Arnaldur Indridason
La Voce Traduzione di Silvia Cosimini Titolo originale Ròddin 2008
Arnaldur Indridason – La Voce ...
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Arnaldur Indridason
La Voce Traduzione di Silvia Cosimini Titolo originale Ròddin 2008
Arnaldur Indridason – La Voce
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LA VOCE † Ahimè, dove quando verrà l'inverno coglierò i miei fiori, dove luce di sole e ombre della terra? Muraglie stanno fredde e mute, stridono i segnavento. Friedrich Hòlderlin, da “A metà del Vivere” Finalmente il momento era arrivato. Si alzò il sipario, la sala gli si aprì davanti; nel vedere tutte quelle persone che lo guardavano, era raggiante, e la timidezza svanì in un attimo. Vide alcuni compagni di scuola e gli insegnanti, ed ecco là il preside, che sembrava annuire in segno di approvazione. Ma erano pochi i volti conosciuti. Tutta quella gente era venuta per ascoltare lui e la sua bella voce, che aveva suscitato tanto interesse anche fuori dai confini nazionali. A poco a poco il mormorio in sala si attenuò, e tutti gli occhi si puntarono su di lui, in silenziosa attesa. Vide suo padre seduto a metà della prima fila, gli occhiali con la montatura in corno nero, le gambe accavallate e il cappello sulle ginocchia. Vide che lo guardava da dietro le lenti spesse e gli sorrideva per incoraggiarlo; era il grande momento della loro vita. Dopo, niente sarebbe più stato come prima. Il direttore del coro alzò le braccia. In sala calò il silenzio. E lui cominciò a cantare con una voce chiara e dolce, che suo padre definiva celestiale.
Arnaldur Indridason – La Voce
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PRIMO GIORNO † Elìnborg li aspettava in albergo. In mezzo alla hall troneggiava un grande albero di Natale, e tutto l'hotel era decorato con addobbi natalizi, rami di abete e palline scintillanti. In sottofondo risuonava Bianco Natal. Davanti all'edificio sostavano grandi pullman, mentre i turisti si raggruppavano all'interno, di fronte alla reception. Erano stranieri che volevano trascorrere il Natale e l'ultimo dell'anno in Islanda perché nel loro immaginario era un paese avventuroso ed emozionante. Erano atterrati da poco all'aeroporto, anche se sembrava che molti avessero già comprato i tradizionali maglioni islandesi, e adesso si registravano entusiasti alla reception in quella terra invernale così bizzarra. All'ingresso Siguròur Òli si guardò intorno e notò Elinborg accanto agli ascensori. Diede un colpetto sul braccio a Erlendur e insieme si avvicinarono alla collega, che aveva già esaminato la scena del crimine. I primi agenti di polizia accorsi sul posto si erano assicurati che non venisse toccato niente. Il direttore dell'albergo aveva chiesto loro di non scatenare troppo trambusto. Si era espresso proprio in questi termini al telefono. Aveva detto loro di tener presente che per gli alberghi una buona reputazione era vitale. Dunque non erano arrivati a sirene spiegate, e nessun agente in divisa era entrato di corsa passando dall'ingresso principale. Il direttore era stato chiaro: non dovevano intimorire gli ospiti per nessun motivo. Non dovevano pensare che l'Islanda fosse troppo avventurosa ed emozionante. Il direttore, al fianco di Elìnborg, salutò Erlendur e Siguròur Òli con una stretta di mano. Era così grasso che la giacca gli si chiudeva a malapena. Aveva allacciato un solo bottone, sulla pancia, ma stava per cedere anche quello. La cintura dei pantaloni spariva sotto l'enorme sporgenza, e sudava tanto che non poteva mai riporre il grande fazzoletto bianco con cui si tamponava la fronte e la nuca a intervalli regolari. Il colletto della camicia bianca era madido di sudore. Erlendur gli strinse la mano umidiccia. "Vi ringrazio" disse loro, soffiando come una balena. Gestiva quell'albergo da quasi vent'anni e non gli era mai capitata una cosa del genere. "Proprio in piena stagione natalizia" mugugnò. "Non capisco come possa essere accaduto! Come può essere accaduto?" ripetè, fugando ogni dubbio tra i presenti sul fatto che fosse del tutto sconvolto. "La vittima è di sopra o di sotto?" chiese Erlendur. "Di sopra o di sotto?" ripetè il grasso direttore e sbuffò. "Vuoi dire se è andato in paradiso?" "Sì" rispose Erlendur. "È proprio quello che vogliamo sapere..." "Dobbiamo salire con l'ascensore?" si informò Siguròur Òli. "No" disse il direttore, guardando infastidito Erlendur, "è nel seminterrato. Aveva uno stanzino lì sotto. Non è che volessimo cacciarlo via... E poi alla fiArnaldur Indridason – La Voce
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ne uno si ritrova fra capo e collo una bella gatta da pelare..." "Perché avreste dovuto cacciarlo via?" chiese Elìnborg. Il direttore la guardò senza rispondere. Scesero lentamente le scale accanto agli ascensori. Il direttore faceva strada. Faticava molto, ed Erlendur si domandò come avrebbe fatto a risalire. Avevano acconsentito tutti a mostrare una certa considerazione, tutti tranne Erlendur. Cercavano di trattare il caso con la maggior cautela possibile. Le tre volanti della polizia e un'ambulanza si erano posizionate sul retro. Gli agenti e i paramedici erano entrati dall'ingresso posteriore. Il medico legale era in arrivo: avrebbe dichiarato lui il decesso e chiamato un furgone per far portare via il corpo. Percorsero un lungo corridoio, la balena ansimante davanti a loro. Alcuni poliziotti in divisa li salutarono. A mano a mano che procedevano, il corridoio si faceva sempre più buio, perché le lampadine erano fulminate, e nessuno si era mai preoccupato di sostituirle. Finalmente raggiunsero una porta, nella più completa oscurità, che si apriva su uno stanzino. Era molto più simile a un ripostiglio che a una camera d'albergo, ma sul pavimento di mattonelle sporche erano stati sistemati un letto minuscolo, una piccola scrivania e un tappeto consunto. In alto, vicino al soffitto, c'era una finestrella. L'uomo era seduto sul letto, appoggiato contro la parete. Indossava un bel costume rosso da Babbo Natale e aveva ancora il cappello in testa, che gli era scivolato sul viso, nascosto dalla folta barba bianca posticcia. L'alta cintura intorno alla vita era slacciata, e pure la giacca. Sotto portava soltanto una canottiera bianca. All'altezza del cuore presentava una ferita mortale. Ce n'erano altre su tutto il corpo, ma quella gli era stata fatale. Anche le mani erano escoriate, come se avesse cercato di difendersi dall'aggressore. Aveva i pantaloni calati. Sul pene ciondolava un preservativo. "Jingle bells, jingle bells..." canticchiò Siguròur Òli, guardando il corpo. Elìnborg lo zittì con un cenno. Nella stanza c'era anche un piccolo armadio con l'anta aperta. Conteneva pantaloni e maglioni ripiegati, camicie stirate, biancheria intima e calzini. Su una gruccia era appesa un'uniforme blu scuro con marsine dorate e lucenti bottoni di ottone. Vicino all'armadio, c'era un paio di scarpe di pelle ben lucidate. Per terra erano sparsi giornali e riviste. Accanto al letto c'era un piccolo comodino con una lampada e un libro, la Storia del coro delle voci bianche di Vienna. "Abitava qui, quest'uomo?" chiese Erlendur guardandosi intorno. Lui ed Elìnborg erano entrati nella stanza, Siguròur Òli e il direttore erano rimasti fuori. Non c'era abbastanza posto anche per loro. "Sì, gli permettevamo di stare qui" disse il direttore imbarazzato, asciugandosi il sudore dalla fronte. "Lavorava per noi da moltissimo tempo. Ancora priArnaldur Indridason – La Voce
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ma che arrivassi io. Come portiere." "Quando l'avete trovato, la porta era aperta?" chiese Siguròur Òli, cercando di assumere un tono formale, come per fare ammenda per la canzoncina di prima. "Ho chiesto alla ragazza che l'ha trovato di aspettarvi" rispose il direttore. "È nella caffetteria del personale. Si è presa un colpo, poveretta, come potete immaginare." Evitava di guardare dentro la stanza. Erlendur si avvicinò al cadavere e scrutò attentamente la ferita al cuore. Non riusciva a immaginare che tipo di coltello avesse ucciso l'uomo. Alzò lo sguardo. Alla parete sopra il letto era appesa una vecchia locandina cinematografica ingiallita che ritraeva Shirley Temple, attaccata agli angoli con del nastro adesivo. Non conosceva il film. Si intitolava La piccola principessa. Era l'unico elemento decorativo nella stanza. "Chi è?" domandò Siguròur Òli dalla porta, guardando il poster. "È scritto lì" rispose Erlendur. "Shirley Temple," "E chi è? E morta?" "Chi è Shirley Temple?" ripetè Elinborg, sconcertata dall'ignoranza di Siguròur Òli. "Non sai chi è Shirley Temple? Ma come, non hai studiato in America?" "Era una star di Hollywood?" azzardò lui, guardando il poster. "Era una bambina prodigio" spiegò Erlendur sgarbato. "Quindi, per certi versi, è morta da tempo in tutti i sensi." "Come?" disse Siguròur Òli, che non aveva afferrato il senso di quanto aveva detto il collega. "Era una bambina prodigio" replicò Elinborg. "Credo sia ancora viva. Non ricordo. Mi pare faccia qualcosa per le Nazioni Unite." Erlendur si rese conto che nella stanza non c'erano altri effetti personali. Si guardò intorno, ma non vide librerie, né CD, né un computer, una radio, un televisore. Solo la scrivania, una sedia e il letto, con sopra un cuscino sgualcito e un copri piumino sporco. Quello stanzino gli ricordava più che altro una cella. Uscì, scrutò nel buio verso l'estremità opposta del corridoio e percepì un lieve odore di bruciato, come se qualcuno avesse acceso un fiammifero per divertirsi o per farsi luce. "Che cosa c'è laggiù?" chiese al direttore. "Niente" rispose l'uomo, alzando gli occhi al soffitto. "Il corridoio finisce. Mancano le lampadine, le farò rimettere." "Da quanto tempo abitava qui sotto, quest'uomo?" gli domandò, voltandosi di nuovo verso la stanza. "Non lo so, da prima che arrivassi io." "Era già qui quando lei è diventato direttore?" "Sì." "Mi sta dicendo che ha abitato per vent'anni in questa cella?" "Sì." Elinborg guardò il preservativo. "Però praticava il sesso sicuro" osservò. "Non abbastanza" aggiunse Siguròur Òli. In quel momento apparve il medico legale accompagnato da un dipendente dell'albergo, che sparì subito dopo lungo il corridoio. Il medico era molto grasso, anche se non reggeva il confronto con il direttore. Quando si infilò nella stanza, Elinborg si sentì soffocare e preferì uscire immediatamenArnaldur Indridason – La Voce
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te. "Salve, Erlendur" disse il medico. "Che le sembra?" gli chiese lui. "A prima vista direi che ha avuto un infarto, ma devo studiarlo meglio" rispose il medico, che era ben noto per il suo penoso senso dell'umorismo. Erlendur si voltò a guardare Siguròur Òli ed Elinborg, che gli risposero con un ampio sorriso. "Sa da quanto è morto?" chiese. "Non da molto. Più o meno da un paio d'ore. La temperatura non ha ancora cominciato a scendere. Le renne le avete trovate?" Erlendur sospirò. Il medico lasciò andare la mano del cadavere. "Vi compilo il certificato di morte" disse. "Mandatelo a Barónsstigur, all'obitorio, l'autopsia la faranno là. Si dice che l'orgasmo sia una specie di morte temporanea" aggiunse e si chinò a guardare il corpo. "Lui si è concesso il bis." "Il bis?" Erlendur non capiva. "Ha avuto due orgasmi" spiegò il medico. "Scatterete delle foto, giusto?" "Sì." "Staranno proprio bene nell'album di famiglia." "Mi sembra di capire che non ce l'abbia una famiglia" disse Erlendur, guardandosi intorno. "Allora, ha finito per il momento?" chiese, ansioso di liberarsi di quell'uomo e delle sue freddure. Il medico annuì e sgusciò fuori dalla stanza, sparendo lungo il corridoio. "Non dovremmo chiudere l'albergo?" propose Elìnborg, e notò che il direttore era rimasto senza fiato. "Fermare chi entra e chi esce, interrogare gli ospiti e il personale? Chiudere gli aeroporti? Bloccare le navi da crociera...?" "Per l'amor di Dio" mugolò il direttore, stringendo il fazzoletto e guardando Erlendur con aria implorante. "Ma era solo il portiere!" Qui Giuseppe e Maria non avrebbero mai trovato un posto per la notte, pensò l'agente. "Questo... questo... schifo non ha niente a che vedere con i miei ospiti" disse il direttore, ansimando indignato. "Sono per lo più cittadini stranieri, ma anche residenti in altre regioni d'Islanda, persone benestanti, armatori, gente del genere, ecco. Nessuno che abbia a che fare con il portiere. Nessuno. Questo è il secondo albergo più grande di Reykjavik. Siamo al completo per le feste. Non potete chiuderlo ! Non potete farlo !" "Possiamo eccome, ma non lo faremo" rispose Erlendur, cercando di tranquillizzarlo. "Però avremo bisogno di interrogare qualche ospite e quasi tutto il personale, suppongo." "Dio sia lodato" sospirò il direttore, ricomponendosi. "Come si chiamava quest'uomo?" "Gudlaugur. Avrà avuto una cinquantina d'anni. E ha ragione lei, credo che non avesse una famiglia." "Riceveva visite?" "Non ne ho la più pallida idea" disse il direttore con uno sbuffo. "E' successo qualcosa di insolito in albergo che possa essere ricollegato a lui?" "No." "Furti?" "No. Non è successo niente." "Lamentele?" "No." "Non era mai stato coinvolto in qualcosa che potesse giustificare un gesto del genere?" "No, non che io sappia." "Aveva dei conti in sospeso con qualcuno qui in albergo?" "Non mi risulta." "Fuori?" "Non direi, ma non lo conosco molto Arnaldur Indridason – La Voce
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bene. Anzi, non lo conoscevo" si corresse. "Nemmeno dopo vent'anni?" "No, a dire il vero no. Non era molto socievole, credo. Appena poteva, stava per conto suo." "Lei trova che un albergo sia il posto adatto per questo genere di persone?" "Io? Non sap... Era sempre molto gentile, e nessuno si è mai lamentato di lui, più o meno." "Più o meno?" "No, non si è mai lamentato nessuno. Non era un cattivo dipendente, a dire la verità." "Dov'è la caffetteria del personale?" chiese Erlendur. "L'accompagno." Il direttore si asciugò il sudore dal viso, felice che non volessero chiudergli l'albergo. "Di solito riceveva ospiti nella sua stanza?" "Come?" "Le ho chiesto se riceveva degli ospiti" ripetè Erlendur. "Qualcuno è stato qui, non le pare?" Il direttore dell'albergo osservò il cadavere, soffermandosi sul preservativo. "Non so niente delle sue amiche" disse. "Niente di niente." "Non sa molto di quest'uomo" gli fece notare Erlendur. "Era il nostro portiere" rimarcò il direttore, ritenendo che fosse una spiegazione sufficiente. Uscirono dalla stanza. Gli uomini della scientifica entrarono con strumenti e apparecchiature varie, accompagnati da altri agenti di polizia. Ebbero qualche difficoltà a passare accanto al direttore. Erlendur chiese loro di esaminare il corridoio e la rientranza buia in fondo. Siguròur Òli ed Elìnborg rimasero a osservare il cadavere. "Non mi piacerebbe farmi trovare così" disse Siguròur Òli. "Ormai a lui non interessa più" replicò Elìnborg. "No, probabilmente no." "C'è qualcosa dentro?" chiese Elìnborg, prendendo un pacchetto di arachidi salate. Aveva bisogno di masticare di continuo. Per Siguròur Òli era un fattore nervoso. "Dentro cosa?" le chiese. La donna indicò il corpo con un cenno della testa. Lui la fissò per un momento, prima di capire a che cosa si stava riferendo. Esitò un attimo, poi si chinò ed esaminò il preservativo. "No. Niente. È vuoto." "Allora la sua amica l'ha ammazzato prima che raggiungesse l'orgasmo" commentò Elìnborg. "Il medico credeva..." "La sua amica?" le fece eco Siguròur Òli. "Sì, non è ovvio?" rispose Elìnborg, infilandosi in bocca una manciata di arachidi. Ne offrì anche al collega, che rifiutò. "Questa storia mi puzza. Prostituzione? Era qui con una donna" aggiunse. "Non è così?" "E' la teoria più semplice" disse Siguròur Òli, alzandosi. "Tu non ci credi?" "Non lo so. Non ne ho la più pallida idea." La caffetteria del personale aveva ben poco a che vedere con l'elegante hall dell'albergo e le camere arredate con gusto. Niente decorazioni natalizie, nemmeno musica a tema, solo pochi tavoli consunti e sedie, il pavimento in linoleum, rotto in un punto, e in un angolo un cucinino con dei pensili, una macchina Arnaldur Indridason – La Voce
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per il caffè e un frigorifero. Era come se nessuno facesse mai pulizia. Sui tavoli c'erano macchie di caffè e tazze sporche ovunque. La vecchia macchina per il caffè era in funzione, si sentiva gorgogliare l'acqua. Alcuni dipendenti stavano a semicerchio intorno alla giovane che aveva trovato il cadavere ed era sconvolta. Aveva pianto, e il mascara nero le era colato lungo le guance. Quando Erlendur entrò con il direttore, alzò la testa. "Eccola qua" disse il direttore, come se la ragazza fosse colpevole di aver compromesso la sacralità del Natale, e cacciò via gli altri. Erlendur spinse via anche lui, dicendo che voleva parlarle in privato. Il direttore lo guardò sorpreso, ma non protestò e borbottò che comunque aveva molto da fare. Erlendur chiuse la porta. La ragazza si pulì il mascara dalle guance e lo guardò, incerta su cosa aspettarsi. Lui le sorrise, prese una sedia e le si piazzò di fronte. Aveva all'incirca l'età di sua figlia, poco più di vent'anni, era agitata e ancora turbata da quanto aveva visto. Aveva i capelli neri ed era magra, indossava un grembiule azzurro, l'uniforme da cameriera. Appuntata al taschino c'era la targhetta con il nome. Òsp. "È da molto che lavori qui?" le chiese Erlendur. "Quasi un anno" rispose lei a bassa voce e lo guardò. Non le dava l'impressione di volerla mettere in difficoltà. Tirò su col naso e si raddrizzò sulla sedia. Era chiaro che il ritrovamento del cadavere l'aveva sconvolta. Era scossa da un lieve tremito. Il nome le si addiceva, pensò Erlendur. Òsp in islandese significa "pioppo". E infatti gli ricordava proprio il ramo di un pioppo che tremolava al vento. "E ti piace lavorare qui?" "No." "Allora perché lo fai?" "Bisogna pur campare." "Cosa c'è di tanto spiacevole?" Lei lo guardò come se fosse una domanda stupida. "Rifaccio i letti" rispose. "Pulisco i cessi. Passo l'aspirapolvere. Be', è sempre meglio che lavorare in un supermercato." "E la gente?" "Il direttore è un porco." "Sembra un idrante che perde" disse Erlendur. Òsp sorrise. "E certi clienti credono che una lavori solo per farsi palpeggiare." "Perché sei andata nel seminterrato?" le domandò Erlendur. "Per andare a chiamare Babbo Natale. I bambini lo aspettavano." "I bambini?" "Sì, per la festa. Facciamo sempre una festa di Natale per i figli dei dipendenti e i bambini che soggiornano in albergo, e il portiere faceva Babbo Natale. Visto che non si era presentato, mi hanno mandato a chiamarlo." "Certo non dev'essere stato divertente." "Non avevo mai visto un cadavere. E poi c'era il preservativo..." Òsp cercò di cancellare la scena dalla mente. "Aveva delle amiche, qui in albergo?" "Nessuna, che io sappia." "Sai se era in contatto con qualche donna fuori dall'albergo?" "Non so niente di queArnaldur Indridason – La Voce
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st'uomo, e ho già visto più di quanto volevo." "Volessi" la corresse Erlendur. "Cosa?" "Si dice: 'più di quanto volessi', non 'più di quanto volevo'." Lei lo guardò come se le facesse pena. "Pensa che abbia importanza?" "Sì" rispose Erlendur. Òsp scosse la testa, lo sguardo lontano. "E non sai se qualche ospite scendeva mai da lui?" le chiese Erlendur, tanto per chiudere l'argomento errori grammaticali. All'improvviso si immaginò una clinica dove gli ammalati di sindrome da errore grammaticale si aggiravano in vestaglia e pantofole e ammettevano la loro patologia: "Mi chiamo Finnur, e non sono più capace di usare il congiuntivo". "No" disse Òsp. "Quando sei arrivata, la porta era aperta?" Ci pensò su un momento. "No, l'ho aperta io. Ho bussato, ma nessuno mi ha risposto; volevo andarmene, invece mi è venuto in mente di aprire. Credevo che la porta fosse chiusa a chiave, ma a un tratto si è aperta e c'era lui mezzo nudo con il preservativo sul..." "Perché credevi che fosse chiusa a chiave?" si affrettò a interromperla Erlendur. "La porta, intendo." "Così. Sapevo che quella era la sua stanza." "Hai incontrato qualcuno, mentre scendevi da lui?" "No, nessuno." "Allora, era pronto per la festa, ma qualcuno l'ha disturbato. Aveva già indossato il costume da Babbo Natale." Òsp alzò le spalle. "Chi gli faceva il letto?" "Che vuoi dire?" "Le lenzuola non venivano cambiate da tempo." "Non lo so. Di sicuro se lo faceva da solo." "Devi essere rimasta sconvolta." "Vederlo è stato disgustoso." "Lo so. Dovresti cercare di dimenticartene al più presto, se puoi. Era bravo come Babbo Natale?" La ragazza lo guardò dritto in faccia, "Cosa c'è?" "Io non credo a Babbo Natale." La donna che si occupava di organizzare la festa di Natale era bassa, elegante, intorno alla trentina, valutò Erlendur. Si qualificò come responsabile marketing e pubbliche relazioni, e lui non volle chiederle ulteriori dettagli; quasi tutti quelli che incontrava in quei giorni lavoravano nel settore marketing. Il suo ufficio era al piano terra, e lì la trovò che parlava al telefono. I giornalisti avevano sentito che in albergo c'era stato un incidente, ed Erlendur immaginò che stesse inventando qualche frottola da raccontare a uno di loro. La conversazione si interruppe molto bruscamente. La donna sbattè la cornetta in faccia al suo interlocutore, dicendogli che non poteva rilasciare dichiarazioni. Erlendur si presentò, le strinse la mano secca e le chiese quando aveva parlato l'ultima volta con... ehm... sì, con l'uomo del seminterrato. Non sapeva se chiamarlo portiere o Babbo Natale, e si era già dimenticato il nome. Non se la sentiva di chiamarlo Babbo Natale. Siguròur Òli era un Babbo Natale, per esempio, anche se non indossava il costume. "Chi, Gulli?" disse la donna, levandolo d'impiccio. "Sì, questa mattina, per ricordargli la festa. L'ho incontrato alla porta girevole. Stava lavorando. Era il portiere dell'albergo, come lei forse saprà. Be', era più che un portiere, in effetti, faceva anche il custode. Sapeva sbrigare ogni genere di lavoretto, inArnaldur Indridason – La Voce
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somma." "Era uno molto attivo?" le chiese Erlendur. "In che senso?" "Era sollecito, pronto, non c'era bisogno di insistere per fargli fare qualcosa?" "Non lo so. Ha importanza? Non ha mai fatto niente per me. O meglio, non ho mai avuto bisogno del suo aiuto." "Perché faceva Babbo Natale? Gli piacevano i bambini? Era buffo? Divertente?" "Lo faceva già prima che arrivassi io. Lavoro qui da tre anni, e questa è la terza festa di Natale che organizzo. Ha fatto Babbo Natale nelle due occasioni precedenti, ma anche prima. Ci sapeva fare. I bambini si divertivano con lui." Non sembrava che la morte di Gudlaugur avesse toccato profondamente quella donna. Era come se non la riguardasse. Un omicidio andava a compromettere il marketing e le pubbliche relazioni, ed Erlendur si chiese com'era possibile che esistesse gente tanto sgradevole e insensibile. "Ma che persona era?" le domandò. "Non lo so. Non lo conoscevo per niente. Era il portiere dell'albergo. E l'unica occasione in cui avevo a che fare con lui era quando si vestiva da Babbo Natale." "Che ne è stato, allora, della festa quando avete scoperto; che Babbo Natale era morto?" "L'abbiamo sospesa. Non c'era nient'altro da fare. Anche per rispetto nei suoi confronti" aggiunse, come per mostrare finalmente qualche traccia di emozione. Ma senza esagerare. Da ogni sua parola Erlendur intuiva che quel cadavere nel seminterrato non poteva lasciarla più indifferente. "Chi conosceva quest'uomo meglio di tutti?" le chiese. "Qui in albergo, voglio dire." "Mi spiace, ma non lo so. Provi a parlare con il responsabile della reception. Il portiere era alle sue dipendenze." Il telefono sulla scrivania squillò, e la donna rispose. Lanciò un'occhiata a Erlendur come se le fosse d'impiccio, così l'agente si voltò e uscì, pensando che la signora non avrebbe potuto mentire all'infinito. Il responsabile della reception non aveva tempo per lui. I turisti si ammassavano al bancone, nella hall, e lui ne registrava i nomi con l'aiuto di altri tre dipendenti, ma faticavano a gestirli tutti. Erlendur li osservava trascrivere i nomi, sfogliare i passaporti, consegnare le chiavi, sorridere e poi rivolgersi al cliente successivo. La coda arrivava fino alla porta girevole, e fuori Erlendur vide un altro pullman che stava parcheggiando davanti all'albergo. I poliziotti, per lo più in borghese, erano sparsi per tutto l'edificio e stavano interrogando i dipendenti. Avevano allestito una specie di centrale all'interno della caffetteria, da dove conducevano le indagini. Erlendur osservò attentamente le decorazioni nella hall. L'impianto stereo diffondeva un canto natalizio americano. Entrò nell'ampia sala da pranzo a cui si accedeva da un lato della hall. I primi ospiti erano già in coda davanti all'elegante buffet. Erlendur passò accanto al lungo tavolo ed esaminò l'aringa, l'agnello affumicato, il prosciutto freddo, la lingua di bue e i contorni vari, i deliziosi dessert, il gelato, le torte alla panna e la mousse di cioccolato, Arnaldur Indridason – La Voce
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o qualsiasi cosa fosse. Aveva l'acquolina in bocca. Non aveva mangiato quasi niente dalla mattina. Si guardò intorno e poi, con un rapido movimento che nessuno avrebbe potuto vedere, si infilò in bocca una fetta di saporita lingua di bue. Credeva di averla fatta franca, ma, quando sentì alle spalle una voce decisa, il cuore gli balzò in gola. "No, senta, così non va. Certe cose non si fanno!" Erlendur si voltò e vide un uomo con un grande cappello da cuoco avvicinarglisi accigliato. "Che significa, mangiare così con le mani? Che modi sono?" "Si rilassi" disse Erlendur, prendendo un piatto, che cominciò a riempire con svariate prelibatezze, come se avesse avuto intenzione di mangiare al buffet fin da subito. "Lo conosceva, lei, Babbo Natale?" chiese, per cambiare discorso. "Babbo Natale?" domandò il cuoco. "Quale Babbo Natale? Devo chiederle di non toccare il cibo con le mani. Non è..." "Gudlaugur" lo interruppe Erlendur. "Lo conosceva? Faceva anche il portiere. Anzi, era un tuttofare, mi è parso di capire." "Vuol dire Gulli?" "Sì, Gulli" confermò, deponendo sul piatto una generosa fetta di prosciutto freddo e versandovi sopra della salsa allo yogurt. Si chiese se dovesse dire anche a Elinborg di servirsi al buffet, dato che era una buongustaia e da anni lavorava a un libro di ricette. "No, io... Ehi, perché usa il passato?" chiese il cuoco. "Non l'ha saputo?" "Cosa? È successo qualcosa?" "È morto. Assassinato. Non si è ancora sparsa la voce?" "Assassinato!" esclamò il cuoco. "Assassinato! Ma come, qui in albergo? E lei chi è?" "Nella sua stanza. Giù nel seminterrato. Io sono della polizia." Erlendur continuò a scegliere il cibo da mettere nel piatto. Il cuoco si era già dimenticato della lingua di bue. "Com'è stato ucciso?" "Meglio parlarne il meno possibile." "Ma qui in albergo?" "Sì." Il cuoco si guardò intorno. "Non posso crederci" disse. "Allora scoppierà un gran casino?" "Sì. Scoppierà un gran casino." Sapeva che l'albergo non si sarebbe mai liberato di quell'omicidio. Sarebbe diventato un marchio indelebile. Sarebbe stato per sempre l'albergo dove avevano trovato Babbo Natale morto con un preservativo sull'uccello. "Conosceva Gulli?" gli chiese Erlendur. "Pochissimo. Faceva il portiere, sistemava tutto lui." "Sistemava?" "Sì, nel senso che aggiustava le cose. Non lo conoscevo per niente." "Sa chi lo conosceva meglio di tutti, qui?" "No" rispose il cuoco. "Non so niente di quest'uomo. Chi avrebbe potuto ammazzarlo? E poi qui, in albergo... Mio Dio!" Erlendur capì che era più preoccupato per l'albergo che per la vittima. Era quasi tentato di dirgli che, grazie all'omicidio, magari sarebbero aumentati i clienti. Così ragionava la gente, ormai. Anzi, avrebbero anche potuto sfruttarlo per fini pubblicitari e sviluppare un Arnaldur Indridason – La Voce
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turismo dedicato agli amanti del giallo. Poi, però, decise di lasciar perdere. Voleva solo andare a sedersi e gustarsi il cibo che aveva nel piatto. E starsene in pace per un attimo. Come dal nulla, proprio in quel momento spuntò Siguròur Òli. "Avete trovato qualcosa?" gli chiese Erlendur. "No" rispose l'altro, guardando il cuoco, che si affrettò a tornarsene in cucina per raccontare le novità. "Ti sembra il momento di mettersi a mangiare?" aggiunse indignato. "Ah, non farmi prediche. Ho dovuto affrontare una situazione difficile." "Quest'uomo non possedeva niente, e comunque non lo teneva in camera" lo informò Siguròur Òli. "Elinborg ha trovato dei vecchi dischi nel suo armadio, nient'altro. Non dovremmo far chiudere l'albergo?" "Chiudere l'albergo? E che stronzata è?" sbottò Erlendur. "Come pensi di procedere? E per quanto tempo vuoi chiuderlo? Vuoi far fare un sopralluogo in ogni camera?" "No, ma l'assassino potrebbe essere uno degli ospiti. Non possiamo escludere questa eventualità." "Non c'è niente di certo. Le possibilità sono due: o l'assassino si trova qui, nel senso che è un ospite o un dipendente, o non ha niente a che vedere con l'albergo. Quello che dobbiamo fare è parlare con tutto il personale e con chiunque lascerà l'albergo nei prossimi giorni, e soprattutto con chi se ne va prima del previsto, anche se dubito che il colpevole voglia farsi notare fino a questo punto." "Infatti. Stavo pensando al preservativo" disse Siguròur Òli. Erlendur trovò un tavolo libero e si mise a sedere. Il collega gli si accomodò accanto, guardò il piatto sovraccarico e gli venne l'acquolina in bocca. "Se è stato con una donna, vuoi dire che lei era ancora in età fertile, non è così? Per via del preservativo, intendo." "Vedo che sei rimasto indietro di vent'anni" replicò Erlendur e assaggiò il prosciutto lievemente affumicato. "Adesso il preservativo è più che un semplice contraccettivo. Protegge da malattie come clamidia, AIDS..." "Il preservativo ci dice anche che non conosceva bene questa... questo... questa persona con cui si trovava nella sua stanza. Magari era un incontro occasionale. Altrimenti non l'avrebbe usato." "Ricordiamoci di non escludere che sia stato con un uomo" aggiunse Erlendur. "Che tipo di coltello avranno usato come arma del delitto?" "Vediamo cosa emerge dall'autopsia. Se è stato qualcuno dell'albergo ad aggredirlo, è chiaro che non aveva problemi a procurarsi un coltello." "E' buono?" domandò Siguròur Òli. Aveva osservato Erlendur gustarsi i vari cibi ed era quasi sul punto di prendersi anche lui un piatto, ma aveva paura di creare ulteriori scandali: due agenti che indagano su un omicidio seduti al buffet dell'albergo come se niente fosse. "Ho dimenticato di guardare se era pieno" disse Erlendur fra un boccone e l'altro. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Pensi di potertene stare qui a mangiare sul luogo di un delitto?" "Questo è un albergo." "Sì, ma..." "Ti ho già detto che ho appena dovuto affrontare una situazione difficile. Non c'era altro modo per venirne fuori. Allora, era pieno o vuoto, il preservativo?" "Vuoto." "Secondo il medico legale ha avuto un orgasmo. In realtà due, come sostiene lui, ma non ho capito in che modo sia arrivato a questa conclusione." "Non conosco nessuno che capisca cosa dice quel tipo." "Quindi l'uomo è stato ucciso nel bel mezzo di un rapporto sessuale?" "Sì. È successo qualcosa all'improvviso mentre tutto andava per il meglio." "Ma se andava tutto per il meglio, perché portarsi un coltello?" "Forse faceva parte del gioco." "Che gioco?" "Il sesso è diventato molto complicato, non lo si fa più solo alla missionaria come una volta" spiegò Siguròur Òli. "Allora potrebbe essere stato chiunque?" "Esatto" convenne Erlendur. "Perché si parla sempre di posizione del missionario? Che posizione è?" "Non lo so" ammise Siguròur Òli e sospirò. Le domande di Erlendur a volte lo innervosivano, perché erano banali, ma allo stesso tempo infinitamente complesse e fastidiose. "C'entra qualcosa con l'Africa?" "O con il cattolicesimo..." "Perché proprio un missionario, poi?" "Non lo so." "Il preservativo non esclude l'altro sesso" riprese Erlendur. "Diciamolo chiaramente: non si può escludere nulla. Hai chiesto al direttore perché voleva cacciare Babbo Natale?" "No. Ah, voleva cacciarlo?" "Ha accennato alla cosa, ma non ho afferrato. Dobbiamo capire che cosa intendeva." "Prendo nota" disse Siguròur Òli, che portava sempre con sé un blocchetto per appunti e una matita. "E poi c'è una categoria di persone che usa i preservativi più di altre." "Ah sì?" domandò Siguròur Òli con un'espressione interrogativa. "Le prostitute." "Le prostitute?" ripetè Siguròur Òli. "Le puttane? Credi che ce ne siano, qui in albergo?" Erlendur annuì. "Anche loro fanno le missionarie negli alberghi..." Siguròur Òli si alzò e, incerto sul da farsi, si piazzò davanti a Erlendur, che aveva ripulito il piatto e stava ricominciando a adocchiare il buffet. "Ehm, che fai a Natale?" gli chiese infine imbarazzato. "A Natale? Sarò... Che significa, cosa faccio a Natale? Che dovrei fare a Natale? Ti interessa?" Siguròur Òli esitò un attimo, poi si lanciò. "Bergthóra si stava chiedendo se magari eri da solo..." "Èva Lind ha dei progetti. Che intendeva dire Bergthóra? Che sarei dovuto venire da voi?" "Be', non lo so" rispose Siguròur Òli. "Le donne! Chi le capisce?" Si allontanò a grandi falcate dal tavolo, poi scese nel seminterrato. Quando Siguròur Òli arrivò dal corridoio buio, trovò Elinborg davanti alla porta della stanza della vittima che osservava il lavoro della scientifica. "Dov'è Erlendur?" gli chiese, dando il colpo di grazia al pacchetto di arachidi. "Al buffet" disse lui. Arnaldur Indridason – La Voce
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L'analisi preliminare effettuata più tardi, quella sera, rivelò che il preservativo era ricoperto di saliva. Gli uomini della scientifica si misero in contatto con Erlendur non appena furono disponibili i risultati della biopsia. L'agente era ancora in albergo. Per un po' la scena del crimine fu trasformata in uno studio fotografico. Le luci dei flash illuminavano il corridoio buio a intervalli regolari. Il corpo venne fotografato da ogni angolazione, e con esso tutto ciò che si trovava nello stanzino di Gudlaugur. Il cadavere fu poi trasferito all'obitorio di Barónsstigur per l'autopsia. Gli uomini della scientifica avevano cercato impronte digitali nella camera del portiere e ne avevano rilevate moltissime serie, da confrontare con quelle conservate negli archivi della polizia. Avrebbero preso le impronte digitali di tutti i dipendenti dell'albergo e, dopo la recente scoperta, anche un campione di saliva. "E gli ospiti dell'albergo?" chiese Elìnborg. "Non dobbiamo controllare anche loro?" Desiderava tornare a casa e si pentì di averlo chiesto; voleva finire il turno. Lei prendeva il Natale sul serio, ci teneva alle tradizioni e voleva stare con la sua famiglia. Decorava la casa con rami di pino e addobbi vari. Preparava deliziosi biscotti che poi conservava nei tupperware, che etichettava scrupolosa per tipo. Per il pranzo di Natale cucinava manicaretti così squisiti che erano famosi anche al di fuori della sua famiglia allargata. Ogni anno il piatto principale era un cosciotto di maiale alla svedese, che lasciava marinare per dodici giorni sulla terrazza di casa e che curava come se fosse il Bambin Gesù in fasce. "Dopo una valutazione sommaria, credo si debba supporre che l'omicida è islandese" disse Erlendur. "Tralasciamo gli ospiti, per il momento. L'albergo si sta riempiendo per le feste, e sono pochi i turisti in partenza. Parleremo con chi se ne va, prenderemo un campione di saliva e anche le impronte digitali. Non possiamo impedire a nessuno di lasciare il paese, a meno che non abbiamo forti sospetti. Poi dobbiamo stilare una lista degli stranieri già registrati al momento in cui è avvenuto il delitto, lasciamo perdere chi è arrivato dopo. Non complichiamoci le cose." "E se non fossero tanto semplici come sembra?" domandò Elìnborg. "Io credo che gli ospiti dell'albergo non sappiano ancora che è stato commesso un omicidio" disse Siguròur Òli, anch'egli desideroso di tornare a casa. Bergthóra, la sua compagna, gli aveva telefonato verso sera, chiedendogli a che punto fosse. Era il momento giusto, e lo stava aspettando. Siguròur Òli aveva capito immediatamente che cosa voleva dire. Stavano cercando di avere un figlio, ma non ci riuscivano, e lui aveva confidato a Erlendur di aver cominciato a pensare alla fecondazione in vitro. "Allora devi consegnarne un barattolino?" gli aveva chiesto Erlendur. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Un barattolino?" "Sì, insomma, un contenitore. Tutte le mattine?" Siguròur Òli lo aveva guardato finché non aveva capito di cosa stava parlando. "Non avrei mai dovuto confidarti una cosa del genere" aveva commentato. Erlendur sorseggiò il caffè, che era disgustoso. I tre erano ancora seduti nella caffetteria dei dipendenti dell'albergo. Il trambusto si era placato, gli agenti e gli uomini della scientifica erano andati via, la stanza era stata sigillata. Erlendur non aveva fretta. Non lo aspettava nessuno nell'appartamento tetro del suo condominio, era solo con se stesso. Non gli importava un granché del Natale. Gli spettavano alcuni giorni di ferie, ma non sapeva cosa farsene. Forse sua figlia sarebbe andata a trovarlo, magari avrebbero cucinato insieme l'agnello affumicato. A volte la accompagnava suo fratello. Erlendur rimaneva seduto a leggere come faceva sempre, qualsiasi giorno fosse. "Dovreste andare a casa, voi due" disse. "Io mi trattengo solo un momento. Chissà che non riesca a parlare con il responsabile della reception, non ha mai un attimo per me." Elìnborg e Siguròur Òli si alzarono. "Tu sei a posto, allora?" gli chiese Elìnborg. "Non vuoi andare subito a casa anche tu? Si avvicina il Natale e..." "Ma che avete, tu e Siguròur Òli? Perché non mi lasciate un po' in pace?" "È Natale" iniziò Elìnborg e sospirò. Rimase un attimo indecisa sul da farsi. "Come non detto" disse, poi lei e Siguròur Òli uscirono dalla caffetteria. Erlendur rimase seduto pensieroso per un istante. Ripensò a quello che gli aveva chiesto Siguròur Òli, che cosa avrebbe fatto a Natale, e pensò anche alle premure di Elìnborg. Si immaginò il suo appartamento, la poltrona, il rottame di televisore e i libri impilati fino al soffitto. A volte per Natale si comprava una bottiglia di Chartreuse e se ne teneva vicino un bicchiere, poi leggeva di morti e sciagure all'epoca in cui la gente si spostava ancora a piedi e il Natale era un periodo rischioso a causa del maltempo. Chi voleva raggiungere i propri cari a ogni costo e sfidava le forze della natura, finiva per perdere l'orientamento e morire, mentre a casa la nascita del Redentore diventava un'agonia. Alcuni venivano ritrovati. Altri no. Erano persi per sempre. Erano questi i canti di Natale di Erlendur. Il responsabile della reception si era tolto la giacca dell'uniforme e si stava infilando il cappotto, quando Erlendur lo raggiunse nel guardaroba. L'uomo disse di essere esausto e di voler andare a casa, dalla famiglia, come tutti gli altri. Aveva sentito dell'omicidio, sì, una cosa terribile, ma non sapeva come avrebbe potuto essere d'aiuto. "Mi pare di capire che lei fosse uno di quelli che lo conoscevano meglio, qui in albergo" cominciò Erlendur. "No, non è vero" rispose, avvolgendosi una pesante sciarpa intorno al collo. "Chi gliel'ha detto?" "Era un suo sottoposto o no?" continuò Erlendur, ignorando la domanda. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Sì, in un certo senso. Faceva il portiere, io mi occupo invece della reception e della registrazione degli ospiti, come magari saprà già. Sa fino a che ora rimangono aperti i negozi, questa sera?" Sembrava che gli importasse ben poco di lui e delle sue domande, e questo a Erlendur dava sui nervi. E gli dava sui nervi anche che a nessuno interessasse la sorte di quel pover'uomo nel seminterrato. "Mah, non so... Tutta la notte, forse. Chi avrebbe avuto interesse a pugnalare al petto il suo portiere?" "Il mio portiere? Non era il mio portiere. Era il portiere dell'albergo." "E perché aveva i pantaloni abbassati e un preservativo sull'uccello? Chi c'era da lui? Chi veniva a trovarlo di solito? Aveva amici qui al lavoro? Chi frequentava nel tempo libero? Aveva nemici? Perché abitava qui? Che contratto aveva stipulato? E lei cos'ha da nascondere? Perché non riesce a rispondermi in maniera sensata?" "Senta... Io, cosa...?" Il responsabile della reception tacque. "Vorrei solo andare a casa" disse infine. "Non so rispondere a nessuna delle sue domande. Si avvicina il Natale. Non possiamo parlarne domani? Non ho alzato la testa dal bancone tutto il giorno." Erlendur lo guardò. "Va bene, ne riparleremo domani" concluse. Uscì dal guardaroba e all'improvviso si ricordò della domanda che aveva in mente da quando aveva parlato con il direttore. Si voltò. Quando Erlendur lo chiamò, il responsabile stava uscendo. "Perché volevate liberarvi di lui?" "Cosa?" "Volevate liberarvi di Babbo Natale. Come mai?" L'uomo esitò. "Era già stato licenziato" ammise alla fine. Quando Erlendur lo trovò, il direttore era seduto a un tavolone in cucina, si era messo un grembiule da cuoco e stava divorando gli avanzi dei vassoi mezzo vuoti del buffet. "Lei non immagina nemmeno quanto adori mangiare" gli disse e si pulì la bocca appena notò che Erlendur lo stava fissando. "In santa pace" aggiunse. "La capisco perfettamente" disse l'agente. Erano soli nella grande cucina lustra. Erlendur non poteva far altro che ammirarlo. Mangiava in fretta, ma con grande perizia e senza avidità. C'era quasi un che di raffinato nei movimenti delle mani. I bocconi gli sparivano in bocca uno dopo l'altro, senza eccessi, e con un'evidente passione. Adesso che il cadavere era stato rimosso dall'albergo e la polizia se n'era andata insieme ai giornalisti piazzati all'esterno, era più rilassato; la polizia aveva ordinato alla stampa di non entrare, perché tutto l'edificio era stato dichiarato scena del crimine. Il personale stava per tornare alle solite occupazioni. Pochissimi ospiti stranieri sapevano del cadavere nel seminterrato, eppure molti di loro avevano notato un certo movimento e il viavai di agenti, così Arnaldur Indridason – La Voce
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avevano fatto qualche domanda in giro. Il direttore aveva ordinato ai dipendenti di dire che una persona anziana era morta per arresto cardiaco. "So che cosa sta pensando, le sembro un maiale, non è così?" disse e smise di masticare per bere un sorso di vino rosso. Teneva il dito mignolo, delle dimensioni di un piccolo salsicciotto, sollevato. "No, ma capisco perché vuol dirigere un albergo" rispose Erlendur. Poi perse la pazienza. "Si sta uccidendo, lo sa?" azzardò. "Peso centottanta chili" confessò il direttore. "I maiali da macello non pesano molto di più. Sono sempre stato grasso. Non so come sia non esserlo. Non ho mai fatto una dieta. Non ho mai nemmeno pensato di cambiare stile di vita, come si suol dire. Mi sento bene. Meglio di lei, a quanto vedo" aggiunse. Erlendur ricordò di aver sentito dire che le persone grasse sono più felici di quelle magre, ma non ci credeva. "Meglio di me?" gli disse e sorrise appena. "Lei non mi conosce. Perché ha licenziato il portiere?" Il direttore aveva ricominciato a mangiare e passarono alcuni minuti prima che mettesse giù le posate. Erlendur attese paziente. Si accorse che l'uomo stava pensando alla risposta migliore da dargli, a come formularla, e anche a chi avesse lasciato trapelare la notizia. "Le cose non vanno molto bene" spiegò infine. "Registriamo il tutto esaurito in estate, durante il periodo natalizio e per l'ultimo dell'anno abbiamo un aumento di presenze, ma poi arrivano i tempi morti, e allora sì che è dura. I proprietari ci hanno detto di tagliare le spese. Ridurre il personale. Mi sembrava inutile avere un portiere a stipendio pieno per tutto l'anno." "Ma mi pare di capire che fosse molto di più che un semplice portiere. Faceva anche Babbo Natale, per esempio. Era un tuttofare, insomma. Un uomo dalle mille risorse. Riparava le cose. Più che altro era un custode." Il direttore era ancora impegnato a ingozzarsi di cibo, così la conversazione dovette registrare un'altra battuta d'arresto. Erlendur si guardò intorno. La polizia aveva permesso ai dipendenti che avevano finito il turno di andare a casa dopo aver preso nota dei loro nomi e indirizzi; ancora non era stato accertato con chi avesse parlato per ultimo il morto o che cosa avesse fatto nel suo ultimo giorno di vita. Nessuno aveva notato niente di insolito. Nessuno aveva visto qualcuno scendere nel seminterrato. Nessuno sapeva se Babbo Natale ricevesse visite nella sua stanza. Anzi, in pochi sapevano che abitava lì sotto, che quella stanzetta era casa sua, e oltretutto sembrava volessero tutti dedicargli la minima attenzione possibile. In pochi ammettevano di conoscerlo, in apparenza non aveva nessun amico in albergo. Ai dipendenti non risultava nemmeno che ne avesse al di fuori, a dire il vero. Praticamente era solo al mondo, pensò Erlendur. "Nessuno è insostituibile" riprese il direttore, sollevando il salsicciotto che aveva al posto del mignolo, mentre si scolava un altro sorso di vino rosso. "È ovvio che non è mai divertente licenziare le persone, ma non ci possiamo Arnaldur Indridason – La Voce
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permettere di mantenere un portiere tutto l'anno. Per questo è stato licenziato. Non per altro. E poi non c'è nemmeno un granché da fare, all'ingresso. Si metteva l'uniforme quando arrivava qualche star del cinema o un capo di stato straniero, e cacciava le persone indesiderate che si intrufolavano nella hall." "Quando è stato licenziato l'aveva presa male?" "Credo avesse capito la situazione." "Vi mancano forse dei coltelli in cucina?" gli chiese Erlendur. "Non lo so. Perdiamo coltelli, forchette e bicchieri per decine di migliaia di corone ogni anno. E anche asciugamani e... Crede che sia stato ucciso con uno dei nostri coltelli?" "Non lo so." Erlendur lo osservò mentre continuava a mangiare. "Ha lavorato qui per oltre vent'anni, ma nessuno lo conosceva. Non le sembra insolito?" "Il personale va e viene" rispose il direttore, alzando le spalle. "C'è grande ricambio in un ambiente del genere. Credo che la gente sapesse chi era, ma come si fa a dire di conoscere bene qualcuno? Non lo so. Io stesso non conosco bene nessuno, qui dentro." "Lei invece, nonostante i cambiamenti, è rimasto." "È difficile liberarsi di uno come me." "Perché ha detto di volerlo cacciare via?" "Ho detto questo?" "Sì." "Era tanto per dire. Non intendevo niente di preciso." "Ma l'aveva già licenziato e aveva intenzione di cacciarlo via" gli fece notare Erlendur. "Poi però arriva qualcuno e lo ammazza. Ultimamente non ha certo trascorso delle giornate allegre, eh?" Mentre trangugiava torte e mousse con le eleganti movenze di un buongustaio, cercando di godersi quelle squisitezze, il direttore si comportò come se l'agente non esistesse nemmeno. "Perché non se n'era ancora andato, visto che l'avevate licenziato?" "Sarebbe dovuto andare via alla fine del mese. Ho insistito, ma non gli ho messo fretta. Avrei dovuto farlo. Almeno mi sarei evitato questa grana." Erlendur lo osservò in silenzio mentre spazzava via tutto quel cibo. Sarà stato il buffet. O l'appartamento tetro nel condominio. O il periodo dell'anno. Il cibo preconfezionato che lo aspettava a casa. Passare il Natale da solo. Chissà, non lo sapeva. In qualche modo la domanda gli uscì quasi spontanea, prima che se ne rendesse conto. "Una stanza?" ripetè il direttore, come se non capisse di che cosa stava parlando. "Non ho particolari esigenze" disse Erlendur. "Vuol dire che è per lei?" "Una singola. Va bene anche senza la televisione." "Mi spiace, siamo al completo." Il direttore lo fissò. Non aveva alcuna intenzione di ritrovarsi un poliziotto fra i piedi notte e giorno. "Il responsabile della reception ha detto che c'era una stanza libera" mentì Erlendur, facendosi più deciso. "Ha detto che non era un problema, dovevo solo parlarne con lei." Il direttore lo fissò. Poi chinò lo sguardo sulla mousse ancora da finire. E allontanò il piatto, perché ormai aveva perso l'appetito. Faceva freddo nella stanza. Erlendur era in piedi davanti alla finestra e Arnaldur Indridason – La Voce
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guardava fuori, ma non vedeva altro che la sua immagine riflessa nel vetro buio. Era passato molto tempo dall'ultima volta che si era trovato faccia a faccia con quell'uomo, e notò che aveva cominciato a invecchiare. Accanto a sé e tutto intorno, i fiocchi di neve cadevano lenti a terra, come se il cielo si fosse squarciato e da esso cadesse polvere sul mondo. Gli venne in mente un volumetto di versi che aveva a casa, belle traduzioni di alcune poesie di Hòlderlin. Lasciò che la mente vagasse senza meta fra le liriche, finché non si fermò su un verso che sapeva avere a che fare con l'uomo che lo guardava negli occhi alla finestra. Muraglie stanno fredde e mute, stridono i segnavento. Stava per addormentarsi, quando qualcuno bussò alla porta della sua stanza e una voce sussurrò il suo nome. Capì subito chi era. Aprì la porta e nel corridoio vide sua figlia Èva Lind. Si guardarono negli occhi, poi lei gli sorrise e si infilò nella stanza, passandogli accanto. L'agente allora chiuse la porta. La ragazza si sedette alla piccola scrivania e tirò fuori un pacchetto di sigarette. "Credo sia vietato fumare qui dentro" disse Erlendur, che aveva rispettato il divieto. "Sì" rispose Èva Lind e pescò una sigaretta dal pacchetto. "Perché fa così freddo?" "Il termosifone dev'essere rotto." Erlendur si sedette sul bordo del letto. Era in mutande, così si tirò le coperte fin sulla testa e le spalle, come se fossero un guscio. "Che fai?" gli chiese Èva Lind. "Ho freddo." "No, che fai in questa stanza d'albergo? Perché non te ne vai a casa?" Inspirò profondamente il fumo fin dentro i polmoni, bruciando quasi un terzo della sigaretta, poi espirò con tanta forza che la stanza si offuscò in un istante. "Non lo so. Non ho..." Erlendur tacque. "Non hai più voglia di tornare a casa tua?" "Pensavo che questa fosse la soluzione più adatta. Oggi qui in albergo hanno ucciso un uomo, l'hai saputo?" "Un certo Babbo Natale, giusto? È stato ammazzato?" "Era il portiere. Doveva fare Babbo Natale alla festa per i bambini. Tu come te la passi?" "Bene" rispose Èva Lind. "Lavori ancora?" "Sì." Erlendur la guardò. Il suo aspetto era migliorato. Era sempre magra, ma le ombre scure sotto i begli occhi azzurri si erano attenuate, e non era più emaciata come prima. A quanto ne sapeva lui, non toccava droghe da quasi otto mesi. Da quando aveva perso il bambino ed era rimasta in coma in ospedale fra la vita e la morte. Una volta dimessa, si era trasferita da lui e si era trovata un lavoro fisso per la prima volta in due anni. Avevano vissuto insieme per sei mesi, poi di recente aveva preso in affitto una stanza in centro. "Come mi hai trovato?" "Il cellulare era spento, allora ho telefonato alla centrale e mi hanno detto che eri qui. Quando ho chiesto di te in albergo, ho saputo che avevi preso una stanza. Che ti succede? Perché non torni a caArnaldur Indridason – La Voce
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sa?" "Non so cosa sto facendo" confessò Erlendur. "Il Natale è un periodo strano." "Sì" convenne Èva Lind, e tacquero entrambi. "Hai notizie di tuo fratello?" le chiese. "Sindri lavora ancora all'estero" disse Èva Lind, poi diede un altro tiro, bruciando fino al filtro la sigaretta, che sibilò; la cenere cadde per terra. Cercò un portacenere ma non lo trovò, così lasciò la sigaretta appoggiata sul piano della scrivania perché si spegnesse del tutto. "E tua madre?" continuò Erlendur. Erano sempre le stesse domande, e in genere anche le risposte non cambiavano. "Tutto okay. Lavora come una schiava, al solito." Erlendur rimase in silenzio sotto le coperte. Èva Lind osservò il fumo azzurrino della sigaretta levarsi dal tavolo. "Non so se ce la faccio ad andare avanti" disse e si concentrò sul fumo. Erlendur tirò fuori la testa. In quel momento bussarono alla porta e i due si guardarono a vicenda, sorpresi. Èva si alzò e andò ad aprire. Davanti alla porta, in corridoio, c'era un dipendente dell'albergo in livrea. Comunicò di essere della reception. "È proibito fumare nelle camere" fu la prima cosa che disse, guardando dentro la stanza. "Le ho chiesto di spegnerla" si giustificò Erlendur in mutande da sotto le coperte. "Non mi ascolta mai." "È proibito portare ragazze in camera" aggiunse l'uomo. "Sa, è per via di quanto è successo..." Èva Lind sorrise appena e si voltò a guardare suo padre. Erlendur alzò gli occhi verso la figlia e poi guardò il dipendente. "Ci è stato riferito che una ragazza era salita da lei. Non si può. Deve uscire, signorina. Subito." L'uomo aspettava sulla porta che Èva Lind lo seguisse. Erlendur si alzò, ancora con la coperta intorno alle spalle, e gli si avvicinò. "È mia figlia" disse. "Sì, certo" rispose l'altro, come se la cosa non lo riguardasse. "È la verità" insisté Èva Lind. L'uomo li guardò a turno, prima l'uno, poi l'altra. "Non voglio problemi" disse. "Se ne vada e ci lasci in pace" gli intimò Èva Lind. Ma lui rimase lì a fissarla, poi guardò Erlendur in mutande sotto la coperta, dietro di lei, e non si spostò. "Il termosifone è guasto" intervenne Erlendur. "Non riscalda." "La signorina deve venire con me" ribadì l'uomo. Èva Lind guardò suo padre e alzò le spalle. "Ci sentiamo" gli disse. "Non ho voglia di star qui ad ascoltare queste stronzate." "In che senso non sai se ce la fai ad andare avanti?" le domandò Erlendur. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Ci sentiamo" concluse Èva Lind e sparì oltre la porta. L'uomo sorrise a Erlendur. "Ha intenzione di fare qualcosa per il termosifone?" gli chiese. "Riferirò" rispose, poi chiuse la porta. Erlendur sedette di nuovo sul bordo del letto. Èva Lind e Sindri Snaer erano il frutto di un matrimonio malriuscito che si era concluso più di vent'anni prima. Dopo il divorzio, Erlendur quasi non aveva avuto contatti con i figli. La sua ex moglie, Halli lóra, aveva deciso così. Si era sentita ingannata e aveva usato i I bambini per rivalersi su di lui. Erlendur l'aveva lasciata fare, ma si era sempre pentito di non aver insistito di più per poter stare con loro. Si era pentito di aver lasciato che decidesse tutto quanto lei. Una volta cresciuti, però, erano stati i suoi figli a cercarlo. Ma Èva Lind si drogava, e Sindri aveva già alle spalle un ricovero in un centro di disintossicazione per alcolizzati. Sapeva cosa intendeva dire Èva Lind quando gli aveva confidato che non era sicura di farcela ad andare avanti. Non era andata in terapia. Non si era rivolta a nessuna clinica che potesse risolvere i suoi problemi. Li aveva affrontati da sola, senza l'aiuto del padre. Quando si parlava della sua vita, era sempre chiusa, rancorosa e intransigente. Non era riuscita a smettere di drogarsi, malgrado la gravidanza. Aveva tentato, ma poi aveva lasciato perdere, non era abbastanza costante. Ci provava, ed Erlendur sapeva che faceva sul serio, ma era un'impresa al di sopra delle sue possibilità, e finiva sempre per ricaderci. Lui non capiva perché fosse così dipendente dalla droga, tanto da mettere in secondo piano tutto il resto. Non sapeva da cosa scaturiva questa volontà di autodistruzione, ma era consapevole di averla delusa in qualche modo. Per certi versi, anche lui era responsabile di quello che le era successo. Quando Èva Lind era in coma, le era rimasto seduto accanto in ospedale e le aveva parlato, perché il medico gli aveva detto che probabilmente riusciva a sentire la sua voce e magari anche a percepirne la vicinanza. Qualche giorno dopo aveva ripreso conoscenza, e la prima cosa che aveva chiesto era stata di poter vedere suo padre. Era così debole che riusciva a malapena a parlare. Erlendur l'aveva raggiunta, ma lei dormiva, così le si era seduto accanto e aveva atteso che si svegliasse. Quando infine sua figlia aveva aperto gli occhi e l'aveva visto, gli era sembrato che cercasse di sorridere, ma poi le era venuto da piangere e allora lui si era alzato e l'aveva abbracciata, Eva Lind tremava, così aveva cercato di tranquillizzarla, l'aveva aiutata ad appoggiarsi di nuovo contro il cuscino e le aveva asciugato le lacrime. "Dove sei stata in questi lunghissimi giorni?" le aveva detto, accarezzandole la guancia e cercando di sorriderle per rassicurarla. "Dov'è il bambino?" gli aveva chiesto lei. "Non ti hanno detto cos'è successo?" "L'ho perso. Ma non mi hanno detto se era maschio o femmina. Non ho potuto nemmeno vederlo. Non si fidano di Arnaldur Indridason – La Voce
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me..." "C'è mancato poco che perdessi anche te." "Dov'è?" Erlendur era stato a vedere il feto morto in obitorio: era una bambina, che forse si sarebbe chiamata Auòur. "Vuoi vederla?" le aveva chiesto. "Scusami" aveva risposto Èva Lind piano. "Per cosa?" "Per come sono. Perché la bimba..." "Non chiedermi di perdonarti per come sei, Èva. Non devi chiedere scusa per quello che sei." "Invece sì." "Non sei la sola a decidere del tuo destino." "Vuoi...?" Èva Lind aveva smesso di parlare ed era rimasta priva di forze sul letto. Erlendur aveva atteso in silenzio che si riprendesse. C'era voluto un bel po', ma infine l'aveva guardato. "Vuoi aiutarmi a seppellirla?" gli aveva chiesto. "Certo. "Voglio vederla." "Credi che...?" "Voglio vederla" aveva ripetuto. "Per favore. Lascia che la veda." Erlendur aveva esitato, ma poi era sceso in obitorio a prendere il corpo senza vita della bambina che lui chiamava Auòur, perché non voleva che restasse senza un nome. L'aveva portata lungo i corridoi dell'ospedale fino al reparto di terapia intensiva avvolta in un asciugamano bianco, perché Èva era troppo debole per potersi muovere. La ragazza aveva preso sua figlia e l'aveva guardata, poi aveva guardato suo padre. "È colpa mia" aveva sussurrato. Erlendur credeva che sarebbe scoppiata a piangere ed era rimasto sorpreso vedendo che non lo faceva. Piuttosto aveva un'aria tranquilla, che nascondeva il disprezzo che invece provava per se stessa. "Non ti farebbe male piangere" le aveva detto. Èva l'aveva guardato. "Non merito di piangere." Poi si era ritrovata seduta su una sedia a rotelle nel cimitero di Fossvogur a osservare il sacerdote gettare la terra sulla bara, con un'espressione innegabilmente austera. Si era alzata con difficoltà, ma, quando Erlendur si era offerto di aiutarla, l'aveva respinto. Aveva fatto il segno della croce sulla tomba di sua figlia con labbra tremanti; forse lottava per trattenere le lacrime, oppure stava recitando una preghiera, Erlendur non l'aveva capito. Era una bella giornata di primavera, il sole scintillava sul mare immobile nella baia, in lontananza la gente passeggiava sulla spiaggia di Nauthólsvìk. Halldóra era rimasta in disparte e Sindri Snaer stava sull'orlo della fossa, lontano da suo padre. Non si sarebbero potuti disporre più lontani di così l'uno dall'altro, un nucleo famigliare disgregato che non aveva nulla in comune se non le disgrazie di una vita. È la prima volta in quasi un quarto di secolo che la famiglia è riunita, aveva pensato Erlendur. Si era voltato verso Halldóra, che aveva sempre evitato di guardare nella sua direzione. Lui non le aveva rivolto la parola, e viceversa. Quando Èva Lind si era lasciata cadere sulla sedia a rotelle, Erlendur l'aveva soccorsa e l'aveva sentita lamentarsi. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Che vita di merda." Erlendur si riebbe dai suoi pensieri e si ricordò all'improvviso di una cosa che gli aveva detto il tipo della reception; voleva insistere per farsela spiegare meglio, ma poi se n'era dimenticato. Si alzò e uscì in corridoio, e lo vide sparire in ascensore. Èva non c'era più. Sentendosi chiamare, l'uomo bloccò le porte dell'ascensore, tornò in corridoio e osservò Erlendur che gli stava davanti a piedi nudi, in mutande e con la coperta ancora addosso. "Prima, quando ha detto: 'per via di quanto è successo', che cosa intendeva?" gli chiese Erlendur. "Per via di quanto è successo?" ripetè l'uomo con un'espressione stupita. "Sì, lei ha detto che è proibito portare ragazze in camera per via di quanto è successo." "Ah, sì." "Voleva dire per quello che è successo a Babbo Natale nel seminterrato?" "Sì. Ma che ne sa, lei, di...?" Erlendur si guardò le mutande ed ebbe un momento di esitazione. "Prendo parte alle indagini" disse. "Alle indagini della polizia." L'uomo lo fissò, evidentemente incredulo. "Perché ha collegato le due cose?" si affrettò ad aggiungere Erlendur. "Non la capisco" rispose l'altro, esitando. "È come dire che se Babbo Natale non fosse stato ucciso, allora avrei potuto portare in camera una ragazza. Lei ha detto così. Capisce cosa intendo, adesso?" "No. Davvero ho detto: 'per via di quanto è successo'? Non me lo ricordo." "Ha detto proprio così. La ragazza non poteva stare in camera con me per via di quanto era successo. Lei ha creduto che mia figlia fosse..." Erlendur cercò un modo elegante per dirlo, ma non lo trovò. "Ha creduto che mia figlia fosse una prostituta, ed è venuto a cacciarla perché Babbo Natale era stato ucciso. Se non fosse successo, allora in camera potevo portarmi chi volevo. Di norma permettete agli ospiti di portarsi ragazze in camera?" L'uomo lo guardò. "Che cosa intende con 'ragazze'?" "Puttane" specificò Erlendur. "Ci sono puttane che si intrufolano in albergo e si infilano nelle camere, mentre voi girate la testa da un'altra parte? Ma dopo l'omicidio non potete più farlo, vero? Babbo Natale cosa c'entra? Era collegato in qualche modo a questo giro?" "Non so di cosa stia parlando" rispose l'addetto alla reception. Erlendur cambiò tattica. "Posso capire che vogliate andarci coi piedi di piombo, visto che in albergo è stato commesso un omicidio. Non volete richiamare l'attenzione su niente di insolito o di anormale, anche se in sé e per sé si tratta di una cosa innocente, non c'è niente da dire. Per me le persone possono fare quello che vogliono, pure pagare per questo. Però devo sapere se Babbo Natale era coinvolto in un giro di prostituzione qui in albergo." "Non mi risultano giri di prostituzione" ribadì l'uomo. "Come ha visto, stiamo attenti che nessuna ragazza salga da sola ai piani. Era davvero sua figlia?" "Sì." "Mi ha detto di andare a farmi fottere." "E da lei." Erlendur chiuse la porta della camera, si sdraiò sul letto e si addormentò in fretta, poi sognò che il cielo gli si adagiaArnaldur Indridason – La Voce
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va sopra e sentiva il cigolio delle banderuole mosse dal vento.
