ELIZABETH MOON EROE DELLA GALASSIA & LA MINACCIA DELL'ORDA (Once A Hero, 1997) A James, il più giovane Marine in famigli...
24 downloads
648 Views
1MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
ELIZABETH MOON EROE DELLA GALASSIA & LA MINACCIA DELL'ORDA (Once A Hero, 1997) A James, il più giovane Marine in famiglia. Semper Fi. Ringraziamenti Come al solito, sono state numerose le persone che mi hanno aiutato ad approfondire i dettagli. Tim Bashor, maggiore in pensione del corpo dei Marine degli Stati Uniti, e attualmente esemplare libraio, mi ha offerto innumerevoli ottimi consigli su come provocare disastri a bordo di una grande nave. Se vi sembra che quella parte del libro funzioni, è soprattutto merito suo. Anche Richard Moon, Malcom McLean e Michael Byrd mi hanno aiutato per quanto riguarda alcuni dettagli. Judy Glaister mi ha impedito di fare del ruolo delle infermiere in terapia psichiatrica un pasticcio anche peggiore. Gli eventuali errori sono solo miei (non ho bisogno di aiuto con quelli...). La RSM ha fornito i testi di medicina; il club Pattinaggio e Pranzo del Martedì ha approvato il progetto della nave (se per approvare s'intende "sono crollati a terra in preda a irrefrenabile ilarità"). I consulenti, che preferirebbero restare anonimi, per vari altri pezzi e stralci del libro, includono gli onnipresenti M.M., E.M. e T.B. 1 Nave del Servizio Spaziale Regolare Harrier, nelle vicinanze di Xavier Esmay Suiza aveva fatto del suo meglio per rendersi presentabile prima di comparire a rapporto dall'ammiraglio, come le era stato ordinato, però l'ammutinamento e poi la battaglia non le avevano lasciato molto tempo. Si era fatta una doccia e aveva passato l'uniforme al riciclo, ma non aveva potuto indossare quella delle grandi occasioni: i combattimenti a bordo della
Despite avevano perforato molte delle paratie interne e innescato innumerevoli piccoli incendi, uno dei quali nel compartimento dove si trovavano gli effetti personali degli ufficiali subalterni, comprese le uniformi di gala. E in quanto al resto del suo aspetto, anche se si era ripulita, non dormiva bene da... da giorni, da quando erano cominciati i problemi. Sapeva di avere gli occhi iniettati di sangue e piccoli per la stanchezza; le mani le tremavano. Provava quel nodo allo stomaco di quando si sa che nemmeno il meglio è abbastanza. L'ammiraglio Serrano era una versione un po' invecchiata dell'omonimo capitano di fregata: la stessa corporatura compatta ma slanciata, la stessa pelle color bronzo. I suoi capelli scuri erano striati di bianco, e c'era qualche ruga sulla fronte ampia, ma l'ammiraglio emanava comunque un'aria di impaziente energia, solo a stento trattenuta. «Sottotenente di vascello Esmay Suiza, a rapporto, signore.» Almeno non le tremava la voce. Pochi giorni al posto di comando l'avevano sbarazzata di quel tremolio incerto contro cui aveva tanto combattuto. «Si sieda, sottotenente.» L'ammiraglio era impenetrabile. Si sistemò sulla sedia che le veniva indicata, contenta del fatto che le ginocchia non l'avessero tradita e che fosse riuscita a sedersi senza crollare. Quando fu a posto e al sicuro, l'ammiraglio annuì e continuò. «Ho esaminato il suo rapporto sugli eventi a bordo della Despite. Sembra che si sia trattato di una situazione... molto difficile.» «Sì, signore.» Era la cosa più sicura da dire. In un mondo pieno di incertezze, era sempre la cosa più sicura; così almeno le avevano insegnato in Accademia e durante i suoi primi incarichi a bordo. Ma poi si ricordò che non era sempre vero, che un "Sì, signore" al capitano Hearne aveva voluto dire tradimento, che un "Sì, signore" al maggiore Dovir aveva significato ammutinamento. «Lei capisce, sottotenente, che tutti gli ufficiali che abbiano preso parte a un ammutinamento devono giustificare le proprie azioni davanti a una corte marziale, vero?» Lo disse con voce quasi gentile, come se lei fosse una bambina. Esmay non sarebbe mai più stata bambina. «Sì, signore» rispose ancora, grata per quella gentilezza anche se sapeva bene che non le sarebbe stata di alcun aiuto. «Noi... io... dobbiamo assumercene la responsabilità.» «Esatto. E lei, come ufficiale superstite più alto in grado, e che per di più ha finito per assumere il comando della nave, dovrà sostenere più di tutti gli altri il peso delle indagini e del processo.» L'ammiraglio fece una pau-
sa, guardandola con quel volto tranquillo e inespressivo. Esmay si sentì gelare. Dovevano trovare un capro espiatorio, era questo che voleva dire. Avrebbero incolpato lei di tutto, anche se non ne aveva neppure saputo niente, all'inizio, anche se gli ufficiali superiori, ora tutti morti, avevano tentato di tenere i più giovani subalterni fuori da ogni cosa? Il panico le mostrò un flash del suo futuro: espulsa, disonorata, buttata fuori dalla Flotta e costretta a tornare a casa. Avrebbe voluto protestare, dire che non era giusto, ma sapeva che le cose non stavano proprio così. Non era una questione di giustizia. Quello che contava era che la sopravvivenza di una nave dipendeva dall'obbedienza assoluta degli equipaggi al proprio capitano. Ecco di cosa si trattava. «Capisco» disse alla fine. E capiva, quasi. «Non le racconterò che la corte marziale è una mera formalità, nemmeno in un caso come questo» continuò l'ammiraglio. «Perché una corte marziale non è mai una mera formalità. In un processo vengono sempre alla luce cose che danneggiano tutti coloro che sono coinvolti, cose che non avrebbero peso, in circostanze ordinarie. Ma in questo caso, la esorto a non lasciarsi prendere dal panico. Sia dal suo rapporto sia da quello di altri ufficiali...» Esmay voleva sperare che questi altri fossero la nipote dell'ammiraglio «risulta chiaro che non è stata lei a istigare l'ammutinamento, e che probabilmente l'ammutinamento in sé deve essere considerato giustificabile.» Il nodo che serrava lo stomaco di Esmay si allentò un poco. «Ovviamente, lei deve essere rimossa comunque dal comando della Despite.» Esmay si sentì la faccia bruciare, di sollievo più che di imbarazzo. Era così stanca di dover sempre escogitare nuovi modi per interrogare i sottoufficiali su cosa doveva fare senza violare il protocollo. «Certo, signore» disse, con più entusiasmo di quanto non intendesse far trasparire. L'ammiraglio addirittura sorrise. «Francamente, sono sorpresa che un sottotenente di vascello sia stato in grado di assumere il comando della Despite e di condurla in battaglia... per non parlare del fatto di aver messo a segno il colpo decisivo nella battaglia. Ha compiuto un buon lavoro, sottotenente.» «Grazie, signore.» Si sentì arrossire ancora di più, e l'imbarazzo divenne più forte della reticenza. «In realtà il merito è stato dell'equipaggio, specialmente il capomastro Vesec... tutti sapevano cosa andava fatto.» «È sempre così» disse l'ammiraglio. «Ma lei ha avuto il buon senso di lasciarglielo fare, e il fegato di tornare sul campo di battaglia. È ancora giovane, e naturalmente ha fatto degli errori...» Esmay ripensò al loro pri-
mo tentativo di rientrare nel sistema, a come aveva insistito su una velocità di inserzione troppo alta, obbligandoli a ripetere la manovra. Allora non sapeva dei problemi con il computer di navigazione, ma non era una buona scusa. L'ammiraglio proseguì, ricatturando la sua attenzione. «Credo che lei abbia fondamentalmente la stoffa giusta. Affronti il processo, prenda la medicina che le prescriveranno, qualunque sia, e... e poi, buona fortuna, sottotenente Suiza.» L'ammiraglio si alzò in piedi: Esmay si alzò in fretta e furia per stringere la mano che le veniva offerta. La stava congedando; non sapeva dove sarebbe andata o che cosa le sarebbe successo a quel punto, ma... ma avvertiva un calore piacevole al posto del nodo di ghiaccio che aveva provato entrando. La scorta che la aspettava fuori le spiegò che sarebbe dovuta stare in quarantena in una sezione della plancia ufficiali della nave ammiraglia. Peli e gli altri subalterni erano già arrivati e stavano riponendo le loro borse negli stipetti con un'aria tetra. «Be', almeno non ti ha mangiato viva» commentò Peli. «Suppongo che arriverà anche il mio turno fra poco. Com'è?» «È una Serrano» disse Esmay. E tanto avrebbe dovuto bastare; non aveva nessuna voglia di parlare del carattere dell'ammiraglio a bordo della sua nave. «Ci aspetta la corte marziale... ma lo sapevate, no?» In realtà non ne avevano mai parlato apertamente: ne avevano accennato, ritraendosene subito come se l'argomento li potesse fisicamente ustionare. «In questo momento» disse Peli «sono davvero contento che l'anzianità maggiore ce l'abbia tu e non io. Anche se siamo tutti quanti nei guai.» Era stato un sollievo non essere più al comando, per Esmay, ma per un momento le sarebbe piaciuto riaverlo indietro, così da poter dire a Peli di chiudere il becco. E poi, se fosse stata al comando avrebbe avuto qualcosa da fare. Le ci vollero solo un paio di minuti per sistemare la sua borsa, leggera e quasi vuota, nello stipetto che le avevano assegnato, e uno soltanto per domandarsi se, e quanto, le portava rancore l'ufficiale che era stato buttato fuori dal suo alloggio e costretto a dividere la stanza con qualcun altro per far posto a lei. Poi guardò le pareti spoglie, il corridoio vuoto, il grappolo di ammutinati suoi complici radunato nel minuscolo quadrato ufficiali, che sarebbe stato l'unico spazio comune a loro disposizione fino a quando l'ammiraglio non avesse ordinato altrimenti. Decise di sdraiarsi sulla cuccetta, desiderando ardentemente di poter cancellare dalla sua mente quelle scene raccapriccianti, che le si ripresentavano in continuazione. Come facevano a diventare ogni volta peggiori?
«Ma certo che ci ascoltano» disse Peli. Esmay si fermò sulla soglia del quadrato ufficiali; erano in quattro di loro, e stavano ascoltando Peli. Lui alzò lo sguardo verso di lei, includendola nella loro conversazione. «Dobbiamo partire dal presupposto che vedono e sentono tutto quello facciamo e diciamo.» «È la procedura standard registrare tutto» commentò Esmay. «Anche in situazioni normali.» Una delle sue paure ricorrenti, che le serrava lo stomaco e non la lasciava dormire, era che gli studi effettuati sulla Despite rivelassero che parlava nel sonno. Non sapeva se fosse vero, ma se era così, e se aveva parlato durante uno dei suoi incubi... «Sì, ma adesso ci ascoltano» ribatté Peli. «Be', non abbiamo fatto niente di male, noi.» Questo era Arphan, un guardiamarina. «Non eravamo noi i traditori. E non abbiamo neanche capeggiato l'ammutinamento. Non vedo proprio cosa potrebbero farci.» «A te non faranno nulla, no» garantì Peli, con una sfumatura di disprezzo. «In questa situazione, almeno, i guardiamarina sono al sicuro. Anche se non escludo che tu possa morire di paura davanti alla corte marziale.» «E perché dovrei finire davanti a una corte marziale?» Arphan, come Esmay, era arrivato all'Accademia provenendo da una famiglia che non faceva parte del Servizio. A differenza di Esmay, però, la sua era una Famiglia, per quanto non del Servizio, influente e con degli amici che avevano un seggio in Consiglio, e quindi Arphan si poteva aspettare che i suoi parenti intervenissero per tirarlo fuori dai guai. «È il regolamento» tagliò corto Peli sbrigativamente. «Sei un ufficiale che si trovava a bordo di un vascello nel quale è avvenuto un ammutinamento, quindi finirai davanti alla corte marziale.» Finché la brutale franchezza di Peli era diretta verso qualcun altro, a Esmay non dava troppo fastidio; ma sapeva che in breve sarebbe venuto il suo turno. «Comunque non ti preoccupare» continuò Peli. «Non credo che passerai troppo tempo ai lavori forzati. Esmay e io, d'altra parte...» La guardò e sorrise, un sorriso tirato e infelice. «Esmay e io siamo gli ufficiali superstiti di grado più alto. Ci saranno delle domande. Se decidono di dare l'esempio, toccherà a noi. I sottotenenti sono una classe eminentemente sacrificabile.» Arphan guardò prima l'uno e poi l'altra, e poi, in silenzio, passò in mezzo agli altri e varcò la porta, stringendosi da un lato per evitare Esmay. «Non vuole contaminarsi» notò Liam, allegramente. Anche lui era un sottotenente, più giovane di Peli ma comunque appartenente alla "classe
sacrificabile" di cui Peli aveva parlato. «Meglio così» disse Peli. «Non mi piacciono i piagnoni. Lo sai che voleva farmi andare dall'ammiraglio a chiedere un rimborso danni per sostituire le uniformi che ci si sono rovinate?» Esmay non poté fare a meno di calcolare quanto avrebbero inciso sui suoi magri risparmi le sostituzioni che avrebbe dovuto per forza effettuare. «E sì che lui è ricco» aggiunse Liam. Liam Livadhi, Servizio fino al midollo e la cui famiglia, da entrambe le parti, lo era stata per molte generazioni. Poteva permettersi di essere così noncurante: probabilmente aveva almeno una dozzina di cugini che avevano appena smesso qualunque uniforme di cui lui dovesse avere bisogno. «A proposito della corte marziale» si costrinse a dire Esmay. «Come sono i protocolli per quanto riguarda le uniformi?» «Uniformi!» Peli le rivolse un'occhiataccia. «Anche tu?» «Per la corte. Peli, non per farmi bella!» Le venne fuori più sferzante di quanto non avesse inteso, e l'altro sbatté le palpebre per la sorpresa. «Oh! Hai ragione.» Era quasi possibile vedere gli ingranaggi che si mettevano in moto dietro i suoi occhi, calcolando e ricordando. «Non lo so, in realtà. Ho solo visto quei cubi all'Accademia, quando studiavamo il codice militare. E in quelli in genere si vedeva solo il giorno del verdetto. Non so se si debba per forza portare l'uniforme di gala per tutto il tempo.» «Il fatto è» disse Esmay «che se dobbiamo farci fare una nuova uniforme, abbiamo bisogno di saperlo in anticipo.» Le uniformi di gala per gli ufficiali, a differenza di quelle per il servizio regolare, erano fatte a mano da sarti con un'apposita certificazione. Non aveva nessuna voglia di comparire davanti a una corte marziale con una uniforme non regolamentare. «È vero. Non è rimasto molto di quel che c'era in quel compartimento, quindi presumo che tutte le nostre uniformi di gala siano state danneggiate.» Alzò lo sguardo su di lei. «Dovrai occupartene tu, Esmay; sei sempre quella con la maggiore anzianità.» «Non più.» Ma, anche mentre lo diceva, sapeva che non era vero; era davvero a lei che sarebbe toccato chiedere. Peli non le rise in faccia, ma non si offerse neanche di aiutarla. «In questo caso, tocca a te. Mi spiace, Es, ma dovrai occupartene.» Chiedere informazioni sulle uniformi la portò di nuovo all'attenzione dei passacarte. Come capitano, sebbene per pochi giorni, la responsabilità di firmare le innumerevoli pratiche della nave era sua. «Non le lettere per i morti» le spiegò il capitano Hosri. «L'ammiraglio
ha ritenuto che le famiglie avrebbero preferito ricevere una lettera firmata da un ufficiale più anziano, che avrebbe potuto spiegare meglio le circostanze.» Esmay quel dovere se l'era completamente dimenticato: il capitano aveva il dovere di scrivere alla famiglia di ogni membro dell'equipaggio morto mentre si trovava assegnato alla sua nave. Arrossì. «E ci sono altri rapporti di una certa importanza che secondo l'ammiraglio sarebbe meglio rimandare a quando gli esami non saranno stati completati. Lei ha lasciato incompleti un bel po' di compiti di routine, Suiza.» «Sì, signore» annuì Esmay, sentendosi di nuovo sprofondare. Quando avrebbe potuto svolgerli? E come faceva a sapere cosa c'era da fare? Tutte le possibili giustificazioni le attraversarono la mente, ma alla fine la conclusione era una sola: non c'erano scuse. «Dica ai suoi ufficiali di compilare questi moduli...» le porse un fascio di fogli. «E di consegnarli, completi e controfirmati da lei, entro quarantotto ore, poi io li inoltrerò all'ufficio dell'ammiraglio perché vengano approvati. Tale consenso autorizzerà i suoi ufficiali a provvedere per la sostituzione delle uniformi e ciò significa anche l'autorizzazione della Flotta a poter trasmettere le loro misure a un sarto certificato, che potrà cominciare a lavorarci sopra. Ora dobbiamo occuparci di tutti i rapporti che avrebbero dovuto venire archiviati, o che avrebbero quanto meno dovuto essere pronti per l'archiviazione, nel momento in cui lei è stata sollevata dal comando della Despite.» I giovani ufficiali della Despite non furono affatto contenti di avere a che fare con i moduli: alcuni continuavano a procrastinare, ed Esmay si trovò costretta a tormentarli perché finissero di compilarli entro il termine stabilito. «Era ora» grugnì l'impiegato anziano del personale di Hosri, quando Esmay gli portò i moduli e i rapporti. Guardò l'orologio. «Che ha fatto, ha aspettato che arrivasse l'ultimo minuto utile?» Esmay non rispose: non le piaceva quell'impiegato, e aveva dovuto lavorarci assieme per due turni interi, per finire i rapporti che erano rimasti incompleti e che Hosri riteneva fosse suo compito inoltrare. Basta che sia finita, si disse, anche se sapeva che i rapporti erano l'ultimo dei suoi problemi. Mentre lei era stata occupata a compilarli, gli altri sottotenenti e guardiamarina avevano dovuto affrontare gli interrogatori che cercavano di determinare con precisione com'era potuto succedere che una nave pattuglia della Repubblica fosse finita al comando di un traditore, e quindi impelagata in un ammutinamento. Presto sarebbe venuto anche il suo turno.
Le squadre di esperti erano calate sulla Despite come un branco di cavallette, requisendo ogni registrazione dei sistemi automatici di sorveglianza, frugando in ogni compartimento, interrogando ogni sopravvissuto, esaminando tutti i cadaveri custoditi nell'obitorio della nave. Esmay poteva immaginare come procedevano dalle domande che le venivano poste. Prima di tutto, senza avere alcuna informazione visiva a disposizione, le chiesero di spiegare attimo per attimo dove si era trovata e cosa aveva visto, sentito e fatto quando il capitano Hearne aveva condotto la nave lontano da Xavier. Più tardi, con l'aiuto di una rappresentazione tridimensionale della nave, le fecero ripercorrere passo per passo ogni cosa. Esattamente dove si era trovata? Voltata in che direzione? Quando aveva detto di aver visto il capitano Hearne per l'ultima volta, dov'era Hearne, e che cosa stava facendo? Esmay non era mai stata brava in queste cose. Scoprì che aveva già reso falsa testimonianza: non avrebbe potuto, da dove aveva detto di essere stata seduta, vedere il capitano di corvetta Forrester uscire dal corridoio. Era, le fece notare l'interrogante, fisicamente impossibile vedere al di là di un angolo senza l'aiuto di una speciale strumentazione. Ne aveva avuto la disponibilità? No. Ma la sua specialità era stata la tecnologia di ricognizione. Era sicura di non avere predisposto della strumentazione per l'occasione? E poi, qui... il verbale della sua precedente testimonianza comparve sul monitor accanto alla rappresentazione della nave. Poteva spiegare come aveva fatto a tornare dalla sua cabina, in questo punto della nave, fino a qui, molto più a pruavia e due ponti più sotto, in soli quindici secondi? Perché c'era una sua immagine chiarissima (Esmay si riconobbe con una familiare sensazione di disagio) nel corridoio di accesso alla batteria anteriore di sinistra alle 18.30 e 15 secondi, mentre lei aveva dichiarato insistentemente di essersi trovata nella sua cabina per il rapporto di servizio delle 18.30. Esmay non aveva idea di quel che potesse essere successo, e lo disse. Aveva preso l'abitudine di farsi trovare in cabina per quel rapporto di servizio; questo voleva dire che non era costretta a restare nel quadrato degli ufficiali subalterni e sorbirsi i pettegolezzi di giornata, o a fare il rapporto davanti agli altri. Di certo, con le voci che circolavano in quei giorni per la nave, a maggior ragione si sarebbe rifugiata in cabina. Non le piacevano le voci, finivano sempre per mettere nei guai. La gente litigava per via delle indiscrezioni che circolavano, e i guai diventavano anche più gravi. Non aveva saputo che il capitano Hearne fosse una traditrice, certo, però aveva avuto lo stomaco stretto da una sensazione di apprensione, e aveva cercato
di non pensarci. Fu solo quando la costrinsero a ripercorrere passo per passo quella giornata che le venne in mente che qualcuno l'aveva chiamata e le aveva detto di andare a inizializzare il registro giornaliero degli armadi delle testate. Il controllo di quel registro era stata una delle sue routine giornaliere. Lei sosteneva di averlo fatto, ma chiunque fosse stato a chiamarla insisteva che non l'aveva fatto, e alla fine era scesa a vedere di persona. Chi era stato a chiamarla? Non ricordava. E cosa aveva trovato una volta arrivata? «Che avevo fatto un errore nel digitare il codice del registro» raccontò Esmay. «O almeno, penso che fosse questo.» «Cosa intende?» Questo interrogante aveva la voce più neutrale che Esmay avesse mai sentito; la rendeva nervosa, per ragioni che non avrebbe saputo definire. «Be'... il numero era sbagliato. A volte succede. Ma di solito non è possibile farlo accettare: viene segnalato un conflitto.» «Mi spieghi meglio, la prego.» Esmay si sentì stretta fra l'educato desiderio di non annoiare l'ascoltatore, e il bisogno proprio di un innocente di spiegare esattamente perché non era colpevole. Durante la sua rotazione aveva digitato migliaia di codici di registro controlli. A volte faceva degli errori, succedeva a tutti. Non disse quello che aveva sempre pensato, e cioè che era stupido far inserire i codici a mano agli ufficiali, quando c'erano dei lettori di codici automatici poco costosi ed efficientissimi che avrebbero potuto farlo direttamente. Quando faceva un errore, di solito il codificatore si bloccava e rifiutava l'ingresso. Ma a volte accettava il codice sbagliato, solo per bloccarsi quando il turno successivo confrontava il suo codice con quello che risultava a lei. «A quel punto mi chiamano e devo ridigitare il codice personalmente e siglare il cambiamento. Dev'essere successo qualcosa del genere anche quel giorno.» «Capisco.» Una pausa, durante la quale Esmay sentì che il sudore le bagnava il collo. «E da quale stazione ha fatto il rapporto delle 18.30, allora?» Non ne aveva idea. Ricordava di essersi allontanata dalla cabina, vedeva chiaramente il percorso nella mente, ma non ricordava di aver fatto rapporto. Se non lo aveva fatto, qualcuno avrebbe dovuto registrare la cosa... solo che in quel momento, sul ponte, gli ammutinati avevano fatto la loro mossa per spodestare il capitano Hearne. Più o meno in quel momento. «Non mi ricordo di averlo fatto» disse. «Ma non mi ricordo nemmeno di
non averlo fatto. Sono arrivata alla stiva degli armamenti, ho reinserito i codici, ho siglato l'operazione, e sono ritornata alla mia cabina, e poi...» Ma a quel punto l'ammutinamento non era più confinato solo al ponte, e gli ufficiali superiori ammutinati avevano mandato qualcuno a tenere fuori dai guai i subalterni, se era possibile. Non ci erano riusciti: i traditori erano troppi. L'investigatore annuì, e passò a qualcosa di completamente diverso. A una serie di cose completamente diverse. Finalmente, nel corso di diverse sessioni, arrivarono al momento in cui si era trovata, lei stessa, al comando della nave. Poteva spiegare la sua decisione di tornare al sistema di Xavier, per combattere una battaglia contro ogni probabilità di vittoria, senza poter ricorrere all'aiuto di ufficiali più anziani e nella certezza di sostenere perdite notevoli? Solo brevemente, e obliquamente, si era permessa di considerare eroica la sua decisione. La realtà non le aveva permesso di adagiarsi su questa considerazione. Non sapeva quello che faceva in quel momento; e la sua inesperienza aveva provocato molte morti. Anche se alla fine tutto era andato bene, in un certo senso, non era certo andato bene per quelli che erano morti. Se non era stata un eroe, allora cos'era stata? "Stupida e avventata" le veniva da pensare adesso. Eppure... il suo equipaggio, nonostante la sua inesperienza, aveva distrutto l'ammiraglia nemica. «Io... ho pensato al comandante Serrano» disse. «Dovevo tornare indietro. Dopo avere mandato un messaggio, così in caso...» «Una decisione galante, ma poco pratica» tagliò corto il suo interrogante, la cui voce aveva un tono nasale che lei aveva sempre associato ai pianeti centrali delle Familias. «Lei è una protetta del capitano di fregata Serrano?» «No.» Non avrebbe certo mai osato rivendicare un simile status; avevano servito sulla stessa nave solo una volta, e non erano state amiche. Spiegò, a qualcuno che di certo ne sapeva più di lei, quanto fosse vasto l'abisso che separava un guardiamarina fresco d'Accademia che veniva da un pianeta provinciale, e un maggiore che saliva verso l'olimpo militare sospinta dai motori gemelli dell'abilità e dell'appartenenza a una famiglia prestigiosa. «Nemmeno una, ehm... amica particolare?» Suggerì con una smorfietta maliziosa.
Esmay per poco non gli rise in faccia. Che cosa pensava che fosse, una provinciale puritana che non sapeva distinguere un sesso dall'altro? Che non era in grado di chiamare le cose con il loro nome? Scacciò dalla mente sua zia, che di certo non avrebbe usato i termini comuni nella Flotta. «No. Non eravamo amanti. Non eravamo amiche. Lei era un maggiore, carriera di comando. Io ero un guardiamarina, carriera tecnica. Era solo cortese con me...» «Mentre altri non lo erano?» chiese l'uomo nello stesso tono. «Non sempre» disse Esmay, prima di potersi fermare. Ormai era troppo tardi; tanto valeva che completasse il quadro dell'idiota di provincia. «La mia famiglia non vanta tradizioni nella Flotta. Vengo da Altipiano... sono la prima persona che sia entrata in Accademia provenendo da Altipiano. C'erano alcuni che lo giudicavano uno sballo.» Troppo tardi, si ricordò del significato che quell'espressione aveva nella Flotta. «Un'idea malaugurata e ridicola» aggiunse, di fronte a un paio di sopracciglia sollevate. «Nel nostro gergo.» Non era più strano di quello della Flotta, ma era diverso. Era questo il punto: Heris Serrano non aveva mai riso sentendola parlare in questo modo. Tuttavia non aveva intenzione di spiegarlo a quelle sopracciglia rialzate, che la costringevano a chiedersi ansiosamente quale grande famiglia della Flotta avesse appena insultato. «Altipiano. Sì.» Le sopracciglia si erano abbassate, però il tono di condiscendenza era rimasto. «È un pianeta in cui l'influenza anzianista è particolarmente forte, no?» «Anzianista?» Esmay cercò di ricordare quello che sapeva della situazione politica di casa (non era più stata su Altipiano da quando aveva sedici anni) ma non riuscì a venire a capo di nulla. «Non credo che qualcuno su Altipiano ce l'abbia con i giovani.» «No, no» rettificò l'uomo. «Anzianista... di certo sa cosa voglio dire. Sono quelli che si oppongono ai procedimenti di ringiovanimento.» Esmay lo guardò. Era completamente confusa. «Si oppongono al ringiovanimento? E perché?» Non i suoi parenti di certo, che sarebbero stati più che felici se Papa Stefan fosse vissuto per sempre; era l'unico che riusciva a impedire a Sanni e Berthol di saltare l'uno alla gola dell'altra, e quei due erano essenziali. «Quanto da vicino segue gli avvenimenti su Altipiano?» chiese l'uomo. «Non li seguo affatto» rispose Esmay. Era con sollievo che si era lasciata tutto quanto alle spalle; e buttava sempre via senza guardarli i cubi di attualità che la sua famiglia le mandava. Aveva deciso fermamente che non
sarebbe mai tornata su Altipiano, qualunque cosa fosse successa, nei momenti di infelicità che erano seguiti a un incubo particolarmente tormentoso, nel quale non solo era stata cacciata dalla Flotta ma condannata ai lavori forzati. Si era informata: non c'era procedimento giudiziario che potesse costringere qualcuno a tornare sul suo pianeta d'origine per crimini commessi altrove. «E poi non posso credere che siano davvero contrari al ringiovanimento... almeno, non riesco a immaginare nessuno che conosco personalmente che la pensi così.» «Oh?» Visto che sembrava interessargli, ed era la prima manifestazione di interesse che qualcuno avesse mai espresso per la sua famiglia, Esmay si trovò a parlargli di Papa Stefan, di Sanni e Berthol, e di tutto il resto, almeno per quanto poteva avere a che fare con il loro probabile atteggiamento nei confronti del ringiovanimento. Quando rallentò un attimo il ritmo, l'uomo la interruppe. «E mi dica, la sua famiglia ha... ecco... un ruolo di prominenza su Altipiano?» Di certo nel suo fascicolo questo veniva spiegato. «Mio padre è uno dei comandanti regionali della milizia» rispose. «I gradi non corrispondono a quelli della Flotta, ma ci sono solo quattro comandanti regionali su tutta Altipiano.» Sarebbe stato estremamente maleducato aggiungere altro; se il suo interlocutore non era in grado di capire da quelle informazioni quale fosse lo status sociale di Esmay sul suo pianeta, avrebbe dovuto continuare a restare nell'ignoranza. «Eppure lei ha deciso di entrare nella Flotta. Come mai?» Eccoci di nuovo. Aveva dovuto passarci quando aveva fatto richiesta per entrare in Accademia, e poi durante i colloqui per l'accettazione, e anche durante i corsi di psicologia militare. Ripeté la spiegazione che era sempre sembrata funzionare meglio delle altre, e la vide affondare senza traccia nello sguardo impassibile del suo interrogatore. «E questo è tutto?» «Be'... sì.» Un giovane ufficiale in gamba non parlava dei sogni, delle ore che aveva passato nel cortile della casa padronale a guardare le stelle promettendosi che un giorno sarebbe stata lassù. Meglio essere pratici, sensati, con i piedi per terra. Nessuno voleva sognatori a occhi aperti o fanatici nella Flotta. Specialmente se venivano da mondi la cui colonizzazione umana risaliva ad appena un paio di secoli addietro. Ma il silenzio dell'interlocutore le estorse un'altra frase. «Mi piaceva l'i-
dea di andare nello spazio» disse. E si sentì arrossire, sentì il calore che le si diffondeva sul volto e il collo. Odiava quella pelle chiara che rivelava subito ogni sua emozione. «Ah!» esclamò l'uomo, toccando la tavoletta dati con lo stilo. «Be', sottotenente, con questo abbiamo finito.» Per ora, aggiungeva il suo sguardo. Non poteva essere questa la fine degli interrogatori: non era così che funzionavano le cose. Esmay non disse nulla, tranne i convenevoli che l'educazione richiedeva e l'altro si aspettava; poi tornò al suo alloggio. Non si era resa conto, fino al secondo o terzo turno a bordo della nave ammiraglia, che lei era la sola dei giovani ammutinati ad avere una cabina tutta per sé. Non era sicura del perché di questo privilegio, visto che c'erano altre tre donne, tutte pigiate dentro un solo alloggio. Sarebbe stata felice di dividere il suo... be', felice no, ma sarebbe stata dispostissima a farlo. Tuttavia gli ordini dell'ammiraglio non lasciavano spazio ad alcuna discrezionalità, come Esmay scoprì quando chiese all'ufficiale che fungeva da guardiano se potevano cambiare la loro sistemazione. L'aveva guardata disgustato, e le aveva detto di no con tanta fermezza che i timpani ancora le vibravano. Quindi, aveva tutta la privacy che voleva, se la voleva. Poteva stare sdraiata sulla sua cuccetta (la cuccetta di qualcun altro, veramente, ma tutta sua per il momento), e ricordare. E cercare di pensare. Né luna né l'altra cosa le andavano molto, e soprattutto non le andava di farle da sola. Aveva il tipo di mente che lavora al meglio di concerto con altri, sfruttando le scintille che venivano prodotte dalla sua e dall'altrui intransigenza. Da sola, non faceva che girare a vuoto, riciclando continuamente gli stessi pensieri. Ma gli altri non volevano parlare delle cose che la tormentavano. No, questo non era del tutto onesto. Nemmeno lei voleva parlare con loro di quelle cose. Non voleva parlare di come si era sentita quando aveva visto le prime vittime dell'ammutinamento, di quanto l'aveva colpita l'odore del sangue e delle paratie bruciate, come le riportava alla mente memorie che sperava di avere bandito per sempre. "La guerra non è mai pulita, dovunque si svolga, Esmay." Era stato suo padre a dirglielo, quando per la prima volta gli aveva rivelato che voleva andare nello spazio, che voleva diventare un ufficiale della Flotta. "Il sangue e le budella hanno lo stesso odore dovunque, e le urla suonano uguali dappertutto." Gli aveva detto che lo sapeva o meglio credeva di saperlo. Ma in quelle ore passate in cortile, a guardare le stelle distanti, con la loro luce pulita
contro un buio pulito... aveva sperato in qualcosa di meglio. Non la sicurezza, no: assomigliava troppo a suo padre per aspirare a quello. Ma qualcosa di pulito e tagliente, un pericolo sterilizzato dal vuoto e da armi che vaporizzavano... Si era sbagliata, e ora lo sapeva fin dal profondo di ogni sua cellula riluttante. «Esmay?» Qualcuno bussò alla porta. Esmay guardò il cronometro e si alzò in fretta. Doveva essersi appisolata. «Arrivo» disse. Gettò uno sguardo veloce allo specchio: aveva il genere di capelli che volano da per tutto e che hanno sempre bisogno di essere rimessi a posto. Se fosse stato possibile, li avrebbe tagliati della lunghezza di un centimetro scarso e li avrebbe lasciati fare quel che volevano. Li aggiustò frettolosamente con entrambe le mani e aprì il controllo della porta. Fuori c'era Peli, con l'aria preoccupata. «Stai bene? Non ti ho vista a pranzo, e adesso...» «Un altro interrogatorio» spiegò Esmay in fretta. «E poi non avevo tanta fame. Vengo subito.» Neanche adesso aveva fame, ma saltare i pasti faceva infallibilmente precipitare addosso uno sciame di psicotate, e non le andava proprio l'idea di un'intera altra classe di menti curiose che la mettevano sotto processo. La cena le si sistemò a disagio nello stomaco. Rimase seduta nel minuscolo quadrato ufficiali, senza veramente ascoltare gli altri che chiacchieravano. Più che altro cercavano di indovinare dove si trovavano, dove stavano andando e quanto ci sarebbe voluto perché la corte si riunisse. Chi avrebbe fatto parte della corte, chi li avrebbe rappresentati, e quanti problemi questo avrebbe significato per loro in futuro. «Molti di meno rispetto a quelli che avremmo avuto se il capitano Hearne l'avesse spuntata» si sentì dire Esmay. Non avrebbe voluto dire niente, ma sapeva di essere l'unica a rischiare veramente nel presentarsi davanti alla corte. E tutti gli altri erano lì a chiacchierare come se tutto quello che contava fosse la possibilità di una nota negativa che avrebbe impedito loro di venire promossi prima degli altri. La fissarono. «Che cosa vuoi dire?» chiese Liam Livadhi. «Hearne non poteva passarla liscia. A meno che non consegnasse la nave alla Benignità...» si fermò e impallidì all'improvviso. «Esatto» disse Esmay. «Era esattamente quello che avrebbe fatto, se Dovir e gli altri lealisti non l'avessero fermata. E adesso potremmo essere tutti quanti prigionieri della Benignità. Morti, o peggio ancora.» Gli altri la
guardarono come se all'improvviso le fosse spuntata addosso una tuta completa di corazzatura e armamento. «Oppure avrebbe potuto dire alla Flotta che Heris Serrano era la traditrice, che le accuse erano false, e che era fuggita per salvare la sua nave e il suo equipaggio da una maniaca. Avrebbe potuto contare sul fatto che nessuno avrebbe mai potuto sconfiggere un gruppo d'assalto della Benignità con due sole navi da guerra.» E in effetti, neanche Heris Serrano ci era riuscita: Esmay aveva capito benissimo quale fosse il pericolo, quando si era gettata nella mischia per sventarlo. Senza il suo decisivo ingresso nella battaglia, Serrano sarebbe perita, e con lei ogni testimone del tradimento di Hearne. Peli e Liam guardarono Esmay con un rispetto del tutto nuovo, che non avevano dimostrato nemmeno in battaglia. «Non ci avevo proprio pensato» disse Peli. «Non mi era mai venuto in mente come avrebbe potuto farla franca Hearne, ma hai ragione... Non lo avremmo nemmeno mai saputo: solo quelli che erano presenti sul ponte hanno sentito la sfida del comandante Serrano. Se anche un altro soltanto degli ufficiali del ponte fosse stato un agente della Benignità...» «Saremmo tutti morti.» Liam si arruffò i capelli rossi dei Livadhi. «Accidenti. Non ho nessuna voglia di pensare che sarei potuto sparire così.» Arphan fece una smorfia. «Di certo avrebbero pagato il riscatto per noi. Almeno, so che la mia famiglia...» «Commercianti!» disse Liam, con un tono che lo faceva sembrare un sinonimo di traditori. «Suppongo che la tua famiglia tratti anche con loro, eh?» Arphan saltò su, gli occhi che sprizzavano fiamme. «Se pensi che stia qui a farmi insultare da uno come te...» «In effetti, invece, lo farai» disse Liam, mettendosi comodo. «Sono un tuo superiore di grado, bamboccio bottegaio. Sei solo un guardiamarina, nel caso ti sia sfuggito.» «Piantatela» li fermò Esmay. Questa sì che era una situazione che poteva prendere in mano. «Livadhi, non se l'è scelta lui la famiglia da cui proviene. Arphan, Livadhi è un tuo superiore; portagli rispetto.» «Uoooooo» mormorò Peli. «Il nostro ex capitano si ricorda la sensazione del comando.» Ma nel suo tono c'era più ammirazione che scorno. Esmay riuscì a sorridergli. «In effetti, è proprio così. E impedire a voi inferiori di inzaccherarvi le uniformi a vicenda è molto più facile che combattere una battaglia. Che ne dite se lasciamo stare le cose come sono?»
Volti che esprimevano sorpresa o soddisfazione incontrarono il suo sguardo; lei continuò a sorridere e alla fine tutti quanti le restituirono il sorriso, «Ma certo, Esmay» disse Livadhi. «Mi spiace, Arphan. Non avrei dovuto scegliere proprio questo momento per prendermi gioco della tua famiglia. Il sottotenente Suiza ha ragione. Amici come prima?» Tese la mano. Arphan, ancora con la faccia scura, finì per stringerla, borbottando qualcosa. A Esmay non sfuggì il fatto che Livadhi aveva scelto una combinazione di parole che la rivendicava come amica personale, mentre enfatizzava la sua autorità sopra Arphan. Anche lei era in grado di fare cose di quel genere, ma doveva pensarci su e programmarle; Liam Livadhi, come gli altri nati da famiglie della Flotta, sembrava farlo con la stessa naturalezza con cui respirava. 2 Zona industriale di Harborview, Castle Rock La sala conferenze era stata passata in rassegna e guarnita, per assicurare che fosse sgombra da demoni-spia, i cui occhi e orecchie, per tacere delle lingue, avrebbero avuto una giornata campale. Fuori, a due uffici di distanza, un segretario esperto si sarebbe occupato di tutte le chiamate in arrivo senza disturbarli. Il resto dello staff era occupato con vari progetti che gli erano stati appositamente assegnati. I tre soci fondatori della Consulenza Analisi Materiali Speciali sembravano, in quel momento, più rivali in affari che vecchi amici. Arhos Asperson, basso, tozzo e con i capelli neri, era chino in avanti, con i gomiti sul piano lucido del tavolo, mentre Gori Lansamir riferiva i risultati della sua ricerca clandestina. Davanti a lui, Losa Anguilar era appoggiata allo schienale della poltrona, in un atteggiamento deliberatamente opposto al suo. Quella posa indolente non le donava; al suo corpo snello si accompagnava sempre un'energia che di solito era espressa nell'azione. «Avevi ragione, Arhos. Le proiezioni interne alla Calmorrie indicano che la domanda crescerà rapidamente, specialmente per quanto riguarda le procedure successive a un primo trattamento con farmaci provenienti da una fonte dubbia.» Gori fece una smorfia, un'espressione insolita sul suo volto in genere affabile. Arhos annuì. «In altre parole, la crescita anomala dei prezzi per il primo ringiovani-
mento dell'altra settimana non era affatto un'anomalia.» «No.» Gori indicò alcuni particolari del grafico che aveva preparato. «Fin da quando il re ha dato le dimissioni, le voci su una possibile adulterazione dei componenti non fanno che aumentare. E l'improvvisa ristrutturazione nelle proprietà della famiglia Morreline a me suggerisce che la cosa potrebbe essere ancora più grossa di quanto appaia dalle cause che sono già state intentate.» «Dovremmo essere contenti di non essercelo fatto l'altr'anno, a questo punto, suppongo» disse Losa. Arhos la guardò: c'era forse una nota di "te l'avevo detto io" nella sua voce? Probabilmente sì. Losa considerava un suo feudo personale l'avere avuto ragione dopo i fatti. Di solito non gli dava troppo fastidio, ma quando era lui quello che si era sbagliato, quella malignità lo irritava. «Non va certo a nostro merito, visto che l'altr'anno non ce lo potevamo permettere... né lo potremmo fare quest'anno, con l'aumento dei prezzi. Suppongo che potremmo farlo fare a uno soltanto di noi tre...» Arhos gettò uno sguardo sui suoi soci. Gori avrebbe potuto accettare, ma Losa mai. E d'altra parte, non l'avrebbe accettato nemmeno lui, a meno di non essere il prescelto per il ringiovanimento. «No» disse Losa in fretta, prima che Gori potesse aggiungere qualcosa. «Per la stessa ragione per cui non abbiamo scelto uno di noi l'altr'anno.» «Non hai bisogno di sbatterci in faccia la tua sfiducia in modo così evidente» mormorò Arhos. «Non lo stavo suggerendo... stavo solo facendo notare che anche quest'anno ci potremmo permettere un solo trattamento, tutto qua. E ci sono voluti cinque anni per mettere da parte quello che abbiamo. Con i prezzi in salita così rapida...» «Abbiamo bisogno di fare più contratti» disse Gori. «Di certo, con tutto quello che sta accadendo nella Flotta di questi tempi, una nicchia anche per noi ci sarà, no?» «E dovremmo avere un vantaggio dalla nostra parte» disse Losa. «Non dovremmo essere sospettati, a differenza dei fornitori e delle ditte di consulenza principali.» «Questo potrebbe aiutarci, sì.» In realtà, Arhos ne dubitava moltissimo. Chissà perché, anche quando i cacciatori di teste venivano sguinzagliati, le imprese più vecchie e riverite sembravano sempre trovare un qualche nascondiglio sicuro. «Lavoriamo bene, e abbiamo già avuto dei contratti con la Flotta attraverso Misiani... sempre che qualcuno si accorga dell'esistenza dei sub-subappaltatori in un momento come questo.»
«È di questo che ti preoccupi? Che non ci notino?» «In un certo senso. Il problema è che non sanno se noi subappaltatori ci comportiamo bene perché siamo bravi, o perché siamo sotto il tallone degli appaltatori diretti. E quindi non hanno ragione di affidarci un contratto apertamente.» «Ne abbiamo avuto qualcuno...» cominciò Losa. Poi scrollò le spalle e ammise, prima che Arhos potesse farlo notare: «Ma non di quelli remunerativi. Il nostro margine di profitto è troppo basso.» «No, e il problema vero, ne sono sicuro, è che nessuno di noi è ringiovanito. Le imprese importanti hanno tutte dirigenti ringiovaniti, ormai.» «Non siamo poi così vecchi.» «No, ma... Gori non ha più quell'aria da giovane angioletto. Nessuno di noi tre ha l'aspetto di un giovane di belle speranze ormai. Senti, Losa, ne abbiamo già parlato tante volte...» «E non mi è mai piaciuto.» Aveva abbandonato l'artificiale posa indolente per assumerne una a lei più naturale, con la schiena dritta; Arhos aveva visto solo dei ballerini con un portamento così eretto. Ricordava ancora la sensazione di quella schiena e quel collo sotto le sue mani... ma era stato anni prima. Ora erano solo soci in affari. Distolse il pensiero dall'idea di Losa ringiovanita fino ai, diciamo, diciotto anni... «Senti, è semplice. Se vogliamo sopravvivere in questo campo, dobbiamo convincere i clienti che siamo gente di successo. E i consulenti di successo sono ricchi, e ringiovaniti. Sì, di contratti ce ne affidano ancora, ma non sono i contratti migliori. Fra dieci anni, anche il genere di contratti che ci danno ora verranno assegnati a gente giovane e speranzosa... o ai nostri concorrenti attuali, che saranno riusciti a farsi ringiovanire.» «Potremmo tagliare le spese...» suggerì Gori, ma senza convinzione. Ne avevano già parlato molte volte; anche Gori non aveva molta voglia, in realtà, di tornare a fare la vita dello studente squattrinato. «No.» Arhos scosse la testa. «È un suicidio, in entrambi i casi. Tagliare le spese abbastanza da poterci permettere un trattamento di ringiovanimento, anche per uno solo di noi, significherebbe rinunciare a un sacco di cose, prima di tutto a questo ufficio, e tutti capirebbero subito che siamo dei perdenti. Abbiamo bisogno del ringiovanimento, per tutti e tre, e ne abbiamo bisogno entro i prossimi cinque anni. Con queste rivelazioni sui farmaci contaminati, i prezzi si alzeranno, e rimarranno alti proprio nel momento in cui ne abbiamo più bisogno.» «Il che ci riporta alla necessità di procacciarci nuovi contratti» disse Lo-
sa. «Ma non lo possiamo fare se non assumendo gente, e questo aumenterebbe i nostri costi.» «Forse. Abbiamo bisogno di idee nuove, di contratti che ci permettano un margine di profitto più alto, e che non richiedano un aumento di spesa.» «Dal tuo tono si direbbe che ne hai già qualcuno sotto mano.» «Be'... sì. Ci sono specialità per le quali il prezzo e molto più alto... e per le quali siamo già qualificati.» Losa incurvò le labbra. «Sabotaggio industriale? Non vorrai tentare una cosa del genere con la Flotta... proprio adesso, con quello che sta succedendo.» «Be', l'opinione pubblica è dalla loro parte in questo momento, per via di quell'affare di Xavier... quella Serrano è un'eroina. Ma a lungo andare, quello che ricorderanno sono un'eroina e tre traditori, e basta.» «Allora dovremmo diventare traditori anche noi?» Arhos le gettò un'occhiataccia. «No, traditori no. Ma... nessuno di noi è finito a fare questo lavoro perché provava un amore sviscerato per la burocrazia delle Familias, no? Vi ricordate perché abbiamo lasciato la Controllo Sistemi Generali? E poi, come subappaltatori, ci siamo ritrovati con la stessa montagna di carte...» «Stai parlando di lavorare al di fuori dello spazio controllato dalle Familias? Non vorrebbe semplicemente dire scambiare un gruppo di burocrati con un altro?» «Non necessariamente. Non tutti sono soffocati da moduli e scartoffie come le Familias. E poi non andrebbe necessariamente contro l'interesse delle Familias... almeno, io non la vedo in questo modo.» «Tu vuoi il ringiovanimento» disse Losa in tono tagliente, piegandosi in avanti. «Sì. E anche tu, Losa. E anche Gori. Nessuno di noi è stato in grado di aumentare i profitti rimanendo nell'ambito degli appalti e dei subappalti della Flotta: troppi pesci nel mare, la maggior parte dei quali con più denti di noi. E quindi o diciamo addio alle nostre ambizioni, una cosa che io non ho nessuna voglia di fare, o ci troviamo un altro mare. Idealmente, un mare che sia collegato a questo, in modo da non disperdere intera mente il capitale di fiducia che ci siamo costruiti.» Losa emise un sospiro teatrale. «D'accordo, Arhos... sputa.» Arhos si permise un sorriso. «Ci sarebbe un potenziale cliente che cerca qualcuno disposto a disattivare il congegno di autodistruzione su una nave di manutenzione.»
«Che genere di nave di manutenzione? Una di quelle della Flotta?» Arhos annuì. «Non dovremmo farla saltare in aria... solo disattivare il congegno di autodistruzione?» «Esatto.» «E perché?» Arhos scrollò le spalle. «Data la situazione, non sono affari miei... potrei fare delle ipotesi, ma preferisco di no.» «E chi sarebbe questo potenziale cliente?» «Non so per chi lavora, ma ho sondato discretamente i database e questo mi ha permesso di concludere che con tutta probabilità è un agente del Mondo di Aethar.» Losa e Gori lo fissarono come se da un momento all'altro gli fossero spuntati corna e zoccoli. «Stai parlando dell'Orda di Sangue?» chiese Losa, battendo Gori di un soffio. «Ci possiamo fidare di lui?» domandò Gori a sua volta. «In realtà, no» ammise Arhos, allargando le mani. «Ma l'offerta che ha fatto era... generosa. E penso che si possa trattare ancora... non sembrava sicuro di sé quanto pensava di apparire.» «Che genere di nave di manutenzione?» chiese Gori. «Un CRSP, cantiere di riparazione da spazio profondo, una di quelle navi cantiere enormi con il personale di una stazione spaziale. Non so nemmeno perché si debba installare un congegno di autodistruzione su una di quelle, a dire la verità. A me sembra pericoloso: e se il capitano impazzisse? Insomma, vogliono che lo disabilitiamo. Tutto qui.» «Non mi piace per niente l'idea di avere a che fare con l'Orda di Sangue» disse Losa. «Inoltre stiamo parlando di una nave con venti o trentamila persone a bordo...» «Militari» corresse Arhos. «Non gente comune. Hanno tutti accettato il rischio arruolandosi. È per questo che li pagano. E noi abbiamo bisogno dei soldi, perché se non ci facciamo ringiovanire in fretta...» «Ma l'Orda di Sangue, Arhos! Quelli sono dei bruti, quarti di manzo pelosi che sanno solo sproloquiare del loro destino! Il loro posto è sul loro pianeta, a darsi mazze di legno in testa e a sedere ubriachi attorno al fuoco a starnazzare!» «Ma certo.» Arhos le sorrise. «Sono barbari, e tutti lo sappiamo. È per questo che non sono preoccupato... la Flotta riuscirà a contenerli, come ha sempre fatto. E poi accettando questo lavoro non danneggiamo la Flotta...»
«Ma se disattiviamo un sistema di bordo su una delle loro...» «Un sistema che non è mai stato usato e probabilmente non lo sarà mai. Le CRSP non si vengono mai a trovare in zona di combattimento, e quindi non capisco nemmeno perché debbano possedere un dispositivo di autodistruzione. Mi sembrerebbe più ragionevole fare il contrario, e rendere impossibile farle saltare in aria. Ma a quanto pare ce l'hanno, e la persona che mi ha contattato vuole che lo disattiviamo.» Losa si raddrizzò sulla sedia. «È ovvio, Arhos, non vedi chi...» Lui alzò una mano. «Non voglio vedere... o meglio, speculare. Non avrà alcun effetto sull'operatività della CRSP come struttura di manutenzione; non ucciderà nessuno; non farà altro che impedire a qualche guardiamarina imbecille di far saltare in aria la nave perché ha messo le mani nel posto sbagliato. In un certo senso, si potrebbe vedere il nostro intervento come una forma di controllo danni...» Losa sbuffò, ma Arhos la ignorò e proseguì. «Ed ecco la buona notizia: prima ancora che cominciassi a negoziare offrivano un compenso che avrebbe coperto il ringiovanimento di due di noi.» Nel silenzio che era piombato attorno al tavolo, fece cadere l'ultima esca. «Li ho fatti salire di un altro mezzo milione, il che significa avere abbastanza per farci ringiovanire tutti e tre. Al netto, non al lordo. Dopo che avremo completato il lavoro, ovviamente.» «Vuoi dire la procedura completa, con...» «La procedura più recente, con i farmaci più avanzati e sicuri. E anche un margine per l'inflazione durante il periodo in cui svolgeremo il lavoro.» Il volto magro di Losa era illuminato. «Ringiovanimento... come quella Lady Cecelia...» «Sì. Avevo immaginato che l'avresti vista sotto questa luce.» Arhos voltò la testa verso Gori. «E tu?» «Hmmm. Non mi piace l'Orda di Sangue, e quello che ho sentito dire su di loro, ma... probabilmente è per la maggior parte propaganda, comunque. Se fossero tanto aggressivi e tecnologicamente arretrati come si dice, non sarebbero stati in grado di tenere insieme il loro impero per un secolo intero, dopo tutto. Suppongo che sia valuta solida.» «Sì.» Gori scrollò le spalle. «E allora non vedo il problema, se siamo tecnicamente in grado di farlo. Come hai detto, non è che danneggeremmo effettivamente la nave né metteremmo in pericolo delle vite umane. Un congegno di autodistruzione non è un'arma: non stiamo privando la Flotta di nulla, in realtà.» Ci pensò sopra un momento, e poi aggiunse: «Ma come fa-
remo a salire a bordo? E dove si trova questa nave?» Arhos sorrise, questa volta un sorriso largo e soddisfatto. «Abbiamo un appalto proprio a bordo di quella stessa nave. Un appalto legittimo. È comparso il bando di gara proprio questa mattina. Tutto il magazzino di armi della Flotta deve essere riprogrammato... a quanto pare, hanno paura che ci siano altri traditori come Hearne in giro e che possano avere pasticciato con i codici dei sistemi di guida. È un lavoro così grosso che hanno deciso di aprire la gara a tutti i consulenti qualificati, imprese piccole o grandi, che abbiano le certificazioni di sicurezza adeguate. Ho già fatto la nostra offerta.» «E se avessimo votato no a quell'altro lavoro...?» «Avremmo comunque avuto un appalto legittimo. Ho fatto l'offerta solo per il Settore 14, dicendo che abbiamo troppo poco personale per permetterci di più. Ci sono dei bonus, per via della distanza dai nessi principali. A me sembra che sia fatto su misura per noi... e poi, possiamo sempre negoziare con chiunque si aggiudichi l'appalto, se non vinciamo.» «Sempre che poi l'altro lavoro paghi» disse Losa, con una sfumatura di ferocia. «Oh, ma certo che pagherà. Il rappresentante dell'Orda di Sangue arriva domani. I soliti negoziati preliminari standard, ma voglio un servizio di sicurezza completo. È probabile che le cose si facciano antipatiche, nonostante il tizio sembri ben vestito e a posto. Non sa dell'altro contratto, e cercherò di estorcergli anche la copertura delle spese di viaggio.» «Chi altro portiamo con noi?» chiese Gori. «La solita squadra, per quanto concerne la parte dell'appalto che riguarda la Flotta. Per l'altro lavoretto... solo noi tre. Non vogliamo dividere il compenso, dopo tutto.» «C'è solo un punto rischioso» disse Arhos. «Ed è il momento in cui passeremo dal territorio civile a quello militare a Sierra. È il quartier generale di un settore rosso... non si limiteranno a dare un'occhiata ai nostri documenti di identità.» Guardò, dall'altra parte della scrivania, l'uomo biondo con il vestito costoso. «Avrete le carte in regola» garantì il biondo. Era drappeggiato sulla poltrona come se fosse un trono, e sembrava che il vestito elegante fosse stato confezionato per qualcun altro, qualcuno che sapeva stare seduto dritto e composto. «Potremmo evitare del tutto il problema se viaggiassimo con i mezzi
della Flotta fin da qualche altro punto, Comus, per esempio.» «No.» Piatto, arrogante, sgraziato. «Mi spieghi perché no.» «Non ho nessun bisogno di dare spiegazioni. Tocca a voi onorare i termini del contratto.» Il biondo scoccò un'occhiata di fuoco agli altri. «Non ho nessun bisogno di essere un idiota» replicò Arhos. Con un guizzo degli occhi, si assicurò che il biondo continuasse a esistere per un altro po'. Quanto a lungo, dipendeva molto dal suo buon umore, che il biondo non stava facendo nulla per migliorare. Cercò di ricordarsi che il compenso per consulenze trasferito sul loro conto avrebbe coperto il costo di tre ringiovanimenti e mezzo al prezzo corrente calcolato da Gori per quando avrebbero finito il lavoro. Il compenso che la Flotta gli avrebbe versato per riprogrammare tutte quelle armi gli avrebbe consentito di tirare avanti. Se avessero ucciso questo messaggero, si sarebbero trovati probabilmente ad avere a che fare con qualcosa di peggio. «Se volete che la cosa sia fatta in modo pulito, come avete detto, dovreste ascoltare il parere degli esperti.» «Esperti in doppiogiochismo.» Questa frase venne pronunciata con il tono sprezzante che era tanto tipico dell'Orda di Sangue. Era chiaro che il biondo non aveva alcun rispetto: una condizione pericolosa, oltre che sgradevole. Arhos lasciò che una palpebra gli calasse. Prima che potesse risollevarsi, il biondo stava annaspando, con un laccio che gli affondava nella carne del collo massiccio. La poltrona sulla quale sedeva gli aveva gettato delle cinghie attorno, e lo stava stringendo. Arhos non si mosse. «Gli insulti ci infastidiscono molto» disse con calma. «Siamo degli esperti, per questo ci avete contattato. Fa parte della nostra abilità il viaggiare senza farsi notare e perfettamente accettati. La mia opinione è che aspettare di essere alla Stazione Sierra per entrare nella giurisdizione della Flotta ci attirerebbe dell'attenzione sgradita. I consulenti civili e subappaltatori in genere utilizzano i mezzi di trasporto della Flotta fin da luoghi molto vicini al loro punto di origine.» Sorrise. Il biondo era diventato di un colore sgradevole, e stava emettendo rumori disgustosi. Ma non c'era paura nei suoi occhi azzurri, nonostante cominciassero a offuscarsi per la mancanza d'ossigeno. Arhos annuì, e il laccio saltò via dal collo dell'uomo come se qualcuno lo avesse spinto. E qualcuno lo aveva fatto, da lontano... «Pezzo di merda incestuoso!» gracchiò il biondo. Diede uno strattone potente, ma i legacci lo tenevano saldamente avvinto alla poltrona. «Esperti» ripeté Arhos. «Se ci pagate, faremo il nostro lavoro. In modo
pulito ed efficiente. Ma non ci dovete insultare.» «Vi pentirete di questo» minacciò il biondo. «Non penso proprio.» Arhos sorrise. «Non è il mio collo che ha il segno di un laccio. E non lo avrà mai.» «Se non fossi legato...» Arhos piegò la testa di lato. «Se lei mi attaccasse, sarei costretto a ucciderla. Sarebbe un gran peccato.» «Tu! Tu piccolo...» «Barbaro da quattro soldi!» A parlare fu l'unica altra persona nella stanza, una donna che non aveva detto nulla fino a quel momento, e il cui silenzio era sembrato al biondo del tutto adeguato al suo ruolo subordinato. «Pensi ancora, dopo essere stato sconfitto, che le dimensioni siano tutto?» «Calma, Losa. Non fa parte del nostro contratto istruire questo... individuo... sulle realtà del combattimento corpo a corpo. Non abbiamo alcuna ragione di elargirgli informazioni gratuitamente.» «Come preferisci.» La donna sembrava più imbronciata che sottomessa. «Ora» disse Arhos. «Ci aspettiamo di ricevere metà della somma presso i nostri banchieri entro domani a mezzogiorno, un altro quarto quando saremo arrivati alla Stazione Sierra, e il quarto finale quando avremo completato il lavoro. No...» Il biondo aveva aperto la bocca. «Non c'è niente da discutere. Avete perso ogni vantaggio negoziale nel momento in cui ci avete insultati. Se non vi vanno bene i miei termini, potete sempre ingaggiare qualcun altro. Non troverete nessuno alla nostra altezza, come già sapete, ma la scelta è vostra. Prendere o lasciare. Cosa scegliete?» «Prendiamo» disse il biondo, ancora rauco. «Avidi maiali...» «Benissimo.» Non c'era bisogno di precisare che ora, dopo che la sua controparte era stata avvertita, ogni insulto avrebbe aumentato il prezzo. Non c'era bisogno di farsi piacere i clienti se producevano abbastanza profitto, e Arhos, che era il migliore nel suo campo, sapeva fino all'ultimo credito quanto ci voleva per dare sollievo ai suoi sentimenti. Anche se il lavoro, in sé, era interessante, una sfida a cui lui non avrebbe, da solo, mai pensato. Sarebbe valsa la pena di tentare. No, non tentare, pensò... riuscire. Non aveva dubbi: da anni non fallivano nei compiti che si assumevano. L'unico problema era come fare uscire quel buffone dall'ufficio senza dare nell'occhio, ovviamente dopo che il buffone avesse autorizzato il pagamento con l'impronta del suo pollice. «Sgradevole» commentò Losa quando l'uomo se ne fu andato. «E peri-
coloso.» «Sì, ma solvibile. Non c'è bisogno di farseli piacere...» «Lo dici sempre.» «Perché è vero.» «Mi ha spaventato... non aveva paura, era solo furioso. E se volessero vendicarsi?» Arhos la guardò, e pensò che avrebbe tanto voluto che Losa decidesse una buona volta che tipo di persona voleva essere. «Losa... questo è un genere di lavoro pericoloso, e la cosa non ti ha mai preoccupato, prima. Abbiamo ottime misure di sicurezza, e prenderemo delle precauzioni. Vuoi quel ringiovanimento, o no?» «Certo che lo voglio.» «Credo che tu sia solo invidiosa perché sono stato io a procurare il contratto, e non tu.» «Forse.» Lei sospirò, e poi sorrise, come ormai faceva molto di rado. «Ne devo avere proprio bisogno, sto diventando una vecchia paurosa.» «Tu non sei vecchia, Losa, e adesso non lo diventerai mai.» NSSR Harrier Quando l'ammiraglia ebbe raggiunto il quartier generale del settore, Esmay era ormai arrivata a concepire la corte marziale come la porta che le avrebbe schiuso la strada verso la libertà: libertà dalle tensioni e rivalità che regnavano nel grappolo di giovani ufficiali spaventati e inoperosi che la circondava. Capiva che da un punto di vista legale poteva apparire ragionevole tenerli isolati assieme e in ozio, eppure continuava a sembrarle una punizione. Anche la nave più grande non ha che un numero di risorse limitato per lo svago; è il lavoro a occupare la maggior parte del tempo dell'equipaggio. Esmay cercò di costringersi a fare buon uso dei cubi didattici e incoraggiò anche gli altri a farlo. Ma con il grumo di incertezza che le occupava testardamente il cervello, non riusciva a concentrarsi sui "Metodi di pulizia dei filtri in un sistema chiuso mediante retroflusso" oppure sui "Protocolli di comunicazione fra vascelli operanti nelle zone classificate F e R". E per quanto riguardava i cubi tattici, sapeva già dove aveva sbagliato al rientro nel sistema di Xavier, e non c'era più niente che ci potesse fare. Inoltre, nessuno dei cubi tattici prendeva in considerazione i problemi che aveva dovuto affrontare nell'ingaggiare battaglia con una nave che, come la De-
spite, aveva subito danni interni durante un ammutinamento. Non riusciva a lavorare abbastanza durante il giorno da dormire bene la notte. Se fosse riuscita a raggiungere uno stadio di completo sfinimento fisico, forse... ma non le era concesso abbastanza tempo in palestra per arrivarci. E quindi, notte dopo notte, gli incubi la svegliavano coperta di sudore e con gli occhi arrossati e irritati. Quelli comprensibili erano abbastanza brutti, scene dell'ammutinamento o della battaglia a Xavier, completi di sonoro e di odori. Ma ce n'erano di altri, che sembravano provenire dai filmati che aveva visionato durante l'addestramento, da ogni storia truculenta che le era stata raccontata durante il servizio... nei quali il tutto si fondeva con un'estrema vividezza, come le schegge colorate di un vaso infranto. Guardava il volto di un assassino... abbassava gli occhi sulle proprie mani, viscide di sangue e che reggevano le sue stesse interiora... fissava nella canna di un Pearce-Xochin 382, che sembrava ingrandirsi sempre di più, fino a inghiottirla tutta, a ingoiarla... si sentì implorare, con voce acuta e sottile, qualcuno di smetterla... No. A quel punto si svegliò, con le lenzuola aggrovigliate attorno e madide di sudore, e con qualcuno che picchiava alla porta e la chiamava. Tossì un paio di volte, poi riuscì a tirare fuori la voce per rispondere. In realtà non si trattava di una porta, ma di un portello: non era a casa, bensì a bordo di una nave, il che era molto meglio che essere a casa. Si impose di respirare a fondo, poi spiegò alla voce fuori dalla porta che si era trattato solo di un brutto sogno. Vennero dei borbottii: "Anche qua fuori c'è gente che ha bisogno di dormire, sai". Chiese scusa, lottando contro una rabbia improvvisa e inesplicabile che l'avrebbe spinta ad aprire la... il portello, non la porta... e strangolare l'altro. Erano le circostanze, si disse: era naturale che ci fossero scoppi di rabbia, e lei doveva dare l'esempio. Alla fine quello che era venuto a protestare se ne andò, e lei appoggiò la testa alla paratia, la confortevole paratia grigia, mettendosi a pensare. Erano anni che non aveva quegli incubi, da quando aveva lasciato la sua casa per entrare nella scuola preparatoria della Flotta. E anche a casa, erano diventati più rari man mano che cresceva, anche se erano stati comunque abbastanza frequenti da preoccupare la sua famiglia. La sua matrigna e suo padre le avevano spiegato, ripetutamente e tediosamente, l'origine di quei sogni. Subito dopo la morte di sua madre era scappata, un atto stupido e irresponsabile dovuto probabilmente al fatto che soffriva già della stessa febbre che aveva ucciso sua madre. Era finita per incappare in una batta-
glia, un incidente di secondaria importanza nell'ambito di quella che poi era stata chiamata la Sollevazione di Califer. I soldati di suo padre l'avevano trovata e salvata, ma aveva rischiato di morire per via della febbre. In qualche modo, quello che aveva visto, sentito e odorato durante quei giorni di coma si era confuso e le aveva lasciato una serie di incubi, sogni di cose che in realtà non erano mai successe, almeno non come lei le aveva sognate. Era ovvio che una vera battaglia risvegliasse quei vecchi ricordi, gli incubi che la febbre le aveva provocato. Aveva davvero sentito l'odore di intestini umani, da piccola, e gli odori sono particolarmente efficaci nel riaccendere le memorie... era una cosa che aveva imparato dai libri di psicologia letti di nascosto nella libreria di Papa Stefan, in quei giorni in cui si era convinta di essere matta, oltre che pigra, vigliacca e stupida. E ora che capiva dove volevano condurla i suoi incubi, mentre cercavano di collegare esperienze passate con il presente, poteva affrontare la cosa razionalmente. Gli incubi erano venuti perché aveva dovuto effettuare quel collegamento, e adesso che questo era successo, non avrebbe più avuto bisogno di loro. Si addormentò di colpo e non sognò altro fino a che non fu svegliata dalla campanella. Era molto contenta di se stessa perché aveva capito come stavano le cose, e si disse che non avrebbe avuto altri incubi. Al momento di andare a letto, la sera, era nervosa, ma riuscì a convincersi a rilassarsi. Se quella notte sognò, non ricordò niente, e nessuno si lamentò di qualche rumore. Solo un'altra volta, prima di arrivare al quartier generale di settore, ebbe un incubo, ma era ancora più facile da comprendere. Sognò che arrivava davanti alla corte marziale e solo quando il presidente della corte iniziava a parlare si rendeva conto di essere completamente nuda. Cercava di voltarsi e scappare, ma non ci riusciva. Tutti la guardavano, e ridevano, e poi se ne andavano, lasciandola sola. Era quasi un sollievo rendersi conto che era in grado di avere degli incubi normali. Arrivati al quartier generale di settore trovarono le loro uniformi pronte. Gli vennero consegnate direttamente nella sezione dove erano tenuti in quarantena, sulla nave, da guardie che evidentemente lo ritenevano un compito al di sotto della loro dignità. Gli abiti nuovi erano rigidi e scomodi, come se il suo corpo fosse cambiato in modi che non si potevano spiegare semplicemente con un mutamento di misure fisiche. Si era esercitata tutti i giorni con gli attrezzi nella sezione di quarantena, quindi non si trat-
tava di grasso. Era... una cosa più mentale che fisica. Peli e Liam gemettero in modo teatrale quando videro il conto del sarto, ma Esmay non disse niente del suo. Solo in un secondo momento capì che probabilmente credevano che lei non avesse alcuna risorsa oltre al suo salario. Per la prima volta i giovani ufficiali vennero chiamati in gruppo davanti all'ammiraglio. Esmay indossò l'uniforme nuova, e così tutti gli altri. Furono preceduti e seguiti da una guardia armata. Esmay cercò di respirare normalmente, ma non poteva fare a meno di sentirsi preoccupata: era successo qualcos'altro? Cosa poteva essere? L'ammiraglio Serrano rimase in attesa, senza espressione, mentre entravano in fila nel suo ufficio, così vicini che Esmay sentiva l'odore di nuovo della stoffa delle uniformi. L'ammiraglio aveva risposto a ciascun saluto formale con un cenno del capo, e facendo guizzare gli occhi dall'uno all'altro. «È mio dovere informarvi che tutti voi siete chiamati a giustificare davanti a una corte marziale, se ne siete in grado, gli eventi che hanno condotto all'ammutinamento a bordo della Despite, e il successivo coinvolgimento della nave e dell'equipaggio nella battaglia di Xavier.» Esmay non udì nulla alle sue spalle, ma avvertì comunque la reazione dei suoi compagni ufficiali; per quanto sapessero che quel momento doveva arrivare, sentire quelle parole formali dalle labbra di un ammiraglio della Flotta li aveva colpiti con forza devastante. Corte marziale. C'erano ufficiali che passavano tutta la loro carriera senza che venisse loro ventilata nemmeno la minaccia di un'indagine, figuriamoci un'udienza davanti a una Commissione... e di sicuro senza dover comparire davanti a una corte marziale. In caso di condanna, la corte marziale era il peggior disonore concepibile: ma era un macchia sulla carriera anche di chi veniva scagionato. «Vista la complessità del caso» continuò l'ammiraglio «la procura militare ha deciso di procedere con la massima circospezione. Le imputazioni precise per ciascuno di voi non sono ancora state formalizzate, ma in generale i sottotenenti possono aspettarsi imputazioni di tradimento e di ammutinamento, che si è deciso di non considerare reciprocamente esclusive. Cioè, se venite considerati complici di tradimento, questo non costituisce una difesa contro una successiva imputazione di ammutinamento, e viceversa.» Gli occhi neri dell'ammiraglio sembravano fissi in quelli di Esmay. Voleva intendere qualcosa di specifico con quel discorso? Esmay avrebbe voluto dire che non era né era mai stata una traditrice, ma la disciplina le tenne la mascella serrata.
L'ammiraglio tossicchiò, evidentemente per concedersi una pausa. «Sono autorizzata a riferirvi che la ragione di tutto questo è l'alto grado di preoccupazione per l'influenza della Benignità sul corpo degli ufficiali della Flotta. Non sarebbe stato possibile in questo caso ignorare l'eventualità della vostra colpa; i vostri avvocati difensori vi spiegheranno tutto. I guardiamarina verranno accusati solo di ammutinamento, eccetto un caso specifico per il quale sono ancora in corso delle indagini.» «Ma non abbiamo nemmeno parlato con un avvocato difensore!» si lamentò Arphan da dietro. Esmay lo avrebbe volentieri schiaffeggiato: quell'idiota non aveva alcun diritto di aprire la bocca. «Guardiamarina... Arphan, non è così? Qualcuno le ha dato il permesso di interrompere, guardiamarina?» L'ammiraglio non aveva bisogno dell'aiuto di un umile sottotenente per rimettere a posto un bamboccio come Arphan. «No, signore, ma...» «Allora stia in silenzio.» L'ammiraglio riportò lo sguardo su Esmay, che si sentiva in colpa per non avere in qualche modo impedito ad Arphan di parlare. Ma non c'era rimprovero negli occhi dell'ammiraglio. «Sottotenente Suiza, come ufficiale superstite di grado più avanzato, e già capitano di una nave sulla quale si è verificato un ammutinamento sotto il fuoco, il suo processo sarà di necessità separato da quello degli ufficiali a lei subalterni, anche se verrà chiamata a testimoniare nei procedimenti contro di loro, come loro verranno chiamati a testimoniare nel suo. In aggiunta, lei dovrà presentarsi davanti alla Commissione d'Inchiesta che indagherà su come lei abbia condotto la Despite in battaglia.» Esmay se l'era aspettato, in un certo senso, ma aveva anche sperato che un'ordalia giudiziaria avrebbe assorbito anche l'altra. «A causa delle insolite circostanze della situazione di Xavier, il che comprende anche le azioni intraprese dal capitano di fregata Serrano, si è deciso che tutti voi sarete condotti presso il quartier generale della Flotta a bordo di un altro vascello.» Esmay sbatté le palpebre. Non si fidavano dell'ammiraglio Serrano per via di sua nipote? Poi si ricordò di tutte le voci che erano circolate, e che ormai erano state dimostrate false, su Heris Serrano e il fatto che avesse lasciato la Flotta. «Anche il capitano di fregata Serrano dovrà affrontare una Commissione d'Inchiesta, davanti alla quale tre di voi verranno chiamati a testimoniare.» Esmay non riusciva a immaginare chi potesse avere qualcosa di utile da di-
re in proposito. «Vi sarà consentito di notificare tutto questo alle vostre famiglie, e se possibile di parlare direttamente con loro, ma non dovete comunicare con nessun altro. In particolare, siete formalmente diffidati dal discutere questo caso con chiunque, che faccia o no parte della Flotta, a parte il vostro avvocato e i vostri coimputati. Io vi raccomando caldamente di non discutere il caso nemmeno fra di voi più di quanto non abbiate già fatto. Sarete tenuti sotto stretta osservazione, e non sempre da parte di chi ha a cuore i vostri interessi. Incontrerete i vostri avvocati difensori una volta giunti al quartier generale, e avrete a disposizione le risorse abituali per prepararvi ad affrontare la corte.» Lo sguardo dell'ammiraglio passò lungo la fila, tagliente. Esmay sperava che nessuno facesse domande stupide. Per fortuna non successe. «Potete andare» disse l'ammiraglio. «Tranne il sottotenente Suiza.» Esmay sentì il cuore perdere un colpo. Rimase ferma sull'attenti mentre gli altri uscivano trascinando i piedi, e scrutò il volto dell'ammiraglio cercando di capire cosa succedeva. Quando tutti furono usciti, l'ammiraglio sospirò. «Si sieda, sottotenente Suiza.» Esmay si sedette. «La aspettano dei momenti difficili, e voglio che lei capisca bene come stanno le cose, ma non voglio spaventarla. Sfortunatamente, non la conosco abbastanza da sapere a che punto un avvertimento si trasformerebbe in terrorismo, per lei. E la documentazione che ho sulla sua carriera di ufficiale non mi aiuta. Lei mi può illuminare?» Esmay dovette fare uno sforzo per non restare a bocca aperta. Non sapeva proprio cosa dire: per una volta, "Sì, signore" non era abbastanza. L'ammiraglio continuò, più lentamente, dandole il tempo di pensare. «Lei ha avuto un ottimo profitto alla scuola preparatoria all'Accademia; quando è entrata nell'Accademia vera e propria, invece, ha avuto voti alti ma non brillanti. Suppongo che lei non sia il tipo che controlla i rapporti che vengono fatti sul suo conto, vero?» «Sì, signore.» «Mmm. Dunque lei non sa di essere stata descritta come "una gran lavoratrice, volonterosa, non un leader", oppure "affidabile, competente, porta sempre a compimento gli incarichi, mostra iniziativa sul lavoro ma non con le persone, potenziale di comando medio."» L'ammiraglio fece una pausa, ma Esmay non riuscì a farsi venire in mente nulla da dire. Era così, più o meno, che lei si vedeva. «Alcuni dicono che lei è timida, altri solo silenziosa e non esigente... Eppure in una vita passata al servizio della Flot-
ta, sottotenente Suiza, io non ho mai visto questo genere di rapporti, uno dopo l'altro, dalla scuola preparatoria fino al servizio vero e proprio, accompagnarsi allo stile di comando sicuro e incisivo che lei ha mostrato quando era al comando della Despite. Ho conosciuto ufficiali tranquilli e schivi che si rivelavano eccezionali in combattimento... ma c'era sempre, da qualche parte, magari sullo sfondo, un luccichio che rivelava un diamante nascosto.» «Si è trattato di un caso fortunato» disse Esmay, senza pensare. «E poi il merito è stato dell'equipaggio, davvero.» «I casi fortunati» replicò l'ammiraglio «non capitano per caso. Hanno una causa. Che genere di fortuna pensa ne sarebbe seguita, se fosse stato il sottotenente Livadhi a essere il più anziano?» Esmay se lo era chiesto; subito dopo la battaglia sia Liam che Peli erano stati sicuri che avrebbero scelto un vettore e una velocità di inserzione diversi, ma lei ricordava che faccia avevano fatto quando aveva annunciato che sarebbero tornati indietro a combattere. «Non mi deve rispondere» disse l'ammiraglio. «Conosco la risposta, ho letto i suoi interrogatori. Avrebbe inviato un messaggio, come ha fatto lei, e poi sarebbe tornato zoppicante al quartier generale del settore, con la speranza che ci fosse qualcuno abbastanza vicino da dare una mano. Non avrebbe mai riportato la Despite in battaglia, e anche se le critiche che muove alle sue scelte tattiche nel momento del rientro sono giustificate, se fosse stato per lui qualunque aiuto sarebbe arrivato troppo tardi per salvare la situazione.» «Io... io non lo so. È coraggioso...» «Non è il coraggio a essere messo in discussione, qui, e lei lo sa. La prudenza e il coraggio assieme fanno una buona squadra; a volte la codardia può essere avventata quanto il coraggio di un personaggio di un cubo d'avventure.» L'ammiraglio sorrise, ed Esmay si sentì gelare. «Sottotenente, se lei riesce a confondere e incuriosire me, le posso assicurare che il resto della Flotta non saprà da che parte cominciare a prenderla. Non è che non siano contenti del suo operato: è che non la capiscono. Se lei è stata in grado di nascondere tante doti sotto un guscio di modestia e mediocrità, che altro starà nascondendo? Alcuni hanno suggerito che lei non è altro che un agente della Benignità, che è stata lei a incastrare il capitano Hearne e a provocare l'ammutinamento, solo per potersi presentare come un'eroina.» «Non è vero!» protestò Esmay, senza pensare. «Non lo penso nemmeno io, infatti. Ma in questo momento non ci si fida
più di nessuno fra le Familias Regnant, e il Servizio Spaziale Regolare non fa eccezione. È stato già abbastanza brutto scoprire che Lepescu si divertiva a uccidere il personale della Flotta, ma scoprire che in un posto come Xavier potessero venire spediti ben tre capitani traditori insieme... questo ha davvero scosso la fiducia del Servizio Segreto della Flotta, e giustamente. Secondo giustizia, lei dovrebbe essere fatta passare in gran carriera attraverso l'obbligatoria corte marziale, come mera formalità, e poi acclamata come l'eroina che è... e non si disturbi a negarlo. Sfortunatamente per lei, le circostanze le sono contro, e mi aspetto che lei e il suo avvocato difensore passiate un paio di settimane davvero molto dure. Io non ci posso fare niente: in questo momento, se cercassi di usare la mia influenza, non farei che danneggiarla.» «Non c'è problema» disse Esmay. Non era vero, se capiva le implicazioni di quello che stava dicendo l'ammiraglio Serrano, ma comprendeva benissimo perché l'ammiraglio non potesse cambiare la realtà. Era la figlia di un ufficiale superiore, e la sua storia le aveva insegnato almeno questo, se non altro. Il potere ha dei limiti, e a ostinarsi a sbatterci la testa contro non si ottiene altro che di rompersela. L'ammiraglio la stava ancora guardando con quegli intensi occhi neri. «Vorrei tanto conoscere meglio sia lei sia la sua storia. Non so nemmeno dire se in questo momento lei se ne stia seduta lì tranquilla e condiscendente, o ragionevolmente preoccupata, o terrorizzata... le dispiace chiarirmi le idee?» «Sono stordita» rispose Esmay, onestamente. «Certo non indifferente; non ero indifferente nemmeno prima che lei mi avvertisse. So bene che un ufficiale subalterno che viene coinvolto in un ammutinamento, per qualunque ragione, si porta dietro una macchia sulla reputazione per il resto della sua carriera. Ma se sono ragionevolmente preoccupata o terrorizzata oltre il normale... quello non lo so nemmeno io.» «E quando ha sviluppato questa forma di autocontrollo, se posso permettermi di chiederglielo? Di solito le reclute che vengono dai pianeti coloniali sono anche troppo facili da comprendere.» Sembrava una dimostrazione di genuino interesse; Esmay si chiese se lo fosse davvero, e se potesse fidarsi al punto da spiegare. «L'ammiraglio sa di mio padre...?» cominciò. «So che è uno dei quattro comandanti di settore su Altipiano; presumo che questo voglia dire che lei è cresciuta in una famiglia di militari. Ma la maggior parte delle milizie planetarie sono meno... formali... di noi.»
«È una tradizione cominciata con Papa Stefan» raccontò Esmay. Non era sicura che fosse davvero cominciata lì, perché in tal caso non spiegava come avesse fatto Papa Stefan ad accumulare l'esperienza che poi aveva trasmesso ai suoi eredi. «Non è come la Flotta, ma c'è un esercito ereditario... almeno, le famiglie principali si trasmettono la tradizione di fare il militare.» «Ma nel suo dossier c'è scritto che lei è cresciuta in una fattoria, o sbaglio?» «Una estancia» corresse Esmay. «È... qualcosa di più di una fattoria. È piuttosto grande.» Piuttosto grande era dir poco: Esmay non sapeva nemmeno quanti ettari misurasse la tenuta principale. «Ma Papa Stefan ha insistito perché tutti i bambini avessero un'educazione militare.» «Non tutte le tradizioni militari considerano il controllo dell'espressione facciale e delle emozioni un valore assoluto» commentò l'ammiraglio. «Mi pare di capire che per la sua invece sia così.» «Per lo più» annuì Esmay. Non poteva spiegare la sua personale avversione per le eccessive manifestazioni emotive senza addentrarsi nell'intricata matassa della sua storia familiare, Berthol e Sanni e il resto. Di certo, Papa Stefan e suo padre tenevano molto all'autocontrollo, ma non arrivavano a praticarlo quanto faceva lei. «Bene... volevo che lei sapesse che le faccio i miei migliori auguri per quello che l'aspetta» disse l'ammiraglio. Stava sorridendo, e sembrava sincera e cordiale. «Dopo tutto, lei ha salvato la mia nipote preferita... voglio dire, il capitano di fregata Serrano, e non lo dimenticherò, qualunque cosa succeda. Terrò d'occhio la sua carriera, sottotenente; penso che lei nasconda un potenziale che non sospetta neppure di possedere.» 3 Esmay ebbe tutto il tempo di meditare su quelle parole mentre la longa manus della giustizia militare la separava dagli altri ufficiali subalterni, la imbarcava su una nave scorta veloce e la spediva in tutta fretta al quartier generale, dove arrivò otto giorni abbondanti prima di tutti gli altri. Lì incontrò il suo avvocato difensore, un maggiore di mezza età quasi completamente calvo, che aveva più l'aspetto di un burocrate che di un ufficiale: aveva perfino quel po' di pancia tipica di chi evita la palestra come la peste, tranne che nelle poche settimane prima dell'esame di idoneità fisica annuale.
«Sarebbe stato ragionevole procedere assieme con tutti i casi» si lamentò il maggiore Chapin, esaminando la pratica di Esmay. «A posteriori, lei è l'eroe della battaglia di Xavier; ha salvato il pianeta, il sistema, e il culo alla nipote dell'ammiraglio. Purtroppo...» «Mi è stato spiegato» disse Esmay. «Bene. Almeno non manca niente dalla pratica. Dovremo prepararci separatamente per la Commissione d'Inchiesta e per ciascuna delle diverse minacce che le vengono dalla corte marziale. Spero che lei abbia una mente ordinata...» «Penso di sì» disse Esmay. «Benissimo. Per il momento, dimentichiamo il protocollo militare, d'accordo? Diamoci del tu, io ti chiamerò semplicemente Esmay e tu mi chiamerai Fred. Abbiamo troppo da fare per perdere tempo con le formalità. D'accordo?» «Sì, signo... Fred.» «Benissimo. Ora... raccontami tutto quello che hai detto agli investigatori, e poi tutto quello che non gli hai detto. La storia completa della tua vita non è troppo. Non ti preoccupare di annoiarmi perché non succederà, e io non posso sapere che cosa mi sarà utile prima di sentirtelo dire.» Nei giorni che seguirono, Esmay scoprì che il maggiore Chapin diceva sul serio. Si trovò anche sempre più a suo agio nel parlargli, il che la rese nervosa. Si ricordò che era un'adulta, non una bambina che poteva fidarsi ciecamente, se aveva bisogno di conforto, del primo adulto che si dimostrasse comprensivo. Gli parlò perfino degli incubi, quelli che avevano a che fare con Xavier. «Potresti prendere in considerazione un aiuto psichiatrico» disse Chapin. «Se ti turbano tanto.» «Ormai no» rispose lei. «È stato in quei primi giorni dopo...» «Mi sembra normale. Se adesso riesci a dormire abbastanza da essere sveglia e all'erta... non cercare aiuto potrebbe essere un vantaggio, perché altrimenti si potrebbe pensare che ci stiamo orientando verso un verdetto di non colpevolezza per incapacità mentale.» «Oh.» «Comunque, se pensi di averne bisogno...» «No» disse Esmay con fermezza. «Bene... E adesso, per quanto riguarda questa epidemia di piccoli furti negli armadietti dei marinai semplici...»
Una serie di circostanze cospirò per rimandare la data della corte marziale, così che la Commissione d'Inchiesta venne per prima. Anche di questo il maggiore Chapin si lamentò. «Non puoi avere la presenza di un avvocato davanti alla Commissione, e quindi dovrai ricordarti da sola tutto quello di cui abbiamo parlato. Puoi chiedere una pausa per venire a conferire con me quando vuoi, ma farà cattiva impressione. Dannazione... speravo che tu potessi fare un po' di esperienza in aula prima di trovarti da sola davanti a una corte.» «Non ci possiamo fare niente» disse Esmay. Il maggiore sembrò un po' sorpreso, e lei ne fu irritata. Si era aspettato che si lagnasse anche quando non sarebbe servito a niente? E per di più con lui? «Sono contento che tu la prenda così bene. Ora... se non sollevano la questione dei danni al computer di navigazione, hai due possibili scelte...» Continuarono per ore, fino a che Esmay non sentì che aveva capito la ragione che stava dietro ai consigli di Chapin, al di là dei consigli in sé. La mattina in cui la Commissione aprì i lavori, Chapin la accompagnò nell'edificio e rimase con lei fino all'anticamera dove avrebbe atteso nel caso lei chiedesse una pausa per conferire. «Su col mento, sottotenente» le disse mentre la porta si apriva. «Tieni a mente che hai vinto la battaglia e non hai perso la nave.» La Commissione d'Inchiesta non considerava una circostanza attenuante il modo irregolare con cui Esmay era giunta al comando della Despite, o così sembrava dalle loro domande. Se un sottotenente di vascello si trovava al comando di una nave in battaglia, era meglio per lui che sapesse molto bene quello che faceva, e così ogni singolo errore di Esmay fu passato al setaccio. Anche prima che l'unico ufficiale superiore a lei morisse per le ferite ricevute, avrebbe potuto prepararsi ad assumere il comando... e tutto quel sangue sul ponte non avrebbe potuto essere tolto prima? Esmay, ricordando la situazione molto prossima al panico, la necessità di assicurarsi che ogni compartimento fosse sicuro e di controllare ogni singolo membro dell'equipaggio, era ancora convinta che in quel momento c'erano state parecchie cose molto più importanti che lavare via il sangue dalla poltrona di comando. Non lo disse, però elencò tutte le altre emergenze che le erano sembrate più urgenti. Il presidente della Commissione, un ammiraglio a una stella dal volto duro di cui lei non aveva mai sentito parlare, né in bene né in male, la ascoltò con le labbra strette, senza che lei potesse leggergli
alcuna espressione in volto. Bene, allora, ma quando ebbe assunto il comando, perché aveva scelto di entrare piano piano in un sistema, cosa che si era rivelata saggia, visto quello che ci aveva trovato, per poi ritornare a Xavier facendo fuoco e fiamme, anche se aveva ogni ragione di ritenere che l'attendesse una forza nemica? Non si rendeva conto che se il punto di emersione del corridoio di rientro dal balzo fosse stato minato in modo più competente, sarebbe stata una mossa suicida? Esmay non aveva intenzione di sostenere che la sua decisione fosse sensata: aveva seguito l'istinto, non una catena di ragionamento razionale. E l'istinto ne ammazzava più di quanti ne salvava. E perché non aveva pensato prima a eseguire un microbalzo per diminuire il suo abbrivio, cosa che le avrebbe permesso di salvare due navi, e non solo una? Esmay spiegò la questione del computer di navigazione danneggiato, e la necessità di adattare uno dei chip di un'unità di guida dei missili. E così via, ora dopo ora dopo ora. Sembravano molto meno interessati, anzi, non sembravano interessati per nulla, al fatto che la Despite avesse distrutto l'ammiraglia nemica. Sembrava che gli importasse solo dei suoi sbagli. La Commissione le mostrò di nuovo le registrazioni dei sistemi di sorveglianza, le fece delle prediche, e quando fu finita Esmay uscì con la sensazione di essere stata bollita fino a che tutte le sue ossa si erano dissolte in brodo. Il maggior Chapin, che la attendeva nell'anticamera e aveva assistito all'udienza in collegamento video, le porse un bicchiere d'acqua. «Probabilmente non mi crederai, ma ti sei comportata nel modo migliore, date le circostanze.» «Non credo proprio.» Sorseggiò l'acqua. Il maggiore Chapin rimase a guardare fino a che non ebbe finito. «Sottotenente, lo so che sei stanca e che probabilmente ti senti come se ti avessero fatto passare per un calibro per fili metallici, ma questa è una cosa che devi ascoltare e capire. Una Commissione d'Inchiesta non è studiata per essere un'esperienza piacevole. È parte della sua funzione. Sei andata lì davanti e hai detto la verità; non hai perso la calma; non hai parlato a vanvera; non hai cercato scuse. Pensa a come hai affrontato la questione del computer di navigazione, per esempio: è stato perfetto. Gli hai raccontato i fatti e poi hai lasciato stare. Hai lasciato che Timmy Warndstadt ti facesse a fettine e poi a cubetti, e alla fine eri ancora lì in piedi a rispondere alle loro stupide domande con un tono di voce educato. Ho lavorato con ufficiali superiori che se la sono cavata molto peggio.»
«Davvero?» Esmay non sapeva se era speranza quella che avvertiva, o semplice meraviglia che qualcuno, chiunque, approvasse qualcosa che aveva fatto. «Davvero. Non solo, ma ricordati quello che ti ho detto quando sei entrata: non hai perso la nave e hai compiuto una mossa decisiva in battaglia. Non lo possono ignorare, questo, anche se pensassero che è stato solo un caso fortunato. E dopo la tua testimonianza, io non credo che penseranno a un caso fortunato. Anche se vorrei che ti avessero chiesto più dettagli; hai fatto bene a non presentarli tu, ma... mi dà fastidio quando ignorano la documentazione che io gli sottopongo. Avevo scritto tutto, il minimo che potevano fare era leggere e poi fare le domande giuste. Certo che c'erano delle critiche da porre: quando si arriva davanti a una Commissione d'Inchiesta per forza che ci sono. Ma sanno, che lo vogliano ammettere oppure no, che ti sei comportata splendidamente per essere una ragazzina alla sua prima esperienza di combattimento.» La porta si aprì ed Esmay dovette rientrare. Tornò al suo posto di fronte al lungo tavolo dietro il quale erano seduti i cinque ufficiali. «Questo è un caso complesso» iniziò l'ammiraglio Warndstadt. «E la Commissione è quindi arrivata a una conclusione non semplice. Sottotenente di vascello Suiza, è opinione di questa Commissione che le sue azioni come capitano della Despite dal momento in cui lei ha assunto il comando effettivo dopo che le ferite di Dovir lo hanno reso inabile, fino al suo... precipitoso... ritorno a Xavier, sono entro gli standard del comportamento che ci si attende da un capitano della Flotta.» Esmay sentì un primo brivido di speranza che non sarebbe stata sbattuta fuori dal servizio, almeno, prima di essere sbattuta in galera della corte marziale. L'ammiraglio Warndstadt continuò, questa volta leggendo i suoi appunti: «D'altra parte, le sue decisioni tattiche, una volta ritornata al sistema di Xavier, sono state notevolmente inferiori agli standard. Questa Commissione prende nota del fatto che si trattava della sua prima esperienza di combattimento e della sua prima volta al comando di un vascello; e tiene debitamente conto di entrambe le circostanze. Nonostante ciò, la Commissione raccomanda che non si consideri la possibilità di assegnarle il comando di un vascello del Servizio Spaziale Regolare fino a che lei non abbia dimostrato, in situazione di combattimento, un livello di competenza tattica e operativa appropriato al capitano di una nave da guerra.» Esmay per poco non annuì; come Chapin le aveva detto, e come lei aveva già capito perfettamente, non potevano ignorare i suoi errori. Le Commissioni
esistevano precisamente per ricordare ai capitani che la fortuna, anche una fortuna sfacciata e miracolosa, non è un buon sostituto della competenza. Warndstadt alzò di nuovo lo sguardo su di lei, questa volta con un angolo della bocca sollevato lievemente in quello che avrebbe anche potuto essere un sorriso. «D'altra parte, la Commissione nota che le sue manovre, per quanto poco ortodosse, hanno avuto come risultato la disfatta di un vascello nemico notevolmente superiore in massa e potenza di fuoco, e che la difesa di Xavier è stata di conseguenza coronata da successo. Lei sembra ben conscia dei suoi limiti come capitano di una nave in combattimento; la Commissione ritiene che il suo carattere e il suo comportamento siano entrambi adeguati all'assegnazione di posizioni di comando, in futuro, purché lei ottenga prima la necessaria esperienza. Comunque, sono pochi i sottotenenti di vascello che si trovano a comandare qualcosa di più di una navetta di servizio; la raccomandazione della Commissione non dovrebbe quindi avere altro effetto che quello di darle il tempo per adeguare la sua esperienza al suo potenziale. Ora... una trascrizione completa delle raccomandazioni della Commissione verrà trasmessa a lei e al suo difensore in un secondo momento, se lei intendesse presentare appello.» Appellarsi sarebbe stata pura follia: quello era il miglior risultato in cui poteva sperare. «Sì, signore» disse. «Grazie, signore.» Passò attraverso il resto del rituale, il congedo della Commissione e i necessari ringraziamenti a ciascun membro, senza rendersi veramente conto di quanto stava dicendo. Avrebbe voluto lasciarsi cadere in un letto e dormire per un mese... ma nel giro di tre giorni sarebbe cominciata la corte marziale. Nel frattempo, avrebbe dovuto registrare le sue deposizioni per le altre corti marziali, compresa quella per il comandante Serrano. «È tutto molto insolito in questa faccenda» disse Chapin, con il tono di uno che disapprovava le cose insolite in via di principio. «Hanno dovuto affrontare mille difficoltà per trovare abbastanza ufficiali da formare tutte queste corti marziali e commissioni d'inchiesta, e sono anche a corto di spazio. Quindi spostano tutti di qua e di là e hanno deciso che siccome tu dovresti essere un po' ovunque, possono, dopo tutto, accettare deposizioni registrate, almeno in alcuni casi. Con un po' di fortuna, forse non dovrai affatto comparire in aula di persona... non possono di certo strapparti al tuo processo per rispondere a un paio di domande nel processo di un altro sottotenente. Adesso ti sembrerà di dover fare tutto in fretta, ma comunque, la tua difesa è piuttosto semplice.»
«Ah sì?» «In via di principio. Hai cospirato con altri per commettere un ammutinamento? No. Eri colpevole di tradimento o al soldo di una potenza nemica? No. Semplice. Mi aspetto che ti facciano tutte le domande imbarazzanti che gli verranno in mente, tanto per salvare le apparenze, e poi perché, non si sa mai, gli investigatori potrebbero essersene dimenticati. Ma a me sembra chiarissimo, e dovrebbe esserlo anche a loro, che tu non eri altro che un normalissimo ufficiale subalterno che ha reagito a una situazione in rapida evoluzione... e per fortuna, salvaguardando i migliori interessi della Flotta e delle Familias Regnant. L'unico problema, secondo me...» Fece una pausa, e la fissò. «Sì?» chiese Esmay per spingerlo a continuare. «Sarà difficile presentarti come un ufficiale subalterno del tutto normale, anche se i rapporti dei tuoi superiori sembrano confermare che sei proprio questo, assolutamente nella norma e nella media della tua classe. Il fatto è che sei il più giovane capitano che abbia mai fatto saltare in aria un incrociatore pesante della Benignità, e questo è tutt'altro che normale e nella media. Vorranno sapere come mai stavi nascondendo queste capacità... e come hai fatto a nasconderle. Perché hai negato alla Flotta il beneficio del tuo talento?» «È quello che mi ha chiesto anche l'ammiraglio Serrano.» Esmay si sforzò di raddrizzare le spalle, perché istintivamente avrebbe voluto rannicchiarsi in una pallina e scomparire. «E tu che cosa le hai detto?» «Io... non ho saputo risponderle. Non lo so. Non sapevo di poterlo fare fino a che non l'ho fatto, e faccio ancora fatica a crederci.» «Che modestia.» Qualcosa nel tono del maggiore la gelò. «Sono il tuo difensore, e inoltre ho molti anni di esperienza, ho praticato in campo civile e poi come riservista prima di passare a lavorare per la Flotta a tempo pieno. Tu puoi prendere in giro te stessa, ragazza mia, ma non prendi in giro me. Hai fatto quello che hai fatto perché hai delle capacità fuori dal comune. Capacità che erano evidenti negli esami di ammissione che hai sostenuto per entrare nella Flotta... o ti sei dimenticata dei voti che hai preso allora?» Sì, li aveva dimenticati. Li aveva liquidati come frutto del caso quando i voti che poi aveva preso durante la scuola preparatoria non erano stati che di poco superiori alla media. «Io sono convinto» continuò Chapin «che tu non stessi nascondendo le
tue capacità per la ragione che sembrerebbe più naturale, cioè che sei un agente della Benignità, ma tuttavia le stavi nascondendo. Hai evitato la carriera di comando come se ti ci potessi ustionare. Ho recuperato il tuo fascicolo alla scuola preparatoria e ho anche parlato con i tuoi istruttori all'Accademia. Si stanno tutti prendendo a calci per non essere riusciti a riconoscere e coltivare un talento tanto ovvio per il comando...» «Ma ho fatto un sacco di errori» obiettò Esmay. Non poteva lasciare che questa storia andasse ancora avanti. Era stata fortunata, aveva potuto contare su sottufficiali fuori dal comune a cui doveva andare la maggior parte del merito... snocciolò tutto questo il più velocemente possibile, mentre Chapin restava seduto a guardarla con immutato scetticismo. «Così non va» disse alla fine. «Per il tuo stesso bene, sottotenente Suiza...» Era dal primo giorno che non la chiamava più così, ed Esmay si irrigidì. «Per il tuo stesso bene» ripeté più dolcemente. «Devi accettare quello che sei; devi ammettere quanta parte di quello che è successo è stato merito tuo. Le tue decisioni sono state buone decisioni. La tua capacità di assumere il comando, di far sì che coloro che comandavi fornissero quelle prestazioni fuori dal comune... Non è stato un caso. Che la corte lo tenga in considerazione oppure no, tu te ne devi rendere conto. Se davvero non sapevi di esserne capace, se non ti rendevi conto che stavi nascondendo delle capacità, allora devi chiederti il perché. Altrimenti il resto della tua vita non sarà che un disastro dopo l'altro.» Alzò un dito per ammonirla, come se lei avesse parlato. «Del resto, non puoi tornare a essere un normalissimo ufficiale subalterno, non dopo questo. Qualunque cosa decida la corte, la realtà ha già emesso la sua sentenza. Sei speciale. La gente si aspetterà qualcosa di più da te, e farai bene a imparare come esserne all'altezza.» Esmay cercò di restare calma. Un angoletto della sua mente si chiedeva perché le fosse così difficile credere di avere del talento; ma la maggior parte di essa si stava concentrando sulla necessità di un più stretto controllo. La Commissione d'Inchiesta, che tecnicamente era considerata un organo amministrativo e non giudiziario, non aveva attirato l'attenzione dei media, ma le molteplici corti marziali degli ufficiali subalterni coinvolti nell'ammutinamento, e poi nella difesa di Xavier, erano troppo succulente per potergli sfuggire. La Flotta tenne gli imputati isolati finché fu possibile, ma Chapin spiegò a Esmay che per ragioni politiche i processi avrebbero dovuto essere resi accessibili a una selezionata delegazione dei media.
«Di solito a nessuno importa troppo delle corti marziali» disse. «E quando, raramente, ce n'è una che potrebbe suscitare l'interesse del pubblico, la si fa svolgere a porte chiuse per ragioni di riservatezza militare. Ma questo caso, o meglio, tutti i vostri casi, sono unici nella storia delle Familias. Abbiamo avuto gruppi nutriti di ufficiali che hanno affrontato la corte marziale, nel caso della rivolta di Trannvis, per esempio, ma non abbiamo mai dovuto processare un gruppo di ufficiali che ha fatto qualcosa di buono. La stampa si è scatenata, e sono assetati di sangue... non il tuo, per adesso, ma qualunque sangue annusino andrà benissimo. E in una situazione complessa come questa, qualcuno prima o poi dovrà versarne un po'.» Esmay fece una smorfia. «Vorrei che non...» «Ma certo. E non voglio che tu passi il tempo a guardare gli schermi per tenerti informata di tutto quello che dicono: ti farebbe semplicemente impazzire. Tuttavia prima di affrontare la corte devi sapere che ci troverai i media, e che cercheranno di farti rilasciare delle dichiarazioni fra una sessione e l'altra, anche se gli è stato detto che ti è proibito farlo. Limitati a non dire niente, assolutamente niente, quando vai dall'aula alla stanza dove ti terranno fra una seduta e l'altra. Non devo certo raccomandare a te, fra tutti, di mantenere un'espressione impassibile: lo fai sempre comunque.» Nonostante l'avvertimento, la massa di telecamere e microfoni, la gara di voci degli intervistatori, furono come uno schiaffo in piena faccia durante il suo primo viaggio fra le stanze degli imputati e l'aula. «Sottotenente Suiza, è vero che è stata lei personalmente a uccidere il capitano Hearne?» «Sottotenente Suiza, una parola sul comandante Serrano, per favore?» «Eccola lì! Sottotenente Suiza, come ci si sente a essere un eroe?» «Sottotenente Suiza, che cosa penserà la sua famiglia ne! vederla di fronte a una corte marziale?» Sentiva il suo volto trasformarsi in una maschera di pietra, ma sotto quella maschera si sentiva terrorizzata e impotente. Un'assassina? Un eroe? No, era solo un sottotenente che non chiedeva di meglio che restare nell'oscurità per diversi altri decenni. In quanto a quello che avrebbe detto la sua famiglia della corte marziale... non ci voleva neanche pensare. Conscia dei problemi creati da tutta la pubblicità che circondava il caso, aveva mandato loro solo un messaggio brevissimo, e li aveva pregati di non rispondere. Non aveva fiducia nemmeno nella capacità degli ansible della Flotta di proteggere la riservatezza di un tale messaggio, sotto la pressione di tutti i servizi informativi commerciali delle Familias.
Dentro l'aula si trovò di fronte a un altro muro di microfoni. Mentre seguiva le formalità del processo, non riusciva a dimenticare che ogni parola, anche ogni fuggevole espressione del viso, sarebbe stata ritrasmessa su tutti i mondi, in modo che chiunque la potesse vedere e sentire. Chapin, che la aspettava seduto al tavolo della difesa, le mormorò: «Rilassati, Esmay: sembra che sia tu che stai per processare la corte e non il contrario.» Tutti i procedimenti erano collegati dall'esigenza che gli ufficiali testimoniassero ciascuno sul comportamento dell'altro, per via della necessità di determinare se l'ammutinamento fosse frutto di una cospirazione. Ma Esmay, in quanto ufficiale sopravvissuto di grado più alto, era stata nominalmente accusata anche di altre violazioni del Codice. Chapin le aveva spiegato che tali imputazioni erano atti dovuti, e che probabilmente sarebbero state archiviate rapidamente, visto che non c'era alcuna prova a sostegno. "Sfortunatamente" le aveva detto "solo perché Hearne era un traditore non vuol dire che voi ammutinati siate fuori pericolo: se emerge la prova che ci fosse una cospirazione prima che il tradimento di Hearne diventasse evidente, allora la cospirazione in sé è sufficiente per ottenere un verdetto di colpevolezza." Ma per quanto ne sapeva Esmay, nessuno dei subordinati che non erano sul libro paga della Mano Compassionevole aveva sospettato alcunché di Hearne o degli altri. Lei di certo non l'aveva fatto. A volte le era sembrato che Hearne facesse le cose un po' alla buona, ma si diceva che in combattimento fosse brillante, ed era opinione comune che un certo disprezzo per le parti inutili dei regolamenti andasse di pari passo con una superiore abilità in battaglia. Si trovò a ripetere un'altra volta la storia della sua assegnazione alla Despite. Quali erano i suoi doveri, qual era la routine nel tempo libero, le sue responsabilità verso ufficiali ancora più giovani di lei, le valutazioni che dava dei suoi colleghi. «E non ha mai sospettato nulla sul conto del capitano Hearne, del maggiore Cossordi, del maggiore Stek, o del tenente Arvad?» «No, signore» rispose Esmay. Lo aveva già detto, di ciascuno di loro separatamente. «E per quanto ne sa, nessun altro sospettava che fossero al soldo della Benignità?» «No, signore.» «Aveva una relazione particolare con Dovir?» L'idea era talmente ridicola che Esmay per poco non perse la sua impassibilità.
«Dovir, signore? No, signore.» Il silenzio si protrasse: fu tentata di spiegare i gusti di Dovir in fatto di relazioni, ma decise che fosse meglio di no. «E non aveva mai sentito parlare di un complotto per ammutinarsi al capitano Hearne?» «No, signore.» «E nessun malcontento, di nessun genere, fra gli ufficiali o la truppa?» Questa era un'altra faccenda. Il malcontento riempiva le navi come l'aria; la gente si lamentava di tutto, dal cibo alla scarsità del tempo che poteva passare in palestra; succedeva sempre. Esmay scelse le parole con cura: «Signore, naturalmente ho avvertito un certo malcontento, come succede sempre. Ma non più di quanto avvenga su qualunque nave.» Uno degli ufficiali della corte sbuffò. «Già, perché lei ha una vasta esperienza in questo campo, vero?» disse, grondando sarcasmo. Chapin si alzò. «Obiezione.» «Accolta.» Il presidente della corte scoccò un'occhiata di disapprovazione all'ufficiale che aveva parlato. «Lei sa bene quali sono gli standard, Thedrun.» «Signore.» Il presidente guardò Esmay. «La prego di precisare la natura del malcontento, sottotenente Suiza. Questa corte non è sicura che un giovane ufficiale privo di esperienza sia in grado di giudicare quale sia il normale livello di malcontento a bordo di una nave.» «Sì, signore.» Esmay fece una pausa, cercando di recuperare dalla sua memoria qualche esempio. «Quando la Despite era in cantiere, prima che io mi imbarcassi, l'area ricreativa è stata ridotta di circa il trenta per cento, per permettere l'installazione del generatore di fascio carico aumentato di babordo. Questo ha significato la perdita di quindici macchine da palestra; sarebbero state diciannove, se il capitano Hearne non avesse approvato una disposizione più compatta. Comunque, si sono dovuti accorciare i periodi di esercizio e alcuni membri dell'equipaggio non potevano raggiungere la quota minima necessaria di esercizio fisico senza doversi alzare durante il loro turno di riposo. Alcuni si sono lamentati, dicendo che Hearne avrebbe dovuto abbassare il limite richiesto oppure installare le altre macchine in qualche altro punto della nave.» «Cos'altro?» «Be', c'era un ladro che rubava dagli armadietti dei marinai semplici. Questo ha causato molta irritazione, perché avrebbe dovuto essere molto semplice catturarlo, ma gli scanner non hanno mai rivelato nulla.»
«Erano stati sabotati?» «Il capo di prima classe Bascome pensava di sì, ma non riusciva a provarlo. Questa storia è andata avanti per... forse venti o trenta giorni... e poi non si è più ripetuta. Gli oggetti che venivano sottratti erano raramente di grande valore monetario, ma erano sempre cose di grande importanza personale.» Doveva dire che erano stati ritrovati dopo la battaglia, quando stavano ripulendo la nave, nell'armadietto di uno dei caduti? Sì: le avevano insegnato che tacere un'informazione era come mentire. «Abbiamo ritrovato gli oggetti dopo la battaglia» disse quindi. «Ma la persona nel cui armadietto si trovavano era stata uccisa nelle prime fasi del combattimento.» «Dell'ammutinamento, vuole dire.» «Sì, signore. Date le circostanze, abbiamo semplicemente restituito quello che avevamo trovato ai legittimi proprietari. Quelli che erano sopravvissuti, cioè.» Un grugnito da parte del presidente. Esmay non riuscì a interpretarne il significato. Il processo continuò, tedioso, ora dopo ora. Le domande erano quasi sempre sensate, e si concentravano su quello che lei sapeva, che aveva visto, che aveva fatto. Altre volte la corte sembrava intestardirsi a seguire qualche linea investigativa completamente inutile, come quella che riguardava il genere di lamentele che aveva sentito, fino a cacciarsi in un vicolo cieco da cui ci si liberava solo con un calcio, per ritornare alle questioni sostanziali. In un caso queste divagazioni condussero in una direzione sgradevole. Thedrun, quello che già aveva cercato di intimidirla, aveva continuato a fare domande insinuanti, come se fosse intimamente convinto di qualche sua colpa spaventosa. Cominciò con il chiederle della sua responsabilità nel supervisionare i guardiamarina. «Non è forse vero, sottotenente Suiza, che lei era stata incaricata di assicurarsi che i guardiamarina svolgessero i compiti loro assegnati e studiassero per il numero di ore richiesto?» «Signore, era un compito che ruotava fra i quattro sottotenenti di vascello più anziani, sotto la supervisione del tenente Hangard. Mi fu assegnato tale compito per i primi trenta giorni dopo la partenza della Despite dal quartier generale di settore, poi divenne responsabilità del sottotenente a me successivo come anzianità, il sottotenente di vascello Pelisandre, per i consecutivi trenta giorni, e così via.» «Ma in quanto più anziana dei sottotenenti, non era in ultima analisi sua responsabilità...?»
«No, signore. Il tenente Hangard aveva chiarito che voleva noi minutaglia... mi scusi...» «Non importa» disse il presidente. «Sappiamo cosa vuol dire.» «Bene, signore, il tenente Hangard voleva che ciascuno di noi responsabili dei guardiamarina rispondesse direttamente ed esclusivamente a lui. Diceva che era necessario che ciascuno di noi imparasse a considerarsi responsabile in prima persona per un certo breve periodo.» Dove volevano andare a parare? «Allora lei non sapeva che il guardiamarina Arphan era impegnato nella sottrazione illegale di materiale bellico?» «Cosa!» Esmay non riuscì a impedirsi di far trapelare il suo sbalordimento. «Il guardiamarina Arphan? Ma lui...» «Il guardiamarina Arphan» disse il presidente «è stato condannato per sottrazione e vendita illegale di beni militari a compratori privi di licenza, in questo caso, la compagnia di spedizioni di suo padre.» «Io... è difficile crederlo» disse Esmay. D'altra parte, a pensarci bene, non era poi così difficile... però... perché non aveva notato niente? Era stato qualcun altro a scoprirlo? «Non ha ancora risposto alla domanda: era o non era al corrente del fatto che il guardiamarina Arphan fosse impegnato nella sottrazione di equipaggiamento militare?» «No, signore, non ne ero a conoscenza.» «Benissimo. Adesso, per quanto riguarda l'ammutinamento in sé...» Esmay si chiese perché mai perdessero tempo a fare delle domande a cui i cubi degli apparati di sorveglianza avevano già dato risposta. Hearne aveva tentato di distruggere ogni traccia della sua conversazione con Serrano, ma l'ammutinamento era scoppiato prima che potesse farlo. E quindi la corte aveva visto le registrazioni, da più di un'angolazione... perché Serrano naturalmente aveva registrato le trasmissioni di Hearne, e le due testimonianze concordavano. La corte sembrava soprattutto preoccupata della possibilità che gli ufficiali subalterni stessero complottando già da prima che Hearne sfidasse Serrano. Esmay ripeté quello che aveva già detto, e la corte vivisezionò ogni sua affermazione. Com'era possibile che non avesse saputo da prima che Hearne era una traditrice? Com'era possibile che l'ammutinamento a cui aveva partecipato avesse avuto successo, se non aveva concordato un piano assieme agli altri ammutinati, prima che le cose precipitassero? Era davvero tanto facile provocare un ammutinamento spontaneo?
Alla fine della seconda giornata, Esmay aveva voglia di picchiare qualcuno. Trovava incredibile che un'intera fila di ufficiali superiori non riuscissero a vedere quello che avevano sotto gli occhi, che insistessero tanto per trovare qualcosa che non fosse la nuda ed evidente verità. Hearne era stata una traditrice, assieme a pochi altri ufficiali e a qualcuno degli arruolati. Nessuno aveva notato niente perché, fino al momento in cui aveva sfidato Serrano, le sue azioni non erano state affatto equivoche. «Ha mai avuto il sospetto che stesse facendo uso di farmaci illeciti?» le chiese uno di loro, per la terza volta. «No, signore» disse Esmay. Erano tutte cose che aveva già detto e ripetuto. Il capitano Hearne non le era mai apparso sotto l'influenza di qualche droga, non che Esmay sarebbe stata capace di riconoscere gli effetti di una droga... Non aveva alcun modo di sapere che cosa Hearne stava assumendo. E non aveva fatto esaminare la cabina del capitano dopo l'ammutinamento per scoprirlo. Aveva avuto una battaglia da combattere. Seguirono altre domande sulle possibili motivazioni di Hearne; il maggiore Chapin le bloccò ripetutamente. Esmay rimase seduta e lo lasciò fare, grata; si sentiva stanca e irritabile. Naturalmente non sapeva nulla del perché Hearne fosse diventata una traditrice; non sapeva se avesse dei debiti, se avesse dei legami politici con un governo straniero, se covasse del rancore contro la Flotta. Come avrebbe potuto saperlo? Poi furono le sue motivazioni a essere poste in questione: Esmay rispose con tutta la calma di cui fu capace. Non aveva alcun motivo di risentimento contro il capitano Hearne, che le aveva parlato solo raramente. Quando venne esibito il giornale di bordo privato di Hearne, scoprì che il sottotenente di vascello Suiza era stata descritta come "competente ma incolore; non causa problemi, ma manca di iniziativa". «Lei ritiene di mancare di iniziativa?» chiese il presidente della corte. Esmay ci rifletté sopra. Speravano che dicesse sì o che dicesse no? In che trappola pensavano di attirarla? «Signore, sono sicura che il capitano Hearne avesse le sue buone ragioni di pensarlo. Sono per abitudine una persona molto cauta, e cerco sempre di comprendere bene una situazione prima di farmi un'opinione. E per questo non ero la prima a offrire soluzioni o suggerimenti quando il capitano proponeva un problema.» «L'opinione del capitano non le causa risentimento?» «No» disse Esmay. «Ritengo che avesse ragione.» «E questo la soddisfa?» «Signore, non sono soddisfatta di me stessa, ma l'opinione del capitano
mi sarebbe sembrata giustificata.» «Noto che parla al passato... ritiene ancora che la valutazione che il capitano ha dato di lei fosse accurata?» «Obiezione» disse Chapin. «Il modo in cui il sottotenente Suiza valuta se stessa e il suo confronto con l'opinione precedente del capitano Hearne non è pertinente al procedimento.» Alla fine le cose andarono verso una conclusione... tutte le testimonianze erano state ascoltate, tutte le domande poste più di una volta, e le requisitorie di accusa e difesa terminate. Esmay attese che la corte conferisse; al contrario di quanto era successo con la Commissione, toccò a lei restare in aula mentre i membri della corte si ritiravano. «Prendi un bel respiro» le disse Chapin. «Sei di nuovo pallida... ma ti sei comportata molto bene.» «Sembrava tutto così... così complicato.» «Be', se lo avessero fatto sembrare semplice quanto è, non avrebbero avuto nessuna buona ragione per fare un processo, a parte il fatto che il regolamento lo richiede. E con tutta questa attenzione dei media, non vogliono che sembri semplice, vogliono apparire rigorosi ed esigenti.» «Secondo te, come...?» «Come andrà a finire? Se non ti assolvessero da tutte le imputazioni sarei stupefatto... hanno anche il parere della Commissione d'Inchiesta; sanno che per quanto riguarda i tuoi errori ti sei già presa le ramanzine del caso. Se non ti assolvono, faremo appello... sarà più facile vincere in appello, in realtà, perché non saremo più sotto l'occhio dei media. E poi, hanno già trovato la mela marcia con cui sfogarsi, quel giovanotto, Arphan.» Gli ufficiali della corte ritornarono, Esmay si alzò, con il cuore che le batteva al punto che quasi non riusciva a respirare. Come sarebbe finita? «Sottotenente di vascello Esmay Suiza, questa corte ha raggiunto la conclusione che lei è innocente di tutte le imputazioni a suo carico; la corte ha votato all'unanimità per l'assoluzione. Congratulazioni, sottotenente.» «Grazie, signore.» Riuscì a restare in piedi durante tutte le formalità finali, che di nuovo imponevano di salutare ogni membro della corte, e l'avvocato dell'accusa, che, da quando aveva smesso di tormentarla con le domande, sembrava amichevole e innocuo. «Lo sapevo che non avevamo nessuna chance» le disse stringendole la mano. «Era ovvio da tutte le prove, in realtà, però dovevamo andare avanti comunque. Ma a meno che lei non fosse arrivata in aula ubriaca fradicia e avesse aggredito un ammiraglio, era in una botte di ferro.»
