. Ebbe in risposta un cenno d'assenso con la testa e la porta si aprì. Debbie condusse la bimba per mano fino alla sedia dei testimoni, di fronte al banco dei giurati. La stenografa le seguiva. Io avevo fatto lo stesso centinaia di volte, da dieci anni a quella parte: con donne, uomini, adolescenti e bambini. Avevo visto i ventitré giurati spalancare la bocca inorriditi davanti al male che un essere umano aveva inflitto a un altro essere umano. Riconoscevo l'importanza che tradizionalmente rivestiva quell'organismo e ne rispettavo i poteri. Ma capivo anche come un avvocato abile e spregiudicato potesse sfruttare a proprio favore lo squilibrio intrinseco alla procedura, per cui davo credito al detto, sempre attuale, secondo il quale la maggior parte dei procuratori sarebbe riuscita a far rinviare a giudizio anche un panino al prosciutto. La bambina, raccontata la storia, uscì dopo nemmeno sei minuti. Dopo di lei testimoniò il padre, seguito dai due agenti che erano accorsi su chiamata e avevano effettuato l'arresto. Presentazione limpida, «ossa spolpate» diciamo noi: soltanto gli elementi essenziali dell'atto criminale esposti alla giuria dal sostituto procuratore. Non è necessario dibattere il caso, in quanto non c'è giudice, né avvocato difensore. Debbie e la stenografa ritornarono in sala d'attesa in modo che i giurati potessero avviare il procedimento di delibera e votazione. Il cicalino che annunciava il verdetto raggiunto ronzò pochi secondi dopo. Vedendo la bambina, nessuno dubitava che si sarebbe trattato di un rinvio a giudizio: l'imputato era accusato di tentato omicidio. Il custode mi fece cenno di entrare. Mi diressi davanti ai giurati e deposi taccuino e codice penale sul tavolo. «Buongiorno, signore e signori. Mi chiamo Alexandra Cooper, sostituto procuratore distrettuale. Sono qui per aprire un'inchiesta sulla morte di Gemma Dogen.» Fin lì, nessuna reazione. Stavo di fronte ai giurati, disposti ad anfiteatro:
due file semicircolari di dieci poltrone ciascuna, sovrastate dai tre seggi occupati dal presidente, dal suo assistente e dal segretario. Come al solito, avevano ancora il giornale in grembo e continuavano a masticare ciambelle e cornetti con cui avevano oltrepassato di nascosto i cartelli che vietavano severamente di introdurre in aula alimenti e bevande. «Oggi non vi presenterò nessuna prova o testimonianza, ma nel corso del vostro mandato tornerò davanti a questo Giurì per questo stesso motivo. Vorrei fornirvi un nome in codice con cui menzionerò il caso ogni volta che comparirò davanti a voi. Credo che vi servirà a ricordarvelo, fra tanti casi che udite. Il nome in codice sarà "Mid-Manhattan Hospital".» Non era intelligente come certi altri nomi in codice che avevamo inventato, ma aveva il pregio della chiarezza. I giurati si drizzarono sulle sedie e si fecero più attenti. Alcuni sussurrarono qualcosa al vicino, ovviamente per spiegare che doveva trattarsi dell'accoltellamento di quella dottoressa di cui avevano sentito parlare in televisione o letto sul giornale. I sacchetti di carta marrone con i resti della colazione furono ripiegati e fatti sparire sotto la poltrona. Due degli uomini della prima fila si protesero a darmi un'attenta occhiata, come se da questo dipendesse la possibilità che entro il mese io tornassi a rivelare l'identità dell'assassino. «Oggi vorrei aggiungere un promemoria speciale. Come certamente qualcuno di voi già saprà, sui giornali e alla televisione ci sono servizi che riguardano la morte della dottoressa Dogen. Quando vi capitano a portata d'occhio e di orecchio, devo ordinarvi di non leggerli e non guardarli.» Figuriamoci!, dissi a me stessa nel pronunciare quelle parole. Adesso che erano incaricati di esaminare il caso, quasi tutti avrebbero passato le ore tra un canale e l'altro a caccia di servizi di cui fino a quel momento non si sarebbero minimamente interessati. «Le uniche prove che siete invitati a prendere in esame in questo caso sono le deposizioni dei testimoni chiamati a comparire in quest'aula e i documenti preparati secondo normativa che vi saranno sottoposti. I servizi giornalistici e televisivi e le opinioni dei familiari e degli amici non costituiscono prova. E, naturalmente, non dovete discutere tra voi il caso. «Vi lascerò alcuni mandati da far firmare al presidente e sarò da voi di nuovo nel corso della prossima settimana. Grazie molte.» A meno che agli investigatori non capitasse un colpo di fortuna entro un giorno o due, era molto difficile che io cominciassi a presentare testimonianze prima di aver individuato almeno un sospetto. Uscii alla svelta dall'aula e restituii il Giurì ai colleghi.
«Vieni alla festa in onore di Broderick, stasera?», mi chiese Gene mentre me la svignavo per tornare in ufficio. Broderick era l'ennesimo collega che lasciava la procura distrettuale per la libera professione. «Sì. Ho una conferenza alla sette e mezza, ma appena finito scappo via, purché questo caso non si scaldi.» Laura mi venne incontro in fondo alle scale, all'ottavo piano, per dirmi che Battaglia voleva vedermi immediatamente. Invertii la rotta verso il suo ufficio e l'agente di guardia mi fece entrare. «Ehi, Rose! Bellissimo, quel tailleur. Ti sta molto bene, quel colore.» «Buongiorno, Alex. Grazie. Abbi pazienza un minuto che finisce la telefonata e poi entra pure.» Rose era voltata, intenta alla tastiera del suo computer. Gettai un'occhiata alla montagna di corrispondenza ammucchiata sulla scrivania, cercando di non fare come Covington. Rod Squires aveva messo varie volte in ridicolo Davy Covington, un impiegato della procura che aveva elevato a forma d'arte la lettura surrettizia della posta di Battaglia. Si metteva di fronte a Rose, intavolava intenzionalmente una piacevole conversazione, e intanto decifrava le lettere del procuratore distrettuale leggendole alla rovescia. Battaglia lo aveva colto più di una volta con le mani nel sacco. Quando Davy spettegolò a proposito di un'inchiesta per truffa a carico di un membro del Congresso, ancor prima che la questione fosse portata ufficialmente all'esame della procura, il procuratore distrettuale gli fornì ottime referenze per un posto di lavoro a oltre duemila chilometri di distanza. La tentazione di sbirciare era fortissima, ma la punizione rendeva più facile resistervi. Presi il «Law Journal» appena uscito e diedi un'occhiata alla sentenza recensita in prima pagina. C'era un'interessante considerazione della Corte d'Appello riguardo alla perquisizione di una valigia abbandonata, compiuta da un agente delle autorità portuali: feci un appunto per Laura di allegare il ritaglio ai miei schedari. Il familiare aroma di un sigaro Monte Cristo n. 2 si diffuse nell'aria, annunciando Battaglia che veniva a convocarmi nel suo studio. Era una delle caratteristiche del procuratore che Rod e io apprezzavamo di più, quando compiva le sue incursioni improvvise nel corridoio dei nostri uffici. Il fumo e l'aroma del sigaro lo precedevano inevitabilmente di qualche secondo, abbastanza da permettere a Rod di tirar giù i piedi dal tavolo e a me di rimettermi le scarpe. «Novità, Alex? Entra.»
Aveva una stupefacente capacità di fare quattro cose simultaneamente. Non avrebbe perso né dimenticato neppure una delle mie parole, e nello stesso tempo avrebbe esaminato un plico di bozze che Rose gli aveva dato da approvare, e risposto alle telefonate in attesa le cui spie lampeggiavano su due delle sei linee telefoniche. «Devi rispondere, Paul? Io posso aspettare.» «Noo, il senatore può richiamare. Mi sta assillando con quella proposta di legge sui diritti delle vittime e voglio lasciarlo un po' in sospeso. L'altra sarà questione di un minuto. Siediti.» Premette uno dei pulsanti e riprese la conversazione: «È proprio qui davanti a me, adesso. Che cosa vuole sapere?». Pausa. «Un momento.» Si rivolse a me: «Che cosa sai del marito e della famiglia della Dogen?». Seguirono altre tre domande analoghe, tutte ugualmente innocue. Gli fornii le informazioni che avevo, chiedendomi quale fosse il giornale che Battaglia stava privilegiando. In questo era un maestro: non forniva mai indiscrezioni, ma a un certo gruppo di giornali più affidabili dava in pasto, a rotazione, un paio di bocconi che presto sarebbero stati comunque disponibili attraverso i canali ordinari. Stetti a sentire con che disinvoltura e sicurezza conduceva la conversazione. Il suo interlocutore dovette dire qualcosa che lo lusingò, perché lo vidi aprirsi in un largo sorriso. Sorrisi anch'io, guardando il suo viso magro, il forte naso aquilino, i capelli grigi e folti. Quell'uomo era un genio nel trattare coi giornalisti. «Questo dovrebbe bastare a tenerli a bada per un po'. Allora? Ci sono piste di cui io non so ancora niente?» Gli raccontai gli avvenimenti del giorno prima e quali piani avevo per la giornata. «Sai, giù al Mid-Manhattan non è che siano molto contenti degli articoli che stanno uscendo sui problemi di sicurezza e sorveglianza dell'ospedale.» «Be', Paul, devi ammettere...» «Prova a tenerci il coperchio sopra, a queste storie, Alex. Gente che ha disperato bisogno di un intervento o di una cura se ne sta andando dall'ospedale in tutta fretta, neanche fosse un lebbrosario. Non si tratta soltanto del Mid-Manhattan... Mi arrivano telefonate anche dal ColumbiaPresbyterian e dal Mount Sinai. Quegli articoli sembrano parlare della Grand Central Station o del Centro sociale di Bowery, non di un ospedale. «E poi c'è un'altra cosa. Poco prima di te è stato qui Pat McKinney. Dice che il capo McGraw gli ha telefonato per lamentarsi di qualcosa che hai
fatto ieri sera al distretto di polizia.» Dio li fa e poi li accoppia. E McKinney, uno dei miei superiori che non perdeva occasione per crearmi grane, era corso subito qui come una comare a sparlare di me al procuratore distrettuale. Mi contorsi sulla sedia, ma tenni a freno la lingua per non parlare, ben sapendo quanto dessero fastidio a Battaglia le beghe interne tra i suoi dipendenti. «Tutto quello che posso dirti, Alex, è che devi aver fatto una cosa giusta. McGraw è un vero impiastro. Ho avuto a che fare con lui dodici anni fa, quando comandava Manhattan Sud. Non è mai stato capace di lavorare con le donne... un vero bifolco. Perciò, non dargli corda.» Si alzò e si diresse verso la porta: l'udienza era finita. Tenendo il sigaro stretto tra i denti, mi fece un sorriso ancora più largo e aprì la porta: «Se ti mette i bastoni tra le ruote, portagli i miei saluti. Digli da parte mia di tirarsi su la cerniera dei calzoni e di starti alla larga». Presi dalla scrivania di Laura il plico dei messaggi e li sfogliai finché non trovai quel che cercavo. David Mitchell confermava che aveva inviato la richiesta di ricovero per Maureen Forester a un neurologo convenzionato col Mid-Manhattan. Sulla base dei sintomi denunciati dalla paziente e dei risultati di una visita preliminare, sarebbe entrata in ospedale venerdì mattina alle dieci. Il dottor Mitchell aveva naturalmente insistito che non fosse sottoposta ad analisi e a trattamenti invasivi finché lui non fosse rientrato a New York, all'inizio della settimana successiva. Solo osservazione e riposo, riposo, riposo. Chiamai Sarah per riferirle la notizia e le chiesi di andare a far visita a Mo in ospedale venerdì pomeriggio. Poi telefonai al reparto abbigliamento di Bergdorf e ordinai una vestaglia di vigogna color moka da consegnare il giorno dopo in neurologia con un biglietto: «Sei il nostro diavolo in maschera. Sta' bene. Baci. I tuoi amici, Mike, Mercer e Al». Gina Brickner aspettò che riagganciassi, poi entrò con i suoi fasci di carte e un registratore. Aveva un'aria infelice. «Laura mi ha detto che vai via a mezzogiorno, ma prima devi sentire questo nastro. Ho ottenuto il rinvio a giudizio per quello stupro al party della Columbia University, il mese scorso. Mi hanno appena fatto avere la registrazione della chiamata di soccorso e la trascrizione. «Jessie Pointer, la vittima, mi aveva detto di aver bevuto solo una o due birre, quella sera. Diceva di essere perfettamente sobria quando è tornata nella camera della sua amica per telefonare al 911. Ho sentito il nastro e... Alex, quella era così fradicia che per tutta la telefonata non ha fatto che
avere il singhiozzo.» «Incredibile.» «E c'è di peggio. Tutte le volte che la centralinista del 911 le chiede l'indirizzo, lei non è in grado di darglielo. Non riesce a ricordarsi il nome del dormitorio. Poi la centralinista vuole un numero di telefono da richiamare nel caso l'indirizzo risultasse sbagliato. Jessie le dà sei cifre e allora le due si mettono a discutere se i numeri di telefono hanno sei o sette cifre. È incredibile quanto fosse ubriaca.» «Falla tornare qui domani. Ammoniscila sui rischi legali che corre. Falle ascoltare il nastro. Dille che ha ancora la possibilità, l'ultima, di correggere la sua versione. E al processo dovrà ammettere davanti alla giuria di non essere stata sincera con te e con gli agenti circa le condizioni in cui si trovava al momento dei fatti. «Non capirò mai perché certe donne mentono sulle circostanze che hanno portato all'aggressione, e poi si aspettano che prendiamo per oro colato il resto della testimonianza. Non è un gioco, accidenti: c'è in ballo la vita delle persone. Noi siamo qui per aiutarle e loro credono che siamo tanto stupidi da non scoprire come sono andate veramente le cose. Se questa Jessie vuole che veniamo a capo della faccenda, tutti gli altri particolari che ci propina devono essere confermati.» Niente mi mandava in bestia più delle vittime autentiche che compromettevano la causa cercando di alterare i fatti. Quelle poche che lo facevano aumentavono lo scetticismo generale, a spese delle decine di vittime di violenza che si trovavano a sporgere denuncia dopo di loro. Il tempo di rispondere ai messaggi e di distribuire gli interrogatori tra i miei collaboratori, e arrivò a prendermi Mercer. «Chiamami sul cercapersone se hai bisogno di me, Laura. Adesso vado all'obitorio.» Capitolo 9 Un isolato a sud dell'ufficio Medicina Legale, c'era un cantiere stradale, e Mercer guidò l'auto della polizia nel passaggio tracciato dalle transenne per raggiungere l'ingresso dell'edificio blu e grigio. Mi fece scendere su un mucchio di neve ghiacciata accanto al marciapiede e parcheggiò vicino a un parchimetro. «Guarda quel matto», disse Mercer, additando Chapman dall'altra parte della strada. «Quello il cappotto non l'ha mai avuto.»
Mike stava uscendo da una rosticceria in blazer e camicia, col colletto slacciato, apparentemente indifferente al freddo pungente. Lo salutai con la mano e lui sollevò una grossa busta della spesa per mostrarcela: «Il pranzo». Mercer mi guardò e scosse la testa. Nessuno si trovava a proprio agio all'obitorio come Mike. Per quelli della sua squadra presenziare a un'autopsia era roba di tutti i giorni, ma noi della Reati Sessuali avevamo a che fare, per fortuna, con vittime ferite ma vive e vegete. «Non dall'entrata principale», gridò Chapman, vedendomi salire i gradini. «Venite. Kirschner è ancora nel seminterrato.» Non ero mai entrata dalla 30a Strada, per cui seguii Mike e Mercer svoltando l'angolo e fiancheggiando l'edificio fino al parcheggio dove ambulanze e furgoni di soccorso scaricavano i cadaveri. Un agente di polizia controllò i nostri documenti e ci fece passare oltre le grandi porte d'ingresso, giù per la rampa che portava alla sala delle autopsie. Mike si accorse che fissavo le pareti tinte di verde: più o meno ad altezza vita erano come butterate da grandi sbrecciature dell'intonaco. La cosa divenne particolarmente evidente quando raggiungemmo la curva e girammo a destra per scendere ancora circa sei metri lungo la rampa. «Lo so, lo so. Sei pronta a chiamare gli imbianchini e far rifare le pareti. Lascia perdere. È sempre andata così, Blondie. Scaricano la salma su una barella, di sopra, poi le danno una spintarella giù per la rampa. La lettiga sbatte un paio di volte di qua e di là, fa carambola nell'angolo e rimbalza fin qui in fondo. Credimi, il paziente non sente assolutamente nulla. Non c'è bisogno dell'infermierina per accompagnare giù la barella.» «Figli di puttana molto sensibili, vero?», borbottò Wallace. Mike ci precedette in una saletta per riunioni, in fondo al corridoio. C'era un tavolo lungo un paio di metri, una dozzina di sedie, una lavagna, e pinze a cui appendere radiografie e fotografie, lungo le pareti. Prima ancora che Mercer e io ci fossimo tolti il soprabito e messi a sedere, ci raggiunse il dottor Chet Kirschner. Avevamo avuto spesso occasione di collaborare da quando, cinque anni prima, il sindaco lo aveva nominato capo dell'ufficio Medicina Legale: apprezzavo il suo contegno calmo e dignitoso e mi fidavo del suo giudizio professionale. Chet era alto e affilato, coi capelli scuri, la voce bassa e un sorriso accattivante, di cui ben di rado faceva sfoggio quando parlava di lavoro. Ci salutammo e ci sedemmo intorno al tavolo, mentre Mike apriva il grosso sacco della spesa e cominciava a sciorinare panini e lattine.
«Quello che vi dirò non è in nessun modo definitivo, Alexandra. Per avere i risultati del laboratorio di tossicologia e i campioni sierologici ci vorrà ancora un po', per cui cominciamo - del tutto ufficiosamente - dal quadro generale.» «Naturalmente.» «Ho preso per tutti e quattro dei panini di segala con tacchino e insalata russa, va bene?» «Adesso proprio no, Mike», risposi. L'ambiente sterilizzato, il lieve sentore di formaldeide e il tetro compito che ci aspettava toglievano l'appetito e la voglia di pensare al cibo. Anche Mercer e Chet rifiutarono l'offerta. Mentre il dottor Kirschner disponeva sul tavolo una serie di polaroid del cadavere di Gemma Dogen zuppo di sangue, Mike tolse dalla carta un gigantesco panino e aprì con uno schiocco la lattina di birra aromatizzata. Il dottore guardò di sottecchi il detective che, tra un morso e l'altro al panino, sgranocchiava patatine fritte, e gli disse con un sorrisetto amaro: «Bon appétit». «Non c'è nessun mistero su come è morta la dottoressa. Già lo sapete, le sono state inferte ferite multiple con un coltello: diciassette, per l'esattezza. Più d'una ha colpito organi vitali, compresa quella che probabilmente è stata fatale, che ha completamente sfondato un polmone. Anche l'altro polmone è stato lesionato. «Le ripetute coltellate, quasi tutte in profondità, hanno provocato un'emorragia interna abbondantissima, sia intraddominale che intratoracica. C'erano anche alcuni tagli superficiali sulla parte anteriore del corpo, ma per lo più le coltellate non hanno mancato il bersaglio. «È stata accoltellata sia davanti che nella schiena. Chiaramente un accesso di follia: molti più colpi di quanti fossero necessari a provocarne la morte. Ce ne sono un bel po' che, da soli, avrebbero raggiunto lo scopo senza difficoltà.» «Ferite dovute al tentativo di difendersi?», chiese Mercer. Presi una manciata di foto per seguire le spiegazioni di Kirschner. Avevo visto il volto di Gemma Dogen nelle fotografie sugli scaffali del suo ufficio, in posa per lo scatto durante le varie occasioni celebrative. Ora studiavo quegli stessi lineamenti ritratti sul tavolo autoptico: senza colore, senza espressione, senza vita. «Neanche una. Ma se guardi da vicino le polaroid dei polsi, vedrai dei deboli segni. Sulle altre fotografie che abbiamo fatto, quelle professionali, sono molto più evidenti.»
Trovai i due primissimi piani degli avambracci della Dogen e notai le linee arrossate sui polsi. «È ovvio che a un certo punto è stata legata e direi che è accaduto - insieme con il bavaglio, che è rimasto al suo posto - prima che cominciassero le coltellate. Dubito che abbia avuto la minima possibilità di opporre resistenza all'aggressione col coltello. «I lacci potrebbero essere stati dello stesso tessuto usato dall'assassino per imbavagliarla. Attorcigliato in lacci sottili e stretto attorno ai polsi, può aver causato alla vittima i segni che vedete, senza però lacerarle la pelle.» Chapman tracannò una gran sorsata di birra. «Hai avuto modo di esaminare il bavaglio, dottore?» «Adesso è in laboratorio per le analisi, ma l'ho visto quando hanno portato la salma. La risposta definitiva l'avrete più tardi, ma a me è sembrata comune biancheria da ospedale, di quella per i letti, tagliata in lunghe strisce. Potrebbe provenire da una camera qualunque, dal deposito o dal servizio ricambi, o perfino dalla lavanderia.» «Fammi il piacere di prendere un appunto per me, Mercer. Sono sicura che il tenente ha fatto controllare il personale della lavanderia che si trova nell'elenco dei dipendenti dell'ospedale, ma non avrei mai nemmeno pensato a tutti i fattorini e fornitori che entrano ed escono da lì ogni giorno.» «Sono già in lista, Coop. Lavanderia, alimentari, farmaceutici, fioristi, articoli da regalo, palloncini... è senza fine. Stiamo parlando con almeno un migliaio di visitatori abituali.» Chapman si era ripulito le mani e adesso, in piedi dietro di me, indicava le ferite man mano che scorrevo le istantanee. Domandò a Kirschner: «Allora, se dovessi ricostruire i fatti con quello che sai fino adesso, come ti immagini che siano andati?». «In questa fase posso solo fare delle ipotesi, Mike. Lo sai. Credo che chiunque sia stato, un rapinatore o un maniaco alla ricerca di una vittima, ci sia arrivato preparato. Aveva l'arma, aveva le strisce di stoffa e probabilmente aveva uno scopo. «Devo immaginare che la Dogen sia stata colta di sorpresa dall'aggressore e sia stata subito sopraffatta. Era una donna in condizioni perfette. I muscoli delle cosce e dei polpacci erano quelli di una persona con la metà dei suoi anni. Il fatto che sulle mani non ci sia nessuna ferita dovuta al tentativo di difendersi fa pensare che non abbia avuto nemmeno la possibilità di fare resistenza.» «Hai idea dell'ora in cui potrebbe essere stata aggredita?» «È più difficile del solito. Ovviamente, sappiamo con esattezza a che ora
è morta, dato che è successo dopo il ritrovamento da parte del guardiano notturno. Qualsiasi medico vi direbbe che non poteva sopravvivere a queste ferite. Sono sicuro che aveva già perso conoscenza mentre l'assassino infieriva ancora su di lei e sarei pronto a scommettere che, quando l'ha lasciata, lui era certo che fosse morta. È una delle tipiche stranezze del nostro mestiere il fatto che sia rimasta così a lungo tra la vita e la morte, che si sia trattato di trenta minuti o di trenta ore. Il polmone sfondato si è sgonfiato rapidamente. L'altro deve aver continuato a funzionare come una fessuretta, piano piano. Mike mi ha detto che secondo voi avrebbe ripreso i sensi per un momento esaurendo il poco ossigeno rimasto nel tentativo di muoversi. È possibile.» «E avrebbe avuto l'energia sufficiente a trascinare il corpo attraverso la stanza, fino alla porta?» «La risposta clinica sarebbe no. Ma ogni giorno vediamo accadere cose impossibili, quando il corpo è all'estremo. Sì. Gemma Dogen potrebbe aver raccolto le forze per un ultimo sforzo nel tentativo di salvarsi. Non c'è nessuna spiegazione medica. Assolutamente nessuna.» «Chet, Mike ti ha raccontato del... be', della specie di scarabocchio sul pavimento dove è stato trovato il cadavere? Nel sangue, dico.» Mike era ancora alle mie spalle e mi scompigliò i capelli, come a dire che non condivideva la mia idea. «Cooper pensa che la vittima abbia cercato di dirci qualcosa.» Kirschner mi guardò negli occhi annuendo lievemente, disposto a prendere in considerazione quella prospettiva: «Immagino che tu abbia fotografie della scena del delitto per mostrarmi quello che hai in mente, vero?». «Oh sì. Dovremmo averne un paio di rullini entro sera, dottore. Te le manderò immediatamente.» «Posso?», Kirschner si allungò sul tavolo per prendere alcune istantanee dell'autopsia. Se le portò a un palmo dal naso alla ricerca di un particolare che gli rinfrescasse la memoria. «Ovviamente potrò farvelo vedere meglio quando avrò la stampa delle nostre foto del cadavere, oggi pomeriggio, ma la macchia di sangue sull'indice destro collima con la tua teoria. «Non dimenticate che qui c'è un mare di sangue, perfino sulle mani e sulle braccia. Ci arrivo tra un minuto, quando parleremo del motivo per cui era slegata. Ma quella sul dito è una traccia di sangue diversa dalle altre, dovuta al tentativo di trascinarsi attraverso la pozza o - confesso che non ci avrei mai pensato - per averlo messo intenzionalmente nel sangue, come per disegnare qualcosa. Vorrei vedere le vostre foto, prima di saltare alla
conclusione che abbia scritto qualcosa. «Mi sorprende che tu faccia tanto il dubbioso, Chapman. Non sei stato tu a seguire quel caso con me, un paio di mesi fa? Quel tizio a cui hanno sparato sei volte nella schiena sulla banchina della metropolitana e che poi ha fatto di corsa due rampe di scale fino in strada, a cercare una cabina da cui telefonare, per poi crollare a terra morto.» «Sì sì. "Lucky Louie" Barskie, il pescecane dell'usura. L'ultimo respiro per una telefonata alla madre: per dirle che poteva vivere di quel che avrebbe trovato nella scatola da scarpe con su scritto "Mocassino di coccodrillo nero numero 44" sul terzo ripiano dell'armadietto in camera sua. Fortuna sua essere sopravvissuto abbastanza da fare la telefonata. Sfortuna della madre che io fossi a casa sua con un mandato di perquisizione prima che lei riuscisse a trovare una scaletta. Era stata l'ex fidanzata a fare la spia e sapeva dov'era stivato il malloppo. Immagino che i miracoli accadano veramente, dottore.» Mercer ci riportò all'assassinio della Dogen: «Quindi tu pensi che la dottoressa sia stata slegata dopo aver ricevuto le coltellate?». «Sulla scena del delitto non sono stati ritrovati lacci, non è vero? Solo il bavaglio. Per cui dopo averla messa fuori combattimento - o con una prima serie di colpi o alla fine -, sembrerebbe che l'assassino l'abbia slegata e trascinata sul pavimento.» Mike si era seduto di nuovo al tavolo, annuendo energicamente. «Quindi l'ha violentata mentre era fuori conoscenza e sanguinava come un maiale sgozzato da alcune di queste ferite, o addirittura da tutte?» Si appoggiò allo schienale, poi si lasciò andare in avanti picchiando rumorosamente i pugni sul tavolo: «Ma è mai possibile che un malato pervertito si ecciti sessualmente alla vista di un cadavere insanguinato? Non capirò mai il genere di cose di cui ti occupi tu, Mercer, te lo giuro. Come gli si può rizzare, a uno, dopo che ha mutilato e straziato il corpo di una donna in modo così orribile? Giuro, per questo tipo di delitto dovrebbe esserci una pena capitale apposita, e il boia lo farei io. Accidenti». La voce tranquilla di Kirschner riprese il filo del discorso: «Ciò che sto per dire non rende il delitto più gradevole, Mike, ma può darsi che il tuo assassino non si sia eccitato quanto sperava. Secondo me è chiarissimo, dal modo in cui Mike ha descritto la posizione del corpo, dal fatto che alla Dogen siano stati tolti gli indumenti intimi e sollevata la gonna fino a esporre i genitali, che c'è stata l'intenzione e il tentativo di compiere una violenza sessuale. Ma non è stata portata a termine. Nessuna traccia di liqui-
do seminale, né sul corpo né all'interno del cavo vaginale. Niente sperma. Ho preso dei tamponi degli orifizi anale e vaginale, e vi farò avere gli esiti delle analisi, ma penso che risulteranno negativi». Mercer sorrise amaro: «Stai pensando anche tu quello che penso io?», disse rivolto a me. Ero demoralizzata quanto lui. Negli ultimi anni Mercer e io, per risolvere i casi di stupro, ci eravamo affidati sempre più spesso alla prova del DNA e alle straordinarie tecniche di analisi genetica. Anche se nella maggior parte dei casi la vittima sopravviveva, ed era in grado di identificare l'aggressore da schedari fotografici e dai confronti all'americana, era la conferma della sua testimonianza con la prova del DNA che aveva clamorosamente incrementato la percentuale di vittorie in giudizio in tutto il paese. «A quanto pare, fino a questo momento ho fatto conto su una prova che invece non avremo», dissi con tono palesemente deluso. «Davo per scontato che avremmo avuto del liquido seminale da confrontare con quello del sospettato, non appena lo avessimo individuato.» «Credo che non avremo questo lusso, in questo caso, Alex.» «C'è la possibilità che il tizio abbia usato il preservativo, dottore? È per questo che lei non ha trovato sperma?» «È improbabile, Mike. Cioè, è possibilissimo. Ma nella maggior parte dei casi i preservativi lasciano sul corpo delle vittime delle sostanze che all'autopsia o in laboratorio vengono scoperte. Si tratti del lubrificante o degli spermicidi, c'è...» «Be', ma almeno è in grado di dire se sia stata penetrata?» «Non c'è nessun trauma, né vaginale né anale. Ora, questo non significa niente in sé e per sé, per quanto riguardo la penetrazione vaginale.» In fatto di violenza sessuale Mike non aveva l'esperienza che avevamo Mercer e io, per cui io proseguii il discorso appena abbozzato da Kirschner: «Più di due terzi delle donne adulte violentate non subiscono alcun tipo di trauma fisico, Mike. È improbabile che una donna sessualmente attiva mostri segni di danno interno. La cavità vaginale è molto elastica e, se la Dogen era priva di sensi quando lo stupratore l'ha penetrata, le probabilità che abbia incontrato resistenza sono ancora di meno». Kirschner mi sopravanzò: «Quello che però io trovo ancor più insolito è che non c'è uno straccio di indizio che confermi il tentativo di un amplesso. Se avesse davvero provato a penetrarla, mi sarei aspettato di trovare qualche pelo del pube dell'uomo tra quelli della vittima».
Oltre all'autopsia, passare al pettine i peli pubici della vittima fa parte della prassi, nella raccolta di prove per i casi di stupro. Accade frequentemente che i peli del violentatore restino impigliati in quelli della vittima, diventando un altro appiglio legale che associa il colpevole alla sua preda. «Quando c'è stupro, la scena del delitto è il corpo stesso della vittima. È l'unico delitto per cui valga questa affermazione. Sono convinto che in questo caso non ci siano le prove sufficienti per affermare che l'aggressore abbia compiuto un atto di violenza sessuale.» «Quindi adesso dobbiamo solo riuscire a capire che cosa l'ha fermato», disse Mercer. «Una cosa qualsiasi, da un rumore nel corridoio che l'ha spaventato alla perdita dell'erezione. Può darsi che allora Mike abbia ragione. Se aveva intenzione di violentarla, ma per sopraffarla ha dovuto infierire più del previsto, può darsi che l'aggressore sia rimasto disgustato o semplicemente incapace di mantenere l'erezione.» «Non dimentichiamoci», aggiunsi io, «che, con quel reggimento di malati mentali che vivono dentro e sotto l'ospedale, abbiamo parecchi candidati sessualmente inabili, anche se il loro intento era quello di compiere una violenza. Sbaglio o dobbiamo ricominciare daccapo, gente?» «Mi dispiace deluderti, Alexandra, ma non credo che la soluzione a questo delitto verrà dal mio lavoro e dal mio laboratorio. Prima di arrivare qui stamattina, Chapman ne sapeva quanto adesso del modo in cui è morta la Dogen. Quel che non sapeva, finché non abbiamo aperto il corpo, era soltanto fin dove erano arrivate le coltellate. Mi dispiace di non poterti aiutare di più, per il momento, ma il tuo assassino non ha lasciato il tipo di prova incriminante che speravamo. «Se lo trovate prima che sia passato troppo tempo», disse Kirschner rivolgendosi ai due poliziotti, «è probabile che corpo e vestiti del sospettato ci dicano di più di quelli della Dogen. Non ho la più pallida idea se lei sia riuscita a graffiarlo o a morderlo o a colpirlo. Ma è certo che è uscito da quella stanza con l'aspetto di uno che viene da un mattatoio. Deve avere avuto addosso più sangue di chiunque sia stato in una sala operatoria, a parte il chirurgo.» Chet ci raccomandò di fargli avere le fotografie della scena del delitto appena possibile, raccolse le sue istantanee e si congedò, scusandosi perché aveva solo una mezz'ora prima della prossima autopsia, in programma alle tre. Mike, Mercer e io raccogliemmo le nostre cose e uscimmo dalla stanza. «Io a quei panini ci rinuncio, Cooper. Vuoi prendere una tazza di caffè nel
bar di fronte, prima di andare avanti?», chiese Mercer. Ormai anch'io avevo perso l'appetito: «Certo, magari riesce a toglierci il freddo di dosso». Risalimmo la rampa e uscimmo sul marciapiede. «Tu e Coop andate a vedere l'appartamento della Dogen?» «Sì.» «Io vado al Mid-Manhattan a interrogare un po' di gente. Vieni alla stazione di polizia, dopo, piccola?» «Non vedo come potrei essere utile. Sono ancora sbalordita dalle scoperte di Chet. Ci contavo proprio, che il laboratorio fornisse qualcosa per fare un passo avanti entro il fine settimana. Questa sera devo tenere una conferenza alla Julia Richman High School.» Mercer scese dal marciapiede per attraversare la 1a Avenue. Mi voltai di nuovo verso Chapman e ammiccai: «Perché me lo chiedi? Hai bisogno di me, Mickey?». «Ti piacerebbe, eh Blondie?» Capitolo 10 Ai lati dell'ingresso del condominio in cui abitava Gemma Dogen, in Beekman Place, a quattro passi dal Mid-Manhattan, stazionavano dei portieri in livrea bordeaux. Wallace mostrò il distintivo d'oro della polizia al più anziano dei due, alla nostra sinistra, che capì subito e ci aprì le ampie porte di vetro. Mercer fece strada verso destra, passando attraverso l'atrio e davanti a un enorme cespuglio di forsythia e di salici nani fioriti in anticipo sulla primavera. Entrammo in ascensore e Mercer premette il pulsante del dodicesimo piano. «Accidenti», disse quando le porte si aprirono su un corridoio buio, reso ancor più opprimente dal pesante disegno della tappezzeria color talpa. «Avevo portato la macchina fotografica, nel caso volessi fare delle foto, ma l'ho lasciata in auto. È la terza porta a sinistra, la 12C. Ecco le chiavi: quella grande è per la serratura di sotto. Tu entra, io torno tra cinque minuti.» Presi il portachiavi mentre le porte dell'ascensore si richiudevano alle mie spalle. Rimasi un po' a giocherellare con il Tower Bridge di Londra in miniatura da cui pendevano le due chiavi, pensando che mi sarei sentita più a mio agio a entrare nell'appartamento della Dogen in compagnia di Mercer.
Fa' la persona adulta, mi dissi. Dentro non ci sono fantasmi e Mercer sarà qui a minuti. Infilai nella toppa superiore la chiave più corta, poi girai quella lunga nell'altra. Il pomello sembrò fare una leggera resistenza prima di aprirsi con uno scricchiolio e in quello stesso istante fui colta alla sprovvista da un rumore alle mie spalle. Oltrepassai la soglia guardandomi alle spalle, appena in tempo per vedere oscillare la porta a vento all'estremità del corridoio di servizio. Non c'erano voci né altri rumori, eppure ero sicura di aver visto il viso di qualcuno che mi spiava dal piccolo oblò della porta a vento. Era solo una sensazione, come se mi stessero osservando. Mi feci coraggio pensando che probabilmente qualche vicino ficcanaso era preoccupato per tutti gli estranei che andavano e venivano dalla casa della defunta. Premetti l'interruttore della luce dell'ingresso, accanto all'attaccapanni, e mi chiusi la porta alle spalle. Osservai l'ampio locale. Era uno stabile costruito nel dopoguerra, con ampie stanze imbruttite dai soffitti di cemento, che le facevano sembrare enormi vasche per fare il formaggio capovolte, ma riscattate da una intera parete a vetro, che si affacciava sull'East River. Quel giorno una nuvolaglia bassa e fitta permetteva a malapena di vedere il traffico che scorreva verso l'aeroporto La Guardia, oltre il ponte della 9a Strada. Il gusto di Gemma era semplice e rigoroso. Attraversai il soggiorno, che sembrava arredato con roba acquistata tutta in una volta in un magazzino svedese a basso prezzo: mobili squadrati e spigolosi; tessuti un po' ruvidi di colore neutro. Avrei desiderato per lei i colori caldi e profondi e i materiali soffici e spessi che avevo scelto per casa mia, avvolgenti e confortanti quando, alla fine di una dura giornata, volevo solo rilassarmi, buttar via le scarpe e lasciarmi alle spalle il lavoro. Posai il giaccone sullo schienale di una delle sedie del tavolo da pranzo e imboccai il breve corridoio che portava in camera. Sui muri erano allineati manifesti turistici inglesi d'antiquariato con vedute di Brighton, le Cotswolds e Cambridge. Nella camera, altrettanto asettica, campeggiava un grande letto. Se le fotografie di cui si circondava riflettevano il suo ordine di priorità, Gemma Dogen preferiva certamente il ruolo che ricopriva nel mondo accademico a tutto il resto. Sorrideva raggiante da palchi e podi in abito da cerimonia. Le bandiere al lato dei palchi dimostravano che si sentiva a casa sua sia in Inghilterra che in America. In cuor mio applaudii una donna che
si era realizzata ottenendo un tale successo in una specializzazione da sempre dominata dagli uomini. La sveglia accanto al letto segnava ancora l'ora giusta. Premetti il pulsantino per vedere a che ora Gemma iniziava la giornata. Comparve la scritta luminosa «5:30» e ancora una volta ammirai la disciplina che, specialmente in quelle mattine di marzo, spingeva la defunta ad andare a correre sulla passeggiata del lungofiume prima di recarsi al lavoro. Il cicalino stridulo della porta d'ingresso mi fece tornare alla realtà e andai ad aprire a Mercer. «Chi altro aspettavi?», mi chiese, prendendomi in giro perché avevo sbirciato dallo spioncino prima di girare la maniglia. «Tu conosci le regole di mia madre, Mercer.» Mi trovavo a Manhattan da più di dieci anni, ormai, e guardare dallo spioncino era diventato un gesto istintivo. «E poi c'era qualcuno in giro a curiosare là fuori, quando sono entrata. Hai visto nessuno?» «Neanche un'anima, signorina Cooper. Dai, forza, ragazza.» «L'hai vista, la sveglia?» «No, a quanto ricordo. Può interessare?» «Può servire a stabilire i tempi dei suoi movimenti abituali. L'ultima volta era fissata alle cinque e mezza del mattino... dovremmo appuntarcelo: se riusciamo a stabilire l'orario approssimativo dell'aggressione, potrebbe aiutarci a ricostruire i fatti.» «Fatto.» Mercer aprì il taccuino e ci scarabocchiò sopra qualcosa. «Dunque, il tuo cameraman ha fatto un po' di riprese qui dentro e anche la Scientifica ha esaminato tutto. George Zotos ha spulciato un bel po' di carte. A quanto pare non passava molto tempo qui. Questo soggiorno lo usava piuttosto come ufficio. La parete a sinistra è piena di libri, ma quella di destra è tutta di documenti e materiale della facoltà. Ne abbiamo passata parecchia al setaccio, di questa roba. Fai con comodo, io sono qui. Fammi sapere se vuoi qualche foto.» Mi girai verso la cucina. Come nella mia, mensole e credenze erano semivuote. Il solito equipaggiamento, ma di prima scelta: stoviglie, pentole, padelle, coltelleria di classe, perfino una macchina per il caffè italiana, ma tutto aveva l'aria di essere penosamente sottoutilizzato. Ecco la Gemma Dogen che mi assomigliava. «L'abbiamo già passata al setaccio, Coop. Zotos ha fatto l'inventario del frigo, ma poi ha buttato via tutto. Latte scremato, carote, un cespo di lattuga. Guarda pure, ma non ti dirà molto.»
Ritornai in camera da letto e mi sedetti nella poltrona accanto al comodino. Il letto era in perfetto ordine e il copriletto era teso da tutti i lati, senza una grinza. O si era alzata alla solita ora e aveva riassettato dopo la corsa mattutina, oppure quella notte non era affatto tornata a casa per andare a dormire. Presi il libro dal comodino: un volumetto sui traumi alla colonna vertebrale, appena pubblicato da una importante casa editrice universitaria, che aveva un'aria deprimente quanto il compito che ci aspettava. Guardai le pagine alle quali Gemma aveva ripiegato l'angolo, ma per me non significavano nulla e rimisi a posto il libro sotto il lume da notte. L'armadio aveva le porte scorrevoli. Le tirai per dare un'occhiata a come la Dogen si presentava al proprio mondo. Da un lato c'erano dei tailleur scuri senza ricami e ghirigori, funzionali ma senza stile. Dall'altra parte c'era soprattutto abbigliamento casual: un assortimento di pantaloni comodi color kaki, semplici magliette di cotone e giacche. Il pavimento dell'armadio era coperto di scarpe da ginnastica e da jogging di ogni tipo e condizione. Varie paia di solide scarpe inglesi da passeggio di foggia maschile dovevano aver seguito ogni passo della sua carriera professionale. Pratiche, avrebbe detto mia madre, ma per niente eccitanti. Tra gli indumenti professionali e quelli da svago pendeva qualche camice bianco, lindo e inamidato. Mi allungai a toccare la manica di un tailleur di lana da marina. Mi chiesi se qualcuno avesse richiesto la salma di Gemma all'obitorio e pensato all'abbigliamento per la sepoltura. Tornai in soggiorno. Mercer si alzò dalla scrivania, dove aveva esaminato un po' di incartamenti, e mi offrì da sedere. «Ecco la posta che le è stata recapitata oggi. Il portiere me l'ha data quando sono tornato su. Fatture della televisione via cavo, estratti conto bancari e una cartolina dell'ex marito dal viaggio in Himalaya. Leggila: pare che dovessero vedersi in Inghilterra tra un paio di settimane. Una conferenza di medicina all'Università di Londra. La prendiamo per portarla a Peterson, va bene?» «Benissimo.» La esaminai, compiaciuta che Gemma avesse con Geoffrey un rapporto tanto civile: lui sembrava davvero contento all'idea di rivederla presto. La maggior parte delle mie amiche non godevano di una situazione simile con i loro ex. Quel pensiero mi fece sorridere, finché non fui colta dalla triste constatazione che Geoffrey poteva non essere nemmeno a conoscenza del mostruoso destino di Gemma. Mercer si mise a studiare la libreria. Mentre io aprivo i cassetti della
scrivania e sfogliavo agendine e calendari, cominciò a fare l'elenco e la descrizione dei libri. «La signora era seria, Cooper. Qui c'è ben poco che non sia di argomento medico e strettamente professionale. Una collezioncina di classici, il tipo di roba che piace a te: George Eliot, Thomas Hardy. Poi, guarda i CD. Un sacco di opere liriche tedesche, montagne di Bach. Ma te l'immagini, una collezione di dischi senza neanche un brano di jazz o un disco pop? No, troppo raffinata per i miei gusti, ragazza.» «Mi sa che non ci ho fatto caso, Mercer: c'è un computer, nel suo ufficio?» Mi stupiva di non trovarne neanche uno nell'appartamento. «Sì, stanno occupandosi anche di scaricare tutto quello che c'è dentro. Qui a casa non l'aveva, ecco perché non era raro vederla in ufficio così tardi. Ieri mattina praticamente tutti quelli con cui abbiamo parlato ci hanno detto che alla Dogen piaceva scrivere a sera inoltrata, quando c'era davvero silenzio. Purtroppo, chiunque la conoscesse lo sapeva.» Spostai la sedia vicino alla parete opposta. La metà inferiore degli armadietti era costituita da cassetti a cartelliera, ciascuno contenente fascicoli formato protocollo. Alcuni fascicoli erano distinti per colore e raggruppati per annate. A parte ciò, non riuscii a scoprire nessun criterio particolare di catalogazione per materia o altro. Come Mercer, estrassi il mio taccuino e cercai di prendere il maggior numero di appunti sugli argomenti a cui si riferiva la documentazione. «Per una donna così logica, non ha molto senso, questo. Non riesco a capire che sistema aveva per ritrovare le cose. Ha decine di cartellette dedicate all'"Etica professionale"...» «Sì, era uno dei settori in cui era esperta, Coop. Teneva moltissime conferenze sull'argomento.» «Be', infilato tra quelle e un paio di fascicoli sul "Tessuto rigenerativo", c'è la sua documentazione sulle "Partite Met".» «Era proprio una sportiva, evidentemente.» «Già, ma Laura Wilkie le avrebbe riorganizzato un po' la vita. Vai per cercare l'abbonamento al campionato di baseball da rinnovare e lo trovi in mezzo al tessuto cerebrale. Due cassetti dopo c'è tutto quello che riguarda l'attrezzatura per correre. Uh uh... Laura non lo sopporterebbe. Lei metterebbe tutto il materiale sul cervello da una parte e la documentazione sportiva da un'altra.» A forza di esaminare etichette ed elenchi mi si stavano appannando gli occhi. Avrei voluto farmi un'idea di Gemma Dogen ma nessuno di quei
documenti aveva senso, a meno che non saltasse fuori in seguito, nel corso dell'indagine. Mi rialzai stirandomi la schiena; Mercer stava scattando foto agli oggetti sulla scrivania: «Solo qualcuna, in modo da conservare memoria di come abbiamo trovato le cose». «Chiunque vada a parlare coi parenti più prossimi, dovrà fargli sapere che cosa c'è qui. Le foto saranno utili.» «Puoi tornar qui quando vuoi. L'affitto è pagato fino alla fine di aprile, per cui Peterson non vuole che si tocchi nulla finché non si saprà chi sono gli eredi. E se si è trattato di omicidio premeditato o preterintenzionale.» Mentre Mercer e io rovistavamo tra gli effetti personali di Gemma Dogen, sulla città era calata la precoce oscurità delle sere di marzo. Erano ormai passate le sei e dovevo andare al rinfresco di benvenuto offerto dal consiglio delle debuttanti di Lenox Hill, presso la presidenza della scuola superiore che ospitava la mia conferenza. Mercer fece lampeggiare varie volte il flash, puntando l'obiettivo in vari punti del soggiorno. Il lampo produsse un riflesso sulla superficie di un oggettino d'oro e mi avvicinai per vedere che cosa luccicasse tanto in una stanza altrimenti grigia e disadorna. «Calma, Cooper. Non è un gioiello.» Mercer sollevò dal terzo ripiano della libreria un supporto nero lungo una trentina di centimetri e lesse l'iscrizione in corsivo incisa sulla targhetta: «A Gemma Dogen, in occasione della sua ammissione all'Ordine del Bisturi d'Oro, 1° giugno 1985. I soci del Royal Infirmary di Londra». Sul basamento d'avorio era poggiato un bisturi d'oro con la lama d'acciaio. Lo sollevai per ammirarne la bellezza: «Ma ti immagini che fior di chirurgo doveva essere quella donna per ottenere un riconoscimento come questo a meno di cinquant'anni?». Immaginai un club inglese pieno di vecchi medici che con quel solido simbolo d'oro rendevano omaggio alla giovane donna di talento: «Ha un'aria micidiale, ma è un oggetto magnifico, vero?». «Sarebbe stato molto più utile se lo avesse tenuto in ufficio. Magari avrebbe avuto di che difendersi.» Non era un'arma, lo sapevamo tutti e due. Era lo strumento di lavoro di una donna che, grazie a esso, aveva salvato migliaia di vite umane. Rimisi al suo posto il bisturi d'oro e dissi a Mercer che era venuto il momento di andarcene. Ci mettemmo il soprabito, spegnemmo le luci e, mentre lui chiamava l'ascensore, io chiusi a chiave la porta.
Quando salutai Mercer erano le sei e mezza. Mi lasciò davanti alla Julia Richman High School e io mi precipitai su a cercare la presidentessa della serata. Negli anni Sessanta e Settanta in cui ero cresciuta, la violenza sessuale era ancora un tabù. Lo stupro era un reato che non capitava, secondo l'opinione comune, alle ragazze per bene: a nostra sorella, a nostra madre, a nostra figlia, alle nostre amiche. Le vittime se l'erano voluta, e perciò, dopo, non dovevano parlarne. Pensavamo che, se non ne avessero parlato apertamente, magari il fatto sarebbe scomparso da sé. Tutte le riforme legislative intervenute in questo campo erano state realizzate negli ultimi vent'anni. Ma era stato più facile cambiare le leggi che l'atteggiamento della gente. Quindi, come quasi tutti i miei colleghi e le mie colleghe, dedicavo parecchio tempo a diffondere l'educazione sugli argomenti di cui mi occupavo sul lavoro. Le persone che cercavamo di raggiungere -appartenenti a organizzazioni religiose, a scuole superiori, a università, ad associazioni professionali, a gruppi di iniziativa civile - un giorno avrebbero potuto ritrovarsi membri di giuria in processi per reati di questo tipo. E in quel momento si sarebbero portate dietro tutti i preconcetti e le idee fuorvianti legati ai reati sessuali. Erano pochissimi gli inviti che declinavo, quando il pubblico desiderava ricevere un'informazione sui fatti: differenze e analogie tra stupro compiuto da un estraneo o da persona conosciuta; quale tipo di violentatore non è possibile riabilitare; i programmi di cura legalmente previsti per i rei e quale tipo di stupratore sono in grado di aiutare; il fenomeno delle denunce infondate; le possibilità del sistema penale di fare di più per le vittime di reati sessuali destinando maggiori risorse al problema. Sarah Brenner e io davamo fondo a tutte le nostre energie per partecipare a riunioni di primo mattino o serali, come in questo caso. Meno ci risparmiavamo, più eravamo utili a quelle donne, a quei bambini e a quegli uomini vittime di violenza che un giorno avrebbero dovuto affidarsi a dodici loro simili per ottenere un verdetto equo. Alla bacheca degli avvisi nell'ingresso erano affissi manifesti gialli con l'annuncio della mia conferenza, e una grossa freccia nera in direzione dell'auditorium. Seguii l'indicazione, fino alla porta che si apriva sul corridoio un po' prima dell'ampia sala, ed entrai. Una donna corpulenta, con la testa sormontata da una trecciona di capelli biondi arrotolati a crocchia, mi si fece incontro tendendomi la mano: «Salve, lei deve essere Alexandra Cooper. Sono Liddy McSwain, l'incari-
cata del programma conferenze di quest'anno. Ci fa davvero un immenso piacere averla qui, soprattutto con tutti questi assassini in giro. Abbiamo visto il suo nome sui giornali, stamani, e pensavamo proprio che avremmo dovuto rinunciare alla serata». Mi precedette nella stanza in cui una dozzina di signore del comitato masticavano salatini. Mi presentai ad alcune di loro e decisi di mangiare qualcosa per non arrivare sul palco con la testa che girava. Le fette di pane integrale ai cereali senza crosta erano sistemate su tre vassoi diversi: crescione, uova sode e pomodori. Maledissi me stessa per aver rifiutato il panino gigante al tacchino offerto da Chapman tante ore prima, per poi trovarmi nel piatto queste miniature da debuttante, e misi in un piatto di carta una manciata di quei bocconcini. Vagando per la stanza, risposi educatamente a domande sulla procura distrettuale e strinsi varie mani assicurando che avrei portato i loro omaggi a Paul Battaglia. Al ricevimento affluiva un gran numero di signore di mezz'età. C'erano ovvie differenze tra la metà più anziana del pubblico presente e quella più giovane. Le ultracinquantenni portavano borse firmate e ai piedi scarpe italiane. Le chiome bionde naturali, quasi tutte finemente acconciate, erano valorizzate da una tinta speciale. Le acquisizioni più recenti del gruppo preferivano borse di marca americana - a tracolla, non al braccio - e la stessa firma italiana per le scarpe, ma col tacco un tantino più alto. Il biondo sembrava quasi sempre naturale, con qualche mèche qua e là per variare un po'. Era un pubblico piuttosto omogeneo, e mentalmente censurai la scaletta che mi ero preparata, sostituendo gli abituali riferimenti a «pene» e «vagina» con il termine «parti intime». Dieci minuti prima della conferenza, mi rinfrescai in bagno e poi entrai nell'ampio auditorium, dove avevano preso posto più di duecento donne. Sfogliai gli appunti per accertarmi di aver annotato tutto ciò che intendevo trattare nel corso dell'ora di conversazione che mi era stata richiesta. La signora McSwain aveva preparato un'introduzione divertente e una lusinghiera presentazione tratta dal mio curriculum vitae. Salii i quattro gradini che portavano al palco, mi avvicinai al podio e cominciai. Raccontai la storia dell'unità per i Reati Sessuali istituita da Battaglia, la prima del genere negli Stati Uniti. Volevo impressionare l'uditorio con l'enormità del problema della violenza sessuale nel nostro paese, per cui mi ero armata di qualche statistica sconvolgente. Nemmeno venticinque anni fa - vale a dire, nel corso della nostra generazione - a New York le leggi erano tanto arcaiche che, di oltre mille uomini arrestati in un solo anno con
l'accusa di stupro, soltanto diciotto erano stati dichiarati colpevoli. Dalle più giovani giù in platea venne qualche mormorio soffocato. Scacciai dalla mente il pensiero di Gemma Dogen e mi concentrai sul mio obiettivo. Spiegai quanto fossero cambiate le leggi: eliminazione del requisito della corroborazione, che pretendeva altre testimonianze oltre a quella della vittima stessa; introduzione di articoli tutelanti per impedire ai patrocinatori della difesa di interrogarla sulla sua vita sessuale: cosa, questa, che aveva messo fine all'orribile insistenza sulla resistenza che le vittime dovrebbero opporre anche quando l'aggressore è armato e le minaccia di morte. Tutti questi risultati si erano raggiunti soltanto negli ultimi due decenni. Illustrando le questioni giuridiche col ricorso ad aneddoti tratti da casi reali, l'ora trascorse alla svelta. Arrivato il momento del dibattito, fu subito chiaro che quelle donne, a differenza delle generazioni precedenti, erano tutte ben consapevoli che lo stupro era un reato che le riguardava da vicino. Non ce n'era una in quella sala, ci avrei scommesso, che non fosse stata toccata da questo o quell'aspetto della violenza sessuale, direttamente o indirettamente. Quasi tutte le donne che incontravo in quel periodo mi raccontavano l'esperienza di un'amica o di una parente, adulta o bambina, che aveva dovuto subire una qualche forma di aggressione legata alla mia triste specializzazione. Mentre io davo la parola a coloro che avevano alzato la mano per pormi le prime domande, le signore del comitato presieduto da Liddy McSwain andavano avanti e indietro per la sala a raccogliere le schede consegnate all'ingresso, su cui le convenute avevano scritto le loro domande. La pila di schede mi venne consegnata sul palco. «Eccone una buona», commentai leggendo la prima: «La domanda è: "Qual è l'importanza dell'analisi del DNA per il suo lavoro?"». L'entusiasmo con cui risposi tradiva la mia delusione per la mancanza di una prova simile nel caso di Gemma Dogen: «Si tratta dello strumento più rilevante di cui oggi disponiamo in questo mestiere. Lo si usa quando il liquido seminale resta nel o sul corpo della vittima per identificare il colpevole o per confermare l'identificazione oculare della vittima stessa. È una prova che la solleva di un peso enorme, al processo: non si tratta più soltanto della sua parola. Il DNA è altrettanto decisivo per escludere i sospetti. Se un avvocato mi dice che il suo difeso si trovava nell'Ohio il giorno dello stupro, non faccio altro che chiedergli di farmi avere una fialetta di sangue del suo cliente. Se non è il nostro uomo - se cioè il DNA non corrisponde - non si procede all'arresto. E ciò ci consente anche una maggiore efficienza. Per
ben quattro volte negli ultimi mesi abbiamo usato la prova del DNA per far condannare dei violentatori che altrimenti non sarebbero mai stati identificati, perché le vittime erano cieche o bendate dallo stesso aggressore. Dieci anni fa il DNA era considerato l'arma del futuro: be', il futuro è questo e quell'arma ci aiuta sempre più spesso a risolvere i casi». Scartai due schede che domandavano in che misura questo lavoro incideva sulla mia sicurezza personale e sulla mia vita privata: spiacente, ragazze, ma di questo genere di cose non parlo in pubblico. «Questa domanda riguarda le pene comminate per stupro. Non è semplice rispondere, a causa della varietà dei reati contemplati. Siccome tanti stupratori hanno precedenti penali, spesso incorrono in pene detentive superiori.» Tuttavia mi accinsi a dedicare cinque minuti per elencare alcune condanne per diversi tipi di aggressione. A soccorrermi arrivò Liddy McSwain, che salì sul palco per annunciare che avevamo tempo solo per altre tre domande. Presi un'altra scheda, che mi chiedeva notizie del nuovo sistema per trattare i casi di violenza domestica, introdotto da un paio di settimane appena dalla polizia di New York. Poi ce n'era una facile, riguardante i presidi sanitari esistenti in città per i casi di violenza sessuale su bambini e adolescenti. Mi morsi le labbra, leggendo la domanda della scheda successiva, e cercai in fondo alla sala un paio di facce conosciute. Una grafia molto familiare aveva scritto: «La domanda di "Ultimo Azzardo" è: "Nero e lungo trenta centimetri: che cos'è?"». Eccoli lì, Chapman e Wallace, accanto alla porta posteriore della sala. Mercer si sbellicava dalle risate, la testa all'indietro, mentre Chapman mi fissava indicando il suo compagno. Ero ormai abbastanza stanca da ritirarmi davanti a quelle care signore e signorine: «Mi spiace, care amiche, la maggior parte delle altre domande si riferisce alla tragica morte della dottoressa Dogen al Mid-Manhattan e alle indagini in corso. Non sarebbe corretto da parte mia esprimermi su questioni ancora irrisolte, ma vi posso assicurare che in questo stesso istante se ne stanno occupando i migliori investigatori della città. Grazie di essere uscite di casa per venir qui in una serataccia come questa. Vi sono molto grata dell'interesse che dimostrate per questi temi». Scesa dal palco, mi ritrovai circondata da varie donne del pubblico. Qualcuna fece degli apprezzamenti gentili sul mio discorso, una volle sapere se potevo metterla in contatto con il Gruppo di assistenza alle vittime di crimini del St. Luke Hospital, per offrirsi volontaria nell'assistenza psicologica, e - come al solito - tre volevano parlare di «una vicenda» che era
accaduta loro un po' di tempo prima. Le ascoltai una alla volta, dissi loro che ne avremmo dovuto parlare in una sede più riservata e diedi loro il mio biglietto da visita perché mi telefonassero il lunedì per prendere un appuntamento. Non c'era volta, dopo una conferenza, che almeno una donna non mi confidasse un fatto di violenza per il quale adesso, dopo avermi sentita parlare, aveva la forza di chiedere aiuto: si trattasse di lei stessa, della figlia al college o della sua migliore amica. Lo stupro restava un reato denunciato in misura terribilmente inferiore alla realtà. Avevo lasciato il giaccone su una sedia dell'ultima fila. Mercer lo recuperò mentre mi dirigevo verso di loro: «Non c'è bisogno che vi scusiate, signori. Come avrei mai fatto a riconoscervi se non foste stati volgari e infantili come al solito? Magari vi avrei scambiato per qualcun altro. Ma nel caso di Chapman, questo è uno strumento di identificazione più sicuro del test del DNA. Qualsiasi invito siate venuti a offrirmi per la serata, no grazie. Ho un impegno». Tirai diritto e sospinsi la pesante porta di legno: «Non chiamatemi: come si suol dire, sarò...». Sentii Chapman alle mie spalle che sussurrava in modo che lo sentissi perfettamente: «Non te la prendere, Mercer. Se fa sul serio, ho il numero del telefonino di Patrick McKinney. Lui non direbbe mai di no a giocare a "domanda e risposta" con l'assassino della Dogen. Chiamalo». A sentire che l'assassino era stato catturato, mi bloccai voltandomi di scatto. «Ti chiedo scusa, Blondie. Hai ragione, non era quella la vera domanda di stasera. È per quello che sei così arrabbiata? Oh... e, sì, abbiamo un sospetto. Sembra che sia quello buono. Il tenente ci ha mandati a prenderti perché è deciso a fare tutto secondo le regole. Alla faccia del capo McGraw.» «È uno dell'ospedale?... uno che ci lavora?», domandai uscendo sulla scalinata, ormai ricoperta di un sottile strato di neve sporca. «Noo. Uno di quelli del tunnel. Zuppo di sangue fino alle ginocchia. Come ha detto Chet, sembra uscito da un mattatoio.» «E lì da noi al 17° da un paio d'ore.» «Ha parlato?» «Direi piuttosto che ha farfugliato. Lo vedrai da te.» Salii di dietro nella macchina di Wallace e percorremmo il breve tragitto lungo Lexington Avenue per andare a guardare la belva negli occhi.