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SECONDO GIORNO † Il mattino dopo, quando Erlendur scese nella hall e chiese di lui, il responsabile della reception non si era ancora presentato al lavoro. Non aveva motivato l'assenza, né telefonato per dire che era ammalato o che si prendeva un giorno libero per sbrigare delle commissioni. Una donna sulla trentina, sua collega, gli confermò che in effetti era un fatto insolito che il responsabile non fosse arrivato all'ora stabilita, perché era sempre molto puntuale, ed era inspiegabile che non avesse avvertito se gli serviva un permesso. Tutto ciò glielo disse tra un'interruzione e l'altra, mentre un incaricato del laboratorio d'analisi dell'ospedale le prendeva un campione di saliva. In tre stavano prelevando campioni di saliva a tutto il personale dell'albergo. Altri si erano recati a casa dei dipendenti che erano in ferie. Presto sarebbero stati in possesso dei dati di tutti, che avrebbero poi confrontato con la saliva trovata sul preservativo di Babbo Natale. Gli investigatori avevano interrogato i dipendenti e chiesto loro se conoscevano Gudlaugur e dove si trovavano nel tardo pomeriggio del giorno precedente. Mentre venivano raccolte prove e informazioni, l'intero dipartimento di polizia prendeva parte alle indagini. "E allora che mi dici di quelli che hanno appena lasciato il lavoro, o che lavoravano qui l'anno scorso o chissà quando, e conoscevano Babbo Natale?" chiese Siguròur Òli a Erlendur. Gli si mise a sedere accanto nella sala da pranzo e lo guardò gustarsi aringa e pane di segale, prosciutto freddo, pane tostato e caffè bollente. "Vediamo cosa emerge da queste prime analisi" rispose, sorseggiando il caffè caldo. "Hai scoperto qualcosa su questo Gudlaugur?" "Non molto. Pare ci sia ben poco da dire su di lui. Aveva quarantotto anni, era scapolo e senza figli. Lavorava qui da una ventina d'anni, più o meno. Mi risulta che abitasse in quello stanzino da sempre. All'inizio doveva essere solo una soluzione temporanea, mi pare di aver capito dal direttore grassone, che a ogni modo sostiene di non conoscere la storia nei dettagli. Ci ha suggerito di parlare con il suo predecessore. Era stato lui a prendere accordi con Babbo Natale. Il grassone ritiene che Gudlaugur fosse stato sfrattato e che avesse avuto il permesso di tenere le sue cianfrusaglie nel seminterrato, solo che poi la cosa è andata per le lunghe e non se ne è più andato da lì." Siguròur Òli tacque. "Elìnborg mi ha detto che hai dormito qui in albergo stanotte." "Non me la sento proprio di consigliartelo. La stanza è fredda e i dipendenti non ti lasciano in pace. Però si mangia bene. A proposito, dov'è Elinborg?" La sala da pranzo era in fermento, si sentiva il brusio degli ospiti che si servivano al buffet della prima Arnaldur Indridason – La Voce
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colazione. Erano per lo più stranieri, indossavano maglioni di lana tradizionali, scarponi da trekking e vestiti pesanti, anche se poi non si spingevano oltre il centro cittadino, a dieci minuti a piedi dall'albergo. I camerieri si assicuravano che avessero le tazze sempre piene di caffè e ritiravano i piatti sporchi. In sottofondo si sentivano canti natalizi. "L'udienza principale inizia oggi, lo sapevi?" gli chiese Siguròur Òli. "Sì." "Elìnborg è là. Come credi che andrà a finire?" "Credo che gli daranno solo pochi mesi, e con la condizionale. Questi maledetti giudici fanno sempre così." "Non gli faranno mica tenere il bambino, spero." "Non lo so" disse Erlendur. "Quell'uomo è una bestia" commentò Siguròur Òli. "Dovrebbero metterlo alla gogna sulla Laekjatorg." Era stata Elinborg a condurre le indagini. Un bambino di otto anni era stato ricoverato in ospedale per gravi violenze fisiche. Non era riuscito a dire niente sull'aggressione. In un primo momento si pensava fosse stato aggredito fuori da scuola dai compagni delle classi superiori, che l'avevano picchiato fino a spaccargli un braccio, incrinargli la mascella e rompergli due denti dell'arcata superiore. Così mal ridotto, era tornato a casa a fatica. Suo padre aveva avvertito la polizia poco più tardi, appena rincasato dal lavoro, e un'ambulanza lo aveva portato al pronto soccorso. Il bambino era figlio unico. Quando l'aggressione aveva avuto luogo, sua madre era ricoverata nell'ospedale psichiatrico di Kleppur. Il bimbo abitava con il padre, titolare e gestore di un'azienda informatica, in una bella villetta singola a due piani in una zona panoramica di Breiòholt. Com'era prevedibile, l'uomo era disperato e minacciava di vendicarsi dei ragazzi che avevano aggredito suo figlio in modo tanto brutale. Pretendeva che Elinborg li consegnasse alla giustizia. Forse, se non fosse stata una casa a due piani e se la camera del bimbo non si fosse trovata al piano superiore, Elinborg non avrebbe mai scoperto la verità. "Se l'è presa molto a cuore" disse Siguròur Òli. "Anche lei ha un figlio della stessa età." "Non bisogna lasciarsi coinvolgere troppo" rispose Erlendur distratto. "E chi lo dice?" La serenità del buffet della prima colazione fu interrotta da schiamazzi provenienti dalla cucina. Gli ospiti alzarono la testa e si guardarono a vicenda. Si sentì un uomo sbraitare con voce stentorea. Erlendur e Siguròur Òli si alzarono ed entrarono in cucina. Era il capocuoco, lo stesso che aveva sorpreso Erlendur a prendere con le mani la fetta di lingua di bue e a infilarsela in bocca. Stava imprecando contro un'analista che voleva prelevargli un campione di saliva. "... E si tolga immediatamente dalle palle, lei e il suo tampone del cazzo!" urlò a una donna sulla cinquantina che teneva una scatoletta per tamponi aperta sul tavolo. Malgrado quello scatto di rabbia, lei continuava a insistere cortesemente, un atteggiamento che non contribuiva di certo a placare Arnaldur Indridason – La Voce
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il temperamento sanguigno dell'uomo. E quando vide Erlendur e Siguròur Òli, si infuriò ancora di più. "Siete matti?" urlò. "Credete che sia andato da Gulli per infilargli un preservativo sull'uccello? Ma siete fuori di testa? Cazzo, che idioti! Zero, non ci penso proprio. Non me ne frega un cazzo di quello che dite! Potete anche sbattermi in cella e buttare via la chiave, ma non mi faccio coinvolgere in una stronzata del genere! Avete capito? Idioti del cazzo che non siete altro!" Uscì dalla cucina a grandi falcate, gonfio di virile indignazione che, però, il bianco cappello a forma di comignolo contribuiva a smorzare, e non poco, tanto che Erlendur non potè trattenersi dal sorridere. Guardò l'analista, che prima gli sorrise, poi scoppiò a ridere. La tensione in cucina si allentò. Anche i cuochi e i camerieri che si erano radunati tutt'intorno scoppiarono in una grassa risata. "Le creano problemi?" chiese Erlendur all'analista. "No, assolutamente" rispose la donna. "A dire il vero, sono tutti molto comprensivi. Solo questo signore pensa sia una cosa che non sta né in cielo né in terra." La donna gli fece un altro sorriso, ed Erlendur lo trovò piacevole. Era alta come lui, aveva i capelli corti, biondi e folti, e indossava una maglia colorata fatta a mano, abbottonata sul davanti, con sotto una camicia bianca. Portava i jeans e un paio di scarpe eleganti di pelle nera. "Mi chiamo Erlendur" si presentò quasi d'istinto, porgendole la mano. Lei si agitò un pochino. "Si" disse poi, e gliela strinse. "Piacere, Valgeròur." "Valgeròur?" ripetè Erlendur. Non vide alcuna fede al dito. Gli squillò il cellulare nella tasca della giacca. "Mi scusi" disse, prima di rispondere. Sentì una voce familiare, che gli chiese: "Sei tu?" "Sì, sono io." "Non ci capisco niente con questi cellulari. Dove sei? In albergo? Forse sei di fretta. O in ascensore." "Sono in albergo." Erlendur coprì il telefono con la mano e chiese a Valgeròur di aspettare un momento, poi andò nella hall passando dalla sala da pranzo. Era Marion Briem. "Cos'è, adesso dormi in albergo?" gli domandò. "C'è qualcosa che non va? Perché non torni a casa?" Marion Briem aveva lavorato nella polizia di stato, quando ancora esisteva, ed era stata il superiore di Erlendur. Quando aveva iniziato a lavorare, lei ricopriva già quella carica, gli aveva insegnato il mestiere. Adesso, a volte gli telefonava e si lamentava perché non andava mai a trovarla. Lui non aveva mai legato molto con Marion, suo superiore nonché collega, e non sentiva alcun bisogno particolare di andare a trovarla ora che era vecchia. Forse perché erano troppo simili, loro due. Forse perché vedeva in Marion quello che sarebbe diventato in futuro e voleva evitarlo. Lei conduceva una vita molto solitaria, e la vecchiaia la annoiava. "Perché hai chiamato?" le chiese Erlendur. "C'è ancora qualcuno che mi permette di seguire le indagini, anche se non Arnaldur Indridason – La Voce
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sei certo tu" rispose Marion. Erlendur voleva chiudere la conversazione al più presto, ma esitò un attimo. Marion l'aveva aiutato in precedenza, e senza che glielo avesse mai chiesto. Non poteva essere troppo scortese con lei. "Posso aiutarti in qualche modo?" le domandò. "Dammi il nome di quell'uomo. Potrei trovare qualcosa che a voi è sfuggito." "Tu non molli mai, eh?" "Mi annoio" spiegò Marion. "Non puoi immaginare quanto. Sono andata in pensione quasi dieci anni fa, e ogni giorno che passa in quest'inferno sembra un'eternità, te lo assicuro. È come se ogni giorno durasse mille anni." "Organizzano diverse cose per gli anziani, sai? Che ne dici della tombola?" le suggerì Erlendur. "La tombola!" sbottò Marion. Erlendur le diede il nome di Gudlaugur, poi le illustrò brevemente il caso e la salutò, in modo da non sembrare troppo maleducato. Il telefono squillò di nuovo quasi immediatamente. "Sì?" "Abbiamo trovato un biglietto nella stanza dell'uomo" disse una voce. Era il capo della scientifica. "Un biglietto?" "C'è scritto: Henry 18.30." "Henry? Aspetta, a che ora ha trovato Babbo Natale, la ragazza?" "Verso le sette." "Allora questo Henry poteva trovarsi nella stanza quando Gudlaugur è stato ucciso?" "Non lo so. Ah, ci sarebbe un'altra cosa." "Continua." "Può darsi che il preservativo appartenesse a Babbo Natale. Nella tasca dell'uniforme da portiere ce n'era un pacchetto da dieci. E ne mancano tre." "Qualcos'altro?" "No, solo una banconota da cinquecento corone, una vecchia carta d'identità e uno scontrino del supermercato, con la data dell'altro ieri. Ah, sì, e un portachiavi con attaccate due chiavi." "Fatte come?" "Una mi sembra possa aprire la porta di un appartamento, ma potrebbe essere anche di un armadio o qualcosa del genere. L'altra è molto più piccola." Poi si salutarono, ed Erlendur si guardò intorno in cerca di Valgeròur, ma era sparita. Fra gli ospiti stranieri dell'albergo ce n'erano due che si chiamavano Henry. Uno veniva dagli Stati Uniti, Henry Bartlet, mentre l'altro, Henry Wapshott, era inglese. Quando l'avevano chiamato al telefono, quest'ultimo non aveva risposto, mentre Bardet era nella sua stanza e rimase molto sorpreso nello scoprire che la polizia islandese voleva parlargli. La storia dell'uomo morto per arresto cardiaco inventata dal direttore era circolata a dovere. Erlendur volle andare a trovarlo con Siguròur Òli, perché il collega aveva studiato criminologia negli Stati Uniti e ne andava particolarmente fiero. Parlava inglese come un madrelingua e, anche se l'accento americano, così cantilenante, lo infastidiva parecchio, Erlendur dovette rassegnarsi. Salendo al piano, Siguròur Òli gli disse che ormai avevano parlato con quasi tutti i dipendenti dell'albergo di turno quando Gudlaugur era stato ucciso, e ognuno di loro era riuscito a dimostrare i propri spostamenti e a indicare testimoni che avrebbero potuto confermarne l'alibi. Bartlet era un agente di borsa del Colorado sulla trentina. Alcuni anni prima, Arnaldur Indridason – La Voce
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lui e la moglie avevano visto alla televisione un documentario sull'Islanda ed erano rimasti incantati dalla bellezza della natura e dalla Laguna Blu, e da allora erano già tornati tre volte. Avevano deciso di realizzare il proprio sogno e trascorrere Natale e Capodanno in questo regno invernale così remoto. Apprezzavano molto la bellezza del paesaggio, ma trovavano esorbitanti i prezzi dei ristoranti e dei locali della città. Siguròur Òli annuì. Per lui gli Stati Uniti erano il paradiso terrestre. Ci teneva molto a incontrare la coppia e a parlare con loro di baseball e di come gli americani si preparano al Natale, disse, finché Erlendur ne ebbe abbastanza e gli diede una gomitata. Allora raccontò loro dell'omicidio del portiere e del biglietto trovato nella sua stanza. Henry Bartlet e la sua signora fissarono i due agenti come se si fossero improvvisamente ritrovati su un altro pianeta. "Voi non conoscevate il portiere, vero?" domandò Siguròur Òli, vedendoli così sorpresi. "Un omicidio?" chiese stupito Henry. "Qui in albergo?" "Oh, my God!" esclamò sua moglie, sedendosi sul letto matrimoniale. Siguròur Òli decise di non menzionare il preservativo. Spiegò che, stando al biglietto, Gudlaugur aveva incontrato o doveva incontrare un certo Henry, ma non sapevano in quale giorno, né se l'appuntamento avesse avuto luogo o se invece fosse fissato per due giorni, una settimana, dieci giorni dopo. Henry Bartlet e sua moglie negarono con decisione di conoscere il portiere. Non l'avevano nemmeno notato quando erano arrivati in albergo quattro giorni prima. Era evidente che Erlendur e Siguròur Òli li avevano turbati. "Jesus" sospirò Henry. "A murder!" "You bave murders in Iceland?" chiese la donna aveva detto di chiamarsi Cindy quando si erano presentati e guardò l'opuscolo della compagnia aerea di bandiera sul tavolo. "Rarely" rispose Siguròur Òli, cercando di sorridere. "Non è detto che questo Henry sia per forza un ospite dell'albergo" riflette Siguròur Òli mentre aspettavano l'ascensore per scendere. "E nemmeno che sia straniero. Ci sono anche degli islandesi che si chiamano Henry." "Sicuro" rispose Erlendur. "Della stirpe di Strókahlìò." Siguròur Òli aveva rintracciato l'ex direttore dell'albergo, quindi, scesi nella hall, salutò il collega e andò da lui. Erlendur chiese del responsabile della reception, ma ancora non era arrivato al lavoro e non aveva dato sue notizie. Henry Wapshott aveva restituito la chiave della stanza di buon'ora, quella mattina, senza che nessuno lo notasse. Soggiornava in albergo da quasi una settimana e aveva intenzione di rimanerci per altri due giorni. Erlendur chiese di essere avvertito non appena si fosse presentato di nuovo alla reception. Il direttore dell'albergo arrancò a passi pesanti verso di lui. "Spero non stia disturbando i miei ospiti" gli disse. Erlendur lo prese da parte. "Come funziona il giro di prostitute in quest'albergo?" gli chiese diretto, acArnaldur Indridason – La Voce
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canto all'albero di Natale nella hall. "Prostitute? Ma di che cosa sta parlando?" Il direttore fece un sospiro profondo e si asciugò il collo con il fazzoletto spiegazzato. Erlendur lo osservò, in attesa. "Non tirerà fuori qualche altra stronzata, adesso" continuò il direttore. "Il portiere era coinvolto in qualche giro strano?" "La smetta. Non abbiamo tro... non abbiamo prostitute, qui." "Ce ne sono in tutti gli alberghi." "Davvero? Lo sa per esperienza?" Erlendur non gli rispose. "Sta dicendo che il portiere era un protettore?" chiese il direttore scandalizzato. "Non ho mai sentito una sciocchezza più grossa in tutta la mia vita. Questo non è un locale di spogliarelliste. È il secondo albergo più grande di Reykjavik!" "Niente donne al bar o nella hall che abbordano gli uomini? Che salgono in camera con loro?" Il direttore era incerto sul da farsi. A quanto pareva, voleva evitare di mettersi contro Erlendur. "Questo è un grande albergo" disse infine. "Non riusciamo a controllare tutto quello che succede. Se si tratta di vera e propria prostituzione e non abbiamo dubbi, cerchiamo di intervenire, ma è un problema difficile da affrontare. Se vediamo qualcosa di anormale, prendiamo provvedimenti. Per il resto, gli ospiti sono liberi di fare quel che vogliono nella loro camera." "I vostri clienti sono per lo più cittadini stranieri o residenti in altre regioni dell'Islanda, vero?" "Sì. Be', ce ne sono molti altri, ovviamente. Ma questo non è un albergo economico. È una struttura di prim'ordine, e chi ci viene può permettersi i nostri servizi. Qui di feccia non ne gira e, per l'amor di Dio, stia bene attento a non far circolare voci del genere. La concorrenza è già abbastanza agguerrita, ed è un brutto colpo ritrovarsi con quest'omicidio fra capo e collo." Il direttore fece una pausa. "Ha intenzione di continuare a stare da noi?" proseguì. "Non è una procedura irregolare?" "Qui l'unica cosa irregolare è Babbo Natale morto nel seminterrato del suo albergo" rispose Erlendur, sorridendogli. In quel momento vide l'analista che aveva incontrato prima in cucina uscire dal bar con la valigetta in mano. Fece un cenno con la testa al direttore e le si avvicinò. Lei era di spalle e si stava dirigendo verso il guardaroba, accanto a uno degli ingressi. "Salve, come va?" la salutò. La donna si voltò e lo riconobbe subito, ma continuò a camminare. "Sei tu che conduci le indagini?" gli domandò poi, entrando nel guardaroba per prendere un cappotto dall'appendiabiti. Gli chiese di tenerle la valigetta. "Mi lasciano partecipare" disse Erlendur. "Non sono stati tutti entusiasti all'idea di farsi prelevare un campione di saliva" continuò la donna, "e non mi riferisco solo al cuoco." "Prima di tutto dobbiamo escludere il personale, così possiamo concentrarci sul resto. Pensavo vi avessero detto di fornire questa spiegazione." "Non è sufficiente. Arnaldur Indridason – La Voce
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Avete qualcos'altro?" "Valgeròur è un antico nome islandese, vero?" le domandò Erlendur, eludendo la domanda. Lei sorrise. "Non puoi parlare delle indagini, eh?" "No." "Ti dispiace che Valgeròur sia un nome antico?" "A me? No, io..." Erlendur esitò. "Ti serve qualcosa?" gli domandò Valgeròur, allungandosi per prendere la valigetta. Sorrise all'uomo che aveva di fronte. Erlendur indossava un gilèt fatto a mano abbottonato sul davanti, sotto una giacca stropicciata con le toppe lise sui gomiti, e la guardava con occhi addolorati. Avevano all'incirca la stessa età, ma lui pareva più vecchio di dieci anni. Senza nemmeno rendersene pienamente conto, Erlendur gliel'aveva detto. C'era qualcosa in quella donna che lo attirava. E non le aveva visto alcun anello al dito. "Volevo sapere se stasera potevo invitarti a cena qui al buffet, è delizioso." Gliel'aveva detto, pur non sapendo niente di lei, come se non avesse alcuna possibilità di ricevere una risposta affermativa, ma l'aveva detto comunque, e adesso aspettava e pensava che probabilmente si sarebbe messa a ridere, magari era sposata con quattro figli, aveva una casa di proprietà e una di villeggiatura, dava feste per le cresime e pranzi per i diplomi e aveva già accasato il primo figlio e aspettava di invecchiare in pace con il suo amato marito. "Ti ringrazio" disse. "È gentile da parte tua. Ma... mi spiace. Non posso. Ti ringrazio comunque." Gli tolse la valigetta dalle mani, esitò un attimo e lo guardò, poi uscì dal guardaroba e se ne andò. Erlendur rimase immobile dov'era, quasi di sasso. Erano anni che non invitava una donna a uscire. Il cellulare cominciò a squillare nella tasca della giacca, così dopo qualche istante lo prese, soprappensiero, e rispose. Era Elinborg. "Sta entrando in tribunale" quasi gli sussurrò. "Cosa?" "Il padre sta entrando in tribunale con due avvocati. È il minimo, se vuole insabbiare tutto." "C'è molta gente?" le chiese Erlendur. "No, siamo pochissimi. Mi pare ci siano la famiglia della madre del bambino e qualche giornalista." "Che aspetto ha lui?" "Non un capello fuori posto, come al solito. Indossa giacca e cravatta, come se stesse andando a una cerimonia. Non mostra un briciolo di senso di colpa." "Sì, invece" la corresse, "eccome." Appena i medici glielo avevano permesso, Erlendur era andato in ospedale con Elinborg per parlare con il bambino. Aveva appena subito un intervento ed era ricoverato in pediatria insieme ad altri piccoli pazienti. C'erano disegni alle pareti, giocattoli sui letti, genitori seduti ai capezzali, stanchi dopo nottate in bianco, infinitamente preoccupati per i propri figli. Elinborg si era seduta accanto a lui. Il bambino aveva la testa fasciata, per cui il volto si vedeva a malapena, tranne la bocca e gli occhi, che guardavano i due poliziotti con grande diffidenza. Aveva il braccio ingessato, appeso a un piccolo gancio. Le bende, conseguenza dell'intervento, erano nascoste sotto le coperte. Arnaldur Indridason – La Voce
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Erano riusciti a salvargli la milza. Il medico aveva detto che potevano parlargli, ma non era sicuro che il bambino fosse disposto a farlo. Elinborg aveva cominciato a raccontargli di sé, gli aveva detto chi era, cosa faceva nella polizia e che voleva catturare chi l'aveva ridotto in quel modo. Erlendur era rimasto a osservare a una certa distanza. Il bambino aveva fissato Elinborg. Sapeva che poteva parlargli solo in presenza di almeno un genitore. Avevano organizzato un incontro con il padre in ospedale, ma era passata mezz'ora e l'uomo non si era fatto vivo. "Chi è stato?" gli aveva chiesto infine Elìnborg, ritenendo che fosse il momento di arrivare al dunque. Lui l'aveva fissata senza dire niente. "Chi ti ha fatto questo? Va tutto bene, puoi dirmelo. Non potranno aggredirti di nuovo. Te lo prometto." Il bambino lanciò un'occhiata a Erlendur. "Sono stati i tuoi compagni a scuola?" aveva continuato Elìnborg. "Quelli più grandi, magari. Abbiamo scoperto che due dei tuoi possibili aggressori sono ragazzi difficili. Hanno già picchiato altre volte dei bambini come te, ma mai con tanta violenza. Loro dicono di non averti fatto niente, ma noi sappiamo che erano a scuola nello stesso momento in cui è avvenuta l'aggressione. Stavano uscendo dall'ultima ora di lezione." Mentre gli parlava, il bambino la osservava muto. Elìnborg era stata alla scuola, aveva parlato con il preside e con gli insegnanti, era andata a casa dei due ragazzi e aveva visto dove vivevano, li aveva sentiti negare di avere mai fatto del male al piccolo. Il padre di uno di loro si trovava nel carcere di LìtlaHraun. In quel momento il pediatra era entrato in corsia. Aveva detto loro che il bambino aveva bisogno di riposo e che dovevano tornare più tardi. Elìnborg aveva annuito, e si erano salutati. Più tardi Erlendur l'aveva accompagnata a casa della vittima per parlare col padre. L'uomo aveva spiegato che non aveva potuto raggiungerli in ospedale a causa di un appuntamento telefonico urgente con i colleghi tedeschi e americani. È capitato all'improvviso, aveva detto. Quando infine era riuscito a liberarsi, i due agenti avevano già lasciato l'ospedale. Mentre si giustificava, un raggio di sole invernale era penetrato dalla finestra del soggiorno e aveva illuminato il pavimento in marmo del salotto e il tappeto sulle scale che portavano al piano superiore. Lì in piedi ad ascoltarlo, Elìnborg aveva notato due macchie sul tappeto, una su un gradino e l'altra su quello appena sopra. Le macchie erano state ripulite quasi del tutto e a prima vista sembravano motivi del filato. Invece erano orme di piccoli passi. "Ci sei?" gli domandò Elìnborg al telefono. "Erlendur? Sei ancora lì?" Erlendur Arnaldur Indridason – La Voce
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tornò in sé. "Fammi sapere come va" concluse. Il capo cameriere dell'albergo era un uomo sulla quarantina, segaligno, vestito di nero e con un paio di scarpe nere di vernice tirate a lucido. Stava esaminando la lista dei tavoli prenotati per quella sera in una piccola nicchia ricavata in una parete della sala da pranzo. Quando Erlendur si presentò, chiedendogli se poteva disturbarlo un momento, l'uomo alzò la testa dalle pagine stropicciate del registro delle prenotazioni, mostrando un paio di sottili baffi neri, un accenno di barba scura che sicuramente doveva radersi due volte al giorno, un incarnato olivastro e occhi marroni. "Gulli non lo conoscevo per niente" spiegò, dicendo di chiamarsi Rósant. "Quello che gli è accaduto è terribile. Avete scoperto qualcosa?" "No" tagliò corto Erlendur. Con la testa era ancora all'analista e al padre che aveva picchiato il figlio, e poi pensava a sua figlia, Èva Lind, che gli aveva detto che non era sicura di farcela ad andare avanti. Sapeva cosa intendeva, ma dentro di sé sperava di sbagliarsi. "C'è molto da fare sotto le feste, vero?" gli chiese. "Stiamo cercando di sfruttare al massimo la stagione. Tentiamo di organizzare tre turni al giorno, ma a volte è molto difficile perché certi pensano di potersi sbafare tutto solo perché hanno pagato. L'omicidio nel seminterrato non ci sta certo aiutando." "No, immagino" convenne Erlendur distratto. "Quindi lei non lavora qui da molto, se non conosceva Gudlaugur." "No, sono appena due anni. Non ho mai avuto molto a che fare con lui." "Secondo lei chi lo conosceva meglio di tutti, qui in albergo? O fuori." "Non lo so proprio" rispose il capo cameriere, accarezzandosi con l'indice i baffi sottili sul labbro superiore. "Non so niente di quell'uomo. Provi con le cameriere ai piani. Quando si saprà qualcosa del campione di saliva?" "Che cosa, scusi?" "Chi c'era con lui in stanza. Non era un test del DNA?" "Sì" confermò. "Dovete inviarlo all'estero?" Erlendur annuì. "Sa se riceveva visite, giù nel seminterrato? Magari persone non collegate all'albergo?" "Qui c'è un gran viavai di gente. Gli alberghi sono così. Le persone escono ed entrano come formiche, salgono e scendono, non c'è mai un attimo di pace. Alla scuola alberghiera ci dicevano che un albergo non è un edificio o una stanza o un servizio, bensì un insieme di persone. Un albergo è solo un insieme di persone, nient'altro. E noi dobbiamo farle stare bene. Farle sentire a casa. Gli alberghi sono così." "Cercherò di ricordarlo" concluse Erlendur e lo ringraziò. Controllò se Henry Wapshott fosse tornato in albergo, ma ancora niente. Intanto il responsabile della reception si era presentato al lavoro e lo salutò. Di fronte all'albergo aveva parcheggiato un altro pullman pieno di turisti, che adesso si ammassavano nella hall. Il responsabile della reception gli sorrise imbarazzato e alzò le spalle, come a dire che non era colpa sua se non riuscivano a parlare, ma avrebbero dovuto aspettare un momento migliore. Gudlaugur Egilsson aveva iniziato a lavorare in albergo nel 1982. All'epoca Arnaldur Indridason – La Voce
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aveva ventotto anni. Prima aveva svolto vari altri impieghi, il più recente come guardiano notturno al Ministero degli esteri. Quando l'albergo aveva deciso di assumere un portiere a tempo pieno, aveva avuto il posto. Allora il turismo era in piena espansione. Avevano appena terminato di ampliare la struttura e avevano assunto altro personale. L'ex direttore dell'albergo non ricordava più esattamente perché avesse scelto Gudlaugur. Rammentava però che non si erano presentati in molti per quel posto. Gli aveva fatto subito una buona impressione. Sembrava avesse modi gentili e fosse cortese e servizievole, e in effetti si era rivelato un buon dipendente. Non aveva né moglie né figli, cosa che aveva preoccupato un po' il direttore, secondo cui spesso chi aveva famiglia si rivelava un lavoratore più affidabile. Per il resto, Gudlaugur non aveva mai raccontato molto di sé e del suo passato. Era andato a parlare con il direttore poco dopo aver iniziato il lavoro e gli aveva chiesto se in albergo non ci fosse per lui una stanza libera, solo finché non avesse trovato un'altra sistemazione. Gli avevano dato lo sfratto con pochissimo preavviso, dunque si trovava in mezzo alla strada. Pareva sconfortato, aveva detto al direttore che, in attesa di trovare un altro appartamento, poteva anche pensare di sistemarsi nello stanzino nel corridoio del seminterrato. Erano scesi insieme a dare un'occhiata. Vi erano state accatastate pile di cianfrusaglie varie, ma Gudlaugur aveva detto di conoscere un posto dove poter sistemare tutta quella roba, che tra l'altro era per lo più da buttare. E così Gudlaugur, prima portiere e poi Babbo Natale, si era trasferito nello stanzino dove sarebbe rimasto fino alla morte. Il direttore aveva pensato che si sarebbe fermato qualche settimana appena; d'altronde glielo aveva assicurato lui stesso, e poi lo stanzino non era certo il posto adatto per abitarci a lungo. Ma il tempo passava, e Gudlaugur sembrava non trovare una casa decente, così ben presto tutti avevano accettato che abitasse in albergo, soprattutto dopo che era diventato più un custode che un semplice portiere. A lungo andare si rivelò una gran comodità averlo a disposizione in albergo notte e giorno, se, per esempio, si rompeva qualcosa e c'era bisogno di un tuttofare. "Poco dopo che Gudlaugur si trasferì nello stanzino, il direttore lasciò l'incarico" disse Siguròur Òli, che era seduto nella stanza di Erlendur e gli stava raccontando del suo incontro con l'ex direttore. Era pomeriggio inoltrato e cominciava a far buio. "Sai perché?" gli chiese Erlendur, che era disteso sul letto e guardava il soffitto. "Avevano appena ampliato l'albergo e assunto molti nuovi dipendenti, ma poco dopo lui lascia il posto. Non ti sembra strano?" "Non gli ho chiesto altro. Se credi che abbia importanza, vedrò cos'ha da dire. Non sapeva nemmeno che Gudlaugur facesse Babbo Natale. Aveva cominciato dopo che lui se n'era andato e, quando ha appreso che il poveretto era stato trovato Arnaldur Indridason – La Voce
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morto nello stanzino, era verosimilmente sconvolto." Siguròur Òli si guardò intorno nella stanza vuota. "Hai intenzione di rimanere qui per Natale?" gli domandò. Erlendur non rispose. "Perché non vai a casa?" Silenzio. "L'invito è ancora valido." "Ti ringrazio, e ringrazia anche Bergthóra" disse Erlendur pensoso. "Ma che hai in mente?" "Anche se... avessi in mente qualcosa, non ti riguarda. Mi annoio a Natale." "A ogni modo, io me ne vado a casa" rispose Siguròur Òli. "Come va il progetto di mettere su famiglia?" "Non bene." "È un tuo problema, oppure di entrambi?" "Non lo so. Non abbiamo ancora indagato a fondo. Bergthóra comunque ha cominciato a parlarne." "Vuoi davvero avere un figlio?" "Sì. Non lo so. Non so cosa voglio." "Che ore sono?" "Sono appena passate le sei e mezzo." "Vai a casa" gli disse Erlendur. "Io voglio cercare di parlare con l'altro Henry." Henry Wapshott era rientrato in albergo, ma non era in camera. Erlendur l'aveva fatto chiamare dalla reception, poi era salito e aveva bussato alla porta, senza ottenere risposta. Si chiese se dovesse chiamare il direttore per farsi aprire, ma avrebbe avuto bisogno di un mandato del giudice e magari non l'avrebbe ottenuto fino a notte fonda, oltretutto non era certo che fosse proprio Henry Wapshott la persona con cui Gudlaugur aveva appuntamento alle sei e mezzo. Erlendur era in corridoio e stava valutando le varie opzioni, quando un uomo sulla sessantina girò l'angolo e gli andò incontro. Indossava una giacca di tweed marrone trasandata, pantaloni di cotone pesante color kaki, una camicia azzurra e una cravatta rosso vivo; aveva una calvizie incipiente, e i radi capelli brizzolati erano pettinati con cura. "È lei?" domandò in inglese a Erlendur, avvicinandosi. "Mi hanno detto che qualcuno, un islandese, aveva chiesto di me. È un collezionista? Voleva vedermi?" "Lei si chiama Wapshott? Henry Wapshott?" chiese Erlendur. Il suo inglese non era un granché. Quando gli parlavano, capiva abbastanza bene, ma si esprimeva a fatica. La criminalità organizzata diventava sempre più internazionale, così la polizia era stata costretta a organizzare un corso d'inglese, che Erlendur aveva frequentato, apprezzandolo molto. Aveva anche cominciato a leggere libri in inglese. "Mi chiamo Henry Wapshott" disse l'uomo. "Come mai voleva vedermi?" "Forse non dovremmo stare qui in corridoio" gli fece notare Erlendur. "Possiamo andare nella sua stanza? Oppure...?" Wapshott guardò la porta, poi di nuovo Erlendur. "Meglio scendere nella hall" propose. "Ma che cosa vuole da me? Chi è lei?" "Prima andiamo di sotto." Henry Wapshott lo seguì esitante fino all'ascensore. Quando furono scesi nella hall, Erlendur si diresse verso un tavolo nella zona fumatori, poco distante dalla sala da pranzo, e lì si sedettero. Nello stesso istante apparve una cameriera. I turisti avevano cominciato ad acArnaldur Indridason – La Voce
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comodarsi al buffet, che a Erlendur pareva non meno appetitoso del giorno prima. Ordinarono un caffè. "It's very oda" cominciò Wapshott. "Avevo un appuntamento proprio qui mezz'ora fa, ma la persona che aspettavo non è venuta. Non ho ricevuto nemmeno un messaggio, e poi mi ritrovo lei davanti alla porta della mia stanza che mi chiede di scendere di nuovo nella hall." "Chi avrebbe dovuto incontrare?" "Un islandese. Lavora qui in albergo. Si chiama Gudlaugur." "E avrebbe dovuto vederlo qui alle sei e mezzo di oggi?" "Esatto" confermò Wapshott. "Che...? Chi è lei?" Erlendur gli spiegò che era della polizia e lo mise al corrente della morte di Gudlaugur e del ritrovamento di un biglietto nella sua stanza, secondo cui la vittima aveva un appuntamento con un uomo di nome Henry, che chiaramente era lui. La polizia voleva sapere perché dovevano vedersi. Erlendur non fece riferimento ai suoi sospetti, e cioè che Wapshott si trovava nello stanzino con lui quando Babbo Natale era stato ucciso. Disse solo che Gudlaugur aveva lavorato in quell'albergo per vent'anni. Mentre l'agente gli faceva il resoconto, Wapshott lo fissava e scuoteva la testa incredulo, come se non afferrasse del tutto il concetto. "E morto?" "Sì." "Ucciso?" "Sì." "Mio Dio" sospirò Wapshott. "Come mai conosceva Gudlaugur?" gli chiese Erlendur. Wapshott pareva distratto, così l'agente gli ripetè la domanda. "Lo conosco da anni" ammise infine sorridendo e scoprendo così denti piccoli e macchiati dal tabacco, alcuni perfino neri all'attaccatura delle gengive lungo l'arcata inferiore. Erlendur pensò che fumasse la pipa. "Quando vi siete incontrati la prima volta?" gli domandò. "Non ci siamo mai incontrati, in realtà. Non l'ho mai visto. Dovevamo vederci oggi, per questo sono venuto in Islanda." "È venuto in Islanda per incontrarlo?" "Sì, fra le altre cose." "Ma allora come faceva a conoscerlo? Se non vi siete mai incontrati, che tipo di rapporto avevate?" "Non avevamo nessun rapporto, infatti" disse Wapshott. "Non capisco." "Tra di noi non c'è mai stato nessun tipo di rapporto" ribadì Wapshott, mettendo tra virgolette con un cenno delle dita la parola "rapporto". "E allora cosa c'era?" continuò Erlendur. "Solo un'adorazione a senso unico" spiegò Wapshott. "Da parte mia, cioè." Erlendur gli chiese di ripetere le ultime parole. Non comprendeva perché quell'uomo, che aveva fatto tanta strada dall'Inghilterra, potesse adorare Gudlaugur pur non avendolo mai visto. Il portiere dell'albergo, poi. Un uomo che abitava nello stanzino del seminterrato e che era stato trovato morto con i pantaloni calati e una ferita d'arma da taglio nel cuore. Un'adorazione a senso unico? Per un uomo che si vestiva da Babbo Natale per divertire i bambini? "Non capisco di cosa stia parlando" disse Erlendur. Poi ricordò che al piano di sopra, in corridoio, Wapshott gli aveva chiesto se era un collezionista. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Perché prima voleva sapere se ero un collezionista? In che senso, un collezionista? Cosa voleva dire?" "Credevo che fosse un collezionista di dischi" chiarì Wapshott. "Come me." "Un collezionista di dischi? Dischi? Vuoi dire..." "Colleziono dischi d'epoca" spiegò Wapshott. "Vecchie incisioni per grammofono. Dischi in vinile. Per questo conoscevo Gudlaugur. Dovevo incontrarlo poco fa, e davvero non vedevo l'ora, quindi deve comprendere che per me è stato un colpo apprendere che sia morto. Ucciso! Chi mai avrebbe voluto ucciderlo?" Il suo stupore pareva autentico. "Non è che magari vi siete visti ieri?" gli chiese Erlendur. Al momento Wapshott non si rese conto di cosa volesse dire, poi capì e fissò il poliziotto. "Vuol dire... Lei crede che le stia mentendo? Io sarei...? Mi sta dicendo che sono un sospettato? Crede che io sia coinvolto nella sua morte?" Erlendur lo guardò senza parlare. "Ma è un'assurdità!" gridò Wapshott. "Era da tempo che desideravo conoscere quell'uomo. Anni. Non può dire sul serio." "Dov'era ieri verso quest'ora?" "In città. Ero in città. Sono stato in un negozio per collezionisti che si trova sulla via principale, poi ho cenato in un ristorante indiano non lontano da lì." "Lei si trova in albergo da diversi giorni. Come mai non aveva ancora incontrato Gudlaugur?" "Ma... non mi ha detto che è morto? Che cosa vuol dire?" "Non ha voluto vederlo subito dopo essersi sistemato? Mi ha detto che desiderava tanto incontrarlo. Perché allora ha aspettato così a lungo?" "Ha deciso lui il luogo e l'ora. Mio Dio, in cosa mi sono cacciato..." "In che modo vi tenevate in contatto? E che voleva dire prima, quando ha parlato di 'adorazione a senso unico'?" Henry Wapshott lo guardò. "Allora..." iniziò, ma Erlendur non gli consentì di concludere la frase. "Lei sapeva che Gudlaugur si trovava qui in albergo?" "Sì." "E come faceva a saperlo?" "Mi ero informato in anticipo. Faccio del mio meglio per conoscere a fondo il settore di cui mi occupo: il mondo del collezionismo." "Ed è per questo che ha deciso di soggiornare qui?" "Sì." "Acquistava dischi da lui?" proseguì Erlendur. "È stato così che vi siete conosciuti? Eravate due collezionisti con interessi comuni?" "Come le ho detto, non lo conoscevo di persona, ma volevo tanto incontrarlo." "Che vuol dire?" "Lei non ha idea di chi fosse, vero?" disse Wapshott, quasi stupito che Erlendur non conoscesse Gudlaugur Egilsson. "Era il portiere, o il custode, e faceva pure Babbo Natale" rispose Erlendur. "C'è qualcos'altro che dovrei sapere?" "Vuol sapere in che settore sono specializzato?" domandò Wapshott. "Non so quanto sappia del collezionismo in generale, o dei collezionisti di dischi in particolare, ma la maggior parte si specializza in un ambito specifico. In certi casi, la gente riesce a essere davvero eccentrica. E' incredibile quello che uno ha voglia di collezionare. Ho sentito parlare di una persona che possiede i sacchetti per il mal d'aria di Arnaldur Indridason – La Voce
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quasi tutte le compagnie aeree del mondo. E so anche di una donna che colleziona i capelli delle Barbie." Poi guardò Erlendur. "Sa in che cosa sono specializzato io, invece?" Erlendur scosse la testa. Non era del tutto sicuro di avere capito bene la faccenda dei sacchetti per il mal d'aria. E cos'era quella storia delle Barbie? "Sono specializzato in cori di voci bianche" disse Wapshott. "Cori di voci bianche?" "Be', non solo cori. Sono interessato principalmente alle voci bianche soliste." Erlendur rimase perplesso, forse aveva frainteso. "Le voci bianche soliste?" "Sì." "Lei colleziona dischi di voci bianche soliste?" "Sì. Naturalmente colleziono anche altri tipi di dischi, ma le voci bianche soliste sono... come dire... la mia passione, ecco." "E che cosa c'entra Gudlaugur in tutto questo?" Henry Wapshott sorrise. Prese un portadocumenti in pelle nera che aveva con sé. Lo aprì ed estrasse la piccola custodia di un quarantacinque giri. Poi tirò fuori gli occhiali dal taschino, ed Erlendur si accorse che gli era caduto un pezzo di carta bianco. Si chinò per raccoglierlo e vide che vi era stampato il nome BKENNER'S a caratteri verdi. "La ringrazio" disse Wapshott. "È il tovagliolino di un albergo in Germania. Il collezionismo è un'ossessione" aggiunse, scusandosi. Erlendur annuì. "Volevo chiedergli di autografarmi questa custodia" continuò Wapshott, porgendogli il disco. Sul fronte c'era scritto a semicerchio in caratteri d'oro GUDLAUGUR EGILSSON con sotto la foto in bianco e nero di un ragazzino che non avrà avuto più di dodici anni e sorrideva a Erlendur, qualche lentiggine e i capelli impomatati con cura. "Aveva una voce incredibilmente delicata" disse Wapshott. "Ma poi arrivò la pubertà, e..." Alzò le spalle, come rassegnato. Nel tono della voce si percepivano tristezza e rimpianto. "Trovo davvero strano che non abbia mai sentito parlare di lui e non sappia chi era, dato che segue il caso della sua morte. Dev'essere stato un nome molto noto, all'epoca. Secondo le informazioni che ho raccolto, posso affermare che fosse un bambino prodigio famoso." Erlendur distolse lo sguardo dalla custodia e fissò Wapshott. "Un bambino prodigio?" "Sono usciti due suoi dischi, in cui canta sia da solista sia con il coro della chiesa. Ai suoi tempi dev'essere stato un nome piuttosto conosciuto, qui in patria." "Un bambino prodigio" ripetè Erlendur. "Vuoi dire come Shirley Temple? In quel senso?" "Esattamente, almeno per i vostri parametri, cioè, considerato che l'Islanda è un paese poco popolato e ignorato dal turismo di massa. Dev'essere stato piuttosto famoso, anche se pare che adesso lo abbiano dimenticato tutti. Shirley Temple, ovviamente, era..." "La piccola principessa" mormorò Erlendur quasi tra sé. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Prego?" "Non sapevo che fosse un bambino prodigio." "Sono passati molti anni." "E quindi? Ha inciso dei dischi?" "Sì." "Che lei colleziona?" "Sto cercando di procurarmene alcune copie. Sono specializzato in voci bianche soliste come lui. Aveva una voce da soprano davvero particolare." "Solista di un coro?" bofonchiò Erlendur. Si immaginò il poster appeso alla parete con la piccola principessa, e stava per chiedere a Wapshott ulteriori dettagli sul bambino prodigio, quando venne interrotto. "Ah, eccoti qua." Erlendur sentì una voce alle sue spalle e alzò la testa. Dietro di lui c'era Valgeròur, che gli sorrideva. Non aveva più con sé la valigetta dei campioni. Indossava una giacca leggera di pelle nera che le arrivava alle ginocchia, con sotto una bella maglia rossa, e si era truccata così bene che lo si notava a malapena. "È ancora valido l'invito?" gli chiese. Erlendur scattò in piedi. Wapshott comunque si era già alzato prima di lui. "Perdonami" le disse Erlendur, "è che non capivo... Ma certo." Sorrise. "E ovvio." Dopo aver mangiato a sufficienza dal buffet e bevuto un caffè, si spostarono nel bar accanto alla sala da pranzo. Erlendur ordinò da bere per entrambi, poi si sedettero in un angolino appartato. Valgeròur disse che non poteva trattenersi a lungo, e lui lesse in quelle parole un cortese avvertimento. Non che avesse intenzione di invitarla in camera, non gli passava nemmeno per la testa, e questo lei lo sapeva bene, ma percepiva una certa insicurezza e avvertiva lo stesso muro difensivo che innalzavano quelli che si presentavano per l'interrogatorio. Forse nemmeno lei sapeva bene cosa stesse facendo. Per Valgeròur era interessante parlare con un agente investigativo, voleva sapere tutto del suo lavoro, dei reati e di come si catturavano i criminali. Erlendur le rispose che per lo più si trattava di un noiosissimo lavoro d'ufficio. "Ma adesso i crimini sono più efferati" continuò lei. "Lo si legge sui giornali. Sono più orrendi." "Non lo so. Un crimine è sempre orrendo." "Si sentono molte storie, sul mondo della droga, sugli estorsori che aggrediscono i ragazzi in debito per la dose e poi le loro famiglie, se non possono pagare." "Sì" confermò Erlendur, che a volte era preoccupato per Èva Lind proprio per quei motivi. "Il mondo è cambiato. Ora la violenza è più brutale." Tacquero. Erlendur cercò di cambiare argomento, ma non si intendeva di donne. Le poche con cui aveva avuto a che fare non l'avevano certo preparato a quella che si prospettava una serata romantica. Lui ed Elinborg erano buoni amici e fra loro c'era un legame d'affetto che si era creato in molti anni di collaborazione sul campo e di esperienze condivise. Èva Lind era la sua bambina, e gli dava infinite preoccupazioni. Halldóra era la donna che aveva sposato una generazione prima e da cui aveva divorziato, ricavandone solo odio. Erano queste le donne della sua vita, a parte qualche incontro occasionale, che non gli aveva lasciato nulla se non delusione e imbarazzo. "E tu?" le chiese, quando si furono seduti. "Perché hai cambiato idea?" "Non Arnaldur Indridason – La Voce
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lo so" gli rispose lei. "Era da tantissimo tempo che non ricevevo un invito del genere. Come ti è venuto in mente di invitarmi a cena?" "Non ne ho idea. Mi è uscita di bocca questa proposta del buffet, sono stato un idiota. Anch'io non mi trovavo in una situazione simile da molto tempo." Sorrisero entrambi. Le raccontò di Èva Lind e di Sindri, e lei gli disse di avere due figli, entrambi adulti. Erlendur comprese che Valgeròur non voleva parlare troppo di sé e della sua situazione, e per lui andava bene così. Non voleva ficcare il naso nella sua vita. "Siete arrivati a capo di qualcosa nel caso dell'omicidio?" "No, in realtà no. L'uomo con cui stavo parlando, prima, di là..." "Oh, vi ho interrotti? Non sapevo che avesse a che vedere con le indagini." "Ma no, figurati" la rassicurò Erlendur. "Colleziona dischi in vinile, e così si è scoperto che l'uomo nel seminterrato era un bambino prodigio. Anni fa, ovviamente." "Un bambino prodigio?" "Ha inciso dei dischi." "Immagino che sia molto difficile essere un bambino prodigio" commentò Valgeròur. "Sarai anche un artista, ma sei pur sempre un bambino, col tuo mondo di sogni e di aspettative che raramente poi si realizzano. Credi sia possibile superare la delusione?" "Mah, ti seppellisci in uno stanzino e speri che nessuno si ricordi di te..." "Tu credi?" "Non lo so. Forse c'è ancora qualcuno che si ricorda di lui." "Per te c'entra qualcosa con l'omicidio?" "Cosa?" "Che fosse un bambino prodigio." Erlendur cercava di rivelare il meno possibile sulle indagini, senza apparire troppo noioso. Non aveva avuto il tempo di valutare la domanda e non sapeva se era importante o meno. "Non lo sappiamo" rispose. "Lo scopriremo più avanti." Tacquero. "Tu non sei stato un bambino prodigio" gli sorrise lei. "No. Ero un incapace in tutti i campi." "Io pure. Disegno ancora come una bambina di tre anni." Dopo qualche momento di silenzio, la donna gli chiese: "Che fai quando non lavori?" Erlendur era impreparato a una domanda del genere e rimase titubante finché Valgeròur non si mise a sorridere. "Non volevo invadere la tua vita privata" rimarcò, visto che l'agente non rispondeva. "No, non è... non sono abituato a parlare di me stesso, ecco." Non poteva certo dirle che giocava a golf o praticava qualche altro sport. Una volta si era interessato alla boxe, ma poi gli era passata. Non andava mai al cinema o a teatro e raramente guardava la televisione. Una volta d'estate girava l'Islanda da solo, ma molto meno negli ultimi anni. Che cosa faceva quando non lavorava? Non lo sapeva nemmeno lui. Per lo più stava solo con se stesso. "Leggo molto" disse d'un tratto. "E cosa leggi?" gli chiese Valgeròur. Erlendur si mostrò ancora incerto, e la donna gli sorrise di nuovo. "È così difficile?" "Leggo di morti e sciagure. Di gente morta nelle aree disabiArnaldur Indridason – La Voce
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tate. Di persone che muoiono nelle intemperie. Ci sono intere serie di libri. Un tempo erano molto popolari." "Morti e sciagure, eh?" "Anche altre cose, ovviamente. Leggo molto. Storia. Documenti. Cronache." "Tutta roba del passato, comunque." L'agente annuì. "Il passato è a portata di mano. Benché possa anche essere ingannevole." "Ma perché proprio morti e sciagure? E persone che muoiono nelle intemperie? Non sono letture terribili?" Erlendur rise fra sé. "Dovresti entrare in polizia" le disse. Nell'arco di una breve serata, Valgeròur era riuscita a penetrare in un punto della sua coscienza che lui teneva accuratamente protetto e inaccessibile, perfino a se stesso. Non voleva parlarne. Èva Lind lo sapeva, ma non conosceva a fondo questo aspetto di suo padre e non lo ricollegava al suo particolare interesse per i racconti di sventure. Erlendur rimase seduto a lungo in silenzio. "È un interesse che ho sviluppato nel tempo" spiegò infine e si pentì subito di averle mentito. "E tu? Che fai quando non infili tamponi di cotone in bocca alla gente?" Stava cercando di fare marcia indietro ed essere simpatico, ma il rapporto fra loro ormai si era incrinato, ed era colpa sua. "In realtà non ho mai avuto tempo per nient'altro che non fosse il lavoro" rispose Valgeròur, sentendo di avere involontariamente toccato un discorso di cui l'agente non voleva parlare, ma non sapeva cosa fosse. Era a disagio, e lui se ne accorse. "Credo che dovremmo uscire ancora insieme, e presto" disse, per chiudere il discorso. Averle mentito gli pesava moltissimo. "Assolutamente" rispose la donna. "Se devo dirti la verità, ero molto dubbiosa, ma non me ne sono pentita. Volevo che tu lo sapessi." "Nemmeno io." "Bene. Ti ringrazio di tutto. Grazie per il Drambuie" disse e finì il liquore. Ne aveva ordinato anche lui un bicchiere per farle compagnia, ma non l'aveva nemmeno toccato, Erlendur era disteso sul letto nella camera d'albergo e guardava il soffitto. Faceva sempre freddo e aveva ancora i vestiti addosso. Fuori nevicava. Era una neve morbida, mite e bella, che scendeva delicata a terra e si scioglieva quasi subito. Non era fredda, dura e impietosa come quella che uccideva e mutilava. "Che macchie sono quelle?" aveva chiesto Elìnborg al padre del bambino malmenato. "Macchie? Quali macchie?" "Lì, sul tappeto" aveva precisato Erlendur. Lui ed Elìnborg erano appena usciti dall'ospedale dopo l'incontro con il bambino. Il sole invernale aveva illuminato il tappeto sulle scale che portavano al piano superiore, dove si trovava la stanza del piccolo, così l'agente aveva scorto due macchie. "Non vedo niente" aveva risposto l'uomo, chinandosi a esaminare il tappeto. "Con questa luce sono piuttosto nette" aveva aggiunto Elìnborg, guardando il sole che splendeva dalla finestra del salotto. Era basso, all'orizzonte, e abArnaldur Indridason – La Voce
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bagliava la vista. Poco lontano dalle scale c'era un'elegante vetrinetta per i liquori. Conteneva alcolici, marche costose. Appoggiati a un portabottiglie, c'erano vini rossi e bianchi. Il mobile aveva due ante in vetro, e su una di esse Erlendur aveva notato le tracce indistinte di un panno. Sul fianco, rivolto verso le scale, c'era il segno di una piccola goccia, colata per circa un centimetro e mezzo. Elinborg vi aveva posato il dito, constatando che era secca. "È successo qualcosa qui, accanto alla vetrinetta?" aveva chiesto Erlendur. Il padre l'aveva guardato. "Di che cosa sta parlando?" "Sembrano schizzi di qualcosa. Puliti di recente." "No, non di recente." "Queste impronte sulle scale, mi pare che siano di un bambino, o mi sbaglio?" aveva continuato Elìnborg. "Io non vedo nessuna impronta" aveva insistito il padre. "Prima ha parlato di macchie. Adesso sono impronte. Che sta cercando di dire?" "Lei era in casa quando suo figlio è stato aggredito?" Il padre era rimasto in silenzio. "L'aggressione è avvenuta a scuola" aveva proseguito Elinborg. "Le lezioni erano finite, ma lui era rimasto a giocare a pallone e, quando ha deciso di andare a casa, l'hanno aggredito. Noi almeno crediamo sia andata così. Il bimbo non è riuscito a parlare con lei e nemmeno con noi. Io credo che non voglia. Che non osi, anzi. Forse perché quei ragazzi gli hanno detto che, se avesse parlato con la polizia, l'avrebbero ammazzato. O forse perché qualcun altro gli ha detto che l'avrebbe ammazzato, se avesse parlato con noi." "Dove vuole arrivare?" "Perché è tornato prima dal lavoro, quel giorno? È rientrato verso l'una. Il bambino si è trascinato fino a casa ed è andato in camera sua, e lei è tornato poco dopo e ha chiamato la polizia e l'ambulanza." Elìnborg si era interrogata più volte su cosa facesse il padre a casa nel primo pomeriggio in un giorno feriale, ma non glielo aveva mai chiesto. "Nessuno ha visto suo figlio tornare a casa da scuola" aveva detto Erlendur. "Non starà mica insinuando che ho picchiato... che ho picchiato in quel modo mio figlio? Non starà insinuando questo?" "Le dispiace se prendiamo un campione dal tappeto?" "Credo che dovreste andarvene" aveva risposto l'uomo. "Io non sto insinuando niente" aveva precisato Erlendur. "Il bambino prima o poi racconterà cos'è successo. Forse non ora, né fra una settimana, e nemmeno fra un mese, forse nemmeno fra un anno, ma lo racconterà." "Fuori" aveva intimato loro il padre, ormai al colmo della rabbia e dell'indignazione. "Lei non deve permettersi... non dovete permettervi di... Andatevene. Uscite. Fuori!" Elìnborg era tornata in ospedale, nel reparto di pediatria. Il bambino dormiva nel suo letto con il braccio appeso al gancio. Gli si era seduta accanto, aspettando che si svegliasse. Era lì da un quarto d'ora, quando il bimbo si era ripreso e aveva visto la poliziotta stanca, ma non l'uomo con il gilèt fatto a mano e lo sguardo triste che l'aveva accompagnata prima. Si erano guardati negli occhi ed Elinborg aveva sorriso, poi Arnaldur Indridason – La Voce
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gli aveva chiesto con tutta la dolcezza di cui era capace: "È stato il tuo papà?" Verso sera, poi, era tornata a casa del bambino con un mandato di perquisizione e una squadra di agenti della scientifica. Avevano analizzato le macchie sul tappeto, il pavimento in marmo e la vetrinetta degli alcolici. Raccolto dei campioni. Aspirato granelli dal marmo. Raccolto parte della goccia sulla vetrinetta. Erano saliti di sopra, in camera del bambino, e avevano preso un campione della testata del letto. Erano entrati nel vano lavanderia e avevano controllato indumenti e asciugamani. Avevano esaminato il bucato sporco. Aperto l'aspirapolvere. Preso dei campioni dalla scopa. Erano usciti a frugare nella pattumiera. Tra i rifiuti avevano trovato un paio di calzini del bimbo. Nel frattempo, il padre era rimasto in piedi in cucina. Non appena aveva visto arrivare gli uomini della scientifica, aveva chiamato un suo amico avvocato, che era arrivato subito e aveva verificato il mandato del giudice, poi aveva consigliato al suo assistito di non parlare con la polizia. Erlendur ed Elinborg erano rimasti a osservare gli agenti della scientifica al lavoro. Lei aveva lanciato occhiate taglienti al padre, che aveva scosso la testa e abbassato lo sguardo. "Non capisco che cosa vogliate" aveva detto. "Non capisco." Il bambino non aveva confessato che era stato lui. Quando Elinborg gliel'aveva chiesto, non aveva reagito, ma gli si erano riempiti gli occhi di lacrime. Il capo della scientifica aveva telefonato due giorni dopo. "E per le macchie sul tappeto." "Sì?" "E' Drambuie." "Drambuie? Il liquore?" "Ci sono tracce in tutto il soggiorno, e anche una scia sul tappeto fino alla camera del bambino." Erlendur stava ancora fissando il soffitto, quando sentì bussare alla porta. Si alzò e andò ad aprire, ed Èva Lind gli si infilò in camera. Erlendur diede un'occhiata lungo il corridoio e le richiuse la porta alle spalle. "Non mi ha visto nessuno. Sarebbe molto più semplice se volessi tornare a casa. Non capisco cosa tu abbia in mente." "Tornerò" rispose Erlendur. "Non preoccuparti. Che ci fai in giro? Ti serve qualcosa?" "Devo avere qualche motivo particolare per volerti vedere?" domandò Èva, poi si sedette alla piccola scrivania ed estrasse il pacchetto di sigarette. Buttò per terra l'involucro di plastica e fece un cenno a suo padre. "Ti ho portato dei vestiti. Se hai intenzione di fermarti in quest'albergo, dovrai pure cambiarti." "Ti ringrazio" disse Erlendur, sedendosi sul letto davanti a lei, e accettò la sigaretta che sua figlia gli porgeva. Le accese lei per entrambi. "È bello vederti" esclamò Erlendur, espirando il fumo. "Come va con Babbo Natale?" "A rilento. E che mi dici di te, invece?" "Niente." "Hai visto tua madre?" "Sì. Sempre il solito. Non succede niente nella sua vita. Lavoro, televisione, dormire. Lavoro, televisione, dormire. Lavoro, televisione, dormire. È tutto? È tutto qui quello che ti aspetta? Uno resta pulito solo per lavorare come uno schiavo finché non ne può più? Ma ti sei visto? Arnaldur Indridason – La Voce
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Ciondoli come un idiota in una stanza d'albergo invece di alzare il culo e andare a casa tua!" Erlendur fece un tiro e poi espirò il fumo dal naso. "Non volevo..." "No, lo so" lo interruppe Èva Lind. "Ti stai dando per vinta? Quando sei venuta, ieri..." "Non so se ce la faccio a sopportare oltre." "A sopportare cosa?" "Questa vita di merda!" Rimasero seduti a fumare, e intanto il tempo passava. "Ci pensi qualche volta a tua figlia?" le chiese Erlendur infine. Èva era incinta di sette mesi quando aveva perso la bambina ed era caduta in una profonda depressione, dopo essersi trasferita da lui, una volta dimessa dall'ospedale. Erlendur sapeva che non si era ripresa del tutto. Èva si colpevolizzava per la morte della bambina. Quella sera, lei gli aveva inviato una richiesta d'aiuto e l'agente l'aveva trovata in un lago di sangue davanti all'ospedale, dove si era accasciata mentre cercava di raggiungere il reparto di ostetricia. Per poco non ci aveva lasciato le penne. "Che vita di merda" ripetè, e spense la sigaretta sul piano della scrivania. Dopo che Èva Lind se n'era andata, Erlendur si era addormentato, quando squillò il telefono sul comodino. Era Marion Briem. "Sai che ore sono?" le chiese, guardando l'orologio che portava al polso. Era mezzanotte passata. "No. Stavo pensando alla saliva." "La saliva sul preservativo?" le domandò, troppo assonnato per perdere la calma. "Ci arriveranno da soli, certo, ma forse non sarebbe male ricordare a quelli della scientifica di verificare i livelli di cortisolo." "Non ci ho ancora parlato, sicuramente avranno qualcosa da dirci in merito." "Dal cortisolo si possono capire diverse cose. E stabilire cosa stava succedendo in quello stanzino nel seminterrato." "Lo so, Marion. C'è dell'altro?" "No, volevo solo ricordarti del cortisolo." "Buonanotte, Marion." "Buonanotte."