«Non mi sentivo in una botte di ferro» disse Esmay. L'avvocato dell'accusa rise. «Si vede che ho fatto bene il mio lavoro, sottotenente. È questo che devo fare, spaventare l'imputato al punto che se c'è qualche colpa nascosta venga fuori. Nel suo caso, non c'era proprio niente.» Si voltò verso Chapin. «Fred, ma perché a te capitano sempre solo quelli facili? L'ultimo che ho dovuto difendere era un farabutto che ricattava le reclute.» «È la ricompensa per le mie virtù» rispose Chapin tranquillamente, ed entrambi risero. Esmay non se la sentiva di partecipare al clima di allegria: voleva solo trovare un posticino tranquillo e dormire per una settimana. «Che cosa farà ora, sottotenente?» chiese uno degli altri ufficiali. «Mi prenderò una licenza» disse. «Dicono che ci vorrà un po' prima che mi diano un nuovo incarico, e posso avere trenta giorni più il viaggio. È da quando ho lasciato il mio pianeta che non torno a casa.» Non era ansiosa di rivederla, ma sapeva che non c'era altro modo di sfuggire alle attenzioni dei media. 4 Altipiano Esmay era convinta di avere seminato gli ultimi segugi dei media due fermate prima di quella del suo pianeta natale, Altipiano. Ma quando uscì dalla sala arrivi, le luci la accecarono per un momento. Avevano indovinato la sua destinazione, ovviamente. Strinse i denti e continuò ad avanzare. Potevano filmarla quanto voleva mentre attraversava la stazione. Potevano anche infiltrare qualcuno nella navetta che l'avrebbe portata sulla superficie, ma una volta che avesse toccato terra, sarebbero stati bloccati. Ecco finalmente un lato positivo di quel suo malaugurato ritorno a casa. «Sottotenente Suiza!» Le ci volle un lungo momento, che durò diversi passi, per rendersi conto che quella voce non apparteneva a un giornalista, ma a suo zio Berthol. Si guardò attorno. Indossava l'uniforme di gala, ed Esmay gemette dentro di sé, immaginando la reazione dei suoi conoscenti nella Flotta una volta che avessero visto quella registrazione. Non appena ebbe incrociato i suoi occhi, suo zio smise di agitare la mano e si irrigidì. Sospirando, Esmay si fermò, puntellandosi contro la pressione della gente che continuava ad avanzare alle sue spalle, e salutò. Quando suo padre le aveva mandato a dire che non poteva venirla a prendere alla stazione, lei
aveva pensato che non sarebbe venuto nessuno... non si era aspettata Berthol. «È bello rivederti, Esmaya» disse suo zio, con uno sguardo che sgombrò lo spazio fra di loro e spedì via i giornalisti. «È un piacere anche per me, signore» rispose Esmay, conscia di essere scrutata dalle telecamere. «Oh, per i denti divini, Esmay, non devi chiamarmi signore.» Ma c'era un luccichio nei suoi occhi che le rivelava quanto avesse apprezzato quel formalismo. Le stellette sulle sue spalline scintillavano sotto i fasci incrociati dei riflettori, mentre le telecamere si spostavano alla ricerca dell'angolo di ripresa migliore. Esmay aveva detto alla Flotta che suo padre era uno dei quattro comandanti regionali... non aveva ricordato quello che doveva essere comunque scritto nel suo dossier, e cioè che gli zii Berthol e Gerard erano due degli altri. «Suppongo che tu non sia morta di fame nella Flotta, dopo tutto. Sai che la nonna è convinta che non si possa trovare nulla di legale da mangiare lassù...» Esmay sorrise, anche se avrebbe preferito che l'argomento non venisse sollevato. La nonna era in realtà la sua bisnonna, ormai ben più che centenaria, e influente a modo suo tanto quanto Papa Stefan. «Sto bene» disse, e si voltò, sperando di convincere Berthol a non posare per le telecamere. «Più che bene, Esmaya.» L'uomo si fece più sobrio, e le toccò dolcemente una spalla. «Ci riempi di orgoglio. Siamo più che felici di riaverti a casa.» Si voltò: i suoi aiutanti, notò Esmay, erano dispersi fra la folla e a quel punto si riunirono tutti alle sue spalle. Le luci abbaglianti sparirono dietro di loro, nonostante un coro di proteste. «Appena saremo arrivati a terra ti festeggeremo come si deve.» Esmay si sentì sprofondare. Quello che voleva davvero era un viaggio tranquillo fino all'estancia, la sua stanza con la finestra affacciata sul giardino di rose... e una bella notte di sonno, una notte che rispettasse i ritmi del suo corpo. «È un'occasione che non possiamo sprecare.» Insistette suo zio a bassa voce, mentre attraversavano la sala partenze piena di gente che non conosceva e che l'applaudivano schioccando la lingua, come ricordava tanto bene. Berthol la fece entrare nella navetta in attesa, e poi nel compartimento di poppa, che i suoi aiutanti chiusero alle loro spalle. «Che succede?» chiese Esmay. Aveva lo stomaco stretto dalla tensione: in realtà, avrebbe preferito non sapere nulla. «Più tardi riceverai tutte le informazioni del caso» disse Berthol. «Non
abbiamo prenotato tutta la navetta, pensavamo che avrebbe dato troppo nell'occhio. Un compartimento privato invece è abbastanza normale. E non c'è modo di sottrarsi alla cerimonia di benvenuto, anche se suppongo che tu abbia solo voglia di una lunga vacanza a casa, vero?» Esmay annuì. Gettò un'occhiata agli aiutanti di Berthol. I gradi della milizia non corrispondevano a quelli della Flotta: le mostrine, a parte le stelle che designavano gli ufficiali superiori, erano completamente differenti. Ma tutto le tornò in mente d'un colpo: fanteria, corpi corazzati, aviazione, Marina... quella che la Flotta chiamava, con un certo disprezzo "flotta bagnata". Davanti a lei erano rappresentati tutti e quattro i corpi, e tutti quei militari senza eccezione erano più vecchi di lei. Quello con le insegne dei corpi corazzati aveva un auricolare, e a quel punto si voltò verso Berthol. «Il generale Suiza dice che sono pronti, signore.» «Tuo padre» disse Berthol. «È lui al comando, là sotto, per ragioni che ti saranno chiare più avanti. Nel frattempo, ci sarà una cerimonia formale alla pista d'atterraggio, una cosa pietosamente breve, se conosco tuo padre, e poi una processione fino in città, e la premiazione formale a palazzo.» «Premiazione?» Esmay riuscì a infilare la domanda quando Berthol prese fiato. «Ah...» per un attimo sembrò in imbarazzo, poi abbassò la voce. «Vedi, Esmay, quando abbiamo capito che con il tuo intervento hai salvato un intero pianeta, e che la tua Flotta non ti ha nemmeno dato un cenno di riconoscimento...» "Dio mio." Esmay passò velocemente in rassegna tutte le possibili spiegazioni che avrebbe potuto dare, e che suo zio non avrebbe capito, e comprese che era inutile. Avevano deciso che la sua Flotta non l'aveva onorata a sufficienza, e non sarebbe servito a nulla fargli notare che l'assoluzione era assieme un ringraziamento e un'onorificenza. E poi, sapeva che qualcuno aveva proposto una medaglia per lei, il che le faceva venire l'orticaria solo a pensarci. Avrebbe solo voluto che tutti se ne dimenticassero. Ma questo... «E non è come se si trattasse di un qualche cavallino spelacchiato qualunque» continuò Berthol. «Tu sei una Suiza. Ti stanno trattando...» «Benissimo, zio Berthol, mi stanno trattando benissimo» disse, sperando di fermarlo. Ma non ci sarebbe stato modo di bloccare la cerimonia. «No, io non direi. E la Tavola Lunga è d'accordo. Hanno votato per darti il Monte Stellato...» «Oh, no» sospirò Esmay. Si rese conto, a disagio, che una parte di sé in
fondo in fondo aveva sospirato "Oh, sì." «È un titolo personale. Da convertire se mai dovessi sposarti su Altipiano.» "Oh, Dio mio" pensò di nuovo. Non se lo meritava. Era ridicolo. E avrebbe provocato... dei problemi tremendi in qualunque caso. La Flotta non avrebbe capito che era inteso come un rimprovero, ma questo non voleva dire che non fosse imbarazzante, e che lei non sarebbe stata messa in imbarazzo. «La terra a cui è legato non è granché» continuò Berthol. «In realtà, ci penserà tuo padre a fornire la terra; è quella piccola valle dove andavi a nasconderti da piccola...» Nonostante tutto, Esmay sentì una punta di piacere al ricordo della piccola valle montana, con i suoi ripidi pendii coperti di pioppi e pini, i suoi prati verdi e il torrente limpido. Dentro di sé ne aveva rivendicato la proprietà tanti anni prima, ma non aveva mai immaginato che un giorno sarebbe stata davvero sua. Poi ricordò il regolamento del Servizio Spaziale Regolare, che avrebbe potuto interferire. «Non ti preoccupare» disse Berthol, come leggendole nel pensiero. «È al di sotto dei limiti imposti dal regolamento. Tuo padre ha rifatto i rilievi e lo ha ridotto nella parte superiore. Il terreno arriva solo fin sotto il ghiacciaio ora. A ogni modo, se hai bisogno di ripassare il protocollo della cerimonia...» Certo che ne aveva bisogno. Il cubo che le venne consegnato dal maggiore con le mostrine dei corpi corazzati non solo conteneva il programma della cerimonia, ma anche un breve riassunto degli sviluppi politici più recenti, e la posizione della sua famiglia su ognuno di essi. La Commissione Sviluppo Minerario stava ancora litigando con la Commissione Biologia Marina sul controllo dello sviluppo bentico. Alcune cose non sarebbero mai cambiate, ma negli anni in cui lei era stata assente il fulcro della disputa si era spostato dalla Fossa Seline, dove le colonie che interessavano i biologi erano morte, e che ora veniva sfruttata per i suoi ricchi depositi minerari, alla Fossa Plaanid, dove si erano aperti nuovi sfiatatoi che nutrivano nuove colonie. Era una diatriba che sarebbe stata di notevole importanza su qualunque mondo, ma lì su Altipiano la Commissione Sviluppo Minerario rappresentava i Secolaristi, mentre erano i credenti nella Vecchia Religione e i Vitalisti a controllare la Commissione Biologia Marina. Il che voleva dire che una divergenza di opinioni su quale comunità bentica fosse viva e quale no poteva degenerare in una rivolta a sfondo religioso
che avrebbe interessato l'intero pianeta. «Sanni» disse Berthol, quando Esmay ebbe spento il lettore «è di nuovo coinvolta con i Vitalisti.» Esmay ricordava con precisione il momento in cui la sua romantica infatuazione per il cielo notturno si era tramutata nella certezza che avrebbe dovuto lasciare la sua casa per sempre. Rivide sua zia Sanni, Sanibel Aresha Livon Suiza, e suo zio Berthol che urlavano l'uno contro l'altra attraverso la sala da pranzo grande della estancia. Sanni era una Vitalista e rigida nelle sue convinzioni quanto un credente nella Vecchia Religione. Esmay trovava la filosofia dei Vitalisti attraente, ma Sanni, quando era arrabbiata, la terrorizzava. Eppure era stato Berthol a lanciare l'insostituibile, preziosissima cioccolatiera, mandando in mille pezzi le ninfee e i cigni dipinti e lasciando un segno indelebile sul tavolo lucido. Suo padre a quel punto era intervenuto, con Sanni che cercava freneticamente di raccogliere i frammenti dal pavimento e Berthol che urlava ancora. E Papa Stefan, due passi più indietro, aveva costretto entrambi a vergognarsi, a scusarsi e stringersi la mano. Ma Esmay non aveva creduto a quella rappacificazione. Qualunque fosse la cosa che divideva Sanni e Berthol, era rimasta lì, ed era ancora lì, e adesso lei ci si ritrovava in mezzo. «Non è un mio problema» disse. «Sono qui solo per una breve licenza...» «Tu le piaci» spiegò Berthol. Gettò un'occhiata ai suoi aiutanti, che stavano scrupolosamente evitando il suo sguardo. «Dice che sei l'unico membro sano di mente di questa generazione in famiglia, e adesso sei anche un'eroina.» Esmay si sentì arrossire. «Non è vero. Tutto quello che ho fatto...» «Esmay, questa è la tua famiglia. Non devi fingere con noi. Tutto quello che hai fatto, bambina mia, è stato di sopravvivere a un ammutinamento, venirne fuori con le redini in mano, e poi sconfiggere una nave da guerra due volte più grossa della tua.» "Più grossa di così" pensò Esmay. Ma non lo disse: avrebbe solo peggiorato le cose. «Non ho saputo che c'era fino a che non è stato troppo tardi» rettificò invece. «Allora vuol dire che sei stata più in gamba del suo capitano. Un'eroina, Esmay. Ti ci devi abituare. Porti la nostra bandiera là fuori, ragazza, e lo stai facendo molto bene.» Non stava portando la loro bandiera, era la sua e basta. Ma non lo a-
vrebbero capito, anche se lei avesse avuto il coraggio di dirglielo. E Berthol ripeteva le stesse cose del maggiore Chapin, dell'ammiraglio Serrano. Era diventata un eroe solo per caso... perché non era ovvio per gli altri quanto lo era per lei? «E Sanni è orgogliosa di te» continuò Berthol. «Vuole parlarti... chiederti tutto della Flotta, della tua vita. Se hai incontrato qualche buon partito, se conosco Sanni.» Rise, ma sembrava una risata poco sincera. Se n'era andata per una buona ragione. Avrebbe dovuto restare lontana. Eppure, al pensiero dell'intera famiglia che per una volta l'approvava, che la considerava una cosa di cui vantarsi e non un peso, il cuore le batteva più forte. Il Monte Stellato... quando era stata piccola, aveva visto per la prima volta un soldato a cui era stato dato il Monte Stellato, un tizio magro e con i capelli rossi che camminava tutto storto. Lo aveva fissato, lui e la medaglia appesa attorno al suo collo con un nastro azzurro e argento, fino a che un adulto non l'aveva rimproverata, costretta a chiedere scusa e a smettere di seguirlo. Nessuno su Altipiano poteva essere indifferente al Monte Stellato... e non c'era bisogno di spiegare alla Flotta come si sentiva. Alla pista d'atterraggio, gli unici giornalisti presenti indossavano l'uniforme verde e scarlatta della Agenzia notiziaria centrale di Altipiano. Nessuno cercò di parlarle; nessuno cercò di avvicinarla. Sapeva che il percorso che avrebbe coperto, dalla navetta al terminale e poi alla macchina in attesa, sarebbe stato l'unico filmato ad andare in onda, commentato da un analista anziano e posato. Nessuno avrebbe cercato di intervistarla, lì sarebbe stato considerato maleducato e poco rispettoso. Suo padre, con un muro di altri ufficiali alle spalle, le tributò lo stesso saluto formale che aveva ricevuto da Berthol; lei rispose, e suo padre passò a un abbraccio e dei baci semiformali. Non come un padre saluta una figlia, ma come un comandante saluta un ufficiale più giovane che sta per ricevere un'onorificenza. Venne presentata al suo aiutante anziano, e poi a quello immediatamente più giovane; fu condotta attraverso un corridoio dove una solida barriera di miliziani assicurava l'unica privacy che contava, cioè quella da occhi civili, mentre le venivano concessi pochi minuti nella toilette delle signore, dove due servette erano pronte ad applicarle un po' di trucco e a tentare di fare qualcosa per i suoi disgraziati capelli. Alla fine dovettero ricorrere a uno spruzzo di sostanza profumata che le avrebbe fatto prudere la testa per due giorni... ma se avesse evitato ai suoi capelli di volare via, per una volta non le sarebbe dispiaciuto. In pochi minuti le a-
vevano tolto la giacca dell'uniforme, l'avevano stirata, e dopo un'occhiata alla camicia l'avevano obbligata a sostituirla con una pulita, presa dal suo bagaglio. Rinfrescata e, con sua sorpresa, rallegrata da queste attenzioni, Esmay tornò fuori, per ritrovarsi in mezzo a un diverbio condotto a mezza voce fra suo padre e suo zio. «È solo una nuvoletta» stava dicendo suo zio. «Potrebbe anche non piovere...» «È solo un proiettile» disse suo padre. «E potrebbe mancare il bersaglio. Non voglio correre rischi. Quando i suoi capelli si bagnano... Oh, eccoti qui, Esmaya. C'è un fronte temporalesco che si muove verso la città; andremo in macchina.» «Non è la stessa cosa» borbottò Berthol. «E poi non è che dovesse cavalcare per davvero.» Lei aveva dato per scontato che avrebbe viaggiato in macchina: si era dimenticata che su Altipiano tutte le cerimonie prevedevano la presenza di cavalli. Ringraziò la divinità ignota responsabile del possibile temporale e il disgusto di suo padre per il groviglio crespo in cui si tramutavano i suoi capelli con l'umidità. Almeno lì non c'era nessuno della Flotta, nessuno a fare battute su un esercito tanto arretrato che ancora usava i cavalli. Naturalmente nella parata i cavalli c'erano, anche se lei era seduta in macchina. Da lì, protetta, guardò la cavalleria mettersi in posizione con precisione consumata davanti e dietro di lei, i cavalli che si muovevano all'unisono, fra un tendersi e rilassarsi di muscoli coperti da pelo lucente. E i cavalieri, schiene dritte, mani in riposo, volti composti in un'espressione neutra che non sarebbe variata neanche se uno dei cavalli si fosse imbizzarrito... non che uno di quegli animali ben addestrati potesse fare una cosa del genere, ovviamente. Dietro i cavalli, la folla si assiepava sui marciapiedi, o guardava dalle finestre degli edifici più alti. Alcuni sventolavano i colori di Altipiano, rosso e oro. Erano più di dieci anni standard che non tornava a casa. Se n'era andata che era ancora un'adolescente impacciata, l'incarnazione stessa della goffaggine giovanile. Niente era a posto in lei, non il suo corpo, non la sua mente, non le sue emozioni. Non essere a posto a casa e non essere a posto alla scuola preparatoria le era sembrato un cambiamento trascurabile, naturale. Quando era giunto il momento del diploma dall'Accademia, era arrivata ormai ad aspettarsi di essere quella strana, quella le cui reazioni non erano naturali.
Non si era resa conto fino a che punto quei sentimenti fossero dovuti alla sua età e poi al naturale disorientamento di avere lasciato il suo pianeta prima che la sua identità di adulta potesse solidificarsi. Ora, alla luce del sole di Altipiano, con il corpo soggetto alla gravità del suo mondo natale, cominciò a rilassarsi, a sentirsi a casa come non le era più successo da quando era una ragazzina. I colori erano giusti, come non erano stati per anni; sentiva in tutte le sue ossa che quella era la gravità giusta, e non quella standard di un G. Quando uscì dalla macchina e salì i gradini rossi del palazzo, i suoi piedi indovinarono senza sforzo il giusto ritmo. I gradini erano dell'altezza giusta, della giusta profondità; la roccia sembrava solida al punto giusto; la porta le dava il benvenuto; l'aria (prese un altro profondo respiro) l'aria aveva l'odore giusto, e le scendeva giusta e naturale fino in fondo ai polmoni. Si guardò attorno, osservando le persone che si affollavano attorno a lei nella sala. Gli umani sono umani da per tutto, ma la forma particolare di un umano varia a seconda del genoma che possiede e del mondo su cui vive. Qui la struttura ossea sembrava familiare; erano facce che aveva conosciuto per tutta la vita, zigomi e sopracciglia prominenti, menti lunghi, occhi profondamente infossati sotto sopracciglia folte. Quelle braccia lunghe, mani e piedi grossi, quegli arti spigolosi... quella era la sua gente, gente come lei. Lì si sentiva a posto, almeno fisicamente. «Ezzmaya! S'oort semzz zalaas!» Esmay si voltò; aveva già fatto l'orecchio al dialetto di Altipiano, anche nella forma più ostica parlata dalla sua famiglia, e non fu difficile capire che qualcuno le aveva dato il benvenuto. Non riconobbe subito il vecchio rugoso che le era comparso di fronte, rigidamente sull'attenti e con la treccia lucente di un sottufficiale anziano a riposo, ma l'assistente di suo padre mormorò qualcosa che le arrivò all'auricolare. Era il sergente maggiore in congedo Sebastian Coron... ma certo. Aveva fatto parte della sua vita fin da quando aveva memoria, sempre corretto ed elegante, ma con uno scintillio negli occhi quando vedeva la figlia maggiore del suo comandante. Esmay sentì che la sua lingua, nel sentire quei suoni familiari, si arrotolava senza neanche doverci pensare nelle consonanti vibrate del dialetto. Lo ringraziò per le congratulazioni con una formalità che lo fece sorridere ancora di più. «E la tua famiglia, i figli del tuo corpo, le figlie del tuo cuore? Non avevi già dei nipotini?» Prima che Coron potesse rispondere, il padre di Esmay gli aveva teso
una mano. «Puoi venire a farci visita più tardi» gli disse. «Adesso dobbiamo andare di sopra.» Coron annuì, fece un inchino faticoso a Esmay e si fece da parte. Mentre suo padre la portava via, le disse: «Spero che non ti secchi... è così orgoglioso di te, sembra quasi che il padre sia lui. Voleva tanto venire...» «Ma certo che non mi secca.» Esmay alzò gli occhi alle scale coperte da un tappeto verde. Aveva sempre adorato le vetrate sul pianerottolo, che gettavano luce dorata e color sangue sul tappeto. Le guardie di palazzo, in nero e oro, erano in piedi rigide come colonne di una balaustra, sguardo nel vuoto. Da bambina, si era sempre chiesta se sarebbero riuscite a restare tanto impassibili anche se lei gli avesse fatto il solletico, ma non aveva mai avuto la possibilità, o l'audacia, di provare. Ora saliva le scale passandogli accanto, frastornata da quel groviglio di ricordi e di sensazioni presenti. «E vuole sentire le tue imprese direttamente da te... almeno qualcosa...» «Va benissimo» assicurò Esmay. Avrebbe di gran lunga preferito raccontare le sue storie al vecchio Coron che agli ufficiali della milizia dal viso fresco che li circondavano ora. Coron le aveva insegnato di più sui fondamenti della vita militare di quanto suo padre probabilmente si fosse mai reso conto; aveva studiato i manuali di tattica delle piccole unità per tutta un'estate, giù in Varsimla, sotto il suo occhio attento. «Certo, si fa un po' trasportare» continuò suo padre. «Ma mi ha salvato la pelle più di una volta.» Anche lui alzò gli occhi verso la sala al piano superiore, dove un grappolo di uomini in abiti formali li aspettavano, disposti a semicerchio. «Ah... eccoci. I consiglieri della Tavola Lunga. Hai avuto tempo, in macchina...?» Non l'aveva avuto, ma a questo servono gli auricolari. La maggior parte di loro erano uomini che aveva già incontrato, così come un bambino può incontrare gli ospiti della famiglia, perlomeno. Non si sarebbe mai ricordata che Cockerall Mordanz era consigliere delle Risorse Marine, ma ricordava benissimo che era caduto durante una partita di polo e che il pony di suo zio Berthol gli era saltato elegantemente sopra. L'attuale Ospite della Tavola Lunga, Ardry Catendas Garland, una volta era inciampato entrando nella loro sala da pranzo, e aveva rovesciato il tavolino con sopra i tovaglioli caldi per gli ospiti; la sua bisnonna l'aveva sgridata perché l'aveva fissato. «Esmay... Sottotenente Suiza!» esclamò l'Ospite adesso, correggendosi in tempo e ritornando alla formalità appropriata per una cerimonia di quel tipo. «È un onore...» la sua voce si spense, ed Esmay si permise un intimo
sorrisetto. Su Altipiano non esisteva l'onorifico giusto per rivolgersi a una come lei: femmina, militare, e un eroe. Era presa fra i due impulsi opposti di aiutarlo e di lasciarlo cuocere nel suo brodo: erano stati loro, dopo tutto, a voler fare di lei un eroe. Che si inventassero qualcosa. «Mia cara» disse l'Ospite alla fine. «Mi dispiace, ma continuo a ricordarmi che bambina dolce e deliziosa eri. È difficile convincersi di quello che sei diventata.» Esmay l'avrebbe volentieri preso a schiaffi. Bambina dolce e deliziosa! Era stata una ragazzina scontrosa e goffa, e prima ancora una bambina impossibile... niente affatto dolce, semmai difficile e strana. E quello che era diventata era abbastanza facile da comprendere: un ufficiale subalterno del Servizio Spaziale Regolare. «A me sembra molto chiaro» obiettò un altro uomo, che lei non riconosceva. Il capo dell'opposizione, disse il suo auricolare. Orias Leandros. Le sorrise, ma era un sorriso diretto all'Ospite. Avrebbe tratto un profitto politico da lei... o almeno così pensava. «Ospite Garland» disse Esmay. Non le piaceva nessuno dei due uomini, ma sapeva quale fosse il suo dovere verso la famiglia. «Non può certo essere più meravigliato di me dalla mia attuale condizione. Mio padre mi ha informato che intendente offrirmi un riconoscimento... ma dovete rendervi conto che mi fate troppo onore.» «Niente affatto» replicò Garland, che si era completamente ripreso dalla sua incertezza. Gettò al suo rivale un'occhiata brevissima. «È ovvio che il talento militare della tua famiglia continua a trasmettersi di generazione in generazione. Senza dubbio i tuoi figli...» Si fermò, di nuovo intrappolato dalle aspettative di Altipiano, dai soliti luoghi comuni. Quello che sarebbe stato un complimento per un uomo sembrava quasi indecente, se applicato a una donna. «È passato tanto tempo» intervenne Esmay, cambiando argomento prima che Orias Leandros potesse aggiungere qualcosa di pericoloso. «Forse potrebbe presentarmi gli altri consiglieri?» «Ma certo.» Garland stava sudando leggermente. Come aveva potuto essere stato eletto Ospite, quando era ancora goffo nella parola e nell'azione come sempre? Ma riuscì a effettuare le presentazioni senza causare grossi guai, ed Esmay riuscì a sorridere con la adeguata intensità a tutte le persone giuste. La cerimonia della presentazione in sé le sembrò strana, perché non riusciva a provare assolutamente niente. Era troppo distratta dal mormorio dell'auricolare, che le suggeriva le cose da dire, oltre che dall'espressione
di quelli che la circondavano... e la concentrazione necessaria per arrivare alla fine della cerimonia senza commettere errori l'aveva resa impervia all'imbarazzo che aveva provato appena le avevano parlato della medaglia. Nemmeno l'effigie del Monte Stellato, raffigurato sulla medaglia contro il cielo in smalto azzurro e nero, con un piccolo diamante che scintillava in corrispondenza del picco, le ispirò un sentimento di orgoglio né un senso di colpa. Chinò la testa per permettere all'Ospite di infilarle al collo il largo nastro azzurro e grigio; la medaglia era più leggera di quanto si era aspettata. Poi fu solo una questione di restare al suo posto, in riga, ripetendo a quelli che le sfilavano davanti i ringraziamenti e i saluti di rito: "piacere, sono contenta, grazie, oh come mi fa piacere, grazie mille, molto gentile da parte sua, grazie, molto piacere..." fino a che anche l'ultima vecchietta, imparentata con la nonna di Esmay in qualche modo oscuro, fu passata da suo padre a Esmay e da lei all'Ospite. La giovane ebbe alcuni minuti per poter sorseggiare il succo di frutta aspro e assaggiare le tartine, poi suo padre la sospinse di nuovo in tutta fretta verso la macchina, per il viaggio verso casa. Le sarebbe piaciuto restare ancora per un po': aveva fame, e alcune delle facce che le erano passate confusamente davanti erano state, un tempo, amici. Le sarebbe piaciuto poter andare a fare shopping in città, comprarsi dei vestiti nuovi. Ma non aveva più voce in capitolo di quando era una scolaretta. Il generale aveva deciso che era tempo di andare, e così avrebbero fatto. Cercò di non sentirsi risentita. «Papa Stefan» disse suo padre «non si sentiva abbastanza bene da venire fin qui, ma ha preparato un ricevimento in famiglia.» Esmay non riusciva a immaginare Papa Stefan altro che in perfetta salute; aveva avuto i capelli bianchi fin da quando lei era bambina, ma era sempre stato vigoroso, abituato a cavalcare e lavorare accanto ai suoi figli e nipoti. Le cose erano cambiate, dunque. Sapeva che sarebbe successo, alla fine, ma... era difficile sentire la gravità di sempre, respirare la stessa aria, riconoscere gli stessi odori di un tempo, e pensare che le cose potevano essere cambiate. Gli edifici che le passavano accanto mentre la macchina avanzava, solide, sostanziose costruzioni in pietra che ospitavano negozi, banche e uffici, erano gli stessi che lei aveva sempre conosciuto. Fuori dalla città, le praterie si stendevano come un mare fino alle pendici delle montagne, come sempre. Esmay guardò fuori dal finestrino, rilassandosi di fronte al panorama familiare. I Denti Neri, fra i cui picchi simili a
nere guglie si trovava secondo la leggenda il covo del Gran Drago. Da bambina aveva creduto che la leggenda riguardasse dei draghi veri, presenti sul suo mondo; aveva creduto che nel covo fosse celato il grande tesoro del drago. Era stato con amara delusione che aveva appreso che il Gran Drago era il nome in codice dell'alleanza di ribelli che aveva (secondo la leggenda) massacrato il proprietario originario di Altipiano e tutta la sua famiglia. Una gita scolastica al covo lo aveva mostrato per quello che era: un semplice bunker costruito sul fianco di un canyon. A sud dei Denti Neri c'erano le altre cime della Catena Romilo, che apparivano modeste solo al confronto con i Denti. Esmay socchiuse gli occhi per distinguere, nei chilometri di luce accecante, quella interruzione della catena, quella sella erbosa che era l'estancia della sua famiglia. Eccola: la si distingueva dalle file di alberi, allineati formalmente lungo strade e vialetti. La macchina rallentò e accostò. Suo padre si chinò verso di lei. «Non so se sei ancora osservante» le disse. «Ma è tradizione, quando qualcuno torna da un lungo viaggio... Comunque sia, io accendo una candela.» Esmay si sentì avvampare. Era già abbastanza grave che non ci avesse pensato, ma che suo padre sospettasse la sua dimenticanza era molto peggio. «Anch'io» disse. Scese goffamente dalla macchina, irrigidita e anche più a disagio di quanto la rigidezza potesse spiegare. Era da quando era partita che non aveva più pensato alla cerimonia; non era nemmeno sicura di ricordarsi le parole giuste. Il sacrario, costruito nel muro del cancello della estancia, era una nicchia sotto la quale era deposta una fila di corone di fiori. Esmay sentiva l'odore dolciastro dei fiori, e l'aroma più forte dei grandi alberi che incombevano sopra di loro. Anche quando èra una bambina, dotata di una grande immaginazione, Esmay non era mai riuscita a vedere alcun significato nella forma indistinta della statua ospitata dalla nicchia. Una volta, molto imprudentemente, aveva detto che a lei sembrava solo un grumo di roba fusa. Non l'aveva mai più detto ad alta voce, ma lo aveva pensato spesso. E anche ora che guardava con occhi nuovi, le sembrava ancora un grumo di materia fusa, grigiastra e lucente, più alto che largo. Tutto attorno alla base della statua, le coppette destinate a ospitare le candele erano immacolate come sempre, e le candeline bianche erano ordinatamente custodite in una scatola posta di lato alla nicchia. Suo padre ne prese una, la sistemò in una coppetta di vetro verde e la accese. Esmay ne prese un'altra, la accese dalla fiamma di quella di suo pa-
dre e riuscì a sistemarla in una coppetta senza bruciarsi le dita. Suo padre non disse nulla e nemmeno lei: rimasero in piedi, fianco a fianco, a guardare le fiammelle che si contorcevano alla brezza. Poi suo padre prese un ago da uno degli alberi e lo depose nella fiamma. Un filo di fumo bluastro salì, a strette volute. Esmay si ricordò di chinarsi, raccogliere un sassolino e deporlo nella cera della sua candela. Di ritorno alla macchina, con i finestrini aperti alla brezza tesa, suo padre continuò a non dire nulla. Esmay si appoggiò allo schienale e si godette le sfumature di verde e oro del paesaggio. La strada, fiancheggiata da snelle conifere, continuò per un chilometro senza svolte. A destra c'erano i frutteti, ormai sfioriti. Vedeva appena la frutta sui rami, al momento semplici rigonfiamenti verdi: sul lato più lontano dalla strada, le prime prugne stavano già maturando. Sulla sinistra, i campi da polo, con l'erba rasata in modo da formare disegni a zigzag... c'era qualcuno che stava rimettendo a posto le zolle sollevate, chinandosi. Avvicinandosi alla casa, apparvero i giardini fioriti con le loro esplosioni di colore. La macchina svoltò e arrivò davanti alla magione, sullo spiazzo di ghiaia grande abbastanza da poterci passare in rassegna truppe a cavallo. Era stato usato appunto per quello, anni addietro. E oltre l'ampio portico, ombreggiato da viti che sorgevano contorte da tronchi grossi come quelli di un albero, oltre i due gradini, le grandi doppie porte... casa. Ma non più casa sua, ormai. Non era cambiato nulla, almeno in superficie. La sua camera, con lo stretto lettino bianco, gli scaffali carichi di vecchi libri, le rastrelliere dei cubi piene di titoli familiari. Avevano portato via i suoi vestiti, ma nel tempo che le ci era voluto per arrivare al piano di sopra qualcuno aveva disfatto le sue valigie e lei sapeva, senza bisogno di chiederlo, cosa ci sarebbe stato in ciascun cassetto. Si svestì e appese l'uniforme alla sinistra dell'attaccapanni: sarebbe stata rimossa, pulita e riappesa sul lato destro. Al momento, il lato destro dell'attaccapanni reggeva due completi che non erano suoi: qualcuno le stava suggerendo cosa indossare per la cena in famiglia. Dovette ammettere che sembravano più comodi delle cose acquistate sugli altri pianeti. E giù lungo il corridoio familiare si trovava la stanza da bagno, grande e quadrata, con due cubicoli per la doccia e una enorme vasca... che dopo quella a cui si era abituata a bordo, le sembrava incredibilmente grande. Ma per questa volta... Fece scivolare la targhetta sulla porta su BAGNO LUNGO e sorrise fra sé. Adorava i lunghi bagni caldi. Quando scese per cena, nella lunga tunica color crema indossata sopra
flosci pantaloni marroni, suo padre e la sua matrigna la stavano aspettando. La sua matrigna, che era nata elegante, la salutò con un piccolo cenno di approvazione della testa, che per qualche ragione fece infuriare Esmay. Senza dubbio era stata lei a scegliere quella tunica, e a farla appendere nel suo armadio. Per un momento ebbe l'impulso di strapparla via e gettarla a terra... ma gli ufficiali della Flotta non si comportavano così. Inoltre tutti i suoi fratellastri la stavano guardando, e altri stavano entrando nella sala da pranzo. Sorrise alla sua matrigna e strinse la mano che le veniva offerta. «Benvenuta a casa, Esmaya» disse la donna. «Spero che la cena sia di tuo gradimento...» «Ma certo che lo sarà» disse suo padre. La cena venne servita nella sala da pranzo informale, contornata dalle finestre che si aprivano su un cortile piastrellato abbellito da una fontana... Esmay sentiva il mormorio dell'acqua che ricadeva nella vasca sopra le voci educate dei commensali e i passi sul pavimento piastrellato. Fece per sedersi al suo vecchio posto, ma lo trovò già occupato da qualcuno, senza dubbio un cugino, e suo padre la condusse verso un'estremità della tavola, per farla accomodare alla sinistra di Papa Stefan. La bisnonna non era presente: avrebbe ricevuto Esmay più tardi, nel suo salotto privato. «Eccola, finalmente» disse suo padre. Papa Stefan era davvero invecchiato; era dimagrito e la pelle gli pendeva floscia dalle ossa. Ma i suoi occhi erano ancora acuti, e la sua bocca, mentre le sorrideva, ancora ferma. «Tuo padre mi ha detto che ricordavi l'offerta da presentare al ritorno» le disse. «Ricordi anche la formula appropriata per la benedizione del cibo?» Esmay sbatté le palpebre. Una volta lasciato Altipiano, si era gettata alle spalle ogni preoccupazione per i cibi mondi e immondi, aveva dimenticato benedizioni e maledizioni con lo stesso sollievo con cui aveva abbandonato la biancheria obbligatoria per una figlia virtuosa. Non si aspettava questo onore... un onore, ma anche un esame, come tutti sapevano. Di solito erano i figli, e i figli dei figli, a chiedere la benedizione del cibo a cena; le figlie e le figlie delle figlie chiedevano la grazia al mattino, per la prima colazione, mentre al pasto di mezzogiorno tutti restavano in silenzio. Osservò il lungo tavolo per vedere cosa ci fosse sui vassoi, perché da quello dipendeva la formula, e notò con sorpresa ancora maggiore i cinque vassoi che indicavano come un intero vitello fosse stato macellato in suo onore. Non aveva mai sentito una donna parlare in un momento come quello,
ma conosceva le parole da pronunciare. «Di ritorno dalla desolazione...» cominciò. Recitò senza esitare l'intera formula, inciampando solo quando, nelle subordinate annidate l'una nell'altra, la preghiera presupponeva un soggetto maschile. «Di padre in figlio è venuta a me, e io a mia volta la perpetuo...» Non aveva più riflettuto sulla sua cultura fin dal primo anno passato nella scuola preparatoria; non aveva mai notato come il linguaggio fosse limitante. La Flotta all'inizio l'aveva scandalizzata, con quelle relazioni facili e distese fra i due sessi, e l'appellativo signore usato indifferentemente per rivolgersi a uomini o donne. Nella Flotta, si considerava fondamentale la differenza fra i genitori genetici e quelli di vita, mentre non era affatto importante la distinzione fra padre e madre. Su Altipiano, non esisteva una parola per indicare il genitore, e anche se i metodi riproduttivi moderni erano ben conosciuti, erano ben pochi quelli che li avrebbero usati. Esmay finì la benedizione, pensando ancora a tutte quelle differenze, e Papa Stefan sospirò. Poi alzò lo sguardo su di lui: i suoi occhi brillavano. «Non hai dimenticato... hai sempre avuto una buona memoria, Esmay.» Annuì. La servitù si fece avanti, e i vassoi furono appoggiati sulle credenze, dove la carne sarebbe stata tagliata, mentre venivano offerte scodelle di zuppa. Il cibo della Flotta non le era parso cattivo, ma quello era il cibo della sua infanzia. La scodella pesante, con la sua cremosa zuppa di avena, guarnita di verde e rosso... lo stomaco di Esmay si mise a rumoreggiare nell'avvertire l'aroma familiare. Il cucchiaio che prese in mano portava lo stemma della sua famiglia, e si adattava perfettamente alle sue dita, come se fossero nati assieme. La prima insalata seguì la zuppa, e a questo punto la carne era stata tagliata e adagiata sui vassoi azzurri con i loro motivi a spirali bianche. Esmay accettò tre fette, un monticello delle patatine gialle che erano una specialità di famiglia, una cucchiaiata di carote. Valeva la pena di aspettare per avere cibo come quello. Tutto intorno a lei, la famiglia conversava a bassa voce, ma lei non ascoltava. In quel momento desiderava solo il cibo, quel cibo che non si era resa conto le fosse mancato così tanto. Panini soffici e tanto leggeri che avrebbero potuto sollevarsi in cielo come nuvole... burro a cui era stata data la forma di animali araldici. Ricordava bene quelle formine, appese in fila in cucina. Ricordava anche i panini... non bisognava lasciare che si raffreddassero, perché sarebbero diventati secchi e insipidi. Quello che si me-
ritavano era di essere inzuppati nel burro appena fatto o cosparsi di miele. Quando riemerse dal cibo per riprendere fiato, scoprì che comunque nessuno sembrava prestarle attenzione. Avevano finito di mangiare e la servitù stava portando via i piatti. «È una questione d'onore» stava dicendo Papa Stefan a sua cugina Luci. «Esmaya non verrebbe mai meno al suo dovere, quando è in ballo l'onore di famiglia.» Esmay sbatté le palpebre; l'idea di onore di famiglia di Papa Stefan comprendeva lande sconfinate che nessuno aveva mai interamente esplorato. Sperava che non stesse tessendo una delle sue trame, con lei nel ruolo di eroina. Luci, che aveva l'età di Esmay quando se ne era andata, aveva esattamente l'aspetto che lei ricordava di avere avuto allora. Era alta e goffa, con soffici capelli castani raccolti severamente dietro la testa, e ciocchette di capelli sottili che sfuggivano per volare disordinatamente da per tutto, annullando l'ordine della pettinatura. Indossava abiti che dovevano essere stati scelti accuratamente per quell'occasione speciale, ma riuscivano solo ad apparire sciatti e spiegazzati. Luci alzò gli occhi, incontrò lo sguardo di Esmay, e arrossì, assumendo così un'aria scontrosa oltre che trascurata. «Ciao, Luci» disse Esmay. Aveva già salutato Papa Stefan e gli altri anziani; ma i cugini erano molto in fondo alla lista dei convenevoli obbligatori. Avrebbe voluto dire qualcosa che fosse d'aiuto, ma erano passati dieci anni e non aveva idea di cosa potesse entusiasmare Luci. Ricordava anche chiaramente quanto fosse imbarazzante quando un adulto le si rivolgeva dando per scontato che ancora le interessassero le bambole con cui giocava quando aveva cinque o sei anni. Papa Stefan le sorrise e diede un buffetto sul braccio di Luci. «Esmaya, tu probabilmente non lo sai, ma Luci è la miglior giocatrice di polo della sua classe.» «Non sono tanto brava» borbottò la ragazza. Le sue orecchie erano diventate ancora più rosse. «Invece probabilmente lo sei» disse Esmay. «O almeno, sono sicura che sei più brava di me.» Non aveva mai capito quale fosse lo scopo di piroettare in groppa a un cavallo per dare la caccia a una palla. Lei considerava il cavallo un mezzo per muoversi, per andarsene per conto suo in posti dove una macchina non sarebbe mai arrivata, e troppo velocemente perché qualcuno potesse seguirla a piedi. «Giochi con la squadra della scuola o con quella di famiglia?» «Con entrambe» rispose Papa Stefan. «E ci aspettiamo la coppa,
quest'anno.» «Se avremo fortuna» disse Luci. «E a proposito, volevo chiedervi di quella giumenta che Olin mi ha mostrato.» «Devi chiedere a Esmay. Suo padre ha comprato dei cavalli per la sua terra, e ha preso anche quella giumenta.» Negli occhi di Luci passò una vampata di rabbia; Esmay fu sorpresa sia dal dono dei cavalli sia dalla reazione inaspettata di sua cugina. «Non ne sapevo niente» si scusò Esmay. «Non mi aveva detto nulla.» Guardò Luci. «Se c'è un animale in particolare che ti interessa, sono sicura che...» «Non importa» disse Luci, alzandosi. «Non sia mai che privi l'eroina di ritorno del suo bottino.» Cercò di dirlo allegramente, ma l'amarezza che provava era troppo evidente. «Luci!» Papa Stefan le gettò un'occhiataccia, ma la ragazza era già fuori dalla porta. Non riapparve per tutta la sera. Nessuno fece commenti, ma del resto anche gli altri avevano cominciato ad allontanarsi dalla tavola... ed Esmay ricordava, dalla sua adolescenza, che un'uscita del genere non sarebbe mai stata discussa in pubblico. Tuttavia non invidiava Luci, che avrebbe senza dubbio sperimentato, in privato, e in breve, il lato più ruvido della lingua di Sanni. 5 Dopo cena Esmay raggiunse l'appartamento privato dove l'aspettava la bisnonna. Dieci anni prima, la vecchia signora già viveva appartata, rifiutando di abitare nell'ala principale della casa per via di qualche vecchio rancore che nessuno le aveva mai voluto spiegare. Esmay aveva cercato di farselo confidare, ma senza successo. La bisnonna era il genere di donna che incoraggiava lo scambio di segreti; Esmay aveva avuto paura di lei, di quell'occhiata tagliente che poteva ridurre perfino Papa Stefan al silenzio. Dieci anni avevano reso i suoi capelli d'argento più radi, e i suoi occhi un tempo tanto brillanti opachi. «Benvenuta, Esmaya.» La voce era sempre la stessa, però, la voce di una matriarca che si aspettava reverenza da tutta la famiglia. «Stai bene?» «Certo.» «E ti hanno dato da mangiare decentemente?» «Sì... Ma sono stata contenta di poter mangiare di nuovo il nostro cibo.» «È naturale. Lo stomaco non può essere a suo agio quando il cuore è in-
certo.» La bisnonna apparteneva all'ultima generazione che ancora aderiva quasi unanimemente alle vecchie prescrizioni e proibizioni. L'immigrazione e il commercio, le vie che come sempre erodono gli spigoli di una cultura, avevano provocato sul suo mondo cambiamenti che a lei sembravano radicali, anche se agli occhi di Esmay erano quasi impercettibili, in confronto al grande abisso che c'era fra Altipiano e la disinvoltura cosmopolita della Flotta. «Non approvo che tu te ne vada in giro per la Galassia a folleggiare, ma ci hai procurato onore, e di questo sono contenta.» «Grazie» disse Esmay. «Considerando i tuoi problemi, ti sei comportata davvero molto bene.» Problemi? Quali problemi? Esmay si chiese se la mente della matriarca non stesse deteriorandosi almeno un po'. «Suppongo che tuo padre avesse ragione, anche se ancora adesso detesto doverlo ammettere.» Esmay non riusciva a capire di che cosa la bisnonna stesse parlando. La vecchia signora cambiò bruscamente argomento, come faceva sempre. «Spero che tu scelga di restare, Esmay. Tuo padre ha deciso di ricompensarti in terra e bestiame; non saresti più come una mendicante fra di noi...» Era una stilettata; proprio prima di partire Esmay si era lamentata di non avere niente di suo, di sentirsi come una mendicante che viveva di carità nella sua casa. La memoria della vecchia signora non era poi così deteriorata, allora. «Speravo che voi avreste dimenticato quelle parole avventate» disse. «Ero molto giovane.» «Ma non mentivi, Esmaya: i giovani dicono la verità come la vedono, per quanto sia una verità limitata, e tu sei sempre stata una bambina sincera.» C'era un'enfasi nelle sue parole che Esmay non riusciva a interpretare. «Non vedevi alcun futuro per te qui, lo vedevi fra le stelle. Ma ora che le hai viste, spero che tu possa trovare un futuro qui fra noi.» «Sono... stata felice qui» disse Esmay. «E lo potresti essere ancora» insistette la vecchia signora, aggiustandosi le vesti. «Non è più come un tempo; ora sei un'adulta, e un'eroina.» Esmay non voleva turbarla, ma sul suo desiderio di confortarla prevalse quello stesso impulso di onestà che aveva condotto a quel confronto di tanti anni prima. «Questa è casa mia» disse «ma non penso di poter restare. Non per sempre, almeno.» «Tuo padre è stato un idiota» commentò la bisnonna, seguendo evidentemente qualche altro pensiero. «Adesso vattene e lasciami riposare. No,
non sono arrabbiata. Ti voglio molto bene, come te ne ho sempre voluto, e quando te ne andrai mi mancherai da morire. Torna domani.» «Sì, nonna» disse Esmay mitemente. Più tardi, quella stessa sera, si trovò comodamente sprofondata in una grande poltrona di cuoio, in compagnia di suo padre, di Berthol e di Papa Stefan. Cominciarono con le domande che si era aspettata, sulle sue esperienze nella Flotta. Con sua grande sorpresa, scoprì che si divertiva a rispondere... le ponevano domande intelligenti, e applicavano la loro stessa esperienza di militari alle risposte che lei gli dava. Si trovò a rilassarsi, mentre discuteva di cose che non si era mai aspettata di condividere con i suoi parenti maschi. «Adesso che ci penso» disse alla fine, dopo avere spiegato come la Flotta aveva affrontato l'inchiesta sull'ammutinamento «qualcuno a un certo punto mi ha detto che Altipiano ha la reputazione di essere anzianista... cioè contrario al ringiovanimento. Non è così, vero?» Suo padre e suo zio si guardarono, poi suo padre parlò. «Non precisamente contrario, Esmaya. Ma... sono in molti qui a credere che causi più problemi per noi di quanti ne risolva.» «Suppongo che il problema sia la crescita demografica...» «In parte. Altipiano è principalmente un pianeta a economia agricola, come sai. Non solo il pianeta è adatto allo scopo, ma abbiamo tutti questi Vitalisti e Vecchi Credenti. Gli immigrati che attiriamo sono gente che vuole vivere della terra. E un rapido aumento della popolazione, o anche un aumento lento ma continuo su un lungo periodo, finirebbe per far scarseggiare la terra. E poi... considera cosa vorrebbe dire per una organizzazione militare.» «Che il personale più esperto non diventerebbe mai troppo vecchio per uscire dal servizio attivo» disse Esmay. «Tu... lo zio Berthol...» «Di generali se ne trovano a un tanto al chilo... ma, certo, le persone con più esperienza, il tipo che riesce sempre e comunque a ripararti un veicolo da terra o un pezzo di artiglieria, continuerebbero a essere utili, e magari imparerebbero anche più cose, col tempo. L'esperienza conta, e grazie al ringiovanimento se ne può accumulare sempre di più, e continuare a imparare. È un lato positivo. Ma cosa comporta?» Esmay si sentì tornata a scuola, quando era costretta a mettersi in mostra davanti a tutta la classe. «Se i più anziani vivono più a lungo, non si liberano i posti per i giovani. Non si può più promuovere nessuno» rispose.
«Rallenterebbe gli avanzamenti di carriera.» «Li fermerebbe del tutto» corresse suo padre, serio. «Non vedo perché.» «Perché adesso il ringiovanimento si può ripetere. Il generale ringiovanito, tanto per cominciare dal vertice, resterebbe al suo posto in eterno. Oh, qualche possibilità di promozione ci sarebbe comunque, la gente morirebbe di incidenti, o in guerra. Ma non sarebbero molte. La tua Flotta finirà per diventare l'arma di un regime espansionista...» «No!» «Non c'è alternativa, Esmay. Se il ringiovanimento prende piede...» «È già molto diffuso: lo sappiamo» intervenne Papa Stefan. «Sono quarant'anni o più che esistono le nuove procedure, ormai, e le hanno messe alla prova su un sacco di gente. Ricorda la biologia che ti hanno insegnato a scuola, ragazza mia: quando una popolazione cresce, deve procurarsi nuove risorse, o morire. E i cambiamenti demografici dipendono dal tasso di natalità e di mortalità. Se abbassi il tasso di mortalità, come avviene con il ringiovanimento, la popolazione cresce.» «Ma le Familias non sono espansioniste.» «Ah.» Berthol sbuffò e si spostò in modo da essere seduto di lato sulla sedia. «Le Familias non hanno annunciato una grande campagna di conquista, certo. Ma se osservi i confini, e quello che è successo laggiù negli ultimi trent'anni... un morso qui, un morso là. Pianeti che erano stati scartati come inadatti ora vengono terraformati e colonizzati. Una dozzina di piccoli sistemi sono stati annessi, pacificamente, con la loro piena cooperazione...» «Avevano chiesto la protezione della Flotta» spiegò Esmay. «Certamente.» Suo padre scoccò un'occhiata a Berthol il cui significato era chiaro come se lo avesse detto ad alta voce: taci. «Ma il punto è, secondo noi, che se la popolazione continua ad aumentare sui mondi della Familias perché i vecchi vengono ringiovaniti, e se gli effettivi della Flotta continuano ad aumentare per la stessa ragione... allora si potrebbe creare una pressione in favore dell'espansione.» «Io non penso che andrà così» disse Esmay. «Perché pensi che il tuo capitano abbia tradito, per unirsi alla Benignità?» Esmay si mosse, a disagio. «Non lo so. Denaro? Potere?» «Ringiovanimento?» suggerì suo padre. «Vita lunga e prosperità? Perché, vedi, una vita lunga vuol dire automaticamente prosperità.»
«Non capisco» disse Esmay, che pensava alla sua bisnonna, la cui lunga vita stava per volgere al termine. «Una vita lunga, e una lunga giovinezza. Vedi, questa è l'altra cosa che mi disturba del ringiovanimento. La longevità premia la prudenza sopra ogni altra cosa... e se vivi abbastanza a lungo, e sei prudente, finisci per prosperare. Non devi fare altro che evitare i rischi.» Esmay cominciava a capire dove suo padre voleva andare a parare, ma non intendeva correre il rischio di precederlo. Non con una vecchia volpe come lui. «E allora?» chiese. «Allora... la prudenza non è la prima della lista, fra le virtù di un soldato. Oh, certo, è una di loro, ma... dove vai a trovare soldati disposti a rischiare la vita, se evitare ogni rischio può conferirti l'immortalità? Non l'immortalità dei Credenti, che si ottiene dopo la morte, ma l'immortalità in questa stessa vita.» «In una società civile, il ringiovanimento può funzionare» continuò Berthol. «Ma secondo noi, in un esercito non può causare che problemi. Anche se ti permette di tenerti tutti gli uomini più esperti, presto perderesti l'abitudine di addestrare le reclute, e la popolazione che servi perderebbe l'abitudine di fornirtele.» "Il che vuol dire che qualunque esercito con un po' di sale in zucca finirebbe molto presto per concludere che deve in qualche modo limitare l'uso del ringiovanimento... oppure prepararsi a una espansione continua. E a un certo punto, prima o poi, non potrà fare a meno di incontrare una cultura giovane, che non usa il ringiovanimento è che è molto più audace e più aggressiva." Non era mai riuscito a resistere alla tentazione di argomentare ben oltre il punto in cui la sua posizione era chiara. «Sembra la vecchia questione che oppone i credenti ai non credenti» commentò Esmay. «Se l'immortalità dell'anima è ciò che veramente conta, allora la cosa più importante di tutte è una vita prudente, per assicurarsi che l'anima si meriti l'immortalità...» «Sì, ma tutte le religioni conosciute che offrono una ricompensa del genere definiscono anche regole di prudenza particolarmente stringenti. Richiedono virtù attive che disciplinano i credenti e limitano il loro egoismo. Alcune esigono addirittura l'opposto della prudenza: la temerarietà in vita al servizio della divinità. E questo produce buoni soldati: è per questo che le guerre di religione sono così difficili da fermare, più di tutte le altre.» «E invece» disse Esmay, per anticipare Berthol «secondo te il ringiovanimento ricompensa solo una prudenza pratica, e quindi il puro egoismo?»
«Sì.» Suo padre si accigliò. «Senza dubbio anche diversi galantuomini verranno ringiovaniti...» Esmay notò l'assunzione implicita che i galantuomini non sarebbero stati egoisti. Era un principio curioso, venendo da qualcuno che come suo padre era a sua volta ricco e potente... ma naturalmente, lui non avrebbe mai pensato a se stesso come a un egoista. Non aveva mai avuto bisogno di essere egoista, secondo la sua definizione del termine, perché ogni suo desiderio venisse soddisfatto. «Tuttavia perfino loro si renderanno conto, dopo qualche processo di ringiovanimento, di quanto potrebbero essere più utili, fare più del bene, restando vivi e in controllo delle proprie fortune, piuttosto che morti. È facile mentire con se stessi, convincersi che si potrebbe fare ancora più bene, accumulando più potere.» Stava fissando, senza vederli, i libri della libreria. Che fosse un'autoanalisi, quella? «E tutto questo senza contare la dipendenza che verrebbe a crearsi nei confronti del processo di ringiovanimento» disse Berthol. «A meno di non poter controllare il processo in prima persona, l'adulterazione dei componenti...» «Come è successo proprio recentemente...» concluse il padre di Esmay. «Questo lo capisco» disse la giovane in fretta, cercando di prevenire un'altra lunga lezione su ciò che era perfettamente ovvio da parte di Berthol: non era proprio dell'umore per ascoltarla. «Bene» commentò suo padre. «E allora, quando ti offriranno il ringiovanimento, Esmaya, che cosa farai?» Non sapeva come rispondere a quella domanda; non si era mai posta il problema prima di allora. Suo padre spostò la conversazione sulla cerimonia del mattino, e dopo un po' Esmay si scusò e andò a letto. La mattina dopo, svegliandosi nel suo letto, nella sua camera, con la luce del sole sui muri, fu sorpresa da una sensazione di grande tranquillità. Era stata tormentata da un gran numero di brutti sogni in quel letto; forse in fondo in fondo aveva avuto paura che sarebbero ripresi non appena vi fosse tornata. Ma probabilmente invece il suo ritorno a casa aveva completato una specie di rituale necessario, e gli incubi sarebbero stati banditi per sempre da allora in poi. Con quel pensiero in mente, si affrettò a scendere per la colazione, in tempo per assistere al rituale del mattino, e poi uscì nella luce fresca e dorata della primavera. Oltrepassati gli orti della cucina, arrivò alle stie dove ogni gallina sembrava chiocciare per avvertire di essere pronta a deporre
uova, e ogni gallo sembrava gridare la propria sfida a tutti gli altri. Li aveva uditi, fiocamente, dalla sua finestra che dava sul davanti della casa; lì il rumore era addirittura assordante, tanto che non fu affatto tentata di fermarsi a dargli un'occhiata. Le grandi scuderie odoravano, come sempre, di cavallo, avena e fieno, odori pungenti che Esmay, dopo tanti anni, trovava di gran conforto. C'era stato un tempo in cui li aveva odiati profondamente, quando, come tutti i bambini, era stata costretta a prendersi cura del suo pony e della sua stalla. A differenza della maggior parte degli altri, a lei cavalcare non era mai piaciuto abbastanza da giustificare la fatica. E più tardi, quando il cavallo era diventato per lei la via di fuga verso le montagne, era stata abbastanza grande da non doversi più fare carico di quella incombenza. Stava percorrendo il largo corridoio di pietra, con gli ampi archi che si aprivano alla sua sinistra su uno dei cortili per le esercitazioni. Alla sua destra si succedevano le file dei box, con le teste strette e scure dei cavalli che la guardavano. Uno stalliere, sentendo il rumore dei suoi passi, uscì dalla stanza dei ferri. «Sì, dama?» Aveva l'aria perplessa: Esmay disse il suo nome e lo stalliere si rilassò. «Mi stavo chiedendo... mia cugina Luci ha parlato di una giumenta che aveva visto... quella che gli ha mostrato Olin...?» «Ah, la figlia di Vasecsi. Per di qua, dama, mi segua. Una discendenza eccellente, quella cavalla, si è comportata molto bene in addestramento finora. È per questo che il generale l'ha scelta per la sua mandria.» Fuori dal box della giumenta c'erano dei nastri azzurri e argento; Esmay, guardando lungo il corridoio, vide altri nastri del genere. Era la sua mandria personale, scelta da suo padre, e anche se avrebbe potuto scambiare un cavallo con un altro, facendolo lo avrebbe svergognato. Ma donare uno dei suoi cavalli, la giumenta, a Luci, forse sarebbe stato accettabile. O così sperava. «Ecco, dama.» La cavalla volgeva le terga alla porta, ma quando lo stalliere la chiamò, schioccando la lingua, si voltò subito. Esmay riconobbe le qualità che avevano indotto suo padre a scegliere quell'animale: la qualità di gambe e zoccoli, l'ampiezza del torace, la schiena e i quarti posteriori possenti, il lungo collo aggraziato e la testa elegante. Color castano scuro, appena poco più chiaro del nero... «Vuole vederla in movimento?» chiese lo stalliere, prendendo i finimenti che pendevano accanto al box. «Sì, grazie» rispose Esmay. Tanto valeva. Lo stalliere condusse fuori la
cavalla, e la portò in cortile. Lì, nell'anello, l'uomo fece compiere alla cavalla i movimenti che si accordavano alla sua conformazione. Aveva il passo lungo, il trotto possente, il piccolo galoppo lungo e regolare. Era un cavallo in grado di coprire molto terreno, miglio dopo miglio, e nello stesso tempo agile. Era una buona giumenta. Se solo a Esmay fosse importato... «Mi dispiace di essere stata scorbutica» intervenne Luci, da sotto il porticato. Il suo volto era in ombra; dalla voce, sembrava che avesse pianto. «È una bellissima cavalla, e tu te la meriti.» Esmay si avvicinò; Luci aveva davvero pianto. «In realtà, non è vero» disse sottovoce. «Scommetto che sai tutto su quanto poco ci sapevo fare con i cavalli, prima di partire.» «Ho ereditato il tuo cavallo» spiegò Luci, senza rispondere direttamente. Lo disse come aspettandosi che Esmay se ne risentisse. Esmay non aveva più pensato a quel vecchio cavallo, come si chiamava, Rosso?, da anni. «Bene» disse. «Non ti dà fastidio?» chiese Luci, sorpresa. «E perché dovrebbe? Me n'ero andata di casa, non potevo certo pretendere che il cavallo restasse senza padrone.» «Non hanno permesso a nessuno di cavalcarlo per un anno intero» raccontò Luci. «Ah, così pensavano che mi avrebbero buttato fuori dalla scuola e che sarei tornata a casa!» commentò Esmay. Non la sorprendeva, ma era contenta di non averlo saputo, allora. «Ma no» si affrettò a dire Luci. «È solo...» «Ma certo che è così» la interruppe Esmay. «Invece, non mi hanno buttato fuori, e non sono ritornata. Sono contenta che ti abbiano dato quel cavallo... sembra che tu abbia ereditato il talento di famiglia.» «Non posso credere che davvero tu non...» «E io non posso credere che davvero qualcuno voglia rimanere per tutta la vita sullo stesso pianeta» disse Esmay. «Anche quando sembra l'unico su cui si sta bene.» «Qui non c'è folla» disse Luci, stendendo un braccio. «C'è tanto spazio... si può cavalcare per ore...» Esmay sentì una tensione familiare nelle spalle. Sì, avrebbe potuto cavalcare per ore senza imbattersi in un confine di cui preoccuparsi... ma non avrebbe mai potuto consumare un pasto senza temere l'esplosione di qualche vecchio rancore familiare. Si voltò verso Luci, i cui occhi continuava-
no a seguire la giumenta. «Luci, me lo faresti un favore?» «Suppongo di sì.» Niente zelo, ma perché avrebbe dovuto esserci? «Prendi la giumenta.» Esmay per poco non si mise a ridere di fronte all'espressione scandalizzata apparsa sul volto di Luci. Ripeté: «Prendi la giumenta. Tu la vuoi, io no. Aggiusterò io le cose con Papa Stefan, e con mio padre.» «Ma... non posso.» Però dal suo volto traspariva chiaramente il desiderio che la consumava, oltre a una felicità furibonda che non aveva il coraggio di ammettere la propria esistenza. «Invece puoi. Se quella giumenta è mia, posso farne quello che voglio, e quello che voglio farne è regalarla, perché io me ne tornerò alla Flotta... e quella giumenta si merita un padrone che la addestri, la cavalchi, la faccia figliare.» Un proprietario a cui sarebbe importato di lei; ogni essere vivente aveva diritto a qualcuno che se ne prendesse cura. «Ma la tua mandria...» Esmay scosse la testa. «Non ho bisogno di una mandria. Per me è abbastanza sapere che ho la mia valle a cui tornare... che me ne farei di una mandria?» «Dici sul serio?» Luci era di nuovo solenne, e cominciava a credere che sarebbe successo davvero, che Esmay era sincera, e a tal punto diversa da loro. «Dico sul serio. È tua. Giocaci a polo, falla correre, falla figliare... fanne quello che vuoi. È tua. Non mia.» «Non ti capisco... ma... ma la cavalla la voglio.» Era timida, e sembrava molto più giovane di quanto fosse in realtà. «Ma certo che la vuoi» disse Esmay, sentendosi più vecchia di almeno un secolo. In quel momento la colpì un'ondata di imbarazzo: era apparsa anche lei tanto giovane al comandante Serrano, a tutti quelli che avevano una decina d'anni di vantaggio su di lei? Probabilmente sì. «Senti... andiamo a fare un giro. Devo imparare di nuovo a cavalcare se voglio visitare la valle.» Non riusciva a dire la mia valle, nemmeno a Luci. «Puoi cavalcare lei... se vuoi» propose Luci. Esmay sentì il conflitto nella sua voce: stava cercando con tutta l'anima di essere giusta, di ricambiare la sua generosità. «Santo cielo, no. Ho bisogno di uno dei cavalli da scuola, una bestia solida e affidabile... non si va spesso a cavallo, nella Flotta.» Gli stallieri imbrigliarono i cavalli e le due ragazze si diressero verso i
campi a valle, fra i filari di alberi da frutta. Esmay osservava Luci sulla giumenta: la sua schiena sembrava una continuazione di quella dell'animale, come se fossero lo stesso organismo. Esmay, su un castrato tranquillo e stolido con del grigio attorno agli occhi e sul muso, si sentiva le articolazioni scricchiolare a ogni passo. Che cosa avrebbe detto suo padre di quella decisione? Di certo non si poteva aspettare che gestisse una mandria di cavalli da anni luce di distanza, vero? Si aspettava che incaricasse lui di farlo? Mentre Luci descriveva attorno a lei dei cerchi, al piccolo galoppo, Esmay decise di non lasciare le cose a metà. «Luci... che cosa hai intenzione di fare in futuro?» «Di vincere il campionato» rispose sorridendo. «Con questa giumenta...» «Voglio dire da grande» si spiegò meglio Esmay. «Voglio conoscere la tua strategia a lungo termine, cuginetta.» «Oh.» Luci fece fermare la cavalla e rimase seduta in silenzio per un po', chiedendosi evidentemente quanto poteva fidarsi di quella cugina più anziana. Era come se avesse scritto in faccia: mi tradirà? «Ho una buona ragione per chiedertelo» disse Esmay. «Be'... mi piacerebbe entrare a veterinaria al Politecnico, anche se la mamma vorrebbe che studiassi qualcosa di più adatto all'università. So che non c'è nessuna possibilità che mi prendano qui nell'estancia, ma se mi laureo bene, potrei trovare un posto da qualche altra parte.» «Sospettavo qualcosa del genere.» Esmay lo aveva detto con affetto, ma Luci prese subito fuoco. «Non sono sogni a occhi aperti...» «Lo so. Quindi scendi dal piedestallo e stammi a sentire. Parli seriamente, come facevo io... e neanche a me nessuno ha creduto. È per questo che mi è venuta l'idea...» «Che idea?» Esmay sfiorò il suo cavallo con gli speroni, spingendolo vicino alla giumenta di Luci. La cavalla mosse le orecchie nervosamente, ma rimase immobile. Esmay abbassò la voce. «Come sai, mio padre mi ha regalato una mandria. È l'ultima cosa di cui ho bisogno, ma se cercassi di restituirgliela, si offenderebbe a morte e non finirebbe mai di rinfacciarmelo.» Il volto di Luci si rilassò; quasi sorrise. «E allora?» «E allora ho bisogno di qualcuno che si occupi di questa mandria. Qualcuno in grado di far montare le giumente dagli stalloni giusti... addestrare i puledri come si deve, metterli sul mercato...» I cavalli della famiglia non venivano quasi mai messi sul mercato. «Naturalmente pagherei un salario
a questa persona. L'occhio del padrone ingrassa l'animale... ma io sarò molto lontana, e per molto tempo.» «Stai parlando di me?» sussurrò Luci. «Ma è troppo... la giumenta, e adesso...» «Mi piace come la tratti» disse Esmay. «È così che voglio che vengano trattati i miei cavalli, se devo avere dei cavalli... e visto che me li hanno regalati... Potresti mettere da parte i soldi per l'università... so per esperienza che è molto meglio potersi finanziare la fuga. E faresti esperienza.» «Accetto» disse Luci, sorridendo. Nonostante tutto, Esmay si trovò a ripensare alla discussione della sera prima. Ecco qualcuno che non avrebbe mai permesso alla prudenza di avere la meglio sull'entusiasmo. «Non hai chiesto quanto sono disposta a pagarti» disse Esmay. «È la prima cosa di cui avresti dovuto interessarti... quanto ti sarebbe costato, e quanto ti avrebbe fruttato.» «Non importa» rispose Luci. «È l'opportunità...» «Importa» la corresse Esmay, e la durezza nella sua voce la sorprese; il cavallo si agitò sotto di lei. «Le opportunità non sono sempre quello che sembrano.» Poi, di fronte all'espressione di Luci, si fermò. Perché si stava comportando con tanto pessimismo, quando aveva appena finito di ammirare l'impetuosità di sua cugina? «Scusami. Ecco quello che voglio da te... voglio un bilancio chiaro dei costi e dei guadagni. Diciamo per metà estate... questo dovrebbe permetterti di tenere conto della nascita di tutti i puledri.» «Ma quanto...» Adesso Luci sembrava preoccupata. «Prima non me l'hai chiesto. Deciderò più tardi. Forse domani.» Esmay spronò il suo cavallo, dirigendosi verso la linea distante degli alberi oltre il galoppatoio; sua cugina la seguì. Aveva completamente dimenticato il vecchio che l'aveva avvicinata alla cerimonia in città, quando uno dei domestici lo annunciò. Era da poco terminato il pranzo, e lei si era fermata in cucina per una seconda fetta di torta di noce rossa affogata nella vera panna. «Il soldato Sebastian Coron, in congedo, richiede qualche minuto del suo tempo, dama.» Seb Coron... ma certo che lo avrebbe ricevuto. Si pulì la bocca dalle ultime tracce della torta e uscì in anticamera, dove Coron attendeva, in riposo, intento a osservare uno dei cugini giovani che si esercitava al pianoforte sotto l'occhio di Sanni, che teneva il tempo.
«Mi ricorda te, Esmay» le disse il vecchio quando lei si fece avanti e gli strinse la mano. «A me ricorda ore e ore di tortura» rettificò Esmay, sorridendo. «Chi non ha né talento né senso del ritmo non dovrebbe essere costretto ad andare oltre le prime scale... una volta che abbiamo capito quant'è difficile, dovrebbero avere pietà di noi.» «Be', lo sai, è la tradizione.» E così era, anche se Esmay non aveva mai capito come mai ogni bambino, dotato o no, dovesse essere costretto a dieci anni di educazione musicale su un minimo di quattro strumenti. Non costringevano tutti i bambini a diventare soldati, dopo tutto. «Vieni in salotto» lo invitò Esmay, conducendolo nella stanza sul davanti della casa dove le donne di famiglia usualmente ricevevano gli ospiti. La sua matrigna lo aveva di nuovo rinnovato, ma la stoffa in vivaci motivi fioriti sulle sedie e sulle lunghe panche imbottite era tradizionale. C'era più arancio e giallo e meno rosa e rosso in questa particolare variazione di quanto Esmay si ricordasse. «Vuoi del tè? O qualcosa da bere?» E senza aspettare risposta, suonò il campanello. Sapeva che subito dopo il suo arrivo la servitù in cucina avrebbe cominciato a preparare un vassoio con i suoi cibi e bevande favoriti, qualunque fossero. Lo fece sedere su una delle basse, ampie sedie, con il vassoio a lato, e scelse di sistemarsi alla sua sinistra, il lato del cuore, a dimostrare il legame di famiglia che li univa. Il vecchio Sebastian la guardava con occhi che brillavano. «Ci hai resi tutti orgogliosi» disse. «Ormai sono finiti i brutti tempi, per te, vero?» Esmay sbatté le palpebre. Come poteva pensarlo? Lei era ancora nella Flotta. Di certo si rendeva conto che l'aspettavano altri combattimenti, in futuro. Forse si riferiva ai suoi ultimi problemi. «Spero di non dover più affrontare una corte marziale» rispose. «Né un ammutinamento.» «Ne sei uscita bene, però. Ma non era quello che volevo dire, anche se sono sicuro che non può essere stato piacevole. Gli incubi se ne sono andati, vero?» Esmay si irrigidì. Come faceva a sapere dei suoi incubi? Che suo padre si fosse confidato a tal punto? Lei di certo non gliene avrebbe parlato. «Sto bene» disse. «Perfetto» disse il vecchio. Prese in mano il bicchiere e lo sorseggiò. «Ah, ottimo. Sai, nemmeno quando ero ancora in servizio attivo, tuo padre ha mai lesinato con il vino buono, quando venivo qui. Certo, capivamo en-
trambi che si trattava di una cosa speciale, di cui non si doveva parlare.» «Cosa?» chiese Esmay, ma senza troppa curiosità. «Tuo padre non voleva che ne parlassi, e io lo capivo. Tu avevi avuto quella febbre, eri quasi morta. Non era sicuro di quanto ricordassi, e di quanto dei tuoi ricordi dipendesse dalla febbre.» Esmay si costrinse a restare immobile. Avrebbe voluto rabbrividire, vomitare, scappare. Erano tutte cose che aveva fatto, in passato, e non erano servite a molto. «Incubi» disse. «Era solo la febbre, dicevano, una febbre che avevo contratto quando ero fuggita.» Riuscì a ridere, seccamente. «Non ricordo nemmeno dove credevo di andare, per tacere di dove ero effettivamente finita.» Ma rammentava un viaggio in treno, e frammenti di altre cose da incubo a cui cercava di non pensare. Non seppe quale impercettibile movimento, il tremore di una palpebra, la tensione nei muscoli della mascella, le fece capire all'improvviso che il vecchio sapeva qualcosa. Sapeva qualcosa che lei ignorava, qualcosa che avrebbe desiderato dirle ma che sentiva di doverle nascondere. Avvertì un brivido lungo il cuoio capelluto. Voleva saperla questa cosa, ma sarebbe riuscita a fargliela dire? «Be', sei andata in cerca di tuo padre... tutto qui. Tua madre era morta, e tu avevi bisogno di lui, e lui era proprio nel mezzo di quella brutta disputa territoriale. È stato quando il ramo Borlista dei Vecchi Credenti ha deciso di abbandonare la rete di pianificazione regionale e impadronirsi della parte superiore della fossa tettonica.» Esmay sapeva tutto di quella cosiddetta disputa: la Sollevazione di Califer era stata una guerra civile in piena regola, piccola ma feroce. «Nessuno si era reso conto che tu fossi in grado di leggere così bene, o che sapessi leggere una mappa... sei saltata sul tuo pony, portandoti dietro cibo per una settimana, e sei partita...» «Su un pony?» Non riusciva a immaginarselo: non le era mai piaciuto cavalcare. Sarebbe stato più naturale intrufolarsi a bordo di un camion diretto in città. Seb sembrava imbarazzato, anche se Esmay non capiva perché, e si grattava il collo. «Allora andavi a cavallo con la stessa facilità di una zecca su un cane, e sembravi altrettanto felice di farlo. Fino a che non è morta tua madre, praticamente vivevi a cavallo del tuo pony. Dopo, tutti erano felici di vederti cavalcare di nuovo... fino a quando non sei sparita.» Non lo ricordava affatto: non immaginava nemmeno di avere potuto, un tempo, passare ore e ore a cavallo, e volentieri. Quello che ricordava erano
le cose che odiava, le lezioni, i muscoli doloranti, e la fatica di pulire gli zoccoli, strigliare gli animali, lavare la stalla. Era possibile che una malattia avesse spazzato via non solo il piacere di andare a cavallo, ma anche il ricordo stesso di quando le era piaciuto? «A quanto pare ti eri preparata molto bene» continuò Seb «perché nessuno è riuscito a seguire le tue tracce. Nessuno ha capito che cosa avevi fatto; hanno pensato che ti fossi persa, che fossi salita in montagna e avessi avuto un incidente. E nessuno ha mai saputo tutta la storia, perché quando ti abbiamo trovato non eri in grado di esprimerti bene.» «La febbre» disse Esmay. Stava sudando, ora: lo sentiva, come una patina viscida che la avvolgeva tutta. «È quello che ha riferito tuo padre.» Sebastian aveva già detto una cosa del genere: lei ne sentiva l'eco nella memoria, e con la sua nuova, adulta capacità di interpretare le sfumature, confrontò le due versioni e si rese conto che Sebastian cercava di nascondere il suo scetticismo. «Mio padre ha riferito...?» Esmay stette bene attenta a conservare un tono neutrale, senza guardare il vecchio in faccia. O almeno, non direttamente: poteva vedere una vena del suo collo che pulsava. «Che avevi dimenticato tutto, per la febbre, ed era meglio così. Non tiriamolo più fuori, diceva. Be', ormai lo sai anche tu che non si trattava solo di un sogno... suppongo che le psicotate della Flotta lo abbiano scoperto, e ti abbiano aiutato a superarlo, no?» Esmay era un pezzo di ghiaccio che ribolliva di terrore. Gelata e bollente al tempo stesso: più vicina di quanto volesse a una verità terribile, ma incapace di voltarle le spalle. Sentiva lo sguardo del vecchio posato sui suoi capelli, e sapeva che se avesse alzato gli occhi non sarebbe stata in grado di nascondere il proprio terrore e il proprio sconcerto. Invece, occupò le mani spostando i piatti con i panini e condimenti, versando il tè, porgendo a Coron una tazzina su un piattino con l'orlo argentato... non riusciva a credere che le sue mani riuscissero a restare così ferme. «Non che potessi discutere con tuo padre, naturalmente, date le circostanze.» Date le circostanze Esmay avrebbe voluto torcergli il collo, ma sapeva che non sarebbe servito. «Non solo era mio dovere obbedirgli perché era il mio superiore, ma... era tuo padre. Sapeva più di tutti quello che era meglio per te. Però a volte mi sono chiesto se non ti ricordassi qualcosa di quello che era successo prima della febbre. Se non era stato quello a farti cambiare...»
«Be', mia madre era morta» riuscì a dire Esmay nonostante la gola stretta. Anche la voce risultò ferma come le mani. Com'era possibile, con il terrore che le scrollava le fondamenta stesse della mente? «E poi sono stata male così a lungo...» «Se tu fossi stata mia figlia, te l'avrei detto. Aiuta sempre i cadetti parlare di quello che gli è successo, dopo un brutto scontro.» «Ma mio padre non la pensava così» disse Esmay. La polvere era meno secca della sua bocca; sentiva che la sua mente si spaccava come la terra sotto la siccità, crepacci senza fondo nei quali sarebbe rimasta intrappolata... «Sì. Be', comunque, sono contento che alla fine tu abbia avuto modo di affrontare la cosa. Ma dev'essere stato duro quando hai avuto a che fare con quel capitano traditore, con un secondo tradimento...» Il tono pensoso nella sua voce all'improvviso si fece più presente. «Esmaya! C'è qualcosa che non va? Mi dispiace, non volevo che...» «Mi sarebbe di grande aiuto se tu potessi semplicemente raccontarmi la storia dal tuo punto di vista» riuscì a dire Esmay. Ora la sua voce si era ispessita, come se la polvere si fosse compressa in massi spigolosi di argilla dura come roccia. «Tieni presente che ho solo ricordi piuttosto frammentari, e le psicotate li hanno trovati un po' meno che soddisfacenti.» E di certo le psicotate li avrebbero trovati insoddisfacenti, se li avessero individuati, ma non era andata così. Avevano dato per scontato che chiunque avesse una storia come la sua, se anche avesse avuto problemi del genere, li avrebbe affrontati e risolti già da un bel po'. E lei, convinta dalle insistenze della sua famiglia che tutti i suoi incubi non erano che l'eco dei sogni di una bambina febbricitante, e non ricordi reali, aveva avuto troppa paura per rivelare agli psichiatri di avere dei problemi. Aveva avuto paura di essere considerata pazza, instabile, inabile al servizio... respinta, rimandata a casa come fallita. Era per questo che la sua famiglia si era aspettata che fallisse, al punto da conservarle pronto il cavallo? «Forse dovresti chiederlo a tuo padre» suggerì Coron, dubbioso. «Sospetto che non sarebbe contento di vedere messo in questione il suo giudizio» disse Esmay, con completa sincerità. «Anche se a farlo sono gli psichiatri della Flotta.» Coron annuì. «Il tuo racconto mi potrebbe essere di grande aiuto, se a te non dispiace.» «Se ne sei sicura.» Per un attimo Esmay dovette incontrare i suoi occhi; dovette sostenere la preoccupazione che contenevano, la tensione che li circondava, la fronte corrugata. «Non sono cose piacevoli... ma questo, na-
turalmente, tu già lo sai.» La nausea le diede un calcio allo stomaco, mandando alla sua bocca acidi segnali. "Non adesso" implorò. "Non prima che sappia." «Sono sicura» disse. Erano tempi di disordine e guerra civile, e una bambina sola, se abbastanza decisa e sicura di sé, poteva coprire migliaia di chilometri, come aveva fatto lei, prima a cavallo e poi in treno. «Sei sempre stata brava con le parole» iniziò Coron. «Sapevi inventarti una storia sui due piedi, se ce n'era bisogno. Probabilmente per questo nessuno ti ha notato: raccontavi di essere stata mandata da una zia o da una nonna, e siccome non sembravi né spaventata né insicura, e avevi abbastanza denaro, ti lasciavano salire sul treno.» Erano tutte supposizioni: non erano stati in grado di ricostruire i suoi spostamenti da quando aveva lasciato il pony (che non era mai stato ritrovato, ma con i tempi che correvano, era probabilmente finito nella pentola di qualcuno), né la parte finale del suo viaggio, il treno che l'aveva portata al disastro. «Gli ultimi dispacci che erano stati recapitati a casa davano tuo padre di stanza alla caserma di Buhollow, e il treno avrebbe dovuto portarti lì. Ma nel frattempo i ribelli avevano assunto il controllo della parte orientale della regione, impiegando tutte le loro forze per conquistare i depositi di munizioni di Bute Bagin. La forza di stanza a Buhollow non era sufficiente a fermarli e quindi tuo padre aveva ripiegato per aggirarli e tagliargli la ritirata, mentre il Decimo Cavalleria saliva da Cavender per colpirli sul fianco.» «Me lo ricordo» annuì Esmay. Lo sapeva per averne letto, non per esperienza diretta. I ribelli avevano puntato sulla reputazione di suo padre, che non aveva fama di uomo da lasciare un bocconcino appetitoso come Buhollow indifesa... avevano previsto di inchiodarlo lì con una parte delle loro forze mentre il resto proseguiva verso Bute Bagin e i suoi magazzini. In seguito, la sua decisione di abbandonare Buhollow e intrappolare l'esercito ribelle sarebbe passata alla storia come un esempio da manuale di brillante decisione tattica. Aveva fatto il possibile per la città. La popolazione civile era riuscita a fuggire prima dell'arrivo dei ribelli: era stato spiegato loro in che direzione dirigersi e la maggior parte di loro era sopravvissuta. Ma Esmay, pigiata in un convoglio di profughi di precedenti combattimenti, aveva proseguito con il treno per due fermate oltre la sua destina-
zione. Entrambe le parti avevano minato la ferrovia; e anche se la versione ufficiale era che fosse stata una mina ribelle a far saltare il ponte sopra il Canale Sinets proprio mentre passava la locomotiva, Esmay non ne era mai stata sicura. Quale governo ammetterebbe che erano state le sue stesse mine a far saltare in aria uno dei propri treni? Ricordava l'enorme scossone che aveva piegato in due la carrozza. Stavano andando avanti piano; lei era incastrata fra una donna grassa con un bambino che piangeva sempre e un bambino più grande che continuava a schiacciarle le costole. L'impatto aveva fatto oscillare la carrozza ma non l'aveva rovesciata. Non tutte le carrozze erano state altrettanto fortunate. Ricordava di essere saltata giù dal predellino, un bel salto per una bambina della sua età, e di avere seguito la donna grassa per l'unica ragione che era una mamma. Il bambino le aveva dato un'ultima spinta nelle costole e poi si era messo a seguire qualcun altro. Un torrente di gente terrorizzata era scappata via allontanandosi dal treno, dal fumo e dalle urla che provenivano dalle vetture di testa. Aveva perso ogni orientamento: si era dimenticata, per un momento, la direzione in cui doveva andare. Aveva seguito la donna con il bambino, che stavano seguendo qualcuno altro... e poi le gambe le avevano ceduto per la stanchezza, e si era fermata. «C'era un villaggio che chiamavano Ponte di Greer» continuò Coron. «A nemmeno un chilometro dalla ferrovia, dove passava il canale. Devi essere arrivata fin lì seguendo gli altri, dopo che il treno era saltato in aria.» «Ed è stato lì che ci hanno raggiunto i ribelli» continuò Esmay. «Ed è stato lì che vi ha raggiunto la guerra.» Coron fece una pausa; Esmay lo sentì sorseggiare il tè. Alzò lo sguardo e gli occhi che incrociò non brillavano più. «Non si trattava solo dei ribelli, come sai bene.» "Lo so?" si chiese Esmay. «È stato più o meno a quel punto che i ribelli si sono resi conto che erano stati spinti in una trappola. E si può dire quello che si vuole di Chia Valantos, ma aveva il cervello di un buon tattico in mezzo alle orecchie.» Esmay emise un verso di assenso. «E forse aveva anche dei ricognitori che sapevano il fatto loro, non lo so. Comunque, i ribelli percorrevano la strada vecchia, perché avevano dei veicoli pesanti e quindi dovevano attraversare il villaggio per arrivare al ponte. Misero le case a ferro e fuoco, perché la gente in quella zona non era mai stata fra i loro sostenitori. Suppongo che debbano aver pensato che i passeggeri del treno avessero a che fare con i lealisti...»
I vecchi ricordi si imposero con la forza, affollandosi e spingendo sotto la sua calma di superficie. Sentiva che il suo volto stava cambiando e fece uno sforzo per immobilizzare i muscoli. Le gambe avevano cominciato a farle male presto, dopo la lunga immobilità forzata sul treno, e l'incidente, e la caduta... la donna, anche con un bambino al collo, aveva gambe più lunghe delle sue e faceva passi più lunghi. Lei era rimasta indietro, e quando era arrivata finalmente al villaggio, il villaggio non c'era più. I tetti erano già crollati; quelle poche pareti che restavano erano sbilenche e precarie. Il fumo invadeva strade ingombre di sassi e immondizie e rami d'albero e mucchi di vestiti vecchi. C'era molto rumore: non sapeva cosa fosse, ma la spaventava. Era un rumore troppo forte, arrabbiato, e nei suoi ricordi si intrecciava alla voce di suo padre quando la sgridava. Qualunque fosse la fonte di quel rumore, sapeva che non avrebbe dovuto andarci vicina. Accecata dal fumo, aveva inciampato su uno dei mucchi di vestiti vecchi, e solo allora vi aveva riconosciuto una persona. Un cadavere, corresse la sua mente adulta. Ma da bambina le era sembrato un posto stupidissimo da scegliere per mettersi a dormire, e così aveva scosso quel braccio pesante e molle cercando di svegliarla, perché si trattava di una donna adulta che poteva aiutarla a trovare la strada. Non aveva mai visto un morto prima, non un morto umano, almeno: non le avevano permesso di vedere sua madre per via della febbre. Le ci volle molto tempo per rendersi conto che la donna senza volto non l'avrebbe mai presa in braccio per consolarla e prometterle che sarebbe andato tutto bene. Si era guardata attorno, sbattendo le palpebre perché gli occhi le bruciavano e non solo per il fumo, e aveva visto altri mucchi di vestiti, altre persone, morte... e morenti, e adesso riconosceva i versi che facevano per quello che erano. Anche dopo tanti anni, ricordava che il suo primo pensiero era stato di chiedere scusa: "Mi dispiace, non volevo...". E ancora adesso, sapeva che era stato contemporaneamente necessario e del tutto futile. Non era stata colpa sua, non era stata lei a provocare la guerra, tuttavia si trovava lì, e incolume, almeno per il momento, e per quello, se non altro, sapeva di dover chiedere scusa. Quel giorno aveva continuato ad avanzare lungo la strada sconnessa, cadendo più volte, piangendo senza rendersene conto, fino a che le gambe non le avevano ceduto e si era raggomitolata in un angolo, sotto quello che un tempo era stato il muro di un giardino pieno di fiori colorati. Il rumore andava e veniva, e attraverso il fumo si muovevano forme indistinte, vestite di colori diversi. La maggior parte di loro, capì poi, dovevano essere i
passeggeri terrorizzati del treno; altri erano ribelli. Più tardi... più tardi tutti avevano indossato la stessa uniforme, l'uniforme che lei conosceva bene, quella che indossavano suo padre e i suoi zii. Ma non ricordava. Non poteva ricordare, non tutto. E quando aveva ricordato, le avevano detto che erano stati solo dei sogni. «Ho sempre pensato che sarebbe stato meglio se te lo avessero detto» disse Sebastian. «Almeno quando fossi diventata abbastanza grande. Tanto lui era morto, e non poteva fare più del male a nessuno, meno che mai a te.» Non lo voleva sentire. Non voleva ricordare... no, non poteva ricordare. La febbre, pensò. Solo incubi provocati dalla febbre. «Era già abbastanza grave che fosse successo, chiunque fosse stato il colpevole. Violentare una bambina... ignobile. Ma che fosse uno dei nostri...» Esmay si concentrò sull'unica cosa che riusciva a tollerare di sapere. «Io... non sapevo che fosse morto.» «Be', tuo padre non poteva dirtelo senza portare alla luce anche tutto il resto, no? Sperava che tu dimenticassi tutto... o pensassi che era stato solo un sogno, provocato dalla febbre.» Glielo aveva detto, infatti, che era stato un sogno; le aveva detto che ormai la febbre era passata, che lei era al sicuro, che sarebbe sempre stata al sicuro... e lui non era arrabbiato con lei. Eppure la sua rabbia le era sempre rimasta attorno, come una nube temporalesca, che la accecava come l'aveva accecata il fumo. «Ne sei... sicuro?» «Che il bastardo è morto? Oh, certo... non ne ho alcun dubbio.» Una serie di invisibili ingranaggi rotearono, si fermarono un attimo e si incastrarono con uno scatto quasi udibile. «Lo hai ammazzato tu?» «O lo facevo io, o la carriera di tuo padre era finita. Un ufficiale non può ammazzare uno dei suoi uomini, neanche se è un animale che violenta i bambini. E se si fosse dovuto aspettare, accusarlo formalmente... avresti dovuto essere coinvolta, e nessuno di noi lo voleva. Era meglio che lo facessi io, e che affrontassi le conseguenze... non che ci sia stato niente di peggio di una bella lavata di capo, alla fine. Circostanze attenuanti.» «Sono contenta di sentirlo.» «L'ho sempre detto che avrebbero dovuto raccontarti tutto» disse. Poi assunse un'aria imbarazzata. «Non che ne abbia mai parlato, in realtà. Lo dicevo a me stesso, voglio dire. Non sarebbe servito a niente cercare di di-
scuterne con tuo padre. Dopo tutto, tu sei sua figlia.» «Non ti preoccupare» disse Esmay. Cominciava a fare fatica a concentrarsi: la stanza sembrava allontanarsi lentamente, come descrivendo una lenta spirale verso sinistra. «Ma l'avevi superata, tutta questa storia, voglio dire a parte il fatto che lui fosse morto, vero? Ti hanno aiutato, nella Flotta?» Esmay cercò di prestare attenzione a quello che stava dicendo, anche se la sua mente cercava continuamente di ritrarsi. «Sto benissimo» disse. «Non preoccuparti.» «No... ero davvero sorpreso, sai, quando hai detto di voler andare via dal pianeta e annoiarti. Mi pareva che tu ne avessi avuto abbastanza della guerra, abbastanza per una vita intera... ma suppongo che tu ce l'abbia nel sangue, eh?» Come poteva sbarazzarsi di lui, educatamente e senza dare nell'occhio? Non poteva dirgli di andarsene perché aveva mal di testa. I Suiza non trattano così i loro ospiti. Ma aveva bisogno, assoluto bisogno, di qualche ora di solitudine. «Esmaya?» Lei alzò gli occhi. Il suo fratellastro Germond le sorrideva timidamente. «Papà dice se puoi venire nella serra, per favore.» Si voltò verso Coron. «Se non le dispiace, signore.» «Ma certo. Grazie di avermi dedicato il tuo tempo, Esmaya. Adesso è il turno della tua famiglia.» Si inchinò, tornando di nuovo molto formale, e si ritirò. 6 Esmay si voltò verso Germond, ora quindicenne, tutto orecchie, naso e piedoni. «Che cosa... vuole papà?» «È nella serra con lo zio Berthol... dice che probabilmente eri stanca di stare ad ascoltare vecchie storie di guerra, tanto per cominciare, e poi ti voleva chiedere altre cose sulla Flotta.» Aveva la bocca secca e non riusciva a pensare. «Digli... digli che Seb è andato via, e che lo raggiungerò fra qualche minuto. Devo andare di sopra a... a rinfrescarmi.» Per una volta, le impenetrabili regole della società di Altipiano giocavano a suo favore. Nessun maschio avrebbe mai avanzato dubbi o fatto domande sul bisogno di una donna di trovarsi da sola per qualche minuto in una stanza da bagno. Né le avrebbero mai messo fretta. Salì le scale guidata da un istinto cieco: non vedeva le sbarrette di ottone
che tenevano il tappeto aderente ai gradini, né i graffi sul legno della scala. Il suo corpo sapeva da solo come salire le scale, aggirare gli angoli, usare gli interruttori che le avrebbero garantito di essere assolutamente sola e indisturbata. Si abbandonò contro una parete, aprì l'acqua fredda e ci cacciò le mani sotto. Non era sicura del perché. Non era sicura di nulla, compreso il passare del tempo. L'acqua si interruppe automaticamente dopo un po', proprio come accadeva a bordo, e lei la fece scorrere di nuovo. Improvvisamente vomitò: i resti coagulati del pranzo scivolarono nel vortice di acqua pulita e il tutto scomparve nello scarico. Lo stomaco le si rivoltò di nuovo, poi sembrò calmarsi un po'. Mise le mani a coppa sotto il rubinetto e bevette una sorsata di acqua fredda e dolce. Il suo stomaco ebbe un breve moto di ribellione, ma poi si quietò. Non aveva mai sofferto di nausea. Nemmeno allora, nemmeno quando il dolore era stato tanto violento che le sembrava di venire fatta a pezzi. Il dolore reale, non quello immaginario indotto dalla febbre, dai sogni. Nello specchio si vedeva come un'estranea: una donna vecchia, macilenta, con i sottili capelli scuri che si sollevavano in tutte le direzioni, il volto sporco di lacrime e vomito. Non andava. Metodicamente, Esmay prese un asciugamano dalla rastrelliera, lo bagnò, si pulì la faccia e le mani. Si strofinò la faccia con la parte ancora asciutta dell'asciugamano, fino a che la tipica tinta verdastra di chi ha appena vomitato l'anima non fu scomparsa, sostituita da un sano colorito rosa. Con le mani bagnate andò all'attacco dei capelli, appiattendo le ciocche fuggitive, poi si asciugò le mani. L'acqua smise di nuovo di scorrere, e questa volta non la riaprì. Piegò l'asciugamano bagnato e lo appese alla rastrelliera della biancheria usata. Ora la donna nello specchio aveva un aspetto più familiare. Esmay si sforzò di sorridere, e il sorriso le sembrò più naturale, sul volto di quella donna riflessa, di quanto se lo sentisse addosso. Avrebbe dovuto cambiarsi, pensò, abbassando lo guardo per controllare di non essersi macchiata la camicia. C'erano un paio di gocce, scure contro il color beige della stoffa. Cambiarsi con qualcun altro... la sua mente inciampava su qualcosa, nel fumo, e non riusciva a vedere altro. Sempre guidata dall'istinto, aprì la porta e tornò in camera sua. Quando si fu tolta la camicia capì che avrebbe dovuto cambiarsi tutto, a partire dalla pelle. Lo fece, il più velocemente possibile, prendendo ciò che le capitava a portata di mano nei cassetti, e guardandosi solo quel tanto che bastava per assicurarsi che l'ampio collare fosse ben disteso attorno al collo. Non
era più pallida; sembrava di nuovo Esmay Suiza. Ma lo era? Era una persona reale, Esmay Suiza? Si poteva costruire una persona reale su fondamenta di menzogna? Cercò di orientarsi nelle nubi scure che minacciavano di soffocarla, tentò di afferrarsi a quello che ricordava, a quello che Seb Coron le aveva appena detto, e a una logica che potesse collegare le due cose. Quando il fumo si dissolse nella sua mente, la prima cosa che riconobbe fu un sollievo orgoglioso: non aveva fatto niente di sbagliato. La sua mente adulta intervenne per precisare: a parte la fondamentale idiozia di andarsene da casa, di cercare di attraversare il paese, da sola, nel bel mezzo di una guerra civile. Ma mise a tacere quella voce critica. Era una bambina allora; e c'erano cose che un bambino non poteva sapere. Ma per quanto riguardava i fatti essenziali, nel riconoscere quello che aveva visto, nel dire la verità su quello che era accaduto, no, non aveva fatto errori. Quel primo momento di contentezza fu seguito da una furia bruciante. Le avevano mentito. Le avevano detto che si sbagliava, che era confusa dalla febbre... chissà se c'era stata davvero una febbre. Fece per consultare gli archivi medici della casa, ma si rese subito conto che l'archivio poteva essere stato falsato, come tutto: come avrebbe potuto saperlo? E a chi voleva provarlo, poi? In quel momento, a tutti. Voleva squadernare la verità davanti a suo padre, suo zio, perfino Papa Stefan. Voleva prenderli per il collo, costringerli a vedere quello che vedeva lei, sentire quel che sentiva lei, ammettere che aveva subito quello che in realtà aveva subito. Ma lo sapevano già. All'euforia seguì una sensazione di sfinitezza, come avveniva con la febbre. Sentiva il familiare languore nelle vene, che la appesantiva fino a costringerla all'immobilità, all'acquiescenza. Sapevano, eppure le avevano mentito. Avrebbe potuto conservare i suoi segreti, e lasciando che si cullassero nell'illusione di essere al sicuro, scappare, come era scappata altre volte. Sarebbero rimasti lì, contenti e soddisfatti, a cullarsi nella loro complice omertà. Oppure poteva affrontarli. Di nuovo guardò nello specchio e vide la persona che sarebbe stata se mai fosse diventata un ammiraglio come la zia di Heris Serrano. La diffidenza, l'incertezza che l'avevano sconfitta tanto spesso, erano state consumate nelle fiamme nell'ultima ora. Non avvertiva ancora dentro di sé quello che vedeva in quel volto, ma si fidava degli occhi che la guardavano,
tempestosi, dallo specchio. L'avrebbe ancora trovato nella serra? Quanto tempo era passato? L'orologio la sorprese: era stata al piano di sopra solo mezz'ora del tempo locale. Si diresse verso la serra, questa volta con i sensi ben svegli e all'erta. Si sentiva come se fosse la prima volta che scendeva quelle scale in vita sua... sentiva il sesto gradino dal basso che cedeva leggermente, notò un rivetto allentato sulla corsia, vide un graffio profondo sul corrimano. Vista, odore, udito, tutto funzionava straordinariamente bene. Suo padre e Berthol erano chini su una cassetta di piante, in compagnia di uno dei giardinieri. Con quella nuova lucidità che la caratterizzava, notò ogni dettaglio delle piante, i petali a cuore, arancio-fuoco e giallo-sole, le foglie come merletto. Vide le unghie sporche di terra del giardiniere laddove le sue mani erano appoggiate sul tavolo dei reinvasi. Scorse il collo arrossato di suo zio; le linee bianche sul volto di suo padre, che aveva socchiuso gli occhi tanto a lungo nel sole da creare rughe dove la pelle non era abbronzata. Osservò persino un filo che pendeva da uno dei bottoni della manica di Berthol. Strisciò rumorosamente un piede sul pavimento di piastrelle. Suo padre alzò gli occhi. «Esmaya... vieni a vedere i nuovi ibridi. Penso che verranno molto bene nelle fioriere sul davanti... spero che il vecchio Sebastian non ti abbia fatto stancare troppo.» «Al contrario» rispose «ho trovato la sua conversazione estremamente interessante.» La sua voce le era sembrata perfettamente calma e ragionevole, ma suo padre sobbalzò. «C'è qualcosa che non va, Esmay?» «Ho bisogno di parlarti, papà» disse, ancora calma. «Nel tuo studio, magari?» «Si tratta di una cosa seria?» chiese lui, senza muoversi. Esmay si sentì invadere dalla furia. «Solo se consideri l'onore della famiglia una cosa seria» rispose. Le mani del giardiniere sussultarono e le piantine rabbrividirono. L'uomo fece per prendere la cassetta, mormorando qualcosa. Suo padre alzò il mento, e il giardiniere afferrò la cassetta e fuggì dalla porta posteriore della serra. «Vuoi che me ne vada?» domandò suo zio, sicuro che lei avrebbe rifiutato. «Sì, ti prego» disse però Esmay, mettendo alla prova la sua capacità di rendere il proprio tono tagliente. Berthol sussultò, e i suoi occhi cercarono
quelli del fratello, per poi tornare su di lei. «Esmay, ma cosa...?» «Lo saprai ben presto» lo zittì lei. «Ma per ora, preferirei parlare con papà da sola..» Berthol arrossì, tuttavia si voltò. Uscendo, fece quasi sbattere la porta. «Be', Esmaya? Non c'era alcun bisogno di essere sgarbati.» Ma la voce di suo padre non era assolutamente sicura, e lei avvertì un sottotono di paura. Aveva i muscoli attorno agli occhi e al naso tesi; il contrasto fra la pelle abbronzata e le rughe chiare era quasi scomparso. Se fosse stato un cavallo, avrebbe avuto le orecchie appiattite all'indietro e la coda che si agitava nervosamente. Avrebbe dovuto essere in grado di fare due più due: Esmay si chiese se voleva farlo. Si avvicinò, passando le mani attraverso le fronde di una pianta di dolcecuore; le faceva ancora il solletico. «Ho parlato con Seb Coron, o piuttosto, mi ha parlato lui... e l'ho trovato molto interessante.» «Oh?» A quanto pare, suo padre sperava di cavarsela facilmente. «Mi hai mentito... hai detto che era un sogno, che non era successo davvero...» Per un momento, pensò che suo padre volesse far finta di non avere capito, ma poi un'onda di colore gli salì alle guance, e rapidamente svanì di nuovo. «Lo abbiamo fatto per te, Esmaya.» Era esattamente quello che si era aspettata di sentire. «No. Non l'avete fatto per me. Per la famiglia, forse, ma non per me.» La sua voce rimase ferma, il che la sorprese un po'. Aveva deciso di andare avanti anche se la sua voce si fosse spezzata, anche se fosse scoppiata a piangere davanti a lui, come non aveva fatto da anni. Perché avrebbe dovuto proteggerlo dalle sue lacrime? «Per qualcosa di più che te soltanto, d'accordo.» La guardò da sotto quelle sopracciglia cespugliose, ora ingrigite. «Per tutti gli altri, perché era meglio che una bambina dovesse sopportare una certa confusione...» «Confusione? Tu quello che ho passato lo chiami confusione?» Il suo corpo doleva, ricordando i dolori specifici, particolari, con cause specifiche e particolari. Aveva cercato di urlare, aveva cercato di divincolarsi, aveva perfino cercato di morderlo. Le mani forti, da adulto, indurite dalla guerra, l'avevano tenuta ferma senza fatica, riempiendola di lividi. «No, non voglio dire le ferite, ma il non sapere per certo che cosa era successo... non eri in grado di dirci chi fosse, Esmaya; non lo hai visto be-
ne. E mi hanno detto che avresti dimenticato...» Sentì che le labbra si ritiravano a scoprirle i denti; vide riflessa nell'espressione di suo padre quello che la sua era diventata. «L'ho visto benissimo» disse. «Non so come si chiamasse, ma l'ho visto eccome.» Suo padre scosse la testa. «Allora non sei stata in grado di darci alcun dettaglio» spiegò. «Eri esausta e terrorizzata... probabilmente non l'hai neppure visto in faccia. Adesso che sei adulta e sei stata in combattimento sai quanto può essere disorientante...» Dubitava. Perfino adesso, si permetteva di mettere in discussione quello che lei sapeva. Un flash spietatamente vivido di quel che era successo sulla Despite le attraversò la mente. Disorientante? Forse, se si trattava di organizzare i ricordi in modo da riferirli a una corte marziale, ma vedeva perfettamente i volti di quelli che aveva ucciso, e di quelli che avevano cercato di uccidere lei. Li avrebbe avuti stampati nella memoria per tutta la vita. «Fammi vedere il registro del reggimento» disse, con la voce strozzata dalla rabbia. «Mostramelo, e io te lo indicherò.» «Ma non è possibile che dopo tutti questi anni...» «Sebastian mi ha detto di averlo ucciso, e questo vuol dire che tu sapevi chi era. Se te lo indico, questo dovrebbe provarti una volta per tutte che ricordo ogni cosa.» "Che tu avevi torto e io ragione." Perché le importava tanto dimostrarlo era una domanda che Esmay non si voleva fare, per il momento. Dimostrare che un generale aveva torto era da un punto di vista professionale un suicidio e da un punto di vista militare molto stupido. Ma... «Non puoi riuscirci» si oppose suo padre, ma senza convinzione. Senza aggiungere una parola, la condusse nel suo studio; Esmay lo seguì costringendosi a non superarlo a grandi passi. Suo padre andò alla console e trafficò con i comandi. Esmay notò che le mani gli tremavano, e avvertì una calma soddisfazione. Poi suo padre si fece da parte, e lei avanzò, per guardare. Le facce si succedevano sei alla volta sullo schermo. Le fissò, incerta. Chissà se suo padre aveva richiamato il registro dell'anno giusto. Voleva che lei fallisse, questo era chiaro. Poteva facilmente barare... ma, persino in quel momento, lei non riusciva a credere che suo padre si sarebbe abbassato a tanto. I Suiza non mentivano... e lui era suo padre. Ma le aveva già mentito una volta, e proprio perché era suo padre. Cercò di smettere di arrovellarsi e fissò lo schermo.
