JESS WALTER SENZA PASSATO (Citizen Vince, 2004) Per Anne Una grande nazione è come un grande uomo [...], che considera i...
10 downloads
1356 Views
701KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
JESS WALTER SENZA PASSATO (Citizen Vince, 2004) Per Anne Una grande nazione è come un grande uomo [...], che considera il suo nemico come l'ombra da lui stesso proiettata. Tao Te Ching I SPOKANE, WASHINGTON MARTEDÌ 28 OTTOBRE 1980, ORE 01:59 Un giorno ti rendi conto che tra tutte le persone che hai conosciuto sono più i morti che i vivi. Questo pensiero saluta Vince Camden mentre si alza a sedere di scatto sul letto, getta occhiate frenetiche alla stanza da letto buia, in cerca di prove della propria esistenza, e trova solo oggetti di scena: comodino, cassettone, portacenere, sveglia. Respira pesantemente. Suda nell'aria fresca. Si stropiccia gli occhi per scuotere la polvere di quei pensieri; non è esattamente un sogno quel panico a notte fonda: un vetro sottile come carta, frantumato, i cui pezzi taglienti volano via in un vortice. Vince Camden sbadiglia, allunga una mano verso il comodino e spegne la sveglia, proprio mentre l'uno, il cinque e il nove cominciano a cadere. Ogni notte, all'una e cinquantanove, si alza a sedere sul letto e spegne la radiosveglia un secondo prima delle due, prima dello strillo acuto. Si chiede: com'è possibile una cosa del genere? Eppure... Se riesci a svegliarti ogni mattina un secondo o due prima che suoni la sveglia, perché non potresti contare tutti i morti che conosci? Cominciamo dai nonni. Paterni e materni. Uno di loro aveva avuto anche una seconda moglie: totale, cinque nonni. Vince strofina lo spazzolino da denti sui molari. Madre e padre. Sette. Una sorellina nata morta conta? No, bisogna nascere vivi per poter morire. Nel tempo impiegato a farsi la doccia, asciugarsi i capelli e vestirsi (pantaloni grigi, camicia nera a maniche lunghe, due bottoni slacciati), Vince ha passato in rassegna famiglia, vicini ed ex soci in affari: fanno già trentaquattro persone nel mondo dei
più. Si chiede se è normale conoscere cosi tanti morti. Normale. Quella parola lo tallona a distanza di sicurezza per la maggior parte delle giornate. Apre un cassetto, tira fuori un mazzo di carte di credito false e ne legge i nomi: Thomas A. Spaulding, Lane Bailey, Margaret Gold. Immagina la vita normale di Margaret Gold, con una coperta all'uncinetto gettata sulla spalliera del divano. Quanti morti può conoscere Margaret Gold? Vince conta dieci carte di credito, compresa quella di Margaret Gold, e le infila in una tasca della giacca a vento. Nell'altra tasca infila sacchetti trasparenti pieni di marijuana. Sono le 2:16 del mattino quando Vince si mette l'orologio al polso, facendo attenzione che non ci restino impigliati i peli folti dell'avambraccio. Ah, sì, Davie Lincoln, un bambino ritardato che portava i soldi in bocca mentre faceva commissioni nel quartiere per Coletti. Soffocato da una moneta da mezzo dollaro. Trentacinque. Nell'ingresso di casa sua, se si può chiamare ingresso un attaccapanni e una cassetta della posta, Vince si chiude la cerniera della giacca a vento e sbottona i polsini, come un mazziere di Las Vegas al momento di lasciare il tavolo da gioco. Poi esce nel mondo. Vince Camden: bianco, trentasei anni. Single. Un metro e ottanta di altezza per settantadue chili di peso, magro e con le spalle larghe, come un bicchiere da Martini. Capelli castani e occhi azzurri, secondo la scheda della polizia. La bocca che tende a sollevarsi all'angolo destro e le folte sopracciglia che vanno per i fatti loro danno al suo viso un perpetuo sorriso ironico, cosicché tutte le donne con cui ha una storia prima o poi sbottano mani sui fianchi e testa piegata - in un: «Per favore, sii serio». Vince è il gestore di un forno con negozio annesso, che produce e vende krapfen. In genere non ci vuole molto a fare i bomboloni, ma a Vince piace iniziare la giornata lavorativa alle 4:30 e finire entro mezzogiorno. Si sente come in vantaggio sul mondo quando lascia il negozio all'ora di pranzo, sapendo di non dover tornare al lavoro dopo mangiato. Si rende conto che questo desiderio di sentirsi in vantaggio è una costante della sua personalità. Forse un problema genetico. Esce di casa, e subito solleva il bavero della giacca a vento contro il freddo di quel mattino di fine ottobre. Il respiro si condensa in vapore, ricordandogli un esperimento fatto alle elementari con il ghiaccio secco, che a sua volta gli fa ricordare il signor Harlow, il maestro, impiccatosi quando si venne a sapere che dedicava un po' troppe attenzioni ai suoi alunni maschi. Trentasei.
Il mondo sembra sereno davanti casa, alle 2:20 del mattino: luci accese alle verande di case nere di sonno, marciapiedi che tagliano in due prati umidi di rugiada. Ma la notte ha un potere cupo sull'immaginazione, e Vince rabbrividisce alla sensazione che oggi ci sia lui sulla lista. «Allora, ci stai, sì o no?» I due uomini sono dentro una Cadillac Seville rosso bordeaux. Quello al volante chiede: «Quanto mi costerebbe?». L'altro, il più grosso, sul sedile accanto, controlla l'impazienza e ci pensa su. È una domanda sensata. Dopotutto è il 1980, e anche il settore terziario affonda nell'economia stagnante. La criminalità è soggetta alle stesse tristi forze del mercato? Inflazione, deflazione, stagflazione, recessione? Il tasso di disoccupazione dei delinquenti è in aumento? «Lo faccio gratis» dice il passeggero. «Gratis?» ripete l'altro, spostandosi sul sedile di pelle. «Sì.» Poi, dopo una pausa: «Significa che non ti costerà niente». «Lo so cosa significa gratis. Sono soltanto sorpreso. Stai dicendo che mi aiuterai a sbarazzarmi di questo tipo senza chiedere niente in cambio?» «Sto dicendo che in qualche modo risolveremo la cosa.» «Ma non mi costerà niente?» «Risolveremo la cosa.» Il fatto che oltre a non sapere il significato della parola «gratis» l'uomo al volante della Cadillac non si renda conto che niente è gratis la dice lunga su di lui. Ottantasette bar a Spokane e dintorni, per un totale di circa trecentomila persone. Una sola compagnia di taxi. Perciò a quell'ora, poco dopo le due del mattino di un martedì feriale, i conti sono chiari: più ubriachi in giro di quanti il mercato possa sopportarne. Barcollano sui marciapiedi, sbadigliano mentre si dirigono verso le loro auto, sempre che ne possiedano una e ricordino dove l'hanno parcheggiata. Gli altri vanno a piedi, sparpagliandosi in tutte le direzioni dal centro verso la periferia. Attraversano ponti, sottopassaggi, salgono e scendono fino ad arrivare in strade buie senza negozi e locali, figure solitarie avvolte da una cappa di respiro caldo e fumo di sigaretta, che si preparano a ripetere le solite bugie. Vince Camden si concentra sui propri pensieri mentre cammina, sobrio e riposato, tra la folla di ubriachi stanchi. Le case di mattoni e pietra del centro cedono il passo a strade di edifici a pochi piani dall'affitto basso: scuole
di karate, venditori di materassi ad acqua, sexy-shop, agenzie di pegni o centri di massaggio tailandese. Segue un quartiere di magazzini vuoti, binari abbandonati, campi non edificati, e una casa vittoriana isolata a due piani, un locale aperto tutta la notte dove si gioca a carte e si mangiano bistecche: si chiama Sam's Pit ed è il posto dove Vince passa qualche ora quasi tutte le notti, prima di iniziare il suo turno al negozio di bomboloni. Vince era in città solo da pochi mesi quando Sam morì. Trentasette. Il nuovo proprietario si chiama Eddie, ma tutti lo chiamano Sam, essendo più facile cambiare il nome di una persona che un'insegna al neon. Il nuovo Sam, proprio come il vecchio, apre il locale quando il resto della città va a dormire. È una specie di scolo dove, quando gli altri bar chiudono, confluiscono ubriachi, puttane, clienti delle puttane, ladri, avvocati, drogati, poliziotti e giocatori. Insomma, «tutti i più maledetti», come diceva il vecchio Sam. Ecco perché la polizia chiude un occhio sul gioco d'azzardo e sugli alcolici venduti sottobanco: è bello sapere che verso le tre del mattino puoi trovare tutti i soliti sospetti riuniti nello stesso locale, come nel salotto di un giallo inglese. Il Sam's Pit è imboscato dietro una fila di alti cespugli incolti. È l'unico edificio in una zona di lotti di terreno vuoti, come un ultimo dente in bocca. Sul retro, una spianata in terra battuta serve da parcheggio per i clienti del locale e da vetrina per le cinque o sei professioniste che arrivano ogni notte in cerca degli ultimi clienti. Dentro, i papponi giocano a carte e aspettano i guadagni della nottata. La ghiaia crocchia sotto le scarpe di Vince mentre si dirige verso il locale. Sei macchine parcheggiate, due ragazze al lavoro. A venti metri da lui si apre una portiera, e una voce di donna strilla: «Lasciami!». Vince non si volta neppure. Non immischiarti. «Vince! Digli di lasciarmi andare!» La voce di Beth. Vince è già sulla porta. Si volta e torna indietro verso una Plymouth marrone, dentro la quale Beth Sherman cerca di divincolarsi da un tizio in maglione bianco a collo alto, che non sembra affatto intenzionato a lasciarla andare. Vince nota che il tizio ha i pantaloni aperti. La ragazza cerca di colpirlo con il gesso sporco che le copre l'avambraccio destro, e lo manca di poco. Vince si china verso la macchina. «Beth, cosa succede?» L'uomo molla la presa e lei scende dall'auto. Vince resta sorpreso ancora una volta dalla sua bellezza. Faccia triangolare, occhi tondi incorniciati dalla frangetta. Non può pesare più di cinquanta chili. È strano per una che
fa il suo lavoro sembrare più giovane di quanto sia realmente, ma Beth sembra un'adolescente, almeno da una certa distanza. Da vicino lo stile di vita è difficile da nascondere. Con il braccio ingessato, Beth indica il tizio dentro la macchina. «Mi ha tastato il culo!» L'uomo è incredulo. «Ma sei una puttana!» «Sono un'agente immobiliare!» «Mi stavi facendo un pompino!» «Stavo lavorando. Tu di solito tasti il culo all'idraulico, mentre ti sta cambiando il rubinetto?» Vince si mette in mezzo ai due, e sorride all'uomo. «Ascolta, a lei non piace essere toccata.» «Ma che puttana è una che non si lascia toccare?» L'argomento ha una sua logica, ma Vince avrebbe preferito che l'uomo fosse stato zitto. Sa come andrà a finire, e infatti Beth tira fuori dalla tasca una banconota da venti e la getta in faccia al cliente. Lui la guarda. «Ma ti ho dato quaranta dollari...» «Hai avuto mezzo pompino, perciò ti restituisco la metà dei soldi.» «Mezzo pompino?» L'uomo alza gli occhi a fissare Vince. «Ma non esiste!» Vince sposta lo sguardo da Beth a lui, e apre la bocca senza aspettarsi che ne escano parole. Torna a guardare Beth, e gli occhi dell'uno restano fissi in quelli dell'altra abbastanza tempo perché tutti e due lo notino. Beth Sherman: trentatré anni, capelli castani e occhi sfuggenti che guizzano di qua e di là. Malgrado la sua avversione a lasciarsi toccare, è rispettata tra le professioniste della zona, soprattutto per via di una grande impresa: ha lasciato l'eroina all'improvviso, senza bisogno del metadone, da diciannove mesi e due settimane, il giorno stesso che ha scoperto di essere incinta. Suo figlio Kenyon ora ha poco più di un anno e sembra a posto, ma tutti sanno che lei lo tiene sotto stretto controllo, paragonandolo costantemente agli altri bambini dell'asilo nido, in cerca di segni di ritardo mentale o di altri problemi dovuti alla roba. E mentre sta cercando di lasciare questa vita (ha licenziato il suo pappone, con una lettera formale), continua a fare marchette, forse perché per una ragazza madre che non ha neppure un diploma i mezzi per mantenersi scarseggiano. Non è l'unica puttana che si presenta come qualcos'altro. Il parcheggio di Sam è pieno di attrici, massaggiatrici, modelle, studentesse e assistenti sociali, ma quando Beth dice di essere un'agente immobiliare, gli altri sembrano inclini a crederle.
Appena arrivato, Vince aveva provato quasi tutte le ragazze, ed era rimasto intrigato da Beth, dal suo modo di mantenere le distanze. Poi, una notte di sei mesi prima, dopo aver bevuto due bottiglie di vino, avevano passato la notte insieme senza che circolasse neppure una banconota. Ed era stato diverso. Allarmante. Intimo. Lei non si era sottratta alle carezze. Ma da allora tutto è diventato complicato: Beth che non vuole soldi da Vince, e Vince che non vuole impegnarsi con una ragazza madre. Così sono tre mesi che non dormono insieme. La cosa peggiore è che Vince si sente in colpa all'idea di andare con altre donne, e così sta attraversando il più lungo periodo di castità forzata della sua vita, a parte la prigione, ovviamente. Tutta quella storia è una prova in più della saggezza di un detto che circola tra le ragazze: il sesso gratis rovina tutto. Nel parcheggio, Beth si allontana dal cliente lasciandolo irritato e insoddisfatto. Vince la guarda camminare nei jeans attillati sotto la giacchetta corta. Poi prende una delle buste di marijuana e la mostra all'uomo. Anche la Bibbia dice che il portatore di pace merita un profitto. O qualcosa del genere. L'uomo scrolla le spalle e gli tende la banconota da venti. «Sì, va bene» dice. Mentre soldi e fumo cambiano di mano, l'uomo scuote la testa. «Mai sentito di una puttana che non vuole lasciarsi toccare.» Vince annuisce, ma sa che il mondo è pieno di persone così: poliziotti drogati, ladri che donano il dieci per cento del bottino in beneficenza, madri irreprensibili che portano le giarrettiere, puttane che dormono abbracciate a un orsetto di pezza, criminali che vendono bomboloni, puttane che fanno le agenti immobiliari. Ricorda un vigile del fuoco claustrofobico, di nome Alvin Dunphy, morto sotto il crollo di un edificio in fiamme. Trentotto. «Mezzo pompino non esiste. O uno intero, o niente.» «Un dollaro. Anch'io la penso come Jacks. Che pompino è se non ti fa venire?» «Non so. La prima volta io ne ho avuto solo metà.» «Quanti anni avevi, Petey?» «Tredici. Vedo il dollaro.» «Tredici? Sul serio? Ah, come mi sarebbe piaciuto avere una sorella.» «Ma è stata proprio tua sorella a farmelo.» «E tu che ne pensi, Vince?» Lui è restato zitto per tutto il tempo, perso nei suoi pensieri. È seduto
immobile, piegato in avanti, lo sguardo di lato, le sue carte sul tavolo. Il Sam's Pit è un locale scuro e con la moquette, di aspetto vittoriano. Dalle pareti pendono arazzi di velluto raffiguranti uomini baffuti, e africani che scopano donne dai fianchi enormi. La luce viene da un paio di lampadine nude che pendono dal soffitto, e da una grossa lampada dietro il banco. Sei tavoli in tutto, due per il poker, gli altri per mangiare. Quattro donne, tra cui Beth e la sua migliore amica, Angela, sono sedute al bar e bevono cocktail preparati con le bottiglie che Eddie tiene sotto il bancone. Vince si raddrizza sulla sedia e si toglie una ciocca di capelli dagli occhi. Getta una banconota da cinque nel piatto, senza guardare le sue carte. «Cosa ne penso? Secondo me anche mezzo è una cosa ragionevole. In fondo la prima parte è la migliore. La cosa più bella non è venire, ma... ricevere la totale attenzione di una donna.» I giocatori guardano prima le loro carte, poi quelle di Vince, ammucchiate ordinatamente sul tavolo, cercando di ricordare se lui le ha mai guardate da quando gli sono state servite. Vince guarda verso il bar. Beth lo sta fissando. Gli rivolge un mezzo sorriso, poi alza gli occhi al soffitto, come se avesse appena lasciato andare un pensiero, e lo stesse osservando salire in alto come un palloncino colorato. La partita è finita, e Vince sta contando un rotolo di banconote grosso come un paio di calzini. Gli altri si scambiano occhiate. Tutti hanno sentito quello che si mormora di Vince. La sua comparsa improvvisa in città, l'accento di New York, l'abilità con le carte, le donne e il crimine. Si tratta di una reputazione che Vince è riuscito a mantenere senza dover mai ammettere nulla. «Dove hai imparato a giocare così?» chiede Petey. Vince non alza gli occhi. «A scuola, mentre studiavo da fornaio.» I ragazzi ridono. Vince getta due banconote da cinque sul tavolo, per quello che hanno bevuto. Si alza in piedi. Sono le quattro e trenta del mattino, e finalmente i pensieri cupi che lo tormentano da quando si è svegliato cominciano a svanire. «Ci vediamo, ragazzi», dice, intascando i soldi. Le prostitute, finite le costolette e sistemati i conti con i magnaccia, sono raggruppate davanti alla porta. Sanno che è meglio non dar fastidio a Vince finché non ha vinto o perso, ma stasera ha vinto molto, perciò gli sono subito addosso. «Non mi vuoi, Vince?» «Vuoi giocarti una carta con me, Vinnie?»
«Ti faccio fare il giro del mondo, tesoro.» «Hai del fumo?» Vince scambia carte di credito rubate e buste di marijuana per contanti e abbracci. Anche se rifiuta quello che gli viene offerto gratis o sottocosto, mentirebbe se non ammettesse che quella per lui è la parte più bella della giornata, quel piccolo spettacolo da Sam, quando gli uomini lo invidiano e le donne gli si offrono, e lui distribuisce carte di credito e fumo a prezzo di costo. Quando non ha più nulla da vendere esce, e appena fuori si sente chiamare per nome. Si volta e vede Beth con gli occhi bassi. Lei lo guarda di sotto in su, alzando solo gli occhi e non il mento. È un'espressione dolce, pudica, e il fatto che lei non se ne accorga la rende ancora più dolce. «Grazie per prima, Vince» dice. «Non so perché divento così...» «Non c'è problema» risponde Vince. «Stai studiando?» Da quando la conosce, Beth studia per prendere la licenza da agente immobiliare. Studia, ma non si iscrive mai all'esame. «Sì.» Si stringe nelle spalle. «La prossima settimana Larry mi affida una casa. E se riesco a venderla mi darà metà della commissione in nero.» «Davvero?» dice Vince. «Farò un giro a vederla.» «Dici sul serio?» «Certo. Magari la compro anche.» «Molto divertente.» Lei gli stringe un braccio, rifà quella cosa con gli occhi, su e giù, un lampo liberatorio, poi si volta e torna dentro. I fari delle auto, simili a occhi cupidi, illuminano la schiena di Vince. Chi era quella ragazza, al liceo? Si era ubriacata con alcuni ragazzi più grandi ed era finita sotto una macchina. Angie Wolfe. Trentanove. Vince tiene le mani affondate nelle tasche della giacca a vento e le spalle ingobbite. Sono soltanto sei isolati fino al negozio di krapfen, e gli piace camminare nel freddo frizzante. Il sole è ancora un'ipotesi, oltre il confine con l'Idaho, e l'ombra proiettata dai lampioni lo precede sul marciapiede. Come bisogna considerare il vecchio Danello, il cui cadavere non è mai stato trovato? Morto, senz'altro. E così sono quaranta. Il negozio ha un nome stupido: Krapfen Contro il Languorino. I proprietari sono Ted e Marcie, una coppia di anziani. Vengono qualche minuto tutti i giorni, per bere un caffè e fumare sigarette con i loro vecchi amici. Vince si trova bene con loro. Lui gestisce il locale, e loro lo lasciano lavorare senza interferire.
Si avvicina all'edificio di colore pallido, in un angolo trafficato a circa un chilometro e mezzo dal centro. Dentro, le luci sono accese. Bene. Vince svolta nel vicolo, prende il giornale e lo libera dall'elastico. Dà un'occhiata alla prima pagina alla luce di un lampione. La sfida tra Carter e Reagan ormai è alle ultime battute. Stasera ci sarà il dibattito. Il parlamento iraniano si riunisce per trovare una soluzione al problema degli ostaggi. Vince legge solo i titoli, mentre sfoglia le pagine fino alla sezione dedicata allo sport. L'Alabama ha vinto con un distacco di quindici punti. Notevole. Vince chiude il giornale e si dirige verso la porta, ma in quel momento qualcosa si muove dietro di lui. Vince fa un passo di lato, con il giornale arrotolato in mano. Un'auto si mette in moto. Una Cadillac, che lo illumina con la luce dei fari. Vince si copre gli occhi con una mano. La solita voce interiore gli dice di fuggire, ma non c'è nessun posto dove nascondersi, in quel vicolo, perciò resta fermo e aspetta. La Cadillac Seville rosso bordeaux si dirige a passo d'uomo verso di lui. Il finestrino si abbassa con un ronzio meccanico. Vince si piega in avanti. «Cristo, Len. Cosa ci fai qui?» La faccia di Len Huggins è come una conferenza di idee sbagliate: denti piccoli da bambino, labbra sottili, naso rotto, guance rovinate dall'acne, e due basettoni a forma di "L" («Stanno per Len, capisci? Due "L" per Len»). Gestisce il negozio di stereo in cui Vince usa le sue carte di credito false per comprare merce o per farsi dare anticipi di contante. Len si toglie gli occhiali da sole che porta anche di notte, e li fa scivolare nel taschino della camicia. «Vince!» Tende la mano fuori dal finestrino. «Cosa ci fai qui, Lenny?» ripete Vince. «Sono venuto per le mie carte di credito.» «È martedì.» «Lo so.» «E di solito lo facciamo di venerdì.» «So anche questo.» «Allora perché sei qui?» Finalmente Len ritira la mano. «Insomma, vuoi dire che non hai carte di credito per me, oggi?» «Voglio dire che non importa quello che ho. Il nostro accordo è di vederci il venerdì mattina. Non capisco cosa ci fai qui oggi.» «Pensavo che potessi avere qualcosa per me.» «Non ce l'ho.»
«Va bene.» Len annuisce e getta un'occhiata allo specchietto retrovisore. «Non c'è problema.» Vince si raddrizza e guarda verso l'imboccatura del vicolo. «Perché l'hai fatto?» «Cosa?» «Perché hai guardato da quella parte?» «Non capisco.» «C'è qualcuno, là?» «Dove?» Vince indica l'entrata del vicolo. «Là. Perché hai guardato nel retrovisore?» Len si rimette gli occhiali da sole. «Vince, sei paranoico.» «Esatto. Sono paranoico.» Vince si allontana dalla Cadillac. «Ci vediamo venerdì.» «Venerdì non ci sarò. Era questo che volevo dirti. Manderò uno nuovo.» Vince si volta, freddo. «Nuovo? Cosa significa?» «Significa il contrario di vecchio.» «Non fare lo scemo. Chi è?» «Solo uno che cura i miei interessi. Si chiama Ray. Ti piacerà, ne sono sicuro.» Vince si riavvicina al finestrino aperto. «Da quando hai bisogno di qualcuno che curi i tuoi interessi, Len? Ti compri roba, con le mie carte di credito. E li chiami interessi?» «Ma che cazzo hai, oggi? Rilassati, Vince.» Len preme il bottone per far salire il finestrino. «Stai perdendo colpi.» La Cadillac si allontana. Si ferma all'angolo, con un lampo degli stop, poi svolta. Vince è solo nel vicolo, con il respiro che gli si condensa intorno al viso. Getta un'ultima, lunga occhiata in giro, poi si avvia verso il negozio. Odia i vicoli. Jimmy Plums si è fatto beccare in un vicolo fuori da un locale di strip-tease. Era uscito per pisciare. Avevano fatto in modo che sembrasse una rapina, ma tutti sapevano che era una vendetta. Jimmy aveva fatto la cresta sugli incassi dei juke-box di Howard Beach. Quanto fa? Quarantuno? O quarantadue? Merda, hai perso il conto. Il lavoro funziona così. Vince entra in negozio alle quattro e quarantacinque. Scende subito in cantina e mette via gli incassi della notte in una cassetta che tiene nascosta lì. Di sopra, il suo assistente, Tic, è al lavoro già da un'ora: ha acceso le luci, ha cominciato a mescolare gli ingredienti se-
condo le ricette di Vince, ha acceso i forni e le friggitrici e ha tirato fuori la glassa dalla cella frigorifera. Tic ha diciotto o diciannove anni (Vince non lo sa di preciso), e lunghi capelli sottili che si butta continuamente indietro. Vince non l'ha mai visto usare il grosso pettine che porta nella tasca posteriore dei pantaloni. Ha gli occhi all'ingiù e una specie di energia nervosa che sembra non perdere mai intensità. Tutte le notti Tic beve e fuma marijuana fino alle tre, fa colazione, poi va in negozio e si mette al lavoro. Alle dieci va a dormire, si sveglia alle sei del pomeriggio e ricomincia da capo. Appena Vince entra, Tic comincia a parlare. «Mi piacciono un casino le brioche allo sciroppo d'acero, signor Vince. Mi piacciono come le ragazze.» In un armadietto sul retro, Vince tiene i vestiti da lavoro e il romanzo che legge durante le pause. In quel periodo sta leggendo a fatica un libro intitolato The System of Dante's Hell. Lo apre, scorre con gli occhi un paio di frasi criptiche, lo mette via. Si cambia e indossa un camice bianco da lavoro. «Voglio fidanzarmi con una brioche allo sciroppo d'acero» sta dicendo Tic. «Voglio portarla al ballo di fine anno, voglio farle conoscere i miei genitori.» Vince si lava le mani. «Voglio sposarla, e avere dei bambini a forma di mini brioche allo sciroppo d'acero, andare a vederli giocare a baseball con i bomboloni alla crema, conoscere i loro amichetti alla cannella...» In passato Vince seguiva i deliri verbali di Tic, e a volte gli dava anche corda. Ma Tic si irrita quando qualcuno lo interrompe, così Vince ha imparato a trattare il suo flusso costante di parole come una cacofonia di sottofondo. «Le frittelle alla mela invece le odio. Odio tutta la fottuta famiglia Frittella. Non voglio pesticidi nell'erba che fumo, e non voglio frutta nei dolci che mangio.» Quattro anni prima, se qualcuno gli avesse detto che avrebbe fatto un lavoro di routine come quello e che si sarebbe persino divertito a farlo, Vince avrebbe riso fino alle lacrime. Passi i primi trentasei anni della tua vita a evitare accuratamente il lavoro, poi di colpo ti ci trovi dentro fino al collo, e lo trovi non solo sopportabile, ma anche piacevole in un modo difficile da spiegare al te stesso di prima. Tuttavia Vince si chiede se uno come lui è capace di cambiare, di cambiare davvero, negli aspetti basilari, gli appetiti, i preconcetti.
Il negozio si scalda, e alle sei meno dieci arriva Nancy, la cameriera. Entra senza dire una parola, passa dieci minuti in bagno e torna fuori in camicetta bianca e pantaloni neri, fumando una Virginia Slim. Comincia a canterellare tra sé canzoni stonate. Quei due sono una sinfonia irritante. Tic si avvicina con un vassoio pieno di brioche alla cannella, che Vince ispeziona senza interrompere il nuovo delirio del ragazzo, riguardo a un programma del governo che «fa esperimenti su scimmie ed esseri umani, sottoterra, forse ai poli, o in Canada, o in Groenlandia. La Groenlandia in realtà è molto più piccola di quello che sembra sulle carte geografiche, signor Vince. Può spiegarmi perché la fanno sempre sembrare più grande? Perché hanno qualcosa da nascondere, ecco perché. Ci metto su la glassa o lo zucchero vanigliato?» «Lo zucchero.» «Ovviamente con i cadaveri umani devono stare attenti. Li bruciano per cancellare ogni traccia dei virus, delle modificazioni genetiche e tutto il resto, ma sa cosa fanno con le scimmie, signor Vince? Lo sa, eh?» Vince tiene la bocca chiusa. «Le scimmie le passano al tritacarne e le schiaffano in mezzo alla carne che mangiamo tutti i giorni. Se prendi un taco, in almeno la metà dei ristoranti di questo paese, sai cosa stai mangiando?» Vince sa che è meglio non rispondere. «Carne di scimmia. Fottuta-carne-di-scimmia.» Così costruisci una vita, a partire da quello che hai. Emergono delle strutture. Friggi, passi la glassa e riempi di marmellata, e l'ordine genera conforto, soprattutto una mattina in cui non puoi smettere di contare i morti (Ardo Ginelli, quarantotto). Friggi, glassa, riempi. Non c'è motivo perché questa sequenza debba essere meno soddisfacente di qualunque altra, per esempio taglia, opera e sutura. Oppure: riempi le scatole, chiudile e saluta l'autista del furgone per le consegne, che ogni volta ripete: «Che profumino, qui dentro», come se dal giorno prima lo avesse dimenticato. Vince accende la scritta APERTO e le luci in sala. La prima ondata di clienti è tutta maschile: spazzini, poliziotti, vedovi e ubriachi. Si soffiano sulle mani, si tolgono guanti e cappelli. Vince li rifornisce di frittelle calde, bomboloni, brioche allo sciroppo d'acero e caffè bollente. Poi aspetta la seconda ondata, quelli che dormono un po' di più: uomini sposati, pensionati, impiegati che prendono sempre lo stesso tipo di paste, con la stessa quantità di latte in polvere e zucchero nel caffè, e siedono sempre agli stes-
si posti davanti ai tavoli di formica, fumando sempre la stessa marca di sigarette. Vince ama le loro chiacchiere sempre uguali, anche se non presta loro nessuna attenzione. È un trucco che ha imparato da Tina, un'ex fidanzata che faceva l'attrice, quando non lavorava come assistente nell'ufficio legale del fratello. Di solito le commedie in cui recitava si svolgevano in teatri pidocchiosi del Village o di SoHo, ma una volta riuscì a farsi dare una piccola parte in una commedia di Broadway, una comparsata in un paio di scene. Vince era così orgoglioso di lei che andò a vederla tutte le sere. Quella commedia gli piaceva di più ogni volta che la vedeva. Gli piaceva la prevedibilità delle scene e le piccole differenze che notava sera dopo sera. Un attore a volte faceva una pausa prima di una battuta, o cambiava l'inflessione, oppure partiva con un secondo di anticipo. Una volta un attore entrò in scena con una tazza di caffè in mano. Sì, proprio caffè! E mentre l'azione andava avanti (era la storia di una famiglia che possedeva un ristorante, c'era un fratello gay, un altro fratello che studiava in seminario e una sorella non sposata e incinta), le comparse parlavano e parlavano tra loro. Vince chiese a Tina di cosa parlassero durante le scene che si svolgevano nel ristorante affollato. Lei rispose che mormoravano frasi senza senso, tanto per creare un brusio di fondo e per dare l'impressione di una conversazione. Lei per esempio ripeteva continuamente: «Banana, mela, fragola». A volte invertiva l'ordine: «Fragola, mela, banana». Così Vince aveva iniziato a immaginare che i suoi clienti, o la gente che vedeva parlare per strada, dicessero sempre quelle tre parole: banana, mela, fragola. Ciò sembrava confermare quello che aveva sempre saputo: le persone normali - maestri di scuola, vigili del fuoco, contabili - erano semplici comparse nella vita di quelli come lui. La vita "normale" non gli sembrava nient'altro che una collezione di parole e concetti senza senso: lavoro, matrimonio, mutuo, dentista. Come stai? Bene, grazie, e tu? Bene. Che freddo, eh? Banana, mela, fragola. Friggi, glassa, riempi. Banana, mela, fragola. Ma oggi Vince ascolta davvero le conversazioni dei clienti regolari. Due uomini diretti alla discarica in cerca di una lavatrice funzionante. Uno che consiglia a un altro di convertire tutti i suoi risparmi in oro. Una donna che mostra le foto dei nipotini. Vince pensa che nella discarica ci saranno senz'altro lavatrici in buono stato, che i nipotini della donna devono essere adorabili, e che investire in oro è un'ottima idea. Ci vuole un certo coraggio per vivere una vita tranquilla. C'era un poster sulla porta della biblioteca, nel carcere di Rikers. Mo-
strava un cielo notturno e in fondo la scritta: LA COMUNITÀ DEGLI UOMINI È FATTA DI UN MILIARDO DI PICCOLE LUCI. La comunità degli uomini... Di notte, in cella (il sonno, nelle istituzioni statali, è come quello provocato dalla morfina: freddo e senza sogni), Vince immaginava un posto reale, una città degli anni Cinquanta, come negli show televisivi. Case con il recinto di legno e due genitori, strade con poliziotti sorridenti che salutavano toccandosi il cappello. E ora... vive a Spokane, nello stato di Washington. Tic ha finito di lavare i piatti e li sta mettendo via. Vince va nel retro a prendere il suo libro dall'armadietto (legge sempre, durante la pausa caffè) ma stavolta invece di mettersi a leggere si avvicina al lavandino, mette giù il libro, poggia un piede su uno sgabello e si accende una sigaretta. Fissa il suo assistente. «Posso chiederti una cosa, Tic?» Ricevere attenzione rende sempre nervoso il ragazzo. «Quante persone che conoscevi sono morte?» Vince è a disagio. Non era proprio quello che intendeva dire. «Non ti sto chiedendo di fare il conto esatto dei morti che conosci. Quello che volevo chiederti è: ti capita mai di avere come un pensiero fisso in testa... Oggi, per esempio, io non posso fare a meno di continuare a pensare a tutti i morti che ho conosciuto. Ti capitano mai cose del genere?» Tic si china in avanti, serio. «Ogni fottuto giorno.» Non lasciare che il lavoro ostacoli il tuo lavoro. Questo potrebbe essere il motto di Vince, se lui fosse il tipo da avere un motto. A mezzogiorno ha finito il suo turno al Languorino, e chiude il negozio. Fuori, nella luce azzurra del giorno, si sente meglio, anche se continua a contare. È come quando hai in mente un ritornello che non riesci a toglierti dalla testa. È arrivato a cinquantasette (il padre di Ann Mahoney). Si avvia verso sud, attraversa il fiume, si guarda varie volte alle spalle. Infine entra in un negozio dalla facciata in mattoni, con un'insegna scritta a mano: DA DOUG, FOTO TESSERA E SOUVENIR. Doug è intento a fotografare uno studente. Vince siede al banco, afferra una rivista e aspetta che Doug finisca di preparare il documento falso del ragazzo. Grasso, barba bianca e faccia rossa, Doug è una specie di Babbo Natale in versione da galera. «Come va, Vince?» Vince lo ignora, immerso nella lettura di un articolo sulla nuova Ford Escort, che dovrebbe fare diciassette chilometri con un litro di benzina ma è più spaziosa di una Chevrolet. Le macchine stanno diventando sempre
più piccole. Quando è successo? Ormai sembrano cestini per la merenda. Dev'essere dura per i ladri d'auto. Dove puoi piazzare un cestino per la merenda a quattro cilindri? Doug timbra la nuova patente di guida del ragazzo, la agita in aria per farla asciugare e gliela porge, intascando in cambio venti dollari. «Se qualche barista ti becca, racconti che l'hai avuta a Seattle, capito?» Il ragazzo contempla la sua nuova patente, poi finalmente sorride, tutto brufoli e apparecchio per i denti. Quando finalmente se ne va, Vince posa la rivista. «Hai dei numeri per me?» chiede Doug. Va a piazzare il sedere voluminoso su uno sgabello, dietro il banco. Vince gli passa un foglio di carta con nomi e numeri di carte di credito. Doug fa scorrere l'indice sull'elenco. «Per lunedì, va bene?» «Benissimo.» Doug sposta il peso sullo sgabello, apre un cassetto e ne tira fuori un mazzo di carte di credito false, con sopra nomi e numeri dell'ultimo elenco consegnatogli da Vince. «Ma dove li prendi? Non è possibile che tu riesca a rubare tutti questi numeri nel tuo negozio.» Vince non risponde. «È così che si fa, nell'Est?» Vince non risponde. Doug fa una faccia seccata. «Merda, ma perché sei così diffidente?» «Non sono diffidente.» «Allora perché non vuoi dirmi dove prendi questi numeri?» Nella domanda c'è una noncuranza appena un po' forzata. Vince prende le carte di credito e consegna a Doug un rotolo di banconote. «Avanti, dimmelo» dice Doug, mentre conta i soldi. «Ho il diritto di saperlo.» Vince si infila in tasca le carte di credito. «In realtà ho un'idea abbastanza precisa di come fai» dice Doug. «Non sono nato ieri, sai?» «Bene» dice Vince. «Allora dimmelo tu, come faccio.» «È evidente che riesci a prendere queste carte, da qualche parte. Ti scrivi nomi e numeri, poi le restituisci, così i proprietari non ne denunceranno il furto. Io ne faccio delle copie, tu le prendi, le usi per comprare merce, poi vendi la merce e vendi anche le carte di credito. Così ci guadagni due volte. Ho ragione?»
Vince non risponde. Si volta per uscire. «Ma insomma», Doug ride. «Siamo soci, no? Cosa credi, che voglia mettermi contro di te?» Vince si ferma e si volta lentamente. «Qualcuno vuole metterti contro di me?» Doug si fa serio. «Ma cosa dici?» «No, cosa dici tu.» «Io non sto dicendo proprio nulla, Cristo. Rilassati, Vince, non essere così paranoico.» Di nuovo quella parola. Vince lo fissa per un momento, poi esce. Si volta a guardare dentro dalla vetrina, e Doug articola di nuovo con le labbra la parola «paranoico». C'era quel tizio, Meyers, che aveva una rivendita di pezzi di ricambio rubati. Lavorava solo con immigrati vietnamiti arrivati da poco, perché poteva pagarli di meno e perché, secondo lui, erano troppo disorientati dall'America per pugnalarlo alle spalle. Se ne stava seduto in una grande sedia a dondolo, mentre i ragazzi vietnamiti rubavano auto, le smontavano e rivendevano i pezzi in tutto il New Jersey. E Meyers li pagava poco o nulla. Poi un giorno Meyers era scomparso, e il giorno dopo c'era un vecchio vietnamita a dirigere l'attività, seduto sulla sedia a dondolo al posto suo. C'è una lezione, in questo. Forse riguarda il sentirsi superiori. O magari le sedie a dondolo. Comunque, a quanti siamo? Cinquantotto. Vince Camden va sempre a piedi. Dopo due anni, non si è ancora abituato al fatto che qui tutti vanno dappertutto in macchina, anche le donne. A Spokane, se cinque persone si danno appuntamento in un bar, ci vanno ciascuna con la propria auto. Bevono una birra, poi salgono nelle loro cinque auto e si dirigono al bar successivo, tre isolati più avanti. Non è solo uno spreco, è una cosa incivile. La gente dice che è a causa degli inverni rigidi, che sono una via di mezzo tra quelli di New York e quelli di Plutone. Ma il clima fa schifo dappertutto, a parte forse qualche posto in Florida e in California. Ogni posto è sempre troppo caldo, troppo freddo, troppo umido, troppo qualcosa. Anche nel freddo di Spokane, Vince preferisce camminare. Uscendo dal negozio di Doug si dirige verso il centro: un paio di palazzi di venti piani in vetro e acciaio, circondati da edifici più bassi in pietra e mattoni. Gli piace vedere i gruppi di case da lontano, quando cornicioni e colonne si scorgono appena, e la mente immagina il resto. Si ferma in un piccolo bar ristorante, chiede un caffè e va a sedersi a un
tavolo, fissando fuori e mordendosi un'unghia. Due volte in un giorno la stessa parola: "paranoico". Ma come puoi dire se sei paranoico o meno, se la preoccupazione stessa di esserlo è un sintomo di paranoia? Non è tanto il fatto che Doug gli abbia chiesto dove prende le carte di credito, o che Lenny si sia presentato nel vicolo con tre giorni di anticipo, sarebbe bastata soltanto una delle due cose per insospettirlo. È soprattutto questa sensazione strana che si porta dietro da quando si è svegliato, come se in qualche modo sapesse che la sua ora è arrivata. E se fosse proprio così? Se la morte ti aspettasse là fuori, in attesa che passi sotto quel pianoforte sospeso a un montacarichi? Vince si sente come un pezzo degli scacchi, come un cavallo uscito senza rinforzi, incalzato dai pedoni avversari. Può sfuggire ai pedoni, ma avverte la presenza di altri pezzi, più grandi e potenti, due o tre mosse più avanti. Un attimo dopo, Vince si dirige al telefono pubblico del bar. Inserisce una moneta e compone un numero. «Ciao. Lui c'è?» Aspetta. «Sono Vince. Ti va una partita a scacchi?» Ascolta. «Oh, avanti. Ma che bisogno c'è?» Ascolta. «Va bene, va bene... È il venti, quattro, quattordici. Devo vederti. Va bene così?» Ascolta. «Ho bisogno di vederti adesso. Oggi.» Ascolta. «Ma certo che è un'emergenza. Cosa credi?» Riaggancia, torna al tavolo e finisce il caffè. Tira su la cerniera della giacca a vento ed esce. Cammina con la testa in avanti, verso il centro della città. Il freddo e il sole gli trasmettono una specie di eccitazione. Respira profondamente dal naso, e osserva gli alberi scheletrici, la strada nera. La città ha una sua bellezza, dopotutto. Il suo punto forte non è l'architettura, ma la gamma di contrasti: edifici in stile contro le colline, la striscia selvaggia del fiume civilizzata da cemento e asfalto su entrambi i lati. È un posto reale. Vince cammina senza guardarsi alle spalle, cosa insolita per lui. Se si fosse voltato, avrebbe visto una cosa che non gli sarebbe piaciuta: la Cadillac bordeaux di Len Huggins ferma davanti al negozio di Doug. Doug si massaggia la mascella. «Quanto?»
«Ha detto gratis» dice Lenny, togliendosi gli occhiali da sole. «Vuol dire che non costa niente.» «Lo so cosa vuol dire. E chi è questo tizio?» «Si chiama Ray.» «Da dove viene?» «Dall'Est, come Vince. È appena arrivato in città.» «E cosa fa qui?» «Non lo so. Non me l'ha detto.» «Ma è un professionista?» «Oh, sì. Preme i bottoni.» «I bottoni?» «È così che dicono, dalle sue parti. Lavora per gente seria.» «E tu sei sicuro che non è uno sbirro?» «Non è uno sbirro, Doug, stai tranquillo.» «Non so cosa pensare.» «Ascolta, è disposto a farlo gratis. Come possiamo dire di no?» Doug esita. «Ray dice che a Est gestiscono tutto l'affare delle carte di credito in modo diverso. Vince fa un sacco di soldi, e a noi dà solo le briciole. Non è giusto. E non vuole dirci da dove prende i numeri e i nomi delle carte di credito. Non è giusto neppure questo. Siamo soci, sì o no?» «È solo che... Vince mi piace.» «Piace anche a me. Vince piace a tutti. Non è una questione personale.» «Cosa dovremmo fare, esattamente?» «Niente.» «Niente?» «Solo mostrare a Ray dove puntare la pistola.» Ogni isolato di Spokane racconta come è nata la città. Una lenta inondazione di case, che ha riempito prima la gola del fiume, da ovest a est, per poi risalire lungo le colline, estendendosi anche a nord e a sud, ma soprattutto verso l'alto. Il centro, un gruppo di edifici in mattoni di sette isolati per quindici, copre il primo livello. Sopra e intorno ci sono i quartieri vittoriani e Tudor, e ancora oltre le case art déco, i cottage, i bungalow, e infine le fattorie e le case a livelli sfalsati. Al centro di questa distesa ci sono le cascate, che la città racchiude come un'ostrica, e poco al di sopra delle cascate c'è il tribunale federale, un edificio squadrato di dieci piani. In un ufficio al sesto piano, Vince e un vice-
sceriffo di nome David Best sono seduti ai lati opposti di una scacchiera. Vince ha spinto avanti un pedone, e David Best ha una mano sul cavallo. Evidentemente considera la possibilità di minacciare il pedone. Guarda ogni punto della scacchiera, spostando gli occhi da un pezzo all'altro. «Hai intenzione di muovere quel cavallo, o lo stai solo strigliando?» «Un po' di pazienza» dice David. Ha cinquant'anni e li dimostra tutti: sovrappeso, capelli grigi, guance e naso rossi, pelatina in cima alla testa. Indossa pantaloni non stirati, una giacca a spina di pesce e una cravatta annodata come un cappio. Finalmente muove il cavallo. Vince fa avanzare subito uno dei suoi cavalli a proteggere il pedone minacciato, e fa il gesto di schiacciare un cronometro immaginario. «Che te ne sembra di Christensen?» «Vince Christensen?» «Carver?» «Vince Carver?» «Claypool?» David posa la mano su un pedone e comincia di nuovo a guardare tutta la scacchiera, ponderando la mossa. «Ascolta, non puoi semplicemente cambiare nome ogni sei mesi. Non funziona così.» «E funzionerebbe meglio se qualcuno mi facesse fuori?» «Ma chi vuoi che ti uccida, Vince?» «Te l'ho detto. Camden è una città del New Jersey, giusto? Chiamarmi Camden è un po' come chiamarmi Vince Capone. Non credi che capiranno?» David alza gli occhi dalla scacchiera. «Chi?» «Cosa?» «Chi capirà, Vince. Vieni qui ogni sei mesi circa, convinto che qualcuno voglia farti la pelle. L'ultima volta...» «Sì, ma stavolta...» «L'ultima volta per poco non hai ucciso quel poveretto della compagnia telefonica.» «È rimasto su un palo fuori da casa mia per quaranta minuti! Mi dici cosa ci fa un tizio su un palo del telefono per quaranta minuti?» «Ripara la linea?» «Sto solo dicendo che questa volta...» «Questa volta!» David tende entrambe le mani, palme in alto. «Chi sono queste persone che ti vogliono morto, Vince? Ho controllato il tuo dossier. Nessuno ti cerca.»
Vince si limita a fissarlo. «La banda contro cui hai testimoniato non esiste più. Bailey è morto. Crapo è morto. E quell'altro, come si chiamava? Coletti? Era solo una pedina. Un vecchio. È uscito dopo meno di un anno, e ora è in pensione. Francamente, il fatto che ti abbiano messo nel programma di protezione testimoni mi lascia perplesso. Perché non vedo nessuna necessità di proteggerti.» David fissa Vince, con le grosse dita sul pedone. «Se continui a massaggiare quel pedone, potrebbe eccitarsi e crescere fino a diventare un alfiere» dice Vince. Finalmente David muove il pedone, si rilassa e si spinge gli occhiali sul naso. Vince mette il cavallo in posizione. «Voglio che tu scriva nel tuo registro che sono venuto, oggi. Così quando mi faranno fuori potrai spiegare ai tuoi capi perché non hai fatto nulla.» Questo fa davvero incazzare David. Diventa tutto rosso in viso e fissa la scacchiera. Un attimo dopo spinge indietro la sedia, si alza a fatica e va ad aprire uno schedario. Torna al tavolo con una cartellina, con sopra la scritta PRO-TES. «Ci sono tremiladuecento persone in questo programma, Vince. Sai quanti ne abbiamo persi, finora? Quanti testimoni sono stati uccisi, dopo che li abbiamo trasferiti?» Vince alza gli occhi. «Zero. Nemmeno uno.» David apre la carpetta. «Ogni mese riceviamo rapporti segreti tramite cimici, informatori, corrispondenza. Appena sappiamo di una minaccia, o di una taglia, la registriamo. Ogni volta che uno dei nostri testimoni viene nominato, il fatto è annotato, catalogato e riferito all'ufficio interessato. A ogni testimone viene assegnato un numero, da uno a cinque, corrispondente alla valutazione del pericolo che corre. E sai qual è il tuo numero, Vince?» Lui scrolla le spalle. «Zero. Nessuna minaccia pertinente. Sai quante volte è stato menzionato il tuo nome nei rapporti, da quando sei nel programma?» Vince si guarda intorno. «Nemmeno una volta in quattro anni. Non sei stato mai nominato, neppure in frasi tipo: "Ah, lui sì che reggeva l'alcol". Vince, nessuno ha intenzione di ucciderti, perché nessuno si ricorda più di te. Francamente, di te non importa nulla a nessuno. Pensano che non ne valga la pena. Hanno pesci più grossi di cui preoccuparsi.» David si rimette a sedere. La sedia scricchiola sotto il suo peso.
Nella stanza c'è solo silenzio. «Senti» dice David. «Mi dispiace.» Vince scrolla le spalle. «Forse hai ragione. E solo che...» Solleva un pedone per muoverlo, ma resta a fissarlo. «È da stamattina che ho una strana sensazione, come se qualcuno mi tenesse d'occhio, cercasse di manipolarmi. Ti sei mai sentito così, David?» Piega la testa di lato. «Come se gli altri sapessero quello che stai per fare prima che tu lo faccia?» «No, non mi è mai capitato. Alle persone sane di mente non capita. Le persone sane di mente non cambiano nome perché hanno avuto una brutta giornata.» David lo fissa in volto, poi spinge gli occhiali sul naso e si china in avanti. «Forse dovresti vedere di nuovo il dottor Welstrom. Solo per parlargli di...» «No.» «Quello che dici somiglia molto al problema che hai già avuto, Vince: paure irrazionali, ansia...» «David...» «Adattarsi a una nuova vita non è facile. Soprattutto quando devi lasciarti alle spalle ogni cosa: il tuo modo di vivere, gli amici, la fidanzata. Come si chiamava? Era un'attrice, se non sbaglio. Tina?» «È proprio necessario?» chiede Vince, alzando le mani. «Non possiamo giocare a scacchi e basta?» «Va bene.» David annuisce. «Scusami.» Abbassa di nuovo lo sguardo sulla scacchiera. «Allora, come va il lavoro?» «Bene.» «Te lo chiedo perché a volte può essere difficile abbandonare una vita in un certo senso più interessante per... i krapfen. Capisci cosa sto cercando di dirti?» «Che giochi a scacchi come mia nonna?» David sorride suo malgrado, mette un dito sull'alfiere e comincia a osservare tutta la scacchiera. «Forse hai bisogno di un hobby. Potresti imparare a giocare a golf, per esempio. Cosa fai nel tempo libero?» «Gioco a carte. Leggo.» «Cosa leggi?» «Inizi di romanzi.» «E non li finisci?» «No.» «Perché?» «Non lo so» dice Vince. «Forse non voglio restare deluso.» Si appoggia allo schienale della sedia e guarda un ritratto sulla parete
dietro il grosso vicesceriffo. Dal ritratto lo fissa il presidente Jimmy Carter, con i capelli ormai più grigi che biondi, le labbra strette a nascondere il suo sorriso tutto denti. Il viso rivela un arrotondamento, una specie di cedimento, che quattro anni fa non c'era. L'uomo più potente del mondo? Vince non riesce a distogliere gli occhi. C'è qualcosa, nel viso di Jimmy Carter, come un vago senso di non appartenenza, che lo porta per la prima volta a considerare i limiti del potere e il peso della responsabilità. Ma proprio mentre il pensiero sta formandosi nella sua mente, gli tornano in testa le parole di David: «Di te non importa nulla a nessuno». Bailey e Crapo sono morti, questo è vero. Li rivede ancora al processo, quasi annoiati, non troppo sorpresi del fatto che Vince avesse accettato di testimoniare. Non mostravano rabbia, solo stanchezza. Il pubblico ministero: «Gli uomini che hanno collaborato con lei nell'acquisto fraudolento di merce con carte di credito rubate sono presenti in aula?». Vince aveva indicato Bailey e Crapo. E ora entrambi sono morti. Bailey di infarto, e Crapo si è fatto accoltellare nel tentativo di sedare una rissa. Come ha potuto dimenticarli? Cinquantanove. E sessanta. Vince abbassa gli occhi sulla scacchiera. La mano di David è ancora posata sul pezzo. «Pensi di sposare quell'alfiere, o preferite convivere senza un impegno formale?» Sono le cinque passate ed è quasi buio quando Vince rientra a casa, dopo la sua visita al tribunale federale e un piatto di zuppa in una trattoria. Apre la porta e vede la posta della giornata sul pavimento dell'ingresso. C'è una busta gialla senza indirizzo del mittente. Consegnata a mano dal postino, puntuale come sempre. Almeno una cosa che va per il verso giusto. La casa dove abita è piccola e accogliente, una villetta a un solo piano degli anni Trenta, con un portico minuscolo sostenuto da colonne di pino. Tutto l'insieme suggerisce qualcuno che aveva puntato più in alto e poi ha dovuto abbassare la mira. Vince si toglie le scarpe e cammina scalzo sulla moquette del soggiorno. Accende la tivù. Primo piano del presidente Carter su un podio, faccia stanca e occhi infossati. «Le armi migliori sono quelle che non vengono usate in combattimento, e il miglior soldato è quello che non deve perdere la vita sul campo di battaglia. La forza è importante per la pace, ma le due cose devono procedere mano nella mano.» Ah, sì. Il dibattito. Interessante. Vince alza il volume e va in cucina. Posa la posta sul tavolo e prende una birra Oly dal frigo. La apre, legge "Non
hai vinto, ritenta" sull'interno del tappo e beve un lungo sorso. Poi appoggia la bottiglia accanto alla posta e apre lo stipo sotto il lavandino. Tira fuori una scatola di cartone e la mette sul tavolo accanto alla birra. Dentro la scatola c'è il suo ultimo progetto, la migliore idea che abbia mai avuto, quella che forse gli permetterà di mollare per sempre il business delle carte di credito. Vince prende dalla scatola sei barattoli vuoti di marmellata Kerr, un bilancino, un secchio di cenere e una scatola di sigari piena di foglie e steli di marijuana. Pesa sessanta grammi di erba e li mette in uno dei barattoli. Poi con un cucchiaio riempie il barattolo di cenere, nascondendo l'erba. Infine avvita il coperchio e incolla sul barattolo un'etichetta bianca e rossa che dice: MOUNT ST. JELLY Autentica cenere vulcanica di Mount St. Helens ln un decorativo barattolo di marmellata Luogo di imballo e spedizione: Spokane, WA Sotto, in caratteri piccoli, è aggiunto: Souvenir, non adatto al consumo alimentare. Pensa di mandare la cenere a Boise e a Portland, dove due tipi che conosce toglieranno l'erba dal barattolo, la venderanno, e poi (questa è la parte più bella) venderanno anche i barattoli di cenere ai turisti. L'idea riesce sempre a farlo sorridere. Di solito devi ingaggiare dei corrieri per portare la roba a destinazione, e devi rassegnarti al fatto che taglieranno la roba, fumandosene una parte e vendendone un'altra. E devi sempre vivere con la preoccupazione che se li beccano faranno il tuo nome. Invece, se riesci a fare in modo che il tuo corriere sia il governo degli Stati Uniti, i costi di spedizione diminuiscono dell'otto per cento ogni trenta grammi di fumo, e la vendita della cenere li ripaga abbondantemente. All'inizio Vince aveva pensato di spedire l'erba in scatole di salmone affumicato, ma la cenere è un'idea migliore e più economica, e inoltre i clienti non potranno lamentarsi del fatto che la marijuana odora di pesce. Infine, lungo le strade il rifornimento di cenere è infinito. Ancora oggi, cinque mesi dopo l'eruzione del Mount St. Helens, migliaia di negozietti di souvenir vendono la cenere dentro penne, bottiglie di Coca-Cola e posacenere. Quindi perché non in
barattoli di marmellata? Vince riempie due barattoli, finisce la birra e va a prenderne un'altra in frigo. Torna a sedersi e guarda la TV. Ora parla Reagan. Vestito scuro, atteggiamento teatrale, come se leggesse. «Sono stato nel Bronx, nel punto esatto in cui si è recato il presidente Carter nel 1977... Una città bombardata. Scheletri di edifici, finestre sfondate. Su una c'era scritto: "Promesse non mantenute". Su un'altra: "Disperazione". Ci sono agenzie che si fanno pagare per portare i turisti a vedere questa desolazione. Un uomo mi ha posto una domanda molto semplice: "Ho ragione di sperare che un giorno potrò di nuovo prendermi cura della mia famiglia?".» «Ho ragione di sperare?» Questa è buona. Vince cerca di immaginare un tipico disoccupato del Bronx che pronuncia la frase: «Ho ragione di sperare». Impossibile. Prende la posta. Oltre alla busta gialla ci sono due bollette, due pubblicità elettorali, e una piccola busta dall'ufficio elettorale della contea. Vince la apre per prima. Dentro c'è solo un cartoncino grande come un biglietto da visita. Sopra c'è scritto: "Certificato elettorale". Vince lo volta e legge la scritta sul retro. Si certifica che Vincent Camden, nato il... e residente in... è registrato come elettore nel distretto 100342.00, Contea di Spokane, Stato di Washington. Sotto c'è l'indirizzo del seggio dove deve andare a votare, una piccola scuola cattolica non lontana da casa sua. E così, ora può votare. O meglio, Vince Camden può votare. Vince mette giù il biglietto, poi lo riprende in mano e lo legge di nuovo. I federali gli avevano promesso, tempo addietro, di ripulire la sua fedina penale e di restituirgli i diritti civili, se avesse collaborato con la giustizia. Ma c'erano tante altre cose di cui preoccuparsi (non ultima la possibilità di essere fatto fuori) che Vince se n'era dimenticato. Che poteva farsene del diritto di voto uno come lui, che viveva al margine della legge ed era preoccupato principalmente di salvarsi la pelle? Ma ora, a distanza di tre anni, ecco che gli arriva a casa il suo bel certificato elettorale. Vince non può fare a meno di chiedersi se non sia un segno di qualche tipo. Apre il portafogli e infila il cartoncino accanto alla tessera della previdenza sociale.
Poi apre la busta del postino. L'affare funziona così: il postino prende le lettere che contengono carte di credito nuove, le infila in una busta e le porta a Vince, il quale le apre con il vapore, copia su un foglio nomi e numeri delle carte di credito e le rimette nelle buste, chiudendole con un filo di colla. Le riconsegna al postino, il quale provvede a recapitarle ai legittimi destinatari come se non fosse successo niente. In genere passa sempre un mese o due prima che loro scoprano che qualcun altro compra merce caricando il costo sul loro conto. Ma a quel punto Vince ha già mollato le carte. Stavolta c'è poca roba. Sei buste chiuse di Master Card e American Express. Vince sente con le dita le carte di credito all'interno. Poi dalla busta scivola fuori un biglietto, poco più grande del suo certificato elettorale. Vince lo fissa. No, questo non va bene. La paura ha bisogno di poco spazio. Vince prova l'impulso di ignorare quel biglietto. Non è giusto, non dopo una giornata come quella. Alla fine lo prende in mano e lo legge. Devo vederti Domani alle tre, al solito posto. È importante. No, è tutto sbagliato. Gli incontri con il postino sono di lunedì. Infatti si sono visti ieri. Vince gli ha pagato la sua parte e gli ha dato le carte di credito da consegnare ai proprietari. Lunedì. Non si sono mai incontrati in un giorno diverso. Domani è mercoledì. No, non va bene. E in un attimo torna il brutto presentimento, la paura, la paranoia, o come altro la si voglia chiamare. Forse è il fatto di essere di nuovo a casa, dove la giornata è cominciata in modo così strano. O forse è la combinazione del certificato elettorale e del biglietto del postino. Sia come sia, Vince sente allargarsi l'oscurità, sente in bocca il gusto del terrore con cui si è svegliato quel mattino, e sa con certezza che loro lo hanno trovato. E che lo uccideranno. Quando muori, il mondo va avanti senza di te, ti inghiotte come un sasso gettato nell'acqua. Alza gli occhi a fissare Barbara Walters, la moderatrice del dibattito, dalla testa enorme e dall'aria severa: «Signor presidente, gli occhi della nazione stasera sono puntati sugli ostaggi in Iran. So che si tratta di un problema scottante, ma la domanda che vorrei farle, al di là di questa crisi specifica, è: come risponde il nostro Paese agli atti di terrorismo?» Vince pensa a Lenny («Vince, sei paranoico»), a Doug («Credi che vo-
glia mettermi contro di te?») e a David («Di te non importa nulla a nessuno»). Hanno ragione. Tutti e tre. Vince è paranoico, loro gli si sono messi contro, e di lui non importa nulla a nessuno. Una specie di freddo gli risale dalle caviglie verso i polpacci. Jimmy Carter si morde un labbro e piega la testa di lato. «Barbara, la minaccia rappresentata dal terrorismo è una delle piaghe del mondo... Noi ci siamo impegnati ad agire in modo forte contro i terroristi. Per esempio riguardo ai dirottamenti aerei. Ma oggi, la minaccia più seria riguarda quello che succederebbe se nazioni come la Libia o l'Iraq, che credono nel terrorismo come sistema di fare politica, riuscissero a procurarsi armi nucleari.» Vince si alza, sente le proprie pulsazioni nelle orecchie. Pensa. Pensa. Chi può esserci dietro questa storia? Chi ha da guadagnarci di più? Il problema con i complotti è che solo i pazzi sono in grado di scoprirli. Per questo funzionano, di solito. Un complotto spezza la verità in schegge, e solo un pazzo può guardare una scheggia e vedere il quadro completo. E comunque, chi è disposto a credere a un pazzo? Stai perdendo colpi, Vince? Stai perdendo la testa? Ronald Reagan non vede l'ora di rispondere: «Hai fatto questa domanda due volte, penso che tu abbia diritto ad almeno una risposta. Recentemente sono stato accusato di avere un piano segreto sugli ostaggi... È difficile rispondere alla tua domanda, perché, allo stato attuale delle cose, nessuno vuole correre il rischio di dire qualcosa che possa inavvertitamente interferire con la liberazione degli ostaggi». Va bene, supponiamo che David abbia ragione, e che non si tratti di qualcuno della sua vecchia banda venuto per vendicarsi. Uno dei suoi collaboratori sta forse pensando di prendersi una parte maggiore dei guadagni, o di aumentare il numero delle carte di credito in gioco? Il postino, per esempio. No, non ne sarebbe capace. Restano Doug e Lenny. A Lenny manca il cervello, e a Doug le palle. Sembrano entrambi innocui. Eppure c'è un proverbio siciliano che Coletti ripeteva spesso: «Il nemico da temere è quello che ti sorride». Il presidente Carter lo sa. «La posizione del mio rivale è estremamente pericolosa e belligerante, anche se espressa in tono pacato.» E forse sono quelle ultime parole, «in tono pacato», che finalmente spingono Vince fuori dai suoi pensieri e gli fanno notare il ronzio del motore che sente da almeno trenta secondi. Un'auto con il motore acceso, davanti a casa sua. In alcuni gruppi sociali, come i politici di professione, le gang criminali e le ragazze delle medie superiori, ogni respiro è considerato un complotto.
