MARY STEWART LA GROTTA DI CRISTALLO (The Crystal Cave, 1970) Alla memoria di MOLLIE CRAIG con affetto MERLINO O Merlino ...
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MARY STEWART LA GROTTA DI CRISTALLO (The Crystal Cave, 1970) Alla memoria di MOLLIE CRAIG con affetto MERLINO O Merlino nella tua grotta di cristallo Sprofondato nel diamante del giorno, Esisterà mai un cantore La cui musica attenui Il solco tracciato dal dito di Adamo Nel prato e nell'onda? O un corridore che superi L'ombra allungata dell'uomo che avanza, Esploda attraverso le porte della storia, E appenda la mela all'albero? Ci mostrerà mai la tua magia La sposa addormentata chiusa nella sua dimora, Il giorno inghirlandato nel suo tumulo di neve E il Tempo chiuso nella sua torre? EDWIN MUIR INTRODUZIONE Il principe delle tenebre Adesso sono vecchio, ma ero già oltre la maturità quando Artù fu incoronato re. Gli anni che seguirono quell'avvenimento adesso mi appaiono più indistinti e sbiaditi di quelli che lo precedettero, come se la mia vita fosse un albero in sviluppo che fiorisce e mette foglie con lui, e ormai non ha altro da fare che ingiallire fino alla tomba. È vero per tutti i vecchi, che il passato recente è avvolto nella nebbia, mentre le scene più lontane nel ricordo sono chiare e hanno colori vividi. Perfino scene della mia lontana infanzia adesso mi ritornano nette, con
colori accesi e nitidi, come un albero da frutta che si staglia contro un muro bianco, o stendardi che spiccano nel sole contro un cielo temporalesco. I colori sono più vivi di quanto fossero allora, ne sono sicuro. I ricordi che mi ritornano qui, nel buio, sono visti con gli occhi di nuovo giovani dell'infanzia; sono talmente lontani da me, con i loro dolori ormai svaniti, che si svolgono come rappresentazioni di qualche cosa che è avvenuta, non a me, non alla cavità ossea che è sede di quésta memoria, ma a un altro Merlino, giovane, leggero e libero nell'aria e nei venti di primavera quanto l'uccello dal quale essa mi diede nome. Con i ricordi più recenti è diverso; ritornano, alcuni di essi, caldi e sfumati, cose viste nel fuoco. Perché lì li raccolgo. Questo è uno dei pochi, banali trucchi - non posso chiamarlo potere - rimastomi adesso che sono vecchio e sono ridotto infine a essere un uomo. Posso ancora vedere... non con chiarezza o, come una volta, in uno squillo di trombe, ma come un bambino che nel fuoco scorge sogni e figure. Posso ancora far divampare o spegnere le fiamme: è una delle magie più semplici, che s'impara con grande facilità, l'ultima che si dimentica. Ciò che non riesco a richiamare nel sogno lo vedo nelle fiamme, nel rosso cuore del fuoco o negli specchi innumerevoli della grotta di cristallo. Il primissimo ricordo è scuro e ha lampi di fuoco. Non è un ricordo mio, ma capirete in seguito come so queste cose. Lo si potrebbe chiamare non tanto ricordo quanto sogno del passato, qualcosa che è nel sangue, rievocato da lui, forse, quando ancora mi portava nel suo corpo. Credo che possano esistere cose simili. Perciò mi sembra giusto cominciare con lui che fu prima di me e che sarà di nuovo quando io me ne sarò andato. Questo è quanto accadde quella notte. Io lo vidi, ed è una storia vera. Era buio, e il luogo era freddo, ma lui aveva acceso un focherello di legna che produceva un fumo scuro, ma dava un po' di caldo. Aveva piovuto tutta la giornata, i rami vicini all'ingresso della grotta ancora gocciolavano, e un filo d'acqua continuo traboccava dalla fonte, inzuppando il terreno. Parecchie volte, irrequieto, era uscito dalla grotta e adesso camminava fuori sotto il dirupo, in direzione del boschetto dove era legato il suo cavallo. Con il crepuscolo aveva smesso di piovere, ma si era alzata la nebbia, e si era insinuata tra gli alberi fino all'altezza del ginocchio sicché quelli adesso si ergevano come spettri e il cavallo che pascolava sembrava galleggiare come un cigno. Era un cavallo grigio, e appariva tanto più spettra-
le in quanto pascolava in assoluto silenzio; egli aveva lacerato una sciarpa avvolgendo intorno al morso dell'animale frammenti di tessuto, in modo da evitare il tintinnio che avrebbe potuto tradirlo. Il morso era dorato e le strisce del tessuto stracciato erano di seta, perché egli era figlio di re. Se lo avessero preso lo avrebbero ucciso. Aveva appena diciotto anni. Udì gli zoccoli risalire dolcemente la valle. La sua testa si mosse e il suo respiro si fece più rapido. La sua spada fu un guizzo di luce mentre la sollevava. Il cavallo grigio smise di pascolare e alzò la testa al di sopra della nebbia. Le sue narici fremettero, ma non emise alcun suono. L'uomo sorrise. Gli zoccoli si avvicinarono finché un pony baio, immerso nella nebbia fino al dorso, uscì al trotto dall'oscurità. Il cavaliere, piccolo ed esile, era avvolto in un mantello scuro, imbacuccato contro l'aria della notte. Il pony si fermò, alzò la testa e nitrì forte e a lungo. Il cavaliere, con un'esclamazione sgomenta, scivolò a terra e afferrò la briglia per soffocare il nitrito contro il suo mantello. Era una fanciulla, giovanissima, e si guardò intorno ansiosa finché, sul limitare del boschetto, scorse il giovane con la spada in mano. «Fai rumore quanto uno squadrone di cavalleria» disse lui. «Sono arrivata qui prima di rendermene conto. Tutto sembra insolito, nella nebbia.» «Nessuno ti ha vista? Sei venuta senza incidenti?» «Abbastanza. In questi ultimi due giorni è stato impossibile. Loro erano sulle strade notte e giorno.» «Lo immaginavo.» Egli sorrise. «Bene, adesso sei qui. Dammi le briglie.» Condusse il pony sotto gli alberi e ve lo legò. Poi la baciò. Dopo un momento essa lo respinse. «Non dovrei fermarmi. Ho portato le cose, così anche se domani non posso venire...» Si interruppe. Aveva visto la sella sul cavallo di lui, il morso con le strisce di seta che dovevano attutire i suoni, la bisaccia da sella preparata. Accostò le mani a lui, che le copri con le sue e la tenne stretta. «Ah,» disse lei «lo sapevo. Lo sapevo perfino nel sonno, la notte scorsa. Te ne vai.» «Devo. Stanotte.» Per un minuto ella rimase in silenzio. Poi tutto quello che disse fu: «Quanto tempo?». Egli non finse di fraintenderla. «Abbiamo un'ora, due, non di più.» Lei disse con una voce priva di vita: «Tornerai». Poi, mentre lui cominciava a parlare: «No. Adesso no, non più. Ne abbiamo parlato e riparlato e
adesso non c'è più tempo. Volevo solo dire che sarai al sicuro, e che tornerai senza incidenti. Te lo dico, le so queste cose. Io vedo. Tornerai». «Non c'è bisogno di avere questo dono per dirmelo. Devo tornare. E allora forse mi ascolterai...» «No.» Ella lo interruppe di nuovo, quasi con ira. «Non importa. Che cosa importa? Abbiamo solo un'ora e la stiamo sprecando. Entriamo.» Egli stava già aprendo il fermaglio tempestato di gemme che le teneva chiuso il mantello, e intanto la circondava con un braccio conducendola verso la grotta. «Sì, entriamo.» LIBRO I La colomba Uno Il giorno in cui mio zio Camlach tornò a casa avevo esattamente sei anni. Ricordo bene come mi apparve: giovane, alto, impetuoso come mio nonno, con gli occhi azzurri e quei capelli rossicci che trovavo così belli in mia madre. Arrivò a Maridunum verso il tramonto di una sera di settembre, con un piccolo squadrone di uomini. Dato che ero ancora piccolo, io rimanevo con le donne nella lunga sala antica in cui esse tessevano. Mia madre era seduta al telaio; ricordo il suo vestito: era di color scarlatto, con una sottile guarnizione verde all'orlo. Seduto sul pavimento vicino a lei io giocavo con gli aliossi, la mano destra sopra la sinistra. Il sole entrava obliquo dalle finestre, formando chiazze allungate d'oro sui mosaici incrinati del pavimento; le api ronzavano tra le piante e perfino lo scatto e il tintinnio del telaio parevano sonnolenti. Le donne parlavano tra loro al di sopra dei fusi, ma piano, con le teste ravvicinate, e Moravik, la mia bambinaia, era decisamente addormentata sulla sua sedia in una delle chiazze di sole. Quando dal cortile salirono lo scalpiccio e poi le grida, il telaio si fermò di colpo, e anche il sommesso mormorio delle donne. Moravik si svegliò con uno sbuffo e rimase con gli occhi spalancati. Mia madre era seduta rigida, col viso alzato, in ascolto. Aveva lasciato cadere la spola. Vidi il suo sguardo incontrare quello di Moravik. Mi stavo dirigendo alla finestra quando Moravik mi chiamò con tono pe-
rentorio, e c'era qualcosa nella sua voce che mi fece fermare e ritornare presso di lei senza protestare. Essa cominciò a darsi da fare con i miei vestiti, tirandomi la tunica per raddrizzarla e lisciandomi i capelli, perciò capii che l'ospite doveva essere una persona importante. Mi sentii eccitato e anche sorpreso, perché a quanto pareva avrei dovuto essergli presentato, in occasioni del genere ero abituato a esser tenuto da parte. Accettai con pazienza che Moravik mi passasse il pettine tra i capelli, mentre al di sopra della mia testa lei e mia madre si scambiavano alcune brevi battute, ansanti, che io non capii, non prestandovi troppa attenzione. Stavo ascoltando lo scalpiccio dei cavalli nel cortile e frammiste le grida degli uomini, parole qua e là che mi giungevano chiaramente in una lingua che non era né gallese né latino, ma celtico con una leggera pronuncia simile a quella della Britannia minore, che io capivo perché la mia bambinaia, Moravik, era brettone e la sua lingua mi veniva alle labbra con la stessa facilità della mia. Udii la risata sonora di mio nonno, e un'altra voce che rispondeva. Poi il nonno dovette far entrare in casa il nuovo venuto ed entrare con lui, perché le voci si allontanarono, lasciando solo il tintinnio e lo scalpiccio dei cavalli condotti nelle scuderie. Mi staccai da Moravik e corsi da mia madre. «Chi è?» «Mio fratello Camlach, il figlio del re.» Essa non mi guardò, ma indicò la spola caduta. La raccolsi e gliela porsi. Lentamente e con gesti meccanici, rimise in moto il telaio. «Allora la guerra è finita?» «La guerra è finita da un pezzo. Tuo zio è stato a sud con il Sommo re.» «E adesso deve tornare a casa perché lo zio Dyved è morto?» Dyved era stato l'erede, il primogenito del re. Era morto all'improvviso, con grandi sofferenze, di crampi allo stomaco, e Elen, la sua vedova, che era senza figli, era tornata dal padre. Naturalmente come al solito si era parlato di veleno, ma nessuno ci credeva sul serio; Dyved era bene accetto, guerriero tenace e uomo prudente, ma all'occorrenza generoso. «Dicono che dovrà sposarsi. Lo farà, madre?» Ero eccitato, mi sentivo importante perché sapevo tante cose, e pensavo alla festa di nozze. «Sposerà Keridwen, adesso che zio Dyved...» «Cosa?» La spola si fermò ed essa si girò, allarmata. Ma ciò che vide sul mio viso la calmò, perché nella sua voce non c'era più ira, mentre la sua fronte era ancora corrugata, e allora sentii Moravik chiocciare e darsi da
fare dietro a me. «Dove diavolo vai a trovare queste cose? Senti troppe cose, che tu le capisca o no. Dimentica queste faccende, e tieni a freno la lingua.» La spola riprese a muoversi, con lentezza. «Stammi a sentire, Merlino. Quando verranno per vederti, farai bene a stare buono. Mi capisci?» «Sì, madre.» Capivo benissimo. Ero abituato a stare alla larga dal re. «Ma verranno per vedere me? Perché?» Essa disse, con un'amarezza che la fece apparire tutt'a un tratto più vecchia, vecchia quasi come Moravik: «Tu che cosa credi?». Il telaio riprese a muoversi con uno scatto, furiosamente. Lei stava infilando il filo verde, e vidi che faceva uno sbaglio, ma era bello perciò non dissi nulla, rimasi a guardarla standole vicino, finché alla fine la tenda alla porta fu spinta da una parte e due uomini entrarono. Parevano riempire la stanza, la testa rossa e la testa grigia a un palmo dalle travi. Mio nonno era vestito di azzurro, di color pervinca con un bordo d'oro. Camlach era in nero. Avrei scoperto in seguito che si vestiva sempre di nero; portava monili alle mani e sulla spalla, e accanto al padre appariva snello e giovane, ma agile e flessuoso come una volpe. Mia madre si alzò. Indossava una veste lunga e sciolta da casa marrone scuro, il colore della torba, sul quale i suoi capelli brillavano come le barbe del mais. Ma nessuno dei due la degnò di uno sguardo. Si sarebbe detto che nella stanza non ci fosse nessuno tranne me, piccolo com'ero, accanto al telaio. Mio nonno spinse in avanti il mento e pronunciò una sola parola: «Fuori»; e le donne si affrettarono a uscire frusciando dalla stanza, in gruppo silenzioso. Moravik tenne duro, gonfia di coraggio come una pernice, ma i fieri occhi azzurri la sferzarono per un secondo e anche lei si allontanò. Passando accanto a loro, tutto quello che osò fare fu di aspirare rumorosamente l'aria. Gli occhi tornarono a convergere su di me. «Il bastardo di tua sorella» disse il re. «Eccolo. Sei anni questo mese, cresciuto come la mala erba e non più somigliante a chiunque di noi di quanto lo sarebbe un dannato figlio del diavolo. Guardalo! Capelli neri, occhi neri, con una paura delle armi quanta ne può avere un bambino rapito delle colline piene di caverne. Se mi dici che l'ha generato il diavolo in persona ti credo!» Mio zio disse solo tre parole, direttamente a lei: «Di chi è?». «Credi che non l'abbiamo chiesto, idiota?» disse mio nonno. «È stata frustata finché le donne hanno detto che avrebbe abortito, ma da lei non è
uscita una parola. Magari fosse successo, forse... si sentivano certe sciocchezze, storie di donnette a proposito di diavoli che vengono nelle tenebre per giacersi con fanciulle giovani... e dall'aspetto che ha potrebbe essere vero.» Camlach, un metro e ottantaquattro e color d'oro, mi guardò. Aveva gli occhi azzurri, come quelli di mia madre, e il colorito acceso. Il fango si era seccato, giallo, sui suoi morbidi stivali di daino, ed emanava un afrore di sudore e di cavalli. Era venuto a vedermi prima ancora di togliersi il sudicio del viaggio. Ricordo come mi fissava, mentre mia madre era ferma in silenzio e mio nonno lanciava sguardi minacciosi da sotto le sopracciglia, col respiro che gli diventava rapido e irregolare, come sempre accadeva quando andava in collera. «Vieni qui» disse mio zio. Feci una mezza dozzina di passi in avanti. Non osavo avvicinarmi ancora. Mi fermai. A tre passi di distanza pareva più alto che mai. Torreggiava su di me fino alle travi del soffitto. «Come ti chiami?» «Myrddin Emrys.» «Emrys? Figlio della luce, proprietà degli dei?... Non si direbbe il nome di un piccolo del diavolo.» La gentilezza del tono mi incoraggiò. «Mi chiamano Merlino» arrischiai. «È il nome romano di un falcone, il corwalch1.» Mio nonno abbaiò: «Un falcone!», ed emise un suono di disprezzo, scuotendo i suoi bracciali finché tintinnarono. «Uno piccolo» dissi io sulla difensiva, poi rimasi in silenzio sotto lo sguardo pensieroso di mio zio. Questi si strofinava il mento, poi guardò mia madre sollevando le sopracciglia. «Strane scelte, tutte, per una famiglia cristiana. Un demone romano, forse, Niniane?» Lei alzò il mento. «Forse. Come faccio a saperlo? Faceva buio.» Credetti di vedere un lampo divertito passarle sulla faccia, ma il re lasciò calare una mano con un gesto violento. «Vedi? Questo è tutto ciò che si ottiene... bugie, storie di magia, insolenza! Torna al lavoro, ragazza, e tienimi il tuo bastardo lontano dagli occhi! Adesso che tuo fratello è a casa, troveremo un uomo che vi porterà via tutti e due da sotto i miei piedi e i suoi! Camlach, spero tu capisca la ragione di prendere anche tu moglie adesso, e di avere uno o due figli, dato che questo è tutto quanto mi è rimasto!» «Ah, io sono d'accordo» disse Camlach con leggerezza. La loro atten-
zione si era distolta da me. Se ne stavano andando, e nessuno dei due mi aveva toccato. Aprii le mani strette a pugno e indietreggiai piano, mezzo passo, un altro mezzo. «Ma anche tu hai preso una nuova regina, nel frattempo, signore, e mi dicono che è gravida.» «Non ha importanza. Devi sposarti, e subito. Io sono vecchio, e i tempi sono inquieti. Quanto al ragazzo...» mi sentii di nuovo gelare «scordalo. Chiunque sia quello che lo ha generato, se non si è fatto avanti in sei anni, non lo farà ora. E fosse pur stato Vortigern in persona, il Sommo re, di lui non avrebbe fatto niente. Un marmocchio imbronciato che sta nascosto da solo negli angoli. Non gioca neppure con gli altri ragazzi... forse ha paura di farlo. Ha paura della sua stessa ombra.» Voltò la testa. Gli occhi di Camlach incontrarono quelli di mia madre, al di sopra della mia testa. Qualche messaggio fu scambiato. Poi egli abbassò di nuovo lo sguardo su di me, e sorrise. Ricordo ancora come la stanza sembrasse chiara, benché ormai il sole se ne fosse andato e insieme anche il suo calore. Presto avrebbero portato i lumi. «Bene,» disse Camlach «dopo tutto è solo un falcone quasi implume. Non essere troppo duro con lui, signore; hai riempito di paura tipi migliori di lui, ai tuoi tempi.» «Parli di te stesso?» «Te lo assicuro.» Il re, sulla soglia, mi fissò un attimo da sotto le sopracciglia sporgenti, poi con uno sbuffo di impazienza si gettò il mantello sul braccio. «Bene, bene, lasciamo perdere. Per il martirio di Cristo, ho fame. L'ora della cena è passata da un pezzo, ma suppongo che vorrai prima andare a lavarti, secondo la tua dannata abitudine romana. Ti avverto, da quando sei partito non abbiamo mai fatto funzionare le caldaie...» Si voltò in un turbinare del mantello azzurro e uscì, sempre parlando. Sentii dietro di me il respiro di mia madre che si rilassava, e il fruscio del suo vestito mentre essa si sedeva. Mio zio mi tese una mano. «Vieni, Merlino, a chiacchierare con me mentre mi faccio il bagno nella vostra fredda acqua del Galles. Noi principi dobbiamo arrivare a conoscerci l'un l'altro.» Rimasi fermo come se avessi le radici. Ero consapevole del silenzio di mia madre, e di quanto essa stesse immobile. «Vieni» ripeté mio zio, dolcemente, e mi sorrise di nuovo. Corsi verso di lui.
Quella notte attraversai l'ipocausto.2 Era la mia via privata, il mio nascondiglio segreto, dove potevo sfuggire ai ragazzi più grandi e giocare i miei giochi solitari. Mio nonno aveva detto bene affermando che «stavo nascosto da solo negli angoli», ma non lo facevo per paura, benché i figli dei suoi nobili seguissero il suo esempio come è proprio dei bambini - facendo di me lo zimbello dei loro rudi giochi guerreschi, ogni qualvolta riuscivano a prendermi. Dapprima, è vero, le gallerie del sistema di riscaldamento in disuso erano un rifugio, un luogo segreto nel quale potevo nascondermi e stare solo; ma ben presto provai un piacere stranamente intenso esplorando il grande sistema di locali bui, che odoravano di terra, posti sotto il palazzo. Il palazzo di mio nonno era stato, in passato, la vasta dimora di campagna di qualche notabile romano, proprietario e coltivatore della terra per un raggio di parecchie miglia lungo la valle del fiume. La parte principale della casa era ancora al suo posto, benché malamente sfregiata dal tempo, dalla guerra e da almeno un disastroso incendio che aveva distrutto un'estremità del corpo principale e parte di un'ala. I vecchi alloggi degli schiavi erano ancora intatti tutt'intorno al cortile dove lavoravano cuochi e domestici, e rimaneva l'edificio dei bagni, benché rappezzato e intonacato e con il tetto malamente ricoperto di paglia nei punti peggiori. Non ricordo di aver mai visto la caldaia in funzione; l'acqua veniva riscaldata sopra fuochi nel cortile. L'ingresso al mio labirinto segreto era la bocca del forno nella sala caldaia; era una botola nel muro sotto la caldaia screpolata e arrugginita, appena all'altezza del ginocchio per un adulto, e nascosta da romici e ortiche e da un grande pezzo di metallo incurvato caduto proprio dalla caldaia. Una volta entrati, si poteva arrivare sotto i locali dell'edificio dei bagni, ma questo era in disuso da tanto tempo che lo spazio sotto il pavimento era troppo ingombro e sporco perfino per me. Passavo dall'altra strada, sotto il corpo principale del palazzo. Qui il vecchio impianto ad aria calda era stato costruito e si conservava così bene che anche ora lo spazio vuoto sotto il pavimento, alto quanto il ginocchio, era asciutto e aerato, e l'intonaco aderiva ancora alle colonne di mattoni che reggevano il pavimento. In certi punti, naturalmente, una colonna era crollata, o erano caduti dei calcinacci, ma le botole che conducevano da un locale all'altro erano archi solidi e sicuri, e io ero libero di strisciare, senza che nessuno mi vedesse o mi sentisse, fin sotto la camera del re.