La maggior parte delle facce le era completamente sconosciuta. Non aveva ragione di riconoscerle: non era mai stata a Buhollow da quando suo padre vi era stato assegnato. Vide qualche volto vagamente familiare, ma non in modo minaccioso. Dovevano essere uomini che avevano già servito con suo padre, magari fra le guardie stesse dell'estancia. Fra di loro vide un Sebastian Coron molto giovane, che riconobbe immediatamente, a dimostrazione del fatto che era in grado di riconoscere ancora i dettagli, anche a distanza di tanto tempo. Mentre faceva scorrere la lista sentiva il respiro di suo padre. Non lo guardò. Era abbastanza difficile concentrarsi sullo schermo, e respirare nonostante avesse la gola così chiusa. Schermata dopo schermata... sentì suo padre agitarsi nella sua poltrona, ma senza interromperla. Qualcuno comparve sulla porta: sentì un frusciare di vesti. Suo padre doveva aver fatto un gesto, perché senza che fosse pronunciata una parola il fruscio si allontanò, e si udì il rumore attenuato della porta che veniva gentilmente chiusa. Aveva passato tutto l'elenco degli arruolati senza trovare quel volto che la sua mente si rifiutava di mostrarle. Il dubbio la gelò. Il volto che ricordava era contorto dall'emozione, qualunque essa sia, che induce un uomo a violentare una bambina... forse non poteva riconoscerlo fra quei volti solenni, quasi privi di espressione. Eppure doveva esserci... di certo Coron glielo avrebbe detto, se si fosse trattato di qualcuno di un'altra unità, o di un ufficiale. O no? Si costrinse ad andare avanti, a guardare il ruolino degli ufficiali. Il primo era suo padre, senza un filo di grigio nei capelli, la bocca una linea dritta, ferma. Sotto di lui, in ordine discendente di grado, c'erano... il respiro le venne meno. Sì. Il cuore le palpitò nervosamente per un attimo, poi si mise a galoppare, sollecitato da una vecchia paura. Lui la guardava dalla pagina, bello ed elegante, i capelli color miele pettinati all'indietro... se li ricordava più scuri, intrisi di sudore e polvere. Ma non aveva dubbi, neanche uno. Cercò su quel volto un segno del suo vizio... un marchio di depravazione. Niente. Lineamenti regolari, occhi grigi... un colore non comune su Altipiano, ma molto apprezzato. Un bottoncino dichiarava che si era diplomato con lode, una traccia sulla spallina che era il figlio maggiore della sua famiglia, uno da cui ci si aspettava più che dagli altri. La sua bocca era stretta a formare una linea retta, una imitazione cosciente di quella di suo padre... e non sembrava affatto più crudele. Il suo nome... conosceva il suo nome. Conosceva la sua famiglia. Aveva danzato con i suoi fratelli minori
alla Festa del Raccolto, l'anno prima di lasciare Altipiano per le stelle. Aveva la bocca troppo secca per riuscire a parlare. Cercò di deglutire, di liberarsi la lingua. Anche allora aveva fatto lo stesso. Finalmente riuscì a emettere una parola sola: «Questo.» Puntò un dito sull'immagine, sorprendendosi di quanto la sua mano fosse ferma. Il dito non le tremava affatto. Suo padre si alzò. Lo sentì avvicinarsi alle sue spalle e cercò di non ritrarsi. Suo padre emise un grugnito come di dolore, come se qualcuno lo avesse colpito con un pugno nello stomaco. «Dèi! Ma tu... ma come potevi...?» La rabbia riuscì a scioglierle la lingua. «Te l'ho detto. Ho sempre ricordato.» «Esmaya...» Era un gemito, una supplica, e lo era anche la sua mano sui suoi capelli. Esmay si divincolò, si spinse via dalla console, fuori dalla poltroncina. «Non sapevo come si chiamava» disse. Era straordinario quanto fosse facile tenere la voce sotto controllo, enunciare ogni sillaba con chiarezza. «Ero troppo piccola per essergli stata presentata, anche se fosse stato ospite qui. Non potevo dirti come si chiamava, o dare il genere di descrizione che un adulto avrebbe potuto. Ma sapevo. Non mi hai mostrato il registro allora, vero?» Il volto di suo padre, quando lo guardò, avrebbe potuto essere stato scolpito nel legno sbiancato dal sole: era rigido, innaturale. Era la verità, o il modo in cui lei lo vedeva? Lasciò vagare lo sguardo per la stanza, notando appena ogni mobile o oggetto familiare prima di scivolare via. Nella sua mente crollava una certezza dopo l'altra, come se le pareti di pietra non fossero state altro che quinte dipinte che si potevano spostare. Che cosa sapeva, in realtà, di se stessa e del suo passato? Su cosa poteva fare affidamento? Contro questo sfondo caotico, gli anni passati nella Flotta si stagliavano solidi e certi: sapeva che cosa era successo in quegli anni. Dal suo primo giorno alla scuola preparatoria fino all'ultimo della corte marziale, sapeva esattamente cosa aveva fatto, e chi le aveva fatto che cosa. Si era creata un mondo per sé, di cui si poteva fidare. L'ammiraglio Vida Serrano, che non aveva nulla di meno di suo padre, non le aveva mai mentito... e non aveva mai coperto nessuno a spese sue. Qualunque cosa dovesse soffocare o limitare in se stessa, per potersi assicurare quel rifugio, era qualcosa di cui poteva fare a meno. Non aveva alcun bisogno di ritrovare quella parte di sé che amava cavalcare, o dipin-
gere, o suonare antichi strumenti musicali... aveva bisogno solo di mantenersi in salvo, e fino a quel momento ci era riuscita molto bene. Poteva rinunciare ad Altipiano: l'aveva già fatto. «Esmaya... mi dispiace.» Probabilmente era vero, si disse Esmay, ma non aveva importanza. Gli dispiaceva troppo poco, e troppo tardi. «Se... visto che ricordi, è probabile che tu abbia bisogno di terapia.» «Terapia qui?» Le parole le uscirono di bocca prima che riuscisse a controllare il disprezzo e la rabbia nella sua voce. «Qui, dove i terapeuti mi hanno già detto che era tutto nella mia immaginazione, che si trattava di incubi, che era colpa della febbre?» «Mi dispiace» ripeté suo padre, ma questa volta con un filo di irritazione nella voce. Conosceva bene quel tono: suo padre era in grado di chiedere scusa, ma le cose avrebbero dovuto fermarsi lì. Lei avrebbe dovuto accettare le sue scuse e considerare chiusa la questione. Ma non quella volta. Non di nuovo. «Io... noi... abbiamo fatto un errore, Esmaya. Non possiamo cambiare le cose, ormai. Non c'è modo di convincerti di quanto mi senta male a pensarci... di quanto sia convinto che sia stato un errore... ma c'erano delle ragioni. Ho chiesto consiglio...» «No» lo interruppe lei bruscamente. «Non voglio sentire le tue scuse. Non sono stupida: so con che nomi vorresti chiamare la realtà. Lui...» Non sarebbe mai riuscita a lordarsi la bocca con il suo nome. «Era un ufficiale, il figlio di un amico; c'era una guerra civile in corso; non potevi rischiare un feudo...» Si ricordò che il padre del giovane aveva comandato una forza militare di proporzioni non trascurabili. Più che di perdere un feudo, il rischio era di perdere la guerra. Il suo addestramento militare le diceva che il dolore di un bambino, anche se quel bambino era lei, non valeva quanto un'intera campagna. Ma la bambina che era stata, le cui reazioni erano state distorte dal dolore, la bambina la cui testimonianza era stata messa a tacere, rifiutava quelle risposte così semplici. Non era stata l'unica vittima... e per le vittime, nessuna vittoria sarebbe mai stata abbastanza. Le vittorie non erano per loro, non le aiutavano. Eppure la sconfitta non avrebbe che portato ad altro dolore. Esmay chiuse gli occhi con forza, cercando di ricacciare indietro, nell'oscurità, i sentimenti che minacciavano di sopraffarla. «Non ti è occorso il ringiovanimento per diventare prudente» disse, usando contro di lui l'unica arma che aveva. Ci fu un breve silenzio, durante il quale il respiro di suo padre fu pesante quanto era stato il suo in quel giorno lontano e amaro. «Hai bisogno di aiuto, Esmaya» disse alla fine suo padre. La sua voce
era ritornata quasi normale, calda e sicura: il generale perfettamente padrone di se stesso; era l'abitudine di una vita. Esmay avrebbe tanto voluto rilassarsi, abbandonarsi alla promessa di amore paterno e protezione che quella voce le offriva. Ma non si fidava più. «Probabilmente sì» ammise. «Ma non qui. Non ora.» Non accanto al padre che l'aveva tradita. «Non ritornerai più» disse lui. Non era mai stato stupido, solo egoista. No, questo non era giusto... ma nemmeno lui lo era stato. Adesso la guardava dritto negli occhi, lo sguardo fermo che avrebbe potuto riservare a un comandante che rispettava. «Non tornerai mai più, vero?» Lei non riusciva a immaginare di ritornare, ma non era ancora pronta per impegnarsi in qualcosa di così definitivo. «Non lo so. Probabilmente no, ma... tanto vale che tu lo sappia. Ho proposto a Luci di gestire la mia mandria.» Suo padre annuì. «Bene. Non avrei dovuto regalartela, ma... forse speravo ancora che tu fossi tornata a casa definitivamente, soprattutto dopo che ti avevano trattato in quel modo.» "Perché, tu pensi di avermi trattato bene?" Aveva le parole sulla punta della lingua, ma alla fine non vennero fuori. Suo padre, però, sembrò sentirle comunque. «Capisco» disse. Non era vero, ma lei non aveva intenzione, lì e in quel momento, di mettersi a discutere. Voleva solo andarsene, lontano, e stare da sola. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto passare un bel po' di tempo in compagnia delle psicotate della Flotta, ma per ora... «Ti prego, Esmaya» disse suo padre. «Fatti aiutare dalla tua Flotta, se non vuoi accettare che lo facciamo noi.» «Ho intenzione di prendere un cavallo e andare nella valle» annunciò, ignorandolo. Non aveva alcun diritto di dirle cosa fare della ferita che lui stesso le aveva inferto. «Almeno per un giorno. Domani. Non voglio compagnia.» «Capisco» disse di nuovo suo padre. «Niente sorveglianza» insistette lei, guardandolo dritto negli occhi. Suo padre sbatté le palpebre per primo. «Niente sorveglianza» acconsentì. «Ma se hai intenzione di passare lì la notte, faccelo sapere, per favore.» «Certo» annuì lei, con una voce che si era finalmente rilassata, come quella di suo padre. Si assomigliavano in modi che non aveva mai notato; e nonostante la sua rabbia, sentì il bisogno improvviso di raccontargli
dell'ammutinamento, sapendo che lui non avrebbe trovato le sue azioni sorprendenti, inesplicabili, com'erano state per gli ufficiali della flotta delle Familias. Uscì nel pomeriggio, e dentro di sé sentiva solo un grande vuoto leggero, come se fosse un baccello pieno di semi alla fine dell'estate, pronto a volare via col primo temporale d'autunno. Traversò il vialetto di ghiaia che scricchiolava sotto i suoi piedi. Passò fra le aiuole fiorite, i cui colori le ferivano gli occhi. Attraversò i campi assolati, dove si muovevano ombre che la chiamavano per nome, ma a cui lei non rispose. Ritornò quando il sole stava calando dietro le montagne lontane, stanca in un senso che non aveva nulla a che vedere con il fatto di aver camminato così a lungo, e rientrò nell'anticamera semibuia, dove l'odore di cibo e il rumore di piatti la fecero fermare. «Dama?» Esmay si girò bruscamente su se stessa, ma era solo uno della servitù, che le porgeva un vassoio con una ciotola e un biglietto ripiegato. Scosse la testa al tè ma prese il biglietto e salì al piano di sopra. Nessuno la seguì, nessuno la disturbò. Appoggiò il biglietto sul letto e attraversò il corridoio fino in bagno. Il biglietto, come aveva sospettato, veniva da parte della sua bisnonna. "Tuo padre mi ha riferito che ora posso parlarti liberamente. Vieni a trovarmi." Esmay lo lasciò sullo scaffale sopra l'appendiabiti e rifletté. Aveva sempre dato per scontato che suo padre obbedisse a sua nonna, come lei aveva sempre obbedito a suo nonno. Anche se uomini e donne avevano ruoli diversi, erano sempre gli anziani che comandavano. O almeno così aveva immaginato, pensando che la catena dell'autorità scendesse, di anello in anello, dal più anziano al più giovane lungo tutte le generazioni. Era possibile che la sua bisnonna sapesse la verità e non gliel'avesse detta? Come aveva fatto suo padre ad avere tanto potere? Si distese a letto, e le ore passarono senza che lei riuscisse a trovare la forza di alzarsi, lavarsi, cambiarsi, o anche solo di distogliere lo sguardo dal quadratino di cielo che poteva vedere scurirsi da azzurro a grigio a nero tempestato di stelle. Il massimo che riusciva a fare era sbattere le palpebre quando a forza di guardare il cielo gli occhi le bruciavano; il massimo che riusciva a fare era respirare. Alla prima luce dell'alba, riuscì a strapparsi dal letto, irrigidita e infelice. Quante volte si era alzata dal quel letto irrigidita e infelice, sperando di non incontrare nessuno fra la sua camera e il bagno, o nel percorso per u-
scire... ed eccola di nuovo, lì, l'eroina (avrebbe riso al pensiero, se ci fosse riuscita) di nuovo sola, lì in cima alla casa di suo padre, di nuovo sveglia e infelice dopo una notte senza sonno. Si disse fermamente, col tono che immaginava avrebbe usato l'ammiraglio Serrano, di darsi una regolata. Prese un respiro profondo di aria mattutina, profumata dai fiori che sbocciavano durante la notte lungo il muro della casa. Riuscì ad arrivare in bagno, fece una doccia e si lavò i denti. Tornata in camera, si vestì per cavalcare; scendendo le scale udì provenire dalla cucina l'acciottolio familiare dei cuochi che preparavano la colazione. Se avesse sporto la testa avrebbe potuto guadagnarsi un boccone di pane appena sfornato, ma avrebbero voluto parlare con lei. Così continuò, oltre la cucina, fino alla dispensa. Dentro, sulla destra, se le usanze della casa non erano cambiate, c'era una giara di pietra con del pane, a disposizione di chiunque dovesse uscire di mattina presto per lavorare. Nelle stalle il lavoro ferveva, come sempre alle prime luci del giorno. Gli stallieri e i loro assistenti andavano di scuderia in scuderia, fra il rumore di secchi e spazzole. Andò all'ufficio, dove trovò il suo nome in cima alla lista di chi doveva cavalcare quel giorno. Doveva averlo segnato suo padre, probabilmente la notte prima, ma lei non sentiva alcuna gratitudine. Un'altra calligrafia aveva aggiunto il nome del cavallo, Sam. «Dama?» Uno degli stallieri. «Quando dice lei, dama.» «Sono pronta» rispose Esmay, con la gola secca. Avrebbe dovuto portarsi anche una borraccia d'acqua, ma non aveva alcuna voglia di tornare dentro a prenderla. Lo stalliere la precedette, lungo il corridoio e fuori e dentro un'altra stalla e poi di nuovo fuori, fino al piccolo anello dove si esercitavano i cavalli, e dove un animale marrone, annoiato, aveva appoggiato il mento alla staccionata a cui era legato. Una sella per lunghi percorsi, con la cerata ben arrotolata e legata dietro la paletta, bisacce, una borraccia... suo padre doveva aver dato ordini anche di preparare il cavallo. Non ci sarebbe stato bisogno di prendere il pane della giara. Finimenti da pista, con il morso facilmente sganciabile per permettere al cavallo di pascolare, e una lunga cavezza che al momento era agganciata a un anello dell'asta della staccionata. Lo stalliere le offrì le mani intrecciate e lei montò; poi sganciò la cavezza e gliene porse l'estremità, da assicurare all'anello della sella. «È un buon cavallo, ma non troppo veloce» le disse, e aprì il cancello che portava ai pascoli alti. Esmay piegò la testa del cavallo verso la pista che l'avrebbe, diverse ore
più tardi, condotta alla sua valle. Dopo un po' il suo corpo irrigidito cominciò a rilassarsi, abituandosi al ritmo del passo dell'animale, e si guardò attorno. La luce mattutina illuminava ogni recesso delle montagne sulla sua destra; dalle loro pendici le praterie si stendevano verso est, a perdita d'occhio. Ricordava quando, da bambina, prendeva quella direzione. Varcando il cancello faceva un profondo respiro, perché era come se le si fosse aperta una porta sulla libertà. Migliaia di ettari, dozzine di piste, conche boscose nascoste in quella prateria apparentemente sconfinata, e poi l'intricata topografia delle montagne... nessuno la poteva trovare, una volta fuori portata della villa. O così aveva pensato. Anche questa volta prese un profondo respiro, ma le si bloccò nella gola. Procedeva con la rabbia che le pesava su una spalla e il dolore che le premeva l'altra; il puzzo delle antiche menzogne le appestava le narici, e non le permetteva di pensare ad altro. Era sopravvissuta all'aggressione... e grazie a Seb Coron, era sopravvissuta al suo aggressore. Ma non si era lasciata alle spalle le conseguenze... soprattutto le conseguenze peggiori, le menzogne. Il cavallo avanzava placido, portandola con sé come faceva il tempo: passava, ma senza cambiamento... o almeno senza il cambiamento giusto... senza una guarigione. Avrebbe potuto cavalcare in eterno (il cavallo si fermò, e lei alzò lo sguardo rendendosi conto che erano arrivati a un bivio del sentiero: lo sospinse verso destra) e non sarebbe servito a niente. Niente sarebbe servito. Niente poteva servire. Niente su Altipiano, almeno. Anche al secondo bivio svoltò verso destra. Era stupido andare alla valle mentre era in quello stato d'animo, ma in altri casi l'aveva aiutata. In altri momenti brutti della sua vita era andata lassù e aveva trovato pace, almeno per un po'. Continuò a cavalcare, senza guardare o sentire niente. Stava troppo male. Il dolore andava al di là del dolore, diventava una nebbia bianca, com'era stato allora il dolore fisico. Discuteva fra sé e sé, e una parte di lei difendeva ancora la sua famiglia. Non era vero che non avevano fatto niente: lui era morto. Ma era stato Seb Coron, che l'aveva fatto per suo padre, non suo padre che l'aveva fatto per lei. E se Coron avesse mentito? Non era vero che suo padre se ne fosse lavato le mani: aveva fatto quello che pensava potesse aiutarla di più. Ma non l'aveva aiutata, e lui non aveva cambiato idea, lui, la cui regola principale era: se una cosa non funziona, prova qualcos'altro. Ora stava cavalcando lungo il torrente, ma il gorgoglio dell'acqua, carico
com'era del disgelo primaverile, le arrivava solo come rumore bianco, troppo forte, fastidioso. All'ombra degli alberi aveva freddo, al sole si sentiva avvampare. Il cavallo sospirò e cercò di tirare verso l'acqua. Lei lo fermò, smontò avvertendo ogni singolo muscolo irrigidito, e lo portò a bere. Il cavallo immerse le labbra nell'acqua e succhiò: Esmay vedeva ogni sorsata risalirgli la gola. Aspettò che avesse finito, che sollevasse la testa, la guardasse e poi cercasse di muoversi verso dei germogli promettenti. Non voleva risalire in sella, ma avrebbe dovuto farlo. Si mise a camminare, conducendo il cavallo alla cavezza, fino a che le gambe non le fecero meno male. A giudicare dal sole era tarda mattinata. Non aveva davvero voglia di andare alla valle, ma dove altro poteva recarsi? Le avrebbero chiesto dov'era finita, sapendo dove andava in genere a rifugiarsi... risalì in sella e riprese a cavalcare. La valle era più piccola di quanto ricordava, e non suscitava in lei nemmeno il minimo sentimento. I pini, i pioppi, il ruscello, il prato. Si guardò attorno cercando di provare qualcosa... era suo, sarebbe tutto stato suo per sempre... ma non sentiva altro che dolore e vuoto. Scivolò dalla groppa del cavallo e gli tolse il morso. Poteva fare una passeggiata e lasciare che il cavallo pascolasse per un'oretta, prima di tornare indietro. Si ricordò di allentargli il sottopancia, poi prese una borraccia e bevette. Il suo corpo voleva cibo, ma la sua mente no: riuscì ad arrivare a metà del pranzo che i cuochi avevano preparato per lei prima che la sua mente avesse la meglio, e vomitasse tutto quello che aveva mangiato. A quel punto si sentì debole e si sedette sulla terra fredda con la testa fra le ginocchia. Il cavallo brucava poco lontano e il rumore dell'erba strappata e masticata punteggiava i suoi pensieri. Cosa poteva fare? Aveva il vuoto dietro, e il vuoto davanti. E nel mezzo di tutto quel vuoto, quei pochi momenti vividi in cui aveva fatto qualcosa di giusto, e salvato qualcun altro. Heris Serrano. Vida Serrano. Che cosa le avrebbero detto, se avessero potuto sapere quello che sapeva lei? Avrebbe fornito all'ammiraglio la spiegazione che cercava? Avrebbe cambiato qualcosa? O non sarebbe stato peggio, molto peggio, permettergli di sapere quello che le era successo? Aveva già delle macchie sul suo passato; fin da bambina aveva capito che nella carriera militare non si dimentica né si perdona nulla. Se fosse diventata qualcosa di diverso dall'incolore, mediocre giovane ufficiale che veniva da un pianeta provinciale, e che una volta per caso aveva fatto la cosa giusta e salvato il collo di una Serrano... se ammetteva di avere subito un danno, di essere fragile,
soggetta agli incubi... tutto questo l'avrebbe solo messa in pericolo. Avrebbe rischiato di essere espulsa, rimandata a casa... solo che non aveva più una casa. Non in quella valle, né in alcun altro posto. Quando le si schiarì un po' la mente, si costrinse a bere un po' e a mangiare l'altra metà del pranzo. Questa volta riuscì a tenerlo giù. Sapeva di polvere e segatura, ma restò giù. Molto prima di sera era di nuovo a casa, e restituiva un cavallo asciutto e fresco allo stalliere, ringraziandolo. La sua matrigna aspettava, ansiosa, nell'atrio; Esmay la salutò con un cenno educato del capo. «Ho cavalcato tutto il giorno» disse. «Ho bisogno di un lungo bagno, e di andare a letto.» «Posso mandarti su un vassoio?» chiese la donna. Non era colpa sua. Non era mai stata colpa sua; Esmay non sapeva nemmeno se fosse al corrente di quello che era successo. Se suo padre aveva tenuto il segreto con tanta cura, forse non ne sapeva nulla nemmeno adesso. «Grazie» rispose Esmay. «Della zuppa e un po' di pane, e basta... sono davvero troppo stanca.» Riuscì a entrare e uscire dal bagno, e quando arrivò il vassoio con il cibo lo mangiò. Mise il vassoio vuoto fuori dalla porta e si distese a letto. Vedeva l'angolo del biglietto della bisnonna sullo scaffale. Non voleva vederlo... non voleva vedere niente. La mattina dopo le cose andavano impercettibilmente meglio. Luci, che evidentemente non sapeva nulla, voleva che lei andasse ad assistere a una sessione di addestramento della giumenta. Esmay non riuscì a farsi venire in mente nessun modo educato per declinare, e a un certo punto durante la lezione riuscì a tornare in sé quel tanto che bastava da notare che il problema con il piccolo galoppo era che Luci non riusciva a mantenere la giusta posizione dell'anca. Luci accettò la correzione di buon grado, e le offrì una pomata per la sua evidente rigidità. Entrarono in casa assieme per andare a pranzo. Nel pomeriggio, la sua coscienza non le permise più di evitare l'incontro con la bisnonna. «Sei molto arrabbiata con me» disse la bisnonna, senza alzare gli occhi dal suo ricamo. Doveva usare una lente d'ingrandimento e una lampada speciale, ma ci lavorava comunque ogni giorno, diceva Luci. «Sono arrabbiata» confermò Esmay. «Ma soprattutto con lui, credo.» Cioè suo padre, come di certo la bisnonna sapeva. «Anch'io sono ancora arrabbiata con lui» disse la donna. «Ma sono trop-
po vecchia per poter dedicare tutte le mie energie a cose del genere. La rabbia è una cosa molto faticosa, così la raziono. Una parola tagliente al giorno, diciamo.» Esmay sospettava che la stesse prendendo in giro, ma il volto della vecchia era soffice e vulnerabile come non lo aveva mai visto prima. «Ho sbagliato, Esmaya, questo te lo dirò. È così che sono stata educata, ma ho sbagliato comunque. Ho sbagliato a non dirtelo, e ho sbagliato ad abbandonarti come ho fatto.» «Ti perdono» disse Esmay in fretta. La vecchia la guardò. «Non fare così. Non mentirmi. Una menzogna aggiunta a una menzogna non fa una verità. Tu non mi hai perdonato... non puoi avermi perdonato così in fretta.» «Io non... ti odio.» «Allora non odiare neanche tuo padre. Sii arrabbiata con lui, questo sì: ti ha ferito e si merita la tua rabbia. Non perdonarlo troppo presto, non più di quanto tu debba perdonare me. Ma non odiare, perché non ti viene naturale, e ti distruggerà.» «Ho intenzione di andarmene, prima possibile» spiegò Esmay. «E non tornerò.» «Lo so.» Di nuovo, avvertì quella vulnerabilità, ma non era sufficiente a farle cambiare idea. La vecchia alzò il mento. «Luci mi ha detto della mandria. Hai fatto bene, e quando verrà il momento parlerò io in suo favore.» «Grazie» disse Esmay. Era tutto quello che riusciva a dire: baciò la vecchia e se ne andò. I giorni, e poi le settimane, passarono con lentezza esasperante. Esmay li contava; non voleva provocare uno scandalo trasferendosi in città per il resto della licenza, ma non poteva fare a meno di guardare il calendario. Si sentiva sempre più decisa: se ne sarebbe andata, e non sarebbe più ritornata. Avrebbe trovato qualcuno, non Luci, che non era portata, ma qualcun altro, che badasse alla valle. Non c'era più nulla su quel pianeta che significasse per lei altro che dolore e sofferenza: perfino il cibo ormai aveva un cattivo sapore nella sua bocca. Lei e suo padre avevano parlato ogni giorno; era stata sorpresa da se stessa quanto da lui, dal fatto che potessero evitare di alludere o ricordare quel disastroso pomeriggio. La sua matrigna la portò a fare compere in città, e lei si lasciò rivestire di abiti appropriati, che ripiegò e mise in valigia per portarseli via.
Poi arrivò l'ultima settimana... gli ultimi cinque giorni... gli ultimi quattro. Quella mattina si svegliò trafitta dal dolore di essere stata nella sua valle, ma di non averla veramente vista. Doveva tornarci: doveva cercare di salvare qualcosa della sua infanzia, qualche ricordo autentico, che fosse anche un buon ricordo. Era andata a cavallo praticamente tutti i giorni, per tenere compagnia a Luci, e quindi se c'era un cavallo libero sarebbe andata subito, quel giorno stesso. Per la dama un cavallo libero c'era sempre. Un cavallo da lunghe distanze? Ma certo, dama, e anche la sella e le briglie. E, se la dama accettava un suggerimento, questo cavallo era molto docile alle pastoie. Benissimo. Esmay tornò in cucina, si fece preparare un pranzo al sacco. Si sentiva, se non contenta, almeno in uno stato d'animo positivo... era l'influenza della Flotta, pensò, del sapere che fra pochi giorni sarebbe stata di ritorno nella sua nuova casa, e per sempre. La valle si aprì davanti a lei, di nuovo magica come era stata nella sua infanzia... e come l'avrebbe ricordata fino all'ora della sua morte. Meritava a malapena il nome di valle, anche se quando Esmay l'aveva vista per la prima volta era stata così piccola che le era sembrata sconfinata. Ora vedeva che la grande conca della sua memoria era solo un piattino scavato nel fianco della montagna, un pezzo di prato con una pozza d'acqua che gocciolava via in un ruscello mormorante, che sarebbe diventato un torrente rumoroso solo più a valle. Su un lato c'erano i pini, scuri, segreti, che si levavano da cornicioni di roccia, e sul lato opposto i pioppi, con i loro tronchi bianchi e le loro foglie danzanti. Ora, nella breve primavera montana, l'erba era tenera e cosparsa di rosa, giallo e bianco, bucanevi e fiordivento... e nel giro di poche settimane sarebbero fioriti i lupini, azzurri e scarlatti, sul loro stelo alto. Ma per ora di fiori a stelo alto non ce n'erano: erano tutti vicini al terreno. Esmay si rilassò sulla sella e respirò a fondo. Avrebbe voluto aspirare l'aria senza mai doverla buttar fuori, riempirsi del profumo di resina dei pini, dell'odore tagliente di menta ed erba, della dolcezza dei fiori, dell'aroma aspro dei pioppi e perfino dell'odore di muffa e marcio delle erbe più alte che crescevano vicino all'acqua. Sentì le lacrime che le salivano agli occhi e cercò di controllare le sue emozioni. Invece di piangere, smontò, e condusse il cavallo a bere dalla pozza. Poi gli tolse le bisacce e se le caricò in spalla. Condusse l'animale fino a un pino caduto, ancora nello stesso posto in cui se lo ricordava, dopo tutti quegli anni, e rimosse la sella. La ap-
poggiò al tronco dell'albero e impastoiò il cavallo prima di togliergli le briglie. Il cavallo si spostò nel sole, dove si mise a brucare l'erba del prato. Esmay si sistemò su una comoda roccia che aveva collocato apposta in quel punto anni prima, e si appoggiò alla sella. Aprì la fibbia della bisaccia di sinistra e ne trasse i pasticci alla carne che Veronica le aveva preparato. Avrebbe avuto cinque ore buone di pace, prima di dover tornare a casa. Riusciva a stento a credere che tutto quello fosse suo. Lei sentiva di appartenere a quella valle, alla roccia fredda con i suoi licheni multicolori, agli alberi, all'erba, alla montagna stessa... ma secondo la legge e la tradizione, erano loro a essere suoi. Per legge e costume, poteva impedire a chiunque di andare lì... poteva costruire staccionate, proteggere il territorio, costruirci una casa e non permettere a nessun altro di entrare. Un tempo era stato il suo sogno più caro. Una casetta, una stanza o due, non di più, tutta per lei, senza ricordi, in quel luogo incantato. Era stata una bambina, allora; nei suoi sogni il cibo compariva in tavola senza che lei dovesse compiere alcuno sforzo. La colazione era sempre... cereali con la panna e il miele. Qualcun altro, qualche presenza magica, avrebbe lavato la ciotola appiccicosa. Era sempre stata lì a pranzo soltanto, e in quei sogni la cena sarebbe stata di pesce di torrente, trota di montagna, dolce e saporita, leggermente fritta. Non di quel torrente, ovviamente, che era troppo piccolo, ma un paio di chilometri più a valle c'era un punto in cui aveva pescato, una volta, quando si era accampata lì per una settimana; non si trattava di un sogno, ma di qualcosa realmente accaduto quando aveva undici anni. Il pesce era buono proprio come se lo era immaginato, ma il percorso in giù e in su l'aveva convinta che avrebbe dovuto trovare qualche altra fonte di cibo. Al suo rientro Papa Stefan era stato furioso, e anche suo padre, appena tornato dalla situazione in Kharfra (c'era sempre una Situazione in Kharfra). La sua matrigna era stata presa dal panico; si era convinta che Esmay si fosse uccisa... e nel ricordare la sgradevolezza di quella lite, Esmay si sentì riannodare lo stomaco, e il gelo della roccia le salì fin nelle ossa. Si tirò a sedere e andò a mettersi al sole, allargando le braccia al suo calore. Anche a undici anni sapeva benissimo che non si sarebbe mai uccisa, non importava cosa le fosse successo. Lo aveva mai detto Arris a suo padre, di questo temuto suicidio? Probabilmente no. Doveva avere avuto paura di introdurre altra tensione, altre difficoltà, fra padre e figlia. Povera Arris, pensò Esmay, chiudendo gli occhi e sollevando il viso al sole. Era
arrivata sei anni troppo tardi con la sua sollecitudine, il suo shock e il suo orrore. Solo ora capiva quanto si doveva essere sentita inutile Arris, con una figliastra così goffa e così scontrosa. Esmay si diresse a valle, verso il prato aperto. Si chinò e appoggiò una mano per terra. Era fresca... solo nel giorno più caldo dell'estate la terra sarebbe stata tiepida, lì. Ma era meno freddo che sulla roccia. Si distese sull'erba, appoggiando la testa sulle mani intrecciate. Sopra di lei il cielo mattutino era talmente azzurro da bruciarle gli occhi, di quell'esatta sfumatura di blu che la rendeva più felice, che le sembrava più giusta. Non era mai riuscita a trovare lo stesso blu su un altro pianeta. Sotto le sue spalle e la sua schiena, la terra la sorreggeva esercitando esattamente la pressione giusta. «Non mi stai rendendo le cose facili» disse alla radura. Lì, in quel momento, non riusciva a immaginare di lasciare Altipiano per sempre, di lasciarsi per sempre tutto quello alle spalle. Il cavallo, a poche pertiche di distanza, agitò un orecchio nella sua direzione ma continuò a brucare. Esmay si girò su un fianco e guardò i fiori, ricordandosi i nomi che gli aveva dato. Alcuni erano appartenuti al campionario originale usato durante il terraforming, altri erano stati sviluppati proprio lì, apposta per quel mondo, da ceppi genetici terrestri. Rosa, giallo, bianco, e alcuni di quei fiorellini piccoli, a forma di stella, blu violetto, che lei aveva privatamente battezzato stelle del desiderio. In realtà, aveva un suo nome privato per tutti loro, ricavato dai nomi di piante terrestri che aveva incontrato nelle storie, e poco importava se avessero o no a che fare con la pianta originale. Coronaria, rosmarino, primula erano nomi che le piacevano, e quindi li aveva usati: erba del cucco le sembrava ridicolo, e quindi non lo aveva usato. Li sfiorò con un dito, ribattezzandoli: quelli rosa rosmarine, quelli gialli coronarie, quelli candidi primule. Era la sua valle, erano i suoi fiori, e dunque poteva battezzarli come più le piaceva. Per sempre. Guardò il cavallo. Brucava tranquillamente, senza nemmeno ruotare le orecchie in quel movimento che indica un pericolo in avvicinamento. Tornò a distendersi, appoggiando la testa su un braccio. Sentiva il calore del sole sul viso, dove la sfiorava, e il fresco dell'ombra. Si rilassò, come non si era rilassata fin dal suo arrivo, o magari da molto prima, e le palpebre le si abbassarono pesantemente. Voltò la testa verso l'erba, per evitare il sole che le dava fastidio nonostante gli occhi chiusi... Si svegliò di colpo, con un urlo e un sussulto, quando un'ombra le comparve sopra. Mentre si metteva a sedere di scatto, riconobbe nell'ombra il
cavallo. Con uno sbuffo l'animale si ritrasse, lottando contro le pastoie, spaventato dal suo terrore. Voleva solo qualcosa da mangiare, probabilmente. La giovane aveva il cuore che batteva violentemente e si sentiva lo stomaco annodato. «Mi hai fatto paura» gli disse. Il cavallo rispose con un lungo sospiro nervoso che voleva dire: "Anche tu". «È stato per via della tua ombra» disse ancora Esmay. «Mi dispiace.» Si guardò attorno. Aveva dormito almeno un'ora, più probabilmente due, e un orecchio, rimasto al sole, le bruciava già. Si era portata un cappello... ma lo aveva lasciato da parte quando si era sdraiata. Idiota. Quando il cuore le smise di battere all'impazzata si sentì meglio, più riposata. Era l'ora di pranzo, le ricordò lo stomaco. Tornò alla roccia, stiracchiandosi, e una volta presi il cappello e il sacco con la colazione andò di nuovo a sedersi al sole. Era pronta per il pasticcio di carne, e il cavallo avrebbe avuto la sua mela. Dopo scese giù al ruscello e lasciò di nuovo vagare la mente. Era tornata a casa, e aveva scoperto la verità, e la verità non l'aveva uccisa. Non era stata piacevole: le aveva fatto male, e sapeva che avrebbe continuato a farle male; ma era sopravvissuta alle prime terrificanti ore così come da bambina era sopravvissuta all'aggressione. Si sentiva scossa, però non sul punto di dissolversi nel nulla. Era davvero pronta a rinunciare a tutto, a quella incantevole valle che tanto spesso l'aveva aiutata ad aggrapparsi alla vita? Ai suoi piedi il ruscello gorgogliava e saltava; si inginocchiò e mise la mano nel flusso d'acqua gelata. Adorava quel rumore, l'odore pungente delle erbe alte sulle sponde del ruscello, la sensazione dell'acqua gelida sulle mani e la faccia quando la immerse per bere. Amava il tonfo pesante di pietra su pietra quando mise il piede su un grosso ciottolo in bilico precariamente su un altro. Non era necessario che decidesse in quel preciso momento. Aveva ancora anni... se restava nella Flotta, se si conquistava il ringiovanimento, aveva ancora moltissimi anni. Molto dopo che suo padre fosse morto, dopo che fossero morti tutti quelli che l'avevano tradita, avrebbe potuto ritornare lì in quella valle, ed essere ancora giovane abbastanza per godersela. Avrebbe potuto costruirci la sua casetta e vivere in pace. Non stava scritto da nessuna parte che per tornare avrebbe dovuto soffrire: avrebbe potuto evitarlo semplicemente sopravvivendo. Ma contro questa visione del futuro si stagliò il volto vivido ed entusiasta di sua cugina Luci, disposta a lottare, ad affrontare il conflitto, il dolo-
re... L'opposto della prudenza. Ma Luci non aveva sofferto quello che aveva sofferto lei. Di nuovo le lacrime le salirono agli occhi. Se alla fine si fosse guadagnata la sua valle pacifica semplicemente durando più a lungo di tutti quelli che l'avevano tradita... quel giorno Luci sarebbe stata vecchia, forse già morta... perché quante volte sarebbe dovuta trascorrere la normale lunghezza di una vita prima che lei si potesse meritare il congedo, e la pace della sua valle? Le sarebbe piaciuto avere Luci come amica, oltre che come socia in affari, quella cugina che guardava a lei come a un modello, come nessuno nella sua famiglia aveva mai fatto prima. «Non è giusto» disse agli alberi e ai fianchi della montagna e al ruscello gorgogliante. Una brezza gelida scivolò giù lungo il letto del ruscello e la fece rabbrividire. «Mi ha mentito!» urlò all'improvviso. Il cavallo drizzò la testa di scatto, puntando le orecchie verso di lei; da qualche parte, a monte del ruscello, due ghiandaie gridarono e si liberarono con un frullare d'ali da un groviglio d'erbe. Poi tornò il silenzio. Il cavallo la guardava ancora con il sospetto di ogni creatura commestibile per il commensale, ma le ghiandaie si erano allontanate, e le loro grida irritate erano attutite dalla distanza. L'acqua gorgogliava sempre; la brezza scemò e poi riprese, come se fosse il respiro di una qualche creatura più vasta delle montagne. Esmay sentì che la sua rabbia scemava anch'essa, non scomparsa, ma di certo ridotta a una pressione molto minore. Passò un'altra ora a vagabondare per il prato, passando da uno stato d'animo all'altro come le nubi correvano oltre il fianco della montagna. Ricordi piacevoli della sua infanzia, di quando aveva imparato ad arrampicarsi sulle rocce ai piedi del dirupo, di quando aveva trovato una rarissima salamandra dalla coda di fuoco sotto un cornicione di roccia vicino alla pozza d'acqua, vennero a sovrapporsi a quegli altri ricordi, quelli terribili. Avrebbe avuto voglia di scalare il dirupo un'altra volta, ma non aveva portato l'attrezzatura, e aveva già le gambe rigide e doloranti per la cavalcata. Finalmente, quando le ombre del pomeriggio cominciavano a salire lungo le rocce, tornò a sellare il cavallo. Sì trovò a domandarsi se suo padre l'avesse mai detto a Papa Stefan... o se l'unica a esserne stata informata fosse la bisnonna. Avrebbe voluto sentirsi furibonda con la bisnonna perché non aveva disobbedito a suo padre, ma aveva già usato tutte le sue riserve di rabbia contro di lui. E poi... quando lei era tornata dall'ospedale la bisnonna già non era più in casa. Era stato per quello che si era trasferita...
o che era stata mandata via? «Sono ancora una bambina stupida» disse al cavallo, mentre gli toglieva le pastoie e si preparava a montare. Il cavallo la guardò e mosse un'orecchia. «Sì, e ti ho spaventato a morte, vero? Non sei abituato a questo genere di comportamento in un Suiza.» Ripercorse il sentiero in ombra lungo il ruscello immersa nei suoi pensieri. Quanti in famiglia sapevano, o avevano saputo, la verità? Di chi, a parte Luci, poteva fidarsi? I pascoli alti, quando li raggiunse, erano ancora illuminati dal sole. Laggiù, a sud, vide una mandria che si muoveva lentamente. In lontananza, gli edifici che componevano l'estancia erano annidati fra il verde degli alberi come costruzioni giocattolo dai colori vivaci. Per qualche ragione avvertì un'ondata di gioia; il cavallo in qualche modo la dovette percepire perché si mise a trottare. Non si sentiva più rigida: senza rendersi conto di averne l'intenzione, spronò il cavallo al piccolo galoppo, e poi lasciò che allungasse il passo in un galoppo vero e proprio. Il vento le bruciava la faccia, i capelli le svolazzavano intorno; sentiva ogni balzo in avanti come uno strappo sul cuoio capelluto, e la potenza dell'animale in corsa sotto di lei la sollevò al di sopra della paura e della rabbia. Come l'avevano educata a fare, portò l'animale al passo per l'ultimo miglio prima di arrivare, e sorrise a Luci, che ritornava dall'allenamento di polo, quando si incontrarono sul sentiero. «Hai fatto una bella cavalcata?» chiese la ragazza. «Eri tu quella che abbiamo visto galoppare sui pascoli alti?» «Sì» rispose Esmay. «Mi sono ricordata come si cavalca.» Luci sembrò preoccupata, ma Esmay rise. «Il nostro patto resta valido, Luci... torno alla Flotta. Ma mi ero dimenticata di quanto potesse essere divertente cavalcare.» «Finora... non sei sembrata molto felice.» «No. Non lo sono stata, ma lo sarò. Solo, il mio posto è là fuori, come il tuo è qui.» Continuarono fianco a fianco; Esmay non dovette aggiungere altro, perché Luci poteva parlare per ore del talento della giumenta e delle sue ambizioni. 7
La squadra della Consulenza Analisi Materiali Speciali sbarcò dalla nave commerciale a Comus assieme a tutti gli altri passeggeri, circa centotrenta. Lì, all'interno del territorio delle Familias, i controlli doganali erano più che altro una formalità. Uno sguardo ai documenti, un'occhiata al bagaglio... valigie tutte uguali, borse tutte uguali, tutto con il logo della compagnia. «Consulenti, eh?» chiese l'ispettore doganale, chiaramente orgoglioso della sua perspicacia. «Esatto.» Gori gli sorrise, con il suo sorriso aperto e amichevole, a volte appena un po' esagerato. Arhos si chiese se fosse stato saggio lasciar venire Gori... ma Gori era il migliore che avevano, più veloce di chiunque altro di almeno trenta secondi. Trenta secondi per centinaia di volte al giorno diventano cinquanta minuti alla fine, e avrebbe aumentato il loro margine di profitto sul contratto della Flotta. «Che vita, la vostra» commentò il doganiere. «Vorrei anch'io essere un consulente...» Gli fece segno di passare. «Pensano sempre che sia chissà che sballo» borbottò Losa, abbastanza forte da farsi sentire. «Se sapessero che cosa vuol dire essere sempre in viaggio, sentire le lamentele a casa...» «Nessuno ti ha obbligato a sposare quel perdente» la rimbrottò Pratt. Era un vecchio copione, su cui erano in grado di improvvisare per ore. «Non è un perdente, è solo... sensibile.» «Artisti» disse Gori. «Non so perché sono sempre le donne più intelligenti a farsi incastrare dai perdenti che si fanno scudo della loro creatività...» Losa sbuffò, una cosa che le veniva sempre bene. «Non è un perdente! Ha venduto tre lavori...» «In quanto tempo?» chiese Gori. «Smettetela» intervenne Arhos, com'era dovere di ogni capo. «Non ha alcuna importanza. Gori, piantala di stuzzicarla. E poi ha ragione: la gente pensa che il nostro sia chissà che lavoro interessante, ma se sapessero cosa vuol dire davvero, in viaggio tutto il tempo con orari impossibili per gente che già da principio non è contenta di averci dovuto ingaggiare, cambierebbero idea. Comunque, basta con problemi personali, in questo viaggio, d'accordo? Saremo bloccati quaggiù anche per troppo tempo, non c'è bisogno di far sembrare le giornate anche più lunghe.» «Va bene» assentì Gori, scoccando un'occhiata obliqua a Losa. «Io devo fermarmi un attimo qui» disse Losa, infilandosi in un bagno
senza rivolgere neanche un'occhiata al compagno. Arhos guardò Gori, che scrollò le spalle. Pratt scosse la testa. Le due ragazze, due tecnici che avevano appena strappato a una grossa compagnia che non era riuscita a proporre loro sfide interessanti, si scambiarono un'occhiata e fecero il gesto di andare a loro volta in bagno. «Fate pure» disse Arhos. «Abbiamo tempo.» «È lei quella troppo sensibile» borbottò Pratt, che anche in assenza di Losa continuava la discussione. «Smettila. Non serve a niente, e comunque non spetta a noi decidere come deve vivere la sua vita.» Il resto della squadra li raggiunse e si fermò, formando un piccolo assembramento che ostruiva il passaggio, fino a che Losa e le altre ragazze non riapparvero. Poi, senza parlare, si spostarono verso il cancello che divideva lo spazio civile da quello della Flotta. Lì, invece di un doganiere civile annoiato, si trovarono di fronte a un grappolo di guardie in uniforme, all'erta e nervose. «Arhos Asperson, Consulenza Analisi Materiali Speciali» si presentò Arhos, porgendogli i documenti di identità. «Questo è il nostro contratto...» Un cubo-dati, che portava su un lato l'insegna della Flotta e un complicato motivo marmorizzato sugli altri. Gli ci erano voluti due anni per sviluppare un duplicato perfetto della strumentazione della Flotta, in modo da potersi fabbricare da sé i cubi che gli servivano invece di doverne rubare e programmare uno ogni volta. E poi avevano ottenuto veramente quel contratto, del tutto legittimo, e non c'era stato bisogno di usare un falso. «Sì, signore» disse una delle guardie. «Quanti siete in tutto?» «Sette» rispose Arhos. Si fece da parte mentre una seconda guardia raccoglieva i documenti di tutti. Sulla Stazione Sierra, anche con un cubo autentico, si sarebbe preoccupato. In altre occasioni avevano già usato cubi falsificati e anche documenti falsi, ma dopo la storia di Xavier la Flotta era particolarmente all'erta. Lì, invece, non si aspettava guai, e infatti il lettore aveva già letto, accettato e restituito il loro cubo. «Tutto a posto, signore» annunciò la guardia. «Dovremo controllare il vostro bagaglio, naturalmente.» «Ma certo.» Gli porse la sua borsa e la sua valigetta. Non avrebbero trovato altro che elettronica civile standard: tavolette dati, lettori di cubi, cubi, computer portatili di tutte le dimensioni, da tascabili a grandi come la valigia, terminali di comunicazione, sonde dati... «A bordo non può usare questi, signore» obiettò la guardia, sollevando il terminale e la sonda dati.
«No, capisco benissimo. L'ultima volta ci hanno procurato un armadietto schermato.» «Certo, signore, faremo così» annuì la guardia, con evidente sollievo. C'erano dei consulenti con poca esperienza che non accettavano di separarsi dal loro equipaggiamento... ma era gente che non otteneva mai un secondo contratto. L'altra guardia, notò Arhos, stava chiamando qualcuno dall'altra parte della barriera, e di lì a poco un pivota semplice comparve con un carrello portabagagli e un contenitore schermato per la strumentazione elettronica. «Non c'è bisogno che li chiudiate subito» spiegò la guardia. «Se volete effettuare delle chiamate dall'area militare, è permesso farlo da ogni cabina con codice blu. Ma prima di imbarcarvi...» «Certamente» disse Arhos. Sapeva che sarebbero stati controllati di nuovo prima di salire a bordo. L'area militare della Stazione Comus aveva i suoi bar, i suoi punti di ristoro, negozi, attività ricreative e perfino la possibilità di affittare un posto letto. Avevano tutto il tempo necessario prima che la nave salpasse. «Qual è di preciso la sua area di competenza, dottor Asperson?» Arhos lasciò che la sua bocca si sollevasse su un lato, divertito dall'ingenuità della domanda, anche se non voleva darlo troppo a vedere. «Sono laureato in sistemi logici e analisi dei substrati.» Il giovane ufficiale sbatté le palpebre. «Substrati?» «Temo che si tratti di un argomento riservato» spiegò Arhos, con un piccolo cenno della testa per rendere l'affermazione meno dura. «Tenente, credo che lei abbia dei doveri a prua» disse il capitano di corvetta che sedeva a capotavola. «Oh... certo, signore.» Il tenente corse via. «Mi dispiace» si scusò il capitano. Non aveva una targhetta con il nome: nessuno degli ufficiali a bordo la indossava, la nave era troppo piccola. «La prego di scusarci, di solito non trasportiamo civili.» «Ma certo» disse Arhos. «Comunque, lei capisce la nostra situazione, mi auguro...?» «Certo. Solo... non ho mai sentito prima il nome della vostra ditta.» «Siamo subappaltatori» spiegò Gori, sorridendo. «Sa com'è, una volta lavoravamo per una delle grandi compagnie, o almeno due di noi lavoravano per loro, ma abbiamo deciso di metterci in proprio. Abbiamo cominciato come sub-subappaltatori, ma adesso siamo arrivati in alto... subappaltatori soltanto.»
«Dev'essere difficile mettersi in proprio dopo avere lavorato per una delle grosse imprese» commentò l'ufficiale. Arhos pensò che si stava bevendo tutta la storia. «È stato difficile all'inizio» annuì Arhos. «Ma ormai è un pezzo che non dobbiamo più chiederci come faremo a pagare l'affitto.» «Suppongo di sì» disse l'ufficiale, valutando con un sorrisetto da esperto la qualità degli abiti che indossavano e delle loro valigette. «Non che siano soldi facili» aggiunse Arhos, ricorrendo a quel tono onesto che impressionava sempre così tanto i militari. «Adesso lavoriamo molto più di prima... però lo facciamo per noi. E per voi, naturalmente.» «Naturalmente.» Alla Stazione Sierra, non dovettero passare la dogana: non dovettero fare altro che risalire uno dei lunghi bracci della stazione e ridiscenderne un altro. Una scorta li accompagnò, in teoria per assicurarsi che non si perdessero; in realtà, nessun civile poteva andarsene in giro per le aree militari di una stazione, specialmente una stazione tanto vicina ai confini, senza una scorta. La squadra fece il tragitto con la tranquillità di gente che non ha nulla da nascondere, parlando amichevolmente fra loro di quello che avevano mangiato, e del cibo che speravano di procurarsi lì in stazione. L'attracco della Koskiusko era, in realtà, l'attracco di una navetta. Arhos porse il cubo con il contratto a un'altra guardia, che lo infilò in un lettore. «Chiamerò per avvisare del vostro arrivo, signore, ma ci vorranno almeno due ore prima che giunga la navetta. Il guscio piccolo sta trasportando un ufficiale appena arrivato ed è a metà strada, e la navetta è già carica di materiale. Non ci sarebbe posto per voi, e poi comunque è giù all'Arancio 17.» «Non c'è problema. C'è un posto dove possiamo bere qualcosa, nel frattempo?» «Non proprio. Ci sono delle macchinette distributrici laggiù in fondo al corridoio, fra le porte dei bagni, ma niente di buono, purtroppo.» «Niente di commestibile» borbottò un'altra guardia. «In teoria la manutenzione dovrebbe sostituire quella roba prima che diventi verde, ma...» «Possiamo chiamare e ordinare qualcosa, se volete» propose la prima guardia. «La portano dall'area civile, ma bisogna pagare...» «Sarebbe grandioso» disse Arhos. «La nave con cui siamo arrivati era sfasata di cinque ore rispetto al tempo della Stazione, dopo l'ultimo salto, e io personalmente ho proprio bisogno di mettere qualcosa sotto i denti. E se per voi è quasi ora di fare una pausa...»
«No, grazie, signore. Ecco il menu...» «Siete mai stati a bordo di una nave cantiere prima d'ora?» chiese il giovanotto con gli occhi brillanti che li era venuti a prendere all'attracco della navetta. «No... cantieri sulle stazioni, un paio di incrociatori, ma navi cantiere, mai.» «Vi ci vuole un chip-nave» stabilì il giovanotto. Toccò la superficie di un pannello di controllo, componendo la sequenza di comandi talmente in fretta che Arhos non riuscì nemmeno a capire dove fossero sistemati i sensori sulla superficie liscia. Si sentì un bip, e una serie di dischetti caddero con un rumore metallico nella vaschetta di raccolta sotto il pannello. Arhos guardò quello che gli venne consegnato, chiedendosi come attivarlo. «Funziona a voce» spiegò subito il giovanotto. «Proietta il percorso dalla vostra posizione al punto che nominate... se è un'area non riservata, naturalmente. Se dovete accedere alle sezioni riservate, dovrete farlo riprogrammare. Lo potete fare all'ufficio amministrativo, dove il chip vi guiderà. Voglio dire, adesso no, adesso vi ci porto io, ma se doveste avere bisogno...» «Grazie» disse Arhos. Dietro di lui, il resto della squadra mormorò a sua volta dei ringraziamenti. Nella sezione amministrativa furono mandati da una scrivania all'altra, e man mano gli vennero consegnate targhette di riconoscimento, schede che gli garantivano l'accesso a una lunga serie di aree riservate, e un nuovo chip-nave. Poi qualcuno li accompagnò agli uffici amministrativi del quattordicesimo Cantiere Manutenzione Pesante. «Non abbiamo scivoli, ma ci sono gli ascensori» gli venne detto. «Non cercate assolutamente di salire a bordo dei carrelli-robot... sono programmati per fermarsi se avvertono della massa in eccesso.» Passarono i primi giorni a esaminare l'inventario e a discutere del procedimento con il tecnico anziano, un capo di prima classe con calvizie incipiente di nome Furlow. «Mi sa che al quartier generale hanno di nuovo avuto una delle loro alzate d'ingegno» disse Furlow al primo incontro. «Riprogrammare tutti i codici di guida di tutte le armi? Vuol dire presumere che quelli che faranno il lavoro siano competenti e leali.» Scoccò loro un'occhiata obliqua. «Non dico che non lo siate, ma il lavoro è troppo per chiunque. Non è possibile
non fare errori.» «Probabilmente lei ha ragione» concordò Arhos. «Ma io non posso certo permettermi di rifiutare un contratto. È così che ci guadagniamo da vivere.» «Sì, be'...» Un grosso sospiro. «So che siete stati dichiarati affidabili da qualche divinità trascendente o cose simili, ma queste armi sono sotto la mia responsabilità, e vi farò accompagnare sempre da uno dei miei.» «Certo» disse Arhos. «Nemmeno noi vogliamo che ci siano dei malintesi. Ci hanno mandato questo protocollo... suppongo che lei abbia l'altra parte...» «Sissignore, ce l'abbiamo.» Il capo prese la versione di Arhos e la guardò. «Che razza di perdita di tempo. Però credo che funzionerà. Quanto gli avete detto che ci vorrà?» «Cinque minuti per arma, e un'ora per riorganizzare il tutto. È quello che ci abbiamo messo sulle rastrelliere di prova che ci hanno dato per la gara d'appalto.» Arhos si concesse un sorriso. «Siamo stati più veloci di un minuto dei secondi arrivati, e di dieci minuti abbondanti nella fase di riordino. Poi ci hanno fatto lavorare su una nave pattuglia, e siamo riusciti a mantenere lo stesso ritmo anche in quella situazione. Naturalmente non ci hanno detto com'era l'inventario. Siamo qui, e lavoreremo fino a che non avremo finito, praticamente. Poi, man mano che le navi torneranno dai loro compiti, faremo anche le loro.» «Immagino» disse il capo «che non fossero in tanti a fare la fila per passare un anno standard, o più, qui nel settore 14.» «Non tantissimi» ammise Arhos. «La Flotta ha offerto un sacco di contratti per questo genere di lavoro, e la maggior parte erano o più grossi, o più piccoli, o in luoghi più popolari di questo. Noi andavamo bene per questo, e ci siamo comportati bene nelle prove.» «Umpf.» Il capo non sembrava più contento, ma almeno era un po' meno ostile. «Be', il lavoro non vi mancherà. Abbiamo in deposito tutte le armi del settore 14. Non disponiamo di un rifornimento di retroguardia, qui, per questioni di sicurezza. Sierra ha un bel po' di traffico civile, e sappiamo che una parte sono agenti dell'Orda di Sangue.» «Allora sarà meglio incominciare, non le pare?» Il capo ancora non si mosse. «Non sarà tanto facile. Questa baracca è grande, ma non tanto da conservare un simile numero di testate tutte assieme in comode rastrelliere. Conserviamo armi e sistemi di guida separatamente, e siccome i sistemi di guida sono piccoli, li infiliamo qui e là do-
vunque ci sia un buco libero. Non ha nulla a che vedere con il lavoro che avete fatto sulla nave di pattuglia. Abbiamo automatizzato il sistema, però. Le faccio vedere su video.» Passò le dita sul pannello di controllo della sua scrivania, e sul muro comparve un display. «Ecco una delle stive di immagazzinamento dove conserviamo i sistemi di guida.» Dal soffitto al pavimento lo spazio era occupato da rastrelliere, con la forma familiare dei sistemi di guida allineata lungo i sostegni verticali. «Siccome i sistemi di guida sono piccoli, e noi non passiamo la maggior parte del nostro tempo a rifornire le astronavi di nuovi sistemi di guida, li conserviamo ordinati per dimensione, non per tipo.» «Vuol dire che dobbiamo andare là dentro e tirarli fuori uno per uno?» «No, non è così brutta. Però dovrete lavorare su una rastrelliera per volta. Questa stiva, in particolare, ha...» Il capo attivò un altro controllo e i dati comparvero sulla sua scrivania. «Ottomiladuecentosessantaquattro moduli ASAC-32. Però sono situati in otto diversi punti, e scommetto quello che volete che qualcuno ha spostato almeno un paio di loro quando sono arrivate altre merci da sistemare, e non si è preoccupato di aggiornare l'indice.» «Non dovrebbe aggiornarsi automaticamente?» «Sì e no.» Il capo fece oscillare una mano. «Se si tratta di pezzi coperti da sicurezza, quando vengono tolti dalla stiva suona un allarme, ma se si limitano a spostarli di un paio di metri non succede niente. Altrimenti dovremmo passare tutto il nostro tempo a spegnere gli allarmi... qui muoviamo la roba continuamente da un posto all'altro.» «Dunque sapete che sono lì dentro, e probabilmente sapete dove si trova esattamente la maggior parte di loro, ma...» «Ma non tutti. Ed è per questo che l'idea di riprogrammarli tutti quanti è un'idea cretina, venuta evidentemente a qualcuno che non ha mai visto un grosso deposito di pezzi di ricambio.» Il capo sorrise. «Spero che vi paghino a giornata, e non a pezzo, perché se no, rimarrete qui per un'eternità senza guadagnare nessuna cifra favolosa.» Arhos non era sicuro che quella prospettiva preoccupasse il capo, però di sicuro preoccupava lui. Aveva temuto che il lavoro non durasse abbastanza, che avrebbero dovuto rallentare deliberatamente le cose, e che avrebbero dovuto inventarsi delle scuse per muoversi attraverso la nave come avrebbero dovuto fare per trovare l'autodistruzione. Invece... invece sarebbero rimasti lì anche troppo a lungo, e anche se avessero avuto accesso a tutta la nave, era possibile che non avessero il tempo di approfittarne.
«Mi chiedo se qualcuno ha fatto arrivare voce di questo problema a Burrahn, Hing & Co., e se sia per questo che non hanno partecipato alla gara» disse, e osservò il volto del capo. Non batté ciglio, ma... ma qualcuno doveva aver fatto circolare la voce. Maledetta Orda di Sangue! «Sì, ci pagano una diaria... ma non sarà allegra.» Arhos osservò i suoi soci e poi rivolse un'occhiata significativa al cilindretto grigio che si trovava sul tavolo. La Flotta si aspettava che manomettessero i sensori più semplici presenti nei loro alloggi e così lui non aveva nascosto lo strumentino. Lo accese. Diverse spie cominciarono a lampeggiare con urgenza: aveva rilevato dei segnali che non era in grado di disturbare. Se l'era aspettato. Ma, per il momento, era importante che la Flotta credesse che i suoi sensori più delicati lì dentro funzionassero a dovere. Nascosto sotto la forma familiare del cilindretto, sotto il sigillo della MORIN CO., c'era qualcosa che avrebbero usato in seguito, per delle conversazioni davvero private. I suoi soci lo sapevano, e avrebbero interpretato tutto quello che avrebbe detto con la necessaria prudenza. «Abbiamo un problema» disse Arhos alla squadra riunita. Ripeté rapidamente la spiegazione del capo sul criterio usato per stivare i sistemi di guida a bordo della Koskiusko. «Ci vorrà molto più tempo di quanto immaginassimo. Potrebbe essere meglio cominciare con le armi delle navi da guerra, visto che quelle si troveranno nelle rastrelliere che conosciamo...» «Ma secondo il nostro contratto dovremmo cominciare con la nave cantiere» intervenne Losa, dandogli corda. «Sì, però non ce l'avevano raccontata giusta quando abbiamo firmato. Se facciamo come pattuito, avremo un sacco di tempi morti... rimarremo ad aspettare mentre quelli si fanno venire in mente dove hanno messo le armi. Sto considerando la possibilità di rinegoziare il contratto.» Sarebbe stato difficile, dopo aver firmato; avrebbe dovuto provare che la Flotta non gli aveva fornito tutte le informazioni necessarie. E non era sicuro di poter fare affidamento sul capo Furlow perché testimoniasse in loro favore, se si fosse arrivati a tanto. «Io avrei un suggerimento...» disse Gori. «Sputa.» «Perché non suddividiamo la squadra, e mandiamo qualcuno sulle navi più grandi? In questo modo, le ore di lavoro perse per via dei tempi morti saranno di meno.» «È possibile... in effetti, è un'ottima idea. Non dovremo preoccuparci
che...» Che i loro tecnici potessero accorgersi di quello che loro stavano facendo, era quello che non disse, ma un breve sollevarsi delle sopracciglia di Gori fu sufficiente a confermargli che aveva capito perfettamente. «Non ci faremo la figura dei lagnoni, faremo il lavoro più in fretta... e a bordo del cantiere ci saremo noi a dimostrargli che i nostri uomini migliori sono qui per occuparsi degli imprevisti.» Losa suonava decisamente entusiasta; le brillavano gli occhi. Arhos ci pensò, e l'idea gli piaceva sempre di più. L'unica cosa di cui si erano preoccupati era che uno dei loro tecnici notasse qualcosa. Ma il contratto con la Flotta aveva per forza richiesto una squadra numerosa. In quel modo... be', si sarebbero tolti di torno tutti quei cervelli brillanti e curiosi, e in modo da non suscitare alcun sospetto. «Bene, allora. Andrò a discuterne con l'ufficio dell'ammiraglio. Se dobbiamo dividere la squadra, dobbiamo farlo prima di lasciare Sierra.» Da Altipiano alla stazione Comus, Esmay viaggiò con una nave di linea civile che faceva quella rotta con regolarità. Durante i trenta giorni della sua licenza, altre notizie avevano sostituito la corte marziale sulle prime pagine dei notiziari. Nessuno sembrò riconoscerla, vestita in abiti civili, e di questo fu grata. Divise il suo tempo fra la cabina e la grandiosa palestra della nave. Era strano trovarsi a bordo di una nave e non avere un lavoro da fare, ma non aveva alcuna intenzione di attirare l'attenzione mettendosi a guardare da sopra le spalle dell'equipaggio con aria invidiosa. Meglio sudare sulle macchine e poi andare a rinfrescarsi in piscina. Si rendeva vagamente conto che qualcuno degli altri passeggeri che usavano la palestra con regolarità avrebbe voluto attaccare discorso, ma andare su e giù in piscina nuotando con regolarità bastava a scoraggiarli. Nella sua cabina si leggeva un cubo didattico dopo l'altro, mettendo in fila tutto quello che le sembrava pertinente nella biblioteca di bordo. A Comus, scelse di andare a piedi dall'attracco della nave civile fino al cancello della Flotta, piuttosto che prendere uno scivolo. Aveva bisogno di fare un po' di compere: voleva sostituire tutti i vestiti che si era portata da Altipiano. Era uno spreco, lo ammetteva, buttare via abiti nuovi e che andavano benissimo... ma non voleva nessun legame visibile con il suo passato. Quando trovò un negozio che raccoglieva vestiti usati, consegnò tutto, comprese le valigie, con l'unica eccezione della sua borsa regolamentare. Non aveva bisogno di molto, in realtà. Pochi abiti comodi per i momenti di libertà, e un vestito decente. Trovò tutto quello che le serviva nel primo
negozio in cui entrò, scegliendo in fretta. Non aveva importanza per lei che cosa indossava quando era fuori servizio. Era ansiosa di ritornare nel territorio della Flotta. Quando arrivò al cancello con la zona militare, l'allegro saluto della sentinella: «Bentornata a casa, tenente!» alzò di tre tacche il suo umore. Esmay trovò la sua nuova assegnazione nella posta personale, non appena la controllò. Si era aspettata che le ordinassero di familiarizzarsi con Comus, altrimenti perché mandarla lì?, invece gli ordini la spedivano alla Stazione Sierra, da dove avrebbe potuto raggiungere il suo nuovo posto, nel Quattordicesimo Cantiere Manutenzione Pesante a bordo della Koskiusko. Era una nave di cui non aveva mai sentito parlare, e quando controllò sull'Almanacco dei Vascelli, scoprì che si trattava di un CRSP, un Cantiere di Riparazione da Spazio Profondo, che faceva parte dello schieramento di seconda ondata della Stazione Sierra. Qualcuno doveva avercela veramente con lei. Le navi cantiere erano enormi, sgraziate, complicate, e del tutto prive di fascino. Peggio ancora, le CRSP erano un incubo logistico, la preda naturale e legittima di ogni ispettore generale: era impossibile tenerle in ordine perfetto, in corrispondenza con il loro inventario nominale, perché era loro funzione continuare a perdere pezzi in favore di altre navi. Legittimamente, ma inevitabilmente, le scartoffie finivano sempre per essere in ritardo sulla realtà. Per questa ragione, fra le altre, erano pochissimi quelli che volevano essere assegnati a una CRSP, a parte gli specialisti della manutenzione, che eseguivano materialmente le riparazioni. Un giovane ufficiale non poteva che considerare un simile posto la prova evidente che qualcuno ce l'aveva con lui, ed Esmay almeno in questo seguiva il gregge. Era chiaro che essere stata esonerata ufficialmente da ogni colpa dalla corte marziale non era bastato a convincere qualcuno della sua innocenza. Andò a controllare quale fosse il primo mezzo di trasporto per la Stazione Sierra. Siccome era arrivata su Comus quasi ventiquattrore prima della fine ufficiale della sua licenza, avrebbe potuto prendere, per un soffio, una nave rifornimento della Flotta diretta a Sierra... e non aveva nessuna buona scusa per non prenderla, visto che il suo stato di servizio era tornato attivo nel momento in cui si era collegata per ricevere gli ordini. Esmay controllò... sì, la nave rifornimento aveva posto a bordo, e lei aveva due ore di tempo per presentarsi. Un impiegato annoiato timbrò e convalidò i suoi ordini, sia quelli originali che quelli modificati, aggiornò la sua carta d'identità e tutti i suoi documenti. Fece una breve puntata al
piccolo spaccio militare della stazione per raccogliere le nuove mostrine (l'impiegato le aveva detto che la sua promozione a tenente di vascello era diventata ufficiale mentre era in licenza) e procurarsi una targhetta con il nome della Koskiusko per la sua borsa. Non era obbligatorio, perché non faceva ancora formalmente parte dell'equipaggio, ma era più probabile che la sua borsa arrivasse sana e salva a destinazione se aveva la targhetta con un nome e un numero scritti sopra. Quando si presentò all'attracco della nave rifornimento, scoprì di essere in compagnia di una mezza dozzina di altri membri della Flotta che viaggiavano nello stesso modo. Nessuno la guardò, nessuno sembrava riconoscerla né avere alcun interesse in lei. Per lo più parlavano di una partita di parpaun che si era tenuta di recente fra le squadre di due delle navi all'attracco: a quanto pare qualcuno aveva fatto tutti i tre possibili gol in un solo tempo. Ma Esmay non aveva mai veramente capito il parpaun. Perché due palle? Perché tre diverse porte in tre colori diversi? Perché - pensava fra sé e sé, ma non lo avrebbe mai detto apprezzare un gioco tanto cretino? In quel momento però era contenta di sentire gli altri così pieni di entusiasmo per una cosa tanto banale, e sperava che il suo breve momento di fama fosse già passato. La nave rifornimento trasportava parti di ricambio per i magazzini della Koskiusko; il secondo ufficiale aveva notato gli ordini di Esmay, e l'aveva messa al lavoro, a controllare l'inventario. Sedici giorni a contare ventole, guarnizioni, pezzi di tubo, fissaggi di tutti i tipi, tubetti di colla, aggiornamenti dei manuali tecnici (stampati o in cubo)... Esmay si ripeté che qualcuno, al quartier generale, la doveva davvero odiare. Però era brava in quel genere di cose, e non trovava difficile mantenere la concentrazione. Il quarto giorno, notò che delle 562 scatole che avrebbero dovuto contenere fissaggi a stella da 85 mm, con filettatura di passo 1/10 e intervallo 3mm, una era etichettata come contenente fissaggi a stella da 85 mm con filettatura di passo 1/12 e intervallo 4 mm. Due giorni dopo trovò tre tubetti di colla che perdevano, e che quindi si erano incollati ai loro vicini di scatola; era chiaro dall'etichetta sbiadita che il difetto era presente fin dall'origine, cosa che Esmay annotò. Capiva la necessità di quello che stava facendo: meglio trovare gli errori in quel momento che nel bel mezzo di una riparazione di emergenza. Ma non era il genere di lavoro eccitante che si era immaginata quando sognava di lasciare Altipiano. Entrambe le volte in cui aveva sognato di lasciare Altipiano. Si chiese se avrebbe dovuto passare tutto il suo tempo a bordo della Koskiusko a fare la stessa cosa. Sarebbero stati due anni molto lunghi. Non
voleva la notorietà, d'accordo, ma le sarebbe piaciuto fare qualcosa di più interessante che contare dadi e bulloni. Nel tempo libero ascoltava gli altri parlare di sport, sperando che prima o poi cambiassero argomento; ma sembravano non avere alcun altro interesse. A quanto pare, tutti avevano fatto parte di una squadra di parpaun, e dopo avere discusso a fondo l'ultima partita erano passati con felice entusiasmo a raccontarsi l'un l'altro in esasperante dettaglio tutte le altre partite che avevano giocato in vita loro. Esmay ascoltò abbastanza da capire almeno le regole del gioco e il perché delle due palle (ogni squadra aveva la sua palla e si potevano fare dei punti con la palla dell'avversario solo nella terza porta, quella neutrale). Le sembrava comunque un gioco inutilmente complicato, e tanto noioso da sentir raccontare quanto qualunque altro sport che non si pratichi in prima persona. Alla fine si arrese e cominciò a leggere i manuali tecnici della nave rifornimento. Controllo dell'inventario: principi e pratica. Progettazione di sistemi di inventariazione automatica. Perfino un articolo su Sistemi di ricognizione statica del munizionamento, che non riusciva a immaginare quando o come avrebbe mai potuto servire, era meglio che ascoltare per l'ottantottesima volta il resoconto di una partita di parpaun che non aveva visto e di cui comunque non le importava nulla. Era sicura che non si sarebbe mai trovata faccia a faccia con una mina Barasci V-845, o con la sua cugina cattiva, la Smettig Serie G, ma fissò lo schermo fino a che non fu sicura che le avrebbe riconosciute entrambe, se fosse stata tanto sfortunata da trovarsele davanti. La Stazione Sierra serviva sia gli interessi della Flotta che del traffico civile, ma la Flotta predominava decisamente. Due dei suoi bracci accoglievano solo navi militari: Esmay guardò i nomi che rotolavano lungo lo schermo del quadrato ufficiali. Pachyderm, il più anziano incrociatore ancora in attività, e il più grande dell'intera Flotta. Plenitude, Savage e Vengeance, incrociatori molto simili alla Vigilance di Heris Serrano. Plenitude aveva una stella accanto al nome: era l'ammiraglia di un gruppo di combattimento. Un gruppetto di navi pattuglia: Consummate, Pterophil, Singularity, Autarch, Rascal, Runagate, Vixen, Despite... Despite? Che cosa ci faceva lì la Despite? Esmay si sentì gelare. Aveva lasciato la sciagurata (in un certo senso) e fortunata (in un altro) nave praticamente dall'altra parte del territorio delle Familias... non si era aspettata di vedere più la Despite se non quando fos-
se stata riassegnata al suo settore. Perché l'avevano spostata? E perché, di tutti i posti possibili, doveva finire proprio lì? Non voleva saperlo. Non voleva più vedere quella nave: il ricordo della vittoria non poteva cancellare tutto quello che l'aveva preceduta, l'ammutinamento, il sangue, e gli errori che aveva commesso in seguito. Si scrollò i ricordi di dosso. Non poteva permettersi di farsi sconvolgere da queste cose, e comunque era improbabile che dovesse avere ancora a che fare con la Despite e il suo nuovo capitano. Koskiusko, le ricordò lo schermo. Il nome lampeggiava, perché aveva inserito un tracciante sul nome. Prese nota del braccio e del numero di cancello sul suo compad personale. Un angolo delle schermo divenne giallo, e cominciò a mostrare il numero del loro attracco in blu. Esmay controllò la mappa della stazione... Koskiusko era dalla parte opposta del braccio più lungo, ma poteva arrivarci senza dover passare davanti alla Despite. Quando giunse al cancello d'imbarco, un paio di addetti alla sicurezza della Flotta controllarono di nuovo i suoi ordini. Con sua sorpresa, non accennarono ad aprire il portello di accesso. «Ci vorranno ancora un paio di minuti, tenente» spiegò uno di loro. Aveva le strisce da sergente sull'uniforme, e l'insegna della sua unità portava scritto Stazione Sierra, non Koskiusko. Esmay notò che a terra non c'era la striscia che separava tradizionalmente lo spazio della stazione da quello della nave. «Hanno mandato un guscio, ma non è ancora arrivato.» «Un guscio?» «Le CRSP non attraccano.» Il tono era rispettosissimo, ma Esmay ebbe la sensazione di avere appena fatto una domanda stupida. «Sono troppo grandi: due masse così simili vicine manderebbero a carte quarantotto la gravità artificiale di entrambe.» Una pausa, poi, in tono neutrale: «Le piacerebbe vedere la Koskiusko, tenente?» «Sì.» Aveva già dimostrato di essere ignorante: tanto valeva che ne approfittasse per imparare qualcosa. «Ecco qui, allora.» Sullo schermo del cancello d'imbarco si vide l'immagine indistinta di qualcosa di grosso: l'immagine si fece più definita, sembrò balzare vicina, e infine si stabilizzò nella più grossa e più improbabile caricatura di nave che Esmay avesse mai visto. Era come l'incrocio bastardo fra un palazzo per uffici e una nave-cargo, con diverse braccia incrostate da cose che sembravano cozze. «Quelle cose strane lì sono le stive di riparazione principali» illustrò il sergente, sollecito. «Adesso sono tutte aperte, perché stanno facendo i collaudi. Come vede, una nave-scorta può
entrarci comodamente, e così la maggior parte delle navi pattuglia... poi chiudono i portelloni...» Quelle aperture erano della grandezza di una nave-scorta? Esmay dovette rivedere di parecchio la sua stima della grandezza della nave cantiere. Non solo un palazzo per uffici, ma... si rese conto che le file di luci visibili al di là di una estrusione tondeggiante dello scafo erano un altro palazzo per uffici. Non assomigliava per nulla ai progetti delle CRSP che le avevano fatto studiare in Accademia, sei anni prima. Le due CRSP che aveva visto erano state costruite come un grappolo d'uva, con un'unica stiva di riparazione centrale che correva al centro del grappolo. Quando lo disse, il sergente sorrise. «La Koskiusko non era nemmeno stata varata allora. È nuova di zecca, ed è già stata modificata. Aspetti, le mostro la pianta.» La pianta comparve sotto forma di tre proiezioni standard, più una obliqua simile a quella che Esmay aveva visto in Accademia. Anche così la CRSP appariva un'accozzaglia di diverse componenti disparate (ma tutte enormi) fuse assieme. Cinque braccia tozze si dipartivano da un mozzo centrale: era quello il palazzo per uffici. Due braccia adiacenti sorreggevano le cozze. Si trascinavano dietro diverse forme allungate che portavano la dicitura "pontone prova motori". Il braccio che non era adiacente a nessuna delle "stive principali manutenzione" terminava con un oggetto simile a un enorme serbatoio (molto più grande di qualunque serbatoio Esmay avesse mai visto), come un naso bulboso. Senza quello, sarebbe sembrata una stazione orbitale specializzata in qualche processo industriale. «Che cos'è quel serbatoio?» chiese, affascinata dalla stranezza impossibile dell'oggetto. «Non lo so, signore. Lo hanno aggiunto circa tre anni fa, due anni dopo che era stata varata. Ah, ecco il suo guscio.» Lo schermo si spense, poi tornò ad accendersi informando dell'arrivo dello scafo. Esmay sentì un tonfo e il fischio del portello stagno che si equilibrava. Finalmente lo schermo mostrò che tutto era pronto e il sergente aprì il portello. «Buona fortuna, signore. Faccia buon viaggio.» Esmay trovò il guscio inquietante. Non aveva gravità artificiale, e dovette infilarsi in una imbracatura di sicurezza e restare lì appesa a guardare un anello di oblò. Il pilota indossava una tuta spaziale, con il casco sistemato sopra la sua testa in modo da poter essere automaticamente abbassato e fissato, come se la tuta fosse una precauzione sensata e non un semplice scrupolo. Attraverso gli oblò Esmay vedeva più di quanto desiderasse della
stazione Sierra e degli scafi che vi erano attraccati, come pustole su una ruota galleggiante. I fari di navigazione della stazione e i riflettori fissi, lampeggiavano sulla superficie sfaccettata dei serbatoi pressurizzati dei cargo, luccicando sui colori vivaci delle navi commerciali e a malapena rivelando gli scafi neri e opachi della Flotta, tranne per i puntini di luce che si riflettevano dagli impianti d'armamento e di scudo. Tutto intorno si allargava il campo stellato senza alcun pianeta visibile. Nel sistema Sierra ce n'erano diversi, ma non lì fuori, dove la stazione serviva soprattutto il traffico intersistema. Una accelerazione improvvisa gettò Esmay contro l'imbracatura, e poi cessò: il suo stomaco, che era rimasto indietro, balzò in avanti con un breve ritardo. «Il sacchetto è sopra la sua testa, se ne ha bisogno» spiegò il pilota. Esmay ebbe un piccolo singhiozzo, ma riuscì a trattenere il suo ultimo pasto. «Siamo da quella parte...» Il pilota fece un gesto in direzione dell'oblò anteriore. Un groviglio di luci si stava risolvendo in una sagoma precisa man mano che si avvicinavano. All'improvviso, quando un riflettore ne incrociò un altro, ci fu un aumento della luminosità, che rivelò la superficie dello scafo, irregolare, scura... ed enorme. Esmay non riusciva ad abituarsi alle dimensioni della nave. «L'attracco degli scafi di servizio del personale è in prossimità del mozzo» disse ancora il pilota. «Questo permette ai passeggeri di accedere più facilmente agli ascensori del personale e alla maggior parte degli uffici amministrativi. Le navette da carico e gli scafi per le merci attraccano vicino alle stive di deposito per il particolare materiale che trasportano. Così si minimizza il traffico interno.» Si chinò in avanti e toccò il pannello di controllo; la decelerazione sbatté di nuovo Esmay contro le cinghie di sicurezza. Sempre più vicini... sempre più vicini... alzò gli occhi all'oblò che si trovava sopra di lei, e vide l'immensa massa della CRSP che nascondeva la maggior parte delle stelle... e poi tutte quante. Uscendo dallo scafo nella stiva passeggeri, Esmay scavalcò una striscia rossa che stabiliva formalmente l'inizio della nave (senza alcuna relazione con la sua architettura) e fece il saluto all'insegna della Flotta dipinta sulla paratia di fronte. «Ah... tenente Suiza.» Il sergente all'arrivo guardò più volte prima la sua faccia e poi la sua carta d'identità. «Uh... benvenuta a casa, signore. Il capitano ha lasciato detto che avrebbe voluto vederla non appena lei fosse arrivata a bordo... posso avvertire il suo ufficio?» Esmay aveva sperato di avere tempo di mettere via le sue cose, prima,
ma un capitano aveva certi privilegi. «Grazie» disse. «Mi potrebbe comunicare la posizione della mia cuccetta?» «Sì, signore. Lei si trova al numero 14 nella sezione ufficiali inferiori del T-2, dall'altra parte della nave rispetto a dove siamo ora. Qui siamo all'estremità prossimale del T-4. Vuole che le faccia portare la borsa al suo alloggio da qualcuno?» Non voleva che nessuno mettesse le mani sulle sue cose. «No, grazie. Per il momento la sistemerò in un armadietto temporaneo, se non le dispiace.» «Guardi che non è un problema, tenente. E poi gli armadietti temporanei non sono sulla strada per andare all'ufficio del capitano...» Non voleva cominciare la sua permanenza a bordo facendosi conoscere come una persona difficile. «Grazie, allora.» Consegnò la borsa e prese nota delle indicazioni che il sergente le diede su come raggiungere l'ufficio del capitano: a sinistra, a quel portello, prendere il secondo ascensore per cinque livelli fino al Ponte Nove, poi seguire le indicazioni. Il corridoio ricurvo in cui si trovò era adeguato alla dimensione della nave: più adatto a una stazione orbitale che a un vascello. Esmay oltrepassò la prima serie di tubi ascensore; dalle indicazioni era chiaro che si trovava sul ponte Quattro, che su qualunque nave normale era il ponte principale: ma del resto, una nave normale non aveva bisogno di segnaletica, in genere. Diciotto ponti... cosa avevano da sistemare su diciotto ponti? Uscì dall'ascensore sul ponte Nove. Il corridoio curvo che aggirava il mozzo era ricoperto dalle piastrelle grigie che era abituata ad associare al ponte principale. Davanti alle porte dei tubi ascensori si apriva un corridoio, che presumibilmente portava verso l'estremità di uno dei bracci... T-5, diceva il cartello in alto. In una nicchia su un lato sedeva un impiegato dietro una scrivania. Esmay si presentò. «Ah, tenente Suiza. Sì, signore, il capitano voleva vederla subito. Il capitano Vladis Julian Hakin, signore. Aspetti, adesso lo chiamo...» Esmay non sentì alcun rumore, ma l'impiegato annuì. «Entri pure, signore. Terza porta sulla sinistra.» Il capitano aveva fatto sostituire il normale portello di metallo con una porta di legno, il che non era raro. Era però raro trovare la porta chiusa quando un visitatore era stato annunciato. Esmay bussò. «Entri» ringhiò qualcuno da dentro. Esmay aprì la porta ed entrò, per trovarsi di fronte a una nuca grigia. L'ufficio del capitano era stato tappezzato di moquette verde scura, con le pareti ricoperte di finto legno. Dietro
la scrivania, su un lato, era appeso il sigillo delle Familias; sull'altro lato c'era un documento incorniciato, probabilmente il brevetto da ufficiale del capitano, anche se Esmay era troppo lontana per poterlo vedere. «Ah... tenente Suiza.» Sembrava la frase del giorno. Da come l'aveva pronunciata il capitano Hakin, sembrava più una maledizione che un saluto. «Ho sentito che la considerano una specie di eroe su Altipiano.» Una maledizione, altro che. Se la differenza fra "su Altipiano" e "qui nel mondo reale" fosse stata stampigliata in rosso sulla parete, sarebbe stata meno evidente. «È perché sono del posto, signore» spiegò Esmay. «Tutto qui.» «Sono contento che lei se ne renda conto» disse il capitano Hakin. Alzò gli occhi di scatto, come sperando di coglierle sul viso un'espressione incriminante. Esmay incontrò il suo sguardo con calma: si era aspettata qualche ripercussione per la medaglia e per la cerimonia con cui le era stata consegnata, era naturale. Lo sguardo del capitano si abbassò sulla sua uniforme, dove il nastro d'oro e d'argento non compariva sulla riga riservata alle decorazioni non attribuite dalla Flotta. La legge la autorizzava a indossare qualunque decorazione importante le venisse offerta da un sistema politico interno alle Familias Regnant; ma per tradizione, nessuno lo faceva a meno che si trovasse impegnato in una missione diplomatica, dove non esporre una decorazione che era stata attribuita dagli ospiti avrebbe potuto recargli offesa. Gli ufficiali inferiori, in particolare, non indossavano alcuna decorazione personale se non quando erano in alta uniforme. E così Esmay aveva i nastrini relativi alle navi su cui aveva servito, comprese le due decorazioni attribuite all'equipaggio della Despite collettivamente per le loro azioni... e, ironicamente, la decorazione per l'Efficienza in Servizio a Bordo che le era stata attribuita per merito del defunto capitano Hearne. Hearne poteva anche essere una traditrice, ma la sua nave era stata la migliore del sistema, secondo gli ispettori generali. «Sì, signore» disse Esmay, quando lo sguardo del capitano tornò su di lei. «Alcuni capitani potrebbero essere preoccupati per il fatto di trovarsi a bordo un ufficiale che è stato coinvolto in un ammutinamento, per quanto... ehm... giustificato questo si sia poi dimostrato.» «Sono sicura che è così, signore» annuì Esmay, senza scomporsi. Era una vita che affrontava cose di questo genere. «Ci devono essere ufficiali che rimangono preoccupati anche quando una corte ha considerato la questione nei minimi dettagli. Posso assicurare al signor capitano che, se qual-
cuno esprimerà una tale preoccupazione, io non reagirò in modo inappropriato.» Hakin la fissò. Che cosa aveva pensato, che sarebbe arrossita e avrebbe cominciato a giustificarsi balbettando? Aveva affrontato una corte marziale; era stata prosciolta da tutte le accuse; non doveva far altro che vivere la sua innocenza. «Lei sembra molto sicura di se stessa, tenente» concluse Hakin. «Come fa a sapere che io non sono uno di questi ufficiali preoccupati?» Idiota, pensò Esmay. La sua voglia di irritarla aveva avuto la meglio sul buon senso. Ora nessuna risposta che potesse dare avrebbe potuto cancellare del tutto la tensione che si era creata fra di loro. Decise di essere diretta: «Lei è preoccupato?» L'altro emise un lungo sospiro e serrò le labbra. «Sono preoccupato per molte ragioni, tenente, e fra tutte queste il suo potenziale come futuro ammutinato è una particella infinitesimale. Persone che dovrebbero essere informate mi assicurano che quello che è stato reso pubblico della sua corte marziale è in effetti fedele alla realtà del procedimento... e che non vi è alcun sospetto che lei abbia cospirato per commettere ammutinamento prima del tradimento del suo capitano.» Attese; Esmay non riusciva a immaginare nulla di utile da aggiungere, e rimase zitta. «Mi aspetto la sua lealtà, tenente.» «Sì, signore» assicurò Esmay. Quella era una cosa che poteva promettere. «E lei non è altrettanto preoccupata che anche il suo nuovo capitano possa essere un traditore? Che io possa essere al soldo di qualche nemico?» Non ci aveva mai pensato, e la sorpresa trasformò la sua risposta in una esclamazione. «No, signore! Il capitano Hearne doveva essere un'aberrazione...» «E così anche tutti gli altri? Lei vive certo una vita più felice della mia, se riesce a crederci, tenente.» Adesso dove voleva arrivare? «Abbiamo avuto inquirenti che hanno passato al setaccio ogni nave della Flotta... ma questo può rasserenare solo quelli che si illudono che gli inquirenti siano incorruttibili. Che bel polverone ha sollevato quella Serrano.» Esmay aprì la bocca per difendere Heris Serrano, ma si rese conto che non sarebbe servito a nulla. Se Hakin davvero credeva che Serrano avesse "sollevato un polverone" smascherando dei traditori e salvando le Familias
da un'invasione, non sarebbe stata certamente lei a fargli cambiare idea. Tutto quello che poteva fare era rovinarsi la reputazione. «Non che non sia brillante come comandante» continuò Hakin, come se lei avesse risposto in qualche modo. «Suppongo che si debba considerare una fortuna per la Flotta che sia di nuovo in servizio attivo... se davvero ci sarà una guerra.» Guardò di nuovo Esmay. «Mi dicono che l'ammiraglio Vida Serrano è molto contenta di lei... e suppongo che abbia motivo di esserlo, visto che ha salvato la pelle a sua nipote.» Anche a questo era impossibile rispondere. Esmay avrebbe voluto che venisse al punto, sempre che il suo punto non fosse semplicemente di stuzzicarla, di cercare di farla reagire. «Spero che tutta l'attenzione che le è toccata non le sia andata alla testa, tenente. E spero anche che non sia stata traumatizzata dalla tensione della corte marziale. Mi dicono che a volte succede, anche quando il verdetto è favorevole.» A giudicare dalla sua espressione, questa volta una risposta era necessaria. «No, signore» disse quindi Esmay. «Bene. Sono sicuro che lei comprende come questo sia un momento di crisi sia per la Flotta che per le Familias. Nessuno sa cosa aspettarsi, esattamente... ma su questa nave, io mi aspetto che tutti facciano il loro dovere. Sono stato chiaro?» «Sì, signore.» «Benissimo, tenente. Ci vedremo ancora, di tanto in tanto, con le rotazioni alla mensa.» La congedò con un cenno, ed Esmay uscì cercando di scacciare una sensazione di risentimento che sapeva non le avrebbe portato alcun beneficio. Nessuno durava a lungo in un esercito se passava il tempo a chiedersi "perché proprio a me?" Le venivano rinfacciate cose di cui non aveva alcuna colpa? Non era una novità. Nella storia dell'universo, come Papa Stefan aveva detto a tutti loro, la vita è molto più spesso ingiusta che giusta... la vita non ha nulla a che spartire con la giustizia. In quanto a quello che aveva invece cose in comune con la vita... la discussione su quel punto così esplosivo avrebbe potuto durare anche un'intera notte. Esmay cercò di non pensarci più del necessario. Porse il chip con i suoi ordini all'impiegato che trovò fuori dall'ufficio. «Lei sa per caso che compiti mi sono stati assegnati?» L'impiegato diede un'occhiata al chip e scosse la testa. «Lei è destinata al Quattordicesimo Cantiere Manutenzione Pesante, tenente: è agli ordini dell'ammiraglio Dossignal. Dovrà fare rapporto alla sua sezione ammini-
strativa... ecco.» Le tracciò la strada sul suo compad. «Continui ad andare attorno al mozzo in direzione antioraria, e ci arriverà. È alla base del T-3.» «Il ponte comando è su questo stesso ponte?» chiese Esmay, indicando le piastrelle colorate. «No, signore. È su al 17; questa nave è troppo grande per il solito schema di colori. C'è un criterio nel modo in cui vengono usati, ma non è quello standard. Chiamiamo questo il ponte principale perché qui tutti i comandi hanno gli uffici centrali. È una questione di comodità, più che altro: accorcia le distanze e il tempo per andare da una parte all'altra.» Esmay si immaginava che in una nave di quelle dimensioni qualunque cosa dovesse andare materialmente da un ufficio all'altro ci avrebbe messo un bel po' di tempo. Non era mai stata su una nave dove l'ufficio del capitano e il ponte di comando non fossero vicini. Mentre proseguiva in senso antiorario attorno al mozzo, oltrepassò un'altra porta che conduceva all'ufficio centrale di un altro comando, che dall'insegna capì essere il COMANDO ADDESTRAMENTO SETTORE H, al comando dell'ammiraglio Livadhi. Più sotto si trovavano indicazioni più piccole: ISTRUZIONE TECNICA SUPERIORE, AMMINISTRAZIONE; ISTRUZIONE TECNICA SUPERIORE, VALUTAZIONE; ISTRUZIONE TECNICA SUPERIORE, SERVIZI DI SUPPORTO. Continuò, superando la base di un altro braccio, il T-2. Era lì che avrebbe dormito, ma adesso non aveva tempo di andare in esplorazione. Sempre avanti... e infine davanti a sé vide una grossa insegna che proclamava: QUATTORDICESIMO CANTIERE MANUTENZIONE PESANTE: DOVE I RIFIUTI RINASCONO. Sotto, cartellini più modesti indicavano agli ignoranti la strada per l'amministrazione. Una volta giunta lì un maggiore dagli occhi brillanti la mandò dritta all'ufficio del capo del personale dell'ammiraglio; il capitano di fregata Atarin. Questi salutò la comparsa di Esmay con un'assoluta noncuranza che lei trovò immensamente rassicurante. Aveva già letto il suo rapporto sull'inventario condotto a bordo della nave rifornimento, e sembrava molto più interessato a quello che al suo passato. «Sono già un paio d'anni che cerchiamo di inchiodare i nostri fornitori per quella questione dei tubetti di colla difettosi» le spiegò. «Ma non eravamo mai riusciti a provare che fossero già danneggiati prima di arrivare qui. Sono contento che il vecchio Scorry, il secondo di quella nave rifornimento, abbia avuto l'idea di metterla a controllare le provviste mentre era in viaggio. Finalmente abbiamo qualcosa per metterli sotto pressione.» «Sì, signore.»
«Quanta esperienza ha in fatto di inventario?» «Nessuna, signore» rispose Esmay. Il cubo con tutta la sua storia era sulla scrivania di Atarin, lo sapeva bene, ma forse lui non aveva avuto il tempo di esaminarlo. «Allora sono anche più impressionato. Se poi si aggiunge che si è accorta di quei fissaggi... La maggior parte della gente si arrende dopo cinquanta o sessanta scatole. O pensano che se c'è qualche errore il computer se ne accorgerà. E dovrebbe andare così, ovviamente. Dovrebbero esserci dei sistemi di etichettatura automatica che funzionano fin dal momento in cui i pezzi vengono prodotti. Zero errori, continuano a dire. Però io non ho mai visto uno dei questi sistemi con zero errori.» Le sorrise. «Certo, potrebbe esserci qualcuno all'ispettorato generale che ci sottopone a dei piccoli test per vedere se stiamo all'erta.» Era una possibilità a cui Esmay non aveva pensato, anche se aveva pensato al sabotaggio. Ma il suo interlocutore non era stato sulla Despite. «Naturalmente, potrebbe anche essere un'azione del nemico» disse. Esmay sperava che non glielo avesse letto in faccia. «Ma preferisco credere nella stupidità che nella malizia.» Abbassò gli occhi sullo schermo che aveva sulla scrivania. «Adesso, vediamo... il suo ultimo turno di servizio l'ha effettuato su una nave pattuglia... e nelle ultime crociere si è sempre occupata di tecnologia di ricognizione. Francamente, di tecnici dei sensori ne abbiamo a mucchi qui a bordo, tutti con esperienza maggiore alla sua, e sul campo. Le farebbe bene occuparsi di qualcos'altro, fare esperienza con qualche altro sistema di bordo...» Alzò gli occhi, come aspettandosi che protestasse. «Benissimo, signore» annuì invece Esmay. Sperava che andasse bene. Sapeva che aveva bisogno di imparare a conoscere anche altri sistemi, ma le era venuto il dubbio che Atarin volesse tenerla lontana dai sensori perché erano troppo politicamente pericolosi. «Bene.» Il capitano di fregata sorrise ancora, e annuì. «Suppongo che voi ufficiali giovani pensiate tutti che essere assegnati a una CRSP sia una specie di maledizione, ma lei scoprirà che non c'è modo migliore per imparare come funziona davvero una nave. Nessuna nave normale deve affrontare la quantità di problemi diversi che risolviamo noi, dallo scafo all'elettronica. Se sa sfruttare bene l'opportunità, questo assegnamento può insegnarle moltissimo.» Esmay si rilassò. Atarin era una persona felicemente assorbita dalla sua personale passione. «Sì, signore» disse, e si chiese se sarebbe andato avan-
ti ancora per molto. «Personalmente, credo che ogni ufficiale dovrebbe fare almeno un turno di servizio su una CRSP. COSÌ non avremmo più gente che se ne viene fuori con idee balzane, o addirittura che le fa implementare direttamente a bordo di una nave, quando è assolutamente ovvio che non possono funzionare.» Si fermò con uno sforzo visibile di autocontrollo. «Bene. L'assegnerò a S&A, tanto per cominciare... Scafi e Architettura. Lo troverà un po' più complicato del corso di base che le hanno fatto all'Accademia.» «Lo credo, signore» disse Esmay. «Lavorerà per il maggiore Pitak: la trova sul ponte Otto, corridoio principale di babordo, terzo di poppa del T-4... e poi chieda. Ha avuto tempo di sistemarsi nel suo alloggio?» «No, signore.» «Mmm. Be', tecnicamente lei non è di servizio fino a domani, ma...» «Andrò dal maggiore Pitak, signore.» «Bene. Ora, l'ammiraglio vorrà incontrarla, ma adesso è in riunione, e non credo che sarà libero prima di domani o di dopodomani. Torni da me e prenderemo un appuntamento. Magari sarebbe il caso che lei desse un'occhiata alla struttura di comando su questa nave... è più complicata di quella che potrebbe trovare nella maggior parte degli incarichi.» «Sì, signore.» Non era solo la struttura di comando a essere complessa, scoprì Esmay. Uscendo dal T-3, dove si trovavano gli uffici del Quattordicesimo Cantiere Manutenzione Pesante, si incamminò in senso orario verso il T-4, convinta di avere capito come funzionava la struttura molto particolare della Koskiusko. All'estremità più vicina al mozzo del T-4 trovò una serie di tubi trasporto cargo e personale, e prese l'ascensore per il personale fino al ponte Otto. Qui trovò un passaggio che seguiva il senso dell'asse del braccio, abbastanza largo da farci passare tre cavalli affiancati, e lo imboccò, cercando il terzo corridoio laterale. Passò un ufficio dopo l'altro, tutti occupati da persone indaffaratissime: Comunicazione, Armamento, Rappresentazioni Remote... ma niente Scafi e Architettura. Alla fine si fermò e chiese informazioni. «Scafi e Architettura? È sul corridoio principale di sinistra, signore. Deve tornare al mozzo e spostarsi in senso orario...» Esmay pensò che la stessero prendendo in giro. «Non ci sono corridoi trasversali?» Ci fu una risatina, subito soppressa. «No, signore... nel T-4 abbiamo uno
dei bacini di carenaggio principali... non c'è niente di trasversale dal ponte Tre fino al ponte Quindici.» Si era dimenticata dei bacini di carenaggio. Si sentì irritata sia con se stessa sia con l'impiegato. «Ah, sì. Mi scusi.» «Non c'è problema, signore. Tutti hanno bisogno di tempo per abituarsi a questo posto. Ritorni indietro, svolti a sinistra...» Aveva detto sinistra invece di babordo, ma il termine usato in terraferma le sembrava adeguato a una struttura di quella grandezza. «Poi cerchi le B sulle paratie, quello è il corridoio principale di babordo, e se va avanti, arriva al corridoio secondario di babordo, che non è quello che le serve. Scafi e Architettura è alla nostra stessa altezza, ma a babordo invece che a tribordo...» Aveva camminato molto più di quanto voleva. «Grazie» disse con tutto il garbo che le riuscì di raggranellare, irritata com'era. Su quella nave non avevano bisogno di palestre, bastava perdersi di tanto in tanto. Anche se quando arrivò sentiva tutta la strada che aveva fatto nelle gambe, non ebbe problemi a trovare l'ufficio del maggiore Pitak. Il corridoio di babordo era facile da individuare, e al terzo corridoio a poppa trovò un pivota semplice che le spiegò il resto della strada. Solo che il maggiore Pitak non era nel suo ufficio. Il pivota aveva detto qualcosa sul fatto che il maggiore "era in giro per fare non so cosa" ma Esmay non sapeva che conclusioni trarne. Guardò in su e in giù nel corridoio. Membri dell'equipaggio che passavano come se sapessero tutti quel che facevano, ma nessun maggiore. Pensò di andarla a cercare, poi però concluse che non ne valeva la pena. Meglio parcheggiarsi lì e aspettare che Pitak tornasse. Si guardò attorno. Sulla paratia di fronte all'entrata c'era la rappresentazione di diversi pezzi di metallo. Esmay si chiese che diavolo fosse, e alla fine si decise ad avvicinarsi e leggere la didascalia. COMUNI ERRORI DI SALDATURA, diceva. Esmay capiva bene che la saldatura con un enorme grumo asimmetrico non andava bene, e sapeva anche perché non andava bene quella in cui il metallo non copriva del tutto la giuntura... ma cos'avevano il resto di loro che non andava? «Così lei sarebbe la mia nuova assistente» disse qualcuno alle sue spalle. Esmay si voltò. Il maggiore Pitak aveva proprio l'aspetto che il suo nome faceva presagire: una donna piccola e spigolosa, con un volto allungato che a Esmay ricordava sgradevolmente quello di un mulo. «Signore» salutò Esmay. Pitak la guardava con la faccia scura. «Priva di qualunque esperienza in architettura navale o ingegneria pe-
sante, mi dicono.» «Sì, signore.» «Almeno ha qualche nozione di costruzione, o cose del genere? Voglio dire, almeno falegnameria delle stalle?» Era chiaro che Pitak era furiosa per qualche motivo: Esmay sperava solo che non dipendesse dalla sua presenza. «No, a meno che non ritenga utile saper rimettere il tetto su una stalla dopo una tempesta» rispose Esmay. Pitak continuò a guardarla con occhi truci per qualche minuto, poi sembrò ammorbidirsi. «No... non direi. Qualcuno deve avercela con tutte e due, tenente, lei e me. Il quartier generale di settore mi ha rubato i miei tre migliori specialisti di S&A, ha promosso il mio assistente trasferendolo via dalla nave, e mi ha lasciato in braghe di tela... e adesso mi ha mandato lei, e solo il cielo sa qual è la sua preparazione.» «Sensori, per lo più» la informò Esmay. «Se fossi religiosa, consegnerei le loro anime disgraziate a qualche tormentoso aldilà» disse il maggiore Pitak. Un angolo della sua bocca fu tentato di sollevarsi. «All'inferno. Non riesco mai a restare arrabbiata abbastanza a lungo da fargliela pagare, e loro lo sanno. D'accordo, tenente, vediamo che cosa sa. Non sarà comunque abbastanza, ma almeno non ha fatto niente di incredibilmente stupido finora.» «Non ne ho avuto il tempo, signore» commentò Esmay. Nonostante tutto, il maggiore cominciava a piacerle. «Questa osservazione dimostra quanto lei sia ingenua» le fece notare Pitak. Si era spostata dietro la scrivania, aveva afferrato la maniglia di un cassetto e l'aveva tirata, ma senza risultati. «Mi hanno mandato degli idioti che sono riusciti a combinare casini prima ancora che li intercettassi.» Un altro strappo, questa volta abbastanza forte da muovere tutta la scrivania. «Per esempio, questo cassetto... non ha più funzionato bene da quando il suo predecessore di due volte fa ha pensato che sarebbe stata una buona idea riprogrammare la serratura. Ancora non abbiamo capito come abbia fatto, ma adesso nessuna delle chiavi funziona più, e in effetti nulla riesce più ad aprirlo se non la forza bruta e le bestemmie.» Senza cambiare espressione, Pitak si lanciò appunto senza vergogna alcuna in una sequela di bestemmie dirette al cassetto, che finalmente cedette, con un cigolio. Esmay avrebbe voluto chiedere perché qualcuno doveva ostinarsi a usare un cassetto così maldisposto invece di svuotarlo e lasciarlo semplicemente inutilizzato, ma non le sembrava il momento. Guardò Pitak che rovistava
nel contenuto, per estrarne alla fine un paio di cubi-dati. «Lei probabilmente si sta chiedendo perché continuo a mettere della roba in quel cassetto» la prevenne Pitak. «Francamente me lo chiedo anch'io, ma il fatto è che lo spazio sicuro qua dentro non è poi tanto, soprattutto con tutti gli specialisti che formicolano a bordo, gente che conosce tutti i trucchi di tutti i dispositivi di sicurezza mai inventati, dal fermaglio a slitta in su. Mi hanno mandato un fascicolo su di lei, ma non gli ho ancora dato un'occhiata, cosa che spero non mi rinfaccerà.» «No, signore.» «Per carità, tenente, si rilassi un po'. Si trovi una sedia. Vediamo un po' qui...» Inserì uno dei cubi in un lettore, mentre Esmay si guardava attorno in cerca di qualcosa su cui sedersi. Ogni superficie orizzontale era ricoperta da uno strato di cianfrusaglie: sulle due sedie c'erano pile di stampati che sembravano elenchi di inventario. Pitak alzò la testa. «Butti pure quella roba per terra. Danton avrebbe dovuto mettere tutto in ordine già ieri, ma è in infermeria con qualche porcheria che si è presa in licenza... sa, penso che faremmo meglio a lasciare che si fabbrichino i loro disgustosi composti chimici direttamente qui a bordo: finiscono sempre per prendersi qualche accidente quando vanno a terra.» Esmay depose attentamente a terra una pila di carte e si sedette. Pitak stava guardando con una smorfia contrariata lo schermo del lettore di cubi. «Be', per essere un'ammutinata e un'eroina, lei è silenziosa come un topolino, tenente Suiza. Sta cercando di coprire le sue tracce?» Esmay non riuscì a farsi venire in mente nulla da dire. «Hmmm. Dunque abbiamo uno di quei tipi duri e silenziosi qui, eh? Non è il mio tipo, come avrà probabilmente notato. Famiglia nella milizia planetaria... oh divinità celesti, una di quei Suiza!» Esmay non aveva mai visto nessuno nella Flotta reagire così; si trovò con le sopracciglia aggrottate. «Lo sanno?» «Non capisco bene a cosa si riferisca, signore.» Pitak le rivolse un'occhiata disgustata, che Esmay probabilmente, pensò, si era guadagnata. «Non faccia giochetti stupidi con me, tenente Suiza. Quello che voglio dire è: la Flotta sa che milizia planetaria è, come dire, una verità parziale quando si tratta della famiglia Suiza di Altipiano?» «Presumevo di sì» rispose Esmay prudentemente. «Almeno, quando ho fatto domanda per entrare nella Flotta, hanno effettuato un controllo su di me, e sicuramente l'hanno scoperto.» «Lei è un topolino giudizioso e prudente» commentò Pitak. «Ho notato
che ha detto presumevo. Adesso cosa ne pensa?» «Uh... credo che la maggior parte di loro non se ne renda conto, ma ritengo che qualcuno lo debba sapere.» Esmay avrebbe anche voluto capire come mai lo sapeva Pitak: di certo non era di Altipiano. Esmay era la prima persona del suo pianeta a essersi arruolata nella Flotta come ufficiale. «Capisco.» Pitak continuò a esaminare il contenuto del cubo, facendo scorrere il testo. Esmay immaginava che si trattasse di un riassunto della sua scheda personale. «Un posto interessante, Altipiano, anche se non ci vivrei mai. Ah... almeno vedo che ha fatto studi scientifici all'Accademia... interessante. Non ha seguito i corsi soliti di chi punta al comando. Che cosa pensava di seguire, la carriera tecnica?» «Sì, signore.» «E poi ha finito per essere il più giovane ufficiale subalterno che abbia mai comandato una nave pattuglia in combattimento... e ha pure vinto. Scommetto che qualcuno sta dando una bella seconda occhiata alla sua storia. Be', sa cosa le dico, tenente... la cosa più importante che deve fare, adesso, è imparare a muoversi su questa nave, perché quando avrò qualcosa da farle fare, non voglio che passi le ore a gironzolare per scoprire dove deve andare. E quindi, per i prossimi tre giorni, mentre siamo ancora all'attracco, voglio che vada da per tutto e osservi bene tutto quanto e poi sia pronta per un esame sull'orientamento a bordo quando sarà di ritorno. Il che vuol dire alle otto precise del ventisette... sono stata chiara?» «Sì, signore» rispose Esmay. La curiosità spazzò via le ultime briciole di prudenza. «Se non le dispiace, maggiore... come fa a sapere tante cose di Altipiano?» «Finalmente» disse Pitak, sogghignando. Aveva un sogghigno bizzarro, con dei denti che sembravano troppo grandi per starci tutti in quel volto lungo e stretto. «Mi stavo chiedendo se sarebbe mai riuscita a raggranellare il coraggio per chiedermelo. Una volta stavo per mettermi assieme a un tizio, quando ero ancora un sottotenente e le cose non andavano troppo bene nella Flotta. Ho passato una licenza su Altipiano, con la sua famiglia. È stato lì che mi hanno raccontato tutto sui Suiza e la loro famiglia, e la politica locale, però più lui mi decantava la bellezza delle praterie, delle colline e delle montagne inzuccherate di neve, più io desideravo una bella astronave, piccola, stretta, comoda. Soprattutto dopo aver galoppato sulle magnifiche praterie durante un temporale... con la certezza che un lampo ci avrebbe fritti da un momento all'altro, e non ho potuto camminare per giorni interi, dopo. Suppongo che lei vada a cavallo?»
«Quando devo» rispose Esmay. Non era il momento di parlare della sua mandria, che lei comunque non aveva voluto. «È... una cosa che si aspettano. Ma io ho scelto lo spazio.» «Lei è il mio tipo di donna. Adesso... se ne vada e cominci a imparare dove stanno le cose. L'avverto, i miei esami non sono uno scherzetto. Ecco. Avrà bisogno di questo.» Le gettò un cubo. «Questo, e buone gambe.» «Grazie, signore» disse Esmay. «Le otto precise del ventisette.» «Sì, signore.» Esmay fece una pausa, ma il maggiore non alzò la testa. Ripercorse i suoi passi fino ai corridoi del mozzo, poi controllò dove era situato il suo alloggio e tracciò un percorso da dove si trovava a laggiù. Il T-2 doveva essere indietro, da dove era venuta, in senso antiorario... poi su con l'ascensore per il personale, e... questa volta prestò molta attenzione alla designazione del corridoio assiale, anche se il T-2 non era interrotto da un cantiere di riparazione... da quelle parti... 8 Il suo alloggio era piccolo, ma solo suo: i tenenti avevano diritto alla privacy. La sua borsa l'attendeva sulla cuccetta, con i sigilli intatti. Sistemò le sue cose negli stipetti, attivò il pannello di stato e confermò la sua identità alla voce piatta del computer. Su una delle paratie c'era una piantina a colori della sistemazione degli ufficiali. Il T-2 era una sezione residenziale: ponti interi ospitavano le camerate dei marinai semplici, per lo più in lunghi cameroni, con compartimenti da quattro o due persone per quelli con maggiore anzianità. Un intero ponte era riservato agli ufficiali subalterni, con i guardiamarina in camerate da dieci, i sottotenenti in compartimenti da due, i tenenti in alloggi singoli, tanto più vicini al mozzo quanto maggiore era la loro anzianità. Sopra di lei c'era un ponte per gli alloggi degli ufficiali superiori, e sopra di quello un altro per gli ufficiali generali. Esmay sbatté le palpebre al vedere il numero degli ammiragli presenti a bordo. Le mense si trovavano nella stessa ala: due livelli interi erano occupati da magazzini di provviste, cucine e sale da pranzo. Poi c'erano sale per l'attività fisica, palestre, piscine, perfino uno spazio per gli sport di gruppo (Esmay gemette al pensiero di incontrare altri fanatici del parpaun), e sui ponti superiori, giardini. Giardini? Alcune stazioni spaziali ne avevano, ma non aveva mai sentito parlare di una nave della Flotta che avesse un giar-
dino a bordo. Ringraziò la divinità propizia che non l'aveva fatta assegnare alla sezione Ambientale: doveva essere un inferno da gestire, su una nave come quella. Si guardò di nuovo attorno. Non le era dispiaciuto dormire in camerata con gli altri guardiamarina, quando era stata uno di loro. C'era evidentemente una specie di sistema automatico nella sua testa che quando si trovava a dormire in pubblico le evitava gli incubi peggiori. E neanche da sveglia la mancanza di privacy le aveva dato fastidio: tanto, non aveva mai avuto il tempo libero per usufruirne. Ora... ora doveva solo sperare che i suoi incubi non svegliassero i vicini. La sua coscienza le ricordò che avrebbe sempre potuto andare alla sezione medica e chiedere aiuto agli psichiatri. La ignorò. Non aveva alcun messaggio in attesa: nessuno reclamava urgentemente la sua presenza. Il che voleva dire la possibilità di dedicarsi al compito che Pitak le aveva assegnato, se fosse riuscita a trovare un lettore per il cubo del maggiore. La console la informò che aveva un lettore tutto per sé. Le ci volle un momento per trovarlo, perché non ne aveva mai visto uno completamente ripiegato. In genere la gente li lasciava almeno parzialmente aperti, per l'utente successivo. Il cubo conteneva quella che sembrava una normalissima pianta della nave. Non normalissima, in realtà, perché la Koskiusko non aveva niente di normale, ma non pareva nulla di diverso da quello che avrebbe potuto ottenere dal database generale. Esmay richiamò la pianta della nave sulla sua console, tanto per controllare. No, non erano proprio uguali. Passaggi che su una piantina portavano da qualche parte sull'altra finivano in un vicolo cieco... alcuni ascensori erano in punti diversi. Esmay guardò lo schermo con una smorfia. O il maggiore stava cercando di giocarle uno scherzo, o il database della nave era sbagliato. Ma come mai? Cercò la discrepanza più vicina: era sul T-3, dove un corridoio trasversale sul ponte Tre, che secondo la nave raggiungeva l'Officina Formazione 2B, finiva nella piantina di Pitak molto prima di arrivarci; secondo i suoi dati, l'Officina Formazione 2-B si poteva raggiungere solo facendo una deviazione attorno al Magazzino Stampi. C'era un modo solo di risolvere la cosa. Guardò l'ora... aveva appena il tempo di arrivare fin là e poi raggiungere il posto che le era stato assegnato in mensa prima che fosse ora di mettersi a tavola. Doveva tornare al mozzo, alla base del T-2, e poi in senso orario verso la
base del T-3... cominciava a capire come funzionavano le cose. Trovò l'ascensore del personale accanto a un gruppo di quattro ascensori che recavano scritto SOLO CARGO. La spia dell'ascensore divenne verde ed Esmay inserì la sua destinazione. Quando si accese anche la seconda spia, entrò e avvertì un veloce rimescolamento degli intestini, due volte in rapida successione, prima di trovarsi ferma davanti al portello otto ponti più in basso. In attesa c'era un altro tenente, maschio, con un paio di guardiamarina alle spalle. «Noi non ci conosciamo» disse l'uomo mentre Esmay usciva. «Serve qui?» «Sono appena arrivata a bordo, signore» rispose Esmay, sperando di non avere gli occhi fuori dalle orbite, come le capitava di solito dopo un viaggio in uno degli ascensori. «Esmay Suiza, assegnata a Scafi e Architettura...» «Ah, sì.» Tese una mano: aveva una stretta piacevole. «Tai Golonifer. Abbreviazione di un nome orribile che ha tutta una storia di famiglia dietro; la prego, non chieda. Avevo sentito che sarebbe arrivata; io sono con il personale del Quattordicesimo Manutenzione. È impegnata in questo momento?» E quello cos'era? «Sono con il maggiore Pitak» disse Esmay, deliberatamente tenendosi sul vago. «Allora è impegnata» concluse Golonifer, come se non ci fosse dubbio alcuno. «Non mi sorprende che l'abbia già messa a galoppare per la nave. Comunque le presento questi due, anche loro sono appena arrivati: guardiamarina Anson e Partrade.» I due guardiamarina strinsero la mano a Esmay; quella di Anson era gelida e umidiccia, quella di Partrade come rivestita da cuoio da sella. «Ci vediamo in mensa» la salutò Golonifer. «Su, ragazzi, giù per il tubo.» Esmay si voltò e si guardò attorno. Doveva trovare il passaggio assiale principale di dritta del T-3. Su quel ponte, il corridoio era abbastanza largo da permettere il passaggio di un piccolo autocarro, e in effetti le rotaie incorporate nel pavimento destinate a guidare i carrelli per il trasporto merci, e le corsie pedonali chiaramente delimitate su entrambi i lati, suggerivano che piccoli autocarri passavano di lì, e con una certa velocità. Ci fu un fruscio molto forte. Esmay si guardò alle spalle e vide un trasporto piatto carico di bidoni che veniva scivolando lungo la rotaia di guida, il sensore che lampeggiava come un folle occhio rosso. A cinque metri da lei il sistema di avvertimento automatico suonò tre volte... poi il carico
le passò davanti. Esmay lo vide rallentare e svoltare dentro un grosso portello sul lato esterno. Quando arrivò a sua volta al portello e guardò dentro, vide un lungo braccio robotizzato che afferrava i bidoni dal trasporto e li sistemava su delle scaffalature. Qualcuno dall'interno del compartimento urlò qualcosa che lei non riuscì a capire, e il braccio robotico si fermò a mezz'aria, con un bidone stretto fra le pinze. Non poteva restare lì tutto il giorno, e avrebbe avuto il resto del suo turno a bordo per scoprire che cosa stava succedendo. Il primo corridoio trasversale era il doppio della larghezza di quello che stava percorrendo, con semafori e specchi sulle curve. Esmay guardò negli specchi, anche se tutti i semafori erano verdi. In lontananza, sul lato interno, qualcosa di enorme, bitorzoluto e dotato di luci gialle lampeggianti era fermo, con uno sciame di figure scure che vi si affaccendavano sopra... sbatté le palpebre, di nuovo meravigliata dalle dimensioni della nave. Il secondo corridoio trasversale per poco non le sfuggì; era una fessura stretta che si apriva su entrambi i lati del suo corridoio, largo a malapena abbastanza da far passare un pedone, e illuminato solo da una lampada di tanto in tanto. Si fermò di nuovo a osservare. Su una nave-scorta, angusta com'era, un corridoio del genere sarebbe stato normale, ma lì contrastava stranamente con tutti gli altri che aveva visto. Il terzo a poppavia era il più normale che aveva incontrato fino ad allora, semmai c'era qualcosa di normale in quella nave. Tre persone avrebbero potuto percorrerlo fianco a fianco, se non si fossero preoccupate di sbattere la testa di quando in quando. Su entrambi i lati, a intervalli regolari, si aprivano dei portelli. Il quarto era molto simile... un corridoio che avrebbe potuto trovarsi su qualunque altra nave, a parte la lunghezza. Il quinto, quello che era venuta a vedere... svoltò verso l'interno. L'Officina di Formazione A era esattamente dove sia il cubo di Pitak sia la piantina della nave dicevano che doveva essere. Esmay non era sicura di che cosa fosse, esattamente, un'officina di formazione, ma capiva a colpo d'occhio che era un posto importante. Il pavimento era coperto di rotaie per i carrelli robotizzati, che collegavano tutti i portelli affacciati sul locale. Attraverso i portelli aperti vedeva lunghe serie di macchinari a lei sconosciuti: cilindri, coni rovesciati, spruzzatori montati su rotaie sospese, grossi cubi sguarniti su cui erano dipinti segnali di attenzione. Davanti a lei il corridoio finiva in un portello sigillato. Esmay tornò a guardare le note che aveva preso. Il computer della nave evidentemente era convinto che quel corridoio proseguisse... e forse era così, dietro l'ostacolo.
DIVIETO D'ACCESSO AL PERSONALE NON AUTORIZZATO era scritto sul portello in giallo su rosso... Esmay sospettava che almeno alcuni dei bitorzoli cromati sui sigilli fossero sensori video. Rifece la strada fino al corridoio longitudinale, e seguì il percorso indiretto suggerito dal cubo di Pitak. Ci volle più di quanto pensava... continuava a stupirsi per le dimensioni della nave, e a irritarsi con se stessa per il proprio stupore. Infine trovò l'Officina di Formazione B dove il cubo di Pitak diceva che fosse, e da questa parte l'ostacolo aveva l'aspetto di un innocente portello con su scritto MAGAZZINO STAMPI. La nave venne percorsa da un rintocco dolce, ed Esmay guardò il suo computer da polso. Era quasi in ritardo. Avrebbe dovuto fare in fretta, e si trovava dall'altra parte della nave rispetto a quello che ormai concepiva come il suo territorio. Non perse tempo a confrontare i dati della nave con quelli di Pitak, questa volta: corse in avanti fino al corridoio principale di sinistra, ritornò al corridoio che aggirava il mozzo, saltò nel primo tubo passeggeri che trovò, e arrivò alla sua mensa appena prima del gong. Arrivata in mensa scoprì che i tenenti dovevano sedere a capo di una tavolata di sottotenenti e guardiamarina. Non aveva ancora incontrato nessuno dei suoi commensali. Tutti si presentarono educatamente e lei fece del suo meglio per associare facce e nomi. Parlò poco, ascoltando gli altri e sperando che dicessero qualcosa che li rendesse più facili da ricordare. Il guardiamarina con i capelli chiari che sedeva alla sua sinistra aveva una sbucciatura su una mano: di sicuro, quando fosse guarita, avrebbe trovato qualche altro motivo per ricordarsi di lui. I sottotenenti sembravano tutti un po' rigidi, come se avessero paura di lei. Dovevano avere sentito della corte marziale, ma poteva anche darsi che ci fosse dell'altro? «Tenente Suiza, davvero ha incontrato l'ammiraglio Serrano?» A parlare era un guardiamarina, un giovane magro, scuro e con gli occhi verdi. Custis, diceva la sua targhetta. «Sì, è vero» rispose Esmay. Il guardiamarina Custis aprì la bocca per fare altre domande, ma il suo vicino gli diede una visibile gomitata nelle costole e lo azzittì. Seguì un breve silenzio, in cui Esmay mangiò imperturbabilmente. Con la coda dell'occhio vedeva che Custis le scoccava delle occhiatine. Alla fine riuscì a riprendere coraggio. «Lei sa che suo nipote è a bordo... Barin Serrano...?» «Toby!» il guardiamarina con la mano sbucciata lo redarguì, in tono di disapprovazione. Esmay non abboccò, ma si chiese se fosse una coinci-
denza o se l'influenza dei Serrano avesse qualcosa a che fare con l'assegnazione di un giovane membro della famiglia. «Se tu mangiassi senza parlare, eviteresti di dire stupidaggini» rincarò uno dei sottotenenti, più in là lungo la tavola. «Esmay alzò gli occhi in tempo per vedere l'occhiata che quel sottotenente scambiava con un altro. Grandioso. Un mistero che, senza dubbio, sarebbe finito per gravare sulle sue spalle.» Appoggiò la forchetta al piatto: l'appetito le era scomparso. «L'ammiraglio Serrano è una persona molto interessante» rispose. Era una cosa assolutamente innocente da dire... o almeno così sperava. Dall'espressione sorpresa dei due sottotenenti, forse no. «Non che la situazione non fosse allarmante.» Adesso tutti la stavano guardando. Un anno prima, avrebbe sentito di arrossire, ma la notorietà che le era venuta dalla corte marziale l'aveva almeno sbarazzata da quel problema. Sorrise alla tavolata. «Nessuno di voi ha mai servito con l'ammiraglio Serrano?» «No, signore» rispose il più anziano fra i sottotenenti. «Ma è una Serrano, e sono tutti più o meno uguali.» Il suo tono avrebbe voluto essere superiore, il tono di un uomo di mondo addentro a molti segreti, ma il fatto stesso che fosse così compiaciuto lo smentiva. Esmay sapeva tutte le cose che lui ignorava. Per la prima volta si rese conto che avrebbe anche potuto divertirsi con quella storia. «Non credo che la metterei così» disse, chinandosi leggermente in avanti. «Francamente, dopo avere servito sotto entrambe...» Era stata agli ordini dell'ammiraglio Serrano solo brevemente, e in modo molto indiretto, ma non era il momento di precisare questi dettagli. «Voglio dire l'ammiraglio Vida Serrano e il capitano di fregata Heris Serrano...» Ricordando così a tutti i presenti che se si mettevano in fila tutti gli ammiragli e tutti i capitani di fregata di nome Serrano si sarebbe coperta un buona parte di qualunque ponte. «Le ho trovate abbastanza differenti. E non si tratta solo di una questione di anzianità.» Lasciò che interpretassero quest'ultima affermazione come volevano. «Ma il capitano Serrano... voglio dire Heris Serrano... non è la nipote dell'ammiraglio?» Esmay sollevò le sopracciglia di fronte a questa incredibile mancanza di educazione. «Che cosa vorrebbe suggerire, di preciso?» «Be'... sa, si aiutano l'uno con l'altro. Voglio dire, essendo tutti così imparentati, no.» Esmay non si sarebbe mai immaginata che pregiudizi di questo genere
potessero colpire anche chi non proveniva, come lei, da un mondo estraneo alla Flotta. I Serrano erano praticamente l'aristocrazia della Flotta, una delle quattordici milizie private che si erano combinate a formare il Servizio Spaziale Regolare delle Familias Regnant. Nonostante la rabbia, la sua mente reagì come se qualcuno l'avesse colpita in un punto vitale, e così si mise in moto, correlando battute e insinuazioni che aveva sentito mesi, perfino anni prima, fin dal secondo anno alla scuola preparatoria. Le aveva sempre ignorate, attribuendole all'invidia o a un'irritazione momentanea. Ma se invece erano state fatte seriamente... se c'era davvero del risentimento contro i Serrano, e magari contro altri dei Primi Quattordici... qualcuno doveva saperlo. Lei avrebbe dovuto saperlo, e non perdere le staffe al punto da voler sbattere la testa di quel giovane sfacciato nella sua stessa zuppa. La sua rabbia si impennò, come un puledro ancora non addestrato, e lei la sottomise, sperando che nei suoi occhi non si cogliesse la fatica che le costava. «Penso che quando avrà un po' più di esperienza non penserà né tanto meno dirà cose di questo genere, sottotenente Callison» rispose Esmay con il tono più calmo che le riuscì di trovare. Callison divenne rosso e abbassò gli occhi. Qualcuno, che lei non riuscì a individuare, sghignazzò. La conversazione, naturalmente, morì lì. Esmay finse di consumare il resto della cena. Quando il tenente anziano picchiò una forchetta contro il bicchiere per ottenere silenzio, Esmay provò più sollievo che curiosità. Trovò difficile mantenere l'attenzione su chi era di servizio, e per poco non le sfuggì il fatto che la stava presentando. Si alzò, perdendo l'equilibrio mentalmente se non fisicamente, e annuì a facce che le sembravano solo macchie pallide e sfocate. Dopo cena si ritirò nel suo alloggio appena fu possibile. Era seccata con se stessa per il modo in cui aveva reagito alle insinuazioni sui Serrano. E poi come mai era così confusa? Di solito non faceva tutta quella fatica a ricordarsi i volti di persone appena conosciute. Pensandoci sopra, si rese conto che in effetti era da circa trenta ore standard che non dormiva. La nave trasporto era arrivata con il suo cronometro di bordo sfasato di un intero turno e mezzo rispetto alla Koskiusko. Era semplicemente sonno... per fortuna non aveva mai avuto troppi problemi a riprendersi da questi cambiamenti d'orario. Le bastava una buona nottata di riposo per rimettere a posto il suo orologio interno... e in quel momento, una buona dormita era esattamente ciò che più desiderava. Non era ancora
ufficialmente iscritta ai turni di guardia, e quindi poteva permettersi dieci ore di sonno ininterrotto. Le pareti del suo alloggio filtravano la maggior parte dei rumori... sentiva appena la musica che qualcuno stava ascoltando poco lontano, dum-dadum-dum, il ritmo dei bassi, ripetuto in continuazione. Era irritante, ma non le avrebbe impedito di dormire. Spense il pannello di stato e si distese in cuccetta. Ebbe appena il tempo di chiedersi se avrebbe avuto degli incubi, che cadde addormentata... ... Accanto a lei, Peli si sporse e gettò un lacrimogeno nel corridoio. Una linea di luce blu attraversò l'aria appena sopra la sua testa e lui si tirò rapidamente indietro. Esmay si premette i filtri nelle narici e guardò attraverso il visore del suo casco. Quando il fumo ostruì completamente la vista, i sensori del visore continuarono a darle una rappresentazione, anche se saltellante e in colori falsati, del corridoio. Strisciò lungo la paratia, sperando che quelli che gli stavano sparando addosso non avessero caschi come i loro. Credevano di essere arrivati all'armadietto dei caschi prima dei traditori, ma nessuno di loro giovani ufficiali sapeva quanti caschi ci dovevano essere. Davanti a lei, qualcuno si era riparato all'interno di un portello, con l'arma puntata. Esmay non ne vedeva il volto, ma sentiva, con la chiarezza dei microfoni esterni del casco, le parole: «Facciamo fuori questi stronzetti, e poi avremo solo Dovir di cui preoccuparci...» Imbracciò la sua arma e fece fuoco. L'immagine saltellante, rosa e verde, venne spazzata via, e qualcosa di caldo e bagnato le colpì il braccio. Lo ignorò. Continuò ad avanzare attraverso la nebbia fitta e urticante, l'attenzione concentrata sulle informazioni fornite dal visore... sapendo che dietro di lei Peli e gli altri la seguivano, che da qualche parte il maggiore Dovir era ancora a capo dei pochi ufficiali lealisti... La nebbia si sollevò gradualmente. Davanti a sé vedeva strisce bruciacchiate sulle paratie, non guardava il ponte se non quando vi era costretta, per non inciampare sugli ostacoli... Eppure, anche così li vide: mucchi di vestiti vecchi, sporchi e macchiati, gettati qua e là... non ci avrebbe pensato, non ancora, lo avrebbe fatto più tardi... ... Si svegliò coperta di sudore e col cuore che batteva all'impazzata. Più tardi. Più tardi era arrivato, ora che era al sicuro. Accese la luce sopra la cuccetta e rimase a fissare il soffitto. Non erano stati mucchi di vecchi vestiti: anche allora lo aveva saputo. Suo padre aveva avuto ragione, anche troppo: la guerra era brutta, poco importava dove si scatenava. Gli intesti-
ni, il sangue, la carne bruciata, puzzavano tanto in un'astronave quanto in una strada dove era passata una rivolta. E lei stessa aveva aggiunto qualcosa a quella puzza, a quell'orrore. Lei e gli altri subalterni avevano conquistato la nave con le armi, fino al ponte dove Dovir, ferito a morte, con gli intestini che gli sfuggivano dalle mani, le aveva rivolto quello sguardo già vitreo... e controllando a fatica la voce le aveva impartito gli ultimi ordini. Sbatté le palpebre, cercando di non piangere. Aveva già pianto, e non le aveva fatto bene. Si sentiva tutta viscida, bagnata di un sudore ormai freddo e scivoloso, le lenzuola umide e aggrovigliate attorno. Le venne in mente sua zia quando parlava degli effetti della menopausa. O qualcosa del genere. Si costrinse a ripensare al presente. Pensare a casa non l'avrebbe aiutata affatto. Secondo il suo cronometro, aveva dormito sette ore filate. Poteva tentare di riaddormentarsi... ma sapeva per esperienza che non avrebbe riposato bene. Meglio farsi una doccia e cominciare presto la sua giornata. A bordo il terzo turno era quasi finito. Nell'enorme sala delle docce non c'era nessuno; si mise sotto l'acqua calda e lasciò che le lavasse via l'odore della paura. Mentre ritornava verso il suo alloggio, in corridoio sentì la sveglia di qualcuno che suonava. Non la sua: l'aveva spenta. Poi, da un'altra porta, sentì un'altra sveglia. Riuscì a riparare all'interno della sua cabina prima che le sveglie finissero di suonare, e quando riemerse si trovò davanti due guardiamarina con gli occhi cisposi che si stavano dirigendo verso le docce, e un sottotenente che, appoggiato alla paratia, rivoltava l'orlo superiore degli stivali. «Signore!» dissero tutti quanti, mettendosi più o meno dritti. Esmay annuì, sentendo quel momentaneo alone di virtù che accompagna chi si è svegliato presto, ha già i denti lavati, e constata che i propri colleghi sono ancora più addormentati che svegli. Ma non si lasciò cullare da quella sensazione. Aveva del lavoro da fare: non solo imparare a conoscere la nave, come le aveva ordinato il maggiore Pitak, ma capire perché il cubo che le aveva dato e il database della nave erano tanto diversi. Tutto quel giorno, a parte brevi pause per mangiare frettolosamente, Esmay confrontò la nave reale con le due diverse rappresentazioni. I dati del maggiore Pitak erano corretti, tranne che per un caso, in fondo alla parte prodiera del T-1, sul ponte Tredici, dove né l'una né l'altra piantina avevano nulla a che fare con la realtà. Un portello era sparito del tutto, sostituito da una paratia dipinta a strisce vivaci. Mentre Esmay era ferma là davanti, a chiedersi che razza di codice rappresentassero quel-
le strisce, un secondo capo anziano e calvo uscì in fretta da un corridoio trasversale e corse verso di lei. «Ma cosa... oh, mi scusi, signore. Posso aiutarla?» A Esmay non era sfuggito il nervosismo... stava evidentemente succedendo qualcosa. Ma non toccava a lei scoprire che cosa. Invece, sorrise. «Sono il tenente Suiza» disse. «Il maggiore Pitak mi ha detto di familiarizzarmi con l'intera nave entro le otto del ventisette, e pensavo che qui ci fosse un portello che conduceva al magazzino parti elettroniche.» «Oh... il maggiore Pitak» rispose l'uomo. Evidentemente il maggiore Pitak era ben conosciuto anche al di fuori del suo piccolo regno. «Be', signore, il database della nave non tiene conto delle modifiche. L'accesso al magazzino elettronica è da quella parte.» Indicò. «Se vuole glielo mostro.» «Grazie» disse Esmay. Mentre si voltavano, aggiunse: «Questo codice di colori sulla paratia... è qualcosa che non ci hanno insegnato, oppure...?» Il collo del secondo capo arrossì. «È... probabilmente è un codice che può trovare solo su una CRSP, tenente. Vede, sono così grandi che... ecco, il capitano ha permesso di adoperare una segnaletica non regolamentare per permettere ai nuovi arrivati di orientarsi.» «Capisco» commentò Esmay. «Molto sensato... in effetti mi sono già persa diverse volte.» Il rossore svanì, e lei sentì che la voce del capo si rilassava. «Succede alla maggior parte della gente, tenente. Quei colori sono lì proprio per avvertire che quello che dovrebbe esserci secondo la piantina della nave non c'è più... non è che chi arriva qui abbia sbagliato strada, capisce, è che la strada non c'è più.» Qualcosa nella sua intonazione fece capire che strada aveva l'iniziale maiuscola. Esmay memorizzò quella leggera enfasi, per rifletterci in seguito, e seguì il capo verso l'esterno, poi in dentro di nuovo, fino a un portello su cui era scritto MAGAZZINO PARTI ELETTRONICHE. Sotto il cartello ufficiale qualcuno ne aveva aggiunto un altro. AVVERTIRE SEMPRE IL RESPONSABILE DI TURNO PRIMA DI RIMUOVERE QUALUNQUE PEZZO: SÌ, DICO A TE! Esmay ringraziò la sua guida ed entrò. Sembrava un magazzino come tanti altri, grande come ci si poteva aspettare da una base importante. C'erano scaffalature ricolme di contenitori etichettati con il numero dei diversi pezzi che contenevano; c'erano anche bidoni pieni dei pezzi di uso più comune. Un sottotenente che non aveva ancora incontrato emerse dal labirinto di scaffalature.