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TERZO GIORNO † L'indomani, Erlendur, Siguròur Òli ed Elìnborg si ritrovarono in albergo di primo mattino. Si misero seduti intorno a un piccolo tavolo rotondo appartato e fecero colazione al buffet. Aveva nevicato durante la notte, ma adesso la temperatura si era alzata di nuovo e le strade erano pulite. Le previsioni del tempo dicevano che sarebbe stato un Natale senza neve. La frenesia dello shopping natalizio stava raggiungendo l'apice. Le auto formavano lunghe code a ogni incrocio, e in giro per la città c'era una marea di gente. "Questo Wapshott" domandò Siguròur Òli, "chi è?" Tanto rumore per nulla, pensò Erlendur mentre sorseggiava il caffè e guardava fuori dalla finestra. Che strani posti, gli alberghi. Era piacevole soggiornarvi di tanto in tanto, ma gli sembrava anche molto strano che qualcuno entrasse nella sua stanza quando lui non c'era e mettesse tutto in ordine. Usciva al mattino e, al suo ritorno, qualcuno era entrato e aveva sistemato tutto come prima: rifatto il letto, cambiato gli asciugamani, messo una saponetta nuova sul lavabo. Riusciva a percepire la presenza della persona che gli puliva la stanza, eppure non la vedeva mai, non sapeva chi gli riordinasse la vita. . Quella mattina, appena sceso, era andato alla reception e aveva chiesto che la sua stanza non venisse più riassettata. Avrebbe incontrato di nuovo Wapshott più tardi per farsi dire qualcos'altro sulla sua collezione di dischi e sulla carriera canora di Gudlaugur Egilsson. La sera precedente, quando Valgeròur li aveva interrotti, si erano salutati con una stretta di mano. Wapshott era scattato sull'attenti e aveva atteso che Erlendur gli presentasse la signora, ma dato che non l'aveva fatto, le aveva teso la mano e si era presentato da solo con un inchino. Poi si era scusato, ma era stanco e affamato, e voleva finire alcune faccende in camera prima di andare a mangiare e poi a dormire. Non l'avevano visto scendere in sala da pranzo dove anche loro avevano cenato, e avevano pensato che forse avesse ordinato in camera. Valgeròur si era accorta che aveva l'aria stanca. Erlendur l'aveva seguita fino al guardaroba e l'aveva aiutata a infilarsi la bella giacca di pelle, poi l'aveva accompagnata alla porta girevole, dove si erano fermati un attimo prima che la donna si avviasse sotto la neve. Dopo che Èva Lind se n'era andata, nel sonno, il sorriso di Valgeròur lo aveva seguito insieme alla lieve scia di profumo che gli era rimasto sulla mano dopo averla salutata. "Erlendur?" lo richiamò Siguròur Òli. "Ehi! Ma ci sei? Ti ho chiesto chi è questo Wapshott!" "L'unica cosa che so è che è un collezionista di dischi inglese" rispose Erlendur, che li aveva messi al corrente sull'incontro con Henry Wapshott. "E lascia l'albergo domani. Dovresti fare qualche telefonata e procurarti informazioni su di lui. Ci vedremo di nuovo prima di mezzogiorno, magaArnaldur Indridason – La Voce
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ri saprò qualcosa in più." "Un solista in un coro di voci bianche, hai detto?" domandò Elìnborg. "Chi mai avrebbe voluto far fuori una voce bianca?" "Be', è ovvio che ormai non era più una voce bianca" rimarcò Siguròur Òli. "Una volta era famoso" spiegò Erlendur. "Aveva inciso dei dischi che oggi sono molto ricercati, pezzi unici. Henry Wapshott è venuto fin qui dall'Inghilterra praticamente solo per quello. È specializzato in solisti e cori di voci bianche di tutto il mondo." "L'unico di cui ho sentito parlare io è quello di Vienna" disse Siguròur Òli. "È specializzato in ragazzini, quello" aggiunse Eknborg. "Che genere di persona è uno che colleziona dischi dei cori di voci bianche? Non dovremmo chiedercelo? Non vi suona strano?" Erlendur e Siguròur Òli la guardarono. "Che vuoi dire?" le chiese Erlendur. "Come?" Elìnborg assunse un'espressione meravigliata. "Trovi che ci sia qualcosa di strano nel collezionare dischi in vinile?" "Non parlo dei dischi, ma delle voci bianche" rispose Elìnborg. "Dei ragazzini che cantano. C'è una gran bella differenza, mi pare. Non ci vedete qualcosa di vizioso?" Li guardò a turno. "È che io non ho la tua fantasia perversa" disse Siguròur Òli e guardò Erlendur. "Fantasia perversa? Allora me lo sono immaginata il Babbo Natale in uno schifo di stanzino con i pantaloni abbassati e un preservativo sul pisello? Mi serve un'immaginazione particolare per questo? E poi viene fuori che qui in albergo c'è un uomo che adora questo Babbo Natale, anzi, lo adorava, finché aveva dodici anni, e viene dall'Inghilterra appositamente per incontrarlo. Ma ci siete o ci fate?" "Vorresti riportare tutto in un contesto sessuale?" le chiese Erlendur. Elinborg alzò gli occhi al cielo. "Mi sembrate due educande!" "È solo un collezionista di dischi" la rassicurò Siguròur Òli. "Come ha detto Erlendur, alcuni collezionano i sacchetti per il mal d'aria delle compagnie aeree. Allora, secondo le tue teorie, questi che genere di vita sessuale dovrebbero avere?" "Non capisco perché siate così ciechi! O frustrati. Perché gli uomini sono sempre così frustrati?" "Ah, non cominciare con questa storia" la pregò Siguròur Òli. "Perché le donne parlano sempre di quanto siano frustrati gli uomini? Come se loro non fossero frustrate, con tutte le manie che hanno: Oh, non trovo il rossetto!, e..." "Vecchie educande cieche e frustrate" ribadì Elinborg. "Che significa essere un collezionista?" si domandò Erlendur. "Perché la gente si vuole circondare di certi oggetti, e perché ritiene che alcune cose abbiano più valore di altre?" "Perché sì" rispose Siguròur Òli. "Cercano qualcosa che sia particolare e unico" continuò Erlendur. "Che nessun altro ha. Non è questo lo scopo? Possedere un tesoro che non ha Arnaldur Indridason – La Voce
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nessun altro al mondo." "Ma spesso non sono personaggi un po' originali?" chiese la collega. "Originali?" "Sì, solitari. Non è così? Non sono un po' strani?" "Avevi trovato dei dischi nell'armadio di Gudlaugur" le disse Erlendur. "Che ne hai fatto? Li hai analizzati, per caso?" "Li ho solo visti. Non mi sono nemmeno avvicinata, dunque se li vuoi sono ancora lì." "Come fa un collezionista come Wapshott a mettersi in contatto con uno come Gudlaugur?" continuò Elinborg. "Come ha saputo di lui? Ci sono degli intermediari? Cosa sa delle incisioni di dischi di cori islandesi negli anni Sessanta? E di un ragazzino che cantava da solista in Islanda più di trent'anni fa?" "Riviste?" azzardò Siguròur Òli. "Internet? Il telefono? Altri collezionisti?" "Sappiamo qualcos'altro di Gudlaugur?" chiese Erlendur. "Aveva una sorella" disse Elinborg. "E anche un padre, che è ancora vivo. Naturalmente sono stati informati della sua morte. La sorella l'ha identificato." "Non dovremmo prendere un campione di saliva anche a Wapshott?" propose Siguròur OH. "Sì, ci penso io" si offrì Erlendur. Siguròur Òli cominciò a cercare qualche informazione su Henry Wapshott. Elinborg si offrì di andare a trovare il padre e la sorella di Gudlaugur, ed Erlendur tornò nello stanzino del portiere, nel seminterrato. Passò dalla reception e, vedendo che il responsabile era tornato al lavoro, si ripropose di parlargli più tardi. Trovò i dischi nell'armadio. Erano due quarantacinque giri. Su uno c'era scritto: GUDLAUGUR CANTA L'AVE MARIA DI SCHUBERT. Era lo stesso disco che gli aveva fatto vedere Henry Wapshott. L'altro mostrava un ragazzino davanti a un coro di bambini. Il direttore, un giovanotto, era in piedi a lato. GUDLAUGUR EGILSSON CANTA DA SOLISTA, c'era scritto a lettere cubitali sulla custodia. Sul retro della copertina c'era una breve nota sul giovanissimo e promettente cantante: "Gudlaugur Egilsson si è guadagnato l'attenzione del grande pubblico con il coro di voci bianche di Hafnarfjòròur, e possiamo sicuramente affermare che il nostro cantante dodicenne ha un brillante futuro davanti a sé. Nel suo secondo disco, sotto la direzione di Gabrìel Hermansson, il maestro del coro di voci bianche di Hafnarfjoròur, la sua splendida voce da soprano è ancor più ispirata. Un gioiello imperdibile per chiunque ami la bella musica, un disco in cui il giovane cantante Gudlaugur Egilsson dimostra un talento di livello innegabilmente superiore. Al momento ha in programma una tournée nei paesi scandinavi". Un bambino prodigio, pensò Erlendur e guardò la locandina con la piccola principessa Shirley Temple. Che ci fai tu qui? chiese al poster. Perché ti teneva appesa alla parete? Perché non ha lasciato altro all'infuori di te? Prese il cellulare. "Marion?" disse, appena all'altro capo gli risposero. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Sì" rispose lei. "Sei tu?" "Che mi dici?" "Sapevi che questo Gudlaugur da bambino cantava e incideva dischi?" "Ci sono appena arrivato." "La casa discografica, la GH, è fallita circa vent'anni fa, non ne è rimasto niente. Il proprietario, nonché direttore, era un certo Gunnar Hansson. Pubblicava Beatles e roba da hippy, ma poi è andato tutto in malora." "Sai che ne è stato del magazzino?" "Il magazzino?" chiese Marion Briem. "Sì, lo stock di dischi." "Sicuramente li avrà venduti tutti per pagare i debiti. Non succede sempre così? Ho parlato con i suoi eredi, i due figli. La casa discografica non aveva mai inciso molto e, quando ho chiesto loro qualche informazione, sono praticamente caduti dalle nuvole. Erano decenni che non ne sentivano parlare. Gunnar è morto verso la metà degli anni Novanta, e secondo loro non ha lasciato altro che debiti." "C'è un uomo qui in albergo che colleziona dischi di musica corale e anche di voci bianche soliste. Voleva incontrare Gudlaugur, ma non ha fatto in tempo. Mi stavo chiedendo se i suoi dischi potessero avere valore. Come lo scopro?" "Trova un collezionista e parlaci" suggerì Marion. "Vuoi che ci pensi io?" "Ah, poi c'è un'altra cosa. Puoi rintracciare un uomo di nome Gabrìel Hermansson, che dirigeva il coro di Hafnarfjòròur negli anni Sessanta? Lo trovi sicuramente sull'elenco telefonico, se è ancora vivo. Può darsi che sia stato l'insegnante di Gudlaugur. Ho qui la custodia del disco, c'è una sua foto, mi sembra che allora potesse avere tra i venti e i trent'anni. Se è morto, ovviamente è tutto finito." "In genere è la regola." "Come?" "Quando uno muore, è tutto finito." "Infatti." Erlendur esitò. "Perché parli di morte?" "Niente. Così." "Tutto a posto?" "Ti ringrazio per avermi trovato qualcosina da fare" gli disse Marion. "Non era quello che volevi? Metterti a indagare durante la tua terribile vecchiaia?" "Da un senso alla mia giornata" ammise Marion. "Hai controllato il cortisolo nella saliva?" "Lo farò" disse Erlendur e la salutò. Il responsabile della reception aveva un piccolo ufficio dietro il bancone e, quando Erlendur entrò e chiuse la porta, stava sfogliando delle carte. L'uomo si alzò per protestare, spiegandogli che non aveva tempo per parlare con lui perché stava andando a una riunione, ma Erlendur trovò da sedersi e incrociò le braccia. "Da cosa fugge?" gli chiese. "Che vuol dire?" "Ieri è arrivato tardi al lavoro, nonostante sia. alta stagione. Quando ho parlato con lei la sera in cui il portiere è stato ucciso, sembrava avesse fretta di liquidarmi. Adesso è sulle spine. A mio avviso, lei è il primo nella lista dei sospettati. Mi dicono che conosceva Gudlaugur meglio di chiunque altro, qui in albergo, invece lo nega. Dice di non saperne nulla. Per me sta mentendo. Era un suo sottoposto. Dovrebbe mostrare un minimo di collaborazione. Non è divertente passare il Natale in stato d'arresto, sa?" Il responsabile lo fissò senza sapere più a cosa aggrapparsi, poi lentamente si rimise a sedere. "Lei non ha niente contro di me" gli disse. "È una follia ritenere che io abbia Arnaldur Indridason – La Voce
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fatto una cosa del genere a Gudlaugur. Che sia stato con lui nello stanzino e... sì, insomma, quella cosa con il preservativo e tutto il resto..." Erlendur era preoccupato perché gli pareva che in albergo stessero circolando troppi dettagli sul caso e che il personale ne facesse argomento di conversazione. Il cuoco sapeva esattamente perché stavano raccogliendo campioni di saliva. Il responsabile della reception si era fatto un'idea della situazione. Forse era stato il direttore a spifferare tutto, o la ragazza che aveva trovato il corpo, magari gli stessi poliziotti. "Dov'è stato ieri?" gli chiese Erlendur. "Ero ammalato" rispose. "Sono stato a casa tutta la mattina." "Non ha informato nessuno. È stato dal medico? Le ha rilasciato un certificato? Posso parlare con lui? Come si chiama?" "No, non sono stato dal medico. Sono rimasto a letto. Sto meglio, adesso." Si sforzò di tossire. Erlendur sorrise. Quell'uomo era il bugiardo più penoso che avesse incontrato negli ultimi tempi. "Perché sta mentendo?" "Lei non ha niente contro di me" ribadì. "L'unica cosa che può fare è minacciarmi. Voglio che mi lasci in pace." "Potrei anche parlare con sua moglie" continuò Erlendur "e chiederle se ieri le ha portato il te a letto." "Lasci stare mia moglie" disse il responsabile della reception, la cui voce all'improvviso aveva assunto un tono più duro e serio. Divenne rosso in viso. "Nemmeno per sogno" affermò Erlendur. L'uomo gli lanciò un'occhiataccia. "Non parli con lei" lo pregò. "Perché no? Che cosa mi sta nascondendo? È diventato troppo misterioso, non riuscirà a liberarsi di me." Il responsabile della reception fissò nel vuoto davanti a sé e sospirò. "Mi lasci in pace. Gudlaugur non c'entra niente. Mi sono infilato in certi casini, ho dei problemi personali che sto cercando di risolvere." "E cioè?" "Non sono tenuto a parlargliene." "Lasci decidere a me." "Non può costringermi." "Come le ho detto, posso inoltrare una richiesta di fermo cautelare oppure, molto più semplicemente, posso parlare con sua moglie." Il responsabile della reception tirò un profondo sospiro. Infine guardò Erlendur. "Poi la chiuderemo qui?" "Se non riguarda Gudlaugur." "No, non lo riguarda affatto." "D'accordo." "Hanno telefonato a mia moglie l'altro ieri" spiegò l'uomo, "lo stesso giorno in cui avete trovato Gudlaugur." Al telefono una voce femminile aveva chiesto di lui, ma la signora non l'aveva riconosciuta. Era circa mezzogiorno di una giornata lavorativa, e non c'era niente di anormale nel fatto che chiedessero del marito a casa a quell'ora. Chi lo conosceva sapeva che aveva orari strani. Sua moglie, un medico, faceva i turni e la telefonata l'aveva svegliata; quella sera era di guardia. La donna al telefono si era comportata come se conoscesse suo marito, ma appena la moglie aveva voluto sapere chi fosse, si era inferocita. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Lei chi è, scusi?" aveva chiesto. "Perché telefona a casa?" La risposta che aveva ottenuto aveva destato ulteriore sorpresa e altri interrogativi. "È in debito con me" aveva detto la voce al telefono. "Mi aveva già minacciato dicendomi che avrebbe chiamato a casa" confessò il responsabile della reception a Erlendur. "Chi era?" Una decina di giorni prima era uscito a divertirsi. Sua moglie era a un convegno di medicina in Svezia, così lui era andato a cena fuori con tre amici. Se l'erano spassata in compagnia, dopo il ristorante avevano fatto il giro dei bar ed erano finiti in un famoso locale del centro. Lì si erano separati, lui era andato al bancone e aveva incontrato dei conoscenti che lavoravano nel ramo alberghiero, poi era rimasto a bordo pista a guardare la gente che ballava. Aveva bevuto un po', ma non tanto da non essere in grado di prendere decisioni sensate. Per questo non riusciva a capire. Non aveva mai fatto niente del genere prima di allora. La donna gli si era avvicinata con una sigaretta fra le dita, proprio come nei film, e gli aveva chiesto da accendere. Lui non fumava, ma per il tipo di lavoro che svolgeva era abituato a portare sempre con sé un accendino. Era un'abitudine che aveva preso quando ancora era consentito fumare ovunque. Lei aveva iniziato a parlargli di cose che ormai aveva dimenticato, poi gli aveva chiesto se non aveva intenzione di offrirle da bere. Lui l'aveva guardata. Ma certo, sicuro. Erano andati al bar, poi si erano seduti a un tavolino che nel frattempo si era liberato. La donna era particolarmente affascinante e flirtava con lui in modo discreto. Era stato al gioco, senza sapere come sarebbe andata a finire. In genere le donne non lo approcciavano così. Lei, invece, gli stava seduta vicino ed era audace e sicura di sé. Quando si era alzato per ordinare il secondo bicchiere per entrambi, gli aveva accarezzato una coscia. Lui l'aveva guardata, lei aveva sorriso. Una donna bella e affascinante che sapeva il fatto suo. Avrà avuto dieci anni meno di lui. Più tardi gli aveva chiesto se voleva accompagnarla a casa. Abitava nelle vicinanze e potevano andare a piedi. Lui era ancora titubante e incerto, ma anche eccitato. Era una cosa talmente insolita che gli sembrava di trovarsi sulla luna. In ventitré anni era sempre stato fedele a sua moglie. Forse in tutti quegli anni aveva avuto due o tre occasioni di baciare un'altra, ma non gli era mai accaduto niente del genere. "Ho sbagliato tutto" confidò a Erlendur. "Una parte di me voleva correre a casa e dimenticare. Un'altra voleva continuare." "Immagino quale parte ha avuto la meglio." Erano rimasti fuori dall'appartamento della donna, sul pianerottolo di un condominio nuovo, e lei aveva infilato la chiave nella toppa. In qualche modo, anche quel gesto risultava sensuale. Dopo aver aperto la porta, gli si era avvicinata: "Dai, entra con me" gli aveva detto, sfiorandolo in mezzo alle gambe con la mano. Aveva obbedito. Prima la donna aveva versato da bere per entrambi, e intanto lui si era seduto sul divano in soggiorno. Poi aveva messo della musica, Arnaldur Indridason – La Voce
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gli si era avvicinata con un bicchiere e gli aveva sorriso, i bei denti bianchi scintillavano in contrasto con il rossetto rosso. Gli si era seduta accanto, aveva posato il drink, l'aveva preso per la cintura dei pantaloni e gli aveva abbassato lentamente la cerniera. "Mi ha... è stato... era incredibile quello che sapeva fare" confidò il responsabile della reception. Erlendur lo guardò in silenzio. "Volevo andarmene di nascosto il mattino dopo, ma lei era già sveglia. Il senso di colpa mi stava uccidendo, mi sentivo un disgraziato ad aver tradito mia moglie e i miei figli. Sa, ne abbiamo tre. Volevo tornare a casa e dimenticare tutto. Non volevo vederla mai più, quella donna. Era già sveglia quando cominciai a muovermi di soppiatto per la stanza al buio." A letto, si era appoggiata sui gomiti e aveva acceso la lampada sul comodino. "Te ne vai?" gli aveva chiesto. Sì, aveva risposto lui, dicendole che era tardi, aveva una riunione importante. Qualcosa del genere. "Ti è piaciuto stanotte?" Lui l'aveva guardata, ancora con i pantaloni in mano. "È stato bellissimo" aveva ammesso, "ma non posso portare avanti una cosa del genere. Non posso. Scusami." "Voglio ottantamila corone" aveva detto lei tranquilla, come se fosse così ovvio che non c'era nemmeno bisogno di sottolinearlo. Lui l'aveva guardata come se non avesse sentito. "Ottantamila corone" gli aveva ripetuto. "Che vuoi dire?" "Per la notte." "Per la notte? Che vuoi dire, ti vendi?" "A te che sembra?" Non capiva di che cosa stesse parlando. "Credi di poterla avere gratis, una come me?" A poco a poco si era reso conto di tutto. "Ma non me lo avevi detto !" "Ce n'era bisogno? Pagami ottantamila corone, e forse ti inviterò a casa mia un'altra volta." "Io mi sono rifiutato di pagare" disse il responsabile della reception a Erlendur. "Me ne sono andato. Lei era furiosa. Ha chiamato qui al lavoro e mi ha minacciato: se non avessi pagato, avrebbe telefonato a casa mia." "Com'è che si chiamano?" chiese Erlendur. "C'è un termine preciso, mi pare. Prostitute d'alto bordo. Era una di loro? Mi sta dicendo questo?" "Non so chi fosse, ma sapeva bene cosa stava facendo, e alla fine ha chiamato mia moglie e le ha raccontato quello che era successo." "Perché non ha pagato e basta? Almeno si sarebbe liberato di lei." "Non ne sono sicuro, anche se avessi sborsato la cifra" disse il responsabile. "Io e mia moglie ne abbiamo discusso ieri. Le ho spiegato quello che era successo, come ho fatto adesso con lei. Siamo insieme da ventitré anni e, anche se non ho scuse, è stato un raggiro, o almeno io la vedo così. Se questa donna non mi avesse minacciato per i soldi, non sarebbe mai successo." "Quindi fondamentalmente è tutta colpa della donna?" "No, certo che no, però... sono stato raggirato." Tacquero. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Accadono cose del genere anche qui in albergo?" chiese Erlendur. "Di prostitute d'alto bordo ce ne sono?" "No." "Non è che magari le è sfuggito?" "Mi è stato riferito che stava chiedendo informazioni al riguardo. Qui non si fanno certe cose." "Appunto..." "Terrà la bocca chiusa?" "Mi serve il nome di questa donna, se ce l'ha. E l'indirizzo. Da qui non uscirà niente, non si preoccupi." L'uomo esitò. "Maledetta troia" esclamò, e per un attimo dimenticò il suo ruolo di albergatore cortese. "Ha intenzione di pagarla?" "Su questo io e mia moglie siamo d'accordo. Non avrà una sola corona." "Crede che qualcuno le abbia giocato un brutto tiro?" "Un brutto tiro?" ripetè il responsabile. "Non capisco. Che vuol dire?" "Insomma, può essere che qualcuno le voglia così male da tramare una cosa del genere e metterla nei guai? Qualcuno con cui magari ha avuto dei contrasti?" "Non mi è nemmeno passato per la testa. Sta dicendo che potrei avere dei nemici che mi farebbero una cosa del genere?" "Non per forza dei nemici. Magari qualche amico burlone." "No, non frequento certa gente. E oltretutto come burla mi sembra eccessiva, è andata ben oltre lo scherzo." "È stato lei a licenziare Babbo Natale?" "Che vuoi dire?" "È stato lei a dargli la notizia, o gli hanno mandato una lettera? O..." "No, gliel'ho detto io." "E come l'ha presa?" "Non bene. È comprensibile. Lavorava qui da molto tempo. Da molto più di me, per esempio." "Crede che possa esserci stato lui dietro a tutto questo? Sempre che ci sia un colpevole." "Gudlaugur? No, non riesco nemmeno a immaginarlo. Gudlaugur? Implicato in una cosa del genere? Non credo. Non era proprio il tipo da far scherzi. Assolutamente." "Sapeva che Gudlaugur era stato un bambino prodigio?" gli chiese Erlendur. "Un bambino prodigio? In che campo?" "Aveva inciso dei dischi. Era una voce bianca." "No, non lo sapevo." "Solo una cosa ancora, poi me ne vado." "Dica." "Potrebbe procurarmi un giradischi e farmelo avere nella mia stanza?" gli domandò Erlendur, e notò che l'uomo rimase stupito. Quando tornò nella hall, vide il capo della scientifica risalire dal seminterrato. "Come sta andando con la saliva che avete trovato sul preservativo? Avete controllato i livelli di cortisolo?" "Ci stiamo lavorando. Che ne sa, lei, del cortisolo?" "So che se raggiunge livelli eccessivi nella saliva può risultare pericoloso." "Siguròur Òli mi ha chiesto dell'arma del delitto" disse il capo della scientifica. "Il medico legale sostiene che non sia un coltello particolare. Non molto lungo, con la lama sottile e seghettata." "Quindi non è un coltello da caccia o un grosso coltello da cucina?" "No, è un utensile piuttosto comune, mi pare di capire. Un coltello qualunque." Erlendur portò in camera i due dischi presi dallo stanzino di Gudlaugur, telefonò all'ospedale e chiese di Valgeròur. Lo misero in linea con il suo reparto. Rispose un'altra donna, a cui chiese di nuovo dell'amica. Lei gli disse di attendere un attimo, poi finalmente Valgeròur rispose. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Ti è rimasto qualcuno di quei tamponi di cotone?" le chiese. "È il signor Morti e Sciagure che parla?" Erlendur sogghignò. "C'è uno straniero qui in albergo che dobbiamo controllare." "È molto urgente?" "Bisognerebbe farlo in giornata." "Tu ci sei?" "Sì." "Allora ci vediamo lì." Erlendur appese. Il signor Morti e Sciagure, pensò, e rise fra sé. Aveva un appuntamento con Henry Wapshott al bar a pianterreno. Ridiscese e si sedette ad attenderlo. Il cameriere gli chiese se voleva ordinare, ma declinò. Poi cambiò idea e lo richiamò per farsi portare un bicchiere d'acqua. Osservò il bancone e i ripiani colmi di alcolici, le schiere di bottiglie di vino in tutti i colori dell'arcobaleno, le file di liquori. Sul pavimento in marmo del soggiorno avevano trovato un frammento invisibile di vetro. Dei resti di Drambuie sulla vetrinetta degli alcolici, sui calzini del bambino e sul tappeto per le scale. Avevano trovato frammenti di vetro sulla scopa e dentro l'aspirapolvere. Tutto suggeriva che sul pavimento fosse caduta una bottiglia. Con tutta probabilità, il bambino aveva calpestato la pozza di liquore che si era formata ed era corso immediatamente al piano di sopra nella sua stanza. Le impronte sul tappeto indicavano che stava correndo. Erano piccoli passi spaventati. Per questo avevano concluso che avesse rotto la bottiglia e che poi il padre avesse perso il controllo e lo avesse picchiato tanto da mandarlo all'ospedale. Elìnborg aveva convocato l'uomo per un interrogatorio nella centrale in Hverfisgata, dove lo aveva informato sulle conclusioni a cui era giunta la scientifica, sulla reazione del bambino quando gli aveva chiesto se era stato suo padre a picchiarlo così brutalmente e sulla sua certezza che fosse lui il colpevole. Erlendur era presente. Elìnborg aveva detto al padre che era sospettato e poteva richiedere la presenza di un avvocato. Anzi, doveva averne uno. Lui aveva risposto che per il momento non lo voleva. Sosteneva di essere innocente ed era stupito di essere sospettato solo perché una bottiglia di liquore era finita per terra. Erlendur aveva acceso il registratore nella stanza dell'interrogatorio. "Ecco cosa riteniamo sia accaduto" aveva iniziato, come se stesse leggendo a voce alta una deposizione; cercava di mettere da parte le sue emozioni. "Il bambino torna da scuola. Sono appena passate le tre. Lei rincasa poco dopo. Ci pare di capire che quel giorno è uscito prima dal lavoro. Forse era già a casa quando è accaduto tutto. Per qualche motivo il bambino fa cadere una bottiglia di Drambuie. Si spaventa e corre in camera sua. Lei si arrabbia, e molto anche. Perde completamente il controllo e corre di sopra per punirlo. La situazione le sfugge di mano e lo picchia fino a mandarlo all'ospedale." Il padre era rimasto a osservarla senza dire una parola. "Ha usato un oggetto contundente che non siamo riusciti a trovare, ma si tratta di qualcosa di arrotondato o comunque non appuntito; può essere che abbia sbattuto suo figlio contro la testata del letto. L'ha preso a calci ripetutamente. Prima di chiamare l'ambulanza ha riordinato il soggiorno. Ha Arnaldur Indridason – La Voce
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asciugato il liquore con tre asciugamani che poi ha buttato nei bidoni dell'immondizia davanti a casa. Ha passato l'aspirapolvere per raccogliere ogni minimo frammento di vetro. Ha anche spazzato il pavimento di marmo e vi ha passato velocemente il panno bagnato. Ha lavato accuratamente la vetrina. Ha tolto i calzini al bimbo e li ha buttati nella pattumiera. Ha usato un detersivo per le macchie sul tappeto delle scale, ma non è riuscito a toglierle del tutto." "Non può provare niente" aveva detto lui, "del resto è una cosa assurda. Il bambino non ha detto niente. Non ha detto una parola su chi l'ha aggredito. Perché non ha cercato di far parlare i suoi compagni di scuola?" "Perché non ci ha detto del liquore?" "Non c'entra niente con l'aggressione." "E i calzini nella pattumiera? Le piccole orme sulle scale?" "Si è rotta una bottiglia di liquore, è vero, ma è stata colpa mia. È stato due giorni prima che mio figlio venisse aggredito. Mi stavo facendo un bicchiere, quando mi è caduta per terra ed è andata in mille pezzi. Addi ha visto e si è spaventato. Gli ho detto di stare attento a dove metteva i piedi, ma ormai aveva calpestato il liquore ed era andato nella sua stanza. Questo non ha niente a che vedere con l'aggressione, e devo dire che la sua ricostruzione mi lascia senza parole. Non ha niente in mano! Mio figlio ha detto che l'ho picchiato io? Ne dubito. E non lo direbbe mai, perché non sono stato io. Non gli farei mai una cosa del genere. Mai." "Perché non ce l'ha detto subito?" "Subito?" "Quando abbiamo trovato le macchie. Non ci ha detto niente." "Immaginavo che sarebbe successa una cosa del genere. Sapevo che avreste collegato questo incidente con l'aggressione a Addi. Non volevo complicare le cose. Sono stati i suoi compagni di scuola." "La sua azienda è sull'orlo del fallimento" aveva continuato Elìnborg. "Ha silurato venti persone e sono previsti altri licenziamenti. Suppongo che sia sottoposto a forti pressioni. Sta perdendo la casa..." "Sono solo affari." "Pensiamo anche che lei gli abbia usato violenza in altre occasioni." "No, senta..." "Abbiamo controllato negli archivi dell'ospedale. In quattro anni suo figlio si è rotto un dito ben due volte." "Ha dei figli, lei? Ai ragazzini capita sempre qualche incidente. Tutto questo è assurdo." "Un pediatra ha fatto degli accertamenti sull'ultima frattura e li ha comunicati all'ente per la tutela dei minori. Era sempre lo stesso dito. È stata inviata una commissione a casa sua. Hanno verificato l'ambiente famigliare. Non hanno trovato nulla di particolare. Il pediatra ha scoperto delle punture di aghi sulla schiena del bambino." Il padre era rimasto in silenzio. Elìnborg non era più riuscita a controllarsi. "Maledetto bastardo" gli aveva detto a denti stretti. "Voglio parlare con il mio avvocato" aveva replicato l'uomo, abbassando lo sguardo. "Isaid, goodmorning!" Erlendur tornò in sé e si vide davanti Henry Wapshott che lo salutava. Era profondamente immerso nei suoi pensieri, stava ripensando al bambino che era scappato su per le scale, dunque non si era accorto che l'inglese era entrato nel bar e nemmeno lo aveva sentito quando Arnaldur Indridason – La Voce
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l'aveva salutato. Scattò in piedi e gli strinse la mano. Wapshott indossava gli stessi abiti del giorno precedente. I capelli erano però spettinati e pareva molto stanco. Ordinò un caffè, ed Erlendur fece lo stesso. "Stavamo parlando di collezionisti" gli ricordò. "Yes" rispose Wapshott, con un mezzo sorriso. "Bunch of loners, like myself." "Come fa un collezionista inglese come lei a scoprire che quasi quarant'anni fa ad Hafnarfjordur, in Islanda, c'era un bambino che cantava e aveva una bella voce?" "Oh, aveva molto di più che una bella voce" lo corresse Wapshott. "Molto, molto di più. Aveva una voce assolutamente unica, quel bambino." "Come ha saputo di Gudlaugur Egilsson?" "Tramite persone con gli stessi miei interessi. I collezionisti di dischi si specializzano in un settore specifico, come credo di averle già spiegato ieri. Prendiamo la musica corale, per esempio: c'è chi colleziona solo determinati brani o edizioni o perfino cori. Altri, come me, collezionano cori di voci bianche. Alcuni collezionano solo cori di voci bianche incisi su settantotto giri di vetro, che non sono più stati prodotti dopo gli anni Sessanta. Altri collezionano quarantacinque giri, ma solo di determinate case discografiche. Le specializzazioni sono infinite. Alcuni cercano tutte le edizioni esistenti di un solo brano, per esempio Stormy Weather, che lei sicuramente conoscerà. Tanto per farle capire di cosa stiamo parlando. Ho saputo di Gudlaugur tramite un gruppo o un'associazione di collezionisti giapponesi, che gestisce un grande sito internet con vendita online. Nessuno colleziona musica occidentale quanto i giapponesi. Vanno in giro per il mondo come aspirapolveri e comprano qualsiasi cosa sia stata incisa su disco e su cui riescano a mettere le mani. Sono famosi sul mercato e, soprattutto, hanno molto denaro da spendere." Erlendur si chiese se fosse consentito fumare al bar e decise di provare. Wapshott si accorse che l'agente aveva intenzione di farsi una sigaretta, così estrasse anche lui un pacchetto di Chesterfield senza filtro; Erlendur gli diede da accendere. "Crede che si possa fumare qui?" gli chiese Wapshott. "Lo scopriremo presto" rispose Erlendur. "I giapponesi avevano una copia del primo disco di Gudlaugur, continuò Wapshott. "Quello che le ho mostrato ieri. L'ho acquistato da loro. Un disco costosissimo, ma non me ne sono affatto pentito. Quando ho chiesto loro notizie sulla provenienza di quel disco, mi hanno detto di averlo comprato da un collezionista di Bergen, in Norvegia, a un mercato di Liverpool. Mi sono messo in contatto con il collezionista norvegese e così ho scoperto che aveva acquistato il disco dallo stock lasciato da un discografico di Trondheim. Forse lui si era fatto mandare il disco dall'Islanda, magari da qualcuno che voleva far diventare famoso il bambino anche all'estero." "È un lavoro di ricerca pazzesco solo per un vecchio disco" disse Erlendur. Arnaldur Indridason – La Voce
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"I collezionisti sono come gli studiosi di genealogia. In parte il divertimento sta proprio nel risalire alle origini. Da allora ho cercato di procurarmi altre copie, ma è dura. Aveva inciso solo due singoli." "Lei ha detto che i giapponesi si sono fatti pagare caro. Allora questi sono dischi di valore?" "Solo per i collezionisti" gli spiegò Wapshott. "E non stiamo parlando di cifre consistenti." "Ma abbastanza da farle decidere di venire fin quassù in Islanda per acquistarne altri. Per questo voleva incontrare Gudlaugur, per sapere se aveva altre copie." "Sono in contatto da tempo con due o tre collezionisti islandesi. E iniziato tutto molto prima che mostrassi interesse per i dischi di Gudlaugur. Purtroppo non sono più in circolazione, praticamente. I collezionisti islandesi non hanno trovato nulla. Forse riesco a procurarmene una copia su internet, dalla Germania. Sono venuto fin qui per conoscere questi collezionisti, incontrare Gudlaugur perché ammiro molto il suo talento e per andare nei negozi e dare un'occhiata al mercato." "E lei vive di questo?" "No, certo che no" rispose Wapshott, aspirando avidamente la Chesterfield, le dita ingiallite da decenni di fumo. "Ho ricevuto in eredità alcuni immobili a Londra, che amministro, ma la maggior parte del mio tempo la dedico alla mia collezione. Effettivamente si può definire una passione." "E colleziona voci bianche, giusto?" "Sì." "Ha trovato qualcosa di interessante da quando è arrivato?" "No. Niente. Qui non sembra siate molto interessati a conservare le cose. Preferite le cose nuove. Quelle vecchie sono cianfrusaglie, non sono degne di essere tenute. Mi pare che qui i dischi siano trattati molto male. Vengono buttati via. Prendiamo ciò che i defunti lasciano in eredità, per esempio. Nessuno ha la possibilità di dargli un'occhiata. Si porta tutto in discarica e basta. Per molto tempo ho creduto che la Sorpa, la ditta che ricicla i rifiuti di Reykjavik, fosse un'associazione di collezionisti. Veniva menzionata spesso nelle nostre corrispondenze. Poi ho scoperto che è un'azienda di smaltimento rifiuti e che gestisce anche un mercato dell'usato. Lì, fra la spazzatura, i collezionisti trovano tesori preziosi di ogni tipo e li vendono su internet a buon prezzo." "L'Islanda riveste un interesse particolare per i collezionisti?" gli chiese Erlendur. "Per noi il pregio maggiore dell'Islanda è che ha un mercato ridotto. Di ciascun disco vengono pubblicate solo poche copie, che in breve tempo spariscono e si perdono definitivamente. Come i dischi di Gudlaugur." "Dev'essere entusiasmante fare il collezionista in un mondo dove la gente odia tutte le cose vecchie e usate. Sarà una bella soddisfazione pensare di poter salvare oggetti che hanno un valore culturale." "Siamo pochi pazzi che ci battiamo contro la distruzione" confermò Wapshott. "E ci si guadagna pure." "Qualche volta sì." "Che cos'è accaduto a Gudlaugur Egilsson? Che ne è stato del bambino prodigio?" "Quello che succede a tutti i bambini prodigio" disse Wapshott. "E cresciuto. Non so esattamente cosa ne sia stato di lui, ma non ha più cantato da adolescente e nemmeno Arnaldur Indridason – La Voce
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da adulto. La sua carriera canora è stata molto breve ma bellissima, poi è sparito nella massa e non è più stato l'artista unico e particolare che era un tempo. Nessuno l'ha più sostenuto, sicuramente avrà sentito la mancanza di quel mondo. Bisogna avere le spalle larghe per reggere apprezzamenti e fama quando si è così giovani, e a maggior ragione quando la gente ti volta le spalle." Wapshott guardò l'orologio appeso alla parete del bar e poi quello che aveva al polso, e si schiarì la gola. "Voglio tornare a Londra con il volo di questa sera, e devo sbrigare alcune commissioni prima di partire. C'era qualcosa d'altro che voleva sapere?" Erlendur lo guardò. "No, credo sia tutto. Pensavo volesse tornare a casa domani." "Se posso rendermi utile in qualche altro modo, tenga" disse Wapshott, prendendo un biglietto da visita dal taschino e porgendoglielo. "Ha anticipato il volo?" "Sì, visto che non ho potuto incontrare Gudlaugur. Ho sbrigato quasi tutto quello che mi ero riproposto di fare in questo viaggio, almeno mi risparmio una notte in albergo." "C'è solo un'altra cosa" continuò Erlendur. "Sì?" "Verrà qui un'analista, più tardi, a prenderle un campione di saliva, se non le dispiace." "Un campione di saliva?" "Per le indagini sull'omicidio." "Perché la saliva?" "Non posso dirglielo, al momento." "Sono un sospettato?" "Abbiamo preso un campione di saliva da tutti coloro che in qualche modo conoscevano Gudlaugur. È per le indagini. Non ha niente a che vedere con lei." "Capisco" rispose Wapshott. "Saliva! Che strano." Sorrise, ed Erlendur gli vide l'arcata dentale inferiore, annerita dalla nicotina. Entrarono in albergo dalla porta girevole, il vecchio sulla sedia a rotelle e la donna alle sue spalle, bassa e magra come lui, il naso aquilino, sottile e aguzzo, e uno sguardo duro e penetrante che scrutò tutta la hall. Era sulla cinquantina, indossava un pesante cappotto marrone e un paio di stivali alti di pelle nera, e spingeva la sedia a rotelle davanti a sé. L'uomo aveva circa ottant'anni, da sotto il cappello spuntavano ciuffi di capelli bianchi, e il volto macilento era pallidissimo. Stava seduto curvo, dalle maniche del giaccone nero uscivano le mani bianche e ossute, portava una sciarpa nera intorno al collo e spessi occhiali di corno neri che gli ingrandivano gli occhi, tanto da farli sembrare quelli di un pesce. La donna lo accompagnò al banco della reception. Il responsabile stava uscendo dal suo ufficio e li vide avvicinarsi. "In cosa posso esservi utile?" chiese, quando i due gli furono davanti. L'uomo sulla sedia a rotelle lo ignorò, e la donna domandò di un agente di polizia, un certo Erlendur, che le risultava essere in servizio lì. Quando li aveva visti, Erlendur stava uscendo dal bar con Wapshott. Avevano subito richiamato la sua attenzione. C'era qualcosa in loro che gli ricordava la morte. Pensò che forse era il caso di fermare Wapshott e impedirgli di tornare a Arnaldur Indridason – La Voce
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Londra per il momento, ma non trovò alcun buon motivo per trattenerlo. Stava proprio chiedendosi chi potessero essere quelle persone, l'uomo con gli occhi da merluzzo e la donna col naso aquilino, quando il responsabile della reception lo vide e gli fece un cenno con la mano. Erlendur voleva salutare Wapshott, ma si accorse che era sparito. "Questi signori chiedono di lei" lo informò, mentre si avvicinava al banco. Erlendur si fermò. Gli occhi da merluzzo lo fissavano da sotto il cappello. "È lei Erlendur?" gli chiese l'uomo sulla sedia a rotelle, con una voce senile e indistinta. "Volevate parlare con me?" Il naso aquilino si sollevò. "È lei che dirige le indagini sulla morte di Gudlaugur Egilsson?" gli domandò la donna. Erlendur rispose di sì. "Sono sua sorella" gli spiegò. "E questo è nostro padre. Possiamo parlare in privato?" "Vuole che l'aiuti?" si offrì Erlendur, ma lei lo guardò come se l'avesse offesa e spinse la sedia da sola. Lo seguirono fino al bar, al tavolo dove si era seduto prima con Wapshott. Non c'era nessun altro, erano gli unici clienti. Perfino il cameriere era sparito. Erlendur non sapeva se il bar funzionasse prima di pranzo; suppose di sì, dato che la porta era aperta, benché lo sapessero in pochi. La donna diresse la sedia a rotelle fino al tavolo e bloccò le ruote. Poi si accomodò di fronte a Erlendur. "Stavo proprio venendo da voi" mentì l'agente, che in realtà aveva pensato di mandare Siguròur Òli ed Elìnborg a parlare con la famiglia di Gudlaugur. Non ricordava se aveva dato loro ordini precisi al riguardo. "Preferiremmo non avere la polizia in casa nostra" disse la signora. "Non è mai successo. Ci ha telefonato una donna, probabilmente una sua collega, Elìnborg, credo abbia detto. Le ho chiesto chi dirigeva le indagini e mi ha fatto il suo nome, tra gli altri. Speravo che potessimo concludere la questione e che quindi ci avreste lasciato in pace." Nel loro comportamento non si coglieva alcuna traccia di dolore. Nessun rimpianto per una persona cara. Solo fredda repulsione. Ritenevano di avere dei doveri a cui adempiere, si sentivano in obbligo di fare un rapporto alla polizia, ma provavano per quell'istituzione un'evidente antipatia che non si curavano affatto di nascondere. Era come se il cadavere trovato nel seminterrato dell'albergo non li riguardasse. Come se fossero un gradino sopra. "Conoscete le circostanze in cui è stato trovato Gudlaugur" disse Erlendur. "Sappiamo che l'hanno ucciso" rispose il vecchio. "Pugnalato. Sappiamo che è stato pugnalato." "Sapete chi potrebbe averlo fatto?" "Non ne abbiamo idea" replicò la donna. "Non avevamo rapporti con lui. Non sappiamo chi frequentava. Non conoscevamo i suoi amici e nemmeno i suoi nemici, sempre che ne avesse." "Quand'è stata l'ultima volta che l'avete visto?" In quel momento entrò nel bar Elìnborg. Si avvicinò e si sedette accanto a Arnaldur Indridason – La Voce
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Erlendur. Lui la presentò agli altri due, ma loro non mostrarono alcuna reazione, entrambi ugualmente decisi a non farsi coinvolgere in nessun modo. "L'ultima volta che l'abbiamo visto avrà avuto più o meno vent'anni" continuò la donna. "Vent'anni?" Erlendur credeva di aver capito male. "Come ho detto, non avevamo rapporti." "Perché no?" intervenne Elìnborg. La donna non la degnò nemmeno di uno sguardo. "Non è sufficiente che parliamo con un agente?" chiese poi a Erlendur. "Deve rimanere anche lei?" Erlendur guardò la collega. Pareva quasi divertito. "Non si direbbe certo che siate affranti per il destino che è toccato a Gudlaugur" continuò, eludendo la domanda. "Cioè suo fratello" ribadì, guardando di nuovo la donna. "Suo figlio" disse rivolto al vecchio. "Come mai? Perché non lo vedevate da quasi trent'anni? E come ho detto prima, la mia collega si chiama Elìnborg" aggiunse. "Se ha ulteriori commenti da fare, vi portiamo alla centrale di polizia e continuiamo là, così potrete presentare una protesta formale. Abbiamo una volante parcheggiata proprio qui davanti." Il naso aquilino si alzò, offeso. Gli occhi di merluzzo si fecero più piccoli. "Lui viveva la sua vita, noi la nostra" spiegò il vecchio. "Non c'è molto altro da dire. Non c'erano contatti tra noi. Era così e basta. Eravamo contenti così. Lui anche." "Mi sta dicendo che l'avete visto per l'ultima volta verso la metà degli anni Settanta?" domandò Erlendur. "Non avevamo alcun rapporto" ripetè la donna. "Non vi siete sentiti nemmeno una volta, in tutto questo tempo? Nemmeno una telefonata? Niente?" "No" rispose lei. "Perché no?" "Sono questioni di famiglia" intervenne il vecchio. "Non c'entra niente con tutto questo. Niente di niente. È una storia morta e sepolta. Che volete sapere, ancora?" "Sapevate che lavorava qui in albergo?" "Avevamo sue notizie di tanto in tanto" disse la donna. "Sapevamo che faceva il portiere, che indossava un'uniforme ridicola e apriva la porta ai clienti. Poi mi pare di capire che facesse Babbo Natale durante le feste." Erlendur non le staccava gli occhi di dosso. L'aveva detto come se Gudlaugur, facendosi trovare morto e mezzo nudo nello stanzino di un albergo, non avesse potuto umiliare di più la famiglia. "Non sappiamo molto di lui" affermò l'agente. "Sembra che non avesse molti amici. Abitava qui in albergo, in uno stanzino. A quanto pare, gli volevano tutti bene, e ci sapeva fare con i bambini. Era contento di vestirsi da Babbo Natale per le feste, in albergo, come ha detto anche lei. In ogni modo, abbiamo appena saputo che era anche un promettente cantante. Da bambino aveva inciso dei dischi, credo due, ma di sicuro voi lo sapete meglio di me. Sulla copertina di un disco che ho avuto modo di vedere c'è scritto che era in partenza per una tournée nei paesi scandinavi, e pareva quasi che avesse il mondo intero ai suoi piedi. Poi è finito tutto, o almeno così sembra. Nessuno oggi sa più nulla di quel bambino, tranne alcuni strambi collezionisti Arnaldur Indridason – La Voce
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di dischi. Che cos'è successo?" Mentre Erlendur parlava, il naso aquilino era sprofondato e gli occhi di merluzzo si erano spenti. Il vecchio aveva distolto lo sguardo e l'aveva abbassato sul tavolo, invece la donna, che cercava ancora di mantenere un'aria prepotente e fiera, non sembrava più tanto sicura di sé. "Che cos'è successo?" ripetè Erlendur, e ricordò a un tratto di avere ancora in camera i due quarantacinque giri presi nello stanzino di Gudlaugur. "Non è successo niente" tagliò corto il vecchio. "Perse la voce. Si sviluppò precocemente e cambiò voce a dodici anni, ecco perché finì tutto." "Non ha più potuto cantare, dopo?" domandò Elinborg. "Gli venne una voce sgraziata" si rammaricò il vecchio. "Era impossibile insegnargli alcunché. Ed era impossibile da gestire. Si rifiutò di cantare. La rabbia e la ribellione si impadronirono di lui e si mise contro tutti. Contro di me. Contro sua sorella, che cercava di fare quello che poteva per lui. Si infuriò con me, incolpandomi di ogni cosa." "Se non c'è altro..." disse la donna, guardando Erlendur. "Non abbiamo detto abbastanza? Non avete saputo a sufficienza?" "Non è molto quello che abbiamo trovato nello stanzino di Gudlaugur" continuò Erlendur, fingendo di non averla nemmeno sentita. "Solo dei dischi e anche due chiavi." Appena avevano finito di analizzarle, se le era fatte mandare dalla scientifica, dunque le tirò fuori dalla tasca e le posò sul tavolo. Erano appese a un portachiavi con un coltellino a serramanico in miniatura. I lati in plastica erano rosa, e su uno di essi era disegnato un pirata con una gamba di legno e la benda sull'occhio, con la scritta PIRATE sotto. La donna diede una rapida occhiata alle chiavi e disse di non riconoscerle. Il vecchio si sistemò gli occhiali sul naso e le guardò anche lui, poi scosse la testa. "Probabilmente una è la chiave di un appartamento" chiarì Erlendur. "L'altra sembra di un armadio o di qualche baule." Si soffermò su entrambi, ma non vide alcuna reazione, quindi prese le chiavi e se le infilò di nuovo in tasca. "Ha trovato i suoi dischi?" chiese la donna. "Due" rispose Erlendur. "Ne ha incisi altri?" "No" confermò il vecchio, fissando Erlendur per un attimo, poi abbassò subito lo sguardo a terra. "Possiamo averli?" domandò la donna. "Suppongo erediterete voi tutto quello che ha lasciato" rispose Erlendur. "Quando riterremo concluse le indagini, avrete tutte le sue cose. Non aveva nessun altro famigliare, vero? Non aveva figli? Non siamo riusciti a trovare niente al riguardo." "L'ultima volta che ho avuto sue notizie era celibe" disse la donna. "Possiamo aiutarvi in qualche altro modo?" aggiunse poi, come se già avessero dato un enorme contributo alle indagini facendo lo sforzo di venire in albergo. "Non è stata colpa sua, se si è sviluppato e ha cambiato voce" disse Erlendur. Non sopportava più l'indifferenza e l'atteggiamento arrogante di quei Arnaldur Indridason – La Voce
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due. Un figlio aveva perso la vita. Un fratello era stato ucciso. Eppure per loro era come se niente fosse accaduto. Come se la cosa non li riguardasse. Come se la vita dell'uomo avesse cessato da tempo di far parte della loro esistenza, per qualche motivo che Erlendur non era riuscito a indovinare. La donna lo guardò. "Se non c'è altro..." ripetè e sbloccò il fermo della sedia a rotelle. "Vedremo." "Lei pensa che non mostriamo abbastanza comprensione" sbottò lei d'un tratto. "No, penso che non mostriate nessuna comprensione" precisò Erlendur. "Ma non è un problema mio." "No, infatti. Non è un problema suo." "Quello che vorrei sapere, comunque, è se provavate qualche sentimento verso quest'uomo. Era suo fratello." Erlendur si girò verso il vecchio sulla sedia a rotelle. "Suo figlio." "Era uno sconosciuto, per noi" disse la donna e si alzò. Il vecchio fece una smorfia. "Perché non si è rivelato all'altezza delle vostre aspettative?" Anche Erlendur si alzò. "Perché vi ha deluso a dodici anni, quand'era un bambino? Che avete fatto? L'avete cacciato di casa? L'avete buttato in mezzo a una strada?" "Come osa parlarci in questo modo?" ringhiò la donna a denti stretti. "E giudicarci. Chi pensate di essere, la coscienza del mondo?" "Piuttosto, che fine ha fatto la vostra, di coscienza, eh?" sbottò Erlendur a sua volta. La donna lo fissò inferocita. Poi sembrò darsi per vinta. Con un gesto rapido, avvicinò a sé la sedia a rotelle, la scostò dal tavolo e la spinse fuori dal bar. Attraversò rapida la hall fino alla porta girevole. In sottofondo, una cantante d'opera islandese cantava con voce malinconica. Tocca la mia arpa, dea nata nei cieli... Erlendur ed Elìnborg li seguirono e li osservarono uscire dall'albergo, la donna eretta e l'uomo ancora più curvo, di cui si vedeva solo la testa che annuiva sopra lo schienale. ... e v'è chi resta in eterno bambino... Quando Erlendur rientrò nella sua stanza, poco dopo mezzogiorno, il responsabile della reception aveva già sistemato un giradischi e due casse. L'albergo ne aveva di vecchi che non venivano più utilizzati da tempo. Erlendur stesso possedeva un apparecchio del genere a casa, e non impiegò molto a capire come funzionava. Non aveva mai avuto un lettore CD e non comprava dischi da anni. Non ascoltava la musica moderna. Al lavoro aveva sentito parlare di hip hop, ma aveva creduto a lungo che fosse un altro termine per indicare l'hulahoop. Elinborg stava andando ad Hafnarfjòròur. Erlendur le aveva chiesto di verificare se Gudlaugur aveva frequentato le scuole elementari e le superiori. Aveva pensato di chiederlo al padre e alla sorella, ma non ne aveva avuto l'occasione, visto che il loro incontro si era concluso così bruscamente. Avrebbe parlato ancora con loro, comunque. Nel frattempo voleva che Arnaldur Indridason – La Voce
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Elinborg contattasse tutti quelli che conoscevano Gudlaugur quand'era un bambino prodigio, che parlasse con i suoi compagni di ; scuola. Voleva sapere che effetto aveva avuto tanta fama su un ; ragazzino, come l'avevano presa i suoi compagni di scuola, se qualcuno di loro ricordava cosa gli fosse accaduto quando aveva cambiato voce e cosa ne era stato di lui nei primi anni dopo l'età dello sviluppo. Si chiese anche se qualcuno sapeva se Gudlaugur aveva dei nemici all'epoca. Aveva riferito tutto a Elinborg nella hall dell'albergo, e aveva notato che era molto seccata perché riteneva superfluo che le ripetesse la lezione a quel modo. Sapeva di cosa trattava il caso ed era perfettamente in grado di stabilire gli obiettivi da sola. "Dopo puoi comprarti un gelato, lungo la strada" le disse, per prenderla in giro ancora di più. La donna borbottò qualche imprecazione contro i maschilisti e sparì fuori dalla porta. "Come lo riconosco questo Wapshott?" Erlendur sentì una voce alle sue spalle e, voltandosi, vide che Valgeròur l'aveva raggiunto con la valigetta in mano. "È un inglese stanco e quasi pelato, con i denti anneriti, e colleziona voci bianche" le spiegò. "Non ti puoi sbagliare." Lei sorrise. "Denti anneriti, eh?" ripetè. "E colleziona voci bianche?" "È una storia lunga, molto lunga, che prima o poi ti racconterò. Si sa niente di tutti questi campioni? Ci vuole un sacco di tempo, vero?" Era stranamente felice di rivederla. Quando l'aveva sentita alle sue spalle, aveva quasi provato un tuffo al cuore. L'amarezza l'aveva abbandonato all'istante e la voce gli si era animata. Quasi gli mancava il fiato. "Non so come sta andando" rispose. "Si tratta di una quantità incredibile di campioni." "Io, ehm..." Erlendur cercava il modo di scusarsi per la sera precedente. "Mi sono proprio bloccato, ieri. Morti e sciagure. Quando mi hai chiesto perché mi interessavano le disgrazie accadute nelle aree disabitate, non ti ho detto tutta la verità." "Non sei obbligato a dirmi nulla." "E invece sì, certo che sono obbligato" disse Erlendur. "C'è una possibilità che possiamo vederci di nuovo?" "Non..." iniziò Valgeròur, poi tacque. "Non fartene un problema. È stato bello. Dimentichiamocene. D'accordo?" "Se preferisci, va bene" disse a malincuore Erlendur. "Dov'è questo Wapshott?" Erlendur la seguì alla reception, dove le comunicarono il numero di stanza. Si diedero la mano, poi la donna si avviò verso l'ascensore. Lui la guardò. Attese l'ascensore senza voltarsi. Erlendur pensò che forse era il caso di riprovarci, e stava quasi per farlo quando la porta dell'ascensore si aprì e Valgeròur entrò. Lo guardò proprio mentre la porta si richiudeva e gli lanciò un sorriso quasi impercettibile. Erlendur rimase immobile per un attimo, poi vide che l'ascensore si fermava al piano di Wapshott. Infine premette il pulsante e lo richiamò. Mentre saliva fino in camera sua, sentì il profumo di Valgeròur. Arnaldur Indridason – La Voce
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Mise il disco del soprano Gudlaugur Egilsson sul piatto ed ebbe cura di selezionare la velocità a quarantacinque giri. Poi si distese sul letto. Il disco era come nuovo. Pareva intonso. Niente graffi né granelli di polvere. Gracchiò solo un po' all'inizio, ma poi partì l'introduzione e finalmente la voce chiara e incredibilmente bella di un bambino cominciò a cantare l'Ave Maria. Era da solo in corridoio, aveva aperto con cautela la porta della stanza di suo padre e l'aveva visto seduto sul bordo del letto a fissare davanti a sé in un'angoscia muta. Non prendeva parte alle ricerche. Dopo aver perso di vista i suoi due figli sulla brughiera durante la bufera di neve che si era scatenata all'improvviso, era tornato alla fattoria con difficoltà. Aveva vagato nella tempesta e urlato i loro nomi, ma non vedeva a un palmo di naso e il fragore del vento soffocava le sue grida. Non c'erano parole per descrivere la sua disperazione. Aveva portato con sé i ragazzi perché lo aiutassero a radunare il gregge. Aveva pochissime pecore, e alcune erano scappate, così voleva riportarle all'ovile. Era arrivato l'inverno, ma le previsioni erano buone e, quando erano partiti da casa, pareva ci fosse bel tempo. Ma erano solo previsioni, e le apparenze ingannano. Il maltempo non avvertiva mai quando arrivava. Erlendur era entrato da suo padre e si era fermato accanto a lui. Non capiva perché rimanesse seduto sul letto e non andasse invece con gli altri sulla brughiera. Suo fratello era ancora disperso. Poteva essere vivo, benché fosse improbabile. Erlendur l'aveva capito dalle espressioni degli uomini che tornavano esausti alla fattoria, si riposavano e mangiavano qualcosa prima di uscire di nuovo. Provenivano dai villaggi e dalle fattorie dei dintorni, chiunque fosse in grado di dare una mano, con i cani e lunghi bastoni da infilare nella neve. Così avevano trovato Erlendur. Così volevano trovare anche suo fratello. Andavano sulla brughiera a gruppi di nove o dieci, infilavano i bastoni nella neve e gridavano il nome del bambino. Due giorni erano trascorsi da quando avevano trovato Erlendur e tre giorni da quando il maltempo li aveva separati. I fratelli erano rimasti insieme a lungo. Avevano urlato nella tempesta e cercato di distinguere la voce del padre. Erlendur, di due anni più grande, teneva per mano il fratellino, ma gli si erano intirizzite le dita per il gelo e non si era nemmeno accorto di aver mollato la presa. Quando si era voltato, credeva ci fosse ancora, invece non l'aveva più visto. Molto dopo, gli parve di ricordare la mano che scivolava via dalla sua, ma era frutto della sua immaginazione. Non se n'era mai accorto, in realtà. Era sicuro che sarebbe morto a dieci anni in una tempesta di neve che pareva non volesse smettere mai. Si accaniva contro di lui in ogni direzione e lo portava via e lo squartava e lo accecava, fredda, dura e impietosa. Alla fine era caduto e aveva cercato di sprofondare nella neve. Era rimasto disteso a pensare a suo fratello, anche lui stava morendo sulla brughiera. Si era svegliato sentendo un'intensa fitta alla spalla, e all'improvviso gli era apparso un volto che non conosceva. Non sentiva cosa gli dicesse Arnaldur Indridason – La Voce