Capitolo 11 «Da non credere», disse Mercer a Chapman, fermandosi davanti alla stazione di polizia, «McGraw non ha ancora lasciato trapelare nulla.» Si riferiva al fatto che intorno all'edificio non ci fossero né cronisti né cameramen attratti da un sospetto in un caso scottante come squali dal sangue fresco. Scendemmo dalla macchina, passammo davanti all'agente in divisa dietro il banco nell'atrio, e salimmo le scale che portavano alla sala agenti. Questa volta anche gli investigatori e i poliziotti del distretto sembravano interessarsi a tutto quello che accadeva. Nelle ventiquattr'ore successive sarebbero stati tutti utilizzati per piccole incombenze utili a mettere insieme i pezzi del puzzle. «Ehi, Chapman, ci sei anche tu, in questo sozzume?» «Paulie Morelli! Accidenti, non ci vediamo da quando il tuo socio ha inchiodato l'assassino dello Zodiac. È questo arresto che ti ha scollato il culo dal Bed-Stuy, o cosa?» Stavamo salendo la rampa di scale mentre Morelli cercava di scendere. «Sì. Dritto qui al 17°. Un po' smorto, se si è abituati a catturare omicidi.» «Già», disse Chapman, che era il primo della nostra fila, «ma se vuoi che le tue donne si conservino in buona salute, Paulie, l'Upper East Side è il posto giusto. Ci aiuti nel caso Dogen?» «Sto andando a prendere le controfigure per il confronto all'americana.» «Confronto?», domandai. «Sarà meglio rallentare il treno e farmi sapere che cosa succede.» «Sei qui per questo, Blondie.» Mike mi guidò attraverso la sala agenti. Diversamente dalla sera prima, non c'era neppure un uomo che non fosse attivamente impegnato sul caso. Alcuni erano occupati al telefono e altri stavano interrogando dei testimoni. Accanto a quasi tutte le scrivanie c'era una persona estranea alla polizia: alcune in camice da infermiera o da medico, altre in tuta con l'etichetta della agenzia di consegne a domicilio per la quale lavoravano e qualcun altro nei panni informi, scompagnati e non lavati dei senzatetto. Avvicinandomi alla stanza di Peterson, notai che la porta della gabbia era ancora spalancata. Ma questa volta dentro c'era un solo ospite. Buttai dentro un'occhiata. Seduto solo soletto sulla panca c'era un nero di una sessantina d'anni. Stava abbandonato contro il muro, le gambe allungate. Con lui nella gabbia c'erano anche due grossi carrelli della spesa il
cui contenuto rimaneva un mistero per me, da quella distanza. L'uomo indossava una giacca di flanella scozzese sopra una maglietta. Quando spostai lo sguardo sulla parte inferiore del corpo, notai i pantaloni verde chiaro da sala operatoria, stretti in vita dal laccio. Gli occhi mi restarono inchiodati sulle chiazze rosso scuro che macchiavano entrambe le gambe dei pantaloni, all'altezza dei polpacci: il sangue di Gemma Dogen. Quando entrai nella stanza, il tenente Peterson era in piedi dietro la scrivania e stava concludendo una telefonata. Mi strizzò l'occhio: «No, capo. Non mi farò dire da quella rompiballe che cosa fare. No di certo. Ho solo pensato che fosse meglio averla qui per l'assistenza legale: mandato di perquisizione, confronto, interrogatorio verbalizzato. No no, saremo noi a condurre il gioco, lo metterò bene in chiaro. Ci sentiamo». «Ben tornata, Alex», si rivolse poi a me: «Sembra che abbiamo uno spiraglio. Vieni nella stanza degli armadietti e ti informiamo in quattro e quattr'otto sui fatti della giornata». Mercer e Mike erano andati direttamente là, dove al gruppetto della sera prima si era aggiunta qualche faccia nuova. Peterson fece le presentazioni e io presi posto al tavolo. «Bene, ecco che cosa abbiamo. La squadra B ha passato la giornata al Mid-Manhattan. McGraw mi ha fatto portare anche la A e la squadra del 17° per setacciare i tunnel del rifugio atomico nei sotterranei. I miei avevano in programma i colloqui del personale amministrativo e medico nelle sale riunioni del college. Devono aver interrogato trenta o quaranta persone del reparto neurologia e della facoltà del Minuit, che hanno fatto avanti e indietro tutto il pomeriggio. Il loro passato, che rapporti avevano con la Dogen, qualsiasi cosa avessero visto o sentito la sera prima del ritrovamento del corpo... le solite cose. «Nessuno si aspettava una soluzione al primo round. Un lavoro pulito pulito, tanto per avere lo stato delle cose. «Verso le sei e mezza, l'agente Losenti riceve una telefonata da due dei medici con cui aveva già parlato... sono entrambi qui, Alex. Ho pensato che gli volessi parlare tu stessa. I due sono usciti insieme dal reparto neurologico per scendere in radiologia, al secondo piano. Dovevano guardare certe radiografie per un caso di cui si occupano. Vanno nello sgabuzzino di fronte alla sala di radiologia e questo tizio - quello che vedi nella gabbia - è lì, rannicchiato per terra a schiacciare un sonnellino. Lo svegliano per farlo uscire, quando notano che ha le gambe dei pantaloni coperte di sangue. Allora uno dei due è rimasto nella stanza, mentre l'altro è andato a telefonare
a Losenti: avevamo consegnato a tutti un foglietto con il numero del suo cercapersone, invitandoli a chiamare se sentivano o vedevano qualcosa. Losenti era ancora in ospedale, per cui è andato subito in radiologia.» Girai lo sguardo attorno, sui volti degli agenti. Erano le nove e mezza di sera ed erano in movimento dall'alba, ma l'ottimismo per aver dato una svolta al caso così alla svelta sollevava l'animo a tutti e li faceva sentire uniti dallo spirito di squadra. «Lui che dice?» «O fa il muto, oppure abbiamo per le mani un vero psicopatico. Qualcuno degli uomini ha cercato di parlargli, ma non ne ha ricavato nulla. Voglio che Chapman e Wallace se lo portino in una stanza per gli interrogatori per vedere se riescono a fare qualche passo avanti. Ci vorranno ore. Farfuglia, dice che si chiama soltanto Pops e che la roba che ha sui pantaloni è vernice rossa. Che è inciampato in un bidone di vernice rossa. Poi, di punto in bianco, si scusa per quello che è successo alla signora.» «È possibile?» «È sangue, Alex. Sangue umano. Non l'ho ancora fatto controllare, ma ne ho visto tanto da bastarmi per altre sei vite. Ecco perché ho voluto qui te. Pensa che cosa si può ottenere con o senza mandato, come vuoi che venga trattata la faccenda in modo da non mettere a repentaglio le prove che raccogliamo. Non mi interessano i suggerimenti di McGraw. Lui può passare il tempo a fare tutti gli intrallazzi che vuole con i giornalisti, noi porteremo avanti l'indagine a modo mio. «C'era un modo di dire, quarant'anni fa, quando eravamo insieme all'Accademia e le cose a New York giravano diversamente. Di un capo che non lavorava mai da vero investigatore alle indagini che gli toccavano, si diceva che non era capace di trovare un ebreo a Grand Concourse. Senza offesa, Alex.» «Macché, tenente», intervenne Chapman, «adesso nemmeno Sherlock Holmes sarebbe capace di trovare un ebreo a Grand Concourse.» Questa zona del Bronx, che una volta aveva ospitato migliaia di immigrati europei destinati a salire nella scala sociale, oggi era interamente latino-americana. «A che serve il confronto? Cioè, chi è che può dire che questo tizio ha fatto qualcosa?» «Quasi tutti quelli con cui abbiamo parlato, la sera o la notte di martedì hanno visto qualcuno in un corridoio o in un ascensore o lungo le scale. Non so se si tratti di una persona dell'ospedale o di una dozzina di ladruncoli diversi o di un sacco di pie illusioni. Ma faremo dare un'occhiata a
Pops da un po' di questi chiacchieroni, per vedere se ha un'aria nota.» «Non credo che un confronto abbia molto senso a questo punto, ragazzi. Non abbiamo nessun testimone che dichiari di aver sentito rumori nell'ufficio della Dogen o di aver visto qualcuno uscirne, no? È inutile perdere tempo.» «Alex, abbiamo un sacco di gente - inservienti, aiutoinfermieri, studenti di medicina - che quella sera e quella notte andava avanti e indietro per i corridoi. Mi piacerebbe vedere se qualcuno è in grado di collocare questo tizio nei paraggi del luogo del delitto. Tu puoi continuare a lavorare su quello che vuoi. Questo non può nuocere.» «Ma sì che può nuocere, tenente. Metti che sia proprio il nostro uomo e che nessuno l'abbia mai visto prima. A questo punto dell'inchiesta è prematuro. La cosa più importante da fare in assoluto è togliergli quei pantaloni e mandarli in laboratorio, immediatamente. Faccia controllare quel sangue e si assicuri che corrisponda a quello della Dogen. Ha fatto venire qui la Scientifica a fargli delle foto?» «Sì, c'è Sherman che sta aspettando.» «Benissimo. Scattategli qualche foto così com'è. Accertatevi che gli riprendano anche le gambe, per dimostrare che non ha ferite. Controllate mani e gambe per vedere se la vittima è riuscita a graffiarlo...» «Già fatto. Negativo.» «Be', Chet pensava che l'aggressore non gliene avesse dato la possibilità. Ce l'avete qualche cosa da mettergli addosso quando gli toglieremo i pantaloni?» «Abbiamo più indumenti ospedalieri qui che il vecchio Camice in persona. Sì, gliene daremo un paio puliti.» Chapman domandò al tenente che cosa avevano trovato nei carrelli della spesa dentro la gabbia. «Uno dei due non è altro che la casa di Pops, signor Chapman. Ora, io non voglio certo perquisire casa sua senza mandato, vero? Per cui per il momento l'abbiamo parcheggiato lì nel mio garage, che, come avrai notato, ha due posti macchina. L'altro carrello appartiene al miglior amico di Pops, che in questo momento viene interrogato da Ramirez.» «E gli otto "ospiti" di ieri sera, se ne sono andati?» «Non essere ridicola, signorina. Ralph», Peterson guardò Losenti, «a chi fanno visita oggi i miei amici?» «Li abbiamo trasferiti all'Anticrimine, tenente. Stasera guardano la partita di basket. Gli abbiamo appena dato da mangiare un buon assortimento
di costine.» Peterson espose il suo piano. Chapman e Wallace avrebbero portato Pops nella stanza usata per i confronti, per cominciare l'interrogatorio. In quel modo lui e io, se volevamo, potevamo osservarli attraverso il falso specchio che permetteva di guardare nella stanza senza essere visti. «Ci vorrà almeno un'ora prima di avere le controfigure per il confronto, e c'è da fare ancora un sacco di altre cose. Alex, tu a che cosa vorresti lavorare?» «Per prima cosa voglio telefonare a Battaglia, per metterlo al corrente prima che senta le novità al notiziario della notte. Poi parlerò con Sarah Brenner per chiederle di venire qui a darmi una mano. Ho bisogno di qualcuno che si occupi dei mandati appena le cose cominceranno a muoversi, ed è lei che voglio avere accanto. Poi potrei incominciare anche a reinterrogare i medici che hanno trovato Pops e le persone che assisteranno al confronto. «Oh, Mike, fammi un piacere: chiama Maureen e dille che qualsiasi cosa senta al notiziario, domani mattina tutto resta come fissato: possiamo stare a vedere quali prove si ricavano da qui e, contemporaneamente, che cosa succede là.» «Benissimo. Usa l'apparecchio del mio ufficio per le tue telefonate, mentre ti cerco un altro locale per i colloqui.» «Coop, Steve consegna fin quaggiù la sua pizza?», domandò Wallace. «Che cos'ha che non va il bugigattolo qui all'angolo?», intervenne Peterson. La cosa fu risolta da Chapman: «Sarà una nottata lunga, tenente. Non vorrà che a qualcuno venga l'agitazione, eh? Steve è il massimo, in assoluto, e per Cooper farebbe consegne anche nel New Jersey. È solo sulla 71a... ci metterà circa venti minuti. Lo sai il numero?». Avrei potuto farlo dormendo. Glielo dissi e sentii Chapman ordinare sei grosse pizze, sottilissime, con sopra un po' di tutto e due tranci senza acciughe per la signorina Cooper. «E le metta sul suo conto, okay?» Sarebbe stata un'idiozia da parte mia pensare di dire a Battaglia qualcosa che lui non sapesse già, soprattutto a causa della posizione della moglie nel consiglio d'amministrazione del Mid-Manhattan. Non ci rimasi male, quindi, quando mi disse che si aspettava la mia telefonata. «Che cosa te ne pare?» «Dobbiamo ancora cominciare, Paul, ma sugli indumenti di quel tizio c'è un sacco di sangue. Peterson mi dice che gli hanno controllato il corpo per
accertarsi che non fosse sangue di ferite sue e l'hanno trovato perfettamente a posto. Credo che staremo qui qualche ora. Non ti richiamo fino a domattina, ma sai dove trovarmi.» Quando le telefonai, Sarah aveva già messo a letto la bambina e lei e James stavano finendo di cenare in santa pace: «Prendo subito un taxi e vengo lì». «Sei sicura? Non volevo scavalcarti e dare ad altri questa possibilità, ma non voglio nemmeno che tu ti strapazzi o metta in pericolo la gravidanza.» «Sai benissimo che non c'è problema. Ho una gran voglia di lavorare con te a questo caso. Starò lì qualche ora per vedere che cosa succederà. Avrò solo bisogno di una sedia supplementare per appoggiarci i piedi ogni tanto. Ci vediamo tra mezz'ora.» «Sono pronta, tenente», dissi, andando incontro a Peterson nella sala agenti. Wallace era appoggiato alla porta della camera di sicurezza. Sentii che chiedeva a Pops se se la sentiva di andare con lui e raccontare un'altra volta la sua storia. Mentre si trasferivano in fila indiana nella stanza dei confronti, dissi al tenente che prima di parlare con i due medici volevo vedere gli appunti dei loro precedenti colloqui. «Chapman, molla il telefono e porta a Cooper i tuoi appunti.» Mike usava una scrivania nell'angolo più lontano della sala. Riattaccò il telefono, afferrò il fascicolo di carte e venne nell'ufficio di Peterson in compagnia di un distinto signore di circa cinquantacinque anni. «Signor Dietrich, ho il piacere di presentarle il mio capo, tenente Peterson, e Alexandra Cooper... be', anche lei è una specie di capo», aggiunse ridendo: «È il sostituto procuratore incaricato del caso. Questo è William Dietrich, direttore del Mid-Manhattan». «Piacere. Vorrei ringraziarla di tutto quello che ha fatto finora, tenente. Siamo tutti sconvolti per l'assassinio della dottoressa Dogen. Io, ehm, mi chiedevo se a questo punto lei aveva qualche cosa da dirmi...» Peterson lo interruppe senza riguardi: «Sappiamo benissimo come si sentono i suoi collaboratori, signor Dietrich. Appena potremo divulgare qualche notizia, lei sarà il primo a saperla». L'abbronzatura artificiale e la tintura nera ai capelli contribuiva all'aria untuosa di Dietrich. Era il numero uno dell'ospedale e si trovava nell'angosciosa posizione di tenere sotto controllo l'immagine pubblica di un complesso sanitario nel più completo caos. Il tenente tornò alla scrivania a prendere una sigaretta e Dietrich tentò
l'approccio personale con me: «Ho chiesto informazioni su di te, oggi, Alexandra... Non ti dispiace se ti do del tu, vero?» «Niente affatto, signor Dietrich.» «Hai proprio un'ottima reputazione, dico, per questo tipo di atrocità.» Ha chiesto informazioni su di me a chi? mi chiedevo. Lui passò al contatto fisico, sospingendomi leggermente il gomito per allontanarmi dalla stanza di Peterson e parlarmi in privato: «Sono un grande ammiratore di tuo padre. È una leggenda nella professione medica. Si sta godendo la pensione, immagino?». Non sognarti di usare i miei familiari per arrivare a me, imbecille: «Sta benissimo, grazie, signor Dietrich». «Non mancare di presentargli i miei omaggi. Mi piacerebbe riportarlo a New York a tenere lezioni per i nostri studenti e fornire consulenza al reparto di cardiologia.» «Be'», dissi, afferrando il mio fascicolo con tutt'e due le mani, «tiri fuori un interessante rigurgito dell'aorta da studiare e lui salta sul primo aereo. Ora, signor Dietrich, se permette...» «Mi chiamo Bill, Alex. Dammi del tu.» «Le devo chiedere di uscire: l'ispettore Chapman e io dobbiamo lavorare.» «Conto su di te per tenermi informato, Alexandra. Credo che nessuno meglio di te, qua dentro, sappia come stanno le cose in un grande ospedale come il nostro. C'è in ballo la vita di troppa gente perché debba sentire notizie come questa al notiziario delle undici, come tutto il resto della popolazione di New York.» «Faremo del nostro meglio, signor Dietrich», dissi allontanandomi e ritornando verso l'ufficio di Peterson. Mike chiuse la porta e io mi sedetti alla scrivania a esaminare i suoi appunti. «Dietrich è venuto qui coi suoi ragazzi... quei due testimoni. Ha cercato appoggio legale, ma l'avvocato che rappresenta l'ospedale era già al terzo martini prima di cena. Gli ha detto di continuare a cooperare con la polizia. «I due con cui vuoi parlare sono nell'atrio. Losenti ha fatto l'errore di sentirli insieme. Io li ho separati in modo da parlare con loro uno alla volta.» «Chi sono?» «John DuPre. Maschio, nero, quarantadue anni. Sposato, due figli. È neurologo. Howard University, laurea in medicina a Tulane, residenza nel
sud. Ha aperto uno studio privato a Manhattan due anni fa e da allora lavora all'ospedale. L'altro si chiama Coleman Harper. Maschio, bianco, quarantaquattro anni. Divorziato, senza figli. Anche lui neurologo. Università e laurea in medicina alla Vanderbilt Per un po' di tempo ha esercitato la professione. Adesso è al Mid-Manhattan come "associato".» «Che cosa significa?» «Devi domandarlo a lui. Fin lì non ci sono arrivato. È uno di quelli che Spector - il neurochirurgo - ha scelto dalla galleria degli spettatori per fargli da assistente durante l'operazione quando non si è presentata la Dogen. E al paziente è comunque andata bene.» «Da chi preferisci cominciare?» «Vado a prendere DuPre.» Un paio di minuti dopo Chapman ritornò con il dottor John DuPre. Mi alzai per accoglierlo e lui mi diede la mano. Aveva otto anni più di me ed era più alto di qualche centimetro: capelli cortissimi, baffi, occhiali con montatura di metallo e un fisico in perfetta forma. Indossava una giacca sportiva e comodi pantaloni da marinaio, e aveva l'espressione seria che mostrano al primo giro di interrogatori quasi tutti coloro che si trovano coinvolti in un caso di omicidio. «So che ha avuto una giornata pesante, dottor DuPre. L'ispettore Chapman e io vorremmo che lei ci ripetesse ancora una volta la sua storia, se non le dispiace.» «Se può servire, non mi dispiace affatto. Mi sembra di non aver fatto altro tutta la sera. «Sono arrivato al policlinico verso metà pomeriggio. Il mio studio privato, dove visito quasi tutti i miei pazienti, è in Central Park West. Sono passato al Minuit per servirmi della biblioteca. Si trova al sesto piano, dove, ehm, dove c'è lo studio di Gemma. O c'era. La biblioteca era piena di gente... come quasi sempre il pomeriggio tardi. Mi sono messo a discutere con i miei colleghi su un caso a cui sta lavorando il dottor Spector.» «Bob Spector? Il neurochirurgo che aveva invitato la Dogen ad assisterlo la mattina in cui è stata ammazzata?» «Proprio lui. Spector sta conducendo delle ricerche importantissime sul morbo di Huntington. Sapete di che cosa si tratta?» Porgendo la domanda con l'accento strascicato del sud, DuPre alzò la testa a guardarci da sotto in su. «So solo che è una malattia ereditaria e che non se ne conosce la cura.» «Giusto, signorina Cooper. È un disturbo del sistema nervoso centrale,
caratterizzato da un progressivo deterioramento intellettivo e da movimenti involontari. Spector ha dedicato molta attenzione a questa malattia e, be', lui da queste parti è il pezzo grosso, per cui...» «Il capo però era la Dogen, no?», domandò Chapman. «Sì, ma correva voce che stesse per tornare in Inghilterra, alla fine del semestre accademico. Per cui, a dirla tutta», DuPre sollevò l'angolo della bocca in un sorriso, «molti di noi hanno pensato che il culo da leccare fosse quello di Spector. Mi perdoni la volgarità dell'espressione, signorina Cooper. Siamo in molti a cercare di agganciare il carro a Bob Spector. Credo che sarà lui il prossimo primario.» «Lei che tipo di rapporti aveva con Gemma Dogen?» «La signora dei ghiacci? Molto distante. Badate: si andava d'accordissimo, all'occorrenza. Ma non la conoscevo molto bene e - so che questo ve l'hanno già detto - non è che mi avesse molto in simpatia.» «Motivo?» «Non ne ho idea, non ne ho proprio idea. Non voglio giocare la carta del razzismo, come dicono tutti. Potrebbe anche essere semplicemente che era una snob... parlare con me era tempo sprecato perché non ero un chirurgo. Se ne stava molto sulle sue. Di quando in quando la mattina passavo a prenderla e andavamo a correre insieme - facevamo tutt'e due jogging sul lungofiume - ma credo che fosse più contenta quando era sola.» «Lei è stato uno dei medici che hanno assistito Spector al posto di Gemma Dogen la mattina che fu uccisa?» «No, no. Io di questo non so niente, ispettore. Non ero nemmeno in ospedale, mercoledì mattina. Vede, come neurologo io non posso svolgere alcuna mansione in un'operazione chirurgica. Posso curare i pazienti affetti da malattia cerebrale, ma non in sala operatoria.» «Che cosa l'ha spinta ad andare al reparto di radiologia, oggi, dottore?» «A dir la verità, l'idea non l'ho avuta io. Il merito è tutto del dottor Harper, Coleman Harper. Spector aveva fatto fare delle radiografie a un paziente affetto da Huntington che sta seguendo da vari anni. Si stava parlando del progetto e Coleman ha suggerito di andare a guardarle, lui e io, per confrontarle con la serie di radiografie fatte un anno fa. «Siamo scesi al secondo piano. Ci siamo stupiti che la porta non fosse chiusa a chiave. Ma voi ormai sapete bene i problemi che abbiamo, in fatto di sicurezza. Comunque, guardi che non è affatto un'eccezione. Ho visto gli stessi problemi in tutti i grandi complessi ospedalieri. Mi ricordo perfino di aver sentito parlare di un assassinio come questo al Bellevue ancor
prima di venire qui a New York.» «Che cosa è successo? Voglio dire: esattamente, che cosa è successo quando siete entrati nella stanza?» «Quello, il signore che avete arrestato, era rannicchiato sul pavimento profondamente addormentato. Coleman ha acceso la luce ed eccolo lì. Non si poteva evitare di notare le macchie sui pantaloni. Sapevo che era sangue. Ho detto a Coleman di uscire a chiamare subito qualcuno, che io sarei rimasto lì per impedire a quel tizio di andarsene.» «Lo ha svegliato?» «No, finché Coleman non è tornato. Cioè, di armi non ne vedevo, ma non potevo essere sicuro che non ci fosse sdraiato sopra. Lo abbiamo soltanto scosso un po' con i piedi. Lui ha aperto gli occhi e ha cominciato a borbottare. Continuava a dire soltanto: "Scusate, scusate". Non ho assolutamente idea, proprio nessuna, se chiedeva scusa perché si trovava dove non doveva o per quello che aveva fatto a Gemma.» «Poi?» «Poi l'ispettore che abbiamo chiamato al cercapersone è arrivato in meno di dieci minuti. E si è portato via quel tizio.» Mentre io prendevo qualche appunto, Chapman fece un altro paio di domande a DuPre. Lo ringraziammo e gli chiedemmo di restare ancora un po' mentre ascoltavamo gli altri testimoni, rammentandogli di non parlare con nessuno della propria deposizione. Peterson gli aprì la porta e Chapman andò a chiamare Coleman Harper. Il dottor Harper aveva ancora addosso il camice quando entrò nell'ufficio, tre ore dopo essere stato portato dall'ospedale alla stazione di polizia a raccontare la scoperta fatta da lui e da DuPre. Era un po' più basso di DuPre, più o meno come me, con ciocche precocemente ingrigite nei capelli scuri. Era tarchiato e massiccio e, quando sedette alla scrivania di fronte a me, si mise ad agitare nervosamente la gamba sinistra. Ci stringemmo la mano e io gli spiegai il motivo per cui avevo bisogno di parlargli, invitandolo a rilassarsi. «Sa, è proprio strano, signorina Cooper. Non mi è mai capitato di essere coinvolto in una cosa simile. Da dove comincio?» «Non si preoccupi. La maggior parte dei testimoni che ascoltiamo non ha mai avuto un'esperienza come questa. Mike e io abbiamo qualche domanda da farle.» Chapman cominciò con le domande personali di rito, facendo parlare Harper di sé e del suo curriculum professionale.
«Sono entrato al Mid-Manhattan circa dieci anni fa, ma me ne sono andato, più o meno l'anno seguente, poco dopo l'arrivo della dottoressa Dogen, per cui per gran parte del suo primariato non sono stato lì. Ho continuato a esercitare la professione di neurologo a Nashville, dove viveva la famiglia di mia moglie. «Poi, quando mi sono separato, ho pensato che era il momento di provare a tornare in una grande clinica universitaria e fare quello che avevo sempre desiderato. Sono qui da settembre.» «Si tratta di una borsa di studio di internato?», domandai guardando gli appunti presi in precedenza da Chapman. «Be', sì. In realtà è una specie di compromesso. Ma quando mia moglie mi ha lasciato, ho deciso di provare a fare le cose che piacevano a me. Sono sempre stato interessato alla neurochirurgia. Per cui ho accettato una consistente riduzione della paga prevista per questa posizione - sono un po' più anziano degli altri che seguono questo corso -, ma il lato positivo della medaglia è che adesso posso fare l'assistente in sala operatoria. In effetti ho la possibilità di andare avanti per cercare di entrare a far parte dell'équipe di neurochirurghi al Mid-Manhattan. Una cosa che avrei dovuto fare molto tempo fa.» Scambiai un'occhiata con Chapman e guardai la gamba nervosa di Harper. Ero sicura che Mike stava pensando quello che pensavo io e in cuor mio gli fui grata di non venirsene fuori a sproposito con un'osservazione su quanto potessero essere ferme le mani di Harper per compiere operazioni al cervello. Quattro chiacchiere amichevoli con la polizia di quartiere ed ecco il dottore completamente nel pallone. Era l'effetto che Mike e io facevamo su un sacco di gente. «Dunque ieri mattina, quando la dottoressa Dogen non si è presentata, lei era in sala operatoria, dico bene?» «Sì sì. Il dottor Spector stava operando un paziente colpito da ictus; al lato destro del cervello, per essere precisi. Cerco di essere presente agli interventi di Spector ogni volta che posso. È proprio un genio.» «E tra tutti quelli che erano lì, ha scelto lei per assisterlo?» «Sì, be', in un certo senso sì. Eravamo presenti soltanto in una dozzina, più o meno, e ancora di meno erano quelli che avessero già collaborato con lui in questo tipo di operazione. È proprio un onore.» «Con esito positivo per il paziente, ho sentito.» «Non ne è ancora a posto del tutto, ma a questo punto sembra fuori pericolo.»
«Anche lei è coinvolto nel programma di ricerca sul morbo di Huntington col dottor Spector?» «Non ufficialmente. Ma certamente conto sul suo appoggio per poter entrare nel corso di neurochirurgia. E naturalmente gli anni di esperienza da neurochirurgo che ho alle spalle mi hanno dato la possibilità di studiare questo tipo di disturbi. Sì può dire senz'altro che seguo molto da vicino il lavoro di Spector.» «Allora: com'è che si è trovato con il dottor DuPre, oggi pomeriggio?» «Ero andato in biblioteca a cercare un volume di cui avevo bisogno. Lì ho trovato un gruppo di colleghi che parlavano delle nuove radiografie di un paziente che Spector tiene sotto osservazione e DuPre ha suggerito di andare a dare un'occhiata. Le radiografie erano appese alle vetrine giù in radiologia. Io volevo aspettare di finire la ricerca che stavo facendo, ma...» «Mi scusi», lo interruppi, «ma di chi è stata l'idea?» «Di John DuPre. Mi ha detto che non poteva aspettarmi perché doveva essere a casa per cena e mi ha chiesto di andare con lui subito.» Fantastico. Ero sul caso da appena mezz'ora e già avevo elementi contrastanti su un fatto secondario: DuPre dice che l'idea di andare in radiologia è stata di Harper mentre Harper dice che è stato DuPre a spingerlo. Le discordanze, mi aveva insegnato Rod Squires durante l'addestramento, erano le pietre miliari della verità. Una gran rottura, dal mio punto di vista. È naturale che persone diverse - venivamo esortati a credere - vedano gli stessi fatti da prospettive diverse, ma non c'è dubbio che ciò intorbida parecchio la causa di cui ci si occupa. «Va bene, quindi lei e il dottor DuPre siete andati al secondo piano... poi, che cosa è successo?» Da quel punto in poi la versione di Harper combaciava perfettamente con quella di DuPre: «Una volta che ho visto il sangue ho pensato immediatamente a Gemma. Ha confessato qualcosa?». «Lo chiedo a lei, dottor Harper: gli ha sentito dir niente a proposito della dottoressa Dogen e dell'aggressione?» «No, in mia presenza non ha quasi aperto bocca. Ma io son corso subito giù nell'atrio a telefonare. Non ha dato segno di connettere molto, nel lasso di tempo tra il mio ritorno e l'arrivo del vostro agente. Non mi sembra molto stabile, quel tipo.» «Lei conosceva bene la dottoressa Dogen?» «Dipende da che cosa intende. Non era una persona molto...» Il tenente Peterson aprì la porta: «Scusa, Alex. Sarah è arrivata e credo
che siamo pronti con le controfigure per il confronto. E stai lontana dalle finestre della sala agenti. Qualcuno ha fatto la soffiata alla stampa. C'è un paio di troupe televisive davanti all'edificio e sono sicuro che sarebbero felici di riprenderti». «Grazie, dottor Harper. Mi scusi l'interruzione. Le dispiace aspettare ancora nell'atrio? Cercheremo di essere da lei appena avremo finito con quest'altra faccenda.» «Prenda un po' di pizza, dottore», disse Chapman alzandosi in piedi e dando una manata sulla spalla a Harper: «Abbiamo di là un po' di senzatetto che guardano la partita di basket, e potrebbero aver bisogno di un checkup. Magari lei e il dottor DuPre potreste rendervi utili». Capitolo 12 «Che cosa vuoi che faccia?», chiese Sarah, già seduta alla scrivania col suo computer portatile. «Prova a rimediare un paio di mandati per quei due carrelli della spesa. Uno appartiene a Pops, l'altro a un suo amico. Vedi se Ramirez e Losenti ti possono aiutare a indicare una motivazione attendibile: in questo momento ne sanno molto più di me. Peterson vuol fare dei confronti all'americana e può darsi che io abbia bisogno di aiuto con i testimoni, nel caso identifichino qualcuno. Prenditela comoda, mi raccomando.» La lasciai in sala agenti e mi trasferii nella stanzetta per i confronti in fondo al corridoio. Wallace e Chapman stavano cercando di preparare Pops e gli altri cinque. A ciascuno di loro Jerry McCabe consegnava un camice da infermiere pulito, col collo a V, in modo che avessero tutti indumenti simili. A Pops erano stati tolti i pantaloni insanguinati e ora se ne stava seduto sulla quarta sedia, la targa col numero tra le mani, intento a parlare da solo. «Non va, Jerry», dissi, controllando la fila: «I due più vicini a me hanno l'aria troppo giovane». «Già, provaci tu a trovare delle controfigure a quest'ora. Non è che vengano proprio a gettarsi tra le mie braccia.» «Manda un agente in uniforme in quel negozio giù all'angolo della Lexington a prendere del talco in polvere. Vorrei solo ingrigirgli un po' i capelli in modo che somiglino di più a Pops, che ne dici, eh?» Mercer stava dicendo agli uomini schierati in fila che cosa dovevano fare per guadagnarsi i cinque dollari della serata: tenere davanti al petto la
targa col numero, alzarsi in piedi quando glielo chiedeva, avvicinarsi allo specchio e rimanere lì, mostrandosi prima di fronte e poi di profilo da ciascun lato secondo le istruzioni, poi ritornare a sedersi al proprio posto. Una mezz'oretta di lavoro come controfigure avrebbe mantenuto quei poveretti a vinaccio da poco prezzo per tutta la notte. Uscii per vedere che cosa faceva Sarah. Stava digitando sulla tastiera del computer e alzò la testa per dirmi che gli indumenti di Pops erano partiti per il laboratorio d'analisi. Anna Bartoldi era sempre addetta alla linea telefonica per le segnalazioni, nell'angolo della sala agenti. Si alzò dal tavolo e, dirigendosi verso la macchinetta che distribuiva bevande, mi passò accanto: «Mangi qualcosa?». Feci cenno a Sarah e andammo tutt'e tre a prenderci una bibita e una fetta di pizza. «Ne arrivano ancora, di telefonate?», chiesi ad Anna. «Ho superato le trecentocinquanta. Finora, quattro donne hanno segnalato il marito e altre sei sospettano del fidanzato. Rallenteranno un po' domani, quando comincerà a girare la voce che abbiamo un candidato.» Quando sentii la voce di Mercer tuonare il mio nome, posai la pizza e mi portai dietro la lattina. Arrivai nella stanza dei confronti mentre spargeva il borotalco sulla testa delle controfigure più giovani. Controllai attraverso lo specchio, paragonandoli ai compagni più maturi: «Va molto meglio, così, Mercer». Gli uomini di Peterson avevano radunato quattro persone per assistere al confronto. Uno era uno studente del terzo anno che era rimasto a studiare in biblioteca fino all'una la notte in cui era stata ammazzata la Dogen. Altre due erano addette alle pulizie di turno a quell'ora e l'ultima era un'aiutoinfermiera che durante le pause s'intrufolava nel reparto didattico per telefonare al fidanzato alle ore più strane della notte, approfittando degli apparecchi della reception. Rimasi in piedi in fondo alla stanza buia mentre Wallace e McCabe facevano entrare a turno i testimoni. Lo studente e l'aiutoinfermiera non riconobbero nessuno. Ma tutt'e due le addette alle pulizie, che mettevano in ordine gli uffici dei docenti ogni notte, indicarono l'uomo che si faceva chiamare Pops. Uscii dalla stanza e dissi a Mike di mandare le due inservienti da me, una alla volta, nell'ufficio di Peterson. Presi un taccuino nuovo e lo intestai con data e ora: ventitré e quarantacinque. Sulle due testimoni erano già state raccolte informazioni dagli a-
genti che avevano passato al setaccio l'ospedale, per cui andai a riguardarmi le fotocopie dei loro appunti, apprendendo che Ludmila Grascowitz e Graciela Martinez erano state entrambe assegnate alle pulizie degli uffici del quinto e sesto piano del Minuit Medical Center. Tutt'e due erano immigrate: Ludmila dalla Polonia e Graciela dalla Repubblica Dominicana. La prima era al Mid-Manhattan da tre anni e la seconda da sei mesi. Dopo l'assassinio di Gemma Dogen, Ludmila aveva chiesto di essere trasferita al turno di giorno e Graciela si era addirittura licenziata. Entrambe conoscevano di vista la Dogen, perché era frequente che si trovasse in ospedale tra mezzanotte e le otto del mattino, quando loro erano di turno. Ma né l'una né l'altra avevano avuto a che fare con lei, in quanto avevano severe istruzioni di non entrare mai nell'ufficio della dottoressa durante la notte. La Dogen non voleva essere disturbata quando lavorava alle sue ricerche o scriveva, quindi il suo studio veniva sempre pulito dal personale diurno e soltanto se la porta era aperta. Alla dottoressa non piacevano le intrusioni e non voleva che si toccassero le sue carte. Ludmila aveva un accento straniero greve quanto i fianchi e le caviglie. Ansimava nel rispondere alle mie domande, e ogni volta si faceva il segno della croce. Sì, nelle ultime settimane aveva visto spesso l'uomo che nella fila portava il numero quattro. Lui aveva cercato più volte di parlarle, ma lei non era riuscita a capire quello che diceva. Lunedì sera Ludmila era entrata in servizio alle undici e mezza e aveva incontrato l'uomo sulle scale tra il quinto e il sesto piano. No, nel suo aspetto e nel suo abbigliamento non c'era nulla di inconsueto. Però lei cercava di evitare il suo sguardo, se le si avvicinava, da quando si era ripetutamente lamentata con la vigilanza per la presenza di quell'uomo nelle ore notturne. Un ultimo segno della croce e una benedizione supplementare per la povera dottoressa e Ludmila non ebbe più nulla da aggiungere. Il nervosismo di Graciela faceva sembrare Ludmila quasi calma, per contrasto. Le due condividevano la responsabilità delle pulizie agli stessi due piani. Per quanto comunicassero raramente tra loro, avevano unito le forze quando si era trattato di lamentarsi degli andirivieni notturni di Pops. Qualcuno aveva dato alla giovane un bicchier d'acqua per rincuorarla, ma la mano le tremava al punto che il contenuto continuava a traboccare, versandosi sulla scrivania. Graciela era sicura di aver visto Pops uscire dal bagno degli uomini al sesto piano, nelle prime ore di martedì mattina. Non aveva chiamato la vigilanza perché quelli non le davano mai retta quando cercava di farsi sentire. invece, era andata subito in biblioteca a pulire, sa-
pendo che probabilmente c'era ancora almeno uno studente che tirava mattina. Ringraziai le due donne per la collaborazione e le affidai al tenente perché le facesse riaccompagnare a casa. Sarah entrò nell'ufficio di Peterson per sapere che cosa c'era da fare a quel punto. I mandati erano pronti e lei avrebbe provveduto a farli firmare in mattinata, appena si fosse insediato il giudice per l'udienza preliminare. Tornammo alla stanza dei confronti e guardammo attraverso lo specchio. Dopo aver congedato le comparse, Mercer aveva rimesso a posto il locale e ora stava di nuovo seduto al tavolo con Pops, parlandogli in modo calmo e tranquillo per cercare di guadagnare la sua fiducia. Sarah e io glielo avevamo visto fare centinaia di volte. «Strano, vero?», osservò Sarah: «Hanno un'aria così buona quando li vedi in una stazione di polizia o in tribunale. In taxi, venendo qui, provavo odio per quest'uomo... davanti a un assassinio come questo credo che sarei capace di fare io stessa l'iniezione letale». «Ho pensato anch'io la stessa cosa quando sono arrivata qui e l'ho visto zuppo del sangue di Gemma Dogen. Come si fa a fare una cosa del genere a un altro essere umano e poi andarsene belli tranquilli?» «Poi lo vedi mezz'ora dopo e ti sembra assolutamente patetico, vero?» Eravamo lì in piedi, le braccia incrociate, a guardare non viste quella coppia dall'altra parte dello specchio. «Non sembra nemmeno abbastanza forte da avere il sopravvento su una persona in forma come la Dogen. Immagino che sia come pensa Chet Kirschner: il vantaggio dovuto al fatto di prenderla di sorpresa.» «Abbiamo scoperto chi è?» «Mercer sta cercando di arrivarci. Losenti gli ha preso le impronte digitali quando lo hanno portato qui. Pensavano di arrestarlo per violazione di domicilio, se non si fosse riusciti a trattenerlo per nient'altro. Hanno inserito le impronte nel computer e contano di avere una risposta in mattinata.» Sarah trattenne uno sbadiglio. «Prendiamo qualche decisione sul da farsi e poi andiamocene tutti a casa.» Tornammo nell'ufficio di Peterson e gli chiedemmo di far venire Mercer e Mike per cercare di capire a che punto eravamo. Mercer entrò scuotendo la testa: «Mi si addormenta addosso. Non credo che serva a qualche cosa andare avanti, stanotte. È quasi l'una. Mettiamolo a letto, scopriamo chi è, e ricomincio domattina, quando sarà più fresco».
«Voi ragazze dovreste andare a casa», aggiunse Peterson. «Pops è sotto chiave. È in arresto per violazione di domicilio. Sull'assassinio che cosa comunichiamo?» Sarah e io ci guardammo. Per il momento non avevamo nulla tranne potenziali elementi per un caso indiziario. «Facciamo dire a McGraw che non abbiamo imputazioni a carico di nessuno. Il caso è ancora aperto. Se diciamo di più comincerà la frenesia delle illazioni.» Mike entrò e si richiuse la porta alle spalle. «E tu, trovato niente?», gli domandò il tenente. «Sì», disse Mike. «Quasi un arresto per atti osceni in luogo pubblico. I nostri senzatetto sono nell'ufficio della squadra Anticrimine a guardare vecchi film in televisione. Quello piccolo in tuta da ginnastica grigia, salta fuori che è D.D.O. Thompson. D.D.O. sta per "Dita D'Oro"... ha quattordici condanne per furto. È lì a guardare Caccia al ladro con tutti gli altri. A un tratto si alza, si tira giù le brache, e comincia a farselo. Non so se s'è messo a giocare col pisello perché Grace Kelly è una meraviglia o perché il film parla di un ladro acrobata che arraffa roba più bella di quella che D.D.O. si sia mai sognata. In pratica gli ho dovuto dare una manata per farlo smettere.» «Nessuna informazione più utile per noi, Mike?» «Be', il secondo carrello della spesa appartiene a un altro inquilino del tunnel, anche lui tra i nostri ospiti: Agosto Marín. Lo chiamano "il lattinaro". A quanto pare se ne va in giro attorno al Mid-Manhattan tutto il giorno col suo carrello, a tirar fuori lattine dai raccoglitori e dai cestini dei rifiuti. Poi le rivende per farsi di crack. Pare che tutto quello che si può trovare a suo nome è qualche centinaio di lattine... non c'è bisogno di mandato per controllare. «Al momento, "il lattinaro" è lucido. E giura che Pops era con lui nel tunnel, da poco dopo mezzanotte fino a quando sono riemersi tutti e due, mercoledì mattina. Sa che si trattava di quella notte perché quando sono saliti, all'alba, nevicava. E mercoledì mattina nevicava davvero, vi ricordate?» «Che diavolo abbiamo in mano, qui, eh?», chiese Mercer a nessuno in particolare. «Abbiamo un sospetto zuppo di sangue che non ci dice chi è. Opportunità? Altroché. Abita illegalmente nell'ospedale. Movente? Dipende da quale decidiamo che sia», rispose Mike. «Se si è trattato di una violenza sessuale fallita, solo a guardarlo direi che fa fatica anche a farselo rizzare.»
«Aspetta un momento», lo interruppi: «Stai dicendo che ti basta guardare per sapere se a uno gli si rizza o no? Ho delle amiche che pagherebbero profumatamente per i suoi servigi, signor Chapman. Ma rimandiamo quest'argomento a un'altra volta. Potrebbe essersi trattato di un tentativo abortito di stupro o di rapina. Non sappiamo ancora se dall'ufficio della vittima manca qualcosa». Mike proseguì: «Abbiamo due persone che hanno visto Pops al sesto piano o nelle vicinanze, nel lasso di tempo in cui è probabilmente avvenuto il delitto. E abbiamo uno scoppiato raccoglitore di lattine che gli fornisce l'alibi. Non abbiamo nessuna arma. Niente DNA. Improbabile trovare impronte, secondo quelli della Scientifica... e poi, basta guardarsi attorno, in quell'ospedale, e trovi guanti da chirurgo ovunque». «Non cavo un ragno dal buco, con quello lì, stasera. Lasciamo perdere e ricominciamo domani», disse Mercer. L'eccitazione all'idea di risolvere il caso di quel brutale assassinio risaliva ormai a parecchie ore prima, e adesso eravamo sul punto di crollare per l'effetto combinato della spossatezza e dello stallo in cui l'indagine si era arenata. Gli agenti firmavano il registro per uscire e salutavano, accompagnando a casa i diversi testimoni, medici e no. Mettemmo via carte e taccuini, preparando il programma per l'indomani. Mercer si offrì di dare un passaggio a Sarah e Mike disse che mi avrebbe portata lui a casa. Scendemmo a pianterreno e, per evitare le telecamere appostate sul marciapiede di fronte, il comandante della stazione ci guidò alla porta sul retro e lungo un vicolo che sbucava in Lexington Avenue. Lì ci separammo, salutammo Mercer e Sarah, e Mike mi portò alla sua macchina. «Che ti dice l'istinto, Mike, di questa storia?» «Per il momento sono confuso. Quel tizio non mi piace e il sangue lo piazza in cima alla lista. Poi lo guardo e mi vien da pensare: magari c'è un secondo uomo, un complice. Questo spiegherebbe perché Gemma non ha avuto nessuna possibilità di difendersi.» «Già. Forse a questo punto siamo solo stanchi. Domani avremo le idee più chiare.» «Ho telefonato a mia madre. Per amor tuo: così sai che non ti sei perduta niente, voglio dire. Ha detto che la domanda di "Ultimo Azzardo" di stasera era sulla fisica: una cosa sulla teoria quantistica.» «Lascia perdere. Confesso la mia ignoranza. Sarebbe la mia solita fortuna riuscire a partecipare al programma e perdere perché la domanda finale
è sul calcolo infinitesimale o sul Nuovo Testamento o uno di quegli argomenti su cui non scommetterei un centesimo e la fisica è tra quelli.» «Anche per me.» Mike percorse la 3a Avenue verso l'isolato in cui si trovava casa mia, ignorando la fila di semafori rossi e compiendo il tragitto in meno di dieci minuti. «Era proprio una bellezza, vero? Una di gran classe...» Guardai Mike perplessa: «Gemma Dogen?». «No, scusa. Pensavo a Grace Kelly, nel film di stasera. Era favolosa, lì, con Cary Grant. Ma ricordo il momento in cui mi sono innamorato di lei, quando l'ho vista ne Il delitto perfetto. Semplice e naturale, con indosso quegli abiti trasandati, e la pellicola in bianco e nero tutta sgranata.» «Gran film.» Avevamo tutt'e due un debole per i classici del cinema. «Credo che fosse ancora più bella quando non era tutta in ghingheri, come nella scena finale di Delitto perfetto. L'hanno tenuta dentro per l'assassinio, poi decidono di verificare la sua storia e la lasciano tornare a casa. Ti ricordi? Dio, sembrava così vulnerabile, non si poteva non innamorarsene.» «Non mi ero mai accorta che ti piacessero le donne vulnerabili, Mike», dissi, con l'intenzione di scherzare. Lui infilò la rampa d'accesso al mio palazzo e aspettò che uno dei custodi mi aprisse la portiera: «Non tutti ce la fanno a gestire i tipi autosufficienti come te, Blondie. È bello sentirsi necessario, di tanto in tanto». Grazie tante, Chapman, pensai tra me e me entrando, mentre la macchina faceva retromarcia. Che cosa dovevo fare perché il mondo vedesse quanto mi sentivo vulnerabile? Svuotai la cassetta della posta dalla solita massa indistinta di carta e presi il lento ascensore per salire nell'appartamento vuoto. Non mi diedi la pena di appendere il giaccone all'attaccapanni: mi limitai a buttarlo sul divano in soggiorno. La tasca della giacca era sformata dal peso degli spiccioli per la macchinetta delle bevande; tirai fuori le monete e le allineai sulla toilette prima di appendere l'abito nell'armadio. Mi ero dimenticata di restituire a Mercer le chiavi dell'appartamento di Gemma, per cui posai il portachiavi col souvenir del Tower Bridge accanto al volume di Trollope, sul comodino. Per quella notte, nessuno ne avrebbe avuto bisogno. Se non altro, il giorno dopo, a quella stessa ora, mi sarei consolata con la compagnia di un cane da caccia tedesco dal naso freddo.
Capitolo 13 Il venerdì mattina mi alzai alle sette meno un quarto. Ero appena uscita dalla doccia quando mi chiamò Chapman: «Spegni la radio e accendi la televisione. Non ho ancora visto "America Oggi", ma nel notiziario locale Jim Ryan sta già dando tutta la storia. Ha delle fonti eccezionali. Dice che abbiamo fermato uno psicopatico sporco di sangue per il caso di assassinio alla clinica universitaria». Accesi l'apparecchio col telecomando, ma Ryan era già passato alla notizia della sparatoria alla stazione IRT della metropolitana nel Bronx. «Accidenti. L'ho perso.» «Se pensavi di passare dalla stazione di polizia prima di andare in ufficio, stamattina, ti do un passaggio io, ti va?» «Ottimo. Sarò pronta tra venti minuti. Mi trovi all'angolo, davanti a Bernstein.» Finii di asciugarmi i capelli e cercai di ravvivare il colorito con un po' di cipria e un tocco di rosso alle guance. Ero stufa degli abiti di lana invernali dai colori smorti che avevo portato per tutta quella orrenda settimana e decisi di rallegrare il mio aspetto e, magari, anche l'umore. Passai in rassegna il guardaroba alla ricerca del mio amato tailleur Escada: rosso scarlatto con un ricamo nero intorno al bavero e all'orlo della gonna. Nella pasticceria di Bernstein, il proprietario mi salutò calorosamente. Ordinai due dozzine di ciambelle e tanti di quei cannoli e tazze di caffè, da guadagnarmi un'accoglienza moderatamente calorosa in sala agenti. Quando riemersi col mio piccolo carico, la macchina di Mike era lì, accanto al marciapiede. Mordicchiando un dolcetto al caffè e guidando con una mano sola, si diresse a sud, verso il 17° distretto. Presi dal sedile il «Post» e trovai in prima il rinvio all'articolo di Mickey Diamond a pagina tre: «Dottoressa muore per difendersi da un violentatore: interrogato un sospetto». Non c'era nessun cronista davanti all'edificio, quando Mike e io entrammo, passando davanti al sergente di servizio all'ingresso e ai poliziotti in uniforme nella sala riunioni, pronti per il turno di pattuglia a piedi, dalle otto alle quattro del pomeriggio. Il tenente Peterson era già alla scrivania che da mercoledì mattina era divenuta il suo centro di comando. Abitava fuori città, a oltre settanta chilometri di distanza, ma aveva passato la notte - o, meglio, le tre ore di sonno che si era concesso - su una branda, nell'ufficio della Omicidi giù in città.
«Buongiorno, Alexandra. 'Giorno, Mike. Abbiamo fatto qualche passo avanti, da ieri sera. Ad Albany hanno fatto centro con le impronte digitali e così abbiamo l'identità di Pops.» Peterson consegnò a Mike la stampata della scheda fornita dal sistema di identificazione dello stato di New York e Chapman lo lesse ad alta voce: «Austin Charles Bailey. Data di nascita: 12 ottobre 1934. Il che significa sessantatré anni. Da qui risulta che ha alle spalle una ventina di precedenti penali. Furto, rapina, detenzione di refurtiva, ancora furto». Sfogliò rapidamente le pagine, scorrendole con gli occhi più rapidamente di quanto la parola potesse fare. «L'ultimo è di dodici anni fa. Omicidio. Ed è stato assolto per infermità mentale.» Peterson aveva già controllato il resto: «Già, ricoverato nel manicomio criminale statale della contea di Rockland. L'unico problema è che è fuggito da lì due anni e mezzo fa e nessuno se ne è curato». «Chi aveva ammazzato?» «La sua vecchia. Ha passato quasi tutta la vita dentro e fuori le case di cura per malati mentali. Tutti e due bevevano. Lei l'ha colpito con una bottiglia di whisky da mezzo litro... rotta. Il che spiega le cicatrici che Pops ha sulle guance e lungo il collo. Lui si è infuriato e...» Chapman intervenne: «Fammi indovinare. L'ha accoltellata con... cosa? Un coltello da cucina?». «Un coltello seghettato di quelli per tagliare le bistecche.» «Non una volta o due, vero, tenente?» «Circa ventidue ferite. Per non parlare di qualche taglio extra in faccia, tanto per non sbagliare.» «Tipico delitto domestico.» Rientrava perfettamente nello schema della maggior parte degli omicidi in famiglia. Non soltanto le ferite letali, ma anche la ferocia con cui, per sovrappiù, la vittima viene sfigurata, trattamento di solito riservato a una persona che l'assassino conosce tanto bene da odiarla. Molti violenti non sono affatto tali fuori di casa, nei confronti degli estranei: riservano il veleno del proprio animo alle persone più prossime, mentre al resto del mondo presentano un volto diverso. Ma in altri casi la prima uccisione rompe gli argini, e il ventaglio delle vittime della loro furia si allarga. «Ti fa ancora pena il povero vecchietto, Coop?» Ma io stavo già cambiando marcia, mentalmente ed emotivamente. Il
problema non era più scoprire chi avesse ucciso Gemma Dogen. Adesso dovevo pensare in termini giuridici, per costruire un percorso logico e circostanziato che rendesse la causa indiziaria compatta e salda, in modo da reggere alle contestazioni procedurali in sede processuale. «Parla, stamattina?» «Non l'ho ancora affidato a nessuno. Finora è Mercer quello che ha stabilito il rapporto migliore con lui. Appena arriva, glielo mando.» «Mike, perché non gli porti la colazione e vedi se riesci a fare amicizia, fintanto che aspettiamo Mercer?» Mentre Mike prendeva dai sacchetti della spesa le paste e il caffè che avevo portato per gli agenti in sala, il mio cercapersone squillò. Sganciai dalla cintura l'apparecchietto nero e controllai che numero era comparso sul display. «Schaeffer», dissi. Chapman si fermò sulla porta ad aspettare che io richiamassi Bill Schaeffer, il sierologo che dirigeva il laboratorio dell'ufficio Medicina Legale. Mi rispose lui stesso: «Non ho voluto disturbarti di notte, ma ho pensato che avresti voluto saperlo al più presto. Quello sui pantaloni che mi hai mandato ieri sera è sangue umano. Di certo lo sapevate già, ma ho pensato che voleste la conferma». I pezzi cominciavano ad andare a posto. Ringraziai il dottor Schaeffer e intanto feci un cenno con la testa a Chapman, formando sulle labbra la parola «sangue» e sollevando il pollice. «Che altro mi dici?» «Avrò gli esiti preliminari del DNA domani o dopo. Ci stiamo lavorando. Mi puoi fornire anche un campione del sangue del sospettato? Caso mai si fosse tagliato e ce ne fosse sugli indumenti della vittima.» «Ottimo. L'avrai. Sarah può ottenere un'ordinanza dal tribunale per avere un campione di sangue dell'imputato stamattina stessa. Vuoi mandare qui qualcuno a fare il prelievo? E grazie della telefonata, Bill. Ci risentiamo durante il fine settimana.» Applicare il gel ed eseguire i test per avere gli esiti sul DNA, l'impronta genetica in grado di determinare praticamente senza ombra di dubbio l'origine del sangue trovato sui pantaloni di Pops, era un procedimento che poteva richiedere dai due ai tre mesi. Una tecnica introdotta di recente, nota come verifica PCR del DNA, avrebbe consentito a Schaeffer di avere in sole quarantott'ore risultati provvisori, che avrebbero poi avuto conferma
dalle analisi successive. «Non è che qui dentro ci sia granché, ma te ne ho fatto lo stesso una copia», disse Peterson consegnandomi i rapporti degli agenti, che aveva appena finito di esaminare. Ciascun rapporto conteneva la sintesi del colloquio con un dipendente o un funzionario dell'ospedale: i suoi movimenti e le sue occupazioni nelle ore precedenti e seguenti l'accoltellamento. Diedi una rapida occhiata al contenuto di quei fogli, ma il pensiero correva ad Austin Bailey. In breve si trasformò in preoccupazione, immaginando che ostico avversario sarebbe stato l'avvocato nominato dal giudice a rappresentare l'imputato. Sapevo che da quel momento in poi ogni passo che avremmo fatto sarebbe passato al vaglio severo e impietoso della corte, sia in primo grado che in appello. «Pietà, pietà», disse Wallace, entrando in sala agenti con gli occhi all'orologio, mentre Peterson gli faceva cenno di avvicinarsi. «Non avevo capito che avreste celebrato le funzioni all'alba, oggi, sennò sarei stato della partita già da ore.» «Entra. Abbiamo bisogno che ricominci a lavorarti Pops alla svelta. Dobbiamo riuscire a portarlo giù per l'incriminazione formale entro stasera o è possibile che qualche azzeccagarbugli annulli l'arresto», disse Peterson. «Voglio che tu scopra con chi abbiamo a che fare.» La magistratura di New York ha norme molto rigide sulla durata della custodia cautelare. Di recente si era affermata la tendenza a far cadere tutte le accuse, quando polizia e pubblici ministeri tiravano in lungo prima di portare il sospetto colpevole in tribunale. Peterson informò Wallace sulla fedina penale e sul passato di Bailey. «Mi sa che non farà altro che tornare nella sua celletta imbottita in manicomio. Vediamo un po' che mi dice, stamattina.» Wallace prese due tazze di caffè e su ciascuna poggiò in bilico una ciambella. Andò alla porta ancora aperta della gabbia e salutò Austin Bailey, disteso sulla panca di legno. Il detenuto - tutti ritenevamo che nel corso della notte il suo status di «ospite» fosse stato derubricato a custodia cautelare - si mise a sedere e sembrò sorridere parlando con Mercer. Dopo avergli dato la colazione, l'agente investigativo riportò Pops nella stanza degli interrogatori in fondo al corridoio. Wallace riapparve brevemente nell'ufficio di Peterson per prendere un taccuino e suggerirci di seguire una parte della conversazione attraverso lo specchio. «Non vorrai perderti lo spettacolo, bimba», disse. Poi mi fece cenno con la testa. «Pensa a Eddie Floyd, Coop», insistette, sorridendo e
fischiettando il motivetto dell'unico grande successo del cantante di rhythm and blues, Knock on Wood. E si voltò per tornare di là a parlare con Bailey. «Qualcuno lo ha mirandizzato, ieri sera?», domandai, riferendomi alla sentenza della Corte Suprema nel caso Miranda, entrata ormai nel lessico giudiziario sotto forma di verbo, di sostantivo e di sentenza storica. Essa impone che l'indiziato di reato, prima di essere tratto in arresto, venga informato di tutti i diritti che lo tutelano. «Non ti preoccupare, è da lì che comincio, adesso. Gli leggerò i suoi diritti, ma non credo che servirà a molto. Non sono sicuro che parliamo sulla stessa lunghezza d'onda.» Mercer si voltò di nuovo per andare a cominciare la sua seduta con Pops. Io passai nella stanza accanto a guardare attraverso il vetro. I due erano seduti al tavolo in formica che arredava il locale spoglio. Mercer, ben rasato e ben vestito, stava seduto eretto a parlare con Bailey, che mordicchiava il dolciume e sorseggiava il caffè. Il vecchio era chino sul tavolo, i pochi denti affondavano nella pasta soffice e, invece di portarsi alla bocca la tazza di carta, si chinava a sorbire rumorosamente il caffè. L'ispettore Wallace, alla ricerca di un appiglio per riuscire a impegnare in una conversazione coerente quell'essere distrutto, scaldava il suo soggetto raccontandogli di sé e del padre. Uscii nel corridoio, rimproverando me stessa per la pietà che continuavo a provare nel guardare Pops, mescolata al risentimento per l'assassinio di Gemma Dogen. Chapman mi venne incontro e insieme ritornammo nella stanza con il vetro a specchio. Mercer aveva buttato via le tazze di carta e fissava Austin Bailey di là del tavolo. Gli stava spiegando che aveva il diritto di non parlare, usando un linguaggio e delle parafrasi che anche un bambino delle elementari avrebbe capito. Mi chiesi se, come me, anche Mike stesse pensando alla futilità di queste domande. Un assassino con quel tipo di passato psichiatrico alle spalle avrebbe avuto bisogno di un uditorio competente, e io già mi vedevo controinterrogare gli esperti che avrebbero dichiarato Austin Bailey non in grado di affrontare il processo. Mentre noi guardavamo Mercer che cercava di catturare l'attenzione di Pops, questi allungò la mano verso il vecchio telefono nero a disco che si trovava all'estremità del tavolo. Senza minimamente badare a Mercer, sollevò la cornetta e compose un numero.
«Ciao, mamma. Sìì. Charlie è tornato...» Con dolcezza, Mercer tolse di mano la cornetta a Pops e riagganciò. «Avrei preferito che l'avesse lasciato parlare», dissi sottovoce a Chapman: «Adesso dichiarerà che non gli è stato consentito di fare la telefonata a cui aveva diritto». «Coop, ma lo sai che telefono è quello? È un fottutissimo interfono. Con quello non puoi telefonare all'esterno... è collegato solo con gli interni della stazione di polizia. Pops non sta parlando con la madre, Cristo santo: sta parlando con Harvey il coniglio, sai, quello di James Stewart. Non so proprio perché perdiamo tempo con questa stupidaggine. Portiamolo davanti a un giudice e andiamo avanti», disse Mike uscendo da quella stanza soffocante. Lo seguii nell'ufficio di Peterson. Stavamo cercando di capire come procedere, quando arrivò Wallace. «Dice che vuol parlare con te, Cooper. Vedi un po' di che si tratta. Non starei a disturbare i ragazzi della squadra Video. O è una commedia degna del circo dei Ringling Brothers o è davvero squilibrato. Penso che questa non sarà una scena da mostrare in videocassetta a una giuria.» Scrollai le spalle e tomai sui miei passi, questa volta entrando con Mercer nella stanza degli interrogatori. Quando chiusi la porta, Pops alzò gli occhi verso di me e sorrise. «Spietato e sdentato, signora», disse a mo' di presentazione: «Ecco che cosa dicono sempre di me i medici». Wallace gli disse chi ero e perché ero lì, mentre io mettevo una sedia accanto a quella di Mercer. «Desidero parlare con lei di certe cose avvenute all'ospedale, signor Bailey. Mi capisce?» «Mi dispiace per l'ospedale, signora. Scusate. Scusate, scusate, scusate.» Quanto doveva essere stato spaventoso, per Gemma Dogen, lottare contro un pazzo con cui non si poteva ragionare per cercare di salvarsi la vita. «Ecco di che cosa vorrei parlarle. Vorrei che lei mi dicesse di che cosa è tanto spiacente, in modo da riferirlo al giudice.» Se avesse fatto dichiarazioni utili per il processo, sarebbe stato necessario dimostrare al giudice, e quindi alla giuria, che Bailey era stato informato dei suoi diritti in modo a lui comprensibile. «L'ispettore Wallace le ha detto che lei non è obbligato a parlare con me, signor Bailey?» «Ma sono io che voglio parlare con lei, signora. Non parlo con una bella
ragazza da quando è morta mia moglie.» «Vede, lei non è tenuto a rispondere...» «Ha parlato al coltello, vero? Quella dottoressa ha parlato al coltello.» Un brivido mi attraversò come un lampo. Era di Gemma che stava parlando? «Che cosa intende dire?» «Non parlava a me. Non parlava a nessuno. Parlava proprio al coltello.» Ora dovevo riportarlo a una conversazione che avesse un minimo di logica. Dovevo completare in qualche modo l'avvertimento Miranda, ma non dovevo perdere per strada la sua disponibilità a parlare dell'uccisione. D'improvviso Pops mutò espressione. Serrò la bocca e premette le mani sulle orecchie come per proteggersi da un rumore assordante. Mi protesi verso di lui, mentre Mercer gli prendeva un braccio e glielo allontanava dalla testa. Pops si dondolava avanti e indietro sulla sedia, piagnucolando che gli dessimo dei fazzolettini di carta. Mercer mi fece segno con la testa e io corsi di là a prenderli dalla borsa. Tornai con una manciata di fazzolettini e li misi davanti all'arrestato, che sorrise e cominciò a strapparli a pezzettini, appallottolarli e infilarseli nelle orecchie. Nel compiere questa operazione, non smetteva di dondolarsi, con le striscioline di carta che gli pendevano lungo i lobi: «È Charlie che mi parla. Vedi?», disse rivolto a Mercer. «Te l'ho detto chi è che mi dice che cosa fare. Non mi si può incolpare di niente, perché tutto quello che ho fatto è quello che mi fa fare Charlie.» «Di' alla signora chi è Charlie, Pops.» «È mio fratello, signora. È nato lo stesso giorno in cui sono nato io, solo che non è mai uscito dall'ospedale. Lo hanno tenuto lì tutti questi anni, ma lui parla sempre alla mamma e a me. Ogni giorno. Mi dice che cosa devo fare.» Guardai Mercer in cerca di uno sfogo alla mia rabbia. Tenevo il gomito sul tavolo, il mento sulla mano, alla ricerca spasmodica di un piano per andare avanti. Stava simulando? Poteva riuscirci così bene? Oppure io non facevo che perdere tempo, a parlare con una persona che non avrebbe mai dato risposte sensate e che in tribunale non sarebbe stata dichiarata capace di intendere e di volere? «Perché non mi dice che cosa Charlie avrebbe voluto che lei facesse alla dottoressa? Perché non mi parla un po' di questo? Charlie mi ha detto di chiederglielo.»
Quando nominai Charlie, Pops mi sorrise di nuovo: «Già, ma adesso non posso sentirlo. Tutto quello che posso dirle è che mi dispiace che oggi la dottoressa non si senta bene». Per altri venti minuti rimanemmo lì tutti e tre parlando a vuoto. Non riuscimmo a smuovere Bailey dalle sue insensate divagazioni e quando lui si fu stancato di noi, incrociò le braccia sul tavolo e vi appoggiò la testa. Wallace si alzò e mi fece uscire dalla stanza. Chapman e Peterson, che avevano assistito attraverso lo specchio, vedendoci uscire rientrarono nell'ufficio del tenente. Ero frustrata e contrariata e sicura che niente di quel che diceva Bailey ci sarebbe stato di qualche aiuto per istruire la causa contro di lui. «Non si va da nessuna parte.» «Non è certo una scena da immortalare su nastro, questo è sicuro.» Mercer si tolse la giacca, si tirò su le maniche e annunciò che sarebbe tornato di là a tenere viva la conversazione finché io non avessi preso una decisione sulla iscrizione di Pops nel registro degli indagati e non avessi ufficializzato l'arresto. «Sarà meglio che faccia qualche telefonata alla procura. Sentiamo come Battaglia vuole che vada avanti. Accertiamoci che le Pubbliche Relazioni siano pronte a sostenere l'assalto della stampa. Ho bisogno del telefono per una mezz'ora.» Il tenente si alzò dalla scrivania: «Usa questo. Io sono di là in sala agenti». «Sei pronta a un'altra scocciatura, Alexandra?» «Spara.» «Ha telefonato l'ufficio Imputati di Reati Capitali, lo studio legale specializzato in casi da pena di morte. Steve Rubinstein. Ha saputo dalla televisione che hai qualcuno in custodia e vogliono rappresentarlo loro. Vogliono mandare qualcuno qui a parlare con lui, interrompere il tuo interrogatorio.» «Digli di chiamare suo fratello Charlie», disse Chapman. Lo stato di New York aveva ripristinato la pena di morte nel 1996 e l'assassinio premeditato di una donna nel corso di un tentativo di stupro faceva del condannato un candidato ideale per il cocktail letale. Battaglia si era opposto alla riforma legislativa in questo senso e io ero certa che per lui sarebbe stato un sollievo che Pops non corresse un simile rischio a causa delle sue condizioni psichiche. Presi dalle dita di Peterson il foglietto di carta con il numero di Rubin-
stein e aggiunsi anche il suo nome alla lista di telefonate da fare. Mi sedetti alla scrivania e composi il numero di Battaglia. Rose mi disse che il procuratore distrettuale era in macchina, diretto alla Commissione Penale Civica a tenere un discorso. Trasferì la chiamata sul cellulare. «Bel lavoro, Alex. Le mie congratulazioni a Peterson.» «Ho bisogno di un consiglio, Paul. Per il momento tutto ciò che abbiamo è indiziario. Di confessioni, neanche parlarne. Niente di quel che dice ha il minimo senso. «Ci vorrà ancora un giorno o due prima di avere i risultati delle analisi ematiche sul DNA. Spero che per allora avremo una prova solida, tipo qualcosa che lui ha preso dall'ufficio della Dogen o magari addirittura l'arma. Cioè: stanno frugando in tutti i raccoglitori di immondizia e in tutti i vicoli attorno all'ospedale. Non me la sento di presentarmi davanti al giudice a chiedere di confermare l'arresto di quel tizio con ciò che abbiamo in mano finora», dissi, fornendo a Battaglia qualche indicazione sul passato di Bailey per completare la mia esposizione. «Non è mai stato dimesso dal manicomio di stato di Rockland?», chiese Battaglia. Rockland era uno degli istituti psichiatrici del sistema penitenziario dello stato di New York. «No. È scappato.» «Proviamo un'altra strada, Alex. Salta arresto e incriminazione formale fintanto che non hai in mano tutte le prove di cui hai bisogno. Consegnalo all'ala psichiatrica di Bellevue e pretendi da Rockland la richiesta di un'udienza per evasione. In questo modo l'indiziato viene tenuto in custodia presso la sezione carceraria dell'ospedale, il che ti concede un po' di tempo per raccapezzarti nel caso. Non lo metteremo sotto chiave per l'assassinio della Dogen fintanto che non mi dirai di essere pronta.» «Tu mi sostieni, capo?», domandai ben sapendo che il mio persecutore, il vicecapo della divisione Processi Pat McKinney, avrebbe avuto da ridire su qualsiasi decisione io avessi preso. «Nel modo più assoluto. Non è il caso di rischiare il collo prima di avere gli esami di cui hai bisogno. Fregatene dell'ufficio Reati Capitali. Lui non ha ancora chiesto un avvocato e noi non lo abbiamo accusato di omicidio. Con i media me la sbrigo io.» Riattaccai e chiamai il Mid-Manhattan. Maureen Forester era stata ricoverata in mattinata. La centralinista mi fornì il numero diretto, poi mi mise in comunicazione con la sua stanza. «Come ti senti?»