«Sher, sei tu... oh, mi scusi, signore.» Esmay spiegò di nuovo cosa stava facendo, e si presentò al sottotenente di vascello Forrest, che sembrava non vedere l'ora di mostrarle l'intero magazzino. «Mi chiedevo solo perché la mia cartina mostra l'entrata in un punto diverso.» «L'hanno spostata. È stato prima che io arrivassi» spiegò Forrest. «Lo so perché anch'io mi sono perso nel tentativo di trovare questo posto, quando mi hanno mandato qui dal Quattordicesimo. Questo magazzino è in comune con la Scuola Superiore... gli studenti sono sempre qui a cercare questo o quel pezzo. Per questo hanno spostato il magazzino. Non credo che aggiornino il database della nave abbastanza spesso, soprattutto perché qui siamo su una CRSP, e grande com'è, è importante sapere dove ci si trova. Ma lo sa come vanno le cose: nessuno chiede il parere di un sottotenente.» Esmay sorrise. «Lo so. E sospetto, per quanto la mia sbarretta sia ancora molto nuova, che nemmeno ai tenenti chiedano spesso un parere.» Almeno non finché non si trovavano nel bel mezzo di un ammutinamento e tutti gli altri ufficiali non erano morti. Ma quel ragazzino con i capelli color rame certe cose non le poteva sapere. «Lei dev'essere con il maggiore Pitak» disse quello, e di fronte alla sua espressione rise di nuovo. «Manda sempre i suoi nuovi arrivati in giro per gli angoli più incredibili della nave. Non sono mai stato assegnato a Scafi e Architettura, cosa per la quale ringrazio qualunque dio presieda alle assegnazioni degli incarichi.» «Almeno so dov'è questo posto, adesso» disse Esmay. «Farò meglio a cercare il prossimo posto dubbio sull'elenco.» Dopo aver passato anni a imparare come orientarsi in aperta campagna, nella estancia, non ebbe alcun problema a ripercorrere il suo cammino, e arrivò alla sezione degli alloggi degli ufficiali inferiori con tutto il tempo per rinfrescarsi prima di sedersi al suo tavolo in mensa. Ora che era sveglia e riposata, trovò molto più facile chiacchierare. Callison, il più anziano dei sottotenenti, aveva una laurea in ingegneria ambientale. Partrade, il più giovane, lavorava in amministrazione, una figura professionale che ancora veniva chiamata scribacchino, anche se c'era ben poco da scribacchiare con carta e penna, ormai. Dei cinque guardiamarina alla sua tavola uno era assegnato a Scafi e Architettura, due a Sistemi d'Arma, e gli altri due rispettivamente a Supporto Medico e Sistemi Informatici. Esmay si domandò se qualcuno di loro avesse mai servito a bordo di una
nave che si fosse trovata in combattimento, ma non se la sentiva di chiederglielo direttamente. Li aveva già sconvolti abbastanza la sera prima. Partrade però sollevò l'argomento senza che lei dovesse fare domande. «L'azione di Xavier è stata la sua prima esperienza di combattimento, tenente Suiza?» Esmay riuscì a non farsi andare i piselli di traverso. «Sì.» Fine dello scambio. «Io non ho mai servito a bordo di una nave da guerra» insistette Partrade, guardandosi in giro. «Penso che a nessuno qui sia mai capitato. Mi hanno messo subito in Segreteria Manutenzione, e sono sulla Koskiusko da cinque anni ormai.» «Io ero sulla Checkmate» intervenne uno dei guardiamarina. «Ma non abbiamo fatto mai niente di più che giri di pattuglia.» «Cosa di cui dovresti essere grato» disse Esmay prima di riuscire a fermarsi. Ora tutti la stavano guardando. Come odiava quella situazione. Si sentiva troppo giovane e al tempo stesso troppo vecchia. «Se il tenente non ne vuole parlare, non insistete.» A dirlo era stato il tenente al tavolo accanto, che Esmay riconosceva come quello che aveva incontrato fuori dal tubo ascensore. «La cena non è il momento migliore per farsi raccontare storie macabre, comunque.» Fece l'occhiolino a Esmay. Lei sorrise, nonostante tutto. «Ha ragione» disse alla sua tavolata. «Non è un argomento di cui parlare a tavola.» O a degli estranei, si rese conto. Ora capiva perché i veterani tendevano a isolarsi per raccontare le loro storie, e perché ogni volta che lei o qualcun altro dei giovani si avvicinava per ascoltare tacevano. «Qualcuno di voi ha qualche esperienza?» Era sorpresa di sentire nella sua voce lo stesso tipo di leggera enfasi nel pronunciare la parola esperienza che aveva sentito usare da ufficiali più anziani ed esperti di lei. Scossero tutti la testa. «Bene! Vuol dire che non saremo tentati di parlare di questo genere di cose a cena.» Il sorriso con cui accompagnò le parole bastò, sperava, a renderle meno pungenti. «Ora... Zintner, tu sei in Scafi e Architettura. Era quello che volevi fin dall'Accademia?» «Sì, signore.» Zintner, che doveva essersi alzata in punta di piedi per riuscire a raggiungere l'altezza minima richiesta, praticamente sprizzava scintille per l'entusiasmo. «La mia famiglia è sempre stata nelle costruzioni navali... be', da tanto tempo, comunque. Io volevo lavorare su scafi militari... è lì che ci sono tutte le idee più nuove.» «E questo è il tuo primo incarico?»
«Sì, signore. È bellissimo. Lei avrà incontrato il maggiore Pitak, sa tantissime cose il maggiore, e una volta che saremo fuori assieme allo schieramento lavoreremo un po' su tutto.» «Mmm. Io ho esperienza soprattutto di tecnologia dei sensori, di Scafi e Architettura non so molto. Probabilmente sarai tu a insegnarmi un sacco di cose.» «Io, signore? Ne dubito. Il maggiore mi ha messo a lavorare su un manuale, per il momento. Probabilmente chiederà al capo Sivers di occuparsi di lei.» Contraddire direttamente un superiore era piuttosto maleducato, ma il guardiamarina era così evidentemente entusiasta che non poteva avere avuto cattive intenzioni. Era semplicemente molto presa da quello che stava facendo. Era una cosa che Esmay capiva. Si voltò verso i sottotenenti. Callison era piacevolmente disponibile a discutere dei meno disgustosi fra i processi che facevano funzionare la nave, e aveva diversi aneddoti divertenti da raccontare di quando le cose non erano andate come dovevano. Non sarebbe mai venuto in mente a Esmay che poche uova di insetto trasportate a bordo con il fango incastrato negli scarponcini da montagna di qualcuno potessero diventare un problema serio, ma era quello che era successo su una certa nave. Il che portò Partrade a raccontare di quando un giovane tenente di cui per carità avrebbe taciuto il nome aveva sbagliato nel trascrivere una cifra e aveva mandato drammaticamente in rosso i conti della sua nave... tutti erano stati promossi una decina di volte, e l'equipaggio della nave perciò consisteva, secondo il computer, interamente di ufficiali, mentre il capitano risultava superiore in grado al comandante di settore. Una delle differenze rispetto a casa che Esmay trovava più gradevoli era proprio questa... il fatto di poter parlare di lavoro a cena. Su Altipiano, niente che avesse a che fare con il lavoro poteva essere menzionato a tavola, anche se tutti i commensali lavoravano insieme. Lo trovava innaturale... lì, anche se partivano dai loro doveri, avrebbero naturalmente e serenamente finito per parlare d'altro, nel frattempo sfogando le tensioni della giornata. «Pronta per l'esame?» chiese il maggiore Pitak non appena Esmay si presentò a rapporto. «Sì, signore» rispose. «Ma ho una domanda.» «Spari.»
«Come mai il database della nave non coincide con la realtà... né con la piantina sul suo cubo?» «Eccellente. Quante discrepanze ha rilevato?» Esmay sbatté le palpebre. Non era quella la reazione che si era aspettata. Cominciò a descrivere le differenze, partendo dalla prua e andando verso poppa. Pitak ascoltò senza fare commenti. Quando ebbe finito, Pitak prese un'annotazione sulla sua tavoletta. «Mi pare che le abbia trovate tutte. Bel lavoro. Lei mi ha chiesto perché esistono queste differenze. Ebbene, è una domanda a cui non so rispondere. Il mio sospetto è che dipenda dalle nuove subroutine intelligenti che proteggono attivamente i dati considerati particolarmente delicati. In altre parole, si tratta di un errore del software, ma non riusciamo a convincere i programmatori di sistemi della Flotta che si tratti di un problema. Probabilmente il loro punto di vista è che, dopo il varo, l'architettura interna non dovrebbe venire modificata, il che sulla maggior parte degli scafi è verissimo.» Esmay ci pensò sopra. «E quindi ogni volta che modificate la nave create dei nuovi cubi dati.» «Esatto. In effetti, a volte proviamo ad aggiornare anche il database principale, per un po'... di solito un'ora o giù di lì. Poi tuttavia si autoripara, correggendo quella che ritiene una corruzione dei dati.» «Però ci sono un paio di punti in cui anche il suo cubo non corrisponde alla realtà.» Pitak le sorrise. «Le ho dato un vecchio cubo dati, tenente... per vedere se avrebbe controllato fino in fondo. Vede, gli stupidi tornano da me tutti confusi, lagnandosi di non riuscire a orientarsi nella nave con il database di bordo. Quelli svelti controllano un paio di punti, e tornano con un elenco delle discrepanze fra il mio cubo e la piantina della nave. I buoni ufficiali che non hanno paura di lavorare fanno quello che ha fatto lei... controllano tutto. È questo che voglio nella mia sezione... chi trascura i dettagli, in Scafi e Architettura, perde le navi, mentre noi siamo qui proprio per salvarle.» «Sì... signore.» Esmay ci pensò su. Era un metodo efficace per separare i pigri e i distratti dai diligenti e prudenti, ma si chiedeva quanti altri trucchi tenesse in serbo il maggiore Pitak. L'aspettava un esame fra i più duri. «La ringrazio per la spiegazione, signore.» Pitak la guardò in modo strano. «Grazie a lei per aver superato l'esame, tenente... o non l'aveva ancora capito?»
No, non l'aveva capito, e si sentiva una sciocca. «No, signore.» Stupida, sciocca... si sentiva le orecchie bruciare, e sperava che il rossore non fosse visibile su tutta la faccia. «Be', o lei è una persona molto ottusa, oppure... oh, ma lei è uno schizzo di pozzo, naturalmente.» Questo ultimo commento venne pronunciato senza disprezzo, in tono riflessivo. «Schizzo di pozzo?» Era un termine che Esmay non aveva mai sentito prima, anche se sembrava peggiorativo. «Mi scusi. Le navi cantiere sviluppano il loro proprio gergo... a volte è praticamente un dialetto, anche se cerchiamo di non diventare troppo impenetrabili. Vuol dire Persone di Origine Planetaria, che sarebbe il termine ufficiale... qualcuno che è stato schizzato in orbita da un pozzo, un pozzo gravitazionale, un pianeta. E qualcuno di molto giovane, è solo allora che si riesce a vedere la differenza. Non ci si può aspettare che uno schizzo di pozzo capisca subito alla perfezione tutte le sfumature della struttura sociale della Flotta... quanto tempo fa si è arruolata, Suiza?» «Sono con la Flotta fin dalla scuola preparatoria, signore.» Esmay fece un rapido calcolo degli anni che aveva passato in quell'ambiente. Due nella scuola preparatoria, quattro in Accademia, un turno di servizio come guardiamarina, due come sottotenente di vascello. Se non aveva ancora capito come funzionavano le cose, quando mai sarebbe successo? Aveva pensato di avercela fatta: i rapporti la descrivevano sempre come "tranquilla e beneducata". In cosa aveva sbagliato, a parte essersi fatta coinvolgere in un ammutinamento? «Mmm. E poi lei è nella carriera tecnica.» Pitak le dedicò un lungo sguardo. «Sa, Suiza, dicono che noi tecnici siamo un po' ottusi in certe cose. Non mi sorprenderebbe se la cosa valesse anche per lei. A me non dà fastidio, e le procurerà molte meno grane qui che su una nave da guerra. Ma siccome non viene da una famiglia della Flotta, il mio suggerimento... suggerimento, badi, non ordine... è di aprire i sensori a una banda un po' più ampia.» «Sì, signore» rispose Esmay. Si sentiva girare un po' la testa. In cosa aveva sbagliato? Cosa era tanto ovvio per gli altri e non per lei? Sapeva di non avere più nessun accento, ci aveva lavorato tanto... ma adesso il maggiore Pitak era passata a parlare dei suoi progressi in altri campi. «Per farla ambientare in Scafi e Architettura, dovremo farle fare un paio di corsi di istruzione rapidi. Per ora non abbiamo altro da fare che un piccolo lavoro di riparazione esterna su una nave scorta... per quando lei avrà
terminato di digerire i nastri, avremo finito. Ci sarà più utile allora che adesso. Come se la cava con gli attrezzi? Si è mai occupata di fabbricare utensili di metallo? Ceramiche, plastiche...?» «Niente, signore.» «Mmm. Va bene. Prenda questi nastri, li porti giù alla scuola, e li ripassi tutte le volte che lo ritiene necessario. Poi torni qui e mi avverta, che la sistemo con uno degli istruttori. Deve sapere come viene effettuato un processo prima di poterlo supervisionare.» Questa era un'osservazione assolutamente sensata, e a lei non era mai dispiaciuto imparare cose nuove. «Sì, signore» disse, accettando un'altra pila di nastri per le macchine. «Probabilmente saremo già in partenza con lo schieramento per quando lei avrà finito con quei nastri» disse ancora Pitak. «Si prenda il tempo che le serve.» Poi scosse la testa. «Mi scusi, so che lei è per natura una persona precisa. Non devo certamente mettere in guardia lei contro la fretta eccessiva.» «Signore.» Esmay indietreggiò, sentendosi preda di sentimenti conflittuali. Una parte della sua mente si sentiva offesa e ferita; l'altra si sentiva orgogliosa e sicura di sé. Trovare il tempo per studiare i nastri fu molto più complicato di quanto pensasse. I tecnici che si occupavano delle macchine le spiegarono il perché. «Una nave cantiere come questa ha bisogno di più specializzati di qualunque altra nave. E devono sapere tutto, tutto sulle navi vecchie, sulle navi nuove, tutto su quello che s'inventano per renderci il lavoro di rimetterle a posto più facile. La gente qui si aggiorna di continuo. Il resto della Flotta crede solo di fare aggiornamento, con le loro prevedibili esercitazioni ogni tot giorni. Ma ce la faremo a infilarla da qualche parte, tenente, non tema. E poi il maggiore Pitak conosce la situazione: non gliene farà una colpa.» Comunque, ci sarebbero voluti almeno tre giorni standard prima che Esmay potesse ottenere una macchina, e anche allora sarebbe stato solo durante il terzo turno. «Non avete niente del genere che possa studiare con il mio lettore di cubi?» chiese. Il tecnico usò il suo scanner per leggere i titoli dei nastri. «Sì, ma questa è roba davvero tecnica, tenente, e quello che ho su cubo è molto più semplice. I manuali intermedi sono tutti fuori... anzi, avrebbero già dovuto restituirmeli, in effetti.» «Prenderò i manuali di base» decise Esmay. «Mi farà bene un ripasso.»
Prese i cubi e consegnò i nastri ai tecnici, che li conservassero per quando fosse arrivato il suo turno. Tornata nel suo alloggio, inserì il primo cubo. Un'ora più tardi era veramente contenta di non aver potuto ottenere una macchina subito. Il cubo di livello di base era già molto al di là della sua preparazione. Si appoggiò allo schienale, sbatté le palpebre e si rese conto che avrebbe dovuto procedere a piccole dosi. Era quasi ora di pranzo. Non aveva fame, però si sentiva rigida e stanca. Quello di cui aveva bisogno era un po' di esercizio fisico. Si cambiò, mettendosi pantaloncini e scarpe imbottite, e seguì le indicazioni (una volta tanto coincidenti) della nave e del cubo del maggiore Pitak per l'area ricreativa degli ufficiali subalterni. A parte le dimensioni, era molto simile a tutte le palestre che aveva visto su altre navi. File di macchine per esercitare questo o quel gruppo di muscoli, spazi delimitati per i giochi a due, un grande spazio aperto dotato di materassini per la lotta e la pratica di combattimento a mani nude. Una mezza dozzina o poco più di ufficiali occupavano le varie macchine, e due stavano allenandosi nella lotta sui materassini. Controllò i fogli di prenotazione. Erano sempre pochissime le macchine prenotate: poteva usare quello che voleva. Evitò i simulatori di equitazione, e salì su una macchina che in teoria doveva riprodurre una camminata sulla neve. Non aveva un particolare desiderio di camminare sulla neve, lo aveva fatto dal vero, ma era sempre meglio che fingere di cavalcare un cavallo in realtà costruito con pistoni e leve. Aveva appena cominciato quando qualcuno la chiamò per nome. Si girò. Era uno dei guardiamarina che sedevano al suo tavolo... Custis? No, Dettin, il tizio biondo con la sbucciatura, che ormai era guarita. «Mi chiedevo se accetterebbe di parlare dell'affare Xavier al nostro gruppo di studio tattico» le chiese. «Non necessariamente di quello che ha fatto lei, anche se naturalmente ci piacerebbe sentirlo, ma come ha visto la battaglia, da un punto di vista generale.» «Non ho visto la battaglia da un punto di vista generale» replicò Esmay. «Siamo arrivati un po' tardi, come forse ha sentito.» «Tardi?» Corrugò la fronte. Possibile che fosse tanto ignorante? «Il capitano della nave su cui mi trovavo era un...» era incredibilmente difficile dire ad alta voce traditore a un ragazzino così giovane. «Il capitano Hearne aveva lasciato il sistema di Xavier prima della battaglia» disse. Non sapeva perché l'aveva messa in quel modo: non aveva mai avuto tutta questa gran simpatia per il capitano Hearne. «È stato solo dopo...» l'ammu-
tinamento era un'altra parola difficile, ma questa volta le uscì. «Solo dopo l'ammutinamento, quando tutti gli ufficiali superiori erano morti, che ho riportato la nave laggiù.» Non si aspettava quell'espressione sul suo volto, l'espressione di chi ha appena visto tutti i suoi sogni più impossibili avverarsi. «Lei... ma è come in Stelle d'argento.» «Stelle d'argento?» «Sa, la serie di giochi di avventura.» Era talmente scossa che perse il controllo. «Non è stato neanche lontanamente come un gioco d'avventura!» L'altro non raccolse. «No, ma nell'ottava serie, quando il giovane signore deve sconfiggere il principe malvagio e poi condurre le navi in battaglia...» «Non si è trattato di un gioco» insistette Esmay, con fermezza ma meno calore. «C'è gente che ci ha perso la vita.» «Lo so» disse il guardiamarina, seccato. «Ma nel gioco...» «Mi dispiace» tagliò corto Esmay. «Io non mi occupo di giochi di avventura.» "Faccio solo la guerra" avrebbe voluto dire, ma non lo fece. «Ma parlerà al mio gruppo tattico?» Ci pensò sopra. Forse sarebbe stata in grado di spiegargli la differenza fra i giochi e la realtà. «Sì» decise. «Ma dovrò controllare i miei impegni. Quando vi riunite?» «Ogni dieci giorni, però possiamo spostare la riunione, se vuole.» «Controllerò» disse Esmay. «Adesso devo finire la mia serie di esercizi.» Il guardiamarina se ne andò, ed Esmay continuò a esercitarsi fino a che non sentì di avere scacciato non solo la rigidezza dello studio, ma anche la rabbia irragionevole che aveva provato nell'essere paragonata all'eroe di un gioco. Quando ebbe avuto il tempo di calmarsi e raffreddare i muscoli, cominciò a chiedersi se aveva fatto bene ad acconsentire così facilmente... anche se non avevano ancora concordato una data. Era il caso che discutesse la storia di Xavier con dei semplici guardiamarina? Comunque, se parlava del suo ruolo il meno possibile, e discuteva di come Heris Serrano era riuscita a resistere a una forza molto superiore, di certo non poteva fare danno. 9 Stava cercando di pensare chi potesse consultare a proposito della sua piccola conferenza, quando si ricordò che doveva ancora fissare l'appun-
tamento con l'ammiraglio Dossignal. Questo, mentre studiava faticosamente i suoi cubi di livello elementare, era il momento ideale per vederlo. Si mise in contatto con il segretario del capitano di fregata Atarin, e un'ora più tardi le arrivò un messaggio in cui si diceva che l'ammiraglio l'avrebbe ricevuta alle 13.30. Così, con un quarto d'ora d'anticipo, si presentò davanti all'ufficio dell'ammiraglio, dove trovò il capitano di fregata Atarin che stava riconsegnando una pila di cubi. «Come va a Scafi e Architettura, tenente?» «Molto interessante, signore. Il maggiore Pitak mi ha messo a studiare, visto che non ho esperienza nel suo campo.» «Bene, è un ufficiale molto preciso. Ha già fatto l'esame della nave?» «Come prima cosa, signore.» «Ah.» Le sopracciglia del capitano si sollevarono e poi si riabbassarono. «Be', si vede che l'ha passato, o lo sarei venuto a sapere. Buon per lei. Come va in mensa? Si sta integrando?» «Bene, signore» disse Esmay. «La nave è troppo grande, nessuno riesce a conoscere tutti qui dentro. A volte arrivando da navi più piccole la gente lo trova un po' inquietante. Se ha degli interessi particolari, forse dovrebbe guardare l'elenco dei gruppi ricreativi. Incoraggiamo la gente a formare dei legami al di fuori del loro gruppo di lavoro, o anche del loro comando.» «Be', signore, in effetti il gruppo di discussione tattico degli ufficiali subalterni mi ha chiesto di andare a parlargli dell'azione a Xavier.» «Oh? Be', non era esattamente quello che avevo in mente, ma è un inizio. E hanno dimostrato una certa iniziativa nel chiederglielo... chi è stato?» «Il guardiamarina Dettin, signore.» «Mmm... Non lo conosco questo Dettin. Ma sono sicuro che tutti quanti hanno sentito parlare di Xavier, e sono curiosi di saperne di più. Potrei fare un salto anch'io...» Era una minaccia, un avvertimento, o semplice interesse? «Ah... l'ammiraglio è pronto a riceverla.» L'ammiraglio Dossignal era un uomo alto con lineamenti accidentati come una parete di roccia e mani nodose sempre occupate a tormentare qualcosa sulla scrivania. Nonostante questo, sembrava più rilassato del capitano Hakin e notevolmente più ben disposto nei suoi confronti. «Ho letto sul suo dossier le annotazioni della commissione d'inchiesta, tenente Suiza... e anche se comprendo la loro preoccupazione per le decisioni che lei ha preso, non la condivido. Ho una fiducia completa nella sua
lealtà alle Familias Regnant.» «Grazie, signore.» «Non sono necessari ringraziamenti, tenente. Anche se è necessario far uscire allo scoperto gli altri traditori che di sicuro ci sono nella Flotta, perché Garrivay e i suoi complici non potevano essere gli unici, dobbiamo tuttavia avere fiducia gli uni negli altri, o non avremo alcuna coesione.» Fece una pausa, ma Esmay non trovò niente da dire. Quando riprese a parlare, l'ammiraglio lo fece con un tono diverso, e molto meno solenne. «Mi pare di capire che lei e il maggiore Pitak andiate d'accordo... e come va con Seveche?» «L'ho incontrato appena, signore» rispose Esmay. Il capo di Scafi e Architetture le aveva parlato solo brevemente; quando lo aveva visto le era sembrato ancora più indaffarato del maggiore Pitak. «Sono sicuro che questo l'ha già sentito, ma devo dire che è molto insolito che ci venga assegnato un tenente che non ha fatto una delle scuole superiori tecniche. Lei probabilmente dovrà studiare un bel po'...» «Sono già prenotata per diversi corsi, signore.» «Bene. Secondo il suo dossier, lei impara in fretta, ma la manutenzione pesante è lo studio di una vita.» Tornò a guardare lo schermo sulla sua scrivania. «Vedo che di recente è stata in licenza sul suo pianeta di origine. Come ha reagito la sua famiglia a tutta la pubblicità?» Esmay cercò di dirlo con tatto. «Sono... andati un po' sopra le righe, signore.» «Ah? Oh, vuol dire la medaglia?» Naturalmente era già nel suo dossier. «Sì, signore.» «Ma quello era il governo, non la sua famiglia... Lei ha... un padre, una matrigna, dei fratellastri?» «Sì, signore. E zie, zii, cugini... è un clan piuttosto grande, signore.» «E approvano che lei si sia arruolata?» Gli occhi, castani e cordiali, si erano fatti acuti. «Non... del tutto, signore. Almeno all'inizio. Adesso sì.» «Non abbiamo nessun altro ufficiale proveniente dal suo pianeta, sa. L'ultima è stato trent'anni fa.» «Meluch Zalosi, sì, signore.» Un Zalosi della Coarchia, che non esisteva più ma che era stata, a quel tempo, una forza politica di tutto rispetto. Gli Zalosi, però, erano servi del Coarca. Meluch, così dicevano le voci, era stato il figlio illegittimo della Coarca Tributine e di una guardia Zalosi, mandato a crescere in campagna da un lontano parente. Si era poi scoperto che
aveva le tipiche sopracciglia piumose della linea dei Coarchi, un tratto dominante, e quando aveva passato l'esame d'ingresso della Flotta a tutti era sembrata la soluzione migliore. Nessuno aveva chiesto il parere del diretto interessato: era uno Zalosi, andava dove la Coarchia ordinava. «Mi chiedevo» continuò l'ammiraglio Dossignal, interrompendo le sue riflessioni «come mai così pochi? Altipiano è, mi pare, un mondo agricolo. Di solito abbiamo sempre molte reclute dai mondi agricoli.» «Non è il classico mondo agricolo, signore.» Esmay fece una pausa, chiedendosi quanto doveva spiegare. L'ammiraglio aveva a disposizione tutte le informazioni necessarie, se le voleva. «E come mai?» chiese. Forse gli interessava solo la sua analisi, non i dati grezzi. «Le nascite non sono libere» spiegò Esmay succintamente. Tutte le altre spiegazioni si riconducevano a quella: con la crescita demografica sotto controllo, non c'erano braccia oziose da spedire nello spazio. Gli immigrati dovevano sottoscrivere la politica di controllo delle nascite prima di essere accolti; se già si erano riprodotti, dovevano accettare di venire sterilizzati. «Ma la sua famiglia... quanti fratelli ha detto di avere?» «Due, signore. Ma sono della seconda moglie di mio padre, sono le sue licenze.» Non aggiunse quello che probabilmente l'ammiraglio poteva immaginare, e cioè che le limitazioni delle nascite erano applicate con minore rigidità a certe famiglie. Suo padre avrebbe potuto avere altri figli, ma aveva trasferito le licenze che gli restavano a Sanni, che li desiderava di più. «Ah... capisco. E che atteggiamento hanno verso il ringiovanimento?» Esmay esitò. «Io... so solo come la pensano mio padre e mio zio. Si sono detti preoccupati per gli effetti sulla stabilità demografica, anche se ritengono che un aumento generalizzato dell'esperienza avrebbe un effetto positivo.» «Mmm. Dunque gli ufficiali anziani su Altipiano non sono stati ringiovaniti?» «No, signore.» «Ha avvertito del risentimento nei confronti delle Familias sotto questo aspetto?» Esmay si sentiva a disagio, ma disse la verità, per come la conosceva. «No, signore, nessuno. Altipiano è indipendente, e come l'ammiraglio senza dubbio sa, non abbiamo alcuno sponsor con un seggio nel Consiglio, perciò la politica decisa dal Consiglio ci concerne solo nella misura in cui influenza la legislazione sul commercio.»
«Ci sono stati dei disordini, soprattutto da quando è venuto alla luce quel problema su Patchcock» disse l'ammiraglio. «E c'è una forte opposizione politica al ringiovanimento, basata sul timore che i vecchi ricchi sfruttino i poveri che non possono permettersi il ringiovanimento.» «Credo che nessuno su Altipiano si senta sfruttato dalle Familias» disse Esmay. «Occasionalmente, l'uno dall'altro, forse...» Non solo occasionalmente, ma non vedeva come chiarire meglio la situazione, con la sua limitatissima conoscenza della politica interna di Altipiano. Non disse la prima cosa che le era venuta in mente, cioè che chiunque volesse sfruttare Altipiano si sarebbe preso una bella gatta da pelare. «Sono contento di sentirlo» disse l'ammiraglio. «Ci incontreremo di tanto in tanto, gli ufficiali del Quattordicesimo si riuniscono regolarmente... il capitano di fregata Atarin le saprà dire quando ci sarà la prossima occasione.» «Sì, signore. Grazie.» La prima cosa che Esmay fece, di ritorno dal suo incontro con l'ammiraglio, fu di consultare un diagramma dei vari comandi a bordo della CRSP. Pensava di avere capito come fosse la catena di comando, e chi facesse rapporto a chi e su che cosa... ma diverse cose che l'ammiraglio le aveva detto l'avevano confusa. Poche ore più tardi, era solo un poco meno confusa, ma in compenso si era parecchio divertita. Con poche eccezioni, e le CRSP erano quella principale, le navi della Flotta avevano una struttura di comando molto semplice, con il capitano in cima a tutto, e l'autorità che scendeva di grado in grado dagli ufficiali fino ai marinai semplici. Un ammiraglio a bordo di una nave ammiraglia non aveva alcuna autorità diretta sull'equipaggio di bordo: tutti gli ordini dovevano passare attraverso il capitano della nave. Ma le dimensioni delle nuove CRSP avevano indotto in tentazione la Flotta, che aveva finito per considerarle delle basi militari mobili. Piuttosto che mantenere scuole superiori di addestramento tecnico e laboratori al quartier generale di settore, si era deciso di metterle a bordo della Koskiusko, che tanto aveva bisogno dello stesso equipaggiamento che serviva scuole e laboratori. E così la Koskiusko aveva più di un comando, ciascuno con un ammiraglio a capo, e tutti che dovevano usufruire degli stessi servizi, a volte perfino degli stessi esperti, per scopi completamente differenti. Se la Flotta avesse voluto creare un perfetto laboratorio per lo sviluppo di dispute territoriali, non avrebbe potuto inventarsi niente di meglio. Esmay trovò nei documenti che stava consultando le tracce e a volte i
detriti ancora fumanti di tali passate battaglie. Per esempio: la Manifattura Materiali Speciali avrebbe dovuto servire il Quattordicesimo Cantiere Manutenzione Pesante provvedendo a fornire tutti i materiali necessari per mantenere l'intero repertorio di parti strutturali per la riparazione. Però era anche al servizio delle Scuole Tecniche Superiori, i cui allievi dovevano imparare a costruire tali materiali, e del Laboratorio di Ricerca Materiali Speciali, dove i più innovativi scienziati dei materiali lavoravano allo sviluppo di nuove sostanze dalle proprietà esotiche. Durante il primo schieramento della Koskiusko, si era innescata una spaventosa baruffa fra il Quattordicesimo Manutenzione Pesante, che voleva aumentare la produzione di parti strutturali con materiali a struttura cristallina, e gli altri due comandi, che insistevano per avere tempi minimi garantiti di accesso alla Manifattura per poter svolgere la loro missione. La baruffa aveva lievitato per tutte le varie catene di comando e in conclusione, per metterla come diceva Pitak, gli ammiragli interessati erano stati "chiusi a chiave in una stanza fino a che uno solo di loro fosse emerso vincitore". La soluzione di compromesso, che era stata nonostante tutto raggiunta con tutti gli ammiragli ancora vivi e non del tutto domi, non aveva soddisfatto pienamente nessuno, ma tutti ne erano usciti con l'impressione che lamentarsi non avrebbe potuto che peggiorare le cose. Perfino la tradizionale divisione fra l'equipaggio della nave e i suoi passeggeri era un po' più indistinta a bordo della nave cantiere. Anche se in teoria il capitano Hakin aveva l'ultima parola riguardo alla sicurezza e al funzionamento della nave, il suo equipaggio era di gran lunga molto meno numeroso del personale del Quattordicesimo Cantiere Manutenzione Pesante. Quando uno dei passati comandanti del cantiere aveva deciso che era necessario installare una struttura di raccordo fra il T-3 e il T-4, fra le due stive d'attracco laterali, lo aveva fatto senza tanti scrupoli. Esmay trovò il furibondo scambio di corrispondenza fra l'allora capitano della nave e l'ammiraglio che comandava il Quattordicesimo Manutenzione Pesante, e infine la direttiva del quartier generale di settore che la struttura incriminata dovesse restare al suo posto. Il capitano della nave era stato trasferito altrove. Per forza che l'architettura interna della nave non corrispondeva al progetto nel database, e che tutti dovevano ricorrere ai cubi per stare dietro ai cambiamenti! Al livello superiore a quello della nave, la catena di comando sembrava più che altro un grafico ad albero. Il superiore del capitano Hakin era
l'ammiraglio Gourache, comandante dello schieramento, il cui superiore era il comandante del Quattordicesimo Settore, l'ammiraglio Foxworth. L'ammiraglio Dossignal, però, visto che era responsabile di tutti i servizi di manutenzione del settore, rispondeva direttamente al comandante di settore. L'ammiraglio Livadhi invece era il rappresentante del ramo Addestramento nel settore, ma non era affatto sottoposto agli ordini del comandante di settore: l'intera funzione didattica era stata avocata direttamente dal quartiere generale della Flotta sessant'anni prima. Allo stesso modo, il comando medico aveva la sua catena di comando separata, che faceva capo all'ammiraglio generale Boussy, a Rockhouse. Suo padre non avrebbe mai tollerato una simile confusione. Su Altipiano, il servizio medico militare era decisamente e formalmente subordinato al comando operativo. Sì, ed era per questo che era stato in grado di nascondere il suo trauma, le ricordò la sua memoria. Nessuno poteva mettersi a discutere con l'eroe della guerra... Non era giusta nei confronti di suo padre. Non era nemmeno sicura di essere stata ricoverata in un ospedale militare. E comunque non voleva pensarci. Rimise a posto il lettore: ormai conosceva abbastanza bene la struttura di comando. Avrebbe potuto cominciare a preparare la sua presentazione al gruppo di discussione, che si sarebbe riunito due giorni dopo. Il personale della Koskiusko era pari alla popolazione di una piccola città o di una grande stazione spaziale, e l'elenco degli ufficiali da solo era lungo quanto l'intero equipaggio di una nave normale. Esmay questo lo sapeva, ma quando vide la massa di guardiamarina che affollavano la sala conferenze e debordavano nel corridoio, i numeri si fecero esperienza concreta. «Non fanno tutti parte del suo gruppo di discussione, vero?» chiese al guardiamarina Dettin, che si era offerto di presentarla. «No, signore. Ma un sacco di altra gente voleva venire a sentire... cerco di farne uscire un po', perché sono troppi per le norme di sicurezza...» Esmay lo vedeva da sola. Tutti i posti a sedere erano stati occupati da un pezzo; i guardiamarina erano seduti davanti al podio, ginocchio contro schiena, e pigiati gli uni contro gli altri nei corridoi e nei passaggi laterali. Stavano persino ostruendo il corridoio esterno. Guardò Dettin che cercava senza successo di farli uscire. Avrebbe dovuto, si rese conto, avvertire qualcuno con maggiore anzianità di lei di quella discussione... se avesse immaginato che ci sarebbero stati più di una doz-
zina di guardiamarina, l'avrebbe fatto senz'altro. Dettin non riusciva a ottenere niente, e la responsabilità era sua. Prese il microfono. «Scusatemi» cominciò. Cadde il silenzio, interrompendo le discussioni a metà parola. «Quanti di voi sono membri regolari del gruppo di discussione tattico?» Si alzarono un certo numero di mani, più o meno quelle che si era aspettata in origine. «Questa discussione era prevista per quel gruppo soltanto» disse Esmay. «Non possiamo tenere una simile folla qua dentro, è pericoloso. Quelli di voi che non fanno parte del gruppo di discussione dovranno uscire, fino a che tutti i membri del gruppo non avranno un posto a sedere. Poi vedremo quanti degli altri potremo far assistere.» Ci furono dei borbottii di protesta, ma erano guardiamarina e lei un tenente. Quelli che si erano incastrati gli uni negli altri nel corridoio cominciarono ad alzarsi goffamente. Quelli sul davanti rimasero seduti, forse sperando di essere risparmiati, ma Esmay gli rivolse un'occhiata severa. Lentamente, e con esagerata difficoltà, si tirarono su e cominciarono a uscire. Da fuori Esmay sentiva delle voci che protestavano, ma avrebbe affrontato una cosa per volta. Alcuni di quelli che si erano seduti si erano alzati in piedi; altri restavano seduti, come incollati alla sedia. Sperava che fossero tutti membri del gruppo di discussione. «Guardiamarina Dettin.» Dettin sembrava imbarazzato. «Si assicuri che tutti quelli che fanno parte del gruppo di discussione abbiano un posto a sedere... lei li conosce tutti, vero?» «Sì, signore.» «Quando saranno tutti seduti, se va bene agli altri, a me non dispiace che si occupino i posti liberi. Ma niente di più.» «Signore.» Il guardiamarina si guardò in giro, muovendo le labbra mentre ripassava evidentemente un elenco mentale. «Ci sono tutti tranne due, che potrebbero essere fuori.» «Vada a vedere se li trova. Li chiami per nome.» Dettin riuscì a farsi strada fino alla porta e chiamò i nomi in corridoio. Sulla porta si era formato di nuovo un coagulo di guardiamarina, ma finalmente gli ultimi due riuscirono ad aprirsi un varco a gomitate fin dentro la sala. A quel punto restavano posti liberi per un paio di dozzine di altri spettatori, calcolò Esmay. Sarebbe stato meglio inventarsi un modo equo di assegnare i posti, ma ormai era tardi. La gente si precipitò dentro molto più in fretta di quanto fosse uscita, e in un batter d'occhio tutti i posti furono occupati.
Dettin la presentò, con la voce che tremolava per l'eccitazione. Poi le luci si attenuarono, tranne che sopra di lei. Le giovani facce entusiaste scomparvero in una macchia indistinta da cui emergevano chiaramente solo occhi e denti. Esmay non se l'era aspettato, ma dopo essere stata esposta in piena vista alla disapprovazione di una sfilata di ufficiali generali, non si sarebbe certo scomposta per un semplice riflettore. Aveva preparato un cubo da proiettare con le stesse informazioni che aveva esposto alla corte marziale: la geometria del sistema di Xavier, la disposizione delle navi della Flotta, le navi xavierane e civili che erano presenti, il numero e l'armamento degli invasori. Aveva ripetuto questi dati talmente tante volte, per il suo avvocato, per la Commissione d'Inchiesta, per la corte marziale, che avrebbe potuto spiegare anche nel sonno quanto fosse disperata l'inferiorità numerica di Serrano, anche prima che Hearne passasse al nemico. Quando proiettò il primo schema, dal suo pubblico venne un leggero sospiro collettivo. Mentre recitava la familiare sequenza di avvenimenti ci fu silenzio assoluto. Alcune cose le sapeva solo perché le erano state riferite, e lo disse. Ma gli eventi si succedevano in modo talmente avvincente che a nessuno importava: l'incursione della Benignità, le due navi della Benignità che erano rimaste indietro... forse una nuova tattica, forse solo qualcosa che non aveva funzionato. Nessuno lo sapeva di sicuro. L'attacco coronato da successo a quelle due navi, i danni sostenuti dalla nave-madre d'assalto, l'imboscata della vedetta-killer. Il tentativo di impegnare il nemico a fondo, che era durato fino all'arrivo a Xavier, la perdita della stazione spaziale, i danni sostenuti dalle città su Xavier. «Solo una bruciatura, in fondo» sentì borbottare da qualcuno. Esmay si fermò di botto. Il silenzio, spesso e teso, ritornò. Esmay non riusciva a vedere, oltre la luce dei riflettori puntati su di lei, chi avesse parlato. «Solo una bruciatura... C'è qualcuno qui che pensa che una bruciatura sia un problema secondario? Adesso vi faccio vedere i filmati...» E passò a proiettare su un lato dello schermo immagini della capitale di Xavier precedenti all'attacco: una piccola città di ampie strade e bassi edifici di pietra, di giardini e parchi ombreggiati. Era un filmato che proveniva dagli archivi della Flotta: tutta la documentazione presente su Xavier era stata distrutta. Sull'altro lato dello schermo si vedeva una distesa irregolare di macerie, i resti spezzati di qualche albero, le languide colonne di fumo che si avvolgevano su se stesse per il loro stesso calore, una squadra di personale della
Flotta in tuta protettiva che valutava i danni. La telecamera aveva zumato sui cadaveri, umani e animali. Esmay riconobbe il corpo di un cavallo, anche se forse era la sola lì dentro a poterlo fare. «Tutti i centri urbani» spiegò «sono stati ridotti in questo stato. Il fuoco ha distrutto tutti gli insediamenti isolati, oltre a milioni di ettari di pascolo e terreno coltivato. Una bruciatura serve a lasciare il pianeta a malapena abitabile per le truppe della Benignità, con ritorno alla produzione agricola non prima di tre-cinque anni. Non resta molto a quelli che ci vivevano.» «Ma non sono morti tutti, vero?» chiese qualcuno. «No, grazie alla lungimiranza del capitano di fregata Serrano e del loro stesso governo. La maggior parte della popolazione è riuscita a salvarsi rifugiandosi in luoghi remoti e disabitati. Hanno trovato delle caverne, mi dicono. Ma la loro base produttiva è scomparsa. Ci vorrà una generazione, se non due, per recuperare quello che hanno perso.» Si immaginava come doveva essere andata: Altipiano aveva sofferto dei danni non molto diversi durante le guerre di successione, quando il loro Fondatore era morto. Anni di fame, prima che si potesse tornare a far produrre la terra. E altri anni, molti, in cui il minimo necessario per non morire di fame non bastava più. E lontani com'erano, su Xavier non si potevano aspettare troppo aiuto dal resto delle Familias, almeno non dopo che qualche altra crisi gli avesse rubato l'attenzione del pubblico. Tornò il silenzio, ma questa volta aveva un sapore diverso. «Cominciamo con la situazione come si è presentata al comandante Serrano.» Esmay cambiò la proiezione, per mostrare di nuovo il sistema di Xavier. «Xavier subiva già da alcuni anni incursioni periodiche da parte di quelli che sembravano razziatori indipendenti. Avevano minacciato la stazione orbitale, e in effetti l'avevano danneggiata in più di un'occasione. La difesa di Xavier consisteva interamente di navi di classe Demoiselle, obsolete e a cui non riuscivano a fornire la necessaria manutenzione; di quelle navi, solo una era realmente in grado di affrontare lo spazio al momento. Le altre erano state smontate per ricavarne parti di ricambio che permettessero almeno a quella rimasta di funzionare. Xavier si trova fuori dalle rotte commerciali regolari, ed esporta i suoi prodotti agricoli principali, più che altro sperma, uova ed embrioni congelati di animali di grandi dimensioni, servendosi di vascelli privati di proprietà degli abitanti del luogo. Praticamente tutta la produzione industriale viene usata sul posto, per la costruzione di infrastrutture.» Esmay non aveva saputo nulla di tutto quello prima di leggere il rappor-
to di Heris Serrano all'ammiraglio. Aveva trovato facile seguirlo, perché Xavier e Altipiano avevano molto in comune. «Il governo locale aveva ingaggiato il comandante Serrano, che in quel momento comandava un piccolo yacht civile, per difenderli contro una eventuale nuova incursione. Com'era da prevedersi» si permise un sorriso «l'incursore, quando arrivò, non aveva alcuna possibilità.» «Quanto era grande?» chiesero dal fondo della stanza. «Secondo i rapporti dei sensori di ricognizione, era un incursore del mondo di Aethar...» Esmay mise sullo schermo tutte le specifiche. «Il comandante Serrano aveva anticipato la sua rotta d'attacco, ed è stata in grado di coglierlo di sorpresa.» «Ma non è finita lì la battaglia, vero? Un incursore da niente e basta?» «No, certamente no.» Esmay cambiò di nuovo l'immagine sullo schermo, per mostrare la posizione relativa del sistema di Xavier rispetto al territorio delle Familias e della Benignità. «Il tecnici addetti ai sensori di Serrano notarono un'altra nave nel sistema, che sembrava essere un osservatore... e il comandante sospettò che l'attacco dell'incursore servisse semplicemente a sondare il terreno per una vera e propria spedizione di invasione. Trasmise le sue preoccupazioni al più vicino quartier generale della Flotta.» «E incappò in un mucchio di traditori» borbottò qualcuno da circa metà della platea. «Non un mucchio» corresse Esmay. «La maggior parte degli ufficiali e degli equipaggi delle tre navi erano leali, o le cose sarebbero andate molto diversamente. La Flotta inviò in suo soccorso una piccola forza, al comando di Dekan Garrivay. Due navi pattuglia e un incrociatore. I capitani di tutte e tre le navi erano pronti a cooperare con la Benignità, ma non si può dire lo stesso degli altri che erano a bordo.» «Quanti erano i traditori esattamente, e come facciamo a sapere che sono stati scoperti tutti?» «Non conosco la risposta a nessuna delle due domande» disse Esmay. «Alcuni sono morti quasi subito, ed è impossibile stabilire da che parte stessero. Ed è possibile, anche se molto improbabile, che alcuni dei traditori non siano venuti allo scoperto durante i combattimenti che hanno avuto luogo a bordo delle navi. L'ultima stima che ho visto valuta che i traditori fossero fra il cinque e il dieci per cento del personale presente a bordo, fra ufficiali e marinai semplici.» Osservò il suo pubblico gettare occhiate furtive ai loro vicini, calcolando
quanti in quella stanza sarebbero stati traditori se la proporzione fosse stata la stessa. «Naturalmente, la maggior parte di loro si trovavano nei posti più importanti, ed erano ufficiali di grado abbastanza elevato. Cinque guardiamarina traditori non servirebbero al nemico quanto un capitano e il suo tecnico capo dei sensori. Il problema per la Benignità, da quel che ho capito, è che il loro progetto su Xavier imponeva a quelli che da tempo erano segretamente loro agenti di rivelarsi l'uno all'altro... il che era molto rischioso. Questa necessità di conferire fra di loro è stata la loro rovina.» Esmay accennò appena al metodo, ancora protetto da segreto militare, con cui Koutsoudas era stato in grado di spiare le conversazioni dei cospiratori. «Il comandante Serrano doveva impedire a Garrivay di distruggere la stazione spaziale di Xavier, e aveva bisogno di quelle navi per difendere il sistema dall'invasione attesa. Il che significava sollevare dal comando Garrivay e gli altri capitani infedeli, identificare altri possibili traditori, e sollecitare l'aiuto dei membri leali dei loro equipaggi.» «Be', ma è la nipote dell'ammiraglio Serrano» disse qualcuno. «Non doveva fare altro che dirlo...» Esmay quasi sorrise. Era mai stata tanto ingenua, anche prima di entrare nella Flotta? «Il comandante Serrano, però, ricordate, a questo punto era ufficialmente un civile, e le sue dimissioni dalla Flotta erano state molto pubblicizzate dai mezzi di comunicazione. Le informazioni che abbiamo suggeriscono che il comandante Garrivay fosse effettivamente preoccupato di quello che il comandante Serrano avrebbe potuto fare, e soprattutto dell'influenza che poteva esercitare sul governo xavierano. Stava quindi cercando di screditarla. Ma considerate: se voi foste un civile, o almeno apparentemente un civile, e vi trovaste su una stazione spaziale dove sono attraccate due navi della Flotta, con un'altra nave di pattuglia poco distante... Come fareste a ottenere il permesso di accedere a quelle navi? Non lasciamo certo salire a bordo dei civili così, solo perché ce lo chiedono. E una volta entrati, come fareste a convincere un equipaggio ignaro che il loro capitano è un traditore, e che da quel momento in poi devono obbedire a voi e non a lui? Voi, per esempio, credereste tanto facilmente che il vostro capitano è un traditore, solo perché qualcuno ve lo dice?» La maggior parte dei volti mostrava una nuova consapevolezza. «Io non ci avevo creduto» disse, cercando di non farsi sopraffare dalla
tensione. «Tutto quello che sapevo della situazione, come sottotenente di vascello a bordo della Despite, sotto Kiansa Hearne, era che ci trovavamo di pattuglia mentre il resto del gruppo era all'attracco. Non sapevo niente di nessuna invasione; eravamo convinti di essere arrivati a Xavier per fare da babysitter a un gruppo di coloni paranoici che si erano fatti prendere dal panico per una banalissima incursione. La maggior parte di noi era enormemente seccata perché avevamo perso l'occasione di competere nei giochi di guerra del Settore per quell'anno... eravamo convinti che la nostra precisione di fuoco fosse eccezionale.» «Ma di certo avrete sospettato...» Esmay sbuffò. «Sospettato? State a sentire, in quel momento la mia maggiore preoccupazione era che qualcuno sgraffignava roba da quattro soldi dagli armadietti del personale. Non pensavo neanche al capitano... il capitano era il capitano, e faceva il suo mestiere di comandare la nave. Io ero un sottotenente e basta, facevo il lavoro che mi veniva assegnato, e cioè star dietro ai sensori automatici interni e cercare di scoprire chi e come riusciva a mettere le mani dentro gli armadietti. Quando... quando l'ammutinamento è cominciato, nella Despite, ero talmente sorpresa che per poco non mi sono fatta sparare prima ancora di capire che cosa stava succedendo.» Attese che le risatine nervose cessassero. «Già, proprio così. È stato ridicolo... non ci potevo credere. E lo stesso vale per la maggior parte di noi. È per questo che i cospiratori sono sempre un passo avanti rispetto alla gente che fa il suo lavoro e basta... perché possono contare sulla sorpresa.» «Ma come ha fatto Serrano a ottenere il comando?» chiese qualcuno. «Vi posso solo dire quello che ho sentito» rispose Esmay. «A quanto pare, lei e alcuni membri del suo vecchio equipaggio sono riusciti con uno stratagemma a salire a bordo e hanno chiesto di parlare a Garrivay nel suo ufficio. Per loro fortuna, o forse in qualche modo il comandante lo era venuta a sapere, non lo so, alcuni dei cospiratori si trovavano lì. Lei e i suoi uomini... li hanno uccisi.» «Così, sui due piedi? Vuol dire che non hanno cercato di convincerli?» Esmay lasciò che quel commento cadesse in un silenzio pieno di disprezzo, che condivideva in pieno. Quando cominciò a serpeggiare una certa impazienza, riprese a parlare. «Quando qualcuno che ha deciso di tradire comanda una nave e sta progettando di consegnare al nemico dei civili indifesi, io dubito che una bella predica possa servire a fargli cambiare idea. Il comandante Serrano ha preso una decisione operativa; ha elimi-
nato i cospiratori di grado più elevato il più rapidamente possibile. E anche così non è stato facile.» Esmay cambiò l'immagine sullo schermo. «Ora, il capitano Hearne portò rapidamente la Despite, con me e il resto dell'equipaggio dentro, all'esterno del sistema di Xavier. Anche il nostro secondo ufficiale era coinvolto, ma per fortuna l'ufficiale sotto di lui era leale, e per di più, trovandosi sul ponte, sentì la conversazione fra il capitano Hearne e il comandante Serrano, in cui il comandante chiedeva al nostro capitano di tornare alla stazione e prestare il suo aiuto nella difesa di Xavier. È stato lui a dare inizio all'ammutinamento, facendo appello al personale presente sul ponte di comando...» Si fermò, sopraffatta dai ricordi delle ore successive. Gli ordini contraddittori sull'interfonico della nave, la confusione totale, il tempo che ci era voluto ai lealisti, e che adesso le sembrava incredibilmente lungo, per rendersi conto che un ammutinamento era in effetti necessario, e che sarebbero stati costretti a sparare contro i loro compagni, per uccidere. «Da un punto di vista tattico» disse, respingendo i ricordi «il comandante Serrano si trovava ad affrontare un compito molto difficile. La forza della Benignità arrivò quasi nel momento stesso in cui lei assumeva il comando. Se avesse atteso ancora qualche ora, difendere Xavier sarebbe stato impossibile. La forza della Benignità...» Esmay illustrò la composizione della forza, ricordando al suo pubblico qual era la tattica impiegata di solito delle forze d'attacco della Benignità. Nel descrivere decisioni e azioni a cui non aveva assistito personalmente trovò più facile restare calma e razionale. Questa nave qui, quelle altre lì, le manovre che ci si aspettava e quelle che non ci si aspettava... i risultati, tabulati con ordine, senza doversi occupare delle persone la cui vita era radicalmente mutata. Ma fin troppo presto si trovò a dover parlare di nuovo della sua esperienza. Descrisse molto sommariamente la battaglia per il controllo della Despite. Aveva rivissuto quei momenti troppe volte per la corte per volerlo fare di nuovo di fronte a quei giovani inesperti. Però dovevano sapere come era finita la battaglia, e gli errori che aveva commesso. «Siamo rientrati troppo velocemente» spiegò, facendo vedere un altro schema. «Ero preoccupata che arrivassimo troppo tardi, e ho dato per scontato che lo sbarramento che potevano avere formato sarebbe stato troppo disperso per poter costituire una vera minaccia. Come sapete, il calcolo del tempo reale trascorso durante una serie di salti FTL multipli è difficile anche nel migliore dei casi, ma di solito l'errore è negativo, non positivo. Quel che è successo è che siamo riusciti a inserirci senza problemi e che
siamo saltati fino a qui...» indicò. «Senza riuscire a perdere abbastanza velocità residua. Eravamo a corto di personale, con il sistema di navigazione danneggiato, e non sono riuscita a trovare una soluzione rapida che ci permettesse di calcolare un microsalto per darci il giusto momento angolare. E quindi... siamo usciti di nuovo dal sistema di Xavier, e nel frattempo la Paradox è stata danneggiata in modo fatale.» Più di milleottocento morti. Ed era colpa sua. La guerra non lasciava alcun margine d'errore. Ricordava l'attività frenetica sul suo ponte di comando, il personale del ponte che cercava di riprendere il controllo, che cercava di ottenere una soluzione di salto che gli permettesse di tornare in tempo per fare qualcosa di utile. «Siamo riusciti a trovare una soluzione di salto» disse, evitando tutto il resto, l'istante in cui aveva dovuto scegliere se accettare la soluzione, per quanto rischiosa, oppure no. Il rischio era stato tutt'altro che trascurabile: avevano un intervallo di sicurezza talmente ampio, con un salto così poco ortodosso, che avrebbero potuto saltare dentro Xavier stesso. «E siamo usciti dal salto con un bersaglio perfetto sulla poppa dell'incrociatore ammiraglio della Benignità.» E un vettore che gli permetteva di sparare una sola volta. Lo stesso equipaggio che aveva ingoiato tanto amaro per avere perso l'occasione di diventare i campioni di tiro del Settore, aveva sparato in quella finestra disperatamente stretta... e poi era riuscito a riposizionare la Despite in un'orbita stabile. «La commissione d'inchiesta» continuò Esmay «non ha approvato i nostri metodi, anche se ha apprezzato i risultati.» Era una cosa di cui non voleva discutere; si affrettò a mostrare come le difese di Xavier avessero contribuito alla battaglia: l'uso suicida del cannone di fase da una navetta, le mine improvvisate, i pochi ma decisivi colpi messi a segno dalla piccola Grogon, la straordinaria sconfitta della nave-killer da parte del piccolo yacht. «E solo grazie all'elemento sorpresa» fece notare Esmay. «La nave della Benignità intendeva tendere un'imboscata; abbiamo potuto recuperare abbastanza trasmissioni da accertarcene, dopo la battaglia, e semplicemente non sapeva che lo yacht si trovasse lì. Così, quando ha spento tutti i sistemi attivi per prepararsi ad attendere diverse ore, è diventato un bersaglio facilissimo.» «Che differenza avrebbe fatto se la Despite fosse stata fin dall'inizio nel sistema?» Una domanda intelligente, ma difficile. «Tenendo conto delle statistiche della nave, avrebbe aumentato le chance di vittoria soltanto del quindici
per cento. Per quanto ne so, i cannonieri della Despite erano i migliori dell'intero settore: qualunque altra cosa Hearne fosse, sapeva pretendere e ottenere dal suo equipaggio che facessero fuoco rapidamente e accuratamente. Ma se fosse rimasta, sarebbe stata un fattore prevedibile, e la forza del comandante Serrano sarebbe comunque stata inferiore in numero e potenza di fuoco. Non ho visto i rapporti degli analisti, ma a mio parere, il contributo della Despite se fosse stata presente durante tutta la battaglia sarebbe stato minore della sua efficacia come avversario inaspettato, comparso alla fine. Però si tratta solo della mia opinione... e non cambia il fatto che non poter contare su un'altra nave ha gravemente limitato le possibili scelte del comandante Serrano... e che la sua assenza era il risultato di un tradimento.» Silenzio, il silenzio di gente attenta che stava praticamente trattenendo il fiato. Esmay aspettò. Alla fine qualcuno si mosse, con un fruscio molto udibile di tessuto sulla tela delle poltroncine, e questo ruppe l'incantesimo. Il guardiamarina Dettin salì sul podio per ringraziarla della conferenza. Si alzarono delle mani per poter porre altre domande, ma Esmay aveva visto in fondo alla sala mostrine di grado più elevato. Quando erano entrati gli ufficiali superiori? Non lo aveva notato... però di certo nessun guardiamarina che avesse l'incarico di sbarrare la porta ai suoi compagni avrebbe potuto respingere la manciata di maggiori e capitani di corvetta allineati in fondo alla sala. Dettin finalmente li vide, mentre ancora stava parlando, e si fermò di botto. «Oh... signore...?» Era il comandante Atarin, che Esmay riconobbe finalmente nel momento in cui avanzava dall'oscurità per entrare nella luce. «Avrebbe obiezioni a ripetere questa conferenza di fronte agli ufficiali superiori, tenente?» Un brivido di apprensione le corse lungo la spina dorsale. Non riusciva a capire se Atarin fosse arrabbiato o divertito; non sapeva se doveva scusarsi o spiegare. Entrambe erano pessime idee, le ricordò l'esperienza di famiglia. «Certamente no, signore.» Inghiottì l'impulso irresistibile di dire che non era all'altezza; se non era qualificata a parlare di queste cose, cosa ci faceva lì a mettersi in mostra davanti ai guardiamarina? «Se posso dire una parola...» mormorò Atarin, con lo sguardo che passava sui guardiamarina, che colsero l'allusione e subito cominciarono ad alzarsi per uscire in fretta dalla sala. «Ma certo, signore.» Esmay recuperò il suo cubo dal proiettore e scese dal palco. Il maggiore Pitak non faceva parte degli ufficiali presenti, e lei
non riconosceva nessuno degli altri a parte Atarin. Fissarono i guardiamarina che se ne andavano con un'espressione neutra nella quale lei vide un grosso guaio sorgere dalle acque mentre da sotto ribolliva un vulcano. Atarin non disse altro fino a che i guardiamarina non furono usciti. «Una spiegazione estremamente chiara, mi è parso» disse allora. Esmay non si rilassò: dal suo tono avrebbero potuto discutere di un libro di testo, e lei non sapeva se veniva considerata l'autore o il suo soggetto. «Mi ha particolarmente impressionato l'analisi dei suoi errori.» Caso da manuale di giovane ufficiale che mette il piede nel piatto, dunque. «Quanto era grave il danno al computer di navigazione?» Una domanda precisa, a cui poteva rispondere. «Era stato colpito direttamente... abbiamo sostituito i componenti di cui disponevamo in magazzino, ma non siamo riusciti a ottenere la funzione di microsalto se non a un ottanta per cento della funzionalità normale.» Uno degli altri ufficiali intervenne. «Non potevate usare componenti del pannello armamenti? Se ben ricordo c'è una certa duplicazione di componenti.» «Sì, signore, ricorda bene. Ma non volevamo rischiare un ritardo nell'acquisizione del bersaglio o nel tempo di ottenimento di una soluzione di tiro.» «Ummm. E avete preferito fare una serie di salti con un sistema non perfettamente funzionante... un po' pericoloso, non le pare?» Esmay non riusciva a farsi venire in mente altra risposta che una scrollata di spalle, ma non si rispondeva con una scrollata di spalle a un superiore in grado. «Piuttosto pericoloso, signore, sì.» In quel momento, con gli intervalli di sicurezza che si allargavano e la necessità di passare a occhio da un salto al successivo, le era parso assolutamente terrificante. Le era stato insegnato, e insegnato bene, che l'istinto non era una buona guida quando si trattava di navigare nello spazio. «Quando ho letto il rapporto della commissione d'inchiesta» disse Atarin «non ho notato che si parlasse di difficoltà con il computer di navigazione. Presumo che lei ne abbia accennato.» «Era spiegato nella memoria difensiva, signore» spiegò Esmay. Non aveva voluto soffermarsi troppo sulle difficoltà con il computer di navigazione: sarebbe sembrato che si lagnasse, o che cercasse scuse. «Sì. Be', tenente Suiza, penso che farà meglio ad aspettarsi un invito da parte del gruppo di discussione tattico degli ufficiali superiori. So che lei
non è analista... ma dubito che possiamo permetterci di farci scappare un resoconto di prima mano di un combattimento così... notevole.» «Sì, signore.» «E farà bene a controllare l'orientamento della figura otto... mi pare che gli assi siano ruotati di novanta gradi... a meno che non ci fosse una ragione particolare per proiettarli così.» «Sì, signore.» Con un cenno del capo, Atarin invitò gli altri ufficiali a seguirlo fuori. Esmay avrebbe tanto voluto crollare su una delle poltroncine e tremare convulsamente per mezz'ora, ma Dettin la stava tenendo d'occhio, ed era evidente che sperava in una chiacchierata. «Quindi non pensi che stia sobillando i guardiamarina a compiere qualche... azione indesiderabile?» «No, signore. Sa come sono i guardiamarina: saltano addosso a chiunque abbia dell'esperienza concreta di combattimento e sia disposto a parlarne. Adorano le storie sanguinolente, e speravano di andare a sentire qualcosa del genere. Invece lei gli ha presentato un resoconto assolutamente imparziale, e quanto più possibile scarno, di un combattimento intrinsecamente avvincente. Assolutamente nessun segno di autoesaltazione, e nemmeno nessun tentativo di costruire un alone romantico attorno al comandante Serrano. L'ho invitata a parlare anche al gruppo di discussione tattica degli ufficiali superiori... lì le faranno delle domande più intelligenti, ma sospetto che saprà rispondere anche a quelle.» «Non voglio trasformarla in una specie di eroe» commentò l'ammiraglio Dossignal. «Non farebbe che irritare il nostro permaloso capitano. Troppa attenzione...» «Signore, con tutto il rispetto dovuto, quella ragazza è un eroe. Non è andata in cerca di attenzione; a giudicare dalla sua scheda, non lo ha mai fatto. Ma ha salvato la nave di Serrano, e Xavier, e non possiamo fare finta che non sia successo. Lasciare che ne discuta in termini professionali è il modo migliore per assicurarci che non diventi un argomento poco professionale.» «Suppongo di sì. Quando la invitiamo a parlare? Mi piacerebbe esserci.» «Alla seconda riunione in programma. Abbiamo quella lezione obbligatoria sull'educazione permanente, la prossima volta.» Quando Esmay si presentò al lavoro il giorno dopo, il maggiore Pitak
disse: «Ho sentito che ha avuto una serata interessante. Cosa si prova ad avere la sala piena e gente fuori dalla porta? Ha mai considerato una carriera nel cabaret?» Siccome era stata in preda agli incubi per tutta la notte, la voce di Esmay risultò un po' tagliente: «Vorrei che non me lo avessero mai chiesto!» Pitak sollevò le sopracciglia. «Mi scusi» disse quindi. «Vorrei solo... potermi lasciare tutto alle spalle.» Pitak fece un sorriso acido. «Oh, ce l'ha alle spalle, non si preoccupi... come un razzo sta dietro uno scafo, per spingerlo in avanti. Farà meglio ad accettarlo, Suiza: lei non sarà mai più un membro anonimo del gregge.» "Proprio come mio padre" pensò Esmay. Non riusciva a farsi venire in mente niente da dire. «Mi stia a sentire» disse Pitak.«Non c'è alcun bisogno che lei mi convinca di non essere affamata di fama e di gloria. Dubito che qualcuno che ha servito con lei o l'ha avuta nel suo comando possa farsi venire anche solo per un istante l'idea che lei sia affamata di fama e gloria. Ma è come con qualunque altra cosa... se ci si espone alla pioggia, ci si bagna, e se si fa qualcosa di spettacolare, si viene notati. Lo affronti. Lo accetti. E a proposito, ha per caso finito di studiare quel cubo sulle specifiche dei dragamine?» «Sì, signore» rispose Esmay, riconsegnandolo, e sperando che Pitak avesse definitivamente cambiato argomento. «Ho sentito che è prevista una sua partecipazione anche al gruppo di discussione tattico degli ufficiali superiori» disse Pitak. Esmay riuscì a non sospirare o gemere. «Se ha dei dati circa i danni allo scafo della nave di Serrano, mi piacerebbe sentirne parlare. E poi c'era quella nave madre d'assalto della Benignità che è saltata in aria in orbita... mine, mi pare di capire... sarebbe d'aiuto saperne qualcosa di più. Sulle mine e sullo scafo. Mi rendo conto che lei non è rimasta a lungo in quel sistema dopo la battaglia, ma forse...» «Sì, signore.» «Non che si tratti precisamente di tattica, ma sono dati, e i dati dettano la tattica, o almeno dovrebbero. Sono sicura che il comandante Serrano ha fatto uso di tutto ciò che sapeva in materia di Scafi e Architettura.» Messa sull'avviso da questo discorso, Esmay non fu sorpresa più di tanto quando diversi altri ufficiali la avvicinarono, nei giorni seguenti, ciascuno suggerendo una particolare area di interesse a cui prestare attenzione nella sua conferenza, che era in genere legata alla loro specializzazione. Passava
ogni momento libero a consultare la banca dati dell'astronave, cercando di trovare risposte e anticipare possibili domande. Era incredibile come tutto si collegava... erano anni che sapeva certe cose, per esempio che la massa relativa delle navi della Benignità e della Flotta dettava le reciproche tattiche di combattimento, ma non aveva mai notato come ogni piccolo dettaglio, ogni sottosistema, influenzasse il resto tanto pesantemente. Perfino la politica di reclutamento, che non aveva mai pensato di correlare con la tattica. Se si gettavano molte grosse navi all'offensiva, in una guerra di conquista, ci si dovevano aspettare perdite pesanti... e quindi c'era bisogno di una gran quantità di truppe, sia nello spazio che sulla superficie. La leva generalizzata, soprattutto su mondi conquistati da molto tempo, poteva fornire la quantità necessaria di soldati leali. Le conquiste più recenti invece fornivano una forza lavoro civile, per industrie di basso livello tecnologico ma che richiedevano molta manodopera. Una forza principalmente difensiva, come il Servizio Spaziale Regolare delle Familias, impiegava navi più piccole ma più sofisticate, ed evitava di assorbire un numero troppo ingente di giovani lavoratori nell'esercito, preservando così la propria base economica civile. Da lì le famiglie nelle quali veniva trasmessa come un'eredità la tradizione del servizio militare, ma che non entravano direttamente a far parte delle gerarchie politiche. Era affascinante, a pensarci in quel modo. Non poteva impedirsi di riflettere sull'effetto che avrebbe avuto su questa struttura sociale, che era rimasta stabile per tutto l'ultimo secolo, più o meno, il diffondersi generalizzato del ringiovanimento. Poi si sorprese indovinando in anticipo quali sarebbero state le specifiche dello scafo di una nave scorta-killer... quale spessore avrebbero scelto per il rivestimento esterno delle loro navi-madri d'assalto. Come faceva a sapere queste cose? Il ricordo di suo padre che esclamava brusco "Perché sei una Suiza!" fermò il primo pensiero che le era sorto automatico, e cioè che doveva avere già visto quelle specifiche da qualche parte, perché non era possibile che fosse abbastanza intelligente da indovinarle. Quando arrivò il momento della seconda conferenza, si sentiva ricolma di conoscenze nuove e ancora non digerite. Aveva controllato le figure da proiettare (sì, la numero otto era stata ruotata di novanta gradi rispetto al riferimento standard) e messo assieme quella che sperava fosse una sufficiente messe di informazioni sul contesto. 10
«Sembra che lei si sia ben preparata» l'apostrofò il maggiore Pitak mentre Esmay trascinava il borsone pieno di cubi e stampati nella sala conferenze che le era stata riservata. Era un'aula spaziosa nell'ala delle Scuole Tecniche, il T-1, con la platea fatta di ordini diversi di banchi che si curvavano attorno a un piccolo podio. «Spero di sì, signore» rispose Esmay. In realtà c'erano almeno un altro paio di dozzine di cubi che avrebbero potuto servirle se qualcuno avesse fatto una domanda particolarmente improbabile. Era venuta presto, sperando di avere qualche minuto tutto per sé in cui prepararsi, ma Pitak, il comandante Seveche e il comandante Atarin erano già arrivati. Insomma, era presente la sua intera catena di comando. «Le serve aiuto per le proiezioni?» chiese Atarin. «Il telecomando del proiettore in questa sala si incanta, di tanto in tanto.» «Effettivamente mi servirebbe, signore, sì. La prima serie è tutta in questo cubo...» Glielo tese. «Ma ho delle altre illustrazioni, se per caso il gruppo facesse delle domande specifiche.» «Benissimo, allora. Ho chiesto al guardiamarina Serrano di rendersi disponibile... lo chiamo.» Serrano. Non lo aveva ancora incontrato, e dopo quello che aveva detto in mensa, nessuno aveva più osato fare dei pettegolezzi sui Serrano in sua presenza. Non aveva avuto alcun desiderio di andarlo a cercare. Che cosa avrebbe potuto dirgli: ho salvato la vita a tua zia, tua nonna mi ha parlato, facciamo amicizia? No. Però era curiosa. Il suo primo pensiero quando lo vide entrare fu che aveva l'aspetto di un Serrano: scuro, compatto, elastico nei movimenti, qualcuno il cui intero albero genealogico era coperto di stellette, la cui famiglia si aspettava che diventasse ammiraglio, o che almeno la promozione ad ammiraglio fosse presa in seria considerazione. Il suo secondo pensiero fu che era incredibilmente giovane per sostenere il peso di tanta ambizione. Se non avesse avuto le mostrine di guardiamarina, gli avrebbe dato non più di sedici anni, e lo avrebbe immaginato ancora un allievo della scuola preparatoria. Sapeva che c'erano dei Serrano giovani, naturalmente, lo aveva saputo anche prima di arrivare sulla Koskiusko. Non potevano uscire da un uovo sotto forma di ufficiali adulti di grado intermedio. Dovevano nascere e crescere e fare carriera come tutti gli altri. Ma non l'aveva mai visto accadere con i suoi occhi, e trovarsi davanti un Serrano giovane, addirittura più giovane di lei, era inquietante.
«Tenente Suiza, questo è il guardiamarina Serrano.» Aveva un luccichio negli occhi che le parve molto familiare. «Signore» disse formalmente il giovane, e abbozzò un movimento come se fosse tentato di inchinarsi. «Sono qui per occuparmi delle sue illustrazioni.» Generazioni di comandanti avevano influito pesantemente sulla sua voce, ma riusciva lo stesso a essere espressiva. «Benissimo» commentò Esmay. Gli tese il cubo con le illustrazioni principali, e frugò nel borsone. «Lì dentro ci sono tutte le illustrazioni di cui so che avrò bisogno, e qui c'è la scaletta. Sono in ordine, ma nel caso che qualcuno voglia rivedere una di quelle già proiettate, qui ci sono i numeri e i riferimenti. Ora questi...» e gli diede altri tre cubi «queste sono illustrazioni di cui potrei avere bisogno se qualcuno solleva un argomento specifico. Temo che dovrà usare l'indice dei cubi... non sapevo che avrei avuto un aiutante, e quindi non ho stampato un elenco. Le dirò di che cubo ho bisogno, e poi il codice.» «Benissimo, signore. Me la caverò.» Esmay non aveva dubbio alcuno in proposito. Gli altri ufficiali stavano arrivando, salutandosi a vicenda. Il guardiamarina Serrano prese i suoi cubi e se ne andò via, Esmay sperava verso una cabina di proiezione, mentre lei organizzava il resto del materiale. La stanza si riempì, ma gli ufficiali lasciarono un piccolo gruppo di sedie libere in prima fila, come se ci fossero delle stellette pitturate sopra. E in un certo senso, era così... gli ammiragli e il capitano arrivarono assieme, chiacchierando amabilmente. L'ammiraglio Dossignal le fece un cenno: sembrava anche più alto a fianco del capitano Hakin. Sull'altro lato rispetto al capitano, l'ammiraglio Livadhi trafficava con i controlli della poltrona, e l'ammiraglio Uppanos, il comandante dell'ospedale di bordo, si chinava verso il suo aiutante per commentare qualcosa. Atarin si alzò in piedi per presentare Esmay: con l'arrivo degli ammiragli, la riunione era cominciata. Esmay iniziò come al solito a presentare la situazione generale. Nessuno fece commenti, almeno non commenti che lei potesse udire. Tutte le illustrazioni vennero proiettate dritte e orientate come dovevano... le aveva controllate più di una volta, ma era comunque preoccupata. Con le ricerche che aveva svolto fresche fresche nella memoria, poté aggiungere quello che aveva imparato sui metodi della Benignità, illustrare le implicazioni dei protocolli della Flotta. Ci fu un generalizzato crollare di teste; Esmay riconobbe un interesse autentico, che andava ben oltre la fame di storie ec-
citanti dimostrato dai guardiamarina. Quando cominciarono a fare domande, si scoprì piacevolmente eccitata dalla profondità di riflessione che rivelavano. Quella era gente abituata a cogliere il genere di implicazioni che lei aveva appena scoperto, che le cercava attivamente, affamata com'era di dati, di nuovi punti di vista. Rispose come meglio poteva, dando i riferimenti bibliografici per ogni cosa. Annuirono, e fecero altre domande. Esmay chiese altre illustrazioni, confidando che il guardiamarina Serrano avrebbe tirato fuori quelle giuste, e nel giusto ordine. E così fu, come se le leggesse nel pensiero. «Dunque lo yacht non è stato effettivamente coinvolto nella battaglia? A parte quell'incontro con la scorta-killer?» «No, signore. Conosco i fatti solo per sentito dire, ma mi pare di capire che lo yacht avesse solo una dotazione di scudi minima. Era stato usato soprattutto per suggerire la presenza di altre navi dotate di armamento, e non avrebbe sparato neanche un colpo se la nave della Benignità non si fosse trovata in una posizione così vulnerabile.» «Ma può averli confusi solo per pochissimo tempo» disse un capitano di corvetta seduto quasi in fondo alla sala. «Se avevano sensori accurati, i dati relativi alla massa avrebbero dovuto mostrare...» «A proposito invece di quel trasporto pesante» disse qualcun altro, interrompendo. «Perché Serrano gli ha ordinato di lasciare il... cos'era? Zalbod? Per intervenire?» «Da quel che ne so, non fece nulla del genere, signore. I minatori decisero autonomamente di prendere parte alla battaglia...» «E non sarebbe dovuto arrivare così lontano, non con le specifiche che ci ha mostrato. Come hanno fatto a farlo muovere tanto in fretta?» Esmay non sapeva la risposta, ma in compenso un ufficiale del settore Motori e Manovra la sapeva. Si sviluppò un vivace scambio fra diversi membri dell'unità Motori e Manovra... Esmay non aveva mai provato un particolare interesse per la teoria o la pratica dei motori spaziali, ma era in grado di seguire la maggior parte di quel che dicevano. Se un tal pezzo poteva venire riconfigurato in tal modo avrebbe potuto fornire un aumento del trentadue per cento dell'accelerazione effettiva... «Sarebbero comunque arrivati troppo tardi per poter servire a qualcosa, però così si spiega la prestazione di cui lei ha riferito. Mi chiedo chi fra loro se l'è fatto venire in mente...» «Se è questo che hanno fatto» disse un altro ufficiale di Motori e Manovra. «Per quanto ne sappiamo, possono avere inventato qualcosa di unico.»
Esmay non riuscì a trattenere una risatina, sorprendendo se stessa e inducendo tutti loro a guardare verso di lei. «Mi scusi, signore» disse. «Il fatto è che il loro comportamento è stato in effetti unico, anche se io ne ho sentito parlare solo in seguito.» La voce che correva era che la figlia di lord Thornbuckle era stata calata, nuda, in un saltarocce a due posti, teoricamente intatto e funzionante, che poi era stato espulso per errore proprio nello spazio brulicante di armi fra il cargo e Xavier. Esmay dubitava che si fosse trattato proprio di un incidente... ma la ragazza era sopravvissuta. Con le sopracciglia sollevate, un ufficiale disse: «Mi chiedo... se avessero aggiunto una componente mediante un razzo chimico... questo potrebbe avergli fornito una spintarella in più.» La discussione continuò. Volevano sapere ogni minimo dettaglio dei danni sostenuti dalla Despite durante l'ammutinamento: quali armi erano state usate, e quali paratie danneggiate? E dove erano stati gli incendi? E i controlli, e le sicurezze dei sistemi ambientali, e i computer? Gli ammiragli, che fino a quel momento erano rimasti ad ascoltare le domande dei loro subordinati, cominciarono a farne anche loro. Esmay si trovò a dover dire: «Mi dispiace, signore, questo non lo so» molto più spesso di quanto gradisse. Non aveva avuto il tempo di esaminare la frantumazione causata dalle armi a proiettile... né di valutare gli effetti di quelle soniche sulle giunture idrauliche... «Quelli della Forense...» fece per dire a un certo punto, ma fu fermata dall'espressione che vide sui loro volti. «La Forense si occupa di trovare le prove di qualche malefatta» disse il maggiore Pitak, come se si trattasse di un grave difetto morale. «Non sanno un accidente di materiali... vengono a chiedere spiegazioni a noi quando si trovano davanti una superficie più sottile di un millimetro rispetto a quanto era prima.» «Non è del tutto giusto, questo» disse un altro ufficiale. «C'è quel tipetto del laboratorio di Sturry... sono andato a chiedergli aiuto per un paio di problemi di circuitazione io stesso.» «Ma in generale...» «In generale, sì. Ora, tenente, non ha per caso notato se i danni alle paratie negli alloggi dell'equipaggio che ha menzionato causassero delle variazioni longitudinali delle letture della gravità artificiale?» No, non l'aveva notato. Non aveva avuto il tempo di notare un sacco di cose, durante la battaglia, ma nessuno la stava rimproverando per questo. Galoppavano da un'idea all'altra come cavalli testardi, dalla curiosità parti-
colare di uno a quella di un altro. Le discussioni esplodevano, si calmavano, e ricominciavano non appena qualcuno faceva una nuova domanda. Esmay si chiese quanto a lungo sarebbero andati avanti. Era esausta ed era sicura che il tempo previsto per la riunione fosse stato superato da un pezzo. Ma nessuno sarebbe entrato a dire al capitano e agli ufficiali generali della nave di lasciare libera la sala. Finalmente, Atarin si alzò in piedi, e le conversazioni cessarono. «Signori, stiamo facendo un po' tardi, e dobbiamo finire qui. Tenente, penso di parlare a nome di tutti nel dire che la sua è stata un'esposizione affascinante... e molto competente. Lei deve avere svolto un notevole lavoro di ricerca.» «Grazie, signore.» «È molto raro trovare un ufficiale così giovane e tanto consapevole dell'interdipendenza dei dati.» «Signore, diversi ufficiali mi hanno anticipato gli argomenti che gli stavano a cuore, il che mi ha messo sulla buona strada.» «Anche così, lei ha fatto un ottimo lavoro, e la ringraziamo.» Tutti annuirono; Esmay era sicura che i volti che la circondavano esprimevano genuino rispetto. Si domandò come mai la cosa la sorprendesse tanto... e perché la sorpresa la facesse sentire vagamente in colpa. Gli ammiragli e il capitano se ne andarono per primi, poi gli altri li seguirono, ancora chiacchierando e discutendo. Finalmente tutti furono usciti, ed Esmay poté crollare. «È stato veramente notevole, tenente» disse il guardiamarina Serrano mentre le restituiva la pila di cubi. «Sapeva sempre che figura mostrare per ogni domanda.» «E lei le ha proiettate alla perfezione» rispose Esmay. «Non può essere stato facile, dovevo saltare da un cubo all'altro.» «Non è stato tanto difficile... riusciva sempre a far cadere disinvoltamente il numero di volume. Be', li ha certamente sorpresi.» «Chi?» «Il pubblico. Non avrebbero dovuto sorprendersi così tanto, dopo tutto avevano una registrazione della conferenza che ha tenuto ai giovani. Questa era solo una versione più adulta e più completa.» Impertinenza? O autentica ammirazione? Esmay non ne era sicura. «Grazie» disse, e si voltò. Ci avrebbe pensato il giorno dopo, quando il maggiore Pitak l'avrebbe senz'altro tenuta abbastanza occupata da non lasciarle il tempo per crucciarsi troppo. Il giovane Serrano le rivolse un cen-
no allegro della testa prima di andarsene chissà dove. La mattina seguente il maggiore Pitak le disse: «Sa, ci sono ancora quelli che pensano che l'ammutinamento debba essere stato premeditato.» Esmay riuscì a non strozzarsi per la sorpresa. «Anche adesso?» «Sì. Dicono che se Hearne avesse saputo di doversi scoprire come traditore, avrebbe messo i suoi sostenitori in posizioni chiave, e sarebbe stato impossibile prendere la nave senza danneggiarla in maniera fatale.» «Oh.» Esmay non riusciva a farsi venire in mente altro da dire. Se dopo tutte le inchieste, e la corte marziale, c'era ancora gente che voleva credere a una cosa del genere, quello che lei aveva da dire non gli avrebbe certo fatto cambiare idea. «La Flotta si trova in una situazione difficile, adesso come adesso... con il governo in un momento di transizione, e tutti questi scandali... suppongo che lei non abbia sentito di Lepescu.» Pitak stava guardando lo schermo sulla sua scrivania, ed Esmay comprese solo allora che non lo stava facendo apposta per non guardarla negli occhi. «Ho sentito delle voci.» «Be'. C'è qualcosa di più consistente delle voci... voglio dire, conosco qualcuno che sapeva... più di quanto avrebbe desiderato sapere. L'ammiraglio Lepescu amava la guerra e la caccia... per le stesse ragioni.» «Oh?» «Perché gli permettevano di ammazzare della gente.» La voce di Pitak era gelida. «Andava a caccia di esseri umani, voglio dire, e il suo comandante Serrano l'ha colto sul fatto, e gli ha sparato. Un risultato che a me va benissimo, ma non si può dire lo stesso di tutti.» «Era un agente della Benignità?» Pitak sembrò sorpresa. «Se lo era, nessuno lo ha mai notato. Questa è una cosa che non ho mai sentito dire... perché?» «Be'... ho saputo che il comandante Garrivay... che era al comando di...» «Sì, sì, la forza inviata a Xavier. Non dimentico tanto in fretta, Suiza!» «Mi scusi, signore. Comunque, ho sentito che aveva servito sotto Lepescu. E Garrivay era un agente della Benignità... o almeno un traditore, che prendeva soldi da loro.» «Mmm. Tenga a mente che ci sono ufficiali anche a bordo di questa nave che hanno servito sotto Lepescu, tempo addietro. Un tempo abbastanza distante da non essere stati smascherati da Serrano... ma questa potrebbe essere una cosa su cui non è prudente speculare, che fosse o no un agente
della Benignità.» «No, signore. Comunque, è morto, e quindi non importa.» Si pentì nel momento stesso in cui le parole le uscirono di bocca; lo sguardo di Pitak era eloquentissimo. Importava, ai morti se non altro, e a giudicare dall'espressione di Pitak, importava anche a qualcuno dei vivi. Probabilmente importava a Heris Serrano. «Mi spiace» disse, sentendosi arrossire. «È stato stupido da parte mia...» «Um. Badi a quel che dice, tenente.» «Signore.» Siccome non aveva più conferenze in pubblico a cui prepararsi, quando smontò di servizio si diresse verso la palestra. Era parecchio tempo che trascurava di esercitarsi. La palestra a quell'ora era affollata, ma quasi subito una delle macchine si liberò, e il sottotenente che aspettava, appoggiato alla paratia, le fece segno di accomodarsi. «Vada pure, tenente, io preferisco avere uno dei cavalli.» Esmay salì sulla macchina e la regolò per il suo ciclo di esercizi. Si era accorta da un po' della gara silenziosa che si scatenava per aggiudicarsi la macchina accanto alla sua nella palestra, che tutti erano ansiosi di invitarla a far parte della loro squadra di pallamuro nonostante in quel gioco non fosse niente di speciale, che le venivano continuamente fatti dei piccoli favori. Col tempo la cosa sarebbe cessata, probabilmente, non appena la gente si fosse dimenticata della sua presunta fama. Non si era mai fatta dei veri amici, amici intimi, nella Flotta, e non si aspettava di cominciare ora. Si fermò. Ma perché non poteva avere amici? Se alla gente piaceva, e sembrava che fosse così... Era solo una questione di moda. Di una passeggera celebrità. Non aveva nulla a che fare con lei come persona. Come faceva a esserne sicura? Si impegnò maggiormente nella ginnastica, fino a trovarsi senza fiato, sudata e dimentica delle sue elucubrazioni nella lotta per respirare e non arrendersi. A cena ascoltò il chiacchiericcio che si intrecciava attorno alla tavola per la prima volta con la mente sgombra. L'entusiasmo del guardiamarina Zintner per Scafi e Architettura le ricordò l'interesse di Luci per l'allevamento di cavalli. Zintner le sarebbe potuta piacere. Si guardò attorno e scoprì che un altro tenente donna la stava guardando. Questo la fece sentire a disagio,
e tornò a fissare il piatto. Aveva fatto tanta ginnastica che le era passato l'appetito; fra altre tre ore le sarebbe venuta fame, ma per il momento non ne aveva. Mentre usciva dalla sala mensa, fu fermata da due tenenti. «Se non sei di servizio stasera, vuoi venire a vedere uno spettacolo con noi?» Glielo avevano chiesto già in passato, ma lei si doveva preparare per le conferenze. Adesso non aveva più scuse. Accettò, aspettandosi di sgattaiolare via dopo qualche minuto. Invece si trovò incastrata al centro di una fila di persone, con qualcuno che si chinava verso di lei dalla fila dietro la sua per parlarle. Quando lo spettacolo cominciò ebbe un po' di pace, ma appena fu finito si ritrovò al centro dell'attenzione. Era ridicolo. Non poteva trattarsi di vera simpatia, di vero interesse. Era solo la sua notorietà ad attirarli. E lei si odiava perché si stava godendo la situazione, almeno in parte. Non era giusto che si divertisse; l'unico modo che una donna di Altipiano aveva per essere al centro dell'attenzione era di diventare la matriarca di una famiglia. La sua bisnonna l'avrebbe sgridata... ma la sua bisnonna era lontana anni luce, se mai era ancora viva. Esmay rabbrividì e qualcuno chiese: «Stai bene... Esmay?» Alzò gli occhi. Un tenente... Kartin Doublos... Probabilmente, lì l'uso del nome proprio non denotava familiarità, come invece normalmente sarebbe avvenuto fra due persone dello stesso grado che non erano in servizio. «Sto bene» rispose. «Solo che mi è venuta in mente la mia bisnonna.» Doublos sembrò perplesso, ma si limitò a scrollare le spalle. Durante le settimane che seguirono, notò che la competizione per attirare la sua attenzione non accennava ad attenuarsi. Non capiva. Che cosa speravano di ottenere? Che cosa stavano cercando di provare? In qualche remoto angolo della sua mente sentiva una specie di solletico, provocato dalle cose che l'ammiraglio Serrano aveva detto... e il suo avvocato... e suo padre... e il maggiore Pitak. Le mise fermamente di lato. Non era in grado di affrontare tutta quella pressione per abbandonare la nicchia comoda e sicura che si era creata. Aveva la ferma intenzione di tornare ad arrampicarcisi dentro, di chiudersela attorno come uno scudo inviolabile. Gli incubi si fecero più frequenti, ulteriore prova che non era, né poteva essere, la persona che tutta quella gente era decisa a vedere in lei. Non accadeva ogni notte, ma soprattutto dopo che qualcuno l'aveva convinta a partecipare a una gara, un gioco, uno spettacolo, insomma qualsiasi forma di ricreazione che non aveva, per quanto poteva dire, nessun collegamento
con il contenuto dei due tipi di incubi ricorrenti. Cominciò a tenere attivato un generatore di rumore nel suo alloggio, sperando che coprisse qualunque suono potesse emettere. Nessuno si era lamentato, ma ogni volta che si svegliava con il cuore che le martellava nel petto verso le tre di notte, aveva sempre paura di avere urlato, come aveva fatto nel sogno. Gli incubi cominciarono a fondersi: la bambina indifesa, catturata da una guerra che non capiva, diventava improvvisamente il giovane ufficiale terrorizzato a pancia a terra su un ponte insanguinato, che sparava nella nebbia. Prese in considerazione l'idea di andare da un medico. Se la cosa avesse avuto conseguenze sul suo rendimento, avrebbe dovuto farlo per forza. Ma per il momento non era così. Pitak sembrava contenta dei suoi progressi e andava d'accordissimo con il capo Sivers, la cui sagoma massiccia era tanto diversa da quella di Seb Coron che solo di tanto in tanto la colpiva quanto si assomigliassero come temperamento. «Allora, come sta andando il tenente Suiza, maggiore?» chiese il comandante Seveche durante la riunione di esame del personale. «Benissimo, naturalmente.» Pitak abbassò gli occhi sul cubo con le note che si era portata. «Ha lavorato duro per mettersi in pari, anche se non ha alcuna preparazione di base in fatto di ingegneria pesante e non sarà mai un valido aiuto dal punto di vista tecnico, come era Bascock.» «Non avrebbe dovuto finire nella carriera tecnica» disse Seveche. «Quella presentazione al gruppo di discussione tattico era il prodotto di una mente adatta alla carriera di comando.» «Ha chiesto lei di essere messa nella tecnica» spiegò l'ammiraglio Dossignal, ma dalla piega della sua bocca i suoi subordinati sapevano che stava semplicemente facendo l'avvocato del diavolo. «Credo che sia colpa della sua educazione» disse ancora Seveche. «Ho guardato il repertorio culturale su Altipiano. Anche se è figlia di un generale, nella loro tradizione non ci sono donne in posizione di comando.» «Non ci sono donne nell'esercito, punto e basta» sintetizzò Dossignal. «Abbiamo letto gli stessi rapporti.» «Be', ecco, appunto. E i subalterni le stanno attorno come le api attorno al miele.» «Il che la mette terribilmente a disagio» illustrò Pitak. «È venuta a brontolare con me, dice di non capire perché succede. Se è sincera, e io credo che lo sia, vuol dire che non ha assolutamente alcuna cognizione delle
proprie capacità...» «Che secondo te non sono tecniche.» «Be'...» Pitak ci pensò sopra. «Non vorrei esagerare. Ha cervello, e si sta applicando moltissimo. Non posso sapere quanto fosse capace ai sensori, ma per quanto riguarda Scafi e Architettura, è semplicemente una dilettante che ha studiato molto. E poi c'è il fatto che vede tutto in termini operativi.» «Per esempio?» «Be'... quando ha completato il secondo corso di progettazione scafi, le ho assegnato una tesina sulle modifiche necessarie per le nuove apparecchiature di dissimulazione. Mi aspettavo le solite cose, quello che avrei ottenuto assegnando il compito al guardiamarina Zintner: dove installare l'apparecchiatura a seconda del suo fabbisogno di alimentazione, il suo effetto sul centro di gravità, eccetera. Tutta roba tecnica. Invece è venuta fuori con un'analisi sui mutati rendimenti in termini di capacità operativa. Quando gliel'ho fatto notare, lei ha sbattuto un paio di volte le palpebre e mi ha chiesto: "Oh... ma non è quello che conta veramente?".» Seveche e Dossignal risero. «Sì» annuì l'ammiraglio. «Capisco cosa vuoi dire. Per lei, le cose contano solo per l'uso che se ne può fare in combattimento...» «Il che è esattamente quello che dovrebbe importare a tutti noi» disse Pitak. «E io lo so... ma so anche che io, personalmente, mi troverei subito a occuparmi di interessanti problemi meccanici, di soluzioni eleganti... insomma, del lato tecnico fine a se stesso. Lei no, e mi chiedo se sia sempre stata così, anche quando si occupava di sensori.» «Ne dubito» rispose Dossignal. «Visto i precedenti che aveva a Xavier, mi hanno mandato tutto il suo fascicolo. Assieme ai soliti rapporti di idoneità, nei quali risultava mediocre, incolore e niente affatto eccezionale, ci sono anche i voti che aveva all'Accademia. Provate a indovinare in quali corsi aveva il massimo dei voti?» «Tattica e manovre?» «No... anche se era nel cinque per cento superiore. Storia militare. Ha scritto una tesina che analizzava la Campagna Braemar... e le hanno offerto una borsa di dottorato. Lei l'ha rifiutata e invece ha chiesto di essere assegnata al ramo tecnico, in cui non aveva mai eccelso.» «È strano» disse Pitak, aggrottando le sopracciglia. «È più che strano» rincarò Dossignal. «Non ha senso. Niente del suo dossier suggerisce che qualcuno l'abbia consigliata di non intraprendere la
carriera di comando, a parte i soliti commenti su una famiglia senza tradizione nella Flotta, fin dai primi anni della scuola preparatoria. Eppure l'hanno messa a fare la carriera tecnica, soltanto perché l'aveva chiesto, nonostante avesse dei voti solo mediocri.» «Le sue valutazioni personali com'erano?» «Quello che ci si può aspettare da una che viene da fuori e che non sta cercando disperatamente di farsi assegnare alla carriera di comando... non so perché continuiamo a servirci di quella roba. Se l'ufficio personale andasse a confrontare la corrispondenza fra il rendimento degli ufficiali e le loro valutazioni personali, dovrebbe per forza ammettere che non servono a niente. È risultata nella media in tutto, a parte l'iniziativa, nella quale era nella media, ma in basso.» «E nella quale invece io la giudicherei piuttosto in alto» disse Pitak. «Non aspetta che le si dica di fare le cose, se sa quello che sta facendo.» «Il problema è, che cosa ne facciamo di questa ragazza?» chiese Dossignal. «Ce l'avremo per un paio di anni, e possiamo insegnarle un sacco di cose sulla manutenzione... ma è questo l'uso migliore che si può fare dei suoi talenti?» Seveche guardò Atarin e Pitak. «No, signore, non lo è. Sa parlare bene, è brava nell'analisi tattica... potrebbe essere un buon istruttore. Oppure...» La sua voce sfumò. «O il genere di comandante che è stata durante la battaglia di Xavier» concluse Dossignal. Per un momento il gruppo rimase in silenzio. «È una previsione rischiosa» borbottò Atarin. «Vero. Ma... confrontatela con ufficiali anche di grado molto più avanzato di lei, la prima volta che si trovano a comandare in battaglia. Penso che saremo tutti d'accordo nel dire che la ragazza ha delle capacità che ha mostrato solo di rado... capacità di cui la Flotta ha bisogno, se solo la ragazza potesse imparare a riconoscerle e coltivarle. E questo secondo me è il nostro compito: convincere questo giovane ufficiale potenzialmente straordinario a far vedere di cosa è capace.» «Ma come, signore?» chiese Pitak. «A me la ragazza è simpatica, davvero. Ma... è talmente riservata, anche con me, anche dopo tanto tempo. Come facciamo a far sì che si tolga il tappo?» «Non lo so» ammise Dossignal. «Il mio punto forte è il genio, non il combattimento. E non possiamo chiedere consiglio al capitano Hakin perché è già mezzo convinto che sia una traditrice. Ma se tutti siamo d'accordo che il tenente Suiza sarebbe meglio collocato altrove, possiamo per lo
meno stare in attesa che si presenti l'opportunità di darle una spintarella nella giusta direzione.» Atarin ridacchiò improvvisamente. «Quando penso a tutti i giovanotti che sognano di diventare eroici capitani di astronave... a tutti i figli di famiglie famose del tutto privi di talento... e noi siamo qui con un genio timido e inibito che avrebbe solo bisogno di un bel calcione del didietro...» «Spero soltanto che riusciamo a darglielo noi, quel calcione, prima che ci pensi la vita» disse Pitak. «Perché per quanto possiamo darglielo forte, la realtà può fare di peggio.» «Amen» finì Dossignal. Passò a un altro incartamento. «Adesso... vediamo i guardiamarina. Zintner, per esempio...» Esmay non incontrò il guardiamarina Serrano per un bel po'; a volte lo aveva visto giocare a pallamuro o esercitarsi con qualcuno sui materassini, ma non si era mai fatto avanti. Ora, la rotazione dei posti a tavola lo portò a sedere con lei. Esmay annuì nella sua direzione, mentre tutti gli altri si presentavano. «Lei è addetto ai sensori remoti, vero, guardiamarina?» «Sì, signore.» «Era la sua prima scelta?» «In realtà, no.» Fece una smorfia. «Ma subito dopo l'Accademia ho avuto un incarico breve, e poi ero sfasato per tutte le normali rotazioni a bordo di una nave.» «Incredibile» commentò un sottotenente alla sua destra. «Pensavo che i Serrano ottenessero sempre tutto quello che volevano.» Il guardiamarina Serrano si irrigidì per un attimo, ma poi scrollò le spalle. «È una reputazione forse non del tutto meritata» si limitò a dire, con voce incolore. «E qual è la sua specialità?» chiese Esmay al sottotenente. Come si chiamava? Plecht, o qualcosa del genere. «Sto facendo un corso avanzato» spiegò quello, come se dovesse farle una grande impressione. «Sto facendo una ricerca sulla fabbricazione dei materiali alle basse temperature. Ma probabilmente nessuno qui ci capirebbe niente, a meno che non fosse nello stesso campo.» Esmay considerò le sue possibilità, e decise di essere neutra. Stava già facendo la figura dell'idiota da solo. «Sono sicura che lei è molto bravo in quello che fa» disse quindi, con il massimo di imparzialità che riuscì a raggranellare. Evidentemente non fu comunque abbastanza, perché due dei
guardiamarina, non Barin Serrano, cercarono di sopprimere una risata e si fecero andare la zuppa di traverso. Mentre usciva, fu invitata due volte ad andare ad assistere alle finali di parpaun degli ufficiali inferiori. «No, grazie» disse in entrambi i casi. «Devo proprio passare un po' di tempo in palestra.» Non era una scusa: ogni volta che non si esercitava fino a essere fisicamente esausta gli incubi tornavano. Era sicura che col tempo sarebbe stata lei e non loro ad avere la meglio, ma per il momento preferiva passare un paio di ore al giorno a rincorrere la fatica. La partita di parpaun aveva diradato le presenze in palestra; Esmay vide solo altre tre persone, ciascuna impegnatissima nel suo programma. Accese la sua macchina favorita. Qualcuno aveva lasciato lo schermo da muro regolato come specchio; si trovò di fronte il proprio riflesso e subito distolse lo sguardo dalla sua faccia. Le sue gambe, vide, erano snelle e muscolose. Probabilmente avrebbe dovuto dedicarsi di più alla parte alta del corpo. Ma come? Non aveva voglia di andare a nuotare o di usare le macchine per il body-building. Quello che le sarebbe servito era una bella arrampicata su per una parete rocciosa, niente di troppo impegnativo, ma movimenti meno regolari di quelli che avrebbe richiesto una macchina. «Mi scusi, tenente...» Esmay sobbalzò, e subito si arrabbiò con se stessa per avere reagito così. Guardò chi aveva parlato: era il guardiamarina Serrano, con quello che privatamente aveva battezzato lo sguardo sulla faccia. «Sì?» disse. «Mi chiedevo... se al tenente... farebbe piacere un compagno per esercitarsi nella lotta.» Esmay lo fissò in preda ad assoluto stupore. Era l'ultima cosa che si sarebbe aspettata da un Serrano... da lui. «Non tu!» le scappò prima che potesse fermarsi. Serrano arrossì, ma non cedette. «Non io? Perché?» «Pensavo che tu fossi diverso» rispose. Questa volta capì: il rossore aumentò, poi divenne pallido quanto era possibile per uno con la carnagione bronzea dei Serrano, e si irrigidì per la rabbia. «Non ho nessun bisogno di leccarti i piedi. Mi basta l'influenza della mia famiglia...» Si fermò, ma Esmay sapeva che cosa stava per dire... che cosa avrebbe potuto dire. Con tutti gli ammiragli Serrano che aveva alle spalle, non aveva certo bisogno di lei. «Mi piacevi» continuò, ancora arrabbiato. «Sì, mia cugina ha fatto il tuo nome, e sì, certo, ho visto quello
che è passato sui media. Ma non è per quello...» Esmay si sentì in colpa per averlo giudicato male, e al tempo stesso, ironicamente, seccata con lui perché le aveva dato l'occasione di giudicarlo male. «Mi dispiace» si scusò, e avrebbe voluto sentirsi più magnanima nel dirlo. «Sono stata molto maleducata.» Lui la fissò. «Mi stai chiedendo scusa?» «Ma certo.» Anche questo uscì prima che Esmay potesse pensarci sopra, in un tono tanto sorpreso quanto era stato quello di lui, e che faceva chiaramente capire come nel suo mondo tutte le persone per bene chiedevano scusa. «Ho interpretato male le tue azioni...» «Ma tu sei...» Di nuovo il giovane si fermò, ripensando a quello che stava per dire. «È solo... non penso che fosse necessario scusarsi. Non per un tenente con un guardiamarina, anche se hai davvero interpretato male i miei motivi.» «Ma era un insulto» si oppose Esmay, che si stava calmando. «Avevi tutti i diritti di essere arrabbiato.» «Sì... ma il fatto che tu abbia fatto un errore e che p fossi arrabbiato non è sufficiente per chiedere scusa.» «E perché no?» «Perché...» Si guardò attorno. Esmay si rese conto che erano circondati da un silenzio insolito, e quando anche lei guardò in giro, gli altri presenti voltarono rapidamente la testa. «Non qui, signore. Se davvero vuole sapere...» «Voglio sapere.» Ora che aveva catturato un informatore disposto a darle delle spiegazioni, voleva sapere tutto, perché per anni era stata ferita dal modo in cui gli ufficiali della Flotta liquidavano con una scrollatina di spalle le scortesie che commettevano, senza chiedere scusa. «Allora, senza offesa, dovremmo trovare qualche altro posto.» «Per una volta vorrei essere a casa» disse Esmay. «Verrebbe da pensare che su una nave di queste dimensioni si potrebbe trovare un posto tranquillo in cui parlare e che non suggerisca l'idea sbagliata...» «Se il tenente accetta una proposta...» «Avanti.» «C'è sempre il Muro» disse «su nei giardini.» «Perché, i giardini non suggeriscono l'idea sbagliata?» chiese Esmay, sollevando un sopracciglio. Su Altipiano la suggerivano eccome: la frase "sono nel giardino" era sempre accompagnata da sorrisetti e sopracciglia alzate.
«No... il Muro. Da arrampicata. Anche se non si è mai arrampicata su una vera roccia...» «Eccome se l'ho fatto» disse Esmay. «Vuoi dire che avete una parete per rocciatori?» «Sì, signore. E la partita di parpaun non è ancora finita.» Esmay sorrise, sorprendendosi. «Avevo sentito dire che i Serrano sono subdoli. D'accordo. Mi piacerebbe vedere questa finta parete di roccia.» La parete, quando arrivarono, era piena di aspiranti arrampicatori completamente attrezzati. Esmay rimase a guardare le cime di sicurezza che pendevano dalla sommità. «Mi dispiace» si scusò Barin. «Pensavo che se ne fossero già andati, a quest'ora. Di solito il club rocciatori finisce prima, e nessun altro sembra mai usare la parete.» «Non importa» disse Esmay. «Nessuno sta badando a noi.» Esaminò la parete con attenzione. Gli appigli che gli scalatori usavano per appoggiare mani e piedi erano in fibroceramica, attaccati con chiodi di ferro alla parete. «Sembra divertente.» «Lo è, anche se io non sono molto bravo.» Barin guardò in alto. «Ma uno dei miei compagni di camerata è un grande entusiasta, e un paio di volte mi ha trascinato con lui. È per questo che so a che ora finiscono, in genere.» «Ehi, voi, venite su!» gridò qualcuno da sopra. Esmay infilò la mano in uno degli appigli. «No, grazie, non ho l'attrezzatura, e poi... stavamo solo facendo una chiacchierata.» «Una chiacchierata o una lavata di capo?» chiese Barin, e poi arrossì di nuovo. «Scusi, signore.» «Non c'è niente di cui scusarsi» ripeté Esmay. Attorno alla base della finta parete erano state disposte delle rocce ornamentali, per suddividere l'area dei rocciatori da quella dei giardini. Esmay trovò una roccia piatta e ci si sedette sopra. «Ma non ho intenzione di lasciarti andare così facilmente. Se mi puoi spiegare quali sono le usanze riguardo il fatto di chiedere scusa nella Flotta, ti sarò grata per sempre.» «Be', come ho detto, quello che hai chiamato un insulto non è poi una cosa molto importante... voglio dire, a meno che non desiderassi davvero la mia amicizia, ma quella è una cosa personale. È così sul tuo mondo?» Sul suo mondo, si sarebbero combattuti dei duelli, e l'onore sarebbe stato riguadagnato o perduto, per quelle scuse che la Flotta considerava del tutto inutili. Barin li avrebbe forse considerati dei barbari, perché la cosa aveva per loro un peso? «È diverso» rispose Esmay, cercando il modo di spiegar-
si senza far capire cosa pensava in realtà delle loro maniere. «Noi chiediamo scusa facilmente...» Lui annuì. «È per questo che il ca... che alcune persone ti ritengono insicura.» Esmay ignorò l'accenno, anche si chiese a quale capitano facesse riferimento. «Davvero?» «Sì... almeno questo è quello che ho sentito dire. Chiedi scusa per cose che noi... cioè, voglio dire la maggior parte delle famiglie della Flotta... daremmo per scontate. Per cui sembri insicura di quello che fai.» Esmay sbatté le palpebre, ripensando a tutti gli anni che aveva passato nella Flotta, fin dalla scuola preparatoria. Aveva fatto un sacco di errori, cosa che ovviamente si era aspettata. E si era fatta guidare dalle regole della sua famiglia: di' la verità, ammetti i tuoi errori, non fare lo stesso errore due volte, chiedi scusa prontamente e pienamente per i tuoi errori. Come potevano averla presa per debolezza e insicurezza quando voleva essere invece disponibilità a imparare, a essere guidata? «Capisco» disse lentamente, anche se ancora non capiva del tutto. «Dunque... quando fate un errore, voi non chiedete scusa?» «No, a meno che non si tratti di qualcosa di molto grave. Oh, certo, se pesti il piede a qualcuno dici "mi dispiace" ma non ne fai una procedura formale. Quando fai degli errori... li ammetti, ovviamente, ne accetti la responsabilità, ma le scuse sono date per scontate, si capisce che sono implicite.» Si sarebbe capito molto meglio, Esmay ne era sicura, se lo si fosse detto ad alta voce ed esplicitamente. Ma se quelli volevano essere maleducati, lei non li poteva cambiare. «È offensivo?» chiese, cercando di capire quali fossero i confini dell'educazione come veniva concepita nella Flotta. «Oh, no, non è offensivo. Un po' preoccupante, se qualcuno lo fa continuamente... rende i superiori un po' nervosi, perché non sanno quanto tutte quelle scuse siano sincere.» Esmay sentì le sue sopracciglia alzarsi. «Perché, la gente chiede scusa senza essere sincera?» «Ma certo» aggiunse Barin. Poi gettò un'altra occhiata alla sua faccia. «Da voi no» disse. Non era una domanda. «No.» Esmay prese un profondo respiro. Si sentiva come se avesse cavalcato lungo il letto di un fiume in secca e si fosse trovata all'improvviso nelle sabbie mobili. Continuò, velocemente, cercando di tradire meno emozione possibile nella sua voce. «Nel nostro... sul nostro pianeta, chiede-
re scusa dimostra che ci assumiamo la responsabilità dei nostri errori. È parte integrante dell'azione compiuta per porre rimedio all'errore e assicura che l'errore non verrà mai ripetuto.» Era quasi una citazione parola per parola dalle Convenzioni. «Delle scuse insincere sarebbero gravi quanto qualunque menzogna.» Cioè una cosa seria, voleva dire, e la bocca ancora le formicolava per il ricordo del peperoncino che era stato usato per insegnarle l'importanza di dire sempre la verità, per quanto scomoda o sgradevole fosse. Non aveva mai sospettato che le scuse di suo padre non fossero sincere... solo insufficienti, e giunte troppo tardi. «Affascinante» disse Barin, e dal tono voleva dire che lo pensava sul serio, che era una cosa autenticamente interessante e non il costume curioso di un mondo di barbari. «Dev'essere stato molto strano, se non sapevi... insomma...» «Capisco quello che intendi dire» lo prevenne Esmay. «È... un'idea nuova, per me, che chiedere scusa mi possa mettere nei guai.» «Be', non proprio nei guai, solo potrebbe dare un'idea sbagliata di quello che sei.» «Sì. Capisco. Grazie per l'informazione.» «Ma non c'è bisogno che mi ringrazi...» di nuovo quello sguardo meravigliato. «Invece sì, vero? Devi ringraziare così come devi chiedere scusa... il vostro mondo deve essere terribilmente formale.» «Per me, no» disse Esmay. Non si trattava di formalità, si trattava di rispetto per gli altri. La formalità era il pranzo del Giorno dei Fondatori, o le cerimonie di premiazione, non certo una delle gemelle che veniva a chiederle scusa per avere rotto la sua vecchia tazza blu. «Ti sembriamo... voglio dire, quelli che sono nati nella Flotta... ti sembrano maleducati?» Doveva rispondere? Non poteva mentire, e lui era stato sorprendentemente onesto con lei. «A volte» disse Esmay. Si sforzò di sorridere. «Suppongo che anch'io a volte sembro maleducata a voi... o a te.» «Non maleducata» la corresse lui. «Molto cortese... estremamente cortese, direi formale. Tutti dicono quanto sei carina ed educata... tanto carina ed educata che nessuno riesce a capire come hai potuto fare quello che hai fatto.» Esmay rabbrividì. Davvero pensavano che maleducazione e forza andassero assieme, che accompagnassero la capacità di uccidere, che qualcuno che diceva grazie e prego e scusi non fosse in grado di combattere, o di comandare in battaglia? Per un momento la colse una maligna soddisfa-
zione: se la milizia di Altipiano avesse mai abbandonato il pianeta, la Flotta non si sarebbe nemmeno resa conto di che cosa li aveva colpiti. "L'orgoglio è un frutto di cenere." Il vecchio proverbio le risuonò all'orecchio. "Amaro in bocca, sgradevole alle nari, bruciante negli occhi, e spazzato via dal primo vento della montagna. Non coltivate l'orgoglio, perché raccoglierete solo vergogna." Dovette quasi scuotere la testa per liberarla da quella voce antica. «Non sono sicura nemmeno io di come sia riuscita a portare a termine quello che ho fatto... oltre all'avere commesso un sacco di errori inutili.» «Errori! Hai fermato un'invasione della Benignità...» «Non da sola.» «Be', no, non eri là fuori da sola con il tuo cavallo bianco, al galoppo fra le stelle.» La sua voce era sarcastica quanto la sua espressione. Questa volta Esmay andò all'offensiva. «Perché tirate sempre fuori questa storia del cavallo bianco? Sì, certo, abbiamo tanti cavalli su Altipiano, ma da dove avete preso l'idea che siano tutti bianchi?» «Oh, questo non c'entra con Altipiano» spiegò Barin. «Viene dalle storie dei Cavalieri Bianchi, che appunto montavano tutti dei cavalli bianchi e passavano il tempo a compiere grandi imprese. Non le avevate anche voi?» «No, che io sappia» disse Esmay. «Le nostre favole parlavano di cose come Fratello Ciuco e il Cactus. O la Gente delle Stelle o i Nuotatori dell'Alba. Gli unici eroi a cavallo che conosca erano l'Orda Scintillante.» Barin sbatté le palpebre. «Sì, decisamente vieni da un altro mondo. Pensavo che tutti fossero cresciuti con i Cavalieri Bianchi, e non ho mai sentito parlare dei Nuotatori dell'Alba o di Fratello Ciuco. E l'Orda Scintillante... non erano antenati dell'Orda di Sangue, vero?» «No.» Il pensiero stesso la nauseava. «Sono solo leggende; pare che fossero gente con strani poteri, che mandava luce nel buio.» Freddò con un'occhiataccia la scintilla che si era accesa negli occhi di Barin. «Niente a che vedere con la radioattività» disse fermamente. I rocciatori erano tutti ridiscesi quasi fino a terra, e questo pose fine alla conversazione. Esmay li raggiunse per vedere che attrezzatura usavano (molto simile a quella che aveva avuto lei a casa), e si vide offrire molto più aiuto di quanto desiderasse, nel caso volesse unirsi anche lei al club. Le avrebbero insegnato come fare: poteva cominciare dalla parte per principianti. «Ho già scalato qualche sassolino» obiettò lei. «Be', allora dovresti proprio venire con noi» decise uno dei rocciatori.