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quell'uomo. Voleva continuare a dormire. L'avevano tirato fuori dalla neve, e gli uomini si davano il cambio per trasportarlo a braccia, ma lui ricordava ben poco di quel viaggio verso casa. Aveva sentito delle voci. Aveva sentito sua madre che lo assisteva. Il medico l'aveva visitato. Piedi e mani congelati, ma niente di più grave. Aveva sbirciato dentro la camera di suo padre. L'aveva visto seduto sul bordo del letto, da solo, come se niente di ciò che era accaduto avesse avuto alcun effetto su di lui. Due giorni dopo Erlendur si era già rimesso. Era in piedi accanto a suo padre, inerme e spaventato. Quando aveva cominciato a riprendersi e gli erano tornate le forze, l'aveva colto uno strano senso di colpa. Perché lui? Perché lui e non suo fratello? E se non avessero trovato lui, avrebbero forse trovato suo fratello al posto suo? Voleva chiederlo a suo padre, e voleva chiedergli anche perché non prendeva parte alle ricerche. Ma non gli aveva chiesto niente. Lo guardava soltanto, le profonde rughe sul volto, la barba lunga e gli occhi rabbuiati dal dolore. Così il tempo passava, e suo padre lo ignorava completamente. Erlendur gli aveva posato una mano sulla sua e chiesto se suo fratello si era perso per causa sua. Perché non l'aveva tenuto abbastanza stretto e perché avrebbe dovuto badare meglio a lui, l'avrebbero dovuto trovare al suo fianco. L'aveva detto a fior di labbra, con voce esitante, ma poi non si era trattenuto più e aveva cominciato a singhiozzare. Suo padre aveva chinato la testa. Gli occhi gli si erano riempiti di lacrime e aveva stretto Erlendur a sé e si era messo a piangere anche lui, finché quel corpo grande e grosso aveva tremato tutto fra le braccia del figlio. A questo pensava, quando il disco ricominciò a gracchiare. Non si concedeva quelle riflessioni da tempo, ma a un tratto i ricordi erano tornati e aveva provato di nuovo quel dolore pesante che sapeva non avrebbe mai dimenticato né sepolto del tutto. Tale era l'intensità di quella voce. Il telefono sul comodino squillò. Erlendur si alzò, levò la puntina dal disco e spense. Era Valgeròur. Lo informava che Henry Wapshott non era nella sua camera. L'aveva fatto chiamare e l'aveva cercato in albergo, ma invano. "Aveva detto che avrebbe aspettato" disse Erlendur. "Non avrà lasciato l'albergo? Mi pareva di aver capito che avesse prenotato il volo di ritorno per questa sera." "Non ho controllato" rispose Valgeròur. "Non posso aspettarlo oltre e..." "No, certo, scusami. Lo mando da te appena lo trovo. Scusami ancora." "Nessun problema, allora io vado." Erlendur esitò. Non sapeva cosa dire, ma non voleva nemmeno liquidarla così. Il silenzio si prolungava, e a un tratto bussarono alla porta. Pensò fosse Èva Lind che era venuta a trovarlo. "Mi piacerebbe tanto rivederti" disse a Valgeròur, "ma se non vuoi più uscire con me, lo capisco." Bussarono ancora, questa volta più forte. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Volevo dirti la verità su morti e sciagure" continuò. "Se hai voglia di ascoltare..." "Che vuoi dire?" "Allora, ti va?" Non sapeva nemmeno lui che cosa volesse dire esattamente. Perché voleva raccontare a questa donna cose che non aveva mai detto a nessuno, se non a sua figlia. Perché non lasciava perdere, piuttosto, e continuava a vivere la sua vita senza darsi tanto disturbo. Valgeròur non rispose subito, e nel frattempo bussarono alla porta per la terza volta. Erlendur posò la cornetta e aprì senza nemmeno guardare chi fosse, convinto di trovare Èva. Quando riprese il telefono, Valgeròur non c'era più. "Pronto? Pronto?" Nessuna risposta. Appese e si voltò. In camera c'era un uomo che non aveva mai visto prima. Era basso, con un cappotto pesante blu scuro, una sciarpa e un berretto in testa. Sul berretto e sul cappotto scintillavano gocce d'acqua, cristalli di neve che si erano sciolti. Aveva il viso piuttosto rotondo, le labbra carnose ed enormi borse arrossate sotto gli occhi piccoli e stanchi. A Erlendur ricordò le foto del poeta W.H. Auden. Il naso gli gocciolava. "È lei Erlendur?" gli chiese. "Sì." "Mi è stato detto di venire in quest'albergo a parlare con lei" spiegò l'uomo, e si tolse il berretto, che poi sbatacchiò appena contro il cappotto. Infine si asciugò la goccia al naso. "Chi gliel'ha detto?" "Un certo Marion Briem. Non so chi sia. Ha detto che stava indagando sul caso di Gudlaugur Egilsson e voleva parlare con chiunque lo conoscesse in passato e ancora oggi. Io lo conoscevo, una volta, e questo Marion mi ha detto di parlargliene." "Lei chi è, scusi?" A Erlendur l'espressione del volto pareva familiare, ma non riusciva a farsi venire in mente chi fosse. "Mi chiamo Gabriel Hermansson e una volta dirigevo il coro di voci bianche di Hafnarfjòròur" si presentò. "Posso sedermi sul letto? Sa, quei lunghissimi corridoi..." "Gabriel? Ma certo. Prego. Si sieda." L'uomo si sbottonò il cappotto e si levò la sciarpa. Erlendur prese l'altra custodia del disco di Gudlaugur e osservò la foto del coro dei bambini di Hafnarfjòròur. Il direttore guardava contento l'obiettivo della macchina fotografica. "È lei, questo?" gli chiese, porgendogli la custodia. Gabriel la guardò e annuì. "Dove l'ha pescato? Questi dischi sono introvabili da anni. Io ho perso i miei per stupidità, accidenti. Li ho prestati a qualcuno. Non si dovrebbe mai prestare niente." "L'aveva Gudlaugur" disse Erlendur. "Quando è stata scattata la foto, avrò avuto... chissà, non più di ventott'anni" commentò Gabriel. "Incredibile come passa il tempo." "Che le ha detto Marion?" "Non molto. Ho raccontato quello che sapevo di Gudlaugur, e mi ha detto che avrei dovuto parlare con lei. Avevo una commissione da fare a Reykjavik, così ne ho approfittato." Gabriel esitò. "Dalla voce non ho capito bene se si trattasse di un uomo o di una donna" Arnaldur Indridason – La Voce
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confessò poi. "Marion? Che nome è? Mi sembrava scortese chiederlo, ma non sono riuscito a capirlo. In genere lo si sente, dalla voce. È un nome maschile o femminile? Avrà avuto la mia età, o forse qualche anno in più, anche se non gliel'ho chiesto. Strano nome, Marion Briem." Erlendur colse una nota di interesse nella voce, quasi di premura, come se ci tenesse a saperlo. "Non ci ho mai pensato al nome di Marion" disse Erlendur. "Marion Briem... Stavo ascoltando questo disco" continuò, indicando la custodia. "È una voce di grande impatto, non lo si può negare. Se si pensa a quant'era giovane, poi." "Gudlaugur è forse la miglior voce bianca che abbiamo mai avuto" precisò Gabriel, osservando anche lui la custodia. "Certo, con il senno di poi. Credo ci siamo resi conto di cosa avevamo per le mani solo molto tempo dopo, forse pochi anni fa." "Come vi siete conosciuti?" "Fu suo padre a portarlo da me. All'epoca la famiglia abitava ad Hafnarfjòròur, e vivono lì ancora oggi, almeno credo. La madre morì poco dopo, e da allora si è sempre occupato il padre dell'educazione dei figli, di Gudlaugur e di sua sorella, che era un po' più grande di lui. Sapeva che ero appena rientrato da un periodo di studi all'estero. Insegnavo musica, sia privatamente sia nella scuola elementare di Hafnarfjòròur e in altri posti. Poi, appena sono riuscito a raccogliere un numero sufficiente di bambini, mi hanno incaricato di dirigere il coro. Erano per lo più femmine, come sempre, ma cercavamo soprattutto maschi, e un giorno Gudlaugur venne a casa mia con suo padre. Aveva dieci anni, e una bellissima voce. Una bellissima voce. E sapeva anche cantare. Capii subito che il padre si aspettava molto dal bambino ed era assai duro con lui. Disse di avergli insegnato tutto quello che sapeva sul canto. Scoprii più avanti che lo trattava molto severamente, lo puniva, lo teneva chiuso in casa quando voleva uscire a giocare. Non credo la si potesse definire un'educazione appropriata, perché quanto pretendevano da lui era ingiusto, e poi non aveva modo di stare con gli amici, se non per poco. Era il classico esempio di genitore che decide per i propri figli e cerca di farne quello che vuole lui. Credo che l'infanzia di Gudlaugur non sia stata particolarmente felice." Poi tacque. "Se l'è domandato spesso, mi pare di capire" disse Erlendur. "Vedevo quel che succedeva." "Cioè?" "Non c'è niente di più terribile che imporre ai figli una disciplina troppo severa e avere pretese intransigenti. Certo, se i figli si comportano male e hanno bisogno di un freno e di una guida, allora in quel caso la disciplina è necessaria, ma qui la questione è un'altra. Mi riferisco a quei casi in cui a un bambino non è permesso fare il bambino, in cui non può essere quello che è e vuole essere, perché invece viene plasmato e trasformato in qualcosa d'altro. Gudlaugur aveva una bellissima voce bianca, era un soprano puro, e suo padre nutriva per lui grandi aspirazioni. Non sto dicendo che sia stato cattivo in modo consapevole e calcolato; però lo ha privato della sua stessa vita. Gli ha rubato l'infanzia." Erlendur pensò a suo padre, che non aveva mai fatto altro che insegnargli le buone Arnaldur Indridason – La Voce
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maniere e mostrargli il suo affetto. L'unica sua pretesa era che si comportasse bene e che trattasse con gentilezza anche gli altri. Suo padre non aveva mai cercato di farlo diventare ciò che non era. Pensò all'uomo in attesa di giudizio per la brutale aggressione al figlio, e si immaginò Gudlaugur che per tutta la vita aveva cercato di soddisfare le aspettative paterne. "Lo si vede forse più chiaramente nella religione" continuò Gabriel. "I bambini che nascono all'interno di certe comunità religiose sono costretti a adottare il credo dei genitori, e vivono la vita dei genitori piuttosto che la loro. Non hanno mai la possibilità di essere liberi, di uscire dal mondo in cui sono nati e prendere decisioni autonome. Certo, i bambini non se ne rendono conto se non molto più tardi, e alcuni perfino mai. Ma spesso accade che negli anni dell'adolescenza o della maturità si ribellino, e allora possono nascere dei conflitti. All'improvviso il figlio non vuole più vivere la vita impostagli dai genitori, e talvolta scoppiano vere tragedie. Ce ne sono esempi ovunque: il medico, l'avvocato, il direttore d'azienda o il pilota che vuole che suo figlio intraprenda la sua professione. Esistono ovunque persone che pretendono l'impossibile dai propri figli." "È accaduto questo nel caso di Gudlaugur? Ha detto: Adesso basta? Si è ribellato?" Gabriel fece una breve pausa. "Ha già incontrato il padre di Gudlaugur?" chiese poi. "Ho parlato con tutti e due questa mattina" disse Erlendur, "anche con la sorella. Hanno dentro una gran rabbia, e anche antipatia, ed è chiaro che non provano alcun affetto nei confronti di Gudlaugur. Non hanno versato una lacrima per lui." "E il padre era sulla sedia a rotelle?" "Sì." "Successe anni dopo" spiegò Gabriel. "Dopo cosa?" "Dopo il concerto. Quel terribile concerto, prima della tournée. Non era mai accaduto che un bambino lasciasse l'Islanda per andare a cantare come solista di un coro nei paesi scandinavi. Suo padre aveva spedito in Norvegia il suo primo disco e là una casa discografica si era interessata e aveva organizzato un tour di concerti, con l'intenzione di promuovere i suoi brani. Suo padre una volta mi disse che il suo sogno il suo sogno, noti bene, non quello di Gudlaugur era che il figlio cantasse con il coro delle voci bianche di Vienna. E avrebbe potuto riuscirci, non ci sono dubbi." "Che cosa accadde?" "Quello che prima o poi accade sempre alle voci bianche: la natura ha avuto la meglio" disse Gabriel. "E nel momento peggiore possibile nella vita di un ragazzino Sarebbe potuto accadere alle prove o a casa sua, quand'era da solo. Ma accadde proprio lì, povero bambino..." Gabriel guardò Erlendur. "Ero con lui dietro le quinte. Il coro doveva cantare alcuni brani, ed erano presenti molti bambini di Hafnarfjòròur, musicisti di Reykjavik molto stimati e anche qualche critico musicale. Il concerto era stato parecchio pubblicizzato, il padre ovviamente era seduto in prima fila. Gudlaugur venne da me dopo, molto più tardi, quando se n'era già andato da casa, e mi raccontò Arnaldur Indridason – La Voce
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come aveva vissuto quella serata fatidica, e in seguito ho riflettuto spesso su come un solo evento particolare possa segnare una persona per tutta la vita." La sala del Beejarbió di HafnarfjòrÒur era occupata in ogni ordine di posto e il pubblico era in fermento. Era già stato due volte in quell'elegante edificio a vedere dei film, ed era rimasto incantato da tutto: la bella illuminazione in sala, il palcoscenico rialzato dove venivano allestiti gli spettacoli. Sua mamma l'aveva portato a vedere Via col vento, ed era andato con suo padre e sua sorella a vedere un cartone animato di Walt Disney. Ma adesso erano tutti lì non per vedere gli eroi del grande schermo, ma per ascoltare lui e la sua voce, che aveva già inciso due quarantacinque giri. Non era timidezza che provava, piuttosto si sentiva molto insicuro. Aveva già cantato in pubblico prima di allora, nella chiesa di Hafnarfjòròur e a scuola, davanti a un gran numero di ascoltatori. Spesso era timido e impaurito. Voi aveva cominciato a capire che gli altri lo apprezzavano, e questo l'aveva aiutato a vincere la timidezza. Se la gente era andata a sentirlo cantare, se voleva ascoltarlo, c'era un motivo, e non era un motivo che avrebbe dovuto fargli provare timidezza. Il motivo erano la sua voce e il canto. Nient'altro. Era lui la stella. Suo padre gli aveva mostrato l'annuncio sul giornale: la miglior voce bianca d'Islanda in concerto questa sera. Nessuno era migliore di lui. Suo padre non stava in sé dalla felicità ed era molto più emozionato di lui. Ne parlava da giorni. Se solo tua madre fosse vissuta abbastanza per vederti cantare al Beejarbió, diceva. Sarebbe stata così felice... Non trovo le parole per spiegarti quanto sarebbe stata felice. Erano entusiasti del suo talento anche negli altri paesi e volevano che cantasse pure là. Volevano fargli incidere un disco. Lo sapevo, diceva suo padre di continuo. Lo sapevo. Aveva lavorato duramente per preparare la tournée. Il concerto al Beejarbió era il coronamento di tutto quel lavoro. Il direttore di scena gli mostrò da dove sbirciare in sala per vedere il pubblico che si accomodava. Ne sentiva il brusio, e vide molte persone che non conosceva affatto e che sapeva che non avrebbe mai conosciuto. Vide la moglie del direttore del coro con i tre figli sedersi in terza fila. Vide qualche suo compagno di scuola con i propri genitori, anche qualcuno che l'aveva preso in giro, e vide suo padre sistemarsi a metà della prima fila e la sorella maggiore accanto a lui, che guardava per aria a bocca aperta. C'erano anche i parenti di sua madre, le zie che conosceva poco, gli uomini col cappello fra le mani, in attesa che il sipario si alzasse. Voleva che suo padre fosse orgoglioso di lui. Sapeva che si era sacrificato tanto perché ottenesse i risultati migliori possibili nell'arte del canto, e adesso tutti avrebbero visto i frutti delle sue fatiche. Gli era costato tanto, un esercizio continuo. Era stato inutile lamentarsi. Ci aveva provato, ma aveva fatto arrabbiare suo padre. Si fidava completamente di suo padre. Era sempre stato così, per tutta la viArnaldur Indridason – La Voce
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ta. Anche quando doveva cantare in pubblico suo malgrado. Suo padre l'aveva spinto e spronato, e alla fine aveva sempre avuto la meglio. La prima volta che aveva cantato davanti a degli sconosciuti, aveva avuto paura, paura di salire sul palcoscenico; e si era intimidito davanti a tutte quelle persone. Suo padre non aveva mai battuto ciglio, nemmeno quando era stato preso in giro per come cantava. Via lui cantava in pubblico, a scuola e in chiesa, più i maschi, e anche qualche femmina, lo maltrattavano, gli affibbiavano dei nomignoli, gli facevano perfino il verso, e lui non capiva perché. Non voleva far arrabbiare il suo papà. Non poteva. Dopo che la mamma se n'era andata, era disperato. Si era ammalata di leucemia, che l'aveva portata alla morte in pochi mesi. Suo padre era rimasto al suo capezzale notte e giorno e l'aveva accompagnata in ospedale e aveva dormito là mentre la vita di lei svaniva a poco a poco, L'ultima cosa che gli aveva detto prima di uscire di casa, quella sera, era stata: pensa alla tua mamma. A come sarebbe stata orgogliosa di te. Il coro si era già disposto sul palcoscenico. Le bambine con lo stesso vestitino pagato dal comune di Hafnarfjòròur. I bambini con la camicia bianca e i pantaloni neri, come lui. Bisbigliavano fra loro, eccitati per tutta l'attenzione tributata al coro, pronti a dare il meglio. Gabrìel, il direttore del coro, stava parlando con il direttore di scena. Il presentatore spense la sigaretta per terra. Tutto era pronto. Presto il sipario si sarebbe aperto. Gabrìel lo chiamò a sé. "Tutto a posto?" gli chiese. "Sì. La sala è piena di gente." "Sì. Sono venuti tutti per vederti. Ricordatelo. Il pubblico è venuto per vedere te e per sentire cantare te, te e nessun altro, devi essere orgoglioso di te stesso e non devi aver paura. Forse sei un po' teso, ma passerà tutto non appena comincerai a cantare. Lo sai." "Sì." "Allora, cominciamo?" Gudlaugur annuì. Gabrìel lo prese per le spalle. "Sicuramente ti sarà difficile affrontare la folla, però devi pensare solo a cantare e vedrai che andrà tutto bene." "Sì." "Come da copione, il presentatore uscirà solo dopo il primo brano. Comincia a cantare e andrà tutto a posto." Gabrìel fece un cenno al direttore di scena. Poi fece segno con le mani al coro, che tacque immediatamente e si mise sull'attenti. Tutto era a posto. Erano pronti. Le luci in sala si abbassarono. Il mormorio cessò. Il sipario si alzò. Pensa a tua madre. L'ultima cosa che gli venne in mente prima che la sala gli si aprisse davanti fu sua madre sul letto d'ospedale l'ultima volta che l'aveva vista, e per un attimo perse la concentrazione. Era con suo padre, seduti ciascuno su un lato del letto, e lei era talmente debole che riusciva a malapena a tenere Arnaldur Indridason – La Voce
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gli occhi aperti. Li aveva chiusi, come se si fosse addormentata, e poi riaperti, piano piano, l'aveva guardato e aveva cercato di sorridere. Non riuscivano più a parlare. Quando era venuto il momento di salutarsi, si erano alzati, e lui aveva sempre rimpianto di non averle dato un bacio prima di uscire, perché quella era stata l'ultima volta che l'aveva vista. Si era alzato e basta, ed era uscito dalla stanza dell'ospedale con suo padre, e la porta si era richiusa alle loro spalle. Il sipario si sollevò e lui guardò negli occhi suo padre. La sala davanti a lui sparì e l'unica cosa che vide fu lo sguardo penetrante di suo padre. Qualcuno in sala cominciò a ridere. Tornò in sé. Il coro aveva cominciato a cantare e il direttore del coro gli aveva fatto un cenno, ma lui non l'aveva notato. Il direttore cercò di minimizzare, facendo proseguire il coro, e stavolta Gudlaugur attaccò al momento giusto. Aveva appena iniziato a cantare, quando accadde qualcosa. Accadde qualcosa alla voce. "Era la cosiddetta muta vocale" spiegò Gabriel, seduto nella fredda stanza di Erlendur. "Sì, la muta vocale. Fin da subito, dalla prima canzone. Poi finì tutto quanto." Gabriel era seduto immobile sul letto e fissava davanti a sé, era tornato sul palco del Basjarbió dove, uno dopo l'altro, i bambini del coro avevano smesso di cantare. Gudlaugur, che non capiva cosa stesse accadendo alla sua voce, si era schiarito la gola più volte di seguito e aveva riprovato a cantare. Suo padre si era alzato e la sorella era corsa sul palco per farlo smettere. All'inizio il pubblico, viste le difficoltà del ragazzino, aveva preso a mormorare e ben presto qua e là in sala si era cominciata a sentire qualche risata trattenuta che si era fatta sempre più forte, qualcuno aveva anche fischiato. Gabriel si era avvicinato a Gudlaugur per portarlo via, ma il bambino era come inchiodato a terra. Il direttore di scena aveva cercato di far calare il sipario. Il presentatore era sceso dal palco e teneva una sigaretta in mano, senza sapere cosa fare. Infine Gabriel era riuscito a smuovere Gudlaugur e a spingerlo via. Sua sorella l'aveva raggiunto e allontanato, urlando al pubblico di non ridere. Suo padre era in piedi, nello stesso punto, in prima fila, pietrificato. Gabriel tornò in sé e guardò Erlendur. "Mi vengono ancora i brividi quando ci penso" disse. "La muta vocale?" ripetè Erlendur. "Non sono molto ferr..." "Si dice così quando la voce si modifica. Con lo sviluppo sessuale, le corde vocali si allungano e la voce scende di un'ottava, anche se ciascuno di noi continua a usarla come prima. Il risultato non è piacevole, perché praticamente si gorgheggia da un'ottava all'altra. È questo fenomeno che rovina tutti i cori di voci bianche. Gudlaugur avrebbe potuto continuare ancora per due o tre anni, ma è stato precoce. Gli ormoni si sono messi al lavoro presto, e ne è risultata la serata Arnaldur Indridason – La Voce
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più tragica di tutta la sua vita." "Dovevate essere buoni amici, dato che in seguito venne da lei a raccontarle tutto." "Si, in effetti sì. Mi considerava un amico fidato. Poi il rapporto si allentò, come spesso succede. Cercai di aiutarlo come meglio potevo, continuò a venire da me a lezione di canto. Suo padre non si dava per vinto. Voleva fare di suo figlio un cantante, mandarlo in Italia o in Germania, anche in Inghilterra. Moltissimi soprani maschili sono stati formati lì, ce ne sono a centinaia di stelle soliste cadute. Niente è effimero come un bambino prodigio." "Ma non diventò mai un cantante?" "No. La sua carriera era finita. Da adulto aveva una voce discreta, niente di particolare, in realtà, e comunque perse ogni interesse nel canto. Tutta la fatica che aveva fatto, anzi, tutta la sua infanzia, a dire il vero, andarono in fumo quella sera. Suo padre lo portò da altri insegnanti, ma non ne ricavò mai nulla. La scintilla si era spenta. Gudlaugur si lasciò convincere per il bene di suo padre, poi lasciò perdere in maniera definitiva. Mi disse che in realtà non aveva mai voluto diventare un cantante solista né far parte di un coro o cantare in pubblico. Era solo un desiderio di suo padre." "Prima ha detto che successe qualcosa, alcuni anni dopo il concerto del Baejarbió" disse Erlendur. "Mi è parso di capire che c'entrassero il padre e la sedia a rotelle. Mi sbaglio?" "A poco a poco si creò un profondo abisso fra Gudlaugur e suo padre. Prima, quando è venuto a parlarle con la figlia, mi ha descritto il suo comportamento. Non conosco tutta la storia. Solo una parte." "Ma mi pare di capire che Gudlaugur e sua sorella fossero molto uniti, un tempo." "Senza dubbio" confermò Gabriel. "Lei lo accompagnava spesso alle prove del coro, e c'era sempre quando cantava alle feste e a scuola o in chiesa. Era buona con lui, ma era anche affezionata al padre, che aveva una personalità fortissima. Era risoluto e irremovibile, voleva che le cose andassero secondo il suo volere, ma a volte sapeva anche essere tenero. Alla fine anche la sorella di Gudlaugur si schierò dalla sua parte. Il ragazzo si ribellò contro suo padre. Non so spiegare come andò, ma finì per odiarlo e per dargli la colpa di quanto era successo. Non solo per quella volta sul palco, ma per tutto." Gabriel fece una pausa. "Una delle ultime volte che parlammo, mi disse che suo padre gli aveva rubato l'infanzia. Aveva fatto di lui un mostro." "Un mostro?" "Si espresse proprio in questi termini, ma non so cosa volesse dire. Fu poco dopo l'incidente." "L'incidente?" "Sì." "Che cos'accadde?" "Credo che Gudlaugur avesse all'incirca vent'anni. Aveva finito le scuole. Fu dopo quest'episodio che lasciò Hafnarfjòrur. All'epoca ormai non ci vedevamo praticamente più, ma posso immaginare che l'incidente sia dipeso dalla sua ribellione, dalla rabbia che aveva accumulato dentro." "Andò via da casa dopo?" "Sì, credo proprio di sì." "Cosa accadde?" "A casa loro c'era una scala alta e ripida. Ci sono stato, una volta. Portava dall'ingresso al piano superiore. Era una scala di legno molto stretta. Pare che cominciò tutto durante l'ennesima lite fra Gudlaugur e suo padre, che aveva lo studio di sopra. Erano in cima alla scala e, se non Arnaldur Indridason – La Voce
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ho capito male, Gudlaugur lo spinse e lo fece cadere. Fu una brutta caduta. Da allora il padre non si è più retto sulle gambe. Una lesione alla spina dorsale, paralizzato dalla vita in giù." "Fu un incidente? Ne è sicuro?" "Questo lo sanno solo Gudlaugur e suo padre. Dopo, i due troncarono completamente i rapporti. Gudlaugur non ebbe più contatti con suo padre e non volle avere più nulla a che fare con lui. Tutto lascia supporre che lo aggredì. Insomma, che non si trattò di un semplice incidente." "E lei come lo sa, se non era più in contatto con loro?" "In città correva voce che l'avesse spinto di proposito. La polizia fece delle indagini." Erlendur guardò l'uomo. "Quando ha visto Gudlaugur per l'ultima volta?" "È stato qui in albergo, per puro caso. Non sapevo dove fosse finito. Ero andato a mangiare fuori con altre persone, e me lo sono visto apparire davanti con l'uniforme da portiere. Non l'ho riconosciuto subito. Era passato tanto tempo. Sarà stato cinque o sei anni fa. Mi sono avvicinato e gli ho chiesto se si ricordava di me, così abbiamo parlato un po'." "Di che cosa?" "Del più e del meno. Gli ho chiesto come se la passava, cose del genere. Era piuttosto riluttante a parlarmi di sé. Non pareva a suo agio. Era come se per lui rappresentassi un passato che voleva ricordare il meno possibile. Ho avuto la sensazione che si vergognasse per l'uniforme da portiere. Forse c'era qualcosa d'altro, non lo so. Gli ho chiesto dei suoi famigliari, e lui mi ha detto che non si parlavano più da tempo. Poi la conversazione è finita lì e ci siamo salutati." "Ha idea di chi avrebbe voluto uccidere Gudlaugur?" gli chiese Erlendur. "Assolutamente no" rispose Gabriel. "Com'è stato aggredito? Com'è stato ucciso?" Lo chiese con riserbo, il dolore negli occhi, non per poterne sparlare una volta a casa o con gli amici, ma per sapere come si era conclusa l'esistenza di questo bambino promettente a cui una volta aveva insegnato a cantare. "Purtroppo non posso scendere nei dettagli" disse Erlendur. "Sono informazioni che cerchiamo di mantenere segrete, per il bene delle indagini." "Sì, certo" comprese Gabriel. "Lo capisco bene. Le indagini della polizia... siete arrivati a qualcosa? Ma è ovvio, non può parlare nemmeno di questo, inutile che glielo chieda. Non posso nemmeno immaginare che qualcuno abbia voluto ucciderlo, ma del resto ormai non avevo più alcun contatto con lui. Sapevo solo che lavorava qui in albergo." "Ha lavorato qui molti anni come portiere, e anche come tuttofare. Faceva Babbo Natale, per esempio." Gabriel sospirò. "Che destino..." "L'unica cosa che abbiamo trovato nella sua stanza, a parte questi dischi, è una locandina cinematografica che aveva appeso alla parete sopra il letto. Era un film del 1939 con Shirley Temple, La piccola principessa. Ha idea del perché tenesse una cosa del genere o la considerasse così importante? Praticamente non c'era altro nella sua stanza." "Shirley Temple?" "La bambina prodigio." "Be', certo, il legame è chiaro" concluse Gabriel. "Gudlaugur si considerava un bambino prodigio, come del resto Arnaldur Indridason – La Voce
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facevano anche tutti quelli che aveva intorno. Io non ci vedo altri collegamenti." Poi si alzò, si mise il berretto, si abbottonò il cappotto e si avvolse la sciarpa intorno al collo. Rimasero in silenzio entrambi. Erlendur gli aprì la porta e lo seguì nel corridoio dell'albergo. "La ringrazio per essere venuto a trovarmi" disse, porgendogli la mano. "Di niente. Era il minimo che potessi fare per voi. E per quel benedetto bambino." Esitò come se volesse dire qualcos'altro, ma non riuscì a trovare le parole adatte. "Era tremendamente ingenuo" disse infine. "Era del tutto inoffensivo. Gli avevano fatto credere che era speciale e unico e che sarebbe diventato famoso, che avrebbe avuto tutto il mondo ai suoi piedi. Una voce bianca del coro di Vienna. In questo paese si solleva sempre un gran polverone per niente, e adesso perfino più di qualche tempo fa; è una nostra caratteristica, soffriamo di un senso di inferiorità. Veniva preso in giro a scuola perché lo trovavano diverso e per questo dovette sopportare l'ostilità di tante persone. Poi si scoprì che era soltanto un ragazzino come gli altri, e in una sola sera il suo mondo crollò. Bisogna avere le spalle larghe per riuscire a sopportare una cosa del genere." Si salutarono, e Gabriel si voltò per avviarsi lungo il corridoio. Erlendur lo seguì con lo sguardo ed ebbe la sensazione che probabilmente la storia di Gudlaugur Egilsson aveva prosciugato tutte le forze del vecchio direttore del coro. Chiuse la porta. Si sedette sul bordo del letto e pensò al solista del coro e al fatto che l'avevano trovato con un costume da Babbo Natale addosso e i pantaloni calati. Si chiese come ci fosse finito in quel misero stanzino dove aveva trovato la morte, tanti anni dopo la delusione che la vita gli aveva riservato. Pensò al padre di Gudlaugur paralizzato sulla sedia a rotelle, con gli spessi occhiali di corno, e a sua sorella, con l'aguzzo naso aquilino, piena di rancore verso il fratello. Pensò al grasso direttore, che l'aveva licenziato, e al responsabile della reception, che fingeva di non conoscerlo. Pensò al personale dell'albergo, che non sapeva chi fosse Gudlaugur. Pensò a Henry Wapshott, che era venuto da lontano solo per rintracciare il solista, perché Gudlaugur, quel bambino con la voce dolce e intensa, esisteva ancora e sarebbe sempre esistito. Prima di rendersene conto, si era messo a pensare a suo fratello. Rimise sul giradischi lo stesso disco di prima, si sdraiò sul letto, chiuse di nuovo gli occhi e si lasciò trasportare a casa. Forse quella era anche la sua canzone. Verso sera, di ritorno da Hafnarfjòròur, Elìnborg andò subito a trovare Erlendur in albergo. Salì al suo piano e bussò; non ottenendo alcuna risposta, riprovò altre due volte. Stava per andarsene, quando finalmente la porta si aprì ed Erlendur la fece entrare. Si era addormentato, immerso nei suoi pensieri, ed era ancora distratto quando la collega si mise a raccontargli cos'aveva scoperto. Aveva Arnaldur Indridason – La Voce
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parlato con l'ex preside della scuola elementare, ormai molto anziano, che si ricordava perfettamente di Gudlaugur; oltretutto sua moglie, morta una decina di anni prima, era stata una cara amica della madre del bambino. Con l'aiuto del preside, aveva rintracciato tre compagni di scuola, che abitavano ancora ad Hafnarfjòròur. Uno di loro era presente al concerto del Baejarbió. Aveva parlato anche con i vicini di casa di allora e con alcune persone che all'epoca li frequentavano. "In questo paese di nani, nessuno riesce mai a emergere" disse Elinborg, sedendosi sul letto. "Nessuno può mai essere diverso." Tutti sapevano che Gudlaugur sarebbe diventato una persona speciale, nella vita. Lui non ne parlava, in realtà non parlava mai di se stesso, ma lo sapevano tutti. Lo avevano mandato a studiare pianoforte, e aveva imparato a cantare, prima con suo padre e poi con il maestro assunto per dirigere il coro di voci bianche, e alla fine anche con un famoso cantante che aveva abitato in Germania ed era tornato in patria. La gente lo magnificava, lo applaudiva, e lui faceva l'inchino, in camicia bianca e pantaloni neri, un ometto, composto e tanto per bene. Un bambino bellissimo, questo Gudlaugur, dicevano. E aveva inciso dei dischi. Presto sarebbe diventato famoso all'estero. Non era nato ad Hafnarfjòròur. La famiglia veniva dal Nord e aveva abitato per un po' a Reykjavik. Si diceva che suo padre fosse figlio di un organista e che in gioventù avesse frequentato un corso di canto all'estero. Si diceva anche che avesse comperato la casa di HafnarfjòrSur con i soldi ereditati dal padre, il quale aveva fatto fortuna con l'esercito americano dopo la guerra. Pareva avesse ereditato abbastanza da non dover fare nulla nella vita. Però non aveva mai ostentato la sua ricchezza. Non si metteva molto in mostra nelle occasioni di vita sociale cittadina. Si toglieva il cappello quando andava a passeggio con la moglie e salutava cortesemente tutti. Si diceva che la donna fosse figlia di un proprietario di pescherecci. Nessuno sapeva chi fosse, però. Avevano pochi amici in città. Forse conoscevano qualcuno a Reykjavik, ma non sembrava ricevessero molti ospiti. Quando i ragazzi del quartiere o i compagni di scuola di Gudlaugur chiedevano di lui, in genere si sentivano rispondere che doveva stare a casa a studiare, per la scuola o per il canto o per il pianoforte. Quando gli davano il permesso di uscire, gli altri notavano subito che non era rozzo come loro, ma incredibilmente sensibile. Non si sporcava mai i vestiti, non saltava mai nelle pozzanghere, era un mezzo imbranato a calcio e parlava in modo molto forbito. A volte citava persone con nomi stranieri. Un certo Schubert, per esempio. E quando gli raccontavano degli ultimi fumetti che avevano letto o dei film che avevano visto al cinema, lui rispondeva che leggeva poesie. Forse non perché era ciò che voleva fare davvero, ma perché suo padre gli diceva che gli faceva bene. A loro sembrava di aver capito che suo padre gli imponesse di studiare e avesse regole molto severe. Una poeArnaldur Indridason – La Voce
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sia ogni sera. La sorella era diversa da lui. Più tosta. Come suo padre, che però non sembrava nutrire per lei le stesse aspettative. Studiava pianoforte e, come suo fratello, era entrata nel coro di voci bianche appena era stato istituito. Le sue amiche dicevano che qualche volta, quando il padre elogiava il fratello, provava invidia, e oltretutto anche la madre sembrava tenere di più al figlio maschio. Tutti trovavano che Gudlaugur e sua madre fossero molto affiatati. Era come se lei lo tenesse sotto la sua ala protettrice. Una volta, un compagno di scuola di Gudlaugur era stato fatto accomodare in soggiorno mentre la famiglia discuteva se il bambino poteva andare fuori a giocare. Il padre stava in cima alla scala ripida, con i suoi occhiali spessi, e Gudlaugur era in fondo; la madre era sulla porta e sosteneva che non era la fine del mondo se il bimbo fosse andato fuori a giocare. Non aveva molti amici, e non venivano spesso a chiamarlo. Avrebbe potuto continuare gli esercizi più tardi. "Continua a esercitarti!" aveva urlato invece suo padre. "Credi di poter smettere a tuo piacimento? Non capisci che questa professione richiede impegno, vero? Non lo capirai mai!" "È solo un bambino" era intervenuta la madre, "e non ha molti amici. Non puoi chiuderlo in casa tutto il giorno. Deve pur avere la possibilità di vivere la sua infanzia." "Fa lo stesso" aveva detto Gudlaugur, avvicinandosi al compagno. "Magari esco più tardi. Comincia ad andare, io ti raggiungo dopo." Il ragazzo era uscito e, prima che la porta si chiudesse alle sue spalle, aveva sentito il padre di Gudlaugur urlare dalle scale: "Non permetterti mai più di discutere con me davanti a un estraneo!" Con il tempo, a scuola Gudlaugur si isolò e i ragazzi delle classi superiori cominciarono a prenderlo in giro. All'inizio erano scherzi innocenti. Tutti prendevano in giro tutti, c'erano risse in cortile e volavano battute come in ogni scuola, ma due anni dopo, quando ne aveva undici, Gudlaugur era diventato chiaramente lo zimbello dei suoi compagni. Per gli standard di oggi, la sua non era una scuola molto grande, e tutti sapevano che era diverso. Andava a scuola di musica, cantava con il nuovo coro di voci bianche e non poteva mai uscire a giocare. Era gracile e sempre pallido. Malaticcio. I compagni di scuola e i ragazzi del quartiere smisero di andare a chiamarlo a casa e cominciarono a prenderlo in giro a scuola. Gli facevano sparire la cartella, o gliela facevano trovare vuota. Per strada lo spingevano. Gli strappavano i vestiti. Lo picchiavano. Lo chiamavano in tutti i modi possibili. Non lo invitavano mai ai compleanni. Gudlaugur non sapeva come difendersi. Non capiva cosa stesse accadendo. Suo padre si lamentava con il preside, che aveva promesso di intervenire, ma la cosa era fuori controllo e Gudlaugur continuava a tornare a casa da scuola coperto di lividi e con la cartella vuota. Suo padre aveva pensato di fargli cambiare scuola, perfino di lasciare la città, ma era ostinato e non voleva darsi per vinto, aveva collaborato alla fondazione del coro di voci bianche ed era contento del giovane che lo dirigeva, inoltre sapeva Arnaldur Indridason – La Voce
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che nel coro Gudlaugur aveva modo di esercitarsi e con il passare del tempo di farsi notare, dunque doveva accettare quegli episodi di bullismo parola che allora in Islanda nemmeno esisteva, intervenne Elinborg. Gudlaugur si era arreso, chiuso in se stesso, era diventato solitario e si era concentrato sul canto e sul pianoforte, e così sembrava avere trovato una sua tranquillità interiore. In quel campo, andava tutto per il meglio e vedeva di cos'era capace. Ma per lo più soffriva e, quando sua madre era morta, era come se di lui non fosse rimasto più niente. Era sempre solo, e si sforzava di sorridere quando incontrava i ragazzi della scuola. Aveva inciso dischi di cui si parlava sui giornali. Era come se suo padre avesse sempre avuto ragione. Gudlaugur sarebbe diventato qualcuno, nella vita. Una sua compagna di classe era andata con i genitori al Bsejarbió e, quando la sorella di Gudlaugur e il direttore del coro lo avevano allontanato dal palcoscenico, mentre molti altri erano scoppiati a ridere, lei si era messa a piangere. E ben presto, per qualche motivo di cui solo pochi sembravano essere a conoscenza, nel quartiere gli affibbiarono un altro nomignolo. "Come lo chiamavano?" le chiese Erlendur. "Il preside non lo sa" rispose Elinborg, "e i suoi compagni di scuola fingono di non ricordarlo, oppure non vogliono dirmelo. Ma aveva avuto un enorme effetto sul ragazzino Su questo punto si sono mostrati tutti d'accordo." "Ma che ore sono?" domandò Erlendur all'improvviso, come in preda al panico. "Credo che siano le sette passate, ormai" disse Elìnborg. "Perché, stai bene?" "Accidenti, ho dormito tutto il giorno" le spiegò Erlendur, scattando in piedi. "Devo trovare Henry. Dovevano prelevargli un campione di saliva verso mezzogiorno, ma lui non c'era." Elìnborg guardò il giradischi, le casse e i quarantacinque giri. "Aveva davvero del talento?" gli chiese. "Era straordinario. Dovresti sentirlo." "Adesso voglio andare a casa" replicò Elìnborg, alzandosi anche lei. "Hai intenzione di rimanere qui in albergo, per Natale? Non hai voglia di andare a casa tua?" "Non lo so. Vedremo." "Da me sei il benvenuto, lo sai. Preparo il cosciotto di maiale freddo. E poi la lingua di bue." "Non preoccuparti" la rassicurò Erlendur, aprendole la porta. "Tu va' pure a casa, io controllo se Henry c'è." "Ma Siguròur Òli dov'è stato tutto il giorno?" gli domandò Elìnborg. "Voleva vedere se riusciva a sapere qualcosa su Henry dalla polizia britannica. Sicuramente è già andato a casa." "Perché fa così freddo qui dentro?" "Il termosifone è rotto" le spiegò Erlendur, poi uscì e chiuse la porta. Quando furono nella hall, salutò Elìnborg e andò nell'ufficio del responsabile della reception. Apprese che Henry non si era visto per tutto il giorno. La chiave della stanza non era al suo posto e l'uomo non aveva ancora lasciato l'albergo. Arnaldur Indridason – La Voce
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Non aveva saldato il conto. Erlendur sapeva che aveva il volo per Londra quella sera, e non aveva niente in mano per impedirgli di uscire dal paese. Non aveva avuto novità da Siguròur Òli. Era incerto sul da farsi. "Può farmi entrare nella sua stanza?" chiese. Il responsabile scosse la testa. "Potrebbe essere fuggito" disse Erlendur. "Sa a che ora parte l'aereo per Londra?" "Il volo di stasera è in forte ritardo" gli comunicò. Era suo compito essere informato su tutti i voli del giorno. "Pare decolli verso le nove, almeno così stimano." Erlendur fece qualche telefonata. Venne a sapere che Henry Wapshott aveva prenotato un posto sul volo per Londra, ma non aveva ancora effettuato il check in. Diede ordine di fermarlo al controllo passaporti e di rispedirlo da lui a Reykjavik. Doveva trovare un motivo perché la polizia di Keflavik lo fermasse, ed esitò un attimo, chiedendosi se fosse il caso di inventarsi qualcosa. Sapeva che, se avesse detto la verità, i media avrebbero avuto di che parlare, ma al momento non gli venne in mente nessuna balla plausibile, così alla fine rivelò che Henry era sospettato di omicidio. "Davvero non può farmi entrare nella sua stanza?" richiese al responsabile della reception. "Non toccherò niente. Devo solo sapere se ha tagliato la corda. Ci vorrà molto tempo per avere un mandato. Voglio solo dare un'occhiata." "Può essere che non abbia ancora lasciato l'albergo" rispose l'altro in modo formale. "Manca ancora molto alla partenza; il signor Wapshott avrebbe tutto il tempo di tornare qui, raccogliere le sue cose, saldare il conto, lasciare l'albergo e prendere la navetta per l'aeroporto di Keflavik. Non vuole attendere ancora un po'?" Erlendur ci pensò su. "Non può mandare qualcuno a riordinargli la stanza, così io potrei entrare dalla porta aperta? È un problema?" "Deve comprendere la mia posizione. Prima di tutto noi dobbiamo tutelare i nostri ospiti. Hanno diritto alla privacy, come se fossero a casa loro. Se infrango la regola e si sparge la voce in giro, o se lo trascrivete nei rapporti, i nostri ospiti non si fideranno più di noi. E semplicissimo. La prego di capire." "Stiamo indagando su un omicidio commesso in quest'albergo" continuò Erlendur. "La vostra reputazione, qualunque essa sia, non è già andata a farsi benedire?" "Mi porti un mandato e non ci saranno problemi." Erlendur sospirò e si voltò di spalle. Prese il cellulare e chiamò Siguròur Òli. Il telefono suonò a lungo prima che il collega finalmente rispondesse. Erlendur sentì delle voci in sottofondo. "Ma dove sei, si può sapere?" gli chiese. "Sto facendo il pane" rispose Siguròur Òli. "Il pane?" "Sì, sto facendo le decorazioni natalizie con la sfoglia di pane. Insieme alla famiglia di Bergthóra. È una tradizione. Sei tornato a casa?" "Che hai scoperto dagli inglesi su questo Henry Wapshott?" "Sto ancora aspettando. Avrò notizie domani mattina. C'è qualche novità che lo riguarda?" "Credo stia cercando di evitare l'analisi della saliva" disse Erlendur, e vide il responsabile della reception avvicinarsi con un foglio in mano. "E di lasciare il paese senza nemmeno salutarci. Ci aggiorniamo domani mattina. Non Arnaldur Indridason – La Voce
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tagliarti le dita." Erlendur si infilò il telefono in tasca. Il responsabile della reception l'aveva raggiunto. "Ho pensato di controllare una cosa riguardo a Henry Wapshott" gli disse, porgendogli il foglio. "Per aiutarla in qualche modo. Non dovrei farlo, ma..." "Che cos'è?" domandò Erlendur, studiando il foglio. Vide il nome di Henry Wapshott e alcune date. "Negli ultimi tre anni ha sempre soggiornato da noi per Natale. Magari può esserle d'aiuto." Erlendur fissò le date. "Non me l'aveva detto..." "Io non ne so niente" si discolpò il responsabile della reception. "Ma è già stato altre volte ospite del nostro albergo." "Allora, se è un ospite fisso, si ricorderà di lui." "Non ricordo di averlo mai registrato. Il nostro albergo ha più di duecento stanze, e per Natale abbiamo sempre molto da fare, per cui è facile che si sia confuso nella massa, oltretutto si ferma sempre molto poco. Solo qualche giorno. Non l'avevo notato, stavolta, ma me ne sono ricordato quando ho controllato la stampata. Da un certo punto di vista, siete simili. Avete gli stessi gusti bizzarri." "Che vuol dire, siamo simili? Gusti bizzarri?" Erlendur non riusciva a immaginare cosa potesse avere in comune con Henry Wapshott. "Pare si interessi anche lui di musica." "Di che sta parlando?" "Guardi qua" disse il responsabile, indicando un punto sul foglio. "Nella maggior parte dei casi, annotiamo eventuali richieste particolari dei nostri ospiti." Erlendur lesse. "Ha voluto un giradischi in stanza. Non un bel lettore CD, ma un vecchio rottame. Proprio come lei." "Stronzo d'un bugiardo" sibilò Erlendur, prendendo di nuovo il telefono. Più tardi, quella sera, fu emesso un ordine di fermo per Henry Wapshott, che fu arrestato mentre cercava di prendere l'aereo per Londra. Fu trasferito in una cella della centrale di polizia in Hverfisgata, ed Erlendur ottenne un mandato di perquisizione per la sua camera. Gli uomini della scientifica arrivarono in albergo verso mezzanotte. La setacciarono in cerca dell'arma del delitto, ma non ne ricavarono niente. L'unica cosa che trovarono fu una valigia, che chiaramente Wapshott intendeva lasciare in Islanda, poi il rasoio e la schiuma da barba in bagno, un vecchio giradischi simile a quello che Erlendur aveva avuto in prestito dall'albergo, un televisore, un videoregistratore e alcuni giornali e riviste inglesi, fra cui una copia di "Record Collector". Il tecnico delle impronte digitali cercò qualche traccia della presenza di Gudlaugur e ispezionò i bordi del tavolo e la maniglia della porta. Erlendur era rimasto in corridoio e osservava il lavoro della scientifica. Aveva voglia di una sigaretta e anche di un bicchiere di Chartreuse, perché stava per arrivare il Natale, voleva la sua poltrona e i suoi libri. Voleva tornare a casa. Non sapeva con esattezza perché fosse rimasto in quell'albergo. Non sapeva con esattezza cosa fare di se stesso. Gli uomini della scientifica disseminarono il pavimento di polverina bianca. Erlendur vide il direttore dell'albergo arrancare lungo il corridoio. Brandiva il Arnaldur Indridason – La Voce
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fazzoletto, ansimava e sbuffava. Si affacciò nella stanza e fece un largo sorriso. "Ho sentito che l'avete preso" disse, passandosi il fazzoletto sul collo. "E che è uno straniero." "Da chi l'ha saputo?" gli chiese Erlendur. "Ma come? L'hanno detto alla radio" rispose il direttore, incapace di nascondere la sua felicità per una buona notizia come quella. Il colpevole era stato trovato, non era stato un islandese a commettere il crimine, e nemmeno qualcuno del personale dell'albergo. "Al notiziario hanno detto che è stato arrestato all'aeroporto di Keflavìk mentre stava per partire per Londra. È inglese?" sbuffò. Il cellulare di Erlendur cominciò a suonare. "Non sappiamo ancora se è lui che stiamo cercando" disse, prendendo il telefono. "Non c'è bisogno che tu venga subito in centrale" gli comunicò Siguròur Òli quando rispose. "Almeno per il momento." "Non dovevi fare decorazioni col pane?" gli chiese Erlendur, allontanandosi dal direttore dell'albergo, col telefono all'orecchio. "È ubriaco" continuò Siguròur Òli. "Henry Wapshott, cioè. A parlargli adesso non ci ricavi niente. Sarebbe meglio lasciargli smaltire la sbornia e parlarci domani mattina, no?" "Ha opposto resistenza?" "No, assolutamente no. Gli agenti mi hanno detto che li ha seguiti senza dire una parola. L'hanno fermato subito al controllo passaporti e l'hanno fatto aspettare nella stanza delle perquisizioni, poi, quando è arrivata la polizia, l'hanno caricato sulla volante e portato a Reykjavik. No, non ha opposto resistenza. Era molto taciturno, piuttosto, e si è perfino appisolato lungo la strada. Adesso dorme in cella." "Mi pare di capire che la notizia dell'arresto è stata data dai notiziari" commentò Erlendur, poi guardò il direttore. "Tutti sperano che abbiamo preso l'uomo giusto." "Aveva solo un bagaglio a mano con sé. Una valigetta portadocumenti di grandi dimensioni." "C'è qualcosa, dentro?" "Vecchi dischi. La stessa robaccia in vinile che abbiamo trovato nella stanza del seminterrato." "Vuoi dire dischi di Gudlaugur?" "Mi pare di sì. Non molti. Ne aveva anche altri, però. Potrai esaminare tutto quanto tu stesso, domani mattina." "È a caccia dei dischi di Gudlaugur." "Forse è riuscito ad aggiungere qualche pezzo alla sua collezione" aggiunse Siguròur Òli. "Ci vediamo qui in centrale, allora?" "Dobbiamo prendergli un campione di saliva" gli ricordò Erlendur. "Ci penso io" rispose il collega, e si salutarono. Erlendur ripose il cellulare in tasca. "Ha confessato?" gli domandò il direttore. "Ha già confessato?" "Non ricorda di avere già visto Henry Wapshott in albergo? È un inglese sulla sessantina. A me era sembrato di capire che fosse la prima volta che visitava l'Islanda, ma poi è risultato che aveva già soggiornato qui da voi." "Non ricordo nessuno con questo nome. Ha una fotografia?" "Me la procurerò. Devo sapere se qualcuno del personale lo conosceva. Può essere che qualcuno si ricordi Arnaldur Indridason – La Voce
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di quest'uomo. Anche il minimo dettaglio può essere importante." "Speriamo che riesca a chiudere il caso" disse il direttore, sospirando pesantemente. "A causa dell'omicidio ci sono state delle disdette. Per lo più da parte di islandesi. La notizia non è circolata molto fra i turisti stranieri. Ma c'è meno da fare perfino al buffet, e anche le prenotazioni sono diminuite. Non avrei mai dovuto permettergli di abitare nel seminterrato. Ecco cosa si ricava a essere buoni col prossimo. Accidenti alla bontà, sarà la mia fine." "Lei trasuda bontà da ogni poro" gli rispose Erlendur. Il direttore gli lanciò un'occhiata perplessa, non aveva capito se era una battuta sarcastica, ma Erlendur fece finta di niente. Il capo della scientifica uscì in corridoio e si avvicinò a loro, salutò il direttore e prese Erlendur da parte. "Sembrerebbe un normale turista che si è preso una camera doppia in un albergo di Reykjavik" lo informò. "L'arma del delitto non è sul comodino, e non ci sono indumenti macchiati di sangue dentro la valigia, in realtà non c'è niente che lo colleghi all'uomo nel seminterrato. C'è una gran quantità di impronte digitali. Ma è ovvio che volesse fuggire. Ha lasciato la camera come se intendesse solo scendere un momento al bar. Il rasoio elettrico è ancora inserito nella presa. Un paio di scarpe sul pavimento. Anche le pantofole che aveva portato con sé. Davvero, per il momento non possiamo dire altro. L'uomo aveva una gran fretta. Stava fuggendo." L'agente scomparve di nuovo nella stanza, ed Erlendur si avvicinò al direttore. "Chi si occupa delle pulizie su questo piano?" gli chiese. "Chi entra nelle camere? Non c'è un addetto per ogni piano?" "So benissimo chi si occupa di questo piano" rispose. "Sono tutte donne. Niente uomini, e c'è un motivo." Lo disse con disprezzo, come se le pulizie fossero un lavoro esclusivamente femminile. "Allora, chi se ne occupa?" gli domandò Erlendur. "Be', per esempio la ragazza con cui ha parlato." "La ragazza con cui ho parlato?" "Ma sì, nella caffetteria del personale" precisò il direttore. "Quella che ha scoperto il cadavere. La ragazza che ha trovato Babbo Natale morto, ricorda? Questo è il suo piano." Quando Erlendur tornò nella sua stanza, due piani sopra, Èva Lind lo stava aspettando in corridoio. Era seduta per terra e teneva il mento appoggiato alle ginocchia, sembrava addormentata. Quando sentì suo padre avvicinarsi, alzò la testa e allungò le gambe. "Cazzo, mi diverto una cifra a venire in quest'albergo" gli disse. "Non hai deciso di tornare a casa?" "Sì, l'intenzione è quella" rispose Erlendur. "Anche a me ha stancato, questo posto." Fece scorrere la tessera magnetica nella fessura e la porta si aprì. Èva Lind si alzò per seguirlo in camera. Erlendur richiuse la porta, e lei si buttò di traverso sul letto. L'agente si sedette alla piccola scrivania. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Come procede 'sto casino?" gli chiese, sdraiata a pancia in giù con gli occhi chiusi, come se stesse tentando di addormentarsi. "A rilento" disse Erlendur, "e smettila di chiamarlo 'sto casino. Ti fa tanto strano chiedermi come procede il caso?" "Ah, ma taci, va'" lo zittì, con gli occhi ancora chiusi. Erlendur sorrise. Guardò sua figlia sul letto e si chiese che genitore sarebbe stato. Avrebbe nutrito molte ambizioni per lei? L'avrebbe iscritta a un corso di danza classica? L'avrebbe esortata a studiare pianoforte? Avrebbe sperato che fosse un piccolo genio? L'avrebbe picchiata, se avesse fatto cadere una bottiglia di liquore? "Ci sei?" gli domandò poi, sempre a occhi chiusi. "Sì, ci sono" rispose Erlendur stanco. "Perché non dici niente?" "Che cosa devo dire? Perché uno deve sempre dire qualcosa?" "Be', per esempio mi puoi spiegare che ci fai in quest'albergo." "Non lo so. Non avevo voglia di tornare nel mio appartamento. Una volta tanto avevo voglia di cambiare." "Cambiare? Qual è la differenza fra ciondolare da soli in una stanza d'albergo e farlo a casa propria?" "Vuoi sentire un po' di musica?" le propose Erlendur, cercando di troncare quella conversazione su se stesso. Si mise a spiegare il caso a sua figlia, punto per punto, per averne lui stesso una visione d'insieme. Le raccontò della ragazza che aveva trovato Babbo Natale con le ferite d'arma da taglio, dell'uomo che una volta era ritenuto un bambino particolarmente dotato e dei suoi due dischi che erano molto richiesti fra i collezionisti. Aveva una voce unica. Prese il disco che ancora non aveva ascoltato. Conteneva due salmi ed era uscito per Natale. Sulla custodia era ritratto un sorridente Gudlaugur con un cappello da Babbo Natale in testa, ed Erlendur pensò all'ironia del destino. Mise il disco sul piatto, e la voce del solista risuonò per la stanza, un canto bellissimo, dolce e doloroso allo stesso tempo. Èva Lind aprì gli occhi e si alzò dal letto. "Cos'è, uno scherzo?" gli disse. "Non ti sembra straordinario?" "Non ho mai sentito un bambino cantare così bene" rispose Èva. "Anzi, credo di non aver mai sentito nessuno cantare così bene." Rimasero in silenzio ad ascoltare il brano fino alla fine. Poi Erlendur girò il disco e suonò il salmo registrato sull'altro lato. Èva Lind gli chiese di rimetterlo. Erlendur le raccontò della famiglia di Gudlaugur, del concerto al Baejarbió, del fatto che suo padre e sua sorella non avevano più alcun rapporto con lui da quasi trent'anni e del collezionista inglese che voleva lasciare l'Islanda e che era interessato alle voci bianche soliste. Le disse che attualmente i dischi di Gudlaugur valevano parecchio. "Credi che l'abbiano fatto fuori per questo?" gli chiese lei. "Per i dischi? Perché oggi valgono molto?" "Non lo so." "Ce ne sono ancora tanti in circolazione?" "Non credo, ed è probabile che sia proprio per questo che hanno un valore inestimabile. Elìnborg dice che i collezionisti cercano oggetti unici al mondo. Ma non è detto che sia un elemento importante per le indagini. Arnaldur Indridason – La Voce
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Forse qualcuno in albergo l'ha aggredito e basta. Magari non sapeva nemmeno che fosse stato un cantante." Erlendur evitò di raccontare a sua figlia com'era stato trovato Gudlaugur. Sapeva che si prostituiva quando si drogava e aveva bisogno di soldi, e che conosceva bene il mondo della prostituzione della capitale. Lui, però, era restio a parlargliene. Lei viveva la sua vita e andava per la sua strada, senza che suo padre interferisse, ma data la possibilità che Gudlaugur avesse usufruito di certi servizi a pagamento, le chiese comunque se le risultava un giro di prostitute in albergo. Èva Lind lo guardò. "Poverino" si limitò a rispondergli. Stava ancora pensando al solista del coro di voci bianche. "C'era una bambina così anche nella mia scuola. Alle elementari. Aveva inciso qualche disco. Si chiamava Vaia Dògg. Te la ricordi? Ne parlavano un sacco. Cantava canzoni natalizie. Era bionda e carina, minuta." Erlendur scosse la testa. "Anche lei era una bambina prodigio, proprio come Gudlaugur. Cantava anche nei programmi per bambini alla televisione, ed era proprio brava, la bambolina. Suo padre era un cantante pop semisconosciuto, invece sua madre era fuori di testa e voleva farne una star della musica. La bimba veniva presa in giro a morte. Era davvero graziosa, non se la tirava, ma tutti la tormentavano. Accidenti, qui in Islanda non ci vuole niente per tirarsi addosso invidie e rotture di scatole. Era vittima dei peggiori scherzi, così mollò la scuola e andò a lavorare. La vedevo spesso quando mi facevo, era diventata una disperata totale. Peggio di me. Si era bruciata il cervello, dimenticata dal mondo. Mi disse che era la cosa peggiore che potesse capitarle." "Cosa, essere una bambina prodigio?" "Quella storia l'aveva rovinata. Non si era mai più ripresa. Non aveva potuto essere se stessa. Sua madre era una grande stronza. Non le avevano mai chiesto se voleva fare la cantante. Sì, le piaceva cantare e anche stare sotto i riflettori e tutto il resto, ma non aveva idea di quello che le stava succedendo. La bambolina dei programmi per bambini, ecco l'unica cosa che le facevano fare. Quella era la sua dimensione, punto. La piccola, bella Vaia Dògg. E poi la prendevano in giro per questo, ma lei lo capì solo più tardi, quando si rese conto che non sarebbe mai stata nient'altro che una bambolina con un bel faccino che cantava coi vestitini rosa. In realtà non sarebbe mai diventata una cantante pop famosa in tutto il mondo, come le diceva sempre sua madre." Èva Lind tacque e guardò Erlendur. "È uscita di testa. Mi diceva che la cosa peggiore erano gli episodi di bullismo, certe cose ti fanno sentire una merda. Finisci per avere di te stessa l'opinione di chi ti vuole male." "Probabilmente anche Gudlaugur ha passato qualcosa di simile" disse Erlendur. "Se ne andò di casa da giovane. Ritrovarsi in una situazione del genere dev'essere uno stress enorme per un ragazzino." Arnaldur Indridason – La Voce
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Poi tacquero entrambi. "È ovvio che ci sono delle puttane in quest'albergo" esclamò Èva Lind d'un tratto, lanciandosi di nuovo sul letto. "Figurati!" "Ne sai qualcosa? Puoi essermi d'aiuto in qualche modo?" "Di puttane ce ne sono dappertutto. Fai una telefonata, e quelle ti aspettano in albergo. Puttane di classe, insomma. Non si chiamano puttane, in realtà; si presentano come 'accompagnatrici'." "Ne conosci qualcuna che lavora in questo albergo? Ragazze o donne adulte che si prostituiscono, cioè." "Non è detto che siano islandesi. Qualcuna è straniera. Arrivano come turiste e restano per qualche settimana, non c'è bisogno di avere il permesso di soggiorno. Poi tornano sei mesi dopo." Èva Lind guardò suo padre. "Puoi parlare con Stina. È una mia amica. Lei conosce il giro. Credi che sia stata una puttana ad ammazzarlo?" "Ancora non so niente." Tacquero. Fuori, al buio, i fiocchi di neve cadevano a terra scintillando. Erlendur si ricordò che nella Bibbia si faceva riferimento alla neve, ai peccati e alla neve, e cercò di fare mente locale: "Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve". "Sto sclerando" ammise Èva Lind. Non c'era tensione nella sua voce, né impazienza. "Forse da sola non ce la fai" le disse Erlendur, che aveva consigliato alla figlia di farsi aiutare. "Forse hai bisogno che qualcun altro ti dia una mano, non io." "Non cominciare con le tue cazzate di psicologia." "Non ti sei ancora ripresa del tutto, anzi, è chiaro che stai male, e presto ricomincerai a liberarti delle sofferenze alla vecchia maniera, così ti ritroverai negli stessi casini di prima." Erlendur era sul punto di pronunciare la frase che non aveva ancora osato dire a sua figlia. "Sempre le stesse menate" commentò Èva Lind, subito indispettita, e si alzò. Decise di buttar fuori tutto quanto. "Faresti un torto alla bambina che è morta." Èva Lind lo fissò con gli occhi pieni di rabbia. "L'unica possibilità che hai è di affrontare questa vita di merda, come la chiami tu, e sopportarne le sofferenze. Come facciamo tutti, sempre, per uscirne alla fine e trovare un po' di felicità, goderci la serenità e la gioia che, malgrado tutto, ci da il fatto di essere vivi." "Senti chi parla! Proprio tu, che non riesci nemmeno a tornare a casa per Natale perché la troveresti vuota! Non c'è niente di niente, non riesci ad andarci perché sai che è solo un buco vuoto, e adesso non hai più voglia di infilartici dentro." "Io torno sempre a casa, per Natale" le disse Erlendur. Èva Lind rimase perplessa. Non capiva cosa volesse dire. "Di che stai parlando?" "E' la cosa peggiore del Natale. Torno sempre a casa." "Non ti capisco" disse Èva Lind. "Non ti capirò mai." Poi uscì, sbattendo la porta. Erlendur si alzò, voleva seguirla, ma si fermò. Sapeva che sarebbe tornata. Si avvicinò alla finestra e guardò il suo riflesso nel vetro, poi guardò oltre se stesso, i fiocchi di neve che scintillavano al buio. Arnaldur Indridason – La Voce
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Si era già dimenticato che aveva intenzione di tornare a casa, nel suo buco vuoto, come l'aveva descritta Èva Lind. Si scostò dalla finestra e rimise il disco dei salmi di Gudlaugur, si sdraiò e ascoltò il bambino che molto tempo dopo sarebbe stato trovato morto nello stanzino di un albergo, dimenticato da tutti, e pensò ai peccati bianchi come la neve.