Se mi avessero scoperto credo che avrei ricevuto una punizione peggiore delle frustate: dovetti ascoltare, con una certa innocenza, dozzine di segreti colloqui, esser testimone di contegni molto privati, ma questo aspetto della cosa non mi venne mai in mente. Ed era abbastanza naturale che nessuno si preoccupasse del pericolo che qualcuno potesse origliare; in passato i condotti dell'aria erano stati puliti da schiavi bambini e nessuno che superasse di molto i dieci anni avrebbe potuto mai passare nelle gallerie; c'erano un paio di punti in cui perfino per me era difficile sgusciare. Solo una volta rasentai il pericolo di essere scoperto: un pomeriggio in cui Moravik credeva che stessi giocando con i ragazzi e questi a loro volta pensavano che fossi al sicuro sotto le sue gonne, il rosso Dinias, mio principale tormentatore, dal ramo più alto di un albero sul quale stavano giocando insieme diede uno spintone così forte a un bambino più piccolo che questo cadde e si ruppe una gamba, piantando tali grida che Moravik, accorsa sul luogo, scoprì che io non c'ero e mise in subbuglio il palazzo. Io sentii il rumore e riemersi, senza fiato e sporco, da sotto la caldaia, proprio nel momento in cui essa cominciava le ricerche nell'ala dei bagni. Riuscii a cavarmela raccontando qualche storia e ne uscii con qualche schiaffo e una sgridata, ma fu un avvertimento; non tornai più nell'ipocausto di giorno, solo di notte prima che Moravik andasse a letto, o un paio di volte che ero sveglio mentre lei era già a letto e russava. Anche gli altri abitanti del palazzo erano per lo più a letto, ma quando c'era una festa, o mio nonno aveva ospiti, sentivo il rumore delle voci e i canti; e qualche volta strisciavo furtivo fino alla camera di mia madre, per sentire il suono della sua voce mentre parlava con le donne. Ma una notte la udii pregare, ad alta voce, come uno che sia solo, e nella preghiera c'era il mio nome, Emrys, e poi le sue lagrime. Dopo seguii un altro percorso, oltrepassando la stanza della regina dove quasi tutte le sere Olwen, la giovane regina, cantava suonando l'arpa tra le sue dame, finché il passo del re risuonava pesante lungo il corridoio e la musica s'interrompeva. Ma io non ci andavo per nessuna di queste cose. Ciò che mi importava adesso lo capisco con chiarezza - era di essere solo nel buio segreto, dove chiunque è padrone di se stesso, salvo che per la morte. Per lo più andavo in quella che chiamavo «la mia grotta». In passato doveva essere una delle principali canne di camino, ma la cima era crollata sicché si poteva vedere il cielo. Per me era magica, dal giorno in cui, alzando gli occhi a mezzogiorno, avevo visto brillare, debolmente ma in modo inconfondibile, una stella. Adesso, quando ci venivo di notte, mi
raggomitolavo sul mio letto di paglia rubata nelle scuderie a guardare le stelle che lentamente volteggiavano sopra di me, e facevo la mia scommessa con il cielo, che consisteva in questo: se la luna si sarebbe mostrata sopra la canna del camino mentre io c'ero, il giorno successivo avrebbe adempiuto il desiderio del mio cuore. Quella notte la luna c'era. Piena e lucente, stava nitida al centro della canna del camino, e la sua luce si rovesciava sul mio viso girato all'insù così bianca e pura che pareva io me ne abbeverassi come acqua. Non mi mossi finché non se ne fu andata, con la piccola stella che la segue. Durante il ritorno passai sotto una stanza che era stata vuota fino a quel giorno, ma dalla quale ora provenivano delle voci. La camera di Camlach, naturalmente. Lui e un altro uomo del quale non conoscevo il nome ma che, dalla pronuncia, era uno di quelli che erano arrivati a cavallo con lui, quel giorno; avevo scoperto che venivano dalla Cornovaglia. Questi aveva una di quelle voci roche, rombanti, di cui afferravo solo una parola qua e là mentre strisciavo svelto, trascinandomi in mezzo alle colonne, attento solo a non farmi sentire. Ero proprio arrivato all'ultima parete, e l'andavo tastando in cerca del passaggio ad arco che immetteva nella camera seguente, quando con la spalla urtai un tratto rotto del condottto e un pezzo staccato di argilla refrattaria cadde con fracasso. La voce del cornovagliese s'interruppe di colpo. «Che cos'è?» Poi la voce di mio zio, cosi nitida giù per il condotto dell'aria calda rotto, che si sarebbe detto mi parlasse all'orecchio. «Niente. Un topo. Veniva da sotto il pavimento. Te l'ho detto, questa casa va a pezzi.» Ci fu il rumore di una sedia tirata indietro, e passi che attraversavano la stanza, allontanandosi da me. La sua voce si allontanò. Sentii il gorgoglio di una bevanda che veniva versata. Adagio adagio, cominciai a muovermi lungo la parete verso l'uscita. Lui stava tornando indietro. «...E anche se lei lo rifiuta, poca importanza avrà. Non starà qui... comunque non più a lungo di quanto mio padre potrà cacciare il vescovo e tenerla accanto a sé. Te lo dico io, fissata com'è su quello che chiama la corte suprema, io non ho niente da temere, anche se venisse lui in persona.» «Purché tu le creda.» «Ah, le credo. Ho chiesto qua e là e tutti dicono la stessa cosa.» Rise.
«Chissà, può darsi che dovremo essere grati di avere una voce favorevole in quella sua corte celeste prima che il gioco sia finito. E lei è abbastanza devota da salvarci tutti, mi dicono, se solo ci pensa.» «Può darsi che tu ne abbia bisogno» disse il cornovagliese. «Può darsi.» «E il ragazzo?» «Il ragazzo?» ripeté mio zio. Si fermò, poi i passi ripresero ad andare su e giù. Mi sforzai di sentire. Dovevo sentire. Non sapevo perché fosse importante. Non mi preoccupavo eccessivamente di esser chiamato bastardo, o vigliacco, o figlio del diavolo. Ma quella sera c'era stata la mia luna piena. Lui si era voltato. La sua voce risuonò chiara, spensierata, perfino indulgente. «Ah, sì, il ragazzo. Un bambino intelligente, mi pare, che ha più di quanto gli riconoscono... e abbastanza simpatico, se uno gli parla gentilmente. Me lo terrò vicino. Ricordati di questo, Alun; il ragazzo mi piace...» Poi chiamò un servo nella stanza per farsi riempire la brocca del vino e col favore di questi nuovi rumori mi allontanai, strisciando. Questo fu il principio. Per giorni lo seguii dappertutto, ed egli mi tollerò, addirittura mi incoraggiò, sicché non mi venne mai neppure in mente che a un uomo di ventun'anni non fa sempre piacere avere un cucciolo di sei anni che gli trotterella alle calcagna. Moravik mi sgridava, quando riusciva a prendermi, ma mia madre pareva contenta e sollevata, e la pregava di lasciarmi stare. Due Era stata un'estate calda e c'era la pace quell'anno, perciò i primi giorni dopo il ritorno Camlach oziò, riposando o cavalcando fuori con suo padre o con gli uomini attraverso i campi mietuti e le valli dove le mele già cadevano mature dagli alberi. Il Galles meridionale è una bella regione, con colline verdi e profonde valli, piatte marcite gialle di fiori dove il bestiame diventa morbido e lustro, foreste di querce piene di cervi, e gli altipiani azzurri dove di primavera grida il cuculo ma dove, venuto inverno, scorrazzano i lupi e perfino con la neve io ho visto i fulmini. Maridunum giace nel punto in cui l'estuario si apre verso il mare, sul
fiume che sulle carte militari è segnato Tobius, ma che i gallesi chiamano Tywy. Qui la valle è pianeggiante e larga e il Tywy corre in un'ansa profonda e placida attraverso acquitrini e marcite, tra dolci colline. La città sorge sul terreno in salita dell'argine settentrionale, dove la terra è drenata e asciutta; è servita verso l'entroterra dalla strada militare che conduce a Caerleon, e a sud da un buon ponte di pietra a tre campate, partendo dal quale una strada lastricata conduce direttamente su alla casa del re, e poi nella piazza. A parte la casa di mio nonno e le caserme della fortezza costruita dai romani, dove egli acquartierava i suoi soldati e che manteneva in buono stato, l'edificio più bello di Maridunum era il convento cristiano vicino al palazzo, in riva al fiume. Vi vivevano alcune sante donne, che si definivano la Comunità di San Pietro, mentre gli abitanti del luogo per lo più chiamavano l'edificio Tyr Myrddin3, dal vecchio santuario del dio che era da tempo immemorabile sotto una quercia non lontano dal cancello di San Pietro. Da bambino udii anch'io chiamare la città Caer-Myrddin: non è vero (come dicono adesso) che questo nome le fu dato a causa mia. Il fatto è che io, come la città e la collina con la sorgente sacra dietro la città, fui chiamato così in onore del dio che è onorato nell'alto dei cieli. In seguito agli avvenimenti dei quali parlerò, il nome della città è stato pubblicamente cambiato in mio onore, ma il dio era li per primo, e se adesso io ho la sua collina è perché egli la divide con me. La casa di mio nonno sorgeva in mezzo ai suoi frutteti proprio accanto al fiume. Arrampicandosi, grazie a un melo inclinato, in cima al muro, si poteva dominare la strada alzaia e sorvegliare il ponte sul fiume spiando i cavalieri che venivano dal sud o le navi che risalivano il fiume con la marea. Anche se non mi era permesso arrampicarmi sugli alberi per prendere le mele - ero costretto ad accontentarmi di quelle buttate a terra dal vento Moravik non m'impedì mai di salire in cima al muro. Il fatto che io fossi lì appostato come una sentinella significava per lei aver sentore dei nuovi arrivi prima di ogni altro del palazzo. C'era un piccolo terrapieno elevato all'estremità del frutteto, con un muro curvo di mattoni alle spalle e un sedile di pietra protetto dal vento, e lei usava star seduta lì per ore, sonnecchiando sul fuso, col sole che batteva così caldo che le lucertole sgusciavano fuori per rimanersene ferme sulle pietre, e io dal muro gridavo i miei resoconti. Un caldo pomeriggio, circa otto giorni dopo l'arrivo di Camlach a Mari-
dunum, mi trovavo nella mia solita postazione. Non c'era alcun viavai sul ponte né lungo la strada che risaliva la valle, solo una chiatta locale per le granaglie stava caricando sul molo, sotto lo sguardo di un gruppetto di perdigiorno, e un vecchio con un mantello fornito di cappuccio indugiava raccogliendo sotto il muro le mele buttate a terra dal vento. Guardai da sopra le spalle verso l'angolo di Moravik. Questa si era addormentata, e il fuso che le era caduto sulle ginocchia, con la sua soffice lana bianca, pareva un fiore palustre sbocciato. Gettai la mela già addentata e piegai la testa per studiare gli alti rami proibiti degli alberi dai quali pendevano a grappoli, spiccando contro il cielo, le belle sfere gialle. Ce n'era una alla quale potevo arrivare, mi pareva. Era un frutto rotondo e lucido, che maturava in modo quasi visibile al sole caldo. Mi venne l'acquolina in bocca. Mi tesi in cerca di un punto d'appoggio e cominciai ad arrampicarmi. Ero a due rami di distanza dal frutto quando un grido proveniente dalla direzione del ponte e seguito da un rapido scalpicciare di zoccoli e da un rumore di metallo, mi fece fermare di colpo. Aggrappandomi come una scimmia, mi assicurai un punto d'appoggio, poi tesi una mano per spostare le foglie, sbirciando giù verso il ponte. Uno squadrone di uomini lo stava attraversando a cavallo, in direzione della città. Uno di essi cavalcava solo davanti agli altri, a testa scoperta, su un grande cavallo baio. Non era Camlach, e neppure mio nonno; e nessuno dei nobili perché gli uomini vestivano colori che non conoscevo. Poi, quando raggiunsero la testa del ponte dalla nostra parte, vidi che il capo era uno straniero, nero di capelli e di barba, con l'aspetto forestiero nei vestiti, e un lampeggiare d'oro sul petto. I suoi copripolsi erano d'oro, inoltre, ed erano larghi un palmo. Gli uomini che lo seguivano, calcolai, erano una cinquantina. Re Gorlan di Lanascol. Da dove quel nome affiorasse, così chiaro da non potercisi sbagliare, proprio non lo sapevo. Qualcosa che avevo udito dal mio labirinto segreto, forse? Una parola pronunciata sbadatamente e udita da un bambino. Un sogno, addirittura? Gli scudi e le punte delle lance, concentrando i raggi del sole, mi abbagliavano. Gorlan di Lanascol. Un re. Venuto per sposare mia madre e portarmi con sé dall'altra parte del mare. Lei sarebbe stata regina. E io... Stava già dirigendo il cavallo verso la collina. Cominciai metà a scendere, metà a scivolare dall'albero. «E se lei lo rifiuta?» Riconobbi quella voce; era la voce del cornovagliese. E dopo di lui quella di mio zio: «E anche se lei lo rifiuta, poca impor-
tanza avrà... Io non ho niente da temere, anche se venisse lui in persona...». Lo squadrone stava attraversando tranquillamente il ponte. Il tintinnio delle armi e il calpestio degli zoccoli risuonavano nella serena aria assolata. Lui era venuto di persona. Era qui. A un palmo di distanza dalla cima del muro persi l'equilibrio e quasi caddi. Per fortuna mantenni la presa con le mani, e atterrai senza altri incidenti sulla cimasa del muro con una pioggia di foglie e di lichene proprio mentre la mia bambinaia chiamava con voce stridula: «Merlino? Merlino? Dio ne scampi, dov'è quel bambino?». «Qui... qui, Moravik... sto scendendo.» Atterrai nell'erba alta. Lei aveva abbandonato il fuso e, rialzando la gonna, si avvicinava correndo. «Che cos'è quel movimento sulla strada del fiume? Ho sentito dei cavalli, dal rumore si direbbe uno squadrone... Beati santi, figlio, guardati i vestiti. Questa settimana ti avevo aggiustato la tunica, e ora guarda com'è ridotta! Hai uno strappo che ci si potrebbe far passare un pugno e sei sporco dalla testa ai piedi come il figlio di un mendicante!» Mi scansai mentre lei cercava di afferrarmi. «Sono caduto. Mi dispiace. Stavo scendendo per venirti a raccontare. C'è uno squadrone di cavalli... stranieri! Moravik, è il re Gorlan di Lanascol! Ha un manto rosso e la barba nera!» «Gorlan di Lanascol? Ma guarda, è a neppure venti miglia dal mio paese! Che cosa è venuto a fare, mi domando?» La fissai. «Non lo sapevi? È venuto per sposare mia madre.» «Sciocchezze.» «È vero!» «No, che non è vero! Credi che non lo saprei? Non devi dire di queste cose, Merlino, potrebbero significare guai. Come l'hai saputo?» «Non ricordo. Me l'ha detto qualcuno. Mia madre, credo.» «Questo non può essere vero e lo sai.» «Allora devo aver sentito qualche cosa.» «Sentito qualche cosa, sentito qualche cosa! I maiali giovani hanno le orecchie lunghe, come si dice. Tu devi avere sempre le orecchie a terra, senti troppe cose! Perché stai sorridendo?» «Per niente.» Essa piantò le mani sui fianchi. «Sei stato ad ascoltare quello che non dovevi. Te l'ho già detto. Non c'è da meravigliarsi se la gente dice quello
che dice.» Di solito rinunciavo e mi allontanavo dal terreno infido quando mi ero spinto troppo in là, ma quella volta l'eccitazione mi aveva reso incauto. «È vero, vedrai se non è vero! Che importanza ha dove l'ho sentito? Sul serio adesso non me lo ricordo, ma so che è vero! Moravik...» «Cosa?» «Re Gorlan è mio padre, il mio vero padre.» «Cosa?» Questa volta la parola era tagliente come il dente di una sega. «Non lo sapevi? Neppure tu?» «No, non lo sapevo. E non lo sai neppure tu. E se appena fiati con qualcuno su questo argomento... Ma il nome come lo sai?» Mi prese per le spalle e mi diede un breve scossone. «Come fai addirittura a sapere che è re Gorlan? Non si è parlato mai della sua venuta, neppure con me.» «Te l'ho detto. Non ricordo che cosa ho sentito, né dove l'ho sentito. Solo ho sentito il suo nome da qualche parte, tutto qui, e so che sta venendo per vedere il re a causa di mia madre. Andremo in Britannia minore, Moravik, e tu puoi venire con noi. Ti piacerà, vero? È il tuo paese. Forse staremo vicini...» La mano che mi teneva si strinse e io m'interruppi. Con sollievo vidi uno dei valletti del re affrettarsi verso di noi attraverso i meli. Arrivò ansimante. «Deve andare al cospetto del re. Il ragazzo. Nel salone. E in fretta.» «Chi c'è?» chiese Moravik. «Il re ha detto di fare in fretta. Ho dovuto cercare dappertutto il ragazzo...» «Chi c'è?» «Il re Gorlan dalla Bretagna.» Lei emise un piccolo sibilo, come un'oca spaventata, e lasciò cadere le mani. «Che cosa c'entra il ragazzo?» «Che ne so?» L'uomo era senza fiato - la giornata era calda e lui era corpulento - e rispondeva in tono brusco alle domande di Moravik, la cui posizione come mia bambinaia era, nella considerazione dei domestici, solo di poco superiore alla mia. «Tutto quello che so è che ha fatto cercare madonna Niniane e il ragazzo, e secondo me ci saranno bastonate per qualcuno se lui non c'è prima che il re cominci a cercarlo. Il re è in grande agitazione da quando sono arrivati i battistrada, questo te lo assicuro.» «Va bene, va bene. Torna a casa e di' che arriviamo tra pochi minuti.» L'uomo si allontanò rapidamente. Essa si girò piroettando verso di me e
mi prese per il braccio. «Per tutti i beati santi del paradiso!» Moravik aveva una collezione di scongiuri e talismani che batteva chiunque, a Maridunum, e non la vedevo mai passare accanto a qualche santuario lungo la strada senza tributargli la sua devozione, qualunque fosse l'immagine che lo occupava, ma ufficialmente era cristiana, e nei momenti difficili una cristiana devota. «Beati angioletti! E il bambino che doveva scegliere proprio oggi pomeriggio per ridursi in stracci. Sbrighiamoci, adesso, o saremo nei guai tutti e due.» Mi spinse su per il sentiero, verso casa, appellandosi affannosamente ai suoi santi ed esortandomi ad affrettarmi e rifiutando con determinazione ogni commento sul fatto che avevo detto la verità a proposito dell'ospite. «San Pietro mio, perché ho mangiato quelle anguille a pranzo e poi ho dormito cosi sodo? Proprio oggi! Qua...» mi spinse davanti a sé nella mia camera «togliti questi stracci e indossa la tunica buona, e sapremo presto quello che il Signore ti ha destinato. Presto, bambino!» La camera che dividevo con Moravik era piccola, buia e si trovava vicino agli alloggi della servitù. Era sempre piena di odori di cibo provenienti dalla cucina, ma a me questo piaceva, come mi piaceva il vecchio pero ricoperto di lichene che arrivava vicino alla finestra con i suoi rami tra i quali gli uccelli si dondolavano cantando nelle mattinate estive. Il mio letto, semplici assi appoggiate su ceppi di legno, niente intagli nel legno, e neppure testate, era proprio sotto la finestra. Avevo sentito Moravik brontolare con gli altri domestici, quando credeva che io non la sentissi, che non era proprio il luogo adatto per ospitare il nipote di un re, ma a me essa diceva che per lei andava bene stare vicino agli altri domestici; e in verità io stavo abbastanza comodo, perché essa badava a che io avessi un materasso di paglia pulito e un copriletto di lana che non era assolutamente meno buono di quelli che si trovavano sul letto di mia madre nella grande stanza vicina a quella del nonno. La stessa Moravik aveva un pagliericcio sul pavimento accanto alla porta, che divideva a volte con il grosso cane lupo che si agitava per le pulci ai suoi piedi, e a volte con Cerdic, uno dei palafrenieri, un sassone che era stato catturato durante una scorreria molto tempo prima e si era stabilito lì sposando una ragazza del luogo. Questa era morta di parto un anno dopo, e il bambino con lei, ma lui era rimasto, in apparenza soddisfatto. Chiesi una volta a Moravik perché permettesse al cane di dormire nella camera, mentre brontolava tanto per l'odore e per le pulci; non ricordo che cosa rispose, ma sapevo - senza che nessuno me lo dicesse - che il cane era li per avvertire se qualcuno fosse entrato nella camera durante la notte. Cerdic, naturalmente, era l'eccezione; il cane lo