Perciò Vince non sarebbe sorpreso di sapere che gli uomini di Reagan sono riusciti a mettere le mani sugli appunti di Carter, usandoli per preparare il loro candidato. Oppure che Reagan lavora dietro le quinte per ritardare la liberazione degli ostaggi fino a dopo le elezioni. Quanto a lui, che spia da dietro le tende e si guarda intorno alla ricerca di un'arma: quali complotti si ordiscono alle sue spalle? Quali correnti di malevolenza e avidità? E soprattutto, chi c'è dentro quell'auto ferma davanti a casa sua con il motore acceso? Vince avanza carponi sul prato gelato. Non riconosce la macchina, una Brougham dei primi anni Settanta. Stringe forte in mano un tubo di piombo trovato sotto il lavandino della cucina. Si sposta prima verso la casa accanto, poi si avvicina tenendosi al riparo di una siepe, e infine emerge proprio dietro la macchina, inalando i gas del tubo di scappamento. Sul parafango c'è un adesivo: IO AMO LO YETI! Vince si sposta di lato, soppesando il tubo nella mano, ed espirando in piccoli soffi. Calma. Calma. L'uomo al volante non l'ha visto. Fuma e fissa la strada. Vince chiude gli occhi, conta fino a tre, poi corre verso la portiera, la apre e tira fuori l'uomo per i capelli scaraventandolo sull'erba. La sigaretta vola via in una scia di scintille. È solo un ragazzo, diciotto o diciannove anni al massimo. Capelli rossi lunghi e un giubbotto blu da postino, con la sigla PT gialla. «No!» grida, coprendosi la testa. Vince solleva il tubo, minaccioso. «Sei solo?» «Sì. Cristo, non colpirmi con quello!» «Qualcuno ti ha detto di parcheggiare davanti casa mia?» «Sì. Mi ha detto di aspettarla qui.» «Come ti chiami?» «Everett.» «Everett, o mi dici chi ti ha mandato, o ti spacco la testa.» «Nicky. È stata lei a dirmi di aspettarla qui.» «Chi è Nicky?» «Come?» «Chi cazzo è questa Nicky?» «Per favore, non faccia così. Vado via subito.» «Chi-è-Nicky.» «Ecco, immagino sia sua figlia...» In quel momento Vince la vede. Una ragazza del quartiere, sui sedici
anni. Esce da una finestra al pianterreno di una casa poco più avanti. Salta giù e si avvia verso l'auto. Poi vede Vince con il tubo in mano e il suo bello steso a terra. Si volta, e senza cambiare espressione rientra dalla stessa finestra da cui era uscita. Un attimo dopo, Vince aiuta il giovane postino a rialzarsi e restano entrambi a fissare la ragazza che scompare dentro la casa. «Sono presidente da quasi quattro anni. Ho dovuto prendere migliaia di decisioni. Ho visto la forza della mia nazione, e ho visto le crisi avvicinarsi. E ho dovuto affrontarle nel modo migliore possibile.» Vince è in piedi, a mezzo metro dal televisore, con un'altra birra in mano. Fissa Jimmy Carter dritto negli occhi infossati, mentre il presidente pronuncia la sua battuta di chiusura: «Io da solo ho dovuto determinare qual era l'interesse del Paese, e il grado in cui il Paese era coinvolto. L'ho fatto con moderazione, con cura, con considerazione». A volte sei solo stanco. E forse c'è qualcuno che complotta contro di te. Forse ti hanno rubato gli appunti, forse si sono accordali con i terroristi, e forse non appena avrai perso le elezioni gli ostaggi torneranno a casa. Ma forse le cose non stanno affatto così. Forse sei solo troppo stanco per andare avanti. E forse è questa la sconfitta, alla fine: un semplice cedimento. Forse è solo come andare a dormire. «Sì» dice il presidente. «Si è soli in questo lavoro. E gli americani martedì prossimo dovranno prendere una decisione da soli. Coloro che ora ascoltano la mia voce dovranno emettere un giudizio sul futuro di questa nazione. E vorrei ricordare loro che anche un solo voto può fare una grande differenza. Se nel 1960 un solo voto per distretto avesse cambiato bandiera, John Fitzgerald Kennedy non sarebbe mai diventato presidente degli Stati Uniti.» Un solo voto... Il punto è: tu non hai paura di Lenny, di Doug o del postino, e neppure di tutti e tre insieme. Non è neppure il complotto in sé che ti spaventa, ma l'idea che stiano complottando. L'ignoto. Non è il fiocco di neve, o il singolo voto. È l'idea della valanga. Quante volte hai pensato che la vita sarebbe più semplice se potessi conoscere il futuro? Bene, il futuro lo conosci già: siamo tutti morti che camminano. Il sole un giorno esploderà. Quindi, perché alzarsi dal letto, al mattino? Quindici miliardi di anni o quindici minuti: che differenza fanno? Che differenza fa qualunque cosa? E a quel punto è Ronald Reagan a offrire una risposta: «Martedì prossi-
mo è il giorno delle elezioni. Andrete ai seggi, resterete soli in cabina, e prenderete una decisione. Quando la prenderete, vorrei che ciascuno di voi si chiedesse...». Stai davvero meglio di come stavi quattro anni fa? Vince lascia cadere la bottiglia sulla moquette. La spuma esce lentamente, come sangue giallo. Un solo pensiero non è nulla. Le migliaia di impulsi elettrici necessari per creare una frase non riuscirebbero ad accendere neppure una lampadina da dieci watt. Eppure, ecco qui Vince Camden, nel momento di massimo sviluppo tecnologico dell'umanità, in un mondo creato dall'accumularsi di singoli pensieri nel corso dei millenni. Ecco Vince Camden, lui stesso una creazione della tecnologia legale, in piedi in un rifugio riscaldato, isolato dall'esterno, intento a fissare una scatola di tredici pollici che emette un fascio di elettroni, i quali, una volta decodificati, formano l'immagine di due uomini che si contendono il posto di maggiore potere nel mondo, in un'epoca in cui basta spingere un bottone per segnare la fine della civiltà. Ecco Vince Camden, sopraffatto dal senso della propria esistenza e dal desiderio di cambiare, dal corso della storia e dal peso di tante decisioni, distrutto dal miracolo dell'essere e da tutti questi fili intrecciati a formare un semplice pensiero: Per quale di questi due coglioni dovresti votare? II SPOKANE, WASHINGTON MERCOLEDÌ 29 OTTOBRE 1980, ORE 02:25 Puttane che discutono di reggiseni. Se lo avesse saputo, Vince avrebbe continuato a camminare. Era immerso nei suoi pensieri sulle elezioni, e qualcosa in quella preoccupazione lo faceva sentire meglio, o almeno lo distraeva. Ma ora si trova fuori dal Sam's Pit, dove Beth e Angela parlano e gesticolano, con il fiato che si condensa in nuvolette di vapore fuori dalle loro bocche. «Vince può fare da arbitro» dice Angela. Si dirige verso di lui su un paio di tacchi alti come trampoli, che, trasformano il suo culo in una specie di mensola. «Beth pensa che agli uomini piaccia il reggiseno, io sostengo che preferiscono vedere le tette nude.» Vince sposta lo sguardo da Angela, color caffè e piena di curve, a Beth, magra e pallida, con il braccio ingessato nascosto dietro la schiena. «Non
credo di essere la persona giusta a cui chiedere.» Angela lo prende per un braccio e gli si appoggia contro con le tette. Vince sente il solletico delle sue palpebre sulla guancia. «Oh, avanti, Vince. Cosa ti piace di più? Il reggiseno di Beth... o queste?» «Ecco, non posso negare che queste siano molto belle da vedere» dice Vince, buttando l'occhio nella scollatura di Angela. «Ma un reggiseno ha... qualcosa di sensuale.» Angela lo spinge via. «A te piacerebbero pure i coglioni se li avesse Beth.» Beth ride, a disagio. «Angela!» Vince fugge dentro il locale, già pieno di fumo e di partite a poker, di costolette e di alcol venduto sottobanco. Eddie sale dal seminterrato con una padella di ali di pollo fritte. «Vince Camden, il più grande lavoratore nel campo dei bomboloni. Come ti va, Vince?» «Bene. E tu stai bene, Sam?» «Io sono stanco, grasso e diabetico.» Eddie ha sessant'anni, è nero, con la barba grigia e occhiali con la montatura nera. Vince sta per proseguire, poi si ferma e lo fissa negli occhi. «Ascolta, posso chiederti una cosa?» Eddie si stringe nelle spalle. «Cosa?» «Ecco, cosa ne pensi del dibattito?» «Due puttane che discutono di reggiseni? In una discussione del genere non c'è mai un vincitore.» «No, no, mi riferivo al dibattito presidenziale.» Eddie si limita a fissarlo. «Carter e Reagan, ieri sera, in TV. L'hai visto?» Eddie ci pensa su un attimo, poi scrolla di nuovo le spalle. «Come ho detto prima, quando due puttane cominciano a discutere su qualcosa non c'è mai un vincitore.» «Il colore ha una grande importanza. Un dollaro.» «Intendi quelli rossi o neri?» «Sì, ma anche bianchi. L'unico che non sopporto è il color carne.» «A me il colore non importa, basta che non abbiano dentro tutti quei ferri. Vedo.» «No, ti sbagli. Il reggiseno con i sostegni è un'ottima cosa. Un po' di filo di ferro vuol dire che dentro c'è un bel po' di seno.»
«Seno? Ho sentito male o hai davvero detto "seno"?» «Quelli con i ferretti sono difficili da togliere. Vedo anch'io.» «Allora non portarli, no?» «Intendevo da togliere alla donna» «Hai provato mentre è sveglia? Vedo.» «L'allacciatura davanti non mi crea problemi, ma quella dietro... merda.» «Su questo hai ragione. È difficile armeggiare alla cieca con le mani dietro la sua schiena.» «Tu che ne pensi, Vince?» Lui alza gli occhi. Va sempre a finire così. Rimettono a lui la decisione finale. Lo stanno fissando come bambini, con le carte in mano. Dietro di loro, Angela è seduta in braccio al suo pappone. Poco più in là un poliziotto fuori servizio sta firmando il gesso di Beth. Vince dà un'occhiata all'orologio: le quattro meno un quarto. «Va bene» dice Vince. «Vi dirò quello che penso, ma poi chiudiamo la discussione e parliamo di qualcosa di più intelligente. Come la politica, per esempio. D'accordo?» Tutti annuiscono. Jacks tracanna champagne da una magnum che tiene sulle ginocchia. «Allora, prima di tutto dovete capire che il reggiseno è un simbolo dell'ansia maschile. È... come si dice... un surrogato del clitoride. Normalmente non facciamo altro che pensare alle donne, e quando finalmente ne troviamo una, scopriamo che in realtà non sappiamo nulla di loro.» Si stringe nelle spalle. «Il reggiseno è così: un'altra cosa delle donne che temiamo di non sapere bene come funzioni.» Gli altri lo fissano in silenzio. «Ma come superare quell'ansia? Per esempio, c'è quel momento, durante i preliminari, poco prima di cominciare sul serio, in cui siete entrambi mezzi svestiti e tutto può ancora succedere. Lei potrebbe anche cambiare idea all'improvviso, e tu hai perso la testa. La baci, le mordi il collo, le tue mani dietro la sua schiena cercano di capire al tatto se è un'allacciatura a gancetti o incastro... E tutto a un tratto lei ti spinge via. Si alza in piedi, sorride, e lentamente abbassa le spalline, sgancia il reggiseno... e lo lascia cadere a terra.» Non si sente volare una mosca. Angela e il pappone lo fissano. Anche Beth e tutti gli altri clienti. «Quindi, sì, penso che il reggiseno sia sexy. E ora ditemi una cosa» Vince raddrizza la schiena e getta nel piatto una banconota da cinque. «Sono
l'unico qui che ha visto quel dannato dibattito?» Quattro e trenta del mattino. Le ragazze gli si fanno incontro, appena esce, ma oggi lui è distratto. Non ha carte di credito, e vende l'erba di fretta, prevenendo abbracci e allusioni. Stavolta c'è anche Beth sulla porta. Aspetta che le altre si siano allontanate e dice: «Mi è piaciuto quello che hai detto sui reggiseni, Vince». «Come stai, Beth?» «Non riesco a dormire. Sono troppo nervosa.» «Come mai?» Lei lo guarda come se la risposta fosse ovvia. «La casa, ricordi? Te ne ho parlato ieri notte. Vendo una casa per conto di Larry. Devo stare lì ad aspettare i clienti.» «Ah, sì, certo.» Vince se ne era completamente dimenticato. «E quando sarà?» «Sabato, domenica e lunedì. Verrai anche tu, vero?» «Certo.» «È solo che... faccio questi sogni dove all'improvviso entra uno dei miei clienti e mi riconosce, o arrivano i poliziotti ad arrestarmi, o dico una battuta da ritardata mentale.» «Beth...» «Dimmi la verità, ti prego. La gente ride di me?» «Di te?» «Per il fatto che voglio prendere la licenza da agente immobiliare. È una stupidaggine, vero?» «No. Non lo è.» «Dimmi la verità.» «Non è una stupidaggine.» «Hai presente le ragazze nei locali di strip-tease? Praticamente tutte dicono che stanno mettendo da parte i soldi per andare all'università. Ma lo dicono solo per non far sentire in colpa gli uomini che le guardano mentre si spogliano. Come se la loro erezione fosse un contributo per creare un mondo migliore.» Beth si stringe nelle spalle. «Ecco, all'inizio forse anche per me era così. Mi piaceva sentirmi mentre dicevo: "Sto studiando per diventare un'agente immobiliare". Ma ora... Merda, Vince. Ora forse sto per essere messa alla prova. E se non ce la faccio? Se non sono abbastanza intelligente?» «Beth...»
«Mi viene il mal di testa a furia di pensarci. Non sai quanto lo voglio, e come mi sento stupida per desiderarlo tanto.» Vince l'afferra per il braccio ingessato. «Non devi mai sentirti stupida perché vuoi qualcosa di meglio!» Sono entrambi sorpresi dalla forza di quella risposta. Vince sa che ha parlato anche per se stesso. Restano a fissarsi in silenzio, finché Vince lascia andare il braccio di Beth e le dice: «Dai, parlami di questa casa». Forse Vince sbaglia ad assecondarla («È uno di quei bungalow degli anni Quaranta, sul lato nord della città, senza cortile, senza garage e senza fascino»), perché sospetta che il proprietario dell'agenzia per cui lavora, questo Larry, voglia solo scoparsela («Chiedono trentadue, ma se ne prendono venticinque io cago biscotti al miele»), e che Beth probabilmente non venderà mai case per vivere («Se passa l'ispezione federale, faccio un pompino all'ispettore. Parlo in senso figurato, naturalmente»). Eppure, Vince crede davvero a quello che ha detto, sul fatto di non sentirsi stupidi perché si vuole qualcosa di meglio. Ma comincia a rendersi conto che c'è anche un altro punto da tenere in considerazione, una cosa a cui prima di ieri sera non aveva pensato. «Come sta Kenyon?» chiede. «Sta benissimo, Vince» risponde Beth, e abbassa lo sguardo. «Grazie.» Gli stringe un braccio, fa un passo verso la porta, si volta per aggiungere qualcosa, poi sorride ed entra nel locale. Jacks, che sta uscendo, le tiene aperta la porta. Vince si accende una sigaretta. Jacks si soffia sulle mani fredde. «Posso farti una domanda, Jacks?» L'altro si avvicina, quasi duecento chili insaccati in una tuta da ginnastica gonfia come una salsiccia. «Chiedi pure, Vince.» «Stai meglio ora rispetto a quattro anni fa?» «Lasciami pensare.» Jacks guarda al suolo. «Quattro anni fa ero sposato con Satana in persona, perciò sì, nel complesso direi che sto meglio ora. E tu?» Vince scrolla le spalle. «Non ci avevo mai riflettuto, prima di ieri, ma penso che uno può attraversare tutto il Paese, cambiare nome, lavoro, amici, tutto...» Si interrompe, guardando un'auto che passa. «... e restare esattamente lo stesso di prima.» Vince è innamorato.
Forse dire così è esagerato, visto che ha scambiato solo poche parole con quella donna, e quelle parole riguardavano sempre due soli argomenti: libri e krapfen. Conosce solo il suo nome di battesimo, Kelly, e la vede una volta alla settimana, quando entra per comprare una decina di bomboloni da portare nella casa di riposo dove sta sua madre. Ma se Vince fosse intenzionato a innamorarsi, sarebbe innamorato di lei. Kelly fa la segretaria in un ufficio legale, ed entra in negozio alle dieci e cinquanta ogni mercoledì mattina, prima di passare a trovare la madre. Perciò ogni mercoledì alle dieci e quaranta Vince va in bagno a darsi una pettinata. Poi si toglie il grembiule, prende un caffè e un romanzo - ogni settimana uno diverso - e va a sedersi a un tavolo. Quando ha conosciuto Kelly, quattro mesi fa, stava leggendo una copia consunta di Milagro, o la guerra del campo di fagioli, che qualcuno aveva lasciato nel negozio. Vince ha sempre amato leggere. In galera leggeva saggi, al ritmo anche di un libro al giorno. Ma i romanzi non lo attraevano e non ne leggeva uno da tempo. Poi aveva trovato quello su un tavolino, ed era a pagina sedici, dove si parlava delle complicazioni della vita di un vecchio messicano, quando il suo sguardo era stato attratto da un paio di gambe lunghe e lisce, infilate in un paio di shorts. Aveva alzato il viso e si era trovato a fissare due occhi color blu elettrico. «Grande romanzo, vero?» Vince aveva fissato il libro ed era riuscito a mormorare: «Sì». «I personaggi non sono magnifici?» «Sì.» «Lei legge molto?» «Sì.» «Romanzi?» «Sì» aveva risposto Vince a quelle gambe e a quegli occhi. «Anch'io» aveva detto lei. «La cosa che amo di più al mondo è starmene rannicchiata davanti al caminetto con un buon romanzo tra le mani.» La parola "amo" era stata galeotta, e Vince da quel momento aveva fatto voto di amare i romanzi e di trovarsi un giorno rannicchiato davanti a un caminetto acceso con Kelly. Perciò ogni mercoledì, dopo il lavoro, si reca al negozio di libri usati del suo quartiere, rivende il romanzo che stava leggendo e ne prende un altro. Durante la settimana tiene il libro nel cassetto, e lo legge nelle pause, in modo da essere in grado, il mercoledì successivo, di parlarne in modo intelligente con Kelly. Difficilmente arriva oltre la metà. Legge finché non ha capito di cosa parla la storia, poi va a cambiarlo e
ne prende un altro. In realtà ce ne sono alcuni che gli piacerebbe finire, ma vuole averne uno nuovo ogni mercoledì, per avere qualcosa di cui parlare con lei. Inoltre, coltiva la speranza superstiziosa che continuando a cambiare libro potrebbe trovare quello capace di spingere Kelly a innamorarsi di lui. Ma se deve essere onesto con se stesso, c'è anche un altro motivo per cui non finisce i romanzi: ha paura di restare deluso dal finale. Questo è il motivo per cui aveva smesso di leggerli, diversi anni fa. A Rikers aveva letto Grandi speranze, ed era rimasto affascinato dalla storia del criminale che aiuta in segreto un ragazzo povero. Ma poi il bibliotecario del carcere gli aveva detto che Dickens aveva scritto due finali del romanzo. Vince era riuscito a trovare il finale originale, lo aveva letto e si era sentito tradito, non solo da quel libro, ma dalla narrativa in generale. La storia che aveva tanto amato finiva in due modi? Un libro, come una vita, dovrebbe finire in un unico modo. O Pip ed Estella vanno via mano nella mano, oppure no. Per lui, la fine di quel libro aveva reso discutibili tutti i romanzi. Perciò ora legge solo gli incipit. E non è male. Ha cominciato a pensare che sia un approccio efficace in generale, quello di assaporare solo l'inizio delle cose. Dopotutto, un libro o un film possono finire solo in due modi: veritiero o artistico. Se finisce in modo artistico, la storia dà sempre l'impressione di essere stata manipolata. Se finisce in modo veritiero, di solito il protagonista muore. Quello è anche il motivo per cui molte teorie, religioni e sistemi economici crollano quando vuoi spingerti troppo in profondità. Ed è anche il motivo per cui il buddhismo e i Beach Boys affascinano gli adolescenti, i quali sono troppo giovani per capire che la vita è una lotta frenetica che finisce sempre nello stesso modo. Le uniche varianti sono l'inizio e lo svolgimento. La vita finisce sempre male. E se hai visto morire qualcuno, non hai bisogno di leggere un libro fino alla fine per saperlo. Il sistema di Vince funzionava perfettamente fino ad alcune settimane fa, quando un giorno Kelly non gli ha chiesto nulla sul libro che stava leggendo (Divisione Cancro, di Solženicyn). Vince è corso in preda al panico nel negozio di libri usati, chiedendo aiuto a Margaret, l'anziana commessa. Lei ha teorizzato che forse le sue letture stavano diventando troppo prosaiche per impressionare una donna di ventisei anni, e lo ha indirizzato in strane direzioni: modernismo, metanarrativa, avanguardia. Vince è rimasto piacevolmente sorpreso dai risultati. La settimana scorsa leggeva La babysitter, una raccolta di romanzi brevi di Robert Coover, e si è trovato a spiegare a Kelly, che lo fissava nuovamente affascinata (o così sembrava),
il modo in cui Coover frattura il mondo non solo in punti di vista diversi, ma anche in realtà diverse. («È come se ci fossero a disposizione una serie di pezzi che noi possiamo raccogliere per costruire il mondo che preferiamo.») Lei lo ha bombardato di domande, e Vince si è sentito al colmo della felicità. Perciò ora si è immerso a fondo nella narrativa sperimentale, con questo The System of Dante's Hell. Si tratta di una guida arrabbiata, concentrica, metaforica e poetica dell'inferno, scritta dallo scrittore nero militante LeRoi Jones. Vince non è sicuro di aver capito di cosa parla, ma gli piacciono il linguaggio e alcune metafore. Ha appena iniziato il quarto girone dell'inferno («Un'estate di nomi morti. Rapido tramonto d'uccelli oltre gli edifici...»), quando Kelly entra e si dirige direttamente al suo tavolo. Kelly: ventisei anni, bianca, altezza un metro e settantacinque, giocava nella squadra di pallavolo dell'università. Pelle liscia e senza difetti. Indossa blue jeans aderenti con la piega, e i capelli biondi con la riga in mezzo le ricadono ai lati del viso come ali d'angelo. Tic la chiama Farrah. «Oh, ecco Farrah» dice. Anche i clienti più anziani si voltano a guardarla. «Ciao, Vince» dice Kelly, sorridendo. «Non dirmi che stai già leggendo un nuovo libro.» Lui fa un cenno affermativo. «Sei incredibile.» Sorrisi. «Che storia è?» Vince glielo mostra, e sforzandosi di non dare l'idea di aver ripassato la lezione, dice: «Parla di come creiamo il nostro inferno personale sulla terra». «Ah» dice lei, evasiva. Vince continua: «Per l'autore, l'inferno è Newark, New Jersey. Sei mai stata a Newark, Kelly?». «No» risponde lei. «Mai stata.» È distrazione quella che legge sul suo viso? Vince si alza in piedi. «Newark non è un bel posto, ma io l'inferno lo metterei a Paterson. In confronto a Paterson, Newark è Disneyland.» Sì, è proprio distratta. Sorride e annuisce, ma non si diverte. «Capisco» dice, e si volta verso i bomboloni. Questo è tutto? Non c'è altro, per oggi? Distrutto, Vince si mette il grembiule e va dietro il banco. Che stupido, quel LeRoi Jones. Vince maledice la commessa della libreria, e se stesso
per averle dato retta. Si chiede se non farebbe meglio a leggere un altro libro di John Nichols. Milagro gli aveva dato l'idea di far parte di una specie di trilogia. Quella sembra una mossa furba: nel dubbio, scegli una trilogia. «Oggi vorrei...» Kelly indica i bomboloni, e ne prende una decina, tra cui cinque con la marmellata. «Più marmellata del solito, oggi» dice Vince, mentre riempie la scatola. La guarda attraverso il vetro del banco. Gambe snelle fasciate da jeans attillati. Dio. Solo allora nota la spilla bianca sul cappotto di Kelly. Strisce rosse e bianche e un nome scritto in blu: Grebbe. «Grebbe?» «Sì. Aaron Grebbe. È un avvocato dello studio per cui lavoro... Siamo amici. Si presenta alle elezioni come candidato all'assemblea legislativa.» «Voterai per lui?» Lei sorride. «Certo. È un uomo in gamba.» Abbassa lo sguardo sui bomboloni. Vince annuisce, chiude la scatola e la poggia sul banco. «Allora sei repubblicana?» Lei sembra sorpresa. «No. Be', forse. Una volta ero una democratica convinta. Chi non lo era? Ma ora... Il paese è messo così male che c'è bisogno di un cambiamento. Questo è il punto principale della campagna di Aaron: "Riportare l'America alla sua gloria".» Si stringe nelle spalle, un po' imbarazzata. «Almeno, è quello che dice sempre lui.» «Cosa ne pensa degli ostaggi in Iran?» «Secondo lui non è un problema che riguarda la legislatura.» Vince annuisce. «Ma sono certa che desidera che tornino a casa.» «Una posizione coraggiosa...» Kelly ride. «Dovresti votare per lui. Ti piacerebbe. Legge molto, come te.» «Davvero?» «Sì, ma soprattutto saggi. Ehi, vai a sentire il figlio di Reagan, stasera? Ci sarà anche Aaron. Così potrai conoscerlo.» «Sì» dice Vince. «Pensavo proprio di andarci.» Lei sorride di nuovo, e Vince ha una visione di bambini e country club, e di se stesso con indosso un paio di jeans dalla piega stirata. «Allora ci vediamo lì» dice Kelly. «Va bene» risponde Vince. Appena lei esce, corre nel retro, getta il libro nell'armadietto e afferra il giornale, sfogliandolo rapidamente in cerca di
un articolo sulla visita in città del figlio di Reagan. «Ho letto un libro, una volta» dice Tic, mentre porta in vetrina un vassoio di brioche allo sciroppo d'acero. «Si chiamava 1984. Lo leggevamo a scuola. Era di un certo Harwell, un francese. Lo ha scritto nel 1500, più o meno, e ha predetto che nel 1984 non sarebbe più esistito il calcio, la pallacanestro, niente. L'unico sport sarebbe stato il ciclismo sulle BMX. Per questo io vado dappertutto con la mia BMX. Perché quando ci saranno le Olimpiadi, nel 1984, questo sarà uno sport olimpico e io vincerò una bella medaglia d'oro. Garantito. E quella medaglia varrà il suo peso in oro, ve lo dico io. Quel libro diceva che ci sarebbero state scuole per le corse in mountain-bike, come per il karate. Io sarò il sensei della BMX, il maestro. Dormiremo, fumeremo erba e scoperemo... tutto sul sellino della bicicletta. La gente arriverà da chilometri di distanza per studiare con i maestri. Ogni mese io me ne andrò a vagabondare per le campagne, insegnando, e...» «Quanti anni hai, Tic?» lo interrompe Vince. Lui fa spallucce. «Io non calcolo il tempo come tutti gli altri, signor Vince.» «Ma sei abbastanza grande per votare?» «Sì.» Vince solleva il giornale piegato. «Ho bisogno di qualcuno che venga con me a sentire il figlio di Reagan, e...» «No, no» dice Tic, allontanandosi dal giornale come se fosse una bomba. «Io non voto, signor Vince. Questo è ciò che vogliono loro... schedarti. Così quando la merda schizzerà fino al soffitto, potranno consultare la lista, e troveranno Maxwell Ticman, "West Sherwood Avenue n. 2718, Spokane, Washington. E bang! La mattina dopo ti ritrovi con un segnalatore nei denti.» Tic si allontana, e Vince resta a fissare il giornale. Il vicesceriffo David Best arriva nell'atrio, rosso in faccia. «Prima di tutto, non venire mai qui senza aver prima telefonato.» David sembra ancora più vecchio quando è arrabbiato, e Vince riesce quasi a vedere lo sforzo del suo cuore, impegnato a riempire di sangue quel corpo così grosso. Vince solleva le mani in segno di resa. «Scusami.» «Allora, che nome vuoi, oggi? Carlisle? Carson?» «No, non sono venuto per cambiare nome, oggi.» «E cosa vuoi, allora?»
Vince sposta lo sguardo da lui all'impiegata della reception. «Non credi che sarebbe meglio parlarne in privato, David?» David si volta e si dirige verso il suo ufficio. Deve sollevare le spalle nello sforzo di trasportare le gambe e il sedere massiccio. Fa il giro della scrivania e si mette a sedere. «Non devi venire qui così, te l'ho già detto. Chiami, dai il tuo numero a chi ti risponde, e ci diamo un appuntamento da qualche parte. E se devi proprio venire qui, se si tratta di un'emergenza, devi comunque chiamare prima. Non sai chi avresti potuto trovare nel mio ufficio.» «Pensavo avessi detto che di me non importa nulla a nessuno, che uccidermi non vale la pena.» Lui sospira. «Ho capito. Scusami per averlo detto.» «Non devi scusarti, ieri ero un po' su di giri.» Vince ride. «Per poco non ho preso a botte un ragazzo che aveva parcheggiato davanti a casa mia.» «Vince, per l'amor di Dio...» «No, non gli ho fatto niente. Aspettava la sua ragazza. Questo mi ha fatto capire che avevi ragione, e che sono paranoico, come se facessi ancora la vita di prima. E invece ho un'altra casa, un altro nome... Dovrei... Dovrei stare meglio di come stavo quattro anni fa.» David ascolta senza intervenire. «Voglio dire, non c'è un vero motivo per cui io non possa... diventare parte della società. Tornare a scuola, forse. O sposarmi, avere dei figli, iscrivermi a un country club... Sono intelligente, e penso di poter riuscire in tutto quello che mi metto in mente di fare.» David sorride. «E hai in mente un country club in particolare?» Vince fissa la foto incorniciata sul muro alle spalle di David. Jimmy Carter sembra ancora più solo e depresso di quanto fosse ieri in TV. «Probabilmente devi sostenere quello che comanda, vero?» «Ma di cosa stai parlando?» «Del presidente. Forse potresti avere dei guai se stasera venissi con me a sentire il figlio di Reagan.» David si volta a fissare il ritratto di Carter, come se lo vedesse per la prima volta. «Posso votare per chi mi pare.» Vince posa sulla scrivania un ritaglio di giornale. Il titolo dice: Il figlio di Reagan a Spokane. «È al ristorante Casey, stasera alle nove.» David fa un gesto di diniego. «Non posso venirci con te, Vince.» «Già, lo immaginavo» dice Vince. Ripiega il ritaglio e se lo infila in tasca.
«Mi dispiace, ma sarebbe...» «Non preoccuparti, non c'è problema.» «Però sono contento che cominci a interessarti di politica.» Vince si china in avanti. «Non te lo dicono, quando entri nel programma. Ti restituiscono il diritto di voto, ma se tu non hai mai...» si sposta sulla sedia. «Nel mio quartiere solo i più fessi si interessavano di queste cose. I politici pagavano i sindacati e le chiese perché convincessero la gente a votare per loro, e chiunque venisse eletto era solo un altro bastardo che cercava di fregarti. Nessuno andava a votare. Ma ora...» Vince sente di aver perso il filo di quello che stava dicendo. «Insomma, quello che sto cercando di capire, David, è: come fai a sapere per chi votare?» David gli rivolge uno sguardo stanco. «Vai a casa, Vince.» Vince poggia sul banco The System of Dante's Hell. Margaret, la commessa del negozio, una sessantenne dai capelli bianchi magra come un passero, con gli occhiali appesi al collo, lo fissa da dietro il bancone ingombro di cofanetti e segnalibri, e sembra capire che le cose non sono andate per il meglio. Si mette una mano sul cuore. «Oh, no. Cosa è successo, signor Camden? Ci siamo spinti troppo oltre, con la letteratura afroamericana?» «Non lo so, Margaret. So solo che a lei questo non è piaciuto affatto.» Margaret scuote la testa. «Non c'è bisogno di deprimersi» dice. «Non siamo ancora battuti. "Conquista la mente, e il cuore seguirà."» Esce da dietro il banco. «O era il contrario?» Vince la segue fino alle pile di libri tascabili in ordine alfabetico. «La buona notizia è che i libri non mancano», dice Margaret. «Ce ne sono sempre di nuovi. Cominciamo dall'alto, va bene?» Fissa il dorso dei libri attraverso le lenti bifocali. «Forse la narrativa sperimentale è un po' troppo, signor Camden. Forse ora c'è bisogno di qualcosa di romantico e avvincente. Di un'epica!» «Stavolta» dice Vince «vorrei qualcosa sulla politica.» «Un romanzo politico» dice lei, senza voltarsi a guardarlo. «Eccellente. Che ne pensa di Robert Penn Warren?» «Pensavo più a un saggio.» Margaret si volta. «Ma la sua ragazza ama i romanzi, no?» «Sì, ma ora ho scoperto che lavora per la campagna elettorale di un tizio, e...» Margaret si illumina in viso. «Ah, è un'attivista? Bene, una giovane con
una coscienza sociale. Sembra una ragazza con della sostanza.» «Sì, la sostanza non le manca.» Margaret non coglie la battuta. Si dirige verso gli scaffali di saggistica. «Teoria di governo? Politica elettorale? O magari un reportage?» «C'è qualcosa sulle elezioni presidenziali?» «Ah, giusto. Il problema del momento. Il modo perfetto per iniziare una discussione interessante. Molto astuto, signor Camden.» Margaret è alta appena un metro e cinquanta, e si porta dietro uno scaletto lungo le pile di saggi e biografie. Vince la segue, lei si volta e gli mette in mano due libri: Come si fa il presidente e Come si vende un presidente. Vince guarda le copertine. «Quale di questi mi dirà per chi votare?» Di nuovo lei non coglie la battuta, e continua a passargli altri libri. Vince la fissa, inerpicata sullo scaletto. «Margaret, è libera stasera?» Lei non risponde, e Vince continua: «Voglio andare a sentire il figlio di Reagan. Le interesserebbe venirci con me?». Lei si volta, scende i gradini e gli mette in mano I mille giorni di John F. Kennedy, di Arthur Schlesinger. Poi sorride. «Reagan? Mio Dio, no, signor Camden. Quei serpenti repubblicani mi fanno paura.» Il postino: si chiama Clay Gainer. Quarantotto anni, nero, alto e asciutto, con i basettoni grigi. È di Lamar, Texas. Figlio di mezzadri, è il primo della sua famiglia ad aver lasciato Lamar. Si è sposato a sedici anni, è entrato nell'esercito ed è finito alla base aerea di Fairchild, a Spokane, dove ha lavorato, è andato in pensione e ha iniziato una seconda carriera come postino. Vince lo ha conosciuto nel negozio di krapfen, e dopo averlo studiato per qualche settimana gli ha proposto il lavoro: Clay gli dà le carte di credito nuove prima di consegnarle ai legittimi destinatari, Vince gli paga venti dollari per ogni carta, e dopo aver copiato nomi e numeri gliele restituisce chiuse, come se non fossero mai state aperte. E Clay le consegna, con appena qualche giorno di ritardo. Vince gestiva un'operazione simile, nella sua vita precedente, quindi conosce perfettamente tutti i passi da seguire. All'inizio Clay non ne voleva sapere, tuttavia continuava a fare domande. Così Vince gli ha spiegato chiaramente che non si trattava di rubare alle persone, ma alle banche. E se avessero fatto le cose per bene, le banche avrebbero pensato che i numeri delle carte di credito fossero stati copiati dopo la consegna, quando i proprietari le usavano in ristoranti e negozi. Clay aveva cominciato piano. Prima aveva preso la carta di un tizio che gli stava antipatico. Poi quella di un altro che non spalava mai la
neve dal marciapiede davanti casa. Poi era stato trasferito all'ufficio centrale, e allora si che erano entrati in affari sul serio. «Stai attento?» chiede Vince. «Faccio esattamente come hai detto tu.» «Cioè?» «Dai, Vince.» «Dimmelo.» Clay sospira, poi recita: «Rubo solo le carte di credito di banche nazionali. Mai più di due con lo stesso codice postale. Mai più di cinque alla settimana. Mai dalla stessa zona la stessa settimana. Appena me le restituisci le rimetto nella posta in consegna. Se sospetto che qualcuno mi stia osservando, blocco tutto per un mese». «Hai parlato con qualcuno di questa storia?» «Certo che no. Credi che voglia andare in galera?» Così come ieri era sicuro che tutti cospirassero contro di lui, oggi Vince è sicuro che Clay dica la verità. E tra i vari collaboratori di quella piccola impresa (Clay, Len e Doug), Clay è l'unico di vitale importanza. Forse è davvero tutto a posto. Sono seduti a un tavolino esterno, in un fast-food di nome Dicks, ciascuno con in mano un Whammy (doppio hamburger, formaggio, un sottaceto e una rotella di cipolla). Intorno ai tavoli si affolla uno stormo di uccellini, ma alle tre del pomeriggio Vince e Clay sono gli unici clienti, e gli uccellini manifestano impazienza. «Va bene» dice Vince. «Allora, perché volevi vedermi?» Clay spinge un dépliant attraverso il tavolo. Vince fissa prima lui, poi il volantino, con la pubblicità di una Nissan 300ZX. Personalmente, Vince non ama le auto giapponesi. «Ne ho sempre voluta una» dice Clay. «E c'è un concessionario disposto a prendere la mia Caprice in cambio. Mi servono solo...» «Clay, ti ho ripetuto almeno un migliaio di volte che non possiamo andarcene in giro a spendere troppo.» «Ma Vince, io desidero moltissimo questa macchina.» «Puoi permettertela?» «Non ancora, ma volevo appunto chiederti di pagarmi un po' di più. So che i soldi non ri mancano, Vince. Potresti darmi un anticipo sulle prossime consegne, o magari una percentuale maggiore sulle carte di credito che rubo per te.» Vince si massaggia le tempie. «Sai che queste cose attirano l'attenzione.
I tuoi colleghi, all'ufficio postale, hanno auto sportive nuove?» «Posso raccontare che ho avuto una piccola eredità. O dei soldi dall'assicurazione.» «Clay, ci sarà tempo più avanti, per...» «Per favore, Vince.» «Parliamo d'altro. Per chi pensi di votare?» «Non la userei per andare al lavoro. La guiderei solo durante i fine settimana.» «Carter o Reagan? Te lo chiedo perché se non hai altri impegni, stasera, potresti venire con me a sentire il figlio di Reagan.» «Vince, mi stai ascoltando? Non è come se volessi comprare una Ferrari, o una Porsche.» «Clay, non è una buona idea.» «Per favore, Vince. Questa cosa e basta. Che senso ha fare soldi, se poi non possiamo spenderli?» Un'altra cosa su Clay: sua moglie è morta due anni fa. Aneurisma. Si era alzata per preparare la colazione, e Clay l'ha trovata accasciata come un sacco vuoto in un angolo della cucina, ancora con un uovo in mano. Per questo Clay ha cominciato a venire ogni mattina nel negozio di Vince, e per questo si sono conosciuti. In lui c'era qualcosa con cui Vince riusciva a identificarsi, la sensazione che la parte migliore della vita fosse ormai già passata. Vince spinge indietro il dépliant. «Ascolta, Clay, adesso non è il momento giusto. Lascia passare un mese o due, poi ne riparliamo. Va bene?» Clay non risponde. Riprende in mano il foglio e con un gesto distratto fa cadere a terra alcune patate fritte. Appena toccano terra, gli uccelli cominciano ad azzuffarsi per mangiarle. Il figlio di Reagan sembra un contabile di mezza età, con una faccia non esattamente rispettabile, anche in giacca e cravatta. È sul podio, nel salone per banchetti del ristorante, davanti a un'ottantina di persone sedute ai tavoli come in attesa di un numero di cabaret. Ed è proprio quello che li aspetta: un numero da cabaret. Vince immagina che il figlio di Reagan ripeta quel numero da settimane, spostandosi in centri secondari come Spokane per vendere l'immagine del duro conservatore, mentre il padre cerca di sembrare moderato in televisione. È chiaro che è stato mandato ad arringare le truppe per il suo vecchio. «...il momento di togliere il Paese dalle mani di forze liberali, permissive
e antiamericane che hanno da troppo tempo il controllo. È il momento di tornare a essere i leader del mondo. È il momento di mandare alla Casa Bianca un uomo capace di opporsi ai comunisti, ai socialisti, agli abortisti, ai violentatori e all'ayatollah Khomeini. È il momento!» Grandi applausi. Vince si guarda in giro. Tutti bianchi. Nell'angolo opposto siede Kelly, bella e bionda, accanto a un tizio abbastanza giovane, con i capelli corti, la mascella quadrata e i basettoni. Dev'essere Aaron Grebbe. Non si tengono la mano, forse tra loro non c'è niente. Quando Grebbe batte le mani, Vince nota la fede all'anulare. Kelly incrocia il suo sguardo e aggrotta la fronte, come a voler significare che Michael Reagan non è quello che si aspettava. Poi guarda la donna alla sinistra di Vince e solleva le sopracciglia, come a dire: "Bel colpo, Vince, è molto carina". Vince si volta a guardare Beth, che non smette di sorridere dal momento in cui lui si è presentato alla porta del suo appartamento offrendo di pagarla se lo accompagnava a quel comizio. Ed è effettivamente molto carina, nel suo vestito blu attillato ed elegante, da agente immobiliare, con le maniche ampie, una delle quali copre quasi tutto il gesso, e uno scialle, ora appoggiato allo schienale della sedia. «... orgogliosi dell'America. Orgogliosi dei nostri prodotti, delle nostre forze armate, dei nostri agricoltori e operai. Orgogliosi del nostro Dio. E legati dallo sdegno verso i pacifisti, i radicali, gli ambientalisti e gli atei...» Tra un applauso e l'altro, Grebbe si china a sussurrare qualcosa all'orecchio di Kelly, la quale annuisce brevemente. Kelly indossa un maglione rosso e una gonna nera. Quando accavalla le gambe Vince vede i muscoli delle cosce fasciati dai collant, e si chiede se qualcuno ha udito il gemito che gli è sfuggito. «... proteggendo criminali di ogni specie. La paura regna sovrana nelle nostre città. Ma voglio dire una cosa ai violentatori, ai falsari, agli hippy, ai socialisti, ai produttori di pornografia, a tutti coloro che odiano questo Paese: avete i giorni contati. Voi che vivete alle spalle dei cittadini di buona volontà, voi che affondate le speranze della nazione, voi che sovvertite l'idea stessa dell'America, voi...» Grebbe sposta una mano di lato, e Vince nota che lo fa anche Kelly. Non riesce a vedere le loro mani, ma le immagina cercarsi, trovarsi, stringersi. Un attimo dopo Grebbe si china di nuovo a sussurrarle qualcosa. Kelly scuote la testa, tira via la mano e aggrotta di nuovo le sopracciglia. «... i professori universitari sinistroidi, l'establishment liberale e i loro lacchè dei media, i capi sindacali corrotti, gli agitatori professionisti, i dro-
gati e i comunisti, le madri che vivono di sussidi, le prostitute, i ladri, gli assassini di feti e...» E insomma tutti quanti. Vince sente una mano sulla sua, abbassa lo sguardo e scopre che la mano è collegata al braccio sano di Beth. Sa che lei detesta che le tengano la mano. La guarda in faccia: il viso triangolare (il ritratto della serenità), il collo lungo e sottile, il mento alto, mentre ascolta tutto questo, il braccio ingessato in grembo, e il sorriso che le aleggia sulle labbra, mentre gli stringe le dita. «Sai quello che mi ha impressionato di più?» dice Beth, mentre fanno la fila. «Quello che ha detto Jimmy Carter su "Playboy", l'hai letto? Ha detto che ha il cuore di un libertino. Non avevo mai pensato che un presidente potesse essere... arrapato.» «Sono certo che capita anche a loro.» La fila fa un passo avanti, e pochi secondi dopo si trovano davanti a Michael Reagan. Da vicino sembra più giovane che sul podio. «Immagino di sì» dice Beth. Sembra delusa. «Grazie per essere venuti» dice Michael Reagan, con una nota condiscendente nella voce. «Spero che mio padre possa contare sul vostro sostegno.» Vince tende la mano. «Crede che bombarderà l'Iran?» Il figlio di Reagan stringe forte la mano di Vince. «Gli estremisti in Iran tremano al pensiero che Reagan diventi presidente. Glielo dico io. Grazie ancora per essere venuti.» Con la mano libera allontana Vince, preparandosi a stringere la mano a Beth. Ma Vince non ha finito. «Ma questo cosa significa? Che suo padre manderà i marine?» «Quello che posso dirle, è che l'America di Ronald Reagan sarà una nazione capace di agire con determinazione, e a volte con durezza. Grazie per il suo sostegno.» «Ma cosa significa?» insiste Vince. In quel momento qualcuno lo prende per un gomito e lo spinge via. Nel frattempo Michael Reagan fissa una giovane donna con un vestito blu, che tende verso di lui una penna e un braccio ingessato. «Può firmare questo?» Fuori, sul marciapiede, cinque candidati repubblicani di minore importanza, tutti maschi bianchi sulla quarantina, si soffiano sulle mani e consegnano spille e dépliant al pubblico. Vince prende una spilla con il nome di
Grebbe. Aaron Grebbe è l'idea dell'uomo attraente degli anni Ottanta: un insieme di quadrati. Spalle quadrate, mascella quadrata, faccia quadrata incorniciata da un taglio di capelli squadrato. Un aspetto da conduttore di telegiornale. Proprio il tipo di cui Kelly potrebbe innamorarsi. Peccato per la fede al dito, l'unica cosa rotonda che ha. Porta stivali da cowboy lucidi. Solo in questa città Vince ha visto avvocati e politici portare stivali da cowboy con giacca e cravatta. Kelly è a pochi passi da lui, con le mani intrecciate in grembo. «Aaron, questo è Vince Camden, l'uomo del negozio di bomboloni, quello che legge tutto.» Quello che legge tutto. Vince nasconde un sorriso. «Piacere di conoscerla.» La stretta di mano di Grebbe è rapida e ferma. «Il piacere è mio. Spero di poter contare sul suo sostegno, martedì.» Appena smettono di stringersi la mano, la destra di Grebbe va direttamente all'anello nuziale, e comincia a girarlo come se volesse disperatamente svitarlo dal dito. «Sai, qualche mese fa Vince ha letto Il mondo secondo Garp.» Poi, rivolta a Vince: «È il libro preferito di Aaron». «Le è piaciuto?» chiede Grebbe, spostando il peso da uno stivale all'altro. «Sì, soprattutto l'inizio» dice Vince. Kelly fissa Beth, che è apparsa dietro la spalla di Vince. «Oh, scusate» dice Vince, spostandosi di lato. «La mia amica Beth.» «Immobiliare» dice Beth, tutto d'un fiato, come se non avesse fatto altro che ripetersi quella parola nella mente, in attesa di un'opportunità di pronunciarla. Kelly e Grebbe la fissano, interdetti. «Beth è un'agente immobiliare» spiega Vince. «Sto studiando per prendere la licenza» dice Beth, rossa in viso. Tutti spostano il peso da un piede all'altro, convenendo che è un lavoro interessante. Accanto a Kelly, così alta e bionda, Beth sembra malaticcia. «Mi piacciono i tuoi capelli» dice Beth, quasi in un sussurro. «Oh, come sei dolce» ribatte Kelly, sorridendo come si sorride a un cucciolo malato, o a un bambino in carrozzella. «Grazie. In realtà con tutto questo vento la mia testa dev'essere un incubo, ma grazie comunque.» Abbassa lo sguardo sul gesso di Beth. «Cosa ti è successo?» Beth solleva il braccio, fissandolo senza sapere bene cosa dire. «Ah, si è... rotto.»
«Oh...» dice Kelly. Nessuno parla, e lei allora dice che ha fatto un lungo giro in bicicletta, quel pomeriggio, che domattina deve essere al lavoro alle sette, che è tardi e che è stanca, e in generale dà molte più informazioni del necessario per spiegare che ha intenzione di andare a casa. «Ci vediamo domani» dice Aaron Grebbe. E aggiunge: «In ufficio». Si fissano per un momento, poi Kelly si rivolge a Vince. «Grazie per essere venuto, Vince.» E poi, a Beth: «È stato un piacere conoscerti». «Sono caduta» dice Beth, sollevando di nuovo il braccio ingessato. «Dalle scale.» «Oh» dice Kelly. «Prima avevi chiesto cosa mi era successo.» «Ah, già.» Kelly sorride, cortese, quindi tira fuori dalla borsetta le chiavi dell'auto, saluta tutti e si avvia verso il parcheggio. Vince e Grebbe la seguono con lo sguardo. Beth si fissa le scarpe. «Michael Reagan è stato grande, vero?» «Le è sembrato?» chiede Vince. «Sì. È eccitante averlo qui, proprio alla fine della campagna. Si sente il cambiamento nell'aria. Qualcosa di importante sta accadendo in questo Paese, non trova?» Vince riconosce il tono da imbonitore, o da venditore all'asta. «Le dirò quello che penso» dice. «Se fossi io l'organizzatore della campagna elettorale di Ronald Reagan, e avessi tra le mani quel deficiente del figlio di Reagan, mi sarei chiesto: "Qual è un posto abbastanza fuori mano in cui spedirlo, a cinque giorni dall'elezione, in modo che non mandi tutto in malora?".» Aaron Grebbe all'inizio fa una faccia sorpresa, poi fissa Vince con uno sguardo duro. «Mi scusi, come ha detto che si chiama?» «Quello che voglio dire...» Vince alza la voce per farsi udire nel chiasso del bar, «è che da un paio di giorni sto osservando entrambe le parti, e anche se ho notato delle differenze, nessuno dice cosa cambierà realmente.» «Cosa cambierà?» Aaron Grebbe si dà una pacca sulla fronte. «Tutto. Cambierà ogni cosa. Gli anni Ottanta segneranno l'inizio di una nuova era, l'era del ritorno agli ideali e alla supremazia dell'America. Si tratta di un'autentica rivoluzione. Il governo tornerà a essere al servizio della gente, e non più il contrario. Fermeremo il declino del Paese, dovuto a cinquant'anni di erosione liberale.» «Le sue parole sono un esempio di ciò che sto dicendo. Sono come quel-
le frasi nei biscotti cinesi della fortuna. Cosa significa tutto questo, in pratica?» «Significa quello che significa.» «Sì, ma lei non mi sta dicendo che cosa cambierà.» «Faremo una riforma dello Stato sociale, ripristineremo i diritti dei possessori di armi da fuoco, rovesceremo decenni di politica fiscale sbagliata. Se lei mi ascoltasse...» «Ma sto ascoltando! Però queste parole non dicono niente.» Il barman si china verso di loro. «Qualche problema?» Entrambi scuotono la testa. «Ci scusi» dice Aaron. Beth, seduta con la schiena contro il separé, non apre neppure gli occhi. «Quello che voglio dire» insiste Vince «è che non ci si deve meravigliare se poi le persone diventano ciniche. La propaganda politica è solo rumore. Non è diversa dal vendere auto. O carta igienica.» Aaron Grebbe arrossisce di colpo. «Sono otto mesi che mi sbatto da un lato all'altro di questo distretto, cercando di staccare la gente dal televisore, dicendo a chiunque voglia ascoltarmi cosa farò se sarò eletto. Tra...» guarda l'orologio, poi alza lo sguardo e conta sulle dita «...centoquattro ore esatte, meno della metà delle persone di questa città andrà a votare. E la metà di loro ci andrà solo perché si tratta di elezioni presidenziali. Non sanno chi sono io, e voteranno per l'altro candidato perché il nome Grebbe suona come qualcosa sputato da un cane. Non sanno nulla delle mie idee sullo sviluppo economico, sui lavori pubblici, sulle scuole, sulle strade. Non hanno idea di quale sarà la prima cosa che intendo fare, se sarò eletto. Io ne parlo da mesi, ma di me non importa nulla a nessuno.» Le stesse parole che David ha detto a Vince. «Di te non importa nulla a nessuno.» «E adesso arriva un venditore di krapfen a farmi la lezione su tutte queste persone che aspettano di essere illuminate politicamente. Benissimo! Andiamo da questi elettori affamati! Sono pronto. Mi trovi cinque elettori davvero interessati, e risponderò alle loro domande per tutta la notte. Ma mi risparmi l'oltraggio di portarmi davanti a persone che non conoscono neppure i nomi dei candidati, a meno che la pubblicità elettorale vada in onda tra Dallas e Dinasty.» I due uomini si fissano dai due lati del tavolo. «Lei è stato in Vietnam» dice Vince. Grebbe lo squadra con un'occhiata sospettosa. «Cosa?» «Ha detto che si è sbattuto da un lato all'altro del distretto.»
Grebbe resta in silenzio. «Avevo un amico lì» dice Vince. «Anche lui usava molto il termine "sbattersi".» Grebbe beve un sorso dal suo bicchiere. «Il suo amico è tornato dalla guerra tutto intero?» «Sì, abbastanza.» Vince indica il volantino con la pubblicità elettorale di Grebbe. «Qui non si parla del Vietnam.» «No. È una cosa che la gente preferisce dimenticare.» «Allora, qual è la prima cosa che farà?» chiede Vince. «Prego?» «Prima ha detto "la prima cosa che intendo fare". Di che si tratta?» «Voglio migliorare lo zoo di Spokane.» «Non ha tutti i torti» dice Vince. «Un giorno ci sono andato, e fa abbastanza schifo.» «Non le è piaciuta la parte dedicata ai gatti domestici?» Vince sorride. «Le marmotte del nord-ovest.» «La casa degli animali investiti per strada.» «Lei va a letto con Kelly?» Grebbe non fa una piega, resta solo in silenzio per qualche secondo. «Questi non sono affari suoi, mi sembra.» «No, ha ragione» dice Vince, con un sospiro. Prende lo scialle di Beth, e glielo avvolge intorno alle spalle. Beth apre gli occhi e si guarda intorno. Foreste di bottiglie di birra, giardini di mozziconi di sigaretta. «Mmm. Ce ne andiamo?» Anche Grebbe si sta infilando il cappotto. Vince si volta verso di lui. «Diceva sul serio?» «Riguardo a cosa?» «Al fatto di parlare agli elettori.» Grebbe dà un'occhiata all'orologio. «Adesso? Ma è quasi mezzanotte.» «È vero» dice Vince. «È un po' presto. Ma intanto possiamo avviarci, poi aspetteremo che arrivi gente.» Ci sono notti in cui non puoi evitare di chiederti cosa stia succedendo, sotto tutte quelle luci. Ci sono notti in cui immagini che tutto accada allo stesso tempo, e pensi che la città sia divisa in quartieri di rimpianti e desideri. Anche in una città come Spokane, con solo duecentomila abitanti, è impressionante pensarci: le proposte di matrimonio, le risse, i ragazzini che rubano le sigarette ai genitori, le donne che desiderano solo che il ma-
rito ubriaco si addormenti. Uno spaccato di tutto questo è visibile ora, a mezzanotte, dal finestrino del pick-up Dodge nuovissimo di Aaron Grebbe. Beth dorme sulla tua spalla, e tu discuti di politica con l'uomo che si scopa la ragazza della quale ti eri convinto di essere innamorato. Ma forse la gente normale guarda avanti e non si preoccupa troppo di quello che accade a destra e a sinistra, dietro tutte quelle porte. O almeno cerchi di convincerti che sia così. Perciò, quando il pick-up lucente di Grebbe sfreccia davanti al negozio di Doug, fai uno sforzo per non guardare, per ignorare tutte quelle cose che di solito ti colpiscono: le luci che scorrono oltre il finestrino, le facce nella notte, agli angoli delle strade e dietro i parabrezza. Per una volta non ti perdi a immaginare tutte le storie d'amore, le separazioni, tutto quello che accade dietro le finestre, le violenze dovute alla noia e ai tradimenti. Ma se avessi guardato... Nel negozio di Doug le luci sono accese. Doug è seduto su uno sgabello dietro il banco. Di fronte a lui ci sono Len Huggins e un altro tizio. Insieme formano un triangolo perfetto. Lenny gli ha presentato l'altro, ha tenuto il suo discorsetto e si è rimesso gli occhiali scuri sul viso butterato. «Allora, cosa ne pensi, Doug? Ci stai?» «Non lo so.» Doug si china in avanti, le braccia incrociate sulla pancia come bandoliere di grasso. «Quando pensate di farlo?» Len controlla l'orologio. «Andremo a parlare con Vince da Sam, tra un'ora.» Doug annuisce. «E cosa farete?» «Prima» dice Lenny, gettando un'occhiata al terzo uomo, «lo persuaderemo a darci tutti i soldi che non ci ha dato. Poi gli chiederemo il nome del postino. E poi... vedremo.» «E se non vi dirà il nome del postino?» Lenny guarda il terzo uomo. «Ce lo dirà.» «Non lo so» dice Doug. «Ascolta, questo non è un problema tuo. Tu devi solo decidere. Ci stai o non ci stai?» Doug sospira. «Non lo so.» Lenny si toglie gli occhiali da sole, ma gli occhi piccoli e neri non si spalancano più di tanto. «Cos'è che non sai? Non abbiamo esaminato la situazione da tutti i punti di vista?» Il terzo uomo resta in silenzio, limitandosi a osservare. «Ecco, mi sembra una cosa un po' troppo drastica. Non lo...»