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QUARTO GIORNO † Quella mattina, Erlendur si svegliò presto, ancora vestito e disteso sul letto, sopra le coperte. Impiegò molto a scrollarsi di dosso il torpore. Il sogno che aveva fatto su suo padre lo aveva seguito fino a quel mattino buio, si stava impegnando per ricordarlo, ma era riuscito a recuperarne solo qualche stralcio: vedeva suo padre che gli sorrideva in un bosco, in un certo senso più giovane, più sano. La camera era buia e fredda. Mancavano alcune ore al sorgere del sole. Rimase disteso a pensare al sogno, a suo padre e alla scomparsa di suo fratello. Alla voragine che quella perdita intollerabile aveva creato nella sua esistenza. E al fatto che quella voragine si ingrandiva di continuo e lui si sporgeva e guardava in basso, verso le tenebre che erano pronte a inghiottirlo appena, prima o poi, si fosse lasciato cadere. Si scrollò di dosso quelle immagini mattutine e pensò ai compiti che lo attendevano quel giorno. Che cos'aveva da nascondere Henry Wapshott? Perché aveva mentito e si era preparato a una fuga disperata, ubriaco e senza bagagli? Il suo comportamento era un enigma. Poco dopo si mise a pensare al caso di Elìnborg, che gli aveva illustrato nei dettagli: il bambino in ospedale e suo padre. Elìnborg sospettava che il bambino fosse stato già maltrattato altre volte, e c'erano chiari segnali che la violenza fosse stata consumata a casa. Il padre era sospettato. Lei aveva richiesto che fosse tenuto in custodia fino alla chiusura del caso. Malgrado le accalorate proteste dell'uomo e del suo avvocato, le era stata concessa una settimana di carcerazione preventiva. Elinborg era andata a prendere l'accusato insieme a quattro poliziotti in divisa e lo aveva accompagnato alla centrale in Hverfisgata. L'aveva scortato lungo il corridoio dove si affacciavano le celle e aveva chiuso lei stessa la porta. Poi aveva aperto lo spioncino e aveva guardato dentro: l'uomo era rimasto immobile nello stesso punto, dandole la schiena, curvo e in un certo senso indifeso, al pari di chi viene escluso dalla società civile e tenuto in gabbia come un animale. Si era voltato lentamente e l'aveva guardata negli occhi oltre la porta d'acciaio, e lei aveva chiuso lo spioncino di scatto. Il mattino successivo, di buon'ora, aveva cominciato a interrogarlo. Erlendur aveva partecipato, ma era stata Elinborg a condurre l'interrogatorio. Si erano seduti entrambi di fronte all'uomo. Sul tavolo in mezzo a loro c'era un portacenere avvitato saldamente al piano. Il padre del bambino non si era rasato, portava un abito ormai spiegazzato e una camicia bianca umida abbottonata fino al collo, la cravatta annodata in maniera impeccabile, come se fosse l'unica cosa che restava della sua autostima. Arnaldur Indridason – La Voce
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Elinborg aveva acceso il registratore e messo agli atti la conversazione, dichiarando il nome dei presenti e il numero che era stato assegnato al caso. Si era preparata bene. Aveva incontrato il tutor del bambino a scuola, che le aveva parlato di dislessia, difficoltà di concentrazione e scarsi risultati scolastici; aveva incontrato una psicologa, sua amica, che le aveva parlato di delusione, stress e rimozione; aveva sentito gli amici del bambino, i vicini di casa, i parenti, tutte le persone che le venivano in mente. L'uomo non aveva ceduto. Li aveva accusati di soprusi e aveva fatto presente che li avrebbe denunciati, poi si era rifiutato di rispondere alle loro domande. Elinborg aveva guardato Erlendur. L'agente di custodia era venuto a prendere l'accusato per ricondurlo in cella. Due giorni dopo l'avevano risentito. Il suo avvocato gli aveva portato vestiti più comodi presi da casa, per cui stavolta indossava un paio di jeans e una maglietta a maniche corte con stampata la marca di un famoso stilista su un taschino sul petto, che portava come una medaglia al valore per quell'acquisto ridicolo e costoso. Aveva un atteggiamento del tutto diverso, adesso. Tre giorni in gattabuia lo avevano privato dell'abituale arroganza, come spesso accadeva, e aveva capito che ormai dipendeva soltanto da lui rimanere rinchiuso o meno in cella. Elinborg si era assicurata che si presentasse all'interrogatorio a piedi nudi. Scarpe e calzini gli erano stati tolti senza alcuna spiegazione. Quando si era seduto davanti a loro, aveva cercato di nascondere i piedi sotto la sedia. Elinborg ed Erlendur gli si erano accomodati di fronte, impenetrabili come la volta precedente. Si sentiva il ronzio sommesso del registratore. "Ho parlato con l'insegnante di suo figlio" aveva iniziato Elinborg. "E, benché quello che avete fatto e vi siete detti sia una questione privata, e la donna sia stata molto risoluta su questo punto, ha detto comunque di voler aiutare sia il bambino sia noi con le indagini. Mi ha rivelato che una volta l'ha aggredito davanti a lei." "Aggredito! Gli ho solo dato un buffetto. Non si può certo definire aggressione. Si era comportato male, ecco tutto. E sempre irrequieto. È un bambino difficile. Voi non avete idea dello stress..." "E quindi è giusto punirlo?" "Andiamo molto d'accordo, io e mio figlio. Gli voglio bene. Adesso sono io responsabile per lui. Sua madre..." "So tutto" aveva ribattuto Elinborg. "E sicuramente può essere difficile allevare un figlio da soli. Ma quello che gli ha fatto e gli fa è... è vergognoso." Il padre era rimasto seduto in silenzio. "Non ho fatto niente" aveva detto poi. Elinborg portava un paio di scarpe a punta e, accavallando le gambe sotto il tavolo, aveva urtato i piedi dell'uomo, che aveva emesso un piccolo gemito di dolore. "Mi scusi." Lui l'aveva guardata con un'espressione sofferente, senza riuscire a capire se l'avesse fatto di proposito o meno. "L'insegnante dice che lei ha pretese impossibili nei confronti del bambino" Arnaldur Indridason – La Voce
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aveva continuato l'agente, come se nulla fosse. "E vero?" "Che vuol dire, impossibili? Voglio che studi e che diventi qualcuno." "E' comprensibile. Ma ha otto anni, è dislessico e a tanto così dall'essere dichiarato iperattivo. Lei stesso non ha concluso la scuola superiore." "Guardi che io possiedo e dirigo un'azienda." "Che è sull'orlo del fallimento. Sta perdendo la casa, la jeep, la ricchezza che le ha garantito una certa posizione sociale. La gente l'ammira. Alle riunioni dei vecchi compagni di classe lei è certamente il più stimato. Le partite a golf con gli amici. Sta perdendo tutto. Peccato, soprattutto se si pensa che sua moglie è rinchiusa in un ospedale psichiatrico e suo figlio va ancora a scuola. Le cose si accumulano e alla fine quando suo figlio, che sicuramente versa il latte e fa cadere i piatti per terra da quando è nato, lascia andare la bottiglia di Drambuie sul pavimento di marmo in soggiorno, lei esplode." Il padre l'aveva guardata impassibile in volto. "Mia moglie non c'entra niente con tutto questo." Elìnborg era andata a trovarla all'ospedale di Kleppur. Era affetta da schizofrenia e a volte, quando aveva le allucinazioni e le voci prendevano il sopravvento, bisognava ricoverarla. Quando Elinborg l'aveva vista, era sotto sedativi, quindi era riuscita a malapena a parlarle. La donna era rimasta seduta a dondolarsi avanti e indietro e le aveva chiesto una sigaretta. Non aveva idea del motivo per cui era andata a trovarla. "Sto cercando di crescerlo come posso" aveva detto il padre nella stanza degli interrogatori. "Sì, infilandogli degli spilli nella schiena." "Stia zitta." Elinborg aveva parlato con la sorella dell'uomo, la quale le aveva confessato che a volte i metodi educativi del fratello le sembravano un po' troppo severi. Le citò come esempio una volta in cui era stata a casa loro. Il bambino aveva quattro anni e si lamentava, diceva di sentirsi male, piagnucolava, e la donna aveva immaginato che avesse l'influenza. Il piccolo ormai si lagnava da un po', così suo fratello aveva perso la pazienza, l'aveva preso in braccio e tenuto stretto. "C'è qualcosa che non va?" gli aveva chiesto in modo brutale. "No" aveva risposto lui esitante, a voce bassa, come se fosse stato sul punto di cedere. "Allora non devi piangere." "No" aveva ripetuto il bimbo. "Se non c'è niente che non va, allora smettila di piangere." "Sì." "C'è qualcosa che non va?" "No." "Tutto a posto, allora?" "Sì." "Bene. Non si deve frignare per niente." Elìnborg aveva raccontato tutto al padre, che di nuovo non aveva mostrato alcuna reazione. "Non c'è un buon rapporto fra me e mia sorella" le aveva detto. "Non ricordo quest'episodio." "Ha picchiato suo figlio al punto da mandarlo all'ospedale?" gli aveva chiesto Elinborg. L'uomo l'aveva guardata. Arnaldur Indridason – La Voce
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Elìnborg allora gli aveva ripetuto la domanda. "No. Crede che un padre possa fare una cosa del genere? L'hanno aggredito a scuola." Il ragazzino era uscito dall'ospedale. L'Ente per la tutela dei minori gli aveva trovato una dimora temporanea, ed Elìnborg era andata a trovarlo appena concluso l'interrogatorio. Si era seduta accanto a lui e gli aveva chiesto come se la passava. Non le aveva mai detto una sola parola da quando si erano incontrati per la prima volta, ma adesso la guardava come se volesse farlo. Si era schiarito la voce, incerto. "Mi manca papà" aveva detto con la voce rotta dal pianto. Erlendur era seduto al tavolo della colazione, quando vide Siguròur Òli avvicinarsi con Henry Wapshott alle calcagna. Altri due agenti di polizia presero posto dietro di loro. Il collezionista inglese era più sciatto del solito, i capelli arruffati e un'espressione sofferente in viso che ben descriveva quanto si sentisse mortificato e avesse lottato con mezzi impari contro i postumi della sbornia e della prigionia. "Che sta succedendo?" chiese Erlendur e si alzò. "Perché l'hai portato qui? E perché non ha le manette?" "Manette?" "Sì, ai polsi." "Ti sembra necessario?" Erlendur guardò Wapshott. "Non avevo voglia di aspettarti" gli spiegò Siguròur Òli. "Possiamo trattenerlo solo fino a stasera, quindi bisogna prendere una decisione al più presto riguardo all'accusa. E lui voleva vederti. Si è rifiutato di parlare con me. Voleva parlare solo con te. Come se foste vecchi amici. Non ha preteso di essere liberato, non ha chiesto l'assistenza di un legale e nemmeno il sostegno della sua ambasciata. Gli abbiamo detto che poteva rivolgersi a loro, ma lui si è limitato a scuotere la testa." "Hai scoperto qualcosa su di lui, dall'Inghilterra?" gli domandò, poi guardò Wapshott alle sue spalle, che stava a capo chino. "Ho intenzione di andare a fondo della cosa appena l'avrai preso in consegna" rispose Siguròur Òli, che non aveva ancora fatto niente in merito. "Ti faccio sapere se hanno qualcosa su di lui." Siguròur Òli salutò Wapshott, si fermò un istante dai due agenti della polizia investigativa e poi sparì. Erlendur offrì una sedia all'inglese, che si sedette incurvando le spalle. "Non l'ho ucciso io" disse a voce bassa. "Non avrei mai potuto. Non ho mai ucciso nemmeno una mosca. Figuriamoci quel meraviglioso solista del coro." Erlendur lo guardò. "Sta parlando di Gudlaugur?" "Sì, è ovvio." "Ormai non era più il solista del coro di voci bianche da un pezzo" gli fece notare Erlendur. "Gudlaugur aveva quasi cinquant'anni e faceva Babbo Natale alle feste per i bambini." "Lei non capisce." "No, infatti. Magari me lo può spiegare." "Non ero in albergo quando è stato ucciso." "Allora dov'era?" "Ero in giro a cercare dei dischi." Wapshott alzò la testa e abbozzò un sorriso che sembrava più una smorfia. "Stavo esaminando il materiale che voi buttate via, al mercato dell'usato. Volevo vedere cosa potevo ricavare da quella ditta di smaltimento. Mi Arnaldur Indridason – La Voce
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hanno detto che avevano appena ritirato l'eredità di un defunto, compresi dei vecchi dischi che sarebbero andati al macero." "Chi è stato?" "A fare cosa?" "A informarla dell'eredità?" "Il personale dell'albergo. Quando mi fanno qualche soffiata, do loro una mancia. Hanno il mio biglietto da visita. Gliel'ho già detto, vado nei negozi per collezionisti, incontro altri appassionati e giro per i mercati. Kolaportiò, non si chiama così? Faccio quello che fanno gli altri collezionisti, cerco di trovare qualcosa che valga la pena di tenere." "C'era qualcuno con lei, quando Gudlaugur è stato ucciso? Qualcuno con cui possiamo parlare?" "No" rispose Wapshott. "Ma devono pur ricordarsi di lei, in quei negozi." "Sicuramente." "E ha trovato qualcosa di interessante? Qualche voce bianca?" "Niente. Stavolta non ho trovato niente." "Perché stava fuggendo da noi?" gli chiese Erlendur. "Volevo tornare a casa." "Lasciando tutta la sua roba in albergo?" "Sì." "Tranne qualche disco di Gudlaugur, però." "Esatto." "Perché non mi ha detto di essere già stato qui?" "Non lo so. Non volevo suscitare attenzioni inutili. Io non sono coinvolto nell'omicidio." "È facilissimo dimostrare il contrario. Quando ha mentito, doveva pur sapere che avrei scoperto altre cose su di lei. Per esempio, che era già stato altre volte in quest'albergo." "Non sono coinvolto nell'omicidio." "Invece ce lo ha appena Confermato. Non avrebbe potuto dare più nell'occhio." "Non l'ho ucciso io." "Che rapporto avevate, lei e Gudlaugur?" "Le ho già raccontato tutto e non ho mentito. Mi interessava la sua voce, mi interessavano i vecchi dischi di voci bianche soliste e, quando ho saputo che era ancora vivo, mi sono messo in contatto con lui." "Perché mi ha mentito? Lei è già stato in Islanda, ha già soggiornato in quest'albergo e sicuramente aveva già incontrato Gudlaugur altre volte." Wasphott ci pensò su. "Non c'entro niente con l'omicidio. Quando ho appreso la notizia, ho temuto che poteste scoprire che lo conoscevo. Ogni minuto che passava, diventavo più paranoico e ho dovuto impormi una forte autodisciplina per non scappare subito e attirare così tutte le attenzioni su di me. Volevo far passare qualche giorno, ma poi non ce l'ho fatta e sono andato via. I nervi non hanno più retto. Ma non l'ho ucciso io." "Lei conosce bene il passato di Gudlaugur?" gli chiese Erlendur. "No, non molto." "Ma la cosa più importante per un collezionista di dischi non è cercare informazioni sul materiale che si colleziona? Lei l'ha fatto?" "Non ne so granché" ammise Wapshott. "So che ha perso la voce durante un concerto, che ha inciso solo due dischi e che ha troncato i rapporti con il padre..." "Aspetti, come fa a sapere com'è morto?" "Che vuoi dire?" "Agli ospiti dell'albergo non è stato detto che si trattava di omicidio, si è parlato di un arresto cardiaco. Come ha saputo che era stato ucciso?" "Come l'ho saputo? Me l'ha detto lei." "Sì, gliel'ho detto io, e lei era molto meravigliato, me lo ricordo, ma adesso mi sta dicendo che, quando è venuto a sapere dell'omicidio, ha temuto che vi avremmo collegati. Quindi, prima che noi Arnaldur Indridason – La Voce
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due ci parlassimo. Prima che collegassimo Gudlaugur a lei." Wapshott lo fissò. Erlendur conosceva quell'espressione, era tipica di chi stava cercando di guadagnare tempo, così gli concesse tutto il tempo di cui aveva bisogno. I due agenti erano seduti tranquilli a una certa distanza. Erlendur era sceso tardi per la colazione, e ormai in sala da pranzo erano rimasti in pochi. Vide arrivare il cuoco con in testa il grosso cappello, il cuoco che aveva dato in escandescenze al momento del prelievo del campione di saliva. A Erlendur venne in mente Valgeròur. L'analista. Che cosa stava facendo? Faceva iniezioni a qualche bambino che piangeva e la prendeva a calci? "C'è qualcos'altro che vi accomuna, oltre all'interesse per i dischi?" "Non volevo essere coinvolto nelle indagini" ripetè Wapshott. "Che cos'ha da nascondere? Perché non vuol parlare con l'ambasciata britannica? Perché non vuole un avvocato?" "Ho sentito altre persone che ne parlavano. Ospiti dell'albergo. Dicevano che era stato ucciso. Due americani. È così che sono venuto a saperlo. Ed ero preoccupato che poteste collegarmi a lui e che sarei finito esattamente nella situazione in cui mi trovo adesso. Per questo sono fuggito. È molto semplice." Erlendur si ricordò di Henry Bartlet e di sua moglie. Cindy, aveva detto a Siguròur Òli, sorridendo. "Quanto valgono i dischi di Gudlaugur?" "Che vuol dire?" "Se lei ha fatto tutta questa strada fin qui nell'estremo Nord, nel freddo dell'inverno, per procurarseli, devono valere molto. Quanto? Quanto costa un disco?" "Se si vuole venderlo, bisogna fissare un prezzo, magari anche su internet, ma è impossibile dire quanto se ne potrà ricavare alla fine." "Secondo lei? Azzardi una cifra, così, tanto per dire." Wapshott ci pensò su un po'. "Non glielo so dire." "Ha visto Gudlaugur prima che morisse?" Henry Wapshott esitò. "Sì" ammise infine. "Sul biglietto che abbiamo trovato, c'era scritto: '18.30'. Era l'orario del vostro appuntamento?" "È stato il giorno prima che rinvenissero il cadavere. Ci siamo incontrati nella sua stanza, solo per poco." "Perché?" "I suoi dischi." "In che senso?" "Da tempo volevo sapere se ne aveva altri. Se i pochi dischi che conosco, quelli della mia collezione e altri, sono davvero gli unici esemplari al mondo. Per qualche motivo, non aveva voluto rispondere. Glielo avevo già chiesto in una lettera che gli scrissi qualche anno fa, inoltre è stata la prima cosa che gli ho domandato appena ci siamo conosciuti." "E quindi, aveva altre copie per lei?" "Non ha voluto dirmi niente." "Gudlaugur sapeva quanto valevano i suoi dischi?" "Ero stato molto chiaro al riguardo." "Allora, quanto valgono?" Wapshott non rispose subito. "Quando ci siamo visti l'ultima volta ha ceduto" confessò poi. "Voleva parlare dei suoi dischi. Io..." Henry esitò ancora. Si guardò alle spalle, verso i poliziotti che lo avevano in custodia. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Io gli ho dato mezzo milione." "Mezzo milione?" "Sì, di corone islandesi. Come compenso, o..." "Mi aveva detto che non si trattava di cifre stratosferiche." Wapshott alzò le spalle, e a Erlendur parve di vederlo sorridere. "Allora anche quella era una menzogna." "Sì." "Compenso per cosa, scusi?" "Nel caso avesse avuto qualche disco da darmi." "E così gli ha dato questa somma di denaro l'ultima volta che vi siete visti, anche se non era sicuro che avesse altre copie?" "Sì." "E poi?" "E poi è stato ucciso." "Ma noi non abbiamo trovato soldi." "Non è affar mio. Io gli ho consegnato mezzo milione di corone, in camera sua, il giorno prima che morisse." A Erlendur venne in mente che aveva chiesto a Siguròur Òli di controllare i conti bancari di Gudlaugur. Doveva ricordarsi di chiedergli che cosa aveva scoperto. "Ha visto i dischi, nello stanzino?" "No." "Perché dovrei crederle? Non ha fatto altro che mentire. Perché dovrei credere a una sola parola di quello che mi dice?" Wapshott alzò le spalle. "Quindi, quando è stato aggredito, aveva con sé mezzo milione di corone?" "E che ne so? Io so solo che gli ho dato i soldi e che poi è stato ucciso." "Perché non mi ha parlato subito del denaro?" "Volevo essere lasciato in pace" rispose Wapshott. "Non volevo pensaste che l'avessi ucciso io per i soldi." "Ed è quel che ha fatto?" "No." Rimasero in silenzio per un po'. "Ha intenzione di accusarmi di omicidio?" gli chiese poi Wapshott. "Io credo che mi stia nascondendo ancora qualcosa" disse Erlendur. "La terrò dentro fino a stasera. Poi vedremo." "Non avrei mai potuto uccidere una voce bianca solista. L'adoravo, e l'adoro tuttora. Non ho mai sentito nessun bambino cantare con una voce più bella." Erlendur lo guardò. "Che strano, lei è solo al mondo" gli disse, ancor prima di rendersene conto. "Eh?" "Mi sembra un uomo disperato e solo." "Non l'ho ucciso io" ripetè Wapshott. "Non l'ho ucciso io." Mentre Wapshott usciva dall'albergo scortato dai due poliziotti, Erlendur apprese che Òsp, la ragazza che aveva trovato il corpo, stava facendo le pulizie al quarto piano. Salì con l'ascensore e, quando arrivò, la vide uscire da una delle stanze, spingendo un carrello con la biancheria sporca. Era impegnata e non gli prestò alcuna attenzione, finché non gli fu vicina ed Erlendur non le rivolse la parola. Appena lo vide, lo riconobbe subito. "Ah, è lei" disse con indifferenza. Aveva un aspetto ancora più stanco e depresso di quando l'aveva incontrata la prima volta nella caffetteria del personale, ed Erlendur pensò che forse il Natale non era un periodo felice nemmeno per lei. Prima di rendersene conto, glielo stava chiedendo. "Ti deprime il Natale?" La ragazza non gli rispose e spinse il carrello fino alla porta successiva, poi bussò e attese un attimo prima di estrarre il suo passepartout, aprire ed entrare. Appena varcata la soglia, per sicurezza si annunciò a gran voce, nel caso ci fosse dentro qualche ospite che non l'aveva sentita, poi si mise a pulire, rifece il letto, raccolse gli asciugamani dal Arnaldur Indridason – La Voce
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pavimento del bagno, spruzzò il detergente sullo specchio. Erlendur la seguì e la guardò lavorare; dopo un po' lei si accorse che era lì, quasi all'improvviso, almeno così sembrava. "Non può entrare nelle camere" gli fece notare. "È per via della privacy." "Sei tu che ti occupi della camera 312, al terzo piano" le disse Erlendur. "C'era un tipo strano, un inglese. Henry Wapshott. Hai notato qualcosa di insolito?" Lei gli lanciò un'occhiata come se non capisse esattamente che cosa le stesse dicendo. "Per esempio, un coltello insanguinato?" domandò Erlendur, cercando di sorridere. "No" rispose Òsp. "Niente." Poi ci pensò su. "Che coltello? Ha ucciso lui Babbo Natale?" "Non ricordo esattamente le parole che hai usato l'ultima volta che abbiamo parlato, ma hai detto che alcuni ospiti vi palpeggiavano. Ho pensato ti riferissi a molestie sessuali. Lo faceva anche lui?" "No, l'ho visto una volta sola." "E non c'era niente che...?" "Quando sono entrata nella sua stanza, è andato fuori di testa." "Fuori di testa?" "Sì, l'avevo disturbato, così mi ha cacciato fuori. Me ne sono andata e ho controllato se c'era sotto qualcosa, e ho scoperto che aveva richiesto alla reception che la sua camera non venisse riordinata. Nessuno mi aveva avvisato, però. Qui non ti dice mai niente nessuno, che gente di merda... Per questo sono entrata, ma, quando mi ha visto, ha perso le staffe. Mi ha aggredito, quell'idiota. Come se in quest'albergo io contassi qualcosa. Avrebbe dovuto aggredire il direttore, piuttosto." "È un tipo un po' ambiguo." "Quello è un porco." "Io parlavo di Wapshott." "Vale per entrambi." "Quindi non hai notato niente di insolito in camera?" "Era tutto sottosopra, ma è una cosa normale." Òsp fece una pausa e rimase immobile un attimo, guardando Erlendur pensierosa. "Avete scoperto qualcosa riguardo a Babbo Natale?" "Non molto" disse Erlendur. "Perché?" "Questo albergo è strano" gli confidò Òsp a fior di labbra, lanciando un'occhiata lungo il corridoio. "Strano?" A Erlendur parve che a un tratto non fosse più tanto sicura di sé. "Hai paura di qualcosa?" Non gli rispose. "Hai paura di perdere il lavoro?" La ragazza lo guardò. "Come no, è proprio il tipo di lavoro che uno ha paura di perdere." "Allora cosa c'è?" Òsp esitò ancora, poi fu come se avesse preso una decisione. Come se non valesse la pena di preoccuparsi tanto di quello che stava per dire. "In cucina rubano tutto quello che possono" confessò. "Credo che da anni nessuno di loro vada più a fare la spesa al supermercato." "Rubano?" "Sì, qualunque cosa non sia fissata coi chiodi al pavimento." "Chi?" "Non riveli che gliel'ho detto io, però. Il capocuoco, soprattutto lui." "Come lo sai?" "Me l'aveva detto Gulli. Lui sapeva tutto quello che succedeva in albergo." Erlendur ripensò a quando aveva preso la fetta di lingua di bue dal buffet e il capocuoco l'aveva visto e lo aveva ripreso. Ricordò il disprezzo nella sua voce. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Quando te l'ha raccontato?" "Circa due mesi fa." "E quindi? Era preoccupato? Voleva andare a denunciarlo ai superiori? Perché l'ha detto a te? Credevo che non lo conoscessi." "Ed è la verità." Fece una pausa. "Mi prendevano in giro in cucina. Battute sporche, del tipo: Come va là sotto? e cose simili. Il peggio che può uscire da cretini del genere. Una volta Gulli sentì tutto e mi disse di non preoccuparmi. Mi spiegò che erano dei ladri e che, se avesse voluto, avrebbe potuto farli finire nei guai." "Aveva minacciato di denunciarli?" "No, mai. L'aveva detto solo per tirarmi su." "Che cosa rubavano?" le chiese Erlendur. "Ti ha fatto qualche esempio?" "Disse che il direttore dell'albergo lo sapeva, ma non faceva niente perché rubava anche lui. Compra al mercato nero per il bar, sa? Anche questo me l'ha detto Gulli. C'è dentro pure il capo cameriere." "Te l'ha detto Gudlaugur?" "Poi si spartiscono la differenza." "Perché non mi hai raccontato tutto la prima volta che abbiamo parlato?" "Ha importanza?" "Potrebbe averne, certo." Òsp alzò le spalle. "Non ne avevo idea e poi, dopo aver trovato Gudlaugur mezzo nudo e accoltellato, non ero completamente in me." "Per caso hai visto del denaro nella sua stanza?" "Denaro?" "Gli era stata appena consegnata una certa cifra, ma non so se l'aveva con sé quando è stato aggredito." "Non ho visto nemmeno una corona." "No, eh? Non l'avrai mica preso tu, quando sei arrivata?" Òsp smise di lavorare e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. "Sta insinuando che l'avrei rubato?" "Succede." "Lei crede che... ?" "Hai preso tu i soldi?" "No." "Ma ne avevi la possibilità." "Anche chi l'ha ucciso." "Giusto" convenne Erlendur. "Non ho visto nemmeno una corona." "No, d'accordo." Òsp ricominciò a pulire. Spruzzò il detergente sulla tazza del water e la strofinò con lo scopino, come se Erlendur non ci fosse. L'agente la osservò lavorare per un attimo e poi la ringraziò. "In che senso avevi disturbato Henry Wapshott?" continuò l'agente, fermandosi sulla porta. "Ho visto che bussi sempre prima di entrare, dunque di certo avrai aspettato." "Infatti non mi aveva sentito." "Che stava facendo?" "Non so se posso..." "Resterà fra noi." "Guardava la televisione" disse Òsp. "E non voleva che si sapesse in giro" sussurrò Erlendur con fare cospiratorio. "No, cioè, era un video. Era un film porno. Che schifo..." "Trasmettono film porno in albergo?" "Non quelli, sono proibiti ovunque." "Di cosa stai parlando?" "Era roba da pedofili. L'ho detto al direttore." "Pedofili? Come pedofili?" "Cos'è, devo spiegarle che significa?" "Che giorno era?" "Schifoso d'un pervertito !" "Quando è stato?" "Il giorno in cui ho trovato Gulli morto." "Che cos'ha fatto il direttore?" "Niente" rispose Òsp. "Mi ha ordinato di tenere la bocca chiusa." "Sai chi era Gudlaugur?" "Ma chi, il portiere? Era il portiere, appunto. Faceva anche altro?" "Sì, ma quand'era piccolo. Era il solista in un coro di voci bianche e aveva una voce molto bella. L'ho sentito cantare in un disco." "Il solista in un coro di voci bianche?" "A dire il vero era un bambino prodigio. Poi, per qualche motivo, la sua vita è andata a rotoli. E cresciuArnaldur Indridason – La Voce
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to ed è finito tutto." "Non lo sapevo." "Nessuno ormai sapeva più niente di Gudlaugur" confermò Erlendur. Poi tacquero, ciascuno immerso nei propri pensieri. Così passò qualche minuto. "Ti deprime il Natale?" le richiese Erlendur. Era come se avesse trovato un'anima affine alla sua. Lei si voltò. "Il Natale è la festa di chi è felice." Erlendur la guardò e abbozzò un lieve sorriso. "Vorrei farti conoscere mia figlia, ti piacerebbe" disse, prendendo il cellulare. Quando apprese da Erlendur la notizia che, molto probabilmente, Gudlaugur aveva del denaro nel suo stanzino, Siguròur Òli rimase stupefatto. Convennero che fosse indispensabile confermare quanto dichiarava Wapshott, cioè che all'ora del delitto lui era in giro per mercati di dischi di seconda mano. Quando Erlendur lo chiamò, Siguròur Òli si trovava in centrale davanti alla cella di Wapshott, così gli raccontò come erano riusciti a prelevargli un campione di saliva. Quella cella aveva ospitato molti disgraziati in precedenza, poveri ladri, violenti e assassini, che avevano scritto o inciso sulle pareti svariati commenti sulla loro miseranda permanenza lì dentro. C'erano un water e un letto fissato al pavimento, con sopra un materasso e un cuscino rigido. Niente finestre, ma dal soffitto pendeva una forte luce al neon che non veniva mai spenta, così il detenuto aveva difficoltà a distinguere il giorno dalla notte. Henry Wapshott era rimasto in piedi contro il muro, di fronte alla pesante porta d'acciaio. Due guardie l'avevano immobilizzato. Elinborg e Siguròur Òli si trovavano all'interno della cella con il mandato che autorizzava il prelievo del DNA, e c'era anche Valgeròur con un tampone in mano, pronta a prendere il campione di saliva. Wapshott l'aveva fissata come se fosse il diavolo in persona, venuto per trascinarlo con sé nel fuoco eterno. Sembrava che gli occhi volessero schizzargli fuori dalle orbite, si divincolava per allontanarsi il più possibile da lei; nonostante i numerosi tentativi, non erano riusciti a fargli aprire la bocca. Alla fine l'avevano disteso per terra e gli avevano tenuto una mano sul naso finché Wapshott non ce l'aveva più fatta ed era stato costretto a riprendere fiato. Valgeròur ne aveva approfittato subito e gli aveva infilato il tampone in bocca, muovendolo fino a fargli venire i conati di vomito, poi, con altrettanta prontezza, gliel'aveva sfilato. Quando scese di nuovo nella hall per dirigersi in cucina, davanti alla reception Erlendur notò Marion Briem, con un soprabito consunto, un cappello e le dita ossute in perenne movimento. La salutò e le indicò un tavolo in sala da pranzo. Constatò che dall'ultima volta che si erano visti il suo ex superiore era invecchiato, e pure male, ma aveva ancora uno sguardo perspicace e inquisitoArnaldur Indridason – La Voce
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rio, e non sprecava nemmeno un attimo in formalità, proprio come ai vecchi tempi. "Hai un aspetto orribile" gli disse Marion, accomodandosi. "Che cos'è che ti rode tanto?" Da sotto il soprabito si materializzò un piccolo sigaro e subito dopo una scatola di fiammiferi. "Mi pare sia proibito fumare, qui" le fece notare Erlendur. "Ormai non si può più fumare da nessuna parte" si lagnò Marion, accendendosi il sigaro. Aveva un'espressione amareggiata, la pelle grigia, floscia e rugosa. Intorno al sigaro, le labbra pallide erano raggrinzite. Non appena i polmoni ebbero incamerato la loro dose di fumo, le dita ossute, da cui spuntavano unghie esangui, si allungarono di nuovo verso il sigaro. Nonostante la lunga storia ricca di eventi che condividevano da quando si erano conosciuti, i due non si erano mai trovati particolarmente a proprio agio insieme. Marion era stata il superiore di Erlendur per anni e aveva cercato di insegnargli il mestiere. Lui era indisponente e non accettava volentieri i consigli, all'epoca non sopportava alcuna autorità, e nemmeno adesso, a dire il vero. A Marion la cosa dava sui nervi, e spesso avevano avuto degli screzi, ma lei sapeva che non avrebbe mai trovato un collaboratore più fedele, non fosse stato altro perché Erlendur non aveva legami famigliari, dunque era libero dagli impegnativi doveri che implicavano. Non aveva altro che il suo lavoro. La situazione di Marion Briem, che era sempre stata sola per tutta la vita, era molto simile. "Che mi dici di te?" gli chiese, dando un tiro al sigaro. "Niente" rispose Erlendur. "Il Natale ti innervosisce?" "Non ci ho mai capito niente del Natale" ribattè distratto e guardò in cucina, cercando di individuare il cappello del cuoco. "Ci credo" disse Marion. "Troppa felicità e gioia, immagino. Perché non ti sei trovato una donna? Non sei vecchio. Ci sono tante donne che potrebbero anche prendere in considerazione di stare con un tipo noioso come te. Dico sul serio." "Ci ho provato. Come hai saputo di...?" "Intendi dire tua moglie?" Erlendur non voleva che la sua vita privata diventasse un argomento di conversazione. "Vuoi smetterla?" "Ho saputo che..." "Ti ho detto di smetterla" ripetè Erlendur arrabbiato. "D'accordo" rispose Marion. "Il modo in cui vivi la tua vita non mi riguarda. L'unica cosa che so è che la solitudine è una morte lenta." Poi tacque. "Ma tu hai i tuoi figli, ovviamente. O no?" "Non possiamo parlare d'altro? Sei..." Ma si interruppe prima di continuare. "Cosa?" "Che ci fai qui? Non potevi telefonare?" Marion lo guardò e sul viso invecchiato apparve un vago accenno di sorriso. "Mi è stato detto che dormi qui in albergo. Che non vai a casa nemmeno per Natale. Che ti succede? Perché non vai a casa e basta?" Erlendur non rispose. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Non ti sopporti più?" "Possiamo cambiare discorso?" "So cosa si prova a non sopportare più se stessi, bestie come siamo, è una sensazione che non ci togliamo mai di dosso. Ce ne possiamo liberare per un po', ma poi quella torna sempre e ricomincia con la solita solfa. Si può anche provare a bere per dimenticare o cambiare ambiente. O soggiornare in un albergo quando si tocca il fondo, per esempio." "Marion" la pregò Erlendur, "lasciami in pace." "Chi possiede i dischi di Gudlaugur Egilsson naviga nell'oro" disse Marion Briem, arrivando improvvisamente al dunque. "Perché dici così?" "Valgono una fortuna, adesso. È vero che non sono in molti ad averli o a saperlo, ma d'altra parte chi ne è al corrente è pronto a sborsare cifre incredibili pur di procurarseli. I dischi di Gudlaugur sono una vera e propria rarità nel mondo dei collezionisti, e sono molto ricercati." "Che genere di cifre incredibili? Decine di migliaia di corone?" "Ogni copia può valere anche centinaia di migliaia di corone" rispose Marion. "Centinaia di migliaia? Stai mentendo." Erlendur si drizzò sulla sedia. Pensò a Henry Wapshott. Sapeva perché era venuto in Islanda a cercare Gudlaugur e i suoi dischi. Non era solo la passione per le voci bianche che ne aveva stimolato l'interesse, come lui voleva fargli credere. Erlendur comprese perché aveva dato a Gudlaugur mezzo milione di corone, così, sull'unghia. "Da quello che sono riuscita a scoprire, questo bambino ha inciso solo due dischi" continuò Marion. "E ciò che li rende inestimabili, a parte l'incredibile talento del solista, è che ne sono state distribuite e vendute pochissime copie. Non sono in molti a possedere questi dischi, oggi." "Il canto non è importante?" "Mi pare di capire che comunque la qualità della musica e del materiale inciso sia meno importante delle condizioni del disco. La musica può essere di pessima qualità, ma se l'interprete è quello giusto e la casa discografica è quella giusta e il disco è stato inciso al momento giusto, allora può anche non avere prezzo. A nessuno interessa solo il valore artistico in sé e per se." "Che ne è stato delle copie, lo sai?" "Sono scomparse. Con il tempo sono andate perdute, oppure semplicemente le hanno buttate via. Succede. Magari non era una tiratura consistente, forse alcune centinaia di copie. Il motivo per cui i dischi sono così costosi è prima di tutto perché pare ne esistano solo poche copie al mondo. Aggiungi il fatto che la carriera del bambino è stata molto breve; si parla solo di due dischi, usciti nello stesso anno. Poi mi sembra di avere capito che abbia cambiato la voce e che non abbia mai più cantato." "È accaduto durante un concerto, poveretto" le spiegò Erlendur. "Muta vocale, così si dice in gergo quando la voce cambia." "E decine di anni dopo è stato trovato morto." "Se il valore di questi dischi è stimato attorno alle centinaia di migliaia di corone..." "Sì?" "Be', non ti sembra un motivo sufficiente per ucciderlo? Abbiamo trovato le sue copie nello stanzino, una di ciascun disco. Non c'era praticamente nient'altro, là dentro." "Ma allora chi l'ha pugnalato non si è nemmeno reso conto del loro valore" disse Marion Briem. "Altrimenti avrebbe rubato i dischi, questo vuoi dire?" "In che stato erano le Arnaldur Indridason – La Voce
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copie?" "Erano come nuove" disse Erlendur. "Non una macchia o una grinza sulle custodie, e mi pareva proprio che non avessero mai visto un giradischi..." Poi guardò Marion. "Può essere che Gudlaugur avesse comprato l'intera tiratura?" "Perché no?" "Nella sua stanza abbiamo trovato due chiavi, ma non siamo riusciti a capire cosa aprissero. Dove avrebbe potuto tenere tutte le copie?" "Non è detto che se le fosse tenute proprio tutte" azzardò Marion. "Forse solo una parte. E chi avrebbe potuto averla, se non il cantante stesso?" "Non lo so. Abbiamo fermato un collezionista che è venuto appositamente dall'Inghilterra per incontrare Gudlaugur. Un tipo ambiguo, che ha cercato di scappare e adora l'ex stella del canto. Che io sappia, è l'unico che avesse ben chiaro il valore dei suoi dischi. Colleziona dischi di voci bianche soliste." "È un tipo strambo?" domandò Marion. "Siguròur Òli sta verificando. Gudlaugur faceva Babbo Natale qui in albergo" aggiunse, come se fosse stato un impiego fisso. Sulla vecchia faccia grigia della donna si disegnò un sorriso. "Abbiamo trovato un biglietto da Gudlaugur su cui c'era scritto: Henry 18.30, come se a quell'ora avesse avuto un appuntamento o avesse dovuto vedersi con qualcuno. Henry Wapshott dice di averlo incontrato alle sei e mezzo del giorno precedente l'omicidio." Erlendur tacque, pensieroso. "A cosa stai pensando?" gli chiese Marion. "Wapshott mi ha detto di aver consegnato a Gudlaugur mezzo milione di corone per dimostrargli che faceva sul serio riguardo all'acquisto dei dischi, o qualcosa del genere. Magari, quando l'uomo è stato ucciso, i soldi erano ancora nello stanzino." "Vuoi dire che qualcuno sapeva di Wapshott e del suo accordo con Gudlaugur?" "Può darsi." "Un altro collezionista?" "Forse. Non lo so. Wapshott è strano. So che ci nasconde qualcosa, ma non so dirti se su di lui o su Gudlaugur." "E chiaramente il denaro era sparito, quando avete trovato il corpo." "Sì." "Devo andare" disse Marion e si alzò. Erlendur fece altrettanto. "Riesco a malapena a resistere mezza giornata" gli spiegò. "La stanchezza mi uccide. Come se la passa tua figlia?" "Èva? Non lo so. Credo che non stia molto bene." "Forse dovresti stare a casa con lei per Natale." "Sì, forse." "E con le donne?" "Smettila con questa storia" disse Erlendur e si mise a pensare a Valgeròur. Aveva voglia di chiamarla, ma non osava. Che avrebbe dovuto dirle? Che cosa importava a lei del suo passato? Era stato ridicolo da parte sua invitarla a uscire. Non sapeva cosa gli era preso. "Mi pare di capire che hai cenato qui con una donna" disse Marion. "Non succedeva da anni, per quel che ne so." "Chi te l'ha detto?" le domandò Erlendur sbalordito. "Allora, chi è?" continuò Marion, eludendo la sua domanda. "Mi hanno detto che era molto bella." "Non c'è nessuna donna" sbottò Erlendur e se ne andò a grandi falcate. Marion lo seguì con lo sguardo e poi uscì dall'albergo a passi lenti, abbozzando un sorriso. Scendendo nella hall, Erlendur si era chiesto come accusare di furto il caArnaldur Indridason – La Voce
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pocuoco con garbo, ma Marion l'aveva messo di pessimo umore. Dopo aver preso in disparte l'uomo, non gli era rimasto più nemmeno un briciolo di discrezione. "Lei è un ladro?" gli chiese diretto. "E gli altri, qui in cucina? Rubate tutto quello che non è inchiodato al pavimento?" Il capocuoco lo guardò. "Che vuol dire?" "Voglio dire che forse Babbo Natale è stato pugnalato a morte perché sapeva che in albergo vengono commessi furti su larga scala. Forse è stato pugnalato perché sapeva chi gestiva la truffa. Forse lei si è intrufolato giù nel suo buco nel seminterrato e l'ha colpito a morte perché non vuotasse il sacco. Che gliene pare di questa teoria? E nel frattempo l'ha pure derubato." Il cuoco lo fissò. "Lei è pazzo!" proruppe poi. "Lei ruba dalla cucina?" "Con chi ha parlato?" gli domandò il cuoco serissimo.. "Chi le ha dato a bere queste balle? È qualcuno dell'albergo?" "Le hanno preso il campione di saliva?" "Chi gliel'ha detto?" "Perché non ha voluto farselo prelevare?" "Alla fine me l'hanno preso. Ma io credo che lei sia un imbecille. Perché prelevare un campione di saliva a tutti quelli che lavorano in albergo? Prima vi prendete gioco di noi, poi viene qui e mi da del ladro. Non ho mai rubato nemmeno un cavolo, dalla cucina. Mai! Chi se le è inventate queste balle?" "Se Babbo Natale sapeva certe cose su di lei, perché lei è di sicuro un ladro, può anche essere che l'abbia costretta a fare delle cose per lui, no? Come per esempio succh..." "Chiuda quella bocca!" gridò il capocuoco. "E stato il pappone a raccontarle queste balle?" Erlendur credette che stesse per aggredirlo. Il cuoco gli stava così addosso da sfiorargli il viso. Il cappello gli pendeva in avanti, ed Erlendur lo guardava. "È stato quel pappone di merda?" "Chi è il pappone?" "Il direttore dell'albergo, quel pappone grasso di merda" ringhiò il cuoco a denti stretti. Il cellulare che Erlendur teneva in tasca cominciò a squillare. Si guardarono negli occhi, nessuno dei due era disposto a cedere per primo. Alla fine Erlendur prese il telefono. Il cuoco si allontanò, schiumando di rabbia. Era il capo della scientifica. "La chiamo per il campione di saliva sul preservativo" disse, dopo essersi presentato. "Sì. Avete scoperto a chi appartiene?" "No, non ci siamo ancora. Abbiamo analizzato meglio la composizione, però, e fra le altre cose abbiamo trovato tracce di tabacco." "Tabacco? Tabacco da pipa, intendi?" "Be', direi più tabacco per uso orale." "Non capisco." "La composizione chimica è la stessa. Una volta lo si trovava nelle tabaccherie, ma non sono sicuro che esista ancora. Forse in qualche negozio di dolciumi, non so se la vendita è ancora consentita. Dobbiamo controllare. Si posiziona sotto le labbra, contro le gengive, sfuso o in piccole confezioni di garza, come piccole bustine da te. Ne avrà pur sentito parlare." Il cuoco prese a calci l'anta di un pensile e subito dopo proruppe in imprecazioni. "Sta parlando di tabacco da masticare" concluse Erlendur. "Ci sono tracce nel campione di saliva sul preservativo?" "Esatto" confermò il capo della Arnaldur Indridason – La Voce
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scientifica. "Quindi che significa?" "Che la persona che era con Babbo Natale mastica tabacco." "E cosa ci guadagniamo a saperlo?" "Niente. Ancora niente. Pensavo che volesse saperlo. Ah, poi c'è un'altra cosa. Mi aveva chiesto del cortisolo nella saliva." "Sì." "Non ne risultano grandi quantitativi, in realtà il tasso era normale." "E questo, invece, cosa ci dice? Che la situazione era tranquilla?" "Se si rileva un alto livello di cortisolo significa che la pressione sanguigna è salita considerevolmente per la tensione o uno shock. Chi stava con il portiere è rimasto calmo tutto il tempo. Niente shock. Niente tensione. Pensava di non avere nulla da temere." "Finché non è accaduto qualcosa." "Sì. Finché non è accaduto qualcosa." Poi si salutarono, ed Erlendur si mise il telefono in tasca. Il capocuoco lo stava fissando. "Conosce qualcuno qui in albergo che mastica tabacco?" gli chiese. "Ma vaffanculo !" gli gridò l'altro. Erlendur tirò un profondo sospiro, si portò le mani al viso e se lo massaggiò, stanco, e a un tratto si vide davanti i denti anneriti dal tabacco di Henry Wapshott. Erlendur chiese del direttore dell'albergo alla reception e seppe che era uscito per una commissione. Il capocuoco si rifiutava di spiegare perché l'aveva chiamato "pappone". Poche volte aveva incontrato un uomo dal temperamento così collerico e si rendeva conto che nella foga doveva essersi lasciato sfuggire qualcosa che non voleva dire. Ma per il momento non ne aveva ricavato niente. Tutto quello che era riuscito a sapere da lui, considerato anche che giocava in casa, cioè in cucina, erano stati commenti maligni e insulti. Per pareggiare il conto, e soprattutto per irritare ancora di più il cuoco, Erlendur meditava di ordinare a quattro agenti in divisa di venire in albergo, prelevarlo con la volante e portarlo alla centrale di polizia in Hverfisgata per un interrogatorio. Si trastullò con quell'idea per un po', poi decise di lasciar perdere per il momento. Salì invece nella stanza di Henry Wapshott. Ruppe i sigilli che la polizia aveva messo sulla porta. Gli uomini della scientifica avevano avuto cura di non spostare niente. Rimase a lungo fermo nello stesso posto, guardandosi intorno. Stava cercando un involucro qualsiasi di tabacco da masticare. Nella camera c'erano due letti singoli, entrambi sfatti, come se Wapshott avesse dormito sia nell'uno sia nell'altro, o avesse avuto un ospite per la notte. Sul tavolo c'era un vecchio giradischi collegato alla presa di corrente e a due piccole casse, e su un altro c'era un televisore a quattordici pollici con un videoregistratore. Accanto stavano due cassette. Erlendur ne infilò una nel videoregistratore e accese la televisione, ma la spense non appena comparve la prima immagine. Òsp aveva ragione riguardo alla pedofilia. Arnaldur Indridason – La Voce
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Aprì i cassetti del comodino e ispezionò a fondo la valigia di Wapshott, controllò l'armadio ed entrò in bagno, ma non trovò tabacco sfuso da nessuna parte. Guardò anche nel cestino dei rifiuti, ma era vuoto. "Elinborg aveva ragione" disse Siguròur Òli, che era apparso all'improvviso nella stanza. Erlendur si voltò. "Che vuoi dire?" gli chiese. "Finalmente gli inglesi ci hanno mandato qualche informazione su di lui" continuò Siguròur Òli, guardandosi intorno. "Sto cercando del tabacco sfuso" gli spiegò Erlendur. "Ne hanno trovate tracce sul preservativo." "Credo di sapere perché non voleva mettersi in contatto con la sua ambasciata, né con un avvocato, e sperava che la cosa finisse nel nulla" commentò Siguròur Òli, poi cominciò a riferirgli le informazioni che la polizia britannica gli aveva mandato sul collezionista. Henry Wapshott, celibe e senza figli, era nato a Londra alla vigilia della Seconda guerra mondiale, nel 1938. Il ramo paterno della sua famiglia possedeva diversi immobili di valore in prossimità del centro; alcuni erano andati distrutti durante il conflitto ed erano stati ristrutturati e adibiti a uffici e appartamenti di lusso, assicurandogli un certo benessere. Wapshott non aveva mai avuto bisogno di lavorare. Era figlio unico e aveva frequentato le scuole migliori, Eaton e Oxford, ma non aveva mai finito l'università. Quando suo padre era morto, gli era subentrato nella gestione dei beni di famiglia, ma a differenza del vecchio nutriva ben poco interesse per il settore immobiliare e si presentava alle riunioni solo quand'era indispensabile, finché non si era ritirato, lasciando la gestione delle proprietà ai suoi amministratori. Aveva sempre abitato nella casa dei genitori, e i suoi vicini lo trovavano un eccentrico solitario e cortese ma un po' particolare, laconico e poco socievole. L'unico suo interesse era collezionare dischi, ne aveva la casa piena, li comprava ai mercatini dell'usato o li ritirava dalle eredità dei defunti. Viaggiava molto a causa di questa sua mania, e si diceva che avesse la collezione privata di dischi più rifornita di tutta l'Inghilterra. Si era trovato per due volte ad avere a che fare con la legge, ed era sulla lista dei colpevoli di reati a sfondo sessuale, per i quali la polizia inglese aveva un'attenzione particolare. Nel primo caso era stato accusato e poi condannato per lo stupro di un ragazzino di dodici anni, suo vicino di casa, che aveva conosciuto grazie al comune interesse per i dischi. Il crimine era stato compiuto nella casa dei genitori di Wapshott. Dopo aver appreso del comportamento del figlio, sua madre aveva avuto un esaurimento nervoso; il caso era stato gonfiato dai mezzi di comunicazione inglesi, soprattutto dalla stampa scandalistica, che aveva definito Wapshott, nato tra i privilegi, un animale pervertito. Durante le indagini era emerso che pagava profumatamente bambini e ragazzi in cambio di prestazioni sessuali di vario tipo. Una volta scontato il periodo di reclusione, sua madre era morta, così lui Arnaldur Indridason – La Voce
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aveva venduto la casa di famiglia e si era trasferito in un altro quartiere. Qualche anno dopo era tornato sulle prime pagine dei giornali, quando due ragazzi appena adolescenti avevano affermato di aver ricevuto del denaro per spogliarsi a casa sua e lo avevano accusato di stupro una seconda volta. Quando era scoppiato lo scandalo, Wapshott si trovava a Baden Baden, in Germania, ed era stato arrestato al Brenner's Hotel & Spa. Benché fosse stato impossibile provarne la colpevolezza, Wapshott aveva lasciato il paese e si era trasferito in Thailandia, pur mantenendo la cittadinanza inglese; la collezione di dischi era rimasta in Inghilterra, dove tornava di tanto in tanto per seguire il suo hobby. Usava il cognome della madre, Wapshott, ma il suo vero nome era Henry Wilson. Dopo aver lasciato la patria, non aveva più avuto a che fare con la polizia, ma delle sue attività in Thailandia si sapeva poco o niente. "Non c'è da stupirsi che non volesse farsi notare" disse Erlendur, quando Siguròur Òli ebbe concluso il suo resoconto. "Sembra un pervertito della peggior specie" rincarò la dose Siguròur Òli. "Puoi immaginare perché abbia scelto la Thailandia." "La polizia inglese non ha niente su di lui, al momento?" "No, ovviamente è molto felice di essersene liberata. Elinborg aveva ragione." "Cos'è che aveva detto?" "Che l'interesse di Henry per Gudlaugur il cantante, non Babbo Natale, era di carattere sessuale. Ci ha chiamato educande perché non avevamo la sua fantasia perversa." "E quindi Henry sarebbe stato con lui nello stanzino e avrebbe ucciso la voce bianca che tanto ammirava? Non è un po' troppo assurdo?" "Io non ci capisco niente" ammise Siguròur Òli. "Non capisco gli uomini che si comportano così, so solo che sono i peggiori pervertiti che si possano immaginare." "A prima vista non ho notato niente di strano in lui" ammise Erlendur, bevendo un Chartreuse Verde. "Non lasciano mai trasparire niente, questi maledetti schifosi" confermò Siguròur Òli. Poi ridiscesero al piano terra e andarono nel piccolo bar che si trovava lì. Il buffet era affollato. Gli ospiti stranieri erano allegri, facevano un gran chiasso e davano l'impressione di essere entusiasti per tutto quello che avevano visto e fatto, con la faccia paonazza e i tradizionali maglioni islandesi. "Hai trovato un conto bancario intestato a Gudlaugur?" gli chiese Erlendur, accendendosi una sigaretta; poi si guardò intorno e vide che lì dentro era l'unico a fumare. "Sto controllando" rispose Siguròur Òli, sorseggiando una birra. Poi fece un cenno con la mano a Elinborg, che era apparsa sulla porta. Quando lo vide, la donna annuì e si fece strada fino al bar, ordinò una birra grande e si sedette al tavolo con loro. Siguròur Òli le illustrò brevemente le informazioni che la polizia inglese aveva su Henry, e lei si concesse un sorriso. "Accidenti, lo sapevo" disse. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Cosa?" "Che per i bambini del coro nutriva un interesse di tipo sessuale. E sicuramente anche per Gudlaugur." "Vuoi dire che Gudlaugur stava facendo qualche giochetto strano, là sotto?" azzardò Siguròur Òli. "Forse l'avevano costretto a partecipare" intervenne Erlendur. "Minacciandolo con un coltello, chissà." "Ma pensa un po', doversi scervellare su un caso del genere proprio adesso che arriva il Natale" sospirò Elìnborg. "Non stimola certo l'appetito" aggiunse Erlendur, e finì il bicchiere di Chartreuse. Aveva voglia di farsene un altro. Guardò l'orologio. Se fosse stato in ufficio, a quest'ora avrebbe già finito il turno. Adesso il bar era un po' meno affollato, così fece cenno al cameriere di avvicinarsi. "Allora c'erano almeno due persone nella sua stanza, perché non è facile minacciare qualcuno se sei in ginocchio." Siguròur Òli lanciò un'occhiata fugace a Elìnborg, pensando che forse aveva esagerato un po'. "Di male in peggio..." rispose lei. "Rovina il sapore dei biscottini natalizi" disse Erlendur. "D'accordo, ma perché pugnalare Gudlaugur?" domandò Siguròur Òli. "E non una sola volta, oltretutto, ma più volte. Come se quella persona avesse perso il controllo. Se Henry l'ha aggredito, deve pur essere accaduto qualcosa, magari sono volate parole grosse e il pervertito inglese ha perso la testa." Erlendur voleva ordinare un altro bicchiere, ma gli altri due declinarono l'invito e guardarono entrambi l'orologio: il Natale era alle porte. "Io credo che fosse in camera con una donna" disse Siguròur Òli. "Hanno controllato il livello di cortisolo nella saliva sul preservativo" li informò Erlendur. "Era normale. Chiunque fosse insieme a Gudlaugur, può essere che se ne fosse già andato quando è stato ucciso." "Visto come l'abbiamo trovato, non mi sembra possibile" affermò Elìnborg. "La persona che era con lui non è stata costretta a far niente" continuò Erlendur. "Questo credo sia chiaro. Se fosse stata rilevata una maggiore concentrazione di cortisolo, allora avremmo potuto presupporre una crescente agitazione o tensione in tutto il corpo." "Allora si trattava di una puttana che faceva il suo lavoro" concluse Siguròur Òli. "Non possiamo parlare di qualcosa di più piacevole?" propose Elìnborg. "Può essere che in albergo ci siano dipendenti che rubano, e che Babbo Natale lo sapesse" disse Erlendur. "E per questo sarebbe stato ucciso?" domandò Siguròur OH. "Non lo so. Può anche essere che il direttore approvi che qui in albergo girino delle prostitute. Non ne sono del tutto sicuro, ma forse dovremmo controllare." "E Gudlaugur c'entrava qualcosa?" chiese Elìnborg. "Forse. A giudicare da come l'abbiamo rinvenuto, non è del tutto improbabile" disse Siguròur Òli. "Come va con il tuo uomo?" domandò Erlendur a Elìnborg. "Non ha battuto ciglio, nemmeno in tribunale" gli rispose, bevendosi la birra. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Il bambino non ha ancora testimoniato contro suo padre, vero?" domandò Siguròur Òli, anche lui al corrente del caso. "È muto come una tomba, poverino" disse Elìnborg. "E quel bastardo del padre insiste con la sua versione. Nega categoricamente di averlo picchiato. Inoltre ha un ottimo avvocato." "E quindi potrà riprendersi suo figlio?" "Può anche darsi." "E il bambino vuole tornare dal padre?" si informò Erlendur. "È la cosa più strana di tutto il caso" ammise Elinborg. "E ancora attaccatissimo a lui. È come se pensasse di essersele meritate, quelle botte." Poi tacquero. "Hai intenzione di rimanere qui in albergo per Natale, Erlendur?" gli chiese, in tono d'accusa. "No, credo che tornerò a casa" rispose. "Starò con Èva. Cucinerò l'agnello affumicato." "Come sta?" "Così così. Insomma, benino..." Era certo che i due colleghi si fossero accorti che mentiva. Erano al corrente dei problemi che aveva avuto sua figlia, ma ne discutevano di rado; sapevano che lui voleva parlarne il meno possibile e non gli chiedevano mai notizie dettagliate. "Domani è il ventitré dicembre" disse Siguròur Òli. "Tutto pronto, Elìnborg?" "Assolutamente no" disse la donna e sospirò. "Stavo pensando a questa collezione di dischi" li interruppe Erlendur. "Come?" gli chiese Elinborg. "Non si comincia da piccoli a collezionare oggetti?" proseguì. "Non che io ne sappia molto, non ho mai collezionato niente. Ma non è un interesse che nasce da bambini, quando si raccolgono le figurine dei calciatori e i modellini di aeroplani, e poi... ah, certo, i francobolli, le locandine del cinema e i dischi? In genere è un'abitudine che si perde col tempo, ma qualcuno invece la coltiva e la pratica per tutta la vita." "Che cosa stai cercando di dirci?" "Stavo pensando ai collezionisti di dischi come Wapshott, anche se naturalmente non tutti sono dei pervertiti come lui. E se la mania di collezionismo fosse collegata a un desiderio di regressione all'infanzia o al bisogno di conservare qualcosa che altrimenti sparirebbe dalla loro vita e che, invece, vogliono tenere con sé il più a lungo possibile? Collezionare oggetti non è un'attività che sottintende il tentativo di preservare qualcosa che risale all'infanzia e si ricollega ai ricordi che abbiamo di quel periodo? Qualcosa a cui non vogliamo rinunciare ma che, anzi, coltiviamo e alimentiamo con la nostra ossessione?" "Quindi la collezione di dischi di Wapshott, che per la maggior parte sono incisioni di solisti, rivela una sorta di nostalgia per la sua infanzia?" domandò Elinborg. "E dunque quando la nostalgia per la sua infanzia gli si è materializzata davanti in carne e ossa qui in albergo, gli è scattato qualcosa dentro?" aggiunse Siguròur Òli. "Perché il suo bambino adorato è diventato un vecchio. È questo che vuoi dire?" "Non lo so." Erlendur osservava distratto i turisti al bar e notò un uomo di mezz'età, dai tratti asiatici, che parlava inglese con un accento americano. Aveva una videocamera nuova e stava riprendendo il suo gruppo di Arnaldur Indridason – La Voce
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amici. All'improvviso a Erlendur venne in mente che forse c'erano delle telecamere di sorveglianza in albergo. Non ci aveva fatto caso. Il direttore non gliene aveva parlato, e nemmeno il responsabile della reception. Guardò Siguròur Òli ed Elìnborg. "Avete già chiesto se ci sono delle telecamere di sorveglianza qui in albergo?" I due agenti si guardarono. "Non dovevi farlo tu?" chiese Siguròur Òli alla collega. "Me ne sono dimenticata" confessò Elinborg. "Con il Natale e tutto il resto, mi è proprio passato di mente." Il responsabile della reception guardò Erlendur e scosse la testa. Disse che l'albergo aveva adottato una politica molto precisa al riguardo. Non c'erano telecamere di sorveglianza nell'edificio, nella hall, alla reception, negli ascensori, nei corridoi e nemmeno nelle camere. Soprattutto nelle camere, ovviamente. "Altrimenti non avremmo neppure un cliente" gli spiegò serio. "Già, ci avevo pensato" rispose Erlendur deluso. Per un attimo aveva nutrito la speranza che le telecamere avessero registrato qualcosa di utile, che contrastava con le testimonianze raccolte, qualcosa di anormale, insomma, diverso da ciò che aveva in mano la polizia. Voltò le spalle alla reception e stava per tornare al bar, quando il responsabile lo chiamò. "Nell'ala sud dell'edificio, dall'altro lato, c'è la filiale di una banca. Ci sono dei negozi di souvenir e l'ingresso secondario dell'albergo. Sono in pochi a usarlo. Di sicuro la banca avrà delle telecamere. Ma praticamente registrano solo i loro clienti." Erlendur li aveva notati, la banca e i negozi; ci andò subito, ma la filiale era già chiusa. Alzò la testa e notò l'occhio quasi invisibile di una telecamera collocato sopra la porta. Il locale era deserto. Bussò alla porta di vetro, tanto da farla tremare e vibrare, ma non ottenne risposta. Alla fine prese il cellulare e insisté perché chiamassero il direttore. Mentre aspettava, osservò gli articoli in vendita a cifre esorbitanti; piatti con dipinti la cascata di Gulfoss e Geysir, statuette del dio Thor armato di martello, portachiavi con ciuffi di pelo di volpe, poster che illustravano tutti i cetacei avvistabili dalle coste del paese, giacche di pelle di foca che costavano quanto un suo stipendio. Meditava di comprarsi qualcosa che gli ricordasse quell'Islanda strana, da turisti, che in realtà esisteva solo nell'immaginario degli stranieri ricchi, ma non trovò nulla di abbastanza economico. La direttrice della banca, una donna sulla quarantina, stava andando a una festa e non era affatto contenta di essere stata disturbata; sulle prime aveva pensato a una rapina. Due poliziotti in divisa avevano bussato alla porta di casa sua e le avevano chiesto di seguirli, senza darle spiegazioni. Quando Erlendur le disse che aveva bisogno delle registrazioni delle telecamere di sorveglianza, gli lanciò un'occhiata furiosa. Con il mozzicone della sigaretta se ne accese un'altra, ed Erlendur pensò che non incontrava un fumatore incallito come lei da mesi. "Non poteva aspettare fino a domattina?" gli chiese con freddezza, tanto Arnaldur Indridason – La Voce
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che Erlendur sentì quasi cadere per terra i frammenti di ghiaccio e pensò che non avrebbe voluto essere in debito con lei per nessun motivo al mondo. "La ucciderà" le disse, indicando la sigaretta. "Per il momento no" rispose la donna. "Perché mi ha trascinata fin qui?" "È stato commesso un omicidio in albergo." "E allora?" domandò lei, per niente turbata. "Stiamo tentando di velocizzare le indagini." Cercò di sorriderle, ma invano. "Questa è tutta una farsa" disse e ordinò a Erlendur di seguirla. I due agenti erano spariti, sicuramente felici di liberarsi della donna, che lungo la strada aveva rovesciato loro addosso una valanga di insulti. Lo portò all'ingresso dei dipendenti della banca, digitò il codice e aprì, intimandogli di sbrigarsi. Era una filiale di piccole dimensioni, e nell'ufficio della direttrice c'erano quattro piccoli monitor collegati alle telecamere di sorveglianza puntate sulle due casse, sulla sala d'attesa e sull'ingresso. La donna accese gli schermi e spiegò a Erlendur che le telecamere erano in funzione ventiquattr'ore su ventiquattro, dunque registravano tutto su nastri che venivano conservati per tre settimane e poi riutilizzati. I registratori erano in una piccola stanza nel seminterrato. Lo accompagnò di sotto, fumandosi la terza sigaretta, e gli indicò le cassette, catalogate scrupolosamente con la data e l'indicazione della telecamera corrispondente, e custodite in un armadietto chiuso a chiave. "Tutti i giorni viene un addetto alla sicurezza" gli spiegò, "se ne occupa lui. Io non so come funzionano, e le chiederei di non toccare niente che non la riguardi." "La ringrazio" disse Erlendur umilmente. "Vorrei partire dal giorno in cui è stato commesso il delitto." "Prego, faccia pure" gli rispose la donna, buttando per terra il mozzicone e pestandolo con forza. Trovò il giorno che cercava su una cassetta con scritto INGRESSO e la infilò nel videoregistratore collegato a un piccolo monitor. Non riteneva di dover visionare anche i nastri delle telecamere puntate sulle casse. La direttrice guardò l'orologio d'oro che aveva al polso. "Su ogni cassetta sono registrate ventiquattr'ore" disse quasi in un sospiro. "Come sopravvive al lavoro?" le chiese Erlendur. "In che senso, scusi?" "Come fa a non fumare?" "Sono forse fatti suoi?" "No, certo che no" si affrettò a risponderle Erlendur. "Non può portarsele via, queste benedette cassette?" gli propose. "Io non posso rimanere qui. Avevo un appuntamento e non ho intenzione di rimanerle accanto mentre lei le visiona tutte." "No, ha ragione" convenne Erlendur. Guardò le cassette nell'armadietto. "Prendo le due settimane precedenti il giorno dell'omicidio. Sono quattordici in tutto." "Sapete chi è stato a uccidere quell'uomo?" "Non ancora." "Mi ricordo bene di lui. Faceva il portiere, vero? Lavoro qui da sette anni come direttrice di filiale" aggiunse, quasi a volersi giustificare. "Una brava persona, mi pare." "Gli aveva parlato di recente?" "No, mai. Nemmeno una parola." "Era un vostro cliente?" "No, Arnaldur Indridason – La Voce
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non aveva nessun conto da noi. Non che io sappia, almeno. Non lo vedevo mai qui in sede. Aveva del denaro?" Erlendur portò le quattordici cassette nella sua stanza, poi chiese un televisore e un videoregistratore. Aveva appena iniziato a guardare la prima cassetta, verso sera, quando squillò il telefono. Era Siguròur Òli. "Dobbiamo accusarlo o lasciarlo andare" gli disse. "E in realtà non abbiamo niente su di lui." "Si lamenta?" "Non ha aperto bocca." "Ha chiesto un avvocato?" "No." "Accusalo di pedo pornografia." "Pedo pornografia?" "Aveva delle cassette in camera sua, filmati porno di bambini. Sono illegali. Abbiamo un testimone che l'ha visto guardare quello schifo. Lo incriminiamo per pedofilia e poi si vedrà. Non voglio che scappi subito in Thailandia. Dobbiamo sapere se il suo alibi per il giorno in cui Gudlaugur è stato ucciso regge. Lasciamolo un po' in cella a rodersi e vediamo che succede." Erlendur rimase sveglio a guardare le cassette quasi tutta la notte. Aveva capito che, quando sul nastro non si vedeva nessuno, doveva usare il tasto per l'avvolgimento veloce. Come previsto, gran parte del viavai davanti alla banca era concentrato fra le nove del mattino e le quattro del pomeriggio, poi dopo quell'ora la situazione era molto più tranquilla, e lo era ancora di più dopo la chiusura dei due negozi, alle sei. L'ingresso dell'albergo era aperto ventiquattr'ore su ventiquattro, e c'era un Bancomat, ma a notte fonda vi si fermavano ben poche persone. Non notò niente di rilevante il giorno in cui Gudlaugur era stato trovato ucciso. Le persone che entravano si vedevano bene, ma Erlendur non ne riconobbe nemmeno una. Quando mandava avanti il nastro velocemente, durante le riprese notturne, le persone sfrecciavano davanti alla porta come fulmini, si fermavano al Bancomat e poi sfrecciavano via di nuovo. Di tanto in tanto qualcuno entrava in albergo. Le controllò una per una, ma non riuscì a collegarne nessuna a Gudlaugur. Constatò che il personale dell'albergo utilizzava l'ingresso secondario. Vide il responsabile della reception e il grasso direttore, poi Òsp che se ne andava di corsa, e pensò che probabilmente era felice di tornare a casa dopo una giornata di lavoro. In un punto del nastro vide entrare Gudlaugur e fermò la cassetta. Mancavano tre giorni all'omicidio. Era da solo, procedeva lento di fronte alla telecamera, poi diede un'occhiata in banca, girò la testa, guardò i negozi e sparì in albergo. Erlendur riavvolse il nastro e lo visionò di nuovo, quattro volte in tutto. Era strano vedere Gudlaugur ancora vivo. Mise in pausa la cassetta nel momento in cui guardava verso la banca e ne osservò il fermo immagine del viso sullo schermo. Era lui, il solista del coro, in carne e ossa. L'uomo che aveva una voce da soprano così dolce e accorata. Il bambino che aveva costretto Erlendur a perdersi nei suoi ricordi più dolorosi mentre l'ascoltava. Bussarono, così l'agente spense il videoregistratore e aprì la porta: Èva Lind. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Dormivi, forse?" gli chiese, intrufolandosi dentro. "Che cassette sono?" gli domandò quando vide tutto quel materiale. "Si tratta del caso" le spiegò Erlendur. "Avete scoperto qualcosa?" "No. Niente." "Hai sentito Stina?" "Stina?" "Sì, quella mia amica di cui ti avevo parlato. Stina! Mi avevi chiesto delle squillo qui in albergo." "No, non ancora. Dimmi un'altra cosa: conosci una ragazza della tua età che si chiama Òsp e che lavora qui? Avete una visione della vita molto simile." "Che vuoi dire?" Èva Lind gli offrì una sigaretta e gliel'accese, poi si buttò sul letto. Erlendur si sedette alla scrivania e guardò fuori dalla finestra nella notte buia. Mancano due giorni a Natale, pensò. Poi torneremo tutti alla normalità. "Piuttosto pessimista" le spiegò. "Ti sembro davvero tanto pessimista?" Erlendur tacque, ed Èva espirò il fumo della sigaretta dalle narici. "Perché, tu saresti il ritratto della felicità, scusa?" Le sorrise. "Non conosco nessuna Òsp, comunque" gli rispose. "Cosa c'entra con il caso?" "Niente. Per lo meno così penso. Ha trovato lei il cadavere, e sembra sapere varie cosette su quel che accade qui in albergo. Non è stupida, la ragazza. Sa cavarsela e rispondere a tono. Mi ricorda un po' te." "Non la conosco" ripetè Èva, poi tacque e fissò nel vuoto davanti a sé, mentre suo padre rimase a guardarla in silenzio per qualche minuto. A volte non avevano niente da dirsi. A volte litigavano con foga. Non parlavano mai del più e del meno, però. Non parlavano mai del tempo, dei prezzi nei negozi, di politica, di sport, di vestiti, insomma, di quello di cui parla la gente e che entrambi consideravano solo chiacchiere insulse. Loro due, il loro passato e il loro presente, la famiglia che non c'era mai stata perché Erlendur li aveva abbandonati, la tragedia di Èva e di suo fratello Sindri, la cattiveria della loro madre verso Erlendur: solo questo contava, erano questi gli unici argomenti di conversazione, che influivano sul loro rapporto. "Che vuoi come regalo di Natale?" le chiese infine Erlendur, rompendo il silenzio. "Come regalo di Natale?" "Sì." "Non mi serve niente." "Devi pure aver bisogno di qualcosa." "E tu, quand'eri piccolo, cosa ricevevi a Natale?" Erlendur ci pensò su. Si ricordava dei guanti. "Piccole cose" rispose. "Per me la mamma faceva sempre regali più belli a Sindri" gli confessò Èva Lind. "Poi a un certo punto ha smesso proprio di farmeli. Ha detto che tanto poi li rivendevo per comprarmi la roba. Una volta mi ha dato un anello e io l'ho venduto. Tuo fratello riceveva regali più belli dei tuoi?" Erlendur sentì che sua figlia stava sondando il terreno con cautela. Spesso andava dritta al punto, e lo prendeva in contropiede con la sua schiettezza. Altre volte, molto più di rado, era come se volesse dimostrargli che aveva un certo riguardo nei suoi Arnaldur Indridason – La Voce
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confronti. Quando Èva era entrata in terapia intensiva dopo aver perso la bambina ed era rimasta in coma profondo, il medico aveva detto a Erlendur di provare a starle vicino il più possibile e parlarle, perché non era escluso che sentisse la sua voce e che percepisse la sua presenza, anche se poteva non comprendere quello che le diceva. Una delle cose di cui Erlendur le aveva parlato era stata la scomparsa di suo fratello sulla brughiera, mentre lui si era salvato. Quando Èva si era risvegliata e si era trasferita a casa sua, le aveva chiesto se si ricordava cosa le aveva raccontato in ospedale, ma lei aveva risposto di no. Però a quel punto si era incuriosita e aveva insistito finché il padre non le aveva riferito tutto, cose che non aveva mai detto a nessuno e di cui nessuno era al corrente. Non le aveva mai parlato del suo passato ed Èva, che non si stancava mai di ricordargli le sue responsabilità, si era sentita un po' più vicina a lui, le era sembrato di conoscere un po' meglio suo padre, anche se sapeva di avere ancora molta strada da percorrere prima di comprenderlo fino in fondo. C'era ancora una domanda che le rodeva da sempre, le faceva provare rabbia e disprezzo per suo padre e aveva segnato il loro rapporto più di ogni altra cosa. I divorzi erano all'ordine del giorno, se ne rendeva conto. Molte coppie divorziavano, alcune separazioni erano più feroci di altre e in alcuni casi i coniugi finivano per non. parlarsi più. Èva lo capiva, e non lo metteva in discussione. Ma non riusciva assolutamente a comprendere perché Erlendur si fosse allontanato anche dai suoi figli. Perché non aveva dimostrato alcun interesse verso di loro dopo essersene andato. Perché li aveva sempre trascurati finché non era stata lei a cercarlo, trovandolo nel tetro appartamento di un condominio. Ne aveva discusso con lui, ma per il momento non aveva saputo darle alcuna risposta. "Regali più belli, dici?" le disse Erlendur. "Erano sempre le stesse cose. Come fa la canzoncina di Natale: una candela e un mazzo di carte... A volte avremmo voluto ricevere cose più interessanti, ma i miei erano poveri. Tutti erano poveri, allora." "Ma dopo che morì tuo fratello?" Erlendur tacque. "Erlendur?" "Da quando sparì, non ci fu più nessun Natale." Dopo la morte di suo fratello, avevano smesso di santificare la nascita del Salvatore. Era passato poco più di un mese dalla sua scomparsa, e in casa non regnava certo la felicità, niente regali e niente ospiti. Per tradizione, la famiglia della madre di Erlendur andava da loro in visita la sera della vigilia, e insieme intonavano i canti di Natale. La casa era piccola e tutti sedevano vicini, sprigionando calore e luce. Quell'anno, però, sua madre aveva rifiutato ogni visita. Suo padre era caduto in una profonda depressione, e trascorreva quasi tutto il giorno a letto. Non aveva partecipato alle ricerche per trovare il figlio, come se sapesse che era inutile, come se sapesse di aver fallito e che il bambino era morto e che non avrebbe potuto farci niente, né lui né nessun altro, mai, che era tutta colpa sua, solo sua. Sua madre era instancabile. Si preoccupava che Erlendur fosse curato al Arnaldur Indridason – La Voce
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meglio. Sollecitava gli uomini a cercare ancora, e partecipava lei stessa alle ricerche. Tornava esausta dalla brughiera quando faceva buio ed era inutile cercare ed era la prima a salire in montagna l'indomani mattina. Anche quando era ovvio che ormai il bambino fosse morto, lei aveva continuato a cercare con immutato vigore. Solo quando l'inverno era arrivato in tutta la sua forza e la neve era altissima e le condizioni meteorologiche proibitive, si era vista costretta a rinunciare. Aveva dovuto accettare il fatto che suo figlio era morto sulla brughiera e che avrebbe dovuto aspettare la primavera per ricominciare a cercarne i resti. Guardava verso la brughiera tutti i giorni e a volte diceva: "Che ti possano mangiare i troll, visto che hai preso il mio bambino!" Sapere che suo fratello giaceva morto nel nulla era un pensiero intollerabile, ed Erlendur aveva cominciato a vederselo comparire negli incubi, dai quali si svegliava urlando e piangendo, lo vedeva combattere contro la bufera, sprofondato nella neve, la piccola schiena sferzata dal vento, la morte al suo fianco. Non capiva come suo padre potesse rimanere immobile a casa mentre gli altri facevano tutto il possibile. L'evento pareva averlo prostrato, l'aveva reso un automa indolente, così aveva riflettuto su quanto può essere forte il dolore, perché suo padre era un uomo robusto e pieno di energia. La perdita del figlio gli aveva spremuto a poco a poco tutta la voglia di vivere e non si era mai ripreso completamente. Poi, quando tutto era finito, i suoi genitori avevano litigato una volta sola per com'erano andate le cose, ed Erlendur era venuto a sapere che quel giorno sua madre non voleva che il marito andasse sulla brughiera, ma lui non l'aveva ascoltata. Se proprio vuoi andare, gli aveva detto, almeno lascia a casa i ragazzi. Ma lui non le aveva dato ascolto. E da allora il Natale non era stato mai più lo stesso. Con il passare del tempo, i suoi genitori avevano trovato una sorta di intesa. Lei non accennava mai al fatto che il marito era partito contro la sua volontà. Lui non aveva mai ammesso che si era intestardito proprio perché la moglie voleva impedirgli di andare e di portare i ragazzi. Il tempo era splendido, e gli era sembrata un'invadenza da parte sua. Avevano scelto di non parlare mai di quello che era accaduto fra loro prima che la tragedia si abbattesse sulla famiglia, come se infrangendo il silenzio si potesse rompere anche il legame che li univa. Era in questo silenzio che Erlendur aveva affrontato il senso di colpa che gli si era insinuato dentro per essere sopravvissuto. "Perché fa sempre così freddo qui?" gli chiese Èva Lind, avvolgendosi meglio nel soprabito. "È il termosifone" le spiegò Erlendur. "Non riscalda. Che mi dici di te?" "Niente. La mamma si vede con uno. L'ha conosciuto in una balera a Olver. Non Arnaldur Indridason – La Voce
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puoi immaginare quanto sia grezzo, quel tipo. Credo che usi ancora la brillantina si fa una specie di banana sul davanti e porta camicie con i colletti enormi e si mette a schioccare le dita quando sente delle vecchie canzonette alla radio, tipo Prode veleggia il mio vascello, o roba del genere." Erlendur sorrise. Èva non era mai così caustica come riguardo ai "tipi" con cui usciva la madre, che parevano sempre più patetici ogni anno che passava. Poi tacquero. "Sto cercando di ricordare com'ero quando avevo otto anni" gli disse a un tratto. "Non mi ricordo proprio niente di quel periodo, se non il compleanno. Non ricordo la festa, solo il giorno in cui ho compiuto gli anni. Stavo sul piazzale davanti al condominio e sapevo che quel giorno era il mio compleanno, e avevo otto anni, e in qualche modo questo ricordo insignificante mi è sempre rimasto in testa da allora. Solo questo, però: sapevo che era il mio compleanno e avevo otto anni." Guardò Erlendur. "Tu hai detto che aveva otto anni quando è morto." "Li avrebbe compiuti in estate." "Perché non è mai stato trovato?" "Non lo so." "Ma è ancorala sulla brughiera?" "Sì." "Le sue ossa?" "Sì." "Aveva otto anni?" "Sì." "È stata colpa tua se è morto?" "Avevo dieci anni." "Sì, ma..." "Non è stata colpa di nessuno." "Ma tu devi aver pensato..." "Dove vuoi arrivare, Èva? Che vuoi sapere?" "Perché non hai mai cercato me e Sindri dopo che te ne sei andato?" gli domandò. "Perché non hai tentato di stare con noi?" "Èva..." "Non eravamo degni, vero?" Erlendur tacque e guardò fuori dalla finestra. Aveva ricominciato a nevicare. "Stai cercando un collegamento tra le due cose?" le disse infine. "Non ho mai trovato una spiegazione. Così mi è venuto in mente che..." "Che avesse qualcosa a che vedere con la morte di mio fratello e il modo in cui è morto? Vuoi trovare un collegamento fra le due cose?" "Non lo so" ammise Èva. "Non ti conosco per niente. Ci siamo ritrovati solo pochi anni fa, e sono venuta io a cercarti. La storia di tuo fratello è l'unica cosa che so di te, a parte il fatto che sei uno sbirro. Non sono mai riuscita a capire come mai hai abbandonato me e Sindri, i tuoi figli." "Ho lasciato che fosse tua madre a decidere. Forse avrei dovuto impormi e provare a ottenere l'affidamento, ma..." "Non ti interessava" concluse Èva. "Non è così." "Certo. Perché? Perché non ti sei occupato dei tuoi figli come avresti dovuto?" Erlendur tacque e guardò il pavimento. Èva spense la terza sigaretta, poi si alzò, andò alla porta e l'aprì. "Stìna verrà a trovarti qui in albergo domani a mezzogiorno" lo informò. "Non puoi non notarla, si è rifatta le tette." "Grazie per aver parlato con lei." "Di niente" gli rispose Èva. Poi esitò sulla porta. "Allora, cosa vuoi?" le chiese Erlendur. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Non lo so." "No, voglio dire come regalo di Natale." Èva lo guardò. "Vorrei poter riavere la mia bambina" gli confidò e si chiuse silenziosamente la porta alle spalle. Erlendur fece un sospiro profondo e rimase a lungo seduto immobile sul bordo del letto prima di ricominciare a visionare le cassette. Sullo schermo sfrecciavano persone intente a fare commissioni prima di Natale, molte con sacchetti e pacchi appena acquistati. Era arrivato al quinto giorno prima dell'omicidio di Gudlaugur, quando la vide. In un primo momento non l'aveva notata, ma in qualche recesso della mente gli si accese una scintilla che gli fece fermare il nastro e riavvolgerlo all'indietro. Non era stato il viso a suscitare la sua attenzione, ma l'atteggiamento, la camminata e l'alterigia. Premette di nuovo il tasto PLAY, e questa volta la vide chiaramente mentre entrava in albergo. Mandò avanti il nastro a doppia velocità. Una mezz'ora dopo la donna riapparve sul monitor: stava uscendo dall'albergo ed era passata di fretta davanti alla banca e ai negozi senza voltarsi. Erlendur si alzò dal letto e fissò lo schermo. Era la sorella di Gudlaugur. Che non vedeva il fratello da trent'anni.
