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ROBIN COOK VECTOR MINACCIA MORTALE (Vector, 1999) A Jean con affetto, stima e gratitudine Ringraziamenti Desidero ringraziare: il dottor Ken Alibek, a capo del Battelle Memorial Institute, Arlington, Virginia; il dottor Kanatjan Alibekov, ex vicedirettore del programma di offesa batteriologica dell'Unione Sovietica; il colonnello Edward M. Eitzen Jr., ufficiale medico presso l'istituto di ricerca dell'esercito americano per le malattie infettive, Fort Detrick, Maryland; Jerome M. Hauer, direttore dell'ufficio municipale gestione emergenze di New York; il dottor Jacki Lee, sostituto del capo dell'ufficio di medicina legale di Washington, la dottoressa Raissa Rubenshteyn, primario del reparto di ginecologia presso l'ospedale di Voronez, ex Unione Sovietica; e il dottor Charles Wetli, capo dell'ufficio di medicina legale della Suffolk County, New York. «Non scavare una buca per qualcun altro, potresti essere tu a cascarci dentro.» PROVERBIO RUSSO Vector, vettore: portatore di malattie infettive. Prologo Venerdì 15 ottobre Jason Papparis commerciava in tappeti da quasi trent'anni. Aveva cominciato ad Atene alla fine degli anni Sessanta, vendendo soprattutto pelli
di capra e di pecora e tappeti di pelliccia ai turisti americani. Le cose gli andavano bene, e ci si divertiva pure, in particolare con le turiste giovani, per lo più studentesse, alle quali proponeva invariabilmente e con molta grazia un assaggio della vita notturna nella sua amata città. Poi il fato ci aveva messo lo zampino. Un'afosa serata estiva era entrata nel suo negozio Helen Herman di New York e aveva carezzato con aria assente alcuni morbidi tappeti. Romantica com'era, si era lasciata catturare dall'irresistibile combinazione dei languidi occhi di Jason, delle sue ferventi attenzioni e della mistica atmosfera greca. L'ardore di lui non era stato da meno. Dopo la partenza di Helen per gli Stati Uniti, si era ritrovato inconsolabilmente solo. Aveva così avuto inizio un'appassionata corrispondenza, seguita da una visita. Il viaggio di Jason a New York aveva avuto l'effetto di attizzare ancora di più il fuoco del desiderio. Alla fine era emigrato, aveva sposato Helen e aveva trasferito la sua attività commerciale a Manhattan. Gli affari andavano a gonfie vele. I vasti contatti che aveva stabilito nel corso degli anni con i fabbricanti di tappeti in Grecia e in Turchia gli garantivano una specie di monopolio nel settore. Anziché aprire un negozio al dettaglio a New York, aveva optato saggiamente per il commercio all'ingrosso. Questo gli consentiva snellezza di gestione. Non aveva dipendenti. Tutto ciò che gli occorreva era un ufficio a Manhattan e un magazzino a Queens. Si occupava da solo degli acquisti all'estero e degli inventari e di tanto in tanto assumeva qualche impiegato con contratto a termine. Non aveva contatti con la clientela: tutto si svolgeva grazie al telefono e al fax e di conseguenza la porta del suo ufficio era sempre chiusa. Quel venerdì la posta venne infilata come sempre nell'apposita fessura, ma fra le altre cose c'era un pesante catalogo che atterrò sul parquet con un tonfo più forte del solito. Questo distrasse Jason dai conti in cui era immerso. Si alzò, appoggiando l'onnipresente sigaretta in bilico sul portacenere, e andò a prendere la posta. Contava sull'arrivo di un buon numero di assegni che avrebbero rimpolpato il suo bilancio. Tornò a sedere e smistò le buste, suddividendole in vari mucchi e gettando direttamente nel cestino la posta che non gli interessava. Prendendo in mano la penultima busta, esitò. Era spessa e quadrata, anziché rettangolare, e tastandola individuò al centro un rigonfiamento irregolare. Dando un'occhiata all'affrancatura, notò che era da lettera e non da pacchetto. Nell'angolo inferiore sinistro era stampigliato un avvertimento: AFFRANCARE A MANO. La spiegazione era: CONTENUTO FRAGILE!
Jason rigirò la busta fra le mani. Era carta di ottima qualità. Non la solita carta usata per gli opuscoli pubblicitari, eppure il mittente era: SERVIZI DI PULIZIA ACME: AFFIDATE A NOI LA VOSTRA POLVERE. La sede della ditta era nel Lower Broadway. La girò di nuovo e notò che era indirizzata a lui personalmente, non alla Corinthian Rug Company. Sotto l'indirizzo c'era scritto PERSONALE E CONFIDENZIALE. Stringendola tra l'indice e il pollice, cercò di capire quale fosse la causa del gonfiore, ma non vi riuscì. Spinto dalla curiosità, prese il tagliacarte e l'aprì. Sbirciò dentro e vide un biglietto piegato, della stessa carta pesante della busta. «Che diavolo?...» esclamò ad alta voce. Non si trattava certo della solita pubblicità. Estrasse il biglietto, meravigliandosi che qualche agenzia pubblicitaria fosse riuscita a convincere una ditta di pulizie a inviare un qualcosa di così costoso. Il biglietto era sigillato con un adesivo e sul davanti portava scritta una sola parola: SORPRESA! Jason staccò l'adesivo e il biglietto gli si aprì di botto fra le mani, mentre scattava una molla a spirale che diffondeva nell'aria una manciata di polvere, mescolata a minuscole stelline lucenti. Dapprima Jason trasalì per il movimento inatteso, e starnutì parecchie volte a causa della polvere, ma poi le labbra gli si distesero in un sorriso. All'interno del biglietto c'era la scritta: CHIAMACI E PENSEREMO NOI A PULIRE! Scosse la testa, stupito. Doveva ammettere che chiunque avesse escogitato quella pubblicità per l'ACME aveva avuto un'idea originale e intelligente, oltre che efficace. Si chiese addirittura se dovesse ingaggiarla, ma non ne aveva bisogno, poiché il servizio di pulizia era fornito dal proprietario dello stabile. Gettò nel cestino biglietto e busta e si chinò a strofinare via dalla camicia le minuscole stelline luccicanti. Sentì di nuovo un pizzichio nel naso e fece una serie di starnuti talmente forti da fargli venire le lacrime agli occhi. Come tutti i venerdì, finì di lavorare presto e si godette il bel clima autunnale raggiungendo a piedi la Grand Central Station, dove salì sul treno delle cinque e un quarto, pieno di pendolari. Quarantacinque minuti dopo, proprio mentre si stava avvicinando alla sua fermata, sentì i primi segni di malessere al petto. Gli venne istintivo deglutire, ma non gli fu di conforto. Poi si schiarì la gola, sempre senza ottenere alcun effetto, quindi si diede
qualche pacca sul petto e inspirò a fondo diverse volte. La donna che gli stava seduta accanto abbassò il giornale e gli chiese: «Si sente bene?» «Oh sì, nessun problema», rispose lui, imbarazzato. Si chiese se quel giorno non avesse fumato un po' troppo. Durante la sera, cercò di ignorare il pizzichio alla gola, che però continuava a dargli fastidio. Helen si accorse che c'era qualcosa che non andava vedendolo cincischiare con il cibo nel piatto, invece di mangiarlo. Si trovavano nel ristorante greco in cui cenavano ogni venerdì. Avevano preso quell'abitudine dopo che la loro unica figlia era andata al college e non abitava più con loro. «Sento una strana oppressione», spiegò Jason quando la moglie gli chiese che cosa avesse. «Spero che non ti prenderai un'altra volta l'influenza», commentò lei. Jason era un tipo fondamentalmente sano, ma l'eccesso di fumo lo esponeva alle infezioni alle vie respiratorie, in particolare all'influenza. Tre anni prima aveva anche avuto una brutta polmonite. «Non può essere l'influenza», obiettò. «Non è ancora la stagione, no?» «Lo chiedi a me? Non lo so, ma l'anno scorso non te la sei presa in questo periodo?» «Era novembre», rispose Jason. Quando tornarono a casa, Helen insisté che si misurasse la temperatura. Era di qualche linea superiore al normale. Discussero se fosse il caso di chiamare il dottor Goldstein, il loro medico di base, e decisero di no. Non volevano disturbarlo durante il weekend. «Perché le cose del genere capitano sempre il venerdì sera?» si lamentò Helen. Jason dormì malissimo. Nel cuore della notte fu in preda a tali vampate di calore da sudare abbondantemente, il che lo costrinse a farsi una doccia. Mentre si asciugava fu scosso da brividi di freddo. «Questo taglia la testa al toro», dichiarò Helen, mentre stendeva diverse coperte sul marito. «Domattina, la prima cosa che faremo sarà chiamare il medico.» «Che cosa credi che farà?» borbottò lui. «Ho preso l'influenza. Mi dirà di stare a letto, di prendere l'aspirina, di bere tanto e di riposarmi.» «Magari ti darà degli antibiotici.» «Ne sono rimasti un po' dall'anno scorso. Sono nell'armadietto dei medicinali. Va' a prenderli! Non ho bisogno del medico!»
Il sabato non fu una giornata positiva. Nel tardo pomeriggio Jason dovette ammettere che, nonostante l'aspirina e gli antibiotici, stava decisamente peggio. L'oppressione che provava al petto si era trasformata in vero e proprio dolore. La temperatura era salita a quaranta gradi e gli era venuta la tosse. Ma ciò di cui si lamentava maggiormente era un mal di testa tremendo, accompagnato da dolori ai muscoli. Ogni tentativo di raggiungere il dottor Goldstein fu vano, dato che il medico era andato nel Connecticut per il weekend. Il servizio di guardia medica telefonica suggerì a Helen di rivolgersi al pronto soccorso più vicino, e lei seguì quel consiglio. Dopo una lunga attesa, Jason fu visitato da un medico che rimase colpito dalle sue condizioni, soprattutto dopo una schermografia al torace, tanto che ordinò il ricovero immediato. Il caso fu assegnato al dottor Heitman, che fungeva da sostituto del dottor Goldstein. La diagnosi fu influenza con polmonite secondaria, e vennero somministrati antibiotici per via endovenosa. Jason non si era mai sentito così male in vita sua. Quando fu condotto nella sua stanza, poco prima di mezzanotte, il dolore al petto era terribile, soprattutto se tossiva, e così pure il mal di testa. Passò a vederlo il dottor Heitman, che acconsentì alla sua richiesta di un antidolorifico. Trascorse circa mezz'ora prima che il farmaco facesse effetto e nel frattempo il medico se n'era andato. Jason era steso sul letto immobile, ma incapace di dormire. Intuiva che all'interno del suo corpo infuriava una battaglia mortale. Girò la testa di lato a guardare Helen, nella penombra, e le afferrò una mano. Sua moglie era seduta accanto al letto, sveglia e silenziosa. Una lacrima rigò la guancia di Jason: ai suoi occhi, Helen era ancora la ragazza che era entrata per caso nel suo negozio ad Atene, tanti anni fa. L'immagine della moglie cominciò a offuscarsi, mentre l'agognata insensibilità si impadroniva del suo corpo. A mezzanotte e trentacinque Jason Papparis si addormentò. Per sua fortuna, restò privo di sensi quando fu portato di corsa all'unità di terapia intensiva dal dottor Kevin Fowler, che intraprese un'inutile lotta per salvargli la vita. 1 Lunedì 18 ottobre, ore 4.30 Il ronzio dei motori dell'aereo era irregolare. Un momento sembravano
urlare mentre il velivolo puntava inesorabilmente verso terra, un attimo dopo erano stranamente silenziosi, come se fossero stati spenti inavvertitamente dal pilota. Jack Stapleton fissava la scena inorridito, sapendo che a bordo c'era la sua famiglia e che lui non poteva fare niente. L'aereo sarebbe precipitato! Gridò impotente: NO! NO! NO! Il suo grido lo strappò dalle spire di quell'incubo ricorrente e si tirò su a sedere sul letto. Ansimava come se stesse giocando a basket, e il sudore gli rigava il volto. Restò disorientato, fin quando fece scorrere lo sguardo per la camera da letto. Il suono intermittente non proveniva da un aereo. Era il telefono di casa sua. Lo squillo rauco echeggiava implacabile nella notte. Jack guardò automaticamente i numeri digitali della radiosveglia che risplendevano nel buio: erano le quattro e mezzo del mattino! Non conosceva nessuno che lo avrebbe chiamato a quell'ora. Mentre allungava il braccio verso il telefono, si ricordò fin troppo bene la notte di otto anni prima, quando era stato svegliato da una telefonata con cui lo informavano che sua moglie e le sue figlie erano perite in un incidente aereo. Afferrò il ricevitore e rispose con una voce stridula e venata di panico. «Oh, penso di averti svegliato», disse una voce di donna. La linea era disturbata da un fruscio crepitante. «Non so proprio che cosa te lo faccia pensare», ribatté Jack, ormai abbastanza sveglio da essere sarcastico. «Chi parla?» «Sono Laurie. Mi spiace averti svegliato. Non potevo farne a meno.» Ridacchiò. Jack chiuse gli occhi, poi guardò di nuovo la radiosveglia, per assicurarsi di non avere visto male. Erano davvero le quattro e mezzo di mattina! «Senti», continuò Laurie, «devo fare in fretta. Voglio cenare con te stasera.» «Dev'essere uno scherzo.» «Nessuno scherzo. È importante. Devo parlare con te, e vorrei farlo a cena. Ti invito io. Di' di sì!» «Suppongo», rispose Jack, riluttante a impegnarsi. «Lo prenderò per un sì. Ti dirò dove quando ci vedremo in ufficio, stamattina. Va bene?» «Immagino.» Jack non era poi così sveglio come aveva creduto. La sua mente non lavorava con sufficiente rapidità. «Perfetto», concluse Laurie. «Allora, ci vediamo.» Jack sbatté le palpebre, quando si rese conto che la sua interlocutrice a-
veva riattaccato. Riappese la cornetta e restò a fissare il buio. Conosceva Laurie Montgomery da quattro anni, infatti era sua collega nell'ufficio di medicina legale della città di New York. Erano anche amici (in realtà, più che amici) e in tutto quel tempo lei non lo aveva mai chiamato a un'ora simile. E c'era un valido motivo. Jack sapeva che non era un tipo mattiniero. Le piaceva leggere romanzi fino a notte fonda, il che trasformava l'alzarsi mattutino in un'ardua impresa. Jack si lasciò ricadere sul guanciale con l'intenzione di dormire un'altra ora e mezzo. A differenza di Laurie, lui invece era abituato ad alzarsi presto, ma le quattro e mezzo erano un po' troppo presto, perfino per lui. Purtroppo gli divenne subito evidente che non se ne parlava proprio di farsi un'altra dormitina. Tra la telefonata e l'incubo, non riusciva a riaddormentarsi. Dopo essersi girato e rigirato nel letto per circa mezz'ora, gettò via le coperte e si trascinò in bagno, ciabattando nelle pantofole in pelle d'agnello. Con la luce accesa, si guardò nello specchio mentre si passava una mano sul viso irsuto. Notò senza farci molto caso l'incisivo sinistro scheggiato e la cicatrice sulla fronte, sotto l'attaccatura dei capelli, entrambi ricordini di un'indagine svolta al di fuori del lavoro, ma collegata a una serie di casi di malattie infettive. La conseguenza inattesa era che ormai sul luogo di lavoro era diventato di fatto il guru delle malattie infettive. Sorrise alla propria immagine. Di recente si era ritrovato a pensare che, se otto anni prima avesse guardato in una sfera di cristallo e avesse visto se stesso com'era adesso, non si sarebbe certo riconosciuto. Allora viveva nel Midwest ed era un oftalmologo abbastanza corpulento, dall'abbigliamento classico. Adesso era un medico legale di New York, magro e scattante, dai capelli striati di grigio e rasati quasi a zero, un dente scheggiato e una cicatrice sul viso. Per quanto riguardava i vestiti, dava la preferenza a giubbotti, jeans scoloriti e camicie di cotone. Evitando di pensare alla propria famiglia, Jack rimuginò sul comportamento di Laurie, una vera sorpresa. Non era da lei. Era sempre riflessiva e ci teneva all'etichetta. Non avrebbe mai telefonato a un'ora simile senza un valido motivo. Jack si chiese quale fosse. Si fece la barba ed entrò nella doccia, cercando di immaginare come mai Laurie avesse chiamato nel cuore della notte per fissare un appuntamento per la cena. Cenavano spesso insieme, ma di solito lo decidevano lì per lì. Perché questa volta aveva voluto fissarlo in anticipo, telefonando a un'ora talmente insolita?
Mentre si asciugava, decise di richiamarla. Era ridicolo mettersi a indovinare che cosa le passava per la mente. Poiché lo aveva svegliato a quel modo, era ragionevole chiederle di spiegarsi. Ma quando compose il numero trovò la segreteria telefonica. Pensando che fosse sotto la doccia, lasciò un messaggio in cui le chiedeva di richiamarlo. Ora che ebbe fatto colazione furono le sei. Dato che Laurie non lo aveva ancora richiamato, rifece il suo numero. Rimase seccato nel sentire di nuovo la segreteria telefonica e riattaccò. Ormai faceva chiaro, quindi prese in considerazione l'idea di andare al lavoro presto. Fu a quel punto che gli venne in mente che forse Laurie lo aveva chiamato dall'ufficio. Era sicuro che non fosse di turno, ma forse c'era un caso che la interessava in modo particolare. Chiamò l'ufficio di medicina legale e gli rispose Marjorie Zankowski, la centralinista del turno di notte. Gli disse di essere sicura al novanta per cento che la dottoressa Laurie Montgomery non ci fosse. L'unico medico presente era quello di turno. Provando un senso di frustrazione che rasentava la collera, Jack si arrese. Si ripromise di non spendere ulteriori energie a cercare di immaginare che cosa avesse in mente Laurie e andò in soggiorno, dove si rannicchiò sul divano con una delle molte riviste di argomento legale che non aveva ancora letto. Alle sei e tre quarti si alzò, gettò da parte la rivista e staccò dalla parete dove stava appesa la sua mountain bike Cannondale. Tenendola in equilibrio su una spalla, scese i quattro piani del caseggiato in cui abitava. La mattina presto era l'unico momento della giornata in cui non si udivano i litigi dell'appartamento 2B. Al piano terreno dovette circumnavigare la spazzatura che durante la notte era stata gettata giù dai piani superiori. Uscendo sulla 106esima Strada Ovest, inspirò a pieni polmoni l'aria ottobrina. Per la prima volta dall'inizio di quella strana giornata, si sentì rinvigorito. Inforcò la bici viola e si diresse verso Central Park, oltrepassando, alla sua sinistra, il campo da pallacanestro del quartiere, completamente vuoto. Qualche anno prima, lo stesso giorno in cui aveva ricevuto il pugno che gli aveva causato la scheggiatura dell'incisivo, gli avevano rubato la sua prima mountain bike. A quel punto aveva dato retta agli avvertimenti dei colleghi, e in particolare di Laurie, sui rischi di usare la bicicletta in città e non ne aveva comperata un'altra. Ma dopo essere stato rapinato nella metropolitana, era tornato alla sua idea originaria, mettendola in pratica.
All'inizio, con la nuova bici, era stato un ciclista piuttosto prudente, ma con il tempo era tornato alle vecchie abitudini. Quando andava avanti e indietro tra la casa e l'ufficio, dava libero sfogo alla sua vena autodistruttiva lanciandosi a rotta di collo, una cosa da far rizzare i capelli in testa. Era convinto di non aver nulla da perdere. Quelle corse spericolate, una vera sfida al fato, erano il suo modo di dire che, se era destino che la sua famiglia morisse, lui avrebbe dovuto morire con loro e forse avrebbe raggiunto sua moglie e le due figlie più prima che poi. Quando arrivò all'edificio che ospitava la sede centrale dell'ufficio di medicina legale, sull'angolo della Prima Avenue con la 30esima Strada, aveva collezionato due belle discussioni con dei tassisti e un piccolo scontro con un autobus urbano. Come niente fosse, e senza nemmeno il fiatone, parcheggiò la bici al piano terreno, vicino al deposito delle bare per i cadaveri che nessuno richiedeva, e si diresse verso la stanza delle identificazioni. Qualcun altro si sarebbe sentito con i nervi a fior di pelle, dopo un viaggio così mozzafiato, ma non Jack. Gli scontri verbali e lo sforzo fisico lo calmavano, preparandolo agli invariabili ostacoli burocratici. Nel passare accanto a Vinnie Amendola diede un colpetto all'angolo del giornale che lui stava leggendo; il tecnico dell'obitorio era seduto alla scrivania che preferiva, quella subito all'interno della stanza. Jack gli lanciò anche un «ciao», ma Vinnie lo ignorò. Come al solito, era impegnato a mandare a mente i risultati sportivi del giorno prima. Vinnie lavorava lì da più tempo di Jack. Era uno sgobbone, ma si era ritrovato per due volte sull'orlo del licenziamento per aver fatto trapelare delle informazioni che avevano imbarazzato l'ufficio e avevano messo in pericolo Jack e Laurie. Il motivo per cui Vinnie era stato soltanto ammonito e sottoposto a un periodo di prova, anziché perdere il posto, era dovuto alle circostanze attenuanti del suo comportamento. Un'indagine aveva determinato che era stato vittima di un'estorsione da parte di alcuni ripugnanti esponenti della malavita. Il padre di Vinnie era vagamente collegato con la mafia. Jack salutò il dottor George Fontworth, un collega corpulento che aveva un'anzianità maggiore di lui di ben sette anni. George stava iniziando proprio allora a svolgere la mansione che gli sarebbe spettata per tutta la settimana: controllare i decessi della notte precedente e decidere per quali fosse necessaria l'autopsia e a chi assegnarla. Era per quello che si trovava già lì. Normalmente era l'ultimo ad arrivare. «Un bel benvenuto», mugugnò Jack nel vedere che anche George, come
Vinnie, non rispondeva al suo saluto. Si riempì la tazza con il caffè che trovò già pronto, come al solito. Vinnie arrivava sempre prima degli altri tecnici per assistere il medico di turno nel caso avesse bisogno. Una delle sue incombenze era di preparare il caffè in un bricco che metteva a disposizione di tutti. Con la tazza in mano, Jack si avvicinò a George e diede un'occhiata da dietro le sue spalle ai fogli che teneva in mano. «Scusa, eh!» gli disse il collega in tono petulante, e piegò i fogli in modo che lui non potesse guardarli. Una delle sue fobie era che la gente gli leggesse dietro le spalle. Jack e George non erano mai andati molto d'accordo. Jack non era molto tollerante verso la mediocrità e si rifiutava per principio di nascondere ciò che provava. George poteva anche possedere credenziali astronomiche (aveva fatto pratica con un gigante della medicina legale) ma, a parer suo, sul lavoro si comportava in modo superficiale. Jack non nutriva rispetto per lui. Sorrise alla reazione di George. Provava un piacere perverso nel punzecchiarlo. «Niente di particolarmente interessante?» gli domandò, e girò attorno alla scrivania, portandosi sul davanti. Cominciò a sfogliare con l'indice le varie cartellette, per leggere le diagnosi presunte. «Avevo tutto in ordine!» sbottò George. Gli spinse da parte la mano e ristabilì l'integrità fisica della pila di cartellette. Le stava disponendo in base alla causa e alle modalità del decesso. «Che cos'hai da darmi?» chiese ancora Jack. Una delle cose che gli piacevano maggiormente del suo lavoro era che ogni giorno non sapeva mai di che cosa avrebbe dovuto occuparsi. Quando era oftalmologo non era così. Sapeva che cosa doveva fare ogni singolo giorno con tre mesi di anticipo. «Ho un caso di malattia infettiva», gli rispose il collega. «Anche se non credo che sia particolarmente interessante. Se lo vuoi, è tuo.» «Come mai lo hanno mandato qui? Niente diagnosi?» «Solo una diagnosi presunta: probabilmente influenza, con polmonite secondaria. Ma il paziente è morto prima che siano arrivati i risultati delle colture. A complicare le cose c'è il fatto che non si è visto niente nella colorazione di Gram. E per di più il suo medico era via per il weekend.» Jack prese la cartelletta. Il nome era Jason Papparis. Estrasse la scheda informativa compilata da Janice Jaeger, l'investigatrice legale (chiamata anche assistente del medico) del turno di notte. Nel dare una rapida occhia-
ta alla scheda, Jack annuì ammirato: Janice si era rivelata, come al solito, molto scrupolosa. Dalla volta in cui le aveva suggerito di chiedere informazioni sui viaggi all'estero e sui contatti con animali, per i casi infettivi, non aveva mai mancato di farlo. «Accidenti se era un'influenza potente!» commentò Jack. Aveva notato che il deceduto era rimasto in ospedale meno di ventiquattr'ore. Osservò anche, però, che era un fumatore accanito e che nell'anamnesi erano presenti problemi alle vie respiratorie. Questo sollevava la questione se fosse stato particolarmente potente l'agente infettivo o insolitamente predisposto il paziente. «Lo vuoi o no?» insisté George. «Stamattina abbiamo un sacco di casi. Te ne ho già assegnati degli altri, tra cui quello di un prigioniero morto durante la custodia cautelare.» «Che seccatura!» borbottò Jack. Sapeva che tali casi avevano spesso complicate ricadute di tipo politico e sociale. «Sei sicuro che Calvin, il nostro intrepido sostituto del capo, non lo voglia fare lui?» «Mi ha telefonato prima e mi ha detto di assegnarlo a te», replicò George. «Ha già tastato il polso su nelle alte sfere politiche e ha pensato che tu sei quello che può svolgere meglio questa incombenza.» «Questa sì che è bella», commentò Jack. Non aveva senso. Il sostituto del capo, come pure il capo in persona, stavano sempre a lamentarsi per la sua mancanza di diplomazia e per il fatto che non teneva in considerazione gli aspetti politici e sociali impliciti nella professione di un medico legale. «Se non vuoi il caso infettivo, ti darò un'overdose», gli propose George. «Prendo l'infettivo», decise Jack. I casi di overdose non gli piacevano. Erano ripetitivi, e il loro ufficio ne era invaso. Non offrivano sfide intellettuali. «Bene», disse George, e fece un segno sul suo elenco. Desideroso di avvantaggiarsi sul tempo, Jack si avvicinò a Vinnie e gli piegò l'angolo del giornale. Il tecnico sollevò lo sguardo su di lui, immusonito, gli occhi neri come il carbone. Sapeva quello che sarebbe seguito, e non gli piaceva. Succedeva quasi tutti i giorni. «Non mi dirai che vuoi già cominciare?» gemette. «Chi dorme non piglia pesci», replicò Jack. Quel proverbio trito e ritrito era la risposta automatica all'invariabile mancanza di entusiasmo che Vinnie mostrava ogni mattina. Quel commento non mancava mai di provocarlo ulteriormente, anche se sapeva che lui lo avrebbe fatto. «Vorrei tanto sapere perché non potresti arrivare qui quando ci vengono
tutti gli altri», borbottò Vinnie. Nonostante le apparenze, loro due andavano magnificamente d'accordo. A causa della tendenza di Jack ad arrivare presto, lavoravano invariabilmente insieme e ormai avevano messo a punto un rituale che scorreva liscio come l'olio. Fra tutti i tecnici, era Vinnie quello che Jack preferiva, e Vinnie preferiva Jack. Secondo lui, Jack non «cazzeggiava». «Hai già visto la dottoressa Montgomery?» gli chiese Jack mentre si dirigevano verso l'ascensore. «È troppo intelligente per venire così presto», rispose il tecnico. «È normale, lei, mica come te.» Mentre attraversavano la stanza del centralino, Jack notò la luce accesa nel cubicolo del sergente Murphy. Il sergente faceva parte del dipartimento di polizia di New York, sezione persone scomparse. Erano anni che era stato distaccato presso l'ufficio di medicina legale e non arrivava mai prima delle nove. Curioso di verificare se il focoso irlandese fosse effettivamente nella sua stanza, Jack fece una piccola deviazione e cacciò dentro la testa. Non soltanto Murphy c'era, ma non era solo. Seduto dall'altra parte della sua scrivania c'era il tenente Lou Soldano, investigatore della squadra omicidi, un visitatore assiduo dell'obitorio. Jack lo conosceva abbastanza bene, in particolare perché era un buon amico di Laurie. Vicino a lui c'era un altro uomo in borghese che Jack non aveva mai visto. «Jack!» lo chiamò Lou appena lo vide. «Entra un minuto! Ti voglio presentare una persona.» Jack entrò nella minuscola stanzetta e Lou si alzò. Come al solito, aveva l'aria di essere rimasto alzato tutta la notte. Non si era sbarbato (le guance sembravano imbrattate di fuliggine) e aveva profonde occhiaie. Inoltre, gli abiti erano stazzonati, la camicia aveva il bottone del colletto aperto e il nodo della cravatta era allentato. «Questo è l'agente speciale Gordon Tyrrell», disse Lou, indicando l'uomo seduto accanto a lui. Quello si alzò e tese la mano. «Significa FBI?» chiese Jack, mentre gliela stringeva. «Proprio così», rispose Gordon. Jack non aveva mai stretto la mano a un membro del Federal Bureau of Investigation. Non era decisamente l'esperienza che si immaginava. La mano di Gordon era liscia, quasi effeminata, e la stretta debole ed esitante. L'agente era un uomo minuto, dai lineamenti delicati, di certo non lo stereotipo del macho di cui si era nutrito Jack. Indossava abiti classici, perfet-
tamente in ordine. La giacca era completamente abbottonata. Per certi aspetti era l'antitesi di Lou. «Che cosa sta succedendo?» chiese Jack. «Non riesco a ricordarmi l'ultima volta che ho visto qui Murphy così di buon'ora.» Murphy rise e fece per protestare, ma Lou lo interruppe. «La scorsa notte c'è stato un omicidio che preoccupa particolarmente l'FBI. Speriamo che l'autopsia possa far luce sulle sue dinamiche.» «Che genere di caso?» volle sapere Jack. «Arma da fuoco o pugnalate?» «Un po' di tutto», rispose Lou. «Il cadavere è uno sfacelo. Tanto da rivoltare lo stomaco anche a te.» «È già stata fatta l'identificazione?» chiese ancora Jack. A volte, quando i cadaveri erano molto danneggiati, l'identificazione era la parte più difficile. Aggrottando le sopracciglia, Lou guardò Gordon. Era evidente che non sapeva quanto fosse riservato quel caso. «Va bene», concesse Gordon. «Sì, lo hanno identificato», rispose allora Lou. «Si chiamava Brad Cassidy. Un bianco di ventidue anni, uno skinhead.» «Vuoi dire uno di quei razzisti svitati con i tatuaggi nazi, il giubbotto di pelle nera e gli stivali neri?» Jack ne aveva visto qualche esemplare, di tanto in tanto, che ciondolava per i parchi cittadini. Quando andava a trovare sua madre, nel Midwest, ne vedeva anche di più. «Ci sei», confermò Lou. «Gli skinhead non hanno tutti delle decorazioni nazi», osservò Gordon. «Sì, infatti», confermò Lou. «E alcuni di loro non hanno nemmeno più le teste rasate. Il loro stile ha subito qualche modificazione.» «La musica no», intervenne di nuovo Gordon. «Quella è stata probabilmente la parte più consistente dell'intero movimento e di certo fa parte dello stile.» «Questa è una cosa di cui io non so proprio niente», ammise Lou. «Non mi sono mai occupato di musica.» «Be', è importante rispetto agli skinhead americani», spiegò Gordon. «La musica ha fornito al movimento la sua ideologia di odio e violenza.» «Stai scherzando?» chiese Lou. «Solo a causa della musica?» «Non esagero. Qui negli Stati Uniti, a differenza che in Inghilterra, il movimento skinhead è iniziato semplicemente come uno stile, tipo il punk, con atteggiamenti offensivi e scioccanti nell'aspetto e nel comportamento. Ma la musica di gruppi come gli Screwdriver e i Brutal Attack e un muc-
chio di altri ha creato un cambiamento. I testi delle canzoni hanno promosso una filosofia esagitata di sopravvivenza e ribellione. Ecco da dove provengono l'odio e la violenza.» «Così, lei è una specie di esperto degli skinhead?» domandò Jack. «Solo per necessità», si schermì Gordon. «Il mio vero campo di interesse sono le milizie di estrema destra. Ma ho dovuto espandere il mio raggio di indagine. Purtroppo, la Resistenza Bianca Ariana si è messa a reclutare skinhead per utilizzarli come una specie di truppe di attacco, attingendo a quel pozzo di odio e di violenza che la musica ha generato. Adesso un sacco di gruppi neofascisti hanno seguito l'esempio per le loro milizie, facendo fare ai ragazzi il lavoro sporco e interessandoli alla propaganda nazista.» «Di solito questi tipi non se la prendono con le minoranze?» chiese Jack. «Che cosa è accaduto stavolta? Qualcuno ha reagito?» «Gli skinhead hanno la tendenza a combattersi fra loro, oltre che attaccare gli altri», spiegò Gordon. «E questo è proprio un caso simile.» «Come mai così tanto interesse per Brad Cassidy? Avrei pensato che uno in meno di questi tizi non farebbe che rendervi più facile la vita.» Vinnie cacciò dentro la testa nella stanza, informando Jack che, se avesse continuato a dar fiato alla bocca, lui sarebbe tornato a leggere il New York Post. Jack lo scacciò via con un gesto della mano. «Brad Cassidy lo avevamo reclutato come potenziale informa tore», rivelò Gordon. «Aveva ottenuto degli sconti di pena per diversi crimini, in cambio della collaborazione. Stava cercando di scoprire una organizzazione chiamata Esercito Ariano del Popolo.» «Non ne ho mai sentito parlare», commentò Jack. «Nemmeno io», ammise Lou. «È un gruppo piuttosto nebuloso», spiegò Gordon. «Tutto ciò che sappiamo è quello che siamo riusciti a intercettare da Internet che, a proposito, è diventato il maggior mezzo di comunicazione di questi pazzoidi neofascisti. Sappiamo che l'Esercito Ariano del Popolo ha la sua collocazione nell'area metropolitana di New York e che ha reclutato alcuni skinhead locali. Ma la parte più allarmante sono alcuni vaghi riferimenti a un imminente avvenimento di grande importanza. Temiamo che abbiano in mente qualcosa di violento.» «Una cosa tipo il bombardamento del Murrah Building a Oklahoma», aggiunse Lou. «Un atto terroristico in grande stile.» «Buon Dio!» esclamò Jack.
«Non abbiamo idea del che cosa, del dove e del quando», ammise Gordon. «Speriamo che sia solo un atteggiamento, una vanteria: spesso per questi gruppi è così. Non vogliamo correre rischi. Poiché il controspionaggio è l'unica vera difesa contro il terrorismo, stiamo facendo del nostro meglio. Abbiamo avvisato dell'emergenza gli amministratori della città, ma purtroppo sono poche le informazioni che siamo in grado di dare.» «In questo momento l'unica traccia che abbiamo è uno skinhead morto», commentò Lou. «Ecco perché ci interessa così tanto l'autopsia. Speriamo in un indizio, qualsiasi indizio.» «Volete che ve la faccia subito?» si offrì Jack. «Stavo per dedicarmi a un caso infettivo, ma può aspettare.» «Ho chiesto a Laurie di farla», disse Lou, arrossendo quel tanto che glielo permetteva l'incarnato scuro, da italiano del Sud. «E lei ha detto che le andava bene.» «Quando le hai parlato?» chiese Jack. «Stamattina.» «Davvero», commentò Jack. «Dove l'hai trovata? A casa?» «In realtà mi ha chiamato lei. Mi ha trovato al cellulare.» «Che ora era?» Lou esitò. «È stato verso le quattro e mezzo di mattina?» insisté Jack. Il mistero di Laurie si stava infittendo. «Più o meno», ammise Lou. Jack lo prese per il gomito. «Scusateci», disse a Gordon e al sergente Murphy, e portò Lou nella stanza del centralino. Marjorie Zankowski rivolse loro una rapida occhiata, prima di rimettersi a lavorare a maglia. Il centralino era muto, in quel momento. «Laurie mi ha chiamato alle quattro e mezzo», disse Jack in un sussurro. «Mi ha svegliato. Non che mi stia lamentando. In realtà è stato un bene che mi abbia svegliato. Avevo un incubo. Ma so che erano esattamente le quattro e mezzo perché ho guardato la sveglia.» «Be', forse erano le quattro e trentacinque quando ha chiamato me», disse Lou. «Non me lo ricordo esattamente. Ho avuto molto da fare, stanotte.» «Per cosa ha chiamato?» chiese ancora Jack. «Era un'ora strana per fare una telefonata, non ti pare?» Lou gli piantò addosso i suoi occhi scuri. Era evidente che si stava chiedendo se fosse opportuno rivelargli il motivo della chiamata di Laurie.
«Va bene, forse non era una domanda da farsi», ammise Jack, sollevando le mani in uno scherzoso gesto di difesa. «Facciamo così, invece: sarò io a dirti perché mi ha telefonato. Voleva cenare con me, stasera. Ha detto che era importante, che voleva parlarmi. Questo spiega qualcosa, considerato ciò che ha detto a te?» Lou increspò le labbra ed emise un leggero soffio. «No. Mi ha detto la stessa cosa. Mi ha invitato a cena.» «Non mi stai prendendo in giro, vero?» Non c'era niente di razionale in tutto ciò. Lou scosse la testa. «Che cosa le hai detto?» gli chiese Jack. «Che ci sarei andato.» «Di cosa pensi che ti volesse parlare?» Lou esitò. Era di nuovo evidente che si trovava a disagio. «Immagino che sperassi di sentirle dire che le mancavo. Sai, una cosa del genere.» Quella rivelazione era toccante. Gli sembrava evidente che Lou fosse innamorato di Laurie. Questo costituiva una complica zione, perché per molti versi anche lui provava la stessa cosa per lei, anche se era riluttante ad ammetterlo. «Non devi dire niente», aggiunse Lou. «Lo so di essere un babbeo. Solo che a volte mi sento solo, e apprezzo la sua compagnia. In più, si trova bene con i miei figli.» Jack gli mise una mano sulla spalla. «Non penso affatto che tu sia un babbeo. Assolutamente. Speravo solo che potessi aiutami a far luce su quello che ha in mente.» «Non ci resta che chiederglielo. Ha detto che arriverà un po' tardi stamattina.» «Conoscendo Laurie, ci farà aspettare fino a stasera», commentò Jack. «Ha detto quanto avrebbe fatto tardi?» «No.» «Anche questo è strano. Se alle quattro e mezzo era già in piedi, come mai farà tardi?» Lou si strinse nelle spalle. Jack ritornò nella stanza delle identificazioni, e intanto gli frullavano nella mente pensieri relativi a Laurie e al terrorismo Era una strana combinazione. Rendendosi conto che al momento c'era poco che potesse fare per entrambe le cose, strappò per la seconda volta Vinnie dal suo giornale, deciso a dare inizio alla giornata di lavoro. Sentiva il bisogno di concentrarsi
su un problema che avesse una soluzione immediata. Nel passare davanti all'ufficio di Janice Jaeger, ficcò dentro la testa. «Ehi, hai fatto proprio un bel lavoro con il caso Papparis», si complimentò con lei. Janice sollevò lo sguardo dalla scrivania. Le occhiaie erano molto evidenti, come al solito. Jack non poté fare a meno di chiedersi se dormiva almeno un po'. «Grazie», rispose Janice. «Faresti meglio a concederti un po' di riposo.» «Stacco appena avrò concluso questo caso.» «C'è niente di extra che dovremmo sapere riguardo Papparis?» le chiese Jack. «Penso che sia tutto nella scheda. A parte il fatto che il medico con cui ho parlato era decisamente sconvolto. Mi ha detto di non aver mai visto un'infezione più aggressiva. Gli farebbe piacere che lo chiamassi, dopo aver fatto l'autopsia. Il suo nome e il numero di telefono sono sul retro della scheda informativa.» «Gli telefonerò appena avremo scoperto qualcosa», promise Jack. Entrò in ascensore con Vinnie, che borbottò: «Questo caso mi fa venire la pelle d'oca. Mi ricorda il caso di peste che ci è capitato qualche anno fa. Spero che questo non sia l'inizio di qualche tipo di epidemia». «Lo spero anch'io», replicò Jack. «A me comunque ricorda di più un caso di influenza che quello di peste. Dovremo stare attentissimi alla contaminazione.» «Certo, non occorre nemmeno dirlo. Se fosse possibile, mi metterei addosso due scafandri, invece di uno.» Vinnie indossava già gli indumenti da lavoro e così, mentre Jack andava a spogliarsi, si infilò lo scafandro. Poi entrò nella sala delle autopsie, la «fossa», come la chiamavano scherzosamente, e intanto Jack passò in rassegna tutto il materiale contenuto nella cartelletta, in particolare il rapporto investigativo redatto da Janice Jaeger. Una lettura più attenta gli fece notare una cosa che gli era sfuggita la prima volta: il deceduto commerciava in tappeti. Jack si chiese che tipo di tappeti e da dove provenissero. Si ripromise di parlarne con gli investigatori legali. Poi pose su un visore i raggi X di Papparis. Comprendevano tutto il corpo e quindi non erano tanto validi dal punto di vista diagnostico. In particolare, il dettaglio del petto era indistinto. Però c'erano due cose che attirarono la sua attenzione: c'erano tracce scarsissime di polmonite (il che sem-
brava sorprendente, considerato il rapido deterioramento delle vie respiratorie) e la parte centrale del petto, compresa tra i due polmoni (il mediastino) pareva più larga del solito. Infine si bardò in quello che veniva chiamato scafandro: una tuta anticontaminazione che copriva anche la testa, con una visiera di plastica trasparente e fornita di un sistema di ventilazione a batterie che assicurava il ricambio d'aria, filtrando quella proveniente dall'esterno. Nel frattempo Vinnie aveva sistemato il cadavere sul tavolo e aveva allineato tutti i recipienti per i campioni. «Che cosa diavolo hai fatto là fuori?» si lamentò, quando comparve Jack. «A quest'ora potevamo aver già finito.» Jack rise. «E guarda un po' questo qui», aggiunse Vinnie, indicando il cadavere. «Non ha l'aria di uno che sta andando a ballare.» «Che memoria!» commentò Jack, riconoscendo una propria battuta. L'aveva fatta in occasione del caso di peste a cui si era riferito Vinnie poco prima ed era entrata a far parte del loro umorismo macabro. «E non è la sola cosa che mi ricordo», aggiunse Vinnie. «Mentre tu eri lì a perdere tempo, ho cercato punture di artropodi e non ne ho trovate.» «Accidenti, sono impressionato!» commentò Jack. Durante il caso di peste aveva detto a Vinnie che gli artropodi, in particolare gli insetti e gli aracnidi, svolgevano un ruolo importante come vettori nella diffusione di molte malattie infettive. Quando si eseguiva l'autopsia di uno di questi casi, era importantissimo cercarne eventuali tracce. «Prima o poi mi ruberai il lavoro.» «Quello che mi piacerebbe sarebbe prendere il tuo stipendio», replicò Vinnie. «Il lavoro te lo puoi tenere.» Jack eseguì l'esame esterno. Vinnie aveva ragione: non c'erano segni di punture. Non si scorgevano nemmeno porpora o altri indizi di emorragia sottocutanea, anche se la pelle sembrava avere una tonalità leggermente scura. L'esame interno fu tutta un'altra storia. Appena Jack aprì il petto, la patologia fu subito evidente. Sulla superficie dei polmoni c'era inequivocabilmente del sangue, una condizione chiamata effusione pleurica emorragica. Abbondante emorragia e segni di infiammazione erano visibili anche nelle strutture situate fra i polmoni, che comprendevano l'esofago, la trachea, i bronchi maggiori, i vasi sanguigni e una conglomerazione di nodi linfatici. Questo reperto veniva chiamato mediastinite emorragica, e spiegava l'om-
bra piuttosto larga che si notava nei raggi X. «Accidenti!» commentò Jack. «Con tutta questa emorragia non credo che sia stata l'influenza. Qualsiasi cosa fosse, si è diffusa come un incendio di sterpaglie.» Vinnie lo guardò dando segni di nervosismo. Faceva fatica a vedergli il viso, a causa del riflesso delle luci fluorescenti sulla visiera di plastica, ma non gli piaceva il tono della sua voce. Era difficile che Jack restasse impressionato da ciò che vedeva nella sala delle autopsie, ma in quel momento lo sembrava proprio. «Che cosa pensi che sia?» gli chiese. «Non lo so», ammise Jack. «Ma la combinazione fra la mediastinite emorragica e l'effusione pleurica mi fa squillare un campanello in un angolino della mente. Da qualche parte ho letto qualcosa al proposito, solo che non mi ricordo dove. Comunque, sia quel che sia, si tratta di una cosa davvero aggressiva.» Vinnie compì istintivamente un passo indietro. «Adesso non farmi il coniglio», lo ammonì Jack. «Torna qua e aiutami a tirar fuori gli organi addominali.» «Va be', ma promettimi di essere prudente. Certe volte vai un po' di fretta con quel coltello», borbottò Vinnie, accostandosi di nuovo al tavolo. «Io sono sempre prudente.» «Certo!» esclamò Vinnie con sarcasmo. «Ecco perché te ne vai in giro per la città con quella tua bici.» Mentre si concentravano sul loro caso, cominciarono ad arrivare altri cadaveri che vennero posti sui rispettivi tavoli dai tecnici dell'obitorio. Poi arrivarono uno dopo l'altro i vari medici legali. Prometteva di essere una giornata con molto lavoro, nella fossa. «Che cosa ti è toccato?» chiese una voce, alle spalle di Jack. Lui si raddrizzò e si voltò, trovandosi davanti il dottor Chet McGovern, il collega con cui divideva l'ufficio. Erana stati assunti lì dentro a distanza di un mese uno dall'altro e andavano d'accordissimo, soprattutto perché entrambi si appassionavano al lavoro che facevano. Anche Chet aveva sperimentato un altro campo della medicina, prima di dedicarsi alla patologia legale. Dal punto di vista della personalità, invece, erano alquanto diversi. Chet non era sarcastico come Jack e non gli capitava di avere problemi con i superiori. Jack gli descrisse sommariamente il caso Papparis, indicandogli la patologia del petto. Gli mostrò anche la superficie incisa dei polmoni, che rive-
lava una polmonite appena accennata. «Interessante», commentò Chet. «L'infezione doveva essere di quelle che si propagano nell'aria.» «Senz'altro. Ma perché solo qualche accenno di polmonite?» «E che ne so? Sei tu l'esperto di malattie infettive.» «Vorrei che fosse vero», mormorò Jack, rimettendo con precauzione il polmone nella bacinella. «Sono sicuro di aver sentito parlare di questa combinazione di reperti, ma accidenti se mi ricordo di cosa si tratta!» «Scommetto che lo scoprirai», lo rincuorò Chet e fece per andarsene, ma Jack lo chiamò, chiedendogli se avesse visto Laurie. Lui scosse la testa. «Non ancora.» Jack sollevò lo sguardo verso l'orologio alla parete. Erano quasi le nove. Avrebbe dovuto essere lì già da un'ora. Alzò le spalle e continuò a lavorare. Adesso doveva rimuovere il cervello. Poiché lui e Vinnie lavoravano spessissimo insieme, avevano stabilito una routine di incisioni nella testa che non richiedeva parole. Anche se Vinnie si sobbarcava un bel po' di lavoro, era sempre Jack a sollevare la calotta cranica. «Accidenti!» commentò, appena il cervello fu visibile. Come i polmoni, aveva molto sangue sulla superficie. Quando questo si verifica in un caso infettivo, in genere significa meningite emorragica, o un'infiammazione delle meningi talmente forte da causare emorragia. «Questo tizio doveva avere un mal di testa del diavolo», fu la supposizione di Vinnie. «Sì, e anche un dolore opprimente al petto», confermò Jack. «Il poverino probabilmente si sentiva come se fosse stato investito da un treno.» «Che cos'hai tra le mani, dottore?» chiese una voce profonda. «Un aneurisma che è scoppiato o la vittima di un trauma?» «Nessuno dei due», rispose Jack. «È un caso infettivo.» Si voltò e si ritrovò davanti la sagoma imponente del dottor Calvin Washington, il sostituto del capo. «Proprio l'ideale», commentò quello. «Le malattie contagiose sono pane per i tuoi denti. Hai fatto una diagnosi provvisoria?» Calvin si chinò sul tavolo per vedere meglio. Vicino a lui Jack, per quanto muscoloso, appariva minuto. Calvin, un vero gigante afroamericano con predisposizione per l'atletica, avrebbe potuto diventare un giocatore di football professionista, se non avesse preferito la facoltà di medicina. Suo padre aveva esercitato a Filadelfia come chirurgo di tutto rispetto e lui
era deciso a seguire la carriera paterna. «Fino a due secondi fa non ne avevo la più pallida idea», rispose Jack, «ma appena ho visto il sangue sulla superficie del cervello mi è venuta in mente una cosa. Mi ricordo di aver letto del carbonchio polmonare, un paio di anni fa, quando sgobbavo sulle malattie infettive.» «Carbonchio?» Calvin si lasciò andare a una risatina di incredulità. Jack aveva la peculiarità di venirsene fuori con diagnosi esotiche. Anche se spesso finiva con l'aver ragione, il carbonchio, la malattia infettiva che colpisce i ruminanti e occasionalmente trasmessa agli umani, sembrava andare oltre ogni possibile realtà. In tutti gli anni trascorsi come anatomopatologo, ne aveva visto un solo caso, un allevatore di bestiame dell'Oklahoma, e non era polmonare. Era la forma più comune, quella cutanea. «A questo punto la mia supposizione è il carbonchio», disse Jack. «Sarà interessante vedere se il laboratorio lo confermerà. Naturalmente, potrebbe saltar fuori che questo paziente aveva un sistema immunitario compromesso, di cui nessuno era a conoscenza. Allora magari si tratterebbe di un agente patogeno che si trova in qualsiasi giardino.» «L'esperienza mi dice di non fare scommesse con te, ma hai scelto una malattia davvero rara, qui negli Stati Uniti.» «Be', non mi ricordo quanto sia rara. Tutto ciò che mi ricordo è che va di pari passo con la mediastinite emorragica e con la meningite.» «Che ne dici del meningococco?» propose Calvin. «Perché non scegliere qualcosa di più comune?» «Il meningococco è possibile», ammise Jack, «ma non lo metterei in cima alla lista, non con la mediastinite emorragica. Inoltre, non c'era porpora, e con il meningococco mi aspetterei una maggiore purulenza sulla superficie del cervello.» «Be', se salta fuori che è carbonchio fammelo sapere più prima che poi», fu la richiesta di Calvin. «Sono certo che all'ufficiale sanitario interesserà. Quanto al prossimo caso, ti hanno informato che sono stato io a chiedere di assegnarlo a te?» «Sì, ma perché io? Tu e il capo vi lamentate sempre della mia mancanza di diplomazia. Un decesso durante la custodia cautelare solleva sempre un vespaio politico. Sei sicuro di volere me?» «I tuoi servigi sono stati espressamente richiesti da persone al di fuori di questa sede», gli rivelò Calvin. «Evidentemente la tua mancanza di diplomazia è considerata un tratto positivo dalla comunità afroamericana. Puoi essere una spina nel fianco per me e per il capo, ma ti sei conquistato una
reputazione di integrità professionale presso certi leader di gruppi minoritari.» «Forse grazie ai miei exploit sul campo di basket del quartiere. Faccio raramente falli.» «Perché devi sempre buttare in vacca i complimenti?» Il tono di Calvin era irritato. «Magari perché mi mettono a disagio. Preferisco le critiche.» «Santa pazienza!» esclamò Calvin. «Senti, assegnando questo caso a te riusciremo forse a evitare qualsiasi contestazione sul fatto che questo ufficio si presti a un eventuale insabbiamento.» «La vittima è un afroamericano?» «Evidentemente. E l'agente è bianco. Ti sei fatto un'idea?» «Me la sono fatta, sì.» «Bene», concluse Calvin. «Dammi una voce quando sarai pronto. Ti darò una mano. Di fatto, lo faremo insieme.» Quando Calvin se ne fu andato, Jack guardò Vinnie e gemette. «Ci vorranno tre ore! Calvin sarà anche scrupoloso, ma è più lento di una tartaruga.» «Quanto è contagioso il carbonchio?» domandò Vinnie. «Rilassati! Non ti beccherai niente. Da quanto mi ricordo, non si trasmette da persona a persona.» «Non so mai quando crederti e quando no.» «A volte non lo so neppure io», ammise Jack scherzandoci sopra. «Ma stavolta puoi fidarti di me.» Portarono a termine il caso Papparis senza scambiare altre parole. Mentre Jack stava raccogliendo i campioni da portare in laboratorio, al piano di sopra, entrò Laurie. La riconobbe dalla sua risata caratteristica; sembrava di splendido umore. Aveva il viso completamente coperto, dato che anche lei indossava lo scafandro, come pure le due persone che l'accompagnavano. Jack suppose che fossero Lou e l'agente dell'FBI. Appena poté, si avvicinò al tavolo attorno al quale si erano raggruppati i nuovi venuti. A quel punto non si sentivano più risate. «Mi state dicendo che questo tizio è stato crocifisso?» chiese Laurie, sollevando la mano destra del cadavere. Jack vide che dal palmo spuntava una grossa punta di metallo. «Sì, ti sto dicendo proprio questo», rispose Lou. «E non è che l'inizio. Hanno inchiodato la croce a un palo del telefono e poi ci hanno inchiodato sopra il ragazzo.»
«Buon Dio!» esclamò Laurie. «Poi hanno cercato di scorticarlo. Per lo meno la parte davanti.» «Ma è tremendo!» «Pensa che fosse vivo mentre lo sottoponevano a questo trattamento?» domandò Gordon. «Temo di sì», rispose Laurie. «Lo si capisce dall'abbondanza dell'emorragia. Non c'è dubbio che fosse vivo.» Jack si avvicinò per attirare l'attenzione di Laurie, volendo scambiare due parole con lei, ma vide il cadavere. Per quanto credesse di essersi assuefatto all'immagine della morte, il corpo di Brad Cassidy lo fece restare senza fiato. Il giovane era stato crocifisso e parzialmente spellato vivo, gli avevano cavato via gli occhi e tagliato i genitali. Il corpo era cosparso di varie ferite superficiali inferte con qualcosa di tagliente. La pelle del torace era stata strappata e gli ricadeva sulle gambe. Su essa era visibile il tatuaggio di un vichingo, di notevoli dimensioni. Al centro della fronte era tatuata una piccola svastica. «Perché un vichingo?» chiese Jack. «Ciao Jack, caro», lo salutò Laurie, con vivacità. «Hai già finito il tuo primo caso? Conosci l'agente Gordon Tyrrell? Com'è andata la tua pedalata, stamattina?» «Bene.» Le domande erano arrivate così in fretta che Jack aveva risposto solo all'ultima. «Jack insiste ad andare in bici per la città», spiegò Laurie. «Dice che gli schiarisce la mente.» «Non credo che sia una cosa particolarmente sicura», commentò Gordon. «No», convenne Lou. «Ma con il traffico dell'ora di punta, certe volte vorrei anch'io avere una bici.» «Oh, suvvia, Lou!» esclamò Laurie. «Non dici sul serio!» Jack provò unt precisa sensazione di irrealtà, mentre la conversazione continuava. Gli sembravano assurde quelle chiacchiere mondane, mentre se ne stavano lì con le tute protettive davanti a un cadavere orrendamente mutilato. Interruppe la discussione sulla pericolosità di andare in bicicletta, tornando alla domanda iniziale sul tatuaggio che raffigurava un vichingo. «Ha a che fare con il mito ariano», spiegò Gordon. «Come l'abbigliamento e gli stivali, l'immagine dei vichinghi è stata mutuata dal movimento skinhead in Inghilterra, dove tutto ha avuto inizio.» «Ma perché proprio un vichingo?» insisté Jack. «Pensavo che avessero
preso gli emblemi nazisti.» «Il loro interesse per i vichinghi deriva da un punto di vista storico molto revisionista», spiegò ancora Gordon. «Gli skinhead ritengono che i vichinghi, dediti com'erano ai saccheggi e pronti a uccidere, rappresentino il non plus ultra dell'onore virile.» «Secondo Gordon è per questo che gli hanno strappato via la pelle», aggiunse Lou. «Chiunque l'abbia ucciso, pensava che non meritasse di morire con l'immagine di un vichingo ancora addosso.» «Credevo che questo tipo di torture fosse finito con il Medioevo», commentò Jack. «Ho visto numerosi casi altrettanto raccapriccianti», affermò Gordon. «Sono ragazzi violenti.» «E fanno paura», aggiunse Lou. «Sono dei veri psicopatici.» «Scusami, Laurie», disse Jack. «Posso parlarti un momento da solo?» «Certo.» Laurie si scusò con gli altri due e si spostò verso un angolo della stanza assieme a Jack. «Sei appena arrivata?» le chiese lui. «Qualche minuto fa», rispose. «Che cosa c'è?» «Mi chiedi che cosa c'è? Sei tu quella che si sta comportando in modo bizzarro e ti dirò che il mistero mi sta mandando fuori di testa. Che cosa succede? Di che cosa vuoi parlare a me e a Lou?» Jack intravide il sorriso di Laurie attraverso la visiera. «Buon Dio», commentò lei. «Non credo di averti mai visto così interessato. Sono lusingata.» «Dai, Laurie! Smettila! Sputa il rospo!» «Ci vorrebbe troppo tempo.» «Potresti farmi un rapido riassunto, tenendo per dopo i dettagli più agghiaccianti.» «No!» rispose lei decisa. «Dovrai aspettare fino a stasera, ammesso che sia ancora in piedi.» «Che cosa vuoi dire?» «Jack! Adesso non posso parlare. Ti parlerò stasera, come abbiamo deciso.» «Sei tu che lo hai deciso.» «Adesso devo mettermi al lavoro», tagliò corto Laurie. Si voltò e tornò al suo tavolo. Jack si sentì frustrato e irritato. Non riusciva a credere che Laurie si comportasse così. Borbottando tra sé, tornò ai campioni di Papparis. Vole-
va portarli ad Agnes Finn, in modo che li sottoponesse a un test alla fluoresceina per la ricerca degli anticorpi del carbonchio. 2 Lunedì 18 ottobre, ore 9.30 «Chert! Chert! Chert!» gridò Yuri Davidov e picchiò una manata sul volante del suo taxi giallo, una Chevy Caprice. Quando andava in collera parlava in russo, la sua madrelingua, e in quel momento era furibondo. Era incastrato in un ingorgo, immerso in una cacofonia di clacson. Davanti a lui si allungava una fila di taxi fermi, di cui scorgeva i fanalini rossi dei freni, e il prossimo incrocio era ingombro di auto che andavano in direzione perpendicolare alla sua. Quindi, anche quando scattò il verde, lui rimase bloccato. La giornata si era prospettata male fin dalla prima corsa: mentre Yuri scendeva per la Seconda Avenue, un ciclista aveva tirato un calcio alla portiera dal lato del passeggero, ammaccandola. Diceva che gli aveva tagliato la strada. Yuri era sceso dal taxi e lo aveva inondato di improperi in russo. Avrebbe voluto passare all'aggressione fisica, ma aveva rapidamente cambiato idea: il ciclista era molto più robusto di lui. Era anche evidente che era adirato e che era in forma fisica migliore. Yuri aveva quarantaquattro anni, ma si era lasciato andare. Era sovrappeso e giù di tono, e lo sapeva. Un leggero tonfo proveniente dalla parte posteriore dell'auto lo fece sobbalzare. Si chinò ad aprire il finestrino, si sporse fuori, agitò il pugno e con il suo pesante accento maledisse il tassista che gli aveva dato una piccola botta all'auto. «Vacci tu!» gli gridò quello. «Muoviti!» «Dove vuoi che vada? Che diavolo vuoi?» Yuri si risistemò sul sedile e si passò una mano tra i folti capelli scuri, quasi corvini. Poi la sollevò per girare lo specchietto retrovisore, in modo da potercisi guardare. Aveva gli occhi iniettati di sangue e il viso arrossato. Sapeva di doversi calmare, altrimenti avrebbe avuto un attacco alle coronarie. Avrebbe avuto bisogno di un sorso di vodka. «Che bello scherzo!» borbottò irato in russo. Non si riferiva alla situazione del momento ma alla sua intera vita che, metaforicamente, aveva molto in comune con quell'ingorgo stradale. Era ferma, a un punto morto,
e il risultato era che lui aveva perso ogni illusione. Ormai sapeva per triste esperienza personale che l'allettante sogno americano da cui si era lasciato attrarre era tutto un'impostura e il mondo intero se l'era bevuto per colpa dei media dominati dagli ebrei americani. Davanti a lui le auto cominciarono a muoversi e anche Yuri mise in movimento la sua, sperando di riuscire per lo meno a superare l'incrocio. Ma non fu così. Il taxi immediatamente davanti si fermò di botto, costringendolo a fare altrettanto, e quello dietro gli diede un'altra botta. Era leggera come la prima e non aveva causato danni, ma per lui costituiva un'offesa. Cacciò di nuovo la testa fuori dal finestrino. «Che accidenti hai? È il primo giorno che guidi?» «Chiudi il becco, dannato straniero», gli gridò dietro l'altro tassista. «Perché non muovi il culo e non te ne torni a casa tua, dove diavolo si trova?» Yuri fece per replicare, ma cambiò idea. Si rimise seduto sul sedile ed espirò rumorosamente, come uno pneumatico che si sgonfia. Il commento del collega aveva involontariamente suscitato un senso di toska che calò su di lui come una pesante cappa di lana. Toska era una parola russa che indicava malinconia, depressione, forte desiderio, angoscia, stanchezza e nostalgia, vissute tutte assieme sotto forma di un profondo dolore fisico. Tenne lo sguardo fisso davanti a sé, senza vedere. Per il momento la disillusione e la rabbia contro l'America vennero spazzate via da un ricordo che comparve all'improvviso. Vide se stesso e suo fratello che andavano a scuola, una gelida mattina, nella loro città natale, Sverdlovsk. Con gli occhi della mente vedeva la cucina comune, con la sua convivialità, e nel cuore riviveva l'orgoglio di far parte dell'impero sovietico. Certo, sotto il regime comunista c'erano delle privazioni, come il fatto che di tanto in tanto le donne dovevano fare la fila per il latte o per altri beni di consumo. Ma non era poi tanto male come diceva la gente o come volevano credere quegli sciocchi, lì in America. In realtà, l'eguaglianza per tutti (tranne gli alti papaveri del partito) aiutava a sentirsi uniti e facilitava l'amicizia. C'erano di certo minori conflitti di classe che lì in America. All'epoca, Yuri non si era reso conto delle cose positive. Ma adesso se le ricordava, e sarebbe tornato a casa. Sarebbe tornato alla piccola madre Russia. Aveva preso quella decisione mesi prima. Ma non se ne sarebbe andato senza aver ottenuto la sua vendetta. Era stato ingannato e rifiutato. Adesso avrebbe restituito pan per focaccia, in un modo che avrebbe attirato l'attenzione di tutti quanti, in quel paese in-
gannatore e arrogante. E, una volta in Russia, avrebbe offerto in dono la sua vendetta a Vladimir Zhirinovsky, il vero patriota della rodina, la madrepatria, che sicuramente l'avrebbe riportata alla gloria dell'URSS, se gliene avessero dato l'opportunità. Le sue elucubrazioni vennero interrotte all'improvviso dallo spalancarsi di una portiera posteriore. Un passeggero gettò dentro una valigetta in pelle di struzzo e salì a sua volta. Yuri guardò irritato la sua faccia nello specchietto retrovisore. Era un uomo minuto, con i baffi, che indossava un costoso completo italiano, camicia bianca, cravatta di seta. Dal taschino gli spuntava un fazzoletto abbinato alla cravatta. Doveva essere un uomo d'affari o un banchiere. «Union Bank, all'820 della Quinta Avenue», ordinò l'uomo, poi si adagiò sul sedile e aprì il cellulare. Yuri continuò a fissarlo e vide una cosa che non aveva notato in un primo momento: portava uno yarmulk. «Che cosa c'è?» gli chiese il cliente. «Non è in servizio?» «No, no, sono in servizio», rispose lui, cupo. Sollevò gli occhi al cielo, prima di avviare il tassametro e fissare di nuovo il traffico fermo. Gli ci mancava proprio quello: un banchiere ebreo, uno di quei ladri patentati che portavano il mondo alla rovina. Mentre quello faceva una telefonata, Yuri riuscì ad avanzare per la lunghezza di un'auto. Per lo meno, adesso era arrivato all'incrocio. Tamburellò con le dita sul volante e accarezzò l'idea di dire all'ebreo di andare al diavolo e di scendere dal suo taxi. Ma non lo fece. Così lo avrebbe pagato per starsene lì seduto in mezzo al traffico. «Accidenti, che ingorgo!» esclamò l'uomo, dopo aver finito la telefonata. Si chinò in avanti e mise la testa nell'apertura del divisorio in plexiglas. «A piedi avrei fatto prima.» «Faccia come vuole», replicò Yuri. «Ho tempo. Mi fa bene stare un po' seduto. Per fortuna, la prossima riunione ce l'ho dopo le dieci e mezzo. Pensa di farcela a portarmi a destinazione entro quell'ora?» «Ci proverò», rispose Yuri in tono indifferente. «È un accento russo, il suo?» «Sì.» Yuri sospirò. Quello lì lo avrebbe tirato scemo. «Avrei dovuto immaginarlo dal nome scritto sulla licenza di tassista. Da che parte della Russia proviene, signor Davidov?» «Dalla Russia centrale.»
«Molto lontano da Mosca?» «Quasi milletrecento chilometri a est. Nei Monti Urali.» «Mi chiamo Harvey Bloomburg.» Yuri sollevò lo sguardo verso lo specchietto e fece un cenno impercettibile con la testa. Restava sempre stupito dal modo in cui la gente come quel Bloomburg aveva voglia di spiattellare i fatti propri. A lui non gliene poteva fregar di meno di sapere co me si chiamava. «Sono tornato da Mosca da una settimana circa», continuò Harvey. «Davvero?» A quel punto Yuri si rianimò. Era tantissimo che non ci andava. Si ricordava la gioia provata la prima volta nel visitare la Piazza Rossa, con la cattedrale di San Basilio luccicante come un gioiello. Non aveva mai visto niente di più bello e più commovente. «Ci sono rimasto cinque giorni», aggiunse Harvey. «Lei è fortunato. Si è divertito?» «Ah!» il passeggero fece un gesto di diniego con la mano. «Non vedevo l'ora di andarmene! Appena la riunione è finita sono volato a Londra. Mosca non è più sotto controllo, un po' per la delinquenza, un po' per la situazione economica. Quel posto è un disastro.» Yuri provò una nuova fitta di rabbia, all'idea che i problemi che attualmente devastavano la Russia erano stati creati proprio da quelli come Harvey Bloomburg e dal resto della cospirazione sionista internazionale. Sentiva di avere il viso in fiamme, ma tenne a freno la lingua. Adesso sì che aveva bisogno di un bicchiere di vodka. «Da quanto tempo è negli Stati Uniti?» gli chiese Harvey. «Dal 1994», bofonchiò lui in risposta. Erano solo cinque anni, ma gli sembravano dieci. Però si ricordava il giorno del suo arrivo come se fosse stato ieri. Era arrivato in aereo da Toronto, in Canada, dopo tre giorni di problemi con l'ufficio immigrazione degli Stati Uniti; avevano finito con il concedergli solo un visto temporaneo. La sua odissea per arrivare in America era stata estenuante ed era durata quasi un anno. Era iniziata a Novosibirsk, in Siberia, dove lavorava per una società del governo, chiamata Vector. Ci lavorava da undici anni, ma aveva perso il posto in seguito a una riduzione del personale. Per fortuna gli erano rimasti un po' di rubli, prima di essere licenziato, ed era riuscito ad arrivare a Mosca viaggiando con l'aereo, con il treno e ottenendo passaggi dai camionisti. A Mosca, il disastro: a causa della natura delicata del lavoro che aveva svolto, quando aveva fatto richiesta di un passaporto internazionale, qual-
cuno aveva avvertito l'FSB (il successore del KGB). Lo avevano arrestato e gettato nella prigione di Lefortovo. Dopo un po' di mesi era riuscito a venir fuori accettando di lavorare per il governo a Zagorsk. Il problema era che non lo pagavano, per lo meno non in denaro. Al posto dei contanti gli davano carta igienica e vodka. Era fuggito a notte fonda, la vigilia di una vacanza invernale, e aveva coperto un po' a piedi e un po' in autostop i milleseicento chilometri fino a Tallinn, in Estonia. Era stato un viaggio terribile, costellato di contrattempi, malattie, insulti, in cui aveva patito un freddo tremendo e aveva rischiato di morire di fame. Aveva subito lo stesso tipo di stenti sperimentati dagli eserciti di Napoleone e di Hitler, con risultati disastrosi. Anche se gli estoni non gli avevano certo mostrato amicizia, a causa della sua appartenenza etnica, e alcuni giovani lo avevano perfino picchiato, una notte, Yuri era riuscito a guadagnare abbastanza soldi da comperarsi dei documenti falsi con cui farsi assumere su una nave mercantile che solcava le acque del Baltico. In Svezia aveva abbandonato la nave e aveva chiesto asilo come rifugiato. Le autorità svedesi avevano messo in dubbio la validità del suo status di rifugiato, ma gli avevano permesso di restare temporaneamente e di svolgere lavori umili, con cui pagarsi un biglietto aereo per Toronto e poi per New York. Quando era finalmente arrivato sul suolo americano, si era chinato a baciare la terra come il papa. Durante il lungo e disperato tentativo di arrivare a New York c'erano stati tanti momenti in cui era stato sul punto di rinunciare, ma aveva tenuto duro. Aveva superato quella prova tremenda attratto dalla promessa dell'America: libertà, ricchezza e una vita gradevole. Gli venne spontanea una smorfia: altro che gradevole, era la sua vita! Guidava il taxi dodici, a volte quattordici ore al giorno, solo per sopravvivere. Tutti i soldi se ne andavano in tasse, affitto, cibo e assistenza sanitaria per sé e per la grassa moglie che aveva dovuto sposare, per ottenere il permesso di soggiorno. «Deve ringraziare Dio Onnipotente per essere uscito dalla Russia nel momento in cui lo ha fatto», gli disse Harvey, senza rendersi conto del suo stato d'animo. «Non lo so come fa la gen te a tirare avanti.» Yuri non rispose. Voleva solo che Harvey chiudesse il becco All'improvviso il traffico si diradò, allora strinse le mani sul volante e pigiò sull'acceleratore e il taxi scattò in avanti, mandando Harvey contro lo schienale del sedile. I pneumatici stridettero.
«Ehi, la mia riunione non è talmente importante da rischiare la vita», gridò Harvey. Avvicinandosi al prossimo incrocio, che aveva il semaforo rosso, Yuri frenò di botto e l'auto fu sul punto di fare un testa-coda, ma lui la manovrò con perizia, facendola passare tra un autobus e un furgone parcheggiato, fino a farla fermare dietro un camion dell'immondizia. «Mio Dio!» esclamò Harvey da dietro il plexiglas. «Che genere di lavoro faceva quando era in Russia? Non mi dica che faceva il pilota di formula uno!» Yuri non rispose. Harvey si chinò in avanti. «Mi interessa», insisté. «Che cosa faceva? La scorsa settimana ho conosciuto un tassista che insegnava matematica prima di venire qua. Ha detto che era un inge gnere. Ci crede?» «Sì che ci credo», si decise a rispondere Yuri. «Anch'io sono un ingegnere.» Sapeva di esagerare, dato che era solo un tecnico, ma non gli importava. «Che tipo di ingegneria?» «Biotecnologica.» Il semaforo divenne verde e Yuri premette di nuovo l'acceleratore. Appena poté, superò il camion dell'immondizia e si diresse verso la zona residenziale, cercando di mantenersi in sincronia con i semafori. «Davvero una preparazione impressionante», commentò Harvey. «Com'è che sta ancora alla guida di un taxi? Pensavo che ci fosse richiesta delle sue competenze. La biotecnologia è il ramo in maggiore espansione di tutta l'industria.» «C'è un problema per dimostrare la mia preparazione. È quello che voi americani chiamate un Comma Ventidue.» «Be', è un vero peccato. Il consiglio che le do è di continuare a tentare. Alla fine potrebbe valerne la pena.» Yuri non rispose. Non doveva più sottomettersi all'indegnità di tentare. Non sarebbe rimasto. «Ah, è una buona cosa che abbiamo vinto la guerra fredda», aggiunse Harvey. «Almeno il popolo russo ha l'occasione di accedere alla prosperità e alla libertà fondamentali. Spero che ne faccia buon uso.» L'irritazione di Yuri si trasformò in rabbia. Lo mandava in bestia dover ascoltare in continuazione la falsità che l'America aveva vinto la guerra fredda e aveva mandato in frantumi l'impero sovietico. L'Unione Sovietica era stata tradita dall'interno: prima da Gorbaciov con la sua stupida gla-
snost e la perestroika, e poi da Eltsin, per l'unica ragione di accontentare il proprio ego. Yuri cominciò ad andare a tutto gas, zigzagando in mezzo al traffico, passando con il rosso e intimidendo i pedoni. «Ehi!» gridò Harvey. «Rallenti, per la miseria! Che cos'ha?» Yuri non rispose. Detestava la compiaciuta aria di superiorità del suo passeggero, gli abiti costosi, la valigetta di pelle di struzzo, e soprattutto quel ridicolo copricapo che teneva appuntato ai capelli radi e scomposti. «Ehi!» gridò ancora Harvey, bussando sul divisorio. «Rallenti o chiamo la polizia.» Quella minaccia penetrò attraverso la rabbia di Yuri. L'ultima cosa che voleva era trovarsi di fronte le autorità. Sollevò il piede dall'acceleratore e respirò a fondo per calmarsi. «Mi scusi», disse. «Cercavo solo di farla arrivare puntuale alla sua riunione.» «Preferisco arrivarci vivo», sbottò Harvey. Yuri mantenne la velocità nei limiti della norma, mentre proseguiva lungo la Quinta Avenue. Una volta lì si diresse a sud per due isolati. Fermò davanti alla Union Bank e spense il tassametro. Harvey non perse tempo nello scendere dal taxi. Una volta sul marciapiede, contò i soldi fino all'ultimo penny e li ficcò nella mano di Yuri, pronta a riceverli. «Niente mancia?» chiese Yuri. «Lei si merita una mancia come io mi merito un bastone appuntito in un occhio», replicò Harvey. «È fortunato che la pago lo stesso.» Si voltò e si diresse verso la porta girevole dell'elegante edificio in vetro e granito. «Non mi aspettavo comunque la mancia da un porco sionista!» gli gridò dietro Yuri. Harvey gli mostrò il medio, prima di scomparire alla vista. Yuri chiuse gli occhi per un momento. Doveva controllarsi, prima di combinare qualcosa di stupido. Sperava che Harvey vivesse nell'Upper East Side, perché quella era la parte della città che lui intendeva devastare. In quel momento qualcuno aprì la portiera posteriore e salì in macchina. Lui si girò di scatto. «Non sono in servizio!» sbottò. «Scenda!» «Il segnale non è acceso», replicò la donna in tono indignato. Aveva una valigetta Louis Vuitton da una parte e una custodia in pelle da computer portatile nell'altra. Yuri toccò l'interruttore del segnale di fuori servizio e grugnì: «Adesso è
acceso. Fuori!» «Oh, Cristo!» borbottò la donna. Afferrò valigetta e portatile e scese dal taxi dalla parte della strada. Come gesto vendicativo, lasciò aperta la portiera. Lanciò a Yuri un'occhiata condiscendente e fermò un altro taxi. Lui si sporse dal finestrino e diede una manata alla portiera rimasta aperta, che si chiuse senza problemi. Poi si immise di nuovo nel traffico, nella direzione opposta al centro direzionale. Per il momento non era dell'umore di avere a che fare con altra gente d'affari altezzosa, in particolare con banchieri ebrei. Preferiva crogiolarsi nel gusto della sua vendetta, e per far questo aveva bisogno di assicurarsi che il suo agente patogeno era mortale come immaginava. Questo significava controllare com'erano andate le cose per Jason Papparis. L'ufficio della Corinthian Rug Company si trovava in Walker Street, a sud di Canal. Era situato in un locale al pianterreno che dava direttamente sulla strada e aveva in vetrina un paio di sbiaditi tappeti turchi dai disegni geometrici e alcune pelli di capra. Nell'avvicinarsi, Yuri rallentò. Sulla porta il nome della ditta era scritto in lettere dorate. Era chiusa a chiave, ma lui sapeva che questo non significava niente. Agli inizi, quando era passato e ripassato di lì per i suoi sopralluoghi, aveva sempre trovato la porta chiusa. Fermò l'auto in un tratto destinato al carico e allo scarico, dall'altra parte della strada, da dove vedeva bene l'ingresso. Decise di aspettare, anche se non sapeva esattamente che cosa. In un modo o nell'altro doveva scoprire com'era lo stato di salute di Jason Papparis. Era sicuro che aveva ricevuto la busta dell'impresa di pulizie ACME al più tardi venerdì. L'attesa lo calmò, e il pensiero del prossimo passo da compiere per mettere a punto il suo grandioso progetto lo eccitò. Sarebbe stato in grado di dire a Curt Rogers che il carbonchio era potente. Questo avrebbe significato che l'unica altra cosa che restava da provare era la tossina del botulino. Per il giorno fatidico, Yuri aveva deciso di fare affidamento su due agenti patogeni, anziché su uno solo. Voleva escludere qualsiasi possibilità di fallimento. I due agenti uccidevano in modi completamente diversi, anche se entrambi dovevano essere nebulizzati. Ficcò una mano sotto il sedile, spinse da una parte il crick, che teneva come arma difensiva, e tirò fuori la sua fiaschetta piatta. Un goccio di vodka se lo meritava. Si assicurò che nessuno vedesse, e ne ingurgitò una rapida sorsata. Emise un sospiro di sollievo, mentre per tutto il corpo si diffondeva una deliziosa sensazione di calore. Adesso si sentiva ancora più
calmo. Era perfino in grado di riconoscere che di recente nella sua vita c'erano stati alcuni momenti positivi. Una delle cose più fortunate che gli erano capitate dal suo arrivo negli Stati Uniti era stato aver fatto conoscenza con Curt Rogers e con il suo amico Steve Henderson. Proprio il rapporto con loro gli aveva permesso di mettere in pratica la sua fantasia di vendetta. Li aveva incontrati per puro caso. Dopo una lunghissima giornata di lavoro nel caldo estivo, si era fermato in un buco di bar chiamato White Pride a Bensonhurst, Brooklyn. La sua fiaschetta era all'asciutto già da un bel po' e lui aveva talmente bisogno di un sorso di vodka che non poteva aspettare di rientrare in casa, a Brighton Beach. Erano le undici passate e il locale era affollato, buio e rumorosissimo, infatti il ritmo heavy metal degli Screwdriver rimbombava per le pareti. Gli avventori erano principalmente giovani bianchi appartenenti alla classe operaia, con le teste rasate, le T-shirt senza maniche e una profusione di tatuaggi. Yuri avrebbe dovuto immaginare il tipo di clientela che avrebbe incontrato lì dentro, infatti all'esterno aveva notato un buon numero di Harley lucenti, decorate con decalcomanie nazi, parcheggiate con il muso contro il marciapiede, proprio davanti alla porta aperta del bar. Yuri si ricordò di aver esitato, una volta sulla soglia, chiedendosi se entrare o no. L'intuito gli diceva che lì dentro il pericolo stava sospeso nell'aria come i miasmi sopra una palude. La gente lo guardava con ostilità. Dopo un momento di indecisione, aveva deciso di correre il rischio, per due motivi. Uno era il timore che andarsene avrebbe scatenato un inseguimento, proprio come fuggire davanti a un cane cattivo ma indeciso. L'altro era che aveva davvero bisogno di vodka e in tutti gli altri bar di Bensonhurst ci sarebbe stata con ogni probabilità la stessa atmosfera di minaccia. Si era seduto su uno sgabello vuoto e si era appoggiato al bancone, senza allargarvi sopra i gomiti e tenendo gli occhi fissi davanti a sé. Quando aveva ordinato da bere, il suo accento aveva subito suscitato una reazione. Un certo numero di giovani dall'espressione sprezzante gli si erano raggruppati attorno ma, proprio quando lui temeva di passare dei guai, si erano fatti da parte per lasciar passare un uomo dall'aspetto tutto per bene, sulla quarantina, che sembrava godere del rispetto di quei giovani. Il nuovo arrivato era alto e snello e aveva i capelli biondo-scuri tagliati cortissimi, ma non rasati. Lo stile faceva pensare a un militare. Anche lui indossava una T-shirt, ma era pulita, con le maniche corte, e sembrava stirata; nella parte superiore sinistra vi era stampata in piccolo l'immagine di
un elmetto da pompiere rosso. Sotto il disegno c'era la scritta VIGILI DEL FUOCO - REPARTO N.7. In forte contrasto con gli skinhead, sembrava avere un solo tatuaggio, una piccola bandiera americana sul braccio destro. «Non lo so se sei coraggioso o stupido per entrare qua senza essere invitato, amico», gli aveva detto. «Questo è un club privato.» «Scusate», aveva borbottato Yuri, e aveva fatto per alzarsi. Il biondo, però, gli aveva posato una mano sulla spalla, facendolo restare seduto. «Sembri russo», aveva commentato. «Sì, infatti.» «Sei ebreo?» «No!» aveva risposto con enfasi. «Proprio per niente!» La domanda lo aveva stupito. «Vivi su a Brighton Beach?» «Sì», aveva risposto nervosamente Yuri. Non sapeva dove sarebbe andata a parare quella conversazione. «Credevo che tutti i russi lassù fossero ebrei.» «Io no.» Quell'uomo conosceva la situazione. La maggioranza degli emigrati russi a Brighton Beach era costituita effettivamente da ebrei. Era uno dei motivi per cui Yuri aveva pochi amici. C'era tutta una serie di organizzazioni ebraiche che davano il benvenuto ai loro correligionari. Gli ebrei erano stati gli unici a cui veniva concessa l'autorizzazione a uscire dalla Russia, durante il regime comunista, e quindi, al momento della caduta dell'Unione Sovietica, lì si era già formata una comunità di notevoli dimensioni. A causa della sua mancanza di affiliazione religiosa, Yuri era stato ignorato. «Mi sembra di cogliere un atteggiamento negativo verso gli ebrei», aveva osservato il biondo. Lo sguardo di Yuri era dardeggiato qua e là, sugli slogan che ornavano alcune T-shirt degli skinhead. C'erano scritte come L'OLOCAUSTO È UN MITO SIONISTA e ABBASSO IL GOVERNO AMERICANO OCCUPATO DAI SIONISTI. Gli era parso saggio confessare le sue tendenze antisemite. Yuri non si era mai dato la pena di pensare tanto agli ebrei, fino alle ultime elezioni presidenziali in Russia. Era stato allora che si era lasciato catturare dalla retorica del neofascista Vladimir Zhirinovsky e del neocomunista Gennedy Zyuganov. A causa della sua toska e dell'orgoglio nazionalistico ferito, era un facile bersaglio per le teorie demagogiche di entrambi i leader, ormai trite e ritrite e basate sulla necessità di un capro espiatorio.
«Sai, credo che ti abbiamo giudicato male, amico», aveva replicato il biondo in risposta alla sua ammissione di razzismo, e gli aveva dato una pacca sulla schiena. «Non solo sei il benvenuto in questo locale, ma il secondo bicchiere te lo offro io.» Poi aveva schioccato le dita verso il barista, che all'inizio si era allontanato ai primi segni di una possibile rissa. Quello aveva portato la bottiglia di vodka, riempiendo il bicchiere di Yuri fino all'orlo. «Mi chiamo Curt Rogers», si era presentato il biondo, accomodandosi sullo sgabello accanto a quello di Yuri. «E questo è Steve Henderson.» Nel dir così, aveva indicato un tipo dalla chioma rossa, che si stava sedendo sullo sgabello dall'altra parte di Yuri. Steve era molto più muscoloso di Curt, ma gli assomigliava molto nel modo di vestire. La sua T-shirt recava lo stesso emblema. Dopo quel primo incontro ce n'erano stati numerosi altri, infatti i tre avevano scoperto di condividere molte altre opinioni, oltre quelle antisemite. In particolare, si trovavano d'accordissimo nei giudizi sull'attuale governo degli Stati Uniti. «Non è che un gran casino, illegale, oppressivo e incostituzionale», aveva sussurrato Curt la prima volta che era saltato fuori quell'argomento. «E c'è soltanto una soluzione. Il governo americano dev'essere rovesciato con le armi. Non ci sono altri modi. E bisogna farlo subito, perché i sionisti stanno diventando ogni giorno più forti.» «Davvero?» Yuri era rimasto scioccato nello scoprire che c'erano degli americani che non approvavano il loro governo. E secondo Curt, che era una vera autorità per quanto riguardava tutti gli aspetti del governo e della storia americana, gli scontenti non erano un'esigua minoranza. I patrioti, come li chiamava Curt, erano sparsi per tutto il paese. Erano tutti bene armati e aspettavano il segnale della rivolta. «Ascolta bene le mie parole», aveva sussurrato Curt in un'altra occasione. «Ho saputo da fonte irrefutabile che il governo sta addestrando delle truppe gurkha nel Montana, con migliaia e migliaia di elicotteri. A meno che non si intervenga contro questo governo rinnegato, nel prossimo futuro usciranno fuori dalla loro base e porteranno via ogni singola pistola a ogni singolo dannato patriota del paese. Allora resteremo indifesi contro i sionisti di tutto il mondo.» Allora Yuri non sapeva che cosa volesse dire «irrefutabile», ma non si era dato la pena di chiedere, poiché aveva colto il succo del discorso. Il governo degli Stati Uniti era molto più perverso e pericoloso di quanto si
immaginava lui. Era anche divenuto chiaro che lui e Curt volevano fare qualcosa al riguardo, e potevano aiutarsi davvero, dato che ognuno dei due sapeva fare cose che l'altro non sapeva. Yuri aveva l'esperienza tecnologica e il know-how necessari a mettere a punto un'arma batteriologica per la distruzione di massa, mentre Curt aveva le persone in grado di ottenere i materiali e le attrezzature necessarie. Curt aveva fondato una milizia di skinhead chiamata Esercito Ariano del Popolo, e sosteneva che le sue truppe avrebbero obbedito a qualsiasi ordine avesse loro impartito. «Un nebulizzatore per pesticidi? Nessun problema!» aveva risposto Curt a una delle prime richieste di Yuri. «Possiamo rubarne uno a Long Island, quando ne avremo bisogno. Li usano nei campi di patate. Stanno quasi sempre lì a far niente, in attesa che qualcuno se li pigli.» Diverse settimane dopo, davanti a bicchierini di vodka ghiacciata, Curt, Yuri e Steve si erano stretti la mano brindando all'inizio di ciò che chiamavano Operazione Volverina. Yuri non sapeva che cosa fosse una volverina, così Curt gli aveva spiegato che si trattava di un animaletto selvatico furbo e aggressivo. Intanto, aveva strizzato un occhio a Steve, infatti quel nome si riferiva a un gruppo di giovani in un classico dei film survivalisti, Alba rossa. Era il film preferito di Steve e di Curt, e faceva vedere che le «volverine» avevano respinto l'intero esercito d'invasione russo. Yuri avrebbe voluto chiamarla Operazione Vendetta, ma si arrese nel vedere quanto gli altri due fossero inflessibili su «volverina». Curt aveva spiegato che quel nome avrebbe avuto un significato immediato per tutta l'estrema destra clandestina. Ingurgitata la vodka, erano tutti e tre eccitatissimi. Il legame che li univa era, secondo le parole di Curt, un matrimonio fatto in paradiso. «Ho la sensazione che questa sarà la scintilla che farà esplodere la conflagrazione», aveva affermato Curt. «Una cosa enorme come questa, che accade qui a New York, è destinata a dare inizio alla rivolta generale. In confronto a questo, ciò che è accaduto a Oklahoma sembrerà uno scherzetto da bambini.» Che l'Operazione Vendetta desse inizio o no a una rivolta generale, a Yuri non importava. Lui voleva solo dare una bella sberla su quella faccia compiaciuta degli Stati Uniti. La gloria che avrebbe conquistato l'avrebbe volentieri donata al movimento di Zhirinovsky e al ritorno dell'impero sovietico. Un improvviso bussare sul paraurti lo riscosse dalle sue fantasticherie. Si voltò e vide un'addetta ai parcheggi.
«Deve muoversi di qua», lo avvisò. «Qui è riservato al carico e allo scarico.» «Scusi», disse Yuri. Mise in moto e partì, ma non andò lontano. Fece semplicemente il giro dell'isolato e tornò al posto di prima. La donna si era allontanata. Accese le luci d'emergenza, per far credere che stava aspettando un cliente, e scese di macchina. Nella mezz'ora in cui era stato lì a guardare la vetrina della Corinthian Rug Company, non era entrato né uscito nessuno. Attraversò la strada e, tenendosi le mani attorno al viso, si appoggiò alla porta di vetro e guardò dentro. Il posto era vuoto, le luci spente. Saggiò la maniglia della porta: era chiusa a chiave. Fece qualche passo verso ovest ed entrò in un negozio. Stando seduto nel taxi, aveva notato un certo andirivieni. Si trattava di un posto dove vendevano materiale per collezionisti di francobolli. All'interno era silenzioso come una tomba, dopo che i campanelli appesi alla porta avevano smesso di suonare. Dal retro comparve il proprietario, con gli occhialini appoggiati sulla punta di un naso a patata. Sulla testa calva portava uno yarmulk che secondo Yuri doveva essere incollato. «Ho ricevuto una chiamata per prendere un certo signor Papparis alla Corinthian Rug Company», spiegò Yuri. «Quello là fuori è il mio taxi. Però l'ufficio è chiuso. Lei conosce il signor Papparis?» «Certo.» «Lo ha visto? Oppure ha saputo qualcosa di lui?» «È tutto il giorno che non lo vedo. Ma non c'è da stupirsi: le nostre strade si incrociano raramente.» «Grazie», disse Yuri. «Prego.» Yuri entrò in un negozio dall'altra parte della strada e ottenne lo stesso tipo di risposta. Allora risalì nel taxi e si mise a pensare a quale poteva essere la sua prossima mossa. Gli venne in mente di chiamare gli ospedali, ma non sapeva in quale quartiere viveva Papparis. Pensò allora di cercare il suo numero di telefono sull'elenco, ma decise che chiamarlo a casa sarebbe stato troppo rischioso. Fino a quel momento era stato superprudente e non voleva correre rischi inutili. Per ciò che aveva intenzione di fare a New York, non voleva che ci fossero avvertimenti. Ripartì. Quando arrivò all'incrocio tra la Walker e Broadway gli venne in mente che si trovava a poco più di sei isolati dalla caserma dei pompieri di Duane Street, dov'erano di servizio Curt e Steve. Anche se non aveva
mai visitato il luogo dove lavoravano i suoi compagni, decise di farvi un salto. Non era ancora in grado di confermare che il carbonchio fosse potente a sufficienza, questione che riteneva accademica, ma per lo meno poteva informarli che il procedimento era stato avviato. Già questo era eccitante di per sé, perché significava che l'Operazione Volverina era davvero imminente. Tutta la progettazione e i preliminari erano conclusi. Adesso era solo questione di produrre quantità adeguate di agenti patogeni e diffonderli in giro. 3 Lunedì 18 ottobre, ore 11.30 «Pensi che dovremmo proprio farlo?» domandò Steve Henderson. «Non credo che verremo a saperne abbastanza da giustificare il rischio.» Curt afferrò l'amico per una manica e lo fermò. Si trovavano davanti al Jacob Javits Federal Building, al 26 di Federal Plaza. Il via vai era enorme, con sciami di persone che entravano e uscivano. L'edificio ospitava quasi seimila dipendenti del governo ed era visitato ogni giorno da mille civili. Curt e Steve indossavano le loro uniformi azzurre d'ordinanza, stirate di fresco. Le scarpe nere luccicavano alla vivida luce del sole di ottobre. La camicia di Curt era di un azzurro leggermente più chiaro, e sul colletto di Steve era appuntato un minuscolo megafono dorato. Lo avevano promosso tenente quattro giorni prima. «Con un'operazione di tali dimensioni, una ricognizione preliminare è un'assoluta necessità», sibilò Curt. Si guardò attorno furtivamente, tra la folla frettolosa, per assicurarsi che nessuno stesse ad ascoltarli. «Che cosa diavolo ti hanno insegnato nell'esercito? Stiamo parlando delle regole fondamentali!» Curt e Steve erano amici d'infanzia, cresciuti entrambi nel quartiere operaio di Bensonhurst, nel distretto di Brooklyn. Entrambi silenziosi, compiti, solitari, nel corso degli anni si erano avvicinati sempre di più l'uno all'altro, vere e proprie anime gemelle, in particolare durante il periodo della scuola superiore. Erano stati studenti poco entusiasti, ma avevano ottenuto un punteggio alto ai test attitudinali (Curt un po' più alto di Steve). Nessuno dei due si era impegnato negli sport, anche se il fratello maggiore di Curt era stato una star leggendaria del football, a Bensonhurst. Per lo più avevano «bazzicato in giro», come dicevano loro stessi, ed erano finiti en-
trambi nelle forze armate, Curt dopo un tentativo di sei mesi al college, e Steve dopo aver lavorato per un anno con il padre, che faceva l'idraulico. «L'esercito mi ha insegnato quanto i marines hanno insegnato a te», replicò Steve. «Risparmiami le tue cazzate da marine.» «Be', il giorno fatidico non porteremo certo quella roba qui dentro senza aver fatto prima una ricognizione», insisté Curt. «Dovrà essere immessa nell'impianto di condizionamento e dobbiamo essere sicuri di poterci arrivare.» Steve guardò nervosamente l'enorme edificio. «Ma abbiamo la pianta. Sappiamo che è al terzo piano.» «Cristo!» esclamò Curt, e sollevò le mani, compresa quella che reggeva un portadocumenti. «Non c'è da meravigliarsi che ti abbiano scaricato dai Berretti Verdi. Hai intenzione di fartela sotto e lasciarmi solo?» In contrasto con la sgangherata carriera scolastica, quella militare era andata benissimo per tutti e due. Curt era andato a Camp Pendleton, in California, mentre Steve era stato assegnato a Fort Bragg, nel North Carolina. Entrambi erano stati promossi ben presto sottufficiali. L'inquadramento militare e la consapevolezza di avere uno scopo li eccitavano ed erano diventati soldati modello, zelanti e sempre perfettamente in ordine. Tutti e due nutrivano un interesse particolare per le armi di tutti i tipi, in particolare i fucili mitragliatori e le pistole, ed erano stati decorati tiratori scelti. Nel corso degli anni non si erano scritti molto spesso. Trovarsi in due rami diversi del servizio e a una tale distanza geografica costituiva una barriera per la loro amicizia. Le uniche volte in cui stavano insieme era quando le loro licenze coincidevano, e si incontravano a Bensonhurst. Allora era come ai vecchi tempi, e si scambiavano «racconti di guerra». Avevano partecipato tutti e due alla guerra del Golfo. Anche se non ne avevano mai parlato molto, sia Curt sia Steve avevano sempre dato per scontato che quella militare sarebbe stata la loro carriera, ma non doveva essere così. Era andata a finire che entrambi erano rimasti delusi. L'esperienza di Curt era stata la più sconvolgente. Era arrivato a una posizione di comando nell'addestramento delle reclute per una squadra di ricognizione dei marines. Durante una manovra notturna particolarmente estenuante, svoltasi secondo i suoi ordini precisi, era morta una recluta. L'inchiesta aveva stabilito che una parte della colpa era di Curt. Non era stato detto, però, che quel ragazzo non avrebbe dovuto far parte del programma. Era il tipico «cocco di mamma», ed era stato accettato solo per-
ché suo padre era un pezzo grosso di Washington. Anche se Curt non aveva subito punizioni, quell'incidente aveva macchiato il suo stato di servizio, precludendo ulteriori avanzamenti. Questo lo aveva devastato, rendendolo furibondo. Sentiva che il governo lo aveva abbandonato, dopo che lui aveva dato tutto alla patria. Arrivato il momento di rinnovare la firma, aveva preferito congedarsi. L'esperienza di Steve era diversa. Dopo una procedura lunga ed estenuante per presentare la domanda di arruolamento nei Berretti Verdi, era stato finalmente accettato al corso di addestramento, solo per essere eliminato durante il periodo iniziale di valutazione, di ventun giorni. Non era stata colpa sua: si era preso l'influenza. Venuto a sapere che avrebbe dovuto ricominciare daccapo tutta la procedura di arruolamento, nonostante ciò che aveva fatto per il proprio paese, aveva seguito l'esempio di Curt, uscendo dall'esercito disgustato e con la sensazione di essere stato tradito. Dopo una serie di lavori precari, molti dei quali attinenti alla sicurezza privata, Curt era stato il primo a entrare nel dipartimento dei vigili del fuoco di New York. Gli era piaciuto fin dall'inizio, per la gerarchia militaresca, le uniformi, le attrezzature interessanti, e quel senso di fierezza di far parte di una missione. Non essendoci armi, non era come nei marines, però gli andava vicino. Un altro lato positivo era che poteva vivere a Bensonhurst. Ben presto aveva incoraggiato Steve a seguire il suo esempio e a partecipare al concorso. Steve era stato assunto e, con un po' di insistenze, erano riusciti a farsi assegnare allo stesso reparto. Il cerchio si era chiuso: erano ritornati a stare a Bensonhurst ed erano di nuovo amici per la pelle. «No, non me la farò sotto», ribatté Steve, imbronciato. «Penso solo che stiamo andando in cerca di guai. Questo edificio non è in lista per un'ispezione dei pompieri. Che cosa succede se chiamano la nostra caserma?» «Ma chi verrà a saperlo che non è nella liste delle ispezioni? E che differenza fa se telefonano? Il capitano è in ferie. Inoltre, noi siamo in giro a fare controlli legittimi, e si dà il caso che nell'ultima ispezione ho notato che nell'edificio dei federali c'era una violazione alle norme di sicurezza. Se qualcuno chiede qualcosa, siamo qua solo per controllare che quella violazione sia stata corretta.» «Che genere di violazione?» «Avevano installato un piccolo grill nel chiosco dei sandwich a pianterreno. Probabilmente qualche dirigente della ristorazione ha pensato di aggiungerlo e credo che non abbiano mai chiesto il permesso. È stato instal-
lato senza un dispositivo antincendio a secco. Noi ci stiamo solo accertando che abbiano provveduto.» «Fammi vedere», disse Steve. «Eh? Non mi credi?» sbraitò Curt, e sfilò la copia del verbale di infrazione dalla molla del portadocumenti, mettendogliela sotto il naso. «Be', sono proprio un coglione», ammise Steve. «È perfetto.» «Dubitavi forse di un ex marine?» «'fanculo», replicò Steve, scherzando. I due proseguirono verso l'ingresso con passo militare, tenendo la testa alta e le spalle squadrate. «Sarà un'operazione perfetta», sussurrò Curt. «La sede più grande dell'FBI, a parte il quartier generale a Washington, è questa. Solo a pensarci mi viene la pelle d'oca. Gliela faremo pagare alla grande per Ruby Ridge.» «Vorrei solo che ci fossero più agenti ATF», commentò Steve. «Allora vendicheremmo allo stesso tempo Waco e i Branch Davidians.» «Il governo capirà il messaggio, sta' pur certo.» «Sei sicuro che Yuri ce la farà?» chiese ancora Steve. Curt lo fermò per la seconda volta, in mezzo al fiume di gente che si divise per scansarli. «Che cos'hai?» gli chiese, tenendo la voce bassa. «Come mai, all'improvviso, tutta questa negatività?» «Ehi, ho solo chiesto. Dopotutto, quel tipo è mezzo svitato. Lo hai ammesso anche tu. Ed era uno sporco comunista.» «Adesso non lo è più.» «Le tigri cambiano le strisce? Ultimamente ha detto cose strane, del tipo che vorrebbe il ritorno dell'Unione Sovietica.» «Ma questo solo per essere tranquillo che le armi nucleari siano al sicuro», obiettò Curt. «Io non ci giurerei. E quel commento che ha fatto, che Stalin non era poi così cattivo come pensa la gente? Voglio dire, è strano. Stalin ha fatto fuori trenta milioni dei suoi.» «Sì, questo è strano», ammise Curt, mordendosi il labbro inferiore. A Yuri mancava di sicuro qualche rotella, infatti non gli bastava colpire il Jacob Javits Federal Building. Voleva fare contemporaneamente la stessa cosa a Central Park, in modo che il secondo agente patogeno si diffondesse per tutto l'Upper West Side. La sua spiegazione era che voleva colpire la maggiore quantità possibile di banchieri ebrei. A Curt sembrava che l'edificio dei federali fosse più che sufficiente, ma Yuri era stato irremovibile.