accettava, sbatteva soltanto la coda sul pavimento e gli lasciava libero il letto. In un certo senso, suppongo, Cerdic assolveva alla stessa funzione del cane da guardia, e ad altre in sovrappiù. Moravik non ne parlò mai, e neppure io. Si pensa che il sonno di un bambino sia molto profondo, ma anche allora, giovane com'ero, a volte mi svegliavo durante la notte e me ne rimanevo immobile a guardare le stelle dalla finestra che era accanto a me, imprigionate come scintillanti pesci d'argento nella rete dei rami del pero. Quel che succedeva tra Cerdic e Moravik per me significava solo che egli collaborava a vegliare sulle mie notti, come lei sui miei giorni. I miei vestiti erano riposti in una cassa di legno che si trovava contro la parete. La cassapanca era molto vecchia, con pannelli dipinti con scene di dei e di dee, e credo che in origine fosse materiale venuto proprio da Roma. Adesso i dipinti erano sporchi, cancellati e si sfaldavano, ma sul coperchio si vedeva ancora, sfumata, una scena che si svolgeva in quella che pareva una grotta; c'era un toro, e un uomo con un coltello, e qualcuno teneva un covone di grano, e su nell'angolo una figura, quasi completamente cancellata, con raggi intorno alla testa come il sole, e un bastone in mano. La cassapanca era foderata di legno di cedro, e Moravik lavava lei stessa i miei vestiti e li riponeva con erbe profumate colte nel giardino. Adesso essa sollevò il coperchio, così bruscamente da mandarlo a sbattere contro il muro, e tirò fuori la migliore delle mie due tuniche buone, quella verde con il bordo scarlatto. Gridò che le portassero dell'acqua, e una delle serve la portò, di corsa, e fu rimproverata perché l'aveva versata sul pavimento. Il domestico grasso ritornò, ansimante, a dirci di sbrigarci, e come ricompensa fu trattato male, ma dopo pochissimi minuti io venivo spinto di nuovo lungo il colonnato e poi attraverso la grande porta ad arco nella parte principale della casa. Il salone dove il re riceveva era una stanza lunga e alta, con un pavimento di pietra bianco e nero che incorniciava un mosaico rappresentante un dio con un leopardo. Questo era stato molto danneggiato dai mobili pesanti che vi erano stati trascinati sopra e dal continuo passaggio di grossi stivali. Un lato della sala si apriva sul colonnato, e qui d'inverno si accendeva un fuoco direttamente sul pavimento, in un riquadro delimitato da pietre semplicemente appoggiate. Il pavimento e le colonne vicino a quel punto erano anneriti dal fumo. All'estremità della sala c'era la predella con il grande seggio di mio nonno, e accanto uno più piccolo per la regina. Adesso lui era seduto lì, con Camlach in piedi alla sua destra e sua mo-
glie, Olwen, seduta alla sua sinistra. Era la sua terza moglie, più giovane di mia madre, una ragazza bruna, silenziosa, piuttosto stupida, con una pelle lattea e le trecce che le arrivavano alle ginocchia, che sapeva cantare come un uccello ed era molto brava nel cucito, ma per il resto aveva pochissime altre capacità. Mia madre, credo, le voleva bene e la disprezzava nello stesso tempo. In ogni caso, contro ogni aspettativa andavano abbastanza d'accordo, e avevo sentito Moravik dire che la vita era diventata molto più facile per mia madre da quando la seconda moglie del re, Gwynneth, era morta un anno prima, e nello spazio di un mese Olwen aveva preso il suo posto nel letto del re. Anche se Olwen mi avesse schiaffeggiato e deriso come faceva Gwynneth l'avrei amata per la sua musica, ma era sempre gentile con me in quel suo modo placido e vacuo, e quando il re non era tra i piedi mi aveva insegnato le note, e mi aveva anche lasciato usare l'arpa finché ero riuscito a suonare alla meno peggio. Avevo una certa inclinazione, essa diceva, ma sapevamo tutti e due quel che avrebbe detto il re di una simile follia, perciò la sua gentilezza rimaneva segreta, anche a mia madre. Adesso essa non mi notò. Nessuno mi notò, del resto, salvo mio cugino Dinias, che era fermo accanto al seggio di Olwen sulla predella. Dinias era un bastardo che mio nonno aveva avuto da una schiava. Era un bambino robusto di sette anni, con i capelli rossi e il carattere pronto all'ira del padre; era forte per la sua età e non aveva paura di niente e si era guadagnato il favore del re il giorno in cui, all'età di cinque anni, si era fatta una galoppata su uno dei cavalli del padre, un selvaggio puledro baio che era scappato con lui attraverso la città e si era liberato del bimbo solo quando questi lo aveva lanciato contro un terrapieno alto quanto un uomo. Il padre lo aveva frustato con le sue stesse mani, poi gli aveva dato un pugnale dall'elsa dorata. Da quel giorno Dinias aveva preteso il titolo di principe - almeno tra gli altri bambini - e trattato con il più assoluto disprezzo l'altro bastardo come lui; me. Adesso mi fissava con l'impassibilità di una pietra, ma la sua mano sinistra, quella più lontana dal padre, accennò un gesto offensivo, poi molto espressivamente si abbatté verso il basso. Io mi ero fermato sulla soglia e la mia bambinaia dietro di me aveva tirato la mia tunica per metterla a posto, poi mi aveva dato uno spintone in mezzo alle scapole. «Va' avanti, adesso. Sta' dritto. Mica ti mangia.» Come a smentire quest'affermazione, si udirono in quel momento il rumore degli amuleti e l'inizio di una preghiera a mezza voce. La sala era piena di gente. Molte persone le conoscevo, ma c'erano stra-
nieri che dovevano far parte del drappello che avevo visto arrivare a cavallo. Il loro capo era seduto alla destra del re, circondato dai suoi uomini. Era l'uomo bruno e imponente che avevo visto sul ponte, il viso tutto coperto dalla barba, un fiero naso aquilino e le membra robuste avvolte in un mantello scarlatto. Dall'altro lato del re, ma in piedi sotto la predella, era mia madre, con due delle sue donne. Mi piaceva vederla com'era adesso, vestita come una principessa, il lungo vestito di lana morbida che cadeva a terra diritto come se fosse scolpito nel legno giovane. I suoi capelli non erano intrecciati e le ricadevano sulla schiena come una pioggia. Aveva un manto azzurro con un fermaglio di rame. Il volto era pallido, immobile. Ero tanto occupato con le mie paure - il gesto di Dinias, il viso voltato e gli occhi bassi di mia madre, il silenzio generale, quel tratto di pavimento vuoto sul quale dovevo avventurarmi - che non avevo neppure guardato mio nonno. Avevo fatto appena un passo avanti, e ancora nessuno si era accorto di me, quando all'improvviso, con un fracasso simile allo scalciare di un cavallo, egli sbatté le mani sui braccioli di legno del suo seggio e balzò in piedi con tale violenza che il pesante sedile si spostò all'indietro di un passo e le zampe rigarono le tavole di quercia della predella. «Per la luce!» Il suo viso era chiazzato di viola e le sopracciglia rosse sporgevano in protuberanze carnose sopra i piccoli occhi azzurri furenti. Fissò dall'alto mia madre e tirò il fiato per parlare, così forte che lo si poté sentire fin dalla porta dove io mi ero fermato, impaurito. Poi l'uomo con la barba, che si era alzato con lui, disse qualche cosa con una pronuncia che io non riuscii a capire, e in quel momento Camlach gli toccò il braccio, bisbigliando. Il re si fermò, poi disse con voce roca: «Come vuoi. Dopo. Falli uscire di qui». Poi chiaramente, rivolto a mia madre: «Non finisce così, Niniane, te lo prometto. Sei anni. Adesso basta, perdio! Vieni, mio signore». Raccolse il mantello su un braccio, fece un cenno con la testa al figlio, scendendo dalla predella, prese per il braccio l'uomo con la barba e a gran passi si diresse insieme a lui verso la porta. Lo seguì, mansueta come un agnello, la moglie Olwen con le sue donne, e dopo di lei Dinias, sorridente. Mia madre continuava a rimanere immobile. Il re la sorpassò senza una parola o uno sguardo, e tra lui e la porta la gente si divise come un campo di stoppie sotto il vomere. Mi lasciò in piedi solo, come radicato a terra e con lo sguardo fisso, a tre passi dalla porta. Mentre il re piombava su di me, mi ripresi e mi voltai per fuggire nell'anticamera, ma non fui abbastanza svelto.
Egli si fermò di colpo, abbandonò il braccio di Gorlan e girò su di sé per piazzarmisi di fronte. Il mantello azzurro roteò e un angolo di esso mi colpì in un occhio facendolo lagrimare. Sbattei le palpebre davanti a lui. Gorlan si era fermato accanto al re. Era più giovane di mio zio Dyved. Anche lui era in collera, ma lo nascondeva, e la sua ira non era rivolta a me. Parve sorpreso quando il re si fermò, e disse: «Chi è?». «Suo figlio, al quale tua grazia avrebbe dato un nome» disse mio nonno, e l'oro del suo bracciale lampeggiò mentre roteava la sua grande mano e con un colpo mi mandava disteso sul pavimento, con la stessa facilità con cui un ragazzo schiaccerebbe una mosca. Poi il mantello azzurro mi passò accanto, e i piedi del re negli stivali, e dopo di lui, senza quasi interruzione tra loro, quelli di Gorlan. Olwen disse qualcosa con la sua voce aggraziata, e si curvò su di me, ma il re la chiamò irosamente, ed essa ritirò la mano e si affrettò a seguirlo con gli altri. Mi rialzai dal pavimento e mi guardai intorno in cerca di Moravik, ma non c'era. Era andata direttamente da mia madre e non aveva neppure visto. Cominciai a farmi strada verso di loro nella confusione della sala, ma prima che riuscissi a raggiungere mia madre le donne, in gruppo serrato e silenzioso intorno a lei, lasciarono la sala dall'altra porta. Nessuna di loro si voltò a guardare. Qualcuno mi parlò ma io non risposi. Corsi fuori sotto il colonnato, attraversai il cortile principale, e fui di nuovo fuori, nel sole tranquillo del frutteto. Mio zio mi trovò sul terrapieno di Moravik. Ero sdraiato a pancia sotto sulle lastre di pietra calda, e osservavo una lucertola. Di tutto quel giorno, questo è il mio ricordo più vivo: la lucertola, appiattita sulla pietra calda a un palmo dal mio viso, e il suo corpo immobile che pareva bronzo verde non fosse stato per il pulsare della gola. Aveva occhietti scuri come l'ardesia e l'interno della bocca aveva il colore dei meloni. Aveva una lunga lingua sottile che usciva guizzando rapida come una frusta, e le zampette produssero un lieve fruscio sulle pietre quando rapida mi passò sul dito e scomparve in una fessura tra due lastroni. Voltai la testa. Mio zio Camlach stava attraversando il frutteto. Salì i tre gradini bassi che portavano al terrapieno, a passi felpati con i suoi eleganti sandali allacciati, e rimase fermo, con lo sguardo rivolto in giù. Io distolsi il mio. Il muschio tra le pietre aveva minuscoli fiorellini
bianchi non più grandi degli occhi della lucertola, e ognuno di essi era perfetto come una coppa scolpita. Ne ricordo ancora il disegno, come se lo avessi scolpito io. «Fammi vedere» disse lui. Non mi mossi. Egli attraversò il terrapieno fino al sedile di pietra e si sedette di fronte a me, con le ginocchia aperte e le mani giunte nel mezzo. «Guardami, Merlino.» Ubbidii. Egli mi studiò un attimo in silenzio. «Mi dicono sempre che non fai giochi violenti, che eviti Dinias, che non sarai mai un soldato e neppure un uomo. Eppure quando il re ti colpisce con una violenza che avrebbe fatto rifugiare nel canile, guaendo, uno dei suoi grossi levrieri, tu non emetti un suono e non versi una lacrima.» Non dissi niente. «Credo che forse non sei proprio come loro ti credono, Merlino.» Ancora niente. «Sai perché è venuto Gorlan?» Ritenni più opportuno mentire. «No.» «È venuto a chiedere la mano di tua madre. Se lei avesse acconsentito saresti andato con lui in Bretagna.» Toccai con l'indice uno dei fiori del muschio. Il fiore si dissolse come una vescia di lupo. Tanto per vedere, ne toccai un altro. Camlach disse, con tono più aspro di quello che di solito usava con me: «Mi ascolti?». «Sì. Ma se lei lo ha rifiutato non ha molta importanza.» Alzai lo sguardo. «Oppure ne ha?» «Vuoi dire che non vuoi andartene? Avrei creduto...» Corrugò le sopracciglia chiare tanto simili a quelle di mio nonno. «Saresti trattato con onore, e saresti un principe.» «Sono già un principe. Tanto principe quanto potrò mai esserlo.» «Che cosa intendi dire?» «Se lei lo ha rifiutato,» dissi «non può essere mio padre. Avevo creduto che lo fosse. Avevo creduto che fosse venuto per questo.» «Che cosa ti faceva pensare così?» «Non lo so. Mi pareva...» M'interruppi. Non sapevo spiegare a Camlach il lampo di luce nel quale il nome di Gorlan mi si era presentato. «Solo pensavo che dovesse esserlo.» «Soltanto perché lo hai aspettato tutto questo tempo.» La sua voce era calma. «Una simile attesa è follia, Merlino. È ora che tu affronti la realtà. Tuo padre è morto.»
Abbassai la mano sui fiori di muschio, annientandoli. Osservai la parte carnosa delle dita sbiancarsi per la pressione. «Te lo ha detto lei?» «No» egli sollevò le spalle. «Ma se fosse stato ancora vivo sarebbe venuto da un pezzo. Questo devi saperlo.» Rimasi in silenzio. «E se non è morto» prosegui mio zio guardandomi «e ciononostante non è mai venuto, allora questo non può essere causa di dolore per nessuno.» «No, salvo che per quanto indegno lui possa essere questo avrebbe potuto risparmiare qualche cosa a mia madre. E a me.» Mentre spostavo la mano, il muschio lentamente si distese, come se crescesse. Ma i fiorellini non c'erano più. Mio zio chinò la testa. «Forse sarebbe stato più saggio da parte sua accettare Gorlan, o qualche altro principe.» «Che cosa sarà di noi?» chiesi. «Tua madre vuole andare nel convento di San Pietro. E tu... tu sei sveglio e intelligente, e mi dicono che sai leggere un po'. Potresti diventare prete.» «No!» Le sue sopracciglia si abbassarono di nuovo sul naso sottile. «È una vita piuttosto buona. Non hai la tempra del soldato, questo è certo. Perché non scegli una vita che ti sia adatta, e in cui staresti al sicuro?» «Non c'è bisogno di essere un soldato per desiderare di essere libero! Essere rinchiuso in un posto come il convento di San Pietro... non è così...» Mi interruppi. Avevo parlato con veemenza, ma adesso le parole mi mancavano. Non riuscivo a spiegare qualcosa che io stesso non sapevo. Alzai lo sguardo, appassionatamente. «Starò con te. Se tu non puoi servirti di me io... scapperò a servire qualche altro principe. Ma preferirei restare con te.» «Bene, è presto per parlare di queste cose. Sei molto giovane.» Si alzò. «Ti fa male il viso?» «No.» «Dovresti fartelo vedere. Vieni con me adesso.» Tese una mano, e io andai con lui. Mi guidò attraverso il frutteto, poi, passammo sotto l'arco che immetteva nel giardino privato di mio nonno. Esitai, attaccato alla sua mano. «Non mi è permesso entrare qui.» «Davvero, neanche con me? Il nonno è con i suoi ospiti, non ti vedrà. Vieni. Ho qualcosa di meglio per te delle mele buttate a terra dal vento. Hanno raccolto le albicocche e passando di qui ho tirato fuori le migliori dai canestri.»
Continuò ad avanzare, con quel suo passo elegante da gatto, nel profumo di citronella e di lavanda, fino al punto dove i peschi e gli albicocchi si ergevano, crocifissi, contro l'alto muro, nel sole. L'atmosfera, sonnolenta, era carica dei profumi di erbe e di frutti, e dalla colombaia veniva il tubare roco delle colombe. Ai miei piedi era un'albicocca matura, vellutata nel sole. La spinsi con l'alluce finché si rovesciò, e sul dietro c'era il largo foro imputridito, brulicante di vespe. Un'ombra si proiettò su quel frutto. Mio zio era accanto a me e mi sovrastava, con un'albicocca in ogni mano. «Ti avevo detto che avevo qualcosa di meglio dei frutti caduti. Ecco.» Me ne tese una. «E se ti picchiano per questo furto, dovranno picchiare anche me.» Rise e addentò il frutto che aveva in mano. Io rimasi fermo, con la grossa albicocca vivida appoggiata sul palmo incavato della mano. Nel giardino faceva molto caldo, e c'erano gran tranquillità e silenzio, a parte il ronzio degli insetti. Il frutto scintillava come oro e profumava di sole e di sugo dolce. La buccia pareva la pelle di un'ape d'oro. Mi sentii l'acquolina in bocca. «Che c'è?» chiese mio zio. La voce era nervosa e impaziente. Il sugo della sua albicocca gli sgocciolava giù dal mento. «Non startene lì a guardarla, ragazzo! Mangiala! Che cos'ha che non va?» Alzai lo sguardo. Gli occhi azzurri, selvaggi come quelli di una volpe, fissavano i miei. Gliela porsi. «Non la voglio. Dentro è nera. Guarda, si vede da qui.» Lui tirò un respiro come se stesse per parlare. Poi dall'altra parte del muro giunsero delle voci: probabilmente i giardinieri, che portavano giù i canestri vuoti, pronti per l'indomani. Chinandosi, mio zio mi strappò il frutto dalla mano e lo lanciò lontano da sé, contro il muro, con forza. Esplose sui mattoni in una chiazza di polpa dorata, e il sugo cominciò a scendere. Una vespa, disturbata, lasciò l'albero e ronzò in mezzo a noi. Camlach l'allontanò bruscamente con un gesto strano, repentino, e mi disse con una voce che tutt'a un tratto era piena di veleno: «Stai alla larga da me, adesso, figlio del diavolo. Mi senti? Stai alla larga.» Si passò il dorso della mano sulla bocca e si allontanò da me, dirigendosi verso casa a lunghi passi. Io rimasi dove mi trovavo, osservando il sugo dell'albicocca colare giù per il muro caldo. Una vespa vi si posò, vi strisciò sopra tenacemente, poi a un tratto cadde a terra, sulla schiena, ronzando. Il corpo si ripiegò su se stesso, il ronzio diventò un lamento mentre lottava, poi rimase immobile.