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QUINTO GIORNO † Quando il rumore lo svegliò, l'indomani mattina, era tardi. Erlendur impiegò molto a svegliarsi dopo il sonno senza sogni e all'inizio non si rese conto di cosa fosse quel rumore terribile che riecheggiava nella stanzetta. Era rimasto in piedi quasi tutta la notte a visionare una videocassetta dopo l'altra, ma l'unica volta in cui aveva visto la sorella di Gudlaugur era stato quel giorno. Non riusciva a credere che la donna si trovasse in albergo per pura coincidenza, che avesse avuto altre cose da fare e non si fosse incontrata col fratello, con cui sosteneva di non avere contatti da decenni. Erlendur subodorava una menzogna e sapeva che per un agente investigativo non c'era niente di più prezioso. Il baccano pareva non voler cessare, e a poco a poco si rese conto che era il telefono. Alzò la cornetta e sentì la voce del direttore dell'albergo. "Deve scendere in cucina" gli disse. "C'è un uomo con cui dovrebbe parlare." "Chi è?" gli chiese Erlendur. "Un giovanotto che era a casa in malattia il giorno in cui abbiamo trovato Gudlaugur. Presto, venga." Erlendur uscì dal letto. Era ancora vestito. Entrò in bagno e si guardò allo specchio; si accarezzò la barba di qualche giorno: sembrava stesse strofinando della carta vetrata sul legno grezzo. Aveva la stessa barba folta e ispida di suo padre. Prima di scendere chiamò Siguròur Òli e gli chiese di andare con Elinborg ad Hafnarfjòròur a prendere la sorella di Gudlaugur e portarla alla centrale di polizia in Hverflsgata per un interrogatorio. Lui li avrebbe raggiunti più tardi. Non gli spiegò perché voleva parlarle, se lo sarebbe lasciato sfuggire subito. Voleva vedere la faccia della donna quando avrebbe capito che la sua menzogna era stata scoperta. Entrando in cucina, Erlendur vide il direttore accanto a un giovane sulla ventina, particolarmente magro. Si chiese se forse il contrasto non gli stesse confondendo la vista: chiunque stava accanto a quel grassone gli sembrava filiforme. "Eccola qua" lo accolse il direttore. "Sembra che le diriga io, le sue indagini! Le trovo perfino i testimoni e tutto il resto." Poi guardò il suo dipendente. "Digli quello che sai." Il giovane cominciò a parlare. Raccontava i fatti in maniera estremamente accurata; disse che il giorno in cui Gudlaugur era stato trovato morto nel suo stanzino, verso mezzogiorno aveva cominciato a provare una sensazione di nausea. Alla fine aveva vomitato, raggiungendo appena in tempo un sacco della spazzatura in cucina. Il giovane lanciò un'occhiata imbarazzata al direttore. Aveva avuto il permesso di tornare a casa e si era messo a letto, colpito da una brutta forma virale, con febbre e dolori alle articolazioni. Viveva da solo Arnaldur Indridason – La Voce
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e non ascoltava i notiziari, per questo non aveva detto a nessuno quanto sapeva, fino alla mattina in cui era tornato al lavoro e aveva appreso della morte di Gudlaugur. Ed era rimasto stupito nel sentire cosa gli era accaduto, anche se non conosceva molto bene il portiere lavorava lì da poco più di un anno benché a volte ci avesse scambiato due parole e fosse anche andato nel suo stanzino e... "Sì, sì" lo incalzò il direttore, impaziente. "Non c'interessa questa roba, caro Denni. Continua." "Prima di andare a casa, quella mattina, Gulli è venuto in cucina e mi ha chiesto se potevo procurargli un coltello." "Voleva prendere in prestito un coltello dalla cucina?" domandò Erlendur. "Sì. Prima voleva delle forbici, ma non le ho trovate, e allora gli ho dato un coltello." "Le ha detto per caso come mai aveva bisogno delle forbici o del coltello?" "Sì, c'entrava col costume da Babbo Natale." "Il costume da Babbo Natale?" "Non è entrato nei dettagli, ha detto solo che doveva sfilare una cucitura." "E dopo gliel'ha restituito^?" "A me no, ma poi a mezzogiorno sono andato via e non so come sia andata a finire." "Che tipo di coltello era?" "Ha detto che doveva essere ben affilato" rispose Denni. "Comunque era come questo" intervenne il direttore, prelevando da un cassetto un coltello da carne con il manico in legno e la lama a denti piccoli. "Sono quelli che mettiamo in tavola per i clienti che ordinano le nostre grosse bistecche di manzo. Le ha mai assaggiate? Una squisitezza. Con questi si tagliano come fossero burro." Erlendur prese il coltello e lo osservò, rimuginando fra sé che forse era stato proprio Gudlaugur a fornire al suo assassino l'arma del delitto. Chissà se la faccenda del costume da Babbo Natale era solo un espediente, pensò. Se Gudlaugur aspettava qualcuno nella sua stanza e voleva tenere il coltello a portata di mano; o se il coltello era sul comodino perché l'aveva usato per il costume e l'aggressione era stata improvvisa, non premeditata, ma scatenata da qualcosa che era accaduto. Ma allora l'aggressore non era arrivato armato, non era andato lì con l'intenzione di ucciderlo. "Devo avere quel coltello" disse. "Dobbiamo sapere se le dimensioni e la lama sono compatibili con le ferite." Il direttore annuì. "Non è stato l'inglese?" domandò poi. "Sospettate di qualcun altro?" "Vorrei parlare un attimo con Denni" continuò Erlendur senza rispondergli. Il direttore annuì di nuovo e rimase immobile dov'era, poi comprese e lanciò a Erlendur un'occhiata offesa. Era abituato a essere al centro dell'attenzione e non aveva capito subito dove voleva arrivare l'agente. Quando finalmente comprese, s'inventò che aveva qualcosa da fare in ufficio e se ne andò facendo un gran baccano. Quando il suo superiore non fu più nelle vicinanze, sembrò che Dermi tirasse un sospiro di sollievo, ma solo per poco. "E sceso nel seminterrato per pugnalarlo?" gli chiese Erlendur. Denni lo guardò come un condannato a morte. "No" balbettò, quasi che nemmeno lui fosse tanto sicuro della sua innocenza. La domanda successiva lo lasciò ancora più perplesso. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Lei mastica tabacco?" "No. Se mastico tabacco? Ma cosa...?" "Le hanno già prelevato un campione di saliva?" "Che?" "Usa il preservativo?" "Il preservativo?" domandò Denni, che ormai non ci si raccapezzava più. "Al momento ha una fidanzata?" "Una fidanzata ?" "Sì, una fidanzata che deve stare attento a non mettere incinta." Denni ammutolì. "Non ce l'ho una fidanzata" disse infine, ed Erlendur ebbe la sensazione che ne fosse dispiaciuto. "Perché mi sta chiedendo queste cose?" "Lei non si preoccupi" lo zittì. "Conosceva Gudlaugur. Che tipo era?" "Era uno a posto." Denni gli spiegò che Gudlaugur si trovava bene in albergo e non voleva andarsene, anzi, dopo essere stato licenziato, era spaventato all'idea. Era l'unico dipendente che usufruiva di tutti i servizi dell'albergo, e da anni. Mangiava per quattro soldi, mandava il bucato in lavanderia e non pagava una corona per lo stanzino. Il licenziamento era stato un brutto colpo per lui, ma aveva detto che, se fosse vissuto in maniera modesta, ce l'avrebbe fatta, inoltre non doveva più lavorare per guadagnarsi da vivere. "Cioè?" gli chiese Erlendur. Denni alzò le spalle. "Non lo so. A volte era molto misterioso. Diceva delle cose incomprensibili." "Tipo?" "Mah, roba di musica. Quando beveva. Il più delle volte però era sobrio." "Beveva molto?" "No, assolutamente. A volte, nel fine settimana. Non mancava mai al lavoro. Mai. Era molto orgoglioso di questo, anche se il suo non era certo un gran lavoro. Faceva il portiere, insomma." "Perché parlava di musica con lei?" "Era appassionato di bella musica. Non mi ricordo esattamente cosa diceva." "Perché crede che abbia detto che non aveva più bisogno di lavorare per guadagnarsi da vivere?" "Ho avuto l'impressione che avesse dei soldi da parte. E poi qui non pagava niente, quindi chissà quanto aveva risparmiato. Credo che avesse voluto dire questo. Che aveva messo da parte soldi a sufficienza." Erlendur ricordò di aver chiesto a Siguròur Òli di controllare il conto in banca di Gudlaugur e si ripromise di insistere perché lo facesse. Lasciò Denni mezzo confuso in cucina a pensare al tabacco da masticare, ai preservativi e alle fidanzate, e tornò nella hall, dove scorse una ragazza che litigava a voce alta con il responsabile della reception. Era come se l'uomo fosse intenzionato a buttarla fuori e lei non volesse saperne. Gli venne in mente che forse era la donna che lo aveva ricattato per la bella nottata trascorsa insieme, e stava per allontanarsi, quando la ragazza lo vide e prese a fissarlo. "Sei uno sbirro, tu?" "Se ne vada, per favore!" le intimò il responsabile della reception, insolitamente agitato. "Sei uguale a come ti ha descritto Èva Lind" disse, squadrando Erlendur da capo a piedi. "Mi chiamo Stìna. Èva mi ha detto di parlare con te." Si accomodarono a un tavolo del bar. Erlendur ordinò un caffè per entrambi. Cercò di ignorare quel gran paio di tette, ma era un'impresa. In tutta la sua Arnaldur Indridason – La Voce
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vita non aveva mai visto seni così enormi in un corpo tanto magro ed esile. Stìna si tolse il cappotto beige lungo fino alle caviglie con il collo di pelliccia e lo appoggiò sulla sedia, rivelando un'attillatissima maglietta rossa che arrivava a malapena a coprirle la pancia e un paio di pantaloni neri a vita bassa che rivelavano appena il solco delle natiche. Aveva un trucco vistoso, un pesante strato di rossetto scuro, e gli sorrideva, mostrando una dentatura perfetta. "Trecentomila corone" disse, grattandosi leggermente sotto il seno destro, come se le prudesse. "Ti chiedevi quanto ho scucito per le tette?" "Qualcosa non va?" "Sono i punti" gli spiegò, facendo una smorfia. "Non posso grattarmi troppo sui punti. Devo stare attenta." "Che...?" "Silicone nuovo di pacca" lo interruppe Stina. "Ho fatto l'intervento tre giorni fa." Erlendur si impose di non fissare troppo quel seno nuovo. "Come fai a conoscere Èva Lind?" le domandò. "Mi aveva avvertito che me l'avresti chiesto, e mi ha detto di dirti che era meglio non lo sapessi. Ha ragione. Fidati. Mi ha anche detto che se io avessi aiutato te, tu avresti aiutato me a risolvere un certo problemino, capisci cosa intendo?" "No" disse Erlendur. "Non so che cosa intendi." "Èva mi ha detto che l'avresti fatto." "Èva ti ha mentito. Di che stai parlando? Un problemino? Di che si tratta?" Stina sospirò. "Un mio amico è stato beccato con dell'hashish a Keflavik. Poca roba, ma abbastanza perché lo sbattano a Hraun per tre anni. Manco avesse ammazzato qualcuno, 'sti cazzo di stronzi. Tutto 'sto bordello per un po' d'hashish e qualche pasticca, bah! Ha detto che si farà tre anni. Tre! I pedofili prendono tre mesi con la condizionale. Che stronzi rotti in culo!" Erlendur non aveva capito l'ultima frase e nemmeno sapeva come aiutarla. Sembrava una bambina che non si rendeva conto pienamente di quanto il mondo fosse grande, complesso e difficile da gestire. "È stato preso all'aeroporto?" "Sì." "Non posso farci nulla" rispose Erlendur. "E nemmeno voglio. Tu non frequenti delle belle compagnie. Spaccio di droga e prostituzione. Cos'hai contro un semplice impiego in un ufficio?" "Non è che magari provi a parlare con qualcuno?" insisté Stìna. "Non può beccarsi tre anni!" "Allora, tanto per mettere le cose in chiaro" disse Erlendur con un cenno della testa. "Sei una prostituta?" "Ci sono prostitute e prostitute" precisò Stina, prendendo una sigaretta da un piccolo astuccio nero che portava a tracolla. "Io di lavoro faccio la ballerina al Greifi." Poi si sporse in avanti e gli sussurrò, come se lei ed Erlendur condividessero un segreto: "Ma si fanno più soldi nell'altro modo". "E sei stata con dei clienti dell'albergo?" "Sì, con qualcuno" confermò. "E hai lavorato qui?" "No, mai." "Voglio dire, i clienti li hai trovati qui o sei venuta in albergo con loro, dopo essere stata in qualche locale?" "Be', insomma, faccio come capita. Potrei anche stare qui, ma Ciccio mi ha buttato fuori." "Perché?" Stina ricominciò a sentire prurito sotto i seni e si strofinò con molta attenzione. Arnaldur Indridason – La Voce
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Fece una smorfia e cercò di sorridere a Erlendur, ma era chiaro che non si sentiva molto bene. "Una ragazza che conosco ha fatto lo stesso intervento, ma non è riuscito" gli spiegò. "Adesso ha le tette come due sacchetti di plastica vuoti." "C'era davvero bisogno di farsi un seno così grosso?" Erlendur non riuscì a trattenersi dal chiederglielo. "Non ti piace?" gli domandò e glielo sbattè in faccia, senza trattenere una smorfia. "Be', sì, è... è enorme" ammise Erlendur. "E pure nuovo di 2ecca" concluse Stìna fiera. Erlendur notò il direttore entrare nel bar insieme al responsabile della reception e avanzare a grandi falcate verso di loro, in tutta la sua possanza. L'uomo si guardò intorno e, quando vide che nel locale non c'era nessun altro, cominciò a inveire verso Stina già a diversi metri di distanza. "Fuori! Vattene fuori, bella! Immediatamente! Fuori di qui!" Stìna si voltò a guardarlo, poi guardò Erlendur e alzò gli occhi al cielo. "Cristo santo" imprecò. "Non vogliamo troie come te in questo albergo!" le urlò il direttore. Poi l'afferrò come se volesse buttarla fuori di peso. "Lasciami in pace!" disse Stìna, alzandosi. "Sto parlando con questo signore." "Attento alle tette!" gridò Erlendur, non sapendo che altro dire. Il direttore lo guardò stupefatto. "Sono nuove" gli spiegò. Erlendur intervenne e cercò di bloccarlo, ma non riuscì a spostarlo di un centimetro. Stina faceva il possibile per proteggersi il seno, mentre il responsabile della reception si teneva a distanza e osservava quello scambio di battute. Infine si avvicinò per aiutare Erlendur, e in due riuscirono a staccare il furioso direttore dalla ragazza. "Tutto quello... che... questa donna... dice di me... è assolutamente falso!" disse e sbuffò. Lo sforzo gli era stato quasi fatale; boccheggiava per la fatica e la faccia grondava sudore. "Veramente non mi ha detto niente su di lei" disse Erlendur nel tentativo di calmarlo. "Voglio... che... se ne vada... fuori... di qui." Il direttore si accasciò su una sedia, prese il fazzoletto e cominciò ad asciugarsi il viso. "Rilassati, Ciccio" gli disse Stina. "È un pappone, lo sapevi?" "Un pappone?" Sul momento Erlendur non riuscì a comprendere il significato della parola. "Trattiene un tot a quelle che lavorano in albergo" chiarì Stìna. "Un tot?" ripete Erlendur. "Sì! Una percentuale! Si tiene una percentuale." "È una balla!" urlò il direttore. "Fuori, stronza di una puttana!" "Lui e il capo cameriere volevano prendersi più della metà" continuò Stina, risistemandosi con cura il seno, "e, quando mi sono rifiutata,, lui mi ha detto di andarmene e di non farmi più vedere." "Sta mentendo" ribadì il direttore, che si era calmato un poco. "Io le ho sempre cacciate, queste ragazze, lei compresa. Non vogliamo puttane in alArnaldur Indridason – La Voce
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bergo." "Il capo cameriere?" chiese Erlendur, visualizzando i suoi baffi sottili. Gli sembrava che si chiamasse Rósant. "Le ha sempre cacciate, sì, come no" sbottò Stina, voltandosi verso Erlendur. "Ma se è lui che ci telefona. Se sa che un ospite ci sta, oppure ha la grana, ci telefona e ci molla al bar. Dice che così l'albergo ci guadagna. Sono ospiti dei convegni, gente del genere. Stranieri. Uomini che si sentono soli. Se ci sono convegni importanti, ci chiama." "Siete in molte?" le chiese Erlendur. "Qualcuna, e forniamo un servizio di escort" gli spiegò Stìna. "Roba di classe, sai?" Era come se l'unica cosa di cui Stina andasse fiera, a parte le tette nuove, fosse essere una prostituta. "Non forniscono nessun servizio di escort, queste stronze" intervenne il direttore, che aveva ricominciato a respirare normalmente. "Bazzicano qui in albergo, al bar, e cercano di rimorchiare gli ospiti e farsi portare in camera. Inoltre mente quando dice che sono io a telefonare. Stronza di una troia, vaffanculo!" Erlendur ritenne che non fosse opportuno continuare la conversazione con Stina al bar e disse al responsabile della reception che avrebbe preso in prestito per un po' il suo ufficio, altrimenti potevano trasferirsi tutti alla centrale di polizia e continuare là. Il direttore sospirò profondamente e lanciò un'occhiataccia a Stìna. Erlendur l'accompagnò dal bar fino all'ufficio. Il direttore rimase seduto dov'era. Era come se avesse perso la boria di prima e, quando il responsabile della reception fece per aiutarlo ad alzarsi, lo allontanò con un gesto della mano. "Mente, Erlendur!" gli urlò il direttore alle spalle. "Mente su tutto!" Erlendur si sedette alla scrivania, mentre Stina rimase in piedi e si accese una sigaretta, come se per lei non valesse il divieto di fumare imposto in tutto l'albergo, tranne forse al bar. "Conoscevi Gudlaugur, il portiere dell'albergo?" le chiese. "Era molto gentile. Riscuoteva lui le percentuali per Ciccio. E poi è stato ammazzato." "Era..." "Credi che l'abbia fatto fuori Ciccio?" lo interruppe Stina. "È il peggior maiale che conosca. Sai perché non posso più lavorare in questo albergo del cazzo?" "No." "Non solo voleva prendersi la percentuale, ma voleva anche che noi ragazze... sai..." "Cosa?" "Che facessimo delle cosette per lui. Intime. Capisci, no?" "E quindi?" "Io mi sono rifiutata. E categoricamente, pure. Il sudore di quel porco... È schifoso. Potrebbe benissimo averlo ammazzato lui, Gudlaugur. Secondo me ne è capace eccome. Scommetto che gli si è seduto sopra." "E che rapporti avevi con Gudlaugur? Facevi delle cosette anche a lui?" "Assolutamente no. A lui non interessava." "Invece sì" disse Erlendur e si vide davanti il cadavere nello stanzino con i pantaloni abbassati. "Temo che non fosse del tutto disinteressato." "Per lo meno non ha mai dimostrato alcun interesse verso di me" precisò Stina, grattandosi con cautela sotto il seno. "E nemmeno verso le altre ragazze." "Il capo cameriere è coinvolto nel giro, insieme al direttore dell'albergo?" "Chi,Rósant? Sì." "E il responsabile della reception?" "Lui non ci vuole. Non vorrebbe squillo nell'albergo, ma sono gli altri due a decidere. Il responsabile Arnaldur Indridason – La Voce
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della reception voleva far licenziare Rósant, ma Ciccio ci guadagna troppo." "Dimmi un'altra cosa. Hai mai masticato tabacco? Sai, quello confezionato in una specie di bustina da te. Si tiene sotto le labbra, contro le gengive." "No, che schifo. Sei matto? Io ci tengo ai miei denti." "Conosci qualcuno che ne fa uso?" "No." Non dissero altro, finché Erlendur non riuscì a trattenersi dal farle la morale. Aveva in mente Èva Lind. Che era finita nel giro della droga e sicuramente si prostituiva per pagarsi le dosi, anche se era probabile che non andasse negli alberghi più eleganti della città. Pensò che doveva essere penoso per una donna vendere i propri favori a qualsiasi porco le si presentasse, in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento. "Perché lo fai?" le chiese, cercando di contenere al minimo il tono accusatorio della voce. "Il seno al silicone, gli ospiti dell'albergo. Perché?" "Èva Lind me l'aveva detto che l'avresti chiesto. Non cercare di capire" gli rispose e spense la sigaretta sul pavimento. "Non ci provare nemmeno." Poi alzò la testa e guardò fuori dalla porta aperta, nella hall. In quel momento stava passando Òsp. "Lavora ancora qui, quella?" domandò a Erlendur. "Chi, Òsp? La conosci?" Il cellulare cominciò a squillargli in tasca. "Credevo avesse smesso. Le ho parlato qualche volta, quando sono venuta qui." "Come fai a conoscerla?" "Così, andavamo insieme a..." "Non dirmi che era nel giro con te?" Erlendur prese il telefono, pronto a rispondere. "No" disse Stìna. "Lei non è come il suo fratellino." "Il suo fratellino? Perché, ha un fratello?" "Sì, ed è più troia di me." Erlendur fissava Stina, cercando di capire cosa gli aveva appena detto sul fratello di Òsp. Lei non si era mossa, incerta sul da farsi. "Cosa c'è? Qualcosa che non va?" gli chiese. "Non hai intenzione di rispondere al telefono?" "Perché credevi che Òsp non lavorasse più qui?" "Così, perché è un lavoro di merda." Alla fine Erlendur rispose, distrattamente. "Era ora" esordì Elìnborg. Lei e Siguròur Òli erano stati ad HafnarfjòrSur e volevano portare la sorella di Gudlaugur alla centrale di polizia di Reykjavik per l'interrogatorio, ma lei si rifiutava di seguirli. Aveva chiesto una spiegazione, invano, e infine aveva detto di non poter lasciare suo padre da solo sulla sedia a rotelle. I due agenti si erano offerti di fornirle assistenza e l'avevano anche invitata a chiamare un avvocato, che avrebbe potuto assistere all'interrogatorio, ma era come se la donna non si rendesse conto della gravità della situazione. Di andare alla centrale, non voleva nemmeno sentirne parlare. Pur contro il volere di Siguròur Òli, Elinborg aveva provato a suggerire un compromesso: l'avrebbero portata in albergo da Erlendur e, solo dopo aver parlato con lui, avrebbero preso una decisione riguardo al passo successivo. La donna ci aveva pensato su. Siguròur Òli stava perdendo la pazienza e voleva portarla via con la forza, poi però lei aveva acconsentito. Aveva telefonato a una vicina di casa, che era arrivata subito, evidentemente abituata a badare al Arnaldur Indridason – La Voce
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vecchio in caso di necessità. Ma all'ultimo momento si era opposta di nuovo, facendo saltare i nervi a Siguròur Òli. "La sta portando da te" gli spiegò Elìnborg al telefono. "Avrebbe preferito di gran lunga sbatterla in prigione. Ci ha chiesto più volte perché la polizia voleva parlare con lei, e non ci ha creduto quando le abbiamo detto che non lo sapevamo. Ma perché vuoi vederla, si può sapere?" "È stata in albergo qualche giorno prima che suo fratello fosse ucciso, invece a noi aveva detto che non lo vedeva da anni. Devo sapere perché non ci ha avvisato, perché sta mentendo. Voglio proprio vedere che faccia farà." "Potrebbe essere un po' irritata" lo avvertì Elinborg. "Siguròur Òli non era molto contento di come si è comportata." "Cos'è accaduto?" "Te lo dirà lui." Erlendur spense il telefono. "Che vuoi dire, che questo ragazzo è più troia di te?" domandò poi a Stìna, che stava guardando dentro l'astuccio nero, indecisa se le andava un'altra sigaretta oppure no. "Che stavi dicendo a proposito del fratello di Òsp?" "Come?" "Hai detto che il fratello di Òsp è più troia di te." "Chiedilo a lei." "Lo farò, però... è il suo fratello minore, hai detto?" "Sì, ed è pure bi." "Bi? Vuoi dire..." "Sì, bisessuale." "Quindi si vende?" le chiese Erlendur. "Come te?" , "Ci puoi giurare. E un tossico. C'è sempre qualcuno a cui deve dei soldi e che lo cerca per pestarlo." "E Òsp? Come fai a conoscerla?" "Andavamo a scuola insieme. Anche lui, ha solo un anno in meno. Io e Òsp abbiamo la stessa età, eravamo in classe insieme. Ma lei non è tanto intelligente." Stìna si picchiettò la testa con un dito. "Ha la segatura, qui dentro" disse. "Ha smesso dopo gli esami. L'hanno bocciata in tutte le materie. Io, invece, li ho passati. Ho finito le superiori." Il viso di Stìna si distese in un sorriso. Erlendur la squadrò. "So che sei amica di mia figlia, e mi sei stata d'aiuto, ma non dovresti fare paragoni con Òsp. Intanto lei non si gratta i punti sotto il seno." Stìna lo guardò e fece un altro largo sorriso, poi uscì dall'ufficio in silenzio, attraversando la hall. Mentre se ne andava, si buttò sulle spalle il cappotto con il collo di pelliccia, ma adesso i suoi movimenti mancavano di dignità. Incrociò Siguròur Òli e la sorella di Gudlaugur, ed Erlendur vide lo sguardo del collega fissarsi sulle sue tette. Pensò che di sicuro aveva speso bene i suoi soldi, dopo tutto. Il direttore dell'albergo era rimasto a distanza, come volesse aspettare che l'incontro con Stìna si concludesse. Òsp si trovava accanto agli ascensori e la osservò uscire. Dalla sua espressione, era chiaro che la conosceva. Quando la ragazza passò davanti al responsabile della reception, che stava dietro al banco, l'uomo alzò la testa e la seguì con lo sguardo mentre usciva dal portone. Poi cercò il direttore, che arrancava verso la cucina, e Òsp sparì nell'ascensore che si richiuse alle sue spalle. "Che significa questa storia, posso chiederglielo?" Erlendur sentì la sorella di Gudlaugur rivolgersi a lui mentre gli si avvicinava. "Perché tanta prepotenza Arnaldur Indridason – La Voce
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e maleducazione?" "Prepotenza e maleducazione?" ripetè Erlendur in tono interrogativo. "Non mi pare di aver notato niente del genere." "Quest'uomo" disse la donna, che chiaramente non sapeva come si chiamasse Siguròur Òli, "è stato maleducato con me e voglio che mi chieda scusa." "Non se ne parla nemmeno" rispose Siguròur Òli. "Mi ha spinto e portato fuori da casa mia come un criminale comune." "Le ho messo le manette" spiegò Siguròur Òli. "E non le chiederò scusa. Se lo può scordare. Mi ha rivolto le peggiori offese, sia a me sia a Elìnborg, e ha opposto resistenza. Voglio sbatterla in galera. Ha intralciato le indagini della polizia." La donna guardò Erlendur in silenzio. L'agente sapeva che si chiamava Stefania, e si chiese che soprannome le avessero dato da bambina. "Non sono abituata a essere trattata in questo modo" concluse. "Portala in centrale" ordinò Erlendur a Siguròur Òli. "Mettila in cella vicino a Henry Wapshott. Le parleremo domattina." Poi si voltò a guardare la donna. "O dopodomani." "Non può farlo" gli disse Stefania, ed Erlendur comprese che era stata colta alla sprovvista. "Non ha alcun motivo per trattarmi in questo modo. Perché crede di potermi sbattere in prigione? Che cos'ho fatto?" "Ha mentito" replicò Erlendur. "Arrivederci. Noi due ci aggiorniamo" disse congedandosi da Siguròur Òli. Poi voltò loro le spalle e si avviò verso il direttore. Siguròur Òli afferrò Stefania per i polsi, pronto a uscire, ma lei rimase immobile a guardare Erlendur allontanarsi. "D'accordo" lo richiamò, cercando di liberarsi dalla stretta dell'agente. "Non c'è bisogno. Possiamo sederci e parlarne come due persone civili!" Erlendur si fermò e si voltò. "Parlare di che cosa?" "Di mio fratello. Parleremo di mio fratello, come vuole lei. Ma non so cosa crede di ricavarne." Si sedettero nello stanzino di Gudlaugur. Era stata la donna a volerci andare. Quando Erlendur le chiese se ci era già stata, disse di no. Quando le chiese se non aveva mai incontrato suo fratello in tutti quegli anni, la donna ripetè quello che aveva detto in precedenza, ovvero che non aveva mai avuto contatti con lui. Erlendur era certo che stesse mentendo e che la faccenda che aveva da sbrigare in albergo cinque giorni prima dell'omicidio fosse collegata a lui, non poteva essere una semplice coincidenza. La donna guardò il poster di Shirley Temple nel ruolo della piccola principessa appeso alla parete e non mostrò alcuna reazione, né disse una sola parola. Aprì l'armadio e vide l'uniforme da portiere. Infine si sedette sull'unica sedia che c'era ed Erlendur rimase in piedi vicino all'armadio. Siguròur Òli aveva un appuntamento ad Hafnarfjòròur con altri compagni di scuola di Gudlaugur, così sparì non appena furono scesi nel seminterrato. "È morto qui, allora" disse la donna senza tradire alcuna emozione nella voce, ed Erlendur si chiese, come già durante il loro primo incontro, perché non sembrava provare il minimo sentimento verso il fratello. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Pugnalato al cuore" precisò. "Probabilmente con un coltello da cucina" aggiunse. C'era ancora del sangue sul letto. "È incredibile, questo stanzino è così spoglio" rimarcò la donna, guardandosi intorno. "Abitare qui dentro per tanti anni... Ma cos'aveva in testa, mio fratello?" "Speravo che lei potesse aiutarmi." La donna lo guardò in silenzio. "Non lo so" continuò Erlendur. "Avrà deciso che gli bastava. C'è gente che è capace di abitare da sola in ville di cinquecento metri quadri. Mi pare che abitare e lavorare in albergo avesse i suoi vantaggi. Godeva di svariati benefici." "Avete trovato l'arma del delitto?" "No, ma forse è qualcosa di simile a un coltello da cucina, come le dicevo" le spiegò. Poi tacque e attese che la donna dicesse qualcosa, ma invano, e passò del tempo prima che si decidesse a rompere il silenzio. "Perché sostiene che le abbia mentito?" "Non so quanto c'è di vero e di falso in quel che racconta, ma sono convinto che non mi stia dicendo tutto quello che sa. No, non mi sta dicendo la verità. In effetti non sta dicendo proprio niente, e sono molto stupito dalla reazione sua e di suo padre alla notizia della morte di Gudlaugur. È come se non c'entrasse nulla con voi." La donna lo guardò a lungo, poi sembrò aver preso una decisione. "C'erano tre anni di differenza fra noi" riprese all'improvviso, "e, anche se ero piccola, ricordo benissimo la prima volta che i miei lo portarono a casa. È uno dei primi ricordi della mia vita, credo. E' sempre stato il prediletto di mio padre, fin dal primo giorno. Gli era molto legato, e penso che si fosse sempre aspettato grandi cose da lui. Non fu un'ambizione che gli venne in seguito, spontaneamente, col passare degli anni, come forse accade in genere; no, nostro padre aveva sempre avuto in mente grandi cose per Gudlaugur, quando fosse cresciuto." "E nei suoi confronti?" le chiese Erlendur. "Non riteneva un genio anche lei?" "È sempre stato buono con me" rispose, "ma adorava Gudlaugur." "E con lui si è ostinato, finché non è crollato." "Lei vuole semplificare le cose, ma non sempre funziona. Pensavo che un uomo come lei, un agente di polizia, se ne rendesse conto." "Non mi pare che stiamo parlando di me" ribadì Erlendur. "No, certo che no." "Come ha fatto Gudlaugur a finire in questo stanzino, come se fosse stato abbandonato? Perché avete covato tanto odio verso di lui? Posso sforzarmi di capire suo padre, visto che ci ha rimesso la salute per causa sua, ma non capisco perché lei abbia preso una posizione tanto rigida nei suoi confronti." "Rimesso la salute?" ripetè la donna, guardando Erlendur sorpresa. "Ma sì, quando Gudlaugur l'ha spinto giù per le scale. L'ho sentita, questa storia." "Chi gliel'ha raccontato?" "Non ha importanza. È vero? E per colpa di Gudlaugur se suo padre è rimasto paralizzato?" "Credo che questo non la riguardi." "Sicuramente no, a meno che non abbia rilevanza per le indagini. Allora temo che riguardi anche altre persone, non solo voi." Stefania tacque e guardò il sangue sul letto, allora Erlendur si chiese perché avesse voluto Arnaldur Indridason – La Voce
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parlargli nello stanzino dove suo fratello era stato ucciso. Stava valutando l'eventualità di chiederglielo, ma poi non ci riuscì. "Non può essere sempre stato così" disse invece. "Lei aiutò suo fratello sul palco al Bsejarbió, quando cambiò voce. Un tempo eravate legati. Un tempo era suo fratello." "Come sa cos'è accaduto al Basjarbìó? Da dove l'ha tirata fuori questa storia? Con chi ha parlato?" "Stiamo raccogliendo informazioni. La gente di HafnarfjòrSur ricorda perfettamente quell'episodio. Una volta, da bambini, lei teneva a suo fratello." Stefania tacque. "È stato un incubo" ammise infine. "Un incubo terribile." A casa loro ad Hafnarfjòrdur nutrivano tutti grandi aspettative il giorno in cui avrebbe cantato al Beejarbió, c'era tensione nell'aria. Lei si svegliò presto, preparò la colazione e pensò a sua madre: sentiva di avere assunto il suo ruolo in famiglia e ne andava fiera. Suo padre le diceva sempre quant'era brava a badare a loro due da quando la mamma era morta. E poi si comportava da adulta e responsabile in tutto quello che faceva. Per il resto, non diceva niente, la ignorava. L'aveva sempre ignorata. Le mancava, sua madre. Una delle ultime cose che le aveva detto in ospedale era stata di occuparsi di suo padre e di suo fratello. Non poteva deluderli. Promettimelo, le aveva chiesto. Non sarà sempre facile. No, non era stato sempre facile. Tuo padre è testardo e inflessibile, e non so se Gudlaugur è in grado di farcela. Se ce ne sarà bisogno, dovrai stare dalla parte di tuo fratello; promettimi anche questo, aveva detto sua madre, e lei aveva annuito. Poi si erano tenute per mano finché sua madre non si era addormentata e allora lei le aveva accarezzato i capelli e l'aveva baciata sulla fronte. Due giorni dopo era morta. "Lasciamo dormire Gudlaugur ancora un po'" disse suo padre, scendendo in cucina. "È un giorno importante per lui." Sì, è un giorno importante. Per lui. Non ricordava che ci fosse stato un giorno importante anche per lei. Tutto girava intorno Gudlaugur. Il canto. Le incisioni. I due dischi che erano usciti. La tournée nei paesi scandinavi. I concerti ad Hafnarfjórour. Il concerto al Basjarbió quella sera. La sua voce. Quando si esercitava al canto, lei doveva girare per casa di soppiatto per non disturbarli se il fratello era in soggiorno accanto al pianoforte e suo padre suonava. Lui lo correggeva, lo incitava e gli dimostrava affetto e comprensione quando pensava di non essere abbastanza bravo, oppure decisione e fermezza se riteneva che non si fosse concentrato a sufficienza. A volte perdeva la pazienza e lo rimproverava. A volte lo abbracciava e gli diceva che era straordinario. Se avesse ricevuto anche solo un frammento di quelle attenzioni e dell'incoraggiamento che ogni giorno spettavano a suo fratello perché aveva una bella voce... Sentiva di non contare nulla, perché non aveva alcun talento che interessasse a suo padre. A volte le diceva che era un peccato che non avesse voce. Credeva fosse inutile insegnarle a cantare, ma lei sapeva che non era vero. Arnaldur Indridason – La Voce
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Sapeva che suo padre non aveva voglia di sprecare energie con lei perché non aveva una voce particolare. Non aveva il talento di suo fratello. Era in grado di cantare in un coro e di strimpellare il pianoforte, ma sia suo padre sia l'insegnante di piano, dal quale l'aveva mandata perché non aveva tempo per prepararla personalmente, dicevano che mancava del tutto di sensibilità musicale. Suo fratello, invece, aveva una voce bellissima e una profonda sensibilità musicale, però era pur sempre un bambino normale, come lei, del resto. Non capiva cosa li rendesse tanto diversi l'uno dall'altra. Gudlaugur non era diverso da lei. L'aveva cresciuto lei, in un certo senso, soprattutto dopo che la madre si era ammalata. Lui le obbediva e la rispettava e faceva tutto quel che diceva. Anche lei gli voleva bene allo stesso modo, ma era anche gelosa quando lo ricoprivano di lodi. Questa sensazione la spaventava, e non ne parlava con nessuno. Sentì Gudlaugur scendere le scale, poi entrò in cucina e si sedette accanto a suo padre. "Proprio come la mamma" disse, quando vide sua sorella versare il caffè nella tazza di papà. Parlava spesso della madre, e Stefania sapeva che anche a lui mancava moltissimo. Quando qualcosa andava male o lo prendevano in giro a scuola, o quando suo padre perdeva la pazienza, o anche solo quando aveva bisogno che qualcuno lo abbracciasse, e non come premio speciale perché aveva cantato bene, si era sempre rivolto a lei. In casa le aspettative e la tensione erano alle stelle, fin dalla mattina, e verso sera, quando indossarono i loro abiti migliori e andarono al Bsejarbió, si fecero quasi intollerabili. Seguirono Gudlaugur dietro le quinte, suo padre salutò il direttore del coro, infine si infilarono in platea, che si stava riempiendo di spettatori. Voi si fece buio in sala. Si aprì il sipario. Gudlaugur, piuttosto alto per la sua età, bello e particolarmente risoluto sul palco, finalmente cominciò a cantare con la sua bella voce bianca da soprano. Lei trattenne il respiro e chiuse gli occhi. Non si rese conto di nulla, finché suo padre non le afferrò il braccio con tanta forza da farle male, e lo sentì sospirare: "Oh, mio Dio santissimo!" Allora aprigli occhi e lo vide pallidissimo e poi, quando alzò lo sguardo sul palco, si accorse che Gudlaugur cercava di cantare, ma c'era qualcosa che non andava nella sua voce. Era come se gorgheggiasse. Si alzò in piedi e si guardò intorno in sala, si voltò e vide che gli spettatori sorridevano, alcuni ridevano. Corse sul palco da suo fratello e cercò di portarlo via. Il direttore del coro si avvicinò per aiutarla e insieme tentarono di trascinarlo dietro le quinte. Vide suo padre fermo nello stesso punto in prima fila che la fissava come fulminato. Quando si addormentò, quella sera, e ripensò a quel momento terribile, il cuore le balzò in gola, non per paura o terrore per quanto era accaduto, o per come doveva sentirsi suo fratello, ma perché provava una misteriosa Arnaldur Indridason – La Voce
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soddisfazione che non sapeva spiegare e che soffocava dentro di sé come un crimine orrendo. "Si è mai sentita in colpa per avere formulato questi pensieri?" le chiese Erlendur. "Fino ad allora mi erano completamente estranei" rispose Stefania. "Non avevo mai provato niente di simile, prima." "Credo non ci sia niente di anormale nel gioire per le sconfitte altrui, anche se sono persone a noi care. Può essere una reazione involontaria, una sorta di meccanismo di difesa quando dobbiamo affrontare uno shock." "Forse non avrei dovuto raccontarle i fatti così nei dettagli. Non si sarà certo fatto un'immagine molto gradevole di me. E forse ha ragione lei. Abbiamo subito tutti uno shock. Uno shock terribile, come potrà ben immaginare." "Dopo questo episodio, com'è stato il rapporto fra Gudlaugur e suo padre?" le chiese Erlendur. "Lei sa cosa vuol dire non essere il preferito di nessuno?" gli domandò invece Stefania. "Cosa significa essere mediocri e non ricevere mai alcuna attenzione? E come non esistere. Ti danno tutti per scontato, nessuno ti considera né ti mostra alcun riguardo particolare. E invece c'è sempre qualcuno, che tu però consideri al tuo livello, che viene protetto come se fosse il prescelto, venuto al mondo per dare infinita gioia ai genitori e al resto del mondo. Lo guardi, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, anno dopo anno, e niente cambia, mai, anzi, col tempo l'ammirazione per lui cresce e diventa quasi... quasi una forma di adorazione." Alzò la testa e guardò Erlendur. "Tutto ciò non può che generare gelosia" continuò. "Sarebbe inumano, altrimenti. E ti rendi conto solo quando è troppo tardi che invece di soffocarla l'hai alimentata, perché ti fa sentire meglio." "È la spiegazione che si è data per aver gioito del fallimento di suo fratello?" "Non lo so" ammise Stefania. "Era una sensazione che andava al di là del mio controllo. Mi è piovuta addosso come un secchio d'acqua fredda, e io rabbrividivo, tremavo e cercavo di allontanarla, ma non se ne voleva andare. Non credevo potesse accadere proprio a me." Rimasero in silenzio. "Invidiava suo fratello" riprese Erlendur. "Forse sì, almeno per un certo periodo. Poi ho cominciato a provare pena per lui." "E infine a odiarlo." La donna lo guardò. "Che ne sa lei dell'odio?" gli chiese. "Non molto" rispose Erlendur. "Ma so che può essere pericoloso. Perché ci ha detto che non ha mai avuto contatti con suo fratello in quasi trent'anni?" "Perché è così." "Non è vero" insisté Erlendur. "Sta mentendo. Perché?" "Mi vuole mandare in galera perché ho mentito?" "Se serve, sì. Sappiamo che è stata qui cinque giorni prima che Gudlaugur venisse ucciso. Ci ha detto che per anni non aveva avuto alcun contatto con suo fratello. E poi scopriamo che è venuta in albergo qualche giorno prima della sua morte. Che voleva Arnaldur Indridason – La Voce
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da lui? E perché ci ha mentito?" "Magari ci sono stata per altri motivi, non necessariamente per incontrare lui. È un grande albergo. Non le è mai venuto in mente?" "Ne dubito. Non credo sia una coincidenza che lei sia stata qui poco prima della sua morte." L'agente notò che la donna tergiversava. Stava meditando se fare o meno il passo successivo. Era lampante che si fosse preparata a dare una spiegazione più precisa di quanto era accaduto durante il loro primo incontro, e adesso era arrivato il momento di decidere se continuare o tirarsi indietro. "Lei aveva una chiave" disse a voce così bassa che Erlendur la sentì a malapena. "L'ha mostrata a me e a mio padre." Erlendur ricordò il portachiavi che era stato trovato nella stanza di Gudlaugur con appeso il coltellino tascabile rosa e la figura di un pirata. C'erano due chiavi, una che secondo lui apriva la porta di un appartamento e l'altra che poteva essere di un baule, un armadietto o una cassa. "Che c'entra la chiave?" le chiese. "L'ha riconosciuta? Sa cosa apre?" "Ne ho una identica." "Che chiave è?" "Della casa di HafnarfjòrSur." "Cioè di casa sua?" "Sì" confermò Stefania. "Dove viviamo io e mio padre. Apre la porta del seminterrato sul retro. Da lì parte una scala stretta che conduce al pianterreno, da cui poi si accede al soggiorno e alla cucina." "Vuol dire..." Erlendur cercò di afferrare il significato di quanto la donna gli aveva appena detto. "Mi sta dicendo che era entrato in casa?" "Sì." "Che era entrato dentro casa vostra?" "Sì." "Credevo non ci fossero stati contatti fra di voi. Ha detto che lei e suo padre non avevate avuto a che fare con lui per decine di anni. Che non avevate rapporti, insomma. Perché allora ci ha mentito?" "Perché papà non lo sapeva." "Non sapeva cosa?" "Che era venuto a casa. Deve aver sentito la nostra mancanza. Non gliel'ho chiesto, ma dev'essere l'unica spiegazione possibile." "Che cosa non sapeva suo padre, esattamente?" "Che Gudlaugur a volte veniva a casa nostra, di notte, senza che ce ne accorgessimo, si sedeva in soggiorno senza far rumore e poi spariva prima che ci svegliassimo. L'ha fatto per anni a nostra insaputa." Guardò la macchia di sangue sul letto. "Finché una notte non mi sono svegliata e l'ho visto." Erlendur osservava Stefania, le parole della donna gli turbinavano in testa. Non era più tanto altezzosa come durante il loro primo incontro, quando era rimasto indignato per la sua insensibilità nei confronti del fratello, e pensò che forse era stato troppo precipitoso nel giudicarla. Non conosceva abbastanza bene né lei né la sua storia per pontificare, e all'improvviso rimpianse di averla bollata come una persona insensibile. Non era da lui giudicare gli altri, anche se continuava a ricadere nello stesso errore. In realtà non sapeva niente della donna che gli stava davanti e che all'improvviso si era intristita e gli sembrava terribilmente sola. Si rese conto che la sua vita non doveva certo essere stata tutta rose e fiori, prima una bambina all'ombra del fratello, poi una ragazza senza madre e infine una donna che non si Arnaldur Indridason – La Voce
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allontanava mai dal padre e che, con ogni probabilità, aveva sacrificato l'intera vita per lui. Rimasero così a lungo, ciascuno immerso nei propri pensieri. La porta dello stanzino era aperta, ed Erlendur uscì. A un tratto volle assicurarsi che nessuno stesse origliando. Guardò lungo il corridoio poco illuminato, ma non vide nessuno. Si voltò verso l'altra estremità e guardò in fondo; regnava il buio più totale. Pensò che chiunque fosse sceso fin lì, sarebbe dovuto passare davanti alla porta dello stanzino, e lui se ne sarebbe accorto. In corridoio non c'era nessuno. Eppure, quando rientrò nella stanza, ebbe la netta sensazione che non fossero soli. C'era lo stesso odore di quando aveva percorso quel corridoio la prima volta, un odore di bruciato che però non riconosceva. Non si sentiva a suo agio in quel posto. L'immagine di com'era stato ritrovato il corpo gli si era incisa nella memoria, e più scopriva nei dettagli la storia dell'uomo con il costume da Babbo Natale, più l'immagine che conservava nella mente diventava terribile, e sapeva che non se ne sarebbe mai liberato. "Qualcosa non va?" gli chiese Stefania, che era seduta immobile sulla sedia. "No, no, tutto a posto" rispose Erlendur. "Era solo una sciocchezza, ma mi sembrava che ci fosse qualcuno in corridoio. Non dovremmo andarcene? Magari possiamo prenderci un caffè." Lei si guardò intorno, poi annuì e si alzò. Percorsero in silenzio il corridoio, salirono le scale e attraversarono la hall per entrare al bar, dove Erlendur ordinò due caffè. Si sedettero in disparte, cercando di ignorare il chiacchiericcio dei turisti stranieri. "Mio padre non sarebbe molto contento di me, adesso" iniziò Stefania. "Mi ha sempre proibito di parlare della famiglia. Non sopporta intrusioni nella sua vita privata." "Sta bene?" "E' in gamba, data l'età. Ma non so..." Le parole svanirono a poco a poco. "Non esiste una vita privata, quando c'è di mezzo un'indagine di polizia" replicò Erlendur. "Figuriamoci poi se è stato commesso un omicidio." "Sì, comincio a rendermene conto. Volevamo liberarci di questo problema come se non ci riguardasse, ma suppongo che in circostanze terribili come questa nessuno sia privo di responsabilità. Non penso sia il nostro caso." "Se ho capito bene" continuò Erlendur, "lei e suo padre avevate tagliato i ponti con Gudlaugur, tuttavia lui si intrufolava in casa vostra di notte senza farsi vedere. Che cosa lo spingeva a farlo? Che faceva? Perché si comportava così?" "Non mi ha mai dato una risposta soddisfacente. Rimaneva seduto in soggiorno e basta, per un'ora o due, senza farsi sentire. Altrimenti mi sarei accorta di lui molto prima. Veniva varie volte all'anno, per diversi anni. Non tutte le notti, no. Poi una volta, circa due anni fa, non riuscivo a dormire per non so più quale motivo, e verso le quattro del mattino mi sembrò di sentire un rumore di sotto e mi spaventai. La camera di mio padre è al pianterreno e di notte la sua porta è sempre aperta, quindi pensai che forse stesse cerArnaldur Indridason – La Voce
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cando di richiamare la mia attenzione. Poi sentii un altro rumore e mi chiesi se non fosse entrato un ladro, così scesi dalle scale di soppiatto. Vidi che la porta della camera di mio padre era come l'avevo lasciata, ma quando misi piede nell'ingresso notai qualcuno precipitarsi giù dalle scale, e gli urlai qualcosa. Terrorizzata, vidi che si fermava, si voltava e poi risaliva." Stefania fece una pausa e guardò fisso davanti a sé, come se si stesse perdendo nel tempo e nello spazio. "Credevo che volesse aggredirmi" proseguì infine. "Rimasi sulla porta della cucina e accesi la luce, così me lo ritrovai davanti. Erano anni che non lo vedevo in faccia, da quando era un ragazzo, e impiegai un po' di tempo per rendermi conto che era mio fratello." "Come ha reagito?" le chiese Erlendur. "Quando mi resi conto che era lui, rimasi di sasso. Ero anche molto spaventata, perché se fosse stato un ladro avrei dovuto chiamare subito la polizia, invece tremavo dalla paura e quando accesi la luce e lo vidi in faccia lanciai un urlo. Devo essergli sembrata molto buffa, così impaurita e tesa, perché si mise a ridere." "Non svegliare papà" disse, portando un dito alle labbra per zittirla. La donna non credeva ai suoi occhi. "Sei tu ?" esclamò. Era molto diverso dall'immagine che aveva conservato di lui quand'era giovane, e si accorse che era invecchiato male. Aveva occhiaie profonde, labbra sottili incolore e ciuffi, di capelli spettinati, e la guardava con occhi intensamente addolorati, le venne quasi automatico calcolare quanti anni avesse. Sembrava molto più vecchio di lei. "Che ci fai qui?" gli sussurrò. "Niente. Non sto facendo niente. Solo che qualche volta ho voglia di tornare a casa." "È stata l'unica spiegazione che mi diede sul perché qualche volta veniva a casa e si sedeva in soggiorno di notte senza far rumore" disse Stefania. "Aveva voglia di tornare a casa, tutto qui. Non so cosa intendesse, se aveva a che vedere con la sua infanzia, quando la mamma era viva, oppure se si riferiva agli anni prima di spingere papà giù dalle scale. Non lo so. Forse la casa in sé significava molto per lui, visto che non ne ha mai avuta una, a parte uno stanzino sporco nel seminterrato di quest'albergo." "Dovresti andartene" gli suggerì. "Potrebbe svegliarsi." "Sì, lo so" rispose. "Lui come sta? Tutto a posto?" "Se la passa bene. Però ha bisogno di costante assistenza. Bisogna imboccarlo, lavarlo, vestirlo, portarlo fuori e metterlo seduto davanti alla televisione. Gli piacciono i cartoni animati." "Non sai quanto mi faccia star male tutto questo" ammise. "Da anni. Non volevo che andasse così. È stato tutto un enorme sbaglio." "Sì, lo so." "Non ho mai desiderato diventare famoso. Era il suo sogno, non il mio. L'unica cosa che dovevo fare era realizzarglielo." Poi tacquero. "Chiede mai di me?" "No" rispose la donna. "Mai. Ho cercato di convincerlo Arnaldur Indridason – La Voce
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a parlare di te, ma non vuole nemmeno sentirti nominare." "Mi odia ancora." "Credo che non gli passerà mai." "È per quello che sono. Non mi sopporta per quello che sono." "C'è qualcosa fra voi due che..." "Avrei fatto qualsiasi cosa per lui, lo sai." "Sì." "Sempre." "Sì." "Le ambizioni che nutriva nei miei confronti, gli esercizi infiniti, i concerti, le incisioni: erano cose che sognava lui, non io. Ma era felice, e questo mi bastava." "Lo so." "Perché non riesce a perdonarmi? Perché non mi accetta? Mi manca. Glielo dirai? Mi mancano i momenti in cui stavamo insieme. Quando cantavo per lui. Siete la mia famiglia." "Cercherò di parlargli." "Lo farai? Gli dirai che sento la sua mancanza?" "Lo farò." "Non mi sopporta per quello che sono." Stefania tacque. "Forse è stato un modo per ribellarmi a lui. Non lo so. Ho cercato di nasconderlo, ma non potevo costringermi a essere diverso da come sono." "Adesso è meglio che vada." "Sì." Gudlaugur esitò ancora un attimo. "E tu?" le chiese. "E io, cosa?" "Mi odi anche tu?" "Dovresti andare. Potrebbe svegliarsi." "Perché la situazione in cui ti trovi è tutta colpa mia. Il fatto che devi pensare sempre a lui. Dovresti..." "Vai" gli intimò. "Perdonami." "Dopo che se ne fu andato di casa, a seguito dell'incidente, che cosa accadde?" le domandò Erlendur. "L'avete cancellato come se non fosse mai esistito?" "Più o meno. So che papà ascoltava i suoi dischi, qualche volta. Non voleva che lo sapessi, ma me ne accorgevo quando rincasavo dopo il lavoro. Dimenticava di rimettere a posto la custodia o di togliere il disco dal piatto. Di tanto in tanto avevamo sue notizie, e molti anni fa abbiamo letto una sua intervista su un giornale. Si parlava di ex bambini prodigio. Dove sono finiti? era intitolato, o qualcosa di altrettanto tremendo. Il giornale era riuscito a rintracciarlo, e lui sembrava propenso a parlare della fama di cui godeva un tempo. Non so perché si mettesse a nudo a quel modo. Nell'intervista non disse molto riguardo all'epoca in cui era al centro dell'attenzione, solo che si era divertito." "Dopo tutto c'è ancora qualcuno che si ricorda di lui. Non è stato dimenticato completamente." "Qualcuno che ricorda c'è sempre." "Nel giornale, quindi, non parlava degli episodi di bullismo a scuola e delle ambizioni del padre, della morte della madre e di come le speranze, che suppongo suo padre abbia alimentato, non si siano mai realizzate, o di quando è stato cacciato di casa?" "Che ne sa lei degli episodi di bullismo a scuola?" "Sappiamo che veniva preso in giro perché era considerato un po' diverso. Non è vero?" "Credo che mio padre non abbia alimentato alcuna aspettativa. È un uomo molto concreto e realista. Non so perché ne parla in questo modo. Per un certo periodo sembrava che mio fratello avrebbe potuto far strada, che avrebbe cantato all'estero e che si sarebbe fatto notare anche al di fuori della nostra piccola comunità. Mio padre glielo fece capire, ma credo gli abbia detto anche che servivano molto impegno, dedizione e talento, e che comunque non doveva farsi troppe illusioni. Arnaldur Indridason – La Voce
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Non deve pensare che mio padre sia uno stupido." "Tutt'altro" la rassicurò Erlendur. "Bene." "E in tutto questo tempo Gudlaugur non ha mai cercato di mettersi in contatto con voi? O viceversa?" "No. Credo di aver già risposto a questa domanda, prima. A parte il fatto che a volte si introduceva in casa nostra senza che ce ne accorgessimo. Mi disse di averlo fatto per anni." "E voi non l'avete mai cercato?" "No." "Era molto legato a sua madre?" le chiese poi. "Non vedeva altri che lei." "È stata una tragedia per lui." "Lo è stata per tutti." Stefania emise un profondo sospiro. "Quando se n'è andata, credo sia morto qualcosa dentro ognuno di noi. Quel qualcosa che ci rendeva una famiglia. Temo di essermene resa conto solo molto tempo dopo che era lei a tenerci uniti, a creare un equilibrio. Non erano d'accordo riguardo a Gudlaugur, lei e papà, e litigavano per la sua educazione, se quelli si potevano definire litigi. Lei voleva lasciargli la libertà di poter essere se stesso: anche se cantava bene, non era il caso di fare tante storie." Guardò Erlendur. "Credo che nostro padre considerasse Gudlaugur più che altro la sua missione nella vita, un qualcosa da modellare e plasmare." "E lei? Che ne pensava, lei?" "Io? Non è mai stata chiesta la mia opinione a riguardo." Poi tacquero e rimasero ad ascoltare il brusio nel locale e a osservare i turisti stranieri che parlavano e ridevano fra loro. Erlendur guardò Stefania, pareva chiusa in se stessa, nel ricordo della sua fragile vita famigliare. "È coinvolta in qualche modo nella morte di suo fratello?" le chiese con cautela. La donna sembrò non aver sentito, così le ripetè la domanda. Lei alzò lo sguardo. "Assolutamente no" rispose. "Vorrei tanto che fosse ancora vivo, almeno potrei..." Stefania tacque. "Potrebbe cosa?" "Non lo so, magari rimediare..." Tacque di nuovo. "È stato tutto così terribile. Tutto. All'inizio erano solo dettagli insignificanti, poi si sono ingigantiti a dismisura finché sono diventati ingestibili. Non lo sto giustificando perché ha spinto mio padre dalle scale. Ma quando uno prende una posizione, poi non fa niente per cambiarla. Perché non vuole, credo. E il tempo passa, gli anni passano, finché poi si dimentica la sensazione, il motivo che aveva scatenato tutto quanto, e io ho dimenticato, di proposito o meno, le occasioni che avrei avuto per rimediare a quanto era andato storto, e poi a un tratto è stato troppo tardi. Sono passati tanti anni e..." La donna sospirò profondamente. "Cosa accadde dopo che lo trovò in cucina?" "Parlai con papà. Non voleva saperne di Gulli, e così la questione venne chiusa. Non gli raccontai delle visite notturne. Qualche volta provai a parlargli di una possibile riconciliazione. Gli dissi di aver incontrato Gulli per strada e che voleva rivederlo, ma lui era irremovibile." "Suo fratello non è più tornato a casa vostra?" "Non che io sappia" rispose Stefania. Arnaldur Indridason – La Voce
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Poi guardò Erlendur. "È successo due anni fa, e quella è stata l'ultima volta che l'ho visto." Stefania si alzò e fece per andarsene. Era come se avesse detto tutto quello che doveva dire. Eppure Erlendur aveva la sensazione che avesse scelto di far trapelare solo una parte di ciò che sapeva e che si fosse tenuta ben altro per sé. Si alzò anche lui, chiedendosi se per il momento era meglio lasciar perdere o se doveva insistere. Decise di far condurre il gioco a lei. Era molto più disposta di prima a collaborare, e questo gli bastava. Ma non riuscì a trattenersi dal sottoporle l'enigma a cui non trovava risposta e che lei stessa non gli aveva chiarito. "Posso capire che suo padre sia arrabbiato con lui da una vita, per via dell'incidente" iniziò. "E che lo abbia incolpato per l'invalidità che da allora lo costringe su una sedia a rotelle. È lei che non riesco proprio a capire, invece. Perché ha reagito così. Perché si è schierata al fianco di suo padre. Perché ha voltato le spalle a suo fratello in questo modo e non ha mai avuto contatti con lui per tutti questi anni." "Credo di esserle già stata sufficientemente d'aiuto" rispose Stefania. "La morte di Gudlaugur non ha nulla a che vedere né con me né con mio padre. È legata a un'altra esistenza, quella che conduceva mio fratello e che noi non conoscevamo. Spero apprezzi il fatto che ho cercato di essere sincera e disponibile, che non ci disturberà più e, soprattutto, che non mi verranno più messe le manette in casa mia." Poi gli porse la mano, come a voler siglare un patto, così che lei e suo padre sarebbero stati lasciati in pace in futuro. Erlendur gliela strinse e tentò di sorridere. Sapeva che prima o poi quel patto sarebbe stato infranto. Troppe domande, pensò, e poche risposte attendibili. Non era pronto a lasciarla andare subito ed era convinto che gli stesse mentendo ancora, o per lo meno che stesse aggirando la verità. "Non è venuta in albergo per vedere suo fratello, qualche giorno prima della sua morte?" le chiese. "No, dovevo vedermi qui con un'amica. Abbiamo preso un caffè insieme. Può contattarla e chiederle se sto mentendo. Avevo dimenticato che mio fratello lavorava qui, ma non l'ho visto." "Magari controllerò" disse Erlendur, appuntandosi il nome dell'amica. "Un'altra cosa: conosce un certo Henry Wapshott? È inglese, ed era in contatto con Gudlaugur." "Wapshott?" "È un collezionista. Gli interessano i dischi di suo fratello. Pare che collezioni incisioni di cori e che sia specializzato in voci bianche soliste." "Non ho mai sentito questo nome" rispose Stefania. "È specializzato in voci bianche soliste, ha detto?" "Ci sono collezionisti ancora più strambi di lui, se è per questo" ribattè Erlendur, che non si azzardava a raccontarle dei sacchetti per il mal d'aria delle compagnie aeree. "Ritiene che i dischi di suo fratello siano molto preziosi oggi? Lei ne sa qualcosa?" "No, non ne ho idea. Che voleva dire, con questo? Arnaldur Indridason – La Voce