«Abbiamo sempre bisogno di nuovi soci e sarai lassù prima di quanto tu pensi...» indicò la sommità della parete. «È una sensazione unica, e questa è la sola nave che conosco che possieda una vera parete di roccia.» Era talmente entusiasta del suo hobby che Esmay non si sentì imbarazzata: sarebbe stato pronto a dare il benvenuto a chiunque accettasse di levare i piedi da un ponte orizzontale. «Avanti... sali solo un poco, tanto per farmi vedere come ti muovi. Dai?» Esmay rise e cominciò a salire. Non si era arrampicata tanto quanto i suoi cugini maschi, ma aveva imparato come tendersi e spostare il centro di gravità senza allontanarsi dalla parete. Salì di poco più di un metro prima di perdere la presa e scivolare di nuovo a terra. «Buona partenza» commentò il rocciatore alto. «Devi riprovarci... a proposito, io sono Trey Sannin. Se hai bisogno di attrezzatura, abbiamo un sacco di roba negli armadietti del club.» «Grazie» disse Esmay. «Potrei farci un pensierino. Quand e che vi incontrate?» Sannin glielo disse, poi condusse via gli altri rocciatori. «E grazie» Esmay si rivolse a Barin. «Mi dispiace di averti giudicato male, e dovrai sorbirti le mie scuse, almeno stavolta.» «Più che volentieri» garantì lui. Aveva un bel sorriso, notò Esmay, e sentiva la tentazione di fidarsi di lui più di quanto non facesse già. Quella notte dormì bene, e sognò di scalare le pareti delle montagne di casa con un ragazzo dai capelli scuri che non era esattamente Barin Serrano. 11 Nelle decadi successive, Esmay si trovò a chiacchierare con Barin Serrano anche fuori dalla sala mensa. Una volta andarono ad arrampicare con tutto il club, e dopo un paio di ore passate a sudare sul Muro, Esmay non sarebbe riuscita più a sentirsi intimidita con nessuno degli arrampicatori, per non parlare di Barin. Poi si erano trovati nello stesso angolo durante uno dei ritrovi sociali degli ufficiali, semplicemente perché il guardiamarina Zentner aveva scoperto e conquistato il vassoio con i biscottini migliori e loro avevano osservato da lontano la manovra. Esmay non si permetteva di notare che gli incubi erano meno intensi dopo che aveva passato una serata con Barin e i suoi amici. Invece si concentrò su quello che poteva insegnarle delle procedure non ufficiali della Flotta. Gradualmente cominciò a pensare a lui sempre meno in termini di "quel
simpatico giovane Serrano", e sempre più come al genere di amico che non si era mai resa conto di desiderare. In sua compagnia, si trovò a fare altri amici. Zintner, che aveva passato tutta la vita immersa nell'ingegneria pesante e che quindi era la persona ideale a cui rivolgersi per un consiglio quando Pitak le affidava un problema per lei insolubile. Il tenente Forrester, che partecipava alle riunioni del club rocciatori più o meno una volta su due, e il cui temperamento solare illuminava ogni riunione. Cominciò a rendersi conto che non tutte le persone che la avvicinavano erano interessate solo alla sua notorietà. Una volta che ebbe iniziato a divertirsi di più, si mise a preoccuparsi di essere diventata troppo mondana, e di trascurare gli studi. «Ancora non so cosa fare per aiutare il maggiore Pitak» disse una notte a Barin. Si sentiva in colpa perché era andata a giocare a pallamuro quando avrebbe potuto studiare. Pitak sembrava contenta dei suoi progressi, ma se una nave avesse avuto bisogno di riparazioni in quel preciso momento, lei che cosa avrebbe potuto fare di concreto? «Sei troppo severa con te stessa» la rimproverò Barin. «E credimi, so di cosa parlo. I Serrano hanno la reputazione di essere severi con se stessi e con gli altri... ma tu sei a fondo scala.» «È necessario» gli spiegò lei. Quando aveva scoperto per la prima volta che se si imponeva degli standard abbastanza alti, le critiche degli altri non importavano più? «Non fino a questo punto» disse lui. «Blocchi un sacco di potenziale, di quello che potresti essere e potresti fare, se ti controlli così tanto.» Esmay rifiutò quest'idea. «Quello che potrei fare è studiare di più.» Barin le diede un pugno leggero su una spalla. «Abbiamo bisogno di te; Alana non si sente bene e non vuole giocare, e ci manca una persona.» «D'accordo.» Voleva aiutarlo, e la cosa la preoccupava. Perché reagiva così, quando aveva già scoperto di essere immune al fascino di Forrester, alto, bello e che le aveva già chiesto quello che Barin probabilmente non le avrebbe domandato mai? Non voleva complicazioni: voleva una semplice amicizia. Era un piacere che le bastava. La partita di pallamuro degenerò in una zuffa selvaggia perché la maggior parte dei giocatori decise di giocare con la gravità variabile. Esmay non voleva, ma fu messa in minoranza. «È più divertente» disse Zintner, programmando il controllo AI della gravità su CASUALE. «Vedrai.» «Sì, il fascino dell'occhio nero» aggiunse Alana, che per quella partita faceva da arbitro. «Io non gioco a gravità variabile, e nemmeno tu dovresti,
Esmay.» «Su, non fare la difficile» disse uno dei giocatori. Esmay scrollò le spalle e indossò l'obbligatorio elmetto di protezione degli occhi. Un'ora più tardi, sudati e pieni di lividi, uscirono barcollando dal terreno di gioco per scoprire che avevano un bel po' di spettatori. «Vigliacchi» disse Zintner a quelli che li avevano osservati attraverso i finestroni che davano sul Campetto. «È più facile per voi piccolini» commentò il giocatore più alto della squadra avversaria. «Quando il sangue vi va alla testa, non fa in tempo ad arrivare a una simile velocità.» Esmay non disse niente: il suo stomaco stava ancora cercando di decidere da che parte stava il pavimento, ed era contenta di non avere mangiato troppo a pranzo. Rifiutò un invito a rinfrescarsi in piscina, andò invece a farsi una doccia e si cambiò. A quel punto le era venuta fame. Fuori dalle docce trovò Barin che si coccolava un gomito gonfio. «Dovrai farlo vedere a qualcuno quel gomito, vero, guardiamarina?» disse. Avevano scoperto di condividere una grande riluttanza verso i medici, e adesso la usavano per sfottersi a vicenda. «Non è rotto, tenente» si oppose Barin. «Ritengo che non sarà necessario operare.» «Bene... allora forse si vorrà unire a me per mangiare un boccone?» «Penso che in effetti sia possibile che riesca a portare la mano alla bocca» rispose Barin, sogghignando. «E comunque è stata colpa del tenente Forrester. Ha cercato di prendermi la palla e ha messo il ginocchio sulla traiettoria del mio gomito.» Esmay cercò di ricordare cosa esattamente era successo: in un gioco a gravità variabile, un salto poteva trasformarsi in un tuffo non programmato e finire con un rimbalzo... ma si arrese. Mentre mangiavano, Esmay parlò per la prima volta dei suoi trascorsi con la famiglia di Barin. «Ho servito sulla stessa nave di Heris Serrano, quando ero ancora un guardiamarina. Era un buon ufficiale... io avevo tanta soggezione di lei. Quando ha avuto quei problemi ero così arrabbiata... e non sapevo cosa avrei potuto fare per aiutarla. Alla fine, non ho potuto fare proprio niente.» «Io l'ho incontrata una volta sola» raccontò Barin. «Mia nonna mi aveva parlato di lei... non tutto, ovviamente, solo quello che rientrava nella legalità. Mi ha mandato a portarle un messaggio; voleva usare solo noi di famiglia come corrieri. Non sapevamo chi di noi l'avrebbe trovata, e alla fine
il fortunato sono stato io.» Dal tono, Esmay non capiva se lui la considerasse una fortuna. «Non ti piaceva?» «Piacermi!» esclamò con una voce che Esmay non riuscì a decifrare. Poi, in tono meno esplosivo: «Non è una questione che mi piacesse o no. È... be', io sono abituato ai Serrano, sono uno di loro. Ci accusano sempre di essere arroganti, anche quando non lo siamo. Ma lei era... era più simile alla nonna di tutti gli altri.» Sorrise. «Mi ha offerto la cena. Era furibonda, all'inizio, quando sono arrivato, ma poi mi ha offerto la cena, in un locale costoso, e... be', lo sanno tutti che cosa ha fatto a Xavier.» «E tu hai finito per essere suo amico?» «Non credo.» Guardò nel piatto. «Credo che lei non consideri nessun Serrano suo amico, in questo momento, anche se ho sentito che con i suoi genitori parla di nuovo.» «Perché, non si parlavano?» «No. È complicato... secondo la nonna, lei pensava che l'avrebbero aiutata quando Lepescu l'ha minacciata, e invece loro non l'hanno fatto, e poi lei ha dato le dimissioni. È stato allora che la nonna ha detto a tutti di lasciarla stare.» «Ma pensavo che fosse in missione in incognito, allora.» «Anche, ma non so quando... non so che cosa stesse succedendo. La nonna dice che non sono affari miei, che devo tenere il naso fuori da tutta la faccenda e la bocca chiusa.» Esmay se lo immaginava benissimo, e si chiese come mai avesse violato quella proibizione con lei, anche se non del tutto. Anche lei aveva dei tabù che non avrebbe certo violato solo perché aveva trovato un nuovo amico. «L'ho incontrata dopo Xavier, naturalmente, ma soltanto per un momento» disse Esmay. In quei giorni cupi prima del processo, quando era sicura che l'avrebbero buttata fuori dalla Flotta, il ricordo del rispetto che aveva visto negli occhi scuri di Heris Serrano l'aveva confortata moltissimo. Avrebbe voluto meritarsi più spesso quello sguardo. «C'erano delle ragioni legali per tenerci separate, dicono.» Poi cambiò argomento, passando a qualcosa di meno pericoloso. Qualche giorno dopo, Barin le chiese di Altipiano, e lei si trovò a descrivere le praterie, le colline, le montagne, l'estancia della sua famiglia, la città di pietra, perfino le vetrate colorate che da bambina le erano piaciute tanto. «Chi è il vostro Seggio al Consiglio?» chiese Barin.
«Nessuno. Non abbiamo una rappresentanza diretta.» «Perché?» «Il nostro Fondatore morì. La Famiglia che servivamo. In teoria metà della milizia morì assieme alla Famiglia. Ci sono anche quelli che dicono che non è andata così, che la ragione per cui in Consiglio non c'è nessuno che venga da Altipiano è che si era trattato di un ammutinamento.» «E tua nonna cosa dice?» «Mia nonna?» Perché doveva avere qualche peso quello che diceva sua nonna? Oh... ma certo, perché la nonna di Barin era l'ammiraglio Serrano. «Papa Stefan dice che è una ridicola menzogna, e che Altipiano dovrebbe avere un seggio in Consiglio se non quattro o cinque.» E di fronte al suo sguardo, si trovò a spiegare. «Su Altipiano, non è come nella Flotta... sebbene abbiamo un corpo militare anche noi. Gli uomini e le donne non fanno le stesse cose... come mestiere, voglio dire. Quasi tutti i militari, e praticamente tutti gli ufficiali con funzioni di comando, sono uomini. Le donne mandano avanti le estancia, e la maggior parte delle agenzie governative che non hanno direttamente a che fare con l'esercito.» «Strano» disse Barin. «Come mai?» Esmay odiava doverci pensare, per non dire parlarne. «È roba vecchia» rispose, in tono noncurante. «È solo che su Altipiano si fa così, ecco tutto.» «È per questo che te ne sei andata? Tuo padre era... un comandante di settore, no? Ma tu non potevi entrare nell'esercito.» Esmay stava sudando: sentiva il sudore che le pizzicava la schiena, fra le scapole. «Non esattamente. Senti... non ne voglio parlare.» Barin allargò le mani. «D'accordo... non ti ho mai chiesto niente, tu non ti sei turbata, possiamo tornare a parlare dei miei parenti, se preferisci.» Esmay annuì, infilzando con la forchetta del cibo che nemmeno guardava, e lui cominciò a raccontare una storia su suo cugino Esser, che durante le vacanze estive si era sempre comportato come un terribile tiranno con gli altri cugini. Esmay non sapeva se fosse vero e sapeva che non era quello il punto. Barin stava comportandosi con cortesia: ed era lei ad averlo costretto, il che in sé era umiliante. Quella notte gli incubi tornarono, e furono fra i peggiori che avesse mai avuto. Si svegliò ansimando dalla battaglia sulla Despite solo per trovarsi nel corpo della bambina terrorizzata che non riusciva a liberarsi dal suo assalitore... e da quello passò a rivivere i giorni peggiori trascorsi in ospedale. Incubo dopo incubo, fuoco, fumo e dolore, e voci che le dicevano che
andava tutto bene anche se bruciava di febbre e si contorceva per il dolore. Finalmente smise di tentare di dormire, e accese la luce della cabina. Quella storia doveva finire. Doveva farla finire. Doveva tornare sana di mente, in qualche modo. La soluzione più ovvia si presentò, e lei la scacciò via. Aveva già abbastanza note negative sulla sua scheda, con la Commissione d'Inchiesta e la corte marziale e quella ridicola medaglia che le avevano dato su Altipiano... se avesse aggiunto anche una nota psichiatrica sulla sua cartella clinica non avrebbe mai potuto ottenere quello che voleva. Ma che cosa voleva? La domanda non le si era mai presentata così chiara in passato, però in quella notte di desolazione dovette affrontarla di petto. Voleva... fino a poco tempo prima avrebbe detto "la sicurezza". La sicurezza dal suo passato che la Flotta poteva offrirle. Ma l'uomo era morto, la menzogna rivelata... era al sicuro, in quel senso. Che cosa voleva veramente, allora? Nella sua mente roteavano frammenti di ricordi, brevi e vividi come quelli di un trauma. Quel momento sul ponte della Despite in cui aveva dato l'ordine di tornare a Xavier... il momento in cui aveva dato l'ordine di aprire il fuoco, e il grande incrociatore nemico era saltato in aria. Il rispetto che aveva visto sui volti degli spettatori alla sua presentazione, quando perfino gli ammiragli... perfino il comandante, nonostante tutto... avevano ammirato il modo in cui aveva esposto i fatti. Per non parlare della stima degli ufficiali inferiori, che si vergognava di avere tanto goduto. Le amicizie che cominciava a coltivare, fragili come virgulti primaverili. Ecco cosa voleva: quei momenti, e altri momenti simili. Voleva essere al comando, e fare le cose giuste. Usare i talenti che aveva dimostrato, anche a se stessa, di avere. Il riconoscimento dei suoi pari, la loro amicizia. La vita, semplicemente. Il lato critico della sua mente le fece notare acido che era improbabile che le capitassero molti altri momenti del genere in una carriera di specialista del genio, a meno che non prendesse l'abitudine di servire a bordo di navi con un capitano traditore o incompetente. Non era brava come altri nelle cose tecniche: studiava duramente, e riusciva a diventare competente... ma mai brillante. "Sei troppo dura con te stessa." No, non era abbastanza dura con se stessa, semmai. La vita sarebbe sempre stata più dura di lei: era necessario precederla. "Stai bloccando le tue capacità." Che cosa pensava che potesse diventare, quel ragazzino? Era solo un bambino... un bambino dei Serrano,
le ricordò il suo lato critico. Be'... dunque il Serrano non pensava che stesse sfruttando i suoi talenti. Come se la sapesse tanto lunga. Come se... Non poteva certo chiedere il trasferimento alla carriera di comando ora, dopo tutti quegli anni passati nella carriera tecnica. E poi non la voleva, la carriera di comando. O no? Aveva odiato ogni minuto passato in combattimento, dall'inizio dell'ammutinamento all'ultimo colpo fortunato che aveva fatto esplodere l'incrociatore come un frutto maturo. Cercò di scacciare il ricordo dell'altro sentimento, che aveva accompagnato la paura, il disgusto e l'orrore per lo spreco... perché era un sentimento troppo seducente per potersene fidare. E poi chi poteva essere sicuro dei sentimenti che provava, in momenti come quelli? Forse avrebbe potuto dedicarsi all'insegnamento... sapeva di essere brava a spiegare concetti complicati. Il suo professore di storia glielo aveva anche suggerito. Perché aveva rifiutato con tanta foga quell'offerta per rifugiarsi proprio nella specialità in cui aveva meno successo? La sua mente si contorceva e lottava come un pesce all'amo, incapace di sfuggire alla sgradevole realtà che si era messa in trappola da sé, stupidamente, ciecamente. Come un pesce, altroché... proprio lei, che era nata per nuotare libera. Ma dove? La mattina dopo era talmente stanca che il maggiore Pitak lo notò. «Una notte di follie, Suiza?» «Solo una brutta notte, maggiore.» Lo disse con tutta la noncuranza possibile senza risultare scortese. Pitak la fissò a lungo negli occhi. «Molta gente ha degli incubi dopo un combattimento, sa. Nessuno penserà male di lei se ne parla con qualcuno in infermeria.» «Sto bene» rispose in fretta. «Signore.» Pitak continuò a guardarla, ed Esmay si sentì arrossire. «Se dovessi peggiorare, signore, terrò a mente il suo consiglio.» «Bene» concluse Pitak. Poi, proprio quando Esmay stava rilassandosi, parlò di nuovo. «Se non le dispiace parlarne, potrei sapere che cosa l'ha spinta a scegliere la carriera di specialista invece di quella di comando?» Esmay si sentì mancare il fiato. Non si aspettava una simile domanda proprio qui. «Io... non credo che riuscirei bene come comandante.» «Come mai?» Cercò di inventarsi qualcosa. «Be'... non sono di una famiglia della Flotta. È una cosa che si eredita.» «Vuole dirmi che davvero, onestamente, non ha mai desiderato comandare un'unità fino a che non è finita al comando della Despite?»
«No, io... quando ero bambina, certo, facevo dei sogni a occhi aperti. Vengo da una famiglia di militari, non mi sono mancate le storie di eroi. Ma io volevo lo spazio, e basta. Quando sono arrivata alla scuola preparatoria, gli altri erano tutti tanto più bravi di me...» «I suoi punteggi iniziali per la capacità di comando erano alti.» «Credo che mi abbiano un po' favorito per compensare il fatto che ero nata su un pianeta» spiegò Esmay. Era così che se lo era spiegato, per anni, mentre i suoi punteggi scemavano man mano. Fino a Xavier, fino all'ammutinamento. «Lei non ha un cervello da specialista tecnico, Suiza. Lavora duro, è in gamba, ma non ha talento in questo campo. Quelle presentazioni che ha fatto, la tesina che ha scritto per me... quello non è il modo in cui ragiona uno specialista tecnico.» «Sto cercando di imparare...» «Non ho mai detto che lei non stia facendo del suo meglio.» Dal tono sembrava che Pitak pensasse il contrario: sembrava quasi seccata. «Ma mettiamola così: la sua famiglia cercherebbe mai di usare un cavallo da corsa come bestia da soma?» Per qualche ragione questo tentativo di mettere la questione in termini adatti alla sua cultura la irritò. Era come se sentisse il suo corpo cambiare, con lunghe gambe scure che si piegavano all'indietro, che si piantavano nel fango, resistendo. «Se avessero bisogno di trasportare dei pesi, e il cavallo fosse lì...» Poi, prima che Pitak potesse esplodere, continuò con: «Capisco cosa vuol dire, signore, ma non ho mai pensato di essere... un cavallo da corsa incapace di portare un peso.» «Mi chiedo che cosa si aspettava dalla Flotta» disse Pitak, come parlando a se stessa. «Un posto di lavoro» rispose Esmay. «Lontano da Altipiano.» Era la cosa più onesta che potesse dire, a quel punto, senza entrare in questioni che non aveva intenzione di discutere con nessuno, né in quel momento né mai. Pitak le lanciò quella che era quasi un'occhiataccia. «Ragazzina, questa Flotta non è "un posto di lavoro lontano da casa".» «Non volevo dire solo un mestiere...» «Vorrei ben sperare. Dannazione, Suiza, a volte sembra che lei ci sia così vicina... e poi se ne viene fuori con una trovata del genere.» «Mi scusi, signore.» «E poi si scusa. Suiza, non so come abbia fatto a fare quello che ha fatto
a Xavier, ma sarà meglio che una risposta lei la trovi, perché è lì che sta il suo talento. E se non mette a frutto le sue capacità, finirà per farle marcire. Mi sono spiegata?» «Sì, signore.» Spiegata? Era chiaro come un abbeveratoio in cui una mandria avesse suscitato dense nuvole di fango. Aveva la sensazione sgradevole che Barin non sarebbe stato in grado di spiegarle cosa era appena avvenuto, anche perché lei sarebbe stata troppo in imbarazzo per poterglielo chiedere. «Le ho messo la pulce nell'orecchio» annunciò Pitak al capitano Seveche. «E?» «E poi per poco non ho perso la calma e l'ho picchiata. Non la capisco, quella ragazza. È come se fosse due persone diverse, a volte anche tre. Ti dà l'impressione di essere enormemente capace, di avere temperamento, e poi all'improvviso sparisce come l'acqua giù per un tombino. Non ho mai visto niente del genere, ed ero convinta di avere visto ogni tipo di stranezza che non fosse stata acchiappata prima dalle psicotate. Un momento è lì presente... e il momento dopo è sparita. Ho cercato di suggerirle di andare a parlare della sua esperienza di combattimento con un terapeuta, e si è tirata indietro come se avessi minacciato di buttarla fuori da un portello.» «Non siamo stati i primi comandanti che ha lasciato perplessi» le ricordò Seveche. «Per questo tutti erano tanto sorpresi quando...» «La buona notizia è che sta uscendo dal guscio, almeno con qualcuno dei giovani» disse Pitak. «Quel guardiamarina Serrano e qualcun altro.» «Il giovane Serrano? Non sono tanto sicuro che sia una buona cosa. C'erano due Serrano a Xavier.» Pitak scrollò le spalle. «Non vedo che male possa fare. Questo è troppo giovane, quelle due erano sue superiori di grado. E poi non stanno certo complottando per ammutinarsi: vanno a scalare il Muro, e di tanto in tanto fanno una partita a pallamuro tutti assieme. Io spero che l'arroganza dei Serrano riesca a penetrare quel suo guscio, di qualunque cosa sia fatto, e liberi la sua abilità di comandante.» «Speriamo. Non vede solo lui, vero?» «No. Ho saputo tutto questo dalla giovane Zintner, che gioca a pallamuro con loro. Dice che Suiza odia giocare con la gravità variabile ma si adatta, per amore di compagnia. Non le ho chiesto niente, ma mi ha detto spontaneamente che ci sono un paio di giovanotti che stanno dando la caccia a
Suiza, però senza molto successo. "Non che sia fredda, quando impari a conoscerla, è solo molto riservata" è quello che mi ha detto Zintner.» Seveche sospirò. «Sta nascondendo qualcosa, tutti gli inferiori nascondono qualcosa, anche quando non se ne rendono conto.» «E noi no?» chiese Pitak. «Certo, ma noi lo sappiamo. Il vantaggio della maturità è che noi sappiamo dove abbiamo messo tutti gli scheletri, e sappiamo che tutto quello che seppellisci può venire esumato. Generalmente nel momento meno opportuno.» «Ma Suiza?» «Lasciamola stare per un po'. Vediamo se arriva a combinare qualcosa da sola, adesso che hai buttato lì l'idea. Siamo tutti d'accordo che la ragazza non è stupida. Resterà qui un paio di anni, comunque, e se per la prossima valutazione del personale non si è sbloccata, faremo un altro tentativo. Sempre che, come stavamo dicendo, la vita non le dia prima il calcio nel didietro di cui ha bisogno.» Esmay guardò quello che stava facendo, risentita. Sapeva che non era un sentimento da coltivare per un ufficiale inferiore... non era produttivo, non era utile, anche quando era giustificato. In questo caso, non era nemmeno giustificato. Aveva simpatia per il maggiore Pitak ed era sicura che fosse sincera e in buona fede; se Pitak diceva che lei non aveva la mentalità di un tecnico, allora doveva essere vero. Cercò di ignorare quella parte piagnucolosa di sé che avrebbe solo voluto frignare per tutte le ore di studio diligente, di sacrificio... «Stupida!» disse a voce alta, sorprendendo tanto se stessa quanto il capo Sivers, che era arrivato a portare qualcosa per il maggiore Pitak. «Mi scusi» disse Esmay, sentendo che il volto le avvampava. «Stavo pensando a qualcos'altro.» «Non si preoccupi, tenente» la rassicurò Sivers, con il tono indulgente di un sottufficiale carico di esperienza nei confronti di un ufficiale molto giovane, che tollera solo per una sorta di immeritato affetto. O almeno così sembrò a Esmay, accrescendo oltremodo il suo rancore. «Capo, lei come fa a sapere se un ufficiale è tagliato per questo lavoro?» Sivers le scoccò un'occhiata significava: non erano affari che la riguardassero, ma poi si appoggiò alla paratia e le rispose. «Certi vedi subito, appena arrivano, che hanno un tocco geniale per il lavoro, non puoi avere dubbi. Ricordo un tizio, sei o sette anni fa, arrivato qui fresco fresco di ad-
destramento di base, che quando gli avevano fatto gli esami per vedere dove assegnarlo non sapevano neanche che voto dargli tanto era bravo. Be', ne avevamo avuti già altri con voti alti... ma questo ragazzo non poteva lavorare su qualcosa senza farlo funzionare meglio di prima. Dopo due giorni ci eravamo già resi conto di cosa avevamo per le mani; nel giro di una decade passavamo il tempo a trattenere il fiato sperando che non incrociasse sulla sua strada nessuno di importante, perché aveva l'abitudine di dire tutto quello che pensava.» Sorrise al ricordo. «Questo è stato prima di essere a bordo della Kos, sa, la stavano costruendo, e lavoravamo alla Stazione Sierra, allora. Il maggiore Pitak era un tenente, proprio come lei adesso, solo che era già lei, se capisce quello che voglio dire. Be', un giorno questo ragazzino le ha risposto in malo modo, e lei è diventata del colore della policolla scaduta. Poi ha sbattuto gli occhi, mi ha guardato, e ha detto che il ragazzino aveva ragione, e se n'è andata. Il che mi ha chiarito un sacco di cose su tutti e due, anche se naturalmente ho dovuto fare una lavata capo di quelle storiche al ragazzino, per avere mancato di rispetto a un ufficiale. Non era veramente mancanza di rispetto; è solo che era consapevole delle proprie capacità, e non si preoccupava di nasconderlo.» «E quelli che non sono tagliati?» «Be'... io quelli disposti a lavorare duro li vedo subito, e questo naturalmente aiuta sempre. Tutti quelli che sono abbastanza in gamba da passare gli esami e che sono disposti a lavorare duro, come fa lei, possono imparare abbastanza da rendersi utili. Ma non c'è niente che sostituisca l'intuito, il talento... non so spiegarle, tenente. Uno o ha il bernoccolo per i materiali, o non ce l'ha. Alcuni hanno un talento particolare molto limitato... magari sono dei geni coi sensori, e non capiscono nulla di nient'altro. Altri hanno una specie di talento generale per tutta la roba tecnica, e si possono occupare praticamente di qualunque sistema.» «E si è mai sbagliato?» chiese Esmay. Sivers si morse il labbro. «Qualche volta... ma in genere su cose che non avevano nulla a che fare con il talento. Mi sfuggivano altri particolari su di loro, che poi interferivano. Ricordo un sergente, che si era trasferito dal settore 11, con voti fuori scala. Avrebbe dovuto subito sembrarci strano... come che un altro settore se lo lasciava scappare, se era così bravo? Ma ci mancava personale, come sempre, ed era bravissimo.» «E allora cos'aveva che non andava?» «Malignità allo stato puro. A quanto pareva si divertiva solo a creare problemi: nella sua squadra, nel dormitorio, da per tutto. Metteva le perso-
ne luna contro l'altra, riduceva la verità a un osso spolpato ma sempre in modo da poter spiegare che non si trattava veramente di menzogne. Non faceva niente che fosse contro le regole, in quanto a questo ci stava sempre attento, ma arrivati a metà del suo assegnamento avremmo fatto carte false per disfarcene. O almeno le avrei fatte io. Ero appena stato promosso capo, e avrei voluto che la mia sezione filasse liscia come l'olio, e invece avevo questo stronzo che mi intorbidava le acque. Alla fine ce ne siamo disfatti, ma non è stato facile.» A giudicare dal tono, non aveva nessuna voglia di entrare nei dettagli, ed Esmay non insistette. «E poi c'era un ragazzo che era bravissimo quando riusciva a concentrarsi sul lavoro, ma era sempre in preda a grandi drammi emotivi. Aveva sempre qualcosa, o meglio, qualcuno che lo faceva disperare. Alla fine riuscimmo a convincere i medici ad aiutarlo, ma a quel punto chiese un trasferimento. Ho sentito che se la sta cavando benone nel settore 8.» Sorrise a Esmay mentre si tirava su dal muro e faceva per uscire. «Continui ad applicarsi, tenente, e vedrà che andrà bene.» E così anche lui sapeva che non era tagliata per quel lavoro. Esmay resistette alla tentazione infantile di tirargli dietro qualcosa. A cena, quella sera, parlò meno del solito, ascoltando il chiacchiericcio alla sua tavola. Anche il genio dei materiali speciali non stava parlando: aveva l'espressione lontana di chi sta risolvendo a mente problemi complicati. Barin Serrano stava descrivendo i suoi tentativi di ricalibrare un sensore di gravità sui quali connettori, per dirla con parole sue "qualcuno aveva ballato il tip-tap". Sembrava contento, però, e il sottotenente in fondo al tavolo, che discuteva della sua storia d'amore, sembrava ancora più contenta. Forse era solo la mancanza di sonno che le faceva desiderare di nascondersi sotto la tavola. Aveva avuto incubi per tutta la notte, e una conversazione con il suo comandante che non aveva capito e che l'aveva profondamente delusa; aveva tutti i diritti di sentirsi giù. Non mangiò il dessert, e decise di andare a letto presto. «L'ho trovato» annunciò Arhos. «Ed è uno di quelli rognosi.» «Non troppo diverso da quello che ci hanno detto, spero» disse Losa. «No... ma a quanto pare il capitano è un po' paranoico, e lo sposta di qua e di là continuamente. E controlla periodicamente che il circuito funzioni, per essere sicuro.» «Dunque dobbiamo inserire anche un circuito per simulare il funziona-
mento?» «Sì. Ho tutti i dettagli... è incredibile quello che questa gente è disposta a dire quando pensa che ti stanno a cuore i suoi problemi. C'è un capo convinto che il capitano ce l'abbia con lui per via di un vecchio scherzo che in realtà è stato ideato da un'altra persona... ed era talmente ansioso di convincermi di quanto ingiusto e irragionevole fosse il capitano Hakin, che praticamente mi ha offerto l'intero meccanismo su un chip.» «Allora, quando procediamo?» «Il capitano l'ha controllato due giorni fa. Lo controlla a intervalli irregolari, secondo uno schema che solo lui conosce, ma finora non l'ha mai fatto più spesso di una volta ogni cinque giorni. Quindi facciamo il grosso domani, e questo dovrebbe lasciarci un paio di giorni per controllare il circuito a prova di controllo, diciamo.» «Spero che sia una decisione» commentò Losa, aggrottando la fronte. «Voglio dire, siamo bloccati qui su questa nave, e non possiamo fare finta di non sapere a cosa serve...» «Io, sì» intervenne Arhos. «Se è per guadagnarmi l'immortalità, posso fare finta di non sapere un sacco di cose.» «Ma se dovesse comparire l'Orda di Sangue...» «Qui? Dove le nostre efficienti scorte li spingerebbero nella bocca di tutti gli incrociatori che ci circondano perché se ne facciano un boccone? Mi rifiuto di preoccuparmi; e poi non c'è nulla che possiamo fare. Per quanto mi riguarda, su questa nave c'è un capitano pericolosamente affetto da paranoia, che potrebbe da un momento all'altro vedere un granello di polvere sullo schermo di un sensore e decidere che si tratta di una flotta nemica... e quindi decidere che è suo preciso e imprescindibile dovere farci saltare tutti in aria. Fintanto che sono a bordo di questa nave io voglio con particolare intensità che quel congegno sia sottratto al suo arbitrio, in modo da non dover vedere sfumare la possibilità di una lunga vita felice per colpa di una testa di cazzo.» «Allora non piace neanche a te questa cosa» concluse Losa, soddisfatta. «Mi piace moltissimo.» «No, invece. Ogni volta che ti metti a parlare in modo così fiorito vuol dire che hai dei dubbi. Dubbi seri. Penso che dovremmo mantenere noi il controllo di quel congegno.» Arhos ci pensò su. «Non è una cattiva idea. Se non altro ti farà stare tranquilla. Gori?» «Mi va bene. Quando, domani?»
«Be'... il modo più semplice di accedere al congegno è attraverso il deposito scorte sul ponte Dieci, di là nel T-4. E in quella stiva ci sono dei componenti d'arma.» «Ma guarda che fortuna» disse Losa. «E guarda caso, il computer indica che sono sistemati proprio nel punto che ci serve...» «Ci hai messo mano, Arhos.» Sorrise. «A che serve avere il talento se uno non lo mette a frutto? È vero, ho... trasposto dei numeri nel database, ma... è stato per una buona causa.» «Lo spero» disse Losa. «Lo spero proprio.» Con il loro equipaggiamento più sofisticato riuscirono a localizzare e ingannare il sensore che avrebbe in teoria dovuto impedire a chiunque di sabotare il congegno di autodistruzione. Gli ci volle circa un giorno per creare i circoli viziosi di rilevazione da inserire nel sensore mentre lavoravano. Un altro giorno o poco più per creare un'occasione credibile che li avrebbe obbligati a tornare in quella stiva. Alla fine si trovarono sul posto, e il congegno, nella sua custodia, era esattamente come se l'erano aspettato. «Ecco la parte difficile» disse Arhos, ma non sembrava preoccupato. La custodia venne aperta rapidamente, i controlli cedettero alla loro intrusione, i codici vennero cambiati... e le spie rimasero amabilmente verdi. «Tanto vale che proviamo a controllarlo» suggerì Gori. «Tanto vale... abbiamo dieci minuti.» Arhos annuì a Losa, che infilò una sonda intercettore nella linea di controllo del capitano e inserì un codice a due livelli. Le spie diventarono, in successione, tutte gialle. Inserì un altro codice, e tutte ridiventarono verdi. «Splendido» disse Gori. «Adoro quando ci va bene la prima volta.» «Sempre che questo significhi che ci è andata bene» borbottò Losa. Arhos sorrise. «Tre ringiovanimenti, Lo. Tre, di prima classe, con la garanzia dei farmaci più sicuri. Ci è andata bene.» Finì di rimettere tutto a posto, esattamente come l'avevano trovato, compreso un minuscolo pezzo di metallo posto, come per caso, a mezzo centimetro dall'angolo anteriore destro della custodia. «Vivremo per sempre» ripeté, indietreggiando e pulendo il ponte davanti a sé. «Per sempre, e saremo molto, molto ricchi.» Quella notte tirarono fuori una delle bottiglie speciali che aveva portato da casa e brindarono. A beneficio dei sensori della nave, si congratularono dei progressi fatti nel riprogrammare le armi. Era una deliziosa ironia. Ar-
hos dormì profondamente e sognò il futuro, in cui sarebbero stati tanto ricchi, e tanto famosi, da non avere mai più bisogno di firmare un altro contratto con l'Orda di Sangue. 12 Esmay dormiva, e stava sognando qualcosa di diverso, per una volta, quando suonò una sirena d'allarme, che la fece balzare a sedere sul letto ancora prima di svegliarsi. Sentiva voci lungo tutto il corridoio; il cuore le sfarfallava nel petto e si sentiva coperta di sudore freddo. Ma mentre si vestiva aveva già capito di che genere di emergenza si trattava: una nave in avaria in avvicinamento. Niente ammutinamenti. Niente battaglie. Niente, si disse fermamente, di così grave. Non per lei. Mentre si vestiva e correva lungo il corridoio e su per le scale che portavano alla sua sezione, si sentì scombussolare lo stomaco come succedeva sempre quando una nave forzava il passaggio attraverso un punto di salto. La paura tornò ad arrampicarsi, vertebra dopo vertebra, lungo la sua spina dorsale. Le CRSP non erano costruite per correre qui e là e saltare: si muovevano con passo lento e solenne, adatto alla loro massa e architettura interna. Adesso, dopo avere passato tanto tempo in Scafi e Architettura, capiva che non si trattava semplicemente di aumentare la potenza... e sapeva cosa si era sacrificato nel fare la Koskiusko tanto grande e massiccia. Che cosa era successo? Dove stavano andando? E, cosa più importante, stavano fuggendo da un pericolo, o correndoci incontro? Scafi e Architettura, come tutte le altre sezioni, sembrava un formicaio a cui qualcuno avesse dato un calcio. Nella sala istruzioni del dipartimento, il comandante Seveche stava facendo vedere un cubo. «Ah... Suiza. Attacchi la sua tavoletta, è interessante.» Esmay collegò la sua tavoletta, e si assicurò che registrasse quello che veniva mostrato. La maggior parte del personale di Scafi e Architettura era nella sala quando Seveche cominciò a parlare: il resto entrò nei primi minuti della riunione. «Ecco quello che ci hanno detto per ora, anche se tutti sappiamo che poi quando vedremo le cose coi nostri occhi saranno certamente peggiori. La Wraith è un nave pattuglia, varata dieci anni fa dai Cantieri Dalverie, uno scafo SLP della Serie 30...» Ci furono dei gemiti soffocati, che ormai Esmay sapeva interpretare. Le SLP Serie 30 erano soprannominate "fa' un po' tu", perché la loro architettura si prestava a modifiche non autorizzate e generalmente dannose. «Si è trovata impegnata in un combattimento con
l'Orda di Sangue che, nonostante l'inferiorità tecnologica, è riuscita a distruggere praticamente tutto il suo sistema di sensori e poi a bastonarla a dovere con dell'esplosivo pesante. Abbiamo un cedimento degli scudi sull'arco di sinistra, a pruavia dell'ordinata 19...» Esmay adesso sapeva esattamente dove si trovava l'ordinata 19, su quella classe e quella serie. «... con conseguenti danni nei compartimenti d'arma di prua e una falla nello scafo in questo punto...» Seveche indicò l'intersezione fra l'ordinata 19 e la trozza 7. «E viene dentro?» Qualcuno con meno remore di Esmay aveva dato voce alla sua stessa sorpresa. «È stata fortunata» disse Seveche. «Sono riusciti ad accecarle i sensori, ma le sue compagne di pattuglia ci vedevano benissimo. La Sting e la Justice erano nel sistema, e sono riuscite a mettere in fuga le navi dell'Orda. La Wraith ha riportato ingenti danni, naturalmente, ma sono riusciti a rimetterla in sesto quel tanto che bastava da farle compiere un salto. Non due, però: dopo il primo salto, lo scafo ha ricominciato a perdere, e non avevano più nulla per rappezzarlo. E così, come senza dubbio vi sarete già accorti tutti, siamo saltati noi, per andarli a raggiungere.» Nessuno disse nulla, questa volta, ma i volti tesi attorno a Esmay parlavano abbastanza chiaro. Le CRSP restavano sempre e decisamente nelle retrovie per un ottimo motivo: non potevano combattere, manovrare o scappare. Se venivano attaccate... «Ho ricordato al nostro capitano che la vecchia Kos non è una nave scorta» disse Seveche con una sfumatura sarcastica. «Ma non dovremmo avere comunque problemi. La metà dei nostri scafi di difesa è saltata prima di noi, e il resto ha fatto il salto con noi. E avremo anche la Sting e la Justice. E sembra che tutte le apparecchiature sperimentali a bordo della Justice abbiano funzionato a dovere.» «Quanto abbiamo?» chiese Pitak. «Dovremmo entrare nel sistema fra...» Seveche guardò il cronometro. «Settantotto ore e diciotto minuti. Effettueremo una serie di salti di inserzione rapida, uscendo dall'ultimo con una velocità relativa piuttosto bassa; traineranno la Wraith fino a noi.» Seveche continuò a esporre la situazione. «Non sapremo altro dei danni strutturali fino a che non saremo usciti dall'ultimo salto: stiamo spingendo questa nave al massimo, e non ci fermiamo nemmeno a raccogliere i messaggi. Per quanto ne sappiamo, la Wraith potrebbe non farcela ad attendere il nostro arrivo.»
Quando la Koskiusko ebbe completato l'ultimo salto, Esmay era già stata praticamente in tutta la nave, a fare commissioni per il maggiore Pitak. «Non si offenda, ma lei non sa ancora abbastanza da rendersi utile, e io ho bisogno di qualcuno che ci faccia da collegamento con gli altri dipartimenti. L'interfonico è sovraccarico, o lo sarà presto.» Esmay non si sentiva affatto offesa. Era disponibilissima a controllare con la Gestione Scorte che ci fosse una provvista sufficiente di fissaggi, tipo stella, 85 mm, passo 1/10, intervallo 3 mm (diede un colpetto affettuoso alle scatole: erano i suoi fissaggi, quelli), a chiedere al capo dei Sistemi d'Arma qual era la sua stima del danno subito dalla Wraith quando con il cedimento dello scafo i suoi stessi armamenti erano esplosi, ad arrampicarsi nei magazzini pieni di pezzi di ricambio strutturali, controllando ciascuno con degli strumenti che avrebbero dovuto rivelare qualunque difetto o deformità pericolosi. Tutto era stato già controllato prima, e sarebbe stato controllato di nuovo, ma lei capiva perché il suo compito era necessario. Capita sempre di fare un errore. L'uniforme del colore sbagliato finisce sulla persona che... ma no, non aveva tempo di pensare a quello. Aveva evitato l'ospedale, nella convinzione superstiziosa che qualunque psicotata di passaggio avrebbe visto subito dalla sua faccia che custodiva terribili segreti, e l'avrebbe fatta riformare per ragioni psichiatriche prima che lei potesse protestare. Ma nelle ultime ore, prima di raggiungere la Wraith, Pitak la mandò proprio lì, per coordinare la ricerca e il salvataggio del personale, che dovevano effettuare i medici, con quello che si sapeva dello scafo e dei suoi problemi. L'ospedale occupava una buona fetta del T-5, con tanto di sale operatorie, sale di decontaminazione, vasche di rigenerazione, vasche di crescita neurale assistita, laboratori diagnostici... L'equivalente di un ospedale di settore. Esmay lo trovò nello stesso stato di frenetica agitazione del suo reparto, e fu rimpallata da una scrivania all'altra fino a che non riuscì a trovare l'unità Traumatologia. Esmay consegnò il cubo che Pitak aveva preparato, aggiornato fin dall'ultimo salto con i dati trasmessi direttamente dalla Wraith, al tenente incaricato di liberare dai rottami e trasportare i traumatizzati. «Resti qui fino a che non sono sicuro di avere ben capito tutto» le disse, infilando il cubo in un lettore. Le informazioni comparvero proiettate sulla parete; tutti i presenti, che fino a quel momento erano andati in giro freneticamente, si fermarono a guardare. «Cedimento dello scafo a prua... que-
sto vorrà dire traumi da decompressione nei compartimenti immediatamente successivi a quello oltre la falla...» Nel compartimento dove si era verificata la falla, voleva dire morte senza scampo, responsabilità del Recupero Personale, non di Liberazione e Trasporto. «Qui sembra che abbia ceduto una trozza» indicò. «Dovremo tagliare tutto attorno. Tenente, che cosa succederebbe se tagliassimo qui e qui?» Indicò. Esmay, che era stata ben istruita dal maggiore Pitak, mostrò dei punti alternativi in cui tagliare, che erano già evidenziati in verde sulla rappresentazione. Il tenente fece una smorfia. «Questo ci permette a malapena di passare con le nostre tute... non voglio che qualcuno si impigli da qualche parte. E poi dovremo portare fuori dei feriti. Abbiamo bisogno di un'apertura di almeno due metri... perché non possiamo tagliare qui?» E indicò di nuovo quella che era stata la sua prima scelta. Esmay credeva di sapere il perché, ma si rendeva conto che quella era una questione che doveva gestire qualcuno con maggiore autorità. «Le vado a cercare il maggiore Pitak» disse. «Lo faccia.» Esmay trovò Pitak in fondo a una delle stive con l'attrezzatura di Scafi e Architettura, e la mise in comunicazione con il responsabile di Liberazione e Trasporto... poi fece un passo indietro sentendo l'aria arroventarsi. Non aveva mai udito Pitak bestemmiare prima di allora, ma in quell'occasione il maggiore praticamente lasciò delle scie di fumo lungo le paratie. Dopo la prima esplosione, cominciò a spiegare. «... e quindi se volete qualche dozzina di feriti in più e un bel po' di schegge acuminate che vi esplodono attorno, bene, andate e fate il vostro taglio, e con i miei complimenti...» «Maledizione, maggiore...» Con la rapidità fulminea del calcio di un mulo, il maggiore ritornò a essere del tutto calma. «Dunque, di quanto avete bisogno per le vostre tute? Vi darò tutto lo spazio di cui avete bisogno, solo...» «Due metri.» «Mmm. D'accordo. Vi rimando Suiza con un nuovo cubo che vi darà i vostri due metri... sezione quadrata o rotonda?» «Uh... quadrata sarebbe meglio, ma anche rotonda andrà bene. Se fosse solo uno non avrebbe importanza, ma...» «Sì, be', se l'Orda di Sangue fosse costituita da reclute alla loro prima missione, la Wraith non sarebbe piena di buchi. Vi richiamo io.» Si voltò verso Esmay. «Cos'è quest'aria sorpresa? Non credeva che fossi in grado di
mandare fiamme dalla bocca, o non pensava che potessi calmarmi? Nell'uno o nell'altro caso, non va a suo onore... e non mi fissi in quel modo, tenente, mi sta rendendo nervosa.» «Mi scusi, signore» disse Esmay. «Due maledetti metri, vogliono. Avidi maiali. Suppongo che non possano sapere che cosa troveranno là dentro, e hanno bisogno di spazio... ma non possono certamente tagliare lì. Se gli presto uno dei miei specialisti in strutture per dirgli dove tagliare rimango senza io per fare il lavoro principale... però potrebbe salvare delle vite e probabilmente non ne costerebbe nessuna. D'accordo... digli che facciamo così.» E snocciolò una serie di istruzioni, per poi rimandare Esmay dai medici. Esmay avrebbe voluto sapere perché non poteva semplicemente chiamarli all'interfonico, ma non le sembrava il momento giusto per chiedere qualcosa, una qualunque cosa, a Pitak. Otto ore dopo l'ultimo salto, Esmay e tutto il personale non impegnato in compiti vitali si videro assegnare un periodo di riposo obbligatorio, con tanto di gas soporifici nelle cabine. Esmay capiva perché lo facevano: gente esausta, nervosa e stanca avrebbe commesso errori che altrimenti si sarebbero potuti evitare, ma odiava l'idea di essersi guadagnata un sonno calmo e ristoratore con mezzi chimici. E se succedeva qualcosa e chi era rimasto sveglio si dimenticava, o non aveva il tempo, di attivare il gas antidoto? Se ne stava ancora preoccupando quando aprì gli occhi, sentendosi riposata e sveglia, al suono dolce che annunciava il cambio di turno. Tutto aveva funzionato come doveva, come sempre... ma non stava scritto da nessuna parte che le dovesse piacere. La Koskiusko era emersa con una velocità relativa molto prossima allo zero rispetto al sistema in cui entrava, il modo più sicuro per far cadere qualcosa della sua massa dallo spazio di salto. Prima che Esmay potesse arrivare all'ufficio di Pitak in Scafi e Architettura, era già girata la voce che la Wraith e la nave che la stava trainando erano a meno di ventimila chilometri da loro. Non era stato un centro perfetto, ma un disastro evitato per un pelo. «Un errore di meno di un decimo percentuale nella velocità di uscita e ci saremmo schiantati contro la Wraith e la sua scorta» ringhiò Pitak. «Però questo significa che ci possiamo mettere al lavoro subito. Potrebbe voler dire la sopravvivenza di un po' di gente nei compartimenti di prua.» Erano già stati predisposti dei collegamenti a raggio stretto; dati in tem-
po reale cominciarono a riversarsi nella sezione comunicazioni della Koskiusko, per essere decodificati e indirizzati verso i dipartimenti interessati. Esmay passò la prima ora o poco più a guardare i dati relativi a Scafi e Architettura, per girarli ai subspecialisti. Poi Pitak le trovò un altro lavoro. «Deve esaminare per me la roba che ci stanno mandando relativa a Motori e Manovra e Materiali Speciali. Lei è brava a cogliere eventuali collegamenti... qualcuno ai piani di sopra potrebbe aver mandato lì qualcosa che ci serve.» Pitak aveva fatto proiettare un modello della SLP Serie 30 nella sala istruzioni, sia virtuale sia schematico. Attorno al modello si affollavano gli ingegneri più esperti del dipartimento, che adattavano il modello alle particolarità individuali della Wraith man mano che i dati arrivavano. Esmay alzava spesso gli occhi per vedere che progressi stavano facendo. Aveva visto un sacco di proiezioni tridimensionali di scafi di astronave, ma non aveva mai visto un modello in scala che occupava cinque metri del pavimento di una sala. Era fantastico... anche se lo spazio vuoto a prua e su un fianco non era bello per niente. Si chiese se era sicuro mettersi a fare le riparazioni così vicino al corridoio di uscita dal punto di ingresso nel sistema. E se qualcun altro usciva dallo stesso punto di salto? Ma non era un problema suo: scosse la testa per liberarsi da quella preoccupazione e tornò a scorrere le informazioni mandate a Materiali Speciali. Ecco: quello era un problema suo, la richiesta di programmare la fabbricazione di quattro fibre di cristallo di venti metri di lunghezza. Controllò da dove veniva... se non veniva da Scafi e Architettura, Pitak senz'altro lo avrebbe voluto sapere. E infatti... proveniva da un addetto alla valutazione danni a bordo della Wraith, che voleva le fibre per riparare le linee di comunicazione sulla nave. Esmay chiamò Pitak. «Aha! Brava. No, carini, non siete voi a scegliere le priorità» disse Pitak. Fece un segno accanto alla richiesta e la trasmise al comandante Seveche. «Ci provano sempre» disse, sorridendo a Esmay. «Pensano di aiutarci, ordinando subito quello che gli serve, ma non si rendono conto dei problemi di coordinamento della produzione. Non possiamo cominciare a produrre niente ai Materiali Speciali se prima non sappiamo tutto riguardo a quello di cui avremo bisogno a livello strutturale. Se impegniamo la salsiccia per produrre cose di cui ancora non abbiamo bisogno, non potrà più essere impiegata per fare le cose che ci servono adesso, immediatamente, il che vuol dire che dobbiamo abortire la produzione, o stare ad aspettare girandoci i
pollici finché non è completata.» «Che cosa si produce per primo?» chiese Esmay, visto che Pitak non sembrava avere fretta di tornare al suo modello. «Dopo le valutazioni e l'evacuazione del personale, dobbiamo rimuovere i detriti e le parti danneggiate, perché c'è sempre qualcosa che non vedi fino a che non togli i rivestimenti e metti a nudo almeno dieci metri di scafo teoricamente non danneggiato. Non m'importa un accidenti di quel che dicono sulla strumentazione diagnostica: non c'è nulla che possa mettere a nudo una carcassa per vedere com'è ridotta l'ossatura, mi creda. Uno scafo danneggiato come quello deve essere ricostruito a partire dagli elementi strutturali, come se fosse nuovo. Ed è difficile, perché cerchiamo sempre di salvare il più possibile del vecchio scafo... così si risparmiano tempo e materiali, ma non è efficiente come se fosse ricostruito da capo. Secondo me la prima cosa che avremo bisogno che ci facciano a Materiali Speciali sono i cristalli lunghi, prodotti a gruppi e saldati a resina nel compartimento a zero G. Serviranno da impalcatura per stabilizzare lo scafo e consentire le vere riparazioni, più tardi. Poi ci vorranno le ordinate... e per quelle possono passare settimane. Nessuno ha ancora scoperto come costruire contemporaneamente strutture lunghe e strutture circolari. Nel frattempo si possono costruire portelli e serramenti nelle sezioni Fusione e Stampo. Ma i cristalli lineari per le comunicazioni vengono molto, molto più tardi.» «Ah... capisco.» Esmay realizzava solo adesso perché Pitak l'aveva messa a fare quel lavoro apparentemente tanto poco importante. Ne sapeva molto di più di una volta sugli scafi, ma non aveva mai dovuto risolvere da sola il problema di programmare le varie produzioni per le riparazioni. «Le andrebbe una piccola avventura?» chiese Pitak. «Avventura?» «Ho bisogno di qualcuno che mi faccia una ricognizione visiva della falla, e tutti gli altri sono occupati. Avrà bisogno di una tuta da attività extraveicolare... esce con la prima squadra, con una videocamera e un trasmettitore, e registra tutto per me.» «Sì, signore.» Esmay non sapeva se era più eccitata o spaventata. «Mancano circa sei ore, secondo loro, e a quel punto saranno in posizione.» Esmay non faceva una EVA fin dai tempi dell'Accademia, e anche allora si era trattato di uscire da una navetta da esercitazione che si trovava a un chilometro da una stazione spaziale e in vista di un pianeta abitabile.
Quaggiù, anche la primaria del sistema era lontanissima, un minuscolo disco che forniva pochissima luce. I riflettori della Koskiusko illuminavano il fianco della Wraith, gettando nette, taglienti ombre nere. Esmay cercò di non pensare al nulla che la circondava, al modo in cui il suo stomaco cercava di arrampicarsi su e uscirle dalle orecchie, e rivolse la sua attenzione alla nave danneggiata. Non aveva mai visto una nave dall'esterno con i suoi occhi, invece che su uno schermo... ed era istruttivo. Come la maggior parte delle navi da guerra delle Familias, la Wraith aveva un profilo allungato e tondeggiante che a prima vista avrebbe potuto essere confuso con un progetto aerodinamico, ma che invece era il risultato di un compromesso fra diversi limiti costruttivi. La tecnologia degli scudi imponeva la scelta di sagome il più possibile sferiche, ma era impossibile impiegare navi sferiche in battaglia. Non si era mai riusciti a montare dei motori, FTL o intersistema, che garantissero la manovrabilità e l'affidabilità necessarie. Le uniche navi sferiche in servizio erano ormai cargo molto grandi, per i quali l'aumento del volume interno e la possibilità di avere una schermatura affidabile contro i detriti spaziali valevano la perdita di manovrabilità. E quindi una nave pattuglia come la Wraith aveva una forma più che altro ovoidale, con un ben visibile asse longitudinale. A prua avrebbe dovuto avere un'estremità arrotondata, appena più appuntita della poppa. Invece, Esmay vide una massa contorta, con punti lucidi di metallo fuso laddove la superficie avrebbe dovuto essere (come nella parte di scafo non danneggiata) nera e opaca. A poppa, le curve degli alloggiamenti dei motori non sembravano aver subito alcun danno, anche se aveva sentito che quelli di Motori e Manovre erano preoccupati per l'effetto di un salto con uno scafo non bilanciato. Esmay azzardò un'occhiata alle sue spalle, anche se la fece girare sul cavo di sicurezza come una trottola. La massa della Koskiusko nascondeva le stelle ben oltre la fila di riflettori che fissavano il loro occhio bianco sulla nave pattuglia. Non era nemmeno sicura di dove finivano le luci della nave cantiere e dove cominciavano le stelle. Qualcuno le diede un colpetto su una spalla. Sì. Doveva continuare il suo lavoro. Avanzò lungo il cavo, senza più farsi distrarre dal paesaggio. Lo scafo danneggiato della Wraith si avvicinava, centimetro dopo centimetro. Adesso vedeva le tracce chiare lasciate dalle armi nemiche (o forse da frammenti dello scafo stesso) contro il normale rivestimento scuro. L'entrata della falla si apriva, frastagliata e ostile, davanti a lei. Sentì un rumore
leggero, quasi un bisbiglio, sopra il suo casco, ed Esmay si fermò di botto. Una bottarella decisa sulla spalla la fece continuare. Un attimo dopo si rese conto che dovevano essere minuscoli corpi, probabilmente cristalli di ghiaccio espulsi dallo scafo dalla continua perdita di aria che l'equipaggio non era ancora riuscito a fermare del tutto. Arrivò alla sezione del cavo dipinta di rosso: dieci metri dal punto di ancoraggio. Davanti a lei qualcuno aveva già agganciato i cavi secondari che avrebbero formato, col tempo, una rete completa attorno al relitto. Ma per ora Esmay si sarebbe fermata lì. Bloccò il meccanismo che le permetteva di scorrere lungo il cavo di sicurezza, agganciò il secondo cavo di stabilizzazione che l'avrebbe fatta ruotare in un solo piano, e fece segno agli altri di superarla. Con la telecamera puntata sul buco nello scafo e il lavoro che vi si svolgeva attorno, riusciva a non pensare a dove si trovava. Il maggiore Pitak voleva dettagli, e poi dettagli, e poi ancora dettagli. «Non abbia fretta» le aveva detto. «Faccia con calma. Resti a dieci metri fino a che non è sicura di avermi registrato tutto quello che c'è da vedere da quel punto. Lì non darà fastidio alle squadre che stanno sistemando i ponteggi, ma sarà comunque in grado di vedere molte cose. Ogni dettaglio ci sarà di aiuto. Ogni dettaglio.» E quindi Esmay rimase lì, appesa alla sua imbracatura, facendo scorrere l'occhio della telecamera lungo l'orlo della falla. Ogni dettaglio? Benissimo, allora, avrebbe passato un paio di minuti su quelle tracce chiare, sul modo in cui il rivestimento esterno si ripiegava per mettere a nudo una ordinata, o quel curioso rigonfiamento a pruavia della falla. Quando ebbe riempito mezzo cubo registrando ogni singolo dettaglio di quella zona, erano state tracciate le linee della griglia che avrebbe definito la posizione precisa dei punti danneggiati. Esmay chiese il permesso al responsabile dei lavori, lo ottenne, e passò a uno dei cavi trasversali. In realtà, pensò, non era poi così male là fuori. Una volta che lo stomaco si era adattato alla sensazione di gravità zero, era divertente, in un certo senso, scivolare lungo il cavo dando solo qualche strattone di tanto in tanto... una maniglia rossa le sfiorò la mano e lei l'afferrò al volo. Uno strattone molto forte alla spalla la fece roteare con rapidità nauseante, ed Esmay si maledì per aver dimenticato che doveva muoversi lentamente. Quando riuscì a rimettersi dritta, c'era un visore rivolto nella sua direzione. Chissà cosa pensavano di lei. Un altro stupido tenente che scopre a sue spese l'esistenza della forza d'inerzia. Avrebbe voluto scusarsi, ma la regola era che
non si dovevano usare le radio se non in caso di emergenza. Ora si trovava dalla parte opposta della falla, verso prua. Da quell'angolo riusciva a vedere bene dentro il buco, oppure forse i riflettori della Koskiusko si erano orientati meglio. Si costrinse a guardare dentro... ma non vide nessun corpo. Si vedeva una confusione ma tutta meccanica, come un giocattolo su cui qualcuno aveva messo un piede. Tutto era rotto, frammentato, spezzato... le venne in mente ogni parola che conosceva per descrivere la distruzione. Lentamente, mentre registrava, cominciò a orientarsi. Il rigonfiamento era dovuto a una separazione dell'ordinata di prua: si era spezzata, come il fasciame di un barile di quelli di una volta, e si era portata dietro la trozza. Pitak senz'altro voleva sapere fin dove si estendeva il rigonfiamento. Lo si poteva vedere dalla Koskiusko, se nessun altro aveva bisogno del sensore a breve raggio... ma qualcuno senz'altro lo stava usando per qualcosa. Esmay guardò il rigonfiamento e desiderò tanto poter chiedere istruzioni al maggiore. Se solo fosse riuscita ad arrivare dall'altra parte con il registratore... ma laggiù i cavi non erano ancora arrivati. Pensò di chiedere al responsabile dei ponteggi di stendere un cavo per lei, ma poi ci pensò meglio, e decise di no. Avevano troppo da fare per potersi permettere di stare dietro alle curiosità oziose di un tenente. No, o gettava lei il cavo, o lasciava perdere. Lasciar perdere non sembrava la scelta migliore. Aveva con sé quattro cavi aggiuntivi assicurati alla tuta, proprio come gli addetti alla costruzione dei ponteggi... era solo questione di fissare qualche aggancio. Lasciò la telecamera grande dietro di sé, senza ammettere neanche con se stessa perché lo faceva. Non intendeva certo perdere la presa e andare alla deriva nello spazio; era solo una questione di buon senso lasciare la telecamera dove sarebbe stato facile ritrovarla. Quella incorporata nel casco sarebbe bastata, per un'escursione così breve. Agganciò l'estremità di uno dei suoi cavi lunghi all'anello di sicurezza dei dieci metri, poi scivolò lungo uno dei cavi del ponteggio fino a che raggiunse lo scafo. Il suo cavo di sicurezza scivolò lungo il cavo del ponteggio. Quest'ultimo era ancorato allo scafo con un doppio gancio su una toppa adesiva. Fece passare il suo cavo lungo attraverso l'anello affisso al doppio gancio, procedura molto più lunga che staccarlo e attaccarlo, ma anche molto più sicura. Appoggiò uno stivale allo scafo e provò a tirarlo via. Niente. Aveva sperato che la gravità artificiale interna della Wraith potesse darle un po' di aderenza, ma forse non era nemmeno più in funzione. Avrebbe potuto sistemare le toppe a breve adesione sui suoi stivali, oppure poteva andare
avanti così... be', poteva sempre attrezzare gli stivali dopo, se non fosse riuscita a fare altrimenti. Pescò dalla cintura attrezzi una toppa adesiva con la mano destra, la posizionò in cima al suo dito medio, sopra il guanto, e si diede una leggera spinta sul cavo con la mano sinistra. Scivolò lentamente fino alla fine del cavo di sicurezza. Tendendo cautamente la mano, sfiorò lo scafo con la toppa: aderì immediatamente, proprio come doveva. Ora poteva fissare un gancio alla toppa... o almeno così sperava. Rimase con la mano destra sulla toppa e cercò a tentoni un gancio. Eccolo. Quando tese lentamente la mano il cavo di sicurezza la tirò indietro: era andata il più avanti possibile. Fece aderire il gancio alla toppa con il suo dorso adesivo, poi prese un anello, ci fissò il suo cavo lungo, e agganciò l'anello all'apertura del gancio. La prossima mossa era in un certo senso definitiva: quando avesse sganciato il cavo di sicurezza da quello del ponteggio, tutto sarebbe dipeso solo dalla sua capacità di fissare le toppe e i ganci. La prudenza le ricordava che non era una specialista di attività extraveicolare... e che non avrebbe avuto istintivamente le reazioni giuste se qualcosa fosse andato storto. Esmay sorrise, sola nel suo casco. Aveva sempre dato ascolto alla prudenza e cosa ne aveva ricavato? Prima avevano pensato che fosse stupida, e poi che fosse una ribelle pericolosa. Non era tanto diverso dall'arrampicarsi sulle rocce nella sua valle, o dallo scalare la parete della Kos. Tendere la mano, posizionare una toppa adesiva, un gancio, assicurarsi al gancio, passare da quell'ancoraggio al successivo. Venti ganci e aveva già superato il rigonfiamento del danno... anche se i punti di accesso dell'imboccatura dello scudo di prua, che avrebbero dovuto essere protuberanze lisce, lucide, sporgenti di pochi centimetri dalla superficie dello scafo, erano invece fori irregolari. Esmay aumentò la luce proiettata dal suo casco per poterli esaminare meglio. Davanti a lei vedeva un luccichio. Altri detriti... e di sicuro il maggiore Pitak avrebbe voluto delle riprese. Affisse un altro gancio, si assicurò e si tirò vicina camminando con le dita sullo scafo. Poi di colpo, istintivamente, si spinse via, e la mossa fu abbastanza violenta da farla volare dallo scafo, finendo in fondo al cavo di sicurezza. Cercò di nuotare sul posto, per mettersi in una posizione da cui potesse vedere, e non venisse di nuovo gettata contro lo scafo... e se ce ne fossero state "due"? E poi, era sicura di quello che aveva visto? E anche se era proprio quello che pensava, non poteva essere parte dell'armamento della Wraith, finito
attaccato al suo stesso scafo perché...? Esmay non riusciva a farsi venire in mente nessuna manovra che avrebbe potuto portare a quel risultato. Cercò di respirare piano. Una mina. Era una mina, proprio come quelle sui manuali di equipaggiamento nemico che aveva studiato sulla nave rifornimento mentre andava alla Stazione Sierra. Nel frattempo, stava risalendo mano dopo mano lungo il cavo di sicurezza, avvicinandosi al suo ultimo gancio troppo in fretta; andò a sbattere contro lo scafo abbastanza forte da farsi male, e sarebbe tornata a rimbalzare nello spazio se non avesse afferrato il gancio e il cavo libero con una mano e il cavo trattenuto dal gancio con l'altra, lasciando che fossero le sue braccia a sopportare il peso. Adesso rimpiangeva di non aver attrezzato gli stivali con le toppe adesive... le sembrò di restare lì per un'eternità, a rimbalzare avanti a indietro. Finalmente le oscillazioni si calmarono. Con estrema attenzione si afferrò al gancio più interno, poi si sganciò anche da quello. Venti... ventidue... ventisette ganci in tutto, ciascuno che richiedeva, per essere superato, movimenti lenti e molta attenzione. Diverse volte pensò di usare l'unità di comunicazione della tuta... ma quella mina costituiva un'emergenza, ora come ora? Se nessun altro si avvicinava prima che lei potesse avvertirli... e la squadra ponteggi stava ancora lavorando sulla falla. Quando riuscì a raggiungere il cavo del ponteggio e ad agganciare il suo cavo di sicurezza, le sembrò che fosse passato almeno mezzo turno di guardia. Ma il suo cronometro non era d'accordo. Era passata meno di un'ora. Recuperò la telecamera grande e si guardò attorno alla ricerca del responsabile del ponteggio. Non poteva tornare alla Koskiusko senza avvertire qualcuno lì sul posto. Alla fine lo vide, e passando di cavo in cavo riuscì ad avvicinarsi al punto da battergli prima su una spalla, e poi sulla tavoletta che portava. Il casco dell'uomo annuì. Esmay disegnò sulla tavoletta, goffamente e rapidamente, la prua, il rigonfiamento, e il punto in cui si trovava la mina. Poi scrisse MINA in precise lettere maiuscole. L'uomo scosse la testa. Esmay annuì. L'uomo indicò la telecamera grande e fece con la mano un punto di domanda in aria. Esmay dovette scuotere la testa e indicare la telecamera del suo casco. Seguimi, le fece segno l'uomo, e la portò lungo il ponteggio fino a un nodo comunicazioni. Mentre lei era lontana, avevano installato una linea diretta da nave a nave, e poi collegato l'interno della Wraith, per permettere alle due navi di parlarsi senza dover ricorrere a trasmissioni non protette. Esmay e il responsabile del ponteggio inserirono entrambe le tute nel circuito.
«In che senso, una mina?» chiese il capo. «E che cosa ci faceva laggiù a prua, poi? Il suo cavo di sicurezza non è abbastanza lungo.» «L'ha visto quel rigonfiamento dove l'ordinata si è danneggiata, no?» disse Esmay. «Volevo riprenderlo per il maggiore Pitak. Ho usato le toppe adesive e i ganci. Quando ho superato il rigonfiamento, stavo riprendendo i nodi degli scudi... ho acceso le luci della tuta... ed era lì.» «Una mina, dice.» Non sembrava convinto. «Era proprio come il disegno sul manuale. E non è una delle nostre. A me è sembrata una Smettig Serie G.» «Ha visto l'innesco?» «No.» Non avrebbe voluto dirlo, ma non poteva lasciare le cose così. «Ho cercato di saltare indietro e... ho perso il contatto con lo scafo.» «Ah... quindi non ha documentazione?» «No.» Non sapeva nemmeno quanto era riuscita a riprendere della mina. Per quanto tempo l'aveva guardata prima di farsi prendere dal panico? «Se era una mina...» Il responsabile sospirò, il sospiro di esasperazione di qualcuno che non vuole altre complicazioni in una giornata che ne è già stata piena zeppa. «Be'... all'inferno. Deve per forza fare rapporto, e se è davvero una mina, dovremo pur fare qualcosa...» E qui la sua voce si spense. Non sapeva che fare a quel punto. La guardò, e l'intenzione di Esmay, che era stata quella di non dire niente, svanì. Era lei l'ufficiale: era compito suo prendere delle decisioni. Ecco cosa succede quando non si dà ascolto alla prudenza, pensò amaramente, e poi cercò di decidere a chi fare rapporto a bordo della Koskiusko. La risposta più semplice era il maggiore Pitak, ma una mina nemica attaccata allo scafo di una nave in riparazione tutto era meno che semplice. La reazione di Pitak, quando Esmay finalmente riuscì a farla venire all'altro capo del filo, non fu propriamente rassicurante. «Così lei pensa di aver visto una mina... una mina nemica.» La sua voce era piatta, monocorde. «E potrebbe non averla inquadrata...?» «Sì, signore. Io... mi sono spinta indietro troppo forte. Avevo paura...» «Vorrei ben sperare.» Con un po' più di energia. «Sa, Suiza, lei ha una vera predisposizione per il melodramma. Una mina nemica. Mica a tutti sarebbe venuto in mente.» «Venuto in mente?» Non sapeva se era disprezzo o divertimento quello che sentiva nella voce del maggiore. O qualcosa di completamente diverso. «È bene farsi venire in mente le cose, Suiza. Adesso la prima cosa che farà è di dire al capo di radunare tutta la sua squadra e di portarla via dalla
Wraith in men che non si dica. Poi fa dietrofront e mi va a prendere delle riprese decenti di questa ipotetica mina. Spero che lei abbia abbastanza ossigeno...» «Uh... sì, signore» disse Esmay, dopo un'occhiata rapida agli indicatori. «Meglio così.» Ci fu una lunga pausa, durante la quale Esmay si chiese se doveva interrompere la comunicazione e andare a obbedire agli ordini. Ma Pitak non aveva finito. «Adesso vado a dire al nostro capitano di dire al capitano della Wraith che un ufficiale inferiore senza alcuna esperienza durante la sua prima vera missione ÈVA pensa di aver visto una mina nemica attaccata alla sua nave e che anche se non è riuscita a ottenerne un'inquadratura decente la prima volta, adesso è andata a girare un altro video che, sempre se non salta in aria, potrebbe dirci se aveva o. no ragione. E darci qualche idea su come procedere.» «Sì, signore.» «Suiza, non era richiesta una sua conferma. Non le viene in mente alcun errore che ancora non ha commesso?» «Non l'ho fatta saltare» disse Esmay, prima di potersi controllare. Dalla radio venne una risata brusca. «Bene, Suiza... Adesso rimandi a casa la squadra e vada a riprendermi delle immagini degne di questo nome. Io vedo quello che posso fare per procurarle una squadra di artificieri.» Il responsabile del ponteggio fu prontissimo a eseguire gli ordini di un ufficiale inferiore; non sprecò neanche un borbottio di protesta pro forma. Esmay non aspettò che gli operai se ne andassero. Prese le toppe adesive per i suoi stivali, assicurandosi che non fossero del tipo permanente. Non voleva restare incollata allo scafo come una polena. Poi usò il cavo di sicurezza e dei ganci che le avanzavano per legarsi la telecamera sulla schiena. Questa volta il tragitto fu più semplice, con i ganci già fissati e potendo far presa con le suole degli stivali sul ponte della Wraith. Così poteva camminare fra un gancio e l'altro, seguendo il cavo. Era facile vedere, da quella posizione, che non aveva tracciato una linea retta quando aveva sistemato i ganci la prima volta. Aveva descritto una curva lungo il rigonfiamento, invece di andare dritta e attraversarlo. Ma non guardò niente altro che i ganci, il cavo, i raccordi, fino a che non arrivò quasi al ventesimo gancio. A quel punto, da dietro, l'investì un fascio di luce accecante, che cancellò completamente quella molto più fioca della lampada sul suo casco, tanto da farle mancare del tutto il gancio. Quando si voltò a guardare, il visore del casco le si scurì automaticamente, e vide che uno dei riflettori
della Koskiusko era stato spostato dalla falla e puntato più a prua. Evidentemente il maggiore Pitak era riuscita a parlare con il capitano... Di nuovo individuò il gancio e riuscì ad assicurare il cavo. Nella luce intensa, gli orli sfrangiati dei nodi dello scudo gettavano ombre violente, che striavano lo scafo nero. Tutto aveva un aspetto diverso così... non riusciva a vedere la mina, ma doveva essere lì vicina. Un altro gancio, e poi un altro, e un altro... Esmay si fermò di botto, piantando i piedi sullo scafo. Il suono che aveva udito, acuto e irritante, era fatto apposta per attirare tutta la sua attenzione. Davanti a lei c'era una lucina rossa... emergenza... oh. Posò il mento sull'interruttore della radio. «Non si muova» disse una voce nelle sue orecchie. «Guardi in basso, all'altezza del suo ginocchio, ore dieci... ma non si muova.» Esmay guardò in basso, anche se metà del suo campo visivo era coperta dall'orlo del casco. C'era qualcosa... qualcosa che si muoveva. Qualcosa di piccolo, grande forse quanto il suo pugno, scuro, lucido, che si sollevava su un gambo di metallo che brillava alla luce del riflettore... avrebbe voluto piegare la testa per vedere da dove partiva, anche se lo sapeva senza bisogno di guardare. «Non si muova» ripeté la voce. «Con un po' di fortuna penserà che lei fa parte dello scafo.» Proprio mentre apriva la bocca, la voce aggiunse: «E non parli. Non sappiamo che caratteristiche ha il suo sensore.» Il piccolo ovoide nero, sul suo gambo - la sonda sensore programmabile di una mina intelligente - si alzò... ora la vedeva chiaramente, e con ogni probabilità quindi poteva essere vista. Si sentì improvvisamente coperta di sudore in tutto il corpo; le prudeva terribilmente mentre le scorreva giù per il torace, sulla pancia... aveva una gran voglia di grattarsi. Ma non quanto di scappare. Era parte dello scafo. Era... un meccanismo di riparazione automatico. Spento, al momento, non funzionante... cercò di non respirare mentre il sensore si avvicinava, descrivendo un cono la cui forma era dettata dalla lunghezza del suo gambo e dai movimenti impressigli dalla sua invisibile origine. Esmay aveva lavorato ai sensori; sapeva cosa poteva contenere un ovoide come quello. Poteva già aver associato il suo profilo termico a quello di "umano in tuta spaziale", se questo faceva parte della sua programmazione. Poteva aver rilevato la sua densità scheletrica, il suo ritmo respiratorio, il colore dei suoi occhi. E se era così, era già morta, solo che non era stata ancora ammazzata.
Il piccolo ovoide continuò a roteare... ma più basso, ora. Non sapeva che cosa volesse dire. Possibile che una mina intelligente si preoccupasse di retrarre l'apparato sensorio prima di saltare in aria? Ora lo vedeva a malapena, sopra l'orlo del suo casco. Poi fu fuori dal suo campo visivo... non aveva nessuna intenzione di piegarsi per continuare a tenerlo d'occhio. «Mi spiace, tenente» disse la voce nelle sue orecchie. «Il riflettore ha portato la sua ombra sopra il valore di soglia della mina. Ma lei aveva ragione, sa? È proprio una mina, sicuro come la morte, e decisamente una mina nemica.» "Sicuro come la morte"... non le piaceva per niente come frase. «Sta arrivando una squadra addetta all'equipaggiamento critico» disse la voce. «Lei stia ferma.» Non aveva nessuna intenzione di disobbedire: non era affatto sicura che sarebbe mai stata in grado di riprendere a muoversi. Qualche momento dopo iniziò, dalle ginocchia, il tremito; cercò di controllarlo. Quanto poteva essere sensibile quel sensore? Quale vibrazione sarebbe stata necessaria per farlo scattare? La ragione le suggeriva che si era mossa molto più violentemente, prima, senza far saltare la mina... ma la ragione non aveva nessun potere sul suo rombencefalo, dove il panico danzava una piccola giga sulla sua colonna vertebrale. Si era già quasi stufata di essere così spaventata a morte quando la voce parlò di nuovo. «Ha steso il cavo molto bene, tenente... Non si muova, siamo al gancio dietro di lei, la vediamo chiaramente.» Avrebbe voluto voltarsi a guardarli, per vedere qualcosa di amichevole e rassicurante, anche se fosse stata l'ultima cosa che avrebbe visto in vita sua... ma non si mosse. «Abbiamo paura, che se spegniamo il riflettore, potrebbe scattare un'altra sequenza di rilevazione, e non sappiamo com'è programmata la mina.» La voce non doveva aggiungere altro: Esmay sapeva che alcune mine erano programmate per saltare dopo un numero prefissato di sequenze di rilevazione, anche se non veniva rilevato niente. E lei poteva aver fatto scattare un'altra ricerca, quando era fuggita via dalla mina la prima volta. «Se abbiamo fortuna, sta cercando qualcosa di specifico, a cui noi non assomigliamo, ma...» Avrebbe tanto voluto che la voce tacesse... e se la mina reagiva alle vibrazioni condotte attraverso la tuta? Anche quelle dell'altoparlante che passavano attraverso la sua, per esempio. Di certo qualcuno la stava osser-
vando... di certo avevano un piano. «La Wraith ci ha dato nuovi dati sui compartimenti dietro la falla... stanno evacuando il personale, in questo momento.» Una pausa. Esmay cercò di non pensare. Poi: «Come sta ad aria? Mi dia una lettera, A per abbondante, P per poca, C per critica, e poi il numero dei minuti che le rimangono.» Esmay guardò e fu sorpresa di vedere quanto fosse sceso l'indicatore. «P» disse. «Sedici.» «Io questo lo chiamerei critico» disse la voce. «Ecco cosa faremo. Qualcuno la raggiungerà, cercando di tenersi dietro il suo profilo e di non uscire dalla sua ombra, e le aggancerà un'altra bombola. Non si muova. Faremo tutto noi da qui.» «Sì, signore» disse Esmay. Adesso non riusciva a staccare gli occhi dall'indicatore della provvista d'aria; il numero scattò sul quindici, e l'indicatore era decisamente nella zona rossa ora. «Respiri lentamente» disse la voce. «Non sta facendo nessun movimento, potrebbe avere più tempo di quanto indica la tuta.» La paura fa consumare più ossigeno. Era una cosa che si ricordava, assieme a tante altre verità spicciole. Era incredibilmente difficile respirare lentamente per risparmiare ossigeno... cercò di pensare a qualcos'altro. Avrebbe avvertito le vibrazioni della persona che le si avvicinava da dietro? L'avrebbe notata il sensore della mina? Non era il genere di pensieri che aiutasse a respirare lentamente. Cercò di riportare la mente alla sua valle, un esercizio di rilassamento familiare e confortante, ma quando l'indicatore passò a quattordici, si lasciò scappare comunque un singhiozzo. Non singhiozzare. Non guardare l'indicatore. Se andrà a zero andrà a zero, non ci puoi fare niente. Non sentì la vibrazione: la prima cosa che avvertì fu una lieve spintarella che la fece oscillare in avanti. Si irrigidì. Poi qualcuno le diede un colpetto sul retro del casco, e un'altra voce le parlò. «Si sta comportando benissimo, Suiza. Non si muova... mentre... le attacco questa... bombola...» Si sentì tirare e spingere, e cercò di resistere, per non muoversi quel tanto che bastava per far scattare il sensore. Gettò un'occhiata all'indicatore dell'ossigeno. Nove. Davvero era rimasta lì in piedi ad aspettare per più di sei minuti? A quanto pareva. L'indicatore scattò di nuovo, questa volta sull'otto. Sentiva la tuta scricchiolare e cigolare, mentre il suo invisibile soccorritore cercava di collegare la nuova bombola muovendosi il meno possibile.
«Aria?» chiese la voce. Esmay guardò. Ora era a sette. «Sette» disse. «Dannazione» esclamò la voce. «Avrebbe già dovuto... oh.» Esmay non sapeva che cosa voleva dire quell'"oh", e questo la fece infuriare. Come osavano dirle "oh"? Un cigolio irritante, che si ripeteva di continuo, mentre lei cercava di non guardare l'indicatore. Le sembrava che fosse passato un sacco di tempo, ma non era ancora scattato sul sei quando passò di colpo sulla sezione verde. «Indicatore?» chiese di nuovo la voce. «Verde» disse Esmay. «Numero» la rimproverò la voce. Esmay inghiottì l'"hu" che stava per fare e sbatté le palpebre per mettere a fuoco il numero. «Uno quattro sette.» «Bene. Adesso mi attacco alla sua telemetria... è stata qua fuori molto più a lungo del periodo di collaudo della tuta.» Un altro po' di cigolii. Esmay non ne era più infastidita. Respirava: non sarebbe rimasta senza ossigeno. «La sua temperatura interna è troppo bassa» disse la voce. «Alzi il termostato della tuta.» Esmay obbedì, e dalle piante dei piedi salì un piacevole tepore. Il tremore che aveva cercato di controllare svanì... che fosse stato freddo, e non panico, allora? Avrebbe tanto voluto crederlo, ma l'odore acido del suo sudore le diceva che le cose non stavano così. 13 «Suiza, abbiamo un problema» le disse la voce nell'orecchio. Avrebbero anche potuto dire qualcosa di più incoraggiante, pensò Esmay. Sapeva bene che avevano un problema... lei aveva un problema. «Se quella è l'unica mina, e salta, probabilmente danneggerà solo i compartimenti di prua, che comunque a quanto pare sono vuoti. E, naturalmente, lei.» Non le sembrava che fosse necessario alcun commento. «Non abbiamo visto altre mine... ma non riusciamo a capire come mai ce ne debba essere solo una. Se ce n'è solo una.» E si aspettavano che lo capisse lei? «Non è questo il modo in cui opera l'Orda di Sangue, eppure non c'è dubbio che le navi che hanno attaccato erano davvero le loro. Sono andate all'attacco senza esitazioni, la Wraith ha delle letture di rilevamento ine-
quivocabili, per poi voltarsi e fuggire non appena la Sting e la Justice sono arrivate a dare man forte.» Esmay era perplessa. Di solito, quando una flottiglia di navi dell'Orda di Sangue ingaggiava battaglia, non se ne andava solo per qualche altra nave in arrivo. A meno che le loro navi non avessero dei problemi... quanto avrebbe voluto poter dare un'occhiata di persona a quelle letture dei sensori! Il che probabilmente non sarebbe mai avvenuto, se la mina fosse saltata. Ma... azzardò una trasmissione. «Erano abbastanza vicini da poter sistemare la mina manualmente?» chiese. «Non trasmettere» disse la voce al suo orecchio. «Se la mina ti sente...» «Volevate sapere il perché» disse Esmay. «È possibile parlare con il tecnico addetto al rilevamento sulla Wraith?» «Un momento.» Esmay immaginava la scena nella cabina comunicazioni della Koskiusko. Forse il maggiore Pitak era presente: di certo doveva esserci il capitano. Una voce diversa arrivò accompagnata da un colpetto sulla sua tuta. «Li sta mettendo in difficoltà, tenente.» La voce sembrava divertita: Esmay non era certa di capire cosa significava. Scrollò le spalle con abbastanza energia da far sollevare leggermente le spalle della tuta; dall'ignoto artificiere in contatto con il suo casco venne una risatina. «Le è venuta un'idea, eh? Buon per lei. Io non mi spiego proprio come mai quella cosa non ci ha ancora fatto saltare in aria tutti e due... ma posso tollerare di vivere nell'ignoranza, sa?» Un'altra risatina. Esmay sentì che i muscoli irrigiditi del volto le si distendevano in un sorriso. «Suiza, nel caso le sia venuta un'idea, l'ho messa in comunicazione con il tecnico capo addetto al rilevamento sulla Wraith. Ma cerchi di farla breve, ha capito?» «Sì, signore. Vorrei sapere se le navi dell'Orda di Sangue sono riuscite ad arrivare abbastanza vicine perché una squadra potesse sistemare la mina a mano o con una navetta.» Una pausa. Poi una voce nuova: «Uh... direi di sì... suppongo. Stavamo cercando di ruotare, per via dei danni agli scudi e allo scafo sulla dritta. Sono arrivati abbastanza vicini...» Esmay avrebbe voluto urlare a pieni polmoni "Numeri, maledizione!" ma sentiva sullo sfondo un ruggito lontano che era, probabilmente, il supervisore del tecnico di ricognizione che ordinava la stessa cosa, perché subito dopo il tecnico le diede i dati di cui aveva bisogno. Ed erano davvero arrivati abbastanza vicini; fece a mente i calcoli sia per un uomo in tuta
sia per una navetta... sì. «Quanto tempo dopo si sono allontanate le navi dell'Orda?» «Appena la Sting e la Justice ci hanno raggiunto» disse il tecnico. Esmay attese, confidando nell'arrivo di un altro ruggito in sottofondo. E, in effetti, il tecnico subito aggiunse il dato preciso. A Esmay parve che una corrente elettrica le corresse lungo la spina dorsale. Forse avevano visto le navi della Flotta arrivare, anche prima che queste ultime aprissero il fuoco, ma forse no. Forse avevano collocato una mina intelligente, programmata per qualcosa di specifico, e poi se n'erano andati, lasciando la Wraith danneggiata, ma non distrutta. Perché? Che cosa si aspettavano che succedesse dopo? Uno scafo militare delle Familias non sarebbe mai stato abbandonato, e quindi non potevano sperare di catturarlo... e poi, se volevano catturarlo, perché metterci sopra una mina? Uno scafo delle Familias danneggiato... veniva riparato. O in un cantiere orbitale, ma in questo caso la Wraith era troppo danneggiata per raggiungerne uno, o in una nave cantiere... come la Koskiusko. Che ne sapevano quelli dell'Orda delle CRSP? Quello che era di pubblico dominio, certo... ed Esmay sapeva che era di pubblico dominio che una CRSP poteva fare entrare un'intera nave, se piccola, nella sua stiva di riparazione. Era ragionevole. Ci pensò su bene, poi cominciò a trasmettere. «L'Orda di Sangue ha scelto una nave di piccola stazza, l'ha danneggiata, ha collocato una mina, e poi si è ritirata lasciando che la Wraith li portasse fino a una CRSP. La mina è programmata per esplodere non appena la Wraith si trova all'interno della stiva di riparazione, danneggiando così la CRSP. La mina non è sufficientemente potente da distruggerla, ma probabilmente le impedirebbe di effettuare un salto...» «Sicuramente le impedirebbe di effettuare un salto» corresse la voce del maggiore Pitak. «E sarebbe quindi immobilizzata, pronta per essere attaccata.» Esmay fece una pausa, ma nessuno disse niente. «O hanno seguito la Wraith e la sua scorta fino a questo sistema, o la mina è dotata di un sistema di localizzazione. Vogliono la CRSP, quasi certamente per catturarla, visto che avrebbero potuto ricoprire interamente la Wraith di mine, se volevano distruggerla.» Ci fu un'altra lunga pausa, durante la quale la radio le sibilò nelle orecchie. Poi: «Sembra un'ipotesi ragionevole. Non avrei mai immaginato che l'Orda di Sangue potesse essere così subdola... e poi che cosa se ne possono fare di una CRSP, a meno che non abbiamo subito dei danni sostanziali
in qualche battaglia chissà dove...» Esmay era ancora trasportata dall'onda della sua intuizione. «Potrebbe fornirgli le capacità tecniche che gli servono: non hanno un cantiere navale di livello militare. Vogliono una CRSP per far fare un balzo in avanti a tutta la loro flotta spaziale. In un colpo solo ottengono impianti di manifattura, materiali sofisticati e tecnici esperti. Con una CRSP possono portare qualunque delle loro navi allo stesso livello tecnologico di quelle della Flotta, o imparare a costruirsene di proprie.» Il lungo silenzio che seguì esprimeva assieme orrore e rispetto. «Ma certo» disse qualcuno piano. «Il che vuol dire» disse Esmay «che questa bomba non esploderà fino a quando i suoi parametri non corrisponderanno a quello che presumono essere l'aspetto di un cantiere di riparazione visto dall'interno, o finché qualcuno non cercherà di rimuoverla. Non sa di essere stata scoperta fino a che non cerchiamo di fare qualcosa.» Il sollievo le rese le ginocchia improvvisamente molli; si lasciò andare contro la persona che si trovava dietro di lei. «Il che vuol dire che posso andarmene e non scoppierà... fino a che non trasferiamo la Wraith all'interno di un cantiere di riparazione.» «Piano» disse Pitak, parlando sopra una babele di altre voci. «Devi ancora farmi una ricognizione dettagliata.» «Non con sistemi attivi» disse Esmay. «Ma posso fare una registrazione visiva.» E senza attendere ordini o permesso, si mosse, chinandosi in avanti per inquadrare la mina. Eccola lì, una sagoma cilindrica dalle estremità arrotondate, il sensore ovoidale ora ritratto nel corpo dell'ordigno, da cui emergeva solo come una protuberanza. Vedeva un numero di serie, e un ghirigoro complicato che significava di certo qualcosa nell'alfabeto del Mondo di Aethar. Probabilmente qualcosa di volgare: l'esterno delle navi dell'Orda di Sangue era di solito decorato con slogan che avrebbero dovuto scuotere e spaventare i loro nemici. Dirottò il segnale visivo attraverso il collegamento, e aspettò che Pitak le dicesse di avere abbastanza dati. Alla fine sentì: «Basta così. Adesso il tipo dietro di te se ne andrà...» Ci fu un ultimo colpetto sulla sua spalla ed Esmay vide l'ombra gettata dai riflettori della Koskiusko deformarsi mentre l'uomo si allontanava. Il sensore della mina non si mosse. Curioso... ma di grande sollievo. Aspettò un altro po', osservando l'indicatore dell'ossigeno che le restava scandire i minuti e i secondi. Poi alzò uno dei suoi stivali dal ponte, vincendo la resistenza dell'adesivo. Il sensore si mosse, ruotando sul suo gambo.
«Il sensore della mina si sta muovendo un po'» disse Esmay. «Che ne dite di spegnere il riflettore mentre me ne vado?» «Avevamo paura di farla scattare» disse una voce. «Se è programmata per esplodere in un cantiere chiuso» disse Esmay «allora la luce attiva il programma di comparazione, e il buio non può che disattivarlo.» La luce alle sue spalle svanì, e con essa l'ombra netta che aveva gettato. Aumentò la sensibilità del rilevatore visivo del casco, e riuscì a vedere appena la mina... il sensore non si muoveva. Lentamente, si piegò quanto le permetteva la tuta, in modo da poter afferrare il cavo di sicurezza vicino all'ancoraggio e liberare anche l'altro stivale. Nessun movimento del sensore. Lentamente, mano dopo mano, si spinse all'indietro, su per la curva dello scafo, fino a che fu fuori dal raggio visivo della mina. A quel punto tornò a posare gli stivali sullo scafo e camminò fino a raggiungere il cavo che collegava la Wraith con la Koskiusko. Lì la stavano aspettando gli artificieri, nelle loro speciali tute voluminose che non aveva mai visto se non nei cubi didattici. «Suiza, torni sulla Koskiusko» sentì. «Sì, signore.» Avrebbe voluto sapere che cosa intendeva fare la squadra di artificieri con la mina; adesso che era arrivata fin lì, tanto valeva restare. Ma la voce che le era suonata all'orecchio non le aveva lasciato scelta. E poi avrebbe avuto bisogno di un serbatoio ausiliario per stare ancora là fuori. «Buon lavoro, tenente» disse uno degli artificieri. «E sono proprio contento che abbia capito che potevo tornare indietro senza correre pericoli.» «Anch'io» disse Esmay, poi si agganciò al cavo e si spinse via. Quando finalmente si fu liberata dell'ingombro della tuta, aveva voglia solo di buttarsi a terra sul ponte. La sottotuta era diventata sgradevolmente appiccicosa, e le pesava dover restare lì, tenendosela addosso, mentre il capo responsabile delle tute spaziali controllava in che condizioni era quella che aveva appena riconsegnato. Dopo una prima rapida occhiata, evitò il grande specchio in fondo alla stanza: i suoi capelli sembravano un feltro sporco incollato alla testa. Dopo aver fatto una doccia ed essersi vestita di nuovo decentemente, si diresse verso il compartimento il cui numero le era stato segnalato nella sua casella personale: T-1, ponte 9, numero 30... si trovava nella zona amministrativa delle Scuole Tecniche Superiori, appena poco più in giù
dell'ufficio dell'ammiraglio Livadhi. Quando arrivò trovò riuniti in conferenza il capitano Hakin, gli ammiragli Dossignal e Livadhi, il capitano di fregata Seveche e il maggiore Pitak di Scafi e Architettura, più due capitani di corvetta che non conosceva. Uno aveva le insegne del Quattordicesimo Manutenzione Pesante, con i lampi sul colletto di un esperto dei sistemi d'arma; l'altro, pure lui con le insegne di un esperto d'arma, portava al braccio anche la fascia che contraddistingueva i membri dell'equipaggio della Koskiusko. Il capitano parlò per primo. «Be', tenente... che fortuna che le sue teorie sulla programmazione della mina si siano rivelate esatte. Almeno per quanto la riguarda.» «Ne sono felice anch'io, signore.» Esmay sperava che quel tono tagliente nella voce del capitano avesse a che fare con la situazione e non con lei. «Suppongo che ancora non abbia avuto il tempo di pensare a come evacuare la Wraith e ripararla senza far scattare il sistema di riconoscimento automatico programmato nella mina.» «No, signore.» No, purtroppo ce l'aveva proprio con lei: quello sguardo glaciale non poteva avere nessun'altra spiegazione. «Quello che vorrei tanto sapere è qual è l'intervallo di attesa previsto dal programma» disse il comandante Seveche, dopo avere scambiato una breve occhiata con Dossignal. «L'avranno mandata con un programma espandibile, o avranno previsto un intervallo predeterminato, studiato apposta per questa situazione?» Gli occhi di tutti si spostarono su Esmay, ma lei non aveva niente da dire. Non le pareva il caso di alzare le spalle in presenza di tanti ufficiali superiori, per cui si limitò a non dire niente. «Abbiamo a bordo qualche analista specializzato sull'Orda di Sangue?» chiese Dossignal, rivolgendosi all'ammiraglio Livadhi. «A dire la verità, no, Sy. Hanno richiamato il migliore per una specie di conferenza di pianificazione strategica che si tiene a Rockhouse, e il secondo in ordine di importanza è con l'ammiraglio Gourache. Ho un istruttore del corso di tattica, ma la sua specialità è la storia della Benignità. Sta studiando come un pazzo, in questo momento...» «Abbandonare la Wraith non è pensabile» disse il capitano. «L'ammiraglio ha detto molto chiaramente che non dobbiamo permettere all'Orda di Sangue di avere accesso a nessuna tecnologia avanzata, e anche se portiamo via tutto quello che contiene, lo scafo da solo è troppo prezioso per poterlo lasciare nelle mani dell'Orda, o anche solo di un pirata di passaggio.
Se non è possibile ripararla almeno quel tanto che basta da riportarla in territorio sicuro...» «Certo che è possibile» disse l'ammiraglio Dossignal. «È esattamente per riparare questo genere di danni che siamo equipaggiati. L'unica questione è come farlo in sicurezza, senza rischiare l'integrità di "questa" nave.» Gettò un'occhiata al comandante Seveche, che continuò. «Dobbiamo sigillare quella falla sullo scafo, e riparare i motori, o non salterà mai più... e questo vuol dire che dovremo lavorare tutto attorno alla mina, anche se non la portiamo dentro il cantiere di riparazione. A questo punto, vorrei sentire cosa ne pensano gli esperti di sistemi d'arma.» Il capitano annuì, e l'ufficiale addetto ai sistemi d'arma della nave cominciò. «Con quel tipo di mina, potremmo usare una serie di approcci diversi, a seconda di quanti danni può sostenere la Wraith...» «La Wraith ha già subito tutti i danni che può...» cominciò Pitak, indignata. Dossignal alzò una mano e Pitak tacque. «Ci rendiamo conto che volete minimizzare, ma in questo caso i fattori velocità e sicurezza sono inversamente proporzionali. Potremmo mettere quel che rimane della Wraith in grado di ricevere le necessarie riparazioni molto prima se decidessimo di accettare un certo grado di ulteriore danneggiamento; in caso contrario, dobbiamo mettere in conto un lungo periodo di preparazione su una nave già danneggiata, un periodo che si rivelerà pericoloso sia per i lavoratori interessati sia per entrambe le navi, per tentare qualcosa che comunque potrebbe non essere nemmeno realizzabile.» «Esponga le possibili procedure» disse il capitano. «L'ideale sarebbe staccare la mina, incapsularla in uno strato di schiuma, e farla detonare a distanza di sicurezza. Però noi, voglio dire il comandante Wyche e io, riteniamo che il rischio di detonare la mina sia considerevole se ne tentiamo il distacco. Quindi la cosa migliore che si possa fare, in alternativa, è di foderare sia l'interno, oltre il punto dello scafo dove è adesa, sia l'esterno con un letto di schiuma. A questo punto il problema è: quanto deve essere profondo ed esteso il letto di schiuma all'interno? E poi c'è la questione del segnale di localizzazione di cui sospettiamo l'esistenza, anche se molto dipende da che tipo di segnale è.» «Quanto ci vorrà per farla detonare?» «Questo dipende da quello che ci dirà Scafi e Architettura.» Si voltò verso il comandante Seveche. «Allora, c'è davvero bisogno di foderare di schiuma anche l'interno? Quanti altri danni causerebbe una mina di quel tipo?» Con un gesto, Seveche passò la domanda a Pitak.
Pitak fece una smorfia che Esmay riconobbe come il segno esteriore di una grande concentrazione. «La prua è già molto danneggiata, dovremo comunque sostituire la maggior parte della struttura. Il che vorrà dire dar fondo alle nostre risorse, soprattutto se ci aspettiamo un attacco. Pensa che si tratti di una carica sagomata, o di un'esplosione generica?» L'esperto d'armi scosse la testa. «Se si sono presi la briga di sistemare quella roba a mano, io scommetterei su una carica sagomata, probabilmente con un significativo potere di penetrazione. È una mina destinata ad aprire uno scafo, senza dubbio.» Qualcuno lungo il tavolo si mosse. «Ma se vogliono mettere fuori servizio la CRSP, la carica non dovrebbe essere diretta verso l'esterno?» «Non necessariamente» disse Pitak. «Un'esplosione di quella magnitudine, all'interno di un cantiere di riparazione, danneggerebbe per forza gran parte dell'equipaggiamento delicato, e di certo abbastanza da non permetterci di tirare fuori la Wraith e richiudere il cantiere.» Fece una pausa, che nessuno interruppe. «Mi dispiace, ma penso che sia decisamente meglio foderare anche l'interno, almeno questi compartimenti...» Richiamò una rappresentazione schematica, ed evidenziò alcuni dei compartimenti di prua. «Se potessimo salvare questi, cioè il diciassette A, il diciotto A e B e il ventitré A, potremmo risparmiare molto tempo quando procederemo alle riparazioni.» «Allora, con tutte le precauzioni necessarie per proteggere il personale, diciamo che stiamo parlando di 96 ore per rivestire quei compartimenti e l'esterno...» «Perché l'esterno?» chiese qualcun altro. «Perché non vogliamo che ci siano pezzi che volano via e colpiscano noi» spiegò Pitak «o il resto della Wraith.» «Avrò anche bisogno di altri uomini» disse l'esperto d'armi. «Più gente ho, più faremo in fretta. Purché non lavorino vicino alla mina, non ci dovrebbe essere pericolo.» «A meno che non abbia un intervallo pre-programmato di qualche tipo...» «A meno che le stelle non mettano le corna... certo, in quel caso ci rimetteremmo tutti la pelle, ma non c'è altro modo di saperlo che provare.» «Bene, comandante» disse il capitano. «Presumo che il controllo danni abbia del personale che sa come si spruzza della schiuma ammortizzante.» «Sì, signore.» Il capitano Hakin si voltò verso il suo secondo. «Si accerti che abbia tut-
to ciò che gli serve. Maggiore Pitak, voi di Scafi e Architettura potete fare qualcosa per accelerare le cose?» Pitak annuì. «Sì, signore. Con il suo permesso, capitano, ho delle squadre di operai pronte che possono mettersi ad allargare l'accesso ai compartimenti che devono venir riempiti di schiuma. Stanno già portando via i detriti...» «Pensavo che avessimo detto a tutti di allontanarsi.» «Lo abbiamo fatto, signore, ma quando l'analisi della situazione tattica ha portato alla conclusione che la mina era stata programmata per esplodere all'interno del bacino di carenaggio, li ho rimandati indietro.» «Benissimo. Mi tenga informato.» Con questo, il capitano si alzò, e tutti rimasero in piedi finché non fu uscito. Pitak fece segno a Esmay di avvicinarsi. «Tenente, lei non è ancora pronta per dirigere una squadra in una situazione di questo tipo, per cui voglio che si occupi dell'ufficio. Sarà il mio ufficiale di collegamento. Io vado sul posto.» «Sì, signore.» Pitak imboccò il corridoio ed Esmay la seguì. «Lei avrà il compito di provvedere a trasferire il più rapidamente possibile materiali e attrezzature man mano che li richiederemo. Le preparerò un modello della nave nel mio ufficio, ma dovrà essere modificato, va sempre così. Tenga a mente che sulla Wraith non abbiamo molto spazio per lavorare. Non voglio che si accumulino troppe cose laggiù.» Il modello resistette un'ora scarsa, dopo di che Pitak cominciò a dettare modifiche, ed Esmay non poté pensare ad altro che al suo lavoro. Trasmise le varie richieste di attrezzature, materiali e personale a chi di dovere. Più volte si presentarono problemi che richiedevano un intervento dall'alto: scatenò l'ufficio del comandante Seveche contro un capo particolarmente testardo delle Scuole Tecniche che non capiva perché un istruttore di sistemi d'arma dovesse congedare la classe a cui stava tenendo lezione per andare a dare una mano con la mina. Dopo tutto, il Quattordicesimo in teoria aveva delle proprie squadre di artificieri... ma con un'educata richiesta, avanzata attraverso i canali ufficiali, ottenne un'allegra signora con una mano prostetica e una tuta per attività extraveicolari su misura. Esmay le indicò il portello dove l'aspettavano e tornò al lavoro. Le sarebbe piaciuto poter osservare lo sviluppo dei lavori sulla Wraith: sapeva solo vagamente cos'era e a cosa serviva un "letto di schiuma". Ma gli operai di Pitak avevano trovato degli altri uomini nei compartimenti di
prua, per lo più morti ma in qualche caso solo privi di conoscenza. «Quassù la gravità artificiale non funziona, e nemmeno il sistema di comunicazione, probabilmente qualche frammento prodotto dall'esplosione ha tagliato i cavi di netto. È un miracolo che ci sia qualcuno ancora vivo, e non so quanti riusciranno a farcela, non hanno un bell'aspetto. Ma adesso li abbiamo tirati fuori tutti, quindi puoi mandare il prossimo carico di materiali non appena i cavi di trasporto sono sgombri.» Esmay guardò lo schermo affollato di simboli che ora rappresentava tutto ciò che era in transito fra la Koskiusko e la Wraith. Una richiesta al supervisore della strumentazione le consentì di stabilire qual era la navetta della squadra medica di evacuazione; appena se ne fu andata, aumentò la priorità del carico a cui Pitak si riferiva, e parlò con il sergente del T-3 responsabile della spedizione. Era talmente concentrata a seguire le richieste di Pitak che sobbalzò quando il sergente all'altra consolle disse: «Uau!» E poi: «Meno male che avevano usato la schiuma...» «La mina?» chiese, appena ebbe recuperato il fiato. «Sì. Vuoi che te la faccia rivedere?» Esmay non riuscì a resistere, e si fece trasferire la registrazione sulla sua consolle. La falla nello scafo della Wraith non era più orientata verso la Koskiusko, si riusciva a vederne solo l'orlo. Il che voleva dire che anche la mina non era visibile. La prospettiva cambiò: adesso, dove lei ricordava la mina, c'era un'escrescenza irregolare, grigia, illuminata di lato dai riflettori della Koskiusko. «L'hanno girato da una navetta» disse il sergente. «Trasmesso via fascio ad angolo strettissimo... ne avevano parecchie là fuori a osservare e riprendere.» L'inquadratura si strinse, e l'immagine dell'escrescenza si risolse in una specie di rozzo cilindro che sembrava fatto di strisce di panna montata o crema. Mentre guardava, un'altra estrusione di schiuma comparve, si sollevò e poi scivolò di lato, chiudendo uno dei lati aperti del cilindro. «Hanno riempito di schiuma tutti i compartimenti interni» spiegò il sergente. «E fatto una specie di cilindro di schiuma all'esterno, puntato in direzione opposta alla nave... poi l'hanno chiuso da un lato. E a questo punto...» Ci fu un'esplosione: l'escrescenza di schiuma si aprì, scoppiando, e qualcosa sfuggì dal lato aperto, allontanandosi dalla Wraith. «Tutto il materiale espulso è andato da quella parte come previsto» disse
il sergente. «Ottima progettazione. Dicono che sono rimasti pochi detriti all'interno. Adesso dobbiamo solo tirare via tutta quella schiuma, ma si può fare anche una volta trainata la nave nel bacino.» «Non capisco come funzioni questa cosa» disse Esmay. «Pensavo che, limitando lo spazio in cui può avvenire un'esplosione, la si rendesse più forte.» Il sergente scrollò le spalle. «Nemmeno io in realtà ci capisco molto, ma ho un amico giù al Settore 10 che è un artificiere. Dice che le scelte sono due: o fai sfogare l'esplosione verso una direzione che non ti dà fastidio, o puoi metterci attorno abbastanza imbottitura da assorbirne l'energia.» «Ma il letto di schiuma è esploso...» «Mah, forse avrebbe dovuto essere più spesso... però è servito a proiettare il materiale di sfogo verso una direzione che non ci mette in pericolo. Hai notato verso dove sta andando?» «Lontano dalla Kos, che è tutto quello che mi interessa» disse Esmay. «Verso il punto di ingresso di salto» disse il sergente, sogghignando. «Possiamo sempre sperare che qualche stupida nave dell'Orda di Sangue arrivi a tutta velocità e si becchi un po' della loro bomba sui denti.» «Suiza!» Era Pitak, che voleva sapere se poteva trovare qualcuno che andasse giù in magazzino a fare nero l'idiota che sosteneva che non c'erano più teli provvisori per lo scafo e che bisognava aspettare che ne fabbricassero di nuovi. «So ben io quanti ne ho usati» disse Pitak. «E so quanti ce n'erano in magazzino perché ce li ho mandati io, e so quanti ne erano rimasti quando abbiamo lasciato la Stazione Sierra. Ce ne devono essere ancora sedici da qualche parte e io li voglio qui, e li voglio due ore fa.» «Un sacco di sangue» disse l'infermiera addetta al triage. «Almeno respirano.» La squadra recupero trasferì il corpo flaccido rivestito di un'uniforme intrisa di sangue dalla barella al lettino, con una mossa pratica, per poi passare al paziente successivo. «Sono tutti privi di conoscenza; abbiamo fatto un'analisi veloce dei primi due e hanno alti livelli di ossilento nel sangue... probabilmente qualcuno è riuscito ad attivare la provvista per le emergenze quando lo scafo si è aperto.» «Allora non avete fatto una ricognizione approfondita?» «No, se hanno tutti gli arti, ci limitiamo a tirarli fuori con le dovute precauzioni.» Le precauzioni necessarie a salvaguardare l'integrità della spina dorsale, o almeno quel che ne restava. «Quanti sono?»
«Una trentina, penso. Non ne sono sicuro. Stiamo arrivando ai compartimenti di prua solo adesso.» La squadra recupero si allontanò, per andare a prendere un altro carico. Esmay osservò la prua danneggiata della Wraith che entrava lentamente nel cantiere di riparazione. Era facile, quando era vuoto, dimenticarsi di quant'era grande il cantiere, ma la nave forniva una scala di riferimento. «Suiza!» Quel ruggito non poteva essere che Pitak. «La smetta di guardare il panorama e mi faccia una lettura.» «Sì, signore.» Esmay tornò a guardare il quadro. Pitak era preoccupata per i cambiamenti nel centro di gravità quando la Wraith sarebbe entrata nel campo gravitazionale artificiale della Koskiusko. Un cambiamento troppo rapido avrebbe potuto sottoporre la struttura interna della Koskiusko a uno stress superiore ai limiti di sicurezza. «È attiva la gravità artificiale in un qualche punto della Wraith?» «No, in nessuno.» «Si sta sviluppando un momento di forza in una delle sezioni controlaterali di mezzo... solo 5,4 dina per adesso, ma l'aumento è direttamente proporzionale alla massa della Wraith che si trova all'interno del campo della Kos.» «Questo era previsto... seccante, ma previsto. Trasferisca i dati al mio schermo e alla sezione Potenza, prego.» «Sì, signore.» Esmay evidenziò il grafico, ordinò il trasferimento, e continuò a tenere d'occhio il suo schermo. Il suo sguardo tendeva a scivolare verso lo spettacolo della Wraith che entrava, ma lei lo riportava a posto con uno strattone ogni volta. Il valore del momento che aveva notato scese sotto la curva; chiamò Pitak. «È sceso sotto la linea...» «Benissimo. Vuol dire che su a Potenza stanno compensando. Ma lo tenga d'occhio quando entrerà il punto dove la nave è deformata, è una cosa che non possiamo modellare per il generatore di campo.» Centimetro dopo centimetro, la Wraith continuò a entrare. Quando le cime d'ormeggio furono assicurate, in tutta la CRSP cominciarono a suonare campanelli d'allarme. «Movimentazione pontoni in quindici minuti. Movimentazione pontoni in quindici minuti.» Esmay trasferì tutte le ultime letture al maggiore Pitak e a Potenza, poi si spostò a una stazione di lavoro dietro le doppie linee rosse. Solo il personale essenziale sarebbe rimasto sui pontoni mentre venivano spostati attorno alla nave.
«Non posso neanche pensare a cosa avrebbe fatto l'esplosione ai meccanismi dei pontoni» disse qualcuno dietro di lei. Si gettò un'occhiata alle spalle. Barin Serrano, le sopracciglia nere chine sul suo lavoro. «Ci hanno già pensato» disse Esmay. Si chiese che cosa ci facesse Barin lì; in quel momento non c'era bisogno della sua specialità, che era la ricognizione. «Il tenente Bondal mi ha mandato giù a vedere se il maggiore Pitak aveva già deciso dove si deve mettere la nuova unità RSV» disse, anticipando la sua domanda. «Non me l'ha detto, ma posso controllare. Hai sentito dire niente sull'arrivo di navi dell'Orda di Sangue?» «No... e sono sicuro che se ci fossero ne avrei sentito parlare, perché... insomma, lo avrei saputo. Ma lo sapevi che la Sting e la Justice sono saltate via?» «E perché?» «Hanno portato la Wraith a destinazione... e il loro compito è di pattugliare la loro zona, dovunque sia. Forse pensavano che se qualcuno stava seguendo la Wraith l'avrebbero scovato.» Il Gar-sig (Capobranco) Vokrais fu svegliato dal vocio di una corsia di ospedale. Quando voltò la faccia, vide il suo secondo, Hoch, che lo fissava a sua volta. «Che è successo?» chiese, nel suo migliore Standard. «Il maledetto gas narcotico» disse Hoch. «Ci hanno presi per feriti e portati dentro... non penso che questa sia la stessa nave.» Rimasero distesi, ascoltando il chiacchiericcio che li circondava. «Siamo sulla CRSP» disse Hoch alla fine, con un sorriso da lupo. «Proprio dentro.» «Noi due, per ora» disse Vokrais. Sollevò la testa cautamente, visto che nessuno sembrava badargli. Indossava una specie di camice leggero, azzurro chiaro, e nella fila di letti accanto al suo si trovava il resto della sua squadra d'assalto, tutti vestiti allo stesso modo. O almeno, quasi tutta. Contò venticinque membri soltanto dei trenta che erano stati in origine, e Tharjold non era fra loro: il loro tecnico, quello che sapeva più di tutti loro sulla tecnologia delle Familias. Non c'erano neanche Kerai e Sij... elencò mentalmente tutti quelli che mancavano, consegnandoli all'una o all'altra delle due possibili destinazioni eterne. Tutti gli altri erano lì, nudi come vermi nei loro camici d'ospedale... ma tutti svegli, ora, e che lo guardavano come
a chiedergli cosa intendeva fare. Prima che avesse il tempo di domandarsi come fare a rivestire la sua squadra e portarla fuori di lì, un uomo robusto con un cipiglio degno di un sergente maggiore dell'Orda arrivò di buon passo camminando fra i letti. «E va bene, dormiglioni» disse. «Adesso siete svegli, e nessuno di voi ha niente di peggio che postumi da narcotico. Venite con me, io vi procuro delle uniformi pulite e voi ritornate al lavoro... avremo bisogno di voi per rimettere a posto la Wraith.» «Le nostre schede d'identità?» chiese Hoch. Sembrava mezzo strozzato, ma probabilmente stava solo cercando di controllare il suo accento. «Le ho qui. Ho già passato i vostri dati all'Approvvigionamento, così avrete subito delle uniformi più o meno della vostra misura.» Vokrais rotolò fuori dal letto, sorpreso di constatare che non si sentiva nemmeno girare la testa. Gli altri lo seguirono: vide dei piccoli movimenti incontrollati del braccio in parecchi di loro, provocati dall'istinto di salutare in conflitto con la consapevolezza di dove si trovavano. La loro guida non notò nulla. Stava fulminando con lo sguardo un elenco che teneva in mano. «Santini?» Vokrais frugò fra i suoi ricordi del vocabolario straniero e alla fine si ricordò che la larghetta dell'uniforme che aveva rubato portava scritto sopra qualcosa del genere, nella loro strampalata lingua. «Uh... sì, signore?» Ci fu una risatina, tre letti più indietro, proveniente da qualcuno che trovava buffo sentirgli dare del "signore" a un alleato delle Familias. Quel qualcuno avrebbe assaggiato la frusta per questo, più tardi. «Sveglia, Santini. Senti un po', qua dice che eri uno specialista in ventilazione?» «Signore» disse Vokrais, chiedendosi quale dei tanti significati della parola andava bene qui. Ventilazione? Come in respirazione artificiale? O come in condizionamento d'aria? «Benissimo, allora ti mando ai Sistemi di Supporto appena ti procuri l'attrezzatura. Oh, e Camajo?» Di nuovo silenzio. Vokrais pregò il Divoratore di Cuori che qualcuno avesse il buonsenso di rispondere. Dopo troppo tempo, Hoch tossì, in modo clamorosamente finto alle orecchie di Vokrais, e disse: «Sì, signore?» «Siete ancora un po' addormentati, eh? Mi avevano detto di lasciarvi un'altra ora, ma abbiamo bisogno di braccia adesso. Camajo, tu presentati a rapporto al maggiore Pitak, in Scafi e Architettura. Adesso, vediamo...