«Per il momento, benissimo. Tanto più che ho sentito che avete preso il vostro uomo. E grazie della vestaglia.» «Be', ho saputo che in fondo al tuo corridoio c'è un solarium dove vanno e vengono tutti i pazienti dell'ambulatorio. Ho pensato che se fossi stata la ragazza meglio vestita della compagnia, avresti potuti attirare qualcuno e sentire un po' di pettegolezzi.» «Ne deduco che sei ancora dell'idea di farmi restare qui per un paio di giorni, vero?» «Già. Non sappiamo ancora che cosa abbiamo in mano. Mike pensa che Pops potesse avere un complice, quando ha aggredito la Dogen. Qualcuno dei suoi amichetti potrebbe aver visto o sentito qualcosa dopo il delitto. Vogliamo giocare sul sicuro, se non ti dispiace.» «Dispiacermi? È un piacere. Alle undici e mezza ho la prima visita. Verranno degli interni a farsi descrivere i sintomi che ho.» «Ti esibisci in una recita?» «Niente esibizioni, grazie. Per il momento soltanto un racconto.» «Bene, più tardi verrà Sarah a trovarti. Mi terrò in contatto. Mercer e Mike ti mandano tanti saluti. Ciao.» Feci qualche altra telefonata, poi aprii la porta dell'ufficio di Peterson per vedere che cosa succedeva in sala agenti. Quasi tutti erano tornati in ospedale alla ricerca di prove e testimonianze. Wallace era ancora nella stanza con Bailey, ma non faceva progressi. Il tenente stava esaminando i rapporti di due suoi uomini: «Battaglia ha avuto una splendida idea: non dobbiamo precipitarci a incriminare formalmente Bailey». Gli spiegai il piano di sistemare Pops in un reparto psichiatrico sotto custodia per i suoi precedenti ed evitare una incriminazione prematura sulla base degli indizi attuali, fintanto che non avessimo analizzato i dati in nostro possesso. Quindi chiesi a Peterson di riferirlo a Chapman, a Wallace e al resto della squadra. «Qui mi sento abbastanza inutile, tenente. Ha più senso che io vada in ufficio a lavorare un po', non crede? Se ha bisogno di me per qualsiasi cosa, mi telefoni e io torno subito.» Raccolsi le mie carte e me ne andai dal distretto, anche questa volta dal retro. In Lexington Avenue presi un taxi e, mentre il tassista si districava nel traffico intenso del venerdì a mezzogiorno, continuai a leggere i rapporti di polizia. Arrivai in ufficio quando quasi tutti gli altri sostituti erano in pausa per il pranzo. Laura mi consegnò i messaggi, offrendosi di portarmi qualche cosa da mangiare al ritorno da un giro di commissioni che
doveva fare. Chiesi un'insalata di tonno e una Diet Coke e cominciai a richiamare chi mi aveva cercato e a controllare i legali presenti in ufficio. Il pomeriggio non finiva mai. Nemmeno una parola dalla Omicidi e Sarah era all'ospedale a tener compagnia a Maureen. Come ogni venerdì dopo pranzo, si interruppe di colpo anche la teoria delle denunce di nuovi casi. E, per quei miei colleghi che non erano impegnati in dibattimento, era il momento di squagliarsela. Se non ero io a cercar loro, non sarebbero stati certamente loro a cercare me. Erano ormai le quattro e mezza quando Laura mi disse che al telefono c'era Jordan Goodrich, il mio migliore amico fin dai primi giorni alla facoltà di legge. «Mi ha appena chiamato Susan. Sa bene che sei nel pieno di un caso importantissimo, ma si chiede se non ti andrebbe di venire a cena da noi, una cosa in famiglia, coi bambini.» «Grazie, ma non credo proprio. Sono sotto pressione. Ho intenzione di starmene in casa. Io e la mia cucina dietetica.» «Che ne diresti di un aperitivo, prima?» «Volentieri.» Da quando ci eravamo laureati, dieci anni prima, Jordan e io avevamo mantenuto la tradizione di vederci il venerdì, una settimana sì e una no, per tenerci reciprocamente informati della nostra vita. Di origini modeste, proveniente da una cittadina della Georgia, Jordan si era fatto strada surclassando gran parte dei suoi colleghi di università, conquistandosi un buon posto nella «Law Review», una delle maggiori riviste giuridiche del paese, e una brillante carriera. A Charlottesville lui e Susan erano stati i miei migliori amici e c'erano poche occasioni importanti della mia vita che io non avessi condiviso o celebrato con loro. Prima di lasciare l'ufficio per incontrare Jordan al nostro ritrovo abituale, il bar Bemelmans al Carlyle Hotel, feci un'ultima telefonata di controllo a Peterson, il quale mi disse che entro un paio d'ore Wallace e Ramirez avrebbero portato Austin Bailey al reparto psichiatrico del carcere di Bellevue, e che Chapman e il resto della squadra erano ancora al lavoro in ospedale. Il capo McGraw avrebbe annunciato alla stampa che nel caso Dogen c'era stata una svolta ma ancora nessun arresto. In questo modo si sarebbe potuto far uscire Pops dalla stazione di polizia dopo che le troupe televisive se ne fossero andate. Gli dissi che avrei tenuto il cercapersone acceso fino a casa, e poi sarei rimasta lì tutta la sera. Jordan mi aspettava al Carlyle in un séparé sotto gli spiritosi murales
degli animali che pattinano in Central Park. Quando arrivai, il pianista era nel bel mezzo di un medley di brani di Bachrach e, mentre mi avvicinavo al tavolino, si stava esibendo in un elaborato arrangiamento di I'll Never Fall in Love Again. «La tempestività è tutto», risi, commentando la scelta musicale. George, il cameriere che ci serviva ogni venerdì fin da quando avevamo cominciato a incontrarci lì, apparve col mio whisky ancora prima che io avessi finito di sbottonare il giaccone. Diedi un bacio sulla guancia a Jordan, che era circa a metà del suo martini, e mi accomodai sul divanetto di cuoio accanto a lui. Non avevo neanche finito le consuete domande su Susan e i bambini quando squillò il cercapersone. Guardai il numero sul display e vidi che si trattava di nuovo di Bill Schaeffer, dal laboratorio. «Benissimo. Lo richiamo subito. Può darsi che riesca a cenare con voi. Questo mi ridà fiato: sono le analisi del sangue che stavo aspettando.» Per raggiungere il telefono dovetti attraversare tutto l'atrio dell'albergo, aggirando tavolini carichi di bicchieri e patatine fritte fatte in casa, ai quali stavano seduti i clienti ben vestiti delle gallerie d'arte e dei negozi antiquari dei dintorni. Infilai una moneta e feci il numero di Schaeffer: «Bill, sono Alex. Hai già qualche cosa per me?». «Sì, ma non ti farà piacere. Non è il sangue della Dogen.» «Non è cosa?», esclamai incredula. «Deve essere il sangue della Dogen.» «Be', non lo è. So che ti hanno detto che Bailey non ha ferite, ma qui c'è solo il suo gruppo sanguigno. Non ho ancora i referti sul DNA, ma sono certo che salterà fuori che si tratta di sangue suo. Non credo che l'uomo che state trattenendo sia l'assassino.» Calma, mi dissi, cercando di assorbire il colpo. Composi il numero del 17° distretto e diedi la notizia a Peterson: «Tomo subito lì. Chieda immediatamente l'intervento del medico legale. Voglio che Austin Bailey sia esaminato in mia presenza, adesso. Abbiamo perso ventiquattr'ore su una falsa pista. Dica a McGraw di lasciar trapelare che non abbiamo nessun sospettato, tanto per cambiare. E prima di ogni altra cosa bisogna informare Maureen di quello che succede. Ci può essere ancora qualcuno che se ne va in giro liberamente, in quell'ospedale». Jordan aveva ordinato altri due bicchieri per congratularsi della buona notizia che ero convinta di ricevere. «Tienili da parte per un'altra volta»,
buttai lì, afferrando le mie cose: «Mi dispiace piantarti in asso, ma sono appena stata presa in contropiede da un assassino». Lo lasciai a bocca aperta, con una serie di bicchieri sul tavolo e il conto da pagare. Sentivo la testa pulsare. Capitolo 14 Erano quasi le sette di venerdì sera quando salii le scale della stazione di polizia. L'eccitazione che aveva animato i membri della task force quella mattina era svanita. Si avvertiva nell'aria la delusione. Dietro la scrivania accanto alla finestra, Jerry McCabe stava parlando al telefono. Mise la mano sul microfono e mi chiamò: «Sono nella stanza in fondo con Bailey, Alex. Vai direttamente lì». Lasciai giaccone e libri nell'ufficio di Peterson e raggiunsi la stanza degli armadietti. Il tenente e Wallace erano in piedi di spalle a me, due uomini stavano appoggiati al muro e Pops era seduto sul tavolo, spogliato di tutto tranne che di un paio di luridi boxer verdi. Un medico del servizio di emergenza gli stava inginocchiato di fronte per esaminare la gamba sinistra, dalla coscia al polpaccio, fino alla pianta del piede. «Neanche un graffio», annunciò il dottore, alzandosi e allontanandosi dal tavolo. Peterson me lo presentò. Juan Guerra aveva visitato Austin Bailey da capo a piedi. Il fermato era ancora seduto sul tavolo, il mento appoggiato al petto nudo, e borbottava tra sé, mentre la piccola banda di poliziotti imbronciati lo guardava come un esemplare allo zoo. «Mercer, hai una copia di quelle istantanee dei pantaloni di Pops con le macchie di sangue?», domandai. Mentre Wallace toglieva dalla tasca della giacca un fascio di foto, Bailey alzò lo sguardo su di me e sorrise: «L'ho detto che è vernice, signora». Passai le foto a Guerra, indicandogli le ampie macchie sulla parte inferiore della gamba sinistra dei pantaloni e spiegandogli che c'era una notevole quantità di sangue anche sulla destra e nelle scarpe. Il dottore annuì e disse solo una parola: «Varici». Un coro di «Che?» echeggiò nella stanza. «Io sono lì lì per premere l'interruttore della sedia elettrica a causa di quel bagno di sangue e lei viene a dirmi che questo qui ha le vene varicose?», domandò Wallace.
«Se ne vedono in continuazione, soprattutto tra questi senzatetto che non hanno assistenza medica regolare.» Guerra tornò a inginocchiarsi davanti a Bailey e gli chiese pacatamente di allungare tutt'e due le gambe. Sollevò i piedi del vecchio uno alla volta e passò la mano sulla pelle, descrivendo un'area circolare attorno all'osso sporgente all'interno di ciascuna caviglia: «Ha sicuramente le vene varicose. E quando scoppiano può anche morire dissanguato, se non si chiude la ferita». Pops ci osservava parlare di lui, grattandosi lo stomaco con una mano e tamburellando nervosamente sul tavolo con l'altra. Mi chinai a guardare le caviglie di Bailey insieme col medico. «So che mia nonna le aveva, Juan», disse Peterson, «ma che cosa diavolo sono, le vene varicose?» «Ci stia attento, tenente», disse il giovane medico di guardia, «di solito sono ereditarie. Le vene dilatate o contorte, il più delle volte nelle gambe e nelle cosce, si indeboliscono. Le valvole nella vena che fermo circolare il sangue fino al cuore non riescono a fare il loro lavoro. Può trattarsi di ferite provocate da abuso di droghe o anche solo...» Wallace indicò le cicatrici di vecchie punture d'ago ravvicinate che costellavano braccia e cosce di Bailey: «Accidenti, ha più binari addosso lui che una ferrovia». «Ma non ci sono segni recenti, che io veda. Neppure un graffio, né una cicatrice, né una macchia, tranne quelle vecchie zone ormai asciutte», osservai. Guerra proseguì: «Signorina Cooper, ne ho visti buttar fuori sangue come pozzi petroliferi. Il cuore continua a pompare, la vena si squarcia e il sangue non ha via d'uscita. La settimana scorsa il mio collega e io abbiamo preso una chiamata dalla 36a. A quel vecchio il sangue aveva riempito le scarpe e ne straripava. Ho messo il dito proprio sulla vena, quella grossa accanto al malleolo, ho premuto per un minuto e il flusso si è fermato. Fossimo andati a guardare mezz'ora dopo, non ci sarebbe più stato niente da vedere. Esce da un buchetto grande come una puntura di spillo. O lo si blocca subito o il paziente muore dissanguato». «Be', perché diavolo non ce l'ha detto, che era sangue suo?», chiese Mercer, rivolto a nessuno in particolare. Mentre mi allontanavo dal tavolo, Pops mi prese la mano: «Ve l'avevo detto che era un secchio di vernice. L'ho detto che mi dispiaceva di aver fatto male alla signora». Era chiaro che Bailey parlava a vanvera, e probabilmente ignorava anche di che cosa fossero macchiati i suoi pantaloni.
«Fatelo rivestire», dissi uscendo dalla stanza. «Quando lo consegnate a Bellevue, raccomandate di fargli una visita medica completa. Può darsi che almeno lui ricavi qualche cosa di buono da questa vicenda.» La sala agenti era silenziosa. Peterson e gli altri mi seguirono, e il medico cominciò a riporre gli strumenti per andarsene. Presi la mia agenda e cercai il numero di casa di Chet Kirschner. Il medico legale stette a sentire la storia che mi aveva raccontato Juan Guerra circa lo scoppio di una vena varicosa e confermò che si trattava di una spiegazione del tutto logica per il sangue che aveva fatto di Pops Baley un sospettato tanto evidente. Riattaccando sentii che Peterson era al telefono con Bill Dietrich. Voleva subito mettere al corrente l'amministrazione dell'ospedale del fatto che l'omicidio non era stato risolto, e che personale e pazienti potevano essere ancora in pericolo. «C'è qualcuno a occuparsi di Maureen?», chiesi. «Charles è d'accordo di andare avanti col piano e passerà la sera con lei.» Il marito di Maureen si era dimesso dalla polizia per andare a dirigere la divisione Indagini di una grande impresa. «Oggi è andato tutto liscio. Gli uomini che sono entrati in camera sua per collegare il televisore in realtà erano i nostri del servizio tecnico. Hanno installato una microcamera e un registratore dietro un condotto nel soffitto, entrambi collegati al monitor di un furgone parcheggiato sul retro del Minuit Medical College. Può dormire tranquillamente, Alex: è coperta.» «Che si fa, adesso?» «Io voto per staccare, stanotte», disse Wallace. «Domattina torniamo qui ben riposati e ricominciamo dall'ospedale. Sotto e sopra il suolo. «Cominciamo a studiare più da vicino Gemma Dogen. Concentrandoci su Pops, pensavamo tutti che fosse un caso, che lui avesse colpito la prima persona nei paraggi. Ora, tutti ci dicono quanto la Dogen fosse scostante e quanto fossero forti le sue antipatie: dobbiamo tornare a pensare a qualcuno che cercasse di liberarsi proprio di lei.» «Non riesco a capacitarmi che abbiamo perso ventiquattr'ore dietro a un granchio così.» «Dov'è Chapman?», chiese Peterson guardando l'orologio, dopo una giornata di oltre dodici ore di lavoro. Mercer e io ci scambiammo un'occhiata e, per la prima volta da quando Schaeffer mi aveva chiamata sul cercapersone, abbozzai un sorriso. Mike si stava senza dubbio concedendo un quarto d'ora di pausa in qualche bar
tra lì e il Mid-Manhattan, bevendo birra e guardando Alex Trebek in «Ultimo Azzardo». «Io me la squaglio prima che ricompaia, se no resto incastrata qui tutta la sera. Sarò a casa per tutto il fine settimana, tenente. Mi chiami, se ha bisogno di qualcosa, d'accordo?» Presi il mio fascicolo e mi preparai al breve tragitto verso casa. «Sicuro. Riposati un po'. Ho la sensazione che ne avremo di alti e bassi in questa faccenda, prima di trovare la pista giusta... Serve un passaggio?» «Il sergente di servizio mi affiderà a una pattuglia. Abito appena fuori dai limiti del distretto. 'Notte, Mercer. Ci sentiamo domani mattina.» Mi accomodai sul sedile posteriore e i due giovani agenti in divisa mi lasciarono davanti a casa. Il portiere disse di avere nel retro dei pacchi per me, per cui aspettai che tornasse con un fascio di posta e di riviste e un carico di indumenti riconsegnati dalla lavanderia a secco. Appena aperta la porta, nel bel mezzo dell'ingresso, vidi Prozac spaparanzata sul tappeto ricamato. Agitò la coda tozza, poi alzò il muso e io fui felice di avere la sua compagnia per il fine settimana. La domestica di David Mitchell aveva portato Zac nel mio appartamento e aveva lasciato un biglietto accanto alla lampada sul tavolo, sotto il guinzaglio: «Le ho dato da mangiare prima di andar via, alle sei. Ha solo bisogno di uscire un'altra volta prima che lei vada a letto». Riposi la mia roba, indossai la salopette e una gigantesca camicia da uomo e mi spruzzai un po' di Calèche dietro le orecchie e sui polsi. Non avevo più usato il mio amato Hermès da quando era naufragata l'ultima storia d'amore. Entrai in cucina a studiare il contenuto del congelatore. Sui ripiani bassi c'era qualche vaschetta di gelato (gusti assortiti, comune denominatore: il cioccolato), vari piatti dietetici surgelati sopra ai dessert, e un recipiente di plastica pieno di cubetti di ghiaccio prodotti dalla macchinetta automatica. Ce n'era più che a sufficienza per una perfetta serata casalinga. Optai per una cena da 143 calorie a base di lasagne, tolsi l'involucro di cellofan e le infilai nel forno a microonde. Mentre loro partivano per il loro viaggio di sei minuti dallo stato solido alla perfetta cottura, riempii di ghiaccio un bicchiere di cristallo. "Quando cenavo sola, adoperare stoviglie di cristallo e di porcellana mi faceva sentire meglio, come se consumassi un vero pasto. Il whisky era in salotto e Zac mi seguì passo passo mentre mi preparavo il drink. Apparecchiai per una persona, con tovaglietta all'americana e to-
vagliolo coordinati, proprio davanti alla finestra che si apriva sulla spettacolare veduta del centro di Manhattan. Accesi il lettore di CD: Smokey diceva alla sua ragazza come l'aveva perduta quando il cuore gli si era messo a giocare, e io contribuii al coro in sottofondo con qualche «Uuh, baby, baby», finché il trillo del forno non mi avvertì che la cena era pronta. Il «New York Times» era troppo grande per il tavolino, i tabloid erano troppo pieni di cronaca nera per permettermi di evadere dai fatti della giornata e la Lady Eustace di Trollope era troppo complicata per farmi compagnia durante il modesto pasto: era meglio rimandarla per quando sarei andata a letto. Dal portariviste in salotto pescai il numero di marzo di «In Style», nella speranza che la moda elegante di primavera mi sollevasse lo spirito. Dopo cena, mi gingillai in salotto, facendo qualche telefonata agli amici. Non mi aspettavo di trovarne a casa molti a quell'ora del venerdì sera, per cui provai a chiamare Nina Baum, sperando che le tre ore di differenza con la West Coast la rendessero disponibile a fare due chiacchiere. La segreteria telefonica registrò il mio messaggio che chiedeva di richiamarmi durante il fine settimana. Alle dieci, quando ormai tenevo a stento gli occhi aperti, tirai fuori dall'armadio la giacca a vento e misi il guinzaglio a Zac. Mi diressi a nord e alla fine dell'isolato voltai a sinistra. Il vento era calato e l'aria della notte era molto gradevole, per cui portai la cagnetta nella 3a Avenue, attraversai la Lexington e girai in direzione del Central Park. Mi fermai alla bottega di alimentari colombiana sull'angolo della Lexington a comprare del succo d'arancia e un po' di fagioli alla cannella per la mattina. In giro non c'era nessuno, tranne qualche altro padrone di cane, un paio di persone che facevano jogging e qualcuno in pattini a rotelle. Zac e io raggiungemmo l'ultimo isolato, passammo davanti ad alcune belle case e a una scuola privata, vuote e immerse nell'oscurità. Aspettai il verde al semaforo per passare sulla 3a Avenue e scesi dal marciapiede solo quando comparve il segnale rettangolare che mi diceva che ora potevo attraversare. Dalla strada accanto mi veniva incontro un ometto avvolto in uno sciarpone di lana, con un Boston terrier che gli trotterellava al fianco. Zac tirò il guinzaglio, cercando di raggiungere il marciapiede quando io ero ancora in mezzo alla strada. «Calma, ragazza mia», dissi, cercando di tirarla indietro. Dietro di me, sulla destra, sentii uno stridio di gomme, come di una macchina che prendeva una curva molto stretta. Stavo attenta al cane, ma
mi girai da quella parte per vedere che cosa succedeva. Svoltando l'angolo a forte velocità, con due ruote che sembravano sollevarsi da terra, la macchina si dirigeva su di me a tutta velocità. Zac tirava per annusare il terrier e io mollai il guinzaglio, buttandomi contro l'ultima macchina parcheggiata all'angolo. Il padrone del terrier afferrò Zac per il collare e dal marciapiede mi gridò: «Tutto bene? Si è fatta male?». Ripresi fiato e corsi ad abbracciare Zac, inginocchiandomi accanto a lei e abbracciandola per accertarmi che non si fosse fatta male. Mi tremavano le mani. «Non si preoccupi, signorina», proseguì l'uomo, che rassomigliava in modo impressionante al miope Mister Magoo: «Il cane non ha corso nessun pericolo. Lei sì, però. Sta bene?». «Benissimo», risposi alzandomi in piedi e spolverandomi i pantaloni: «Chiunque fosse alla guida, doveva essere fuori di testa, un ubriaco o...». «Chiunque fosse, sembrava avercela proprio con lei, se vuole il mio parere. Sembrava mirare direttamente su di lei.» Diede uno strattone al cane per staccarlo da Zac, chiedendomi con un sorriso: «Vuole che chiami la polizia? Ha dei nemici?». «Troppi perfino da ricordare. Senta: ha visto la targa?» Cercai di convincermi che era ridicolo pensare che qualcuno mi prendesse di mira con quell'auto; ma allo stesso tempo mi resi conto che era più che possibile. «No. Quel dritto ha spento le luci appena ha attraversato la zona illuminata. Non ho potuto vedere niente, tranne che era una macchina grande e scura.» Lo ringraziai dell'interessamento e accarezzai il liscio pelame marrone di Zac: tenendomela vicina, sul lato opposto alla strada, ripercorsi il breve tragitto fino a casa. Salendo in camera a spogliarmi, presi con me il compito per il fine settimana e un bicchierino, nel tentativo di calmare i nervi per addormentarmi. Volevo credere che quella macchina spericolata avesse solo sbandato casualmente, eppure non potevo fare a meno di chiedermi chi era che mi voleva morta. Capitolo 15 Per la prima volta dopo giorni e giorni, attraverso la finestra della mia camera da letto filtrò un raggio di sole. L'episodio della sera prima sem-
brava un brutto sogno. Di certo la mia immaginazione aveva avuto il sopravvento sulla realtà. Zac e io, comunque, facemmo il giro dell'isolato dalla parte opposta rispetto alla sera prima, evitando il viale in cui quella macchina a tutta velocità mi aveva tanto spaventata. La tenni lontana dal traffico e camminai nel senso opposto alle auto, in modo da vederle avvicinarsi. Tornata a casa, indossai la calzamaglia, scesi in garage a prendere il gippone e mi diressi a West Side, dove si trovava la scuola di ballo. C'erano cinque o sei habitué che facevano già ginnastica sul parquet lucido. Arrivò William e prendemmo posto alla sbarra lungo la parete. La musica era la Sinfonia n. 6 in si minore di Ciaikovski. William adorava la Patetica. Al centro della sala, le spalle indietro e la testa maestosamente eretta, ci guidò nella prima posizione di plié e relevé. Prima di dedicarsi all'insegnamento, William aveva danzato per molti anni all'American Ballet Theater. Era sempre una meravigliosa sensazione, perdersi nella musica e nella concentrazione sui passi indicati dal maestro, nel crescendo dell'orchestrazione. Era stata mia madre ad avviarmi alla danza classica quando avevo quattro anni, ed era rimasto il mio esercizio fisico preferito. La severa disciplina di quell'arte mi consentiva di evadere dalle brutture del mio lavoro per tutta l'ora durante la quale restavo stregata dal suo incanto. Il maestro passò in rivista la fila di ballerini appoggiati con la mano sinistra alla sbarra, per studiare e correggere la posizione di ciascuno di noi. «In dentro lo stomaco, in dentro il sedere, Judith», ammonì la piccolina alle mie spalle. «Spalle indietro, Alex. Fa' vedere una bella linea con quelle gambe lunghe, signorina.» Inarcai il piede e tesi l'alluce finché me lo consentì la scarpetta di pelle bianca. William ci fece passare alla seconda, quarta e quinta posizione, poi ci girammo per ripetere gli stessi movimenti con la mano destra alla sbarra. Cambiando lato, diedi un'occhiata nello specchio, cercando, tra quella truppa di ballerine frustrate e di principi azzurri mancati, i veri professionisti. Da piccola andavo alla scuola ogni sabato mattina con le bambine della mia età, poi restavo quasi tutto il giorno a seguire le altre lezioni, per guardare le più grandi svolgere esercizi più complicati dei miei e imitarne i passi. Passavo la giornata a sognare di essere Odette e Odile, Giselle o Coppelia, senza nemmeno immaginare che un giorno sarei andata in scena davvero, ma davanti a una giuria.
Seguimmo William al centro della sala, esercitandoci in piroette e fouéttés finché il sudore cominciò a scorrermi dalla coda di cavallo lungo la schiena. Non volevo che l'ora di lezione finisse, ricacciandomi da quel mondo di fiaba nella vita reale. Ma quando si concluse l'adagio lamentoso, William si inchinò ad allievi e allieve e noi, secondo la tradizione classica, ricambiammo con un applauso discreto. Feci la doccia e mi rimisi in uniforme da fine settimana: salopette e camicione. La fermata successiva era il garage dell'East Side, per correre da Louis nella 57a a tagliare i capelli e rinfrescare il biondo finnico dei capelli ereditato da mia madre. Attaccai il cercapersone alla cintura e mi sedetti nella poltrona di Elsa a farmi avvolgere le ciocche nella carta stagnola. «Con un po' di fortuna, quest'aggeggio non suonerà finché non avrò finito qui», dissi indicando l'apparecchietto nero che era diventato la mia linea diretta con la polizia. «A quelli della Omicidi verrebbe un colpo, se io la lasciassi uscire da qui in questo stato.» Ascoltai i consigli di Elsa sui film e sulle ultime commedie di Broadway, che, non so come, riusciva a vedere ancora prima che io sapessi che erano in programmazione. Come in una catena di montaggio, lei mi trasferì da Louis che mi spuntò i capelli appena schiariti e mi sottopose a un abile interrogatorio sulla mia vita sentimentale. Da buon francese, il fatto che non avessi un fidanzato stabile lo faceva disperare e cercava sempre di suggerirmi il modo per conoscere un uomo. Quando lui ebbe finito toccò a Nana, che si dedicò a modellarmi un'elegante acconciatura per la cena alla quale ero invitata quella sera. Ormai se n'era andata metà del sabato. Rientrai e lasciai il gippone nel garage sotterraneo. A casa, la spia della segreteria lampeggiava. Nina aveva richiamato e chiedeva notizie del caso Dogen. Maureen si annoiava e voleva soltanto salutare. Chapman aveva telefonato semplicemente per dirmi che non c'erano novità. Telefonai al Mid-Manhattan e chiesi la camera della signora Forester. «Finora soltanto un furtarello», mi disse Maureen dopo essersi fatta raccontare come avevo trascorso la mattinata. «Sono scesa nel solarium. È quello il posto giusto. Tutti lì a bisbigliare che cosa pensano i loro medici di Gemma Dogen: quelli a cui piaceva e quelli a cui non piaceva. Ti ho fatto l'elenco.» «Di che furtarello parli?», domandai. «Non fare subito quel tono allarmato. Mentre ero nel solarium, è venuta
una delle inservienti a ritirare il vassoio del pranzo. Era dietro la tenda tirata attorno al letto a mangiarsi i miei avanzi: un pezzetto di pane tostato, il più insipido budino alla vaniglia che abbia mai assaggiato e una fetta di tacchino. Non si è accorta di essere ripresa dalla telecamera nascosta. Poi ha aperto il cassetto del comodino e ha frugato nella mia borsetta del trucco. Immagino che il rossetto non le sia piaciuto, perché lo ha esaminato ben bene prima di rimetterlo a posto. Quante volte al giorno pensi che accadano queste cose in un posto così, eh?» «Ti senti ancora sola, Mo?» «Non mi lamento. Niente letti da rifare, niente piatti da lavare. Più tardi verranno a farmi compagnia. Divertiti stasera e dammi un colpo di telefono.» Chiamai Chapman al cercapersone e, aspettando la sua telefonata, andai in cucina a prendere uno yogurt. «Sono ancora all'ospedale», disse. «Stiamo reinterrogando quasi tutto il personale della clinica, nel tentativo di farci un'idea più chiara della Dogen, stavolta. Credo che dovresti parlare tu stessa con il dottor Spector. Probabilmente la conosceva meglio di chiunque altro. L'ho visto qualche minuto stamani mentre visitava un paziente appena operato. Dice che potremmo incontrarci lunedì pomeriggio alle due. Ti va bene?» «Naturalmente.» «L'unica altra notizia è che uno dei ragazzi del 17° ha trovato delle cartellette d'archivio in un bidone della spazzatura, nel parcheggio. Wallace pensa che provengano dall'ufficio della Dogen. Sono macchiate di sangue, come quasi tutti i rifiuti qui, del resto.» «Che tipo di cartellette?» «Vuote. Tre o quattro. Sembra roba collegata allo sport, niente di medico. Le etichette portano nomi di squadre di baseball, come Mets, Braves, Cubs. Sapevo che correva, ma mi sa che era anche una tifosa di baseball. L'ex marito dovrebbe rientrare a Londra lunedì, sicché forse avremo notizie personali su di lei.» «Va bene. Oggi pomeriggio esco a fare delle commissioni qua attorno. Domattina ti prendi un po' di riposo, spero.» «Sì. Si prospetta una seratina calda, con quella giornalista italiana che il mese scorso ha fatto un servizio sulla Omicidi. Ho pensato di portarla in quel posto che mi hai detto tu... Primula. Tra Giuliano e Adolfo, forse riusciranno farle dimenticare che sono irlandese.» Cercai di essere convincente, augurandogli buon divertimento.
Raccolsi una bracciata di indumenti da portare in lavanderia e tre gonne da far accorciare. Accanto alla sarta c'era un negozio di biancheria, dove mi fermai a comprare una dozzina di collants. La commessa mi mostrò alcuni nuovi indumenti intimi, di pizzo blu polvere, per iniziare la stagione primaverile e dovetti fermarmi al più vicino sportello bancario automatico per rimpinguare la cassa che avevo dilapidato durante il giorno. Quando arrivai dall'estetista, erano ormai passate le tre. Avevo davvero bisogno della manicure e fui costretta a sopportare i pettegolezzi che attraversavano l'affollato locale da una parte all'altra: quella sera, alla tavola di Joan, non volevo essere l'unica donna senza smalto alle unghie e con le pellicine non tagliate. Andai a casa, diedi da mangiare a Zac e le feci fare un altro giro. Troppo inquieta per fare un sonnellino, mi stesi sul letto per rilassarmi con il «Times» del sabato, concentrandomi sull'ultimo angolino in basso a sinistra delle parole incrociate finché non riuscii a mettere insieme tutte le lettere della parola mancante: Galle, il nome dell'astronomo tedesco che scoprì Nettuno. Le cene del sabato sera da Joan erano un sogno e io non vedevo l'ora di passare una bella serata con lei e i suoi amici. Era l'occasione per vestirmi elegante e mettere i gioielli che mia madre aveva conservato per tutta la vita, ma che aveva lasciato a me quando si era trasferita ai Caraibi. Mi agghindai gongolando e prenotai un taxi per le otto meno un quarto. La domestica mi aprì e prese il soprabito e l'ordinazione del cocktail. Nell'atrio e in soggiorno, grandi vasi straripavano di tulipani e rose color corallo. Joan era in biblioteca a intrattenere i primi ospiti raccontando di un suo lavoro teatrale messo in scena anni prima in una sala off Broadway. Da scrittrice per il teatro, rappresentata in America e all'estero, era diventata autrice di romanzi, l'ultimo dei quali giunto ormai alla quarta ristampa. Il primo a vedermi fu Jim Hageville, l'uomo di cui Joan si era perdutamente innamorata fin da quando l'aveva conosciuto, quell'inverno. Era un esperto di politica estera e scriveva per un giornale, in una rubrica fissa molto apprezzata; l'idillio durava da tre mesi, e tutti e due erano nel pallone. Uno dei motivi della cena era appunto quello di presentare Jim ad alcuni amici di Joan. Ci salutammo con un bacio e lei mi introdusse nel giro, presentandomi a coloro che non conoscevo mentre io salutavo gli altri. Nell'ora successiva vennero serviti i cocktail e io chiacchierai con alcune persone, lasciando cadere l'argomento quando qualcuno mi chiedeva informazioni sull'indagi-
ne in corso. Poco dopo le nove, Joan ci fece trasferire in sala da pranzo, per prendere posto intorno ai tre tavoli circolari. «Non dire che non faccio mai niente per te», mi disse, con l'aria del gatto che sta per inghiottirsi il canarino: «Hai presente quell'uomo adorabile che parlava con te dell'articolo sul tuo capo pubblicato dal "New Yorker"? È il tuo compagno di tavolo. Drew Renaud». Sulla soglia, Joan mi sistemò meglio la spilla antica sull'abito. «E la moglie dove l'hai messa, Joanie? Lui l'ho visto, ma ho visto anche la fede al dito», dissi, ridendo delle sue macchinazioni. «È vedovo, Alex.» Mi morsi le labbra: «O Dio, mi spiace. Sono contenta di averlo saputo da te, se no ci sarei cascata di sicuro. Però non dirmi che stai facendo la mezzana. Guarda che t'ammazzo. Lo sai che non mi va di essere...». «Ma smettila. È solo una cena tra amici. È amico di Jim dai tempi dell'università a Princeton ed è socio dello studio legale Milbank. La moglie aveva un tumore al cervello ed è morta due anni fa, a trentasette anni. È una storia terribile e Drew ne è uscito solo da un paio di mesi. Perciò tirati su. Non fare la scontrosa, Alex. E smettila di arrossire. «E poi hai amici dappertutto, qua dentro... non è un appuntamento al buio. Lui muore dalla voglia di conoscerti. Dice che avete partecipato insieme a un dibattito all'associazione degli avvocati l'anno scorso, ma tu ti vedevi con qualcosa... voglio dire: con qualcun altro, in quel periodo. Spegni quell'accidenti di cercapersone e lasciati andare, per stasera, d'accordo?» «Da te non me l'aspettavo, Joanie, e senza avvertirmi!», dissi, ridendo della mia stessa agitazione e controllando nello specchio come mi stavano i capelli e il trucco, mentre mi ritoccavo le labbra col rossetto. «Oh, così va meglio, cara. L'ho messo proprio tra noi due e domani mattina mi aspetto ghirlande di fiori in segno di gratitudine. Sei stupenda, perciò piantala e vai a sederti.» Gli ospiti giravano per i tavoli alla ricerca dei rispettivi segnaposto. Drew era in piedi dietro la propria sedia in attesa di farci accomodare accanto a lui. Riprese senza difficoltà il filo della conversazione interrotta in biblioteca e mi ricordò l'occasione in cui ci eravamo incontrati l'estate precedente. Sorseggiai il vino e mangiai il superbo paté preparato dal cuoco di Joan, affascinata dal calore e dallo spirito del mio vicino di tavolo. Quando vennero serviti i medaglioni di vitello, innaffiati da un incredi-
bile Margaux, ero ormai consapevole di aver cominciato a flirtare con Drew, ma non sapevo se fosse a causa del vino o di un autentico interesse. Mi piaceva provare di nuovo quella sensazione e mi piaceva il senso di eccitazione prodotto dalla serata. Parlammo di conoscenze comuni, della vacanza che lui aveva trascorso nella mia adorata Vineyard l'estate precedente, delle impareggiabili qualità di Joan sia come ospite che come amica e dei libri che stavamo leggendo. Toccammo l'argomento cani, cinema, ristoranti, basket, e mai una volta ebbi la sensazione - così frequente con gli uomini che incontravo in società - che confondesse il mio interesse professionale per i reati sessuali con la mia vita privata. Ero tanto impegnata nella conversazione con Drew, da dimenticarmi che di fianco a me, dall'altro lato, era seduto Hugh Gainer. «Tu sei stata al Palais Soubise, vero, Alex?», domandò Joan, che aveva una memoria stupefacente per gli aneddoti. «La facciata più squisita di Parigi. Lo fece costruire Luigi XIV per la principessa de Soubise. Tutte le volte che il principe era in viaggio, la principessa compariva a corte con un orecchino di smeraldo. Era il segnale per Luigi che il campo era libero, et voilà! Non era poi un gran prezzo, per la dimora più grandiosa della città, non credete? Comunque, Hugh, va' a vederlo quando sarai a Parigi. È divino. «Caffè e brandy in soggiorno?» Ci alzammo e, passandomi accanto, Drew mi sfiorò. Avevo la mano sulla spalliera della sedia, per spingerla sotto il tavolo. Lui vi posò la sua e mi chiese: «Vuoi del cognac o...?». «Sì, grazie, molto volentieri.» «Non mi hai fatto finire, Alex», disse sottovoce. «O preferisci venire da me per il bicchierino della staffa?» «Io... be'... non credo di potere. Devo andare a casa perché... ehm... c'è... be'...» Balbettavo perché mi trovavo nell'insolita situazione di dover tornare a casa per portar fuori un cane. «Scusami», disse freddamente Drew per togliermi d'imbarazzo: «Non mi devi nessuna spiegazione». Ovviamente pensava che io stessi giocando con lui, che a casa ci fosse qualcuno ad aspettarmi mentre io passavo la serata a civettare. Lo interruppi scuotendo la testa: «No, no. Cioè, è un cane». Lui alzò la testa e rise. «È il cane del mio vicino di casa», proseguii: «Non sono abituata a osservare degli orari e ad avere un essere vivente che dipende da me».
«Un cane per rivale? Posso sopportarlo. Che ne dici se prendiamo un brandy da te, allora, e ti accompagno a far la passeggiatina di mezzanotte col cane?» «Un'offerta che non posso certo rifiutare. Cerchiamo la padrona di casa.» Joan girava tra gli ospiti che sorseggiavano dalle tazzine, e Jim. distribuiva sigari agli uomini che ancora fumavano. Drew e io li ringraziammo della bella serata e mentre lui recuperava i nostri soprabiti, Joan mi augurò la buona notte: «Per questa volta ti perdono che te ne vai così presto. Allora? Era tanto spiacevole?». «Per ora no. Ti chiamo domani mattina.» «Ti va uno spuntino da Mortimer con me e Jim?» «Non credo. Ho tonnellate di scartafacci sull'inchiesta da esaminare e imputazioni da corroborare per altri sette casi. Lavorerò a casa, ma mi ci vorrà quasi tutto il giorno. La mia solita compagnia di criminali.» «Alex, non fare la persecutrice di reati sessuali, stasera, mi raccomando. Fa' la donna.» «Torna dai tuoi ospiti, Joan.» Drew mi aiutò a mettere il soprabito e uscimmo a prendere un taxi per andare a casa mia. Prozac fu felice di vederci rientrare e mi si incollò alle calcagna mentre accendevo le luci in corridoio e nel soggiorno. Drew girava per il soggiorno, guardando le foto incorniciate e domandando chi fossero le persone ritratte; io preparai due bicchierini di brandy e feci partire il CD con You Send Me, lasciandomi intenerire dalla voce vellutata di Sam Cooke e dal pensiero che il fremito che sentivo era l'inizio di un'infatuazione. Ci accomodammo sul divano con i bicchieri e io mi liberai delle scarpe, rannicchiandomi comodamente, mentre Zac si accoccolava ai miei piedi. Chiacchierammo delle mie amiche e della sua infanzia, della mia carriera e del suo studio legale, e per tutto il tempo io non desiderai altro che lui mi abbracciasse e mi baciasse, facendomi tacere. Quando accadde - tra il racconto di un mio idillio al college e il suo ultimo viaggio in Scozia a pescare con la mosca -, aprii la bocca e assaggiai la sua lingua, attirandolo ancor più a me, e accarezzandogli i morbidi riccioli castani sulla nuca. Drew si sdraiò, facendomi scivolare su di sé, e mi strinse sussurrando continuamente «Alexandra», la bocca premuta sulla mia fronte. Gli sciolsi la cravatta e cominciai a slacciare la camicia per baciargli la gola e il petto. Lui mi sollevò il viso tra le mani per guardarmi negli occhi con un sorriso
di approvazione. Io mi liberai, protendendo di nuovo la lingua verso di lui e alla ricerca della sua bocca. Questo dolce preludio mi parve andare avanti per ore, ma già dopo tre o quattro canzoni Drew mi stampò sulla punta del naso un bacetto più scherzoso e suggerì di portare fuori Zac, dopo di che se ne sarebbe andato a casa. Oltre tutto è anche assennato, pensai mentre mi alzavo dal divano, tiravo giù la gonna, mi infilavo la scarpe e rimettevo a posto i capelli scompigliati. Era tutto così bello che non mi dispiaceva mettere il rallentatore ai progressi sessuali. Avevo il viso in fiamme e il sangue mi ribolliva per l'eccitazione, una sensazione che non provavo ormai da troppi mesi. Volevo assaporarla e farla durare, e volevo che Drew mi desiderasse quanto io desideravo lui. Già fantasticavo di fare l'amore con lui e sapevo che sarebbe avvenuto senza i falsi stimoli del vino e dei superalcolici. Misi il guinzaglio a Zac, indossammo il soprabito e prendemmo l'ascensore. Facemmo un paio di isolati, con Drew che teneva il guinzaglio in una mano e la mia nell'altra. Forse perché si avvicinava la fine di marzo, o forse per il calore di quella compagnia, mi sembrava di non sentire il freddo della notte e non volevo che quella passeggiata finisse. Tornati davanti a casa, Drew mi baciò un'altra volta, stringendomi contro uno dei grandi pilastri all'ingresso della rampa per le auto. «Ti telefono domani. Questa settimana devo fare un salto a San Francisco per concludere un affare. Riservami un po' di spazio nella tua agenda, eh.» «Giorni o settimane?», chiesi, non ancora disposta a rientrare in casa. «Mesi, se non chiedo troppo», disse lui con un entusiasmo che mi fece ridere. «Un'inchiesta come quella a cui stai lavorando assorbe totalmente, o riesco a trovarti, se ti telefono?» Era il primo accenno che faceva all'assassinio in tutta la serata, e quell'improvvisa irruzione di Gemma Dogen nei miei pensieri fece evaporare istantaneamente ogni traccia di frivolezza. «Non credo che avrai difficoltà a trovarmi, Drew.» Ci separammo e lui si girò per andarsene. Lo guardai scendere in strada e fermare un taxi, poi presi la mia compagna a quattro zampe e ce ne andammo a dormire. Indugiare a letto col «New York Times» la domenica mattina era una rarità, per me. Portai fuori Zac di buon'ora, poi rientrai col giornale, mi infilai di nuovo sotto le coperte e divorai tutte le rubriche di cronaca e attuali-
tà, prima di alzarmi e vestirmi. Alle undici telefonò Joan: «Puoi parlare?». «Vuoi sapere se Drew è ancora qui?» «Be', il dubbio mi ha sfiorata, sì.» «Se n'è andato, ma ti sono debitrice, Joan. Sì, ho passato una serata meravigliosa. Sì, la cena era fantastica. E sì, lo rivedrò. Puoi aspettare un momento? Ho un avviso di chiamata.» Pigiai un tasto e irruppe la voce di Chapman: «Notizie per te, Blondie...». «Ti richiamo subito, Mike. Lasciami finire una telefonata.» «Va bene. Ma non sono a casa. Prendi il numero.» Mi dettò il numero, poi mi disse di chiedere l'interno 638. Tenni a freno la curiosità e dissi a Joan che dovevo piantarla in asso per una chiamata di lavoro. Composi il numero che mi aveva dato Mike e rispose una centralinista: «Saint Regis Hotel, desidera?». Le dissi l'interno e aspettai. Una voce dall'accento caldo e profondo disse: «Pronto». «Mike Chapman, per favore.» «Subito», disse lei, e dopo un bel po' sentii la voce di Mike. «Sul suo conto spese o sul tuo?», gli chiesi. «L'ultima volta che io ho pagato la camera, il bagno era in fondo al corridoio e prima che riuscissi ad accendere il riscaldamento, la ragazza se n'era già andata. Qui c'è un minibar che ti basterebbe per sopravvivere più a lungo che la tua cucina.» «È la giornalista di Milano che sta facendo quel servizio sulla polizia?» «So-no-sul-la-vo-ro, Blondie, sul lavoro. È solo e soltanto lavoro... non è il caso di essere gelosa. Ma stamattina mi ha cercato Peterson e ho pensato che la cosa dovevi saperla subito anche tu. Uno dei vecchi segugi, giù al distretto, che sta lavorando agli schedari, si è ritrovato tra le mani un 61.» I 61 erano i moduli di denuncia compilati dai poliziotti in divisa quando i cittadini riferivano notizie di reato. Mike proseguì: «La denunciante era Gemma Dogen. La chiamata è arrivata al distretto più di un mese fa, alla fine di febbraio. È rubricata come molestia aggravata». Il genere di telefonate che può essere noioso o allarmante. «Che dice il rapporto? Chi lo ha preso?» «Calma. Non ce l'ho qui davanti. Posso solo raccontartelo. La Dogen si
era trovata una serie di messaggi di minaccia sulla segreteria telefonica, a casa. Una voce maschile. Non la riconosceva ma pensava che fosse camuffata. Minacce velate...» «Che tipo di minacce, esattamente?» «Secondo Peterson, lei non ha mai parlato di minacce di morte. Parolacce, per lo più, e le diceva che doveva lasciare la città, per il suo bene. Il tenente vuole che parli con l'agente che ha preso la telefonata per vedere che cosa ricorda. È tutto quello che so fino a questo momento.» «Be', e che seguito c'è stato? Nessuno l'ha riferito agli agenti investigativi affinché parlassero con la Dogen?» «Sìì. Due DD5 vuoti.» Erano i rapporti della Divisione Detective, la Investigativa. «Numero uno: l'agente cerca di richiamarla tutti i giorni per una settimana ma lei è all'estero. Più volte invitato a richiamare, l'ufficio della Dogen non risponde mai. Numero due, due settimane prima dell'assassinio: l'agente voleva fissare un colloquio, ma la Dogen si è rifiutata. Gli ha detto che le telefonate anonime erano cessate e che non intendeva inoltrare la denuncia. Ha detto che il problema si era risolto da sé.» «Ehi. Che ne dici, c'è un collegamento? Dobbiamo scoprire con chi aveva dei problemi, sul lavoro e fuori.» «Adesso vado a Queens. Il poliziotto che ha compilato il 61 è di servizio al deposito», disse Mike, alludendo all'enorme struttura in cui il dipartimento di polizia teneva le auto rubate o sequestrate nel corso delle perquisizioni per contrabbando. «Credevo che avessi detto che la denuncia era arrivata al 17° distretto...» «È lì che lavorava il nostro uomo prima che la tua vice gli mettesse le mani addosso.» «Sarah?» «Già, l'ha silurato lei dieci giorni fa. Immagino che non abbia voluto seccarti con una cosa così. Una paradontologa si era portata a casa un tizio dopo una festa. Hanno fatto l'amore sul sedile posteriore della macchina, parcheggiata nella la Avenue. Poi lei ha affermato che il tipo, arrivato a casa sua, ha dato fuori di matto e l'ha violentata. Lei la mattina dopo chiama la stazione di polizia dal soggiorno e dice che lui sta ancora dormendo, e se possono mandare un agente perché ha paura di quello che potrebbe farle ancora.» «Non dirmi...» «Sìì, questo genio dice: "Signora, noi non siamo la sveglia telefonica". La ragazza ha sporto denuncia, Sarah indaga e il giorno dopo il nostro po-
liziotto si ritrova a riempire pile di moduli su Ford e Chrysler rubate. Per un paio di settimane si sconsigliano i contatti umani. Sta seguendo un corso di aggiornamento in sensibilità.» In sottofondo sentivo Miss Milano che ridacchiava. «Magari al corso dovresti iscrivertici anche tu, Mike.» «Comunque, mettici anche questo nel mucchio. Ordini il controllo delle telefonate ricevute dalla Dogen?» «Sì, ho ottenuto le autorizzazioni per i mandati dal Gran Giurì e Laura li ha già preparati fin da venerdì. Dovrebbero consentirci di avere tutte le informazioni sul traffico telefonico. Se mi dai le date, domani mattina per prima cosa richiedo il tabulato.» Restringendo i limiti di data e di orario, i tabulati telefonici rivelavano la fonte di una telefonata. Per la società telefonica si trattava di procedure costosissime - almeno cinquecento dollari per soli tre giorni di elenchi -, per cui nella maggior parte dei casi l'autorizzazione non veniva concessa. Come sempre, però, quando si trattava di una faccenda di grande rilievo le porte si spalancavano e le norme venivano infrante. «Perfetto. Ci vuole sempre una settimana per avere le risposte, vero?» «Ecco il problema. Ma almeno avremo cominciato.» «Vado in periferia. Ci sentiamo.» Riattaccai e andai nell'altra camera da letto che, anni prima, quando mi ero trasferita in quell'appartamento, avevo trasformato in ufficio. La scrivania era cosparsa di carte, tra le quali trovai il fascicolo col nome della Dogen. Mi sedetti e lo aprii per aggiungere i fatti relativi alla denuncia che la dottoressa aveva fatto il mese prima. Sfilai dal fascicolo una delle foto scattate sulla scena del delitto e guardai l'orribile immagine che vi era raffigurata. Sopra un mucchio di conti e di fatture c'era la vecchia lente d'ingrandimento col manico d'avorio che avevo comprato al mercatino delle pulci di Chilmark per usarla come fermacarte. La sollevai per guardare da vicino il cadavere di Gemma, da angolature diverse, cercando qualche segreto celato al mio occhio. Inaugurai un blocchetto di appunti intestandolo «Sangue», seguito da un punto interrogativo. Gemma stava cercando di tracciare un disegno che permettesse di identificare l'assassino? Forse una lettera, l'iniziale di una parola o di un nome? In una colonna scrissi tutte le lettere dell'alfabeto, maiuscole e minuscole, che avrebbero potuto corrispondere alla traccia lasciata dalla vittima se avesse avuto la forza di completarla. L'indomani, abbandonata la pista di Austin Bailey e individuata una lista di indiziati,
avrei portato con me la foto e l'elenco per cercare un legame tra gli sgorbi sul pavimento e uno di quei nomi. Chi erano i demoni che popolavano la vita della buona dottoressa, mi chiesi osservando quel corpo macellato. Che cosa contenevano i suoi archivi, che l'assassino aveva preferito al suo portafogli? Passai sulle scartoffie quasi tutto il pomeriggio, accompagnata dal sottofondo di una rilassante sonata per pianoforte di Schumann, anziché il solito Motown. Alle cinque Drew telefonò dall'ufficio. Anche lui al lavoro di domenica: «Non so quanto sia stata produttiva la giornata per te, ma per me è stata una causa persa. Ho continuato a pensare a ieri sera e non sono stato capace di trovare una buona ragione per uscire di casa, stamattina. Ci vediamo a cena? Devo tornare in studio stasera per preparare questi documenti da mandare in tipografia, ma mi piacerebbe molto passare un po' di tempo con te». «Accetto.» «Scegli un posto dalle tue partì... non impegnativo ma buono. Sono in jeans.» «Butterfield 81, appena fuori la 3a. Bistecche e insalata veramente ottime.» «Perfetto. Prenoto io e ci vediamo lì alle sette.» Diedi da mangiare a Zac e la portai a fare un po' di moto, poi percorsi a piedi i dieci isolati fino al ristorante. Drew mi aspettava in un séparé. Gli sedetti di fronte e lui mise da parte i menu per prendermi le mani e portarsele alle labbra. Chiacchierammo e ordinammo, chiacchierammo e mangiammo, chiacchierammo e indugiammo sulle tazze di decaffeinato. «Parto per la California domani sera. C'è qualche speranza che tu riesca a prendere un aereo e raggiungermi per passare il prossimo fine settimana insieme? Prendo una camera con vista sulla baia e...» «Mi piacerebbe molto, Drew, ma è davvero impossibile, in questa fase dell'inchiesta. Se la polizia non fa qualche passo avanti, continueremo a interrogare per tutta la settimana e il fine settimana. E se l'inchiesta ha una svolta - cioè, una svolta positiva -, allora passa completamente sotto la mia responsabilità. Non c'è proprio da pensare che a quel punto io mi allontani da New York.» «Allora sono io che devo sbrigarmi col mio cliente per tornare al più presto. Non credo che la camera con vista conti molto, vero?»
Scossi la testa e sorrisi. «Andiamo. Prendiamo un taxi e ti accompagno a casa. O devo venir su?» «Domani si lavora. Non vorrei proprio che la nostra prima notte insieme venga interrotta dallo squillo della sveglia.» Uscimmo a braccetto dal ristorante, ci baciammo per tutto il breve tragitto fino a casa mia e, una volta arrivati, io scesi, molto riluttante a lasciarlo tornare in centro a lavorare. Il portiere mi tenne aperto il portone: «Non l'ho vista uscire, signorina Cooper. Deve essere stato mentre cenavo. Ho appena mandato su da lei il fattorino della rosticceria con l'ascensore di servizio. Volevo citofonarle, ma sono stato interrotto perché il 24C ha avuto una perdita in terrazzo. Un'emergenza». «Io non ho ordinato nulla. Sono fuori da due ore. Avrà sbagliato appartamento.» Molti dei ragazzi che facevano le consegne per conto dei ristoranti della zona erano immigrati da poco e non parlavano bene l'inglese. Come capitava a quasi tutti i miei vicini, suonavano da me alle ore più strane per consegnarmi pasti ordinati al piano di sopra o a quello di sotto. Il signor Hooper del diciannovesimo era stato seccato dalle pizze della signorina Cooper più spesso di quanto gradisse e io, in quanto Cooper, venivo regolarmente confusa con la Kupler del ventitreesimo. Quando tirai fuori le chiavi dalla tasca della giacca e aprii la porta stavo ancora sognando a occhi aperti. Zac era seduta a testa alta come se fosse in attesa del mio arrivo. La zampa sinistra copriva un pezzo di carta che doveva essere stato infilato sotto l'uscio. Raccolsi il foglio bianco, su cui c'era una scritta di grafia infantile, a grosse lettere rosse: «ATTENTA. NON È TUTTO BIANCO E NERO. ERRORE MORTALE». Col cuore che batteva forte, chiusi a chiave la porta e tirai il catenaccio. Zac mi stette alle calcagna mentre mi precipitavo a telefonare al tenente Peterson in sala agenti. L'apparecchio squillò a vuoto. Non c'era nessuno ad alzare il ricevitore. L'orologio segnava le dieci e mezza quando citofonai giù a Victor. «Quel tizio che hai fatto venir su, il fattorino di rosticceria: l'hai visto anche uscire?» «Sì, è uscito dall'ascensore del retro mentre lei saliva. Aveva ancora un sacchetto in mano. Ha detto di aver sbagliato condominio... era il portone
dopo. Avrei dovuto controllare, signorina Cooper, mi dispiace.» Buttai giù la cornetta del citofono e mi sedetti sul divano. Non era il caso di rovinare la politica estera di Chapman né di seccare Battaglia prima dell'indomani. Il motivo per cui ogni mese pagavo un affitto spropositato era la vigilanza che veniva garantita da un condominio di lusso. Qualcuno stava evidentemente cercando di mettermi paura. Be', ci stava riuscendo. Capitolo 16 Quando, il lunedì alle otto e mezza, scesi dal taxi, da dietro la fila di arbusti dall'aria malaticcia allineati davanti al palazzo di giustizia stavano uscendo carponi degli agenti di polizia giudiziaria. Era un segreto ben custodito che uno dei posti migliori di Manhattan dove trovare una pistola carica era dietro quei patetici cespugli, parto ridicolo della concezione che i funzionari comunali avevano in fatto di arredo urbano. Subito oltre l'ingresso principale dell'edificio c'era una quantità di metaldetector che passavano al setaccio tutti coloro che entravano. Ogni giorno arrivavano centinaia di criminali effettivi o potenziali nelle aule di giustizia, per comparire in udienza nei dibattimenti che li riguardavano. Molti erano troppo stupidi per rendersi conto, almeno la prima volta che venivano, che sarebbero stati perquisiti e controllati al detector. Perciò capitava di vedere uomini e donne, sia di giorno che di notte, che salivano le scale, poi si voltavano e ritornavano sui propri passi per andare a depositare dietro a quella misera vegetazione pistole, coltelli e ogni sorta di arma impropria. Chi entrava dall'ingresso principale e non prevedeva di uscire dalla porta posteriore - in un autobus verde con le sbarre ai finestrini, gradito ospite del dipartimento Carcerario - depositava regolarmente il non lecito dietro il cespugliame. E i due o tre agenti che ripulivano la zona più volte al giorno raccattavano quel che avanzava. «Trovato niente di bello?», gridai a Jimmy O'Hara, quando lo vidi rialzarsi per buttare degli oggetti in una borsa di pelle. «Due automatiche e una taglierina. Nottata magra, Alex.» Al carretto del venditore di ciambelle incontrai Sarah. Prendemmo il caffè e salimmo ad aprire l'ufficio. Chapman mi aveva battuto ed era già lì seduto al mio posto, con i piedi sulla scrivania, a ridere istericamente al telefono. Quando entrammo, buttò giù la cornetta e si alzò, esibendosi col vocione tonante nella sua migliore interpretazione di un annunciatore televi-
sivo. «Signore e signori, non telefonate più: abbiamo il vincitore!» «Di che stai parlando?» «Le follie dell'ospedale hanno raggiunto nuove vette e forse il massimo se l'è beccato l'ispettrice Forester.» Rabbrividii all'idea che, mentre io mi godevo la mia seratina con Drew, Maureen avesse corso qualche pericolo. Sarah e io chiedemmo contemporaneamente a Mike che cosa era successo. «Niente, niente, niente. Sta benissimo. Il marito e i figli sono stati tutto il giorno da lei. Poco prima dell'ora in cui spengono le luci, arriva l'infermiera per fare un clistere a Maureen prima di dormire. Ordine del suo medico. Mo sa che non è possibile perché il suo medico è fuori città fino a oggi. L'infermiera insiste, per cui battibeccano per una ventina di minuti finché quella va a chiamare la caposala. Nel frattempo - ormai è passata mezz'ora - squilla il telefono di Maureen. È un uomo che si presenta come dottor Haven. Dice che fa il turno di notte e che il medico di Mo ha ordinato un clistere di saponata. Mo sta al gioco. Dice che glielo hanno appena fatto. Allora quello attacca a farle le domande più strambe, le chiede di descrivergli che cosa ha provato... insomma, voleva i particolari.» Sarah scosse la testa e si accomodò in una poltroncina. «Mo lo tiene al telefono e fa segno ai ragazzi della telecamera di rintracciare la chiamata. Quell'idiota neanche si sogna di parlare con l'unica paziente monitorata. Lei se lo lavora per otto minuti, lui la ringrazia per le informazioni e riattacca.» La tecnologia ormai consente di intrappolare letteralmente la fonte di una telefonata in arrivo, individuando il numero di partenza. «Aspetta che indovino: qualcuno del personale del Mid-Manhattan.» «Ma no! La telefonata proveniva dall'apparecchio dello studio privato di Arthur J. Simonsen, Park Avenue 710.» «Mi dispiace, ma non mi dice niente.» «Il signor Simonsen è il presidente e massimo dirigente della PILLS, la Pharmaceutical Industry Life Line Support, vale a dire, come dice la sigla, la più grossa azienda distributrice di pillole e pasticche degli Stati Uniti.» Gemetti al pensiero di quel che ne avrebbero ricavato i giornali della sera appena si fossero impadroniti di quella storia. «E non è la prima volta, signore mie. Peterson ha rintracciato Bill Dietrich poco dopo le undici per raccontargli i fatti. A quanto pare la stessa cosa succede qui, al Lenox e al Mount Sinai. Almeno in una mezza dozzi-
na di ospedali. Dietrich ne era perfettamente al corrente, ma gli amministratori cercavano di tenere tutto sotto silenzio. Grazie all'attività di cui si occupa, l'azienda di Simonsen riceve da ciascun complesso medicosanitario i tabulati dei pazienti ricoverati, che riferiscono anche il nome dei rispettivi medici curanti. Allora lui, a quanto pare, scorre gli elenchi e cerca le donne ricoverate in camera singola. Nel tardo pomeriggio, quando i medici hanno finito il loro giro e se ne sono andati, chiama l'interno delle infermiere, dice di aver appena ricevuto la telefonata del medico curante che ha fatto ricoverare la paziente o che l'ha visitata... e ordina clistere e rilevazione della temperatura rettale. Lascia passare un'oretta, poi, calcolando che la procedura sia stata compiuta, telefona alla paziente. Quello che vuole da lei è che gli descriva nei minimi dettagli quello che prova e, be'... chissà che cosa fa mentre sta a sentire. Non sono sicuro di voler fare il passo successivo per scoprire in che cosa consista esattamente il gusto di una perversione così. La lascio volentieri a Mickey Diamond.» Diamond, il veterano dei cronisti giudiziari che lavorava per il «New York Post», nelle bizzarrie e nel grand guignol ci sguazzava. «Farà di tutto per riuscire a metterlo in prima pagina, al muro della vergogna», aggiunsi io. L'ufficio di Mickey era tappezzato di ritagli coi titoloni che strombazzavano i crimini più orrendi compiuti in città. Sarah e io eravamo come cover girl nel suo mondo, dato che ogni caso di cui ci occupavamo proiettava i suoi articoli dalla cronaca nera in prima pagina. «Non ti preoccupare, Mickey ti ha preceduto qui già da quindici minuti. Ha avuto l'informazione alla centrale stamattina. Uscirà con il titolo: "Clistere per scherzo in ospedale".» «E la paziente? Come sta Maureen in tutto questo?» «Ottimamente, ovvio. Nessuno l'ha nemmeno sfiorata e lei ha sventato la cosa con una semplice telefonata. Simonsen ha ammesso tutto. Adesso lo tengono sotto sorveglianza speciale antisuicidio all'ufficio Incriminazioni. Oltre alla sua confessione, useranno le testimonianze raccolte presso gli altri ospedali, in modo che Mo non debba uscire allo scoperto. «La nostra Maureen è al settimo cielo. Aspetta che torni il tuo amico David Mitchell, mangia caramelle nella sua vestaglia di lusso e divora più libri gialli di quanti riescano a portargliene. Dalle un colpo di telefono. Sono certo che vorrà sentire la tua voce.» A questo punto Mike si rivolse a Sarah: «Perché quell'aria tetra, stamattina?». Sarah si accarezzò il ventre ridendo: «Pensavo a una cosa. Avevo inten-
zione di smettere di lavorare tre settimane prima della data prevista per il parto, in modo da non trovarmi ad aver le doghe in metropolitana mentre sto venendo in ufficio. Sai, poi dovrei chiamare il bimbo Vito o Jesus in onore dei miei compagni di vagone che lo aiutano a nascere e lo avvolgono in una copia spiegazzata del «Daily News» del giorno prima. Ma con tutte queste cose che succedono all'ospedale, un parto in metropolitana mi sembra il minore dei mali». «Ehi, conosci le regole di Warren Murtagh», dissi. Questo mio amico, da molti anni a capo di un ufficio giudiziario, aveva inventato un decalogo che sembrava attagliarsi a una vastissima gamma di occasioni di vita lavorativa. «La regola Murtagh numero nove dice: "Gli svitati capitano tutti nello stesso momento, nello stesso luogo e nello stesso caso giudiziario". Per il momento siamo nella norma.» Ero ancora in piedi: «Guardate un po' qui». Tirai fuori dalla borsetta il foglio di carta e lo consegnai a Mike. Chapman cambiò umore di colpo, si raddrizzò sulla sedia e lasciò cadere il pezzo di carta sulla scrivania davanti a sé. «E questo da dove viene? Perché non mi hai chiamato?» Sarah prese il messaggio per un angolo: «Vai subito da Battaglia. Non gli piacerà». «Dammi una cartelletta di plastica... di quelle che adoperi per i reperti giudiziari. Si potrebbe anche far rilevare le impronte.» «Già, ma prima devi eliminare quelle del tuo cagnone preferito. Un tizio me l'ha infilato sotto la porta. C'erano sopra le zampe di Zac... e forse anche un po' della sua bava. Non so proprio che cosa ne ricaveresti, anche se io ci fossi stata attenta.» «Che cosa è successo? Non hai sentito qualche rumore fuori della porta, visto qualcuno...?» «Non ero in casa, Mike. Ero uscita a cena e il portiere ha lasciato salire un fattorino. Quando sono tornata a casa, il biglietto era là.» «Sono curiosa dell'appuntamento per cena almeno quanto del messaggio che hai ricevuto», disse Sarah. «Senti, chiunque sia stato, sta solo cercando di impaurirmi. Il portiere non sapeva nemmeno che io non ero in casa e quell'uomo non è stato lì ad aspettare di scoprirlo.» «Già, e non è che tu avrai sempre Zac a fargli paura se ci riprovasse. Che ne sai di che cosa ha fatto alla porta? Per questa volta ti è capitato di avere un cane che probabilmente avrebbe abbaiato a un intruso. Ho ragione?»