«Abbiamo fatto un sacco di fatica per lui», aggiunse Steve. «Abbiamo fatto rubare ai nostri ragazzi i fermentatori da quella fabbrichetta di birra nel New Jersey. Gli stiamo fornendo ogni genere di cose. Ci siamo fatti mandare dal Klan quelle casse di terra dell'Oklahoma che secondo Yuri contiene i batteri di cui abbiamo bisogno. Quei tizi del Sud avranno pensato che siamo diventati pazzi a chiedere la terra di un recinto del bestiame.» «Yuri ha detto che può isolare il batterio da lì», spiegò Curt. «Ho letto la stessa cosa su Internet, quindi dev'essere vero.» «D'accordo», replicò Steve. «È vero che il batterio del botulino e quello del carbonchio si trovano nella terra, in particolare nelle zone del Sud dedite all'allevamento del bestiame, ma che cosa abbiamo come prova? Niente! Yuri non ci ha fatto vedere niente. Non abbiamo visto nessun batterio. Non abbiamo nemmeno visto quel suo laboratorio che dice di essersi costruito in cantina.» «Credi che potrebbe prenderci in giro?» chiese Curt. Gli attraversò la mente l'idea che Yuri potesse fare la sua impresa al Central Park e lasciarli con un palmo di naso. «Tutto è possibile, quando si ha a che fare con uno straniero», sentenziò Steve. «Soprattutto un russo. Ci hanno odiato a morte per settant'anni.» «Ah, io credo che tu sia paranoico», replicò Curt, scacciando l'idea con un gesto della mano. «Yuri non ce l'ha con noi. E so che ci tiene a colpire quell'edificio federale. È incazzato con il governo quanto noi. Hanno rifiutato di riconoscere i suoi titoli di studio. Dopo tutti gli anni che ha passato a scuola, è ancora lì che guida un taxi. Porco diavolo, sarei incazzato anch'io!» «Ma noi non lo sappiamo se ha davvero fatto tutti gli studi che dice», osservò Steve. «Questo è vero», ammise Curt. Non c'era stato modo di controllare. «Magari non è questo il momento per stare a parlarne», concesse Steve, «ma adesso che stiamo per esporci a un bel rischio, entrando in questo edificio dove non dovremmo essere, vorrei che ci fossimo dati maggiormente da fare per essere sicuri che Yuri faccia la sua parte.» «Secondo te c'è la possibilità che Yuri non abbia lavorato nell'industria delle armi batteriologiche, in Russia?» «Penso di sì. Ne sa troppo per inventare, soprattutto le storie personali, come quella sulla morte della madre. Ma ciò che mi chiedo è come mai la CIA non ha mostrato più interesse per lui, quando è arrivato negli Stati Uniti. Magari tutto quello che faceva era pulire il pavimento, invece di lavo-
rare alle linee di produzione, come ha raccontato a noi.» «È perché è arrivato qui troppo tardi», fu la supposizione di Curt. «Ti ricordi? Ci ha detto di quei due pezzi grossi delle armi batteriologiche che avevano disertato due anni prima che arrivasse qui lui. A quanto pare, hanno detto alla CIA tutto quello che voleva sapere, comprese tutte le violazioni dell'Unione Sovietica al trattato del 1972 sulle armi batteriologiche.» «Dico soltanto che mi piacerebbe vedere qualche prova di ciò che sta facendo», insisté Steve. «Qualsiasi cosa.» «La settima scorsa ha detto che gli mancava poco a fare la prova con il carbonchio.» «Questo mi basterebbe. Ammesso che il test funzioni.» «I tuoi dubbi sono giustificati», ammise Curt, «ma continuo a pensare che dovremmo procedere con la visita a questo posto. Non rischiamo niente, soprattutto considerando che il capitano non è in servizio.» «Immagino che tu abbia ragione», si arrese Steve, «in particolare grazie a quella violazione che hai scoperto.» «Allora, ci stai?» «Ci sto.» I due entrarono dalla porta girevole. Dovettero aspettare in fila per passare attraverso il metal detector. Una volta dall'altra parte, furono indirizzati all'ufficio manutenzione dal capo della sicurezza. «Fin qui tutto bene», sussurrò Steve. «Rilassati», lo esortò Curt. «Sarà una passeggiata.» La porta dell'ufficio manutenzione era aperta. Curt precedette l'amico e si presentò davanti alla scrivania di un'impiegata. La stanza era piena di gente indaffarata a rispondere al telefono e a battere sui word processor. «Posso esserle utile?» gli chiese la segretaria. Era una donna massiccia, che sudava nonostante l'aria condizionata. Curt aprì il portafogli e mostrò il distintivo di tenente del dipartimento dei vigili del fuoco. Le uniche occasioni in cui se lo metteva era ai funerali, quando indossava l'alta uniforme, e lo appuntava su una fascia nera. «Per un'ispezione», disse. «Certo», replicò la segretaria, «chiamo il caporeparto.» E scomparve in un ufficio interno. Curt guardò l'amico. «Facile facile.» «Senti che movimento d'aria c'è qua dentro?» chiese Steve. «Sì.»
Steve fece un segno con il pollice alzato, e Curt annuì. Sapeva che cosa stava pensando: più aria circolava nell'edificio, più l'agente patogeno si sarebbe diffuso efficacemente. Il caporeparto della manutenzione comparve dopo qualche momento. Era un afroamericano di mezza età, in completo scuro, camicia bianca e cravatta. Curt restò di sasso. Si aspettava un uomo con la tuta e le macchie di grasso. Scoccò un'occhiata a Steve, per vedere se era rimasto sorpreso anche lui. Se lo era, non lo diede a vedere. «Mi chiamo David Wilson. Che cosa posso fare per voi? Mi stupisce vedervi qui. Per oggi non erano previste ispezioni dei pompieri.» Non aveva un tono polemico, soltanto indagatore. «Infatti», convenne Curt. «Questa è una visita non programmata per controllare la violazione osservata nell'ultima ispezione, che riguarda il grill a pianterreno. Ma, visto che siamo qua, vorremmo passare in rassegna tutto, e controllare tubi verticali, estintori, spruzzatori, idranti, rivelatori di fumo... sa, le solite cose.» «Il dispositivo di estinzione a secco è stato installato immediatamente», lo rassicurò David. «Abbiamo mandato i documenti direttamente al vostro dipartimento.» «Vorremmo controllare l'impianto, tanto per essere sicuri.» «Va bene se mando con voi uno dei miei operai? Io sono nel pieno di una riunione.» «Oh, andrà benissimo.» Curt aveva un tono conciliante. Cinque minuti dopo i due pompieri furono affidati a un tipo alto, magro e taciturno, con addosso la tuta che Curt si era aspettato di vedere addosso a David Wilson. Si chiamava Reggy Sims ed era un assistente elettricista. La prima cosa che controllarono fu il grill nel chiosco dei sandwich, al piano terreno. Era pieno di hamburger e di salsicce che vi sfrigolavano sopra, infatti si stava avvicinando l'ora di punta del pasto di mezzogiorno. Ci vollero due secondi a Curt per dichiarare che il dispositivo di estinzione a secco andava bene. Per l'ispezione generale, Curt e Steve fecero solo finta di svolgerla, e non cercarono di vedere tutto. Se all'operaio della manutenzione venne qualche sospetto, non lo mostrò minimamente. Non aveva nemmeno tanta fretta di tornare al lavoro. «E l'impianto di aria condizionata?» chiese Curt. «Che cosa?» volle sapere Reggy. «Dovremmo dargli un'occhiata. Dobbiamo sapere come si spegne, o per
lo meno come isolare delle zone, se si rende necessario. Se ci fosse un incendio, non vorremmo che il fumo si sparga per tutto questo po' po' di edificio. Dove si trova il quadro di comando principale?» «È nella zona dei macchinari, al terzo piano.» «E il condotto principale di aspirazione dell'aria?» «Stesso posto.» «Bene. Diamogli un'occhiata.» «Come mai?» chiese Reggy. «Ci dovrebbero essere rivelatori di fumo sia per l'aria che entra dall'esterno sia per quella che viene fatta circolare», spiegò Curt. «Dovremmo almeno vedere se ci sono. In realtà, saremmo tenuti a sottoporli a un test.» Reggy si strinse nelle spalle e fece strada. Nella zona dei macchinari il livello di rumore era tremendo. Si trattava di una sala enorme riempita da ogni tipo di attrezzature, compresi larghi pannelli elettrici, enormi caldaie, compressori e pompe. Uno strabiliante groviglio di tubi e condotti di varie dimensioni si dipanava in tutte le direzioni. In genere non ci si ferma a pensare a quel che occorre per scaldare e rinfrescare un edificio delle dimensioni del Jacob Javits Federal Building, o per far funzionare gli ascensori, o anche per far arrivare l'acqua fino ai rubinetti del trentaduesimo piano. Tutto ciò richiedeva tantissimi macchinari e una grande quantità di energia, ventiquattr'ore su ventiquattro. I condotti principali dell'aria erano talmente grandi che non sembravano nemmeno tali. Correvano lungo una parete di quella stanza smisurata, prima di diramarsi come un grande albero abbattuto. A intervalli c'erano delle porte simili ai boccaporti delle navi, chiuse come quelli da ramponi. Reggy doveva urlare per farsi sentire. Batté sul fianco di un condotto e urlò che conteneva l'aria fresca aspirata dall'esterno, poi mostrò come veniva mescolata con quella già in circolazione all'interno. Quindi si spostò lungo il condotto, per battervi contro di nuovo. «Qui è dove sono collocati i filtri», vociò. «Quale parte del condotto volete vedere?» «Quella dopo i filtri», rispose Curt, sgolandosi. Reggy annuì. Si avvicinò a un gigantesco interruttore e lo abbassò. Una parte della tremenda cacofonia di suoni diminuì. «Questo è l'interruttore del ventilatore principale», spiegò Reggy, poi si diresse verso una delle porte e la sbloccò, facendola aprire verso l'interno della stanza, con un cigolio di cardini. «Qui siamo a monte del ventilatore principale», spiegò ancora Reggy.
«Quando è in funzione, questa porta non si può aprire. C'è troppa aspirazione.» Curt si avvicinò e guardò all'interno. Era molto buio, allora prese la torcia che teneva nella custodia appesa alla cintura e l'accese. Prima indirizzò il fascio di luce all'indietro, verso i filtri. Steve cercò di guardare anche lui, ma la porta era troppo stretta. «Potete entrarci dentro, se volete», suggerì Reggy. Curt abbassò la testa e scavalcò il bordo. Illuminò di nuovo il filtro, e intanto Steve si sporse dentro per vedere anche lui. Reggy tornò al quadro di comando dell'impianto per spegnere l'allarme che annunciava un calo della pressione al suo interno. «Vedi che cosa intendo, quando dico che è necessario un sopralluogo», borbottò Curt. Il condotto, in materiale isolante, riparava da buona parte del rumore proveniente dalla sala. «Non ci pensavo ai filtri», ammise Steve. Curt mandò il fascio di luce nella direzione opposta. Le lame gigantesche del ventilatore principale stavano ancora girando, pur se lentamente. Indirizzando la luce verso il soffitto, Curt trovò il rivelatore di fumo. Avrebbe avuto bisogno di una scala per provarlo. «Questo qui è quello che dovrà dare l'allarme», disse. «Dovremo trovare un condotto di ritorno dell'aria accessibile a questo piano, per uno dei nostri che farà partire una bomba fumogena.» «Credi che ci sia un indicatore apposito per questo rivelatore di fumo, sul pannello generale del controllo antincendio?» «Mi stupirei se non ci fosse», replicò Curt. «E, anche se non c'è, il pannello ci dirà che il rivelatore di fumo attivato è nell'impianto di condizionamento. In un modo o nell'altro, tu e io avremo un motivo di venire qua dentro.» «Ammesso che arriviamo prima dei pompieri del reparto numero sei di Beekman Street.» «Non c'è modo che possano arrivare prima loro. Si trovano dall'altra parte del municipio. Saremo dentro questo condotto ancor prima che loro raggiungano il posto. Se c'è qualcuno di cui dobbiamo preoccuparci sono i nostri compagni. Dobbiamo solo badare a che si tengano occupati facendo restare tutti gli ascensori al piano terra, come dicono le disposizioni.» «E che cosa faremo quando saremo qui dentro?» domandò ancora Steve. «Dove la mettiamo la roba?» Guardò a terra. Non c'erano posti per nascondere niente.
«Yuri dice che avrà la forma di una polvere molto fine, chiusa in sacchetti di plastica impermeabili. Li sistemiamo qua dentro e avviamo i piccoli detonatori a tempo. Quando esploderanno, noi saremo lontani.» «Non pensi che dovremo nascondere i sacchetti?» «Non vedo perché.» «E se qualcuno viene qui dopo che noi saremo andati via?» «Li hai sentiti i cardini della porta, quando Reggy l'ha aperta? Qua dentro non ci viene nessuno. Tanto per essere sicuri disattiveremo il rivelatore di fumo e spegneremo il sistema antincendio.» «Buona idea», approvò Steve, poi alzò le spalle. «Immagino che funzionerà.» «Scommettici il culo, che funzionerà», replicò Curt. «Forza! Individuiamo un buon condotto di ritorno dell'aria e facciamola finita con questa finta ispezione. Dovremmo rientrare in caserma.» Trovare un condotto adatto fu facile. Lasciata la sala dei macchinari, Curt chiese quali fossero i servizi degli uomini più vicini e, mentre Reggy aspettava fuori, Curt e Steve trovarono una grata che si poteva togliere facilmente. Immaginarono che il condotto proseguisse in linea retta fino al rivelatore di fumo che avevano appena visto. «Tutto ciò che deve fare uno dei nostri sarà di tirar via questa grata e gettar dentro una bomba fumogena», affermò Curt. «L'allarme suonerà di sicuro.» Mezz'ora dopo i due compari riattraversarono lo spiazzo davanti all'edificio federale. Il sole era nascosto dietro un banco di nuvole e le folate di vento facevano sbandare i piccioni. Curt doveva stringere bene la cartelletta portadocumenti per non far volare via i fogli tenuti fermi dalla molla. Tutti e due salirono sull'auto dei pompieri che avevano parcheggiato accostata al marciapiede. Curt avviò il motore e si immise nel traffico. «Hai fatto progressi, per quanto riguarda la nostra ritirata?» chiese. Si erano divisi i compiti in modo che lui si concentrasse sull'azione stessa, e Steve sulla fuga. «Fatto», rispose Steve. «Sono diverse notti che passo le ore su Internet e ho trovato delle case sicure per tutto il percorso fino allo stato di Washington e poi in Canada, se occorrerà. Ogni singola milizia che ho contattato è stata più che disponibile ad aiutarci.» «Si sono mostrati curiosi su ciò che sta succedendo?» «Questo è dir poco. Ma io non ho rivelato altro se non che sarà una cosa grossa.»
«Sarà come i Turner Diaries che diventano realtà», ridacchiò Curt. Si riferiva al suo romanzo preferito, che circolava alla grande fra l'estrema destra violenta. In esso il protagonista, Turner, dava il via a una rivolta generale bombardando il quartier generale dell'FBI, a Washington. Curt si sentiva euforico per la fortuna di ritrovarsi in grembo un'arma di distruzione di massa. Ora aveva finalmente il potere di colpire il governo come si deve, e in modo eclatante. Quei bastardi sionisti a Washington avrebbero imparato senza mezze misure che non avrebbero dovuto fare la guerra ai loro concittadini con l'FBI e l'ATF, l'agenzia di controllo di alcol, tabacco e armi da fuoco, com'era successo con Ruby Ridge e a Waco, né cospirare per sottrarre alla gente diritti sacrosanti, come quello di portare armi, né sostenere l'aborto, i diritti dei gay, le azioni positive e tollerare i matrimoni misti. In cima a tutto c'era l'illegalità del fisco e il sostegno alle Nazioni Unite. L'elenco era quasi interminabile. Curt scosse la testa, al pensiero di quanto il governo si era allontanato dal suo mandato costituzionale. Si meritava ciò che sarebbe accaduto. Certo, ci sarebbero state delle vittime civili, ma non si poteva evitarlo. Dopotutto, ce n'erano state anche durante la guerra di indipendenza americana. Come «lo sparo udito in tutto il mondo», l'Operazione Volverina sarebbe stata importantissima, e se fosse riuscita ad annunciare la nuova «Quinta Era», nel modo in cui la battaglia di Bunker Hill aveva segnato la nascita di un nuovo governo, si rese conto che probabilmente lui sarebbe stato considerato una specie di George Washington del momento. Anche solo pensarlo gli dava le vertigini. «Potrebbe iniziare una rivolta generale ancor prima che raggiungiamo la costa occidentale», osservò Steve. «Tutte le milizie sono in attesa di un segno di qualche tipo per cominciare un'azione coordinata. Se morrà anche soltanto la metà della gente che Yuri si aspetta, sarà così.» «Stavo proprio pensando la stessa cosa», replicò Curt. Sul viso gli si allargò un sorriso compiaciuto, mentre immaginava come sarebbe stato incensato sui siti Internet dell'estrema destra. «Se ci sarà una sollevazione generale», continuò Steve, «penso che dovremmo rintanarci nel Michigan. Da quello che so, le milizie lì sono le meglio organizzate. Sarebbe il posto più sicuro.» «Come hai progettato la nostra fuga dalla città?» «Con la linea sotterranea dal World Trade Center», spiegò Steve. «Appena torneremo in caserma, dopo aver messo la roba, ce ne andremo. Entreremo nell'ufficio del capo e diremo sayonara.»
«Andrà su tutte le furie», commentò Curt. Non aveva ancora sentito quella parte del piano e non ci aveva pensato tanto. «Non se ne può fare a meno», replicò Steve. «Dobbiamo uscire dalla città, in particolare dopo che Yuri avrà portato a termine la sua azione, che dice avverrà in contemporanea alla nostra. Non mi fido tanto che, come dice lui, si diffonderà solo sull'Upper West Side.» «Questo è un buon motivo per andarcene», approvò Curt. «Ma perché non limitarci a sparire? Perché dire qualcosa a qualcuno?» «Perché attireremmo troppo l'attenzione. Ci cercherebbero subito, magari preoccupandosi che siamo rimasti vittime del nostro crimine. Yuri dice che un'arma batteriologica dà dai due ai cinque giorni di tempo, prima che si scateni l'inferno. Io voglio che per allora saremo lontani.» «Credo proprio che tu abbia ragione.» «Diremo al capitano che ne abbiamo avuto abbastanza della burocrazia e della mancanza di disciplina. Non sarà una bugia. È un po' che tutti e due ci lamentiamo di come il dipartimento si è deteriorato.» «E se lui dice che non accetta la nostre dimissioni?» chiese Curt. «Che cosa ci può fare? Metterci ai ceppi?» «Immagino di no.» Curt si sentiva a disagio all'idea di dover affrontare un capitano in preda all'ira. «Ma forse dovremmo rivedere questa parte.» «Per me va bene», concesse Steve. «Purché ci troviamo al più presto su un treno della sotterranea diretto in New Jersey, non mi importa di che cosa diremo a chicchessia. Sono molto sicuro della nostra fuga. Ho un vecchio pick up in un garage vicino alla prima fermata. Ci porterà nella prima casa sicura in cui saremo accolti, in Pennsylvania. Lì avremo un altro veicolo. A ogni tappa ne cambieremo uno.» «Mi piace», approvò Curt. Svoltò nell'ingresso della caserma di Duane Street e parcheggiò in modo da non ostacolare i movimenti dei luccicanti camion rossi. Lui e Steve si fissarono negli occhi e sollevarono il pugno con il pollice alzato. «L'Operazione Volverina è in marcia», dichiarò Curt. «Armageddon, eccoci che arriviamo», aggiunse Steve. Mentre scendevano di macchina, Bob King, una delle ultime reclute, sollevò la testa dall'autopompa che stava lucidando, la numero 9. «Ehi, tenente!» chiamò. Curt lo guardò e sollevò le sopracciglia. «Poco fa è stato qui un tassista che ha chiesto di lei», urlò Bob. «Era un tipo basso e tarchiato, con un accento che pareva russo.»
Curt diede un'occhiata a Steve, che lo fissò sbalordito. Evidentemente nemmeno a lui piaceva quella notizia. C'era un accordo secondo il quale Yuri non avrebbe mai dovuto venire alla caserma dei pompieri. I loro contatti si erano limitati a telefonate e a incontri al White Pride. «Che cosa voleva?» chiese Curt, con la voce rauca. Dovette schiarirsi la gola. Con un'operazione di quell'importanza, le sbadataggini erano inaccettabili. «Vuole che lo richiami», rispose Bob. «Sembrava deluso di non averla trovata qui.» «Che cosa gli hai fatto?» saltò su un altro compagno, da dietro il veicolo. «Ti sei dimenticato di dargli la mancia?» Da un gruppo di quattro pompieri che giocavano a carte nell'angolo fra la caserma e il marciapiedi si levò una risata. Le porte sopra le loro teste erano spalancate sul pomeriggio ottobrino. «Ha lasciato qualche numero di telefono?» chiese Curt. «No», rispose Bob. «Ha solo detto che deve richiamarlo. Ho pensato che lei sapesse chi è.» «Non ne ho la minima idea», affermò Curt. «Be', magari tornerà», disse Bob. Curt fece segno a Steve che lo seguisse. Salirono le scale che portavano alla zona abitativa e Curt spinse la porta dei servizi degli uomini. Una volta dentro, controllò i gabinetti e le docce per essere sicuro che fossero soli. «Non mi piace», disse con un sussurro che era quasi un sibilo. «Che cosa diavolo è venuto a fare qui?» «Te l'ho detto che quello è mezzo pazzo», rispose Steve. Curt si mise a camminare avanti e indietro, come un animale in gabbia, tenendo serrata la mandibola leggermente sporgente. Non riusciva a credere che Yuri fosse così stupido. «Temo che Yuri sia una specie di scheggia impazzita», disse Steve. «Credo che dobbiamo farci quattro chiacchiere. Allo stesso tempo, mi piacerebbe vedere qualche prova che non ci sta prendendo in giro.» Curt annuì, continuando a camminare avanti e indietro, poi si fermò. «Va bene», disse. «Quando stacchiamo andremo a casa sua a Brighton Beach. Gli faremo capire un po' di cose sulla sicurezza. Poi gli chiederemo di vedere il laboratorio e chiederemo qualche prova che sta facendo davvero quello che dice.» «Lo sai il suo indirizzo?» «Oceanview Lane, 15.»
4 Lunedì 18 ottobre, ore 12.30 «Toc toc», chiamò una voce. Jack e Chet sollevarono lo sguardo dalle rispettive scrivanie e videro sulla soglia Agnes Finn, capo del laboratorio di microbiologia. «Mi sento come se questo fosse un déjà vu», commentò Agnes. «Purtroppo, però, è un genere di vu che non mi piace.» Sul viso solitamente arcigno aleggiava un timido sorriso. Quelle parole erano la cosa più vicina all'umorismo che Jack le avesse mai sentito dire. Stringeva in mano un pezzo di carta. Jack seppe all'istante a quale déjà vu si riferiva. Tre anni prima, quando aveva fatto la scioccante diagnosi di peste in un curioso caso infettivo, Agnes si era data la pena di portare i risultati di persona, ed erano positivi. «Non mi dire che era carbonchio», la implorò Jack. Agnes si spinse un po' in su gli occhiali spessi come fondi di bottiglia e gli porse il foglietto. Era il risultato di un test alla fluoresceina per la ricerca degli anticorpi su uno dei nodi linfatici mediastinici. A grandi lettere maiuscole era scritto: POSITIVO PER IL CARBONCHIO. «È incredibile!» esclamò Jack. Porse il foglietto a Chet, che lo lesse con eguale incredulità. «Ho pensato che volessi saperlo prima possibile», disse Agnes. «Certo», replicò lui, pensando ad altro. Aveva gli occhi quasi vitrei, e la mente in subbuglio. «Quanto è affidabile questo test?» domandò Chet. «Più o meno il cento per cento», rispose Agnes. «È molto specifico, e i reagenti non sono vecchi. Dopo tutte le malattie esotiche diagnosticate da Jack quando c'è stata quella fiumana di casi infettivi, un paio di anni fa, mi sono assicurata che fossimo al passo con quasi tutto. Naturalmente, per la conferma finale abbiamo impiantato le colture.» «Questa malattia si diffonde con le spore», disse Jack, come svegliandosi da una trance. «Ci sono dei test per le spore, o dovete farle crescere e poi andare alla ricerca dei batteri?» «Per le spore c'è un test con reazione a catena polimerasica, o PCR», rispose Agnes. «Noi non lo facciamo nel nostro laboratorio, ma sono sicura che Ted Lynch del laboratorio DNA ti potrà aiutare. Hai qualcosa che vuoi
sottoporre a test per le spore?» «Non ancora.» «Oh, oh!» gemette Chet. «Non mi piace questa musica. Non avrai intenzione di andare in campo aperto, eh?» «Non lo so», ammise Jack. Era ancora intontito. Un caso di carbonchio polmonare a New York era inaspettato come la peste. «Ti sei dimenticato che cosa ti è successo l'ultima volta che ti sei lasciato coinvolgere nel lavoro sul campo, in un caso infettivo?» gli rammentò Chet. «Lascia che ti rinfreschi la memoria: c'è mancato poco che ti facessero la pelle.» «Grazie, Agnes», disse Jack, ignorando il collega. Si voltò verso la sua scrivania e spinse da una parte i documenti riguardanti la morte del prigioniero in custodia cautelare, che Calvin voleva al più presto. Poi prese dalla relativa cartelletta quelli su Papparis e li sfogliò fino a trovare il rapporto investigativo di Janice Jaeger. «Ehi, sto parlando con te», insisté Chet. Gli seccava il modo in cui il collega lo escludeva. «Eccolo qua!» esclamò Jack, sollevando il foglio e puntando l'indice sulla frase che diceva che Papparis commerciava in tappeti. «Guarda!» «Lo vedo», replicò Chet, seccato. «Ma tu mi hai sentito?» «Il problema è che non sappiamo che tipo di tappeti. Penso che potrebbe essere importante.» Jack voltò il foglio. Come aveva detto Janice, c'erano annotati il nome e il numero di telefono del medico che aveva curato Papparis all'ospedale. Girò di centottanta gradi sulla poltroncina e afferrò il telefono. Compose il numero e fu in comunicazione con il centralino del Bronx General Hospital. «Bene», si lagnò Chet, facendo un gesto come per chiudere la questione. «Non devi dar retta a me. Diavolo, lo so che farai tutto quello che ti pare, non importa ciò che dicono gli altri.» Con aria disgustata, tornò a chinarsi sul proprio lavoro. «Potreste chiamare il dottor Kevin Fowler?» chiese Jack al centralinista dell'ospedale. Mentre aspettava, teneva il ricevitore nell'incavo del collo, in modo da poter sfogliare la sua copia dell'Harrisons's Principles of Internal Medicine. Le pagine del capitolo sulle malattie infettive avevano le orecchie, da quanto erano state sfogliate. Arrivò alla sezione sul carbonchio. Gli erano state dedicate solo due pagine. Aveva quasi finito di leggerle, quando il dottor Fowler prese la linea.
«Non ho mai visto un caso di carbonchio», ammise. «Naturalmente, sono solo un interno, quindi non ho tanta esperienza.» «Adesso fa parte di un gruppo selezionato», gli comunicò Jack. «Ho appena letto che qui negli Stati Uniti negli ultimi dieci anni c'è stata solo una decina di casi, e tutti sotto la forma più comune, quella cutanea. La varietà polmonare, come quella del signor Papparis, veniva un tempo chiamata polmonite carbonchiosa dei cardatori di lana. I pazienti la contraevano da peli e pelli di animali contaminati.» «Posso assicurarle che era una rapidissima corsa in discesa», osservò il dottor Fowler. «Non mi importa se non dovrò mai curare un altro caso. Immagino che vedremo di tutto, qui a New York.» «Ha fatto un'anamnesi del paziente?» «No, affatto. Sono stato chiamato quando ha iniziato ad avere problemi respiratori. Tutto ciò che so della sua anamnesi è quello che c'era sulla cartella clinica.» «Quindi non sa in che tipo di tappeti commerciava?» «Non ne ho la più pallida idea. Perché non prova con il medico che lo aveva in cura, il dottor Heitman?» «Ha il suo numero di telefono?» domandò Jack. «Certo», rispose il dottor Fowler, «fa parte del nostro personale.» Jack lo chiamò, ma scoprì che aveva semplicemente sostituito il dottor Bernard Goldstein: era di quest'ultimo, infatti, che Papparis era il paziente. Allora chiamò il dottor Goldstein. Passò qualche minuto prima di averlo in linea, e lo trovò in uno stato d'animo poco cordiale e piuttosto impaziente. Jack non perse tempo a porgli la sua domanda. «Che cosa intende, che genere di tappeti?» chiese irritato il dottor Goldstein. Era ovvio che non gli piaceva essere interrotto in ciò che stava facendo per una domanda che gli sembrava frivola. La sua segretaria era stata titubante a disturbarlo, anche se Jack le aveva detto che si trattava di un'emergenza. «Voglio sapere che genere di tappeti vendeva», insisté Jack. «Tessuti al telaio, o che altro?» «Non me lo ha mai detto, e io non gliel'ho mai chiesto», tagliò corto il dottor Goldstein, e riattaccò. «Ha sbagliato mestiere», decretò Jack, ad alta voce. Trovò il foglio di identificazione di Papparis nella cartelletta e vide che il cadavere era stato identificato dalla moglie, Helen Papparis. C'era un numero di telefono, e Jack lo compose. Fino a quel momento aveva sperato di non tirare in ballo
la famiglia. «La Corinthian Rug Company trattava esclusivamente tappeti fatti a mano», rispose Helen. «Provenienti da dove?» «Soprattutto dalla Turchia.» Jack colse un attimo di esitazione nella sua voce. «Qualcuno veniva dalla Grecia, ma la maggior parte dalla Turchia.» «Allora, trattava anche pelli e pellicce, oltre a tappeti tessuti», concluse Jack, con soddisfazione accademica. Il mistero sarebbe stato ben presto risolto. «Esatto», confermò Helen. Lo sguardo di Jack cadde sul libro di testo aperto davanti a lui. Proprio a metà della sezione dedicata al carbonchio veniva descritto come questa malattia colpisse abbastanza di frequente gli animali in un certo numero di paesi, compresa la Turchia, e come i prodotti animali, in particolare le pelli di capra, potessero essere contaminati dalle spore. «Commerciava anche pelli di capra?» domandò ancora Jack. «Sì, certo. Pelli di pecora e di capra costituivano una buona parte della sua attività.» «Ebbene, penso che abbiamo risolto il mistero», affermò Jack, e spiegò alla vedova le sue supposizioni. «È ironico», commentò Helen, senza un filo di rancore. «Quei tappeti ci hanno concesso una vita confortevole, compreso mandare nostra figlia a un college della Ivy League.» «Il signor Papparis ha ricevuto qualche spedizione di recente?» «Circa un mese fa.» «Qualcuno di quei tappeti si trova a casa sua?» «No. Jason sentiva che era già abbastanza averci a che fare durante il giorno. Si rifiutava di averli attorno per la casa.» «Date le circostanze, è stata una decisione intelligente. Dove sono quei tappeti? Quanti ne sono stati venduti?» Helen spiegò che si trovavano in un magazzino a Queens, e dubitava che ne fossero stati venduti molti. L'attività del marito si svolgeva all'ingrosso e le spedizioni arrivavano mesi prima che occorresse la merce. Aggiunse anche che non c'erano dipendenti né nel magazzino né in ufficio. «A quanto pare, era un'attività gestita in proprio», osservò Jack. «Esattamente», confermò Helen. Jack la ringraziò e rinnovò le condoglianze. Poi le suggerì di contattare il suo medico per un'eventuale profilassi con gli antibiotici, anche se, le
spiegò, lei probabilmente non era a rischio, poiché il contagio non avviene da persona a persona, e non era stata esposta alle pelli. Infine le disse che probabilmente sarebbe stata contattata da qualcuno del dipartimento della sanità. Lei lo ringraziò per aver chiamato e la telefonata terminò. Jack fece girare di nuovo la poltroncina e si mise di fronte a Chet, che non aveva potuto fare a meno di ascoltare la conversazione. «A quanto pare, questo caso lo hai risolto in fretta», commentò Chet. «Almeno adesso non devi mettere a repentaglio la vita uscendo sul campo.» «Sono deluso», ammise Jack con un sospiro. «Di che cosa saresti deluso?» chiese Chet, incredulo ed esasperato. «Hai fatto una diagnosi rapida e brillante e hai perfino risolto quello che poteva essere un difficile enigma epidemiologico.» «È questo il problema», replicò Jack demoralizzato. «È stato troppo liscio, troppo facile. Con la mia ultima malattia esotica è stato un vero mistero. Mi piacciono le sfide.» «Non lo so di che cosa ti stai lamentando. Vorrei che alcuni dei miei casi avessero delle conclusioni così precise.» Jack afferrò il testo di medicina e lo ficcò, aperto com'era, sotto il naso del collega. Gli indicò un paragrafo specifico da leggere e Chet lo fece. Quando ebbe finito, sollevò gli occhi. «Questa sì che era una sfida epidemiologica», commentò Jack. «Te lo immagini? Una valanga di casi di carbonchio polmonare dovuti a spore sfuggite da una fabbrica di armi batteriologiche! Che disastro!» «Dov'è Sverdlosk?» domandò Chet. «E che ne so? Evidentemente da qualche parte dell'ex Unione Sovietica.» «Non avevo mai sentito parlare di quell'incidente del 1979», ammise Chet. Rilesse il paragrafo. «Che barzelletta! I russi hanno cercato di farlo passare come un'esposizione a carne contaminata.» «Da un punto di vista medico-legale, sarebbe stato un caso affascinante», commentò Jack. «Certo, molto più stimolante del caso di un commerciante di tappeti.» Si alzò. Dopo l'animazione di poco prima, ora appariva depresso. «Dove vai?» gli domandò Chet. «Giù a vedere Calvin. Mi ha detto che se il mio caso risultava davvero un carbonchio, voleva saperlo immediatamente.» «Su, un po' di allegria!» lo spronò Chet. «Sembri un cadavere ambulan-
te.» Jack tentò di sorridere. Andò verso l'ascensore e premette il bottone. Ciò che non aveva detto a Chet era che il suo umore irrequieto non derivava solo dal caso di carbonchio risoltosi così facilmente. Era dovuto anche al mistero di Laurie. Perché aveva telefonato alle quattro e mezzo del mattino per dargli un appuntamento a cena? E perché ci veniva anche Lou? Mentre l'ascensore scendeva, cercò di pensare a come poteva renderle pan per focaccia. L'unica idea che gli venne in mente fu di comperarle un regalo di Natale in quei giorni e poi cominciare a darle indicazioni che la confondessero. Laurie era sempre curiosissima per quanto riguardava i regali, e l'attesa la divorava. Due mesi di suspence sarebbero stati di certo una vendetta adeguata. Sceso al primo piano, già si sentiva meglio. L'idea del regalo di Natale gli pareva sempre migliore, anche se adesso doveva pensare a che cosa comprare. Calvin era nel suo ufficio, a lavorare sulle pagine e pagine di carta che passavano ogni giorno sulla sua scrivania. Aveva una mano talmente larga che il modo in cui teneva la penna era quasi comico. Quando Jack si avvicinò, sollevò la testa. «Sei sicuro di non voler scommettere su quella diagnosi di carbonchio?» gli chiese Jack. «Non dirmi che era positivo!» Calvin si appoggiò allo schienale della poltroncina, che protestò vivamente per il suo peso. «Secondo Agnes era carbonchio. Ora sta aspettando le colture.» «Per la miseria!» sbottò Calvin. «Susciterà un vespaio al dipartimento della sanità.» «Non credo.» «Oh?» Jack non mancava mai di stupire Calvin. «Perché diavolo?» «Perché la malattia non si trasmette da persona a persona, e perché è stata un'esposizione professionale limitata al deceduto. A quanto pare, la fonte è rinchiusa al sicuro in un magazzino di Queens.» «Sono tutt'orecchie», lo spronò Calvin. «Raccontami!» Jack spiegò della Corinthian Rug Company e della recente spedizione di tappeti e di pelli di capra dalla Turchia. Calvin intanto annuiva. «Ringraziamo il Signore!» commentò alla fine, poi si appoggiò in avanti e la poltroncina gemette di nuovo. «Dirò a Bingham di chiamare Patricia Markham, l'ufficiale sanitario. Perché intanto non chiami l'epidemiologo cittadino, quello con cui hai lavorato a così stretto contatto per il caso di
peste? Come si chiama?» «Clint Abelard», rispose Jack. «Già, quello. Telefonagli. Sarà un passo verso quella collaborazione interdipartimentale su cui sta sviolinando il sindaco.» «Io e Clint Abelard non abbiamo certo lavorato a stretto contatto. Al tempo, quando provavo a chiamarlo non voleva nemmeno parlarmi al telefono.» «Sono certo che stavolta avrà un altro atteggiamento, alla luce degli esiti che ci furono allora.» «Perché non facciamo telefonare qualcun altro del nostra capace personale?» propose Jack. «Per esempio, uno dei custodi.» «Risparmiati il sarcasmo!» gli intimò Calvin. «E non causare problemi! Chiamalo! Caso chiuso! E ora, riguardo alla morte del prigioniero?» «Che cosa intendi, 'riguardo alla morte del prigioniero'?» domandò Jack. «Hai visto anche tu il sangue nei muscoli del collo e l'osso ioide spezzato. Lo hanno stretto maledettamente forte.» «E il cervello? Hai trovato qualcosa?» «Vuoi dire, come un tumore al lobo temporale? Così potremmo suggerire che ha avuto un attacco psicomotorio che lo ha trasformato in un pazzo farneticante? No, il cervello era normale.» «Fammi un favore: controlla bene i campioni istologici. Trova qualcosa!» «Questo caso è nelle mani del nostro beato tossicologo. Magari salterà fuori con la cocaina o qualcosa del genere.» «Voglio il dossier completo, compreso il certificato di morte, sulla mia scrivania entro giovedì», ordinò Calvin. «Ho ricevuto una telefonata dall'ufficio del procuratore generale.» «In questo caso sarebbe d'aiuto se tu dessi un colpo di telefono a John DeVries», propose Jack. «Una richiesta al laboratorio per un risultato rapido, se proviene dall'ufficio di fronte avrebbe maggiore ascolto che se provenisse da un brontolone come me.» «Chiamerò John. Ma, indipendentemente da ciò che trova, sarai tu a fare in modo che nel dossier ci sia qualcosa che lasci la porta aperta, anche solo appena socchiusa.» Jack sollevò gli occhi al cielo e fece per uscire. Sapeva che cosa stava sottintendendo Calvin: il funzionario di polizia aveva fatto pressioni su Bingham perché gli agenti coinvolti potessero contare su qualche giustificazione per la forza con cui avevano stretto il collo all'uomo che avevano
in custodia. Jack sapeva che i prigionieri possono essere violenti. Essere a contatto con loro non era certo un lavoro che invidiava. Allo stesso tempo, c'erano stati episodi di maltrattamenti da parte della polizia. Dare giudizi al di là dei fatti accertati legalmente era un sentiero scivoloso che lui si rifiutava di imboccare. «Aspetta!» tuonò Calvin, prima che lui si allontanasse. Jack si fermò appena oltre la soglia e rimise dentro la testa. «C'è qualcun altro che dovresti chiamare, per il caso di carbonchio. Stan Thornton. Lo conosci?» «Certo.» Stan Thornton era il direttore dell'ufficio municipale gestione emergenze. Era stato l'oratore principale a una delle conferenze del giovedì pomeriggio organizzate dall'ufficio di medicina legale nello spirito della collaborazione interdipartimentale. L'argomento era stato la gestione dei cadaveri nell'eventualità di un disastro associato a un'arma di distruzione di massa. Jack aveva provato fastidio, nell'ascoltarlo. Prima della conferenza non si era mai posto seriamente il problema di come affrontare un numero ingente di decessi. Anche solo l'identificazione di migliaia e migliaia di cadaveri era una cosa da far girare la testa. Oltretutto c'era il dilemma di che cosa farne. «Che cosa vuoi che gli dica?» chiese Jack. «Esattamente ciò che hai detto a me», rispose Calvin. «Considerando che il caso è dovuto a un'esposizione professionale limitata, si tratta più che altro di una telefonata di cortesia. Ma dato che il carbonchio è saltato fuori durante la sua conversazione sul terrorismo e le armi batteriologiche, sono certo che per lo meno gli piacerebbe sapere dell'incidente.» «Perché io?» si lamentò Jack. «Non sono bravo in questi salamelecchi.» «Devi imparare. Inoltre, il caso è tuo. Adesso vattene, così magari riesco a lavorare un po'.» Jack lasciò la zona dell'amministrazione, si fermò al secondo piano a prendere un panino da un distributore automatico, poi si diresse al quinto piano. Anche se aveva intenzione di tornare direttamente nel proprio ufficio, non poté resistere all'idea di affacciarsi in quello di Laurie. L'idea era di insistere ancora una volta per sapere la natura del «grande segreto». Ma lei non c'era. La dottoressa Riva Meheta, sua compagna di stanza, gli disse che Laurie era chiusa con i rappresentanti della legge nell'ufficio di Bingham.
Borbottando tra sé per come si stava svolgendo la giornata, Jack si lasciò cadere nella propria poltroncina. «Hai lo stesso brutto aspetto di quando sei andato via», osservò Chet. «Spero che tu non abbia provocato il vice, trascinandolo in qualche discussione.» Jack e Calvin erano spesso in contrasto. Calvin credeva nelle regole rigide e nelle procedure prestabilite. Jack considerava i regolamenti delle linee guida ed era convinto che l'intelligenza e gli istinti innati fossero molto più pratici degli editti burocratici. «È una giornata storta», rispose evasivamente. Si grattò la testa e fece crocchiare le nocche delle mani, mentre decideva a quale delle sgradevoli incombenze appioppategli avrebbe dato la precedenza. Nell'aprire la rubrica alla ricerca del numero di Clint Abelard, fu assalito da un pensiero fastidioso. Forse Laurie aveva trovato un lavoro in qualche altro posto, come Detroit, o ancor peggio, da qualche parte sulla costa occidentale. Poteva essere; se si fosse trasferita, avrebbe sentito di certo l'esigenza di dirlo a lui e a Lou, e poiché una cosa di quel tipo avrebbe significato una promozione, con ogni probabilità sarebbe stata eccitata. Jack restò per un momento a fissare il vuoto, mentre cercava di immaginare che vita sarebbe stata, nella Grande Mela, senza Laurie. Era difficile da immaginare; era anche deprimente. «Ehi, mi sono dimenticato di dirti della mostra al Metropolitan», lo riscosse dai suoi pensieri Chet. «C'è una mostra di Claude Monet che Colleen muore dalla voglia di vedere. Abbiamo preso dei biglietti per giovedì sera.» Erano tre anni che Chet si vedeva di tanto in tanto con Colleen Anderson. Colleen lavorava come art director da Willow and Heath, uno studio pubblicitario di Madison Avenue. Jack conosceva sia lei sia la Willow and Heath, essendo venuto in contatto con loro nel corso di un'indagine sul caso di malattia infettiva che gli aveva guadagnato la fama di cui ora godeva. «Che ne dici se ci venite anche tu e Laurie?» continuò Chet. «Poi potremmo andare tutti assieme al ristorante.» Jack si sentiva quasi venir meno all'idea di non avere Laurie vicino, nelle sue puntate al museo. E quello non sarebbe stato niente, rispetto a quanto gli sarebbe mancata ogni giorno. Chet, naturalmente, non poteva immaginare i sentimenti che aveva provocato con il suo invito. «Glielo chiederò», rispose Jack, poi sollevò il ricevitore e compose il numero di Clint Abelard.
«Fammi sapere che cosa dice», aggiunse Chet. «Se è un sì, farò in modo che Colleen procuri altri due biglietti. Come membro del museo, non dovrebbe avere problemi.» «Vedo Laurie stasera», riprese Jack, mentre aspettava che rispondessero. «Ho un sacco di cose di cui parlarle. Glielo chiederò.» «Hai visto quel caso dello skinhead che ha fatto stamattina?» chiese Chet. «Quella sì è una cosa raccapricciante, da vincere il primo premio. Fa venire la nausea vedere che cosa un essere umano può fare a un altro.» «Purtroppo l'ho visto», rispose Jack, poi coprì il microfono con una mano e aggiunse: «Il federale pensa che siano stati altri skinhead». «Quei ragazzi sono fuori di testa.» «Sai mica se Laurie ha trovato qualcosa che può essere d'aiuto alla polizia?» «Non ne ho idea.» Quando finalmente il dottor Clint Abelard rispose, Jack fece uno sforzo per essere cordiale e allegro. Purtroppo, però, la reazione che ottenne non fu dello stesso stampo. «Certo che mi ricordo di te», disse Clint, in tono asciutto. «Come potrei dimenticarti? Grazie a Dio non succede tutti i giorni che un coroner mi renda il lavoro più difficile.» Jack si morse la lingua. In passato, quando lo aveva conosciuto, gli aveva spiegato con cura la differenza tra un coroner e un medico legale. In quanto medico legale, Jack era un medico con una specializzazione in patologia e una sottospecializzazione in scienze giuridiche. Al contrario, un coroner era solo un burocrate senza alcuna preparazione medica. «Noi medici legali desideriamo sempre accontentare gli altri», ribatté Jack. «Perché mi hai chiamato?» «Stamattina ci è capitato un caso di carbonchio polmonare. Pensavamo che avresti avuto piacere di saperlo. Il paziente è stato portato qui dal Bronx General Hospital.» «Soltanto un caso?» «Proprio così.» «Grazie», fece per concludere Clint Abelard. «Non hai intenzione di chiedermi qualcosa sulle sue origini?» si stupì Jack. «Trovare le origini delle malattie è un lavoro che spetta a noi», replicò Clint, con voce piatta.
«Può essere, ma, tanto per metterlo agli atti, lascia che ti racconti che cosa abbiamo scoperto.» Jack spiegò della Corinthian Rug Company, della recente spedizione di tappeti e pelli provenienti da Grecia e Turchia, chiusi in un magazzino di Queens, e di come Jason Papparis non avesse dipendenti e non si fosse portato a casa alcun tappeto. «Grazie», disse di nuovo Clint, senza scomporsi. «Sei molto astuto. Se avrò qualche mistero epidemiologico da scoprire, ti telefonerò di certo per chiederti assistenza.» «Se non ti spiace che te lo chieda», aggiunse Jack, ignorando il suo sarcasmo, «vorrei sapere che cosa hai intenzione di fare per questo episodio di carbonchio.» «Manderò uno dei miei assistenti a Queens a mettere i sigilli al magazzino.» «Tutto qua?» «Al momento abbiamo un'epidemia di ciclospora che sta mettendo a dura prova il nostro personale», ribatté Clint. «Un singolo caso di una malattia da esposizione professionale non comporta un'emergenza epidemiologica. Ce ne occuperemo quando potremo, ammesso, naturalmente, che saltino fuori altri casi.» «Suppongo che tu sappia fare il tuo mestiere», provò a dire Jack, «ma secondo me...» «Grazie per il tuo voto di fiducia», lo interruppe Clint e poi, senza alcun avvertimento, riattaccò. Jack rimise giù il ricevitore. «Per tutti i diavoli!» esclamò rivolto a Chet, che per l'intera durata della conversazione era rimasto a girare da una parte e dall'altra sulla sua poltroncina. «Questo è quanto, per la collaborazione interdipartimentale. Quel tipo è più sarcastico di me.» «Devi aver ferito mortalmente il suo ego, quando hai avuto a che fare con lui durante l'episodio di peste», commentò Chet. «Be', vediamo se ho maggior fortuna con il direttore dell'ufficio municipale gestione emergenze.» «Perché diavolo lo chiami?» «Telefonata di cortesia. Ordini dal vicecapo.» Rispose una segretaria e Jack le chiese di Stan Thornton. «È il tizio che ci ha tenuto quella conferenza sulle armi di distruzione di massa?» domandò Chet. Jack annuì. Si sorprese nel sentire che il direttore stesso era venuto im-
mediatamente in linea. Gli spiegò chi era e perché chiamava. «Carbonchio!» esclamò Stan. Era evidente che era rimasto colpito. A differenza di Clint Abelard, bombardò Jack di domande. Solo dopo aver appreso che la causa probabile era circoscritta e che si era verificato un solo caso, la sua voce perse il tono di urgenza. «Tanto per stare sicuri», disse Stan, «userò i miei contatti con il dipartimento della sanità, per assicurarmi che non ci siano altri degenti in città con sintomi sospetti.» «Buona idea», approvò Jack. «E farò mettere in quarantena il magazzino.» «Questo lo stanno già facendo.» Jack gli riferì la conversazione avuta con Clint. «Perfetto! Avrei contattato io stesso Clint Abelard. Coordinerò con lui le nostre iniziative.» Buona fortuna! gli augurò Jack mentalmente. «Grazie per la prontezza con cui ha agito», continuò Stan. «Come ho accennato nella mia conferenza, voi medici siete i primi a vedere gli effetti di un atto di terrorismo compiuto con un'arma batteriologica. Più è rapida la risposta, maggiore è la possibilità che l'evento sia contenuto.» «Lo terremo a mente di sicuro», replicò Jack, prima di salutare e riagganciare. «Congratulazioni», commentò Chet. «È stata una conversazione civile.» «Si vede che le mie capacità di comunicazione interdipartimentale stanno migliorando. Non l'ho irritato nemmeno un po'!» Poi raccolse i fogli relativi a Papparis e li rimise nella cartelletta, la spinse da una parte e dedicò di nuovo la propria attenzione al caso del prigioniero. Per qualche minuto, nella stanza regnò il silenzio. I due colleghi si chinarono sulle rispettive scrivanie e si rimisero al lavoro. Chet incollò gli occhi al microscopio per esaminare una sezione di fegato proveniente da un caso di epatite rivelatasi mortale; Jack cominciò a delineare gli elementi più significativi della patologia che aveva riscontrato durante l'autopsia al prigioniero. Purtroppo la tranquillità non durò a lungo. Nella stanza piccola e stipata echeggiò un suono simile a uno sparo. Chet si raddrizzò di botto, mentre gli giungeva alle orecchie una sfilza di improperi snocciolati da Jack, che ebbero l'effetto di renderlo ancora più nervoso. Ma poi si accorse che non correvano il rischio di diventare i prossimi due casi dell'obitorio. Il rumore
improvviso era stato provocato da un possente pugno calato sulla scrivania di metallo dal suo irrequieto compagno di stanza. «Accidenti! Mi hai fatto una paura boia!» si lamentò Chet. «Non riesco a concentrarmi», si giustificò Jack. «Che cosa c'è, adesso?» «Un sacco di cose.» Jack si mantenne sul vago. Non voleva mettersi a parlare di Laurie. «Non è una risposta molto specifica», gli fece notare il collega. Jack prese di nuovo in mano la cartelletta di Jason Papparis. «Questo caso, intanto.» «Che cosa c'è che ti preoccupa, adesso?» Chet aveva un tono irritato. «Hai fatto la diagnosi, ne hai messo al corrente il sostituto del capo, hai chiamato l'epidemiologo municipale e il direttore dell'ufficio gestione emergenze. Che cosa diavolo vuoi fare, ancora?» Jack sospirò. «Come ho detto prima, fila troppo liscio. È come se fosse un caso creato apposta per finire nei libri di testo, e questo mi preoccupa.» «Scemenze! Mi pare che lo stai usando come una scusa. Che altro hai per la mente?» Jack sbatté le palpebre e fissò il collega. Lo colpiva la sua perspicacia. Per un attimo si chiese se raccontargli della telefonata ricevuta quella mattina presto da Laurie, ma poi decise di no. Se lo avesse fatto, molto probabilmente avrebbe finito con l'ammettere i sentimenti che provava per Laurie e quello era un argomento che non era pronto ad affrontare, nemmeno con se stesso. «Sì, c'è un'altra cosa», rispose, atteggiando il viso a un'angoscia esagerata. «Sono sconvolto perché Seinfeld ha sospeso le trasmissioni.» «Oh, Cristo! È impossibile discutere seriamente con te. E va bene! Cuoci nel tuo brodo, ma almeno, per favore, fallo in silenzio, oppure, se non è possibile, va' da un'altra parte!» Chet fece compiere mezzo giro alla poltroncina, sostituì il vetrino e tornò a chinarsi sul microscopio, borbottando tra sé su quanto poteva essere insopportabile il suo compagno di stanza. «Clint Abelard ha detto che farà mettere in quarantena il magazzino della Corinthian Rug Company», aggiunse Jack, e gli pungolò la schiena con un angolo della cartelletta di Papparis, per essere sicuro che lo ascoltasse. «E l'ufficio qui a Manhattan? E se il commerciante di tappeti avesse portato in ufficio qualche pelle? Non sarebbe consigliabile dare una scorsa ai registri della ditta, per vedere se l'ultima partita arrivata non sia già stata
venduta, anche parzialmente, e spedita altrove?» Chet girò di nuovo di centottanta gradi sulla sua poltroncina e fissò in viso il suo collega; si accorse che era serio. «Che cosa vuoi che ti dica?» gli chiese. «Voglio che confermi le mie preoccupazioni.» «Va bene. Hai ragione! Allora fa' qualcosa al riguardo! Richiama l'epidemiologo per assicurarti che ci abbia pensato anche lui. Tirati fuori dallo stomaco 'sta roba, così almeno riusciremo a svolgere un po' di lavoro.» Jack lanciò un'occhiata al telefono, poi guardò di nuovo Chet. «Dici davvero? Non è un mio fan, e non è ciò che si dice un tipo disposto a recepire i suggerimenti, soprattutto i miei.» «E allora, che cosa cambia, se quel tipo è una testa quadra? Per lo meno avrai la soddisfazione di aver fatto tutto il possibile. Che ti importa quello che pensa di te?» «Suppongo che tu abbia ragione», commentò Jack, mentre già allungava la mano verso il telefono. «Non mi posso aspettare che tutti mi amino.» Compose il numero dell'epidemiologo municipale e gli rispose la segretaria, che gli chiese il nome e poi gli disse di attendere. Passarono diversi minuti, e Jack sollevò lo sguardo verso il compagno di stanza. «Così, fa resistenza passiva», commentò Chet. «Ti tiene lì ad aspettare.» Jack annuì. Scarabocchiò qualche centro concentrico sul taccuino che aveva davanti, poi tamburellò con le dita sul ripiano della scrivania. Infine tornò in linea la segretaria. «Mi spiace, ma il dottore è occupato», annunciò. «Dovrà richiamarlo più tardi.» Jack riattaccò. «Suppongo che non dovrei stupirmi», commentò. «Quanto mi piace questa cagata della collaborazione interdipartimentale!» «Mandagli un fax», suggerì Chet. «Assolverà la stessa funzione, senza la seccatura di dover parlare con lui.» «Mi è venuta un'idea migliore!» esclamò Jack. Dalla cartelletta di Papparis estrasse il modulo di identificazione e trovò il numero di telefono della vedova, che chiamò immediatamente. «Mi spiace disturbarla di nuovo», esordì, dopo averle detto chi era. «Nessun disturbo», rispose lei, cortese come durante la prima telefonata. «Volevo sapere se si è fatta viva con lei qualcuna delle autorità sanitarie cittadine.» «Sì, subito dopo che avevo parlato con lei, mi ha telefonato un certo dottor Abelard.»
«Ne sono felice. Posso chiederle che cosa le ha detto?» «È stato molto formale e sbrigativo. Voleva l'indirizzo del magazzino, e mi ha detto che passerà da me qualcuno della polizia locale a prendere le chiavi.» «Ottimo. E l'ufficio di Manhattan? Il dottor Abelard le ha chiesto qualcosa al proposito?» «Dell'ufficio non ha detto niente.» «Capisco.» Jack lanciò un'occhiata a Chet, che si strinse nelle spalle. Ci pensò un attimo, poi aggiunse: «Vorrei dare un'occhiata dentro l'ufficio. Le spiace?» Chet cominciò ad agitare le mani e a formulare con le labbra, in silenzio ma con enfasi, la parola «no», ripetendola più volte. Jack lo ignorò. «Se pensa che può essere utile, a me va bene», rispose Helen Papparis. Jack le spiegò quello che aveva appena detto a Chet, in particolare insisté sulla necessità di controllare che nessun articolo della partita ricevuta di recente fosse stato venduto e spedito. La vedova capì immediatamente. «Magari passo da lei a prendere le chiavi», si offrì Jack. «Non è necessario. L'indirizzo è 22, Walker Street, e proprio alla porta accanto c'è un negozio di filatelia. Il proprietario si chiama Hyman Feingold. Era amico di mio marito. Tenevano reciprocamente le chiavi di scorta dei loro negozi, nel caso ci fosse un'emergenza. Posso dargli un colpo di telefono per avvertirlo che passerà da lui.» «Perfetto!» esclamò Jack. «Nel frattempo ha sentito il suo medico?» «Sì. Mi ha mandato degli antibiotici e mi ha anche raccomandato di farmi la vaccinazione.» «Penso che sia una buona idea.» Dopo aver riattaccato, Jack si alzò e prese il bomber appeso dietro la porta. «Non hai intenzione di chiedere la mia opinione su questa uscita sul campo?» domandò Chet. «Nooo», rispose Jack, «la tua opinione la conosco già. Ma ci vado lo stesso. Non riesco a concentrarmi, quindi tanto vale fare qualcosa di utile. Inoltre, adesso tu riuscirai a lavorare in pace. Resta a tenere il forte, amico!» Chet gli rivolse un cenno della mano, con espressione rassegnata e irritata nello stesso tempo. Secondo lui era una pazzia uscire a fare un visita in loco, ma ormai sapeva per esperienza che non era il caso di provare a fargli cambiare idea, una volta che si era messo in testa di fare una cosa.
Fischiettando un motivetto allegro, Jack scese le scale fino al terzo piano e ficcò la testa nel laboratorio di microbiologia. Già pregustava la pedalata verso il centro direzionale, e questo migliorò l'umore non proprio gaio che aveva fin dal mattino. Agnes Finn non c'era, quindi si rivolse alla capoturno, che fu più che disposta a fornirgli un sacchetto contenente provette per colture, guanti di lattice, maschere, un camice in materiale non tessuto e una cuffia. Jack sapeva che sarebbe stata più sicura una tuta protettiva come quelle che indossava quando eseguiva le autopsie, ma sentiva che non era necessaria, e non aveva voglia di aspettare che gliela procurassero. Inoltre, era convinto che il signor Papparis aveva contratto la malattia nel magazzino, non nell'ufficio. Tenendo in mano il sacchetto con tutto l'occorrente, scese nel sotterraneo e tolse il blocco alla bici. Invece di puntare subito verso il centro direzionale, passò dall'University Hospital. Essendo un convinto sostenitore del vecchio adagio secondo il quale «un grammo di prevenzione vale un chilo di terapia», aveva deciso di assumere degli antibiotici a scopo profilattico. La pedalata verso il centro fu eccitante e si svolse quasi senza incidenti. Jack percorse la Seconda Avenue verso sud, poi tagliò a ovest sulla Houston, quindi imboccò la Broadway, dove ebbe un piccolo scontro con il guidatore di un furgone. Si trattò solo di uno scambio di male parole, prima che quello ripartisse a tutta velocità. Jack assicurò la bicicletta a un palo del divieto di sosta, poco più in là dell'ufficio della Corinthian Rug Company. Si avvicinò alla vetrina principale e guardò i tappeti e le pelli che vi erano esposti. Erano solo pochi esemplari, scoloriti dal sole e ricoperti da un sottile strato di polvere, il che faceva pensare che fossero lì da anni. Di certo non erano arrivati con l'ultima spedizione. Tenendo le mani a coppa attorno al viso, Jack scrutò l'interno dell'ufficio. Era piuttosto spartano. C'erano due tavoli: uno fungeva da scrivania e vi erano disposti sopra i soliti accessori, sull'altro erano appoggiati una fotocopiatrice e un fax. Inoltre c'erano parecchi schedari verticali. Sul fondo si vedevano due porte, entrambe chiuse. Jack si avvicinò alla porta d'ingresso. Il nome della ditta, scritto a lettere dorate sul vetro, riluceva contro l'oscurità dell'interno. Provò ad aprirla, ma era chiusa a chiave, come si aspettava. Il negozio che vendeva articoli per filatelici si trovava subito accanto e
Jack vi entrò. Nell'udire il suono acuto dei campanelli la porta si aprì, trasalì, e si rese conto di quanto fosse teso. All'interno era seduto un cliente che fissava una serie di francobolli racchiusi nelle piccole buste trasparenti. Dietro il banco stava un uomo che doveva essere il proprietario. Quando sollevò lo sguardo, Jack si presentò. «Ah, dottor Stapleton», disse Hyman a voce bassa, come se il suono delle parole fosse in qualche modo irriverente, in quella pace filatelica, e gli fece cenno di avvicinarsi. «Ciò che è accaduto al signor Papparis è una terribile tragedia», mormorò, poi porse a Jack un mazzo di chiavi tenute assieme da un anello. «Pensa che c'è qualche motivo per cui dovrei allarmarmi?» «No», sussurrò Jack a sua volta. «A meno che il signor Papparis non avesse l'abitudine di mostrarle la sua merce.» Hyman scosse la testa. «Di recente no», disse. «Anni fa, quando andava ancora in giro con i campioni, ne portava alcuni in ufficio, ma ormai non aveva più bisogno di farlo.» Jack sollevò le chiavi. «Grazie per la sua collaborazione. Gliele restituirò tra poco.» «Ci metta tutto il tempo che le serve. Sono contento che sia venuto a fare dei controlli.» Jack tornò alla bici e prese dal portapacchi il sacchetto che si era fatto preparare al laboratorio di microbiologia, poi si avvicinò di nuovo all'ufficio della Corinthian Rug Company e girò la chiave nella toppa. Prima di aprire la porta, però, indossò camice, cuffia, guanti e maschera. Qualche passante rallentò appena il passo nell'assistere ai suoi preparativi. Jack considerò la loro indifferenza un tributo all'equanimità dei newyorkesi. Finita la vestizione, spinse la porta e varcò la soglia. Sentì drizzarglisi i capelli in testa. C'era qualcosa di sinistro e minaccioso nella possibilità che qualche granello di pulviscolo che danzava nell'aria, nel raggio di luce proveniente dalla strada, fosse letale. Per un attimo pensò di tornare indietro e lasciare che fossero altri a svolgere quel lavoro. Ma poi si rimproverò per ciò che chiamava una superstizione medievale. Dopo tutto, era ragionevolmente protetto. L'ufficio era davvero spartano come gli era apparso guardandolo da fuori. L'unico ornamento era una serie di poster delle isole greche a cura della Olympic Airlines. Anche un grande calendario riproduceva paesaggi della
Grecia. Anche se i tappeti e le pelli in vetrina erano polverosi, il resto del locale era immacolato e odorava leggermente di detersivo. A terra Jack trovò qualche lettera e delle riviste che evidentemente erano state infilate nella buca della posta. Le raccolse. Sul ripiano della scrivania c'erano un tampone di carta assorbente, un cestello di metallo per la posta in arrivo e in partenza e diverse riproduzioni in miniatura di antichi vasi greci. L'ufficio era ordinato e spazioso. Jack si fece un dovere di deporre le lettere e le riviste raccolte da terra nel cestello della posta in arrivo. Accese i faretti e tirò fuori la collezione di provette. Cominciò a strofinare i tamponi sulle varie superfici. Nel passarli sulla scrivania, notò qualcosa che luccicava al centro della carta assorbente. Si chinò e vide che si trattava di una minuscola stellina cerulea iridescente. Sembrava stranamente fuori luogo in quell'ambiente austero. Guardò nel cestino delle cartacce. Era vuoto. Si avvicinò alle porte chiuse. Una dava su un gabinetto, dove passò un tampone sul lavandino e uno dietro al WC, l'altra portava a un corridoio che comunicava con la tromba delle scale dell'edificio. Non c'erano altri tappeti o pelli, tranne quelli esposti in vetrina. Quando ebbe finito di far prelievi per le colture, portò tutte le provette in bagno e ne lavò l'esterno, prima di rimetterle nel sacchetto. Infine si avvicinò agli schedari. Adesso voleva scoprire tutto ciò che poteva sull'ultima partita di tappeti e di pelli, e soprattutto verificare che non fossero già stati venduti. 5 Lunedì 18 ottobre, ore 15.30 Yuri sollevò lo sguardo sul viso compiaciuto dell'uomo d'affari che gli stava contando ogni singolo dollaro nel palmo della mano in attesa. Lo aveva portato per tutto il tragitto dall'aeroporto La Guardia fino a una villa signorile. Durante l'intero percorso, aveva dovuto sorbirsi un'altra lunga conferenza sulle virtù dell'America e sulla sua inevitabile vittoria nella guerra fredda. Stavolta l'enfasi era stata su Ronald Reagan, e su come avesse conquistato tutto da solo l'«Impero del Male». Il tizio aveva correttamente desunto le sue origini etniche da un'occhiata al nome che compariva sulla licenza di tassista. Questo aveva provocato il monologo sulla su-
periorità degli Stati Uniti in tutti gli aspetti: morale, politico, economico. Durante tutta quella predica interminabile, Yuri non aveva detto una sola parola, anche se a volte ne era stato decisamente tentato. Alcune affermazioni del suo passeggero gli avevano fatto ribollire il sangue; in particolare quando, in tono condiscendente, aveva espresso compassione per il popolo russo che secondo lui era in preda all'insicurezza, dovendo sopportare continuamente una leadership inetta. «Ecco qui un paio di dollari extra per i suoi guai», disse l'uomo strizzandogli l'occhio, mentre aggiungeva due banconote alle altre. Yuri teneva sul palmo ventinove biglietti da un dollaro, tutti cincischiati. La tariffa segnata sul tassametro, più il pedaggio del ponte di Triboro assommava a ventisette e cinquanta. «Dovrebbe essere la mancia?» chiese, con evidente disprezzo. «C'è qualcosa che non va?» replicò il passeggero, che si raddrizzò e inarcò le sopracciglia con aria indignata, poi prese la valigetta da sotto il braccio e se la tenne davanti, come se fosse tentato di usarla per difendersi. Yuri tolse la mano destra dal volante e sollevò i due ultimi dollari, lasciandoli andare in modo che, dopo aver descritto qualche arco nell'aria, caddero sul selciato. L'espressione dell'uomo passò dall'indignazione alla collera, e gli si imporporarono le guance. «Questo è un dono all'economia americana», dichiarò Yuri, poi pigiò sull'acceleratore e schizzò via. Nello specchietto retrovisore vide l'uomo d'affari chinarsi a raccogliere le due banconote dal canaletto di scolo. Quell'immagine gli diede un pizzico di soddisfazione. Lo rincuorava vederlo chinarsi per una somma così irrisoria. Non riusciva a credere quanto fossero tirchi certi americani, nonostante la loro ostentazione di ricchezza. Dopo il vano tentativo di vedere Curt Rogers e Steve Henderson alla caserma dei pompieri di Duane Street, la giornata di Yuri aveva subito un netto miglioramento. Per concedersi un premio, a mo' di mini festeggiamento per il suo imminente ritorno alla rodina, era andato in un piccolo ristorante russo dove aveva pranzato con un piatto di borsch bollente e un bicchiere di vodka. Parlare in russo aveva aggiunto un ulteriore tocco a quell'esperienza, anche se l'uso della madrelingua gli aveva fatto provare un po' di malinconia. Dopo la pausa del pranzo, c'era stato un flusso continuo di passeggeri e tutto era filato liscio. In genere non avevano intavolato conversazioni, tranne l'ultimo tizio, quello preso al La Guardia.
Yuri si fermò a un semaforo in Park Avenue. Aveva intenzione di dirigersi sulla Quinta, nella speranza di beccarsi un po' di clienti degli alberghi di lusso, e invece era spuntata tra le macchine parcheggiate una vecchia con il fazzoletto in testa, che aveva sollevato la mano. Quando divenne verde, accostò e la vecchia salì. «Dove?» domandò Yuri, mentre nello specchietto guardava la nuova passeggera. Indossava abiti pratici che, pur non essendo consunti, erano per lo meno piuttosto lisi. Aveva l'aria di chi è abituato a prendere la metropolitana. «Decima Strada Ovest, 107», disse la donna, con un accento ancora più marcato di quello di Yuri. Lui lo riconobbe immediatamente. Era estone, e questo gli riportò alla mente ricordi contrastanti. Proseguirono in silenzio per un po'. Per la prima volta in tutto il giorno, adesso era Yuri ad avere la tentazione di parlare. Lanciò spesso delle occhiate alla passeggera. In lei c'era qualcosa di familiare. Si era adagiata comodamente sul sedile, tenendo le mani incrociate in grembo. Le sue fattezze rilassate, da contadina, erano ravvivate dagli occhietti sfavillanti e le labbra atteggiate a un leggero sorriso esprimevano una sorta di tranquillità interiore. «Lei è estone?» si decise a chiedere Yuri. «Sì. E lei è russo?» Yuri annuì e osservò la reazione della vecchia. Dopo anni di occupazione, in Estonia covava un forte sentimento antirusso. Ciò che Yuri provava verso gli estoni, invece, non era altrettanto negativo. Anche se aveva avuto delle difficoltà, durante la sua odissea prima di arrivare in America, aveva anche conosciuto persone amichevoli e generose, che lo avevano aiutato. «Da quanto tempo sta qui?» chiese la donna. La sua voce era priva di malizia. «Dal 1994», rispose lui. «Ha lasciato la madrepatria assieme alla famiglia?» «No», riuscì a dire Yuri, sentendosi la gola secca. «Sono venuto da solo.» «Dev'essere stato molto difficile», osservò lei con enfasi. «E deve essersi sentito molto solo.» La semplice domanda postagli dalla vecchia e la reazione alla sua risposta scatenarono in Yuri un'ondata di emozioni, tra cui una forte vergogna per aver abbandonato la famiglia, anche se c'era ben poco da lasciarsi alle spalle. La toska con cui aveva lottato già prima ritornò ancora più forte.
Allo stesso tempo si rese conto del perché quella donna gli sembrava familiare. Gli ricordava sua madre, anche se non aveva tratti simili. Più che la rassomiglianza fisica, era il suo atteggiamento, in particolare la serenità che emanava prepotentemente da lei, a ricordargli sua madre. Yuri non pensava spesso a lei. Era troppo doloroso. Nadja Davidov aveva voluto un bene dell'anima a lui e al figlio minore, Igor, e li aveva protetti come meglio poteva dalle brutali percosse che il loro padre, Anatolj, propinava loro alla minima provocazione. Yuri aveva ancora delle cicatrici sulle gambe che risalivano a quando aveva undici anni. All'epoca frequentava la quarta classe ed era stato appena reclutato nei Giovani Pionieri. Faceva parte della divisa una cravatta rossa, tipo quella degli scout, da portare con una piccola spilla a forma di bandiera in cui era inserito un ritratto di Lenin. Non si sa come, nel percorso da scuola a casa Yuri aveva perso la spilla e quando Anatolj lo aveva scoperto, quella sera, aveva perso la ragione. Immerso in uno stato di stordimento dovuto a quasi un litro di vodka, aveva percosso il figlio fino a che i pantaloni si erano intrisi di sangue. Nadja riusciva quasi sempre a stornare su di sé i quotidiani scoppi di violenza del marito, dovuti all'alcol. Di solito resisteva stoicamente ai colpi di Anatolj, sopportando anche le ingiurie. Poi si metteva con aria di sfida tra lui e i figli, a volte con il sangue che le colava sul viso. Anatolj continuava a imprecare, minacciando altre botte. Vedendo che lei non parlava e non si muoveva, agitava i pugni verso i figli e gridava che, se avessero commesso le stesse trasgressioni della madre, li avrebbe uccisi. Poi raggiungeva barcollando l'unico letto che c'era nell'appartamento e si addormentava. Era una scena che si era ripetuta quasi ogni sera, fino a quando Yuri aveva raggiunto l'ottava classe. Nel 1970, alla vigilia del 1° maggio, la più importante festa sovietica, Anatolj aveva bevuto più del doppio della sua abituale dose di vodka e, preso da un accesso di cattivo umore, aveva cacciato fuori di casa l'intera famiglia, per poi chiudersi dentro a chiave, e aveva perso i sensi. Durante la notte, mentre Nadja, Yuri e Igor dormivano come meglio potevano sulle panchine del parco comunale, Anatolj si era soffocato con il proprio vomito. La mattina dopo lo avevano trovato freddo e rigido per il rigor mortis. Era stata dura per la famiglia, dopo la morte di Anatolj. Avevano dovuto trasferirsi dall'appartamento di due stanze, al secondo piano, in una singola stanza all'ultimo piano dello stesso stabile, dove d'inverno si gelava e d'estate c'era un caldo soffocante. Ancora più problematica era stata la perdita
dello stipendio del capofamiglia, anche se in parte compensata dalle minori spese per l'acquisto di vodka. Per fortuna, l'anno dopo Nadja aveva ricevuto una promozione nella fabbrica di ceramiche dove lavorava da quando si era diplomata alla scuola professionale. Questo significava che Yuri poteva continuare fino alla decima classe. Da adolescente, però, Yuri aveva rivelato un carattere introverso e bellicoso: faceva spesso a pugni con i compagni di scuola, se veniva stuzzicato, e gli studi ne risentivano. I voti finali non erano stati sufficienti a farlo iscrivere all'università, come avrebbe desiderato sua madre. Aveva quindi ripiegato sulla locale scuola di specializzazione professionale, per diventare tecnico microbiologo. Gli era stato detto che la domanda in quel settore era in continua ascese, in particolare a Sverdlovsk, dove il governo aveva costruito una grande fabbrica di prodotti farmaceutici che produceva vaccini per uso umano e animale. «È mai tornato in Russia, da quando è venuto in America?» domandò la donna estone dopo che ebbero superato in silenzio diversi isolati «Non ancora», rispose Yuri, rianimandosi all'idea del suo imminente ritorno. Aveva già comperato un biglietto aperto per Mosca, via Francoforte, in partenza dall'aeroporto Newark. Aveva scelto Newark perché si trovava a sudovest di Manhattan. Intendeva partire nel momento in cui avesse finito di lanciare la sua arma batteriologica al Central Park, e non voleva rischiare di andare a est, al Kennedy. Il vento soffiava invariabilmente da ovest a est. L'ultima cosa che desiderava era restare vittima del suo atto di terrorismo. Ottenere il biglietto aereo non era stata una cosa priva di difficoltà. Yuri non era mai riuscito ad avere un passaporto russo internazionale e, anche se era in possesso della carta verde rilasciata dal servizio immigrazione e naturalizzazione, non aveva ancora diritto a un passaporto americano. Per lo meno, non autentico. Aveva dovuto pagare per procurarsene uno falso. Non occorreva che fosse fatto particolarmente bene, dato che lo scopo era solo quello di acquistare il biglietto. Da bravo patriota, confidava nel fatto che non avrebbe avuto problemi a rientrare in Russia senza i documenti adatti, e di certo non aveva intenzione di tornare negli Stati Uniti. «Io e mio marito siamo tornati in Estonia, l'anno scorso», disse la donna. «È stato meraviglioso. Nel Baltico stanno accadendo cose positive. Alla fine potremmo anche tornare a vivere nella nostra patria.» «L'America non è il paradiso che vuol far credere di essere al mondo in-
tero», commentò Yuri. «Qui la gente deve lavorare molto duro. E bisogna stare attenti: ci sono un sacco di ladri che vogliono prendersi i nostri soldi, come quelli degli investimenti e quelli che vogliono venderti del terreno paludoso in Florida.» Yuri annuì, anche se per lui il vero ladro era quello che Curt Rogers chiamava il Governo Occupato dai Sionisti. Non era solo in un senso metaforico relativo alla beffa del sogno americano, ma anche alla lettera. Gli agenti del governo avevano sempre le mani tese a portar via ogni singolo dollaro che Yuri si guadagnava. Se non erano i criminali di Washington, erano i ladri del governo statale di Albany o i banditi del governo municipale di Manhattan. Secondo Curt, tutte quelle tasse erano incostituzionali, e quindi manifestamente illegali. «Spero che mandi un po' di soldi a casa, alla sua famiglia», continuò la donna, senza rendersi conto dell'effetto che aveva quella conversazione sul suo conducente. «Io e mio marito lo facciamo tutte le volte che possiamo.» «Io non ho parenti in patria», replicò Yuri un po' troppo in fretta. «Sono proprio solo.» Sapeva di non essere del tutto onesto, infatti aveva la nonna materna, qualche zia e zio, e una collezione di cugini a Ekaterinburg, come adesso veniva chiamata Sverdlovsk. E aveva pure una moglie obesa a Brighton Beach. «Mi spiace.» Il viso della donna espresse compassione. «Non riesco a immaginare come dev'essere, non avere famiglia. Magari nei giorni di festa le piacerebbe venire da noi.» «Grazie, è molto gentile, ma sto bene...» Avrebbe voluto aggiungere altro, ma si ritrovò all'improvviso con un groppo in gola. La sua mente tornò con riluttanza al 1979, il fatidico anno in cui aveva perduto la madre e il fratello. In particolare, ripensò al 2 aprile. La giornata era cominciata come qualsiasi altro giorno lavorativo, con Io scampanellio rauco della sveglia che lo aveva strappato alle profondità del sonno. Alle cinque del mattino faceva buio come a mezzanotte, per la latitudine a cui si trovava Sverdlovsk. L'inverno aveva allentato la sua morsa sulla città, ma la primavera non era ancora arrivata. L'appartamento non era sotto zero, come accadeva nelle mattine di febbraio e a volte anche di marzo, ma comunque faceva molto freddo. Yuri si era vestito al buio, senza svegliare Nadja e Igor, che non dovevano alzarsi fino alle sette. Nadja lavorava ancora alla fabbrica di ceramiche, mentre Igor frequentava l'ultimo anno di scuola e avrebbe finito a giugno.
Dopo una rapida colazione con pane e formaggio stantii nella cucina comune deserta, Yuri era uscito nell'oscurità, diretto alla fabbrica farmaceutica. Erano solo due anni che lavorava lì, dopo essersi diplomato alla scuola di specializzazione professionale, ma gli erano bastati per capire che quella fabbrica non era ciò che sembrava. Yuri non si occupava di colture microbiologiche per produrre vaccini, come gli era stato detto al momento dell'assunzione. Nella fascia esterna del vasto complesso venivano prodotti realmente dei vaccini, ma lui lavorava nella parte più interna. I vaccini erano una copertura del KGB per la vera attività di quella fabbrica, che faceva parte del cosiddetto Biopreparat, il vasto programma sovietico per la produzione di armi batteriologiche. Yuri era un ingranaggio, uno dei cinquantacinquemila addetti sparsi in varie istituzioni, per tutta l'Unione Sovietica. La fabbrica veniva chiamata affettuosamente Campo 19. Al cancello Yuri doveva fermarsi e mostrare la tessera di riconoscimento. Sapeva che l'uomo nella guardiola apparteneva al KGB. Quel giorno, mentre aspettava, aveva battuto i piedi per combattere il freddo. Non si erano scambiati nemmeno una parola. Non occorreva. L'uomo aveva annuito, gli aveva restituito la tessera, e lui era entrato. Yuri era stato uno dei primi del turno di giorno ad arrivare. La fabbrica era in funzione ventiquattr'ore su ventiquattro, sette giorni alla settimana. Spettava a Yuri e a qualche altro fra i tecnici più giovani occuparsi della pulizia della parte più interna, quella ad alta protezione da contaminazione batteriologica. Il personale delle pulizie non era autorizzato a entrare in quella zona. Nello spogliatoio Yuri aveva rivolto un cenno di saluto ad Alexis, con cui condivideva l'armadietto. Era troppo presto per le conversazioni, specialmente considerando che nessuno dei due aveva ancora bevuto un tè o un caffè. In silenzio, assieme a due altri compagni, si erano infilati le tute rosse di protezione e avevano acceso i ventilatori incorporati, senza darsi nemmeno la pena di guardarsi l'un l'altro attraverso le visiere di plastica. Così addobbato, il gruppo aveva atteso davanti alla porta a pressione finché questa si era aperta automaticamente. Nessuno aveva tentato di parlare mentre nella stanza di ingresso la pressione diminuiva. Quando si era aperta la porta interna, si erano diretti sempre in silenzio verso le postazioni loro assegnate. Si muovevano lentamente, resi goffi dalle tute e tenendo le gambe rigide: sembravano più robot avveniristici che esseri umani. Il monotono inizio dei turni era una routine meticolosamente progettata
che non cambiava mai, di settimana in settimana, di mese in mese. E quella particolare mattina del 2 aprile 1979 sembrava un giorno come un altro. Ma non lo era. Incombeva un potenziale problema, di cui i quattro non erano al corrente. Nessuno aveva la minima idea del disastro che stava per accadere. La fabbrica di Sverdlovsk utilizzava soprattutto due tipi di microbi: il Bacillus anthracis e il Clostridium botulinum. Nella forma di arma batteriologica, si presentavano il primo come spore e il secondo come tossina cristallizzata. Lo scopo della fabbrica era di produrre la maggior quantità possibile di entrambi. Quando Yuri aveva iniziato a lavorare al Campo 19, lo avevano spostato da una all'altra delle varie postazioni di lavoro, in modo che familiarizzasse con le operazioni dell'intera fabbrica. Dopo il primo mese di rotazione era stato assegnato al reparto del carbonchio. In particolare, lavorava nella sezione dove le colture liquide provenienti dai giganteschi fermentatori venivano essiccate, assumendo la forma di panetti; questi venivano poi triturati, trasformandosi in una polvere che era quasi un puro concentrato di spore. La mansione specifica di Yuri era di controllare i polverizzatori. Questi erano cilindri rotanti di acciaio che contenevano sfere anch'esse di acciaio. Attente prove eseguite su animali, in un'altra parte della fabbrica, avevano determinato che la dimensione ottimale delle particelle di polvere, perché fosse più letale e più efficace, era di cinque micron. Per ottenerla, i polverizzatori dovevano ruotare a una velocità specifica, per un tempo determinato, e le sfere di acciaio dovevano essere di una precisa grandezza. La procedura normale di produzione richiedeva che i polverizzatori non fossero in funzione durante la notte, per la manutenzione ordinaria. La chiusura veniva effettuata dal sorvegliante del turno serale. Gli essiccatori invece non venivano fermati, e continuavano a funzionare per produrre una grande quantità di panetti marroncini per il giorno dopo. Infatti ci voleva più tempo a essiccarli che a macinarli. Come faceva sempre, Yuri aveva iniziato la sua giornata di lavoro manovrando la gomma che emetteva getti d'acqua ad alta pressione, altamente clorata, in tutta la zona attorno ai polverizzatori. Anche se questi erano sigillati, invariabilmente fuoriusciva sempre qualche minuscola particella di polvere, in particolare se venivano aperti per la manutenzione. Poiché anche solo una quantità microscopica poteva uccidere un essere umano, la pulizia giornaliera era assolutamente obbligatoria, anche se nessuno si av-
vicinava a quei macchinali senza la tuta protettiva. All'inizio Yuri era terrorizzato all'idea di lavorare in un ambiente dov'era presente un agente patogeno mortale come quello, ma nel corso dei mesi si era gradatamente adattato. Quella particolare mattina del 2 aprile, non gli veniva nemmeno in mente di potersi preoccupare. Era come Ivan Denisovič, nel romanzo di Solgenitsin, a dimostrazione di come gli esseri umani abbiano un'innata capacità di adattarsi. Dopo aver completato le pulizie, aveva girato un grande argano per riavvolgere la gomma, e lo sforzo gli aveva fatto spuntare goccioline di sudore sulla fronte; bastava il minimo sforzo e la tuta protettiva si trasformava in una sauna ambulante. Riposta l'attrezzatura per le pulizie, Yuri era entrato nella sala di controllo e aveva chiuso la porta. Quel locale era separato dai polverizzatori da un vetro isolante, infatti quando erano in funzione il rumore era assordante, accompagnato a forti vibrazioni. Si era seduto davanti al pannello di controllo, dando un'occhiata ai settaggi e ai quadranti. Tutto era in ordine per iniziare. Poi si era voltato verso il registro giornaliero, mentre già pensava alla pausa delle nove. Quello era il momento che preferiva, in tutta la giornata, anche se si trattava solo di una pausa di mezz'ora. Almeno poteva assaporare il caffè appena fatto e il pane. Con l'indice guantato aveva scorso le tabelle dei numeri per accertarsi che i polverizzatori avessero lavorato senza difficoltà durante l'ultimo turno in cui erano stati in funzione. Tutto sembrava in ordine, ma poi era arrivato alla colonna contenente i valori della pressione negativa dell'aria all'interno dell'unità. Scorrendola verso il fondo della pagina, aveva notato che la pressione era salita lentamente, per tutta la durata del turno. Non si era preoccupato, poiché l'aumento era scarso e i valori restavano entro limiti accettabili. Aveva guardato in fondo alla pagina, dove il capoturno riassumeva ciò che era accaduto. Il leggero aumento della pressione era stato debitamente annotato, con l'indicazione che il servizio manutenzione ne era stato informato. Sotto quell'annotazione ce n'era un'altra, scritta dal tecnico del servizio manutenzione. L'ora segnata erano le due di mattina. Diceva semplicemente che l'unità era stata controllata e la causa del leggero aumento di pressione era stato scoperta, con conseguente rettifica. Yuri aveva scosso la testa. Quell'ultima annotazione era strana, perché non conteneva una spiegazione della causa. Ma sembrava non importare. I
valori non erano mai stati anomali. Yuri aveva alzato le spalle. Non pensava che l'annotazione incompleta scritta da quelli della manutenzione fosse affar suo, soprattutto considerando che il problema, qualunque fosse, era stato risolto. Verificato che tutto era in ordine, aveva preso il telefono che lo collegava con il capoturno, Vladimir Gergijev. In quel momento aveva guardato l'orologio: mancava poco alle sette, e ben presto sua madre e suo fratello si sarebbero alzati. «I polverizzatori sono in stand-by, compagno Gergijev», aveva comunicato Yuri. «Inizia l'operazione», aveva risposto sbrigativamente Vladimir, e aveva riattaccato. Yuri aveva intenzione di riferirgli la strana annotazione nel registro giornaliero, ma la fretta del capoturno glielo aveva impedito. Aveva riattaccato anche lui, ed era rimasto un attimo a chiedersi se avesse dovuto richiamarlo. La personalità truculenta di Vladimir, però, non incoraggiava una tale spontaneità, quindi aveva deciso di lasciar perdere. Senza avere la minima idea delle terribili conseguenze, aveva premuto il tasto di avvio dei polverizzatori. Quasi all'istante il suono vibrante dei macchinari era penetrato nella sala di controllo. Era iniziata la produzione giornaliera delle mortali spore di carbonchio polverizzate. Il sistema era automatico. I panetti di spore essiccate scorrevano su un nastro trasportatore interno e da lì cadevano nei cilindri rotanti del polverizzatore. Dopo che erano state sminuzzate dalle sfere di acciaio, la polvere finemente macinata cascava alla base dei cilindri e finiva in contenitori sigillati, il cui esterno veniva poi disinfettato. I contenitori così preparati potevano essere caricati sulle testate dei missili. Yuri aveva subito dato un'occhiata al quadrante della pressione interna, e l'aveva vista calare immediatamente, non appena l'unità aveva ripreso a funzionare. Anche la minima apprensione residua dovuta alla strana annotazione sul registro era svanita nel vedere che la pressione continuava a calare, rispetto ai valori del turno precedente. Era evidente che quelli della manutenzione avevano veramente risolto il problema, come stava scritto. Poi aveva controllato gli altri quadranti e i dispositivi di misura. I valori si trovavano tutti nella zona verde, come doveva essere. Presa una penna, aveva cominciato a scrivere le annotazioni per il secondo turno del 2 aprile, copiando ogni valore nell'apposita colonna. Quando si era voltato verso il misuratore della pressione interna, aveva notato una cosa sorprendente.
Aveva continuato a calare e ora si trovava a un punto talmente basso come non aveva mai visto prima. Yuri aveva dato un colpetto al quadrante con il dito, per assicurarsi che l'ago del vecchio misuratore non si fosse incantato. Tutto era rimasto tale e quale. Non sapeva che cosa fare, se pur doveva fare qualcosa. Non esisteva un limite sotto il quale non bisognava scendere, per la pressione interna, ma solo uno da non superare verso l'alto. L'idea era di tenere la polvere all'interno con un flusso d'aria costante dalla stanza all'interno del macchinario, in ogni punto dove c'era comunicazione. Quindi non faceva differenza se la pressione era più bassa del solito. In effetti, significava che il sistema funzionava in modo più efficiente. Yuri aveva guardato ancora il telefono, pensando di chiamare il capoturno, ma ancora una volta aveva deciso di no. Vladimir lo aveva già redarguito altre volte per quelle che considerava preoccupazioni stupide, e lui non voleva sorbirsi un'altra lavata di capo. A Vladimir non piaceva essere disturbato per dettagli insignificanti. Era fin troppo occupato. Alle otto, Yuri aveva pensato a sua madre: in quel momento si stava dirigendo verso la fabbrica di ceramiche, che si trovava poco lontana dal Campo 19, a sudest. Nadja gli aveva detto spesso che pensava a lui, quando passava. Yuri non le aveva mai rivelato esattamente che tipo di lavoro faceva. Se lo avesse fatto, avrebbero corso dei rischi tutti e due. Il tempo sembrava non passare mai. Yuri non vedeva l'ora che arrivasse la pausa delle nove. Quando mancava solo un quarto d'ora, aveva ricominciato a scrivere sul registro e, dopo aver guardato di nuovo il quadrante della pressione interna, aveva esitato un'altra volta. L'ago non si era spostato dalla sua posizione all'estremità inferiore della scala. Mentre lo fissava, aveva provato come un senso di oppressione al petto. All'improvviso era stato assalito da un pensiero orrendo. «Ti scongiuro, fa' che non sia così!» aveva pregato, allungando automaticamente il braccio per premere il tasto rosso dello stop. La cacofonia delle sfere d'acciaio che ruotavano nei cilindri era cessata all'improvviso, lasciandogli nelle orecchie una specie di tintinnio. Tremando di paura all'idea di ciò che avrebbe trovato, aveva aperto la porta della sala di controllo. Dietro di lui stava suonando il telefono, ma invece di rispondere si era diretto verso l'estremità del polverizzatore. Respirava con una tale foga che la visiera di plastica si stava annebbiando. Nell'avvicinarsi a una serie di sportelli verticali nella cappottatura del mac-
chinario, aveva rallentato il passo. Ognuno era largo una ventina di centimetri e alto un po' meno di un metro. Con le mani che gli tremavano, aveva fatto scattare la maniglia del primo. Aveva esitato un attimo, prima di aprirlo. «Blijad!» aveva urlato, inorridito. Lo scomparto era vuoto! Aveva aperto rapidamente tutti gli altri sportelli, trovando vuoti tutti gli scomparti. Lì dentro erano montati i filtri ad alta protezione che bloccavano anche le particelle più minuscole di polvere, spore, batteri, qualsiasi cosa fosse presente all'interno, ma ora non c'era assolutamente nulla! Per due ore i macchinali avevano mandato fuori aria senza protezione! Yuri era indietreggiato, barcollando. Era una catastrofe. Soltanto allora si era reso conto che il telefono continuava a squillare incessantemente. Sapeva chi era: il suo capoturno, che si chiedeva come mai aveva spento il polverizzatore. Era corso nella sala di controllo, mentre cercava di valutare mentalmente quanti grammi di carbonchio vaporizzato erano stati sparsi sulla città ignara. Recandosi a piedi alla fabbrica, aveva notato che c'era un vento moderato che soffiava da nord-ovest. Questo significava che le spore sarebbero state sospinte verso il campo militare principale. Ma, cosa più importante, significava che erano dirette verso la fabbrica di ceramiche! «È la quarta casa sulla destra», disse la donna estone, strappando Yuri da quei ricordi simili a un incubo. L'indice della donna spuntò dal divisorio di plexiglas, puntato verso una serie di scalini bianchi. Yuri si rese conto in quell'istante che stava sudando abbondantemente e si sentì tutto accaldato in viso. Era stato costretto a ricordare un avvenimento a cui cercava con tutte le forze di non pensare mai. Dopo vent'anni, il ricordo di quella tremenda giornata aveva ancora su di lui un effetto foltissimo, come quando l'aveva vissuta. La donna pagò la corsa prima di scendere dal taxi e cercò di lasciare una mancia, ma Yuri la rifiutò. La ringraziò per la sua generosità e per l'offerta di passare con lei e con il marito i giorni di festa. Si sentiva in imbarazzo ed evitò di guardarla. Temeva che lei notasse il suo sudore e il viso arrossato. Poteva pensare che gli stesse venendo un attacco di cuore. Mentre la donna saliva i gradini di casa, Yuri accese il segnale di fuori servizio, poi percorse qualche metro, fino a un idrante, e accostò di nuovo. Aveva bisogno di qualche momento per riprendersi. Infilò la mano sotto il sedile e tirò fuori la fiaschetta della vodka. Si assicurò che nessuno lo stesse guardando e ingollò una sorsata rapida e abbondante. Sentì il liquore
scendergli giù per la gola, infondendogli una deliziosa sensazione di calma. L'ansia travolgente che lo aveva assalito solo pochi momenti prima si affievolì. Si strofinò la bocca con il dorso della mano. Le conseguenze dell'uso dei polverizzatori privi di filtri ad alta protezione si erano rivelate peggiori di quanto Yuri avesse immaginato. Come aveva temuto, una nube invisibile di spore del Bacillus anthracis si era spostata verso la parte meridionale della città, una zona che comprendeva la principale installazione militare, come pure la fabbrica di ceramiche. Centinaia di persone si erano ammalate di carbonchio polmonare e per la maggior parte erano morte. Una delle vittime era Nadja. I primi sintomi erano stati febbre e dolore al petto. Yuri aveva capito immediatamente che cosa aveva, ma sperava di sbagliarsi. Tenuto a mantenere il segreto a rischio della vita, non le aveva rivelato i propri sospetti. Nadja era stata portata in un ospedale speciale e ricoverata in una corsia separata, assieme ad altri degenti che lamentavano gli stessi sintomi. Il gruppo comprendeva un certo numero di personale militare. Il decorso della malattia era stato inesorabile ed estremamente rapido. Era morta nel giro di ventiquattr'ore. Il KGB aveva immediatamente avviato un'elaborata campagna di false informazioni, sostenendo che il problema derivava da carcasse di bestiame contaminate in lavorazione nella fabbrica di carne in scatola di Aramil. Ai famigliali delle vittime erano stati negati i cadaveri dei loro cari, sepolti obbligatoriamente in profonde fosse scavate in una parte isolata del principale cimitero cittadino. Yuri aveva sofferto terribilmente. Non si trattava soltanto del trauma emotivo per aver perduto la madre e dell'enorme senso di colpa per le circostanze della sua morte. Essendo il dipendente più giovane coinvolto nel disastro, era il capro espiatorio designato. Anche se l'inchiesta ufficiale svolta in seguito avrebbe ipotizzato che la responsabilità maggiore era da attribuirsi all'operaio della manutenzione e al capoturno che non avevano sostituito i filtri intasati con altri nuovi, né adeguatamente segnalato di aver tolto i vecchi filtri, era stato Yuri a prendersi il grosso della colpa. In teoria, avrebbe dovuto controllare la presenza dei filtri, prima di avviare la lavorazione, ma dato che di solito duravano mesi e venivano sostituiti di rado, nessuno li controllava giornalmente, e a Yuri, durante il periodo di addestramento, nessuno aveva mai detto che doveva farlo. Per questioni di sicurezza nazionale, e considerando il segreto necessario, era stato tenuto per un certo tempo in un campo di concentramento mi-
litare invece che in una prigione normale, prima di essere mandato in Siberia. Laggiù, poi, aveva finito con il ritrovarsi in un altro impianto della rete Biopreparat chiamato Vector, situato a Novosibirsk e noto soprattutto per il lavoro con i virus, compreso quello del vaiolo. Yuri era stato però assegnato a una piccola équipe che cercava di migliorare l'efficacia del carbonchio e del botulino come armi batteriologiche. Quanto a suo fratello Igor, non lo aveva mai più rivisto. Non era stato infettato dal carbonchio, ma non aveva avuto il permesso di visitare Yuri durante il suo confino nel campo di concentramento, e nemmeno in Siberia. Poi, dopo essersi diplomato, a giugno, era stato richiamato nell'esercito. A dicembre lo avevano mandato in Afghanistan, con le prime truppe d'invasione, ed era stato uno dei primi caduti. Yuri sospirò. Non gli piaceva pensare alle sue passate miserie. Lo faceva sentire in ansia e privo di controllo. Di nuovo, si accertò furtivamente, grazie all'aiuto degli specchietti retrovisori, che nessuno lo osservasse. C'era qualche pedone, ma nessuno gli prestava attenzione. Mandò giù un altro rapido sorso dalla fiaschetta, prima di rimetterla, ormai vuota, sotto il sedile. Ancora una volta era rimasto senza vodka prima che finisse la giornata. Continuando a sentirsi agitato, aprì la portiera e scese di macchina. Non se ne allontanò, però. Si limitò a stirarsi e a fare qualche torsione per alleviare un dolore cronico alla schiena, causato dallo stare seduto tutto il giorno. Inspirò a fondo diverse volte e poi, un po' sollevato, risalì in macchina. Stava per spegnere il segnale del fuori servizio quando si rese conto che si trovava non tanto lontano da Walker Street e dalla Corinthian Rug Company. Avendo bisogno di un diversivo, decise di andare in quella direzione. Si sarebbe sentito molto meglio, se avesse avuto qualche notizia positiva sul commerciante di tappeti. Alle tre e mezzo il traffico cittadino stava cominciando a diventare più intenso, come succedeva sempre all'avvicinarsi dell'ora di punta. A Yuri occorse più tempo del previsto per attraversare Broadway, soprattutto lungo e attorno Canal Street. Sforzandosi di dominare l'impazienza, finalmente riuscì a svoltare nella relativamente tranquilla Walker Street. Nell'avvicinarsi alla sede della Corinthian Rug Company, si aspettava di vederla chiusa come in precedenza, e questo gli avrebbe dato una conferma che Jason Papparis era rimasto infettato ed era morto, o con i piedi già nella tomba. L'unico dubbio che aveva era se arrischiarsi a fare altre domande nel negozio di francobolli. Ma, con sua grande sorpresa e costernazione, la porta della ditta di tappeti era spalancata e le luci accese.
Sgomento, frenò per far procedere il taxi molto lentamente, così da poter dare un'occhiata all'interno dell'ufficio mentre ci passava davanti. E vide Jason Papparis davanti a uno schedario aperto! «Oh, mio dio!» bofonchiò nonostante fosse ateo. Fermò la macchina in uno spazio destinato al carico e scarico delle merci e si voltò sul sedile per guardare di nuovo la porta aperta dell'ufficio. Che cosa era andato storto? La polvere doveva essere efficace. Aveva usato tutti i trucchi che lui e la sua équipe avevano escogitato al Vector. Nei dieci anni e più in cui aveva lavorato in Siberia, lui e suoi colleghi avevano aumentato di quasi dieci volte l'efficacia dell'arma in cui si erano specializzati. Questo era dovuto in buona parte a semplici additivi alla polvere per massimizzare la sospensione e la diffusione delle particelle nell'aria, ma aveva contribuito anche il miglioramento del modo in cui venivano fatte le colture del batterio. Nel mettere a punto l'arma usata contro Papparis, Yuri aveva usato tutti gli stratagemmi. Si passò una mano fra i capelli. Forse la lettera era andata persa, oppure l'avevano consegnata alla persona sbagliata. E se invece qualcuno, all'ufficio postale, avesse deciso di aprirla, spinto dalla curiosità? Si chiese se non avesse dovuto escogitare un sistema diverso per infettare Papparis. Quando gli era venuta l'idea della lettera, gli era parsa perfetta. Scese dal taxi. Lasciò accese le luci segnaletiche e attraversò di corsa la strada, evitò una bicicletta legata a un palo di divieto di sosta e oltrepassò il negozio di francobolli. Arrivando davanti alla vetrina della Corinthian Rug Company, sbirciò dentro. Jason non si vedeva. Le due porte che Yuri riusciva a scorgere sul fondo dell'ufficio erano chiuse. Dopo essersi assicurato che non ci fossero nelle vicinanze la donna del parcheggio o qualche poliziotto, si avvicinò alla porta già aperta. Esitò un attimo, incerto sul da farsi. La curiosità ebbe la meglio sui dubbi e lo spinse oltre la soglia. Doveva parlare al commerciante di tappeti. «Qualcuno ha chiamato un taxi?» chiese, e la sua voce risonò debole e incerta. Dietro il banco su cui erano appoggiati la fotocopiatrice e il fax, si ergeva una figura che stringeva in mano alcune carte. Yuri restò scioccato nel vedere che portava una maschera chirurgica, una cuffia protettiva e un camice. Tutto ciò era talmente lontano da ciò che si aspettava, da farlo restare inchiodato sulla soglia. «Aspetti!» quasi gridò Jack. Gettò sul banco le carte che aveva in mano e corse dietro al tassista. Lo raggiunse sul marciapiedi.
«Ha chiamato lei il taxi, signor Papparis?» chiese Yuri, e intanto si voltò a guardare la propria macchina; voleva andarsene al più presto via di lì. «Non sono Papparis», rispose Jack. Si levò i guanti di lattice e armeggiò per estrarre il proprio distintivo. Lo mostrò a Yuri, che indietreggiò, credendo che fosse della polizia. «Mi chiamo Jack Stapleton; sono un medico legale», si presentò Jack. Mise via il portafogli e si tolse la maschera. «Conosceva bene il signor Papparis? Lo portava spesso sul suo taxi?» «Sono solo un tassista», rispose Yuri in tono sottomesso. Non sapeva che cosa fosse un medico legale, anche se quel distintivo significava evidentemente che lavorava per il governo. «Conosceva bene il signor Papparis?» ripeté la domanda Jack. «Non lo conoscevo. Non è mai stato mio cliente.» «Come faceva a sapere il suo nome?» «Ho appena ricevuto una chiamata per venire a prenderlo.» «Interessante», commentò Jack. Yuri si sentiva decisamente a disagio. Non gli piaceva avere a che fare con funzionari statali di qualsiasi tipo. Inoltre, il tizio che gli stava davanti aveva un'aria vagamente familiare, cosa che aumentava il suo disagio. E, per sovrappiù, lo stava guardando con curiosità, quasi con sospetto. «È sicuro di aver ricevuto una chiamata da un certo signor Papparis in Walker Street?» chiese Jack. «Il signor Papparis della Corinthian Rug Company?» «Penso che sia quello che diceva il messaggio», rispose Yuri. «Trovo difficile crederlo», obiettò Jack. «Il signor Papparis è morto durante il weekend.» «Oh!» esclamò Yuri. Tossì nervosamente, mentre si sforzava di trovare una spiegazione plausibile. «Forse ha chiamato la settimana scorsa?» suggerì Jack. «Può essere.» «Magari potremmo sentire la società per cui lavora. Potrebbe essere d'aiuto sapere se il signor Papparis era un cliente abituale. Vede, è morto a causa di una rara malattia infettiva su cui vorrei indagare. Qualsiasi informazione riuscirò a trovare sulle sue attività della settimana scorsa, per esempio se si è recato nel suo magazzino, potrebbe rivelarsi importante. Mi interessa anche sapere i contatti che ha avuto. Soprattutto la settimana scorsa, e in particolare venerdì.» «Le posso dare il numero di telefono del centralino», propose Yuri.