La vidi appena, perché qualcosa mi era andato in gola finché pensai che mi sarei soffocato, e il meriggio dorato scivolò nelle lagrime, lucente. Fu la prima volta in vita mia che ricordi di aver pianto. I giardinieri stavano passando davanti alle rose, con canestri sulla testa. Mi voltai e uscii di corsa dal giardino. Tre La mia camera era vuota perfino del cane lupo. Mi arrampicai sul mio letto e appoggiai i gomiti sul davanzale della finestra, poi rimasi così un bel pezzo solo, mentre fuori, fra i rami del pero, il tordo cantava e dal cortile al di là della porta chiusa giungeva il monotono tintinnio del martello del fabbro e il cigolio dell'argano mentre il mulo girava faticosamente intorno al pozzo. Qui la memoria mi abbandona. Non riesco a ricordare quanto tempo passasse prima che l'acciottolio delle stoviglie e il brusio delle voci mi dicessero che si stava preparando la cena. E non ricordo neppure quanto mi facesse male la faccia, ma fatto è che quando Cerdic, il palafreniere, spalancò la porta e io girai la testa, lui si fermò interdetto e disse: «Che Dio ci scampi. Che hai fatto? Hai giocato in mezzo ai tori?». «Sono caduto.» «Ah, sissignore, sei caduto. Mi domando perché il pavimento è sempre il doppio più duro per te che per gli altri. Chi è stato? Quel piccolo cinghiale ancora sporco di latte di Dinias?» Poiché non rispondevo si avvicinò al letto. Era un uomo piccolo, con le gambe arcuate, il viso scuro segnato e un ciuffo di capelli chiari. In piedi sul mio letto com'ero io, i miei occhi venivano a trovarsi quasi a livello dei suoi. «Te lo dico io» disse. «Quando sarai un tantino più grande t'insegnerò un paio di cosette. Non c'è bisogno di essere grandi e grossi per vincere in una zuffa. Ho un paio di trucchetti che vale la pena conoscere, te lo dico io. Bisogna conoscerli, quando si è come uno scricciolo. Te lo dico io, posso buttare a terra un tipo che pesa il doppio di me... e anche una donna, se è per questo.» Rise, voltò la testa per sputare, si ricordò di dove si trovava e allora si schiarì la gola. «Non che tu abbia bisogno dei miei trucchetti quando sarai grande, un tipo alto come te, e neppure con le ragazze. Ma faresti meglio a stare attento alla tua faccia se non vuoi far scappare gli sciocchi. Si direbbe che possa lasciare la cicatrice.» Indicò con la testa il
pagliericcio vuoto di Moravik. «Dov'è?» «È andata con mia madre.» «Allora è meglio che vieni con me. Te la sistemerò io.» Fu così che la ferita sul mio zigomo venne trattata con linimento per cavalli, e che divisi la cena di Cerdic nelle scuderie, seduto sulla paglia, mentre una giumenta baia mi girava intorno annusandomi in cerca di foraggio e anche quel pigrone del mio pony, all'estremità della sua corda, osservava ogni boccone che mettevamo in bocca. Cerdic doveva avere metodi suoi personali anche nelle cucine; i dolci lievitati erano freschi, avemmo mezza coscia di pollo per uno oltre alla pancetta, e la birra era saporita e fredda. Quando tornò con il cibo, capii dalla sua espressione che gli avevano raccontato tutto. Tutto il palazzo doveva mormorarne. Ma egli non disse niente, solo mi porse il cibo e si sedette accanto a me sulla paglia. «Te l'hanno detto?» chiesi. Annuì, masticando, poi aggiunse, inghiottendo un boccone di pane e carne: «Ha la mano pesante». «Era in collera perché lei ha rifiutato di sposare Gorlan. Lui vuole che lei lo sposi per causa mia, ma finora lei ha rifiutato di sposare qualsiasi uomo. E adesso che mio zio Dyved è morto, e che Camlach è l'unico rimasto, hanno chiesto a Gorlan di venire dalla Bretagna. Credo che sia stato mio zio Camlach a persuadere il nonno a farlo venire, perché ha paura che se lei sposa un principe del Galles...» A questo punto lui m'interruppe, con un'espressione sgomenta e spaventata. «Silenzio, adesso, figlio! Come sai tutte queste cose? Scommetto che i grandi non chiacchierano di queste cose importanti davanti a te. Se è Moravik che parla quando non dovrebbe...» «No. Moravik no. Ma io so che è vero.» «Ma, in nome di Thor, come le sai queste cose? Chiacchiere di schiavi?» Porsi alla giumenta l'ultimo boccone del mio pane. «Se chiami a testimoni gli dei pagani, Cerdic, sei tu che sarai nei guai, con Moravik.» «Ah, già. Quel genere di guai se ne va abbastanza facilmente. Forza, chi te l'ha raccontato?» «Nessuno. Lo so, ecco tutto. Io... non ti so spiegare come... E quando lei ha rifiutato Gorlan, mio zio Camlach era arrabbiato come il nonno. Ha paura che mio padre torni e sposi mia madre, e che scacci lui. Questo, naturalmente, non lo ammette di fronte al nonno.» «Naturalmente.» Aveva gli occhi spalancati, e si dimenticava perfino di masticare, sicché la saliva gli gocciolava dall'angolo della bocca aperta.
Poi inghiottì in fretta. «Gli dei sanno... Dio sa da dove hai cavato tutte queste cose, ma potrebbero essere vere. Be', va' avanti.» La giumenta baia mi spingeva, alitandomi dolcemente nel collo. La scansai con la mano. «È tutto. Gorlan è arrabbiato, ma loro gli daranno qualche cosa. E alla fine mia madre andrà nel convento di San Pietro. Vedrai.» Ci fu un breve silenzio. Cerdic inghiottì il boccone di carne e buttò l'osso di pollo fuori della porta, dove un paio di cagnacci gli si avventarono sopra, poi si allontanarono di corsa, azzuffandosi e ringhiando. «Merlino...» «Si?» «Faresti bene a non parlare di questo con nessuno. Con nessuno. Capisci?» Non dissi niente. «Ci sono cose che un bambino non capisce. Cose importanti. Oh, alcune di queste cose sono sulla bocca di tutti, te lo garantisco, ma quella a proposito del principe Camlach...» Abbassò una mano sul mio ginocchio, lo afferrò e lo scosse. «Te lo dico io, è pericoloso, quello là. Lascia perdere, e cerca di non farti vedere. Io non lo racconterò a nessuno, ti puoi fidare di me. Ma tu, tu non devi mai più parlarne. Già staresti abbastanza male se fossi un principe nato come si deve, o almeno nelle grazie del re come quel pelorosso di Dinias, ma tu...» Mi scosse di nuovo il ginocchio. «Mi senti, Merlino? Se ti è cara la pelle, sta' zitto e cerca di stargli fuori dai piedi. E, dimmi, chi ti ha detto tutte queste cose.» Pensai alla grotta scura dell'ipocausto e al cielo lontanissimo in cima alla canna del camino. «Non me l'ha detto nessuno. Lo giuro.» Quando egli fece un suono impaziente e preoccupato, lo guardai dritto negli occhi e gli dissi quel tanto di verità che osai. «Ho sentito qualche cosa, lo riconosco. E a volte la gente parla al di sopra della mia testa, non accorgendosi che io sono lì o pensando che non capisca. Ma altre volte...» m'interruppi «...è come se qualcosa mi parlasse, come se vedessi delle cose... E a volte le stelle mi parlano... e c'è una musica, e voci nel buio. Come sogni.» La sua mano si sollevò in un gesto di protezione. Pensai che si stesse facendo il segno della croce, poi vidi che era un segno di scongiuro contro il malocchio. Allora parve vergognoso e abbassò la mano. «Sogni, ecco che cosa sono; hai ragione. Ti sei forse addormentato in qualche angolo e hanno parlato te presente mentre non avrebbero dovuto, e hai sentito cose che non dovevi sentire. Stavo dimenticando che sei solo un bambino. Quando
guardi con quegli occhi...» S'interruppe e alzò le spalle. «Ma promettimi che non parlerai più di quello che hai sentito?» «D'accordo, Cerdic. Te lo prometto. Se in cambio tu mi prometti di dirmi una cosa.» «Che cosa?» «Chi era mio padre.» Lui si scolò la birra, poi con gesto voluto si pulì la bocca della schiuma, posò il boccale e mi guardò esasperato. «Adesso, come diavolo pensi che lo sappia?» «Pensavo che Moravik potesse avertelo detto.» «Moravik lo sa?» Sembrava così sorpreso che capii che stava dicendo la verità. «Quando gliel'ho chiesto, lei ha detto solo che c'erano cose di cui era meglio non parlare.» «Per questo ha ragione. Ma se lo vuoi sapere, questo è il suo modo di dire che non ne sa più degli altri. E se lo vuoi sapere, giovane Merlino, benché tu non voglia saperlo, c'è un'altra cosa della quale faresti meglio a essere sicuro. Se la tua signora madre volesse che tu lo sappia, te lo direbbe. Lo scoprirai abbastanza presto, non dubitare.» Vidi che rifaceva quel gesto, benché adesso nascondesse la mano. Aprii la bocca per chiedergli se credeva alle storie, ma lui raccolse il boccale e si alzò in piedi. «Ho la tua promessa. Ti ricordi?» «Sì.» «Ti ho avvertito. Tu vai per la tua strada e io a volte penso che sei più vicino agli animali selvatici che agli uomini. Lo sai che ti ha chiamato così per il falcone?» Annuii. «Be', ecco qualcosa su cui devi riflettere. Faresti meglio a dimenticarti dei falconi, per il momento. Ce n'è una quantità in giro, troppi, per dire la verità. Hai osservato le colombe selvatiche, Merlino?» «Quelle che vanno a bere alla fontana con le colombe bianche e poi volano via libere? Certo che le ho osservate. Gli do da mangiare in inverno, quando lo do alle nostre colombe.» «Al mio paese dicevano che la colomba selvatica ha molti nemici, perché la sua carne è dolce e le sue uova sono buone da mangiare. Ma essa vive e prospera perché sa scappare. Magari madonna Niniane ti ha chiamato il suo piccolo falcone, ma non sei ancora un falcone, piccolo Merlino.
Sei solo una colomba. Ricordati di questo. Vivi stando tranquillo e scappando. Ricordati le mie parole.» Mi fece un cenno e tese una mano per aiutarmi a tirarmi in piedi. «La ferita ti fa ancora male?» «Mi brucia.» «Allora va meglio. Non devi preoccuparti per l'ammaccatura, se ne andrà abbastanza presto.» In effetti guarì bene, e non lasciò il segno. Ma adesso ricordo come bruciava quella notte, tanto da tenermi sveglio, sicché Cerdic e Moravik rimasero silenziosi nell'altro angolo della stanza, temendo, credo, che era stato da qualcuno dei loro mormorii che avevo messo insieme le mie notizie. Quando si furono addormentati io sgusciai fuori, oltrepassai il cane lupo sogghignante e corsi all'ipocausto. Ma quella notte non udii niente da ricordare, salvo la voce di Olwen, calda come quella di un merlo, che cantava chissà quale canzone che non avevo mai sentito, una canzone che parlava di un'oca selvatica e di un cacciatore con una rete d'oro. Quattro Dopo questo episodio, la vita tornò ad assestarsi secondo il solito ritmo tranquillo, e credo che mio nonno alla fine dovesse aver accettato il rifiuto, da parte di mia madre, di sposarsi. I loro rapporti rimasero tesi per un paio di settimane, ma con Camlach a casa, che si sistemava come se non ne fosse mai partito - e con una buona stagione per la caccia davanti a sé - il re dimenticò il suo rancore e le cose tornarono alla normalità. Salvo che per me, forse. Dopo l'incidente del frutteto, Camlach non fece nulla per favorirmi, e io non lo seguii più. Ma non era scortese con me, e un paio di volte prese le mie parti in qualche zuffa con gli altri bambini, difendendomi perfino contro Dinias, che mi aveva soppiantato nei suoi favori. Ma io non avevo più bisogno di quel genere di protezione. Quel giorno di settembre mi aveva insegnato altre lezioni oltre a quella di Cerdic sulla colomba selvatica. Con Dinias me la cavavo da solo. Una notte, strisciando sotto la sua camera da letto mentre mi dirigevo alla mia "grotta", avevo sentito lui e il suo tirapiedi Brys ridere di una spedizione compiuta quel pomeriggio, quando loro due avevano seguito l'amico di Camlach, Alun, nel suo appuntamento con una delle fantesche, ed erano rimasti nascosti a guardare e ad ascoltare fino alla lieta conclusione. Quando il mattino dopo
Dinias mi abbordò, io gli tenni testa e, citando qualche sua parola, gli chiesi se avesse visto Alun quel mattino. Lui spalancò gli occhi, diventò rosso e poi bianco (perché Alun aveva la mano pesante e un carattere che non stonava con quella mano), poi si allontanò preoccupato, facendo gli scongiuri dietro la schiena. Se gli faceva piacere pensare che si trattasse di magia anziché di un semplice ricatto, io gliel'avrei lasciato pensare. Da allora, se il Sommo re in persona fosse venuto a rivendicare la sua paternità nei miei confronti, nessuno dei bambini gli avrebbe creduto. Mi lasciarono in pace. E fu un bene, perché quell'inverno una parte del pavimento dell'edificio dei bagni crollò, mio nonno pensò che tutta la costruzione fosse pericolante e ordinò che fosse riempita e fosse sparso veleno per i topi. Cosi, come un volpacchiotto cacciato dalla sua tana, dovetti badare a me stesso all'aria aperta. Circa sei mesi dopo la visita di Gorlan, stavamo superando un febbraio freddo ed entrando nei primi giorni ingemmati di marzo, Camlach cominciò a insistere, prima con mia madre e poi con mio nonno, perché mi fosse insegnato a leggere e a scrivere. Mia madre, credo, gli era riconoscente per questa prova del suo interessamento verso di me; io ero contento e avevo cura di dimostrarlo, benché dopo l'incidente del frutteto non potessi nutrire illusioni circa i suoi moventi. Ma non nuoceva lasciar credere a Camlach che i miei sentimenti a proposito del sacerdozio avessero subito un cambiamento. La dichiarazione fatta da mia madre, che non si sarebbe mai sposata, accompagnata dal fatto che stava di più tra le sue donne e dalle sue frequenti visite al convento di San Pietro per parlare con la badessa e con i preti in visita alla comunità, avevano cancellato le sue prime paure che lei sposasse un principe gallese che avrebbe potuto sperare di succedere nel regno in nome di lei, o che il mio sconosciuto genitore venisse a rivendicarmi e legittimarmi, e che risultasse un uomo potente e di rango che avrebbe potuto soppiantarlo con la forza. Non importava a Camlach il fatto che in un'eventualità come nell'altra io non sarei stato un gran pericolo per lui, e meno che mai ora, perché prima di Natale si era preso una moglie e già al principio di marzo pareva che essa fosse incinta. Perfino la sempre più evidente gravidanza di Olwen non costituiva una minaccia per lui, perché Camlach godeva completamente del favore di suo padre e non era probabile che un fratello di tanto più giovane potesse mai rappresentare un serio pericolo. Non poteva esserci problema: Camlach aveva una bella carriera di soldato dietro di sé, sapeva come farsi amare dagli uomini, era
dotato di crudeltà e buonsenso. La crudeltà era dimostrata da quello che aveva tentato di farmi nel frutteto; il buonsenso dalla sua gentilezza indifferente non appena la decisione di mia madre aveva allontanato la minaccia da lui. Ma ho notato questo degli uomini ambiziosi, o che sono al potere: che temono anche la minima e più leggera minaccia a quel potere. Camlach non sarebbe stato tranquillo finché non mi avesse visto prete e al sicuro fuori del palazzo. Quali che fossero le sue ragioni, fui contento quando arrivò il mio precettore; era un greco che era stato scrivano a Massilia finché era sprofondato nei debiti e di conseguenza nella schiavitù; adesso venne assegnato a me, ed essendo riconoscente per tale suo cambiamento di posizione e per esser stato liberato dai lavori manuali, mi insegnò bene e senza quei pregiudizi religiosi che gravavano sull'insegnamento che avevo spigolato dai preti di mia madre. Demetrio era un uomo piacevole, inutilmente intelligente, che aveva molto talento per le lingue, e i cui soli divertimenti erano i dadi e (quando vinceva) il bere. A volte, quando aveva vinto abbastanza, lo trovavo felicemente addormentato, ubriaco fradicio, sui suoi libri. Non raccontai mai a nessuno questi episodi, anzi ero contento dell'opportunità che mi offrivano di andarmene per i fatti miei; lui mi era grato per il mio silenzio e a sua volta, in un paio di occasioni, quando marinai la lezione tenne la lingua in bocca e non fece tentativi per scoprire dov'ero stato. Io ero svelto a mettermi in paro con gli studi e facevo progressi più che sufficienti a soddisfare mia madre e Camlach, così Demetrio e io rispettavamo i reciproci segreti e andavamo abbastanza d'accordo. Un giorno d'agosto, circa un anno dopo la venuta di Gorlan alla corte di mio nonno, lasciai Demetrio placidamente addormentato e mi addentrai da solo nelle colline dietro la città. C'ero già stato diverse volte. Si faceva prima passando dalle mura delle caserme e uscendo poi sulla strada militare che conduceva, attraverso le colline, in direzione est, a Caerleon, ma questo significava attraversare la città, con la possibilità di essere visto e di dover subire delle domande. La strada che presi costeggiava l'argine del fiume. C'era una porta, non molto usata, che dal cortile delle nostre scuderie immetteva direttamente nel largo sentiero piatto dove passavano i cavalli che rimorchiavano le chiatte, e questo sentiero seguiva il fiume per un lungo tratto, oltrepassando San Pietro, poi sempre lungo le placide anse del Tywy arrivava al mulino, e le chiatte non andavano più in là. Io non ero mai stato oltre questo punto, ma c'era un viottolo che saliva oltre il mulino e attraversava la strada, poi se-
guiva la valle di un piccolo affluente le cui acque erano anche utilizzate dal mulino. Era una giornata calma e sonnolenta, piena dell'odore delle felci. Libellule azzurre sfrecciavano e scintillavano oltre il fiume, e le olmarie erano spesse come giuncata sotto le nuvole ronzanti di mosche. Gli zoccoli puliti del mio pony percuotevano l'argilla indurita della strada alzaia. Incontrammo un grande leardo pomellato che rimorchiava una chiatta vuota di ritorno dal mulino, e se la prendeva comoda. Il ragazzo arrampicato sul suo garrese gridò un saluto, e l'uomo della chiatta alzò una mano. Quando raggiunsi il mulino non si vedeva nessuno. Sacchi di granaglie, da poco scaricati, erano ammucchiati sullo stretto pontile. Accanto a loro il cane del mugnaio se ne stava sdraiato al sole caldo, e si disturbò a malapena ad aprire un occhio quando io tirai le redini all'ombra degli edifici. Sopra di me, la lunga striscia diritta della strada militare era vuota. Il torrente scorreva più in basso, e vidi una trota saltare e guizzare nella spuma. Ci sarebbero volute ore perché notassero la mia assenza. Misi il pony sul terrapieno sopra la strada, vinsi la sua breve resistenza quando egli tentò di voltarsi per tornare a casa, poi lo spinsi al piccolo galoppo sul viottolo che conduceva in alto, verso le colline. Il viottolo dapprima serpeggiò e girò, inerpicandosi su per il ripido pendio a fianco del torrente, poi uscì di tra i rovi e le querce sottili che riempivano la gola e si diresse verso nord disegnando una curva dolce sul pendio scoperto. Qui quelli della città portano al pascolo le greggi e le mucche, sicché l'erba è liscia e rasata. Incontrai un pastorello assonnato sotto un cespuglio di biancospino, con le sue pecore vicine; era un ragazzo semplice e si limitò a fissarmi con aria distratta quando lo sorpassai al trotto, rasentando il recinto di pietre entro il quale custodiva il suo gregge. Mentre lo stavo sorpassando, lui raccolse una di quelle pietre, un ciottolo verde levigato, e mi domandavo se stesse per lanciarlo contro di me, ma lui invece lo scagliò in alto, nell'intento di far tornare indietro qualche grasso agnello che pascolando si stava allontanando troppo, poi ritornò al suo dormiveglia. Più lontano c'erano delle mucche nere, in basso, accanto al torrente dove l'erba era più alta, ma non riuscii a vedere il mandriano. Poi, ai piedi della collina, minuscola accanto a una minuscola capanna, vidi una bambina con un branco di oche. Adesso il viottolo ricominciava a salire, inoltrandosi in mezzo ad alberi
sparsi. I noccioli erano folti nei boschetti, frassini di montagna e rose canine spuntavano da ammassi di rocce muschiose, e le felci erano alte come un uomo. I conigli correvano dappertutto, affrettandosi a piccoli passi nella felceta, e un paio di ghiandaie si rivolsero adirate a una volpe dal sicuro di un carpine oscillante. La terra era troppo dura, immagino, perché vi rimanessero impronte, ma non riuscii a scoprire proprio nessuna traccia, felci abbassate o rametti spezzati, che denunciasse il recente passaggio di un altro cavallo. Il sole era alto. Una brezza leggera soffiava tra i cespugli di biancospino, scuotendo le bacche verdi e dure. Incitai il pony a proseguire. Adesso in mezzo alle querce e all'agrifoglio c'erano dei pini, e i loro tronchi erano rossastri nel sole. Il terreno diventava più aspro via via che il sentiero saliva, con nude pietre grigie che affioravano nel sottile tappeto erboso, crivellato di tane di conigli. Non sapevo dove portasse il viottolo, sapevo soltanto di esser solo, e libero. Non c'era nulla che mi dicesse che giorno speciale era quello, o quale stella mi guidasse sulla collina. Questo accadeva prima che il futuro mi diventasse chiaro. Il pony esitò e io mi ripresi. C'era un bivio nel sentiero, ma niente indicava quale via sarebbe stato meglio seguire. A sinistra, a destra il sentiero aggirava una macchia. Il pony voltò con decisione a sinistra, dove il sentiero scendeva. Lo avrei anche lasciato andare, ma in quel momento un uccello, volando basso, attraversò il sentiero davanti a me, da sinistra a destra, e sparì oltre gli alberi. Ali angolose, un bagliore di ruggine e blu ardesia, il fiero occhio scuro e il becco ricurvo dello smeriglio. Per nessuna ragione, salvo che questa era meglio che non aver nessuna ragione, girai la testa del pony dietro di lui, e strinsi i calcagni per spronarlo. Il viottolo saliva descrivendo una curva larga. Quella era una zona soprattutto di pini, fitti e scuri e così densi che, solo con un'ascia, sarebbe stato possibile aprirsi un varco in mezzo ai rami morti. Sentii lo sbattere delle ali di una colomba selvatica che lasciava il suo rifugio, uscendo non vista dagli alberi. Era andata a sinistra. Questa volta seguii il falcone. Dove eravamo adesso non si vedeva più la valle solcata dal fiume, né la città. Il pony s'inoltrò seguendo il fianco di una valle poco profonda, in fondo alla quale si precipitava uno stretto torrente. Dall'altro lato del torrente i lunghi pendii coperti d'erba diventavano via via nudi arrivando al ghiaione, e al di sopra di questo c'erano le rocce, azzurre e grigie nel sole. Il pendio sul quale io cavalcavo era cosparso di cespugli di biancospino
che proiettavano macchie d'ombra oblique, e sopra a questi, di nuovo, il ghiaione, e rocce cui si abbarbicava l'edera, tra cui roteavano i corvi lanciando i loro gridi nell'aria limpida. A parte questo, regnava nella valle il più assoluto silenzio, privo anche di eco. Gli zoccoli del pony risuonavano forte sulla terra indurita. Faceva caldo, e io avevo sete. Adesso il sentiero correva sotto una serie di rocce, alte solo un sessanta centimetri, e ai suoi piedi un intrico di biancospini gettava una macchia d'ombra attraverso il sentiero. Chissà dove, vicino, al di sopra di me, sentivo lo sgocciolio dell'acqua. Fermai il pony e smontai. Lo condussi all'ombra dei cespugli e lo legai, poi mi guardai intorno cercando la sorgente. La roccia accanto al sentiero era asciutta, e al di sotto del sentiero non c'era traccia di acqua che scendesse a ingrossare il torrente ai piedi della valle. Ma il rumore dell'acqua corrente era continuo e inequivocabile. Lasciai il sentiero e mi arrampicai sull'erba accanto alle rocce, arrivando a un piccolo ripiano erboso, un praticello asciutto cosparso degli escrementi dei conigli che aveva alle spalle un'altra parete di rocce. Di fronte alla roccia c'era una grotta. L'apertura arrotondata era piccola e molto regolare, quasi come un arco fatto dall'uomo. A un lato di essa, a destra per me che guardavo, c'era un pendio formato da pietre che dovevano esser cadute dall'alto molto tempo prima e ormai erano cosparse d'erba, con querce e sorbi selvatici, i cui rami gettavano ombra sulla grotta. Dall'altro lato, a qualche palmo dall'arco, c'era la sorgente. Mi avvicinai. Era molto piccola, appena un movimento lucente di acqua che stillava da una fessura della roccia e cadeva con uno sgocciolio costante in un bacino di pietra rotondo. Non c'era deflusso. Probabilmente l'acqua sgorgava dalla roccia, si raccoglieva nel bacino e defluiva gradatamente attraverso un'altra fessura, per raggiungere alla fine il torrente più in basso. Attraverso l'acqua limpida vedevo ogni ciottolo, ogni granello di sabbia sul fondo del bacino. Sopra vi crescevano le felci, e c'era muschio sul bordo, e sotto erba verde e umida. Mi inginocchiai sull'erba, e avrei portato la bocca all'acqua quando vidi che c'era una coppa. Era posta in una piccola nicchia in mezzo alle felci. Era alta un palmo e fatta di corno scuro. Mentre la tiravo giù vidi sopra di essa, mezzo nascosta dalle felci, la piccola figura intagliata di un dio di legno. Lo riconobbi. Lo avevo visto sotto la quercia a Tyr Myrddin. Qui era al suo vero posto in cima alla collina, sotto il cielo aperto. Riempii la coppa e bevvi, versando alcune gocce sulla terra per il dio.