Probabilmente sì. Chiamai l'ufficio di Battaglia e mi rispose Rose. Le chiesi di vedere il procuratore distrettuale per una cosa urgente e lei mi disse di andare subito. «Andiamo. Tanto vale che sentiamo tutti e tre quello che ha da dire.» Lasciammo le tazzine del caffè sulla mia scrivania, attraversammo il corridoio e la guardia di servizio ci fece entrare negli uffici di Battaglia. Rose sembrò contenta di vederci e ci disse di andare direttamente nell'ufficio del capo. Il procuratore era al telefono e ci fece segno di accomodarci al tavolo da riunioni al centro della stanza. «Altri settecentomila dollari in quella proposta di finanziamento e riusciremo a sbarazzarci di quei ladri di vestiti. Devo finire di scrivere il discorso prima di andare via alla fine della settimana. La commissione del Congresso si riunisce a metà aprile e io sono l'attrazione principale. La solita scena: i numeri non mentono ma i bugiardi fanno numero. Di' al senatore che ci sarò.» Battaglia ci raggiunse al tavolo, fece un cenno di saluto a Sarah e a me e strinse la mano a Chapman. «Un sigaro, Mike? Voi, signore?» «No grazie, signor Battaglia», disse Chapman. «Ottimo lavoro quello che hai fatto per quel massacro tra spacciatori della 43a. Rapido e pulito. Congratulazioni.» «Quando sono stupidi aiuta, signor B. Mi rende il compito molto più facile. Ammazza a revolverate quattro persone alle nove meno venti in un albergo a ore nel bel mezzo del quartiere dei cinema e dei teatri, poi dice all'autista che lo sta aspettando di squagliarsela. Credo che abbiano fatto in tempo almeno in trenta o quaranta a prendere la targa. Non male. Magari ci fosse una svolta in questo incubo del Mid-Manhattan.» «Novità?» Lo mettemmo al corrente di tutto quel che era accaduto da quando gli avevo telefonato per informarlo dell'esclusione di Bailey dal novero dei sospetti e gli mostrammo la lettera che mi era stata recapitata a casa. Gli parlai anche dell'episodio dell'auto che credevo avesse cercato di investirmi quando ero uscita con Prozac, ma cercai di minimizzare il più possibile. «Devo preoccuparmi...?» «Niente affatto, Paul. Volevo solo che tu lo sapessi e vedere se avevi qualche altra idea.» «L'idea migliore che mi viene è che tu risolva alla svelta questa dannata faccenda. Giovedì parto per Londra. C'è un congresso interdisciplinare di etica. Le linee guida per il prossimo millennio o qualche altra panzana del
genere. Ho promesso sei mesi fa che avrei partecipato, ma capita proprio a sproposito, adesso che il Congresso sta cercando di ritirare i quattrini che mi avevano promesso l'autunno scorso.» Chapman lo prese in giro: «Ehi, signor B., le dispiacerebbe, giacché è lì, interrogare due o tre testimoni? Le insegno un paio cosette, le spiego due o tre trucchi». Alzandosi e avviandosi verso la scrivania, Battaglia fece capire che la riunione era finita: «Vorrei vedere voi al mio posto. Un mucchio di suonati seduti in una sala riunioni a sentire i sociologi europei che spiegano che il loro maggior problema in fatto di criminalità è la violenza dei teppisti alla fine delle partite di calcio. Tieni gli occhi aperti, Cooper, capito?». Il tempo di arrivare sulla soglia e lui era già al telefono a spiegare al sindaco che la sua posizione sulle retate antidroga era insostenibile e andava rivista. Tornammo indietro sotto lo sguardo indifferente dei ritratti di dozzine di procuratori distrettuali dei tempi andati, allineati lungo il corridoio di Battaglia. Avevo passato tante di quelle ore in attesa di vederlo, da dieci anni a quella parte, che avrei potuto nominare uno per uno quegli uomini di legge dimenticati, con i relativi periodi di permanenza in carica. Misi la cosa nella categoria «carino saperlo», come la chiamava mio padre, alludendo alle inutili banalità con cui Mike e io ci riempivamo la testa. «E adesso, che si fa?», chiesi mentre tornavamo verso il mio ufficio. Chapman si sedette alla mia scrivania a fare l'elenco di tutte le persone con cui pensava che dovessimo parlare, mentre io guardavo, oltre la sua testa, i piccioni appollaiati sui doccioni barocchi del palazzo di fronte. «Sarah resta qui a sorvegliare il campo. Noi cominciamo da Bob Spector. Poi Spector vuole che andiamo al New York Hospital a parlare con una dottoressa che lavora lì, Gig Babson. Spector dice che la Babson era una delle amiche più intime di Gemma. Dobbiamo verificare le voci che corrono intorno al suo congedo dall'ospedale. Ci terrà impegnati tutto il pomeriggio.» Sulla porta del mio ufficio cominciava a comparire il solito traffico quotidiano. Accanto alla scrivania di Laura c'era Stacy Williams, con in mano un ordine che dovevo firmare per l'acquisto di un biglietto aereo che permettesse a una vittima di stupro di Kansas City di comparire al processo. «Dove sei finita, Stace?», le chiese Chapman. Stacy era l'assistente di uno dei funzionari del mio reparto e da quasi sei mesi si vedeva regolar-
mente con un agente della squadra Omicidi, amico di Mike. «È finita, Mike. Ho piantato Pete un paio di settimane fa. Mi mentiva, sai. Continuava a dirmi che era separato.» Controllai i dati del volo aereo e firmai l'ordine. Sarah assunse il suo ruolo materno: «Stacy, non ti ricordi il discorso di orientamento di Pat McKinney? Quando un poliziotto ti dice che è separato, significa che nel momento in cui sta parlando con te si trova a una estremità dell'autostrada di Long Island, mentre sua moglie è a centoquaranta chilometri di distanza, all'altra estremità, a casa loro con i quattro pargoletti. Ecco che cosa si intende al dipartimento di polizia per separazione coniugale». Uno sguardo al viso e alla figura adorabili di Stacy e dubitai che avrebbe sospirato ancora a lungo per Pete: «Ecco l'ordine. Mi raccomando, fammi sapere quando inizia il processo, Stacy». «Quella non è proprio quel che si dice un genio, Coop», disse Chapman. «Bastavano quelle parole sul berretto da baseball che Pete si tiene sempre in testa per capire che era sposato. O forse Stacy credeva che la "Squadra sportiva juniores di Massapequa" fosse un'organizzazione benefica?» «Lasciala in pace, Mickey.» Sarah si avviò nel suo ufficio per organizzare la giornata: «Fammi sapere che cosa succede, Alex, mi raccomando». Mike telefonò al tenente Peterson perché mandasse un ispettore a prendere il biglietto di minaccia da mandare in laboratorio per le analisi. Poi chiamammo Bob Bannion per chiedergli di preparare il video girato sulla scena del delitto: avremmo dedicato un'oretta a esaminarlo attentamente per farci un'idea di quali schedari e scaffali della Dogen erano stati rovistati. Seduti in un angolo riservato alla squadra Video, Chapman e io ripassammo la registrazione più volte, ingrandendo le singole zone nel tentativo di determinare quale fosse l'obiettivo dell'intruso. I fascicoli che vedevamo - e che naturalmente avremmo dovuto controllare di persona - erano simili a quelli ritrovati nella spazzatura? Se l'assassino aveva preso nell'ufficio della Dogen le cartellette ritrovate, in che punto esatto le aveva prese? Dalla scrivania o dentro uno dei tanti cassetti dello schedario? «Vi è di aiuto?», chiese Bob. «Sono certo che lo sarà quando riusciremo a capire che cosa stiamo cercando. Il che non è ancora successo.» Quando tomai in ufficio trovai ad aspettarmi Janine Borman, una delle sostitute procuratrici della divisione Processi addetta ai reati minori. «Il giudice dell'AP5 mi ha concesso mezz'ora per trovare una certa leg-
ge, se no accoglie l'istanza di proscioglimento della difesa. Non ho abbastanza tempo per fare la ricerca. Ho pensato che magari a te era già capitato un caso simile.» Magnifica scusa, quella della mancanza di tempo. Da leggere come «Non so fare la ricerca», pensai tra me. «Qual è il problema?» «Ho un caso di libidine. Il fatto è successo in metropolitana. Niente denuncia della vittima. Tutto quello che ho è la deposizione dell'agente di servizio.» Nel caso di reati minori commessi sulla metropolitana, ben di rado le vittime si danno la pena di rivolgersi a un poliziotto. Sanno bene, per esperienza consolidata, che le probabilità di far catturare il colpevole sono esigue, per non parlare dell'eventuale condanna. Un maschietto che, nel pigia pigia del treno, strofina le parti intime sul loro posteriore fa parte del prezzo che tante donne devono pagare per andare al lavoro tutti i giorni nella Grande Mela. L'unico vantaggio della stagione fredda è lo strato ulteriore di protezione offerto da giacca e cappotto. «E l'oggetto?» Janine era a disagio con il linguaggio che costituiva il tessuto del mio lavoro quotidiano. Spiegandomi i fatti cercava le parole, si schiariva la voce, lanciava occhiate imbarazzate a Chapman: «Be', questo - ehm - questo imputato, Anthony Gavropoulos, era sull'altra banchina, di fronte al poliziotto. L'agente ha visto l'imputato portarsi alle spalle della donna che se ne stava da sola in disparte. Afferma che Gavropoulos, be', che lo ha visto esporsi...» «Esporre il pene?», chiesi. «Già. E che ha avuto - ehm - un'erezione e che si... come se si... strofinasse contro la donna.» «Come se o si strofinava contro la donna, Janine? Uno è reato, l'altro no.» «Scusa, è che...» «Sta' a sentire, se ti occupi di questi casi, dovrai abituarti a questo linguaggio e alle parti del corpo. Niente eufemismi, niente imbarazzi. Questo è il tuo mestiere.» Janine si ricompose e riprese: «L'offerta è di dichiararsi colpevole di atti di libidine, appellandosi alla clemenza della corte. E una delle condizioni della condanna è che l'imputato si sottoponga a un corso di rieducazione per colpevoli di reati sessuali». «Ottimo. E allora?» «L'avvocato difensore dice che il suo cliente non si dichiarerà colpevole.
Dice che la sua difesa si fonderà sul fatto che il poliziotto mente. Gavropoulos dice, be', afferma di averlo troppo piccolo. Che dall'altra banchina l'agente non avrebbe potuto vederglielo, neanche se avesse avuto un'erezione. Hai avuto altri casi come questo?» Chapman la interruppe, alzando l'indice per puntualizzare la sua opinione: «Non hai bisogno di nessuna legge, non hai bisogno di fare nessuna ricerca. Va' in aula, di' all'avvocato di togliersi dai piedi. Via, sparisca. Non ne abbiamo bisogno. E tu di' al tuo Gavropoulos di comportarsi da uomo: "Anthony, ne va del tuo orgoglio. Accetta l'offerta", gli dici. Io preferirei una condanna, piuttosto che ammettere che ce l'ho troppo piccolo». Janine rimase a bocca aperta, credendo per un attimo di dover seguire il consiglio. «Sta solo scherzando, Janine.» Uscii con lei in corridoio, le dissi come comportarsi col giudice fornendole qualche citazione in tema, e poi la rispedii in aula. Quando rientrai in ufficio, Chapman mi teneva pronto il giaccone: «Dai, Blondie, ti porto via di qui. Passiamo a prendere Mercer e andiamo a lavorare a un caso vero. Ti ricordi che cosa mi disse tua nonna Jenny quella volta che tua madre ti preparò una festa a sorpresa, un paio d'anni fa?». Sapevo esattamente che cosa stava per dire. Si trattava della tiritera preferita della mia nonna ebrea, quella che si vantava di essere riuscita, arrivando qui dalla Russia già grandicella, a mandare i figli all'università e alle scuole di specializzazione. Quando glielo avevo presentato come un collega di lavoro, mia nonna, come al solito, aveva detto a Mike: «Sette anni della migliore istruzione che mio figlio ha potuto permetterle di avere, e Paul Battaglia ne fa un'esperta in peni e vagine. Queste cose possono accadere solo in America». Capitolo 17 «Per amore o per danaro?» «Cinquanta e cinquanta. Pari probabilità.» «Io credo più l'uno che l'altro.» «E il desiderio sessuale, come lo consideri? E la rabbia pura e semplice? E gli omicidi legati al sesso? Lo consideri amore, quello? No, non va.» «Non importa. Io credo che si tratti più spesso di denaro che di amore.» «Prendi tutti i tuoi casi violenza domestica. Non è amore come lo si intende comunemente. Ma è amore andato a male.»
«Ah sì? Be', le violenze domestiche provocate da faccende di denaro sono tante quante quelle dovute a sentimenti fuorviati.» Uscii dalla toilette del bar interno del Mid-Manhattan Hospital e mi unii a uno dei tanti dialoghi Chapman-Wallace sull'argomento del delitto. «Tu da che parte stai, Coop?» «Nonio so. Probabilmente è il denaro.» «Mercer, la maggior parte dei casi che ci capitano sono quelli con Paco che spara a Flaco per i tappetti rossi e i tappetti blu.» In quei giorni l'indagine tipica della squadra Omicidi si occupava di liti per le fialette di crack nelle guerre tra spacciatori, in tutto il loro glorioso arcobaleno di tappi di plastica: rosso vivo, blu marine, celeste, giallo, eccetera. «Certe volte Flaco accoltella Paco perché la moglie gli ha messo le corna con lui», proseguì Mike. «Ma di solito se ne strafotte, se lei ha una parte redditizia nell'attività di spaccio. Non certo perché la ama. Quelli lì amano il loro pit bull e il pitone e il Cacatua. Non la loro donna.» «E allora che cosa ha ammazzato Gemma Dogen? L'amore o i soldi?», chiese Mercer, ben sapendo che né Mike né io avevamo la risposta. «Dai, andiamo a vedere che cosa dice Spector.» Ci districammo nel dedalo di doppie porte e ascensori che conduceva dal bar alla silenziosa ala del sesto piano del Minuit Medical College. Mike si rivolse alla ragazza della reception dicendo il proprio nome. «Il dottor Spector vi aspetta?» «Sì. Noi due siamo ispettori della squadra Omicidi e la signorina Cooper è della procura distrettuale.» Non aveva detto che eravamo ammalati di tifo, ma la reazione suscitata dalle nostre qualifiche professionali fu identica. Ci scrutò aggrottando le sopracciglia, allontanò da noi la poltroncina su cui era seduta e da quel momento, telefonando all'ufficio di Spector per dirgli che c'erano «quelli là», evitò di guardarci in faccia. «Ultima porta a destra, prima della biblioteca.» Percorremmo il corridoio, oltrepassando l'ufficio buio che era stato di Gemma. Spector era sulla soglia ad attenderci, con un sorriso e una cordialità da cui trapelava la sicurezza di sé che la sua reputazione gli garantiva. Col suo metro e sessanta d'altezza, era più basso di tutti noi, e i capelli rossicci cominciavano a diradarsi. Eppure sembrava più giovane dei cinquantadue anni che risultavano dagli appunti raccolti da Mercer. Come l'ufficio di Gemma, anche quello di Spector era stipato da un as-
sortimento di oggetti e strumenti professionali, di foto e attestati. Questo, però, era anche ravvivato dalle tracce dei legami personali: volti di bambini sorridevano dalle cornici, e su manifesti e vertebre di plastica si leggevano spiritosi omaggi degli studenti. «E così voi sareste quelli che cercano di ripristinare un po' di ordine nella nostra casetta, vero?» «Non si direbbe, dal modo in cui la receptionist ci ha accolti.» «Come potete immaginare, le cose non sono ancora tornate alla normalità, da queste parti, se mai sì può definire normale un complesso come questo. La stampa non è stata molto gentile con noi. Ci fa apparire piuttosto inaffidabili. «E lei, signorina», disse rivolgendosi a me, «be', quando nella mischia compare un legale, un sacco di medici si fanno prendere dal panico. Lo stereotipo della sfiducia reciproca tra le due professioni fa brutti scherzi. Ho cercato di rassicurare i miei collaboratori che lei non esercita capziosamente la professione, ma che è solo un pubblico ministero.» «Pensavamo che lei potesse aiutarci a capire qualcosa di più della dottoressa Dogen», esordii. «Non è facile avere informazioni su di lei. Sembra che fosse molto riservata.» «Proprio così. Io posso darvi informazioni sull'attività professionale, mentre la dottoressa Babson, da cui andrete dopo, ne sa di più sul lato personale. «Gemma è arrivata al Mid-Manhattan prima di me, una decina di anni fa. Un gran bel colpo, per una donna - anzi, per chiunque - ricevere l'invito a lavorare nel reparto per poi passare a dirigerlo. Aveva un'intelligenza brillante, molto innovativa in questo campo.» Spector parlò animatamente per venti minuti della cura con cui la Dogen aveva organizzato la specializzazione di neurochirurgia al Minuit Medical College e l'oculatezza con cui reclutava gli studenti per l'estenuante fatica che richiedeva il corso. Quando ne ebbe abbastanza di tutta quella sviolinata, Mike lo interruppe: «Basta con Florence Nightingale, dottore. Chi è che la voleva fuori dai piedi?». Spector sobbalzò alla domanda improvvisa e si appoggiò allo schienale accarezzandosi la nuca: «Posso mettermi in cima alla lista o sarebbe troppo immodesto?». «Faccia lei.» «Sono sicuro che avete sentito le voci. Gemma aveva intenzione di tor-
nare in Inghilterra e c'erano buone probabilità che a succederle a capo del dipartimento fossi proprio io. Sempre che Bill Dietrich e i suoi non cerchino di far venire qualcuno da fuori, scavalcandomi.» «Quanto era verosimile che se ne andasse davvero?», chiese Mercer. «Nessuno lo sapeva con certezza. Come sempre, anche in questo andava con i piedi di piombo. So che l'ultima volta che era stata in Bosnia, al ritorno si era fermata a Londra. E ho saputo da amici di quella università che lì l'avrebbero riaccolta a braccia aperte. Aveva credenziali ottime. E, naturalmente», disse accennando nella mia direzione, «c'era il fattore "donna".» «Avrebbe dovuto prendere la decisione entro una data precisa?» «Tra un paio di settimane qui al college si decideranno un bel po' di cose. Il quindici aprile, per essere precisi. È la data in cui si effettuano le nomine e si stipulano i contratti per l'autunno successivo, ed è il momento in cui decidiamo definitivamente chi sarà accettato tra gli studenti che hanno fatto domanda per il corso di neurochirurgia. Dovete parlare con Dietrich, naturalmente. È il suo ufficio che si incarica di tutte queste decisioni amministrative.» «Sì, gli abbiamo parlato...» «E, mi raccomando, prendete con un briciolo di cautela quel che vi dirà. Aveva un vero debole per Gemma, anche se la loro relazione era finita ormai da mesi.» Avevamo tutti e tre abbastanza esperienza da lasciar scoppiare quella bomba senza la minima reazione. Mike la registrò mentalmente e riportò la conversazione su Spector: «Quindi, supponiamo che il mese prossimo lei diventi primario del dipartimento. Come cambierebbe la sua vita?». «Se mi considera un sospetto, signor Chapman, la risposta è: pochissimo.» «Lo stipendio?» «Non cambierebbe. Oh, potrei chiedere onorari un po' più alti quando esercito fuori da qui, ma in ospedale ci sarebbe soltanto l'onore del titolo. Nessun guadagno supplementare.» «Ma lei sarebbe contento di avere quel posto.» «Sarei un cretino se non lo volessi. Senta, la verità è che quasi tutti quelli del ramo lo considerano già il mio reparto. La Dogen si stava estraniando sempre di più, era sempre in viaggio all'estero, nei paesi del terzo mondo. Quando si parla del Mid-Manhattan, con o senza la vostra santa Gem-
ma, si parla del reparto di Bob Spector. È un dato di fatto puro e semplice.» «Quanti neurologi ha...» «Scusi se la correggo, signor Chapman: neurochirurghi, non neurologi.» Spector pronunciò la frase come se quella distinzione fosse più importante che stabilire se Gemma Dogen fosse viva o morta. «Mi scusi, dottore, uso i due termini come sinonimi. Le spiacerebbe chiarirmi la differenza?» Spector si mise a ridere: «La differenza? Circa mezzo milione di dollari all'anno, nient'altro. Noi siamo quelli con trapano e sega, Chapman. Noi operiamo, loro no». «E quale pensa che fosse il motivo per cui Gemma voleva andarsene?» «Io non penso, signorina Cooper, io so. Quasi tutti noi, in questo campo, ci guadagniamo da vivere asportando tumori al cervello e operando alla colonna vertebrale. Alcuni integrano questa attività intellettualmente, svolgendo ricerca su malattie e patologie, come gli studi che io conduco sul morbo di Huntington. «Gemma ha cominciato così, come tutti gli altri, ma poi ha preso a interessarsi ai traumi, alle lesioni cerebrali. Ha cominciato qui a New York a causa di tutte le ferite da arma da fuoco e degli incidenti automobilistici che si verificano. A Londra non aveva mai visto niente del genere. Gli inglesi magari vanno a caccia di lepri e di fagiani, ma soltanto da poco hanno cominciato ad avere i problemi che abbiamo qui a causa delle armi per la difesa personale. Da loro, tradizionalmente, le armi da fuoco vanno in mano ai cacciatori appartenenti all'aristocrazia e all'alta borghesia, grazie a Dio. Sono sicuro che voi che vi occupate di legge lo sapete bene. Comunque, da quando era rimasta affascinata dai traumi cerebrali non la si poteva tener lontana da una zona di guerra. Appena sentiva parlare di un villaggio decimato in qualche paese dal nome impronunciabile, il giorno dopo era sull'aereo.» «E non poteva continuare a occuparsi di questo restando al MidManhattan? Ha l'aria di una cosa molto nobile. L'ospedale avrebbe anche potuto trarne prestigio», disse Mercer. «I traumi non rendono, signori miei. La maggior parte delle vittime di incidenti automobilistici e dei poveri innocenti che si trovano in mezzo a una sparatoria non godono di assistenza sanitaria. Può sembrare cinico, ma all'ospedale porto molti più quattrini io che tutte le buone azioni di Gemma. Per la maggior parte dei neurochirurghi, il trauma è, diciamo, un pen-
siero secondario. E poi, il massimo esperto al mondo di neurotraumi si trova proprio qui a New York. Si chiama Jam Ghajar: una celebrità nel campo e un'autentica promessa per il futuro. Molto più giovane di Gemma e molto più alla mano. Immagino che per lei il campo fosse un po' troppo affollato. E a questo si aggiunga la nostalgia di casa.» Nel dottor Spector il confine tra la sicurezza di sé e la sfrontatezza era estremamente sottile. Chapman provò a riportare disinvoltamente il discorso sulla vita privata della Dogen: «Che altro sa del rapporto della dottoressa con Bill Dietrich, dottore?». «Che io non avrei dovuto nemmeno esserne a conoscenza, per prima cosa. Ho incontrato Geoffrey - l'ex marito - parecchie volte: congressi e convegni qui e là. Direi che ha avuto fortuna a liberarsi di lei. La seconda moglie è molto più affabile. Scioglie le difese, e i capelli. Gemma non mi ha mai detto molto, dal punto di vista sessuale. Ho sempre pensato che andare a letto con lei fosse come - mi scusi, signorina Cooper - come infilare le parti intime dentro una morsa. Ma molti uomini che le stavano intorno non sembravano preoccuparsi di quella prospettiva. Dietrich può dirvi molto meglio di me chi erano. Credo che a un certo punto lui volesse davvero sposarla. Parlava di aumento di stipendio. Gli avrebbe consentito una vita più agiata. Avrebbe potuto dedicarsi maggiormente alla sua grande passione: le macchine d'epoca.» «Dottore, lei prima ha avviato la conversazione con un ritratto assolutamente elogiativo di Gemma Dogen. Adesso la sta quasi coprendo di fango. È vero o no, che lei l'aveva invitata ad assisterla in un'operazione, la mattina che fu ritrovato il corpo?» «Non c'è dubbio che avesse delle capacità professionali eccezionali», rispose Spector. «Dava una bella sensazione di sicurezza averla accanto in sala operatoria e io la invitavo spesso. Ma una volta usciti da quella sala, era gradevole come unghie su una lavagna: ipercritica nei confronti di molti studenti, per non parlare dei colleghi. «Gemma ha fatto grandi cose per questo ospedale e per la scuola di specializzazione, ma credo che fosse arrivato il momento per lei di togliersi dai piedi. Non è un segreto: sarei stato felice di vederla andar via... in Concorde, però, non in una bara.» Spector aveva finito. Si alzò in piedi, ci disse che aveva una riunione in biblioteca e ci accompagnò alla porta. Prima di parlare, Mike aspettò che le porte dell'ascensore fossero chiuse:
«Avrei preferito interrogare un serpente. William Dietrich? Con quell'abbronzatura artificiale e la tintura ai capelli, potrebbe farsela sì e no con una proprietaria di lavanderia a gettone. Le toccherebbe lavare le lenzuola due volte al giorno, con tutta la roba che si mette addosso quello. Che ci faceva con uno così, la Dogen?». «Difficile dirlo. E allora, che ne pensi di Spector?» «Be', ha messo le carte in tavola. Ho avuto l'impressione che fosse molto esplicito e questa può anche rivelarsi un'arma a doppio taglio.» Mentre attraversavamo Manhattan per andare al New York Hospital, riesaminammo le risposte che ci aveva dato. La guardia di sorveglianza all'ingresso principale, sulla York Avenue, ci indirizzò all'ufficio della dottoressa Babson, in fondo al quarto piano. Quando bussai alla porta, ad aprire venne lei stessa, una donna minuta sulla cinquantina, coi capelli castani lunghi fino alle spalle e dolci occhi nocciola. «Sono Gig Babson. Il nome vero sarebbe Katherine. Accomodatevi.» Finalmente una donna, nonostante quel diminutivo da uomo. Ero contenta, soprattutto alla prospettiva di avere su Gemma un punto di vista femminile. Mentre Mercer faceva le presentazioni, gettai un'occhiata agli attestati esposti alle pareti: diploma al Vassar College nel '69 e laurea a Harvard nel '73. La dottoressa raccontò la storia dei suoi rapporti con la Dogen: «In realtà l'avevo conosciuta soltanto tre anni fa, quando ci siamo trovate a lavorare insieme. Facevamo parte dell'équipe di traumatologi che si occupavano del caso della piccola Vanessa. Forse ve lo ricordate». Certo che lo ricordavamo. Era una storia che aveva commosso tutti i newyorkesi. Un aereo privato si era distrutto nell'atterraggio all'aeroporto La Guardia e gli otto adulti che si trovavano a bordo erano morti sul colpo. Vanessa, che aveva quattro anni, era stata proiettata fuori dall'apparecchio ed era sopravvissuta senza nemmeno un'ustione, ma rimanendo in coma per sedici settimane. I parenti, persa ormai ogni speranza di una ripresa significativa delle funzioni cerebrali, avevano espresso il desiderio di staccarla dalle macchine che la tenevano artificialmente in vita. Ma un'équipe di neurochirurghi - di cui non ricordavo neanche un nome - aveva compiuto il miracolo. La bambina era uscita dal coma e nel giro di qualche mese aveva riacquistato tutte le facoltà mentali ed era stata dimessa. La foto di Vanessa sorridente, in piedi sulla scalinata del Mid-Manhattan davanti al gruppo di medici che le aveva ridato la vita, era un'immagine che tutti con-
servavano impressa nella memoria. «Sul lavoro Gemma era brillantissima. È stata lei a salvare la vita a Vanessa. Scoprì la lesione della corteccia frontale che aveva provocato il grumo di sangue. Mentre noialtri esitavamo di fronte al rischio di un intervento, fu Gemma a praticarlo e ad asportare il coagulo emorragico: ferma, coraggiosa e assolutamente impeccabile sul lavoro. Senza l'intervento di Gemma quella bambina sarebbe rimasta un vegetale.» «Ci fornisca l'altra faccia della medaglia, dottoressa, se non le spiace. Perché», domandai, «perché qualcuno le voleva male?» «Lei crede davvero che Gemma sia stata un bersaglio voluto? Cioè, non è stato un ladro o un senzatetto in cui lei si è imbattuta per caso durante la notte? È così difficile crederci. Sapete, pensavamo tutti che fosse matta a restare in ufficio di notte, a fare gli orari che faceva. Neanche ci sognavamo che non fosse al sicuro dentro l'ospedale, ma certo io mi preoccupavo dei suoi andirivieni da casa. Purtroppo non c'era modo di farle cambiare abitudini. Non aveva molto bisogno di sonno. Per lei era normale restare in ufficio per metà della nottata, non tornare a casa prima delle tre del mattino. Un paio d'ore di riposo, poi via, in piedi, a fare un po' di jogging all'alba. Chi la conosceva, sapeva benissimo quando trovarla al Minuit.» «Lei era al corrente del suo progetto di andarsene da New York e tornare a Londra?» «Sapevo solo che ci stava pensando. Niente di sicuro, ma ne aveva abbastanza del Mid-Manhattan.» «Non c'era sufficiente lavoro sui traumi?» La dottoressa mi guardò con aria interrogativa: «A New York? Vuole scherzare?». «Be', il dottor Spector dice che...» «Lasci perdere ciò che dice quello lì. C'era una sola persona con cui Gemma si confidasse su quell'argomento, cioè Geoffrey Dogen, il suo ex marito. Nemmeno a me aveva rivelato niente.» «Come mai?» «Non voleva che io fossi coinvolta. Cercava di tenermi al riparo dalle lotte interne con l'amministrazione. Io ero un po' più giovane e non voleva che mi rovinassi la carriera come sentiva che stava succedendo a lei.» Ci guardammo perplessi. Di che lotte interne si trattava, se non era per la questione di cui ci aveva parlato Spector? «E perché si stava rovinando la carriera?» «Sapete che era una che non aveva peli sulla lingua, vero? Immagino
che Bill Dietrich ve l'abbia detto.» «A dir la verità», confessai con più candore di quel che avrebbero mostrato a quel punto Chapman e Wallace, «nessuno ci ha detto niente del genere. Eravamo tutti convinti che il delitto fosse l'atto casuale di un estraneo, dottoressa Babson. Lei sa chi molestava Gemma?» «Molestava? Lei non mi ha mai parlato di molestie. Ma qualora si fosse dimessa dal Mid-Manhattan, lo avrebbe fatto con una dichiarazione sconvolgente alla comunità medica. Questo è quanto posso assicurarvi. Non se ne sarebbe andata in punta di piedi.» «Be', che cosa avrebbe dovuto rivelare?» «Non ne sono sicura. Un dilemma etico. Aveva a che fare con il Minuit, con la scuola di specializzazione, più che con l'ospedale vero e proprio. Voleva che tutti rispettassero le regole che imponeva a se stessa: un fardello straordinariamente gravoso, si direbbe irragionevole. C'era uno studente che veniva dalla California, il quale aveva fatto domanda di internato in neurochirurgia con Gemma. Qualcuno la avvertì che nella domanda aveva mentito sul titolo di studio o qualcosa del genere. Lei lo buttò fuori dal corso, anche se un paio di colleghi lo avrebbero voluto tenere comunque. Questo tipo di cose la faceva sempre infuriare. E ogni volta che succedeva, tutti cercavano di chiuderle la bocca. Nessuno voleva che lavasse i panni sporchi in pubblico: spaventava i possibili pazienti e così via. Ma quando montava sul suo cavallo bianco, farla scendere era impossibile.» Il trillo acuto di un cercapersone riempì la stanza. Tutti e quattro portammo la mano alla vita, poi ci guardammo scoppiando a ridere. «Come facevamo, prima che inventassero questi aggeggi?», esclamò la Babson. Era il suo. Alzò il telefono per sentire il motivo per cui la chiamavano. «Possiamo interromperci qui, per il momento?», ci domandò. «Devo andare al pronto soccorso. Un bus sulla 2a Avenue è andato fuori strada ed è finito sul marciapiede. Stanno portando qui alcuni pedoni investiti e vogliono che io sia presente in caso di necessità.» «Vorrei parlare ancora con lei, dottoressa, dopo che avremo sentito Bill Dietrich.» «Certo. Mi chiami ogni volta che posso esserle utile.» La Babson ci accompagnò alla porta. «Sa dirci niente della storia con Dietrich? Personalmente, intendo dire», chiesi uscendo. «Ero contenta che fosse finita. Non mi sono mai fidata di quell'uomo. C'è qualcosa di sordido in lui, non proprio di cattivo. Ma lei si sentiva sola,
credo, e le sue attenzioni la lusingavano. Lui l'ha corteggiata insistentemente per un po'. Poi lei non ne ha più parlato. E durante le ultime battaglie si sono sempre trovati su fronti opposti. È un vero profittatore. Non riesco a immaginare che cosa mai ci vedesse Gemma, per cui non è che la incoraggiassi a parlarne.» Chiamai l'ascensore, mentre la Babson apriva la porta dell'uscita di sicurezza per scendere al pronto soccorso dalle scale di servizio. Mercer aveva un'ultima domanda: «È mai andata a una partita di baseball con la dottoressa Dogen?». «Scusi?» «Era un'appassionata di sport? Baseball? Football?» «Gemma era una magnifica atleta. Amava lo sforzo fisico. Corsa, canoa, sci. È un tipo di impegno per il quale però io non trovo il tempo. Non sono mai andata a nessuna partita con lei. E non ricordo che Gemma me ne abbia mai parlato. L'unica ragione per cui vado allo Yankee Stadium, una volta all'anno, sono gli hot dog. Non sarei in grado di dirle proprio niente su questo aspetto della sua vita. Mi dispiace.» Sparì giù per le scale prima che l'ascensore aprisse le porte per portarci nell'atrio. Quando uscimmo dall'ospedale erano le cinque. «Dove si va?» «Che ne direste di una bella cena casalinga, tanto per cambiare?», chiese Mercer. «Io no, ragazzi.» «No, no. Prendiamo qualcosa al supermercato. Cuciniamo Mike e io. Tutto quello che devi fare tu è mettere i piatti nella lavastoviglie.» «Affare fatto.» Non eravamo molto lontani da casa mia. Aspettai in macchina, mentre loro saccheggiavano un negozio di alimentari. Ne uscirono dieci minuti dopo con sacchetti pieni di roba da mangiare. «Okay. Ci facciamo un'insalatona imperiale, petti di pollo alla senape secondo la ricetta di mia madre e fagiolini sauté.» «All'aglio», aggiunse Mike. «È un problema per la tua vita sentimentale?» «È fuori città, Mickey. Andiamo.» Posteggiammo nella 3a Avenue e arrivammo a piedi a casa. Nell'ingresso, al posto del guinzaglio di Zac, c'era un mazzo di fiori e un biglietto della domestica di David, che si era ripresa la mia compagna del fine settimana per conto del padrone. Mike e Mercer si misero ai fornelli, mentre io
indossavo la salopette e sentivo la segreteria telefonica. C'era un messaggio di Drew, che mi aveva cercato invano in ufficio, uno di mia madre che mi ricordava il compleanno di mia cognata e una chiamata sconclusionata di Nina, da un ingorgo sulla tangenziale di Santa Monica. Osservai i miei due cuochi tagliare, affettare e spremere i vari ingredienti fino a trasformarli in un pasto. Il blazer di Mike e la giacca di Mercer erano poggiati sul divano, le cravatte in tasca. Avevano le maniche rimboccate e, dal CD, Martha Reeves cantava per loro. «Siamo pronti», disse Mercer. «Ceniamo dopo il notiziario, d'accordo?» Andammo in salotto e, in attesa del notiziario delle sei e mezza, versai da bere. Mike telefonò al tenente Peterson per riferire l'esito dei due colloqui e sapere come era andata al resto della squadra. Gli investigatori continuavano a perlustrare i corridoi del rifugio atomico sotterraneo, parlando coi vagabondi alla ricerca di tracce. Mike riattaccò e ci guardò: «Peterson vuole sapere che ne pensiamo. Gli ho detto che ancora non ne avevamo parlato». «È tutto il pomeriggio che mi rodo. Che cosa penso io? Sono convinta che abbiamo sbagliato tutto fin dal principio. Fin dal primo momento che voi siete arrivati sulla scena del delitto.» Mercer si piegò in avanti, col bicchiere in mano, e annuì lentamente. Sapeva dove andavo a parare. «Credo che abbiate visto esattamente quello che l'assassino voleva che vedeste: un delitto sessuale. La vittima che muore cercando di resistere al violentatore. Un'aggressione casuale da parte di un pazzo a cui è capitato di imbattersi in una donna tutta sola in ufficio nel bel mezzo della notte, per caso e fortuitamente. E penso che sia tutta una stronzata.» Mike spense l'audio del televisore e mi fissò. «La morte di Gemma Dogen è stato un assassinio puro e semplice», dissi. «Chi l'ha commesso ha inscenato uno stupro per metterci fuori strada, indurci a cercare una persona che non avesse rapporti con la Dogen. Come Pops. Come "il lattinaro". Il posto è pieno di gente così. Ammazzala. Toglile le mutandine, tirale su la gonna. Falli pensare a un delitto sessuale. Credo che nessuno abbia cercato di violentarla. Probabilmente chi l'ha uccisa non desiderava affatto un... rapporto sessuale con la dottoressa Dogen, di qualsiasi tipo.» «Forse volevo tanto che tu lavorassi con noi a questo caso da non prendere nemmeno in considerazione la possibilità di una messinscena, quella mattina», replicò Mike.
«Non è logico? L'assassino lascia il corpo in modo che sembri uno stupro... o un tentativo di stupro. Ma non c'è sperma, nessuna prova nelle ferite, nemmeno un pelo pubico dell'assalitore sul corpo della vittima. Certo, potrebbe essere stato interrotto o costretto a scappare da qualche cosa che lo ha spaventato, ma scommetto che non voleva nemmeno provarci a violentarla. Più ne sappiamo, sulla Dogen», proseguii, «più mi viene da pensare che qualcuno la voleva morta e ha avuto il buon senso di progettare tutta questa messinscena per portarci fuori strada.» «Stanno perdendo tempo, in quei sotterranei, dietro ai barboni. Deve essere uno ben sano di mente, come quelli con cui abbiamo parlato, in completo grigio o in camice bianco», disse Mike. «Come ti ha detto Spector», osservò Mercer, «questi dottori sono già nel panico perché ti occupi del caso.» «Che asini. È difficile trovare una che rispetta la professione medica più di me. I due uomini a cui ho voluto più bene al mondo», replicai, pensando a mio padre e ad Adam, il fidanzato che avevo perduto, «erano medici... le persone più generose e dedite agli altri che abbia mai conosciuto.» «E poi», aggiunse Mike, «nessuno dice che l'assassino sia un dottore. Ma ci sono ottime probabilità che sia uno che conosceva bene la Dogen. Conosceva le sue abitudini, i suoi orari. Sapeva che tutti l'avrebbero ritenuta tanto forte da opporre resistenza al violentatore e da provarci anche se quello era armato.» «Io credo che domani passeremo un'altra giornata al Mid-Manhattan», disse Mercer. «Chi è che rintraccia il marito? Ne avete idea?» «Sì, il tenente ha detto di aver telefonato a Londra e di averlo trovato. Molto collaborativo, sconvolto al punto giusto. Ha detto a Peterson che era come aver perso la sua più cara amica.» «Spero che cercheranno di farlo venir qui a fare due chiacchiere con noi. Forse potrà fare un po' di luce su Gemma.» Discutemmo amichevolmente durante tutto il notiziario, rimbeccandoci a vicenda sui testimoni che ci piacevano e quelli che non ci piacevano, e sull'ordine da dare agli interrogatori in programma per la settimana. Quando vide i titoli di testa di «Ultimo Azzardo», Mike ci zittì. Al culmine del programma, siccome né Mike né io prendevamo molto sul serio il primo giro di quesiti, Mercer telefonò a Maureen per sentire come stava. Le parlammo tutt'e tre e mi raccontò la sua giornata. Durante il giro di visite neurologiche, era passato da lei John DuPre: «È uno dei due medici che hanno trovato Pops in radiologia, vero? Ho avuto
la tentazione di cedergli e di farmi fare una visita completa. Non è bello, Alex? Proprio uno schianto». «Te lo dico domani, se mi piace. Mike vuole risentirlo. Abbiamo promesso a tuo marito che nessuno ti avrebbe messo le mani addosso, Mo. Fa' la brava.» «E che altro potrei fare? Oggi, al solarium, le uniche notizie le ho avute dalla mia vicina di stanza. Dice che il suo internista le ha raccontato che Gemma aveva un debole per quelli più giovani.» «Giovani quanto? Ha fatto nomi?» «Be', quella che mi ha raccontato questa storia ha ottantadue anni per cui qualsiasi età per lei significa giovane. No, mi spiace, niente nomi.» «Domani viene a trovarti Sarah. Intanto, qui, gli altri due moschettieri mi preparano da mangiare e da bere.» «Sono gelosa. Fatti viva.» Trebek stava arrivando al gran finale della trasmissione: il linguista cieco di Tampa superava gli altri due concorrenti di quattromila dollari. «Oggi l'argomento della domanda finale», annunciò, «è "Arte". Ci rivediamo dopo l'interruzione pubblicitaria.» Mike gridò allo schermo: «Ma come diavolo gli viene in mente di fare a un cieco una domanda di arte? È una vergogna... è discriminazione, è...». «È, fondamentalmente, che lei è un ignorante in quel campo, ispettore Chapman», dissi strizzando l'occhio a Mercer e imitando il tono di un avvocato che interroga un testimone in aula. «Non è forse vero?» «Cinque dollari, Coop. È quello che ci metto.» «Spiacente di nuovo, Chapman. La puntata minima della casa è dieci dollari. Avrei voglia di arrivare a puntare un cinquantone su questa domanda. Così potrei riguadagnare tutti i quattrini che mi hai preso.» Come al solito, l'arbitro era Mercer: «La posta è dieci dollari». Trebek guardò il trio di tesissimi candidati che gli stava di fronte e lesse la risposta di cui dovevano indovinare la domanda corrispondente: «Pittore fiammingo del Diciassettesimo secolo, famoso per le sue miniature di ricchi borghesi, la cui opera più nota è La pace di Münster». Mentre una musichetta scandiva il tempo, Mike si mise a sbraitare comicamente che nessuno dei concorrenti avrebbe saputo rispondere a una domanda così difficile. «No, mi dispiace, signor Kaiser», disse Trebek al primo concorrente: «Frans Hals è un ottimo tentativo, ma ha sbagliato di una generazione». «Vuoi che te lo dica prima che lo faccia lui, così sai con chi hai a che fa-
re?», chiesi a Chapman mentre il secondo concorrente sparava a casaccio il nome di Rembrandt. «Lo vedi, Mercer? Ecco che razza di stronzate insegnano nei collegi per brave bambine. Ecco perché sono così arroganti quando escono da lì. Allora, chi è, Blondie?» «Chi è Gerard Terborch?», dissi, rispettando la regola fondamentale del quiz che voleva che la risposta fosse formulata come una domanda. Trebek era impegnato a consolare il cieco, che non aveva la minima idea della risposta e aveva lasciato completamente vuota la scheda Braille su cui avrebbe dovuto scriverla. «È da non credere quanto è inutile la roba che hai imparato al college. È incredibile che tu sia riuscita a trovare un lavoro.» «Non l'ho imparato a scuola», dissi, mentre Mercer aspettava che Trebek confermasse la mia risposta per poi spegnere il televisore. Quindi riaccese il lettore CD per ascoltare Rod Stewart in Concert e ci fece tornare in cucina. «Lo so, lo so. Probabilmente il tuo vecchio ne ha uno. Un quadretto di un tizio con la pelata e la pipa in bocca appeso accanto all'armadio guardaroba nella casa vecchia, prima che traslocassero, vero? Mia madre invece, Mercer, ha ancora le copertine di Norman Rockwell strappate dal «Saturday Evening Post» nel 1952, attaccate al muro con le puntine da disegno, una per ogni stanza. Non illuderti che io paghi la scommessa, Coop. Se tu fossi davvero sportiva, venderesti quel babbeo - quel Terborch - e ci manterresti tutti e tre per il resto della vita. Mangiamo, adesso.» Portammo in tavola la cena. Accesi le candele e mi sedetti in mezzo ai miei due amici, contenta del diversivo offerto da quella serata ai problemi dell'inchiesta. Misi le acciughe al bordo del piatto e portai la prima forchettata alla bocca. Era ormai mezz'ora che mi ero del tutto dimenticata di Gemma Dogen quando la voce stridula di Rod Stewart mi ricordò di colpo che il primo taglio è sempre il più profondo. Taglio, sangue, scena del delitto. Mi ero dimenticata di confrontare il mio elenco di iniziali con le macchie sul pavimento. Capitolo 18 Alle otto di martedì mattina trovai un messaggio di Rose Malone nella casella vocale dell'ufficio: «Alex, ha chiamato il signor Battaglia dall'auto.
Alle nove ha una riunione dal capo della polizia. Ti vuol vedere appena rientra. Mi ha detto di bloccarti prima che tu esca per gli interrogatori». Dai, Rose, dammi un'indicazione. Che aria tira? Il tono era molto professionale e non riuscii a indovinare. Passai la prima ora al computer, a scrivere lettere di dispensa per i testimoni i cui casi erano stati risolti, e a rispondere alla posta ricevuta da Battaglia in merito a certe proposte di modifica legislativa. Rod Squires passò per avere notizie dell'inchiesta e parlarmi del nuovo lavoro della moglie. La visita di cortesia nascondeva un'informazione, in realtà: Patrick McKinney aveva incominciato con le sue solite pugnalate alla schiena. Rod lo aveva sentito dire a Battaglia che certi agenti investigativi, ancora convinti che Pops e «il lattinaro» fossero i probabili colpevoli della morte della Dogen, avevano la sensazione che io stessi perseguitando il personale medico del Mid-Manhattan e del Minuit. «Accidenti. Probabilmente è per questo che il principale vuole vedermi. Se faccio troppo chiasso all'ospedale, il consiglio di amministrazione, compresa la signora Battaglia, cercherà di mettermi a tacere. Pensi che sia ora che mi faccia ricoverare allo Stuyvesant in camicia di forza, o mi difendi tu in tribunale, se sparo a McKinney?» «Ti copro le spalle, Alex. Ho solo pensato di farti sapere che certe cose non cambiano mai. Pat ce l'ha ancora con te.» Rod vegliava su di me fin dai miei primi tempi lì dentro, e io contavo sulla sua fedeltà e sul suo appoggio tutte le volte che ero troppo presa per potermi guardare le spalle da sgambetti e frecciate. Laura non era ancora arrivata e risposi io alle telefonate che cominciarono a piovere dopo le nove. La terza era di Drew. «Buongiorno. E voglio proprio dire buongiorno. Su questa costa sono le sei di mattina. Ti disturbo?» «Tempismo perfetto. Il capo se n'è appena andato e i clienti non si sono ancora messi in coda.» «Be', io ho appena aperto le tende. Sono in cima a Stockton Street, con la vista sulla baia, ed è stupendo. Volevo fare un altro tentativo per convincerti a venir qui per il fine settimana...» «Non posso proprio, Drew. Non ho idea di come andrà a finire questa cosa, ma adesso ci siamo proprio nel mezzo.» «Ti va di tenere un po' di tempo libero per me, durante il fine settimana, allora? Prendo il volo diretto di giovedì sera. Ceniamo insieme venerdì?» «Certamente.»
«Scegli il posto. Ti richiamo, Alex.» Sfogliai l'agenda da tavolo per vedere che impegni avevo. Niente di strano che l'umore fosse migliorato di colpo. Non solo un nuovo uomo, ma anche un nuovo mese. Laura entrò con una torta al caffè che aveva preparato la sera prima: «Prendine un po'», disse mettendomi davanti una fetta. «Ma come fai a tirare tutto il giorno senza una buona colazione la mattina? Ha telefonato Patti. È stata all'ufficio Prima Valutazione.» Era l'ufficio dove ogni giorno, dalle otto a mezzanotte, venivano inviati i nuovi arresti. «Ha avuto un caso di cui devi assolutamente essere informata, per cui sta venendo qui con il poliziotto che ha effettuato l'arresto. E poi ha chiamato il tuo dentista. Ti devo confermare l'appuntamento di lunedì per la consueta pulizia?» «Sì, grazie. Mi occupo io di Patti.» Pochi minuti dopo arrivò Chapman, accompagnato da Mickey Diamond che stava effettuando il suo giro giornaliero per gli uffici prima di andare al giornale. Il cronista, alto e magro, con i capelli d'argento e una malconcia giacca da aviatore di cuoio marrone, era un appuntamento fisso ogni mattina. Riuscii a liberarmene in modo da scoprire prima di lui in che cosa consistesse il nuovo caso, ma ero sicura che aveva mangiato la foglia e che sarebbe tornato a verificare il motivo di tanta fretta. Subito dopo comparve nel corridoio Patti Rinaldi, altra collega da tempo addetta alla mia sezione. Era elegante e intensa, magra e alta come me, con una massa di riccioli scuri. Lei e l'agente Kerrigan, che io non conoscevo, entrarono mentre Chapman si sedeva in un angolo a scorrere i giornali. «Fino a ora sono arrivati due casi nuovi, oggi. Il primo è uno stupro nel corso di un appuntamento. Nessun problema: lo presento al Gran Giurì domani mattina. La vittima è attendibilissima. È una laureanda alla New York University. L'altro, invece, è davvero ostico e ho pensato che tu e il principale doveste essere messi al corrente. L'imputato si chiama Fred Werblin. Ne hai mai sentito parlare?» «No», dissi scuotendo la testa. «Perché?» Kerrigan ridacchiava, chiaramente ansioso di dir la sua. Con un pesante accento irlandese e un sorriso cordiale, mi diede la notizia: «È un rabbino, signorina Cooper. Ma se lo immagina? Un rabbino che abusa sessualmente di queste donne?». «Calma, Brian», l'avvertì Chapman: «La signorina Cooper è ebrea». «Oh be'», disse lui un po' stupito: «Non lo sapevo. Non si direbbe dal nome».
«Ellis Island, dove venivano accolti gli immigrati, era terreno neutro», replicò Chapman. «In quel modo non risultava l'espatrio. E quando il nonno scendeva dalla nave, non doveva far altro che accorciarsi il cognome, vero, Coop?» «Be', non intendevo dir niente», disse Kerrigan. «È solo che... be', i giornali hanno fatto un sacco di chiasso quando quel prete del Rhode Island è stato condannato, la settimana scorsa. Quello che molestava i ragazzini. Una cosa terribile per la Chiesa. E così mi ha fatto sentir meglio sapere che non siamo solo noi ad avere questo tipo di problema. Non intendevo offenderla, signorina Cooper.» «Nessuna offesa, agente. Sì», dissi, «sono ebrea. E le posso dire una cosa: in fatto di reati sessuali non ci sono distinzioni. Abbiamo imputati di tutte le provenienze etniche, razziali, religiose ed economiche. Sentiamo che cosa c'è.» «È davvero una tragedia», cominciò Patti: «Werblin ha cinquantacinque anni, abita dopo la 60a Est. Non ha una sua congregazione, Alex. È uno studioso e uno scrittore. Soffre di manie depressive, regolarmente diagnosticate». «È in cura?» «Dice di essere stato in cura al Payne Whitney. È stato sotto litio, ma ha smesso, cosa che è avvenuta quando sono cominciati questi episodi.» «Episodi? Più di uno?» «Già», intervenne Kerrigan: «Tre denunce da donne diverse». «Che cosa è successo?» «C'è un'impresa di pulizie. Si chiama Happy Elves. Li chiami e loro vengono a pulire l'appartamento o l'ufficio. Werblin chiede una donna delle pulizie. Quando le apre la porta, la mattina, è in vestaglia. La signora entra e comincia a riassettare la casa. Lui di solito aspetta finché quelle non sono in cucina, poi esce dalla camera da letto... senza niente addosso. Le costringe in un angolo, le afferra e comincia ad accarezzarle e baciarle dappertutto. Sono tutte riuscite a liberarsi e ad andarsene. L'ultima l'ha rincorsa per il corridoio con un forchettone dal manico di legno, di quelli da barbecue.» «Tutt'e tre la stessa cosa?» «Be', signorina Cooper, non proprio. Vede, sono tutte immigrate. Senza permesso. Due dell'Europa orientale, una cinese. Le prime due non hanno detto niente, si sono soltanto rifiutate di tornare in quella casa. Scommetto che avevano paura di essere espulse, se dicevano qualcosa. Quando si è
fatta avanti la terza, il proprietario dell'impresa ha chiesto alle altre se avevano avuto qualche brutta esperienza in casa del rabbino. È stato così che si sono confidate anche le prime due.» Mi rivolsi a Patti: «Hai già interrogato le donne?». «No. L'agente Kerrigan mi fisserà i colloqui.» «Bene. Ne parlerò a Battaglia quando lo vedo, stamattina. Parlando con queste donne, accertatevi che raccontino la storia per intero.» Era una cosa comune che le vittime, soprattutto quelle che avevano paura di essere coinvolte in un caso giudiziario, tendessero a minimizzare le violenze che avevano subito. Gli immigrati clandestini hanno paura dell'espulsione o di una condanna e di rado sanno di essere tutelati dalla legge americana. Qualunque sia il loro status, invece, hanno il diritto di essere aiutati e di godere di ogni appoggio che si possa offrire loro. «Patti avrà bisogno di interpreti, agente?» «Già, mi farò dire dall'impresa che lingue parlano. Ci pensa lei a trovarli?», chiese Kerrigan. «Certo.» Avevamo traduttori giurati su chiamata per più di cinquanta lingue e dialetti. Condurre l'interrogatorio nella lingua in cui la testimone si sentiva più a suo agio era sempre garanzia di una deposizione più accurata. «Mettila in calendario al Gran Giurì il più presto possibile, Patti. Penso che si possa prevedere una richiesta di perizia psichiatrica da parte della difesa e ti darò una mano. Grazie per avermi informata subito. Se il rabbino ha dei precedenti, chiedi la cauzione. E, mi raccomando, fa' in modo che quelle donne si convincano che ci occuperemo di loro... non hanno niente di cui preoccuparsi.» La linea diretta con Battaglia cominciò a squillare e lampeggiare proprio mentre Patti e Kerrigan si congedavano. «Hai un minuto?», chiese il procuratore. «Vieni qui. Porta anche il tuo compare, se è lì.» «Vuole anche te, Mickey. Andiamo.» Rose era allegra e fu contenta di vederci. «La prossima volta che vengo, ti offro il pranzo. Sei l'unica persona di tutta la procura distrettuale che diventa sempre più carina ogni anno che passa», la salutò Mike. «Tutto quel fumo di sigaro deve fare miracoli alla tua pelle.» «Entra, Alex», disse lei, schernendosi alle galanterie di Mike con un gesto della mano, come faceva sempre. Erano vent'anni che Rose lavorava in mezzo ai poliziotti e sapeva esattamente che peso attribuire ai loro com-
plimenti. Ma, se non altro, la sua calda accoglienza lasciava intendere che non stavo per affrontare il plotone di esecuzione. «Sedetevi», disse Battaglia, mordendo un mozzicone di sigaro spento e indicandoci le poltroncine di cuoio rosso di fronte alla scrivania. «Ho appena visto il tuo principale, Chapman. Sto cercando di rafforzare il mio nucleo di polizia giudiziaria, qui. Sa essere duro, il tuo capo.» «Posso chiedere chi ha vinto?» Le labbra di Battaglia si ritrassero intorno alla punta del mozzicone, in un largo sorriso: «Non duro fino a quel punto. Ho ottenuto altri sei ispettori investigativi a partire dal mese prossimo. Già che c'ero, gli ho chiesto se potevo prenderti in prestito per qualche giorno. Immagino che avrei fatto meglio a parlarne con te, prima». «A sua disposizione, signor B.» «Mia moglie ha ricevuto una telefonata alle sette, stamattina. Era il direttore del consiglio d'amministrazione del Mid-Manhattan, per dirle che gli ha telefonato Geoffrey Dogen. Questo Geoffrey è l'ex, dico bene? Prontissimo a collaborare. È consulente dell'Università di Londra. Aveva il programma del convegno a cui dovrei partecipare questa settimana e voleva sapere se ero disposto a incontrarlo lì. Non può venire qui perché è stato quasi tre settimane sull'Himalaya e ha in programma delle operazioni da fare.» Battaglia non aveva perso un momento. Stava tramando qualcosa fin dalla sveglia che il direttore del consiglio d'amministrazione aveva dato alla moglie quella mattina. E il suo bersaglio eravamo noi. «Voi due mi risparmiereste un sacco di grane se andaste al posto mio. Alex può partecipare alle riunioni del convegno e sproloquiare ad alto livello sulle prospettive criminali del Ventunesimo secolo, e tu puoi fare a Geoffrey Dogen le domande che volevi gli ponessi io. E io posso rimanere qui... per stare alle calcagna del senatore, con sua grande disperazione.» «Parla sul serio?» «Il capo della polizia ha accettato di addebitare il tuo viaggio al dipartimento. Il soggiorno è interamente a spese del comitato organizzatore del convegno. Si tratta di un viaggio di sole quarantott'ore, ma se la cosa può esservi utile per le indagini, dovreste proprio andare.» «Ho già i bagagli pronti», disse Chapman entusiasta. «Ad Alex piacerà moltissimo», proseguì Battaglia. «Il convegno si tiene in una di quelle Stately Homes, le grandi dimore nobiliari che vengono date in affitto per occasioni come queste. È a un'oretta da Londra, a Cliveden.
Ne hai sentito parlare?» «Lady Astor?» Sapevo che l'ereditiera americana Nancy Astor era stata la prima donna a sedere in parlamento, alla Camera dei Comuni, alla fine della prima guerra mondiale, e che, un decennio dopo, l'alta società di Cliveden era ben nota per i suoi sentimenti filonazisti. I ricordi di Chapman erano diversi: «John Profumo, Christine Keeler, nuotare nudi, spie russe?». Battaglia fu sorpreso: «Credevo che fossi troppo giovane per sapere queste cose». «Profumo era ministro della difesa. Io in storia sono un mago, signor B. Certi usano i trucchi mnemonici per ricordarsi le cose. A me, datemi uno scandalo e non lo dimentico più.» «Penso che la cosa funzionerà benissimo. Mia moglie sarà elettrizzata. Si toglie dai piedi il consiglio e ha il tempo di finire il quadro a cui sta lavorando.» Amy Battaglia era un'artista di talento le cui opere erano esposte in vari musei americani. Battaglia scartabellò tra le montagne di carta che inondavano il tavolo, tirò fuori il programma del convegno e me lo passò. «Conosci il comandante Creavey, vero?», mi domandò poi. «Sì, Paul, abbiamo lavorato con lui tutti e due.» Il comandante John Creavey era direttore del servizio informazioni a Scotland Yard. Grosso, l'aspetto da orso, baffi a cespuglio, occhiali con la montatura di metallo, accento cockney, e una conoscenza enciclopedica sui delitti di Jack lo Squartatore: l'anno prima Creavey aveva passato da noi due settimane per studiare i metodi della squadra Omicidi del dipartimento di polizia di New York. «Be', a capo della delegazione britannica ci sarà lui. Il convegno sarà presieduto da Lord Windlethorne, professore di diritto a Oxford. Non lo conosco. Lui presenterà una lunga relazione, ma il resto sarà semplicemente una serie di tavole rotonde e di dibattiti.» «Creavey è un investigatore di prim'ordine, Paul. Forse ci può aiutare scambiando con noi qualche idea sulla nostra indagine.» «Prenderete il volo dell'American Airlines alle sei e quindici, domani sera. Vedi se riesci a tenere Chapman alla larga da quei pub, Alex. Fate in modo che il viaggio serva a qualcosa. Rose vi confermerà tutti i particolari di viaggio e soggiorno.» Mike uscì per andare a parlare del viaggio con Rose e io mi fermai a informare Battaglia dei colloqui che avevamo avuto il giorno prima sulla
Dogen e del nuovo caso assunto da Patti. Dissi a Laura di controllare la mia agenda e spostare tutti gli appuntamenti in programma per gli ultimi giorni della settimana: «Quei colloqui che avevo annotato a matita per giovedì e venerdì devono essere rinviati di qualche giorno. Non sono urgenti. Di' a Gayle che domani mattina ci sarò certamente, per la lettura della sentenza. E chiama la mia amica Natalie, per piacere: falle avere il mio biglietto per il balletto di giovedì sera. Dille che Kathleen Moore e Gil Boggs fanno Manon: non se li perderà. Se telefona uno che si chiama Drew Renaud, passamelo subito, qualsiasi cosa io stia facendo. Ho assoluta urgenza di parlargli». L'ultima cosa al mondo che mi sarei aspettata era una spedizione all'estero. Per un pubblico ministero di New York, il massimo dell'eccitazione in fatto di viaggi di lavoro erano il Bronx, Brooklyn, e certe volte perfino una corsa su per il fiume Hudson fino ad Albany, la capitale dello stato. Mike e io saremmo partiti mercoledì sera, il convegno durava due giorni e saremmo tornati sabato pomeriggio. Tra gli impegni di Drew e i miei, era ovvio che il nostro sarebbe stato un corteggiamento lungo e lento. Laura passò una telefonata a Mike. Era David Mitchell, che chiamava dalla camera di Maureen all'ospedale per dirci che era tornato e per sapere se avevamo informazioni. «Veda un po' se può far chiacchierare qualcuno del college, dottore. Un'amica della Dogen sostiene che era sul sentiero di guerra per certi problemi... questioni di credenziali, o di ammissioni al corso di studenti non sufficientemente qualificati. L'ha definita una che non aveva peli sulla lingua, cosa che nessuno del Mid-Manhattan ci aveva detto. Può darsi che a lei dicano qualcosa di più.» David assicurò che ci avrebbe provato e salutò, anche a nome di Mo. Mike rimase al telefono per organizzare i colloqui al Minuit Medical College. Bill Dietrich aveva acconsentito a prestarci il suo ufficio e, dopo aver parlato con lui, avremmo fissato appuntamenti con i medici, le infermiere, i docenti e gli studenti che dovevamo interrogare. «Mi tieni ancora all'oscuro?», chiese Mickey Diamond, sbirciando da sopra le spalle di Laura che cercava di nascondergli la mia agenda: «Al mio direttore la storia di oggi è piaciuta molto. Mi rilasci una dichiarazione?». «Ma come fai a saperlo già? Ancora non si è asciugato l'inchiostro sulla denuncia! Siamo stati noi o la centrale?» «"Rabbino libidinoso". Ecco come titoliamo. In quarta pagina nell'edi-
zione della sera. Un buon cronista non rivela mai le sue fonti, lo sai bene.» «No, niente dichiarazioni per te. E non inventartene una, stavolta. Chiaro? Non me ne importa niente di quanto mi fai sembrare eloquente, non voglio che mi si attribuiscano dichiarazioni su un caso ancora aperto.» Chapman e io indossammo il soprabito. «Dove state andando?», insistette Diamond. «A cercare qualche altro vecchio senzatetto per rompergli le balle, Alex? O hai qualcosa di nuovo sul caso Dogen, una vera traccia?» «Sparagli, Chapman, per piacere. Vuoi sparire, Mickey? Non ce l'hai un orario da rispettare?» «Noo. Appena voi due ve ne andate, mi attacco alla scrivania di Laura e vedo che cosa riesco a farle sputare.» Era impossibile insultare Mickey Diamond e riuscire a rovinargli il buon umore. Era allegro e imperturbabile, e tra le curiosità del palazzo di giustizia ci sguazzava. Mike e io dovevamo incontrare Mercer nell'ufficio di Bill Dietrich, nell'ala amministrativa del complesso ospedaliero. Dietrich ci avrebbe fatto avere il pranzo nella sala del consiglio in modo che potessimo lavorare per tutto il pomeriggio senza interruzioni. Attraversammo Manhattan con la macchina di Chapman, in mezzo al fango e alla neve sporca dell'ultima tormenta, che si scioglieva al caldo fuori stagione di quella giornata di sole. «Dietrich ha chiesto se ai colloqui può assistere qualcuno dell'ufficio legale dell'ospedale. Io gli ho detto che dovevi decidere tu.» «Negativo.» «È quello che penso io, Coop?» «Già. Traduzione: controllo legale. Strizza al culo. Da quando c'è stato il delitto, devono essere stati bombardati a destra e a sinistra da richieste di danni civili da parte di tutti i pazienti che avevano lamentele per qualcosa che gli è successo lì. L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un avvocato dell'ospedale che vada a riferire tutto quello che gli interrogati ci dicono. Roba da inibire anche il più ingenuo dei testimoni, ti pare?» «Per me sta benissimo. Gli dirò di no.» Posteggiammo davanti al complesso e Mike mise sul cruscotto l'autorizzazione alla sosta della polizia. I guardiani di servizio all'ingresso a quell'ora sembravano abbastanza svegli da riconoscerci e ci fecero cenno di passare senza chiedere i documenti. Mercer ci stava aspettando nell'anticamera di Dietrich. La segretaria fece strada lungo il corridoio fino alla sala del consiglio. Le dissi di riferire a
Dietrich che preferivamo condurre i colloqui senza la presenza dei suoi legali. Questo dovette costringere il suo principale a qualche contromossa, perché ci tenne in attesa per un'altra mezz'ora, prima di fare la sua comparsa. Chapman mise gli occhi sulla distesa di roba da mangiare apparecchiata sul buffet. Afferrò un piatto di plastica, spalmò di senape due fette di pane di segale, farcì il panino di prosciutto, formaggio e pomodori e, mentre aspettavamo, si mise a mangiare. Mercer e io ci servimmo di insalata fresca, mentre lui raccontava dell'interminabile serie di interrogatori che gli aveva impegnato due intere mattinate allo Stuyvesant Psychiatric Center. La sala era rivestita di mogano e arredata con un grande e massiccio tavolo da riunioni e venti sedie di pelle verde. Alle pareti erano appesi i ritratti a olio di cinque o sei distinti signori dai capelli bianchi e colletto inamidato. All'estremità opposta della sala campeggiava un ritratto d'epoca di Peter Minuit, a cui era intitolata la clinica universitaria, in brache al ginocchio e bastone da passeggio. Aveva l'aria piuttosto compiaciuta, forse ancora gongolante per aver acquistato l'isola di Manhattan dagli indiani, per ventiquattro dollari di gingilli. Quando finalmente si degnò di comparire, all'una e mezza, Bill Dietrich aveva l'aria ancor più soddisfatta di Minuit. «Scusatemi per avervi fatto aspettare tanto», disse, anche se il suo rammarico non mi convinse neanche per un minuto. «Allora, che cosa mi dite? A che punto siete di questa storia? A esser sinceri, per noi era stato un gran sollievo quando avevate messo così presto le mani su quel tizio tutto sporco di sangue. È stata esclusa definitivamente, quella pista?» Dietrich portava continuamente la sinistra alla tempia per tirare indietro i capelli già così lisci. E ogni volta mi aspettavo di vedergli una macchia sul palmo. La testa sembrava ingrassata da poco con lucido da scarpe o gasolio. Chapman non gli avrebbe concesso molto. D'altronde, non è che avessimo granché da concedere, a quel punto. «Nessuno è stato completamente escluso, signor Dietrich. Ecco perché stiamo rivoltando ogni mattone di questo posto.» «Noi cerchiamo di essere collaborativi, ispettore. Più velocemente voi fate il vostro lavoro e ve ne andate, più contenti siamo anche noi.» «E allora tagliamo corto, va bene? Il contratto di Gemma Dogen sarebbe stato rinnovato, il mese prossimo, o questo era il suo canto del cigno al Mid-Manhattan?» Dietrich menò un po' il can per l'aia, ripetendo più volte di quanto rispet-
to fosse circondata la Dogen e ricordandone i grandi risultati professionali. L'irritazione di Chapman era evidente. Si alzò, ficcò le mani in tasca, voltò le spalle a Dietrich e si mise a camminare nervosamente intorno al tavolo. «Vuole il gioco duro, signor Dietrich? Vuole chiudere uffici e ospedale e college e tutto per un paio di giorni, per venire a rispondere alle domande davanti al Gran Giurì, o preferisce farlo qui, senza tanti problemi, sul suo terreno?» Dietrich rivolse lo sguardo verso di me alla ricerca d'aiuto, ma io continuai a fissare la superficie lucida del tavolo da riunioni, lasciando che Chapman esercitasse le sue pressioni. «Be' - ehm - Gemma era abbastanza ostinata, a dire il vero. Si rifiutava di rivelare le proprie intenzioni all'amministrazione ancora il giorno in cui poi morì. Sapevamo che aveva ricevuto delle offerte, ma ci stava creando parecchie difficoltà nell'organizzazione del prossimo anno.» «Quali erano i punti in questione per lei, signor Dietrich?» «Oh, il tipo di cose di cui immagino che vi abbia già parlato il dottor Spector. Se volevamo o no rafforzare l'attività del reparto di traumatologia cranica. Fare quel lavoro le piaceva, ma non voleva la responsabilità di tutte le tediose incombenze che la raccolta di fondi comporta.» Dietrich proseguì su quel tono, con un ostentato rammarico per i problemi che si erano creati tra l'amministrazione e Gemma. Sembrava quasi che lui e Spector avessero provato insieme il copione da recitare. «In conclusione», disse Chapman, interrompendo le divagazioni del direttore, «lei voleva che la Dogen restasse o qualcuno che ne aveva il potere stava cercando di liberarsene?» «La decisione non era di mia competenza, ispettore. Cioè, questo genere di situazioni sarebbe stato risolto dal presidente del Minuit, che opera autonomamente dal...» Il suo tentativo di prendere le distanze dal destino professionale di Gemma era altamente rivelatore della mancanza di appoggi di cui la dottoressa soffriva all'interno dell'istituto. «Non sarebbe stata una mossa molto apprezzata nella comunità medica al di fuori del Mid-Manhattan, vero?» «Liberare Gemma dal contratto che aveva con noi?» «Licenziarla? Silurarla? Cacciarla via?» «Be', non sono proprio i termini che avrei scelto io, ispettore. Alcuni suoi colleghi speravano che fosse Gemma stessa a optare per questa soluzione, credo. Che tornasse a Londra, come diceva spesso. Lei lo fa sembra-
re più sinistro di quel che fosse. Era una combattente, Gemma, ma era anche un patrimonio straordinario per la comunità di questo ospedale. Per noi è una perdita immensa, davvero.» Chapman ne aveva abbastanza di perdere tempo ad ascoltarlo: «Quindi immagino che non le dispiacerà presentare la documentazione richiesta dal Gran Giurì. Alex, vuoi mostrare al signor Dietrich i mandati che hai portato?». «Certo.» Aprii la cartelletta ed estrassi i fogli bianchi delle richieste di documentazione che Laura mi aveva preparato quella mattina. «Vorremmo avere tutte le schede degli studenti del corso di neurochirurgia, signor Dietrich. So che si tratta di un numero esiguo: otto o dieci. Vorremmo avere le domande che sono state presentate e le iscrizioni per...» Dietrich si passò sulla testa tutt'e due le mani. Cercava di replicare a sua volta con una domanda, aveva la fronte aggrottata e balbettava: «Io - ehm io non capisco che cosa andiate cercando, qui. Non c'è nulla in quei...». Io proseguii: «Questo mandato riguarda le schede personali degli altri docenti della facoltà. Come vede, la richiesta concerne tutti i documenti: credenziali, informazioni sulla retribuzione, eventuali denunce e querele, eventuale corrispondenza tra loro e l'istituto riguardante Gemma Dogen. Potrei andare avanti, ma è tutto elencato abbastanza chiaramente». Dietrich scrutava le carte che gli andavo passando: «È ovvio che dovrò girare questi mandati ai nostri legali. Qui ci sono molte informazioni riservate e io non vorrei...». «Mi aspetto che i suoi legali vogliano parlare con me, signor Dietrich, ma in queste richieste non c'è nulla che riguardi argomenti coperti da segreto professionale. Non si tratta di cartelle cliniche. È documentazione attinente al personale interno e sono sicura che i suoi avvocati le diranno che, se lei ci viene incontro consegnandoci la documentazione, ci toglieremo prima dai piedi.» La fronte di Dietrich era imperlata di sudore. Chapman aveva aspettato che esaurissi le faccende professionali per poter passare a quelle personali. Aveva fatto il giro completo del grande tavolo arrivando alle spalle di Dietrich, e si appoggiò con la sinistra all'alto schienale della poltrona di pelle verde: «So che tutto questo è piuttosto spiacevole per molte persone dell'ospedale, ma temo che per lei lo sarà anche di più». Alzando la testa a guardare in faccia Chapman, Dietrich accartocciò i mandati di requisizione che aveva in pugno.