«Benissimo. Mi lasci prendere una matita e un pezzo di carta.» Mentre Jack rientrava nell'ufficio, Yuri sospirò di sollievo. Per un momento aveva pensato di aver fatto un errore madornale nell'andare lì, ma adesso era sicuro che non c'erano problemi. Al centralino non avrebbero fornito informazioni. Non lo facevano mai. Jack ritornò in un attimo e annotò il nome e il numero. «Di che malattia è morto il signor Papparis?» domandò Yuri. Era curioso di sapere che cosa avevano scoperto le autorità, o che cosa sospettavano. «Di una malattia chiamata carbonchio.» «Ne ho sentito parlare. Prende soprattutto il bestiame.» «Sono colpito dalle sue conoscenze. Come fa a saperlo?» «L'ho vista da ragazzo», spiegò Yuri. «Sono cresciuto in Unione Sovietica, in una città chiamata Sverdlovsk. Nelle zone rurali attorno alla città, capitava di tanto in tanto che pecore e mucche si infettassero.» «Ho sentito parlare di Sverdlovsk», affermò Jack, «Proprio oggi. Ho letto che c'è stata una fuoriuscita di spore di carbonchio da una fabbrica segreta di armi batteriologiche.» Yuri rimase praticamente senza fiato. Il commento fatto così disinvoltamente da Jack lo aveva sconcertato. Era completamente inaspettato, soprattutto dopo che lui si era tormentato con quel ricordo penoso. «Ha mai sentito parlare di quell'episodio?» chiese Jack. «Sembra che ci siano stati numerosi casi, con tanti morti.» «No, non ho mai sentito parlare di un cosa del genere», rispose Yuri, ma dovette schiarirsi la gola. «Non ne sono sorpreso», commentò Jack. «Non credo che il governo sovietico volesse che la cosa fosse di dominio pubblico. Per anni hanno cercato di dire che era stato causato da carne contaminata.» «Ci sono stati episodi di carne contaminata», riuscì a dire Yuri. «Il problema di cui sto parlando si è avuto nel 1979. Allora lei viveva a Sverdlovsk?» «Immagino», disse Yuri vagamente. Si rese conto di tremare. Appena poté, si accomiatò da Jack e corse al suo taxi. Mentre avviava il motore, si girò indietro a guardare. Jack si stava rimettendo la maschera e i guanti. Per lo meno non era fuori in strada a prendere il suo numero di targa. Yuri partì, rendendosi conto che la sua euforia era stata di breve durata. Adesso era di nuovo in preda al panico. Anche se la morte di Jason Papparis confermava la potenza delle sue colture, lo preoccupava il fatto che sul
luogo ci fosse a indagare un funzionario statale che aveva colto la possibilità del carbonchio di essere usato come arma. Lui si era dato la pena di infettare qualcuno che avrebbe potuto prendersi la malattia a causa della professione, e questo avrebbe dovuto precludere ogni indagine. Nonostante l'ansia, spense il segnale di fuori servizio. L'ora di punta era il momento ideale per un tassista, purché il traffico non si bloccasse. Lui aveva bisogno di soldi. Doveva lavorare, e tirò su un passeggero quasi immediatamente. Per l'ora successiva fece brevi percorsi su e giù per Manhattan e avanti e indietro per la città. Nessuno dei clienti lo seccò troppo, ma il traffico lo innervosì. Preoccupato e agitato, si sentiva al limite della pazienza. Dopo aver rischiato diverse volte di fare un incidente, in particolare sulla Terza Avenue e sulla 55esima Strada, si arrese. Quando il passeggero scese dal taxi, una volta arrivato a destinazione, decise che per quel giorno ne aveva abbastanza. Accese il segnale di fuori servizio e si diresse verso casa. Erano passate da poco le cinque, e quella era stata la giornata di lavoro più corta da quando aveva avuto l'influenza, sei mesi prima. Ma non gli importava. Ciò di cui aveva bisogno era un goccio di vodka e, purtroppo, la sua fiaschetta era vuota. Durante il viaggio attraverso il ponte di Brooklyn, che pareva non finire mai, con le auto appiccicate le une alle altre, Yuri ripensò preoccupato all'incontro con Jack Stapleton. Non capiva che motivi avesse quell'uomo. Ciò che lo preoccupava maggiormente era che trovasse qualche residuo della lettera dell'impresa di pulizie ACME, se non la lettera stessa. Non aveva idea di dove fosse finita. Aveva presunto che sarebbe stata buttata via, come tutta la posta-spazzatura. Ma ora che sul posto c'era Jack non era più tanto sicuro di sé. A sud del Prospect Park si fermò in un negozio di liquori per un mezzo litro di vodka. Poi, sulla Ocean Parkway, con la bottiglia nascosta in un sacchetto di carta marroncina, mandò giù due belle sorsate quando si fermò ai semafori. Questo lo calmò considerevolmente. Appena arrivò a Brighton Beach e vide i caratteri cirillici delle insegne, la sua agitazione si calmò un poco. Le lettere familiari gli provocarono un senso di nostalgia. Si sentiva come se fosse già a casa, nella madre Russia. Assieme alla calma arrivò la capacità di pensare, e la prima idea che gli venne fu che forse sarebbe stato saggio affrettare la data dell'Operazione Volverina. Mentre svoltava nella propria strada annuì a se stesso. Non c'era dubbio
che anticipare la data sarebbe stato un bene per quanto riguardava i problemi della sicurezza. Non che si preoccupasse di venire scoperto, solo non voleva che si sospettasse dei suoi piani. Perché sia davvero efficace, un'arma batteriologica dev'essere lanciata senza avvertimenti. Però anticipare l'evento non avrebbe eliminato del tutto i problemi: ce n'erano due, in particolare, e anche grossi. Il primo era che doveva ancora sperimentare la tossina del botulino, sebbene fosse più sicuro della sua tossicità, rispetto alla patogenicità della polvere di carbonchio. L'altro ostacolo era la produzione. Voleva che ci fossero almeno due o tre chili di spore di carbonchio e circa un etto di tossina di botulino cristallizzata. Non importava quale agente patogeno avrebbe usato per il Central Park, o Curt per il Jacob Javits Federal Building, poiché era certo che entrambi sarebbero stati egualmente efficaci. Raggiungere la quota di produzione per il carbonchio non era un problema, infatti era già vicino alla quantità stabilita, ma per la tossina del botulino non era la stessa cosa. Stava incontrando qualche difficoltà con le colture di Clostridium botulinum. Non crescevano come si era aspettato. Nell'imboccare la strada, rallentò. La sua casa era situata in un labirinto di minuscole costruzioni nate come casette estive negli anni Venti. Avevano tutte intelaiature di legno e cortiletti con minuscoli prati recintati. Quella di Yuri era una delle più grandi, e a differenza di molte altre aveva un garage con due posti macchina, staccato dalla costruzione principale. Yuri l'aveva presa in affitto da un tizio che si era trasferito in Florida ma era riluttante a rinunciare al suo punto di appoggio a Brooklyn. La porta del garage cigolò forte quando Yuri la sollevò. L'interno era quasi vuoto, a differenza degli altri garage della zona, ingombri fino al soffitto di ogni tipo di cianfrusaglie, tranne che di auto. Il pavimento era macchiato da più di mezzo secolo di sgocciolamenti da veicoli male in arnese e nell'aria gravava l'odore stantio di benzina e gas di scarico. C'era una piccola collezione di attrezzi da giardinaggio, compreso un vecchio tagliaerba parcheggiato accanto a una parete. Contro quella di fronte erano appoggiati una carriola, qualche blocchetto di calcestruzzo e del legname da costruzione. Sistemato il taxi per la notte, Yuri prese con sé la fiaschetta vuota e la bottiglia mezzo piena di vodka. Tirò fuori la chiave e provò ad aprire la porta posteriore, ma si accorse sorpreso che non era chiusa a chiave. La spinse e guardò dentro, sospettoso. Una volta era stato derubato. Era accaduto solo qualche mese dopo aver
preso in affitto la casa. Era rientrato attorno alle nove di sera e l'aveva trovata a soqquadro. I ladri, apparentemente irritati per non aver trovato niente di valore, avevano sfogato la propria frustrazione sullo scarso mobilio. Si fermò in ascolto e sentì la voce del televisore provenire dalla camera da letto di Connie. Fu allora che notò la borsetta di sua moglie in mezzo al tavolo di formica della cucina, assieme ai sacchetti di un fast-food del quartiere. Yuri era sposato da quasi quattro anni. Aveva incontrato sua moglie, Connie, quando aveva cominciato a lavorare per la compagnia di taxi come conducente, prima di avere l'auto propria. All'epoca era piuttosto disperato. Il suo visto stava per scadere e l'unica scelta per restare sembrava sposare una cittadina statunitense. Connie era un'afroamericana non ancora trentenne che appariva annoiata della vita che conduceva ed era stata felice di flirtare con il nuovo arrivato. Si era data un gran daffare per piacergli e, sfruttando la sua posizione di centralinista addetta allo smistamento delle chiamate, gli assegnava le corse migliori. All'inizio Yuri era stato attratto da lei, indipendentemente dalla necessità di ottenere il permesso di soggiorno. Da giovane, in Unione Sovietica, era stato un appassionato di jazz, e associava quel tipo di musica con i neri americani. Conoscerne una era eccitante. Quando viveva a Sverdlovsk non ne aveva mai incontrati di persona, ma li aveva visti alla televisione, in particolare nelle gare sportive, ed era rimasto colpito. Le attenzioni di Connie erano ancor più gradite, considerando la solitudine in cui lui viveva. La comunità russa di Brighton Beach, dove gli era stato consigliato di insediarsi, era costituita per la maggior parte da ebrei, che lo ignoravano. La coppia aveva cominciato a uscire insieme e a frequentare i jazz club di Manhattan, dove viveva Connie, e di Brooklyn, vicino alla casa di Yuri. Allo stesso tempo, lui aveva iniziato a capire qualcosa del razzismo americano, che dapprima lo aveva confuso, perché presumeva che gli afroamericani fossero molto stimati, per i loro contributi culturali. Non aveva mai sentito il termine «negro» fin quando lui e Connie non erano stati accostati per la strada, in varie occasioni. Si era anche sorpreso nel sapere che la famiglia di lei, in particolare suo fratello Flash e i suoi amici, non avevano una grande opinione di lui. Lo chiamavano honky, che voleva dire «bianco», con la stessa intenzione offensiva di «negro». Per Yuri, il matrimonio aveva risolto sia la necessità del permesso di
soggiorno, sia la solitudine, per lo meno all'inizio. Purtroppo, aveva scoperto ben presto che Connie non aveva intenzione di essere la moglie che lui si aspettava, in base alla propria mentalità russa. Non le interessavano le incombenze domestiche e le sarebbe piaciuto andar fuori a mangiare tutte le sere, come avevano fatto durante il breve corteggiamento. Quando Yuri si era accorto che la propria ascesa nella scala sociale aveva raggiunto un punto morto, non potendo utilizzare le proprie conoscenze nel campo della microbiologia (a meno di seguire corsi costosi), e che non poteva permettersi di abbandonare l'attuale lavoro, la sua tolleranza per lo stile di vita di Connie era scemata. Se non fosse stato per il timore di perdere la sua carta verde, l'avrebbe buttata fuori a calci. Anche l'ardore di Connie era diminuito. All'inizio aveva visto Yuri come una figura romantica arrivata da una terra lontana per salvarla da una vita noiosa. Ma subito dopo il matrimonio si era rifiutato di fare qualsiasi cosa tranne che guidare il taxi e bere vodka davanti alla televisione. E poi c'era la violenza. Connie non era mai stata picchiata fino ad allora. Dopo la prima volta avrebbe voluto andarsene, se avesse avuto un posto dove stare. Il problema era che si era bruciata i ponti alle spalle, sposando quel russo contro il parere della propria famiglia. L'orgoglio la teneva inchiodata lì dove si trovava. Il modo che aveva per affrontare la propria infelicità era mangiare. Trovava sollievo in un bel piatto di patatine fritte, con un Big Mac e una coppa di gelato, e quel tipo di sollievo lo cercava di frequente. Fra quello e la mancanza di esercizio fisico, non ci era voluto molto per diventare obesa. Più Yuri beveva, più Connie mangiava. A mano a mano che ognuno dei due consolidava le proprie cattive abitudini, aumentava la reciproca ostilità. Vivevano nella stessa casa ma si ignoravano, finché erano arrivati al punto che la semplice vicinanza fisica scatenava una conflagrazione. Invariabilmente, i litigi subivano un'escalation che andava dagli epiteti stereotipati alla violenza fisica, ed era Connie a subirne le maggiori conseguenze. Questa squallida routine aveva subito una pausa quando Yuri aveva fatto amicizia con Curt Rogers e Steve Henderson. Non le aveva detto niente dei suoi nuovi amici, ma passava molto tempo fuori casa. Curt e Steve non erano mai venuti a Brighton Beach. Era sempre stato Yuri a spostarsi fino a Bensonhurst per incontrarli. Connie era convinta che avesse una relazione, convinzione che provocava parecchi litigi aspri e interminabili. Poi, tutt'a un tratto, Yuri aveva cominciato a passare un'insolita quantità
di tempo in cantina. All'inizio costruiva qualcosa, e i colpi di martello e il baccano della sega mandavano Connie fuori di testa. Quando gli aveva chiesto che cosa stesse facendo, lui le aveva risposto che non erano affari suoi. Poi aveva cominciato a procurarsi delle attrezzature, tra cui dei potenti ventilatori. Connie aveva anche visto di sfuggita dei grandi cilindri di acciaio portati dentro da giovani skinhead, degli honky appartenenti alle categorie più povere. Quella gente la terrorizzava, e lei si era ben guardata dal farsi vedere. Più di una volta aveva chiesto che cosa succedeva nella sua cantina, ma Yuri si rifiutava di parlarne. Connie aveva cominciato a pensare che stesse allestendo una distilleria per farsi la vodka in casa. Quando aveva provato a dirglielo, una sera, lui le era saltato addosso, afferrandola per la gola. «Sì, è una distilleria», aveva ringhiato, «e se lo dici a qualcuno ti ammazzo! Giuro! E se ti provi a ficcarci il naso, te le suono fino a ridurti in poltiglia. Stai lontana dalla mia cantina!» Lei aveva cercato invano di liberarsi, spingendogli via le braccia, ma senza riuscirci. Di solito, quando Yuri era infuriato, le dava qualche sberla e tutto finiva lì. Ma quella volta era diverso. La fissava con quei suoi occhi scuri, come se fosse impazzito. Terrorizzata, Connie si era accorta di essere sul punto di perdere i sensi: le cedevano le ginocchia, e il viso congestionato di Yuri era diventato una macchia indistinta. Soltanto allora lui l'aveva lasciata andare. Lei aveva barcollato, prima di ritrovare l'equilibrio, ed era rimasta ancora qualche momento senza riuscire a respirare, per la pressione delle mani di Yuri attorno alla gola. Scoppiando in lacrime, era corsa a gettarsi sul letto. Da allora, non era più tornata sull'argomento di ciò che accadeva in cantina. Qualunque cosa fosse, non valeva la pena di rischiare la vita. Yuri era irritato che Connie fosse a casa. Il lunedì sera in genere lavorava almeno fino alle nove. La sua presenza inattesa serviva solo ad aumentare lo stress di quella giornata che lo aveva già scaraventato in una girandola di emozioni. Con mano tremante si versò un bicchiere di vodka ghiacciata, presa direttamente dal freezer. Appoggiandosi al ripiano della cucina, ne sorbì una sorsata, mentre guardava gli avanzi di cibo e le chiazze di unto. Nel sottofondo sentiva le risate registrate, tipiche delle sit-com televisive. Ingurgitò altra vodka, nel tentativo di placare il risentimento che sentiva aumentare dentro di sé. Gli cadde lo sguardo sulla porta della cantina e si sorprese nel notare che era
socchiusa. «Che diavolo succede?» sbraitò. In genere imprecava in russo, ma da quando era in amicizia con Steve e Curt era diventato egualmente esperto anche in inglese. Confuso e sempre più allarmato, posò il bicchiere e si avvicinò. Era sicuro di averla chiusa, quella mattina, prima di andarsene con il taxi. Era sua abitudine lavorare almeno per un'ora in cantina ogni mattina e un'altra ora la sera, per essere sicuro che la sua fabbrica in miniatura di armi batteriologiche funzionasse senza problemi. Il mercoledì, giorno libero dal lavoro, ci passava l'intera giornata. Era allora che metteva in funzione il suo polverizzatore fatto in casa, poiché i vicini erano quasi tutti al lavoro. Come quello di Sverdlovsk, faceva un gran baccano, anche se era infinitamente più piccolo. La porta cigolò, quando l'aprì di più. Accese di scatto la luce e cominciò a scendere le scale. Si fermò di botto alla vista della robusta porta di acciaio e compensato che aveva costruito appositamente per il laboratorio. Qualcuno aveva forzato il lucchetto con un piede di porco. Yuri si precipitò giù per i gradini che restavano, con la vista annebbiata dall'ira e respirando a denti stretti, con brevi ansiti affannati. Il laboratorio, con la vendetta che ne sarebbe scaturita, era al momento la cosa più importante della sua vita. Era terrorizzato all'idea che fosse stato violato. Oltre la porta di compensato c'era l'anticamera, con il bulbo di una doccia che sporgeva da una parete, e a terra alcune tanichette di candeggina. Appesa a un piolo di legno stava una tuta di protezione da materiali pericolosi, dotata di dispositivo per la respirazione, che Curt aveva trafugato dalla caserma dei pompieri. La maschera era rifornita da una bombola di acciaio piena di aria compressa. Quando lavorava nel laboratorio, Yuri indossava la tuta con la bombola sulla schiena, come un sommozzatore. L'anticamera aveva altre due porte, entrambe costruite come quella d'ingresso. Anche quelle avevano dei lucchetti, che però erano stati fatti saltare, come il primo. Yuri spalancò quella di sinistra. Dava sul vano che utilizzava come magazzino, circondato per due lati dalle fondamenta di cemento della casa. La terza parete era completamente ricoperta di scaffali pieni di attrezzature mìcrobiologiche, come capsule di Petri, filtri ad alta protezione, agar e sostanze nutrienti. Nonostante il lucchetto rotto, nella piccola stanza tutto era in ordine. Preparandosi al peggio, Yuri entrò nel laboratorio vero e proprio. Accese l'interruttore che comandava le luci all'interno e socchiuse la porta. Notò subito che i ventilatori principali funzionavano normalmente, infatti sentì
una leggera corrente d'aria carezzargli il viso e passargli fra i capelli, ma trattenne il respiro mentre abbracciava con lo sguardo l'interno della stanza. I lucenti fermentatori erano allineati proprio di fronte a lui, lungo la parete posteriore. La cappa di sicurezza che si era costruito alla meglio si trovava sulla destra ed era in funzione. Così pure l'incubatrice, fornita di una lampada per produrre calore e di un termostato, e anche il deposito per le due armi batteriologiche che man mano produceva. Il banco stava all'immediata sinistra. Vi erano appoggiati sopra i vari recipienti di vetro che usava per cristallizzare la tossina del botulino. Oltre il banco c'erano il polverizzatore e l'essiccatore delle spore di carbonchio. Il cuore di Yuri, che batteva all'impazzata, cominciò a calmarsi. Il laboratorio sembrava normale, non c'era niente fuori posto. Aveva esattamente lo stesso aspetto di quando lo aveva lasciato al mattino, compresa la posizione delle provette sul banco. Con un senso di sollievo, Yuri tirò a sé la porta e questa, prima di chiudersi del tutto, aderendo perfettamente alle strisce antispifferi, emise una specie di sibilo, causato dall'aria in circolazione. Yuri abbassò lo sguardo sul lucchetto spezzato. L'ansia si era placata, non così la collera. E notò qualcosa sul pavimento. Proprio vicino al suo piede c'era una patatina fritta, e si notava anche una macchia di ketchup; Connie! Dal piano di sopra filtrò, attutita, una scarica di risate. Yuri era in preda alla furia. Ruminando imprecazioni come litanie, si precipitò su per le scale, facendo i gradini a due a due. Quando giunse alla porta della camera da letto, che era appena socchiusa, la spalancò pestandoci sopra con il palmo della mano. Connie sollevò lo sguardo dalla TV. Stava sdraiata sul letto. «Perché sei scesa di sotto?» ringhiò Yuri. «Volevo vedere che cosa succede nella mia cantina», rispose Connie. «Ne ho il diritto, considerato tutto il tempo che ci passi.» «Hai toccato qualcosa?» chiese ancora lui. «No, non ho toccato niente! Ma te lo dico io che non me ne starò buona, no di certo, con tutta quella roba che sembra venire da un ospedale!» «Ti insegnerò io a disobbedirmi!» sbraitò Yuri, gettandosi sulla moglie. Connie gridò e rotolò di lato. L'impatto di Yuri e il peso di Connie, sommati insieme, erano eccessivi per il telaio e il letto crollò a terra.
6 Lunedì 18 ottobre, ore 16.15 Curt guidava il suo pickup Dodge Ram, con Steve seduto accanto a lui. Avevano svoltato da Ocean Parkway in Oceanview Avenue e stavano cercando Oceanview Lane. «Mio Dio!» commentò Steve, mentre si guardavano attorno per il quartiere. «Ho vissuto a Brooklyn per tutta la vita e non avevo mai visto questo ammasso di casupole. Fa pensare a qualche posto in Carolina.» «Hanno tutta l'aria di costruzioni che avrebbero già dovuto essere abbattute, per far posto a qualche grattacielo», aggiunse Curt. «Tieni d'occhio se vedi Oceanview Lane. È uno di quei vicoletti.» «Eccolo!» Steve indicò attraverso il parabrezza una piccola insegna dipinta a mano attaccata a un palo del telefono. Curt svoltò e rallentò considerevolmente. Il vicolo era stretto e ingombro di bidoni della spazzatura ed era cosparso di foglie morte. I due pompieri avevano ancora addosso le uniformi. Si erano diretti a Brighton Beach non appena avevano staccato dal lavoro, alle cinque di pomeriggio. Il viaggio aveva richiesto poco più di un'ora. La sera stava calando rapidamente, per via del cielo nuvoloso, e il vicolo era buio, tranne dove veniva illuminato dai fari del pickup. Lampioni non ce n'erano. «Vedi mica i numeri civici?» chiese Curt. Steve rise. «Questo posto è una baraccopoli. Non vedo nessun numero.» «Lì c'è il tredici.» Curt indicò un bidone della spazzatura con l'indirizzo verniciato sul bordo. «Il quindici dev'essere quello dopo.» Curt fermò il camioncino davanti alla porta chiusa di un garage e spense il motore. Scesero tutti e due e per qualche momento restarono a guardare la casa. Era stipata fra le altre, aveva un aspetto piuttosto malandato e aveva decisamente bisogno di essere riverniciata. «Non sembra troppo stabile», commentò Steve. «Basta una gomitata e va tutto a pezzi.» «Pensa come farebbe presto a incendiarsi», osservò l'amico. Steve si voltò a guardarlo. «Che cos'è, una specie di suggerimento?» Curt si strinse nelle spalle. «Solo una cosa da tenere a mente. Vieni, facciamo visita al nostro amico russo.» Aprirono un cancelletto nel recinto di rete metallica che correva davanti
alla casa. Il vialetto era di cemento crepato, appena visibile sotto uno strato di foglie. Il minuscolo fazzoletto di terra era pieno di erbacce. Curt cercò un campanello, ma non ce n'erano. Aprì la zanzariera malconcia e stava per bussare alla porta quando si udì un forte schianto all'interno. I due amici si guardarono. «Che diavolo era?» domandò Steve. «E che ne so?» rispose Curt. Stava per bussare quando si sentì un altro schianto. Questa volta fu seguito da un frastuono di vetri rotti e dalla voce di Yuri che imprecava forte in russo. «A quanto pare, il nostro amico comunista sta distruggendo casa sua», commentò Steve. «Speriamo che non abbia niente a che fare con il laboratorio», si preoccupò Curt, e bussò forte alla porta. Voleva essere sicuro che Yuri lo udisse. Dopo aver atteso qualche minuto e non aver sentito più niente dall'interno, bussò ancora. Questa volta ci furono dei passi, e la porta si aprì. «Ci sono visite», disse Curt, cercando di guardare oltre per vedere se riusciva a capire che cosa era stato rotto. L'espressione di Yuri passò dalla collera alla sorpresa all'evidente contentezza, appena riconobbe gli amici. Anche se il viso era ancora paonazzo, li accolse con un largo sorriso. «Ehi, ragazzi!» Aveva la voce rauca. «Ci trovavamo da queste parti», mentì Curt, «e abbiamo pensato di venire a farti un salutino.» «Sono proprio contento.» «Abbiamo saputo che sei passato dalla nostra caserma.» Yuri annuì con entusiasmo. «Vi stavo cercando...» «Abbiamo sentito», lo interruppe Curt, secco. «Non dovresti venirci, alla caserma», aggiunse Steve. «Perché?» «Se dobbiamo dirtelo, allora c'è un problema», rispose Steve. «La sicurezza è di grande importanza, in un'operazione come quella che stiamo organizzando», spiegò Curt. «Meno persone ci vedono insieme, meglio è, soprattutto considerando che tu sei uno straniero, e tutto quanto. Noi non abbiamo tanti amici con l'accento russo. Se ti fai vedere che chiedi di noi, gli altri pompieri cominciano a farsi delle domande.» «Mi spiace. Non pensavo che ci fossero problemi in caserma, anche perché mi avete detto che tanti dei vostri compagni la pensano come voi.» «C'è un certo numero di patrioti», ammise Curt, «ma nessuno tanto patriota quanto noi. Forse avremmo dovuto fartelo capire più chiaramente.
Comunque, adesso sai che non devi venire alla caserma.» «Va bene, non ci verrò più», promise Yuri. «Non ci fai entrare?» Yuri girò la testa e lanciò un'occhiata verso la camera di Connie. «Ah, sì, certo.» Si fece da parte e con un cenno li invitò a entrare, poi richiuse la porta e li condusse verso il soggiorno, arredato con un divano basso e consunto e due sedie. Raccolse una bracciata di giornali dai cuscini e li depose a terra. Curt si accomodò sul divano, con le ginocchia puntate verso l'alto, e Steve appoggiò la sua massa muscolosa su una delle due sedie. «Vi posso offrire un po' di vodka ghiacciata?» domandò Yuri. «Io prendo una birra», rispose Curt. «Anch'io», disse Steve. «Mi spiace, ho solo vodka.» Steve alzò gli occhi al cielo. «Vada per la vodka», accettò Curt. Mentre Yuri andava a prendere il liquore in frigorifero, Steve si sporse verso l'amico e sussurrò: «Capisci adesso perché mi preoccupo? È un idiota. Non gli è nemmeno balenato per la mente che non doveva venire alla caserma». «Rilassati», replicò Curt. «Lui non ha una preparazione militare. Avremmo dovuto essere più espliciti con uno che non è un professionista. Con lui non si può essere troppo rigidi. Inoltre, non dimentichiamolo, ci sta facendo un favore del diavolo, procurandoci un'arma batteriologica.» «Se ci riesce davvero», osservò Steve. In quel momento, dalla porta semiaperta della camera di Connie giunse il rumore di uno sciacquone. Curt aggrottò la fronte. «È uno sciacquone che ho sentito?» «Sì che lo è», rispose Steve, «ma non sono sicuro da dove provenga. Queste case sono così appiccicate che magari viene da quella accanto.» Yuri tornò nel soggiorno portando tre bicchieri da liquore colmi a metà di vodka ghiacciata. «Ho buone notizie per voi», annunciò, dopo averli deposti sul tavolino basso, spingendoli verso di loro. «Abbiamo appena sentito il rumore di uno sciacquone», disse Curt, prendendo il suo bicchiere. «Sembrava venire da qui dentro.» «È probabile», replicò Yuri con un'alzata di spalle. «Nell'altra stanza c'è mia moglie, Connie.» Curt e Steve si scambiarono un'occhiata ansiosa.
«Il motivo per cui ero passato dalla caserma...» cominciò Yuri. «Aspetta un secondo!» lo interruppe Curt. «Non ci avevi mai detto di essere sposato.» «Perché avrei dovuto?» Yuri guardò prima uno poi l'altro. Gli sembrò che il suo stato civile creasse loro delle preoccupazioni, proprio come la visita che aveva fatto alla caserma dei pompieri. «Ci avevi detto di essere solo», gli rammentò Curt, irritato. «Avevi detto di non avere amici.» «È vero: sono solo, senza amici.» «Però hai una moglie, nell'altra stanza», insisté Curt, poi guardò Steve, che alzò gli occhi al cielo, incredulo. «In inglese c'è un'espressione, sulle navi che passano nella notte», provò a spiegare Yuri. «Anche in Russia abbiamo la stessa espressione. Ecco che cosa siamo io e Connie: due navi che passano nella notte. Non parliamo mai. Per la miseria, quasi quasi non ci vediamo nemmeno mai.» Curt puntò i gomiti sulle ginocchia e si strofinò le tempie. Non riusciva a credere che tutte queste cose veniva a saperle soltanto adesso, dopo tutto quello che avevano progettato. Gli faceva venire il mal di testa. «Pensi che tua moglie possa sentire quello che stiamo dicendo?» domandò Steve. «Dubito», rispose Yuri. «Inoltre, non le può importar di meno quello che diciamo. Non fa che mangiare e guardare la televisione.» «Non la sento, la televisione», notò Steve. «Già, perché l'ho appena rotta», confessò Yuri. «Mi faceva impazzire. Tutte quelle risate fasulle che suggeriscono che la vita in America sia tanto divertente e meravigliosa.» «Magari dovresti per lo meno chiudere la porta», suggerì Curt, a denti stretti. «Ah, sì, va bene.» Yuri andò a chiuderla. «Ecco, lo capisci adesso che cosa intendevo?» chiese Steve sottovoce. «Te lo dico io. Questo qui è pazzo!» «Zitto!» replicò Curt. Yuri tornò alla sua sedia e bevve un sorso di vodka. «Tua moglie lo sa che lavoro facevi in Unione Sovietica?» domandò Curt tenendo la voce piuttosto bassa. Temeva di udire la risposta e trasalì quando Yuri gli disse effettivamente di sì. «E il tuo laboratorio?» domandò Steve. «È al corrente del laboratorio che dici di aver costruito in cantina?»
«Che cosa intendi, con quel 'dici di aver costruito'?» Yuri aveva un tono offeso. «Non lo abbiamo mai visto. Non abbiamo mai visto niente, dopo tutti gli sforzi che abbiamo fatto per procurarti il materiale che ti serviva.» «Potevate vederlo in qualsiasi momento, bastava chiederlo», obiettò Yuri, indignato. «Va bene, calmiamoci», intervenne Curt. «Non litighiamo. Però, magari dovremmo dargli un'occhiata, tanto per essere rassicurati. Abbiamo tutti parecchie cose in ballo in questa operazione.» «Per me va bene», accettò Yuri. Si alzò, mise giù il suo bicchierino e fece strada verso la porta della cantina. Il gruppo scese in fila indiana e Yuri aprì la porta di ingresso. «Che cosa è successo al lucchetto?» volle sapere Curt. «Oggi pomeriggio mia moglie lo ha forzato», ammise Yuri. «L'avevo avvertita di non scendere qua sotto, e lei non lo aveva mai fatto, fino a oggi. È scesa qui due ore fa e ha usato un piede di porco per entrare dentro. Ma non ha toccato niente, ne sono certo.» «Perché oggi?» chiese Curt, cercando di non perdere la calma. Non gli piaceva niente di tutto quello, e le cose continuavano ad andare sempre peggio. «Ha detto che era curiosa. Il che non ha senso, dato che le avevo detto che l'avrei uccisa, se fosse scesa qui a mettere le mani fra le mie cose.» «Forse dovremmo farlo», commentò Curt. «Intendi, ucciderla davvero?» Per un momento nessuno parlò. Infine Curt annuì. «È possibile. Come ho detto, questa è un'operazione importante per tutti noi. Forse la cosa più importante che faremo nella nostra vita. Per darti un'idea di quanto mi sento coinvolto, nel weekend sono venuto a sapere che l'Esercito Ariano del Popolo aveva un infiltrato. Si chiamava Brad Cassidy. Oggi Brad Cassidy non è più tra noi, e al suo cadavere mancano alcune delle sue parti preferite.» «Tua moglie costituisce un rischio colossale», spiegò Steve. «Lo sa che cosa ci fai, nel laboratorio?» «Fino a oggi credeva che fosse una distilleria», rispose Yuri. «Il che significa che ora non lo crede più», osservò Curt. «Esatto», ammise Yuri. «Male, molto male. Poiché sa che eri coinvolto nell'industria sovietica delle armi batteriologiche, non sarebbe difficile per lei indovinare.»
«Vediamo il laboratorio», propose Steve. Yuri entrò nell'ingresso, seguito dagli altri due. «La usi quella tuta con il respiratore che ti abbiamo procurato?» chiese Curt, facendo un cenno della testa verso l'attrezzatura protettiva appesa al piolo. «Certo», rispose Yuri. «Ogni secondo che passo nel laboratorio indosso quella tuta. Non voglio correre rischi! Quando aprirò questa porta interna, non entrate! E vi consiglio anche di trattenere il respiro, tanto per essere sicuri. Sentirete il flusso d'aria entrare nella stanza.» Curt e Steve annuirono. Adesso che erano arrivati così vicino, si stavano chiedendo se fosse davvero necessario guardare dentro. Anche la sola idea della presenza di un agente patogeno mortale e invisibile faceva venir loro la pelle d'oca, e con ciò che avevano già visto erano più che disposti a credere che Yuri teneva fede alla sua parte del patto. Ma prima che uno dei due potesse dire qualcosa, il russo socchiuse la porta interna e si fece da parte. I due pompieri si sporsero guardinghi in avanti e diedero una rapidissima occhiata al fermentatore e alle altre attrezzature. «Sembra che vada tutto bene», approvò Curt, poi indietreggiò e fece segno a Yuri di richiudere. «Volete vedere un po' di prodotto finito?» si offrì lui. «Non credo che sia necessario», rispose in fretta Curt. «Ho visto abbastanza», aggiunse Steve. «Ciò che dovremmo fare, secondo me», propose Curt, «è salire di sopra e parlare con tua moglie. È lei il problema. Dobbiamo scoprire che cosa sa.» Yuri chiuse la porta. «Stasera rimetto a posto i lucchetti», promise, poi fece strada verso il piano di sopra. Mentre lui andava a chiamare Connie, Curt e Steve ritornarono in soggiorno, ma restarono in piedi. Buttarono giù entrambi una bella sorsata di vodka, e intanto guardarono il padrone di casa affacciarsi alla camera che si intravedeva oltre il piccolo corridoio. Lo sentirono parlare, ma non abbastanza distintamente da capire ciò che diceva, anche se dal tono si capiva che stava andando in collera. Infine si voltò verso di loro. «Adesso arriva», annunciò. «Le ci vuole un secolo!» Curt e Steve si scambiarono uno sguardo disgustato. La situazione stava andando di male in peggio. «Vieni, donna!» sbraitò Yuri. Finalmente, la sagoma di Connie riempì il vano della porta. Indossava un orrendo accappatoio rosa orlato di verde acquamarina e aveva delle cia-
batte ai piedi. L'occhio sinistro era tanto gonfio da restare chiuso, e tutt'intorno la pelle era violacea. Da un angolo della bocca scendeva un rivoletto di sangue rappreso. Curt restò a bocca aperta e Steve bofonchiò un'esclamazione. Erano entrambi sbalorditi e la loro espressione rifletteva lo stupore che provavano. «Questi uomini ti vogliono fare qualche domanda», sbottò Yuri, poi guardò verso Curt, il quale dovette schiarirsi la gola, mentre intanto riordinava i pensieri. «Signora Davidov, ha qualche idea di che cosa succede al piano di sotto? Che cosa sta facendo suo marito?» Connie guardò i due estranei con atteggiamento di sfida. «No!» sbottò. «E non mi importa!» «Nemmeno qualche vago sentore?» «Rispondi!» gridò Yuri. «Pensavo che facesse la vodka», si decise a dire Connie. «Ma adesso non lo pensa più?» insisté Curt. «Anche se quei grossi serbatoi argentati sono stati presi da una fabbrica di birra?» «Questo non lo so. Ma quei piattini di vetro. Quelli piatti! Li ho visti all'ospedale. Li usano per i batteri.» Curt fece un impercettibile cenno della testa a Steve, che glielo restituì. «Basta così», decise, rivolto a Yuri. Lui cercò di rimandare la moglie in camera da letto, ma Connie restò dov'era. «Non ci torno, finché non mi dai la tua TV.» Yuri esitò, poi entrò un attimo in camera propria e ne uscì con un piccolo televisore che aveva un'antiquata antenna incorporata. Soltanto allora Connie si decise ad andarsene. «Ci crederesti?» mormorò Curt. «Ci credo sì», replicò Steve. «E ti stupivi che stamattina manifestavo qualche dubbio, prima di entrare nell'edificio dell'FBI. Questo tipo è peggio di quanto pensassi.» «Per lo meno ha costruito il laboratorio. È evidente che sa il fatto suo, dal punto di vista scientifico.» «Questo te lo concedo. E le attrezzature sono più impressionanti di quanto immaginavo.» Curt emise un forte sospiro di frustrazione. All'improvviso si udì provenire dalla stanza di Connie l'inconfondibile colonna sonora di una telenovela. Il volume fu immediatamente abbassato, fino a diventare quasi inudibile. Un attimo dopo ricomparve Yuri. Chiuse la porta dietro di sé e rag-
giunse gli altri due. Si sedette, bevve un sorso e guardò i suoi ospiti con aria imbarazzata. Curt non sapeva che dire. Una cosa era stata scoprire che Yuri era sposato, ma sposato con una negra! Andava contro tutto quello in cui credeva, ed eccolo lì, in rapporti d'affari con quell'uomo. Curt era cresciuto in un quartiere operaio bianco, piuttosto turbolento, con un padre muratore che aveva la tendenza a batterlo e a ricordargli che non era bravo quanto suo fratello Pete, popolare stella del football. Curt aveva trovato sollievo nell'odio e aveva abbracciato il fanatismo tanto prevalente nel suo ambiente. Era comodo avere a disposizione un gruppo facilmente identificabile a cui addossare tutte le colpe, piuttosto di esaminare le proprie inadeguatezze. Ma era stato solo con l'arruolamento nei marines e il trasferimento a San Diego che il suo fanatismo quasi parrocchiale si era trasformato in odio razziale, con una particolare ripugnanza per la mescolanza delle razze. Quel cambiamento non era avvenuto dall'oggi al domani. Scaturiva da un atteggiamento originato dall'incontro casuale con un uomo che aveva quasi il doppio della sua età. Era il 1979 e Curt aveva diciannove anni. Aveva finito da poco il campo d'addestramento, che aveva aumentato in modo vertiginoso la sua autostima. Lui e parecchi dei suoi nuovi commilitoni, tra i quali c'erano diversi afroamericani, erano usciti dalla base per andare in un bar a Point Loma, frequentato dal personale delle forze armate, in particolare sommozzatori e marines. Il bar era buio e pieno di fumo. L'unica luce emanava da lampadine a basso voltaggio contenute in vecchi caschi da sommozzatore, di quelli di una volta. La musica era prevalentemente di un gruppo che Curt in seguito avrebbe imparato a conoscere, gli Screwdriver, e l'uomo che metteva le monetine stava seduto proprio accanto al jukebox, a un tavolino per conto suo. Curt e i suoi compagni si erano raggruppati davanti al bancone a avevano ordinato la birra. Si raccontavano storie di guerra sulle loro recenti esperienze al campo e ridevano di gusto. Curt era contento. Era la prima volta che si sentiva parte di un gruppo. Durante l'addestramento si era perfino messo in vista ed era stato selezionato come capo di una squa. Stufo dopo un po' di quella musica monotona e assordante, si era avvicinato al jukebox. Si era scolato diverse birre ed era un po' alticcio, quasi euforico. Aveva guardato che dischi c'erano, tenendo in mano qualche mone-
tina da venticinque cent. «Non ti piace la musica?» gli aveva chiesto l'uomo seduto al tavolino. Curt lo aveva guardato. Era non tanto grosso e aveva i capelli tagliati molto corti. Aveva lineamenti affilati, con labbra sottili e denti bianchi e diritti. Era rasato di fresco e indossava T-shirt e jeans stirati. Sul braccio destro, tra il gomito e la spalla, aveva tatuata una piccola bandiera americana. Ma la cosa che più colpiva erano gli occhi. Pur nella semioscurità, erano talmente penetranti che a lui parevano quasi ipnotici. «La musica va bene», aveva risposto Curt, raddrizzando le spalle. Si sentiva come se lo sconosciuto gli stesse prendendo le misure. «Dovresti ascoltare le parole, amico», aveva aggiunto l'uomo, e aveva bevuto un sorso di birra. «Già, e che cosa sentirei?» «Un messaggio che potrebbe salvare questo fottuto paese.» Sul viso di Curt si era allargato un cauto sorriso. Aveva guardato verso i compagni, pensando che avrebbero dovuto ascoltare quel tipo. «Mi chiamo Tim Melcher», si era presentato lo sconosciuto, spingendo verso di lui con un piede una sedia libera. «Siediti. Ti offro una birra.» Curt aveva guardato il boccale che teneva in mano: restava solo il fondo. «Dai, soldato», aveva insistito Tim. «Siediti e rilassati, che ti fa bene.» «Sono un marine», ci aveva tenuto a precisare. «Fa lo stesso. Anch'io sono stato nell'esercito. Prima divisione di cavalleria. Ho fatto due turni in Vietnam.» Curt aveva annuito. La parola «Vietnam» gli faceva sentire le gambe malferme. Significava guerra vera, invece della simulazione in cui erano impegnati lui e i suoi compagni. Gli ricordava anche suo fratello Pete, la stella del football. Aveva otto anni più di lui e aveva avuto la sfortuna di essere chiamato alle armi. Era morto in Vietnam un anno prima che finisse la guerra. Curt aveva girato la sedia, ci aveva passato sopra una gamba e si era seduto. Appoggiatosi allo schienale, si era scolato il fondo della birra «Vuoi la stessa?» gli aveva chiesto Tim. Lui aveva annuito. «Harry! Mandaci un paio di Bud», aveva ordinato Tim al barista. «Come ti chiami, soldato?» «Curt Rogers.» «Mi piace. Un bel nome. E ti sta bene.» Curt aveva alzato le spalle. Non sapeva come comportarsi con lo scono-
sciuto, soprattutto per via di quello sguardo intenso. Con l'arrivo della nuova birra, però, aveva cominciato a rilassarsi di nuovo. «Sai, sono contento di averti incontrato», aveva detto Tim. «E lo sai perché?» Curt aveva scosso la testa. «Perché sto formando un gruppo in cui credo che dovreste entrare tu e un paio dei tuoi amici.» «Che genere di gruppo?» Curt era scettico. «Una brigata di frontiera. Una brigata armata di frontiera. Vedi, le pattuglie di frontiera regolari che dovrebbero proteggere questo paese dagli immigrati clandestini non fanno il loro lavoro. Diavolo, il confine messicano, a sedici dannati chilometri da qui, è come un gigantesco colabrodo.» «Davvero», aveva replicato Curt. Non che avesse pensato tanto al confine. Aveva avuto abbastanza di che preoccuparsi per i rigori del campo di addestramento. «Sì, davvero», aveva fatto eco Tim, in tono canzonatorio. «Guarda, è una situazione seria. Tu e io e il resto dei nostri fratelli e sorelle ariani diventeremo ben presto una minoranza, da queste parti.» «Non ci avevo mai pensato.» Era la prima volta che Curt sentiva quella parola, «ariani», e non aveva tanto idea di che cosa significasse. «Ehi, farai meglio a svegliarti. Sta già succedendo. Questo paese sta per essere preso da negri, ispanici, occhi a mandorla e froci. Dipenderà da gente come te e me se la nostra cultura timorata di Dio e fiduciosa in se stessa sopravviverà dove la gente lavora per guadagnarsi da vivere e i froci non escono allo scoperto. Te lo dico io: non solo queste altre razze si riversano qui come l'acqua attraverso una spugna, ma si riproducono come mosche. È un problema bello grosso. Non possiamo più starcene seduti a scaldarci il culo. Se lo facciamo, dovremo rimproverare soltanto noi stessi.» «Come hai intenzione di armare le brigate di frontiera?» aveva domandato Curt. «Se ti sei fatto qualche folle idea che la gente come me può essere d'aiuto, pensaci bene. Noi non possiamo portar fuori le armi dalla nostra base.» «Le armi non sono un problema. Nella mia cantina ho un fottuto arsenale, compresi degli M1 semiautomatici, pistole mitragliatrici, fucili di precisione telescopici e delle Glock. Ho perfino le uniformi, perché ho già coinvolto dieci tizi della marina. Siamo già stati di pattuglia.» «Vi siete imbattuti in qualche straniero?» Nel sentire la descrizione delle
armi, la stima di Curt per lo sconosciuto era aumentata parecchio. «Ci puoi scommettere il culo. Ne abbiamo bloccati una decina.» «Che cosa fate quando li prendete, li consegnate alla pattuglia di frontiera?» Tim aveva riso sprezzante. «Se lo facessimo, la notte dopo sarebbero di nuovo all'arrembaggio. L'idea di interdizione che ha la pattuglia di frontiera è di dargli una piccola lavata di capo, rimproverarli e lasciarli andare.» «Be', allora voi che cosa fate?» Curt lo aveva domandato anche se intuiva la risposta. Tim si era sporto verso di lui e aveva sussurrato: «Gli spariamo e li seppelliamo». Poi si era fregato le mani, come per ripulirle dalla terra. «In questo modo, è fatta. Non c'è una seconda occasione.» Curt aveva deglutito. Si sentiva la gola secca. L'idea di sparare ai clandestini era a un tempo eccitante e spaventevole. «Qui nella valigetta ho qualche copia di una rivista», aveva continuato Tim. «Sarò felice di dartele se le distribuisci a gente come te e come me. Lo capisci che cosa intendo, quando dico gente come te e come me?» «Sì, suppongo di sì. Che rivista è?» «Quella che ho oggi si chiama Blood and Honor. Ne ho anche delle altre, ma questa è particolarmente valida. Viene dall'Inghilterra, ma parla delle cose di cui stiamo discutendo. L'Europa occidentale ha gli stessi problemi che abbiamo noi. Ho anche un romanzo che potresti leggere. Ti piace leggere?» «No, mica tanto», aveva ammesso Curt, «tranne i manuali delle pistole e roba del genere.» «Magari questo libro ti trasformerà in un lettore. Leggere è importante.» Tim si era chinato ad aprire la valigetta e ne aveva estratto un libro in edizione economica, di notevoli dimensioni. «È intitolato The Turner Diaries.» E glielo aveva dato. Curt lo aveva preso. Era scettico. Dai tempi della scuola superiore aveva letto solo un romanzo, una storia pornografica su una ragazza di Dallas che si chiamava Barbara e studiava al college. Aveva aperto The Turner Diaries e ne aveva letto qualche riga. Allora non sapeva che sarebbe diventato il suo libro preferito. In quella occasione aveva finito con il prendere anche sei copie della rivista Blood and Honor. Dopo aver letto libro e rivista, le questioni sollevate da Tim lo avevano sempre più eccitato e preoccupato. Si era dato da fare perché quei testi circolassero fra gente che Tim riteneva adatta e ben presto
aveva messo assieme un gruppo di marines che la pensavano come lui e si ritrovavano a consumare insieme i pasti. Il legame con Tim Melcher si era rafforzato. Passava quasi tutto il tempo libero con lui, aiutandolo a organizzare la brigata di frontiera, di cui lui stesso era entrato a far parte, come pure alcuni dei marines da lui contattati. Quando infine aveva avuto modo di vedere il suo arsenale, in cantina, si era eccitato sessualmente. Non aveva mai visto una tale collezione di fucili e munizioni, tranne che durante una esercitazione dei marines. Tim aveva perfino un mucchio di kalashnikov AK-47. Non erano tecnicamente buoni come gli M1 automatici, ma avevano un fascino romantico. La prima operazione con la brigata di frontiera a cui Curt aveva partecipato era stata sconvolgente. Era iniziata in allegria, con un sacco di risate. Tutti bevevano birra prendendola dalle ghiacciaie sul retro dei fuoristrada. Avevano formato un convoglio di tre veicoli e si stavano dirigendo a sud, procedendo balzelloni lungo la interstatale 5 mentre le cassette degli Screwdriver, che Tim si era procurato in Inghilterra, andavano a tutto volume. C'era un'atmosfera festosa. A nord del confine avevano svoltato a sud, avventurandosi nel deserto. In un luogo stabilito in precedenza da Tim si erano fermati a preparare un bivacco, montando le tende e accendendo il fuoco. Con il calare della notte avevano lavato i piatti, spento il fuoco e si erano diretti verso il confine. Vestiti com'erano con le tute mimetiche adatte al deserto, si confondevano con l'ambiente circostante, non fosse stato per le risatine da ubriachi. Curt era al settimo cielo. Finalmente faceva parte di un gruppo che era, secondo Tim, razzialmente puro, oltre che omogeneo nel modo di pensare. Sentiva anche che stavano facendo una cosa importante, pur dubitando che sarebbero riusciti a sorprendere qualcuno. Se non altro, avrebbero spaventato i clandestini, che sarebbero tornati da dove erano venuti. Tim aveva diviso il gruppo in tante coppie, disponendole a intervalli regolari a circa tre-quattrocento metri dal confine. Curt era stato scelto come suo partner e questo lo aveva fatto sentire fiero di sé, oltre ad assicurargli la postazione migliore. Si trovavano infatti sulla sommità dell'altura che era il punto più elevato di tutta la zona. Si erano accovacciati in una piccola distesa di sabbia, con i massi di arenaria che spuntavano strategicamente alle loro spalle. Appoggiati contro le rocce, avevano aperto altre birre, tenute di scorta nella borsa termica. Lo schiocco metallico di quando aprivano le lattine all'unisono costituiva un suono meraviglioso in quel luogo buio, arido e desolato.
La notte era bellissima e tiepida, e la roccia emanava il calore accumulato durante il giorno. Sopra di loro la Via Lattea sembrava lastricata da milioni di diamanti. Dal Pacifico spirava un venticello leggero, che si sentiva appena quando sfiorava la pelle scoperta. «Bello, vero?» aveva commentato Tim. Aveva sganciato dalla cintura la radiolina ricetrasmittente e l'aveva appoggiata su di una roccia. La usava per tenersi in contatto con le altre squadre. «È incredibile», aveva replicato Curt. «Sono cresciuto a Brooklyn, e non avevo mai saputo che esistesse una cosa simile.» «È un grande paese. Peccato che stia andando in malora per colpa del fottuto governo.» Curt aveva annuito, senza dire nulla. Ipnotizzato com'era dall'ambiente circostante e ottenebrato dalla birra, non aveva voglia di imbarcarsi nell'ennesima discussione sul Governo Occupato dai Sionisti. Passò in silenzio qualche minuto. Curt bevve un altro sorso di birra. «Sei mai stato in questa posto nelle sortite precedenti?» aveva domandato. Dietro insistenza di Tim, usavano ogni volta che era possibile dei termini militareschi. «Parecchie volte», aveva risposto Tim. «Hai assistito a qualche azione?» «Oh, sì. Il nemico collaborava molto.» Aveva riso. «Era come sparare ai tacchini.» «Dove li hai visti?» Tim aveva puntato il dito. «Venivano lungo quella gola che sembra un'intaccatura nell'orizzonte.» Curt aveva sforzato la vista nell'oscurità. Gli occorreva un po' di immaginazione per credere che stava guardando l'estremità di una gola. Non c'era modo di vedere qualcuno avvicinarsi, finché non li si aveva praticamente addosso. Si era chiesto cosa sarebbe successo se un gruppo di uomini fosse spuntato all'improvviso dalle tenebre, e aveva portato automaticamente la mano a toccare la Glock automatica che stava nella fondina. Aveva slacciato l'apertura. Non voleva ritrovarsi ad armeggiare con la fondina se avesse avuto bisogno di usare una pistola. «Lo so che cosa stai pensando», aveva detto Tim. «Lascia che ti mostri una cosa.» Aveva aperto la cerniera del fodero da fucile che aveva accanto a sé e ne aveva estratto un'arma. Pur nell'oscurità, Curt aveva capito che era una di quelle che non aveva mai visto.
«Questa è la mia preferita», gli aveva confidato Tim, orgoglioso. «Non la porto con me se non per le operazioni vere, come stanotte.» L'aveva tesa verso di lui e Curt l'aveva presa, accostandola al viso. L'aveva riconosciuta immediatamente, anche se non ne aveva mai tenuta in mano una prima di allora. Era un fucile di precisione Remington 308, modificato per i marines. «Dove diavolo lo hai preso?» domandò Curt con ammirazione. «Si può comprare tutto quello che si vuole dalle riviste survivaliste come Mercenary. Basta guardare gli annunci pubblicitari sul retro della copertina.» «Ma questo è in dotazione ai marines. Come fanno a procurarselo, tanto per cominciare?» «E che ne so? Credo che qualcuno lo abbia rubato, oppure è stato scambiato con qualche altra cosa. Lo saprai, no, che nell'esercito fanno un sacco di baratti.» «Le modifiche le fanno a Quantico», aveva mormorato Curt, facendo scorrere la mano, con affetto, lungo l'impugnatura. «Già, lo so. Ha la canna basculante e il sottomano in fibra di vetro, e la resistenza del grilletto è stata adattata a una libbra.» «Dio, è fantastico!» Curt poteva solo sognare di averne uno. Aveva una vera passione per i fucili di ogni tipo, ma in particolare per quelli ad alta tecnologia. «La cosa migliore è il telescopio», gli aveva confidato Tim. «Guarda che sventola. È a raggi infrarossi. Provalo.» Curt aveva portato amorevolmente l'arma all'altezza della spalla e aveva applicato un occhio al visore notturno. Il nero della notte si era miracolosamente trasformato in una velata trasparenza verde. Anche a distanza di parecchie centinaia di metri, riusciva a distinguere i dettagli dell'arido ambiente circostante. All'improvviso, nello spostare il fucile leggermente a sinistra, aveva visto qualcosa muoversi. Al centro del suo campo visivo c'erano due uomini che avanzavano nell'oscurità, diretti in diagonale proprio verso di lui. «Per la miseria!» aveva esclamato. «Ho due clandestini nel visore! Non posso crederci!» «Ci siamo!» Tim era eccitatissimo. «Non staccargli gli occhi di dosso. Potresti non riuscire più a ritrovarli. Dimmi, come sono vestiti? Non sono in divisa, vero?» «Diavolo, no! Sembrano camicie scozzesi, jeans, cappelli da cowboy, e
portano delle cose che sembrano vecchie valigie in similpelle.» «Congratulazioni, soldato! Ti sei trovato un paio di tacchini. Tira almeno due colpi, in fretta, per essere sicuro di beccarli tutti e due. Certo, se riesci ad averli sulla stessa traiettoria, potresti prenderli con un colpo solo.» Tim aveva ridacchiato. «Vuoi che gli spari?» aveva chiesto Curt, nervoso. Aveva evitato di proposito di pensare a quel momento, visto oltre tutto che i due uomini che aveva individuato non rappresentavano per lui un pericolo immediato. Non era come in battaglia, in cui avrebbe reagito automaticamente. In quel caso si trattava di fare un'imboscata a due persone disarmate che nemmeno conosceva. Si era accorto di tremare, perché il campo visivo delimitato dal telescopio aveva cominciato a traballare. «No, voglio che vai là a intavolare una discussione con loro», aveva risposto Tim con sarcasmo. «Certo che voglio che gli spari. Diavolo, è un tuo diritto. Sei tu quello che li ha visti.» Curt sentiva il sudore imperlargli la fronte. Si era accorto di deglutire, in preda all'indecisione. Non aveva mai fatto una cosa simile, prima di allora. «Forza, ragazzo, non deludere me o la tua patria.» Curt non voleva deludere Tim. Il mese precedente era stato l'unico periodo della sua vita in cui si era sentito membro di un gruppo molto ristretto di cui condivideva davvero l'ideologia. Aveva trovato una famiglia, dal punto di vista emotivo e intellettuale, e sapeva di dovere tutto a Tim. Respirando a fondo e poi trattenendo il fiato, aveva premuto il grilletto. Il rinculo del fucile non gli aveva impedito di tenere i bersagli sotto controllo. L'uomo che stava davanti era caduto come se avesse inciampato. Non aveva girato su se stesso, né barcollato, come Curt aveva visto nei film, quando la gente viene colpita. L'attimo prima camminava, l'attimo dopo non c'era più. Il secondo uomo si era fermato di botto, immobilizzato dall'eco dello sparo che riverberava per il paesaggio desolato. Curt aveva sentito una scarica di adrenalina simile all'orgasmo, e una tremenda sensazione di potenza. Senza pensarci due volte, aveva preso di nuovo la mira e aveva premuto senza difficoltà il grilletto. Il fucile era rinculato di nuovo e il secondo uomo era scomparso. Curt aveva abbassato l'arma. Per un breve attimo nell'aria si era sentito l'odore di cordite, subito disperso dalla brezza. «Allora?» aveva chiesto Tim, speranzoso. «Andati tutti e due.» «Fantastico!» Tim gli aveva dato una pacca sulla spalla, prima di pren-
dere la radio e avvertire gli altri che lui e Curt sarebbero andati a eliminare un paio di bersagli. Non dovevano sparare a niente fino a nuovo ordine. «Non voglio che quei pazzoidi ci sparino addosso», aveva spiegato a Curt. Poi aveva ripreso il fucile e aveva tirato fuori un badile e un piccone pieghevoli. «Vieni, ma tieni a portata di mano la tua Glock, nel caso tu abbia solo ferito quei bastardi. Potremmo dovergli dare il colpo di grazia, o come cavolo si chiama.» Curt gli era arrancato dietro senza dire una parola. Dopo l'euforia iniziale, era sopraffatto dai dubbi. Adesso che aveva davvero sparato a qualcuno, non sapeva come affrontare l'idea di aver ammazzato un essere umano. La nebbia mentale creata da tutte le birre tracannate non gli era d'aiuto. E non aiutava nemmeno il fatto che Tim si comportava come se lui avesse semplicemente schiacciato due mosche fastidiose. «Forza, soldato!» lo aveva chiamato Tim quando si era accorto che indugiava. Era andato avanti con la torcia sul terreno roccioso, a passo di piccola corsa. Curt si era spinto avanti, allargando le spalle. Lo imbarazzava che Tim potesse sospettare il suo stato d'animo da codardo. Ci volle almeno mezz'ora per raggiungere i due messicani, perché avevano dovuto perlustrare la zona procedendo a zigzag. Quando la torcia aveva finalmente illuminato i cadaveri, Tim se n'era uscito con un fischio di ammirazione. «Sono impressionato. Li hai presi tutti e due in testa.» Curt allora li aveva guardati. Non aveva mai visto un morto, tranne che a una veglia funebre. Entrambi i cadaveri avevano un piccolo foro sulla fronte, ma sulla parte posteriore della testa mancavano vaste parti di cuoio capelluto. Il terreno intorno era cosparso di brandelli di cervello. L'uomo che stava davanti teneva ancora la mano sulla maniglia della valigia. «Oh, mio Dio!» aveva mormorato Curt. Tim aveva sollevato la testa di scatto, guardando la sua recluta. «Che cosa c'è?» «Che cosa ho fatto!» «Hai ammazzato un paio di immigrati clandestini. Hai fatto un favore alla tua patria.» «Gesù!» aveva mormorato Curt, scuotendo la testa. Gli occhi dei messicani erano ancora aperti e lo fissavano. Si era sentito barcollare sulle gambe malferme. Tim aveva reagito con rapidità. Gli si era avvicinato e lo aveva colpito forte, per poi imprecare dal dolore e scuotere la mano.
Curt aveva fatto un passo indietro. Vedeva rosso. Si era toccato il viso che gli bruciava e poi aveva guardato le dita, come aspettandosi di vedere il sangue. Quindi aveva fissato Tim. «Sono qui, duraccione», lo aveva schernito lui, facendo un gesto che lo invitava a tentare di colpirlo. Curt si era guardato attorno nella notte buia. Non voleva lottare con lui, perché, adesso che aveva avuto un attimo per pensare, sapeva che lo avrebbe colpito di nuovo. «Ti stavi rammollendo», gli aveva spiegato Tim. Curt aveva annuito. Sapeva che era vero. «Ascolta», aveva aggiunto Tim, «lascia che ti dica una cosa che non sai di me. Proprio quest'anno sono stato ordinato ministro nella True Believers Christian Church, che è un ramo locale della più vasta Christian Identity Church. Ne hai sentito parlare?» Curt aveva scosso la testa. «È una chiesa che ha usato la Bibbia per provare che i bianchi anglosassoni sono i veri discendenti della dispersa tribù di Israele. Tutte le altre razze provengono da Satana, o sono gente degradata, come questi ispanici qui.» Nel dir così, aveva smosso con un piede uno dei due cadaveri. «Ecco perché noi abbiamo la pelle bianca e loro ce l'hanno nera, marrone, gialla o come cavolo la vuoi chiamare.» «Sei un prete?» aveva chiesto Curt, incredulo. Quell'uomo aveva così tanti aspetti diversi che gli faceva girare la testa! «In tutto e per tutto. Quindi so di che cosa sto parlando. La cosa chiave è che la parola di Dio nella Bibbia dice che i mezzi per realizzare il giudizio divino non sono limitati all'azione del corpo politico. Significa che la violenza non solo va bene, ma è necessaria. In parole povere, tu stanotte hai messo in pratica l'opera di Dio, soldato.» «Non avevo mai sentito dire cose simili.» «Non c'è da sorprendersi. Non è colpa tua. Il Governo Occupato dai Sionisti non vuole che tu le sappia. Le tengono fuori dalle scuole, fuori dai giornali e fuori dalla TV, tutte cose che controllano loro. Il motivo è che ci vogliono neutralizzare diluendoci geneticamente. Proprio come in The Turner Diaries, ti ricordi?» «Non ne sono sicuro.» Curt era impressionato dalla veemenza di Tim, come pure dalla sua erudizione. «Faceva parte del Decreto Cohen. Stabiliva l'istituzione di commissioni sulle relazioni umane che dovevano costringere gli ariani bianchi a sposare
la gente degenerata. Quel tipo di matrimonio è chiamato mescolanza razziale. Hai mai sentito questo termine?» «No.» «Ecco, vedi? È una cospirazione del GOS. Non vogliono che i ragazzini imparino quel termine perché incoraggiare i matrimoni misti è il peccato più insidioso fra tutti quelli di cui il GOS è colpevole. E per il Signore è un abominio. È il tentativo di Satana di eliminare il popolo eletto da Dio. È l'Olocausto alla rovescia.» «Va bene!» sbottò Curt, tornando al presente. «È ora che mettiamo le carte in tavola.» Guardò Steve, il quale annuì, poi guardò Yuri. «Di quali carte parli?» domandò Yuri. Capiva che i suoi ospiti erano lividi, in particolare Curt. Curt sollevò gli occhi al cielo. «È un'espressione, Cristo! Significa spiegare tutto a tutti, in modo che non ci siano sorprese.» «Va bene», replicò Yuri, in tono conciliante. «Ti dirò, stasera ci hai scioccati», sbottò Curt. «Non solo sei sposato, ma sei sposato con una negra. Dire che è una sorpresa è metterla giù in modo delicato.» «Avevo bisogno della carta verde», spiegò Yuri. «Ma non avresti dovuto sposare una negra!» sbraitò Steve. «Che differenza fa?» chiese Yuri, anche se pensò di sapere la risposta. Nei quattro anni in cui era vissuto negli Stati Uniti si era reso conto dei pregiudizi razziali. Curt si trattenne dal parlare, nonostante l'idiozia della domanda. Aveva pensato per un momento di spiegare al russo tutta la questione, nel modo in cui Tim l'aveva spiegata a lui circa vent'anni prima, ma decise di no, perché, guardando Yuri con occhio più critico, non era del tutto sicuro se poteva considerarlo ariano oppure no. «Sposarsi fra razze diverse, in particolare quando uno dei due è un bianco, va contro la parola di Dio», intervenne Steve. «Non lo avevo mai sentito», si giustificò Yuri. «Quel che è fatto è fatto», chiuse l'argomento Curt, con un gesto della mano. «Al momento è più importante la questione di che cosa facciamo adesso. Tua moglie sa che stai armeggiando con i batteri in cantina e sa che hai lavorato nell'industria delle armi batteriologiche in Unione Sovietica. Ci sono delle possibilità che sappia che stai costruendo un'arma batteriologica.»
«Lei non si preoccupa di quello che faccio io», obiettò Yuri. «Fidati.» «Ma potrebbe cambiare idea all'improvviso, e questo sarebbe un bel guaio.» «Potrebbe dire qualcosa alla sua famiglia», aggiunse Steve. «Con la famiglia non parla», gli assicurò Yuri, «tranne che con il fratello. È l'unico che si preoccupa di lei.» «Allora, supponi che dica al fratello qualcosa che ci può tradire», gli prospettò Curt. «In un modo o nell'altro, non possiamo correre rischi. Come abbiamo detto prima, dovrebbe scomparire. Qualche problema al proposito?» Yuri scosse la testa e sorbì una bella sorsata di vodka. «Va bene, almeno su questo siamo d'accordo», stabilì Curt. «Il problema è come farlo senza attirare l'attenzione. Presumo che qualcuno si accorgerebbe della sua scomparsa.» «Al lavoro sicuramente», confermò Yuri. «Si occupa dello smistamento delle chiamate.» «La cosa fondamentale è che dobbiamo farlo senza che venga coinvolta la polizia. Ha qualche problema medico?» «Oltre all'obesità?» specificò Steve. Yuri scosse la testa. «Scoppia di salute.» «Ehi, magari potremmo usare la sua obesità», propose Steve. «Grassa com'è, nessuno avrebbe dei dubbi se le venisse un attacco di cuore.» «Non è una cattiva idea», approvò Curt. «Ma come facciamo a farle venire un attacco di cuore?» I tre si guardarono. Nessuno aveva la più pallida idea di come simulare un attacco di cuore. «Potrei farla morire di insufficienza respiratoria», suggerì Yuri. Gli altri due sollevarono le sopracciglia. «Un sacco di gente sovrappeso muore per insufficienza respiratoria. Potrei dire che aveva l'asma, quando andiamo in ospedale.» «E come faresti?» chiese Curt. «Userei una dose abbondante della mia tossina del botulino. Diavolo, devo comunque provarla. Perché non su Connie? In questo modo sarei sicuro della dose.» «Ma i dottori non se ne accorgeranno?» domandò Curt. «No. Una volta che uno è morto e non si conoscono i sintomi iniziali, non c'è modo di sospettarlo. E bisogna sospettarlo, altrimenti non ci si pensa. Ci sono troppe altre cose che provocano l'insufficienza respiratoria.»
«Sei sicuro?» «È naturale che sono sicuro. In Unione Sovietica ho partecipato a tante di quelle prove, su quella tossina! Con una grossa dose uno smette di respirare e diventa blu. Al KGB interessava parecchio il botulino, per usarlo negli omicidi che dovevano sembrare morti naturali, perché una grossa dose è costituita da una quantità molto, molto piccola.» «Mi piace», decretò Curt. «C'è una certa giustizia poetica in questo. Dopotutto, Connie minaccia la sicurezza dell'Operazione Volverina. Quando potresti farlo?» «Stasera», rispose Yuri con una scrollata di spalle. «Una cosa che non mi è mai difficile farle fare è mangiare. Più tardi, quando si sarà calmata, ordinerò la pizza, ed ecco fatto.» «Bene», dichiarò Curt, lasciandosi andare al primo sorriso della serata. «Adesso che le cose sgradevoli sono sistemate, passiamo ad argomenti più piacevoli. Qual è la buona notizia che volevi darci?» «Ho provato il carbonchio», rispose Yuri, desideroso della sua approvazione. Si chinò in avanti sulla sedia. «È potente come mi aspettavo.» «E su chi lo hai provato?» volle sapere Curt. Alla luce degli eventi concernenti Connie, la sicurezza era la sua prima preoccupazione. Yuri raccontò come avesse scelto Jason Papparis, un mercante di tappeti, che era a rischio di contrarre il carbonchio dalla merce che importava. Spiegò che in questo modo aveva di certo evitato qualsiasi sospetto da parte delle autorità riguardo a ciò che stavano progettando. «Molto intelligente», commentò Curt. «Da parte dell'Esercito Ariano del Popolo, ti elogio per la tua astuzia.» Yuri si lasciò andare a un sorriso di autocompiacimento. «Anche noi abbiamo buone notizie», continuò Curt, e descrisse il sopralluogo che lui e Steve avevano compiuto quella mattina al Jacob Javits Federal Building. Spiegò che era tutto predisposto su come mettere l'arma batteriologica nel condotto dell'aria condizionata. «Avrete bisogno di un nebulizzatore?» domandò Yuri. «No, se l'arma è composta da polvere fine», rispose Curt. «Useremo detonatoli a tempo per far esplodere il pacco. I ventilatori dell'impianto faranno il resto.» «Questo significa che dovrete usare il carbonchio.» «A noi va bene. È un problema? Ci avevi detto che tutti e due gli agenti patogeni sono egualmente potenti.» «No, non è per niente un problema. Solo che ho qualche difficoltà a ot-
tenere i batteri che fanno crescere abbastanza in fretta la tossina del botulino. Mi manca meno di una settimana per avere la quantità sufficiente di carbonchio, ma più di tre settimane per il botulino», osservò Yuri. «Non penso che aspetteremo tre settimane», dichiarò Curt. «Non con i problemi di sicurezza che sono sorti.» «Perché non utilizzare solo il carbonchio?» propose Steve. «Dimentica la tossina, se i batteri non collaborano.» «Perché la quantità di carbonchio che abbiamo è sufficiente solo per un'azione, non per due.» «Forse la provvidenza ci sta dicendo che dovremmo colpire l'edificio dell'FBI», osservò Curt. «Che ne diresti di lasciar perdere il Central Park?» «No!» esclamò Yuri con enfasi. «Il parco lo voglio fare.» «Ma perché? L'edificio dei federali costituirà una presa di posizione maggiore contro il governo, e resteranno coinvolte almeno sei-settemila persone.» «Ma è solo gente del governo», obiettò Yuri. «Io voglio colpire anche la cultura americana fasulla, in particolare quegli uomini d'affari e banchieri ebrei benpensanti che hanno causato lo sconvolgimento economico che c'è in Russia al giorno d'oggi.» Curt e Steve si scambiarono un'occhiata contrariata. «Questa è una cultura spietata», continuò Yuri. «La gente dovrebbe essere libera, ma non lo è. Si azzuffano tutti per lo status e l'identità. Noi slavi possiamo aver avuto qualche problema nel corso della storia, ma almeno sappiamo chi siamo.» «Non ci credo che sto sentendo queste parole», commentò Curt. «Perché non ti sei fatto uscire il fiato prima?» «Non me lo avete mai chiesto.» «L'America ha qualche problema, d'accordo, ma è perché il GOS sostiene il controllo delle armi, i matrimoni misti, gli spacciatori di droga negri, gli imbrogli dell'assistenza sociale, i froci, tutti quelli che erodono le nostre radici originali. È contro questo che stiamo combattendo. Sappiamo che ci saranno delle vittime civili in questa lotta, ma il nostro bersaglio è il governo.» «Nella mia guerra non ci sono civili», replicò Yuri. «Ecco perché voglio l'azione nel Central Park. Con il vento propizio si diffonderà su una bella fetta della città. Sto parlando di centinaia di migliaia di vittime, o anche milioni, non migliaia. È questo che dovrebbe fare un'arma di distruzione di massa. Diavolo, per il vostro obiettivo ristretto basterebbe una bomba
normale.» «Non riusciremmo a fare entrare nell'edificio una bomba abbastanza grande», spiegò Curt. «È questo il punto. Invece, con due chili circa di polvere simile a farina non ci sarebbero problemi. Voglio dire, è così che ci hai descritto il carbonchio utilizzabile come arma.» «Infatti. Una farina finissima, così leggera da restare sospesa.» Per qualche momento i tre uomini rimasero a guardarsi, consci della tensione. «Va bene», disse infine Curt, con un gesto della mano come per scansare qualcosa. «Torniamo al punto di partenza. Faremo tutte e due le azioni. Il problema si riduce ad avere abbastanza materiale.» «Dov'è il camion da pesticidi che mi avete promesso?» domandò Yuri. «Le truppe ne hanno localizzato uno», rispose Curt. «Non ti preoccupare.» «Dov'è?» «È parcheggiato dietro una ditta di disinfestazione a Long Island. Lo usano per le patate, quando è la stagione. Non è custodito. È lì per chi se lo piglia.» «Lo voglio nel mio garage.» «Che cos'è questo tono bellicoso?» ribatté Curt. «Con le sorprese che ci hai riservato stasera, siamo noi che dovremmo essere infuriati.» «Voglio solo il camion in garage», ripeté Yuri. «Il patto era questo. Doveva già esserci.» «Farai meglio a controllare il tono con cui parli», lo redarguì Steve. «Altrimenti ti mandiamo le nostre truppe d'assalto a farti una visitina.» «Non minacciarmi, o non avrete un bel niente. Saboterò l'intero progetto.» «Ehi, piantatela», intervenne Curt. «La cosa ci sta sfuggendo di mano. Non litighiamo tra di noi. Non ci sono problemi. Penseremo a procurare il camion, a portarlo in città e a mettertelo in garage. Questo ti rende felice?» «Erano gli accordi», replicò Yuri. «Considera la cosa fatta. Intanto, da parte tua, devi prenderti cura di Connie. Non ti pare uno scambio equo?» «Lo faccio stasera», rispose Yuri. Si rilassò visibilmente e scolò le ultime gocce di vodka. «Bene», commentò Curt. Si strofinò le mani mostrandosi entusiasta. «Allora adesso parliamo di come procedere. Che ne dici se rinunci alla tossina e dedichi il secondo fermentatore al carbonchio? Non avremmo più
in fretta la quantità necessaria di prodotto?» «Probabile.» «Quali sono i tempi, realisticamente?» «Alla fine della settimana o all'inizio di quella dopo, se tutto va bene.» «Questa sì che è musica per le mie orecchie», commentò Curt, sforzandosi di sorridere. Si alzò e Steve fece altrettanto. «Ho una domanda da farvi», disse ancora Yuri. «Che cos'è un medico legale?» «È un tizio che esamina i morti e cerca di scoprire perché sono morti», rispose Steve. «Quello che pensavo», replicò Yuri, e si alzò anche lui. «È una domanda curiosa», osservò Curt. «Come mai ce l'hai fatta?» «Oggi, quando sono tornato all'ufficio del commerciante di tappeti per sapere se era morto, c'era un uomo che prendeva delle colture e ha detto che stava indagando sul caso.» «Aspetta un secondo», si agitò Curt. «Pensavo che avessi detto che la tua trovata di infettare un commerciante di tappeti precludesse qualsiasi indagine da parte delle autorità.» «Non ho detto questo. Ho detto che le autorità non avrebbero sospettato che si trattava di un'arma batteriologica.» «Ma le autorità sanno che il carbonchio è usato come arma. Che cosa impedirà loro di insospettirsi?» «Non si insospettiranno perché avranno una spiegazione logica dell'episodio. Si congratuleranno da sole per averlo scoperto. È così che ragiona quella gente.» «E se non trovano alcuna fonte di contaminazione?» chiese Curt. «O hai lasciato qualcosa da fargli trovare su un tappeto?» «No, questo non l'ho fatto», ammise Yuri. «Non potrebbe essere un problema?» «È possibile, ma ne dubito.» «Però non puoi esserne certo al cento per cento.» «Il cento per cento no, ma molto vicino.» Curt emise un sospiro di esasperazione. «All'improvviso sembra che ci siano così tante cose da sistemare.» «Non sarà un problema», ripeté Yuri. «E dovevamo provare il prodotto. Non avrebbe senso spargerlo, se non fosse patogeno.» «Speriamo che tu abbia ragione», si arrese Curt. Aveva la voce stanca. Si diresse verso la porta. «Resteremo in contatto. Qualcuno dei ragazzi
verrà qui stasera sul tardi a consegnare il camion da disinfestazione.» «E se non ci sarò?» chiese Yuri. «Farai meglio a esserci. Sei tu quello che ha fatto quella cagnara per 'sto maledetto camion.» «Ma devo occuparmi di Connie. Dovrò chiamare l'ambulanza, dopo che avrà avuto il suo attacco. Potrei essere all'ospedale.» «Ah, già.» «Ecco che cosa farò: quando porterò fuori Connie non chiuderò a chiave la porta del garage.» «Perfetto», approvò Curt, fece un saluto con la mano e uscì, seguito da Steve. I due pompieri si allontanarono e salirono sul pickup senza dire una parola. Quando le portiere furono richiuse, Curt calò un pugno sul volante. «Ci siamo messi in combutta con un fottuto idiota!» sbraitò. «Non dirò che te lo avevo detto», commentò Steve. «Gesù, quello si dà da fare ad ammazzare civili, mica quelli del governo», si lamentò Curt. «Eccoci qua, dei patrioti che cercano di salvare il paese, e siamo costretti ad avere a che fare con un terrorista. Dove andrà a finire questo mondo?» «Io penso che il suo desiderio che l'Unione Sovietica si rimetta in sesto significa molto di più che voler proteggere le armi nucleari. Penso che sia un comunista.» Curt mise in moto e percorse il vicolo. Era come uno slalom, per evitare tutti quei bidoni della spazzatura. «Magari non è comunista, ma qualsiasi cosa sia, non ha il concetto di sicurezza. È un bel rischio, perché se le autorità hanno anche il minimo sospetto di quello che sta per accadere, dovremo reimpostare l'intera operazione. Quando avevamo cominciato a progettarla, sembrava che sarebbe stata così semplice.» «Che cosa ne facciamo di lui?» domandò Steve. «Non lo so. Il problema è che dovremo tenercelo buono per poter mettere le mani sulle armi batteriologiche. Ha messo bene in chiaro che cosa potrebbe fare, quando ha minacciato di sabotare tutta la faccenda, il che credo significhi demolire il laboratorio.» «Allora gli daremo il camion della disinfestazione?» «Non credo che abbiamo tanta scelta», rispose Curt, immettendosi in Oceanview Avenue. «Gli daremo il camion, ma lo terremo anche sotto pressione perché produca circa quattro chili di carbonchio in polvere al più presto. Prima lanciamo l'Operazione Volverina, meglio è.»
7 Lunedì 18 ottobre, ore 18.45 Jack attraversò a rotta di collo la Prima Avenue all'altezza della 30esima Strada, appena prima che il semaforo diventasse verde per le auto provenienti dal centro. Costeggiò il piano di carico dell'obitorio e accennò un saluto con la testa alla guardia di sicurezza, mentre portava la bici all'interno dell'edificio. Agitò una mano in direzione di Marvin Fletcher, il tecnico del turno serale, che si stava preparando per la raccolta dei cadaveri. Dopo aver bloccato la bicicletta al solito posto, Jack salì in ascensore, diretto al laboratorio di tossicologia del secondo piano. Aveva fatto più tardi del previsto a tornare in ufficio: passare in rassegna gli schedari della Corinthian Rug Company aveva richiesto molto più tempo di quanto si era immaginato. John DeVries, il capo tossicologo, se n'era già andato a casa. Jack fu costretto a chiedere a un tecnico del turno di notte se il vice del capo aveva telefonato per mettere fretta a proposito dei campioni di David Jefferson. David era il prigioniero deceduto mentre si trovava sotto custodia della polizia, a cui lui aveva fatto l'autopsia. Purtroppo il tecnico non aveva alcuna idea di quel caso. Tornato in ascensore, Jack salì al laboratorio DNA del sesto piano. Ted Lynch, il direttore, non c'era, così affidò a un tecnico la sua raccolta di provette con le colture provenienti dall'ufficio di Papparis. Voleva che la mattina dopo Ted eseguisse una ricerca di spore del Bacterium anthracis con la reazione a catena della polimerasi. Scendendo le scale fino al quinto piano, si affacciò alla porta del laboratorio di istologia con la speranza di incoraggiare Maureen O'Conner, la caposervizio, ad accelerare la lavorazione delle sezioni microscopiche di Jefferson. Con lei aveva ottimi rapporti di lavoro, cosa che non si verificava con John DeVries, ma non faceva differenza. Anche Maureen era già andata a casa. Mentre tornava verso il proprio ufficio, guardò nella stanza di Laurie, aspettandosi per lo meno di scoprire il «dove e quando» dell'attesa cena a tre, ma la trovò buia e deserta. A rendere le cose peggiori, la porta era chiusa a chiave. Questa era una prova incontrovertibile che anche lei se n'era andata a casa.
«Cristo!» imprecò allora ad alta voce. Sentendosi frustrato in tutto ciò che faceva, percorse borbottando fra sé il resto del corridoio. Per un attimo pensò di rendersi irreperibile per il resto della serata, in modo che Laurie non riuscisse a rintracciarlo, ma rinunciò rapidamente all'idea. Non era nel suo stile, e inoltre era sinceramente curioso. Entrò nel proprio ufficio e vide che almeno Chet era ancora al lavoro, tutto preso a scrivere su un blocco di carta gialla legale. «Ah, l'avventuriero è tornato», commentò nel vedere Jack, e mise giù la matita. «Immagino di poter cancellare il modulo per le persone scomparse che ho appena riempito.» «Divertentissimo», commentò Jack, mentre appendeva il giubbotto. «Per lo meno sei tornato tutto d'un pezzo. Com'è andata là fuori, sul campo? Nessun attentato alla tua vita? Quanti dipendenti statali sei riuscito a mandare fuori dai gangheri?» «Non sono dell'umore di farmi punzecchiare», dichiarò Jack. Si lasciò cadere pesantemente sulla sua poltroncina, come se le gambe avessero ceduto all'improvviso. «Non hai l'aria di esserti divertito», osservò il collega. «È stato un fiasco», ammise Jack. «Tranne per la corsa in bici.» «Non mi sorprende. Era una missione nata male fin dall'inizio. Hai scoperto qualcosa?» «Ho scoperto che ci vuole un sacco di tempo a passare in rassegna gli archivi di una società. Anche se è piccola. E dopo tutti gli sforzi fatti non c'è stata ricompensa. In modo forse perverso, speravo di scoprire che una parte dell'ultima spedizione dalla Turchia fosse stata già venduta, in modo da sbattere questa informazione sulla faccia arcigna del vecchio Clint Abelard. Ma niente da fare. L'intero carico è chiuso a doppia mandata nel magazzino di Queens.» «Per lo meno, le tue intenzioni erano buone», commentò Chet con un sorrisetto compiaciuto. «Se fai tanto anche solo di sussurrare 'te lo avevo detto', non rispondo di me», lo avvertì Jack. «Non scenderò così in basso da dirtelo», rise Chet. «Già, ma riuscirei a sentirlo anche se soltanto lo pensassi.» «Devo dirti però che ti hanno cercato. Ma non preoccuparti, ti ho coperto. Ho usato quel vecchio trucco del gruppo di suore che stavi aspettando. Ho detto che sarebbero venute in città per una riunione di bowling, e tu sei uscito per andare ad accoglierle.»
«Chi mi cercava?» «Intanto Laurie. Infatti, stavo proprio scrivendoti un biglietto.» Chet strappò via il primo foglietto del blocco giallo e lo appallottolò. Tenendo la palla di carta fra l'indice e il pollice, le fece descrivere un ampio arco nel gettarla dentro al cestino che avevano in comune. «Che cosa diceva il messaggio?» «Che la cena di stasera è da Elio, sulla Seconda Avenue, alle otto e mezzo.» «Otto e mezzo!» esclamò Jack, irritato. «Come mai così tardi?» «Non me lo ha detto. Ma a me non sembra poi così tardi.» «È più tardi di quanto in genere le piaccia cenare.» Jack scosse la testa. Il mistero si infittiva sempre di più. Si ricordava di averle sentito fare un commento, quella mattina, mettendo in dubbio se la sera sarebbe stata ancora in piedi, e questo suggeriva che si aspettava di stancarsi molto. Allora perché decidere di vedersi così tardi? «Be', lei non sembrava per niente preoccupata», lo contraddisse Chet. «Anzi, era di umore brioso, se proprio lo vuoi sapere, e questo è raro.» «Davvero?» «Direi addirittura effervescente.» «Era così anche stamattina.» «Era talmente su di giri che le ho accennato al progetto per giovedì sera.» «Vuoi dire, di andare tutti e quattro alla mostra di Monet?» Chet annuì. «Spero non ti spiaccia.» «Che cosa ha risposto?» «Che apprezzava molto che avessimo pensato a lei, ma aveva già fatto dei progetti.» «Ha davvero usato il termine 'apprezzare'?» «È una citazione testuale. Anch'io ci ho fatto caso, perché sembrava così insolitamente formale.» «Chi altri mi ha cercato?» chiese Jack. Voleva smettere di parlare di Laurie. Lo rendeva ancora più curioso... e ansioso. «È passato Calvin. Credo che sia salito al laboratorio di istologia e si sia fermato qui solo perché si trovava al nostro stesso piano.» «Che cosa ha detto?» «Voleva ricordarti che il caso Jefferson deve essere liquidato entro giovedì.» Jack fece un gesto di fastidio con la mano. «Ormai dipende dal laborato-
rio, non da me.» «Be', io sono pronto per andarmene», annunciò Chet. Si alzò, si stiracchiò e prese il cappotto appeso dietro la porta. «Lascia che ti faccia una domanda», lo fermò Jack. «Tu vivi a New York da più tempo di me. Com'è la faccenda delle chiamate radio direttamente ai taxi?» «I tassisti prosperano sulla gente che li chiama per strada», spiegò Chet. «In genere non fanno le chiamate radio. Tra i conducenti circola l'espressione: o vai in giro o perdi il giro. Non gli va di starsene seduti ad aspettare, o andare in qualche posto vuoti. Devono darsi da fare, o perdono denaro.» «Perché allora tanti di loro hanno la radio?» «Se vogliono, possono anche fare le corse prese con le chiamate radio, ma non è conveniente. In genere la radio li tiene informati di dove c'è maggiore bisogno di taxi, tipo in centro, o nei quartieri residenziali, o all'aeroporto. E da quali zone tenersi alla larga, per via degli imbottigliamenti, e cose del genere.» Jack annuì. «Quello che pensavo.» «Perché lo hai domandato?» «Mentre ero alla sede della Corinthian Rug Company è arrivato un tassista a prendere Jason Papparis», spiegò Jack con un sorrisetto beffardo. Chet rise. «È la prima volta che sento di un morto che chiama il taxi. Viene da chiedersi da dove è arrivata la chiamata.» «O dove voleva che lo portasse il taxi.» Chet rise di nuovo, una risata cavernosa. «Il conducente mi ha dato il numero del centralino dove smistano le chiamate», aggiunse Jack. «Ho telefonato per sapere se Papparis fosse un cliente abituale. Ho pensato che, se lo fosse stato, forse la società dei taxi poteva essere una fonte di informazione sull'ultima volta che è andato al suo magazzino, a Queens.» «E che cosa ti hanno detto?» «Non sono stati di grande aiuto. Non mi hanno nemmeno voluto dire se Jason Papparis aveva chiamato per chiedere di essere passato a prendere. Hanno detto che non danno informazioni sui loro autisti o sui clienti.» «Questo sì che è essere simpatici e servizievoli», commentò Chet. «Potrebbero essere denunciati, suppongo.» «Non credo che ne valga la pena.» «Comunque, è curioso. Se qualcuno chiama per un taxi, a New York, in
genere non è un taxi giallo che risponde.» «Ti dirò una cosa ancora più curiosa. Il conducente era un russo, ed è cresciuto a Sverdlovsk.» «Sverdlovsk!» esclamò Chet. «È quella città dell'Unione Sovietica di cui mi hai parlato stamattina, che hai trovato citata sul testo di medicina! Quella dove c'è stato l'incidente con il carbonchio fuoriuscito dalla fabbrica di armi batteriologiche.» «Ci crederesti?» disse Jack. «Voglio dire, questa sì che è una coincidenza!» «Soltanto a New York succedono certe cose. Suppongo che non ci dovremmo sorprendere, perché qui accade tutto e di tutto.» «Quel tizio era perfino al corrente di che cos'è il carbonchio.» «Stai scherzando?» «Be', non ne sapeva un gran che, solo che è una malattia che colpisce soprattutto il bestiame. Ha parlato di mucche e pecore.» «Scommetterei che è più di quanto sa il newyorkese medio.» Dopo aver scambiato qualche chiacchiera su come avevano passato il weekend precedente, si lasciarono. Chet se ne andò e Jack si voltò verso la scrivania. Guardò senza entusiasmo la montagna di scartoffie dei casi da finire, che prosperavano perennemente sul suo ripiano, accanto a una pila di vetrini istologici ancora da esaminare. Pensò per un momento di tirar fuori il microscopio, ma poi guardò l'orologio. Erano le sette passate. Sapendo che avrebbe dovuto pedalare fino a casa, farsi una doccia e vestirsi, e poi attraversare di nuovo la città in bici, il tutto entro le otto e mezzo, decise che non aveva tempo per lavorare ancora. Era una mezz'oretta che il traffico sulla Prima Avenue era un po' diminuito, e Jack lo seguì fino oltre l'edificio delle Nazioni Unite. Imboccando la 49esima Strada, incrociò la Madison Avenue e svoltò di nuovo a nord. Percorreva di rado la stessa strada, tornando a casa, fin quando non arrivava alla Grand Army Plaza, all'angolo sudorientale del Central Park. Arrivato lì, fece il solito giro serale attorno alla fontana Pulitzer per ammirare la statua dorata dell'Abbondanza che la sormontava. Poi entrò nel parco, cominciando la parte preferita del percorso. Nel corso degli anni aveva scoperto il tragitto migliore e più panoramico e lo usava quasi tutte le sere. Tenendo gli occhi aperti nel caso si imbattesse in altri ciclisti, in gente che faceva jogging o che correva sui pattini, accelerò l'andatura. Anche se gli alberi avevano ancora buona parte delle foglie, molte erano già cadute e si sollevavano turbinando al suo passaggio, emettendo l'inconfondibile o-
dore dell'autunno. Jack si godeva immensamente il rapido attraversamento del parco, ma tutto ciò lo rendeva un po' nervoso. Trovarsi paradossalmente isolato in quella distesa solitaria all'interno dei confini della città brulicante non smetteva mai di rammentargli la notte in cui c'era mancato un pelo che un killer appartenente a una gang gli sparasse e lo uccidesse. Non c'era dubbio che il pericolo era in agguato nelle ombre silenziose di alberi e cespugli. Uscito dal parco, Jack si ritrovò in Central Park West, l'arteria brulicante di traffico. Era come ritornare nella civiltà. Rallentando considerevolmente la velocità, si diresse a nord, zigzagando fra i gruppi di taxi che sfrecciavano veloci, con i clacson strombazzanti all'altezza della 106esima Strada svoltò a ovest. Sapendo di non avere troppo tempo da perdere, aveva deciso di andare direttamente a casa, ma non seppe resistere al canto della sirena rappresentato dal campo di basket. Anche se quella sera non poteva giocare, non ce la faceva a passargli davanti senza fermarsi almeno a vedere come se la cavavano gli altri. Il campo faceva parte di un più vasto cortile quasi tutto di cemento, con altalene, sabbiere e barre per far giocare i bimbi più piccoli, e le panchine per le madri. Jack adorava giocare a pallacanestro. Aveva giocato nell'Amherst, che non era mai stata una squadra tanto competitiva. Anni prima, quando si era trasferito a New York, un giorno si era avventurato in quel campo tanto per palleggiare da solo, per distrarsi, ma per combinazione i giocatori in quel momento erano solo nove. Così avevano abbassato i loro standard e gli avevano chiesto di unirsi a loro. Era stato immediatamente catturato dalle partite vivaci e spesso rudi. Ora, tempo permettendo, era quasi un rituale quotidiano. Per quasi un anno, Jack era stato l'unico bianco in mezzo all'orda di giocatori afroamericani, tutti piuttosto giovani. Ma nel corso degli anni seguenti si erano avventurati sul campo altri due bianchi, come pure un gruppo di afroamericani più vicini ai suoi quarantaquattro anni, Essendo un frequentatore abituale ed entusiasta del campo di basket, Jack aveva finanziato l'acquisto di nuovi tabelloni, nuove palle e delle lampade ai vapori di mercurio. Aveva compiuto questo gesto in parte filantropico e in parte interessato dopo negoziazioni con la locale leadership della comunità. Il patto finale stabiliva che avrebbe dovuto pagare anche per il rinnovamento delle altre attrezzature del parco giochi. Questo non gli era seccato, e lo aveva considerato un piccolo scotto da pagare per essere
accettato nel quartiere. Pedalò fino alla robusta rete metallica che separava il campo di basket dal marciapiedi. Senza togliere i piedi dai pedali, si tenne alla rete per restare in equilibrio. Come si aspettava, era in corso una partita, e i giocatori correvano in su e in giù per tutto il campo. «Ehi, Doc!» lo chiamò una voce. «Doc» era il soprannome che gli avevano appioppato. «Dove sei stato? Sposta il culo e vieni qui. Hai intenzione di correre o che cosa?» Guardò verso le linee laterali e vide il muscoloso Warren Wilson farsi saltellare una palla fra le gambe. La sua testa rasata luccicava sotto i lampioni. Era vicino a un gruppo di compagni in attesa di inserirsi nella partita. «Non ho tempo», rispose quasi gridando. Warren si staccò dagli altri e gli si avvicinò. Lo raggiunse Flash, uno dei giocatori più alti, il cui livello di abilità era più o meno come quello di Jack. Warren invece era ben al di sopra di entrambi. Jack accennò un saluto verso Flash, che glielo restituì. Poiché la loro abilità era simile, spesso si marcavano reciprocamente quando giocavano in squadre avversarie. Flash aveva l'irritante capacità di segnare quando il gioco era praticamente concluso, spesso vincendo la partita. Questo aveva fatto nascere un'amichevole rivalità. «Che cosa intendi, che non hai tempo?» volle sapere Warren, appoggiandosi alla rete. «La scorsa settimana non hai bazzicato tanto da queste parti. Mi pare che non hai le idee tanto chiare sulle priorità. Che cosa fai, lasci che il lavoro interferisca?» Gli piaceva stuzzicare Jack sulle loro diverse filosofie di vita. «Devo incontrare Laurie dall'altra parte della città alle otto e mezzo.» «Abbiamo dei giocatori vincenti», annunciò Flash. Aveva una voce baritonale particolarmente ricca e profonda. «Saremo io, Warren, Spit e Ron. Abbiamo posto per un altro, se riesci a portare qui il culo in tempo record. Sarebbe una partita da sballo.» «Mi stai tentando», ammise Jack. «Spazzeremo via 'sta squadra che sta vincendo», aggiunse Warren. «Ci sarà una nuova dinastia. Però, ehi, non ti dovremmo tenere lontano dalla tua piccola.» Jack diede un'occhiata all'orologio e poi alla partita in corso. Era tentato, ma non c'era modo di giocare senza arrivare tardi da Elio, anche se avesse fatto una sola partita. Alla fine dovette scuotere la testa. «Mi spiace, non
stasera.» «Natalie mi sta tampinando per uscire insieme, con te e con Laurie», disse Warren. «State facendo i preziosi.» «Lo dirò a Laurie», promise Jack, anche se non era troppo ottimista, considerato che non sapeva il suo segreto e temeva che se ne andasse da qualche parte sulla costa occidentale. Soltanto il pensarlo lo fece trasalire. «Ehi, amico, stai bene?» gli chiese Warren, chinandosi in avanti e guardandolo attraverso la rete. «Sì, certo», rispose lui, strappandosi da quella momentanea preoccupazione. «Tu e Laurie andate d'accordo? Voglio dire, non è che litigate, eh?» «No, no, andiamo d'accordo.» Era quasi una bugia, dato che in realtà lui e Laurie non avevano passato tanto tempo assieme, nell'ultimo mese. «Penso che faresti bene a venire qui a sgranchiiti le gambe appena ti è possibile», gli consigliò Warren. «Mi sembri teso.» «Hai ragione, ho bisogno di sgranchirmi le gambe. Domani sera vengo di sicuro.» Jack salutò gli altri e attraversò diagonalmente la strada per arrivare davanti al suo caseggiato. Sapendo che sarebbe uscito di nuovo di lì a poco, assicurò la bicicletta alla ringhiera della scala di ingresso, poi salì nel suo appartamento e si fece una doccia. Dopo essersi lavato, esaminò il suo scarso guardaroba alla ricerca di qualcosa da indossare, solo per infuriarsi con se stesso per quella stupida indecisione. Non riusciva a ricordare l'ultima volta che aveva avuto dei problemi nel decidere che cosa mettersi. Alla fine indossò i suoi soliti jeans, la camicia azzurra di cotone, la cravatta di maglia, di un blu più scuro, e la giacca di tweed con le toppe di pelle sui gomiti. Dopo una rapida spazzolata ai corti capelli per incoraggiarli ad andare tutti nella direzione che lui preferiva, ridiscese in strada e riprese la bicicletta. La pedalata attraverso il parco filò liscia, poi si diresse a sud della Quinta Avenue fino alla 49esima Strada, che seguì fino alla Seconda Avenue. Il ristorante era non lontano dall'incrocio Con le dita che gli tremavano leggermente, assicurò la bici con un bel numero di lucchetti, poi entrò nel locale, chiedendosi perché fosse così in ansia. Elio era affollato. Alla sinistra di Jack, al bancone del bar, i clienti erano fittamente assiepati. Alla sua destra c'era un gruppo di tavoli con il solito ornamento delle personalità televisive che stavano cenando. Spingendosi verso l'interno, scrutò gli altri avventori, alla ricerca del viso familiare di
Laurie e dei suoi lucenti capelli ramati. Non la vide. «Posso aiutarla?» chiese una voce, sopra il frastuono. Aveva un leggero accento tedesco. Jack si voltò e vide il viso sorridente del maître. «Abbiamo una prenotazione, credo», disse Jack. «Il nome?» «Penso sia Montgomery.» Il maître consultò il suo elenco. «Ah, sì, certo. La signora Montgomery non è ancora arrivata, ma uno degli altri membri del vostro gruppo è già qui. Si trova al bar. Vi farò avere il vostro tavolo in un attimo.» Jack si fece strada fra i clienti in piedi davanti al bancone e vide Lou seduto su uno degli alti sgabelli, che stringeva un bicchiere di birra e aspirava rapide boccate dalla sigaretta. Jack gli toccò un braccio e Lou alzò gli occhi su di lui, con l'espressione da cane bastonato. «Non sembri contento», osservò Jack. Lou spense la sigaretta, con aria colpevole. «Non lo sono. Sono in ansia. Mi hai fatto preoccupare tu, a proposito di Laurie, quando ne abbiamo parlato stamattina. Dato che ho passato con lei buona parte della giornata, non ho potuto fare a meno di notare che si comportava in modo strano, come se fosse tutta gasata per qualcosa. Quando finalmente ho avuto il coraggio di chiederle che cosa c'era in ballo, si è messa a ridere e ha detto che lo avrei scoperto stasera. Temo che lasci la città. Penso che forse ha trovato un posto da qualche altra parte. C'è richiesta di voi medici legali. Questo lo so per certo.» Jack non poté fare a meno di reprimere un sorriso. Guardare Lou era come guardare in uno specchio, e l'immagine era patetica. Evidentemente, Lou si era torturato proprio come lui, considerando la stessa possibilità. «Forza, ridi pure di me», lo invitò Lou. «Me lo merito.» «Ehi, non sto ridendo ti te. Sto ridendo di noi. Anch'io ho avuto la stessa identica idea. E ho perfino pensato a un posto: la costa occidentale.» «Davvero?» Jack annuì. «Non lo so se questo mi fa sentire meglio o peggio», ammise Lou. «È bello essere in compagnia, ma probabilmente vuol dire che ci abbiamo visto giusto.» Jack si scostò un po' all'indietro, per guardarlo meglio. Era impressionato. Il detective si era rasato, per togliersi la tipica ombra che gli si formava sul viso verso sera, e si era perfino impomatato i capelli in modo che sem-
bravano ancora bagnati dalla docciaai lati della scriminatura drittissima. Non indossava più la solita giacca sportiva tutta stazzonata e i pantaloni informi. Al loro posto c'era un completo ben stirato, una camicia fresca di bucato e una cravatta annodata in modo irreprensibile. Cosa più sorprendente di tutte, si era lucidato le scarpe! «Non ti avevo mai visto con un completo, prima d'ora», commentò Jack. «Sembri un modello da rivista, e non sto parlando di True Detectives.» «Di solito lo indosso soltanto ai funerali», confessò Lou. «Questo sì che è un pensiero allegro.» «Scusatemi», disse il maître, toccando il gomito di Lou, «il vostro tavolo è pronto. Preferite sedervi o restare qui al bar?» «Ci sediamo», decise in fretta Lou, desideroso di allontanarsi dal fumo. Il tavolo si trovava nell'angolo più lontano dalla porta, e per arrivarci occorse qualche abile manovra, dato che il locale era stipato di tavolini. Appena Jack e Lou si furono seduti, comparve un cameriere con una bottiglia di champagne ghiacciato, più due costose bottiglie di Brunello. Si diede subito da fare ad aprire lo champagne. «Ehi!» provò a fermarlo Jack. «Deve aver sbagliato tavolo: noi non abbiamo ordinato champagne!» «Non è la prenotazione a nome Montgomery?» domandò il cameriere. Parlava con un marcato accento spagnolo e aveva un paio di baffi a manubrio ormai fuori moda. Anche se Elio era un ristorante italiano, il personale era decisamente cosmopolita. «Sì, ma...» rispose Jack. «Allora è stato ordinato», replicò il cameriere, che stappò la bottiglia e la rimise nel secchiello del ghiaccio. Poi stappò una delle due bordolesi. «Mi sembra un buon vino», commentò Jack, prendendo in mano l'altra e guardando l'etichetta. «Oh, ottimo!» convenne il cameriere. «Torno immediatamente con i bicchieri.» Jack guardò Lou. «Questo non è il vino sfuso che bevo di solito.» «Sto diventando sempre più nervoso», gli confidò Lou. «Laurie è un tipo parsimonioso.» «Davvero», confermò Jack. Ogni volta che uscivano, lei insisteva sempre per pagare la propria parte. Appena il cameriere ritornò con i calici, si dispose a versare lo champagne. Jack tentò di dire che avrebbero aspettato la dottoressa Montgomery, ma il ragazzo insisté che stava eseguendo proprio gli ordini della signora.