Poi entrai nella grotta. Cinque Era più grande di quanto sembrasse dall'esterno. Solo a un paio di passi dall'entrata - e i miei passi erano molto corti - la grotta si apriva in una sala apparentemente molto grande di cui la parte più alta si perdeva nell'ombra. Era buio ma - anche se a tutta prima non ne notai la causa né la cercai con qualche fonte di luce che dava una vaga illuminazione, mostrando il pavimento liscio e sgombro di ostacoli. Avanzai lentamente, sforzando gli occhi, in fondo in fondo provando l'inizio di quell'impeto di eccitazione che le grotte hanno sempre suscitato in me. Alcuni fanno quest'esperienza con l'acqua; altri, lo so, sulle vette; alcuni accendono il fuoco per lo stesso piacere: quanto a me, è sempre successo con le profondità della foresta o con le profondità della terra. Adesso so perché; ma allora sapevo solo di essere un bambino che aveva trovato un posto nuovo, qualcosa che forse avrebbe potuto fare suo in un mondo in cui non possedeva niente. A un tratto mi fermai di botto, colpito da qualcosa che mi spandeva l'eccitazione per le viscere, come acqua. Qualche cosa si era mossa nelle tenebre, alla mia destra. Rimasi rigido, sforzando gli occhi per vedere. Non si muoveva niente. Trattenni il fiato, in ascolto. Non si sentiva niente. Allargai le narici, sondando cautamente l'aria intorno a me. Non c'era alcun odore, né animale né umano; la grotta odorava, pensai, di fumo e di roccia umida e anche di terra, oltre che di una strana essenza stantia che non riuscii a identificare. Sapevo, senza esprimerlo in parole, che se ci fosse stata qualsiasi altra creatura vicino a me l'aria sarebbe risultata diversa, meno vuota. Qui non c'era nessuno. Arrischiai una parola, piano, in gallese: «Saluti». Il bisbiglio mi tornò indietro direttamente con un'eco così rapida che seppi di essere molto vicino alla parete della grotta, poi si perse, sibilando, verso il soffitto. Lì ci fu un movimento... dapprima, pensai, solo l'intensificarsi del sussurro riecheggiato, poi il fruscio crebbe, simile al fruscio di un vestito di donna, o a una tenda agitata dal vento. Qualcosa mi passò accanto alla guancia, con un grido stridulo, soffocato proprio al limite del suono. Ne seguì un altro e poi fiocchi, uno dopo l'altro, di ombra stridula, che si rovesciavano dal soffitto come foglie in un turbine di vento, o pesci in una cascata. Erano i pipistrelli, disturbati, che abbandonavano la loro dimora sul-
la volta della grotta e adesso si rovesciavano fuori nella valle assolata. Sarebbero sgorgati dall'arco basso come un pennacchio di fumo. Rimasi immobile, chiedendomi se lo strano odore di stantio fosse dovuto a loro. Pensai che avrei potuto annusarli mentre passavano accanto a me, ma non era la stessa cosa. Non avevo paura che mi toccassero, al buio o alla luce, qualsiasi velocità tengano, i pipistrelli non sfiorano nulla. Sono talmente creature dell'aria, credo, che quando l'aria si divide davanti a un ostacolo il pipistrello viene trascinato da parte insieme a lei, come un petalo trascinato dalla corrente. Si rovesciarono oltre me, marea stridula tra me e la parete. Infantilmente, per vedere che cosa avrebbe fatto la corrente, come avrebbe dirottato, mi avvicinai alla parete. Niente mi toccò. La corrente si divise e continuò a scorrere, l'aria stridula mi sfiorò le guance. Era come se non esistessi. Ma nello stesso momento in cui mi muovevo, anche la creatura che avevo visto si mosse. Poi la mia mano tesa incontrò non la roccia ma il metallo, e seppi che cos'era la creatura. Era il mio stesso riflesso. Appesa alla parete c'era una lamina di metallo, brunita in modo da dare un'opaca lucentezza. Era questa, allora, la fonte della luce diffusa all'interno della grotta; la superficie lucente dello specchio imprigionava, obliquamente, la luce proveniente dall'apertura della grotta, e la rimandava nell'oscurità. Mi vedevo lì dentro muovermi come uno specchio, mentre indietreggiavo e lasciavo ricadere la mano che era corsa al coltello, al mio fianco. Dietro di me il flusso di pipistrelli si era interrotto, e la grotta era tranquilla. Rassicurato, rimasi dove mi trovavo, studiandomi attentamente nello specchio. Mia madre ne aveva avuto uno, una volta, un antico specchio egiziano, ma poi, giudicando queste cose vanità, lo aveva riposto sotto chiave. Naturalmente, avevo visto spesso il mio viso riflesso nell'acqua, ma finora non avevo mai osservato il mio corpo rispecchiato. Vidi un bambino scuro, dall'aria prudente, gli occhi pieni di curiosità, audacia, eccitazione. In quella luce i miei occhi parevano proprio neri; anche i miei capelli erano neri, folti e puliti ma tagliati e strigliati peggio della criniera del mio pony; la mia tunica e i sandali erano un disastro. Sorrisi, e lo specchio lampeggiò di quell'improvviso sorriso che trasformava completamente e di colpo il quadro, facendo di un giovane animale accigliato pronto a scappare o a battersi qualcosa di scattante, dolce e avvicinabile; qualcosa, lo sapevo anche allora, che pochi avevano visto. Poi questo svanì e ritornò l'animale prudente, mentre io mi chinavo in
avanti per passare una mano sul metallo. Era fresco, liscio e brunito di recente. Chiunque l'avesse appeso lì - e doveva essere la stessa persona che usava la coppa di corno all'ingresso della grotta - era stato qui da pochissimo tempo, o addirittura vi viveva ancora, e avrebbe potuto essere di ritorno in qualsiasi momento e trovarmi. Non avevo paura in modo particolare. Mi ero messo sull'avviso quando avevo visto la coppa, ma si impara molto presto ad aver cura di sé, e l'epoca in cui ero cresciuto era abbastanza tranquilla, almeno nella nostra valle; però esistevano pur sempre uomini selvaggi, e rozzi, e i fuorilegge e i vagabondi con cui fare i conti, e qualsiasi ragazzo a cui piacesse la propria compagnia, com'ero io, doveva esser pronto a difendere la pelle. Ero snello e resistente, e forte per la mia età, e avevo il mio pugnale; ero Merlino e, bastardo o no, nipote del re. Continuai a esplorare. Quello che trovai subito dopo, a un passo dalla parete, fu una scatola, e, sopra a questa, oggetti che le mie mani subito identificarono come pietra focaia, ferro e un recipiente per l'esca d'acciarino, oltre a una grossa candela di rozza fabbricazione, fatta di qualcosa che odorava di sego di pecora. Accanto a questi oggetti era posata una forma che, con incredulità e centimetro per centimetro, identificai per il cranio di un montone fornito di corna. Qua e là sopra la scatola erano conficcati dei chiodi, che in apparenza trattenevano frammenti di pelle. Ma quando tastai, con cautela, quei frammenti, trovai nella pelle disseccata delicate strutture ossee: erano pipistrelli morti, distesi e inchiodati sul legno. Era veramente una grotta del tesoro, quella. Nessun ritrovamento d'oro o di armi avrebbe potuto eccitarmi di più. Pieno di curiosità, tesi la mano verso la scatola per l'esca e l'acciarino. Allora lo udii ritornare. Il mio primo pensiero fu che dovesse aver visto il mio pony, poi mi resi conto che arrivava dalla parte più alta della collina. Potevo distinguere lo scricchiolio e lo sfaldarsi dei ciottoli mentre scendeva giù per il ghiaione, al di sopra della grotta. Uno di quei ciottoli cadde fragorosamente nella sorgente all'ingresso della caverna, e allora fu troppo tardi. Lo udii saltar giù sull'erba grassa accanto all'acqua. Era di nuovo il momento della colomba selvatica; il falcone era dimenticato. Corsi verso il fondo della grotta. Quando egli scostò i rami che oscuravano l'ingresso, la luce per un momento aumentò, abbastanza da mostrarmi la strada. In fondo alla grotta c'era un pendio con una roccia sporgente e, a un'altezza che era il doppio della mia, un ripiano abbastanza
largo. Un rapido bagliore di luce proveniente dallo specchio scoprì un cuneo d'ombra nella roccia, al di sopra del ripiano, abbastanza grande per nascondermi. Senza far rumore trascinando i miei sandali, mi arrampicai sul ripiano e stipai il mio corpo in quel cuneo d'ombra scoprendo che in realtà era un'apertura nella roccia, che apparentemente dava accesso a un'altra caverna più piccola. Vi scivolai dentro attraverso l'apertura come una lontra nella sponda di un fiume. Pareva che lui non avesse udito niente. La luce sparì di nuovo quando i rami si richiusero dietro di lui, ed egli entrò nella grotta. Era un passo d'uomo, misurato e lento. Se mi fossi soffermato a pensarci, suppongo avrei immaginato che la grotta sarebbe rimasta disabitata almeno fino al tramonto, che chiunque di quel luogo fosse il proprietario sarebbe rimasto fuori a cacciare, o intento ad altre occupazioni, e sarebbe ritornato solo al calar della notte. Non c'era senso a sprecare candele quando fuori brillava il sole. Forse adesso lui era tornato solo per portare a casa la selvaggina uccisa, e sarebbe uscito di nuovo lasciandomi l'opportunità di andarmene. Sperai che non avesse visto il mio pony legato al cespuglio di biancospino. Poi lo udii muoversi, col passo sicuro di chi sa trovare la sua strada a occhi chiusi, verso la candela e la scatola dell'esca e dell'acciarino. Anche adesso, non c'era posto in me per la paura, in verità non c'era posto che per un pensiero, o sensazione - l'estremo disagio della grotta nella quale ero strisciato. Apparentemente era piccola, non molto più grande delle grandi tinozze rotonde che usano per fare le tinture, e quasi della stessa forma. Pavimento, pareti e soffitto mi abbracciavano con una curva continuata. Era come essere all'interno di un grosso globo; un globo, per di più, tempestato di chiodi, o con la superficie interna tutta costellata di piccoli frammenti di pietra frastagliata. Pareva che non ci fosse neanche un centimetro di superficie che non fosse irto come un letto di silice sparpagliata, e fu solo la mia leggerezza, credo, che mi impedì di tagliarmi, mentre cercavo in giro, alla cieca, un punto libero sul quale sdraiarmi. Trovai un posto più liscio del resto e mi ci raggomitolai, facendomi più piccolo che potevo, a guardare l'apertura che si vedeva solo vagamente e spostando senza far rumore il pugnale dalla sua guaina alla mia mano. Udii il sibilo rapido e lo sfregamento della pietra focaia e del ferro, poi il chiarore tremolante della luce, intensa nell'oscurità, mentre l'esca prendeva fuoco. Poi lo scintillio continuo, che cresceva, quando accese la candela. O meglio, avrebbe dovuto essere il raggio gradualmente crescente di una
luce di candela quello che vedevo, ma era invece un lampo, uno scintillio, una conflagrazione, come se avesse preso fuoco un rogo imbevuto di resina. La luce si rovesciava e dardeggiava, cremisi, dorata, bianca, rossa, intollerabile nella mia grotta. Mi ritrassi trasalendo, impaurito adesso, senza avvertire dolore e ferite mentre indietreggiavo contro le pareti acuminate. L'intero globo nel quale mi trovavo pareva divampare. Ed era veramente un globo, una camera rotonda pavimentata, soffittata, foderata di cristalli. Questi erano belli e levigati come vetro, ma più limpidi di qualsiasi vetro che avessi mai visto, scintillanti come diamanti. Cosi, in effetti, parvero a tutta prima alla mia mente infantile. Mi trovavo in un globo foderato di diamanti, un milione di diamanti sfavillanti, e ogni sfaccettatura di ogni gemma sussultava nella luce, scuotendola avanti e indietro, diamante contro diamante e di nuovo indietro, con arcobaleni e fiumi e esplosioni di stelle e una forma simile a un drago scarlatto che artigliava la parete, mentre sotto di lui un viso di fanciulla galleggiava leggermente a occhi chiusi, e la luce piombava dritta sul mio corpo come se volesse aprirmi. Chiusi gli occhi. Quando li riaprii vidi che la luce d'oro si era ritirata ed era concentrata su un pezzo della parete non più grande della mia testa, e da li, priva di ogni visione, irradiava raggi interrotti e lucenti. Dalla grotta sottostante non veniva alcun rumore. Lui non si era mosso. Non avevo neppure udito il fruscio dei suoi abiti. Poi la luce si spostò. Il disco dardeggiarne cominciò a scivolare, lentamente, sulla parete di cristallo. Stavo tremando. Mi raggomitolai ancora più vicino alle pietre taglienti, tentando di sfuggirgli. Non c'era nessun posto in cui andare. Il disco avanzava con lentezza tutt'intorno alla parete concava. Mi toccò la spalla, la testa, e io lo scansai, facendomi piccolo. L'ombra del mio movimento corse attraverso il globo, come un turbinio di vento su una superficie d'acqua. La luce si fermò, si ritrasse, si fermò scintillando al suo posto. Poi uscì. Ma il chiarore della candela, stranamente, permaneva; un normale, costante chiarore giallo al di là dell'apertura nella parete del mio rifugio. «Vieni fuori.» La voce dell'uomo, non alta, né gridata per impartire ordini come quella di mio nonno, era limpida e concisa con tutto il mistero del comando. Non mi venne neppure in mente di disubbidire. Strisciai sui cristalli aguzzi e uscii dall'apertura. Poi, lentamente, mi alzai in piedi sul ripiano, con le spalle addossate alla parete della grotta esterna, il pugnale pronto nella mia destra, e guardai in basso.