Dei tre, solo Len sobbalza al colpo della pistola. Doug scivola semplicemente dallo sgabello, con un buco nero nella tempia, da cui esce prima fumo, poi una bolla, poi un flusso di sangue. Ha gli occhi aperti nel viso grasso da pupazzo di gomma. «Oh, mio Dio.» Len fissa il cadavere sul pavimento, dietro il banco. «Che hai fatto?» Ray, il terzo uomo, rimette la pistola nella cintura, senza rispondere. Si infila i guanti, apre il registratore di cassa, prende due banconote da venti, ne dà una a Len e tiene l'altra per sé. Poi arraffa senza spartirle tutte le banconote da cinque e da un dollaro, e le infila alla rinfusa nelle tasche dei pantaloni. Quindi prende il portafoglio di Doug e se lo fa scivolare in una tasca del cappotto. Si volta e comincia a tirare fuori i cassetti, gettandoli sul pavimento. Butta a terra una pila di dépliant già stampati. «Ma...» balbetta Len. «Che cazzo...?» «Cosa c'è?» «Che stai facendo?» «Faccio in modo che sembri una rapina.» «No, intendevo dire, perché l'hai ammazzato?» «Lui?» La voce di Ray è impassibile, con appena una traccia dell'accento di Filadelfia. «Non era quello che volevi?» Len non riesce a distogliere gli occhi dal cadavere. Qualcosa sta già cambiando, nel suo corpo. Il cervello registra livelli di adrenalina e testosterone senza precedenti, e da qualche parte ronza una nuova percezione del potere. «Io... non lo so.» Ray si volta a fissare il corpo di Doug, come se fosse un'auto che pensava di vendere. «Ascolta, non abbiamo bisogno di questo grassone. Prima regola: ci servono solo le persone necessarie.» Len si avvicina, osserva la perla di sangue sopra la ferita, immagina il cuore di Doug ancora impegnato a pompare, e si chiede quanto andrà avanti. Poi dice, pensoso: «Ma ora non abbiamo nessuno per falsificare le carte di credito». «Già, questo è vero.» Ray si gratta un orecchio. «Vuoi sapere la verità? No sopportavo più di sentirgli ripetere i suoi "non lo so".» Len si toglie gli occhiali scuri e si china a guardare da vicino gli occhi spenti di Doug. Facile come premere un interruttore. Muovi l'indice di qualche millimetro e puoi far finire... tutto. Merda. Merda. Ray si avvicina, fa un sospiro profondo. «Sì, a volte esagero» dice. «Vivi e impara.» Len si volta e lo fissa, sbalordito. «È sempre così?» chiede.
«Più o meno» risponde Ray. «Sì.» «Merda» dice Len, con rispetto. Ray lo prende per un braccio e lo allontana dal mucchio di carne sul pavimento. «Avanti, capo. Andiamo a trovare il tuo amico.» III SPOKANE, WASHINGTON GIOVEDÌ 30 OTTOBRE 1980, ORE 02:58 «Aspetta, fammi capire bene.» Jacks mette sul tavolo la sua magnum di champagne e ci si appoggia sopra, come fosse un bastone. «Stai dicendo che l'ayatollah ha preso in ostaggio quegli uomini perché in America ci sono troppe donne pigre che vivono di sussidi statali?» Aaron Grebbe ride e scuote la testa. «No, ovviamente no. Ma non credo sia assurdo immaginare che esista una connessione, che tutte queste cose possano fare parte di un'erosione su vasta scala, di una perdita di fiducia che ha infettato l'America. Crimine, inflazione, quarant'anni di politiche liberali fallite, e anche una perdita di immagine all'estero. La sensazione generale che abbiamo perso la strada.» Aaron Grebbe ha la schiena appoggiata contro il bancone del bar, e il viso onesto e quadrato rivolto verso i tavoli da poker, dove le partite sono state sospese e i giocatori lo ascoltano, mentre spiega perché dovrebbero votare per lui. «Una nazione è come una donna. Chi la rispetterà, se lei non rispetta se stessa?» Le prostitute alzano gli occhi al soffitto. Molti uomini annuiscono, con mormorii di approvazione. «E lo zoo?» chiede Petey. «Cosa c'è che non va nel nostro zoo, secondo te?» Grebbe beve un sorso di whisky e punta il bicchiere verso l'interlocutore, come se avesse posto un'ottima domanda. «Bene, Petey, cominciamo dal nome: "A spasso nella natura". Che cosa vuol dire? Uno zoo deve chiamarsi zoo. "Zoo di Spokane".» Grebbe si toglie una ciocca di capelli dalla fronte, ma secondo Vince è un gesto inutile: i suoi capelli non si sono mossi affatto nelle ultime sei ore. Comincia a vibrare piccoli colpi di karate con il taglio delle mani, per sottolineare le sue parole. «Il nostro zoo è sottofinanziato (colpo), sottoutilizzato (colpo) e nel posto sbagliato (colpo più forte). E questo non vale solo per lo zoo, ma per l'intero modello di sviluppo economico della nostra
regione. Il nostro zoo pidocchioso è emblematico di una città e di una regione che hanno paura del successo.» Vince sposta lo sguardo da Grebbe alle facce rapite dei giocatori e delle prostitute, e in quel momento si rende conto che Beth non c'è più. Si china verso Angela, che sta mangiando una coscia di pollo. «Sai dov'è andata Beth?» Angela scrolla le spalle. «A casa, penso.» «Ah, merda. Quando?» «Un quarto d'ora fa.» Vince guarda prima la porta, poi Grebbe, al quale Eddie ha appena riempito di nuovo il bicchiere. Ora parla di giustizia, con le mani che tracciano piccoli otto nell'aria. «Il mio avversario sostiene che il controllo del possesso di armi da fuoco porterà a una riduzione della criminalità. Ma questo è errato. Il controllo del possesso di armi punisce il cittadino rispettoso delle leggi, non i criminali. È sbagliato impedire a un cittadino onesto di comprare un'arma per proteggere la sua famiglia, le sue proprietà e se stesso. Dovremmo rendere più facile l'acquisto di armi, non più difficile.» Diversi uomini annuiscono, completamente d'accordo con lui. «Se vogliamo davvero fermare il crimine, dobbiamo potenziare il sistema giudiziario. Assicurarci che i criminali scontino le pene per intero, rafforzare i tribunali, costruire più prigioni...» Tutti i presenti ora fanno smorfie o scuotono la testa, ma Grebbe non sembra notarlo. Vince si alza in piedi e si china verso di lui, evitando per un pelo un colpo di karate. «... assumere più magistrati, più poliziotti.» «Ehi» dice Vince. «Questo non è un discorso da affrontare qui dentro. Faremmo meglio ad andare via.» «Non voglio andare via» dice Grebbe, con labbra e occhi lucidi. «Questo è il miglior pubblico che abbia mai avuto. Vai tu, se vuoi.» «Non credo sia una buona idea lasciarti qui da solo.» Grebbe si volta a fissarlo. «Non capisci. Questo è il motivo esatto per cui sono entrato in politica, Vince. Sento che ho stabilito una comunicazione con queste persone. È una cosa che mi dà forza, che mi fa sentire vivo.» Vince si allontana da lui, e si rivolge a tutta la sala: «Ehi, quanti di voi hanno il certificato elettorale?». Grebbe alza gli occhi, e vede quello che vede Vince. Non si alza neppure una mano.
Fuori, il freddo è come un mal di testa post-sbronza. La nebbia si attacca alla strada. Grebbe solleva il bavero della giacca a spina di pesce, e chiede: «Che ore sono?». Vince guarda l'orologio. «Le tre passate.» «Cristo.» Vince immagina che non sia la prima volta che Aaron Grebbe torna a casa tardi. E questo lo fa pensare a Kelly. Apre la bocca per chiedergli di lei, quando sente il rumore di una portiera che si chiude dietro di loro. Lui e Grebbe sono quasi a metà del parcheggio: perché non si è guardato prima alle spalle? Sta diventando un rammollito. «Rallenta, capo.» Da dietro. Non riconosce tanto la voce, ma un qualcosa dentro quella voce, un accenno a un passato comune, a delle regole. New Jersey, anzi no... Filadelfia. Con in più qualcosa di oscuro. Si volta lentamente. Capisce che è stato Lenny a tradirlo, e si dà mentalmente una pacca sulla schiena per averlo sospettato. Ma allo stesso tempo capisce che non è Lenny a dirigere il gioco: l'altro, quello che lo accompagna, è uno che viene dal "mondo". Sono a meno di venti metri, e si avvicinano. Len si toglie gli occhiali da sole. «Ciao, Vince. Ray e io vogliamo parlare con te. Abbiamo alcune domande da farti.» Grebbe si ferma e fissa i due uomini. Anche lui è calamitato da Ray. «È tutto a posto, Vince?» Vince squadra rapidamente Ray. È più basso e più grosso di lui, con enormi sopracciglia nere, capelli neri lisciati all'indietro, palpebre pesanti ed espressione annoiata. Indossa pantaloni neri come quelli di Vince, camicia senza cravatta e un cappotto grigio antracite. La mano destra è nella tasca del cappotto. «In questo momento sono occupato» dice Vince. Non gli piace il tono precario che gli viene fuori. Gli altri si sono fermati a meno di cinque metri: troppo lontano perché si tratti di una chiacchierata amichevole. «Non ci vorrà molto» dice Len. Anche se è Len a condurre la conversazione, Vince si rivolge all'altro. «Cosa ne dici se rimandiamo questo incontro a domani?» «No, dobbiamo farlo adesso» dice Len. Ray non dice nulla. Il suo labbro superiore si muove leggermente, e le palpebre si abbassano e si rialzano con un movimento lento, misurato.
Vince indica Grebbe, il quale ormai sembra aver capito che la situazione è seria. «Ma il mio amico, qui...» «Porta anche lui» dice Ray. E fa un passo avanti, facendo crocchiare la ghiaia sotto le scarpe. «No.» Vince non riesce a distogliere lo sguardo da lui. «Va bene, vengo da solo.» Vince si volta verso Grebbe. Si sente il sudore sull'attaccatura dei capelli. «Io... faccio un giro con loro. Tu va' pure a casa.» Grebbe non dice nulla. Vince gli dà una leggera pacca sulla spalla e avanza verso Len. Ray fa un passo indietro, mantenendosi a una distanza di tre metri, e li segue entrambi verso l'auto di Len, parcheggiata in una strada laterale. «Non ci vorrà molto» dice Len con un sorriso. «Non preoccuparti.» Vince annuisce. Ha la bocca secca. Non può vedere Ray, alle sue spalle, ma sente i suoi passi sulla ghiaia. Mentre si allontanano dal lampione, le loro ombre li precedono. «Hai vinto a poker, stasera?» chiede Len. «Non ho giocato» risponde Vince. Stasera c'è qualcosa di diverso in Len, una spavalderia che prima non aveva. «Peccato» dice Len. Quando raggiungono la Cadillac, Vince sente la mano di Ray sulla spalla. «Sali davanti, capo.» Vince non ha mai visto di persona quella scena, ma l'ha immaginata spesso, e nella sua immaginazione si svolgeva esattamente così. Tra le sessanta persone che ha contato ieri, molte hanno sentito quelle stesse parole, poco prima di morire: «Sali davanti». Mentre sale in macchina Vince getta un'occhiata a Grebbe. Il candidato ha già messo in moto il suo pick-up, e si allontana rapidamente. Len si siede al volante, Ray si piazza dietro, alle spalle di Vince. Len accende il motore e si soffia sulle mani. «Freddo cane, eh?» «Ascolta, Len, qualunque cosa...» «Te l'ho già detto, vogliamo solo parlare. Non diventarmi di nuovo paranoico, Vince.» «Certo. Va bene.» Si trovano a una cinquantina di metri dietro il locale, lontano dalle altre auto. Spazio aperto a destra e a sinistra. Anche se aprisse la portiera e provasse a fuggire, non farebbe neppure cinque metri, prima che... Len si volta verso il sedile posteriore. «Hai visto, Ray? Ti avevo detto che Vince se ne sarebbe stato buono.» Ray non risponde.
Vince fissa davanti a sé. «Buono come un agnellino.» Vince e Ray non dicono nulla. «Buono come...» «Insomma, di cosa si tratta?» Vince si volta, e incrocia lo sguardo di Ray. Len si rimette gli occhiali da sole e lo fissa da sopra le lenti, con i basettoni che precipitano verso il mento. «Si tratta di questo, Vince: tu sei fuori.» «Fuori?» «Esatto. Ti tieni una parte troppo grossa dei guadagni, non mi paghi neppure la metà di quello che merito. Sono io a correre il rischio più grosso. Il negozio è mio.» «Allora chiedi più soldi» dice Vince. «Te li darò.» «Ora è troppo tardi per discutere. Non hai più il gioco in mano. E puoi toglierti dai piedi in due modi. Il primo è questo: mi paghi quello che non mi hai dato negli ultimi dieci mesi. Ho calcolato circa quindicimila dollari. Poi mi presenti il postino, mi dai le carte di credito che hai tra le mani adesso, quindi lasci la città. Libero come un uccello.» Anche questo è tipico. Lascia la città. E la cosa buffa è che dentro di te vuoi disperatamente crederci. Sì, pensi. Gli do i soldi e il postino, e lascio la città. Mi lasceranno andare. Ma sai che non è così. Non sei più un ragazzino. «Quale postino?» chiede Vince. «Quali soldi?» Len spinge gli occhiali sul naso con un dito. «Porca puttana, Vince. Non insultare la mia intelligenza. So che hai dei soldi nascosti da qualche parte. Lo so e basta. Non puoi aver speso tutto quello che guadagni. Ora ascolta, ti ho detto che ci sono due modi. Quello che ti ho appena spiegato è il mio. Il secondo è quello di Ray, e ti assicuro che non ti piacerebbe.» Vince incrocia lo sguardo di Ray nel retrovisore, e nota che neppure lui sta ascoltando Len. Quella è una faccenda tra loro due. In quel momento nota il rumore di un motore, e vede un pick-up che si avvicina dal lato di Len. A tre metri da loro il pick-up si ferma e accende gli abbaglianti. Si apre una portiera, e la radio a tutto volume li investe («I believe in miracles! Since ya came along, you sexy thing!»). Tutti e tre sobbalzano e si coprono gli occhi. «Ma che...» dice Len. «Len...» interviene Ray, dal sedile posteriore. Sul finestrino accanto a Ray si sente un lieve rumore di metallo su vetro.
Mentre erano distratti dai fari, Aaron Grebbe è sceso dal pick-up e ha fatto il giro dell'auto. Ora, sudato e rosso in faccia, se ne sta dietro la canna di un fucile calibro ventidue, puntato esattamente tra le sopracciglia cespugliose di Ray. «Calma, capo» dice Ray. «Calma.» Qualcosa cade sul pavimento dell'auto e subito dopo Ray alza le mani. «È tutto a posto» dice, da dietro il finestrino chiuso. «Smetti di tremare, prima che qualcuno si faccia male.» Poi, a Vince: «Il tuo ragazzo sa usarlo, quell'affare?». «Sembra di sì.» Vince apre la portiera e scende. Il sapore dell'aria fredda in gola gli sembra un nettare. Grebbe tiene il fucile puntato contro Ray, a gambe larghe, come insegnano ai militari. Le mani sono ferme. Si asciuga il sudore dalla fronte senza distogliere gli occhi da Ray, illuminato in pieno dai fari del pick-up. «Apri i finestrini» ordina a Len. Tutti e quattro i vetri scendono con un ronzio. «Spegni il motore.» Il motore si spegne. «Buttami le chiavi.» Len getta le chiavi dal finestrino aperto e le manda a cadere ai piedi di Grebbe. Vince nota lo sguardo attento di Ray, pronto a scattare nel caso che Grebbe si chini a raccoglierle. Grebbe resta immobile. «Vince» dice, ma Vince si è già chinato a raccogliere le chiavi di Len. Le getta lontano, nel campo. Grebbe fa un gesto con il fucile. «Adesso mettete le braccia fuori dal finestrino.» I due dentro l'auto obbediscono. Grebbe ansima leggermente. «Bene. Tenete le mani così, senza muoverle.» Inizia a indietreggiare verso la propria auto, sempre con il fucile puntato. «Andiamo via in fretta» dice a Vince. «Prima che me la faccia addosso.» Vince ci mette meno di un minuto a convincerlo a non andare alla polizia («Vuoi davvero metterti a spiegare cosa ci facevi in un locale di bassa lega alle tre del mattino, in compagnia di giocatori d'azzardo e puttane? Inoltre dovrai spiegare perché hai minacciato con un fucile due persone che dichiareranno di essere disarmate. Ti conviene, a cinque giorni dalle elezioni?»). Grebbe riconosce la logica del ragionamento e lascia perdere. Vince si massaggia le tempie, cercando di pensare alla prossima mossa. «È meglio che io non sappia cosa fai per vivere, vero, Vince?» «Faccio bomboloni.» Grebbe guida lungo strade secondarie, massaggiandosi la mascella. «Sai qual è la cosa più strana?» «Quale?» chiede Vince.
«Volevo davvero sparargli, a quel tizio.» Si volta. «Chi è?» «Non lo so» dice Vince. «So solo che non è di qui.» «Aveva l'aria di perquisirti con lo sguardo.» Vince si volta a guardare il fucile, sistemato sulla mensola dietro il sedile posteriore in mezzo a palle da tennis per non farlo sbatacchiare. «Sei un cacciatore?» «Non proprio. Sono andato a caccia solo un paio di volte.» «Lo avresti fatto davvero?» Grebbe torna a guardare la strada. «Se me lo avessi chiesto prima, avrei detto di no. Ora... sì, avrei potuto farlo. Volevo farlo.» «In Vietnam, hai mai...?» «È diverso. Vedi una fila di alberi, uno sbuffo di fumo, un'irregolarità del terreno. E spari al movimento, più che alle persone. Solo una volta mi sono trovato in una vera battaglia. Un caos pazzesco. Il fumo e i proiettili traccianti arrivavano da tutte le parti. Da dietro, da sopra, di lato... Non ti sembra di uccidere qualcuno, hai solo la sensazione di contribuire al casino. È come... sputare in una tempesta. Vedi cadere delle persone, ma è come se fosse una cosa naturale, senza una vera causa.» Scuote la testa, per scacciare i ricordi. «E tu? Hai mai...?» «No» dice Vince. «Mai.» Proseguono in silenzio. Vince fissa fuori dal finestrino. Non può andare a casa, perciò chiede a Grebbe di lasciarlo da Beth, in West Central, a pochi minuti dal centro. Grebbe ogni tanto si gratta la testa, senza dire nulla. Quando si fermano ride. «Ho la terribile sensazione che quello di stanotte sia stato il miglior discorso che abbia mai fatto» dice. «E l'ho sprecato per un branco di criminali.» «È un peccato» dice Vince. «Ma perché lo fai? Perché ti presenti alle elezioni, voglio dire.» Grebbe guarda dritto davanti a sé. «Più che altro è una questione di ego» dice. «Ma vuoi sapere una cosa? Credo davvero in quello che dico. So che è banale, ma a volte mi sveglio, la mattina, e non vedo l'ora di avere la possibilità di cominciare a riparare tutte le cose che non vanno... Come per esempio fare uno zoo migliore. A tutti sembra una stupidaggine, ma uno zoo migliore è uno zoo migliore, cazzo.» Vince sorride, e tira fuori dal portafoglio il suo certificato elettorale. Grebbe lo legge e glielo restituisce. «Bene» dice Vince. «Hai il mio voto.» «Grazie» dice Grebbe, e sorride. «Un sacco di lavoro, per un solo voto.»
Vince bussa piano, con la nocca del dito medio. L'appartamento di Beth si trova in fondo a una scala in ferro battuto, al seminterrato di un edificio di cinque piani. Beth socchiude la porta. Sorride. «Ciao.» «Ti ho svegliata.» «No.» Apre del tutto la porta. Indossa una maglietta sopra i pantaloni del pigiama. Capelli legati in una coda, unghie dei piedi smaltate di rosso. Beth lo precede in casa. L'appartamento ha una sola stanza da letto, dove dorme sua madre. Beth e suo figlio Kenyon dormono in soggiorno, lei sul divano letto, Kenyon nel suo box, con un cane di pezza e una palla. Sul tavolo c'è una tazza di tè, accanto a un opuscolo intitolato: Come ottenere il miglior prezzo per la vostra casa. Vince guarda Kenyon, che dorme profondamente. «È cresciuto parecchio.» «Sì» dice lei. «Posso fare una telefonata, Beth?» Lei prende la tazza e lo precede in cucina, dove si trova un telefono a muro, accanto al frigorifero. Beth si siede al tavolo. Vince compone il numero del negozio, anche se sa che Tic non risponde mai. «Avanti, Tic, solo per questa volta.» Riaggancia e riprova. Niente. Dovrà andarci per forza di persona. Prova a chiamare Doug, a casa e anche in negozio, benché siano le quattro del mattino. Non risponde nessuno. Beth lo fissa, offrendogli un tiro dalla sigaretta che sta fumando. «Va tutto bene, Vince?» Gli esce una risata nervosa, che non gli piace per niente, e si passa una mano tra i capelli. «Hai un elenco telefonico, Beth?» Prende la sigaretta e aspira una boccata. Lei gli porta l'elenco. Vince cerca il numero della compagnia di taxi e chiama. La centralinista gli dice che entrambi i taxi sono impegnati, ma che gliene manderanno uno entro mezz'ora. Vince riaggancia. «Entrambi i taxi.» Città del cazzo. Scuote la testa, si siede. Beth gli porta un bicchiere d'acqua. «Stai bene, Vince?» Vince vuota il bicchiere in un solo sorso, poi fissa gli occhi grandi e i lineamenti sottili di Beth. «Ascolta, mi dispiace per prima. Volevo accompagnarti a casa...» Lei abbassa lo sguardo. «Non c'è problema. Ero stanca, e tu sembravi divertirti un mondo...»
«Comunque avrei potuto accompagnarti.» «Meglio di no. Avevo paura che poi avresti cercato di pagarmi.» Vince non dice nulla. «È che... ho detto a tutti che quello di stasera era un appuntamento normale.» «Lo era.» «No.» Beth si toglie una ciocca di capelli dalla fronte. «Non lo era. Magari non era neppure una serata di lavoro, ma non ci siamo visti semplicemente come due che escono insieme. Sai quando me ne sono accorta?» «Beth...» «Quando ho visto quella bionda.» «Beth...» «Non ti biasimo. È molto bella.» «Beth, non c'è nulla tra me e quella ragazza.» Beth annuisce. «Questo lo so. Lei si scopa quel politico che è sposato. Comunque, quando ho visto come la guardavi...» «Beth...» «Ho capito... che non avresti mai potuto guardare me in quel modo.» «Vuoi ascoltarmi, per favore?» «Non c'è problema, davvero. So che non potrai mai volere me con tanta intensità. Ricordi quello che mi hai detto ieri sera, che è una buona cosa desiderare qualcosa di meglio? Ecco, io per te non potrò mai essere qualcosa di meglio.» «Ascolta, Beth, devo lasciare la città per un po'.» Muove solamente gli occhi. Nessun'altra reazione. «Quando?» Vince è deluso da quel tono pratico. Non che non le importi, è solo che loro due, seduti alle quattro del mattino in quella cucina, sono il tipo di persone che non battono ciglio davanti alle delusioni, perché se le aspettano. «Adesso. Oggi.» La ciocca di capelli le ricade sugli occhi. «Tornerai?» Vince allunga una mano per spingere indietro la ciocca, notando che lei glielo permette, pur seguendo con gli occhi le sue dita che le sfiorano la tempia. «Non lo so.» Beth si tira indietro. «Ti perderai la prima casa che devo vendere.» Poi, prima che lui possa dire qualcosa, aggiunge, con una voce ricca di illusioni, la voce delle puttane-agenti immobiliari e dei pasticcieri-criminali: «Va be', vuol dire che verrai a vedere quella successiva».
Vince si fa portare dal tassista davanti al Sam's Pit. La Cadillac di Len non c'è più. Poi chiede al tassista di portarlo a un isolato da casa sua, e vede la Cadillac parcheggiata proprio davanti alla porta. Scende dal taxi, chiedendo all'autista di aspettarlo, e scivola lungo la siepe del vicino. Dietro le persiane chiuse vede ombre in movimento. Una figura getta all'aria i cassetti dell'armadio, un'altra solleva il materasso. Vince ritorna al taxi, e si fa lasciare a due isolati dal negozio di bomboloni. Sono già le cinque passate, e il cielo si sta facendo più chiaro. Si avvicina da dietro, lungo il vicolo. Niente. Guarda dalla finestra della porta posteriore. Tic ha finito il lavoro di preparazione ed è seduto a un tavolo. Parla da solo, con le braccia lungo i fianchi, come se non sapesse cosa fare. Vince apre la porta ed entra, alle spalle di Tic. Si rende conto che non lo ha mai visto seduto prima d'ora. Tic alza gli occhi, sollevato. «Signor Vince! Lei non c'era, e io... non potevo fare le brioche allo sciroppo d'acero, e... non sapevo...» Vince si rende conto anche di un'altra cosa. Nei due anni trascorsi da quando ha preso in gestione il negozio, dopo aver terminato il corso da fornaio, non è mai mancato neppure un giorno, dal lunedì al sabato. Avrebbe dovuto addestrare Tic a lavorare da solo un giorno alla settimana, ma il ragazzo non gli sembrava mai pronto. Perciò è sempre venuto al lavoro, sei giorni alla settimana, sei ore al giorno, per due anni interi. Al momento di affidargli la gestione del negozio, i proprietari avevano parlato anche di ferie, ma Vince finora non le ha mai prese. Per andare dove? Tic si alza in piedi. «Ora possiamo fare le brioche allo sciroppo d'acero?» «No» risponde Vince. «Oggi non posso lavorare, mi dispiace, Tic. Devo andare fuori città, per... un funerale.» «Oh, è morto qualcuno?» Vince apre il ripostiglio delle scope, rovescia un secchio, ci sale sopra e fa scivolare via la copertura interna dal soffitto del ripostiglio. «In genere è per questo che si fanno i funerali, Tic.» Dallo spazio tra il soffitto e il rivestimento tira fuori una chiave e una busta gialla vuota. «Aspettami qui» dice. «Devo scendere di sotto.» C'è una botola nel retro. Vince scende lungo la scala a pioli in uno spazio stretto e buio, a metà tra una cantina e un passaggio segreto. Tira una cordicella e la luce di una lampadina nuda illumina il pavimento di cemento e le pareti non intonacate. Dappertutto ci sono trappole per topi, sacchi
di cemento e vecchie scatole di caffè. In un angolo ci sono una pila di lattine di olio, scatoloni di farina e sacchi di zucchero, tutti vuoti. Vince spinge da parte tutta quella spazzatura, fino a trovare un vecchio scivolo per il carbone. Lo apre e ne estrae una scatola di metallo, poco più piccola di una scatola da scarpe. È chiusa con un lucchetto. Si guarda alle spalle, poi apre il lucchetto con la chiave. La scatola è piena di banconote da cinquanta, ben allineate lungo i bordi. È un pezzo che non le conta, ma conosce perfettamente la somma: trentamilacinquecentocinquanta dollari. Comincia a contare le banconote, dividendole in mazzi da venti, che ferma con un elastico. Mette dieci di quei mazzi (diecimila dollari) nella busta gialla e s'infila la busta nella cintura. Poi prende altre dieci banconote da cinquanta e se le mette in tasca. Infine chiude la scatola, la rimette dentro lo scivolo per il carbone e copre nuovamente l'apertura di quest'ultimo con i sacchi vuoti. Di sopra, Tic lo attende in piedi, esattamente dove lo aveva lasciato, e fissa le palle di farina e le scodelle piene di glassa surgelata. «Ascolta» dice Vince, avvicinandosi a lui. «Oggi dovrai fare i bomboloni da solo. Nancy sarà qui tra pochi minuti, e lavorerete insieme. Puoi farcela, vero?» Tic fa un cenno affermativo. «Più tardi verranno a cercarmi un paio di tizi» continua Vince. «Non mentire. Di' che sono passato e poi sono andato via. Non fare il furbo con loro, non inventare nulla. "Vince è stato qui, poi è andato via. Non so dov'è andato."» «Non si preoccupi» Tic comincia a muovere la testa. «Se quei bastardi cercano di fermarmi... farò un po' di tae kwon do sui loro culi puzzolen...» «No, Tic, ascoltami bene. Devi concentrarti. Niente tae kwon do, niente stupidaggini, niente bugie. Devi essere concentrato.» Tic si calma e annuisce, serio. «Va bene, ce la farò.» «Ne sono certo» dice Vince, dandogli una pacca su una spalla. «Ascolta, ho bisogno di un altro favore da te.» Si toglie dalla cintura un mazzo di banconote, ne prende due e le dà al ragazzo. «Questi sono per te» dice. «Cazzo!» «E questi» continua Vince, dandogli altri otto biglietti da cinquanta, «sono per una mia amica.» Vince gli scrive l'indirizzo. «Si chiama Beth Sherman. Devi portarle questo denaro, ma senza dirlo assolutamente a nessuno.» Vince va ad aprire la porta posteriore, sporge la testa fuori e guarda a destra e a sinistra.
«Tornerà, signor Vince?» «Certo» dice Vince, voltandosi a metà. Poi esce nel vicolo. Strano che la mancanza di sonno sia così potente. Non ha una qualità propria, è solo un buco, un'assenza, come la mancanza di sesso, o di acqua. Percorrendo vicoli e strade laterali, Vince si guarda intorno a ogni incrocio. Vorrebbe solo potersi fermare e chiudere gli occhi. Dormire. Solo un minuto. Abbassa gli occhi a guardare i pantaloni neri e la camicia rossa con cui è andato alla serata elettorale. Cerca di fare i conti. Allora, l'ultima volta che sei andato a letto era martedì, dopo il dibattito presidenziale. Ti sei svegliato mercoledì alle due del mattino. Ora sono le sei e quaranta di giovedì. Totale: ventisette ore senza dormire. È una cosa che hai fatto centinaia di volte, perdere una notte o due di sonno. Allora perché sei così stanco? Forse è il calo di adrenalina. O si tratta di qualcos'altro? Vince pensa alle parole di Beth, all'ostinata illusione nella sua voce: «Vuol dire che verrai a vedere quella successiva». Chiude e apre gli occhi di scatto, mentre percorre un vicolo dietro Sprague Avenue. Finalmente emerge su Sprague, e si ferma di botto. Davanti al negozio di Doug ci sono due auto di pattuglia e due della squadra investigativa, e la zona intorno all'ingresso è delimitata dal nastro colorato della polizia. Vince si avvicina ancora, cercando di capire cosa stia succedendo dietro la vetrina. Due agenti gesticolano con le mani rivestite da guanti di gomma. Vince si appoggia al cofano di un'auto di pattuglia. La portiera si apre. «È tornato sulla scena del delitto?» Vince si tira su. Dall'auto scende un ragazzo sui venticinque anni, magro, con un piumino su camicia e cravatta, e un bicchiere di plastica pieno di caffè in mano. Tutto in lui grida: poliziotto in borghese. Capelli radi in cima alla testa, folti dietro. Sorriso amichevole, quasi sfacciato. «Come dice, scusi?» chiede Vince. L'ispettore mastica una gomma. «Conosce quel vecchio detto "L'assassino torna sempre sul luogo del delitto"? L'ho sempre trovato stupido. Perché dovrebbe tornare? Per nostalgia?» «Non lo so.» «Lei tornerebbe?» «Io...?» «Se avesse ucciso il proprietario di questo negozio, ieri sera, tornerebbe qui il mattino dopo? Io no.» Vince sente gli occhi del giovane sbirro su di sé ed è attento a non mo-
strare nessuna reazione alla notizia che Doug è stato ucciso: né dolore, né sorpresa, e neppure mancanza di dolore e sorpresa. Ripensa a Ray sul sedile posteriore della Cadillac e ora sa per certo cosa gli riservavano quei due. Poi un altro pensiero: Doug è morto, a causa sua. Gli dispiace, ma allo stesso tempo pensa, in automatico: sessantuno. Vince sente che rischia di farsi mettere in trappola dalla propria espressione: fai una faccia triste, e quello ti chiederà se conoscevi Doug; non mostrarti sorpreso, e penserà che è perché l'hai ucciso tu. Allora cerca di assumere un'espressione preoccupata ma distesa, l'espressione del cittadino che si chiede dove andremo a finire. «Forse tornerei, se avessi lasciato qui un indizio compromettente.» L'ispettore lo fissa per un attimo, poi annuisce con approvazione. «Vede? Io non ci avevo pensato. Per esempio, diciamo che è tornato a casa e si è reso conto di aver perso un guanto. Teme di averlo lasciato vicino al cadavere. Allora forse potrebbe cercare di tornare a recuperarlo, di mattina presto, sperando che la polizia non abbia ancora scoperto il cadavere.» «Si, qualcosa del genere.» «Merda, avrei dovuto pensarci anch'io.» Il poliziotto ride. «Probabilmente è per questo che mi tocca starmene fuori ad aspettare, invece di entrare con quelli più intelligenti.» «Non saprei...» Il poliziotto si stringe nelle spalle e sorride di nuovo, con un lampo degli occhi verdi. «Sono qui temporaneamente. Un paio di colleghi sono stati trasferiti perché accettavano pasti gratis in un ristorante dove si gioca d'azzardo. I sostituti non arriveranno prima di tre mesi, e così eccomi qui... a portare il caffè.» Tende la mano. «Alan Dupree.» Vince gliela stringe. «Allora, conosceva la vittima? Questo...» guarda l'insegna. «Doug?» «No.» Vince si sente più a suo agio, ora che sa di avere a che fare con un pivello. «Passavo di qua e ho visto le auto della polizia.» Dupree annuisce. «Alle sette meno un quarto? È il curioso più mattiniero che abbia mai conosciuto, signor...» «Stavo andando a fare colazione.» «Davvero? E dove?» «Da Chet.» «Ah, sì, in centro. È un posto che vedo da sempre, ma non ci sono mai entrato. Servono patate fritte o pasticcio di patate?» «Non saprei. In questo momento non me lo ricordo.» Dupree ride. «È strano, no? Andare a fare colazione in un posto senza
sapere come servono le patate, signor...?» «Mi piacciono cucinate in tutti e due i modi.» Vince guarda dentro il negozio. I due detective più anziani gesticolano, indicando qualcosa dietro il bancone, probabilmente il cadavere di Doug. «Ma mi dica, cos'è successo?» «Lì dentro? Non saprei. I miei colleghi pensano a una rapina.» Dupree beve un sorso di caffè. «E lei non è d'accordo?» «C'è stata una rapina, certo. Ma non è questo il motivo per cui quel tizio è stato ucciso.» «Cosa intende dire?» «Vede, lui chiudeva il negozio tutti i giorni alle sei. Ma gli hanno sparato tra mezzanotte e le quattro del mattino. Chi avrebbe cercato di rapinarlo sei ore dopo la chiusura del negozio?» «Forse è stata un'azione impulsiva» dice Vince. «Ha sorpreso uno scassinatore ed è stato ucciso.» «Può darsi.» Alan Dupree beve un altro sorso. «Ma quale bottino pensava di trovare lo scassinatore in un negozio di foto tessera? Soprattutto dopo l'ora di chiusura. Niente contanti. Niente impianti stereo. Passi di qua e a un tratto ti dici: "Ah, potrei rubare una carta d'identità falsa". Non ha senso. A meno che Doug non si occupasse anche di qualcos'altro, qualcosa che non è pubblicizzato dall'insegna. Capisce cosa voglio dire?» Vince non dice nulla. «No. Sa cosa penso?» dice Dupree. Si appoggia al cofano dell'auto e comincia a soffiarsi sulle mani. «Credo che Doug dovesse incontrare qualcuno in negozio, a mezzanotte. Qualcuno che conosceva: un amico, o un socio. Qualcuno con cui si occupava di qualcosa di diverso dalle foto tessera.» «Perché proprio a mezzanotte?» «È l'ora in cui è stato visto vivo per l'ultima volta. Sua moglie dice che è uscito di casa a mezzanotte meno dieci.» Vince fissa il viso del giovane, che forse non è poi così giovane. Quello se lo sta lavorando. Praticamente lo ha interrogato, senza la presenza di un avvocato. «Lei tornerebbe sul luogo del delitto? Conosceva la vittima? È il curioso più mattiniero che abbia mai conosciuto. Andare a fare colazione in un posto senza sapere come servono le patate. La moglie dice che è uscito di casa a mezzanotte meno dieci...» Il fatto è che Doug non era sposato. Merda. Vince ricorda una volta in
cui si è trovato in un cortile faccia a faccia con un dobermann. Muoviti lentamente, non lasciarti prendere dal panico. Scuote la testa, con un'espressione di compassione per la vittima. «Brutta storia. E aveva anche dei bambini?» «Quattro.» Anche Dupree scuote tristemente la testa. «Quattro figli!» Vince si copre la bocca con la mano. «Ma è terribile.» Dupree si scosta dall'auto. Vince deglutisce. Dupree sembra sul punto di fargli un'altra domanda, quando la porta del negozio si apre e spunta la testa di un poliziotto più anziano, con i guanti di gomma e i baffi da tricheco. «Dupree! Che cazzo fai là fuori?» Dupree si gira. L'altro esce. È alto e pallido, e indossa una giacca di velluto a coste con le toppe sui gomiti. Nel complesso sembra più un professore di filosofia che un poliziotto. «Dov'è il mio caffè?» «Stavo... parlando con questo testimone» dice Dupree. Alla parola testimone il tricheco mormora qualcosa tra sé, poi si avvicina. «Si gela, qua fuori.» Si avvicina a Vince. È davvero alto, quasi un metro e novanta. E ha un pezzetto di cibo, forse uovo, sui baffi. «Sono il detective Phelps» dice. «Mi dica cosa ha visto, signor...» «Nulla» dice Vince, con troppa prontezza. «Non ho visto nulla, come ho già detto all'agente Dupree. Stavo andando a fare colazione e ho visto le auto della polizia, così mi sono avvicinato.» «Ah.» Phelps lo fissa per un momento, poi si volta verso Dupree. «Noi preferiamo che i nostri testimoni abbiano visto o udito qualcosa, Dupree.» Il giovane sorride. Deve essere abituato a cavarsela con un sorriso. «Lo so, non ci eravamo ancora arrivati.» Phelps torna a voltarsi verso Vince e sorride a sua volta. «L'agente Dupree è facilmente eccitabile. Spero che non le abbia fatto perdere troppo tempo.» «Non c'è problema.» Vince comincia a indietreggiare. Dupree apre la bocca per obiettare, ma Phelps lo blocca. «Dove cazzo è il mio caffè, imbroglione?» Dupree infila la testa dentro la macchina, tira fuori un altro bicchiere di plastica pieno di caffè e lo consegna a Phelps. Vince si volta e comincia ad allontanarsi a passo svelto. Dupree gli urla dietro: «Buona colazione, signor...». «Grazie!» urla Vince, voltandosi appena. L'ufficio della Pan Am apre alle nove, e il primo cliente è un tizio snello,
in pantaloni neri e camicia rossa, con i capelli a spazzola. Vuole partire oggi, ma nel pomeriggio, perché ha ancora delle cose da fare in città. «Farebbe meglio ad aspettare domattina» dice l'impiegata, stringendosi nelle spalle. «Così non dovrà fermarsi per la notte da nessuna parte.» Vince si passa una mano sulla testa. È appena uscito dal barbiere di fronte. Da quand'è che non si tagliava i capelli così corti? «No» dice. «Devo partire oggi.» L'impiegata si mette al telefono, e dopo un po' gli trova la prenotazione. Partenza alle 16.30 per Seattle, cambio di aereo e volo per O'Hare alle 18.30. Passerà lì la notte e prenderà un altro aereo la mattina presto. Vince paga in contanti, chiama un taxi e aspetta dentro l'ufficio finché non lo vede arrivare. «La ringraziamo per aver scelto Pan Am» gli dice l'impiegata, mentre esce. «Buone vacanze a New York.» Vince è seduto da Chet, con due pile di monete davanti, un bloc-notes e una penna. Finisce il caffè, dà un'occhiata in giro, poi prende una delle due pile e si avvicina al telefono pubblico. Compone il numero a memoria. «Banks, Murrow e DeVries» gli risponde una segretaria. Vince sorride, e scrive sul blocco: "socio". Benny è diventato socio. Mica male. «Benny DeVries, per favore.» «Glielo passo.» Un clic, poi: «De Vries». Vince sorride udendo la voce a mitraglietta di Benny. Una volta Benny gli ha detto che parla veloce apposta, per dare un miglior servizio ai clienti: parcella a sillabe. «Sto cercando un avvocato che difende gangster pentiti.» Benny DeVries lascia passare un paio di secondi. «Chi parla?» dice poi. «Davvero non mi riconosci?» Silenzio. «Difendi così tanti amici che non li distingui più l'uno dall'altro?» «Marty? Sei tu?» Il suo vecchio nome suona così strano che Vince ha quasi un dubbio. «Sì.» «Marty! Cristo! Ma come... dove sei?» Vince abbraccia il locale con un'occhiata. «Non lo indovineresti mai.» «Davvero? I federali ti trattano bene?» «Come un re.»
«E ti tieni fuori dai guai?» «Più o meno.» «Non dirmi che sei tornato a occuparti di carte di credito.» «Già.» «Il vecchio Plastic Man.» «Tu invece sei riuscito a far mettere il tuo nome sulla porta dell'ufficio.» Benny ride. «Sì, un paio di mesi fa. Incredibile, eh? Il bello di occuparsi di grosse cause penali è che il tuo nome compare spesso sui giornali.» «Ascolta, Benny, devo chiederti una cosa importante. Hai sentito qualcosa su di me? Forse qualcuno sa dove sono e vuole i soldi che gli devo.» «Chi, per esempio?» «Non lo so. Per questo ho chiamato te. Pensavo che forse potevi chiedere in giro e scoprire se c'è qualcuno che si interessa a me.» «Cristo, non saprei neppure da dove cominciare. La banda contro la quale hai testimoniato non esiste più. Bailey e Crapo sono morti, poveracci. Coletti ormai è invalido, e vive a Bay Ridge, nel vecchio appartamento di suo figlio.» Vince scrive "Bay Ridge" sul blocco. «Quelli della vecchia guardia sono tutti morti o in galera, Marty. Ora girano dei fighetti che sembrano aver preso tutte le loro abitudini dai film.» Vince si morde un'unghia. Non ha senso. Qualcuno deve pur aver mandato quel Ray a Spokane. «Come sta Tina?» chiede. «In che senso?» «Nel senso di come sta. Ha mai chiesto di me?» Benny resta un attimo in silenzio. «Sai che si è sposata, vero, Marty?» Vince fissa fuori dalla vetrina. Poi scrive: "sposata". «Pronto, Marty, ci sei?» «Sì.» «Sono passati tre anni, Marty. La vita continua.» «Chi è lui?» «Il marito? Un brav'uomo. Un tipo a posto. Giocava nella nostra squadra di softball. È così che lei lo ha conosciuto. Siamo andati ai campionati regionali. Per poco non vincevamo.» «Cosa fa?» «L'esterno.» «No, scemo. Cosa fa per vivere.» «Ah. Lavora alla torre di controllo al Kennedy.» Vince allontana il telefono dall'orecchio per qualche secondo. Poi lo
riavvicina. «Ascolta, Benny. C'è un tizio di Filadelfia, un certo Ray, robusto, capelli neri. Un sicario, hai presente? Lo stesso che avevano assunto per far fuori Jimmy Plums per quella storia dei juke-box, a Queens. Te lo ricordi?» «Marty. Io tratto cinque o sei casi al mese, ora. Non posso ricordarmi di tutti. Non ricordo neppure chi mi ha pagato e chi no.» «Ma di lui dovresti ricordarti. È uno tosto. Sopracciglia nere, grosse come bachi da seta. Chiama tutti "capo".» «E perché è così importante questo tizio?» «Perché è qui.» «Cosa?» «Si è fatto vivo in città e ieri sera ha cercato di portarmi "a fare un giro in macchina".» «Un sicario è lì da te? Ne sei sicuro?» «Sicurissimo.» «E cosa vuole?» «Tu cosa credi? Che voglia fare amicizia?» «Cristo. Ne sei sicuro?» «Benny! Ha cercato di portarmi a fare un giro in macchina!» «Va bene. Chiederò in giro per scoprire chi lo ha assunto.» «Come si chiama?» «Come si chiama chi?» «Quello che ha sposato Tina. Tuo cognato.» «Ah. Jerry.» Vince scrive: "Jerry". «E il cognome?» «Avanti, Marty, non fare così.» «Dimmi solo il cognome.» Benny sospira. «McGrath. Jerry e Tina McGrath.» Vince scrive: "Tina McGrath". «Vivono ancora nel quartiere?» «No, si sono trasferiti a Long Island.» Vince scrive: "Long Island". «Grazie, Benny.» «Ascolta, Marty...» «Ci sentiamo presto, ti chiamo io.» Vince riattacca, e fissa la pagina del bloc-notes. "Socio. Bay Ridge. Sposata. Jerry. Tina McGrath. Long Island". Non proprio le informazioni che cercava... O forse sì? Accartoccia il foglio, e tornato al suo tavolo lo getta dentro la tazza di caffè vuota. Fissa l'altra pila di spiccioli sul tavolo, e sa che non la userà.
Vince attraversa il cortile del vicino, scavalca il recinto e si lascia cadere dietro casa sua. Si assicura che dentro non ci sia nessuno, poi rompe con un gomito il vetro di una finestra che dà in cantina, ripulisce i frammenti con un piede ed entra nel seminterrato. Appoggia i piedi sulla lavatrice, salta giù, sale le scale e riemerge in cucina. O almeno in ciò che resta della sua cucina. Hanno fatto un bel numero, Len e Ray. Armadietti aperti, cibo gettato dappertutto. La scatola di marijuana sotto il lavandino non c'è più, ma in compenso la cenere vulcanica è sparsa ovunque. I contanti che teneva in cucina ovviamente sono spariti. Vince entra in soggiorno: riviste e giornali sul pavimento, la parte posteriore del televisore staccata. Ecco perché tiene i soldi in negozio e non ha scritto da nessuna parte - se non nella propria mente - il nome, l'indirizzo e il numero di telefono del postino. In camera da letto lo spettacolo non cambia: vestiti dappertutto, il comodino vuoto. Vince rovescia il comodino. Sotto c'è una lettera attaccata con il nastro adesivo. Tutte le informazioni sulla busta sono state tagliate da un censore dell'FBI, eccetto il nome del mittente: "Tina DeVries". Vince avrebbe voluto risponderle, ma non sapeva cosa dire. Stacca la lettera e si siede sul letto a guardare tutto quel casino. Finalmente si alza in piedi e comincia a preparare la borsa da viaggio. Proprio mentre chiude la cerniera suona il campanello. Cristo. Vince si guarda intorno. Prende la busta con i diecimila dollari e la infila nella borsa. Poi raccoglie il pezzo di tubo che ha usato per spaventare quel ragazzo, l'altro giorno. Guarda dalla finestra e vede una donna alta davanti alla porta. Ha in mano un fascio di volantini e porta una spilla con su scritto: ANDERSON FOR PRESIDENT. Vince socchiude la porta. La donna, dall'aspetto professionale, è alta e bionda, ha grandi occhiali dalle lenti rotonde e denti cavallini. «Buongiorno, mi chiamo Shirley Stafford. Faccio propaganda per John Anderson, e mi piacerebbe scambiare due chiacchiere con lei.» «Vado di fretta» dice Vince. «Capisco. Lei è iscritto a uno dei due partiti politici, signor...?» «Camden. No, non sono membro di nessun partito.» «Ed è iscritto nei registri elettorali, signor Camden?» «Sì.» «Ha già deciso per chi votare o si considera ancora indeciso a questo punto della campagna?» Vince apre un po' di più la porta. «In realtà sono indeciso.»
«Signor Camden, non le sembra che i repubblicani e i democratici controllino con pugno di ferro la politica del paese?» «Ecco...» «Tenendo John Anderson fuori dal dibattito di questa settimana, nonostante i suoi sostenitori siano decine di migliaia, Carter e Reagan ci hanno mostrato chiaramente il motivo principale per cui il Paese ha bisogno di un uomo come John Anderson. Signor Camden, il nostro sistema politico è completamente chiuso al dissenso. E John Anderson crede...» «Ma non può vincere.» «Prego?» «È al dieci per cento, a quattro giorni dalle elezioni. Sinceramente non capisco perché lei sia ancora in giro a fare campagna, a questo punto.» «John Anderson ha la possibilità di ottenere la più alta percentuale di voti di qualunque candidato di un terzo partito dal...» «Ma non può vincere.» Lei sposta il peso da un piede all'altro, a disagio, chiude e riapre le labbra mostrando i suoi dentoni. «No, certo. Ma John Anderson crede...» «Non sto parlando di lui. Sto parlando di lei. Perché si prende il disturbo di andare porta a porta a raccattare voti per un tizio che non può farcela?» Con espressione sconfitta, fissa i volantini che ha tra le mani. «Io... Ecco, mi ero presa l'impegno per questa settimana e...» Due isolati più in là, la Cadillac di Len svolta nella strada di Vince. «Prego, si accomodi» dice quest'ultimo tirando dentro la donna. Chiude la porta e si guarda in giro in cerca di qualcosa, senza sapere esattamente cosa. Anche Shirley si guarda in giro. Vede i vestiti e il cibo sul pavimento, i cassetti rovesciati e gli armadietti aperti, il tutto coperto di cenere vulcanica. E vede il tubo nella mano di Vince. «Sarà meglio che vada.» Vince indica tutto quello scompiglio con il tubo. «Ho lasciato il cane dentro casa e si è messo a dare la caccia a un topo.» «Oh, ha un cane?» Shirley sorride. «Adoro i cani. Posso vederlo?» Vince guarda fuori attraverso le tende. «L'ha investito una macchina.» La Cadillac si ferma accanto al marciapiede, dall'altra parte della strada. Merda, merda, merda. Vince si allontana dalla finestra, i suoi occhi sfrecciano qua e là, e si fermano sul tubo che ha in mano. «Ora devo proprio andare» dice Shirley, sempre più a disagio. È un'idea stupida, Vince lo sa benissimo, ma in quel momento non riesce a pensare a nient'altro. Dà il tubo a Shirley e le indica la fessura per la po-
sta nella porta d'ingresso, a circa mezzo metro da terra. «Ascolta, Shirley, ho bisogno di un favore da te. Se mi aiuti voterò per Anderson. Porterò anche la spilla.» Mentre parla, Vince si sente riecheggiare in testa le sue stesse parole: «Perché aiutare un tizio che non può farcela?». Pochi secondi dopo Vince esce di casa, proprio mentre Len e Ray scendono dall'auto. Lo vedono avvicinarsi. Len si toglie gli occhiali da sole. «Parli al diavolo...» «Parli del diavolo, testa di cazzo.» Vince attraversa il giardino e incontra i due in mezzo alla strada. Si fermano a tre metri l'uno dall'altro, in un perfetto triangolo. «Come va, capo?» dice Ray. Vince lo guarda negli occhi. «Sono un po' stanco.» «L'impresa del tuo amico, ieri sera, è stata una stupidaggine» dice Len. «Ora basta con le stronzate. Dammi i miei soldi, poi andiamo dal postino.» «No» dice Vince, rivolto a Ray. Len alza gli occhi al cielo, con un gesto teatrale. «Dannazione, Vince, vuoi proprio farmi perdere la pazienza.» Vince e Ray si fissano a vicenda, ignorandolo. Ray fa un passo avanti. «Non lo farei, se fossi in te» dice Vince, e indica la porta di casa. I due seguono il suo sguardo e vedono la canna di un fucile sporgere dalla fessura della cassetta delle lettere. Il fucile è puntato contro il petto di Ray. L'uomo si sposta, e la canna segue il suo movimento. Ottimo lavoro, Shirley. Prima lo aveva guardato come se fosse pazzo, ma poi aveva accettato di collaborare, dicendo che adorava gli scherzi. Vince le aveva spiegato cosa fare: doveva solo inginocchiarsi sul pavimento e osservare il tizio più grosso attraverso il tubo. Ora Vince si congratula mentalmente con se stesso. Non sono le carte a far la differenza, ma il modo in cui le giochi. «Quello è un tubo» dice Ray, socchiudendo gli occhi. Anche Len socchiude gli occhi. «Doveva sembrare un fucile, Vince?» Ray sorride. «Siamo circondati da una squadra di idraulici, capo?» In quel momento il tubo scompare dalla fessura. Un attimo dopo la porta si apre e Shirley esce con un gran sorriso, agitando in aria il tubo. «Allora, signor Camden, ci sono cascati?» Va bene, a volte sono le carte. Vince è sorpreso dalla propria calma. Quindici minuti, quindici miliardi di anni, o un'ora: cosa importa? Cosa fai nell'ultima ora della tua vita? Cerchi di pensare all'ora migliore che tu abbia mai trascorso. Una bella scopata, una partita a poker particolarmente
fortunata, la volta che tuo padre ti ha portato al museo di storia naturale... Ma è impossibile isolare un'ora da tutto il resto, così come non si può togliere una pennellata da un quadro. Ricordi tutto allo stesso tempo, e cosa ne sa il tutto di una singola ora, di un singolo minuto? Un quarto d'ora o una vita intera: che differenza fa? Vince scoppia a ridere. All'inizio crede che sia la sua risata a far indietreggiare Ray e Len. Poi si volta e vede quello che hanno visto loro: un'auto della polizia senza contrassegni che si avvicina lentamente. Vince risale sul marciapiede, e l'auto si ferma tra lui e gli altri due. Ne scende Alan Dupree, il poliziotto magro incontrato davanti al negozio di Doug. Len e Ray lo fissano. Ray sembra che gli stia prendendo le misure: un metro e settanta per sessanta chili di peso, all'incirca. Vince sa che Ray potrebbe eliminarlo in un batter d'occhio, se necessario. «Ehi» dice Dupree. «Che coincidenza.» Vince si limita ad annuire. «Si è tagliato i capelli.» «Sì, un taglio estivo» dice Vince, passandosi una mano sulla testa. «Ma siamo quasi a novembre.» «Estate di san Martino. E comunque, cosa posso fare per lei, detective?» Lenny fa un passo indietro. Dupree inclina la testa di lato, notando il modo con cui ha calcato sulla parola "detective". «Sto ancora lavorando alla faccenda del negozio di foto» dice Dupree. «Lo schedario della vittima era aperto su questo nome...» abbassa lo sguardo sul suo bloc-notes, «Vince Camden. Voi lo conoscete? L'indirizzo sull'agenda del morto era questo.» Dupree mostra il blocco a Vince, come se avesse bisogno di provare quello che sta dicendo. Vince alza le mani, come un prestigiatore alla fine del numero. «Sono io, Vince Camden.» «Sul serio?» sorride Dupree. «Questa sì che è una coincidenza.» Ray e Len sono fermi sul marciapiede, senza sapere che fare. «Chi sono i suoi amici?» chiede Dupree. «Due criminali» dice Vince. La tensione dura una frazione di secondo, poi Vince scoppia a ridere, seguito con effetto domino prima da Dupree, poi da Ray e infine da Lenny, che ridacchia come un motore che non vuol partire. «Ah! Ah, ah! Ah! Buona questa, Vince» dice Len. «Ci vediamo più tardi, ora dobbiamo andare.» Lui e Ray si incamminano verso la Cadillac. Vince osserva il giovane poliziotto prendere nota del numero di targa.
La Cadillac, arrivata in fondo alla strada, si ferma prima di girare. Len ha entrambi le mani sul volante, come all'esame di guida. «Signor Camden?» Vince e Dupree si voltano verso Shirley Stafford, in paziente attesa. «Ho trovato la risposta.» Dupree sposta lo sguardo da lei a Vince. Vince si massaggia le tempie. «Mi ha preso in contropiede quando mi ha chiesto come mai sono ancora in giro a fare campagna elettorale nonostante John Anderson non abbia nessuna possibilità di vincere.» «Ascolti, Shirley...» «No, signor Camden» lo interrompe lei. «Sono contenta che me l'abbia chiesto. E per me è importante spiegare le mie ragioni. È vero, stavolta non vinceremo. Ma se riusciamo a raggiungere il dieci per cento, forse alle prossime elezioni il candidato di un terzo partito riceverà il venti per cento. E forse un giorno, magari tra vent'anni, avremo più di due scelte e riusciremo a eleggere qualcuno al di fuori di questo sistema corrotto. Per me, e per i miei figli, vale la pena di provarci, nella speranza che le cose cambino.» Quindi consegna a Vince un fascio di volantini e una spilla con la scritta ANDERSON FOR PRESIDENT. Mentre l'agente Dupree osserva la scena con espressione divertita, Vince si appunta la spilla sulla camicia, e il sorriso sulla faccia di Shirley gli fa sentire, stranamente, che ne vale la pena. «Mi dispiace» dice Dupree, al volante della sua auto, diretto verso il centro. «Sto cercando di capire, davvero, ma deve ammettere che... non ha senso.» Guarda Vince, seduto accanto a lui. «Com'è possibile che a quattro giorni dalle elezioni lei voglia ancora votare per Anderson?» «Quindi pensa che stia sprecando il mio voto?» «Il suo programma elettorale è basato su una cosa sola: il fatto che lui non è uno degli altri due. È come quei ragazzi, al liceo, che cercano di farsi eleggere presidenti del comitato studentesco per poter abolire la politica nelle scuole.» Dupree svolta verso il fiume. «Ma a parte questo, non posso credere che lei ancora non sappia per chi votare. So che ci sono molti indecisi, proprio come lei, ma non li capisco. Cosa aspettate: di vedere uno dei candidati camminare sulle acque?» Vince osserva gli edifici scorrere fuori dal finestrino. Passano sopra il
ponte di Monroe Street, le cui arcate sono decorate con teschi di bufali. «Lei invece ha sempre saputo per chi votare?» chiede. «Lo so da almeno un anno.» «Crede fermamente che uno dei candidati possa guidare il paese?» «Guidare il paese?» Dupree ride. «Non è proprio così. È come il fantino in una corsa: il suo ruolo è importante, ma tu scommetti sul cavallo, non sul fantino.» Vince cerca di seguire la metafora. «E... chi è il cavallo? Il Congresso?» «No. Siamo noi.» Dupree svolta dietro le classiche torri gotiche del tribunale della contea, uno degli edifici preferiti di Vince, ed entra nel parcheggio del Dipartimento della Pubblica Sicurezza. Si tratta di un gruppo di costruzioni a ridosso del fiume, circondate da baracche di lamiera e campi incolti. Dietro il commissariato c'è la prigione, un tetro parallelepipedo punteggiato di finestre. È una vecchia abitudine: in ogni città, Vince scopre sempre subito dov'è la prigione. «La mia teoria è questa» dice Dupree. «Le elezioni presidenziali sono una cartina di tornasole del nostro umore. Quattro anni fa eravamo contenti di noi stessi, eravamo stanchi di persone infide come Nixon e Ford, abbiamo eletto il tipo più dolce che siamo riusciti a trovare, un vero outsider. L'unico presidente riformista del ventesimo secolo. Ma ora dei pazzi hanno preso in ostaggio alcuni nostri concittadini in Iran, l'economia è finita nel cesso, e il nostro umore è peggiorato di brutto. È colpa nostra, ce la siamo cercata, e ora non vogliamo più un tipo accomodante. Vogliamo John Wayne. Vogliamo Ronald Reagan, uno che quattro anni fa non avrebbe raccolto neppure il trenta per cento.» Dupree parcheggia, spegne il motore e si volta a fissare Vince. «Capisce? Non si tratta di loro, si tratta di noi. Il governo non cambia. Stesso edificio, stesse idee, stessi fogli di carta. Ma ogni otto anni circa, siamo noi a cambiare.» Nella testa di Vince si fa strada un pensiero: lui e quel giovane poliziotto avrebbero potuto diventare amici, in un mondo diverso. «E quindi... lei per chi vota?» chiede. Un sorriso. Dupree indica con un cenno del capo l'edificio della Pubblica Sicurezza. «Mi dispiace, Vince» dice. «Ma ora è il mio turno di fare domande.» Dopo quattro sigarette, due bibite e un bombolone, Vince scrolla le spalle. «Questo è davvero tutto quello che so.»