Poi si allontanò e Jack sollevò la propria flûte. Lou seguì il suo esempio e fecero tintinnare i calici senza dire nemmeno una parola. Jack cercò di pensare a un brindisi, ma non gli venne in mente niente di arguto o di adatto alle circostanze. Assaggiarono in silenzio il vino spumeggiante. «Suppongo che sia buono», commentò Lou, «ma non sono mai stato un grande entusiasta dello champagne. Mi fa pensare di più a una cosa da spruzzare in giro per le vittorie sportive.» «Proprio quello che penso anch'io», gli diede corda Jack. Bevve un altro sorso e, nel farlo, vide Laurie al di sopra dell'orlo del calice affusolato. Indossava un comodo tailleur pantalone che sottolineava le sue forme innegabilmente femminili. Al collo aveva tre fili di perle. Jack la trovò talmente radiosa che per un attimo gli andò di traverso lo champagne. Lui e Lou si alzarono. I tavolini erano talmente appiccicati gli uni agli altri, che Lou diede al tavolo un colpetto che fece rovesciare il suo calice di champagne. Per fortuna Jack teneva il proprio in mano. «Ah, che imbranato!» si lamentò Lou. Laurie rise, prese un tovagliolo e asciugò lo champagne versato. Arrivò subito il cameriere ad aiutare. «Grazie a tutti e due per essere venuti», disse Laurie, e diede a entrambi un bacetto sulla guancia. Fu a quel punto che Jack si accorse che non era sola. Dietro di lei c'era un uomo dalla carnagione olivastra e molto abbronzato, dai folti capelli ondulati, con una bocca in cui faceva bella mostra di sé una fila di denti di un bianco accecante. Non era tanto più alto di Laurie, con il suo metro e settanta, ma emanava un'aria di forza e di sicurezza. Jack valutò che avesse più o meno la sua età. Indossava un completo di seta scura che faceva sembrare quello di Lou come se fosse stato preso a una svendita di fondi di magazzino. Dal taschino gli spuntava un vivace fazzoletto. «Voglio che conosciate Paul Sutherland», lo presentò Laurie. Le tremava un po' la voce, come se fosse nervosa. Jack strinse la mano del nuovo arrivato dopo Lou. Quando incrociò lo sguardo di Paul, si chiese dove finiva l'iride e dove cominciava la pupilla. Era come guardare nelle profondità di due pezzi di marmo nero. La sua stretta era ferma e risoluta. «Perché stiamo in piedi?» chiese Laurie. Paul reagì scostandole immediatamente la sedia dal tavolo. Seduta lei, gli altri la imitarono, e il cameriere si precipitò a colmare con lo champagne i calici di tutti e quattro.
«Vorrei proporre un brindisi», disse Laurie. «Agli amici.» «Bene! Brava!» esclamò Paul. Tutti fecero toccare i bicchieri tra loro e bevvero. Seguì qualche attimo di silenzio imbarazzato. Jack e Lou non avevano idea di come mai Laurie avesse portato un estraneo alla cena con loro due, ma non avevano il coraggio di chiederglielo. «Ebbene», ruppe infine il silenzio la stessa Laurie, «che giornata! Vero, Lou?» «Di sicuro», concordò lui. «Spero che non ti spiaccia se parliamo un po' di lavoro, Paul», si scusò Laurie, «ma il caso dello skinhead, che ti ho menzionato prima, ha tenuti occupati me e Lou per quasi tutto il giorno.» «Non mi spiace affatto», le assicurò Paul. «Sono sicuro che resterò incantato. Quella vecchia serie di telefilm con il protagonista che era un medico legale era uno dei miei preferiti.» «Paul è un uomo d'affari», si premurò di spiegare Laurie. Jack e Lou annuirono all'unisono. Jack si aspettava una spiegazione su che tipo di affari, ma Laurie cambiò argomento: «Oggi ho imparato sull'estremismo di destra molto più di quanto volessi sapere. In particolare sulle squadre paramilitari di destra e sugli skinhead». «Io non ero al corrente del ruolo della musica nel movimento skinhead», confessò Lou. «Quello che mi sorprende e mi spaventa è che il movimento paramilitare è diffuso per tutto il paese», continuò Laurie. «L'agente speciale Gordon Tyrrell valuta che ci siano quarantamila survivalisti armati sparsi per tutti gli Stati Uniti ad aspettare Dio sa cosa.» «Secondo me, aspettano che il governo imploda per il peso della sua enorme burocrazia», intervenne Paul. «Come una sorta di supernova. Allora i survivalisti saranno nella posizione non solo di sopravvivere, ma anche di prendere il potere.» «E loro gli stanno dando una mano», osservò Laurie. «L'agente Tyrrell ha detto che indebolire il governo è diventato la spiegazione razionale della violenza, ora che l'Unione Sovietica non è più il nemico archetipico.» «Anche la vendetta è una spiegazione razionale», aggiunse Lou. «Pensate a Timothy McVeigh. A quanto pare, stava cercando di rendere pan per focaccia al governo per il raid contro i Branch Davidian a Waco, nel Texas.» «Allora mi ero illusa che Timothy McVeigh fosse un'anomalia», disse
Laurie, «ma non è così, ed è questo che mi terrorizza. Ci sono in giro quarantamila potenziali Timothy McVeigh. Nessuno sa dove qualcuno di loro colpirà, la prossima volta, e con quale pretesto.» «O con che cosa», intervenne Jack. «Ve la ricordate la lezione tenuta per noi da Stan Thornton, dell'ufficio municipale gestione emergenze? Non è inconcepibile che uno di quei folli metta le mani su un'arma di distruzione di massa.» «Il Signore ci aiuti, se questo dovesse mai accadere», commentò Laurie. «Secondo Gordon Tyrrell non è questione di se», replicò Lou. «Il suo dipartimento antiterrorismo ritiene che la questione sia quando. Pensate solo a tutte le armi nucleari che non sono state completamente eliminate, in quella che era l'Unione Sovietica.» «Ordiniamo la cena», propose Laurie, scuotendo la testa demoralizzata. «Se parliamo ancora un po' di queste cose perderò l'appetito.» Il cameriere si avvicinò al tavolo nell'attimo stesso in cui lo chiamarono. Sparò a raffica un elenco impressionante di piatti specialissimi, mentre intanto distribuiva fra tutti e quattro lo champagne rimasto. Raccolte le ordinazioni, sparì in cucina. «Ho un'ultima domanda riguardo al tuo caso dello skinhead», disse Jack a Laurie. «Hai trovato niente, con l'autopsia, che fosse utile all'FBI?» Lei sospirò e guardò l'amico poliziotto. «Non mi pare. Che cosa ne dici, Lou?» «La tua impressione che le ferite da taglio siano state inferte con un coltello dall'estremità seghettata potrebbe rivelarsi utile. Ammesso che salti fuori il coltello. Anche la pallottola che hai estratto dal cervello potrebbe esserci d'aiuto, ma è difficile dirlo, finché non la esamineranno quelli della sezione balistica. Il fatto che i chiodi usati per la crocifissione fossero di fabbricazione polacca non ci sarà d'aiuto, perché ho scoperto che se ne trovano in giro con facilità.» «Allora, questo Esercito Ariano del Popolo è ancora un'entità metropolitana ignota?» domandò Jack. «Temo di sì», rispose Lou. «L'unica cosa rassicurante è che il traffico Internet che li riguarda è calato all'improvviso. Speriamo che ciò che stavano progettando sia stato annullato.» «Speriamo», mormorò Jack. Cominciarono ad arrivare gli antipasti, e fu versato il vino rosso. Tutti e quattro si concentrarono per un po' sul cibo e la conversazione fu minima. Jack guardò Laurie senza farsi notare dagli altri, ma non riuscì a incrociare
il suo sguardo. «Raccontaci del tuo caso di oggi», lo spronò lei. «Ho sentito che era interessante.» Jack dovette schiarirsi la gola. «Sorprendente, sì, interessante... in un certo senso. Era un caso di carbonchio polmonare.» «Carbonchio?» chiese Lou con evidente interesse. «È una potenziale arma batteriologica.» «Sì, infatti. Ma per fortuna, o per sfortuna, dipende dal vostro punto di vista, quel caso ha un'origine più prosaica. Il deceduto aveva appena importato un carico di tappeti dalla Turchia, dove la malattia è endemica. Apparentemente è l'unica vittima, e i tappeti sono al sicuro, chiusi a chiave nel magazzino di Queens. Fine della storia. Non sono nemmeno riuscito a far smuovere l'epidemiologo municipale.» «Grazie a Dio, allora!» esclamò Laurie. «Amen», aggiunse Lou. Arrivarono i primi piatti e per tutta la durata della cena la conversazione si mantenne su argomenti neutri. Il fatto che Laurie tardasse ad affrontare la vera questione, qualunque fosse, rendeva Jack sempre più curioso e ansioso. La sua ansia era aumentata dalla sottile e (così almeno la percepiva lui) inopportuna familiarità fra Laurie e Paul. La notava nel modo in cui lei gli toccava il braccio e in come lui le strofinava un angolo della bocca con il tovagliolo. Per lui quei piccoli gesti di intimità erano inappropriati perché sapeva che Laurie non poteva conoscere Paul da lungo tempo. Finalmente, al momento del caffè, Laurie si schiarì la gola e batté delicatamente la forchetta contro il bicchiere. Paul si stampò in faccia un sorriso di autocompiacimento e si appoggiò allo schienale della sedia. Era evidente che a gestire la serata era Laurie. «Immagino che vi chiediate come mai vi ho invitati qui stasera», cominciò. No, l'idea non mi è mai nemmeno passata per la mente, si disse Jack, mentre gli acceleravano le pulsazioni. «Non so proprio come dirvelo...» cominciò Laurie e guardò Paul, che si strinse nelle spalle, come a dire che non lo sapeva nemmeno lui. Sputa il rospo, prima che mi venga da vomitare, pensò Jack. «Intanto, mi devo scusare con tutti e due», riprese Laurie, guardando alternativamente Jack e Lou. «Mi spiace di avervi dovuto chiamare così di prima mattina. Per lo meno, di prima mattina per il vostro fuso orario.» Jack sbatté le palpebre. Non la seguiva più. Perché il loro fuso orario era
diverso dal suo? «La spiegazione è che vi stavo chiamando da Parigi», continuò Laurie. «Paul e io ci siamo andati a passare il weekend, e stavamo aspettando di salire a bordo del Concorde per tornare a New York.» Paul annuì per confermare quella storia sorprendente. «Paul ha degli affari a Parigi», spiegò Laurie, «ed è stato tanto carino da invitarmi ad andarci con lui. È stato proprio un weekend meraviglioso!» A questo punto guardò Paul e allungò verso di lui la mano destra. Lui la prese fra le sue con atteggiamento adorante. Jack sorrise a denti stretti. All'improvviso vedeva Paul come un essere infido che era riuscito a conquistare Laurie con quel gesto magnanimo e galante. Un weekend a Parigi. «È successa una cosa del tutto inattesa», continuò Laurie. «Almeno, per me.» A quel punto tirò fuori da sotto la tavola, dove l'aveva tenuta con discrezione per tutta la cena, la mano sinistra. Tenendola serrata a pugno, distese il braccio sulla tovaglia. Solo quando fu completamente disteso, si decise ad aprire il pugno, con mossa teatrale, e ad allargare le dita. Jack e Lou sbatterono le palpebre. Si ritrovarono a fissare un diamante che sembrava grande quanto una palla da golf e che campeggiava sull'anulare di Laurie. Catturava tutta la luce della stanza e la rifletteva con un'intensità accecante. «State per sposarvi», disse Lou, come se descrivesse un imminente cataclisma. La coppia interpretò il suo tono come se fosse dovuto alla meraviglia e non al terrore. «Sembra proprio di sì», replicò Laurie con un sorriso. «Non ho ancora acconsentito in modo incondizionato, ma, come vedete, Paul mi ha convinta a prendere l'anello. Non lo abbiamo ancora detto ai nostri genitori. Voi due siete i primi a saperlo.» «Ne siamo lusingati», riuscì a dire Jack, mentre la mente gli turbinava alla ricerca di una spiegazione per la piega che avevano preso gli eventi. Aveva pensato che Laurie fosse troppo matura per ciò che lui considerava un comportamento adolescenziale. «È stato un turbine», affermò Laurie, e guardò Paul in cerca di conferma. «Io lo descriverei piuttosto come una tempesta», replicò lui, con una lasciva strizzatina d'occhi.
Poi entrambi si lanciarono in un'animata descrizione di tutte le cose romantiche che erano riusciti a fare nel mese precedente. Jack e Lou si ridussero ad annuire quando occorreva, mantenendo un sorriso forzato. Quando tutte quelle storie giunsero alla fine, Paul si alzò e si scusò. Laurie lo guardò allontanarsi in direzione dei servizi. Voltandosi di nuovo verso i suoi due vecchi amici, sospirò. «È proprio meraviglioso, vero?» Jack e Lou si guardarono, ognuno sperando che fosse l'altro a dire qualcosa. «Che cos'è, uno sketch da avanspettacolo?» chiese Laurie, mentre il sorriso di beatitudine le spariva dal viso. «Che cosa avete, tutti e due?» «Questa situazione ci ha presi alla sprovvista», ammise infine Jack. «Avevamo entrambi immaginato che avessi ricevuto un'offerta di lavoro e che te ne andassi da un'altra parte, allontanandoti da noi. Non avevamo certo pensato che ti saresti sposata.» «E perché? È quasi insultante. Che cosa sono, troppo vecchia?» «Non intendevo in quel senso», replicò Jack, in tono mite. «Da quanto tempo conosci quell'uomo?» domandò Lou. «Da un paio di mesi», rispose Laurie, sulla difensiva. «Lo so che non è un periodo lungo, ma non penso che sia così importante. È intelligente, sensibile, generoso, sicuro di sé e inoltre è desideroso e capace di prendere un impegno. E sono tutte qualità importanti, per quanto mi riguarda. In particolare la fiducia in sé e la capacità di assumersi un impegno.» Jack e Lou non poterono fare a meno di sentirsi accusati. «Non posso crederci», commentò Laurie. «Voi due, fra tutte le persone che conosco, avrei pensato che foste felici per me.» «Di che genere di affari si occupa?» chiese Jack. «Che domanda è questa?» «Solo una semplice domanda.» Il tono di Jack si era fatto timido. «Per dirti la verità, non lo so», ammise Laurie. «E in realtà non mi importa. È lui che mi interessa, non quello che fa per vivere. Voi uomini siete impossibili.» «I tuoi genitori lo conoscono?» domandò Lou. «Certo. L'ho incontrato tramite loro.» «Questa è una cosa positiva», commentò Lou. Laurie emise una risata amara. «Non è così che mi ero immaginata questa serata.» Né Jack né Lou sapevano che cosa dire. Per fortuna, furono salvati dal
ritorno di Paul. Il futuro sposo era di un umore spumeggiante, del tutto ignaro di ciò che era emerso durante la sua assenza. Fece per sedersi, ma Laurie si alzò. «Credo sia ora di andare», propose. «Non beviamo qualcosa al bar?» chiese Paul. «Penso che abbiamo già bevuto abbastanza», replicò lei. «E, come direbbe Jack, domani è giorno di scuola.» Jack sorrise debolmente. Accorgersi di aver deluso Laurie lo faceva solo sentire peggio. Si alzò anche lui. «Congratulazioni, ragazzi!» esclamò con falso entusiasmo. «Considerata l'occasione, saremo io e Lou a offrire.» «È già tutto sistemato», ribatté Paul con aria di superiorità. «Offriamo noi.» «Io preferirei pagare la mia parte», insisté Jack. «Sarebbe giusto.» «Stupidaggini», chiuse l'argomento Paul, poi strinse la mano a lui e a Lou. «È stato un vero piacere conoscere i due amici più cari di Laurie. Non vi dico quanto parla bene di voi, e quanto spesso. Abbastanza da esserne gelosi.» Rise. «Ci vediamo domani in ufficio», si accomiatò Laurie. Si voltò e si dispose ad attraversare il locale gremito. Paul fece un ultimo gesto di saluto e si affrettò a seguirla. Jack guardò Lou. «Che cosa hai voglia di fare?» «Andare a casa e spararmi.» «Vuoi compagnia?» Entrambi si accasciarono sulle rispettive sedie. Jack era scioccato. Il fatto che Laurie si sposasse era peggio che se fosse andata lontano. Invece di trasferirsi sulla costa occidentale, era come se andasse su Venere. Quell'episodio lo aveva scosso talmente da renderlo conscio di quanto evitasse i pensieri riguardo al futuro. I sensi di colpa per la sua famiglia gli rendevano ancora difficile giustificare la felicità futura. Ecco perché trovava tanto difficile prendere un impegno. Lou affondò la testa fra le mani. Era l'immagine dello scoraggiamento. «Io mi ero preoccupato che Laurie si sposasse», ammise. «In particolare con te.» «Con me?» Jack era sorpreso. «In realtà, io mi preoccupavo che si sposasse con te. So che voi due uscivate insieme, prima che comparissi io sulla scena.» «Non avresti dovuto preoccuparti», gli assicurò Lou. «Non sarebbe successo. Non avrebbe mai funzionato. Durante il breve periodo in cui ci fre-
quentavamo regolarmente, ho sciupato tutto. Ogni volta che c'era la minima quisquilia, pensavo che volesse rompere e mi comportavo da stupido. Questo ci ha tirati scemi tutti e due, e abbiamo finito con il fare una lunga chiacchierata al proposito. Stasera, quando ha detto che la fiducia in sé è un'importante caratteristica della personalità, si riferiva a me.» «La parte riguardo alla capacità di prendere un impegno era indirizzata a me», gli confidò Jack. «Che problema c'era fra voi due? Non posso davvero immaginare che cosa sia successo. Sembravate fatti l'uno per l'altra. Lo sai, ambiente di provenienza simile, studi impegnativi, e tutto il resto di 'ste stronzate.» «Questo sì, ma io sono talmente incasinato che non so nemmeno tutte le ragioni.» «È una tragedia!» si lamentò Lou. «Per te e per me. Almeno, se avesse preso al laccio te, io sarei rimasto amico con tutti e due. Quando sposerà questo bellimbusto, io resterò escluso. Voglio dire, avevo fatto delle fantasie su me e Laurie che restavamo amici anche quando si fosse sposata. Ma stasera quando ho visto quel ciottolo che ha al dito ho capito all'istante che restare amici nel modo che pensavo è fuori questione.» «Credo che fosse irrealistico pensare che il presente non sarebbe cambiato mai», commentò Jack. Lou annuì, poi pensò un momento, prima di chiedere: «Che cosa ne pensi di quel tipo?» «Una serpe», rispose Jack senza esitare. «Ma non so quanto riesco a mantenermi obiettivo. È evidente che sono geloso. Mi seccava vedere come continuavano a toccarsi.» «Anche a me, come una carezza contropelo», confessò Lou. «Si comportavano come due adolescenti. Era disgustoso. Ma anch'io ho dei dubbi sulla mia obiettività. Eppure tutto mi sembra troppo rapido, come se il tizio volesse solo il suo denaro... anche se lei non ne ha. Certo, questo può essere il punto di vista del cinico investigatore.» Jack scosse la testa, demoralizzato. «Possiamo starcene qui seduti a dire cose cattive su di lui, ma il fatto è che è molto più spontaneo di noi e ha tanti più soldi. Voglio dire, andare a Parigi per il weekend! Io non lo potrei fare di certo. Starei a preoccuparmi di quanto mi costa, e questo mi manderebbe fuori di testa, e così sarebbe uno sfacelo stare insieme a me.» «Divento furibondo se penso che ci sono persone che possono fare questo genere di cose», rincarò la dose Lou. «Con quello che devo versare per gli alimenti e per tirar su due figli; sono fortunato se mi restano due niche-
lini da mettere assieme.» «Invidioso sarebbe una parola più adatta di furibondo», lo corresse Jack. Lou spinse indietro la sedia e si alzò. «Meglio che me ne torni a casa e vada a letto, prima di deprimermi troppo. Sono due giorni interi che non dormo.» «Sto con te», disse Jack. Si fecero largo attraverso il ristorante gremito, sentendosi ancora più depressi per il contrasto con l'atmosfera festosa. 8 Lunedì 18 ottobre, ore 22.15 Dopo che Steve e Curt se n'erano andati, Yuri era sceso nel suo adorato laboratorio. Come prima cosa, aveva riparato i danni provocati da Connie con la rottura dei lucchetti. Per essere più tranquillo, aveva applicato i catenacci alla porta con dei robusti rivetti, anziché fissarli con le viti; in questo modo un eventuale intruso avrebbe avuto bisogno di qualcosa di più di un piede di porco per tirarli via. Mentre lavorava, aveva pensato alla visita di Curt e Steve: lo aveva lasciato confuso. Era stato preso alla sprovvista dalla loro collera, in particolare quando lo avevano rimproverato per essere passato dalla caserma dei pompieri. La spiegazione datagli, che costituiva un rischio perché lui era uno straniero con l'accento russo, non gli suonava vera. New York era una città troppo cosmopolita. Una persona su due aveva un accento straniero. Lui pensava che ci fosse un altro motivo dietro al fatto che non lo volevano lì. Anche se non gliene veniva in mente nessuno, si sentiva a disagio. Per la prima volta cominciò a chiedersi in che situazione si trovava, con quei due. Sapeva che avevano forti pregiudizi, quindi gli passò per la mente che potevano averne anche contro di lui, e se le cose stavano così non erano di certo gli amici che lui si immaginava. L'altro motivo della loro collera (il fatto che Connie fosse nera) era egualmente misterioso. Non era tanto il pregiudizio in sé che sorprendeva Yuri. Si rendeva conto del fanatismo di entrambi. Quello che lo stupiva era tutta quella collera esagerata. Era talmente sproporzionata, che la spiegazione pseudoreligiosa offerta da Steve gli era parsa inventata. Né lui né Curt avevano mai detto niente da far pensare che fossero così devoti. E infine c'era la questione del camion con il nebulizzatore da pesticidi.
Yuri non capiva perché non glielo avessero ancora procurato. Faceva parte dell'accordo. Senza non avrebbe potuto svolgere la sua parte dell'operazione. Aveva bisogno di uno spruzzatore e doveva essere mobile, o l'efficacia dell'azione sarebbe stata decisamente inferiore. Per aggiustare la porta interna indossò la tuta protettiva completa di respiratore e aprì la valvola dell'aria compressa. Il regolatore non era di quelli usati dai sommozzatori, a flusso regolabile. Produceva un flusso costante d'aria all'interno della tuta, in modo da impedire l'ingresso a qualsiasi particella presente nell'ambiente. Era molto più difficile lavorare con addosso quella specie di scafandro, e faceva molto caldo, ma a lui non importava. Sapeva che rischio correva se non l'avesse indossato. Comunque, lo rallentava molto. Sistemata la porta, rivolse l'attenzione al fermentatore con il Clostridium botulinum. Verificò la concentrazione batterica e, di nuovo, rimase deluso. Non riusciva a capire come mai la coltura continuasse a crescere con tanta lentezza. Per quanto ne sapeva, aveva ricreato scrupolosamente le stesse condizioni della coltura che avevano consentito un'ottima riuscita quando, un decennio prima, lavorava in Unione Sovietica. Le condizioni erano state determinate per produrre un massimo di crescita colturale e un massimo di produzione di tossina. L'unica cosa a cui riusciva a pensare era che nel fermentatore entrasse l'aria. Il Clostridium botulinum era un batterio che cresceva e si riproduceva in assenza di ossigeno. Di conseguenza, aveva usato del diossido di carbonio invece dell'aria. Forse c'era qualcosa che non andava con la bombola di diossido di carbonio procuratagli dagli uomini di Curt. Purtroppo, lui non aveva modo di verificarlo, e per chiedere una nuova bombola ci sarebbe voluto troppo tempo. Si chinò per controllare la temperatura interna del fermentatore. Era di pochissimi gradi inferiore a quella ottimale, quindi regolò il termostato a immersione che aveva costruito alla meglio. Avere la temperatura più bassa non era l'ideale, ma non costituiva una spiegazione adeguata per la lentezza della crescita. Pensò al suggerimento di Curt di dedicare al carbonchio il fermentatore del Clostridium, in modo che entrambe le attrezzature producessero spore di carbonchio. Era un'idea che aveva molti punti a suo favore. Sarebbe stato l'unico modo per produrre materiale sufficiente per entrambe le azioni, nei limiti di tempo che si erano posti. Il problema era che interrompere il lavoro del fermentatore e predisporlo per un altro tipo di attività non era
una cosa da nulla, e lui al momento aveva un'altra preoccupazione: Connie. Si avvicinò alla cappa di sicurezza e accese il ventilatore. Sulla parete di vetro che delimitava la cappa sul davanti erano praticate due aperture rotonde a cui erano fissati due guanti di gomma spessa, che si protendevano all'interno. Yuri vi infilò le mani, già protette da un altro paio di guanti più leggeri. Sollevò con precauzione la provetta con la produzione più recente di tossina del botulino e ne versò parte del contenuto in una piccola fiala di vetro. Per concentrare e purificare la tossina, aveva usato la tecnica della precipitazione acida. Dopo aver sospeso nuovamente la tossina in uno stabilizzatore acquoso, l'aveva fatta riprecipitare con solfato di ammonio per formare un amalgama cristallino di pura tossina, combinata con una proteina stabilizzante. Poi lo aveva seccato fino a ridurlo in polvere. Quando lavorava con la tossina del botulino, Yuri era meno preoccupato della propria sicurezza di quando maneggiava la polvere di carbonchio. Anche se era stato vaccinato contro tutti e due gli agenti patogeni, quando si trovava in Unione Sovietica, si fidava di più dell'immunità acquisita contro la tossina che di quella contro le spore di carbonchio. Dopo aver sigillato la piccola fiala, ne lavò l'esterno e infine la estrasse dalla cappa. Poi si sottopose alla prima fase di disinfestazione e decontaminazione, ponendosi sotto la doccia e versandosi addosso un'intera tanichetta di candeggina. Lasciando il laboratorio, passò alla seconda fase: un'altra doccia e una dose maggiore di candeggina. Soltanto allora si tolse la tuta e spense la bombola dell'aria compressa, riappendendole ai rispettivi pioli. Poi portò la fialetta in cucina, muovendosi con precauzione, e la nascose sul fondo del pensile che conteneva le stoviglie. Cercando di rendersi insensibile all'inevitabile violenza che stava per compiere, si avvicinò alla porta di Connie e l'aprì. Come al solito, sua moglie era adagiata sul letto a guardare la televisione, anche se adesso il materasso era sul pavimento. «Che cosa vuoi?» bofonchiò. Si stava reggendo una borsa del ghiaccio contro l'occhio gonfio. «Voglio ordinare la pizza», rispose Yuri. «Pensavo che forse hai fame.» Connie spostò dal viso la borsa del ghiaccio e guardò incuriosita il marito. «Che cosa ti succede?» gli chiese in tono sarcastico. «Da quando in qua ti importa se ho fame?»
«Mi sento in colpa per averti picchiata.» Yuri cercò di avere un tono sincero. «Mi spiace.» «Mi spiace un corno», replicò lei. «Se dici così perché rivuoi indietro la tua TV, ti avviso che non funziona.» «Non rivoglio la mia TV. E mi spiace di aver rotto la tua. Ero fuori di testa.» «Ah, è una novità?» «Non capisci.» Yuri cercava di avere l'aria contrita, oltre che sincera. «Quel laboratorio, lì sotto, è importante per me.» «Come se non lo avessi immaginato, considerato il tempo che ci passi.» «È il mio biglietto vincente per uscire da questo casino. Voglio dire, il nostro biglietto.» Connie abbassò il volume del televisore e si tirò su, appoggiandosi ai gomiti. «Che cosa vorresti dire?» «Sto cercando di rientrare nel campo della microbiologia», spiegò Yuri. «Ho bisogno di esercitarmi e di provare che so quello che faccio. Così magari potrei ottenere un lavoro decente. Non voglio guidare un taxi per il resto della vita.» «Di che genere di lavoro stai parlando?» «Qualsiasi cosa nel campo della microbiologia. Quegli uomini che erano qua prima mi stanno aiutando, ma si preoccupano. È contro la legge avere un laboratorio come questo in una casa privata, e se vado nei guai io, ci vanno anche loro.» «Pensavo che avresti dovuto tornare a scuola se volevi fare un lavoro con i batteri.» «Non è necessario, se faccio qualcosa che provi che sono qualificato. E se lo faccio e ottengo un buon lavoro, potremo ricominciare una nuova vita. Sai, uscire come facevamo prima.» «Già, certo, quando l'inferno si ghiaccerà.» «Succederà», promise Yuri. «Ma per adesso, la vuoi la pizza?» «Va bene, perché no?» rispose Connie. «Peperoni e acciughe. E fagli portare una pinta di gelato al pecan.» «Bene.» Yuri fece un sorriso forzato e richiuse la porta. Una cosa era certa. Niente sembrava rovinare l'appetito di quella donna. Ma non si lamentava per il gelato, infatti pensava che fosse l'ideale per mescolarvi la tossina del botulino, e inoltre era sicuro che lo avrebbe mangiato tutto. Usò il telefono a parete della cucina per chiamare la pizzeria più vicina. Fece l'ordinazione per Connie, e per sé scelse una pizza normale, con moz-
zarella, pomodoro e basilico. Appena prima di riattaccare chiese anche una porzione piccola di insalata mista e un caffè. Si era reso conto che sarebbe stata una notte lunga. Si mise a camminare su e giù per l'appartamento. Più il tempo passava, più diventava nervoso. Anche se, parlando con Curt, si era mostrato sicuro di sé, non sapeva con certezza che cosa sarebbe accaduto dopo che Connie avesse ingerito la tossina. Uno dei problemi era che non aveva idea di quanta ne doveva usare. Ne avrebbe mescolata un po' nel gelato, sperando per il meglio. Tutto ciò che sapeva era che sarebbe stato meglio sbagliare per eccesso che per difetto. Se Connie fosse stata male e avessero sospettato il botulismo, lo avrebbero colto con le mani nel sacco, scoprendo il laboratorio sotterraneo. I colpi alla porta lo fecero sobbalzare. Si aspettava quasi dei guai in vista, ma guardando attraverso le veneziane si tranquillizzò: era il ragazzo che portava la pizza. Yuri aprì, pagò e prese i pacchetti. Le due pizze erano nelle confezioni termiche ed erano ancora bollenti. Yuri spinse da parte la carta del fast-food che Connie aveva lasciato sulla tavola, depose i cartoni delle pizze e il sacchetto con l'insalata, il caffè e il gelato. Ciò che gli interessava era il gelato. Lo estrasse dal sacchetto e lo pose sul ripiano. Il barattolo di carta plasticata era leggermente morbido: a differenza delle pizze, il gelato non era stato messo in un contenitore termico. Uscendo in punta di piedi dalla cucina, Yuri arrivò fino alla porta di Connie e vi poggiò contro l'orecchio. Sentiva chiaramente la televisione, quindi Connie doveva essere ancora distesa sul letto. Tornò in cucina e si diede da fare ad aprire la confezione del gelato senza rompere il coperchio. Una volta riuscitoci, si chiese come metterci la tossina. Temeva che, se fosse rimasta in un unico boccone, Connie avrebbe sentito il sapore cattivo e avrebbe sputato. Dopo aver pensato a diverse soluzioni, rovesciò almeno metà del gelato in una scodella, poi prese la fialetta dal pensile dei piatti e, trattenendo il fiato, ci versò sopra parte del contenuto. «Oh, al diavolo!» mormorò, e versò anche il resto. In totale era solo un pizzico, ma era una dose enorme, se la tossina era letale come supponeva. Probabilmente sarebbe bastata a eliminare tutti gli abitanti di Brighton Beach. Sciacquò la fiala nel lavello e fece scorrere l'acqua. Con una forchetta mescolò il gelato meglio che poté, poi prese un cucchiaio e con quello lo
rimise nel barattolo di carta. Questo si dimostrò più difficile del previsto, perché sembrava che ci fosse più gelato che all'inizio. Dovette premerlo per bene, per farcelo stare tutto. Quando ebbe finito, richiuse la confezione, facendo del suo meglio perché non si capisse che era stata aperta. Poi lavò la scodella. Comunque, giurò a se stesso che non l'avrebbe usata mai più. Alla fine di quella serata l'avrebbe gettata via, assieme alla forchetta. Si lavò le mani accuratamente, prese un cucchiaio pulito e, reggendo pizza e gelato, si diresse verso la stanza di Connie. «Ce n'è voluto!» commentò lei quando lo vide aprire la porta. «Dove vuoi che te lo metta»? chiese Yuri. «Lì per terra», rispose lei, senza staccare gli occhi dalla TV. Yuri si chinò e appoggiò il cibo sullo scendiletto. Pose il cucchiaio in cima al vasetto del gelato e si raddrizzò. Fu allora che Connie sollevò lo sguardo. «Ehi, non lo voglio il gelato!» esclamò. «Come?» Yuri era costernato. «Mettilo in frigo! Lo mangerò dopo la pizza e non voglio che si squagli.» «Va bene», replicò lui, sollevato. Prese gelato e cucchiaio e si avvicinò alla porta. «Che cos'hai, ragazzo?» gli chiese la moglie. «Non ti ho mai visto così gentile.» «Te l'ho detto, mi sento in colpa.» «Vorrei che ti sentissi in colpa più spesso.» Yuri tornò in cucina. Masticando all'indirizzo di Connie qualche insulto scelto, mise il gelato nel freezer. Aveva le tempie che gli pulsavano da impazzire. Aveva bisogno di una vodka. Come si era aspettato, sarebbe stata una lunga notte. «Okay, chiudete il becco tutti quanti!» Curt si impose al di sopra del baccano. Aveva indetto una riunione dell'Esercito Ariano del Popolo e il disordinato gruppetto si era raccolto nella sala da biliardo del White Pride. Il proprietario del bar era Jeff Connolly, una vecchia conoscenza di Curt. Jeff non faceva parte ufficialmente del gruppo, ma simpatizzava per le sue posizioni, abbracciandone i principi antigovernativi, antineri, antisemiti, antispanici, antimmigrazione, antifemministi, antiNAFTA, antiaborto, antigay. Era più che felice di liberare la sala da biliardo ogni volta che l'EAP aveva bisogno di riunirsi.
Dietro insistenza di Curt, l'organizzazione del suo grappo era completamente clandestina. Non c'erano tessere di iscrizione né elenchi dei membri. Spronava i compagni a non usare mai i nomi, anche se lui e Steve lo facevano, quando comunicavano via Internet con altri gruppi paramilitari. Altrimenti, la comunicazione passava di bocca in bocca, da una persona all'altra. Per indire la riunione di quella sera non c'erano state telefonate né lettere. La gente aveva dovuto cercarsi a vicenda. Ciò che rendeva facile la cosa era che la maggior parte di loro frequentava il White Pride abbastanza abitualmente. Curt aveva reclutato otto skinhead usando i metodi appresi da Tim Melcher. Isolava un adolescente in uno dei tanti bar skinhead della zona e avviava una conversazione che assomigliava a un'intervista. Ogni volta che a Curt pareva di trovare nel ragazzo un terreno fertile, passava all'ideologia. Era facile, dato che gli skinhead erano propensi a entrare in un'organizzazione e a focalizzare su qualcosa di concreto la loro disposizione alla violenza. Inoltre, per esperienza personale, Curt sapeva quali erano le loro difficoltà e i risentimenti ed era in grado di soffiare sul fuoco del fanatismo e dell'odio. Ma tenere un tale gruppo sotto una parvenza di controllo non era facile. Intanto, molti di loro erano stupidi, come Yuri, e mancavano di un'adeguata attenzione per la sicurezza. Un esempio era stato aver accettato Brad Cassidy, quando si era avvicinato a un paio di loro. Si erano bevuti la sua storia. Ma Curt no. Prima di tutto, lui sospettava di chiunque non provenisse dagli immediati paraggi. Secondo, nessuno era considerato parte del gruppo finché non era stato intervistato da lui. Quando finalmente lo aveva fatto, Brad si era contraddetto diverse volte. Poi, con un po' di aiuto da parte del coltello e l'uso adeguato di un filo d'acciaio, era venuta fuori la verità. Era una spia del governo. L'altro problema era la fame di violenza, una caratteristica che Curt voleva incanalare. Dapprima aveva pensato che fra una missione e l'altra sarebbe bastato parlare di atti violenti per soddisfare i loro impulsi. Ma era venuto fuori che parlare non era sufficiente. Di tanto in tanto, Curt doveva rischiare lo scontro con le autorità, quando lasciava i ragazzi liberi di andare in giro per Brooklyn o anche per Manhattan a cercare qualcuno da pestare. Anche i vestiti e i tatuaggi lo preoccupavano. Aveva cercato di mitigare il loro stile di abbigliamento; sostenendo che le azioni avrebbero parlato per loro. Potevano essere più efficaci, diceva, se riuscivano a mescolarsi
agli altri. Ma era stato come parlare a un muro. Nelle teste rasate, nei gadget nazi, negli scarponi neri c'era qualcosa che li attirava in modo viscerale. Non c'era verso di convincerli a cambiare idea. «Su, ragazzi!» intervenne Steve. «Avete sentito Curt. Ascoltate!» Kevin Smith e Luke Benn si misero ritti impalati contro il tavolo da biliardo. Battendo le loro stecche per terra si disposero a prestare attenzione. Stew Manson, che stava discutendo con Clark Ebersol e con Nat Jenkins, si voltò vero Curt, barcollando. Era dalle otto che beveva birra ed era completamente partito. Mike Compisano, Matt Sylvester e Carl Ryerson sollevarono la testa dalla turbolenta partita a carte. In mezzo a quella piccola folla, Carl si distingueva per la svastica tatuata proprio in mezzo alla fronte. «Stanotte abbiamo una missione», annunciò Curt. «Richiederà finezza, che non sono certo che sappiate bene cos'è.» Da qualcuno del gruppo si levò una risatina. «Dobbiamo andare a Long Island», continuò Curt. «Fino agli Hampton, per essere esatti, a rubare un camion.» «Non occorre andare a casa del diavolo per un camion», obiettò Stew, con la voce impastata. «Qui a Brooklyn ce n'è quanti ne vuoi, di camion.» «Stiamo parlando di un camion speciale», spiegò Curt. «Chi è capace di salire rapidamente su un veicolo e metterlo in moto senza le chiavi?» Quasi tutti si voltarono verso Clark Ebersol. «Immagino io», si offrì Clark. Era un tipo sottile, con il cuoio capelluto irregolare, il che rendeva un'impresa raderlo. «Rubo macchine da quando avevo dodici anni.» Adesso lavorava in un garage della zona. «Compisano va bene se c'è un allarme elettronico», disse Kevin. Aveva la chioma rossa, come Steve, ma così rasato era difficile da capire, tranne per le numerosissime lentiggini. Era anche il più giovane del gruppo, avendo solo sedici anni, però era grande e grosso. Gli altri andavano dai venti ai ventidue anni. Il più vecchio era Luke Benn. «Io sono abituato agli allarmi delle case, non a quelli delle auto», si schermì Mike Compisano. Nonostante il cognome italiano, era newyorkese di nascita. Aveva le sopracciglia di un biondo quasi trasparente, e questo gli dava un'aria di perenne sorpresa. «Per lo meno tu ne sai qualcosa di allarmi», osservò Curt. «Potrebbe farci comodo. Allora, tu e Clark verrete con me e Steve. Il resto andrà con il camioncino di Nat.» Di tutti loro, Nat era quello che stava meglio, economicamente. Suo fratello era nel giro della raccolta di immondizia. Aveva
un pickup con la cabina grande, come quello di Curt, con due file di sedili. «Stew, tu resti qua», ordinò Curt. «Con il cavolo che resto!» sbraitò lui. «Io partecipo all'azione.» «È un ordine! Sei fatto. Mi sa che ti sei scolato almeno cinque birre più degli altri. Non voglio mettere a repentaglio questa azione.» «Se sei stronzo!» si lamentò Stew. «Niente discussioni!» Il tono di Curt era imperioso. «Muoviamoci!» Mentre Stew Manson faceva il broncio, gli altri uscirono impazienti dalla sala del biliardo e molti di loro si fermarono al bancone a comprare altre birre da portarsi dietro. Una volta usciti, salirono sui rispettivi veicoli. «Stammi dietro a una distanza ragionevole», consigliò Curt a Nat, prima di avviare il proprio camioncino. Nat gli rispose sollevando la mano a pugno, il pollice alzato. L'istante successivo dal suo camioncino si levò il ritmo pulsante dei Brutal Attack. Nat aveva un sistema speciale di amplificazione con un altoparlante così potente da allentare i bulloni della carrozzeria. Partirono formando un convoglio di due veicoli. Nat seguiva gli ordini ricevuti, mantenendosi a una giusta distanza da Curt. A metà strada verso Long Island si fermarono a un distributore, per orinare. «Siamo rimasti quasi senza birra», disse Nat a Curt, mentre stavano davanti all'orinatoio. «Possiamo fare una deviazione alla città più vicina, per far rifornimento?» «Basta birra, fin quando la missione non sarà compiuta», decise Curt. La seconda parte del viaggio fu considerevolmente più veloce della prima, dato che il traffico era molto diminuito. La congestione della grande città e della zona metropolitana circostante aveva ceduto il passo alla tranquillità delle piccole cittadine, inframmezzate da fattorie e residence per le vacanze. Era passata da un pezzo la mezzanotte quando arrivarono a Sagamaunatuck, un prosperoso centro di vacanze estive che fungeva da polmone commerciale per quella parte dell'isola. Rallentando deliberatamente per non superare il limite di velocità indicato sui segnali stradali, Curt proseguì per la Main Street. Quasi tutti i negozi avevano chiuso già da diverse ore. Gli unici locali aperti erano due bar che stavano uno di fronte all'altro. Avevano la porta aperta sulla mite notte di ottobre. In ciascuno dei due aveva una manciata di avventori e sulla strada si riversava la musica, tenuta a basso volume. «Una graziosa cittadina tranquilla», commentò Steve.
«Speriamo che rimanga così», replicò Curt. «Ehi, c'è un delicatessen ebraico, con cibi kosher!» esclamò Carl tutto eccitato, dal sedile posteriore, indicando il negozio con le luci ormai spente. «Guardate tutte quelle stupide scritte straniere sulla vetrina!» «Non farti venire strane idee», lo redarguì Curt, «siamo qui per un motivo ben preciso.» Lui e Steve avevano perlustrato il posto un mese prima e sapevano dove dovevano andare. La ditta di disinfestazione si trovava sulla prima strada che correva parallela alla Main Street. Curt svoltò a sinistra all'angolo con Banks Street e poi di nuovo a sinistra a quello con Hancock. La ditta Wouton si trovava sulla destra in un edificio di un solo piano, in blocchetti di calcestruzzo. Una larga insegna avvertiva che la loro specialità andava dalle applicazioni residenziali a quelle agricole e commerciali in genere. A destra dell'edificio c'era un parcheggio circondato da una rete metallica, con un cancello chiuso da un lucchetto. Al suo interno erano parcheggiati tre veicoli, con il muso verso il muro, sui quali era montato il logo della Wouton: la caricatura di un'ape. Due erano dei furgoni chiusi, il terzo era un pickup con un carico nel cassone, coperto da un'incerata di plastica. Curt si fermò lì accanto, spense il motore e i fari e fece segno a Nat di avvicinarsi. I finestrini erano abbassati. «Quante trasmittenti avete?» domandò Curt. Per facilitare il coordinamento durante le missioni, Curt aveva comperato un sistema radio poco costoso che funzionava nel raggio di parecchi isolati. «Due», rispose Kevin. Era seduto accanto a Nat. «Eccone un'altra.» Curt porse un apparecchio in più. «Adesso, ecco che cosa voglio che facciate: due di voi si mettono all'angolo tra la Hancock e la Willow con una radio. Altri due li voglio dietro di noi, all'angolo tra la Hancock e la Banks, con un'altra radio. Nat, tu ti metti in una posizione da cui puoi tirar su l'uno o l'altro gruppo, se ce ne sarà la necessità.» «Che cosa dobbiamo fare?» domandò Kevin. «Solo stare lì al buio?» «Farete da uomini di testa della pattuglia, zuccone», sbottò Curt. «Da sentinelle.» «Sentinelle a cosa? Questa città è più morta di una tomba.» «Ai piedipiatti locali. L'ultima volta che io e Steve siamo stati qui, giravano un casino. Speriamo che non si facciano vivi, ma se dovesse succedere, voi dovrete creare un diversivo di qualche tipo: qualsiasi cosa serva a tenere occupati gli sbirri mentre noi tiriamo fuori il camion dal recinto e ce
lo portiamo via.» «Non so che cosa intendi», obiettò Kevin. «Basta che facciate un po' di confusione», spiegò Curt, esasperato. «Mettetevi a litigare, o a gridare fra voi. Una volta che gli sbirri si accorgono di voi, saranno come le mosche sulla carta moschicida. Se vi vogliono portare alla stazione di polizia, lasciate fare. Come al solito, non dite niente. Il peggio che vi può capitare è che vi trattengano per la notte, ma tutto finirà lì. Fidatevi.» «Va bene», disse Nat. Kevin cominciò a blaterare che lui non aveva intenzione di passare la notte in gattabuia, ma Nat gli diede un colpo in testa con le nocche e gli intimò di chiudere il becco. «Nat, avvertimi quando sarete tutti in posizione», ordinò Curt. «Nessun problema», assicurò Nat, e portò avanti il suo pickup. Non aveva fatto nemmeno venti metri, che una macchina della polizia svoltò l'angolo davanti a loro e si diresse verso i due pickup. «Merda!» esclamò Curt. «State giù!» Lui e gli altri si abbassarono sui sedili, mentre i fari illuminavano in pieno i due veicoli. «Era proprio ciò che temevo», sussurrò Curt. L'improvvisa apparizione della polizia gli rammentò l'esperienza avuta quando avevano rubato i fermentatori da una piccola birreria artigianale del New Jersey. Erano stati colti di sorpresa da una guardia di sicurezza che era entrata mentre si davano da fare a sganciare le tubature. Curt non aveva pensato a mettere dei pali, ed erano stati presi completamente alla sprovvista. Sfortunatamente, il guardiano era un afroamericano e Stew Manson, che si era scolato la sua solita razione da giganti di birra, aveva dato in escandescenze. Aveva gridato «sporco negro» al guardiano, che era disarmato, e lo aveva colpito sulla testa con una chiave inglese, mettendoci tutta la forza che aveva. Il cranio gli si era aperto come il guscio di un uovo crudo, e la missione aveva rischiato di andare all'aria. Invece di partecipare a un furto, si erano ritrovati tutti complici di un assassinio. Curt era deciso a evitare simili sorprese, in quella missione. «Che cosa ha fatto Nat?» chiese Steve. «Non lo so», rispose Curt, «non l'ho visto.» La macchina della polizia passò oltre; Curt sollevò un poco la testa per seguirne i movimenti nello specchietto retrovisore. Per fortuna, non si fermò, ma svoltò a destra in Banks Street. Guardando avanti, Curt vide che
Nat si era fermato all'incrocio e dal pickup erano scesi in due. La portiera del passeggero si era richiusa e il veicolo era sparito dietro l'angolo, mentre i due venivano inghiottiti dall'ombra. Curt emise un sospiro. Soltanto allora si accorse che era rimasto con il fiato letteralmente sospeso. «Speriamo che questo significhi che per un po' non torneranno», commentò Clark, dal sedile posteriore. «Io ho una brutta sensazione, al riguardo», disse Steve. «Anch'io», convenne Curt, «ma quel camion lo dobbiamo prendere.» «Che ne dici di tornare domani notte?» propose Steve. «Farebbe lo stesso, e poi abbiamo promesso a Yuri che glielo avremmo portato stanotte.» I quattro rimasero seduti per un po' in silenzio, mentre la tensione cresceva. Alla fine saltò su Mike: «A nessuno è rimasta un po' di birra?» «Non si beve, finché la missione non sarà finita!» sbottò Curt. Non riusciva a credere quanto fossero infantili i suoi uomini. Certe volte pensava che non avevano il minimo buon senso. Proprio quando stava cominciando a preoccuparsi che era passato troppo tempo, la ricetrasmittente che teneva in mano emise delle vibrazioni. Premette il pulsante dell'ascolto e, attraverso qualche scarica, udì Nat dire che ognuno era al suo posto. Questo significava che Kevin e Luke erano all'incrocio con Willow Street, mentre Matt e Carl a quello con Banks Street. «Ricevuto», rispose Curt, che poi si mise il piccolo apparecchio in tasca. «Ci siamo, ragazzi, andiamo!» Scesero tutti di macchina. Clark aveva una torcia e quello che in gergo chiamavano Slim Jim: un ferretto sottilissimo e ricurvo, adatto ad aprire le portiere delle macchine. Mike reggeva un paio di piccoli cacciaviti, delle tronchesi e diversi metri di filo elettrico isolato. Curt allungò il braccio nel cassone del suo camioncino e ne estrasse un pesante tagliabulloni che si era procurato sul lavoro. Se lo infilò sotto il giubbotto e sentì il freddo delle ganasce d'acciaio contro la maglietta. «Comportiamoci come se fossimo della ditta e stessimo solo controllando delle cose», consigliò agli altri, nell'avvicinarsi al cancello. Sapeva che se qualcuno avesse guardato fuori da qualche finestra del caseggiato di fronte li avrebbe visti. Anche se non c'erano lampioni, non faceva tanto buio. La notte era di un nitore cristallino e la luna spuntava tra le nuvole in movimento. «Quale camion prendiamo?» domandò Clark.
«Spero il pickup», rispose Curt. «Dipende da che cosa c'è sopra.» La domanda di Clark rammentò a Curt il giro di ricognizione compiuto il mese prima assieme a Steve. Allora avevano visto lo stesso pickup. Quando lo avevano individuato, parcheggiato sulla Main Street, fissata al cassone c'era l'attrezzatura per la disinfestazione, assieme alle bombole dell'aria compressa. Il conducente era un tipo cordiale, dal viso rubizzo, che portava un berretto da baseball sulla cui visiera era riprodotta l'ape che fungeva da logo della Wouton. Era appena stato nel locale diner per il pranzo ed era di umore espansivo. «Sì, questa attrezzatura è uno spruzzatore», aveva confermato, rispondendo alla domanda di Curt. Né Curt né Steve sapevano niente sui macchinali per spargere i pesticidi. «Be', in realtà non è proprio vero», si era corretto l'uomo. «È un polverizzatore, non uno spruzzatore. È fatto per la polvere, non per i liquidi.» «Sembra una bella bestia», aveva commentato Curt, strizzando l'occhio a Steve. Era proprio quello che stavano cercando, al culmine di una settimana di ricerche. «Ci può scommettere», aveva replicato l'altro, dando con fierezza una pacca al macchinario. «È il meglio che c'è sul mercato. Si chiama Polverizzatore Agricolo Potenziato.» «Come funziona?» «Il pesticida in polvere va dentro questa tramoggia.» L'uomo aveva indicato una scatola di metallo verde scuro. Quasi tutto l'apparecchio era verde, tranne gli ugelli, che erano arancione. «Qua dentro c'è un agitatore che solleva la polvere, con l'aiuto dell'aria compressa. Dopo che è passato attraverso un misuratore, il prodotto viene sospinto dal ventilatore centrifugo fuori dagli ugelli, mescolato con l'aria.» «Così è efficace, eh?» aveva domandato Curt. «È incredibile. Il ventilatore può arrivare a ventiduemila giri al minuto, il che può spingere fuori fino a ventotto metri cubi di aria al minuto. A quella velocità, l'aria che esce dagli ugelli si muove a più di centocinquanta chilometri all'ora.» Curt e Steve avevano emesso un fischio di ammirazione e avevano cominciato a pensare a come portare il camion in città. Il piano escogitato era quello che stavano mettendo in pratica. «Assicuriamoci che la macchina dei piedipiatti non sia in zona», disse Curt. Prese di nuovo la radio e si mise in contatto con gli altri gruppi. Quando ricevette il via libera, fece scivolar fuori il troncabulloni da sotto il
giubbotto e in men che non si dica eliminò il lucchetto. Passò l'attrezzo a Steve prima di strappar via il catenaccio ormai inservibile. Il cancello cigolò e si aprì. «Facciamo in fretta», si raccomandò Curt, mentre tutti e tre correvano verso il pickup. Steve sollevò un lembo dell'incerata. Nonostante la scarsa luce, lui e Curt riconobbero il verde scuro del Polverizzatore Agricolo Potenziato. «Va bene, al lavoro», disse Curt a Mike e a Clark. Clark incuneò con destrezza lo Slim Jim tra il finestrino del guidatore e il pannello laterale, e la serratura della porta si aprì all'istante. A quel punto guardò Mike. «Apri la porta», consigliò Mike, che era ritto davanti al muso del veicolo. «Se parte l'allarme, apri il cofano.» «Aspetta un secondo!» esclamò Curt. «Vorresti dire che potrebbe suonare l'allarme?» «Se c'è, non c'è modo di impedirgli di partire», spiegò Mike. «Ma non durerà a lungo, se riesco a mettere le mani sotto al cofano.» Curt scrutò la zona intorno. Tardi com'era, c'erano solo poche luci accese negli appartamenti dall'altra parte della strada. Riconoscendo di avere poca scelta, annuì a Clark, perché procedesse. Ma non gli andò bene. Nell'istante in cui Clark aprì la portiera, il clacson si mise a suonare e i fari a lampeggiare. Clark aprì il cofano. Mike puntò la torcia sul motore. Nel giro di pochi secondi (anche se non abbastanza presto per i gusti di Curt), il clacson si zittì e i fari si spensero. Mike richiuse il cofano più silenziosamente che poté e girò dalla parte del conducente. Clark stava già chino nell'abitacolo, lavorando con perizia sotto l'albero dello sterzo. «Mi serve la luce», disse Clark. Ficcò una mano fuori e Mike gli passò la torcia, come un atleta passa la staffetta. Con le orecchie che ancora gli rintronavano per il suono del clacson, Curt scrutò la strada nelle due direzioni. Si aspettava di vedere le luci accendersi un po' a tutte le finestre degli appartamenti di fronte. Invece vibrò la radio. Mentre Curt la portava all'orecchio, il motore del pickup fece un debole accenno di mettersi in moto. «Merda, sembra che la batteria sia scarica», disse Clark. Adesso era seduto al volante. «Questa carretta dev'essere rimasta parcheggiata qui a lungo.»
Curt premette il tasto dell'ascolto. La voce di Nat gli arrivò con le solite scariche, comunicandogli che c'era un problema. «Che genere di problema?» «Kevin e Luke si sono mesi a rincorrere un paio di finocchi.» «Oh, per l'amor di Dio!» sbottò Curt. «Valli a prendere e riportali nel tuo pickup. E anche gli altri due!» «Ricevuto!» Curt alzò le braccia in segno di esasperazione. «Che cosa succede?» domandò Steve. «Non chiedermelo. Li ammazzo tutti!» «Non hai dei cavetti nel tuo pickup?» domandò Clark. «Mi sa che dovremo farlo partire così.» «Che cos'altro può andar male, ancora?» A Curt non piaceva l'idea di far entrare il proprio mezzo dentro al recinto del parcheggio, ma non c'erano altre soluzioni. Risalì al posto di guida e in quel mentre Nat si avvicinò con il suo veicolo, diretto verso Willow Street, e diede un colpo di clacson per salutare. Matt e Carl agitarono le mani e fecero grandi sorrisi. Curt imprecò fra sé. Come aveva fatto a imbarcarsi con quel branco di svitati? Più in fretta che poté, entrò nel parcheggio, mettendosi muso contro muso con il pickup della Wouton. Tenendo il motore acceso, aprì il cofano, poi afferrò i cavetti da sotto il sedile. Mentre lui li attaccava alla propria batteria, Mike prese le estremità opposte e le attaccò a quella dell'altro pickup, che riprese vita appena si instaurò il collegamento. Allora Curt e Mike staccarono i cavetti dalle rispettive batterie. «Va bene», disse in fretta Curt, ansioso. «Steve, tu e Clark guidate questo fottuto camioncino fino al White Pride, ma non passate dalla città e restate qui a sinistra sulla Hancock! E restate nei limiti di velocità, non andate più in fretta. Se vi fermano i piedipiatti, la missione fallisce. Mike, tu vieni con me!» «Ma il White Pride sarà chiuso», si lamentò Steve. «Allora suona il maledetto citofono di Jeff.» Curt era furente. «Cristo, devo pensare a tutto io?» Rimontò con agilità al posto di guida e ritornò rapidamente sulla strada, in retromarcia. Allora scese di nuovo di macchina, mentre Clark guidava il pickup della Wouton fuori dal parcheggio. «Dove vai?» domandò Mike. «A chiudere il cancello», spiegò Curt. «Non voglio mettere i manifesti che manca un camion.»
Mentre i cardini del cancello cigolavano, Curt udì in lontananza delle grida di aiuto provenire da Willow Street. Si sentì drizzare i capelli in testa. Rimessosi al volante, partì di gran carriera verso Willow Street, a fari spenti. «Hai sentito quelle grida?» gli chiese Mike. «Certo che le ho sentite», sbottò Curt. «Sono incazzato. Mi perdo tutto il divertimento.» Curt scoccò al suo tirapiedi un'occhiataccia, ma preferì non parlare. Si arrestò con stridore di gomme in mezzo all'incrocio, così da poter guardare in entrambe le direzioni lungo la Willow. Vide il camioncino di Nat a circa mezzo isolato di distanza, dove la strada si allontanava dalla zona commerciale. Sterzando con forza, si diresse da quella parte. A destra, su un prato, distinse delle sagome nell'oscurità che prendevano a pugni e a calci altre figure stese a terra. In conseguenza delle grida, nei caseggiati lì attorno si stavano accendendo le luci a molte finestre. Fu allora che udì le sirene della polizia. «Merda!» gridò. Si fermò dietro il camioncino di Nat e intanto guardò nello specchietto retrovisore. Si stavano avvicinando i lampeggianti di un'auto della polizia. «Fagli muovere il culo. Tutti sul pickup di Nat!» sbraitò rivolto a Mike, il quale balzò giù immediatamente senza protestare: l'urgenza della situazione era ovvia. Curt guardò nello specchietto l'auto della polizia che si avvicinava. Dapprima pensò di starsene chinato in modo da non farsi vedere, aspettando che il poliziotto scendesse di macchina e si avvicinasse alla mischia. Questo gli avrebbe dato la possibilità di ripartire all'improvviso a tutto gas, lasciando i suoi uomini al destino che si meritavano. Ma poi gli venne un'altra idea. Avendo assistito a decine di rodei tra veicoli sapeva che il modo migliore per mettere fuori combattimento un'altra auto era di prenderla in pieno sul muso andando in retromarcia. La questione critica era se lo sbirro si sarebbe fermato dietro idi lui, come si aspettava. Per fortuna lo fece. Nel momento in cui il poliziotto, che era solo, fece per scendere dall'auto, Curt inserì la retromarcia e pigiò sull'acceleratore, tenendolo a tavoletta. I pneumatici girarono a vuoto con uno stridio assordante, prima di fare presa improvvisamente sull'asfalto. Il pesante pickup balzò all'indietro e guadagnò velocità, pur nella breve distanza che lo separava dall'auto della
polizia, e le piombò addosso. Nonostante si tenesse forte, prevedendo l'impatto, Curt sentì il collo scrocchiargli nel momento in cui la testa si spostava all'indietro. Udì un rumore come di lattine di birra schiacciate e immediatamente la sirena, che fino a quel momento aveva perforato la notte, cessò di suonare. Il cofano dell'auto si spalancò e ne uscì un getto di liquido fumante. Ancora più importante, dal punto di vista di Curt, fu che la portiera dalla parte del guidatore era stata strappata via dai cardini per la forza dello scontro ed era schizzata dall'altra parte della strada. Il poliziotto, la cui mano era ancora sulla maniglia, era finito a faccia in giù sull'asfalto. «Alleluia!» commentò Curt. Mise la prima e fece ripartire il pickup. Dapprima l'auto della polizia gli restò attaccata al paraurti posteriore, ma con una breve retromarcia e una nuova partenza riuscì a farla staccare. Guardando a terra, vide che il poliziotto non si era mosso. Davanti a lui, tra risate e battute scherzose a piena voce, gli altri si stavano ammonticchiando nel camioncino di Nat, tranne Mike che corse indietro per rimettersi accanto a lui. «Ehi, bella mossa con l'auto dello sbirro!» esclamò, voltandosi a guardare il muso della macchina fracassata. Il getto di liquido era finito. Adesso dal motore salivano dei vapori illuminati dai lampeggianti, che erano rimasti in funzione. Curt non disse nulla. Ripartì e andò ad accostarsi al veicolo di Nat. «Ascoltate, pagliacci», sbottò, dopo aver abbassato il finestrino, «niente fermate, osservate i limiti di velocità e andate direttamente al White Pride per il rapporto di missione compiuta. Capito?» «Capito», rispose Nat, mentre le risate aumentavano ancora di più. Curt accelerò, scuotendo la testa per la frustrazione. L'intera operazione era come una commedia che non faceva ridere. «La macchina dello sbirro sembra che stia per prendere fuoco», osservò Mike. Curt la guardò e stava per spiegare che il fumo era semplicemente il vapore del liquido di raffreddamento che veniva a contatto con il collettore molto caldo, quando vide l'ultima mossa stupida compiuta quella notte dai suoi uomini. Invece di ripartire, Nat aveva messo la retromarcia, passando sopra al poliziotto che era ancora steso a terra. Curt trasalì. Non considerava gli sceriffi locali dei nemici, come i federali o la polizia cittadina. Quando Curt svoltò a destra al primo incrocio, prendendo la via del ritorno, Mike smise di guardare attraverso il lunotto posteriore. «Io lo so perché Kevin e Luke hanno dato dietro a quei due froci», dichiarò.
«Certo che lo sai», borbottò Curt irritato e senza mostrare particolare interesse. Quale che fosse la spiegazione di Mike, aveva intenzione di dare a quei due una bella ripassata, quando fossero tornati alla base. Disobbedire agli ordini, anche agli ordini impliciti, non era tollerabile. «Erano una coppia mista», spiegò Mike. «Uno era un visopallido e l'altro un negro, e i bastardi si tenevano per mano.» «Non c'è da meravigliarsi!» Il cambiamento di umore di Curt era sincero. Mescolanza razziale tra froci. Capì immediatamente come doveva essere stata provocatoria quella situazione. Yuri spalancò gli occhi. Si tirò su a sedere e si accorse di essersi addormentato sul divano. Non era sicuro di che cosa lo avesse svegliato. Guardò l'orologio: era passata da poco l'una di notte. Dalla porta chiusa di Connie filtrava il suono della TV. Snocciolando qualche epiteto in russo, infilò i piedi nelle ciabatte. Poiché guidare il taxi richiedeva delle alzatacce, era abituato ad andare a letto presto. Di conseguenza, non aveva idea delle abitudini di Connie, la sera, a parte sapere che andava a letto più tardi di lui. Ma l'una passata gli sembrava un po' troppo tardi. C'era la possibilità che si fosse addormentata senza aver mangiato il gelato. Yuri si alzò, trasalendo a un dolore pulsante alle tempie. Rabbrividì, mentre intanto sentiva un'ondata di nausea che lo spinse a richiudere rapidamente il coperchio del cartone appoggiato sul tavolinetto, dov'era rimasta mezza pizza, ormai fredda. La superficie rappresa aveva un aspetto disgustoso. Si sentiva esausto, a pezzi. Scolò il bicchierino di vodka e cercò di raccogliere le idee. Doveva fare qualcosa. Non poteva aspettare ancora che Connie chiedesse il dessert. Si fermò un momento davanti alla sua porta. Si chiese se bussare o semplicemente aprirla, come faceva nelle rare occasioni in cui entrava in camera sua. Alla fine l'aprì. Connie distolse lo sguardo dal vecchio film in bianco e nero che stava guardando e diede una rapida occhiata al marito. L'occhio sinistro era ancora più gonfio di prima. A lato del letto c'era il cartone della pizza, aperto e vuoto. «E il gelato?» le chiese Yuri con la voce rauca. «Sei ancora alzato?» commentò Connie. «Che cosa succede? Stai male?»
«Sono solo stanco.» «Pensavo che fossi andato a letto.» «Mi sono addormentato sul divano. Allora, il gelato?» «Sei come un cane con l'osso, con 'sto gelato. E poi, è tardi. Stavo per addormentarmi anch'io.» «Dai, me lo hai fatto comperare...» «Sei sicuro di non star male?» chiese di nuovo Connie. «Mi stai facendo preoccupare, per come ti comporti.» «Dannazione!» gridò Yuri, perdendo la pazienza. «Te l'ho detto, mi sentivo in colpa per averti picchiata e aver rotto il tuo televisore. Sto cercando di fare qualcosa di carino, ma tu non me lo lasci nemmeno fare.» «Adesso assomigli di più a te stesso», commentò Connie. «E va bene! Portami il gelato, se ti fa sentire meglio! E già che ci sei, porta via 'sto cartone della pizza.» Sollevato ma ancora esasperato, Yuri afferrò il contenitore termico e lo portò in cucina. Estrasse il gelato dal freezer e prese un cucchiaio dal cassetto, poi tornò da Connie e glieli porse. Rigirandosi a fatica a causa del peso, Connie riuscì a mettersi in una posizione semisdraiata e prese gelato e cucchiaio. «È stato aperto», osservò, guardando Yuri in attesa di una spiegazione. «Ne ho assaggiato un pochino, prima», rispose lui. Connie sbuffò. «Non me lo hai chiesto», si lamentò. Lui non rispose. Stava guardando il telefono accanto al letto della moglie. Non aveva pensato all'eventualità che lei chiamasse qualcuno per descrivere i primi sintomi della malattia, ammesso che mangiasse quel maledetto gelato. Andò in ansia all'idea che potesse arrivare un medico e decise che doveva fare qualcosa riguardo al telefono. «Ehi, sto parlando con te», insisté Connie. «Lo sai che non mi piace che gli altri mangino il mio cibo.» «È stato solo un assaggio», si scusò Yuri. «Solo uno? Non hai messo il cucchiaio dentro e fuori diverse volte?» «Solo una volta», le assicurò Yuri. «Apri e vedrai.» Connie borbottò tra sé, nell'aprire il coperchio. Il gelato mostrava una superficie liscia, non intaccata. A Yuri non veniva in mente nessuna scusa per portar via il telefono dalla stanza senza destare sospetti. «Non si vede dove lo hai mangiato», osservò lei. «Perché ne ho preso proprio pochino. Cristo! Falla finita! Mangialo e
basta!» «Va bene. Ma lasciami in pace.» «Molto volentieri», borbottò Yuri. «Dammi una voce, quando vuoi che venga a riprendere il barattolo.» Connie sollevò il sopracciglio dell'occhio sano in una smorfia di incredulità e fissò Yuri con aria sospettosa, poi riportò l'attenzione sul film. «Forse ti chiamerò e forse no», concluse. Yuri uscì dalla stanza. Vide Connie scavare la prima cucchiaiata e metterla in bocca, poi la porta si richiuse parzialmente. Ritornò nel soggiorno e si accorse che, posizionandosi proprio all'estremità del divano, riusciva a vedere la stanza della moglie. Era poco più di una fessura, ma permetteva di scorgere la parte finale del letto e la punta dei piedi di Connie. Il tempo si trascinò con una lentezza esasperante per Yuri. Non era sicuro che Connie stesse mangiando il gelato, anche se sarebbe rimasto scioccato scoprendo che non lo faceva, una volta iniziato. Il film sembrava andare avanti all'infinito, nonostante le numerose volte che la colonna sonora giungeva a un crescendo che faceva pensare fosse quello della scena finale. Sperava che Connie si sarebbe alzata per andare in bagno, dandogli l'opportunità di staccare il telefono che teneva sul comodino. Tre quarti d'ora dopo, alla fine del film, Connie lo accontentò. Yuri si mosse in fretta. Spinse la porta e vide il barattolo del gelato sul pavimento, accanto al letto, con il cucchiaio che spuntava fuori. Purtroppo, la porta del bagno non era chiusa del tutto. Alla TV in quel momento c'era la pubblicità. L'unica fonte di luce della stanza era lo schermo. Con il cuore che gli batteva all'impazzata, Yuri si avvicinò al comodino. Da quella posizione riusciva a vedere una parte del bagno, ma non Connie. Prese il telefono e, per trovare la presa nel muro, seguì il filo; vide che passava dietro il comodino pieno di piatti e bicchieri sporchi. Mentre faceva scivolare la mano lungo il filo, diede una gomitata al comodino e parecchi bicchieri caddero a terra, andando in frantumi. Il rumore fu più forte di quello, già alto, della TV. Immaginando che Connie sarebbe apparsa immediatamente, Yuri tirò forte il filo del telefono, strappandolo dalla parete. Questo movimento mandò a terra un altro bicchiere. Poi si chinò a prendere il barattolo del gelato, ormai completamente vuoto. Come temeva, la porta del bagno si spalancò del tutto e sulla soglia comparve Connie. Si stava lavando i denti. «Che cosa è stato quel fracasso?» gli domandò, tenendosi una mano sotto la bocca per non far sgocciolare il dentifricio. Con l'altra mano impu-
gnava lo spazzolino. «Non lo so», rispose lui, sperando per il meglio. «Forse qualcosa alla tele.»Teneva il telefono dietro la schiena con la sinistra, mentre nella destra aveva il barattolo del gelato. La sollevò per mostrarglielo e disse: «Ero venuto a riprenderlo». Ancora una volta, Connie rimase sorpresa dal comportamento del marito, ma non disse niente. Si ficcò di nuovo in bocca lo spazzolino e ricominciò a manovrarlo su e giù, mentre rientrava nel bagno. Sollevato, Yuri uscì dalla stanza e si precipitò in cucina. La prima cosa che fece fu nascondere il telefono sotto il lavello, poi lavò il barattolo del gelato, prima di gettarlo via. Fece la stessa cosa con il cucchiaio, con la scodella che aveva usato prima e con la forchetta. Con le mani che gli tremavano tirò fuori da un armadietto un bicchiere grande da liquore e si versò un'altra bella razione di vodka. Aveva estremamente bisogno del suo effetto calmante. In realtà, gli seccava accorgersi di quanto fosse nervoso. Tornando sul divano, si sedette ad aspettare. Purtroppo non aveva idea di quanto avrebbe dovuto restare lì seduto in balia del tempo. Si chiedeva che cosa sarebbe accaduto se Connie si fosse addormentata prima della comparsa dei sintomi. Si preoccupava che forse non si sarebbe mai più risvegliata. Guardò l'orologio. L'altra cosa che lo preoccupava era che non c'era traccia del camion dei pesticidi, anche se erano già le due di notte. Curt aveva promesso. Yuri si chiedeva che cosa poteva significare per il futuro dell'Operazione Volverina. Nonostante l'ansia, si riaddormentò. Quando si svegliò, circa mezz'ora dopo, seppe immediatamente che cosa lo aveva disturbato. Connie stava chiamando il suo nome, ripetutamente, ma in un modo particolare. Sembrava che non riuscisse a pronunciare la lettera R. Aveva una voce da ubriaca. Yuri si alzò e barcollò. Dovette appoggiarsi al bracciolo del divano per restare in piedi, prima di dirigersi sulle gambe malferme verso la stanza della moglie. Spinse la porta, spalancandola. Connie era distesa sul letto fracassato, ma in lei c'era qualcosa di diverso nel modo di guardarlo. Invece della solita aria di sfida, sembrava avere un'espressione di paura. «Che cosa vuoi?» le chiese. «C'è qualcosa che non va», riuscì a dire lei. Aveva difficoltà ad articolare le parole.
«Be', adesso che novità è questa?» replicò Yuri, fingendosi irritato. «Ho dei crampi allo stomaco, e ho vomitato. Non credo che il gelato mi abbia fatto bene.» «Se c'è qualcosa che ti ha fatto male, probabilmente è stata la pizza», la contraddisse Yuri. «Personalmente, a me le acciughe fanno sempre strani effetti allo stomaco.» «Ma non è lo stomaco che mi preoccupa.» «E allora che cosa?» domandò Yuri con impazienza. «Non riesco a guardare la TV», rispose Connie, avendo particolare difficoltà a pronunciare la lettera T. «Ci vedo doppio. Ci sono due TV.» «Allora spegnila. Mettiti a dormire, che è tardi.» «Non riesco a dormire. Sono tutta agitata, per qualche motivo, e il fatto di vederci doppio mi spaventa.» «Cerca di coprirti l'occhio gonfio», le suggerì Yuri. Connie si mise una mano sull'occhio. «Come va adesso?» «Meglio. Ce n'è una sola di TV.» «Chiamami, se c'è qualche altro problema.» Yuri fece per chiudere la porta. «Ho paura ad alzarmi!» quasi gridò Connie. «Prima, quando mi sono alzata, mi girava la testa e mi sentivo debole. Stavo quasi per cadere.» «Con tutto quel grasso non c'è da meravigliarsi.» «Per favore, portami un po' d'acqua.» Yuri si chiese se la sete avesse a che fare con la tossina. Non lo sapeva. Ma per i disturbi alla vista e la difficoltà di linguaggio ne era sicuro. Ciò che lo preoccupava era il vomito. Sarebbe stata una tragica ironia se Connie avesse espulso buona parte del veleno perché lui ne aveva usata una dose eccessiva. Ma forse la nausea era causata da un concentrato di tossina che non era stato assorbito. Lui non ne sapeva tanto sul botulismo, tranne per quanto riguardava topi, ratti, cani e scimmie. «Va bene, ti porto un po' d'acqua.» «Magari dovrei andare all'ospedale.» «Eh? Per qualche crampo allo stomaco? Non essere ridicola!» «Ho paura. Mi sento strana.» «Ti porto l'acqua», tagliò corto Yuri. Chiuse la porta e andò in cucina. Tutta la faccenda era molto più snervante di quanto si aspettava. Se l'avesse vista un medico, in quelle condizioni, avrebbe potuto fare la diagnosi. Mentre riempiva un bicchiere al rubinetto del lavello, udì dei colpi im-
provvisi alla porta, molto forti. Quel rumore inatteso gli fece fare un balzo di paura, del tipo che solo chi è stato costretto a vivere sotto un regime totalitario, dispotico, è in grado di capire. Si sentì seccare la gola, allora bevve un sorso d'acqua, tenendo il bicchiere con entrambe le mani. Tremando, si avvicinò alla finestra per sbirciare attraverso le veneziane. Era talmente concentrato su Connie che si era dimenticato completamente di Curt. Ora vide le sue fattezze familiari illuminate dalla lampada esterna. Dietro di lui c'era Steve, le mani ficcate nelle tasche. Dapprima fu sollevato, ma poi, nell'aprire la porta, imprecò fra sé. Quello non era certo il momento migliore per farsi vivi. «Ti abbiamo portato un regalino, socio», gli disse Curt, e fece un cenno, indicando dietro di sé. Yuri guardò nel vialetto di ingresso. Dietro Curt c'era un veicolo scuro con la scritta WOUTON DISINFESTAZIONI sulla portiera del conducente. «Ce l'ha uno spruzzatore?» domandò. «Mettiamo 'sto maledetto coso nel garage, prima di parlarne», propose Curt. «Va bene. Vengo subito.» Yuri chiuse la porta, poi tornò di corsa in cucina, prese il bicchiere con l'acqua e si precipitò nella stanza di Connie. Le tese il bicchiere, ma quando lei provò a prenderlo, il braccio vagò qua e là, senza riuscire ad afferrarlo. «Sono troppo debole», si lamentò. Il braccio le ricadde impotente sul letto. «Faccio fatica anche a respirare.» «Non importa, te lo reggerò io il bicchiere», si offrì Yuri, e lo abbassò, premendoglielo contro le labbra, mentre lei cercava invano di sollevare la testa. Connie sputacchiò e l'acqua le colò da un lato del viso. Tossì e il viso le si arrossò. «Torno subito per dartene dell'altra», le disse Yuri e cercò di poggiare il bicchiere sul comodino. Dato che non c'era posto, lo appoggiò per terra, in mezzo alle schegge di quelli rotti. Connie si sforzò di parlare mentre tossiva, ma lui la ignorò. Schizzando fuori dalla stanza, passò dalla cucina a prendere le chiavi, prima di tornare alla porta d'ingresso. Quando l'aprì, era evidente che Curt non era contento. «Grazie per averci lasciati qua fuori al buio», sbottò. «Mi spiace.» Yuri si richiuse la porta alle spalle. «Proprio adesso le cose si stanno sistemando con Connie.»
«Che cosa vorrebbe dire?» domandò Curt. «Non ha preso la tossina fino a poco fa», spiegò Yuri, e si diresse verso il garage. «Sta cominciando soltanto adesso ad avere i sintomi.» «Ma sei sicuro che tirerà le cuoia?» Curt lo seguì, mentre Steve saliva sul pickup della Wouton. «È quello che suppongo», rispose Yuri, e aprì la porta laterale del garage. «Aspetta un attimo!» esclamò Curt, e gli afferrò un braccio, facendolo fermare. «A questo punto non c'è spazio per le supposizioni. Il minimo casino può mandare a monte l'intera operazione. A me interessa solo la sicurezza.» «Le ho dato abbastanza roba da far fuori tutta la popolazione di Brooklyn», replicò Yuri. «Ti basta? Lasciami respirare!» I due restarono a guardarsi per un po' in cagnesco nell'ombra proiettata dagli spioventi del garage. «Voglio che tu capisca davvero la necessità della sicurezza», ribatté Curt. «Tutto questo casino con la tua misteriosa moglie ci ha innervositi non poco.» «Me ne sto occupando, come eravamo d'accordo.» «Spero che sia così. Il fatto è che non possiamo correre rischi da ora in poi. Stasera ti avevo detto che nell'Esercito Ariano del Popolo avevano un infiltrato, Brad Cassidy. Quello che non ti ho detto è che lavorava per l'FBI.» «Oh, no!» gemette Yuri. «Che cosa sono riusciti a sapere?» «Niente che riguardi l'Operazione Volverina», gli assicurò Curt. «Crediamo che si preoccupino delle nostre milizie in generale. Dato che nessuno dei nostri ha la minima idea della cosa grossa, non siamo direttamente a rischio. I federali devono aver scoperto qualcosa dai contatti tenuti da Steve con gli altri gruppi tramite Internet. Ma il punto è che dobbiamo essere estremamente cauti. E prima lanciamo l'operazione, meglio è.» «Proprio quello che penso anch'io», replicò Yuri. «Hai preso in considerazione l'idea di destinare anche il secondo fermentatore al carbonchio?» «Lo farò appena ne avrò il tempo. Probabilmente domani. Appena la faccenda di Connie sarà sistemata del tutto.» «Bene», approvò Curt. «Adesso tiriamo via dalla strada 'sto dannato camion della disinfestazione, prima che qualcuno lo veda. Sono sicuro che i tuoi vicini comincerebbero a chiedersi con quale tipo di animali nocivi ab-
biamo a che fare, nel pieno della notte.» Yuri accese la luce davanti all'ingresso del garage, poi si portò dietro al taxi. Appena ebbe sollevato la porta basculante, Steve spinse dentro il pickup. Yuri richiuse la porta dietro di sé e la sprangò. Curt girò attorno alla parte posteriore del veicolo. Sganciò un lembo dell'incerata e la ripiegò all'indietro per mostrare l'armamentario sul cassone del camion. «Riconosci che roba è?» chiese. «Non del tutto», ammise Yuri, «ma quelle cose arancione mi sembrano degli ugelli da nebulizzatore.» «Tombola!» esclamò Curt, poi allungò una mano e diede una pacca sul macchinario. «È un Polverizzatore Agricolo Potenziato. Qualsiasi polvere usi, va in questa tramoggia.» La indicò, proprio come aveva fatto il conducente della Wouton l'estate prima. «Allora l'agente patogeno non deve essere mescolato con un liquido?» chiese Yuri. Gli si era illuminato il viso, come a un bambino davanti a una bici ricevuta a Natale. «No», rispose Curt. «Entra polvere ed esce polvere, e ti dirò, è una macchinetta che sa il fatto suo. Ci hanno detto che il ventilatore è capace di spingere fuori quasi trenta metri di aria al minuto. La quantità di polvere che vuoi mescolare in quei trenta metri cubi d'aria dipende da come regoli il disco del misuratore.» «È perfetta», approvò Yuri. Era rimasto impressionato. Era meglio di quanto si aspettava. «Sono contento della tua approvazione. Ti dirò, ci ha richiesto un bel po' di lavoro e di guai, riuscire ad avere questa cosa. Adesso sta a te completare la tua parte del patto.» «Ci sto lavorando», promise Yuri. «Non aver paura!» «Lo spero.» Si strinsero la mano, prima di uscire di nuovo nel buio della notte. Curt e Steve risalirono sul loro pickup, e Yuri restò sul lato della strada. «Ne riparliamo domattina», gli disse Curt. «Vorremo sapere come si è svolto il resto della notte, per quanto riguarda tua moglie.» «Va bene», rispose Yuri, e agitò una mano per salutare, mentre Curt metteva in moto e partiva. Restò un attimo a guardare i fanalini di coda del Dodge Ram fino a che scomparvero nel punto in cui l'Oceanview Lane si immetteva nella Oceanview Avenue. Era ancora stanco, ma si sentiva meglio di quanto si era sentito in tutta quella giornata. Le incertezze che lo avevano angustiato fino a
quel momento erano svanite. A livello viscerale sapeva che l'Operazione Volverina si sarebbe ben presto svolta proprio secondo i piani. Si lasciò perfino andare a un mezzo sorriso, nel rendersi conto che ben presto si sarebbe trovato in compagnia di altri grandi patrioti sovietici, anche con alcuni dei più insigni, della Grande Guerra Patriottica. Una folata di vento scompigliò con un fruscio le foglie morte sparpagliate sul vialetto e fece sbattere ripetutamente contro il telaio la zanzariera squarciata. Il rumore strappò Yuri dalle sue fantasticherie, riportandolo al presente. C'era ancora del lavoro da fare, prima del grande evento, e la preoccupazione più immediata era costituita da Connie. Si affrettò a tornare dentro e corse alla porta della sua camera, dove si fermò un momento in ascolto. Tutto ciò che udiva era la TV. Poi l'aprì lentamente, non sapendo che cosa avrebbe visto. Connie non si era mossa, ma il suo colorito era cambiato drasticamente. La pelle aveva assunto una tinta violacea, in particolare le labbra. Yuri si avvicinò al letto. «Connie?» chiamò e le toccò una spalla. Lei non si mosse. Le sollevò il braccio. Era floscio. Lo lasciò ricadere sul letto. Si chinò, portando l'orecchio accanto alla bocca di lei. Solo così riuscì a capire che respirava ancora, anche se appena appena. Le prese il polso e sentì le pulsazioni, deboli e rapide. Si raddrizzò. Si chiese se era il momento di chiamare l'ambulanza o se dovesse aspettare ancora. Era una decisione difficile, perché non voleva che si svegliasse mentre le somministravano l'ossigeno al pronto soccorso. In quel caso, sarebbe riuscita a raccontare a medici e infermieri come si erano susseguiti i sintomi della malattia. Allo stesso tempo, però, Yuri pensava che era meglio se fosse stata ancora viva al momento dell'arrivo in ospedale. Pensava che ci sarebbero state meno domande sul perché non l'aveva portata prima. Accese la lampada sul comodino e le aprì l'occhio destro. La pupilla era fissa e molto dilatata. Per quanto ne capiva, significava che era il momento di chiamare l'ambulanza. Tornato in cucina, usò il telefono a muro. Cercò di sembrare il più disperato possibile, mentre dichiarava di aver trovato la moglie priva di sensi e che respirava appena. Disse che aveva un colorito grigiastro e che nel corso della serata aveva avuto l'affanno. Diede l'indirizzo e gli assicurarono che al più presto sarebbe arrivata un'ambulanza. Tornato in camera da letto, guardò di nuovo Connie. Fu allora che co-
minciò a preoccuparsi per l'occhio gonfio. Non voleva che qualcuno sospettasse dei maltrattamenti domestici, dato che questo avrebbe potuto dare adito a sospetti. Pensò di poter dire che era caduta, ma forse non sarebbe stato convincente, dato che era sdraiata a letto. Gettando un'occhiata attraverso la porta semiaperta del bagno gli venne un'idea. Girò dall'altra parte del letto e cercò di mettere Connie più o meno seduta. Purtroppo il peso e la massa di carne rendevano l'operazione molto difficile, anche perché il corpo era completamente floscio. Allora la fece rotolare leggermente sul lato sinistro, in modo che gli desse le spalle, e le mise le mani sotto le ascelle. Mettendo un piede sul bordo del materasso, riuscì a trascinarla lentamente verso di sé. Ma poi avvenne il disastro. Proprio quando era riuscito a portare fuori dal letto la parte superiore del corpo, il leggero tappeto sul quale teneva i piedi scivolò. Yuri cadde sulla schiena e Connie gli rotolò sopra, facendolo restare completamente senza fiato, incapace di respirare. Restò a boccheggiare per quasi un minuto, in cerca di aria. Sotto il peso della moglie non riusciva a inspirare. La stanza cominciò a confondersi alla vista ed ebbe paura di svenire. Con un ultimo tentativo disperato, riuscì a torcersi leggermente di lato, quel tanto che gli permise di prendere fiato. Ora restava il problema di sciogliersi dall'abbraccio di Connie che gravava a peso morto su di lui, gambe e braccia allargate. Con un grande sforzo, riuscì a sottrarsi a quella stretta quasi mortale. Si rimise in piedi, ancora ansante per la mancanza d'aria. Era tentato di fuggire, ma si ritrovò inchiodato lì a fissare il corpo della moglie, prono sul pavimento. Gli venne un brivido di arcana paura: mezzo morta com'era, Connie era quasi riuscita a vendicarsi di lui. Il suono di una sirena in lontananza lo riscosse, spingendolo all'azione. Doveva fare qualcosa. Spiegare come sua moglie, già con un occhio pesto, fosse finita lunga distesa a terra, accanto a un letto crollato, sarebbe stato difficile. Se l'avesse lasciata dov'era sarebbe stato meglio, ma adesso rimetterla a letto era impossibile. Sapendo di avere poco tempo, si accoccolò dietro di lei e, tirandola per le braccia, la fece girare in modo che la testa fosse nella direzione del bagno. A questo punto la rimise sulla schiena e la prese di nuovo sotto le ascelle, trascinandola fin dentro al bagno. L'idea era di far sembrare che fosse caduta lì, battendo l'occhio contro un rubinetto o qualche altra cosa sporgente.
Mentre la sirena dell'ambulanza si avvicinava sempre di più, Yuri diede un'ultima occhiata in giro per assicurarsi che tutto fosse a posto, in modo da evitare ulteriori problemi. Sembrava di sì. Allora tornò di nuovo in camera da letto, dove rimise in ordine le lenzuola che prima aveva trascinato a terra assieme al corpo di Connie. Dei vigorosi colpi alla porta lo fecero correre all'ingresso. Appena aprì, si precipitarono dentro una donna e un uomo con l'uniforme delle unità mobili di pronto soccorso. Entrambi portavano delle attrezzature mediche. «Dov'è la paziente?» chiese la donna. Sembrava che abbaiasse. Yuri puntò il dito. «Nel bagno, attraverso quella camera da letto.» Seguì i due mentre correvano dentro. Li vide schiacciarsi contro le pareti del bagno per starci tutti e due, e cominciare a prestare le prime cure a Connie. La prima cosa che fecero fu metterle la mascherina dell'ossigeno. Yuri incrociò le dita, sperando che non ci fosse una resurrezione miracolosa. «Respira, anche se debolmente, e si ascolta il battito cardiaco», disse la donna all'uomo. «Però la cute è cianotica. Meglio intubarla.» Yuri li guardò mentre le pompavano l'ossigeno nei polmoni. Il petto le si sollevò decisamente di più di quando respirava per conto suo. «Nessuna ostruzione», disse l'uomo, mente comprimeva il pallonicno dell'ossigeno a intervalli regolari. «Che cosa è successo?» domandò la donna a Yuri, che stava sulla soglia sforzandosi di apparire tormentato. Mentre parlava continuava a lavorare, applicando sul petto di Connie gli elettrodi dell'elettrocardiografo. «Non lo so. Stasera aveva un po' di difficoltà a respirare, ma non tantissimo. Poi l'ho sentita cadere. L'ho trovata così.» La donna annuì. «Ha una storia di asma?» «Sì. Abbastanza.» «E allergie ne ha?» «Anche quelle, sì.» «Si è lamentata di dolori al petto?» «No, quello no.» La donna annuì di nuovo. Mostrò il tracciato dell'elettrocardiogramma al collega e commentò che era lento ma regolare. Lui annuì. La donna sollevò la testa verso Yuri. «Quanto pesa?» «Non lo so. Tanto.» «Questo lo vedo», replicò la donna, poi estrasse una trasmittente dal fodero che teneva alla cintura e chiamò la base. Disse che avevano bisogno
di trasportare una paziente obesa e priva di sensi che al momento sembrava stabile. Richiese almeno altri tre colleghi. Ci vollero molti sforzi per far uscire Connie dal bagno, metterla su una barella e caricarla sull'ambulanza. Durante tutta la procedura Yuri in genere venne ignorato, ma gli fu permesso di salire sull'ambulanza per accompagnare la moglie all'ospedale. Lei intanto era stata intubata e per tutto il percorso continuarono a darle ossigeno. Una volta arrivati, Connie fu portata all'interno del pronto soccorso, mentre Yuri dovette perdere del tempo a dare i dettagli dell'assicurazione medica della moglie. Poi fu relegato nella sala d'attesa. A un certo punto un medico tutto in disordine e con la coda di cavallo venne fuori per fare l'anamnesi, in particolare riguardo all'asma e alle allergie. Yuri disse che Connie di recente non aveva avuto grandi problemi di respirazione, per lo meno da quando erano sposati. Disse che sua moglie gli aveva raccontato di essere stata tante volte in ospedale, o per le visite, o perché era dovuta andare al pronto soccorso. Quanto alle allergie, disse che non sapeva bene a che cosa fosse allergica di preciso, ma gli sembrava che fosse a cose tipo noci, gatti, polvere e polline. «Come va?» chiese esitante, quando il medico si alzò per andarsene. «Per essere sinceri, non bene», ammise quello. «Temiamo che il cervello sia rimasto troppo a lungo privo di ossigeno. Non ha più riflessi periferici, il che non ci fa essere ottimisti sulle funzioni cerebrali. Temo che le cose non si mettano bene. Mi spiace.» Yuri annuì. Avrebbe voluto piangere a comando, ma non gli riusciva. Allora chinò la testa. Il medico gli diede una stretta alla spalla e poi scomparve. Un'ora dopo ricomparve. Questa volta indossava un camice bianco sopra un completo stropicciato che pareva un pigiama. Sulla targhetta era scritto DR. MICHAEL COOPER. Si avvicinò a Yuri e si sedette. Lui guardò nei suoi occhi grigioverdi. «Purtroppo ho brutte notizie», disse il dottor Cooper. Yuri si irrigidì visibilmente. Con gli occhi della mente vedeva Connie che si tirava su a sedere, da qualche parte del pronto soccorso, e si metteva a dire che era stato qualcosa che c'era nel gelato ad averla fatta vedere doppio. «Sua moglie è deceduta», disse con voce sommessa il medico. «Abbiamo fatto tutto ciò che abbiamo potuto, ma non siamo riusciti ad aiutarla. Mi spiace tremendamente.»
Dagli occhi di Yuri sgorgarono le lacrime. Che fossero di gioia non faceva alcuna differenza. Era tutto eccitato per quelle lacrime che aggiungevano un tocco in più alla sua sceneggiata. Ma soprattutto era eccitato all'idea che aveva avuto ragione sul modo in cui sbarazzarsi di Connie. Nonostante tutta l'ansia che lo aveva attanagliato, aveva funzionato. Era libero, e Curt sarebbe stato contento. «So che questo dev'essere uno choc terribile per lei», continuò il dottor Cooper. «Sua moglie è una persona talmente giovane.» «Grazie.» Yuri si strofinò via le lacrime con il dorso di una mano, assicurandosi che il medico lo vedesse. «Suppongo di dover fare qualcosa per il cadavere. Pensa che qualcuno mi possa aiutare? Io non saprei come fare.» «Ma certo. Farò venire qualcuno dei servizi sociali a parlare con lei, nel giro di pochi minuti. Ma posso tranquillizzarla dicendole che non deve prendere decisioni stanotte.» «No? Come mai?» «Perché sua moglie costituisce ciò che noi chiamiamo un caso da medico legale.» «Vuol dire che le faranno l'autopsia?» domandò Yuri, costernato. «Sì, ma le assicuro che viene eseguita con il massimo rispetto per il deceduto.» «Ma perché un'autopsia? Avete la diagnosi.» «È vero. Sappiamo che è morta per arresto respiratorio e che soffriva di asma. Ma è una persona relativamente giovane e, prima di questo attacco, sana anche se obesa. Noi tutti pensiamo che sia meglio se il medico legale dà un'occhiata, nel caso ci fosse sfuggito qualcosa. Non voglio che si preoccupi. È di routine, in questi casi.» «Sono certo che non vi è sfuggito niente», balbettò Yuri. «Grazie per il suo voto di fiducia», replicò il dottor Cooper, «ma sono sicuro che anche lei verrà più facilmente a patti con la perdita subita se verrà stabilito che la causa di questa tragedia è assolutamente al di sopra di qualsiasi dubbio. Capisce che cosa intendo, vero?» «Certo», riuscì a rispondere Yuri, mentre l'ansia che aveva provato prima gli cadde di nuovo addosso come una valanga. 9 Martedì 19 ottobre, ore 6.43
Laurie restò sorpresa di se stessa, svegliandosi prima che suonasse la sveglia. Non si ricordava che le fosse successo da anni. Era ancor più sorprendente, considerando la differenza di fuso orario rispetto a Parigi, da cui era tornata appena la mattina precedente. Ma un semplice calcolo le rivelò che al momento, nella capitale francese, era già passato mezzogiorno, e anche se era stata in Francia solo per un paio di giorni doveva essersi adattata al locale fuso orario. Ai primi movimenti che le sentì compiere, il suo gatto Tom-2 si tirò su, si stiracchiò e venne alla testa del letto per la sua solita dose di coccole. Laurie fu felice di accontentarlo. In contrasto con il primo Tom, un gatto bastardo che lei aveva salvato dalle campagne di abbattimento del servizio veterinario, e che poi era stato brutalmente ammazzato, Tom-2 era un birmano con tanto di pedigree, che aveva acquistato da Fabulous Felines, sulla Seconda Avenue. Aveva otto mesi e il colore del suo manto era molto simile a quello della chioma della sua padrona, ma non aveva i riflessi rossi. Laurie saltò giù dal letto con un entusiasmo maggiore del solito. Nel mese trascorso da quando aveva conosciuto Paul, il suo stato d'animo era sempre stato effervescente. In cucina accese la macchina del caffè, che aveva preparato la sera prima. Tornata nel minuscolo bagno, entrò nella doccia. Viveva in quel miniappartamento fin da quando, otto anni prima, aveva iniziato a lavorare nella sede centrale dell'ufficio di medicina legale di New York. Ora poteva anche permettersi un alloggio più comodo, ma si era abituata a quell'appartamentino al quinto piano, con una sola camera da letto. Inoltre, poiché si trovava ad appena undici isolati dal lavoro, spesso copriva la distanza a piedi, in entrambe le direzioni. Era una comodità di cui godevano pochi altri colleghi. Mentre si lavava la testa, rimuginò sulla serata precedente e non poté fare a meno di reprimere un sorriso. All'inizio era rimasta delusa dalla reazione avuta da Jack e Lou alla sua rivelazione, ma poi, ripensando al loro comportamento, aveva cambiato idea. Adesso le sembrava che ci fosse una nota comica nell'evidente choc che avevano subito e nell'incapacità di augurarle ogni bene. E doveva ammettere con se stessa di provare una certa soddisfazione. Nessuno dei due era stato disposto a fare il benché minimo passo per impegnarsi con lei. Che cosa si aspettavano, che si lasciasse scorrere la vita addosso?
Da tempo sospettava che tutti e due fossero attratti da lei, ma che avessero paura di rivelare i loro sentimenti. Anche se ne apprezzava l'amicizia, la situazione per lei era frustrante, soprattutto perché era sempre stata dell'idea di volere dei figli. Aveva arguito che Jack, in particolare, avesse bisogno ancora di molto tempo per riprendersi dalla dolorosa perdita della sua famiglia. Quindi aveva avuto pazienza. Ma poteva tenere definitivamente in sospeso il suo futuro? Ormai lo conosceva da qualche anno, e lui non aveva mai dato segno di superare quel dolore. Si era fatta l'impressione che l'intera vita di Jack fosse impostata come una reazione a quel tragico incidente. Con Lou era diverso. Il suo radicato complesso di inferiorità sembrava essere immune agli sforzi di Laurie. Lei aveva cercato di intaccare il suo scudo protettivo in tanti modi diversi, senza risultato. Anzi, più lei aveva insistito, più lui si era messo sulla difensiva, fino al punto del litigio. Alla fine, Laurie aveva rinunciato e si accontentava della sua eterna amicizia. Si strofinò vigorosamente i capelli con l'asciugamani, poi li pettinò, prima si usare il phon. Per quanto la riguardava, era molto meglio concentrarsi sulle cose positive, e questo significava pensare a Paul Sutherland. Soltanto l'idea le fece allargare ancora di più il sorriso. Negli ultimi anni, Laurie aveva capito molte cose importanti sulla propria personalità. Si era resa conto di aver preso per tutta la vita decisioni caute, razionali, caratteristica che evidentemente andava molto bene per quanto riguardava la carriera, ma a volte aveva i suoi limiti. Aveva assunto pochi rischi, tranne per una o due piccole ribellioni adolescenziali. Adesso, con Paul, aveva un'opportunità. Era come vedersi offrire in premio il fiocco del vincitore nella turbinante giostra della vita; tutto ciò che doveva fare era allungare il braccio e afferrarlo. Con i capelli sistemati come piacevano a lei, si dedicò al trucco. Non ne metteva molto, quindi l'operazione non durò a lungo. Mentre vi era intenta, ripensò alla sua romantica e impetuosa storia d'amore con Paul. Grazie alla generosità e alla spontaneità da lui dimostrate, non erano stati soltanto a Parigi, ma anche a Los Angeles e a Caracas. Quando erano a New York cenavano fuori quasi ogni sera nei migliori ristoranti della città. Erano stati a teatro, al balletto e ai concerti. Dopo essersi vestita, Laurie tornò in cucina per la sua colazione di cereali, frutta, yogurt e caffè. Mentre mangiava, ammise con se stessa di essere rimasta travolta dalla velocità del corteggiamento. Era ancora sbalordita, per certi versi, dalla proposta di matrimonio di Paul. L'aveva presa com-
pletamente alla sprovvista. E inoltre era immensamente compiaciuta e lusingata di stare con un uomo che sembrava apprezzarla e si faceva in quattro per non perderla. La ragione principale per cui non aveva ancora accettato ufficialmente la sua proposta era il desiderio di parlare ulteriormente con Jack e con Lou, in particolare con Jack. Sapeva che sarebbero stati sulle spine, ma se lo meritavano. E lei sentiva di dover affrontare con i suoi due amici la situazione attuale con franchezza e onestà. Loro potevano agire, se decidevano di farlo, oppure starsene zitti. In questo secondo caso, lei avrebbe afferrato il premio della giostra e avrebbe vissuto il suo futuro con Paul, anche se per lui non provava l'attrazione animale che invece era così intensa con Jack. Gracidò il citofonò, strappandola ai suoi pensieri. Diede un'occhiata all'orologio. Non aveva idea di chi potesse andare da lei alle sette e mezzo del mattino. Sollevò la cornetta dell'antiquato strumento, rispose e riconobbe immediatamente la voce. Era Paul. Gli aprì il portone, poi corse per tutto l'appartamento a raccattare le mutandine che stavano sul bracciolo del divano, un reggiseno adagiato su un tavolino e le calze buttate per terra. La sera prima, quando era rientrata, era stanchissima e si era spogliata lasciando una scia di indumenti praticamente dalla porta d'ingresso fino al letto. Sentendo bussare alla porta, guardò automaticamente dallo spioncino e si ritrovò a fissare un occhio di Paul, che aveva appoggiato il viso contro la minuscola lente. Laurie aprì una dopo l'altra le varie serrature che aveva ereditato dal precedente inquilino e aprì. «Pagliaccio!» lo rimproverò ridendo. Paul aveva un lato giocoso imprevedibile, che a volte la imbarazzava quando erano in pubblico, come quando l'aveva raggiunta nella lillipuziana toletta del Concorde. Laurie era mortificata, quando era uscita, anche se in seguito aveva riso di sé e del barboso uomo d'affari che aveva finto di non essersene accorto. «Sorpresa!» esclamò Paul, togliendo da dietro la schiena la mano che stringeva un mazzo di fiori. «Qualche occasione particolare?» domandò Laurie; «No. Ho solo pensato che fossero belli, quando li ho visti in uno di quei negozi coreani aperti tutta la notte.» «Oh, grazie.» Mentre Laurie cercava un vaso, Paul si tolse il cappotto. Indossava un completo molto simile a quello della sera prima.