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Che significa?" "Non ne sono sicuro, ma devono essere abbastanza preziosi se uno come Wapshott è venuto fino in Islanda per incontrarlo. Gudlaugur possedeva qualche copia dei suoi dischi?" "Non credo." "Sa cosa ne è stato dei dischi che aveva inciso?" "Credo siano stati venduti tutti" rispose Stefania. "Se ce ne fossero ancora delle copie, avrebbero qualche valore?" Erlendur percepì un certo interessamento nella voce della donna e si chiese se non si stesse prendendo gioco di lui, se in realtà non fosse più informata e stesse cercando di capire quanto ne sapesse l'agente. "Forse sì" le disse. "Questo signore inglese è ancora in Islanda?" gli chiese Stefania. "È in cella alla centrale di polizia. Magari sa più di quanto vuole dirci su suo fratello e la sua morte." "Crede che l'abbia ucciso lui?" "Non ha sentito i notiziari?" "No." "E un sospettato, per il resto non possiamo dire altro." "Che tipo è?" Erlendur stava per accennarle alle informazioni avute dalla polizia inglese e al materiale pornografico rinvenuto nella sua stanza, ma si trattenne. Ripetè quanto le aveva già detto, che era un collezionista di dischi a cui interessavano le voci bianche soliste, che aveva soggiornato in albergo, che si era messo in contatto con Gudlaugur e che per il momento i sospetti che avevano su di lui bastavano a farlo rimanere in cella. Si salutarono cordialmente, ed Erlendur rimase a osservarla mentre attraversava il locale e usciva nella hall. Nel frattempo il telefono cominciò a squillare. Rovistò in tasca e rispose. Con sua grande sorpresa era Valgeròur. "Potrei vederti questa sera?" gli chiese senza preamboli. "Sarai in albergo?" "Penso di sì" rispose Erlendur, senza nascondere un tono di voce sorpreso. "Credevo che..." "Facciamo verso le otto? Al bar?" "D'accordo, alle otto. Che...?" Voleva chiederle cosa aveva in mente, ma lei aveva già interrotto la chiamata e non sentì che silenzio. Spense il cellulare, chiedendosi ancora che cosa voleva da lui. Aveva dato per persa ogni possibilità di conoscerla meglio, e aveva pensato che forse con le donne proprio non ci sapeva fare. Invece ecco arrivare dal nulla quella telefonata, non sapeva come interpretarla. Mezzogiorno era passato da un po', ed Erlendur aveva molta fame, ma invece di mangiare in sala da pranzo si fece portare qualcosa in camera. Doveva ancora visionare alcune cassette, quindi ne infilò un'altra nel videoregistratore e la fece partire mentre aspettava il cibo. Perse ben presto la concentrazione, la sua mente vagò lontano dallo schermo e si mise a pensare alle parole di Stefania. Perché Gudlaugur si intrufolava in casa loro di notte? Aveva detto a sua sorella che aveva voglia di tornare a casa. "Solo che qualche volta ho voglia di tornare a casa" così aveva detto. Che cosa si nascondeva dietro a queste parole? E sua sorella lo sapeva? Che cosa significava per Gudlaugur tornare a casa sua? Di cosa sentiva la mancanza? Non faceva più parte della famiglia, e la persona che gli era stata più vicina, sua madre, era morta da tempo. Quando andava a trovare il padre e la sorella, non li importunava. Non andava di giorArnaldur Indridason – La Voce
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no, come avrebbe fatto una persona normale sempre che ne esistano ancora di persone normali per rimediare alle sue colpe, per affrontare i contrasti e la rabbia e anche l'odio che lo separavano dalla sua famiglia. Ci andava di notte, e aveva cura di non disturbare nessuno, poi sgattaiolava via senza che si accorgessero di lui. Non sembrava cercare riconciliazione o perdono, ma qualcosa che per lui aveva molta più importanza, che solo lui comprendeva ed eludeva qualsiasi chiarimento, ma si celava dietro quell'unica parola. Casa. Che cos'era? Forse il ricordo dell'infanzia trascorsa nella casa dei genitori, prima che la vita gli scaricasse addosso complicazioni incomprensibili e il destino lasciasse dietro di sé distruzione e infelicità. Il ricordo di quando correva per casa sapendo che il padre, la madre e la sorella erano i suoi cari, le persone a cui voleva bene. Doveva tornare in quella casa per cercare i ricordi che non voleva perdere e dai quali traeva nutrimento quando la vita gli risultava insostenibile. Forse ci tornava per affrontare il destino che lì aveva preso forma. Le pretese intransigenti che nutriva suo padre, le burle perché era stato cresciuto in modo diverso, l'amore della madre, che gli era più caro di qualsiasi altra cosa, e della sorella maggiore che si prendeva cura di lui, lo shock dopo il concerto al Basjarbió, quando il suo mondo era crollato e le aspettative di suo padre erano svanite nel nulla. Cosa può esserci di peggio per un ragazzino che tradire le aspettative del padre? Dopo tutto l'impegno che ci aveva messo, i sacrifici che suo padre, anzi, che la famiglia intera aveva fatto. Gudlaugur aveva sacrificato la sua infanzia per diventare qualcosa che lui per primo non comprendeva e su cui non aveva alcun controllo e che poi, tra l'altro, non si era mai realizzato. Suo padre aveva giocato con la sua infanzia, anzi, gliel'aveva sottratta. Erlendur sospirò. Chi non ha voglia di tornare a casa, qualche volta? Era disteso sul letto, quando a un tratto nella stanza sentì un lieve suono. Non si rese subito conto da dove provenisse. Credeva che il giradischi si fosse acceso da solo e la puntina non si fosse posizionata bene sul disco. Si alzò sui gomiti e vide che era spento. Sentì di nuovo lo stesso suono e si guardò intorno. Era buio, non si vedeva molto. Dal lampione sull'altro lato della strada proveniva un fioco bagliore. Stava per accendere la luce sul comodino accanto al letto quando sentì di nuovo quel suono, solo più forte. Non osava muoversi. All'improvviso si ricordò di averlo già sentito. Si sedette sul letto e guardò verso la porta. Nel debole chiarore vide una personcina minuta rannicchiata nel vano della porta che lo guardava, esangue per il freddo, scossa dai brividi, tremava tanto che la testa sobbalzava, tirava su col naso. Arnaldur Indridason – La Voce
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Era quello il rumore che Erlendur aveva riconosciuto. Fissò quell'esserino che lo guardava a sua volta e cercava di sorridere, senza riuscirvi, a causa dei brividi e del freddo. "Sei tu?" gli sussurrò Erlendur. In quell'istante, l'apparizione svanì dal vano della porta; Erlendur si svegliò, ritrovandosi per metà fuori dal letto, e fissò la porta. "Eri tu?" sospirò addolorato, rivedendo stralci di quel sogno, i guanti di lana, il berretto, il giaccone e la sciarpa. Gli indumenti che indossavano quando erano usciti di casa. Gli indumenti di suo fratello. Che tremava nel freddo della stanza. Erlendur rimase a lungo alla finestra, in silenzio, a osservare la neve che cadeva. Alla fine ricominciò a visionare le cassette. La sorella di Gudlaugur non era più apparsa sullo schermo, e nemmeno nessun altro che riconoscesse, se non qualche membro del personale che entrava o usciva in tutta fretta dall'albergo. Il telefono della camera squillò, così andò a rispondere. "Pare che Wapshott abbia detto la verità." Era Elinborg. "Lo conoscono bene sia nei negozi di collezionismo che al mercatino dell'usato." "Allora era davvero in giro per acquisti?" "Ho mostrato a tutti una sua foto e ho chiesto a che ora l'avevano visto, e tutti l'hanno confermata, più o meno, almeno quanto basta per non poterlo collocare sulla scena del crimine quando Gudlaugur è stato ucciso." "In effetti non ce lo vedo molto come assassino." "È un pedofilo, ma forse non un assassino. Che hai intenzione di fare con lui?" "Credo che dovremo rispedirlo in Inghilterra." Poi chiusero la conversazione ed Erlendur si sedette a pensare all'omicidio senza riuscire a giungere ad alcuna conclusione. Pensò anche a Elinborg e di conseguenza al bambino maltrattato dal padre che lei tanto odiava. "Lei non è il solo, sa?" gli aveva detto Elinborg. Non stava cercando di consolarlo. Il suo era un tono accusatorio, come se volesse fargli sapere che di sadici che maltrattano i propri figli ce n'erano a bizzeffe. Voleva che si rendesse conto di quale categoria faceva parte e delle statistiche che lo riguardavano. Si era procurata alcuni dati. Negli anni fra il 1980 e il 1999, il reparto di pediatria aveva visitato per lesioni circa quattrocento bambini. Di essi, duecentotrentadue erano casi di sospetti abusi sessuali e quarantatré quelli di maltrattamenti fisici o di violenza. Compresa l'intossicazione da farmaci. Sì, aveva ripetuto Elinborg, intossicazione da farmaci, e pure incuria. Leggeva da un foglio con freddezza e tranquillità: trauma cranico, fratture, bruciature, graffi, morsi. Aveva ripetuto la lista guardando il padre. "Sospettiamo che in questi vent'anni due bambini siano morti per violenze fisiche" aveva detto. "Nessuno dei due casi è finito davanti al giudice." Gli aveva riferito che, secondo gli specialisti, si trattava di un problema nascoArnaldur Indridason – La Voce
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sto: in poche parole, probabilmente gli episodi effettivi erano molti di più. "In Gran Bretagna ogni settimana quattro bambini muoiono per maltrattamenti. Quattro" aveva insistito. "Quattro bambini alla settimana. E vuole sapere quali motivazioni vengono addotte?" aveva continuato poi. Erlendur era seduto nella stanza degli interrogatori e non batteva ciglio. Era lì solo per sostenere la collega, nel caso ne avesse avuto bisogno, ma non gli sembrava proprio. L'uomo continuava a fissare nel vuoto davanti a sé. Guardava il registratore, che era spento. Dunque non era un interrogatorio formale. Il suo avvocato non era stato avvertito, ma lui non si era ribellato e per il momento non aveva sollevato obiezioni né chiesto clemenza. "Gliene dirò qualcuna" aveva aggiunto Elinborg, cominciando a enumerare le motivazioni per cui i genitori si comportavano in modo violento con i figli. Stress, prima di tutto. Poi difficoltà economiche, malattie e disoccupazione, isolamento e mancanza di sostegno da parte del coniuge, temporanea incapacità di intendere. Poi aveva guardato il padre del bambino. "Crede che qualcuno di questi motivi valga anche nel suo caso? Temporanea incapacità di intendimento, magari..." L'uomo non le aveva risposto. "Alcuni perdono il controllo, e ci sono casi documentati in cui i genitori sono talmente rosi dal senso di colpa per quello che hanno fatto che vogliono farsi scoprire. Sa di cosa stiamo parlando?" Lui era rimasto in silenzio. "Portano il figlio dal medico, magari dal medico di famiglia, perché dicono che il bambino, per esempio, ha sempre il raffreddore. Ma non è per quello che ci vanno, in realtà vogliono che il medico veda le ferite e i lividi. Vogliono farsi scoprire, appunto. E sa perché?" L'uomo continuava a rimanere in silenzio. "Perché vogliono farla finita. Vogliono che qualcuno prenda in mano le redini della situazione, che intervenga a interrompere il circolo vizioso in cui sono entrati e che non riescono più a controllare. Da soli non ce la fanno e sperano che il medico si accorga che qualcosa non va." Poi Elìnborg l'aveva guardato. Erlendur li osservava in silenzio. Temeva che avrebbe esagerato. Pareva impegnarsi a fondo per condurre il colloquio in modo professionale, per dimostrare di non essere guidata dalle emozioni. Sembrava una lotta impari, ed era come se anche lei se ne rendesse conto. Era molto coinvolta. "Ho parlato con il suo medico di base" aveva continuato Elìnborg. "Ha detto di aver notificato per ben due volte le condizioni del bimbo all'Ente per la tutela dei minori. L'ente ha indagato in entrambi i casi, ma non ha mai trovato prove evidenti. Che il bambino non abbia confessato, e che lei non abbia ammesso niente, non è certo stato d'aiuto. Be', del resto non è la stessa cosa voler ammettere le violenze e riuscire ad assumersene la responsabilità al momento opportuno. Ho letto le relazioni. Nell'ultima hanno chieArnaldur Indridason – La Voce
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sto a suo figlio che rapporto aveva con lei, ma sembrava non aver capito la domanda. Quando gli hanno richiesto: Di chi ti fidi di più?, lui ha risposto: Del mio papà. Più di tutti mi fido del mio papa'." Elìnborg aveva taciuto. "Non le sembra tremendo?" gli aveva chiesto. Si era voltata a guardare Erlendur e poi di nuovo il padre. "Non le sembra tremendo?" Erlendur pensò che un tempo anche lui avrebbe risposto come quel bambino. Avrebbe detto che era suo padre la persona di cui si fidava di più. Quando era arrivata la primavera e le nevi si erano sciolte, suo padre era tornato sulla brughiera in cerca del figlio, tentando di ripercorrere il tragitto a partire dal punto in cui Erlendur era stato trovato. Pareva essersi ripreso, ma era straziato dal senso di colpa. Aveva girovagato per la brughiera e per i monti, e anche oltre, perché magari c'era una probabilità che suo figlio si fosse spinto fin là, ma non aveva trovato mai niente. Si accampava sui monti, ed Erlendur lo seguiva, e anche la madre prendeva parte alle ricerche, e a volte gli abitanti delle fattorie vicine accorrevano ad aiutarli, ma il bambino non era stato più trovato. Era indispensabile recuperare il cadavere. Fino a quel momento non l'avrebbero considerato morto, solo disperso. La ferita era ancora aperta, e ne suppurava un dolore indicibile. Erlendur aveva affrontato quel dolore da solo. Stava male, e non solo perché aveva perduto suo fratello. Gli sembrava una fortuna che l'avessero trovato, ma gli si era annidato dentro uno strano senso di colpa, perché era stato lui a salvarsi e non il suo fratellino. Non solo gli aveva lasciato la mano nella tempesta, ma lo tormentava il pensiero che sarebbe dovuto morire lui al posto suo. Era lui il più grande, ed era responsabile per suo fratello. Era sempre stato così. Si era sempre preso cura di lui. Quando giocavano. Quando erano soli a casa. Quando venivano mandati a fare delle commissioni. La responsabilità era sempre stata sua, e non era mai venuto meno al compito. Quella volta, invece, aveva fallito, e forse non meritava di essersi salvato, visto che suo fratello era morto. Non sapeva perché era sopravvissuto. Ma a volte pensava che forse sarebbe stato meglio se fosse stato lui disperso sulla brughiera. Non aveva mai dato voce a questi pensieri davanti ai suoi genitori, e nella sua solitudine aveva sempre ritenuto che a volte anche loro pensassero la stessa cosa. Suo padre era sprofondato nel senso di colpa, e lì voleva essere lasciato. Anche sua madre era sopraffatta dal dolore. Entrambi si ritenevano in parte responsabili per com'era andata. Tra loro regnava un silenzio strano, più assordante di qualsiasi grido, mentre Erlendur combatteva la sua battaglia da solo e rifletteva su concetti quali responsabilità, colpa e buona sorte. Se non avessero trovato lui, allora forse avrebbero trovato suo fratello? Davanti alla finestra, Erlendur ripensava a quanto la sua vita fosse stata segnata dalla perdita del fratello, forse in modo più profondo di quanto lui Arnaldur Indridason – La Voce
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stesso si rendesse conto. Aveva spesso riflettuto su questi eventi, quando Èva Lind aveva cominciato a fargli delle domande. Non aveva risposte facili da darle, ma dentro di sé sapeva dove trovarle. Non poche volte si era chiesto le stesse cose che tanto premevano a sua figlia, quando voleva metterlo di fronte alle proprie responsabilità. Poi sentì bussare alla porta e si scostò dal vetro. "Avanti!" disse. "È aperto." Entrò Siguròur Òli. Era stato tutto il giorno ad Hafnarfjòròur a parlare con persone che conoscevano Gudlaugur. "Novità?" gli chiese Erlendur. "Ho scoperto com'era soprannominato. Ricordi il nomignolo che gli avevano affibbiato quando gli era crollato il mondo addosso?" "Sì. Chi te l'ha detto?" Siguròur Òli si sedette sul letto. Bergthóra, la sua compagna, si era lamentata perché non era mai a casa, proprio adesso che si avvicinava il Natale, e lei doveva occuparsi da sola dei preparativi. Voleva accompagnarla a comprare l'albero di Natale, ma prima doveva vedere Erlendur. Glielo aveva spiegato per telefono mentre si recava in albergo, le aveva promesso che avrebbe fatto in fretta, ma quella storia lei l'aveva già sentita troppe volte per poterci credere ancora, e quando avevano chiuso la chiamata si era inacidita non poco. "Hai intenzione di rimanere in questa camera per tutto il Natale?" chiese Siguròur Òli a Erlendur. "No. Che cos'hai scoperto ad Hafnarfjòròur?" "Perché fa così freddo qui dentro?" "È il termosifone: non riscalda. Vuoi venire al dunque, allora?" Siguròur Òli sorrise. "Lo compri l'albero di Natale?" "Nel caso l'avrei già comprato, ti pare?" "Dopo varie ricerche, sono risalito a un uomo che diceva di conoscere bene Gudlaugur all'epoca" gli spiegò Siguròur Òli. Sapeva di avere in mano informazioni che avrebbero potuto cambiare il corso delle indagini e si divertiva a tenere Erlendur sulle spine. Siguròur Òli ed Elinborg si erano riproposti di parlare con chiunque fosse andato a scuola con Gudlaugur o lo conoscesse. Quasi tutti si rammentavano vagamente di lui, della sua promettente carriera canora e delle prese in giro scatenate dalla celebrità. Qualcuno, però, lo ricordava bene e sapeva cos'era accaduto quando suo padre era rimasto paralizzato. Una di queste persone, poi, aveva avuto un rapporto molto stretto con Gudlaugur, più di quanto Siguròur Òli avrebbe potuto immaginare. Era stata una compagna di scuola a indicargli quest'uomo. La donna abitava in una villetta singola in un quartiere di Hafnarfjòròur di recente edificazione. Le aveva telefonato quella mattina, quindi aspettava la visita dell'agente. Si erano stretti la mano e lei lo aveva fatto accomodare in soggiorno. Era sposata con un pilota e lavorava part time in una libreria, i figli erano già grandi. Gli aveva raccontato tutti i dettagli della sua amicizia con Gudlaugur, non Arnaldur Indridason – La Voce
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molti, in verità, e ricordava anche vagamente la sorella, sapeva che era più grande di lui. Si ricordava che aveva cambiato voce quando sembrava all'apice della carriera, ma non sapeva che cosa ne fosse stato di lui una volta finiti gli studi, ed era rimasta sconvolta quando aveva letto sui giornali che era lui l'uomo trovato ucciso in uno stanzino del seminterrato dell'albergo. Siguròur Òli aveva ascoltato tutto senza prestare troppa attenzione. Gran parte della storia l'aveva già sentita da altri compagni di scuola di Gudlaugur. Una volta concluso il racconto, l'agente le aveva chiesto se era al corrente di qualche nomignolo datogli da bambino per schernirlo. La donna non se ne ricordava, ma, quando aveva visto che Siguròur Òli era sul punto di andarsene, aveva aggiunto di aver sentito dire certe cose su Gudlaugur, tanto tempo prima, che potevano interessare alla polizia, sempre che non ne fosse già a conoscenza. "Di che si tratta?" le aveva chiesto lui, alzandosi. La donna gliel'aveva detto compiaciuta, perché si era accorta di essere riuscita a destare l'attenzione dell'ospite. "E quest'uomo è ancora vivo?" le aveva ridomandato e la donna, che sosteneva di non sapere altro, gli aveva rivelato il suo nome. L'agente allora si era alzato, era andato a prendere l'elenco telefonico e aveva trovato il nome e l'indirizzo. Abitava a Reykjavik. Si chiamava Baldur. "È sicura che sia lui?" Siguròur Òli voleva esserne certo. "Per quel che ne so io, sì" gli aveva risposto lei sorridendo, come se sperasse di essergli stata d'aiuto, almeno in parte. "Ne parlavano tutti" aveva aggiunto. Siguròur Òli aveva deciso di recarsi subito da questo Baldur, nella speranza che fosse in casa. Ormai era sera. Il traffico verso la capitale era molto intenso e per strada Siguròur Òli aveva chiamato Bergthóra che... "Vuoi arrivare al dunque?" si spazientì Erlendur, interrompendo il suo racconto. "No, e la cosa ti riguarda" rispose lui con un sorrisetto di scherno. "Bergthóra voleva sapere se ti avevo invitato a casa nostra la sera della vigilia. Le ho detto che non mi avevi ancora dato una risposta." "La sera della vigilia voglio stare con Èva Lind a casa mia" disse Erlendur. "Ecco la risposta. Vuoi venire al dunque, adesso?" "Okay" esclamò Siguròur Òli. "E smettila di dire okay." "Okay." Baldur viveva in una graziosa casetta in legno nel quartiere di Mngholt, ed era appena rientrato a casa dal lavoro; faceva l'architetto. Siguròur Òli aveva suonato il campanello e si era presentato come un agente investigativo, spiegando che era lì per la morte di Gudlaugur Egilsson. L'uomo non si era mostrato affatto sorpreso. L'aveva squadrato attentamente e poi, sorridendo, l'aveva invitato a entrare. "A dire il vero, la stavo aspettando" gli aveva spiegato, "se non lei, almeno qualcuno di voi. Stavo pensando di contattarvi, ma continuavo a rimandare. Non è mai divertente parlare con la polizia." Aveva sorriso di nuovo e si Arnaldur Indridason – La Voce
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era offerto di appendergli il soprabito. Dentro era tutto pulito e in ordine. In soggiorno c'erano delle candele accese e un albero di Natale addobbato. L'uomo aveva offerto un liquore a Siguròur Òli, che l'aveva rifiutato. Era di media altezza, magro e dal viso gioviale, i capelli cominciavano a diradarsi ed era ovvio che li avesse tinti per accentuare il più possibile quello che ancora restava dell'originale colore rosso. A Siguròur Òli era sembrato di riconoscere la voce di Frank Sinatra da un paio di piccole casse in soggiorno. "Perché aspettava qualcuno della polizia?" gli aveva chiesto Siguròur Òli, sedendosi sull'ampio divano rosso. "Per Gulli" aveva risposto Baldur, sedendosi di fronte a lui. "Sapevo che l'avreste ritirata in ballo, questa storia." "Che storia?" "Che anni fa io e Gulli stavamo insieme." "In che senso, scusa?" gli domandò Erlendur, interrompendo di nuovo il suo racconto. "Che voleva dire?" "Quel che ha detto." "Che era stato con Gudlaugur?" "Sì." "Cosa significa?" "Che stavano insieme." "Vuoi dire che Gudlaugur era...?" A Erlendur venne in mente una moltitudine di idee, che poi confluirono di colpo sui volti duri della sorella di Gudlaugur e di suo padre sulla sedia a rotelle. "È quel che sostiene Baldur" ripetè Siguròur Òli. "Ma Gudlaugur non voleva che si sapesse in giro." "Non voleva che si sapesse di questo rapporto?" "Voleva nascondere la sua omosessualità." L'uomo di Pingholt aveva raccontato a Siguròur Òli che il suo rapporto con Gudlaugur era iniziato quando avevano circa venticinque anni. Era l'epoca della disco music, e Baldur aveva preso in affitto un appartamento in un seminterrato nel quartiere dei Vogar. Nessuno dei due, però, era uscito allo scoperto. C'era un atteggiamento diverso nei confronti degli omosessuali, allora, spiegò sorridendo, anche se le cose cominciavano a cambiare. "E comunque non si può dire che abitassimo insieme" aveva aggiunto. "Al tempo due uomini non potevano condividere una casa, come fanno adesso, senza che la cosa destasse dei sospetti. In quegli anni in Islanda i gay sopravvivevano a malapena. Quasi tutti lasciavano il paese, come forse saprà. Diciamo che Gudlaugur veniva spesso a trovarmi, mettiamola così. Stava a casa mia. Qualche volta andavo io nella sua stanza nel quartiere occidentale, ma lui la curava troppo poco per i miei gusti, così preferivo evitare. Stavamo più che altro da me." "Come vi siete conosciuti?" "In quel periodo gli omosessuali si incontravano solo in determinati posti. Uno era appena fuori dal centro, non lontano da Pingholt, in realtà. Non era un vero e proprio locale, piuttosto un luogo di ritrovo in una casa privata. Nei locali pubblici non sapevi mai cosa ti aspettava; a volte ti sbattevano fuori perché ballavi con altri uomini. Quella casa per noi era un po' tutto: una caffetteria, una pensione, un locale notturno, un consultorio e un rifugio. Una volta venne anche lui, con un suo conoscente. Fu quella la prima volta che lo vidi. Oh, mi scusi, che maniere... Gradirebbe un caffè?" Siguròur Òli aveva guardato l'orologio. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Magari ha molta fretta" gli aveva detto l'uomo, sistemandosi con cura i capelli radi e tinti. "No, non è quello. Berrei volentieri un te, piuttosto" aveva risposto Siguròur Òli, pensando a Bergthóra. Se non rispettava gli orari, a volte si arrabbiava. Era fissata con la puntualità ed era capace di tenergli il muso a lungo se arrivava tardi. L'uomo era andato a preparare il te. "Era terribilmente frustrato" aveva continuato dalla cucina, alzando la voce in modo che l'ospite potesse sentirlo meglio. "A volte credo che odiasse la sua omosessualità. Come se non l'avesse ancora accettata del tutto. Forse, almeno in parte, mi usava per trovare la sua strada. La cercava ancora, nonostante l'età. Certo, non sto dicendo niente di nuovo. C'è chi esce allo scoperto anche a cinquantanni, quando magari è sposato da una vita e ha quattro figli." "Sì, ci sono modalità del tutto diverse" aveva commentato Siguròur Òli, che non sapeva nemmeno di cosa stesse parlando. "Eh sì, caro mio. Vuole che lo lasci in infusione?" "Siete stati insieme tanto?" gli aveva chiesto Siguròur Òli, aggiungendo che in effetti il te lo preferiva forte. "Circa tre anni, ma negli ultimi tempi ci vedevamo saltuariamente." "E da allora non vi siete più sentiti?" "No. Ma avevo sue notizie, ogni tanto" aveva precisato l'uomo, tornando in salotto. "La comunità omosessuale non è molto ampia, qui in Islanda." "In che senso era frustrato?" gli aveva domandato poi, mentre l'altro appoggiava le tazze sul tavolo. Aveva portato una ciotola con dei biscotti che Siguròur Òli conosceva bene, perché Bergthóra li preparava ogni anno per Natale. Cercò di ricordare come si chiamavano, invano. "Era molto ambiguo, e si apriva di rado, soprattutto se eravamo un po' brilli; il problema era suo padre. Non era più in contatto con lui, ma gli mancava moltissimo, e gli mancava pure la sorella maggiore, che gli si era rivoltata contro. Sua madre era morta molti anni prima che ci conoscessimo, ma mi parlava spessissimo di lei. Poteva parlare di sua madre all'infinito, e talvolta era una cosa stancante, se posso dire la verità." "La sorella gli si era rivoltata contro, ha detto? Come?" "È stato molto tempo fa, non me lo ha mai spiegato nei dettagli. L'unica cosa che so è che Gudlaugur lottava contro ciò che era. Sa cosa voglio dire, no? Come se volesse essere qualcosa di diverso." Siguròur Òli aveva scosso la testa. "Essere omosessuale gli sembrava una cosa sporca. Per lui era innaturale." "E la combatteva, questa sua natura?" "Sì e no. Era piuttosto ambiguo. Credo che non sapesse in che direzione andare. Poveretto. Non aveva una grande considerazione di sé. A volte penso che si odiasse." "Conosce il suo passato di bambino prodigio?" "Sì" aveva conArnaldur Indridason – La Voce
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fermato Baldur alzandosi, poi era andato a prendere una teiera fumante e, dopo avere versato il te nelle tazze, l'aveva riportata in cucina. Infine i due si erano gustati il loro te "Credi di riuscire a essere un po' più conciso?" lo pregò Erlendur mentre ascoltava il racconto seduto alla scrivania della sua stanza d'albergo, senza nascondere una certa impazienza. "Voglio cercare di raccontarti tutto nel modo più preciso possibile" gli spiegò Siguròur Òli, guardando l'orologio. Ormai era in ritardo, Bergthóra lo aspettava a casa da tre quarti d'ora. "Sì, sì, vai avanti..." "Parlava mai del periodo in cui era un bambino prodigio?" gli aveva chiesto Siguròur Òli, posando la tazza e allungandosi per prendere un biscotto. "Mi disse di aver perso la voce." "E ne era dispiaciuto?" "Moltissimo. A quanto pare, accadde nel momento peggiore, ma non ha mai voluto raccontarmelo. Diceva che a scuola lo prendevano in giro perché era famoso, e lui ne soffriva molto. Però non ha mai usato la parola 'famoso'. Non si considerava affatto tale. Suo padre voleva che lo diventasse, e per un pelo non ci era riuscito. Ma Gudlaugur era infelice, e oltretutto cominciava a sentire cose strane e a manifestare il suo lato omosessuale. Ma era riluttante a parlarne. Preferiva dire il meno possibile della sua famiglia. Prenda un altro biscotto." "No, grazie. Sa se qualcuno avrebbe voluto vederlo morto? Qualcuno che lo odiava, magari?" "Mio Dio, no! Era una persona mite e non avrebbe mai fatto del male a nessuno, che io sappia. Non so chi avrebbe potuto fare una cosa del genere. Poveretto, finire in quel modo... Avete scoperto qualcosa?" "No. Ha mai ascoltato i suoi dischi? Ne possiede uno?" "Eccome. Era eccezionale. Cantava in modo meraviglioso. Non credo di aver mai sentito un bambino cantare così bene." "E da adulto, quando lei l'ha conosciuto, Gudlaugur andava fiero di come cantava?" "Non si ascoltava mai. Non voleva sentire i suoi dischi. Mai, per quanto ci provassi." "Perché no?" "Era impossibile convincerlo. Non dava spiegazioni, si rifiutava e basta." Baldur si era alzato e aveva preso i due dischi di Gudlaugur da un armadietto in soggiorno, poi li aveva appoggiati sul tavolo. "Me li regalò perché l'avevo aiutato a traslocare." "A traslocare?" "Aveva perso la stanza dove abitava, nel quartiere occidentale, così mi chiese di aiutarlo a traslocare. Si era trovato un altro posto e doveva portarci tutta la sua roba. A parte i dischi, in effetti non possedeva nient'altro." "Ne aveva molti?" "Sì, davvero tanti." "Ascoltava qualcosa di particolare?" "No. Oh, mi spiego meglio... Erano tutti uguali. Aveva tantissime copie di questi due dischi" aveva detto, indicando quelli sul tavolo. "Mi rivelò di aver acquistato l'intera tiratura." "Aveva casse piene dei suoi dischi?" gli aveva domandato Siguròur Òli, incapace di nascondere il proprio interesse. "Sì, almeno due." "Sa dove potrebbero essere finite?" "Io? No, non ne ho Arnaldur Indridason – La Voce
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idea. Perché, hanno qualche valore oggi?" "So di un inglese che sarebbe pronto a uccidere per averli" aveva risposto Siguròur Òli, e sul viso di Baldur si era dipinta un'espressione interrogativa. "Che vuol dire?" "Niente" aveva replicato Siguròur Òli, guardando l'orologio. "Devo andare. Potrei aver bisogno di ricontattarla, nel caso mi mancasse qualche informazione. Se poi le venisse in mente qualcosa, anche il dettaglio più insignificante, sarebbe utile che mi chiamasse." "A dire il vero, all'epoca non avevamo molta scelta" aveva detto Baldur. "Non come adesso, che una persona su due è omosessuale o vorrebbe esserlo." Poi aveva sorriso a Siguròur Òli, che si era strozzato con il te. "Mi scusi" aveva balbettato. "Forse l'ho fatto un po' forte." Siguròur Òli si era alzato e Baldur l'aveva accompagnato alla porta. "Sappiamo che a scuola Gudlaugur veniva preso in giro" aveva aggiunto l'agente prima di salutarlo "e che gli avevano dato un soprannome. Ricorda per caso se gliene ha mai parlato?" "Era evidente che a scuola fosse vittima di scherzi perché frequentava un coro, cantava bene e non giocava a calcio, e per molti aspetti era un po' effeminato. Inoltre dava l'impressione di non essere molto sicuro di sé nei rapporti con gli altri. Ne parlava con me come se avesse capito perché gli altri lo prendevano in giro. Ma non ricordo di nessun soprannome in particolare..." Un attimo di esitazione. "Sì?" "Quando stavamo insieme, cioè..." Siguròur Òli aveva scosso la testa, non capiva. "A letto..." "Sì?" "A volte voleva che lo chiamassi 'piccola principessa'" aveva rivelato Baldur con un sorrisetto. Erlendur lo fissò. "Piccola principessa?" "Proprio così." Poi Siguròur Òli si alzò dal letto del collega. "Adesso devo proprio andare. Bergthóra sarà furiosa. Allora starai a casa tua per Natale?" "E le casse di dischi?" aggiunse Erlendur. "Dove possono essere finite?" "Il mio uomo non ne aveva idea." "La piccola principessa... Il film con Shirley Temple, no? Che cosa c'entra questo con tutto il resto? Ti ha spiegato qualcos'altro, il tipo?" "No, non sapeva cosa significasse per Gudlaugur." "Non è detto che avesse per forza un significato particolare" commentò Erlendur, quasi fra sé. "È un gergo da omosessuali che capiscono solo loro. Forse non è più strano di molte altre cose. E che altro ti ha detto, che odiava se stesso?" "Piuttosto che aveva poca considerazione di sé, che era ambiguo." "Per via della sua omosessualità o per qualcos'altro?" "Non lo so." "Non gliel'hai chiesto?" "Possiamo sempre tornare a parlarci, ma non mi pareva che sapesse molto su Gudlaugur." "E nemmeno noi" rispose Erlendur fiacco. "Se venti o trent'anni fa voleva nascondere che era omosessuale, credi che abbia continuato a farlo anche dopo?" "Bella domanda." "Nessuno finora aveva accennato al fatto che fosse omosessuale." "Bene, bene, comunque ti saluto" si congedò Siguròur Òli, avvicinandosi alla porta. "Ti serve altro?" "No, va bene così. Ah, ti ringrazio per l'invito e salutami Arnaldur Indridason – La Voce
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Bergthóra, cerca di trattarla bene." "Lo faccio sempre" esclamò Siguròur Òli, affrettandosi a uscire. Erlendur guardò l'orologio e si accorse che mancava poco al suo appuntamento con Valgeròur. Tolse dal videoregistratore l'ultima cassetta della banca e la depose in cima alla pila. Intanto squillò il cellulare. Era Elìnborg. Disse di aver parlato con l'ufficio del procuratore riguardo al caso dell'aggressione. "Quanto credono che potrebbe beccarsi il padre?" le chiese. "Secondo loro potrebbe anche farla franca. E se conferma la sua posizione, se continua a negare, cioè, non sarà condannato. Non andrà dentro nemmeno un minuto." "Ma le prove? Le impronte sulle scale? La bottiglia di Drambuie? Tutto indica..." "Non so perché ci siamo dati tanto da fare. Ieri hanno condannato un tale perché aveva aggredito una persona con un coltello. Si è beccato otto mesi di carcere, di cui quattro abbuonati, dunque in prigione ne passerà al massimo due. Chi ci capisce qualcosa è bravo..." "Quindi potrà tenersi il bambino?" "Sicuramente. L'unica cosa positiva, se così si può dire, è che lui sembra davvero sentire la mancanza del papà. È questo che non mi torna. Come può essere tanto legato a suo padre se lo picchia? Non riesco a farlo quadrare, questo caso. Manca qualcosa, dev'esserci sfuggito. Non mi tornano i conti, e basta." "Ci aggiorniamo dopo" disse Erlendur, guardando l'orologio. Era in ritardo. "Puoi fare una cosa per me? Stefania ha detto di aver visto una sua amica qui, giorni fa. Potresti parlare con lei e confermarmelo?" Erlendur le diede il nome della donna. "Non hai intenzione di tornare a casa, una buona volta, e lasciare quell'albergo?" gli chiese Elìnborg. "Smettila di rompere" disse Erlendur e chiuse la comunicazione. Scendendo nella hall, Erlendur vide Rósant, il capo cameriere. Esitò un attimo, incerto sul da farsi. Di sicuro Valgeròur era già arrivata. Guardò l'orologio, fece una smorfia e si avvicinò al capo cameriere. Non ci avrebbe impiegato molto. "Su, mi racconti delle squillo" gli disse senza tanti preamboli. Stava parlando garbatamente con due clienti dell'albergo. Era certo che fossero islandesi, perché lo guardarono stupiti e poi si voltarono di nuovo verso Rósant. Lui sorrise, sollevando i baffi sottili. Si scusò con gli ospiti, fece un inchino e prese Erlendur in disparte. "L'albergo è un insieme di persone, dobbiamo farle stare bene... Non l'aveva detta lei una stronzata del genere?" continuò l'agente. "Non è una stronzata. Ce lo insegnano alla scuola alberghiera." "Vi insegnano anche che tra i compiti di un capo cameriere c'è quello di protettore?" "Non so di cosa stia parlando." "No? Glielo dico io, allora. Lei gestisce un piccolo giro di prostitute qui in albergo." Rósant sorrise. "Un giro di prostitute?" "Che lei sia un protettore c'entra qualcosa con la morte di Gudlaugur?" Scosse la testa. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Chi c'era con lui quando è stato ucciso?" Si guardarono negli occhi, finché il capo cameriere non abbassò lo sguardo al pavimento. "Nessuno che io conosca" disse infine. "Non lei, per caso?" "Qualcuno di voi ha già raccolto la mia deposizione. Ho un alibi." "Era coinvolto anche Gudlaugur nel giro?" "No. E non gestisco nessun giro di prostitute. Non so dove si sia procurato le informazioni sui furti in cucina e sulle prostitute. Sono tutte balle. Io non sono un protettore." "Ma..." "Forniamo un certo tipo di servizio per soli uomini, per gli ospiti stranieri che vengono qui per i convegni. Anche islandesi, in effetti. Ci chiedono di avere compagnia, e noi cerchiamo di renderci utili. Se incontrano delle belle signore qui al bar e si trovano bene..." "Allora siamo tutti contenti. E ve ne sono grati, i vostri clienti?" "Molto." "Quindi lei fornisce un servizio di escort, mi faccia capire." "Io..." "Accidenti, è proprio bravo a farla sembrare una cosa romantica. Il direttore c'è dentro fino al collo, come lei. E il responsabile della reception?" Rósant esitò. "E il responsabile della reception?" ripetè Erlendur. "Lui non condivide il nostro desiderio di soddisfare i bisogni più svariati della nostra clientela." "I bisogni più svariati della nostra clientela" gli fece il verso Erlendur. "Dove ha imparato a parlare così?" "Alla scuola alberghiera." Erlendur guardò l'orologio. "E come fate a trovare un accordo, lei e il responsabile della reception?" "Talvolta siamo in disaccordo, infatti." Erlendur ricordò che il responsabile della reception aveva negato che in albergo ci fossero prostitute, e pensò che probabilmente era l'unico membro dello staff che cercava davvero di salvaguardare la reputazione della struttura. "Ma lei sta tentando di appianarli questi contrasti, vero?" "Non so di cosa stia parlando." "Vi è d'intralcio?" Rósant non rispose. "È stato lei a mandargli quella prostituta, non è vero? Un piccolo avvertimento, nel caso avesse voluto aprire bocca. Era uscito per divertirsi, lei l'ha visto e gli ha mandato una delle sue donnine." Rósant esitò. "Non so di cosa stia parlando" ripetè. "No, certo che no." "Il fatto è che quel tipo è così irreprensibile" si lagnò Rósant, sollevando i baffi in un sorriso di scherno, quasi impercettibile. "Non vuoi capire che è meglio se ce ne occupiamo noi." Valgeròur aspettava Erlendur al bar. Come l'altra volta, si era truccata con cura per far risaltare i tratti del viso, e sotto la giacca di pelle nera indossava una camicia di seta bianca. Si strinsero la mano e lei sorrise incerta. L'agente si chiese se questo incontro avrebbe potuto segnare un nuovo inizio nella loro amicizia. Non riusciva a capire cosa volesse da lui, dopo che, in un certo senso, quando si erano incontrati nella hall aveva pronunciato la parola fine su un loro eventuale rapporto. La donna sorrise e chiese se poteva offrirgli qualcosa al bar, sempre che non fosse in servizio. "Sai, nei film i poliziotti in servizio non possono bere" gli disse. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Io non li guardo, certi film" rispose Erlendur, sorridendo. "No, lo so. Leggi solo libri che parlano di morti e sciagure." Si sedettero in un angolo del bar e rimasero in silenzio a osservare il viavai di gente. Più si avvicinava il Natale e più a Erlendur pareva che gli ospiti dell'albergo si facessero più chiassosi, in sottofondo risuonavano senza sosta canti natalizi, i turisti rientravano con pacchi decorati e bevevano birra come se ignorassero che quella islandese era la più cara d'Europa, se non forse di tutto il mondo. "Allora, so che sei riuscita a prendere un campione di saliva a Wapshott" iniziò l'agente. "Ma che razza di persona è? Hanno dovuto stenderlo sul pavimento e tenergli la bocca aperta. È stato orribile vedere come si comportava e si ribellava in cella." "In effetti non l'ho inquadrato bene nemmeno io" ammise Erlendur. "Non so esattamente cosa faccia qui e nemmeno cosa stia nascondendo." Non voleva entrare nei dettagli riguardo a Wapshott, né parlare di pedofilia e delle condanne per stupro che aveva rimediato in Gran Bretagna. Non gli sembrava opportuno raccontare certe cose a Valgeròur, e oltretutto Wapshott aveva il diritto alla privacy su certi fatti della sua vita privata. "Suppongo che tu ci sia molto più abituato di me" disse Valgeròur. "Io non ho mai preso un campione di saliva a un uomo immobilizzato per terra che urla e scalcia." Valgeròur rise. "Non era questo che volevo dire. Non mi trovavo da sola con un uomo che non fosse mio marito da... credo siano trent'anni, ormai. Quindi devi perdonarmi se ti sembro un po'... maldestra." "Allora siamo in due. Non ho molta più esperienza di te. È quasi un quarto di secolo che ho divorziato da mia moglie. Le donne della mia vita si contano sulle dita di una mano, ne bastano tre." "Credo di volere il divorzio" gli confidò poi Valgeròur grave, ed Erlendur la guardò. "Vuoi divorziare da tuo marito?" "Temo che sia finita fra noi. Ah, volevo anche chiederti scusa." "A me?" "Sì, a te. Sono un'idiota" sospirò poi. "Volevo usare te per vendicarmi di lui." "Non capisco dove vuoi arrivare." "Non lo so nemmeno io, a dire il vero. Ma da quando l'ho scoperto, è terribile." "Da quando hai scoperto cosa?" "Che ha un'altra." Lo disse come se fosse stato un problema come tanti, ed Erlendur non capiva come si sentisse, percepiva solo il vuoto dietro le sue parole. "Non so quand'è cominciata, né perché." Poi tacque. Erlendur non sapeva cosa dire, per cui rimase in silenzio anche lui. "Tu hai mai tradito tua moglie?" gli chiese d'un tratto. "No. Non è andata così. Eravamo giovani, e non avevamo niente in comune." "Avere qualcosa in comune, già..." ripetè Valgeròur soprappensiero. "E chi se lo ricorda più cosa vuoi dire?" "Allora vuoi divorziare?" "È quello che sto cercando di capire. Forse dipende anche da ciò che deciderà di fare lui." "Che tipo di relazione è, la loro?" "Perché, fa differenza?" "Va avanti da anni, oppure è appena iniziata? Ha avuto altre amanti?" "Sostiene di vedersi Arnaldur Indridason – La Voce
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con questa donna da due anni. Io non me la sono sentita di chiedergli se in passato ce ne sono state altre di cui non ho mai saputo niente. Non si sa mai. Ti fidi dei tuoi cari, di tuo marito, e poi, prima di rendertene conto, un giorno lui comincia a parlare del vostro matrimonio e dice di aver conosciuto un'altra, che vede da due anni. Tu ti senti un'idiota. Al momento non afferri. Poi salta fuori che si vedono in alberghi come questo..." Silenzio. "È sposata, questa donna?" le chiese Erlendur. "Divorziata. Ha cinque anni meno di lui." "Ti ha spiegato in qualche modo perché si è trovato un'amante? Perché...?" "Vuoi dire che forse è colpa mia?" lo interruppe Valgeròur. "No, non volevo dir..." "Sì, forse è colpa mia. Non lo so. Non ci sono spiegazioni. Solo rabbia e incomprensione, credo." "E i vostri figli?" "Non gliel'abbiamo detto. Non abitano più con noi. Forse è questo il motivo. Quando i figli erano a casa, avevamo poco tempo per noi; quando se ne sono andati, ne avevamo troppo. Forse non ci riconoscevamo più. Dopo tanti anni eravamo due estranei." Silenzio. "Non devi chiedermi scusa" la rassicurò Erlendur infine, poi la guardò. "Assolutamente. Sono io che devo chiederti scusa per non essere stato sincero con te. Ti ho mentito." "Mentito? A me?" "Mi hai chiesto perché mi interessavano morti e sciagure sulla brughiera, ma non ti ho detto la verità. Il fatto è che non ne ho mai parlato con nessuno, o quasi, e dunque ho delle difficoltà, almeno credo. Mi sembra che non debba saperlo nessuno. Nemmeno i miei figli. Mia figlia era in pericolo di vita, credevo stesse per morire, ed è stato solo allora che ho sentito il bisogno di parlarne con lei e raccontarglielo." "Raccontarle cosa?" gli chiese Valgeròur con cautela. "È accaduto qualcosa?" "Mio fratello è morto in una bufera quando aveva otto anni" le spiegò. "Non l'hanno mai ritrovato, è ancora disperso." Aveva rivelato a una sconosciuta nel bar di un albergo quello che gli pesava sul cuore da tanto tempo che quasi non se lo ricordava più. Forse sognava di farlo da tempo. Forse non voleva più rimanere da solo in quella tormenta. "C'è un racconto che parla di noi in uno di questi libri sulle sciagure che leggo sempre" continuò. "È un resoconto della scomparsa di mio fratello, delle ricerche e del dolore che ha inghiottito la nostra casa. Una descrizione incredibilmente fedele, in effetti, rilasciata da una delle persone coinvolte nelle ricerche e redatta da un amico di mio padre. Ci sono tutti i nostri nomi, la descrizione della casa e la reazione di mio padre, allora ritenuta molto strana, perché, mentre gli altri si davano da fare per cercare mio fratello, lui venne sopraffatto dalla disperazione e dal senso di colpa e rimase seduto in camera a fissare nel vuoto davanti a sé senza muoversi. Non ci chiesero il permesso di pubblicare quella storia, e i miei ne rimasero sconvolti. Posso mostrartela, se vuoi." Valgeròur annuì. Erlendur cominciò a raccontargliela e lei rimase seduta ad ascoltare, poi si appoggiò allo schienale della sedia e sospirò. "Non l'avete mai ritrovato?" Erlendur scosse la testa. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Molto tempo dopo a volte mi capita ancora oggi mi figuravo che non fosse morto, che fosse sceso dalla brughiera malridotto, che avesse perso la memoria e che prima o poi lo avrei incontrato di nuovo. Lo cerco ancora tra la folla e provo a immaginare che aspetto abbia. Pare non sia una reazione insolita, quando il cadavere non viene ritrovato. Lo so, l'esperienza in polizia me lo conferma. Quando non ti rimane altro, la speranza è tenace." "Eravate molto legati?" "Andavamo molto d'accordo, sì." Rimasero seduti in un profondo silenzio a osservare il viavai di gente in albergo, ciascuno perso nel suo mondo, nei suoi pensieri. I bicchieri erano vuoti, ma non volevano ordinare altro da bere. Rimasero così a lungo, finché Erlendur non si schiarì la gola, si chinò verso di lei e, tra mille esitazioni, formulò la domanda che aveva sentito dentro di sé da quando la donna gli aveva detto del tradimento di suo marito. "Hai ancora voglia di vendicarti di lui?" Valgeròur lo guardò e annuì. "Ma è troppo presto" disse. "Non posso..." "No. Hai ragione. Certo." "Raccontami, invece, di qualcuna di queste persone scomparse che ti interessano tanto e di cui leggi sempre." Erlendur sorrise e ci pensò su un momento, poi si mise a narrarle la storia di una sparizione avvenuta davanti agli occhi di tutti: quella di Jón Bergbórsson, il ladro dello Skagafjòròur. Jón era uscito sulla banchisa al largo della costa di Skagi per cercare uno squalo che il giorno prima era stato tirato a riva. Improvvisamente si era levato un vento fortissimo da sud, si era messo a piovere e il ghiaccio si era spaccato, galleggiando alla deriva. A causa della furia del maltempo, andare a recuperarlo in barca era fuori questione, e il ghiaccio, spinto dal vento del Sud, uscì dal fiordo. Quella fu l'ultima volta che videro Jón, all'orizzonte, verso nord, con un binocolo in mano, che correva avanti e indietro sul blocco di ghiaccio. La tranquilla musica di sottofondo al bar sortiva un effetto quasi soporifero su di loro, che rimasero seduti in silenzio, finché Valgeròur non si allungò verso Erlendur e non gli prese la mano. "E meglio che vada, adesso" disse. Lui annuì e si alzarono entrambi. La donna lo baciò sulla guancia e lo strinse a sé per un attimo. Non avevano notato che Èva Lind era entrata nel bar e li aveva riconosciuti a distanza. Aveva visto che si erano alzati, che quella donna aveva baciato suo padre e che pareva anche averlo abbracciato. La ragazza ebbe un fremito e si avvicinò a loro a grandi passi. "Chi cazzo è 'sta vecchia strega?" chiese, fissandoli. "Èva!" la rimproverò Erlendur, trasalendo nel vedere improvvisamente sua figlia al bar. "Cerca di essere cortese." Valgeròur le tese la mano ed Èva Lind la fissò, poi alzò lo sguardo sulla donna e infine fissò di nuovo la mano tesa. Erlendur le osservò entrambe e poi lanciò un'occhiataccia alla figlia. "Ti presento Valgeròur: è una mia cara amica" le spiegò. Èva Lind guardò suo padre e poi di nuovo la donna, senza però stringerle la Arnaldur Indridason – La Voce
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mano. Valgeròur sorrise imbarazzata, poi si voltò per andarsene. Erlendur la seguì con lo sguardo mentre usciva dal bar e la osservò attraversare la hall. Allora Èva Lind gli disse: "Chi era quella? Ti sei messo a pagare le troie qui al bar?" "Ma che razza di maleducata!" esclamò Erlendur. "Come ti viene in mente di comportarti così? Non sono affari tuoi. Lasciami in pace, insomma!" "Ma senti! Tu puoi impicciarti nelle mie cose tutto il giorno, cazzo, e io non posso neanche sapere chi ti scopi?" "Smettila di parlare così! Cosa ti fa pensare di poterti rivolgere a me con quel tono?" Èva Lind tacque, ma guardò suo padre piena di rabbia. Anche lui la fissava inviperito. "Che accidenti vuoi da me, mocciosa?" le urlò in faccia, poi si precipitò da Valgeròur, che però era già uscita dall'albergo, passando per la porta girevole. La vide salire su un taxi. Quando arrivò sul marciapiede, scorse le luci rosse del veicolo allontanarsi e infine sparire dietro l'angolo. Erlendur rimase a guardarla mentre se ne andava, imprecando. Non aveva voglia di tornare al bar, dove Èva Lind lo aspettava, così rientrò distrattamente in albergo, scese le scale fin nel seminterrato e, senza rendersene conto, arrivò nel corridoio dove c'era lo stanzino di Gudlaugur. Trovò un interruttore e lo premette, e le poche lampadine che ancora funzionavano proiettarono tutt'intorno una luce tetra. Avanzò facendo attenzione a dove metteva i piedi, finché non arrivò davanti allo stanzino. Aprì e accese la luce. Gli apparve di fronte il poster con Shirley Temple. La piccola principessa. Sentì un lieve rumore di passi lungo il corridoio, che riconobbe subito, ancora prima che Èva Lind comparisse sulla porta. "La ragazza di sopra mi ha detto di averti visto scendere nel seminterrato" gli disse, dando un'occhiata dentro la stanza. Lo sguardo si fermò sulla chiazza di sangue sul letto. "E qui che è successo?" "Sì." "Che poster è quello?" "Lascia perdere il poster. Il tuo comportamento non lo capisco proprio. Non avresti dovuto chiamarla vecchia strega, né rifiutarti di stringerle la mano. Non ti ha fatto niente di male." Èva Lind tacque. "Dovresti vergognarti" aggiunse Erlendur. "Scusami" disse lei. Non le rispose. Rimase a fissare il poster, invece. Shirley Temple, con un bell'abitino estivo e un fiocco tra i capelli, sorridente. La piccola principessa. Un film girato nel 1939 e tratto dal romanzo di Frances Hodgson Burnett. La Temple interpretava una ragazzina vivace che viene mandata in un collegio di Londra, diretto da una preside estremamente severa, perché suo padre deve trasferirsi all'estero. Siguròur Òli aveva trovato su internet del materiale sul film, che però non diceva niente sui motivi per cui Gudlaugur poteva avere appeso quel poster in camera sua. La piccola principessa, pensò Erlendur. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Quando l'ho vista con te al bar, ho pensato subito alla mamma" iniziò Èva Lind alle sue spalle. "E a me e a Sindri, perché per noi non hai mai mostrato alcun interesse. Ho pensato a tutti noi, a noi come famiglia, perché, comunque tu la veda, siamo ancora una famiglia. Per lo meno io la penso così." Poi tacque. Erlendur si voltò verso di lei. "Non capisco questo tuo disinteresse, soprattutto verso me e Sindri" continuò. "Non lo capisco. E tu non sei certo d'aiuto. Non vuoi mai parlare di ciò che ti riguarda. Anzi, non parli mai di niente. Non dici mai niente. È come parlare con un muro." "Perché hai sempre bisogno di una spiegazione per tutto?" le chiese Erlendur. "Per certe cose non esiste una spiegazione, mentre altre non hanno bisogno di essere spiegate." "Ha parlato lo sbirro!" "La gente parla troppo" aggiunse Erlendur. "Dovrebbe stare più zitta. Almeno la passerebbe liscia." "Tu stai parlando di criminali. Pensi sempre ai delinquenti. Noi siamo la tua famiglia!" Silenzio. "Probabilmente ho commesso degli sbagli" ammise Erlendur. "Ma non con vostra madre, o almeno credo, ma può anche essere, non lo so. La gente si separa, a volte; per me era intollerabile vivere con lei. Però sicuramente ho fatto un torto a te e a Sindri. E forse non me ne sono reso conto finché tu non sei venuta a cercarmi, portando anche tuo fratello, qualche volta. Non mi ero reso conto di avere due figli con cui non avevo avuto alcun contatto da bambini e che erano finiti nei guai molto presto, così ho cominciato a pensare che forse era colpa della mia passività. Ho pensato molto al perché di tutto questo. Proprio come te. Perché non sono andato da un giudice per ottenere l'affidamento e non ho combattuto con le unghie e con i denti per potervi tenere con me. O perché non ho insistito di più per parlare con vostra madre e arrivare a un accordo. Magari potevo aspettarvi fuori da scuola e portarvi via con me." "Semplice, non te ne fregava niente di noi" rispose Èva Lind. "Non è questo il punto?" Erlendur tacque. "È questo il punto, sì o no?" ripetè Èva. Erlendur scosse la testa. "No. Magari fosse così facile." "Facile? Che vuoi dire?" "Credo..." "Cosa?" "Non so come spiegarmi. Credo..." "Sì?" "Credo di essere morto anch'io, sulla brughiera." "Quando tuo fratello è scomparso?" "È difficile da spiegare, forse non è nemmeno possibile. Forse non si può spiegare tutto, forse alcune cose è meglio lasciarle così come sono, senza una spiegazione." "In che senso, sei morto anche tu?" "Non sono... una parte di me è morta." "Ti prego..." "Benché sia stato trovato e mi sia salvato, in realtà sono morto anch'io. È morto qualcosa dentro di me, che prima invece era vivo. Non so esattamente cos'era. Mio fratello è morto, e credo che anche dentro di me sia morto qualcosa. Mi sono sempre ritenuto responsabile per lui, ma quella volta ho fallito. È così che mi sono sempre sentito da allora. Mi sento in colpa, perché sono soArnaldur Indridason – La Voce
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pravvissuto io, non lui. Da allora ho evitato di assumermi qualsiasi altra responsabilità. E anche se forse non sono stato trascurato dai miei, come ho fatto io con te e Sindri, è stato come se non contassi più nulla. Non so se è giusto, e non lo saprò mai, ma l'ho avvertito subito, già mentre scendevo dalla brughiera, e questa sensazione mi perseguita da allora." "Per tutti questi anni?" "Il tempo non si misura con i sentimenti." "Perché tu sei sopravvissuto e lui no?" "Invece di cavare qualcosa di costruttivo da quella tragedia, come credevo di aver tentato di fare quando ho conosciuto vostra madre, mi sono nascosto dietro quei fatti, perché era più comodo, perché mi sembrava di avere trovato un rifugio. Come quando tu ti fai: ti pare la soluzione più comoda, quello è il tuo rifugio. E lo sai pure tu, e anche se ti rendi conto che stai facendo del male agli altri, tu sei più importante di qualunque altra cosa. Per questo continui a farti. Per questo sprofondo sempre più sotto il cumulo di neve sulla brughiera." Èva Lind fissò suo padre e, anche se non comprendeva del tutto quello che le stava dicendo, capiva che stava cercando di spiegarle con grande sincerità cose che per lei erano sempre state un enigma e che anni prima l'avevano spinta a cercarlo. Capiva di aver toccato un punto dentro di lui dove nessun altro era mai arrivato, nemmeno lui stesso, se non per accertarsi che rimanesse tutto com'era, indisturbato. "E quella donna? Che c'entra in tutto questo?" Erlendur alzò le spalle; lo spiraglio che aveva lasciato aperto già cominciava a chiudersi. "Non lo so." Rimasero a lungo in silenzio, finché Èva Lind non disse che se ne doveva andare, e uscì in corridoio. Non sapendo che direzione prendere, guardò verso la buia estremità opposta, e all'improvviso Erlendur notò che si era messa ad annusare come un cane. "Lo senti anche tu questo odore?" disse, alzando la testa. "Che odore?" Erlendur non si raccapezzava. "Come di erba." "Erba? Di che stai parlando?" "Hashish" chiarì Èva Lind. "Sto parlando di hashish. Mi stai dicendo che non sai che odore ha l'hashish?" "Hashish?" "Ma non senti niente?" Erlendur uscì in corridoio e cominciò anche lui ad annusare. "Ah, questo sarebbe hashish?" chiese. "Se non lo so io..." rispose Èva Lind, che stava ancora annusando. "Qualcuno ha fumato dell'hashish qui dentro, e non molto tempo fa" sentenziò. Erlendur sapeva che, durante i sopralluoghi sulla scena del crimine, la scientifica aveva illuminato l'altra estremità del corridoio, ma non era certo che fosse stata ispezionata con cura. Guardò Èva Lind. "Hashish?" "E la stessa puzza." Allora tornò nello stanzino, prese la sedia e la posizionò sotto una delle lampadine che funzionavano ancora in corridoio. La svitò. Il bulbo era incandescente, quindi si protesse le mani con la manica della giacca. Trovò una lampadina fulminata in fondo al corridoio e la Arnaldur Indridason – La Voce
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sostituì. D'un tratto, il buio si rischiarò, ed Erlendur scese dalla sedia. In un primo momento non videro niente che potesse destare la loro attenzione, ma poi Èva Lind gli fece notare che, in confronto al resto, la rientranza pareva incredibilmente pulita. Erlendur annuì. Era come se qualcuno avesse spazzato ogni macchia dal pavimento e avesse fregato le pareti. Erlendur si accucciò e passò in rassegna il pavimento. I tubi del riscaldamento correvano lungo tutta la parete, in basso. Si mise carponi per guardarvi sotto, avanzando passo dopo passo. Èva Lind lo vide fermarsi e pescare qualcosa da sotto un tubo, su cui gli era caduto l'occhio. Poi si alzò, le si avvicinò e le mostrò che cosa aveva trovato. "Per un attimo ho pensato che fosse merda di topo" disse, tenendo una cosina bruna fra le dita. "Che cos'è?" gli chiese Èva Lind. "È una bustina." "Una bustina?" "Sì, una bustina di tabacco da masticare, di quello che si mette sotto le labbra. Qualcuno l'ha buttato via o l'ha sputato qui in corridoio." "Chi? Chi c'era?" Erlendur la guardò. "Qualcuno che è più troia di me" rispose.