Paul Phelps, il detective con i baffi da tricheco, è seduto di fronte a lui, dall'altra parte del tavolo. La storia di Vince è semplice. Sì, conosceva Doug. Si erano conosciuti al negozio di bomboloni. Vince sperava di convincerlo a vendere nel suo negozio di foto la cenere vulcanica di Mount St. Helens, ma non se n'era mai fatto niente. Seduto contro il muro, Dupree ascolta con il sorriso sulle labbra, apprezzando la freddezza di Vince sotto interrogatorio. Allora perché aveva detto di non conoscere Doug? Perché la sua morte lo aveva scioccato, e il giovane poliziotto lo aveva colto di sorpresa. Si era sentito sospettato, e si era innervosito. Non conosceva bene Doug, e non desiderava rispondere a un mucchio di domande. Voleva solo andare a fare colazione. Come prova, esibisce lo scontrino di Chet. In quel momento un altro detective, con i capelli grigi e gli occhiali, entra nella stanza e si china a bisbigliare qualcosa all'orecchio di Phelps. Poi gli consegna un foglio. Il detective legge con attenzione, mentre l'altro esce. Phelps si volta verso Dupree e si stringe nelle spalle. «Mi dispiace, Alan. L'alibi del signor Camden è stato confermato. Questa...» torna a guardare il foglio, «Beth Sherman conferma di essere andata con lui ad ascoltare il figlio di Reagan, e dichiara che il signor Camden è restato con lei fino alle tre del mattino.» Phelps sorride, come intento a ricomporre un puzzle difficile. Poi si rivolge a Vince, agitando il foglio. «Quindi, signor Camden, poiché il suo alibi è confermato e lei è incensurato, non c'è altro che desideriamo chiederle. La ringrazio per essere venuto qui a chiarire le cose. La prossima volta non menta a un poliziotto.» «Non lo farò più» dice Vince. Dupree sorride ancora, come ammirato dall'esperienza con cui Vince ha gestito l'interrogatorio, riuscendo addirittura a scroccare uno spuntino. Phelps si alza in piedi e consegna il foglio a Dupree, dandogli una pacca sulle spalle. «Hai fatto un buon lavoro, non preoccuparti» gli dice, uscendo. Dupree continua a fissare Vince. Vince guarda l'orologio sulla parete. Le tre e un quarto. Il suo volo parte alle quattro e quaranta. Forse può ancora farcela. Finalmente Dupree abbassa lo sguardo sul foglio, lo fissa a lungo, poi torna a sorridere a Vince. «Cosa c'è?» chiede Vince, sul punto di alzarsi. Dupree gli mostra il foglio quasi vuoto. «Quando Paul ha detto che lei non ha precedenti, non scherzava» dice. «Cristo, non c'è nulla a suo nome, neppure una multa per sosta vietata. Neppure la patente di guida. Solo il
numero di previdenza sociale. Com'è possibile? Come fa una persona a passare attraverso la vita senza un divorzio, una querela, un'eredità, una multa? È come se lei fosse nato ieri. Come se fosse un'ombra.» Ma quell'immagine non gli piace. I suoi occhi si fanno duri, e continua a fissare Vince. «O un fantasma.» Vince finisce la sua seconda bibita. Forse anche gli altri sessantuno pensano di essere ancora vivi. «Sa una cosa? A volte mi sento davvero un fantasma.» Vince vuole tornare a casa in taxi, ma Dupree insiste per accompagnarlo, e lui capisce che è meglio non protestare. Il suo aereo parte tra poco più di un'ora. Va in bagno, e nel tragitto si ferma a un telefono pubblico. Chiama la compagnia di taxi e dà alla centralinista un indirizzo a un isolato da casa sua. Spiega che vuole essere aspettato lì, senza che l'autista suoni il campanello. Il viaggio fino a casa si svolge quasi tutto in silenzio. Forse sei davvero un fantasma. Forse anche quei sessantuno pensano di essere vivi, vanno in giro, si spostano di qua e di là, e nessuno li nota. A nessuno importa nulla di loro. Due giorni senza dormire. «Avete altri sospetti, a parte me?» chiede a Dupree, per rompere il silenzio. Un semaforo diventa giallo, e Dupree passa ugualmente. «No, solo lei.» «Ma io non l'ho ucciso.» Dupree si volta a guardarlo. «Questo complica la mia teoria.» Dupree passa dal lato meno rispettabile del quartiere di Vince, gli appartamenti alla base della collina, e rallenta vedendo tre uomini fermi a un angolo. Due abbassano gli occhi, di spalle alla macchina, l'altro segue Dupree con lo sguardo. Dupree continua a osservarli nello specchietto. «Droga?» chiede Vince, voltandosi a guardare i tre attraverso il lunotto posteriore. «Credo proprio di sì. Ho beccato quello più basso a vendere anfetamine, otto mesi fa. Ha il fiato più puzzolente del mondo. Un misto di merda di gatto e cipolle. Prima di arrestarlo di nuovo ci penserò due volte.» Vince torna a guardare avanti. «Lei crede che tipi così possano cambiare?» «Tipi come quelli? No.» «Perché?» Dupree ci pensa su per un attimo. «Ho frequentato due anni di universi-
tà. Criminologia. Dovevamo seguire anche un corso di psicologia, ma era già pieno, così mi hanno messo in uno di filosofia. È stato un grave errore.» Dupree svolta nella strada di Vince. «Ricordo una parabola sui corvi. Sono uccelli che volano tutto il giorno, sempre in cerca di qualcosa da mangiare, o di un oggetto lucente da rubare. Un giorno stanno volando sopra un lago, e vedono il loro riflesso nell'acqua. Passano tutta la giornata a tuffarsi e a volare sul lago, ammirando la forza e la grazia del proprio volo. Ma a un certo punto si annoiano, e cominciano a farsi beffe del lago, dicendo che non ha nessuna qualità propria, ed è capace solo di riflettere il mondo. Il lago ribatte che può fare molto di più: può congelarsi, sollevarsi in grandi onde, evaporare e ricadere sotto forma di pioggia sulle colline. "Allora fallo", dicono i corvi. Ma è una giornata calda e senza vento, e il lago resta lì immobile, finché i corvi se ne vanno.» Vince fissa il giovane poliziotto per un lungo momento. «Cosa vuol dire?» chiede. «Facciamo un patto» dice Dupree, tirando fuori un biglietto da visita e scrivendoci sopra un numero. «Quando lei si sentirà pronto a dirmi cosa è accaduto a Doug, io le spiegherò la parabola.» Vince prende il biglietto. «Davanti c'è il numero dell'ufficio. Quello che ho scritto dietro è il numero di casa.» Vince apre la portiera. «Nei telefilm» dice Dupree «questo è il momento in cui il poliziotto chiede al cattivo di non lasciare la città.» «Già» replica Vince. «Quella parte mi è sempre piaciuta.» Scende dall'auto, perso nei suoi pensieri. Arriva davanti alla porta di casa e si fruga in tasca in cerca delle chiavi, sentendosi addosso gli occhi del poliziotto. Apre la porta, entra e richiude a chiave. Si muove attraverso la roba sparsa sul pavimento, accende alcune luci, apre la borsa da viaggio, fa scorrere le dita sui diecimila dollari dentro la busta gialla, poi chiude la borsa, la solleva e va in cucina. Apre la porta posteriore ed esce. Affacciandosi dietro l'angolo, vede la macchina di Dupree ancora ferma in strada. Non ha mai incontrato un poliziotto come quello, con i suoi fantasmi e i suoi corvi. Qualcosa in lui lo mette a disagio. Vince scavalca la rete di recinzione, corre lungo la casa del vicino, e riemerge in strada a un isolato di distanza, dove lo aspetta il taxi. Sale sul sedile posteriore, e in quel momento vede la Cadillac di Len che attraversa l'incrocio. Il tassista mette in moto. «All'aeroporto?»
«Sì, grazie.» «Dov'è diretto?» Cosa succede ai corvi quando lasciano il lago? Dove vanno? Il tassista insiste. «Le ho chiesto dove va di bello, amico.» Vince si appoggia allo schienale. «A casa.» IV NEW YORK, NEW YORK VENERDÌ 31 OTTOBRE 1980, ORE 10:43 Con tutti i posti che c'erano, eccoti di nuovo qui. Un altro aeroporto, un altro tassista, ma con le treccine rasta e probabilmente la licenza falsa. Tra te e lui un vetro graffiato, e fuori un concerto di clacson accompagna la tipica melodia di New York, dal titolo: Ehi, sposta quella cazzo di macchina! Ed è allora che ti viene da pensare che forse tu non sei il corvo, che vola sopra tutta quella merda (le persone, il traffico, la vita normale) pieno di ammirazione per se stesso e attirato di tanto in tanto da qualche oggetto luccicante. «Ehi, sei sordo?» dice il tassista, voltandosi. «Dove andiamo?» No, capisci di colpo che mentre potevi fare qualunque cosa, in teoria, quando hai lasciato questa città tre anni fa, in realtà non potevi uscire da schemi che sfuggivano al tuo controllo. Forse un uomo non può cambiare la propria natura, perlomeno non in maniera rilevante, proprio come un lago non può evaporare di sua volontà. «Che cazzo hai, amico? Dove ti porto?» «Greenwich Village» dice Vince. Il tassista mette in moto. «Hai un indirizzo? Il posto è grande.» Schemi di cui non sei neppure consapevole... «Washington Square.» «Cerchi fumo? Roba? Conosco un posto più vicino.» Forse non hai mai avuto realmente il controllo della tua vita. «No, grazie.» «I soldi sono tuoi» dice il tassista. Avvia il tassametro e parte. Vince si sente esausto. Il giorno prima ha preso il volo per Chicago da Spokane e ha passato la notte in dormiveglia sulle sedie di plastica dell'aeroporto O'Hare. Per distrarsi ha comprato un tascabile, Lo scrittore fantasma, di Philip Roth. Parla di due scrittori ebrei, uno giovane e con un grande potenziale, uno vecchio e famoso. A Vince il libro piaceva, per lo stesso motivo
per cui gli piace la fantascienza: crea un mondo che lui non sarebbe mai riuscito a immaginare, ma che ciò nonostante sembra molto reale. Poi alle due di notte lo scrittore più vecchio, E.I. Lonoff, ha detto, a pagina 88: «A volte mi piace immaginare di aver letto il mio ultimo libro. E di aver guardato per l'ultima volta l'orologio». E in quel momento Vince ha messo giù il libro, sapendo che non avrebbe letto una pagina di più. La mattina ha preso il primo volo per New York, e quando il jet è atterrato ha un formicolio di eccitazione. Abbassa il finestrino per far entrare un po' d'aria fresca. Gli si chiudono gli occhi, e il viaggio assume i contorni del sogno. I camion con rimorchio e gli autobus, le persone in attesa agli angoli delle strade, il traffico. Non vedi niente del genere a Spokane. Non ci sono così tante persone, la gente non è tutta fuori come qui, appoggiata ai cofani delle auto e ai lampioni, seduta sui gradini delle case e davanti alle vetrine dei negozi di Queens, dove il mondo confluisce sulla Grand Central Parkway, e i clacson, Vince non riesce a ricordare l'ultima volta che ha sentito tanti clacson tutti insieme, e poi bam! Si risveglia e torna a guardare fuori dal finestrino, come un bambino che vede per la prima volta le campate argentee del ponte sulla Cinquantanovesima Strada, e sotto Roosevelt Island, quella che quando lui era piccolo chiamavano Welfare Island, perché c'erano solo sanatori e ospedali per i malati di vaiolo, prima che ci mettessero le mani gli speculatori edilizi e costruissero appartamenti dove anche la piscina è "con vista". Dall'altra parte del ponte c'è Manhattan, le case di antiche famiglie benestanti a Sutton Place, che resistono all'ondata di edifici in vetro e cemento, gli aghi cromati del Chrysler Building e dell'Empire State Building, e le Torri gemelle, un caos di vetro, acciaio, pietra e mattoni, brulicante di persone, di auto, di ampi viali e di stradine laterali corte e affollate, e... il "mondo". Il dannato mondo. Vince deve trattenersi per non ridere e battere le mani. E non è sorpreso quando sente le lacrime scendergli lungo le guance. Dopo la morte del padre, Vince aveva preso l'abitudine di andare a piedi dall'appartamento di Elizabeth Street fino a Washington Square, passare tra gli alberi, appoggiarsi all'arco di marmo, e guardare il mondo. Aveva quattordici anni e camminava per la città con il naso in aria come un turista, a differenza dei nativi, che tendevano a guardare in avanti o a terra. Vince invece guardava sempre il cielo, in cerca di un segno della presenza di suo padre in qualche cantiere. Da quando il cavo di sicurezza di una gru
si era spezzato, tagliando suo padre in due, ormai quello era l'unico modo in cui Vince guardava il mondo. Nel parco aveva imparato a giocare a scacchi e a poker, a individuare i truffatori e i borseggiatori, e aveva imparato a tenersi lontano dalla portata dei coltelli e dei tossici, a scivolare via senza correre quando arrivava la polizia. Tutti quelli che conosceva rubavano e scappavano, così anche lui aveva cominciato a rubare e scappare. Come tutti i ragazzi senza padre, Vince era stato calamitato dalle bande locali, che gli affidavano lavoretti da ragazzo: andare a comprare le sigarette, fare il palo, qualche consegna. Gli altri lo trovavano simpatico. Vince non era siciliano, e neppure italiano, quindi non avrebbe mai potuto appartenere alla mafia, ma non aveva neppure la faccia da polacco, da irlandese o da ebreo. C'era qualcosa di strano e di irraggiungibile nella sua malinconia e nei suoi occhi calmi (una qualità spesso scambiata per coraggio) e Vince era stato tra i pochi ragazzini del suo quartiere a non aver mai dovuto dare prova di sé. Rubava auto ancora prima di avere la patente, ma invece di portarle subito nell'officina dove le avrebbero smontate e rivendute a pezzi, come facevano gli altri, lui se ne andava in gita a Brighton Beach o a Rockaway, con i finestrini abbassati anche in pieno inverno. Oppure girava per la città, con la testa fuori dal finestrino come un cane. La prima volta lo avevano beccato perché aveva parcheggiato in doppia fila su Reade Street, intento a fissare le colonne corinzie alla base del Municipio. «Non m'importa quello che dice la gente» aveva detto Vince al poliziotto, dopo essere stato ammanettato. «Per me va bene così.» Per lui la città era più una collezione di forme che di quartieri ed etnie. Gli piaceva la zona pretenziosa intorno a City Hall, il ferro battuto di SoHo, le stravaganti pareti rocciose di Central Park West. A volte sognava Manhattan senza la gente, solo gli edifici, sorvegliati da una formazione di taxi senza autisti, che si muovevano in sincronia lungo strade vuote. Anche i suoi primi soggiorni in carcere trovavano sollievo nella struttura dell'edificio. L'idea di passare una notte in guardina a Tombs, con le torrette e i pilastri egizi, lo attraeva. Se dovevi finire dentro, meglio un'opera d'arte come Tombs che un posto come Rock, a Rikers Island, che sembrava una specie di università di campagna circondata dalle pecore oltre il filo spinato. A quell'epoca Vince tornava a Washington Square ogni volta che lo rilasciavano, e ogni volta la trovava più fitta di hippy e di studenti, che si erano spostati in massa nel Village quando la sede del Bronx della New York
University era stata chiusa. Durante uno di quei ritorni, Vince aveva pensato che ormai nel parco c'erano due tipi distinti di persone: quelle che andavano da qualche parte e quelle che non andavano da nessuna parte. Erano facili da distinguere. I delinquenti di quartiere, giocatori d'azzardo, spacciatori e scippatori, gironzolavano qua e là, in cerca del prossimo obiettivo. Gli studenti invece camminavano a testa bassa, zainetti portati in braccio anziché in spalla, guardandosi intorno con diffidenza, ripetendosi mentalmente tutti gli avvertimenti ricevuti sui ladri, le puttane, gli spacciatori, i musicisti di strada, i mendicanti, gli aspiranti mafiosi che popolavano il parco. Persone - Vince odiava doverlo ammettere - proprio come lui. Aveva ventisei anni ed era nel pieno della truffa deEe carte di credito, di cui si considerava nientemeno che l'"inventore", quando sua madre morì di un'infezione al fegato. Vince era in galera (per la quinta volta) e quando uscì andò a sedersi nel parco a restò a osservare gli studenti, cercando di capire cosa avevano che a lui mancava. Vince sapeva di essere intelligente, e probabilmente aveva letto più libri di molti di loro. Eppure non capiva interamente tutto ciò che leggeva. Esistevano intere discipline e scuole di pensiero di cui non sapeva nulla. Mancava qualcosa. Si trattava delle opportunità che derivavano dall'avere denaro e istruzione? O era una questione di schemi mentali? Magari quegli studenti erano condizionati a fare scelte migliori. O forse era un tratto della personalità, un impulso, una fiducia in sé, la sensazione di avere un posto nel mondo, qualcosa che Vince riusciva a definire solo avvertendone la mancanza. O forse era semplice mancanza di ambizione. Dopotutto, come puoi diventare qualcuno, se i tuoi sogni non vanno al di là di una ragazza in shorts, una confezione da sei di birra e una scala reale? Per lui, la cosa più vicina all'ambizione era un'idea che aveva avuto a sedici anni: aprire una catena di fast-food chiamata Picnic Basket, che avrebbe servito sandwich, pollo fritto, insalata di patate e crostate, in cestini da picnic a basso costo. La cosa buffa era che Vince non aveva mai fatto un picnic, non era mai stato in gita, ed era uscito dalla città solo pochissime volte. Forse era proprio questo. Puoi essere sedotto solo da quello che non hai mai avuto. Un giorno, prima di un'udienza in tribunale, aveva confidato quell'idea al suo giovane avvocato, Benny DeVries, il quale era rimasto colpito dal fatto che un ladruncolo sognasse di aprire una catena di ristoranti. Benny era un veterano del Vietnam che era riuscito a laurearsi nonostante tutto, e per
Vince rappresentava tutto quello che lui avrebbe potuto essere, se avesse saputo coltivare l'ambizione. Tra i due nacque un'amicizia sincera, che era utile a entrambi. Di tanto in tanto Vince aveva bisogno di un avvocato, e di tanto in tanto Benny aveva bisogno di un criminale. Col tempo, Vince smise di fargli pagare il fumo e gli stereo che gli procurava, e Benny da parte sua non volle mai un soldo per difenderlo in tribunale. Benny era uno di quegli avvocati che si eccitavano difendendo i mafiosi. Gli piaceva parlare in gergo, pranzare in ristoranti frequentati dalla mafia, trovarsi a contatto con i boss. Alla festa per il trentesimo compleanno di Benny, Vince vide diversi uomini delle famiglie. Ed è lì che conobbe Tina, la sorella di Benny, che all'epoca aveva solo vent'anni e lavorava part-time nell'ufficio del fratello. Era piccola e timida, con grandi occhi marroni. Per Vince era diventata la personificazione delle sue ambizioni, dei suoi desideri. Benny non era mai stato felice del fatto che sua sorella si fosse messa con un delinquente, dedito al furto e allo spaccio di droga, ma non aveva mai neppure cercato di convincere la sorella a lasciarlo. Almeno non fino al momento in cui era successo il guaio grosso. Il guaio in sé non era stato diverso da tanti altri. Una partita a carte, un prestito, una consegna, qualcuno che aveva fatto il doppio gioco e un'irruzione della polizia. E Vince si era trovato con un debito di quindicimila dollari verso un boss di Queens, una sanzione pecuniaria del tribunale di altri diecimila, più una condanna a due anni di prigione. Come se non bastasse, Benny gli aveva confidato che la polizia possedeva registrazioni in cui si parlava di uccidere Vince. La buona notizia era che se lui avesse accettato di testimoniare contro Dominic Coletti e la sua banda, Benny poteva farlo entrare nel programma di protezione per testimoni. Vince non voleva, ma Benny temeva una vendetta trasversale contro Tina, e allora lui aveva acconsentito. Dopo il processo, quando Benny gli aveva detto cosa voleva come compenso, al posto dei soldi, Vince non aveva esitato. Entrando nel programma, doveva sparire dalla vita di Tina. Vince si riscuote e si guarda intorno. Washington Park. A Spokane pensava di essersi lasciato alle spalle quella vita e quel disperato di nome Marty. Ma ora il passato è tornato a cercarlo, e lui è tornato a New York. Fa il giro dell'arco, osserva il flusso continuo di gente. Quando viveva qui non ci aveva mai fatto troppo caso, ma ora non può evitare di chiedersi dove vadano tutte quelle persone. Turisti, uomini d'affari, punk, truffatori, artisti e ragazzini. Gli studenti universitari sembrano più giovani e ripuliti, quasi più professionali che ai suoi tempi. Ma dove vanno, tutti quanti?
Vince guarda l'orologio. È l'una. Ed è venerdì. Possibile che Benny abbia cambiato le sue abitudini? Ma non fa in tempo a pensarlo che lo vede apparire in lontananza, un po' più vecchio, con i capelli biondi appena un po' grigi sulle tempie e un po' radi sulla fronte alta, ma sempre pettinati stile afro. Indossa un completo blu, con camicia celeste e cappotto di lana, e porta un grosso fascio di giornali sotto il braccio. Vince si nasconde dietro una fila di panchine, lo lascia passare e poi lo segue a distanza attraverso il parco, lungo la Quinta Strada e poi sull'Undicesima est, dove Benny entra al Cedar, attraversa tutta la sala e si dirige a un tavolo in fondo, vicino al bar. Ogni venerdì, durante la stagione sportiva, Benny va in quel ristorante portandosi tutti i giornali che può. Ordina birra e una costoletta di maiale, e legge le pagine sportive, attento alle notizie sugli infortuni o i problemi dei giocatori, e a tutto quello che potrebbe favorirlo nelle scommesse sulle partite del fine settimana. Vince lo osserva da lontano, aspetta che arrivi la sua costoletta e che Benny ci aggiunga un bel po' di sale, poi si avvicina e va a sedersi di fronte a lui, con la borsa da viaggio in grembo. Benny alza gli occhi, e l'angolo sinistro della bocca si solleva in un sorriso. «Ciao» dice Vince. «Figlio di puttana» dice piano Benny. Si alza, fa il giro del tavolo e lo abbraccia così stretto e così a lungo che i clienti agli altri tavoli cominciano di sicuro a farsi delle domande. Benny mastica un boccone di carne e parla a bocca piena. «Si chiama Ray Scatieri» dice. «Detto Ray Sticks. Lavorava per Angelo Bruno, a Filadelfia.» «Lavorava?» «A marzo Angelo è morto, per quella storia di Atlantic City. Da allora i suoi continuano a spararsi addosso tra loro, come cani che si litigano un osso. Ray invece se n'è andato, è venuto qui a New York e ha cominciato a occuparsi di lavori speciali per i Gambino, mentre aspetta che la situazione a Filadelfia torni normale.» Vince agita il ghiaccio nel suo bicchiere di J&B. «Cosa sono i lavori speciali?» «Tutto quello che i ragazzi preferiscono non fare di persona, perché temono che qualcuno parli, o perché l'uomo da uccidere è un amico, un poliziotto, un giudice... insomma, qualcosa di delicato. A volte non si fidano dei talenti locali, oppure cercano una persona con una determinata speciali-
tà.» «Specialità...» Benny sbuffa. «Ma sì, per esempio un incendiario, o qualcuno in grado di mascherare un omicidio da incidente. Ci sono persone che si occupano di tortura, o di lavori in posti lontani. Ognuno ha la sua specialità.» «E qual è quella di Ray?» Benny prende un'altra forchettata di maiale. «Un mio cliente lo conosce, gioca a carte con lui. Mi ha detto che Ray Sticks ha la reputazione... di essere disposto a uccidere chiunque, in qualunque momento. Niente coscienza, una vera macchina. Paghi e ricevi il servizio. Ama il suo lavoro, ma la cosa che gli piace di più, sembra... è uccidere le donne.» «Le donne?» Vince rivede gli occhi neri e le palpebre pesanti di Ray. «Molti della vecchia guardia non accetterebbero mai di pagare qualcuno per ammazzare una donna o un bambino. Ma ora, con i colombiani e la cocaina, le vecchie regole non esistono più. Si ammazzano donne, bambini, intere famiglie... E Ray Sticks accetta tutti questi lavori che gli altri rifiutano.» Vince beve un sorso di whisky. «Quell'uomo è un animale, Marty. E se è davvero lui quello che ti hanno messo alle costole... non poteva capitarti di peggio.» «Perché io?» Vince vuota il bicchiere e lo solleva verso il barman. Benny mastica, ingoia il boccone e si stringe nelle spalle. «Quello che ho fatto finora, per venire a sapere ciò che ti ho detto, è sufficiente per farmi radiare dall'albo, condannare e forse uccidere. Ma non so altro. Forse qualcuno ha raccolto l'eredità di Coletti. Forse stanno chiudendo i vecchi conti. O magari qualcuno ha scoperto dov'eri, e vogliono ucciderti per dare un esempio. Davvero non ne ho idea.» Il barman porta un altro whisky per Vince. Lui beve un lungo sorso e fissa il tavolo, cercando di mettere insieme i pezzi. Quando alza lo sguardo, Benny lo sta fissando. «Cosa c'è?» «Sei diverso» dice Benny. Un fantasma. Vince si passa una mano sulla testa. «Sì, è questo taglio di capelli.» «No, non c'entra. Hai... un altro aspetto.» Beve un sorso di birra. «Allora, cos'hai intenzione di fare, Marty? Fuggirai, giusto?» «Non lo so» risponde Vince. «La città dove stavo... Se sono riusciti a trovarmi lì, mi troveranno anche sulla luna.» Sospira. «So che ti sembrerà
assurdo, ma mi sono portato dietro un po' di soldi. Credi che potrei semplicemente saldare il mio debito? Cosa ne pensi? Mi presento, facendo finta che non ci sia nessun problema, pago il denaro che devo, e finisce lì.» Benny ride, poi capisce che Vince fa sul serio. «Quanto hai?» «Quanto mi serve, secondo te?» Benny scrolla le spalle. «Tre anni di interessi su quindicimila dollari... Direi che ne vorranno almeno sessantamila, e poi probabilmente ti ammazzeranno lo stesso, per principio.» Vince fissa la borsa. «Sessantamila non li ho.» «Quanto hai?» «Diecimila, qui. Ma ho altri soldi a casa. Dirò loro che l'unico modo per averli è quello di lasciarmi andare, e glieli manderò. Sarà una specie di assicurazione, per me.» Benny lo fissa, poi fa un sorriso triste e ingoia l'ultimo boccone di carne. «Tienine da parte duecento per la bara.» Vince ha l'indirizzo di Dom Coletti, a Bay Ridge. Va a prendere la metropolitana alla stazione di Broadway, e appena scende le scale viene inondato di suoni e odori familiari. Caldarroste, fumo di sigarette, lo stridio di freni dei vagoni. Un paio di ragazzi lo urtano, e lui di riflesso controlla che il portafoglio ci sia ancora, poi supera il cancelletto girevole ed è dentro. Luci al neon sulle pareti, un ispanico drogato che grida: «Pacifico!» mentre una donna con un vestito trasandato suona il tema di Rocky al clarinetto. Il fodero dello strumento, aperto ai suoi piedi, raccoglie le monetine lasciate cadere dai pendolari con il viso nascosto dietro i giornali. Sul binario tutti si muovono, si voltano e guardano in direzione del tunnel, e tu sorridi quando senti arrivare il treno, ti sporgi a guardare per vedere le luci e sentire sulla faccia il vento che sa di polvere e immondizia, poi una folata di nostalgia agita i giornali, e il treno della linea B entra in stazione, frenando con un rumore insopportabile. Le porte si aprono, i passeggeri salgono, si siedono sui sedili di plastica, si controllano con lo sguardo, ognuno attento al portafogli, allo zainetto, alla borsa. Il vagone puzza di piscio. Vince resta in piedi, felice di rivedere i graffiti, come un emigrato che legge per la prima volta dopo anni il quotidiano della sua città. È contento di sapere che Chulo è un figlio di puttana e che Jenny fa i pompini. Finalmente si siede e chiude gli occhi. Scende alla Settantasettesima, a Brooklyn. Otto isolati, e si trova davanti all'edificio dove abita Coletti, tre piani senza ascensore, all'ombra del pon-
te di Verrazzano. Fa un respiro profondo e si avvia verso l'ingresso, i ragazzi seduti sul gradino del portone lo lasciano passare. Suona il campanello corrispondente al 3 B. Pochi secondi dopo, dal citofono esce la voce di una donna anziana: «Chi è?». «Sto cercando Dominic Coletti.» «Chi è lei?» «Un vecchio amico.» Il portone si apre e Vince si avvia su per le scale, istoriate di graffiti non troppo osceni. Al terzo piano, una vecchia italiana lo aspetta sulla soglia. Capelli neri crespi, profonde rughe intorno agli occhi e alla bocca, due nei pelosi sul mento. «La signora Coletti? Sono... Vince Camden.» Tende la mano, lei la ignora. «Se sei un amico di mio marito, come mai non ti ho mai sentito nominare? Io non ti conosco.» «Sono stato lontano da New York per molto tempo, signora. Avevo i capelli più lunghi.» «E lavoravi per Dom?» «Sì.» «Nel vecchio posto, a Queens?» «Esatto.» «Sei un idraulico?» Vince ricorda che Coletti di lavoro era idraulico, anche se probabilmente non aveva mai cambiato un rubinetto in tutta la vita. «Perché non sembri un gangster» dice la donna, a mo' di spiegazione. «Non sembri neppure italiano.» «Non sono italiano» ammette Vince. «E non sono un idraulico.» Lei si volta ed entra in casa. Vince la segue. Oltre la porta c'è un piccolo tinello, con la carta da parati di un beige sbiadito, o di un bianco ingiallito. Ci sono foto incorniciate di nipotini sopra ogni superficie piatta: tavolo, tavolino, televisore, mobile bar, mensola del caminetto. Tutti i bambini, maschi e femmine, sembrano avere gli stessi capelli lunghi e neri, pettinati all'indietro e divisi nel mezzo da una riga perfetta. «Cosa vuoi da Dom?» «Solo... parlargli.» «Nessuno viene più a trovarlo.» La donna aggrotta la fronte. «È una vergogna. Ha fatto guadagnare un sacco di soldi a tutti voi, è stato sempre leale, e quando qualcuno finiva dentro lui si prendeva cura della famiglia.» Si avvicina, minacciosa. «E come lo avete ricompensato? Quando è andato in
galera qualcuno di voi è venuto a chiedere se io avevo bisogno di qualcosa? Voi giovani, voi che fate i soldi con la droga, voi che andate allo Studio 54. Siete mai venuti a ringraziare Dominic? Tu sei venuto, idraulico?» «No» dice Vince. «Non sono venuto.» Lei gli fa il verso. «Non sono venuto.» Poi si volta e lo precede lungo un piccolo corridoio con tre porte. Si ferma davanti a un piccolo altare su un tavolino: nove candele, un rosario e una folla di santini che a Vince sembrano giocatori di football disoccupati, tutti con i capelli biondi, le labbra rosse e gli occhi blu leggermente strabici. La donna si fa il segno della croce, apre una porta e Vince la segue in una stanza buia, che puzza di merda e di marciume. Al centro c'è un letto da ospedale, con una manovella sotto. Sul letto, vestito solo di un pannolone di plastica, c'è quello che resta di Dominic "Sangue Freddo" Coletti, le braccia scheletriche, le dita contorte strette sul petto magro, la pelle pallida. Una gamba pende di lato, con le unghie del piede lunghe e giallastre. Coletti ha la faccia fissa in una specie di smorfia, gli occhi chiusi, il respiro rauco e della spuma bianca intorno alla bocca aperta. «Ha avuto un infarto» dice Vince. La donna annuisce. «Più di uno. I medici non sanno neppure quanti. Dicono che ora ha continuamente dei piccoli infarti. Noi non li notiamo, ma lui li sente. Lo so.» Rimette sul letto la gamba che è scivolata giù, tira su la coperta dal pavimento e copre il marito fino alla vita. «Dom, questo giovane è venuto a trovarti.» L'occhio destro di Coletti si apre e osserva Vince. Lo riconosce. «Vuoi parlare con lui, Dom?» Vince lo guarda, ma Coletti non risponde. Batte solo un paio di volte la palpebra. «Bene, allora vi lascio soli» dice la moglie. «Ma riesce a capirmi?» «Lo capisci?» chiede lei a Coletti. Due battiti di ciglia. «Sì, ti capisce. Due battiti significano sì, tre significano no.» «E uno solo?» «Uno solo significa che l'occhio è secco. Se ha bisogno di qualcosa comincia a battere le palpebre continuamente. Se lo fa, vieni a chiamarmi.» Esce, e Vince si guarda intorno, in cerca di una sedia. Ce n'è una pieghevole in un angolo. La trascina accanto al letto e si siede, chino in avanti. «Sai chi sono?» Coletti batte le ciglia due volte.
«Mi dispiace per come sono andate le cose.» L'occhio si limita a fissarlo. «Mi dispiace anche per Crapo e Bailey. Non sapevo che sarebbe stata così dura, per loro. Ero nei guai, non avevo i soldi, e quello mi è sembrato l'unico modo...» Tre battiti, poi l'occhio si chiude. Niente scuse. «Va bene» dice Vince. Il vecchio apre l'occhio e aspetta. «Ascolta, c'è una cosa che voglio chiederti. Hai ancora un conto aperto con me?» Tre battiti. No. Il suo respiro pesante diffonde un cattivo odore nella stanza. «Non c'è qualche tuo amico che magari ha ancora voglia di farmi fuori?» Tre battiti. «Qualcuno mi vuole morto.» L'occhio lo fissa. «Non sei tu?» Tre battiti. «E non hai idea di chi possa essere?» Tre battiti. «Capisco.» Ora gli occhi di Vince si sono abituati al buio. Sulla parete è appesa una foto del ponte di Verrazzano, quando era ancora in costruzione. Su un'altra parete ci sono foto di purosangue. Dom amava i cavalli. «Capisco» ripete Vince. Infila una mano nella borsa e tira fuori la busta con i soldi. Conta ottanta biglietti da cinquanta, quattromila dollari, e li posa sul letto accanto a Coletti. Il vecchio lo segue con l'occhio. Vince prende i soldi e glieli mette in mano. La pelle è fredda e dura. Il vecchio batte le palpebre due volte. Li accetta. «Sono solo quattromila» dice Vince. «Meno di un terzo di quello che ti devo. Ma ti manderò il resto appena torno a casa. Va bene?» L'occhio lo fissa. «E nel caso tu sia... se te ne sarai andato, li darò a tua moglie. Va bene così? Siamo pari, se lo faccio?» Un momento di riflessione. Poi due battiti di ciglia. «Grazie.» Vince gli dà un colpetto sul petto e si alza in piedi. L'occhio lo segue. «Ho un'altra cosa da chiederti» dice Vince. L'occhio lo fissa. «Ti è sempre piaciuta, la tua vita?» Nessuna reazione.
«Se qualcuno ti avesse offerto di ricominciare da capo, con un altro nome, in un'altra città, credi che lo avresti fatto?» L'occhio vaga per un attimo nel vuoto. Poi Coletti batte due volte le ciglia. Quindi chiude l'occhio e non torna ad aprirlo. Vince aspetta un paio di secondi, poi esce. Fuori dalla stanza l'aria è pulita: respira profondamente. La moglie di Coletti lo incrocia in corridoio ed entra nella stanza. Vince prosegue verso il soggiorno ed è già sulla porta quando la donna lo chiama. «Hai lasciato tu quei soldi per Dom?» Lui si volta a metà. «Sì.» «Perché?» «Un vecchio debito.» Lei lo fissa, poi socchiude gli occhi. «Marty Hagen» dice, con disprezzo. «Ecco chi sei.» Vince non dice nulla. «Bastardo. Ma lo sai che Dom non ti ha mai incolpato di nulla? Non ha mai detto neppure una parola contro di te. Gli piacevi. Dei soldi che gli dovevi non gli è mai importato nulla, lo sai? Questo è l'uomo che hai rovinato, brutto pezzo di...» Vince abbassa lo sguardo. «Il mio Dom conosceva Profaci. I fratelli Gallo. Joey Colombo ha mangiato qui, seduto a questo tavolo. In quarant'anni, Dom non ha mai fatto uno sgarro a nessuno e non ha mai passato in galera più di un fine settimana. Era un professionista. Non lavorava nel quartiere dove abitava. Non vendeva droga. Ha fatto studiare sei figli per evitare che dovessero fare il suo stesso lavoro. Il più grande, Paul, ora fa il commercialista. Maria, la più piccola, è farmacista. E alla fine, quando il tempo del lavoro era finito, quando finalmente il mio Dominic poteva riposarsi e giocare con i nipotini, si ritrova in galera per colpa di uno stupido ladro che non può pagare il suo debito. E per cosa? Per qualche migliaio di dollari. Bah!» Vince si guarda le scarpe. «È stato come vedere una tigre sconfitta da una zanzara.» «Quanti anni gli hanno dato?» Lei scuote una mano, per dire che non è quello il punto. «Ha scontato meno di un anno. Credevano di convincerlo a parlare, ma lui non ha fatto neppure un nome. E non avrebbe parlato nemmeno se gli avessero dato ottant'anni. Lui ha carattere, non è come te. Ma la galera lo ha rovinato. È uscito e la mano destra non gli funzionava più bene. Poi il lato destro della faccia è rimasto...» Indica la porta del vecchio con un cenno del capo.
«Perché hai portato quei soldi? Cosa vuoi?» «Volevo rimediare.» Lei non distoglie lo sguardo, e non permette neppure a lui di farlo. «Ormai è tardi.» Quando stai pedinando qualcuno, è meglio essere come un'ombra alle tre del pomeriggio. Non dietro il soggetto, ma parallelo a lui. Dall'altro lato della strada, o meglio ancora da vicoli e strade laterali. Così, quando il soggetto in questione si volta a guardarsi alle spalle, non vede nulla. È un metodo che richiede concentrazione e intuito, ma con l'allenamento si riesce ad anticipare i suoi movimenti, a sapere dove andrà ancora prima che lo sappia lui. Almeno, questa è la teoria di Alan Dupree, mentre percorre il terminal dell'aeroporto La Guardia sentendosi più un turista che un poliziotto. È la prima volta che viene a New York e la sua missione è trovare un tizio il cui nome forse è Vince Camden, e forse no. Buongiorno, signor Ago, le presento il Pagliaio. Probabilmente è questo il motivo per cui Phelps lo ha lasciato andare, quando il viaggio è stato approvato. Lascia che la recluta sprechi il suo tempo. Dupree sta per uscire dall'aeroporto quando una mano gli piomba sulla spalla. «Ehi, rallenta, cazzo. Sei l'agente Dookie?» Dupree sente odore di alcol. Si volta e vede un poliziotto in borghese, grosso e calvo, con la fondina ascellare e le manette alla cintura. Gli tende la mano. «Sono Alan Dupree.» Il poliziotto ignora la mano e gli prende la valigia. «Che stronzi, i capi, eh? Cazzo, ti fanno attraversare tutto il Paese perché un tizio ha preso un aereo. Te lo dico io, Dookie, i capi sono degli stronzi, cazzo. Dei fottuti stronzi.» Poi, ricordandosi che manca qualcosa, aggiunge: «Mi chiamo Donnie Charles. Tutti mi chiamano detective Charlie, o Det-Charlie. Ma spesso anche solo Charlie, cazzo». Le parole gli escono a raffica dalla bocca, eccetto "cazzo", che pronuncia lentamente, come una giaculatoria, o come una balena che emerge in superficie. Cammina a passi lunghissimi, e ogni tanto Dupree deve fare una corsetta per restargli a fianco. «Io mi stavo facendo i cazzi miei, quando il mio capo mi chiama per dirmi che c'è un tipo di Seattle che devo accompagnare in giro per un'indagine, un qualche omicidio del cazzo. Bene, penso, ho proprio bisogno di fare un po' di straordinario.» Il detective Charles esce e si dirige verso un'auto senza contrassegni par-
cheggiata accanto al marciapiede. Sul sedile posteriore c'è un mucchio di almeno venti scatole da scarpe. Una è aperta e dentro si vedono un paio di Adidas nuove fiammanti. Un giovane ispanico, chino sul cofano, si tira su non appena vede Charles, il quale apre la portiera e consegna al giovane un paio di scarpe. L'altro fa un cenno di ringraziamento e si allontana in fretta. «Scimmie del cazzo. Li devi sempre ungere, anche per farti sorvegliare la macchina. Ce li avete anche voi a Seattle? I portoricani sono capaci di rubarti persino l'antenna della radio. Rubano qualunque cosa. Ce ne sono molti a Seattle, Dookie? Cosa porti, un quarantatré? Prendi pure un paio di scarpe.» Salgono a bordo e partono. Dupree sente il bisogno di contrastare il flusso verbale di Det-Charlie e di dargli l'impressione di sapere cosa sta facendo. Tira fuori il dossier, supponendo che si faccia così. «Apprezziamo il vostro aiuto per questo caso» dice. «Il nome del soggetto è Vince Camden. Lo abbiamo notato per la prima volta sulla scena di un omicidio, circa trentasei ore fa. Ha sostenuto di non conoscere la vittima, tuttavia in seguito abbiamo trovato il suo nome sullo schedario dell'uomo assassinato.» «Hm-hm» dice Charles, con gli occhi fissi sul traffico. «Lo abbiamo interrogato, ha ammesso di conoscere la vittima, ma aveva un alibi e lo abbiamo lasciato andare.» «Sì, capisco» dice Charles. Evidentemente non sta ascoltando. «Dopo quel colloquio io l'ho accompagnato a casa e gli ho chiesto di non lasciare la città. Poi tra i documenti della vittima abbiamo trovato i numeri di alcune carte di credito rubate, e accanto c'era il nome di Vince Camden. Sono tornato a casa sua per fargli qualche altra domanda, e ho scoperto che era fuggito. La casa era stata messa a soqquadro e non c'era una valigia da nessuna parte. Ci siamo procurati un mandato, abbiamo perquisito la casa, e abbiamo trovato tracce di marijuana e altri numeri di carte di credito.» «Hm-hm.» «Quindi sono andato al ristorante dove Camden aveva detto di essere diretto, quando lo avevo visto per la prima volta. Il proprietario si ricordava di lui, mi ha detto che aveva fatto alcune telefonate e lo aveva visto prendere appunti su un foglio. Così ho frugato nella spazzatura...» Per la prima volta Charles si volta a guardarlo, con un mezzo sorriso. «Cazzo, hai davvero frugato nella spazzatura?» «Già» dice Dupree. Gli mostra una busta di plastica trasparente, che con-
tiene un foglietto strappato da un bloc-notes. Legge: «Socio. Bay Ridge. Sposata. Jerry. Tina McGrath. Long Island». Charles ride. «Be', questo spiega tutto.» Ma Dupree vuole raccontare tutta la storia, anche se solo a se stesso. «Oggi ho chiamato le linee aeree, per controllare i voli per New York, e... sorpresa! Vince Camden aveva preso proprio stamattina un volo Pan Am per New York via Chicago. Lo avevo mancato per poche ore. Così abbiamo acquistato un biglietto a mio nome e abbiamo chiamato voi per chiedervi di collaborare. Ed eccomi qui.» Charles sembra non aver ascoltato neppure una parola. «Come si chiama questo tizio?» «Vince Camden.» «Camden? Come la città del New Jersey?» «Pensiamo che sia uno pseudonimo.» Charles fa una faccia seccata. «Allora, è il suo nome sì o no, cazzo? Non prendermi per il culo, Seattle, non sono dell'umore giusto.» Dupree non sa cosa dire. Charles gli dà un pugno sul petto, facendogli male. «Scherzo, amico. Non prendere sul serio quello che dico. Chiedi in giro, e tutti ti diranno la stessa cosa: non prendere mai sul serio quello che dice Det-Charlie. A meno che non abbia quell'espressione.» Arriccia il naso e la bocca, in una smorfia che lo fa somigliare a un bulldog. Dupree nota la fissità dello sguardo. Charles è completamente stonato. «Memorizza quest'espressione, Dookie. Se la vedi, è meglio che vai a nasconderti sotto il tavolo più vicino.» Charles si addentra nel traffico, sorpassando e rientrando ogni volta che può. «Fuori dai piedi!» urla dal finestrino. «Toglietevi di mezzo!» Accende la sirena e sorpassa un autobus. Dupree si regge al cruscotto. L'auto ritorna in corsia e Charles spegne la sirena. «Dove cazzo vanno tutte queste persone? Stanno forse inseguendo un assassino? No? Allora che si tolgano dai coglioni, cazzo!» Dupree è sul punto di ricordargli che per il momento Vince Camden (sempre che sia questo il suo nome) non è accusato di nulla, ma poi preferisce tacere. «Dobbiamo contattare il mio consulente del sindacato di polizia» dice Charles. «Poi chiederemo a uno dei miei se conosce questo tizio. Ti piace la cucina italiana?» «In realtà io pensavo di cominciare dalla ragazza.» Dupree tira fuori la
lettera che ha trovato in casa di Vince Camden. Per qualche motivo il nome e l'indirizzo sono stati tagliati via dalla busta, ma la donna che l'aveva spedita si firmava "Tina". Era stato quello il motivo che aveva convinto Phelps a lasciarlo partire: la lettera e il foglio accartocciato che aveva trovato nella spazzatura. «Una lettera firmata Tina e il nome Tina McGrath sul foglio. Pensiamo che si tratti della stessa donna.» Charles non gli presta attenzione. «Facendo una ricerca abbiamo trovato una coppia, Jerry e Tina McGrath. E indovina dove abitano?» Charles non risponde. «A Long Island. Ho qui l'indirizzo. E sul foglio che ho trovato nell'immondizia c'è scritto Long Island, vedi?» «Vuoi una ragazza, Dookie? Perché non l'hai detto subito? Vieni nella grande città e credi che il vecchio Det-Charlie non si prenderà cura di te? Non c'è bisogno di arrivare fino a Long Island. Smetti di essere così negativo, Seattle. Pensa positivo.» Dupree apre la bocca per correggerlo, ma Charles estrae da sotto il sedile una bottiglia di Jack Daniel's e beve un lungo sorso, la porge a Dupree, poi la agita in direzione dell'auto davanti a loro. «Togliti di mezzo!» Mancano due ore all'appuntamento con Benny. Vince prende la metropolitana e torna a Manhattan, poi va a passeggiare nella Quinta Strada, in mezzo a un mare di teste. È sconcertante: tutti quegli occhi, quelle facce. Continua a immaginare di vedere il viso di Ray Sticks tra la folla. Quanto ci metterà a scoprire che Vince non è più a Spokane e a rintracciarlo a New York? Fissa i poster di un cinema. Uno dei film è Stati di allucinazione. Vince ha letto l'inizio del romanzo, qualche mese fa, quando cercava di far colpo su Kelly. Parlava di un giovane scienziato che si sottopone a esperimenti in una vasca di deprivazione sensoriale. Vince ricorda di aver interrotto la lettura dopo una trentina di pagine, precisamente quando uno dei personaggi dice: «Nasciamo nel dubbio, moriamo nel dubbio e la vita non è che un continuo tentativo di convincerci che siamo vivi». Ma in quel momento gli viene la curiosità di sapere come va a finire, ed entra nella sala. Il film è lento, cupo, e Vince non riesce a concentrarsi. Esce appena ha finito i pop-corn. Cammina un altro po', quindi prende un taxi e si fa portare in un piccolo ristorante su Desbrosses Street, chiamato Caffè Grigio. Accanto a Benny c'è un tizio in camicia nera e giacca bianca, con le mani
incrociate sull'inguine come un terzino in difesa della porta. L'uomo sembra disegnato in bianco e nero. Sopracciglia scure, capelli bianchi, peli argentati sul petto. L'unica nota di colore è la catena d'oro che gli scende dentro la camicia sbottonata. Vince si avvicina e Benny si mette in mezzo a loro come un arbitro di boxe. Anche con la pettinatura afro è almeno quindici centimetri più basso di tutti e due. «Ciao» dice a Vince. «Questo è il cliente di cui ti parlavo. Pete, lui è...» fa uno sforzo per ricordare il nuovo nome. «Vince Camden.» Si stringono la mano ed entrano nel locale, passando davanti alla cassa e dirigendosi a un séparé vicino a una finestra. Il tavolo è già apparecchiato per tre. Pete tira le tende di chintz e segue con il dito la forma dell'Italia disegnata sulla tovaglietta di carta. Sotto c'è scritto BEAUTIFUL ITALY. Benny si siede dal lato di Pete. «Ho già raccontato a Pete la tua storia» dice a Vince. «È disposto ad aiutarti, per farmi un favore.» «Grazie» dice Vince. «Ma non devi dire a nessuno che gli hai parlato, o che io sono il suo legale. Se gli fai una domanda e non vuol rispondere, non insistere. Va bene?» Vince annuisce. «Non devi ripetere a nessuno le informazioni che riceverai. Neppure a me. Aiutando uno come te, Pete corre dei rischi.» «Uno come te.» Vince è sorpreso di notare quanto gli bruci quell'espressione. «Perciò questo incontro non è mai avvenuto» continua Benny. «Chiaro?» «Certo» dice Vince. «Benissimo. Allora io vado a sedermi al bar, perché preferisco non sentire quello che vi direte. Fatemi un cenno quando avrete finito.» Lo seguono entrambi con lo sguardo mentre si avvicina al banco e si toglie il cappotto. Arriva la cameriera e Pete ordina birra e cannelloni ripieni. Vince prende un whisky con succo di limone. Quando la donna porta le bevande con un piatto di antipasti, Pete si toglie gli occhiali da sole, rivelando due occhi grigi e stanchi. Prende un pezzetto di provolone, salame e un'oliva. «Benny mi ha detto che sei nei guai con Ray Sticks.» Ha una voce lenta e roca, come se parlasse attraverso una parete d'acqua. Vince annuisce. «Sì, se Ray Sticks è un tipo tozzo, con i capelli neri, sopracciglia grosse come bachi da seta e chiama tutti "capo."» Pete annuisce e beve un sorso di birra. «È lui. A volte giochiamo a carte
insieme.» «Come posso scoprire chi l'ha mandato a farmi fuori?» «Semplice. Può essere stata una sola persona.» «Chi?» Pete prende un'altra oliva. «Sticks lavora per Johnny Boy, il boss di una banda di Gambino, a Queens. Gestisce tutte le attività illegali fuori da Ozone Park. Il fratello traffica eroina. Johnny è un tradizionalista, sembra un uomo di Cosa Nostra dei vecchi tempi. Parla sempre di tornare alle glorie del passato. Si sta occupando di regolare tutti i conti dimenticati, ed è così che devono aver trovato anche te.» «Credi che se pago il mio debito mi lascerà in pace?» «Difficile.» Pete aggrotta le sopracciglia. «Johnny non disprezza i soldi, ma con lui non si sa mai. È agitato, guarda troppi film. A marzo di quest'anno suo figlio è stato investito da un'auto e da allora lui è cambiato, è diventato davvero imprevedibile.» «Come faccio a trovarlo?» «Il suo quartier generale è un locale che si chiama Bergin Fish and Hunt Club, ma al tuo posto io non ci andrei. Uno come te potrebbe passare un brutto quarto d'ora, lì dentro.» Per la prima volta lo fissa negli occhi. «Senza offesa.» Vince ignora il commento. «E dove posso incontrarlo, allora?» «Prova quando è rilassato. Gli piace giocare a carte. Beve, e poi perde diecimila, ventimila dollari ogni fine settimana. Tu giochi?» «Sì, un po'.» Pete strappa un pezzo della tovaglietta, e si fa prestare una penna da un cameriere. «C'è una partita seria stasera, in un appartamento di Mott Street. Io posso farti entrare. Tu dovrai pagare anche la mia posta. Appena iniziamo io perderò in fretta e me ne andrò.» Pete scrive l'indirizzo sul pezzo di carta. «Ci sono sempre due o tre partite in contemporanea. Non posso garantire che sarai al tavolo di Johnny Boy, ma se fai la parte del pollo pieno di soldi, o se vinci, potresti avere una possibilità.» Vince lo ringrazia ma lui si stringe nelle spalle. Guarda Benny seduto al banco, poi torna a fissare Vince. «Benny dice che sei a posto, perciò aggiungo un consiglio: stai molto attento con Johnny. Da quando è morto suo figlio, non ci sta più tanto con la testa.» «Quanti anni aveva il figlio?» «Dodici.» «Cristo. E che fine ha fatto quello che l'ha investito?»
Pete prende un'oliva dal piatto, la mostra a Vince, poi la getta nel bicchiere d'acqua. La guardano entrambi affondare nell'East River. Sfrecciano in un tunnel, con Charles che divide equamente la sua attenzione tra la sirena, l'acceleratore e la bottiglia di Jack Daniel's. Fuori dal tunnel, Dupree nota un cartello che indica l'uscita per il New Jersey. «Siamo in New Jersey?» chiede. «Di sicuro non siamo a Seattle.» Dupree fissa il fascicolo che ha in mano. «Ascolta, credo che dovremmo andare a parlare con questa Tina McGrath prima che si faccia tardi e...» «Piantala, Seattle. Ho una cosa da fare prima.» «Ma...» «Sentimi bene, oggi è venerdì, era la mia giornata libera. Ma quando il mio capo chiama e mi dice che c'è un povero stronzo di Seattle che ha bisogno di qualcuno che lo porti in giro per la città, accetto immediatamente. Credi che sia facile trovare un detective della polizia di New York disposto a mettersi al tuo servizio di venerdì sera? Perciò, invece di rompere i coglioni, prova a mostrare un po' di considerazione per il mio lavoro, ok?» «Scusa» dice Dupree. Escono dall'autostrada, attraversano alcuni quartieri di periferia e pochi minuti dopo arrivano in una zona di negozi. Charles parcheggia davanti a un edificio dalla facciata di mattoni: davanti c'è una lavanderia a secco, di lato un'insegna su una porta a vetri, con la scritta NITTI'S. Charles scende dall'auto. «Vieni, Seattle. Mangiamo un boccone con il mio amico, poi andiamo a cercare la tua ragazza.» Dupree non si muove, incerto. «Oh, avanti, non fare la femminuccia.» Charlie si china verso il finestrino, con un sorriso smagliante. «Ascolta, qui si mangia benissimo, e l'uomo che stai cercando non andrà molto lontano nella mezz'ora che ci metteremo a mangiare un piatto di spaghetti, cazzo. Ora vieni e dammi una mano.» Il locale è ben illuminato, con le pareti piene di foto incorniciate di attori italiani e di altri clienti in compagnia di una coppia di italiani di bassa statura, carte geografiche dell'Italia e cesti con melanzane, carciofi e bottiglie di chianti. Il cibo è già pronto in grandi casseruole su un lungo tavolo: lasagne, ziti, spaghetti, polpette e salsicce. Di contorno ci sono fagiolini e zucchine. La maggior parte dei clienti sono uomini che bevono chianti in bicchieri da acqua, seduti intorno a tavoli coperti da tovaglie a scacchi. Il vecchio italiano che appare anche nelle foto grida, da dietro il registra-
tore di cassa: «Per due, Charlie?». «Sì, Giuseppe. Lui è Dookie, una recluta della California. È venuto qui a imparare come lavorano i migliori.» Dupree apre la bocca per correggere Charles, ma lui si volta e sussurra: «So che non sei della California, ma questo vecchio spaghetti del cazzo non ha mai sentito nominare Seattle». «È un cowboy, allora, Charlie? Bang, bang?» «Esatto, Giuseppe. Un cowboy del cazzo.» Il vecchio italiano solleva l'indice e il pollice. «Bang, bang!» «Tu sei spesato» dice Charles. «Perciò paghi tu.» Dupree dà al vecchio quindici dollari. Charles prende un piatto e Dupree lo imita. Si servono, poi vanno a sedersi accanto a un uomo dall'aria severa, che fuma una sigaretta dopo aver ripulito e spinto da parte il proprio piatto. L'uomo fissa prima Charles, poi Dupree. Aspira una boccata e dice: «Dove cazzo eri, Charlie? Sono quasi le otto». «Stasera lavoro, Mike, te l'avevo detto.» «Non mi hai detto un cazzo. Come mai lavori nel tuo giorno libero?» «Un po' di straordinario mi serve.» Si volta verso Dupree. «E qui c'è qualcuno che garantisce che sto lavorando.» «Chi è il ragazzo?» Dupree sta per presentarsi, poi lascia che sia Charles a farlo. «Lui è l'agente Dookie. Dookie, ti presento Mike. È un poliziotto di Seattle, stasera devo aiutarlo a risolvere un problema, e lui in cambio aiuta me. Ognuno è l'alibi dell'altro.» La parola "alibi" gela Dupree, ma la preoccupazione svanisce non appena assaggia un boccone della migliore polpetta che abbia mai mangiato. «Buonissima» dice. Charles ride, Mike lo fissa. «Che ti dicevo? Dookie è a posto. Garantirà che stasera ero occupato ad aiutarlo nel caso a cui sta lavorando. Vero Dookie?» Mike gli punta contro la sigaretta. «Non posso credere che tu abbia fame, dopo quello che è successo. Sei un vero maiale, Charlie.» «Vaffanculo, Mike.» «Vaffanculo tu, Charlie. Stavolta hai combinato un bel casino!» Dupree sposta lo sguardo dall'uno all'altro, con un pezzo di polpetta infilato sulla forchetta. «Lo so» dice Charles, assaggiando gli ziti al forno. «E allora?» «E allora? Allora sono stufo di passare il tempo a salvarti il culo.»
«Piantala di trattarmi come un ragazzino. Non rompermi i coglioni e dimmi cosa devo fare.» Mike sospira. «Sei nella merda fino al collo, Charlie.» «Questo lo so già, Mike.» L'uomo si accende un'altra sigaretta. «Qui non si tratta di un pranzo gratis o di qualche paio di scarpe da ginnastica.» «So di cosa non si tratta, Mike. Dimmi solo cosa devo fare.» Dupree li guarda in silenzio. «Quante volte devo dirtelo? Non devi combinare casini da questa parte del fiume, Charlie. Il padre della ragazza è un politico di Newark. Non posso aiutarti, Charlie.» «Hai saputo cosa dice lei?» chiede Charles. «Dice...» Mike indica Dupree con un cenno del capo. «Sei certo di volerne parlare davanti a lui?» «Vi lascio soli» dice Dupree, alzandosi. Charlie gli mette una mano sulla gamba, spingendolo a sedersi di nuovo. «No, resta. Tra soci non devono esserci segreti.» Mike si stringe nelle spalle. «Dice che lei e una sua amica sono andate ad Alphabet City a comprare una busta di coca. Tu le hai fermate, hai portato una di loro in macchina e l'hai costretta a farti un pompino. Dopodiché ti sei pure fregato la coca.» Dupree ha perso l'appetito e allontana il piatto. «No» dice Charles, aggrottando la fronte e passandosi una mano sulla testa pelata. Ingoia una forchettata di spaghetti e poi indica con la forchetta. «Non è andata così, Mike.» «Davvero? E com'è andata, allora?» Mike si toglie una briciola di tabacco dalla lingua, poi guarda in. faccia Dupree per la prima volta. Quindi torna a fissare Charles. «È stata lei ad aprirmi la patta, Mike. Non ho costretto nessuno. Le stavo facendo un favore.» «Oh, Cristo.» «Sul serio, Mike. Come potevo sapere che era figlia di un politico?» Vuota il suo bicchiere e allunga una mano verso quello di Dupree. «Non c'è un modo di sistemare le cose?» «La commissione d'inchiesta sa già tutto, Charlie. Come le sistemiamo le cose, secondo te?» «Ascolta» dice Charles, toccandogli un braccio. Mike tira via il braccio e gli punta contro un dito. «So che hai avuto un
periodo difficile e tutto il resto, Charlie. Ma questa storia deve finire.» «Finirà. Finirà, te lo giuro» dice Charles, in tono speranzoso. «Voglio crederti.» Mike osserva il filo di fumo della propria sigaretta. «Ho contattato il padre della ragazza, e come puoi immaginare il fatto che sua figlia si sia fatta beccare ad acquistare coca a dieci giorni dalle elezioni non lo rende felice.» Charles solleva la forchetta. «Sapevo che mi avresti aiutato, Mike.» «Chiudi la bocca, deficiente! Sei fortunato che quello è un pagliaccio, e non un uomo. Se si trattasse di mia figlia, a quest'ora tu saresti come minimo in ospedale.» Fa una pausa per riprendere fiato. «In questo momento ha dei problemi con un sindacato che sostiene il suo avversario. Non vuole andare in tribunale per questa storia, perciò se tu lo aiutassi...» Mike spinge un foglio attraverso il tavolo. Charlie lo prende e lo apre. Dupree vede che c'è scritto un numero di telefono e un nome: Daryl Greene. «Cosa gli stacco?» chiede Charlie. «Ala o coscia?» «No, niente del genere. Fagli solo arrivare il messaggio.» Charlie sorride come se avesse vinto alla lotteria. «Davvero? Nient'altro?» «Un messaggio chiaro» specifica Mike. «Dopo, lui si occuperà di far ritirare la denuncia alla figlia. Ma questo risolve solo metà del tuo problema.» «Cosa vuoi dire?» «La commissione d'inchiesta ha il nome dello spacciatore. Pensano che tu abbia un accordo con lui: gli lasci vendere la coca, e lui ogni tanto ti indica qualche cliente da fermare.» «Merda, Mike!» esclama Charles, sputando saliva. Poi si asciuga la bocca e cerca di sorridere di nuovo. «Cambierò. Te lo prometto.» Mike si china in avanti. «Devi tenere i tuoi problemi sotto controllo, Charlie.» «Lo farò, Mike. Lo farò. Dopo questa storia mi prenderò un po' di tempo... Sistemerò tutto. Aiutami e vedrai.» Tende la mano. «Va bene» dice Mike stringendogli la mano. «Ma è l'ultima volta.» Dupree ha assistito alla conversazione affascinato e sbigottito allo stesso tempo. Si schiarisce la voce. «Ascoltate, io non voglio entrarci. Sono affari vostri, non miei, e...» Gli altri due si voltano lentamente a guardarlo, come se avessero dimenticato che c'era anche lui. Mike sorride e gli dà un colpetto sul braccio. «Ti
va un altro po' di vino, Dookie?» Due carte coperte e tre scoperte per ogni giocatore. Poi una quarta sul tavolo, e infine la quinta, quella che ti può fregare. C'è ordine e criterio in una partita di poker alla texana. È come respirare. Anche dopo tre giorni senza dormire. E a un tratto non importa se sei a Washington o a New York, se sei Vince, Marty o Jimmy Carter... Ci sono solo le carte, le stesse cinquantadue dappertutto, divise in quattro semi, e tu ti impegni nel gioco come se potesse salvarti la vita. E in questo caso può salvartela davvero. Vince parte forte, con un re e un jack dello stesso colore. Punta molto, per farsi notare. Due giocatori lasciano subito. Altri due quando vengono servite le tre carte scoperte. Altri tre al momento della quarta carta. All'ultimo giro, grazie a un altro re, Vince si aggiudica il piatto. La conversazione intorno a lui è la stessa di sempre. Tutti hanno problemi per via di un affare pericoloso, di uno strozzino o di un agente di sorveglianza per la libertà vigilata. Il brusio è familiare, tuttavia Vince non riesce a registrare i particolari, a capire di quale affare si tratti, di quale strozzino, di quale agente di sorveglianza. All'improvviso si rende conto che non è molto diverso dal chiacchiericcio del negozio di bomboloni, o da quello delle donne per strada. «Banana, mela, fragola.» Vince lascia una mano, arriva a metà della successiva uguagliando una puntata bassa, poi lascia di nuovo. Uno dei giocatori cerca di fare conversazione, ma lui dà risposte brevi. Prima viveva in città. Ora si è trasferito nello stato di Washington. Ha in gestione un negozio di bomboloni. Qui ha incontrato un vecchio amico che gli ha detto di conoscere un buon tavolo da poker. Per essere ammesso a giocare ha dovuto versare duemila dollari per sé e altrettanti per Pete. Pete se n'è andato presto, e Vince ha l'impressione di trovarsi al tavolo dei bambini, in compagnia di nullità, il fondo della catena alimentare. Sono in nove, bevono, fumano e giocano. Se conosce quel tipo di serate (posta fissa per entrare, il dieci per cento resta alla casa), ci devono essere almeno altri due tavoli da nove nelle altre stanze della casa. Vince sa che si continuerà a giocare finché molti andranno via, e i tavoli si uniranno, per partite da dieci o quindicimila dollari. Se lui riesce a superare questa mano, e forse la prossima, probabilmente gli si aprirà la strada per i tavoli dove si gioca più pesante, e alla fine forse arriverà a quello di Johnny Boy, dove cercherà di comprarsi la libertà. «Sei nell'esercito?»