Sei Era fermo tra me e la candela, la figura enormemente alta (o almeno così mi parve) con un lungo vestito di rozzo tessuto scuro. Io aspettai, in atteggiamento circospetto. Lui parlò di nuovo, con lo stesso tono. «Alza il pugnale e vieni giù.» «Quando vedrò la tua mano destra» dissi. Lui me la mostrò, con il palmo rivolto verso l'alto. Era vuota. Disse serio: «Sono disarmato». «Allora scostati» dissi, e saltai. La grotta era larga, e lui era fermo da un lato. Il salto mi portò tre o quattro passi più in là, e l'avevo già sorpassato e mi trovavo accanto all'uscita prima che egli potesse fare più di un passo. Ma in realtà non si mosse affatto. Stavo raggiungendo l'imboccatura della grotta e scostando i rami che la coprivano, quando lo udii ridere. Quel suono mi fece fermare di colpo. Mi voltai. Da quel punto, nella luce che adesso riempiva la grotta, lo vedevo chiaramente. Era vecchio, con capelli grigi che si facevano radi sul cocuzzolo e gli pendevano lisci sulle orecchie, e una barba grigia pure liscia, tagliata alla meno peggio. Le sue mani erano incallite e macchiate di sporcizia, ma erano state belle, con dita lunghe. Adesso su quelle mani le vene del vecchio strisciavano e formavano grovigli, ed erano dilatate come vermi. Ma fu il suo viso che mi trattenne; era sottile, incavato quasi come un teschio, con una fronte alta bombata e sopracciglia grigie cespugliose che scendevano sporgenti sugli occhi dove non riuscii a scorgere nessuna traccia di età. Erano vicini, grandi e di un grigio stranamente chiaro e pieno di lagrime. Il naso era sottile e aquilino; la bocca, quasi senza labbra, si allargava nella risata su denti sorprendentemente sani. «Torna qui. Non devi aver paura.» «Non ho paura.» Lasciai che i rami richiudendosi tornassero al loro posto e non senza un'aria di sfida mi mossi verso di lui. «Perché dovrei aver paura di te? Sai chi sono?» Egli mi guardò un momento, come riflettendo. «Fatti vedere. Capelli neri, occhi neri, il corpo di un ballerino e i modi di un giovane lupo... oppure dovrei dire di un giovane falcone?» Il pugnale si abbassò al mio fianco. «Allora mi conosci?» «Dovrei dire che sapevo che un giorno saresti venuto, e che oggi ho saputo che c'era qualcuno. Che cosa credi mi abbia riportato qui così di buo-
n'ora?» «Come facevi a sapere che c'era qualcuno? Ah, naturale, hai visto i pipistrelli.» «Forse.» «Si alzano sempre in quel modo?» «Solo per gli estranei. Il tuo pugnale, signore.» Lo riposi nella mia cintura. «Nessuno mi chiama signore. Sono un bastardo. Questo significa che appartengo a me stesso, a nessun altro. Il mio nome è Merlino, ma tu lo sapevi.» «E il mio è Galapas. Hai fame?» «Sì» ma lo dissi in tono dubbioso, pensando al teschio e ai pipistrelli morti. In modo sconcertante lui capì. Gli occhi grigi scintillarono. «Frutta e dolci di miele? E acqua fresca della fonte? Quale cibo migliore potresti avere, anche in casa del re?» «Queste cose non le avrei in casa del re, a quest'ora» dissi con franchezza. «Grazie, signore, sarò lieto di mangiare con te.» Egli sorrise. «Nessuno mi chiama signore. E anch'io non appartengo a nessuno. Esci e vai a sederti al sole: io porterò il cibo.» I frutti erano mele e avevano esattamente lo stesso aspetto e lo stesso sapore di quelle che si trovavano nel frutteto di mio nonno, sicché lanciai un'occhiata furtiva al mio ospite, per esaminarlo alla luce, chiedendomi se l'avessi mai visto in riva al fiume, o in qualsiasi altro punto della città. «Hai moglie?» chiesi. «Chi fa i dolci di miele? Sono molto buoni.» «Nessuna moglie. Ti ho detto che non appartengo a nessuno, e anche a nessuna. Vedrai, Merlino, che in tutta la tua vita ci saranno uomini, e anche donne, che cercheranno di mettere delle sbarre intorno a te, ma tu sfuggirai a quelle sbarre, o le piegherai, o le dissolverai secondo il tuo volere finché, di tua volontà, le accetterai intorno a te, e dormirai dietro di esse, alla loro ombra... I dolci di miele me li dà la moglie del pastore, ne la abbastanza per tre, ed è bene risparmiarne alcuni per la carità.» «Allora sei un eremita? Un sant'uomo?» «Sembro forse un sant'uomo?» «No.» Era vero. Le uniche persone delle quali ricordo di aver avuto paura a quell'epoca erano i solitari sant'uomini che a volte vagavano per la città, predicando ed elemosinando; uomini capricciosi, arroganti, rumorosi, con uno sguardo folle negli occhi, e un odore che emanava da loro, che io associavo con i mucchi di frattaglie fuori dei recinti usati come macello. A
volte era difficile sapere quale dio pretendessero di servire. Alcuni di essi, si sussurrava, erano druidi, cioè ancora ufficialmente fuorilegge, benché nel Galles e nelle campagne praticassero ancora senza grandi interferenze. Molti erano seguaci degli antichi dei, delle divinità locali, e poiché la popolarità di questi variava a seconda delle stagioni, i loro preti tendevano a spostare di quando in quando la loro fedeltà dove più ricchi erano i raccolti. Perfino quelli cristiani a volte facevano così, ma di solito si poteva capire quali erano i veri cristiani, perché erano i più sporchi. Gli dei romani e i loro sacerdoti resistevano solidamente nei loro templi crollanti, ma anche loro tiravano avanti abbastanza bene con le offerte. La Chiesa disapprovava il tutto, ma non poteva farci molto. «C'era un dio alla fonte, di fuori» azzardai. «Sì. Myrddin. Mi presta la sua fonte, la sua collina piena di caverne e il suo cielo di luce splendente, e in cambio io gli do quel che gli spetta. Non sta bene trascurare gli dei di un luogo, quali che possano essere. In definitiva, sono tutti uno.» «Se non sei un eremita, che cosa sei?» «In questo momento, un maestro.» «Io ho un precettore. Viene da Massilia, ma veramente è stato a Roma. A chi insegni, tu?» «Finora a nessuno. Sono vecchio e stanco, e sono venuto qui per vivere in solitudine e studiare.» «Perché hai quei pipistrelli morti lì, sulla scatola?» «Li stavo studiando.» Lo guardai fisso. «Studiando i pipistrelli? Come fai a studiare i pipistrelli?» «Studio come sono fatti, e come volano, come si accoppiano, come si nutrono, come vivono. Non solo i pipistrelli, ma gli animali, i pesci, le piante e gli uccelli, tutti quelli che vedo.» «Ma questo non è studiare!» Lo considerai con meraviglia. «Demetrio... cioè il mio precettore... dice che guardare le lucertole e gli uccelli significa sognare a occhi aperti, cioè perdere tempo. Anche se Cerdic... questo è un amico... mi ha detto di studiare le colombe selvatiche.» «Perché?» «Perché sono rapide, e tranquille, e stanno alla larga. Perché fanno solo due uova, eppure benché tutti gli diano la caccia, uomini, bestie e sparvieri, ci sono ancora più colombe selvatiche di qualsiasi altra specie.» «E non le mettono in gabbia.» Bevve un po' d'acqua, guardandomi. «Co-
sì, hai un precettore. Allora sai leggere?» «Naturalmente.» «Sai leggere il greco?» «Un po'.» Si alzò ed entrò nella grotta. Lo seguii. Egli riaccese la candela - l'aveva spenta per risparmiare sego - e a quella luce sollevò il coperchio della scatola. Vidi rotoli di libri, più libri in una volta di quanti avevo mai potuto immaginare che ne esistessero al mondo. Lo guardai sceglierne uno, chiudere il coperchio e svolgere il libro. «Qua.» Vidi di che cosa si trattava, con felicità. Un disegno, dalle linee sottili e tremolanti ma preciso, dello scheletro di un pipistrello. E accanto a esso, in nitide, contorte lettere greche, frasi che immediatamente, dimenticando perfino la presenza di Galapas, io cominciai a compitare tra me. Dopo un minuto o due, la sua mano si poggiò sulla mia spalla. «Portalo fuori.» Estrasse i chiodi che fissavano uno dei corpi coriacei ed essiccati al coperchio della scatola, e se lo appoggiò con cautela sul palmo della mano. «Spegni la candela. Esamineremo questo insieme.» Fu così, senza ulteriori domande né complimenti, che ebbe inizio la mia prima lezione con Galapas. Solo quando il sole, che era basso su un versante della valle, fece salire lentamente una lunga ombra sul pendio, ricordai l'altra vita che mi aspettava e quanto mi fossi allontanato. Balzai in piedi. «Devo andare! Demetrio non dice niente, ma se arrivo in ritardo per la cena mi chiederanno il perché.» «E tu non hai intenzione di dirglielo?» «No, altrimenti mi impedirebbero di ritornare.» Egli sorrise, senza far commenti. Non credo di aver notato allora i presupposti sui quali tutto il nostro colloquio si era basato; lui non aveva chiesto né come fossi venuto, né perché. E siccome io ero solo un bambino, diedi la cosa per scontata, pure io, benché per educazione chiedessi: «Posso tornare, vero?». «Certo.» «Io... mi è difficile dire quando. Non so mai quando andrò via... voglio dire, quando sarò libero.» «Non ti preoccupare. Saprò quando stai per venire. E sarò qui.» «Come farai a saperlo?»
Lui stava arrotolando il libro con quelle lunghe dita abili. «Come ho fatto oggi.» «Ah! Me ne stavo dimenticando. Vuoi dire che entro nella grotta e faccio uscire i pipistrelli?» «Se vuoi.» Risi di gusto. «Non ho mai conosciuto nessuno come te! Fare segnali di fumo con i pipistrelli! Se lo raccontassi non mi crederebbero mai, neppure Cerdic.» «Tu non lo raccontare neppure a Cerdic.» Annuii. «Giusto. A nessuno. Adesso devo andare. Arrivederci, Galapas.» «Arrivederci.» E così fu nei giorni, e nei mesi, che seguirono. Ogni volta che potevo, quando una e quando due volte alla settimana, risalivo la valle col mio pony verso la grotta. Lui, certo, pareva sapere che stavo arrivando, perché il più delle volte mi stava aspettando, con i libri già srotolati; ma quando non v'era traccia di lui io mi comportavo come stabilito, mandando fuori i pipistrelli come segnali di fumo per richiamarlo. Col passar delle settimane essi si abituarono a me, e ci volevano sempre due o tre pietre lanciate con buona mira nella parte alta della grotta per farli uscire; ma dopo un certo periodo questo diventò superfluo: al palazzo si abituarono alle mie assenze, e fu possibile di volta in volta mettersi d'accordo con Galapas per l'incontro successivo. Moravik mi aveva sempre più lasciato libero di farmi i fatti miei da quando, alla fine di maggio, era nato il bambino di Olwen, e quando a settembre arrivò il figlio di Camlach, essa si insediò nel nido reale con la funzione ufficiale di direttrice, abbandonandomi con la stessa subitaneità con cui un uccello abbandona il nido. Vedevo sempre meno mia madre, che pareva soddisfatta di trascorrere il tempo con le sue donne, perciò ero lasciato molto tempo a Demetrio e a Cerdic. Demetrio aveva le sue buone ragioni per accogliere con piacere, di quando in quando, una giornata di libertà, e Cerdic era mio amico. Senza far domande, levava la sella al pony infangato e sudato, magari con una strizzatina d'occhi o con una battuta un po' oscena sul luogo in cui ero stato, battuta che era detta da lui come uno scherzo, e presa da me come tale. Adesso avevo la mia stanza tutta per me, a parte quanto riguardava il cane lupo; questi trascorreva le notti con me in ricordo dei vecchi tempi, ma non ho idea se potesse davvero rappresentare
la mia scorta personale. Ero piuttosto al sicuro. Il paese era in pace, a parte le eterne voci di invasione dalla Britannia minore; Camlach e suo padre erano in armonia; io in apparenza mi dirigevo con volontà e premura verso la prigione del sacerdozio, perciò, quando le lezioni con Demetrio erano ufficialmente terminate, ero libero di andare dove mi pareva. Nella valle non vidi mai nessun altro. Solo il pastore viveva lì d'estate, in una povera capanna sotto il bosco. Non c'erano altre abitazioni, e oltre la grotta di Galapas il sentiero era usato solo da pecore e daini. Non portava in nessun posto. Lui era un buon maestro, e io ero svelto, ma in realtà durante le lezioni con lui al tempo non ci pensavo. Lasciammo le lingue e la geometria a Demetrio, e la religione ai preti di mia madre; dapprima, con Galapas fu solo come ascoltare un cantastorie. In gioventù, lui aveva viaggiato fino all'altro capo della terra, Etiopia, Grecia e Germania e tutt'intorno al Mediterraneo, e aveva visto e imparato strane cose. Mi insegnava cose pratiche, anche; come raccogliere erbe e farle seccare per conservarle, come usarle per medicamenti, e come distillare certe sostanze medicinali misteriose, anche veleni. Mi fece studiare gli animali, e gli uccelli, e sugli uccelli e le pecore che trovavamo morti sulle colline - una volta trovammo anche un daino -, imparai gli organi e le ossa del corpo. Mi insegnò ad arrestare un'emorragia, a sistemare un osso rotto, ad asportare carne infetta e a ripulire la ferita in modo che si cicatrizzi per bene; perfino, benché questo venisse più tardi, a rimettere a posto carne e tendini mentre l'animale è stordito con esalazioni. Ricordo che la prima magia che mi insegnò fu l'incantesimo per i porri; che è cosi facile che anche una donna può praticarlo. Un giorno tirò fuori dalla scatola un libro e lo svolse. «Sai che cos'è questo?» Ero abituato a diagrammi e a disegni, ma questo disegno non rappresentava niente che io potessi riconoscere. La scritta era in latino e io lessi le parole Aethiopia e Fortunatae Insulae, poi su in un angolo Britannia. Dappertutto parevano scarabocchiate delle linee, e su tutto il disegno erano tracciati abbozzi di monticelli, come un campo in cui avessero lavorato le talpe. «Questi, sono monti?» «Sì.» «Allora è un quadro del mondo?» «Una carta geografica.» Non avevo mai visto una carta geografica prima d'allora. In un primo
momento non riuscivo a capire come funzionasse, ma dopo un po', mentre egli parlava, vidi il mondo lì disteso come lo vede un uccello, con le strade e i fiumi come raggi di una tela di ragno, o come quelle linee invisibili che conducono un'ape dentro il fiore. Se uno trova un corso d'acqua che conosce, e lo segue attraverso lande selvagge, può arrivare da Roma a Massilia, o da Londra a Caerleon, senza mai chiedere la strada né guardare le pietre miliari. Quest'arte fu scoperta dal greco Anassimandro, benché qualcuno dica che gli egiziani già la conoscevano. La mappa che Galapas mi mostrò era la copia di un libro di Tolomeo di Alessandria. Quando me l'ebbe spiegata, e dopo averla studiata insieme, mi chiese di tirar fuori la mia tavoletta e di fare una mappa per me, del mio paese. Quando l'ebbi fatta egli la guardò. «Questo al centro, che cos'è?» «Maridunum» dissi sorpreso. «Vedi, questo è il ponte, e il fiume, e questa è la strada che attraversa la piazza del mercato, e qui sono le porte delle caserme.» «Vedo. Ma io non dicevo la tua città, Merlino, dicevo il tuo paese.» «Tutto il Galles? Come faccio a sapere quello che c'è a nord delle colline? Non sono mai stato oltre questo posto.» «Te lo mostrerò io.» Mise da parte la tavoletta e con un bastoncino appuntito cominciò a disegnare nella polvere, e intanto spiegava. Quella che disegnò per me era una mappa a forma di grande triangolo, non solo il Galles, ma l'intera Britannia, anche la regione selvaggia che si estende al di là del Vallo dove vivono i barbari. Mi mostrò montagne, fiumi, strade e città, Segontium e Caerleon, Eboracum e le città che sorgevano lungo il Vallo. Parlava come se si trattasse di un unico paese, benché io avrei potuto dirgli i nomi dei re di almeno dodici luoghi che egli nominò. Di questo mi ricordo solo per via di quanto accadde dopo. Dopo questo episodio, quando venne l'inverno e le stelle si mostravano già di buon'ora nel cielo, egli mi insegnò i loro nomi e i loro poteri, e m'insegnò pure che era possibile tracciarne la mappa esattamente come per le strade e i territori. Muovendosi, egli diceva, producevano musica. Personalmente lui non conosceva la musica, ma quando scopri che Olwen me l'aveva insegnata mi aiutò a fabbricarmi un'arpa. Questa risultò piuttosto rudimentale, suppongo, fatta di carpine, con la colonna e l'arco di salice rosso del Tywy, con le corde che erano peli della coda del mio pony, mentre l'arpa di un principe (disse Galapas) avrebbe dovuto avere corde d'oro e d'argento. Ma io ricavai i piroli da monete di rame bucate, la chiave e le
stecche per l'accordatura da ossi levigati, poi incisi uno smeriglio sulla cassa di risonanza, e pensai che era uno strumento più bello di quello di Olwen. In verità era intonato come il suo, con una specie di dolce sussurro che pareva strappare le armonie dall'aria stessa. Lo tenevo nella grotta: anche se in quel periodo Dinias mi lasciava in pace, dato che lui era un soldato mentre io ero solo un aspirante ecclesiastico, non tenevo al palazzo nessuna cosa a cui attribuissi valore, a meno che non potessi chiuderla nella cassa dei vestiti, ma l'arpa era troppo grande. A casa, come musica avevo gli uccelli sul pero, e Olwen a volte ancora cantava. E quando gli uccelli tacevano, e il cielo notturno era intessuto di ghiaccioli di luce, cercavo di udire la musica delle stelle. Ma non ci riuscii mai. Poi, un giorno, avevo dodici anni, Galapas parlò della grotta di cristallo. Sette È noto che, con i bambini, le cose più importanti spesso non vengono nominate. È come se il bambino riconoscesse, d'istinto, le cose che sono troppo grandi per lui, e le conservasse nella mente, alimentandole con la sua immaginazione finché esse assumono proporzioni dilatate o grottesche che possono diventare materia sia di magia che di incubo. Era così con la grotta di cristallo. Non avevo mai parlato a Galapas della mia prima esperienza nella grotta. Anche tra me difficilmente ammettevo ciò che a volte mi si presentava con luce e fuoco: sogni, mi ero detto, ricordi di una memoria preesistente, creazioni della mente e nient'altro, come la voce che mi aveva detto di Gorlan, o la vista del veleno nell'albicocca. E quando mi accorsi che Galapas non parlava mai della grotta più interna, e che lo specchio era coperto tutte le volte che io ero lì, non dissi niente. Un giorno d'inverno mi recavo a cavallo da lui, il gelo faceva scintillare e risuonare il terreno, e il mio pony soffiava vapore come un drago. Andava veloce, agitando la testa e tirando il morso, e appena lo feci girare fuori del bosco e lo lanciai su per la valle si mise al piccolo galoppo. Era finalmente passato per me il tempo del docile pony dorato della mia infanzia, ma ero orgoglioso del mio piccolo gallese grigio, che chiamavo Aster. È una razza di pony di montagna del Galles, robusti, rapidi e molto belli, dalla testa stretta ed elegante, le orecchie piccole e il collo fortemente inarcato. Questi pony corrono veloci sulle colline e in passato hanno avuto
incroci con cavalli che i romani avevano portato dall'Oriente. Aster era stato preso e domato per mio cugino Dinias, che lo aveva cavalcato un paio d'anni, scartandolo poi per un vero cavallo da guerra. Io lo trovai difficile da trattare, perché aveva modi bruschi e una bocca rovinata, ma la sua andatura era dolce in confronto allo sballottamento cui ero abituato, e non appena lui superò il timore di me mi si affezionò. Già da molto tempo avevo escogitato un rifugio per il mio pony quando mi recavo da Galapas d'inverno. La macchia di biancospino arrivava proprio contro la parete rocciosa sotto la grotta, e dove era più folta Galapas e io avevamo portato pietre per fare un recinto, la parete posteriore del quale era costituita dalla roccia. Dopo che avemmo messo rami secchi contro le pareti e sul tetto, e portato qualche bracciata di felci, il recinto non solo diventò un rifugio solido e caldo, ma fu anche invisibile a un eventuale osservatore. Questa necessità di segretezza era un'altra delle cose che non erano mai state apertamente discusse; io capivo senza che mi venisse detto che in qualche modo Galapas mi stava aiutando a oppormi ai progetti di Camlach per me, perciò, anche se col passar del tempo venivo lasciato completamente libero di agire come volevo, prendevo ogni precauzione per evitare che tutto questo venisse scoperto, trovando una mezza dozzina di strade diverse per arrivare alla valle, e un sacco di storie per giustificare il tempo che trascorrevo lassù. Condussi Aster nel recinto, gli tolsi la sella e le briglie e le appesi, poi presi il foraggio dalla bisaccia, chiusi l'ingresso con un grosso ramo e salii a passo svelto alla grotta. Galapas non c'era, ma che si fosse allontanato da poco era dimostrato dal fatto che il braciere che si trovava all'ingresso della grotta era stato sistemato in modo che non si consumasse e desse luce. Lo mossi finché le fiamme si alzarono, poi mi sedetti li vicino con un libro. Quel giorno ero venuto senza che ci fossimo messi d'accordo prima, ma avevo tutto il tempo che volevo, perciò lasciai stare i pipistrelli e lessi tranquillamente per un certo tempo. Non so che cosa, proprio quel giorno tra tutti i giorni che ero stato lì da solo, mi fece all'improvviso deporre il libro e, oltrepassato lo specchio coperto, andare a guardare in alto la fenditura attraverso la quale ero fuggito cinque anni prima. Mi dissi che ero soltanto curioso di controllare se era come la ricordavo o se i cristalli, come visioni, fossero frutto della mia immaginazione; qualunque fosse la ragione, mi arrampicai svelto fino alla piattaforma e mettendomi a carponi vicino alla fenditura, sbirciai dentro.
La grotta più interna era gelida e scura, dal fuoco non le arrivava alcun barlume di luce. Strisciai cautamente in avanti, finché le mie mani incontrarono cristalli appuntiti. Quelli sì che erano reali. Anche adesso senza riconoscere con me stesso perché mi affrettavo, con un occhio fisso all'entrata della grotta principale e le orecchie tese per cogliere un segno del ritorno di Galapas, scivolai giù dalla piattaforma, raccolsi il giustacuore di pelle che mi ero tolto e, in fretta, lo gettai davanti a me, attraverso la fenditura. Poi lo seguii strisciando. Con il giustacuore di pelle disteso sul suolo, il globo era relativamente comodo. Rimasi immobile. Il silenzio era assoluto. Quando i miei occhi si abituarono al buio, vidi un debolissimo scintillio grigio proveniente dai cristalli, ma della magia che la luce aveva portato li non c'era traccia. Doveva esserci una fessura che si apriva verso l'aria, perché perfino in quel buio, così al chiuso, c'era una leggera corrente, un filo d'aria fredda. E con quel filo arrivò il rumore che aspettavo, i passi di qualcuno che si avvicinava sopra la roccia gelata... Quando Galapas entrò nella grotta alcuni minuti dopo, ero seduto accanto al fuoco, con il giustacuore posato accanto a me, immerso nella lettura. Mezz'ora prima del crepuscolo, mettemmo da parte i libri. Ma io non mi muovevo per andarmene. Adesso il fuoco divampava, riempiendo la grotta di caldo e di luce tremolante. Rimanemmo per qualche momento seduti in silenzio. «Galapas, c'è una cosa che voglio chiederti.» «Sì?» «Ricordi la prima volta che sono venuto qui?» «Con grande chiarezza.» «Tu sapevi che sarei venuto. Come lo sapevi che sarei arrivato qui?» «Ti ho visto nella grotta di cristallo.» «Ah, quello, sì. Hai spostato lo specchio in modo che la luce della candela mi colpisse, e hai visto la mia ombra. Ma non è questo che ti chiedevo. Volevo dire, come lo sapevi che quel giorno avrei risalito la valle?» «A questa domanda ho risposto, Merlino. Sapevo che stavi risalendo la valle quel giorno, perché prima che tu venissi ti avevo visto nella grotta.» Ci fissammo in silenzio. Le fiamme, tra noi, divampavano e mormoravano, appena attenuate da quel poco di corrente che portava il fumo fuori della grotta. Non credo di avergli risposto subito, mi limitai ad annuire. Era qualcosa che già sapevo. Dopo un po' dissi, semplicemente: «Me lo fai vedere?».