Braddington?» Questa volta, gli altri avevano capito, e qualcuno disse: «Sì, signore» quasi allegramente. Vokrais si chiese se anche loro ricordavano i nomi delle uniformi che avevano tolto ai nemici morti, o se stavano rispondendo a casaccio. Probabilmente non aveva importanza. Si presumeva che sulle navi delle Familias ci fosse un sistema elaborato per controllare se qualcuno faceva veramente parte dell'equipaggio, ma per ora lui non ne aveva visto alcun segno. Alla fine, tutti avevano risposto a un nuovo nome, nomi che mettevano a disagio, anche se indossati così provvisoriamente, perché non c'era alcun canto familiare a sostenerli. Per un momento Vokrais si chiese se questi stranieri avevano delle famiglie, e se quelle famiglie avevano un proprio canto... ma non erano pensieri adatti a chi si trovava nella pancia di una nave nemica. Li spinse da parte e caddero dalla sua mente come un terricolo dal ponte di una nave-drago col mare in tempesta. Pensò invece alla battaglia che stava per arrivare, a come il sangue caldo dei nemici gli avrebbe inzuppato gli abiti, non freddo e fangoso, questa volta, ma fumante, come doveva essere. Non che gli fosse importato di svestire i morti e indossare le loro uniformi sporche di sangue... non dopo i rituali del Sangue... ma era stato sgradevole doverlo toccare già freddo. Il suo branco lo seguì mentre si addentrava nella nave nemica: avvertiva il loro divertimento, che come il suo ribolliva appena sotto la pelle. Il nemico... erano più una preda che un nemico, pecore che conducevano il lupo nell'ovile credendo che fosse un cane da guardia. Mentre accettava una bracciata di vestiti ripiegati, pensò che il suo branco avrebbe potuto impadronirsi di quella nave anche nudi com'erano, armati solo della loro sete di sangue. Invece... si vestì rapidamente, stando attento a non incrociare gli occhi di nessuno. Aveva già indossato i panni delle Familias, negli anni in cui aveva vissuto come spia fra loro... i tessuti soffici, le chiusure oblique, gli sembravano quasi familiari quanto i suoi stessi abiti. Ma non era così per la mancanza di armi. Gli mancava il peso familiare di agatore e storditrice, tirapugni e spanciatore. I soldati delle Familias portavano armi solo in battaglia... e le CRSP non combattevano mai. Il nemico li aveva portati gentilmente per mano oltre le prime due fasi del piano, offrendo loro anche l'opportunità di disperdersi per tutta la nave. Con un po' di fortuna, e in quel momento gli dei sembravano decisamente disposti a rovesciare cascate di fortuna addosso a loro, nessuno dell'equipaggio della Wraith avrebbe notato che gli uomini che indossavano le uni-
formi dei loro compagni erano dei nemici. Vokrais seguì il percorso che gli veniva indicato su una specie di computer grande come il palmo di una mano, sicuro di essere in grado di affrontare qualunque cosa lo attendesse una volta giunto a destinazione. «No, non ho intenzione di rimandarvi nessuno di quelli della Wraith, non dopo una settimana o giù di lì di sonno narcotizzato. Non saranno in grado di connettere per almeno altri due turni, e non vogliamo incidenti.» Vokrais sentì la coda di questo ragionamento e si chiese se fingere di essere mentalmente disturbato poteva essergli utile. Forse no. Rischiava di farsi rimandare indietro in infermeria, dove sarebbe finito in un letto e senza pantaloni. Meglio sembrare volonterosi ma ancora un po' confusi: e la confusione, almeno, sarebbe stata sincera. La tecnologia delle Familias gli faceva la stessa impressione di sempre: ce n'era così tanta, e funzionava così bene. Neanche l'ombra del familiare odore di sudore e alito cattivo. Da una griglia emergeva dell'aria pulita, che veniva risucchiata in un'altra; le luci non tremolavano mai; la gravità artificiale era talmente stabile e solida che pareva di essere su un pianeta. Il piccolo congegno per le comunicazioni e la sonda dati che gli avevano consegnato erano più piccoli e funzionavano meglio del loro equivalente sulle navi dell'Orda di Sangue. Era per questo che erano venuti, dopo tutto. Per la tecnologia che non erano stati in grado di comprare, di rubare o (come ultima e meno efficace risorsa) inventare. Navi più grandi, navi migliori, navi che avrebbero potuto affrontare gli incrociatori delle Familias e della Mano Compassionevole e vincere. I tecnici necessari a far funzionare tutto questo... Vokrais guardò le persone che lo circondavano. Non sembravano granché, ma lui era riuscito in qualche modo a superare i pregiudizi con cui era stato cresciuto; sapeva che una mente di prim'ordine poteva nascondersi in un corpo di qualunque forma. Eppure, a malapena uno su cinquanta di loro aveva l'aria di un guerriero. Nel frattempo... nel frattempo il suo branco era disperso qui e là per la CRSP, molto comodamente. Con ogni probabilità diversi dei loro supervisori avrebbero deciso, come aveva fatto il suo, di assegnare loro compiti facili. A un certo punto sarebbe venuto il momento di mangiare, e avrebbero potuto mettere le mani sulle posate, che erano tanto facili da trasformare in armi. Un'ora... due. Vokrais continuò a lavorare, contento di riordinare pezzi di ricambio, sistemarli su appositi vassoi, impilarli in rastrelliere automati-
che. Non c'era fretta: facendosi narcotizzare e ammettere come feriti, avevano guadagnato tempo, un'ironia che sperava di condividere con il suo comandante alla festa per la vittoria. Una volta vide un altro membro del branco che trasportava un oggetto che lui non riconobbe; per un istante i loro sguardi si incrociarono, poi l'altro distolse gli occhi. Ecco. Per quanto enorme fosse quella nave, si sarebbero trovati, e il loro piano avrebbe funzionato. E più tempo avevano per esplorare, per conoscere le potenzialità della nave, più sarebbe stato facile aprirle la pancia quando fosse venuto il momento. Esmay alzò gli occhi quando un'ombra passò sul suo schermo, CAMAJO, era scritto sulla targhetta appuntata su un'uniforme che stava addosso al suo occupante come una sella nuova... cioè tecnicamente della misura giusta, ma portata a disagio. I gradi di sottocapo erano stati applicati di recente, e non perfettamente, alla manica. «Mi hanno detto di presentarmi qui» disse l'uomo. «Al maggiore... maggiore Pitak.» L'uomo girava lo sguardo per il compartimento come se fosse alla ricerca di armi nascoste; a lei aveva dedicato solo un'occhiata priva di interesse. Esmay sentì un formicolio sulla pelle. Le ricordava qualcosa, qualcuno. La sua mente, all'improvviso all'erta, cercò freneticamente di capire che cosa. Tornò a guardare lo schermo prima di rispondergli. «È dentro con il comandante Seveche. Sei della Wraith?» Non riusciva a immaginare che qualcuno che serviva a bordo della Koskiusko potesse guardarla così. Non era lo sguardo "la tua famiglia non era nella Flotta, vero?" e nemmeno quello "ma sei mica la ragazzina che ha comandato la Despite, tu?", insomma non era nessuno degli sguardi che ormai aveva imparato a riconoscere. «Sì... signore.» Quella piccola pausa rubò di nuovo la sua attenzione allo schermo. «Eravamo... nei compartimenti di prua... i gas narcotizzanti...» «Sei fortunato a essere ancora vivo» disse Esmay, perdonandogli subito lo strano comportamento. Se aveva passato cose del genere, era normale che fosse ancora sotto gli effetti della droga. «Abbiamo portato dentro la Wraith; hanno già cominciato a lavorarci sopra. Puoi aspettare il maggiore qui, oppure puoi andare all'ufficio del comandante Seveche.» «Dov'è l'ufficio del comandante Seveche?» chiese l'uomo. Il chip nel suo taschino pigolò discretamente, e l'uomo fissò con gli occhi leggermente incrociati un punto dello spazio fra lui ed Esmay. Sapeva cosa voleva dire: il chip stava proiettando un percorso.
«Basta che segui il chip» disse Esmay. L'uomo si voltò senza fare il dovuto saluto. Esmay cominciò a dire qualcosa, ma... era stato gasato, e poteva ancora essere un po' confuso. Però c'era qualcosa di strano... «Sottocapo» disse. L'uomo si fermò e si voltò con movimenti scattanti. Sì, c'era proprio qualcosa di strano. Non aveva gli occhi di uno che è stato stordito dalle droghe... no, erano scintillanti e svegli, anche se mezzi nascosti dalle palpebre. «Sì... tenente?» Non avrebbe saputo dire con certezza che cosa c'era che non andava... non si trattava di mancanza di rispetto, cosa di cui aveva abbondante esperienza. Rispetto, o mancanza di rispetto, sono cose che possono esistere solo laddove c'è un rapporto. Qui le sembrava che fra lei e l'uomo non ci fosse alcun rapporto, come se il sottocapo Camajo non fosse affatto un membro della Flotta, ma un civile. «Quando incontrerà il maggiore Pitak, le dica che le simulazioni del processo di fabbricazione sono già arrivate da Materiali Speciali.» «Le simulazioni sono arrivate... sì mad... signore.» Camajo si voltò, muovendosi in modo troppo deciso per qualcuno stordito dai narcotici, e prima che Esmay potesse aggiungere altro era sparito. Esmay rimase a guardare lo schermo. "Sì... mad... signore?" Cos'era che aveva quasi detto? Si sentiva a disagio. Possibile che la Wraith avesse avuto dei traditori a bordo? Era per quello che era stata danneggiata così tanto? Come mai Camajo era vivo, e nemmeno ferito, con una falla come quella che lei aveva visto fra lui e il resto della nave? Era ridicolo. Non aveva notato niente di strano sulla Despite, non aveva avuto nessun sospetto che i traditori fossero traditori. Non era stata così a disagio, allora. Forse l'esperienza passata l'aveva resa un po' paranoica, incline a considerare ogni piccola discrepanza come un presagio. Camajo era stato fortunato, ecco tutto, e ora era disorientato, su una nave che non conosceva, senza nessuno dei suoi compagni accanto. Però non riusciva a convincerla. I feriti della Despite, traditori o leali che fossero, non avevano mai inciampato sulle familiari formule del saluto della Flotta. Con la bocca insanguinata, mentre stava morendo, il capo maggiore Barscott le si era rivolto dicendo "Sì, signore...". Quanti di quei sopravvissuti nei compartimenti di prua erano stati fortunati? E quanto fortunati? Ed era stata proprio fortuna? Gli occhi di Camajo... il suo sguardo... le ricordava i soldati di suo padre. Occhi di terricoli, occhi da commando. Che si muovevano qua e là,
valutando, osservando, cercando i punti deboli di una posizione, immaginando modi di conquistarla... Di conquistare cosa? Con un secco rimprovero, Esmay si costrinse a passare alla schermata successiva, ma la sua mente continuava a vagare. Durante la guerra civile, perché adesso Esmay la chiamava così, anche se la sua famiglia la chiamava ancora la Sollevazione di Califer, entrambe le parti avevano cercato di infiltrarsi nelle posizioni difensive del nemico con soldati che portavano uniformi e documenti di identità rubati. E qualche volta aveva funzionato, benché entrambi sapessero bene che una cosa del genere poteva venire tentata. Non aveva mai sentito che qualcosa di simile fosse successo nella Flotta. Sulle navi non si infiltravano nemici singoli... venivano attaccate da altre navi. In tutta la storia della Flotta i casi di abbordaggio nemico erano rarissimi; la zona di un combattimento era troppo pericolosa per mettersi a fare attività extraveicolare. A volte i pirati abbordavano vascelli commerciali isolati... ma non le navi militari. Ci sarebbe voluto... ci sarebbe voluta una nave della Flotta isolata e malamente danneggiata, che non poteva rilevare movimenti extraveicolari fuori dal suo scafo... e una falla nello scafo da cui entrare... in modo da procurarsi le uniformi giuste... no. Stava delirando. Il maggiore Pitak entrò mentre Esmay ancora stava dibattendo la cosa fra sé e sé. «Quel Camajo della Wraith dev'essere ancora mezzo drogato» le disse il maggiore, depositando sulla sua scrivania una mezza dozzina di cubi. «Non sono riuscita a farmi dire quali simulazioni erano arrivate... l'ho mandato giù a E-12; possono usarlo come corriere, se non altro. Così almeno danni non ne può fare.» Esmay perse la sua disputa interiore con la prudenza. «Maggiore, mi preoccupa una possibile falla nella sicurezza...» «Falla nella sicurezza! Di cosa sta parlando?» «Camajo. Non ne sono sicura, ma... c'era qualcosa che non andava.» «È stato narcotizzato per una settimana, è una cosa che può mandare a pallino il cervello di chiunque. In che senso ci sarebbe una falla nella sicurezza?» «È che semplicemente non reagiva come avrebbe dovuto» disse Esmay. «Il modo in cui mi guardava... insomma, non era il genere di espressione che viene provocata da un narcotico.» Pitak la guardò, concentrata. «Lei è passata attraverso un ammutinamento; se non l'ha resa paranoica, sicuramente le avrà insegnato a notare subito se qualcosa non quadra. Pensa che potrebbe essere un traditore, come He-
arne o Garrivay?» «No, signore. Penso... e se qualcuno si fosse infiltrato sulla Wraith? Magari attraverso la falla sullo scafo. Non sarebbe possibile che dei soldati dell'Orda di Sangue fossero entrati, prima che la Wraith potesse fare il salto?» «Vuole dire una specie di abbordaggio, come su una caravella, tipo storia di pirati? Sono cose che nessuno fa, Suiza, non nel mondo reale, nello spazio aperto. Anche i pirati semmai mandano la loro gente in una navetta. E poi, come farebbero a sopravvivere al salto?» «Be'... c'erano dei superstiti nei compartimenti di prua.» «Ma erano membri dell'equipaggio della Wraith, con uniformi della Wraith, con il nome sull'elenco del personale. Ero lì, Suiza. Non ho visto niente di simile a un commando dell'Orda di Sangue, solo feriti narcotizzati dal gas per conservare l'ossigeno.» «Ne è sicura?» Pitak la guardò con un misto di stanchezza e irritazione. «A meno che lei non suggerisca che abbiano astutamente travestito i loro soldati con le nostre uniformi, uniformi che guarda caso avevano le mostrine giuste e perfino le giuste targhette col nome cucite sopra... poi li hanno feriti, inzuppati nel loro stesso sangue, lasciati saltare fin qua dentro una nave danneggiata...» «Siamo sicuri che fossero feriti davvero?» Pitak sbuffò. «Io non sono un medico, come faccio a saperlo? Erano svenuti, coperti di sangue, e portavano le nostre uniformi. Che cosa vuole di più?» Era una domanda stupida, ma Esmay non lo fece notare. Continuava a provare un prurito testardo fra le scapole. «Camajo non era ferito... vorrei controllare come stanno le cose in infermeria, se non le dispiace.» «Oh, diavoli sotto vetro, Suiza, perché non si concentra sul suo lavoro? Non gliene sto dando abbastanza? Lasci che siano i medici a preoccuparsi dei feriti. A meno che non voglia trasferirsi lì...» «No, signore.» Esmay sentì, nella propria voce, la cocciuta convinzione di essere nel giusto. Pitak le lanciò un'occhiataccia. «Lei è davvero preoccupata.» «Sì, signore.» «Sputi, allora.» «Signore, io... io ho un brutto presentimento.» Pitak sbuffò e ruotò gli occhi come una cavalla nervosa. Esmay non si lasciò smontare. «Il fatto è,
signore, che se sono arrivati abbastanza vicini da piantare una mina a mano, possono anche avere messo dei soldati a bordo.» «Senza che nessuno lo notasse? Sarebbe...» «Signore, la Wraith era isolata al momento dell'attacco; degli individui in tuta spaziale, o anche in piccole navette, non sarebbero stati rilevati dalla Justice e dalla Sting; e la Wraith aveva i sensori danneggiati. L'analisi tattica suggerisce che l'Orda di Sangue poteva avere intenzione di catturare una CRSP, non semplicemente di distruggerla. So che in genere non ci aspettiamo che l'Orda faccia dei piani così complessi, ma rifletta: inviando un commando a bordo di una CRSP possono causare sufficiente disordine e confusione da rendere molto più facile la cattura a una seconda nave o ondata di navi.» «Lo vedo bene il piano, Suiza, ma le ripeto: quei feriti portavano le nostre uniformi. Le nostre uniformi, con il codice di riconoscimento della Flotta nel tessuto... se pensa che possano aver rubato una partita di stoffa, cucito le uniformi, rubato la lista dell'equipaggio della Wraith...» «No, signore.» Esmay stava pensando furiosamente, tentando di stare dietro alla sua intuizione. «Supponga... supponga che siano saliti a bordo, a prua della falla, sfruttando la confusione del momento. Le comunicazioni con la prua erano interrotte, con i danni che la nave aveva subito... e quindi qualunque cosa avessero fatto là davanti, a poppa non si sarebbe saputa. Potrebbero avere avuto la meglio su chiunque fosse rimasto vivo, averli uccisi, indossato le nostre uniformi, buttato nello spazio le loro e i corpi...» «A me sembra ancora un romanzo d'avventure, Suiza, non una cosa reale.» Pitak si stava mordicchiando le labbra. «Ma d'altra parte, queste cose romanzesche sono il pane per l'Orda di Sangue. Lei sosterrà, immagino, che il sangue su quelle uniformi apparteneva all'equipaggio della nave, e che dentro le uniformi insanguinate i soldati nemici non erano affatto feriti?» «Sì, signore, a meno che il salto non li abbia feriti. Quei compartimenti non erano sicuri, l'ha detto lei stessa.» «No...» Pitak la guardò di nuovo intensamente. «Devo ammettere, Suiza, che la sua abitudine a puntualizzare a volte può essere davvero una spina nel fianco. E non è che siamo a corto di grane, in questo momento, sa?» Tese una mano e azionò il comunicatore. «Ma controllerò.» Durante tutto il tempo che Pitak impiegò per superare gli ostacoli che la sezione medica predisponeva per difendersi dai semplici curiosi, Esmay cercò di dedicarsi al suo lavoro. Ma linee e numeri le si sfocavano davanti
agli occhi... gli occhi della sua mente continuavano a vedere quello che non aveva visto di persona, i compartimenti bui delle sezioni di prua della Wraith, ingombri di detriti e di uomini e donne incoscienti. Uomini e donne con gli occhi di Camajo, o qualunque fosse il suo vero nome, gli occhi svegli e all'erta di chi si trovava in missione. Fece scorrere lo stilo lungo una colonna di numeri, cercando di concentrarsi su qualcosa di utile. Il cambiamento nel tono di voce di Pitak la fece raddrizzare, completamente all'erta. «Davvero?» con tono volutamente disinvolto. «Interessante. Ho aiutato a evacuare alcuni di loro, sa, ed erano coperti di sangue... ah. Capisco. Solo effetti del narcotico. Sono ancora lì, allora?» La sua voce si fece più tagliente. «Quando?» Incontrò lo sguardo di Esmay. «Capisco.» Esmay attese che Pitak chiudesse la comunicazione. «Se continua con questo vizio di avere sempre ragione, Suiza, si renderà antipatica.» Esmay non disse nulla. «Non erano feriti, nessuno di loro. Venticinque maschi... apparentemente confusi e intontiti al momento del risveglio, ma tre ore fa sono stati mandati in diverse postazioni in vari punti della nave. Camajo, come sappiamo entrambe, è stato mandato qui, a Scafi e Architettura. Se sono soldati dell'Orda di Sangue... Tutta quella gente libera per la nostra nave potrebbe causare danni seri...» «Sì, signore.» «E non sappiamo nemmeno dove sono. Un sottocapo di nome Barrahide, della sezione Personale, è venuto e li ha portati via. Non era uno della Wraith, perché tutto il personale della Wraith che non è ricoverato sta aiutando a fare la valutazione danni.» Mentre parlava, Pitak stava scorrendo un elenco sullo schermo. «Ah. Eccoci qua. Interno... 7762.» Pitak chiamò di nuovo, ma questa volta continuò a parlare mentre aspettava che qualcuno dall'altra parte rispondesse. «Sempre che siano davvero dell'Orda di Sangue. Potrebbe non essere così. Abbiamo bisogno di qualcuno della Wraith, o almeno ne ha bisogno il capitano. Ma vedrò che cosa mi sa dire Barrahide.» «Bisognerebbe dare un'occhiata ai cavi per le comunicazioni fra i compartimenti di prua e il resto della nave... sono stati danneggiati dall'esplosione o sono stati tagliati?» «Buona idea, Suiza. Potresti chiamare il mio capo sul posto e chiedergli di controllare... Oh, capo Barrahide? Senta, vorrei parlarle del personale della Wraith che ha fatto uscire dall'infermeria...»
14 Barin cercava di non pensare a Esmay Suiza; aveva tanto da fare, o almeno ce l'avrebbe avuto se fosse riuscito a concentrarsi. E poi era di due gradi avanti a lui; lui per lei era soltanto un bambino. Continuava a ripeterselo, ma non ci credeva. Lei lo rispettava: dopo quel primo disastroso litigio, lo aveva sempre trattato come un suo pari. Si accorse che aveva aggrottato le sopracciglia. Non era una questione di rispetto, esattamente. Era più... si agitò, cercando di scacciare il pensiero. Terricola, e di grado più elevato del suo... non aveva nessun diritto di pensare a lei in quel modo, eppure era così. Quei capelli castani e soffici, che facevano sembrare ruvidi e rozzi quelli neri dei Serrano... la sua altezza, che faceva sembrare i Serrano tarchiati. La sua nuca... perfino i suoi gomiti... non voleva provare queste cose, ma le provava. I Serrano, gli aveva detto sua madre, quando cascano cascano come pere cotte. L'aveva presa come prendeva la maggior parte delle cose che gli venivano dette sulla sua famiglia: con più di un grano di sale. Sua madre non era una Serrano, e il suo occasionale sarcasmo poteva essere motivato dall'invidia. Le sue cotte giovanili erano state, perfino ai suoi occhi, semplici tempeste ormonali. Si era sempre aspettato che, se mai avesse trovato qualcuno, sarebbe stato fra i rispettabili ranghi delle famiglie tradizionali della Flotta. Una Livadhi, magari. O una Damarin; ce n'era stata una nel suo corso, una bellezza snella e con gli occhi verdi, con la splendida schiena flessibile dei Damarin. Se fossero stati assegnati sulla stessa nave... ma non era andata così. "Questo" era impossibile. Lo sapeva bene. La nonna avrebbe sollevato le sue famose sopracciglia. Sua madre avrebbe fatto il suo famoso sospiro. E sua cugina Heris... non voleva pensare a sua cugina. Si diceva che anche lei avesse scelto un partner poco ortodosso, ma sapeva di non poter contare, per questo, sul suo sostegno. La parte della sua mente che non si era beatamente incamminata lungo quel sentiero seducente lo riportò alla realtà bruscamente. Il comandante Vorhes avrebbe preteso la sua testa su un vassoio d'argento se non trovava quei componenti in magazzino e li faceva arrivare in men che non si dica al cantiere. Scosse la testa contemplando la propria follia, e incontrò lo sguardo divertito di un guardiamarina che conosceva. «All'erta, Serrano. Hai sentito degli intinsi?» «Intrusi? Quali intrusi?»
«Feriti della Wraith che non erano poi tanto feriti, per cui sono stati rimandati al lavoro, e poi sono spariti. A questo punto qualcuno in Scafi e Architettura ha perso la testa e ha cominciato a dire che erano agenti dell'Orda di Sangue o cose del genere... in ogni caso, nessuno riesce più a trovarli, e c'è una specie di allarme...» «Niente di ufficiale, però?» «No...» Furono interrotti da un segnale d'allarme. «A meno che non sia questo.» Era quello. «Tutto il personale si presenti al più vicino banco tubi ascensori sui ponti Sette e Otto per farsi identificare... tutto il personale...» Barin e tutti gli altri andarono verso il più vicino banco ascensori. «È impossibile, sai» disse l'altro guardiamarina. «Non li troveranno mai, in questo labirinto... cinque bracci, il mozzo, diciotto ponti, e tutti gli spazi morti qui e lì, per tacere dei magazzini... è impossibile.» «Se davvero si tratta di un gruppo d'assalto dell'Orda di Sangue, faranno meglio a trovarli» disse Barin. «A ogni modo, abbiamo sistemi di rilevamento interno in ogni compartimento.» Si ricordò di quello che gli aveva detto Esmay sulla documentazione portata al suo processo. «Dovrebbero sapere come sabotarli per sfuggire alle ricerche. Non sarà troppo difficile scovarli, anche in una nave di queste dimensioni.» «E poi cosa potrebbero fare? Anche se non li troviamo, non possono fare altro che andarsene in giro. Non possono passare più...» L'altro guardiamarina rallentò, in vista ormai dell'assembramento attorno agli ascensori. Barin pensò a quello che Esmay gli aveva detto dell'ammutinamento e di quello che aveva sentito di come Heris aveva catturato l'incrociatore di Garrivay. «Non ci vogliono molte persone per provocare un disastro» disse. «Se prendono il ponte...» Tutto d'un tratto, la nave che era sembrata troppo grande per poter essere una vera nave, troppo sicura per essere interessante, gli sembrò fragilissima nell'immensità dello spazio. Cercò di nuovo di convincersi che il sistema di rilevamento interno avrebbe localizzato gli intrusi... ma c'erano compartimenti dove il rilevamento non era completo. E con il volume ingente dei dati sarebbe stato facile farsi sfuggire qualcosa. Il nuovo sistema intelligente, che già si era dimostrato così controproducente nel conservare traccia dei cambiamenti della pianta interna della nave... sicuri che fosse in grado di affrontare un compito come questo? Si unì alla fila che si era formata davanti a un membro dell'equipaggio con le insegne della Sicurezza. Qualcuno porse le domande che anche lui
avrebbe voluto fare, ma non ottennero risposta. «Guardi solo qui» venne detto a tutti. «Impronte del palmo qui. Sentirà una puntura... avanti il prossimo...» Controlli di identità completi? Era da quando era entrato in Accademia che non gli veniva fatto un controllo completo di identità. Davvero pensavano che qualcuno fosse in grado di falsificare un'impronta della retina o della mano? Ed era possibile farlo? Si dondolò da un piede all'altro. Dietro di lui la fila si ingrossava. Ci voleva almeno un minuto per persona, e poi veniva consegnato un nuovo cartellino di identificazione. Fece a mente un ovvio calcolo... al massimo sessanta persone all'ora a ciascun punto di controllo, e avevano solo dieci punti di controllo? Ci sarebbero volute ore e ore per confermare l'identità di tutte le persone a bordo e fornirgli nuovi cartellini... «Guardi qua, signore... qui le mani... sentirà una puntura.» Barin sbatté le palpebre, momentaneamente accecato dal lampo con cui la macchina aveva controllato la sua impronta della retina; sentì una puntura, l'ago attraverso cui gli veniva prelevato il sangue che sarebbe stato confrontato con la sua scheda. La macchina fece un segnale sonoro, e Barin prese il cartellino rosa vivo che gli venne consegnato. A differenza di quello vecchio, non aveva la sua fotografia, solo una banda lucida che avrebbe permesso al sistema di rilevamento interno di riconoscerlo come legittimo ospite della nave. Mentre si allontanava, diretto al magazzino per prelevare le parti che Vorhes voleva, vide arrivare nuovi membri della Sicurezza con altro equipaggiamento di controllo. Prese il tubo fino al ponte Tredici, e consegnò la sua richiesta di materiale al capo che supervisionava il sistema di prelievo automatico. Non aveva il nuovo cartellino rosa, ma indicò il suo col mento. «Fra poco il capitano interromperà il sistema di prelievo automatico, scommetto, e così potrò andare anch'io a prendere il mio cartellino. È arrivato appena in tempo.» Dentro, il rumore degli scaffali mobili in movimento era molto meno fragoroso del solito. In breve tempo, uno dei carrelli robot scivolò accanto alla porta con le parti che aveva richiesto; il capo controllò ogni voce. «Ha bisogno di un trasporto, signore?» Barin diede un'occhiata al suo carico e decise che ce la poteva fare senza aiuto. «No, grazie.» «Benissimo, allora.» Raccolse i componenti confezionati e decise di non prendere il tubo per
tornare indietro... avrebbe potuto aggirare il mozzo, camminando in senso orario, con il resto del traffico, e poi prendere la scala che saliva al ponte Dodici, da dove avrebbe raggiunto il magazzino della Scuola Superiore per raccogliere le altre cose che Vorhes voleva. E poi avrebbe potuto vedere qualcosa... il suo battito accelerò. Se c'erano degli intrusi, ed erano dell'Orda di Sangue, che aspetto avrebbero avuto? Dell'Orda di Sangue sapeva solo che in genere erano alti e biondi. Mentre passava oltre il braccio T-5, riuscì a gettare un'occhiata negli uffici della Sicurezza della nave, che sembravano un formicaio appena preso a calci da qualcuno. Perché non poteva essere anche lui un membro dell'equipaggio della nave? Non aveva problemi a immaginarsi nei panni del tenente della Sicurezza che in quel momento lo stava guardando male, come a chiedersi che cosa ci facesse da quelle parti un guardiamarina della sezione Sensori Remoti del Quattordicesimo. Sarebbe stato molto più interessante del suo incarico... a lui non sarebbe certo capitato di vedere gli intrusi, e nemmeno il nemico fuori dallo scafo, peraltro. Continuò a camminare, augurando malattie e tutto il male possibile alla persona che lo aveva assegnato al rilevamento remoto a bordo di una CRSP, invece di dargli un incarico degno di un Serrano. Il magazzino della scuola, quando ci arrivò, era vuoto. Si chinò sul bancone, tentando di infilare la sua sonda dati nella consolle per scoprire dove si trovavano i pezzi di cui aveva bisogno. Non era mica sicura quella situazione... se tutti erano in fila a farsi dare i nuovi cartellini, chi controllava che gli intrusi non entrassero di nascosto in un posto come quello, per esempio? Anche se non vedeva perché avrebbero dovuto desiderarlo... Sentì dei passi che si avvicinavano, e avvertì di nuovo il cuore che cominciava a battere all'impazzata. E se erano gli intrusi? Si guardò intorno e non vide nulla che potesse essere usato come un'arma... ma il sergente grasso che entrò sbuffando portava uno dei nuovi cartellini rosa. «Mi spiace, signore» disse, con le guance arrossate dalla fatica. «Ho dovuto fare le scale a piedi... hanno disattivato tutti i tubi, il che è ridicolo... non fa altro che renderci le cose più difficili.» Barin gli porse la sua lista. «Forse hanno paura che gli intrusi possano tagliare l'alimentazione ai tubi.» «Non credo che lo farebbero!» il sergente si fermò, scosso, mentre inseriva i codici di accesso. «Io non lo so se lo farebbero o no» disse Barin. «Ma se qualcuno volesse causare problemi a bordo, quello è uno dei modi.»
«Sciocchezze» disse l'uomo, e completò l'inserimento. «Vediamo... corridoio 8, secondo livello, scomparto 13. Un attimo, signore.» Il magazzino della scuola non era mai stato automatizzato, e Barin attese che il sergente trovasse i suoi pezzi e glieli portasse. Barin firmò il terminale e si rimise in cammino. Era meglio usare le scale qui, nel T-1, che era probabilmente meno affollato, o fare il giro e tornare giù direttamente nel T-3? Decise di fare l'uno e l'altro, scendendo fino al ponte Sei, per poi aggirare il mozzo fino al T-3 per scendere fino al ponte Quattro. Vokrais aveva trovato il luogo perfetto per riunirsi mentre si dirigeva verso la mensa, dove aveva trovato lo schifoso coltello che non tagliava e la forchetta, che ora custodiva nascosti sotto la tuta: uno dei pozzi di manutenzione per il gruppo di ascensori che si trovava all'incrocio fra T-3 e T-2 sul ponte Sei. Aveva di nuovo incrociato Metris e gli aveva passato l'ordine. Metris lo avrebbe riferito agli altri, e anche lui avrebbe continuato a passare la voce. Quanto tempo avevano? Il suo sangue cantava per l'eccitazione, purgandosi degli ultimi residui del narcotico. Non era per nulla come uno dei soliti abbordaggi, dove entri con le armi in pugno e in quattro e quattr'otto hai un grasso, pigro mercante sotto il tuo controllo. Questa era una vera sfida. Si chiese se qualcuno avesse notato le armi e l'equipaggiamento che avevano lasciato sulla Wraith. Avevano trovato la mina... era una notizia che sapevano tutti, e che tutti erano disposti a raccontare a qualcuno che pensavano fosse un membro dell'equipaggio della Wraith. «Vi avrebbe fatti saltare tutti dritti all'inferno» gli aveva detto qualcuno «se i nostri non l'avessero trovata e schiumata.» Ma avevano anche schiumato i compartimenti all'interno? Se così era, il suo coltello preferito e i suoi attrezzi potevano ancora essere al sicuro, incapsulati nella schiuma, e avrebbe potuto recuperarli più tardi. Era stato anche il coltello di suo nonno... lo rivoleva indietro. Avevano bisogno di armi. Sapeva che avrebbe potuto avere facilmente la meglio anche di due o tre per volta di queste checche in uniforme, e a mani nude; ma ce n'erano migliaia sulla nave. La sua squadra avrebbe potuto ucciderne dozzine, ma ancora non era abbastanza. Da qualche parte su quel mostro di nave dovevano esserci armi di tutti i tipi, personali e a lunga gittata, munizioni, batterie... tutto. Doveva solo trovarle. Il suo teorico supervisore non lo stava sorvegliando: si allontanò disinvoltamente in direzione delle latrine... no, qui li chiamavano "servizi", per
ragioni che gli erano sempre sfuggite. Certo questa gente era fatta per servire, ma perché chiamare così dei cessi? Si sentiva osservato, e si voltò per vedere il suo supervisore con un'aria seccata in volto. L'uomo scrollò le spalle e Vokrais andò per la sua strada, varcando la porta. All'interno c'erano altre tre persone, un uomo e due donne. Vokrais osservò le donne. Anche l'Orda di Sangue ingaggiava dei mercenari donne, di tanto in tanto, ma combattevano in unità tutte femminili. Era la cosa più naturale, altrimenti gli uomini sarebbero stati sempre in fregola, tutto il tempo. Stava succedendo anche a lui, ora, mentre la rossa si lavava le mani. Lei alzò gli occhi allo specchio, lo vide, e gli rivolse un'occhiataccia. Guarda finché vuoi, pensò Vokrais. Prima di mattina finirai infilzata sulla mia spada. Te o un'altra; non fa differenza. Quando tutti se ne furono andati, esplorò lo spazio echeggiante, con il suo pavimento duro e senza giunture, le sue pareti lucide. Trovò altre due porte: una dava su uno sgabuzzino, l'altra su un corridoio. Tastò il soffitto dello sgabuzzino: avrebbe potuto andarsene da quella parte, se proprio doveva. Ma poi scelse di uscire dall'altro corridoio, disinvoltamente, come se fosse entrato di là. Da questa parte non avrebbe avuto nessuno stronzo di supervisore che guardava ogni sua mossa. Cercò di ricordarsi dov'era stato mandato il suo secondo, e poi gli venne in mente che avrebbe potuto usare la sonda. La infilò in una delle prese dati, e cominciò a cercare fra i codici di interrogazione. «Ha bisogno di aiuto?» chiese qualcuno al suo fianco. Vokrais cercò di non reagire colpendo, ma il suo movimento fu abbastanza brusco da far indietreggiare improvvisamente l'uomo (anziano, con i capelli grigi) che gli si era avvicinato. «Mi scusi» borbottò Vokrais. «Sono ancora un po' stordito...» e indicò la sua targhetta, che mostrava come appartenesse alla Wraith. «Oh... pensavo che si fosse perso, o qualcosa del genere. Quella è una presa lenta; se vuole una risposta in un tempo ragionevole, per qualsiasi cosa, laggiù ce n'è una di quelle veloci.» «Vorrei trovare gli altri sopravvissuti» disse Vokrais. Cercò di ricordarsi i nomi che portavano sulle uniformi. «Camajo, Bremerton...» «Ah... sa i numeri?» No, non sapeva quali falsi numeri andavano associati ai loro falsi nomi. Scosse la testa, perché non si fidava della sua voce. «Se cerca con Wraith come chiave, dovrebbe trovarli» disse l'uomo, e
inserì la sua stessa sonda dati in una presa poco lontano. Vokrais notò che questa aveva due anelli attorno, uno blu e uno verde. Quella che aveva usato lui era sormontata da due strisce gialle e verdi. «Ecco qui» disse l'uomo. «Adesso lo trasferisco alla sua sonda...» Tese la mano per avere la sonda di Vokrais, la accostò alla sua per un momento, poi gliela ridiede. «Grazie» si ricordò di dire Vokrais; l'uomo annuì e si allontanò. Vokrais guardò le opzioni presenti sul display della sonda, e riprese a camminare lungo il corridoio come immerso nei suoi pensieri, mentre guardava i nomi e gli incarichi. Quell'uomo che l'aveva aiutato si sarebbe ricordato di lui? Avrebbe fatto rapporto? Era strano che qualcuno non riconoscesse i simboli delle prese dati? E lui che era tanto orgoglioso di aver riconosciuto una presa dati! Hoch era in Scafi e Architettura, nel braccio T-3 e sul ponte Quattro. Vokrais calcolò la distanza e imprecò fra sé. Che razza di sciagurato idiota senza cervello aveva progettato quella nave? Non aveva senso. Una stazione spaziale con dei motori dietro, ecco cos'era, non una vera nave. Stava perdendo un sacco di tempo a correre dietro alla sua gente, ma non poteva mica accendere gli altoparlanti di bordo (perché di certo avevano un altoparlante di bordo) e chiamarli, no? Vide un altro dei suoi che ciondolava in un corridoio, l'incarnazione stessa del pigro incompetente, e gli fece un segnale. Sramet si avvicinò tranquillamente, e Vokrais gli disse dove si sarebbero incontrati, e che lui avrebbe cercato Hoch. «E non ciondolare così» gli disse quando ebbe finito. «Almeno fai finta di essere uno che lavora.» Sramet annuì, e assunse l'espressione del lavoratore stupido ma zelante, come se avesse indossato una maschera. Ecco un'altra cosa persa sulla Wraith... non solo il loro esperto di tecnologia e le loro armi, ma tutti i loro strumenti, compreso l'equipaggiamento speciale, le maschere e i camuffamenti. Hoch, quando lo trovò, stava subendo una ramanzina da parte di uno dei sottufficiali delle Familias, che aveva appena finito di criticare il suo carattere e le sue capacità e adesso stava concludendo con un paio di insulti a sfondo etnico, un riferimento a quella che credeva essere la provenienza del suo presunto sottoposto. «E ora porta il tuo culo dall'impiegato del comandante Atarin, e spiegagli che il sergente maggiore Dorian non ti ci vuole nella sua squadra, mi sono spiegato?» Hoch incrociò lo sguardo di Vokrais, ma la sua espressione di imbronciata incompetenza non mutò. «Sì, signore» disse con voce strozzata.
«E allora datti una mossa.» Il sottufficiale, con la furia che traspariva da ogni centimetro di pelle, si allontanò a passi rabbiosi lungo il corridoio. Hoch guardò Vokrais fisso negli occhi, questa volta con un'espressione che tradiva quello che pensava: se ritrovava quello lì, lo ammazzava. «Abbiamo un luogo d'incontro» disse Vokrais, mentre si allontanavano insieme in direzione opposta. Gli spiegò dove si trovava, e poi disse: «Ho bisogno di radunare più gente... per ora siamo solo in due, e questo posto è troppo grande.» «Mi metterò anch'io a cercare... sai dove sono?» Vokrais riuscì a ripetere il trucco, così lo definiva, di unire la sua sonda dati con quella di Hoch, per trasferirgli la lista del personale. «Ci scopriranno fra poco» disse. «Me lo sento. Non possiamo mimetizzarci bene fra questa... gente.» «Schiavi» disse Hoch, nella loro lingua, e Vokrais gli gettò un'occhiata tagliente. «Attento. Dobbiamo ancora compiere la missione.» «Possiamo farlo nel sonno, capobranco.» Ancora più sottovoce, ma sempre nella loro lingua. «Presto, allora» disse Vokrais, nella lingua delle Familias. «Fai il giro in senso orario, sembra che tutti camminino in senso orario nel grosso corridoio attorno al centro, e poi vai al punto di incontro. Voglio arrivare il più possibile vicino alla prua prima che si rendano conto che siamo a bordo.» «E perché dovrebbero? Sono mezzi addormentati, pecore pronte per la tosatura.» «Vai, fratello» disse Vokrais. Gli occhi di Hoch brillarono, e il suo braccio fece uno scatto involontario; si allontanò verso sinistra. Vokrais andò al più vicino banco ascensori e venne sparato verso l'alto. Aveva avuto modo di godersi quel viaggio veloce diverse volte, quando aveva visitato le stazioni spaziali delle Familias; l'Orda di Sangue aveva diversi problemi con la tecnologia del controllo gravitazionale, e usava solo raramente i tubi ascensori, e mai per grosse distanze. Non credeva che lo portasse su fino in cima, ma invece eccolo lì: il ponte Diciassette. Uscì nello stesso ampio corridoio curvo che aveva percorso sul ponte Quattro, ma qui era molto meno affollato. Camminava di buon passo, come se sapesse dove voleva andare. Una guardia, annoiata, era in piedi davanti a una porta che forse conduceva al ponte di comando, sul lato interno del corridoio; Vokrais non cercò di guardare dentro. Le spalle gli prudevano: sapeva che lo stavano osservando. Continuò a camminare, facendo
quasi l'intero circuito attorno al centro, sorpreso di non trovare nessun altro tubo ascensore, come avveniva nei ponti inferiori. Possibile che fin quassù arrivasse solo un complesso di ascensori? Non voleva tornare indietro, e ripassare davanti alla guardia, facendogli magari sospettare che aveva perso la strada. Arrivò di fronte a un'altra porta con una guardia. Qui la sentinella sembrava molto più all'erta, con gli occhi che si muovevano incessantemente. Vokrais vide dei tubi ascensori più avanti, ma prima c'era un'ampia apertura che dava sul T-2... un cartello lo specificava... e Vokrais si ricordò che anche la mensa si trovava sul T-2. Guardò dentro e per poco non inciampò per la sorpresa. Era tutto pieno di piante, piante verdi. Svoltò ed entrò nella porta come se questa fosse sempre stata la sua intenzione, e sentì che l'attenzione della guardia lo abbandonava, come un peso che gli veniva tolto fisicamente dalle spalle. Sotto i suoi piedi c'era qualcosa che sembrava terriccio e attutiva i suoi passi; da una parte e dall'altra c'erano piante, alcune alte fino alla vita, e a volte persino fiorite. Continuò a camminare per un sentiero, senza incontrare nessuno. Altri sentieri incrociavano il suo, oppure si biforcavano, o ancora aggiravano le piante più grosse, che nascondevano ciò che c'era tutto attorno, in modo da rendergli impossibile giudicare quanto fosse grande quel posto. Sentì delle gocce d'acqua sul volto; quando alzò lo sguardo vide che le lampade fissate in alto erano circondate da un alone di umidità. Il sentiero finì improvvisamente contro un muretto di finta pietra (lo tastò: era ovviamente fuso da uno stampo). Lungo il muretto correva un sentiero che conduceva, alla sua sinistra, a dei gradini di finta pietra rustica. In fondo ai gradini... in fondo c'era ancora un giardino, con un albero enorme che torreggiava su di lui per finire quindici metri buoni sopra la sua testa. Dietro l'albero si trovava una parete di roccia grigia, con macchie biancastre, sulla quale una forma umana era abbarbicata con braccia e gambe divaricate come per un sacrificio. Mentre osservava, qualcuno rise, dal basso, e la figura Cercò di sollevarsi, e cadde. Vokrais seguì la caduta, aspettandosi un tonfo di soddisfazione, ma invece l'arrampicatore si fermò con un piccolo rimbalzo a mezz'aria, e rimase appeso, a dondolare. Vokrais vide solo allora la corda sottile a cui era assicurato, che correva fino in cima al muro, dove passava per una carrucola per finire nelle mani di una persona ai piedi del muro. Scese gli scalini. Possibile che gli strateghi della Flotta avessero finalmente deciso di addestrare i loro soldati nelle tecniche di abbordaggio di
un vascello nemico? Ma se così era, perché non glielo facevano fare con l'equipaggiamento giusto? Perché fare pratica in calzoncini e maglietta? Dal giardino sul ponte Sedici corse giù per le scale (scale vere, con tanto di tromba e pianerottoli, non scale a pioli come su una nave vera) fino a raggiungere il ponte Quattordici, poi uscì sul grande corridoio curvo centrale per raggiungere il tubo ascensore che lo avrebbe portato fino al ponte Sei. Avrebbe potuto usare il pozzo di manutenzione, controllandolo mentre scendeva, ma era impaziente di vedere quante persone era riuscito a trovare Hoch. Quando entrò dal portello, all'inizio non vide nulla, il che era esattamente quello che si aspettava. Sopra e sotto di lui il pozzo sembrava completamente deserto, un tubo di metallo grigio sporco con una scala che correva tutto attorno a spirale, avvolta attorno ai cavi e ai tubi che correvano nel centro. Vokrais sorrise, notando che qui e là, in punti strategici, le lampade di servizio si erano bruciate, e fischiò un paio di note. Il suo branco riapparve, uno dopo l'altro, uscendo dall'ombra, da portelli che davano su altri condotti, da tutti i nascondigli in cui si erano rintanati. Uno per uno risalirono o discesero la scala per raggiungerlo. Soltanto dodici. Non abbastanza. Scoccò un'occhiataccia a Hoch. «Tutto qui?» «No... ma tutti quelli che potevano venire senza destare sospetti. Tre arriveranno non appena riescono a svicolare. Sramet ha visto Pilan e Vrodik, ma non è riuscito a parlargli abbastanza a lungo. Geller è l'unico che nessuno ha visto o di cui ha sentito che sia stato visto.» «Chi ha delle armi?» chiese, mostrando il coltello e la forchetta che aveva rubato. «Non portano armi» disse Sramet, in tono disgustato. «Nemmeno quelli con le insegne dei Sistemi d'Arma.» Altri due erano riusciti a rubare dei coltelli da tavola; Brolt aveva già cominciato ad affilare il suo per farne un pugnale. «I tecnici civili?» «Sono a bordo» disse Hoch. «Ma non li abbiamo ancora contattati.» «E quindi non sappiamo a che punto sono con il meccanismo di autodistruzione.» Vokrais ci pensò sopra un momento. «Sarebbe meglio scoprire come stanno le cose di persona, senza chiedergli niente. Non mi fido di loro.» Era stata la sua sfiducia nei tecnici a portarli lì; aveva sostenuto, con successo, che anche se quella feccia avesse mantenuto fede ai patti, qualcuno avrebbe potuto farsi prendere dal panico e rimettere a posto le cose
una volta che si fosse reso conto che ci andava di mezzo anche lui. Poi il suo piano si era fatto più ambizioso: se avesse agito abbastanza rapidamente, la sua banda avrebbe potuto avere la gloria della cattura tutta per sé, la cattura più grossa dell'intera storia dell'Orda di Sangue. «Potremmo sequestrarli... e assicurarci che si comportino come devono.» Vokrais sogghignò. «E abbiamo bisogno di ostaggi.» «A cosa ci possono...» cominciò Hoch. Perché nell'Orda di Sangue gli ostaggi non venivano tenuti in considerazione: se qualcuno era tanto imprudente da farsi catturare, non valeva nulla. Anche se più avanti fosse fuggito, non ci si sarebbe fidati di lui per un bel pezzo. «Le Familias sono diverse. E poi abbiamo bisogno di qualcuno che conosca i loro trucchi. Si aspettano che sappiamo come usare questa roba, e noi non la capiamo.» Annuirono; tutti si erano accorti di quel problema, nonostante fossero a bordo solo da poche ore. Era incredibile che cosa ci si aspettasse dai componenti dell'equipaggio, anche da quelli di rango più umile. Tutta quella chincaglieria tecnica, e pretendevano che tutti la capissero e la sapessero usare... incredibile ma vero. Solo il fatto che erano stati narcotizzati, e che per questo potessero avere qualche problema, aveva impedito che venissero scoperti semplicemente a causa della loro ignoranza. «Se ne troviamo uno della famiglia giusta, li rallenterà. Si fermeranno a pensarci sopra, cercheranno di salvarlo. Così prenderemo altri ostaggi.» «Allora vuoi che troviamo un ago fra migliaia di pagliuzze?» «Se capita. Ecco, infila quella sonda in questa presa e vediamo la lista dell'equipaggio.» Era, notò Vokrais, una presa con l'anello blu e verde. Hoch ci infilò la sonda e l'informazione apparve in piccole lettere luminose, proiettate in aria. All'inizio la lunga lista di nomi non diceva nulla. Poi Vokrais ricordò che le Familias avevano l'abitudine di aggiungere anche un organigramma alle loro informazioni sul personale, e riuscì a capire qual era il codice giusto per richiederlo. «Abbiamo bisogno di un addetto ai sistemi di rilevamento, in modo da fargli dire come disattivare i loro miserabili sistemi senza farli saltare in aria» disse Hoch. «Il problema è: vogliamo qualcuno che fa parte dell'equipaggio della nave, o qualcuno delle scuole, o del cantiere di manutenzione?» «Del cantiere» decise Vokrais. «Da quello che ho capito, hanno fatto tutta una serie di modifiche all'architettura della nave... l'equipaggio potrebbe non conoscerle, ma quelli del cantiere sì.»
Nel giro di un paio di minuti, si ritrovarono con un elenco di persone del Quattordicesimo Manutenzione Pesante assegnate al Rilevamento Remoto. «Capitano di fregata Vorhes» borbottò Vokrais. «No, sarà sempre circondato di gente. Tenente Bondal... guardiamarina Serrano...» Alzò lo sguardo, sogghignando. «Serrano. Non era il nome della cagna che ci ha dato tutti quei problemi a Xavier?» «E di una famiglia importante nella Flotta. Anche se è solo un guardiamarina, lo noteranno.» «Sempre che ne sappia abbastanza» disse Hoch. «È solo un guardiamarina. Il tenente che ho trovato a Scafi e Architettura non è nemmeno un esperto... gli ufficiali subalterni possono anche essere mandati qui per dei turni molto brevi.» «Se non ne sa abbastanza, possiamo sempre rapirne un altro... il fatto che sia di quella famiglia ci torna utile comunque.» «Come ostaggio o per vendetta?» «Be'... a "loro" diremo che è un ostaggio.» Una risatina generale; tutti capivano. Questo cucciolo dei Serrano sarebbe tornato a casa, se mai ci fosse tornato, domato e con le unghie strappate, come avvertimento a non interferire più negli affari dei nobili dell'Orda di Sangue. «Allora: avete capito tutti come funziona la mappa di bordo?» Diversi di loro scossero la testa e Vokrais li guardò male. Erano venuti qui per la tecnologia: avrebbero dovuto imparare come servirsene. Le sonde dati non erano poi così difficili da usare. Infilò la sua nella presa, questa volta, e spiegò la faccenda delle prese veloci e lente, come se l'avesse sempre saputa. Poi passò al display pubblico e la mappa della nave comparve davanti a loro. «Abbiamo bisogno di una presa con un accesso più avanzato per scoprire tutto quello di cui abbiamo bisogno» disse. «Dunque dobbiamo trovare e ammazzare qualcuno che sia nella Sicurezza di bordo, e con un sacco di gradi, e usare la sua sonda dati. Ma qui, vedete...» indicò il ponte e il centro di comando secondario sistemato fra i due motori FTL, l'ospedale e gli uffici della Sicurezza di bordo nel T-5. «Negli uffici della Sicurezza avranno delle armi, anche queste pecore di tanto in tanto possono impazzire, e se mettiamo fuori combattimento il personale di sicurezza, abbiamo eliminato ogni resistenza.» Tutta la resistenza che contava, almeno, tutti quelli che sapevano combattere in modo organizzato. «Nell'ospedale avranno dell'altro gas narcotico, e anche gli antidoti...» «Occhio per occhio» mormorò Hoch, sogghignando. La tradizione
dell'Orda di Sangue era: restituire gli insulti con quanta più precisione possibile, prima di giungere allo spargimento di sangue finale. Il rumore fragoroso di un campanello d'allarme li fece voltare tutti a guardarsi le spalle. Poi una voce attutita che doveva essere un annuncio trasmesso in tutta la nave. Hoch rimise la sonda dati nella presa, questa volta scegliendo la modalità veloce, disponibile solo all'utilizzatore. «Se ne sono accorti» disse dopo un momento. «Hanno convocato tutti per un controllo dell'identità... controllo completo, qualunque cosa significhi.» Vokrais era colpito. Dopo un inizio così facile, si era aspettato di avere intere giornate durante le quali avrebbero potuto andare in giro indisturbati prima di venire scoperti. Ma era meglio così. Sorrise al suo branco. «Sanno che c'è qualcosa che non va, ma non sanno dove siamo. Gli ci vorrà un po' per completare i controlli e distribuire nuovi documenti di identità. Ore, probabilmente. Nel frattempo, non sanno nemmeno quanti siamo. Vanter, Pormuk...» Erano i loro nomi veri, non quelli che avevano assunto nella Flotta. «Voi dovrete procurarci i documenti d'identità nuovi. Cercate di disfarvi dei corpi in modo che ci voglia un po' per ritrovarli. E prendetegli anche le sonde dati. Se vedete altri dei nostri, portateli con voi. Hoch, prendi due uomini, tre, se devi, e trova quei civili; dobbiamo sapere dov'è il meccanismo di autodistruzione ed essere sicuri che il capitano non possa utilizzarlo. Gli altri vengono con me. Abbiamo bisogno di armi, specialmente perché in questo momento siamo in pochi.» «E ci ritroviamo qui?» «No. Che ci crediate o no, hanno un giardino a bordo di questa nave. Forse anche più d'uno, ma a ogni modo uno sta su in cima al T-2, ponti 16 e 17. È pieno di nascondigli, e ci sono molti modi di entrare e uscire. C'è un grosso albero, non potete non vederlo, e un muro per gli assalti.» «Se ci vedono...?» «Catturate o uccidete, ma non prendere più gente di quanta possiate gestire muovendovi. Non sanno di avere un problema; gli mostreremo che razza di problema siamo noi.» La risposta furono grugniti cavernosi; ai suoi uomini questo piaceva molto di più che non far finta di essere tecnici di una Flotta di smidollati. «Andate.» Il capitano Hakin, con la sua nuova targhetta di riconoscimento, era cupo come c'era da aspettarsi quando si riunì con gli altri ufficiali superiori. Li aveva convocati nel quadrato più vicino al ponte, dove si incontravano in-
formalmente gli ufficiali che smontavano dal servizio o attendevano il proprio turno. Ora la stanza era sorvegliata dal personale di sicurezza, che teneva d'occhio i movimenti di tutti con aria nervosa. «I feriti trovati nei compartimenti di prua e portati a bordo come membri dell'equipaggio della Wraith non si sono presentati ai controlli d'identità» disse. «Abbiamo mandato le poche immagini video che abbiamo al capitano Seska, a bordo della Wraith, che è sicuro che almeno otto di loro non facessero parte del suo equipaggio. Sta mostrando le immagini al resto dei sopravvissuti della sua nave, per controllare quelli di cui dice di non essere sicuro. Ma dobbiamo partire dal presupposto che tutte venticinque i ricoverati della Wraith che non presentavano ferite, e che sono stati assegnati a veri incarichi a bordo dal capo Barrahide, fossero in effetti degli impostori. Non sappiamo da dove vengano; da quanto ho capito il tenente Suiza ha ipotizzato che siano membri dell'Orda di Sangue. Se è così, questa nave si trova molto più in pericolo di quanto pensassimo.» «Ci sono segni della presenza di navi dell'Orda?» chiese l'ammiraglio Dossignal. «No, ammiraglio. D'altra parte, la copertura della nostra scorta è... tenue.» «Tenue?» chiese l'ammiraglio Livadhi. «Sì... la Sting e la Justice, come l'ammiraglio ricorderà, avevano il compito di pattugliare la stessa zona della Wraith. Entrambi i capitani hanno insistito per tornare a tale compito, sostenendo che da lì possono sorvegliare meglio il punto di ingresso nel salto, nel caso l'Orda di Sangue cercasse di usarlo. Prima di scoprire la mina sulla Wraith era un ragionamento piuttosto sensato; e se n'erano andati da un pezzo quando abbiamo cominciato a sospettare che ci fossero degli intrusi a bordo.» «E il resto della nostra scorta?» «Inutile se gli intrusi assumono il controllo di questa nave. Possono distruggere la Koskiusko, naturalmente, se ricevono l'ordine di farlo, ma chi glielo può dare? Ho comunicato a entrambi i capitani che questo è esattamente quello che dovranno fare nel caso abbiano il sospetto che la nave sia stata catturata, ma non si sono detti d'accordo. Il capitano Plethys sostiene che non è possibile stabilire se la nave sia definitivamente perduta, anche se si trovasse nell'impossibilità di identificare un ufficiale attraverso un canale di comunicazione. Dice che gli intrusi potrebbero inserirsi nelle comunicazioni anche senza assumere il controllo della nave...» «Il che è possibile» considerò l'ammiraglio Livadhi.
«Appunto. In effetti, qualunque segnale io escogiti potrebbe, in teoria, venire intercettato dagli intrusi prima che prendano il controllo. Il capitano Martin si è detto d'accordo con il capitano Plethys, e ha aggiunto che non voleva essere considerato responsabile delle ingenti perdite di vite umane e materiale che seguirebbero alla distruzione della Koskiusko, anche nel caso che gli intrusi assumessero effettivamente il controllo della nave. Ha dichiarato che il resto dello schieramento arriverà senza dubbio a salvarci, e si è offerto di andare a chiedere aiuto con la sua nave. Ho insistito perché rimanesse, ma non sono sicuro che lo farà.» «Pensa che ci abbandonerà durante un attacco nemico? Ma sarebbe un tradimento!» «Non ci sono navi nemiche in vista» fece notare Livadhi. «E sosterrà che non può fare nulla contro gli intrusi che abbiamo a bordo. Probabilmente pensa che questo basterà a scagionarlo di fronte a una Commissione d'Inchiesta.» «Non se sopravvivo per testimoniare» ringhiò Dossignal. «D'accordo... ma se ricordo bene il capitano Martin, e ho ragione di credere che questo sia lo stesso Arlen Martin a cui a suo tempo ho cercato di inculcare i principi del Diritto Militare, ha una mente come un'anguilla. Scivolare e sgusciare via per lui è una seconda natura. Non ho mai capito come mai gli abbiano dato una nave.» «E quindi pensa che se ne andrà» disse il capitano Hakin. «Probabilmente. Di sicuro, se riesce a vedere una nave nemica a una distanza tale che noi non la possiamo rilevare... dopo di che, sosterrà che non poteva sapere che ci fosse. Non fa mai errori, quello.» Hakin era diventato ancora più cupo. «Allora, signori, sono di fronte a un dilemma che probabilmente voi avete già anticipato... quando giro l'interruttore?» «L'interruttore?» Hakin sospirò. «L'ammiraglio ricorderà che questa nave, a differenza di quelle destinate al combattimento, è equipaggiata con un meccanismo di autodistruzione e che i miei ordini in proposito sono chiarissimi. Se ritengo che la Koskiusko corra il pericolo imminente di essere catturata da una forza ostile, ho il dovere di evitare la cattura e che il nemico si appropri della nave... distruggendo sia la nave stessa sia, se necessario, tutto l'equipaggio.» «Ma... sta dicendo sul serio?» «Assolutamente.» Hakin sembrava invecchiato di dieci anni mentre lo
diceva. «Abbiamo già parlato di quanto sarebbe utile questa nave all'Orda di Sangue: un cantiere navale tutto per loro, in grado di costruire due o tre incrociatori completi di armamento solo con il materiale in magazzino, e con la possibilità, con un minimo apporto di approvvigionamento, di mantenere in esercizio un gruppo di battaglia. A bordo ci sono tutte le persone di cui hanno bisogno, che sanno come usare il cantiere, e alcune di loro sotto minaccia di morte o tortura potrebbero collaborare con l'Orda di Sangue, almeno per il tempo necessario a istruire dei sostituti.» «Ma nessuno potrebbe mai...!» cominciò Livadhi. «L'ammiraglio mi consenta. Nessuna organizzazione militare nella storia dell'umanità ha mai avuto una percentuale di insuccessi pari a zero, in nessuna componente, compresa quella umana. I recenti fatti di Xavier, e in particolare del capitano Martin, dimostrano che la Flotta non fa eccezione. E poi, anche se ogni singolo membro dell'equipaggio attualmente a bordo dovesse preferire la morte al tradimento, l'Orda di Sangue può sempre assumere dei civili per far funzionare quello che non sanno gestire in prima persona.» «Ma non siamo ancora a questo punto. Ci sono solo alcuni dei loro a bordo, e senza dubbio la Sicurezza nel giro di qualche ora li scoverà e...» «Il punto è che io devo spingere il bottone "prima" che l'Orda abbia la possibilità di completare la cattura con successo. Pensa che non sappiano dell'esistenza del congegno? Pensa che non lo stiano cercando proprio in questo preciso momento, e che non lo disarmeranno appena lo trovano? Non vogliono perdere questa nave, come non la vogliamo perdere noi, ma l'unico modo in cui io posso essere sicuro di non perderla è distruggerla.» Dossignal lo guardò con compassione. «Lei ha ragione, capitano. Non è una decisione facile. Sta chiedendo il nostro consiglio?» Hakin fece una smorfia: «La decisione spetta a me, e anche la responsabilità... ma sarei grato di sentire le vostre idee sul momento giusto per agire. Tenete conto che il momento giusto è meglio che sia troppo presto piuttosto che troppo tardi.» «Lei controlla l'integrità del congegno?» chiese Livadhi. «E con quale frequenza?» «Ogni settimana, armando parzialmente il congegno... ha un suo pannello di controllo, con il solito corredo di sensori e così via. C'è una telecamera puntata sul pannello, così posso vedere le luci di stato, e ho anche dei sensori che rivelano se i circuiti funzionano correttamente.» «Dunque... l'ha controllato da quando sono saliti a bordo gli intrusi?»
«Non ancora. Però la mia preoccupazione è che se anche il test ora fosse positivo, potrebbero trovarlo e disarmarlo in qualunque momento.» «Ha messo una guardia?» «Sì... ma come sapete, siamo a corto di addetti alla sicurezza, in questo momento, perché sono tutti impegnati a cercare gli intrusi. Potrebbero sopraffare la guardia.» «Però questo dovrebbe metterla all'erta. Se la guardia non fa rapporto al momento stabilito... o se la telecamera segnala dei cambiamenti. Lei può controllare il sistema mentre la guardia è presente, vero?» «Be', sì...» «Vuole un testimone?» «Sì, grazie.» «Allora io suggerisco che lo controlli adesso, subito. E il mio secondo suggerimento è di effettuare immediatamente un salto che ci porti via da questo sistema, il che renderebbe molto più difficile per l'Orda di Sangue trovarci.» «Ma anche per le nostre navi» disse il capitano Hakin. «Sì, è vero. Ma evitare un gruppo d'assalto dell'Orda di Sangue mi sembra più importante, in questo momento... Sono convinto che con più di venticinquemila soldati di provata fedeltà a bordo siamo in grado di affrontare la minaccia costituita da questi intrusi, che siano un commando dell'Orda o chiunque altro, se non ricevono rinforzi dall'esterno.» «Benissimo.» Hakin si rivolse alla guardia alla porta, e li condusse sul ponte di comando. 15 «Il capitano chiede, e l'ammiraglio risponde» disse il tenente Bondal, guardando il pannello di stato. «Signore?» Barin si strappò da un altro sogno a occhi aperti, che lo vedeva, questa volta, salvare Esmay Suiza da una masnada di bruti dell'Orda di Sangue. «Sai tutte quelle telecamere che avrebbero dovuto sorvegliare ogni centimetro della nave... e che in teoria dovrebbero trovare gli intrusi in quattro e quattr'otto?» «Mmm?» «Non funzionano, o le immagini non arrivano, e il capitano ha chiesto, legittimamente, al Quattordicesimo di venire in soccorso. E quindi adesso
noi, il che vuol dire io e te, per esempio, sostituiremo o installeremo quel che c'è da installare e sostituire... e sospetto che gli intrusi, chiunque essi siano, riusciranno a disfare quello che facciamo un passo dietro di noi.» «Spero di no» disse Barin. «Perché il capitano non sigilla le diverse ali? Potrebbe farlo, no?» «Potrebbe farci saltare tutti in aria, se volesse, o togliere la gravità artificiale, o... non so perché non ha fatto quel che non ha fatto, non so perché faccia quel che sta facendo, e non è un mio problema. Il mio problema è il rilevamento.» Sospirò pesantemente, e cominciò a prendere appunti. «So che sei andato in magazzino meno di un'ora fa, guardiamarina, ma dovrai tornarci.» «È per questo che esistono i guardiamarina» disse Barin allegramente. «È quello che mi ha detto ieri, no? Correre, raccattare...» «E fare gli scemi. Sì, d'accordo, sei destinato a una brillante carriera come guardiamarina, ragazzino.» Barin fece una smorfia esagerata. Il tenente Bondal aveva un senso dell'umorismo particolare, ma era facile lavorare con lui se pensava che venisse apprezzato. E sapeva il fatto suo, il che rendeva del tutto sopportabile un po' di sfottimento. Nei corridoi il traffico era molto diminuito, tranne che per la fila che ancora si snodava davanti alla stazione per il controllo dell'identità. Barin esibì la sua targhetta rosa alla guardia prima di entrare nel tubo ascensore. Era come essere tornati a scuola, dove dovevi avere un permesso-corridoio per andare al bagno. Decise di non mettere a parte di questa osservazione la guardia che sorvegliava il corridoio con aria cupa. Dopo le verifiche di identità che avevano interessato tutta la nave, Barin aveva capito perché anche il sistema automatico di movimentazione del magazzino era stato spento. Con a bordo degli individui ostili, il capitano non voleva che nessuno venisse confuso dal movimento improvviso delle scaffalature... se si fossero mosse in quel preciso momento, avrebbero capito tutti che era opera del nemico. Però questo voleva dire che andare a prendere un pezzo sistemato sul penultimo scaffale in alto in fondo al magazzino diventava una gran perdita di tempo. Alzò gli occhi, controllando il numero degli scaffali. Sì, 58GD4 era lassù, e il pezzo che gli serviva era lì. Guardò la scaletta di manutenzione con tutti i suoi avvisi di pericolo e l'imbracatura di sicurezza... PERICOLO: SCAFFALATURE IN MOVIMENTAZIONE POSSONO CAUSARE VIBRAZIONI. USARE IMBRACATURA DI SICUREZZA. Le scaffalature non si sarebbero mosse e l'imbracatura lo avrebbe
rallentato, ma d'altra parte, se fosse scivolato e caduto e si fosse rotto qualcosa ci avrebbe fatto veramente la figura del cretino. Il tenente Bondal sarebbe andato su tutte le furie, erano già pochi così, con tutta questa agitazione per via degli intrusi. Sospirando, si infilò nell'imbracatura. Era scomoda ed era convinto almeno per tre quarti che non ce n'era nessun bisogno. La cima di sicurezza andava assicurata a una rotaia che correva a fianco della scala, ma bisognava sganciarla e riagganciarla ogni cinque o sei pioli. Si guardò attorno: sperava che nessuno stesse osservando il suo eccesso di cautela. Su fino al primo livello, poi il secondo. Da qualche parte, nel compartimento, udì un tonfo metallico e una bestemmia soffocata. Per un momento il suo battito accelerò, poi tornò a calmarsi. Doveva essere un suo collega, l'ultimo avvistamento degli intrusi era due ponti più in basso e dall'altra parte della nave... a un chilometro di distanza, insomma, e l'avvistamento era di solo cinque minuti prima. Era il caso che si facesse sentire e si identificasse? Probabilmente sì. «Ehilà» disse. Una voce distante rispose con un ruggito indistinto che assomigliava vagamente alla dichiarazione di grado e nome, con un'intonazione interrogativa. Sentì il suono ritmico di passi che si avvicinavano. «... tutto bene?» «Benissimo» disse Barin, dal punto che aveva raggiunto, ormai a otto scaffali di distanza dal ponte. Vide una testa di capelli castani che si avvicinava lungo un corridoio, con un'uniforme familiare, anche se da quell'angolo non poteva vedere le insegne. «Quassù» chiamò. La persona alzò gli occhi e sorrise. «Ah, eccola. Mi ha sentito inciampare su quel boccaporto di ventilazione aperto?» «Boccaporto di ventilazione aperto?» A Barin non piaceva per nulla. «Dove?» «Laggiù.» Ormai molto vicino, l'uomo indicò l'entrata del compartimento. Barin vide dai gradi che era un sergente maggiore. «Un boccaporto di ventilazione interno... probabilmente qualche idiota della Sicurezza che è uscito mentre andava alla ricerca dei cattivi e si è dimenticato di richiuderlo.» «Speriamo» borbottò Barin. Gli era venuto freddo, e non sapeva perché. Si guardò attorno. Gli scaffali del magazzino continuavano fino al soffitto, quindici metri sopra il ponte, divisi da corridoi e, di solito, ronzanti di trasportatori robotici. Non riusciva a vedere molto lontano in nessuna direzione, solo lungo quel corridoio. Gli scaffali che stava scalando erano alti
ciascuno mezzo metro circa, ma quelli dall'altra parte avevano i piani separati da un metro buono... alcuni erano pieni, altri in parte vuoti. C'era tutto lo spazio necessario perché qualcuno riuscisse a nascondercisi, anche in quelli da mezzo metro. «Che cosa stava cercando?» chiese all'altro uomo. «57GD11, codice 3362-3B» disse l'altro. «Tappi per presa di pulizia. Dovrebbero essere qui, da qualche parte.» «Io sto cercando il 58GD4» disse Barin «se può essere d'aiuto.» Guardò l'altro uomo che passava di scaffale in scaffale, cercando. «Ah, eccolo qua.» L'altro cominciò a salire sulla scala a un paio di scaffalature da quella di Barin, senza neanche fare il gesto di mettersi l'imbracatura. Barin fece per dire qualcosa, ma poi scrollò le spalle. Lui stesso fino a quel momento non aveva avuto alcun bisogno dell'imbracatura. Tornò alla sua scala: aveva ancora molta strada da fare. Dieci livelli più in alto, aveva il fiato corto. Quindici metri in verticale non erano per nulla simili alle scalette alte tre metri a cui era abituato. La stessa palestra da roccia era alta solo dieci metri. Però... almeno era oltre la metà ormai. Alzò gli occhi: i livelli che ancora restavano sembravano incombere su di lui. Si guardò attorno, in cerca dell'altro arrampicatore. Nessun segno dell'altro uomo. Che avesse trovato quello che cercava e se ne fosse andato? Barin si sporse, trattenuto dalla cintura di sicurezza, cercando di vederlo... no, niente. Quando guardò in basso non vide altro che il ponte. Strano. Si era aspettato che l'altro lo salutasse prima di andarsene. Alla fine scrollò le spalle e salì di un altro livello, alzando la mano sopra la testa per agganciare la cima dell'imbracatura. Quando arrivò con gli occhi a livello dell'orlo della scaffalatura, ebbe appena il tempo di pensare "Che strano" prima che la fredda, circolare imboccatura di una pistola sfollagente gli si piantasse sotto il mento. Era identica a quelle che portavano gli uomini addetti alla Sicurezza della nave. «Non muoverti.» La voce non aveva alcuna emozione. Barin si irrigidì per un attimo che in seguito capì essere decisivo, poi qualcuno gli afferrò le caviglie. Si piegò all'indietro, cercando di liberarsi; la canna di una pistola lo colpì sulla testa, di lato, abbastanza forte da stordirlo. Lottò, ma a questo punto qualcuno si era impadronito della cima della sua imbracatura e lo aveva tirato su lungo la scaletta. I piedi, poi le braccia... e alla fine un colpo finale alla testa che lo precipitò in un buco nero, nel quale era solo vagamente conscio di venire trascinato via dalla scala e sulla grata metallica e fredda del piano della scaffalatura.
Troppe cose gli si presentavano ai sensi per poterle distinguere tutte. I suoi piedi erano stati trascinati sopra una serie di ostacoli regolari. Le sue spalle erano doloranti per la trazione sulle braccia. La testa gli pulsava, con occasionali lampi di dolore intenso che lasciavano immagini luminose nei suoi occhi. C'erano anche altre cose che gli dolevano, le costole, l'anca sinistra, i polsi... ma soprattutto "dove si trovava?" Cercò di chiederlo, ma il bavaglio lo soffocò. Qualcosa di soffice, tessuto o qualche altro materiale, che non riusciva a sputare, per quanto tentasse. La parte del suo cervello che riusciva ancora a pensare gli suggerì prudenza, di vedere che cosa succedeva, ma fra la sensazione di soffocamento e l'oscurità, il suo istinto optò per l'azione. Dilatando le narici, cercando di inspirare più aria possibile, si torse con tutta la forza che possedeva. Qualcuno rise. Gli piovve addosso una gragnola di colpi che provenivano da tutti i lati; cercò di rannicchiarsi per difendersi, ma qualcuno gli tirò le gambe, distendendole, e i colpi non cessarono fino a che non svenne di nuovo. «Sei un Serrano» disse la voce. Barin stava concentrandosi sul respiro. Il naso gli sembrava una massa di puro dolore grande come un cuscino, attraverso il quale non riusciva a farsi arrivare neanche un filo d'aria; i suoi carcerieri avevano allentato il bavaglio in modo che potesse respirare dalla bocca. Gli avevano fatto capire molto chiaramente che questo era un privilegio che avrebbero potuto togliergli in qualsiasi momento. Riusciva a malapena a vedere, perché le ciglia gli si erano incollate l'una all'altra. Quando cercò di sbattere le palpebre, sentì che gli occhi gli facevano male, e la vista non gli si schiarì. «Non ci piacciono i Serrano» continuò la voce. «Ma riconosciamo il tuo valore di ostaggio... per ora.» Avrebbe voluto dire qualcosa di sprezzante, ma il rumore che aveva in testa non gli permetteva sforzi di grande creatività. Voleva sapere dov'era, dov'erano i suoi carcerieri, e che cosa stava succedendo. «Sei tanto prezioso che potremmo anche lasciarti vivere dopo la cattura di questa nave» disse la voce. «Forse potresti anche vivere fino all'arrivo sul Mondo di Aethar... un Serrano nell'arena sarebbe un'attrazione davvero proficua.» Quel che gli restava della sua intelligenza gli fece notare che questi dovevano essere soldati dell'Orda di Sangue... gli intrusi che tutti stavano cercando... e non aveva studiato i combattimenti nell'arena sul Mondo di
Aethar? Lentamente, con riluttanza, la sua memoria si fece largo fra il dolore e la confusione fino a individuare la giusta categoria, la giusta voce dell'indice... e gli offrì il riassunto di quello che i servizi segreti della Flotta sapevano dell'arena. Barin vomitò rumorosamente. «Be', almeno è una reazione» disse il suo carceriere, mentre faceva scorrere qualcosa di freddo e metallico lungo la sua spina dorsale. Barin non avrebbe saputo dire se si trattava di un'arma da fuoco o dell'impugnatura di un coltello. «Non vedo l'ora che venga la Settimana di Lotta. Ma d'altra parte, io sull'arena non ci sono mai stato.» «Potrebbe essere stata quella botta in testa» disse un altro. «No. È un Serrano, e mi dicono tutte le fonti affidabili che sono fatti interamente di granito.» Non era un buon segno che i suoi carcerieri parlassero così tanto. Barin cercò di esaminare tutte le combinazioni e le implicazioni possibili. Voleva dire che si sentivano al sicuro. Dovunque si trovassero, non si aspettavano di venire scoperti... né sentiti, il che voleva dire che avevano fatto qualcosa ai sensori della nave. La puzza di vomito gli fece di nuovo rivoltare lo stomaco, ma non sembrava dare fastidio ai suoi nemici, che continuarono a chiacchierare, questa volta in una lingua che lui non conosceva. Lasciarono il bavaglio lento, segno che non volevano che soffocasse se gli succedeva di nuovo di vomitare. Sbatté le palpebre e un occhio gli si schiarì improvvisamente, permettendogli di vedere bene un'uniforme che sembrava esattamente come la sua, solo pulita. Sul braccio più vicino a lui c'era una toppa con le insegne della Wraith, e le strisce di caporale. Non riusciva a vedere la targhetta con il nome. Dietro ce n'era un altro... sbatté di nuovo le palpebre e l'altro occhio si scollò. Ora vedeva uno di loro, che lo osservava con attenzione, freddi occhi grigi nel volto largo. La targhetta con il nome diceva SANTINI; i gradi dicevano pivota maggiore. L'espressione diceva assassino, e orgoglioso di esserlo. Barin cercò di riconquistare la supremazia morale. Sapeva che cosa ci si aspettava da un Serrano in una situazione disperata: la vittoria, contro tutto e tutti. La fuga, di sicuro. Idealmente, la cattura dei cattivi. Non ci voleva altro che cervello, che aveva, e coraggio e forma fisica, entrambe cose che in teoria possedeva. Sua nonna avrebbe potuto farlo nel sonno. Uno qualunque dei grandi Serrano ci sarebbe riuscito. Ma lui non si sentiva un grande Serrano. Si sentiva un ragazzino senza
esperienza, con un naso grosso come una palla da parpaun, con tutte le ossa che gli facevano male e circondato da uomini grandi, grossi e pericolosi che intendevano ucciderlo: impotente, cioè. Era una sensazione che odiava, ma perfino quel risentimento non riusciva a risvegliare in lui l'impeto di sfida rabbiosa di cui aveva bisogno. Fallo comunque, si disse. Se non riesci a sentirti un leone, non per questo devi rinunciare a usare il cervello. Lasciò che le palpebre gli calassero sugli occhi fino a nasconderli. Quell'uomo non era un pivota maggiore di nome Santini, ma un nome doveva averlo... e forse i suoi compagni lo avrebbero usato. Avrebbe potuto scoprire qual era anche se non capiva la loro lingua. Quanto meno sarebbe stato in grado di ricostruire la struttura di comando di questo gruppo, osservandoli. L'uomo che stava guardando disse qualcosa, e Barin sentì uno strattone ai capelli. Soffocò un lamento, e riaprì gli occhi. «Non hai bisogno di dormire, ragazzino» disse l'uomo. Il suo accento non era molto più forte di altri che aveva sentito fra i cittadini delle Familias, ma aveva un tono duro e sprezzante che nemmeno i suoi primi istruttori dell'Accademia avevano mai usato. Per quelli non faceva differenza che lui passasse o no gli esami; per quest'uomo non faceva differenza che lui vivesse o morisse. «Devi capire che cosa sei.» Qualche parola in quell'altra lingua (Barin non sapeva nemmeno come si chiamasse la lingua che parlavano quelli dell'Orda di Sangue) e qualcuno dietro di lui appoggiò qualcosa di freddo e duro accanto al suo collo. Da dietro si udì un altro chiacchiericcio nella lingua straniera; l'uomo davanti a lui sorrise. Il dolore gli esplose nel collo e si diramò lungo il braccio; gli sembrava di scoppiare, gli sembrava che le dita si fossero disintegrate in schegge di dolore catapultate a metri di distanza da lui, ma che ancora gli facevano male. Prima che potesse urlare, il bavaglio lordo di vomito gli fu di nuovo stretto sulla bocca. Dagli occhi gli colarono torrenti di lacrime; tutto il suo corpo rabbrividì. Poi il dolore cessò. «Ecco cosa sei» gli disse l'uomo. «Intrattenimento. Tienilo a mente.» Disse anche qualcos'altro, e tutti si alzarono in piedi. Barin venne costretto a sorreggersi sui propri malfermi piedi e trascinato con loro lungo un passaggio che non aveva mai visto prima. E non una telecamera in vista. «Brutte notizie» disse il maggiore Pitak di ritorno da una riunione. Esmay alzò gli occhi. «La sicurezza ha trovato un corpo in uno sgabuzzino sul ponte Otto, nel T-2, ed era qualcuno che aveva già ricevuto il cartellino
rosa. Collo spezzato, in modo netto e professionale. Inoltre, hanno un ostaggio... forse. Il guardiamarina Serrano.» «Barin!» esclamò Esmay prima di poterselo impedire, e subito si rimproverò aspramente: non era assolutamente il momento di rendersi ridicola. «Lo hanno mandato a prendere qualcosa in magazzino, perché nessuno dei sistemi automatici funziona, e non è più tornato. Quando la sua unità è andata a cercarlo, hanno trovato l'imbracatura di sicurezza nascosta sullo scaffale dove avrebbe dovuto cercare un pezzo, e del sangue... come se ce ne fosse stata una macchia e fosse stato pulito male.» «Devono averlo messo fuori combattimento per prenderlo» disse Esmay. «È probabile. I comandanti Jarles e Vorhes sono furibondi, per poco non sono arrivati alle mani quando si sono incontrati. Perché è stato mandato da solo, perché nessuno ha dato l'allarme prima, e così via. Neanche l'ammiraglio era contento di loro, per usare un eufemismo. Il capitano... non ne voglio neanche parlare. Dicono che vent'anni fa, più o meno, ha avuto delle grane con un Serrano. Se quel ragazzo ci rimette la pelle a bordo di questa nave, gli piomberà tutta la famiglia fra capo e collo.» «Ma Bar... il guardiamarina Serrano è più importante di un feudo familiare, di certo!» Ma mentre lo diceva, sapeva che non era così. La famiglia era la famiglia, ma una famiglia non avrebbe mai messo in pericolo il suo status per un unico individuo. La sua non lo aveva fatto. Pitak scrollò le spalle. «È un guardiamarina, in una nave con più di venticinquemila persone a bordo. Il capitano non può lasciare che le priorità della famiglia Serrano lo distolgano dal suo dovere primario: la salvezza della sua nave.» Pitak la guardò più attentamente. «Hai passato molto tempo con lui, recentemente, vero?» «Sì, signore.» «Mmm. C'è qualcosa fra voi?» Esmay sentì di avere il volto in fiamme. «No, niente... siamo solo amici.» Suonava falso e poco convincente proprio come sembrava. Che cosa aveva provato per Barin? Non avevano fatto nessuna delle cose che il regolamento proibiva fra ufficiali superiori e inferiori nella stessa catena di comando, anche se in realtà non facevano parte della stessa catena di comando. Ma, se doveva essere onesta, alcune di quelle cose non le sarebbero dispiaciute. Se lui voleva. Non le aveva mai fatto capire che le voleva. Si costrinse a guardare Pitak negli occhi. «Dopo che mi aveva aiutato a quella conferenza per il gruppo di discussione tattica degli ufficiali supe-
riori, ci siamo visti, un paio di volte. Mi piaceva, e sapeva un sacco di cose sulla Flotta che a scuola nessuno ci aveva insegnato.» «Avevo notato un certo cambiamento» disse Pitak senza specificare di che tipo. «La stava aiutando lui, vero?» «Sì» disse Esmay. «L'ammiraglio Serrano e anche altri hanno detto che io confondevo, mi pare che sia il termine che hanno usato, gli altri per via di comportamenti che sono normali su Altipiano. Barin mi aiutava a capire cosa c'era che non andava...» «Non direi che ci fossero esattamente cose che non andavano» mormorò Pitak. «Mi ha fatto capire quali erano gli usi e costumi nella Flotta.» «Capisco.» Pitak si dondolò avanti e indietro sulla sedia per un lungo momento, fissando un punto vicino al gomito di Esmay. «Suiza, tutti i rapporti che ho letto su di lei sono unanimi: lei è un tipo con la testa a posto e che non crea problemi. Ma che si sappia, non ha mai avuto un partner. O mi sbaglio?» «No.» Una domanda diretta le aveva estorto una risposta diretta prima ancora che si rendesse conto di averla data. Solo a quel punto arrossì. «No, io... non è mai capitato.» «Mmm. E non mi pare che lei prenda dei farmaci che potrebbero spiegare la cosa. O no?» «No, signore.» Pitak sospirò profondamente. «Suiza, lei ha almeno dieci anni di troppo per ricevere questo genere di consigli, ma per certe cose, se non la conoscessi, le darei invece dieci anni di meno. E quindi non la prenda come una critica. Lei è pronta a cascare come una pera matura, Suiza, e Barin è l'unico maschio in compagnia del quale lei abbia passato più di un turno di lavoro. Che se ne renda conto oppure no, si trova sullo scivolo...» «No.» Le uscì solo un sussurro. «Io non...» «Non c'è mica nulla di male, Suiza» disse Pitak in tono tagliente. «Lei è solo un tenente, e lui è un guardiamarina, non è raro trovare coppie con una simile differenza di grado. Lei non è neanche il suo superiore. L'unico problema è... che adesso lui è in mano al nemico, e noi siamo in piena emergenza. Ho bisogno che lei sia lucida, con il cervello sgombro e le emozioni stabili. Non voglio che corra via a compiere atti di inutile eroismo, cercando di salvare il suo amante.» Amante? Il cuore le batteva in petto; lo stomaco sembrava esserle caduto nelle scarpe. «Ma non è...»
Pitak sbuffò, tanto simile a una cavalla che a Esmay sfuggì un sorriso. «Ragazzina, non m'importa se siete mai stati insieme oppure no. È il primo uomo di cui le è importato da quando è adulta, e questo è chiarissimo. Lo ammetta, e vedrà che diventerà tutto molto più facile.» E come poteva ammetterlo? Era vero? Aveva avuto dei desideri indistinti, delle vaghe fantasie... Le mani di Barin non sarebbero state come quelle altre. L'uniforme era diversa. Si costrinse a distogliere il pensiero, a ricacciare giù le farfalle che aveva all'altezza del diaframma. «Io... mi importa... davvero... quello che gli succede. Io... non avevamo parlato di... di nient'altro.» Stava quasi per aggiungere "per ora" e vide che il maggiore Pitak ce lo aggiungeva mentalmente per conto suo. «D'accordo; lo ha ammesso, e adesso deve convincersi di questo: io e lei non abbiamo nulla a che fare con le ricerche di Barin, degli intrusi, o di chiunque altro. Il nostro compito è di rimettere la Wraith in condizioni di esercizio prima che un gruppo di battaglia dell'Orda di Sangue spunti fuori e ci spazzi via, o peggio, ci catturi. Qualunque cosa possa capitare a Barin Serrano, non potrà mai essere grave quanto la cattura di questa nave da parte del nemico. È chiaro?» «Sì, signore.» Era chiaro, per quella parte della sua mente che pensava ancora con chiarezza. La parola "cattura" risuonava nella sua testa con il suono cupo e sinistro dell'acciaio che sfregava sulla pietra. Se non facevano bene il loro lavoro, potevano finire catturati tutti quanti... e sapeva che lei non avrebbe potuto affrontarlo. Aveva davanti all'improvviso una visione chiarissima: la tranquilla, competente, assennata tenente Suiza che impazziva, completamente e irrevocabilmente, nel momento in cui veniva catturata di nuovo. Per quanto le importasse di Barin... non poteva lasciare che succedesse una cosa del genere. «Bene. Non che pensi che lei sia il tipo che fa qualcosa di stupido, ma conosco Altipiano e non potevo escludere un qualche particolare punto debole culturale... e non voglio vederla lanciarsi in qualche tentativo di soccorso.» «Ci proveranno, però, vero?» chiese Esmay. «Non lo so.» Pitak distolse lo sguardo. «La cosa più importante adesso è trovare gli intrusi prima che facciano dei danni sostanziali. Mettere in salvo un guardiamarina è un obiettivo meno prioritario, in queste circostanze. Quello che veramente sta mandando fuori di testa il capitano è la paura che disabilitino il congegno di autodistruzione.» «Autodistruzione?»
«Sì. Il capitano non permetterà a nessun costo che veniamo catturati dall'Orda di Sangue... potrebbero costruirsi degli incrociatori tutti loro con questa nave e i nostri tecnici. Ha detto agli ammiragli che piuttosto ci fa saltare tutti in aria.» «Bene» disse Esmay, senza pensarci. Pitak la guardò in modo strano. «La maggior parte di noi non ne è proprio felice» disse Pitak. «Sappiamo che è necessario ma... a lei invece fa piacere?» «È meglio della prigionia» disse Esmay. Il tremito era passato; la paura si era allontanata. «Be', lei non smette mai di meravigliarmi, Suiza. Allora, visto che il suo cervello sembra funzionare piuttosto bene, risponderò alle domande che senza dubbio lei mi farebbe comunque nei prossimi cinque minuti. Non saltiamo via da questo sistema perché non possiamo. Non so perché. Può darsi che gli intrusi abbiano già sabotato i motori FTL... può darsi che la sequenza di salti ravvicinati che abbiamo fatto per arrivare qui abbia rotto qualcosa. Motori e Manovra se ne stanno occupando. Ho bisogno che lei mi faccia una ricerca, visto che in questo genere di cose è brava: se partiamo dal presupposto che i salti in sequenza ravvicinata abbiano causato qualche danno o problema, di che genere sarebbero?» «Sì, signore.» «Se viene a capo di qualcosa, mi chiami. Adesso stanno per arrivare in produzione i supporti strutturali della Wraith, e io devo essere presente all'installazione.» Fece per uscire dalla porta, poi tornò a voltarsi. «Oh, sì; gli ordini sono che nessuno va da solo da nessuna parte, compresi i bagni. Sappiamo che almeno uno degli intrusi ha una targhetta di identità di quelle nuove, e senza dubbio gli piacerebbe procurarsene altre. Il capitano potrebbe decidere di isolare i bracci, ma per adesso non abbiamo abbastanza personale di sicurezza per sorvegliare tutti i punti di accesso. Abbiamo l'ordine di stare attenti a tutti gli stranieri, a chiunque non conosciamo bene, anche se su una nave di queste dimensioni non ha molto senso. Io di certo non saprei riconoscere la metà degli istruttori del T-1, per tacere degli studenti.» Sospirò. «Sarà dura obbedire a questi ordini. Riprogrammare decine di migliaia di targhette ogni giorno, e ricontrollare tutto il personale a cui vengono consegnate. Tutti che ce ne andiamo in giro etichettati, e tutti in gruppo.» «Ci trasferiamo in sale comuni per dormire?» «Spero di no.» Pitak si grattò la testa. «Non posso più dormire in quelle condizioni, alla mia età uno che russa mi sveglia. Ma potremmo arrivarci,
anche se vuol dire lasciare vuoti un sacco di compartimenti, un'altra cosa che per gli intrusi sarebbe una manna dal cielo. Comunque, il capitano ha chiesto agli ammiragli altro personale di sicurezza. Da quel che ho capito sono volate parole grosse fra il nostro ammiraglio e Livadhi. Ma noi dobbiamo solo rimettere la Wraith in piedi. Se, come sospettiamo, c'è un gruppo di battaglia dell'Orda di Sangue diretto verso di noi per finirci, avremo bisogno di tutto l'aiuto possibile.» «Ma è possibile? Voglio dire, ha detto che ci vorranno...» «Che ci vorrà più tempo di quello che abbiamo a disposizione. Lo so. Solo per le riparazioni allo scafo ci vorranno sessanta o settanta giorni... poi bisognerà ripristinare i sistemi interni, installare le armi, collaudare. Ma non c'è altro da fare. Forse arriveranno in ritardo, forse si perderanno per strada. Forse la nostra flotta tornerà. O forse riusciremo a riaggiustare il dispositivo di autodistruzione e non ci dovremo preoccupare più di nulla... almeno quelli di noi che non credono nella vita dopo la morte. E lei? È per questo che pensa che farci saltare in aria sia una buona idea?» «No... non esattamente.» Non credeva nell'aldilà che le aveva descritto la sua bisnonna, dove i morti erano collocati ciascuno sul livello che si erano guadagnati in vita, come vasi su una fioriera. Ma le era difficile immaginare il nulla, una fine assoluta. «Mmm.» Sembrava che Pitak avesse voglia di aggiungere qualcosa, ma la chiamarono dal corridoio e se ne andò senza aggiungere una parola. Esmay fissò lo schermo per un momento, e poi la paratia. Barin ostaggio... Barin morto? Non riusciva a immaginare né luna né l'altra cosa. Non Barin, così pieno di energia, un vero Serrano. Non era affar suo. Pitak l'aveva avvertita. Ma... di tutte le persone su quella nave, lei era l'unica che aveva effettivamente combattuto a bordo di una nave. Dovevano esserci degli ordini. Il personale di sicurezza aveva esperienza, era stato addestrato per queste cose. Lei no. E non aveva armi. Stava pensando a cose tutte sbagliate. Non stava pensando affatto. La memoria le inondò la mente con immagini della battaglia sulla Despite... le veniva spontaneo immaginare che dall'altra parte della sottile parete divisoria fra il suo cubicolo e il resto dell'ufficio ci fosse qualcuno in agguato; con un'arma pronta. Ridicolo. Ma non riusciva a starsene lì buona e tranquilla; bruciava dal desiderio di essere... da qualche parte, a fare... be', qualcosa. Si rimproverò con severità perché la sua breve esperienza di comando evidentemente le era andata alla testa. Con una nave piena di ammiragli come quella, non
avrebbero certo lasciato un tenente assegnato a Scafi e Architettura a fare qualcosa di più che consultare statistiche su un computer. Barin si era addormentato, ma si svegliò quando sentì qualcuno che si avvicinava. Aiuto? Ma era solo un altro degli intrusi, con due uomini e una donna in abiti civili. Barin sapeva, vagamente, chi erano: tecnici specializzati civili, esperti, ingaggiati per fare qualcosa ai sistemi d'arma. Non li aveva mai veramente incontrati, anche se a volte li aveva intravisti, incrociandoli nei corridoi o negli ascensori. Erano normalissimi civili di mezza età, o così gli erano sembrati. Di nessun interesse per lui, visto che non lavoravano nel suo campo. Ora lo fissavano come se anche lui fosse un mostro. Be', probabilmente non aveva un gran bell'aspetto, con il naso gonfio e la faccia pesta, ma non avevano nessun diritto di guardarlo come se pensassero che fosse tutta colpa sua. «Ci avete mentito» disse uno dell'Orda. «Siete stati pagati per sistemarlo e non l'avete fatto. Quando abbiamo guardato, le spie erano ancora tutte verdi.» «Ma certo che l'abbiamo sistemato» disse il più alto dei due uomini, con convinzione. «L'abbiamo sistemato in modo che non funzionasse, ma che il capitano pensasse che fosse tutto a posto. È per questo che le spie sono tutte verdi. Così il capitano può fare i suoi controlli, e vedrebbe solo...» «Adesso non sono più verdi» disse quello che li aveva catturati. «Che è successo?» L'uomo alto si sporse per vedere, e diventò di una strana sfumatura di verde. «Avete... avete strappato i fili?» «Per essere sicuri che non funzionasse, sì. Perché ci avete mentito.» «Ma non abbiamo mentito. Adesso il capitano saprà che non funziona, e potrebbe avere un sistema di riserva...» «Eravate incaricati di disabilitare tutti i dispositivi di autodistruzione.» Queste parole furono accompagnate da una serie di spintoni che finirono per mandare l'uomo contro una paratia. «Siete stati pagati per farlo!» Un altro spintone, più forte: l'uomo barcollò. «Dunque, se ne avete lasciato uno funzionante, avete mancato alla parola data, e... sono cose che prendiamo molto seriamente.» «Ma... non sapevamo... abbiamo fatto quello che ci avete chiesto...» L'uomo si comportava come se non riuscisse a credere alla situazione in cui si trovava: continuava a guardare in direzione di Barin e poi a distogliere lo sguardo. «Aggiustatelo di nuovo in modo che il capitano pensi che funzioni ancora» disse il capo degli uomini dell'Orda di Sangue.
«Ma ormai saprà che qualcuno l'ha sabotato, aggiustarlo ora non servirà a convincerlo. Qualcuno dovrebbe dirglielo... Io potrei andare a dirgli che posso sistemarlo, sanno che siamo esperti di sistemi d'arma, e poi potrei...» L'uomo non riuscì nemmeno ad avere un moto di sorpresa, che stava già morendo, una lama conficcata a fondo nella gola e una mano che gli tappava la bocca, soffocando il suo ultimo gorgogliante grido. Il sangue zampillò, poi fluì, quindi cessò del tutto, e il compartimento si riempì di un odore di sangue così forte da coprire anche la puzza di morte. La donna urlò, un grido breve, troncato dal terrore quando uno degli altri la schiaffeggiò. Quello che aveva ammazzato il primo uomo lasciò cadere il corpo, poi passò la mano insanguinata prima sulla sua bocca, poi su quella della donna. «Non ci chiamano mica l'Orda di Sangue per nulla» disse, sogghignando. Con lo stesso coltello, e a Barin sembrò per qualche motivo anche peggio per il fatto che non lo avesse ripulito fra l'assassinio e la mutilazione, tagliò l'orecchio sinistro del morto, gli diede un morso deciso, e poi se lo mise in una tasca del l'uniforme. «Adesso» disse guardando l'altro civile «aggiusta questa roba in modo che sembri che funzioni.» Il secondo uomo, più basso e con i capelli più scuri dell'altro, si affrettò a obbedire. Quando ebbe finito, le spie erano di nuovo verdi. «Ecco fatto» disse. «L'ha fatto come si deve?» chiese l'assassino alla donna. «Sì... Sì, l'ha fatto bene» disse la donna. «Se sei in grado di dirlo, allora di lui non abbiamo bisogno» disse l'assassino, e afferrò l'uomo più piccolo per il colletto, mezzo soffocandolo. «Preferiamo... lavorare... con te.» «No!» la donna cercò di scappare, ma uno degli altri la prese al volo. Cercò di liberarsi, ma non aveva esperienza nel combattimento corpo a corpo, e non era abbastanza forte da compensare la mancanza di abilità. «No, lasciatelo... per favore...» L'assassino rise. «Abbiamo sentito quello che hai detto dell'Orda di Sangue... come hai insultato il nostro agente.» La donna diventò ancora più pallida. «Avete osato legarlo...» Rigirò il colletto dell'uomo, stringendo, fino a che la sua faccia divenne viola. «Lo avete minacciato. Gli avete stretto un cappio attorno al collo... e adesso avete voi un cappio al collo. Anche i barbari, come ci chiamate, sono in grado di apprezzare la giustizia poetica.» Barin non riuscì a distogliere lo sguardo: c'era qualcosa che lo affascina-
va nello spettacolo, anche se lo faceva vergognare di se stesso. L'assassino strinse, e strinse... e orribilmente, lentamente, l'ometto di cui Barin non sapeva nulla morì, i suoi tentativi di liberarsi sì fecero via via più deboli, fino a che cessarono completamente. «Noi paghiamo i nostri debiti» disse l'assassino alla donna. «Tutti i debiti, quelli che conoscete e quelli di cui non sapete nulla. Se pensiamo che le dimensioni siano tutto? È di questo che ti sei lamentata, no? Allora credo che dovresti avere la possibilità di sperimentare il valore delle dimensioni nel modo più adatto a te.» La donna gettò uno sguardo frenetico a Barin, e l'assassino rise. «Pensi che ti possa aiutare? Questo ragazzino con il naso rotto, che abbiamo catturato con la stessa facilità con cui abbiamo preso te?» Doveva fare qualcosa. Non poteva semplicemente restare lì e non fare niente... ma per quanto lottasse, Barin non riuscì ad allentare i legacci estremamente efficaci che avevano sottratto alla Sicurezza di bordo. Cercò di liberarsi durante tutto quello che seguì, spellandosi i polsi, guadagnandosi di tanto in tanto uno scappellotto da parte di un nemico più divertito che preoccupato dai suoi sforzi. Anche la donna cercò di lottare, ma non le servì a niente; la presero tutti, uno dopo l'altro, in modi che Barin nella sua innocenza non aveva neanche immaginato. Alla fine i suoi tentativi di lottare, i suoi singhiozzi e i suoi gemiti cessarono, e rimase immobile. Barin non sapeva se fosse morta o solo svenuta. A quanto pare era stata una specie di traditrice... da quello che avevano detto aveva capito almeno quello... ma nessuno si meritava quello che le era successo. Uno degli uomini disse qualcosa agli altri nella loro lingua, qualcosa che Barin riconobbe dal tono come una battuta. Quello che era ancora sulla donna si rimise in piedi, ridendo, e poi si voltò verso Barin. Il suo sorriso si allargò. «Il bambino è turbato» disse. «Che fosse la sua ragazza?» «Troppo vecchia» disse uno degli altri. «Un bel bambino come quello non l'avrebbe voluta, una vecchia come quella.» «Ma sono sicuro che una ragazza a bordo ce l'ha» disse il primo. «Dovremmo proprio trovarla.» Barin avrebbe vomitato di nuovo, se avesse avuto ancora qualcosa sullo stomaco. «Quello che non capisco è come abbiano fatto a trovare il dispositivo di autodistruzione così in fretta» disse il capitano Hakin. «Non sono molti a
sapere dove si trova...» «Hanno catturato i tecnici civili» disse l'ammiraglio Dossignal. «E loro come facevano a saperlo? Sono specialisti di sistemi d'arma: dovevano riprogrammare i nostri sistemi di guida... oh.» «Se qualcuno li ha corrotti, allora potrebbero essere stati loro a disinserire l'autodistruzione... potrebbero aver trovato il congegno mentre fingevano di lavorare sulle armi in magazzino.» «Quello che non capisco è come mai sono stati rapiti, se avevano già fatto il loro lavoro.» «Non lo avevano fatto» disse il capitano. «Ricordiamoci che fino a un'ora fa tutti i segnali erano a posto.» «Considerando la qualità del lavoro che hanno fatto sui sistemi d'arma, se sono stati loro a disabilitare l'autodistruzione, non ce ne saremmo accorti per nulla» disse il comandante Wyche. «Scommetto che li hanno rapiti semplicemente per quello che sapevano dei sistemi d'arma... con le sonde dati che gli intrusi hanno preso dalle tre vittime accertate finora, avrebbero avuto un accesso abbastanza avanzato ai database per sapere che i civili erano esperti di sistemi d'arma.» «E quindi adesso l'autodistruzione non è più una delle mie possibilità.» Hakin gettò un'occhiataccia agli ammiragli. «Avrei dovuto usare il congegno finché ne avevo la possibilità.» «No» disse Dossignal. «Era il modo più comodo, più ovvio e più facile per avere il potere di distruzione nelle nostre mani, ma non è l'unico. Su questa nave, con quello che abbiamo in magazzino, e la capacità tecnica anche solo del Quattordicesimo, possiamo evitare la cattura. E lo faremo.» «Lo spero proprio» disse il capitano. «Lo spero con tutto il cuore, perché se così non è non saremo solo noi a soffrirne.» «La Wraith ci dà un'altra possibilità» disse il comandante Wyche. «La Wraith?» «Ha ancora un terzo della sua capacità offensiva, tutte le armi del lato sinistro. E ha tutta la potenza di fuoco necessaria per far saltare la Kos. Non da dentro il cantiere di riparazione... assicurata ai pontoni com'è adesso, anche se riuscisse a saltare in aria, c'è una probabilità del 72 per cento che la maggior parte della Kos sopravviverebbe. Dovremmo riposizionare i sostegni, e ci vorranno alcuni giorni. Ma se la muoviamo in modo che possa sparare verso il centro della nave...» «Ma non può manovrare!» disse il capitano di fregata Takkis, che era a capo di Motori e Manovre. «Abbiamo smontato i suoi motori non appena
l'abbiamo tirata dentro, e ci vorrebbero dei giorni per rimontarli. E poi ho tutto il mio personale impegnato a lavorare sui motori FTL di "questa" nave.» «Pensavo ai pontoni di collaudo. Non c'è bisogno di manovrarla per trascinarla lì e poi trainarla in posizione... possiamo anche farla arrivare all'estremità dell'estensione dei cavi, volendo. I motori dei pontoni di collaudo sarebbero sufficienti, se necessario, a metterla nella posizione migliore per poter fare fuoco sulla Kos... oppure potremmo impiegarla per sparare contro l'Orda di Sangue.» Ci fu un momento di silenzio, mentre tutti ci pensavano sopra. Dossignal e Livadhi annuirono entrambi. «Potrebbe funzionare... di sicuro per quanto riguarda la distruzione della Kos, e probabilmente potrebbe fare anche parecchi danni a una nave dell'Orda in arrivo.» Anche il capitano Hakin stava annuendo. «Se quelle armi non sono state smontate dalla Wraith, e se siamo assolutamente sicuri che non sono state sabotate, allora abbiamo di nuovo la nostra ultima risorsa, la distruzione della nave... se non la sprechiamo sparacchiando al nemico.» «No... certo, dovremmo stabilire dei limiti alla sua capacità offensiva, per conservare le munizioni, ma dovrebbe comunque essere possibile usarla per infliggere un certo danno al nemico. Specialmente se potessimo far ricorso a qualcos'altro. Una delle navette, magari. Durante i fatti di Xavier, la difesa planetaria fece buon uso di un paio di navette.» «Be', le hanno usate per mettere delle mine... Non credo che qui funzionerebbe.» «Se solo potessimo usare un cavallo di Troia contro di loro, come loro hanno fatto con noi.» Livadhi sorrise. «Questo sì che mi darebbe soddisfazione.» «Salire a bordo di una nave nemica? Non vedo proprio come. È quello che hanno appena fatto loro, e quindi sanno che può essere fatto. Staranno in guardia. E quindi i nostri soldati non riuscirebbero a salire a bordo senza farsi notare, si tratterebbe di un abbordaggio ostile, che incontrerebbe resistenza attiva.» «Stavo pensando... se avessimo del personale che parla la loro lingua abbastanza bene da poter passare per un nativo, e se riuscissimo ad acchiappare uno di questi intrusi ed estorcergli dei codici di riconoscimento, allora i nostri potrebbero fingere di essere parte del loro gruppo, che ritorna alla base.» «Non funzionerebbe.» L'ammiraglio Livadhi guardò male, e molto sor-
preso, il capitano di corvetta due posti più in giù che aveva parlato per contraddirlo. «Mi dispiace, signore, ma non possiamo perdere tempo con progetti chiaramente destinati al fallimento. Le squadre speciali dell'Orda di Sangue, ed è una di quelle che abbiamo a bordo, sono composte da soldati che fanno tutti parte dello stesso lignaggio. Voglio dire che ciascuna squadra è formata da gente imparentata. Si allenano assieme per anni e anni, e sviluppano persino un proprio dialetto. Il capitano di fregata Coston, che è appena tornato a Rockhouse, stava facendo proprio uno studio sui commando dell'Orda di Sangue. I nostri non possono imitare un branco di loro soldati, non senza un addestramento che non abbiamo neanche lontanamente il tempo di impartirgli. E poi abbiamo solo tredici persone a bordo che parlano la loro lingua abbastanza bene, e hanno tutti un accento evidentissimo.» «Non abbiamo bisogno di pessimismo in questo momento, comandante Nors» disse Livadhi. «Stiamo ancora passando in rassegna le possibilità.» «Mi spiace, signore. Be'... supponiamo che una delle navi dell'Orda di Sangue sia abbastanza vicina, e sia vuota o abbia perso quasi tutto l'equipaggio. Abbiamo sviluppato uno schema abbastanza fedele del sistema di controllo a bordo di una nave dell'Orda di Sangue, a partire dai modelli commerciali sui quali hanno costruito le loro navi, e da informazioni tratte da relitti. Non ci vorrebbe molto per addestrare un equipaggio che sia esperto delle nostre navi da guerra a usare una delle loro... e potremmo portare a bordo il nostro equipaggiamento di ricognizione.» «E dove pensa di trovarla una nave dell'Orda di Sangue senza equipaggio?» chiese Hakin, con un certo sarcasmo. La questione rimase sospesa per un momento, mentre tutti la consideravano, poi la stessa idea comparve visibilmente su diversi volti. Hakin diventò cupissimo. «No. Assolutamente no. Non permetterò che "altri" soldati dell'Orda di Sangue salgano a bordo della mia nave nella remota speranza di riuscire a catturarne una delle loro.» «Probabilmente vorranno entrare in uno dei cantieri di riparazione» disse Dossignal, lentamente. «In uno c'è la Wraith, e questo loro lo sanno. Ma l'altro è vuoto... ed è il punto migliore in cui far attraccare una nave non troppo grande. Pieno proprio della roba che vogliono, per di più.» «No!» disse Hakin, alzando la voce. «Sa qualcosa delle procedure di abbordaggio dell'Orda di Sangue, comandante?» chiese Dossignal, ignorando per il momento Hakin. Nors ci pensò su per un momento. «Tutto quello che abbiamo sono i
racconti dei pochi civili che sono scampati a uno dei loro raid su una grossa nave civile. Sono saliti a bordo indossando delle tute per attività extraveicolare che fungevano anche da armatura... e almeno in quel caso erano più che disposti a danneggiare la nave che avevano catturato, pur di assumerne il controllo. Nessuno dei civili a cui abbiamo parlato era in grado di distinguere un livello di armamento da un altro, ma uno di loro ha descritto un tipo di arma in grado di forare una paratia interna con un solo colpo. In questo caso, però, partiamo dal presupposto che vogliano una CRSP e la vogliano intera. Io credo che cercheranno di fare meno danni possibili... però devono comunque abbordarla.» «Un'altra possibilità» disse il comandante Wyche «è riuscire a sfruttare l'armamento di una nave dell'Orda che si trovi in un cantiere di riparazione. Immaginiamo di immobilizzarla sul posto. In questo caso le sue armi ci fornirebbero un'altra possibilità di autodistruzione. Hanno armi a posizionamento frontale di tutte le classi.» «Sempre che riusciamo a salire a bordo e ad assumerne il controllo.» «Questo lo possiamo dare per scontato, signore. Se rimangono lì asserragliati nella loro nave, non possono fare niente... non possono spararci senza fare dei danni che di certo non vogliono e, inoltre, non hanno la fama di essere gente paziente. Penso che possiamo contare sul fatto che una volta abbordata la Koskiusko, sbarchino, con l'intento di assumere il controllo dei sistemi chiave.» «Cosa che non gli possiamo lasciar fare» disse il capitano Hakin. «Ai vostri servirà tempo per salire a bordo, assumere il controllo della nave, e poi "forse" essere in grado di usarla per sconfiggere le altre loro navi o distruggerci... e nel frattempo, avremmo un intero equipaggio nemico a bordo... No.» «Quindi, il vero problema sarebbe farli uscire dalla nave senza che però assumano il controllo della nostra» disse l'ammiraglio Livadhi. Unì le punte delle dita. «Sapete... ci sarebbe un modo. Se potessimo disattivare i sistemi del cantiere di riparazione, o dell'intera ala in cui si trova...» «Potremmo staccarla» disse l'ammiraglio Dossignal. «Staccarla?» chiese il capitano Hakin. «Sì... comandante Seveche, guardi il progetto originale di costruzione e tutte le modifiche successive... potrebbe esserci un modo di staccare uno dei cantieri, ovviamente senza che si noti, e isolarlo dal resto della Koskiusko.» In meno di un'ora, Seveche era di ritorno con i dati pronti per essere
proiettati; approntò lo schermo grande e lo attivò. «Ecco qui: quando hanno messo insieme la Kos, hanno previsto la possibilità di future modifiche predisponendo agganci temporanei...» Hakin era diventato tutto rosso. «Vuole dire che finora abbiamo lavorato su una nave i cui pezzi non sono nemmeno saldati gli uni agli altri?» «No, signore. Sono attaccati in maniera più che salda... ma ci vorrebbero solo poche ore, non giorni, per staccarli di nuovo. Questi fermi a pressione... questi connettori, qui...» Seveche li indicò sullo schermo. «Possono tutti essere sganciati con relativa facilità. Questo fra il T-4 e il cilindro centrale è praticamente un giunto a espansione molto grande.» Passò a un altro schema. «Quando hanno costruito la Kos, prima di assemblare l'ala, hanno agganciato una parte del giunto al cilindro centrale e l'altra all'ala. Mentre le ali venivano avvicinate per agganciarsi direttamente al cilindro centrale, questi corrugamenti si comprimevano, assicurando alla giuntura un ulteriore margine di sicurezza.» «Sì, ma... presumo che lei adesso voglia distenderli di nuovo. Davvero si aspetta che dopo tutto questo tempo funzionino ancora?» «Non vedo perché no» disse Seveche. «Altrove abbiamo usato lo stesso materiale senza nessun problema, per lo stesso lasso di tempo e in più con continue compressioni e distensioni. E poi possiamo chiudere i portelli da entrambe le estremità del giunto. Le ali dispongono di portelli stagni all'ingresso di ogni ponte.» «Lo so, comandante» disse Hakin. Sembrava irritato. «Ma sono sicuro che noteranno che i portelli interni sono bloccati, e li forzeranno con le armi...» «No, non lo faranno. Possiamo predisporre degli accessi temporanei... loro non sanno com'è fatto l'ingresso di un ponte al cilindro.» «Ma una volta staccato il braccio, l'accesso temporaneo si depressurizzerebbe...» «Non se avessimo qualcuno pronto a chiudere i portelli.» Seveche guardò verso Dossignal, in cerca di aiuto. «Avremo delle perdite, qualunque cosa facciamo» disse Dossignal. «Per evitare il rischio di cattura, lei era disposto a distruggere la nave e tutto il suo equipaggio. Ma io credo che abbiamo la possibilità di salvare sia la nave sia una gran parte dell'equipaggio se riusciamo a resistere fino al ritorno dell'ammiraglio Gourache. Sottrarre una nave al nemico, per usarla noi, e avvalerci di tutta la capacità offensiva che resta alla Wraith... è l'unico modo per poterlo fare. Sono sicuro che avremo tutti i volontari che ci
servono anche per le più pericolose di queste missioni.» «Dovremo avere qualcuno al comando di ciascuna delle sezioni staccate, con l'autorità di fare quel che è necessario, qualunque cosa sia. Un'interruzione nella catena di comando sarebbe disastrosa, e non possiamo essere sicuri di poter mantenere le comunicazioni.» «Il che vuol dire che dobbiamo cominciare a informare dei nostri piani diverse persone fin da ora...» «Non mi piace» disse il capitano Hakin. «La nave è sotto la mia autorità, e lei sta proponendo di staccare dei pezzi e metterli sotto un comando indipendente. Separati saranno anche più facili da conquistare...» «Capitano, le offriamo una soluzione che mette tutti quanti in una posizione migliore. La Koskiusko è stata composta assemblando sezioni precedentemente del tutto indipendenti. Lo sa. Il T-4 e il T-5 avevano perfino dei nomi, nomi stupidi, magari, Pezzo e Tocco, se ben ricordo, ma pur sempre nomi. Potevano essere considerate navi indipendenti, se la Flotta non avesse deciso in favore di una CRSP unica. È ragionevole sostenere che sono entrambe sotto la giurisdizione del Quattordicesimo...» «Dovrete trovare voi il personale per governarle» disse Hakin. «Non vi lascio nessuno degli uomini di cui ho bisogno per proteggere la Kos.» Che si trattasse di una capitolazione? L'ammiraglio Dossignal fissò a lungo il capitano Hakin. «Sai, Vladis, se davvero la cosa ti disturba tanto, puoi sempre fare rapporto.» «È quello che intendo fare.» Hakin era più cupo che mai. «In parte per contestare il suo diritto di nominare un capitano per un qualunque vascello in questo settore: è compito di Foxworth o, a un livello più basso, quanto meno di Gourache.» «Capisco il suo punto di vista. Ma ho intenzione di procedere comunque, e più tardi potremo vedercela davanti a una Commissione d'Inchiesta, o magari una corte marziale.» Hakin scosse la testa. «Non aumenterà le nostre possibilità, e potrebbe rendere il mio compito molto più difficile...» «Non vedo come, considerato che quasi certamente la libereremo del maggior numero di invasori, e di una delle navi che si preparano ad attaccarla. Ora, per quanto riguarda il personale, abbiamo i sopravvissuti della Wraith che non sono stati feriti...» «Che saranno necessari per rendere operative le armi della Wraith» disse Livadhi.
«I loro esperti d'arma sicuramente sì. Ma visto che la Wraith non dovrà manovrare, non vedo a cosa servirebbe il personale del ponte di comando. Detesto l'idea di sprecare un capitano con esperienza di combattimento a bordo di una nave azzoppata. Non ne abbiamo una grande abbondanza, di ufficiali del genere.» Il comandante Atarin si intromise. «Ammiraglio, ho preparato una lista di tutti gli ufficiali presenti a bordo con esperienza di combattimento negli ultimi tre anni. Sono ordinati per grado, per specializzazione e per rendimento in combattimento, non solo per esperienza.» «Bene. Vediamo... oh, cielo.» «Che c'è?» Hakin allungò la testa, cercando di vedere. «Abbiamo una certa abbondanza di specialisti in sistemi d'arma con esperienza di combattimento, perché siamo in sessione con il corso tecnico di specializzazione avanzata in sistemi d'arma. Rilevamento... nessun problema. Non abbiamo abbastanza esperti di sistemi ambientali, ma la cosa dovrebbe concludersi abbastanza in fretta da non creare problemi di questo genere... E possiamo mettere i nostri soldati in tute autosufficienti e non avere problemi ambientali. Anche sulle comunicazioni siamo un po' a corto, ma la maggior parte degli esperti di rilevamento viene addestrata anche per le comunicazioni e di esperti di rilevamento ne abbiamo quanti ne vogliamo. Quello che ci manca sono i capitani di nave. O, almeno, abbiamo appena quelli che ci servono: il capitano della Wraith per la Wraith e il capitano di corvetta Bowry, che è qui per un corso speciale, per comandare la nave dell'Orda di Sangue.» «Be', non credo che saremo tanto fortunati da catturarne più d'una...» «Ne dubito. Perché dovrebbero entrare con più di una nave alla volta? Ma se tanta abbondanza ci viene regalata, dovremo trovare qualcuno per comandare anche una seconda nave... il che ci porterebbe a ufficiali piuttosto giovani con pochissima esperienza di comando di una nave in battaglia.» Dossignal prese in considerazione l'idea di dirgli esattamente di chi si trattava, ma sapeva che Hakin avrebbe dato di matto sentendo il nome di Esmay Suiza. 16 Esmay trovò una possibile causa del guasto ai motori FTL e comunicò le sue conclusioni al maggiore Pitak, che stava sorvegliando il trasporto dei baffi, i lunghi cristalli strutturali dall'Unità di Fabbricazione Materiali Spe-
ciali verso il T-3 e la Wraith. Esmay osservò la squadra speciale che li accompagnava sulla rotaia di trasporto: anche riuniti in un fascio, i cristalli risultarono molto più flessibili di quanto si fosse aspettata. Sapeva, in teoria, che tutte le navi avevano uno scheletro fatto di quelle strutture di supporto... sapeva anche che la loro flessibilità laterale era essenziale. Ma quei bastoni tremanti e oscillanti le sembravano di gran lunga troppo fragili perché a essi si potessero affidare delle vite nello spazio. Pitak le scoccò una breve occhiata e tornò a sorvegliare il trasporto. «Ah, Suiza... ha trovato qualcosa?» «Semplicemente una possibilità.» «Meglio di niente. Li aveva mai visti prima?» continuò prima che Esmay potesse rispondere. «Tremolanti come gelatine, vero?» Sembrava soddisfatta. «Più di quanto pensassi» disse Esmay, in tutta onestà. Uno schermo mostrava l'intero percorso del carico, dal portello di uscita alla fine dell'Unità di Fabbricazione Materiali Speciali, su attraverso il T-1, il mozzo centrale, poi di nuovo giù attraverso il T-3 e il T-4. «Perché non hanno messo i cantieri di riparazione sullo stesso lato della nave di Materiali Speciali? Non sarebbe stato molto più facile trasferire i carichi?» «Sì, ma quando si è trattato di progettare la nave, questa non è stata la considerazione più importante. Se davvero la interessa, quando questa crisi sarà passata può andare a consultare gli archivi sulla progettazione... ci troverà tutta la discussione.» Fece ingrandire uno degli schermi e indicò il fascio di cristalli. «Questi sono venuti bene. Dopo un po', imparerà a riconoscere quelli buoni da quelli cattivi semplicemente osservando le oscillazioni. Se non avessimo quest'altra crisi, la manderei a guardare cosa succede a Materiali Speciali quando ne tagliano una partita.» Esmay era contentissima di perdersi quel particolare spettacolo. Aveva sentito parlare di tagli spettacolari, quando le sequenze di collaudo inducevano in un cristallo difettoso un'oscillazione maggiore della tolleranza, e le schegge frantumate volavano dappertutto con un rumore che, dicevano, poteva far impazzire chi assisteva. «Mi faccia vedere che cosa ha trovato» disse Pitak. Guardò i dati che Esmay aveva raccolto e si accigliò. «Non penso che si tratti di questo. Lo sforzo di taglio non è sufficiente a dislocare i generatori AG, e lei suggerisce che sia stata un'instabilità AG che ha causato il danno ai motori, giusto?» «Sì, signore.»