«Siamo al corrente della relazione che ha avuto con la dottoressa Dogen. Abbiamo bisogno di farle qualche domanda.» Dietrich si voltò di scatto a centottanta gradi per assicurarsi che la porta fosse chiusa: «Senta, io non so che cosa possano avervi detto, ma Gemma e io non stavamo più insieme da mesi... almeno sei. Non c'è nulla, in quella storia, che occorra mescolare a questa brutta faccenda della sua morte, nulla di nulla». Arrossendo, alzò la voce. Pacatamente Mercer tirò l'amo lanciato da Chapman e fece la domanda successiva: «Perché non ci dice esattamente in cosa consisteva quella relazione, sei mesi fa, e in che cosa consisteva da qualche settimana a questa parte?». Circondato da noi tre, Dietrich sembrava un animale in gabbia. Non poteva certo uscire dalla stanza andando a spiegare ai dipendenti dell'ospedale che la riunione era stata interrotta perché lui si era rifiutato di rispondere a domande riguardanti la sua vita privata. «È semplicissimo. Un anno fa - forse un anno e due mesi - abbiamo passato molto tempo a lavorare insieme a un progetto del Minuit. Si trattava di preparare un forum sugli orientamenti in fatto di trauma cerebrale per conto dell'Organizzazione Mondiale della Sanità. Gemma era brillante, bellissima... e non credo che ci sia bisogno di sapere altro, se non che avemmo una relazione. Una sera tardi siamo usciti insieme di qui, l'ho accompagnata a casa e lei mi ha invitato di sopra a bere un bicchierino. Ha bisogno dei disegnini, signor Wallace, o riesce a immaginare il resto per conto suo?» Mercer fece le solite domande su quante volte si fossero visti, dove andavano quando stavano insieme e per quale motivo era finito l'idillio. «Fu Gemma. A esser sincero, io avrei voluto sposarla. Per un po' lei si è gingillata con quella prospettiva, ma ha cambiato idea abbastanza rapidamente. Subito dopo l'estate, è tornata da un viaggio in Inghilterra e mi ha detto che non voleva più vedermi.» «E lei si è arreso, così, senza fare altro?» «Mi sta chiedendo se non sono impazzito fino a correrle dietro in sala operatoria con un coltello da macellaio? Mi spiace, signori, no.» «Non ha cercato di telefonarle, di rivederla?» «Certamente, da principio. Ma, come ho già detto, era testarda. Non le dispiaceva passare insieme una notte, magari, ma senza legami. E niente discussioni di lavoro.» Wallace fu stuzzicato: «Quando è stata l'ultima volta che avete passato insieme la notte?».
Dietrich esitò, come a soppesare la risposta in base alla nostra possibilità di verificarla con la testimonianza di un portiere o di un vicino: «La settimana prima che la uccidessero. È stata lei a telefonarmi, chiedendomi se volevo andare a cena con lei. Siamo usciti tardi dall'ospedale e ci siamo fermati a mangiare un boccone da Billy, sulla 1a Avenue. Poi siamo tornati a casa sua. Abbiamo fatto l'amore e ci siamo addormentati. Quando lei si è alzata per andare a fare jogging, io sono tornato a casa mia. Fine della storia. Tranne che, chiunque sia stato a informarvi», disse in tono canzonatorio, «probabilmente vi avrà anche raccontato del prestito che mi ha fatto Gemma». «Già», mentì Chapman. «Ce ne siamo accorti dai suoi estratti conto.» Non li avevamo ancora visti, in realtà; ma questo ci avrebbe risparmiato una sorpresa, quando fossimo riusciti a mettere il naso nei conti della Dogen. «Niente paura, ispettore. Sono solvibile. Gli eredi riavranno tutto.» «C'è stato solo quel versamento?» «Sì, in luglio. Quarantamila dollari.» Potevo leggere nella mente di Mike. Quaranta testoni. Più di quanto la maggior parte della gente riesce a guadagnare in un anno. La Dogen glieli aveva dati quando l'idillio era al culmine e il debito doveva ancora essere saldato. «Gemma le ha chiesto di restituirglieli?», domandò Mike, evitando di aggiungere «recentemente». Voleva sapere se l'argomento era stato toccato durante quell'appuntamento di due settimane prima. «I soldi non erano molto importanti per Gemma. Abbiamo passato un fine settimana insieme in campagna, sulla Eastern Shore, nella baia di Chesapeake. Siamo andati a un'asta di auto d'epoca. Io ho visto una DeLage di cui mi sono innamorato, una vettura del '32, rarissima. Lei voleva che io la prendessi ma io non potevo permettermela. Al momento lei l'intese come un regalo, ma nel lasso di tempo durante il quale io ho concluso la trattativa per l'acquisto, si era ormai stancata dalla nostra relazione, diciamo. Mi ha detto che potevo renderglieli con comodo. Aveva denaro più che sufficiente per ciò di cui aveva bisogno o per ciò che voleva fare.» Dietrich allontanò la sedia dal tavolo e si alzò: «Immagino che vorrete farmi ancora altre domande, ma ora potreste passare a interrogare i dipendenti. Ho convocato le persone alle quali siete interessati e vorrei che procedeste, in modo che possano tornare al più presto ai pazienti e alle loro incombenze. Io nel frattempo mi metterò in contatto con gli avvocati ri-
guardo a questi documenti». Prima di prendere la pila di mandati dal tavolo si passò la mano sinistra sulla testa. Poi estrasse dalla tasca dei pantaloni una massa metallica, sventagliando sul palmo sinistro una manciata di chiavi, e scegliendone una, probabilmente quella dell'ufficio, che prese tra pollice e indice. Bill Dietrich si congedò senza altri commenti e io potei notare che dal suo pugno chiuso dondolava una miniatura del Tower Bridge. Era identico al portachiavi della Dogen che si trovava sul mio comodino, quello che mi ero dimenticata di restituire a Mercer. Mi chiesi se Dietrich avesse ancora le chiavi di casa di Gemma. Capitolo 19 Il primo a essere riascoltato sulla situazione al Minuit la sera dell'assassinio di Gemma fu John DuPre. Entrando nella stanza strinse la mano a tutti e tre e, quando sorrise, capii perché Maureen Forester lo avesse trovato così attraente. Senza perdere tempo con le solite stupidaggini su quanto fosse prezioso il suo tempo e sul danno che procuravamo all'ospedale, DuPre fu gentilissimo ed espresse la sua disponibilità a fare qualsiasi cosa potesse essere d'aiuto all'indagine. Lo avevamo già interrogato qualche giorno prima alla stazione di polizia sulla scoperta di Pops nel reparto di radiologia. Scusandomi, gli spiegai che avevamo bisogno di riesaminare tutti i fatti accaduti intorno all'ora del delitto. «Perché non comincia dagli impegni che aveva la settimana scorsa?», gli chiesi. «Ci racconti tutto da lunedì a mercoledì, tanto per darci un quadro di riferimento.» Gli occhi dritti nei miei, parlò con sicurezza e senza problemi. «Mi ricorda quando fu ucciso il nostro predicatore, giù nel Mississippi», disse sorridendo DuPre col suo accento strascicato. «Avevo solo otto anni, ma la polizia dello stato ci interrogò tutti, a scuola, neanche fossimo John Dillinger. Mi fece molta impressione. Stavo quasi per dedicarmi alla difesa della legge, invece che alla medicina. Ammiro quello che fate. So che è come cercare il proverbiale ago nel pagliaio. Immagino che certi miei colleghi ne faranno una questione personale, ma io sono lieto di potervi dare una mano.» DuPre tirò fuori un'agendina tascabile e l'aprì al lunedì della settimana prima: «Vi mostro volentieri i miei impegni di lavoro, ma ricordo bene di
non essere venuto da queste parti della città fino a martedì a mezzogiorno, quando ho avuto bisogno di andare in biblioteca». DuPre ci informò della sua attività di neurologo e dell'orario che osservava allo studio di Central Park West, dove esercitava fin da quando aveva cominciato l'attività professionale a Manhattan, due anni prima. La sua segretaria e la sua assistente lavoravano lì con lui tutti i giorni della settimana. «E la sera, dottore? Dove abita?» «In Strivers' Row, ispettore. 139a Strada, lato nord», rispose DuPre, riferendosi all'elegante gruppo di casette a schiera costruite ad Harlem alla fine dell'Ottocento. «Mia moglie fa la designer, signorina Cooper. Le case sul nostro lato dell'isolato sono state costruite da McKim, Mead e White, ed è da quando ci siamo trasferiti che stiamo restaurando la nostra. Gran parte del lavoro di falegnameria e carpenteria lo faccio io stesso, tutte le sere dopo cena, con i bambini. Dovreste venire a vederla, una volta o l'altra.» Quella risposta ci fornì tre informazioni. Diceva che DuPre guadagnava bene - o aveva bisogno di guadagnare bene - per pagarsi una casa in una zona come quella. Inoltre, se davvero era lì la sera del delitto, lo collocava a diversi chilometri di distanza dall'ospedale. E forniva il tipo peggiore di alibi da smontare, se ci fosse stato motivo di sospettare di lui: moglie e due figli. Wallace riportò il giovane medico dall'ambiente domestico alla defunta: «Qual era quell'immagine che ha usato l'altra volta per definire la dottoressa Dogen? Signora dei ghiacci?». «Può darsi che sia solo perché sono abituato al fascino meridionale, signor Wallace. Le ho detto che non la conoscevo abbastanza per prendermela, ricorda? È soltanto che con me era tremendamente rigida e distante. Non riuscivo proprio a fare breccia in lei, qualunque cosa facessi, ecco.» «Abbiamo appena consegnato al signor Dietrich un mandato per ottenere la documentazione riguardante il personale del Mid-Manhattan, dottor DuPre. Avremo i documenti tra pochi giorni, ma mi chiedo se c'è nulla che la riguardi che lei preferirebbe...» «Adesso vi prendete tremendamente sul serio, eh, ispettore? Avere la documentazione su di noi? Sul personale? A me sembra che abbiate sciupato tutte le buone tracce che vi abbiamo dato. Coleman Harper e io vi abbiamo condotti dritti da un tizio un bel po' più pericoloso di qualsiasi mio collega e voi avete buttato tutto all'aria. Basta star qui un paio d'ore per
rendersi conto che abbiamo gravi difficoltà nel controllare chi entra e chi esce dall'ospedale.» Non faceva una piega, e ci restituiva colpo su colpo: John DuPre era di sicuro un carattere freddo. «Giacché parla dell'altra sera, dottor DuPre», disse Chapman, «l'idea di scendere in radiologia è stata sua o del dottor Harper?» Come me, Chapman ricordava che ciascuno dei due aveva attribuito il suggerimento all'altro. «È stato Coleman, di sicuro. Non ve lo avevo detto? Avevo in programma di lavorare in biblioteca, quel pomeriggio. Stavo parlando con qualcuno dei protetti di Spector - a Coleman piacerebbe considerarsi tale, immagino - e lui mi ha chiesto di andare insieme giù in radiologia per dare un'occhiata a certe lastre. Non avrei avuto motivo di trovarmi lì, altrimenti.» Mike volle approfondire un po' il passato di DuPre: «Che cosa l'ha indotta a venire a esercitare a New York?». «Un insieme di circostanze, signor Chapman. La mia seconda moglie è cresciuta qui, ha tutti i parenti a New York. E poi, professionalmente... laggiù cominciavo a starci stretto. Presentavo delle relazioni ai convegni scientifici, cominciavo a essere chiamato a consulto da medici dei dintorni che avevano sentito delle mie conferenze e così ho deciso di giocare la carta più alta.» «Lei fa parte del corpo docente del Minuit?» «No. Godo di privilegi qui in ospedale. Sto cominciando solo adesso a entrare nel giro, sono nuovo della città eccetera. Non posso esservi di nessun aiuto circa gli intrallazzi interni.» Per quanto Mike e Mercer lo torchiassero per cavargli notizie dettagliate sull'ospedale e sul dipartimento di neurologia, DuPre non aveva altre informazioni utili da darci. Avevano ormai finito di interrogarlo, quando il tranquillo dottore li lasciò interdetti, chiedendo se per piacere potevano uscire un momento per parlare a quattr'occhi con me. «Vado a telefonare al tenente», disse Mike. «Torniamo tra dieci minuti con un altro testimone.» Prima di aprir bocca John DuPre aspettò che la porta si fosse richiusa: «Due cose mi premeva dirle, signorina Cooper. Primo, riguardo alla mia documentazione personale: vedrà che mi trovo impegolato in una brutta causa per negligenza professionale. Un'accusa meschina e inconsistente. Ne parli pure coi miei avvocati, ma vorrei che la storia non finisse sul
giornale». Lo lasciai proseguire. «Mi è morto un paziente. Ancora giù ad Atlanta, prima che venissi a New York. Non ha niente a che fare col Mid-Manhattan né con tutti questi fatti, naturalmente. Un giovane è venuto da me lamentando dei disturbi: vertigini, perdita di peso eccetera. L'ho visitato, gli ho fatto fare delle analisi, l'ho mandato a casa con delle prescrizioni e gli ho fissato un'altra serie di esami. Due giorni dopo, è morto. Le assicuro che non volevo tenerglielo nascosto. Voglio soltanto che lei non consideri questa faccenda legata a questa maledetta inchiesta per omicidio. Lei è un legale e mi aspetto che sia più comprensiva di quegli sbirri circa le ramificazioni legali di una cosa così.» «Gemma Dogen era al corrente della causa?» «Sono certo di sì. Non posso giurarci perché lei non me ne ha mai parlato. Potrebbe essere uno dei motivi per cui era così fredda con me, ma non lo sapremo mai, vero?» «E l'altra cosa?» DuPre sorrise di nuovo, mascherando la serietà di quel che mi diceva: «Se per caso dal mio fascicolo mancasse qualche cosa di cui ha bisogno, non ha che da telefonare al mio studio. Lì hanno tutti i duplicati. Ho avuto un divorzio piuttosto tempestoso, anni fa, quando ho lasciato la mia prima moglie per l'attuale. Julia ha perso la testa e ha dato fuoco al mio studio, giù ad Atlanta. Ho dovuto fare i duplicati di tutti i diplomi e i certificati universitari. Non sono sicuro che qui all'ospedale abbiano tutta la documentazione che mi riguarda, ma la mia segretaria ha tutto, nel caso che lei non trovasse qui quello che cerca». «Grazie, dottore. Ma non c'era motivo per non dire tutto questo in presenza dei due ispettori. Sono cose che si possono trattare discretamente, professionalmente.» «Be', signorina Cooper, può darsi che sia la mia estrazione meridionale a rendermi tanto scettico sui poliziotti. Preferisco mettere i miei affari privati in mano sua piuttosto che loro», disse allungando la mano fino a prendermi le dita. «Sono sicuro che avremo modo di parlare ancora.» Wallace era fuori dalla sala riunioni ad aspettare in compagnia di Banswar Desai, uno dei due medici scelti da Spector per sostituire Gemma Dogen, quando la dottoressa non si era presentata in sala operatoria, la mattina dopo l'accoltellamento. Desai era basso e tarchiato, aveva la pelle parecchio più scura di quella
di John DuPre e il suo accento pachistano era ricoperto di un sottilissimo strato di affabilità dovuta all'educazione in un collegio inglese. Lo invitai a entrare e dissi sottovoce a Mercer di telefonare a Sarah per chiederle di fare un controllo su DuPre nel sito Internet «Lexis-Nexis» e di cercare sui giornali della Georgia informazioni dettagliate circa la causa in cui era implicato. Mi presentai a Desai e lo feci accomodare di fronte a me. Prima di iniziare il colloquio, ci raggiunse Chapman. Desai era uno degli ultimi arrivati nell'équipe neurochirurgica. Era stato reclutato l'anno prima da Gemma Dogen per fare l'internato al Minuit. Era molto laconico nelle risposte e stava sulla difensiva circa i suoi rapporti con la Dogen. Gemma era il suo mentore e la sua sostenitrice e lui era sinceramente costernato per la sua scomparsa. Mike concentrò l'attenzione sull'intervento durante il quale Spector aveva scelto dalla galleria Desai e Harper per colmare l'assenza della Dogen: «Che cosa ha pensato quando non si è presentata? Era preoccupato?». «Non era da lei, certo», rispose Desai. «Gemma era una vera professionista, signor Chapman. Se ho pensato che se ne fosse dimenticata? Niente affatto. Ho immaginato che le si fosse presentato un impegno più urgente. O che lei e Spector avessero avuto un'altra lite e...» «Lite su che, dottor Desai?» «Non sono al corrente di queste cose, ispettore. Sapevo che c'erano questioni inerenti al corso al Minuit che mettevano i due in contrasto, ma io facevo parte del reparto da troppo poco tempo per essere ammesso alle discussioni.» «Lei però era anche amico della Dogen, vero?» «Amico certamente, signor Chapman. Ma non confidente. I nostri rapporti erano rigorosamente limitati all'ospedale e alla scuola. Gemma tracciava un confine netto tra gli studenti e la sua vita privata e non so di nessuno che si sia azzardato a varcarlo.» «E il dottor Spector aveva tanta fiducia in lei da invitarla a sostituire la Dogen in sala operatoria, anche se era chiaramente un protetto della dottoressa?», chiesi io. «L'interesse primario di Spector, piaccia o no il suo stile, è la salute del paziente. Non mi sono mai impicciato delle beghe interne alla scuola ed è ovvio che né Spector né la Dogen la consideravano una mancanza. Inoltre, lì dentro eravamo in pochi ad avere i titoli per assistere Spector, quando si è prospettata quella situazione. È stato, direi, più un fatto onorifico che una
necessità impellente. Gli avrò sì e no passato qualche strumento e annuito alle sue decisioni, ma Harper e io eravamo lì, si può dire, per ammirare da vicino il lavoro di Spector. Né Coleman né io abbiamo contribuito granché all'operazione.» Nel modo di fare di Banswar Desai c'era un che di antiquato e tranquillo che mi metteva a mio agio. Ero cresciuta in una casa in cui la professione medica era riverita e rispettata. I risultati raggiunti da mio padre avevano ottenuto riconoscimenti a livello internazionale. I miei fratelli e io eravamo stati circondati fin dall'infanzia dalla consorteria di medici e infermiere brillanti che dedicavano la propria vita alla nobile scienza e arte della cura dei malati. Il ricordo di tutta una parte della mia vita trascorsa a contatto con la comunità medico-sanitaria mi portò inevitabilmente a pensare alla mia storia d'amore con Adam Nyman, andata inaspettatamente in pezzi con la sua morte, appena poche ore prima che ci sposassimo. Sognavo a occhi aperti e vagavo con la mente lontano dal colloquio di Chapman con Desai, cosa che mi costò doppiamente cara: era tornata a perseguitarmi l'immagine di Adam, ancora vestito per la sala operatoria, che mi baciava salutandomi per l'ultima volta e, per di più, avevo completamente perso il filo della conversazione sull'assassinio di Gemma Dogen. «Con lei abbiamo finito per oggi, dottor Desai. Se le viene in mente qualche particolare che pensa ci potrebbe interessare, la prego di telefonarmi», disse Mike consegnando al giovane interno un biglietto da visita. Andarono insieme alla porta e, uscito Desai, Chapman fece cenno a Coleman Harper di entrare. «Grazie per la sua pazienza, dottor Harper. A quanto pare, è la seconda volta che l'ispettore Chapman e io la facciamo aspettare», dissi, riferendomi al primo incontro al distretto di polizia, la sera in cui Harper e DuPre avevano scoperto Pops con i pantaloni macchiati di sangue. Mike sfogliò il taccuino alla ricerca delle informazioni fornite da Harper in quel primo colloquio. Alla prima domanda, Harper ribadì che era sceso in radiologia su suggerimento di DuPre. «Non vorrei metterla in ansia come quella sera alla stazione di polizia, dottore, ma DuPre afferma con insistenza che fu lei a voler andare laggiù con lui.» Harper esitò, la testa immobile e gli occhi che passavano dall'uno all'altro di noi nel tentativo di scoprire se nella domanda di Mike si nascondesse un sottinteso importante.
«Sta insinuando che prima di andare lì con John, io sapevo già che il vecchio si trovava in quella stanza?» «Me lo dica lei: lo sapeva?» «E... e che senso avrebbe? È chiaro che non sapevo che fosse lì, prima di trovarlo... non ero stato al reparto di radiologia per tutto il pomeriggio. E poi, che differenza fa?» Non molta, mi pareva, e pensai che Mike stava semplicemente cercando di innervosire Harper, il quale abboccò facilmente e apparve inquieto come la sera che lo avevamo conosciuto. «Non credo che abbiamo mai parlato dei suoi rapporti con Gemma Dogen, vero, dottor Harper?» «Gli stessi di quasi tutti gli altri. Rispettavamo il suo lavoro, dal punto di vista professionale, ma per il resto avevamo pochissimo a che fare con lei.» Chapman diede un'occhiata agli appuntì: «Vi eravate conosciuti la prima volta che lei è arrivato qui, una decina d'anni fa». «Sì sì, è così.» «Lei lavorava per la dottoressa?» «Non esattamente. Sono venuto qui dopo la laurea. Ho fatto l'internato, poi ho cominciato a esercitare come neurologo. È stato più o meno allora che ci siamo conosciuti. La dottoressa Dogen era appena arrivata a insegnare al Minuit» «Era sua docente?» «Solo nel senso che facevamo tutti parte dello stesso reparto.» «Non ha mai voluto occuparsi di chirurgia, dottore? Si è accontentato dell'aspetto medico, finora?» «Sì, be', più o meno. Voglio dire: dopo l'internato ho fatto domanda per entrare nell'équipe di neurochirurgia, ma quell'anno non ce l'ho fatta. Ero contento del mio lavoro e, ehm, non ho spinto molto. Come ormai saprete, il corso è molto ristretto, molto d'élite. Parecchi venivano esclusi... poche possibilità. E poi sarei rimasto a New York solo un altro anno, a lavorare al Metropolitan Hospital. Mia moglie voleva tornare a Nashville e io volevo mettermi a esercitare per conto mio.» «E allora adesso che cosa significa esattamente, per lei, avere la borsa di studio al Minuit?» Le tozze dita di Harper si strinsero intorno ai braccioli, massaggiando la liscia superficie di legno finto antico. «Io, be', io credo di aver cullato il desiderio di cambiare, dopo dieci an-
ni. Può darsi che non mi fossi mai veramente tolto dalla testa l'idea di fare neurochirurgia. Sentivo di aver rinunciato troppo presto, quando non ero stato ammesso al primo tentativo. Adesso, questa borsa mi permette di accedere alla sala operatoria, finché arriva l'esito delle mie domande.» «Quali domande?» «Oh, credevo che il dottor Spector ve l'avesse detto. La mia borsa sta per scadere e io spero di essere ammesso da un giorno all'altro alla permanenza nel reparto di neurochirurgia. Ecco perché volevo entrare nel corso, anche con una riduzione della paga per un anno.» «Quanto faceva, al suo paese, come neurologo?» «Facevo?» «Quanti bigliettoni?», chiarì Mike: «Quattrini, soldi, dollari, entrate». «Oh, circa centocinquantamila dollari, negli ultimi anni.» «E quest'anno?» «Be', naturalmente la borsa consiste in un stipendiuccio... circa trentamila dollari... ma quando finirò...» «Accidenti, lei vive qui a New York con trentamila dollari? Lo deve proprio volere molto, dottore.» «È solo una cosa temporanea, ispettore Chapman. Ovviamente ho da parte quanto basta per farcela», disse Harper ridacchiando nervosamente. «E non è che, al di fuori del lavoro, io abbia tempo per darmi alla bella vita, per il momento.» «La pentola d'oro in fondo all'arcobaleno, eh?» «Non sono qui per questo. È il lavoro più stimolante che esista in medicina, Chapman. È un settore creativo, in cui ogni settimana si fanno passi avanti con tecniche nuove e migliori. Si salva la vita alla gente e si ripristinano funzioni che prima si consideravano senza speranza e si...» Il corpo tarchiato di Harper, impegnato nella difesa dei suoi obiettivi, teneva fermamente la posizione al centro della sedia. «E si fa circa mezzo milione di dollari all'anno in più di quello che faceva lei», completò Mike. «C'è qualcosa di illecito di cui non sono a conoscenza, in questo, ispettore?» «Niente affatto. Sto solo cercando di immaginare perché alla sua età lei molli una prospera posizione professionale per tentare di avere forse la possibilità di un altro incarico permanente. Quando avrà finito, se riesce a entrare nel corso di Spector, lei avrà...» «Quasi cinquant'anni. Sì, è così. Vede, questo non è un ostacolo, nella carriera medica. Alle spalle ho una solida carriera professionale, niente de-
biti, niente più moglie o figli da mantenere e un sogno che mi piacerebbe veder realizzato prima o poi.» «Chi le ha messo i bastoni tra le ruote, all'epoca?» «Quasi un decennio fa, vuole dire? Oh, non lo so. Come può confermarvi Spector, viene fatto tutto in commissione. Esame del curriculum dei candidati, colloquio, segnalazioni dei supervisori dell'internato. È solo che quell'anno non era destino, per me. L'ho accettato, dopo di allora ho fatto una buona carriera e ora voglio riprovarci.» «Lei, la dottoressa Dogen, fu a favore o contro?» «Francamente non lo so. Avevo pochissimo a che fare con Gemma Dogen.» Coleman Harper si era spostato in avanti sulla sedia, pronto a saltare in piedi e andarsene appena Mike avesse finito quella fila di domande a raffica. «E che mi dice di quando è stato qui la prima volta, dottore?» «Ma è stato dieci anni fa, bontà divina. In un paio di occasioni, per la rotazione dei docenti, mi è toccata lei. Diciamo soltanto che avevamo stili diversi. All'epoca sono stato contento di non avere più a che fare con la Dogen andandomene al Metropolitan. Aveva appena messo piede a New York, si stava dando da fare per affermarsi e io non rientravo affatto nel quadro.» «Lei crede che nell'archivio dell'ospedale si conservi traccia di quegli anni?», domandai io tranquillamente dal mio lato del lungo tavolo. Harper mi scoccò un'occhiata, rifletté un momento, poi scosse la testa, dicendo che non credeva che l'ospedale conservasse i documenti per più di sette anni: «Ho cercato di averli anch'io, naturalmente. Volevo utilizzare delle lettere di raccomandazione ottenute durante l'internato e poi al Metropolitan». Si sforzò di ridere: «Non si ottengono referenze di docenti quando ci si mette a fare la libera professione. E il giudizio dei pazienti si basa più sull'ammontare della parcella e sulle convenzioni assicurative che si praticano, non tanto sulla bravura. Se in un prossimo futuro se ne vengono fuori con quei vecchi documenti, fatemelo sapere, mi raccomando. La commissione Spector dovrebbe prendere la decisione che mi riguarda entro il quindici aprile. Potrei usare quelle buone valutazioni di dieci anni fa». «Anche il rapporto di Gemma Dogen?» Harper si era alzato per andarsene e stava stringendo la mano a Mike: «Vorrei tanto averne conservata una copia, e non solo per convincere voi. Credo che mi sarebbe servita a fare strada al Minuit. La Dogen non era la
mia maggior tifosa qui, ma non ricordo che abbia fatto niente per crearmi delle difficoltà». «Ha idea del motivo per cui qualcuno poteva voler fare del male alla Dogen? Ucciderla?» Harper aveva la mano sulla maniglia della porta: «Sono cose del tutto estranee a noi, ispettore. Il nostro mestiere è salvare la vita. Non riesco a immaginare perché si facciano agli altri certe cose, il tipo di cose che voi vedete un giorno sì e l'altro no. Nessun'idea, no». Coleman Harper non ci aveva detto niente di più o di meno degli altri. Sembrava abbastanza assurdo, in effetti, interrogare questi medici rispettali sulle folli sevizie ai danni di una collega, ma anche loro, al pari di qualsiasi altro gruppo di potenziali sospetti, andavano esaminati ed eliminati a ragion veduta da quel novero. Arrivò Mercer e passammo il resto del pomeriggio ad ascoltare una fila di testimoni sui loro rapporti con la Dogen. Parlammo con sette infermiere, altri tre docenti che avevano l'ufficio sullo stesso corridoio e una serie di serissimi studenti e interni, allievi e collaboratori stretti della illustre defunta. I ritratti che ne risultarono si dividevano nettamente in due: quelli a cui Gemma piaceva, che la ammiravano e ai quali concedeva un contatto professionale, sia pure con una certa freddezza; e quelli che ne avevano paura e non si fidavano di lei, a causa della sua personalità gelida e della distanza che teneva istintivamente. Ancor più vano fu lo sforzo per ricostruire le sue ultime ore di vita. Gemma difendeva gelosamente la propria solitudine e accettava compagnia soltanto nei momenti in cui era lei a volerla. Correre, scrivere, viaggiare, fare ricerca: qualsiasi cosa facesse, lei sembrava più felice per conto suo, incurante delle chiacchiere e degli intrallazzi di quasi tutti coloro che cercavano di entrare nella sua orbita. Erano ormai le sei passate quando la coda di testimoni si esaurì e comparve la segretaria di Dietrich a rammentarci che doveva chiudere a chiave la sala. Le dissi che per quel giorno avevamo finito e, dal sorriso forzato che attraversò il suo viso quando la ringraziai per averci permesso di utilizzare la sala, capii che i motivi per cui avevamo rovinato il buon umore del suo principale non la interessavano minimamente. Raccogliemmo agende e taccuini e ci avviammo per il lungo corridoio in direzione dell'ingresso. «E adesso? Qualche idea nuova?»
«Troppi interrogatori in un giorno solo», risposi. «Mi gira la testa. Vado a casa a mettere ordine negli appunti e a fare i bagagli per domani.» «Mangi un boccone con noi?» «Ci rinuncio. Ho troppo da fare prima di partire e ho l'impressione che per ora non stiamo facendo nessun passo avanti.» «Va bene, ti lasciamo a casa. Io passo da Maureen. Stamattina il capo ha detto che ha intenzione di tenerla in ospedale soltanto fino a venerdì. Pensa che sia solo una gran perdita di tempo per Maureen e di denaro per il dipartimento. Poi oggi pomeriggio un fattorino le ha recapitato in camera una scatola di cioccolatini. Il pacchetto era indirizzato a lei e il biglietto d'accompagnamento diceva che veniva dai bambini. Roba francese di lusso, confezione elegante.» Mi irrigidii, mentre Mercer proseguiva: «Il problema è questo: Mo è allergica alla cioccolata. Chi la conosce bene lo sa. Che cosa pensate che significhi? L'hanno smascherata?». «Per prima cosa, significa che il capo si sbaglia in pieno, per cui Peterson si sta battendo per tenerla dov'è. La scatola è al laboratorio. La esamineranno per vedere se è stata adulterata.» «Perché ho la sensazione che questo piano sia una delle mie stupidaggini, Mercer?» «Va tutto bene, Coop. Maureen non corre alcun pericolo per il momento.» Mercer lasciò la macchina di fronte al Minuit e salì con noi su quella di Mike che attraversò Manhattan e si infilò nella rampa d'accesso di casa mia, per depositarmi davanti al portone. «Programmi?» «Domani sera Mercer ci accompagnerà all'aeroporto. Perché non porti la valigia in ufficio, in modo che passiamo a prenderti e partiamo da lì?» «Grazie, ragazzi. A domani.» Presi la posta e salii in casa. Accesi il televisore in camera mia per sentire il notiziario e intanto cominciai a buttare sul letto le cose da mettere in valigia. Mi sintonizzai su «Ultimo Azzardo» per sentire la domanda finale, ma rinunciai senza nemmeno provarci quando Trebek annunciò che l'argomento era «Astronomia». Passai più di un'ora al telefono. Cominciai con Maureen, che era allegra e per niente preoccupata dell'accaduto, forse perché accanto a lei c'era ancora Charles. Quando ebbi finito di chiamare mia madre, Joan Stafford, David Mitchell e la segreteria telefonica di Nina per avvisare che sarei sta-
ta via un paio di giorni, si erano ormai fatte le otto e mezza. Telefonai a Bernstein per chiedergli di portarmi una porzione di minestra di pollo prima che chiudessero. Le mie carte erano sparse per tutta la tavola da pranzo. In un angolo misi le foto che avevo chiesto a Mercer delle tracce nel sangue di Gemma, sul pavimento dell'ufficio. Erano state disegnate intenzionalmente dalla moribonda? Era una lettera o parte di una parola? Tirai fuori un taccuino giallo e scrissi le iniziali di ciascuna delle persone che avevamo interrogato fino a quel momento. Provai a confrontare le maiuscole con lo sgorbio imperfetto che quella mattina, la settimana prima, mi era sembrato così chiaro. Non c'era niente che sembrasse corrispondere e abbandonai il tentativo per dedicarmi a rivedere e riorganizzare gli appunti presi durante i colloqui. Poco prima di mezzanotte, dopo aver fatto la valigia ed essere andata a letto, telefonai a Drew a San Francisco e lasciai un messaggio alla segreteria automatica dell'albergo. Gli dissi della mia inaspettata partenza per Londra l'indomani e gli chiesi di telefonare a qualsiasi ora per poter sentire il calore della sua voce e organizzare il nostro incontro dopo il mio ritorno. Puntai la sveglia alle sette e spensi la luce. Ero preoccupata per Maureen e mi chiedevo se la mia idea l'avesse esposta a un pericolo reale. Poi cercai di addormentarmi pensando a tutto tranne che all'assassinio. Ma l'enigma di Gemma Dogen e il modo in cui era morta continuarono a insinuarsi nei miei pensieri, tenendomi sveglia fino a notte fonda. Capitolo 20 «Senza scampo. Un'altra.» «Che vuoi dire?» Guardai l'orologio e vidi che erano appena le sei e due minuti del mattino. «Scusa se ti ho svegliata», aggiunse Chapman, «ma appena l'ho saputo ho pensato che anche tu avresti voluto esserne informata. Questa volta è più su in città, appena fuori il Columbia-Presbyterian. Ci butta all'aria l'inchiesta.» Ero già mezza fuori del letto e ancora in attesa di una spiegazione: «Sarebbe?». «È spaventoso. Potrebbe essere il nostro uomo. Può darsi che la morte della Dogen non avesse niente a che fare col Mid-Manhattan. Può darsi che ci sia un buffone a cui piacciono le donne in uniforme bianca o che va in giro per ospedali a far fuori la gente.»
«Piantala di blaterare e dimmi di che si tratta.» «Mi ha appena telefonato il tenente, dopo aver ricevuto la notizia dalla guardia notturna. Altro complesso ospedaliero circondato da una zona di guerra. Una dottoressa finisce il turno, esce poco dopo mezzanotte e va verso la macchina. Arriva e vede una gomma a terra. Un buon samaritano e uso la definizione liberamente - si offre di aiutarla a cambiare la ruota. Probabilmente il bastardo l'aveva bucata lui. Le dice che deve solo andare in casa della sorella, lì davanti, a prendere gli arnesi. Dice che lei può aspettarlo giù nell'atrio, al caldo. «Attraversano la strada... e fin qui tre testimoni oculari. Dicono che è ben educato, le offre il braccio, le dice di stare attenta alle macchine. Nell'atrio - è un condominio di appartamenti in affitto, cinque piani senza ascensore -, a quanto pare, tira fuori il coltello. Qui di testimoni non ne abbiamo, nada, nessuno. Abbiamo una giovane dottoressa fiduciosa, con indosso il suo camice, distesa per terra dietro le scale con otto coltellate al petto e all'addome, senza mutandine e la gonna tirata su a esporre la parte inferiore del corpo. Ma nessuna prova di stupro portato a termine: niente sperma, niente peli pubici, nessun segno di violenza carnale. Adesso dimmi tu: è un tentato stupro che è stato interrotto o è solo una messa in scena per portarle via dieci dollari e il cercapersone, spingendoci invece a cercare un violentatore? È una coincidenza o una replica?» Non sapevo che cosa rispondere. Cercavo di immaginare la scena del delitto e pensavo alla perdita di un'altra vita preziosa. «È morta?» «Sarebbe meglio. È senza scampo, ma davvero. Mantenuta in vita artificialmente, elettroencefalogramma piatto.» «Hai detto che c'erano dei testimoni?» «Solo persone che hanno visto il tizio gironzolare intorno all'ingresso dell'ospedale e poi parlare con la dottoressa accanto alla macchina. Ispanoamericano, maschio, oltre uno e ottanta, magrissimo. Aspetto sporco, spettinato, probabilmente un senzatetto, come migliaia di altri nel raggio di un tiro di schioppo dall'ospedale. Indossava una camicia di flanella e pantaloni da chirurgo verde. Non era un rivale professionale della vittima, questo posso dirtelo.» «Be', tu che pensi?» Già nel pronunciarla sapevo che era una domanda stupida. «Io penso che non ho una fottutissima idea di cosa pensare. Non so se è una brutta coincidenza o l'opera di un pazzo che abbiamo stanato dai tun-
nel del Mid-Manhattan e mandato al Columbia-Presbyterian, con licenza di ricominciare in una zona ancora più fertile. Ricomincio a chiedermi se Gemma Dogen non è stata violentata perché è successo qualcosa che ha interrotto il maniaco e perché ha lottato, come ha fatto questa povera ragazza stanotte; o se hai ragione tu e l'assassinio della Dogen è stato solo una messa in scena per far credere che si trattasse di un reato sessuale.» «Quante donne pensi che siano senza scampo prima che riusciamo a scoprirlo?» «Ehi, Blondie, siamo tutti senza scampo. Sono soltanto tempo e luogo a rendere questo fatto così odioso. Ci sono altri sei agenti della squadra Omicidi già al lavoro. E a noi ci vorrà il doppio del tempo per districare la matassa e capire se i due casi sono collegati. Ti richiamo in ufficio appena ho maggiori informazioni.» Prima di fare la doccia, andai in cucina e misi il caffè sul fuoco, chiedendomi perché Drew non avesse telefonato durante la notte. La sera prima avevo tirato fuori i vestiti per il viaggio, perciò indossai il maglione blu marine e i pantaloni in tinta, augurandomi che la giacca scozzese rossa e blu fosse abbastanza calda per l'incipiente primavera inglese. Il portiere mi aiutò a caricare la valigia sul taxi e io mi convinsi che arrivare un'ora prima in ufficio mi sarebbe davvero servito a organizzare tutto prima dell'arrivo del personale. Alle sette e un quarto, mentre aprivo la porta, - neanche a crederlo squillava il telefono. «Alex? Sono Stan.» Westfall. Uno degli assistenti del mio ufficio, ottimo in aula ma difficile da trattare per quasi tutto il resto del tempo. «Ho un problema. Ti ho appena cercata a casa e quando ho sentito la segreteria, ho immaginato di doverti chiamare in ufficio.» Sembrava agitatissimo. «Che diavolo c'è, a quest'ora?» Avevo già avuto una bella dose di cattive notizie e temevo che, qualsiasi cosa avesse da raccontare Stan, fosse della stessa risma. «La mia vittima-testimone se n'è andata. Lo sai che ho il processo davanti a Sudolski, vero? Be', ieri ho finito con la deposizione, ma deve ancora essere controinterrogata. È quella donna che sono andato a riprendere a Pittsburgh per testimoniare e...» «Da chi sta?» «Be', ecco il punto. Tu eri presissima con la tua indagine e io non volevo
darti grane. Così non ho fatto altro che andare da Patrick-McKinney a chiedergli il permesso di metterla in albergo. Cioè, uno da poco. Il Big Apple, nella 46a Ovest.» «Grande. Vai a mettere una puttana in un albergo nei bassifondi di Manhattan. Aveva una guardia?» «No. Alex, mi aveva giurato che non faceva più la puttana. Ci ho creduto davvero.» Non serviva a niente che alzassi gli occhi al cielo. Stan non avrebbe capito dove sbagliava neanche se fosse stato lì davanti. C'erano molte più probabilità di essere colpiti da un fulmine che di incontrare una ex puttana. «E che cosa è successo? È stata buttata fuori per aver portato dei clienti in camera mentre i contribuenti le pagavano il conto?» «Be', il gestore l'ha beccata che entrava nell'atrio verso le due di notte con un uomo. Sapeva che era nostra ospite, per cui li ha fermati e ha buttato fuori il tipo, lasciandola andar di sopra. Vedi, è il gestore che mi ha chiamato. Poco dopo lei se n'è andata.» «Non farti prendere dal panico. Probabilmente è fuori a lavorare, a farsi qualche extra prima di tornare a casa.» «Il gestore dell'albergo non la pensa così. Se n'è andata. E quello che lo inquieta è che si è portata via tutto dalla camera. Non è il tipo di posto in cui ci sia granché che non sia ben inchiodato al pavimento. Ma se n'è andata con le lenzuola, i cuscini, le coperte e gli asciugamani.» Il crescendo di Stan raggiunse l'acme: «Si è presa anche la Bibbia». Risi di compassione, ben sapendo che McKinney avrebbe chiesto la sua testa. Quella era l'ultima volta che mandavamo una testimone al Big Apple, uno dei pochi alberghi di Manhattan che la procura potesse permettersi. «Non so se farla cercare dai poliziotti o no. La giuria la prenderà in odio, quando lo verrà a sapere.» «Portati la tua copia del Buon Libro, Stan. Leggi alla giuria i Proverbi: "Chi troverà una donna virtuosa?" Non cercare di farle cambiare vita. Che faccia quello che vuole, anche se è fare ancora la puttana. Se ricordo bene, avevi una montagna di referti medici che corroboravano l'accusa. Fa' notare quanto lei fosse vulnerabile e fa' vedere che razza di lerciume è l'imputato.» «Come faccio a trovarla? L'agente che l'ha arrestata non verrà da me in ufficio prima delle nove e mezza.» «Chiama la stazione di polizia di Midtown Sud. Parla con qualcuno de-
gli agenti della Buoncostume prima che stacchino il turno. Dagli la descrizione e vedi se per caso non l'hanno individuata durante il loro giro.» Gli agenti che lavoravano alla Buoncostume non lasciavano il servizio prima delle otto. «E soprattutto, smettila di agitarti. Se non compare stamattina, dovrai chiedere al giudice un rinvio di qualche ora, ma non è la fine del mondo. Non combinerai niente se sei così teso.» «Grazie, Alex. Ti faccio sapere.» Fino all'arrivo di Laura mi occupai della corrispondenza, poi le dettai alcune lettere che volevo partissero prima del mio ritorno, lunedì. Alle nove e mezzo, Laura mi rammentò che dovevo andare nell'edificio di fronte, dal giudice Torres, per la sentenza contro il violentatore recidivo rinviato a giudizio tre settimane prima da Gayle Marino. Mi infilai in un sedile in prima fila nell'ampia aula mentre Gayle svolgeva la requisitoria. Benché il giudice conoscesse perfettamente i precedenti penali di Johnny Rovaro, la Marino li stava accuratamente passando in rassegna, a sostegno della pesante richiesta di pena che stava per avanzare. Ricordò che Rovaro era stato condannato per un reato analogo otto anni prima e aveva dovuto perfino essere ricoverato nella clinica della prigione per i condannati di reati sessuali. Rilasciato su cauzione, Rovaro era tornato a casa sua a Brooklyn: una delle condizioni per il rilascio era stata che partecipasse a un programma terapeutico in un centro di cura del Greenwich Village. Tre mesi dopo la scarcerazione, il tranquillo quartiere a pochi isolati dal centro cittadino era stato teatro di una serie di aggressioni sessuali. La prima vittima era una giovane balia irlandese che prima di essere sopraffatta dall'assalitore era riuscita a mettere al sicuro il neonato affidatole. Poi era toccato a una massaia carica di borse della spesa, la quale aveva cercato di resistere ma era stata spinta dentro casa sua dall'aggressore armato. E infine era stata la volta della bambina di dieci anni, seguita da quello stesso uomo fuori della scuola e obbligata a entrare nel palazzo in cui abitava, dove il violentatore, per sottometterla alle sue voglie, l'aveva colpita in faccia. Gayle aveva condotto una causa straordinaria, sostenendo le fragili vittime nelle commoventi deposizioni e mandando in frantumi, con un'ottima preparazione preventiva e abili controinterrogatoli, gli alibi presentati dalla difesa per bocca di familiari e amici dello stupratore. Lo stesso Rovaro era rimasto scosso dalle ostinate e incalzanti domande con cui la rappresentante dell'accusa aveva distrutto il suo tessuto di bugie con ferrea determina-
zione, e mostrato impietosamente la sua indole ai giurati. Finita la requisitoria, Gayle si mise a sedere, lasciando il destino di Rovaro nelle mani di uno dei giudici più severi dell'intero sistema giudiziario. Edwin Torres era pronto a rivolgersi all'imputato. Si alzò dallo scranno di cuoio, si portò dietro l'altissimo schienale e vi appoggiò i gomiti. Prima di tutto guardò la moglie e la madre di John Rovaro che, per tutta la durata della requisitoria di Gayle, si erano date a gestacci e a ingiurie. I capelli scuri e i forti lineamenti di Torres si stagliavano contro il legno chiaro che rivestiva la parete alle sue spalle. Poi diede un'occhiata a Gayle e cominciò a parlare. Nel suo stile eloquente, guardando Rovaro dritto negli occhi, delineò la condotta del violentatore: «I fatti parlano - o meglio, gridano - da soli». Si riferiva agli atti comprovati dall'accusa, riepilogandoli ancora una volta. «Ma ciò che colloca lei, John Rovaro, oltre i confini della civiltà oltre la compassione, oltre l'umanità - è l'aggressione alla bambina. Lei è il diavolo in persona, perché chi, se non un diavolo, può dare un pugno in bocca a quella bambina, spezzandole l'apparecchio contro i denti, per poi sodomizzarla? Per questo solo atto di crudeltà, ci sono paesi e società in cui lei verrebbe impalato e lasciato a danzare sulle punte per ore al sole del Sahara.» Alle mie spalle, Mickey Diamond prendeva furiosamente appunti, e si chinò in avanti per sussurrarmi: «Non ti piacerebbe poter dire cose del genere durante la requisitoria, senza dover sottostare alle opposizioni della difesa? Con lui non ho neanche bisogno di inventare... c'è sempre tanto da citare, in quel che dice». Sorrisi. In piedi accanto allo scranno, Torres proseguì, pronunciando una condanna a cento anni di reclusione e aggiungendo alla carriera del criminale, due volte liberato su cauzione, il suo suggello personale: «Un morbo collettivo colga la commissione per la libertà condizionata che osasse scatenare di nuovo questo demonio nella nostra società. Mi leverò io stesso a infliggerglielo, dal fango della mia fossa». Ammiccò rivolto a me e quindi disse agli agenti di custodia di riportare in gabbia il detenuto in manette. Rovaro rimase impassibile, ma quando arrivò alla porta che divideva l'aula dalla cella, si voltò e sputò verso il podio del giudice. Il capo delle guardie lo afferrò per la collottola e lo spinse fuori. Io scesi a congratularmi con Gayle per l'esito, mentre un agente tornava indietro ad assicurarsi che la procuratrice stesse bene. «Rovaro se la fa sotto», disse l'agente scuotendo la testa. «Dovrebbe esserne soddisfatta.»
Lo era. Salutai Torres con un cenno della mano e uscii in corridoio con Gayle e il suo carrello carico di atti processuali. Con un po' di fortuna, l'assassino di Gemma Dogen sarebbe stato processato davanti a un giudice come Torres. Ovviamente se fossimo riusciti a prenderlo. «Ha appena chiamato Drew Renaud», mi accolse Laura qualche minuto dopo. «Ha detto che stava per uscire dall'albergo. Non ti ha voluto disturbare nel cuore della notte. Ha detto che ti cercherà un po' più tardi in modo da parlarti prima che tu parta per Londra. Anche McKinney ti ha cercata. Vuole sapere che cosa intendi fare per il nuovo caso vicino al ColumbiaPresbyterian e chi ti sostituisce quando sarai via. È anche un po' seccato per qualcosa che riguarda Phil. Non saprei cosa.» «Capito, Laura, grazie.» Prima ancora che arrivassi alla scrivania, già lampeggiavano due linee telefoniche. Ebbi subito la sensazione che sarebbe stata una giornata infernale, come sempre succedeva quando dovevo assentarmi per qualche giorno. Laura mi annunciò con l'interfono che sulla uno c'era Mercer e sulla due un cronista di New York 1. «Dirotta il cronista all'ufficio stampa... non voglio parlare con nessun giornalista. Prendo Mercer.» «Buongiorno. Mike ti ha già detto dell'aggressione al Columbia, vero? Ci sto andando adesso per vedere che cosa riesco a scoprire. Potresti chiedere a Laura di preparare un mandato per la banca di Dietrich? Ho telefonato stamattina quando hanno aperto. Ho parlato con una che mi ha detto che lui ha l'acqua alla gola. Ha accumulato una montagna di debiti e deve un sacco di soldi in giro. Non mi ha voluto fornire elementi specifici senza un mandato...» «Lo accetterebbe per fax? Sarà pronto tra un quarto d'ora.» «Perfetto. Così avrò qualcosa da fare mentre tu e Chapman prendete il tè dalla regina. Ci vediamo.» Attaccai, ma la spia dell'altra linea continuava a lampeggiare. Ovviamente, si trattava di un giornalista insistente di cui Laura non riusciva a liberarsi. «Alex, questo dice che non è a caccia di notizie. Vuole darne a te. Non vuol parlare con me e nemmeno con l'ufficio di Brenda. Lo prendi?» «Certo.» Collegai la linea e all'orecchio mi giunse la voce acutissima di un giovane collaboratore dell'emittente locale, che si presentò. «Signorina Cooper? Sappiamo che è lei a occuparsi delle indagini al Mid-Manhattan. I suoi collaboratori sanno niente dell'irruzione avvenuta stanotte al Metropolitan Hospital?»
Inutile prendersela con lui se ne sapeva più di me. Preparai un taccuino e, cominciando a prendere appunti, gli dissi che non ne sapevo nulla: «Lei che cosa sa? È successo qualcosa a un paziente?». «È quello che stiamo cercando di capire. Fino a ora negano che ci siano pazienti coinvolti, ma non sappiamo se fidarci o no. Nessuno vuole un altro Mid-Manhattan, e immagino che del Columbia siate già al corrente.» «Sì. Qual è la storia del Metropolitan?» «Cercano di ridimensionarla. Dicono che il tipo non è mai andato oltre gli uffici amministrativi a pianterreno. Personale medico, paramedico e pazienti non sono mai stati in pericolo. Le solite smentite.» «Chi l'ha scoperto?» «Le addette alle pulizie del turno di notte. Una donna è entrata nell'ufficio contabilità alle tre e ha trovato le luci accese. Ha sentito rumore di passi, ma non ha visto nessuno scappare. La serratura era stata forzata.» «So che lei non mi dirà la sua fonte, ma...» «Non è un problema. Qui è ormai di dominio pubblico. La donna delle pulizie fa un turno al Metropolitan, e subito dopo viene da noi a rassettare gli uffici. Era proprio sconvolta quando è arrivata qui stamattina. Non faceva altro che parlare del ladro all'ospedale... praticamente nell'ufficio del presidente, in piena notte. Non vuol più tornarci a lavorare... ne ha abbastanza degli ospedali, dopo quello che è successo ultimamente.» «Condivido. Le dica che non è la sola.» «Be', il motivo per cui le telefono è per sapere se ha sentito dire che al Metropolitan sia successo qualcos'altro, stanotte. Per esempio: questo tizio stava entrando o stava uscendo, quando la nostra donna delle pulizie l'ha beccato?» «Francamente lo scopro adesso. Sono in debito con lei, la prima volta che ha bisogno di uno spunto in cui posso aiutarla. Mi dia il suo numero, se c'è qualcosa che posso dirle su questa faccenda la richiamo. Grazie dell'informazione.» Telefonai subito a Mercer: «Per fortuna ti ho trovato prima che uscissi. Un'altra ghiottoneria. Passa dal Metropolitan in mattinata, se puoi, e controlla questa storia». Gli ripetei quello che mi aveva raccontato il giovane cronista. Entrambi esprimemmo sollievo per il fatto che una volta tanto l'irruzione non aveva avuto esiti drammatici per nessuno. «Speriamo che fosse solo alla ricerca di qualche assegno o di soldi lasciati in giro», disse Mercer. «Non c'era motivo che la direzione dell'ospedale chiamasse noi per questa storia, ma vedrò che cosa contiene la loro
denuncia al distretto di polizia e se è stato rubato qualcosa o no. Oggi stesso ti faccio avere un rapporto dettagliato.» Avevo tre atti di accusa da riguardare prima di archiviarli, una dozzina di telefonate arrivate il giorno prima a cui rispondere, e una riunione dei capi nell'ufficio di Rod Squires durante la pausa pranzo, per esaminare le proposte di cambiamento dell'orario del secondo turno di notte per le incriminazioni. Ero in attesa della comunicazione con uno degli avvocati del programma di protezione legale del St. Luke per le vittime di reati, quando fece capolino Faith Griefen per chiedermi, indice sotto il palmo della mano, un attimo di attenzione: «Sarah dice che porti la mia taglia e che hai sempre dei ricambi. Hai niente in bianco sporco?». Annuii e alzai un dito per chiederle di aspettare mentre finivo di rispondere a una domanda: come far capire a una donna che si rivolge allo studio legale dopo uno stupro, quanto sia importante che si sottoponga all'esame di sieropositività. «Sto per fare la requisitoria e mi sono smagliata una calza contro la gamba del tavolo, alzandomi per fare un'obiezione», mi disse Faith esibendo cinque centimetri di strappo che correvano da sopra l'orlo della gonna fin sotto il tallone. «Quei vecchi arredi dell'aula 52 mi beccano sempre quando sto per arrivare a un punto importante del processo. Non mi va di presentarmi con questo strappo grottesco sulla gamba. Potrebbe esserci qualche giurato che lo ritiene tanto sfacciato da votare per l'assoluzione.» «Mi sa che il giurato numero dodici sta sempre a guardarti le gambe, eh? Ha ragione: sono sempre meglio delle prove che hai in mano», osservai andando allo schedario accanto alla scrivania, e aprendo il cassetto con l'etichetta «Casi chiusi». Dentro c'era una pila bene ordinata di collant setificati di vari colori, alcune paia di scarpe décolleté con tacchi di varie altezze, articoli da trucco, dentifricio e uno spazzolino: una piccola stazione di servizio per legali donne in difficoltà. Pescai un paio di calze per Faith e le ricordai che uno dei miei peggiori incomodi nei primi tempi che ero arrivata lì, dieci anni prima, era la scarsità di donne che vi lavoravano. I maschi erano buoni amici e ottimi mentori, ma quando Battaglia reclutò altre donne da mandare in aula, il cameratismo assunse un sapore del tutto diverso, impensabile sotto il suo predecessore. Non soltanto adesso si poteva parlare di qualcosa di diverso dal calciomercato, dal campionato di basket e dalle iniezioni di silicone che si fa fare Demi Moore, ma si poteva trovare anche una scorta d'emergenza di collant, di Tampax e di limette per le unghie
senza bisogno di spedire un commesso ai grandi magazzini nella pausa pranzo. Faith uscì per andare in bagno a cambiarsi e Rose Malone entrò con una copia della scaletta che Battaglia aveva preparato per l'intervento di apertura alla tavola rotonda di giovedì pomeriggio in Inghilterra. «Il procuratore distrettuale vuole che tu ne abbia una copia. Ha pensato che potevi buttar giù qualcosa tu, ma inserendo le sue note per quanto riguarda il controllo sulle armi da fuoco, il problema della droga e la pena di morte. Dice che dovresti aggiungere qualche osservazione tua sui reati sessuali e sulla violenza domestica, va bene?» «Benissimo. Ci lavoro subito, in modo che Laura me lo possa stampare. Altre istruzioni?» «Il signor B. ha chiamato Lord Windlethorne per comunicargli la sostituzione e spiegargli i motivi. Sono molto gentili, contentissimi di averti ospite. Geoffrey Dogen verrà a Cliveden venerdì mattina e, siccome per allora il vostro impegno principale al convegno sarà finito, tu e Mike potrete dedicargli tutto il tempo di cui avrete bisogno. Naturalmente, il signor B. conta di vederti appena arrivi, lunedì mattina.» La ringraziai e la informai dei fatti del Columbia-Presbyterian e del Metropolitan in modo che potesse tenere aggiornato Battaglia: «Sa dove trovarmi, se ha domande da fare. Ci vediamo la settimana prossima». Il discorso preparato da Paul era breve e puntuale. Conoscevo benissimo la sua posizione su quasi tutti i temi e mi fu facile svolgere le sue argomentazioni e ampliarle con i punti che riguardavano la mia specializzazione. Finii di redigere il mio intervento e lo passai a Laura, che mi disse di raggiungere il gruppo nella sala riunioni dell'ufficio di Rod. Dopo aver passato il pomeriggio precedente nella sala del consiglio d'amministrazione dell'ospedale, il contrasto era particolarmente impressionante. Eravamo in dodici - Rod, Pat, sei capi ufficio che dirigevano le squadre della divisione Processi, i capi di unità speciali, come me, e alcuni direttori di reparti che sì occupavano di addestramento e di reati minori -, accalcati intorno a due tavoli di formica affiancati per tutta la lunghezza della stanza. Nel bilancio comunale non erano previste superfici luccicanti: solo boiserie false, sedili in vinilpelle, cornicette di plastica con riproduzioni fotografiche da quattro soldi. Portati dietro il tuo panino, questa era la norma, e mangiatelo, senza badare alle palline verdi sparse in tutti gli angoli del pavimento: una volta servivano ad avvelenare i topi che popolavano l'edificio, che però, ormai, se le pappavano come cioccolatini.
Fin da quando avevo assunto la direzione dell'ufficio, Rod era il mio supervisore preferito: intelligente, spiritoso, ragionevole. Era un confidente prezioso per qualsiasi problema, sia personale che professionale, e davanti a qualsiasi tipo di crisi ci si poteva fidare del suo giudizio. Ormai avevo smesso di contare le occasioni in cui mi aveva salvato la pelle aiutandomi a riflettere su una questione, prima che io mi ci buttassi a capofitto. Per me la sua amicizia era preziosa almeno quanto la sua saggezza. Mi sedetti accanto a John Logan e aprii il mio vasetto di yogurt magro, mentre lui scartava un enorme panino al prosciutto e formaggio dal profumo delizioso. Mentre Rod e Pat ripassavano l'ordine del giorno della riunione in attesa che gli ultimi ritardatari si sistemassero, ci sbirciammo a vicenda. «Ho sentito della dottoressa aggredita stanotte. Come si inserisce nel tuo quadro?», chiese Logan. «Se c'è qualcuno che vuole confessare entrambi i delitti e togliermi dai guai, fammelo sapere.» «Figurati: io sto ancora aspettando le identificazioni per il colpo al Rockefeller Center... non aspettare me! Hai qualche traccia per l'interrogatorio di controllo ai candidati giurati in casi di reato sessuale? Tra poco uno dei miei ha un processo per un'accusa lieve: toccata e fuga allo stadio. Gli ho detto che mi sarei fatto dare del materiale da te.» «Certo. Laura ha un intero archivio di domande per la giuria. Quando vai via passa da lei.» Rod Squires era pronto a cominciare: «Mettiamoci al lavoro. Oggi pomeriggio non abbiamo molto tempo, prima di salutare la Cooper e Chapman che se ne vanno in luna di miele sulle bianche scogliere». Più d'uno si voltò verso di me per cogliere la mia reazione: la fabbrica dei pettegolezzi lavorava a pieno regime come sempre. Alle provocazioni di Rod ero ormai abituata, e non arrossivo più. «Gentile da parte sua fare un salto in ufficio per questa riunione, signorina Cooper. McKinney mi diceva di non essere sicuro che lei lavorasse ancora qui.» «È solo un suo pio desiderio, Rod.» Sorrisi a Pat, che fingeva di prendere appunti sul suo taccuino. «Se fai entrare di contrabbando degli Avana per Battaglia, non dimenticarti di portarne qualcuno in più per i vecchi amici.» «Lo sai che io non mi sognerei mai di fare qualcosa di illegale. Che marca volete?»