Vince alza gli occhi a fissare un tipo anziano dalle guance scavate. «Come, scusa?» «È per i capelli. Ormai nessuno li porta più così corti, tranne i militari.» Vince continua a dimenticare il suo taglio a spazzola. «No, niente esercito per me.» «Io ero in Normandia» continua il vecchio. «Omaha Beach. Ho perso mezzo plotone in un'ora.» Nessuno alza gli occhi dalle carte. Gli altri devono aver già sentito quella storia. «Ma il mal di mare era quasi peggio dei proiettili. Lo sbarco è stato un sollievo.» Gli altri giocatori continuano a ignorarlo. «Non lo dimenticherò mai. Ho visto un soldato affondare con zaino e tutto, senza essere stato colpito. È saltato giù dalla barca ed è finito sul fondo, per via di tutto quel peso. È annegato.» Vince guarda le carte. Gli viene una coppia di nove. Punta. È un bluff così evidente che non gli farebbe vincere la mano neppure da Sam, figuriamoci qui. Gli arriva un altro nove. E per un attimo l'idea di mettere le cose a posto con Johnny Boy passa in secondo piano. Alla mano successiva pesca un fante e un cinque, di seme diverso. Normalmente lascerebbe, ma stavolta non ha tempo per giocare in modo intelligente, e decide di chiamare il piatto. È un dato scientifico: più è alta la posta (e queste sono le poste più alte con cui abbia mai giocato), più è facile vincere con un bluff. Gli altri lasciano. Quattro mani dopo, chiama di nuovo il piatto. Stavolta gli altri lo notano. Lo osservano, mani e faccia. Due restano. Fuori ci sono asso, regina, quattro. Il mazziere volta un nove, e infine un altro quattro. Quello di fronte a Vince scopre le sue carte. Asso e nove. Qualcuno fa un fischio sommesso. Vince volta le sue. Due regine. Un altro fischio. Due giocatori lasciano il tavolo: in meno di un'ora hanno perso tutto. Uno è il vecchio che è stato in Normandia. Vince non sa cosa dirgli. Lo vede affondare con lo zaino nell'acqua scura. «È stato un piacere giocare con te» gli dice infine. Le sue fiche sono ammucchiate in disordine. I duemila iniziali ora sono diventati seimila. Stanno restando solo i veri giocatori. «Quando dici che fai bomboloni, intendi...» Vince si volta verso il giocatore alla sua sinistra. «Come, scusa?» «I bomboloni.» L'uomo ha un viso gommoso, con gli occhi infossati e le labbra spesse. «Intendi proprio brioche allo sciroppo d'acero, krapfen, e tutto il resto?» «Esatto. Ma faccio anche bignè, Bismarck, torte.» Faccia di Gomma ride. «Ah. Sai, credevo che fosse un... come si dice, un eufemismo. Che in realtà facessi buchi nelle persone, grandi come
bomboloni.» Ridono anche gli altri. Uno dice, serio: «Li fai anche con la marmellata?». «Certo.» «Ci vorrebbe proprio adesso. Non ti andrebbe un bombolone alla marmellata, Ken?» Dall'altra parte del tavolo, un ragazzo con i capelli neri e gli occhi da furetto scrolla le spalle e indica la sua camicia di seta. «Non ho intenzione di mangiare bomboloni alla marmellata con questa camicia addosso. Cristo, Tommy, perché non cresci? I bomboloni non sono roba da adulti.» Vince considera gli altri giocatori. Autisti, lavoratori, nessuno con un talento evidente. Nessuno collegato alle famiglie, probabilmente. E a un tratto non vede perché non dovrebbe ripulirli fino all'ultimo centesimo. Solleva un angolo delle sue due carte coperte. Coppia di dieci. Ma guarda. Si aspettava un sacco di cose, stasera: di non essere ammesso alla partita. Di essere ammesso, ma senza riuscire a incontrare Johnny Boy. Di trovare Johnny Boy solo per finire immediatamente trascinato via dai suoi uomini e ucciso in un vicolo. L'ultima cosa che si aspettava era la fortuna. Da quel momento in poi, Vince è spietato. Comanda il gioco, ignora i bluff, e le sue fiche salgono in colonne così alte che finiscono per inclinarsi le une contro le altre. È una di quelle rare serate dove le carte in sé sono un fattore secondario, come se avesse già tutto in testa. Potrebbe giocare senza neppure guardarle e vincere lo stesso cinque mani su dieci. Gli altri giocatori fanno esattamente quello che lui vuole che facciano. Quando restano solo in tre, la cosa si fa seria. Vince sbircia le proprie carte (regina e nove) quando le riceve, poi non le guarda più. Punta poco. Lascia che siano gli altri ad alzare la posta, poi raddoppia il loro rilancio. Loro fanno la faccia scura, ciascuno guarda le proprie carte, poi Vince, poi di nuovo le carte. Vince non tocca le sue due carte coperte, e gli altri si chiedono se le abbia mai guardate, almeno una volta. Finalmente "vedono". Il mazziere volta dalle carte centrali una regina, un jack, un nove. Guarda un po'. Ora, con quelle carte, non possono lasciare. Il terzo giocatore, un tipo silenzioso dai capelli nerissimi, c'è dentro fino al collo. Vince continua a raddoppiare le loro puntate, finché anche Ken è costretto a puntare tutto quello che gli resta. Il mazziere scopre un sei e un'altra regina. Vince chiama il piatto. Ken ha una scala alla regina. Capelli Neri ha colore. Una grande mano, di quelle che capitano solo una volta ogni tanto. Ma Vince ha full di regine
con nove, e il piatto è suo. È passato molto tempo dall'ultima volta che ha giocato con poste così alte. Ha vinto sedicimila dollari in poco più di due ore. Anche dopo aver pagato Coletti, la posta di entrata di Pete e versato il dieci per cento alla casa, gli restano ancora diciottomila dollari. Ora deve solo arrivare a Johnny. Si appoggia allo schienale della sedia e finisce il suo whisky. Il tizio con i capelli neri si accende una sigaretta. «E così, tu fai bomboloni.» «Già» dice Vince. «Giochi piuttosto bene, per uno che si guadagna da vivere facendo bomboloni.» «Chi ha detto che li faccio per guadagnarmi da vivere?» Tutti i presenti ridono. «Sei un giocatore professionista, allora?» «No» dice Vince. «Ho solo avuto fortuna. Poteva capitare a chiunque.» «Niente affatto» dice Capelli Neri. «Non poteva capitare a chiunque. La fortuna non è democratica. Discrimina come una vera figlia di puttana.» Vince si limita a sorridere. Capelli Neri gli tende la mano. «Mi chiamo Carmine. Questo che hai ripulito era il mio tavolo.» «Io sono Vince.» Si stringono la mano. «È ancora presto, Vince. Hai voglia di giocare ancora?» «Vuoi dire che c'è un'altra partita, Carmine?» «Vince...» Carmine aspira una boccata di fumo. «C'è sempre un'altra partita.» Fantasmi dappertutto. Mostri. Persino scheletri. Cowboy, principesse, rospi, vagabondi, e costumi che Dupree non riesce a riconoscere, strane combinazioni di maschere, mantelli e baffi finti. Yoda e Darth Vader procedono mano nella mano, mentre Charles guida piano, illuminando con i fari branchi di bambini mascherati, lungo una strada di villette a schiera a due piani, molte delle quali espongono la bandiera americana. «Ho dimenticato che giorno era» dice Dupree. Trova confortante che la festa di Halloween esista anche in questo posto assurdo, dove i poliziotti guidano come pazzi, rubano droga e si fanno fare pompini. A parte le case tutte attaccate l'una all'altra, senza traccia di giardini o cortili, la scena somiglia molto a Spokane, e questo in qualche modo tranquillizza Dupree. Charles si ferma davanti a un edificio in mattoni con un'insegna in compensato, con su scritto SEZIONE 4412. Sopra la porta c'è un cartellone che
incita a votare per Jimmy Carter, e alle finestre manifèsti elettorali di un candidato per il municipio di Newark di nome James Ray Burke. Charles scende dall'auto. «Torno subito.» Dupree apre la bocca per protestare, ma l'altro sbatte la portiera e si allontana. Si avvicina al portone e gira la maniglia, ma la porta è chiusa a chiave, visto che è sabato. Charles fa il giro dell'edificio e un attimo dopo Dupree sente il rumore di un vetro rotto. Pochi minuti dopo i manifesti elettorali di Burke vengono strappati via dalle finestre e Charles esce dalla porta principale sorridendo, con in mano i due poster di Burke e una rubrica telefonica. Getta i poster sul sedile posteriore e si mette in grembo la rubrica, aperta al nome di Daryl Greene. Dupree fissa fuori dal finestrino, senza dire nulla. Charles avanza a passo d'uomo lungo la strada, leggendo i numeri civici. A un tratto si ferma davanti a una casa bianca con finiture rosse. Spegne il motore, controlla ancora una volta la rubrica, poi getta anche quella sul sedile posteriore e si volta a fissare Dupree. «Ascolta, so che questo non è esattamente ciò che ti aspettavi. Sembra tutto...» non riesce a trovare la parola adatta, «sbagliato. Ma ci sono cose che non sai. Si tratta di un'indagine importante.» Dupree preferisce non fare commenti, e lui continua: «Comunque, ora sistemo questa cosetta che mi ha suggerito Mike, poi andiamo a cercare il tuo uomo. Come si chiama, hai detto?». «Vince.» «Già, Vince.» Charles scende dall'auto, infila nuovamente dentro una mano e prende dal sedile di dietro la giacca e uno dei poster di Burke, più una scatola con dentro un paio di scarpe da ginnastica. Sul marciapiede si volta a sorridere, e Dupree ha l'impressione di vederlo sbottonare la fondina dentro la giacca. Sulla cassetta delle lettere c'è scritto D. GREENE, e sotto il portico di D. Greene ci sono due piccoli pirati che, dopo la richiesta «dolcetto o scherzetto», sono in attesa di un dolcetto. Un vecchio Scottish Terrier li annusa, poi torna zoppicante a stendersi su una coperta, con un gran sospiro da cane. Un nero alto e snello si sporge fuori dalla porta e lascia cadere barrette al cioccolato nelle borse dei due bambini. Charles ha l'aria del genitore coscienzioso che sorveglia i bambini. Si volta verso Dupree e sorride di nuovo. Qualcosa, forse la presenza dei bambini, fa prendere una decisione a Dupree: non lascerà fare a Charles quello che intende fare. Lo coprirà e non dirà nulla a nessuno, ma non può lasciare che qualcuno si faccia del male. Estrae la pistola, se la mette tra le
ginocchia e toglie la sicura, senza abbassare lo sguardo. Qui non si tratta di capire che tipo di poliziotto è, ma che tipo di persona è. Se vedrà Charles infilare una mano nella giacca, scenderà dall'auto. Si prepara psicologicamente. I pirati vanno via. Charles arrotola il poster e lo brandisce come una spada, ma i bambini non raccolgono l'invito a giocare e si allontanano in fretta. Charles sale i gradini e arriva sotto il portico. Dupree prende la pistola con la sinistra e poggia la destra sulla maniglia della portiera. Charles bussa alla porta, poi si china ad accarezzare il vecchio cane. Il nero viene ad aprire, senz'altro convinto di trovare altri bambini. Charles si rialza e gli si avvicina. Dupree è teso. Non ha mai sparato un colpo fuori dal poligono di tiro. Se dovrà premere il grilletto, penserà a Charles come a un bersaglio di carta. È come guardare la TV senza il sonoro. Charles gesticola, con il manifesto e la scatola da scarpe. Consegna a D. Greene il manifesto e muove la testa a destra e a sinistra, come offrendo due opzioni. Poi scoppia a ridere. D. Greene non ride. Charles indica il quartiere con un gesto della mano e dice qualcosa. D. Greene gli punta un dito contro. Charles si stringe nelle spalle, come dicendo: "Ehi, piano, nessuno ti sta minacciando". Poi ride di nuovo e agita la scatola di scarpe davanti al viso di Greene. Allarga le braccia, come dichiarandosi innocente. Apre la scatola, ma Greene non guarda cosa c'è dentro. Dice qualcosa, si massaggia le tempie, annuisce due o tre volte. Infine chiude la porta e spegne anche la luce sotto il portico. Dupree si rilassa, toglie la mano dalla maniglia e rimette la pistola nella giacca. Ha ancora il respiro grosso quando Charles apre la portiera posteriore e getta dentro la scatola da scarpe. «Tipo simpatico» dice. «Ma porta il quarantacinque.» Ride, afferra un'altra scatola e torna verso la casa. Nel giardino afferra un sasso grande come una palla da baseball, poi va a lasciare la scatola di scarpe davanti alla porta. Si avvicina al Terrier, e prima che Dupree capisca cos'ha intenzione di fare colpisce la testa del cane con il sasso. Poi lo colpisce ancora, e ancora. Il cane non emette neppure un gemito. «Oh, Cristo» mormora Dupree. Charles apre la scatola da scarpe con un piede e vi lascia cadere il sasso insanguinato. Quando toma verso l'auto ha la faccia rilassata, per la prima volta da quando Dupree lo ha visto all'aeroporto. «È sempre meglio scegliere il dolcetto» dice. Beve un sorso di whisky e offre la bottiglia a Dupree.
«Bene, Seattle, ora andiamo a occuparci del tuo problema.» Johnny Boy: è proprio come lo ha descritto il cliente di Benny. Camicia nera, torace ampio, braccia muscolose. Grosso bracciale d'oro a un polso, un Rolex all'altro. Ha un aspetto gradevole, ma è proprio lo stereotipo del mafioso. Capelli lisciati all'indietro, grigi alle basette e neri e folti al centro. Il suo sorriso strafottente sembra il fratello cattivo di quello di Vince. Vince si siede al posto libero di fronte a lui. Prende diecimila dollari in fiche, la posta per poter entrare in quella partita. Si trovano nella sala da pranzo di un appartamento vuoto, intorno a un tavolo ovale. Nove uomini dietro pile di fiche di altezza variabile, e bicchieri pieni di whisky. Foreste di cicche fumano nei portacenere. Il tizio a sinistra di Johnny offre a Vince un bicchiere e una bottiglia di Crown Royal. Vince annuisce, anche se di solito preferisce non bere quando le carte gli sono favorevoli. Nell'altra stanza, altri uomini guardano la TV in silenzio. L'uomo a destra di Johnny è grasso e amichevole. Indossa camicia e pantaloni dello stesso colore marrone, dando l'impressione di essere in tuta. La cintura segna l'equatore del suo corpo. «Carmine dice che hai ripulito il suo tavolo in due ore. È vero?» Vince si stringe nelle spalle. «Mi è andata bene.» «E ora sei venuto a dare quei soldi a noi?» Vince sorride. «Vedremo.» «Io sono Ange.» «Vince.» Ange fa il giro del tavolo, indicando i giocatori. «Toddo. Jerry. Huck. Nino. Beans. E Carmine lo conosci già.» Johnny Boy si presenta da solo: «John». «Allora, cosa fai nella vita, Vince?» «Fa i bomboloni» dice Carmine. Alcuni ridono. Un ragazzo entra nella stanza e sussurra qualcosa all'orecchio di Johnny Boy. Johnny ascolta per un minuto buono, assorbendo le informazioni, poi risponde con una sola parola. «Noi siamo idraulici» dice, quando il ragazzo si allontana. Stavolta nessuno ride. A questo tavolo le puntate sono più alte e il gioco è migliore. Vince perde con un asso e un re di colore. Nessuno parla di lavoro, di libertà vigilata o di strozzini. Si parla di scommesse clandestine, di quanto hanno perso puntando sul risultato di una certa partita, di formazioni in campo. Se non
sapessi come stanno le cose in realtà, penseresti di trovarti a un tavolo di allenatori un po' scurrili. Preferiscono i Packers alla squadra di Pittsburgh («Il mio cazzo è più intelligente di Terry Bradshaw»), Tampa ai Giants («Quei coglioni dei Giants non segnerebbero neppure se la porta fosse grande come Times Square»), e i Jets a New England («Il mio cazzo è capace di fare lanci a effetto meglio di Steve Grogan»). Vengono distribuite le carte. Vince apre con asso e dieci di seme diverso. Deve ammettere che gli piace trovarsi di nuovo in compagnia di tipi del genere. Gli dà la carica. La cosa che la gente non sa, riguardo ai criminali, è che possono essere molto divertenti, a meno che per qualche motivo preferiscano non esserlo. A quel tavolo si parla solo di football. Sembra che tutti siano scioccati per le partite universitarie del giorno: l'Università di Los Angeles ha perso contro quella dell'Arizona, e il Mississippi ha vinto contro l'Alabama, primo in classifica. «Li davano quattordici a uno, e quei bastardi vanno a perdere sei a tre. Io non la bevo, per me c'è sotto qualcosa.» Vince riceve un altro asso. Punta forte. «Solo un idiota li darebbe a quattordici» dice Johnny Boy. «Secondo me non è escluso che qualcuno abbia comprato quel coglione di un quarterback» dice Carmine. «Stronzate.» «Dico solo che non è escluso.» «No, no.» Johnny Boy vuota il bicchiere e lo fissa negli occhi. «È escluso. Punto e basta.» «Ascolta, Johnny, sto solo dicendo...» «Stai solo dicendo che sei un ignorante, Carmine. Chi avrebbe dovuto comprarlo? La CIA?» La voce di Carmine perde forza. «Sto solo dicendo che è possibile.» «E invece non è possibile. Credi che Bear Bryant sia disposto a lasciare che un quarterback mandi nel cesso la possibilità di vincere il campionato? L'Alabama ha fatto mai azioni così scombinate da dare a un quarterback la possibilità di far perdere la partita alla squadra? Ma che cazzo hai nella testa?» Quarta carta scoperta. Quinta. Niente altri aiuti per Vince. Ha solo una coppia d'assi. Forse è abbastanza. Punta forte, Ange e Johnny Boy gli vanno dietro. «Sto solo dicendo che è possibile, nient'altro. Puoi sempre truccare un
risultato.» «Sei proprio un coglione.» Johnny Boy è irritato. Agita il bicchiere vuoto, che gli viene subito riempito. «Va bene, vuoi sapere perché non è possibile? Vuoi che te lo dica?» «Sì.» «Non è possibile perché io non ne ho saputo nulla.» «Perché tu non ne hai saputo nulla?» Johnny vuota il bicchiere e se lo fa riempire di nuovo. «Esatto.» Tutti ridono, eccetto Vince, concentrato sui milleduecento dollari al centro del tavolo. Scopre i suoi assi. Carmine non ha intenzione di lasciar perdere. «Stai dicendo che se tu non sai nulla di una cosa... vuol dire che non è successa?» «Ci sei arrivato, finalmente.» Johnny Boy scopre una coppia di otto. Con le carte comuni ha un tris. Ha vinto lui. «Allora, se un tizio in Cina inventa un'automobile volante ma tu non ne sai nulla...» «Vuol dire che non è successo.» «Credi di essere Dio, Johnny?» «No.» Johnny raccoglie le fiche. «Non ancora.» La prima cosa che Dupree nota di Tina DeVries McGrath è che è bassina, piena di curve, con una massa di capelli castani tendenti al rosso e lo sguardo di chi è poco incline a lasciarsi impressionare. È in piedi sulla porta aperta a metà. Dupree si trova a parlare più in fretta di quanto desideri. «Le ho detto che non conosco nessun Vince Camden. Ora, se non le dispiace, è tardi e mio marito si alza presto la mattina.» Dupree le porge la lettera. «Questa l'ha scritta lei?» Tina la fissa e Dupree nota un tremito del labbro. Lei si copre la bocca con una mano e finge un colpo di tosse. «Non so di cosa stia parlando.» «Sa perché il nome è stato tagliato via dalla busta?» Lei guarda Dupree, poi di nuovo la lettera. «Mi dispiace, davvero non ne so nulla.» «Ma l'ha scritta lei o no?» Tina lo fissa senza parlare. Dupree si riprende la busta. «Mi dica almeno se ha avuto contatti con lui.» Nulla. «Ascolti, signora McGrath, posso andare da un magistrato e farmi dare
l'autorizzazione per sottoporla a un interrogatorio.» Lei sembra valutare quella possibilità, come un giocatore di scacchi in procinto di fare una mossa a metà partita. «Gliel'ho già detto, non so di cosa stia parlando.» Dupree si volta a guardare Charles, seduto in macchina. Voleva scendere con lui per aiutarlo, ma Dupree aveva paura del tipo di aiuto che avrebbe potuto dargli. Si chiede se c'è un gergo che non conosce, un qualche trucco da imparare per convincere i newyorchesi a parlare. Forse dovrebbe chiederle se ha un cane e poi ucciderlo a sassate. Nel corridoio appare un uomo dalle spalle larghe e dai capelli ricci, in boxer e maglietta. «Tina? Chi è?» «Non è niente, Jerry, ci penso io» risponde lei, voltandosi a metà. Dupree ricorda che sulla lettera c'è una data. Meno di un anno fa. Vede una possibilità. «Forse dovrei parlare di questa lettera con suo marito. Magari lui saprà dirmi qualcosa...» «No, per favore.» Jerry McGrath si affaccia alla porta. «Si può sapere chi è?» Dupree guarda Tina, la quale apre la bocca ma non sa cosa dire. Allora Dupree mostra il distintivo, supponendo, a ragione, che Jerry non si renderà conto che non è della polizia di New York. «Buonasera, signor McGrath. Stiamo cercando un rapinatore che sospettiamo possa essersi nascosto in questo quartiere. Non ha visto nulla di strano, stasera?» «No» dice lui. Tina sorride e gli dà un colpetto sul petto. «Ci penso io a rispondere all'agente, caro. Tu torna a letto, che è tardi.» Lui sorride. Un tipo dolce. «Grazie, amore.» Abbassa lo sguardo, e forse si rende conto solo ora di essere in mutande. «Inizio a lavorare alle quattro» dice. «Mi dispiace di essere venuto a disturbarvi a quest'ora.» Jerry torna verso la stanza da letto. Tina esce sotto il portico e si chiude la porta alle spalle. Prende la lettera e la guarda di nuovo con attenzione. «Non conosco nessun Vince Camden. Questa lettera l'ho scritta al mio ex ragazzo, Marty Hagen. Ma non lo vedo da almeno tre anni.» Si rigira la lettera tra le mani. «Non mi ha mai risposto.» Dupree scrive il nome "Marty Hagen" sul suo taccuino. «Alto circa un metro e ottanta, capelli castani, e un sorrisetto... così?» Dupree cerca di riprodurre l'espressione di Vince. «Sì, è proprio Marty.»
«E lei non l'ha mai sentito usare il nome Vince Camden?» Tina scuote la testa. Dupree prende appunti sul taccuino. «Ha amici o parenti in città?» «I suoi genitori sono morti. Non ha fratelli o sorelle. Non mi ha mai parlato di altri parenti.» Si volta verso la casa, per assicurarsi che il marito non stia ascoltando. «Provi a chiedere a mio fratello Benny. Erano amici, Benny era il suo avvocato.» Dà a Dupree l'indirizzo e il telefono di Benny DeVries. Dupree tira fuori un biglietto da visita e ci scrive sopra il nome del suo albergo. Si volta a guardare Charles, che lo fissa dall'auto. È quasi mezzanotte. «Per favore, se vede Vince, voglio dire Marty, se si fa vivo con lei in un modo qualsiasi, mi lasci un messaggio in questo albergo.» Lei annuisce e prende il biglietto. «Cosa le fa pensare che voglia vedermi?» «Ha scritto il suo nome da sposata su un pezzo di carta, il giorno in cui è partito. E questa lettera era sul suo comodino.» Lei sembra sorpresa, forse anche lusingata. «Per cosa lo cercate?» «Rubava carte di credito.» Lei alza gli occhi al cielo, come se quello fosse ovvio. «E lei è venuto fino a New York per delle carte di credito rubate?» «Pensiamo anche che abbia informazioni su un omicidio.» «Non crederà che...» «Non lo sappiamo. Forse. Per favore, signora McGrath, se dovesse vederlo...» Lei annuisce e fissa il biglietto da visita. «Un'ultima cosa. Ha qualche idea del motivo per cui è andato via di qui?» Lei piega la testa di lato. «In che senso?» «Sa perché ha lasciato New York ed è andato a vivere a Spokane?» «Ecco... perché ce l'avete mandato voi, immagino.» «Noi?» Dupree sente che gli gira la testa, forse a causa del jet-lag. «Dopo che aveva testimoniato. Suppongo sia stato per questo che lo avete fatto sparire. Per proteggerlo.» E a un tratto tutti i pezzi vanno a posto. La mancanza di un passato, di una multa, della patente di guida, il nome falso, la lettera con il nome tagliato dalla busta. «Cristo. Quindi è nel programma di protezione per testimoni?» «Sì. Non lo sapeva?»
Dupree ride e si sfrega il naso. Un'ombra. Un fantasma. «No» dice. «Questo non lo sapevo.» Johnny Boy punta contro Vince un indice grosso come un wurstel. Dal suo angolo visuale, Vince lo vede centrato esattamente in mezzo agli occhi di Johnny. «Un errore» dice il gangster. «Un fottuto errore.» Vince non respira neppure. È stata colpa sua. Ci sono cose di cui è meglio non parlare con un ubriaco. È tardi e al tavolo restano solo cinque giocatori: Vince, Johnny, Carmine, Beans e Ange. Il denaro si è mosso principalmente tra Carmine e Ange. Entrambi sono sui trentacinquemila dollari. Beans è in pari. Johnny un'ora fa aveva perso tutta la sua posta di diecimila dollari, diventando viola in faccia. I ragazzi gli hanno prontamente prestato altri diecimila dollari e lui ne ha già persi ottomila. È completamente ubriaco e dimentica di guardare le carte che ha in mano prima di puntare. Anche a Vince la fortuna ha voltato le spalle, e solo un gioco prudente e un colore tempestivo lo hanno salvato dal perdere tutto. Gli restano solo millecinquecento dollari. Cerca di ignorare il dito carnoso puntato contro di lui e rimpiange di aver tirato fuori quell'argomento. Johnny si guarda intorno. «E voi, teste di cazzo ignoranti? Qualcuno di voi sa qual è stato l'errore di Jimmy Carter?» Carmine: «Non bombardare quegli stronzi di iraniani un minuto dopo che avevano preso gli ostaggi». Johnny finalmente abbassa il dito e Vince si rilassa. «No.» «Lasciare che quelli dell'OPEC aumentassero i prezzi del petrolio.» «No.» «Non far uccidere Billy subito dopo le elezioni.» Ridono tutti, eccetto Johnny, il quale scuote la testa. «Il suo unico errore è stato questo.» Si guarda intorno, aspetta che si faccia silenzio, e dice: «Ha dimenticato che non doveva comportarsi da frocetto». Tutti scoppiano in risate rumorose, sollevano i bicchieri e gridano «Salute!». «Parlo sul serio. La gente è capace di seguire un alcolizzato. Un ritardato mentale. Persino un criminale o uno psicopatico. Ma se pensa che non hai le palle, sei finito.» «Quindi secondo te vincerà Reagan?» «Senza dubbio. Sta per cambiare tutto. Ci saranno bandiere e parate e
tutto il resto, come nel 1950. Un frocetto può riuscire a farsi eleggere una volta, ma non due. Noi non possiamo lasciar passare otto anni senza dare un calcio nel culo a qualcuno. Dare calci nel culo ci piace, anche se facciamo finta che non sia così.» Fa un gesto vago. «Le persone là fuori... non sono diverse da noi. È come quando noi ci siamo trovati con Big Paul come boss al posto di Neil. Mi piacerebbe che ci fosse Reagan a capo delle nostre attività.» Gli altri si scambiano sguardi nervosi. «Aspettate e vedrete. Un giorno avremo un nostro Reagan... Un vero capo, pieno di carisma, rispettato. Un uomo che riporterà le nostre operazioni all'orgoglio e alla gloria dei vecchi tempi. E che darà un calcio in culo a tutti quelli che se lo meritano, cominciando da quella grossa checca di Big Paul.» Ange sfiora il braccio di Johnny. «John, per favore, non parlare di queste cose in pubblico.» «Non sto dicendo niente di strano.» Johnny tira via il braccio e si passa la lingua sulle labbra sottili. «Dico solo... dico solo che questa è l'unica cosa che la gente non perdona. Se non sai essere un uomo, togliti dai piedi e lascia che sia un altro a fare il capo. Voglio dire solo questo, Ange. Solo questo.» I ragazzi alzano i bicchieri, per concludere con un brindisi quell'argomento spinoso, ma Johnny li ignora e continua a parlare. «Reagan, lui sì che potrebbe essere il nostro capo! Io lo seguirei. Sa essere un uomo, e la gente lo segue. Sa quanto è importante vegliare sui propri amici e proteggere la propria famiglia.» Lancia un'occhiata a tutti i presenti intorno al tavolo, poi indica di nuovo il muro. «Perché le persone... là fuori... sono tutte diverse tra loro. Ci sono gli ispanici, i froci, le teste di cazzo dell'Upper East Side, le vecchie signore cinesi... Ma hanno tutti una cosa in comune.» Vuota di nuovo il bicchiere. «Hanno paura. Sono spaventati a morte. E in un capo cercano solo questo: un uomo che non abbia paura. Punto e basta. Vogliono guardare a lui come guardavano il padre da piccoli.» I ragazzi si scambiano occhiate, muti, come se sapessero già dove andrà a parare. Non deve essere la prima volta che Johnny, ubriaco, passa il segno. Ormai ha il viso rosso e gli occhi umidi. «Perciò quando un bastardo investe il tuo bambino, quando lo stesso bastardo se ne va in giro per il quartiere senza mostrare rispetto per il dolore della madre, e quando quella povera donna è costretta a vedere tutti i giorni l'ammaccatura che è costata la vita a suo figlio, non m'importa se rischi di finire in galera per il resto dei tuoi giorni: devi tirare fuori le palle
e fare qualcosa!» I ragazzi mormorano: «Hai ragione, Johnny», «Certo, Johnny», «È vero, Johnny». Johnny si calma. «Devi fare qualcosa» ripete. Tutti muovono le sedie, ormai non sanno più che fare per cambiare discorso. «Allora...» dice Ange, ma non gli viene fuori nient'altro. È Beans a farsi avanti, con sollievo per tutti. «Credi che eleggeremo mai un presidente italiano, Johnny?» Johnny sembra non aver sentito. Continua a fissare il tavolo. Beans continua: «Voglio dire, se possono farcela gli irlandesi, perché non noi?». Carmine guarda le sue carte e fa una puntata. «Che ve ne sembra di D'Amato? Se riesce a battere Javits e quella puttana con gli occhiali, io ce lo vedo, un giorno, alla Casa Bianca. Ed è anche un tipo spassoso.» Johnny sospira e si guarda intorno. Sembra più vecchio e disorientato. Chiude un occhio per vedere le sue carte. Si tocca i capelli. «D'Amato non potrà mai essere presidente. Sta perdendo i capelli. Quella è la seconda cosa che la gente vuole. I capelli. Non devi essere un senza palle e non devi essere calvo. Chi vorrebbe come presidente un frocetto pelato?» «E Ford, allora?» dice Carmine. «Era calvo ed era un frocetto.» Johnny gli molla uno schiaffo. «Prima di tutto, Ford non è stato eletto, coglione di un ignorante! È stato scelto dopo che Agnew si è fatto fregare. Secondo, giocava a football nel Michigan. Credi che un frocetto possa giocare a football all'Università del Michigan? Ma fammi il piacere, Cristo.» Gli altri fissano le carte, sperando che passi anche questa bufera. Vince guarda cos'ha in mano. Coppia di dieci. Bene. Sembra che il peggio sia passato. Ora o mai più. Punta cinquecento dollari. Ange e Johnny lo seguono. Gli altri lasciano. Gli arriva un altro dieci. Punta i suoi ultimi cinquecento. Gli altri vedono. Vince non riceve nient'altro di utile, né dalla quarta né dalla quinta carta sul tavolo, e finisce con il suo tris di dieci. Johnny non ha niente, ma Ange ha un tris di regine. «Mi dispiace, Krapfen» dice, prendendosi il piatto. Vince fissa le sue fiche, che vanno ad aggiungersi a quelle di Ange. Non riesce a crederci. Ha perso. I soldi che voleva usare per pagare il suo debito non ci sono più. Ha ancora circa seimila dollari nella borsa, ma non bastano. Non bastano proprio. È finita.
Johnny si alza barcollando. «Devo pisciare.» Tra le labbra ha un filo di saliva densa. Vince resta seduto a fissare le sue carte. E così ora non ti resta che fuggire. In Canada, magari. Puoi aprire un ristorante, forse puoi persino chiamarlo Picnic Basket. Sempre che picnic si dica così anche in francese. Vince si alza, ringrazia i ragazzi e si avvia verso la porta. Ma a un tratto, con sua stessa sorpresa, si volta e segue Johnny Boy in bagno. Resta in corridoio, con l'aria di star solo aspettando il proprio turno. Ma cosa fai? Scappa! No. Se fuggi adesso, non smetterai mai di fuggire. Forse questo è il momento buono per prendere una posizione. Sente il battito del cuore nelle orecchie. Nel corridoio c'è un tavolino ingombro di riviste, vecchi numeri del «Reader's Digest» e del «Saturday Evening Post». Gli sembra strano che si trovino lì. Apre il «Reader's Digest» alla sezione che preferisce, Drammi della Vita Reale. Si tratta di storie stupefacenti di fughe e di capacità di sopportazione. Questa riguarda un tizio che era finito nel fiume con la macchina e ha resistito due giorni con l'acqua fino al collo prima di essere salvato. La prima frase della storia è: «Sapevo che sarei morto». È una frase tipica. Le persone di cui si parla in quelle storie sapevano sempre che sarebbero morte. Vince chiude la rivista. Questa è la terza volta in una settimana che sa che deve morire. Ma in fondo l'ha sempre saputo, no? Bisogna pur morire, un giorno. Eppure le persone sembrano sempre così sorprese, quando accade. Se lui uscirà vivo di qui, scriverà una storia e la manderà al «Reader's Digest», sezione Drammi della Vita Reale. «Giocavo a poker seduto di fronte all'uomo che voleva uccidermi. Poi lui si è alzato e io l'ho seguito in bagno. Mentre me ne stavo in corridoio a guardare vecchie riviste... sapevo che sarei morto.» Johnny ci mette un sacco di tempo. Quando finisce di fare pipì, comincia a schiarirsi la gola. Poi sembra che parli da solo. Vince ha di nuovo deciso che è meglio lasciar perdere tutto e fuggire in Canada, quando la porta si apre e Johnny si trova davanti a lui, faccia a faccia. È più basso di Vince, ma molto più grosso. Da seduto, Vince non si era reso conto della compattezza di quelle braccia e di quel torace. È come se Johnny stesse per scoppiare. Ha gli occhi aperti a metà e sembra esausto. Vince ha la sensazione che la persona che è andata avanti tutta la notte a fare battute al tavolo da poker sia un personaggio, una maschera. E capisce che tutti a un certo momento restiamo da soli, ci guardiamo allo specchio e vediamo la persona reale. Anche i mostri vanno a letto.
Sente il rumore assordante della propria voce, mentre dice: «Permesso» e si infila nel bagno. Canada! Vado in Canada. Adesso sto solo andando in bagno. Johnny lo fissa, prima con una certa aspettativa, poi con irritazione, e Vince deve trattenersi per non chiedergli: «Quanti morti conosci, Johnny?». E non puoi evitare di pensare quale nominerà per primo, suo figlio o l'uomo che guidava la macchina che l'ha investito. Cosa viene prima, il dolore o la vendetta? Che faccia vede Johnny quando va a letto la sera, o quando si sveglia di colpo, spaventato e disorientato? Che faccia vede nel sonno? Ma non è questo che Vince è venuto a dirgli, perciò fa del suo meglio per sostenere lo sguardo freddo di Johnny. E prima di parlare sente nella testa proprio la voce di Johnny, che dice: «Devi tirare fuori le palle e fare qualcosa». Vince fa un respiro profondo. «Signor Gotti» dice. «Io le devo dei soldi.» Johnny non mostra nessuna reazione, e Vince continua: «Lei ha mandato un killer a uccidere un uomo. Quell'uomo sono io». V NEW YORK, NEW YORK SABATO 1 NOVEMBRE 1980, ORE 1:38 A casa di Benny DeVries non risponde nessuno. Dupree riattacca, esce dalla cabina e sale in macchina accanto a Charles. «Ancora niente» dice. «Senti, puoi anche andare a casa, non ha senso restare qui in due.» Charles mastica uno stuzzicadenti, con lo sguardo perso. Scuote la testa. «Va bene così.» Sono fermi davanti all'appartamento di Benny, in un quartiere che a Dupree sembra tranquillo, mentre Charles sostiene che è pericoloso. L'avvocato non è in casa. Dupree sa che sarebbe troppo sperare di vederlo tornare in compagnia di Vince Camden/Marty Hagen, ma pensa che valga la pena aspettare in ogni caso. Ha già cercato un paio di volte di mandare a casa Charles, ma lui gli ha risposto che non vuole guai per averlo lasciato lì a farsi uccidere. Comunque Dupree è contento di vedere quel grosso poliziotto ritornare sobrio un po' alla volta, man mano che svanisce l'effetto di quello che aveva in corpo quando lo era andato a prendere all'aeroporto. Qualche ora fa era agitato, tutto nervi, con gli occhi lucidi e lo sguardo vuoto. Ora se ne sta seduto tranquillo, a guardare la notte al di là del parabrezza. «Mi sono
sempre piaciuti gli appostamenti» dice. Le strade sono umide per il vapore che sale dalle fogne. Il traffico non è affatto scarso. Passano molti taxi, e sui marciapiedi camminano coppie dal passo malfermo. «Domattina, per prima cosa, ti troverò il nostro dossier su Hagen» dice Charles. «I week-end sono giornate dure, ma lo farò, te lo prometto.» «Grazie.» Dupree si appoggia allo schienale della Grand Prix. Anche lui si sente bene, seduto ad aspettare davanti all'appartamento di un sospetto. È una cosa che lo fa sentire a casa, proprio come quando ha visto i bambini che festeggiavano Halloween. Si sorprende persino a pensare a Charles come a un collega, e a preoccuparsi per lui. «Così... sei nei guai.» Charles si volta, poi torna a guardare in avanti. «Già. Non che abbia importanza, ma... non è andata come ha detto Mike. Non ho costretto quella ragazza a fare niente. Stavamo ridendo e scherzando. È stata lei a voler tornare in macchina. Mi ha praticamente supplicato, lo giuro sugli occhi di mia madre. Mi ha fatto un pompino, e io l'ho lasciata andare. Uno scambio equo. Che problema c'è?» Dupree guarda la casa di Benny DeVries. «Ti faccio vedere una cosa» dice Charles. Estrae dal portafoglio un pezzo di carta con sopra un numero di telefono. «Guarda, mi ha lasciato persino il suo numero. Credevo di piacerle, e un giorno l'ho chiamata. Credevo che...» Charles scrolla le spalle. «Il numero è risultato falso.» Ciò nonostante, rimette il pezzo di carta nel portafoglio. Ora fissano entrambi la strada. Tutto tranquillo. A un tratto un taxi si ferma davanti alla porta di DeVries e ne scendono due uomini. Uno ha una grande chioma di capelli biondi e ricci, stile afro. L'altro è più vecchio, più grosso, con i capelli grigi e un'espressione stolida che persino Dupree non fa fatica a riconoscere: è un mafioso. I due parlano e si guardano intorno. Il taxi aspetta. «Capelli Ricci è il tuo uomo?» dice Charles, improvvisamente attento. «No, non è Camden. Potrebbe essere Benny.» «Perché l'altro lo conosco. Pete Giardano. È uno strozzino, e gestisce anche un po' di scommesse.» Charles sembra molto interessato a questo sviluppo della situazione, e Dupree si chiede quanto tempo è passato dall'ultima volta che Charles ha fatto un vero lavoro da poliziotto. I due sulla strada continuano a parlare e ad annuire. Finalmente si stringono la mano e Pete Giardano risale sul taxi. Il biondo si china a dirgli ancora qualcosa attraverso il finestrino, poi resta a guardare il taxi che si allontana. Appena
Dupree lo vede avviarsi verso l'edificio, apre la portiera e grida: «Benny?». Benny DeVries si volta, prima curioso, poi allarmato. Fa un gesto di saluto, ma allo stesso tempo accelera il passo. Dupree attraversa la strada, sventolando il distintivo: «Niente paura, Benny, sono un poliziotto. Ho solo un paio di domande da farti». DeVries si ferma e lo aspetta sul marciapiede. «Mi chiamo Alan Dupree, della polizia di Spokane, Washington» dice Dupree, appena lo raggiunge. «Sto cercando un suo amico, Vi...» si interrompe. «Marty Hagen.» «Marty?» DeVries sorride. «Non lo vedo da...» sbuffa e alza gli occhi al cielo. «Non ricordo neppure più da quanto tempo. Non si è cacciato in qualche guaio, spero.» «Forse» dice Dupree. «Lei era il suo avvocato, se non sbaglio...» «Sì. Prima per un'accusa di furto, poi un paio di volte per frode.» «E alcuni anni fa Marty Hagen è entrato nel programma di protezione per testimoni.» «Già. Si era messo nei guai. Doveva denaro a della gente.» «A Pete Giardano?» chiede Dupree, sperando di ricordare bene il nome. DeVries ride, guardando nella direzione in cui si è allontanato il taxi. «Pete? No. Attualmente sono l'avvocato di Pete. Stasera avevamo un incontro che è finito con qualche bicchiere di troppo.» Ride di nuovo. «Ascolti, non so che fine abbia fatto Marty dopo che i federali l'hanno portato via. Quelli del programma non possono avere contatti con nessuno che conoscono. Neppure con il loro avvocato.» «Non lo sapevo» dice Dupree. «Sì, praticamente scompaiono.» Si stringe nelle spalle. «Bene, se non c'è altro... Sono esausto.» «Ho parlato con sua sorella.» Dupree vede per la prima volta un'ombra di preoccupazione sul viso dell'avvocato. «Marty si è messo in contatto con lei?» «No.» Benny è sollevato. «Allora, cos'altro può dirmi di lui?» «Non molto» dice Benny. «Forse potrebbe almeno dirmi quello che leggerò nel suo dossier lunedì mattina.» Dupree sorride. «Contro chi ha testimoniato, dove sono sepolti i cadaveri...» «Non ci sono cadaveri» dice Benny. «Niente del genere. Marty si è fatto
beccare per una storia di carte di credito rubate. Ha dovuto chiedere soldi in prestito a un mafioso di Queens, per venirne fuori, e poi ha corso dei rischi per pagare il debito. Così si è fatto prendere di nuovo, e da lì in poi le cose per lui si sono messe male.» «Non ha potuto pagare?» «No» dice Benny. «E gli altri avevano paura che parlasse. Secondo alcuni informatori dell'FBI lo volevano morto. Allora abbiamo accettato la proposta dei federali: inserire Marty nel programma di protezione se avesse testimoniato. La solita vecchia storia.» «Lo hanno messo nel programma di protezione per una storia di carte di credito?» «Puntavano alla banda che gli aveva prestato i soldi. Volevano arrivare all'uomo sopra Marty, e a quello ancora più sopra, una specie di effetto domino. Ma poi si è sgonfiato tutto, e anche gli altri se la sono cavata con poco.» «Quindi Marty non aveva precedenti per violenza?» «No. Marty è un ladro, non un violento. È...» Benny alza gli occhi a fissare i lampioni che punteggiano il cielo scuro. «È un uomo intelligente. Se fosse nato in un altro quartiere, con soldi e opportunità... Chissà...» «E se dovesse tornare a New York, dove andrebbe?» Benny distoglie lo sguardo. «Non credo che tornerebbe. Ma se lo facesse potrebbe trovarsi dovunque: a zonzo con la testa per aria, in giro per librerie, seduto sul molo con i piedi nell'acqua... Che ne so!» «Ha altri amici, oltre a lei?» «Non credo. Sono io l'unico che gli rimane.» «Donne?» «L'unica che conosco era mia sorella.» Parlano ancora per qualche minuto, poi Dupree lo ringrazia e gli strappa la stessa inutile promessa che ha avuto dalla sorella: «Se dovesse avere notizie di Vince mi chiami, per favore». «Certo» dice Benny, prendendo il biglietto da visita di Dupree senza neppure guardarlo. Sono quasi le due del mattino. In macchina, Charles è appoggiato al volante. «Allora?» «Lo ha visto.» «Te l'ha detto lui?» «No.» Dupree si stringe nelle spalle. «Ma ha parlato di lui all'indicativo presente. Non è strano, per qualcuno che non lo vede da tre anni?» «Certo, certo» dice Charles, guardando verso l'edificio dove è entrato
DeVries. «Ma che cazzo è l'indicativo presente?» Quando comincia il giorno? A mezzanotte, secondo orologi e calendari, ma l'uomo che vive seguendo l'orologio non è migliore di un robot. All'alba? Lasciarlo decidere al sole è solo un po' meno arbitrario. E allora chi lo decide? La coscienza? Il giorno comincia quando ti alzi dal letto? C'è un momento preciso in cui passi da un giorno all'altro? Per Vince è il momento in cui chiudono i bar. Alle due di notte a Spokane, alle tre qui a New York. Quello è il momento in cui spesso sente il passaggio da un giorno all'altro, quando il mondo cambia e lui si sente sollevato. Vince siede al tavolo da poker, sotto una cappa di fumo di sigari e sigarette, con i bicchieri sul tavolo coperto di feltro. Ange, Carmine e Beans alzano gli occhi dalle carte. Vogliono saperne di più. Johnny non sembra interessato, anche se è stato lui a trascinare Vince al tavolo, dopo aver sentito la sua storia. Vince ha parlato del suo debito, del programma di protezione, di come è sfuggito per un pelo a Ray Sticks. Mentre i ragazzi lo subissano di domande, Johnny ascolta paziente, come una giuria. «E a quel punto cosa succede?» chiede Ange. «Ecco, ti fanno sedere a un tavolo e tu parli di tutti i posti dove hai lavorato o abitato, dove hai parenti o amici. E loro cancellano dalla lista le città e gli Stati che nomini, e quelli confinanti. Poi guardano quelli che restano e cercano una città abbastanza grande perché tu possa comparire all'improvviso senza destare sospetti, ma non abbastanza grande da essere fornita di una delinquenza organizzata. Beans scuote la testa. «Quindi tu non puoi decidere nulla?» «No» dice Vince. «All'inizio ti svegli in questa nuova città e tutto è diverso. Non solo le case e le persone, ma anche la lingua, gli odori... Nella città dove vivo ora il cielo è enorme. Ed è più vicino, proprio qui.» Alza la mano, come per toccarlo. «Grande, azzurro e bianco ai bordi. Niente smog, niente traffico. E gli alberi! Quando passi per Spokane in macchina non ti rendi neppure conto che è una città, perché le case sono in mezzo agli alberi.» «Sul serio?» chiede Carmine. «Come se fosse invisibile?» «Più o meno. E la gente è strana. Vivono in questo posto perfetto, ma poiché non ne conoscono altri, credono che altrove la vita sia migliore.» «Ho sentito dire che in Montana ci sono posti dove puoi pescare direttamente dalla porta di casa.» «Be', c'è un fiume che passa attraverso Spokane. È pieno soprattutto di
pesci gatto. Nessuno ci pesca, perché la corrente è troppo forte, piena di rapide e cascate, e comunque lì, per pescare, è pieno di laghi. Si tratta di laghi lunghi anche quaranta chilometri, e così profondi che di alcuni non è ancora stato trovato il fondo.» «Merda.» «L'acqua scende dai ghiacciai. Ce n'è uno, nella British Columbia, a un paio d'ore da Spokane, dove vedi il ghiaccio sopra il lago. E ci sono fiumi dove puoi prendere storioni vecchi di cent'anni, lunghi più di sei metri.» I ragazzi scuotono la testa. «E le donne? Come sono?» «Ah, sono molto...» vorrebbe descrivere Kelly, ma è Beth che gli viene in mente. «Carine» dice soltanto. «E il governo ti dà molti soldi?» chiede Ange. «All'inizio ti danno qualcosa. Ma ti fanno fare dei corsi, e poi vogliono che ti guadagni la vita in modo onesto. Io ho fatto un corso da fornaio.» Beans, Ange e Carmine annuiscono. Johnny continua a bere e a fissare Vince, in modo inespressivo. «Avevo sempre sognato di aprire un ristorante» dice Vince. «Così ho preso in gestione quel negozio di krapfen, pensando che in seguito avrei potuto mettermi in proprio.» «Volevi aprire un ristorante italiano? Ce ne sono, da quelle parti?» «No, c'è solo qualche spaghetteria. Ma comunque io non conosco la cucina italiana.» «Potrei darti delle ricette» dice Ange. Beans cerca di trovare abbastanza spazio nel suo portacenere stracolmo per gettare una cicca. Poi la getta in quello di Carmine. «E che altro puoi fare? Puoi diventare... non so, un dottore?» Vince si stringe nelle spalle. «Non credo, ma forse è possibile. In teoria, puoi diventare quello che vuoi. Ricominci completamente da capo.» «Ehi» dice Carmine, con una risatina. «Sai cosa vorrei essere io? Un biologo marino. Avete mai visto in TV quei tizi che nuotano insieme ai delfini? Mi piacerebbe. Andrei alle Hawaii e passerei le giornate con i delfini.» Si volta verso Johnny Boy. «Sai che possono comunicare tra loro? Così.» Fa una serie di schiocchi con le labbra. «E puoi sceglierti il tuo nuovo nome?» chiede Ange. «Sì, più o meno. Diciamo che ti aiutano a scegliere quello giusto. Qualcosa che tu possa ricordare. Per esempio, Vince era il nome di mio padre.» «Davvero?» Ange guarda Johnny. «Ha scelto il nome di suo padre. È
una bella cosa, no, Johnny?» Johnny beve un sorso di whisky. «Sai cosa sceglierei io?» dice Beans. È basso e calvo, con una lunga cicatrice che gli va da un occhio al labbro. «Reginald Worthington Edenfield Terzo.» «A volte è dura da sopportare» dice Vince. «Riparti da zero. Niente sulla fedina penale, niente debiti con nessuno. È come... rinascere.» Prende il portafoglio e tira fuori il certificato elettorale. «Ho appena ricevuto questo.» Ange lo guarda e lo passa a Carmine, che lo osserva come se fosse scritto in francese, e lo passa a Beans, il quale lo dà a Johnny. Johnny lo guarda, l'accartoccia e lo getta a terra. «Come te, l'hanno ricevuto almeno altri cento milioni di idioti.» I ragazzi restano in silenzio. Vince si china e raccoglie il certificato. «Allora» dice poi. «Come mi avete trovato?» Gli altri fissano Gotti, che scrolla le spalle. «Cosa ti fa pensare che ti avessimo perso?» Fumo. Silenzio. Johnny Boy vuota il bicchiere. «Avanti» dice a Carmine. «Dai le carte.» Carmine distribuisce le carte, saltando Vince. «E questa è la prima volta che torni a New York, Vince?» «Sì.» È contento che usino quel nome. Spera che facciano una distinzione tra Vince il figliuol prodigo e Marty il traditore, l'infame. Guarda le carte e vorrebbe essere ancora in gioco. Non gli piace essere fuori. In nessun senso. «Quando ho visto Ray Sticks ho capito che dovevo lasciare la città. Ho pensato di fuggire. L'ho pensato anche dieci minuti fa, se devo essere sincero. Ma poi ho deciso che era più importante affrontare quello che avevo fatto e pagare i miei debiti.» Beans scuote la testa, sorpreso. «Mi chiedevo dove fosse finito Sticks. Lo avevi mandato a fare un lavoro, capo?» Johnny alza gli occhi ma non risponde. Beans torna a rivolgersi a Vince. «Devi essertela fatta addosso.» «Già.» «Comunque, ci vogliono le palle a tornare qui» dice Ange, guardando Johnny, il quale sembra non aver sentito. «Non credi, John?» Vince ha la sensazione che Ange sia il suo avvocato d'ufficio davanti a Johnny. Sposta lo sguardo dall'uno all'altro, poi dice: «Ieri sono andato a
trovare il vecchio Dom Coletti e ho chiarito le cose con lui». Beans sorride. «Sul serio? Il vecchio Sangue Freddo? Come sta? Ho sentito che ha avuto un attacco di cuore, o qualcosa del genere, e ora vive in un piccolo appartamento a Bay Ridge.» «Sì» dice Vince. «Ha avuto una serie di infarti e ora non ha un bell'aspetto. Gli ho restituito quello che potevo e ho preso accordi per dargli anche il resto. Così almeno con lui sono a posto.» Getta un'occhiata a Johnny. «Speravo di poter fare la stessa cosa con lei, signor Gotti. Speravo di poter saldare il mio debito.» Johnny beve un sorso di whisky e lo fissa con occhi troppo opachi per rivelare qualcosa. Charles si ferma davanti all'hotel di Dupree e spegne il motore. Ripete che gli troverà il dossier di Marty Hagen, così potranno cominciare a controllare i nomi. Poi sbadiglia. «Sei sposato, Seattle?» Dupree ruota la fede al dito. «Sì, da un paio d'anni.» «Bambini?» «Non ancora. Mia moglie sta finendo l'università.» «L'università? Cosa vuole diventare?» «Logopedista.» «Sul serio?» Charlie solleva la testa, con gli occhi pesanti di sonno. «E... cosa significa?» «Significa aiutare le persone che hanno problemi a parlare.» «Ah.» Dupree apre la portiera. «Davvero puoi aiutarmi ad avere il fascicolo di Hagen per domani? Non vorrei doverlo chiedere ai federali, perché potrebbero metterci settimane.» «Già, i fottuti federali. Non preoccuparti, ci penso io.» «Dopo posso occuparmi del caso da solo. Non voglio rovinarti la domenica.» «Oh, ormai mi sento coinvolto, e voglio vedere come va a finire.» «Non è necessario» insiste Dupree. «Ma ho bisogno delle ore di straordinario.» «Segnatele comunque. Dirò al tuo superiore che sei stato con me per tutto il fine settimana.» «No, posso farti risparmiare un sacco di tempo. Conosco la città, e potrei conoscere anche alcune delle persone che cerchi, come è successo con Pete Giardano.» Charles accende il motore. «In più, se ti lascio solo e ti fai
ammazzare, mi fanno il culo. Perciò passo a prenderti verso mezzogiorno, va bene?» «No» dice Dupree, nel modo più fermo possibile. «Grazie.» «Cosa?» Charlie scoppia a ridere. «Stai scherzando?» Poi arrossisce di colpo. «Non vuoi il mio aiuto?» «No.» Charles lo fissa a lungo. Dupree vorrebbe distogliere lo sguardo, ma si sente sfidato, e non lo fa. «Quelli come te credono di sapere tutto» dice Charles alla fine. «Credete che il nostro lavoro sia certe cose e non altre, che la vita sia in un certo modo e che basti andare avanti, cazzo. Ma sai una cosa? Tra dieci anni, ti renderai conto che non si tratta di decidere chi è un bravo ragazzo e chi merita di finire nei guai. Si tratta solo del fatto che da una parte ci siamo noi, e dall'altra...» fa un gesto a indicare la città «...loro. E una notte, mentre cammini in un vicolo circondato dalla puzza di merda e dai tossici, sentirai il clic di una calibro quarantacinque vicino all'orecchio e capirai che avere i ragazzi dietro di te è l'unica cosa che conta al mondo. Per questo ci danno la stessa uniforme, lo stesso distintivo. Perché è quello che conta, Seattle! Noi siamo fratelli. Se tuo fratello avesse bisogno di aiuto, se fosse malato, cosa faresti?» «Chiamerei mia madre e le chiederei perché non mi ha mai detto che avevo un fratello.» «Vaffanculo, Seattle» dice Charles. Dupree apre la bocca per ribattere, ma decide che è meglio non sfidare troppo la sorte. Scende sul marciapiede. Davanti all'albergo c'è una fila di taxi, con gli autisti addormentati. Dupree pensa a quello che gli ha detto Charles («Se tuo fratello fosse malato»), mentre osserva la Grand Prix allontanarsi lungo la strada. Si volta di nuovo verso i taxi. Johnny alza gli occhi dalle carte, come se avesse preso una decisione. «Alza la camicia.» Vince solleva la camicia fino al collo e fa un giro completo su se stesso. «I pantaloni.» Vince esita un secondo, poi si slaccia la cintura e abbassa i pantaloni fino alle caviglie. I ragazzi al tavolo preferiscono non guardare. Vedendo che non ha addosso microfoni nascosti, Johnny annuisce, poi dice: «Allora, cosa farai?». Vince si tira su i pantaloni. «In che senso?»