«E come viene in simulazione?» «Hanno tagliato fuori tutti quanti sotto il grado di capo dipartimento dall'uso del computer principale... il computer piccolo dice che è possibile. Per questo gliel'ho fatto vedere.» «Oh. Be', non mi fido tanto dei programmi di simulazione sul piccolo, più che un'analisi strutturale di base non ci si può fare. Per questo genere di cosa abbiamo bisogno della serie di Mishnazi... ma immagino che stiano cercando di ottimizzare l'analisi dei dati. Non penso che sia una spiegazione sufficiente per richiedere del tempo tutto per noi.» Guardò Esmay. «Dovrebbe mettersi in pausa e dormire un po', finché può, o almeno fare un pasto completo. Ha tenuto conto di chi ha pranzato e chi no in ufficio?» «No, signore, ma posso farlo appena ritorno.» «Lo faccia, e grazie per questo... io per conto mio penso che si tratti di sabotaggio, ma Motori e Manovre ci ha chiesto di controllare.» Esmay annuì e si ritirò in compagnia della sua scorta, un caporale che aveva tolto alla sezione amministrativa di Scafi e Architettura quando aveva avuto bisogno di andare a trovare Pitak. Come odiava sentirsi così inutile. Certo, doveva mangiare; certo, doveva assicurarsi che lo stesso facessero tutti nella sua sezione. Ma... voleva fare di più. Aveva appena raggiunto l'ufficio di Pitak e cominciato a controllare dove si trovava il personale al suo comando quando l'interfono la chiamò. Era Pitak. «Siamo nel bel mezzo di una crisi e loro cosa fanno? Mi tolgono del personale. Suiza, che cosa ha fatto per attirare l'attenzione degli ammiragli?» «Niente, che io sappia» disse Esmay. «Be', deve presentarsi immediatamente a rapporto all'ufficio dell'ammiraglio Dossignal, e il messaggio che ho ricevuto avverte che non devo aspettarmi di vederla di ritorno molto presto. Sempre così, va. Ogni volta che addestro qualcuno al punto di essermi utile, gli alti papaveri vengono e me lo portano via.» «Mi dispiace, maggiore» disse Suiza, prima di ricordarsi la regola per cui non si chiede mai scusa. Pensò a Barin con una fitta di dolore. Era ancora vivo? Stava ancora bene? «Meglio che vada» disse Pitak. «E se le capita, mi faccia sapere che cosa sta succedendo. C'è una strana atmosfera a bordo.» «Sì, signore.» Il comandante Atarin la stava aspettando nell'anticamera di Dossignal. «Ah, tenente Suiza. Bene. Andremo direttamente a una riunione nel T-1;
incontreremo la scorta al tubo ascensore.» «Signore, se posso chiedere...» «Non finché non saremo arrivati. E non faccia quella faccia allarmata: non è nei guai e non vogliamo spaventare nessuno.» «Sì, signore.» Due pivota maggiori armati, con le insegne della Sicurezza, li aspettavano davanti ai tubi ascensori. «Comandante, il capitano dice che sarebbe meglio evitare i tubi» disse uno di loro. Esmay vide che la sua faccia era lucida per il sudore. «È successo qualcosa?» «Non ne posso parlare, signore» disse l'uomo. Respirava un po' troppo in fretta. «Andiamo, allora.» Esmay e Atarin seguirono l'uomo che li condusse attorno al mozzo fino all'imboccatura del T-1. Il largo passaggio era molto più affollato del solito, come se non fossero gli unici a evitare i tubi e gli scivoli. Avevano cinque livelli di scale da fare a piedi: quando emersero dall'ultima rampa, Esmay vide un altro paio di guardie con le armi spianate davanti a un portello chiuso. Era stato allestito un piccolo punto di controllo d'identità portatile nelle vicinanze, ed Esmay notò i cavi e i voluminosi cassoni grigi di un sistema di smorzamento totale posizionato accanto alla paratia. Qualunque cosa si dovesse dire in quella riunione, stavano facendo tutto il possibile per evitare ogni intrusione. Lei e Atarin furono entrambi sottoposti a un controllo di identità completo, con analisi della retina, rilevamento delle impronte del palmo, ed esame del sangue. Poi le guardie li fecero passare. All'interno si trovava una sala conferenze di media grandezza, circondata da altro equipaggiamento di smorzamento; al centro, un gruppo di ufficiali era chino su un modello tridimensionale della Koskiusko. Oltre al capitano Hakin, Esmay conosceva già gli ammiragli Dossignal e Livadhi, almeno di vista, ma non aveva mai incontrato il capitano di fregata che le venne presentato come il capitano della Wraith, un uomo snello con i capelli grigi, o il suo secondo, il capitano di corvetta Frees. C'era un altro capitano di corvetta di nome Bowry, che non aveva le insegne di una nave ma un'insegna sul colletto che indicava la partecipazione a un corso avanzato nella Scuola Superiore. Che cosa stava succedendo lì? «Signori.» Questi era l'ammiraglio Dossignal, che adesso si era seduto a una estremità del tavolo. Esmay vide che erano stati assegnati i posti con tanto di targhetta con il nome sopra... il suo posto era vicino all'altra estre-
mità del tavolo. Si sedette assieme a tutti gli altri. «Come sapete» disse Dossignal, prima ancora che l'ultima sedia venisse riaccostata al tavolo «ci troviamo in una situazione difficile. Fra qualche minuto avrete la possibilità di esaminare in dettaglio la situazione, ma la prima cosa che dovete sapere è che siete tutti sollevati dai vostri precedenti incarichi. Siete assegnati, sotto il mio comando diretto, a una missione pericolosa e difficile; questo è il primo di una serie di incontri durante i quali pianificheremo l'esecuzione di questa missione.» Fece una pausa, come aspettandosi dei commenti, ma nessuno fu tanto imprudente da azzardarne. «Dovete anche sapere che il capitano Hakin non condivide lo scopo di questa missione, e ha intenzione di inviare una lettera di protesta. Io rispetto il suo coraggio morale nell'esprimere il suo disaccordo, e la sua lealtà, che gli hanno permesso di cooperare con questa missione nonostante non la condivida.» Esmay guardò il capitano, che nel corso di questo discorsetto era passato da un color porpora a un pallore estremo. «Mi assumo la completa responsabilità» continuò l'ammiraglio Dossignal «per ciò che sarà deciso in questa sede, e per tutte le conseguenze che ne deriveranno. Ho informato di questo il capitano Hakin, e la cosa è agli atti nel diario di bordo. È tutto chiaro?» Attese che tutti avessero annuito. «Bene. Ora: la nostra missione è di catturare una nave dell'Orda di Sangue e, avvalendosi di essa e della Wraith, difendere questa nave impedendo che venga catturata. Voi siete gli ufficiali destinati a comandare i diversi elementi coinvolti in questa missione, e quindi siete qui per pianificarla.» «Ma la Wraith è danneggiata» disse qualcuno, un capitano di corvetta di cui Esmay aveva già dimenticato il nome. «Esatto. I motori della Wraith sono stati smontati e non può manovrare. Ma può essere trainata fino ai pontoni di collaudo motori, da dove le sue armi possono venire impiegate contro le navi dell'Orda di Sangue, oppure contro la Koskiusko, a seconda delle necessità.» «Koskiusko...» mormorò qualcuno, ma abbastanza forte da farsi udire. «Se la cattura appare inevitabile, la Koskiusko deve essere distrutta. Le sue potenzialità non devono cadere nelle mani dell'Orda di Sangue, né questo deve accadere alle migliaia di tecnici esperti che ospita.» Esmay sentì il silenzio calare nella sala. Gli altri, immaginava, avevano già calcolato i fattori in gioco: l'Orda di Sangue non aveva mai liberato o
scambiato prigionieri, anche se alcuni, pochi, erano stati salvati da una prigionia terribile. E quindi una morte rapida, o almeno relativamente rapida, sarebbe stata preferibile alla schiavitù su uno dei pianeti del Mondo di Aeathar. Ma contemplare l'annientamento di così tanti di loro... «Noi crediamo, io credo, che ci sia la possibilità di difendere questa nave ed evitare queste morti» disse Dossignal. «Non è una certezza, ma è una possibilità. Voi siete le persone più adatte per cercare di concretizzarla. Non sappiamo quanto tempo ci resta, quindi vediamo di non sprecarlo.» E con quello la pianificazione della missione cominciò. Esmay non era mai stata coinvolta in quel genere di programmazione, e ascoltò, senza dire niente, chiedendosi quale sarebbe stato il suo ruolo. L'ammiraglio Dossignal spiegò brevemente quali erano le sue idee, poi assegnò a ciascun ufficiale un compito specifico. «Tenente Suiza» disse alla fine. «A parte l'equipaggio della Wraith, rispetto a tutti noi, lei ha l'esperienza di combattimento più recente, e per certi versi la più utile.» Esmay sentiva gli sguardi di tutti su di sé, e le mancò il fiato. «Signore, l'ammiraglio di certo sa che io sono solo...» Dossignal la interruppe. «Non è il momento di fare i modesti, tenente. Lei è l'unico ufficiale a nostra disposizione che abbia effettivamente combattuto dentro una nave spaziale. E ha comandato la Despite, con risultati notevoli. Non la incaricherò di comandare la nave nemica che speriamo di catturare, perché abbiamo un ufficiale con maggiore anzianità ed esperienza per questo, ma mi aspetto di poter fare assegnamento sulla sua esperienza in fatto di combattimento all'interno di una nave.» «Sì, signore.» «Al tempo stesso, credo che le squadre di sicurezza del capitano Hakin potrebbero trarre grande beneficio dalla sua esperienza...» Gettò un'occhiata al capitano, che tornò a farsi rosso in faccia. «Abbiamo delle unità ostili a bordo, e abbiamo già subito delle perdite. Finora la Sicurezza non è riuscita né a localizzarli né a prevenire i danni che hanno provocato.» «Se l'ammiraglio mi consente» disse Hakin, digrignando i denti «le mie riserve a proposito sono a verbale.» Rivolse un'occhiata di fredda antipatia a Esmay. «Comandante Seveche, lei sarà responsabile del distacco del T-4 dal mozzo centrale. Sarà sua cura studiare come nascondere i preparativi agli occhi degli intrusi, che sono sicuro stanno osservando tutto ciò che possono.» «Sì, signore. Credo che qualche piccolo intervento sulla gravità artificia-
le potrebbe darci la scusa...» «Lo lascio al suo giudizio. Se gli eventi dovessero precipitare prima che il distacco sia possibile, abbiamo bisogno di un piano di riserva. Oltre agli altri suoi doveri, tenente Suiza, voglio che lei e il comandante Atarin lavoriate con la Sicurezza della Koskiusko. Comandante Jimson, lei ha l'incarico di provvedere affinché si possano prelevare i materiali che ci servono dai magazzini senza che venga catturato dell'altro personale.» «Abbiamo bisogno di più gente impegnata nella Sicurezza» disse il capitano Hakin. «Verissimo, capitano. Se la può aiutare, sono sicuro che l'ammiraglio Livadhi può fornire una lista di individui impegnati nei corsi di istruzione che abbiano l'addestramento opportuno per rendersi utili, e che siano stati a bordo abbastanza a lungo da sapersi orientare.» «Ho già incaricato il comandante Firin di preparare un elenco» disse l'ammiraglio Livadhi. «Abbiamo ventotto studenti con una specializzazione secondaria in sicurezza di bordo, e altri trentaquattro che hanno lavorato nel campo della sicurezza in un modo o nell'altro durante gli ultimi dieci anni. Sono tutti autorizzati all'uso delle armi leggere a bordo. Inoltre, abbiamo più personale nei corsi avanzati di ricognizione di quanto ne serva per il resto della missione secondo l'ammiraglio Dossignal. Se può servire a migliorare lo stato della sicurezza...» «Sarò felice di poterli impiegare» disse il capitano, questa volta senza risentimento nella voce. «Devo ribadire che la situazione è grave e delicata» disse Dossignal. «Non sappiamo quanto tempo abbiamo prima dell'arrivo del gruppo di battaglia dell'Orda di Sangue, o quante navi conterrà, o come gli intrusi interferiranno con i nostri sforzi. Noi...» si fermò sentendo bussare alla porta. La sentinella di guardia sollevò le sopracciglia; Dossignal annuì e la guardia aprì la porta. Un uomo della Sicurezza dall'aspetto scarmigliato si rivolse direttamente al capitano. «Capitano, c'è bisogno di lei sul ponte, subito. Abbiamo un'emergenza.» «Scusatemi» disse Hakin, spingendo indietro la sedia. «Che genere di emergenza?» chiese Dossignal. La guardia guardò il capitano, che scrollò le spalle, irritato. «Glielo dica, caporale.» «Il sistema di conservazione di ossigeno di emergenza è scattato su una mezza dozzina di ponti del T-5, e ha ridotto in stato di incoscienza tutti
nell'infermeria e negli uffici amministrativi della nave. Due persone sono riuscite a scappare e a dare l'allarme.» «Sto venendo. Se mi scusate...» Non era una domanda. «Non ci avevo pensato» disse Dossignal. «E avrei dovuto. Non abbiamo esperienza in questo genere di situazioni. Tenente Suiza... crede di poterci anticipare... quali altri problemi dovremmo aspettarci?» Esmay cercò di concentrarsi. «Signore, se già non le hanno, cercheranno di procurarsi delle armi. Usando le sonde dati che hanno sottratto, possono scoprire dove si trovano i depositi di armi della Sicurezza, e se hanno una sonda dati di uno degli addetti, possono anche avere accesso ai codici per aprirli. Poi cercheranno di isolare e immobilizzare il maggior numero possibile di membri dell'equipaggio, probabilmente chiudendoli in qualche compartimento. È quello che gli alleati del capitano Hearne hanno cercato di fare a noi, sulla Despite. Qui, presumo che cercheranno di isolare le ali dal mozzo. Danneggeranno i sistemi che potrebbero fornirgli un controllo effettivo delle operazioni di bordo... i sistemi ambientali, compresa la ventilazione, come hanno appena fatto, i controlli dei portelli, le comunicazioni, il rilevamento. Ritengo che cercheranno di prendere ostaggi in posizioni cruciali... se sono stati in infermeria, avranno personale medico e rifornimenti, fra cui l'equipaggiamento per il controllo dei gas di bordo, e si assicureranno che non possiamo a nostra volta usare lo stesso trucco contro di loro.» «E la sua risposta sarebbe...» Le passarono per la mente in un lampo tutte le cose che sapeva sulle CRSP. «Le stesse tattiche funzionerebbero contro di loro se fosse il capitano a metterle in atto. Intervenire manualmente sui sistemi di supporto per rendere ciascun braccio indipendente per quanto riguarda il supporto vitale, come previsto nella progettazione originale, e poi isolare ciascun braccio. Saranno intrappolati, e in inferiorità numerica dovunque si trovino. Se non si trovano nel mozzo, non potranno più avere accesso al ponte di comando. Se si trovano nel mozzo non potranno rifugiarsi nelle ali, e la Sicurezza di bordo potrà cercarli sistematicamente, prima nel mozzo e poi in ciascuno dei bracci, fino a localizzarli. La sicurezza avrà bisogno di un sistema di comunicazioni separato, e protetto, perché dobbiamo partire dal presupposto che quello attuale è già stato compromesso.» «Ma se facciamo tutto questo, non potremo staccare il T-4» disse qualcuno. «E se arrivano le altre navi...» «Se veniamo tutti addormentati con un gas narcotico diffuso attraverso il
sistema di ventilazione» disse Esmay «non potremo staccare il T-4 comunque.» Ci fu un momento di silenzio mentre tutti ammettevano la verità di quel fatto, ed Esmay si rese conto che aveva appena insinuato, anzi, dimostrato esplicitamente, che un capitano di fregata aveva detto una stupidaggine. «Tenente Suiza» disse Dossignal. «Le ordino di occuparsi della Sicurezza del Quattordicesimo, in particolare dei bracci T-3 e T-4. Si tenga in contatto con la Sicurezza di bordo ma non esiti: faccia tutto quello che ritiene necessario. Atarin, chi ha da poterle assegnare?» La porta si aprì di nuovo; il capitano Hakin fece irruzione senza chiedere permesso o scusa. «Sono riusciti a entrare nella sezione Sicurezza; hanno le armi e le maschere antigas. Hanno gas lacrimogeni, probabilmente, e forse dell'altro.» Quasi unanimemente, le teste dei presenti si voltarono verso Esmay, che era ancora in piedi. «Come stavo dicendo» anche Dossignal si alzò in piedi, e tutti gli altri si affrettarono a imitarlo «il tenente Suiza ci è già passata, per una situazione simile, e ha correttamente anticipato le loro mosse.» «Sto per isolare i bracci» disse il capitano, come se Dossignal non avesse parlato. «Dovremo rendere autonomi i sistemi di supporto. Ho ordinato di chiudere i portelli di accesso a tutti i bracci tranne il T-1. Vi farò avere i nuovi codici, ma...» Ci fu un confuso scalpiccio all'esterno, seguito da uno sfrigolio come di qualcosa di bagnato che venisse lasciato cadere in una friggitrice. «Capitano!» gridò qualcuno da fuori. La guardia alla porta aprì e guardò fuori. Esmay si mosse prima di pensare: mentre il capitano stava per voltarsi, lo placcò, lo buttò a terra e urlò: «Chiudete!» Il capitano, imprecando, cercò di divincolarsi e di scalciarla via; Esmay lo lasciò, si rimise in piedi rotolando e tirò indietro la guardia dalla porta, chiudendola di forza... e tutto senza fare un respiro. «Cosa?!» cominciò Dossignal, ma si interruppe quando vide la guardia crollare a terra, il volto già grigio-bluastro. Il capitano si rialzò, furibondo e rosso in faccia. «Tu...» cominciò, poi ansimò e cominciò ad annaspare. «Tiratelo su» disse Esmay. «È più pesante dell'aria...» Se quelli non avevano pensato di disattivare la gravità artificiale. Se non facevano irruzione buttando giù la porta chiusa... Esmay raccolse l'arma della guardia e
la usò per far saltare il pannello di controllo interno della porta. Il capitano della Wraith e il suo secondo corsero ad aiutare il capitano della Koskiusko ad alzarsi da terra, adagiandolo sul tavolo. «Gas, presumo» disse l'ammiraglio Livadhi in tono di educata curiosità accademica. «Il ponte» ansimò il capitano, lottando per prendere fiato. «Dopo che saremo usciti di qui» disse Esmay. Cosa che preferibilmente sarebbe dovuta avvenire prima che gli intrusi scoprissero da dove arrivava l'aria in quella stanza e ci versassero semplicemente del gas. «Se riusciamo a uscire da questo compartimento, io sono in grado di suggerire una via d'uscita sicura, o abbastanza sicura, che ci permetta di andarcene» disse il comandante Bowry. «Nell'ultimo quarto dell'anno sono stato dappertutto, nel T-1.» «Il soffitto» disse Esmay. «O il pavimento, ma non so come ci si arriva là sotto.» «Potrebbe semplicemente aprirci un foro sparando» disse il capitano Hakin sarcastico. «Sarebbe uno spreco di munizioni» disse il capitano della Wraith, Seska. «Andremo verso l'alto.» Salì sul tavolo e spinse in su una delle piastrelle del soffitto. «Sì, proprio come in tutte le stazioni spaziali, anche se quella giusta è un po' più in là...» Ci volle molto più di quanto Esmay pensasse per far salire tutto il gruppo attraverso il buco nel soffitto; il capitano era ancora confuso e scoordinato, ed era difficile anche tirarlo su di peso. Esmay salì per ultima, sorvegliando la retroguardia con la loro unica arma, anche se sapeva che sarebbe stata del tutto inutile se gli intrusi avessero fatto irruzione. Ma non sarebbe successo. Lo sapeva con la stessa certezza che avrebbe avuto se avesse potuto leggere nei loro pensieri. Erano riusciti a isolare il capitano e tutti gli ufficiali superiori, e li avrebbero lasciati a cuocere nel loro brodo finché fosse stato possibile. In quel momento, mentre i secondi scorrevano, stavano affannandosi a provocare la maggior parte di guai possibili. Sarebbero tornati verso il mozzo, probabilmente, cercando di prendere il ponte di comando se già non lo avevano fatto. Nello spazio buio e irregolare fra le piastrelle del soffitto e il pavimento del ponte sovrastante, Esmay seguì gli altri, in questo caso il comandante Frees, e si disse che le sarebbe piaciuto sapere di più sul comandante Bowry. Davvero sapeva come uscire da questa sezione? E come avevano fatto a isolare le ali dal mozzo? Probabilmente era come quando si faceva-
no le esercitazioni antincendio, ma forse no, non lo sapeva di sicuro. Non c'era tempo per preoccuparsi di queste cose, però. Davanti a lei gli altri si erano fermati. Esmay si voltò su se stessa per guardare indietro, da dove erano venuti. Non si vedeva altro che una traccia indistinta del loro passaggio nella polvere. Qualcuno le toccò una gamba, e tornò a voltarsi; si stavano di nuovo muovendo, ma più lentamente. Dopo un minuto o due, si rese conto che gli ufficiali stavano scivolando giù, entrando in un passaggio. Quando fu abbastanza vicina, udì delle voci. «Per poco non ci hanno messo fuori combattimento tutti. E voi?» Era l'ammiraglio Livadhi, che sembrava più seccato che allarmato. La risposta fu un mormorio basso che non riuscì a seguire. Frees, davanti a lei, scivolò giù dall'apertura nel soffitto, afferrato da braccia servizievoli. Esmay si guardò alle spalle per l'ultima volta... ma chiunque avrebbe potuto facilmente seguire le loro tracce. Si voltò e si lasciò cadere con i piedi in avanti. Un paio di soldati con le insegne della Scuola Superiore rimisero a posto il pannello sul soffitto mentre lei guardava su e giù per il corridoio. A pochi metri di distanza, in entrambe le direzioni, c'erano guardie armate che sorvegliavano il passaggio. Uno di loro aveva un giubbetto corazzato e un casco; l'altro non aveva nessuna protezione. Esmay vide che c'erano delle aperture che davano su diversi compartimenti, ma nessuno si mosse per uscire in quella direzione. «Il capitano Hakin fa ancora fatica a respirare» disse Dossignal. «Qualcuno sa che gas hanno usato?» «Probabilmente SR-58» disse Bowry. «All'ospedale avranno l'antidoto, ma...» Esmay non sapeva niente sui gas volatili, ma dal tono aveva capito che la vita del capitano probabilmente era ancora in pericolo. «Non ci possiamo arrivare, fin là.» Un grido dall'estremità interna del corridoio li fece sobbalzare. Rapidamente ma senza panico si rifugiarono nel compartimento più vicino. Esmay si appiattì lungo la paratia e si augurò che anche i soldati di guardia avessero avuto il buon senso di sparire dalla vista. I passi si avvicinarono... più di una persona, pensò. Si fermarono fuori dall'apertura. «All'ammiraglio Livadhi piacciono i piselli e la zuppa di lenticchie» disse il nuovo arrivato in tono di normale conversazione. «Carlton» disse Livadhi, sorridendo. «Siamo qui, maggiore.» Il maggiore che entrò nel compartimento era carico di equipaggiamento;
sollevò le sopracciglia quando vide Esmay con la pistola spianata. «L'ammiraglio probabilmente vorrà indossare questo» disse, porgendogli un filtro per il naso. «Stanno usando gas narcotici...» «Hanno usato anche di peggio» disse Livadhi. «Il capitano Hakin s'è preso in faccia una zaffata di qualcosa che ha ucciso una guardia.» «Sì, signore. Ho con me dieci filtri, e il caporale Jasperson li sta distribuendo alle vostre guardie. Il comandante Bowry ci aveva suggerito di mettere al sicuro le cassette di pronto soccorso e i depositi di armi prima di andare alla riunione. Abbiamo equipaggiamento sufficiente per circa cinquanta persone. Giubbotti di sicurezza, caschi, comunicatori, armi. E medicine.» «Ben fatto. Dove avete lasciato il materiale?» «Per di qua, signore.» Il maggiore Carlton li condusse lungo un corridoio, poi svoltò lungo un altro, con due uomini che sorreggevano il capitano. Esmay vide altre guardie, tutte con maschere antigas e alcune con l'armatura. Si chiese dove stavano andando, e perché perdevano tempo ad andarci invece di cercare di uscire dal T-1 adesso, prima di venire intrappolati. Ma aveva un'arma, e così rimase nella retroguardia. La loro meta, alla fine, risultò essere una sala conferenze collocata fra i diversi laboratori di Ricerca Materiali Speciali. «Sistema di ventilazione separato, della bella armatura spessa tutto attorno... gli ci vorrà un bel po' per tirarci fuori di qui, abbastanza da permetterci di fare dei piani.» L'ammiraglio Livadhi si voltò verso Carlton. «C'è personale medico nel T-1?» «Sto facendo arrivare qualcuno che lavorava nella clinica di questo braccio; ma abbiamo solo quello che c'era nelle cassette di pronto soccorso, gli intrusi hanno distrutto la clinica.» Il capitano Hakin era svenuto già un paio di svolte, e a malapena riuscì a scuotersi dal torpore quando Livadhi gli parlò. «Capitano?» «Uhhh?» «Capitano, abbiamo un problema legale: lei è l'unico ufficiale della Koskiusko presente; non siamo in grado di metterci in contatto con gli altri, e dobbiamo organizzare la resistenza.» «Ma quale resistenza!» disse Dossignal. «Noi ci riprenderemo la nave.» «Bene... fatelo» disse Hakin. «Grazie, capitano; accetto il suo permesso di procedere.» Nel giro di pochi minuti, gli ammiragli si erano accordati sulla struttura di comando richiesta dall'emergenza, e sugli scopi da perseguire. Poi si misero a discutere di come riconquistare la nave.
«Dobbiamo far arrivare gli ufficiali esperti di combattimento che abbiamo nei T-3 e T-4» disse Dossignal. «È lì che abbiamo almeno una parte di una nave, ed è lì che con un po' di fortuna potremmo impadronirci di una nave dell'Orda di Sangue. Prima riusciamo a far arrivare la gente giusta sul posto per occuparsi di questa missione, meglio è.» «Passando per le porte a prova di esplosione e di fuoco?» «E in quale altro modo?» «Se sono intelligenti, e se hanno abbastanza uomini, staranno sorvegliando tutti i punti di accesso.» «Non li hanno» disse Esmay, con sicurezza. «Erano solo in venticinque in infermeria.» «Ma non è una squadra completa: di solito mandano un branco triplo, tre decine.» «Vuol dire che ce ne sono sfuggiti cinque?» «No... potrebbero essere morti a bordo della Wraith. Non abbiamo tempo di entrare nei compartimenti schiumati a controllare. Ci saranno anche le loro armi e il loro equipaggiamento, lì dentro, probabilmente.» «Ma il punto è che non sono in grado di sorvegliare ogni possibile accesso. Allora dobbiamo capire dove si metteranno esattamente.» «Dove possono mantenersi in contatto gli uni con gli altri, per potersi venire in soccorso» disse Bowry, «Se sono andati a impadronirsi del ponte, e al posto loro è questo che farei, vuol dire che sorveglieranno il ponte Undici, dove pensano che noi potremmo cercare di arrivare per prendere le armi conservate nei depositi della Sicurezza, e il ponte Diciassette.» «Allora... proviamo il ponte Otto» disse Dossignal. «Il comandante Takkis può introdursi nel mozzo, verso il centro di comando secondario, e assicurarsi che non possano controllare i motori FTL. Il resto di noi...» «Come noi? Tu non ci vai là fuori.» «Ma certo che sì. Il mio posto è nel Quattordicesimo, con la mia gente.» Nel percorso fino al ponte Otto non videro traccia degli intrusi. La maggior parte della gente che incontrarono erano personale o studenti dell'Addestramento al Comando, della Divisione Scuola Tecnica Superiore. Mescolati fra loro alcuni membri dell'equipaggio della nave, per lo più guardie della Sicurezza, e ricercatori di Materiali Speciali. Rimanevano a guardare a bocca aperta mentre il gruppo di ufficiali con maschere antigas e armatura li superava. Quando uscirono dalla tromba delle scale, il ponte Otto sembrava stranamente tranquillo e silenzioso. Esmay, che apriva la strada, si fermò di
colpo quando vide il primo corpo che giaceva a terra. «Guai» mormorò Seveche, dietro di lei. «E non sappiamo se si tratta di gas o di qualcos'altro» disse Esmay. Non c'erano vie alternative per arrivare dalle scale alle porte antifuoco; fece un respiro e avanzò con tutta la prudenza di cui era capace. «Morti da qualche ora» disse Seska quando arrivarono all'altezza del corpo. L'uomo aveva le insegne della Sicurezza di bordo sulla manica, e un angolo era scucito, dove qualcuno aveva cercato di strapparle, per poi rinunciare al tentativo. «Forse è stato uno dei primi a morire» disse Dossignal. «E poi chi lo aveva attaccato ha incontrato gli altri...» Esmay avrebbe preferito che stessero zitti. Non sentiva o vedeva niente di sospetto. Arrivata alla prima apertura, guardò dentro un compartimento. Cinque corpi giacevano in terra, altri stavano penzoloni sulle sedie o si appoggiavano sulle scrivanie... il suo stomaco si ribellò e riuscì solo con uno sforzo a rimandare giù il vomito. Chiunque fosse passato di lì era rapido nell'uccidere. Arrivati vicini al mozzo, videro il muro che li separava dal resto della nave. Esmay sapeva che non si trattava di una semplice paratia, ma di un ostacolo robusto quanto lo scafo stesso, capace di resistere alla pressione se l'ala si fosse staccata. E dall'altra parte ce n'era uno simile; due spessori di scafo esterno fra loro e il mozzo. Una volta che quelle barriere venivano chiuse, l'unico modo di superarle era usare dei codici di accesso speciali che aprivano dei piccoli portelli stagni nelle paratie di sicurezza. L'ammiraglio Dossignal digitò il codice mentre gli altri stavano a guardare. Il portello rimase immobile. Dossignal tentò ancora; di nuovo il portello non si aprì. «Comandante Seveche» disse. «Lei ha sentito il capitano quando ci ha comunicato il codice?» «Sì, signore.» «Allora provi lei; forse io non ricordo bene.» Anche Seveche digitò il numero, ma il portello non si aprì comunque. «O il capitano non si ricordava la sequenza giusta, o hanno trovato il modo di cambiare il codice» disse Dossignal. «Oppure l'ha cambiato qualcuno dal ponte, magari temendo che gli intrusi l'avessero scoperto» disse Seveche. «Per noi è lo stesso» disse Dossignal. «Insomma... ci deve essere un altro modo di passare.» Seveche grugnì. «Non senza l'equipaggiamento speciale, che abbiamo
solo nella nostra sezione, signore. Due paratie dello spessore di uno scafo... potremmo riuscire a farcela con una, magari, con gli strumenti giù a Ricerca Materiali Speciali, ma non due.» «Come stiamo a comunicazioni?» «Siamo in comunicazione con l'ammiraglio Livadhi in cuffia; per adesso non sono riuscito a raggiungere nessun altro nel resto della nave. È normale, con le ali isolate. Avremmo bisogno di più potenza.» «Se non possiamo attraversare dall'interno, che cosa mi dite dell'esterno?» chiese il capitano Seska. «Stesso problema: attraversare lo scafo.» «Nei T-3 e T-4 ci sono portelli stagni su ciascun ponte» disse Seveche. Aveva proiettato una mappa del T-1 su una paratia e la stava esaminando, ponte dopo ponte. «Questo qui invece non sembra pieno di portelli. C'è quello all'estremità dell'Unità di Produzione di Materiali Speciali, naturalmente, ma...» «Il T-1 è stato progettato per essere al sicuro da interferenze esterne» disse Dossignal. «E quindi dovremo ritornare all'Unità di Produzione e sperare che nessuno si faccia venire delle idee. D'accordo, ma quando la progetterò io una CRSP, farò delle modifiche.» «Qui ci sono modifiche a bizzeffe, è questo il problema.» Dossignal guardò il suo gruppo. «Sarà meglio uscire, allora. Penso che a questo punto possiamo dare per scontato che tutti gli intrusi siano da qualche altra parte, probabilmente nel mozzo. Seguitemi.» E partì, meravigliando tutti con la sua fretta. Esmay intercettò un'occhiata che passò fra il capitano Seska e il suo secondo, da cui intuì che erano scontenti quanto lei della ferma convinzione dell'ammiraglio che non ci fosse bisogno di preoccuparsi degli intrusi. «Per fortuna è su questo stesso ponte» disse Dossignal. Esmay avrebbe tanto voluto che rallentasse un po' e lasciasse che la scorta lo precedesse. «Ammiraglio» disse Seveche dopo qualche metro. «Signore, aspetti...» Dossignal rallentò e si voltò. «Mari, ecco...» ansimò e barcollò. Esmay si rese conto di essersi buttata a terra solo quando si scontrò con il pavimento. Anche Seska, Frees e Bowry avevano fatto lo stesso; gli altri rimasero in piedi dove si erano fermati, guardandosi attorno. «Giù!» urlò Seska, e tutti gli altri si buttarono giù. «Ammiraglio?» «Vivo» grugnì Dossignal. «E fortunato.» Esmay guardò, oltre Dossignal, lungo il corridoio, cercando di indovina-
re da dove erano arrivati i colpi, e che tipo di arma era stata usata. Non aveva sentito nulla fino al momento dell'impatto. «Molto fortunato» confermò Seveche, strisciando in avanti. «Ma non per molto» disse una voce tranquilla; la figura che uscì in corridoio era molto più vicina di quanto Esmay aveva calcolato, e carica di armi. «Buttate...» Esmay sparò ancora prima di rendersene conto; il colpo dell'intruso rimbalzò sulla paratia e la sua raffica lo aprì dal collo all'anca. Qualcuno, non l'intruso, urlò. Lei ignorò l'urlo e si costrinse ad alzarsi e ad avanzare, superando l'ammiraglio Dossignal, camminando oltre il sangue e i tessuti schizzati dappertutto, per controllare da dove era uscito l'intruso. Era un piccolo compartimento tutto occupato da scaffali su cui si trovavano articoli di cancelleria, ed era ormai completamente vuoto. «... due feriti» stava dicendo Seveche in cuffia. «Ponte Otto, corridoio principale...» «Tu sei quella dell'ammutinamento» disse il capitano Seska a Esmay. «Sì, signore.» «Gran bei riflessi. Secondo me questo è rimasto isolato quando si sono chiuse le paratie; se avesse avuto un compagno, a questo punto lo avremmo già saputo.» Esmay ci pensò. «Ha ragione, signore.» Non riusciva a vedere nulla, o a sentire nulla, oltre ai rumori che facevano loro. «Però potremmo mettere l'ammiraglio al riparo in quello sgabuzzino. Giusto per precauzione.» Quando arrivarono i soccorsi, avevano portato entrambi i feriti nello sgabuzzino, con Esmay e il secondo della Wraith, il comandante Frees, che stavano di guardia. Dossignal continuava a sostenere di stare bene, che avrebbero dovuto proseguire senza di lui, e una volta arrivati gli altri, ne fece un ordine esplicito. «Non sono tanto stupido da pensare di poter venire con voi, vi rallenterei e basta, ma voi qui non potete fare niente di utile, e laggiù invece potreste salvare la nave. Ho dettato degli ordini per il Quattordicesimo... tenente Suiza, quando arrivate consegni questo all'ufficiale di grado più avanzato che trova sul posto. E adesso andate.» 17 Il primo ostacolo lo incontrarono quando raggiunsero l'area di accesso
dell'Unità Fabbricazione Materiali Speciali. «Non potete andare di là! È in funzione... ci sono novanta metri di baffi nel tamburo, in questo momento...» Il supervisore di turno all'Unità Fabbricazione Materiali Speciali era un sottocapo solido e coi capelli grigi, che non si faceva certo intimidire da una cosa di nessuna importanza come quattro ufficiali. «Dovete avere il permesso del comandante Dorse, e lui non...» «Si faccia da parte, o là dentro oltre a novanta metri di baffi ci saranno... a occhio, direi un metro e settanta di carne umana.» Seska, che ormai non chiedeva altro che di tornare a bordo della sua nave, non era più arrabbiato soltanto con l'Orda di Sangue, e non era più dell'umore di formulare richieste educate, anche se era così che aveva cominciato. «L'ammiraglio Dossignal mi ucciderebbe se vi facessi entrare lì dentro a rovinare l'intera produzione...» «No... l'Orda di Sangue la ucciderebbe. L'ammiraglio si limiterà a degradarla a soldato semplice e darle vent'anni di lavori forzati se non si... toglie... dai... piedi.» «L'Orda di Sangue? Che c'entra l'Orda di Sangue?» «Ma non ha sentito niente?» Esmay si fece avanti, cercando di mostrarsi gentile e sincera. «No, non ho sentito niente. Sono cinque ore che sorveglio la lavorazione dei baffi e il mio cambio non si è fatto vedere e...» Esmay abbassò la voce. «C'è un commando dell'Orda di Sangue che si aggira per la nave, e il suo cambio probabilmente è morto. L'unico modo che abbiamo di combatterli è di uscire dal T-1 e l'unico modo di uscire dal T-1 è passare di là. Le suggerisco di lasciarci passare e quando saremo passati sani e salvi, faccia passare l'Orda di Sangue, se si fanno vedere. Poi tagli il fascio.» «Ma così si sprecherebbero novanta metri di baffi...» «Mi scusi» disse Frees, che era un po' di lato. L'uomo voltò la testa, ed Esmay lo colpì con tutte le sue forze con la sua pistola. Avrebbe anche potuto ucciderlo con un colpo così forte: in quel momento, non le importava proprio. Barricarono come meglio poterono il portello che conduceva al passaggio, e si infilarono rapidamente nelle tute stagne che trovarono in un armadietto apposito poco lontano. Controllarono ciascuno la tuta dell'altro prima di aprire il portello che conduceva alla camera di compensazione che isolava l'Unità Fabbricazione Materiali Speciali dalla gravità artificiale
della nave. All'interno c'era una passerella in griglia metallica lunga dieci metri, che conduceva a un altro portello. Lungo entrambe le paratie correvano dei tientibene, assicurati ad anelli spaziati di mezzo metro l'uno dall'altro. Entrarono, chiusero il portello dietro di loro, e programmarono Entrata Depressurizzata. Davanti a loro una luce diventò verde, e cominciarono a percorrere la passerella. Esmay si sentiva diventare più leggera a ogni passo, come se stesse camminando in un'acqua che si faceva sempre più profonda. Nell'ultimo metro la forza dei suoi passi la fece sollevare del tutto dalla passerella, con i piedi che tendevano a rimanere indietro, attirati dalla flebile attrazione gravitazionale della massa della Koskiusko. Afferrò il tientibene, e sperò che il suo stomaco si decidesse a risistemarsi nella sua pancia. «Odio la gravità zero» disse Bowry. «Io odio l'Orda di Sangue» disse Seska. «La gravità zero è solo una seccatura.» Fecero completare il ciclo alla seconda camera di compensazione, e uscirono in un lungo tubo scuro illuminato solo dalla luminosità diffusa, porpora e verde, della vasca di crescita. Sembrava che continuasse all'infinito, restringendosi in lontananza in una punta sottile sottile. Qui Esmay non sentiva più alcuna traccia di attrazione gravitazionale. Lo stomaco strisciava viscido su verso la gola quando si muoveva in una direzione, e rotolava giù lungo la spina dorsale quando si muoveva nell'altra. Cercò di concentrarsi su quello che la circondava. Lungo un lato correva un camminamento stretto, con una rotaia sopra. «Ricordatemi di nuovo che cosa succede se disturbiamo i baffi in coltivazione» disse Seska. «Si spezzano e ci impalano sulle schegge» disse Bowry. «Allora non li disturberemo» disse Seska. «Riduciamo al minimo le vibrazioni, e così le variazioni di temperatura... scivoliamo lungo la rotaia. Non vi agitate, non cercate di guardarvi attorno. Rilassatevi... così.» Esmay lo osservò circondare con le dita guantate la rotaia, dolcemente, e darsi una spinta. Scivolò via... e via... e svanì nell'oscurità. Esmay notò che si era spinto con molta precisione proprio lungo l'asse del movimento che voleva; le gambe lo seguivano, fluttuando dietro di lui. «Spero che ci sia un fermo all'altra estremità di questa cosa» disse Frees, e lo imitò. «Tenente, stavolta tocca a me chiudere la retroguardia» disse Bowry. Esmay afferrò la rotaia con le dita, lasciandole lente quel tanto che, spera-
va, era necessario, e si spinse via con un calcio. Era una sensazione strana. Si sentiva trascinare via senza sforzo, come se fosse la rotaia stessa a muoversi, e non vedeva nulla se non un fioco riflesso verde e porpora sulla paratia, una lunga sfocata striscia di qualcosa che non era propriamente colore. Quando rallentò, all'inizio non se ne rese conto. Poi la striscia sfocata sembrò fermarsi... a un certo punto le sembrò del tutto ferma. E adesso? Se si fosse mossa violentemente, avrebbe potuto andare a sbattere contro la paratia e disturbare i baffi. Si mosse piano piano, alzando una mano per tenersi alla rotaia, poi si voltò verso la direzione da cui era venuta. Lontano, ormai, vedeva la piccola costellazione di luci del portello da cui era partita. Più vicino, qualcosa stava venendo verso di lei, scivolando lungo la rotaia... troppo veloce. Se Bowry l'avesse colpita, sarebbero andati entrambi a sbattere contro la paratia, se non peggio. Afferrò la rotaia e si spinse, mano dopo mano, cercando di trascinarsi senza che il suo corpo si torcesse. Non poteva guardare e al tempo stesso muoversi, non se voleva evitare di piegarsi. E poi non voleva andare troppo veloce: non sapeva ancora quanta strada aveva da fare. Di tanto in tanto alzava lo sguardo, cercando di adeguare la sua velocità a quella di Bowry... e quando lo vide rallentare, rallentò anche lei. Da qualche parte, davanti a lei, c'erano gli altri. Non voleva andare a sbattere neanche contro di loro. «Piano, ora» sentì. Sperava che anche Bowry lo avesse sentito; ma non guardò, si limitò a sporgere il braccio per frenarsi. Le sue gambe deviarono di lato, ma riuscì a irrigidire il torso e a evitare di colpire la paratia. Quando tornò a voltarsi per guardare in avanti, vide l'estremità tondeggiante dell'Unità di Fabbricazione, e il grosso portello circolare che serviva per trasportare fuori i materiali di cui era stata terminata la lavorazione. Di lato a questo c'era un piccolo portello per il personale. Come mai avevano dei portelli, qui, quando l'unica ragione di esistenza della Fabbricazione Materiali Speciali era il vuoto spinto e l'assenza di gravità? La risposta le venne in mente non appena ebbe formulato la domanda: ovviamente non volevano che i detriti eventualmente presenti nello spazio entrassero nell'unità. Il portello era manuale, con un controllo di apertura semplice: bisognava solo impiegare una certa forza fisica per farlo ruotare. Poi si trovarono all'esterno, appesi a maniglie e appigli che Esmay riteneva fosse davvero un'esagerazione chiamare "apparati di sicurezza". Accanto a questi c'erano
una serie di agganci per la comunicazione e il rifornimento di ossigeno. «Riempite i serbatoi» disse Seska. Esmay si era quasi dimenticata che si trattava di una precauzione di routine. Guardò gli indicatori della sua tuta; sembrava stupido sprecare adesso del tempo per pochi punti percentuali di ossigeno. Ma gli altri si erano tutti collegati; mentalmente, Esmay scrollò le spalle, e infilò nel connettore anche il suo tubo ausiliario. La sua tuta emise un segnale acustico quando la pressione ebbe raggiunto il massimo, e lei staccò il tubo. Seska aveva agganciato il cavo di sicurezza alla prima maniglia e cominciò a spingersi via, risalendo l'estremità dell'Unità di Fabbricazione e seguendo i sostegni arcuati del sistema di trasporto dei baffi finiti. Esmay si trovò di nuovo a seguire Frees, con Bowry dietro, fermandosi per sganciare e riagganciare il cavo ogni volta che trovava un ostacolo. Quando arrivarono alla superficie superiore, rispetto alla rotaia di trasporto dei baffi, Seska fece una pausa. Da lì, le dimensioni della Koskiusko impressionarono Esmay come la prima volta che l'aveva vista. Anche da sola, l'Unità di Fabbricazione era più grande della maggior parte delle navi da guerra, e come loro era verniciata di nero opaco, e tempestata di bitorzoli lucidi, i generatori degli scudi. Appena oltre si ergeva la parete esterna, spigolosa, del T-1, nera contro il cielo stellato, e solo la rotaia di trasporto luccicava debolmente lungo lo spigolo. «Controllo» disse Seska. «Due.» «Tre.» «Quattro.» Esmay rabbrividì. Erano solamente in quattro, soli là fuori su una nave così grande che non riusciva nemmeno ad abbracciarla tutta con lo sguardo... «Seguiremo la rotaia di trasporto» disse Seska. «Ci risparmierà tempo.» Nessuno accennò a quanto ossigeno gli era rimasto: non ce n'era bisogno. Esmay vide dagli indicatori della sua tuta che avevano impiegato venti minuti per passare i diversi portelli, attraversare il lungo tunnel dell'Unità di Fabbricazione, e arrampicarsi fin lì. E adesso dovevano rifare lo stesso percorso al contrario, attraversando tutta la lunghezza della nave, trovare il modo di arrivare a uno dei portelli stagni che davano sul cantiere del T-3. Se fossero stati all'interno, a camminare lungo i ponti, anche dovendo correre su e giù per delle rampe di scale, avrebbero potuto farcela comoda-
mente entro i limiti di autonomia di un serbatoio di ossigeno. Ma là fuori? Non importava: dovevano farcela. Seska agganciò il suo cavo di sicurezza alla rotaia e si spinse. Tutti lo seguirono. Esmay si era chiesta spesso fin dove arrivasse, oltre lo scafo, la gravità artificiale. Mentre superavano lo spigolo del T-1, con la cupola del ponte di comando davanti a loro, non sentiva nulla... ma quando guardò in basso, le sue gambe erano orientate all'indietro, verso la superficie. La rotaia di trasporto passava proprio sopra la cupola che ricopriva il mozzo della Koskiusko, e se non fosse stata tanto impaziente e spaventata, Esmay pensò che lo spettacolo le sarebbe piaciuto moltissimo. I cinque bracci con le loro estremità arrotondate si aprivano tutto attorno a loro, e la cupola del mozzo in sé era tempestata di generatori lucidi e di una serie interminabile di alberi per la strumentazione retrattili, che servivano per le comunicazioni e il rilevamento a distanza. Cercò, ma senza riuscire a trovarle, altre sagome di navi sopra di sé. La loro scorta era da qualche parte là sopra... ma le navi che la componevano erano troppo distanti per poterle distinguere. Era facile perdere la cognizione del tempo in quella lunga traversata nelle tenebre. I numeri luminosi all'interno del suo casco contarono i decimi di secondo, e poi i secondi, quindi i minuti. Esmay non cercò con lo sguardo l'indicatore dell'ossigeno; se scendeva troppo, o troppo in fretta, questa volta non ci sarebbe stata una servizievole squadra di artificieri pronta ad agganciarle dietro un'altra bombola. «Guai in vista.» Era Seska: Esmay guardò nella sua direzione. Dietro di lui il cielo stellato, all'improvviso, si era mosso. Un gelo tremendo le pietrificò la mente, ma nel momento in cui Seska disse: «Stanno manovrando» lei lo aveva già capito. Qualcuno aveva deciso di ruotare la nave... e non poteva essere il capitano. Dovevano essere gli uomini dell'Orda di Sangue, che avevano assunto il controllo del ponte di comando. Si intimò di non cedere al panico. Si ricordò che nonostante l'apparente solidità e immobilità della Koskiusko, la nave non era mai stata veramente ferma: come tutte le navi, si muoveva, sempre, e non era più probabile che venisse sbalzata via adesso con la nave in propulsione di quando era mossa solo dalle leggi della fisica. La Koskiusko non era una nave da guerra: non poteva sviluppare neanche l'accelerazione di cui era capace il più anemico cargo civile con i propri motori intrasistema. La voce di Bowry, ostentatamente disinvolta, interruppe i suoi pensieri.
«Tenente, lei saprebbe mica dire se i motori FTL sono irreparabilmente guasti?» I motori FTL. In quel momento capì che cosa stavano per fare quelli dell'Orda, e si prese mentalmente a sberle per non averlo visto prima. Ma certo, avrebbero portato la loro preda al sicuro da ogni tentativo di soccorso prima di aprirla, come una ghiandaia con una noce. «No, signore» disse a Bowry. «Motori e Manovra pensavano che probabilmente si trattava di sabotaggio, ma la sequenza di salti avrebbe anche potuto far saltare qualcosa da qualche parte.» «Quelle scorte potrebbero anche fare qualcosa di utile a questo punto» disse Seska. «Come spararci addosso, appena vedono che ci muoviamo.» Esmay si era dimenticata anche delle scorte. La bocca le diventò completamente secca. Eccola qui, appesa fuori da una nave spaziale in movimento, a cui probabilmente avrebbero sparato addosso da un momento all'altro... la tuta le sembrava offrire la stessa inviolabile protezione di un fazzolettino di carta. «A meno che non sia il nostro equipaggio che sta manovrando, e siano in contatto con loro.» Però Bowry non sembrava molto fiducioso che le cose stessero proprio così. «È possibile che si stiano allontanando dal punto di salto e avvicinando alle scorte.» «No...» Questo era Frees. «A me sembra che ci stiamo dirigendo verso il punto di salto, ma con un diverso vettore... senza il computer di navigazione non posso esserne sicuro, ma... non aveva quattro vettori di allontanamento, questo punto di salto?» «Sì» disse Seska. «Non riesco a calcolare l'avvicinamento, ma probabilmente hai ragione, Lin. Siamo a meno di mezz'ora dal salto, direi, e a molto più di mezz'ora da qualunque punto dal quale possiamo entrare nella nave. Sarà interessante... peccato non avere modo di registrare l'esperienza. Saremo i primi a morire per avere attraversato un salto senza protezione.» «Il commando è sopravvissuto» disse Esmay, sorprendendosi ancora. A questo seguì un lungo silenzio: probabilmente gli altri stavano guardando il cielo fare la ruota sopra di loro, confermando che la Kos si muoveva spinta dai suoi motori. «Erano dentro la Wraith» disse Seska. «Ma lo scafo era aperto e gli scudi di prua danneggiati. Gli scudi FTL della Kos invece funzionano perfettamente.» Non sapeva nulla della tecnologia degli scudi, a parte il fatto che tutte le navi capaci di FTL li possedevano. «Se riusciamo a scendere da questa rotaia e arrivare sullo scafo...»
«Buona idea, Suiza.» Ci volle quasi mezz'ora per scendere, sganciando e riagganciando i cavi di sicurezza, dall'arco liscio della rotaia di trasporto materiali fino allo scafo. Laggiù, per la prima volta, Esmay avvertì attraverso gli stivali una leggera spinta laterale, ulteriore prova che la Kos si stava muovendo da sé, contrastando l'inerzia della sua precedente traiettoria. Arrivarono fino a circa due terzi della cupola del ponte, che nascondeva con la sua curvatura sia il T-1 sia tutto Materiali Speciali, tranne la punta dell'Unità di Fabbricazione. All'improvviso, dietro di loro ci fu una luce, un lampo che si trasformò in un bagliore sopra le loro teste. Esmay si piegò istintivamente, e alzò lo sguardo. La rotaia di trasporto materiali, nel punto più alto della sua curvatura, era avvolta da un vapore fiammeggiante, e dei pezzi si staccarono, lasciandosi dietro una scia fumante. «Vediamo» disse Seska. «Adesso siamo fuori dallo scafo di una nave che si sta dirigendo verso un salto e qualcuno ci sta sparando addosso. Dov'è il regista del cubo di avventura?» «Sull'altra nave scorta, ovviamente» disse Frees. «Per questo non ci stanno ancora sparando addosso.» «Mi verrebbe da chiedermi cos'altro può andare storto, ma non vorrei dare qualche idea all'universo» disse Bowry. Esmay sorrise. Si rese improvvisamente conto che questa era un'altra delle cose che le erano tanto mancate... l'umorismo che le piaceva tanto. «Se si trovano alla distanza standard, non possono puntare su di noi le armi di massa prima che riusciamo a saltare» disse Seska. «E solo una delle navi scorta ha sparato, no? Altri due colpi diretti e saranno scarichi, e poi saremo scomparsi.» «Sempre che l'altra non decida di friggerci» disse Bowry. Di nuovo luce, e il resto della rotaia si staccò come una buccia. «Bella mira, ma esauriranno tutta la loro provvista di energia se non ci lasciano andare.» All'improvviso tutto si fece buio: Esmay sbatté le palpebre e le stelle ritornarono. «Se quell'altra avesse voluto sparare, l'avrebbe già fatto. Quello che ho sentito dire, alla prima riunione, era che una delle scorte stava cercando una scusa per andarsene e che probabilmente sarebbe saltata via fingendo di andare a cercare aiuto.» «Ma è diserzione...» disse Frees. «No, è pararsi il culo» disse Bowry. «Come li odio, quelli prudenti.» «Tutto bene, tenente?» chiese Seska. Non era preoccupato, voleva solo essere sicuro.
«Benissimo, signore» disse Esmay. «Sto cercando di ricordare se c'è un accesso alla nave da queste parti.» Perché anche se fossero riusciti a sopravvivere al salto stando fuori dalla nave, avrebbero finito l'ossigeno prima che fosse terminato. Anche un salto molto corto durava molti più giorni della scorta d'aria di una tuta. «Buona idea» disse Seska. «Entriamo e li stendiamo?» «No, signore... non in quattro, e con armamento leggero. Stavo pensando che potremo semplicemente stare nella camera di compensazione, con il portello esterno aperto in modo che nessuno possa entrare da dentro, fino a che non usciamo dal salto. Poi possiamo proseguire.» «Potrebbe funzionare» disse Seska. «Possiamo usare...» La Koskiusko entrò nella transizione di salto con un sussulto, un tremito e una vibrazione sinistra che dalle piante dei piedi di Esmay le risalì fino alle cartilagini del volto. Le stelle erano scomparse. Non vedeva nulla al di là dei numeri dentro il suo casco e anche quelli sembravano molto strani. La radio era muta, un silenzio nero come il buio che aveva attorno. Sotto di lei la vibrazione continuava, sbagliata, dannosa per la nave, per la giuntura fra nave e braccio, fossero usciti dall'FTL in un punto non cartografato dello spazio... Esmay strinse convulsamente le maniglie a cui era appesa, cercando di allontanare con il ragionamento il panico che provava. Certo che era buio: erano più veloci della luce. E anche se gli indicatori erano strani, almeno poteva ancora vederli. L'ossigeno, per esempio, le diceva che aveva ancora due ore... ma mentre guardava, nessuno dei numeri cambiò. L'indicatore del tempo passato nella tuta era fermo, pietrificato. Non conosceva molto bene la teoria del volo FTL: ne sapeva pochissimo, a parte che non c'era modo di stabilire dove e quando erano le navi quando svanivano da un punto di salto e ricomparivano (più tardi, si sarebbe detto se fosse esistita una cosa come un tempo assoluto, cosa che non era) da qualche altra parte. Il volo FTL non era istantaneo, come le trasmissioni ansible; il tempo trascorso a bordo poteva andare da qualche ora a qualche giorno a - nel caso del volo più lungo di cui si abbia memoria - un quarto di anno standard. All'interno dello scafo e degli scudi FTL, gli orologi funzionavano. Qui... si costrinse a respirare, il che di per sé non la rassicurò. Stava respirando: sentiva un lieve movimento dell'aria sulle guance. Ma il cronometro della tuta non funzionava, il che voleva dire che non teneva conto dell'ossigeno che stava consumando, e di conseguenza che poteva finire senza che lei se ne rendesse conto.
Ma era meglio saperlo quando stavi per finire l'ossigeno? Cercò di non pensarci e rifletté invece sul venire meno delle comunicazioni. Le luci e gli interfonici funzionavano perfettamente a bordo di una nave impegnata in un volo FTL... perché non qui, se erano all'interno degli scudi? E se non erano dentro gli scudi... Dagli altoparlanti venne una specie di basso muggito, come una vacca persa nei pascoli in una notte di primavera. Esmay non riusciva a capire cosa potesse essere, fino a che non terminò in un sibilo. La sua mente ricostruì i diversi suoni come componendo un puzzle; avrebbe potuto essere una parola, molto rallentata. Cercò di immaginare che parola potesse essere, ma a quel punto si udì un penetrante, tremolante urlo. Esmay regolò uno dei controlli della tuta, diminuendo il volume: almeno quello funzionava. Ma se i sistemi di comunicazione non funzionavano, potevano perdersi tutti... Qualcosa picchiò sulla parte posteriore del suo casco; si voltò, cautamente. Doveva essere uno degli altri. Ancora un colpetto. Adesso sentiva una voce, la voce di Seska, oltre a un leggero raschiare dove i loro caschi si sfregavano. «Le radio non funzionano. Dobbiamo toccare i caschi. Aggancia.» Le diede un colpetto sul braccio, ed Esmay si ricordò del cavo di sicurezza. Ma certo. Esmay accese la lampada sul casco, e guardò, meravigliata, la luce che colava lentamente - lentamente - in basso, come una colla da un tubetto. Quando raggiunse lo scafo, formò una sagoma i cui bordi tremolavano incerti, marezzati, di colori strani. Sfortunatamente, non illuminava alcun segno distintivo, nessuna indicazione di dove potesse trovarsi un portello. «... Suiza?» Se la luce si muoveva lentamente, allora lo stesso sarebbe successo alle onde radio, distorte da qualunque cosa un motore FTL faceva allo spazio e al tempo. A Esmay sembrava di svegliarsi da una lentezza simile, come se il suo corpo fosse prigioniero della velocità della luce, e fosse rimasto indietro. «Qui» disse a Seska. Chinò la testa, e il fascio di luce proveniente dal suo casco si piegò lentamente, ondeggiando con il movimento. Porse l'estremità del cavo alla mano guantata che era comparsa nella luce. «... conosco qualcuno che dopo un'occhiata qua attorno passerebbe il mese prossimo in una trance matematica cercando di spiegarlo.» Era un'altra voce, più flebile, ed Esmay capì che doveva essere trasmessa da elmet-
to a elmetto, da qualcuno che si trovava sull'altro lato di Seska. «Frees collegato. Bowry collegato.» «... portello? Il cronometro non funziona.» Anche gli altri avevano capito che cosa voleva dire quel fatto. Dov'era il portello più vicino? Fissò nelle tenebre, cercando di ricordarsi com'era fatta quella parte della nave, di costruire un modello a partire dai primi giorni che aveva passato a bordo, quando aveva studiato com'era fatta la Kos. C'era un portello per l'evacuazione di emergenza del personale del ponte di comando, alla base della cupola, dall'altra parte del T-1, il che voleva dire sulla loro strada e a un quarto d'ora di cammino, più o meno, da dove si trovavano. Nel buio non era sicura da che direzione erano venuti, ma la lieve dispersione di gravità dallo scafo l'aiutava a stabilire dov'era il basso. «Seguitemi» disse, e indicò in basso con il casco. Il fascio di luce si piegò come acqua da una pompa da giardino in movimento, e andò a tremolare più o meno nella direzione giusta. Esmay si incamminò seguendolo, rendendosi conto con una certa inquietudine che avrebbe anche potuto superare la sua sorgente di illuminazione. Proprio come quei capitani idioti, di cui ti insegnano all'Accademia, che portano la loro nave con un microsalto in avanti e si friggono con le proprie armi. Guardò di lato, senza muovere la testa, e vide altri fasci di luce, come il suo ma di colori leggermente diversi... sentì qualcuno che le toccava la schiena. «... ti seguiamo» disse Seska. «Resta in contatto diretto.» Esmay avanzò cautamente da un appiglio all'altro. Era come arrampicarsi nel buio su grossi massi, una cosa che aveva fatto solo una volta perché le sembrava un modo particolarmente stupido per farsi male, stare appesi nel buio a tastare alla ricerca di un appiglio senza nemmeno sapere quanta distanza c'era dal suolo... Qui il "suolo" era un concetto senza senso, e non aveva idea di quello che le sarebbe potuto succedere se perdeva il contatto con lo scafo. Non c'era alcuna sensazione di una pressione esterna, che avrebbe permesso di valutare la velocità se si fossero trovati in un'atmosfera, percossi dal vento. No, ma da dentro, dal profondo, veniva un'altra pressione, mentre una dopo l'altra le cavità del corpo insistevano che le cose non andavano, che erano sbagliate, che non avrebbero dovuto muoversi in quel modo. Il peggio della vibrazione si era attenuato, e avrebbe dovuto essere meno penoso. Invece, Esmay avvertiva una pressione crescente nel cranio; sentiva che le radici dei denti le solleticavano le cavità delle ossa del viso; gli occhi avrebbero voluto uscire dalle orbite per sfuggire alla pressione.
Fece una pausa sentendo un piccolo strappo al cavo che la collegava agli altri. Un casco andò a sbattere contro il suo, poi si appoggiò. «... penso che forse non siamo dentro gli scudi FTL» disse Frees. «Solo all'interno degli scudi anticollisione.» Ma certo. La sua memoria le diede le informazioni giuste, questa volta, e ricordò che i generatori FTL avevano effetto solo all'interno di una rete situata appena sotto lo scafo. Naturalmente la parte esterna non poteva essere separata dall'FTL... ci doveva viaggiare attraverso. Fu difficile a quel punto non correre davanti alla sua luce, ma finalmente riuscì a capire come doveva posizionare la testa e muoversi in modo da poter vedere gli appigli per le mani e il cavo di sicurezza man mano che avanzava. Oltrepassò un banco di porte di comunicazione, e si ricordò che si trovava solo a pochi metri dall'ingresso della camera di compensazione. Ma da che parte? E a quanti metri, esattamente? Si fermò, avvolse il cavo attorno alla base del banco (e come mai non si era spezzato il cavo quando erano entrati nel salto?). «È qua vicino» disse agli altri non appena l'ebbero raggiunta e uniti i caschi, simili in tutto e per tutto a vacche che si toccano il naso in un prato. «Aspettate... adesso vado a vedere.» Una pausa. «... puntarli in direzioni diverse. Potrebbe servire.» Puntare le luci in direzioni diverse in effetti servì. Esmay guardò i due fasci di luce che riusciva a vedere formare delle parabole su entrambi i lati. Si lasciò cinque o sei metri di cavo, si spinse fino alla fine, e poi cominciò a descrivere un cerchio. Il portello, quando lo trovò, aveva un oblò accanto al pannello di controllo. Agganciò il cavo di sicurezza alla maniglia che era lì esattamente per quello scopo, scrutò dentro, e vide solo oscurità. Non voleva accendere le luci all'interno: perché avvisare l'Orda di Sangue che erano lì? Tirò il cavo di sicurezza per avvertire gli altri, e mentre aspettava che la raggiungessero si diede da fare con il pannello di controllo. Era difficile fissare la luce sui controlli mentre cercava di farli funzionare. Finalmente la copertura di sicurezza scivolò di lato, ed Esmay riuscì a leggere le istruzioni. Era progettato per l'uscita di emergenza, non per fare entrare la gente, e quindi le istruzioni per l'entrata erano corredate di infinite raccomandazioni e precauzioni per evitare che qualche idiota depressurizzasse i compartimenti vicini. Esmay inserì la sequenza che avrebbe dovuto aprire il portello. Non successe niente. Guardò di nuovo le istruzioni. Prima bloccare il portello in-
terno: pulsante marcato PORTELLO INTERNO, poi interruttore su CHIUSO. Poi controllare la pressurizzazione con CONTROLLO PRESSIONE. Arrivò fin lì, poi lesse il resto delle istruzioni e completò la sequenza. Ma le spie non divennero verdi, e il portello non si aprì. «... c'è un controllo manuale?» chiese Seska. Esmay non si era nemmeno accorta che si stesse avvicinando, o che avesse toccato il suo casco. Guardò il pannello, ma non c'era nulla che riconobbe come un comando manuale. «Non l'ho trovato... ho provato la sequenza automatica due volte.» Si fece da parte. Frees riuscì a trovare il controllo manuale sotto un pannello di copertura separato, con le proprie istruzioni. Era meccanico, e si doveva applicare una robusta spinta in alto, il che liberava una serie di quadranti che dovevano essere ruotati fino a comporre la sequenza numerica stampata sul pannello. Seska e Frees cercarono di far scattare la leva meccanica. Esmay immaginava cosa stavano dicendo: lottare con la leva gli avrebbe fatto consumare più ossigeno. Esmay fissava le istruzioni per la sequenza automatica, chiedendosi come mai non funzionava. Chiudere portello interno, controllare pressurizzazione, digitare numero di persone in entrata, attivare sequenza di apertura del portello esterno. Aveva fatto tutto. Continuò a leggere, oltre i moniti sull'uso non autorizzato, fino alle ultime cose scritte in piccolo, sperando di trovare qualche cosa che le era sfuggita e che potesse aprire il portello. Fra le cose scritte in piccolo, in fondo in fondo, la sentenza finale era "no": NOTA: IL PORTELLO ESTERNO NON PUÒ ESSERE APERTO DURANTE IL VOLO FTL. E, più in piccolo ancora: QUESTA LIMITAZIONE NON COSTITUISCE UN RISCHIO PER LA SICUREZZA POICHÉ IL PERSONALE NON PUÒ ESSERE IMPIEGATO IN ATTIVITÀ EXTRAVEICOLARI DURANTE IL VOLO FTL. Si chinò e appoggiò il casco contro quello di Seska. «Qualche cretino deve avere bloccato questa roba verniciandola» stava dicendo Seska. «No» disse Esmay. «Non funziona durante FTL. C'è scritto qui in fondo.» Gli altri due cessarono gli sforzi. «È vero» disse Frees, chino verso il suo elmetto. «Anche qui c'è scritto. Dice che non ce n'è bisogno perché naturalmente non saremmo qui fuori durante FTL. Che sciocchi, fare questa cosa impossibile.» «Vorrei tanto che avessero ragione» disse Bowry. «D'accordo, Suiza... e adesso?» Esmay aprì la bocca per protestare. Erano di grado più elevato di lei,
toccava a loro prendere le decisioni. Ma poi la richiuse, riflettendo. Stavano consumando ossigeno, con un ritmo che non conoscevano. Il tempo passava... almeno da qualche parte, dentro la nave, il tempo passava. E se fossero riusciti ad arrivare alla loro destinazione originaria prima di finire l'ossigeno? E in questo caso, sarebbero riusciti a entrare? Se tutti i portelli stagni non si potevano aprire durante FTL avrebbero potuto usare i rifornimenti di ossigeno nei cantieri di riparazione... se almeno quelli funzionavano. Poi le venne in mente che magari anche questo portello poteva avere una provvista di ossigeno esterna... alcuni portelli ce l'avevano, per le persone che aspettavano il loro turno di entrare nella camera di compensazione. Si voltò verso il pannello di controllo, e guardò. Eccolo, la tipica tettarella verde, anche se qui ce n'era solo una. Avrebbe funzionato o veniva disattivato automaticamente perché tanto nessuno lo avrebbe usato durante l'FTL? «Presa per l'ossigeno» disse, e diede un colpetto sulla spalla di Bowry, che guardò, annuì e si voltò. Esmay trovò il tubo di ricarico sul retro della sua tuta, e glielo sganciò. La spia che segnalava il flusso di ossigeno si accese, e quindi la nave, almeno, era convinta di stare fornendo ossigeno. «L'indicatore è fermo» disse Bowry. Il che avrebbe reso difficile, se non impossibile, giudicare quando i serbatoi sarebbero stati pieni. «Sto contando i battiti» disse Bowry a quel punto. «Non interrompere.» Esmay non credeva affatto che il suo battito fosse lontanamente simile a quello normale, e non sapeva quanto ci sarebbe voluto per ricostituire una provvista di ossigeno che non si aveva idea di quanto si fosse consumata, anche se avesse potuto usare il suo battito per calcolare il tempo. Rimasero accucciati in silenzio per quello che le sembrò un tempo lunghissimo, fino a che Bowry disse: «Ecco, dovrebbe bastare.» Si staccò dal rifornimento e disse: «Tocca a te. Se conosci la frequenza del tuo battito cardiaco, conta tre minuti. Altrimenti posso contare io per te.» «Prima gli altri» disse Esmay. «Hanno consumato più di me dandosi da fare con quella leva.» «Non essere troppo nobile, tenente: potremmo pensare che miri a una promozione.» Seska si avvicinò e si collegò al rifornimento, poi toccò a Frees, infine a Esmay. «Perché tre minuti?» chiese Frees, mentre Esmay era ancora collegata. «Perché... se solo riesco a... ecco, ho un sistema che non dipende dal
cronometro interno della tuta. Avremo bisogno di più di tre minuti, ma ho calcolato che questo ci dà un margine di un quarto d'ora. La mia tuta ha smesso di registrare a un'ora e cinquantotto minuti virgola tre. È più o meno così anche per voi?» Era così, e proprio mentre Esmay finiva di contare (i secondi, non i battiti) Bowry disse «Aha!» con voce soddisfatta. «Funziona?» «Penso di sì. Aiuterebbe se potessimo collegarci tutti assieme, però, perché calcolare i differenziali mentre aspettiamo che gli altri ricarichino è un po' complicato.» «Dacci una stima grossolana; ci vorrebbe troppo tempo per collegarci tutti assieme e non abbiamo attrezzi...» «Va bene. Suiza, tu sei ancora collegata... ti ci vorrà più tempo, e poi possiamo scalare. Conterò io per te.» Esmay si chiese che razza di sistema Bowry credeva di avere trovato, e quanto tempo avrebbe dovuto aspettare, ma non voleva distrarlo e fargli perdere il conto. Si sentiva un po' sciocca a stare lì appesa nel buio, in silenzio, in attesa di farsi dire che era venuto il momento di staccarsi dal rifornimento, ma cercò di ripetersi che era molto meglio che essere morti. Alla fine, senza che lei potesse rendersi conto di quanto tempo era trascorso, Bowry disse: «Finito. Chi è il prossimo?» Quando ebbero fatto tutti il pieno, secondo i calcoli di Bowry, che Esmay sperava avessero qualche connessione con la realtà, dovevano ancora decidere che cosa fare. Seska assunse l'iniziativa. «Suiza... lo sai dove si trovano i portelli di accesso?» «L'ho studiato per passare l'esame del maggiore Pitak appena arrivata a bordo, ma in realtà non lo so... ce se sono alcuni che mi ricordo, però. Uno su ogni ponte, fra il T-3 e il T-4, per esempio. Una volta che siamo sul T-3, ci sono portelli sia dentro il cantiere di riparazione, che sulla facciata esterna che dà sul T-4.» «Potremmo semplicemente stare qui» disse Frees. «Sappiamo che qui l'ossigeno c'è.» «Se sapessimo quanto durerà il salto... se si tratta di più di un giorno, allora le tute hanno altri limiti.» «E presumo che tu non sappia dove si trova un comodo rifornimento di cibo, acqua e batterie, vero?» «E toilette?»
Esmay si lasciò sfuggire, sorprendendosi, una risatina. «Mi spiace» disse. «Credo che siano tutte sostanze di cui è permessa la circolazione solo all'interno della nave, durante il volo FTL.» «Allora faremo meglio a dirigerci verso il prossimo rifornimento di ossigeno, e speriamo di trovare un modo di entrare all'interno prima... di esserci costretti.» L'orientamento sarebbe stato il peggiore dei loro problemi. Anche se lo scafo della Kos era ricoperto di molte più protuberanze di quanto Esmay si fosse aspettata, era pur sempre, fondamentalmente, nero, opaco e senza segni distintivi. Mentre strisciava, orientandosi al tatto, lungo quella grande spianata nera, si sentiva come una creatura marina, una di quelle di cui sua zia le aveva mostrato delle immagini. Si riunivano, ricordava, attorno a sorgenti calde sottomarine che gli fornivano calore e nutrienti. Come trovavano la strada? Chemiotassi... comunque funzionasse. Non riusciva a farsi venire in mente un equivalente che fosse utile per un essere umano su un'astronave nell'iperspazio, e quindi continuò ad avanzare. Un brusco cambiamento di topografia segnalò il precipizio, se così lo si poteva chiamare, che si apriva fra il T-3 e il T-4. Esmay cercò disperatamente di capire in che direzione dovevano muoversi. Giù verso i ponti inferiori, tenendosi nella piega fra il T-3 e il mozzo? Lungo la sommità del T-3? Non sapeva nemmeno se i giganteschi coperchi del cantiere erano chiusi attorno alla Wraith o se erano saltati con il cantiere aperto allo spazio. Come in risposta alla sua domanda, nel buio riapparve della luce. O almeno, supponeva che fosse luce, perché i suoi occhi reagivano, e così il suo cervello, cercando di comporre quello che vedeva in sagome. Era strano, sembrava più fumo chiaro che luce, volute spesse che si sfilacciavano, mentre guardava, in filamenti più sottili, ma l'impressione generale era che ci fosse qualcosa di grosso e spigoloso sulla loro sinistra, con sagome che giganteggiavano sopra. In lontananza, una scia di luce, un solco mal arato, sparivano nella distanza. Tutti si erano fermati, e si riunirono in un gruppetto, toccando i caschi. «Se fossi un fisico» disse Seska «a questo punto impazzirei. La maggior parte di quello che abbiamo visto dal momento del salto non corrisponde per niente a quello che mi hanno insegnato dell'FTL. Ma siccome sono solo un umile capitano di astronave, dico che è bellissimo.» «I coperchi sono sollevati» disse Esmay. «Il cantiere è aperto. Se non c'è qualche barriera di cui non so nulla, dovremmo riuscire a entrare da lì.»
«Come mai hanno acceso le luci proprio adesso?» chiese Frees. «Probabilmente hanno appena ristabilito una fonte di alimentazione indipendente» disse Esmay. «L'Orda di Sangue ha il ponte di comando, e probabilmente hanno tolto energia ai bracci, e forse anche il sostentamento vita, ma ciascun braccio ha un suo sistema di sostentamento e alimentazione indipendente.» «Allora non dobbiamo fare altro che andare fin laggiù e saltare dentro una di quelle aperture?» «Solo se vuoi colpire una superficie sedici o diciassette ponti più in basso dopo avere fatto il percorso a 1 G di accelerazione. Però potremmo riuscire a scendere lungo i lati dei coperchi...» Non si era mai avvicinata ai coperchi, ma aveva visto altra gente che ci lavorava sopra. Il problema era... i loro alleati, che si trovavano laggiù, gli avrebbero sparato subito o gli avrebbero lasciato il tempo di sparare? «Le radio delle tute dovrebbero funzionare là dentro» disse Seska. «E forse non ci vedranno subito.» Il percorso lungo la parte superiore del T-3 fino a raggiungere la prima apertura fu più facile dell'attraversamento della cupola, ma presentò le sue peculiari difficoltà. La luce che si diffondeva dalle aperture non illuminava ciò che si trovava sul loro cammino, e c'era parecchio. Sostegni, troncati a una certa altezza, della rotaia per il trasporto materiali, cavi di sostegno per i coperchi del cantiere, contrappesi che servivano a chiuderli e aprirli, ma almeno gli appigli per i cavi di sicurezza non mancavano. Normalmente l'accesso del personale avveniva dal centro di alcune aperture rotonde, che però ora erano dalla parte sbagliata della luce rispetto ai coperchi stessi. Strisciarono lungo l'orlo dell'apertura, e la luce cambiò colore mentre si muovevano. Perfino quelle ultime decine di metri... erano troppo azzurre, e voltare la testa le faceva diventare rosse. Il montacarichi era proprio dove Esmay se lo ricordava. La piattaforma era sotto di loro, molto più sotto, e i controlli erano bloccati. Si vedeva una sezione della Wraith con lo scafo esterno rimosso e uno sciame di operai in tuta spaziale raccolti attorno a un fascio di cristalli che spariva alla vista a prua e a poppa. Almeno c'era il conforto di una nicchia sotto la linea dello scafo, una piattaforma abbastanza ampia da ospitare venti operai o anche più in attesa dell'arrivo del montacarichi. Esmay imboccò il primo dei dieci scalini che conducevano alla piattaforma. Arrivata al secondo, la gravità della nave le afferrò il piede: le sembrava di essere incollata al metallo. Quando fu giun-
ta sulla piattaforma, la gravità le aveva reso ogni osso pesantissimo, ma la testa le sembrava molto più sgombra. Dentro, la luce era normale, anche se meno violenta del solito. Si guardò attorno. Erano accesi solo alcuni dei riflettori, che inquadravano le diverse squadre di operai. Ma certo... dovendo fare affidamento solo sul generatore autonomo, cercavano di risparmiare più energia possibile. Anche gli altri scesero, cautamente, uno dopo l'altro; nessuno parlò fino a che non ebbero raggiunto la piattaforma. Esmay si guardò attorno. Sulla paratia c'erano bocchette per il rifornimento di ossigeno... ed era una vera paratia, quella, con il triangolo verde del rifornimento di ossigeno dipinto sopra. C'era anche dell'acqua. C'era perfino uno scarico per i rifiuti della tuta... quelli della manutenzione non sopportavano la gente che restituiva le tute sporche. Un movimento all'interno del casco attirò la sua attenzione: il cronometro interno della tuta aveva ripreso a funzionare, e l'indicatore dell'ossigeno balzò in alto, poi scese, poi risalì ancora, più lentamente, fino a indicare che le restava il 35 per cento della sua provvista, un'ora e diciotto minuti al ritmo di utilizzo attuale. Fece per parlare, ma poi si rese conto che ora le radio funzionavano e potevano farsi sentire da qualcun altro. E perché non sentiva parlare gli altri? Un circuito diverso? Trovò i controlli della tuta e regolò la sintonia. «... dammene uno... solo uno... ora mezzo...» Tornò sull'altro canale, quello che avevano usato prima del salto. «Sono su un canale diverso, almeno alcuni di loro.» «Per forza» Seska stava guardando la sua nave, sporgendosi dalla ringhiera. «Come si fa a scendere?» «Con tanta, tanta prudenza» disse Frees, occhieggiando la scaletta di emergenza che conduceva giù verso la prima passerella orizzontale su quel lato del cantiere, cinque ponti più in basso. «Se cerchiamo di prendere l'ascensore, ci vedranno subito.» «Sarà meglio farsi riconoscere subito» disse Esmay. «Se li chiamiamo sulla frequenza che usano, potrei trovare qualcuno che conosco. O possono chiamare il maggiore Pitak per avere conferma della mia identità, quanto meno.» «Ha ragione, ma... per restare fedeli alla grande tradizione degli eroi dell'avventura, sembra un po' troppo banale dirgli semplicemente che siamo qui. Gente che è sopravvissuta a un volo FTL senza protezione dovrebbe fare un'entrata più trionfale... perché non ci hanno fornito quei
rampini con filo invisibile con cui le spie e i superladri si calano dal soffitto?» «Perché i trovarobe non hanno fatto la loro parte» disse Esmay, sorprendendosi. Tutti ridacchiarono. «Suiza, se mai ti stufi di occuparti di manutenzione, sarei felice di averti sulla mia nave» disse Seska. «All'inizio ero perplesso, ma adesso capisco perché l'ammiraglio ti ha voluta in un ruolo operativo, in questa faccenda.» Esmay si sentì bruciare le orecchie. «Grazie, signore. Ora... li avvertirò che siamo quassù.» Cambiò canale, e si trovò ad ascoltare il seguito delle stesse istruzioni che aveva sentito prima. «... ora indietro di un decimo... ecco... così.» «Qui parla il tenente Suiza» disse, sperando di non oscurare un'altra comunicazione. «Cosa! Chi? Dove si trova?» «Sono vicino alla sommità del cantiere, sulla piattaforma vicina al montacarichi uno. Sono in compagnia di altri ufficiali, il capitano Seska e il capitano di corvetta Frees della Wraith, e il capitano di fregata Bowry della Scuola Superiore. Ho un messaggio urgente da parte dell'ammiraglio Dossignal da consegnare all'ufficiale in comando del T-3.» 18 «E cosa pensavate di fare nascosti lassù sul soffitto per tutto questo tempo? Mi hanno detto che lei era andata al T-1 per una specie di riunione con l'ammiraglio e il comandante Seveche e altri alti papaveri.» Il capitano di fregata Jarles, capo del Controllo Magazzino, era l'ufficiale di grado più elevato sul T-3. Esmay lo aveva incontrato solo brevemente, a una riunione sociale degli ufficiali, ma non lo conosceva bene. Ora era arrabbiato, con il corpo compatto proiettato in avanti sulla sedia e le guance arrossate. «È quello che ho fatto, signore.» «E con tutto quello che sta succedendo, ci ha messo tutto questo tempo a tornare indietro? Facendo il giro lungo? E non mi dica che è riuscita a passare le porte antisfondamento, o che non ha sentito l'annuncio che ordinava a tutto il personale nelle ali di portare il culo ai punti di raccolta!» Esmay interpretò la particolare enfasi posta sugli "alti papaveri" come un segno che il comandante Jarles del Controllo Magazzino si era infuriato perché non era stato invitato alla riunione. Evidentemente, in quel momento si sentiva profondamente ferito nella sua dignità.
«Signore, se posso permettermi di chiederlo... in che stato sono le comunicazioni con il resto della nave, e in particolare con il T-1?» «Siamo collegati con il T-4, grazie al tunnel di accesso, ma con nessun altro. Perché?» «Allora lei non sa che il capitano è stato vittima di un attacco con gas nervino e si trova in condizioni critiche; che l'ammiraglio Dossignal è stato ferito in uno scontro a fuoco, e per questo non si trova con noi. Ho qui i suoi ordini.» Esmay li recuperò dalla tasca e li allungò. Jarles sporse le labbra, e poi fece un cenno con la testa che chiaramente significava "mi dica tutto il resto". «Non siamo riusciti a oltrepassare le porte antisfondamento del T-1» disse Esmay. «Il capitano ci aveva fornito i codici, ma non hanno funzionato. Gli ammiragli ritenevano imperativo che il capitano Seska e il suo secondo riuscissero a ritornare alla Wraith... troverà le ragioni per cui lo pensavano nel cubo con gli ordini, signore. Quindi siamo arrivati fino alla fine dell'Unità di Fabbricazione Materiali Speciali, e abbiamo seguito la rotaia di trasporto lungo una parte della nave.» Jarles spalancò gli occhi. «Avete attraversato tutta la nave?» «Sì, signore. Non so se da qui ve ne siete accorti, ma la nave è stata bersaglio di fuoco ostile di armi a raggio... gli scudi hanno tenuto, ma la rotaia di trasporto è stata distrutta.» Aspettò eventuali domande, e quando non vennero calò l'asso. «Poi ha compiuto il salto nell'iperspazio. È per questo che ci abbiamo messo tanto a tornare.» «Mi sta dicendo... che si trovava all'esterno di questa nave... durante l'inserzione nel salto?» «Sì, signore.» Ci fu una lunga pausa. «Tenente, o lei è pazza o molto fortunata o benedetta da una combinazione di divinità che fino a questo momento mi erano sconosciute. Gli ufficiali che erano con lei confermano questa versione?» «Sì, signore.» «Va bene. Presumo che abbia bisogno di un po' di tempo per... mangiare o cose del genere. Abbiamo allestito una mensa di fortuna: il mio impiegato le spiegherà dove si trova. Mi dia il tempo di leggere questi ordini, poi vorrò un rapporto completo, dettagliato, di ogni passo che avete fatto. Da lei e da tutti gli altri. Avete un'ora.» Fuori Pitak la stava aspettando. «Dove diavolo si era cacciata?» Esmay era troppo stanca per parare il colpo. «Stavo attraversando la nave dall'esterno durante il combattimento, il salto e il volo FTL. Grazie, sia
detto per inciso, a chiunque abbia acceso le luci del cantiere. Fino a quel momento avevamo avuto dei problemi.» Pitak sollevò le sopracciglia. «Be'. Ho il vago sospetto che Scafi e Architettura la stia per perdere definitivamente. La accompagnerò a procurarsi quello che qui fanno passare per cibo. Dov'è l'ammiraglio?» «Nel T-1, per quanto ne so. Era ferito, ma vivo. Il capitano era stato colpito con il gas, e forse stava morendo, quando siamo venuti via.» «Ed eccoci qua, dirottati come un qualunque cargo panciuto, diretti chissà dove e verso chissà quali guai. Come ci hanno protetto bene le nostre scorte!» Esmay andò in bagno, poi mangiò... era poltiglia, ma calda e chiunque facesse le funzioni di cuoco l'aveva condito con qualche spezia che le dava un po' di sapore. Si era aspettata di sentirsi meglio dopo mangiato, ma il calore che avvertiva nella pancia le fece invece venire sonno. Le sembrava che avrebbe potuto addormentarsi in piedi, e magari anche camminando. Non aveva senso... si svegliò con la guancia sul tavolo dove aveva mangiato. Il maggiore Pitak era a pochi passi di distanza, e parlava all'interfonico. Esmay cercò faticosamente di alzare la testa mentre Pitak tornava vicino. «Lei ha bisogno di dormire» le disse. «Ho parlato con il comandante Jarles, e ha detto che fra il salto e il resto avrà bisogno di più tempo per valutare gli ordini dell'ammiraglio. Ha a disposizione mezzo turno almeno.» Esmay avrebbe voluto protestare, ma appena si alzò in piedi fu colta da un violento capogiro. Pitak le trovò un angolino libero in un corridoio, dove altre sagome giacevano allineate, e prima di rendersene conto Esmay dormiva della grossa sul nudo metallo del ponte. Nessun sogno venne a turbarla, e si svegliò con la testa sgombra. Scavalcò gli altri che dormivano e trovò un bagno e una doccia ancora funzionanti. Era difficile credere che con tutte le emergenze avessero ancora abbastanza acqua da potersi permettere una doccia, ma c'era, e lei ne aveva bisogno. Poi tornò all'ufficio del comandante Jarles, dove trovò il comandante Bowry che stendeva il suo rapporto di quello che gli era successo. Le sorrise, ma continuò a parlare. «... poi si sono accese le luci del cantiere, il che ha reso molto più facile orientarsi e raggiungere il T-3 e l'accesso superiore... o come si chiamano quelle aperture... A ogni modo, una volta all'interno della nave, ci siamo trovati in gravità normale, e la strumentazione delle tute ha ricominciato a funzionare.» Spense il registratore. «Anche tu sei crollata? Anch'io, e ho appena parlato a Seska e Frees a bor-
do della Wraith, dicono che ce l'hanno a malapena fatta a tornare a bordo e poi sono caduti lunghi distesi. Il loro equipaggio era spaventatissimo.» «Forse è perché siamo rimasti esposti fuori dagli scudi FTL» disse Esmay. «Forse. O forse è stata la lunga e interessantissima giornata che abbiamo passato. Sai, sei proprio brava in questo genere di cose... come sei finita su una CRSP, se posso chiederlo?» «L'ammutinamento, probabilmente. Credo che non volessero che quelli che ne erano rimasti coinvolti finissero in posti dove avrebbero potuto avere di nuovo un simile problema, e visto che io ero quella che aveva finito per assumere il comando, mi hanno mandato il più lontano possibile.» «Dove hai prontamente trovato il modo di mettere a buon frutto l'esperienza che ti eri fatta. Già. Potrebbero anche riassegnarti un posto di comando, ormai, sei una specie di parafulmine.» «Non occupavo un posto di comando, ero nel settore tecnico, prima. Rilevamento.» «Tu?» Bowry scosse la testa. «Chiunque ti abbia consigliato ha fatto un bel casino; sei un talento naturale, e non lo dico per dire. Chiedi il trasferimento.» «È quello che mi ha detto una volta il mio capo, qui. Il maggiore Pitak, di Scafi e Architettura.» «Aveva ragione.» Per un attimo, Esmay quasi ci credette. Che qualcuno come Bowry, un veterano che l'aveva vista in azione, lo dicesse... forse era vero, e forse non era solo fortunata, ma brava. Il comandante Jarles uscì dall'ufficio vero e proprio. «Tenente Suiza, sono contento che sia qui.» Sembrava molto più cordiale del giorno prima (era stato un giorno?). «Spero che siate entrambi riposati. Il capitano Seska dice che resterà a bordo della Wraith, ma il capitano di corvetta Frees verrà qui e ci aiuterà a stendere un piano per riconquistare la Koskiusko e respingere ogni tentativo di abbordaggio. Tenente Suiza, l'ammiraglio Dossignal sembrava che avesse una gran fiducia in lei.» Esmay non sapeva proprio cosa dire. "Sì, signore" non sembrava la cosa adatta. Ma fu Bowry a parlare. «Visto che ha salvato la vita prima al capitano e poi all'ammiraglio, direi che era fiducia ben riposta.» «Suppongo di sì.» Jarles guardò i documenti che aveva in mano. «Vuole che lei assuma il comando della Sicurezza per il T-3 e il T-4, e dice che ha
collaborato nello sviluppo di un piano per intrappolare una nave dell'Orda di Sangue. Francamente, visto anche che non posso comunicare con l'ammiraglio, ho qualche remora a far pesare tanta responsabilità sulle spalle di un ufficiale così giovane, che non conosco nemmeno molto bene. Mi sono consultato con il maggiore Pitak, che ha parlato molto bene di lei, ma sono ancora incerto.» «Abbiamo un piano, allora?» chiese una voce dalla soglia. Era Frees, che il riposo e il cibo avevano fatto ritornare quasi pimpante. «Il capitano Seska manda i suoi saluti, e dice che ha un'idea su quanto tempo resteremo in FTL.» Aspettò un attimo perché tutti digerissero l'informazione, poi sbandierò un cubo dati. «I computer di navigazione della Wraith funzionano ancora alla perfezione, anche se non siamo riusciti a ottenere dati dai sensori. Ma da dove ci troviamo, ci sono quattro rotte conosciute e cartografate... e sappiamo che l'Orda di Sangue le conosce. Sono su tutte le carte standard. Due le possiamo scartare subito; non torneranno certo dove ci hanno attaccati, sanno che le nostre navi sono lì ad aspettarli. E non torneranno neanche da dove siete venuti voi, perché non sanno se lì sono rimaste altre navi della Flotta. Però c'è Caskadian, che ha una rotta diretta verso lo spazio dell'Orda, ad Hawkhead. E c'è Vollander, che è fuori dalla maggior parte delle rotte, e con un salto lungo, porta allo spazio dell'Orda... un salto lungo, ma diretto, e lontano dai picchetti della Flotta.» «Ci faccia vedere sullo schermo» disse Jarles. Frees obbedì, e si trovarono a guardare un groviglio di linee più spesse o più sottili a seconda dei valori di flusso, e affiancate da colori che si riferivano alle entità politiche che si sapevano fare uso di quelle rotte. «I sistemi di bordo della Wraith dicono che siamo entrati nel punto di salto più o meno 43 ore fa. Abbiamo bisogno di qualcuno di Motori e Manovre che ci dia i dati dei motori FTL di questa nave, e a questo punto potremmo sapere su quale rotta ci troviamo, e quindi quando usciremo.» «Quanto sono lunghe di norma queste rotte?» «Caskadian dovrebbe essere circa 122 ore, forse di più visto che l'inserzione è stata lenta, e assumendo che anche l'uscita lo sia. Vollander sarebbe di circa 236 ore.» «Salti lunghi... più lunghi di quello che abbiamo compiuto all'arrivo. Penso che sceglieranno quello più corto, visto che sono in così pochi a bordo.» «Ora, per quanto riguarda le connessioni... come si comporta questa nave con i salti in serie?»
«Non li fa. O meglio, in teoria potrebbe, e lo abbiamo fatto per venirvi a prendere, ma di solito si fa una pausa per ricalibrare di diverse ore, fra un salto e l'altro.» «E poi» disse Esmay «vorranno far salire più gente a bordo. Gli intrusi hanno lavorato duro quanto noi, ma non hanno qualcuno che gli dia il cambio, e sono a corto di braccia.» «Dunque abbiamo più o meno sessanta ore prima che giunga il momento in cui pensate che usciremo dal salto, e fino ad allora avremo a che fare solo con quelli che sono già a bordo.» «Sì, signore.» «Il capitano Seska vuole sapere a che punto potete arrivare con le riparazioni della Wraith in quel lasso di tempo» disse Frees. Il comandante Jarles scrollò le spalle. «Non abbiamo la possibilità di accedere ai magazzini principali, e non possiamo muovere niente da Materiali Speciali a qui finché siamo in FTL. Suppongo che il maggiore Pitak vi possa dire di più sulle riparazioni strutturali...» Esmay decise che non era quello il momento di dire che nulla sarebbe potuto arrivare da Materiali Speciali attraverso il sistema di trasporto esterno finché non veniva riparato. «Sessanta ore» disse Bowry. «Nessuno può entrare dall'esterno finché siamo in FTL... e di sicuro quelli dell'Orda a questo punto saranno stanchi. Non sono poi molti... se riusciamo a rimetterci in contatto con il resto della nave, potremmo riuscire a riprendere il controllo.» «E prepararci per quello che ci aspetta una volta che usciamo dal salto» disse Esmay. «Se stanno saltando verso un punto dove li aspetta un gruppo di battaglia... quante navi vorrebbe dire?» «Per l'Orda di Sangue... probabilmente cinque o sei.» «Allora il nostro piano si compone di due parti» disse Bowry. «Prima riprendere il controllo della nave, e poi sconfiggere quelli che ci stanno aspettando.» «Ma per farlo, avremmo bisogno di navi da guerra» disse Jarles. «Non possiamo montare delle armi sulla Koskiusko.» «Chi abbiamo qui dei Sistemi d'Arma?» chiese Esmay. «So che il comandante Wyche è nel T-1.» «Non si può fare» disse Jarles con tono deciso. Esmay lo guardò, poi gettò un'occhiata a Bowry. Questi parlò. «Credo, comandante, che per usare al meglio le risorse del Quattordicesimo, la persona di grado più elevato di ciascun dipartimento dovrebbe as-
sisterci nel pianificare le azioni.» Per un momento Jarles sembrò gonfiare il collo come le rane che Esmay ricordava sul suo pianeta. Poi si arrese. «Va bene, va bene.» Quando per la quarta volta qualcuno ricordò al gruppo che non potevano fare quello che facevano di solito, Esmay perse la pazienza. «Adesso che sappiamo tutti bene che cosa non possiamo fare, è il momento di mettersi a pensare a cosa possiamo fare. Ci restano cinquantotto ore, ormai: che cosa possiamo fare in cinquantotto ore? Migliaia di persone intelligenti, ingegnose, piene di risorse, con tutto il materiale che hanno a disposizione, devono pur riuscire a immaginare qualcosa.» «Tenente» cominciò Jarles, ma il comandante Palas alzò la mano. «Sono d'accordo. Non abbiamo tempo per il pessimismo. Qualcuno di voi per caso sa che piani avevano gli ufficiali superiori nel caso di un assalto dell'Orda di Sangue?» Bowry lo spiegò brevemente. «E quindi» finì «direi che attirare una nave dell'Orda di Sangue nel T-4 rimane una buona idea. C'è qualche modo di farla... fermare, in modo che non possano muoverla? Credo che si riverseranno fuori subito, e se fosse possibile distrarli, allora qualcuno dei nostri potrebbe entrare... e se poi si potesse tornare a muoverla...» «C'è quel nuovo adesivo» disse qualcuno sul retro. «Molto forte, ma si depolimerizza in presenza di specifiche frequenze sonore. Se potessimo spalmarlo sulle barriere...» «Ecco quello che voglio sentire. Ora sappiamo che non abbiamo molta gente capace di impegnarsi in combattimenti ravvicinati... qualcuno si faccia venire in mente un modo di immobilizzare le truppe dell'Orda, che indosseranno tute stagne da combattimento.» «Niente gas, allora» qualcuno mormorò. «Se conoscessimo il segnale caratteristico delle tute...» «E se incollassimo loro al ponte?» «Allora i nostri non potrebbero salire a bordo, quella roba rimane adesiva troppo a lungo.» «Sono sicura che penserete a qualche soluzione» disse Esmay. «Ora, per quanto riguarda il resto della nave...» «Una volta fuori dall'FTL, potremmo far passare un cavo per le comunicazioni fino al T-1...» «Una volta fuori dall'FTL, i portelli funzionerebbero di nuovo. E abbiamo tutte le tute EVA che ci servono; lavoriamo continuamente nel vuoto.»
Il comandante Bowry annuì. «Allora a capo della squadra che cercherà di preparare la Wraith perché venga issata sui pontoni di collaudo, mettiamo il maggiore Pitak, che è di Scafi e Architettura.» «Dovrò prendermi della gente da...» «Lo faccia. Se ci sono conflitti, venga pure a parlarne con me. Comandante Palas, potrebbe assumere il comando della squadra che progetterà la cattura della nave dell'Orda, sempre che riusciamo a farla entrare nel T-4?» «Certo. Posso chiedere da dove prenderete l'equipaggio per manovrarla?» «È stato il primo incarico che mi ha affidato l'ammiraglio Dossignal; sceglierò un equipaggio fra quelli che hanno servito di recente a bordo di una nave da guerra. Tenente Suiza, quando verrà il momento vorrei che lei mi facesse da secondo, ma nel frattempo, per favore, si occupi dell'incarico che le ha affidato l'ammiraglio Dossignal: preparare la forza di sicurezza per difendere queste ali dagli invasori che abbiamo già a bordo. Sospetto che cercheranno di entrare nel T-4 per prepararlo a ricevere le loro navi.» «Sì, signore» disse Esmay, chiedendosi come sarebbe riuscita a fare entrambe le cose; ma siccome aveva protestato contro il pessimismo, sapeva di non potersi lamentare. Vokrais sorrise contento al suo branco. Insanguinati, pesti, non erano però stati sconfitti, e avevano il ponte, con il personale superstite demoralizzato e, per ora, disposto a collaborare. La nave era riuscita a compiere il salto in FTL senza disfarsi. Le ali erano isolate e impotenti. Tre di esse erano, almeno in gran parte, popolate solo da cadaveri o corpi svenuti. Il T3 e il T-4 per ora resistevano; si era aspettato una resistenza minore in quei bracci, ma poco importava. Una volta usciti dal salto, nel giro di poche ore, il branco delle navi sarebbe stato ad aspettarli, con un numero sufficiente di guerrieri da poterli sottomettere tutti quanti. Dopo tutto, non avevano vere armi là dentro, e poi erano solo meccanici e tecnici. La sua gente era anche riuscita a riposarsi un po'; non ci voleva l'interno branco per tenere al loro posto quelle femminucce. Tre dei suoi stavano ancora dormendo. Obbligando il personale del ponte a lavorare per turni molto più lunghi del solito, li mantenevano costantemente esausti, e non si era visto alcun segno di ribellione. Si stiracchiò, allentando la contrazione delle spalle. Avevano ottenuto tutto quello che si erano ripromessi, e meglio di quanto ci si aspettasse: il loro comandante non aveva creduto che sarebbero stati in grado di far saltare la nave. Il comandante stava aspet-
tando un suo messaggio, adesso... sarebbe stato felice di ottenere la preda, tutta intera e pronta. Eppure, odiava lasciare anche una piccola parte del lavoro incompiuta. Da quattro anni era stato tagliato fuori da ogni incursione; il suo branco aveva meno cicatrici di qualunque altro con la loro anzianità. Avevano pagato, e pagato caramente, in termini di onore e opportunità, per prepararsi a questa missione. Non voleva dividere la gloria conquistata con nessuno. Se avesse potuto offrire ai suoi fratelli di sangue l'intera nave, avrebbe poi potuto alzare la sua bandiera quando preferiva, avere un comando suo. Si guardò attorno. Hoch sembrava annoiato: aveva tormentato il cucciolo dei Serrano fino a che aveva perso ogni interesse. Tre del suo branco sarebbero bastati a tenere il ponte, contro quelle pecore disarmate e senza spina dorsale che ora sedevano ai controlli. Le interiora gli ribollivano di nuovo per l'eccitazione. «Muoviamoci» disse nella sua lingua. Il suo branco alzò gli occhi, interessato. Chi sarebbe rimasto indietro? Mentre descriveva quello che stavano per fare, passò in rassegna le loro facce, alla ricerca del minimo segno di debolezza, stanchezza, o peggio ancora, insoddisfazione. Prima avrebbero aperto le barriere sul T-4... con la Wraith, danneggiata, in riparazione nel T-3, la maggior parte del personale sarebbe stato in quest'ultimo braccio. Ce l'avrebbero fatta a riparare la Wraith in tempo? Ne dubitava, ma anche se ci fossero riusciti non avrebbero mai potuto farcela contro un intero branco di navi. Vokrais si chiese quale ponte usare. Secondo le mappe di bordo, il ponte Diciassette conteneva le serre idroponiche e perfino piccoli giardinetti sistemati fra i sostegni delle gru. Era improbabile che lassù ci fosse qualcuno appostato ad aspettarli, e avrebbero potuto dominare l'intero cantiere. Avrebbero potuto scendere usando le loro armi da fuoco e i gas per sottomettere tutti quelli che incontravano, e radunarli in un punto di raccolta alla base del braccio... e non avevano alcun modo per scappare. Non se lui apriva solo il portello sul ponte Diciassette... e se lo richiudeva alle spalle. Il caporale Jakara Ginese teneva gli occhi sugli schermi, obbediente e apparentemente terrorizzata quanto tutti gli altri. Non aveva lanciato occhiate di soppiatto che erano valse un pestaggio al sergente Blanders; non si era ribellata quando uno dei loro l'aveva palpeggiata e aveva raccontato ai suoi amici che cosa progettava di fare con lei più tardi. E soprattutto, non aveva rivelato, neanche con il minimo cambiamento di espressione,
che capiva tutto quello che si dicevano nella loro lingua. Finché non c'era nulla che potesse fare, non fece nulla. Ma ora... ci pensò sopra, mentre fingeva di farsi piccola piccola di fronte alle ruvide mani insanguinate del loro capo. «Farai la brava, vero?» le chiese. «Non penserai mica di crearci dei problemi...» Jakara emise un piccolo gemito e tremò, e si disse che presto tutto sarebbe finito, in un modo o nell'altro. Era seduta alla postazione sbagliata, anche se quelli ancora non l'avevano capito. Erano arrivati urlando e sparando, e quando tutto era finito, con i corpi a terra e tutti che gridavano... non avevano notato che lei si era scambiata la targhetta con quella della sua collega morta. In quel momento non era sicura del perché lo aveva fatto. Era stato l'istinto, e quando aveva lasciato la postazione delle comunicazioni vuota per sedersi ai controlli ambientali, dove di solito stava il caporale Ascoff, aveva cominciato a pensare a che cosa poteva fare. Nessuno dei suoi colleghi aveva fatto commenti, anche se all'inizio le avevano lanciato delle occhiate... ma dopo quello che era successo al sergente Blanders tutti guardavano solo quello che stavano facendo. Il pannello di controllo dei sistemi ambientali era collegato a quello della Sicurezza di bordo, un'altra postazione che quelli dell'Orda avevano lasciato vuota dopo aver modificato i codici di accesso. Era possibile che non sapessero del collegamento; nemmeno lei lo avrebbe saputo, da dove stava di solito alla postazione comunicazioni, se non fosse che lei e Alis Ascoff avevano fatto per tanto tempo lo stesso turno di servizio, che avevano finito per parlare ciascuna dei dettagli del proprio lavoro. Sicurezza e Ambiente potevano avere le loro buone ragioni per sigillare i bracci dal mozzo, o per assumere il controllo del sostentamento vita. Se la stavano osservando troppo attentamente, come avveniva con dieci dei loro sempre svegli e riposati e che andavano in giro guardando tutto, non poteva fare nulla. Ma se sul ponte restavano solo in tre... a un certo punto l'avrebbero persa di vista almeno per qualche momento, e... e quale sarebbe stata la cosa migliore da fare? Se apriva tutte le ali, il gas si sarebbe forse diffuso dappertutto, addormentando anche loro nel mozzo? Il capitano era andato in T-1 per conferire con gli ammiragli. E quindi, se era ancora vivo, era nel T-1, e con lui forse anche gli ammiragli. Se non lo avevano gassato. Se non era morto. Se non riesci a decidere fra diverse possibilità, diceva sua madre, fa' qualcosa comunque. Per fortuna, i sistemi ambientali del mozzo richiede-
vano continui aggiustamenti quando era isolato dai bracci. Aveva spiegato questo, con aria preoccupata, quando aveva dovuto per la prima volta toccare il pannello. Uno dei nemici si era chinato e aveva fissato a lungo tutti i pannelli e i monitor, sgradevolmente vicino, prima di darle il permesso di toccare qualcosa. Dopo il decimo o undicesimo intervento, avevano smesso di prestarle attenzione, chiedendole solo di tanto in tanto, quando sui monitor compariva una barra gialla invece che verde, se pensava di lasciare andare in malora le cose. I tre che erano rimasti sul ponte sarebbero stati nervosi. Jakara sentì che il grosso della loro truppa se ne andava, e non si voltò. Qualcun altro lo fece e lei udì lo schiaffo e il comando furioso di rimettersi al lavoro. Avrebbero sorvegliato tutti... ma avrebbero capito quello che stava per fare? Si accese una spia gialla sulla sua postazione, come era già successo in precedenza. Il mozzo, a differenza dei bracci, non aveva una grande area di giardini o di serre idroponiche per la produzione di ossigeno e l'assorbimento di anidride carbonica; l'ossigeno veniva prodotto per elettrolisi dall'acqua della piscina sul ponte Uno, e doveva continuare a impedire ai collettori di idrogeno di saturarsi. E poi bisognava continuare a inserire filtri per la CO2. Cominciò a dare le istruzioni, e come si aspettava, uno dei tre fu subito alle sue spalle. «Cosa c'è adesso?» «L'idrogeno, signore.» Indicò. «C'è bisogno di un nuovo collettore. E devo inserire altre dieci unità per la CO2.» «Niente trucchi, ci siamo capiti?» La canna di un fucile le accarezzò una guancia. Jakara rabbrividì, annuì, e le dita le tremarono mentre digitava i comandi. Lo sentì allontanarsi. La questione adesso era quanto tempo aveva, e cosa poteva fare di più efficace e più in fretta? Avrebbe aperto l'accesso con il T-1, decise, ma non con il T-5, perché sapeva che il T-5 era stato invaso dal gas. Se aveva tempo, avrebbe riattivato i codici di accesso in tutti i bracci, in modo che il capitano, o chiunque fosse rimasto in vita nella Sicurezza, potesse usarli. «Signore!» L'ammiraglio Livadhi alzò lo sguardo: una delle guardie era sulla soglia, e ansimava. «Sì?» «Signore, i portelli si aprono... non siamo più separati dal mozzo!» «Tutti i portelli? Su tutti i ponti?» «Sì, signore... almeno, così dice il sistema.»
Livadhi guardò Dossignal, che era seduto, tutto curvo, sulla sua sedia. «Non penso che si tratti di opera loro.» «No... direi di puntare subito al ponte di comando, assalendolo con tutto quello che abbiamo.» Avevano progettato un assalto al ponte, ma non erano riusciti a superare la barriera antisfondamento. «Ce la fai a gestire le cose qui?» «Non posso certo venire con te all'assalto» brontolò Dossignal. «Visto che sono stato tanto stupido da farmi sparare.» Poi sorrise. «Confusione ai nostri nemici» disse. «Io intendo procurargli molto peggio che confusione» disse Livadhi, e parlò nella cuffia: «Squadra ponte: procedete.» «Stupida...!» Il ringhio precedette solo di un attimo il colpo che la scaraventò a terra. Il caporale Ginese, se fosse stata in grado di pensare, si sarebbe infuriata con se stessa per non avere ricordato che le spie di stato delle barriere si illuminavano con chiarezza sul suo pannello. Un calcio selvaggio nel torace la fece rannicchiare dal dolore. Non disse niente. Pensò solo, con tutta l'intensità che le era possibile: per favore, per favore, per favore... che funzioni. Che ci sia ancora qualcuno vivo laggiù, e sveglio.. Ora erano in due su di lei: sentì il rumore di ossa spezzate quando uno dei due le assestò un calcio furibondo alle braccia, alle costole. Faceva molto più male di quanto si aspettasse... e c'era tanto rumore... non riusciva a capire come mai c'era tanto rumore, tutto quello sferragliare e ruggire e urlare. Se dovevano fare tutto quel fracasso, perché non si limitavano a spararle? Non notò quasi che i colpi erano cessati... e poi ci fu di nuovo calma. Qualcuno, in lontananza, piangeva. Più vicino si sentirono dei passi... avrebbe voluto rannicchiarsi ancora di più, ma non riusciva a muoversi. «Penso... che sia ancora viva» disse qualcuno. Non uno di loro. Nemmeno qualcuno del ponte di comando. Aprì l'unico occhio che ancora le rispondeva, e vide quello che aveva tanto sperato di vedere: i suoi compagni, armati, e appena più in là, il cadavere di un nemico. Sorrise. «Stanno cercando di oltrepassare la barriera su al ponte Diciassette» disse il sergente. «Hanno aperto la barriera dalla parte del mozzo, ma la barricata con cui abbiamo bloccato quella dalla nostra parte tiene.» «Sembra un tentativo serio?» «Sembra di sì.»
«Allora direi che è venuto il momento di Fratello Ciuco e il Cactus» disse Esmay. «Cosa?» «Una storia del mio pianeta, rivista e corretta. Finché cerchiamo di resistere abbastanza, saranno sicuri che non li vogliamo lassù. Solo che noi in realtà vogliamo che entrino, perché lassù c'è la nostra trappola.» «Per quanto tempo li facciamo aspettare?» «Abbastanza da...» Ci fu un grido dal fondo del corridoio. «Suiza!» «Sì!» «I nostri hanno ripreso il ponte! Le barriere rispondono ai vecchi codici!» Esmay tornò a rivolgersi alla sua radio. «Adesso! Fateli entrare adesso.» Se capivano di aver perso il ponte, magari non sarebbero caduti nella trappola. «E badate bene a chiudergli il cancello alle spalle non appena sono sul ponte successivo.» Secondo logica, avrebbero dovuto cercare di conquistare il T-4 partendo dall'alto... se trovavano il ponte superiore deserto, avrebbero dovuto scendere alla ricerca di qualche resistenza. I tecnici del rilevamento avevano installato dei sistemi di sorveglianza addizionali vicino al portello e nei corridoi circostanti. Esmay vide il portello scivolare di lato... i commando dell'Orda di Sangue indossavano ancora le uniformi della Flotta, ora sporche di sangue e luride, sotto un'armatura leggera evidentemente rubata al personale di sicurezza della nave. Avevano caschi e respiratori... dunque non potevano essere neutralizzati con il gas, ma in compenso i respiratori erano così rumorosi da compromettere il loro udito. In teoria i caschi avrebbero dovuto compensare, aumentando la sensibilità audio... ma anche quello aveva i suoi inconvenienti. Ciascuno di loro portava diverse armi, di quelle leggere che la Sicurezza aveva in dotazione per sedare eventuali disordini a bordo. «Sono in inferiorità numerica, ma noi siamo ancora peggio armati di loro» disse il sottocapo, osservando il monitor da sopra le sue spalle. «Le armi da fuoco non sono le uniche armi» disse Esmay. Avrebbero scelto il corridoio ben illuminato di fronte a loro, o quello semibuio che andava a sinistra, verso i giardini? Avevano solo poche mine a urto, prese dalle batterie di cannoni di sinistra della Wraith, che erano state danneggiate, e così non avevano potuto disseminare tutti i percorsi. Come aveva sperato, si diressero verso il passaggio più buio. Si muovevano come si ricordava di avere visto muoversi gli uomini di suo padre,
con prudenza ma rapidamente. Era sulla base di quel tipo di avanzata che aveva disposto le mine... e quando oltrepassarono il punto previsto, le mine scoppiarono tutte assieme attorno a loro. Esmay aveva abbassato il volume della sua cuffia... ma loro no. Si erano buttati a terra, sparando alle ombre, incapaci di udire altro che il frastuono che creavano e il ronzio che avevano nelle orecchie... ne era sicura. Il livello superiore del T-4 era troppo grande perché potessero controllarlo a fondo; lei aveva contato proprio su questo, e sul fatto che incontrando resistenza, avrebbero reagito in un certo modo. Da una posizione all'altra, seguirono quella che sembrava una forza leggermente inferiore alla loro in rapida ritirata. Avrebbero cercato di intercettare le comunicazioni dei fuggiaschi con le radio dei caschi... di certo sarebbero passati di canale in canale fino a trovarle. E quello che avrebbero udito gli sarebbe sembrato del tutto realistico... Esmay aveva scoperto che il Quattordicesimo aveva un suo Club Teatrale Amatoriale, i cui membri non avevano visto l'ora di scrivere e poi registrare un copione pieno zeppo di effetti speciali e dramma. Il copione aveva diversi possibili sviluppi, nel caso il nemico non avesse voluto seguire la trama principale, e uno dei tecnici della comunicazione, sorvegliando la situazione da un monitor, mandava in onda i vari spezzoni a seconda di quello che gli intrusi stavano facendo. Esmay si sintonizzò sul canale per un momento. «Teneteli al ponte Quindici... possiamo fermarli se non scendono per quella scaletta interna...» «Caporale Grandall, distrugga quella scaletta...» «... ecco le munizioni, signore, ma stiamo per...» E, infatti, sul monitor gli intrusi si erano voltati a cercare, e trovare, la scaletta interna. Dei petardi collegati ai sensori scoppiarono tutto attorno a loro mentre scendevano. Il fumo vorticò... Uniformi della Flotta, avvolte attorno a cavi isolati, si mossero, caddero, vennero trascinate indietro. «Visibilità zero! Visibilità zero! Sono sulla scala...» «Fermateli!» «Stiamo cercando... No! Hanno colpito Pete!» «... maschere antigas! Stanno usando maschere antigas!» Sarebbe anche stato divertente restare a guardare, come essere dietro le quinte mentre veniva girato un cubo di avventure, ma purtroppo almeno la metà degli appostamenti-trappola richiedevano la presenza di qualcuno in carne e ossa, per assicurare un effetto realistico. Il nemico non sapeva quali dei bersagli erano veri, ma Esmay sì. Aveva cercato di proporre una so-
luzione meno rischiosa - spruzzare gli aggressori di adesivo, se non altro ma la cattura di una nave nemica sarebbe stata molto più facile se questa pensava di entrare in un cantiere controllato dai suoi uomini. L'ideale sarebbe stato di farli arrivare in fondo al cantiere di riparazione proprio mentre la nave usciva dall'FTL. Avrebbero trovato degli armadietti pronti con le tute per l'attività extraveicolare, avrebbero aperto le porte della stiva di riparazione... avevano predisposto la manovra perché avvenisse automaticamente, con nuovi, ma invecchiati e appositamente graffiati, pannelli di controllo con tanto di istruzioni. Esmay passò al collegamento criptato con il ponte: avevano aperto un portello verso il T-3 e avevano fatto passare un cavo ottico. Sapeva che il capitano era vivo ma in condizioni critiche e che ora si trovava in una vasca di rigenerazione in ospedale, che ormai era stato liberato dal gas narcotico. Il numero dei feriti e dei morti stava crescendo, man mano che le squadre di ricerca trovavano i corpi... per lo più cadaveri, ma anche qualche ferito. Barin non era ancora stato ritrovato. Un sussulto, come un gradino sceso inaspettatamente al buio, le fece battere la schiena contro lo schienale della sedia. Guardò l'orologio. Un'ora prima del previsto? «Uscita dal salto» osservò qualcuno, inutilmente. E un momento dopo: «Sistema di Caskadian, uscita a basso V.» Dunque erano dove ci si aspettava che fossero, e tutti interi. Un'uscita a bassa velocità voleva dire che i loro sensori avrebbero funzionato nel giro di poco tempo, e avrebbero saputo quanti guai li attendevano. Esmay si chiese come sarebbe apparsa l'uscita dal salto agli occhi di qualcuno all'esterno degli scudi, e rabbrividì. Non sarebbero mai riusciti a sopravvivere all'esterno per l'intero viaggio, ne era sicura. «Rilevazione preliminare: sei, ripeto sei, navi dell'Orda di Sangue. Segue analisi armamento...» E ora dove erano finiti gli intrusi dell'Orda? Guardò il monitor... sul ponte Dieci. Troppo indietro; voleva che fossero in grado di contattare le loro navi, e per quello dovevano trovarsi sul ponte Quattro. «Vai alla fine! Vai alla fine!» disse. Il tecnico delle comunicazioni annuì, e passò a mettere in onda il segmento finale del dramma: angoscia, terrore, respiri ansimanti... la resistenza che cedeva completamente al panico. Prevedibilmente, la squadra dell'Orda si gettò all'inseguimento e, anche se arrivarono al compartimento di controllo della stiva di riparazione con qualche cautela, non esitarono troppo.