I fumatori di sigaro sembrarono dividere le loro preferenze alla pari e Rod passò a introdurre la discussione sul turno di servizio prima dell'alba. Per tradizione, erano i nuovi assistenti a gestire le incriminazioni tra mezzanotte e le otto di mattina, ma da qualche mese il turno era così poco impegnativo e improduttivo che si discuteva della sua utilità. Mentre tutti coloro che erano riuniti attorno al tavolo esprimevano la propria opinione, la mia concentrazione si spostò alle cose su cui volevo che Mercer lavorasse mentre Mike e io eravamo via. Stavamo per interrompere la seduta, alle due e mezza, quando Rod annunciò che aveva da sottoporci un altro sospetto nelle indagini del MidManhattan. Prese una motivazione di sentenza che gli era stata mandata da un pubblico ministero di Detroit. «Hai studiato il caso del dottor Thangavelu?» «Confesso l'ignoranza. Chi è?» «La storia è vera. Il medico è stato accusato di cunnilingus su una paziente alla quale stava esaminando la vagina. Processato e condannato. La corte d'appello del Michigan ha rovesciato la sentenza: leggi la motivazione "Lo Stato contro Thangavelu". I giudici hanno detto che l'accusa non ha mai dimostrato che ciò che ha fatto il medico non facesse parte del trattamento sanitario della donna. Non credi che i giurati fossero in grado di immaginarselo da soli? Ti dirò una cosa: non ammalarti mai a Kalamazoo nel Michigan, Cooper: fa' ancora qualche chilometro e arriva in Ohio. Meglio telefonare per accertarci che quello sporcaccione non sia venuto a New York ad aprir bottega al Mid-Manhattan.» «Grazie del suggerimento, Rod, sei sempre di grande aiuto. Non so come, a Sarah e a me quel caso possa essere sfuggito, quando abbiamo fatto le ricerche. Lo esaminerò a fondo quando torno dall'Inghilterra.» Rientrata in ufficio e controllati con Laura i messaggi che erano arrivati nel frattempo, mi rimaneva ormai meno di un'ora per definire le ultime cose in sospeso. Venne Sarah per occuparsi di una lista aggiuntiva di mandati da richiedere, e garantirmi che nei giorni successivi avrebbe tenuto sotto controllo gli sviluppi di entrambi i casi. Raccolsi in una cartelletta le foto della scena del delitto e alcuni rapporti di polizia, insieme con una copia della cassetta registrata da Bob Bannion nell'ufficio di Gemma. Forse all'ispettore Creavey di Scotland Yard, o allo stesso Geoffrey Dogen, la vista di quella stanza insanguinata avrebbe suggerito qualche idea. «Credo che di là ci sia Ricky Nelson a seminare commozione», disse Sa-
rah, indietreggiando verso la porta. Con uno di quei suoi sorrisi smaglianti, Chapman stava facendo a Laura e alla segretaria di Rod una serenata sulla melodia di Travelling Man. Il piccolo uditorio era incantato. «Ho detto a quella santa di mia madre che Alex Cooper mi portava a Londra e giuro che a momenti me le dava. Pensava che fosse un pesce d'aprile. Mi ha pregato di farti fermare a Dublino, al ritorno. A trovare la famiglia eccetera. Tu che ne dici, Blondie?» Stava recitando per la platea. «Perché no?» «Il minimo che potessi fare è stato prometterle che avrei cercato di convertirti. Allontanarti dallo scotch per farti passare a un buon whisky irlandese. Ecco il mio obiettivo, mie signore. Leverò il calice alla vostra salute appena dopo il decollo. Via, dammi i tuoi bagagli. Mercer è giù che aspetta in macchina. Vuole evitare l'ora di punta sulla Van Wick.» Entrò a prendere la mia valigia. «Che cosa scommetti, Sarah? Quante volte si cambierà d'abito la duchessa, nelle prossime settantadue ore? Quante paia di scarpe? Se a trascinarle 'sta robaccia mi viene l'ernia, sappi che chiedo l'assegno d'invalidità: tre quarti dello stipendio, per causa di servizio.» La valigia in una mano, Chapman prese Sarah sottobraccio con l'altra e l'accompagnò all'ascensore, sussurrandole qualcosa all'orecchio. Vidi che lei cambiava espressione e che un brivido le percorreva tutto il corpo, mentre si premeva la mano sulla bocca. Mi parve che Mike avesse fatto il nome di Maureen. «Che è successo?» «Fatti i fatti tuoi, piccola. Non è successo niente. È soltanto che mi ero dimenticato di dire a Sarah una cosa su una persona che conosce. Andiamo.» Le porte dell'ascensore si aprirono e la freccia rossa rivolta in basso si accese. Guardai prima uno poi l'altra, ma non riuscii a cavarne nulla. «Non stavate parlando di Maureen?» «Credi che non te lo direi se fosse così? Andiamocene.» Entrai nella cabina e le porte si richiusero alle nostre spalle. Capitolo 21 Mercer aveva parcheggiato accanto a un idrante in Hogan Place. Aprì il bagagliaio per permettere a Mike di caricare la mia valigia. Il sedile posteriore era quello tipico di una macchina di servizio da agente investigativo: spinsi da parte un paio di cravatte mal ridotte, un borsone da palestra semi-
aperto dal quale occhieggiavano biancheria e calzini sporchi e un berrettino da baseball degli Yankees di quando avevano vinto il campionato, e così potei mettermi a sedere. Percorremmo la Lafayette Avenue in direzione della rampa d'accesso al ponte di Brooklyn e della teoria discontinua di autostrade e tangenziali piene di buche che portano al Kennedy. «E allora, che novità ci sono sui casi della notte scorsa?» «La vittima del Columbia è ancora tenuta in vita artificialmente. Non si mette bene per lei e non c'è nessuno che si faccia avanti con uno straccio di sospetto. Quello del Metropolitan sembra un furtarello abortito.» «Portato via niente?» «Ci sono due scuole di pensiero. Il ladro era troppo basso per arrivare ai medicinali. Potrebbe aver avuto intenzione di prendere droghe e siringhe, ma non ci è mai arrivato. Un piccolo successo l'ha avuto nell'ufficio contabilità. Il cassetto è stato svuotato e gli schedari del personale sparpagliali dappertutto. «Non c'è ancora niente di chiaro, a questo punto. È un casino. A dir poco. Quell'uomo in realtà ha defecato su tutti i fascicoli dello schedario in modo che adesso è difficile farne, diciamo, una lettura pulita.» «Risparmiami i particolari.» «Okay.» Il traffico di fine pomeriggio era intenso come al solito. Mercer si districava tra le macchine troppo lente e in qualche modo riuscimmo a percorrere gli ultimi chilometri fino a che non apparvero i primi hangar. L'andatura aumentò man mano che ci avvicinavamo ai terminal, ma fui buttata contro lo schienale da una brusca frenata proprio davanti alla Cappella dei Cieli. Era una tranquilla chiesetta proprio al centro dell'aeroporto circolare, davanti alla quale ero passata centinaia di volte senza essermi mai fermata. «Coop e io aspettiamo in macchina. Vuoi entrare a dire qualche preghiera?» «Amico, non prendermi in giro.» Chapman aveva il terrore di volare, ma non gli piaceva che lo si mettesse in ridicolo per quello. «Ma non per l'aereo. Ci penserà il pilota, lassù. Solo per avere un po' di fortuna in Inghilterra, che ne dici?» Ripartì e ci infilammo nella corsia per le partenze internazionali dell'American Airlines. A buttare la bomba che teneva in serbo, Mercer aspettò che fossimo sul marciapiede: «Il tenente ha comunicato i risultati di laboratorio degli esami
sui dolcetti inviati a Maureen dall'ignoto ammiratore». Gettai uno sguardo a Mike, che giocherellava nervosamente col biglietto, e capii subito che era quella la cosa che stava sussurrando a Sarah quando eravamo usciti dall'ufficio. «Ciliegie ricoperte di cioccolata... corrette all'acido borico. Un imbecille malato l'ha iniettato con un ago che ha lasciato un buchino più piccolo di una puntura di spillo. Quasi invisibile.» Stavo per aprir bocca, quando Mercer mi afferrò il viso tra le enormi mani e si chinò in avanti a guardarmi negli occhi, fin quasi a toccarmi il naso col suo: «Va tutto bene, Alex. Non le è successo niente, hai capito? È per questo che l'abbiamo mandata in quell'ospedale... per far uscire allo scoperto l'assassino». «Ma...» «Ma niente. Hai parlato tu stessa con Mo, ieri sera. Sai che sta benissimo. Adesso parti e pensa a quello che devi fare.» «È che non posso...» «Guardami bene, ragazza... qui in questi occhioni marrone. Non mi credi quando ti dico che Maureen sta bene, eh?» Annuii. «Adesso vattene, Coop. Non mi piacciono i lunghi addii.» Entrando nel terminal, Mike mi spiegò che quella di raccontarmi la faccenda dei cioccolatini avvelenati all'ultimo momento era stata un'idea di Mercer. Io mi crucciavo perché non potevo stare accanto a Mo, ma comprendevo la logica della loro decisione e sapevo che Maureen era una professionista esperta. La vigilanza era rigorosissima e sostammo a lungo in coda tra i passeggeri in partenza per l'Europa quella sera, ad aspettare che controllassero i passaporti e i bagagli e ci assegnassero i posti sul 767. «Dai. Ti porto all'Admiral's Cup. Ci vuole ancora mezz'ora prima dell'imbarco.» Mike mi seguì per il corridoio e salimmo in ascensore al club privato del primo piano. Mentre Mike faceva l'ultima telefonata in ufficio, io presentai al banco la mia tessera di socia. La coppia che mi stava davanti si voltò e io restai stupita nel riconoscere il signore dall'aria distinta che riponeva in tasca il portasoldi. «Viaggio d'affari o di piacere, Alex? Dove sei diretta?», mi salutò Justin Feldman, schioccandomi un bacio sulla guancia. Era un ottimo avvocato, con una grande esperienza in campo finanziario
che lo relegava nell'atmosfera rarefatta delle corti federali, più che nel nostro trasandato foro. «Sempre e solo lavoro. Londra. Complimenti per l'articolo che ho visto il mese scorso su "American Lawyer": tra i dieci migliori patrocinatori di cause finanziarie. Quel che si dice buona stampa.» «Mi farai cancellare dall'elenco, prima o poi, appena verrai dalla nostra parte. Ti presento la mia associata, Susan LaRossa. È lei che rende tutto possibile, sai?» Susan aveva qualche anno meno di me, ma avevo già sentito parlare del suo talento e della sua abilità professionale in aula, da amici che lavoravano nel settore privato. Mi tese la mano e, cercando di metterci d'accordo per pranzare una volta insieme, parlammo delle conoscenze comuni. «E voi due, dove siete diretti?» «A Parigi. Un viaggetto rapido per un cliente coinvolto in quello scandalo bancario su cui sta indagando il tuo principale. Battaglia sta dando da lavorare a tutti. Tanto per cambiare, Susan e io potremmo anche finire davanti a un tribunale penale, questa volta.» L'addetto mi restituì la tessera e tutti e tre ci avviammo verso la sala da pranzo. «S'è fatto il tuo nome ieri pomeriggio, in una riunione giù alla Milbank. Di che si trattava? Ah, già...» Mi stavo già mordendo le labbra. A New York davvero non ci sono segreti. «Ho saputo che Drew Renaud è pazzo di te. Appena conosciuti, vero? Be', i suoi soci dicono che sembra felice e su di giri per la prima volta da quando gli è morta la moglie.» «Non ci conosciamo nemmeno, a dire il vero. Sono sicura che a fargli cambiare umore sia stato qualcos'altro... è terribilmente prematuro anche solo...» «È un uomo meraviglioso, Alex... solido e in gamba. Ecco come è venuto fuori, il tuo nome: si stava parlando delle strane circostanze che hanno portato Susan e me a occuparci del caso a cui stiamo lavorando ora. Il socio di Drew ha detto di averne sentite di bizzarre coincidenze, ma quella di te, Drew e quell'indagine per omicidio di cui ti stai occupando lo aveva davvero sorpreso.» Mi bloccai su due piedi e guardai Justin interrogativamente: «Di quale bizzarria stai parlando?». «Della moglie di Drew e del modo in cui è morta.» Il sorriso era scomparso dalla bocca di Justin e sul volto gli era apparsa un'aria cupa, mentre Susan evitava il mio sguardo per concentrarsi su una macchia del pavi-
mento. «Cancro. È morta di tumore al cervello, non è vero?» Non vedevo che legame ci fosse e agli occhi di Justin fu subito chiaro che lui ne sapeva più di me. «La dottoressa uccisa, il caso di cui ti occupi... scusa, non mi ricordo il nome.» «Gemma Dogen.» «Sì, be', credevamo tutti che tu lo sapessi. Carla Renaud è morta sul tavolo operatorio. Drew l'aveva portata a Londra per sottoporla a un tipo di operazione di cui là avevano messo a punto la tecnica. Un intervento molto complicato, condotto da un'équipe di neurochirurghi di prim'ordine. Per eseguirlo fu fatta venire dal Minuit la Dogen. Ma Carla morì nel corso dell'intervento.» Mentre cercavo di ricordare la successione degli avvenimenti, una rapidissima serie di immagini mi attraversò la mente. Drew aveva detto a Joan Stafford di volermi conoscere prima o dopo che la dottoressa Dogen venisse assassinata? Era stato fatto il nome di Gemma, nelle nostre conversazioni, e se sì, chi l'aveva fatto per primo, io o Drew? Come mai lui non mi aveva detto niente? Eppure doveva essere stato il fatto più grave e importante di tutta la sua vita. «Mi dispiace di averti messo sottosopra, Alex. Pensavamo tutti che era bellissimo che voi due vi vedeste. Una coincidenza straordinaria però che questo caso sia capitato proprio dopo che voi due avete cominciato...» «Non dopo, Justin. La Dogen era già stata uccisa qualche giorno prima che mi presentassero Drew.» Perché aveva voluto conoscermi? Era per me o per il caso di cui mi occupavo? Odiava la Dogen? A quanto pare lei non era riuscita a salvare la vita di sua moglie. «Scusatemi, per favore. Mi spiace, mi sono distratta. Devo fare una telefonata, prima di imbarcarmi.» «È ovvio, ti ho sconvolta, Alex. Mi dispiace...» «È tutto a posto, Justin. Felice di averti conosciuta, Susan. Arrivederci a tutti e due.» In un angolo appartato c'era una fila di sedie vuote accanto a una vetrata. Mi diressi lì e presi il telefono sul tavolino laterale. Formai il numero di Joan, aggiungendo le cifre del numero della mia carta di credito e del PIN. Trovai la segreteria telefonica. «Rispondi, accidenti. Se stai scrivendo, giocando, o telefonando sull'altra linea, rispondimi, Joannie. Ho un bisogno disperato di parlare con te prima di salire su quell'aereo, non scherzo.»
Aspettai qualche secondo e non ebbi risposta. Se fosse stata a portata di orecchio, Joan avrebbe risposto. «Chiamami sul cercapersone, se trovi questo messaggio entro il prossimo quarto d'ora», implorai. L'altoparlante chiamò il nostro volo. In fondo al salone vedevo Mike ridere al telefono. Sapevo che da lì all'uscita c'era un lungo tratto a piedi e che dovevamo ancora passare dal metal-detector. Controllai l'orologio, lessi il numero di telefono dell'albergo di Drew che mi ero scribacchiata sul biglietto aereo e chiamai San Francisco. In pieno giorno non c'era nessuna possibilità di trovarlo in albergo. Chapman mi cercò con lo sguardo attraverso il salone, poi si diresse verso di me, facendomi cenno di andare. La centralinista mi mise in comunicazione con la camera di Drew, fece fare dodici squilli e poi mi chiese se volevo lasciare un messaggio. Non sapevo che cosa dire. Volevo che fosse luì a dirmi delle cose, senza che glielo chiedessi io. E prima di parlare direttamente con lui, volevo capire che cosa ne sapeva Joan. Volevo chiarire che rancore si era tenuto dentro Drew nei confronti di Gemma Dogen, nei due anni trascorsi dalla morte della moglie. «No. Non c'è bisogno che gli dica nulla. Riproverò.» Presi la borsa e andai incontro a Mike all'ingresso del club. «Stai bene?», mi chiese lui. «Hai l'aria di una che si è presa una botta in testa.» «Dai, andiamo all'uscita.» Ero fuori di me. Scendemmo in ascensore, ci infilammo nel pigia pigia davanti al check-in nella sezione principale del terminal e ci mettemmo nella lunga coda di viaggiatori in partenza per sottoporci al controllo di sicurezza. «Che cos'è che ti turba?» Levai la borsetta dal nastro trasportatore del metal-detector e, adesso che finalmente si riusciva a stare appaiati, raccontai a Mike la conversazione che avevo appena avuto al club. «Prendila per quel che sembra, bimba: una coincidenza.» «Stronzate. Non ci credi nemmeno tu.» «Vedi troppi film.» Chapman scuoteva la testa sorridendo: «Dimmi quello che pensi. Il tuo nuovo spasimante ha ammazzato la dottoressa? Poi, il giorno dopo, dice alla tua migliore amica che muore dalla voglia di conoscerti. Ci riesce. Tu ti innamori. Viene a letto con te...». «Non viene a letto con me.» «Non te lo sei fatto? Non mi sorprende che ancora non ti abbia ucciso: sta aspettando di darti una botta per vedere se è tutto oro quel che luce. Poi ti ucciderà per estrometterti dall'indagine sulla Dogen.» «Lo sai che a sentirlo sembra proprio stupido?»
«Già, infatti, lo è. Ecco perché io l'ho detto chiaro e tondo e tu no. Ma pensi davvero che questo avvocato di lusso, che da due anni è in lutto per la moglie, abbia qualcosa a che fare con l'accoltellamento della Dogen, nel cuore della notte, nel suo ufficio? E, a parte il tuo indubbio fascino, per quale ragione al mondo ti si sarebbe attaccato... se non per ucciderti ed estrometterti dall'inchiesta in modo che il caso non sia risolto? So cosa pensi in questo momento, e ti dico che è pazzesco. Può darsi che non gli vada di parlare di sua moglie. Può darsi che non si ricordi nemmeno il nome della dottoressa.» «Può darsi, può darsi, può darsi. Voglio avere risposte. Odio i può darsi e odio le coincidenze.» «Tu odi tutto ciò che non riesci a tenere sotto controllo. Prova a calmarti e fino a quando torniamo scaccia questo pensiero dal tuo stanco cervellino.» Eravamo quasi alla fine del corridoio, ormai in vista dei passeggeri in fila al cancello A20. «Va' avanti e sali in aereo. Io provo di nuovo a parlare con Joan. Per piacere.» Mentre l'altoparlante trasmetteva l'ultima chiamata per il nostro volo, mi fermai a un telefono a scheda, formai il numerò e attesi la comunicazione. Gli ultimi ritardatari mostravano il biglietto e salivano a bordo, e Mike mi indicava a una donna che immaginai essere dei servizi speciali. La donna tenne la busta col biglietto di Mike e lui si fece di corsa il centinaio di metri fino al banco del telefono. Intanto io insistevo con la segreteria telefonica di Joan perché lei alzasse la cornetta. Era ancora fuori, per cui le lasciai detto di telefonarmi l'indomani a Cliveden. Mike prese da terra la mia borsa, mi afferrò per il braccio e mi guidò per la rampa fino al banco dell'addetta all'imbarco: «Ha bisogno della tua carta d'imbarco». Gliela consegnai e la guardai cancellare dei numeri e scrivere una nuova assegnazione di posto. Passò la carta all'agente dei servizi speciali, che ci invitò a salire con lei sull'aereo. Invece di girare a destra e avanzare a fatica tra le decine di passeggeri impegnati a stipare il bagaglio a mano negli alloggiamenti in alto, puntò a sinistra: «Siete in prima classe, posti 2A e 2B. Vi auguro un buon viaggio». «Ho paura a chiederti chi hai corrotto per ottenere questa sistemazione. Non avrai mica esibito il distintivo per esigere un posto migliore, vero?» Almeno, sorridevo di nuovo. «O qualche povera hostess ha dovuto passare un guaio, per questo scambio?»
«Ma quanto sei scettica, Blondie. Credevo di farti una bella sorpresa. Ti ricordi Charlie Bardong?» Charlie era stato tenente della polizia giudiziaria presso la procura distrettuale e adesso faceva l'investigatore privato. Lo conoscevamo benissimo tutti e due. «La moglie gestisce i servizi speciali dell'American. Stamattina le ho telefonato e lei mi ha detto che se rimanevano posti liberi non c'era problema. Allegra, Coop. Un paio di cocktail dopo il decollo, e io mi dimenticherò di essere su un aereo e tu di quel Lew...» «Drew.» «O come si chiama. Te lo ripeto: non vedere fantasmi dove non ce ne sono. Abbiamo le idee già abbastanza confuse.» In prima classe c'erano solo dodici posti, la metà dei quali liberi. Mi sedetti vicino al finestrino, tirai fuori dalla borsa qualche settimanale, mi misi le pantofole offerte dalla compagnia aerea e mi accomodai, con il cuscino e la coperta a portata di mano. Mike ordinò uno scotch per me e un doppio whisky irlandese per sé, dimentico del suo piano per convertirmi alla bevanda nazionale della sua patria. Quando l'aereo ebbe raggiunto la quota di crociera, tutto quello che si vedeva era il cielo buio e, di tanto in tanto, le luci di qualche altro aereo che sfrecciava sotto di noi. Eravamo al secondo giro di scotch e di whisky irlandese e mangiucchiavamo l'assortimento di salatini caldi, meditando sulla scelta di pietanze riscaldate nel forno a microonde. Il liquore mi stava rilassando e la preoccupazione per le circostanze in cui avevo conosciuto Drew cominciava a smorzarsi. Avrei avuto tutto il tempo per mettere bene a fuoco la cosa quando fossimo tornati a New York. Ero contenta di essere a diecimila metri d'altitudine, fuori dalla portata di cercapersone e telefonini. Mi piaceva, la mia cella d'isolamento volante. Durante il pasto Mike parlò ininterrottamente. Ricordò vecchi casi e scappatelle con le sue ex fidanzate, delitti irrisolti e vittime di cui non era mai stato identificato né richiesto il cadavere. Le coppe di gelato e il brandy ci furono serviti quando ormai erano quasi le dieci e quindi, superata la Groenlandia, mi rannicchiai nella poltrona reclinabile. «Se tu potessi essere un altro, chi saresti?» «Cosa?» «Non lo fai mai? Uscire dai tuoi panni e far finta di essere un altro?», chiese Mike. «Dimmi tre persone - viventi o morte - che ti piacerebbe essere stata. Fantasia, eh, non roba da quattro soldi. Non mi dire Madre Teresa o Albert Schweitzer o Jonas Salk o Clara Barton. Per divertirti con chi
ti cambieresti, se potessi?» Avevo rannicchiato le gambe sul sedile, sotto la coperta, e, pensando alla risposta, tenevo il cognac francese a scaldarsi tra le mani: «Prima scelta: Shakespeare». «Tu? Non l'avrei mai immaginato. Ti facevo sì ambiziosa, ma non fino al punto di cambiare sesso!» «Ma ci pensi? Una mente che crea tutti quei capolavori: la lingua, i temi, le immagini, la grandezza delle parole e delle idee. Forse avrei preferito essere sua moglie: starmene lì la sera ad aspettare che torni a casa e mi legga i versi a cui ha lavorato tutto il giorno. Essere l'ispiratrice di tanta incredibile poesia. Credo che mai nessuno abbia adoperato la lingua più sontuosamente.» «E ti piace? Cioè, hai letto tutte le sue opere?» «Non tutte, ma, quelle che preferisco, più e più volte. Soprattutto le tragedie e i drammi storici. Ma, naturalmente, di solito anche i drammi storici sono delle tragedie. Adoro le sue tragedie.» Tirai su la testa dal cuscino e guardai Mike: «C'è qualcosa che non va, in me, non credi? Perché mi piacciano tanto le tragedie? E i misteri polizieschi e il lavoro che faccio...?» «Ci sei arrivata solo adesso?» «Certe volte appare più chiaramente di altre, credo. E tu, chi scegli?» «Neil Armstrong, il primo uomo sulla luna. L'idea di essere un pioniere in un mondo tutto nuovo...» «Alt.» Premetti un dito sul bracciolo imbottito e imitai il rumore di un campanello di errore in un quiz televisivo: «Risposta sbagliata. Lei ha il terrore del volo: non può fare l'astronauta». «Voglio solo essere l'uomo che compie il primo passo sulla luna. Non ho detto viaggiare sui B52 o...» «Non vale. C'è un solo modo per arrivare sulla luna e tu sei completamente e totalmente inadatto. Volo troppo lungo, niente alcol. Un'altra scelta.» «Va bene.» Ci pensò un po' e poi: «La seconda scelta cambia ogni volta, a seconda della biografia che sto leggendo. Di solito, è il duca di Wellington. Grande stratega... geniale a Waterloo. Certe volte, però, è Napoleone. Prima di Waterloo. È lì che divento incerto... intorno al 1815. Certe volte anche Annibale, con gli elefanti su per le Alpi. Hai capito, insomma: un grande generale, alla testa delle sue truppe in battaglia. Morire con le scarpe ai piedi eccetera. E tu, chi altro?». «Niente di strano: una ballerina.» Guardai l'orologio: «Proprio in questo
momento, qualcuno occupa il mio posto all'American Ballet Theatre per godersi l'esibizione di Kathleen Moore. È un'arte che non ammette imperfezioni: il pubblico può vedere ogni scivolata, ogni passo falso, ogni perdita di equilibrio. Mi piacerebbe avere quella grazia e quell'eleganza. Natalia Makarova... è quella che ammiro di più. Ma anch'io sono incerta. Potrei essere la Ferri, o la Kent, o la Moore. Danzare come in sogno e perdermi nella musica. Sai, anche nella danza mi piacciono soprattutto le tragedie. C'è da preoccuparsi?». «Ormai è troppo tardi. Hai mai avuto parti da solista? Voglio dire, quando andavi a scuola di danza?» «La regina delle Villi. È il mio destino. Mai Odile, né Coppelia, né la principessa Aurora.» «Chi sono le Villi? Mai sentite.» «Sono le fanciulle morte di amore non corrisposto, in Giselle. Sono decine, in lunghe gonne di tulle bianco, che volteggiano per tutto il palcoscenico. Passano quasi tutto il secondo atto a danzare in un modo che ti spezza il cuore. Ti porterò a vederlo. Si adatta perfettamente alla mia personalità. E tu, chi altro?» «Joe DiMaggio. Certe volte penso a Babe Ruth o a The Mick, il grande Mickey Mantle, ma Joe ha avuto tutto il meglio del baseball e, in più, Marilyn Monroe. Ed era anche un uomo di classe. Gli eroi del grande sport americano, prima che lo sciopero rovinasse tutto. Io c'ero, allo Yankee Stadium, alla sesta partita delle World Series, quando hanno vinto gli Yankees. Avrei voluto essere nei panni di uno qualunque di loro: Bernie Williams, Derek Jeter. Avrei venduto l'anima al diavolo per essere Wade Boggs che faceva il giro del campo, dopo la partita, in groppa a quel cavallo, dopo tutti gli anni passati ad aspettare di riuscire ad arrivare alla finalissima. Che momento!» «E non dimenticare Andy Pettitte. Questa sì che è una bella pensata! Trasformati in Andy Pettitte o Derek Jeter e mi interesseresti subito.» «Ultima chance. Fantasia estrema. Chi?» «Non si discute: Tina Turner. Dopo Ike, sia chiaro.» «Così mi piaci, Blondie: ottima scelta!» «Ti ricordi il "Private Dancer Tour '85"? Tina che scende la scala sospesa al soffitto del Madison Square Garden? Una massa di capelli, gambe senza fine, una microgonna e quindici centimetri di tacchi, al ritmo di What's Love Got to Do with It. Senza tenersi a niente per un centinaio di gradini e più, senza perdere un colpo. Avrei ucciso chiunque solo per esse-
re una delle sue figuranti, quella sera. Nina mi ha dato una videocassetta del concerto e tutte le volte che ho bisogno di un antidepressivo, non devo far altro che guardare quel numero, solo quello: tre minuti e sono guarita. Vorrei essere Tina.» «Ne hai fatto un'imitazione perfetta, per essere una bianca, quella sera al barbecue offerto da Battaglia. Credevo che svenisse, quando ti ha visto scendere, pavoneggiandoti, lo scalone tra la sala e l'atrio, al 21.» «Dio, ti ricordi? E io che credevo che se ne fosse già andato. Non immaginavo che mi avrebbe visto.» «Dovresti farci un pensierino, Coop. L'unica donna al mondo con gambe belle quanto quelle di Tina è tua madre. Tutto quello che dobbiamo fare è lavorare sulla tua voce.» «E il tuo terzo personaggio?» «Un grande regista di cinema. Probabilmente Hitchcock, o Spielberg, o Truffaut. È il tipo di talento creativo che mi piacerebbe avere. Portare sullo schermo una storia, darle vita: divertire milioni di persone per sempre. Saghe, epopee, fantasy con creature immaginarie e storie di evasione. Magari potrei essere Carlo Ponti.» «Dirige film? Credevo che fosse un produttore.» «Quello che è, è. Alla fine della giornata, si infila comunque a letto con Sophia Loren, che non sarebbe la parte peggiore dell'affare.» Per un po' Mike e io avevamo allontanato dalla mente le rispettive preoccupazioni. Eravamo più lontani da casa di quanto avremmo mai voluto nel corso di un'indagine, e meno vicini alla soluzione di quanto fossimo all'inizio. Con me le pecore non avevano mai funzionato: chiusi gli occhi e contai fanciulle Villi finché non scivolai nel sonno. Capitolo 22 Superato il controllo immigrazione a Heathrow e usciti dall'aeroporto, cercammo tra i cartelli delle località di destinazione esibiti dagli autisti in uniforme grigia, quello con la scritta Cliveden. Mike fece un cenno e il signore ci venne incontro, si presentò e prese i bagagli. Rapidamente ci scortò in strada dove, oltre l'area riservata all'uscita dei passeggeri, era parcheggiata una Jaguar berlina nera e lucente. Arthur, l'autista, caricò borse e valigie nel bagagliaio, poi ci aprì le portiere posteriori. «Niente male, Coop. Penso che mi piacerà, qui. È tua la macchina, Ar-
thur?», domandò Mike mentre l'uomo sedeva al volante. «Non proprio, signore. È tutto quello che abbiamo a Cliveden, signore. Tutte Jaguar.» E pronunciò quel nome con tre sillabe distinte, come fanno gli inglesi. Quando iniziammo il viaggio che in mezz'ora ci avrebbe portati in albergo, l'unico in Inghilterra che fosse anche una dimora nobiliare, era l'alba. Sulla A4 ci trovammo immersi nel traffico di punta diretto a Londra. Ma quando, in prossimità del Buckinghamshire, lasciammo l'autostrada, i campi, i boschi e i tetti di ardesia ci diedero la sensazione di essere tornati indietro nel tempo di uno o due secoli. Pilotando la Jaguar per le strette curve di quelle antiche stradine di larghezza appena sufficiente per due macchine, Arthur ci raccontò la storia della tenuta. Cliveden era stata costruita nel 1666 dal duca di Buckingham. Quasi centosessanta ettari di terra su cui sorgevano gli edifici principali, con suites, sale da pranzo e sale per conferenze aggiunte di recente, oltre a parchi ed elegantissimi giardini all'italiana con una splendida vista sul Tamigi. La proprietà era stata sempre al centro delle intricate vicende della storia britannica, passando da un duca all'altro, e anche a un principe di Galles, e alla famiglia Astor, finché, negli anni Ottanta, venne acquistata dal National Trust. «Un posto da sogno per un centro congressi», disse Chapman. Arthur sogghignò nello specchietto retrovisore: «È un albergo, signore. E molto speciale, per giunta. Una volta all'anno il ministro degli interni lo affitta per questo appuntamento. Alcune volte arriva il primo ministro con qualche aristocratico straniero. Gente per cui non vale la pena». Arthur guardò dietro di nuovo, tanto per assicurarsi che noi non facessimo parte della categoria: «Quando partirete voi, avremo qualcuno dei nostri habitué. A fine mese un matrimonio: uno dei reali. Poi comincia la stagione di Ascot e Wimbledon e tutto il resto». «Se decidi di restare, dimmelo. Sono sicura che Battaglia riuscirà a tirar fuori dal bilancio i soldi per una camera», dissi a Mike mentre Arthur rallentava per attraversare la monumentale cancellata doppia che costituiva l'ingresso alla tenuta. Girammo attorno alla grande scultura di una conchiglia circondata da cherubini, che si ergeva all'inizio del viale alberato, e percorremmo l'ultimo tratto di sentiero ghiaioso che portava al maestoso edificio principale di Cliveden. Al rumore delle ruote sulla ghiaia apparvero svariati camerieri, tutti in
pantaloni rigati, giacca a coda di rondine e guanti bianchi. Eravamo arrivati sotto la tettoia per le carrozze e due dei solerti camerieri vennero ad aprirci le portiere. Un terzo giovane, con gli occhiali e più basso di me di una testa, mi salutò con un inchino e strinse la mano a Mike, dandoci il benvenuto a Cliveden e presentandosi. Si chiamava Graham e ci fornì una vivace descrizione dell'albergo, spiegando che era tradizione di Cliveden trattarci da amici di casa, più che da clienti. Niente documenti, niente prenotazioni per i pasti e i servizi, niente serrature e niente chiavi della camera. «Il suo ufficio ha telefonato per darci tutte le indicazioni, signora Cooper. Abbiamo sostituito il nome del signor Battaglia col suo dove era necessario e ho avvertito del cambiamento tutto il personale. Sono certo che si troverà perfettamente a suo agio. Vediamo», aggiunse rientrando e avviandosi alla scrivania d'epoca: «Lei si potrà accomodare nella suite prenotata per il signor Battaglia. La Asquith. Abbiamo soltanto trentasette camere e, naturalmente, al momento sono tutte occupate dai signori che prenderanno parte al convegno». Niente volgarità tipo camere numerate, qui. Ogni suite prendeva il nome da una delle famiglie titolate o celebri i cui esponenti erano stati a Cliveden nel corso della storia. Graham disse a uno dei camerieri in livrea di prendere i bagagli in macchina e portarli nella suite Asquith. Quindi si rivolse a Mike: «E se c'è niente che possa fare per lei, signor Cooper...». «Chapman», sbottò Mike: «Ho deciso di conservare il cognome da signorino, Graham. Mi chiamo Chapman». Prese la propria borsa senza aspettare aiuto ed entrò. Seguendolo nella Great Hall, me la ridevo, rendendomi conto solo allora che nessuno aveva espressamente chiarito che la prenotazione a nome di Battaglia e signora non doveva essere semplicemente mutata in prenotazione per Cooper e signora. «Che c'è? Ferito nell'orgoglio, Mickey? Non ti va di essere il signor Cooper? O hai paura di rimanere da solo con me al buio?» «Signor Cooper? Bisogna avere le palle d'acciaio per volere un titolo del genere. Andiamo a vedere la camera, Blondie.» Il cameriere con i miei bagagli ci stava aspettando: «L'ascensore è da questa parte, signora. La suite Asquith è al primo piano». Ci precedette lungo il corridoio fin sotto le scale, dove c'era un ascensorino che cigolando ci portò fino al nostro piano.
La nostra suite si trovava all'estremità di un corridoio stretto sul quale si affacciavano camere intitolate a Westminster, Curzon, Balfour e Churchill. La porta si aprì e Mike notò i letti gemelli piuttosto distanti l'uno dall'altro e mi mormorò all'orecchio: «Solo gli inglesi. Tipico». La spaziosa camera da letto era tappezzata con gusto, verde chiaro con finiture bianco avorio. Adiacenti vi erano un ampio bagno e un salotto con scrittoio e poltrona. Dalla finestra si godeva una stupenda vista sul retro della proprietà, con giardini e chilometri di percorsi da equitazione che arrivavano fino al Tamigi. Quando disfacemmo i bagagli erano ormai quasi le nove. Ma a casa era ancora notte fonda ed entrambi ci sentivamo frustrati per l'impossibilità di telefonare a Maureen e di sentire gli ultimi sviluppi delle indagini dai nostri colleghi. Non erano arrivati fax né messaggi, per cui dovemmo presumere che non c'erano novità su nessuno dei due fronti. «Vuoi dare un'occhiata ai dintorni?» Mike riusciva più di chiunque altro a essere in piena attività anche dormendo poco. Il pranzo e la sessione pomeridiana alla quale avrei partecipato cominciavano all'una. Non volevo che a Battaglia arrivassero commenti negativi sul mio intervento, per cui pensai che fosse meglio lavorare ai miei appunti: «Io mi lavo, mi riposo un po' e mi cambio per il convegno». «Io vado a fare una passeggiata. Sono stato seduto troppo a lungo. Arrivederci, Lady Asquith.» Mi rinfrescai con una bella doccia calda, poi, avvolta in un enorme accappatoio di spugna con lo stemma di Cliveden ricamato sul petto, mi sedetti sul letto a lavorare. Pur avendo dormito poco, la pausa mi ridiede vigore e alle dodici e un quarto, quando Mike mi chiamò dall'atrio, avevo quasi finito di vestirmi e di prepararmi per uscire. «Sei presentabile?» «Sono quasi pronta per scendere.» «Pensavo di fare una doccia e di cambiarmi, se tu avevi finito.» Quando Mike entrò, stavo finendo di spazzolarmi i capelli e di mettermi gli orecchini. Presi gli appunti e gli dissi che ci saremmo visti in sala da pranzo. Scesi di sotto e attraversai l'ampio spazio della Great Hall, attirata dal famoso ritratto di Lady Astor dipinto da John Singer Sargent. Il dipinto dominava la sala e io mi sedetti proprio sotto, a ripassare l'intervento che avrei pronunciato per conto del mio capo. Quando ebbi finito, notai che a New York erano quasi le sette del mattino. Presi il telefono, chiesi alla centralinista di passarmi un numero di New
York e di addebitare la chiamata alla suite Asquith. Quando il centralino del Mid-Manhattan rispose, diedi alla receptionist il numero della camera di Maureen. «Come si chiama la paziente con la quale desidera parlare?» Le dissi il nome di Maureen e, sentendo che non reagiva, compitai lettera per lettera il cognome. «Resti in linea, prego.» Passarono alcuni minuti, poi una voce disse che la paziente che cercavo era stata dimessa dall'ospedale. Era solo giovedì e, a quanto ricordavo, Mo non avrebbe dovuto essere dimessa prima di altre ventiquattro ore. Fui sollevata al pensiero che avessero deciso di sottrarla al pericolo. La differenza di fuso orario si stava già dimostrando una seccatura. Volevo salutare Maureen e sapevo che in ospedale nessuno poteva dormire dopo le sei, ora in cui il tintinnio dei vassoi della colazione e lo sciacquio delle padelle da invalidi svegliavano chiunque non fosse in coma. Ora che sapevo che Mo era a casa, dovevo rimandare la telefonata a un'ora più civile. Era un po' troppo presto per dare la sveglia a Joan, e ancora notte fonda per Nina a Los Angeles; quanto a Drew, ero decisa a non parlargli finché non avessi saputo a che cosa era dovuta la scelta del momento in cui ci eravamo conosciuti a casa di Joan. Me ne stavo seduta allo scrittoio intenta a rimuginare, con lo sguardo rivolto alle delicate fattezze di Lady Astor, drappeggiata in una veste bianca orlata di satin rosa da cui emergevano le spalle nude. La posa era ardita, forse colta nel momento in cui, si diceva, aveva respinto l'invito di Edoardo VII a giocare a carte con lui con la celebre frase: «Temo, sire, di non essere in grado di distinguere un re da un furfante». Graham mi si avvicinò silenziosamente. «Signorina Cooper, il signor Bartlett - vale a dire il ministro degli interni - la informa che la seduta del mattino è terminata e che il suo gruppo pranzerà nel padiglione. È l'edificio accanto alla sala del consiglio. Devo dire che li raggiunge?» «Sì, grazie, Graham. Li raggiungerò non appena il signor Chapman sarà arrivato.» Graham si allontanò e pochi minuti dopo vidi Mike scendere le scale all'estremità opposta del salone, fermandosi a ogni passo a osservare i quadri e le armature della collezione Cliveden. «Dai, la visita turistica la facciamo dopo. Adesso ci aspettano per il pranzo.» Tornammo all'ingresso principale e, seguendo il percorso indicato dal dito guantato di Graham, passammo davanti ai locali che ospitavano le strut-
ture di contorno del convegno. Il padiglione era luminoso e allegro, affacciato sulla celebre piscina, teatro dello scandalo Profumo, e arredato con otto tavoli rettangolari apparecchiati per i partecipanti alla riunione e i loro ospiti. Riconobbi immediatamente l'imponente figura del comandante Creavey, che si alzò invitandoci a sedere accanto a sé, nei due posti che ci aveva riservato. Si alzò e, dopo avermi baciata sulla guancia e avere abbracciato Mike con qualche pacca sonora sulla schiena, si rivolse con voce stentorea ai distinti commensali: «Questa è Alexandra Cooper. È il massimo che ci sia in America. Persegue stupratori, mariti maneschi, violentatori di bambini... gentaglia così. Non vi consiglio di fare i cascamorti con lei. E questo è il comandante Michael Chapman. L'ho promosso io di qualche grado, ma questo perché qui - con quello che sa - sarà lui il protagonista. Non ci sarà bisogno di me. Sedetevi e buon appetito. Ci sarà tempo stasera per fare conoscenza diretta con questi signori». Chapman e Creavey si misero subito a parlare del proprio lavoro e ad aggiornarsi sui fatti accaduti nella professione dall'ultima volta che si erano visti a un convegno a New York. Giocherellai con la mia insalata guardandomi attorno per vedere se riconoscevo qualche volto familiare. Avevo visto, dalla lista che mi aveva fatto avere Battaglia, che la maggior parte dei relatori e degli iscritti al dibattito era britannica e dell'Europa occidentale, ed era chiarissimo che la diversità non era stata un elemento determinante nella selezione delle voci che avrebbero parlato del futuro della società all'approssimarsi della fine del millennio. La matrona oltre la sessantina, coi capelli azzurrini e la pelle rosa, seduta accanto a me, cominciò a chiacchierare, presentandosi come Winifred Bartlett, moglie del ministro degli interni. «E di che cosa parlerà esattamente al convegno, suo marito, cara?», mi chiese, mangiando lentamente il salmone affumicato e osservandomi attraverso le spesse lenti. «A dir la verità sarò io a parlare, oggi pomeriggio. Non sono sposata. Michael è un collega, non mio marito.» «Che novità carina, Alice», se ne venne fuori allegramente in risposta: «Allora il comandante Creavey non stava scherzando, eh? Davvero lei si occupa personalmente di quegli orribili reati?». «Sì, proprio così. Lavoro affascinante, signora Bartlett, e di enorme soddisfazione.» «Qui da noi in Inghilterra non abbiamo tanti problemi di quel tipo. Non
ci sarebbe abbastanza lavoro per lei, temo, cara.» «Può darsi che in passato fosse così, ma so che le denunce per stupro sono in forte aumento in tutta la Gran Bretagna, da un po' di tempo.» La matrona cominciò a pensare che forse non aveva bisogno di me come distrazione durante il pranzo. Tutta la sua attenzione tornò a concentrarsi sul piatto: «Non riesco a crederci. Mio marito è stato procuratore per la casa reale. Malversazioni, frodi ai danni dell'assicurazione, qualche assassinio. Niente di così sgradevole come quello di cui si occupa lei. Dovrebbe proprio prender marito, Alice, e lasciare queste disgustose faccende a Creavey e alla sua genia. È brutto per una ragazza. Non c'è da stupirsi che lei non sia sposata». Non ero lì da abbastanza tempo per rispondere a tono, per cui mi morsi la lingua, ricordando a me stessa che per quarantott'ore sostituivo Paul Battaglia. John Creavey mi coinvolse nel racconto di quella volta che a Tilbury, a sud di Londra, i suoi uomini avevano sgominato i piani del cartello colombiano della droga. Poi arrivarono i camerieri col carrello dei dolci e del caffè, a chiusura della pausa pranzo. «Piacere di averla conosciuta, signora Bartlett», mentii. «Piacere mio», mentì anche lei. Seguimmo il gruppo di distinti gentiluomini e gentildonne che si trasferiva dal padiglione alla sala Churchill. Accanto all'ingresso della zona adibita al convegno erano in coda una trentina di uomini rigidi e impettiti e, in direzione opposta, facevano altrettanto quindici o venti signore. A capotavola, in piedi, c'era Lord Windlethorne, che, mentre gli passavo accanto per raggiungere il mio posto, si presentò. Doveva essere appena sotto la sessantina, era magro e spigoloso e aveva le fattezze e l'aria cupa di Gregory Peck incrociato con un luminare di Oxford. Lord Windlethorne mi diede il benvenuto e indicò il mio segnaposto sul tavolo. Ero sistemata a due sedie di distanza da lui, tra il professor Vittorio Vicario dell'Università di Milano e il signor Jean-Jacques Carnet dell'Institut de la Paix di Parigi. Vicario chinò la testa in segno di saluto e Carnet sorrise, passandomi rapidamente in rassegna e gratificandomi di un: «Enchanté». «Signor Chapman», disse Lord Windlethorne a Mike che stava entrando dietro di me, «purtroppo al tavolo abbiamo posto soltanto per gli oratori. Dietro ciascuno di loro, come vede, c'è una sedia. Sono quelle destinate ai coniugi dei partecipanti - o, diciamo, alle altre persone significative. Quasi
tutte le mogli stamattina erano qui. Ma adesso, a dire il vero, stanno per andare a visitare i dintorni: giardini famosi, il castello di Windsor, una gita in battello sul Tamigi. Forse lei preferisce...» «Non mi perderei questa conferenza per niente al mondo.» Diedi un'occhiata in giro. L'unica altra donna al tavolo era il capo dei servizi australiani per la libertà condizionata. I posti riservati ai coniugi erano quasi completamente deserti, eccetto uno, alle spalle di un ex ministro di giustizia francese, la cui moglie, o amante, era doverosamente al suo posto, e un altro dietro al criminologo danese, la cui fidanzatina, poco più che ventenne, gli accarezzava teneramente i capelli mentre aspettavamo che tutti prendessero posto. «Sei proprio in debito con me, per tutto questo», mi grugnì all'orecchio Chapman: «Mi trattano tutti come se fossi un'inutile appendice che ti sei tirata dietro per farti portare il bagaglio». «Personalmente, credo che avresti dovuto fare il tour dei giardini con le altre esimie signore. Avresti trovato qualcuna con cui attaccare.» «Attenta a non buttarti troppo precipitosamente su Lord Windlethorne, Blondie. Lo so come ci caschi, con quegli esemplari dall'aria sensibile.» Guardai verso l'estremità del tavolo. Lord Windlethorne stava masticando una stanghetta degli occhiali dalla montatura sottile nel discutere qualche argomento di un certo peso con un tedesco piccolo e tozzo, che sottolineava il proprio punto di vista dando pugni all'aria. Quando Windlethorne intercettò il mio sguardo e mi sorrise, io arrossii. Mike mi conosceva bene: era proprio il mio tipo. Lord Windlethorne invitò tutti a prendere posto e richiamò all'ordine l'assemblea, presentandomi ufficialmente ai politici e agli accademici che avevano già presentato le relazioni o sarebbero intervenuti alla tavola rotonda successiva. Quindi proseguì chiamando a parlare i relatori secondo l'ordine dei lavori. La seduta fu aperta da uno dei ministri delle finanze svizzeri con un discorso di quarantacinque minuti sui problemi delle frodi finanziarie e di Internet. Si soffermò sui particolari delle truffe da svariati milioni di dollari che erano state tentate negli ultimi mesi, e presentò a grandi linee un piano per lottare contro le trappole tecnologiche nel secolo venturo. L'attenzione si spostò poi sulla violenza interpersonale. A ciascuno dei quattro oratori vennero concessi venti minuti di tempo: l'australiana parlò delle più recenti tecniche introdotte nel suo paese per fronteggiare la violenza minorile; il tedesco piccolo e tozzo, un sociologo che aveva studiato
la violenza razziale in Europa negli ultimi cinquant'anni, presentò le proiezioni di tendenza; Creavey analizzò le tattiche dei terroristi e i metodi per combatterle; e infine io, con la mia versione un po' modificata dell'intervento di Battaglia sulle prospettive di delitto e pene per il futuro dell'America. Lord Windlethorne si accese la pipa e aprì il dibattito. Come molti europei, questi professionisti sembravano interessatissimi ai problemi dell'America urbana, che fino a quel momento era apparsa tanto straordinariamente diversa dalla loro realtà. «E che ci dice della sua specialità, signorina Cooper?», chiese il professor Vicario. «Lei crede che abbia, come si dice in inglese?, molta rilevanza per la popolazione europea?» Nel mio intervento ufficiale avevo fatto solo un breve accenno al tema della violenza sessuale, ma fui ben contenta di metterlo in tavola nel dibattito: «Per essere così progressisti come vi dimostrate su tanti argomenti, in questo siete indietro anni luce. Basti considerare i terribili casi di abusi su bambini scoperti in Belgio l'anno scorso - quella cerchia di pedofili di cui facevano parte anche rappresentanti del governo -, per comprendere quanto sia diffuso il fenomeno. E lei, professore, mi scuserà, ma il suo magnifico paese ha ancora, in tema di violenza coniugale, le leggi più arcaiche che si possano immaginare nella nostra epoca. Non occorre che faccia appello alla mia esperienza personale per affermare che è davvero incredibile che un convegno di questa portata non dedichi attenzione al tema dello spaccio e della dipendenza da droga, e al controllo delle armi da fuoco». Mi parve che Windlethorne si agitasse un po' sulla sedia cercando di riaccendersi la pipa, ma gli altri colsero al volo il mio suggerimento. Creavey tuonò: «Vi assicuro che Alex ha ragione. Se voi non credete ancora che questi siano anche problemi nostri - e sono convinto che non ci sia nessuno in questa sala che non avverta qualche lato debole in materia, nel proprio sistema giudiziario -, saranno i problemi stessi a presentarsi ben presto». Il ministro degli interni, ben al riparo nel suo completo elegante, così lontano dalla realtà metropolitana da sembrare venuto da un altro pianeta, cercò di minimizzare la crescente violenza: «Oh, andiamo, colleghi. Non esageriamo con questo quadro, vi pare?». Battaglia aveva avuto ragione al millimetro. «Un po' di teppismo, qualche furto d'auto per fare un giro a sbafo...» Fino a quel momento Chapman si era trattenuto. Sapeva, dalle conversa-
zioni che aveva avuto con Creavey, quanto anche gli inglesi si fossero resi conto, dopo la tremenda tragedia accaduta alla scuola elementare di Dunblane, della gravità del problema. «Volete sapere che cosa vi aspetta, se non cominciate a muovervi in direzione del controllo delle armi da fuoco e del finanziamento di programmi per il recupero dei tossicodipendenti? Volete sapere a che tipo di casi lavoro io ogni santo giorno della settimana? John, mai sentito parlare di assassinii "per rispetto"?» Creavey aggrottò le sopracciglia e si accarezzò i baffi. Silenzio. Mike passò lo sguardo dall'uno all'altro. «Nessuno sa di cosa parlo? "Per rispetto", per questo si uccide un essere umano.» Il professor Vicario cercò di buttare lì una nota di umorismo: «Dica, signor Chapman: intende "rispetto" o "dispetto"?». «No, professore. Intendo per ottenere rispetto. La settimana scorsa sono stato chiamato sulla scena di un omicidio. L'assassino ha quindici anni. Spaccia eroina. Pillole Snoopy, le chiamiamo. Confezioni di cellofan con i personaggi dei fumetti sull'etichetta. Vanno fortissimo tra i bambini, fuori dalle scuole elementari. La vittima? Una bambina di cinque anni che gli aveva mancato di rispetto. Aveva camminato sulla sua ombra dopo che lui aveva detto a tutti i bambini di non farlo. Il ragazzo si è voltato e le ha piazzato una pallottola in testa tanto perché gli altri imparassero a non prenderlo sotto gamba. A portargli rispetto.» I teorici erano ammutoliti. «Può darsi che nella vostra cultura le armi fossero da sempre riservate alle classi superiori: per la caccia al gallo cedrone o al fagiano o al cinghiale, nei fine settimana in campagna. Ma se non incominciate fin da ora a riconoscere il problema, ben presto vi ritroverete nelle statistiche accanto ai vostri cugini americani.» «Be', penso che abbiamo tutti bisogno di rilassarci un po', adesso, vi pare?», annunciò Lord Windlethorne, cercando di chiudere la giornata con un sorriso. Guardò l'orologio: «Sono le sei e mezza. Alle sette e trenta verranno serviti i cocktail in biblioteca, poi andremo a cena. Grazie a tutti per il vostro contributo e arrivederci a dopo». Mi alzai e dissi a Chapman: «Come al solito, Mickey, abbiamo impresso all'ennesimo evento pubblico il nostro personale marchio di allegria e buon umore». «Ma dai, avevano bisogno di una piccola dose di realtà. Sono troppo abituati alle torri d'avorio, per i miei gusti. Andiamo su. Voglio telefonare in
ufficio.» Il cielo era nuvolo. Tornammo insieme nell'edificio principale. Chiesi a Graham di controllare, ma non c'erano messaggi per me, per cui proseguimmo fino alla suite. Mentre Mike chiamava la Omicidi, io andai in bagno a rinfrescarmi. Lo scroscio dell'acqua mi impedì di sentire la breve conversazione e quando uscii lui stava già preparando due drink. Mi sedetti in una delle grandi poltrone imbottite e mi tolsi le scarpe, premendo il telecomando per cercare la CNN. «Spegni un momento.» «Voglio solo vedere i titoli.» «Spegni, ti devo dire una cosa.» Spensi e guardai Mike che, seduto di fronte a me sul puff, posò il bicchiere sul vassoio. «Ora va tutto bene, Coop. Ma durante la notte c'è stato un problema.» «Che tipo di problema?» I miei pensieri corsero dalla vittima dell'accoltellamento al Columbia-Presbyterian ai miei genitori, con i quali non parlavo da alcuni giorni, ai miei amici, a... «Maureen...» «Oh!», con una mano mi tappai la bocca per soffocare un grido, mentre la sinistra, che teneva il bicchiere colmo, cominciò già a tremare. Da quando l'avevo cercata in ospedale quella mattina, avevo dato per scontato che fosse sana e salva a casa, con Charles e i bambini. «Sta benissimo, Alex. Fidati.» Mi mise la mano sul ginocchio e mi fissò dritto negli occhi per rassicurarmi che diceva la verità: «Ti giuro che sta bene». Il panico si trasformò in ira, al pensiero che avevamo lasciato Mo in grave pericolo. «Che cosa le è successo?» Parlavamo tutti e due insieme, io a sparare domande e lui a farmi presente che non avrebbe mai accettato di partire se non fosse stato certo che Maureen si trovava al sicuro. «Se ti calmi, ti dico quello che so.» «Voglio prima sentire lei. Voglio sentire io stessa la sua voce. Poi ascolterò te.» «Non puoi parlare con lei. Questa è una parte del problema. È stata portata via dal Mid-Manhattan e, per il suo bene, solo Battaglia e il capo della polizia sanno dove si trovano lei e il marito. Vuoi guastare tutto facendo una telefonata che potrebbe essere intercettata? Mercer adesso è in ufficio. Stamattina è stato da lei e Mo sta assolutamente, perfettamente, bene.
Hanno solo cercato di spaventarla perché se ne andasse dall'ospedale, non di ammazzarla. Credimi.» «Che vuoi dire con "hanno"? Immagino che la sorveglianza video abbia ripreso chi è stato, no?» «Vedi, verso mezzanotte qualcuno, chiunque fosse, è entrato nella camera di Maureen. Vestito da infermiera.» «Infermiera o infermiere?» «Infermiera. Con la gonna. Il tizio addetto alla sorveglianza - sta pur sicura che tra qualche giorno dovrà cercarsi un altro impiego - ha guardato lo schermo, ha visto l'uniforme e il berretto da infermiera, ha pensato che fosse un normale controllo ed è tornato a sonnecchiare. «Mo non sa chi l'ha colpita. Dormiva profondamente. Ma questa infermiera le ha tappato la bocca e questo l'ha svegliata di colpo. Un secondo dopo si è ritrovata un ago ipodermico infilato nel braccio. Quando la vera infermiera è entrata per il consueto controllo, poco dopo, Maureen era completamente immobile. Le hanno dato subito l'ossigeno, le hanno svuotato lo stomaco e l'hanno portata via da quella gabbia di matti.» «Che cosa...» «Stanno aspettando gli esami tossicologici, se è questo che vuoi sapere. Nessuno ha la minima idea di che cosa le abbiano iniettato ma lei si è ripresa in fretta, il che fa pensare che non si trattasse di una sostanza letale.» «E l'infermiera?» «Probabilmente uno di quelli che stiamo cercando per l'assassinio di Gemma. Era solo un travestimento. In un secchio dei rifiuti nel garage, dietro l'ospedale, infatti, è stata ritrovata una uniforme bianca di taglia grande: abito e berrettino. Più una parrucca da donna. Bruna, tipo Donna Reed anni Cinquanta.» «Ora immagino che dovremo scoprire come hanno fatto a sapere che era una poliziotta. Qualche idea su come l'hanno individuata?» «Facile, nonostante le nostre precauzioni. Tommy McCrenna, il delegato dell'AFAI... lo conosci?» «Sì.» McCrenna era il rappresentante della squadra Omicidi nell'Associazione per il fondo d'assistenza agli investigatori. «Ha sentito dire che Maureen era in ospedale e non si sarebbe mai immaginato che fosse lì per lavoro. Le ha mandato un grande mazzo di fiori pieno di bigliettini di auguri, con lo stemmino dell'AFAI che spuntava da ogni giglio e da ogni garofano. A momenti la ammazza, con quel suo pallino per i ricoveri in ospedale e i funerali. Per McCrenna ogni occasione è
buona per un omaggio e un bigliettino di cortesia: deve avere una percentuale sul venduto, dal suo fioraio.» Mike si alzò, sollevò la cornetta del telefono e richiamò l'ufficio per farmi parlare con Mercer: «Avevo già chiamato durante la pausa della seduta pomeridiana, dopo la relazione del tedesco. Non te lo stavo tenendo nascosto, Coop: solo che non volevo metterti in agitazione proprio prima del tuo discorso per conto di Battaglia». Mentre lui aspettava la comunicazione, agitai con il dito il ghiaccio nel bicchiere e presi un bel sorso di scotch. «Ehi, pezzo grosso. Coop ha bisogno di parlare con te. Uh-uh, gliel'ho appena detto. No, no. Parlale tu stesso, se no mi sa che prende il primo volo e se ne va.» Tirò il filo del telefono e me lo passò. «Ne ho abbastanza di stronzate, Mercer, quindi dimmi esattamente come sta Mo. Adesso, per piacere.» «Sta benone, Alex. L'hanno trasferita al New York Hospital in piena notte, appena dopo il fatto, per toglierla di li e farle gli esami del sangue. Stamattina sono andato a trovarla e a tenerle la mano. Poi, per maggior sicurezza, l'hanno trasferita fuori città. Nessuno di noi sa dove, ma lei è tranquilla. E con lei c'è Charles. Mo mi ha detto che, se ti avessi riferito quattro parole, tu avresti capito che sta bene.» Cercai di sforzarmi di ricordare se Maureen e io avessimo mai stabilito qualche parola in codice, ma non mi venne in mente nulla del genere. «"Canyon Ranch. Scegli quando." Adesso diccelo tu: è viva e sta bene?» Sorrisi. Avevamo spesso scherzato sull'idea di andarcene per una settimana in una stazione termale elegante, a farci coccolare con massaggi, fanghi e maschere di bellezza, ma non ci eravamo mai concesse il lusso: «Dille che è deciso, appena Battaglia mi concede una vacanza». Ci salutammo e io riattaccai, appoggiando la testa all'imbottitura della poltrona: «Dio, non me lo sarei mai perdonato, se fosse successo qualcosa a Maureen. Questa non è opera di qualche pazzo che vive nel tunnel sotterraneo. Non so che rapporto ci sia con l'assassinio della Dogen, ma soltanto un professionista infilerebbe siringhe nelle braccia delle pazienti per spaventarci... e anche nei cioccolatini, se è per questo». «Scendiamo a mangiare un boccone. Domani parleremo con l'ex marito della Dogen. Al colloquio assisterà anche Creavey, e darà un'occhiata alle foto. Poi sabato ce ne torniamo a casa. Quindi prendiamoci qualche ora di vacanza e godiamoci il resto della serata.»
Guardai l'ora e vidi che erano quasi le otto. Eravamo in Inghilterra da più di dodici ore. La combinazione di fuso orario e notizie inquietanti mi aveva messo sottosopra: «Scendo con te, ma ho la nausea e non riuscirei a mandar giù niente». Mi sciacquai la faccia, ritoccai il rossetto, spruzzai dell'altro profumo e cercai di spianare le spiegazzature del mio elegantissimo tailleur giallo e nero. Evitammo l'ascensore e scendemmo a piedi, dirigendoci alla biblioteca. Sulla porta ci fermò Graham: «Mi scusi, signorina. Signore. Sono già andati tutti a cena. Prego, accomodatevi da questa parte», disse indicando la destra con la mano guantata: «E, signorina Cooper, mentre il suo apparecchio era occupato, sono arrivate due telefonate per lei». Mi consegnò i foglietti dei messaggi. Sul primo c'era scritto che aveva chiamato il signor Renaud dicendo che avrebbe ritelefonato l'indomani. Il secondo diceva che la signorina Stafford desiderava ardentemente parlare con me: era diretta all'aeroporto e avrebbe richiamato. «Vai avanti senza di me, Mike. Voglio tornare in camera a fare queste telefonate.» «Ma Graham ha detto...» La mia irritazione era tangibile. Non avevo intenzione di prendermela con Mike, ma lui era l'unico a portata di mano: «Voglio solo tornare in camera per un paio di minuti». Mi girai e infilai le scale, salendo di corsa le tre interminabili rampe senza perdere un colpo. Aprii la porta della camera ed entrai. Non avevo nessuna intenzione di richiamare Drew. Semplicemente, non mi andava di parlare né di socializzare con nessuno. Presi dalla cassettiera una camicia di Mike. Non avevo previsto di dividere la camera con lui e quindi non mi ero portata una camicia da notte. Poi chiamai il servizio in camera perché venissero a prendere la biancheria sporca che avrei messo in un sacchetto fuori della porta. Ci misi anche la camicia usata da Mike in aereo, con la raccomandazione di restituirla lavata e stirata per la mattina successiva, dato che gliene avevo sottratta una per dormirci. Andai in bagno e aprii la doccia finché il vapore non si diffuse per tutta la suite, e rimasi sotto l'acqua finché tutta la tensione della giornata si fu sciolta. Con indosso la camicia a righine bianche e rosse di Mike, mi sedetti al tavolino e gli scrissi un biglietto di scuse per averlo trattato bruscamente e lasciato solo con tutta quella gente. Misi il biglietto sul cuscino e sollevai
l'angolo del lenzuolo, lasciando accesa la lucina da lettura in modo che al suo rientro potesse vederlo. Mi infilai tra le lenzuola perfettamente tese dello striminzito lettuccio. Non pensavo a Tina Turner quella sera, pensavo a Otis Redding. Aveva ragione: le ragazze si stancano, sì. Prova con un po' di coccole, consigliava, tante e tante volte glielo avevo sentito cantare. Volevo che qualcuno me le facesse, lo volevo subito. Ma era improbabile che succedesse quella notte, per cui spensi la lampada, affondai la testa nel cuscino e mi convinsi di essere così esausta da aver bisogno di una buona dormita. Capitolo 23 Ero così poco abituata ad andare a letto presto, che poco dopo le cinque ero già in piedi, a ciondolare in giro finché dalle tende non trapelarono le prime luci dell'alba. Mi infilai silenziosamente in bagno e mi vestii per andare a fare una corsetta. Giù per le scale, un cenno di saluto al giovanotto della reception, ed eccomi fuori, sul retro dell'enorme edificio, a guardare quello spettacolo di ettari di giardini e boschi rigogliosi. Appoggiata alle colonne che da un paio di secoli sorreggevano la facciata di Cliveden, feci stretching per le gambe, poi mi avviai lungo le siepi squadrate, percorrendo i sentieri che portavano giù al Tamigi. In quasi otto chilometri di percorso, incontrai soltanto un giardiniere o un agricoltore, godendomi la quiete che mi circondava in quel pacifico rifugio. L'ultima salita, al ritorno, mi mise particolarmente in difficoltà, sicché rallentai e passeggiai per l'intricato labirinto del formale Giardino Lungo, disegnato da siepi di bosso ben tenute e curate. Rientrata nella suite, feci la doccia e mi vestii, mentre Mike, circonfuso da un odore di birra chiara, continuava a dormire profondamente. Quando ormai stavo per andarmene grugnì un saluto. Gli spiegai che andavo alla conferenza sul DNA tenuta da un legale di Scotland Yard. «Geoffrey Dogen sarà qui verso le undici. Andrà a riceverlo Creavey, che ha fatto riservare una saletta per noi, per qualche ora.» Si voltò verso di me: «Ehi, grazie per aver fatto la tua parte, ieri sera, piccina. Ti ho aspettato solo tre o quattro ore... poi, ho capito che mi avevi davvero piantato in asso». «Scusami, io...» «Lascia perdere. Creavey e io abbiamo fatto conquiste. Ci ha abbordati una certa duchessa.»
Risi all'idea. «Non scherzo: una duchessa... e un vero schianto, anche. Ci ha portato in giro per pub e ci ha mostrato i dintorni.» «A che ora sei tornato?» Lui mi scoccò un'occhiata: «Mia madre è viva e sta bene, a Brooklyn, grazie. E non ha bisogno di controfigure. Ci vediamo alle undici, va bene?». Uscii e raggiunsi la Sala Churchill, dove presi un po' di caffè e un biscotto e mi sedetti al tavolo per la seduta delle nove. Dopo aver porto le mie scuse a Lord Windlethorne per aver saltato la cena, chiacchierai un po' coi vicini di posto, aspettando che il relatore finisse di preparare l'attrezzatura audiovisiva e cominciasse la sua esposizione. Gli inglesi erano molto più avanti di noi nell'utilizzazione del DNA e nella raccolta di una banca dati genetica. E, per quanto lì i casi di reati sessuali fossero molto meno frequenti che negli Stati Uniti, avevano già cominciato a rilevare le impronte genetiche sulla scena del delitto in tutti i casi di stupro nell'area della grande Londra. La conferenza forniva suggerimenti interessanti, per cui presi molti appunti in modo da riportarli a Bill Schaeffer, che aveva fatto un ottimo lavoro istituendo e gestendo il laboratorio per il DNA nell'ufficio Medicina Legale. Quando Windlethorne annunciò la pausa di metà mattina, erano quasi le undici. Gli spiegai che non sarei andata alla seduta successiva a causa di un incarico che Chapman e io dovevamo svolgere sul posto. Lui mi assicurò che capiva perfettamente e io salii in camera a prendere il materiale riguardante il caso Dogen. Quando tornai nell'atrio, Creavey aveva appena finito di presentare Geoffrey Dogen a Mike. Mi avvicinai a Dogen che mi tese la mano: «Lei deve essere Alexandra Cooper. Molto piacere di conoscerla. Grazie di essere venuta. Il comandante Creavey mi ha detto che lei è la figlia di Benjamin Cooper, vero? Ho avuto il piacere di ascoltare suo padre, ehm... deve essere stato al convegno medico di Barcellona dell'anno scorso. Un uomo veramente notevole». «Lo penso anch'io, grazie.» Creavey ci guidò in uno degli edifici adiacenti, che il personale dell'albergo aveva predisposto per noi. Il poliziotto inglese camminava avanti col dottor Dogen: sulla sessantina, più piccolo di quanto mi aspettassi, magro e sottile, calvo e con le orecchie un tantino troppo grandi in proporzione al resto.
«A proposito: mentre eri a scuola, stamattina, ha telefonato il tuo fidanzato.» «Che...?» «Drew. Si chiama così, no? Ha detto che a casa erano le quattro o le cinque del mattino. Voleva solo salutarti... ha detto che non riusciva a dormire e che non era riuscito a raggiungerti a causa dei tuoi impegni. Una vera fortuna che abbia telefonato... mi ha svegliato da un sonno profondo.» «Grande. Gli hai detto chi sei, vero? Voglio dire, che tu sei solo mio am... insomma, che dividiamo, hai capito...» «Che cosa ti aspettavi che gli dicessi? Scusa, non conosco il galateo. Probabilmente a te le hanno insegnate, le regole per questo genere di faccende. Avrei dovuto dirgli: "Tranquillo, sono un poliziotto gay"? Oppure: "Gesù, non mi farei Alex Cooper neanche se mi pagassero, e tu?". Quello mi ha svegliato da una dormita profonda, Blondie. Ho preso il messaggio e gli ho detto di richiamare. Ieri ti ha fatto arrabbiare e tu pensavi che fosse un assassino perché la Dogen gli ha macellato la moglie... adesso vuoi che ti telefoni. Va' a capire. Fagli credere che nel settore ci sia un po' di concorrenza, come se tu fossi qui col principe di Galles o con Sean Connery o roba del genere. Non hai molto buon senso, per essere una donna in gamba, credimi.» Adesso basta con Drew Renaud e tutto quello che riguarda la tua vita privata, mi dissi. Al lavoro. Entrammo in una copia in scala ridotta della sala del consiglio. Dentro c'era un tavolo rettangolare con tre comode sedie, proiettori per diapositive e video per la nostra documentazione fotografica e tanta acqua, caffè e cibarie da poter sopravvivere per giorni e giorni. «Lei e Alexandra potreste cominciare col dirmi che cosa sapete a tutt'oggi», suggerì Dogen, avvicinando la sedia al tavolo e guardandoci con molta serietà: «Sapete chi ha ucciso Gemma?». «Io, dottore, capovolgerei la questione, se non le spiace», ribatté Mike: «Sarebbe utile, credo, che fosse lei a parlarci un po' di Gemma. Anche di cose che a lei sembrano irrilevanti. Dopo che ci avrà aiutato a tracciare meglio un quadro d'insieme, le prometto di metterla al corrente del punto in cui siamo con le indagini». Doveva fare impressione, un discorso così, pensai tra me. Mike poteva ingannare quasi chiunque su tutto, ma questa situazione sembrava al di sopra delle sue capacità: noi eravamo più confusi adesso di quando avevamo chiamato Dogen, una settimana prima.