«Vieni, se vuoi un caffè», lo chiamò lei dalla cucina. Paul apparve poco dopo, con in braccio Tom-2, che faceva rumorosamente le fusa. «Come lo vuoi?» chiese Laurie. «Io mi sono fatta un caffè filtrato, ma ti posso fare un espresso.» Finì di sistemare i fiori e mise il vaso sul tavolo. «Per me niente. Ho già bevuto abbastanza caffè da bastarmi per tutto il giorno. Forse per tutta la settimana. Mi ha svegliato il telefono, prestissimo. Ah, se solo l'Europa non fosse sei ore avanti a noi, la mia vita sarebbe dieci volte più facile!» «Ti spiace se finisco di far colazione? Non ho tanto tempo.» «Certo che no.» Paul si sedette di fronte a lei al minuscolo tavolo della cucina e continuò a carezzare il gatto, che gli restava accoccolato in grembo, tutto soddisfatto. «Certo, sei uno che fa una sorpresa dopo l'altra», commentò Laurie continuando a mangiare. «Non mi aspettavo di vederti stamattina.» «Lo so.» Sul viso di Paul spuntò un sorrisetto birichino. «Ma volevo metterti a parte di una sorpresa e ho pensato che fosse meglio farlo di persona.» «Uhmm, la cosa sembra intrigante. Che genere di sorpresa?» «Ma prima, lascia che ti dica come sono stato contento di conoscere i tuoi amici, ieri sera. Dei tipi davvero sensazionali.» «Mi fa piacere. Grazie. Ma che cos'è questa sorpresa di cui stai parlando?» Paul sorrise. Sapendo quanto fosse curiosa, faceva apposta a tergiversare. «Sono rimasto particolarmente colpito nel sapere che Jack va in bici per la città.» «Paul!» lo spronò lei, esasperata. «E Lou. Non mi ricordo l'ultima volta che ho conosciuto un tipo così modesto.» «Finirò con il versarti un po' di yogurt sulla cravatta di seta, se non mi dici quello che hai da dire.» Laurie impugnò il cucchiaio pieno di yogurt, tenendolo fermo con l'indice dell'altra mano, come se fosse pronta a usarlo a mo' di minuscola catapulta. «Va bene, va bene!» Paul sollevò le mani in segno di resa, ridendo. Tom-2 saltò giù dalle sue ginocchia e sparì nel soggiorno. «Hai cinque secondi», intimò Laurie. «La sorpresa è che torneremo in Europa, questo weekend. Prenderemo il Concorde per Parigi venerdì, poi la coincidenza per Budapest. E lascia che te lo dica, Budapest è una delle città più interessanti d'Europa. Ti piacerà
tantissimo. Ho prenotato una suite all'Hilton con vista sul Danubio.» Paul fissò Laurie, sul viso un sorriso di autocompiacimento. Lei lo fissò a sua volta, ma non disse niente. Il sorriso di Paul svanì. «Che cosa c'è?» Le chiese. «Questo weekend non posso andare a Budapest.» «Perché?» «Ho da mettermi in pari con il lavoro», rispose Laurie con una mezza risata. «Non ho mai avuto così tante cartellette incomplete sulla mia scrivania.» «Non lascerai che il tuo lavoro interferisca con i nostri weekend, vero?» chiese Paul. Era stupefatto. «Puoi lavorare durante tutta la settimana.» «Ho troppo da fare. Devo mandare avanti le cose, soprattutto dopo aver passato buona parte di ieri con l'agente dell'FBI per quel caso dello skinhead.» Paul sollevò gli occhi al cielo. «Sai che cosa si fa? Rinunceremo ad altre cose che abbiamo programmato per la settimana; dopotutto, oggi è solo martedì. Rinunceremo perfino al balletto di giovedì sera, anche se ho dovuto fare carte false per avere i biglietti. Non è altrettanto importante di un weekend a Budapest.» «Non posso andare a Budapest!» dichiarò lei decisa, con un tono che annunciava battaglia. Ci fu un momento di silenzio. Laurie guardò il suo quasi fidanzato. Lui non restituì lo sguardo, ma tenne gli occhi abbassati sulle proprie mani, mentre intanto scuoteva la testa in modo quasi impercettibile. «Questa è una sorpresa per me», ammise, rompendo il silenzio. Poi mosse di nuovo la testa, come se annuisse, ma sempre con un movimento appena accennato, e continuando a guardare le mani posate in grembo. «Ero così sicuro che tu volessi venire.» «Non è che non ci voglio venire», precisò Laurie, piccata, poi il suo tono si ammorbidi. «Solo che ho degli altri impegni, a causa del lavoro.» «Non credo ti faccia bene lasciare che il tuo lavoro abbia la meglio su di te», replicò Paul e finalmente sollevò gli occhi su di lei. «La vita è troppo breve.» «Be', non è certo una cosa giusta da dire. La ragione vera per cui siamo andati a Parigi lo scorso weekend era che ci dovevi andare comunque per lavoro... non che non ci siamo divertiti, comunque, quando eravamo liberi. Presumo che anche per Budapest sia la stessa cosa. Voglio dire, il motivo per cui ci vai è per seguire i tuoi affari. In altre parole, tu lavori nei
weekend, quindi perché è tanto diverso se lo faccio anch'io?» «È diverso.» «Davvero? Non riesco a vedere come.» Paul fissò Laurie. Era diventato tutto rosso in viso. «Per quanto posso capire, l'unica diversità consiste nel fatto che io a Budapest non posso lavorare», gli fece notare lei. «Ci sono anche altre differenze.» «Fammi qualche esempio.» Paul sospirò e scosse la testa. «Non importa.» «Invece sì, altrimenti non saresti così turbato.» «Sono turbato perché tu non hai voglia di venire.» «Non è che non ho voglia», spiegò di nuovo Laurie. «Lo capisci questo, no?» «Suppongo», rispose Paul, in modo poco convinto. «Che genere di lavoro fai, comunque?» gli domandò Laurie. Si ricordava che Jack le aveva chiesto la stessa cosa, la notte prima. Lei davvero non ne aveva idea, e fino a quel momento non le era mai venuto in mente di domandarlo. Aveva sempre pensato che lui glielo avrebbe detto quando fosse stato importante. Essendo uscita con tanti uomini che sapevano parlare soltanto del loro lavoro, per lei era stato un sollievo che Paul non lo facesse. Eppure cominciava a sentire che era strano che lei non sapesse in quale campo lui svolgeva la sua attività. «È importante?» chiese Paul in tono polemico. «No.» A Laurie parve di aver ferito i suoi sentimenti, suggerendo che lo fosse. «E non penso che questa debba diventare una lite.» «Hai ragione. Mi spiace di aver reagito in questo modo. Il problema è che non ho scelta riguardo a questo viaggio. Ci devo andare, e francamente mi sentirò solo. Con te accanto diventerebbe un piacere.» «Grazie di aver detto queste cose», replicò Laurie. «E ti sono grata per avermelo chiesto. Solo che non posso andar via tutti i weekend. E siamo stati via tre weekend di seguito.» «Capisco», disse Paul, e sorrise debolmente. Laurie lo guardò negli occhi, chiedendosi se fosse sincero. Paul aveva un taxi che lo aspettava davanti al caseggiato di Laurie e fu felice di darle un passaggio. Disse che doveva andare nella stessa direzione. La prima riunione di quel giorno l'avrebbe avuta alle Nazioni Unite. Laurie rimase colpita e si incuriosì ancora di più sulla natura del suo lavo-
ro. Era tentata di chiedergli con chi si sarebbe visto, ma temeva che la motivazione sarebbe stata troppo trasparente. Arrivata a destinazione, Laurie scese di macchina e agitò una mano per salutare, mentre il taxi si lanciava accelerando per la Prima Avenue. Poi si voltò e salì le scale dell'edificio dal lucido rivestimento azzurro. Mentre ne varcava la soglia, capì di essere un po' fuori fase, e non era così che aveva cominciato la giornata. Anche se lei e Paul non avevano propriamente litigato, ci erano andati vicini. Era il primo episodio del genere nel corso della loro romantica relazione. Sperò che non fosse un segno premonitore di come si sarebbero svolte le cose in seguito, e che il vago accenno di sciovinismo maschile nelle risposte che le aveva dato non mascherasse dei punti di vista apertamente maschilisti. Con questi pensieri in testa, attraversò l'atrio vuoto e si avvicinò all'ingresso interno principale, quello che dava sul corridoio del primo piano. «Scusi!» chiamò forte per farsi sentire da Marlene Wilson, la receptionist afroamericana che avrebbe dovuto far scattare per lei l'apertura della porta. «Dottoressa Montgomery! Aspetti!» l'accolse Marlene appena la vide. «Ha dei visitatori che la stanno aspettando.» Una coppia di mezza età che Laurie non aveva mai visto si alzò dai divanetti in similpelle della sala d'aspetto. L'uomo corpulento indossava una giacca rossa a scacchi e aveva bisogno di farsi la barba. Teneva in mano un berretto da cacciatore, con i copriorecchie legati sopra la testa. La donna sembrava fragile. Aveva il bavero della giacca ornato di pizzo. Sembravano provenire da una piccola città del Midwest ed erano evidentemente intimiditi e anche stanchi, come se avessero viaggiato tutta la notte. «Posso fare qualcosa per voi?» chiese Laurie. «Speriamo di sì», rispose l'uomo. «Sono Chester Cassidy e questa è mia moglie, Shirley.» Nel sentire il cognome, Laurie trasalì, rendendosi conto che molto probabilmente erano i genitori di Brad Cassidy. Le venne subito in mente l'immagine orrenda del cadavere su cui aveva lavorato il giorno prima. Ricordò il corpo torturato, con gli occhi cavati via dalle orbite, l'enorme chiodo che gli era stato conficcato nel palmo della mano e la parte del petto e dell'addome dov'era stato spellato vivo. Rabbrividì. «Che cosa posso fare per voi?» riuscì a dire. «Ci hanno detto che è lei la dottoressa che si è presa cura di nostro figlio, Brad», rispose Chester. Con le grandi mani contorte stava cincischiando senza accorgersene il cappello.
Laurie annuì, anche se «prendersi cura» non era certo un eufemismo appropriato per ciò che aveva fatto. «Vorremmo parlare con lei per qualche momento», aggiunse Chester. «Se ha tempo.» «Ma certo», rispose lei, anche se non era particolarmente desiderosa di imbarcarsi in quella conversazione. Avere a che fare con i genitori delle vittime non era un compito facile per lei. «Ma sto arrivando proprio in questo momento. Dovrete concedermi un quarto d'ora circa.» «Oh, sì, capiamo», replicò Chester. Mise un braccio attorno alle spalle della moglie e tornarono insieme verso i divanetti. Intanto la porta era stata aperta e Laurie entrò nella parte interna dell'edificio. Preoccupata per l'imminente incontro con i Cassidy, prese l'ascensore fino al quinto piano e andò direttamente nel proprio ufficio. Appese il cappotto dietro la porta poi diede uno sguardo alla montagna di cartellette che si ergeva sulla scrivania, e fu contenta di essere stata categorica nella decisione di non partecipare al viaggio a Budapest. Trovò la cartelletta del caso Cassidy quasi in cima al mucchio e passò rapidamente in rassegna i documenti che conteneva, fino ad arrivare al modulo di identificazione. Lo tirò fuori, curiosa di sapere chi avesse identificato il cadavere. Il nome indicato era quello di Helen Trautman, la sorella. Tornata al primo piano, passò dalla stanza delle comunicazioni e arrivò in quella delle identificazioni. Voleva una bella dose di caffè, prima di affrontare i Cassidy. Appena entrata, si imbatté in Jack e Vinnie, che erano diretti alla «fossa». Come al solito, cominciavano presto. «Potremmo parlare un momento?» chiese timidamente Jack appena la vide. «Non potresti aspettare?» Laurie lo guardò incuriosita. La timidezza non era una caratteristica che gli era abituale. «In sala d'aspetto c'è una coppia che vuole parlarmi e ho la sensazione che sono lì da un sacco di tempo.» «Ci vorrà soltanto un secondo», promise lui. «Vinnie, va' avanti e prepara la stanza delle autopsie. Arrivo tra un paio di minuti.» «Perché invece non potrei tornare al mio giornale?» suggerì Vinnie. «Non mi va di starmene laggiù nella fossa deserta a girarmi i pollici. Alcune delle vostre conversazioni vanno avanti per mezz'ora.» «Questa volta no», gli assicurò Jack. «Vai!» Vinnie sgattaiolò via. Jack lo guardò allontanarsi e, quando fu sicuro che non poteva sentirlo, si avvicinò a Laurie che si stava servendo il caffè.
Lanciò un'occhiata anche a George Fontworth, ma quello lo ignorava, intento com'era a decidere come distribuire i casi arrivati durante la notte. «Dov'è l'anello di fidanzamento?» chiese a Laurie. Lei si guardò il dito nudo, come se si aspettasse che l'anello fosse lì. «È nascosto nello scomparto freezer del mio frigorifero», rispose. «Di riserva, insomma», commentò lui. Laurie non poté fare a meno di sorridere. Quel commento era proprio da lui. «Non sono ufficialmente fidanzata», gli ricordò. «L'ho già detto ieri sera, nel caso te ne scordassi.» «Immagino che prima vorrai dirlo ai tuoi genitori.» «Un po' questo, un po' qualche altra cosa.» «Comunque», continuò Jack, quasi balbettando, «volevo scusarmi per ieri sera.» «Scusarti di che cosa?» Anche le scuse non facevano generalmente parte del repertorio di Jack. «Per non essermi mostrato più entusiasta di Paul. Sembra un tipo simpatico, e sono rimasto colpito da voi due che ve ne andate a Parigi per il weekend. Io non potrei farlo nemmeno fra un milione di anni.» «Tutto qua quello che volevi dire?» «Immagino.» «Allora le tue scuse sono accettate», concluse Laurie in tono sbrigativo. Buttò giù la tazza di caffè che si era riempita, lanciò a Jack un rapido sorriso per niente spontaneo e si diresse a incontrare i Cassidy. Sapeva che Jack era rimasto di sasso per il suo comportamento, e probabilmente mortificato, ma non le importava. Non erano le scuse che voleva, soprattutto se non erano sincere. Ciò che avrebbe voluto ascoltare da lui era come si sentiva rispetto al saperla fidanzata. Ma adesso capiva che non sarebbe accaduto, ed era frustrata. Come prima cosa controllò in che condizioni fosse una delle salette laterali che venivano riservate ai parenti durante le sconvolgenti procedure di identificazione. In passato, la gente doveva scendere all'obitorio a vedere il cadavere, ma quello era un modo di procedere inutilmente crudele, tanto più per chi era ancora sotto choc per la perdita di una persona cara. Adesso venivano usate delle Polaroid, ed era molto più facile per tutti. Accertatasi che la saletta era abbastanza pulita, andò a chiamare i Cassidy. Loro vi entrarono in silenzio e presero posto sulle sedie. Laurie si appoggiò al tavolo di legno dal ripiano graffiato. Le uniche altre cose in quella stanza erano una scatola di fazzolettini, un cestino della carta straccia e
diversi portacenere sbeccati. «Volete un po' di caffè?» chiese Laurie, tanto per rompere il ghiaccio. «Meglio di no», rispose Chester. Si era tolto la giacca. La camicia di flanella era abbottonata fino al collo. «Non vogliamo rubarle troppo tempo.» «Non c'è problema. Noi siamo qui per servire il pubblico, alla lettera. E lasciate che vi dica che mi spiace tantissimo per vostro figlio. Sono certa che per voi è stato un grosso choc.» «Per certi versi sì, ma per altri no», rispose Chester. «È sempre stato un ragazzo ribelle. Niente a che vedere con la sorella e il fratello maggiori. A dirle la verità, ci sentivamo in imbarazzo per come si vestiva e per l'aspetto che aveva, in particolare per quel simbolo nazista che si era fatto tatuare sulla fronte. Mio zio è morto combattendo contro i nazisti. Io e Brad abbiamo avuto un litigio per quel tatuaggio, per quello che è servito!» «La ribellione degli adolescenti a volte è difficile da capire», commentò Laurie. Voleva fare in modo che la conversazione non vertesse sulle condizioni del cadavere. Una delle sue preoccupazioni era che i Cassidy chiedessero di vedere le foto del figlio che erano state scattate al suo arrivo all'obitorio. Non erano certo adatte per essere viste dai non addetti ai lavori, in particolare da un genitore. «Il problema è che non era più un adolescente», osservò Chester. La moglie annuì. «Ma si era imbrancato con le persone sbagliate. Avevano tutti quella roba nazi. E hanno cominciato ad andarsene in giro a picchiare chi era diverso, come i gay e i portoricani.» «È così che si è messo nei guai, la prima volta», intervenne Shirley. Aveva una voce inaspettatamente alta, stridula. «So che ha avuto delle difficoltà con la polizia.» Laurie cominciava a rilassarsi. Sembrava che i Cassidy avessero semplicemente voglia di parlare e lei poteva capire quella loro esigenza, considerando il dolore e lo sconcerto per la morte prematura del figlio. L'unico problema era che c'erano cose che le avevano detto Lou e l'agente Tyrrell riguardo alla vittima, che lei non poteva rivelare ad altri, come il fatto che stava collaborando con le autorità, per ottenere uno sconto della pena. «Da nostra figlia Helen abbiamo saputo che a Brad sono accadute cose tremende», continuò Chester. «Di recente era venuto a stare da lei, qui in città. Lei però non ci ha saputo dare molti dettagli della sua morte. È per questo che siamo venuti qui.» «Che cosa vorreste sapere?» chiese Laurie, sperando di poter restare sulle generali.
Marito e moglie si guardarono per vedere chi dovesse parlare. Chester si schiarì la gola. «Una delle cose che volevamo sapere era se gli hanno sparato.» «Sì», rispose in fretta Laurie. «Proprio così.» «Te lo avevo detto», disse Shirley al marito, come se la risposta di Laurie sostenesse la sua posizione in una discussione precedente. «Perché chi di spada ferisce di spada perisce: Matteo, ventisei.» «Sa che tipo di arma da fuoco?» chiese ancora Chester. «No, e non sono nemmeno sicura che si potrà sapere. Verrà esaminata la pallottola, certo, e se riterranno che sia coinvolta un'arma particolare, verrà cercata.» «Gli hanno sparato una volta sola?» volle sapere Chester. «Riteniamo di sì.» Laurie si sentiva a disagio nel dare dettagli maggiori, poiché sull'omicidio di Brad stavano ancora indagando. «Allora forse non è stato uno dei suoi fucili», disse Chester a Shirley. «Altrimenti probabilmente ci sarebbero stati più proiettili.» «Vostro figlio aveva tante armi da fuoco?» domandò Laurie. «Troppe», rispose Shirley. «È così che si è messo nei guai, la seconda volta. Pensavamo che sarebbe andato in prigione. Le dirò, non capisco proprio che cosa ci trovano gli uomini nelle armi da fuoco!» «Be', non tutte sono male», intervenne Chester. «Quasi tutte, se lo vuoi sapere», sbottò Shirley. «In particolare quelle automatiche.» Poi, rivolta a Laurie, aggiunse: «Ecco in che cosa era coinvolto Brad: vendeva fucili d'assalto». «Dove se li procurava?» L'idea di uno skinhead poco più che adolescente che vendeva fucili mitragliatori a New York fece venire i brividi a Laurie. «Non lo sappiamo di preciso», rispose Chester. «All'inizio arrivavano dalla Bulgaria. Per lo meno, è lì che li fabbricavano. Ne ho scovati un mucchio, nascosti nel nostro fienile.» «È terribile!» esclamò Laurie. Sapeva che era un commento scontato, ma esprimeva ciò che provava davvero. Dato il suo particolare interesse professionale per le ferite da arma da fuoco, ne aveva viste tantissime, più di chiunque altro collega di quell'ufficio. Non poteva fare a meno di chiedersi se avesse mai fatto l'autopsia a qualche cliente di Brad Cassidy. «C'è un'altra cosa che vorremmo sapere», disse a quel punto Shirley, esitante. «Vorremmo sapere se il nostro ragazzo ha sofferto.» Laurie distolse un attimo lo sguardo, mentre lottava dentro di sé per tro-
vare una risposta. Detestava dover scegliere tra la verità e la compassione. Era innegabile che Brad Cassidy era stato torturato spietatamente, ma a che cosa sarebbe servito riferire tale orrore ai suoi genitori? D'altra parte, aborriva la menzogna. «Ce lo può dire con franchezza», intervenne Chester, come se intuisse i suoi dubbi. «È stato colpito alla testa, e riteniamo che sia morto all'istante.» Ecco, lo aveva detto. Aveva risposto quasi senza accorgersene. Non era stata del tutto onesta, poiché non aveva risposto alla domanda di Shirley, ma non aveva neppure mentito. Stava ai Cassidy porre la domanda cruciale sull'ordine degli eventi che avevano preceduto l'assassinio del figlio. «Sia ringraziato il Signore!» esclamò Shirley. «Era un ragazzo difficile e di certo non era un buon elemento, ma l'idea che abbia sofferto mi preoccupava immensamente.» «Sono felice di essere stata d'aiuto», tagliò corto Laurie, e si staccò dal tavolo, desiderosa di evitare altre domande ponendo fine all'incontro. «Se c'è qualche altra cosa che volete sapere, telefonatemi pure.» La coppia si alzò, piena di gratitudine verso di lei, e Chester le strinse vigorosamente la mano. Laurie gli porse un biglietto da visita e li accompagnò fuori dalla stanzetta e poi attraverso la stanza delle identificazioni. Aprì la porta che dava sull'atrio e i Cassidy uscirono. Dopo un ultimo saluto, lasciò andare la porta, che si richiuse automaticamente. Poi emise un sospiro di sollievo. «Stavi facendo un'identificazione? C'è un nuovo caso di cui non sono a conoscenza?» domandò George Fontworth. Era chino sull'elenco dei decessi, decidendo a chi assegnare le autopsie della giornata. «No, erano i genitori di un caso che ho fatto ieri», rispose lei, con lo sguardo fisso nel vuoto. Era preoccupata per ciò che aveva appena appreso dai Cassidy: un ragazzo che andava in giro a vendere fucili mitragliatori, probabilmente ad altri skinhead! Con quello che aveva saputo il giorno prima dall'agente speciale Tyrrell, mettere tali armi letali in mano a gente così violenta e fanatica era un invito al disastro, soprattutto considerando che i gruppi armati di estrema destra si stavano dando da fare a reclutare gli skinhead per utilizzarli come truppe d'assalto. Dove andrà a finire il mondo? si chiese. La sua convinzione che fosse giusto limitare l'uso e il possesso delle armi da fuoco si rafforzò ancora di più.
10 Martedì 19 ottobre, ore 11.15 Yuri lasciò il motore acceso e scese dal suo taxi per aprire la porta del garage. Nonostante l'enorme stanchezza, la vista del camioncino dei pesticidi gli fece affiorare un sorriso sul volto emaciato. Il fatto che fosse lì dentro, in attesa del gran giorno, era fonte di enorme soddisfazione e dava un significato agli sforzi a cui si stava sottoponendo e a tutte le ansie che lo assalivano. Portò dentro l'auto e richiuse la porta; non voleva che qualcuno vedesse il pickup. Arrivato alla porta sul retro, si fermò un momento a dare un'occhiata attorno. Voleva essere sicuro che nessuno stesse badando a lui. Non era una cosa abituale che tornasse a casa a metà mattinata, e di certo tutto il bailamme dell'ambulanza, quella notte, aveva attirato l'attenzione dei vicini. Però non vide nessuno. Era un placido giorno dell'estate indiana, con la temperatura attorno ai 20-22 gradi. Per il momento, non si vedeva in giro nemmeno un cane. Una volta in casa, andò direttamente al frigo e si versò una vodka. Si appoggiò al ripiano della cucina e bevve una sorsata per calmarsi. Era ancora nervoso, all'idea del cadavere di Connie che era stato portato nell'ufficio di medicina legale, al Kings County Hospital. Lo aveva accompagnato per l'identificazione, anche se gli avevano detto che non era necessario, dato che aveva già ottemperato a quella formalità al Coney Island Hospital. Lui però ci era andato lo stesso, nella speranza di convincere i dottori a non eseguire l'autopsia. Comunque era andata a finire che non era nemmeno riuscito a vedere un medico. La persona che aveva incontrato era una donna che si era presentata come investigatrice legale. Per lo meno, Yuri si era premurato di darle a bere la storia dell'asma e delle allergie. Lei gli aveva detto che l'autopsia non avrebbe avuto luogo prima delle otto, quando sarebbero arrivati i medici legali. Era arrivato a casa alle cinque del mattino. Anche se era esausto, capiva che non sarebbe riuscito a dormire; era talmente agitato che aveva tirato fuori il taxi per farsi un po' di clienti nell'ora di punta. Era stata una decisione saggia. Non solo aveva guadagnato dei bei soldi, ma il lavoro gli aveva distolto la mente dalle preoccupazioni, per lo meno finché aveva avuto da fare. Appena c'era un po' di stanca, era tutta un'alta storia. Alla fine si era diretto a casa, anche perché aveva altre cose da fare,
ben più importanti che passare la giornata a guidare. Non vedeva l'ora di scendere nel laboratorio. Anche se non aveva fame, si costrinse a mangiare un po' di cereali. Il suo stomaco vuoto borbottava per la pizza della notte prima, per il caffè e ora anche per la vodka. Mentre mangiava, guardò il telefono. L'investigatrice legale gli aveva dato un numero da chiamare nel pomeriggio per sapere quando il cadavere di Connie sarebbe stato consegnato all'impresa di pompe funebri che lui aveva scelto. Yuri si chiedeva se magari poteva già essere il momento. Per lui, prima Connie usciva dall'ufficio di medicina legale, meglio era. Compose il numero. Con sua sorpresa, rispose una persona, e non la segreteria telefonica. Disse chi era e chiese notizie del corpo della moglie. «Mi può ripetere il nome?» gli chiese la receptionist. «Davidov», ripeté lui. «Connie Davidov.» «Aspetti un secondo, che controllo.» Yuri sentì le pulsazioni accelerare. Detestava avere a che fare con la burocrazia di qualsiasi tipo. «Non riesco a trovare la sua scheda», disse la donna. «È sicuro che sua moglie sia stata portata nell'ufficio di Brooklyn?» «Certo, ci sono venuto anch'io!» «Come si scrive Davidov?» Yuri sillabò lentamente il proprio cognome. La sua ansia aumentò. Forse avevano fatto la diagnosi e chiamato la polizia. Forse gli sbirri stavano già andando a prenderlo, proprio in quel momento. Forse... «Ah, ecco!» esclamò la receptionist. «Per forza non la trovavo. A sua moglie non è stata fatta l'autopsia.» «Vuol dire che non gliel'hanno ancora fatta?» «No, che i medici hanno deciso che non ce n'era bisogno.» «Perché?» chiese Yuri. Gli sembrava troppo bello per essere vero. «A noi non dicono questo tipo di cose. Dovrà parlare con il medico di turno. Oggi è il dottor Randolph Sanders. Aspetti solo un attimo!» Yuri cercò di fermarla, perché non era sicuro di voler parlare con il medico, ma lei lo aveva già messo in attesa, e dalla cornetta usciva della musica da ascensore. Durante l'attesa, Yuri si sforzò di tenere a bada l'eccitazione. La decisione di non fare l'autopsia a Connie era un'ottima notizia, ammesso che fosse vera. Tamburellò nervosamente con le dita sul ripiano della cucina e prese un altro sorso abbondante di vodka.
«Parla il dottor Sanders», disse una voce, interrompendo la musica. «Posso esserle utile?» Yuri spiegò nervosamente chi era e che cosa gli aveva detto la receptionist. «Ah sì», replicò il medico. «Conosco bene quel caso. Sono stato io a decidere che non era necessaria l'autopsia.» «Allora posso riprendere il corpo?» «Sì, sì. Può essere preso in qualsiasi momento dall'impresa di pompe funebri da lei scelta. Credo che sia la Strickland, vero?» «Esatto. Devo chiamarli io per dirglielo?» «Sono certo che ha già provveduto il nostro ufficio apposito. O per lo meno lo faranno ben presto.» «La ringrazio tantissimo», aggiunse Yuri, cercando di non lasciar trapelare la sua eccitazione, per non rischiare che venisse interpretata correttamente. «Tanto per curiosità, come mai questo cambiamento di programma? Voglio dire, sono sollevato nel sapere che non ci sarà autopsia, perché non ero contento che il cadavere di mia moglie venisse deturpato.» «In realtà non è stato un cambiamento di programma», spiegò il dottor Sanders. «Non tutti i pazienti che ci mandano vengono sottoposti ad autopsia. C'è una costante valutazione della necessità. Nel caso di sua moglie, il medico che l'ha presa in cura ha certificato la causa di morte, che di certo è coerente con il fatto che soffriva d'asma. E poi, il suo peso non ha certo aiutato la situazione.» «No, certo. Grazie per aver parlato con me.» «Si figuri! Le faccio le mie condoglianze per la perdita che ha subito.» «È un momento difficile per me. Grazie per le sue premure.» Yuri riattaccò e fu invaso da un magnifico senso di autocompiacimento. Era come se l'ultima barriera per l'Operazione Volverina gli si fosse sgretolata davanti e la meta fosse ormai pienamente visibile. Non poteva aspettare di dirlo a Curt. Risciacquò il piatto dove aveva mangiato i cereali, buttò giù il resto della vodka e scese in cantina. Nell'aprire il catenaccio dell'ingresso fischiettò. Si sentiva talmente euforico da non accorgersi quasi della stanchezza. Tolse anche il lucchetto della porta che dava nel ripostiglio ed entrò. Andò agli scaffali e scelse le sostanze nutritive per le colture e altri materiali che gli servivano. Portò tutto fuori, deponendolo ai piedi della porta che dava nel laboratorio vero e proprio. Quindi indossò la tuta con il respiratore. Quando fu pronto aprì la porta e raccolse da terra ciò che vi aveva
appoggiato. La prima cosa che fece fu togliere i panetti di spore di carbonchio dall'essiccatore e metterli nel polverizzatore. Quando lo accese, fu contento del rumore dell'aria compressa che gli circolava nel casco, perché lo aiutava a sopportare meglio il baccano delle sfere d'acciaio che vorticavano nel cilindro di metallo. La cosa seguente da fare era raccogliere altre spore di carbonchio dal fermentatore e porre la brodaglia semiliquida nell'essiccatore. Dopo averlo fatto, ricaricò il fermentatore con sostanze nutritive fresche, in modo che i batteri continuassero la loro furibonda riproduzione e formazione di spore. Infine, si dedicò al secondo fermentatore. Controllò ancora una volta il livello di crescita del Clostridium botulinum e, di nuovo, vide che era inferiore ai valori normali. La cosa lo sconcertava, ma non lo preoccupava più, adesso che stava per convertire il fermentatore alla produzione di Bacillum anthracis. In questo modo, avrebbe avuto i quattro-cinque chili necessari nel giro di pochi giorni. Soffermandosi un momento durante il lavoro, Yuri si chiese che cosa dovesse farne del Clostridium botulinum. Anche se la crescita era stata minore di quanto aveva previsto, esisteva ormai una quantità enorme di batteri. Si guardò attorno alla ricerca di qualche tipo di contenitore. Gli unici che potevano andar bene erano quelli delle sostanze nutritive, ma li aveva gettati via a mano a mano che li aveva vuotati e ciò che aveva a disposizione non era sufficiente per il contenuto di tutto il fermentatore. C'era soltanto una soluzione: gettare tutto direttamente nello scarico. Provò a pensare se questo avrebbe causato conseguenze che potevano mettere in allerta le autorità. Si soffermò un attimo a prenderle in considerazione, ma non gliene venne in mente nessuna. Non gli sembrava che negli impianti di trattamento delle acque di scolo si sarebbero preoccupati del contenuto di batteri dei liquidi in entrata. Badavano solo a quelli in uscita. Soddisfatto della sua decisione, andò a prendere gli attrezzi da idraulico e si mise all'opera. Il lavoro consisteva nell'aprire alcune valvole, dato che Yuri al momento dell'installazione aveva collegato i fermentatori ai tubi di scarico. Con le valvole aperte, il livello del liquido diminuì rapidamente. Da una valvola di sicurezza posta sulla sommità della struttura uscì un gorgoglio. Una volta che il fermentatore fu vuoto, Yuri lo pulì con un abbondante getto d'acqua, poi cominciò a caricarlo con un nuovo brodo di coltura. Infine vi predispose una nuova produzione di carbonchio partendo dalla col-
tura originale che aveva isolato dal campione di terra dell'Oklahoma. Quando ebbe finito, si raddrizzò, diede una pacca al fermentatore e gli disse di comportarsi in modo che lui ne fosse fiero. Poi riportò di nuovo la propria attenzione al polverizzatore, per vedere quanto tempo restava alla fine del processo in corso. Appena questo fu completato, scaricò la polvere e poi decise di salire di sopra a concedersi un lungo e meritato pisolino. 11 Martedì 19 ottobre, ore 13 Jack gettò da parte il testo sulle malattie infettive che aveva preso in biblioteca e imprecò a voce alta. Stava cercando di informarsi ulteriormente sul carbonchio, poiché il caso di Jason Papparis continuava a preoccuparlo, ma faceva fatica a concentrarsi. Fece compiere mezzo giro alla poltroncina su cui era seduto e, notando che quella di Chet era vuota, si chiese dove fosse finito il suo compagno di stanza. Jack era ansioso di riferirgli la recente esperienza che confermava i suoi sospetti sul fatto che le donne fossero impossibili. Durante la notte, si era svegliato sentendosi tremendamente in colpa per aver deluso Laurie, non essendosi mostrato più entusiasta nei confronti del suo nuovo boyfriend. Pur rendendosi conto che la gelosia svolgeva un certo ruolo nella valutazione di Paul, sentiva comunque che in quell'uomo c'era qualcosa che non gli piaceva. Come aveva già accennato a Lou, si trattava del gesto esageratamente galante di portare Laurie a Parigi per il weekend. A lui quel comportamento faceva pensare a una specie di corruzione. In base alla sua esperienza, gli uomini di quel tipo finivano invariabilmente per mostrare un aperto maschilismo, una volta che la relazione fosse ormai stabile e la donna emotivamente coinvolta. Verso le quattro del mattino, Jack aveva deciso che avrebbe ammesso di avere sbagliato. Anche se la cosa lo seccava, sarebbe andato fino in fondo e si sarebbe scusato. Poi avrebbe detto qualcosa di lusinghiero nei confronti di Paul, qualcosa che gli sarebbe venuta in mente lì per lì. La decisione aveva richiesto un certo numero di ore. Ciò che aveva fatto pendere la bilancia da quella parte era stato l'accorgersi di quanto l'amicizia di Laurie fosse importante. Ma le cose non erano certo andate come aveva previsto. Dopo che Jack aveva messo in pratica la sua decisione, Laurie aveva accettato a malapena
le sue scuse e se n'era andata di corsa. Per tutta la mattinata lo aveva evitato e non aveva dato il minimo segno di aver apprezzato il suo gesto. Jack si era sentito doppiamente biasimato. Prima perché non era stato complimentoso verso Paul, e poi perché lo era stato. Scosse la testa. Non sapeva che cosa avrebbe potuto fare d'altro. Facendo roteare di nuovo la poltroncina, mise la mano sul ricevitore. Se non riusciva a documentarsi sul carbonchio leggendo, avrebbe potuto far lavorare il telefono. Nell'ora precedente aveva chiamato cinque o sei ospedali cittadini per parlare con il primario del reparto di malattie infettive o, dove questo non esisteva, di medicina interna. Quando gli passavano la persona che cercava, descriveva a grandi linee il caso di carbonchio polmonare arrivato dal Bronx General Hospital e chiedeva se nel loro ospedale ci fosse qualche caso che poteva far pensare al carbonchio. Le risposte erano state tutte negative, ma per lo meno Jack sentiva di instillare il seme del dubbio nelle persone giuste. In quel modo, se fosse arrivato un paziente colpito da quella malattia, o se avessero avuto un caso non ancora diagnosticato, per lo meno ci avrebbero pensato. Tra il personale degli ospedali newyorkesi, il carbonchio non era mai in cima alla lista delle diagnosi differenziali. Jack compose il numero del Columbia Presbyterian Medical Center e, quando gli passarono il primario del reparto malattie infettive, gli ripeté la solita tiritera. Quello restò scioccato nel sentire la storia di Jason Papparis, ma assicurò Jack che nel suo centro medico nessun paziente poteva considerarsi un candidato alla diagnosi di carbonchio. Jack riattaccò e cercò sulle pagine gialle il numero di un altro ospedale da contattare. Prima che potesse comporre il numero, però, squillò il telefono. Staccò di scatto il ricevitore, aspettandosi che fosse qualche medico da lui contattato, che lo richiamava con notizie interessanti. Rimase deluso. Era la signora Sanford, la segretaria del capo, che gli faceva una richiesta non nuova: Bingham voleva vederlo il più presto possibile. Decisamente non dell'umore giusto per le quisquilie burocratiche, come Jack definiva i suoi frequenti scontri con il capo, prese l'ascensore e scese al primo piano. Come uno scolaretto che si presenta dal direttore in attesa di essere castigato, lui si presentò a Cheryl Sanford, che gli sorrise e gli strizzò un occhio. Nel corso degli anni Jack e Cheryl avevano avuto modo di conoscersi abbastanza bene, poiché ogni volta che il capo lo chiamava con urgenza, gli faceva fare invariabilmente anticamera e, per ammazzare il tempo, non c'era niente di meglio che un'amichevole conversazione.
Jack restituì la strizzatina d'occhio. Faceva parte di un modo di comunicazione non verbale che ormai si era stabilito tra loro due. Significava che poteva rilassarsi, dato che l'imminente incontro con il capo era solo di routine: che il dottor Bingham si sentiva obbligato, e non motivato, a dargli una ripassata per qualche trasgressione. «Come se la passa suo figlio?» chiese Jack, sedendosi sul divanetto rivestito in similpelle, più duro della pietra, posto davanti alla scrivania della segretaria. La porta che dava sull'ufficio del capo stava alla sinistra di Cheryl ed era sempre socchiusa. In quel momento si udiva la voce di Bingham che parlava al telefono. «Proprio bene», rispose Cheryl, orgogliosa. «continua a prendere il massimo dei voti.» «Fantastico», commentò Jack. Si dava il caso che conoscesse il figlio di Cheryl, Arnold. Di tanto in tanto giocava a pallacanestro nel suo stesso campo di basket. Era un giocatore giovane e ancora timido, ma con evidenti doti naturali. Cheryl, che era una madre nubile afroamericana, abitava in un caseggiato sulla 105esima Strada che Jack poteva scorgere dalla finestra della camera da letto. «Dice che gli piacerebbe, un giorno o l'altro, saper giocare a basket come lei», aggiunse Cheryl. Jack si schermì con una risata. «Diventerà dieci volte meglio di me», replicò. Non esagerava: Arnold aveva appena compiuto quindici anni ed era già un giocatore richiesto perfino da Warren. «Io preferirei che la imitasse nelle sue capacità di medico», replicò Cheryl. «Ha espresso interesse», la rincuorò Jack. «Abbiamo fatto quattro chiacchiere la scorsa settimana, mentre aspettavamo tutti e due di entrare in gioco.» «Me lo ha detto, e apprezzo molto che lei gli abbia dedicato del tempo.» «Ehi, è un ragazzo in gamba! È un piacere parlare con lui.» In quel momento il dottor Harold Bingham tuonò l'ordine perentorio che Jack entrasse da lui. Jack si alzò e si diresse verso la porta accostata. Mentre le passava davanti, Cheryl sussurrò: «Adesso si comporti bene! Non lo esasperi, altrimenti sarà insopportabile per tutto il giorno!» Il capo era sprofondato nella sua poltrona, dietro la scrivania massiccia, ingombra di scartoffie. Aveva appena compiuto sessantacinque anni, e li dimostrava tutti. Nei quattro anni da che Jack lavorava lì, il naso a patata
di Bingham sembrava essersi allargato, assieme alla rete di capillari che lo incorniciava. La luce proveniente dalla finestra metteva in risalto la testa calva e sudata, creando quasi un'aureola luminosa che fece socchiudere gli occhi a Jack. «Si sieda!» ordinò Bingham. Jack obbedì e attese. Non aveva idea del perché lo avesse chiamato, ma sapeva che c'erano diversi potenziali argomenti di discussione. «Non si stanca di questa routine?» iniziò Bingham, socchiudendo gli occhi acquosi, di un azzurro che faceva pensare all'acciaio, e fissandolo senza batter ciglio, come per esaminarlo a fondo attraverso gli occhiali dalla montatura di metallo. Anche se pareva vecchio come Matusalemme, era acuto come sempre ed era una vera enciclopedia ambulante per quanto riguardava la medicina legale. Era riconosciuto a livello mondiale come uno dei giganti in quel settore. «È bello vederla di tanto in tanto, capo», replicò Jack, poi trasalì: sapeva che, con quella battuta scanzonata, aveva già ignorato l'avvertimento di Cheryl. Bingham si tolse gli occhiali e si strofinò gli occhi con le grosse dita, poi scosse la testa. «A volte vorrei che lei non fosse in gamba com'è, perché allora saprei esattamente che cosa fare di lei.» «Grazie per il complimento, capo. Oggi avevo proprio bisogno di essere tirato su.» «Il problema è che lei è una grossa spina nel fianco.» Jack si morse la lingua. Gli erano venute in mente alcune battute spiritose, ma rinunciò a dirle ad alta voce, per riguardo a Cheryl. Dopotutto, era lei che avrebbe dovuto spupazzarsi Bingham per il resto della giornata. Il cattivo umore del capo era leggendario quasi quanto la sua conoscenza della medicina legale. «Ha idea del perché l'ho chiamata qui?» «Mi rifiuto di rispondere perché so che tutto ciò che dirò potrà essere usato contro di me», replicò Jack. Bingham sorrise suo malgrado, ma il viso gli si ricompose immediatamente. «Lei è una seccatura, ragazzo mio. Ma ascolti! Poco fa ho ricevuto una telefonata dalla dottoressa Patricia Markham, l'ufficiale sanitario. Sembra che lei abbia di nuovo esasperato l'epidemiologo municipale, il dottor...» Bingham inforcò di nuovo gli occhiali e si mise a frugare tra le carte che aveva davanti, alla ricerca del nome.
«Il dottor Abelard», suggerì Jack. «Già, quello.» «Qual è l'accusa?» «Era in collera perché lei ha svolto il suo lavoro. Come mai? Non le diamo abbastanza da fare qui?» «Gli ho telefonato, come mi aveva suggerito il dottor Washington. Pensavo che volesse sapere del caso di carbonchio che avevo diagnosticato.» «Così mi ha detto Calvin, sì.» «Ma il dottor Abelard ha preso l'informazione sottogamba. Ha detto che se ne sarebbe occupato quando avesse avuto tempo, o una cosa del genere.» «Ma, da quello che so, la fonte dell'infezione è al sicuro in un magazzino di Queens», osservò Bingham. «Vero», ammise Jack. «Però lei si è sentito autorizzato ad andare sul posto e a rovistare tra gli schedari della vittima», sbottò Bingham. «Che cosa le succede, è pazzo? E se qualche avvocato impegnato nella battaglia per i diritti civili lo viene a sapere? Lei non aveva un mandato, né altro tipo di autorizzazione.» «Ho chiesto il permesso alla moglie della vittima.» «Ah, questo reggerebbe benissimo in tribunale», commentò Bingham con sarcasmo. «Temevo che una parte degli acquisti più recenti fosse stata venduta. In quel caso, il carbonchio avrebbe potuto diffondersi. Avremmo potuto avere una miniepidemia.» «Il dottor Abelard ha ragione.» Bingham era evidentemente adirato. «Ciò di cui sta parlando è un lavoro che spetta a lui, non a questo ufficio.» «Il nostro compito è proteggere il pubblico», si difese Jack. «Secondo me c'era il rischio che il dottor Abelard non si desse da fare. Non dimostrava di prestare alla cosa l'attenzione che meritava.» «Quando ha impressioni di questo tipo riguardo a un dipendente pubblico, venga da me!» tuonò Bingham. «Invece di lasciare che lei corresse di qua e di là a giocare al detective epidemiologo, avrei potuto chiamare Pat Markham. Come ufficiale sanitario, spetta a lei far muovere il culo alla gente, se è necessario. È così che il sistema dovrebbe funzionare.» «Va bene», si limitò a dire Jack, stringendosi nelle spalle. Per deferenza a Cheryl, non si sarebbe imbarcato in una discussione sull'inefficienza della burocrazia e sulla frequente incompetenza dei dipendenti pubblici. L'esperienza fatta di persona gli aveva dimostrato che fin troppo spesso, se lui
non fosse intervenuto, le cose non sarebbero state fatte. «Bene, allora se ne vada al diavolo», lo congedò Bingham, unendo alle parole un eloquente gesto della mano. Con la mente era già passato a un altro argomento che aveva in agenda. Jack uscì e, fermatosi davanti alla scrivania di Cheryl, chiese. «Come sono andato?» «Onestamente, sei più», rispose Cheryl con un sorriso malizioso. «Ma dato che di solito prende un quattro, da quanto lo esaspera, spingendolo sull'orlo dell'apoplessia, direi che ha fatto progressi.» Jack le rivolse un cenno di saluto e imboccò il corridoio. Ma non andò tanto lontano. Lo vide Calvin, attraverso la porta socchiusa del suo ufficio. «Come procede il caso David Jefferson?» gli domandò. Jack si affacciò alla porta; «Non mi è tornato ancora niente. Hai chiamato John DeVries, su in tossicologia, per accelerare le cose nel suo laboratorio?» «Subito dopo aver detto che lo avrei fatto.» «Bene, allora passo di lì immediatamente.» «Ricordati: voglio il caso concluso entro giovedì!» Jack rivolse al vice del capo un segno di pollice alzato, anche se dubitava che sarebbe stato possibile, poiché tutti gli esami di laboratorio non erano ancora rientrati. Ma era inutile discuterne adesso. Preferì prendere l'ascensore e salire al quarto piano. C'era sempre la possibilità di un miracolo. Trovò John DeVries nel suo minuscolo cubicolo senza finestre e gli chiese del caso in questione. Come tutta risposta, John si lanciò in un appassionato lamento sullo stanziamento di fondi per la tossicologia. Quando uscì di lì, Jack era ancora più sicuro che entro giovedì non sarebbe riuscito a chiudere quel caso. Usando le scale, salì al sesto piano ed entrò nel laboratorio del DNA. Ted Lynch, il direttore, stava davanti a uno dei molti macchinari ad alta tecnologia, assieme a un tecnico. Sul bancone era aperto il manuale d'istruzioni di quel macchinario. Era evidente che non funzionava bene. «Ah, proprio l'uomo che speravo di vedere!» lo accolse Ted, quando lo vide. Si raddrizzò, stiracchiandosi e strofinandosi la schiena. Aveva un fisico imponente, e in gioventù era stato una stella del football in una delle maggiori squadre universitarie. Il viso di Jack si illuminò. «Questo vuol dire che hai qualche risultato positivo per me?»
«Sì. Uno dei campioni che mi hai portato era positivo alle spore di Bacillum anthracis.» «Accidenti!» Jack era sorpreso. Pur essendosi dato da fare per prendere tutte le colture, non si aspettava risultati postivi. «Quale campione era? Te lo ricordi?» «Certo. Era quello con la stellina celeste iridescente.» «Porca miseria!» commentò Jack. Si ricordava di aver trovato la stellina proprio al centro del tampone di carta assorbente, sulla scrivania. Sembrava talmente fuori luogo in quell'ambiente spartano, da fargli pensare a una traccia di qualche festeggiamento avvenuto molto tempo prima. «Puoi dirmi qualche altra cosa al proposito?» domandò ancora. «Sì», rispose Ted, desideroso di collaborare. «Mi sono fatto mandare da Agnes un campione della coltura che ha preso dal paziente. Adesso stiamo facendo un esame del DNA sulle impronte, in modo da vedere se si tratta delle stesse. Voglio dire, si presumerebbe di sì, ma sarebbe meglio avere una conferma.» «Certo. Nient'altro?» «Per esempio?» Ted era un po' impermalosito. Pensava che Jack sarebbe rimasto più che soddisfatto di ciò che gli aveva già detto. «Non lo so. Sei tu il mago di questi macchinali ad alta tecnologia. Io non so nemmeno quali domande fare.» «Mica so leggere nella mente delle persone», ribatté Ted. «Ho bisogno di sapere quali informazioni vuoi.» «Be', magari sarebbe interessante sapere se la stellina era altamente contaminata con le spore, oppure soltanto leggermente.» «Questa è una domanda interessante», commentò Ted. Distolse lo sguardo e si masticò l'interno della guancia, mentre ci rimuginava sopra. «Devo pensarci un po'.» «E io dovrò pensare un po' a come si è contaminata.» «Non proveniva dall'ufficio della vittima?» «Sì. La stella era sulla scrivania dell'ufficio, ma la fonte delle spore di carbonchio si trova nel magazzino, non nell'ufficio. Sembra che le spore siano arrivate con una spedizione di tappeti e di pelli di capra dalla Turchia.» «Capisco», disse Ted. «Suppongo che le spore possano essere state addosso a lui», suggerì Jack. «Così, quando è arrivato in ufficio e si è seduto, sono cadute giù.» «Mi sembra ragionevole», convenne Ted. «E che ne dici della possibilità
che le abbia buttate fuori tossendo? Ho sentito che era un caso polmonare.» «Anche questa è un'idea. Ma, in un'ipotesi come nell'altra, perché diavolo erano solo sulla stellina? Ho prelevato campioni da diversi punti della scrivania, e sono tutti negativi.» «Forse ha tossito fuori la stella», propose Ted con una risata. «Questo sì che è un suggerimento valido», commentò Jack con sarcasmo. «Bene, lascio a te l'onore di investigare. Io intanto torno al pezzo malato della mia attrezzatura.» «Sì, certo», mormorò Jack in tono assente. Mentre usciva dal laboratorio e scendeva le scale fino al quinto piano, continuò a porsi delle domande sull'enigma della stellina contaminata. Aveva la sgradevole sensazione che quella stellina stesse cercando di dirgli qualcosa che lui non capiva. Era come un messaggio in codice senza la chiave. Si affacciò all'ufficio di Laurie, ma lei non c'era. Riva, la sua compagna di stanza, sollevò lo sguardo dalla scrivania. Con la sua morbida e affascinante voce dall'accento indiano, gli disse che era ancora nella stanza delle autopsie. Sempre con in testa l'idea fissa della stellina, Jack si diresse verso il proprio ufficio. Gli venne in mente che la stella poteva avere avuto una leggera carica elettrostatica, infatti la sua lucentezza suggeriva che fosse di materiale plastico o metallico. Questo poteva spiegare il motivo per cui le spore vi erano rimaste attaccate. Entrò nel proprio ufficio e si sedette alla scrivania, ancora ossessionato del mistero della minuscola stella cerulea. Appoggiò la testa fra le mani e cercò di pensare. «Di quale stella celeste stai cianciando?» gli chiese una voce. Jack sollevò la testa e si sorprese nel vedere Lou. L'espressione del detective era quella da cane bastonato che aveva la sera prima, al bar, ma nell'insieme era tornato al suo look perpetuamente stropicciato e scomposto. Niente più completo stirato e scarpe lucidate. «Stavo parlando ad alta voce?» chiese Jack. «No, sono io che leggo nella mente delle persone. Posso entrare?» «Certo.» Jack tirò più vicina alla scrivania una delle sedie che condivideva con Chet e vi batté sopra con la mano. Lou vi si lasciò andare pesantemente. Non sembrava che quella mattina si fosse rasato.
«Se stai cercando Laurie, è giù nella fossa», lo informò Jack. «Cercavo te», disse Lou. Jack sollevò le sopracciglia. «Sono lusingato. Che cosa c'è?» «Ho da farti una confessione.» «Questo sembra interessante.» «Mi sentivo così male, e non riuscivo a dormire, così sono rimasto alzato quasi tutta la notte.» «Mi suona familiare.» «Non voglio che tu pensi male di me, o cose del genere.» «Cercherò di non farlo», promise Jack, tamburellando impaziente con le dita sul ripiano della scrivania. «Perché non è una cosa che faccio abitualmente. Voglio che tu lo sappia.» «Cristo, Lou, confessa! Come faccio altrimenti a darti l'assoluzione?» Lou abbassò lo sguardo sulle mani che teneva strette, posate in grembo, e sospirò. «Va bene, provo a indovinare», lo stuzzicò Jack. «Ti sei masturbato e hai avuto pensieri sconci.» «Non sto scherzando!» sbottò Lou. «Allora sputa fuori, così non devo indovinare.» «Va bene. Ho fatto una ricerca negli archivi della polizia sul nome di Paul Sutherland.» «Tutto qui?» chiese Jack, ostentando delusione. «Speravo che tu avessi fatto qualcosa di decisamente più sconcio.» «Ma in questo modo abuso delle mie prerogative di poliziotto.» «Sarà, ma io avrei fatto la stessa cosa.» «Davvero?» «Certo. Allora, che cosa hai trovato?» Lou si chinò in avanti con aria cospiratoria e abbassò la voce. «Ha un fascicolo.» «Qualcosa di serio?» «Non tantissimo. Suppongo che dipenda dal punto di vista. L'accusa era possesso di cocaina.» «Tutto qua?» «Era una quantità considerevole», spiegò Lou. «Non abbastanza da far pensare che la commerciasse, ma abbastanza per una festa. Non ha contestato l'accusa e ha avuto la condizionale e l'affidamento ai servizi sociali.» «Hai intenzione di dirlo a Laurie?» chiese Jack.
«Non lo so», ammise Lou. «È quello che volevo chiedere a te.» «Oh, Gesù!» Jack si strofinò la fronte. Era una domanda difficile. «Mi chiederei perché glielo dico», aggiunse Lou. Jack annuì. «Capisco che cosa intendi. Potrebbe farti la stessa domanda e poi scaricare sul messaggero la collera scatenata da una simile notizia.» «Proprio quello che penso. Però, come amico, ritengo che dovrebbe saperlo. Certo, lui potrebbe averglielo già detto.» «Il mio intuito mi dice che non lo ha fatto», obiettò Jack. «È troppo pieno di sé.» «Anch'io ho la stessa sensazione.» Con la coda dell'occhio, Jack vide una figura riempire tutto il vano della porta. Era Ted Lynch, del laboratorio DNA. «Scusa», disse Teddy, «Non sapevo che avessi visite.» «Va bene, va bene», lo rassicurò Jack e gli presentò Lou, ma scoprì che i due si conoscevano già. «Non riuscivo a non pensare alla tua domanda», disse Ted. «Vuoi dire, sul grado di contaminazione della stellina celeste?» «Sì. E c'è un modo di rispondere!» annunciò Ted, tutto eccitato. «Si chiama tecnologia TaqMan. È una nuova trovata nel campo della PCR.» «E che cos'è la PCR?» volle sapere Lou. «La reazione a catena della polimerasi», spiegò Jack. «È un modo di replicare un minuscolo pezzo di DNA, così da poterlo analizzare.» «Ah!» fece Lou, fingendo di aver capito. «Comunque, questa tecnica è fantastica», aggiunse Ted. «Consiste nell'inserire un enzima specifico nella reazione PCR, e l'enzima fagocita singoli tratti di DNA, come in quel vecchio videogame, PacMan, ve lo ricordate?» Jack e Lou annuirono. «La furbata è che, quando si imbatte in quello che stiamo cercando, qualsiasi cosa sia, l'enzima ci dà un segnale. Non è fantastico? Così si può quantificare che cosa c'era originariamente nel campione, sapendo il numero di duplicazioni attraverso cui è passata la reazione, dato che c'è una relazione con il tempo.» Jack e Lou fissarono con sguardo vacuo l'esperto di DNA. «Allora, vuoi che lo faccia?» chiese Ted a Jack. «Sì, certo, sarebbe magnifico.» «Mi ci metto subito.» E Ted sparì altrettanto rapidamente di come era comparso.
«Ci hai capito qualcosa?» domandò Lou. «Manco una parola», ammise Jack. «Ted è in un mondo tutto suo, lassù. Ecco perché hanno messo il laboratorio del DNA all'ultimo piano. Tutti noi pensiamo che i risultati piovano dal cielo.» «Dovrò imparare qualcosa di più su 'sta roba del DNA», borbottò Lou. «Sta diventando sempre più importante nelle indagini di polizia.» «Il problema è che la tecnica cambia tanto rapidamente.» «Che cos'è questa faccenda della stellina celeste?» volle sapere Lou. «È la stessa stella di cui stavi bofonchiando quando sono entrato?» «Proprio quella.» Jack raccontò a Lou la storia della minuscola stellina luccicante, compreso il fatto che era l'unica cosa nell'ufficio della Corinthian Rug Company a essere contaminata con le spore di carbonchio. «Ho già visto delle stelline come quella che mi hai descritto tu», disse Lou. «Proprio quest'anno, ce n'erano dentro alla busta dell'invito che ho ricevuto per il ballo della polizia.» «Hai ragione!» esclamò Jack. «Una volta anch'io ho ricevuto un invito e c'erano le stelline. Infatti mi chiedevo dove le avevo già viste.» «È una cosa curiosa da trovare, nell'ufficio di una ditta di tappeti», osservò Lou. «Mi chiedo se avevano dato una festa.» «Ma torniamo alla tua domanda», propose Jack. «Come farai a decidere se dire o no a Laurie che il suo nuovo boyfriend ha la fedina un po' sporchetta?» «Non lo so. Forse speravo che ti offrissi di dirglielo tu.» «Oh no! La patata bollente è tua! Sei tu che hai scoperto l'informazione e sei tu che devi decidere che cosa farne.» «Ebbene, c'è dell'altro», annunciò Lou. Jack drizzò le orecchie. «Dimmi.» «Ho scoperto che genere di affari tratta.» «C'è anche questo negli archivi della polizia?» Lou annuì. «È un trafficante di armi.» Jack restò a bocca aperta. Secondo lui, rispetto al rapporto con Laurie, il fatto che Paul Sutherland fosse un trafficante di armi era molto più importante della condanna per possesso di cocaina. «Aveva una specie di monopolio nell'importazione degli AK-47 bulgari, per lo meno fino al 1994, quando è stata approvata la legge chiamata Omnibus Crime, e sono stati banditi, assieme ad altre diciotto armi d'assalto semiautomatiche.» «Questa è una cosa seria.»
«Certo che è seria. Questi AK-47 bulgari sono molto popolari fra i gruppi paramilitari di estrema destra e tra i fanatici survivalisti.» «Lo dico in relazione a Laurie», precisò Jack. «Hai idea della sua posizione nei confronti della limitazione delle armi?» «Non esattamente», ammise Lou. «Be', lascia che te lo dica. Vorrebbe disarmare l'intero paese, poliziotti compresi. E qui al lavoro si è specializzata nelle ferite da arma da fuoco.» «Non me ne aveva mai parlato.» Lou sembrava ferito. «Be', secondo me il fatto che il suo potenziale fidanzato traffica in armi è maledettamente più importante da dirle che quella faccenda della cocaina.» «Questo vuol dire che ci penserai tu?» «Oh, per la misera!» sbottò Jack. «Non vuoi farlo tu? Sei tu che l'hai scoperto, e di certo mi chiederà la fonte. Dovrò dirglielo comunque che sei tu.» «Non importa. Credo che tu possa farlo meglio di me. Hai molte più cose in comune con lei.» «Codardo.» «Già, perché tu invece sei coraggioso!» esclamò Lou. «Dai! La vedi molto più di me. Voglio dire, lavora nello stesso edificio.» «Va bene, ci penserò. Ma non prometto niente.» Squillò il telefono. Jack afferrò con malgarbo la cornetta e nella sua voce si insinuò quasi una nota di collera che attenuò subito, nel rendersene conto. Era Marlene Wilson, la receptionist. «Spero di non disturbarla, dottor Stapleton», esordì, con il suo leggero accento del Sud. «Affatto. Che cosa c'è?» «Quaggiù ci sono dei signori che vogliono vederla. Aspettava qualcuno?» «Non che io sappia. Come si chiamano?» «Aspetti un momento.» «Ehi, io devo andare», disse Lou, alzandosi. «Meglio che esca di qua prima di imbattermi in Laurie.» «Tieniti in contatto», gli disse Jack, agitando la mano. «Dobbiamo prendere una decisione rispetto all'informazione segreta che hai raccolto.» Lui annuì e uscì dalla stanza. Tornò in linea Marlene. «Sono il signor Warren Wilson e il signor Flash Thomas. Che cosa devo dirgli?»
«Accidenti! Li faccia salire!» Jack rimise giù il ricevitore con un movimento lento. Non riusciva a credere che Warren fosse venuto a fargli visita. Lui glielo aveva suggerito diverse volte, pensando che avrebbe trovato interessante vedere di prima mano come si guadagnava da vivere. Faceva parte del suo tentativo di fargli riprendere gli studi. Ma lui aveva risposto che c'era solo un modo in cui avrebbe visitato un obitorio: da morto! Jack prese la sedia che era rimasta vicino alla scrivania di Chet e l'accostò all'altra. Poi uscì in corridoio e si diresse verso gli ascensori. Aveva calcolato bene i tempi, infatti le porte si aprirono appena lui arrivò e ne uscirono i due compagni di basket. «'sto posto fa schifo!» esclamò Warren con un'espressione di disgusto. Poi sorrise. «Allora, come va?» chiese a Jack, e sollevò la mano con il palmo rivolto verso di lui. Jack vi sbatté contro il proprio, come quando si salutavano sul campo di basket. Fece lo stesso con Flash, che chiaramente era molto più intimidito del compagno dall'ambiente in cui si trovava. «Va come al solito», rispose Jack, «tranne per la vostra visita. Sono sbalordito nel vedervi qua, ma venite nel mio ufficio.» E fece strada lungo il corridoio. «Questo posto ha uno strano odore», osservò Flash. «Mi ricorda gli ospedali», aggiunse Warren. «Non certo un ospedale dove mi piacerebbe stare», commentò Flash con una risata nervosa. «Mi hai detto che facevi le autopsie in un posto chiamato 'la fossa'», disse Warren. «Tutto questo posto sembra una fossa.» «Avrebbe bisogno di qualche ristrutturazione», ammise Jack, e fece un gesto per invitarli a entrare nel suo ufficio. Si sedettero tutti e tre. Jack sorrise. «Vi siete fatti tutta questa strada solo per essere sicuri che stasera verrò a giocare?» «Ieri sera avresti dovuto giocare», lo rimproverò Warren. «Hai avuto la tua occasione di stare con noi. Non abbiamo mai perso.» «Magari avrò fortuna stasera.» Warren guardò Flash. «Glielo chiedi tu o glielo chiedo io?» «Fallo tu», rispose Flash, muovendosi a disagio sulla sedia. Saltava agli occhi che era agitato. Warren si rivolse a Jack. «Stamattina Flash ha ricevuto una brutta noti-
zia. È morta sua sorella.» «Mi spiace tanto», disse Jack. Guardò Flash, ma lui distolse lo sguardo. «Non era poi tanto vecchia», aggiunse Warren. «Più o meno la tua età. È stata una cosa improvvisa. E Flash pensa che ci sia sotto qualcosa di brutto. Vedi, lei e il suo vecchio non andavano tanto d'accordo, capisci che cosa intendo?» «Devo presumere che questo rapporto fosse caratterizzato da un po' di violenza domestica?» chiese Jack. «È questo che chiami riempirla di botte di tanto in tanto?» osservò Warren. «È il solito eufemismo», confermò Jack. «Un sacco di violenza domestica», intervenne Flash, accalorandosi. «Calmati!» Warren gli diede una pacca sulla spalla, poi, rivolto a Jack, aggiunse: «Ho dovuto convincere Flash a non andare laggiù a ridurre in poltiglia l'uomo di sua sorella». «Quel figlio di puttana l'ha ammazzata!» ringhiò Flash. «Dai, amico, non lo sai per certo!» cercò di calmarlo Warren. «E invece lo so!» ribatté Flash. Warren si rivolse di nuovo a Jack. «Ecco, vedi che cosa cerco di impedire? Se Flash va laggiù, ci saranno dei guai. Qualcuno morrà, e non credo che sarà Flash.» «Che cosa posso fare per esservi d'aiuto?» chiese Jack. «Vedi se puoi scoprire che cosa l'ha uccisa. Se è morta per cause naturali, allora Flash dovrà sfogare la sua irritazione su qualcos'altro, per esempio su di te e su di me, al campo di pallacanestro.» Warren diede a Flash un'amichevole scappellotto sulla testa e l'altro lo scansò con irritazione. «Dov'è al momento il suo cadavere?» chiese Jack. «All'obitorio di Brooklyn», rispose Warren, «per lo meno, è quanto hanno detto a Flash al Coney Island Hospital, dov'era stata portata.» «Be', allora sarà facile», gli assicurò Jack. «Parlerò con il medico che le farà l'autopsia e avremo la risposta.» «Non ci sarà autopsia», sbottò Flash. «È questo che mi preoccupa. L'hanno portata all'obitorio per farle l'autopsia, ma adesso non gliela fanno. Qui c'è qualcosa di losco, sai che cosa intendo, vero?» «Non necessariamente», rispose Jack. «Non a tutti i cadaveri esaminati dal medico legale viene fatta l'autopsia. E se a lei non la fanno significa che le possibilità che ci sia sotto qualcosa di losco sono minime. Dato che è morta in ospedale, il medico curante ha certificato la causa del decesso, e
in quel caso l'autopsia non è obbligatoria.» «Flash pensa che ci sia dietro una cospirazione», disse Warren. «Vi posso assicurare che non c'è nessuna cospirazione, magari incompetenza, ma cospirazione no.» «Ma...» fece per protestare Flash. «Basta!» lo interruppe Jack. «Me ne interesserò comunque. Come si chiamava?» «Connie Davidov», rispose Flash. Jack annotò il nome e prese il telefono. Chiamò l'obitorio di Brooklyn, che amministrativamente faceva parte dell'ufficio di medicina legale di New York. Tecnicamente il capo era Bingham, anche se a Brooklyn c'era un responsabile in loco. Si chiamava Jim Bennett. «Chi ha l'incarico di decidere le autopsie, questa settimana?» domandò Jack alla receptionist, dopo essersi identificato. «Il dottor Randolph Sanders. Vuole che glielo faccia chiamare?» «Se non le spiace», rispose Jack. Non era contento. Conosceva abbastanza Sanders e lo aveva messo nella stessa categoria dei colleghi che lavoravano in modo meccanico, come George Fontworth. Tamburellò con la matita sulla scrivania, mentre aspettava. Avrebbe preferito aver a che fare con qualsiasi altro, fra i quattro medici legali che lavoravano a Brooklyn assieme a Sanders. Quando Randolph venne al telefono, Jack non perse tempo in preamboli e chiese come mai non veniva fatta l'autopsia a Connie Davidov. «Dovrò andare a prendere la sua cartella», rispose Randolph. «Perché me lo chiedi?» «Mi è stato chiesto di dare un'occhiata al caso.» Jack preferiva tenersi sul vago. Se Randolph voleva pensare che erano stati Bingham o Calvin, tanto meglio. «Aspetta», disse Randolph. Jack si voltò verso Flash, tenendo la mano sul ricevitore. «Davidov non sembra un cognome afroamericano.» «Non lo è. Il marito di Connie è un bianco.» Jack annuì, intuendo che era questo probabilmente alla base dell'ostilità di Flash per il cognato, più che i presunti episodi di violenza. «Va d'accordo con il resto della famiglia?» «Ah!» sbottò Flash con disprezzo. «La famiglia non parlava con nessuno dei due. Non volevano nemmeno che lo sposasse.» «Okay, ho la cartella», annunciò Randolph, catturando l'attenzione di
Jack. «E ho davanti a me il referto dell'anatomopatologo.» «Che cosa dice?» «Il medico che l'ha presa in cura all'ospedale, Michael Cooper, ha fatto una diagnosi di stato asmatico che l'ha portata alla morte. La paziente soffriva di asma cronica, con diversi ricoveri ospedalieri e visite al pronto soccorso. Era anche decisamente obesa, il che di certo non l'aiutava a respirare quando aveva gli attacchi. Dice anche che aveva tante allergie.» «Va bene. Dimmi, lo hai visto il cadavere?» «Certo che l'ho visto!» Il tono di Randolph era offeso. «Secondo la tua opinione professionale, c'era qualche segno di violenza domestica?» «Se ci fossero stati segni di violenza domestica, avrei fatto la maledetta autopsia», rispose Randolph, sulla difensiva. «Nessun segno di soffocamento?» insisté Jack. «Come emorragie petecchiali nella sclera? Niente del genere?» «Mi stai insultando con queste domande», replicò Randolph. «E per quanto riguarda la tossicologia?» continuò Jack. «È stato preso qualche campione?» «Non abbiamo fatto l'autopsia!» sbottò Randolph. «Non facciamo esami tossicologici sui casi senza autopsia, e nemmeno tu!» Senza aggiungere altro, Randoloph riattaccò. Jack sollevò le sopracciglia e rimise giù il ricevitore. «Un tipo suscettibile, anche se devo dire a sua discolpa che la mia mancanza di diplomazia è leggendaria. Comunque, avete sentito che cosa mi ha detto?» Warren e Flash annuirono. «Ha detto che non c'erano segni di violenze domestiche. Ora, non è il più grande medico legale del mondo, secondo la mia opinione, ma per riconoscere le violenze domestiche non occorre essere delle aquile.» «Come mai hai fatto quella domanda sugli esami tossicologici?» chiese Warren. «Servono a rilevare veleni, cose del genere. È tutta roba che resta in circolo.» Warren guardò Flash. «Volete che continui a indagare?» domandò Jack. Flash annuì. «Sono sicuro che l'ha uccisa.» «Dopo quello che hai sentito, perché continui a esserne sicuro?» «Perché non è vero che soffriva d'asma e di allergie.» «Ne sei sicuro?» domandò Jack, stupito.
«Sì, sono sicuro. Sono suo fratello, no? Sì, ne aveva un pochino quando era piccola, ma sto parlando di quando aveva dieci anni. Nell'ultimo paio d'anni parlavo con lei almeno una volta alla settimana e non mi ha mai detto di avere l'asma o le allergie.» «Accidenti! Questo getta una nuova luce su tutta la faccenda», commentò Jack. «Che cos'altro puoi fare?» chiese Warren. «Posso chiamare il medico che l'ha curata in ospedale, quando l'hanno portata al Coney Island Hospital.» Le pagine gialle erano già aperte sulla sezione degli ospedali, quindi fu facile per Jack trovare in fretta il numero. Telefonò e chiese del dottor Michael Cooper. Quando lo ebbe in linea, gli rifilò la solita tiritera su chi era e perché chiamava. A differenza di Randolph, Michael si dimostrò disposto a collaborare e per niente sulle difensive. «Sì, mi ricordo di Connie Davidov», rispose subito. «Un caso tosto! È giunta qui praticamente moribonda. Quando il personale dell'ambulanza è arrivato a casa sua, era molto cianotica e quasi senza respiro. Era caduta in bagno, dove l'aveva trovata il marito. Le hanno somministrato immediatamente l'ossigeno e l'hanno ventilata. Quando è arrivata qui al pronto soccorso era in acidosi, con anidride carbonica oltre i limiti superiori della norma e una bassa saturazione arteriosa di ossigeno. I dati sono migliorati con un'adeguata ossigenazione, ma il suo stato clinico no. Non aveva riflessi periferici, le pupille erano fisse e dilatate, e l'elettroencefalogramma era essenzialmente piatto. Non potevamo fare molto.» «L'auscultazione del petto com'era?» «Quando è arrivata qua, buona. Ma non c'è da meravigliarsi, data la bassa saturazione d'ossigeno e il grado di acidosi. Tutti i muscoli, compresi quelli lisci, erano praticamente paralizzati. Considerando la sua mole, era come una balena arenata su una spiaggia.» «Nessun indizio di un attacco cardiaco?» «No. L'elettrocardiogramma era normale, anche se il ritmo era molto basso, e c'erano dei cambiamenti collegati al poco ossigeno presente nelle arterie.» «Non poteva essere un ictus?» «Le abbiamo fatto una TAC ed era normale. Abbiamo fatto anche un LP e il liquido era chiaro.» «Niente febbre, lesioni alla pelle, o altri segni di infezione?» «Niente. Anzi, la temperatura era inferiore al normale.»
«Per quanto riguarda la storia anamnestica di asma e allergie, lo hai rilevato dai referti ospedalieri?» «No, me lo ha detto il marito. Era abbastanza in sé, nonostante tutto quello che è successo, ed era in grado di aiutarci con l'anamnesi.» Jack ringraziò il collega e riattaccò, poi si voltò verso Warren e Flash. «La cosa diventa sempre più interessante. Non sembra che la storia dell'asma e delle allergie sia stata convalidata. Penso che dovrei dare un'occhiata a Connie.» «Puoi farlo?» chiese Warren. «Perché no?» Jack riprese il telefono e cercò di chiamare direttamente Randolph, ma il suo numero non rispondeva. Allora compose quello del centralino e chiese che glielo chiamassero. Quando la centralinista gli chiese il nome, Jack glielo diede, poi aspettò. Ben presto la centralinista tornò e lo informò che il dottor Sanders era occupato. Jack allora lasciò un messaggio per avvisarlo che stava andando da lui. «A quanto pare, il dottor Sanders indulge in un atteggiamento di resistenza passiva», commentò, alzandosi. Prese il cellulare e la piccola macchina fotografica e li mise in tasca. «Voi che cosa fate? Se volete venire con me, siete i benvenuti.» «Tu ci vuoi andare?» domandò Warren a Flash. «Io tempo ne ho.» L'amico annuì. «Voglio vederci chiaro fino in fondo.» «Come ci siete venuti qua?» chiese Jack. Warren sollevò le chiavi della macchina. «Ho la mia carriola parcheggiata proprio fuori, sulla 30esima Strada.» «Perfetto, andiamo!» Scesero con l'ascensore fino al sotterraneo e stavano per uscire attraverso il piano di carico, quando Jack si fermò. «Stavo pensando...» borbottò. «Chissà come mi accoglieranno a Brooklyn? Penso che sia meglio se mi porto dietro un po' di attrezzature.» «Di che attrezzature stai parlando?» si incuriosì Warren. «Sarebbe troppo lungo da spiegare. Voi aspettatemi qui o vicino alla macchina. Torno subito.» Jack scomparve nelle profondità dell'obitorio, oltrepassando la serie di celle frigorifere dove venivano conservati i cadaveri in attesa dell'autopsia. Ebbe la fortuna di imbattersi in Vinnie che stava uscendo dalla fossa e gli chiese di procurargli un po' di provette per campioni di liquidi corporei, una mascherina, dei guanti di gomma, una manciata di siringhe, un paio di
bisturi e un sondino nasogastrico. «Che cosa diavolo hai intenzione di fare?» gli chiese Vinnie, guardandolo con aria sospettosa. «Probabilmente mettermi nei guai», rispose Jack. «Stai andando fuori?» «Purtroppo sì.» «Vuoi che venga anch'io?» propose il tecnico. «Grazie, è meglio di no», rispose Jack. «Ma apprezzo l'offerta.» Non ci volle molto a Vinnie per raccogliere tutto il materiale richiesto e nel frattempo Jack si procurò la tracolla in cui era solito trasportare la biancheria di ricambio. Soprattutto d'estate sudava tantissimo durante la pedalata mattutina e doveva farsi la doccia e cambiarsi, una volta arrivato al lavoro. Ficcò tutto nella tracolla, ringraziò Vinnie e tornò al piano di carico, dove trovò ad aspettarlo Warren e Flash. Stavano ancora discutendo se era il caso che Flash andasse a fare una scenata al cognato. Mentre salivano in macchina, i due amici si comportarono come se fossero in collera uno con l'altro. Si misero davanti, e Jack si adagiò sullo spazioso sedile posteriore. Il veicolo era una Cadillac di cinque anni. «Non potremmo rendere gradevole questo viaggio in macchina?» domandò Jack, sperando di allentare la tensione. «È pazzo!» si lamentò Warren, agitando le mani per aria. «Si ficcherà in guai grossi, oppure ci resterà secco, capisci, no, che cosa intendo?» «Sì, ma è mia sorella che è stata assassinata», ribatté Flash. «Se fosse stata la tua, faresti esattamente la stessa cosa.» «Ma tu non lo sai se è stata assassinata. La faccenda è tutta qui. Ecco perché siamo venuti a parlare a Doc.» «Ascolta, Flash», intervenne Jack, «sono abbastanza sicuro di riuscire a scoprire se c'è sotto qualcosa di losco, ma devi avere pazienza. Potrei non essere in grado di dirlo in modo definitivo prima di un paio di giorni.» «E perché ci vuole così tanto?» domandò Flash, girandosi verso di lui. «Pensavo che lo potessi capire solo guardandola.» «Potrebbe anche essere, ma ne dubito, dato che Randolph non ha visto niente. Non è poi tanto male, come medico legale. Quello a cui penso è un qualche tipo di veleno.» «Per esempio?» domandò Warren, e fissò Jack nello specchietto retrovisore. «Ma... cianuro, magari. Però non torna, perché il livello di ossigeno nel
sangue era basso. Però, è sempre qualcosa a cui pensare.» «Che altro?» «Si potrebbe prendere in considerazione il monossido di carbonio, ma la squadra dell'ambulanza l'ha descritta come cianotica, o blu.» «Tutto qua?» chiese Warren. «Non ci sono altri veleni?» «Che cos'è, un esame?» «No, solo che mi interessa.» «Be', suppongo che potrei pensare ai barbiturici, alle benzodiazepine, come il Valium, al glicole etilenico, e roba simile. Tutto ciò che hanno in comune questi agenti è che causano una depressione della respirazione, cosa di cui Connie soffriva.» «Come potrebbe averla ammazzata con il monossido di carbonio?» chiese Flash. «Avevano una macchina?» «Sì, e anche un garage.» «Be', potrebbe averla fatta ubriacare, oppure averla drogata e poi averla messa nella macchina ferma in garage, con il motore acceso. Oppure, ancor meglio, con i gas di scarico convogliati direttamente dentro l'auto. Poi, quando era quasi morta, potrebbe averla portata nel bagno e aver chiamato l'ambulanza.» «Non poteva portarla da nessuna parte», obiettò Flash. «Pesava sui centosessanta chili.» «Stavo solo tratteggiando una situazione ipotetica.» Jack era un po' spazientito. «Accidenti! Dai, andiamo!» «Devi dirmi tu dove andare», gli rammentò Warren. «Kings County Hospital. Si trova a sudovest del Prospect Park, a Brooklyn.» «Devo prendere la superstrada FDR?» «Sì, e passare sul ponte di Brooklyn. Poi vai in Flatbush Avenue.» Warren mise in moto e finalmente partirono. «Flash, che possibilità ci sono che tua sorella si sia suicidata?» chiese Jack mentre costeggiavano l'East River. «Nemmeno a parlarne!» reagì lui senza esitazione. «Non era assolutamente il tipo.» «Non era mai depressa?» «Non nel solito senso. Ma forse un pochino sì. Può essere il motivo per cui mangiava così tanto. Sapeva di aver sposato un caso da manicomio.» «In che senso?»
«Quel tizio non faceva niente», spiegò Flash con rancore. «Tornava a casa dal lavoro e si metteva a bere davanti alla tele. Questo fino a pochi mesi fa, quando ha cominciato a passare tutto il tempo libero in cantina.» «A fare che cosa?» «Ad armeggiare, credo. Connie non mi diceva che cosa faceva. Penso che non lo sapesse nemmeno lei.» «Anche lei beveva tanto?» «No, se intendi gli alcolici. I milk-shake sono un altro paio di maniche.» «E le droghe?» «Mai avuto niente a che fare con la droga.» «In quale parte di Brooklyn viveva?» domandò ancora Jack. «In Oceanview Lane.» «E dov'è?» «Brighton Beach. Viveva in una zona piuttosto carina, con tante casette di legno. D'estate arrivava a piedi alla spiaggia e faceva il bagno. Era un bel posticino.» «Uhmm», commentò Jack. Si chiedeva che aspetto avesse quel posto. Non riusciva a immaginare casette piccole all'interno del territorio di New York. Parcheggiare nei dintorni del Kings County Hospital era un incubo divenuto realtà, ma Warren non si scompose. Nel bagagliaio aveva un vecchio bidone tutto ammaccato, con il fondo tagliato via. Si limitò a trovare un posto davanti a un idrante, parcheggiò e coprì l'idrante con il bidone. Jack si meravigliò davanti all'arte di arrangiarsi richiesta dalla vita metropolitana. Davanti all'obitorio Warren e Flash si fermarono. «Forse noi dovremmo aspettare fuori», propose Warren e guardò Flash, che annuì. «Per me va bene», replicò Jack. «Cercherò di sbrigarmi.» Entrò nell'edificio e mostrò il distintivo alla receptionist, che non lo conosceva. Debitamente impressionata, gli aprì. Senza perdere tempo, Jack andò direttamente all'ufficio mortuario, che si trovava proprio vicino alla sala delle autopsie. La porta era aperta, ed entrò. Alla scrivania trovò un tecnico mortuario. «Salve, sono il dottor Stapleton, dell'ufficio di Manhattan», si presentò rapidamente, e mostrò di nuovo il distintivo. «Salve, sono Doug Smithers. In che cosa posso esserle utile?» Era evidente che era sorpreso. Gli scambi di visite non erano la norma.
«In un paio di cose», rispose Jack. «Intanto, potrebbe far chiamare il dottor Sanders? Gli chieda se non gli spiace scendere quaggiù.» «Va bene», rispose Doug, con una sfumatura di perplessità. Non rientrava nei compiti dei tecnici mortuari dare ordini ai medici. Prese il telefono e, quando ebbe in linea il dottor Sanders, gli riferì la richiesta parola per parola. «Perfetto!» approvò Jack. «Adesso vorrei che mi trovasse un cadavere e lo portasse in qualche posto dove gli possa dare un'occhiata.» «Vuole che lo metta su un tavolo della sala delle autopsie?» «No. Non ho intenzione di infilarmi la tuta protettiva. Voglio solo dargli un'occhiata e prelevare qualche campione di liquidi. Basta che trovi un posto con un'illuminazione adeguata.» Doug Smithers si alzò. «Qual è il numero di accesso?» «Questo non lo so. Si chiama Connie Davidov. È arrivata, credo, stamattina presto.» «Quel cadavere non c'è.» «Sta scherzando!» «No. Lo hanno portato via da poco. Una mezz'oretta, credo.» «Dannazione!» gridò Jack, scuotendo la testa, e gettò la tracolla sulla scrivania, con un tonfo. Aveva il viso arrossato. «Mi spiace», mormorò Doug, ritraendosi, come se si aspettasse che Jack gli saltasse addosso. «La colpa non è sua», sbottò lui e si strinse le mani, facendo crocchiare le nocche, come per sfogarsi. «Dove l'hanno portata?» Doug si chinò sul registro e, aiutandosi con l'indice, trovò l'annotazione. «Alle Onoranze Funebri Strickland.» «Dove diavolo si trova?» «Credo che sia sulla Caton Avenue, vicino al cimitero di Greenwood.» «Gesù Cristo!» sbraitò Jack, e si mise ad andare avanti e indietro, mentre intanto cercava di pensare al da farsi. «Il dottor Stapleton, presumo», disse una voce dal tono ostentatamente condiscendente. «Non ti trovi un po' lontano dalla base?» Jack sollevò lo sguardo verso la porta. Inquadrato dagli stipiti si ergeva il dottor Randolph Sanders. Era un po' più anziano di lui e i capelli che teneva pettinati all'indietro erano in gran parte grigi. Aveva il viso stretto e portava occhiali scuri dalla montatura pesante, che gli davano l'aspetto di un gufo. Nella scala gerarchica era molto al di sopra di Jack, con quasi vent'anni di esperienza.
«Pensavo di correre qui a darti l'aiuto di cui hai bisogno», replicò Jack. «Oh, ti prego!» esclamò Randolph, in tono sprezzante. «Perché diavolo hai mandato via il cadavere della Davidov, se sapevi che stavo venendo qua?» «Ho ricevuto un misterioso messaggio riguardo a una tua imminente visita, ma non era corredato dalla richiesta di tenere qui il cadavere.» «Suppongo di non dovermi sorprendere, dato che ci sarebbe voluto un quoziente di intelligenza di cinquanta o più, per immaginarlo.» «Non devo restar qui ad ascoltare le tue baggianate giovanili», commentò Randolph. «Fa' un buon viaggio di ritorno a Manhattan.» Girò sui tacchi e sparì. Jack uscì in corridoio e lo chiamò. «Lascia che ti dica una cosa: Connie Davidov non soffriva né di asma né di allergie. Era una donna del tutto sana che all'improvviso ha avuto un'insufficienza respiratoria senza che fosse collegata a un ictus o a un attacco cardiaco. Se questo non è un caso che si merita un'autopsia, io non lo so allora, quale lo è!» Randolph si fermò di botto davanti agli ascensori e si voltò. «Come fai a sapere che non soffriva di asma e di allergie?» chiese. «Da suo fratello.» «Be', lascia che ti dica una cosa», replicò Randolph in tono sdegnoso. «La mia fonte per l'anamnesi della donna si dà il caso che sia l'investigatore più esperto di questo ufficio. Tu puoi credere a chi ti pare, io mi affido al parere di un professionista.» Randolph si voltò di nuovo e premette con calma il tasto della chiamata, poi gettò una rapida occhiata all'indietro e scoccò a Jack un sorrisetto condiscendente. Jack stava per controbattere con rabbia all'ultima affermazione del collega più anziano, quando si rese conto di quanto fosse ridicolo star lì a discutere con una simile testa di legno. Inoltre, un diverbio con lui non sarebbe servito di certo a far progredire la sua indagine sul caso di Connie Davidov. Scuotendo la testa, tornò nell'ufficio mortuario e afferrò la tracolla che era rimasta sulla scrivania. Doug lo guardò incuriosito ma non disse nulla. Sempre furente, Jack uscì dall'edificio e si avvicinò a grandi falcate all'auto di Warren. I due amici erano appoggiati ai parafanghi e mentre si avvicinava lo guardarono con grande aspettativa, ma lui non disse niente. Si limitò a sedersi sul sedile posteriore. Warren e Flash si scambiarono un'occhiata, si strinsero nelle spalle e ri-
montarono in macchina anche loro. Poi si voltarono verso Jack, che teneva le labbra serrate. «Hai l'aria di essere incazzato», osservò Warren. «Lo sono», ammise Jack. Distolse lo sguardo per un momento, immerso nei pensieri. «Che cosa è successo?» domandò Flash. «Hanno mandato il cadavere all'impresa di pompe funebri.» «Come mai?» si stupì Warren. «Sapevano che stavi arrivando.» «Ha qualche cosa a che fare con la competitivita dei medici fra loro. È difficile da spiegare e probabilmente non ci credereste.» «Ti credo sulla parola. E adesso che cosa facciamo?» «Non lo so. Ci sto pensando.» «Io lo so che cosa faremo», saltò su Flash. «Andremo a Brighton Beach.» «Zitto», gli fece Warren. «Questo è solo un intoppo secondario.» «Un intoppo un cavolo!» reagì Flash. «Se fosse stata bianca, tutto questo non sarebbe successo.» «Flash, non è questo il problema», lo contraddisse Jack. «In questa città c'è tanto razzismo, questo te lo concedo, ma il problema non è questo, credimi.» «Perché non puoi semplicemente dire all'impresa di pompe funebri di rispedire indietro il cadavere?» suggerì Warren. «Vorrei che fosse così semplice. Il problema è che si tratta di un caso che spetta all'ufficio di Brooklyn, e io sono dell'ufficio di Manhattan, il che significa che c'è di mezzo un sacco di politica. Dovrei farlo fare al grande capo, il che metterebbe sulle difensive il capo di Brooklyn, perché presumerebbe che tutta la questione è un riflesso di come lui gestisce l'ufficio. Diventerebbe una specie di guerra burocratica per la difesa del territorio. E in più richiederebbe secoli. Ora che verrà completato tutto il lavoro con le scartoffie, e fatte le telefonate, e scatenate le battaglie, quelli delle pompe funebri potrebbero aver già imbalsamato il cadavere o, peggio ancora, potrebbero averlo cremato.» «Merda!» esclamò Warren. «Questo decide le cose: io vado a Brighton Beach!» tornò alla carica Flash. «No, andiamo tutti all'impresa di pompe funebri», propose Jack. «Potrebbe avere delle conseguenze, ma non vedo altra via per impedire a Flash di autodistruggersi. Magari avremo fortuna. Si trova in Caton Avenue, vi-
cino al cimitero di Greenwood. Hai una pianta della città?» Warren annuì, e fece segno a Flash di frugare nel cruscotto. Mentre loro due si chinavano sulla cartina per cercare la strada, Jack tentò di mettere a punto una strategia. Si chiese che cosa lo avrebbe aspettato. Si immaginava che il direttore delle pompe funebri non sarebbe stato disposto a collaborare. «Quando arriveremo là dovremo fare una specie di irruzione e sopraffarli», consigliò. Warren sollevò la testa dalla cartina. «Che cosa intendi?» «Dobbiamo cercare di fare quello che vogliamo fare prima che loro abbiano il tempo di pensare.» «Ma tu sei un medico legale. Sei un funzionario municipale.» «Sì, ma quello che stiamo per fare è a dir poco irregolare. Al direttore delle pompe funebri non piacerà. Vedi, il sistema funziona così: il cadavere viene tecnicamente consegnato al parente più prossimo, che in questo caso è il marito, anche se di fatto è l'impresa di pompe funebri che si occupa di andarlo a recuperare. Non gli dovrebbe accadere niente, a meno che non sia il marito a dirlo. Evidentemente, noi non vogliamo che chiamino il marito, perché se è colpevole di quello che sospetta Flash, farà il diavolo a quattro.» «Perché non dici che sei dell'ufficio di Brooklyn e che vi siete dimenticati di fare un paio di cosette?» «Chiamerebbero di sicuro Brooklyn per una conferma. Si chiederebbero come mai non hanno ricevuto una telefonata per riportare indietro il cadavere. Ricordati che lavorano a stretto contatto di gomito e conoscono i medici legali. Sarebbe molto irregolare per me farmi vivo così all'improvviso. Fidati!» «Allora che cosa proponi?» chiese Warren. «Ci sto pensando. Hai trovato la strada sulla pianta?» «Penso di sì», rispose Flash. «Andiamo, prima che me la faccia sotto dalla paura.» Avevano superato qualche isolato, quando a Jack venne un'idea. Estrasse di tasca il cellulare e chiamò Bingham. Come si aspettava, rispose la voce mielosa di Cheryl Sanford. Lui si identificò e le chiese se il capo fosse a portata di voce. «Non proprio», rispose lei. «È dall'ufficiale sanitario, per una riunione improvvisa.» «Ancora meglio», commentò Jack. «Ascolti, ho un problema, e ho biso-
gno del suo aiuto.» «Mi farà finire nei guai?» domandò Cheryl, guardinga. Lo conosceva troppo bene, considerato il numero di volte in cui lo aveva visto ricevere una ripassata da Bingham. «È possibile», ammise Jack. «Se succede, mi assumerò tutte le responsabilità. Ma è per una buona causa.» Le spiegò del lutto di Flash e dei suoi dubbi sulla morte di Connie, e di come le discrepanze sull'anamnesi facessero pensare a qualcosa di sospetto. Infine, l'indole generosa di Cheryl e il suo senso di giustizia prevalsero, e acconsentì a fare ciò che lui aveva in mente. A questo punto, Jack si schiarì la voce. «Se nella prossima mezz'ora riceverà una telefonata per il capo da parte delle Onoranze Funebri Strickland, dica loro che è dall'ufficiale sanitario, il che è vero, ma aggiunga che il dottor Jack Stapleton è stato autorizzato a prelevare alcuni campioni di liquidi dal cadavere di Connie Davidov.» «Tutto qua?» chiese Cheryl. «Tutto qua», confermò Jack. «Se proprio vuole ricamarci sopra, dica che aveva intenzione di chiamare prima, ma le è sfuggito di mente, per la sopravvenuta urgenza dell'incontro del capo con l'ufficiale sanitario.» «Lei è davvero subdolo», commentò Cheryl. «Ma si tratta di una buona causa, soprattutto considerato che forse c'è di mezzo un omicidio. Comunque, lo farò.» «Mi piace pensare a me stesso come a uno pieno di risorse, non subdolo», scherzò Jack, poi ringraziò Cheryl anche da parte di Flash e riattaccò. «A quanto pare, hai sistemato le cose», commentò Warren. «Vedremo.» Jack non era poi tanto sicuro. Dall'esperienza che aveva, i direttori delle pompe funebri univano la suscettibilità alla pignoleria per i dettagli. C'erano un sacco di potenziali trappole. Se avessero avuto molto personale, Jack si aspettava addirittura che gli avrebbero impedito fisicamente di agire. Le Onoranze Funebri Strickland occupavano un edificio a due piani intonacato a stucco che in una vita precedente era stato la grandiosa dimora di qualche ricco abitante di Brooklyn. Era dipinto di bianco, nell'apparente tentativo di renderlo allegro, ma restava comunque una struttura massiccia dallo stile indeterminato. Tutte le finestre erano velate da pesanti tendaggi neri. Dal parcheggio si scorgeva un angolo del cimitero di Greenwood, dalle lapidi luccicanti.
Warren tirò il freno a mano e spense il motore. «Ha l'aria piuttosto minacciosa, eh?» commentò Jack. «Che cosa ci fanno lì dentro?» domandò Warren. «È una cosa che mi sono sempre chiesto.» «Non chiederlo! È meglio se non lo sai. Dai, concludiamo questa faccenda, prima che mi perda d'animo.» «Noi aspettiamo qui», propose Warren, guardando Flash, che annuì. «Oh, no!» esclamò Jack. «Non stavolta! Prima, quando ho detto 'noi', parlavo sul serio. Questa sarà una specie di invasione, e ho bisogno anche della vostra possente presenza. Inoltre, Flash, tu sei un parente, il che ci dà qualche parvenza di legittimità.» «Fai sul serio, amico?» chiese Warren. «Certo. Dai, non c'è da discutere!» Jack si diresse con aria risoluta verso l'ingresso, con la tracolla appesa alla spalla. Dietro di sé sentiva i passi dei due compagni. Intuiva che lo seguivano con riluttanza e non li biasimava per questo. Sapeva che non erano preparati emotivamente per quello che avrebbero visto. L'interno dell'edificio era standard. C'era abbondanza di legno scuro, drappi di velluto, luci soffuse e musica classica a basso volume, e il tutto trasmetteva una sensazione di serenità. Nell'atrio, appoggiato su una consolle, era aperto il libro dei visitatori e lì accanto, in piedi, era immobile una donna vestita di nero, dall'aspetto austero. Al centro della stanza, verso destra, una bara aperta era posata sopra un catafalco che arrivava all'altezza della vita, con qualche fila di sedie pieghevoli disposte davanti. L'interno del coperchio era rivestito di raso bianco. Jack poté scorgere soltanto il profilo di chi occupava la bara. «Posso esserle utile?» chiese la donna con una voce appena più alta di un respiro. «Sì», rispose jack. «Dov'è il direttore?» «Nel suo ufficio. Devo andarlo a chiamare?» «Sì, per favore. E in fretta, se non le spiace. Si tratta di un'emergenza.» Jack si voltò a guardare Warren e Flash, che stavano proprio dietro di lui. «Porca miseria!» sussurrò Warren. «Sei proprio sicuro che hai bisogno anche di noi?» «Senza dubbio», rispose Jack, anche lui a bassa voce. «Basta che stiate calmi.» Ci vollero solo pochi minuti prima che il direttore, evidentemente preoc-
cupato, emergesse da una porta laterale, accompagnato da un paio di uomini dal colorito bruno, che potevano benissimo fare i buttafuori in un saloon. Il direttore sembrava uscito da un film, con il completo nero immacolato, la camicia bianca fresca di stiratura e i capelli impomatati, scrupolosamente pettinati. L'unica nota stonata era il colorito. Era abbronzato come se fosse appena tornato dalla Florida. «Sono Gordon Strickland», si presentò, tenendo la voce piuttosto bassa. «Mi dicono che c'è un'emergenza. Posso esserle d'aiuto?» «Sono il dottor Jack Stapleton», replicò Jack con tutta l'autorità di cui fu capace, e gli mise sotto il naso il proprio distintivo. «Rappresento l'ufficio di medicina legale di New York, il dottor Harold Bingham.» Gordon inclinò la testa, in modo da poterlo guardare oltre il distintivo. «Ho già sentito questo nome. Che relazione c'è con noi, qui a Brooklyn?» «Sono stato mandato qui per vedere il cadavere di Connie Davidov», spiegò Jack «e dovrei anche prelevare alcuni campioni dei liquidi. Presumo che abbiate ricevuto una telefonata al proposito.» «No, non ci ha telefonato nessuno», rispose Gordon, mentre cominciava a tremargli il labbro superiore. «Allora mi scuso per la sorpresa. Ma dobbiamo vedere il cadavere.» Jack fece un passo verso un paio di doppie porte che conducevano al centro dell'edificio. «Aspetti un momento!» lo fermò Gordon, sollevando una mano. «Chi sono questi due signori?» «Questo è Warren Wilson, il mio assistente», rispose Jack, facendo un cenno della testa verso Warren. «L'altro signore è Frank Thomas, fratello della defunta.» Intanto non poteva fare a meno di chiedersi che risultato avrebbero avuto quelle sue presentazioni, considerato che entrambi i suoi compagni erano vestiti con uno stile hip-hop un po' modificato. Warren non aveva per niente l'aria professionale. «Non capisco», ribatté Gordon. «Il cadavere ci è stato consegnato per conto di un certo signor Davidov. Anche lui non ci ha contattati per avvertirci di questa situazione.» «Stiamo indagando su un potenziale omicidio», spiegò Jack. «Si sono rese disponibili nuove informazioni.» «Omicidio?» fece eco Gordon. La frequenza del tic al labbro aumentò. «Proprio così», confermò Jack e riprese la sua avanzata. «Ora, se ci potesse indirizzare verso la cella frigorifera, o comunque dove tenete i cadaveri appena arrivati, faremo ciò che dobbiamo fare e poi ce ne andremo.»
«Il cadavere è nella stanza di imbalsamazione. Aspettiamo le istruzioni del signor Davidov.» «Allora esamineremo il cadavere nella stanza delle imbalsamazioni», decise Jack. «Per noi fa lo stesso.» Perplesso, Gordon si voltò e spinse la doppia porta. Jack, Warren e Flash lo seguirono. I silenziosi scagnozzi facevano da retroguardia. «Tutto ciò è altamente irregolare», commentò Gordon mentre percorrevano il corridoio, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Non abbiamo sentito niente nemmeno dall'obitorio di Brooklyn. Magari dovrei chiamarli.» «Le farebbe risparmiare tempo chiamare direttamente il dottor Bingham», suggerì Jack. «Naturalmente, lei sa che la sede di Brooklyn dipende da quella di Manhattan.» «Questo non lo sapevo.» Jack tirò fuori il cellulare, premette il tasto per chiamare direttamente il capo, e lo porse a Gordon. Lui lo prese e se lo portò all'orecchio. Jack sentì la voce di Cheryl che rispondeva come al solito: «Ufficio del dottor Harold Bingham, medico legale capo. Cosa posso fare per lei?» Tutto il gruppo si fermò davanti a una seconda serie di porte a doppio battente, mentre Gordon parlava con Cheryl. Jack sentiva solo qualche brandello di conversazione, dalla parte di Cheryl. Gordon annuiva e diceva ripetutamente: «Capisco», «Sì», «Certo, certo». Infine concluse: «Grazie, signora Sanford. Capisco perfettamente e non occorre che si scusi. Farò tutto ciò che potrò per essere d'aiuto al dottor Stapleton». Gordon chiuse la comunicazione e restituì il cellulare a Jack, che nel riprenderlo notò come ormai il labbro superiore di Gordon fosse in preda a un tremito continuo. Era evidente che il direttore non si trovava del tutto a suo agio in quella situazione, ma per lo meno era momentaneamente rabbonito. «Di qua.» Gordon indicò una delle numerose porte. Tutto il gruppo entrò nella stanza delle imbalsamazioni, dove gravava l'odore dolciastro e nauseabondo di un deodorante. Lo spazio era molto più ampio di quanto Jack si sarebbe aspettato, più o meno come quello della sala delle autopsie dove lavorava ogni giorno. Ma, invece degli otto tavoli ai quali era abituato lui, lì ce n'erano solo quattro, di cui due erano occupati. Su quello più lontano era disteso un defunto di sesso maschile in procinto di essere imbalsamato. Su quello più vicino c'era il cadavere di una donna obesa.