Avevano adoperato bene le loro sonde dati... un paio puntò dritto verso i centri di controllo, gli altri andarono agli stipetti dove erano custodite le tute. Il tecnico mise in onda il nastro del dopo combattimento: se gli intrusi stavano ancora ascoltando, avrebbero sentito gente disperata che si cercava, che cercava di decidere cosa fare, come aiutare i feriti. I due che parlavano, o almeno, capivano, il dialetto dell'Orda si sintonizzarono sul traffico proveniente dalla consolle comunicazioni del cantiere. Che cosa avrebbero detto gli intrusi alla loro nave? La nave dell'Orda di Sangue non assomigliava per nulla agli ovoidi neri della Flotta. «Schifosa carretta convertita» borbottò qualcuno sull'interfonico. Esmay avrebbe preferito che mantenessero il silenzio radio, ma era d'accordo sulla sostanza. La nave era poco più grande di una nave scorta della Flotta, forse più corta di un terzo di una nave pattuglia, e lo scafo aveva una sagoma spigolosa, il che suggeriva che avesse cominciato la sua carriera come cargo civile. «Alcune parti sono in metallo nudo» disse qualcun altro. Esmay vide infatti una zona oblunga dal lucore opaco sotto i riflettori del cantiere. Il resto dello scafo era fatto probabilmente dello stesso materiale organoceramico usato nella maggior parte delle navi, ma rovinato e dai colori irregolari, che suggerivano origini e tempi diversi. Lungo le fiancate erano dipinti in colori vivaci dei simboli che probabilmente avevano un qualche significato per l'Orda di Sangue. Vicino al muso erano state dipinte file di occhi stilizzati e denti aguzzi. Esmay rabbrividì. La nave entrò lentamente, ancora libera ma facilmente raggiungibile dai rampini. Qualcuno le diede di gomito: seguì la direzione di un gesto e vide delle minuscole figure in tuta spaziale che si muovevano sulle piastre metalliche del ponte Uno. Dovevano essere gli intrusi dell'Orda, che uscivano a dare il benvenuto ai loro amici e a farli salire a bordo. Uno di loro andò al pannello di controllo dei rampini sul lato su cui si trovava Esmay; l'altro si preparò a manovrare l'altra serie di rampini. Non riusciva a vedere le mani sui pannelli di controllo, ma vedeva bene il risultato, le rastrelliere dei rampini che si muovevano in posizione, e degli schiocchi metallici mentre i rampini abbandonavano le rastrelliere e andavano a colpire la nave. L'ammortizzatore a fionda in fondo al cantiere era comparso, come in coincidenza con l'arrivo dei rampini... o almeno, speravano che l'Orda di Sangue lo interpretasse in quel modo. Guardò l'in-
truso ai controlli dei rampini voltarsi, e immaginò la sua sorpresa. Ma non fece altro. Segnalò qualcosa con una mano a un altro della sua squadra che non era inquadrato, poi si voltò di nuovo verso il pannello. La nave dell'Orda di Sangue si muoveva appena, trascinata dai rampini che si riavvolgevano nelle loro sedi. Esmay ingrandì la vista dei sensori del suo casco, e vide l'intruso che spingeva alla massima velocità i controlli dei rampini. Nonostante la tensione, sorrise. Aveva sperato che lo facessero... il piano avrebbe funzionato comunque, ma era meglio così. La nave cominciò a muoversi più in fretta, mentre i rampini esercitavano tutta la loro forza. Dovevano essersi convinti che l'ammortizzatore l'avrebbe fermata se si muoveva troppo in fretta... e l'avrebbe fatto... dopo una piccola scossa ai passeggeri. Osservò, affascinata, mentre la nave superava lentamente ma inesorabilmente il margine di sicurezza segnalato sul ponte... con i rampini e il loro cavo che riprendeva a svolgersi, come una pallina legata a un elastico. Come in risposta automatica, un secondo ammortizzatore a fionda comparve, e poi un altro. La nave nemica li andò a colpire di prua, estendendo la prima fionda fino al suo limite di elasticità... uno... due... le strisce elastiche si ruppero, scattando all'indietro nel cantiere con un fragore indescrivibile. L'impatto scosse tutto il cantiere. Ora... avrebbero notato nulla? Il secondo e il terzo ammortizzatore ressero, a malapena deformati. La nave nemica vibrò, tenuta immobile dallo strato di adesivo spalmato sugli ammortizzatori e i rampini completamente tesi. «Ce l'abbiamo fatta!» urlò Esmay. «Abbiamo una nave da guerra!» 19 «E due grossi problemi» disse la donna che si occupava del rilevamento sul ponte di comando. «Date un'occhiata qui...» La seconda e la terza nave dell'Orda di Sangue stavano avvicinandosi, ora dirette molto chiaramente verso i pontoni di collaudo. Avrebbero dovuto immaginarlo. Avevano dato per scontato che il nemico sarebbe stato prudente, avrebbe fatto la prova con una nave, assicurandosi che tutto fosse a posto. Ma non era lo stile dell'Orda di Sangue, quello... no, ovviamente si sarebbero avvicinati con tutte le navi possibili, e d'altra parte erano navi piccole, non difficili da manovrare in spazi ristretti. «E adesso, genio?» mormorò il maggiore Pitak. Esmay fissò lo schermo, con le possibilità che le roteavano davanti agli occhi con la rapidità delle
ruote girevoli in una partita di biabek. «Non riusciremo a portare la Wraith fuori, a questo punto» disse qualcun altro. «Avremmo dovuto farlo prima...» La Wraith, prigioniera nella sua stiva di riparazione, immobile, capace di farsi saltare in aria ma probabilmente non di portarsi dietro il resto della nave... a meno che immolandosi non innescasse anche le armi del nemico. Era possibile? Era quello il meglio che poteva sperare? No. Non avrebbe giocato con nessun'altra posta se non la vittoria. Alle sue condizioni. «Le prendiamo entrambe» disse. «Quelle sui pontoni. Poi facciamo uscire la Wraith... e anche l'altra nave dell'Orda, se riusciamo. È meglio così, in effetti, la battaglia sarà più equilibrata.» «Ma non abbiamo abbastanza personale per tutte quelle navi... e poi non sono neppure navi nostre.» Al primo momento di panico era seguita l'esaltazione: si sentiva come se il suo cervello lavorasse a velocità doppia. «Oh, sì che l'abbiamo. Abbiamo migliaia di esperti di prim'ordine su ogni tipo di sistema di bordo qui... proprio adesso.» «E chi sarebbero?» Esmay agitò una mano indicando entrambi i bracci. «Ci pensi. Davvero ritiene che i nostri non siano in grado di orientarsi ai controlli di una nave dell'Orda di Sangue? Sono semplici. Pensa che la nostra gente non sia in grado di offrire una resistenza efficace alle truppe dell'Orda, se li facciamo sbarcare? Io penso che possano farlo e che lo faranno.» Perché dovevano. Non avevano scelta. Anche se catturavano solo due navi, le chance erano più o meno pari... Anche Bowry era giunto alla stessa conclusione. «Dovremo correre, però, per mettere assieme due, no, tre equipaggi. Saranno laggiù in meno di un'ora.» Le sorrise. «Be', tenente, temo che dovrò trovarmi un altro secondo. Sarai tu che dovrai comandare una di quelle due navi.» «Io?» Ma naturale, le disse una vocina da dentro. Chi altro c'era? La cosa più terrificante in tutta quella storia era che non si sentiva terrorizzata come avrebbe dovuto. «Bene» disse, prima che Bowry potesse aggiungere altro. «Quale?» «Quella sul pontone del T-3, perché laggiù ho già un equipaggio pronto. Forse il capitano Seska può liberare qualcuno dei suoi per mandartelo.» «Sì, signore.» Stava già pensando a chi avrebbe voluto con sé. «Chiunque assuma per primo il controllo di una nave ha il comando del
gruppo» continuò Bowry. Esmay non ci aveva pensato, ma avrebbero dovuto coordinarsi. «Il mio consiglio, se arrivi prima tu, è di toglierti dal pontone prima possibile, senza aspettare me, e metterti a sparare contro la prima nave che vedi.» Vokrais era furibondo. Dopo tutto quello che avevano ottenuto, quel maiale del comandante del branco di navi voleva far sbarcare altre due ciurme. Vokrais sapeva cosa voleva dire: avrebbero rivendicato il merito delle uccisioni effettuate da lui e dai suoi uomini; si sarebbero presi il bottino. «Non ce ne bisogno» disse. «Abbiamo questa nave alla nostra mercé. Sono necessarie solo le truppe a bordo della Lama Mortale. E se ci stessero seguendo delle navi delle Familias? Se ci sono due navi in meno nella formazione, come potrebbe difendersi da un attacco?» «Mi avevi garantito che non vi avrebbero seguito, perché non avevano idea di dove sareste andati.» Il comandante del branco sembrava di gran lunga troppo sicuro di sé. Quando Vokrais aveva cominciato questa missione, il comando del branco di navi era stato promesso al suo clan. Adesso invece era finito nelle mani del clan Antberd, sulle cui tombe avrebbe volentieri sputato se solo ne avesse avuta l'opportunità. Erano gente ambiziosa, ricca di bottini per i quali non avevano mai versato sangue, e non capiva proprio come mai la Sovrabanda lasciasse che se la cavassero sempre. Ed eccone qui un altro, nemmeno un Antberd, ma un loro tirapiedi... aveva incontrato Cajor Bjerling all'arena, una volta, e nemmeno allora gli era piaciuto. Avrebbe voluto tanto picchiare qualcuno, ma purtroppo avevano messo il giovane Serrano al sicuro prima di passare sul T-4. «Rivendico questa nave» disse. Non gliel'avrebbero data, ma almeno la rivendicazione sarebbe stata registrata. «Rivendico il sangue versato, e le ricchezze guadagnate, e i morti e i tesori, per gli uomini che se li sono conquistati.» «Ce n'è abbastanza per dividere la gloria fra tutti» disse Bjerling. «E verrà il momento di dividere le spoglie solo quando la missione sarà compiuta.» «La missione è compiuta» protestò Vokrais. «Non c'è bisogno che tu tema la mia giustizia» disse Bjerling. «A meno che tu non voglia dubitare del mio onore.» Ma certo. E così, nel mezzo dell'operazione, avrebbe dovuto sfidare il suo comandante? Se anche avesse vinto, la Sovrabanda non sarebbe stata
affatto contenta. «Non dubito del tuo onore» disse. «Ma ricordati di chi è stato ad aprire questa nave come un'ostrica.» «Non credo che lascerai che lo dimentichi» disse Bjerling. «Le truppe della Lama Mortale attenderanno l'arrivo di quelle dell'Ascia di Antberd e dell'Elmo di Antberd prima di procedere.» In altre parole, pensò Vokrais acido, non avrebbe avuto alcuna occasione di mostrare alle truppe della Lama Mortale, di cui conosceva bene il comandante, come aveva conquistato la nave. Gli altri sarebbero arrivati e si sarebbero presi tutto il merito. «Che a sua moglie possano crescere spine nel pelo» disse Hoch piano. «Se solo fosse possibile» disse Vokrais, godendosi l'idea. «Quindi dobbiamo stare qui ad aspettare che atterrino tutti, sempre che quegli incompetenti riescano davvero ad atterrare sui pontoni, prima di entrare? E restare qui a fare da bersaglio?» «Non credo che gli dispiacerebbe troppo se qualcuno di questi qua ci ammazzasse... avido porco. Dobbiamo essere estremamente prudenti, secondo. Non c'è ragione, con tutta questa gente ansiosa di bottino, di correre rischi.» Hoch ridacchiò. «Forse potremmo anche scomparire, eh?» «No, non così, direi. Dopo tutto, ci sono i nostri sul ponte di comando. Forse dovremmo ritornare indietro e accertarci che tutti sappiano chi li ha aiutati.» Era inusuale, ma non inaudito, che qualcuno venisse assassinato durante l'adempimento di una missione, e Vokrais si sentiva dell'umore giusto per assassinare qualcuno. «Lasciamo che trovino da soli la strada; sarà un esercizio utile per loro. Non tutti gli abbordaggi sono facili.» Esmay era appena tornata nel T-3 quando fu convocata a uno dei nodi comunicazione. «Ho sentito che finiremo per restare intrappolati qua dentro» disse Seska. Sembrava arrabbiato. «Non a lungo» disse Esmay. «Prenderemo la nave dietro di voi, e quella che sta arrivando sul pontone di collaudo del T-4. Appena liberi tireranno fuori la Wraith.» «Così va un po' meglio» disse Seska, un po' meno arrabbiato. «Ma tenetemene una, d'accordo? Suppongo che tu assumerai il comando di una delle loro navi?» «Sì, quella dietro di voi: il comandante Bowry ha già un equipaggio
pronto sul T-4.» «E quella già attraccata chi la prende? O la lasciate dov'è?» «La lasciamo lì. Non abbiamo abbastanza gente per portarla.» «E presumo che abbiate già un piano per raggiungere il pontone di carico e abbordare la nave? E se scaricano le loro truppe e se ne vanno subito?» «In questo caso voi non sareste più bloccati, e Bowry può prendere la nave che hanno portato dentro nel T-4. Ma dal quel che sentiamo delle loro mosse hanno intenzione di restare per un po', il che ha fatto arrabbiare a morte il capo del commando. Pensa che vogliano rubargli tutta la gloria.» «Bene. E buona fortuna, tenente.» Esmay tornò al centro di comando predisposto nell'area del quartier generale del Quattordicesimo. «Ho una lista di volontari per il suo equipaggio, tenente» disse il comandante Jarles. «Lei sembra molto popolare.» Non era sicura se il tono con cui lo aveva detto esprimeva sarcasmo o sincera sorpresa. «Sono ordinati per specialità, e fra queste per primi le ho messo quelli che hanno avuto esperienza su navi simili a quelle del nemico. Gli ho detto di aspettarla all'R-17.» «Meraviglioso, signore.» E lo era davvero: l'unico problema era riuscire a capire quanta gente avrebbe dovuto portare con sé. «Adesso abbiamo un collegamento con le altre ali. Uno degli istruttori al comando dell'ammiraglio Livadhi ha compiuto un'analisi tattica, e suggerisce...» Una sirena d'allarme suonò. «Stanno muovendosi!» disse Esmay. «Ma se non sono neanche scesi dalla nave» disse il comandante Palas. «Li stiamo sorvegliando.» «Allora sono gli altri... il gruppo originale. Ma perché? E dove stanno andando?» «Avvertite il ponte di comando» disse Jarles. «È lì che andranno... potrebbero non sapere che l'abbiamo ripreso. Tenente Suiza, scelga il suo equipaggio e si tenga in posizione. Credo che possiamo ignorare quell'analisi tattica.» Esmay afferrò la lista e la esaminò mentre andava verso l'R-71. Il sergente maggiore Simkins, Motori e Manovre, aveva lavorato a bordo dell'equivalente nella flotta commerciale delle navi dell'Orda di Sangue durante i tre anni che aveva passato a cercare di fare fortuna nel mondo civile. Altri
due avevano una qualche esperienza, anche se minore, con navi di quel tipo. Rilevamento... sperava che riuscissero a portare qualcosa del loro equipaggiamento a bordo, o a riceverlo per collegamento dal ponte della Koskiusko. Nessuno era molto esperto in questo particolare campo, ma c'era un pivota maggiore, Lucine Patel, che l'intera unità di Rilevamento Remoto riteneva un secondo Koutsoudas. Valeva se non altro la pena di provare. Come riserva per il rilevamento scelse l'unica persona con esperienza di combattimento recente, e poi un altro che aveva esperienza sia nel settore militare sia in quello commerciale. Comunicazioni, quello sì che era cruciale... questo, questo, e una riserva. Controlli ambientali, di quello non aveva intenzione di preoccuparsi troppo, avrebbero combattuto con le tute addosso, e o avrebbero vinto in fretta o sarebbero morti in pochissimo tempo. Armamento... aveva bisogno di gente in gamba per i sistemi d'arma. Ce n'erano cinque che sembravano emergere dal resto della lista. Quando arrivò al punto di raccolta, fu sorpresa dalla reazione che la accolse: il rapido mormorio di approvazione, lo zelo sulle facce. La guardavano come se avesse potuto rendere facile questa folle impresa. Si sentì sollevare il cuore, e rispose con il sorriso che sembravano aspettarsi. «Te l'avevo detto» sentì dire da qualcuno. «Ha già un piano.» In realtà no, non ancora, però aveva un elenco di membri dell'equipaggio. Lo lesse ad alta voce, e quelli che chiamò avanzarono; gli altri sembravano molto delusi. «Non le serve qualcun altro?» chiese un sergente robusto dall'aspetto vagamente familiare. «Se c'è qualcuno a bordo, se si finisce per fare a botte. Io me la sono cavata bene in più di una rissa.» Qualche extra con quel genere di atteggiamento non poteva guastare. Esmay annuì, e un'altra mezza dozzina di persone si fecero avanti. Altri rimasero sul posto con aria speranzosa, ma non si avvicinarono. «Per quanto riguarda il resto di voi... se non lo avete sentito, alcuni dei membri del primo commando sono ritornati nel mozzo. E fra poco qui sarà pieno di altri nemici. Sono sicura che vi farete venire in mente qualcosa da fare in proposito. I piani che avevamo studiato per le truppe a bordo di una nave dell'Orda a questo punto dovranno andare bene per un numero di persone tre volte tanto.» Il problema davvero spinoso era come arrivare sui pontoni di collaudo senza farsi notare. Entrambe le stive di riparazione ora erano aperte e illuminate a giorno, e quindi qualunque movimento nello spazio fra la nave e i
pontoni poteva essere notato... sarebbe stato notato di sicuro, se l'Orda di Sangue stava guardando in quella direzione. Anche se sia lei sia Bowry avevano delle guide, specialisti che in tempo di pace erano fra i supervisori dei pontoni, e quindi potevano avvicinarsi dalla parte della chiglia piuttosto che da sopra, dove erano appoggiate le navi, sarebbero comunque stati in piena vista se c'era qualcuno nelle stive che osservava. Esmay non se la sentiva di affidarsi alla probabilità che nessuno desse un'occhiata in quella direzione al momento giusto e notasse una fila di tute spaziali che andavano nella direzione sbagliata. «Abbiamo bisogno di qualcosa per distrarre la loro attenzione» disse Esmay. «Altri effetti speciali, come quelli che abbiamo usato per farli entrare nel T-4, ma abbastanza impressionanti da distrarre tutti quelli di loro che usciranno dalla nave.» «Se spegnessimo le luci, non ci potrebbero più vedere tanto bene.» «All'inizio no, ma probabilmente hanno anche loro dei riflettori. E se vedono che spegniamo tutto, sospetteranno qualcosa...» «In teoria siamo almeno parzialmente danneggiati, no? Se spegnessimo le luci, e poi le facessimo tornare per qualche secondo? Se hanno quegli elmetti di nuovo tipo, li farà impazzire.» «Sono sicuro che riusciremmo a sembrare a pezzi» disse qualcun altro. «Fluttuazioni della gravità artificiale, luci che vanno e vengono... penseranno che la nostra fonte di energia è del tutto inaffidabile.» «Ma non finché non abbiamo fatto almeno parte della strada» disse Esmay. «E cioè quando la maggior parte di loro avrà già lasciato i pontoni... avremo dei tempi molto stretti.» «Si fidi di noi, tenente» disse una di quelli che non aveva scelto per il suo equipaggio. «Noi ci fidiamo di lei.» Touché. Esmay annuì. «Benissimo, allora lascerò fare a voi. Avanti, ragazzi, mettiamoci le tute e vediamo di andare a spazzare via questo gruppo di battaglia, o come diavolo si chiamano.» Le navi dell'Orda di Sangue vomitarono gruppetti compatti di figure in tuta spaziale, in un modo che ricordò a Esmay le uova di rana fra le ninfee, a casa. Rotondi caschi come ovetti lucidi, a due a due o a tre a tre, argentei sotto le luci del cantiere. Continuavano a uscire e a uscire, un numero che mai Esmay avrebbe immaginato potesse essere nascosto in una nave così piccola. «Si rendono conto di essere così visibili?»
«Probabilmente sì. Li costringe a stare in gruppo, dopo tutto... anche se suppongo che di solito quando abbordano una nave non si trovino tutta questa luce in faccia. In genere le navi non accendono i riflettori sull'esterno. Io mi preoccupo al pensiero di quanto saremo visibili noi, quando ci muoveremo.» Le tute per l'attività extraveicolare erano fatte apposta per essere ben visibili, per ragioni di sicurezza. «Peccato non aver pensato prima a spruzzare le tute di nero opaco, o qualcosa del genere.» L'occhio di Esmay cadde sui rotoli di rivestimento per i fianchi denudati della Wraith. «La pellicola.» «Cosa?» «Il rivestimento... quei rotoli laggiù... quelli sono opachi. Se solo ci avessimo pensato prima. Adesso ci vedrebbero, se cercassimo di andarli a prendere.» «Be', toglierlo da uno scafo è facile» disse uno dei tecnici. «Ci vuole solo un generatore sonoro tarato alla giusta frequenza, l'adesivo si depolimerizza e viene tutto via. Ma pensava di poterselo avvolgere attorno? Non è tanto flessibile.» «E quanto è flessibile, invece?» «Lo si può arrotolare a formare un cilindro di questo diametro circa...» L'uomo allargò le braccia. «In altre parole, ci potremmo entrare in diversi, con tutta la tuta?» «Oh, certo.» «E ci proteggerebbe dai rivelatori?» «La maggior parte, certo, saremmo troppo piccoli per comparire.» Ma non avevano tempo; ci sarebbe voluta un'ora per tagliare e arrotolare tutti i tubi che sarebbero serviti, e loro un'ora non l'avevano. Esmay scartò l'idea e disse: «Cos'altro potrebbe fornirci una copertura?» «Be'... non possiamo usare gli spruzzatori veloci del cantiere, perché ci vedrebbero, e poi fa parte dell'altro piano...» Esmay si chiese che piano, ma non lo interruppe. «Però ci sono gli spruzzatori a mano nel gabbiotto della verniciatura di fino.» Uno dei tecnici della squadra EVA scartò l'idea: la vernice avrebbe potuto corrodere il tessuto della tuta, e non avevano il tempo di fare degli esperimenti per vedere se era sicuro. E mentre si stavano preparando a partire così com'erano, con le loro tute argentate, uno degli assistenti di cucina arrivò di corsa con una bracciata di sacchetti per la spazzatura verde scuro. «Così sembreremo una fila di piselli» borbottò Arramanche.
«Sempre meglio che una collana di perle» disse Esmay. «Almeno saremo scuri, e non d'argento.» Davanti a lei incombeva la base del pontone di collaudo, chiaramente visibile alla luce proveniente dal cantiere. Altrettanto visibile era l'ombra che proiettavano sul pontone stesso, che andava ingrandendosi man mano che si avvicinavano. Al centro si vedeva un puntino rosso che compariva e scompariva, il laser del casco di Esmay che calcolava la distanza che li separava dalla loro destinazione e la velocità con cui avanzavano. «Ora» disse Esmay. Le luci si spensero; adesso aveva solo gli strumenti dentro il casco su cui fare affidamento, e un'unica possibilità di fare i necessari aggiustamenti. Ma presumibilmente gli attaccanti dell'Orda di Sangue sarebbero stati sorpresi dall'improvviso venire meno della luce... e sarebbero stati all'erta per una possibile aggressione nella stiva di carico, dove si trovavano ora. Seb Coron le aveva detto che durante un combattimento notturno, nessuno può resistere alla tentazione di guardare nella direzione di una luce che si accende o si spegne improvvisamente. Più vicini adesso... cinque metri... quattro... spinse il propulsore di fortuna che avevano attaccato alle tute e un piccolo getto gassoso venne sputato fuori. Esmay sentì una spinta, come se quelli dietro di lei si fossero appoggiati contro la sua schiena. Tre metri... una progressione lentissima, due, poi uno, poi piegò la testa, rotolò su se stessa e sentì le suole degli stivali che colpivano lo scafo; le sue ginocchia assorbirono facilmente l'impatto. Sotto i pontoni di collaudo si trovavano una miriade di cavi e sostegni, ma il supervisore sapeva dove si trovava il portello più vicino. Una volta dentro, salirono attraverso il pozzo di comunicazione dandosi solo una leggera spinta sul cavo. Arrivarono al portello superiore ed Esmay sbirciò fuori... eccola lì la nave dell'Orda di Sangue, una grossa sagoma spigolosa e scura contro le stelle. Non era possibile dire se fosse o no occupata, non prima di attivare la strumentazione del pontone stesso. E quello era un lavoro per il supervisore, che grugnì e trafficò con i controlli per un momento. Poi... «Butta fuori rilevamento attivo a secchiate» disse. «Non possiamo fare molto senza che se ne accorgano. In compenso, con tutto il segnale che emette, non si accorgeranno se comunichiamo con la Kos. Vuole che li avverta?» «Sì.» In un attimo venne la risposta: gli comunicavano che stavano aspettando
che Bowry si facesse vivo dall'altro pontone di collaudo. Esmay si ricordò che gli altri avevano più strada da percorrere, che loro avevano attraversato sotto la fila dei soldati dell'Orda che sbarcavano. Poi, quando le sembrava di non poter resistere un minuto di più, il segnale venne. «Pronti?» «Via!» Questo era solo uno dei molti punti delicati di un piano già molto delicato di per sé. Fare le cose semplici era un privilegio che non avevano avuto. Dovevano concentrare l'attenzione dell'Orda di Sangue sulle stive di riparazione, e distoglierla dalle squadre d'assalto che stavano cercando di catturare le loro navi. Quello che avevano a disposizione era più simile a un agitare di mani ed emissione di fumi colorati che non a un vero e proprio uso di armi. Ma per l'equipaggio di un CRSP, agitare le mani ed emettere fumi colorati era, in fondo, una seconda natura. Esmay non sapeva che cosa avevano in programma di fare, sapeva solo che per intervalli di sessanta secondi avrebbe intensamente interessato il nemico. O almeno così speravano. I primi rinforzi dell'Orda di Sangue erano sui pontoni quando le luci si spensero. Maledirono quei cretini delle Familias che non avevano nemmeno il buon senso di arrendersi senza ricorrere a questi trucchi infantili, e accesero i loro riflettori. I fasci di luce violenta trasformavano i macchinari del cantiere, i sostegni dei pontoni, gli alloggiamenti dei rampini, le gru e i bracci robotici che spuntavano come concrezioni dalle pareti, in ombre nette, in movimento. Nel vuoto del cantiere aperto, i mirini laser non lasciavano alcuna traccia; le prime vittime non videro nemmeno i puntini colorati sulle loro tute, perché stavano socchiudendo gli occhi contro le luci violente e le ombre in movimento. Nelle cuffie udirono altre imprecazioni, ma sapevano bene come comportarsi di fronte a questo genere di opposizione. Era un po' delicato, con la loro nave attraccata al T-4, ma gettarono addosso agli avversari diverse mine balzanti, e attesero che quattro o cinque di loro saltassero. Avevano spolette di prossimità, ma avrebbero riconosciuto i distintivi sulle tute dell'Orda di Sangue, il che le rendeva solo molto pericolose da trattare, invece che sicuramente letali. Poi avanzarono, restando all'erta in caso di ulteriore resistenza. Un centinaio di loro erano riusciti a scendere lungo la loro nave, e a superare la Wraith, quando le luci si accesero di nuovo, poi si spensero e accesero brevemente diverse volte, infine rimasero spente. I filtri dei loro elmetti si scurirono, oscillarono fra l'opacità e la trasparenza diverse volte in risposta
ai rapidi cambiamenti di luminosità, e infine tornarono trasparenti col ritorno definitivo dell'oscurità. Di nuovo i fasci delle loro torce sondarono il buio, ma i soldati dell'Orda ricordavano bene quello che avevano visto. Non erano certo novellini, loro, da farsi ingannare da questi trucchetti. Non si riunirono in gruppo: continuarono a muoversi disciplinatamente in fila, fino a che le avanguardie non raggiunsero il portello stagno all'estremità della stiva più vicina al mozzo. Fu allora che i grandi spruzzatori robotici, che erano scivolati di pochi centimetri per volta in basso quando le luci erano accese, piombando giù di diversi metri ogni volta che erano spente, ruotarono, presero la mira... e spararono un liquido giallo e denso. Nel vuoto si disperse in goccioline minutissime, una nebbia colorata che immediatamente andò ad aderire alle loro tute, compresi i visori trasparenti. Non tutti ricevettero una dose completa di vernice. Alcuni, più vicini alle bocche degli spruzzatori, vennero fisicamente gettati a terra dalla forza del getto e, di questi, alcuni riuscirono a rannicchiarsi in una posizione protettiva, evitando che i visori fossero completamente oscurati. Ma gli ci vollero un paio di cruciali secondi per riuscire a capire cosa era successo, e quali sarebbero state le conseguenze. In quei pochi momenti, la loro formazione si disintegrò. Pochi, barcollando e agitando le mani, riuscirono a riguadagnare i portelli stagni. Ma gli altri erano ciechi, con i sensori esterni bloccati dalla vernice, e in alcuni casi incollati al ponte per essere stati tanto sfortunati da avere pestato una macchia di vernice prima che si solidificasse completamente. Le tute avevano una propria fonte di energia e potevano liberarsi facendo forza. Ma non potevano vedere; e non potevano pulirsi il visore con le mani guantate... in effetti, anche se non lo sapevano, ci sarebbe voluto un solvente di tipo molto particolare per rimuovere la vernice senza corrodere il visore. «Sono arrabbiati neri» disse uno di quelli che capivano la lingua che si riversava dalle radio delle tute. «Stanno maledicendo il nome e il clan di qualcuno di nome Vokrais.» Giù sul ponte della stiva di riparazione, le tute ormai giallo vivo sembravano quasi brillare nelle aree più in ombra. Evidentemente quando avevano preparato il colore qualcuno aveva aggiunto tinte riflettenti e fluorescenti alla vernice. «Bene. Quanti sono sfuggiti alla trappola?» Le telecamere esterne, sistemate in fretta e furia poche ore fa per coprire
anche gli angoli prima ciechi, mostravano diversi gruppetti di invasori dell'Orda di Sangue attorno ai bordi esterni del cantiere. «Forse cinquanta o cento.» «Teniamoli occupati.» Gli spruzzatori si alzarono, molto più velocemente di quanto si fossero abbassati, con i becchi che ruotavano verso l'interno. Altri macchinari si spostarono su e giù, avanti e indietro, in un balletto elaborato il cui scopo era di sembrare vagamente minaccioso. Sarebbero riusciti a tenere viva l'attenzione dell'Orda di Sangue, impedendogli di vedere quello che succedeva alle loro spalle? Un operatore particolarmente audace staccò uno degli spruzzatori dal suo sostegno e lo mandò verso l'apertura del cantiere, come in cerca di altri soldati da spruzzare. Lo spinse in avanti sul suo sostegno rigido, con il becco che si muoveva minaccioso da destra a sinistra, e osservò sul suo monitor i soldati dell'Orda che si agitavano a disagio. Uno di loro sollevò un'arma... e lanciò un urlo di gioia barbara quando i suoi spari bucarono il serbatoio di colore. Non aveva pensato a quello che sarebbe successo se fosse riuscito nel suo intento: il serbatoio, esplodendo, provocò una nuvola di vernice in rapida espansione, ancora abbastanza appiccicosa da oscurare diversi altri elmetti. Attraverso la radio si udirono altre furenti maledizioni; gli ultimi soldati rimasti di guardia alla nave, persa ogni disciplina, si gettarono in avanti, verso il cantiere. Esmay si sollevò dentro la nave. Entrambi i portelli, esterno e interno, erano aperti, il che voleva dire che chiunque ci fosse a bordo doveva indossare una tuta. Esmay si trascinò cautamente verso il portello interno, notando la gravità artificiale sgradevolmente viscida prodotta da un generatore di scarsa qualità, e sbirciò all'interno della nave. Stava guardando un vasto compartimento vuoto, attrezzato con diverse strutture verticali sovrastate da una struttura orizzontale e fornite di ganci e anelli. Non aveva mai visto niente di simile su una nave della Flotta. Poi si rese conto di quanto sarebbe stato comodo un apparato del genere per qualcuno che doveva indossare una tuta stagna senza aiuto. Era qui che le truppe dell'Orda di Sangue si preparavano agli abbordaggi. Dove poteva essere il loro ponte di comando? E c'era ancora qualcuno a presidiarlo? Indicò con un cenno della mano a due dei suoi di andare verso prua, e due a poppa. Lei stessa si diresse verso prua, tenendosi dietro i primi due. Vide l'uomo in avanscoperta sollevare un braccio, e trattenne il fiato... fra la sua squadra e quella di Bowry si erano divisi gli unici cinque
agatori disponibili, le uniche armi che si potevano usare con sicurezza sul ponte di comando di una nave. L'uomo in avanscoperta fece due rapidi gesti con una mano, poi avanzò. Esmay lo seguì, pronta a captare qualunque movimento, da qualunque direzione. Ma non ce ne fu nessuno. Sul ponte, l'Orda di Sangue aveva lasciato solo due uomini - lei non aveva modo di immaginare quali fossero le loro mansioni - e ora erano entrambi morti. «Mettiamo in funzione questa nave» disse. Qualcuno trasportò i corpi verso il compartimento vuoto accanto ai portelli; gli specialisti si sistemarono davanti ai loro strumenti. I controlli sembravano abbastanza familiari, nonostante le scritte in un alfabeto strano. «Tutto a posto, capitano» disse il sergente maggiore Simkins. Esmay fece per dire che lei non era il capitano, ma poi si ricordò che lo era... almeno per il momento. Un capitano, se non il capitano. Simkins era il suo ufficiale di macchina; veniva da Motori e Manovre. «È semplicemente un normalissimo piccolo cargo a cui hanno attaccato un po' di armi... gli scudi sono poco più che di livello civile. Se anche gli scudi di quegli altri là fuori non sono meglio, basteranno un paio di colpi.» Che anche per distruggere loro sarebbero bastati solo un paio di colpi era dato per scontato. «Armi?» chiese. Il capo Arramanche a cui era diretta la domanda sollevò un dito per avere ancora un po' di tempo. «Abbiamo... quasi un arsenale completo di missili, capitano» disse la donna. «Più che sufficienti per la missione. Ma questa tinozza non ha armi a raggio.» Il che voleva dire che avrebbero dovuto avvicinarsi parecchio al bersaglio per essere sicuri di distruggerlo. «Rilevamento?» chiese Esmay. «Energia... ecco... capitano, siamo operativi.» Lucien Patel aveva una voce alta, un po' affannata, ma sembrava molto sicuro di sé. «E abbiamo... ecco il segnale della Kos... e lì sono le altre tre navi dell'Orda. Una probabilmente è un supercaccia che hanno catturato da qualche parte, ma l'altra è più o meno grande come questa.» Vokrais osservò a disagio il corridoio curvo. C'era qualcosa di diverso, ma non sapeva cosa. «Che ponte è questo?» chiese. «Quattro.» «Controllo l'aria» disse. Si tirò giù la maschera antigas, e sollevò la vi-
siera del casco. Le luci... avevano o no detto a quella puttana sul ponte di spegnere le luci dal ponte Otto in giù? Non se lo ricordava. L'odore dell'aria... gli sembrava più pulita di prima, ma poteva anche essere per via delle ore che aveva passato a respirare attraverso la maschera. Non vedeva o sentiva niente di precisamente sbagliato, ma non riusciva a rilassarsi. Da quando aveva scoperto che Bjerling era al comando, aveva la sensazione che le cose non andassero come dovevano. «Problemi, capobranco?» «Niente che possa annusare» disse. «Ma...» Ormai là sua squadra era seriamente a corto di uomini. Erano in pochi, e sapeva che Bjerling lo odiava. Se Bjerling li ammazzava tutti, la colpa sarebbe ricaduta sui soldati delle Familias. Chi mai avrebbe potuto saperlo? «Abbiamo bisogno di un ostaggio» disse alla fine. «Qualcuno che Bjerling voglia avere... magari quegli ammiragli, se ce n'è qualcuno ancora vivo.» «Il giovane dei Serrano?» chiese Hoch. «No... se anche è ancora vivo, è solo un bambino. Bjerling dovrà negoziare con noi se abbiamo dei prigionieri importanti, e abbastanza dei suoi dovranno assistere ai negoziati da poter fare da testimoni. Altrimenti...» «Il ponte di comando?» chiese Hoch. «Direi di sì.» Era nel solco fra le onde ora, il cielo lontano, il mare vicino e gelido... era in quello spazio fra le ondate di gioia della battaglia, quando sentiva la fatica e la fame e sapeva che non era ancora finita. «Sì. Il ponte.» Mentre correva su per le scale davanti a tutti gli altri, la rabbia gli ritornò e con essa le energie. I figli di Bjerling sarebbero dovuti nascere con le palle flosce; le sue figlie avrebbero dovuto prostituirsi ai prigionieri nelle arene. Il clan Antberd sarebbe stato fatto a pezzi da dissidi e gelosie, il loro ultimo discendente sarebbe morto povero e mutilato... Vide il mucchietto di stracci un attimo troppo tardi per fermarsi ed ebbe appena il tempo sufficiente per rendersi conto che non era un mucchietto di stracci, per estendere le sue maledizioni all'intero corpo delle Familias Regnant, prima che la rampa di scale venisse avvolta dalle fiamme e dal fumo e lui morisse, impenitente. La domanda a cui non potevano rispondere in anticipo era che cosa avrebbero fatto le altre navi dell'Orda di Sangue. E così, mentre accendevano i motori dell'Ascia di Antberd, Esmay tenne mentalmente le dita incro-
ciate. «Pensa che possiamo fidarci del loro supporto vita?» chiese uno dei tecnici. «No» disse Esmay. «Decollo non appena possibile, massima accelerazione... il massimo nostro, non il loro.» L'Ascia di Antberd scattò via dal pontone come un puledro che si impennava; il generatore di gravità compensò solo in parte, e a Esmay si piegarono le ginocchia. «Uau!» disse Simkins, che era al timone. «Si vede che non è gente da margini di sicurezza questa!» Diciotto ponti del T-3 gli passarono accanto in un lampo, accompagnati da ululati di quelle che Esmay immaginava essere imprecazioni nella lingua dell'Orda, prorompenti dagli altoparlanti attorno al ponte. «Sono seccati» li informò la pivota maggiore seduta davanti al pannello delle comunicazioni, che sapeva un po' di quella lingua. «Pensano che il loro capitano si sia stufato e sia andato a divertirsi un po'. Ma adesso so come si chiama la nostra nave: l'Ascia di Antberd.» «Dov'è l'altra?» chiese Esmay. Non riusciva a interpretare il monitor di rilevamento, era troppo sfocato. «Rilevamento?» La voce di Bowry, gracchiante ma riconoscibile, si udì dagli altoparlanti. «Siamo partiti. Io mi prendo quella grande» disse. «Rilevamento...» «Eccola!» L'immagine sullo schermo del rilevamento si stabilizzò; era ancora granulosa, ma ora Esmay riusciva a interpretare quello che vedeva. Quella doveva essere la nave catturata da Bowry, che virava allontanandosi da loro e dirigendosi verso la nave più grande che avevano sullo schermo, l'ammiraglia dell'Orda, sempre che avessero cose del genere. Esmay cercò il suo bersaglio, che era fermo a un migliaio di chilometri dall'altra parte della Koskiusko, da dove poteva sparare comodamente nella gola a chiunque uscisse dal punto di salto. Che avessero minato l'uscita? Sospettava di no. Seminare mine non era nello stile dell'Orda di Sangue, anche se avevano usato una mina sulla Wraith. Ma non aveva importanza... tanto non sarebbe andata in quella direzione. La terza nave dell'Orda, che era sistemata fra la CSRP e la primaria del sistema, avrebbe dovuto essere attaccata in un secondo momento. Da dove si trovava, qualunque missile diretto verso di lei avrebbe rischiato di colpire la Koskiusko; poteva solo sperare che la terza nave, come quella che stava comandando, non fosse fornita di armi a raggio.
Arramanche disse: «Bersaglio centrato. Pronti ai suoi ordini, capitano.» «Quella nave là vuole sapere che cosa sta facendo» disse l'ufficiale alle comunicazioni. «Dicono che non è il momento di danzare con l'orso, qualunque cosa significhi.» Aspettare, o sparare subito? Cercò di calcolare tutte le variabili della situazione, il loro moto relativo rispetto alla Koskiusko, alla nave dell'Orda di Sangue, le distanze, la velocità delle loro armi, la qualità degli schermi dell'altra nave, la sua capacità di manovra. «Non sparate» disse. «Andiamo più vicino.» Andare più vicino era come trovarsi a giocare a polo su un puledro: qualunque fossero le manchevolezze dell'Ascia di Antberd rispetto agli standard della Flotta, se non altro balzava allegramente di direzione in direzione senza il minimo problema. Aveva avuto ragione a volersi avvicinare; anche l'altra nave avrebbe potuto manovrare con la stessa facilità, e sottrarsi al suo fuoco... invece, rimase ferma in posizione, come se fosse certa che lei non rappresentava una minaccia. «Quella grossa si sta muovendo» disse Lucien. «In fretta, anche, ma Bowry dovrebbe farcela...» «Siamo a tiro, capitano» disse Arramanche. «Fuoco» disse lei. Arramanche diede un comando: l'intera nave rabbrividì violentemente a ogni missile che partiva. «Per forza che non hanno armi a raggio su questa baracca, si aprirebbe come una scatola di stagno» disse Simkins. «Sul bersaglio!» urlò il tecnico del rilevamento dalla Kos. «Avete...!» Il monitor fu illuminato completamente, e il loro bersaglio scomparve. «Bel tiro» disse Esmay. «E adesso andiamo a prendere quell'ultima nave.» «Due fuori» disse il loro contatto con la Koskiusko. Bowry doveva avere preso l'altra nave dell'Orda. Di certo non potevano avere tirato fuori la Wraith così in fretta. «Bellissimo tiro» disse Lucien. Esmay gettò un'occhiata al suo monitor, e vide che ora era molto più nitido di prima. Forse dopotutto Patel era davvero un genio. La gravità artificiale della loro nave ondeggiò mentre Simkins cercava di manovrare abbastanza in fretta da permettergli una buona angolatura sull'ultima nave dell'Orda, che aveva prima accelerato verso la Koskiusko e poi virato vedendo sia Esmay sia Bowry venirle addosso. «Ha lanciato dei missili» disse Lucien, proprio mentre il tecnico del rile-
vamento della Koskiusko gli diceva la stessa cosa. «Sono in rotta... un grappolo per la Kos e uno ciascuno per noi e Bowry. Che mira schifosa... e dire che con un bersaglio grande come la Kos...» Esmay lo ignorò, e disse a Simkins di spremere anche gli ultimi residui di accelerazione dal motore della loro nave. «Non ce la faremo» disse Arramanche. «Ci...» La posizione della Wraith comparve all'improvviso sul monitor di Lucien. «Fuori tutto» disse Lucien. «Non sapevo che gli fosse rimasta quella potenza di fuoco...» «Preso» disse Seska con calma nella cuffia di Esmay. L'intera batteria di sinistra delle armi a raggio si concentrò sull'ultima nave dell'Orda, sovraccaricando i suoi scudi... il monitor si illuminò per l'ultima volta. «Capitano a capitano» disse Bowry. «Niente privilegi in questa battaglia, eh? Una ciascuno, mi sembra abbastanza equo. Anche se due di loro non hanno neanche tentato di scappare.» «Non è colpa nostra» disse Seska. «E poi voi due avete dovuto farli fuori con le loro stesse armi, e direi che questo riequilibra accettabilmente la difficoltà della sfida.» «Grazie» disse Bowry. Esmay sorrise al suo equipaggio. «D'accordo, riportiamo questa baracca alla Kos prima che qualcun altro insoddisfatto della caccia ci prenda a bersaglio.» «Nessuno oserebbe, in questo sistema» disse Arramanche. Esmay riportò l'Ascia di Antberd al pontone di collaudo senza perdersi in manovre teatrali; una squadra della Koskiusko li aspettava per guidarli ad atterrare e per assicurare la piccola nave al suo ormeggio con tutte le cautele del caso. Esmay rimase a sorvegliare lo spegnimento dei motori, il blocco delle armi; si assicurò che i due cadaveri venissero infilati in un sacco e affidati al personale di terra. Simkins le consegnò la piccola chiave rossa della nave, una chiave vera e propria, notò, del tutto diversa dalle barre di comando che la Flotta usava per sbloccare i controlli, e lei se la infilò nella tuta. Poi seguì gli altri fuori dalla nave, e chiuse personalmente i portelli. Quando furono di ritorno sulla Koskiusko, nell'aria respirabile e fuori da tute che avevano acquisito una puzza tutta loro, Esmay si disse che desiderava solo tre cose: una doccia, una cuccetta, e sapere qualcosa di Barin
Serrano. Invece si trovò al centro di una massa di gente che urlava, rideva, piangeva e ballava. Il suo equipaggio, quello della Wraith e quello di Bowry, si incontrarono correndo gli uni verso gli altri, unendosi ad almeno la metà della gente che avevano lasciato nel T-3. Esmay fu stretta, abbracciata, applaudita. Lei e gli altri due capitani vennero sollevati sulle spalle dalla folla, trasportati attraverso il corridoio verso il mozzo... dove vide l'ammiraglio Dossignal, in piedi ma un po' storto, accanto agli ascensori. Seveche e il maggiore Pitak erano accanto a lui, e la guardavano. La folla rallentò, ancora esuberante ma conscia della concentrazione di autorità di fronte a cui si trovava. Esmay riuscì a tornare a terra, e a emergere dalla massa. «Signore...» «Ottimo lavoro, tenente. Congratulazioni a tutti!» «Si sa qualcosa di...?» «Del guardiamarina Serrano?» Era stata il maggiore Pitak a parlare. Aveva la faccia scura, ed Esmay si preparò al peggio. «Sì... l'hanno trovato. È vivo, ma gravemente ferito.» Ma vivo. Non era morto per la sua inazione. E con la coscienza che era ancora vivo (e di certo, se era vivo, sarebbe tornato a posto una volta uscito dalle vasche di rigenerazione), il suo cuore balzò ad altezze inimmaginabili. Si voltò verso la folla, cercando i volti di quelli che conosceva. «Ce l'avete fatta!» urlò ad Arramanche. «Ce l'avete fatta!» a Lucien. «Ce l'abbiamo fatta!» con tutti gli altri, a tutti gli altri. L'ammiraglio Dossignal si chinò per farsi udire dal maggiore Pitak nonostante il baccano. «Penso che possiamo smetterla di preoccuparci, maggiore. Mi pare che la vita le abbia dato il calcione di cui aveva tanto bisogno.» 20 Quando finalmente Esmay riuscì a conquistare un letto, mentre altri riportavano la Koskiusko indietro verso il territorio delle Familias, l'euforia iniziale era svanita. Si svegliò diverse volte, con il cuore che le batteva per via di incubi che non riusciva a ricordare. Era furiosa, ma non trovava un bersaglio per la sua ira. Gli intrusi dell'Orda di Sangue erano morti, e non aveva senso arrabbiarsi con loro. Niente sembrava a posto... ma naturalmente, i tempi e i ritmi della nave erano ancora sconvolti. Quelli che erano stati a bordo dell'Ascia di Antberd vennero a farle ancora le congratulazio-
ni; era difficile rispondergli con l'entusiasmo che meritavano. Lei avrebbe voluto, ma si sentiva vuota e capace solo di una generale irritazione. Quando il tenente Bowry venne a cercarla e le disse che le aveva scritto una raccomandazione di ferro per il trasferimento a un incarico di comando, sentì un brivido di paura. Un altro ciclo di sonno la aiutò un poco, ma in quello successivo ebbe di nuovo un incubo, questa volta abbastanza vivido da farla svegliare con la consapevolezza di avere urlato. Accese la luce, guardò il soffitto, cercò di controllare il suo respiro. Perché non riusciva a lasciarsi certe cose alle spalle? Non era più una bambina indifesa; lo aveva provato. Aveva comandato una nave (la Despite non contava, ma si permise di prendersi il merito per l'Ascia di Antberd) e aveva distrutto un vascello nemico. Ah, ma solo perché non avevano capito di essere in pericolo; solo perché il capitano della nave nemica era stato un idiota. Ripercorse ogni sua decisione, indugiando a immaginare come avrebbe potuto rivelarsi disastrosa. Era stata precipitosa, impulsiva, proprio come quando da bambina era scappata di casa. Avrebbe potuto farli ammazzare tutti. Certo, c'erano altre persone che ritenevano che si fosse comportata bene... ma lei conosceva cose su se stessa che loro ignoravano. Se avessero saputo tutto, avrebbero capito anche loro che non valeva niente. Come un novellino che comincia ad andare a cavallo e riesce a restare in sella superando un paio di ostacoli, lei era stata fortunata. Ed era stata aiutata da un equipaggio in gamba. Sarebbe stato molto più sicuro per tutti se fosse tornata nell'oscurità, che era il suo posto. Avrebbe anche potuto avere una vita felice, se si teneva fuori dai guai. Il volto dell'ammiraglio Serrano sembrò prendere forma davanti a lei. "Non puoi tornare a essere quello che eri." Esmay si sentì stringere la gola. Vide di nuovo il suo equipaggio e per un momento riuscì di nuovo a sentire quell'ondata di fiducia che l'aveva resa libera di prendere decisioni cruciali. Era quella la persona che voleva essere, una persona che si sentiva a suo agio, completa, una persona che si era guadagnata il rispetto che gli altri le tributavano. Non l'avrebbero rispettata se avessero saputo degli incubi. Fece una smorfia, immaginandosi nei panni del capitano di un incrociatore che faceva seguire a ogni battaglia notti e notti tormentate dagli incubi... immaginava l'equipaggio che passava in punta di piedi davanti alla sua porta, ascoltandola piangere e agitarsi nel letto. Per un momento le parve quasi
buffo, poi gli occhi le si velarono. No. Doveva trovare il modo di cambiare le cose. Si alzò e si diresse verso le docce. Il turno seguente girò voce che Barin era uscito dalle vasche di rigenerazione ed era pronto a ricevere visite. Esmay non aveva molta voglia, in realtà, di sapere quali orrori aveva vissuto, ma doveva andare a fargli visita. Gli occhi di Barin non avevano alcuna luce; Esmay non l'aveva mai visto così non sembrava per niente un Serrano. Si disse che probabilmente era perché era sotto sedativi. «Ti va della compagnia?» Barin sobbalzò, poi si irrigidì, e guardò un punto vicino al suo orecchio. «Tenente Suiza... ho sentito dire che hai fatto grandi cose.» Esmay scrollò le spalle, imbarazzata. «Ho fatto quel che potevo.» «Più di quel che ho fatto io.» Non c'erano né ironia né amarezza nella sua voce, ma solo un tono piatto che fece correre un brivido lungo la spina dorsale di Esmay. Ricordava di avere avuto la stessa voce piatta, in quel tempo a cui non voleva ripensare. Aprì la bocca per dire quello che, senz'altro, a Barin avevano già detto in molti, e poi la richiuse. Sapeva bene che cosa gli era stato detto, lo avevano detto anche a lei, e non l'aveva aiutata. Che cosa avrebbe potuto aiutarlo? Non ne aveva idea. «Non sono uno di loro» disse Barin, in quel tono piatto di voce. «Un Serrano... un vero Serrano, come mia nonna o Heris... avrebbe fatto qualcosa.» Nella frazione di secondo prima di cominciare a parlare, la coscienza di quello che stava per dire quasi le serrò la bocca. Ma facendosi forza contro il dolore, Esmay riuscì a pronunciare la prima frase. «Quando mi hanno catturato...» «Tu sei stata catturata? Non me l'avevano detto. Sono sicuro che gli hai fatto vedere i sorci verdi.» La rabbia e la paura resero la sua voce talmente roca da essere quasi irriconoscibile. «Ero una bambina. Non ero in grado di far vedere i sorci verdi a nessuno...» Non riusciva a guardarlo; non riusciva a guardare altro che le ombre che si muovevano nella sua mente, uscendo dalla nebbia. «Stavo... ero andata a cercare mio padre. Mia madre era morta di una febbre che abbiamo su Altipiano, e mio padre era con l'esercito, impegnato in una guerra civile.» Gettò un'occhiata veloce al volto di Barin; ora i suoi occhi avevano di nuovo vita. Almeno era riuscita a ottenere quello. Raccontò la storia in
modo rapido e spoglio, cercando di non pensare mentre parlava. La fuga... la donna grassa sul treno... le esplosioni... il villaggio con i cadaveri che all'inizio aveva preso per figure addormentate. Poi gli uomini in uniforme, le mani crudeli, il dolore, la sensazione di impotenza, peggiore del dolore. Un altro rapido sguardo. Il volto di Barin era impallidito al punto da essere quasi bianco come il suo. «Esmay... tenente... io non sapevo...» «No. Non è il genere di cose di cui amo parlare. La mia famiglia... mi ha raccontato che si era trattato di un sogno, di un incubo che avevo avuto per via della febbre. Sono stata ammalata a lungo, la stessa febbre di cui era morta mia madre. Mi dissero che ero scappata, che ero arrivata fino al fronte, che ero stata ferita... ma il resto era solo un sogno, mi dissero.» «Il resto?» Le sembrava di avere delle lame di rasoio in gola; o anche peggio. «L'uomo... era... uno che conoscevo. Avevo conosciuto. Un ufficiale di mio padre. Quell'uniforme...» «E ti hanno mentito?» Ora nei suoi occhi ardeva l'ira dei Serrano. «Ti hanno mentito su una cosa del genere?» Esmay agitò la mano, un gesto che la sua famiglia avrebbe capito. «Pensavano che fosse la cosa migliore... pensavano di proteggermi.» «Non era per caso... non era qualcuno della tua famiglia?» «No.» Lo disse con convinzione, anche se non ne era ancora sicura. Era stato solo quell'uomo ad aggredirla? Era così piccola... c'erano zii e cugini in quell'esercito, e alcuni di loro erano morti. Nel libro dei ricordi di famiglia le annotazioni dicevano "morto in combattimento", ma lei sapeva bene, ormai, che le annotazioni e la realtà non erano necessariamente la stessa cosa. «Ma tu... tu sei andata avanti lo stesso.» Barin la guardò dritta negli occhi. «Sei stata forte; non hai...» «Ho pianto.» Lo disse con difficoltà. «Notte dopo notte. I sogni... mi hanno sistemato in una stanza in cima alla casa, in fondo a un corridoio, perché altrimenti svegliavo tutti gridando e lamentandomi. Avevo paura di tutto, e avevo paura della paura. Se avessero saputo quanto ero terrorizzata, mi avrebbero disprezzato... erano tutti eroi, capisci? Mio padre, i miei zii, i miei cugini, persino la zia Sanni. Papa Stefan non poteva certo tollerare un piagnone... non potevo piangere di fronte a lui. Devi lasciartelo alle spalle, mi dicevano. Il passato è passato, dicevano.» «Ma di sicuro sapevano, perfino io lo so, dalla mia famiglia adottiva, che i bambini non possono semplicemente "dimenticare" una cosa del ge-
nere.» «Su Altipiano un bambino deve dimenticare. O andarsene.» Esmay respirò a fondo, cercando di tenere la voce ferma, che non tremasse. «Io me ne sono andata. Il che li ha molto sollevati, perché sono sempre stata un problema per loro.» «Non riesco a credere che tu possa essere stata un problema per qualcuno...» «Oh, sì. Una Suiza che non sapeva cavalcare? A cui non interessava l'allevamento dei cavalli? Che non si faceva corteggiare in modo da conquistare l'uomo giusto? La mia povera matrigna ha passato anni a cercare di fare di me una persona normale. E non ha mai funzionato.» «Ma... sei entrata nel programma scolastico preparatorio. Devi esserti ripresa molto bene. Che cos'hanno detto le psicotate? Ti hanno prescritto un'altra terapia?» Esmay evitò la domanda. «Ho letto dei testi di psicologia su Altipiano, lì alla scuola preparatoria non c'era la possibilità di fare terapia, e poi avevo passato gli esami.» «Non riesco a credere...» «Li ho passati e basta» disse Esmay, tagliente. «Non è come per te.» «No... io sono un uomo adulto, o così si presume.» Nella sua voce era tornata l'amarezza. «Lo sei. E hai fatto quello che potevi... non è colpa tua.» «Ma un Serrano avrebbe dovuto...» «Eri loro prigioniero. Non avevi altra scelta che sopravvivere o morire. Pensi che non mi sia torturata anch'io pensando "Una Suiza avrebbe dovuto..."? Ma certo che l'ho fatto. Ma non serve a nulla. E non importa quello che hai fatto, se hai vomitato anche l'anima...» «È quello che ho fatto» disse Barin, con una voce piccola piccola. «E allora? È una questione fisica... se il tuo corpo ne ha bisogno, vomita. Se ha bisogno di sanguinare, sanguina. Non puoi farci niente.» Sapeva che stava parlando a se stessa quanto a Barin, dicendo a quella parte di sé che aveva sofferto così a lungo quello che aveva bisogno di sentirsi dire. «Se fossi stato più coraggioso...» in una voce ancora più piccola. «E il coraggio avrebbe potuto impedire alle tue ossa di rompersi? Al tuo sangue di colare?» «È diverso, quelle sono cose fisiche...» «E vomitare no?» Era di nuovo in grado di muoversi, e si avvicinò al letto. «Lo sai che con le giuste sostanze chimiche si può far vomitare chiun-
que. E quando il tuo corpo produce da sé quelle sostanze, vomiti. A provoca B, tutto qui.» Barin si agitò, a disagio, distogliendo lo sguardo. «Però non ce la vedo mia nonna, l'ammiraglio, che vomita addosso a un commando dell'Orda di Sangue solo perché qualcuno ha parlato di combattimenti nell'arena.» «Avevi ricevuto una ferita alla testa, non è così?» Fece una smorfia, come se gli avesse piantato un dito nelle costole rotte. «Non era così grave.» Esmay cercò di soffocare un'ondata di rabbia. Ci aveva provato; gli aveva detto cose che non aveva detto a nessuno, e lui era comunque deciso a cullarsi nel brodino caldo dei suoi sensi di colpa. Se ci si poteva cullare nel brodo... «È solo che non so se posso sopportarlo» disse Barin, così sottovoce che quasi il ronzio del ventilatore cancellava le sue parole. «Sopportare cosa?» chiese Esmay, con una certa durezza nella voce. «Vorranno... vorranno che ne parli.» «Chi?» «Le psicotate, no? Proprio come è successo a te. Io... non voglio parlarne.» «No, certo» disse Esmay. Cercò di scacciare il pensiero che Barin fosse ancora convinto che lei aveva fatto della terapia. «Com'è, in realtà? È brutto come si dice? Che cosa ti dicono?» fece una pausa, e deglutì. «Cosa rimane nella tua cartella?» «No... non è tanto male.» Esmay cercò di riandare con la memoria ai libri di psicologia che aveva letto, ma non riuscì a tirarne fuori nulla di concreto. Distolse lo sguardo, ben sapendo che ora Barin la stava guardando. «Andrai benissimo» disse velocemente, e si diresse verso la porta. Barin alzò una mano, ancora striata dalle macchie rosa della colla dermica. «Tenente... per favore.» Esmay si costrinse a fare un respiro profondo prima di voltarsi. «Sì?» Barin sbarrò gli occhi vedendo il suo volto. «Tu... tu non ci hai mai parlato, con gli psicologi, vero?» Il respiro che Esmay aveva fatto era svanito chissà dove. Non riusciva a respirare. «Io... Io...» Avrebbe voluto mentire, ma non poteva. Non a lui, non adesso. «L'hai semplicemente... nascosto. Non è vero? Hai fatto tutto da sola.» Lei aprì la bocca, inghiottì una boccata d'aria, la costrinse a scendere nei polmoni, e poi a risalire attraverso una gola che le sembrava rigida come il
ferro. «Sì. Ho dovuto. Era l'unico modo...» Un altro respiro, un'altra lotta. «E adesso sto meglio... sto bene.» Barin la guardò. «Certo, bene come me.» «No.» Un altro respiro. «Io sono più vecchia di te. È passato più tempo. So che cosa stai passando, ma col tempo le cose migliorano.» «È per questo che nessuno capiva» disse Barin, come fra sé e sé. Quella frase apparentemente slegata dal contesto catturò la sua attenzione. «Cosa vuoi dire, nessuno capiva?» «Non erano solo le differenze fra i costumi di Altipiano e quelli della Flotta... era questo il segreto che custodivi. Per questo i tuoi talenti erano bloccati, nascosti... per questo ci è voluto il combattimento per sbloccarli, per farti capire che cosa eri in grado di fare.» «Non so di cosa stai parlando» disse Esmay. Sentiva un tremore dentro di sé, come se avesse appena appoggiato un piede sulle sabbie mobili. «No... ma... tu hai bisogno di aiuto tanto quanto me.» Panico: sentiva il suo volto irrigidirsi in una maschera di calma. «No, non è vero. Adesso sto bene. È tutto sotto controllo; e come dici tu, funziono benissimo.» «Non al meglio. Ho sentito parlare del tuo meglio; la nonna ha detto che l'analisi del combattimento era incredibile...» Per un momento le sembrò divertente. «Tua nonna non era nella Commissione d'Inchiesta.» Barin fece un gesto volgare con una mano. «Le commissioni d'inchiesta esistono per spaventare i capitani e fargli venire l'ulcera o l'infarto. Quello che ho sentito io, attraverso la famiglia, è quello che pensano i veri comandanti, quelli che hanno esperienza di combattimento.» Esmay scrollò le spalle. Era un po' più a suo agio a parlare di questo che dell'altro argomento. «E nessuno, compresa la nonna, capiva come ci eri riuscita... non c'era niente che facesse pensare che eri capace di qualcosa del genere nel tuo passato, diceva lei.» «Mio padre non era male come tattico» disse Esmay, sulle sue, ma sapendo che quella di Barin non voleva essere un'offesa. «Immagino di no. Ma non tutti i figli ereditano il talento dei padri... e quando lo fanno, in genere emerge molto prima. Tu non hai nemmeno scelto la carriera di comando.» «Mi hanno consigliato di non farlo» disse Esmay. «Mi hanno fatto notare che gli stranieri in genere hanno molte difficoltà ad avere successo nei
ranghi superiori della Flotta.» «Protesta quanto vuoi» disse Barin, tirandosi su meglio nel letto. Questa volta non fece smorfie di dolore. «Ma io continuo a pensare, come diceva la nonna, che stavi nascondendo qualcosa, qualcosa che ti impediva di mostrare quello che sapevi fare.» «Be', adesso comunque non è nascosto» disse Esmay. «Ho assunto il comando di una nave... di due, in realtà.» «Non si tratta di quello.» «Ne ho parlato a te» disse allora Esmay. «Non è nascosto.» «Io non sono una psicotata. Pensi che se parlassi a te della mia esperienza sarebbe sufficiente?» Nonostante stesse tentando di convincerla, Esmay udì la sua supplica segreta: sperava che lei lo rassicurasse, gli dicesse che non aveva bisogno di parlarne a nessun altro. «No.» Fece un breve respiro e continuò. «Lo sanno già; devi parlargliene. E ti aiuteranno, ne sono sicura.» «Mmm. Tanto sicura che andrai anche tu a parlare con loro?» «Io?» «Non cominciare.» Si appoggiò di nuovo ai cuscini. «Non giocare con me... lo sai che non sei guarita. Lo sai di aver bisogno di aiuto.» «Io... Mi butteranno fuori... un'ammutinata che ha nascosto dei problemi mentali... mi rimanderanno indietro...» Notò solo dopo aver parlato che Altipiano era per lei "indietro" e non "a casa". «No che non lo faranno. La nonna non glielo permetterà.» La spudorata arroganza di questa affermazione le tolse il respiro. Rise, inconsciamente. «Tua nonna non decide mica tutto nella Flotta!» «No... suppongo di no. Ma non fa male averla dalla propria parte, e tu ce l'hai. Non vuole perdere un ufficiale che considera brillante.» Barin tornò serio. «E... se tu parlassi con qualcuno del tuo problema... vedi, io non conosco nessun altro che abbia mai... che abbia mai...» «Vuoi compagnia, è questo che vuoi dire?» Annuì senza parlare. Era chiaro dalla sua espressione quanta fatica gli costasse uscire fuori dal suo dolore quel tanto che bastava per comunicare con lei. Il cuore le batteva, e aveva il fiato corto. Poteva? «In fondo ne hai già parlato a me» disse Barin allora. «Non è come se fosse la prima volta.» Quando sei a terra, le diceva sempre Papa Stefan, è ormai troppo tardi per avere paura di cadere. Sei già sopravvissuta al peggio... non ti resta che
riacchiappare il cavallo e rimontare in sella. «Ho riacchiappato il cavallo» disse Esmay, e per poco non si mise a ridere di fronte alla confusione di Barin. «D'accordo» disse, sapendo che il panico sarebbe ritornato, ma era in grado, in quel momento, di fronteggiarne l'ombra che scalpitava e sbuffava, nell'avvicinarsi. «Gli parlerò, ma anche tu devi cooperare. Voglio un alleato Serrano che sia più vicino alla mia età della tua stimabile nonna o della tua feroce cugina. D'accordo?» «D'accordo. Anche se non sono sicuro che tu abbia scelto l'aggettivo giusto per ciascuna.» Il maggiore Pitak alzò gli occhi quando Esmay ritornò dall'infermeria. «Come sta il ragazzo?» «Un po' scosso, ma in via di guarigione. Deve vedere gli psichiatri, dice.» «È la procedura» disse Pitak. «La cosa lo turba?» «Come turberebbe chiunque» disse Esmay, e raccolse di nuovo il coraggio. L'ombra, da nube di fumo, si fece una sagoma terribile, che vomitava fiamme. «Maggiore... prima che tutto questo accadesse, lei una volta ha detto che forse avrei dovuto parlare con gli psichiatri... di quello che era successo sulla Despite.» «Le dà ancora fastidio?» «Non si tratta... solo di quello. Lo so che siamo a corto di personale, ma... mi piacerebbe farlo.» Pitak la guardò a lungo e attentamente. «Benissimo. Vada, s'informi di quanto tempo le occorrerà, e mi faccia sapere. È nelle grazie di tutti, in questo momento, nessuno le negherà un po' di aiuto. Vuole che chiami per sapere quando la possono vedere?» «Io... grazie, maggiore, ma penso di doverlo fare di persona.» «Non è necessario che lei faccia sempre tutto nel modo più difficile, Suiza» disse Pitak, ma senza durezza. Fissare un appuntamento fu incredibilmente semplice. Il segretario non chiese nessun dettaglio, quando Esmay disse di volere un colloquio, domandò solo se era urgente. Lo era? Avrebbe potuto rimandare, dire che non lo era... ma rimandare non aveva risolto le cose, in passato. «Non è un'emergenza» disse. «Ma... sta interferendo con varie cose.» «Un attimo solo.» Naturalmente, sarebbero stati molto occupati, pensò Esmay. Barin non era l'unico ad avere delle necessità urgenti collegate alla situazione da cui erano appena usciti. Tutti quelli che erano stati presi pri-
gionieri, probabilmente, e diverse persone che avevano visto troppe morti, troppo dolore. Un'altra voce le parlò all'orecchio. «Tenente Suiza... io sono Annie Merinha. Ho bisogno di sapere solo alcune cose, per poterla affidare alla persona più adatta ad aiutarla.» La gola di Esmay si chiuse. Non era in grado di dire niente. Aspettò le domande come se fossero colpi. «Si tratta di qualcosa che è in relazione con gli eventi recenti, o di qualcos'altro?» «Qualcos'altro» disse Esmay. Riusciva a malapena a parlare. «Vedo che lei si è trovata in una situazione difficile a bordo della Despite, e non ha fatto ricorso al servizio psichiatrico dopo questa situazione... si tratta di questo?» Avrebbe potuto dire di sì, e non sarebbe stata una menzogna... ma non sarebbe stata tutta la verità. Certo, poteva sempre raccontare il resto più tardi... ma erano state le menzogne a dare il via a quella storia, e lei adesso voleva che finisse. «In parte» disse. «C'è... è confuso con... con altre cose.» «Che precedono la sua entrata nel Servizio Spaziale Regolare?» «Sì.» «Non c'è niente nella sua cartella...» «No, io... senta, non posso spiegare... così.» «Certo.» Ci fu una pausa, durante la quale Esmay immaginò la donna fare una serie di segni accanto a una lunga lista di tare mentali che le avrebbero impedito di fare tutto quello che desiderava fare. «Posso vederla oggi alle quattordici. T-5, ponte Sette, segua le indicazioni per Psichiatria, e chieda all'impiegato dell'accettazione. La aspettiamo. Va bene?» Non andava bene, no; aveva bisogno di molto più tempo per affrontare tutto questo... ma non poteva certo lamentarsi perché le davano un appuntamento troppo presto. «Benissimo» disse. «Grazie.» «Staremo insieme circa due ore. Poi parleremo del resto del suo trattamento.» «Grazie» ripeté Esmay. Guardò l'ora: le dieci e mezzo. Aveva ancora quelle poche ore per vivere come era sempre vissuta, e non di più. Le sembrava che un fato terribile incombesse su di lei. Andò a dire al maggiore Pitak che sarebbe stata via per parecchie ore. «Bene. Nel frattempo, voglio che venga a pranzo con me.»
Aveva lo stomaco che ribolliva. «Maggiore... davvero, non ho fame.» «Lo so, ma è anche tutta un grosso nodo stretto. Non le chiederò che cosa le succede, non adesso che ha chiesto di essere aiutata, ma non la lascio nemmeno a piangere su se stessa in qualche angolino tutta sola. Zuppa e insalata: ha bisogno di qualcosa nello stomaco prima di andare lì a rovesciare l'anima. Sarà dura.» Durante tutto il pasto, Pitak le raccontò una serie di aneddoti che non richiedevano la sua partecipazione attiva alla conversazione. Esmay mangiò molto poco, ma apprezzò la sollecitudine. «Tenente Suiza.» L'impiegato le sorrise. «So che non mi conosce, ma... tutti noi le siamo grati per quello che ha fatto. Io ho passato tutto il tempo disteso per terra, fuori combattimento, e non ricordo nemmeno che sogni ho fatto. Se non fosse stato per lei...» «E molte altre persone» disse Esmay, mentre accettava il fascicolo che l'altro le porgeva. «Oh, certo, ma tutti sanno che è stata lei a conquistare quella nave dell'Orda di Sangue e a respingerli. Dovrebbero promuoverla direttamente a capitano di un incrociatore, secondo me.» L'impiegato guardò il suo schermo, e disse: «Ecco... la stanza sarà libera fra un paio di minuti. Preferiamo rinfrescarla un po'... vuole qualcosa da bere?» Aveva di nuovo la bocca secca, ma non credeva che sarebbe riuscita a buttare giù qualcosa; aveva lo stomaco troppo chiuso. «No, grazie.» «È la prima volta che ricorre al supporto psichiatrico?» Esmay annuì; odiava l'idea di essere tanto trasparente. «Sono tutti spaventati, all'inizio» disse l'impiegato. «Ma non abbiamo ancora ammazzato nessuno.» Esmay cercò di sorridere, ma non la trovava una battuta particolarmente divertente. Una moquette di trama irregolare, color biscotto, tappezzava la stanza risalendo fino a metà delle pareti, che erano dipinte di un color crema; un sofà con un plaid drappeggiato su un'estremità e un paio di poltrone davano al compartimento; l'aria di un salottino intimo e raccolto. Era silenzioso e odorava vagamente di menta. Esmay, conscia di essersi fermata sulla soglia come una cavalla timida che non vuole varcare un cancello, si costrinse a entrare. «Salve, io sono Annie Merinha» disse la donna all'interno del compartimento. Era alta, con una treccia spessa di capelli chiari, che stavano ingri-
gendo alle tempie. Indossava pantaloni morbidi, marroni, e una camicia azzurra con un cartellino d'identità affisso sulla manica sinistra. «Qui ci diamo tutti del tu... quindi ti chiamerò Esmay, a meno che tu non abbia un soprannome che preferisci.» «Esmay va bene» disse lei, con la gola secca. «Benissimo. Può darsi che tu non lo sappia, ma una richiesta di sostegno psichiatrico autorizza il tuo terapeuta ad avere accesso a tutti i documenti del tuo dossier, comprese le valutazioni personali. Se questo è un problema, devi dirmelo adesso.» «Nessun problema» disse Esmay. «Bene. Ho guardato la tua cartella clinica, naturalmente, ma non ho fatto altro. Ci sono altre cose che devi sapere sulla terapia prima di poter partire, sempre se pensi di essere in grado di capirle bene in questo momento.» Esmay chiamò a raccolta la sua mente dall'angolino buio in cui era andata a rifugiarsi, terrorizzata. Si era aspettata di dover raccontare tutto subito... invece la cosa era molto più noiosa, ma meno dolorosa. «Di solito ci chiamano psicotate, come certamente sai. È abbastanza giusto, perché per la maggior parte non siamo né tecnici di medicina né psichiatri con una laurea in medicina. Tu vieni da Altipiano, dove mi pare che ci chiamino ancora infermiere, vero?» «Sì» disse Esmay. «È un problema per te, data la tua cultura, essere assegnata a una psicotata invece che a un medico?» «No.» Annie segnò qualcosa su un modulo. «Dunque: devi sapere che anche se le nostre sedute sono protette dal segreto professionale, questo segreto ha dei limiti. Se ho ragione di credere che tu costituisca un pericolo per te stessa o per gli altri, lo riferirò. Questo riguarda anche la partecipazione a certe forme di attività politica o religiosa che potrebbero essere pericolose per i tuoi commilitoni, e l'uso di sostanze proibite. Anche se puoi cercare di nascondere queste attività, devo in coscienza avvertirti che sono molto brava a scoprire quando qualcuno mi mente, e in ogni caso, essere disonesta con me avrà un effetto molto negativo sull'efficacia del trattamento. Vuoi continuare?» «Sì» disse Esmay. «Non faccio nessuna di quelle cose...» «Bene. Adesso veniamo al dunque. Hai detto di avere dei problemi relativi sia alle tue esperienze sulla Despite, sia ad altri eventi avvenuti prima di entrare nel Servizio. Pensavo che eventuali problemi esistenti al mo-
mento del tuo arruolamento fossero stati risolti allora.» Si fermò. A Esmay ci volle un po' per capire che c'era una domanda implicita. «Io... non l'ho detto a nessuno.» «Hai nascosto qualcosa che sapevi essere...?» «Non lo sapevo... in quel momento... non sapevo che cosa fosse.» Solo sogni, solo sogni, solo sogni, ripeteva ogni battito del suo cuore. «Mmm. Mi puoi dire qualcosa di più?» «Pensavo... che si trattasse solo di incubi» disse Esmay. «Nel modulo di ingresso c'è una domanda specifica sulla presenza di un numero elevato di incubi» disse Annie, senza particolare enfasi. «Sì... e avrei dovuto dire qualcosa, ma... non ero sicura che fossero più del normale, e volevo andarmene... volevo entrare nella scuola preparatoria...» «Quanti anni avevi allora?» «Quattordici. Il primo anno in cui potevo fare richiesta. Mi hanno detto che la domanda andava bene, ma che quell'anno erano già al completo, e poi volevano che facessi degli altri corsi nel frattempo. Così ho fatto. E poi...» «Poi sei stata accettata alla scuola preparatoria. E gli incubi?» «Allora non erano così gravi. Pensavo che qualunque cosa avessi, sarebbe passata man mano che crescevo.» «Ma non ne eri sicura?» «No... mi avevano detto che erano stati solo sogni.» «E adesso sai che non era così?» «No» rispose in tono cupo, proprio come si sentiva lei. Incrociò gli occhi di Annie. «L'ho scoperto quando sono andata a casa. Dopo la corte marziale. Ho scoperto che era vero, che era tutto vero, che mi avevano mentito!» Annie rimase seduta, tranquilla, ad aspettare che il suo respiro tornasse normale. Poi disse: «Da quel che mi pare di capire, tu dici che ti è successo qualcosa quando eri bambina, prima di entrare nella Flotta, e che la tua famiglia ti ha mentito al riguardo, ti ha detto che non ti era successo niente e che tu lo avevi solo sognato. È così?» «Sì!» Annie sospirò. «Un altro caso di violenza su minori.» Esmay alzò gli occhi. «Non si trattava di violenza, loro volevano solo...» «Esmay. Stammi a sentire. Quanto è stato doloroso per te il pensiero di impazzire perché avevi degli incubi su cose brutte, disgustose, irragionevoli?»
Rabbrividì. «Molto.» «E questo dolore lo provavi ogni giorno?» «Sì... tranne quando avevo troppo da fare per pensarci.» Annie annuì. «Se tu torturassi qualcuno ogni giorno, lo rendessi infelice ogni giorno, gli facessi credere di essere matto e cattivo, ogni giorno, lo chiameresti violenza o no questo?» «Certo...» Esmay vide la trappola, e la schivò come una vacca selvatica che scarta per evitare un recinto. «Ma la mia famiglia non... loro non sapevano...» «Ne parleremo a tempo debito. Dunque, il tuo primo problema sono questi sogni, che poi non erano affatto sogni, di qualcosa di brutto che ti è successo quando eri bambina. Quanti anni avevi quando è successo?» «Quasi sei» disse Esmay. Si preparò alle prossime domande, quelle che non sapeva se era in grado di affrontare senza crollare. «Fai ancora questi sogni, adesso che sai da dove vengono?» «Sì, a volte... e continuo a pensarci. A preoccuparmi.» «E il tuo secondo problema ha a che fare con le tue esperienze a bordo della Despite?» «Sì. L'ammutinamento... anche di quello sogno continuamente. A volte le due cose sono mescolate, come se accadessero contemporaneamente.» «Non mi sorprende. Anche se non mi hai detto che tipo di trauma c'è stato nella tua infanzia, ci sono dei paralleli: in entrambi i casi eri sotto la protezione di qualcuno, e questa protezione è venuta meno, e qualcuno di cui ti fidavi si è invece rivelato essere contro di te.» Esmay si sentì particolarmente stupida a non essersene resa conto da sola: sembrava tutto molto ovvio ora che Annie gliel'aveva detto. «Suppongo che l'ammutinamento sulla Despite abbia comportato dei combattimenti ravvicinati a bordo?» «Sì...» «E quindi, naturalmente, l'intrusione dell'Orda di Sangue ha risvegliato gli stessi sentimenti... e anche rievocato quelli del trauma precedente.» «Questa volta non ero così spaventata» disse Esmay. «Non sempre, almeno.» «Per nostra fortuna. Dunque... hai mai raccontato a nessuno gli eventi della tua infanzia?» Esmay si rese conto che incurvava le spalle. «La mia... la mia famiglia sa già tutto.» «Non era quella la mia domanda. L'hai raccontato a nessuno una volta
adulta?» «A una persona... Barin Serrano... perché si sentiva così male. Oltre al fatto che doveva venire a vederti, e... e per quello che gli era successo.» «Barin Serrano...? Ah, il guardiamarina in infermeria. È assegnato a qualcun altro, non a me. Interessante. Siete amici?» «Sì.» «Dev'essere stata dura per te raccontargli tutto... come ha reagito?» Esmay scrollò le spalle. «Non so cosa sia una reazione normale. Era molto arrabbiato con mio padre.» «Buon per lui» disse Annie. «È quella che definirei una reazione normale. Dunque... visto che l'hai già raccontato una volta, ti sembra di poterlo raccontare anche a me?» Esmay prese fiato e si buttò di nuovo nella storia. Non fu più facile... ma nemmeno più difficile, nonostante il fatto che Annie fosse un'estranea. Quando incespicava, Annie le faceva solo le domande necessarie a farla ripartire. Era sicura che fossero passate ore quando arrivò alla fine. «Pensavo... pensavo di essere impazzita. Per la febbre, o che so io.» Annie scosse la testa. «Almeno di questo non devi preoccuparti, Esmay. In base a qualunque definizione di sanità mentale, tu sei tranquillamente dal lato non patologico... e lo sei sempre stata. Sei sopravvissuta a un enorme trauma, fisico e psicologico, e anche se ha danneggiato il tuo sviluppo, non l'ha arrestato. Le tue difese erano normali; è la reazione della tua famiglia che, se si fosse manifestata in un singolo individuo, sarebbe stata definita malata.» «Ma non erano pazzi... non erano loro che si svegliavano urlando ogni notte...» Era assurdo pensare alla sua come a una famiglia di pazzi, quegli esempi di normalità che se ne andavano in giro vestiti con abiti normali, a vivere vite normali. «Esmay, avere degli incubi non è un segno di pazzia. Ti è successa una cosa terribile, e tu hai avuto degli incubi; è una reazione normalissima. Ma la tua famiglia ha cercato di fare finta che non fosse successo niente, e che i tuoi legittimi incubi fossero l'unico problema. Questo vuol dire non riuscire a confrontarsi con la realtà... e non essere in contatto con la realtà, questo sì che è un sintomo di malattia mentale. Che sia una famiglia o un altro tipo di gruppo a comportarsi così è grave come quando a farlo è un individuo.» «Ma...» «Ti riesce difficile associare la tua famiglia, che continua con le sue abi-
tudini di tutti i giorni, all'immagine mentale che hai di un disturbo mentale? Non mi sorprende. Ne parleremo ancora, e anche dei tuoi altri problemi, ma permettimi di rassicurarti: sei sana di mente, e i sintomi che presenti sono curabili. Dovremo passare un po' di tempo assieme, e avrai dei compiti da svolgere per conto tuo. Ti impegneranno per circa due ore, fra una seduta e l'altra. Le sedute si terranno ogni cinque giorni, due a decade. Adesso: hai delle altre domande?» Esmay era sicura che le domande ci fossero, ma non riusciva a farsele venire in mente. Aveva un irresistibile desiderio di stendersi da qualche parte e dormire. Era stanca come se per due ore avesse lavorato duramente e senza sosta. «Durante le prime sedute, presenterai con ogni probabilità dei sintomi psicosomatici» continuò Annie. «Sarai stanca e magari ti sentirai indolenzita. Sarai tentata di saltare i pasti o di abbuffarti di dolci... cerca di mangiare regolarmente e con moderazione. Prenditi più tempo per dormire, se puoi.» 21 Era una bella idea, ma a che serviva prendersi del tempo in più per dormire, quando non riusciva a farlo? Ogni irregolarità del soffitto e della parete, ogni oggetto nella sua cabina, le divenne intimamente familiare. Quando chiudeva gli occhi, si sentiva ancora più sveglia di prima, con il cuore che le batteva furiosamente. Ai pasti si sforzava di inghiottire meccanicamente un boccone dopo l'altro, copiando i gesti di chiunque si fosse seduto quattro posti più in giù sulla sua sinistra, inghiottendo ogni volta che lui o lei lo facevano. Nessuno sembrò mai notarlo. Si sentiva sospesa in una sfera cava: niente le sembrava alla sua portata. Fu sorpresa ma sollevata di constatare che nessuno si aspettava da lei altro che lavoro di routine, anche se la nave era drammaticamente a corto di personale. Pitak le faceva controllare infiniti elenchi di materiali in magazzino, o copiare nel database una dopo l'altra le annotazioni su come andava il lavoro sulla Wraith. Si rendeva vagamente conto che si trattava di compiti di bassa lega, più adatti a un caporale o a un pivota, ma non provava alcun rancore. Queste mansioni la tenevano occupata, assorbivano tutta la sua energia. Da qualunque parte venisse quell'empito di forza e vivacità che le aveva fatto attraversare la Koskiusko all'esterno, che l'aveva spinta dentro una nave nemica, e poi in battaglia, era ormai svanito. Qualcun altro
avrebbe dovuto occuparsi di riportare la Koskiusko nello spazio delle Familias, a ricongiungersi con il resto dello spiegamento della Flotta. Qualcun altro avrebbe dovuto pensare alle riparazioni sulla Wraith, ai danni all'interno della nave cantiere, ai morti e ai feriti. Lei non riusciva a trovare la forza per preoccuparsene. Alla seduta successiva, Esmay si trovò di nuovo a difendere la sua famiglia. «Non potevano capire» disse. «C'erano gli incubi. Urlavi talmente tanto, mi hai detto, che ti hanno mandata in esilio in una parte remota della casa...» «Non era un esilio...» «Mandare una bambina a dormire da sola, lontana da tutti gli altri? Io lo chiamo esilio. E poi eri così cambiata che qualunque adulto si sarebbe subito accorto che eri stressata. Non è vero?» Seb Coron le aveva detto che lei adorava cavalcare, prima di quell'episodio. Che era stata vivace, estroversa, avventurosa... ma tutti i bambini crescendo si lasciano alle spalle la gioia spontanea dell'infanzia. Cercò di spiegarlo ad Annie, che insisteva a ricollegare tutto ad altre motivazioni. «Quando il comportamento di un bambino cambia bruscamente, c'è sempre una ragione. Un cambiamento graduale è un criterio diagnostico meno sicuro... facendo nuove esperienze, può capitare che nuovi entusiasmi sostituiscano i vecchi. Ma un cambiamento improvviso significa sempre qualcosa, e la famiglia dovrebbe notarlo, e cercarne la causa. Nel tuo caso, naturalmente, c'era già una causa e loro la conoscevano.» «Ma non aveva nulla a che fare... hanno detto che ero solo diventata pigra...» «I bambini non diventano solo pigri. Questo è semplicemente un modo comodo che gli adulti hanno trovato per etichettare un comportamento che a loro non piace. Tu amavi andare a cavallo, prima... e poi hai smesso, e perfino dimenticato che un tempo ti piaceva. E pensi che non abbia niente a che vedere con la violenza carnale?» «Io... suppongo che sia possibile.» Si sentiva sussultare tutta, come la pelle di un cavallo che cerca di scacciare le mosche. «Ti ricordi se è avvenuto all'esterno o dentro un edificio?» «Tutti gli edifici erano stati distrutti... almeno in parte. Avevo trovato un angolo... il muro era più alto di me, ma non di molto. C'era... paglia, e io ci ero strisciata sotto...» «Che odore aveva?» Di nuovo le mancò il fiato. Una zaffata di quell'odore, che non era fumo
ma un odore diverso, le attraversò il cervello. «Una stalla» disse, tanto piano che quasi non riusciva a udirsi. «Era una stalla. Aveva odore di casa...» «Ed è per questo, probabilmente, che eri finita lì: il tuo naso ti aveva condotto verso qualcosa che non ti terrorizzava come tutto il resto. E lì, in un posto che ritenevi sicuro, perché ricordati che gli odori vanno dritti verso il centro emozionale del cervello, sei stata aggredita nella maniera più terrificante da qualcuno che portava un'uniforme che avevi sempre associato all'idea di sicurezza e protezione. E ti stupisci che da allora in poi non ti andasse di pulire una stalla?» Esmay era di nuovo stupefatta. «Ma allora non era perché ero pigra» disse, e quasi riusciva a crederci. «O perché avevo paura dei cavalli che mi si muovevano attorno...» «No. La tua memoria, a ragione, ti diceva che le stalle non erano affatto sicure come pensavi, e che potevano succedere cose orribili se venivi intrappolata in un angolo. La tua mente stava facendo il suo dovere, Esmay, e cioè cercava di tenerti al sicuro.» Le sue orecchie ascoltavano, ma la sua mente stava già negando. «Ma avrei dovuto essere in grado di...» «Non scherziamo.» Annie alzò una mano. «Prima di tutto, non potevi cambiare la lezione che ti aveva insegnato l'esperienza più di quanto un computer di basso livello possa cambiare il programma che gli installi sopra. La parte del tuo cervello che si occupa della sopravvivenza è un computer estremamente rudimentale; l'unica cosa che gli interessa è collegare gli input sensori che riceve al cibo o al pericolo. Se avessi ricevuto una terapia appropriata subito dopo il fatto, con i giusti farmaci neuroattivi, si sarebbero potuti evitare i danni peggiori... ma una traccia del trauma ci sarebbe stata comunque. La vita è questo, in fin dei conti; è per questo che è illegale cancellare le memorie.» «Vuoi dire che me lo devo tenere per sempre?» Se non c'era nulla da fare, perché tormentarsi con la terapia? «Non esattamente. Il lavoro che stiamo facendo adesso, ripensandoci passo per passo, ridurrà l'effetto complessivo. Ci sono ancora farmaci che possiamo usare, anche a questo stadio, per stabilizzare le scoperte che farai e costruire una specie di schermo fra la tua coscienza di adesso e le risposte automatiche, fintanto che nuove risposte più mature non si saranno affermate e rafforzate.» «E gli incubi?»
«Dovrebbero farsi meno frequenti, e forse scomparire del tutto, anche se potresti tornare ad avere una ricaduta in momenti di particolare stress. Altri schemi di pensiero che hanno ritardato il tuo sviluppo, come persona e come ufficiale, cambieranno con la pratica.» «Non mi piace l'idea di prendere dei farmaci» disse Esmay. «Benissimo. Le persone a cui l'idea dei farmaci piace in genere si sono già curate, finendo per prendere cose che non aiutano e che lasciano i neuroni a vagare nell'aria. Non occorre che la tua medicina ti piaccia, devi solo fidarti del fatto che io so che ti serve.» «Non posso farne a meno?» «Forse. Sarebbe una ripresa più lenta, più difficile, e meno sicura. Che cosa pensi che ti facciano i farmaci, che ti riducano nello stato di quelle povere matte dei cubi dell'orrore, che trascinano i piedi in vestaglia in un manicomio?» Siccome era stata esattamente quella l'immagine che aveva avuto in mente, Esmay non riuscì a trovare niente da ribattere. Annuì debolmente. «Quando sarai pronta per i farmaci, Esmay, ti dirò esattamente che effetto avranno su di te. Per ora, torniamo ai collegamenti fra quello che ti è successo e le cose che ti piaceva fare e che hai smesso di fare.» Le piaceva andare a cavallo, e aveva smesso di farlo. Era una cosa che ancora la sconvolgeva più degli incubi. Non si ricordava nemmeno che un tempo la cosa le fosse piaciuta: l'immagine dipinta da Seb Coron, di una bambina sempre in groppa al suo pony, le sembrava estranea. Come aveva potuto essere quella bambina e diventare questa donna? Ma se aveva creduto a Seb quando le aveva raccontato dello stupro, doveva credergli anche sul pony. Non significava niente per la Flotta, ne era sicura, ma il fatto che non fosse brava a cavalcare agli occhi della sua famiglia la rendeva diversa, e inferiore. Davvero poteva essere solo una questione di odori, del suo sistema olfattivo che andava testardamente per la sua strada, associando l'odore di un cavallo e di una stalla al terrore e al dolore che aveva provato quel giorno? Le sembrava troppo semplice. Perché il suo naso non aveva associato l'odore a tutti i ricordi piacevoli che c'erano stati in precedenza, se era vero che c'erano stati? Il suo naso, chiamato in causa, scelse quel momento per fare dei commenti sull'odore del cibo che si stava infilando in bocca senza badarci. Erano giorni che non notava nulla del genere, ma adesso l'odore le arrivò, e
si rese conto di avere la bocca piena di stufato di ganash. Odiava lo stufato di ganash, ma non poteva certo sputarlo nel piatto. Inghiottì, riuscì a sopravvivere a quel boccone, e si sciacquò la bocca con una sorsata d'acqua. «Viene a giocare con noi, tenente?» le chiese qualcuno. Chi era? Si spremette le meningi senza riuscire ad associare un nome al volto simpatico della ragazza che le aveva parlato. Barin lo avrebbe saputo. Barin... era un bel pezzo che non si vedeva. Terapia, si ricordò. Probabilmente si sentiva come lei: non in vena di giocare. Aveva bisogno di una scusa. «No grazie» disse, mettendo una parola assieme all'altra come se si trattasse di un puzzle complicato, e badando bene a controllare il tono, il volume, il timbro della sua voce. «Devo fare un po' di palestra. Magari un altro giorno.» Da lì andò infatti in palestra, che dopo le battaglie era molto meno affollata di prima. Tutti avevano la vita e gli orari sconvolti, non solo lei, e si sgridò per essere stata tanto distratta, salendo su uno dei tapis roulant. Quando si voltò, lo sguardo le cadde sulla macchina che simulava una corsa a cavallo. Non era mai salita su uno di quei cavalli virtuali durante tutta la sua permanenza nella Flotta. Non aveva nemmeno mai preso in considerazione l'idea di usarne uno. Se non le piaceva salire su un cavallo vero, perché perdere tempo con una simulazione? Però non avrebbe avuto l'odore di un cavallo vero. Il pensiero si insinuò furtivo nella sua mente, e vi evocò l'immagine di Luci sulla cavalla, due giovani animali aggraziati che si divertivano a muoversi assieme. Si sentì trafiggere dal dolore. Era mai stata, avrebbe mai potuto essere, come Luci? Avrebbe avuto anche lei quella grazia? Mai, mai... accelerò sul tapis roulant, spingendo forte sulle gambe, e per poco non cadde. La ringhiera di sicurezza era fredda al tatto. Si costrinse a rallentare, a muoversi con regolarità. Il passato era passato; non sarebbe cambiato perché imparava cose nuove, o perché lo desiderava tanto. «'Sera, tenente.» Un sottotenente che la sorpassava per raggiungere il cavallo virtuale. Montò in sella goffamente, ed Esmay capì subito, dai movimenti che faceva la macchina, che aveva scelto un programma facile, un trotto leggero in linea retta. Ma anche così, andava continuamente fuori ritmo, muovendosi sulla sella sempre un attimo dopo il necessario. Lei poteva fare di meglio. Perfino ora, poteva fare di meglio, e lo sapeva. Non aveva ragione di migliorare il suo stile di equitazione. In questa vita che aveva scelto, saper andare bene a cavallo non le serviva proprio a nien-
te. Ripensò all'odore, allo sporco, alla fatica... e la sua mente le rispose con il ricordo della velocità, della bellezza, della grazia. Di Luci... e quasi a sfiorare l'orlo della sua consapevolezza, di se stessa. Su una delle pareti della stanza di Annie (la pensava così, come la stanza di Annie, anche se non aveva ragione di credere che fosse davvero sua) uno schermo piatto mostrava un paesaggio ammorbidito dalla foschia, di una tinta sfumata di verde e oro. Non assomigliava per nulla ad Altipiano, dove le montagne si stagliavano contro il cielo, ma era un pianeta, e già questo la faceva sentire più stabile e sicura. «Nella tua cultura» cominciò Annie «una donna, o una ragazza, viene definita anche come qualcuno da proteggere. Tu eri una ragazza, e non sei stata protetta.» Non meritavo di essere protetta, fu il pensiero che le attraversò la mente. Si era avvolta nel plaid, per non tremare, e si concentrò sulla sua morbidezza, il suo calore. Era stato fatto a mano, a uncinetto, da qualcuno: qua e là c'erano degli errori. «Un bambino non ragiona come un adulto» disse Annie. «Tu non sei stata protetta, e nella tua mente di bambina, che doveva salvare soprattutto la figura di suo padre, in modo particolare in quel momento perché tua madre era appena morta, questo poteva voler dire solo due cose: o che tu non eri una vera bambina, o che non eri una brava bambina; in entrambi i casi, non eri meritevole di protezione. Secondo me la tua mente, per ragioni tue, ha scelto di credere che tu non fossi una vera bambina.» «Cosa te lo fa credere?» chiese Esmay, che ripensava a tutte le volte che qualcuno le aveva detto che era una bambina cattiva. «Il comportamento che hai tenuto da adolescente e da adulta. Quelle che pensano di essere bambine cattive agiscono da bambine cattive, qualunque cosa questo significhi nella loro cultura di origine. Nel tuo caso, probabilmente, avrebbe voluto dire intrecciare una relazione con qualunque cosa dotata di un cromosoma Y ti capitasse a tiro. Tu invece sei stata impeccabilmente buona, o almeno questo dicono i rapporti di servizio, ma non hai stabilito alcun legame di lunga durata con esponenti dell'uno o dell'altro sesso. E poi hai scelto una carriera in netto contrasto con la definizione di donna nella tua cultura di origine, come se tu fossi un figlio maschio invece di una figlia femmina.» «Ma è solo che su Altipiano...» «D'accordo, ma è lì che sei nata e cresciuta. È quella cultura che ha dato
forma alle tue aspettative profonde sul comportamento umano. Rientri nella norma, come donna, nella tua società?» «Be'... no.» «E sei abbastanza lontana dalla norma da mettere a disagio?» «Sì...» «Almeno non hai scelto l'approccio radicale: alcune persone nella tua situazione scelgono di rovesciare completamente la definizione e ridefinirsi come "cattive, non ragazze".» «Vuol dire che io adesso... non sono veramente una donna?» «Santo cielo, no. Per gli standard della Flotta, e per la maggior parte delle Familias, i tuoi interessi e comportamenti sono perfettamente nella media. Il celibato non è la norma, ma non è nemmeno raro. E poi fino a ora non l'hai mai considerato un problema, vero?» Esmay scosse la testa. «E allora non vedo perché ce ne dovremmo preoccupare. Per quanto riguarda tutto il resto, gli incubi, i flashback delle tue esperienze di combattimento, la difficoltà di concentrazione e così via, sono tutte cose che possono essere curate. Se, quando ciò che ti sconvolge sarà stato risolto, scoprirai che c'è dell'altro che ti preoccupa, ci occuperemo anche di quello.» Le sembrava ragionevole. «Secondo me, e bada bene è solo un'ipotesi, non un'opinione professionale, quando gli altri tuoi problemi saranno sistemati, non avrai difficoltà a decidere se vuoi un partner e, se lo vorrai, a trovarne uno.» Le sedute si succedevano l'una all'altra, in quella stanza confortevole con le sue stoffe morbide, i suoi colori caldi... aveva smesso di temerle, anche se avrebbe preferito che non fossero necessarie. Le sembrava ancora indecente passare tutto quel tempo a parlare di sé e della sua famiglia, soprattutto perché Annie rifiutava categoricamente di trovare alla sua famiglia delle giustificazioni per gli errori che aveva commesso. «Non è compito mio» disse Annie. «Può darsi che alla fine tu debba sforzarti di perdonarli, per poter stare meglio, ma non è compito mio né tuo trovare delle scuse, o fingere che non abbiano fatto quello che hanno fatto. Qui ci occupiamo di realtà, e la realtà è che hanno peggiorato le conseguenze di quello che ti era successo. Il loro modo di reagire ti ha lasciato con la sensazione di essere meno competente e più impotente.» «Ma ero impotente» disse Esmay. Aveva il plaid sulle ginocchia, ma non avvolto attorno alle spalle: aveva imparato a riconoscere, dalla posi-
zione che assumeva, il suo livello di stress. «Sì e no» disse Annie. «In un certo senso, qualunque bambino di quell'età è assolutamente impotente di fronte a un adulto: non ha la forza fisica per potersi difendere, se qualcuno non lo aiuta. Ma essere fisicamente impotenti e sentirsi impotenti non sono affatto la stessa cosa.» «Non capisco» disse Esmay, che aveva alla fine imparato a dirlo. «Se sei impotente, ti senti anche impotente.» Annie fissò lo schermo da parete, che questa volta mostrava una natura morta di frutta in una ciotola. «Proviamo a metterla così. La sensazione di impotenza implica che si sarebbe potuto fare qualcosa... che tu avresti potuto fare qualcosa. Non ci si sente impotenti se non si ci si sente anche in qualche misura responsabili.» «Non ci avevo mai pensato» disse Esmay. Si guardò dentro, riflettendo sull'idea... era vero? «Be'... ti senti impotente durante un temporale?» «No...» «Puoi essere magari spaventata, in certe circostanze, per esempio durante una tempesta molto violenta, ma non impotente. Le sensazioni complementari di "impotenza" e "sicurezza di sé/competenza" si sviluppano durante l'infanzia man mano che il bambino tenta di agire sull'ambiente che lo circonda. Fino a che non si sviluppa l'idea che qualcosa sia fattibile, non ci si preoccupa di farlo o non farlo.» Ci fu una lunga pausa. «Quando gli adulti impongono a un bambino la responsabilità di eventi che lui non può in alcun modo controllare, il bambino si sente impotente, e non può rifiutarlo... né può rifiutare il senso di colpa che ne consegue.» «E... questo è quello che hanno fatto a me» disse Esmay. «Sì.» «E quindi quando l'ho scoperto, e mi sono arrabbiata...» «Era una reazione del tutto ragionevole.» Glielo aveva già detto; ma questa volta Esmay riuscì a sentirglielo dire. «Sono ancora arrabbiata con loro» disse Esmay, in tono di sfida. «Ma certo» disse Annie. «Però, secondo te, mi passerà.» «Ma ci vorranno anni, non giorni. Datti tempo... hai tante cose per cui essere arrabbiata.» Con qualcuno che le dava il permesso, all'improvviso la sua rabbia le sembrò molto meno pericolosa. «Suppongo che ci siano cose peggiori...» «Qui non stiamo parlando dei loro problemi, o dei problemi di altra gen-
te, Esmay. Siamo qui per parlare dei tuoi problemi. Non sei stata protetta, e quando sei stata ferita ti hanno mentito. E come risultato hai vissuto molti anni brutti, e ti sei persa un sacco di normali esperienze di crescita.» «Avrei potuto...» Annie rise. «Esmay, una cosa ti posso dire con assoluta certezza della bambina che eri prima che succedesse tutto questo.» «Cosa?» «Che avevi una volontà di ferro. È una fortuna per l'universo che la tua famiglia sia riuscita a instillarti il senso del dovere, perché se avessi scelto di essere una bambina cattiva, saresti stata una criminale di prima classe.» Esmay fu costretta a ridere di questo. Accettò perfino di prendere i farmaci neuroattivi che Annie sosteneva fosse venuto il momento di somministrarle. «Allora, come va con le sedute psichiatriche?» chiese Barin. Era la prima volta che avevano l'occasione di parlare da quando lui era stato dimesso dall'infermeria. Erano andati al Muro, ma nessuno lo stava scalando. Meglio così; Esmay non aveva voglia di arrampicarsi, comunque. Quando guardava il Muro, vedeva l'esterno della nave, le immense superfici che sembravano sempre un po' più che verticali. «Le odio» disse Esmay. Non aveva raccontato a Barin del viaggio sulla superficie esterna della Koskiusko durante l'FTL: perfino quest'altro argomento era meglio. Non le andava di ripensare agli effetti di viaggiare senza protezione attraverso l'iperspazio. «All'inizio non era male, quando parlavo solo con Annie. Anzi, credo che mi abbia aiutato. Poi però ha insistito perché facessi questa schifosa terapia di gruppo.» «Anch'io la odio quella.» Barin arricciò il naso. «È una tale perdita di tempo... ce ne sono che non fanno che piangersi addosso, senza mai arrivare da nessuna parte.» Esmay annuì. «Pensavo che sarebbe stato spaventoso o doloroso, ma la metà del tempo semplicemente mi annoio a morte...» «Sam dice che è per questo che la terapia si tiene in momenti e luoghi speciali... perché ascoltare qualcuno che parla di sé per ore e ore è davvero noioso, a meno di non essere addestrati a fare qualcosa in risposta.» «Sam è la tua psicotata?» «Sì. Vorrei che tu fossi nel mio gruppo. Faccio ancora tanta fatica a parlare con loro; ne fanno sempre un dramma delle cose fisiche, ossa rotte e roba del genere. Non è questo il peggio...» La sua voce si spense, ma E-
smay intuì che voleva parlargliene. «E cos'è il peggio, allora?» «Non essere quello che avresti dovuto essere» disse Barin piano, distogliendo lo sguardo. «Non essere capace di fare niente... io non sono riuscito a fargli neanche un graffio, a rallentarli, niente...» Esmay annuì. «Anch'io faccio fatica a perdonarmi. Anche se so, razionalmente, che non è così, mi sembra ancora che sia stata colpa della mia debolezza, una debolezza interiore, se non li ho fermati.» «Il mio gruppo continua a dirmi che non c'era niente che potessi fare, ma a me sembra che le cose stiano diversamente. Sam dice che non me lo sono sentito dire dalla persona giusta, ancora.» «Dalla tua famiglia?» chiese Esmay, sentendosi molto audace. «No, vuol dire da me stesso. Pensa che io passi troppo tempo a pensare alla famiglia. Devo stabilire da me degli standard, dice, e giudicarmi sulla base di quelli. Ma lui non l'ha mai avuta una nonna come la mia.» «O un nonno come il mio» disse Esmay. «Ma capisco cosa vuole dire. Ti aiuterebbe davvero se tua nonna ti dicesse che hai fatto tutto quello che potevi?» Barin sospirò. «No, in realtà no. Me lo sono chiesto anch'io, e so che cosa penserei se me lo dicesse: "Povero Barin, bisogna tirarlo su di morale, aiutarlo un po'". Non voglio essere il Povero Barin. Voglio essere quello che ero. Prima.» «Non funziona» disse Esmay, che in questo aveva una lunga esperienza. «È l'unica cosa che non funziona mai. Non puoi essere quello che eri; puoi solo diventare qualcun altro, qualcuno con cui puoi convivere.» «Ed è questo il massimo in cui possiamo sperare, Esmay? Qualcuno di... tollerabile?» Guardò il pavimento come se volesse fonderlo, poi alzò gli occhi con lo sguardo più Serrano che Esmay gli avesse visto da un bel po' di tempo a quella parte. «Non mi basta. Se devo cambiare, benissimo: cambierò. Ma voglio essere qualcuno che rispetto, e che mi piaccia, non qualcuno che posso tollerare.» «Voi Serrano avete degli standard sempre molto alti» disse Esmay. «Be'... c'è questa Suiza qui attorno che continua a darmi il buon esempio.» Esempi. Non voleva dare l'esempio a nessuno: lei non era mai riuscita a essere all'altezza di quelli a cui aspirava. La sua nuova consapevolezza balzò su quel pensiero, lo rivoltò come un calzino, e lo stese ad asciugare a
un immaginario sole. Da bambina, aveva copiato le persone che amava e ammirava; aveva cercato di essere quello che volevano, per quanto riusciva a capire. Che avesse fallito non solo non era stata colpa sua, ma nel contesto più ampio della Flotta e delle Familias Regnant non si era nemmeno trattato di un fallimento. La Flotta pensava che lei avesse costituito un esempio abbastanza degno, in fondo. Ora che la Koskiusko si era riunita alle sue compagne della Flotta, aveva cominciato ad avere notizia delle reazioni dei suoi superiori. Con la testa sgombra, ogni giorno di più, dall'iniziale confusione della terapia... si rese conto che Pitak e Seveche non stavano semplicemente chiudendo un occhio di fronte alla sua debole e deplorevole necessità di essere curata; volevano sinceramente che si prendesse tutto il tempo che le serviva. I guardiamarina e i sottotenenti che cenavano alla sua tavola la trattavano con l'attenzione e il rispetto che lei aveva imparato, dopo una vita passata fra i militari, a riconoscere come segno di autentico affetto. Insomma, a tutti loro lei piaceva. Era lei che amavano, che rispettavano, e non la sua fama o la sua storia, di cui comunque non sapevano nulla. Era l'unica Suiza, e l'unica Altiplanese, che avessero mai incontrato, e gli era simpatica. E con ragione, disse Annie quando Esmay confessò il suo imbarazzo e la sua confusione. Lentamente anche lei se ne convinse, e le esperienze di ogni giorno stendevano uno strato di fiducia sopra i suoi dubbi. Di tanto in tanto guardava il cavallo virtuale in palestra, riflettendo. Non aveva detto ad Annie che aveva cominciato a essere un'ossessione per lei. Era una cosa che doveva affrontare e risolvere da sola. Improvvisamente, la sua mente afferrò quel pensiero e cominciò a osservarlo da ogni angolazione. Negazione? No... questa era una cosa che voleva davvero risolvere da sola. Era una scelta che sarebbe stata solo sua, quando fosse stata libera di compierla. «Potrei anche affezionarmi a questa vecchia bagnarola» disse Esmay, sbirciando mori dagli oblò per osservare i giochi di luce sui T-1 e T-5. «È una gran nave.» Lei e Barin avevano trovato un angolino tranquillo nel compartimento Arti e Mestieri; il Club degli Alpinisti era occupato con il Muro, e Barin le aveva confessato che non aveva più voglia di lei di arrampicarsi. A Esmay sembrava che Barin stesse molto meglio... sapeva che lei si sentiva meglio. Erano venti giorni che non aveva incubi e cominciava a sperare che se ne fossero andati per sempre. «Hai chiesto il trasferimento al Comando Manutenzione?» Barin alzò gli
occhi dal modellino che stava completando, lo scheletro di un animale esotico. Non riusciva a leggere la sua espressione, ma vide la tensione sul suo volto. «Sono tentata... ci sono ancora un sacco di cose da imparare, qui, da assorbire...» «Sì, magnifico se sei una spugna» disse Barin, con un tono che suggeriva cosa pensava delle spugne. «Impaziente, eh?» chiese Esmay, arricciando il naso nella sua direzione. «Non vedi l'ora di tornare alla vera Flotta, vero?» Barin arrossì, poi sorrise. «La terapia va bene, anche la terapia di gruppo. Potrebbe anche darsi, nel lungo periodo, che ne venga fuori qualcosa di utile.» «Attenti, ammiragli... c'è qualcuno che mira al vostro posto!» «Non proprio. E poi, quando avrò raggiunto l'età giusta, potrebbe non esserci posto per un nuovo ammiraglio, comunque. È un'altra delle ragioni per cui voglio tornare prima possibile alla mia carriera.» Si schiarì la gola. «E a te come sta andando?» «Non c'è bisogno di essere così cauti, non me ne vergogno mica. Le sedute mi hanno aiutato molto. Vorrei sapere quanto sono cambiata da me, e quanto per effetto delle medicine, ma... dicono che non ha importanza.» «Allora, che cosa hai intenzione di fare? Torni alla carriera tecnica, al rilevamento?» «Mi trasferisco» disse Esmay. «Se accolgono la domanda, cosa che spero. Per ora sono stati tutti molto incoraggianti.» Trovava ancora difficile credere quanto incoraggianti! La scorbutica Pitak per poco non era balzata sulla scrivania, e aveva, incredibile ma vero, sorriso. «Ti trasferisci dove, ragazza impossibile?» Esmay abbassò la testa, poi lo guardò dritto in faccia. «Carriera di comando. Penso che sia venuto il momento che anche qualche straniero terricolo ottenga un comando.» «Grandioso!» Barin illuminò tutto il compartimento con il suo sorriso. «E per favore... appena ottieni il comando di una nave legalmente... rimediami un posto a bordo.» «Rimediarti?» Cercò di guardarlo severamente, ma non riusciva a mantenere un'espressione severa. «Voi Serrano forse sarete abituati a farvi rimediare le cose, ma noi Suiza ci aspettiamo che la gente se lo guadagni, il comando.» Barin fece una smorfia e sospirò profondamente. «Il cielo ci aiuti... ab-
biamo permesso ai Suiza di lasciare Altipiano.» «Permesso?» Esmay scattò in avanti e gli fece il solletico. Sorpreso, Barin lasciò cadere il modellino. «Mi hai messo le mani addosso!» «Sono un'idiota» disse Esmay, sentendosi arrossire. «No... sei umana. Non sei in grado di resistere al mio fascino.» Esmay rise. «Sì, ti piacerebbe!» «Certo. Vorrei» disse Barin, cambiando improvvisamente espressione. Lentamente, tese una mano e le sfiorò una guancia. «Vorrei allearmi con questa Suiza di Altipiano. Non solo perché per due volte i Suiza hanno tirato i Serrano fuori dai guai, ma perché... perché mi piaci. Ti ammiro. E vorrei disperatamente piacerti, abbastanza perché tu mi accolga nella tua vita.» E dopo una pausa che Esmay sapeva calcolata: «E nel tuo letto.» Il cuore le accelerò. Non era pronta per questo, era riuscita a evitare di pensarci fin da quella predica di Pitak durante la crisi. Il suo corpo la stava informando con decisione che stava mentendo, che non aveva pensato quasi ad altro ogni volta che ne aveva avuto l'occasione. «Uh...» «Ma non se la prospettiva ti disgusta, naturalmente. Solo se... non avevo mai pensato che mi avresti potuto toccare, a parte darmi qualche botta sul ginocchio o sul gomito durante una partita.» Stava cercando di buttarla sul ridere, adesso, ma era rosso in volto, ed Esmay si sentì costretta ad andare in suo soccorso. «Sono timida» disse. «E non ho nessuna esperienza, anzi si potrebbe dire che sono del tutto ignorante, a parte quello che ho visto da bambina in campagna, ma spero che non assomigli per niente a quello che avevi in mente, perché era soprattutto una questione di morsi, calci e pestoni.» Barin represse una risata improvvisa. «Esmay!» «Ho detto ignorante. Non, come avrai notato, che non sono disponibile.» Nel lungo silenzio che seguì, mentre guardava le emozioni inseguirsi sul volto di Barin, avvertendo il tocco soffice come piuma delle sue dita sul suo volto, sui suoi capelli, Esmay seppellì il primo dei suoi fantasmi di fuoco. Tutte le cerimonie di premiazione seguono lo stesso rituale; Esmay si chiese se tutti quelli che ricevevano una medaglia si sentivano così stupidi, così lontani dallo stato d'animo con il quale avevano fatto ciò che li aveva resi meritevoli di quell'onore. Perché c'era quella discrepanza? Come mai il Monte Stellato l'aveva ridotta in uno stato di silenziosa ammirazione
quando l'aveva visto per la prima volta sull'uniforme di un altro, mentre aveva provato prima nulla, e poi un misto di confusione e vergogna, quando era stato appuntato sulla sua? Mentre l'ammiraglio Foxworth scambiava qualche breve battuta con ciascuno dei premiati, Esmay scoprì di essere certa che gli altri meritassero le loro medaglie, che quelle che essi ricevevano fossero decorazioni autentiche. Era la sua che le sembrava... sbagliata. Le sedute di terapia le stavano davanti come uno specchio. Da sagoma confusa nelle tenebre, il suo volto si fece chiaro, reale come tutti gli altri. Era vera anche lei... aveva fatto quello che aveva fatto, e il suo valore non dipendeva da quello che gli altri dicevano. Quello che le dava fastidio... cercò di lottare, di trascinarlo alla luce, dove poteva vederlo. Perché per gli altri le sembrava che andasse bene, e per lei no? Perché tu non te lo meriti, diceva una parte della sua mente. Sapeva ormai qual'era la risposta a quell'obiezione, sapeva dove metteva radici quella convinzione e poteva estirparle ogni volta, non importa quante volte il seme raggrinzito continuava a metterle fuori. Ma cos'altro c'era? Se... se lei diventava quella persona degna di essere onorata, degna di essere riconosciuta come meritevole in pubblico, allora... allora cosa? Allora qualcuno avrebbe potuto... guardare lei con la stessa ammirazione con cui lei aveva guardato il giovane soldato decorato. Qualcuno avrebbe preteso che lei diventasse quello che quella decorazione la faceva sembrare, che gli altri l'avevano giudicata pronta per essere. Per poco non sorrise, giungendo a quell'ultima rivelazione. Ricordava, a distanza di tanti, tanti anni, prima che iniziassero i guai, di un istruttore che aveva detto a un allievo incapace: «Non dirmi che ti ho messo su un cavallo troppo difficile: stai zitto e monta.» Poi aveva guardato lei, la piccola Esmay che arrivava a malapena all'altezza del ginocchio dei cavalli, e che assisteva dai bordi della pista. L'istruttore aveva detto: «Questa ragazzina vi farà vedere.» L'aveva sollevata e messa in groppa a un cavallo. Era la prima volta che sedeva su un cavallo vero, non un pony. Era più eccitata che spaventata, troppo piccola per sapere che non poteva fare quello che si pretendeva da lei. E non sapendolo, si limitò a restare in sella. Le sembrava di volare, così lontana da terra, così veloce. Riusciva ancora quasi a sentire il sorriso che le si era dipinto sul volto. «Così» aveva detto l'istruttore, tirandola giù di peso. E poi si era chinato su di lei: «Continua così, piccolina.» Ora non montava più i pony. Era fuori nel mondo, sui cavalli grandi, e
affrontava le siepi più alte... e avrebbe semplicemente dovuto essere all'altezza della sua reputazione, man mano che i cavalli e le siepi diventavano più alti... «Tenente Esmay Suiza.» Esmay si alzò, avanzò come da copione, e ascoltò l'ammiraglio Foxworth leggere la motivazione. Aspettò che l'ammiraglio prendesse il nastro dal vassoio, ma invece lui sollevò un sopracciglio grigio e cespuglioso. «Sa, tenente, ho letto il rapporto della Commissione d'Inchiesta.» Esmay rimase in attesa, e quando il silenzio si prolungò si chiese se ci si aspettava che rispondesse in qualche modo. Finalmente l'ammiraglio proseguì. «E l'ultimo paragrafo raccomanda in modo molto specifico che lei non assuma il comando di alcun vascello da combattimento fino a che non avrà dimostrato un sufficiente livello di competenza in addestramento. Eppure qui, nella motivazione, vedo che lei ha assunto il comando del vascello nemico Ascia di Antberd, e che in seguito ha ingaggiato battaglia contro altri vascelli nemici. Il suo comandante loda il suo spirito di iniziativa, quando invece secondo me dovrebbe condannare il suo evidente spregio delle risultanze della Commissione d'Inchiesta.» La fissò, il volto privo di espressione. «Ha nulla da dire, tenente?» Tutte le cose che voleva dire, e non doveva, le si ingarbugliarono in bocca. Era la cosa giusta? Era sicuro? Era... vero? Alla fine, disse: «Ebbene, signore, da quanto ricordo, la commissione ha raccomandato che io non assumessi il comando di alcun vascello da combattimento del Servizio Spaziale Regolare prima di aver ricevuto ulteriore addestramento... ma non ha detto nulla circa un vascello dell'Orda di Sangue.» Ci fu un lungo momento di assoluto silenzio, durante il quale Esmay ebbe tutto il tempo di pentirsi amaramente della propria audacia e considerare il potere di un ammiraglio arrabbiato. Forse era salita da sola su un cavallo troppo difficile, forse la siepe era davvero troppo alta. Poi un lento sogghigno si disegnò sul volto dell'ammiraglio, mentre rivolgeva lo sguardo oltre le sue spalle, verso il resto dell'assemblea. «E come se non bastasse, ha anche la risposta pronta» disse. La folla ruggì; Esmay sentì che il sangue le saliva alle guance. L'ammiraglio prese la medaglia e gliela appuntò. «Congratulazioni, tenente Suiza.» Dall'altra parte della siepe c'era il terreno; sarebbe sopravvissuta, per questa volta, e avrebbe continuato a cavalcare. Mentre tornava a sedere incrociò gli occhi di Barin; erano pieni di entusiasmo per lei, ed Esmay si permise di fantasticare... Suiza e Serrano. Sì. Oh, cielo, sì.
FINE