«Se...» Johnny abbassa il mento e trattiene un rutto. «Se io ti risparmiassi, cosa faresti?» «Non lo so.» Vince è sorpreso di non averci pensato affatto. Non ha mai preso in considerazione l'idea del dopo. Dalla faccia di Johnny capisce che la risposta è importante. E appena si pone la domanda, conosce la risposta. Spera solo che sia quella giusta. «Credo che tornerei a Spokane. Spedirei per posta il resto del debito e... andrei avanti a vivere come prima.» Johnny non dice nulla e Vince continua: «Ho una piccola casa in affitto, ho un lavoro che mi piace, ho degli amici». Di nuovo, si scopre a pensare a Beth. «Non mi dispiacerebbe provare sul serio a vivere onestamente.» Johnny vuota il bicchiere. Guarda le sue carte, poi si rivolge ad Ange. «Qual è la puntata?» «Cinque, se vuoi vedere.» Johnny controlla le proprie fiche. Gli restano esattamente cinquecento dollari. Guarda di nuovo Vince con gli occhi socchiusi. La testa gli ondeggia, e ci mette un secondo buono per passarsi la lingua sulle labbra. «Quanti soldi hai?» «Ecco, ne ho dati quattromila a Coletti, oggi, e...» Johnny fa un gesto impaziente. «Quanti soldi hai, ho detto.» «Seimila dollari. È tutto quello che ho. Stavo risparmiando per aprire un ristorante, ma quando torno a Spokane posso...» Johnny tende la mano, con il palmo in alto. «Speravo di poter pagare il debito quando...» La mano di Johnny Boy Gotti resta dov'è, ondeggiante come una barca in mezzo alla tempesta. Vince si mette una mano in tasca, tira fuori il rotolo di banconote e lo mette nella mano di Johnny. Johnny lo lascia cadere nel piatto. «Vedo i cinquecento e rilancio di... Quanti hai detto che sono?» «Seimila.» «Rilancio di seimila.» Carmine e Beans si scambiano un'occhiata, poi guardano Ange. «Venite a vedere!» dice Johnny, sputando. «Vieni a vedere il mio rilancio, Ange.» Nessuno si muove. A un tratto Johnny si china sul tavolo, prende una manciata di fiche dal mucchio di Ange e le getta nel piatto. «Venite a vedere, ho detto!» Poi ripete il gesto con le fiche di Carmine e di Beans, finché il rotolo di dollari è circondato da montagne di fiche colorate. «Ecco!» grida Johnny. «Adesso sì che è un piatto come si deve!»
Gli altri non sanno cosa fare, così uno alla volta scoprono le carte. Beans ha una coppia di regine. Carmine una scala alla regina. Ange ha doppia coppia. Tutti fissano Johnny Boy, il quale guarda prima i soldi nel piatto, poi Vince. «Devi essere su un aereo entro domani a mezzogiorno.» Vince abbassa gli occhi sul piatto, dove si trova tutto il suo denaro. Johnny segue il suo sguardo. «Non me ne frega un cazzo se lo devi dirottare per salirci sopra. Devi essere su un aereo entro domani a mezzogiorno.» «Va bene» dice Vince. «E hai due settimane per mandare il resto dei soldi.» «Va bene.» Gli altri fissano le carte di Johnny, ancora coperte. «E se ti farai vedere di nuovo qui, ti faccio fuori con le mie mani, brutto infame figlio di puttana.» Vince annuisce. Segue un momento di silenzio. Tutti fissano le carte di Johnny, anche Vince, cui è stata appena restituita la vita. Finalmente Ange si schiarisce la voce. «Ehm, John?» Johnny Boy sospira e scopre le sue carte. Un sei e un due. Non ha niente, neppure una coppia. Nessuno sa cosa fare. Johnny si alza e va alla finestra. Vince approfitta dell'occasione per allontanarsi dal tavolo e muoversi lentamente verso la porta. Prima di uscire si volta un attimo e vede i ragazzi ancora intenti a fissare il piatto, senza sapere che fare. Gotti è alla finestra, con le grosse spalle ingobbite, come un vecchio. Proprio mentre chiude la porta, Vince lo vede voltarsi, con la faccia di uno che ha appena avuto un'idea. O che ha cambiato idea. Charles percorre la Sesta Strada fino all'incrocio con la Broadway, svolta e prosegue per un isolato. Accosta l'auto al marciapiede affiancando una prostituta che tiene in mano le scarpe dai tacchi alti. Lei sorride, si china verso il finestrino. «Ciao, Charlie. Compri o vendi?» «Nessuna delle due.» Charles le offre un sorso dalla bottiglia che ha accanto a sé. «Hai visto Mario?» «Era qui prima, con i ragazzi» dice la donna, indicando più avanti. Charles le fa un cenno di saluto, prosegue per altri due isolati e si ferma davanti a un vecchio edificio con i muri fuligginosi e rampe arrugginite di scale antincendio all'esterno. Beve un lungo sorso di whisky, riavvita il tappo sulla bottiglia e scende dall'auto, prendendo due scatole di scarpe dal sedile posteriore. Sul gradino del portone sono seduti due dominicani che si pas-
sano una bottiglia di birra. «Com'è andata la serata, ragazzi?» «Bene» rispondono, e uno dei due gli stringe la mano. «Avete visto Mario?» L'uomo indica l'edificio con uno scatto della testa. «È di sopra con una tipa che ha pescato in centro. Vuoi che lo faccia scendere, Charlie?» «Sì. Ma non dirgli che si tratta di me. Digli che c'è qualcuno in strada che vuole comprare da lui.» Charlie consegna una scatola a ciascuno dei due. «Sono del numero giusto?» «Sì, Charlie, grazie.» Si mettono le scarpe nuove e, appena ha finito di allacciarle, uno dei due si avvia su per le scale. Charles torna all'auto, apre il portabagagli, ne estrae una grossa chiave inglese e lo richiude. Il dominicano torna accompagnato da un tizio bassino, con gli occhiali e una coda di cavallo. Appena vede Charles, il giovane comincia a correre, ma il poliziotto gli taglia la strada e lo raggiunge in pochi passi. «Non ho fatto niente, Charlie! Lo giuro, non ho detto niente a nessuno!» Charlie non lo ascolta. Lo trattiene per il codino e lo colpisce con la chiave inglese, sulle braccia e sulla testa. Gli occhiali schizzano via e vanno a cadere contro un parchimetro. «Ti avevo detto di non fare il furbo con me, Mario.» Mario riesce a divincolarsi e corre verso il portone, ma uno dei dominicani lo rimanda con un calcio in direzione di Charles. Mario fa una finta e scatta di lato. Charles lascia cadere la chiave inglese e lo insegue. Lo placca alle gambe e i due vanno a cadere contro il muro del palazzo. Le loro ombre si confondono nella luce dei lampioni. Charles ci mette solo un secondo a sopraffare il piccoletto. «Te lo giuro, Charlie! Non ho detto niente a nessuno! Ti prego, Charlie!» Charlie lo trascina per i capelli verso il portone. Allunga una mano per raccogliere la chiave inglese, ma non la trova. Si volta a guardare i due sul gradino, ma vede che sono a mani vuote e che fissano qualcosa alle sue spalle. «Ma che cazzo...?» dice. Prende a pugni Mario. «Dov'è la mia cazzo di chiave inglese?» Mario si copre la testa con le mani, piangendo. Solo allora Charles si volta dalla parte giusta e vede Dupree che esce dall'ombra, con la chiave inglese in mano. «Dookie?» «Non puoi farlo.» «Che cazzo vuoi? Sto interrogando un sospetto.» Lascia andare Mario e all'improvviso afferra Dupree per la camicia, ma quest'ultimo lo colpisce
sulla testa con la chiave inglese. Charles barcolla, lascia andare Dupree, ma incredibilmente non cade. I due sul gradino spariscono all'interno dell'edificio. Charles si volta e vede la portiera aperta del taxi. «Mi hai seguito in taxi?» Ride, si tocca il bernoccolo in rapida crescita sopra la tempia, poi allunga la mano. «Dammi la chiave inglese.» Dupree fa un passo indietro, pronto a colpirlo di nuovo. «Mario!» urla. «Hai dei parenti, da qualche parte?» «Non muoverti di lì, Mario» ringhia Charles. «Mario!» grida di nuovo Dupree. «Scappa!» Finalmente il giovane si alza in piedi, raccoglie gli occhiali e corre via. Charles sorride, freddo. «Che cazzo credi di fare?» «Avevi ragione» dice Dupree. «Hai bisogno del mio aiuto.» «Hai appena lasciato andare un grosso spacciatore, Seattle» dice Charles, massaggiandosi la tempia. «Sei proprio un idiota.» La sua voce è solo leggermente roca. «Ora dammi quella cazzo di chiave inglese.» Ride di nuovo, e Dupree è stupito del suo livello di sopportazione del dolore. «Avanti, ti riaccompagno io al tuo albergo.» Charles si volta come per tornare verso la sua auto, ma con velocità insospettata infila una mano dentro la giacca e tira fuori la pistola. Nel frattempo Dupree ha già fatto un passo avanti e lo colpisce con la chiave inglese in piena bocca. Denti rotti, schizzi di sangue. La faccia di Charles ha uno scatto, come se qualcuno l'avesse tirata con dei fili. Gli cade di mano la pistola e inizia a barcollare, lottando per non perdere l'equilibrio. «Aschpetta» dice, sputando sangue. «Aschpetta.» Cerca disperatamente di non cadere e Dupree non può evitare di provare una strana ammirazione per quell'incredibile resistenza. Poi Charles si schianta sul marciapiede come un albero abbattuto. Vince cammina sul marciapiede, respira a fondo l'aria umida. E così è finita. Sei libero. Ora puoi volare dove ti pare, essere quello che ti pare. Ma in fondo non sei sempre stato libero, almeno fino a un certo punto? La questione è se potevi davvero fare le cose che eri libero di fare. Proprio come il lago e i corvi. No, non è finita. Un furgone sta facendo retromarcia verso la cantina di un ristorante. Il padrone, da dietro, segnala con le mani. Un metro, mezzo metro. È come se stesse segnalando il pericolo che si avvicina. Vince si sente come quando si sveglia di colpo un attimo prima che suoni la sveglia, in preda a un'ansia senza nome. Poi una mano gli piomba sulla spalla, e voltandosi vede la faccia rotonda e sorridente di Ange. «Ehi,
Krapfen! Buone notizie. John mi ha chiesto di accompagnarti all'aeroporto in macchina.» «In macchina?» Vieni a fare un giro... «Ange, non c'è problema, posso benissimo andarci da solo.» «Mi dispiace, ma devo insistere. John vuole assicurarsi che arrivi all'aeroporto sano e salvo. E vuole che noi due facciamo una chiacchierata. Va bene?» «Okay.» Vince si sente la bocca secca. Ovvio. Non possono lasciarti andare come se niente fosse. Tutto il sistema crolla se perdonano un infame solo perché ha chiesto scusa. L'omertà è l'unica regola da rispettare sempre. Ange gli mostra un rotolo di banconote. «John mi ha anche chiesto di pagarti il biglietto. Visto che lui si è preso tutti i tuoi soldi.» «Davvero, non è necessario» ribatte Vince. «Posso farmeli prestare.» Ange gli fa cenno di tacere. «John insiste. Vedi, non è cattivo come può sembrare.» Si china verso Vince. «Ma devi davvero lasciare la città, Krapfen. Non credo proprio che John voglia rivederti in giro.» Vince annuisce. Ha capito. Tuttavia, in un certo senso è contento che John abbia mandato Ange. È quello con cui ha sentito più affinità al tavolo da poker. Quello che sembrava capire più di tutti la bellezza di poter essere un'altra persona per un po' di tempo. Se qualcuno deve premere il grilletto, meglio che sia Ange. Almeno sarà una cosa rapida e indolore. E forse... forse Vince potrà anche convincerlo a non farlo. «Avanti, Krapfen, andiamo.» Si dirigono verso l'auto di Ange, una Dodge Diplomat rossa. Vince non pensa neppure di provare a scappare. Se sono riusciti a trovarlo a Spokane, possono trovarlo dappertutto. Cerca disperatamente una via d'uscita, ma a un tratto gli viene in mente una cosa. «Possiamo passare prima in un posto?» Ange ci pensa su. «Il capo vuole che tu te ne vada al più presto.» «C'è una donna che mi piacerebbe rivedere, prima di...» Ange annuisce. «Va bene.» «Poi faremo in fretta, vero Ange?» «Non preoccuparti, Krapfen. Sarai a casa in un batter d'occhio.» Nella sala d'aspetto dell'ospedale, Dupree mangia un bombolone e beve una tazza di acqua scura che passa per caffè. In fondo al corridoio appare Mike, il consulente sindacale di Charles, l'uomo sottile dai capelli grigi e
dal viso tirato che avevano incontrato al ristorante. Dupree si alza in piedi, sforzandosi di sorridere. «Ciao, Mike» dice, come se fossero amici da anni. «Grazie per essere venuto. Charlie ne sarà felice.» Mike gli si avvicina con un'espressione che sembra dire: "Sarà meglio che ne valga la pena". Dagli altoparlanti si diffonde un annuncio per un medico e Mike si volta con aria preoccupata. «Sta bene» dice Dupree. «Non preoccuparti. Ma credo che dovranno operarlo alla mascella e dovrà tenere la bocca chiusa per un bel po'. Il che forse non è proprio un male, eh?» «L'infermiera mi ha detto che è stato assalito» dice Mike. «Già. Mi stava dando una mano per un caso. Stavamo parlando con alcune persone a... Come si chiama, Alphabet City? E a un tratto un tizio è sbucato dall'ombra e gli è saltato addosso, colpendolo con una chiave inglese. Due volte... credo.» «Un tizio...» dice Mike. «Esatto» dice Dupree. Si fissano a lungo, poi Dupree scrolla le spalle, sorride e distoglie lo sguardo. «Mi dispiace di non essere riuscito a fare nulla. Non sono di grande aiuto in situazioni del genere.» «Sul serio? Non ti piace combattere?» «No.» Dupree dà un'occhiata all'orologio. «Ascolta, io devo andare. Ti ho chiamato perché credo sia una buona idea che lui abbia qualcuno accanto, quando uscirà dalla sala operatoria. Sarà confuso e avrà bisogno di essere calmato.» «Calmato?» «Sì.» Dupree fissa Mike con uno sguardo intenso. «Digli che ho apprezzato il suo aiuto. Digli che, per quanto mi riguarda, io e lui siamo a posto.» Mike annuisce. Non può promettere nulla, ma sembra capire i termini della tregua. «Ascolta, non so quanto sappia tu di Charlie... di quello che gli è accaduto.» «Più di quanto vorrei saperne.» «Era un bravo poliziotto...» Dupree lo fissa in silenzio. Mike capisce che è inutile continuare. Si stringe nelle spalle. «Va bene, vedrò cosa posso fare. Hai bisogno di altro?» «Ecco, visto che me lo chiedi...» Dupree tira fuori il taccuino e scrive il nome di Martin Hagen su un foglio. Poi lo strappa e lo dà a Mike. «Lui doveva trovarmi il dossier su quest'uomo. Tu puoi aiutarmi?»
Mike dice che ci proverà. Dupree si avvia verso la porta, ma Mike gli grida dietro. «Quanto tempo resterai in città?» «Tutto il tempo necessario per trovare il mio uomo.» «Fossi in te» dice Mike «cercherei di fare in fretta.» È come una visione davanti a te, un ricordo di qualcosa che non hai vissuto, ma che potresti descrivere con grande accuratezza. Otto del mattino, sabato. Cielo coperto. Dall'altra parte della strada, Tina esce sotto il portico a prendere il giornale. A piedi nudi, con addosso un accappatoio che le arriva a metà coscia e con i capelli legati. L'impressione di vedere seta bianca dentro l'accappatoio. Tutto quello che Vince una volta credeva di volere dalla vita è contenuto in questa scena: una donna, una casa, il giornale del mattino. E per un attimo prova un po' di amarezza, pensando a quanto sono piccoli i suoi sogni. Non è come sognare di diventare presidente degli Stati Uniti. Eppure, anche questa vita semplice, che altri vivono senza neppure volerlo davvero, questa vita a cui molti si ribellano, a lui è preclusa. Vince è in piedi davanti all'auto. Ange è seduto al volante. Sorride, e con le grosse labbra forma le parole: «È lei?». Tina è ferma sulla porta. Legge i titoli, sfoglia le pagine. Vince vuole attraversare la strada, andarle vicino, sentire il suo respiro sul petto, toccarle i peli chiari e sottili sulla coscia, appena sotto l'orlo dell'accappatoio. Un'auto che passa li separa per un attimo, ma Tina non alza lo sguardo. Dentro l'auto, Ange alza le mani e le sopracciglia. Di nuovo mima delle parole con le labbra: «Vai a parlarle!». Ma prima che Vince riesca a decidersi, Tina si volta ed entra in casa. Chiude la porta. Vince resta immobile, appoggiato alla macchina. Ange scende. «Era lei o non era lei, Krapfen?» «Era lei.» «Allora perché cazzo non sei andato a parlarle? Mi hai fatto guidare fino a qui solo per vederla da lontano? Ero convinto che volessi parlarle.» «Non ci riesco» dice Vince. «Non saprei cosa dirle.» «È molto carina.» «Grazie, Ange.» Vince contempla la casa, una villetta di legno esattamente uguale a quelle che la fiancheggiano da entrambi i lati. È dipinta di bianco e giallo, con fioriere alle finestre e una bandiera americana. Quella è proprio la vita che Vince avrebbe voluto offrire a Tina, la vita di cui lei diceva di non avere
alcun bisogno, quando stavano insieme, quando Vince era assolutamente incapace di fare una vita del genere. Ange si appoggia alla portiera e si gratta la testa. «Insomma, vuoi dire che siamo arrivati fin qui per niente?» «Volevo solo vederla» dice Vince. «Quanti anni sono passati?» «Tre.» «Non l'hai mai chiamata? Non le hai mai scritto?» «No.» «Come mai?» Vince scruta le finestre, sperando di vederla apparire. «Ho promesso a suo fratello di lasciarla in pace, per evitare che le facessero del male.» «Ah» dice Ange. «Capisco. È... triste.» Vince si stringe nelle spalle. Apre la portiera dalla sua parte e prima di salire in macchina dice: «Ascolta, Ange. So cosa sta succedendo». Ange lo fissa socchiudendo gli occhi. «Davvero?» «John non poteva semplicemente lasciarmi andare. Dico bene?» «Krapfen...» Ange sospira. «La cosa non è semplice. John ha un sacco di responsabilità. Ci sono delle regole, un sistema già stabilito da tempo. Tutto ha il suo valore. Tutto ha un costo. Non puoi lasciar andare via una persona così, come se niente fosse. Devi pretendere qualcosa. Un...» cerca la parola giusta. «Un compenso. Si tratta di una cosa più grande di me, di te e di tutte le persone coinvolte. Per questo funziona.» «Ma non siamo obbligati a restarci dentro. Tu e io... Perché non possiamo uscirne?» Ange sorride. «Uscirne? E cosa potrei fare, io? I bomboloni? Ma dai.» Si stringe nelle spalle rotonde. «Forza, sali.» Vince getta un'ultima occhiata alle finestre di Tina, che non lasciano trapelare nulla, proprio come gli occhi di Johnny Boy. Poi sale in macchina. «Non preoccuparti, Krapfen. Hai fatto la cosa giusta. Da questo momento comincia la parte facile.» Ange accende il motore. «Sei pronto?» Vince si appoggia allo schienale e chiude gli occhi. Il dossier della polizia su Martin Hagen è grosso, ma dentro non c'è nulla di serio. Nove arresti, quattro condanne, nessun crimine violento. Né aggressioni né rapine a mano armata, solo furto e frode. Non sembra affatto il ritratto di un assassino. Dupree si segna il nome del suo agente di vigilanza e un paio di indirizzi da controllare, ma c'è davvero poco nel dossier
di Hagen che possa aiutare Dupree a trovare Vince Camden. Furto di carte di credito, furto d'auto, furto di libretti d'assegni... Tuttavia c'è qualcosa che non quadra. Alla fine del dossier c'è un breve rapporto degli inquirenti ("A causa dell'ambiente che frequenta e della sua apparente mancanza di pentimento, è molto probabile che Hagen torni a commettere reati...") destinato al pubblico ministero. Al rapporto è unito con una graffetta un estratto di quattro pagine da un'intercettazione dell'FBI, dove due persone non identificate parlano di trovare qualcuno che «si occupi di quell'infame irlandese di Hagen». L'estratto è autenticato da un notaio e firmato da due agenti dell'FBI. Sul rapporto c'è il nome dell'investigatore della procura che si è occupato del caso, una donna di nome Janet Kelly. È sabato, ma Dupree la chiama ugualmente, e si scusa quando scopre che si trattava del numero di casa. Lei all'inizio si mostra seccata, perché oltre a essere sabato è anche piuttosto presto, e gli dice che non lavora nemmeno più nell'ufficio del procuratore distrettuale. Si è licenziata un anno fa e ora dirige un istituto di pena. Dupree si scusa di nuovo, poi le chiede se ricorda il caso di Martin Hagen. Il nome non le dice nulla, ma Dupree le legge un pezzo del rapporto che lei stessa aveva scritto. «Ah, sì» dice alla fine. «Un figlio di puttana irresistibile, se non ricordo male. Rubava carte di credito e le usava per comprare televisori, lavatrici e impianti stereo che poi rivendeva a due tizi che lavoravano per un vecchio boss mafioso. Doveva loro dei soldi, così lo stavano spremendo un po'. All'inizio sembrava qualcosa di grosso, poi si è sgonfiato tutto. «Come mai?» chiede Dupree. «Aveva un avvocato astuto, amico del sostituto procuratore che seguiva il caso. L'avvocato riuscì a convincere quest'ultimo che quell'Hagen era una miniera di informazioni importanti e che la storia delle carte di credito era solo la punta dell'iceberg.» «E invece?» «Invece era al massimo la punta di un cubetto di ghiaccio.» «Crede che Hagen non abbia rivelato tutto quello che sapeva?» «No» dice lei. «Credo che non sapesse nulla di importante. Un tipico ladro di polli. Ma quando ce ne siamo resi conto gli avevamo già concesso la piena immunità.» «E lo avete inserito nel programma di protezione per testimoni per una storia di carte di credito rubate?»
«Ecco, c'erano anche le intercettazioni dell'FBI. Sembrava che volessero davvero farlo fuori.» Dupree tira fuori l'estratto. «Sì, l'ho letto. Ma se Hagen davvero non sapeva nulla, perché volevano pagare qualcuno per farlo uccidere?» «Lo sta chiedendo alla persona sbagliata. Di questo dovrebbe parlare con l'FBI.» Dupree fissa il rapporto. Qualcosa non quadra. «Si ricorda che aspetto aveva Hagen?» «Certo. Era attraente. Uno che porta guai.» «Le sembrava irlandese?» «Non saprei.» «Hagen è un cognome tedesco.» «Non vedo cosa...» «Sul nastro dell'intercettazione i due sospetti parlano di "quell'infame irlandese di Hagen".» Dupree avvicina il foglio alla faccia ed esamina con attenzione i caratteri della macchina da scrivere. All'altro capo del filo, Janet Kelly ride. «Non so cosa dirle. Si tratta di tipi che non perdono il sonno per determinare esattamente la provenienza etnica di una persona. Ora, se non c'è altro...» Dupree continua a fissare la pagina. «No, non c'è altro. La ringrazio, e mi scusi ancora.» Riaggancia e pensa che non potrà parlare con l'FBI prima di lunedì mattina. Il che significa che ha due giorni per pensare a cosa farà Charles non appena lo dimetteranno dall'ospedale. Si guarda intorno, nella sua minuscola stanza d'albergo a due letti, e all'improvviso si sente piccolo. Chi è lui per pensare di trovare un sospetto a New York, per credere di capire il modo di agire della mafia e le complessità del sistema legale di New York, per farsi un nemico come Donnie Charles? È incredibile: sentirsi soli in una città di sette milioni di abitanti. Si alza in piedi. Tra i due letti c'è appena abbastanza spazio per le gambe. Da fuori arriva il rumore del traffico e di qualche sirena. Apre le tende e guarda giù sulla Settima Strada, verso Times Square. Il cielo è coperto. Dupree si chiede cosa può accadere a un uomo che vive in un posto così affollato, dove tutto si muove così veloce. Si chiede se vivendo qui lui sarebbe diverso da Charles. O forse il posto non c'entra niente. Charles fa il poliziotto da diciotto anni. Forse dopo diciotto anni nella polizia chiunque diventa così. Dupree prova un senso di panico e vorrebbe scrivere una lettera a se stesso e spedirsela, per poi aprirla tra diciotto anni, nel 1998. "Caro Alan, stai attento e non fare il coglione." Alza la cornetta e compone un numero.
«Pronto?» Lei ha un tono preoccupato. «Debbie, sono io.» «Oh, come stai?» Il suo sollievo è evidente. «Scusami per averti chiamato così presto, ma...» «No, hai fatto benissimo. Mi manchi. Quando torni a casa?» «Non lo so ancora. Forse lunedì.» «È bella New York?» «Sì» dice lui. Potrebbe toccare tutte e quattro le pareti della stanza senza fare più di due passi. «E... uno schianto.» Vorrebbe rannicchiarsi accanto a lei sul divano, a casa, in quel posto che conosce così bene. Più di tutto, vorrebbe che l'indagine fosse conclusa, vorrebbe non aver mai incontrato Donnie Charles. Se lo immagina in macchina, con i punti alla mascella, la bottiglia sul sedile accanto, lo sguardo fisso. «Magari un giorno ci andremo insieme, eh, Alan? Da turisti. Visiteremo l'Empire State Building, faremo il giro di Central Park in carrozza...» Dupree si stende sul letto e chiude gli occhi. «Certo» dice. Ultimi pensieri: dall'epoca di Get Smart non c'è stato più un programma televisivo divertente; le salsicce vengono meglio se le cuoci aprendole a metà per il lungo; chissà per quanto tempo continuano ad arrivarti le bollette, dopo che sei morto; il vero sport non esiste più; la cucina italiana è molto sopravvalutata; sarebbe stato bello avere un cane. Vince guarda gli edifici scorrere fuori dal finestrino. Non riesce a tenere il passo di quei pensieri scollegati e cerca di concentrarsi su quello che vede, di limitarsi agli stimoli visivi. Chissà quanto tempo durano i ricordi. Forse scompaiono con l'ultimo respiro. E tutte le cose che hai visto? Le albe, le scale reali. Cosa succede loro quando non ci sei più? Avidamente, cerca altre immagini. Niente di profondo, solo qualcosa di bello da guardare. Gli piacerebbe chiedere ad Ange di passare davanti ad alcuni dei suoi edifici preferiti, a Manhattan. Il municipio, il vecchio palazzo della Standard Oil... Ma si stanno dirigendo dalla parte opposta, verso nord. Vince si scervella per pensare quali edifici gli piacerebbe vedere da quella parte. La vecchia Carnegie Hall. L'Ansonia e l'Arthorp sulla Broadway. Due volte posa la mano sulla maniglia, per scendere in mezzo al traffico e fuggire. Ma entrambe le volte gli manca il coraggio. Prendono l'uscita per La Guardia e Vince si chiede per quale motivo Ange si ostini a far finta di accompagnarlo all'aeroporto. Magari è proprio lì che ammazza le persone scomode. Forse il cadavere di Vince finirà in una cassa e sarà spedito in
Sicilia. Sopra un cavalcavia c'è un ragazzino su una bicicletta. Vince incrocia il suo sguardo, e il lampo di futuro che vede negli occhi del bambino gli fa venire voglia di piangere. Vorrebbe poter passare il resto della vita su una bicicletta, sgusciando fuori e dentro il traffico, libero, a volte pedalando senza le mani sul manubrio... Un ragazzo è invincibile sul sellino della sua bici. Cristo, sarebbe bello poter lasciare in qualche posto tutte le cose che hai visto e sentito, come il rullino di una macchina fotografica. Senza dubbio è per questo che la gente scrive libri, per lasciarsi dietro un'impressione, per condividere un senso di bellezza e dolore. "Questo è ciò che ho visto!" È il senso dei graffiti: "Sono stato qui!". E perché tu non hai mai scritto niente? Perché non hai preso nota del tempo che passava? Non era poi tanto difficile. A un tratto l'auto entra nella zona dell'aeroporto, e Ange, superando file di taxi, si ferma davanti al terminal delle partenze, brulicante di uomini che trascinano trolley sul marciapiede, donne che fumano con una mano e portano la borsa da viaggio con l'altra, taxi che si muovono in gruppo come sciami di zanzare. Ange mette in folle e si volta verso di lui. «Bene, Krapfen, eccoci qua.» Vince non sa cosa dire. «Ma... mi lasci davvero andare a casa?» Ange piega la testa di lato. «Certo. John mi ha chiesto di accompagnarti all'aeroporto, e l'ho fatto. Perché?» «Pensavo... Tu hai detto che la cosa non era semplice...» «Infatti. John vuole un favore da te. Non l'avevi capito?» «No» dice Vince. «Io credevo che tu dovessi...» «Fare cosa?» «Lo sai.» Ange distende le labbra in un ampio sorriso. «No. Credevi davvero che io...» «Sì.» Vince imita la voce di Ange: «Krapfen, si tratta di una cosa più grande di me e di te». Ange scoppia a ridere di gusto, con le mani sulla pancia e gli occhi stretti. «Oh, Cristo! Non ho mai detto che volevo... Ho detto solo che John aveva dei progetti per te, nient'altro.» «Non mi aspettavo certo che mi dicessi chiaramente che volevi spararmi. Non sarebbe logico.» Ange riesce appena a parlare tra un accesso di risa e l'altro. «Questa è
proprio bella, Krapfen. Credevi che ti avrei ucciso, e te ne stavi lì seduto tranquillo. Incredibile!» Ride così forte che una coppia con due valigie uguali si china a guardare dentro l'auto. Adesso ride anche Vince. Sono entrambi piegati in due e danno manate sul cruscotto. «Avresti potuto essere più esplicito, no?» Finalmente Ange si asciuga gli occhi, e scuote la testa. «Sei proprio un bel tipo, Krapfen. Mi farebbe piacere se potessi restare. Comunque, per tua informazione, quando bisogna fare un lavoro del genere mandiamo sempre due uomini.» Fa una smorfia amara. «È difficile farlo da soli.» Anche Vince si asciuga gli occhi con la manica. «Allora, qual è il favore, il "compenso" che Johnny vuole da me?» La parola "compenso" scatena un altro attacco di ilarità di Ange, che diventa paonazzo e fa il gesto di sparare a Vince con l'indice e il pollice a forma di pistola. Vince fa finta di cadere con la testa sulle ginocchia e anche lui scoppia a ridere di nuovo. «Oddio» dice Ange, non appena riesce di nuovo a parlare. Infila una mano in tasca, ne estrae un rotolo di banconote e lo mette in mano a Vince. «Ecco cosa vuole Johnny da te» dice. «Prendi questi soldi, torni in quella città del cazzo dove sembra che l'FBI mandi tutti gli infami, ti compri una pistola, e spari in mezzo agli occhi a quello spione bastardo di Ray Sticks.» VI CHICAGO, ILLINOIS / COLUMBUS, OHIO DOMENICA 2 NOVEMBRE 1980, ORE 4:13 Si infila in bagno per stare da solo, ultimamente lo fa spesso. Si toglie le scarpe e resta in piedi davanti allo specchio: capelli biondo cenere ormai ingrigiti, pelle cascante, il sorriso del '76 scomparso da un sacco di tempo. Apre il rubinetto dell'acqua calda. Fuori, la stanza deve essere un coro di bisbigli, di occhiate preoccupate. Sa che quando lui si allontana l'argomento di discussione è uno solo: come gestirlo, come allontanarlo dai suoi istinti fallaci. A parte la deferenza nei suoi confronti, sa bene quello che pensano. In fondo lo pensa anche lui. Molto tempo fa l'hanno convinto che non era abbastanza duro, non era abbastanza decisionista, era troppo religioso. Molto tempo fa lo hanno convinto che non potevano permettersi la sua geniale ingenuità, quella convinzione testarda che facendo del proprio meglio accadrà il meglio. Molto tempo fa, lo hanno convinto che è vero il
contrario. È lui il peggiore nemico di se stesso. Ora crede a quello che dicono, e cioè che il loro compito è quello di proteggerlo da se stesso. Il loro nemico comune lo fissa dallo specchio. Dal rubinetto aperto sale vapore. Posa i fogli e mette le mani sotto l'acqua calda. Le tiene lì il più a lungo possibile, desideroso di ogni sensazione fisica in grado di allontanarlo dalla propria mente. «Ah!» chiude il rubinetto, scuote le mani arrossate e tende l'orecchio per capire se qualcuno l'ha sentito gridare. Ma è tutto tranquillo. Stare così da solo è elettrizzante. Adesso non è mai solo. Eppure, più gente c'è intorno a lui, più si sente solo. Si passa le mani calde sul viso. E dopo... se le cose andranno male... cosa farà? Giocherà a golf? Parteciperà a programmi televisivi? Tornerà a casa? Cosa fa una persona quando una cosa del genere finisce? Quando ha raggiunto un posto come questo e viene ricacciata giù... A volte dimentica che si tratta anche di lui, della sua vita. Dimentica che al centro di questa impresa c'è una persona. Caddell esibirà una serie di numeri e dirà in tono pratico che il problema fondamentale è uno solo: lui non piace alla gente. Non è colpa della sua amministrazione, o delle sue politiche. È proprio lui che non piace. E gli altri presenti faranno cenni affermativi e prenderanno appunti, come se si parlasse di un detersivo per piatti o di un programma televisivo, mentre lui cercherà di seguire il loro esempio, ma nella sua testa una voce indebolita ma ancora presente griderà: «Ehi, un momento! Qui si tratta di me! Sono io che non piaccio!». È una cosa incredibile. I sondaggi mostrano che la gente lo giudica un uomo migliore del suo avversario, più intelligente, più compassionevole, meno incline a trascinare la nazione in una guerra catastrofica... Eppure l'altro piace di più. A volte si chiede chi siano queste persone. Chi sono questi, capaci di credere che un uomo sia buono, intelligente, onesto e caritatevole, e capaci allo stesso tempo di detestarlo? Che razza di persone sono? Gli sembra di sentire ancora la voce del responsabile dei sondaggi, che gli dice: «Vede, il problema è che lei li fa pensare alle loro debolezze». A volte gli sembra di stare dall'altra parte, con tutti gli altri, a guardare quel buffone seduto dietro la scrivania come un problema da risolvere, un prodotto che andrebbe migliorato per vendere di più. E quelli sono i momenti in cui di solito si alza per andare in bagno a guardarsi allo specchio, per controllare se esiste ancora. Prende di nuovo i suoi fogli, rilegge le condizioni del rilascio: non interferenza, restituzione delle ricchezze dello scià, scongelamento dei beni,
cancellazione delle azioni legali. E anche così, gli ostaggi saranno rilasciati un po' alla volta, nell'arco di mesi. Tre mesi fa questa sarebbe stata una buona notizia. Tre mesi fa, trovarsi di fronte un negoziatore adulto e coerente sarebbe stato un grande progresso. Ora, a due giorni dalle elezioni, non è un progresso, non fa notizia, è solo un altro rapporto negativo. Per settimane ha ascoltato voci dure che spiegavano che la guerra tra Iran e Iraq era l'unica soluzione: scambiare armi con persone. Non ha voluto ascoltare, e ora sa perché l'argomento continuava a venire fuori: perché rappresentava la sua unica speranza di vittoria. Invece lui si è aggrappato alla speranza che si potesse raggiungere un accordo, che il parlamento iraniano potesse avanzare richieste ragionevoli. E ora... Qual è la citazione che ripete sempre Jody? Sono le parole pronunciate da uno studente dal volto coperto, sui gradini dell'ambasciata, uno dei primi giorni: «Abbiamo messo in ginocchio l'America». Hanno messo in ginocchio lui. Chi sono queste persone convinte che sia colpa sua, che scambiano la spacconeria per coraggio? Quale uomo sano di mente vorrebbe guidare gente del genere? Guarda l'orologio. Troppo presto per chiamare Ros. Domenica. A Chicago. Il suo programma prevede un incontro con ministri di culto neri. Quello di oggi doveva essere un momento chiave della campagna, lo sprint finale in grado di segnare rallungo. Da molte settimane passa venti ore al giorno - al mattino sulla costa est, alla sera sulla costa ovest - ad arringare sindacati, insegnanti, rappresentanti delle minoranze. Ma a loro lui non piace. Domenica. A Chicago. A casa, quando non riesce a dormire la domenica mattina, si alza in punta di piedi, per non svegliare Ros, prende la Bibbia dal comodino e passa le dita lungo le pagine dal bordo dorato, pensando a quale sarà la lezione di quel giorno. Sfila il segnalibro di stoffa da dentro le pagine e lascia che il volume si apra a caso. È questo che vorrebbe fare anche ora, ma sa già cosa accadrebbe: qualcuno abbasserebbe lo sguardo, qualcun altro alzerebbe gli occhi al cielo. C'è una Bibbia sull'Air Force One. Dev'essercene una anche in questa camera d'albergo, sul comodino accanto al letto. Oppure hanno smesso di mettere le Bibbie nelle stanze d'albergo? Domenica. A Chicago. Chiude gli occhi e cerca di immaginare il segnalibro e le pagine morbide
dal bordo dorato. Il libro si apre e lui vede con gli occhi della mente il salmo di Davide, potente e disperato, il grido di un re: «Nell'integrità ho camminato, confido nel Signore, non potrò vacillare». Apre gli occhi, allunga una mano e tocca il viso nello specchio, il vetro fresco. Possiamo affrontare la situazione in due modi, stava dicendo Jody, poco prima che lui uscisse per andare in bagno. Uno è quello proposto dai falchi: agitare i pugni dicendo: «No, questi termini non sono accettabili!». Pugni e bandiere, atteggiamento marziale. «Abbiamo atteso un anno, e ora rifiutiamo di piegarci alle condizioni dell'Iran.» Lui la definisce "la via della spada". L'altro modo è quello di sostenere di aver già vinto, facendo capire che ormai il rilascio degli ostaggi è una mera formalità. Questa per lui è "la via del pastore". La spada e il pastore. Queste sono le opzioni. È ancora possibile trarre vantaggio dalla situazione. I presenti avevano discusso, dita puntate, colletti sbottonati, passi nervosi su e giù per la stanza. «È l'ultima possibilità di...» «È fondamentale che...» Poi Jody aveva alzato una mano e tutti si erano fermati, guardando non Jody, ma lui. Aspettando la sua decisione. Lo odiavano? Odiavano i suoi difetti, le sue debolezze, la sua mancanza di gravità ma anche di senso dell'umorismo? Lo odiavano come lui odiava se stesso? Aspettavano. Quanto è lungo un momento? Lui aveva spostato gli occhi da un viso all'altro, poi li aveva abbassati sulle carte che aveva in mano. Qualcuno si era schiarito la voce. In questo lavoro, qualunque cosa tu faccia, deludi sempre metà dei presenti. Era stato allora che si era alzato, e ora è qui, che si guarda allo specchio e cerca di ricordare l'epoca in cui era semplicemente se stesso, prima di diventare un grumo di debolezze e di idee sbagliate. C'è anche una terza via. Domenica. A Chicago. I fogli si aprono, mostrando alcune foto recenti degli ostaggi. Nell'integrità ho camminato. In quel momento decide. Tornerà nella stanza, e dirà di cancellare gli impegni di oggi. Si torna a Washington. Non alzerà la spada, e non sosterrà di aver già vinto. Dirà la verità: non siamo ancora arrivati al rilascio. E quasi certamente perderà. Domenica. A Chicago.
La faccia nello specchio lo fissa. Forse dopo... la vita ricomincerà. Forse quella faccia tornerà a essere la sua. Forse si sveglierà nel letto sapendo chi è e giudicherà se stesso per quello che è, e non più per quello che non è. Gli uomini nella stanza lo fisseranno, increduli. Cercheranno di dissuaderlo, ma lui sarà fermo. No, dirà. Torniamo a casa. Niente politica oggi, ragazzi. Oggi... camminiamo nell'integrità. Domenica. A Chicago. Chi sono queste persone? Fa un respiro profondo, fissa ancora una volta il viso nello specchio, pieno di speranza e paura, apre la porta e torna nella stanza. I ragazzi sono sicuri di sé, con le cravatte slacciate, pieni delle loro strategie. Poi, uno alla volta, notano l'uomo alto sulla soglia, con i capelli neri perfettamente pettinati. Una battuta ricorrente, tra loro, è che probabilmente lui dorme in piedi, come i cavalli nei suoi film. Dicono che Nancy la sera lo accompagna nella scuderia, gli mette i paraocchi e un secchio di biada davanti alla faccia, e lui si addormenta. Scattano sull'attenti, come se lui avesse già vinto. «Cosa fa già alzato, governatore? L'attende una giornata faticosa.» Lui si appoggia allo stipite e sporge il busto in avanti, lasciando le gambe sulla soglia. È un trucco teatrale, che usa quando vuole catturare l'attenzione dei presenti senza dover entrare nella stanza. I ragazzi lo considerano un suo talento naturale, una specie di controllo distaccato. «Ecco...» Sorride, e le sue quotazioni nei sondaggi salgono di due punti. «Ecco, forse non riuscivo a dormire.» I ragazzi ridono. Sanno che non ha problemi di insonnia. «Cosa avete lì?» «Le condizioni, signore. Le condizioni del parlamento iraniano per il rilascio degli ostaggi.» Sono tutti chini sul rapporto di cinque pagine che gli uomini del presidente hanno inviato loro in segno di cortesia. Lui entra e va alla finestra. Sta sorgendo l'alba. Guarda fuori, ma niente gli fa capire dove si trovi. «Columbus, governatore. Ohio.» Lui parla rivolto verso la finestra. «Quando stavo girando Tramonto, con Bogart, il regista era quell'orribile piccoletto ebreo, Edmund Goulding. Voleva più enfasi in ogni battuta. "Devono capirla anche in Ohio", diceva. E per un sacco di tempo io ho odiato l'Ohio.»
Si volta, senza nessuna espressione. «Cosa ne dite di mettere questo aneddoto nel mio discorso di oggi?» Altre risate. Gli offrono una copia del rapporto, ma lui la rifiuta. Preferisce conoscere solo i punti principali, annotati da qualcun altro. E poi non ci vede bene, e come al solito non ha gli occhiali. Detesta portare gli occhiali, e nei discorsi pubblici porta una lente a contatto per leggere le sue note, con un occhio solo. Come se lo stato fisico influenzasse il voto. «Ditemi» li invita. Loro si scambiano occhiate. «In pratica si tratta di termini inaccettabili. Vogliono tutto.» «Scongelamento dei beni. Restituzione del denaro dello scià.» «Foto nude di Suzanne Somers.» «Ah, quelle potremmo procurarcele noi» dice lui, e tutti ridono. «In poche parole, cosa significa?» I ragazzi non riescono a contenersi. «Ecco, signore, significa che il presidente non sarà sul piazzale di un aeroporto, né oggi né domani, con la banda della marina alle spalle, mentre quelle cinquantadue persone scendono da un aereo e baciano la terra.» «Ci sarà lei su quel piazzale, signore.» Altre risate. Qualcuno applaude. «No, no, smettetela.» Lui odia quel tipo di cose. Crede che celebrare la vittoria troppo presto porti sfortuna. Nel '64 ha rifiutato di ammettere di essere stato eletto governatore della California anche dopo che Pat Brown aveva già ammesso la sconfitta. Con un'espressione cauta, quasi dura, dice: «Noi useremo la banda dell'esercito». Applausi a tutto campo. Solleva le mani, chiedendo silenzio. «Come se la stanno giocando?» «Sembra che vogliano tornare a Washington. Hanno due strade. O sostenere di aver vinto, sperando che nessuno noti che gli ostaggi sono ancora in Iran, oppure agitare i pugni e gridare: "Non ci piegheremo! Non ci faremo prendere in giro da questi estremisti!". Almeno, io farei così.» «Che altro potrebbe fare?» «Potrebbe chiedere ad Amy cosa ne pensa.» Risate. «O ammettere che in cuor suo ha sempre amato l'ayatollah.» Altre risate. «E noi come ce la giochiamo?»
«Il bello è questo. Non dobbiamo fare nulla. Assumeremo un atteggiamento superiore, distaccato...» «Come se fossimo al di sopra di tutto.» «Ah, questo mi piace proprio. Possiamo farlo? Possiamo restare al di sopra?» Molte teste annuiscono. «Certo. Non rilasceremo commenti diretti sulla crisi. Predicheremo prudenza...» «Speriamo con tutto il cuore che bla, bla, bla...» «Le preghiere di una nazione...» «Qui non si tratta di politica...» Lui guarda di nuovo fuori dalla finestra. Il sole è già sorto e le nuvole sono tornate al loro colore grigio e bianco. Dall'altra parte di quelle nuvole c'è Washington. Due giorni. Ha la sensazione di essere un generale prima dell'attacco finale. Una cavalcata da Sacramento a Washington. Sarebbe un bel film. Ritorna accanto alla porta. «Numeri? Abbiamo dei numeri?» I ragazzi si guardano e sorridono. «Si tratta solo di cifre preliminari...» «Ma le abbiamo?» «Sì.» Lui aspetta. I ragazzi non possono più contenersi. «Undici.» Lui resta immobile sulla soglia. Mio Dio. Sta per succedere. «Undici?» «Ecco, c'è un margine d'errore, e non...» «Undici? A due giorni dalle elezioni?» «Sissignore. Se li perdiamo, è solo colpa nostra.» Gli altri si scambiano occhiate. Sarebbe meglio non parlare di perdere punti. Non dopo i casini di fine estate sul Ku Klux Klan e su Taiwan, non dopo quello che lui ha detto sugli alberi, e cioè che rappresentano una delle maggiori cause di inquinamento. A volte esce pericolosamente fuori tema, ed è riuscito a perdere otto punti in una settimana. Stavolta i ragazzi non possono proprio permettergli di rifarlo. Ma lui non sembra notare la loro preoccupazione. Ha la memoria corta e una grande riserva di fiducia. E quel cuscino dell'undici per cento su cui è seduto è una vera benedizione. A due giorni dalle votazioni. «Cos'hai detto prima, riguardo alla speranza?» «Ho detto: "Speriamo con tutto il cuore...".» «No, aspetta.» Sorride, con la gioia pura di un bambino di settant'anni. «Io spero con tutto il cuore...» Gli altri lo fissano. È così, allora. Questo è ciò che sente. «Ora si tratta di me. È la mia speranza.» Resta sulla soglia ancora un
minuto, osservandoli mentre lavorano. Poi si avvia lungo il corridoio verso la sua stanza. Entra e si stende sul letto, ascoltando il proprio respiro, e chiedendosi che cravatta gli avranno scelto per oggi. VII SPOKANE, WASHINGTON / NEW YORK, NEW YORK LUNEDÌ 3 NOVEMBRE 1980, ORE 7:20 David Best scende a fatica dal sedile di una Mercury Bobcat color champagne. Poi chiude la portiera, si dirige verso l'uscita del parcheggio e si trova faccia a faccia con Vince Camden. David fa un salto indietro, portandosi una mano al petto. «Cristo, Vince. Mi hai spaventato a morte.» «Non riesco a credere che tu abbia portato qui Ray Scatieri.» David sembra ancora spaventato. «Cosa? Di che stai parlando?» «Ray Scatieri. Lo avete messo nel programma di protezione per testimoni e lo avete fatto venire qui a Spokane. Cristo, David. Ma tu hai un'idea di chi è quello? È un animale.» Le grosse guance di David diventano tutte rosse. Lui si guarda intorno, poi stringe le labbra. «Dannazione, Vince. Tu non devi avere contatti con nessun altro nel programma...» «E invece noi due abbiamo avuto contatti, eccome.» David guarda a destra e a sinistra, per accertarsi che nessuno li stia ascoltando. «Vieni con me» dice, serio. Vince lo segue dentro l'edificio. È presto e l'atrio è vuoto. Salgono in ascensore e restano in silenzio fino al sesto piano. David si rifiuta di incrociare lo sguardo di Vince, il quale, dal canto suo, fa di tutto per non sbadigliare. Nell'ultima settimana ha dormito pochissimo. Entrano nell'ufficio senza che nessuno li veda. David si siede alla scrivania e fa un gesto vago con entrambe le mani, un gesto di resa, o forse di indifferenza. «Bene» dice. «Dove vuoi andare, ora?» «Cosa?» «Quando due testimoni nel programma entrano in contatto tra loro, ne spostiamo uno. Perciò, scegli pure. Dove preferisci andare?» «Io non...» Vince guarda il cielo coperto fuori dalla finestra. Non aveva pensato a questa possibilità. Giusto. Perché non lasciare che lo spostino in un'altra città? Lontano da Sticks, da Lenny, dal "favore" che Gotti pretende da lui. Sparire... Ricominciare da capo, ancora una volta. David tira fuori
una carta geografica da un cassetto e la spiega sulla scrivania. «Una volta mi hai detto che volevi aprire un ristorante. Bene, ti aiuteremo. Scegli la città, noi troveremo il posto adatto per te.» La carta mostra tutta la nazione, solcata da fiumi e strade, punteggiata di montagne, con i confini tra gli Stati tratteggiati in nero, e le capitali marcate da stelle. C'è un certo piacere nel vedere quelle forme familiari. Fai scorrere un dito lungo i confini e ricordi un puzzle che hai fatto a scuola. È proprio così, ogni Stato una tessera del puzzle: i lati lisci e paralleli del Tennessee, tutti quei rettangoli al centro, i bordi frastagliati degli Stati il cui confine è segnato da un fiume. Da bambino prendevi le tessere che rappresentavano la Florida e l'Idaho e facevi finta che fossero pistole. E sparavi agli altri bambini con la Florida. «Hawaii?» suggerisce David, come se si trattasse di un cocktail. «California?» Gli occhi di Vince si spostano dalla mappa alla foto del presidente Carter. Già quattro anni fa il peso della responsabilità e delle scelte era ben visibile sul suo viso. Vince sa cosa vuol dire. Un solo momento a volte collega te e il tempo in cui vivi. Il presidente Carter sembra d'accordo. Sei intento a vivere la tua vita, e ogni quattro anni ti lasciano dire la tua su come dovrebbero andare le cose, e si tratta di un momento reale e astratto allo stesso tempo, come i confini neri tra gli Stati. Puoi dire la tua riguardo alla direzione in cui dovremmo andare, e certamente si tratta di un processo riduttivo, cinico, errato, ma anche se non serve ad altro che a farti sentire parte di qualcosa di più grande, allora ogni volta è un piccolo fottuto miracolo. Vince si tocca la fronte con la punta delle dita e dice, piano: «Perché hai portato qui Ray Sticks, David?». «Non posso parlare con te di queste cose, Vince.» «David, quel tipo è marcio...» «Quel tipo attualmente è uno dei più importanti testimoni dell'intera nazione, Vince.» «Ma qui? Perché proprio qui?» David scrolla le grosse spalle. «Vince, ci sono tremila persone in questo programma, e non possiamo metterle a New York, a Detroit, a Cleveland, o in altri centri dove è presente la mafia. Ora, togli le venti città più grandi e le loro città satellite. Togli Las Vegas e Atlantic City. Cosa ti resta? Lexington? Des Moines? Phoenix? Spokane? Sono questi i posti dove depositiamo la spazzatura, Vince. Dove dovremmo mettere uno come Ray? O
uno come te?» Vince sente di meritare quella frase pungente. «Ce ne sono altri?» «Qui?» David esita un attimo, poi scrolla le spalle. «Certo. Ce ne sono costantemente quattro o cinque. Spokane è una buona città. C'è una comunità italiana. I prezzi non sono troppo alti. È isolata. Il lavoro non manca. Ci sono uffici federali. Ed è abbastanza grande da permettervi di non dare nell'occhio, ma non tanto grande da consentirvi di mettervi in guai seri.» Vince si chiede se ne conosce qualcuno, e immediatamente gli vengono in mente delle facce. Il lavapiatti del locale Geno, il tipo basso e zoppo che giocava a carte da Sam. Ricorda la parola usata dall'agente Dupree: fantasmi. «Ma non potete mettere qui uno come Ray Scatieri. Quello è un criminale.» «Davvero? E cosa fa? Gioca a poker? Ruba carte di credito? Vende marijuana?» Vince distoglie lo sguardo, e torna a fissare la foto di Carter. «E tu, Vince? Vivi bene facendo krapfen?» Il viso di David non tradisce emozioni. «Ascolta, sappiamo che è difficile rigare dritto. Quando fai l'allevatore di volpi, di tanto in tanto perdi una gallina. E a volte devi spostare una volpe due volte.» David spinge la mappa sotto il naso di Vince. «Avanti, scegli una nuova città, un nuovo nome. Lasciati alle spalle queste paranoie e le tue piccole operazioni illegali.» Naturalmente ha ragione. Quello è l'unico modo di sfuggire a Ray Sticks e a Johnny Boy. E forse anche a se stesso. Ricominciare da capo, ma stavolta sul serio. Evaporare. Vince si china a studiare la mappa. «Bene.» David sorride. «Vado a far preparare le carte.» Esce e si chiude la porta alle spalle. Vince fissa la punta sud-orientale dello Stato di New York, con la macchiolina che rappresenta l'isola di Manhattan. Il "mondo". Benny vive su quella piccola scheggia. Tina. Solo due giorni fa c'era anche lui, e parlava con Ange di uccidere Ray Sticks. Il problema, con le mappe, è che ti mostrano solo la superficie delle cose, e non la verità sottostante. Come fa David a sapere del fumo e delle carte di credito, delle sue "piccole operazioni illegali"? Vince si alza in piedi. Va ad aprire la porta dell'ufficio e vede David di spalle, che sussurra qualcosa al telefono. «Lo terrò qui finché...» David si volta, e vede Vince ritto sulla soglia. Mormora qualcosa nella cornetta e riattacca. Guarda Vince come se lo vedesse per la prima volta. «Ti sei tagliato i capelli.»
«Eri al telefono con la polizia?» chiede Vince. David lo fissa, come valutando se mentire o meno. Infine scrolla le spalle. «Hanno mandato un poliziotto a New York. E lui ha scoperto che eri nel programma. Un certo detective Phelps mi ha chiamato ieri sera, dicendo che avevano bisogno di parlarti. Stanno arrivando, Vince.» «Cosa ti ha detto?» «Phelps? Ha detto che eri implicato in una storia di carte di credito rubate. Che vendevi marijuana. Ma soprattutto che vogliono interrogarti per un omicidio.» «Ho già parlato con loro.» «Be', vogliono farti altre domande.» «Io non ho ucciso nessuno, David.» «Quando arriverà Phelps, glielo dirai.» «Gliel'ho già detto.» «Glielo ripeterai.» «Sono in arresto, David?» «Ti sto solo chiedendo di restare qui e di collaborare con la polizia.» Vince si guarda intorno. «E che possibilità ho di scendere e di uscire dall'edificio prima che arrivino, prima che tu chiami la sicurezza?» «Ma dai, Vince.» David ride. «Una su cinque? Una su dieci?» David lo fissa senza rispondere. «Tocca a me muovere, David?» Vince esce dall'ufficio e si avvia verso l'ascensore. Si aspetta che David tiri fuori la pistola, o che chiami gli agenti della sicurezza. Invece lui si limita a seguirlo, come un fratello minore. «Per favore, Vince» dice. «Aspetta la polizia, parla con loro. Sistemeremo questa faccenda e poi ti sposteremo da un'altra parte.» «Mi costituirò domani mattina.» Vince entra nell'ascensore. «C'è una cosa che devo fare, prima.» «Vince, rifletti! Non essere stupido.» Curioso. Quelle sono le stesse parole che gli ha detto Ange all'aeroporto, dopo avergli spiegato tutto. L'FBI aveva beccato Ray Sticks a Filadelfia e lo aveva mandato in giro tra i ragazzi di New York con un microfono addosso. Poi, un giorno, Ray era scomparso. Sapeva abbastanza per mandare in galera Johnny Boy e il resto della banda per anni, perciò quello che gli chiedeva Johnny era semplice: tornare a Spokane, uccidere Ray, e il suo debito sarebbe stato cancellato per sempre. «E se invece non lo uccido?» aveva chiesto Vince. In quel caso, sarebbero arrivati loro a riscuotere en-
trambi i debiti. Vince aveva detto che non era sicuro di poterlo fare, ed era stato allora che Ange aveva detto: «Non essere stupido». Le porte dell'ascensore si chiudono e Vince preme il bottone per il secondo piano. Esce e prende le scale, senza correre. Scende a piedi fino al seminterrato. Una porta lo immette in un corridoio con il pavimento di cemento. Vince nota un armadietto, lo apre e vede che contiene una tuta da lavoro. La indossa e continua a camminare fino a un punto di carico e scarico sul retro dell'edificio. Solleva uno scatolone di carta igienica e lo tiene in equilibrio su una spalla, in modo da nascondere il viso. Emerge su una rampa che porta a livello della strada, sale, e sta per attraversare la strada quando un'auto della polizia senza contrassegni gira l'angolo. Dentro ci sono Phelps, con i suoi grossi baffi, e un altro poliziotto. Vince attraversa, dirigendosi verso Riverfront Park, posa la carta igienica su una panchina, si toglie la tuta e attraversa il parco con passo tranquillo. Nel suo piccolo ufficio, costellato di foto di gangster assolti, Benny DeVries sembra più rilassato di quando Dupree lo ha fermato per strada. Dupree si siede e lo ringrazia per averlo ricevuto. «Non ci vorrà molto. Ho solo un paio di domande.» Benny guarda l'orologio, impaziente. «Le ho già detto tutto quello che so.» Dupree scuote la testa. «In realtà no.» «Cosa? Che intende dire?» «L'altra sera mi ha detto di non averlo più visto...» Benny sorride. «Esatto.» «Io le ho chiesto di telefonarmi, se avesse rivisto Vince.» «E io le ho risposto che lo avrei fatto. Ascolti...» «Stamattina mi è venuto in mente che avevo detto Vince, non Marty. E non le avevo detto che il suo nuovo nome era Vince. Lei mi ha detto di non averlo visto dai tempi del processo, eppure conosce il nome che gli hanno dato nel programma di protezione.» Benny DeVries lo fissa per un attimo, poi sorride. «Divertente. Voglio dire, non ha nessun valore legale. Potrei aver capito che parlava di Marty, oppure lei potrebbe aver usato il nome Vince anche prima, nella nostra conversazione. Ma è un buon tentativo.» Dupree si china in avanti e fa la sua giocata. «Ascolti, avvocato, l'ultima cosa che voglio è causarle dei guai.» «Guai» ripete Benny, ancora sorridente.