«La signora Davidov è qui», indicò Gordon. «Bene!» esclamò Jack, e appoggiò la tracolla su un carrello che poi tirò vicino a sé. Dopo aver aperto la borsa, guardò i due amici. Erano rimasti impalati vicino alla porta. Warren fissava il processo di imbalsamazione in atto all'estremità della stanza, e Flash aveva lo sguardo incollato sulla sorella. Il viso di entrambi esprimeva costernazione, e Jack poteva solo immaginare ciò che provavano. Per impedire che la situazione degenerasse, batté le mani con fare imperioso. Lo schiocco echeggiò nella stanza come uno sparo, facendo sobbalzare tutti. Anche i due tecnici che stavano imbalsamando il cadavere sul tavolo in fondo alzarono la testa dal compito raccapricciante. «Va bene!» esclamò Jack con impazienza, come se non vedesse l'ora di fare ciò che doveva. «Mettiamoci all'opera, così poi questi signori potranno continuare il loro lavoro. Frank Thomas, è in grado di identificare questa donna?» Flash annuì. «È mia sorella, Connie Davidov.» «Ne è assolutamente certo?» chiese Jack, mentre guardava per la prima volta il viso della morta. Rimase immediatamente colpito dall'evidenza del trauma. L'occhio sinistro era violaceo e talmente gonfio da restare chiuso. Su uno zigomo si allargava un ematoma. «Ecco qua!» esclamò Flash. Fece un passo avanti e indicò l'occhio gonfio. «Il bastardo l'ha menata, proprio come ha sempre fatto in passato.» «Non saltiamo alle conclusioni», disse Jack in fretta. «Si ricordi! La squadra dell'ambulanza l'ha trovata nel bagno, dov'era caduta, e il bagno è un luogo pericoloso, fra il lavandino, la vasca e il WC, per non parlare dei portasciugamani e dei rubinetti.» «Circa un mese fa, quando abbiamo pranzato insieme, aveva l'occhio esattamente come questo qui», disse Flash, ignorando Jack. «Mi ha detto che le aveva dato un pugno. L'unico motivo per cui non sono andato di corsa a pestarlo fino a fargli uscir fuori la merda è stato che lei mi ha fatto promettere di non farlo.» «Va bene, si calmi», disse Jack. Adesso che finalmente stava per eseguire i prelievi, non voleva che Flash rovinasse tutto. A questo punto gli suggerì di aspettare fuori e lui non discusse, girò sui tacchi, spalancò con malgarbo entrambi i battenti della porta e sparì. A un cenno del direttore, i due scagnozzi lo seguirono. «È molto difficile per lui», lo scusò Jack. «Quindi, è meglio che facciamo in fretta ciò che dobbiamo fare, e poi ce ne andiamo.» Gordon si avvicinò al tavolo, mentre lui si infilava i guanti di lattice.
«Spero che non avrà intenzione di sciupare il cadavere in modo visibile», disse. «Non abbiamo idea se il signor Davidov vuole una bara aperta o no.» «Tutto ciò che faremo sarà prelevare dei liquidi corporei», spiegò Jack. Fece cenno a Warren di avvicinarsi e gli porse diverse provette. Doveva far finta che fosse davvero il suo assistente, per giustificare la sua presenza intimidente. Lo voleva lì perché aveva intenzione di fare proprio ciò che Gordon lo aveva appena avvertito di non fare, in particolare asportare una porzione di pelle del viso, in corrispondenza dell'ematoma. Certo, gli sarebbe anche piaciuto prelevare qualche campione di cervello, di fegato, di reni, di polmoni e di grasso, se solo gli fosse venuto in mente come riuscire a farlo. Come prima cosa, tirò fuori la macchina fotografica. Prima che Gordon facesse in tempo a lamentarsi, scattò diverse foto del cadavere, con particolare attenzione al trauma facciale. Fece in modo di posizionare la testa così che l'esposizione fosse massima, e intanto cercò eventuali tracce di strangolamento o di soffocamento, senza trovarne. Dopo aver messo via la macchina fotografica, completò il rapido ma scrupoloso esame esterno. Mentre lavorava, eseguiva una descrizione verbale a beneficio di Warren. Disse che non c'era segno di iniezioni, tranne di quelle iatrogenetiche, e nessun trauma, tranne quello all'occhio e alla guancia; e nessun segno di malattie infettive. Poi tirò fuori la sua collezione di siringhe e cominciò a prelevare campioni di liquidi. Prese il sangue dal cuore, l'urina dalla vescica, l'umore vitreo dai bulbi oculari. Quindi prese il sondino nasogastrico e aspirò un campione dallo stomaco. Lavorava in fretta, temendo di venire interrotto prima di aver finito. Warren cercava di tenere gli occhi chiusi. Il direttore delle pompe funeri si era ritirato contro una parete e restava vigile, le braccia conserte. Era evidente dall'espressione che aveva e dal forte tic al labbro superiore che non era per niente contento di ciò che stava accadendo, ma restava in silenzio. Per lo meno vi restò fin quando il bisturi di Jack mandò un lampo sotto la luce fluorescente. «Aspetti!» esclamò, appena lo vide. Si staccò dalla parete e si avvicinò. «Che cosa ha intenzione di fare, adesso?» «È fatta», rispose Jack, si raddrizzò e fece cadere un frammento di tessuto facciale e di palpebra nel piccolo contenitore sterile. Aveva prelevato i campioni veloce come un fulmine. «Ma aveva promesso», balbettò quasi Gordon, e abbassò lo sguardo, co-
sternato, sui buchi nel viso di Connie. «È vero, ma mi sono accorto che eravamo obbligati a verificare che l'occhio gonfio non sia il risultato di un processo infettivo. E con la mia usuale precisione chirurgica, ho prelevato solo un campione minuscolo. Sono sicuro che sarete in grado di far sparire tutto con le vostre magie cosmetiche.» «È un'offesa incredibile!» si lamentò Gordon e si chinò a esaminare il volto, rendendosi conto che era irrimediabilmente sfigurato. Più rapidamente che poté, Jack gettò tutte le provette nella tracolla, assieme agli arnesi e ai guanti, e la chiuse frettolosamente. A questo punto si sentiva come un rapinatore di banca a cui era stato appena consegnato il denaro e che doveva darsi alla fuga. Afferrando Warren per la manica della felpa, lo tirò verso la porta. «Facciamo una ritirata rapida ma ordinata», gli sussurrò. Passarono la prima serie di porte continuando a sentire Gordon che imprecava in sottofondo. Dopo aver oltrepassato anche la seconda serie, cominciarono a cercare Flash, ma non lo videro. Usciti dall'edificio, lo trovarono che camminava avanti e indietro sul marciapiede. «Andiamo!» ordinò Jack. Si avvicinarono in fretta all'auto. Jack non si preoccupava che venissero seguiti, ma voleva andar via di lì il più presto possibile. Sapeva di aver esagerato, con Gordon, prendendo il campione di pelle. Per il direttore di una ditta di pompe funebri sfigurare un volto era il peccato più grave che si potesse immaginare. Si infilarono in macchina, Warren mise in moto e in silenzio presero la via del ritorno verso Prospect Park. Fu Flash a parlare per primo, dopo un po': «Allora, non avete intenzione di dire niente? Che cosa avete scoperto?» «Io ho scoperto che non metterò mai più piede in un'impresa di pompe funebri fino a quando non mi ci porteranno con i piedi in davanti», rispose Warren. «Che cosa cavolo stavano facendo, per Dio, a quel tizio sull'altro tavolo, gli svuotavano le budella? Quasi quasi svenivo, a essere sincero. Ragazzo, è stata l'esperienza peggiore della mia vita.» «In altre parole», replicò Flash, incollerito, «non avete scoperto una merda secca su quello che è successo a Connie.» «Siamo riusciti a prelevare i campioni che ci servivano», rispose Jack. «Adesso dovrai pazientare. Come ti ho già detto, non sapremo niente di definitivo fino a che non verranno esaminati.»
«Io ho visto che l'ha presa a pugni in faccia», ribatté Flash, «per me, questo è sufficiente.» Warren sollevò lo sguardo verso lo specchietto retrovisore. «Lo vedi com'è, questo qua? È come parlare al muro, capisci che cosa intendo?» «Ascolta, Flash», disse Jack, cominciando a scaldarsi. «Mi sono esposto da matti, per te, lo capisci o no?» «Suppongo di sì», rispose Flash, riluttante. «Potrei trovarmi nei guai fino al collo, se Strickland o l'ufficio di Brooklyn sollevano un vespaio al riguardo, soprattutto se i campioni risulteranno negativi. Adesso, per lo meno, mi potrei aspettare in cambio la promessa che non andrai a casa di tuo cognato.» «E quell'occhio nero?» «Per l'ultima volta: non lo sappiamo come se l'è fatto. Ho preso un campione di pelle e vedremo che cosa ci dice. Potrebbe essere stato un pugno, ma potrebbe non esserlo stato. Ti dirò, ho visto conseguenze ben peggiori a causa di cadute nel bagno. Anzi, le ho viste proprio quando è stata la caduta stessa a provocare la morte di una persona.» «Promettiglielo», intervenne Warren. «O anch'io mi incazzo di brutto. Voglio dire, c'erano un sacco di cose che avrei preferito fare, oggi, piuttosto di stare lì alle pompe funebri a farmi venire il vomito, lo capisci o no?» «Va bene, prometto. Adesso siete contenti?» «Sollevati è un termine più adatto», commentò Jack. Guardò dal finestrino il traffico dell'ora di punta e si chiese che tipo di prezzo avrebbe dovuto pagare per quella sua marachella. 12 Martedì 19 ottobre, ore 16.35 La neve formava un immenso manto immacolato giù giù per tutta la china della Collina della Patria. Yuri e suo fratello Igor avevano chiamato così quella ripida discesa perché era la migliore di tutta l'Unione Sovietica, per andarci con la slitta. Dopo essersi stipati in uno slittino che avevano costruito da soli utilizzando pezzi di legno e di metallo riciclati, gli avevano dato la spinta. Igor stava davanti e lui di dietro. Per Yuri, era come essersi calato all'improvviso in un regno di favola. La neve cristallina vorticava attorno a loro mentre scendevano a grande velocità verso le case coloniche che costeggiavano il lago Nisnije. Era come
volare, e Yuri urlava dalla gioia. Mentre sfrecciavano verso la strada principale, videro provenire dalla direzione della città una slitta trainata da due cavalli bianchi come la neve. Nell'avvicinarsi, Yuri udiva sempre più forte il suono dei campanelli che tintinnavano a ritmo con il passo cadenzato dei cavalli. Diventava sempre più forte, più forte, fino a strapparlo dal suo sogno preferito. Non era il trillo dei campanelli, ma del telefono. Yuri si tirò su a sedere di botto e quasi svenne. Rimase un attimo immobile, poi chinò la testa fino a metterla fra le ginocchia. Quando si sentì un po' meglio la tirò di nuovo su. Le vertigini erano sparite, ma il telefono continuava a squillare con insistenza. Si alzò in piedi, sentendo le gambe leggermente malferme, e si diresse in cucina. Si era addormentato sul divano e un rapido sguardo all'orologio gli disse che aveva dormito profondamente per più di quattro ore. Afferrò il ricevitore e, nel rispondere, si accorse di avere la voce rauca, tanto da doversi schiarire la gola. «Parla Gordon Strickland. Mi spiace tantissimo disturbarla, signor Davidov, ma c'è un problema di cui dovrebbe essere a conoscenza.» Yuri si strofinò la fronte. Con la mente ancora annebbiata dal sonno si sforzò di ricordare dove avesse sentito quel nome. Strickland. Sì, era sicuro di averlo già sentito, ma non ricordava in quale contesto. Poi, con un sobbalzo, si rammentò. Era la ditta di pompe funebri che aveva scelto per le esequie di Connie. «Che genere di problema?» domandò, continuando a lottare contro l'intontimento dovuto al sonno. Non gli piaceva sentire quella parola, «problemi». «È accaduta una cosa molto irregolare», continuò Gordon. «Non molto dopo che la sua povera moglie è giunta qui da noi, sono comparsi tre uomini che hanno chiesto di vederne il cadavere e di prelevare dei campioni.» «Che tipo di campioni?» «I liquidi corporei, per fare delle analisi. Vorrei scusarmi per l'accaduto e per non averla chiamata immediatamente, per chiederle il permesso, ma è successo tutto talmente in fretta. Avevano l'autorizzazione del medico legale capo, ma adesso, dopo il fatto, sono perplesso sulla legalità dell'intera faccenda. Potrebbe decidere di rivolgersi a un avvocato, credo che avrebbe buone probabilità di ottenere un grosso indennizzo dal municipio.» «Ma non capisco», borbottò Yuri. «A mia moglie non è stata fatta l'au-
topsia.» «Infatti», convenne Gordon. «Ecco perché la cosa è tanto irregolare. Sono quasi trent'anni che svolgo questo lavoro, e prima di me, lo ha fatto mio padre, per una vita intera, e non è mai successa una cosa simile, né a me né a lui.» «Chi erano questi uomini?» domandò Yuri. Appoggiò la cornetta nell'incavo del collo, aprì il frigo e si versò una dose di vodka. Ne aveva bisogno. «Uno era un medico legale», rispose Gordon. «Il dottor Jack Stapleton. Aveva un assistente...» «Si chiamava così?» lo interruppe Yuri. Nonostante non fosse ancora uscito del tutto dalle nebbie del sonno, quel nome gli aveva fatto suonare un campanello d'allarme nella mente. Quando se lo sentì ripetere, bevve un altro sorso di vodka. Jack Stapleton era l'uomo che aveva incontrato nell'ufficio della Corinthian Rug Company! «Il medico legale era accompagnato anche da un parente della sua cara estinta», continuò Gordon. «Almeno, questo è ciò che mi ha detto. Si è presentato come Frank Thomas, anche se ho sentito il dottor Stapleton rivolgersi a lui con il soprannome di Flash.» Yuri sentì un brivido lungo tutta la spina dorsale. Prese una sedia della cucina e se la tirò vicino, in modo da potercisi sedere. Era come se le gambe si fossero trasformate all'improvviso in gelatina. Flash Thomas era l'unica persona al mondo di cui aveva davvero paura. Non solo era un omone alto e muscoloso, ma lo aveva minacciato in diverse occasioni. L'ultima volta era stato al telefono; quando gli aveva detto che se avesse battuto ancora Connie, anche una sola volta, sarebbe venuto lì a Brighton Beach e lo avrebbe ammazzato. «Pronto? C'è ancora?» chiese Gordon, visto che Yuri non aveva reagito alla sua ultima informazione. «Sì, sì, ci sono», riuscì a dire lui. Aveva il battito a mille. Che cosa poteva significare il fatto che Flash Thomas si trovava in compagnia del misterioso Jack Stapleton? Che bizzarra coincidenza poteva essere quella? «Ci serve qualche indicazione da parte sua», insisté Gordon. «Vorrebbe una bara aperta?» «No!» urlò Yuri, poi si calmò. «No, voglio farlo nel modo più Semplice possibile. È ciò che avrebbe preferito Connie.» «Ma dovrà venire qui a scegliere una bara adatta.» «Qual è la meno costosa?»
«Sarebbe molto meglio se venisse di persona», insisté Gordon, con l'untuosa voce che usava per trattare gli affari. «Potremmo mostrarle l'intera produzione, con la descrizione di vantaggi e svantaggi per ogni singolo pezzo.» «E la cremazione?» «Si può fare anche quella, ma resta comunque da scegliere l'urna appropriata.» «Voglio che sia cremata, e subito», pretese Yuri. «Oggi stesso!» «Senza esposizione nella camera ardente e senza servizio funebre?» si stupì Gordon. «Senza. Secondo la mia convinzione religiosa, dovrebbe essere fatto il più presto possibile.» «Benissimo.» «Che tipo di campioni ha prelevato il dottor Stapleton?» chiese Yuri. «Solo una piccola porzione di tessuto cutaneo e alcuni liquidi», rispose Gordon, nervoso. «Non volevo che il suo cadavere venisse violato», si lamentò Yuri, chiedendosi che cosa poteva aver spinto il dottor Stapleton a raccogliere quei campioni, dopo che le autorità avevano deciso di non compiere l'autopsia. «Tutto ciò che posso fare è scusarmi di nuovo», ripeté Gordon con tono contrito, «ma deve capire, si è svolto tutto al di fuori del nostro controllo.» «Passerò di lì domani o dopo a scegliere l'urna per le ceneri e a sistemare il conto.» «Questo sarà molto apprezzato.» «Intanto, si assicuri che venga cremata prima che il suo cadavere sia violato di nuovo.» «Me ne occuperò immediatamente.» Yuri riattaccò e fissò attorno a sé senza vedere niente. Poteva essere che le autorità sospettassero la tossina del botulino? Non riusciva a capire come ciò fosse possibile. Ma una minaccia più immediata proveniva da Flash Thomas. Provò a immaginare che cosa avrebbe fatto se suo cognato fosse comparso all'improvviso alla porta. Era un'idea terrificante. Non sarebbe stato in grado di difendersi, quindi sapeva di dover fare qualcosa per proteggersi. Non poteva abbandonare il laboratorio, per lo meno non fino a quando avesse terminato il raccolto finale. Guardando l'orologio appeso sopra il frigo gli venne un'idea. Erano quasi le cinque, il che significava che Curt avrebbe smesso ben presto di lavorare. Allora prese il telefono e compose il numero della caserma dei pom-
pieri di Duane Street. Quando risposero, chiese del tenente Curt Rogers. «Resti in linea», gli risposero. Mentre aspettava, Yuri lanciò un'occhiata alla porta della cucina: quella mattina era entrato di lì e voleva assicurarsi che fosse sprangata. Non lo era. Non aveva chiuso il catenaccio. Si alzò e, tirando il filo del telefono all'estremo limite, spinse la piccola sbarra di ferro fino in fondo, con un tonfo rassicurante. «Tenente Rogers», rispose Curt, con un tono adatto al suo rango. «Curt, sono Yuri. Ho bisogno del tuo aiuto.» Ci fu un lungo silenzio. «Curt, ci sei?» «Perdio, perché mi chiami qui?» ringhiò Curt, tenendo la voce bassa. «Credevo di aver messo in chiaro che la caserma, qui, è off limits.» «Mi avevi detto di non venirci, non di non telefonarti.» «Che cosa dovrei fare, il disegnino per ogni singola cosa?» sibilò Curt. «Usa il cervello, maledizione! Hai l'accento russo e al telefono ti fai notare come se venissi qui di persona. Non voglio che qua sappiano che ho a che fare con un russo.» «Ma dovevo chiamare», spiegò Yuri. «Come ti ho detto, ho un problema.» «Che genere di problema?» chiese Curt, irritato. «Mi serve una pistola. Mi hai parlato di tutte le armi che hai tu e che avete all'Esercito Ariano del Popolo. Me ne serve una.» «A cosa diavolo ti serve?» «Per il fratello di Connie. Ho appena saputo che è stato a vedere il cadavere, alle pompe funebri.» «E allora?» «E allora ce n'è da vendere. Tu l'hai vista, ieri sera. L'avevo picchiata, e suo fratello una volta mi aveva detto che se l'avessi battuta mi avrebbe ammazzato.» «Cristo!» imprecò Curt. «Dico sul serio. È un negro grande e grosso e io non ho intenzione di starmene qui a lavorare in laboratorio senza protezione.» «E va bene, ti procurerò una maledetta pistola.» «Ne ho bisogno subito.» «Stacchiamo alle cinque. Te la portiamo.» «Grazie.» «Sì, certo», bofonchiò Curt e riattaccò.
Yuri scosse la testa, demoralizzato. Avrebbe voluto dirgli anche di Jack Stapleton, dopo avergli parlato del fratello di Connie, ma poi aveva cambiato idea nel sentire il suo tono di voce. Lo aveva colto di nuovo di sorpresa per la collera e l'ostilità che esprimeva, come la sera prima. Secondo lui, quel tipo di atteggiamento era del tutto inadatto a gente che doveva lavorare insieme. Fu costretto di nuovo a chiedersi se Curt fosse davvero un amico. Con una sola sorsata finì la vodka, poi mise il bicchiere nel lavello. Si chiese se avesse avuto abbastanza tempo per infilare la tuta con il respiratore e andare in laboratorio a controllare il secondo fermentatore, prima che arrivasse Curt. Alla fine, decise che si sarebbe sentito più al sicuro vicino alla sua polvere di carbonchio. 13 Martedì 19 ottobre, ore 17 Jack si era fatto lasciare da Warren sul lato dell'obitorio che dava sulla 30esima Strada, in modo da poter entrare attraverso il piano di carico. Voleva evitare di imbattersi nel capo o in Calvin, nel caso le sue imprese di Brooklyn avessero già fatto scalpore. Ciò che sperava era di ottenere i risultati delle analisi prima di dover affrontare i superiori. Gli sarebbero serviti a giustificazione delle sue azioni. L'intuito gli diceva che probabilmente Flash aveva ragione nel sostenere che la morte della sorella non era dovuta a cause naturali. Avendo escluso un attacco di cuore, un ictus e varie malattie infettive, era possibile che si trattasse di un avvelenamento, considerata anche la storia di violenze domestiche. A dare consistente credibilità a quella teoria era l'occhio nero. Anche se Jack era stato riluttante ad ammetterlo con l'amico, la sua valutazione professionale gli diceva che la causa era un trauma e non un'infezione, e che il trauma era il risultato di un pugno e non della caduta contro un oggetto inanimato che si trovava nel bagno. Nella speranza di procurarsi al più presto una giustificazione al suo modo di agire e una prova abbastanza evidente che facesse avviare un'indagine per omicidio, Jack andò direttamente al laboratorio di tossicologia al quarto piano. Evitò di proposito il caposervizio, John DeVries, che probabilmente lo avrebbe tenuto ad aspettare per una settimana o giù di lì, e andò in cerca di Peter Letterman, il tecnico esile, biondo, androgino che si
comportava come se avesse sposato il laboratorio. Jack a volte lo aveva visto rimanere lì fino alle dieci di sera. «Ho disperatamente bisogno del tuo aiuto», lo investì Jack, ancor prima di dirgli ciao, quando lo trovò impegnato al gascromatografo. Peter sollevò le sopracciglia. Era abituato a ogni genere di implorazioni creative che gli venivano rivolte per evitare il tipico ingorgo delle richieste di analisi. Non c'era dubbio che il suo reparto fosse a corto di personale. Ma questo valeva anche per tutti gli altri reparti di quell'ufficio. «Potrei ritrovarmi a vendere matite per strada, se da qui non esce fuori qualcosa di positivo», dichiarò Jack, e posò la tracolla, cominciando a estrarne le provette con i campioni, mentre intanto riassumeva rapidamente al giovane tecnico le imprese compiute quel pomeriggio. Il racconto di ciò che era avvenuto nella sede delle pompe funebri fece allargare un sorriso sul viso fanciullesco di Peter, che in genere era sempre serio. «Pensi che me lo sto inventando a tuo uso e consumo, eh?» chiese Jack, notando la sua espressione. «No, quello che mi sta raccontando è troppo inverosimile per essere inventato.» «Bene. Allora ti rendi conto che potrei ritrovarmi in guai grossi?» «Oh, sì!» esclamò il tecnico, senza un attimo di esitazione. «Allora mi aiuterai?» «Che cosa sta cercando di preciso?» «Qualcosa che abbia depresso la respirazione. Sai, le solite medicine per cui occorre la ricetta, più cianuro, monossido di carbonio, glicole etilenico e compagnia bella, qualsiasi cosa ti venga in menta. Non occorre che ce ne sia tanta, per il momento. Basta che trovi qualcosa.» «Va bene, ci proverò.» «Quando pensi di farlo?» «Perché non adesso?» si offrì Peter, con grande disponibilità. «Per quello che ha in mente lei non ci vuole tanto tempo.» Incapace di trattenersi, Jack gli gettò le braccia al collo e lo abbracciò. Quando lo lasciò andare, notò che Peter sembrava imbarazzato: era arrossito ed evitava di guardarlo negli occhi. «Sarò nel mio ufficio», gli disse. «Ho un sacco di cose da fare. Quando hai finito fammi un fischio.» Il tecnico annuì. «Ti offrirò una cena», aggiunse Jack e gli diede una leggera pacca sulla schiena.
«Certo.» Peter cominciò a raccogliere le provette. «Prima lasciami compilare qualche modulo per certificare l'avvenuta consegna al laboratorio. Dobbiamo seguire la prassi e documentare ogni singolo passaggio di questi campioni, nel caso saltasse fuori che è un caso di omicidio e quindi serviranno come prove.» Lasciato il laboratorio di tossicologia, Jack salì al quinto piano. Si sentiva decisamente meglio. Si affacciò con un saltello nel laboratorio di istologia e trovò Maureen O'Conner, la caposervizio, che si era già infilata il cappotto per andarsene. «La mia solita fortuna!» esclamò Maureen con il suo caratteristico accento irlandese. «Sono già in ritardo per una conferenza di patologia, e mi arriva qua l'uomo giusto, bello fresco e pimpante.» La stanza risuonò di risate. Fra tutto il personale, Jack e il suo compagno di stanza, Chet, erano gli unici due scapoli e Maureen e la sua équipe tutta femminile si divertivano un mondo a stuzzicarli. Ne avevano spesso l'opportunità, dato che il loro ufficio si trovava proprio in fondo al corridoio. «Io non devo andare a nessuna conferenza», saltò su una delle assistenti di Maureen. «Sono disponibile.» Si scatenarono altre risate. Jack aprì la tracolla e tirò fuori il piccolo contenitore con il frammento di pelle di Connie. «Ahi, ahi!» commentò Maureen. «Non ha l'aria di una visita mondana.» Jack sorrise. «Tutto ciò che voglio, per questa volta, è qualche vetrino da questo campione di pelle. Ma domani è un altro giorno.» «Sentito, ragazze?» chiese Maureen. Si levò un entusiasta coro di «sì». Maureen prese il campione e lo porse alla tecnica più vicina a lei. «Considera la cosa già fatta», dichiarò poi, rivolta a Jack. «Che genere di colorazione?» «Il solito. Voglio essere sicuro che la patologia sia un trauma e non un'infezione.» «Per quando ti serve?» «Prima è, meglio è.» «Vorrei sapere perché mi do la pena di chiederlo», commentò Maureen, piegando la testa all'indietro, con se parlasse con un'entità superiore. Jack lasciò il laboratorio di istologia e si avviò per il corridoio. Nell'avvicinarsi all'ufficio di Laurie, vide che la luce era accesa. Svoltò per entrarvi, ma si fermò sulla soglia, vedendo che dentro c'era anche Lou. Era
seduto di fronte a Laurie, ma stavano tutti e due in silenzio e guardavano in direzioni opposte. L'atmosfera era tesa. «È una veglia funebre?» domandò Jack. Tutti e due sollevarono lo sguardo. Laurie era chiaramente irritata, e Lou aveva un'aria contrita. «Complici del delitto, suppongo», sbottò Laurie quando vide Jack. Lui sollevò le mani. «Mi arrendo. Qual è il delitto?» «Le ho detto della fedina di Paul Sutherland», confessò Lou. «E le ho anche detto che tu lo sapevi.» «Capisco. E, come temevamo, il messaggero si piglia la colpa.» «Non metterti dalla sua parte. Non avrebbe dovuto ficcanasare in quel modo. Io non gliel'ho chiesto.» «Suppongo che sia così, ma, date le circostanze, ritengo che tu dovessi sapere che lavoro fa il tuo futuro marito.» «Che cosa intendi, che lavoro fa?» la collera di Laurie parve aumentare ancora di più. «Che cosa diavolo stai sottintendendo?» «Le ho detto solo del possesso di cocaina», spiegò Lou. «Oh!» Jack deglutì, a disagio. «Paul non è un trafficante di droga», replicò Laurie in tono indignato. «Se era questo che volevi insinuare.» «Posso entrare?» chiese Jack. «Sarà meglio», sbottò lei. «E farai anche bene a spiegarti.» Jack tirò a sé una sedia e si sedette accanto a Lou. Fissò l'amica negli occhi, e lei gli restituì lo sguardo con aria di sfida. «Paul Sutherland è un trafficante di armi», dichiarò semplicemente. Gli occhi azzurro-verdi di Laurie si spostarono ripetutamente da uno all'altro dei due amici. «Come fate a saperlo?» domandò con una voce che aveva perduto almeno parte della collera. «Lo ha scoperto Lou insieme alla faccenda della detenzione di cocaina», spiegò Jack. Lou annuì con aria colpevole e abbassò gli occhi sulle mani, che teneva in grembo. «Che me ne importa se è un trafficante di armi?» commentò Laurie in tono disinvolto, cercando di far credere che la cosa non le interessava. Né Jack né Lou replicarono. La conoscevano abbastanza bene da non farsi ingannare. «Che genere di armi?» «Al momento non ne sono sicuro», rispose Lou. «Ma nel 1994 era spe-
cializzato nei fucili mitragliatori AK-47 di fabbricazione bulgara.» Laurie impallidì visibilmente. «Lou e io abbiamo discusso se dovevamo dirtelo o no», aggiunse Jack. «Ma, in un modo o nell'altro, abbiamo pensato che dovessi saperlo, considerato il tuo impegno per la limitazione delle armi da fuoco.» Laurie annuì, sospirò e distolse lo sguardo. Jack non avrebbe saputo dire se era triste o adirata, o tutt'e due le cose. Per un minuto pieno nessuno parlò, infine fu lei a rompere il silenzio: «Signori, vi ringrazio per aver adempiuto al vostro dovere civico. Sono stata informata. Adesso, se mi volete scusare, ho tantissimo lavoro arretrato». Jack e Lou si scambiarono un'occhiata, poi si alzarono in piedi e rimisero a posto le sedie. Salutarono Laurie, ma lei non rispose. Aveva aperto una cartelletta, ne aveva estratto i documenti e sembrava già assorbita dal lavoro. I due amici uscirono dalla stanza e raggiunsero l'ufficio di Jack. Non parlarono fin quando non furono sicuri che Laurie non poteva sentirli. «Stavo quasi per congratularmi con te per aver avuto il coraggio di parlarle», commentò Jack, «quando mi sono accorto che avevi orchestrato astutamente il tutto in modo che fossi io a cavare dal fuoco le vere castagne.» «Grazie a Dio sei arrivato», replicò Lou. «Mi stava facendo sentire come un verme, il che non era difficile, dato che io stesso avevo dei dubbi sulle mie motivazioni.» «Continuo a pensare che per lei questa sia la cosa migliore, anche se c'è la possibilità che noi due lo abbiamo fatto anche per noi, e non solo per lei.» «Cercherò di vedere la cosa in questo modo», si propose Lou senza un grande entusiasmo. «Ascolta, ce l'hai un momento? Vorrei parlarti di un caso.» Lou diede un'occhiata all'orologio. «È talmente tardi che una mezz'oretta in più non dovrebbe fare una grande differenza.» «Non ci vorrà molto», gli assicurò Jack. Lo precedette all'interno del proprio ufficio e accese la luce. «Dove diavolo è Chet? Non lo vedo da stamattina. Non è da lui sparire senza dire niente.» Lou si sedette e intanto Jack raccolse un foglio di carta dal centro della sua scrivania. «Uhmm», mormorò dopo aver letto il messaggio. «È da parte di Ted
Lynch, il guru del DNA. Sembra che la minuscola stella trovata negli uffici della Corinthian Rug Company fosse altamente contaminata con spore di carbonchio. Considerata la superficie, secondo lui non ci sarebbe stato posto per un'altra spora. Questo è davvero curioso.» «Che cosa significa?» domandò Lou. «E che ne so?» Jack gettò il foglietto sulla scrivania. «Suppongo che dovrebbe dirmi qualcosa, ma non ne ho la più pallida idea. Sembra quasi che la stellina sia stata intinta in una zuppiera piena di carbonchio.» «Sentiamo un po' di questo caso di cui mi volevi parlare», propose Lou. Jack gli raccontò la storia di Connie Davidov. Lou l'ascoltò con attenzione e sorrise nell'ascoltare la parte alle pompe funebri. «Warren era mai stato in un posto simile?» domandò. Aveva conosciuto Warren tramite Jack. Jack scosse la testa. «Deve essergli venuto il torcibudello nel vedere il tizio che veniva imbalsamato.» «Ha detto che è stata l'esperienza peggiore della sua vita.» «Lo immagino.» «Ma non potevamo farne a meno», spiegò Jack. «Avevo bisogno che lui fosse lì, per intimidire il direttore delle pompe funebri. In realtà, sono sorpreso di essere riuscito a fare ciò che ho fatto.» «Perché mi racconti questa storia?» chiese Lou. «Posso esserti d'aiuto in qualche modo?» «Mi chiedo se puoi fare qualcosa a proposito del cadavere. Non ho idea di quali progetti abbiano, se imbalsamarlo o cremarlo, ma vorrei che restasse intatto. Vorrei tanto fare una necroscopia completa. Avresti modo di intervenire?» «No, senza il coinvolgimento di questo ufficio.» «Ciò che temevo. Be', chiedere non costa niente. Aspetterò stasera per i risultati delle prove sui campioni. Se sono positive a qualche tipo di veleno o di overdose te lo farò sapere.» «Mi puoi raggiungere al mio cellulare», si offrì Lou, poi si alzò e uscì in corridoio. Guardò in direzione dell'ufficio di Laurie. «Pensi che debba tornare dalla nostra amica a dirle qualcosa?» «Secondo me le abbiamo detto tutto ciò che potevamo. Adesso sta a lei rimuginarci sopra e decidere quanto è importante.» «Suppongo che tu abbia ragione. Ci vediamo.» «Abbi cura di te.»
Jack raddrizzò la pila di cartellette dei casi incompleti che si ergeva sulla sua scrivania. Appese il giubbotto dietro la porta e si sedette a lavorare. Essendo rimasto fuori per due pomeriggi di seguito era più indietro del solito. 14 Martedì 19 ottobre, ore 18.30 Curt svoltò in Oceanview Lane. Anche se non faceva ancora buio del tutto, accese i fari a causa delle fitte ombre che si addensavano ai lati del vicolo. Come la sera precedente, c'erano parecchi bidoni dell'immondizia sparsi lungo la stretta sede stradale. Si fermò accanto al garage di Yuri e spense luci e motore. «Mi sta bene tutto quello che abbiamo deciso, tranne l'idea di dare una pistola a questo comunista», commentò Steve. «Devo dirtelo, non mi piace.» «Che diavolo di scelta avevamo?» si lamentò Curt. «Te l'ho detto, è terrorizzato dal cognato. Quel tipo ha minacciato di ammazzarlo.» «Lo so quello che mi hai detto, ma si comporta in un modo talmente strano e dice cose tanto folli, come quella baggianata che noi siamo una civiltà senza radici, che, ripeto, non mi piace l'idea che abbia una pistola. E se ci si rivolta contro?» «Non ci si rivolterà contro», replicò Curt, irritato «Cristo, siamo gli unici amici che ha. Inoltre, probabilmente non sarebbe capace di colpire un elefante a due passi. E tu ce l'hai la tua pistola, no?» «Certo.» «Bene, e io ho la mia. Non c'è modo che noi due insieme non riusciamo a tenere d'occhio un russo piccoletto e cicciottello. Forza, concludiamo 'sta faccenda!» I due scesero dal camioncino e si diressero verso la porta di Yuri. Curt reggeva un sacchetto di carta marroncina. «La cosa principale è che continui a lavorare nel laboratorio», aggiunse. «Se per questo occorre dargli una pistola, e sia. Ci manca così poco. Non possiamo lasciare che l'Operazione Volverina muoia sul nascere perché Yuri ha paura del cognato negro.» «Ma se ha una pistola, in seguito potrebbe essere difficile da gestire, per i nostri», osservò Steve.
Curt lo fece fermare. «Credi che una Glock automatica faccia qualche differenza contro una mezza dozzina di kalashnikov? Andiamo! Sii serio!» «Immagino di no», ammise Steve. «Certo che no. Subito dopo che ci saremo impadroniti della nostra parte di polvere di carbonchio e saremo tornati sani e salvi al White Pride, manderemo qui i nostri. Glock o non Glock, la missione sarà finita in cinque secondi. Diavolo, e gli diremo che devono anche bruciare questo dannato posto fino alle fondamenta.» «Va bene, hai ragione. Volevo soltanto essere sicuro. Più ci penso, più non voglio che si metta a spargere il carbonchio per il Central Park.» «La stessa cosa vale anche per me. È evidente che non è un obiettivo militare come il Jacob Javits Federal Building.» «E mi ha dato fastidio sentirlo blaterare di quante vittime in più avrebbe fatto la sua azione, rispetto alla nostra. Non me la bevo. Diavolo, l'impianto di condizionamento dell'edificio federale manda aria all'esterno. Non solo faremo fuori tutti quelli che ci lavorano dentro, ma le spore si spargeranno in tutta quella parte della città.» «Più che giusto», affermò Curt. «Verranno portate a est, verso la zona dei tribunali. Non è perfetto, come piano?» «Non potrebbe essere migliore.» «Una volta che diamo l'ordine ai nostri, Yuri è un uomo morto. Lo sai. Fine della storia.» Steve annuì e ricominciarono a camminare. «Non vedo nessuna luce all'interno», osservò Curt quando raggiunsero la porta. Dovette socchiudere gli occhi alla luce di una lampada da esterni applicata allo stipite sinistro. «Farà meglio a esserci, per la miseria!» Spalancò la zanzariera e batté forte contro la porta interna. Si aprì quasi immediatamente e Yuri sbirciò fuori emergendo appena dall'oscurità. «Grazie a Dio!» esclamò sollevato. «Entrate!» Curt e Steve gli passarono accanto, ma si fermarono perché l'oscurità era totale, e loro erano ancora abbagliati dalla luce esterna. «Che diavolo ci fai qua dentro, in questo modo?» chiese Curt. «Non mi vedo nemmeno la mano davanti alla faccia.» «Scusate», replicò Yuri, e corse ad accendere una lampada accanto al divano. «Avevo paura che si facesse vivo il fratello di Connie, prima che arrivaste voi, e volevo far sembrare che in casa non c'era nessuno.» «Così va meglio», commentò Curt, riferendosi alla luce. «Volete un po' di vodka ghiacciata?» offrì Yuri.
«Credo che ne farò a meno», rispose Curt. «Anch'io», aggiunse Steve. «Avete portato la pistola?» chiese Yuri. «Certo che l'ho portata», gli rispose Curt, e sollevò il sacchetto. «Ma prima dobbiamo parlare.» «Va bene. Ti spiace se me ne verso un po'?» «Affatto.» Yuri andò in cucina, mentre i suoi ospiti si sedettero. Curt scelse il divano, Steve una sedia. Lasciarono l'altra per Yuri, in modo che si trovasse più o meno fra loro due. «È sorprendente pensare a quello che esce fuori da questo insignificante buco di cantina», sussurrò Curt. «Solo pensarci mi emoziona.» «Sì, capisco che cosa intendi», sussurrò a sua volta Steve. «Come Cristo che è nato in una stalla, da ambienti umili possono nascere cose straordinarie. Quest'arma batteriologica probabilmente cambierà il mondo.» «Accontentiamoci di salvare il paese», replicò Curt. Con il bicchiere in mano, Yuri raggiunse gli altri due e si accomodò sulla sedia vuota. «Di che cosa volete parlare?» domandò. Bevve un sorso di vodka, trattenendola qualche momento in bocca per assaporarla. Nonostante le recenti apprensioni riguardo al rapporto con i suoi ospiti, era contento e sollevato che fossero lì. «Con tutti 'sti problemi inaspettati che sono sorti, abbiamo deciso che le cose devono essere accelerate», annunciò Curt. «Come ti abbiamo detto ieri sera, quello che ci preoccupa è la sicurezza. Dopo averne parlato tutto il giorno, abbiamo deciso che vogliamo programmare l'evento per venerdì. Quindi, vogliamo la nostra parte di polvere di carbonchio giovedì sera. Due giorni a partire da oggi.» «Ma è pochissimo!» commentò Yuri, visibilmente scioccato. L'idea era di aspettare che lui avesse una quantità sufficiente di spore e poi stabilire il giorno dell'azione. «Forse è così, ma siamo convinti che bisogna agire in questo modo.» «Sarà difficile.» Gli occhi di Yuri saettarono nervosamente dall'uno all'altro dei suoi ospiti. «Entrambe le azioni hanno bisogno di almeno due chili di polvere, perché l'effetto sia massimo.» «Questo significa che noi vogliamo almeno due chili di polvere, preferibilmente un po' di più, per giovedì sera», replicò Curt. «Questa non è una discussione. Sono stato chiaro?»
«Non so che cosa dire», balbettò Yuri. «Basta che dici: 'Va bene, Curt, vieni a prenderla e io l'avrò pronta per te'. All'inizio ci hai detto che sarebbe stata sigillata nella plastica trasparente e avrebbe avuto la forma di grosse salsicce. È sempre così?» «Sì», confermò Yuri, e sorbì un altro sorso. Gli tremava la mano. «E si è sicuri a maneggiarlo in quella forma», continuò Curt, «voglio dire, senza indossare una tuta protettiva?» «A meno che si rompa la plastica», replicò Yuri. «Le salsicce saranno termosigillate e la parte esterna sarà decontaminata.» «Quanto è resistente la plastica? Per esempio, se ci capita di lasciar cadere una di quelle salsicce, sarebbe un problema?» «Questo non l'ho verificato, ma sconsiglierei di farle cadere, o di pungerle con qualcosa di appuntito. In condizioni ideali, ognuna di quelle potrebbe uccidere fino a centomila persone.» «Adesso quanti chili ne hai?» domandò ancora Curt. «Non ne sono sicuro», rispose Yuri. «Ieri sera hai detto che ne avresti avuti abbastanza per la fine della settimana», gli rammentò Curt. «Quindi un'idea dovresti averla. In fondo, giovedì sera è piuttosto vicino alla fine della settimana.» «Stamattina ho fatto un altro raccolto, ma non l'ho pesato.» «Allora ci sei vicino», commentò Curt. «Sì, ci sono vicino.» Yuri annuì diverse volte, come se stesse seguendo un pensiero che gli tornava, poi inspirò a fondo ed espirò corrugando le labbra. Era come se fosse sotto stress e incapace di rilassarsi. Fece un cenno, con il bicchiere in mano, verso i due ospiti, come se volesse fare un brindisi, e poi ingollò un altro sorso abbondante. Tenne la vodka in bocca per un attimo, poi la mandò giù come se fosse del vino prelibato. «E il secondo fermentatore?» volle sapere Curt. «Lo hai convertito al carbonchio?» «Sì, stamattina.» «Come sta andando?» «Benissimo.» Per la prima volta dal loro arrivo, Yuri sorrise. «Adesso va molto meglio che con il Clostridium botulinum. Difatti mi sono meravigliato, quando ci ho guardato appena pochi minuti prima che voi arrivaste. Stasera potrò fare un altro raccolto.» «Stanotte potremmo rubare per te un altro fermentatore», suggerì Steve. «Se ti fa comodo.» «Non ce n'è bisogno, adesso che ho convertito il secondo.» Yuri fece un
gesto con la mano libera, come per mandar via qualcosa. «Visto come funziona bene, riuscirò a ottenere almeno cinque chili, magari anche un po' di più, se lavoro senza interruzioni.» «Ci può essere qualche motivo che potrebbe impedirtelo?» chiese Curt. «No. Semplicemente, non guiderò il taxi.» «C'è un'altra cosa che vorremmo tu facessi, prima di domani sera.» Il viso di Yuri, che era rimasto sorridente, tornò ad assumere un'espressione preoccupata. «Non agitarti», cercò di calmarlo Curt, notando il cambiamento. «Quella che ti chiedo è una cosa facile, almeno per te. Vorrei che mettessi per iscritto come hai creato questa polvere di carbonchio. Dato che tu tornerai in Russia, noi dovremo trovare qualcun altro, se vogliamo fare il bis.» Sul volto di Yuri tornò il sorriso. Annuì. «Certo che lo farò. Anzi, sarò davvero felice di farlo.» «Perfetto!» esclamò Curt. Sorrise tra sé, prima di sollevare il sacchetto di carta dal divano e porgerglielo. Quando Yuri lo prese, Curt portò l'altra mano dietro di sé e la strinse attorno all'impugnatura della propria pistola, infilata in una fondina che teneva dietro la schiena, all'altezza della vita. Senza che Yuri se ne accorgesse, intento com'era ad aprire il pacco, anche Steve fece la stessa cosa. Yuri sollevò l'automatica tenendola per la canna. Lasciò cadere il sacchetto di carta e la esaminò con attenzione. La soppesò. «È leggera», commentò. «Infatti. La chiamano Glock», gli spiegò Curt. «È un'arma ottima. È la pistola preferita dai membri delle milizie.» «C'è qualche particolare che devo sapere?» domandò Yuri. Fece scivolar fuori il caricatore e contò le pallottole. «Basta che la punti contro tuo cognato e premi il grilletto», rispose Curt. «La pistola farà il resto.» Yuri rise. Appoggiò l'indice sul grilletto e puntò la pistola verso il frigo. «Bang!» gridò, e mosse la pistola come se avesse rinculato. Rise di nuovo, prima di appoggiarla sul tavolinetto. Curt e Steve si rilassarono e si appoggiarono all'indietro. «Nel sacchetto c'è un'altra cosa», disse Curt. «Sì?» Yuri allungò una mano e lo riprese. Ne estrasse una confezione di plastica trasparente che sembrava piena di capelli neri. Fece un mezzo sorriso, credendo che si trattasse di uno scherzo. «Che cosa diavolo è?» «Una cosa che abbiamo preso in un negozio di maschere e costumi,
mentre venivamo qua», spiegò Curt. «È una barba.» «A che cosa diavolo mi serve?» «Chiariamo bene le cose. La pistola è da usare solo in caso di emergenza assoluta. Noi non vogliamo che tu la usi. Sta' lontano da tuo cognato e tieni il telefono staccato. Non parlargli. Quando esci, assicurati che lui non sia in giro e mettiti quella cazzo di barba. Se dovesse capitare che lui viene qui, non farlo entrare, cerca soltanto di sbarazzarti di lui. Il problema è che, se usi la pistola, verrà la polizia e se la polizia viene qui e ficca il naso in giro, l'Operazione Volverina va a farsi fottere. Se dovesse succedere, io e Steve e l'Esercito Ariano del Popolo saremmo molto scontenti. Sono stato abbastanza chiaro?» «Non ti preoccupare», replicò Yuri, facendo un gesto di diniego. «La userò solo per evitare di venire ucciso. Serve più che altro a farmi sentire sicuro.» «Proprio quello che speravo.» «Dopotutto», aggiunse Yuri mentre apriva il sacchetto di cellophane, «l'Operazione Volverina è altrettanto importante per me che per voi. L'ultima cosa che vorrei sarebbe combinare qualche guaio che la faccia andare a monte.» Estrasse la barba finta dal sacchetto e se l'appoggiò al viso. «Come sto?» «Sei ridicolo», rispose Curt. Yuri rise e rimise barba e cellophane nel sacchetto di carta. Curt si alzò, imitato immediatamente dagli altri due, e tese la mano, che Yuri strinse con entusiasmo. «Allora, quando di preciso, giovedì sera?» chiese. «Come preferisci», rispose Yuri. «Sarà tutto pronto per quando vorrai tu.» «Ottimo. Arriveremo dopo che avrà fatto buio. Porterò con me una cassetta degli attrezzi da pompiere. È circa cinquanta centimetri per venticinque, alta venticinque. Le dimensioni di una piccola sacca da viaggio. Sarà abbastanza grande per le salsicce di plastica?» «Più che abbastanza. La cosa importante è che all'interno non ci siano parti sporgenti o affilate. Comunque, ti darò un telo di stoffa in cui avvolgerle.» «Mi sembra che vada bene», approvò Curt e fece un saluto militare. Yuri ripeté il gesto, un po' imbarazzato. Curt uscì, seguito a ruota da Steve, e immediatamente dopo, mentre già si incamminavano lungo il vialetto, sentirono Yuri chiudere a chiave la
porta. Poi risalirono sul pickup. «Allora, che ne pensi?» domandò Curt. «Sono ottimista», rispose l'amico. «All'inizio, quando si è comportato in modo così nervoso, ho avuto dei dubbi. Ho pensato che avrebbe provato a farci delle difficoltà sul procurarci il carbonchio, o magari che avrebbe insistito per fare il Central Park invece dell'edificio federale.» «Anch'io, ma poi è stato come se all'improvviso avesse visto la luce e si fosse reso conto che l'Operazione Volverina avrà maggiori probabilità di successo se la mettiamo in atto prima che qualcosa vada storto. Grazie a Dio siamo venuti qua a mettergli il fuoco al culo. Forse avremmo dovuto farlo una settimana fa. Ma al momento non importa. Ciò che importa è che l'Operazione Volverina abbia luogo, e da qui a venerdì nella Grande Mela si scatenerà l'inferno.» «Sono contento che abbia deciso di collaborare, ma resta sempre un tipo strambo. Ti sei sentito nervoso, quando ha preso la pistola?» «Un po'», ammise Curt, «ma più per quello che avevi detto tu prima che entrassimo in casa. In realtà, secondo me è patetico. Far finta di sparare a quel modo è proprio da ragazzini. E quando si è messo la barba, quasi quasi schiantavo.» «Secondo me è stata un'idea brillante chiedergli di scrivere il procedimento per ottenere la polvere di carbonchio.» «È stato un colpo di genio.» Curt fece un sorrisetto astuto, mentre svoltava in Ocean Avenue. «L'idea mi è venuta all'improvviso, come un fulmine che si scatena senza preavviso. Se tutto andrà bene come spero, probabilmente faremo altre azioni simili.» 15 Martedì 19 ottobre, ore 19.30 A Jack piaceva fermarsi in ufficio dopo l'orario di lavoro. Nell'edificio rimanevano in pochi, e inoltre non riceveva telefonate, quindi non si distraeva. L'unica persona che aveva visto nell'ora precedente era un addetto alle pulizie, che era passato davanti alla sua porta brandendo un grande straccio per la polvere. Approffittando dell'assenza di Chet, Jack si era impadronito di tutta la stanza e aveva distribuito in vari punti le incombenze dello stesso tipo per casi diversi. Sulla scrivania di Chet aveva montato il microscopio per esa-
minare i vetrini per gli esami istologici. Approfittando delle ruote della poltroncina, si spostava da una postazione all'altra. «Mio Dio, sono rimasto senza casa!» esclamò una voce, rompendo il silenzio. Jack sollevò la testa e vide il suo compagno di stanza che guardava con espressione ostentatamente sconsolata la propria scrivania. «Ah, il medico legale scomparso!» lo accolse Jack. «E poi dici di me, che me ne vado a lavorare sul campo! Dove diavolo sei stato? Non ti vedo da stamattina presto.» «Te lo avevo detto che andavo alla conferenza di patologia», rispose Chet. «Me lo avevi detto?» «Ma sì! Stamattina, nella stanza delle identificazioni, mentre bevevamo il caffè.» «Scusa, credo di essermelo dimenticato.» Jack si ricordò che in quel momento era preoccupato perché stava pensando a come chiedere scusa a Laurie. «È come se mi trovassi dentro una specie di nebbia. Stanno succedendo un sacco di cose.» «Sembra che questo ufficio sia stato colpito da un ciclone.» «Sì, credo di sì. Aspetta, che ti libero la scrivania.» «Ehi, per me può restare», lo fermò Chet. «Sono passato solo a prendere la mia valigetta. C'è dentro la tuta: adesso vado in palestra.» «Sei sicuro di non volere che sposti le mie cianfrusaglie?» «Ma certo!» Chet si mosse con precauzione, per non calpestare le cartellette che Jack aveva disposto strategicamente sul pavimento. «Avresti dovuto venirci, a quella conferenza. È stata una delle migliori a cui abbia assistito.» «Davvero?» chiese Jack, ma senza un vero interesse. Stava riportando l'attenzione sul caso del prigioniero in custodia cautelare, i cui vetrini erano comparsi con una velocità miracolosa dal laboratorio di istologia. «L'ultimo intervento, in particolare, è stato fantastico», continuò il collega, mentre apriva il primo cassetto del suo schedario e ne estraeva la valigetta. «Era sulle zoonosi. Sai, le malattie degli animali che si possono trasmettere alle persone.» «Lo so che cosa sono le zoonosi», replicò Jack, con aria assente. «A rendere la cosa tanto valida era il fatto che partecipavano un sacco di veterinari del servizio municipale», continuò Chet. «Sono rimasto stravolto dal numero di malattie con cui devono combattere quotidianamente. È in-
credibile.» «Sì, non è uno scherzo», commentò Jack, senza lasciarsi trascinare dall'entusiasmo del collega. Stava cercando di trovare i vetrini con il cervello di David Jefferson, in particolare le sezioni del lobo temporale. «E non mi riferisco solo a quelle di cui parlano i media, come la rabbia nei procioni. Infatti, uno di loro ha riferito che proprio oggi c'è stata una moria di ratti di fogna a Brooklyn, dalle parti di Brighton Beach.» Jack sollevò la testa di scatto. «Eh?» «Come al solito, non mi stai a sentire», si lamentò Chet. «Mi sono perso soltanto l'ultima parte.» Chet ripeté ciò che aveva detto dei ratti. «Ed è stato a Brighton Beach?» chiese Jack. Aveva lo sguardo sbalordito. «Sì!» Chet rimase un po' urtato. Come al solito, lo irritava il modo in cui il suo compagno di stanza lo tagliava fuori. Jack non rispose. Era come se fosse in trance. «Ehi, ciao!» lo chiamò Chet, agitandogli la mano davanti al visto. «Tana per Jack! Dai, torna qua!» Scosse la testa. «Era da quando avevo otto anni che non usavo questa espressione.» «Di che cosa sono morti i ratti?» domandò Jack. «Peste, o qualcosa del genere?» «No, è questo il mistero! Non sono ancora riusciti a trovare una causa. Ma sono molto preoccupati. E, tanto per aggiungere un pizzico in più al mistero, due delle centinaia di ratti morti che hanno raccolto hanno delle ulcere cutanee, e le hanno identificate come dovute al carbonchio.» «Questa sì che è strana!» commentò Jack. «Pensano che gli altri abbiano il carbonchio?» «No, per niente. Hanno praticamente escluso i batteri come colpevoli, compreso quello del carbonchio. Adesso si stanno concentrando più che altro sui virus. Il carbonchio è soltanto un curioso corollario.» «Oggi è la seconda volta che sento parlare di Brighton Beach», osservò Jack. «E prima non sapevo nemmeno che esistesse.» «Quello che mi ha sbalordito è stato scoprire che questo tipo di problemi, magari non sempre drammatici come quello dei ratti, capita tutti i giorni. Solo che noi non ne sentiamo parlare. Questi epidemiologi veterinari hanno un bel daffare.» «Hanno mica idea della provenienza del carbonchio?» «No, ma pensano che alcuni ratti siano portatori, il che non è ciò che so-
stengono i libri di testo. Te lo dico io, è una cosa affascinante.» «Vorrei parlarti del mio caso di Brighton Beach», propose Jack. «Ce l'hai un minuto?» «Se non ci vorrà molto», rispose Chet, dando un'occhiata all'orologio. «Non voglio perdere questa lezione di aerobica, in particolare. C'è 'sta ragazza con un corpo da favola, che viene solo il martedì.» Jack fece un breve riassunto del caso di Connie Davidov, concentrandosi sul mistero della diagnosi. Fece un elenco di tutti gli agenti patogeni che aveva preso in considerazione, poi chiese al collega se avesse qualche idea. Chet storse la faccia e ci rimuginò sopra per qualche momento, poi scosse la testa. «Hai pensato a tutto il pensabile.» «È piuttosto curioso che Connie Davidov sia morta all'improvviso di quello che io credo un avvelenamento misterioso proprio il giorno in cui c'è questa moria di ratti nella stessa zona in cui abitava.» «Accidenti!» esclamò Chet con un sorriso. «Un'associazione di idee che richiede un balzo gigantesco, a meno che, naturalmente, la signora Davidov non abbia passato buona parte del suo tempo nelle fogne, nelle ventiquattr'ore precedenti, oppure una parte dei ratti cittadini non abbiano soggiornato nel suo appartamento.» Jack si passò le dita fra i capelli, mentre rideva per l'assurdità messa in evidenza dalla battuta di Chet. «Hai ragione! Ma che coincidenza bizzarra, soprattutto aggiungendo al quadro il carbonchio, e il caso del carbonchio umano che abbiamo avuto ieri qui a Manhattan. Che strano paio di giorni!» «Be', ti lascerò meditare su questi misteri, mentre io ne pondererò di più gradevoli durante la mia seduta di aerobica.» «Scusi, dottor Stapleton!» Jack e Chet si voltarono contemporaneamente e videro sulla soglia Peter Letterman, con il lungo camice bianco dalle inevitabili chiazze colorate. Teneva in mano un foglio con una stampata di computer. «Peter!» lo accolse Jack, con entusiasmo, scrutandolo in viso per indovinare se c'era qualche novità interessante, ma i lineamenti delicati di Peter non rivelavano nulla. «Ho fatto tutte le prove che mi aveva suggerito.» «E?» Jack era impaziente. Era come aspettare l'apertura della busta durante la Notte degli Oscar. Peter gli porse il foglio e Jack lo scorse rapidamente, senza avere idea di che cosa stesse cercando.
«Tutti i risultati sono negativi», spiegò Peter, con un tono colpevole. «Non ho trovato niente.» «Niente?» Jack sollevò lo sguardo, deluso. Peter scosse la testa. «Mi spiace. Lo so che contava su qualche risultato positivo, così alcuni test li ho rifatti diverse volte. Ed è sempre risultato tutto negativo.» «Oh, merda!» esclamò Jack, sollevando le mani. «Buon pro al mio intuito, e forse anche al mio posto di lavoro.» «Hai cercato il monossido di carbonio?» chiese Chet. «Certo», rispose Peter. «E il cianuro?» «Tutto quello che mi ha chiesto il dottor Stapleton, più qualche medicina che non aveva menzionato.» «Ti ringrazio tantissimo», disse Jack. «Al momento magari non sembro apprezzare come dovrei ciò che hai fatto, ma ti sono riconoscente per essere rimasto fino a tardi e per avermi accontentato.» «Se le viene in mente qualche altro test che dovrei fare, mi chiami.» «Certamente.» Peter se ne andò. «Al diavolo!» esclamò Jack, buttando la penna sulla scrivania, poi cominciò a raccogliere tutti i fogli più disparati che aveva sparso per la stanza e a rimetterli nelle relative cartellette. Chet restò a guardarlo per qualche minuto. «Se mi viene in mente qualche altra cosa su cui fare dei test, ti darò un colpo di telefono.» Jack gli rivolse un sorriso stentato e continuò a fare ordine. «Vai a casa?» gli chiese Chet. «Sì, penso di aver bisogno anch'io di un po' di attività fisica.» Chet lo salutò e se ne andò. Mentre spostava il microscopio per rimetterlo sulla propria scrivania, Jack pensò di nuovo a tutti gli eventi strani accaduti nelle ventiquattr'ore precedenti. Era tutto un mistero, però gli venne da sorridere. Tali enigmi, in fondo, erano proprio ciò che gli piaceva di più del suo lavoro. Chiuse a chiave la porta dell'ufficio e guardò verso quella di Laurie. Era chiusa. Evidentemente, Laurie se n'era andata senza salutarlo. Si strinse nelle spalle. Davvero non sapeva che cosa fare con lei. Arrivato al pianoterra, tolse il blocco alla bicicletta e la portò a mano oltre il piano di carico, per poi montarci sopra e pedalare verso la Prima Avenue.
Come al solito, la pedalata verso casa fu un'opportunità per respirare, in senso letterale e figurato. L'ora di punta era già quasi passata, e poteva procedere quasi volando. Il sole era calato da circa un'ora e il cielo era di un azzurro-violetto argentato, che si stava scurendo a vista d'occhio, tendendo verso l'indaco. Quando fu nel bel mezzo del parco, vide perfino scintillare qualche stella. Imboccata la propria strada, puntò direttamente verso la rete metallica che separava il campo da gioco dal marciapiedi. Mentre si fermava, vide ciò che desiderava vedere: una partita in pieno svolgimento. Mentre i giocatori si spostavano dalla sua parte, notò che Warren e Flash erano già impegnati, anche se in due squadre avverse. Con un senso di urgenza, salì fino al proprio appartamento, portandosi come al solito la bici sulle spalle, e si spogliò. Indossati maglietta e calzoncini da basket, si precipitò giù per le scale e poi attraversò di corsa la strada. Quando arrivò ai limiti del campo, era leggermente senza fiato. Purtroppo, mentre lui era andato a cambiarsi, era iniziata un'altra partita, il che significava che avrebbe dovuto aspettare un turno o anche due, prima di potersi gettare nella mischia. Come al solito, aveva vinto la squadra di Warren, quindi lui era ancora in campo. Flash, invece, stava tra quelli che aspettavano di giocare. Jack si diresse verso di lui. «Ehi, amico, come va?» gli chiese Flash quando lo vide avvicinarsi. Era il tipico modo di salutare dei campi di basket, informale e alla mano, anche se non era da molto che si erano visti, avendo passato buona parte del pomeriggio insieme. «Bene, e tu?» rispose Jack. «Abbastanza.» Flash non distolse lo sguardo dalla partita in corso. «Starei meglio se avessimo vinto l'ultima partita.» «Ascolta», gli disse Jack. «Ho dato al laboratorio tutti i campioni che ho prelevato oggi da tua sorella. Ci stanno lavorando sopra. Voglio assicurarmi che avrai pazienza e non farai niente di sconsiderato.» «Me ne starò buono», promise Flash. «Mi fa piacere sentirlo.» Jack era riluttante a riferirgli i risultati del laboratorio. Nonostante fossero negativi, era ancora incline a credere, più che altro per intuito, che Connie fosse stata avvelenata, in un modo o nell'altro. «Sono curioso di saperne di più sul posto dove viveva», aggiunse. «Hai detto che stava in una zona con casette di legno. Si tratta di una zona storica?» «Non credo che sia storica, però è vecchia.»
«Quanto?» «E che ne so? Come mai me lo chiedi?» Jack si strinse nelle spalle. «Come ti ho detto, sono curioso. Non ci sono tante parti di New York che hanno ancora le casette basse. Potrebbe avere un centinaio di anni?» «Qualcosa del genere, suppongo. Credo che all'inizio fossero dei cottage estivi.» Jack annuì, mentre cercava di visualizzare un gruppo di vecchie casette di legno costruite un centinaio di anni prima come residenze per l'estate. Ciò che gli venne in mente fu che gli impianti di scarico dovevano essere per lo meno rudimentali, e infatti probabilmente avevano dei pozzi neri, invece di essere collegati alle fognature municipali. «Mi ridici l'indirizzo?» chiese Jack. «Era al 15 di Oceanview Lane?» «Già, proprio così», confermò Flash. «Come mai me lo chiedi? Ci vuoi andare?» «Potrei anche. A volte i medici legali devono visitare il luogo del decesso, per ricostruire la serie di eventi che l'hanno preceduto. Ma, naturalmente, questo quando il cadavere si trova ancora dove è stato trovato.» «Ma a me hanno detto che è morta al Coney City Hospital.» «Questo è vero.» Jack diede una pacca sulla schiena a Flash. «Però, a quanto pare, è stato nel bagno di casa sua che sono cominciati i guai. Comunque, ti terrò informato su tutto quello che verrò a sapere.» «Grazie, Doc.» Jack raccolse una palla che nessuno stava usando e si avvicinò ai cesti laterali. Avrebbe fatto bene a iniziare con un po' di riscaldamento. Mentre si esercitava a tirare a canestro, ricominciò a rimuginare sulla coincidenza di Connie Davidov che moriva per qualche veleno sconosciuto, probabilmente in bagno, nello stesso sobborgo dove c'era stata una moria di ratti di fogna, causata anche quella da qualche agente sconosciuto. Fece un altro tiro e restò a guardare il cerchio del canestro che dondolava dopo il passaggio della palla, perdendo velocità fino a fermarsi del tutto. Si sentiva turbinare la mente. Per quanto l'idea gli sembrasse folle, non poteva fare a meno di chiedersi se Connie e i ratti non fossero morti per lo stesso agente patogeno. E se si fosse trattato di qualche tipo di gas e gli scarichi del bagno di Connie non avevano dei sifoni ben funzionanti? Il problema era che i gas di fogna puzzano, e il personale dell'ambulanza lo avrebbe notato. «Ah, è impossibile!» esclamò ad alta voce, e andò a raccattare la palla.
Cercò di pensare ad altre cose, ma non ci riusciva. Mentre continuava a fare dei tiri di riscaldamento, con la mente riandava a Connie e ai ratti e alle immagini dei cottage estivi di Brighton Beach. Laurie depose il menu dei dessert e scosse la testa. «Sono sazia», disse. «Non ce la faccio a mangiare anche il dessert.» «Ti spiace se ordino qualcosa che potremmo spiluccare insieme? chiese Paul. «So quanto ti piace il cioccolato.» «Certo, basta che accetti di mangiarne tu i nove decimi. Io prenderò un cappuccino decaffeinato.» «Arriva subito!» esclamò Paul, e sollevò una mano per attirare l'attenzione del cameriere. La serata era andata bene, e Laurie si sentiva considerevolmente meglio di qualche ora prima, dopo aver parlato con Lou e Jack. Quando era arrivata a casa, in un primo momento aveva preso in considerazione l'idea di cancellare il progetto fatto assieme a Paul una settimana prima, di andare a un balletto al Lincoln Center e poi a cena. Ma dopo un po' aveva deciso che l'informazione ricevuta dai suoi due amici non richiedeva necessariamente uno scontro rabbioso. Intanto non era del tutto sicura che ciò che le avevano detto fosse la verità, e poi, anche nel caso che lo fosse, lei era più che disposta ad ascoltare una spiegazione. Era stata soprattutto la sorpresa a sconvolgerla. «Che ne dici di un vino da dessert?» propose Paul. Laurie sorrise e scosse la testa. Avevano bevuto un meraviglioso vino rosso, e ancora ne sentiva i benefici effetti. Sapeva di aver mandato giù abbastanza alcol, per quella sera. Paul era arrivato con altri fiori e scusandosi per l'insensibilità mostrata quella mattina. Le aveva assicurato che capiva il suo impegno nel lavoro, e si era spinto fino al punto di dichiarare che l'ammirava e la stimava per questo. Mentre parlavano, lei aveva avuto la tentazione di sollevare l'argomento di quale fosse l'attività che lui svolgeva per vivere, ma aveva deciso di non farlo. Davanti alle sue scuse sincere, non voleva dargli l'idea di non apprezzarle o di essere insensibile. Aveva deciso di aspettare un momento più opportuno. E poi c'era stata un'altra sorpresa. Paul le aveva detto di essere riuscito a rinviare il viaggio a Budapest fino al weekend seguente, nella speranza che lei avrebbe avuto meno impegni e avrebbe potuto parteciparvi. Le aveva
perfino detto che aveva davanti tutta la settimana per decidere. Arrivò il dessert. Era una piccola opera d'arte verticale, di cioccolato. La parte interna era scura e cremosa e Laurie non poté resistere. Dopo averla assaggiata fece schioccare le labbra, deliziata. Paul aveva ordinato un brandy. Quando arrivò, lo fece roteare, lo annusò e ne bevve un sorso. Soddisfatto, si appoggiò allo schienale e sorrise. Era l'immagine stessa della soddisfazione. «C'è una cosa che ti vorrei chiedere», esordì Laurie, intuendo che non poteva capitare un momento migliore per sollevare l'argomento. «So che quando te l'ho chiesto stamattina poteva sembrare una ripicca. Non ne avevo l'intenzione, come non ce l'ho neppure adesso, ma vorrei sapere di che tipo di affari ti occupi.» Paul smise di far roteare il brandy e puntò su Laurie gli occhi scurissimi. «Perché lo vuoi sapere?» chiese con voce piatta. «Come tua futura moglie, penso che tu voglia farmelo sapere», replicò Laurie un po' sorpresa. Non si aspettava che le avrebbe risposto con una domanda. «Se tu non sapessi che lavoro faccio, di certo io vorrei dirtelo.» «La mia risposta stamattina è stata chiederti se era una cosa importante. Lo è?» «Potrebbe esserlo. Prendi il mio lavoro. Mia madre, per esempio, ha l'idea distorta che sia raccapricciante. Anche tu potresti pensarla in questo modo.» «Ma non è così.» «Ne sono contenta. Ma hai capito che cosa intendo. Non credo che mia madre avrebbe sposato mio padre, se fosse stato un medico legale. Per lo meno, secondo me è così.» «Stai cercando di dirmi che se i mie affari fossero una cosa che tu non approvi, non mi sposeresti?» «Paul, questo non è un litigio. Mi stai spaventando, trasformando questa discussione in qualcosa che non dovrebbe essere. Ti prego, dimmi di che cosa ti occupi.» «I miei affari riguardano la difesa», rispose Paul, con una vena di acredine nella voce. «Va bene è un inizio», commentò Laurie, e guardò la spirale di schiuma del suo cappuccino. «Potresti essere più specifico?» «Che cos'è, un interrogatorio?» «No, Paul, come ho già detto, è una discussione.» «E una discussione molto divertente!» commentò Paul con sarcasmo.
«Perché stai così sulla difensiva? Non è da te.» «Sto sulla difensiva perché troppe persone hanno la stessa reazione prosaica rispetto al commercio di armi.» «E tu pensi che anch'io avrò la stessa reazione?» «È possibile.» «Che cosa vendi?» «Vendo armi. Non basta? Non possiamo parlare di qualche altra cosa?» «Intendi cannoni, bombe o armi da fuoco?» «Un po' di tutto. A seconda della richiesta.» «E i fucili mitragliatori bulgari AK-47?» «Certo», rispose Paul, sorpreso da una domanda così specifica. «È uno dei miei prodotti preferiti. È un'arma affidabile, poco costosa, ben fatta. Molto meglio della versione cinese.» Laurie chiuse gli occhi. Davanti a sé vedeva un collage di immagini del corpo straziato di Brad Cassidy e dei suoi parenti in lutto. Si rammentò ciò che aveva provato quando Shirley Cassidy le aveva detto che suo figlio vendeva gli AK-47 bulgari ad altri skinhead. Pensare che Paul fosse invischiato in una cosa simile era difficile da comprendere, soprattutto considerando le gravissime lesioni da armi da fuoco che le erano passate davanti nel corso degli anni, come medico legale. Respirò a fondo. Si rendeva conto che le emozioni stavano avendo la meglio su di lei e in tali circostanze sapeva di avere la tendenza alle lacrime. Non voleva piangere. Tutte le volte che le capitava ne restava irritata, perché precludeva la strada a un tranquillo svolgimento della discussione. Riaprì gli occhi e guardò Paul. Aveva un'espressione tra la difesa e l'arroganza. «Hai mai pensato alle conseguenze delle armi da fuoco che vendi?» gli domandò. Voleva fare in modo che la conversazione continuasse. «Certo», rispose Paul con sfacciataggine. «Forniscono alla gente la capacità di difendersi in un mondo pericoloso.» «E quando finiscono nelle mani di gruppi di estrema destra violenti?» gli chiese lei. «Come gli skinhead, per esempio?» «Hanno il diritto di difendersi come chiunque altro.» «Il problema è, con questi gruppi di fanatici, che fucili e pistole tendono a essere usati davvero e ci uccidono la gente.» «Non sono le armi a uccidere le persone», ribatté Paul, sprezzante. «Sono le persone a uccidere le altre persone.» «Adesso mi sembri un portavoce della National Rifle Association, l'As-
sociazione Nazionale delle Armi.» «La NRA sostiene diverse cose giuste. Come il fatto che la stessa costituzione ci dà specificamente il diritto di portare armi. Quando il governo interviene come ha fatto con l'Omnibus Crime Bill agisce in modo scopertamente anticostituzionale.» Laurie fissò il suo potenziale fidanzato e scosse la testa. Non riusciva a credere che fossero agli antipodi su una questione così importante, quando andavano d'accordo su tante altre cose. Paul gettò il tovagliolo sul tavolo. «Francamente, sono deluso che la tua reazione al lavoro che faccio si sia rivelata esattamente quella trita e ritrita che temevo. Adesso lo sai perché non te l'ho detto subito.» «Anch'io sono delusa», ribatté Laurie. «Non mi piace pensare a te che vendi fucili, in particolare quelli bulgari, chiunque siano quelli a cui li vendi. Voglio dire, non li vendi più in questo paese, no?» «È contro la legge, grazie all'Omnibus Crime Bill, che è incostituzionale.» «Non è questo che ho chiesto. Lo so che sono state bandite. Ti ho chiesto se tu le vendi.» Laurie fissò Paul. Per qualche momento lui non reagì. Il suo unico movimento era il petto che si sollevava e si abbassava nella respirazione. I loro occhi erano fissi gli uni negli altri, come in una specie di duello. «Non hai intenzione di rispondere?» chiese Laurie, incredula. «È una domanda così stupida», replicò Paul con alterigia. «Non credo che meriti una risposta.» «Ma io la vorrei», insisté Laurie, in tono di sfida. Paul bevve un sorso di brandy, tenne il liquore in bocca per un momento, poi deglutì. «No, non vendo gli AK-47 bulgari negli Stati Uniti. Sei soddisfatta?» Laurie sorbì un po' di cappuccino. Non rispose, mentre continuava a rimuginare su quella conversazione. Non era per niente soddisfatta, anzi, era adirata per il modo in cui Paul aveva risposto alle sue domande più che ragionevoli. La cosa buona era che la collera scacciava via la sua tendenza alle lacrime. A infiammarla ancora di più era il fatto che Paul la stava fissando con un'arroganza altamente irritante. «Francamente, tutto questo non mi piace», dichiarò Laurie. «Ciò che mi ha spinto a voler sapere la natura dei tuoi affari è il fatto che mi hanno detto che sei nel commercio delle armi.» «Chi te lo ha detto?»
«Non credo che questo sia rilevante. Ma dalla stessa fonte ho saputo che sei stato condannato per detenzione di cocaina. Vorresti dire qualcosa in proposito?» Gli occhi di Paul mandarono un lampo, riflettendo la luce della candela che era sul tavolo. «È proprio un interrogatorio!» sbottò. «Puoi chiamarlo come ti pare. Dal mio punto di vista, è chiarire la situazione. Ci sono argomenti di cui avrei dovuto sapere da te, non da altri.» Senza avvertimento, Paul si alzò di scatto, facendo rovesciare la sedia. Altri avventori che stavano cenando in tutta tranquillità sollevarono la testa dal piatto. Diversi camerieri accorsero per rimettere in piedi la sedia. «Ho sopportato quanto potevo sopportare», ringhiò Paul. Ficcò la mano in tasca, con mossa rabbiosa, e ne estrasse il portafogli. Prese diverse banconote da cento dollari e le gettò con fare sprezzante sul tavolo. «Dovrebbero bastare per pagare il divertimento», disse, poi uscì. Laurie era mortificata. Aveva sentito parlare di scenate in pubblico, ma di certo non vi si era mai trovata coinvolta in prima persona. Riprese timidamente in mano la tazza del cappuccino e bevve qualche sorso. Razionalmente sapeva che era stupido fingere di non essere sconvolta da ciò che era accaduto, ma non poteva farne meno. Si sentiva obbligata a mantenere una parvenza di calma e di decoro. Aspettò perfino di aver finito il cappuccino, prima di chiedere il conto. Quando uscì dal ristorante, un quarto d'ora dopo, era leggermente preoccupata che Paul la stesse aspettando. Fu sollevata nel vedere che non era così, infatti non aveva voglia di parlare con lui, almeno per un po'. Rimase sul marciapiede per riprendersi. Il ristorante si trovava sulla Columbus Avenue, nell'Upper West Side. Stava per sollevare un braccio per chiamare un taxi, quando si rese conto che era solo a una ventina di isolati dalla casa di Jack. Decise di andare a fargli visita. Più di qualsiasi altra cosa, in quel momento aveva bisogno di un amico. Quando salì in un taxi e disse l'indirizzo, il tassista, che era nato e cresciuto a New York, si voltò e le chiese di ripeterlo. Assicuratosi di non aver capito male, fece una smorfia, come a dire che era pazza, e partì. Il traffico era scarso e la corsa fu rapida. Il conducente svoltò a sinistra lasciando la Columbus e si diresse a nord verso Central Park West. Laurie dovette indicargli il caseggiato di Jack, perché non c'era il numero civico. «Andrà tutto bene, signora?» le chiese lui. «Questo è un quartiere turbolento.» Laurie gli assicurò che non ci sarebbero stati problemi e scese dalla
macchina. Dal marciapiedi guardò la facciata dell'edificio. Aveva il solito aspetto squallido, come sempre, con solo un piccolo pezzo di cornicione decorativo ancora intatto e due finestre sprangate con le assi, al terzo piano. Ogni volta che andava a fargli visita, Laurie non poteva fare a meno di meravigliarsi che Jack continuasse a vivere lì. Capiva la passione per il basket, ma pensava che, pur restando in quel quartiere, avrebbe potuto trovare un edificio in condizioni migliori. L'ingresso era ancora peggio della facciata. Un tempo doveva essere stato sontuoso, con il pavimento di mosaico e le pareti di marmo, adesso lo splendore di un tempo era solo un ricordo. Al pavimento mancavano più di metà tessere e le pareti erano macchiate e ricoperte di graffiti. Nessuna delle cassette per la posta aveva la serratura funzionante. Negli angoli era sparsa l'immondizia. Laurie non si diede la pena di usare il citofono: sapeva che non funzionava. Inoltre, la porta interna era stata rotta nel lontano passato e non l'avevano mai riparata. Mentre saliva le scale, la sua determinazione venne meno. Dopotutto, era tardi e inoltre non aveva avvisato, e non era stata invitata. Non era nemmeno sicura di aver voglia di parlare di quella serata, prima di aver avuto il tempo di pensarci sopra per conto suo. Si fermò sul pianerottolo del secondo piano. Da dietro la porta dell'appartamento di mezzo udì provenire strilli e urla. Si ricordava che una volta Jack le aveva detto che lì era una lite interminabile. La rendeva triste pensare che ci fossero persone che facevano così fatica ad andare d'accordo. Rimase incerta se continuare o no. Poi si domandò come avrebbe reagito lei se la situazione fosse stata rovesciata e Jack si fosse fatto vivo all'improvviso a casa sua perché aveva bisogno di un amico. Rendendosi conto che lei si sarebbe sentita lusingata, continuò. Quando arrivò alla sua porta bussò, perché non c'era il campanello. Quando vide spalancarsi la porta, dovette reprimere un sorriso. L'espressione sorpresa sul viso ispido di Jack le ricordò la smorfia esagerata usata da un mimo per mostrare la sorpresa. Jack indossava i boxer e una maglietta con lo scollo a V ed era in ciabatte. Teneva in mano un testo medico. Era evidente che non aspettava compagnia, se non forse quella di Warren o di qualche altro amico del campo di basket. «Laurie!» esclamò, come se vedesse un'apparizione Lei si limitò ad annuire.
Per un lungo attimo restarono a guardarsi. «Posso entrare?» chiese infine Laurie. «Ma certo», rispose Jack, imbarazzato perché non aveva pensato a dirglielo. Si fece da parte per lasciarla passare poi, nel chiudere la porta, si ricordò di essere svestito e sparì in camera da letto a infilarsi un paio di calzoncini. Laurie entrò in soggiorno. Non c'erano molti mobili: un divano, una sedia, una libreria fatta con blocchetti di calcestruzzo e assi grezze e un paio di tavolini. Non c'erano quadri o manifesti alle pareti. L'unica luce proveniva da una lampada a piantana vicino al divano, dove era evidente che Jack stava leggendo. Il resto della stanza era in ombra. Su un tavolinetto laterale era appoggiata una lattina di birra aperta, e sul pavimento era aperto un dizionario medico. Jack ricomparve quasi subito, ficcandosi le falde di una camicia nei pantaloncini color cachi. Dall'espressione, sembrava che dovesse scusarsi di qualcosa. «Spero di non disturbarti», disse Laurie. «Lo so che è tardi.» «Non mi disturbi nemmeno un po'. Anzi, è una bella sorpresa. Vuoi darmi il soprabito?» «Ah, sì.» Laurie se lo tolse e lui lo portò nel guardaroba. «Ti va una birra?» le chiese, mentre cercava una stampella. «No, grazie», rispose Laurie, sedendosi sul divano liso e sbrindellato. Si guardò attorno per la stanza. Sapeva che cosa motivava l'austerità di vita di Jack, e l'addolorava ancora di più. Erano passati otto anni da quando la moglie e le due figlie erano rimate uccise in un incidente aereo, e Laurie avrebbe voluto che si sentisse di nuovo libero di godersi la vita. «Qualche altra cosa?» le domandò Jack mentre entrava nel cono di luce proiettato dalla lampada. «Acqua, tè, un succo di frutta? Ho perfino una Gatorade.» «Sto bene, davvero. Ho appena terminato una cena abbondante.» «Oh!» Jack si sedette sul divano. «Davvero spero che non ti secchi che sia piombata qui in questo modo», continuò Laurie. «Era un ristorante non troppo lontano dalla Columbus Avenue, vicino al Museo di Storia Naturale.» «No, mi fa piacere», le assicurò lui. «Sono contento di vederti.» «Così ho pensato di passare, dato che era tanto vicino.» «Va bene, davvero. Non mi dispiace affatto. In tutta sincerità.» «Grazie», disse Laurie.
«È successo qualcosa, durante la cena?» chiese Jack. «Sì. Qualcosa di sgradevole.» «Mi spiace. È stato a causa di ciò che io e Lou ti abbiamo detto oggi pomeriggio?» «Aveva a che fare con quello, sì.» «Ti va di parlarne?» «In realtà no. Suppongo che sembri illogico, dato che sono venuta qui per vederti, invece di andarmene a casa e stare da sola.» «Ehi, nessuno ha intenzione di costringerti a parlare di una cosa di cui non vuoi parlare.» Laurie annuì. Jack non capiva se stava abbastanza bene o se era sull'orlo delle lacrime. «Parliamo di te», propose Laurie, rompendo il silenzio. «Di me?» Jack si sentì subito a disagio. «Ho sentito che oggi Warren Wilson è venuto da noi. Di che cosa si trattava?» Laurie conosceva abbastanza bene Warren e sapeva che l'ultima cosa che avrebbe fatto sarebbe stato visitare l'obitorio. Lei e Jack, quando si frequentavano più spesso, erano usciti diverse volte assieme a Warren e alla sua ragazza, Natalie Adams. Erano andati perfino a fare un viaggio insieme nell'Africa equatoriale. «Hai mai conosciuto Flash Thomas?» le chiese Jack. Lei scosse la testa. «No, che mi ricordi.» «È un altro giocatore abituale di basket», spiegò Jack. «Ieri notte sua sorella è morta all'improvviso e in modo inspiegabile.» «Tremendo! E vorrebbero che tu ti interessassi alla cosa?» Jack annuì. «È una storia vera e propria. Hai voglia di ascoltarla?» «Sì, mi piacerebbe, ma prima, magari, accetterei la tua offerta di qualcosa da bere. Mi andrebbe un bicchiere d'acqua.» Mentre andava in cucina, Jack cominciò a raccontarle la storia di quel pomeriggio. Laurie si accomodò meglio e ne fu subito catturata. Quando sentì di come si era comportato Randolph Sanders, si indignò. «La faccia tosta di mandare via il cadavere!» esclamò accalorandosi. «Dopo che tu ti eri dato la pena di andare fino là!» Jack scrollò le spalle. «A dirti la verità, io non mi sono sorpreso. A parer mio, ce l'ha sempre avuta con noi della sede di Manhattan.» «Secondo me, ritiene che gli hanno fatto un torto a non scegliere lui come capo dell'ufficio di Brooklyn, o come sostituto di Bingham, da noi.»
«Hanno messo degli altri, sì, e a ragion veduta.» Quando Jack raccontò come era penetrato quasi a forza nella sede delle pompe funebri e come aveva prelevato i campioni dal corpo di Connie, Laurie si ritrovò a ridere fin quasi a soffocare con l'acqua che stava bevendo. Jack continuò, mettendola a parte di tutte le supposizioni che aveva fatto sulla causa della morte e finì ammettendo che Peter Letterman non aveva trovato niente, tutte le analisi erano negative, comprese quelle sui contenuti dello stomaco. «Interessante», commentò Laurie, prendendo in considerazione ogni singolo punto sollevato da Jack. «Peccato che non hai potuto fare un'autopsia, per quanto rapida.» «Sono stato già abbastanza fortunato da prelevare il campione di pelle. Ma tu che cosa avresti cercato di specifico, oltre alle solite cose?» «Il personale dell'ambulanza ha detto di preciso che era cianotica?» «Sì. E a conferma hanno trovato una bassa percentuale di ossigeno arterioso, quando l'hanno portata all'ospedale. Ecco perché ho pensato che il colpevole fosse qualche farmaco che le ha depresso l'attività respiratoria. Ne ero talmente convinto che quando Peter è venuto da me con un nulla di fatto, sono rimasto sbalordito.» «Io avrei voluto assicurarmi che non avesse uno shunt destro-sinistro congenito che si è riaperto.» «Non ho mai visto niente del genere», osservò Jack. «Be', spiegherebbe la situazione clinica.» «Altre idee? Non ti viene in mente nessun tipo di veleno o farmaco?» «Se Peter non ha trovato niente nei contenuti dello stomaco, non riesco a immaginare che cosa potrebbe essere. Ma hai preso in considerazione la metemoglobinemia?» «No, ma non è rarissima?» La metemoglobinemia era una condizione in cui l'emoglobina diventava incapace di trasportare l'ossigeno. «Be', mi hai chiesto qualche possibile causa che provoca la cianosi. Dovresti per lo meno prendere in considerazione i nitrati e i nitriti che possono causare la metemoglobinemia. Anche i sulfamidici.» «Ma questo non si verificherebbe solo nel caso che ci sia una sensibilità congenita?» «Probabilmente per i sulfamidici sì, ma non necessariamente con i nitrati e i nitriti. Se vuoi fare un'indagine completa, devi prenderli in considerazione.»
«Va bene, hai ragione. Chiederò a Peter di fare anche queste analisi, domani mattina. Qualcos'altro?» Laurie ci pensò per qualche momento, ma scosse la testa. «E poi c'è dell'altro, in questa storia», aggiunse Jack, e le riferì della moria di ratti nello stesso quartiere di Brooklyn dove aveva abitato Connie. «Tu pensi che ci sia un collegamento?» Jack alzò le spalle. «Come per te, è soltanto una supposizione, però la coincidenza è strana.» Raccontò a Laurie che l'abitazione di Connie faceva parte di un gruppo di vecchie casette di legno ed espresse l'idea che probabilmente gli impianti idraulici erano primitivi. «A me sembra un collegamento un po' stiracchiato. Se dalle fognature è risalito qualcosa di mortale, perché è successo soltanto in una casa?» «Su questo hai ragione», ammise Jack, «ma senti un po' quest'altro mistero.» E la mise al corrente di quello che era emerso dall'ultima analisi a cui Ted aveva sottoposto la stellina celeste. «È come se quella stella fosse fatta di carta moschicida e fosse caduta in un catino di spore di carbonchio.» «Come mai ti capitano tutti questi casi interessanti?» lo stuzzicò Laurie. «Ma dai! Dico sul serio. Me lo sapresti spiegare? Ricorda che ho fatto delle colture su campioni prelevati tutt'intorno alla stellina, compreso il tampone di carta assorbente su cui l'ho trovata, e sul ripiano della scrivania. Il test PCR è talmente sensibile che può scoprire anche solo pochissime spore. Non c'era assolutamente niente.» «Mi sconcerti di nuovo», ammise Laurie, poi guardò l'orologio. «Uau! È mezzanotte passata, e faccio fare tardi a tutti e due.» Si alzò. «Sei sicura che starai bene? Se vuoi puoi restare qui», le propose Jack. «Ti lascio il letto. Io tanto sono abituato il più delle volte ad addormentarmi qua sopra.» «Grazie dell'offerta, sei stato molto ospitale, ma davvero, devo andare a casa. Non ho vestiti per domani, né altro.» «Come preferisci. Se vuoi restare, sei più che benvenuta. Però, se vai, promettimi che mi darai un colpo di telefono per dirmi che sei arrivata a casa. È tardi per andarsene in giro, anche nel tuo quartiere.» «Lo farò», promise Laurie e strinse Jack in un forte abbraccio. Lui l'accompagnò giù per le scale e poi fino all'angolo. Era molto più facile trovare un taxi su Central Park West. Durante il tragitto verso casa, Laurie ripensò a quella serata. Provava molta gratitudine per l'ospitalità e l'amicizia offertale da Jack. Parlare con
lui (anche solo di lavoro) l'aveva calmata considerevolmente e le aveva fornito qualche prospettiva. Ciò che l'aveva disturbata maggiormente durante la discussione con Paul era stata l'incapacità di avere un dialogo con lui. Non si riteneva una persona talmente rigida da non essere capace di accettare posizioni diverse su certe questioni, anche se questo non includeva la possibilità che lui vendesse armi illegali. Ma se lei e Paul non riuscivano a comunicare, allora non vedeva un futuro per il loro rapporto, indipendentemente da quanto funzionasse bene nella quotidianità. Quando arrivò nella strada in cui abitava, i suoi pensieri si erano focalizzati sul caso di cui le aveva parlato Jack, e le venne di nuovo da sorridere per l'episodio avvenuto alle pompe funebri. Sperava che non si fosse messo nei guai per quello, o per la visita all'ufficio di medicina legale di Brooklyn. Sapeva bene che Harold Bingham e Calvin Washington avevano poca pazienza per i metodi poco ortodossi di Jack, anche se ne apprezzavano l'intelligenza e la competenza. Mentre apriva le innumerevoli serrature della porta, Laurie vide socchiudersi quella della vicina. Come al solito, intravide i capelli grigi e gli occhi arrossati di Debra Engler, che si faceva un dovere di rammentarle quanto fosse tardi. Laurie non reagì. L'invadenza della sua vicina, a qualsiasi ora del giorno e della notte, era l'unica cosa che non riusciva a sopportare del posto in cui viveva. Sbatté la porta, come atto di protesta, e richiuse tutte le serrature. Già in diverse altre occasioni era stata sgarbata con la vicina e le aveva perfino detto di farsi gli affari suoi, ma senza successo. Nell'ordine, fece qualche coccola a Tom-2 e poi si tolse il soprabito. Il suo affezionato birmano era così insistente che le si sarebbe arrampicato sulle gambe se lei avesse cercato di invertire l'ordine. Dovette metterselo in grembo, mentre telefonava a Jack. «Sei ancora sveglio?» gli chiese, quando lui rispose con una voce tutta assonnata. «Quasi.» «È solo per rassicurarti, come richiesto. Sono arrivata a casa sana e salva.» «Avrei preferito che fossi rimasta.» Laurie si chiese che cosa intendesse veramente, ma da esperienze precedenti sapeva che era meglio non cercare di farselo spiegare. Inoltre, era tardi. Invece gli disse: «Sai, mentre tornavo a casa ho ripensato a Connie Davidov».
«Ti è venuta qualche nuova idea?» «Sì. Ho pensato che Peter potrebbe cercare qualche altra cosa.» «Ottimo. Che cosa?» «La tossina del botulino. Dovrebbe essere a livelli molto alti, il che significherebbe che ne ha ingerita una grossa dose.» Ci fu un attimo di silenzio. «Jack, ci sei?» «Sì. Dici sul serio?» «Certo che dico sul serio. Che cosa ne pensi del botulino come causa di morte?» «Per usare le tue parole, mi sembra un po' stiracchiata. Non c'erano sintomi bulbari o che coinvolgessero i nervi cranici e nemmeno i soliti sintomi considerati propri del botulino. A quanto pare, è andata in bagno ed è crollata.» «Ma la tossina del botulino deprime sicuramente l'attività respiratoria e provocherebbe cianosi.» «Sì, ma quanti casi ci sono in un anno?» «Più casi che per il carbonchio, e di quello ne hai appena incontrato uno.» «Va bene, ho colto il tuo punto di vista. Lo aggiungerò alla lista con i sulfamidici, i nitrati e i nitriti che darò domattina a Peter.» «Grazie di avermi accolta a casa tua, prima», cambiò discorso Laurie. «Ha significato tantissimo per me.» «Ehi, ogni volta che vuoi!» le rispose Jack. Laurie riattaccò e strinse Tom-2 fra le braccia. Le attraversò la mente il pensiero che Jack sarebbe stato così meraviglioso se... se non si fosse comportato da Jack. Laurie rise all'assurdità di quell'idea e si alzò, per prepararsi ad andare a letto. 16 Mercoledì 20 ottobre, ore 5.30 Jack non ricordava altri periodi della sua vita in cui si era ritrovato con così tanti problemi tutti assieme, tra i più disparati. Come prima cosa c'era Laurie, che lo confondeva sia per come si comportava sia per la reazione che provocava in lui. Dopo che se n'era andata a casa, quella notte, lui aveva fatto una fatica del diavolo ad addormentarsi. Aveva rimuginato su
tutto quello che lei aveva detto e fatto nelle precedenti quarantott'ore. Quando gli era piombata in casa all'improvviso, lui era ancora in preda ai sensi di colpa per la reazione di gelosia avuta alla notizia del suo fidanzamento e alla collera per come lei aveva reagito al suo tentativo di chiederle scusa. E poi c'erano i due casi misteriosi. Per quanto avesse provato, non era stato capace di giungere a una spiegazione per l'abbondante contaminazione della stellina luccicante. Per quanto riguardava Connie Davidov, la sua supposizione che l'avesse uccisa un farmaco depressivo della respirazione era stata abbondantemente inficiata dai risultati degli esami tossicologici, e nonostante parecchie ore di lettura e ancora più ore passate a pensarci, non era stato in grado di trovare un'altra teoria. Il suggerimento di Laurie della metemoglobinemia era l'unica idea che secondo lui potesse avere qualche minima probabilità di essere corretta. Infine, un altro problema che gli pesava sulle spalle era la necessità di trovare qualche tipo di giustificazione per come si era comportato nell'ufficio di Brooklyn e alle Onoranze Funebri Strickland. Soltanto il giorno prima Bingham lo aveva rimproverato per una cosa che al confronto era un'inezia. Se e quando il suo capo avesse saputo ciò che era accaduto a Brooklyn, sarebbe stato livido e gli avrebbe chiesto una spiegazione che lui non era pronto a dare. Per la prima volta nella sua carriera di medico legale, gli venne da pensare che entro quella sera sarebbe stato costretto ad andarsene. Non soltanto aveva fatto fatica ad addormentarsi, ma si svegliò prima del solito. Sempre cercando di sciogliere i suoi vari dilemmi, pedalò verso il lavoro che era appena l'alba. Questo gli permise di sgobbare per un'ora in ufficio, prima di scendere nella stanza delle identificazioni. Quando arrivò, Vinnie Amendola stava preparando il caffè e il dottor George Fontworth aveva appena cominciato a esaminare i casi che erano arrivati durante la notte. «Scusa, George», lo interpellò Jack. «Che genere di giornata si profila, dal punto di vista delle autopsie: leggera o pesante?» Gli occhi assonnati del collega scorsero tutta la lista. «Direi normale, con tendenza al leggero.» «Ottimo. Vorrei fare un giorno di scartoffie, se non ti spiace.» Un giorno di scartoffie era quello che si concedeva di tanto in tanto un medico legale, decidendo di non fare autopsie, per rimettersi in pari con l'interminabile lavoro burocratico. In genere però, venivano programmati in anticipo.
«Che cosa ti succede?» chiese George. «Stai male?» Non era una battuta sarcastica. Fra tutti i colleghi era risaputo che Jack era uno stakanovista per quanto riguardava le autopsie. Ne faceva più di chiunque altro, e per scelta. Quando gli chiedevano il motivo, rispondeva che mantenersi occupato lo teneva fuori dai guai. «Per quanto riguarda la salute, sto bene», rispose. «Solo che ho un sacco di cose che si stanno accumulando.» «Non vedo problemi», lo accontento George, accomodante. «Naturalmente, le cose cambiano se all'ultimo momento qualcuno si mette in malattia.» «Se succede, fammi un fischio», replico Jack. Si avvicinò alla macchina del caffè. «Hai finito, maestro?» domandò a Vinnie. «Potrai averne una tazza entro due secondi.» «Hai mica idea di quando arriva Peter Letterman, di solito?» «Il laboratorio di tossicologia apre ufficialmente alle nove. Ma so che Peter arriva presto, in genere prima delle otto.» «Accidenti, ci passa un sacco di tempo, qua dentro!» «Senti chi parla!» Con il caffè in mano, Jack si diresse all'ascensore, per tornare nel proprio ufficio. Si sorprese di imbattersi in Laurie, che stava arrivando proprio in quel momento. Guardò l'orologio che aveva al polso e rimase ancora più stupito. «Non è un po' presto, per te?» le chiese. «Sì», ammise lei. «Voglio cambiare pagina. Ho intenzione di concentrarmi sul lavoro, per un po'. Lo faccio sempre, quando c'è qualcosa che mi turba.» «Capisco.» Jack era indeciso se chiederle o no che cosa la turbava. «Ti voglio ringraziare di nuovo per ieri notte», aggiunse Laurie. «Mi sei stato veramente d'aiuto.» «Ma non ho fatto niente!» «Eri lì e mi hai fatto sentire a mio agio. Ti sei comportato da amico, ed era ciò di cui avevo bisogno.» Entrarono in ascensore e Jack pigiò il tasto del quinto piano. «Hai voglia di dirmi che cosa è successo ieri sera, durante la cena?» le chiese poi, un po' esitante. Laurie sorrise. «Non ancora. Devo smaltirlo da sola, prima. Grazie per avermelo chiesto, però.»