«Ho capito. Allora comincio.» Appoggiò i gomiti al tavolo, posando la testa china sulle mani, e descrisse le origini familiari di Gemma. Niente gli appariva strano in quella storia. Quando in Europa era scoppiata la guerra, i genitori della dottoressa si erano trasferiti da Londra a Broadstairs, dove Gemma era nata nel 1939. Figlia unica, allevata dalla madre dopo che il padre era morto in battaglia, a Dunkerque. Io prendevo appunti, dubbiosa dell'importanza di questa parte della conversazione, ma comprendendo che l'interesse di Chapman era risvegliato da quel semplice collegamento con la seconda guerra mondiale. Geoffrey ci descrisse la brillante carriera scolastica e l'ingresso di Gemma all'università, dove eccelleva in biologia e aveva vinto premi per vari esperimenti che avevano attirato l'attenzione dell'intero mondo accademico. L'aveva conosciuta l'anno dopo, quando lei era entrata alla facoltà di medicina alla quale anche lui era iscritto. «Veramente, lì l'ho solo vista. Era impossibile non notarla, allora. Era proprio una figura che colpiva», sorrise, ovviamente richiamando alla memoria qualche immagine di quella giovane donna di cui si era innamorato: «Ma l'ho conosciuta altrove. Al Tower Bridge». Gettai un'occhiata a Mike e gli occhi attenti di Creavey seguirono l'incontro dei nostri sguardi. «Ero lì con un gruppo di studenti australiani in visita alla facoltà, che durante il fine settimana volevano fare il solito giro turistico: le guardie reali, i gioielli della corona, la Torre, la porta dei traditori. L'avete fatto anche voi, no?» Io annuii e Mike si rammaricò di non averne ancora avuto l'occasione. «Peccato, essere così vicini a Londra e non avere il tempo di vedere qualcosa. Non potreste restare per il fine settimana?» «Purtroppo no. Dobbiamo tornare subito indietro, appena lei ci avrà dato una mano, dottor Dogen.» «Naturalmente. Be', avevo quasi finito di far fare il giro turistico ai miei australiani quando loro avevano deciso di salire in cima alla torre del ponte. Almeno trecento scalini. Mi trascinarono con loro. Arrivammo al pinnacolo e lassù c'era solo un'altra persona, oltre a noi. La riconobbi. Era Gemma, affacciata alla finestra a guardare il fiume, incurante della chiassosa comitiva che le si accalcava alle spalle. Mi presentai, dissi che ero anch'io della facoltà e seppi che si chiamava Gemma Holborn.» Mike era impaziente. Non gli andava molto di ascoltare la love story, se era quella la direzione imboccata da Geoffrey: «Perché si trovava lì? Qual-
che motivo particolare?». «Per lei, cresciuta in campagna, il Tower Bridge era Londra. Per molti è così. Una specie di simbolo della città. Per qualcuno è il Big Ben o Buckingham Palace, ma Gemma non li amava molto perché non si può far altro che guardarli. Non offrivano a quella bambina curiosa un'enorme struttura che spalanca le finestre sul vasto mondo. Il ponte sì. A dir il vero il ponte è un acquisto recente, rispetto alla Torre di Londra, che ha quasi mille anni. Ma ha una struttura così inconfondibile, non crede, comandante? Insomma, per moltissima gente rappresenta un po' Londra.» Creavey fu d'accordo. «Era il primo posto che Gemma ricordava di aver visitato da ragazzina, dopo la guerra, quando era salita su tutt'e due le torri per vedere dove andava il fiume sia a monte che a valle. Probabilmente credeva di poter vedere l'America, finché non fu abbastanza grande per capire. Quando aveva voglia di sognare o fantasticare, saliva fin lassù, o fuori sulla passerella, e là poteva esprimere desideri a volontà.» «C'è mai tornato con lei?» «Non avevo molta scelta, signor Chapman. È lì che le ho chiesto di sposarmi, due anni dopo», disse Geoffrey sorridendo, un po' più rilassato nel raccontare la sua storia: «Lei ci andava la sera prima di tutti i suoi esami più importanti. Anche se aveva studiato più di tutti gli altri studenti messi insieme, aveva bisogno del conforto di qualche momento di solitudine sulla sua torre. Le piaceva andarci anche nelle grandi occasioni, quando la torre si riempiva di gente. Nel '67 è tornata in patria la Gypsy Moth, il ponte è stato aperto e noi siamo stati i primi ad arrivare...». «Ehi, non la seguo», l'interruppe Chapman. «Nemmeno io.» Creavey si spiegò: «Voi yankee siete un po' troppo giovani per ricordarvene, ma è una bella cosa da sapere per quel programma di quiz che guardate alla televisione. Sir Francis Chichester fece il giro del mondo su un piccolo yacht che si chiamava Gypsy Moth IV. Ci mise un anno, e quando tornò in patria aprirono i basculanti, le due parti levatoie in cui è diviso il ponte, in modo che potesse arrivare a vele spiegate fino in città. E la regina in persona si recò a bordo a farlo baronetto, usando la stessa spada che era stata posata sulla spalla di Sir Francis Drake». In quel bagno di storia Chapman ci sguazzava, ma per me la conversazione non portava da nessuna parte. «Ha idea se Gemma si è portata dietro anche da adulta questa passione?»
Pensavo al portachiavi che in quel momento era poggiato sul mio comodino a New York, e al suo gemello che pochi giorni prima avevo osservato in mano a William Dietrich quando era uscito dalla sala delle riunioni. «Credo che fosse impossibile toglierle di dosso quel pallino. Nel 1994 fece una visita speciale in occasione del centenario della costruzione del ponte. Io ormai mi ero risposato, come probabilmente sapete, e Gemma ci portò tutti su in comitiva ad ammirare il panorama. Deve aver comprato souvenir per tutti in America: caffettiere col Tower Bridge, cucchiaini col Tower Bridge, portachiavi col Tower Bridge...» «Molti?» «Vagonate.» Tutta lì, l'importanza che avevo attribuito al pegno d'amore di Dietrich. Molto probabilmente, quindi, quello era uno delle dozzine di portachiavi che Gemma aveva distribuito ad amici e colleghi al ritorno dalle sue brevi permanenze a Londra. «Sono sicuro che dovete aver notato degli oggetti come quelli a casa sua o in ufficio, vero? Questo aspetto segreto di lei è uno di quelli che non sono mai riuscito a comprendere fino in fondo. Abbiamo divorziato meno di dieci anni dopo esserci sposati. Mai una lite o una parola aspra. Si potrebbe dire, probabilmente, che siamo rimasti ottimi amici. La vedevo tutte le volte che veniva qui, praticamente. Ero in corrispondenza con lei, ci tenevamo al corrente reciprocamente, sia della nostra vita professionale che personale, almeno per quel tanto che mi potevo permettere. Lei non faceva entrare nessuno nel suo mondo, ecco, nella parte che realmente contava per lei. Era una brillante scienziata e un'amica inestimabile, se credeva in una persona. Ma c'era un'intera parte di lei che era vuota, e che a me non ha mai permesso di colmare... e sono sicurissimo che non ha permesso a nessun altro di addentrarvisi. Non è strano che da medico ci pensassi come a un vero e proprio spazio dentro il suo corpo, che sarei stato in grado di curare se solo lo avessi potuto localizzare. Ma non ci sono mai riuscito.» Geoffrey Dogen tacque, guardandosi le mani, intrecciate davanti a sé, sul tavolo. Ascoltammo per più di un'ora le informazioni riguardanti il matrimonio, il divorzio, le amicizie, gli allievi e la carriera di Gemma in Inghilterra. In molti casi di assassinio di cui si occupava Chapman, l'accesso a questo genere di notizie da parte di una fonte affidabile e vicina alla vittima sarebbe stato prezioso. In questo caso, però, non sembrava portare a niente di utile. Con tatto, Mike cercò di deviare Geoffrey sugli ultimi fatti e sulle pro-
spettive professionali di Gemma. Il dottore trasse un sospiro e si accasciò nella sedia. Si voltò verso Mike: «Onestamente, lei crede che quello che è successo sia collegato al lavoro di Gemma?». «Vogliamo tener conto di tutte le possibilità, a questo punto.» «Be', gli ultimi anni sono stati per Gemma una battaglia costante. Mi riferisco al Minuit Medical College e al Mid-Manhattan, non alla sua vita privata.» «Lei sa quali erano i problemi e chi i suoi avversari?» «Gemma aveva alzato un polverone fin da quando aveva messo piede lì dentro, sa. Niente di grave, ma è sempre stata molto rigida sui propri principi. Un'ottima qualità, nel nostro mestiere. Direi che c'erano due cose che rendevano Gemma una vera calamita per i guai.» Adesso Dogen continuava a guardare me e immaginai che lo preoccupasse il fatto che io prendevo appunti mentre lui pensava ad alta voce. Cercai di apparire disinvolta, non troppo presa da quel che scrivevo, ma lo guardai fermamente negli occhi per fargli capire che non avevo la minima intenzione di smettere. «Fin dall'inizio Gemma mise bene in chiaro che al corso di neurochirurgia non avrebbe accettato nessun candidato che non soddisfacesse gli standard da lei richiesti. Come si può immaginare, si trattava di requisiti rigorosissimi: laurea e diplomi universitari, referenze, capacità intellettuale, integrità morale, risultati al tavolo operatorio, ottime valutazioni di internato. Niente cocchi del docente né figli di papà né gente che aveva già preso delle cantonate. Gemma era impietosa. Ovviamente, c'era chi lo considerava un difetto.» «C'erano problemi simili in corso, ultimamente? Le facevano pressioni perché ammettesse qualcuno che lei non voleva?» «Sono sicuro di sì.» Mike e io parlammo all'unisono, per chiedergli chi fosse. «Oh no, no, no. Perdonatemi. Non intendevo dire che so di qualcuno in particolare. È solo che c'era sempre qualche altro professore o un amministratore che patrocinavano questo o quel candidato, e con cui Gemma era ai ferri corti. Temo di non essere in grado di far nomi. L'ultima volta che è venuta qui, si è lamentata di un caposervizio del Columbia-Presbyterian Hospital. A quanto pare, uno studente era già stato ammesso al corso - un nome tipo Nazareth -, dopo di che è stata avviata un'inchiesta perché il giovanotto era rimasto coinvolto in un fatto piuttosto strano. Una ragazza con cui si vedeva - a dir la verità era una paziente che lui aveva conosciuto
al reparto di chirurgia - aveva perso conoscenza mentre si trovava a casa di lui. Lui, specializzando in medicina, aveva lasciato che la ragazza entrasse in coma nel suo salotto, l'aveva tenuta lì per ore prima di decidersi a prenderla e a portarla in ospedale. Gli era quasi morta sotto il naso. E per di più salta fuori che aveva cercato di cavarle del sangue - mai saputo perché - e che per farlo le aveva infilato l'ago nel polso, provocandole un brutto ematoma. Quando la ragazza è uscita dal coma, era traumatizzata. Il dottor Nazareth non ha mai spiegato che tipo di ago avesse adoperato, né se fosse sterile, né che fine avesse fatto il campione di sangue. I suoi superiori non hanno mai insistito per saperlo. La ragazza era convinta di essere svenuta perché lui l'aveva drogata. Strana faccenda. E il dottore che aveva raccomandato lo studente...» «Lei ricorda il nome?» «No, mi dispiace. Ma se mi manderete un fax con l'elenco dei primari di reparto, posso riconoscerlo. A ogni modo, quel dottore ha ridimensionato tutto. Anche i quattro arresti che le indagini di Gemma hanno fatto scoprire nel passato dello studente, dovuti a diverbi che aveva avuto con la polizia, per lo più in seguito a infrazioni stradali. Gemma pensava che il giovanotto fosse una mela marcia e che costituisse un vero pericolo per la professione, soprattutto a causa di ciò che aveva fatto a danno della salute di quella ragazza. So che è riuscita a bloccarlo, ma non oso immaginare quanti altri candidati infelici come quello ci siano in giro. Dopo dieci anni di queste lotte, i reietti di Gemma probabilmente affollano gli ospedali di tutti gli Stati Uniti.» «Lei prima diceva che l'impopolarità di Gemma era dovuta a due motivi. Qual è l'altro?» «La direzione che stava imprimendo al reparto. C'era un sacco di gente al Minuit che era scontenta del suo modo di intendere la neurochirurgia.» «Troppa attenzione alla traumatologia?» «Già, soprattutto quello.» «E secondo chi?» «Be', naturalmente, alla testa della mischia ostile a Gemma c'è Robert Spector. Non è un mistero che sarebbe stato ben lieto di vederla andare via, in modo da poterle subentrare.» «Spector ci ha detto che Gemma non voleva restare a New York per far da seconda al dottor Ghajar, al New York Hospital.» «Sciocchezze. Aveva il massimo rispetto per Ghajar... e lui la apprezzava. L'aveva inserita in molti dei suoi programmi di ricerca. È Spector che
non ce la fa a reggere questo tipo di competizione. Non ce la farà mai a mettere in piedi un'unità traumatologica di neurochirurgia in grado di competere con Ghajar, ecco perché vorrebbe spostare il suo gruppo su un altro terreno. È uno dei suoi problemi al Mid-Manhattan. Senza specializzazione nelle lesioni al cervello, come chiedeva insistentemente Gemma, il loro tasso di mortalità per pazienti in coma è tre volte superiore a quello del New York Hospital, appena qualche strada più in là. Se lo tenga bene a mente, signor Chapman: se prende un brutto colpo in testa, mi raccomando, si faccia portare all'unità di traumatologia cranica di Ghajar.» «Ma aveva ragione, Spector, circa gli interessi di Gemma? Era la lesione cerebrale ciò che attirava di più la sua attenzione?» «No. Niente affatto. La interessava enormemente, ma quasi come un diversivo. Era proprio una vera intellettuale, come sono certo che ormai abbiate capito. Ai non addetti può sembrare raccapricciante, ma lei aveva una curiosità molto maggiore per la patologia della malattia cerebrale. Che cos'è che provoca davvero lo sviluppo dei tumori? Quali sono gli effetti sul DNA in presenza di tumori? Viene alterato, subisce una mutazione? Gemma provava una soddisfazione enorme a guarire il cervello di una persona che aveva subito un incidente o una ferita grave, ma era ancora più sollecitata dalla sfida che, sul terreno chirurgico, le lanciava un tumore di natura rara o un coagulo di sangue.» Aprii il fascicolo della documentazione, accanto al mio taccuino, e ne trassi alcuni rapporti di polizia. «Lei conosce Robert Spector?», domandò Chapman. «L'ho incontrato qualche volta.» «Crede che odiasse Gemma tanto da...» Geoffrey interruppe bruscamente a metà la domanda di Mike, prendendo fiato in modo evidente: «Ogni professione ha le sue gelosie e le sue lotte intestine, signor Chapman. Le sto dipingendo nel modo più limpido possibile le persone che appartengono al mondo di Gemma, ma direi che nessuno di loro l'avesse in tale antipatia da farle del male fisico. Quasi tutti sapevano che entro pochi mesi si sarebbe tolta dai piedi, ne sono sicuro». «Per il fatto che sarebbe tornata a Londra?» «Con tutta probabilità.» «Lei non lo sa?» «Be', vede, lei aveva avuto l'offerta. E diceva che avrebbe dato una risposta all'università entro la fine del mese. C'era qualche questione ancora aperta di cui doveva occuparsi prima di potersi impegnare.»
«Non lo sapeva neanche lei, dottor Dogen?» «Non ero stato io a farle quell'offerta. Non aveva alcun motivo per comunicarmelo in modo ufficiale. Sì, io pensavo che per il prossimo semestre accademico sarebbe tornata, anche se con un po' di riluttanza. Ma non aveva motivo di parlarne a me entro una data precisa. Pensavo che avrebbe semplicemente terminato l'anno accademico e che volesse tenere ancora un po' sui carboni ardenti il dottor Spector e quelli dell' amministrazione, che erano ansiosi di vederla andar via. Una sorta di colpo di coda, se così possiamo dire.» Bussarono alla porta e Creavey andò ad aprire. Apparve un giovanotto in guanti bianchi per annunciare che nel locale adiacente era stato servito il pranzo, se volevamo fare una pausa. Lo ringraziai, e dissi che era ancora questione di poco. «Dopo che le avremo dato un po' di respiro, dottor Dogen, vedremo insieme qualche deposizione e qualche foto», disse Chapman alzandosi e strofinandosi gli occhi arrossati. «Vorrei scorrere con lei i nomi di alcuni colleghi di Gemma. Abbiamo informazioni che sembrano in contrasto tra loro. Se lei riconosce qualche nome, forse potrà dirci chi sono i buoni... quelli di cui fidarsi.» Mentre io leggevo a Geoffrey Dogen la lista di nomi, Creavey e Chapman guardavano la piscina e il padiglione fuori dalla finestra. Dogen conosceva bene alcuni dei docenti che avevano l'ufficio nello stesso corridoio di Gemma, e anche quasi tutti coloro che avevano posti di responsabilità nell'amministrazione: io feci una crocetta accanto a ognuno per tornarci sopra in seguito. Non riconobbe, invece, nessuno dei medici più giovani, degli assistenti e degli interni, neppure quelli che erano coinvolti nell'inchiesta, finché non arrivai al nome di DuPre. Dogen mi guardò interrogativamente: «Quella vecchia mummia è uscita dall'ibernazione per insegnare al Minuit? Stento a credere che Gemma non me ne abbia mai parlato». Chapman si voltò: «Conosce DuPre?». «Non posso dire di conoscerlo molto bene, ma partecipai a un corso in cui insegnava lui... solo un seminario di un paio di settimane, a Ginevra. Credo che allora fosse ormai sull'orlo della pensione. Quanti anni ha, adesso, novanta?» Risi: «Non è lui. Questo ne ha solo quarantadue». «Neurologo anche lui?» «Sì, neurologo.»
«Be', sarà il figlio, o il nipote. Sa dove si è laureato?» Guardai il DD5 per rinfrescarmi la memoria: «Tulane». «Non può essere una coincidenza. Anche il vecchio Johnny DuPre aveva studiato lì. Era uno dei più bravi praticanti del campo... un vero genio. Qualche tempo fa divenne quasi un eremita. Si trasferì nel Mississippi, a Port Gibson, se non mi sbaglio.» In Chapman insorse lo storico militare: «La città troppo bella perché il generale Sherman la bruciasse. E così la risparmiò, lo sapevate?». Io no. Creavey ci precedette alla porta e la tenne aperta per noi, mentre io richiudevo il mio fascicolo. Dogen stava ancora pensando a DuPre. A quanto pareva, il ricordo dell'emerito conferenziere lo aveva eccitato: «Era un'impresa per un giovane medico come ero io, cercare di comprendere dettagliate informazioni neurologiche dettate nel più pesante accento del sud che io abbia mai sentito. Avremmo dovuto avere un traduttore, davvero. E aveva una favolosa chioma di capelli rosso fuoco, come la barba. Neanche un filo di grigio, benché avesse più di sessant'anni». «Capelli rosso fuoco», borbottai: «Probabilmente non c'è nessun rapporto. Il nostro John DuPre è un afro-americano». «Be', allora, è proprio una strana coincidenza. Non può essere John J.D. DuPre, come amava presentarsi quel vecchio medico. John Jefferson Davis DuPre.» Riaprii il fascicolo e tirai fuori di nuovo il modulo DD5 «Interrogatorio di John J.D. DuPre, M/N/42». «Andiamo, Blondie. Muoio di fame.» «Vi raggiungo. Voglio solo chiamare Mercer prima che esca di casa, per chiedergli di controllare una cosa.» Non mi convinceva che un nero del sud portasse il nome del presidente della Confederazione, noto secessionista durante la guerra civile. L'attenzione di Chapman era ormai del tutto rivolta al banchetto imbandito nella saletta accanto, che vidi passando, diretta al più vicino telefono abilitato alle chiamate intercontinentali. In quel momento, non riuscivo a pensare ad altro che al messaggio infilato sotto l'uscio di casa mia, domenica sera: «ATTENTA. NON È TUTTO BIANCO E NERO. ERRORE MORTALE». Qualcuno aveva cercato di avvertirmi di una cosa che ora, del tutto inavvertitamente, Geoffrey Dogen mi aveva chiarito? John DuPre non era l'uomo che diceva di essere?
Mercer rispose al secondo squillo. Capitolo 24 «Ti ho tenuto da parte delle uova di quaglia in salsa di spigola e formaggio. Il comandante dice che sono da non perdere.» «Io passo.» «Sformato di bistecca e rognone?» «Ho già chiesto una sogliola ai ferri. Di Dover.» Ci prendemmo tutti una pausa dall'inchiesta, durante la quale Dogen e Creavey ci mostrarono le bellezze locali e ci raccontarono le leggende di Cliveden. Dopo il tè, cercai di attirare Mike fuori dalla portata d'orecchio di Geoffrey per raccontargli la telefonata a Mercer. Chapman aveva in mano un menu di Cliveden: me lo passò, dicendomi di metterlo in borsa per portarlo negli Stati Uniti. «L'hai visto? Ci crederesti che hanno un dessert che si chiama "uccello macchiato"? Bisogna che ne porti uno a Mercer e ai ragazzi della Reati Sessuali.» «Sono veramente orgogliosa di quanto stai maturando... qualcosa ti ha trattenuto dall'esternare questo pensiero, se vogliamo chiamarlo così, al dottor Dogen.» Gli dissi che avevo pregato Mercer di fare un controllo sui titoli di DuPre, ricordandogli che era stato uno dei neurologi che avevano visitato Maureen in ospedale. Mentre Chapman e Creavey andavano alla toilette, Geoffrey Dogen e io tornammo nella sala riunioni e riprendemmo posto attorno al tavolo. Avevo resistito, in presenza di Mike, all'impulso di chiedere a Dogen se ricordava le circostanze della morte di Carla Renaud, avvenuta sotto i ferri chirurgici a Londra un paio d'anni prima. Ma appena fummo soli, gli feci tranquillamente la domanda che mi stava divorando. «Certo. Gemma, naturalmente, fu costernata da quel fatto. La procedura seguita era del tutto nuova ed era stata elaborata da James Binchy, uno dei nostri migliori chirurghi. Un'operazione radicale, e lunghissima: sei, sette ore. Fu per questo che Binchy invitò Gemma a coadiuvarlo. Purtroppo lei si fece coinvolgere un po' troppo dai familiari, sul piano personale. Voleva fortemente che l'esperimento riuscisse, per amore della ragazza e in generale. A Gemma era capitato raramente di perdere dei pazienti sotto i ferri. La prese molto male. Toccò a lei dirlo al marito. Il dolore lo rese furibondo.»
«Furibondo... con Gemma?» «Col mondo intero. Il classico "aveva tutta la vita davanti: perché l'avete fatta morire?". Naturalmente la verità è che, senza un tentativo chirurgico, Carla Renaud non sarebbe vissuta più di un altro mese. Binchy non aveva di certo fatto quel tentativo per divertimento, signorina Cooper. Quella era l'unica speranza per la giovane Renaud e non andò in porto. Che cosa c'entra questa vicenda con la vostra inchiesta?» Sulla soglia era comparso Mike e fu lui a rispondere: «Come le ho detto, dottore, non trascuriamo nessun aspetto. In dicembre, poco prima di Natale, un ex carcerato è riuscito a entrare nella clinica dei tumori del New York Hospital e ha sfregiato il viso di un medico che aveva avuto in cura suo figlio cinque anni prima. Nonostante gli sforzi di tutti, il bambino era morto di leucemia, e il padre non era mai riuscito a rassegnarsi. Agatha Christie, qui, prende in considerazione l'ipotesi che il vedovo della Renaud possa aver covato lo stesso tipo di rancore nei confronti di Gemma». Dogen si accigliò e storse la bocca nel tentativo di ricordare le conversazioni avute al tempo dei fatti: «Be', mi ricordo del marito... era un avvocato, vero?... so che si parlò di cause legali contro Binchy e Gemma eccetera. Ma sono certissimo che non se n'è fatto niente. Il povero ragazzo era sconsolato per la morte della moglie. Aveva sperato almeno che sopravvivesse all'operazione e che gli morisse tra le braccia. Ma a me sembra che alla fine se ne sia fatto una ragione e a quanto mi risulta Gemma non ne ha saputo più niente». «Torniamo al lavoro, Blondie, o credi magari che il dottor Dogen ti faccia anche l'oroscopo?» Mike e io ci dividemmo le centinaia di rapporti DD5 e cominciammo a ripassarli in dettaglio, individuando singoli punti sui quali chiedere delucidazioni al nostro disponibilissimo testimone. All'estremità del tavolo, Creavey scorreva una copia del dossier, ricorrendo alla propria competenza e ai propri metodi per ricostruire l'inchiesta. Quando arrivammo al voluminoso referto autoptico, Mike lo passò a Dogen: «Non c'è motivo di tenerle nascosti questi particolari, dottore. È roba molto cruda, ma almeno i termini medici per lei hanno un senso. Perché non lo legge, così poi potremo rispondere alle domande che lei vorrà farci?». Il mite medico cominciò dall'inizio, dalla descrizione delle condizioni in cui si presentava la defunta. Non era ancora andato molto avanti che si alzò in piedi e si spostò in un angolo della saletta, lasciandosi andare in una
poltrona e passandosi e ripassandosi una mano sulla bocca come a cercare di assorbire quello spaventoso numero di coltellate e la furia folle con la quale erano state inferte. Restammo in silenzio per qualche minuto, poi Mike mi batté su un braccio indicandomi la porta. Uscimmo, e Creavey ci seguì. Per un quarto d'ora passeggiammo nella frizzante aria primaverile attorno alla piscina, lasciando Geoffrey Dogen da solo in compagnia dell'orribile ritratto che il perito aveva dato della sua amica ed ex moglie. Quando ritornammo, era evidente che aveva pianto e, prima di parlare, si soffiò il naso. «Be', sapevo che Gemma era una combattente. Sembra che il vostro uomo non se l'aspettasse, vero?» Lasciai parlare Mike: «La mia collega pensa che questa sia una delle ragioni per ritenere che la dottoressa conoscesse l'assassino. Qualcuno che sapeva di trovarla sola in ufficio nel cuore della notte e che non si sarebbe spaventata a vederlo entrare. Può darsi che sia cominciato come una conversazione, qualcosa su cui lui pensava di poter ragionare con lei. Ma ovviamente era pronto a passare alle maniere forti, se lei non avesse ceduto ai suoi argomenti». «E poi è stata legata e imbavagliata?» «Questo è ciò che suggerisce il medico legale. Ma non c'è quasi nessuna di queste coltellate che non l'avrebbe messa fuori combattimento. Se la prima cosa che ha fatto l'assassino è stato infliggere questo colpo in mezzo alla schiena, potrebbe averla legata subito dopo, per poi proseguire l'opera.» «Ma ci saranno state sicuramente delle grida...» «E nessuno a sentirle. È più facile resuscitare i morti all'obitorio che trovare qualcuno che le potesse sentire in quel corridoio alle due di notte, quando tutti gli occupanti sono andati via. Anche se prima di essere imbavagliata fosse riuscita a urlare, un altro colpo di coltello l'avrebbe messa a tacere.» «Che ne pensate del tentativo di aggressione sessuale in queste... be', condizioni? Quell'uomo deve essere pazzo, non credete?» «Io penso che questo sia proprio quello che ci vuol far credere. Se lei conosce il Mid-Manhattan, saprà che è pieno di matti... voglio dire, la popolazione residente. Più che probabile che l'assassino abbia cercato di inscenare un tentativo di aggressione sessuale per metterci fuori strada.» Mike inserì una serie di diapositive nel proiettore: «Ecco alcune foto della scena del delitto, dottore. Non so se lei conosce bene l'ufficio di Gem-
ma, ma vorrei che desse un'occhiata». «Ci sono stato varie volte. Ho anche delle fotografie. Me le ha mandate Gemma: "Io nel mio habitat naturale", le aveva intitolate.» Mike premette il pulsante che comandava il caricatore a ruota e sul grande schermo a parete cominciarono ad apparire una dopo l'altra le immagini. Dogen, immobile, osservava ogni particolare delle foto, molte delle quali erano inquadrature delle scure macchie di sangue sul tappeto, viste da diverse angolazioni. Mescolate alle altre, c'erano fotografie della scrivania e della sedia di Gemma, file di scaffali, libri sopra gli schedari e cassettiere colme di radiografie. «Eccolo lì», Creavey ruppe il silenzio indicando un grosso oggetto poggiato come fermacarte su una pila di carte ammucchiate sulla scrivania: «Il Tower Bridge, dottore». «Gliel'ho regalato io. L'ho comprato a un banchetto del mercatino di Portobello Road. La sagoma del ponte che lei amava tanto. Se ritorna indietro di un paio di diapositive, Chapman, le posso indicare le persone che appaiono in alcune delle foto che teneva sugli scaffali. Qualcuna l'ho scattata io.» Mike fece scattare il dispositivo del ritorno. Man mano che riconosceva le istantanee, molte delle quali scattate a Londra anni prima, a giudicare dall'abbigliamento, Dogen faceva dei nomi. Era chiaramente un esercizio che aveva più senso per Dogen che per la nostra indagine, ma eravamo in debito con lui, e Chapman sembrava contento di venire incontro al dottore. «Oh. Fermi questa, per favore.» Dogen si alzò e si avvicinò allo schermo aguzzando lo sguardo: «Probabilmente lo sapete già... Vedo che avete fatto un lavoro molto accurato. Vi sarete accorti che dallo scaffale manca il portachiavi». Chapman e io ci scambiammo un'occhiata interrogativa: «Che portachiavi? Di che cosa sta parlando?». «Un altro dei suoi ossessivi Tower Bridge. Vedete questo gancio all'estremità del supporto metallico?» A sostenere gli scaffali che si estendevano lungo tutta una parete dell'ufficio c'erano coppie di esili bracci d'acciaio. Dogen, in piedi accanto allo schermo, indicava l'estremità ricurva di uno dei bracci, che sporgeva proprio a lato della grande scrivania. «Lì Gemma appendeva le sue chiavi di riserva. L'anello del portachiavi si adattava perfettamente alla punta del braccio e in quel modo le due chiavi essenziali - di casa e dell'ufficio - erano sempre a portata di mano, nel
caso che non avesse voglia di portarsi dietro tutta la borsetta. Lei sa che cosa voglio dire», aggiunse Dogen rivolto a me. Annuii: anch'io avevo un mazzo di riserva che usavo quando andavo a correre o a portar fuori Zac, senza l'incomodo della borsetta. I poliziotti avevano trovato la borsa di Gemma nel cassetto - intatta - e da lì avevano recuperato il mazzo di chiavi che Mercer e io avevamo adoperato per entrare nell'appartamento. «Lei vuol dire che di tanto in tanto, quando andava a trovare Gemma, ha visto delle chiavi appese lì?» «Quello che voglio dire è che Gemma le teneva sempre lì. Era diventato uno scherzo. Adesso non fa più ridere. Ma lei chiamava l'ufficio la "porta dei traditori", dal nome di quella porta della Torre di Londra da cui entravano i prigionieri avviati alla morte. Da lì gettavano l'ultimo sguardo al mondo prima di essere rinchiusi in ceppi. Adesso sembra un'ironia, ma lei era arrivata a considerarsi un'estranea al Minuit. E così quelle erano le chiavi della sua libertà, diceva Gemma. Pendevano sempre da quel gancio, in modo che potesse prenderle per andarsene in qualsiasi momento: per andare a correre, per andare a casa, per scappare dalla gente che non le piaceva. Ve lo assicuro. Guardate qualche foto della stanza scattata prima della morte di Gemma e vedrete pendere quel portachiavi a forma di Tower Bridge proprio lì.» Dogen aveva assunto un tono enfatico e poggiava l'indice sul dettaglio dell'estremità dello scaffale, facendo oscillare lo schermo contro il muro. Né Mike né io sapevamo che importanza attribuire alla notizia fornitaci da Geoffrey. Lasciammo che si calmasse e completammo la visione delle diapositive. Si erano ormai fatte le cinque. Quando uscì a fare una telefonata, Mike si strinse nelle spalle e mi chiese che ne pensavo. «Difficile a dirsi. Chi potrebbe dirci, oltre alle addette alle pulizie, quando quelle chiavi erano in ufficio l'ultima volta? Ma credo che sia meglio mettere questa domanda nella lista di quelle da fare quando riprenderemo, la settimana prossima.» «Già, ma a che serve? Nessuno può aver fatto irruzione in quell'ufficio solo per rubare la chiave di quello stesso ufficio, giusto? Sarebbe una stupidaggine. E non sembra nemmeno che sia stato portato via niente dal suo appartamento.» «Può darsi che l'assassino si sia tenuto il portachiavi come trofeo o qualcosa del genere.» «Te l'ho detto, io, di andarci piano con quei romanzi gialli, Coop. Leggi
troppe storie di serial killer e comperi tutte quelle stronzate dell'FBI. Con Dogen abbiamo finalmente terminato, non è vero?» Creavey, Chapman e io accompagnammo Geoffrey Dogen al parcheggio davanti alla Great Hall. «Lei e Gemma parlavate mai della sua vita sociale, delle persone che incontrava fuori dal lavoro, degli uomini con cui si vedeva?» «No, no. Non era il tipo di cose che avrebbe detto a me.» «Penso che lei abbia sentito nominare William Dietrich; voglio dire: a causa della sua posizione al Minuit.» «Lo conosco per due motivi, in verità», fremette Dogen. «Sapevo dei suoi battibecchi professionali con Gemma e ho sentito parlare della loro relazione da altri colleghi che la disapprovavano. Circolavano delle voci a proposito di problemi finanziari che lo affliggevano e di un'auto che desiderava disperatamente. Gemma era molto sensibile verso gli amici in difficoltà economiche. Le cose materiali per lei significavano ben poco. Era venuta dal niente, aveva fatto una quantità di soldi ed era contenta di darli via. Non ne so di più, ma devo dire che non avevo molta simpatia per questo Dietrich.» Ormai eravamo impegnati nelle chiacchiere minori e Mike gli domandò che cosa facesse Gemma per svago. «Svago?» Dogen reagì come se per lui la parola avesse bisogno di essere interpretata: «Non è esattamente la prima cosa che viene in mente di lei. Cioè, le piaceva stare con gli amici, le piaceva un bel film o un grande romanzo, ma era molto presa da tutti i suoi impegni». «Be', parlava mai di baseball o di partite che andava a vedere per svagarsi? I Mets, gli Yankees, i Knickerbockers...?» «Mai sentita pronunciare la parola baseball. Non ce la vedo ad andare a partite di quel tipo. Odiava gli sport di squadra.» Le domande di Mike mi avevano ricordato il fascicolo con l'etichetta «Partite Met» che avevo visto a casa di Gemma con Mercer, più di una settimana prima. Ormai lanciato, Dogen proseguì: «Gemma adorava la natura. La mettevi su una canoa o a salire in montagna o a farsi chilometri di corsa, e lei era felice. Ma non ho mai saputo che si interessasse a nessuna attività di squadra. Il baseball, poi? Un gioco troppo lento perché potesse stare a guardarlo fino alla fine. Non aveva pazienza per quel tipo di sciocchezze». Dovevo appuntarmi di controllare quel fascicolo per vedere che cosa conteneva. Oppure decidere che quella riunione era stata uria completa
perdita di tempo, perché Geoffrey Dogen, dopo tanti anni di separazione, non conosceva più l'ex moglie. Salutati Dogen e il comandante, Mike e io entrammo nell'area della reception. Un fattorino mi consegnò un foglietto di carta, riferendomi il messaggio che conteneva. Era Mercer che chiedeva di essere richiamato all'ufficio di Sarah Brenner. Notizie buone, diceva il biglietto, e notizie cattive. Mike salì le scale con me. Una volta in camera, posai sul tavolino la cartelletta del dossier e chiesi al centralino di chiamare il mio ufficio. Rispose la segretaria di Sarah, che mi mise in comunicazione con lei: «Prima le buone notizie. C'è stata una svolta nel caso dell'accoltellamento della dottoressa al Columbia-Presbyterian. Ieri sera una soffiata li ha portati a un sospetto, che è stato arrestato proprio poco fa. Di' a Mike che aveva ragione lui. L'uomo ha visto sull'auto il contrassegno dei medici e ha sgonfiato la gomma, pensando di prendere almeno un po' di droga o il ricettario. Poi il medico si è rivelato una donna, per cui ha cercato anche di violentarla. Ma questo aggressore è uno dei quartieri degradati di Manhattan: nessun legame col Mid-Manhattan. Purtroppo è ancora probabile che la vittima esca di scena. E Maureen mi fa arrivare un messaggio al giorno tramite il capo della polizia. Tutto benissimo, per cui cerca di rilassarti finché torni a casa. Ecco qui Mercer con le notizie cattive». Lo sentii in sottofondo schiarirsi la voce e fare vocalizzi, neanche fosse uno dei Platters, poi, presa la cornetta che gli passava Sarah, ecco la sua voce di basso: «Oh... oh, yes, he's the great pretender...». «Accidenti. Vuole farsi avanti il vero John DuPre, per favore? Come stanno le cose, Mercer?» «Tieni conto che fino alle dieci gli uffici della Tulane Medical School sono chiusi... cioè fino a non più di un'ora fa. Mi hanno appena richiamato. L'unico John DuPre in possesso di un attestato di quella esimia istituzione si è laureato con lode nel... fammi vedere... l'anno del Signore 1933. Trentatré: un bel po' prima che il nostro ragazzo nascesse, direi. E devo convenire con te che nessun fratello con un minimo di rispetto per se stesso se ne andrebbe in giro con addosso il nome di Jefferson Davis, presidente dei sudisti. E adesso, quand'è che mi riporti a casa il mio uomo?» «Prenderemo il volo di domani a mezzogiorno.» «Vengo a prendervi al Kennedy, così possiamo subito aggiornarci a vicenda. In questo momento Sarah mi sta preparando un mandato di perquisizione per lo studio di DuPre. Non ho avvisato prima per non mettere in allarme le sue collaboratrici. Faccio solo una scappata passando dalla re-
ception e dico che mi sono dimenticato di fare qualche altra domanda su Gemma Dogen. Nel frattempo Sarah guarda le norme relative all'esercizio abusivo della professione medica. Il mandato dovrebbe riguardare tutti i diplomi che DuPre ha alla parete, qualche cartella clinica dei pazienti e la sua agenda. Penso proprio che troveremo qualcosa che lo mette in rapporto con i dolci avvelenati o con l'attentato dell'altra notte a Mo.» «Incrociamo le dita. Tienici al corrente.» «Fammi parlare con Chapman. Non ce la faccio più: devo dirgli quanto mi manca.» Capitolo 25 Mentre Mike faceva la doccia e sì vestiva per il ricevimento del convegno di Cliveden, io mi avvolsi nell'accappatoio di spugna, portai il telefono sul letto, distesi le gambe e chiesi di parlare con Washington, nel tentativo di trovare Joan Stafford. Diedi al centralino il numero di Jim Hageville e, quando finalmente ebbi la comunicazione, non mi parve vero di sentire la voce della mia amica. «Non mi piace fare la melodrammatica, ma dov'eri nel momento del bisogno?» «Ho provato a richiamarti appena ho avuto il messaggio. Anche Drew ha cercato di telefonati lì, ma...». «Dubito che ci riproverà. L'ultima volta ha risposto Mike e adesso probabilmente pensa che io sia fuggita con un altro. Joanie, mi devi aiutare assolutamente. Ti ricordi quando è stato esattamente che Drew ti ha detto di volermi conoscere?» «Ma perché lo mescoli con il caso di questa donna assassinata, Alex? Stai proprio esagerando. Devi dimenticare quello che hai passato con Jed e il suo tipo di...» «Non hanno nulla a che vedere l'uno con l'altro. Ma mi vengono i brividi al solo pensiero che Drew ti dica di volermi conoscere, e una settimana dopo scopro che sto indagando sull'assassinio della chirurga sotto i cui ferri Carla Renaud è prematuramente morta. Come è cominciato tutto? Ecco che cosa voglio sapere.» Ci fu qualche secondo di silenzio, mentre Joan annaspava alla ricerca di una risposta. Mentalmente mi comportavo da inquisitore più che da amica e mi infastidiva non poter guardare negli occhi l'interrogata per soppesarne il comportamento.
«Joanie?» «Non sto cercando di guadagnare tempo. Sto guardando nell'agenda. Ti ricordi la serata di beneficenza per la lotta all'AIDS al Tempio di Dendur, ai primi di marzo? Quando sei arrivata, Jim e io ce ne stavamo andando... eri proprio di fronte al sarcofago con quella mummia di duemilacinquecento anni presa in prestito dal British Musem...» «Chi era la più carina, delle due?» «Personalmente, io avrei votato per la mummia, ma è stato allora che Drew ha detto a Jim che sapeva chi fossi e che avrebbe voluto conoscerti. Ce ne stavamo andando, per cui gli ho proposto di dirci quando era libero e avremmo organizzato una cena per combinare l'incontro.» «E quando ti ha telefonato? Hai anche questo nel tuo libricino nero?» Pausa più lunga. «Non ti ha telefonato finché non ha visto sul giornale che mi era stato affidato il caso di Gemma Dogen? Giusto? Diciamo un giorno o due prima della cena che tu avevi già organizzato. E tu non hai fatto altro che aggiungere un altro posto a tavola.» «Ma dov'è il problema? Voglio dire, io non ne sapevo certamente nulla, Alex. Ma non biasimo la sua curiosità per il medico che ha avuto un peso così grande nella sua vita privata. Da quella sera ho parlato molte volte con Drew e lui è pazzo di te.» «Be', è estremamente bizzarro trovarsi al centro di un triangolo con un uomo che probabilmente sta cercando di inviare messaggi alla moglie morta tramite il pubblico ministero che si occupa dell'assassinio della donna...» «Ma piantala. Devo andare, il bambino sta piangendo...» «Tu non hai bambini.» «Be', con Nina funziona, tutte le volte che tu la fai impazzire con le tue telefonate. Magari ne prendo in prestito uno fino a quando non hai superato questa fase.» «Scusami.» «Sentì, tu l'hai visto soltanto un paio di volte. Jim lo conosce da sempre. Sbrigatela con questo caso e poi da' a Drew un'altra occasione.» Ero sdraiata sul fianco, con la testa appoggiata alla mano e il telefono all'orecchio destro. Chiacchierammo ancora un paio di minuti, poi io tornai a insinuare l'argomento della mia telefonata: «Mike pensa che sia eccessivo, ma tu... cioè, Jim pensa che Drew covasse tanto rancore contro la dottoressa Dogen da...? Non dico che abbia fatto qualcosa di violento personalmente, ma che abbia magari assoldato qualcuno per...».
Attraverso l'Atlantico mi arrivò la voce adirata di Joan: «Ti ricordi che cosa mi dicevi il primo anno che eri alla procura distrettuale, quando ti avevano assegnata a quell'ufficio dove arrivavano le denunce di tutti quei balordi? Tutte le volte che rimanevi incastrata al telefono con una piantagrane che non voleva mollare, arrivavi al punto in cui dicevi: "Signora, penso che stiano per scollegarci". Continua a parlare in questo modo, signorina Cooper, e ti ritroverai scollegata per sempre». Sentii Joan tirare un gran respiro. «Da' retta a Mike», riprese: «Possiede un istinto eccezionale per questo tipo di cose. Io torno a New York martedì, e potremo stare un po' insieme, magari a cena. Richiamami qui domenica, quando hai disfatto i bagagli e ti sei sistemata». Durante la telefonata, Mike si era fatto la barba e la doccia, e riemerse dal bagno in completo blu. Finì di prepararsi per il cocktail annodando la cravatta. La conversazione con Joan aveva riportato le cose nella giusta prospettiva e, come sempre, mi aveva rasserenata. Non c'era motivo per eliminare senz'altro Drew, soprattutto visto che, con il ritmo preso dalle indagini, non avrei avuto molto tempo per fare vita sociale. Adesso potevo anche godermi le ore di libertà che avevo davanti e aspettare la fine dell'inchiesta per capire cosa provavo per lui. «Cosa fa, la mia ragazzina scontrosa? Resta in camera anche stasera o avremo il piacere di godere della sua compagnia?» «Dammi mezz'ora. Mi preparo e vengo giù...» «È quello che mi hai detto anche ieri.» Gli feci cenno di uscire e andai sotto la doccia a lavarmi i capelli. Il mio abito da cocktail era semplicissimo, di seta nera con la gonna corta pieghettata che ondeggiava quando camminavo. Ero di buon umore come non mi accadeva da giorni: infilai le scarpe da sera e diedi alla gonna un'altra scossa. Quando scesi le scale per andare nella Great Hall erano ormai le sette passate. Tra le pelate luccicanti degli accademici spiccava la folta capigliatura nera di Mike e io attraversai la stanza per raggiungerlo. Lungo il tragitto chiesi al cameriere uno scotch con ghiaccio, ma mi informò che il bar serviva solo whisky al malto. Mike era di spalle, davanti a tre enormi arazzi allineati lungo la parete sud della Great Hall. Di fianco a lui c'era una donna in abito a tunichetta, dalla pelle di finissima e splendente porcellana e con corti capelli biondo
platino che ondeggiavano sotto un diadema di diamanti a ogni movimento del capo, in risposta a quel che le stava dicendo Chapman. Mi fermai a circa mezzo metro, alle loro spalle, aspettando di essere vista per non interrompere la conversazione. «Non sapevo che Orkney avesse qualcosa a che fare con questo posto, però conosco bene la storia di questi oggetti.» La mano che teneva il bicchiere di whisky irlandese indicava gli arazzi. Mike le spiegava che il conte di Orkney era stato il primo maresciallo di campo inglese, braccio destro del duca di Marlborough a Blenheim. Gli ampi arazzi celebravano quella grande vittoria e, come spiegava Mike, descrivevano l'arte della guerra. La curiosità ebbe il sopravvento sulle buone maniere e, appena mi portarono il mio drink, passai davanti a Mike e mi inserii nella conversazione. «Ciao. Sono contento che ce l'hai fatta. Ho il piacere di presentarti la mia duchessa.» L'elegante signora passò la coppa di champagne nell'altra mano e mi tese la destra, ridendo di gusto della definizione di Mike e presentandosi come Jennifer, Lady Turnbull. I tanti bagni notturni nella mia Jacuzzi, in compagnia di riviste di moda, rendevano superflua la presentazione. Quel bellissimo viso e quella figura straordinaria erano apparsi sulle copertine quanto quelli di una modella professionista. E la storia della studentessa americana che aveva sposato l'anziano Lord Turnbull per ereditarne, poco dopo, i milioni, aveva occupato le prime pagine dei giornali scandalistici quando io ero ancora adolescente. «È il fidanzato di Jenny a finanziare questo convegno tutti gli anni. Ecco perché loro due sono qui. È quell'uomo laggiù, quello che sta parlando col tuo ragazzo.» Lady Turnbull infilò il braccio lungo e sottile sotto quello di Mike e lo fece voltare verso la sala piena di gente. Vidi Lord Windlethorne che parlava con un uomo in cui riconobbi, per averlo visto su quello stesso tipo di riviste, l'industriale britannico Bernhard Karl, un uomo sulla cinquantina dall'aspetto giovanile. «Il suo investigatore e io ci stiamo divertendo moltissimo, Alexandra. Mi ha parlato tanto di lei, sono felice di conoscerla.» «Non mi hai creduto, quando ti ho detto che Creavey e io avevamo perlustrato tutti i locali notturni con una duchessa, eh?» Prima che potessi rispondere, Jennifer alzò il dito per protestare: «Continuo a dire a Michael che non sono una duchessa, ma lui si diverte a chiamarmi così. Ieri sera siamo stati proprio dappertutto, nei dintorni, e lui
mi ha promesso di restituirmi il favore appena vengo a New York». Non riuscivo a immaginarmi Lady Turnbull, in tunichetta e diadema, appollaiata su uno sgabello da Rao, circondata dalla squadra Omicidi di Manhattan, ma ci avevo visto tanti di quei politici, divi del cinema e grandi imprenditori e finanzieri da sapere che Mike poteva anche riuscirci. «Mi sento vestita terribilmente male rispetto a...» «Non dica sciocchezze. Bernie e io ci siamo agghindati così perché siamo noi a offrire la cena. Si adatta tanto all'ambiente, non trova?» Restai appiccicata alla duchessa e allo sbirro come una ruota di scorta per almeno un'altra mezz'ora e un secondo drink. Continuavo a cercare di capire se il signor Karl tenesse d'occhio la promessa sposa, ma era chiaro che o non aveva nulla da ridire sul suo comportamento, o era perfettamente sicuro di sé. Poco prima delle otto, Graham cominciò a passare da un gruppetto all'altro per annunciare che la cena sarebbe stata servita nella Sala Francese. Lady Turnbull prese per mano Michael e lo trascinò lungo il corridoio, mentre io cercavo di intrufolarmi dietro di loro, intrappolata dal noiosissimo criminologo danese in una conversazione sulla delinquenza minorile. Jennifer prese posto a un capo della lunga tavolata su cui il vasellame brillava al riflesso delle pareti e dei soffitti dorati, dei candelieri di tutte le dimensioni appesi al muro e di innumerevoli candelabri da tavolo. Mentre la oltrepassavo alla ricerca del mio segnaposto e di quello di Mike, Lady Turnbull indicò la sedia accanto a sé e ingiunse: «Visto che questa è la Sala Francese, mi prenderò la libertà di tenermi Hercule Poirot proprio accanto. Con tutto questo parlare di delitti al convegno, chi meglio di lui per proteggermi?». «Poirot è belga, Mickey», bisbigliai, terrorizzata all'idea di passare la serata seduta tra l'esperta australiana di diritto penale e il sociologo teutonico: «Non è francese. E non lo sei neanche tu. Ricordale le tue radici a Bay Ridge: magari ti restituisce a me». «Non fare la villana con la mia duchessa, Blondie. Puoi sempre farti portare la cena in camera, se hai di nuovo la luna di traverso.» Mi strizzò l'occhio e, mentre gli passavo accanto, mi diede un pizzicotto sul braccio. Ero a due terzi della tavolata quando vidi il mio nome, collocato tra Lord Windlethorne - quella doveva essere opera di Mike - e l'ambasciatore Richard Fairbanks, delegato americano alla Conferenza economica del Pacifico. Un cameriere scostò la sedia per aiutarmi a prender posto. Quasi subito arrivò Windlethorne che, con una lezione sulla querela di
parte nella interpretazione della recente giurisprudenza britannica, mi intrattenne per tutto l'antipasto: granchio della Cornovaglia al lime. A metà della seconda portata, insalata di tartufi, Windlethorne venne distratto dalla donna che sedeva alla sua sinistra - a cui per gratitudine avrei dato un bacio - e io potei presentarmi a Fairbanks, che ancora non conoscevo. L'ambasciatore era affascinante, attraente e spiritoso, e fui così impegnata dalla conversazione con lui per altre tre portate, che persi il conto delle varietà di vini bianchi e rossi che accompagnavano ogni piatto. Quando arrivammo in fondo ai dessert e allo champagne, e l'orologio di bronzo dorato ebbe suonato la mezzanotte, Bernhard invitò i graditi ospiti a seguirlo per andare a fumare un sigaro e bere un bicchierino di porto. Gli europei che avevano l'aereo di buon mattino cominciarono a squagliarsela e a dare la buona notte, così come un certo numero di mogli che si lamentavano di tutto quel fumo. Sarei stata ben lieta anch'io di dichiarare chiusa la serata, non fosse stato per l'attrazione che esercitava su di me il rapporto tra Jennifer e Mike. Uscendo insieme dalla sala, lei era di nuovo tutta presa da lui. Ricordai quanto mi piacesse l'odore dei sigari di mio padre e mi diressi dietro di loro in biblioteca, con la sua boiserie alle pareti e l'immenso camino. Mi piazzai accanto all'ambasciatore Fairbanks e alla moglie Shannon, e alla fine Jennifer e Mike, girando per la sala, arrivarono da noi. Chapman aveva un bicchiere di porto in più per me: «È la cosa più delicata che io abbia mai assaggiato. Devi proprio provarlo». Graham si avvicinò ai nostri divani, presso lo scoppiettante fuoco del camino. «Mi scusi, signore», disse chinandosi verso Chapman: «Durante la cena ha telefonato sua madre, ma mi ha pregato di non disturbarla. Ha detto di avere l'informazione che lei voleva e di comunicargliela quando l'avrei vista, e che lei avrebbe capito. La signora Chapman ha detto che l'argomento di ieri sera era "Geografia'' e che io le avrei dovuto dire la risposta». «Un momento, Graham.» Con un mozzicone di sigaro nell'angolo della bocca e già un bel carico di alcol in corpo, Mike era lusingato dal corteggiamento giocoso di Jennifer e deliziato dalla reazione che aveva suscitato in lei il criptico messaggio di Graham. Cominciò a spiegarle che cos'era «Ultimo Azzardo» e lei, afferrandogli il polso, squittì: «So perfettamente che cos'è. Lo guardo sempre, quando sono in America». «Dieci testoni, duchessa. Come se la cava in geografia?»
«Cinquanta, ispettore. E lei?» Si era voltata verso di me a chiedere se ero ancora della partita. Le mie chance in geografia erano maggiori di quanto lo fossero con la Bibbia o la fisica, perciò le dissi che ci stavo anch'io per cinquanta dollari. «Vai, Graham.» «Madame ha detto di dirle che la risposta era...» Fece una pausa per guardare la frase che si era annotata sul retro di una cartolina di Cliveden: «Un tempo chiamata Monte McKinley, questa montagna, che è la vetta più alta dell'America settentrionale, è ora nota col nome originario datole dai nativi americani, che significa Grande Uno». Nel momento stesso in cui Graham chiedeva a Mike se il messaggio era chiaro, Jennifer picchiò il braccio sul sofà gridando: «Lo so! Lo sa anche lei?», mi chiese. Sorrisi pallidamente e proposi: «Che cos'è Monte Rainier?». Aveva alzato le gambe sotto la gonna: scosse la testa per dirmi che sbagliavo. Poi si voltò a guardare Mike, seduto accanto a lei. «Non ne ho la minima idea, Milady», disse lui restituendole quel suo radioso sorrisone. «Che cos'è il Denali? È questo il nome che ha adesso. Bernie ha finanziato una spedizione sulla vetta l'estate scorsa. A un gruppo ambientalista o qualcosa del genere. Non è stupefacente?» Davvero stupefacente. Ancor più sorprendente era il fatto che Mike si cacciasse la mano in tasca per pagare la scommessa, cosa che non aveva mai fatto con me in tutti gli anni da che giocavamo. Quasi sempre quello che ottenevo erano dei pagherò. Quella dama aveva bisogno del cinquantone di Mike come io avevo bisogno di un altro drink. «Scusi, Graham. Potrei avere un altro drink, per favore... un altro po' di porto?» Graham era appena tornato col bicchiere pieno, che Bernhard attraversò la sala per reclamare il suo meraviglioso tesoro e portarselo di sopra a letto. Mike si alzò in piedi a ricevere i baci della sua duchessa su ciascuna guancia e la promessa, rivolta a entrambi, che ci saremmo rivisti tra non molto a New York. Ringraziammo il signor Karl della sua generosità e riprendemmo posto sui divani di fronte al fuoco, mentre i convegnisti continuavano ad andarsene alla spicciolata. Qualcuno aveva acceso il lettore CD che si trovava in un angolo. Mi giunse la voce di Bette Midler che chiedeva se volevo ballare al chiaro di luna. Raggiunsi la doppia porta che dava sulla terrazza. Qualche ospite era
fuori a passeggiare per godersi l'aria corroborante della notte, sfuggire al fumo dei sigari o allontanarsi dal calore eccessivo del camino. Mi accostai alla balconata e posai il bicchière di cristallo sulla balaustra di pietra che si affacciava sui giardini illuminati dalle stelle, inspirando profondamente per schiarirmi la testa e le idee. Mike mi raggiunse: «Sonno?». «Un'ora fa sì, ma adesso sono un po' tesa.» «Qualche motivo particolare?» «L'indagine, immagino. È strano essere qui, in mezzo a tutta questa eleganza, a tutto questo inutile sfarzo d'altri tempi, mentre c'è qualcuno che sta lavorando al nostro caso di omicidio. Non mi dispiace che ci lavorino, mi chiedo solo a che cosa siano arrivati. Tu credi che sia DuPre?» «Mi conosci. Io penso che siano tutti finché non dimostriamo che è uno.» Adesso, da dentro la grande casa, era una voce maschile che cantava. Tra una frase e l'altra di Mike potevo cogliere le parole della canzone: «When the day...», poi la voce di Mike copriva quella del cantante. «... and the night has come...» E infatti la luna era l'unica cosa che vedevo. «Balli con me?», chiesi. Seguivo da sola la musica, sull'impiantito sconnesso dell'antica struttura, immaginando che donne e uomini dai titoli altisonanti avevano ballato su quella terrazza per secoli. Accompagnavo con la voce quella di Ben E. King, desiderando di avere accanto il mio partner. Chapman mi fissava, col sigaro in mano e incapace di reprimere il sorriso alla vista dei miei ebbri passi di danza a ritmo dello schiocco delle dita. Glielo chiesi di nuovo, con un tono meno ammiccante: «Balla con me, per favore». Lui sembrò esitare ancora: «Ti sto solo chiedendo di ballare, non di...». «Va bene, va bene.» Depose il sigaro, posò il bicchiere accanto al mio e si mosse a tempo con me, che scivolavo seguendo la tenera voce di King. «E allora, stasera con chi sto ballando, con una Villi o con una duchessa?» Non capii: «Che?». «Hai in mente di ballare con me fino alla morte, come la regina delle Villi, o stasera il genere operaio ti sembra più attraente solo perché Lady Turnbull lo ha trovato così eccitante?» «Non vale. Io...» «Shh.» Staccò dalla mia schiena la mano sinistra e si mise il dito sulle
labbra: «Non parlare. Sto cercando di immaginare un modo per farti avere uno di quei diademi. Se solo il fidanzato l'avesse lasciata con me un'altra ora, sarei riuscito a portarglielo via dalla testa a forza di chiacchiere per darlo te. Sai come saresti carina davanti a una giuria, a sostenere una requisitoria con un diadema come quello tra i capelli? Non potresti perdere di sicuro». Era cambiata di nuovo la musica e ora, a ritmo più veloce, Smokey ci diceva che andava à gogo. Continuando a ballare, Mike si portò fino alla balaustra, a riprendere il sigaro. Facendo un po' di controcanto ai Miracles, volteggiai da sola, guardando la gonna che si sollevava, e avvicinandomi a Mike per trovare il mio bicchiere e riempirlo di nuovo di porto. «Io stacco la spina, Blondie. Il bar è chiuso.» «Ma voglio solo fin...» «Vieni su. Domani sarà una giornata lunga e avremo un sacco di cose da recuperare quando torniamo.» Mi aveva preso per il braccio e ora mi conduceva attraverso la biblioteca e la Great Hall. «Non l'hai di certo respinta così, Jennifer, ieri sera, vero?» «Lei regge l'alcol molto meglio di te, piccola. Te la senti di fare le scale o saliamo in ascensore?» Arrivati sotto le tre alte rampe di scale, guardai in su e vidi i gradini scorrere come quelli di una scala mobile: «L'ascensore andrà benone, grazie». La cabina barcollò fino al nostro piano e Mike, passando davanti alle suite che si affacciavano sul corridoio, mi raccomandò di abbassare la voce. Girò la maniglia e mi aprì la porta. Mi diede la camicia che aveva usato durante il giorno e prese la vestaglia che avevo lasciato ai piedi del letto: «Va' in bagno, lavati i denti, prendi un paio di aspirine e preparati ad andare a letto». Quando uscii dal bagno, mi consegnò un foglietto col mio nome che era stato infilato sotto la porta mentre eravamo a cena. L'aprii, gli diedi un'occhiata, poi guardai Mike per capire se l'avesse letto o no: «Ha telefonato il signor Renaud. Prega di richiamarlo a qualsiasi ora lei rientri». Joan doveva avergli spiegato il mio rapporto con Mike, spingendolo a richiamare. «Vuoi che me ne vada?» Scossi la testa: «Aspetterà finché non sono a casa». Stavo cominciando a crollare. «Su, Blondie, a letto.»
La cameriera aveva già preparato le coperte. Tolsi dall'involucro il cioccolatino alla menta che stava sul cuscino, lo misi in bocca e mi infilai sotto le lenzuola. Mentre allungavo la mano per spegnere la luce, Mike si fece avanti e mi baciò sulla fronte. «Sei disgustosamente ubriaca, Coop. Innocua, ma disgustosa.» Dovetti addormentarmi immediatamente, perché non accadde altro che potessi ricordare, finché dalla reception non ci diedero la sveglia, alle otto. Dal pavimento ai piedi del letto di Mike proveniva un rumore. Mi alzai a sedere per guardare, ma c'erano solo i pantaloni del suo completo che si dimenavano e ronzavano, come se in tasca ci fosse un gigantesco calabrone che cercava di scappare. «Buongiorno. A rischio di sentirmi dire che non sono affari miei, posso chiederti che cos'hai nei pantaloni?» «Che vuoi dire?» Dalla faccia, Mike non sembrava stare molto meglio di me. «C'è qualcosa che saltella nei tuoi pantaloni», e indicai il mucchietto che si agitava sul pavimento. «È il mio cercapersone», rise: «Ce l'avevo in tasca, ieri sera. Ma l'avevo regolato sulla funzione vibrazioni in modo che durante la cena non desse fastidio squillando. Ecco perché è così vispo». Scese dal letto, raccolse i pantaloni che si contorcevano, infilò la mano in tasca ed estrasse l'apparecchietto: «È il numero di John Creavey». Chiamò il centralino e chiese la linea. Una breve conversazione col comandante, e poi si rivolse di nuovo a me: «Mercer ha chiamato Creavey perché il cercapersone non funziona, a questa distanza, e dal banco della reception non passano telefonate, durante la notte. «John DuPre è scappato. Se n'è andato dalla città ieri a un'ora imprecisata. Mercer ha requisito della roba nel suo ufficio e gli hanno anche piantonato la casa. La moglie è isterica. Afferma di essere stata lasciata sola con due bambini e senza la minima idea di dove sia suo marito. Facciamo i bagagli. Il resto ce lo racconterà Mercer quando verrà a prenderci all'aeroporto». «Be', è neurologo o no?» «Stai scherzando? Mercer non sa neanche come si chiami veramente. Non si chiama John DuPre, non è medico e sembra che non abbia mai nemmeno fatto medicina all'università. È un artista dell'inganno e un truffatore. E quando scopriremo chi è, può darsi che scopriremo anche il modo di trovarlo.»
Capitolo 26 Erano quasi le cinque quando, dopo ore e ore di ritardo a causa di problemi meccanici, il nostro volo fu annunciato. Annoiati e tesi, salimmo sull'aereo insieme con altri trecento viaggiatori irritati. Trovammo i nostri posti verso la coda dell'aereo, in classe turistica: da questa parte dell'oceano le nostre amicizie non funzionavano. Una volta a bordo, il viaggio si svolse senza avvenimenti degni di nota. Mangiammo, leggemmo e guardammo Mel Gibson far fuori metà della popolazione di Los Angeles nel quinto episodio di una serie di film d'azione. Ripresi conoscenza quando, scesi a quattromila metri di quota, circa venti minuti a est del Kennedy, potei indicare a Chapman una cristallina veduta di Martha's Vineyard, sotto l'estremità dell'ala destra dell'aereo. Puntavamo proprio a sud dell'isola e, dall'alto, gli alberi ancora spogli di quell'inizio di primavera lasciavano vedere distintamente non solo i centri abitati e gli specchi d'acqua, ma anche le fattorie e le abitazioni che mi erano così note. Mike si sporse vicino a me e guardò dal finestrino: «Si vede il Bite? Sono pronto per una seconda porzione di quelle incredibili cozze». Cercai di indicargli dov'era Menemsha, orientandolo sul grande tetto rosso e nero dell'edificio della guardia costiera. «Sei stata a casa tua alla Vineyard da quando...?» Prima che potesse completare la domanda, lo interruppi: «Non ancora». «Sai che dovresti proprio andarci...?» Non volevo interromperlo di nuovo e sapevo bene che da troppo tempo evitavo una situazione difficile, ma non ero riuscita ad affrontare un fine settimana da sola nella mia bellissima vecchia casa di campagna da quando, in autunno, ci ero tornata con Mike nel corso delle indagini sull'assassinio di Isabella Lascar. «Me l'ha chiusa la custode per l'inverno. Tra qualche settimana, quando sarà primavera, tutto sarà più facile. Adesso stanno imbiancando e aspetterò che ci vadano anche Ann e Louise. Finora l'ho evitato, ma adesso sono quasi pronta a tornarci.» L'assistente di volo ci ordinò di allacciare le cinture di sicurezza per l'inizio della manovra d'atterraggio. Non c'era una nuvola in cielo. L'aereo compì un ampio cerchio sull'oceano e io cercai di convincere Mike ad allentare un po' la presa sui braccioli, prima di spaccarli a metà. Quando uscimmo dal portellone anteriore dell'aereo, sulla rampa d'uscita
trovammo Mercer. Un sergente delle autorità aeroportuali gli aveva fatto passare la vigilanza per venirci incontro e così potemmo attraversare la dogana e il controllo passaporti ancora prima che i bagagli arrivassero sul nastro trasportatore. Prendemmo le valigie e andammo in macchina, posteggiata proprio davanti al terminal. L'autostrada era intasata dal traffico del sabato sera, con la gente che percorreva il ponte e il tunnel per andare in città a cena o al cinema, a teatro o allo stadio. Avanzavamo lentamente, e Mercer teneva in serbo quel che aveva da raccontare per quando ci saremmo seduti a tavola e avrebbe potuto aggiornarci con calma sulle novità. Quando arrivammo al Triboro Bridge, usai il telefono di bordo per chiamare Giuliano, alla Primula. Erano quasi le sette e gli dissi che saremmo arrivati in una ventina di minuti: «Ce l'hai un tavolo d'angolo servito da Adolfo, per noi tre?». Ordinammo alla svelta per poter passare subito al lavoro. Per me, una stracciatella e una piccola porzione di pasta che mi andasse giù per la gola senza troppo sforzo. Sia Mike che Mercer optarono per una scaloppina di vitello. Quando Adolfo portò il primo giro di aperitivi, Mercer comunicò: «Ecco quello che sappiamo finora. Il nostro fuggitivo si è affacciato alla vita in un paesino fuori New Orleans. Si chiama Jean DuPuy... creoli di origine francese, immagino. Ha preso il diploma di scuola media superiore, poi ha preso la laurea breve in farmacologia. Nel suo curriculum scolastico quello è il titolo più prossimo alla medicina. Ma sono più di dieci anni che recita la parte del medico. Non si sa come, ha scoperto l'esistenza del vero DuPre, che ormai è una specie di eremita. Ha novantaquattro anni. Quasi tutti credevano che fosse morto. In parte, conoscete già la sua truffa. Scrive a Tulane affermando che il suo certificato di laurea è andato distrutto in un incendio. Manda dieci dollari per avere il duplicato, dando il nome e l'indirizzo di una casella postale. Loro sono ben lieti di fornire a uno dei loro benemeriti tutto quello che desidera. Poi, il nostro impostore comincia da questo inestimabile pezzo di carta - di cui fa alcune fotocopie - e da un po' di carta da lettere intestata falsa, per scrivere ad associazioni mediche e riviste specializzate. E prima che si possa dire "Jefferson Davis", eccolo in possesso di un intero dossier di credenziali a nome del dottor John DuPre». «Hai parlato con qualcuno che lo conosce da prima che venisse a New York?» «Proprio oggi pomeriggio. Una volta ottenuti i documenti, DuPuy ha fatto domanda in varie cliniche del sud, facendo carriera - ed esperienza, na-
turalmente - fino a raggiungere posizioni migliori presso centri ospedalieri.» «E di lui che cosa dicono?» «Due dei neurologi con cui ha collaborato mi hanno detto che si comportava da vero professionista. Sono tra i tanti che gli hanno fornito brillanti referenze quando lui ha cominciato a progettare di trasferirsi a New York. I pazienti e le pazienti, poi, erano incantati dai suoi modi.» Basta chiederlo a Maureen, pensai tra me. O almeno, questo è quanto aveva detto i primi giorni. «Sembra che abbia cominciato quando ha perso la licenza di farmacista in seguito a una frode ai danni dell'assistenza sanitaria pubblica. Il pubblico ministero della procura generale della Louisiana mi ha detto che quando lo hanno sottoposto a inchiesta per quel reato, all'inizio degli anni Ottanta, tutti i medici della zona sono rimasti sorpresi. Lo chiamavano dottore per quanto sembrava competente nella professione. Un vero incantatore. È stato allora che si è trasferito in Georgia e ha cominciato una vita nuova come DuPre.» «Hai avuto riscontri circa la querela della quale ci aveva parlato?», gli chiesi tra una cucchiaiata e l'altra della stracciatella bollente. «Già, la causa per negligenza professionale. Il poveretto era un paziente di trent'anni. È andato a farsi visitare da DuP..., be', chiunque sia. Gli descrive i sintomi, che erano...» Mercer aprì il taccuino e guardò gli appunti: «Lamentava improvvisa perdita di peso, sete insaziabile, labbra e bocca secca e capogiri. Quel ciarlatano ordina le analisi del sangue, riempie una fiala di urina, ma non fa altro che dire al paziente di stare a casa a riposo. Le medicine prescritte erano per le vertigini. Quarantott'ore dopo, un'amica trova il poveretto a casa sua... morto». «Come mai?» «I sintomi che il paziente presentava, dottor Chapman, erano segni inconfondibili di un diabete non diagnosticato. Qualsiasi matricola di medicina l'avrebbe capito al volo. Quel pagliaccio non se n'è affatto accorto e il fiducioso paziente, appena uscito dallo studio, è caduto in coma diabetico. Una morte perfettamente evitabile. «Per cui questo lo allontana dalla piccola cittadina nei dintorni di Atlanta, e che cosa c'è di meglio che andare nella grande città? Otto milioni di storie diverse, qui, e nessuno avrebbe badato alla sua.» «Adesso dobbiamo scoprire se ieri ha lasciato davvero New York o si sta ancora aggirando da queste parti.»