«Ho pensato che era meglio se fossi venuto a parlarle di nuovo, prima che questa faccenda arrivi in tribunale, o all'ordine degli avvocati...» Il sorriso si fa più ampio. «All'ordine degli avvocati!» «Vede, io potrei essere in grado di aiutarla, se mi dice dove si trova Vince, ma deve farlo adesso, prima che le cose vadano troppo oltre.» Benny ora ride apertamente. Si accende una sigaretta e dice: «Dovrebbe fare questo numero in coppia con un "poliziotto cattivo"». Aspira una boccata. «Come ha detto che si chiama?» «Dupree.» «Bene, detective Dupree. Supponiamo che io abbia visto il nostro amico e non glielo abbia detto. Il mio cazzo uscirà dai pantaloni, metterà le ali e volerà in giro per la stanza, prima che lei riesca a trovare un pubblico ministero di New York disposto a sfidare l'ordine degli avvocati e a mettermi sotto accusa per una cosa del genere. Secondo, se invece pensa di trovare un pubblico ministero nel posto da dove è venuto, sempre presumendo che si tratti di un luogo dove la gente non cammina a quattro zampe, la informo che i magistrati di un altro Stato non hanno giurisdizione qui. Terzo, se vuole le do il numero del capo della sezione disciplinare dell'ordine degli avvocati, che conosco bene perché gli ho fatto da testimone al suo fottuto matrimonio! E infine, anche se riuscisse a trascinarmi in tribunale, sarebbe la sua parola contro la mia. E alla fine neanche questo importa. Vuol sapere perché?» Dupree resta in silenzio. «Perché lei non mi ha chiesto se avevo visto Vince Camden. Mi ha chiesto se avevo visto Marty Hagen. Poiché non esiste più nessun Marty Hagen, grazie a voi, io le ho detto la verità. Non ho più visto Martin Hagen da quando si è concluso il processo. Ho visto Vince Camden? Lei non me l'ha chiesto. Ora esca dal mio ufficio e non provi a tornare senza un mandato, brutto pezzo di merda!» «Non credo che lei abbia capito quello che sto dicendo...» «Oh, capisco benissimo quando qualcuno vuole fare il furbo con me!» Benny è irritato, ha la faccia rossa, ed evidentemente non vuole che la cosa finisca lì. «Da quanto tempo è nella polizia?» «Cinque anni.» «Quanti anni ha?» «Ventisette.» «E da quanto tempo è detective?» «Da tre settimane. Sono stato assegnato a questo caso in via temporane-
a.» «Una recluta, insomma. Avrei dovuto capirlo subito.» Benny si china in avanti attraverso la scrivania. «E dimmi, recluta, ti è piaciuta la mia città?» Dupree sorride. «È stato un week-end piuttosto lungo.» Benny ride forte e torna ad appoggiarsi allo schienale della sedia. «Vuoi un consiglio, stupido bastardo?» «Non credo di potermi permettere la sua consulenza.» «Gratis.» Dupree aspetta. «Il mio consiglio è questo: torna a casa. Questo posto non somiglia affatto a quello da cui vieni tu. Per aprire un semplice ristorante, a New York, ci vogliono più trucchi e sgambetti e bustarelle di quanti ne veda la tua città in dieci anni.» «Immagino che ne sia davvero convinto» dice Dupree, calmo. «Ma anche a Spokane abbiamo avvocati corrotti con un taglio di capelli ridicolo.» Dupree si infila il cappotto, poi tira fuori un foglio dalla borsa. «Ora lasci che le dia io un consiglio, avvocato. Se le capiterà un'altra volta di pensare che l'unico modo di evitare che un delinquente sposi sua sorella è quello di farlo entrare nel programma di protezione per testimoni, eviti di falsificare un rapporto dell'FBI per convincere il tizio in questione che qualcuno lo vuole morto.» Posa il foglio davanti a Benny, il quale non lo guarda neppure. «Questo cos'è, spergiuro? Ostruzionismo?» Finalmente Benny abbassa gli occhi sul foglio. «L'agente dell'FBI che ha avuto il mandato per l'intercettazione citata qui, ha dichiarato che si trattava di un altro caso, riguardante un tizio di nome Breen.» Dupree indica il foglio. «Qualcuno ha preso il rapporto e ha sostituito il nome Breen con il nome Hagen. Io ho detto a quell'agente dell'FBI che lei è stato compagno di università del pubblico ministero del caso Hagen, ed è venuto fuori che si trattava dello stesso magistrato che ha seguito il caso di Jerry Breen. Che coincidenza, eh?» Benny si porta una mano alla tempia. In strada, qualcuno dà un colpo rabbioso di clacson. «Allora, dov'è?» «Non lo so» risponde Benny, a bassa voce. «L'ho visto due giorni fa.» «Mi chiamerà, se lo rivede?» Benny annuisce. Dupree si avvia verso la porta, poi si volta verso l'avvocato. «Allora,
Benny, questa è un'accusa abbastanza seria, per te?» Tic entra in cucina e distende le labbra in un ampio sorriso. «Signor Vince! È tornato!» Indossa il grembiule da fornaio, tutto sporco di zucchero e farina. «Com'è stato il funerale? Un sacco di tristezza e roba del genere, eh?» «Il funerale non c'è ancora stato» dice Vince. «Qui è venuta gente in continuazione a cercarla. Poliziotti. Poi un paio di altri tipi. Il vecchio è preoccupatissimo. Ah!» Si slaccia il grembiule e lo tende a Vince. «Questo è suo.» «No» dice Vince, scuotendo la testa. «Ora è tuo.» «Non sono io il fornaio» ribatte Tic. «È lei.» «Non più. Non sono venuto per restare, Tic. Sono tornato solo per fare alcune cose, poi vado via. Il fornaio adesso sei tu.» Tic fissa il grembiule. «È come se lei fosse Obi Wan Kenobi e io Luke Skywalker. Ho una paura matta, non scherzo.» Prende il grembiule e fa un inchino. Vince gli dà una leggera pacca su una spalla. Poi si dirige verso l'armadietto, lo apre, volta il secchio e ci sale sopra. Prende la chiave sotto le piastrelle di rivestimento del soffitto e scende in cantina con lo zainetto in spalla. Da sotto i sacchi vuoti tira fuori la sua scatola e la apre: i ventimila dollari sono ancora tutti lì. Vince prende un sacco vuoto e ci mette dentro i soldi, poi lo infila nello zainetto e risale in cucina. Tic indossa di nuovo il grembiule, e gli porge un foglietto piegato in due. «Ricorda quella tipa da sballo che viene a prendere una decina di bomboloni tutti i mercoledì? Farrah, mi sembra. È venuta stamattina e ha lasciato questo.» Vince apre il biglietto e lo legge. Vince, per favore chiamami. Devo parlarti di una cosa importante. Kelly. Vince la chiama subito, dal telefono della cucina. Kelly sembra contenta di sentirlo e gli chiede se ha un po' di tempo da dedicarle. Vince le dice di passarlo a prendere in un vicolo a due isolati dal negozio, poi la saluta, riaggancia e si affaccia alla porta della cucina a guardare il negozio. Tic è dietro il banco, con il piede su una scatola rovesciata, e parla con un cliente delle partite di football di domenica scorsa. Nancy è in giro tra i tavoli a
riempire tazze di caffè. Nell'aria il fumo che sale dalle sigarette sembra quello di minuscoli fuochi da campo. Se fosse possibile scattare istantanee mentali, fissando momenti nel tempo, potresti sfogliare la memoria come un. album. L'ultima volta che hai visto insieme i tuoi genitori, il cielo visto dalla prima decappottabile che hai rubato. La mattina che hai lasciato Tina a letto e sei andato a consegnarti all'FBI. E il giorno in cui hai lasciato per sempre il negozio di bomboloni. Vince pensa che non è mai arrivato più vicino di così a condurre una vita normale. Inala un'ultima volta l'odore di bomboloni, caffè e sigarette. Poi esce dalla porta sul retro, con lo zainetto in spalla. «È tornato lì?» dice Dupree al telefono, nella sua stanza d'albergo. «Sì» risponde Phelps, all'altro capo del filo. «Ho chiamato il vicesceriffo e gli ho detto quello che avevamo scoperto su Camden. Lui ha promesso di collaborare e stamattina ha chiamato, dicendo che Camden era nel suo ufficio.» «Quando è tornato?» «Mentre tu visitavi la Statua della Libertà, sembra.» «Ha detto qualcosa?» «Ha detto che non ha ucciso Doug, e che si sarebbe costituito domattina, perché aveva una cosa da fare prima. Poi è fuggito. Abbiamo messo sotto sorveglianza casa sua, ma finora... niente.» «E la ragazza?» chiede Dupree. «Quella che gli ha fornito l'alibi. Hai mandato qualcuno anche lì?» «In questo momento siamo un po' a corto di uomini» dice Phelps. «Ieri notte è stato trovato un cadavere nel bagagliaio di un'auto, con una pallottola in mezzo agli occhi. Oggi è una brutta giornata, Dupree. Parleremo quando torni.» Chiudono la comunicazione. Dupree va in bagno a prendere il suo nécessaire da barba e lo mette in valigia. Oggi aveva in programma di andare a trovare il vecchio Dominic Coletti e di chiamare Benny, ma non ce n'è più bisogno. Telefona a un'agenzia di viaggi, attende in linea, e scopre che c'è un volo per Denver tra novanta minuti esatti. Se riesce a prendere la coincidenza, può essere a Spokane per le dieci del mattino. Chiama Debbie per avvisarla, ma a casa non risponde nessuno. Toglie i proiettili dalla pistola, li infila nel nécessaire, mette in borsa pistola e fondina, afferra la giacca ed esce di corsa verso l'ascensore. Girato l'angolo, si
trova faccia a faccia con Donnie Charles, che sta controllando i numeri delle stanze. La parte destra della faccia di Charles è gialla e viola, gonfia come se stesse masticando tabacco. La bocca è tenuta chiusa da ferri attaccati dietro il collo massiccio. Ha le labbra nere, e sopra l'occhio destro semichiuso un livido purpureo. Restano a fissarsi per un attimo, poi Dupree senza volerlo fa un passo indietro. «Suppongo che tu non sia qui per accompagnarmi all'aeroporto» dice. Charles infila una mano in tasca e tira fuori un bloc-notes rilegato a spirale e una penna. Scrive, poi porge il foglio a Dupree. a che ora il volo «Tra un'ora e mezza.» Charles annuisce. Poi si muove velocissimo, sparandogli una ginocchiata che lo solleva dalla moquette, mandandolo a cadere un passo più in là. Mentre Dupree cerca di rialzarsi, Charles lo colpisce con un calcio in faccia. Quando riesce ad aprire di nuovo gli occhi, Dupree vede l'altro sopra di lui, intento a scrivere un altro messaggio. Appena finisce si china per farglielo leggere, e Dupree deve trattenere il fiato per riuscire a concentrarsi sulle parole. non arriverai in tempo Kelly ferma la sua Mustang II di fronte alla casa di Aaron Grebbe. «Vince, è successo qualcosa la notte che sei uscito con Aaron?» Ha i capelli biondi legati a coda di cavallo e Vince si chiede come fa a tirarli tanto sui lati della testa, ottenendo una superficie così piatta e lucente. «No, non è successo niente di strano» risponde. «È solo che...» indica la casa. «Stamattina non è venuto al lavoro. Ieri sera non si è presentato a un forum per la sua campagna. Non risponde al telefono... Non so cosa fare, Vince.» Vince non vede il pick-up davanti alla casa. «Dov'è il suo Dodge?» «Deve averlo preso sua moglie. Lui è solo in casa.» Getta un'occhiata a Vince, preoccupata che possa chiedersi come fa a saperlo. «Stamattina so-
no passata di qui» dice. «Non fa altro che vagare da una stanza all'altra. E credo che stia bevendo.» Si copre la bocca con una mano, dalle dita lunghe ed eleganti, e Vince si rende conto che la guarda ogni volta come un monumento architettonico: con ammirazione, con desiderio, ma sempre da una certa distanza. «Non sapevo chi altri chiamare. Ho pensato che tu forse avresti saputo cosa fare.» «Hai fatto bene. Vado a parlargli.» Vince le dà un colpetto su una spalla e apre la portiera. «Vince?» Si volta. «Puoi dirgli che... mi dispiace? Che non volevo...» non finisce la frase. Vince annuisce, scende dall'auto e attraversa la strada. Sale i gradini, suona il campanello e sente un rumore di passi strascicati. Lo spioncino diventa nero, e un attimo dopo la porta si apre. Aaron Grebbe ha la barba lunga e indossa pantaloni di felpa senza camicia. Ha un fisico solido e robusto. È anche ubriaco. «Ah, ma guarda. Il mio unico elettore.» Grebbe si volta e lo precede in casa. «Entra. Stavo guardando Match Game. Ti piace Match Game? A me piace Match Game.» Vince lo segue in soggiorno, dove accanto al mobile stereo di legno biondo si trova un carrello di bottiglie. Grebbe si lascia cadere sul divano e prende un bicchiere pieno di un liquore scuro, con dentro un paio di cubetti di ghiaccio mezzi sciolti. Vince si avvicina alle bottiglie, scoprendo che per la maggior parte sono vuote. Si versa comunque un bicchiere e si siede su una poltrona reclinabile di pelle marrone. Grebbe fruga nel portacenere colmo, finché trova una cicca abbastanza lunga da poter essere fumata. La TV è accesa, ma con il volume al minimo. Gene Rayburn, con il suo sorriso da pazzo, chiede qualcosa a uno dei concorrenti. «Allora, stai bene?» chiede Vince. «Benissimo.» «Kelly mi ha chiamato. È preoccupata.» Grebbe beve un sorso. «Ora non posso parlare con lei.» «Tua moglie l'ha scoperto?» Grebbe fa una faccia come se stesse per piangere. «Io amo Paula. Sul serio. Se avessi pensato, per un secondo solo...» «Cosa è successo?» «Quella sera... Dopo averti accompagnato da quella tua amica, sono ve-
nuto a casa. Mia moglie era sveglia. E vuoi sapere una cosa buffa? Erano due anni che le raccontavo bugie. Quella sera le ho detto la verità. "Ho conosciuto uno", ho detto. "Un giocatore d'azzardo. Siamo andati insieme in un locale dove si gioca a poker, ho parlato con dei potenziali elettori, poi due tizi hanno cercato di costringerlo a salire su un'auto, e io gli ho salvato la vita. Capisci? Ho veramente salvato la vita a una persona". Mia moglie mi fissava senza parlare. E a un tratto ha detto: "Hai un'altra donna".» Grebbe ride. «Avrei potuto mentire, avrei potuto raccontarle qualunque cosa, per esempio che ero stato in giro a preparare manifesti, che il figlio di Reagan mi aveva invitato a fare colazione con lui. Invece le ho detto l'unica cosa che non avrebbe mai creduto: la verità.» «Mi dispiace» dice Vince. Lui si stringe nelle spalle. «Comunque avrei potuto farla franca, se avessi voluto. Sono bravo a mentire, sai? Ma ho pensato a quello che avevo visto. La gente in quel bar... Quel tipo nell'auto... Avrei potuto sparargli, Vince. Volevo sparargli! E questo cosa fa di me? Voglio dire, cosa distingue uno come me da uno come...» Abbassa gli occhi a fissare il bicchiere. «Voglio essere un uomo migliore.» Dopo un breve silenzio, riprende a parlare: «Così ho detto a Paula che mi dispiaceva, che non avrei mai creduto che potesse succedere. Lei mi ha chiesto chi era. Ho risposto che non importava, ma lei ha detto: "Invece è importante". Così gliel'ho detto». Stavolta il silenzio è più lungo. Vince si china in avanti. Grebbe alza gli occhi e sembra sorpreso di vederlo ancora lì. Scuote lentamente la testa. «Lei l'ha presa abbastanza bene. Ha annuito, come se non fosse sorpresa di sapere che si trattava di Kelly. Poi è andata nella sua stanza, ha fatto la valigia, ha preso i bambini e... se n'è andata.» «Sai dov'è?» «Da sua sorella.» «Devi darti una ripulita e andare a parlarle.» «Ma lei non vorrà parlare con me.» «Non telefonarle. Presentati alla porta. Sii uomo, e dille che non lo farai mai più.» Grebbe trattiene un rutto, poi si guarda intorno, allarmato. Sembra che stia per vomitare. Corre in bagno, e Vince sente solo lo scorrere dell'acqua. Si alza, prende il bicchiere di Grebbe e lo porta verso lo stereo. Prende anche tutte le bottiglie, piene e vuote, e le porta in cucina. Rovescia nel lavandino quelle con ancora un po' di alcol, poi porta i vuoti sotto il portico
del retro. Quando torna in soggiorno, Gene Rayburn si congratula con una donna dagli occhiali enormi, mentre sul display sotto il viso della donna lampeggia la cifra $ 15.000. Grebbe è ancora in bagno. Vince aspetta un paio di minuti, poi attraversa uno stretto corridoio pieno di foto incorniciate dei bambini, e bussa alla porta del bagno. Nessuna risposta. «Ehi! Tutto bene?» Finalmente la porta si apre. Il bagno puzza di vomito e alcol. «Scusa» dice Grebbe, avviandosi lungo il corridoio. In soggiorno, sembra più preoccupato del fatto che Match Game sia finito che dell'iniziativa presa da Vince con le bottiglie. «Allora, cosa farai adesso?» «Credo che guarderò Pyramid.» «E le elezioni di domani?» «Non mi interessano più.» Vince resta alcuni secondi a fissare le immagini sul televisore, poi si alza, prende lo zainetto e si avvia verso la porta. Prima di uscire si volta. «Ascolta, fa' come ti pare, non m'interessa.» Si gratta la testa, in cerca delle parole giuste. «Ma allora, tutto quello che hai detto l'altra sera? Hai detto che ogni giorno non vedevi l'ora di alzarti e di metterti a lavorare. "Uno zoo migliore è uno zoo migliore." Se vuoi saperlo, questa è la cosa più sensata che abbia mai sentito dire da un politico. E forse da chiunque.» Grebbe fissa il tavolino, con la testa tra le mani. Vince scrolla le spalle. Apre la porta, ma nota il giornale su un tavolino nell'ingresso. Lo prende e lo sfoglia fino alla sezione degli annunci. Poi esce nell'aria fresca del pomeriggio, e si mette a leggere gli annunci immobiliari sotto il portico. Dall'altra parte della strada, Kelly è seduta in macchina, con il sedile reclinato, e fissa il soffitto della Mustang. Vince aspetta sotto il portico finché non sente il rumore dell'acqua che scorre nella doccia. Allora si chiude la porta alle spalle e attraversa la strada. «È tutto a posto» dice, salendo in macchina. «Si sta dando una ripulita.» «E sua moglie ha scoperto...» «Sì.» «Oh, mio Dio.» Vince si volta a guardarla negli occhi. «Ascolta, da ora in poi devi lasciarlo stare. Lo sai, vero, Kelly?» Lei abbassa la testa, e comincia a singhiozzare. Vince ripensa all'architettura. Molti edifici sono più belli quando li si guarda da una certa distanza. Aspetta, paziente, finché lei si asciuga gli occhi e fa un respiro profon-
do. Poi le mostra un annuncio sul giornale. «Potresti accompagnarmi a questo indirizzo, per favore?» Dupree si contorce sul sedile posteriore dell'auto, nel tentativo di trovare una posizione confortevole dietro la schiena per i polsi ammanettati. Ogni volta che respira gli fanno male le costole. Le ultime due in basso a sinistra forse sono incrinate. Sente il dolore alla guancia pestata arrivargli dritto dritto al cervello. Si china verso Charles, seduto al volante. «Ho parlato di te ai miei superiori» mente. «Se mi succede qualcosa, verranno subito a cercarti.» Charles continua a guidare, come se non avesse sentito. Dupree fissa i solchi orizzontali sul collo massiccio e sulla nuca dell'uomo, separati dal sostegno per la mascella. Quel sostegno è l'unica cosa in grado di fargli capire dove finisce il collo e comincia la testa. «Nell'atrio dell'albergo molte persone mi hanno sentito urlare. Hanno visto tutto.» Infatti lo hanno fissato come se fosse un rapinatore o un pervertito, ammanettato e trascinato attraverso l'atrio da un grosso detective che teneva il distintivo alto davanti a sé. Dupree ha fatto un debole tentativo di fuga al momento di salire in macchina, che Charles ha bloccato semplicemente sbattendogli la testa contro il tettuccio dell'auto. Una bella mossa che Dupree pensa di usare anche lui, se un giorno se ne presenterà l'occasione e se uscirà vivo da questa storia. Cerca di incrociare lo sguardo di Charles nello specchietto retrovisore. «Basta che i miei superiori facciano una telefonata all'hotel, e sapranno cosa è accaduto. E tu sei abbastanza facile da identificare, con la faccia conciata in quel modo.» Niente. Dupree torna ad appoggiarsi contro lo schienale. Sono diretti a nord, lungo Central Park. Dupree è sorpreso che proprio al centro di una città così grande e popolosa e agitata ci sia quell'oasi di serenità. Uomini e donne che fanno jogging, ragazzi sui pattini, vecchie signore con cagnolini infagottati in vestitini di lana. Charles continua a guidare, con una mano sul volante e un gomito fuori dal finestrino. Lo sguardo di Dupree cade sulla borsa ai suoi piedi. Se riuscisse in qualche modo ad aprirla e a prendere la pistola, a recuperare i proiettili, a caricarla e a sparare a Charles, con i polsi ammanettati dietro la schiena... Meglio il piano B. «Ehi, non ho almeno il diritto di fare una telefonata?» Charles prende la Amsterdam, supera la Columbia University e svolta in
Morningside Heights. Harlem. Gli edifici intorno sono pieni di graffiti. Finalmente l'auto rallenta. Dupree aveva chiuso gli occhi. Li riapre e scopre che sono entrati in un viale alberato, oltre un grande cancello di ferro battuto. Si volta e legge il cartello al contrario, attraverso il lunotto posteriore: TRINITY CEMETERY. Non suona affatto bene. Charles guida lungo quella che sembra una strada di campagna, attraverso collinette costellate di foglie secche, di querce e olmi. Dupree fa fatica a credere che nel cuore di Manhattan esista un posto del genere. Si guarda intorno. Davanti ad alcune tombe ci sono persone intente a pregare o a cambiare i fiori. Finalmente Charles si ferma, scende e apre la portiera posteriore. Afferra Dupree per un braccio, lo tira fuori dall'auto e lo trascina verso la cima di una collinetta erbosa, fino a una tomba circondata di fiori e pupazzi di animali. Spinge Dupree in ginocchio tra i fiori di plastica. Dupree legge l'iscrizione sulla lapide. «Ho cercato il Signore, egli ha udito la mia preghiera, e mi ha liberata dalle mie paure. Molly Anne Charles, 9 marzo 1978 11 novembre 1978». Dupree si volta. «Tua figlia.» Charles scrive rapidamente sul blocco. problema di cuore valvola difettosa «Mi dispiace» dice Dupree. Guarda di nuovo le date. Sono passati quasi due anni precisi. «Era nata così?» quattro operazioni molto costose Dupree comincia a capire cosa e successo. Immagina Charles che cerca un modo di tirare su abbastanza soldi per pagare le spese mediche. Immagina la paura, la rabbia e l'impotenza. piangeva sempre Un secondo lavoro non sarebbe servito quasi a nulla. E intanto tutti i giorni vede la quantità di denaro che guadagnano trafficanti e spacciatori.
Delinquenti al volante di grosse BMW, ragazzi ricchi disposti a spendere un sacco di soldi per comprare coca. La prima volta dev'essere stato facile, come bere un bicchier d'acqua. litigavo con mia moglie mi sono Charles fa una faccia concentrata, in cerca della parola giusta. Poi scrive ancora e gli mostra di nuovo il foglio. perso ero Dupree annuisce. Chi può dire cosa farebbe lui, in una situazione simile? Fin dove si spingerebbe? Incrocia lo sguardo di uria donna che passa lì accanto. Sicuramente dev'essere uno spettacolo curioso: un uomo ammanettato e inginocchiato davanti alla lapide, e un altro che torreggia sopra di lui, con penna e blocco in mano e il viso disfatto. al lavoro la notte Sulla tomba ci sono bigliettini scoloriti, fiori di plastica e un elefante di pezza con le orecchie grandi. Charles volta pagina. che lei è morta è come Si concentra, volta di nuovo pagina. se non l'avessi mai conosciuta Finalmente sembra aver finito. Abbassa la mano che tiene il blocco. Dupree fa uno sforzo e malgrado il dolore alle costole riesce ad alzarsi in piedi. Guarda Charles negli occhi e dice: «Mi dispiace». Fa un respiro profondo e si prepara a ricevere i colpi. «Ma questo non cambia niente. Lo sai, vero?»
Charles lo fissa senza nessuna espressione negli occhi freddi. Dupree si avvicina e dice a bassa voce: «In un certo senso... così è anche peggio». E finalmente le lacrime cominciano a scendere lungo le guance di Charles. Il grosso detective spinge Dupree, gettandolo a terra, tra i fiori e i pupazzi. Forse vorrebbe urlare, ma non può aprire la bocca, e il suono che esce dalle sue labbra chiuse è come il gemito di un bambino su quella collina erbosa. Biscotti con gocce di cioccolato. Vince ne sente l'odore non appena sale i gradini del portico. La porta fa resistenza, lui tira forte e gli arriva uno spigolo sulla fronte. Beth sembra minuscola, seduta al tavolo del soggiorno con due pile di volantini informativi della Open House e un piatto di biscotti. Indossa un tailleur marrone, con la manica sinistra arrotolata per via del gesso. «Vince?» Sorride, poi abbassa subito lo sguardo. «Cosa ci fai qui?» «Cerco casa.» Lei ignora la battuta. «Un sacco di gente ha chiesto di te.» «La polizia?» «Sì, e Ray.» Vince nota con fastidio la familiarità con cui ha pronunciato il nome. È andata a letto con lui. Un brivido gli corre lungo la schiena. «Beth, devi stare lontana da quell'uomo. Non mi importa quanto ti paga. Sta' lontana da lui.» «Sono un paio di sere che viene da Sam a giocare a carte. Dice che siete vecchi amici. In un certo senso ti somiglia.» «Beth...» Lei si alza e lo abbraccia goffamente, tirandosi via subito. «Grazie per essere venuto, Vince. Non era necessario.» Lui l'afferra per le spalle. «Promettimi che non lo vedrai più, Beth.» Beth si divincola e torna a sedersi. «Sei tornato per restare, Vince?» «No.» Lei annuisce, senza tradire nessuna emozione. «Beth, parlo sul serio. Devi stare lontana da lui.» Lei lo fissa senza parlare. «Voglio solo saperti al sicuro.» «Niente da fare» dice lei, cercando di sorridere. Vince prende un volantino. «Come va la vendita?» In fotografia la casa
sembra ancora più brutta, con una serie di piccole finestre sparse a caso sui muri rosa. Due stanze da letto, un solo bagno. Prezzo di partenza: trentaduemila dollari. «Durante il week-end è venuto qualcuno, ma tu sei il primo, oggi. Ho l'impressione che Larry mi abbia dato una casa che non si venderà mai. Non so... per insegnarmi qualcosa. A stare al mio posto, forse.» Prende un biscotto, poi lo rimette nel piatto. «No, è solo che con questo tempo non devono essere in molti quelli che vanno in giro a cercare case. Ma tu stai proprio bene, seduta lì. Hai un aspetto professionale.» Vince non sa che altro dire. «Non mi fai visitare la casa?» «Per favore, Vince.» Lui si guarda intorno. Pensili di metallo in cucina, rubinetto gocciolante, macchia di umidità sul soffitto. «Come posso decidere di comprarla se non me la mostri?» «Vince, ti prego.» Beth gli offre il piatto dei biscotti. Vince ne prende uno e lo mangia in due bocconi. «Ottimi. Li hai fatti tu?» «Vince...» «Dico sul serio. Sono un fornaio, Beth. E questi biscotti sono ottimi. La proporzione tra la farina e il cioccolato è perfetta, e la cottura è al punto giusto.» Vince prende un altro biscotto e poggia lo zainetto sul tavolo. «Ascolta, potrei aver bisogno di nascondere dei soldi per un po'. Perciò dimmi...» Apre lo zainetto, tira fuori il sacco di farina e lo spinge verso Beth. «Qual è il prezzo minimo che sono disposti ad accettare per questo buco?» La transazione è molto semplice. Beth deposita i ventimila dollari di Vince sul suo conto corrente (portando il saldo a 20.428,52 dollari), poi la banca prepara i documenti di vendita della casa. Poiché Beth versa un anticipo di oltre due terzi, le concedono il mutuo per la somma restante, con la casa come garanzia collaterale. L'interesse del venti per cento fa sì che la rata mensile sia di 160 dollari, praticamente la stessa cifra che Beth paga per l'affitto dell'appartamento dove vive ora. Nel corso dei trent'anni della durata del mutuo, gli interessi complessivi pagati da Beth saranno di oltre cinquantamila dollari. Vince scopre che quando chiedeva soldi in prestito alla mafia riceveva un trattamento migliore. Ma Beth era estasiata quando ha proposto al proprietario 28.500 dollari
come offerta e quest'ultimo ha fatto un salto sulla sedia. Naturalmente Larry si è rifiutato di rinunciare alla sua commissione, intascando lui la percentuale che aveva promesso a Beth. Lei dichiara che provvederà personalmente all'assicurazione, e annuisce ogni volta che l'impiegato della banca dice qualcosa. Vince non si è mai sentito così bene. Deve coprirsi la bocca con una mano per nascondere il sorriso. Di tanto in tanto Beth lo guarda, e Vince crede che lei non riuscirebbe a nascondere il suo sorriso neppure se ci provasse. La sua mano è troppo piccola. Quel sorriso è stampato sulla faccia di Beth dal momento in cui lui ha aperto il sacco di farina e le ha mostrato il denaro, dicendo: «Voglio che tu e Kenyon veniate a vivere qui». Lei era arrossita. «Tu verrai a...» Ma non aveva finito la frase. «Non ancora» aveva risposto lui. «Ho delle cose da fare, e starò via per un po'.» Poi, dopo un respiro profondo, aveva aggiunto: «Ma quando torno, sì, mi piacerebbe che ci provassimo». E dopo averlo detto aveva scoperto che ci credeva. Lei aveva cercato di resistere. «Non posso accettare, Vince. Mi avevi detto che stavi risparmiando per aprire un ristorante.» «Posso farlo più avanti. Ti prego, Beth, prendi questi soldi.» E a un tratto si è immaginato Beth e Kenyon seduti sotto il portico, in attesa del suo ritorno dal negozio di bomboloni, e ha capito: Vince, questo è il tuo sogno. Quando lei finalmente aveva accettato, la sua faccia era stata una ricompensa impagabile. Vince non aveva mai visto nessuno piangere di felicità, se non nei film. L'impiegato spinge le carte verso Beth. «Questa è la copia per i proprietari attuali. Ci vorrà un po' di tempo, ma visto che lei non ha una casa da vendere e che rinuncia all'ispezione e alla valutazione dell'immobile, credo che potremo chiudere in un paio di settimane. Ed entro un mese potrà entrare in casa.» Beth afferra la mano di Vince e la stringe forte. Si china verso di lui e gli sussurra all'orecchio: «Torna presto». Clay Gainer, il postino, lo aspetta alla solita ora al solito posto, seduto a un tavolo da picnic da Dicks. Vince si siede sulla panca di fronte, poggiando lo zainetto accanto a sé. «Ho avuto una settimana terribile, Clay.» Clay non alza neppure gli occhi. «Non ce l'hai ancora con me per quell'auto, vero? Non è neanche un bel
modello.» «Io corro i rischi maggiori e ricevo in cambio solo le briciole.» «Dovresti comprare auto americane.» «Se mi beccano, la mia carriera finisce nel cesso. Si tratta della mia vita, Vince.» «Hai ragione, Clay.» Lui lo fissa, sorpreso. «Cosa vuoi dire?» «Voglio dire che è meglio smettere.» «Smettere?» «Esatto. La storia scotta, Clay. Quello che duplicava le carte di credito è stato ucciso qualche giorno fa. L'hanno fatto fuori, capisci? Io ho la polizia addosso. E in città c'è un tizio pericoloso che mi cerca. Uno con dei contatti, se capisci cosa voglio dire.» Clay non dice nulla. «Questo tizio vuole che io gli dia il tuo nome, Clay.» «Allora daglielo.» Clay si spinge gli occhiali sul naso. «Digli che voglio incontrarlo, che voglio entrare in affari con lui.» «Con un tipo del genere non si fanno affari, Clay. Tu gli dai tutti i soldi e lui ti spara in fronte.» «Voglio incontrarlo.» «No.» «Vince, tu puoi tirarti indietro, se vuoi. Io voglio continuare. Posso fare di più. Posso rubare il doppio delle carte, tirare su il doppio dei soldi.» Vince si china in avanti, parlando a bassa voce. «Te l'ho già detto almeno un centinaio di volte, Clay. Non puoi prendere più carte. Ti farai beccare.» «Non ti ho chiesto di proteggermi, Vince. Dammi il nome di quell'uomo. Se hai troppa paura per andare avanti, almeno togliti dai piedi.» «Clay...» Clay armeggia in una tasca e tira fuori qualcosa, che poi regge sotto il tavolo con tutte e due le mani. Vince sorride. «Guarda sotto il tavolo, Vince.» «Cristo, Clay...» Clay gliela fa vedere rapidamente, color grigio spento, poi torna a puntargliela contro da sotto il tavolo. «Vuoi spararmi? Qui da Dicks? Se provo a pensare a un posto con più testimoni non me ne viene in mente nessuno.»
Clay getta un'occhiata alle persone sedute ai tavoli o dentro le auto. «Andiamo a fare un giro in macchina.» «E dove, Clay?» «Non lo so. Nei boschi.» «Quali boschi?» «Ce ne sono dappertutto.» «E chi terrà la pistola, mentre tu guidi?» «Io.» «Ma appena mi togli gli occhi di dosso per guardare la strada io posso strappartela di mano.» «Allora guidi tu.» «Non ho intenzione di guidare per portarti in un posto dove puoi uccidermi.» Clay sembra spiazzato. «Merda, Vince! Se non vuoi darmi più soldi, dammi almeno il nome di quell'uomo!» «Stammi a sentire, Clay. Quello ti spreme completamente, ti fa rubare tutte le carte di credito che puoi, e poi getta il tuo cadavere nel fiume. Lo capisci o no?» «Faccio sul serio, Vince. Questo è l'ultimo avvertimento.» Vince prende una patatina fritta. «È stata una settimana difficile, Clay. Ho dormito solo poche ore in... non so neppure quanti giorni. Dappertutto c'è qualcuno che mi minaccia. Questa è la prima volta che mi puntano contro una pistola, ma ti dirò, è anche la prima volta che non ho nemmeno un po' di paura.» Clay lo fissa, muovendo le labbra senza parlare. Finalmente posa la pistola ad aria compressa sul tavolo tra loro due. «Merda, vince. Non è giusto.» «No» dice Vince. Prende la pistola e toglie il pallino di piombo. «Non è giusto.» Arriva un momento in cui tutto quello che si poteva fare è stato fatto. Mosse, strategie, errori. Tutto fatto. I giocatori sono in posizione, e resta solo l'attesa. Niente più fughe, chiacchiere, compromessi. Sarà quel che sarà. La partita da quel punto in poi si gioca quasi da sé. E il tempo si misura in sospiri, rimpianti e ironie. Vince cammina con lo sguardo in alto, fissando gli edifici per imprimersi nella mente la loro architettura. Il profilo delle facciate in mattoni, i pochi palazzi di uffici costruiti in modo decente. È il più bell'edificio di Spo-
kane, almeno secondo lui: il Paulson Building, diciannove piani di art déco. Ce ne sono altri niente male, come per esempio il tribunale della contea, e il Davenport Hotel, anche se la fissazione degli abitanti del posto per quel vecchio albergo è un po' esagerata. Vince entra da P.M. Jacoy, tabacchi e giornali, e acquista un sigaro da fumare più tardi. Sono le sei meno un quarto. Il primo da ammazzare è il tempo. Svolta in Sprague Avenue, dove si trovano i migliori bar della città. Si apprezza tanto il sole di agosto e di settembre, ma quando arriva l'autunno l'oscurità precoce è una bella sorpresa. Sul marciapiede gelido, i tacchi fanno un rumore secco. Vince passa davanti a un paio di locali, prima di entrare nell'atrio di un albergo, con un piccolo televisore in alto sopra il banco del bar. Sale su uno sgabello, stupito dalla naturalezza con cui i piedi vanno a posarsi da soli sulla barra che corre in basso lungo il bancone. Fa un cenno al barista. «Whisky e Coca.» Appena lui gliela porta, Vince chiede: «Possiamo guardare il notiziario?». L'uomo guarda prima Vince, poi il televisore, piazzato sopra uno scaffale pieno di buste di noccioline e patatine. «Scherza? È lunedì sera. Se tocco quella TV mi tagliano la mano.» Sullo schermo Brian Sipe, il quarterback del Cleveland, si sta scaldando. «Domani ci sono le elezioni» dice Vince. «Per favore, solo dieci minuti di notizie, poi torniamo alla partita. Va bene?» Nel locale ci sono altri otto uomini, sei dei quali seduti al bancone come Vince. Uno di loro, con indosso felpa e pantaloni macchiati di vernice, incrocia il suo sguardo. «Non siamo venuti qui a vedere il telegiornale. Le notizie potevamo guardarcele a casa.» Il barista sembra divertito. Incrocia le braccia sopra il ventre ampio e dice: «Facciamo così, amico. Se trovi solo un'altra persona qui dentro che voglia guardare il notiziario, cambio canale per dieci minuti». Vince guarda lungo il bancone e incrocia sei sguardi ostili. «Avanti, ragazzi. E se gli iraniani hanno rilasciato gli ostaggi proprio oggi?» Tutti e sei tornano a voltarsi verso il televisore. Vince scende dallo sgabello e si dirige verso gli altri due clienti, due uomini in giacca e cravatta seduti a un tavolo, immersi in profonda conversazione. I due hanno un'aria vagamente irlandese. Avvocati, probabilmente. Uno è grosso come un orso, con appena una traccia di grigio sulle tempie. L'altro è piccolo e preciso, con i capelli neri pettinati all'indietro. Sono chini sul tavolino, intenti a parlare, mangiare bistecche e bere birra. Uno dei due
ha un'aria familiare. Il più piccolo sta dicendo: «Dobbiamo essere di sopra tra venti minuti...». Si voltano a guardare Vince. «Scusatemi, ma ho bisogno di un voto per cambiare canale, dalla partita al notiziario. Voi siete favorevoli a guardare le notizie per dieci minuti?» Il piccoletto cerca di liberarsi di lui. «Noi ce ne andiamo tra poco.» Il grosso invece è curioso. «Perché vuole guardare il notiziario?» «Be', domani ci sono le elezioni.» «Sul serio? Le elezioni?» Qualcosa sembra divertirli molto. Vince resta un attimo perplesso, poi ricorda dove l'ha già visto. È un membro del Congresso, il nome comincia per F. «Non lo sapevo» continua l'uomo. Ha una voce autorevole ma non brusca, e parla con un pezzo di bistecca in bocca. «Non mi sembra che gli altri siano d'accordo.» Indica i clienti al banco, tutti in fila con la testa inclinata verso il televisore. «Ma gli farebbe bene» dice Vince. «Lo crede davvero?» dice il congressista. «D'accordo, affare fatto.» Si alza, solleva il boccale di birra e si mette una mano sul cuore. «Esimi colleghi, il rappresentante del tavolo numero sei dello Stato di Washington...» Il suo amico ride. «...Patria di campi di grano e fabbriche di alluminio, di freschi fiumi e montagne innevate, e dei migliori baristi di questa grande nazione, è orgoglioso di votare a favore di dieci minuti di notiziario, che ci causerà dolori e dispiaceri come sempre.» «Grazie» dice Vince. Quelli al bar, un po' confusi, alzano i bicchieri in una specie di brindisi. Il barista cambia canale. Vince torna a sedersi. Sullo schermo, Jimmy Carter ha la faccia scura e la fronte aggrottata. Non ha l'aria di un uomo che ha voglia di essere rieletto. Sembra che abbia interrotto la sua campagna e sia tornato a Washington, per annunciare che le richieste degli iraniani per rilasciare gli ostaggi sono ancora inaccettabili. «So che tutti gli americani vogliono il loro ritorno a condizioni giuste, che valgano le sofferenze e i sacrifici che gli ostaggi hanno dovuto sopportare.» Taglio e inquadratura di Carter e Mondale che attraversano il prato della Casa Bianca, abbracciati come se cercassero di sostenersi l'un l'altro. Nuovo taglio e inquadratura dell'ayatollah che saluta folle urlanti di sostenitori, poi del parlamento iraniano, cravatte, turbanti e occhiali da sole, barbe lunghe e baffi folti. Tutto questo mentre la voce fuori campo di Dan Rather annuncia i termini per il rilascio: «Restituzione dei miliardi di dollari dello scià, scongelamento dei beni dell'I-
ran...». Ronald Reagan che stringe mani e saluta una folla di sostenitori pari a quella dell'ayatollah: «Naturalmente tutti noi vogliamo che questa tragica situazione si risolva. Io lo spero con tutto il cuore, e so che lo sperate anche voi». Sullo schermo si alternano inquadrature dell'Iran e degli Stati Uniti. La famiglia di uno degli ostaggi, studenti iraniani che danzano intorno a una bandiera americana in fiamme. Edmund Muskie, Warren Christopher, un pozzo di petrolio in Iran, la fila a un distributore di benzina, una serie di immagini unite in un flusso che potrebbe essere storia, o forse solo rumore di fondo. Bambini dentro baracche di lamiera, auto invendute nei cortili delle concessionarie, missili emergenti da hangar sotterranei, e la pubblicità di una salsa per spaghetti, appena prima che il barista cambi canale. E questo è tutto. Questo è quello che credi, questo è quello che vuoi, e tutto va bene così. Ma alla fine, sono soltanto idee. La storia, come la vita di ciascuno di noi, è fatta di azioni. A un certo punto non c'è più da pensare, da credere o da decidere, e resta solo da fare. Il barista si allontana dal televisore e sorride a Vince. «Il tempo che avevi a disposizione è finito, amico» dice. VIII SPOKANE; WASHINGTON MARTEDÌ 4 NOVEMBRE 1980, ORE 12:03 Vince si toglie di bocca la gomma da masticare e la getta nel campo. È ancora presto, ma Sam è già dentro il locale. Fa freddo. Davanti a lui il Sam's Pit brilla come un focolare in campagna. È arrivato il momento. Sale i gradini, e la porta si apre sul calore del locale e del sorriso di Eddie, che ha in mano un vassoio pieno di pezzi di pollo da cuocere. «Ciao, Sam.» «Dannazione, Vince Camden! Dove sei stato?» «Un po' in giro.» «Non sai quanta gente ha chiesto di te. L'altra notte è venuta persino la polizia.» «Sì, ho parlato con loro, e abbiamo aggiustato tutto.» «Ho detto: "Chi cercate? Vince Camden? Non so dov'è, ma posso dirvi che è l'uomo più irreprensibile che sia mai entrato da quella porta".» Eddie gli strizza l'occhio. «E sai cosa mi ha risposto quel poliziotto? "Scusa Sam,
ma questo non significa molto."» Eddie getta indietro la testa e ride. «E devo dire che aveva ragione, quel figlio di buona donna.» Abbassa gli occhi sul vassoio. «È presto per le carte.» «Lo so» dice Vince. Segue Eddie nella sala e si siede al banco, mentre Eddie mette a friggere petti, cosce e ali di pollo. La sala dietro di lui è buia, e l'unica luce è quella della cucina: sembra che Eddie stia cucinando su un palcoscenico. «Anche quello nuovo, Ray, ha chiesto di te» dice Eddie. Prende una bottiglia da sotto il banco e versa un whisky a Vince. «Viene spesso?» Vince mette una banconota da cinque sul banco. Con un solo gesto, Eddie prende i cinque e lascia tre di resto. «Negli ultimi giorni è venuto sempre, verso le due del mattino. Non è un gran giocatore di poker, ma si intrattiene volentieri con le ragazze.» Aspetta, e la persona che cerchi arriverà da te. Un gioco facile. «Allora, dove sei stato?» chiede Eddie. «A casa, per qualche giorno.» Eddie alza gli occhi dalla padella. «Davvero? E dov'è casa tua?» «New York.» «L'avevo sentito dire. Hai parenti lì?» «No.» Vince è quasi sorpreso di ammetterlo. La sua gente ora è qui. Quand'è che un posto smette di essere casa? «Anch'io non ho nessuno» dice Eddie. «A parte un figlio a Seattle che non mi parla, e una sorella in Indiana. Tutti gli altri sono morti da tempo.» Vince agita il whisky nel bicchiere. «Li conti mai?» Eddie lo fissa. «Cosa?» «Conti mai quanti morti conosci? Io l'ho fatto qualche giorno fa.» «Merda. E quanti erano?» «Sono arrivato a sessantuno, poi ho smesso.» Eddie lo fissa come in attesa di una traduzione, poi agita una coscia impanata. «Se è per questo, io ne perdo sessantuno all'anno. Quando leggo il giornale vado direttamente alla parte degli annunci mortuari, per assicurarmi che non ci sia anche il mio nome.» Mentre parla gira con un forchettone i pezzi di pollo che friggono in padelle annerite su tutti e quattro i fornelli. «No, io non ho bisogno di contare, Vince. Quando il tempo a tua disposizione è finito... lo sai.» Alza gli occhi a fissarlo. «Tu sei ancora giovane. Probabilmente per ogni funerale a cui partecipi sei anche invitato a un matrimonio. Io non ricordo l'ultima festa di nozze a cui sono andato. Ma ogni mese vado almeno a un funerale.» Trasporta una padella verso il
lavandino. «Sono così stanco di funerali che forse non andrò neanche al mio.» Vince apre la bocca per fare una battuta, ma per superstizione, o forse per semplice paura, non dice nulla. Alza il bicchiere alla salute del vecchio Eddie, girato di spalle, e finisce il suo whisky. I giocatori arrivano alla spicciolata, e ogni volta che si apre la porta Vince alza gli occhi, teso. Ma finora, invece di Ray, ha visto solo sorrisi e strette di mano. «Tutti i soldi che ci hai preso non ti bastavano, eh?» Jacks praticamente lo abbraccia, il whisky va giù che è un piacere, e prima di rendersene conto Vince si trova seduto al suo solito posto, con le carte in mano. Lo stupisce il modo in cui le carte si lasciano mescolare, senza mai scontrarsi, senza mai rompere il ritmo. È una cosa che potrebbe fare cento volte di fila, senza mai sbagliare. E in quei momenti di magia, come puoi temere un ottuso come Ray Sticks, così terrestre, così semplice? Lancia le carte sul tavolo e loro vanno a fermarsi obbedienti davanti a ciascun giocatore. Non sarebbe bello se questa notte e questa partita non finissero mai? Jacks prende le sue carte. «La notte in cui mia moglie se n'è andata, siamo stati alzati fino a tardi, cercando di sistemare le cose. "Dai, tesoro", dico io. "Qual è il problema?" E lei: "Non sei intelligente, non sei sensibile, ti interessano solo il cibo e il football, non mi ascolti, non guadagni abbastanza e sei sgarbato con la mia famiglia". Cristo in carrozzella, aveva una lista che durava ore. E poi se n'è andata. Ha messo quattro cose in valigia ed è uscita sbattendo la porta.» Vince guarda le sue carte. «Quella notte ho dormito da solo per la prima volta in dodici anni» dice Jacks. «E ho dormito di merda. Continuavo ad allungare la mano dalla sua parte. E alla fine mi sono svegliato alle quattro del mattino, con i sudori freddi, tutto appiccicato alle lenzuola. Vi è mai capitato?» Jacks apre di due dollari. «Ora, io non ricordo mai i sogni. Mai. Ma quella notte, per qualche strano motivo... mi sveglio e il sogno mi torna in mente chiarissimo, come se fosse una cosa successa davvero. Nel sogno ero a una partita di football, seduto nel posto migliore che abbia mai avuto. Raiders contro Dolphins. I Raiders stanno stravincendo e l'allenatore dei Dolphins, Shula, è praticamente in lacrime.» Vince prende un boccone di pollo, caldo, unto e perfetto, beve un sorso di whisky e accetta l'apertura.
«Ora, io amo il football. Ma non ho mai sognato niente che avesse a che fare col football. Il giorno dopo prendo il giornale, e ci sono proprio i Raiders contro i Dolphins. Ora, voi direte che io sapevo della partita, e che l'informazione era nel mio come-si-chiama, nel mio subconscio. Invece io non avevo la minima idea che quel giorno la sfida fosse tra quelle due squadre. Così ho pensato che fosse un segno.» Jacks beve un sorso dalla magnum di champagne che tiene tra le grosse cosce. «Bene, un'ora prima del calcio d'inizio, faccio un paio di telefonate, scopro che i Raiders sono dati perdenti per sei punti, e scommetto su di loro tutti i soldi che non ho. Duemila dollari. A credito.» I ragazzi fischiano, e puntano o lasciano uno alla volta, senza smettere di fissare Jacks. «Subito dopo mi sento un cretino. Ho la sensazione di aver fatto un terribile errore. Cristo, non ho neppure un lavoro, e punto duemila dollari su un sogno? La partita è un disastro. I Raiders non toccano quasi mai la palla. A un minuto dalla fine, i Dolphins vincono tredici a zero.» I ragazzi sorridono, si chinano impercettibilmente verso Jacks. «Insomma, sono seduto lì e penso ai duemila dollari che ho praticamente già perso e che non so come pagherò. E all'improvviso tutto sembra avere un senso: Peggy che mi lascia, questa fila di decisioni sbagliate una dietro l'altra, una vita di casini. Appena ammetto queste cose a me stesso, succede un miracolo: Freddie Biletnikoff supera la difesa avversaria e fa meta. Bang! Quaranta secondi alla fine e i Raiders recuperano: tredici a sei. Ora tutto quello che devono fare è un altro punto, e io me la cavo. Non vinco e non perdo. È questo che voglio veramente. Voglio dire, vorrei vincere, certo, chi non lo vorrebbe? Ma alla fine, il massimo che può sperare uno come me è non perdere.» Sorrisi e cenni affermativi da parte dei ragazzi. «Loro conquistano la palla, e per la prima volta nella mia vita io comincio a pregare. Quel tipo di preghiera che è come fare un patto. Avete presente le preghiere che dici quando tua moglie trova in casa il reggiseno dell'altra, o quando la giuria sta valutando le prove?» Risate d'intesa. «"Giuro che andrò sempre in chiesa, che smetterò di bere, che sarò gentile con i bambini e con i vecchi stronzi." I Raiders arrivano in zona meta e non so più cosa promettere. "Se fanno questo punto, Signore, mangerò merda dal marciapiede. Farò un pompino a un cane."»
I ragazzi ridono fino alle lacrime. «"Qualunque cosa, qualunque cosa, se fanno questo punto." In fondo si tratta solo di un punto. La palla passa alta sopra la testa di un giocatore, io cado dalla sedia, vorrei essere morto... E a un tratto il secondo quarterback fa la cosa più stupefacente che abbia mai visto. Salta e riesce a prendere la palla ovale...» Jacks tiene le mani sopra la testa, tutti lo fissano con grandi sorrisi. «E proprio lì, in ginocchio davanti al televisore da diciannove pollici, comincio a piangere come un bambino. Intanto il quarterback ha portato giù la palla, il calciatore corre verso di lui, e io penso: Cristo, Cristo, Cristo, a volte anche quelli come me hanno un colpo di fortuna.» I ragazzi ascoltano, assorti. «Il calciatore raggiunge la palla, e che mi venga un colpo se non fa la cosa più assurda che abbia mai visto in una partita. Tutto quello che deve fare è calciare quella cazzo di palla, e io non perdo duemila dollari. Calcia la palla e io vado in pari. Invece quel coglione fa tre passi e cade sulla palla a peso morto. Così, come una bomba. Fischio finale. Ho perso duemila dollari.» Urla e risate, pacche sul tavolo. «Un paio di giorni dopo, Peggy mi chiama e dice che è disposta a fare un altro tentativo.» Jacks scrolla le spalle e borbotta: «Troia». Le risate si sono spente e Vince ha quasi dimenticato perché si trova lì. Guarda le sue carte, coppia di sei, e punta. Solo quando sente aprirsi la porta capisce che quella partita non può durare in eterno. È quasi con sollievo che alza gli occhi e vede le guance butterate, i basettoni e gli occhiali da sole di Lenny Huggins. Lenny scruta la sala, vede Vince e scuote la testa, poi si avvicina al tavolo. Cammina in modo diverso ora, con molta più sicurezza. Vince osserva la sua giacca, cercando di capire dov'è la pistola. Restano solo lui e Jacks. Arrivano altri due sei. Vince sorride tra sé. Poker. Incredibile. Lenny si avvicina piano, cauto. «Lascio» dice Vince, e spinge i soldi del piatto verso Jacks. «Cosa fai?» chiede Jacks. «Devo andare.» «Vince» dice Lenny. «Non riesco a credere che tu sia qui. Avevo sentito dire che eri tornato, ma ti facevo un po' più furbo.» «Non sono furbo, Lenny» dice Vince. I ragazzi seguono la conversazione come se fosse una partita di tennis,
spostando gli occhi dall'uno all'altro. «Sei pronto?» «E il tuo amico dov'è?» «Ci sta aspettando.» «Spero che tu sappia in cosa ti stai mettendo, Lenny.» «Cos'è, una specie di avvertimento?» «Già» dice Vince. «Una specie.» Spinge indietro la sedia. Lenny fa un salto indietro e porta la mano alla cintura. Ora Vince sa dov'è la pistola. Se le cose si mettono male, può essere un'informazione utile. Vince si alza e prende lo zainetto. «Quello lo prendo io» dice Lenny. Vince esita un attimo, poi glielo lancia. Ha ancora le carte in mano. Le getta sul tavolo, e i ragazzi fissano a bocca aperta il suo poker di sei. Tutti eccetto Petey, che gli sorride. «Ci vediamo domani, Vince?» chiede. È strano, il modo casuale in cui a volte la gente dice una cosa del genere. Domani... Quante volte ti hanno chiesto la stessa cosa, e hai risposto di sì automaticamente, quando in realtà ci sono una miriade di motivi per cui potrebbe non accadere? Vince guarda prima Lenny, poi i ragazzi. «Certo» dice. «Domani.» E si avvia verso la porta. Lenny getta lo zainetto nel bagagliaio. Poi dice a Vince di aprirsi il cappotto e di sollevare la camicia e il fondo dei pantaloni. Niente armi. Soddisfatto, gli indica il volante. «Guidi tu» dice. «Ho bevuto parecchio.» «Allora va' piano. Ti dirò io dove andare.» «Perché invece non guidi tu, e io ti dico dove devi andare?» «Sali» dice Lenny. Gli dice di dirigersi a ovest, attraverso il centro. È buio e fa freddo. Passano da un lampione all'altro sulle strade umide, tra le ombre distorte degli edifici. Una città di parallelogrammi, di angoli retti. «Quanti chilometri fai con un litro?» «Cosa?» dice Lenny. «Una Cadillac di otto anni. Dieci? Dodici?» «Quindici» dice Lenny. Vince ride. «Impossibile. Non più di dodici.» «In autostrada arrivo a quindici.» «No. Semplicemente non è possibile, Lenny.»
«Chiudi quella cazzo di bocca, Vince!» «Va bene. Ma so che ho ragione io.» Proseguono in silenzio per qualche minuto, poi Lenny dice: «Sei proprio una testa di cazzo, Vince. Perché devi sempre sapere tutto?» «Dodici?» «Sì», ammette Lenny. «Dodici.» Si dirigono verso un motel ai piedi di Sunset Hill, alla periferia ovest della città. La collina coperta di pini è tagliata a metà dalla vecchia strada a quattro corsie, che ha perso tutto il traffico quando è stata costruita l'interstatale. Ma i vecchi motel degli anni Cinquanta e Sessanta resistono ancora, con le loro insegne antiquate, ferri di cavallo in technicolor, frecce luminose. PISCINA COPERTA. TARIFFA A ORE. TELEVISIONE A COLORI. Si fermano al buio, davanti a una fila di porte, con numeri dispari da uno a nove. Nel parcheggio non ci sono altre macchine. «La nove» dice Lenny. «Bussa una volta sola, poi metti le mani sopra la testa. Io apro la porta e tu entri.» «Niente parola d'ordine?» dice Vince. «Dovresti averne una.» «Sta' zitto, Vince.» Scendono dall'auto. Vince chiude la portiera e attraversa il parcheggio. La ghiaia crocchia sotto le sue scarpe. La prima parte sarà la più dura. Se superi la notte sei a posto. Vince si ferma davanti alla porta, con i nervi tesi. Si calma e bussa. Mette le mani sulla testa. Dietro di lui, Lenny allunga una mano e apre la porta. La stanza è in penombra, illuminata solo da una lampada accesa su un tavolino. Lenny spinge Vince dentro. È un miniappartamento. Divano, sedia, TV e tavolino. Di fianco c'è un cucinotto con un tavolo di formica e una sedia. Due porte chiuse immettono probabilmente nella stanza da letto e in bagno. «Siediti» dice Lenny. Vince si siede sulla sedia. Sopra il divano è appeso un quadro con un paesaggio montano, una fila di alberi scuri in primo piano. Uno di quei quadri in cui la prospettiva è tutta scombinata, con gli alberi in primo piano tutti sfocati e le montagne sullo sfondo perfettamente nitide. A Vince comunque piace quell'effetto. Potrebbe nascondersi per anni in una foresta di alberi sfocati. La porta della stanza da letto si apre e ne esce Ray Sticks, in pantaloni neri e camicia sbottonata su una t-shirt. Niente scarpe. Si liscia all'indietro i capelli scuri. «Salve, capo.» Attraverso la porta aperta, Vince intravede una forma nella stanza senza finestre. Beth! Raggomitolata accanto alla te-
stiera del letto, non ha più il gesso e tiene il braccio arrossato contro un fianco. Ha un livido sull'occhio sinistro. «Mi ha rotto il braccio!» grida, piangendo. Vince china la testa e chiude gli occhi. All'improvviso tutto il suo piano gli sembra ingenuo e sconsiderato. Ray sorride. «In realtà, tecnicamente era già rotto. L'ho solo rotto di nuovo.» Vince si costringe a riaprire gli occhi e a guardare Beth. «Stai bene?» chiede. Lei annuisce brevemente, poi fissa Ray con rabbia. Vince dice: «Non vi dirò niente se prima lei non esce da quella porta». «Da quella porta?» ripete Ray, sempre sorridendo. Lenny comincia a camminare per la stanza e a parlare. «Ascolta, Vince, come ti ho detto fin dall'inizio, potevi scegliere il modo facile o quello difficile...» Ray va in cucina e apre il frigo. «E tu hai scelto il modo difficile» dice Lenny. «Io non volevo...» «Non hai bisogno di lei» dice Vince, rivolto verso la schiena di Ray. «Lasciala andare.» Lenny gli molla uno schiaffo. «Ehi, stronzo, sto parlando con te!» Vince continua a rivolgersi a Ray. «Dico sul serio. Non dirò niente finché lei non sarà andata via.» Ray si volta a metà. «Ma certo. Come vuoi tu, capo.» Prende due mele, un piccolo coltello e una tovaglietta e torna in soggiorno. Lenny guarda Vince, poi Ray, poi di nuovo Vince. «Ma che cazzo succede qui? Perché parlate tra voi? Parlate con me.» Ray lo ignora. Sistema la tovaglietta sul tavolino e ci mette sopra le mele e il coltello. Quindi si siede sul divano. Vince non riesce a distogliere gli occhi dal coltello. «Lasciala andare e ti dico il nome del postino. Lui vuole conoscerti. È disposto a rubare carte di credito per te.» «Allora chiamalo» dice Ray. Prende una mela e il coltello. «Invitalo qui.» «A quest'ora è impossibile. Di notte stacca il telefono. Lo chiamerò domattina. Ci incontriamo in un ristorante, ti ci accompagno io.» Ray comincia a sbucciare una mela. «Non so, capo. Domattina è tra un sacco di tempo.» Vince si china in avanti. «Ho anche dei soldi.»
Ray ride. «Sì, la tua ragazza ha detto qualcosa in proposito. Dice che vuoi comprarle una casa.» Vince cerca di non mostrare il suo disappunto. Ray pulisce la lama del coltello sulla tovaglietta. «Abbiamo deciso di andare in banca insieme domani a ritirare i soldi. Poi faremo una festicciola.» Strizza l'occhio. «Posso sapere che cazzo succede?» dice Lenny a Ray. «Di che cosa state parlando? Ora questo affare è mio.» Ray si alza in piedi, tira fuori di tasca una banconota da venti. «Va' a prenderci qualcosa da bere.» Lenny guarda Ray, Vince, Beth, di nuovo Ray. «Sono le tre e mezza del mattino. Dove pensi che possa trovare qualcosa da bere?» Ray si limita a fissarlo, finché Lenny prende i venti dollari e si volta per uscire. Ray lo afferra per una spalla, gli mette una mano sotto la giacca e gli prende la pistola, una semiautomatica nera. Se la infila nella cintura. «Non vorrei che ti sparassi nelle palle.» Lenny incrocia lo sguardo di Vince, e per la prima volta nei suoi occhi sembra apparire un brivido di comprensione. Poi esce. «Che testa di cazzo» commenta Ray, appena Lenny si chiude la porta alle spalle. «Come potevi lavorare con idioti del genere?» «Ho preso quello che ho trovato.» «Già, capisco.» Ray va verso la camera da letto, con il coltello in mano. Beth cerca di farsi ancora più piccola. «Tesoro, il tuo fidanzato e io dobbiamo parlare. Tu fatti un bel sonno, eh?» Chiude la porta della stanza e va a sedersi sullo schienale del divano, con i piedi sui cuscini. Così, anche seduto, è sempre più in alto di Vince. Si guardano. «È carina» dice Ray. Vince guarda il quadro alle spalle di Ray, con quegli alberi neri, imperscrutabili. «Sai chi sono io?» chiede Ray, indicandosi con il coltello. «Ray Sticks» dice Vince. Ray sorride al suono del proprio nome, come un assetato che riceve un bicchiere d'acqua. «Allora vieni davvero da lì.» «Già.» «Lenny me lo aveva detto, ma credevo fossero balle. Chi eri, a casa?» «Non ero nessuno.» «Lavoravi nella banda di qualcuno?» «Rubavo carte di credito, proprio come qua. Niente contatti importanti.»