Jack sorrise debolmente. Spostò il peso del corpo da un piede all'altro. Era incredibile la facilità con cui Laurie riusciva a farlo sentire in imbarazzo. «Oggi hai intenzione di lavorare ai tuoi casi misteriosi?» gli domandò lei. «Ho intenzione di provarci. Qualche altra idea su Connie Davidov?» «Soltanto quella che ti ho suggerito ieri notte.» «Se ti viene in mente qualcosa, non esitare a dirmelo. Potrebbe servirmi per tenere a bada i cacciatori di taglie.» Laurie annuì. Sapeva a chi si riferiva. Percorsero insieme il corridoio e quando arrivarono davanti alla porta di Jack si fermarono. «C'è una cosa che ti vorrei dire», aggiunse Laurie. «Vorrei scusarmi per come mi sono comportata ieri pomeriggio, quando tu e Lou mi avete detto di Paul. Quello che ho saputo mi ha fatto star male ma, come hai suggerito tu, me la sono presa con i messaggeri. Voi due avevate il diritto di dirmelo, anche se non sono sicura che Lou avesse il diritto di indagare.» «La gelosia fa fare strane cose alla gente. E mi sto riferendo a me stesso.» «Lo prendo come un complimento. E buona fortuna per oggi.» «Grazie.» Jack entrò nel proprio ufficio e si rimise al lavoro. Si concentrò sul caso del prigioniero in custodia cautelare. Se non altro sperava di finirlo per il giorno dopo, almeno avrebbe fatto contento Calvin. Mentre lavorava, guardò ripetutamente l'orologio sulla parete. Quando vide che erano quasi le otto, depose la penna e scese di un piano, per recarsi al laboratorio di tossicologia. Avvicinandosi alla porta, non vide nulla di promettente: era chiusa, e attraverso il vetro smerigliato non filtravano luci. Provò comunque ad aprirla. Era chiusa a chiave. Mentre faceva dietrofront per salire di nuovo le scale, intravide Peter che percorreva il corridoio, proveniente dagli ascensori. Era appena arrivato, come testimoniava il cappotto che teneva sul braccio. «Le è venuta in mente qualche altra cosa da cercare?» gli chiese, avvicinandosi, e tirò fuori le chiavi della porta. «Sì», rispose Jack. «O meglio, è venuta in mente alla dottoressa Montgomery.» Spiegò l'idea della metemoglobina, e intanto seguì il tecnico all'interno
del laboratorio, fino alla sua stanza minuscola e priva di finestre. Peter annuì, mentre appendeva il cappotto. «Questo significa che devo cercare cose come il nitrato di amile, il nitrato di sodio e il nitroprussiato.» Peter si infilò il camice. «Questa paziente soffriva di malattia cardiaca?» «Non che io sappia.» «Allora non credo che abbia assunto nessuno di quei farmaci. Ma c'è qualche altra sostanza che può provocare la metemoglobinemia. Vuole che le cerchi tutte, anche se non è probabile che le prendesse per curarsi?» «Sì, ti prego. Sono disperato!» «Va bene», disse Peter di buon grado, e uscì dalla sua stanza. Jack gli andò dietro come un cagnolino. «Quando puoi farlo?» gli chiese. «Preparo tutto immediatamente. Meglio farlo prima che arrivi il dottor DeVries, altrimenti comincia a fare domande.» «Apprezzo molto il tuo aiuto, Peter. Spero di poter ricambiare, in un modo o nell'altro. A proposito del tuo capo, sai per caso a che punto sono i campioni del caso di David Jefferson?» «È il caso del prigioniero?» «Sì.» «John si stava lamentando, ieri. Per quanto ne so, ha finito. Comunque è risultato positivo alla cocaina, se è questo che voleva sapere.» «Grazie a Dio!» esclamò Jack. «Calvin sarà euforico. Adesso, se solo potessi aver fortuna con Connie Davidov!» «Farò del mio meglio», promise Peter. Jack uscì dal laboratorio, ma si fermò prima di richiudere la porta, ricordando l'ultimo suggerimento di Laurie. «C'è un'altra cosa che mi ha suggerito la dottoressa Montgomery», aggiunse, alzando la voce per farsi udire da Peter. «La tossina del botulino.» Il tecnico gli fece un segno con la mano, per indicare che aveva sentito. Jack risalì le scale. Adesso che era sicuro di poter chiudere il caso Jefferson entro il limite di tempo stabilito da Calvin, gli sembrava di cominciare a scorgere un puntino luminoso alla fine del tunnel dei suoi attuali problemi. Di ritorno nel proprio ufficio, si imbatté in Chet, tutto spumeggiante per l'esperienza della sera prima ad aerobica. Non solo la ragazza tutta curve si era fatta viva, ma aveva accettato di bere con lui un succo di frutta allo yogurt dopo la lezione. Jack dovette aspettare di aver sentito tutti i dettagli su
di lei, prima di riuscire a spiccicare una sola parola. «Dimmi, Casanova, sapresti rintracciare uno di quei veterinari che erano al seminario a cui hai partecipato ieri?» «Penso di sì. Perché?» «Voglio sapere se hanno scoperto che cosa ha ucciso quei ratti. E anche se ne hanno trovati degli altri con il carbonchio.» «Cercherò di scoprirlo entro oggi», promise Chet. «Lo apprezzerei molto», lo ringraziò Jack, e si dedicò di nuovo ai moduli sparsi sulla scrivania. «Niente autopsie, oggi?» gli chiese il collega. «Mi sono preso un giorno di scartoffie fuori programma», rispose lui, senza sollevare la testa. «Stai male?» Jack rise. «È la stessa cosa che mi ha domandato George. Vorrei che fosse così. Sarebbe una comoda scusa. Sto solo cercando di eliminare uno dei motivi per cui il capo ce l'ha sempre con me, e cioè l'essere perennemente indietro nel chiudere i casi che mi vengono assegnati.» «Una delle ragioni principali per cui sei indietro è che te ne fai assegnare troppi, tanto per cominciare», gli fece osservare Chet. «Se lo dici tu», borbottò Jack, mentre cominciava a osservare al microscopio una sezione del cervello di David Jefferson. Dopo che il compagno di stanza fu uscito per andare nella fossa, Jack chiuse la porta con un calcio, per evitare la distrazione di visitatori casuali. Si accorse però di non riuscire egualmente a concentrarsi. Preoccupato com'era di tante cose diverse, non poteva fare a meno di guardare di tanto in tanto l'orologio. In particolare, quando si avvicinarono le dieci, cominciò ad aspettarsi che squillasse il telefono e che Cheryl gli comunicasse il messaggio standard: presentarsi dal capo al più presto possibile. Dopotutto, a quell'ora sia il dottor Jim Bennett sia Gordon Strickland avrebbero avuto ampia opportunità di telefonare, lamentandosi di lui. Come se avesse captato i suoi pensieri, il telefono trillò alle dieci in punto. Nonostante Jack lo aspettasse, gli squilli lo innervosirono. Ne lasciò passare parecchi, decidendo quasi di non rispondere, ma poi si rese conto che era inutile rimandare l'inevitabile, e sollevò la cornetta. Con sua grande sorpresa, non era Cheryl. Era Peter Letterman. «Ho delle novità sorprendenti», gli annunciò. «Buone o cattive?» «Suppongo che lei le riterrà buone. Connie Davidov non aveva la mete-
moglobinemia, ma ho trovato la tossina del botulino in tutti i campioni che lei mi ha dato, compreso quelli con i contenuti dello stomaco.» «Buon Dio!» esclamò Jack. «Non si tratta di uno scherzo di cattivo gusto, vero?» «Assolutamente no. Alcune analisi le ho rifatte due volte, per essere sicuro. I risultati erano ampiamente positivi, e questo fa pensare che la vittima abbia ingerito una grossa dose. Posso eseguire dei test quantitativi, ma questo richiederà del tempo. Comunque, ho voluto subito farle sapere i risultati dei test qualitativi.» «Grazie, il tuo aiuto è stato fondamentale.» «Sono contento di esserle stato utile», replicò Peter, prima di riattaccare. Jack rimise a posto il ricevitore con un gesto lentissimo. Era in preda a una ridda di emozioni. Una era una specie di eccitazione nel veder confermati i propri sospetti sulla possibilità che Connie Davidov fosse stata avvelenata. L'altra ero lo choc. Il botulismo era probabilmente l'ultima cosa che si sarebbe aspettato. Gettò indietro la poltroncina, alzandosi con un balzo, e fu subito alla porta, l'aprì, si precipitò in corridoio e arrivò trafelato davanti all'ufficio di Laurie. Voleva che fosse la prima a sapere la notizia, dato che era stata lei a suggerire il botulismo. Purtroppo, la stanza era vuota: sicuramente era giù nella sala delle autopsie. Tornato alla propria scrivania, Jack aveva la mente in tumulto, indeciso su chi chiamare per primo. Con un delizioso senso di rappresaglia, decise che sarebbe stato Randolph Sanders. Ci volle qualche momento per farlo venire al telefono. Era impegnato in un'autopsia, e Jack dovette insistere con la centralinista, dicendole che si trattava di un'emergenza. Quando infine Randolph prese la linea, la sua voce aveva un tono di urgenza abbastanza comprensibile. «Ah, ciao, Randolph», lo salutò Jack, tutto allegro. «Sono il tuo collega preferito, Jack Stapleton.» «Mi avevano detto che si trattava di un'emergenza», grugnì l'altro. «E lo è, infatti. Proprio in questo momento sono stato informato che il tuo caso, Connie Davidov, di cui abbiamo discusso ieri, sembra che sia deceduta a causa di un'abbondante dose di tossina del botulino.» A questo annuncio seguì una pausa significativa. «Come è stato determinato?» domandò Randolph. «Dalla mia tenacia personale», rispose Jack. «Sono andato alle pompe funebri, dove il direttore mi ha graziosamente permesso di prelevare alcuni
campioni di liquidi corporei.» «Questo non lo sapevo.» La voce di Randolph aveva perduto buona parte della sua acredine. «Davvero? Credevo che ti avessero avvertito. Comunque, per farti un favore, considerata la stima reciproca, ho deciso di chiamare te, invece di correre giù a informare il dottor Harold Bingham.» «Lo apprezzo molto», riuscì a dire Randolph. «Naturalmente, c'è un aspetto pratico», continuò Jack. «Connie Davidov è un caso di Brooklyn, e presumo che tu vorresti indietro il cadavere prima possibile. E lascerò nelle tue capaci mani anche il compito di avvertire le autorità competenti.» «Sì, certo. Grazie.» «Di che?» Jack si stava divertendo un mondo. «È un piacere sapere che possiamo aiutarci a vicenda, quando occorre.» Riattaccò, e non riuscì a reprimere un largo sorriso. La vendetta era stata dolce. Era facile immaginare quanto Randolph si fosse sentito sulle spine. Come seconda cosa chiamò Warren e gli spiegò brevemente ciò che aveva scoperto, poi gli chiese il numero di telefono di Flash, al lavoro. Warren impiegò qualche minuto a trovarlo, ma alla fine ci riuscì e glielo diede. Flash lavorava in una ditta di traslochi e depositi, e ci volle un po' di tempo a localizzarlo. Quando finalmente arrivò al telefono, era senza fiato. Stava spostando degli scatoloni nel magazzino. «Ho la risposta riguardo a Connie», gli annunciò Jack. «Come ti ha suggerito ieri Warren, dovrai sfogare la tua collera sul campo da gioco, e non sul marito di tua sorella.» «Non l'ha uccisa lui?» «Non sembra che sia andata così. Pare che sia morta di botulismo. Ne hai mai sentito parlare?» «Sì... non è quella specie di avvelenamento da cibo?» «In genere sì. È causato da una tossina prodotta da un tipo specifico di batterio. Ciò che rende particolarmente pericoloso questo batterio è che può crescere senza ossigeno. Ne avrai senz'altro sentito parlare in riferimento ai cibi in scatola, quando durante la lavorazione non sono stati portati a una temperatura abbastanza elevata da uccidere i germi. Ma nel caso di tua sorella, la cosa importante che devi capire è che a quanto pare non c'è dietro niente di losco.» «Ne sei sicuro?» «Ho appena ricevuto i risultati dal laboratorio. Il tecnico mi ha assicura-
to che li ha ricontrollati. Io personalmente sono propenso a pensare che sia morta di botulismo, e tranne per qualche aneddoto apocrifo sul fatto che quella tossina sia stata usata per assassinare Reinhard Heyrich, uno degli amiconi di Hitler, durante la seconda guerra mondiale, non ho mai sentito che questo agente patogeno venga usato per avvelenare deliberatamente qualcuno. Non è facile procurarsi quella roba. L'idea che il marito di Connie l'abbia usata gli darebbe più credito di quanto ne meriti.» «Dannazione!» esclamò Flash. «La sai una cosa? Io e Warren ti lasceremo vincere a basket, la prossima volta che giocheremo contro di te.» Flash rise con poco entusiasmo. «Sei troppo forte, Doc! Ma figurati se ci credo: tu e Warren siete troppo competitivi per buttar via una partita. Comunque, grazie per esserti occupato di questa cosa, lo apprezzo tantissimo.» «Sono contento di esserti stato d'aiuto. Adesso ho da farti una domanda: come si chiama il marito di Connie?» «Yuri.» Fu come se Flash sputasse, nel pronunciare quel nome. «Perché me lo chiedi?» «Temo che dovrò chiamarlo. Dato che Connie è morta di botulismo, Yuri è certamente a rischio.» «Non potrebbe importarmene di meno.» «Posso capirlo. E, come tuo amico, potrebbe essere la stessa cosa anche per me. Ma, in quanto medico, il modo di sentire è diverso. Potresti darmi il suo numero di telefono?» «Devo farlo?» «Suppongo che potrei trovarlo sull'elenco», rispose Jack, «o farmelo dare dall'ufficio di Brooklyn. Ma se me lo dessi tu sarebbe tutto più facile.» «Mi sento come se facessi un favore a quello stronzo», si lamentò Flash, ma comunque glielo dettò. Jack lo scrisse, poi restarono al telefono qualche altro minuto, parlando della possibilità di giocare a pallacanestro quella sera, infine riattaccarono. Jack non mollò il telefono e compose immediatamente il numero di Brighton Beach. Intanto ripassò mentalmente ciò che avrebbe detto. Si chiedeva se Yuri Davidov avesse un accento straniero e se fosse davvero l'orco descritto da Flash. Ma trovò occupato. Allora si rimise al lavoro, tornando alle scartoffie che aveva davanti con un umore molto più allegro di prima. Con rinnovata efficienza finì un altro caso e pose la cartelletta sulla pila dei casi completati. Poi riprovò il nume-
ro di Brighton Beach, ma trovò di nuovo occupato. Non ne era sorpreso. Si immaginava che Yuri stesse ricevendo tantissime telefonate di condoglianze. La mattinata stava ormai volgendo al termine, e ancora, dopo numerosi tentativi, non riuscì a parlare con lui. Alla fine perse la pazienza e chiamò l'operatore perché controllasse il telefono di Yuri. Dopo qualche minuto questi lo informò che sulla linea non era in corso alcuna conversazione. «Che cosa significa?» chiese Jack. «O è staccato o è guasto», spiegò l'operatore. «Posso metterla in linea con l'ufficio guasti, se vuole.» «Non importa.» Jack si rese conto che probabilmente Yuri era a casa, ma non voleva parlare con nessuno. Era comprensibile, però lui si sentiva irritato per non riuscire a raggiungerlo. A volte sembrava che niente fosse facile. Tutto ciò che voleva era contattarlo per avvertirlo di una possibile infezione da botulismo. Avendo rimesso il caso nelle mani di Randolph Sanders, si aspettava che fosse l'ufficio di Brooklyn a seguirlo, com'era legalmente tenuto a fare. Questo significava avvertire il dipartimento della sanità e anche l'inevitabile Clint Abelard, l'epidemiologo municipale. Come Jack era stato debitamente informato in più di un'occasione, spettava a Clint svolgere le dovute operazioni, compresa quella di contattare Yuri Davidov. Però, come medico, Jack si sentiva in dovere di avvertire il vedovo. Giocherellò distrattamente con il filo del telefono, mentre ponderava la situazione. C'era sempre la possibilità che l'ufficio di Brooklyn incappasse in qualche difficoltà, per esempio che non riuscisse a riavere indietro il cadavere. Dopo tutto, si disse, potevano già averlo cremato. Se era così, non sarebbe stato possibile prelevare ulteriori campioni per confennare la diagnosi, e sarebbe stato inevitabile un ritardo. Tutto questo poteva far sì che Yuri Davidov non venisse a conoscenza del rischio che correva con la tempestività necessaria. Jack aprì un cassetto della scrivania e ne estrasse una pianta di New York. L'aprì alla sezione di Brooklyn e cercò Brighton Beach. Immaginare che si trovasse lungo la riva del mare fu d'aiuto: la trovò vicino a Coney Island, che sporgeva sull'Oceano Atlantico. Calcolò che fosse a circa venticinque chilometri di distanza. Non si era mai spinto così lontano con la bici, però in diverse occasioni aveva pedalato fino al Prospect Park di Brooklyn e si ricordava come arrivarci. Sulla cartina vide che, una volta arrivato all'inizio del parco, avrebbe dovuto fare
tutta una filata lungo la Coney Island Avenue. Guardò l'orologio e decise che una gita in bicicletta fino a Brighton Beach sarebbe stato un modo piacevole di trascorrere l'intervallo per il pranzo, anche se avrebbe richiesto in tutto due ore e forse anche di più. Anche se il motivo principale che lo spingeva era la salute di Yuri Davidov, si ritrovò a considerare l'uscita come una specie di ricompensa per aver svolto una mole considerevole di lavoro burocratico e per aver trovato una scusa soddisfacente che giustificasse la scappatella del giorno prima. Ma a far pendere definitivamente il piatto della bilancia a favore della gita era la bellezza particolare di quella giornata da estate indiana, con un sole splendido, temperatura mite e un venticello delicato. Come disse a se stesso, poteva essere l'ultimo giorno di bel tempo, prima del massacro invernale. Prima di andar via, cercò di nuovo Laurie per dirle dal botulino, ma non era ancora risalita dalla fossa. Allora decise di cercarla quando sarebbe rientrato, nel pomeriggio. Il percorso andò ancor meglio di quanto si era aspettato, specialmente l'attraversamento del Ponte di Brooklyn e la corsa per il Prospect Park. La parte lungo la Coney Island Avenue fu meno stimolante ma comunque gradevole. Oltrepassata Neptune Avenue, notò una cosa che non si era aspettato: tutte le insegne dei negozi e locali pubblici erano scritte in caratteri cirillici. Appena vide Oceanview Avenue, si fermò e chiese indicazioni per arrivare in Oceanview Lane. Dovette interpellare tre persone, prima di trovare finalmente qualcuno in grado di dirgli da che parte andare. Quel quartiere fu una vera sorpresa per lui. Proprio come risultava dalla descrizione di Flash, c'era tutta una parte composta da casette in legno appiccicate una all'altra in una mescolanza di forme e dimensioni. Alcune erano mantenute abbastanza bene, altre decisamente malmesse. Le proprietà individuali erano separate da recinti dei materiali più diversi. Alcuni cortili erano ordinati e avevano aiuole con i fiori, mentre altri erano occupati da mucchi di frigoriferi senza sportello, televisori sventrati, giocattoli rotti e altre cianfrusaglie gettate alla rinfusa. I tetti formavano angoli che si sovrapponevano nei modo più strani, a testimonianza della mancanza di coordinamento con cui erano state allargate le strutture originarie. Sopra di essi spuntava una foresta di antenne televisive arrugginite che faceva pensare a una distesa di erbacce troppo cresciute. Jack rallentò e osservò parecchie costruzioni una per una. Alcune serbavano ancora delle decorazioni in stile vittoriano, moltissime avevano deci-
samente bisogno di riparazioni e di qualche mano di vernice. Quasi la metà erano fornite di un garage staccato. C'erano un sacco di cani che abbaiavano e ringhiavano mentre lui passava. Si vedevano poche persone e niente bambini, tranne qualche neonato in braccio alle madri. Jack si ricordò che era giorno di scuola. Quella zona era tutta una rete di strade vere e proprie, ma anche di vicoli, alcuni con la targa del nome, altri no. I vicoli erano stretti, in certi casi talmente stretti che non era possibile transitare in auto, e le case erano raggiungibili soltanto a piedi. Tutti i vicoli erano attraversati da ragnatele di fili elettrici e cavi telefonici. Jack individuò Oceanview Lane grazie a un cartello verniciato a mano inchiodato in modo precario a un palo del telefono. Svoltò nel vicolo, e dovette immediatamente fare attenzione alle larghe crepe nel selciato di cemento, per non cadere con la bicicletta. Poche case avevano il numero civico, ma Jack adocchiò il numero tredici scritto su un bidone della spazzatura. Presumendo che la costruzione successiva sarebbe stata il quindici, continuò fino ad arrivarvi davanti. La struttura era simile alle altre, anche se poggiava su delle fondamenta vere e proprie, anziché sui tipici pilastri in blocchi di calcestruzzo. Aveva un garage con due posti-macchina. Il tetto era di assicelle incatramate, ma ne mancava qualcuna. La zanzariera era squarciata. Il pluviale all'angolo era rotto e la sommità pendeva pericolosamente in fuori. Nell'insieme, quella casa aveva l'aria di cadere a pezzi se soltanto qualcuno avesse sbattuto la porta troppo forte. Il minuscolo cortiletto invaso dalle erbacce era separato dalla strada da una rete di metallo che arrivava all'altezza della vita. Jack vi legò la bicicletta, poi aprì il cancello e si avvicinò alla porta. Le due finestre che la delimitavano da entrambi i lati avevano le veneziane abbassate e con i listelli girati in modo che non si potesse vedere dentro. Dopo aver cercato invano un campanello, Jack aprì la zanzariera e bussò. Non udendo risposta, bussò più forte. Riprovò ancora una volta, infine rinunciò e lasciò andare la zanzariera, che si richiuse con un tonfo. Era demoralizzato. Dopo aver fatto tutta quella fatica per arrivare fin lì, ancora non riusciva a mettersi in contatto con Yuri Davidov! Stava per tornare alla bici, quando si rese conto di un ronzio sordo e continuo. Dando le spalle alla porta, rimase in ascolto, si concentrò su quel suono e si accorse che non era continuo, ma modulato, come quello di un elicottero molto lontano, o di un ventilatore dalla pale piuttosto larghe.
Guardò la casa incuriosito: non gli sembrava talmente grande da utilizzare un ventilatore dalle dimensioni tali da provocare quella vibrazione. Osservò le altre case nelle vicinanze. Sembravano tutte chiuse, come se i proprietari stessero al lavoro o comunque non fossero presenti. L'unica persona che si vedeva in giro era un uomo anziano seduto nel suo cortiletto, che, anche se lo aveva notato, non sembrava minimamente interessato a lui. Jack attraversò il praticello per curiosare tra la casa di Yuri e quella del vicino. Erano distanti due metri scarsi, e separate dalla rete metallica. Dopo un'altra occhiata all'uomo anziano, costeggiò la rete e arrivò nel minuscolo cortile posteriore di Yuri. Lì trovò qualcosa di simile a una canna fumaria da caldaia che usciva da un buco praticato nelle fondamenta, cementato di recente. Era un condotto metallico che formava un angolo verso l'alto e si allungava fino a un'altezza notevole. Toccandolo e sentendo la vibrazione, Jack capì che quello era lo sfogo del ventilatore. Considerando le dimensioni della casa, il tipo di caldaia a cui faceva pensare la canna fumaria pareva alquanto sovradimensionata. Jack continuò il giro attorno alla casetta. Sul lato di fronte al garage c'era un'altra porta e riprovò a bussare. Poi mise le mani attorno al viso e si appoggiò a uno dei piccoli riquadri di vetro, per sbirciare dentro. Vide una stanza a forma di L che fungeva da soggiorno e da cucina. Si staccò dalla porta e, costeggiando il garage, tornò sul davanti della casa. Quando arrivò di nuovo sul piccolo prato, vide un uomo barbuto che camminava sul vialetto, portando un sacchetto della spesa. Jack non lo aveva visto fino all'ultimo momento, perché era rimasto coperto dal garage. L'apparizione improvvisa di quell'estraneo a meno di un metro da lui lo fece sobbalzare. Non si era reso conto di quanto si sentiva a disagio per essersi introdotto in quella che era, a tutti gli effetti, una proprietà privata. Ma, per quanto Jack si fosse spaventato, sembrava esserlo meno dell'uomo con la barba, che lasciò cadere il sacchetto della spesa e cercò invano di tirar fuori la mano destra dalla giacca. «Mi scusi tanto», disse Jack. All'altro ci volle qualche momento per riprendersi, e lui ne approfittò per uscire dal cancello e aiutarlo a raccogliere un po' delle cose che erano cadute a terra e si erano sparse fuori dal sacchetto. «Mi spiace tremendamente di averla spaventata», aggiunse Jack, mentre raccoglieva diverse scatole di farina per dolci, un pasto surgelato, un barattolino di cannella e una bottiglia di vodka che miracolosamente non si era
rotta. «Non è colpa sua», replicò l'uomo. Si chinò anche lui, rimise in piedi il sacchetto e cominciò a rimettervi dentro i suoi acquisti. Allo stesso tempo continuava a far saettare gli occhi avanti e indietro, come se avesse paura che potesse saltar fuori qualcun altro a spaventarlo. Jack gli porse ciò che aveva raccolto. Aveva notato che aveva un forte accento slavo, il che era in sintonia con la folta barba e con la foggia del cappello. «Abita in questa zona?» gli chiese. L'uomo esitò un attimo, prima di rispondere di sì. «Conosce Yuri Davidov? Vive qui al numero quindici.» L'uomo si voltò verso la casa e parve esaminarla. «Vagamente», rispose. «Perché lo chiede?» Jack fece un po' di fatica a estrarre il portafogli dalla tasca, e intanto chiese all'uomo se era russo. La risposta fu affermativa. «Ho notato tutte le insegne scritte con i caratteri cirillici.» «A Brighton Beach vivono molti russi.» Jack annuì. Aprì il portafogli e mostrò il lucente distintivo da medico legale. Aveva notato che l'emblema ufficiale in genere rendeva le persone più disposte a collaborare e a rispondere alle domande. «Sono il dottor Jack Stapleton.» «Io mi chiamo Igor.» «Piacere di conoscerla, Igor. Sono un medico legale di Manhattan. Saprebbe dirmi per caso dove si trova al momento il signor Yuri Davidov? Ho bussato alla porta, ma non è in casa.» «Probabilmente è in giro con il suo taxi.» «Capisco.» Secondo Jack, questo significava che Yuri era emotivamente forte, o che effettivamente la mancanza di felicità domestica suggerita da Flash era una realtà. «Quando pensa che tornerà?» «Non prima di stasera tardi.» «Verso le nove o le dieci?» «Qualcosa del genere», confermò Igor. «C'è qualche problema?» Jack annuì. «Sa con quale società lavora?» «Lavora per conto suo.» «Accidenti, questo non ci voleva.» «Ho saputo che gli è appena morta la moglie. È di questo che voleva parlargli?» «Sì.»
«Vuole dire a me, nel caso lo veda?» «Gli dica solo che sappiamo che cosa ha ucciso sua moglie. Ma la cosa importante è che mi chiami, perché ciò che l'ha uccisa è una cosa molto pericolosa e potrebbe essere a rischio anche lui. Guardi, le lascio il mio biglietto da visita, così glielo può dare, se lo vede.» Jack estrasse di tasca un cartoncino con l'indirizzo e il numero di telefono dell'ufficio. «Ci aggiungo anche il numero di casa», disse, e lo scribacchiò sul lato in bianco, prima di porgere il cartoncino a Igor. Lui esaminò il lato stampato e chiese: «Questo è l'indirizzo di dove lavora?» «Proprio così», rispose Jack, e pensò se aveva qualche altra domanda da fare al russo, ma non gliene venne in mente nessuna. «Grazie per il suo aiuto.» «È stato un piacere; fino a che ora resta al lavoro?» «Probabilmente, almeno fino alle sei.» «Lo dirò a Yuri, se lo vedo», gli assicurò Igor, poi gli rivolse un cenno di saluto e proseguì per la sua strada. Jack guardò il russo che si allontanava, prima di voltarsi di nuovo verso la casa di Yuri Davidov. Fu allora che gli venne l'idea di infilare un biglietto da visita sotto la porta. L'unico lato negativo sarebbe stato che, se e quando Clint Abelard si fosse fatto vivo in quei paraggi, e glielo avessero mostrato, avrebbe avuto la prova di ciò che avrebbe chiamato un'intromissione indebita. Allora Jack sarebbe stato chiamato da Bingham. «Oh, e chi se ne importa!» disse Jack ad alta voce. Tirò fuori un altro cartoncino e sul retro scrisse un messaggio per Yuri in cui gli diceva di chiamarlo al più presto. Aggiunse il suo interno e il numero di casa, poi tornò davanti alla porta principale e ve lo infilò sotto. Aprì la serratura della bicicletta e pedalò via. Aveva in mente di fare un rapido giro per Brighton Beach, prima di tornare a Manhattan. Era curioso di dare un'occhiata a quella zona, ma pensò anche che, se gli fosse capitato di vedere una sede del servizio veterinario, si sarebbe fermato a chiedere se avevano informazioni sulla moria di ratti. 17 Mercoledì 20 ottobre, ore 12.15 Yuri non era mai stato così agitato in vita sua. Nell'attimo in cui si era ri-
trovato davanti Jack Stapleton, gli era sembrato che il cuore gli balzasse fuori dal petto. E, per rendere le cose peggiori, non era riuscito a tirar fuori di tasca la Glock, che si era impigliata nella fodera del giubbotto. Questo alla fine si era rivelato un bene. Se fosse riuscito a estrarre la pistola, la situazione sarebbe diventata ancora peggiore. Non era stata tanto la presenza di Jack Stapleton a gettarlo nel panico, ma il timore che con lui ci fosse anche Flash Thomas. Gordon Strickland aveva detto che da lui si erano presentati insieme. Appena Yuri si era reso conto che il medico legale era da solo, era stato in grado di raccogliere le idee quel tanto che bastava per avere a che fare con lui. Era rimasto sbalordito nel sapere che, a quanto sembrava, quel medico aveva fatto la diagnosi di botulismo. Dopo essersi allontanato da lui, Yuri non aveva guardato indietro. Era arrivato direttamente fino al bar che c'era nelle vicinanze e soltanto allora aveva osato gettare un'occhiata per assicurarsi che Jack Stapleton non lo avesse seguito. Non vedendolo, era entrato e aveva ordinato una vodka, che aveva buttato giù tutto d'un fiato. «Ne vuole un'altra?» gli chiese il barista. Per fortuna non lo conosceva, altrimenti avrebbe dovuto preoccuparsi di eventuali commenti sulla barba. A quel punto aveva paura di togliersela. «Doppia», rispose. Stava ancora tremando. L'altra questione che lo preoccupava era che Jack Stapleton avesse girellato attorno alla sua proprietà. Questo significava che aveva visto il tubo di aspirazione, sul retro. Non aveva idea di che cosa avesse pensato. Sperava anche che non avesse guardato attraverso la finestra posteriore del garage, perché avrebbe potuto vedere il camioncino dei pesticidi. Anche questo poteva essere pericoloso. Guardò l'orologio. Non sapeva se a quel punto Jack se n'era già andato, ma lui non aveva tempo da perdere. Pagò il conto, finì la vodka e riprese il sacchetto con la spesa. Ritornò all'inizio di Oceanview Lane ed esitò. Guardò verso casa sua e non scorse nessuno. Incoraggiato, imboccò il vicolo. Teneva la mano destra in tasca, serrata attorno all'impugnatura della pistola, come aveva fatto prima. La differenza era che questa volta era sicuro che non si sarebbe impigliata nella fodera. Non sarebbe stato colto di sorpresa, non da Flash, comunque. La casa appariva tranquilla. Yuri scrutò tutt'intorno poi, assicuratosi che Jack Stapleton non fosse più lì, varcò il cancello e corse alla porta laterale.
L'aprì più in fretta che poté e poi si chiuse dentro. Appoggiandosi contro la porta, esalò un sospiro di sollievo. Un rapido sguardo all'interno gli disse che non era entrato nessuno. Posò la spesa in cucina e scese immediatamente i gradini che portavano in cantina. Gli uscì un altro sospiro di sollievo nel vedere che il lucchetto era a posto. Tornò in cucina e mise nel freezer la vodka e il cibo surgelato. Il resto della spesa lo lasciò sul tavolo. Mentre si dirigeva verso il bagno, vide il biglietto da visita sul pavimento, vicino alla porta d'ingresso. Lo raccolse. Come si aspettava, era di Jack. Lo mise assieme all'altro che aveva già in tasca. Si tolse la barba finta. L'adesivo lo fece impazzire. Quando si guardò allo specchio notò di avere la pelle irritata. Si lavò il viso e poi, non sapendo bene che cosa dovesse fare, vi picchiettò sopra un po' di dopobarba. Bruciava talmente da fargli venire le lacrime agli occhi. Quando si guardò di nuovo allo specchio, vide che la pelle era ancora più arrossata. Tornò in cucina e prese le chiavi della macchina. Da quando era entrato nel bar si stava chiedendo disperatamente che cosa fare per la presenza di Jack Stapleton sulla scena. Per quanto detestasse farlo, decise che era una cosa talmente seria da spingerlo a rimangiarsi la parola data a Curt, andando ad avvisarlo. Si avvicinò alle finestre sul davanti e scrutò il vialetto da dietro le stecche delle veneziane. Tranne che per una giovane donna che spingeva un passeggino con dentro un bambino piccolo, non si vedeva nessuno. Né c'erano veicoli inconsueti parcheggiati nelle vicinanze. Poi si avvicinò alla porta della cucina e guardò verso quella laterale del garage. Era solo a pochi metri di distanza. Si chiese se rimettersi la barba, ma decise di no, temendo di aggravare l'irritazione. Però si premunì estraendo la pistola dalla tasca e impugnandola con la sinistra, nascosta da un asciugamani. Tenendo le chiavi con la destra, aprì la porta. Dopo un ultimo controllo per assicurarsi che non ci fosse nessuno, uscì. Chiuse a chiave la porta della cucina e aprì quella del garage in pochi secondi. Attento a eventuali sorprese e tenendosi pronto con la pistola, portò la macchina fuori dal garage e richiuse la porta basculante. Quando accelerò giù per il vialetto, cominciò a rilassarsi. Svoltò in Oceanview Avenue e si diresse verso la Shore Parkway, la strada più rapida per arrivare a Manhattan a quell'ora del giorno. Mentre saliva la rampa di ingresso, si chinò e ficco la Glock sotto il sedile del passeggero. Sapeva che Curt sarebbe stato furibondo nel vederselo comparire davanti
in caserma, ma non aveva scelta. Avrebbe potuto telefonare, ma Curt si sarebbe adirato lo stesso, e comunque era convinto che fosse molto meglio parlargli di persona, per sottolineare la gravità della situazione. Mentre guidava, cominciò a preoccuparsi sempre di più che Curt si sarebbe irritato. Era ridicolo per persone che lavoravano assieme per uno scopo comune avere di questi timori per la reazione di un compagno. L'unica spiegazione era che Curt era antislavo come era anti tutto il resto. Il Brooklyn Battery Tunnel portò Yuri nella parte bassa di Manhattan. Assicuratosi che il segnale di fuori servizio fosse acceso, si diresse a nord, lungo la West Street fino a Chambers, prima di svoltare a destra e avanzare faticosamente nel traffico per raggiungere Duane Street. Rallentò nell'avvicinarsi alla caserma dei pompieri. Non sapeva se parcheggiare o no. Vedendo quattro o cinque pompieri che giocavano a carte su un tavolino posto direttamente sul marciapiedi davanti all'ingresso, preferì restare in macchina. Le enormi porte basculanti erano state aperte completamente nella splendida giornata di metà autunno. All'interno si potevano vedere solo i lucenti musi rossi dell'autoscala e dell'autopompa. Yuri salì con il taxi sulla rampa, poi lo fermò mettendolo parallelo all'edificio. Gli uomini che stavano giocando sollevarono la testa dalla partita. Yuri abbassò il finestrino dalla parte del passeggero e si sporse fuori. «Scusate!» chiamò. «Sto cercando il tenente Rogers.» «Ehi, tenente!» gridò uno dei pompieri, voltando la testa. «Hai visite.» Curt emerse qualche minuto dopo, tenendo una mano sulla fronte a proteggere gli occhi che strizzava a causa della luce. L'interno dell'edificio sembrava scuro, in confronto alla forte luminosità che c'era all'esterno. Aveva un'espressione curiosa, che sparì immediatamente appena vide Yuri, per lasciare il posto a una rabbia malamente trattenuta. «Che cosa diavolo ci fai qui?» ringhiò, sforzandosi di tenere la voce bassa. «C'è un'emergenza», replicò Yuri, e gli porse il biglietto da visita di Jack Stapleton. Curt lo prese, mentre gettava un'occhiata nervosa dietro di sé, verso i colleghi che giocavano a carte. «Che cos'è 'sta roba?» chiese. «Leggi! È questa l'emergenza.» Curt lesse il cartoncino, prima di sollevare di nuovo lo sguardo su Yuri. Parte dell'irritazione si era trasformata in confusione.
«L'Operazione Volverina è a rischio», aggiunse Yuri. «Dobbiamo parlare immediatamente!» Curt si passò una mano fra i capelli cortissimi e si voltò di nuovo a guardare i colleghi. Erano tutti concentrati sulla partita. «Va bene», grugnì. «Ti auguro che sia davvero importante! C'è un bar dietro l'angolo, si chiama Pete's. Io e Steve saremo lì appena potremo.» «Vi aspetterò», replicò Yuri, prima di rimettere in moto e accelerare giù per la strada. La collera di Curt lo mandava in bestia. Nello specchietto retrovisore lo vide guardare ancora il biglietto da visita, prima di voltarsi e rientrare. Il bar era buio e fumoso e puzzava di birra stantia e grasso rancido. C'era un menu limitato che proponeva hamburger, patatine fritte e minestra del giorno. In sottofondo, gemeva a basso volume della musica country. Di tanto in tanto Yuri riusciva a capire qualche strofa che parlava di innamorati abbandonati e opportunità perdute. C'erano un po' di avventori, tutti uomini, che stavano pranzando e bevendo birra. Yuri dovette percorrere la piccola osteria in tutta la sua lunghezza prima di trovare un séparé libero, vicino ai servizi. Ordinò una vodka e un hamburger e si sedette. Non dovette aspettare molto. Curt e Steve arrivarono proprio mentre lo servivano. I due pompieri scivolarono sulla panca di fronte alla sua, senza nemmeno darsi la pena di salutarlo. La loro contrarietà era più che evidente. Restarono in silenzio mentre il cameriere serviva l'hamburger e poneva un tovagliolino vicino al piatto. Poi li guardò, come per chiedere che cosa volessero, e loro ordinarono un paio di birre alla spina. Ripartito il cameriere, Curt gettò con arroganza il biglietto da visita di Jack Stapleton sul tavolo, in modo che andasse a finire davanti a Yuri. «Comincia a parlare!» ordinò. «Ed è meglio che sia qualcosa di serio.» Yuri mise in bocca un pezzetto ai hamburger e lo masticò. Guardò i suoi amici. Era deliberatamente provocatorio, nel farli aspettare, ma non gli importava. Anzi, gli provocava un po' di divertimento. «Non abbiamo tutto il giorno, Cristo!» sbraitò Curt. Yuri deglutì e mandò dietro al boccone un sorso di vodka. Poi, dopo aver schioccato la lingua, raccolse il biglietto da visita e lo gettò indietro, in direzione dei due pompieri. «Questo dottor Jack Stapleton è il medico legale di cui vi avevo parlato, quello in cui mi sono imbattuto nell'ufficio della Corinthian Rug Company.» «Che notizia sensazionale!» commentò Curt. «È successo due giorni fa.»
«Ieri si è fatto vivo alle Onoranze Funebri Strickland, assieme al fratello di Connie.» «Non ce lo avevi detto.» «Non mi sembrava una cosa importante, per lo meno ieri.» «E oggi sì?» «Senza dubbio», confermò Yuri. Mentre agli altri due venivano servite le birre, mandò giù un altro boccone di hamburger e restò in silenzio fin quando il cameriere non si fu allontanato. «Oggi il dottor Stapleton si è fatto vivo a casa mia.» «Perché?» chiese Curt. La collera e l'arroganza erano scomparse. Adesso era preoccupato. «Voleva avvertirmi che sono a rischio per la malattia che ha ucciso Connie. A quanto pare ha fatto la diagnosi che è morta di botulismo.» «Oh, Cristo!» ringhiò Curt. «Come diavolo ha fatto a capirlo?» esclamò Steve. «Ci avevi detto che non sarebbe successo.» «Non lo so come mai gli è venuto in mente di cercarlo, ma so che ha prelevato dei campioni dal cadavere di Connie.» «E tu che cosa gli hai detto?» domandò Curt. «Intanto, lui non sapeva che stava parlando con me. Quando ci siamo quasi scontrati nel vialetto, avevo la barba. Non so se mi avrebbe riconosciuto se non l'avessi portata, perché l'altro giorno avevamo parlato solo per pochi minuti. Comunque è stato un bene che l'avessi. Gli ho detto di chiamarmi Igor e lui ci ha creduto. Mi sono offerto di riferire un messaggio a Yuri Davidov, ma lui non mi ha detto che cos'era il messaggio, solo che Yuri Davidov poteva essere in pericolo.» «Ma tu credi che sospetti il botulismo?» «Sì.» «Credi che ritornerà?» «Forse no, fino a stasera. Gli ho detto che Yuri Davidov era fuori con il taxi e non sarebbe rientrato fino a dopo le nove o le dieci.» Curt guardò Steve. «Questa cosa non mi piace.» «Nemmeno a me.» «Anche a me non piace», affermò Yuri. «Quello lì ha camminato attorno a casa mia. Senza dubbio ha visto il tubo di aspirazione del laboratorio e ha sentito il ventilatore. Potrebbe aver visto anche il camioncino dei pesticidi.» «Buon Dio!» bofonchiò Curt.
«Io penso che debba sparire, proprio come Connie. L'Esercito Ariano del Popolo deve sbarazzarsi di lui al più presto, tipo oggi pomeriggio.» Curt annuì, poi guardò Steve. «Che cosa ne pensi?» «Penso che Yuri abbia ragione. Se non facciamo niente, quel tipo, da solo, potrebbe mandare all'aria tutta l'Operazione Volverina.» «Il problema è: come sbarazzarsi di lui?» «Sul biglietto da visita c'è l'indirizzo dove lavora», osservò Yuri. «Mi ha detto che sarà lì fino alle sei. Sul retro del biglietto ha scritto il numero di telefono di casa. E credo che si sia fatto tutta la strada fino a Brighton Beach in bicicletta. Credo che queste siano informazioni sufficienti per l'Esercito Ariano del Popolo.» «Stai dicendo che se ne va in giro in bici per la città?» chiese Curt. «È quello che suppongo.» «Potremmo seguirlo quando esce dal lavoro», propose Steve. «E colpirlo nel momento in cui è più vulnerabile.» Curt annuì, mentre ci pensava sopra. «Come faremo a riconoscerlo?» Steve indicò Yuri. «Dovrà venire con noi per identificarlo.» «Puoi essere di nuovo qui alle cinque?» domandò Curt a Yuri. «Dove di preciso? So che non mi vuoi alla caserma.» «Qui nel bar.» «Ci sarò.» «Va bene, deciso», concluse Curt. «L'Esercito Ariano del Popolo giustizierà il dottor Jack Stapleton. Darò l'ordine.» Si rivolse a Steve. «Questo significa che dovrai tornare immediatamente a Bensonhurst per reclutare un po' di uomini. E penso che per questa missione dovremo rubare un furgone.» «Nessun problema», replicò Steve. «Avremo bisogno di una grossa potenza di fuoco. Voglio colpire in modo rapido e definitivo. Insomma, non voglio soltanto sparargli e rischiare che se la cavi.» «Sono d'accordo.» «Va bene, è tutto.» Curt scolò gli ultimi rimasugli di birra e cominciò a scivolar fuori dal séparé. «C'è un'altra questione», lo bloccò Yuri. Curt si fermò. «Voglio anticipare l'Operazione Volverina a domani, giovedì.» «Domani!» gli fece eco Curt, incredulo. «Pensavo che già per venerdì avessi dei problemi a ottenere abbastanza polvere di carbonchio.»
«Ho lavorato buona parte della notte e tutta la mattina. Con il secondo fermentatore che funziona così bene, siamo a buon punto. Entro stanotte avremo abbastanza materiale per tutt'e due le azioni.» «Immagino che si possa fare», replicò Curt. «Giovedì o venerdì, in realtà non fa differenza.» Guardò Steve. «Non c'è motivo di non farlo», approvò lui. «La fuga è pronta. Sarebbe quella la questione critica.» «Io penso che dobbiamo farlo giovedì», insisté Yuri. «Come avete detto voi ieri sera, la sicurezza è fondamentale. Anche se ci sbarazziamo di Jack Stapleton, non abbiamo idea se ha parlato con qualcuno. Aspettare altre ventiquattr'ore sarebbe correre un rischio.» Curt se ne uscì con una risatina. «Lo sai, penso che tu abbia ragione.» «Lo so che ho ragione, se vogliamo che l'Operazione Volverina abbia successo, il che, ovviamente è la cosa che tutti noi vogliamo.» «Assolutamente», confermò Curt. «A che ora vuoi che veniamo, stasera, a prendere le salsicce?» «Meglio sul tardi. Mi ci vorrà del tempo per impacchettarle bene. Diciamo attorno alle undici.» «Perfetto. Ci saremo.» Curt scivolò fuori dalla panca, seguito da Steve, mentre Yuri restava seduto. «Voglio finire il mio hamburger», spiegò. «Ci vediamo alle cinque», gli ricordò Curt, e gli rivolse un saluto militare, prima di seguire Steve fuori dal bar. Yuri li guardò andarsene. Pensava che il loro atteggiarsi a militari fosse patetico, e si sentiva in imbarazzo nel farsi vedere assieme a loro. Però, dopo quel breve incontro, si sentiva meglio di come si era sentito per tutta quella giornata. Gli sembrava che, nonostante i numerosi problemi, tutto stesse andando a posto. Mentre masticava un altro boccone, pensò se gli conveniva passare dall'agenzia di viaggi per prenotare il volo da Newark a Mosca per il giovedì sera. Ma poi pensò che era meglio farlo per telefono, perché non voleva perdere troppo tempo. Dopotutto, aveva un sacco di lavoro da fare, entro le undici. 18 Mercoledì 20 ottobre, ore 14.15 Jack accostò al piano di carico e scese dalla bici. Gli mancava il fiato per
l'ultima frenetica volata su per la Prima Avenue, dove si era mantenuto al passo con il traffico. In questo modo, era riuscito a trovare sempre i semafori verdi da Houston Street e non aveva dovuto fermarsi mai nemmeno una volta. Sollevò la bici su una spalla e salì i pochi gradini che portavano sulla piattaforma, per poi entrare nell'obitorio dall'ingresso di servizio, come al solito. La gita a Brighton Beach era stata bellissima, anche se non aveva potuto adempiere al compito che si era prefisso. Però aveva fatto ciò che poteva al riguardo. Il resto era nelle mani della flemmatica burocrazia del dipartimento della sanità, o dello stesso Yuri Davidov. Jack arrivò nel proprio ufficio e appese il giubbotto dietro la porta. Notò che Chet aveva piazzato sulla scrivania il proprio microscopio, che aveva la luce accesa ed era contornato di fogli; questo suggeriva che il suo compagno di stanza era nel pieno dell'attività, anche se al momento non lo si scorgeva da nessuna parte. Forse al momento aveva fatto una scappata alle macchinette distributrici al secondo piano: a Chet piaceva fare uno spuntino nel pomeriggio. Prima di sedersi alla scrivania, Jack arrivò fino all'ufficio di Laurie. Era impaziente di riconoscerle il merito per la sorprendente diagnosi di botulino. Purtroppo però la porta era chiusa, il che non era normale. Jack non ricordava un'altra volta in cui Laurie o la sua compagna di stanza avevano chiuso la porta a metà giornata. Stringendosi nelle spalle, si diresse verso il proprio ufficio. Aveva fatto solo qualche passo, quando udì la voce di uomo evidentemente in preda alla collera. Non riusciva a capire distintamente le parole, ma la cosa che lo allarmava era che sembrava provenire da dietro la porta chiusa di Laurie. Jack esitò. Un momento dopo la udì di nuovo, assieme a un tonfo che faceva pensare a un pugno calato su una scrivania di metallo, o uno schedario. Preoccupato, tornò vicino alla porta. Sollevò la mano per bussare, ma esitò. Considerato che la porta era chiusa, non avrebbe voluto interferire, ma poi udì distintamente una sequela di imprecazioni e un altro colpo. Immediatamente dopo sentì la voce di Laurie implorare: «Ti prego!» Spinto dall'istinto più che dal ragionamento, bussò e aprì la porta contemporaneamente. Laurie stava con la schiena contro la parete, vicino allo schedario. Non aveva assunto una posizione di difesa, ma il suo viso esprimeva un misto di paura e di indignazione. Davanti a lei si ergeva Paul Sutherland, elegante come al solito. Era rosso in viso e teneva l'indice pun-
tato a non più di dieci centimetri dal naso di Laurie. L'entrata in scena di Jack sembrò pietrificarlo sul posto. «Spero di non interferire», disse Jack. «Ma hai già interferito!» sbottò Paul, riprendendo vita. «Ecco perché la maledetta porta era chiusa!» Si girò verso di lui, ponendosi i pugni sui fianchi, con aria di sfida. «Mi spiace tremendamente», si scusò Jack, poi si inclinò da un lato, per guardare meglio Laurie, oltre la sagoma corpulenta di Paul. «Laurie, anche tu sei della stessa idea?» «No di certo», rispose lei. «Questa discussione, se si può chiamarla tale, stava degenerando.» «Esci di qua!» ringhiò Paul. «Io e Laurie dobbiamo arrivare a una spiegazione, qui e subito.» «Non è né il posto né il momento», obiettò lei. «Te l'ho già detto.» «Be', mi pare che qui non ci sia accordo», intervenne Jack spensieratamente. «Mi pregio di offrire i miei servigi come paciere.» «Ti avverto!» Paul compì minacciosamente un passo verso di lui, gli occhi come due fessure. «Paul, ti prego!» esclamò Laurie, adirata. «Penso che tu debba andartene!» Paul non distolse lo sguardo da Jack. «Esci di qua!» ripeté. «Ti avevo già sentito la prima volta», rispose lui, con disinvoltura, «ma questo è l'ufficio della dottoressa Montgomery e i suoi desideri sono ordini. Penso sia tempo che te ne vada, a meno che tu non voglia discutere la questione con il sergente Murphy, dabbasso.» Paul si gettò in avanti, nel tentativo di colpire Jack con un gancio. Prevenendo il pugno, Jack indietreggiò e poi, approfittando della momentanea perdita di equilibrio di Paul, afferrò un lembo del suo vestito di seta e lo gettò fuori dalla porta, che era rimasta aperta, facendolo finire nel corridoio. La manovra fu accompagnata dal distinto rumore della stoffa che si strappava. Paul si rimise rapidamente in equilibrio e assunse una posizione accucciata, con i pugni sollevati vicino alla testa, dando a Jack l'impressione che fosse ben ferrato nella boxe. Riconoscendo i propri limiti in quello sport, Jack era indeciso se scappare o avvolgere l'avversario in un abbraccio da orso. Per fortuna, non dovette prendere la decisione. Giù per il corridoio si udì un urlo, mentre Chet arrivava di corsa con in mano un sacchetto aperto di patatine e un barattolo di pop corn.
Vedendo che si trovava in svantaggio, Paul si raddrizzò dalla posizione minacciosa che aveva assunto e con gesti irati esaminò l'elegante giacca cucita a mano, scoprendo che era stata strappata. «Mi spiace», disse Jack, vedendo il danno che aveva provocato. «Per fortuna, sembra che sia solo scucita.» «Che cosa diavolo succede qua?» domandò Chet. «Paul e io abbiamo avuto un momentaneo disaccordo», spiegò Jack. «Ma grazie a te adesso è stato spianato, per così dire.» Paul gli agitò un dito davanti al viso, come aveva fatto poco prima con Laurie. «Sentirai parlare di me, a questo proposito!» minacciò. «Bada bene alle mie parole!» «Non vedo l'ora», replicò Jack. «Paul, perché non te vai?» implorò Laurie. «A meno che non voglia essere arrestato, ti prego, vattene! Ho chiamato la sicurezza.» Paul raddrizzò la cravatta e renfilò nel taschino il fazzoletto che faceva pendant. Per tutto il tempo continuò a tenere gli occhi fissi su Jack. «Tra noi due non è finita qui!» sibilò e poi, rivolgendosi a Laurie, le promise con la stessa acrimonia: «E con te ci parlerò dopo». Raddrizzò le spalle e si diresse verso gli ascensori. Jack, Laurie e Chet lo guardarono allontanarsi. «Per cos'era tutta questa scena?» domandò Chet, ma gli altri due non gli risposero. «Hai chiamato davvero la sicurezza?» chiese Jack a Laurie. «No. Stavo per farlo, quando ho sentito l'urlo di Chet. È meglio così.» «Grazie per essere arrivato al momento giusto», disse Jack. «Sono contento di essere stato d'aiuto», replicò Chet. «Qualcuno vuole una patatina?» E sollevò il sacchetto verso i colleghi. Entrambi scossero la testa. «Hai voglia di parlare?» chiese Jack a Laurie. Lei annuì. «Sì, mi andrebbe.» «Chet, vecchio amico, grazie per essere arrivato alla riscossa.» Jack diede una bella pacca sulla schiena del suo compagno di stanza. «Ci vediamo nell'orifizio tra qualche minuto.» L'«orifizio» era una distorsione comica di «ufficio» che loro due usavano spesso parlando tra loro. «So intuire quando sono di troppo», replicò Chet e se andò, sgranocchiando felice il suo spuntino. Laurie ritornò nel proprio ufficio e poi richiuse la porta alle spalle di Jack. «Spero che non ti spiaccia se ti chiudo qua dentro in questo modo.»
«Mi vengono in mente destini peggiori.» Laurie lo strinse in un forte abbraccio, che lui ricambiò. «Ti ringrazio per esserti dimostrato ancora una volta un vero amico», ruppe il silenzio Laurie dopo un minuto buono, poi si sciolse dall'abbraccio e rivolse a Jack un sorriso sghembo e si sedette. Prese un fazzolettino da un cassetto e si asciugò gli occhi. Scosse la testa. «Detesto piangere», ammise. «Mi sembra una reazione appropriata, dopo aver dovuto sottostare a un simile comportamento.» Laurie scosse la testa, sconcertata. «Non riesco a crederci. Sono sbalordita. Soltanto tre giorni fa era felicità pura.» «Che cosa è successo?» «Ieri sera, a cena, ho cercato di parlare con lui di quello che mi avevate detto tu e Lou. Non ha funzionato. Ha assunto immediatamente un atteggiamento provocatorio.» «Questo non è un buon segno.» «Come se non lo sapessi.» Laurie si asciugò di nuovo gli occhi. «Mi ha dato l'impressione che stesse nascondendo qualcosa, e questa idea è stata rafforzata dal suo comportamento di oggi. Non avrei dovuto farlo entrare, ma mi ha chiamata dal pianoterra, dicendo che voleva scusarsi. Che razza di scuse!» «Che cosa pensi che stia nascondendo?» «Non lo so, ma credo che forse vende dei fucili mitragliatori bulgari, gli AK-47.» Jack emise un fischio. «Questa sì sarebbe una brutta notizia!» «Questo è dir poco.» Laurie scosse la testa. «Suppongo che potrei anche accettare che commercia in armi, se fosse per uno scopo legittimo di difesa nazionale. Di certo potrei perdonargli di essere incappato nella legge, in passato, per detenzione di cocaina, ammesso che non continui a farne uso. Ma non potrei mai tollerare che venda fucili mitragliatori illegali o altre armi da fuoco di qualsiasi tipo a persone private, in particolare ai ragazzi. È saltato fuori che quello skinhead, Brad Cassidy, a cui ho fatto l'autopsia lunedì, era stato coinvolto nel traffico di quei fucili bulgari, come intermediario, o qualcosa di simile.» «Accipicchia, che coincidenza!» commentò Jack. «E tu sai come la penso sulla limitazione delle armi da fuoco.» «Certo. Allora che cosa significa tutto questo per Laurie Montgomery?» «Non lo so di preciso», rispose lei con un sospiro. «Suppongo che lasce-
rò sedimentare le cose, e riparlerò con Paul tra una settimana, più o meno. Nel frattempo, come ho detto stamattina, mi immergerò nel lavoro. Terrò la mente lontana dalla mia disastrosa vita personale.» «Spero che ti lasci in pace. Mi dà tanto l'impressione di essere uno tenace.» «Capisco che cosa intendi. E questo mi spinge a chiederti un piacere.» «Certo. Di cosa hai bisogno?» «Non ho voglia di starmene seduta accanto al telefono, stasera, e anche domani sera. Preferirei stare fra amici. Pensi che ci sia qualche possibilità, per noi, di andare con Chet e Colleen a quella mostra di Monet di cui Chet ha parlato ieri?» «Dovrei verificare con Chet, ma io ne sarei contentissimo.» «Meraviglioso. Per quanto riguarda stasera, che cosa ne dici di uscire a mangiare un boccone con me e Lou? Penso di essere in debito con voi per il mio comportamento di ieri sera, quindi offrirò io.» «Non devi niente a nessuno», replicò Jack. «Non posso parlare a nome di Lou, ma per quanto riguarda me, sarei felice di mangiare con te stasera. Mi darà l'opportunità di metterti al corrente su ciò che mi aveva spinto nel tuo ufficio, qualche minuto fa.» «E che cosa sarebbe?» «Il tuo suggerimento riguardo Connie Davidov era azzeccatissimo. È morta per la tossina del botulino.» «Non è vero!» Il viso di Laurie si illuminò con un sorriso. «Parola di scout! Lo ha confermato Peter stamattina.» «Accidenti! Allora, che cosa è successo? Hai chiamato Randolph Sanders?» Jack si staccò dalla scrivania. «Ti racconterò tutto stasera. Dove e quando?» «Per le otto andrebbe bene?» «Mi sembra di sì. E dove?» «Che ne dici del ristorante preferito di Lou, a Little Italy? Sono secoli che non ci vado.» «Come si chiama?» «Non ha un nome», spiegò Laurie. «Va bene. L'indirizzo?» «Non me lo ricordo.» «Meraviglioso!» esclamò Jack con sarcasmo. «Passa a prendermi, e lo scoverò. Si trova in una trasversale della Mul-
berry. Ma vieni con un taxi, non con la bici.» Dopo una promessa fatta a malincuore di non andare da lei in bicicletta, Jack ritornò nel proprio ufficio. Appena entrò, Chet sollevò la testa dal microscopio. «Allora», gli chiese. «Che cos'era tutto quel trambusto?» «È tutto molto complicato», rispose Jack, lasciandosi cadere sulla sua poltroncina. Tra l'agitazione per lo scontro con Paul e la lunga pedalata, si sentiva improvvisamente stanco. «Ma un risultato è che Laurie ha cambiato idea riguardo a domani sera. Quindi, se tu e Colleen avete ancora voglia di compagnia, noi siamo disponibili.» «Grandioso!» Chet prese il ricevitore. «Do un colpo di telefono a Colleen per vedere se può procurare altri biglietti.» «Aspetta un secondo», lo fermò Jack. «Che cosa mi dici degli epidemiologi veterinari? Sei riuscito a rintracciarne qualcuno?» «Sì. Ho parlato con il dottor Clark Simsarian, che aveva presieduto il seminario. Gli ho chiesto se hanno fatto una diagnosi per i ratti, ma la risposta è negativa. E non hanno trovato altri casi di ulcere dovute al carbonchio.» «Io ho una dritta per loro. Chiama di nuovo il dottor Simsarian e suggeriscigli di cercare la tossina del botulino.» «La tossina del botulino! È di questo che è morta Connie Davidov?» «A quanto pare. Per lo meno secondo Peter Letterman.» «E tu continui a pensare che i sorci e Connie possano essere collegati?» «Lo so che è una supposizione un po' tirata, ma dato che i veterinari non hanno trovato nient'altro, può valere la pena provare. Oggi mi sono fermato presso un ambulatorio veterinario, mentre ero a Brighton Beach, e mi hanno detto che anche alcuni gatti del quartiere stanno morendo misteriosamente.» «Riferirò il suggerimento», promise Chet. «E Randolph Sanders? Gli hai fatto sapere del botulino?» «Sì. E mi imbarazza dirti che ho goduto nel farlo stare sulle spine.» «Sarei curioso di sapere come andrà a finire», commentò Chet, scuotendo la testa. «Decidere di non fare un'autopsia e poi scoprire che il paziente è morto di botulismo è il peggiore incubo per un medico legale.» «Anch'io sono curioso. E infatti, mentre tu farai le tue telefonate, credo che vedrò che cosa riesco a scoprire.» Jack telefonò all'ufficio di Brooklyn e chiese di parlare con il dottor Sanders. Dato che non era nella sua stanza, dovette farlo chiamare. Mentre
aspettava, seguì la conversazione di Chet con Colleen, fino a ricevere dall'amico il segnale del pollice alzato. Proprio in quel momento ebbe in linea Randolph Sanders. «Mi spiace disturbarti», esordì Jack con lo stesso stile spigliato che aveva usato quella mattina nel parlare con lui. «Chet e io parlavamo del caso Davidov. Eravamo curiosi di sapere che cosa sta succedendo.» «È un incubo», confessò Randolph. «Proprio la definizione che ne ha dato Chet un attimo fa.» Jack strizzò l'occhio al suo compagno di stanza, che era in attesa di avere in linea il dottor Simsarian. «Quando si dice la sfortuna!» continuò Randolph. «Subito dopo aver parlato con te, stamattina, ho chiamato le pompe funebri Strickland e mi hanno dato un sacco di brutte notizie.» «Mi spiace», commentò Jack. «Il cadavere è stato cremato.» «Oh!» gemette Jack, fingendo comprensione. «Non c'era molto che potessi fare, a quel punto, tranne che passare la patata bollente a Jim Bennett.» «E lui che cosa ha fatto?» «Ancora niente. Ma so che ha chiamato Bingham. Tutto 'sto casino dev'essere gestito dai capi in testa, in particolare da Harold Bingham.» «Immagino che devi sentirti piuttosto a disagio.» Nonostante quel collega non gli piacesse, Jack provò una vena di sincera comprensione. «Non mi era mai accaduto niente di simile.» «Passerà. Nei lavori come il nostro, è impossibile accorgersi di tutto. E a questo punto stai facendo del tuo meglio.» Jack e Chet riattaccarono quasi simultaneamente, poi si voltarono a guardarsi. «Prima tu», propose Chet. «Che cosa hai scoperto?» «Non ci sono novità, almeno per il momento. Bingham c'è dentro fino al collo, ma ancora non glielo hanno detto. Il vero problema è che il cadavere non c'è più. Lo hanno cremato.» Jack scosse la testa. «È un casino. L'unica cosa che so è che non ci devo pensare io.» «Non potrei essere più d'accordo. E lascia che sia così! Per quanto riguarda il dottor Simsarian, non era eccitato dal tuo suggerimento, ma ha detto che proverà.» Jack sollevò le mani. «Be', è tutto ciò che possiamo fare.» «Assolutamente», confermò Chet.
Jack si voltò verso la propria scrivania. Al centro del tampone di carta assorbente c'era una vaschetta con dei vetrini. Vi era attaccato sopra un Post-it con un messaggio da parte di Maureen. Si trattava dei campioni di pelle di Connie Davidov. Jack tirò fuori il microscopio, vi mise sotto un vetrino e guardò. Adesso che aveva la diagnosi di botulismo, i vetrini erano superflui, ma il campione di pelle serviva a verificare che il gonfiore sotto l'occhio era dovuto a un trauma e non a un'infezione, e ne ebbe la conferma. Mise da parte il materiale riguardante Connie Davidov e prese la cartelletta di David Jefferson. Pensava di finire quel caso con un giorno di anticipo e sorprendere Calvin. Mentre lavorava, si cullava con allegria nell'aspettativa della serata che avrebbe passato assieme a Laurie e a Lou, dopo una corroborante partita al campo di basket. 19 Mercoledì, 20 ottobre, ore 17.05 «Ci vediamo domani!» gridò Bob King, mentre Curt usciva dalla caserma dei pompieri. Lui rispose agitando il braccio, con un gesto che era più di congedo che di saluto. Si stavano allontanando in opposte direzioni lungo Duane Street, dopo il cambio di turno. «Lascia che arrivi domani, a metà mattinata, e non dovrò rivederti mai più», bofonchiò Curt a mezza voce. A mano a mano che il pomeriggio avanzava, si era eccitato sempre di più pensando all'Operazione Volverina. Finalmente, tutti i progetti e gli sforzi avrebbero dato un risultato, ora l'operazione stava per decollare, erano arrivati praticamente al conto alla rovescia e il lancio sarebbe avvenuto entro ventiquattr'ore. Guardò l'orologio. Dato che erano le cinque passate, si aspettava che i partecipanti alla missione di quel pomeriggio sarebbero stati già tutti presenti all'appuntamento da Pete's. Steve non aveva telefonato, e questa era un'indicazione certa che tutto stava procedendo come da programma. Mentre svoltava l'angolo, notò un furgone blu parcheggiato in un tratto destinato al carico e allo scarico delle merci, vicino al bar. Sulla portiera dalla parte del guidatore era dipinto il nome di un idraulico di Brooklyn. Curt sorrise: senza dubbio, era il veicolo requisito. Il bar era praticamente vuoto. La lamentosa musica country era stata so-
stituita dai suoni aspri di un gruppo chiamato Armageddon. Sorrise di nuovo. Gli sembrava davvero adatta. La musica usciva da un enorme radioregistratore portatile appoggiato su un tavolo, davanti a Carl Ryeson. Nella fumosa penombra del bar, il sorriso storto di Carl e la svastica tatuata sulla fronte gli davano un'aura particolarmente satanica. «Ti piace la musica, capitano?» chiese Carl. Si era accorto del sorriso di Curt. A Curt piaceva che i suoi uomini lo chiamassero «capitano», era abbastanza rispettoso e promuoveva la disciplina. Si intrufolò nel séparé e diede un'occhiata alla sua squadra. Carl gli stava seduto proprio di fronte. Accanto a lui c'era Kevin Smith, con la sua chioma rossa. Poi c'era il minuto Clark Ebersol, seguito da Mike Compisano. Steve si trovava all'immediata destra di Curt. Tutti erano in maglietta, con i tatuaggi ben visibili, tranne Curt, che indossava ancora l'uniforme di servizio. Sul tavolino si allargava una foresta di bottiglie di birra. «Vediamo di andarci piano con il bere», ammonì Curt. «Ehi, che cos'altro si può fare in un bar?» obiettò Kevin. «Siamo qui da mezz'ora buona.» «Non volevo arrivare in ritardo», spiegò Steve. «Il furgone è quello blu parcheggiato là fuori?» chiese Curt. «Sì, grazie a Clark.» «E le armi?» Steve si chinò in avanti e abbassò la voce. «Sul furgone ci sono tre kalashnikov e due Glock. Ho pensato che fossero più che sufficienti. Diavolo, se il tizio è in bici tutto quello che dobbiamo fare sarà investirlo.» «Ma poi gli dovremo sparare, tanto per essere sicuri.» «Be,' di certo, abbiamo una potenza di fuoco più che sufficiente.» «Dov'è Yuri?» Soltanto in quel momento Curt si era accorto che il russo non c'era. «Non lo so», rispose Steve. «Forse è rimasto intrappolato nel traffico.» Curt guardò l'orologio. «Avevamo detto al bastardo di essere qui per le cinque.» «Perché non utilizziamo il tempo per organizzarci per domattina?» suggerì Steve. «Ho accennato a Mike che potremmo aver bisogno di lui per una missione rapida.» Mike era, fra tutti, il meno infatuato dello stile skinhead e anche quello che rispondeva meglio alle sollecitazioni di Curt ad attenuare l'origine straniera. Adesso che i suoi capelli biondi avevano co-
minciato a ricrescere, in confronto ai suoi compagni poteva passare quasi per normale. «Buona idea», approvò Curt, ma prima che potesse aggiungere altro arrivò il cameriere a prendere la sua ordinazione. Scelse una Bud Light. «Ascolta», disse a Mike, dopo aver avuto la birra. Si chinò in avanti. «Vogliamo che domani mattina ti vesti bene. Giacca, cravatta, tutto quanto. Dev'essere di buon'ora, perché ti vogliamo davanti al Jacob Javits Federal Building sulla Worth Street non più tardi delle nove e un quarto.» «Dovrò prendere un permesso dal lavoro.» Curt sollevò gli occhi al cielo. Dovette ricordare a se stesso che gli toccava avere pazienza quando aveva a che fare con i suoi uomini. «Come ti pare», replicò, con un gesto della mano. «La cosa importante è che tu sia lì alle nove e un quarto. Questa operazione deve filare via precisa come un orologio.» «E allora che cosa faccio, me ne devo stare lì e basta?» domandò Mike. «No, idiota», sbottò Curt, poi riabbassò la voce. «Ti daremo una piccola bomba fumogena che provocherà un sacco di fumo. È grande più o meno quanto un grosso fuoco d'artificio, e la devi accendere con un fiammifero. La cosa importante è che non verrà rilevata dal metal detector, quando entrerai nell'edificio.» «Devo entrarci?» «Proprio così.» «Ma non mi chiederanno il perché?» «Ma no! La gente lì va avanti e indietro per tutto il giorno.» Mike sollevò le sopracciglia. «Dico sul serio. Non avrai problemi, se avrai un aspetto decente. Diavolo, probabilmente non li avresti nemmeno se ti vestissi come adesso.» «Va bene», disse Mike. «Allora, sono dentro. Che cosa faccio con la bomba incendiaria?» «Sali in ascensore e arrivi al terzo piano. Quando esci, vai a destra. A circa dieci metri, lungo il corridoio, ci sono i servizi per gli uomini. Capito?» Mike annuì. «Ci entri e ti assicuri che non ci sia nessuno.» Mike continuava ad annuire. «In realtà, probabilmente non importa se c'è qualcuno», si corresse Curt. «Basta che vai nell'ultimo vano. Nella parete posteriore c'è una presa d'aria. Togli il coperchio svitando le viti con una moneta, accendi la bomba,
la getti dentro il condotto e poi rimetti il coperchio.» «È tutto?» «È tutto. Poi esci con calma dall'edificio. La bomba metterà in funzione un rilevatore di fumo nell'impianto di condizionamento, quindi ci sarà un allarme antincendio. Tu però continua per la tua strada. Si potrebbe creare un po' di confusione. Dopo che sarà suonato l'allarme, compariremo io e Steve con il nostro camion. Se ti capita di vederci, ignoraci. Ecco, questo è tutto ciò che devi fare.» Mike emise una breve risata, e si guardò attorno fra i compagni. «È un gioco da ragazzi», commentò. «Ma un gioco molto importante», dichiarò Curt. «È una missione cruciale per il Partito Ariano del Popolo.» In quel momento, Curt vide Yuri entrare nel locale. Sollevò una mano per richiamare la sua attenzione e il russo si avvicinò. «Sei in ritardo!» sbottò Curt. «Il traffico era tremendo, per entrare nel Battery Tunnel», si giustificò Yuri. «Sarà meglio che Jack Stapleton sia ancora al lavoro», lo ammonì Curt. Si alzò e andò al banco a pagare il conto. «Va bene, muoviamoci», disse quando tornò al tavolo. Dovette togliere di mano le bottiglie a Kevin e a Carl, che volevano portarsele dietro perché non le avevano finite. Fuori, si ammucchiarono tutti nel furgone, fra una risata e l'altra. La promessa dell'imminente violenza li eccitava al massimo. Curt si mise al volante e fece stare Yuri accanto a sé, in modo che potesse identificare il bersaglio e indicarglielo. Dietro era in corso qualche discussione a proposito di chi si sarebbe seduto dove, fra tutte le attrezzature da idraulico. Andò a finire che toccò a Steve decidere per tutti. Curt imboccò Worth Street in direzione ovest, per passare davanti al Jacob Javits Federal Building. Voleva mostrare a Mike l'ingesso da cui entrare la mattina dopo. Poi svoltò a nord sulla Bowery, con l'intenzione di arrivare sulla Prima Avenue passando da Houston Street. «Io non vorrei starci troppo tempo», dichiarò Yuri. «Voglio soltanto indicarvi Jack Stapleton, scendere e lasciarvi fare quello che dovete fare.» Curt distolse lo sguardo dal traffico per fissare Yuri con aria interrogativa. «Dovremo vedere come andranno a finire le cose», replicò. «Questa operazione dovremo farla praticamente andando a orecchio.» «Che cosa significa?» Yuri si reggeva con tutte e due le mani. La guida
di Curt era molto aggressiva, soprattutto ora che avevano svoltato a nord sulla Prima Avenue. «Vuol dire che faremo le cose a mano a mano che procediamo», spiegò Curt. «Ma come mai tutta questa fretta? Credevo che volessi assistere all'intera missione.» «Ho un sacco di lavoro da fare per domani», spiegò Yuri. «Ah, giusto!» Nella parte posteriore del furgone stavano sorgendo nuove discussioni su come distribuirsi le armi. Curt lanciò un'occhiata nello specchietto e restò inorridito nel vedere i suoi uomini litigarsi i kalashnikov. «Mettete quei fucili in modo che non si vedano!» ordinò. «Cristo! Ci piomberanno addosso tutti i piedipiatti!» Tra borbottii vari, le armi vennero posate sul fondo del veicolo. Curt notò che Yuri lanciava occhiate ansiose ai ragazzi dietro. «Sono un po' eccitati», gli spiegò. «Adorano questo tipo di operazioni.» «A me sembrano più che un po' eccitati», osservò Yuri. Steve tirò fuori di tasca il biglietto da visita di Jack Stapleton. «Al 25 della Prima Avenue», disse. «Immagino che sia nelle vicinanze dell'ospedale.» Curt cominciò a rallentare mentre oltrepassavano il Bellevue Hospital sulla destra. «Ecco», disse Steve, indicando un edificio in mattoni azzurri smaltati. Curt accostò a sinistra, appena oltre la 30esima Strada, fermò e accese i lampeggiatori d'emergenza. Si trovavano sul lato opposto della strada, in diagonale, rispetto all'ingresso dell'obitorio sulla Prima Avenue. La gente usciva dall'edificio a gruppetti e si avviava a piedi o chiamava i taxi. Steve si affacciò in avanti tra i due sedili e rimase a fissare, assieme a Curt e a Yuri, le persone che uscivano. «Sembra che stiano staccando dal lavoro.» Dietro, i ragazzi ricominciarono a litigare per i kalashnikov e Curt dovette fare qualche urlaccio per zittirli. «Come facciamo a sapere che non è già uscito?» chiese Steve. «Potremmo restare qui per ore inutilmente.» «Sarà meglio che non sia uscito», replicò Curt, lanciando un'occhiataccia a Yuri. «Proviamo a telefonargli. Dammi il numero interno che ha scritto su quel biglietto da visita.» Mentre Steve estraeva di tasca il cartoncino, Curt prendeva il cellulare. Facendosi dettare il numero da Steve, lo digitò, poi si portò il telefonino
all'orecchio. Jack provò una grande soddisfazione nel mettere la firma conclusiva a un altro caso. Meravigliandosi perché non si era mai immerso così tanto nel lavoro burocratico dal giorno in cui era stato assunto, mise la cartelletta sulla pila traballante dei casi completati. Mente tirava via la mano, squillò il telefono. «Jack Stapleton», rispose come al solito. Invece di una voce, udì un rumore frusciante, come di una cascata in lontananza. Poi ci fu l'inconfondibile suono di un clacson. «Pronto, pronto!» ripeté più volte, alzando sempre più la voce. Sentì un «clic», seguito dal suono di libero, allora rimise giù il ricevitore, con una scrollata di spalle. «Che cosa c'è?» chiese Chet, senza sollevare la testa dalla scrivania. «E che ne so? Sentivo il rumore del traffico in sottofondo, ma chiunque abbia chiamato non ha detto una sola parola.» «Dev'essere stata una ex fidanzata che controllava se ci sei.» «Oh sì, certo», replicò Jack con tutto il sarcasmo di cui fu capace. Guardò la pila ormai esigua dei casi non finiti e si chiese se continuare o no la sua maratona. Poi squillò il telefono di Chet. «L'ex fidanzata aveva il numero sbagliato», commentò Jack, ridendo. Chet rispose e, nell'udire chi era, si mise a sedere più diritto. «Sì, sono ancora qui, dottor Simsarian», rispose abbastanza ad alta voce da essere sicuro che il suo compagna di stanza lo sentisse. Jack si voltò a guardarlo e i loro sguardi si incrociarono. Chet spalancò gli occhi per l'incredulità. «Davvero?!!» esclamò. «Anch'io sono sorpreso.» «Sorpreso di che cosa?» volle sapere Jack. Chet sollevò una mano verso di lui, mentre continuava a parlare nel ricevitore. «Grazie per aver chiamato, dottor Simsarian. È affascinante, e ci interessa molto sapere gli ulteriori sviluppi del caso. Riferirò di certo al dottor Stapleton il risultato delle analisi e gli trasmetterò la vostra gratitudine.» Chet riattaccò. «Non dirmi che i ratti erano positivi alla tossina del botulino!» esclamò Jack. «Indovinato! Era sbalordito. E lo sono anch'io. Che cosa ti ha fatto veni-
re in mente quell'idea, tanto per cominciare?» «Solo il fatto che era lo stesso quartiere.» «Connie Davidov deve aver mangiato un sorcio», scherzò Chet, con una risatina sinistra. Anche Jack rise, poi commentò che soltanto due medici legali potevano trovarci qualcosa da ridere in una simile idea. «Mi chiedo se un ratto infetto espella la tossina nelle feci», aggiunse Chet. «Questa è un'idea ancora più disgustosa», gli rispose Jack. «Suppongo che potremmo chiederlo agli epidemiologi veterinari. Più realisticamente, mi chiedo se Connie Davidov ha buttato via il resto del cibo contaminato che ha mangiato.» «Sì, ma abbastanza da ammazzare tutti quei ratti?» Chet era incredulo. «So che può sembrare esagerato, ma sai quanto può essere potente quella roba.» «Be', sarà interessante sapere se gli epidemiologi veterinari riusciranno a scoprirlo.» Jack si alzò e si stiracchiò. «Penso di averne avuto abbastanza per stasera. Ho bisogno di rilassarmi con una bella partita scatenata.» «Ci vediamo domani», lo salutò Chet. «Abbi cura di te», rispose Jack. Afferrò il bomber da dietro la porta e se lo infilò mentre già si avviava verso l'ascensore. Ricordando il clima favoloso che aveva reso tanto gradevole la sua pedalata fino a Brighton Beach, nel primo pomeriggio, non vedeva l'ora di fare un'altra rilassante corsa in bici. «Almeno sappiamo che c'è ancora», commentò Steve. «Vero», approvò Curt. «La questione adesso è: quando ha intenzione di venir fuori di lì? Non so per quanto tempo i ragazzi riusciranno a non venire alle mani.» Appena dopo che Curt aveva fatto la telefonata di controllo, Carl, Clark, Kevin e Mike si erano scatenati in un'altra lite accanita, che era quasi finita a pugni, per stabilire come distribuirsi le armi. Curt aveva dovuto raccoglierle e adesso stavano tutte sotto i piedi di Yuri. «È lui, sulla bicicletta!» gridò Yuri, indicando freneticamente la figura di Jack che svoltava l'angolo della 30esima Strada e affrontava la Prima Avenue. «Gesù, come va veloce!» esclamò Curt, togliendo il freno a mano e immettendosi nel traffico. Il conducente di un taxi a cui aveva tagliato la
strada si appoggiò di peso sul clacson. «Fammi scendere!» chiese Yuri. «Adesso no!» gridò Curt. «Non voglio perdermi quel bastardo.» Anche se il traffico era pesante si manteneva scorrevole. «Quel tipo va come un treno!» si lamentò Curt. Guidava in modo aggressivo, sapendo che era l'unico modo per stare alle costole di Jack. Non gli importava niente di strusciare altri veicoli o di farsi rovinare le fiancate o i paraurti. «Merda!» imprecò Steve mentre tagliavano la strada a un altro taxi e si sentiva un tonfo sordo, seguito da uno stridio metallico. Dietro, nel furgone, il frastuono dei tubi che si muovevano in qua e in là era tremendo. I ragazzi erano indaffarati a schivare non solo i tubi, ma anche la pioggia di dadi, bulloni e giunti idraulici che cadevano dagli scaffali lungo le due pareti interne del furgone. Le inevitabili buche nel selciato di New York rendevano la situazione disperata. «Yuri, spostati dal sedile e fa' venire al tuo posto Steve», urlò Curt, intanto che lottava con il volante. «Mentre andiamo?» chiese Yuri. Si stava reggendo talmente forte da avere le nocche bianche. «Certo, mentre andiamo.» Yuri deglutì con nervosismo e cercò di abbandonare il sedile. Steve si era spostato per lasciargli spazio, ma proprio in quel momento Curt vide la possibilità di inserirsi in un'altra corsia e sterzò all'improvviso. Il movimento gli spedì addosso Yuri. Curt reagì imprecando e dandogli un colpo con il braccio, mentre si sforzava di mantenere il controllo del veicolo. Yuri riuscì finalmente a spostarsi nella parte posteriore del furgone, e Steve si sedette al suo posto. Proprio davanti a sé vedeva la schiena di Jack. Il medico pedalava furiosamente tra un camion della birra che andava di gran carriera e un furgone della Federal Express. «Accidenti a lui!» gridò Curt, vedendo che Jack stava per intrufolarsi davanti ai due veicoli. Il suo furgone si trovava direttamente dietro il camion della birra. Premette sul clacson per la frustrazione. «Prendi una Glock!» ordinò a Steve. «Cercherò di mettermi di fianco al bastardo, così lo puoi inchiodare. Il problema è che devo trovare un modo per superare questo camion.» «Che cos'è 'sto tizio?» chiese Steve, mentre prendeva un'automatica e toglieva la sicura. «Un ciclista professionista? Va più in fretta del traffico!»
Sulla destra si delineò il palazzo delle Nazioni Unite. Curt cambiò corsia, e questo provocò un'altra cacofonia di grida e di clacson. Senza badarci, premette l'acceleratore a tavoletta e cominciò a sorpassare il camion della birra. Dovette rallentare un poco quando arrivò a pochi centimetri da un taxi, ma ormai aveva guadagnato abbastanza terreno da individuare Jack, che ora si trovava alla stessa altezza del furgone. Steve abbassò il finestrino. «Che cosa pensi di fare?» gli gridò Curt. «Potrei sparargli, ma non sono sicuro di riuscire a beccarlo», rispose Steve. «Sobbalziamo troppo.» «Taglierei la strada al camion, se questo fottuto taxi davanti a noi si decidesse a muovere il culo.» Il sorpasso del camion procedeva molto a rilento. «Aspetta!» gridò Curt, quando vide di avere un'opportunità. Sterzò tutto a destra. Il furgone slittò leggermente, prima di balzare in avanti, portandosi davanti al camion, e poi scartò nella direzione opposta. Il conducente del camion frenò di botto, facendo stridere i pneumatici, mentre Curt si dava da fare per evitare un testa-coda. Adesso erano finalmente di fianco a Jack. Prima che Steve potesse prendere la mira, Jack li colse di sorpresa, frenando all'improvviso e sparendo alla vista. «Che diavolo?» esclamò Curt, sollevando il piede dall'acceleratore. Il furgone rallentò. «Dove cazzo si è ficcato?» «Dietro di noi, credo», rispose Steve. Cacciò la testa fuori dal finestrino e guardò indietro. Qualche secondo dopo Jack ricomparve proprio accanto al finestrino di Curt e, con sua grande sorpresa, gli fece un gestaccio, sollevando il medio. Curt imprecò e si diede da fare ad abbassare il finestrino, in modo che Steve potesse sparare al bastardo. Steve si spostò tutto addosso a Curt, ma ormai Jack era scattato in avanti. «Aspetta!» gridò Curt e premette sull'acceleratore. Il furgone riprese la sua corsa, ma quando stavano per mettersi per la seconda volta di fianco a Jack, lui si lanciò a sinistra in una corsia più libera. Curt imprecò e fece per spostarsi anche lui a sinistra, ma la corsia era occupata. Ci fu un altro tonfo, mentre un taxi colpiva la fiancata del furgone. Nello specchietto Curt vide il taxi slittare e mettersi perpendicolare rispetto al traffico. All'istante ci fu una tremenda collisione e diversi veicoli si ammonticchiarono
gli uni contro gli altri. «Cristo!» esclamò Steve. Anche lui aveva visto che cosa era accaduto, nello specchietto esterno. «Tenetevi pronti, tutti quanti, sta andando di nuovo a sinistra», avvertì Curt. Appena cambiò corsia anche lui, Jack descrisse un'ampia curva svoltando nella 51esima Strada in direzione ovest. «Dio lo stramaledica!» urlò Curt, mentre premeva sul freno e sterzava tutto a sinistra per cercare di seguirlo. Il furgone traballò nello slittare di lato, prima che le ruote facessero presa. Strusciò contro un'auto parcheggiata a destra, e poi contro una a sinistra, prima che Curt riprendesse del tutto il controllo. In lontananza si vedeva Jack che continuava a pedalare metodicamente. «Ma non si stanca?» chiese Curt. Premette di nuovo sull'acceleratore e il furgone sobbalzò, nel proiettarsi in avanti. Alla Seconda Avenue trovarono il semaforo rosso, ma lui non si lasciò intimidire e andò avanti lo stesso, tra i colpi di clacson e le imprecazioni degli altri autisti. Steve si abbassò sul sedile, dato che era lui quello esposto ai veicoli che stavano arrivando. «Vacci tu!» gridò Curt a un automobilista particolarmente adirato. Nonostante avesse attraversato con il rosso, era riuscito ad arrivare alla Seconda Avenue e aveva accelerato di nuovo. Jack era già arrivato alla Terza Avenue e aspettava che il semaforo diventasse verde. «Adesso lo abbiamo», ringhiò Curt. Al verde, Jack scattò in avanti. Curt premette l'acceleratore a tavoletta, superando gli ottanta chilometri all'ora. Era deciso ad arrivare prima che tornasse il rosso. Aveva la bocca secca, poiché sapeva che ci mancava poco. Pregò che dalla Terza Avenue non sbucasse all'improvviso qualche taxi in anticipo sul verde. Attraversarono senza incidenti. Jack era a soli pochi isolati, ormai, ma mentre abbreviavano le distanze, un'auto sbucò da un parcheggio e Curt fu costretto a frenare. Arrivò a pochi centimetri dalla macchina e premette sul clacson. L'automobilista lo ignorò. Intanto Jack li stava lasciando indietro, e già attraversava Lexington Avenue. «Non ci credo!» urlò Curt. Premette sul freno e intanto diede una botta sul volante con il polso, frustrato. L'auto davanti a lui si era fermata con il giallo. «Abbiamo proprio fortuna a trovarci dietro all'unico guidatore di New York che si ferma al giallo!» Si passò nervosamente una mano fra i capelli. «Suppongo che potrei spingerlo via.»
«Ma guarda il traffico», lo avvertì Steve. Le macchine sembravano incollate le une alle altre e procedevano lentamente su Lexington Avenue. «Non avremmo dove andare, quindi non ti preoccupare. Lo raggiungeremo al prossimo isolato.» Curt grugnì e non disse niente. «Fatemi scendere!» gridò Yuri, appena si rese conto che erano fermi. Si trascinò in avanti, fra i due sedili. Steve guardò Curt, che alzò le spalle e poi annuì, allora aprì la portiera e scese. Yuri si calò anche lui giù dal veicolo, con le gambe tremanti, e restò a guardare Steve che risaliva al suo posto. «Ci vediamo stasera», gridò Curt. «Attorno alle undici.» «Sarò pronto», promise Yuri, con la voce roca. Tornò il verde e Curt suonò il clacson. L'auto davanti svoltò lentamente a sinistra. Impaziente, Curt partì a tutta birra prima che l'altro avesse sgombrato del tutto l'incrocio. Il furgone colpì il paraurti dell'auto e il guidatore saltò fuori per protestare. «Gli sta bene», commentò Curt con un ghigno, mentre schizzava via verso ovest. In lontananza Jack stava attraversando Park Avenue. Mentre Curt accelerava, Steve si irrigidì; non aveva idea di che cosa sarebbe successo all'incrocio, ma sapeva per intuito che non ce l'avrebbero fatta ad arrivare con il verde. Per fortuna il semaforo divenne giallo e poi rosso abbastanza presto perché Curt fosse costretto a fermarsi. Il traffico diretto verso la zona residenziale si muoveva rapidamente e questa volta proveniva dalla parte di Curt, che era quindi riluttante ad attraversare con il rosso, come aveva fatto all'incrocio con la Seconda Avenue. Mente aspettavano, videro in lontananza Jack svoltare in Madison Avenue. «Se lo perdiamo, mi incazzerò alla grande», borbottò Curt. «Scommetto che sta andando verso il parco», disse Steve. «Probabilmente vive nell'Upper West Side.» «Potresti aver ragione. E che cosa facciamo se entra davvero nel parco?» «Lo seguiamo! Ammesso che vediamo dove entra. Possiamo far rubare una bici ai ragazzi. Il parco è sempre pieno di bici.» Steve si girò per guardare dietro. La corsa sfrenata aveva calmato i bollori della truppa. «Chi è abbastanza in forma per pedalare?» domandò. Tutti indicarono Kevin. «È vero, Kevin?» chiese Steve. «Immagino di sì. Sono piuttosto in forma.»
Tornò il verde e Curt si precipitò in avanti. Steve si voltò e si aggrappò dove gli capitò. All'incrocio con la Madison trovarono verde e Curt svoltò rapidamente. I pezzi di tubo rotolarono tutti da una parte, tra le imprecazioni dei ragazzi. Curt dovette fermarsi dietro la coda dei veicoli in attesa al semaforo delle 52esima Strada. «Mi sembra di vederlo al prossimo semaforo», disse Steve. «Credo che tu abbia ragione», confermò Curt. «Tra l'autobus e l'autocisterna. Cristo, quel tipo è spericolato!» Al verde ripartì. «Che cosa devo fare?» chiese disperato. «Con questo tipo di traffico non riusciremo a raggiungerlo sulla Madison Avenue.» «Abbiamo il suo numero di casa», gli rammentò Steve. «Magari dovremmo aspettare e chiamarlo a casa e cercare di farci dare l'indirizzo. Uno di noi potrebbe dire di essere Yuri Davidov. Diavolo, può darsi che venga a incontrarci.» «È un'idea. Ma adesso che cosa pensi che dovremmo fare?» «Andiamo all'angolo tra la Quinta Avenue e Central Park South», suggerì Steve. «Se entra nel parco, entrerà di lì.» «Be', è un'idea buona come un'altra.» Curt non ne era entusiasta. Si diressero a nord il più rapidamente possibile, traffico permettendo. Per lo meno trovarono tutti i semafori verdi, ma sapevano che era la stessa cosa anche per Jack. Mentre attraversavano la 57esima Strada, Steve lo vide dirigersi verso ovest, ma troppo tardi per avvertire Curt di svoltare. «Merda!» esclamò Curt. «Va bene lo stesso», cercò di tranquillizzarlo l'amico. «Continuiamo ad andare avanti così e proviamo a intercettarlo tra la Quinta e Central Park West.» La prima strada dove riuscirono a svoltare a sinistra fu la 60esima, e andava bene anche quella. Li portò sul lato settentrionale della Grand Army Plaza, dove costeggiava il parco. Curt attraversò la Quinta Avenue e accostò di lato, andandosi a fermare davanti alle transenne di legno della polizia che bloccavano il traffico automobilistico, riservando i vialetti del parco a pedoni e ciclisti. «Be', ci sono abbastanza bici a disposizione, se ne avremo bisogno», osservò Steve, cercando di avere un tono ottimistico. I ciclisti andavano e venivano, tra frotte di persone che facevano jogging o andavano sui pattini. «E la cosa fantastica è che non si vedono sbirri in giro.»
Curt stava guardando indietro, oltre la statua equestre del generale Sherman, verso la fontana Pulitzer che si trovava davanti al Plaza Hotel. Quella zona era affollata da una confusione di pedoni, auto, autobus e carrozzelle. «È impossibile, cazzo!» si lamentò Curt. «Lo sapevo che una volta perso di vista sarebbe stato come cercare il proverbiale ago nel pagliaio.» «Se lo seguo con una bici, che cosa faccio se lo raggiungo?» domandò Kevin. «Ci vorrebbe troppa fortuna a raggiungerlo!» ribatté Curt. «Quel tipo è un professionista.» «Potrebbe fermarsi», osservò Steve. «Non si sa mai.» «È vero», ammise Curt. «Allora dà a Kevin una Glock. Ma, cosa più importante, dagli il tuo telefonino, così può restare in contatto con noi.» Steve si girò e porse telefonino e pistola a Kevin, che se li mise in tasca con entusiasmo. «Volete che adesso esca e mi pigli una bici?» «No!» tuonò Curt. «Non faremo niente a meno che non vedremo il bastardo. In realtà penso che dovremo ripiegare sul piano B. Più penso all'idea di telefonargli e dirgli che siamo Yuri, meglio mi sembra.» «Cazzo, eccolo!» gridò Steve, indicando tutto eccitato un ciclista che era appena passato accanto a loro, a non più di tre metri di distanza. «Hai ragione!» esclamò Curt. «Kevin, a te!» Kevin si arrampicò fra i sedili davanti e scese dalla portiera che Steve gli aveva aperto. Senza un attimo di esitazione si mise a correre, mentre Steve risaliva sul furgone. Curt e Steve lo guardarono superare con un agile volteggio le transenne della polizia, nonostante i pesanti scarponi Doc Marten, e correre direttamente verso un ciclista che si era fermato a una fontana. L'uomo stava ancora sulla bici, con un piede sul pedale, ma era tutto piegato da un lato per bere. Aveva tutte le attrezzature da ciclista, compreso casco, calzamaglia e guanti imbottiti. Kevin non ci pensò due volte. Senza dire una parola, impugnò il manubrio con entrambe le mani e strappò via la bici da sotto le gambe del proprietario. Vi era già montato sopra e stava per dare la prima pedalata, quando quello, ripresosi dalla sorpresa, riuscì ad afferrare il manubrio, anche se da una parte soltanto. Kevin reagì stringendo la destra e sferrando un colpo che lasciò l'altro tramortito. «Accidenti, quello sì che era un pugno!» Steve era davvero ammirato.
Nonostante l'andirivieni di persone, l'incidente era accaduto con una tale rapidità che erano stati pochissimi ad accorgersene. Qualcuno andò in soccorso del ciclista steso a terra, ma nessuno provò a inseguire Kevin, che pedalava furiosamente alla rincorsa di Jack. Anche se il sole era già tramontato, era ancora chiaro e questo gli permetteva di tenere d'occhio la sua preda. «Almeno questa è andata liscia», commentò Steve. «Che cosa pensi che dobbiamo fare adesso? Restare qui?» Curt si guardò intorno, come se si aspettasse che la risposta gli venisse dall'ambiente circostante. Dopo averci pensato qualche momento, scosse la testa. «No, credo che dovremmo portarci a Central Park West. Se Stapleton vive nell'Upper West Side, è di lì che uscirà.» Mise in moto e si diresse con andatura moderata verso l'uscita ovest del Central Park. Intanto estrasse di tasca il cellulare, si assicurò che fosse acceso e lo posò sul cruscotto. 20 Mercoledì 20 ottobre, ore 18.30 Jack raddrizzò la schiena e tolse le mani dal manubrio, continuando a pedalare sul sentiero cosparso di foglie morte. Davanti a lui aveva Central Park West, con l'uscita sulla 106esima Strada. Si era proprio goduto la pedalata verso casa. Il tempo era stupendo, come si era immaginato. La corsa lungo la Prima Avenue aveva avuto la sua parte di difficoltà, ma era stata lo stesso molto stimolante. Il giro serale attorno alla fontana Pulitzer lo aveva talmente ispirato da spingerlo a fermarsi ad ammirare la splendida statua nuda dell'Abbondanza nella luce incerta del crepuscolo. Ma, come al solito, la parte migliore era stata l'attraversata del parco. Appena si era liberato dall'assembramento di persone vicino all'entrata, si era lanciato in piena velocità. Gli era sembrato di essere in un sogno, dove volava. Al semaforo aspettò il verde, prima di attraversare l'arteria molto trafficata e imboccare la sua strada. Adesso si trovava nella fase più calma della corsa e pedalava rapidamente con una marcia bassa, quasi senza resistenza. Si fermò al recinto del campo di basket. Come aveva sperato, era in corso una partita. Ancora una volta, Warren e Flash giocavano in squadre avversarie.
«Ehi, Doc, hai intenzione di giocare o no?» lo chiamò Warren a squarciagola. «Vieni qui, dai!» «Farai meglio a essere in forma», replicò Jack, gridando a sua volta. «Perché stasera ti darò del filo da torcere!» «Oh oh!» commentò Spit. Era uno dei giocatori più giovani, ma era diventato un protégé di Warren. «Doc minaccia di fare qualche visita a domicilio.» Il gruppo stuzzicava Jack, chiamando le sue mosse migliori «visite a domicilio». «Stasera ce ne saranno tante, di visite a domicilio», replicò lui. Si staccò dalla rete e attraversò la strada. Non vedeva l'ora di essere sul campo da gioco. Giunto sotto casa sua, esitò qualche momento, chiedendosi se andare da Laurie con un taxi, più tardi, oppure prendere la bici. Avrebbe preferito pedalare, ma voleva far contenta Laurie. Mentre stava lì incerto, si accorse che dal parco ormai quasi buio era uscito un altro ciclista. Lo aveva notato perché sembrava barcollare, come se fosse esausto, o ferito. Jack lo osservò per un momento, per assicurarsi che non avesse bisogno di aiuto, ma fu subito evidente che non stava poi tanto male, infatti estrasse di tasca un telefonino, mentre premeva il bottone del semaforo per far scattare il verde. Avendo deciso di passare a prendere Laurie con il taxi, Jack si caricò l'amata bici in spalla ed entrò nel portone del caseggiato. Per la fretta, salì i gradini due alla volta. Aprì la porta del suo appartamento, portò dentro la bicicletta e l'appoggiò alla parete. Senza nemmeno concedersi il tempo di chiudere la porta, corse in camera da letto, spogliandosi strada facendo. Si innervosì perché gli occorsero almeno cinque minuti per trovare gli indumenti da basket, dopo di che si rivestì in fretta. I tocchi finali erano dati da una banda Nike blu scuro, per la fronte, e da una vecchia felpa con il cappuccio. Poi corse in cucina a bere un po' d'acqua. In quel momento squillò il telefono. Jack si chiese se rispondere o no. La prima idea fu di lasciare che partisse la segreteria telefonica, ma poi ricordò che a casa riceveva pochissime telefonate, tranne che da Laurie. Pensando che potesse essere lei, staccò il ricevitore. «Pronto», disse in modo sbrigativo, ma non ci fu risposta. Ripeté «pronto» diverse volte, ma udì soltanto lo stesso rumore che aveva sentito poco prima in ufficio: una specie di fruscio come di acqua corrente e un lontano colpo di clacson. Irritato, riattaccò.
Aveva fatto solo qualche passo, quando il telefono squillò di nuovo. Pensando che forse c'era qualche problema tecnico, tornò indietro e rispose. Fu contento di averlo fatto, perché era Laurie. «Hai provato a chiamarmi appena qualche secondo fa?» le chiese. «No. Perché, ti ha squillato il telefono?» «Non è importante», liquidò la cosa Jack. «Che cosa c'è? Sto per andare a giocare a pallacanestro.» «Non voglio certo provare a convincerti di non andarci», lo stuzzicò Laurie. «Volevo solo avvertirti che stasera saremo soltanto tu e io. Lou non ce la fa a venire.» «Peggio per lui, meglio per me», commentò Jack. «Adulatore!» scherzò Laurie. «Comunque, si è offerto di chiamare lui il ristorante dove volevamo andare. Così sono sicura che ci tratteranno bene. Lo adorano.» «L'idea mi piace. E dimmi: Paul ti ha tampinato?» «Non l'ho più sentito, da quando se n'è andato dal mio ufficio.» «Bene.» «Ci vediamo alle otto.» «Potrei essere un po' in ritardo. Come ti dicevo, sto andando al campo di basket soltanto adesso. Ma farò una sola partita, e ti chiamerò prima di venir via.» «Allora ci vediamo», lo salutò Laurie. «E ricorda: niente bici!» «Agli ordini!» rispose Jack, e riattaccò. Corse al guardaroba a cercare, tra le varie cianfrusaglie sparse a terra, le sue «suole», come Warren chiamava le scarpe da ginnastica. Impaziente di infilarsele, non si diede nemmeno la pena di allacciarle prima di correre fuori dalla porta. Stava per richiuderla e girare la chiave, quando udì chiamare forte il proprio nome dal fondo delle scale. Non riconoscendo la voce, si affacciò oltre la balaustra per dare un'occhiata. Dal corridoio del piano terreno tre uomini stavano guardando in su e quando lo videro cominciarono immediatamente a salire. Andavano di corsa, con gli scarponi che sbattevano con fracasso sui gradini privi di rivestimento. Quello che stava davanti era un pompiere biondo con l'uniforme azzurra. Jack tirò indietro la testa e annusò per sentire se ci fosse puzza di fumo. Annusò di nuovo, volgendo la testa verso il suo appartamento, ma non sentì nulla. Quando guardò di nuovo giù per le scale, l'uomo che guidava il terzetto era già sull'ultima rampa che portava al piano di Jack. Ma invece di portare un'ascia da pompiere o qualche altro attrezzo appropriato, impu-
gnava una pistola. Jack indietreggiò nel vano della porta, completamente confuso. Gli altri due indossavano giubbotti di pelle nera, non uniformi da pompiere, e avevano la testa rasata. Poi si accorse che quello che stava dietro agli altri due imbracciava un fucile mitragliatore! Curt si fermò a due metri da Jack e corrugò la fronte. «Sei Jack Stapleton, vero?» chiese, scrutandolo dalla testa ai piedi. «No, lui vi... vive al piano di sopra», rispose Jack balbettando, poi indietreggiò e fece per chiudere la porta. Curt si fece rapidamente avanti e la bloccò mettendo dentro un piede, poi la spinse, riuscendo ad aprirla, ed entrò. Jack indietreggiò. I due skinhead avanzarono anche loro. Quello con il fucile aveva una svastica tatuata sulla fronte. Curt abbracciò rapidamente con lo sguardo la stanza spartana, poi fissò di nuovo Jack e lo esaminò, un po' confuso. «Io penso che tu sia Jack Stapleton.» «No, io sono Billy Rubin», rispose Jack, pronunciando il primo nome che gli era venuto in mente. «Jack vive proprio qua sopra», aggiunse, indicando il soffitto. «Capitano, c'è una bici appoggiata al muro», disse Mike. «Già, l'ho vista», rispose Curt, senza togliere gli occhi di dosso a Jack. «Ma questo non ha l'aria di essere l'appartamento di un medico, e non sono nemmeno sicuro al cento per cento dell'abbigliamento. Da' un'occhiata in giro se trovi una busta o qualcosa con sopra il nome di questo qua.» «Sarò felice di trasmettere a Jack un vostro messaggio», disse Jack, mentre guardava la pistola nelle mani di Curt e il fucile mitragliatore in quelle di Carl. «Grazie, furbone», sbottò Carl. «Sta' lì fermo e abbi pazienza per un secondo.» Jack pensò rapidamente se fosse il caso di rischiare, correndo in camera da letto e buttandosi dalla finestra, ma liquidò l'idea come poco pratica, dato che stava al quarto piano. Sarebbe solo rimasto appeso alla scala antincendio. «Perché lo cercate?» domandò. «Ha degli affari con l'Esercito Ariano del Popolo», rispose Curt. «Degli affari seri.» «Sono sicuro che Jack non è coinvolto con nessun esercito. È uno contro la guerra e la violenza.»
«Zitto!» gli intimò Curt. «Ho trovato qualcosa», gridò Mike, oltre la porta della camera da letto. Aveva raccolto i pantaloni di Jack e stava tirando fuori il portafogli dalla tasca posteriore. Lo aprì ed emise un fischio, vedendo il distintivo da medico legale, che mostrò subito a Curt. «Controlla il nome, Cristo!» sbottò Curt. «Magari dovremmo discutere questa faccenda a cui vi riferite», provò a proporre Jack. «Non c'è niente da discutere», tagliò corto Curt. «Ah, ecco qua la patente», annunciò Mike. «E il nome è proprio Jack Stapleton.» «Jack usa spesso il mio appartamento per cambiarsi.» All'improvviso si udì di nuovo lo scalpiccio di pesanti scarponi su per le scale e nel corridoio esterno. La voce di Steve gridò: «Fermo, Curt, c'è stato un malinteso!» Curt aggrottò la fronte. Guardò un attimo verso la porta spalancata, ma poi riportò immediatamente lo sguardo su Jack. Qualche secondo dopo entrarono incespicando nella stanza Steve, Kevin e Clark, seguiti immediatamente da tre figure che balzarono dentro anche loro, si disposero lungo la parete di fondo e gridarono di restare tutti fermi. Curt girò su stesso e si ritrovò a fissare le canne di tre pistole mitragliatrici Tec. «Non pensarci nemmeno!» lo avvertì Warren, puntando l'arma direttamente contro di lui. Per un interminabile momento nessuno si mosse o respirò. «Va bene, Spit», ordinò Warren, «prendi la pistola e il fucile.» Spit avanzò, impugnando la Tec con la destra, e prese prima la pistola, che si mise in tasca, e poi il fucile. Quindi fece due passi indietro. «Adesso voglio che voi bellimbusti vi mettiate con la faccia contro il muro», ordinò Warren, e per rendere più incisive le sue parole agitò la pistola mitragliatrice. Ci fu un momento di ritardo, mentre sul viso di Curt si allargava un ghigno. «Ehi, o fai come ti dico o la storia finisce qua», lo avvertì Warren. «Lo sai che cosa intendo, vero?» «Mi spiace, capitano», si scusò Steve, «ma sono saltati fuori dal nulla.» «Zitto», urlò Warren, «non stiamo a una sessione di rap, qui.» Con arroganza, Curt si avvicinò alla parete, tenendo le mani sui fianchi.