«Abbiamo un aggiornamento anche su questo.» Mercer stava affondando il coltello nella scaloppina più grande e più tenera che io avessi mai visto: «Ho sentito la Omicidi mentre ero all'aeroporto ad aspettarvi. Le tracce lasciate dalle carte di credito dell'American Express e della Visa ci hanno permesso di ricostruire il tragitto della fuga, apparentemente diretta di nuovo a sud. C'è qualcuno che sta usando le carte di un uomo di ottantotto anni, Tyrone Perkins: noleggio auto nel Bronx, benzina sulla Jersey Turnpike, motel ieri sera in Sud Carolina». «Di quando è la denuncia del furto delle carte di credito?» «Non c'è stata... ancora.» «Allora non vedo...» «Entrambe le società hanno telefonato a casa del titolare, perché le carte registravano una ripresa frenetica dei prelievi dopo un lungo periodo di fermo. Il fatto è che la nipote di Tyrone dice che da sette mesi lo zio è tenuto in vita artificialmente in ospedale, per cui non se ne va di certo in giro con la sua carta di credito.» Mike puntò la forchetta in direzione di Mercer: «E se dovessi tirare a indovinare, scommetterei che Tyrone è inchiodato a quegli apparecchi proprio al Mid-Manhattan». «Oggi pomeriggio il tenente ha fatto controllare l'armadietto in cui vengono custoditi gli oggetti di valore dei pazienti in terapia intensiva. A quanto pare, da qualche giorno gli oggetti personali del signor Perkins sono fuori posto. In questo modo, noi abbiamo una traccia da seguire attraverso tutto il paese, per motel, ristoranti e negozi, finché non mettiamo le mani addosso a quell'imbroglione.» «È successo altro all'ospedale, mentre noi non c'eravamo?» «Be', ci sono andato ieri pomeriggio. Io dico che, a cominciare da lunedì mattina, dobbiamo portarci giù in procura tutti quei tipi e reinterrogarli. Chiunque sia stato, chi ti ha messo quel biglietto sotto la porta - quello che parlava di bianco e nero - cercava di puntare il dito su DuPre, se è a questo che si riferiva. E lo ha fatto perché sapeva che era colpevole di omicidio? O solo perché sapeva che era un truffatore? Oppure semplicemente perché voleva sviare l'attenzione da se stesso?» «Sono d'accordo con Mercer. Smettiamola di concedere un trattamento speciale a quelle persone e di incontrarle sul loro terreno. Sono normali testimoni, come in qualsiasi altro caso. Chi hai visto, ieri?» «Ho voluto evitare l'amministrazione, andando direttamente nell'ufficio di Spector. Ma appena ho messo piede nell'atrio qualcuno deve aver dato
l'allarme, perché un minuto dopo essere arrivato alla reception del sesto piano mi sono trovato Dietrich alle calcagna.» Ricordai a Mike che dovevamo aggiornare Mercer su quel che aveva detto Dogen del portachiavi scomparso. «Dobbiamo chiedere a Dietrich quando, esattamente, Gemma gli ha dato quello che ha addosso lui.» «Già, e magari farci dire quante altre persone ci sono in ospedale, alle quali lei ne ha regalato uno. Non sono sicuro che sia una strada granché fruttuosa. Non abbiamo idea di quando sia stata l'ultima volta che quel portachiavi era appeso allo scaffale. Hai poi parlato con Spector?» «Certo. Quando entro al Minuit, tutto il branco mi saluta come se fossi un possibile oggetto di intervento al cervello: si fregano le mani e si comportano come se fossero contenti di vedermi lì. Spector era in ufficio con Coleman Harper e Banswar Desai. Desai uggiola ancora come se avesse perso la sua migliore amica e Harper ha cacciato la lingua tanto su per il culo del capo che un giorno o l'altro diventerà più nera della mia.» «Collaborano?» «Nessun problema, quanto a questo. Volevo solo capire se avessero qualche idea su DuPre. A quanto pare, nessuno di loro sapeva che se l'era data a gambe, per cui io non gliel'ho detto. Spector è occupatissimo a fare il suo lavoro e a essere unto successore di Gemma. È davvero umile, adesso, come se avere quel posto fosse per lui una grande sorpresa.» Appena avemmo saldato il conto con Adolfo, il proprietario venne a offrirci un digestivo. Mike era già in piedi e mi stava aiutando ad alzarmi: «Lo sai, Giuliano, almeno una volta mi piacerebbe che mi offrissi da bere prima di cena. Tu sei sempre pronto a farlo quando Blondie mi sta portando via. La prossima volta, eh?» «Buona notte. È stato un piacere avervi rivisti... signorina Cooper, signori.» «Ciao, Giuliano.» Tornammo alla macchina di Mercer per fare il breve tragitto che mi divideva da casa. «Programmi, ragazzi?» «Domani non ci sono», rispose Mercer: «A meno che dai dipartimenti di polizia fuori città non ci arrivi la segnalazione che hanno preso Jean DuPuy. In questo caso il tenente mi telefonerà. Insiste perché me ne stia a casa, per via di tutti gli straordinari che ho già accumulato in questa indagine».
«Io ho promesso a mia madre che mi fermerò da lei per portarla a messa, domattina.» «Allora, perché non ci vediamo da me in ufficio, lunedì?», dissi. «Domani ripasso di nuovo tutti i rapporti e fisso un programma di interrogatori per la settimana. Possiamo infilarli tra un giro e l'altro dei vostri, va bene?» Il portiere uscì per aprirmi lo sportello e aiutarmi a portare il bagaglio in ascensore. «Vuoi che venga su con te a controllare che non ci sia nessuno sotto il letto, Ricciolidoro?» «No, grazie. Mi raccomando, racconta a tua madre la conquista della duchessa. Sarà molto fiera di te.» «Ehi, se stanotte ti suona alla porta DuPuy per farti una visita a domicilio e un prelievo di sangue, non farlo entrare, capito?» Capitolo 27 Assaporai la solitudine del mio appartamento in una piovosa domenica mattina, leggendo il «Times» e risolvendo il cruciverba. La segreteria telefonica era carica di messaggi di amici, ma non avevo intenzione di richiamarli prima del tardo pomeriggio. Avevo disfatto la valigia e non avevo altro da fare che organizzare i miei appunti e i rapporti di polizia per la settimana entrante. Mercer mi telefonò nel bel mezzo di uno spuntino a base di ciambelle riscaldate: «Ehi, Alex, sono io. Due cose, in una delle quali forse mi puoi aiutare». «Spara. Sembra che chiami da un altro pianeta!» «Sto usando un telefonino, sono nel Connecticut. Sono venuto qui a casa di mio cugino per una festicciola tra parenti. Mi sono quasi dimenticato di tutto. La prima cosa è: mi ha cercato la polizia di un posticino in Pennsylvania, Bluebell, per l'esattezza. A quanto pare DuPuy ha fatto un'inversione a U dalle parti del confine tra Pennsylvania e Maryland, sai, proprio sulla linea MasonDixon. Ritorna a nord. Il capo della polizia è tanto preoccupato che ha trasferito di nuovo Maureen in un altro posto, per precauzione. Pensano tutti che da un momento all'altro quello cominci a usare una nuova carta di credito e una nuova identità. La compra, la ruba, la sottrae, in qualche modo fa. È sorprendente che siamo riusciti a seguirlo così a lungo grazie alle carte di credito di Perkins.» «Magari sta tornando indietro a prendere moglie e figli.» «Be', sei molto
generosa a pensare questo di quel farabutto, ma è una delle ipotesi. Il telefono della moglie è sotto controllo e il tenente ha messo una pattuglia lì davanti fin da quando abbiamo saputo che era scappato. E questo porta alla domanda che ti volevo fare. Peterson mi ha chiesto se avevamo fatto un inventario degli schedari nell'ufficio e nell'appartamento della Dogen. Gli ho detto che io e te avevamo preso degli appunti, ma molto generici. Almeno, i miei riguardavano le tematiche principali, non i nomi dei singoli fascicoli. Vuole sapere se aveva un fascicolo su John DuPre. E francamente io non me lo ricordo. Tu, ne sai niente?» «Aspetta un momento. Posso guardare nel mio materiale e controllare subito. Così, a memoria, so di aver elencato anch'io le tematiche, ma non mi ricordo di aver visto nomi di persone.» Stavo cercando di visualizzare le risme di documenti su cui avevamo messo mano quel pomeriggio, e di ricordare se in quel momento il nome del neurologo avesse già qualche significato per me. «Non è tanto importante. Ho provato a cercare George Zotos, ma è su al nord, a pesca, con alcuni suoi amici della vecchia squadra Omicidi. Ne aveva visti moltissimi anche lui, quel giorno...» «Dammi solo un minuto e...» «Può andar bene anche nei prossimi giorni. Posso assicurarti che il capo McGraw non mi farà fare straordinari a meno che non ci sia una svolta clamorosa.» Il ricorso agli straordinari era un tabù per i vertici del dipartimento di polizia di New York, dato che la relativa retribuzione per un ispettore di secondo grado era salatissima. «Okay. Divertiti.» Riattaccai, riempii di nuovo la tazza di caffè e la portai in camera da letto, per berla mentre facevo la doccia e mi vestivo. Pensai di andare a trascorrere un'oretta alla Frick Collection, lì a due passi e, per non sfigurare tra la folla di visitatori d'arte della domenica, indossai un vecchio maglione di cachemire - a coste inglesi giallo chiaro - su un paio di fuseaux di velluto. Mi versai ancora un sorso di caffè e sedetti al tavolo da pranzo a ripassare gli appunti buttati giù durante il colloquio con Geoffrey Dogen. Mi seccava che il tenente Peterson facesse domande alle quali non sapevo rispondere a proposito degli schedari di casa della dottoressa, soprattutto perché ero stata io stessa a offrirmi di andare lì, alla ricerca di informazioni che potessero essere utili all'indagine. Ancor più mi seccava il fatto di non riuscire a stabilire nessun rapporto tra i nomi di alcuni fascicoli e i fatti che
gli amici di Gemma non riuscivano a far quadrare con la sua vita. Non avevo modo di entrare nell'ufficio della Dogen al Minuit senza mettere in allarme gli amministratori, ma le chiavi dell'appartamento di Gemma erano ancora sul mio comodino, fin dal pomeriggio in cui, quasi dieci giorni prima, Mercer mi aveva portato là. Mi ero dimenticata di restituirgliele e nessuno le aveva reclamate a nome della defunta. L'affitto era pagato sino alla fine del mese, e Geoffrey Dogen aveva dato istruzioni di donare gli abiti della ex moglie a un negozio di roba usata, e di spedire tutto il resto delle sue cose in Inghilterra, perché fossero distribuite tra gli amici e i parenti. Andai in camera da letto a telefonare a un paio di amiche per convincerle a venire con me alla Frick. Era una specie di test per decidere se bighellonare per qualche ora fuori di casa o fare qualcosa di utile per l'indagine, dedicando un po' di tempo all'archivio della Dogen. Mentre facevo a memoria i numeri, presi la miniatura del Tower Bridge e giocherellai con le chiavi. Il marito di Lesley Latham mi disse che la moglie era a Houston per lavoro, e Esther Newton stava uscendo per andare alla partita di hockey al Madison Square Garden. Se fossi andata a Beekman Place a raccogliere informazioni sull'archivio della Dogen, mi dissi, verso il tardo pomeriggio mi sarei meritata una visita al museo - a vedere la mostra in corso e a comprare qualche cartolina per Nina - e una cioccolata calda prima di rientrare a casa. Lasciai un messaggio alla segreteria telefonica di David Mitchell per dirgli che ero tornata da Londra e chiedergli se quella sera lui e Renee volevano venire da me a vedere «60 Minuti». Poi chiamai Mike e lasciai detto alla sua segreteria telefonica le notizie che mi aveva fornito Mercer sull'inversione di rotta di DuPre. Ancora indecisa sulla direzione da prendere, infilai nella borsa un taccuino nuovo e il mazzo di chiavi, e indossai l'impermeabile rosso col cappuccio. Il museo era solo a quattro isolati di distanza, ma mentre ero all'angolo della Park Avenue, a congelare in attesa del verde per attraversare, proprio davanti a me un signore in impermeabile verde scese da un taxi, e il cambiamento di meta venne da sé. Il taxi mi scaricò all'ingresso del palazzo della Dogen. Nell'atrio vidi un solo portiere. Sorrisi e mi avvicinai per spiegargli cos'ero venuta a fare, ma lui alzò a malapena gli occhi dall'inserto domenicale di fumetti del «Daily News», per cui proseguii e presi l'ascensore per il dodicesimo piano. Come mi aspettavo, la sensazione di nervosismo, che avevo avvertito
quando ero andata la prima volta in quell'appartamento con Mercer, si ripresentò. Questa volta a inquietarmi era proprio il trovarmi da sola in mezzo ai ricordi e agli oggetti personali della morta, che sembravano non avere più significato né valore per nessuno, eredi o conoscenti. Che destino bizzarro, per una vita così interessante, svanire nella disattenzione e nell'indifferenza. Le due serrature si aprirono facilmente. Anche questa volta fui colta alla sprovvista da un rumore alle mie spalle, ma lo attribuii al rimbombo della porta che si richiudeva dietro di me. Mi vennero in mente William Dietrich e le altre persone che potevano avere ancora le chiavi di Gemma, per cui, prima di buttare l'impermeabile sullo schienale di una poltrona, richiusi a chiave e agganciai la catena di sicurezza. Le cose erano più o meno come le avevo lasciate dopo la mia prima visita. Sapevo che da allora gli investigatori avevano fatto avanti e indietro in varie occasioni su ordine del tenente, ma se l'amministratore o gli agenti immobiliari avessero sottratto qualche oggetto di proprietà di Gemma, difficilmente me ne sarei accorta. Dedicai qualche minuto a passare da un locale all'altro, cercando di notare eventuali differenze, ma ne trovai poche. Sul comodino non c'era più il libro sulle lesioni alla colonna vertebrale e l'anta dell'armadio in camera da letto era stata lasciata aperta, rivelando l'interno vuoto. Misi il dito sull'orlo arricciato di un bigliettino adesivo che qualcuno aveva appiccicato sul legno dell'armadio, e sul quale c'era una freccia che puntava verso il basso e una scritta: «Consegnare al robivecchi dell'ospedale, nella 3a Avenue». Tornata in salotto, guardai con rinnovato interesse le fotografie. Ora riuscivo a individuare i volti di Geoffrey Dogen, di Gig Babson, di vari colleghi del Minuit e i paesaggi londinesi preferiti da Gemma. Libri e CD erano ancora al loro posto, ma qualcuno si era portato via il lettore e il televisore che avevo visto l'altra volta. Presi il taccuino e mi feci un promemoria per scoprire se quella rimozione fosse stata autorizzata o no: un problema tipico che si presenta sulla scena del delitto quando non ci sono familiari a controllare. Sulla scrivania c'era una radiosveglia, che accesi su una stazione di musica classica per riempire quel luogo con qualcosa di diverso dalla silenziosa immobilità che vi gravava. Quelli dell'appartamento accanto dovevano essere più duri d'orecchio della mia povera nonna, visto che il rumore della loro televisione rimbombava attraverso il muro, con le voci stridule dei conduttori delle televendite. Quella era la giornata delle porcellane e i
prezzi, naturalmente, calavano a ritmo vertiginoso. Di sicuro, i vicini non mi avevano sentita accendere la radiolina di Gemma. Mi sedetti allo stesso posto dove avevo lavorato il giorno che Mercer e io avevamo provato a catalogare le proprietà di Gemma. Mi ricordavo di aver notato la mancanza di logica di certi fascicoli, ma c'erano troppi armadietti per riconoscere quelli che mi erano balzati agli occhi in quell'occasione. A caso, aprii dei cassetti e cominciai a scorrere le etichette, alla ricerca di nomi divenuti più familiari in seguito ai colloqui con i dipendenti dell'ospedale e alla direzione che aveva preso l'indagine. Mi interessavano le informazioni che la Dogen poteva avere sulle persone che avevo interrogato dopo di allora, ma soprattutto volevo fare contento il tenente Peterson recuperando ciò che Gemma poteva eventualmente sapere di Jean DuPuy. Una prima ricerca, centimetro per centimetro, non mi portò a nulla, se non a referti medici e ritagli di riviste specializzate riguardanti le lesioni al cervello e le tecniche chirurgiche. Controllai i miei appunti e individuai il terzo cassetto da sinistra, con una serie di fascicoli catalogati come «Etica professionale». Ne presi alcuni e li posai sulla scrivania per cominciare a sfogliarli. Alcuni risalivano a parecchi anni addietro, quasi ai primissimi tempi in cui la Dogen era al Minuit, e nessuno dei nomi citati aveva nulla a che fare con i dipendenti e gli studenti attuali. Con un evidenziatore rosso, la dottoressa aveva annotato, in margine ai documenti accademici ufficiali, i propri commenti sull'adeguatezza di un candidato o la propria opinione sulla sua idoneità a partecipare al corso. Spinsi da parte la pila di carte e tomai a prendere un fascicolo più recente sullo stesso argomento. Lo sparpagliai sul sottomano e cominciai dal fondo. Verso la metà, i titoli cambiavano e mi resi conto che si passava dalle cartellette sull'etica alle documentazioni personali. Le etichette portavano nomi di squadre sportive scritti a mano da Gemma. In un unico fascio, tenute insieme da una graffetta, c'erano le squadre di baseball dei Saints di New Orleans, dei Braves di Atlanta e dei Redskins di Washington. Aprii le tre cartellette e i criteri di archiviazione di Gemma mi apparvero finalmente chiari. Quello era il fascicolo su John DuPre, e il nome della squadra indicava la città dove si trovava l'istituzione accademica o il punto di riferimento professionale: la facoltà di medicina di Tulane era a New Orleans, l'esercizio della professione e la causa legale avevano avuto luogo ad Atlanta, e Georgetown, dove affermava di aver preso il di-
ploma, era nel distretto di Washington. In un certo senso, Gemma aveva immaginato che le informazioni che andava raccogliendo sarebbero state meno ovvie e meno appetitose per un eventuale ficcanaso, se le avesse catalogate sotto il nome di un'attività sportiva. Pensai alla riunione durante la quale ci era stato detto che uno dei poliziotti del 17° distretto aveva trovato cartellette d'archivio vuote, con etichette analoghe, in un bidone dell'immondizia, nel parcheggio dell'ospedale. Forse questo era il duplicato che la Dogen teneva a casa, dove aveva maggiori garanzie di riservatezza. La scoperta mi eccitò. Feci il numero di Chapman, ma ancora non c'era. Gli lasciai detto di telefonarmi, se rientrava entro un'ora, e lessi il numero di Gemma sulla targhetta attaccata all'apparecchio. Poi chiamai il cercapersone di Mercer e, in attesa che mi richiamasse, tornai a cincischiare nei cassetti, alla ricerca di altre cose simili ai documenti di John DuPre. «Chi parla?», chiese Mercer quando alzai il ricevitore. «Alex.» «Dove sei? Non ho riconosciuto il numero.» «Nell'appartamento di Gemma. Peterson ci coprirà di baci quando gli diremo quello che ho trovato qui.» «Ti cedo l'onore, Coop. Non è esattamente il tipo di premio a cui aspiro.» Cominciai a spiegare che cosa avevo trovato e che continuavo a cercare altre informazioni: «A che ora torni in città?». «Dillo tu.» «Che ne dici se prendessi una bracciata di questi documenti e mi fermassi al supermercato di Grace a comprare qualcosa che voi ragazzi potreste prepararmi per cena, in modo da cominciare la settimana con le medaglie?» «Che ore sono, adesso? Le due e mezza: fa' conto che sarò lì per le sette.» «Ottimo. Sto ancora cercando quel fascicolo che abbiamo visto quando eravamo qui insieme. Portava l'etichetta "Partite Met". Ti ricordi? Io ho osservato che era fuori posto e che Laura l'avrebbe archiviato meglio. Solo che adesso non riesco a ricordarmi tra quali fascicoli fosse infilato. Deve avere a che fare con delle rivelazioni compromettenti, dato che Gemma non è mai stata a una partita in vita sua.» «Era vicino a una cosa tipo "Degenerati'': ecco perché mi è rimasto impresso.»
«Quello riguarda l'ufficio Reati Sessuali, Mercer. I degenerati li abbiamo noi, la medicina ha i "Tessuti rigenerativi". Lo sapevo che te lo saresti ricordato.» «Va' a cercarlo. Resto in linea.» Appoggiai il ricevitore sulla scrivania, esaminai gli appunti e trovai il riferimento al cassetto che conteneva sia una serie sull'etica che un'altra su argomenti medici specifici, come i tessuti. Lo aprii e, pigiata tra l'una e l'altra serie, vidi una cartelletta verde con i documenti che cercavo. Tenendo il telefono con la spalla, la aprii e presi un sostanzioso fascio di carte: «Bel colpo, Mercer. "Partite Met", a quanto pare, è tutto su Coleman Harper. Questa roba risale a parecchio tempo prima degli archivi di Dietrich. Sono appunti presi dalla Dogen fin dal primo anno che era al Minuit. Harper stava finendo l'internato, proprio come ha raccontato a noi. Solo che questi documenti chiariscono che fu Gemma a silurarlo, impedendogli di restare al Mid-Manhattan e di partecipare al corso di specializzazione in neurochirurgia. Spector lo tenne parcheggiato al Metropolitan Hospital intanto che cercava di appellarsi contro quella bocciatura». Sfogliai qualche documento: «"Partite Met" è ovvio. Spector cercava tifosi che scendessero in campo per il suo Harper e la Dogen gli si era messa alle calcagna per sorvegliare ogni sua mossa. C'è troppa roba per scartabellarla adesso, ma a quanto sembra la Dogen ha documentato ogni errore compiuto da Harper da dieci anni a questa parte... e sono un bel po'». «Tipo?» «Alcune cose le ha cerchiate in rosso: uno del Met non era contento delle capacità tecniche di Harper in sala operatoria, un altro si lamentava con Spector, che Harper aveva conoscenze mediche di base insufficienti. È chiaro che non lo avrebbero tenuto neppure lì.» Osservai la meticolosa calligrafia della Dogen in margine ai documenti: «Dagli appunti della dottoressa sembra che Harper sapesse qualcosa su Spector: qualche segreto sulla sua vita privata. O almeno: questo è il motivo per cui, secondo lei, Spector sosteneva l'ammissione di Harper alla specializzazione, anche se era evidente che non ne aveva le capacità e che non lo avrebbe fatto al Minuit». «Un bel bottino.» «Sentì, questa roba me la porto via. E penso che tornando a casa passerò dal Minuit. Ho con me il distintivo, e forse la vigilanza mi farà entrare nell'ufficio di Gemma. Così potrò esaminare i fascicoli che sono lì prima che Spector gli piombi addosso, durante la settimana.»
«No. È un N-O maiuscolo, serio, enfatico, stile Battaglia. Non possiamo sapere chi c'è in giro di domenica pomeriggio, là, e in chi vai a imbatterti. Ricordati che c'è ancora un pazzo che va in giro senza controllo. Chissà che DuPre non abbia lasciato qualcosa in ospedale e stia tornando a prenderlo.» «Mercer, di domenica non si entra a meno che non ci sia uno della vigilanza ad aprire. Non mi pare un gran rischio, in pieno giorno...» «No, chiaro? Prima di tutto, un paio di settimane fa in quella stanza è stata uccisa una donna, ricordi? Secondo, non sappiamo di chi ci si può fidare in quell'ospedale, vero? Va' direttamente a casa, non passare col rosso, non fare un prelievo di duecento dollari e, soprattutto, non fermarti al Minuit. Mi hai capito?» «E se Mike tornasse e mi venisse incontro lì?» «Ma sei proprio testarda.» «Andrà tutto bene, Mercer. Arrivederci.» Non volevo mentirgli dicendogli che non sarei andata al Mid-Manhattan. Ero solo a un paio di isolati di distanza e, ora che sapevo che cosa cercare, ero ansiosa di verificare i documenti nell'ufficio della Dogen. Potevo far mettere sotto sorveglianza l'appartamento quella sera stessa, in modo che non entrasse nessuno, anche se in possesso delle chiavi. Ma, a meno di non agire rapidamente, sulla situazione alla clinica medica avevamo un controllo minore, nel caso qualcuno volesse ripulire l'archivio della dottoressa. Raccolsi i fascicoli, spensi la radio e attraversai la stanza per prendere il soprabito. Al quindici aprile mancavano soltanto quindici giorni e ancora una volta Coleman Harper era in attesa della decisione sulla sua ammissione a neurochirurgia. Mi chiedevo se la determinazione della Dogen di non confermare le proprie dimissioni al consiglio di amministrazione del Minuit fosse legata alla lotta decennale per escludere Harper dal corso. Quanto era ansioso di essere ammesso, il dottore? E c'erano altri candidati che Gemma aveva contrastato allo stesso modo, documentandosi sui precedenti? I suoi ferrei principi avevano procurato alla Dogen un sacco di nemici e sapevo quanto fosse forte, spesso, il movente della vendetta. Allungai la mano per sganciare la catena di sicurezza della porta. Dietro le mie spalle, a sinistra, ci fu un movimento fulmineo che mi prese alla sprovvista e, nell'istante in cui giravo la testa per vedere che cosa fosse, mi trovai sbattuta nell'angolo tra il muro e lo stipite della porta. Un pugno mi colpì alla nuca tanto forte da accecarmi, e lasciai cadere per terra tutto quello che tenevo tra le braccia, urlando di dolore. Un secondo colpo mi
arrivò sulle nocche delle dita, che avevo portato istintivamente dietro la testa per proteggermi. La fronte andò di nuovo a sbattere contro lo stipite, mentre agitavo le braccia dietro di me colpendo furiosamente il corpo che mi premeva la schiena. Mi appoggiai al muro e mi voltai per affrontare il mio aggressore, nella speranza di poter ragionare con lui guardandolo in faccia. Ma i piedi scivolarono sulle copertine lucide delle dozzine di cartellette che mi erano cadute spargendosi sul pavimento. Nel ruotare su me stessa, la gamba sinistra cedette, e caddi su un ginocchio: alzai la testa e vidi Coleman Harper picchiare il pugno sul muro nel punto in cui, fino a un istante prima, si trovava la mia faccia. Gli gridai di smetterla, ma lui mi spinse sulla schiena e si mise sopra di me a gambe larghe, bloccandomi una gamba sotto il corpo e inchiodandomi le spalle al suolo. Per soffocare le mie grida mi ficcò in bocca qualcosa di maleodorante, come una calza sporca. Mi comprimeva l'addome col ginocchio, tenendomi la gola con la sinistra e cercando di immobilizzarmi entrambi i polsi con la destra, e intanto girava furiosamente gli occhi intorno. Sembrava cercare un oggetto da adoperare come arma, senza ancora aver deciso che cosa. Sapevo che probabilmente mi sarei potuta liberare della presa, ma la fronte mi faceva un male terribile e cercavo di conservare tutte le mie poche energie per contrastare ogni possibile mossa successiva. Senza scampo. Con la mente passavo rapidamente in rassegna i modi per difendermi da qualsiasi aggeggio mi avesse rivolto contro. La sola persona che sapeva dove fossi, Mercer Wallace, si trovava a ore di distanza da lì, senza la minima idea che io fossi in pericolo. Non c'era nessuno che mi potesse proteggere da Coleman Harper, se non io stessa. Osservai l'espressione che gli compariva sul viso nel passare lo sguardo da uno scaffale all'altro, valutando mentalmente quanto mortali potessero essere gli oggetti che vedeva. Pregai che non avesse visto il set di costosissimi coltelli da cucina che avevo notato nella stanza accanto, la prima volta che ero venuta nell'appartamento con Mercer. Tra me e me imploravo i vicini di spegnere quel televisore a tutto volume, invece di stiparsi la casa con il ciarpame offerto dal venditore. Volevo che sentissero il rumore della lotta, che sapevo destinata ad aggravarsi. Dalla mia posizione contorta sul pavimento, potevo vedere l'armadio guardaroba in cui Harper si era nascosto al mio arrivo. Anche quello era
stato senza dubbio svuotato del contenuto, da consegnare al negozio di roba usata, fornendogli il nascondiglio ideale, mentre io perquisivo gli archivi e finché me ne fossi andata. Se solo non avessi telefonato a Mercer per vantarmi della mia scoperta. Magari Harper mi avrebbe lasciata uscire da lì. Resta calma, cercai di dire a me stessa. Non è armato, perché non è venuto qui per uccidere. Non si aspettava né me né nessun altro in casa di Gemma. Non è come quando è andato da lei in ufficio, con l'intenzione di ripagarla per avergli rovinato la carriera che desiderava. Chiusi gli occhi è desiderai con tutte le mie forze e la mia fede di ritrovarmi fuori dalla porta. Ma quando il dottore parlò, li riaprii e mi ritrovai ancora nel pieno di quell'incubo. «Alzati.» Aveva la voce dura, adesso, non tremante come la sera in cui avevo parlato con lui della morte di Gemma. Mi trascinò con sé, ma la morbida lana del collo del maglione, allungandosi e deformandosi, non gli offriva presa. Allora mi afferrò per i capelli. Cercai di risputare dalla bocca la calza di lana in modo da implorarlo di lasciarmi andar via, ma, appena si accorse che tossivo per liberarmene, la rispinse dentro a forza. Non mi stava portando in cucina. Tirai un temporaneo sospiro di sollievo. In un lampo, mi attraversarono la mente le immagini del cadavere accoltellato di Gemma, e fui quasi contenta che mi stesse trascinando verso la finestra. Ora mi sospingeva da dietro, tenendomi le mani e le braccia incrociate dietro la schiena. Quando fummo vicini alla scrivania, mi lasciò una mano e vidi che allungava un braccio per prendere il telefono. Sapevo bene che non aveva intenzione di telefonare. Voleva avvolgermi il filo attorno al collo. Senza scampo. Aspettai che Harper stendesse tutto il braccio attraverso la scrivania per staccare il filo dalla presa a muro, poi, piegandomi di scatto in avanti, tirai un calcio di sinistro all'indietro, cercando di colpirlo al ginocchio con il tacco del mocassino. Dovetti andare vicino al bersaglio, perché barcollò e imprecò. Però non aveva perso l'equilibrio, come avevo sperato, e si voltò verso di me infuriato: all'estremità del filo liberato dal muro, ondeggiava il pesante apparecchio telefonico. Avevo ormai esaurito tutte le mie preghiere e non sapevo più quali recitare, tra me, di ancor più pressanti. Sapevo solo che non volevo ritrovarmi
quel cordone stretto intorno al collo. Avevo avuto dei processi per casi di strangolamento da corda, e sapevo bene quanto fosse lento e atroce morire così. Avevo la testa girata dall'altra parte e potevo vedere i movimenti di Harper soltanto con la coda dell'occhio. Era impegnato a tirare l'estremità libera del filo che, dalla base del telefono, attraverso la scrivania, arrivava fino al battiscopa, e quando finalmente l'ebbe afferrata mi sollevò il cordone sulla testa, che agitavo furiosamente. Liberai la destra dalla sua presa e la portai alla gola per difenderla. Lui, per stringermi il cordone all'altezza della trachea, lasciò anche la sinistra e io infilai le dita tra quell'arma micidiale e la pelle della gola che rabbrividiva. Tienile lì, continuavo a ordinarmi freneticamente. Non permettere a quel cordone di stringersi intorno al collo. Mi dondolai avanti e indietro, tirando calci ogni tanto e dando strattoni per allentare la stretta del filo, mentre Harper cercava un posto a cui ancorare l'apparecchio telefonico in modo da potermelo stringere facilmente attorno al collo. Nel cervello ripresero a scorrere carrellate di immagini. In primo piano si affacciavano pensieri casuali e io lottavo per respingerli. Quando comparvero le immagini di mia madre e mio padre, scossi ancor più violentemente la testa per scacciarli, non volendo che assistessero a quella scena. Mercer e Mike: ecco chi volevo che fosse lì a vedere e a salvarmi. Harper stava cercando di allontanarmi dagli scaffali, e io cercai qualcosa a cui aggrapparmi per restare lì, lontano da dove voleva portarmi lui, dovunque fosse. Continuavo a tenere viva dentro di me la voce di Chapman. A quel punto mi venne in mente che la scena aveva qualcosa di familiare. Mi faceva quasi venire il capogiro il pensiero di come avrebbe reagito Chapman al ritrovamento del mio corpo. Continuai a divincolarmi, pensando a Grace Kelly aggredita dall'assassino in Delitto perfetto. Sarei stata strangolata alle spalle, proprio come capitava a lei in quel film, e Mike avrebbe detto agli agenti in uniforme quanto gli piaceva lì l'attrice... mentre loro infilavano il mio cadavere in un sacco. Il tagliacarte. Cercavo di impedire ad Harper di togliermi il braccio da sotto il cordone del telefono per completare l'opera, e intanto i miei occhi perlustravano la superficie della scrivania di Gemma alla ricerca di un tagliacarte o di un paio di forbici appuntite, ma non c'era nulla. Dai, mi dicevano le voci. Grace Kelly ce l'ha fatta. Ce la puoi fare anche tu.
Lasciagli pure togliere una mano, pensai tra me, tenendo ancor più ferma l'altra attorno alla gola a protezione del collo. Appena mi lasciò la destra per poter tirare il filo con tutt'e due le mani, gli cacciai in faccia il palmo e gli ficcai le unghie in un occhio. Altro urlo e uno sputo che mi prese in testa. Ma adesso sapevo quello che volevo e sapevo che mi mancavano solo pochi centimetri ad averlo. Mentre lui mi si scagliava contro con furia ancora maggiore, annaspai per respirare. Vedeva che il sudore mi scorreva dalla fronte lungo il collo e negli occhi e sentiva il mio respiro diventare sempre più affannoso. Stava alla mia sinistra, e io avevo piegato dall'altro lato tutto il busto, brancolando con le mani verso gli scaffali alla ricerca di appoggio. Erano poche le cose che potevo ringraziare, in quel momento, ma certo tra esse c'era l'esercizio fisico che praticavo da anni e che mi dava un minimo di resistenza contro la sua mole e la sua forza. Un improvviso piegamento dalla sua parte, che colse Harper di sorpresa, mi consentì di guadagnare qualche centimetro di gioco tra cordone e collo. Con la sinistra sempre a protezione della gola, mi staccai un po' dal mio aggressore, tanto da riuscire ad afferrare, dal suo piedistallo d'avorio sul terzo ripiano, il premio conferito a Gemma. Mi rigirai con il bisturi dal manico d'oro in mano e lo infilai nel polso del folle. Il sangue sgorgò subito a fiotti dall'arteria che avevo reciso. Mentre continuavo furiosamente a menar fendenti, il filo gli cadde di mano. Smisi soltanto per tirarmi fuori dalla bocca il sozzo bavaglio. Volevo trovare un punto in cui ferirlo abbastanza gravemente da bloccarlo quanto bastava a darmi il tempo di scappare, ma non ero sicura di riuscire a trovarlo attraverso i vestiti. Mentre stava ingobbito sulla scrivania, a cercare di fasciare con la manica la ferita più grave, lo accoltellai nella coscia, in alto, infilando ripetutamente il bisturi. Quando crollò a terra lamentandosi, corsi alla porta e l'aprii - come stavo per fare molti minuti prima -, correndo fuori e sbattendola alle spalle. Bussai a tutte le porte tra quella di Gemma e l'ascensore, mentre le mie grida forsennate echeggiavano nel corridoio del dodicesimo piano. Udii aprirsi lo spioncino dell'inquilina quasi sorda e mi resi conto dello spettacolo che dovevo offrire. Avevo due giri di filo di plastica nera attorno al collo, da cui pendeva, attaccato a un'estremità, l'apparecchio telefonico, che tenevo in mano per impedire che il peso mi strangolasse. Il maglione giallo era zuppo del sangue di Harper e tutto sformato, tanto da mettermi
completamente a nudo una spalla. Non c'era newyorkese sano di mente che mi avrebbe fatto entrare in casa, conciata in quel modo. Ma tutto quello che volevo, in realtà, era che intervenisse la polizia. Cominciai a picchiare contro la porta urlando: «Fatemi entrare! Ho appena ucciso un uomo. Sono pazza! Sono evasa dallo Stuyvesant ieri sera e sono venuta qui a ucciderlo. Fatemi entrare. Subito!». Esattamente come pensavo, sentii, dietro la porta, dei passi che strusciavano fino al telefono, e qualcuno, chiunque fosse, che componeva il 911, il numero d'emergenza. Poi chiamò il portiere per lamentarsi che una pazza stava dando in escandescenze nel corridoio fuori casa sua. Io impugnai bene il bisturi, tenendo d'occhio senza distrarmi la porta di Gemma, per tutti i quarantasette secondi che impiegò l'amministratore ad arrivare con l'ascensore di servizio. Mi tolsi dal collo il telefono e insieme aspettammo, nel silenzio del corridoio, che arrivasse la polizia. L'intervento richiese solo sette minuti. Immagino che fu una fortuna che Harper cercasse di uccidermi in un tranquillo pomeriggio domenicale e non durante l'ora di punta di un giorno feriale. Arrivarono tre macchine. Due poliziotti rimasero con me, mentre gli altri quattro sfondavano la porta di Gemma e trovavano Harper disteso sul pavimento, privo di sensi. «Dobbiamo farla visitare, signorina Cooper. In che ospedale vuole andare?», mi chiese una recluta quando gli spiegai chi ero. «Dopo questa inchiesta, non sono sicura che ci sia in città un centro ospedaliero in cui sarei accolta volentieri. Ho un bravo medico di base, però. Se poteste portarmi a casa e interrogarmi lì, sarebbe molto più semplice. Chiedete alle informazioni il numero del dottor Schrem e ci penserà la segreteria ad avvertirlo. Penso che forse, in queste circostanze, una visita a domicilio la farà.» L'assistente dell'amministratore aveva visto arrivare i poliziotti ed era venuto su con una vecchia coperta. L'agente Dick Nicastro me l'avvolse intorno alle spalle e mi accompagnò fino alla macchina di pattuglia che mi avrebbe riportata a casa. Sedetti dietro e appoggiai la testa al finestrino, ascoltando il suono intermittente della radio di bordo che diramava una richiesta di intervento per uno stupro in corso sul tetto di uno stabile nel 7° distretto. «Comincia a essere stagione di queste cose, signorina Cooper.» Alla vista delle mie mani insanguinate, scossi la testa e chiusi gli occhi,
asciugando le gocce di pioggia sui capelli: «Purtroppo, agente, per queste cose è sempre stagione». Capitolo 28 La reazione di Battaglia per la mia inattesa colluttazione, il lunedì mattina, fu niente in confronto alla sfuriata che presi da Mercer e Mike la domenica sera. Quando arrivarono, alle sette, il dottore aveva appena finito di visitarmi e di stilare un referto dettagliato, perché gli avevo detto che l'avrei esibito come prova in tribunale. Si fece promettere dai miei amici di evitare ogni agitazione e turbamento per non aggravare la delicatezza delle condizioni in cui versavo, e insistette per rimanere mentre rivivevo per loro lo scontro avuto con Coleman Harper. «Niente controinterrogatorio, signori», ordinò andandosene: «Ha bisogno di andare a letto presto e fare una buona dormita». Mike aveva chiamato Hal Sherman della Scientifica per scattare fotografie delle ferite che avevo subìto. Quando vidi l'espressione sulla sua faccia, non mi servì lo specchio per avere un'idea dello stato in cui ero. «Ho fotografato cadaveri che avevano un aspetto migliore del tuo, Alex. Se sei stata tu a vincere, com'è ridotto l'altro?» Chapman mi sollevò i capelli dal collo per mostrare ad Hal i segni del cordone: «Non preoccuparti. Gli ha fatto un bel culo. Quello andrà a cantare nel coro delle voci bianche». Sherman scattò alcune foto ravvicinate dei graffi alla fronte, abbagliandomi col flash, poi mise a fuoco polsi e avambracci. Nessuno voleva che restassi sola, nel caso che durante la notte avessi bisogno di qualcosa. Accettai l'invito di David Mitchell e andai a dormire sul divano-letto del suo salotto, con Zac ai piedi, in modo che lui e Renee potessero badare a me. Mike e Mercer se ne andarono alle nove, portando via i miei indumenti per etichettarli e mandarli in laboratorio per le analisi. Ero decisa a farmi vedere in ufficio vispa e di buon'ora, prima che la storia dell'aggressione assumesse proporzioni esagerate. Era ovvio che il caso dell'assassinio di Gemma Dogen - insieme con l'aggressione di cui ero stata vittima io - sarebbero stati assegnati a un altro sostituto procuratore. Ora ero una testimone qualunque e non un pubblico ministero. Dato che l'inchiesta non sarebbe stata affidata a Sarah né a nessun altro della Reati Sessuali, Rod Squires lasciò scegliere a me il sostituto procuratore da incaricare dei due casi di aggressione. Gli chiesi di assegnarli a Tom Kendris, un
amico di cui rispettavo il lavoro. Per Coleman Harper si procedette all'incriminazione formale nel suo letto d'ospedale, al Bellevue, e fui lieta che Battaglia mi telefonasse di persona per dirmi che il giudice Roger Hayes, saggio e intrepido magistrato, aveva negato all'imputato la libertà condizionata. Laura avrebbe avuto bisogno di una settimana di vacanza extra ancor più di me. Tutti i giorni passava la maggior parte del tempo a dirottare le telefonate dei giornalisti a caccia di un'esclusiva. Non mi andava di negare un'intervista a Katie Couric, per cui, pur di malavoglia, Battaglia acconsentì a comparire in televisione di persona per parlare dei crimini che vedevano coinvolti sanitari di professione. A sua volta, Mike Sheehan mi pregava di passargli qualche indiscrezione per Fox 5, ma sapevo che al dipartimento di polizia c'erano già abbastanza persone che collaboravano con lui senza bisogno di ricorrere a me per questa scorrettezza. Passai quasi tutta la settimana a lavorare con Tom Kendris e con gli investigatori in modo da deporre davanti al Gran Giurì il giovedì pomeriggio. Dedicammo ore e ore ad analizzare le prove, spargendo per tutto l'ufficio di Kendris la voluminosa documentazione che Gemma aveva raccolto nei dieci anni di sorveglianza esercitata sul corso di neurochirurgia al Minuit. Io continuavo a cercare di capire dalle foto se la moribonda avesse davvero cercato di lasciarci un messaggio scritto col sangue. Ora la lettera non completata mi sembrava assomigliare alla R, per cui, a posteriori, la interpretavo come iniziale di «Respinto». Tutte le volte che mi vedeva guardare quella immagine, Chapman mi toglieva di mano la foto e mi diceva di stare coi piedi per terra: «Non aveva la forza di scrivere, a quel punto». Io invece ero sempre disposta a credere che l'avesse. La domenica sera Maureen e suo marito, Charles, erano tornati a casa dal rifugio in cui erano stati trasferiti, e lunedì, dopo l'ufficio, Mercer mi portò a trovarli. Ci abbracciammo tanto strette che credetti di spaccarle le costole. Poi prendemmo le agende e fissammo il nostro viaggetto in una località termale per un fine settimana di maggio. Gli esami di laboratorio confermarono che l'infermiera» che aveva drogato Mo le aveva iniettato una dose massiccia di tranquillante per cavalli: non sufficiente per ammazzarla, ma abbastanza da richiamare l'attenzione sul fatto che la poliziotta era stata smascherata. Non si era fatto nessun passo avanti per scoprire chi fosse stato, ma Mike sospettava che Coleman Harper avesse tentato di sviare da sé l'attenzione della polizia per dirottarla su DuPre, uno dei medici che avevano in cu-
ra Mo. Ma nessuno riusciva a convincere quest'ultima ad addossare alcuna colpa al suo amico John DuPre. Era già turbata dal fatto che lui non fosse affatto un vero medico, dato che le sue maniere le erano piaciute molto di più di quelle del dottore a cui l'aveva affidata David al momento del ricovero. Immaginammo che in quel momento John stesse attraversando gli Stati Uniti alla ricerca di un paesino dove appendere la targhetta d'ottone e riprendere a esercitare, magari copiando da una lapide il nome di qualche medico defunto. Joan Stafford tornò a New York il martedì sera e insistette per avermi a cena. Appena seduta a tavola, mi strinse d'assedio: «Ecco il piano. È un'offerta che non puoi rifiutare. Nina giovedì sera prende l'aereo diretto dalla California, venerdì tutt'e tre ce ne voliamo a Vineyard e noi due ti aiutiamo ad aprire la casa per l'estate. Solo noi ragazze: lei lascia il bambino al marito a Los Angeles e Jim deve andare a Vienna per lavoro a seguire il vertice. Le linee aeree hanno inaugurato il volo diretto dal La Guardia già dal primo aprile: ho prenotato tre posti e le tue obiezioni non ci interessano. Prendiamo l'ultimo volo, alle cinque e quarantacinque di venerdì pomeriggio, e rientriamo all'alba lunedì mattina. Sarai alla scrivania per le nove, va bene?». Le sorrisi: «Sono un'altra, Joanie. Sono pronta». Avevo tanta voglia di tornare a casa, a Vineyard, e niente era meglio che avere accanto le mie due migliori amiche, quando sarei entrata nella Daggett's Pond Way per la prima volta dopo tanti mesi. Nina prese il volo diretto e arrivò venerdì mattina presto. Io lasciai le chiavi di riserva al portiere, per permetterle di farsi una doccia e rilassarsi prima di raggiungermi in ufficio. La nostra amicizia era cominciata il primo giorno che eravamo arrivate a Wellesley, quando eravamo state estratte a sorte per essere compagne di camera: non avrei potuto trovare un'amica più fedele e affettuosa. Sarah aveva telefonato prestissimo per dire che rimaneva a casa in permesso e per fortuna alla Reati Sessuali era una giornata tranquilla, una volta tanto. Nina e io andammo a pranzo da Forlini, indugiando a tavola, poi tornammo a chiudere il mio ufficio e saltammo su un taxi per raggiungere Joan al La Guardia. Il volo andò liscio come l'olio. Joan aveva noleggiato una jeep dall'aeroporto, e non dovetti tirar fuori dal garage la mia vecchia auto. Il tragitto di un quarto d'ora attraverso l'isola, con l'ultima luce della giornata di primavera, fu stupendo. Sugli alberi cominciavano a spuntare le gemme e strade
e vialetti erano bordati dal giallo delle giunchiglie. Quando Nina rallentò per svoltare sulla strada sterrata verso casa mia, mi si contrasse lo stomaco. Lì era morta Isabella Lascar e io non avrei mai più potuto passare senza pensarci. Fui lieta di vedere, però, che Joe, il custode, aveva piantato lungo il vialetto splendide aiuole di tulipani e iris e aveva collocato una pietra di granito alla base dell'albero dove era stata uccisa Isabella. La casetta di campagna aveva il gradevole odore dell'imbiancatura recente, che aveva cancellato ogni traccia della polvere per le impronte digitali sparsa dalla polizia, e che, con le decorazioni a mano e le rifiniture bianche, donava alla casa un tocco di allegria. Deposi i bagagli nella camera da letto padronale e uscii con Nina e Joan in terrazza: «Senza voi due non ci sarei mai riuscita...». «Shh. Sono tre anni che non vedo questo panorama», ribatté Nina: «Voglio averne almeno un assaggio, prima che venga buio». Era il mio angolo di paradiso. Mi sedetti sulla balaustra a goderne tutta la bellezza, divorando con gli occhi il pendio fiorito, i laghetti non ancora affollati dalle barche dei turisti e, più in là, il mare. Joan si alzò in piedi: «Bene, hai dieci minuti per toglierti di dosso quel ridicolo completo da leguleio. Ho prenotato per le otto all'Outermost». «Credevo che riaprissero all'inizio di maggio.» «È da un po' di tempo che non fai caso a molte cose. Se avessi lasciato fare a te, a cena avremmo mangiato popcorn.» «Non criticarla. Quello è davvero uno dei pochi piatti che è capace di preparare, Joan.» Rientrai e indossai jeans e blazer, poi mi accomodai sul sedile posteriore della jeep, e Nina ci portò all'estremità occidentale dell'isola, Gay Head, dove Hughie e Jean Taylor gestivano la più bella locanda del posto. La casa neo-vittoriana aveva solo sette camere, ciascuna di un legno diverso, e sorgeva su uno spettacolare appezzamento che scendeva verso il Vineyard Sound. Per di più, offriva il tramonto più bello del mondo. Per quest'ultimo spettacolo, quella sera era ormai troppo tardi, ma la chef, Barbara, era diplomata al Culinary Institute e cucinava cosette deliziose. Avevo portato un paio di bottiglie perché a Gay Head, come in quasi tutta quella parte dell'isola, non si servivano alcolici. Attraversammo il prato fino all'ingresso. Jeanie, la proprietaria, ci accolse calorosamente. Le presentai le mie amiche e lei ci chiese se volevamo andare in veranda a bere un sorso di vino prima di passare in sala. Il bar
era all'esterno, su un ampio parterre di fronte al mare, e io dissi a Joan e Nina che, se avevano apprezzato il panorama di casa mia, dovevano assolutamente vedere questo. Le precedetti sotto il portico, e sulla soglia rimasi di sasso. Hughie era seduto al piano e, intorno a lui, un coro di visi familiari, tutti con una coppa di champagne in mano, stava cantando Happy Birthday in mio onore. Mike, naturalmente, era dietro il bancone del bar ad aiutare Hollis, il barista ufficiale. Mercer aveva portato con sé Franchie e c'erano Sarah e Jim, Charles e Maureen, Renee e David, e Rod Squires: Joanie e Nina avevano prenotato tutte le camere della locanda. E i festeggiamenti ebbero inizio. Raggiante di gioia, feci il giro a baciare tutti e così venni a sapere che tre macchinate di amici si erano messe in viaggio fin dalla mattina, per tenere il segreto. «Apri i regali!», gridò Mike indicando il mucchio di scatole all'estremità del bancone. «Siete in anticipo di qualche settimana», li sgridai: «Mi aggrappo ai trentaquattro fino all'ultimo minuto». «Già, ma Nina ci ha detto che il trenta aprile andrai dai tuoi, per il compleanno. Abbiamo pensato che l'unico modo per farti una sorpresa era giocare d'anticipo.» Accettai una coppa di champagne ghiacciato e mi lasciai portare da Joan fino a un gran vaso di rose gialle, tra le quali spiccava un cartoncino firmato da Drew. Mi morsi le labbra e promisi di telefonargli l'indomani per fissare un appuntamento a cena e parlare di quello che era accaduto. Mentre mi avvicinavo a Sarah e a Francine per congratularmi di aver tenuto così bene il segreto e avermi fatto una così gradita sorpresa, udii dietro di me Mike e Mercer che parlavano dell'assassinio di Gemma Dogen. «Ti ricordi della discussione che abbiamo fatto al distretto di polizia sul movente più frequente, i soldi o l'amore? Be', anche stavolta avevo ragione io. Coleman Harper: secondo te, per quale motivo non si accontentava di essere un medico, ma voleva avere di più?» «È da non credere quanta gente, che abbiamo interrogato questa settimana, avrebbe dovuto farsi avanti prima, quando la Dogen è stata ammazzata», replicò Mercer: «Saltano fuori adesso a raccontarci quanto rancore covasse Harper, e come fosse arrabbiato per il modo in cui lei lo aveva trattato quando si erano conosciuti, dieci anni fa». «Dovresti vedere la robaccia che hanno recuperato Zotos e Losenti quando hanno perquisito casa sua.»
Mi trovavo in un'ottima posizione per origliare, perché Tom Kendris non aveva voluto che parlassi con nessuno delle altre prove raccolte nelle inchieste di cui ormai ero una testimone. Era Mike a parlare: «Tutti i tipi di camuffamento: parrucche, baffi finti, trucco. Hanno inoltre trovato un biglietto che gli aveva mandato Spector mesi fa per dirgli che stava facendo il possibile, ma che la Dogen "ti ha votato contro ovunque". Harper deve aver pensato a tutti i possibili sistemi per portare a termine il suo lavoretto. Scommetto che è andato l' nel cuore della notte, sapendo di trovarla sola e sperando di convincerla a non respingerlo di nuovo. Aveva l'appoggio di Spector, e lei costituiva l'unico ostacolo che si frapponesse alla sua ammissione al corso. Secondo lui, si trattava solo di un dispetto, visto che Gemma aveva comunque intenzione di lasciare New York. Penso che lei gli abbia detto chiaro e tondo di toglierselo dalla testa, per cui l'ha accoltellata. Era andato lì già armato del suo coltello da macellaio, pronto a vendicarsi». Non potevo più far finta di non sentire. Mi appoggiai al bancone e Mike mi scoccò un'occhiata, ma lui e Mercer continuarono a parlare. «Lo sai quando è cominciato tutto?» Scossi la testa con forza. «Il predecessore di Gemma Dogen era stato il primo ad avere riserve sull'idoneità di Harper. È stato un decennio fa, piccola. Questo dottor Randall aveva detto che lo avrebbe ammesso al corso di neurochirurgia, ma solo se prima avesse frequentato quello di neurologia. In quello stesso anno Randall se ne andò, e gli subentrò la Dogen... solo che lei decise autonomamente. Valutò la documentazione sul lavoro di Harper e, senza tanti complimenti, si rifiutò di mantenere la promessa fattagli da Randall. In pratica, lei mise fine alle possibilità di Harper di accedere al corso.» «E le "Partite Met"?», chiesi. «Quella è tutta opera di Spector. Fu sua l'idea di parcheggiare Harper al Metropolitan Hospital per un annetto, pensando di riuscire a far cambiare idea alla Dogen. Ma Harper continuava a combinare guai. Allora andò a esercitare per un po' nel sud. Alla fine fu Spector a ridargli speranza, quest'ultima volta. Gli disse di tornare al Mid-Manhattan con una borsa di studio, e che sarebbe stato lo stesso Spector a fargli da supervisore. Pensava che, andandosene la Dogen, ci sarebbe stata un'ultima occasione per fare ammettere il suo uomo prima che diventasse troppo vecchio per aspirare al corso. Già così, Harper avrebbe finito a cinquant'anni. Il guaio del piano fu che Spector lo mise in pratica con un anno di anticipo. La Dogen non
aveva ancora intenzione di andarsene, ecco tutto.» Restammo tutti in silenzio, pensando che al quindici aprile mancavano solo pochi giorni. «Uno di voi due è riuscito a capire per quale motivo Spector spingesse tanto a favore di Harper?», domandai. «Non del tutto. Non ancora. Ma tu hai messo il dito nella piaga, quando hai trovato gli appunti di Gemma. Tutti e due per il momento fanno scena muta sull'argomento, ma io ci sto lavorando a fondo. Lo scopriremo. Inoltre», proseguì Mercer, «il vantaggio era reciproco. Robert Spector sapeva che, se non altro per principio, Gemma se ne sarebbe andata nel momento stesso in cui Coleman Harper fosse stato ammesso al corso di neurochirurgia. Spector era automaticamente vincente perché avrebbe avuto il posto della Dogen: esattamente quello che voleva.» Mike intervenne: «Scommetto che Harper si è allarmato quando gli abbiamo detto che avremmo esaminato gli archivi dell'ospedale da dieci anni a questa parte. Lui sapeva che il Minuit non li conservava per tanto tempo. Ma quello che non sapeva era per quanto tempo il Met conservasse la propria documentazione... e che la sua arcinemica, Gemma Dogen, avesse una accurata documentazione su di lui. Quanto vuoi scommettere che è stato lui a entrare al Metropolitan Hospital per sottrarre dagli archivi il proprio fascicolo? Ed ecco perché, dopo averla ammazzata, si è tenuto le chiavi della Dogen. Domenica, immaginando che prima o poi qualcuno avrebbe scoperto i documenti che lo condannavano, deve essersi intrufolato nel suo appartamento per far sparire tutto quello che lo riguardava». «Perché mi ha lasciato finire la telefonata con Mercer, invece di saltarmi addosso mentre gli raccontavo dei fascicoli che avevo trovato?» «Se Harper ti avesse aggredito mentre eri ancora al telefono, Mercer, per quanto lontano fosse, avrebbe chiamato il 911 e i poliziotti sarebbero arrivati prima che lui riuscisse ad ammazzarti e a scappare dallo stabile. Probabilmente ha pensato che, se si fosse liberato di te dopo la conversazione e fosse scappato con l'unica serie di documenti della Dogen ancora esistente, sarebbe rimasta soltanto la parola di Mercer contro la sua, senza prove che lo incriminassero.» «Noi pensiamo che sia stato Harper, in uno dei suoi travestimenti, a infinocchiare il tuo portiere e infilare sotto la tua porta quel messaggio», suggerì Mercer. «Può darsi che non conoscesse tutta la storia di Jean DuPuy, ma, come Gemma, anche lui sapeva che c'era qualcosa di losco nel passato di quell'uomo. Troppo disinvolto, troppo loquace. Non dimentichiamoci
che avevano entrambi esercitato nel sud. Suppongo che Harper sapesse del vero John DuPre quanto bastava a farlo riflettere. In ogni modo, lui e DuPuy erano entrambi così spaventati da questa indagine, che ciascuno dei due puntava il dito addosso all'altro. Trovare quel vecchio derelitto sporco di sangue nel reparto di radiologia li ha eccitati al punto da fare a gara per rivelarlo. E noi abbiamo davvero penato per sapere chi dei due fosse stato il primo a trovarlo.» «Credi che sia stato Harper a cercare di investirmi con la macchina?», domandai, pensando all'incidente mancato per un soffio, in compagnia di Zac. «Non si discute nemmeno», replicò senza esitare Mike: «Probabilmente solo un colpo di testa. Un paio di giorni prima ci aveva portato personalmente da un malato mentale coperto di sangue che avevamo tutti preso per l'assassino. Poi, il venerdì sera, sente la notizia che tu, Alex Cooper, hai rilasciato il vecchio. Mercer ritiene che Harper, rimasto per ore al distretto di polizia, la prima sera, abbia sentito Peterson chiedere che una macchina ti accompagnasse a casa, fornendo l'indirizzo. Quando ha sentito la notizia, deve esserci andato di furia, senza nemmeno sperare di vederti. E invece ha fatto tombola: eccoti lì, in giro a piedi alle undici di sera. A quel punto deve aver agito d'impulso, senza un piano preciso. Solo per disperazione». Tacqui di nuovo, mentre intorno a noi gli altri facevano festa. «Sai che cosa non mi va giù?», chiese Mike: «Lasciamo stare il fatto che questi farabutti non vogliono aiutare la polizia quando c'è un assassinio, ma non vedono l'ora di dire al primo giornalista che passa che loro hanno sempre saputo, fin dall'inizio, chi era l'assassino e quale il movente. Li hai visti gli articoli?». «Nessuno mi ha fatto vedere niente: sono una testimone, ti ricordi?» «C'è l'ex moglie che dichiara a uno straccio di giornale del sud», disse Mercer, «che secondo Harper Gemma Dogen era l'unica ragione per cui lui non poteva studiare neurochirurgia in nessuna scuola di specializzazione. Uno dei medici con cui Harper ha lavorato due anni fa ha detto che era ossessionato dalla Dogen e assolutamente fissato di voler diventare neurochirurgo: l'unica cosa nella vita che gli era stata negata. Era convinto che la Dogen fosse ancora, dieci anni dopo averlo bocciato, la fonte di tutti i suoi guai.» «Già, ecco il nostro problema, Mercer. I poliziotti non possono pagarli, questi cretini, come fanno i giornalisti. A me nessuno vuol dire niente su una persona sospetta. Ma cacciagli sotto il muso un microfono o una tele-
camera, oppure offrigli un centinaio di testoni, ed ecco che d'improvviso tutti sanno fin dall'inizio chi era l'assassino.» «Non il pezzo grosso. Lunedì ho letto sul "Post" l'intervista a Spector. Non riesce a capacitarsi che sia stato il suo uomo: "Harper ha una mente brillante. Ha compiuto per me delle ottime ricerche".» «Già, forse ora Coleman potrà passare venticinque anni, o anche tutta la vita, a studiare gli effetti della prigione sul sistema nervoso. Va bene, Blondie, adesso basta: siamo tutti fuori servizio e fuori dalla nostra giurisdizione. «Dai, apri il mio regalo per primo.» Mike tese la mano verso il mucchio di pacchetti e me ne consegnò uno. Era una scatola da gioielliere di pelle rossa legata con un gran fiocco bianco. Tirai il nastro e aprii il coperchio, che mi rivelò un luccicante diadema. Nina lo prese e me lo mise direttamente in testa, mentre Mike mi assicurava che era finto e che aveva pagato più la scatola delle pietre artificiali. «Ascoltate, ragazzi», disse Mike: «Joanie e io abbiamo organizzato un tour gastronomica di Vineyard: itinerario mio, portafogli suo. Partiamo da qui, naturalmente, dall'Outermost, dove raccomando di cominciare la serata con i tortini di granchi seguiti dall'aragosta e, per dessert, il gelato alla menta fatto in casa. Domattina, colazione da Primo: caffè e ciambelle sotto al portico del Chilmark Store. Roba buona, buone chiacchiere. Pranzo dalle straordinarie sorelle Flynn al Bite, con la migliore zuppa di pesce del mondo e le cozze. Cena da Tony e David al Feast: da non perdere la pasta alla fra Diavolo». Mi tolsi le scarpe e raggiunsi i gradini che scendevano per l'ampio declivio erboso circondato dal Vineyard Sound. Mike preannunciava per domenica la colazione all'Inn, una pizza da Primo per pranzo, e la cena di commiato al Red Cat: filetto con cipolle caramellate. Aveva davvero esplorato tutte le migliori scelte gastronomiche locali. Mentre Mike continuava a intrattenere la truppa, il fratello di Hughie, James, cantava piano, in sottofondo, una canzone che parlava di pioggia e caminetto. Mike stava dicendo che il compito per il fine settimana sarebbe stato cercare la scalinata più alta dell'isola, se volevano vedermi nella mia famosa imitazione di Tina Turner. Io ero arrivata in fondo al declivio e rimasi con i piedi nell'acqua gelida a guardare, poco lontano, il punto in cui si mescolava con l'Atlantico. Aspirai l'aria profumata di salsedine dell'oceano, e intanto osservavo la luce
alterna dell'enorme faro che, come faceva da duecento anni, avvertiva le navi di stare alla larga dagli scogli del Devil's Bridge. La musica delle onde che lambivano la spiaggia mi rasserenava quasi quanto le risate delle persone che amavo, dietro di me. Più tardi avrei spento le candeline sulla torta, e tutti mi avrebbero chiesto di esprimere un desiderio. Ma, mentre me ne stavo lì da sola, a fissare i milioni di stelle che facevano mostra di sé fino al punto più lontano dell'orizzonte, tra me e me formulai tutti i desideri e gli auguri per l'anno che mi aspettava. Ringraziamenti I delitti descritti in questo libro si basano su fatti realmente accaduti. Anche questa volta sono molto grata ai soliti noti per l'affetto, l'amicizia e il sostegno nel corso della stesura del libro. Alexandra Cooper deve il successo ai suoi grandi amici, alcuni dei quali prendono a prestito da amici miei caratteristiche personali come l'umorismo, la saggezza e la lealtà. Formano il cast Alexandra Denman, Lisa Friel, Joan Stanton Hitchcock, Maureen Spencer Forrest, Karen e (l'altra) Alex Cooper, Susan e Michael Goldberg, Sarah e Mitch - e Casey - Rosenthal. La descrizione di Cliveden è stata offerta da Joan e Bernie Carl. Il vero dottor Robert Spector, che conosco e ammiro fin da quando avevamo quindici anni, non ha ispirato l'omonimo personaggio. Bob Morgenthau è il mio modello professionale e il mio eroe. Anche quest'anno, il venticinquesimo di servizio presso la procura distrettuale della contea di New York, è impegnativo e gratificante come tutti quelli che lo hanno preceduto. I miei colleghi, che stanno dalla parte degli angeli a difesa delle vittime di reati di violenza, sono quanto di meglio ci sia in questo lavoro. Forse l'aspetto più bello della mia nuova professione di scrittrice è il tempo che trascorro tra persone che amano i libri: i bibliotecari e i librai, che con tanta cura li mettono tra le mani altrui, e i lettori, che con tanta avidità li divorano. Non ringrazierò mai abbastanza la fortuna di avere una redattrice come Susanne Kirk. Esther Newberg è un'agente straordinaria, ma è ancora meglio come amica. Tutti i Fairstein, come sempre, contribuiscono allo spirito del mio lavoro. Le fonti più recenti della mia ispirazione - piccine ma potenti - sono
Matthew e Alexander Zavislan. Mio marito, Justin Feldman, continua a essere la mia musa e la mia gioia più grande. E mia madre, Alice Atwell Fairstein, sarà sempre la migliore. FINE