«Ah.» Ray sembra deluso. «Peccato.» Lo guarda, come cercando di valutarlo. «Quindi non sei nessuno. Poi arrivi qui, sai un po' di cose, sai giocare a carte... E all'improvviso sei il numero uno. Il re dei gangster locali.» Ride. «Merda.» Vince lo osserva pelare le mele, togliendo uno strato di buccia sottilissimo, quasi trasparente. «Odio le bucce» commenta Ray. «E non mi piacciono neppure i panini con la crosta.» Finisce una mela, mette giù il torsolo e comincia a mangiare l'altra. «E cosa ne pensi di questo posto?» chiede. «Spokane?» Vince si stringe nelle spalle. «Mi piace.» «No. Impossibile.» «Sul serio. Mi piace molto.» «Davvero?» «Sì.» «Vuoi sapere cosa odio di più, qui?» «Cosa?» «La pizza. Fa schifo. Voglio dire, dove puoi mangiare una pizza decente, in questo buco di città?» «Oh, ti ci abitui» dice Vince. «A me ormai comincia quasi a piacere.» «No! Sei matto? Salame piccante su una specie di toast molliccio. Non puoi abituarti a roba del genere. Che cazzo di posto è, dove non puoi mangiare un pezzo di pizza? O un sandwich? Prova a chiedere una bistecca al formaggio, e ti guardano come se avessi chiesto un bambino al forno.» Vince sorride, malgrado tutto. «Hai mai provato a prendere un taxi?» Ray si mette le mani tra i capelli. «Li ho già presi tutti e due.» Ridono. «E il modo di guidare!» dice ancora Ray. Vince annuisce. «Lo so. Sembra una città di pensionati. Anche i giovani guidano come se fossero vecchi.» «Non avevo mai visto una cosa simile. Così cortesi che ti fanno venire voglia di vomitare. Ero qui da una settimana, la prima volta che ho visto un... come si chiama? Un incrocio senza diritto di precedenza. Ma che cazzo di storia è?» Vince ride. «Lo so, lo so.» «Quattro deficienti fermi ognuno al suo stop, che se ne stanno lì per dieci minuti a farsi gesti. "Prego, passi lei. No, lei. No, insisto, prima lei." Uno di questi giorni finisce che tiro fuori la pistola e gli sparo in testa a tutti.»
Vince sorride e annuisce. Lancia un'occhiata alla porta della camera da letto. «E cosa mi dici delle...» Vince scatta verso la stanza da letto. Ray salta giù dal divano con una velocità impressionante e gli è addosso in un attimo, con un lampo di acciaio nella mano. Il dolore della punta sul viso, appena sotto l'occhio sinistro, e la forza della mano di Ray sulla gola convincono Vince a non opporre resistenza e a lasciarsi spingere di nuovo sulla sedia. Tossisce, si tasta la gola e si passa una mano sul taglio alla guancia. Niente di che, è solo un graffio, poco più profondo di quello che uno può farsi radendosi. Ma Vince rivede la punta del coltello sotto l'occhio, e non riesce a reprimere un brivido. Ray torreggia sopra di lui, coltello in mano e faccia annoiata. «Vediamo.» Vince toglie la mano e gli mostra il taglio. «Non ti ho preso l'occhio. Hai avuto fortuna.» Ray pulisce la macchiolina rossa dalla lama e va a sedersi di nuovo sullo schienale del divano. «Okay» dice. Sembra contento che la questione sia chiusa. Taglia la mela a metà, poi in quattro spicchi e quindi in otto. Ne getta uno a Vince, che lo prende al volo. «Dove eravamo rimasti? Ah, sì. Cosa mi dici delle puttane? Ne hai mai viste di così brutte? Non so mai se devo scoparle o buttare lontano un bastoncino perché vadano a raccoglierlo.» Lenny torna con una bottiglia di Kahlúa piena per tre quarti. «Che cazzo è quella roba?» chiede Ray. «Kahlúa. Liquore al caffè.» «Mi hai portato un fottuto cappuccino?» «Puoi usarlo per farci dei cocktail. Un White Russian, o un Mudslide. «Un Mudslide .» «Esatto.» Ray guarda Vince. «Capito? Ora ci faremo un bel Mudslide.» Lenny è a disagio. «Non ho trovato nessun negozio aperto. Sono le quattro del mattino, Ray.» «E questo allora dove l'hai preso?» «A casa mia.» Ray guarda Vince, scuotendo la testa. "Vedi cosa mi tocca sopportare?" sembra dire. Apre la bottiglia, annusa il liquore e beve un sorso. «Mudsli-
de?» «Bene, Vince, ecco cosa faremo» dice Lenny. «Tu organizzi un incontro con il postino e ce lo presenti.» Ray e Vince non lo guardano neppure. «Così è questo il nome che ti hanno dato?» chiede Ray. «Vince. È un bel nome.» «L'ho scelto io» dice Vince. «E qual è il tuo vero nome?» «Marty.» «Hai ragione, è meglio Vince. Io dovrei essere Ralph LaRue. Te lo immagini? Ci ho provato, all'inizio, ma non ce l'ho fatta.» «Anche a un nuovo nome ci si abitua.» «Io non cambio nome per quegli stronzi.» Si interrompe, come se gli fosse venuta in mente un'altra cosa. «Che preparazione serve per poter gestire quel negozio?» Tende la bottiglia a Vince. Vince la prende e beve un sorso. «Un corso da fornaio. Sei mesi.» Ray piega la testa di lato. «E com'è?» «Fare bomboloni? Mi piace.» «Prendi una percentuale?» «No.» «Ricicli denaro sporco?» «No.» «Fai la cresta sulle vendite?» «No» dice Vince. «Faccio solo i bomboloni.» «Non capisco.» «È... gratificante. E tu? Cosa dovresti essere?» Ray mangia una fetta di mela. «Mi hanno fatto prendere lezioni da meccanico. Motori diesel.» Vince sorride. «Io che riparo camion. Mi ci vedi?» Ray scrolla le spalle. «Comunque non sono un bravo studente. Il mio insegnante dice che mi manca la concentrazione. Sai che voto mi ha dato? Una "D", cazzo.» Prende la bottiglia dalle mani di Vince. «Che stronzo.» Lenny li osserva, con le mani sui fianchi. «Bene, se avete finito di chiacchierare, forse potreste dirmi che cazzo sta succedendo.» «Siediti» dice Ray, mettendosi in bocca un'altra fettina di mela. «No, devi ascoltarmi, Ray.» «Mettiti-a-sedere.»
Lenny arrossisce violentemente. «No. Cazzo!» «Lenny» dice Vince, piano. «No! Sono stufo! Ti ho tirato dentro io in questa storia, Ray. E sono io che devo decidere cosa si fa.» Ray attraversa la stanza e lo spinge contro il muro, soffocandolo con l'avambraccio della mano con cui tiene il coltello. Quindi spinge la lama contro la spalla di Lenny, appena sopra la clavicola. Lenny grida, cerca di afferrare il manico che gli sporge dalla spalla, scalcia. Vince si alza dalla sedia, e Ray con la mano libera estrae la pistola e gliela punta contro. Vince si ferma. Ray infila la canna della pistola nella bocca di Lenny. «Sta' zitto.» I lamenti finiscono. «Dove sono i miei venti dollari?» «Co...Cosa?» borbotta Lenny, con la canna in bocca. «Ti ho dato venti dollari e tu sei tornato con una bottiglia mezza vuota di caffellatte che hai preso a casa tua. Perciò, dove sono i miei venti dollari?» Lenny riesce a infilare una mano in tasca e a prendere la banconota. La tende a Ray, il quale la intasca e gli toglie la pistola dalla bocca. «Ora ascoltami bene. Prova a dire una sola parola e ti sparo in fronte. Hai capito bene? Devo parlare con quest'uomo qui. Devo capire come funziona questa storia delle carte di credito, e ho bisogno che tu stia zitto.» Lenny abbassa lo sguardo sulla spalla. «E il coltello?» «Resta dov'è. Prova a toccarlo e lo uso per tagliarti a fette. Ora chiudi la bocca e siediti.» Lenny scivola a sedere sul pavimento, con la schiena contro il muro e il piccolo manico del coltello che gli sporge dalla spalla. Ray sembra quasi imbarazzato per l'accaduto. «Siediti anche tu» dice a Vince. Poi torna verso il divano e getta a Lenny la tovaglietta. «Non azzardarti a sporcare di sangue la moquette, deficiente.» Lenny avvolge la tovaglietta intorno al coltello, coprendo la macchia di sangue che gli si allarga sulla camicia. Ray si siede di fronte a Vince. «Allora, di cosa stavamo parlando?» «Sai qual è il mio vero problema? Non so diversificare. Tu, per esempio, rubi, vendi marijuana, fai bomboloni. E questa faccenda delle carte di credito sembra interessante. Ho deciso di entrarci appena ne ho sentito parlare. Tu sei l'uomo perfetto per un posto come questo. Puoi guadagnarti da vivere in molti modi. Io invece so fare solo una cosa.»
Scrolla le spalle. «So farla bene, non dico di no, ma qui non c'è molto mercato per la mia attività. Certo, dipende anche dai momenti. L'ultimo periodo che ho passato a Filadelfia, non riuscivo a tenere dietro agli ordini. Tutti volevano ammazzare tutti gli altri. È successo che sono stato contattato dal tipo che dovevo uccidere per far fuori quello che mi aveva pagato per far fuori lui. Capisci? Una cosa pazzesca. Ma poi mi hanno scoperto. Sono riuscito a tagliare la corda a New York e dovevo starmene tranquillo per un po'. Ma mi sembrava di ammattire. Mi bastano un paio di mesi senza lavorare e divento... nervoso. Colpa mia, certo. Tendo a lavorare troppo, non riesco a rilassarmi. Voglio fare qualcosa e finisco sempre a fare l'unica cosa che conosco bene.» Guarda Lenny, che ha gli occhi fissi sul manico del coltello, e ansima come una donna sul punto di partorire. «E questo deficiente... Cristo, persino io sono più intelligente di lui. No, io ho bisogno di uno come te. Qualcuno in grado di fare soldi, uno sveglio. E io gli faccio da spalla. In questo sono bravo. Lo sai, vero?» Vince annuisce. «Allora, che ne dici?» Vince guarda la porta della stanza da letto. «Potrei farci un pensierino.» Ray segue il suo sguardo e sembra capire a cosa pensa. Beth e i ventimila dollari. «Vediamo prima come vanno le cose» dice. «Ray!» Lenny è tutto sudato. La tovaglietta è quasi tutta rossa. «Mi sento male.» «Sta' zitto» dice Ray. Si alza, va in cucina e prende un'altra tovaglietta. La dà a Lenny e va a buttare nel lavandino quella sporca. Quindi apre le tende e guarda il parcheggio vuoto. Ghiaia e una fila di porte dipinte. È già passata l'alba, ma con il cielo coperto è difficile capire che ore sono. «Bel panorama» dice Ray. È il più brutto che Vince abbia mai visto. Ray guarda l'orologio. «Che ne dici, proviamo a chiamare il postino?» Vince indica la porta della stanza da letto con un cenno del capo. «La lascerai andare?» «Dopo che avrà ritirato i soldi» dice Ray. «Hai la mia parola.» Va ad aprire la porta. Beth dorme, rannicchiata in posizione fetale. Si sveglia di colpo. L'occhio nero è gonfio e chiuso. «Vestiti» dice Ray. «Andiamo in banca.» Ray torna al tavolo e sposta il telefono verso Vince. «Chiamalo» dice. Vince fissa di nuovo gli alberi scuri del quadro. Anche lui si sente sfoca-
to, confuso. Poi solleva la cornetta, compone il numero. Ray osserva con attenzione il disco che gira. «Sono Vince. Il tizio di cui ti parlavo vuole incontrarti.» Ascolta. «Ho cambiato idea, sì.» Ascolta. «Stesso posto. Alle nove?» Ascolta. «No, non ringraziarmi. Sul serio.» Ascolta. «Bene, ci vediamo alle nove.» Riaggancia. Ray sorride. «Come si chiama?» «Clay.» «Clay e poi?» «Clay Gainer.» «Quindi se faccio lo stesso numero mi risponderà lui?» Vince resta in silenzio. «Meglio per te se mi risponde Clay Gainer.» Solleva la cornetta e compone il numero. «Pronto, chi parla?» chiede Ray. «Clay chi?» Si volta verso Vince. «E cosa fai di lavoro, Clay?» Ascolta. «No, sono l'amico che vuole conoscerti. Volevo solo assicurarmi che fosse tutto a posto. Dov'è l'appuntamento?» Ascolta. «Sul serio? E si mangia bene?» Alza gli occhi al cielo. «Sì, hai ragione. Da un ristorante economico non si può pretendere troppo. Senti, possiamo fare alle nove e mezza? Devo prima passare in banca. Okay, allora ci si vede dopo.» Riattacca. «Dicks Drive-in? Ecco cosa non funziona, in questa città. Sono tutti così tirchi che non si meritano un pasto decente. Mangerebbero ghiaia e corteccia d'albero, pur di spendere poco.» Si è alzato il vento, che fa volare le foglie e scuote i cavi del telefono. Il sole appare a fatica tra le nuvole in corsa. I quattro si stringono nei cappotti mentre si dirigono verso la macchina. Ray cammina dietro Vince e Lenny, con una mano intorno al collo di Beth. Lei si è fatta una doccia, si è vestita e ha cercato di mettere un po' di trucco sull'occhio nero. I suoi capelli lunghi frustano il viso di Ray.
«Guida tu» ordina Ray. Vince prende le chiavi da Lenny e sale al volante. Lenny si lascia cadere sul sedile anteriore, stringendo la tovaglietta insanguinata intorno al manico del coltello. «Ora possiamo toglierlo?» chiede. Ray guarda la ferita. «Se lo togli adesso sanguinerà di più. Non preoccuparti, tra poco mettiamo tutto a posto.» «Ma mi sento male, Ray. Forse dovrei andare a casa, non credi?» «Certo» dice Ray. «Tra poco.» Ray e Beth salgono dietro. Ray la tiene stretta, con un braccio intorno al collo e la pistola puntata contro le costole. Vince incrocia il suo sguardo nello specchietto e cerca di rassicurarla con gli occhi. «Stai bene?» le chiede. Beth annuisce. «Guida» dice Ray. «Allora, dov'è questa casa?» «Quale casa?» chiede Vince. «Quella che volevate comprare con i miei soldi.» «Vuoi vederla?» «Sì. Sono solo le otto e mezza. Abbiamo tempo.» Vince si dirige a nord, oltre il fiume, fino al quartiere in cui si trova il triste bungalow di Beth. Vernice scolorita, siepi non potate. Il cartello VENDESI, coperto da un altro che dice VENDUTA, si agita nel vento come un dente che sta per cadere. «Quella?» dice Ray, incredulo. «Ma è una baracca!» Si volta verso Beth. «Ti sto facendo un favore. Quel posto è un vero cesso.» «Dentro non è male» dice Beth. «E quanto l'avete pagata?» «Chiedevano trentadue. Abbiamo offerto ventotto e cinque.» Ray fa una smorfia e si rivolge a Vince. «Io non gli avrei dato più di dieci.» Vince inverte la marcia e ripercorre la via ingombra di foglie secche. Aveva davvero sperato di poter vivere in quel quartiere. Guarda Ray nel retrovisore. «Dopo cosa farai?» «In che senso?» «Dopo aver preso in mano l'affare delle carte di credito e dopo aver avuto i miei soldi.» Ray non dice nulla.
«Voglio dire, resterai qui? Formerai una banda? Che progetti hai?» «Non preoccuparti per me. Ho delle idee.» «Quali?» Ray scrolla le spalle. «Resterò qui per un po'. Testimonierò in un paio di processi a Filadelfia. Poi, quando tutto sarà finito e avrò fatto un po' di soldi, tornerò da dove sono venuto.» «A Filadelfia?» «No. A New York.» «E credi che non ci saranno problemi?» Ray fa un gesto con la pistola. «Ehi, le cose che ho confessato riguardano gente morta o già in galera. Su quelli di New York non ho detto niente e non ho intenzione di farlo.» «Loro credono che prima o poi farai i nomi di tutti. Uno dell'FBI mi ha detto che sei un testimone molto importante.» «Col cazzo.» Ray guarda fuori dal finestrino, mordendosi un labbro. «Non ho mai detto che avrei parlato di New York. Mi limiterò a scoprire le magagne di un paio di boss di Filadelfia, che tra l'altro sono già morti, e poi me ne torno a New York.» «Sei davvero convinto che ti lasceranno tornare?» «I federali?» «No» dice Vince. «I ragazzi, allora?» Ray ride. «Certo! Nessuno lì è in gamba come me, a fare certe cose. E quando vedranno che non ho infamato nessuno di loro, mi faranno una gran festa.» Segue un lungo silenzio, finché a un tratto Vince svolta di scatto nel parcheggio davanti a una chiesa cattolica, facendo fischiare le gomme. Ray fa un salto sul sedile, si copre dietro Beth e punta la pistola dietro l'orecchio di Vince. «Che cazzo fai?» Vince spegne il motore. «Devo andare a votare.» «Cosa?» «Oggi ci sono le elezioni. Del presidente. E io devo votare.» Ray lo fissa per un paio di secondi, poi la rabbia si trasforma in curiosità. «Sul serio? E com'è, andare a votare?» «Non lo so. Per me è la prima volta.» Ray scrolla le spalle. «Comunque dovrai farlo più tardi.» Vince cerca gli occhi di Ray nello specchietto. «Sappiamo entrambi che dopo non lo farò.» Ray gli spinge la testa in avanti con la pistola. «Accendi il motore e par-
ti.» «No.» Vince tende le mani di lato. «Dovrai spararmi.» Fuori, un uomo e una donna attraversano a piedi il parcheggio, diretti verso la chiesa. «Accendi il motore!» dice Ray. «Muoviti!» Vince parla piano, con la testa china per via della canna della pistola premuta contro il collo: «Ascolta, non sto piangendo, non chiedo pietà, non faccio finta che noi due siamo diversi da quello che siamo. Ma questo devo farlo. Adesso». Entrano tutti insieme. Davvero uno strano gruppetto. Vince con il taglio sulla guancia, Ray che tiene il braccio intorno al collo di Beth in un modo che non li fa sembrare affatto una coppia. Beth che si sostiene il braccio sinistro con il destro, come un uccello dall'ala spezzata. E dietro viene Lenny, quello conciato peggio, pallido e sudato, con il giubbotto chiuso a coprire il gonfiore sopra la clavicola. Si fermano in un vestibolo fuori dalla chiesa, accanto a un'acquasantiera, e Ray si bagna le dita, facendosi il segno della croce. Il seggio elettorale si trova in fondo a un corridoio costellato di disegni fatti dai bambini del catechismo: due file di coniglietti e alcuni collage di foglie. Vince immagina le manine intente a disegnare i conigli e a incollare poi batuffoli di ovatta al posto della coda. Guarda Beth, pensa a Kenyon, e all'improvviso si rende conto che farla uscire viva da quella storia è l'unica cosa che conta. «Carina l'idea dei batuffoli» dice Ray. «Mi sento male» dice Lenny. La sala polivalente è metà palestra, metà caffetteria. Lungo le pareti sono ammucchiati i tabelloni da pallacanestro e i tavoli da pranzo. Al centro c'è un lungo tavolo di legno, dietro il quale sono sedute tre donne anziane. Alla loro destra ci sono tre cabine chiuse, e davanti al tavolo l'urna in cui infilare le schede, chiusa da un lucchetto. Una donna esce da una cabina e fa scivolare la scheda nella fessura dell'urna. «Ora cosa fai?» mormora Ray all'orecchio di Vince. «Non lo so di preciso.» Vince guarda Beth, che si stringe nelle spalle. Lenny apre il giubbotto, scosta la tovaglietta insanguinata per controllare la ferita, poi la preme di nuovo contro la spalla. Una delle donne si alza. È alta al massimo un metro e trenta, tutta grigia, e indossa scarpe da infermiera, del tipo che usava anche la mamma di Vince. «Questo è il tuo distretto, tesoro?» Vince fruga nel portafoglio, alla ricerca del certificato elettorale.
«Non ho bisogno di vederlo» dice la donna. «Se sei sulla lista puoi votare. Anche gli altri appartengono a questo distretto?» «No» dice subito Ray. «Siamo venuti solo ad accompagnare lui...» La donna lo fissa a lungo, con le labbra strette come se volesse impedire a qualcosa di uscire. «Va bene.» Indica la parete opposta della sala. «Potete aspettare lì, se volete.» Ray, Beth e Lenny si muovono compatti. La donna prende Vince per un braccio e lo guida verso il tavolo. «Cognome, tesoro?» «Camden.» «Questo bel giovane dice di chiamarsi Camden, Erlina. Hai una scheda per lui?» Erlina sfoglia il registro, scorrendo la lista di nomi attraverso le lenti bifocali. «Vincent J.?» «Sì.» La donna volta il registro verso Vince e gli porge una penna. Vince firma. Gli danno una scheda lunga e stretta, con una serie di numeri davanti alle caselle corrispondenti. Vince si chiede se quei numeri rappresentano nomi che lui dovrebbe conoscere. Magari mentre era via hanno pubblicato una lista sui giornali. La donna bassa gli indica le cabine. «Puoi sceglierti una cabina, Vincent J. Camden. Metti quella scheda nel libro, e assicurati di fare bene i fori.» Vince si volta. Ray e Beth lo guardano con attenzione. Lenny, appoggiato al muro, fissa i neon appesi al soffitto. Vince entra nella cabina. Fissato alla struttura della cabina c'è un libro, al quale è attaccata con una cordicella una punzonatrice. Vince infila la scheda nel libro, fino a far coincidere i due buchi in alto con le due sporgenze del libro. Apre la prima pagina. Proposta da Petizione Pubblica INIZIATIVA N. 383 Deve lo Stato di Washington bandire l'importazione e l'immagazzinamento di scorie radioattive generate fuori dallo Stato stesso, a parte i casi permessi dal pacchetto di accordi interstatali? Passa alla seconda. Proposta dal Popolo al Potere Legislativo REFERENDUM N. 38 Deve la somma di centoventicinque milioni di dollari in Buoni del
Tesoro essere destinata a progettare, acquisire, costruire e migliorare strutture destinate al rifornimento idrico? Vince continua a leggere. Le domande sono in tutto cinque e all'improvviso gli sembra di trovarsi a dare un esame per il quale non ha studiato. È disposto a pagare quattrocentocinquanta milioni di dollari per lo smaltimento dei rifiuti? Vuole che lo Stato rinunci ai terreni federali non assegnati? Desidera creare una commissione disciplinare per il controllo dei magistrati? Vince fissa la prima domanda, la rilegge, poi si volta verso le donne al tavolo, che stanno registrando un uomo barbuto. La donna bassa vede l'espressione sulla sua faccia, sorride e si avvicina. «Cosa c'è, tesoro?» «Non mi aspettavo che ci fosse tutto questo.» «Cosa vuoi dire?» «Alcune di queste domande... Non mi sono preparato...» La donna piega la testa di lato. «Per esempio, non ho mai sentito parlare di questa faccenda delle scorie radioattive.» Lei gli dà un colpetto sul braccio, e le rughe verticali sulla sua fronte si distendono in un sorriso. «Tesoro, vota semplicemente secondo quello che è giusto per te. E se su qualcosa non ti senti di votare, non farlo.» La donna torna al tavolo, e Vince si mette al lavoro. L'idea di riempire lo Stato di Washington di scorie radioattive gli sembra pessima. Sistema la perforatrice in corrispondenza del SÌ e spinge. Sente bucarsi il cartoncino, una sensazione piacevole. Anche sull'acqua vota sì, ma quattrocentocinquanta milioni per lo smaltimento dei rifiuti gli sembrano troppi, e inoltre sa che la mafia controlla il racket dei rifiuti e si prenderebbe di certo una bella fetta di quei soldi. Vota no. Vota sì sulle terre federali e sulla commissione disciplinare per i magistrati (potrebbe anche fornire un paio di nomi di magistrati da controllare). Quindi volta pagina: finalmente, i candidati alla presidenza. Sente le pulsazioni accelerare. Reagan e Bush sono i primi, seguiti da Carter e Mondale, John Anderson e Patrick Lucey, più una serie di nomi che non si aspettava di vedere. Clifton DeBerry, del Partito socialista dei lavoratori. Deirdre Griswold, del Partito mondiale dei lavoratori. E poi libertari, socialisti, un non meglio specificato Partito dei cittadini... Persino un paio di comunisti: Gus Hall e Angela Davis. L'uomo con la barba sta votando nella cabina accanto. «Cosa ha votato per le scorie radioattive?» gli chiede Vince, a bassa vo-
ce. L'uomo alza gli occhi. «Come?» «Non credevo che ci fossero tanti nomi tra cui scegliere il presidente. Donne, comunisti e tutto il resto.» L'altro scrolla le spalle e torna a guardare la sua scheda. Vince decide di rimandare la questione del presidente. Volta le pagine fino a trovare il nome di Aaron Grebbe, che si presenta come deputato dello Stato, e buca il foglio. Legge i nomi di tutti i candidati che si presentano per qualcosa, ma non li conosce, a parte uno: Foley, quello grosso che ha conosciuto al bar. Vota per lui. Gli altri preferisce lasciarli stare: non vuole tirare a indovinare, e poi magari scoprire di aver votato per dei deficienti. Ormai resta solo il presidente. Torna alla pagina corrispondente e fissa i nomi. Si chiede che tipo di uomini siano. Buoni? Saggi? Duri? Sono davvero il meglio che la nazione ha da offrire? Si chiede anche a quali tratti della personalità dare più importanza. A quelli che possiede anche lui, o a quelli che gli mancano? Leggi i giornali, guardi i notiziari, e ti sembra di esserti fatto un'idea di come sono queste persone. Ma chi sono quando nessuno le vede, quando sono sole, di notte? Cosa faresti tu nella loro situazione? E cosa farebbero loro nella tua situazione? Ronald Reagan, George Bush, Jimmy Carter, Walter F. Mondale, John B. Anderson, Patrick J. Lucey. Cerca di collegare i nomi a quello che sa di quegli uomini, ma niente, restano solo nomi su un foglio. Vince si sente stanco. Forse è tutto inutile. Forse hai costruito una storia nella tua testa, e credi che abbia un senso, che si colleghi in qualche modo alla tua vita. Ma se invece non è così? Magari le elezioni non significano assolutamente nulla. Oppure è sufficiente credere che una cosa abbia senso, perché ce l'abbia davvero? Getta un'occhiata in direzione di Beth, fa un respiro profondo e si china sulla scheda. Tutto il mondo in quell'attimo si riduce alle tre pareti di tela di quella cabina elettorale. La perforatrice fluttua sui nomi e in un attimo prendi la decisione. Una leggera pressione, e la carta si buca con un lieve rumore che, chissà perché, ti fa pensare alla casa che avevi comprato per Beth, a bambini che saltano la corda mentre Beth li sorveglia da sotto il portico, e ti imbarazza la piattezza dei tuoi sogni, anche se guardi la scheda e pensi che, se non altro, per la prima e ultima volta in questa vita breve e sbagliata, Vince Camden ha votato per scegliere il presidente.
Lenny è accasciato contro la portiera, con il giubbotto stretto addosso. Vince guida in silenzio, con un mezzo sorriso sulla faccia. «Allora?» chiede Ray. «È come quando spegni le candeline al tuo compleanno e il tuo desiderio si avvera solo se non lo racconti a nessuno?» «No, è solo che non voglio dirlo.» «Ma perché cazzo non vuoi dirlo? Che differenza fa?» «Per me fa differenza.» «Stronzate.» «Tanto non te lo dico. E poi, se anche te lo dicessi, come faresti a sapere se è la verità?» Di nuovo la pistola contro il collo. «Potrei spararti, lo sai?» «Va bene. Ho votato per Reagan.» «Davvero?» «No, in realtà ho votato per Carter.» «Carter?» «No, Anderson. Capisci cosa voglio dire? Potrei dirti qualunque cosa.» Ray tace, con un'espressione rabbiosa, mentre attraversano il centro. Vince accosta davanti alla banca di Beth. Mattoni rossi e doppie porte di vetro. Parcheggia in uno spazio a pagamento, e appena spegne il motore allunga una mano verso la gola di Lenny. Le pulsazioni sono deboli. Apre il giubbotto e osserva la ferita. Il manico del coltellino sporge da sopra la clavicola. «Dobbiamo portarlo in ospedale» dice. «Non ha un bell'aspetto.» «Non aveva un bell'aspetto nemmeno prima» ribatte Ray. Osserva la banca, spostando lo sguardo dalle doppie porte alle finestre e alle colonne. «Allora», dice. «Si fa così.» Afferra il polso rotto di Beth, strappandole un gemito di dolore. «Tu entri da sola. Io starò qui sul marciapiede con il tuo bello. Se ti vedo indicare, o parlare con un addetto alla sicurezza, o fare qualunque gesto sospetto, succederanno tre cose, una dietro l'altra.» Ray solleva un dito dall'unghia perfettamente curata. «Uno, sparo a Vince nelle palle. Lo vedrai cadere a terra, sapendo che avresti potuto evitarlo. Due, taglio la corda in macchina e vado immediatamente a casa tua. Sparo alla donna che fa da baby-sitter a tuo figlio, mi prendo il bambino e tu non lo vedrai mai più. Sarò il mostro dei suoi incubi. Lo spellerò vivo e ti manderò dei quadratini di pelle. Avrà almeno sei anni, quando finalmente lo ucciderò. Hai capito bene?» Beth annuisce e lui lascia andare il polso. Scendono dall'auto. Lenny non muove un muscolo. Mentre si dirigono verso la porta della banca, Vince
prova a incrociare lo sguardo di Beth. "Scappa!" vorrebbe dirle, ma lei sembra proprio non voler guardare dalla sua parte. Ray e Vince restano al freddo sul marciapiede, con le mani in tasca e gli occhi socchiusi contro il vento. Beth entra in banca e si dirige verso uno sportello. «Non scapperà» dice Ray. «E non chiederà aiuto. Tu credi che lo farà, lo so, ma io sono sicuro di no.» Vince non dice nulla. «Conosco le persone. È... un dono. Glielo leggo negli occhi: non ha il fegato per farlo. È a pezzi. Prenderà i soldi, me li darà, e quando finalmente le sparerò in faccia per lei sarà un sollievo.» Vince chiude gli occhi. «Vuoi sapere una cosa? Io sono convinto che tutti quelli che ho ammazzato in un certo senso volessero morire. Dico sul serio. Nel profondo del cuore, sapevano che gli stavo facendo un favore.» Ray sposta il peso da un piede all'altro. «Allora, capo, vuoi dirmi per chi hai votato?» Vince non risponde. «È meglio se me lo dici adesso. Perché tra un'oretta, quando sarai in ginocchio a pisciarti nelle mutande e a pregarmi di finirti, me lo dirai comunque.» «No» dice Vince. «Non te lo dirò.» Ray gli si avvicina a un palmo dal viso. «Stronzo presuntuoso. Non hai idea di quello che posso farti.» Vince resta in silenzio. Ray lo fissa negli occhi per un attimo, poi fa un passo indietro. Sembra seccato per aver perso il controllo. Finge di ridere. «Sai, una cosa che non mi dispiace qui è il clima. È freddo, sì, ma non è umido.» Beth esce dalla banca. Il vento le scompiglia i capelli come uno stormo di uccelli. Consegna a Ray la borsetta. Incrocia rapidamente lo sguardo di Vince. Tornano all'auto. Vince le stringe un braccio. «Davanti» dice Ray. Beth sale sul sedile anteriore, tra Vince e Lenny, il quale è sempre immobile. Ray conta i mazzetti di banconote da cento. «Hai detto che ci avresti lasciato andare, dopo aver preso i soldi» dice Beth. Ray sorride. Si gratta la testa. Sembra divertito. «Facciamo così: se il tuo fidanzatino mi dice per chi ha votato, vi lascio andare.»
«No» dice Vince. Ray scoppia a ridere. «Sai, proprio non capisco perché è tanto importante per te non dirlo.» «Vuoi davvero saperlo?» «Sì. Voglio saperlo.» Vince sposta lo specchietto fino a inquadrare gli occhi di Ray. Dà un colpetto sulla gamba di Beth, e lei lo guarda speranzosa, come sapendo che sta prendendo tempo, in attesa di fare la sua mossa. «Sono finito per la prima volta al riformatorio a quattordici anni.» «Io a nove» dice Ray. «E allora?» Vince continua. «Due settimane dopo aver compiuto diciotto anni ho ricevuto la mia prima condanna da adulto. Sono stato un delinquente per tutta la vita. Quando vieni condannato per un crimine, perdi due cose: il diritto di possedere un'arma da fuoco e il diritto di voto. Tutte le volte che ci sono state le elezioni presidenziali io ero in galera o in libertà vigilata. Ma non ho mai sentito nessuno lamentarsi per il fatto di non poter votare. A chi interessa, eh?» Ray si stringe nelle spalle. «Votare è per gli idioti, come pagare le tasse. O lavorare. E in quanto alle pistole, puoi comprarne una a ogni angolo di strada. È strano: l'unica cosa che non possiamo fare, cioè votare alle elezioni, è una cosa che non ci interessa affatto.» Vince guarda Beth, che lo ascolta con attenzione, poi torna a fissare gli occhi di Ray nel retrovisore. «Ma ultimamente ci ho pensato su. Quello che volevamo, Ray, facendo quella vita, non era il denaro, il potere, le donne o la droga. Volevamo solo riempire un buco. Un buco enorme. Un altro colpo, un altro affare... e poi alcol, donne, denaro. Ma il buco non si riempie mai. Crediamo di essere più furbi degli altri perché non seguiamo le regole. Ma dimmi, Ray, hai mai visto un vecchio gangster felice? Hai mai visto uno di noi seduto sotto il portico con i nipotini? No. E sai perché? Perché quando sei vecchio, l'unica cosa che ti resta è quel buco.» Ray lo fissa senza parlare. «Quando mi hanno inserito in questo programma io volevo diventare un altro. Volevo cambiare. Ma sono finito a fare le stesse cose di sempre. Perché ero lo stesso stronzo di prima.» Tira fuori il portafoglio. «Poi, una settimana fa, ho ricevuto questo per posta.» Passa a Ray il suo certificato elettorale spiegazzato. «E ho pensato: perché, invece di cercare di cambiare, non decido di essere questo tizio a cui è intestato il certificato?»
Ray si rigira il foglio tra le mani, poi lo restituisce a Vince. «Cosa succede ora che hai i soldi, Ray? Incontrerai il postino, e poi? Quando deciderai che hai abbastanza soldi? A centomila dollari? A un milione? Qualunque sia la cifra, non sarà mai abbastanza. Il buco diventa solo più grande. Più roba ci metti, più grande diventa. Uccidi me. Uccidi il postino. Uccidi tutti gli abitanti di questa città, Ray. Prenditi tutto quello che hanno. E poi?» Vince si volta a guardare Ray direttamente. «Ci hanno dato la libertà, Ray. Non solo dalla galera, ma da noi stessi, da quello che eravamo. Ci hanno detto: "Va' e sii un altro. Chiudi quel buco". Sai quanto è rara un'opportunità del genere? E quanto è difficile approfittarne? Ci vuole più coraggio per questo che per tutto ciò che abbiamo mai fatto. Ma possiamo riuscirci, se vogliamo. Basta solo alzarsi al mattino... e andare al lavoro.» Prende la mano di Beth. «Tornare a casa la sera e occuparsi della famiglia. Tutto quello che dobbiamo fare per ottenerlo è andare a votare.» Ray ascolta, in silenzio. «Non puoi tornare a New York quando hai finito qui» continua Vince. «Io ci sono appena stato. E ho visto Johnny Boy.» Lo sguardo di Ray si fa subito più attento. «Sono andato da lui perché credevo che ti avesse mandato qui per uccidermi.» Vince scrolla le spalle. «Invece non mi aveva neppure mai sentito nominare. Carmine, Ange, Toddo. Ho giocato a carte con loro a Mott Street. Volevano sapere di te. Tutti quanti, anche Johnny.» Ray atteggia le labbra a un mezzo sorriso. Parla a bassa voce. «Come sta John? Suo figlio...» «Sì, me l'hanno detto. Sei stato tu a occuparti di quello che l'ha investito, vero, Ray? L'hai ammazzato. Bene, John mi ha chiesto di tornare qui per occuparmi di te.» «Non dire stronzate» ribatte Ray, secco. «Mi ha mandato qui per ucciderti, Ray.» L'espressione di Ray non tradisce nulla. «Non ti credo.» «Non puoi tornare. Nessuno può tornare indietro. Ray Sticks è morto, proprio come Marty Hagen. Siamo morti nel momento in cui ci hanno inseriti nel programma. E ora abbiamo solo due possibilità: possiamo essere fantasmi, e continuare ad andarcene in giro pensando di essere ancora vivi, oppure possiamo essere qualcun altro.» Ray si gratta la testa. Vince si sporge verso di lui, nello spazio tra i sedili. «Andiamo dai fede-
rali, Ray. Di' loro che Gotti ora sa dove sei, raccontagli tutto. E ricomincia da capo. Vedi se puoi fare qualcosa con questa vita.» Ray abbassa gli occhi sulle banconote che tiene in grembo. «Ray, se prendi quei soldi, se vai dal postino, sarai lo stesso stronzo di sempre. Sarai un fantasma che una volta si chiamava Ray Sticks. Crederai di essere vivo, ma tutti vedranno un buco dove una volta vedevano te.» Ray lo fissa e a Vince sembra di vedere nei suoi occhi un bagliore di speranza. «Guarda me» dice Vince. «Ho trentasei anni e prima di questo lavoro al negozio di bomboloni non avevo mai lavorato onestamente neppure un solo giorno in tutta la mia vita. Ma oggi ho votato. E il mio voto conta come quello di chiunque altro. Ora, forse questo agli altri non importa, ma per me... Insomma, è qualcosa.» Ray si passa le dita sulla fronte. Guarda prima Beth, poi Vince, poi fuori, dove il vento scuote gli alberi lungo il marciapiede. Ma quando torna a guardare Vince, la sua faccia è la stessa di sempre. «Voltati e metti in moto» dice. Vince e Beth si tengono per mano sui sedili anteriori. Percorrono in silenzio Third Avenue. Si vede già l'insegna di Dicks, a due isolati di distanza. Vince si ferma a un semaforo e il vento fa ondeggiare la macchina. Ray sembra nervoso. «Sai perché non credo a quello che mi hai detto di John?» dice. Vince lo guarda attraverso lo specchietto. «Perché non hai fatto niente. Se davvero ti avesse mandato a uccidermi, a quest'ora ci avresti già provato.» Vince torna a guardare la strada. «All'inizio, quando Ange me l'ha chiesto, mi sono messo a pensare a come fare. Potevo comprare una pistola e magari spararti da lontano. Oppure investirti con la macchina. Attirarti in qualche situazione dove potevo coglierti di sorpresa. Ho pensato anche di pagare un killer. Ma chi potevo trovare che fosse più bravo di te?» Ray accetta il complimento con un'alzata di spalle. Vince entra nel parcheggio del Dicks Drive-in. «Ma più ci pensavo, più capivo che non avrei potuto farlo. E gliel'ho detto. È stato allora che ho deciso di provare a convincerti a lasciar perdere tutto e metterti a rigare diritto.» «Hai detto di no a John Gotti?» Ray ride. «Ora sono sicuro che menti.» Vince spegne il motore. Dall'altra parte del parcheggio vede Clay in at-
tesa, seduto a un tavolo da picnic. Il ristorante è chiuso, in giro non c'è nessuno. «Ascolta» dice Ray. «Parlo solo io, capito?» Comincia a infilarsi le banconote nelle tasche dei pantaloni. «Prova a fare qualunque cosa e sparo, prima alla ragazza, poi a te. Tutto chiaro, capo?» Scendono dall'auto. Beth scende per ultima, uscendo dalla parte di Vince. «È quello il tuo uomo?» dice Ray. «Il nero?» «Sì» dice Vince. Beth incrocia lo sguardo di Vince, con un'espressione interrogativa. Vince è contento di non poter parlare, così non deve confessarle che non ha nessun piano, che il discorsetto che ha fatto in macchina era il suo piano. «Lenny!» grida Ray. «Muoviti.» Lenny non si muove. Ray dà una manata sul cofano. «Len. Andiamo!» Poi si volta verso Vince. «Fallo scendere.» Vince rientra in macchina carponi, poggia una mano sul collo di Lenny. Niente pulsazioni. Prova il polso. Ancora niente. Guarda la spalla. Il coltello non c'è più. Scende dall'auto. «Allora, viene?» chiede Ray. «No.» Vince guarda Beth, che ha un'espressione dura, determinata. Ray annuisce, come se in fondo si fosse aspettato una debolezza del genere da parte di Lenny. «Va bene, a lui penseremo dopo.» Attraversano il parcheggio vuoto e si avvicinano a Clay, seduto da solo a un tavolo. Lui li vede, si alza e tira fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni il dépliant dell'auto sportiva che vuole comprare. «Ciao, Vince.» Vince indica prima lui, poi Ray. «Clay Gainer. Ralph LaRue.» Ray lo fulmina con gli occhi. «Ray. Mi chiamo Ray.» Si siedono. Clay e Vince da una parte, Beth e Ray dall'altra. Vince tende la mano sotto il tavolo, sperando che Beth gli dia il coltello. Ma lei si limita a fissarlo con espressione placida. Non farlo, pensa Vince. Non farlo. Clay mostra il volantino pubblicitario a Ray. «Prima di cominciare devo chiederti una cosa. È un problema per te se compro questa macchina?» Ray fissa il dépliant. «Certo che è un problema. Se lavori con me, devi avere una Cadillac, una Mercedes, qualcosa di classe. Non questa roba giapponese da quattro soldi.» Clay getta un'occhiata soddisfatta a Vince. «Bene, Ray» dice Vince. «Ora hai tutto quello che volevi. Puoi lasciare
andare Beth.» «Più tardi, forse» sorride Ray. E in quel momento Beth scatta in piedi, rapidissima. Ray è così sorpreso che non si muove, non alza neppure la mano per parare il colpo, e lei gli si avventa contro con tutta la forza possibile in una donna di cinquanta chili. Vince non capisce subito cosa sia successo. La lama del coltellino cade sul tavolo. Si è spezzata contro lo sterno di Ray. Beth, con una reazione istintiva, cerca ancora di colpirlo con il manico. Ray la colpisce sulla bocca, facendola cadere a terra. Poi salta in piedi e le mette un piede sulla gola. Tira fuori la pistola dalla cintura e la punta contro Vince, il quale ha raccolto la lama del coltello. «Dalla a me, capo» dice. Vince fissa un punto alle spalle di Ray. «Dammi quella cazzo di lama.» Ray molla un calcio a Beth. Lei si copre la testa con le mani. «Ora te lo faccio mangiare, quel coltello» le dice. Fa un gesto con la pistola. «Ti ho detto di darmi quella cazzo di lama, capo.» Il vento si ferma per un attimo. Vince tende la lama, Ray allunga un braccio per prenderla, e proprio in quel momento una grossa mano gli si pianta sulla spalla, mentre un'altra gli toglie prontamente la pistola. Ray si volta e si trova faccia a faccia con il caldo sorriso di Ange. A pochi metri di distanza c'è un altro uomo con gli occhiali da sole, che Vince non riconosce. Ray fa una faccia confusa. «Ange?» «Ciao, Ray. Come va?» «Ange?» Sono uno di fronte all'altro, tesi, con i cappotti che si agitano al vento. Beth li guarda da terra. Senza spostare gli occhi da Ray, Ange consegna la pistola al secondo uomo, che la fa sparire in una tasca del soprabito. Ray deglutisce. «Cosa ci fai qui?» «Krapfen ci ha detto dove trovarti.» Ray guarda Vince. Ancora non comprende bene. Ange si mette le mani in tasca. «John vuole che torni a casa, Ray.» «Davvero?» Ray è molto a disagio. «Bene... è... Insomma, tanto questo posto fa schifo.» Fa una risata forzata e si volta verso Vince. «Hai visto? Te l'ho detto che mi volevano di nuovo con loro.» «Certo» dice Ange. «Abbiamo bisogno di te, Ray.» «Sei il migliore» dice l'altro uomo. «Una leggenda.»
Ray sposta lo sguardo in un punto imprecisato alle spalle di Vince. Le mani gli pendono lungo i fianchi, come se non sapesse più cosa farsene. «Mi dispiace» dice Vince, piano. Ray si riscuote, sbatte le palpebre. «Vaffanculo» dice. Poi si volta verso Ange con un sorriso. «Stavo ammattendo, qui. Questo deficiente pensa sempre di sapere tutto» dice indicando Vince con il pollice. Guarda Beth, che si è allontanata strisciando. «Le puttane ti pugnalano alle spalle... Non girano soldi... E non parliamo della pizza. Non puoi neanche immaginare che schifo di pizza fanno qui, Ange.» «D'ora in poi non dovrai più preoccuparti della pizza» dice Ange. Ray mette le mani in tasca e ne tira fuori i mazzi di banconote con cui Vince e Beth dovevano pagare la casa. «Ho dei soldi qui, Ange. Per John.» Ange sorride. «Non è necessario, Ray, ma sono certo che John apprezzerà il gesto.» Prende il denaro e gli passa un braccio intorno alle spalle. «Sei un bravo ragazzo. Pensi sempre agli altri.» Lo porta via, come un fratello maggiore. Ray non oppone resistenza. Attraversano il parcheggio e si dirigono verso un'auto a noleggio parcheggiata dall'altra parte della strada. Un terzo uomo scende e fa cenno a Ray di sedersi davanti. Ray si volta a guardare Vince. Solleva una mano come per un gesto di saluto, ma il braccio resta immobile, come appeso nell'aria. Ange gli dà un colpetto sulla spalla e lui scompare dentro la macchina. Il parabrezza riflette solo le nuvole grigie. Vince aiuta Beth a rimettersi in piedi e a sedersi accanto a lui sulla panca. «Possiamo andare?» sussurra Clay. «No» dice Vince. «Meglio aspettare.» Un attimo dopo Ange scende dall'auto e torna verso di loro. Il vento gli scompiglia i capelli sale e pepe. «Ti aspettavamo alle nove» dice Ange. «Dovevo andare a votare.» «Davvero? E per chi hai votato, Krapfen?» «Preferisco non dirlo.» «Capisco» dice Ange. «Ange, lei è Beth, la mia ragazza.» Beth fa un cenno di saluto con la mano buona. «Cos'hai fatto all'occhio?» Accenna con il mento verso la macchina. «È stato Ray?» Beth annuisce. «Mi ha anche spezzato il braccio.» «Quell'uomo è un animale. Mi scuso per lui.»
«E lui è Clay, il mio postino.» Ange gli stringe la mano. «Ti sei portato dietro anche il dentista, Krapfen?» Vince sorride. «Ange, i soldi che ti ha dato Ray... sono miei. Dovevo usarli per comprare una casa, e...» Ange solleva una mano. «Sai che non posso farci niente, Krapfen. Ormai quei soldi sono di John.» Ange si guarda intorno: il parcheggio, la superstrada alle loro spalle, le strade che portano in centro; case marroni, alcuni palazzi di uffici, il tutto circondato dalle colline, come una città costruita solo a metà. Le auto si spostano indolenti sulle strade. «Allora, è questo il posto dove non vedevi l'ora di tornare?» «Sì» dice Vince. «Io vivo qui.» «Non è come l'avevo immaginato. È meno...» Ange si stringe nelle spalle. «Meno tutto. Ma sono sicuro che è piacevole viverci.» «Adesso... siamo pari, John e io?» «Sì.» Ange sembra cercare qualcosa di profondo da dire. Alla fine punta un grosso dito verso Vince. «Fa' il bravo.» Si volta e torna verso l'auto dove lo aspettano gli altri. L'orlo del cappotto svolazza nel vento. Apre la portiera posteriore, dal lato dell'autista, e sale a bordo. L'auto si allontana, e per qualche secondo l'unico rumore nel parcheggio di Dicks è quello del vento tra gli alberi. «Non potrò comprarmi quella macchina, vero Vince?» Vince non lo guarda nemmeno. «No, Clay.» Restano sul divano per tutto il pomeriggio. Vince fissa il soffitto, Beth è rannicchiata contro il suo petto. Kenyon zampetta intorno, in felpa, pannolino e pantofoline di panno. Va a prendere i suoi giocattoli, uno alla volta, per farli vedere a Vince. In quel momento gli sta mostrando una rana di pezza. «Rana» dice Vince. Kenyon la guarda, la lascia cadere e torna verso il box. Poco dopo riappare con un trenino a molla. «Treno» dice Vince. Il bambino lascia cadere a terra il treno e si volta. È molto preso dal suo compito, come se avesse imparato da qualche manuale che quello è il modo giusto di comportarsi quando c'è un ospite in visita. «Palla.»
Non parlano dell'accaduto. Né di come Vince ha convinto Ange a venire a Spokane per fare lui il lavoro, né della probabile fine di Ray. E non parlano del denaro perduto, né della casa. Non parlano neppure di cosa faranno adesso, anche se Vince è convinto che Beth abbia qualche idea. Dormono a turno, mentre l'altro sorveglia Kenyon, tutto occupato a portare avanti e indietro i suoi giocattoli. Beth ha un gesso nuovo, tutto bianco. Ha raccontato al Pronto Soccorso di aver avuto un incidente, e loro l'hanno bevuta. Poi sono andati in banca e hanno cancellato la richiesta di mutuo. Hanno lasciato Lenny nella sua Cadillac, nel parcheggio di Dicks, e hanno fatto una telefonata anonima alla polizia. «Trottola» dice Vince. Kenyon non cambia espressione. Lascia cadere la trottola e va a prendere un altro giocattolo. Vince sente il peso di Beth contro il suo corpo. Gli piace quel contatto. Osserva la sua schiena alzarsi e abbassarsi a ogni respiro. Le passa una mano tra i capelli e le dà un bacio sulla testa. Lei gli si stringe contro ancora di più. «Ripetimelo di nuovo.» «Va bene» dice lui. «Chiederò un prestito, troveremo un locale e apriremo un ristorante.» «E io sarò la cameriera.» Lui parla a voce bassissima. «Tu servirai ai tavoli, io sarò lo chef. Si chiamerà Picnic Basket e serviremo ogni cosa in cestini da picnic. I muri saranno dipinti come un boschetto e serviremo pollo freddo, sandwich e crostate. Ci saranno bambini dappertutto, altalene... Sarà come un giardino interno.» Kenyon torna con un orsetto. «Orso» dice Vince. «E abiteremo in una casa?» sussurra Beth. «Abiteremo in una grande casa, con un portico e un barbecue in giardino. E quando tornerò dal lavoro tu e Kenyon potrete aspettarmi sotto il portico con un bicchiere di limonata.» Alan Dupree fa una smorfia di dolore prendendo la valigia dal nastro trasportatore. Phelps sta ancora ridendo. «Un poliziotto che va a New York e riesce a farsi rapinare. Incredibile.» Gli prende la valigia e Dupree si lascia aiutare. «Com'è andata? È spuntato fuori dal nulla, ti ha fatto un occhio nero e ti
ha rotto le costole?» «Qualcosa del genere» dice Dupree. «Dimmi almeno che l'hai inseguito.» «L'ho inseguito.» «È riuscito a prenderti il portafogli?» «No.» «Meno male. Così è un po' meno imbarazzante.» Escono dall'aeroporto tutto bianco e si dirigono verso l'auto di Phelps. Dupree si siede con un'altra smorfia. Phelps si dirige verso Spokane, con il sole al tramonto che spunta tra le nuvole dietro di loro, e intanto mette Dupree al corrente delle novità. Qualche giorno fa hanno trovato morto nel bagagliaio della sua auto l'istruttore del corso di riparazione per motori diesel. Oggi è stata la volta del proprietario di un negozio di stereo, pugnalato a morte e lasciato in macchina al Dicks Drive-in. Contando anche Doug, del negozio di foto, fanno tre morti in otto giorni. «Nessun collegamento tra gli omicidi?» chiede Dupree. «Non che io sappia» dice Phelps. «Ma non partire con le tue teorie, per favore. A volte succede. Forse è qualcosa nell'acqua.» Dupree guarda fuori dal finestrino. Phelps dice che Vince Camden non si è fatto vivo da quando è fuggito dall'ufficio dei federali. «Probabilmente ha lasciato di nuovo la città.» Esce dalla superstrada e si immette nel quartiere ai piedi di South Hill. Poco più avanti svolta nella strada dove abita Dupree e si ferma nel vialetto di casa sua. Le luci sono tutte accese. «Ti prendi il giorno libero, domani?» «No» dice Dupree. «Vengo al lavoro.» Phelps scende e cerca di prendergli la valigia, ma Dupree stavolta rifiuta l'aiuto e la porta da solo. Mentre sale i gradini del portico Phelps gli grida dietro: «Hai fatto un buon lavoro, comunque, scoprendo che Camden era nel programma di protezione per testimoni. Ma non sempre puoi beccare il colpevole». «Già» dice Dupree, senza voltarsi. Appena entrato abbraccia stretta Debbie, e racconta un'altra volta di essere stato rapinato. Lei va a preparargli qualcosa da mangiare. Dupree si siede in soggiorno, tira fuori un foglietto dal portafoglio e compone il numero che c'è scritto sopra. «Centro terapeutico Fair Oaks.» «Buonasera, volevo notizie di un paziente che ho accompagnato lì stamattina.»
«Mi dispiace, non possiamo dare informazioni sui pazienti.» «Per favore. Si chiama Donnie Charles, è un poliziotto.» «Davvero non posso, mi spiace.» «La prego. È importante.» «È un parente?» «No, sono... il suo partner.» Sente sfogliare le pagine di un registro. «È qui» dice la donna. Cenano in silenzio. Dupree è appena entrato nella vasca da bagno quando squilla il telefono. Sente Debbie che dice: «In questo momento è in bagno». Poi si addormenta, e a un tratto si sveglia. L'acqua si è raffreddata e Debbie è sulla porta. «Alan, penso che dovresti venire.» Dupree esce dal bagno in accappatoio e vede Vince Camden di spalle, seduto sul suo divano, che guarda i risultati delle elezioni alla TV, con una tazza di caffè in mano. «Ha detto che aveva qualcosa per te» spiega Debbie. «Non volevo disturbarti, ma...» Dupree la rassicura con un colpetto sul braccio e Debbie torna in cucina. Alla TV c'è un tizio dalla mascella quadrata, con un braccio intorno alle spalle della moglie, che stringe la mano a una folla di sostenitori, in un hotel del centro. I numeri che scorrono sullo schermo raccontano com'è andata: nel sessanta per cento dei distretti, Grebbe ha ricevuto il 61,4 per cento dei voti, Thomas il 38,6 per cento. Finalmente Vince Camden si volta. «Ho preferito venire di persona» dice, sventolando il biglietto da visita con il numero di telefono che Dupree gli ha dato qualche giorno fa. «Ho chiamato, sua moglie mi ha dato l'indirizzo, e...» «È venuto a...» Vince annuisce. «A costituirmi, sì.» «Per...» «Cosa avete contro di me?» Sorride. «Carte di credito rubate, spaccio di marijuana. Inoltre posso dirvi chi ha ucciso Doug, quello del negozio di foto. E Lenny, quello che avete trovato morto in macchina da Dicks. E posso dirvi anche altre cose.» Dupree lo fissa senza parlare. «Non sono stato io» dice Vince. «È stato Ray. Ha presente quello che era a casa mia, il giorno che è passato anche lei? Li ha uccisi lui.» «Come fa a saperlo?»
«Beh, in quanto a Lenny, l'ho visto con i miei occhi. Lo ha pugnalato con un coltellino per la frutta.» «E sa dov'è ora questo Ray?» «No» dice Vince. «Stava in un motel nella zona ovest della città, ma l'ultima volta che l'ho visto mi ha detto che stava per tornare a New York.» «Da solo?» «Non saprei.» Dal tono Dupree non riesce a capire se non lo sa o non lo vuole dire. Vince torna a guardare il televisore e Dupree resta immobile alle sue spalle, incerto sul da farsi. È troppo stanco per decidere qualsiasi cosa. Finalmente si stringe addosso l'accappatoio e va a sedersi in poltrona, accanto al divano. Debbie torna dalla cucina portando un piatto con una ciambella alla banana, lo posa sul tavolino e riempie di nuovo la tazza di Vince. Vince assaggia una fetta di ciambella. «È ottima, signora Dupree.» «Grazie...» Debbie guarda il marito. «Oh, scusatemi» dice Dupree. «Lui è Marty...» Vince sorride. «Vince, per favore. Chiamatemi Vince.» «Vince, lei è mia moglie Debbie.» Si stringono la mano, poi Vince torna a mangiare la sua fetta di ciambella. Sembrano una famiglia, tutti riuniti davanti al televisore. I risultati elettorali continuano a scorrere in sovrimpressione. A livello locale sembra stiano vincendo i repubblicani. Anche pezzi grossi come Warren Magnuson e Tom Foley sono a rischio. La corsa alla presidenza è già finita qualche ora fa, con Reagan che ha vinto per nove punti e quattrocento voti. C'è una certa rabbia nei confronti di Jimmy Carter per aver mollato così presto, quando i seggi negli Stati dell'Ovest erano ancora aperti. Sullo schermo appaiono immagini di Carter sul podio, davanti alla bandiera, con Rosalyn e Amy. Tutti e tre hanno le braccia immobili lungo i fianchi, e sembrano una famiglia povera del Sud improvvisamente sbattuta fuori di casa. Gli occhi di Carter sono rossi e gonfi. «Vi ho promesso quattro anni fa che non vi avrei mai mentito, perciò non posso stare qui stasera a dire che non fa male...» Il suo viso sembra diverso da quello di quattro anni prima. Il tempo e lo stress lo hanno cambiato. «Spero che la nuova amministrazione risolva i problemi che ci troviamo ad affrontare e che riporti l'unità nel Paese.» Vince ha la bocca aperta e osserva ogni cosa come se stesse succedendo a lui.
«Vado a vestirmi» dice Dupree. «Poi andiamo.» Vince annuisce senza togliere gli occhi dallo schermo. Dupree torna poco dopo, in jeans e maglione. Tiene le manette lungo il fianco, come se volesse nasconderle a Vince. Debbie le vede e inarca le sopracciglia. Alla TV, Reagan è esuberante, sicuro di sé. «Non mi spaventa quello che ci aspetta, e credo che neppure gli americani siano spaventati.» Capelli neri con la riga a destra, gemelli ai polsi e camicia bianca, fisico imponente. Ha già un'aria più presidenziale dell'uomo che ha appena battuto. Nancy sorride, scheletrica, al suo fianco. «Insieme faremo quello che va fatto. Metteremo di nuovo al lavoro l'America.» Solleva il pollice, la folla grida di gioia e la sala conferenze dell'hotel è inondata di coriandoli. La storia è fatta dei ricordi che ancora non hai. È un ciclo di presunzione e sconfitta, presunzione e sconfitta. E appena succede qualcosa, non ricordi più il momento in cui non sapevi che sarebbe successo, quando esisteva la possibilità di risultati diversi da quello che hai davanti agli occhi. Reagan saluta con la mano. «Anche se le cose fossero andate diversamente, questo sarebbe comunque il momento di maggiore umiltà di tutta la mia vita.» Finalmente Vince alza gli occhi dallo schermo e sorride. Dupree non riesce a capire bene la sua espressione. Una sorta di titubanza al momento della resa, forse l'ammissione dell'ironia della sorte. «Cosa c'è?» «Mi sono appena reso conto che sarò condannato per frode.» Come minimo, pensa Dupree, ma preferisce non allarmarlo. «Senta, se collabora, se quello che ha detto di questo Ray risulta vero, chissà, magari potrebbe uscire tra un anno, o forse anche prima.» «Lo so» dice Vince. «Ma sarebbe comunque la condanna per un crimine.» Di nuovo quel sorriso ironico. «Sì, e allora?» «Niente... Niente.» Vince si volta di nuovo verso il televisore. Lo schermo è un'esplosione di coriandoli, palloncini colorati e bandierine, e al centro di tutto c'è un uomo quasi settantenne che promette, spavaldo, di liberare il suo popolo dalla paura, dalle insicurezze, dal senso di vulnerabilità, e di riportare l'America al passato. Vince si volta. «Allora, io ero il corvo o il lago?» «Non lo so» dice Dupree. «Forse entrambi.» «Già, è quello che pensavo anch'io» dice Vince. «Siamo pronti?» Si alza in piedi, porge i polsi a Dupree e comincia la sua nuova vita. FINE