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VIGILIA DI NATALE † Erlendur scoprì che Òsp stava lavorando un piano sopra il suo, così, dopo aver bevuto un caffè e mangiato pane e burro al buffet della prima colazione, salì le scale. Si mise in contatto con Siguròur Òli perché gli servivano alcune informazioni, e chiamò Elinborg per sapere se si era ricordata di contattare la donna che Stefania sosteneva di aver incontrato in albergo quando era stata inquadrata dalla telecamera di sorveglianza. Ma la collega non era in casa e non rispondeva al cellulare. Erlendur era rimasto sveglio nel letto fino al mattino, nel buio più assoluto. Quando finalmente si era alzato, si era avvicinato alla finestra. Non sarebbe stato un Natale senza neve. Nevicava sul serio, lo si vedeva bene guardando il chiarore dei lampioni, nel cui cono di luce scendeva una neve fitta, che creava il giusto scenario per la vigilia di Natale. Aveva salutato Èva Lind nel corridoio del seminterrato. L'avrebbe rivista a casa quella sera. Volevano preparare l'agnello affumicato e, quando si alzò, si chiese cosa avrebbe potuto regalarle. Da quando trascorrevano il Natale insieme, le aveva comprato varie sciocchezze, mentre lei gli aveva regalato una volta dei calzini, che aveva ammesso di aver rubato, e un'altra dei guanti, che sosteneva di avere pagato regolarmente, ma che lui aveva perso poco dopo. Non gli aveva più domandato dove fossero andati a finire. Forse la cosa che gli piaceva di più di sua figlia era proprio che non gli chiedeva mai niente, a meno che non fosse qualcosa di importante. Siguròur Òli lo richiamò per riferirgli le informazioni che aveva richiesto. Non era molto, ma gli bastava. Non sapeva esattamente cosa stava cercando, ma sentiva che valeva la pena fare un tentativo. Anche stavolta osservò Òsp mentre lavorava, finché lei non lo notò. Nel vederlo, non si mostrò particolarmente sorpresa. "Si è alzato?" disse, come se fosse l'ospite più pigro dell'albergo. "Non riuscivo a dormire" rispose Erlendur. "Sai, ho pensato a te tutta la notte." "A me?" rispose Òsp, sistemando il mucchio di asciugamani sul carrello delle pulizie. "Spero non fosse niente di sconcio" precisò. "Ne ho abbastanza di porcherie, in questo albergo." "No" la rassicurò Erlendur, "niente del genere." "Ciccio mi ha chiesto se le avevo spifferato io le stronzate che ha detto, e il cuoco mi ha urlato dietro come se avessi rubato dal buffet. Sapevano che avevamo parlato, io e lei." "Sembra che in questo albergo tutti sappiano tutto di tutti" rispose Erlendur. "Ma alla fine nessuno dice niente. E' molto difficile trattare con persone del genere. Come te, per esempio." "Come me?" Òsp entrò nella camera che stava riassettando, ed Erlendur la seguì, come aveva già fatto in precedenza. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Mi dici quello che sai e io credo a ogni tua parola, perché sembri sincera e attendibile, invece mi hai rivelato solo una briciola di quello che sai davvero, ed è pure quella una balla, in un certo senso. Comunque, per noi della polizia è pur sempre qualcosa. Hai capito?" Òsp non gli rispose. Era intenta a cambiare le lenzuola ai letti. Erlendur la osservava. Non riusciva a capire a cosa stesse pensando. Si comportava come se lui non ci fosse, come se potesse cancellarlo fingendo che non esistesse. "Per esempio, non mi hai detto che hai un fratello" continuò. "Perché avrei dovuto dirglielo?" "Perché è nei guai." "Niente affatto." "E invece per quel che mi riguarda lo è eccome" rispose Erlendur. "Non ce l'ho messo io, ma è nei guai fino al collo e a volte, quando ha bisogno d'aiuto, va a cercare sua sorella." "Non so dove voglia arrivare" disse Òsp. "Te lo dico io. È finito dentro due volte, roba da poco, scasso e furto. Come succede di solito, qualcosa è trapelato, qualcos'altro no. Sono i tipici reati dei piccoli criminali, dei tossicodipendenti, che devono sempre soldi a qualcuno. Adesso tuo fratello si fa di roba che costa cara, e non ha mai abbastanza grana in tasca. Ma gli spacciatori ci mettono un attimo a fare certe cose. L'hanno beccato più di una volta e l'hanno pestato. Hanno pure minacciato di tirargli una mazza sul ginocchio. Così, oltre a rubare, per procurarsi la dose e pagare i debiti, è costretto a fare diverse altre cosette." Òsp posò le lenzuola. "Per finanziarsi tuo fratello attinge a diverse risorse" continuò Erlendur. "Lo sai anche tu, probabilmente. Come fanno i ragazzi uguali a lui, un branco di drogati senza speranza." Òsp non gli rispose. "Capisci cosa voglio dire?" "Gliele ha dette Stina queste cose?" gli chiese Òsp. "L'ho vista qui in albergo, ieri o l'altro ieri. La vedo spesso, e se c'è una che è puttana dentro, quella è lei." "Non mi ha detto niente" rispose Erlendur, senza permetterle di cambiare argomento. "Non è passato molto tempo da quando tuo fratello è stato nello stanzino dove abitava Gudlaugur. A dire il vero, forse è arrivato dopo l'omicidio. C'è un'estremità del corridoio che è buia, non ci va nessuno. Magari è stato lì di recente. C'è ancora il suo odore: chi lo conosce, cioè chi fuma hashish, usa anfetamine e si fa d'eroina, lo sente subito." Òsp lo guardò. Erlendur era andato a trovarla pur non avendo molto in mano, a parte il fatto che la rientranza era stata pulita con cura, ma dalla reazione della ragazza capì che non era del tutto fuori strada. Si chiese se dovesse spingersi oltre. Rimase incerto sul da farsi per qualche momento, poi decise di tentare. "Abbiamo trovato anche il suo tabacco. È tanto che lo usa?" Òsp lo fissò senza dire una parola. Infine abbassò gli occhi sul letto e sul lenzuolo che teneva in mano e che guardò a lungo, poi sembrò rassegnarsi e lo lasciò cadere sul materasso. "Da quando aveva quindici anni" sussurrò, a voce così bassa che Erlendur la sentì a malapena. Arnaldur Indridason – La Voce
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Attese che continuasse, ma lei non disse altro, così rimasero l'uno davanti all'altra dentro la stanza. Erlendur lasciò spazio al silenzio per un po'. Infine Òsp sospirò profondamente e si sedette sul letto. "E' sempre al verde" continuò piano. "È sempre in debito con tutti. Sempre. E così lo minacciano e lo picchiano, eppure lui continua ad accumulare altri debiti. A volte trova dei soldi e paga qualcuno. Mamma e papà ormai hanno rinunciato da tempo ad aiutarlo. L'hanno buttato fuori di casa quando aveva diciassette anni. L'hanno mandato a curarsi in comunità, ma è scappato. È rimasto fuori casa per una settimana, più o meno, e loro hanno messo annunci anche sui giornali. A lui non gliene fregava niente. Da allora sta sempre in giro. Sono l'unica della famiglia a essere in contatto con lui. A volte, d'inverno, lo faccio entrare nel seminterrato. Quando ha bisogno di un nascondiglio, lo faccio dormire giù in corridoio. Gli ho proibito di portare la roba in albergo, ma nemmeno io sono in grado di farlo ragionare. Nessuno ci riesce." "Gli hai dato del denaro per pagare i debiti?" "A volte, ma non gli basta mai. Quella gente è andata anche a casa da mamma e papà, e li hanno minacciati di aspettarsi il peggio, hanno perfino rovinato la macchina di mio padre; i miei stanno ancora cercando di pagare per liberarsi di quei criminali, ma è una cifra alta. Hanno fissato degli interessi assurdi, e quando parliamo con la polizia, con persone come lei, ci dicono che non possono farci niente perché sono solo minacce, come se fosse normale andare in giro a minacciare qualcuno." Poi guardò Erlendur. "Se ammazzano papà, allora forse indagherete." "Tuo fratello conosceva Gudlaugur? Condividendo il corridoio, dovevano sapere l'uno dell'esistenza dell'altro." "Sì, si conoscevano" rispose Òsp cupa. "Come?" "Gulli lo pagava per..." Òsp si fermò. "Per che cosa?" "Per farsi fare dei servizietti." "Sessuali?" "Sì, sessuali." "Come lo sai?" "Me l'ha detto mio fratello." "Quel pomeriggio era da Gudlaugur?" "Non lo so. Non lo vedo da giorni, da quando..." Poi tacque. "Non lo vedo da quando Gudlaugur è stato pugnalato. Non mi ha più cercato." "Credo che si trovasse nel corridoio non molto tempo fa. Dopo che Gudlaugur è stato ucciso." "Io non l'ho visto." "Pensi che sia stato lui ad ammazzare Gudlaugur?" "Non lo so. So solo che non ha mai picchiato nessuno. E che deve sempre scappare, sicuramente starà scappando pure adesso, anche se non ha fatto niente. Non ha mai fatto del male a nessuno." "E tu non sai dov'è adesso?" "No. Non l'ho più sentito." "Sai se conosce quell'inglese di cui ti ho parlato, Henry Wapshott? Quello che guarda materiale pornografico." "No, non lo conosce. Almeno credo. Ma perché mi chiede di lui?" "Tuo fratello è gay?" Òsp lo guardò. "So che farebbe di tutto per i soldi" disse, "ma non credo sia gay." "Gli puoi dire che vorrei parlargli? Se ha notato qualcosa nel seminterrato, devo saArnaldur Indridason – La Voce
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perlo. Devo anche capire meglio il suo rapporto con Gudlaugur. Devo sapere se l'ha incontrato il giorno che è stato ucciso. Lo farai per me? Gli dirai che ho bisogno di parlargli?" "Crede che sia stato lui? Che abbia ucciso lui Gudlaugur?" "Non lo so" rispose Erlendur. "Se non ho sue notizie al più presto, dovrò fare una segnalazione e inserirlo nell'elenco dei ricercati." Òsp non reagì. "Sapevi che Gudlaugur era gay?" le chiese l'agente. La ragazza alzò la testa. "Per forza, visto quello che mi diceva mio fratello e quanto lo pagava per andarci insieme..." Poi tacque. "Sapevi che era morto quando ti hanno chiesto di andare a cercarlo?" Lei lo guardò. "No, non lo sapevo. Non tenti di addossare la colpa a me. Ci sta provando? Crede che l'abbia ucciso io?" "Non mi avevi detto niente di tuo fratello, né che stava nel seminterrato." "E' sempre nei guai, ma so che non è stato lui. So che non potrebbe mai fare una cosa del genere. Mai." "Dovete volervi molto bene, voi due, dato che ti prendi tanta cura di lui." "Siamo sempre stati molto legati" confermò Òsp, alzandosi. "Se lo sento, gli parlerò, gli dirò che vuole vederlo e verificare se sa qualcosa di quanto è successo." Erlendur annuì, poi le disse che sarebbe stato in albergo fino a quella sera, poteva chiamarlo in qualsiasi momento. "Bisogna fare in fretta, Òsp" le disse. Quando ridiscese nella hall, Erlendur notò Elìnborg accanto al banco della reception e vide che il responsabile lo stava additando; la collega si voltò. Lo stava cercando, così gli si avvicinò a passo sostenuto, con un'espressione preoccupata in viso, che non le aveva visto spesso. "Qualcosa non va?" le chiese, quando gli fu vicina. "Non possiamo sederci da qualche parte? Hanno già aperto il bar? Dio, che lavoro di merda! Non so perché la gente voglia fare questo mestiere." "Che succede?" le domandò Erlendur, prendendola per un braccio e portandola al bar. La porta era chiusa, ma non a chiave, quindi entrarono. Benché il locale fosse aperto, il bar non sembrava ancora in funzione ed Erlendur lesse su un cartello che avrebbe riaperto di lì a un'ora. Si sedettero in un angolo. "E il Natale a casa mia è rovinato" si lagnò Elìnborg. "Non ho mai cucinato così poco come quest'anno. Tutti i parenti arrivano stasera e..." "Dimmi cos'è successo." "Che casino. Io non lo capisco. Non lo capisco proprio." "Chi?" "Il bimbo !" rispose Elinborg. "Non capisco cosa voglia dire." Poi gli raccontò che la sera prima, invece di andare a casa a preparare i biscotti, si era recata all'ospedale psichiatrico di Kleppur. Non sapeva esattamente perché, ma non riusciva a liberarsi del caso del padre e del bambino maltrattato. Quando Erlendur le fece notare che forse era solo stanca di cuocere biscotti per tutto il parentado, non le venne nemmeno voglia di sorridere. Era già stata all'ospedale psichiatrico in precedenza, per provare a parlare con la madre del bambino, ma la donna era così malata che non ci aveva Arnaldur Indridason – La Voce
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ricavato nulla di comprensibile. La scena si era ripetuta la sera prima, quando era tornata a trovarla. La donna stava seduta e oscillava avanti e indietro, fissando nel vuoto, completamente fuori dal mondo. Elinborg non sapeva cosa voleva sapere da lei, ma pensava che potesse essere a conoscenza di qualche dettaglio sul rapporto fra il marito e il figlio che non era ancora emerso. Sapeva che la donna si fermava in ospedale solo per brevi periodi. La ricoveravano di tanto in tanto, quando entrava nella fase in cui buttava i farmaci nel water e tirava lo sciacquone. Quando li assumeva regolarmente, invece, in genere era di buon umore. Si occupava della casa. Quando Elinborg ne aveva accennato con gli insegnanti del bambino, aveva appreso che si prendeva molta cura di lui, almeno così sembrava. Era rimasta nella sala d'attesa finché l'infermiera non le aveva portato la paziente. L'aveva osservata avvolgersi di continuo i capelli intorno al dito indice, borbottando qualcosa a fior di labbra che non aveva afferrato. Aveva cercato di parlarle, ma era come se la donna non fosse lì. Non aveva mostrato alcuna reazione alle sue domande. Sembrava sonnambula. Elinborg era rimasta seduta con lei a lungo, poi le erano venuti in mente tutti i biscotti che ancora doveva preparare. Si era alzata per chiamare qualcuno che riportasse la donna in corsia, e in corridoio si era imbattuta in un inserviente. Era un uomo sulla trentina, pareva un culturista. Indossava un paio di pantaloni e una maglietta a maniche corte, entrambi bianchi, e a ogni movimento i forti bicipiti risaltavano. Aveva i capelli corti e un volto rotondo e paffuto, gli occhi piccoli e incassati. Elinborg non gli aveva chiesto come si chiamava. L'aveva seguita nella saletta. "Ah, ma è Dora" disse, avvicinandosi a lei e alzandole un braccio. "Ma come siamo tranquilli, stasera." La donna si era alzata, confusa come al solito. "Sei imbottita di farmaci, poverina" le aveva detto, ma a Elinborg non era piaciuto il tono della voce. Era come se si stesse rivolgendo a un bambino di cinque anni. E che voleva dire che era tranquilla quella sera? Non era riuscita a trattenersi. "La smetta di parlarle come se fosse una bambina" l'aveva rimbrottato, in modo più scorbutico di quanto pensasse. L'uomo l'aveva guardata. "La cosa la riguarda?" le aveva risposto. "Ha diritto anche lei a essere trattata con rispetto, come tutti gli altri" replicò Elinborg, trattenendosi dal rivelare che era un'agente di polizia. "Forse. Ma non credo di averle mancato di rispetto. Su, cara Dora" aveva detto poi, accompagnando la donna in corridoio. Elinborg li aveva seguiti in silenzio. "In che senso stasera è tranquilla?" "In che senso stasera è tranquilla?" le Arnaldur Indridason – La Voce
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aveva fatto eco l'uomo, girando la testa verso di lei. "Sì, prima ha detto che stasera era molto tranquilla. Perché, di solito com'è?" "A volte la chiamo la fuggitiva, perché scappa sempre." Elinborg non capiva. "Di che sta parlando?" "Non ha visto il film?" "Scappa dall'ospedale?" "Non solo, anche quando li portiamo in città. È scappata pure l'ultima volta che siamo andati in centro. Stavamo impazzendo, poi l'abbiamo ritrovata alla stazione degli autobus di Hlemmur, e l'abbiamo riportata qui in sede. Siete stati voi a non portarle molto rispetto, semmai." "Noi?" "Lo so che lei è della polizia. Ce l'avete sbattuta voi, qui dentro." "Quando è stato?" L'inserviente ci aveva pensato un momento. Era stato lui ad accompagnare la donna e altri due pazienti, il giorno in cui era scappata. Erano a Lagkjartorg. Se lo ricordava bene. Era lo stesso giorno in cui aveva battuto il suo record personale di sollevamento pesi. La data corrispondeva a quella dell'aggressione del bambino. "Non avete avvertito suo marito, quando è scappata?" gli aveva chiesto Elìnborg. "Stavamo per chiamarlo, poi l'avete trovata voi. Lasciamo sempre un po' di tempo ai pazienti, magari tornano da soli. Altrimenti saremmo sempre attaccati al telefono." "Suo marito sa che la chiamate la fuggitiva?" "Solo io la chiamo così, nessun altro. No, suo marito non lo sa." "Ma almeno sa che scappa?" "Io non gliel'ho mai detto. Tanto ritorna sempre." "Non ci credo" aveva sospirato Elìnborg. "Per non farla scappare, bisogna imbottirla di farmaci." "Ma questo cambia tutto !" "Vieni, cara Dora" aveva detto poi l'inserviente, e la porta della corsia si era richiusa alle sue spalle. Elìnborg fissò Erlendur. "Ero così sicura che fosse stato il padre. E invece può darsi che la donna sia scappata a casa, abbia picchiato il bambino e poi se ne sia andata di nuovo. Se solo il piccolo parlasse!" "Perché avrebbe dovuto malmenare il figlio?" "Non ne ho idea. Forse sente delle voci." "E le fratture alle dita e i lividi? E tutte le violenze subite negli anni? Sarebbe sempre stata lei, allora?" "Non lo so." "Hai parlato con il padre?" "Sono appena tornata." "E...?" "Be', non è che siamo amici per la pelle, noi due. Non vede il figlio da quando siamo entrati in casa sua e abbiamo messo tutto a soqquadro. Mi ha ricoperta di insulti e..." "Che dice di sua moglie, della madre di suo figlio?" la interruppe Erlendur, impaziente. "Deve pure aver sospettato di lei." "Il bambino non ha detto niente." "Solo che sente la mancanza del papà." "Sì, solo questo. Suo padre l'ha trovato in camera ridotto a quel modo e crede sia successo a scuola." "Tu sei stata in ospedale dal bambino, gli hai chiesto se era stato il suo papà a picchiarlo e hai trovato conferma nella sua reazione." "Devo averlo frainteso" ammise Elìnborg avvilita. "Avevo letto qualcosa, nel suo comportamento..." "Ma non abbiamo niente in mano che ci confermi che è stata la madre. E nemmeno che non è stato il padre." "Ho detto a quell'uoArnaldur Indridason – La Voce
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mo che ero stata all'ospedale a parlare con sua moglie, e che non sappiamo dove fosse andata il giorno in cui il bimbo è stato aggredito. Era molto sorpreso. Come se non gli fosse mai passato per la testa che sua moglie potesse fuggire dall'ospedale. Crede ancora che siano stati i compagni di scuola. Ha detto che, se fosse stata la madre ad aggredirlo, il bambino ce lo direbbe. Ne è sicuro." "Perché allora non lo fa?" "Sicuramente è spaventato, poverino. Non lo so." "Per affetto?" azzardò Erlendur. "Malgrado tutto quello che gli ha fatto?" "O per paura. Forse per paura che lo rifaccia. Forse sta proteggendo sua madre con il silenzio. E impossibile dirlo." "Che cosa vuoi fare? Dobbiamo far cadere le accuse contro il padre?" "Voglio parlare con il procuratore e sentire cosa dice." "Comincia da lì, allora. Dimmi un'altra cosa: hai telefonato alla donna che era in albergo con Stefania qualche giorno prima che Gudlaugur venisse pugnalato?" "Sì" rispose Elìnborg distratta. "Le aveva chiesto di mentire, ma quando è stato il momento non ce l'ha fatta." "Doveva mentire per coprire Stefania?" "Ha cominciato dicendomi che si erano viste in albergo, ma continuava a contraddirsi, è una pessima bugiarda, e quando le ho detto che l'avrei portata alla centrale per una deposizione si è messa a piangere al telefono. Mi ha detto che Stefania l'aveva chiamata, sono vecchie amiche, fanno parte di qualche società musicale, e l'aveva pregata di dirci, se gliel'avessimo chiesto, che si trovavano insieme qui in albergo. Lei si era rifiutata, ma sembra che, per motivi che non ha voluto spiegarmi, Stefania abbia molta presa su di lei." "È stata tutta una penosa menzogna, fin dall'inizio" disse Erlendur. "Ce ne siamo accorti entrambi, nell'attimo stesso in cui la formulava. Non so perché ci stia intralciando così, a meno che non sia lei la colpevole." "Vuoi dire che avrebbe ucciso suo fratello?" "O magari sa chi è stato." Rimasero seduti ancora un po' a bere il caffè e a parlare del bambino, del padre, della madre e di quella complessa situazione famigliare, e a Elinborg venne naturale richiedere a Erlendur cosa avesse intenzione di fare per Natale. Lui le rispose che voleva stare con Èva Lind. Informò Elinborg su quanto aveva trovato nel corridoio del seminterrato e sui sospetti che il fratello di Òsp, un delinquentello sempre in cerca di denaro, non fosse estraneo al caso. Poi la ringraziò per l'invito e le disse di prendersi qualche giorno di ferie fino a Natale. "Natale è domani" gli rispose Elinborg e gli sorrise, alzando le spalle, come se il Natale e le pulizie e i biscotti e i parenti non avessero più alcuna importanza. "Riceverai qualche regalo?" gli chiese. "Forse dei calzini. Lo spero." Poi esitò un attimo. "Non prendertela tanto, per quell'uomo" aggiunse infine. "Può succedere. Siamo sicuri di una cosa, perfino convinti al cento per cento, poi scopriamo un dettaglio nuovo e tutto viene rimesso in dubbio." Elinborg annuì. Erlendur la seguì fin nella hall, dove si salutarono. Voleva tornare in camera per raccogliere le sue cose. Ne aveva abbastanza di starsene lontano da Arnaldur Indridason – La Voce
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casa. Cominciava a sentire la mancanza del suo buco vuoto, dei suoi libri, della poltrona e anche di Èva Lind sul divano. Stava aspettando l'ascensore, quando all'improvviso si ritrovò Òsp accanto, senza che l'avesse notata. "L'ho trovato" gli disse. "Chi, tuo fratello?" "Venga" disse Òsp, avviandosi verso le scale che portavano al seminterrato. Erlendur esitò. Le porte dell'ascensore si aprirono, lui guardò dentro. Era sulle tracce dell'assassino. Forse il fratello di Òsp, il ragazzo con le bustine di tabacco, era tornato per costituirsi dietro insistenza della sorella. Erlendur non era in tensione. Non nutriva alcuna aspettativa, né provava la sensazione di vittoria che segue sempre la risoluzione di un caso. Sentiva solo stanchezza e dispiacere, perché quel caso aveva sollecitato troppi ricordi della sua infanzia, e sapeva che nella sua vita c'erano ancora molti nodi da sciogliere e non sapeva da dove cominciare. Soprattutto voleva dimenticare il lavoro e tornare a casa. Stare con Èva Lind. Aiutarla a superare le difficoltà con cui doveva misurarsi. Voleva smetterla di pensare agli altri e cominciare a pensare a se stesso e ai suoi famigliari. "Allora, viene?" gli chiese Òsp a bassa voce in cima alle scale, in attesa. "Arrivo." Erlendur la seguì fino alla caffetteria del personale dove le aveva parlato la prima volta. Regnava lo stesso squallore. La cameriera chiuse la porta dietro di sé. Suo fratello era seduto a un tavolo e, appena vide entrare Erlendur, balzò in piedi. "Non gli ho fatto niente" disse con un filo di voce. "Òsp sostiene che secondo lei sono stato io, ma non gli ho fatto niente. Non gli ho fatto niente!" Indossava un sudicio giaccone blu, scucito su una spalla, da cui fuoriusciva l'imbottitura bianca, un paio di jeans, neri da quanto erano sporchi, e un paio di consunti stivali scuri che si allacciavano fino al polpaccio, ma Erlendur vide che mancavano le stringhe. Tra le dita lunghe e sozze teneva una sigaretta. Inspirò ed espirò. Parlava con un tono di voce concitato e camminava avanti e indietro in un angolo della caffetteria come un animale chiuso in gabbia insieme a un poliziotto pronto ad ammanettarlo. Erlendur guardò Òsp, che stava vicino alla porta, e poi suo fratello. "Devi fidarti molto di tua sorella, dal momento che sei venuto." "Io non ho fatto niente" ripetè. "Mi ha detto che era tutto a posto e che lei aveva solo bisogno di qualche informazione." "Devo sapere in che rapporti eri con Gudlaugur. Non so se l'hai pugnalato tu." "Non l'ho pugnalato io." Erlendur lo osservò attentamente. Era a metà strada tra l'adolescenza e l'età adulta, infantile a modo suo, ma duro in viso, da cui trasparivano rabbia e amarezza nei confronti di qualcosa che Erlendur non riusciva nemmeno a immaginare. "Nessuno sta dicendo che sia stato tu" lo tranquillizzò, cercando di placare la sua agitazione. "Come mai conoscevi Gudlaugur? In che rapporti eravaArnaldur Indridason – La Voce
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te?" Il ragazzo guardò sua sorella, ma Òsp non disse una parola e rimase muta in piedi accanto alla porta. Allora si voltò di nuovo verso Erlendur. "A volte gli facevo dei favori, e lui mi pagava" rispose. "E come vi siete conosciuti? E stato molto tempo fa?" "Sapeva che ero il fratello di Òsp. Trovava divertente che fossimo fratello e sorella, come tutti, del resto." "Perché?" "Perché io mi chiamo Reynir." "E quindi? Cosa c'è di tanto divertente?" "Òsp e Reynir, cioè pioppo e sorbo. Fratello e sorella. Uno scherzo di mamma e papà, insomma. Come se ci tenessero a rimboscare il paese." "Torniamo a Gudlaugur..." "L'ho visto per la prima volta qui in albergo, quando sono venuto a trovare Òsp. Circa sei mesi fa, più o meno." "E...?" "Sapeva chi ero. Òsp gli aveva parlato di me. A volte mia sorella mi lasciava dormire giù in corridoio, nel seminterrato." Erlendur si voltò verso Òsp. "Hai pulito tutto alla perfezione là sotto, eh?" le fece notare. Òsp lo guardò come se non capisse cosa volesse dire e non gli rispose. Poi l'agente si rivolse di nuovo a Reynir. "Allora, lui sapeva chi eri e tu dormivi in corridoio, davanti alla sua porta. E quindi?" "Mi doveva dei soldi. Diceva che mi avrebbe pagato." "Perché?" "Perché a volte gli facevo un pompino e..." "E...?" "E a volte lo faceva lui a me." "Sapevi che era omosessuale?" "Be', era evidente..." "E il preservativo?" "Lo usavamo sempre. Era paranoico. Diceva che non voleva correre rischi, non sapeva se ero sieropositivo. Io sono a posto" esclamò con foga e guardò sua sorella. "E mastichi tabacco." Il ragazzo guardò Erlendur sorpreso. "E questo che c'entra?" gli domandò. "Non importa. Allora, lo mastichi, sì o no?" "Sì." "Eri con lui il giorno in cui è stato ucciso?" "Sì. Mi ha chiesto di vederci perché voleva pagarmi." "Come ha fatto a trovarti?" Reynir prese il cellulare dalla tasca e glielo mostrò. "Quando sono arrivato, si stava mettendo il costume da Babbo Natale" spiegò. "Ha detto che doveva sbrigarsi per la festa, mi ha dato quel che mi doveva, ha guardato l'orologio e ha detto che aveva appena il tempo per divertirsi un po'." "Teneva molto denaro nel suo stanzino?" "Non che io sappia. Ho visto solo quello che ha dato a me. Ma ha detto che aspettava un grosso pagamento." "Da chi?" "Non lo so. Ha detto che era seduto su una miniera d'oro, però." "Che voleva dire?" "Doveva vendere una certa cosa, ma non è sceso nei dettagli. Ha detto solo che aspettava un botto di soldi, cioè molti soldi, lui non diceva mai 'un botto'. Non parlava così, come me, era sempre molto educato, usava belle parole. Era incredibilmente gentile. Un uomo a posto. Non mi ha mai fatto niente di male. Ha sempre pagato. Conosco tanta gente peggiore di lui. A volte voleva solo parlare. Diceva di non avere nessuno, oltre a me." "Ti ha mai detto qualcosa del suo passato?" "No." "Nemmeno che un tempo era stato un bambino prodigio?" "No. Un bambino prodigio? Come?" "Nel suo stanzino hai visto un coltello Arnaldur Indridason – La Voce
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che poteva provenire dalla cucina dell'albergo?" "Sì, ho visto un coltello, ma non so da dove provenisse. Quando sono sceso da lui, stava tagliando qualcosa dal costume di Babbo Natale. Ha detto che per l'anno prossimo avrebbe dovuto prenderne uno nuovo." "E non aveva denaro con sé, a parte quello che ti ha dato?" "Non credo, no." "Non è che per caso l'hai rubato tu?" "No." "Non l'hai preso tu il mezzo milione di corone che aveva in camera?" "Mezzo milione? Aveva mezzo milione di corone?" "Mi pare di capire che tu sia sempre a corto di soldi, ed è chiaro come te li procuri. C'è gente che ti cerca perché sei in debito. Hanno minacciato la tua famiglia..." Reynir lanciò un'occhiataccia alla sorella. "Non guardare lei, guarda me. Gudlaugur aveva del denaro nello stanzino. Più di quanto doveva a te. Forse aveva già venduto la sua miniera d'oro. Tu hai visto il denaro. Ne volevi di più. Ti ha detto di no, allora avete litigato, tu hai afferrato il coltello e hai cercato di colpirlo, ma lui si è difeso, finché non sei riuscito a piantargli il coltello nel petto e ad ammazzarlo. Poi hai preso i soldi e..." "Ma senti 'sto stronzo" sibilò Reynir. "Sono tutte stronzate, cazzo!" "... e da allora fumi hashish e ti buchi, o qualsiasi cosa tu..." "Che stronzo bastardo !" gli urlò Reynir. "Continua la storia" intervenne Òsp. "Digli cos'hai detto a me. Digli tutto!" "Tutto cosa?" "Mi ha chiesto se volevo fargli un servizietto prima di andare alla festa" continuò Reynir. "Gli restava poco tempo, ma i soldi li aveva, mi avrebbe pagato bene. Allora abbiamo cominciato, ma è arrivata una vecchia e ci ha urlato dietro." "Una vecchia?" "Sì." "Che vecchia?" "Una vecchia che ci ha visto." "Diglielo..." Erlendur sentì Òsp alle sue spalle. "Digli chi era!" "Di che vecchia stai parlando?" "Ci eravamo dimenticati di chiudere a chiave perché avevamo fretta, ma all'improvviso si è aperta la porta e quella si è buttata contro di noi." "Chi era?" "Non lo so. Una vecchia." "E poi che è successo?" "Non lo so. Ho tagliato la corda. Lei gli ha urlato qualcosa, così io sono sparito." "Perché non sei venuto subito da noi a darci queste informazioni?" "Cerco di evitare la polizia. Ho gente di ogni tipo alle calcagna e, se sanno che parlo con la polizia, credono che stia facendo qualche soffiata e poi me la fanno pagare cara." "Chi è questa donna che vi ha interrotto? Che aspetto aveva?" "Non l'ho guardata bene. Ho tagliato la corda subito. Lui però c'era rimasto male. Mi ha spinto via, urlava, era completamente fuori di testa. Come se avesse una fifa marcia di quella donna. Una fifa marcia." "Che cosa urlava?" insisté Erlendur. "Steffi." "Cosa?" "Steffi. È stata l'unica cosa che ho sentito. Steffi. L'ha chiamata Steffi. Aveva una fifa marcia di lei." Stefania era davanti alla porta della sua camera e gli volgeva le spalle. Erlendur si fermò e la osservò un attimo: era cambiata molto dalla prima volta che l'aveva vista entrare nella hall dell'albergo insieme al padre. Adesso era solo una donna di mezz'età, stanca e ferita, che viveva ancora con il genitore invalido nella stessa casa in cui abitava da una vita. Per motivi che lui Arnaldur Indridason – La Voce
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ignorava, era andata in albergo e aveva ucciso suo fratello. Era come se ne avesse percepito la presenza in corridoio, perché all'improvviso si era voltata e l'aveva guardato. L'agente non riuscì a leggerle in faccia cosa stesse pensando. Sapeva solo che era lei la persona che cercava da quando era entrato in quell'albergo la prima volta e aveva visto Babbo Natale seduto in una pozza di sangue. Lei rimase ferma accanto alla porta senza dire niente, finché Erlendur non le si avvicinò. "Devo dirle un'altra cosa, potrebbe essere importante" gli disse. Erlendur sapeva che era venuta per la menzogna sull'amica, aveva capito che era arrivato il momento di dirgli la verità. Così aprì la porta e la donna entrò prima di lui, si avvicinò alla finestra e osservò la neve. "Avevano previsto un Natale senza neve" commentò. "La chiamano Steffi, qualche volta?" le chiese Erlendur. "Mi chiamavano così quand'ero piccola" rispose, continuando a guardare dalla finestra. "Suo fratello la chiamava Steffi, per caso?" "Sì. Sempre. E io lo chiamavo sempre Gulli. Perché me lo chiede?" "Perché era in questo albergo cinque giorni prima che suo fratello morisse?" Stefania sospirò profondamente. "So che non avrei dovuto dirle bugie." "Allora, perché è venuta?" "Per i dischi. Pensavamo fosse nostro diritto averne una parte. Sapevamo che ne aveva molte copie, forse tutte quelle che all'epoca non erano state vendute, ed eravamo disposti a comprarne una parte, se avesse voluto venderle." "Com'era entrato in possesso dell'intera tiratura?" "L'aveva papà, la teneva a casa ad Hafnarflòrur, poi quando Gudlaugur se ne andò, portò via tutte le casse. Disse che i dischi erano suoi e di nessun altro." "Come avete saputo che voleva venderli?" Stefania esitò. "Ho mentito anche su Henry Wapshott" ammise. "Lo conosco. Non molto, ma avrei dovuto dirglielo. Lui non le ha detto che ci conosceva?" "No. Ha ben altri problemi, adesso. C'è qualcosa di vero in quello che mi ha raccontato fino a questo momento?" Lei non gli rispose. "Perché dovrei credere a quello che mi sta dicendo ora?" Stefania tacque e guardò la neve che cadeva al suolo, ed era lontana, come se fosse sparita, tornata alla vita che conduceva molto tempo prima, quando non conosceva la menzogna e tutto era verità, una verità fresca e pulita. "Stefania?" "Non è stato per il canto che hanno litigato" disse a un tratto. "Quando papà cadde dalle scale, intendo. Non è stato per il canto. Quella è stata l'ultima menzogna, e la più grossa." "Vuol dire quando litigarono in cima alla scala?" "Sa come lo chiamavano i compagni di scuola? Come l'avevano soprannominato?" "Temo di sì." "Lo chiamavano la piccola principessa." "Perché cantava nel coro ed era effeminato e..." "Perché l'avevano visto indossare i vestiti di mamma" lo interruppe Stefania. Poi distolse lo sguardo dalla finestra. "Fu dopo che lei morì. Gli mancava terribilmente, soprattutto quando aveva Arnaldur Indridason – La Voce
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lasciato il coro ed era tornato un ragazzino normale con una voce normale. Papà non ne sapeva nulla, ma io sì. Quando non c'era, Gulli a volte si metteva i gioielli della mamma, indossava i suoi vestiti, si guardava allo specchio e si truccava anche. E una volta, in estate, alcuni ragazzi che passavano di lì lo videro. Erano suoi compagni di classe. Si misero a spiare dalla finestra del salotto. Lo facevano, a volte, perché ci consideravano strani. Cominciarono a ridere e a schiamazzare, senza pietà. Dopo quella volta, a scuola Gudlaugur venne considerato un diverso. E cominciarono a chiamarlo 'piccola principessa'." Silenzio. "Credo che lo facesse solo perché la mamma gli mancava tanto" continuò. "Che indossare i suoi vestiti e usare i suoi gioielli fosse un modo per sentirsi vicino a lei. Non credo avesse tendenze contro natura. Poi accadde un'altra cosa..." "Tendenze contro natura?" domandò Erlendur. "È così che la vede? Suo fratello era omosessuale. Non l'ha mai perdonato, vero? E per questo che non ha avuto più contatti con lui in tutti questi anni?" "Quando nostro padre lo trovò con un coetaneo a fare cose indescrivibili, Gulli era molto giovane. Sapevo che era in camera con un amico, credevo che studiassero. Papà tornò a casa prima del previsto ed entrò in camera sua perché stava cercando qualcosa, così si ritrovò davanti quell'orrore. Non volle dirmi cos'aveva visto. Quando arrivai, il ragazzo si stava precipitando giù dalle scale con i pantaloni abbassati, e papà e Gudlaugur stavano litigando furiosamente. L'ho visto spingerlo con forza, lui ha perso l'equilibrio, è caduto e non si è più alzato." Stefania tornò alla finestra e guardò la neve natalizia volteggiare e posarsi a terra. Erlendur rimase in silenzio e si chiese a cosa pensava quando si chiudeva in se stessa a quel modo, ma non riusciva a immaginarlo. Quando la donna ruppe di nuovo il silenzio, credette di aver trovato una sorta di risposta. "Io non ho mai contato niente" disse. "Quello che facevo io erano tutte sciocchezze. Non lo sto dicendo per compatirmi, ormai ho smesso di farlo da tempo, credo. Piuttosto voglio cercare di capire e spiegare perché non ho più avuto contatti con lui da quel giorno. A volte credo che dentro di me fossi felice per come andarono le cose. Se lo immagina?" Erlendur scosse la testa. "Quando se ne andò Gulli, divenni io la più importante della famiglia, non lui. Lui non lo è stato mai più. E per certi versi ero contenta, contenta che non fosse diventato il gran bambino prodigio che tutti si aspettavano. Credo di averlo invidiato da sempre, molto più di quanto io stessa volessi ammettere, per tutte le attenzioni che riceveva e per la voce che aveva. Era divina. Era come se lui avesse ricevuto in dono tante doti e io nemmeno una. Martellavo sul pianoforte come un cavallo, così diceva papà, quando cercava di insegnarmi. Diceva che ero negata. Eppure io l'adoravo, perché credevo che avesse sempre ragione. Era spesso buono con me e, quando non fu più autosufficiente, mi presi cura di lui, ero fondamentale. E così sono passati gli anni, uno dopo l'altro, senza che Arnaldur Indridason – La Voce
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cambiasse nulla. Gulli se n'era andato di casa, papà era paralizzato e io badavo a lui. Non pensavo mai a me stessa, a cosa volessi io. Gli anni passano senza che facciamo niente, se non vivere secondo regole precise che ci siamo imposti noi stessi. Anno dopo anno, dopo anno..." Poi tacque e guardò la neve. "Quando ti rendi conto che non hai altro all'infuori di questo, inizi a odiarlo e a cercare un colpevole, così pensai che fosse tutta colpa di mio fratello. Col tempo cominciai a disprezzare lui e la sua perversione, che ci aveva rovinato la vita." Erlendur voleva intervenire, ma lei continuò. "Non so se riesco a spiegarmi meglio di così. Ci si chiude nella propria vita monotona per qualcosa che, anni dopo, risulta non avere più alcuna importanza. No, non ha più importanza." "Ci pare di aver capito che, secondo suo fratello, gli avevano rubato l'infanzia" disse Erlendur. "Che non era potuto essere quello che voleva, anzi, era stato costretto a essere qualcosa di completamente diverso, un cantante, un bambino prodigio, e che aveva sofferto molto per come lo prendevano in giro a scuola. Poi era finito tutto in una bolla di sapone, e inoltre si erano manifestate queste 'tendenze contro natura', come le chiama lei. Io credo che non fosse molto felice. Forse non la voleva nemmeno, tutta quest'attenzione che invece lei bramava tanto per sé." "Che gli avessero rubato l'infanzia, dice? Può essere, senz'altro." "Suo fratello ha mai cercato di parlare della propria omosessualità con suo padre o con lei?" le chiese Erlendur. "No, ma forse ce n'eravamo accorti. Non sono nemmeno sicura che lui stesso capisse cosa gli stava accadendo. Non lo so. Credo non sapesse perché indossava i vestiti della mamma. Non so come o quando queste persone si accorgono di essere diverse." "Per certi versi, gli piaceva quel soprannome. Teneva la locandina del film nella sua stanza, e sappiamo che..." Erlendur si interruppe a metà frase. Non sapeva se dirle che Gudlaugur chiedeva all'amante di chiamarlo "piccola principessa". "Non ne so niente, solo che aveva la locandina appesa alla parete. Forse lo tormentavano i ricordi di quanto era accaduto. Forse aveva qualcosa dentro che non riusciremo mai a capire." "Come ha conosciuto Henry Wapshott?" "Venne da noi un giorno per parlare dei dischi di Gudlaugur. Voleva sapere se ne avevamo qualcuno. È stato il Natale scorso. Aveva trovato informazioni su di noi tramite qualche collezionista, e disse che all'estero quei dischi avevano un valore immenso. Aveva parlato con mio fratello, che si era rifiutato di vendergli le sue copie, ma poi le cose sono cambiate ed era disposto a dargli tutto quel che voleva." "Cos'è, voi volevate la vostra parte di guadagno?" "Non ci trovavamo nulla di strano. Spettava a lui tanto quanto a mio padre, o per lo meno così la vedevamo noi. Del resto papà aveva pagato le incisioni di tasca propria." "Wapshott aveva offerto una cifra consistente per i dischi?" Stefania annuì distratta. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Milioni." "Coincide con le informazioni in nostro possesso." "È pieno di soldi, questo Wapshott. Credo volesse evitare che i dischi finissero sul mercato nel giro dei collezionisti. Se ho capito bene, voleva entrare in possesso di tutte le copie e impedire che ne circolassero troppe. Era molto sincero ed era disposto a pagare cifre esorbitanti. Credo che quest'anno fosse riuscito a convincere Gudlaugur. Dev'essere andato storto qualcosa, visto che l'ha aggredito a quel modo." "Che vuol dire?" "Be', non l'avete messo dentro?" "Sì" confermò Erlendur, "ma non abbiamo niente che provi la sua colpevolezza. In che senso dev'essere andato storto qualcosa?" "Wapshott è venuto da noi ad Hafnarfjòròur e ha detto che aveva convinto Gudlaugur a vendergli l'intera tiratura e voleva assicurarsi che non ci fossero altre copie, credo. Gli abbiamo confermato che Gudlaugur si era portato via tutti i dischi quando se n'era andato di casa." "Per questo è venuta a trovarlo in albergo. Per reclamare la sua parte." "Indossava l'uniforme" rispose Stefania. Era nella hall e stava portando in macchina le valigie di qualche turista. Sono rimasta a guardarlo per un bel po', poi mi ha visto. Gli ho detto di volergli parlare per via dei dischi. Ha chiesto di papa." "È stato suo padre a mandarla da Gudlaugur?" "No. Dall'incidente non ha mai più voluto sentirlo nominare." "Ma la prima cosa che ha fatto Gudlaugur appena l'ha vista in albergo è stata chiederle di lui." "Sì. Siamo andati nel suo stanzino e io gli ho domandato dov'erano i dischi." "Sono al sicuro" rispose Gudlaugur a sua sorella, sorridendo. "Henry mi ha detto di aver parlato con te." "Ci ha spiegato che volevi vendergli i dischi. Papà dice che la metà appartiene a lui; vogliamo la metà del ricavato della vendita." "Ho cambiato idea. Non voglio più vendere niente a nessuno." "E Wapshott che dice?" "Ci è rimasto male." "Offre una bella cifra per quei dischi." "Se li vendo io singolarmente, posso ricavarci anche di più. I collezionisti sono molto interessati. Credo che Wapshott voglia fare la stessa cosa, anche se a me dice che li vuole comprare perché non vadano sul mercato. Credo stia mentendo. Vuole venderli e fare soldi alle mie spalle. Tutti volevano fare soldi alle mie spalle prima, anche papà, e adesso non è cambiato niente. Niente." Si guardarono negli occhi a lungo. "Torna a casa, vieni a parlare con papà" gli propose lei. "Non gli resta molto tempo." "Wapshott ha parlato anche con lui?" "No, non era a casa quando è venuto. Gliel'ho raccontato io." "E cos'ha detto?" "Niente. Solo che voleva la sua parte." "E tu?" "E io cosa?" "Perché non te ne sei mai andata? Perché non ti sei sposata e non ti sei fatta una famiglia? Non è la tua vita quella che stai vivendo, è la sua. Dov'è la tua vita?" "Credo sia sulla sedia a rotelle che gli hai messo sotto il sedere" sbottò Stefania, "e non osare parlare della mia vita." "Esercita su di te lo stesso potere che aveva su di me all'epoca." Stefania si infuriò. "Qualcuno deve pur pensare a lui. Il suo preferito, la sua stella, era un finocArnaldur Indridason – La Voce
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chio senza voce che l'ha spinto giù dalle scale e da allora non ha più avuto il coraggio di parlargli. Però di notte va a casa sua e resta lì seduto e se ne va di nascosto prima che si svegli. Che potere esercita su di te? Pensi di esserti liberato di lui per sempre? Ma guardati! Guardati! Chi sei? Dimmelo! Non sei nessuno! Sei un disgraziato." Silenzio. "Scusami" le disse Gudlaugur. "Non avrei dovuto parlarti in quel modo." Lei non gli rispose. "Chiede mai di me?" "No." "Non parla mai di me?" "No, mai." "Non sopporta come vivo. Non sopporta come sono. Mi odia. Dopo tutti questi anni..." "Perché non me l'ha detto subito?" le chiese Erlendur. "Perché ha voluto giocare a nascondino?" "Giocare a nascondino? Be', può immaginarlo. Non volevo parlare delle mie questioni famigliari. Credevo di proteggere me e mio padre, la nostra vita privata." "È stata quella l'ultima volta che ha visto suo fratello?" "Sì." "Ne è sicura?" "Sì." Stefania lo guardò. "Che cosa sta insinuando?" "Non l'ha trovato con un giovane, impegnato a fare le stesse cose che tanto avevano schifato suo padre un tempo? Era stata quella l'origine di tutte le sue sfortune, e voleva porvi fine." "No, ma che..." "Abbiamo un testimone." "Un testimone?" "Il ragazzo che era con lui e che offriva a suo fratello prestazioni di vario genere per denaro. Li ha trovati nel seminterrato, il ragazzo è corso via e lei ha aggredito suo fratello. Ha visto un coltello sul comodino e l'ha colpito." "Si sbaglia!" esclamò Stefania, sentendo che Erlendur era convinto delle sue affermazioni e che il cerchio si stava chiudendo intorno a lui. Lo fissò come se non credesse alle proprie orecchie. "C'è un testimone..." cominciò Erlendur, ma non ebbe modo di concludere la frase. "Che testimone? Di che testimone sta parlando?" "Nega di aver causato la morte di suo fratello?" Il telefono in camera cominciò a squillare e, prima che Erlendur riuscisse a rispondere, si mise a suonare anche il cellulare che aveva nella tasca della giacca. Lanciò un'occhiata di scuse a Stefania, che lo ricambiò con uno sguardo tagliente. "Devo proprio rispondere" le disse. Stefania si fece in disparte, e l'agente la vide estrarre uno dei dischi di Gudlaugur dalla custodia e osservarlo, mentre lui rispondeva. Al fisso era Siguròur Òli. Poi rispose anche al cellulare e chiese al suo interlocutore di attendere un attimo. "Un uomo si è appena messo in contatto con me per l'omicidio; gli ho dato il numero del tuo cellulare" lo informò Siguròur Òli. "Ti ha già chiamato?" "Ho una persona al telefono proprio adesso." "Pare che abbiamo risolto il caso. Parlaci, poi fammi sapere. Ti mando tre volanti. C'è anche Elìnborg." Erlendur abbassò la cornetta e poi riprese il cellulare. Non riconobbe la voce, ma l'uomo si presentò e cominciò a parlare. Aveva appena iniziato, quando i sospetti di Erlendur trovarono una conferma e Arnaldur Indridason – La Voce
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ogni tassello del puzzle andò a posto. Parlarono a lungo e, alla fine della conversazione, pregò l'uomo di andare alla centrale e rilasciare una deposizione a Siguròur Òli. Poi chiamò Elìnborg e le diede istruzioni, spense il telefono e si voltò verso Stefania, che aveva messo il disco di Gudlaugur sul piatto del giradischi e l'aveva acceso. "A volte, in passato, nelle registrazioni come questa si sentivano sempre dei rumori in sottofondo, perché i tecnici non erano molto attenti o scrupolosi e gli apparecchi non erano di buona qualità, e poi non si registrava certo in condizioni ideali" iniziò. "A volte si sente addirittura il traffico in strada. Lo sapeva?" "No" rispose Erlendur, perplesso. "Si sente anche in questo brano, per esempio, basta fare attenzione. Credo che lo noti solo chi ne è al corrente." Alzò il volume. Erlendur si mise ad ascoltare e in effetti verso la metà notò un rumore di sottofondo. "Cos'è?" "È papà." La donna riposizionò la puntina sul disco, e questa volta Erlendur sentì chiaramente una voce, anche se non distinse cosa diceva. "È davvero vostro padre?" le chiese Erlendur. "Gli sta dicendo che è straordinario" rispose Stefania distratta. "Si trovava poco lontano dal microfono e non riuscì a trattenersi." Poi guardò Erlendur. "Mio padre è morto ieri sera" continuò. "Dopo cena si è sdraiato sul divano e si è addormentato, come faceva a volte, ma non si è più svegliato. Me ne sono accorta subito che se n'era andato, appena sono entrata. L'ho sentito ancora prima di toccarlo. Il medico ha detto che ha avuto un infarto. Per questo I sono venuta qui in albergo da lei, per dare un colpo di spugna al passato. Non ha più alcuna importanza. Non per lui, e nemmeno per me. Niente di tutto ciò ha più alcuna importanza." Ascoltarono il brano per la terza volta e finalmente a Erlendur parve di capire cosa diceva la voce. Solo una parola, come una nota a pie di pagina. Straordinario. "Il giorno in cui Gudlaugur è stato ucciso, sono scesa nel suo stanzino per dirgli che papà voleva vederlo e riconciliarsi con lui. Gli avevo già rivelato che Gudlaugur si era tenuto una chiave della casa e che si intrufolava da noi, si sedeva in soggiorno e poi se ne andava senza farsi notare. Non sapevo come avrebbe reagito, se voleva rivedere papà, o se era inutile cercare la riconciliazione, ma volevo provare. La porta della stanza era aperta..." Le tremò la voce. e lui era lì, in una pozza di sangue... Poi tacque. "... con quel costume... con i pantaloni abbassati... tutto insanguinato..." Erlendur le si avvicinò. "Mio Dio" sospirò. "In tutta la mia vita non ho mai... è stato più terribile di quanto riesca a spiegare a parole. Credo di aver pensato solo ad andarmene e cercare di dimenticare. Come ho sempre fatto, del resto. Non importava se ero stata lì o no, tanto ormai era cosa fatta, non mi riguardava. L'ho rimossa, come avrebbe fatto un bambino. Non volevo saperne niente e non ho raccontato a mio padre cos'avevo visto. Non l'ho raccontato a nessuno." Guardò Erlendur. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Avrei dovuto chiamare aiuto. E ovvio che avrei dovuto chiamare la polizia... ma... era... era talmente orribile, talmente innaturale... che sono corsa via. Andarmene da lì è stata l'unica cosa a cui ho pensato, fuggire da quel posto terribile e non farmi vedere da nessuno." Silenzio. "Credo di essere sempre fuggita da lui. In qualche modo, sono sempre scappata. Sempre. E ora..." Si mise a piangere in silenzio. "Avremmo dovuto provare a sistemare le cose fin da subito. Avrei dovuto farlo molto tempo fa. Questa è la mia colpa. Alla fine anche papà lo voleva, prima di morire." Rimasero in silenzio entrambi, ed Erlendur guardò fuori dalla finestra e notò che la neve cadeva meno fitta. "La cosa più terribile è stata..." iniziò Stefania, poi tacque, come se il solo pensiero fosse intollerabile. "Non era ancora morto, vero?" La donna scosse la testa. "Ha pronunciato una parola e poi è morto. Mi ha visto sulla porta e ha sospirato il mio nome. Come mi chiamava quando eravamo piccoli. Mi chiamava sempre Steffi." "Infatti l'hanno sentito dire il suo nome, prima di morire. Steffi." La donna guardò Erlendur stupita. "E chi?" La porta della camera si spalancò all'improvviso ed Èva Lind apparve sulla soglia. Fissò Stefania, poi Erlendur e poi di nuovo Stefania, e infine scosse la testa. "Ma quante te ne fai tutte insieme?" esclamò, lanciando a suo padre uno sguardo d'accusa. Erlendur non notò niente di diverso nell'atteggiamento di Òsp. La guardava lavorare, chiedendosi se avrebbe mai dato segni di rimorso o senso di colpa per quello che aveva fatto. "L'ha trovata, questa Steffi?" gli chiese, quando lo vide in corridoio. Depositò il mucchio di asciugamani sul carrello della biancheria sporca e ne prese di puliti, poi tornò in stanza. Erlendur si avvicinò e si fermò sulla soglia, distratto. Stava pensando a sua figlia. Era riuscito a farle capire chi era Stefania e, quando la donna se n'era andata, aveva chiesto a Èva Lind di aspettarlo. Non ci avrebbe messo molto, poi sarebbero tornati a casa insieme. Èva si era seduta sul letto ed Erlendur aveva capito subito che era alterata, che era tornata quella di prima. Si era messa ad accusarlo per tutto quello che era andato storto nella sua vita, e lui la ascoltava senza dire niente, senza ribattere né provocarla ulteriormente. Sapeva perché era arrabbiata. Non era arrabbiata con lui ma con se stessa, perché c'era ricascata. Non era riuscita a controllarsi. Non sapeva di che cosa si facesse sua figlia. Guardò l'orologio. "Cos'è, hai fretta?" lo aggredì Èva. "Devi correre a salvare il mondo?" "Puoi aspettarmi qui?" le chiese. "Vaffanculo" rispose lei con una brutta voce roca. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Perché ti fai questo?" "Chiudi la bocca." "Mi aspetti, allora? Non ci metterò molto, poi andiamo a casa. Ci stai?" Lei non gli rispose. Rimase seduta a testa china a guardare nel vuoto fuori dalla finestra. "Ci metto solo un attimo." "Non andare" lo pregò, e stavolta la voce non era più tanto dura. "Ma dove vai, sempre?" "C'è qualcosa che non va?" le domandò Erlendur. "C'è qualcosa che non va?" urlò lei. "Non c'è niente che vada bene. Niente! Cazzo, che vita di merda. Ecco cosa c'è che non va, è la mia vita che non va. È questa vita di merda che non va! Non so che senso abbia vivere. Non so perché si debba vivere. Perché? Perché?" "Èva, andrà tutto..." "Dio, quanto mi manca" sospirò lei. Erlendur le cinse le spalle con un braccio. "Tutti i giorni. Quando mi sveglio la mattina e quando mi addormento la sera. Penso a lei e a quello che le ho fatto ogni giorno." "Va bene così" la rassicurò Erlendur. "Va bene se pensi a lei ogni giorno." "Ma è così difficile, non te ne liberi mai. Mai. Che devo fare? Che posso fare?" "Non dimenticarla. Pensa a lei. Sempre. Così lei ti aiuterà." "Dio, quanto la rimpiango. Ma che razza di persona sono? Chi farebbe una cosa del genere alla propria figlia?" "Èva..." Erlendur l'abbracciò, e lei si abbandonò alla stretta, poi rimasero seduti così sul bordo del letto, mentre la neve si posava silenziosa sulla città. Molto dopo, Erlendur le sussurrò di aspettarlo in camera. Voleva tornare a casa e festeggiare il Natale insieme a lei, com'era tradizione. Si guardarono negli occhi. La ragazza si era tranquillizzata e annuì. Erlendur si trovava davanti alla porta di una delle camere al piano di sotto e osservava Òsp al lavoro, ma non riusciva a smettere di pensare a Èva. Sapeva che doveva sbrigarsi a tornare da lei e portarla a casa e starle vicino e passare il Natale insieme. "Abbiamo parlato con questa Steffi" disse alla cameriera, rivolto verso l'interno della camera. "Era la sorella di Gudlaugur, Stefania." Òsp uscì dal bagno. "E quindi nega tutto, oppure...?" "No, no, non nega niente. È consapevole delle sue colpe e sta riflettendo su cosa è andato storto, quando è successo e perché. Non sta bene, ma comincia a pensare a se stessa. Fa fatica, perché è troppo tardi per rimediare a certe cose." "Ha confessato?" "Sì. Be', quasi tutto, in effetti. Non ha proprio confessato apertamente, ma sa qual è stato il suo ruolo." "Quasi tutto? Che vuoi dire?" Òsp gli passò davanti, prese straccio e detersivo e tornò in bagno. Erlendur entrò nella stanza e la osservò mentre puliva, come aveva fatto in precedenza, quando il caso era ancora aperto e la considerava un po' sua amica. "Praticamente ha ammesso tutto" le disse. "Tranne l'omicidio. È l'unica cosa che non ha intenzione di addossarsi." Òsp spruzzò il detersivo sullo specchio del bagno, senza fare una piega. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Ma mio fratello l'ha vista" ribadì. "L'ha vista pugnalare il fratello. Non può negarlo. Non può negare di essere stata lì." "No, infatti. Era nel seminterrato quando suo fratello è morto. Solo che non è stata lei a pugnalarlo." "Invece sì, Reynir l'ha vista" insisté. "Non può negarlo." "Quanto gli devi, a quelli?" "Come?" "Sì, quanto gli devi?" "A chi? Di che cosa sta parlando?" Òsp strofinava lo specchio come se fosse una questione di vita o di morte, come se pensasse che, fermandosi, sarebbe finito tutto, si sarebbe dovuta togliere la maschera e arrendersi. Così continuava a spruzzare e a strofinare, evitando di guardare se stessa negli occhi. Erlendur la osservò e gli venne in mente una frase di un libro che aveva letto e che parlava di poveri indigenti del passato: era la figlia bastarda del mondo. "Una mia collega si chiama Elinborg ha fatto qualche ricerca e ha trovato il tuo nome nelle liste del consultorio per le vittime di stupro. È stato circa sei mesi fa. Erano in tre. In un capanno sul lago Rauòavatn. Di più non hai voluto dire. Hai detto di non sapere chi fossero. Ti hanno rapito venerdì sera mentre andavi in città, ti hanno portato in quel capanno e ti hanno stuprato, uno dopo l'altro." Òsp continuava a pulire lo specchio, ed Erlendur non capiva che effetto sortissero su di lei le sue parole. "Alla fine ti sei rifiutata di identificarli, e non volevi nemmeno sporgere denuncia." Òsp non diceva una parola. "Tu lavori qui in albergo, ma non guadagni abbastanza per coprire i debiti e per la roba. Quelli a cui devi dei soldi sei riuscita a tenerli a bada con dei piccoli favori, loro ti hanno dato altra roba, ma poi ti hanno minacciata. Li conosci bene, sai che sono capaci di passare alle vie di fatto." Òsp lo guardò. "Non c'è nessun ladro in questo albergo, vero?" continuò Erlendur. "L'hai detto per depistarci." Poi sentì dei passi in corridoio e vide Elinborg insieme a quattro agenti, fermi davanti alla porta. Le fece cenno di attendere. "Tuo fratello è nella stessa situazione. Forse avete entrambi un conto in sospeso con la stessa gente, non lo so. Lui l'hanno preso e l'hanno pestato. Hanno minacciato lui e i vostri genitori. Non avete il coraggio di denunciarli. La polizia non può farci nulla perché sono solo minacce, ma quando passano all'azione, se vi aggrediscono in centro o se ti stuprano in un capanno sul Rauòavatn, tu non fai nomi. E tuo fratello nemmeno." Erlendur tacque e la osservò. "Prima mi ha telefonato una persona. Lavora per la narcotici. A volte i suoi informatori lo chiamano e gli raccontano quanto sentono per strada o nel giro della droga. Ieri sera tardi ha ricevuto una chiamata da un tale che gli ha detto di aver sentito la storia di una ragazza stuprata sei mesi prima, che aveva avuto difficoltà a pagarsi le dosi, finché due giorni fa magicamente aveva saldato tutti i debiti, più o meno. I suoi e quelli del fratello. Tu ne sai qualcosa?" Òsp scosse la testa. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Non ne sai niente?" le richiese Erlendur. "La persona della narcotici che mi ha chiamato sapeva anche il nome di questa ragazza, e pure che lavorava nell'albergo in cui era stato ucciso Babbo Natale." Di nuovo Òsp scosse la testa. "Sappiamo che nello stanzino di Gudlaugur c'era mezzo milione di corone" continuò Erlendur. La cameriera smise di strofinare lo specchio e abbandonò le braccia lungo i fianchi, fissando la sua immagine riflessa. "Ho provato a smettere." "Di drogarti?" "Non serve a niente. E se uno è in debito, quelli non hanno pietà." "Vuoi dirmi chi sono?" "Non volevo ucciderlo. Era sempre gentile con me. Ma poi..." "Hai visto i soldi?" "Ne avevo bisogno." "È stato per il denaro che l'hai ammazzato, allora?" Non gli rispose. "Non sapevi del rapporto che aveva Gudlaugur con tuo fratello?" Òsp tacque. "E stato per i soldi? O per tuo fratello?" "Forse per entrambe le cose" sussurrò. "Volevi prendergli il denaro." "Sì." "E lui stava usando tuo fratello." "Sì." Vide suo fratello in ginocchio, il mucchio di soldi sul letto e il coltello e, senza pensarci due volte, l'afferrò e cercò di colpirlo. L'uomo tentò di proteggersi con le mani, ma lei non le vide nemmeno e gli si accanì contro più volte, finché lui non smise di lottare e non si accasciò contro il muro. Aveva una ferita sul petto, all'altezza del cuore, da cui usciva molto sangue. Il coltello era insanguinato e lei aveva le mani sporche di sangue, inoltre ne era schizzato un po' sul grembiule. Suo fratello si era alzato ed era corso in corridoio, verso le scale. Gudlaugur rantolava. Nello stanzino regnava un silenzio mortale. Òsp fissò Gudlaugur e il coltello che teneva fra le mani. All'improvviso ricomparve Reynir. "Qualcuno sta scendendo le scale" le sussurrò. Poi prese il denaro, afferrò sua sorella, che era rimasta come pietrificata, e la trascinò con sé fuori dallo stanzino, nella rientranza in fondo al corridoio. Quando quella donna si avvicinò, nemmeno osavano fiatare. Lei scrutò nel buio, ma non livide. Quando si affacciò alla porta dello stanzino, emise un grido strozzato, poi sentirono Gudlaugur. "Steffi?" sospirò. Poi nient'altro. I due la videro entrare e uscire immediatamente dopo. Indietreggiò fino alla parete del corridoio, poi si voltò subito e scappò veloce, senza mai girarsi. "Ho buttato il grembiule e ne ho preso un altro. Reynir è sparito. Non potevo far altro che continuare a lavorare. Altrimenti avreste capito tutto, o almeno così credevo. Poi mi hanno chiesto di andare a chiamarlo per la festa. Non potevo rifiutarmi. Non potevo fare niente che attirasse l'attenzione su di me. Sono scesa e ho aspettato in corridoio. La porta era ancora aperta, ma non sono entrata. Sono tornata di sopra e ho detto di averlo trovato nello stanziArnaldur Indridason – La Voce
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no, forse morto." Òsp abbassò lo sguardo a terra. "La cosa peggiore è che non mi aveva mai fatto niente di male. Forse ho perso la testa proprio per questo, perché lui era uno dei pochi a essere sempre gentile con me, invece usava mio fratello come una puttana. Ho perso la testa. Dopo tutto quello che..." "Dopo tutto quello che ti avevano fatto?" le chiese Erlendur. "Non serve a niente denunciare quei bastardi. Anche se sono colpevoli dei peggiori stupri, se va bene stanno dentro un anno, un anno e mezzo al massimo. Poi tornano fuori. Non potete farci nulla. Bisogna pagarli. Non importa come. Io ho preso i soldi e li ho pagati. Forse l'ho ammazzato per i soldi. Forse per Reynir. Non lo so. Non lo so..." Fece una pausa. "Ho perso la testa" ripetè. "Non mi ero mai sentita così. Non avevo mai provato una rabbia simile. Ho rivissuto tutto quello che era accaduto nel capanno. Ho rivisto le loro facce. Ho rivissuto tutto un'altra volta. Ho preso il coltello e ho cercato di colpirlo, dovunque. Ho cercato di sgozzarlo, e lui tentava di proteggersi ma io l'ho colpito ancora, e ancora, e ancora, finché non si è più mosso." Guardò Erlendur. "Non credevo fosse tanto difficile ammazzare qualcuno." Elinborg apparve sulla soglia e fece segno a Erlendur che non capiva cosa stesse aspettando e perché non l'arrestava. "Dov'è il coltello?" le domandò Erlendur. "Il coltello?" ripetè Òsp, avvicinandosi a lui. "Quello che hai usato." La ragazza esitò un attimo. "L'ho rimesso a posto. L'ho pulito come meglio ho potuto nella caffetteria e poi l'ho messo a posto prima che arrivaste voi." "E dov'è?" "L'ho rimesso al suo posto." "Dove tengono i coltelli in cucina?" "Sì." "Ci saranno almeno cinquecento coltelli come quello, in albergo" disse Erlendur scoraggiato. "Come faremo a trovarlo?" "Potete cominciare dal buffet" suggerì lei. "Dal buffer?" "Sicuramente lo starà usando qualcuno." Erlendur guardò Òsp consegnarsi nelle mani di Elìnborg e della polizia, poi si affrettò a salire in camera dove Èva Lind lo stava aspettando. Fece scorrere la tessera magnetica nella fessura, aprì la porta e si accorse che sua figlia aveva spalancato la finestra ed era seduta sul davanzale a guardare la neve cadere a terra, qualche piano più sotto. "Èva" la chiamò con calma. Lei gli rispose qualcosa, che però non riuscì a sentire. "Scendi, tesoro" le disse, avvicinandosi con prudenza. "Sembra così semplice" rispose lei. "Èva, vieni" le ripetè piano. "Andiamo a casa." La ragazza si voltò. Lo guardò a lungo e poi annuì. "Sì, andiamo" rispose a fior di labbra, poi tornò dentro e chiuse la finestra. Erlendur le si avvicinò e la baciò sulla fronte. Arnaldur Indridason – La Voce
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"Ti ho rubato l'infanzia, Èva?" le chiese sottovoce. "Come?" "Niente" rispose. Poi la guardò a lungo negli occhi. A volte negli occhi di sua figlia vedeva dei cigni bianchi. Adesso erano neri. Mentre era in ascensore, diretto nella hall, squillò il cellulare. Riconobbe subito la voce. "Volevo solo farti gli auguri di Natale" disse Valgeròur, quasi sussurrando. "Altrettanto a te. Buon Natale." Nella hall Erlendur guardò verso la sala da pranzo, piena di stranieri che si ingozzavano al buffet natalizio e parlavano in tutte le lingue possibili. Quel chiacchiericcio festoso si diffondeva per tutto il piano. Non potè fare a meno di pensare che magari qualcuno di loro aveva fra le mani l'arma del delitto. Disse al responsabile della reception che forse era stato Rósant a mandargli quella donna con cui aveva passato la notte e che poi aveva preteso di essere pagata. Lui rispose che in effetti l'aveva sospettato. Poi gli disse che aveva informato i proprietari dell'albergo di ciò che accadeva con il benestare del direttore e del capo cameriere, anche se ignorava come avrebbero gestito il problema. Erlendur notò che il direttore dell'albergo, a una certa distanza, guardava Èva Lind stupito. Voleva far finta di niente, ma l'uomo gli si avvicinò deciso. "Volevo solo ringraziarla. Naturalmente non ci deve nulla per il soggiorno!" "Ho già saldato" rispose. "Arrivederci." "E Henry Wapshott?" gli chiese, bloccandogli la strada. "Che avete intenzione di fare con lui?" Erlendur si fermò. Teneva per mano Èva Lind, che fissava il direttore con lo sguardo perso nel vuoto. "Lo mandiamo in Gran Bretagna. Qualcos'altro?" Il direttore esitò. "Ha intenzione di prendere provvedimenti contro la ragazza che ha detto quelle falsità sugli ospiti dei convegni?" Erlendur sorrise fra sé. "La cosa la preoccupa?" "È una bugia." Erlendur cinse le spalle di Èva con un braccio, e insieme si avviarono verso l'uscita. "Vedremo." Sulla porta notò che tutti si fermavano e si guardavano intorno. Gli stucchevoli canti di Natale americani non si sentivano più, ed Erlendur sorrise fra sé quando comprese che il responsabile della reception aveva esaudito la sua richiesta e aveva sostituito la musica trasmessa in sottofondo. Pensò ai dischi di Gudlaugur. Aveva chiesto a Stefania dove credeva potessero essere le copie, ma lei lo ignorava. Non aveva idea di dove le tenesse suo fratello e le pareva improbabile che sarebbero mai state ritrovate. A poco a poco il chiacchiericcio in sala da pranzo si attenuò. Gli ospiti dell'albergo si guardarono a vicenda stupiti; vagavano con lo sguardo rivolto al soffitto in cerca di quella voce straordinaria che sentivano cantare. Anche il personale dell'albergo si fermò e si mise in ascolto. Era come se per un attimo il tempo si fosse fermato. Arnaldur Indridason – La Voce
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Erlendur ed Èva Lind uscirono dall'albergo, e lui prese a canticchiare quel bellissimo salmo insieme al piccolo Gudlaugur, e ancora una volta colse il profondo struggimento nella voce del bambino. Oh, Padre, fa' ch'io veda una piccola luce sull'arco breve della mia vita...
FINE
Arnaldur Indridason – La Voce
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