Egli mi guardò un attimo ancora, poi si alzò. «È tempo. Accendi la candela.» Ubbidii. La piccola luce si allungò, dorata, arrivando tra le ombre gettate dai guizzi del fuoco. «Togli la coperta dallo specchio.» La tirai e quella mi cadde tra le braccia, un ammasso di lana. La lasciai cadere sul letto di lui, accanto alla parete. «Adesso vai su, sul ripiano, e sdraiatici.» «Sul ripiano?» «Sì. Sdraiati a pancia sotto, con la testa verso la fessura, in modo da poter vedere dentro.» «Non vuoi che io vada direttamente dentro?» «E che prenda il giustacuore per sdraiartici su?» Ero a mezza strada dal ripiano. Mi girai di colpo, per vederlo sorridere. «È inutile, Galapas, tu sai tutto.» «Un giorno andrai dove anche con la Vista non potrò seguirti. Adesso stai fermo sdraiato, e guarda.» Mi sdraiai sul ripiano. Era largo e piatto e mi sorreggeva abbastanza comodamente, prono com'ero, con la testa appoggiata sulle braccia ripiegate, e voltato verso la fessura. Sotto di me, Galapas disse dolcemente: «Non pensare a niente. Ti guido io; non è ancora una cosa per te. Guarda soltanto». Lo udii spostarsi di nuovo nella grotta verso lo specchio. La grotta era più grande di quanto avessi immaginato. Si estendeva più in là di quanto io potessi vedere, e il suolo era liscio tanto era consumato. Anche a proposito dei cristalli mi ero sbagliato; lo scintillio che rifletteva la luce della torcia veniva solo da pozzanghere sul pavimento, e da un punto, su una parete, dove una sottile traccia di vapore tradiva una sorgente, chissà dove, di sopra. Le torce, conficcate in fenditure nella parete della grotta, erano di tipo economico, stracci stipati in corni incrinati... gli scarti delle botteghe. Ardevano in modo tetro nell'aria viziata. Benché facesse freddo, gli uomini lavoravano nudi a parte una fascia che cingeva loro i fianchi, e il sudore scorreva sulle loro schiene mentre scalpellavano la parete rocciosa, piccoli colpi regolari e incessanti che non producevano alcun rumore, però si potevano vedere i muscoli stringersi e vibrare sotto il sudore che brillava alla luce. Sotto una sporgenza che si trovava alla base della parete, all'altezza
di un ginocchio, sdraiati sulla schiena in una pozza formata dallo sgocciolamento, due uomini martellavano verso l'alto con brevi colpi faticosi, percuotendo la roccia a pochi centimetri dal loro viso. Sul polso di uno di essi vidi il segno lucido di un vecchio marchio a fuoco. Uno degli uomini che scalpellavano la parete si piegò in due, tossendo, poi lanciando un'occhiata dietro di sé soffocò la tosse e si rimise al lavoro. Nella grotta la luce si faceva più forte; proveniva da un'apertura quadrata come una porta che si affacciava su una galleria incurvata dalla quale stava arrivando una nuova torcia, buona, questa. Apparvero quattro ragazzi, sporchi di polvere e nudi come gli altri, che trasportavano pesanti canestri, e li seguiva un uomo vestito con una tunica marrone macchiata di umidità. Teneva con una mano la torcia e con l'altra una tavoletta che si fermò a studiare, con le sopracciglia aggrottate, mentre i ragazzi correvano con i loro canestri davanti alla parete rocciosa e cominciavano a spalare i frammenti caduti riempiendone i canestri. Dopo un po' il caposquadra venne avanti fino alla parete e la studiò, tenendo alta la torcia. Gli uomini si tirarono indietro, riconoscenti, pareva, per la pausa, e uno di essi parlò al caposquadra, indicando prima il cunicolo, poi l'umidità che filtrava all'estremità della grotta. I ragazzi avevano riempito i canestri, e li trascinavano lontano dalla parete. Il caposquadra, con un'alzata di spalle e una risata, prese dalla borsa una moneta d'argento e la lanciò in aria con la mossa esperta del giocatore. Gli operai allungarono il collo per vedere. Poi l'uomo che aveva parlato si voltò verso la parete e vi piantò il piccone. La fessura si allargò, e la polvere cadde con forza, coprendo la luce. Poi sulla scia della polvere venne l'acqua. «Bevi questo» disse Galapas. «Che cos'è?» «Una delle mie misture, non delle tue; è assolutamente innocua. Bevila.» «Grazie. Galapas, la grotta è ancora di cristallo. Io... l'ho sognata diversa.» «Non importa adesso. Come ti senti?» «Strano... Non so spiegarlo. Mi sento bene, solo mal di testa, ma... vuoto, come una conchiglia quando la lumaca non c'è più. No, come un giunco se gli si toglie il midollo.» «Un fischietto per i venti. Si. Scendi al braciere.» Quando fui seduto al mio solito posto con una coppa di vino caldo tra le
mani, lui chiese: «Dov'eri?». Gli raccontai quello che avevo visto, ma quando cominciai a chiedergli che cosa significasse, e che cosa ne sapesse lui, scosse la testa. «Credo che questo mi ha già oltrepassato. Non lo so. Tutto quello che so è che devi finire in fretta il vino e andare a casa. Ti rendi conto di quanto tempo sei stato lì sdraiato a sognare? La luna è alta.» Saltai in piedi. «Già? L'ora di cena deve esser passata da un pezzo. Se mi stanno cercando...» «Non ti staranno cercando. Altre cose stanno succedendo. Vai a scoprirlo da te... e accertati di farne parte.» «Che vuoi dire?» «Solo quello che dico. Qualsiasi mezzo tu debba usare, vai con il re. Ecco, non dimenticare questo.» Mi mise il giustacuore tra le braccia. Lo presi alla cieca, con lo sguardo fisso. «Il re parte da Maridunum?» «Sì. Solo per un certo tempo. Non so quanto.» «Non mi porterà mai.» «Dipende da te. Gli dei vanno con te, Myrddin Emrys, se tu ti metti sulla loro strada, e per questo ci vuole coraggio. Mettiti il giustacuore prima di uscire, fa freddo.» Spinsi una mano nella manica, con uno sguardo torvo. «Tu hai visto tutto questo, qualcosa che sta succedendo nella realtà, e io... io stavo a guardare nei cristalli con il fuoco, e mi sono preso un mal di testa del diavolo, e tutto per niente... Qualche stupido sogno di schiavi in una vecchia miniera. Galapas, quando mi insegnerai a vedere come te?» «Tanto per cominciare, posso vedere i lupi che mangiano te e Aster, se non ti affretti a tornare a casa.» Rideva tra sé come se avesse fatto chissà quale scherzo, mentre io uscivo di corsa dalla grotta e scendevo a sellare il pony. Otto C'era un quarto di luna, che dava appena quel poco di luce che bastava a mostrare la strada. Il pony ballava per riscaldarsi il sangue, e tirava più forte che mai, con le orecchie dritte verso casa, fiutando la sua cena. Dovevo lottare per trattenerlo, perché la strada era gelata e io avevo paura di una caduta, ma confesso che - con l'ultima osservazione di Galapas che mi riecheggiava sgradevolmente nella testa - lo lasciai scendere attraverso gli alberi un bel po' più rapidamente di quanto sarebbe stato ragionevole, fin-
ché raggiungemmo il mulino e la superficie liscia della strada alzaia. Qui ci si vedeva bene. Gli affondai i talloni nei fianchi e lo misi al galoppo per il resto della strada. Appena arrivammo in vista della città, vidi che c'era qualcosa. L'alzaia era deserta, le porte della città erano state chiuse da un pezzo, ma la città era piena di luci. Dentro le mura, ovunque sfolgoravano torce, e c'erano grida e scalpiccio di passi. Scivolai dalla sella al cancello delle scuderie, preparato a scoprire che ero stato chiuso fuori, ma quando tesi la mano per provare la porta si apri e Cerdic, con una lanterna velata in mano, mi fece cenno di entrare. «Ti ho sentito arrivare. Sono stato in ascolto tutta la sera. Dove sei stato, farfallone amoroso? Stasera lei deve esser stata generosa.» «Ah, lo è stata. Hanno chiesto di me? Hanno notato la mia assenza?» «Che io sappia no. Stasera hanno altro a cui pensare. Dammi le redini, per adesso lo mettiamo nella stalla. Nel cortile grande c'è troppo movimento.» «Perché, che sta succedendo? Ho sentito rumore a un miglio di distanza. C'è la guerra?» «No, peccato, anche se può darsi che finisca così. È arrivato un messaggio oggi pomeriggio, il Sommo re sta venendo a Segontium, e ci rimarrà un paio di settimane. Tuo nonno parte domani, perciò tutto dev'essere pronto al più presto.» «Capisco.» Lo seguii nella stalla, e rimasi a osservarlo mentre toglieva la sella, e intanto quasi automaticamente strappavo paglia dal mucchio e ne intrecciavo un ciuffo per lui. Poi glielo tesi attraverso i garresi del cavallo. «Re Vortigern a Segontium? Perché?» «A contare i suoi, dicono.» Fece uno sbuffo di riso cominciando a strigliare il pony. «A convocare i suoi alleati, vuoi dire? Si parla di guerra?» «Si parlerà sempre di guerra finché quell'Ambrogio se ne starà in Britannia minore, con il re Budec alle spalle, e gli uomini ricorderanno cose di cui è meglio non parlare.» Annuii. Non riuscivo a ricordare quando esattamente mi fosse stato detto, ma tutti sapevano la storia di come il Sommo re era arrivato al trono. Era stato reggente per il giovane re Costanzo che era morto all'improvviso e i fratelli più giovani del re non avevano aspettato per verificare se fossero vere o false le voci di assassinio; erano fuggiti dal cugino Budec in Britannia minore, lasciando il regno al Lupo e ai suoi figli. Ogni anno, più o me-
no, riprendevano a circolare le stesse voci: che il re Budec stava armando i due giovani principi; che Ambrogio era andato a Roma; che Uther era mercenario al servizio dell'imperatore d'Oriente, o che aveva sposato la figlia del re di Persia; che i due fratelli avevano un esercito di quattrocentomila uomini e avevano intenzione di invadere e mettere a fuoco la Britannia maggiore da un capo all'altro; o che sarebbero venuti in pace, come arcangeli, cacciando i sassoni dalle coste orientali senza colpo ferire. Ma più di vent'anni erano trascorsi e la cosa non era accaduta. Della venuta di Ambrogio si parlava ora come di un fatto compiuto, già diventato leggenda, come si parlò della venuta di Bruto e dei troiani quattro generazioni dopo la caduta di Troia, o del viaggio di Giuseppe alla Collina dei rovi, presso Avalon. O come la seconda venuta di Cristo - però una volta che dissi questo a mia madre lei si adirò tanto che non tentai mai più di scherzarci sopra. «Ah, sì,» dissi «Ambrogio che ritorna, vero? Sul serio, Cerdic, perché il Sommo re viene nel Galles settentrionale?» «Te l'ho detto. Fa il suo solito giro per reclutare un po' di aiuti prima di primavera, lui e quella sua regina sassone» e sputò sul pavimento. «Perché fai così? Anche tu sei sassone.» «Tanto tempo fa. Adesso vivo qui. Non è stata quella puttana dai capelli di stoppa che ha già fatto diventare Vortigern traditore? O comunque sai quanto me che da quando è entrata nel letto del re i vichinghi hanno scorrazzato nel paese come un fuoco di brughiera, al punto che lui non può più né combatterli né sbarazzarsene col denaro. E se la regina è quello che gli uomini dicono, puoi star sicuro che nessuno dei figli autentici del re vivrà tanto da portare la corona.» Aveva parlato piano, ma a questo punto guardò dietro di sé da sopra la spalla e sputò di nuovo, facendo il segno. «Be', tutte queste cose le sai... o dovresti saperle, cioè, se ascoltassi più spesso i tuoi superiori, invece di passare il tempo con libri e roba simile, o girando con quelli delle colline cavernose.» «È lì che credi che io vada?» «È quello che dice la gente. Io non ti faccio domande. Non voglio sapere. Forza, tu.» Questo lo disse al pony quando si mosse e si mise a lavorare, fischiando, dall'altro lato. «Pare che i sassoni sono sbarcati di nuovo a nord di Rutupiae, e che questa volta le loro pretese sono tali che neanche Vortigern può mandarle giù. Gli toccherà combattere, in primavera.» «E mio nonno con lui?» «È quello che lui spera, scommetto. Be', faresti meglio a correre se vuoi
la cena. Nessuno ti noterà. Nelle cucine c'era un putiferio quando ho tentato di procurarmi un boccone, un'ora fa.» «Dov'è mio nonno?» «E che ne so?» Alzò la testa verso di me, oltre il dorso del pony. «A che ti serve adesso?» «Voglio andare con loro.» «Ah!» disse lui, e gettò a terra il cibo tritato per il pony. Non era un tono incoraggiante. Io ripetetti ostinato: «Ho voglia di vedere Segontium». «Chi non ce l'ha? Anch'io ho voglia di vederla. Ma se pensi di chiedere al re...» Lasciò la frase in sospeso. «Non che non sia ora che tu esca di qui e veda un paio di cose, che ti scuota un po' da te stesso, ne hai bisogno, ma non posso dire che mi sembra stia succedendo. Non andrai dal re, vero?» «Perché no? Tutto quello che può fare è di rifiutare.» «Tutto quello che può fare?... Per i coglioni di Giove, stammi a sentire, ragazzo. Segui il mio consiglio, vatti a cercare la cena e va' a letto. E non provare neppure con Camlach. Ha avuto una battaglia in piena regola con quella sua moglie ed è come un ermellino con il mal di denti... Non puoi essere serio?» «Gli dei vanno con te, Cerdic, solo se ti metti sulla loro strada.» «Certo, benissimo, ma alcuni di loro hanno zoccoli potenti per calpestarti. Vuoi esser sepolto da cristiano?» «Veramente non m'importa. Suppongo che arriverò presto al battesimo cristiano, se il vescovo la spunta, ma fino a quel momento, ufficialmente non ho firmato per nessuno.» Egli rise. «Io spero che quando verrà il mio turno mi daranno alle fiamme. È il modo più pulito di andarsene. Be', se non mi vuoi ascoltare non mi ascoltare, ma non lo affrontare a pancia vuota, almeno.» «Questo te lo prometto» dissi, e andai a rifornirmi per la cena. Quando ebbi mangiato, e poi indossata una tunica decente, andai in cerca di mio nonno. Con mio grande sollievo, Camlach non era con lui. Il re si trovava nella sua camera da letto, tranquillamente sdraiato sulla sua larga poltrona davanti a un crepitante fuoco di ceppi, con i suoi due cani addormentati ai piedi. In un primo momento pensai che la donna seduta sul seggiolone con lo schienale alto dall'altro lato del focolare fosse Olwen, la regina, ma poi vidi che era mia madre. Doveva aver cucito, ma adesso le mani erano abbandonate oziose in grembo, e la stoffa bianca era ancora spiegata sul suo
vestito marrone. Si voltò e mi sorrise, ma con aria sorpresa. Uno dei cani lupo batté la coda sul pavimento, l'altro aprì un occhio, lo fece girare tutt'intorno e lo richiuse. Mio nonno mi fissava minaccioso da sotto le sopracciglia, ma la sua voce fu abbastanza gentile quando disse: «Be', ragazzo, non rimanertene lì fermo. Entra, entra, c'è uno spiffero maledetto. Chiudi la porta». Ubbidii, avvicinandomi al fuoco. «Posso vederti, signore?» «Mi stai vedendo. Che cosa vuoi? Prenditi uno sgabello e siediti.» Ce n'era uno accanto alla sedia di mia madre. Lo allontanai da lei, per far capire che non mi mettevo nella sua ombra, e mi sedetti tra loro. «Be'? È un po' che non ti vedevo, vero? Eri occupato con i tuoi libri?» «Sì, signore.» Seguendo il principio che è meglio attaccare che difendersi, abbordai direttamente il problema che m'interessava. «Io... ero uscito, oggi pomeriggio, sono stato fuori a cavalcare, perciò non...» «Dove?» «Sul sentiero lungo il fiume. Con nessuna meta particolare, solo per migliorare il mio modo di andare a cavallo, perciò...» «Di questo certo hai bisogno.» «Sì, signore. Perciò non ho visto il messaggero. Mi hanno detto che domani parti, signore.» «Che te ne importa?» «Soltanto perché vorrei venire con te.» «Tu vorresti? Vorresti? Che significa questo, tutto d'un tratto?» Una dozzina di risposte, tutte ugualmente buone, mi si affollarono nella mente. Mi parve di vedere mia madre guardarmi con pietà, e sapevo che mio nonno aspettava con un'indifferenza e un'impazienza solo un poco temperate dal divertimento. Dissi semplicemente la verità. «Perché ho più di dodici anni e non sono mai stato fuori di Maridunum. Perché so che se mio zio farà a modo suo sarò presto rinchiuso, in questa valle o in qualche altro luogo, a studiare da prete, e prima che ciò accada...» Le sopracciglia terribili si abbassarono. «Stai cercando di dirmi che non vuoi studiare?» «No. È quello che desidero più di qualsiasi altra cosa al mondo. Ma studiare ha più significato se uno ha visto un po' di mondo... sul serio, signore, è così. Se tu mi permettessi di andare con te...» «Vado a Segontium, questo non te l'hanno detto? Non è una battuta di caccia in un giorno di festa, è una cavalcata lunga e dura, e non ci sarà
tregua per i poveri cavalieri.» Era come sollevare un peso terribile, tenere gli occhi all'altezza dello sguardo minaccioso di quelle fiere pupille azzurre. «Mi sono esercitato, signore, e ho un buon pony adesso.» «Ah, sì, lo scarto di Dinias. Be', è all'incirca della tua misura. No, Merlino, non prendo bambini con me.» «Allora lasci qui anche Dinias?» Sentii mia madre trattenere il respiro, e la testa del nonno, che già si era distolta da me, voltarsi di nuovo verso di me con uno scatto. Vidi i suoi pugni stringersi sul bracciolo, ma non mi picchiò. «Dinias è un uomo.» «Allora Mael e Duach vengono con te, signore?» Erano i suoi due paggi, più piccoli di me, e lo accompagnavano dappertutto. Mia madre cominciò a parlare, affannosamente, senza pausa, ma il nonno alzò una mano per fermarla. C'era un'espressione attenta negli occhi fieri sotto le sopracciglia aggrottate. «Mael e Duach in qualche modo mi sono utili. Tu di quale utilità mi sei?» Lo fissai. «Molto poca, finora. Ma non ti hanno detto che parlo il sassone come il gallese, che so leggere il greco e che il mio latino è migliore del tuo?» «Merlino...» cominciò mia madre, ma io l'ignorai. «Avrei potuto aggiungere il brettone e il cornovagliese, ma dubito che ti serviranno molto a Segontium.» «E potresti citarmi una buona ragione» disse mio nonno ironico «per cui io debba parlare con il re Vortigern in qualsiasi lingua che non sia il gallese, dato che lui è di Guent?» Capii dal suo tono di aver vinto. Lasciare che il mio sguardo abbandonasse il suo fu come ritirarmi con sollievo dal campo di battaglia. Respirai e dissi, molto mitemente: «No, signore». Lui fece quel suo gran latrato di risata e cacciò avanti un piede per spingere uno dei cani. «Be', forse, dopo tutto c'è un pizzico del nostro sangue in te, malgrado le apparenze. Se non altro hai il fegato di andare a sfidare il leone nella sua tana, quando ti conviene. Benissimo, puoi venire. Chi ti serve?» «Cerdic.» «Il sassone? Digli di preparare il tuo equipaggiamento. Partiamo alle prime luci. Be', che aspetti?» «Di dire buona notte a mia madre.» Mi alzai dallo sgabello e mi avvicinai a lei per baciarla. Non lo facevo spesso, e lei parve sorpresa.