«Spit, tastali.» Spit depose le armi che aveva in mano e si avvicinò a ognuno degli uomini contro il muro per cercare eventuali armi nascoste. Non trovò niente e si allontanò. «Va bene, voltatevi.» L'ordine proveniva ancora da Warren. Gli uomini obbedirono. Tranne Steve, che era evidentemente terrorizzato, tutti gli altri assunsero un'espressione sfacciatamente annoiata. «Non lo so da dove venite, spazzatura bianca, e non me ne importa un cazzo», dichiarò Warren. «Il punto è che non appartenete a questa zona. Adesso ho intenzione di tenermi tutte le armi che avete portato qui, ma è tutto. Nessuno farà fuori nessun altro.» «Scusa, Warren», intervenne Jack. «Penso che dovremmo chiamare la polizia.» «Zitto!» sbottò Warren con la stessa acredine mostrata qualche attimo prima nei confronti di Steve. Jack alzò le spalle e fece un passo indietro. Conosceva Warren abbastanza bene da capire quando era incazzato, e lo era sul serio. «Adesso sapete che cosa voglio? Muovete i vostri culetti bianchi, risalite nella carretta e sparite», intimò Warren. «E credetemi, se anche uno solo di voi si rifa vivo in questa zona, faremo sul serio. Voi ve ne andate, senza fare domande, e noi vi stiamo a guardare. Avete sentito bene che cosa sto dicendo?» «Warren», provò di nuovo Jack, «io...» Warren girò rapidamente su se stesso e gli puntò l'indice contro il viso. «Ti ho detto di chiudere il becco!» ringhiò. Jack fece un altro passo indietro. Non aveva mai visto Warren mostrare tanta rabbia. «Flash», disse Warren, con voce normale, «tu e Spit portate giù questi fiordilatte e badate che lascino la zona. Io devo fare due chiacchiere con Doc per qualche minuto.» Mentre il gruppo usciva in silenzio, Warren si voltò verso Jack e lo guardò torvo. Lui si sentiva sulle spine. Non sapeva che cosa l'altro si aspettava che dicesse. Con la Tec sempre stretta nella sinistra, Warren usò la destra per dargli una serie di rabbiosi spintoni, facendolo indietreggiare progressivamente, fino a che un ultimo colpo, più forte degli altri, lo mandò ad accasciarsi sul divano. Warren incombeva sopra di lui. «Che cosa c'è che non va, Doc?» gli chiese. «Sono due anni che non
provochi guai di questo tipo, qua attorno. Pensavo che fossi rinsavito, ma stasera succeda 'sta cosa. Te lo dico io, sei una seccatura in questo quartiere. Capisci che cosa intendo?» «Mi spiace», mormorò Jack. «Sai che bello, se qualche ragazzo si becca una pallottola per colpa tua? Che cosa volevano da te quei pezzenti bianchi? Voglio dire, quei tipi andavano in giro con dei kalashnikov. Merda! Se cominciavano a spruzzare in giro pallottole con quei cosi, avrebbe potuto farsi male un sacco di gente.» «Erano kalashnikov, quelli?» domandò Jack, sorpreso. «Che cosa pensi, che me lo sto inventando?» «Dove li hanno fabbricati?» «Ma che domanda è, Doc? Che differenza fa?» «Potrebbe fare differenza, se fossero bulgari», insisté Jack. Warren lo guardò torvo per un po', prima di avvicinarsi al mucchio di armi lasciate per terra da Spit. Prese il kalashnikov e tornò verso Jack. «Be', hai ragione», ammise controvoglia. «Sono bulgari. Che cosa significa?» «Non posso esserne sicuro, ma penso che possa avere qualcosa a che fare con il nuovo boyfriend di Laurie.» «Questo non mi suona bene. Tu e Laurie vi siete lasciati?» «Non esattamente. E penso che questo nuovo boyfriend sia già con i piedi fuori dalla porta, ma lascia che ti spieghi.» Jack raccontò a Warren di Paul Sutherland, e di come quel pomeriggio lui lo avesse probabilmente umiliato. Gli riferì che Paul lo aveva indirettamente minacciato e anche che Laurie temeva un suo coinvolgimento nel traffico dei kalashnikov bulgari. La collera di Warren si placò a mano a mano che si dipanava la storia. «Suppongo che non potevi prevedere che quei tipi venissero quassù.» «No, certo. Non so nemmeno come hanno fatto ad avere il mio indirizzo.» «Quel tipo di bianchi mi fa paura», ammise Warren. «Fanno paura anche a me. Il tizio biondo con l'uniforme da pompiere ha accennato a un gruppo armato chiamato Esercito Ariano del Popolo. Ne ho sentito parlare lunedì scorso da un agente dell'FBI che sta cercando di sapere qualcosa al riguardo. Tu non li hai mai sentiti nominare?» «Mai.» «Il che mi porta a chiederti perché li hai lasciati andare. Io li avrei con-
segnati alla polizia in un battibaleno. Alla polizia e magari anche all'FBI sarebbe piaciuto mettere le mani su di loro.» «Sei scioccato perché tu vivi in un altro mondo, anche se stai in questo appartamento», commentò Warren. «Non capisci niente delle gang. Quando li ho lasciati andare, io pensavo a questo quartiere, non ai piani della polizia o dell'FBI. È lo stesso motivo per cui non voglio che nessuno di loro si faccia male. Non perché ci tengo a loro! Cazzo, no! È perché darebbe inizio a qualcosa. Tornerebbero. E so per esperienza che invece in questo modo non torneranno. Una specie di vivi e lascia vivere.» «Dovrò inchinarmi alla tua esperienza, su questo argomento», riconobbe Jack. «Temo che non avevi scelta.» Warren inspirò a fondo e poi espirò lentamente. «Che ne dici di qualche salto? Ne hai ancora voglia?» «Credo di averne più bisogno che mai», rispose Jack, e si alzò. Sentì di avere le gambe malferme. «Non prometto grandi prestazioni. Mi sento in preda allo choc da bombardamento, anche se non c'è stato nessun bombardamento.» Warren lo precedette nel corridoio, portando le armi. Lui chiuse a chiave la porta e lo raggiunse. «Grazie per esserci stato quando ne avevo bisogno», gli disse. «Dato che lo hai già fatto in un'altra occasione, credo che la prossima volta sarà il mio turno.» Warren rise suo malgrado. «Sì, il giorno del mai!» Jack suonò il campanello di Laurie e si voltò a salutare Debra Engler sventolando la mano. La vicina impicciona rispose sbattendo la porta, il che era un'impresa, visto che l'aveva aperta solo due dita. Giratosi di nuovo verso l'appartamento di Laurie, udì il leggero clic dello spioncino, al che agitò la mano. Poi sentì che venivano aperte tutte le serrature. Laurie era di umore molto allegro, nonostante la penosa scena con Paul. Accolse Jack con un abbraccio entusiasta, prima di scomparire in camera da letto per mettersi l'orologio e i gioielli. Tom-2 si strofinò affettuosamente contro una gamba di Jack, che ricambiò chinandosi ad accarezzarlo. «Spero che sia venuto con un taxi, come promesso», udì la voce di Laurie dall'altra stanza. «No.» Da dietro uno stipite comparve la testa fulva, e si dovette sorbire uno sguardo accusatore. «Ma avevi promesso!»
«Mi ha portato Warren. E spero che non ti spiaccia. L'ho invitato a cena con noi.» «Certo che non mi spiace. Viene anche Natalie?» «No, solo Warren. Anzi, per essere onesti, di fatto si è invitato da solo. Vedi, oggi pomeriggio mi è capitato un inconveniente piuttosto curioso, dopo che ho parlato al telefono con te.» «Che cosa è successo?» chiese Laurie, uscendo dalla camera da letto. La sua voce esprimeva una sincera preoccupazione. Conoscendo Jack, intuiva che, qualsiasi cosa gli fosse accaduto, era molto più di un inconveniente. «Per usare il gergo di Warren, a momenti mi facevano fuori quelli dell'Esercito Ariano del Popolo.» Laurie restò a bocca aperta. «Di che diavolo stai parlando?» Jack le fece un rapido riassunto degli avvenimenti che si erano svolti nel suo appartamento. Quando descrisse le armi, e il tempestivo arrivo di Warren, lei si portò una mano alla bocca. «Mio Dio!» esclamò. «Che cosa, in nome del cielo, può aver provocato una simile imboscata? Voglio dire, sono stata io a fare l'autopsia a Brad Cassidy, se è questo che c'entra. È l'unico collegamento che conosco con l'Esercito Ariano del Popolo.» «Non credo che abbia niente a che fare con Brad Cassidy. Non è possibile, perché io non ho avuto niente a che fare con lui. Per dirti la verità, penso che ci sia una minima possibilità che c'entri Paul Sutherland.» Laurie impallidì. Inspirò come se stesse per annegare e sollevò di nuovo le mani a coprire la bocca, in un gesto di orrore. «Aspetta!» l'avvertì Jack. «Non ci sono prove. È soltanto l'unica cosa che mi è venuta in mente lì per lì, e da allora non mi sono venute altre idee. E credimi, ci ho pensato tantissimo, da quando mi è successo. L'unico motivo per cui te lo dico è che dovresti saperlo, anche se c'è solo un brandello di possibilità che sia vero.» «Dimmi perché è capitato a te!» Jack descrisse i kalashnikov bulgari confiscati da Warren ai suoi assalitori. Poi le rammentò la minaccia nemmeno tanto velata fattagli da Paul quel pomeriggio. Quando finì, si strinse nelle spalle. «Lo so che è estremamente vago, ma tant'è!» Laurie si accasciò nella poltrona liberty e abbassò la testa, appoggiandola sulle mani. «Ehi!» Jack le mise una mano sulla spalla. «Devi tenere a mente che è solo una congettura.»
«Sarà, ma ha senso.» Scosse la testa. «Come può essere così tumultuosa la vita sociale di qualcuno?» «Forza!» la spronò Jack, e le diede una serie di rassicuranti pacche sulla schiena. «Non lasciare che questo episodio ci abbatta. Usciamo e godiamocela.» «Sei sicuro che vuoi ancora uscire, dopo una simile esperienza?» «Certissimamente! Dai! Non dobbiamo far aspettare Warren e Spit.» «Dove sono?» «Giù nelle loro macchine. Warren ha insistito per venire e portarsi un rinforzo, nel caso si rifacciano vivi i membri dell'Esercito Ariano del Popolo.» Laurie balzò in piedi. «Avresti dovuto dirmi che Warren stava aspettando!» E corse di nuovo in camera da letto. «Te l'avevo detto che mi ha portato lui», replicò Jack, rivolto alla porta della stanza, poi si chinò ad accarezzare di nuovo il gatto. «Chi è Spit?» domandò Laurie. «O non dovrei chiederlo?» «È uno degli habitué del campo di basket», spiegò Jack, continuando a parlare a voce alta. «Warren è il suo mentore e si fida molto di lui.» «Come mai ha un soprannome così orrendo?» «Viene da una delle sue caratteristiche meno allettanti.» Quando Laurie fu pronta, scesero in ascensore al pianoterreno e uscirono dall'edificio. Trovarono Warren e Spit proprio davanti all'ingresso. Laurie e Warren si scambiarono un abbraccio prolungato, dato che non si vedevano da mesi. «Hai uno splendido aspetto, donna», commentò Warren, dando a Laurie una rapida occhiata. «Anche tu non sei niente male, uomo», replicò lei, sottolineando la parola «uomo». Warren rise e le presentò Spit, che si comportò come se fosse imbarazzato. Era la prima volta che Jack lo vedeva così. Si era perfino girato il berretto da basket in modo che avesse la visiera sul davanti, e anche quella era una cosa che Jack non gli aveva mai visto fare. «Allora, dov'è 'sto ristorante?» domandò Warren. «Io sono pronto per una bella abbuffata.» «Venite, vi indico io la strada», propose Laurie. Il tragitto fino al ristorante filò liscio, senza incidenti. Su insistenza di Warren, Jack e Laurie salirono in macchina con lui, mentre Spit faceva da retroguardia con la propria auto. All'inizio parlarono di ciò che era accadu-
to a casa di Jack, ma poi, per mutuo consenso, preferirono passare ad argomenti più divertenti. A Laurie, in particolare, interessava avere notizie di Natalie Adams, la «sfinzia» di Warren, e fu contenta nel sentire che i due andavano d'amore e d'accordo. Parcheggiare a Little Italy era sempre problematico, tranne per Warren. Con il suo bidone senza fondo, si accaparrò lo spazio davanti a un idrante e Spit si mise in doppia fila, perché tanto non sarebbe entrato nel ristorante. Come diceva Warren, sarebbe solo rimasto «lì attorno». Jack restò incantato nell'attimo stesso in cui entrarono. Non solo fu attratto dal ricco aroma di erbe e spezie, ma gli piacque l'arredamento un po' kitsch, con i pannelli di velluto nero su cui erano dipinti paesaggi di Venezia, le finte pergole da cui pendevano grappoli d'uva e viticci di plastica, e le tovaglie con i quadretti bianchi e rossi di prammatica. Gli piacque anche il banale fiasco di Chianti, con la candela infilata nel collo, che ornava ogni tavolo. «Spero che abbiamo una prenotazione», commentò Warren, guardandosi intorno per il locale affollato. In quello spazio ristretto c'era una trentina di tavoli stretti uno all'altro, e tutti sembravano occupati. «Avrebbe dovuto telefonare Lou», rispose Laurie, e cercò di attirare l'attenzione di un cameriere, ma erano tutti occupatissimi. Avrebbe voluto chiedere della signora Maria, la padrona, e invece fu la signora Maria a trovare lei. La strinse in un abbraccio da mamma orsa e, quando Laurie riuscì a presentarle Jack e Warren, riservò anche a loro lo stesso trattamento, entusiasta. «Peccato che Lou non possa venire», commentò.«Lavora troppo. I delinquenti non lo meritano.» Con grande sorpresa di Jack e di Warren, sembrò comparire dal nulla un tavolo libero. Dopo qualche minuto erano seduti tutti e tre. «Vi piace questo posto?» domandò Laurie a Jack e a Warren. Entrambi annuirono. Lei sfregò le mani con impazienza. «Facciamo portare il vino. Penso di averne bisogno.» La cena fu un grande successo. Il cibo era meraviglioso e la conversazione interessante. Fra le altre cose, i tre amici rammentarono il viaggio in Africa che avevano fatto insieme due anni prima. Parte degli aneddoti li raccontarono anche alla signora Maria, che si unì a loro per un quarto d'ora.
Quando fu il momento del dessert e del caffè, Laurie domandò a Warren se non gli spiaceva che lei e Jack parlassero per qualche momento di lavoro, perché avevano un caso da discutere. «Affatto», rispose lui. «È un caso affidato a Jack, di una morte per avvelenamento da botulino.» «In realtà non era un caso mio», la contraddisse Jack. «Questa è una distinzione importante. Inoltre, Warren ne è al corrente fin nei dettagli.» Laurie si batté una mano sulla fronte. «Ma certo! Come ho fatto a dimenticarmene!» esclamò. «Sta parlando di Connie Davidov», spiegò Jack. Warren annuì. «Lo avevo immaginato. Flash mi ha detto di essere rimasto deluso per il fatto che tu la ritieni una morte accidentale. «Allora anche tu sapevi del botulismo?» domandò Laurie a Warren. Lui annuì. Laurie emise una risata imbarazzata. «Allora io sono stata l'ultima a saperlo.» «Ho telefonato a Warren stamattina, subito dopo averlo scoperto», le spiegò Jack. «Avevo bisogno del numero di Flash al lavoro, per poterlo chiamare.» «Non importa. Allora, che cosa ne sta venendo fuori?» «Non tantissimo. Temo che il caso si sia impantanato in qualche impiccio burocratico. Quando ho chiamato Sanders con la novità del botulismo, il cadavere era ormai stato cremato. Questo significa che non ci sarà autopsia, un fatto che sarà molto imbarazzante da spiegare per l'ufficio di Brooklyn, se l'informazione verrà divulgata. Comunque, sta a Bingham decidere il da farsi.» «Allora questo significa che il dipartimento della sanità non è ancora stato avvisato», osservò Laurie. «Immagino che sia così.» «Ma è terribile!» «Perché è così terribile?» volle sapere Warren. «Connie è già morta.» «Ma nessuno sa da dove proviene la tossina del botulino», gli spiegò Laurie. «Il vero motivo per cui noi medici legali facciamo ciò che facciamo è salvare delle vite. Questa situazione con il botulismo ne è un ottimo esempio. Ci potrebbe essere una fonte patogena che ucciderà altre persone.» «Va bene, ho capito che cosa intendi.»
«E c'è un'altra cosa, che nessuno di voi sa», aggiunse Jack. «Nello stesso quartiere dove viveva Connie c'è stata una grossa moria di ratti di fogna.» «Accipicchia!» esclamò Laurie. «Stai dicendo che sono morti anche quelli di botulismo?» «Proprio così. La causa è stata confermata appena qualche ora fa.» «Questo significa che la fonte della tossina che ha ucciso Connie è andata giù per le fognature.» «Oppure che i ratti hanno infettato Connie. La sorella di Flash viveva in una casa mal ridotta, in una zona che è una specie di curioso labirinto di vecchie casette di quel tipo. Dovreste vedere quella piccola comunità. Io non ho idea di quanto siano adeguate le tubature, ma giudicando dall'esterno e dal modo approssimativo in cui sono state rimodernate quelle catapecchie, non credo che i servizi idraulici siano all'ultimo grido.» Laurie scosse la testa. «Io dubito che le tubature abbiano qualcosa a che fare con questa storia. Dev'essere nell'altro modo. La tossina proveniva dalla casa di Connie. Mi chiedo se Connie faceva conserve casalinghe.» Guardò Warren. Lui rispose sollevando le mani: «Non chiederlo a me: non l'ho nemmeno mai vista!» «Be'», aggiunse Laurie. «Tutto questo non fa che rendere ancora più indispensabile una visita alla casa di Connie da parte di qualche epidemiologo che sappia il fatto suo. Bisognerebbe per lo meno avvertire il marito. Se la fonte si trova ancora in giro, può essere in pericolo.» «È quello che ho pensato anch'io», intervenne Jack, «e infatti oggi, nell'intervallo del pranzo, sono andato là proprio per farlo.» «Hai parlato con Yuri Davidov?» chiese Warren. «Flash lo sa?» «Non l'ho visto, non era in casa. Ho incontrato un vicino che ha detto che era fuori con il taxi e che non sarebbe tornato a casa fino alle nove o alle dieci.» Laurie guardò l'orologio. «Questo significa che adesso dovrebbe essere a casa.» «Vero. Che cosa suggerisci di fare?» «Ce l'hai il suo numero di telefono?» «Sì, ma non serve. Il signor Davidov, a quanto pare, ha il telefono staccato.» «Quand'è che hai provato, l'ultima volta?» «Stamattina», ammise Jack. «Penso che varrebbe la pena riprovare.» Laurie prese la borsa e ne e-
strasse il suo cellulare. «Dimmi il numero.» «Non ce l'ho qui, l'ho lasciato in ufficio», rispose Jack. «Proverò con il servizio informazioni. Come si scrive Davidov?» Laurie non ebbe difficoltà a farsi dare il numero, poi controllò con Jack che l'indirizzo fosse proprio quello, quindi lo compose sul telefonino. Le rispose il segnale di occupato. «Be', adesso mi credi?» le domandò Jack. «Ti credevo anche prima, solo che mi sembrava ragionevole fare un tentativo. Allora non possiamo chiamare. Questo vuol dire che dovremmo andarci di persona.» «Adesso?» «Se aspettiamo e quello muore, come ti sentiresti?» «Colpevole, suppongo», borbottò Jack. «Va bene, ci andrò io, ma occorrerà un bel po' di tempo. Si trova dall'altra parte di Brooklyn.» «A quest'ora non dovrebbe volerci tanto», gli fece notare Laurie. «Possiamo prendere il Brooklyn Battery Tunnel e la Shore Parkway. Senza traffico, saremo lì prima ancora di dirlo.» «Io non ci vengo», disse Warren. «Flash mi ha detto che quel tipo è uno stronzo. Lascio la cosa a voi professionisti. Io e Spit andiamo a casa.» «Va bene», disse Laurie. «Possiamo prendere un taxi.« «Non occorre. Prendete la mia macchina. Io andrò con Spit. Doc, lo sai dove parcheggiarla.» «Sei sicuro?» chiese Laurie. «Certo che sono sicuro. Voi due divertitevi. E quando tornerete nel nostro quartiere, non preoccupatevi. Ci sarà qualcuno che terrà d'occhio le cose per tutta la notte.» 21 Mercoledì 20 ottobre, ore 22.30 Yuri si raddrizzò e stirò la schiena. Si era dato da fare a riattaccare la tramoggia al Polverizzatore Agricolo Potenziato che aveva nel garage, dopo averla meticolosamente riempita con polvere di carbonchio. Tutta la procedura aveva richiesto quasi due ore, compreso il tempo trascorso nel laboratorio dentro allo scafandro con l'autorespiratore. Ma adesso era fatta e il camion della disinfestazione era pronto per il suo appuntamento con il destino, la mattina dopo.
Yuri guardò l'orologio e si concesse il primo momento di relax della serata. Da quando era riuscito a sottrarsi all'inseguimento mozzafiato di Jack Stapleton messo in atto da Curt e dagli altri, era sempre stato in preda al panico. Temeva di non riuscire a portare tutto a termine entro la scadenza che si era data lui stesso delle undici di sera. Ma la preoccupazione era stata inutile. Per le dieci e mezzo era già pronto, con mezz'ora di anticipo. Sul tavolo della cucina c'erano cinque salsicce da circa mezzo chilo, avvolte nella plastica e riempite di polvere marroncina, in attesa di essere consegnate a Curt e Steve. Appoggiata sopra c'era la busta sigillata richiestagli da Curt e lì accanto, sul ripiano, uno spesso telo da bagno per avvolgerle. Dopo aver dato una pacca affettuosa alla fiancata del camioncino, per il ruolo che avrebbe svolto ben presto, Yuri guardò dentro al taxi, per assicurarsi che le chiavi fossero dove le aveva lasciate, appese al parasole dal lato del guidatore. Non voleva commettere stupidi errori la mattina dopo, tipo dimenticare dove aveva messo le chiavi. Aveva programmato di partire per Manhattan alle otto in punto con la valigia, il passaporto falso e il biglietto aereo. Si avvicinò alla porta laterale. Dopo un altro sguardo di ammirazione verso il pickup, spense la luce. Prima di aprire la porta cacciò in tasca la mano destra per impugnare la Glock. Temeva ancora che potesse farsi vivo Flash Thomas, anche se a quell'ora di sera la cosa gli sembrava poco probabile. Per lo meno non doveva più preoccuparsi di Jack Stapleton. Mentre apriva la porta, il pensiero gli andò a Curt e si meravigliò di non essersi accorto prima di quanto fosse folle quell'uomo. Anche Steve era strano, ma non quanto Curt. Yuri sapeva di non essere uno psicologo, ma si immaginava che a Curt doveva essere accaduto qualcosa di terribile durante l'infanzia. Ormai aveva capito che gli americani erano avidi e violenti e avevano poca consapevolezza di sé, ma Curt spingeva queste caratteristiche a estremi ridicoli: era la sua visione del mondo, e solo quella, a essere corretta. Ma ciò che davvero irritava Yuri era che Curt aveva una tendenza antislava, che era diventata sempre più evidente con il passare del tempo. Con la chiave in mano davanti alla porta della cucina, Yuri esitò. Elucubrare sulla personalità di Curt aveva sollevato una preoccupazione che finora non aveva ancora contemplato. Considerando l'egoismo di quello che aveva creduto suo amico, si chiese che cosa avrebbe impedito a Curt di fare in modo che tutto il merito della costruzione e dell'uso di quelle armi batteriologiche andassero all'Esercito Ariano del Popolo, anche se non avrebbe avuto niente a che fare con l'azione al Central Park.
«Chert», mormorò, nel rendersi conto della fondatezza di quella nuova preoccupazione. Fino a quel momento era un'idea che non gli era nemmeno venuta in mente. «Signor Davidov?» chiamò una voce femminile. Scioccato nell'udire il proprio nome, Yuri guardò verso il vialetto d'ingresso. Nonostante la vicinanza di altre case attorno alla sua, si era sempre fatto un dovere di non socializzare con i vicini. Strinse più forte la mano sull'impugnatura dell'automatica. «Mi scusi! Lei è il signor Davidov?» Yuri dovette socchiudere gli occhi per scrutare nell'oscurità. Con la lampada esterna spenta e nessun lampione, tutto ciò che riusciva a scorgere erano due sagome nel vialetto, oltre la rete metallica. Si rilassò nell'accorgersi che erano entrambi dei bianchi. Per lo meno non si trattava di Flash Thomas. «Chi lo vuole sapere?» domandò. «Sono la dottoressa Laurie Montgomery. Se lei è il signor Davidov, è urgente che parli con lei anche solo per qualche momento.» Yuri alzò le spalle. Continuando a stringere la pistola e assicuratosi che non si sarebbe impigliata, se avesse voluto estrarla, si avvicinò alla recinzione. Vide che l'altra persona era un uomo. «Mi spiace disturbarla così tardi», continuò Laurie. «Sono un medico legale di Manhattan. Lo sa che cos'è un medico legale?» Yuri cercò di parlare, ma non gli uscirono parole di bocca. Nonostante l'oscurità aveva riconosciuto l'altra persona: era Jack Stapleton! Laurie interpretò il silenzio come una risposta negativa, allora spiegò in che cosa consistevano i compiti dei medici legali. Yuri deglutì a fatica. Non riusciva a credere di avere davanti Jack Stapleton! Che cosa era accaduto? Perché non lo avevano informato? Ma poi si ricordò di aver staccato il telefono. «E il motivo per cui siamo qui», continuò Laurie, «è perché la sua defunta moglie, Connie, sembra essere morta a causa di un avvelenamento da botulino. Lo sa che cos'è?» Yuri annuì. Sentiva il cuore battergli forte e temeva che anche i due medici potessero sentirlo. Non sapeva che cosa fare. Avrebbe dovuto cercare di sbarazzarsi di loro? Avrebbe dovuto provare a farli entrare in casa e aspettare l'arrivo di Curt? Non ne aveva idea. «Ci preoccupa l'idea che la fonte dell'avvelenamento sia ancora in casa sua», andò avanti Laurie, imperterrita. «Sua moglie faceva qualche tipo di
conserva casalinga?» «Non lo so», bofonchiò Yuri. «Be' questo sarebbe importante da sapere. Ci sono altri possibili colpevoli, come l'aglio fresco sott'olio. Anche i pasticci di carne congelati potrebbero rivelarsi fatali. A proposito, lei è russo?» «Sì», riuscì a rispondere Yuri. «L'ho immaginato dall'accento.» «Da che parte della Russia proviene?» domandò Jack, intervenendo per la prima volta. «Ehm...» Yuri esitò. «San Pietroburgo.» «Ho sentito dire che è una bellissima città», commentò Laurie. «Comunque, c'è una specie di pesce bianco che piace tanto agli immigrati russi, di cui si sa che a volte è stato portatore della tossina. Lo mangia spesso?» «No, non troppo spesso.» Yuri non aveva idea di che cosa stesse parlando quella donna. «Sarebbe utile che entrassimo a dare un'occhiata alla sua cucina. Non insisterò mai abbastanza su quanto può essere grave questa cosa.» «Be', io...» «Non ci vorrà molto», insisté Laurie. «Prometto. Vede, abbiamo fatto tutta questa strada da Manhattan. Naturalmente, potremmo chiamare il dipartimento della sanità. Loro insisterebbero per entrare e avrebbero l'autorità per farlo.» «Penso che vada bene, se non ci mettete tanto», si arrese Yuri. Stava cominciando a riprendersi dallo choc iniziale. Di certo non voleva che delle autorità pubbliche penetrassero di notte a casa sua, munite di un mandato. Inoltre, gli stava venendo in mente un modo di volgere a proprio favore quella visita inattesa. «Grazie», gli disse Laurie, e varcò il cancello assieme a Jack. Yuri fece strada fino alla porta della cucina. L'aprì ed entrò, e i suoi ospiti indesiderati lo seguirono. Laurie abbracciò con lo sguardo la stanza a L. «È così...» esitò, alla ricerca di una parola, per terminare con: «Grazioso». Jack annuì, ma il suo interesse era rivolto al viso di Yuri. «Ha un bello sfogo», commentò. Yuri si toccò il viso con evidente imbarazzo. L'altra mano era ancora in tasca, stretta attorno alla Glock. «Una specie di reazione allergica.» Jack piegò la testa di lato e lo scrutò socchiudendo gli occhi. «L'ho già
incontrata da qualche parte?» gli chiese. «Certamente no», rispose Yuri, e indicò la cucina. «Tutto il cibo è lì.» Laurie si diresse immediatamente al frigorifero e ne aprì lo sportello, poi si chinò a guardare che cosa conteneva. C'era molto poco. Jack la seguì, ma la sua curiosità fu attratta da alcuni oggetti che vide sul tavolo. «Che cosa sono quelli?» domandò, toccando con un dito una delle salsicce avviluppate nella plastica trasparente. Yuri fece un balzo avanti. «Attento!» gridò, poi si calmò nel vedere che Jack allontanava la mano. «Non voglio che si rompano.» «Mi spiace. Non l'ho toccata molto forte. Sono una prelibatezza russa?» «In un certo senso», rispose Yuri, tenendosi sul vago. «Aspetti un momento», esclamò Jack all'improvviso. «Mi ricordo di lei. Ma non è di Sverdlovsk?» «No, sono di San Pietroburgo.» «Non ci siamo incontrati nell'ufficio della Corinthian Rug Company? Voglio dire, il suo vicino, Igor, mi ha detto che lei fa il tassista. Lei non era venuto alla ditta di tappeti a prendere il signor Papparis?» «Dev'essere stato qualcun altro.» «Lei è l'immagine sputata di quel tipo.» Laurie aprì il comparto del freezer. Tutto ciò che vi trovò fu una bottiglia di vodka e un contenitore per i cubetti di ghiaccio. «Non ha molto cibo qui dentro», commentò. «Mia moglie mangiava cibi da asporto, e io mi arrangio qua e là, per strada.» Laurie annuì. Aprì i pensili e poi, non trovando nulla di sospetto, fece un passo indietro a dare un'occhiata generale alla minuscola cucina. «Non vedo nessuna attrezzatura per le conserve.» «È tutto di sotto», spiegò Yuri. Laurie si voltò a fissarlo. «Allora sua moglie ne faceva?» «Sì, effettivamente, adesso che ci penso.» «C'è rimasto del cibo?» «Non lo so. Non ci guardo da tanto. Lei andava spesso lì sotto.» «Potremmo guardare?» domandò Laurie, e si voltò verso Jack, che reagì con un'espressione sorpresa. «Perché no?» rispose Yuri. Aprì la porta e scese. Laurie e Jack si scambiarono delle occhiate perplesse e lo seguirono. Quando arrivarono alla fine delle scale, Yuri aveva già aperto il lucchetto e spalancato la porta che dava sul piccolo ingresso e stava armeggiando con
quella del magazzino. Laurie e Jack entrarono nell'anticamera. Videro la tuta con l'autorespiratore, il bulbo della doccia e le tanichette di candeggina. Annusarono nell'aria il distinto odore di cloro, oltre a quello più vago di qualcosa che stava fermentando. Poi udirono il rumore del ventilatore. Si guardarono sconcertati. Yuri era vicino alla porta del ripostiglio. Indicò l'interno, dicendo: «Credo che sia questo ciò che state cercando». I due medici si avvicinarono e sbirciarono dentro, mentre intanto Yuri scivolava alle loro spalle. Videro le capsule di Petri, l'agar, le provette con i nutrienti, e la scorta di filtri ad alta protezione. «Che ne dite di entrare?» propose Yuri. Laurie e Jack si voltarono a guardarlo e restarono senza fiato. Il russo aveva in mano una pistola, puntata contro di loro. «Prego, entrate», ripeté con voce inespressiva. «Abbiamo visto tutto ciò che c'era da vedere», rispose Jack in tono disinvolto, cercando di non sembrare preoccupato per l'improvvisa apparizione della pistola. Fece un passo avanti, ponendosi davanti a Laurie. «Per noi è ora di tornare a casa.» Yuri sollevò l'arma e sparò senza esitazione. Al piano di sopra avrebbe avuto paura che lo udissero i vicini, ma lì in cantina, con il rumore del ventilatore, non si preoccupava. Il fracasso, comunque, fu assordante, in quello spazio ristretto. La pallottola andò a conficcarsi in un travetto, facendo piovere polvere dalle assi del pavimento soprastante. Laurie gridò. «La prossima volta prendo la mira», minacciò Yuri. «Non c'è bisogno di sparare ancora», replicò Jack, con una voce che aveva perduto ogni parvenza di imprudenza. Sollevò le mani all'altezza del petto e indietreggiò, costringendo Laurie a entrare nel piccolo ripostiglio, poi vi entrò anche lui. «Andate verso il fondo, lontano dalla porta», ordinò Yuri. Gli obbedirono, andando ad appoggiarsi contro la parete di fondo, che era di cemento. Entrambi erano talmente impalliditi da essere bianchi come la mano di calce che la ricopriva. Yuri richiuse la porta, poi spinse il catenaccio e vi assicurò il lucchetto, quindi fece un passo indietro. Aveva costruito quella porta per tener fuori la gente, ma immaginava che poteva servire anche a tenerla dentro. «Non dovremmo parlarne?» propose Jack, attraverso i vari strati di compensato.
«Certo, altrimenti non mi potreste aiutare», rispose Yuri. «Dovrà spiegarci tutto, ma potremmo ascoltarla molto meglio ed esserle più utili se non dobbiamo gridare attraverso una porta.» «Non uscirete di lì, probabilmente per diversi giorni», avvertì Yuri. «Quindi mettetevi comodi. C'è dell'acqua distillata su uno scaffale, e mi scuso per la mancanza di un gabinetto.» «Apprezziamo la sua preoccupazione», replicò Jack, «ma le assicuro che staremmo meglio di sopra. Le promettiamo di comportarci bene.» «Stia zitto e ascolti!» Yuri guardò l'orologio che aveva al polso. Erano quasi le undici. «La prima cosa che le voglio dire è che tra pochi minuti saranno qui quelli dell'Esercito Ariano del Popolo. Questo nome le dice qualcosa?» «Certo», rispose Jack. «Allora presumo lei sappia che la vogliono morto. Anzi, sono sorpreso nel vedere che non lo è, dato che questo pomeriggio si erano dati da fare per ucciderla. Se scoprono che è qui, verranno giù e le spareranno di certo. Io preferisco che lei resti vivo.» «Be', per lo meno su qualcosa siamo d'accordo», commentò Jack. «Quella è gente molto folle ed egoista.» «Ho avuto questa impressione, sì.» «E hanno un sacco di fucili e pistole e gli piace usarli.» «Anche questo era evidente.» «Quindi, il consiglio che le do è di stare in silenzio, quando li sentirà. Lo capisce questo?» «Suppongo di sì, ma che cosa diceva, prima, che noi potremmo esserle d'aiuto?» «Domattina io e l'Esercito Ariano del Popolo abbiamo in programma l'uso di armi batteriologiche a Manhattan. Non è una semplice minaccia. Io stesso, in questo laboratorio, ho prodotto diversi chili di spore di carbonchio altamente concentrate, da usare come arma. Presumo che voi, essendo medici, abbiate capito che questo è un laboratorio.» «Ci è venuta l'ombra di un sospetto», ammise Jack, «considerando soprattutto che questo stanzino in cui ci troviamo adesso ha tutta l'aria di essere il ripostiglio di un laboratorio di microbiologia.» «E infatti è proprio questo», confermò Yuri. «Ora, tutto ciò che voglio da voi due è che facciate in modo che sia io a prendermi il merito di ciò che accadrà domani.» Yuri attese una risposta, ma ciò che udì fu solo un fitto bisbiglio fra i
suoi prigionieri. «Mi avete sentito?» «Ci stavamo chiedendo se ha prodotto anche la tossina del botulino, oltre alle spore di carbonchio», chiese a sua volta Jack. «Ci ho provato, ma la coltura cresceva troppo lentamente per produrre tossina a sufficienza per fabbricare un'arma batteriologica.» «E che cosa è successo alla coltura? L'ha semplicemente buttata nello scarico?» «Ciò che è accaduto alla coltura del Clostridium non è importante. Lo è ciò che accadrà domani con il carbonchio.» «Sì, ne conveniamo anche noi, e faremo del nostro meglio perché lei abbia tutto il riconoscimento che si merita», gli assicurò Jack. «Tanto per esserne completamente sicuro, voglio raccontarvi nei dettagli quello che abbiamo progettato per domani. Questo vi renderà dei testimoni straordinariamente credibili.» «Siamo tutt'orecchie.» «Se arriva l'Esercito Ariano del Popolo dovrò interrompermi», avvertì Yuri. «Cercheremo di sopportare la suspence. Allora, sentiamo.» Yuri mise al corrente i suoi due prigionieri dei dettagli di entrambe le azioni terroristiche, compresi l'ora in cui avrebbero avuto luogo e il modo esatto in cui Curt e Steve avevano progettato di mettere la polvere letale nel condotto dell'impianto di condizionamento, al Jacob Javits Federal Building. Spiegò come i due pompieri avessero intenzione di scollegare il quadro di segnalazione dell'intero edificio, dopo avervi introdotto il materiale, così che la polvere non avrebbe messo in funzione i rilevatori di fumo. Poi spiegò come lui, nello stesso momento, si sarebbe messo a girare per Central Park con il camioncino dei pesticidi, e finì tracciando una stima approssimativa delle vittime, che calcolava attorno a un milione di morti, con un duecentomila in più o in meno. Infine profetizzò che il carbonchio si sarebbe sparso formando un arco di almeno ottanta chilometri sopra Long Island. L'unica cosa che non rivelò furono i suoi progetti, una volta terminata l'azione. «Dove ha acquisito una tale conoscenza?» gli domandò Jack, dopo un momento di silenzio sgomento. «Le interessa davvero?» domandò Yuri. Era lusingato. «Come ho detto, siamo tutt'orecchie», confermò Jack.
22 Mercoledì 20 ottobre, ore 23.15 Curt entrò con il Dodge Ram in Oceanview Lane, oltrepassando gli inevitabili bidoni della spazzatura. «Perché diavolo non se li tengono dentro?» si lamentò. «E che ne so?» replicò Steve. «Porca miseria, non sentirò certo la mancanza dei nostri giretti da queste parti. Che cesso!» Curt si fermò davanti al garage di Yuri, dove aveva parcheggiato anche le altre volte, poi spense le luci e il motore. «Farà meglio ad avere la roba pronta», osservò, «soprattutto adesso che abbiamo sistemato ogni cosa. Siamo fortunati ad avere il capitano in ferie. La tua idea di passare a dirgli che ce ne andavamo era l'unica parte del piano di fuga che non mi piaceva. Parlare al suo sostituto non mi importa, quel tipo è una nullità.» «Sta andando tutto a posto», approvò Steve. «Domani a quest'ora guarderemo alla televisione le notizie del caos a New York, dalla Pennsylvania occidentale.» «Quanti ne hai presi, di quei piccoli detonatori a tempo?» «Una dozzina, tanto per essere sicuro.» «Ce l'hai la tua pistola?» «Certo.» «Andiamo!» Scendendo dal pickup, Curt afferrò la robusta borsa in tela gommata che si era procurato in caserma. Ne aveva controllato scrupolosamente l'interno, alla ricerca di eventuali spunzoni o parti affilate. Adesso che non conteneva più alcun attrezzo, non c'era niente che potesse perforare le salsicce letali. Camminarono in silenzio. Quando raggiunsero la porta d'ingresso, Curt bussò. Mente aspettavano, entrambi batterono i piedi contro il freddo. Con il cielo sereno, la temperatura era precipitata, ma tutti e due erano in Tshirt. Tenevano le pistole nelle fondine sistemate dietro la schiena, all'altezza della vita. «Che diavolo?» sbottò Curt, vedendo che Yuri non compariva. Aprì la zanzariera e tempestò di colpi la porta, con la mano libera. Guardò Steve. «Se non c'è, gli...» In quel momento Yuri aprì la porta. «Scusate», disse, respirando con affanno. «Ero di sotto.»
Curt gli rivolse un'occhiata torva, prima di entrare. Steve lo seguì, dopo di che Yuri chiuse la porta a chiave. «Tutto pronto?» chiese Curt. Yuri indicò il tavolo della cucina. «Vi sta aspettando. Ma prima che ne dite di fare un brindisi?» «Perché no?» accettò Curt. Yuri andò in cucina e prese la vodka dal freezer. Curt lo seguì e guardò le salsicce di plastica. «Quanta roba c'è qui dentro?» domandò. «Due chili e mezzo», rispose Yuri, mentre prendeva tre bicchieri. «Sono queste le istruzioni che ti avevo chiesto?» Curt prese una busta piuttosto spessa che vi era appoggiata sopra. «Sì. E ho incluso alcuni suggerimenti su cosa dovete fare dopo aver compiuto la vostra azione, per proteggervi. Solo qualche avvertimento utile.» «Bene.» Curt mise sul tavolo la busta e la borsa degli attrezzi, e raggiunse gli altri. Il russo versò delle dosi abbondanti, quindi porse agli ospiti i loro bicchieri e ne prese uno per sé, che sollevò verso di loro. «All'Operazione Volverina!» Curt e Steve annuirono. Tutti e tre inclinarono i bicchieri e mandarono giù delle belle sorsate. I due pompieri aspirarono un po' d'aria, dopo aver deglutito. Essendo bevitori di birra, non erano abituati a un liquore così forte. «Com'è andata a finire la caccia a Jack Stapleton?» domandò Yuri. «Vi dirò, la prima parte è stata eccitante.» I due si scambiarono un'occhiata. «Non tanto bene», ammise Curt. «Lo abbiamo perso nel parco. Quindi è un bene che abbiamo deciso di anticipare l'operazione a domani.» «Siete tutti pronti?» «Sì, siamo pronti.» Fu Steve a rispondere. «Aspettiamo che suoni il falso allarme, alle nove e venticinque circa. Questo vorrebbe dire che alle nove e mezzo precise saremo sull'obiettivo.» «Anch'io sarò pronto a cominciare alle nove e trenta», confermò Yuri. «Facciamo un altro brindisi.» Fecero tintinnare i bicchieri e bevvero di nuovo. Curt si pulì la bocca con il dorso della mano. «Pensavamo una cosa, mentre venivamo qui», annunciò. «Magari sarebbe meglio se usassimo tut-
to il carbonchio per l'edificio dei federali e lasciassimo perdere il parco.» Yuri scosse la testa. «No, il parco lo voglio fare.» «E se insistessimo?» Curt bevve un altro sorso e fissò il russo. Yuri spostò lo sguardo dall'uno all'altro dei due compagni. «Sarebbe troppo tardi per insistere. Il camioncino della disinfestazione è già carico con gli altri due chili e mezzo.» «E non si può scaricare?» «No. Il carbonchio è nella tramoggia, sfuso. Ho dovuto staccare la tramoggia e caricarla nel laboratorio, con addosso la tuta protettiva.» «Non è nella plastica come il nostro?» chiese di nuovo Curt. «No. L'azione dell'agitatore non sarebbe abbastanza forte da rompere la plastica.» Curt annuì. «Be', era solo un'idea.» Depose sul tavolinetto il bicchiere di vodka finito. «Carichiamo, così ce ne possiamo andare. Domani sarà una giornata importante.» Andarono tutti e tre in cucina. Mentre Yuri si avvicinava al ripiano, per prendere l'asciugamano che aveva preparato, Curt e Steve si chinarono sulle salsicce di plastica. Nessuno dei due osava toccarle, sapendo che cosa contenevano. «Sei certo che queste cose sono sicure?» domandò Curt. «Se non rompete il sigillo», rispose Yuri. Allungò un braccio e ne prese una. Curt e Steve fecero automaticamente un passo indietro. «L'esterno è stato decontaminato scrupolosamente», li rassicurò Yuri. «E la plastica è stata saldata a caldo, per essere assolutamente a tenuta stagna.» Tese la salsiccia a Curt, che fece segno a Steve di prenderla lui. Steve tese la mano, che tremava leggermente. Yuri vi mise la salsiccia sul palmo, in modo che pendesse egualmente da entrambe le parti. Era lunga circa venticinque centimetri. «Quante persone può uccidere questa quantità di carbonchio?» domandò Steve, sollevandola un po' per soppesarla. «Circa duecentomila, se viene propagata nel modo giusto.» «I ventilatori dell'impianto di condizionamento la diffonderanno a perfezione», dichiarò Curt. Afferrò la borsa degli attrezzi e ne sollevò l'apertura. «Forza, mettiamo tutto dentro.» Yuri gli porse l'asciugamano e Curt lo usò per foderare l'interno. Quando lo ebbe sistemato per bene, vi fece deporre da Steve la salsiccia che già aveva in mano, poi ne prese un'altra lui stesso, con estrema precauzione, e
la depose accanto alla prima. «Non occorre essere così cauti», li consigliò Yuri. «La plastica è sorprendentemente solida. Non è possibile romperla con le mani.» Incoraggiato, Curt prese una dopo l'altra le tre salsicce rimaste e le mise nella borsa, ci mise sopra la busta con le istruzione e passò il tutto a Steve. «Penso che sia tutto», disse poi a Yuri. «Buona fortuna», gli augurò il russo. Curt cominciò a girarsi, intanto estrasse la Glock dalla fondina che aveva dietro la schiena. Con una mossa rapidissima e fluida le fece descrivere un mezzo arco, finendo con il puntargliela contro. Yuri sgranò gli occhi e socchiuse la bocca. Curt premette il grilletto e la pallottola centrò in pieno il bersaglio, praticandogli un foro proprio in mezzo alla fronte, appena più in alto delle sopracciglia. Sgorgò fuori un po' di sangue che andò a imbrattare il frigorifero. Yuri cadde a terra di colpo, come se gli avessero tolto le gambe da sotto. «Gesù!» gridò Steve, costernato. «Che cosa gli hai sparato a fare?» Curt rimise la pistola nella fondina, poi toccò Yuri con la punta di un piede. Era tecnicamente vivo, anche se dai rantoli che emetteva si capiva che la fine era vicinissima. «Pensavo che sarebbero venute le truppe, più tardi!» esclamò Steve. «Perché non mi hai detto che avevi intenzione di sparargli tu?» «Te la stai facendo sotto?» chiese Curt, guardandolo male. «No, merda, ma potevi dirmelo che avevi intenzione di fare una cosa simile. Mi sono spaventato a morte.» «Non l'avevo programmata», ringhiò Curt. «Ma il bastardo mi ha fatto incazzare di brutto con il suo modo di fare. Hai sentito con che tono ha detto che era troppo tardi per insistere, quando gli abbiamo proposto di togliere il carbonchio dal polverizzatore? Era come se fosse lui a darci gli ordini. L'ironia era che stavo provando a dargli una possibilità. Cazzo, se si fosse unito a noi contro il bersaglio giusto, e non avesse insistito con quella stupida roba senza senso, da terroristi, non lo avrei fatto secco.» Steve depose la borsa e tornò al tavolinetto, riprese il suo bicchiere e mandò giù una generosa sorsata di vodka fredda. Rabbrividì. «Avrei soltanto voluto che mi avvertissi in tempo di quello che avevi in mente.» «Dai, signorinella, prendi quella borsa e andiamocene di qua!» 23
Mercoledì 20 ottobre, ore 23.50 «Pensi che se ne sono andati?» sussurrò Jack. «Credo di sì», rispose Laurie, tenendo anche lei la voce molto bassa. «Mi pare di aver sentito sbattere il telaio di una zanzariera esterna, circa dieci minuti fa. Ma il rumore del ventilatore è molto forte.» Jack e Laurie erano avvolti dall'oscurità più assoluta, nel ripostiglio del laboratorio. Quando Yuri era salito di sopra aveva spento le luci della cantina. Per tutto il tempo in cui era stato sul luogo l'Esercito Ariano del Popolo, i due prigionieri erano rimasti inchiodati dove si trovavano, timorosi perfino di respirare. Nel silenzio gravido di tensione, erano trasaliti entrambi quando avevano udito lo sparo. Fino a quel momento avevano colto qualche frammento di conversazione attraverso le sottili assicelle del pavimento e la copertura di linoleum. «Temo che abbiano sparato al nostro russo preferito», profetizzò Jack con la voce un pochino più alta. Aveva ancora paura di muoversi o di fare rumore, nel caso la partenza dei neonazisti fosse stata solo una finta. «Anch'io», confermò Laurie. «Direi che non si fidava di chi doveva venire a fargli visita.» «Credo che siano gli stessi che erano venuti a cercare me. Tutte le mie scuse a Paul. Questa faccenda va ben al di là della sua arrabbiatura con me. Temo di essere saltato troppo presto alle conclusioni.» «Forse è così, ma per il momento non è che importi tanto. Che cosa faremo?» «Cercheremo di uscire di qua, immagino. Ma non sono tanto ottimista. Hai notato la porta? Compensato da due centimetri, rinforzato con acciaio.» Laurie rabbrividì nell'oscurità. «Non mi piace stare chiusa qui dentro in questo modo. Mi fa venire in mente le cose tremende accadute in collegamento con la serie di casi di overdose di cui mi ero occupata, nel 1992.» «Suvvia!» la esortò Jack. «Anch'io mi sento un po' claustrofobico, ma tutto questo non ha lontanamente a che fare con l'essere rinchiusi in una bara con il coperchio inchiodato.» «Be', ci va vicino, però. E lo senti questo odore di fermentazione, assieme a quello di candeggina?» «Sì. Ci dev'essere un fermentatore, quaggiù, con una considerevole coltura di carbonchio. Oggi, quando ho girato attorno alla casa, ho visto un
condotto metallico che mi ha fatto pensare a una canna fumaria e ho sentito il rumore di un ventilatore piuttosto grosso. Dovrei prendermi a calci per non aver immaginato di cosa si trattava. Pensavo che fosse una caldaia. Cristo!» «Tutto questo è stato messo in piedi da qualcuno che sapeva il fatto suo», osservò Laurie. «Purtroppo è così. Ed è questo che rende tanto reale la minaccia che incombe per domani. Con il caso Papparis mi era passato per la testa che si trattasse di un atto terroristico, ma poi era saltata fuori una fonte di contagio plausibile. Anche così, mi era rimasta una pulce nell'orecchio, perché tutto filava troppo liscio. Dovrei prendermi di nuovo a calci per essere stato così compiacente e non aver avuto ulteriori sospetti.» «Non devi essere tu ad assumerti la colpa. In fondo, lo hai chiamato l'epidemiologo municipale. Era compito suo fare le indagini.» «Immagino che sia vero», mormorò Jack, senza grande entusiasmo. «Ed è anche vero che ho chiamato l'ufficio municipale gestione emergenze, ma questo non mi fa sentire meglio.» «Come si chiama?» chiese Laurie. «Quello che ha tenuto quella conferenza sulle armi batteriologiche e il terrorismo?» «Stan Thornton», rispose Jack. «Giusto. Una conferenza che mi ha turbata.» Trascorse un breve periodo di silenzio. Entrambi si azzardarono a cambiare posizione. Erano appoggiati tutti e due al muro di cemento delle fondamenta e non avevano mosso un muscolo fin dall'arrivo dell'Esercito Ariano del Popolo. «Mio Dio!» esclamò infine Laurie, rabbrividendo di nuovo. «Non riesco a credere di parlare in questo modo normale, rinchiusa in questo sotterraneo buio, sapendo ciò che accadrà domani al Jacob Javits Federal Building. Come vorrei aver portato con me il mio telefonino!» Aveva lasciato la borsetta nel cruscotto dell'auto di Warren, pensando che averla con sé le avrebbe dato un aria non professionale. «Be', avrebbe semplificato le cose, ma penso che Yuri te l'avrebbe tolta», la consolò Jack. «Sembrava sapere il fatto suo. Ho una piccolissima torcia attaccata al portachiavi. Adesso l'accendo.» «Oh, sì, ti prego!» Lo scarso cono di luce arrivava a malapena all'angolo della stanzetta. Jack vide il volto preoccupato di Laurie, che si teneva le braccia strette attorno al corpo, come per combattere il freddo.
«Stai bene?» le chiese, accorgendosi di quanto fosse angosciata. «Resisto» Jack spostò il debole fascio di luce per tutto il ripostiglio. Quando individuò le taniche di acqua distillata, le spostò in un punto più a portata di mano, dove avrebbero potuto trovarle facilmente anche al buio. «Potremmo averne bisogno», osservò. «Non vorrei essere pessimista, ma forse resteremo qua dentro a lungo.» «Questa sì che è un'idea affascinante», commentò Laurie, e fece una risata priva di gioia. La luce arrivò a illuminare la porta. Dato che si apriva verso l'esterno, i cardini erano fuori. Jack ne tastò il telaio. «Pensi che va bene se facciamo rumore?» chiese. «Se i vicini riescono a sentire, dovremmo fare più rumore che possiamo», rispose Laurie. «Stavo pensando all'Esercito Ariano del Popolo.» «Credo che se ne siano andati già da un bel pezzo. Hanno avuto ciò per cui erano venuti e probabilmente hanno da fare per mettere a punto il piano di domani.» «Probabilmente hai ragione. Di certo non c'era motivo perché avessero dei sospetti sulla nostra presenza qui.» Diede vari colpi allo stipite, per saggiarne la solidità, e purtroppo non trovò alcun punto debole. Mise una spalla contro la porta, indietreggiò di un passo e poi vi si buttò contro di peso. Provò ripetutamente, aumentando ogni volta la forza dell'impatto, ma la porta non cedette minimamente. «Tentativo fallito», borbottò, poi indirizzò la luce verso le pareti di cemento imbiancate a calce. Le picchiettò leggermente con le nocche in vari punti, alla ricerca di eventuali cedimenti, ma invano. «Mi sorprende che questa catapecchia abbia delle fondamenta così solide. A guardarla da fuori, sembra talmente fragile!» «E il soffitto?» chiese Laurie. Jack indirizzò il fascio di luce verso le assicelle sopra la loro testa, ma quasi immediatamente si affievolì. «Oh, oh!» esclamò, «Temo che torneremo di nuovo nell'oscurità.» Aveva appena terminato di pronunciare queste parole che la luce si ravvivò per un attimo e poi si affievolì di nuovo. Un momento dopo sparì del tutto. 24
Giovedì 21 ottobre, ore 9.15 Mike Compisano puntò gli occhi celesti sulla facciata dell'imponente edificio di quarantadue piani, facendovi scorrere sopra lo sguardo per tutta l'altezza. La sua immensità lo intimidiva, come pure il potere dell'autorità che rappresentava. Allo stesso tempo, quell'autorità lo mandava in bestia. Mike era diventato skinhead spinto dalla rabbia che provava perché apparteneva a una società che lo aveva lasciato indietro, come certi relitti sparsi che galleggiano sulla scia di un transatlantico di lusso. Dal suo punto di vista, gli afroamericani, gli ispanici e gli asiatici con cui aveva condiviso i banchi della scuola superiore avevano avuto maggiori opportunità rispetto a lui, che era un americano vero, grazie alle azioni positive e a nugoli di altri programmi folli. E, come gli aveva fatto notare Curt, era il governo rappresentato da quell'edificio che rendeva possibile tutto ciò. Quasi senza rendersene conto, infilò la mano nella tasca dei pantaloni e tastò la bomba fumogena che stava per collocare nella presa d'aria. In un modo non completamente consapevole, capiva che stava per svolgere un ruolo fondamentale nel colpire quelli che lo avevano derubato del futuro. Guardò i burocrati che lo sorpassavano in tutta fretta per entrare nell'edificio. Erano loro i responsabili del casino in cui si trovava il suo paese. Gli sarebbe tanto piaciuto fermarne uno e spaccargli il muso, ma Curt si era raccomandato di non dare nell'occhio. Controllò l'orologio che aveva al polso. Finalmente erano le nove e un quarto precise. Era dalle nove meno un quarto che si trovava lì, davanti all'edificio, cercando di non soffrire il freddo. Indossava l'unico completo che aveva, con tanto di cravatta. Aveva cercato di pettinarsi i corti capelli biondi da una parte, e di tenerli piatti, ma non avevano collaborato, e se ne stavano ritti come setole di una spazzola. Inalò a fondo e si mosse. Era nervoso e sentiva il cuore battergli forte. Desiderava talmente fare tutto nel modo giusto, che temeva che andasse storto qualcosa. Il primo ostacolo era la sorveglianza. Mike si mise in fila e passò attraverso il metal detector. Restò sgomento nell'udirlo suonare. «Che cos'hai, ragazzo?» gli chiese la guardia. Mike frugò nervosamente in una tasca e ne trasse un cacciavite corto e dal manico panciuto, che si era portato temendo di non riuscire a svitare la presa d'aria con una moneta.
«Ah, avevi intenzione di fare un po' di bricolage, oggi, eh?» commentò la guardia. Mike annuì. Lo fecero passare di nuovo attraverso il metal detector, questa volta senza il cacciavite. Non suonò. «Buona fortuna», gli augurò la guardia, restituendogli l'attrezzo. Sollevato perché non gli avevano fatto domande su dove fosse diretto, Mike prese l'ascensore fino al terzo piano. Quando vi arrivò, udì immediatamente il rumore dei macchinari e ne sentì le vibrazioni. Percorse il corridoio come gli aveva indicato Curt, dirigendosi ai servizi degli uomini. Erano esattamente dove gli aveva detto e lui vi entrò, secondo le istruzioni ricevute. Purtroppo, l'ultimo vano era occupato e Mike dovette cercare di perdere tempo. Si lavò le mani, poi aspettò. Finalmente il tizio uscì e gli rivolse una breve occhiata, prima di lavarsi le mani e uscire. Mike entrò nel vano e chiuse la porta, facendo scattare la serratura. La presa d'aria era proprio sopra la sua testa. Usando il cacciavite tolse il coperchio senza difficoltà. In piedi sulla tazza del WC poteva guardare dentro il condotto dell'aria e vide che era diritto per il primo metro, poi faceva un angolo. Prese la bomba fumogena, accese un fiammifero e lo avvicinò alla miccia, che arse immediatamente. Con uno scatto del polso, gettò la bomba nel condotto, facendola arrivare fino all'angolo, e vide che già cominciava a fare molto fumo. Dopo aver rimesso il coperchio alla presa d'aria, Mike tornò nel corridoio. Arrivato all'ascensore, premette il tasto e aspettò. Gli ci volle solo un attimo per arrivare al piano terra. Proprio mentre usciva dall'ascensore, entrò in funzione l'allarme antincendio, accompagnato da un messaggio preregistrato che venne ripetuto all'infinito: tutti dovevano abbandonare l'edifico usando la rampa di scale più vicina. Pervaso da un senso di soddisfazione, Mike uscì dall'ingresso principale, assieme a un gruppetto di altre persone. A chi voleva entrare venne detto di aspettare finché non si fosse indagato sui motivi per cui era suonato l'allarme. Nel piazzale antistante l'edificio cominciò a formarsi un certo assembramento. C'era chi si accendeva una sigaretta, chi si metteva a parlare con dei perfetti estranei. Con il passare dei minuti, il gruppo aumentava, a mano a mano che la gente continuava a uscire con un flusso costante. Nel giro di cinque minuti si udirono delle sirene che si avvicinavano.
Qualche momento dopo due camion dei pompieri svoltarono da dietro l'angolo più vicino e si fermarono rapidamente accanto al marciapiedi, in faccia all'edificio. Il primo camion aveva dipinta sulla fiancata la scritta a caratteri dorati FDNY, e il numero 7. Mike guardò l'orologio. Erano le 9.29. Riportando lo sguardo sul primo camion, vide Curt scendere dal lato del passeggero. Indossava l'uniforme completa, con il giubbotto e i pantaloni in materiale ignifugo, l'elmetto di cuoio e gli scarponi. Sulla schiena aveva lo zaino d'ordinanza, con la maschera appesa fuori, e portava anche una borsa nera di robusta tela gommata. Dal sedile posteriore scese Steve, reggendo una sacca rossa. Insieme corsero verso l'ingresso, davanti a tutti gli altri pompieri. Mike si voltò e si diresse verso la stazione della metropolitana, per tornare a casa. Si sentiva fiero di aver partecipato a una missione che, gli aveva detto Curt, avrebbe salvato il paese. 25 Giovedì 21 ottobre, ore 10.15 «Che ora credi che sia?» domandò Laurie. «Non ne ho la più pallida idea», rispose Jack. Si stirò e gemette. «So di aver dormito un po'. E tu?» «Anch'io, credo. È incredibile quanto sia difficile valutare il trascorrere del tempo, soprattutto quando non si vede niente.» Avevano finito con il mettersi seduti diagonalmente uno rispetto all'altro sul pavimento di cemento, con la schiena contro le rispettive pareti. Non c'era spazio per distendersi del tutto. «Riesco quasi a convincermi di vedere la luce del giorno, quando fisso il soffitto», disse Jack. «Dobbiamo uscire di qua prima delle nove e mezzo, se vogliamo avere la minima possibilità di fermare quei pompieri, prima che entrino nell'edificio federale e spargano in giro il carbonchio.» «Non mi piace essere pessimista, ma come ha detto Yuri potremmo restare qua per diversi giorni, anche più del previsto, adesso che gli hanno sparato. Credo che fosse sua intenzione fare una telefonata per farci liberare, in modo da essere sicuro di avere il riconoscimento che ambiva.» «Aspetta un secondo!» esclamò Laurie.
«Ho tutto il tempo che vuoi.» «Ssst! Mi sembra di sentire qualcosa.» Trattennero entrambi il respiro, restando in ascolto. Udirono solo una serie lontana ma distinta di colpi provenienti dal piano di sopra. «Credo che sia qualcuno che bussa alla porta», osservò Laurie. Si alzarono entrambi in piedi. Nell'oscurità si scontrarono, poi cominciarono a gridare aiuto a pieni polmoni. Tacquero contemporaneamente, con le orecchie che ancora risuonavano delle loro grida, e si misero di nuovo in ascolto. «Devono averci sentito!» esclamò Laurie. «Probabilmente dipende dal rumore di sottofondo che c'è là fuori», le fece notare Jack. Ricominciarono a gridare all'unisono e Jack arrivò tentoni fino alla porta e si mise a pestarci sopra con i pugni. All'improvviso si accese la luce. Poi udirono delle voci attutite di qualcuno che scendeva le scale. Qualche momento dopo ci fu un rumore di legno che veniva spaccato, seguito da un tonfo. Le voci aumentarono di volume. Chiunque fosse, era riuscito ad arrivare nell'ingresso del laboratorio. Jack bussò contro la porta. «Siamo qua!» gridò. Non rispose nessuno, ma giunse distinto il rumore di qualche strumento, come un piede di porco, che veniva infilato a forza sotto il catenaccio. Di nuovo, si udì il fragore del legno che schiantava, ma questa volta era più forte. «Non ho idea di chi sia», sussurrò Jack. «Non pensi che...» Laurie non fece in tempo a terminare la frase. Si udì uno schianto finale, mentre la porta veniva spalancata del tutto. Sorpresi ma grati, i due prigionieri si ritrovarono di fronte il viso non tanto felice di Warren. Dietro di lui c'era Flash. «Oh, grazie a Dio!» esclamò Laurie, e si gettò ad abbracciare Warren. Lui si tolse le sue braccia dal collo e fissò Jack con sguardo truce. «Doverti salvare dalle situazioni strane, soprattutto quando c'è di mezzo un morto, comincia a stufarmi.» Laurie si staccò dal suo salvatore e si asciugò qualche lacrima di gioia che le spuntava dagli occhi. «Che ore sono?» chiese Jack. Warren si voltò a guardare Flash e si strinse nelle spalle. «E questo è tutto il ringraziamento che ci spetta: vuole sapere l'ora.»
«È importante!» esclamò Jack. «Che ore sono?» Warren guardò l'orologio e gli disse che erano le dieci e un quarto. «Oh, mio Dio!» gemette Laurie. Spinse da parte Warren e si diresse verso la porta d'ingresso del laboratorio, seguita a ruota da Jack. «Attenti, là su», gridò Warren. «Non è una vista gradevole.» Laurie arrivò in cima alle scale e andò direttamente in cucina, dove c'era il telefono a parete. «A chi dovrei telefonare?» chiese. Jack ci pensò un momento. «Dammi», le disse, e lei gli porse il ricevitore. Jack compose il 911 e chiese immediatamente di Stan Thornton, il direttore dell'ufficio municipale gestione emergenze. Disse che si trattava di una cosa di un'urgenza estrema. Sapendo come fosse elaborato il sistema di comunicazione con Stan Thornton, sperava di raggiungerlo rapidamente. Arrivarono anche Warren e Flash. Il cadavere di Yuri era disteso per metà in cucina e per metà nel soggiorno. Il sangue schizzato sul frigorifero si era coagulato e formava una chiazza marrone. «Avete intenzione di spiegarci qualcosa o no, voi due?» Warren era ancora esasperato. Jack e Laurie sollevarono entrambi le mani per farlo stare zitto. «Guarda un po'», commentò Warren, rivolto a Flash. «Ci facciamo tutta la strada fin qua, gli salviamo il culo e ci trattano in questo modo.» Ma Flash non lo ascoltava, era intento a osservare il cadavere del cognato. Il viso di Yuri era irrigidito in un'espressione di sorpresa perpetua, gli occhi spalancati, fissi sul soffitto. In mezzo alla fronte aveva un buco perfettamente rotondo delle dimensioni di una biglia. Intanto venne al telefono Stan Thornton. Jack si identificò rapidamente e si schiarì la gola, prima di annunciare: «Credo che l'aspetti la sfida più grande che abbia mai affrontato. Veri fichi se attorno alle nove e mezzo c'è stato un falso allarme al Jacob Javits Federal Building!» «Dovrei farlo adesso o vuole che la richiami?» chiese Stan. «Lo faccia immediatamente!» esclamò Jack. «Resterò in linea.» Incrociò le dita, mostrandole a Laurie che le strinse tra le sue, chiudendo gli occhi in preghiera. Jack sentì Stan che si collegava con il comando centrale dei vigili del fuoco. Dopo una breve attesa ci fu la conferma ufficiale di un falso allarme causato dall'apparente malfunzionamento di un rivelatore di fumo. «Allora!» replicò Jack senza quasi lasciarlo finire, mentre cercava di riordinare le idee. «Chiami qualcuno nell'edificio federale. Chiunque!
Chieda se è stato scollegato il quadro generale dell'impianto antincendio e se all'interno dell'edificio è comparsa all'improvviso della polvere.» «Non mi piace questa faccenda», commentò Stan. Usò un'altra linea telefonica per mettersi rapidamente in contatto con l'apparato di sicurezza dell'edificio. Qualche istante dopo parlava di nuovo con Jack. «La risposta è affermativa a entrambe le domande. A quanto pare c'è un po' dappertutto della polvere finissima. Che cos'è?» «Carbonchio!» sbottò Jack. «Carbonchio usato come arma batteriologica!» «Mio Dio!» esclamò Stan. «Lei dove si trova? E come fa a esserne al corrente?» «Sono in una casetta al quindici di Oceanview Lane, a Brighton Beach. Sul pavimento c'è il cadavere di un immigrato russo. È stato ucciso da un pompiere municipale che fa parte, se addirittura non è il capo, di un gruppo armato di estrema destra chiamato Esercito Ariano del Popolo. Il russo ha costruito un laboratorio. Nel garage c'è un camion per i pesticidi carico di altro carbonchio. In cantina c'è un laboratorio con un fermentatore, credo, pieno di coltura di carbonchio. Siamo stati imprigionati in un ripostiglio giù in cantina, dove siamo rimasti fino a pochi istanti fa.» «Mio Dio! Siete contaminati?» «Molto probabilmente no. Il russo sapeva il fatto suo, e ci voleva vivi. Il laboratorio ha un sistema di ventilazione a pressione negativa che dovrebbe avere i filtri appropriati.» «Va bene, restate dove siete», ordinò Stan. «Non lasciate la casa. Verremo noi da voi. Capito?» «Suppongo», rispose Jack. «Pensavo che fosse meglio tornare all'obitorio. Sono qua con la dottoressa Laurie Montgomery. Al lavoro, da noi, avranno bisogno di tutto l'aiuto che potranno ottenere.» «Dopo che sarete stati decontaminati. Per adesso restate lì. Arriveremo nel giro di pochi minuti per isolare la zona.» Stan riattaccò. Jack scrollò le spalle, rimise giù il ricevitore e sospirò. «Non ce l'abbiamo fatta», mormorò con voce incrinata. Laurie gli gettò le braccia attorno al collo e lo abbracciò. Nel vederlo così demoralizzato le vennero le lacrime agli occhi. «Ehi, amico, penso che faresti meglio a raccontarci che cosa sta succedendo», tornò alla carica Warren. Jack annuì e fece un profondo respiro. Cominciò a parlare, ma dovette
ricacciare indietro le lacrime. Dopo un altro sospiro, riuscì a ricomporsi. «Warren, ti avevo detto che la prossima volta che qualcuno doveva essere salvato, sarebbe stato il mio turno di salvare te.» «Già, be', io non sono mica stupido come te, Doc.» «Se solo fossi arrivato un'ora prima!» «Sta' a vedere che adesso è colpa mia», borbottò Warren. «Ma no, non intendevo questo. Credimi, ti sono grato di essere arrivato.» «Ho dovuto aspettare per vedere se voi due vi facevate vivi al lavoro», spiegò Warren. «Quando ho visto che non era così, ho pensato che magari era successo qualcosa di strano. Stamattina presto ho visto che la mia macchina non era al suo posto e sapevo da Spit che tu non eri tornato nel quartiere. Accidenti, tutto quello che pensavo era che voi due foste andati a scopare in un albergo, o qualcosa del genere, per fare pace.» «Vorrei tanto che la serata si fosse svolta proprio così», commentò Jack, e guardò Laurie. «Anch'io», aggiunse lei 26 Giovedì 21 ottobre, ore 12.45 Stan Thornton non aveva esagerato, dicendo che sarebbero arrivati nel giro di pochi minuti. Jack, Laurie, Warren e Flash avevano fatto appena in tempo a sedersi nel soggiorno di Yuri quando comparvero dei pompieri locali, che indossavano tute protettive, a transennare tutta la zona circostante e a far uscire gli abitanti dalle case. Qualche tempo dopo, l'aria rintronò del battito costante degli elicotteri che sorvolavano il quartiere, prima di atterrare sul vicino lungomare. Circa mezz'ora dopo apparvero dei tecnici vestiti di veri e propri scafandri dotati di autorespiratore, ognuno con in mano un rivelatore portatile. Questo gruppo si separò: metà andò nel garage e metà entrò in casa. Fra i primi erano presenti alcuni esperti in esplosivi, per assicurarsi che nel camion dei pesticidi non fosse stato montato un dispositivo a scoppio ritardato. Quelli che entrarono in casa si presentarono rapidamente, prima di sparpagliarsi per le varie stanze e scendere in cantina. Ignorarono il cadavere di Yuri. Dieci minuti dopo, il responsabile del gruppo che era entrato in casa si incontrò in cucina con il suo omologo del gruppo del garage. Parlarono
brevemente tra loro, poi il primo usò una ricetrasmittente per comunicare con il comando, che probabilmente si trovava a Manhattan. «Abbiamo due zone calde», annunciò. «L'agente patogeno nel camioncino da pesticidi è sicuramente carbonchio polverizzato per essere usato come arma. Questo è confermato. Non c'è un dispositivo di esplosione. Il laboratorio ha due fermentatori attivi con colture di carbonchio. C'è un polverizzatore costruito alla meglio, contaminato con polvere di carbonchio. C'è anche una cappa di sicurezza, contaminata allo stesso modo. C'è un sistema di ventilazione a pressione negativa dotato di filtri ad altissima protezione. Nel resto della casa non c'è contaminazione. Passo.» Jack e gli altri non udirono la risposta, perché il tecnico teneva la radio proprio contro l'orecchio. Lo videro annuire diverse volte, prima di confermare verbalmente che avrebbe eseguito gli ordini ricevuti, poi concluse con il tipico «passo e chiudo». Si avvicinò al gruppetto. Il viso restava quasi del tutto invisibile, per il riflesso sulla maschera di plastica trasparente. «Dovete lasciare tutti la casa», ordinò. «Arrivati nel vicolo, svoltate a sinistra. Passate sotto il nastro giallo che divide questa zona, altamente a rischio, da quella a rischio minore. Dove il vicolo sbocca in Oceanview Avenue c'è una tenda di decontaminazione. È rossa, non potete non vederla. Vi stanno aspettando.» Si alzarono tutti e quattro e si diressero alla porta d'ingresso. «Grazie», disse Laurie, ma il tecnico non rispose. Stava già tornando in cucina, per ridiscendere nella cantina. «Accidenti, se sono seri!» commentò Warren, mentre percorrevano il vialetto d'ingresso. «E ne hanno motivo!» gli fece notare Jack. «Questa è una cosa grossa. New York potrebbe avere vittime a decine di migliaia, se non di più.» «Merda!» imprecò Flash. «Ve lo avevo detto che questo Yuri era un figlio di puttana. Dovevate lasciarmi venire qui a sistemarlo.» «Aveva una pistola», lo avvertì Jack. «E non sembrava riluttante a usarla.» «Già, sì, ma io mica sarei venuto qui a mani vuote!» Mentre camminavano, non potevano fare a meno di notare che l'intera zona era deserta. Non videro nessuno, nemmeno uno dei numerosi cani del quartiere. «Che cosa strana», osservò Jack. «È come se fossimo rimasti solo noi.» Proprio com'era stato loro indicato, trovarono una tenda rossa nel mezzo
di un viale completamente deserto. «Dove sono andati tutti, così in fretta?» commentò Warren. «Non credo che abbiano avuto problemi a far spostare gli abitanti», gli rispose Jack. «La gente è terrorizzata dal contagio. Mi vengono i brividi a pensare al panico che ci sarà adesso a Manhattan.» «Mi ricorda un vecchio film di fantascienza», osservò Flash. «Credo che fosse intitolato Ultimatum alla Terra.» Vennero accolti da una piccola équipe che indossava tute e accessori con un livello inferiore di protezione rispetto agli scafandri usati dai tecnici all'interno della casa di Yuri. Ne era a capo una donna che si presentò come Carolyn Jacobs. Fece spogliare uno dopo l'altro tutti e quattro, per farli poi passare sotto delle docce improvvisate da cui usciva una soluzione clorata. Dovettero sfregarsi bene e poi, una volta asciugati, ricevettero delle specie di grembiuli da indossare. Vennero immunizzati contro il carbonchio e cominciarono un ciclo di ciprofloxacin. «Ehi, non mi sarei mai aspettato tutto questo!» si lamentò Warren. «Dovresti essere grato che ti hanno somministrato il vaccino», obiettò Jack. «Non ne hanno tanto e sono sicuro che resteranno senza, a Manhattan. Non c'è modo di averne abbastanza per tutti.» All'improvviso il telo che fungeva da apertura della tenda venne tirato da parte ed entrò un afroamericano sui trent'anni, snello, azzimato e dall'aria marziale. Indossava una specie di tuta arancione con l'acronimo CIRG sul braccio sinistro, appena sotto la spalla. Sopra il taschino con lo zip era cucito un riquadro con il nome: agente Marcus William. «Sto cercando il dottor Stapleton e la dottoressa Montgomery», annunciò in tono sbrigativo. Jack sollevò, la mano. «Io sono Stapleton.» «E io la dottoressa Montgomery», disse Laurie. «Benissimo. Volete venire con me?» Jack e Laurie si alzarono immediatamente in piedi. «E noi?» chiese Warren. Jack guardò Marcus e sollevò le sopracciglia. «Come si chiama, signore?» domandò Marcus a Warren. «Warren Wilson, e questo è Frank Thomas.» Warren indicò Flash, che sollevò una mano. «Mi spiace, non ho ricevuto ordini al vostro riguardo. Presumo che dobbiate restare qui.» «Accidenti!» imprecò Warren. «Doc, bada che non si dimentichino di
noi.» «Non ti preoccupare», gli assicurò Jack. Jack e Laurie uscirono dalla tenda e dovettero affrettarsi per stare al passo con Marcus, che si stava dirigendo verso il lungomare. «Dove andiamo?» domandò Jack. «Vi accompagno al centro operativo provvisorio.» «Dove si trova?» «Nella parte bassa di Manhattan, in un camper davanti al municipio.» «Possiamo rallentare un pochino?» chiese Laurie. Le toccava quasi correre. «Dovrei portarvi là il più presto possibile», replicò Marcus. «Che cosa sta accadendo in città?» domandò Jack. «Non sono al corrente degli sviluppi più recenti, ma so che c'è molto caos.» «Lo immagino», commentò Jack. «Lei è dell'FBI?» chiese Laurie. «Sì», rispose Marcus. «Che cosa significa CIRG?» «Criticai Incident Response Group. Siamo addestrati in particolare per affrontare gli incidenti NBC.» Laurie guardò Jack. Detestava gli acronimi, soprattutto quando, per spiegarne uno, bisognava ricorrere a un altro. «Vuol dire nucleari, batteriologici e chimici», la illuminò Jack. Laurie annuì. Attraversarono una Brighton Beach Avenue quasi deserta e passarono sotto la ferrovia sopraelevata, che faceva parte del sistema dei trasporti metropolitani. Una ragnatela di nastri gialli bloccava uno degli ingressi. Jack sospettò che avessero messo temporaneamente fuori servizio tutta la metropolitana. Dopo un altro isolato arrivarono alla riva del mare. Posati sulla spiaggia e sul lungomare c'erano parecchi elicotteri, dai contrassegni diversi. Marcus si diresse verso uno dei più piccoli. Era un Bell Jet Ranger dell'FBI. Aprì la portiera e fece cenno a Jack e a Laurie di salire di dietro. Il pilota aveva già messo in funzione l'elica. Marcus si assicurò che i due medici indossassero le cuffie che permettevano la conversazione. Dopo che ebbero preso quota, il viaggio fino a Manhattan fu sorprendentemente corto, soprattutto per Jack che sapeva quale fosse la distanza, per averla coperta in bici il giorno prima. Atterrarono sul prato davanti al mu-
nicipio. L'eliporto improvvisato era delimitato da pompieri che indossavano tute per materiali pericolosi. Mente l'elicottero si abbassava, diventava visibile il caos di cui aveva parlato Marcus. In contrasto alla calma e al deserto di Brighton Beach, c'erano folle di persone in preda al panico che si dirigevano a ovest, andando controvento. Parcheggiati lungo la Broadway erano allineati parecchi camion della Guardia Nazionale. I soldati, che indossavano indumenti protettivi, erano sbarcati dai veicoli, ma giravano in qua e in là, apparentemente senza saper bene che cosa fare, stringendo i fucili tra le mani. «Quando è stato dato l'annuncio iniziale, c'è stato il panico collettivo», spiegò Marcus. «La polizia pensava di riuscire a controllarlo, ma non è stato così.» Jack scosse la testa. Quel pandemonio non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione, con gente contaminata che si mescolava a chi inizialmente non lo era. Marcus non aspettò che le eliche smettessero di girare. Aprì la portiera e fece cenno a Jack e a Laurie di sbarcare, poi si incamminò con lo stesso passo rapido che aveva usato a Brighton Beach, tanto che loro due dovettero correre per non rimanere indietro. La grande roulotte che fungeva da centro operativo era stata posizionata sul piazzale davanti al municipio, a circa sei isolati a sud del Jacob Javits Federal Building. Era un punto al sicuro dalla contaminazione, dato che spirava un vento moderato da sud-ovest, diretto a nordest. Marcus aprì la porta. Dall'interno scaturì una babele di voci provenienti da funzionari del dipartimento della sanità e della Difesa, poliziotti, agenti dell'FBI, pompieri. Il personale della Difesa proveniva dall'USAMRIID dell'esercito, dal CBRIF della marina e da un'unità mista chiamata CBQRF. Laurie sapeva che USAMRIID era la sigla dell'istituto di ricerca medica per le malattie infettive dell'esercito, ma non aveva idea di che cosa significassero le altre due abbreviazioni. «Per favore», gridò Marcus per farsi udire nonostante il baccano. «Se non vi spiace.» Indicò una porta che dava su una stanza interna a cui arrivarono dovendo attraversare il fitto assembramento. Bussò, cacciò dentro la testa e fece cenno ai due medici legali di entrare. Quando la porta si richiuse dietro di loro, scese una calma relativa. Si trovavano in un ufficio di circa otto metri per dodici, assieme a tre uomini. Erano state attivate dozzine di linee telefoniche temporanee e i telefoni ricoprivano quasi tutta la lunga scrivania che correva rasente la parete de-
stra. In contrasto con la confusione nel primo ufficio e con il caos che c'era all'esterno, i tre uomini sembravano calmi. Stavano seduti, e Jack ne riconobbe soltanto uno. Era Stan Thornton, il direttore dell'ufficio municipale gestione emergenze. «Sedetevi», suggerì Stan, e indicò due poltroncine vuote. Jack e Laurie obbedirono. L'alta statura di Stan era evidente anche da seduto. Indossava una giacca di tweed un po' stazzonata, come pure i pantaloni, e faceva pensare più a un professore di college che a un alto funzionario pubblico, forse anche per i capelli arruffati e per l'aria intellettuale. Presentò Jack e Laurie agli altri due, che erano Robert Sorenson, agente speciale dell'FBI, e Kenneth Alden, funzionario della FEMA, l'Agenzia Federale Gestione Emergenze. «Volete un caffè?» chiese Stan. «Dovete essere famelici, dopo quello che avete passato.» Jack e Laurie rifiutarono, e tutti e due restarono sorpresi dalla disinvoltura con cui si offriva loro il caffè durante una crisi di quella portata. «Posso chiedere come stanno andando le cose?» chiese Jack. «Certo», acconsentì Stan. «Considerato il ruolo fondamentale da voi svolto in questo evento, siete più che autorizzati a saperlo. Come potete vedere da ciò che sta accadendo all'esterno, non abbiamo fatto un buon lavoro nel mantenere una parvenza di ordine. Le reazioni di panico sono andate al di là di quanto eravamo in grado di controllare, e hanno dimostrato senza ombra di dubbio che un evento reale è molto diverso da un'esercitazione. Non siamo riusciti a far rimanere la gente nell'edificio. E poiché dal condotto di aerazione si è sviluppato un pennacchio di polvere, tutta la parte di Manhattan a ovest di questo punto è rimasta contaminata.» Stan fece una pausa, e Jack e Laurie si guardarono. Ciò che avevano appena sentito dalle sue labbra era una notizia tremenda, eppure lui stranamente sembrava non preoccuparsi. «Ma si è verificato un avvenimento imprevisto che senza dubbio gioca a nostro favore», aggiunse Stan. «Avete idea di che cosa possa essere?» Jack e Laurie si guardarono, incuriositi, poi scossero la testa. «All'inizio abbiamo pensato che fosse troppo bello per essere vero», continuò Stan. «I nostri rivelatori portatili non ci davano una lettura positiva per il carbonchio. Di certo, non come quella che abbiamo ottenuto a Brighton Beach, dove eravate voi. Ora, è vero che questi strumenti sono utili solo per le quattro armi batteriologiche più comuni. Così abbiamo do-
vuto aspettare una verifica che provenisse da esami più approfonditi. Solo pochi minuti fa abbiamo avuto la conferma finale. Quella polvere non è carbonchio. E non è nessun altro agente patogeno. È soltanto farina da dolci finissima, colorata con la cannella.» Jack e Laurie restarono a bocca aperta, increduli. «Ora, secondo noi non doveva trattarsi solo di uno scherzo, considerato il camioncino da disinfestazione che abbiamo trovato a Brighton Beach, pieno di polvere di carbonchio altamente patogena, e il cadavere in cucina. Quindi, l'FBI vorrebbe più che mai mettere le mani sui colpevoli, e qualsiasi informazione che potete darci su questi individui e sull'Esercito Ariano del Popolo sarà enormemente apprezzata.» Jack e Laurie si guardarono e scossero la testa, scioccati. «Quel pazzo di un russo!» esclamò Jack. «È fantastico!» gli fece eco Laurie. «Ha fatto il doppio gioco con l'Esercito Ariano del Popolo, e senza volerlo ha salvato la situazione.» «Che cosa intende, di preciso?» chiese Robert Sorenson. «Ci è sembrato che ci fossero dei disaccordi sul bersaglio o sui bersagli da colpire», spiegò Jack. «Yuri Davidov voleva portare il camioncino dei pesticidi in giro per il Central Park...» «Mio Dio!» esclamò Stan, scuotendo la testa. «Avrebbe provocato un milione di vittime!» «L'Esercito Ariano del Popolo, invece, voleva colpire l'edificio federale», continuò Laurie. «E pare che non ci fosse una quantità sufficiente di carbonchio per tutti e due, quindi Yuri Davidov deve aver improvvisato con farina da dolci e cannella.» «Sapeva il fatto suo», commentò Stan. «Molti pensano che il carbonchio polverizzato per essere usato come arma sia bianco, ma non lo è. È di un leggero color nocciola, o ambra.» «Evidentemente, Yuri non si aspettava di essere ammazzato dai suoi soci», aggiunse Laurie. «Credo che quelli dell'Esercito Ariano del Popolo volessero eliminarlo, dopo aver ottenuto ciò che credevano la loro parte di carbonchio. In realtà, da ciò che abbiamo ascoltato dalla cantina, loro lo volevano tutto, ma il russo lo aveva messo nella tramoggia del camioncino dei pesticidi, in modo che non potessero tirarlo fuori.» I tre uomini si guardarono fra loro e annuirono. «Questa ricostruzione sembra collimare con i fatti, come li conosciamo noi», convenne Ken Alden. «Stavolta ci è andata bene», commentò Robert Sorenson, stirandosi. «È
tutto ciò che posso dire, e questo non depone a favore di tutte le nostre programmazioni ed esercitazioni che abbiamo fatto finora riguardo al terrorismo con impiego di armi batteriologiche. I nostri servizi segreti non lo hanno bloccato, e il nostro sistema di risposta non lo ha contenuto.» Jack e Laurie si guardarono. Spontaneamente, balzarono in piedi e si gettarono uno fra le braccia dell'altra. Dopo la tensione e la paura dovute alla loro prigionia, la buona notizia li riempì di gioia. Si abbracciarono e risero, incapaci di non manifestare tutto il sollievo che provavano. «Appena siete pronti, vorremmo che ci riferiate tutto ciò che sapete sull'Esercito Ariano del Popolo e sui pompieri che sembrano esserne i leader», disse Robert Sorenson. «La mia agenzia porrà la priorità assoluta sulla loro cattura e incriminazione.» Epilogo Giovedì 21 ottobre, ore 13.30 «Prova con un'altra stazione», disse Curt. Steve allungò la mano a girare la manopola della radio, fino a che si udì abbastanza chiaramente un programma diverso. Viaggiavano su un vecchio pickup Ford che Steve aveva comperato per cinquecento dollari sotto falso nome. Si trovavano a circa ottanta chilometri da New York e i segnali radio erano sempre più deboli. Avevano ascoltato le notizie flash subito dopo essere saliti sul pickup, mezz'ora prima, proprio mentre si dirigevano a ovest sull'interstatale 80. Il notiziario era stato brevissimo. C'era stato solo un accenno al rilascio di un'arma batteriologica a Manhattan, che (fino a quel momento) aveva causato soltanto molto panico. I due compagni si erano lasciati andare a grida di giubilo e si erano battuti a vicenda il palmo della mano, in un delirio di eccitazione. «Ce l'abbiamo fatta!» avevano gridato all'unisono. Ma adesso volevano maggiori dettagli, e avevano difficoltà nel trovare ulteriori notizie. «Probabilmente il governo ha imposto il silenzio-stampa», commentò Curt. «Non vogliono mai che il pubblico sappia la verità, come è successo con Waco, con Rubi Ridge, perfino con chi ha sparato davvero a JKF.» «Dev'essere di certo così», convenne Steve. «Il governo ha paura che il pubblico sappia la verità.» «Dio, è andata a meraviglia! Un'operazione militare dannatamente per-
fetta!» «Non poteva andar meglio.» Curt diede un'occhiata al paesaggio leggermente collinoso, immerso negli splendidi colori autunnali. Si trovavano nel New Jersey occidentale, verso il confine con la Pennsylvania. «Gesù, che paesaggio stupendo!» esclamò, stringendo più forte il volante. Poi rise. Si sentiva a meraviglia. Era come se avesse bevuto dieci tazze di caffè. «Per pranzo vuoi fermarti nel Jersey o aspettare di arrivare in Pennsylvania?» domandò Steve. «Non mi importa. Sono talmente eccitato che non ho nemmeno fame.» «Neanch'io, ma vorrei lavarmi le mani. Lo so che secondo Yuri non era pericoloso toccare quelle salsicce di plastica, ma comunque mi preoccupa sapere che cosa contenevano.» «Ehi, dov'è la busta?» domandò Curt. «Intendi quella di Yuri?» «Sì, quella con le istruzioni su come fabbricare l'arma batteriologica. Ci ha detto di avere scritto anche qualche suggerimento su quello che avremmo dovuto fare dopo l'azione.» «L'ho messa assieme alle carte stradali e tutto il pacco di fogli su come arrivare nelle case dove ci daranno ospitalità. Vuoi che la prenda?» Curt alzò le spalle. «Perché no? Vediamo che cosa dovemmo fare per proteggerci.» Rise di nuovo. «Come se a questo punto avessimo ancora bisogno dell'aiuto di quel fesso.» Steve allungò una mano dietro il sedile e tirò a sé una cartelletta chiusa da un largo elastico. L'aprì, vi frugò dentro, e ne estrasse la busta di Yuri. «Accidenti, se è spessa!» esclamò. «Che cosa ha fatto? Ha scritto un libro?» La tese verso Curt, perché la vedesse anche lui. «Aprila, Cristo!» sbraitò Curt. Steve infilò l'indice sotto il lembo incollato e l'aprì. Ne estrasse un cartoncino spesso, chiuso anche quello da un lembo ripiegato e incollato. «Che diavolo?» si spazientì a quel punto. Curt distolse lo sguardo dalla strada per dare un'occhiata. «Che cosa c'è scritto lì sopra?» «A Curt e Steve dalla piccola madre Russia», lesse Steve. «Per quello che vorrà dire!» «Aprila!» Steve strappò la chiusura e il cartoncino gli saltò fra le mani, aprendosi di scatto. Allo stesso tempo una piccola molla propagò nell'aria un'abbon-
dante nuvola di polvere, assieme a una manciata di minuscole stelline luccicanti. «Merda!» esclamò Steve, sobbalzando per il movimento improvviso. Anche Curt sobbalzò, soprattutto per la reazione di Steve, e dovette impegnarsi per mantenere il controllo del volante. Tutti e due starnutirono violentemente e si ritrovarono con gli occhi lacrimosi. Curt accostò a lato della strada e si fermò. Lui e Steve cominciarono a tossire, a causa della polvere che solleticava la gola. Curt strappò via il cartoncino dalle mani di Steve, che a quel punto scese dal veicolo per scuotersi di dosso le stelline luccicanti che gli erano cadute in grembo. Curt esaminò il cartoncino. Non c'era scritto niente. Guardò nella busta. Non c'era niente nemmeno lì. Allora, all'improvviso, ebbe una tremenda premonizione. Nota dell'autore Purtroppo, buona parte di ciò che i personaggi di questo romanzo dicono sulle armi batteriologiche o sul loro impiego nel terrorismo è vero. In particolare, è illuminante il commento di Lou Soldano a proposito della possibilità di un ingente attacco terroristico negli Stati Uniti o in Europa, ricorrendo ad armi batteriologiche: non è questione di se, ma di quando avverrà. In realtà, si sono già verificati diversi episodi minori negli Stati Uniti. Nel 1984 si è avuta una contaminazione intenzionale di cibo in alcuni ristoranti dell'Oregon, che ha provocato una miniepidemia di salmonellosi, colpendo 751 persone. Nel 1996 in un laboratorio ospedaliero del Texas sono state contaminate intenzionalmente focaccine e ciambelle, con il risultato che quarantaquattro persone sono state contagiate dalla Shigella dysenteriae. La minaccia che il terrorismo ricorra alle armi batteriologiche è aumentata progressivamente in tutto il mondo, in particolare nell'ultimo decennio. Basti pensare alla setta apocalittica che nel marzo del 1995 ha propagato il gas nervino nella metropolitana di Tokyo. Il loro programma, inoltre, comprendeva anche l'uso del carbonchio e della tossina del botulino, proprio come avviene nella finzione romanzesca da parte di Yuri Davidov. Si erano perfino spinti a inviare una loro delegazione nello Zaire, per esplorare la possibilità di ottenere il virus ebola, da usare come arma.
L'Unione Sovietica, prima della sua dissoluzione, nel 1989, aveva mantenuto un enorme programma segreto per la messa a punto e la produzione delle armi batteriologiche, nonostante fosse tra i firmatari del trattato del 1972, che proibiva severamente tale attività. Nel periodo della sua massima espansione, tale programma impiegava più di cinquantamila tra tecnici e scienziati, impegnati nella ricerca e nella produzione, e veniva gestito da una rete di laboratori e fabbriche che andava sotto il nome di Biopreparat, ed era sottoposta al ministero della Difesa. Quel programma è stato apparentemente smantellato sotto il governo Eltsin (anche se molti esperti temono non completamente), causando una diaspora di decine di migliaia di addetti altamente qualificati. Considerando l'attuale condizione economica della Russia, sorge invariabilmente la domanda: dove si trovano adesso queste persone, e che cosa stanno facendo? Alcune, forse, guidano il taxi a New York, come Yuri Davidov, l'immigrato insoddisfatto che compare in questo libro, e fanno comunella con membri altrettanto insoddisfatti dell'estrema destra violenta. La minaccia delle armi batteriologiche si è fatta ancora maggiore a causa delle scelte di nazioni come l'Irak, l'Iran, la Libia e la Corea del Nord. Dopo la fine della guerra del Golfo, gli Stati Uniti e i loro alleati sono rimasti scioccati nello scoprire la quantità di scorte di armi batteriologiche che si trovavano in Irak, e il numero di fabbriche relative, che avevano eluso le indagini dei servizi segreti. Questa rivelazione è servita da brusco avvertimento ai vari governi alleati. Purtroppo, ha anche attirato l'attenzione di gruppi terroristici e di singoli individui che, nel mondo intero, all'improvviso si sono attivamente interessati alle armi batteriologiche. Il motivo è semplice: sono armi poco costose, che richiedono materiali, attrezzature e conoscenze facili da procurarsi (alcune informazioni si trovano anche su Internet) e, in genere, comportano agenti patogeni facilmente disponibili. Inoltre, le armi batteriologiche sono le migliori armi di distruzione di massa da impiegare in modo surrettizio. Gli effetti che provocano impiegano ore o perfino giorni a manifestarsi, e questo dà ai criminali il tempo di fuggire. A ciò si aggiunga l'attuale situazione sociale, economica e politica del mondo. Con il fondamentalismo religioso sempre più forte in alcuni paesi, il nazionalismo in altri, la drammatica situazione economica di altri ancora, e, nell'Occidente industrializzato, la disperazione dei gruppi violenti di estrema destra, i cui programmi hanno avuto una stasi nell'era della crescente globalizzazione, c'è stato un aumento generale del terrorismo in tut-
to il mondo. A rendere tanto critica la situazione attuale è la combinazione di queste caratteristiche con la malvagia attrazione esercitata dalle armi batteriologiche. In questo romanzo, i medici legali sono i primi a cimentarsi con un episodio di terrorismo di questo tipo, che si presenta come un singolo caso di carbonchio. Purtroppo, poiché hanno a portata di mano una spiegazione semplice del caso in questione, anche se non verificata, non indagano a sufficienza per verificare che non si tratti dell'uso di un'arma batteriologica. Se lo facessero, potrebbero forse impedire lo svolgersi dell'attentato, così come è stato programmato. Questa è una lezione importante. Abbandonando la finzione per il mondo reale, c'è un'alta probabilità che la classe medica sia la prima a trovarsi a contatto con un evento terroristico di questo tipo, e tale specifica possibilità deve far parte del modo di pensare dei medici, al giorno d'oggi. Questo è particolarmente vero per quanto riguarda le malattie provocate da agenti noti per il loro utilizzo come armi batteriologiche. Ma le responsabilità della classe medica a tale riguardo vanno al di là della semplice scoperta di un singolo episodio e della cura da prestare alle vittime. Essa ha anche il dovere etico di continuare a istituzionalizzare l'obbrobrio attualmente associato all'impiego delle armi batteriologiche. I medici di ogni paese devono insistere nell'indagare su ogni incidente che comporti malattie sospette all'interno dei loro confini e riportare tali circostanze al forum mondiale. Se questo fosse accaduto nel 1979, quando a Sverdlovsk si verificò una fuoriuscita di carbonchio da un impianto Biopreparat, la classe medica sovietica avrebbe reso un servizio al mondo intero. Il programma illegale sovietico per l'utilizzo offensivo delle armi batteriologiche sarebbe diventato di pubblico dominio. Invece, al mondo è stata propinata l'elaborata disinformazione del KGB, e il Biopreparat ha continuato per altri dieci anni nella sua attività segreta ed eticamente ripugnante. Un altro motivo per cui la classe medica ha da svolgere un ruolo etico in relazione alle armi batteriologiche è che tale tecnologia rappresenta la perversione ultima della ricerca biomedica. Davvero, con l'aiuto del fiorente campo della bioingegneria, esiste la possibilità di creare nuovi organismi apocalittici. Gli esperti tremano al pensiero di combinare la contagiosità del comune raffreddore o anche del morbillo con la patogenicità dell'ebola. Come accade per la minaccia nucleare, il pubblico sente di poter fare ben poco per impedire lo sviluppo o l'impiego delle armi batteriologiche,
ma ciò non è del tutto vero. La gente comune può svolgere un suo ruolo in questo incubo sempre peggiore, anche solo con la consapevolezza della minaccia costituita dalle armi batteriologiche. L'unico modo per impedire effettivamente gli attentati è il controspionaggio, ma occorrono anche un atteggiamento diffuso di sospetto e la continua vigilanza. Poiché è vero che si possono allestire piccoli laboratori e impianti produttivi artigianali all'interno di abitazioni private, usando le cantine o le stanze libere, è importante essere vigili nel cogliere indizi come gli odori della fermentazione o il rumore costante dei ventilatori, e riferirli alle autorità. Dovrebbe essere portato all'attenzione delle forze dell'ordine anche qualsiasi traffico o furto di microrganismi, attrezzature microbiologiche, fermentatori artigianali da birra, indumenti e accessori protettivi, attrezzature per la diffusione di pesticidi. Con tutto ciò di cui già bisogna preoccuparsi di questi tempi, fra l'AIDS, le carestie, i rovesci economici, le guerre civili, le pulizie etniche e il riscaldamento del pianeta, sembra che non ci sia spazio per lo spettro del terrorismo che fa uso di armi batteriologiche. Eppure poche minacce hanno la capacità di uccidere così tante persone così in fretta. Per anni siamo vissuti nel timore che l'inverno nucleare annientasse la razza umana. Adesso una simile minaccia arriva dalla biologia. Infine, per aggiungere una nota positiva, i governi e le autorità locali, in particolare negli Stati Uniti, stanno prendendo seriamente in considerazione l'attuale minaccia e hanno iniziato ad agire. È stato stanziato del denaro e il dipartimento della difesa e l'FBI hanno formato delle unità speciali. Città importanti come New York hanno investito del problema le loro organizzazioni per la gestione delle emergenze. Si sono fatti sforzi per addestrare il personale a livello locale e per svolgere esercitazioni. Eppure, i risultati sono, al momento, ambigui. Forse occorre un vero attacco terroristico per rafforzare l'iniziativa del governo, ma in questo caso per molti potrebbe essere troppo tardi. Occorre fare molto, e tutti noi dobbiamo contribuire. Non aspettiamo che si verifichi un incidente come quello prospettato in questo romanzo, perché si rafforzi la nostra determinazione. Bibliografia DAVIS, LORRAINE e altri (a cura di), Medical Aspects of Chemical and Biological Warfare, Washington, Office of the Surgeon General, 1997.
Si tratta di un libro di testo molto approfondito. FALKENRATH, NEWMAN E THAYER, America's Achilles Heel: Nuclear, Biological, and Chemical Terrorism and Covert Attack, Cambridge, MA, M.I.T. Press, 1998. È il miglior testo di carattere generale che ho trovato sull'argomento. Si focalizza direttamente sulle implicazioni politiche. HAMM, MARK, American Skinheads: The Criminology and Control of Hate Crime, Westport, Conn. Praeger, 1993. Prima di leggere questo libro non sapevo la differenza tra skinhead, punk e rocker. L'ho trovato affascinante, soprattutto per come collega questi movimenti alla musica rock. LAQUEUR, WALTER, Fascism: Past, Present, Future. New York, Oxford University Press, 1996. Un libro estremamente leggibile su un movimento che molti di noi credevano sconfitto nella seconda guerra mondiale. L'ho trovato stimolante, in particolare in rapporto all'attuale turbolenza economica e sociale in Russia. LUNDBERG, GEORGE, Journal of the American Medical Association (JAMA), Chicago, vol. 278, n. 5, 6 agosto 1997. Si tratta di un numero monografico interamente dedicato alle armi batteriologiche, al terrorismo messo in atto con tali armi, alla guerra batteriologica, scritto dal punto di vista di chi deve prestare assistenza medica. PRESTON, RICHARD, «Annals of Warfare: The Bioweaponeers», The New Yorker, vol. 74, n. 3, 9 marzo 1998. È un articolo scritto in modo stupendo che sicuramente sconvolgerà i lettori. REMNICK, DAVID, Resurrection: The Struggle for a New Russia, New York, Random House, 1997. Un altro libro enormemente leggibile, illuminante e in definitiva sconvolgente. Un must per chiunque si interessi alla situazione caotica della Russia attuale. FINE