Alle mie spalle, il nonno disse bruscamente: «Non stai partendo per la guerra. Fra tre settimane saremo di ritorno. Vai.» «Si, signore. Grazie. Buona notte.» Fuori della porta rimasi fermo mezzo minuto, appoggiandomi al muro, mentre lentamente il cuore riprendeva a battermi con regolarità, e la nausea lasciava la mia gola. "Gli dei vanno con te, Myrddin Emrys, se ti metti sulla loro strada, e per questo ci vuole coraggio." Inghiottii la nausea, mi asciugai le palme madide di sudore e corsi in cerca di Cerdic. Nove Fu così che per la prima volta uscii da Maridunum. A quel tempo pareva la più grande avventura che potesse esserci, uscire a cavallo nel freddo dell'alba, quando le stelle erano ancora in cielo, e far parte di uno degli squadroni che facevano ressa, al seguito di Camlach e del re. Tanto per cominciare, gli uomini erano per la maggior parte arcigni e mezzo addormentati, e cavalcavano in silenzio, e il loro respiro fumava nell'aria ghiaccia, e gli zoccoli dei cavalli facevano scaturire scintille dalle pietre della strada. Perfino il tintinnio dei finimenti aveva un suono freddo, e io ero così intirizzito che a mala pena riuscivo a sentire le redini e non potevo pensare a nient'altro che al modo di tenermi sul pony eccitato e a non farmi rispedire a casa coperto d'ignominia dopo neanche un miglio di strada. E adesso, poiché i racconti dell'infanzia sono tediosi, e vi sono grandi cose da raccontare, mi soffermerò il meno possibile sulla nostra gita a Segontium, che durò diciotto giorni. Fu la prima volta che vidi il re Vortigern, che a quell'epoca era Sommo re della Britannia da più di vent'anni. Per certo, io avevo sentito raccontare molte cose di lui, verità e leggende. Era un uomo duro, come dev'essere chi ha preso il trono col delitto e lo mantiene col sangue; ma era un re forte in un'epoca in cui c'era bisogno di forza, e non era del tutto colpa sua se quel suo strattagemma di chiamarsi in casa i sassoni come mercenari gli si era rivoltato nelle mani come una spada affilata che ti scivola e ti taglia fino all'osso. Aveva pagato, poi di nuovo pagato, e infine aveva combattuto; e adesso trascorreva gran parte dell'anno a combattere come un lupo per tenere le orde vaganti confinate lungo la sponda sassone. Gli uomini parlavano di lui - con rispetto - come di un tiranno feroce e assetato di sangue, e della sua regina sassone, Rowena, con odio, come di una strega; ma benché fin dall'infanzia fossi stato
nutrito delle storie narrate dagli schiavi delle cucine, non vedevo l'ora di vederli, provando per loro più curiosità che paura. In ogni caso, non c'era bisogno di aver paura; vidi il Sommo re solo da lontano. La benevolenza di mio nonno non era andata oltre al fatto di lasciarmi andare nel suo seguito; qui non avevo maggior valore, anzi ne avevo molto meno, dei suoi paggi Mael e Duach. Fui lasciato a cavarmela da solo nell'anonima folla di ragazzi e servi, e poiché i miei modi non mi avevano procurato amici tra i miei coetanei, fui lasciato solo. In seguito avrei dovuto essere grato del fatto che, nelle poche occasioni in cui mi trovai nella folla che circondava i due re, Vortigern non posasse gli occhi su di me, e che né mio nonno né Camlach si ricordassero della mia esistenza. Rimanemmo una settimana a Segontium, che i gallesi chiamano Caerynar-Von, perché sorge sullo stretto, esattamente davanti a Mona, l'isola dei druidi. La città è posta, come Maridunum, sugli argini di un estuario, dove il fiume Seint si getta nel mare. Ha uno splendido porto, e una fortezza costruita sull'altura che lo sovrasta, forse a mezzo miglio di distanza. La fortezza fu costruita dai romani per proteggere il porto e la città, ma era rimasta abbandonata per oltre un secolo, finché Vortigern ne fece riparare una parte. Un po' più in basso, sulla collina, sorgeva un altro fortino più recente costruito, credo, da Macsen, nonno dell'assassinato Costanzo, contro le incursioni degli irlandesi. La campagna qui era più grandiosa che nel Galles meridionale, ma ai miei occhi era più minacciosa che bella. Forse d'estate la terra può anche essere verde e dolce lungo l'estuario, ma quando la vidi la prima volta, quell'inverno, le colline si ergevano sullo sfondo della città come nuvole temporalesche, le loro propaggini grigie di foreste nude e attraversate dai sibili del vento, e le creste azzurre di ardesia e incappucciate di neve. Dietro e al di là di esse torreggia la grande cima incoronata di nuvole della Moely-Wyddfa, che i sassoni adesso chiamano la Collina della neve, o Snowdon. È la cima più alta di tutta la Britannia, ed è la dimora degli dei. Spiriti o no, Vortigern era alloggiato nella Torre di Macsen. Il suo esercito - in quei giorni non si spostava mai con meno di mille uomini armati era acquartierato nel forte. Degli uomini di mio nonno, i nobili erano con il re nella torre, mentre il suo seguito, di cui facevo parte, era alloggiato abbastanza bene, anche se si stava un tantino al freddo, vicino alla porta occidentale del forte. Eravamo trattati onorevolmente; non solo Vortigern era lontano parente di mio nonno, ma pareva proprio che, secondo la frase di
Cerdic, il Sommo re stesse cercando di «reclutare il nostro aiuto». Era un uomo bruno e tarchiato, con un largo viso carnoso e capelli neri folti e duri come le setole di un cinghiale, che cominciavano a imbiancarsi. Il dorso delle sue mani era coperto di peli neri, e peli neri gli spuntavano dalle narici. La regina non era con lui; Cerdic mi sussurrò che non aveva osato portarla visto che i sassoni erano così poco bene accetti. Quando ribattei che anche lui era ben accetto solo perché aveva dimenticato il suo sassone ed era passato al buon gallese, rise e mi diede un colpetto sull'orecchio. Immagino che non fosse colpa mia se non ero mai molto regale. Il programma delle nostre giornate era molto semplice. La maggior parte del giorno si trascorreva alla caccia, finché al crepuscolo tornavamo ai fuochi, al vino e a un pasto vero, e allora i re e i loro consiglieri si mettevano a parlare, e i rispettivi seguiti si dedicavano ai dadi, alle donne, ai litigi e a qualsiasi altro passatempo di cui potessero disporre. Prima d'allora io non ero mai stato a caccia; come divertimento era estraneo alla mia natura, e qui tutti uscivano a cavallo facendo un pandemonio che proprio non mi piaceva. Inoltre era pericoloso: c'era un sacco di selvaggina nelle propaggini delle montagne, e c'erano alcune piste selvagge da rompercisi il collo; ma io non vedevo per me altra occasione per conoscere il paese e a parte questo volevo scoprire perché Galapas aveva insistito per farmi andare a Segontium. Perciò uscii tutti i giorni. Feci alcune cadute, ma che non mi procurarono più di qualche ammaccatura, e feci in modo di non attrarre l'attenzione, in senso buono o cattivo che fosse, di chiunque potesse avere a ciò interesse. E non trovai quello che cercavo; non vidi niente e non accadde niente, a parte il fatto che la mia tecnica come cavaliere si perfezionò, e di conseguenza anche le maniere di Aster. L'ottavo giorno della nostra permanenza prendemmo la via del ritorno e il Sommo re in persona, con una scorta forte di cento uomini, ci accompagnò per metterci sulla nostra strada. La prima parte del percorso si snodava lungo una gola boscosa sul cui fondo scorreva un fiume rapido e profondo, e dove i cavalli dovevano avanzare uno alla volta o in due affiancati tra la parete rocciosa e l'acqua. Non c'era pericolo per un gruppo cosi numeroso, perciò avanzavamo comodamente, e la gola risuonava del rumore degli zoccoli e delle catene delle briglie e delle voci degli uomini, oltre che, di quando in quando, di un gracchiare che veniva dall'alto quando i corvi si levavano dalle rocce per osservarci. Gli uccelli non aspettano, come dicono alcuni, il rumore
della battaglia; li ho visti seguire per miglia e miglia drappelli armati, in attesa dello scontro e dei morti. Ma quel giorno avanzammo al sicuro, e verso mezzogiorno arrivammo al punto dove il Sommo re avrebbe dovuto separarsi da noi e tornare indietro. Era dove i due fiumi s'incontravano e la gola sboccava in una valle più larga, fiancheggiata su tutti e due i lati da terribili rupi di ardesia chiuse tra i ghiacci, e il fiume grande correva verso sud, scuro e gonfio di neve sciolta. C'è un guado al punto di confluenza, e da questo, verso sud, una buona strada, asciutta e diritta, che attraverso le alture conduce a Tomeny-Mur. Facemmo sosta proprio a nord del guado. Le nostre guide si avviarono verso una depressione riparata su tre lati da pendii densamente coperti di alberi. Ciuffi di ontani spogli e di fitti giunchi dimostravano che d'estate la depressione doveva essere un acquitrino; quel giorno di dicembre era solidamente gelato, ma protetto dal vento e riscaldato dal sole. Qui lo squadrone si fermò a mangiare e riposarsi. I re sedevano in disparte, parlando, e vicino a loro il resto della comitiva reale. Notai che Dinias ne faceva parte. Io, come al solito, non trovandomi nel gruppo del re, né con gli uomini d'arme, e neppure con i servi, consegnai Aster a Cerdic, poi mi allontanai, arrampicandomi un po' tra gli alberi fino a una valletta alberata dove potevo stare da solo e non visto dagli altri. Alle mie spalle c'era una roccia su cui il ghiaccio era sciolto dal sole, e dall'altro lato di essa arrivavano il tintinnio attutito dei morsi dei cavalli al pascolo, le voci degli uomini, e di quando in quando una risata fragorosa, poi i ritmici silenzi e i mormorii che mi dicevano che i dadi erano stati tirati fuori per far passare il tempo finché i re avessero finito gli addii. Un nibbio scivolò d'ala e roteò sopra di me nell'aria fredda, e il sole fece splendere il bronzo delle sue ali. Pensai a Galapas e allo splendore dello specchio di bronzo, e mi domandai perché ero venuto. La voce di re Vortigern disse a un tratto, proprio alle mie spalle: «Da questa parte. Puoi dirmi che cosa pensi». Mi ero girato di colpo, allarmato, prima di rendermi conto che lui e l'uomo al quale stava parlando si trovavano dall'altra parte della roccia che mi riparava. «Cinque miglia, mi dicono, in qualsiasi direzione...» La voce del Sommo re mi arrivò smorzata mentre egli voltava la testa. Udii i passi sul terreno gelato, lo scricchiolio delle foglie secche e lo stridio degli stivali chiodati sulla pietra. Si stavano allontanando. Mi alzai, con cautela, e sbirciai al di là della roccia. Vortigern e mio nonno stavano attraversando il
bosco insieme, immersi nella conversazione. Ricordo che esitai. Dopo tutto, che cosa potevano avere da dirsi che non fosse già stato detto nell'intimità della Torre di Macsen? Non potevo credere che Galapas mi avesse mandato solo per spiare il loro colloquio. Ma per che altro? Forse il dio sulla cui strada mi ero messo mi aveva mandato qui solo, oggi, per questo. A malincuore mi disposi a seguirli. Stavo facendo il primo passo dietro a loro, quando una mano mi afferrò il braccio, senza dolcezza. «E dove credi di andare?» chiese Cerdic sottovoce. Mi liberai di lui con violenza. «Accidenti a te, Cerdic, mi hai fatto quasi fare un salto! Che te ne importa dove vado?» «Sono qui per badare a te, ricordi?» «Solo perché ti ci ho portato io. Nessuno ti dice di badare a me in questi giorni. Oppure te lo dicono?» Gli lanciai uno sguardo penetrante. «Mi avevi già seguito altre volte?» Rise. «Per dire la verità, non me ne sono mai curato. O avrei dovuto farlo?» Ma io insistevo: «Qualcuno ti ha detto di spiarmi oggi?». «No. Ma non hai visto chi è passato di qui? Era Vortigern con tuo nonno. Se tu avessi una mezza idea di andargli dietro, al tuo posto io ci ripenserei.» «Non stavo andandogli dietro» mentii. «Stavo semplicemente dando un'occhiata in giro.» «Allora lo farei da qualche altra parte. Hanno detto chiaro che la scorta doveva aspettare quaggiù. Io sono venuto per esser sicuro che tu lo sapessi, tutto qui. Molto chiari, sono stati, su questo punto.» Io mi risedetti. «Benissimo, adesso sei sicuro. Ora lasciami solo, per piacere. Puoi tornare dopo a dirmi quando dobbiamo andarcene.» «E ottenere che te la batti appena ho voltato la schiena?» Sentii il sangue salirmi alle guance. «Cerdic, ti ho detto di andartene.» Lui disse, ostinato: «Sta' a sentire, ti conosco e lo so quando fai quella faccia. Non so che cos'hai nella testa, ma quando hai quello sguardo lo so che ci saranno guai per qualcuno, e di solito per te. Che bisogna fare?». Furioso, gridai: «Questa volta i guai saranno per te se non fai come ti dico». «Non metterti a fare il principe con me» disse lui. «Stavo solo tentando di risparmiarti una bastonata.» «Lo so. Perdonami. Avevo... qualcosa in mente.»
«Puoi dirmelo, no? Lo sapevo che c'era qualche cosa che ti rodeva in questi ultimi giorni. Che cos'è?» «Niente che io sappia» dissi sinceramente. «Niente in cui tu mi possa aiutare. Dimenticatene. Senti, hanno detto i re dove andavano? Avrebbero potuto parlare a sufficienza a Segontium, certo, o cavalcando fin qui.» «Sono andati in cima alla rupe. C'è un posto lassù, all'estremità della cresta rocciosa, da dove si può guardare giù nella valle, in tutte le direzioni. Una volta c'era una vecchia torre, dicono. Lo chiamano Dinas Brenin.» «Il Forte del re? Quant'è grande la torre?» «Adesso non c'è nient'altro che un mucchio di pietre. Perché?» «Io... niente. Quando ci mettiamo in viaggio, mi domando?» «Ancora un'ora, hanno detto. Sta' a sentire, perché non vieni giù, e ti faccio entrare nella partita a dadi?» Sorrisi. «Grazie, non m'interessa. Ti ho fatto rinunciare al gioco per me, oltre tutto? Mi dispiace.» «Non importa. Comunque stavo perdendo. Be', ti lascio solo, ma non penserai di far qualche sciocchezza adesso, no? Non ha senso rischiare. Ricordi quello che ti ho detto della colomba selvatica?» E in quel preciso momento una colomba selvatica passò, come una freccia, con un batter d'ali sibilante che si lasciò dietro come una scia una raffica gelata. Vicinissimo a lei, un po' più in basso, pronto a colpire, volò uno smeriglio. La colomba si alzò appena incontrando il pendio, sfiorandolo come un gabbiano sfiora l'onda che si solleva, precipitandosi verso una macchia al margine della piccola valle. La colomba era sì e no a un palmo dal suolo, e per lo smeriglio era pericoloso colpirla, ma doveva esser morto di fame perché, proprio mentre quella raggiungeva il margine della macchia, colpì. Un grido acuto, lo stridio feroce dello smeriglio, un turbine di rametti spezzati, poi più nulla. Alcune piume che cadevano pigramente, come neve. Guardai avanti a me e mi precipitai su per l'altura. «L'ha presa!» Chiaro quello che era accaduto: i due uccelli, avvinghiati, si erano scagliati nella macchia andando a sfracellarsi a terra. Dal silenzio si poteva dedurre che ora erano entrambi lì, tramortiti. La macchia era un ripido groviglio che copriva quasi del tutto un lato della valletta. Spinsi da parte i rami e mi aprii un varco. La traccia delle piume mi indicava la strada. Poi li trovai. La colomba era morta, col petto a terra, le ali ancora spiegate come quando aveva colpito le pietre, e il san-
gue che formava una macchia chiara sulle piume iridate del collo. Lo smeriglio era sopra di lei. Gli affilati artigli d'acciaio erano profondamente affondati nella colomba, il becco crudele vi si era mezzo conficcato nella caduta. Era ancora vivo. Mentre mi chinavo su di loro, le sue ali si agitarono e le palpebre azzurrastre scesero a coprire il fiero occhio scuro. Cerdic arrivò, ansimante, alle mie spalle. «Non lo toccare. Ti lacererà le mani. Lascia fare a me.» Mi rialzai. «E questo è quanto per la tua colomba selvatica, Cerdic. È ora che la dimentichiamo, no? Non li toccare. Saranno ancora qui quando torneremo indietro.» «Torneremo indietro? Da dove?» Indicai in silenzio quello che si vedeva avanti a noi, proprio nella direzione seguita dagli uccelli. Un buco nero, quadrato come una porta nel terreno ripido dietro la macchia; un ingresso nascosto alla vista di chi passava per caso, visibile solo se, per una qualche ragione, uno si spingeva attraverso l'intrico dei rami. «E allora?» chiese Cerdic. «È la galleria di una vecchia miniera, dall'aspetto.» «Sì. È quel che sono venuto a vedere. Accendi una luce, e vieni con me.» Egli cominciò a protestare, ma lo interruppi: «Puoi venire o no, a tuo piacimento. Ma dammi una luce. E sbrigati, non c'è molto tempo». Mentre cominciavo ad aprirmi un varco verso la galleria, lo udii che, sempre brontolando, raccoglieva manciate di roba secca per fare una torcia. Appena si entrava nella galleria c'era un mucchio di detriti dove i puntelli di legno si erano marciti, ma al di là di questo il cunicolo era abbastanza liscio, e conduceva, più o meno in piano, nel cuore della collina. Io potevo avanzare quasi in posizione eretta, e Cerdic, che era piccolo, doveva chinarsi appena. Il chiarore tremolante della torcia improvvisata proiettava in modo grottesco le nostre ombre davanti a noi. Mostrava le scanalature sul pavimento, dimostrazione di carichi che erano stati trascinati alla luce, e sulle pareti e sul soffitto i segni dei picconi e degli scalpelli che avevano fatto la galleria. «Dove diavolo credi che stiamo andando?» La voce di Cerdic, alle mie spalle, era aspra per la tensione. «Sta' a sentire, torniamo. Questi posti non sono sicuri. Il soffitto potrebbe crollare.» «Non crollerà. Tieni accesa quella torcia» dissi conciso, e proseguii. La galleria curvava a destra, e cominciava a essere un po' in discesa.
Sottoterra si perde qualsiasi senso dell'orientamento; non c'è neppure il soffio del vento sulla guancia che ti indica la direzione anche nella notte più fonda, ma immaginavo che dovevamo scendere a spirale nel cuore della collina su cui era sorta un tempo la vecchia torre del re. Di quando in quando, gallerie più piccole voltavano a destra o a sinistra, ma non c'era pericolo di perdersi: noi eravamo nella galleria principale, e la roccia pareva abbastanza solida. Qua e là qualcosa era crollato dal soffitto e dalle pareti, e una volta dovetti fermarmi per una caduta di pietrisco che aveva quasi bloccato la strada, ma mi ci arrampicai e passai dall'altra parte, dove la galleria era sgombra. Cerdic si era fermato alla barriera di pietrisco. Protese la torcia in avanti e si affacciò dietro di me. «Ehi, sta' a sentire, Merlino, torna indietro, per pietà. Questo va al di là di qualsiasi follia. Te lo dico io, questi posti sono pericolosi, e noi stiamo scendendo proprio nelle viscere della roccia. Solo gli dei sanno che cosa vive laggiù. Torna indietro, ragazzo.» «Non essere vigliacco, Cerdic, c'è un sacco di spazio per te. Passa. Presto.» «Questo no. Se non esci subito, giuro che me ne vado e lo dico al re.» «Sta' a sentire» dissi: «è importante. Non mi chiedere perché. Ma ti giuro che non c'è pericolo. Se hai paura, dammi la torcia e torna indietro.» «Lo sai che non posso.» «Sì, lo so. Non oseresti tornare a dirglielo, vero? E se tu mi lasciassi, e mi succedesse qualche cosa, che cosa immagini che succederebbe a te?» «Hanno ragione quando dicono che sei razza del diavolo» disse Cerdic. Risi. «Potrai dirmi quello che vuoi quando saremo di nuovo alla luce, ma adesso sbrigati, Cerdic, per piacere. Sei al sicuro, te lo prometto. Non c'è male nell'aria oggi, e hai visto che lo smeriglio ci ha indicato la strada.» Venne, naturalmente. Povero Cerdic, non poteva permettersi altro. Ma quando fu di nuovo fermo accanto a me, tenendo alta la torcia, lo vidi guardarmi di sottecchi, e con la mano sinistra fare il segno contro il malocchio. «Non fare tardi,» disse «solo questo.» Venti passi più in là, dopo una svolta, la galleria sboccava in una caverna. Gli feci cenno di alzare la torcia. Non avrei potuto parlare. Quell'ampia cavità, proprio nel cuore della collina, quell'oscurità appena interrotta dal tremolio della torcia, il silenzio di morte dell'aria dove potevo udire oltre che sentire il battito del mio cuore... questo era il luogo, certo. Riconosce-
vo ogni segno della galleria, la parete solcata e scheggiata dalle scuri, e sfondata dall'acqua. C'era il soffitto a cupola che scompariva nel buio, e in un angolo del metallo arrugginito dove un tempo era stata la pompa. Lì sulla parete l'umidità scintillante, non più un nastro ma tutto un velo di lucente umidità. E là dove erano state le pozzanghere, e l'infiltrazione sotto la sporgenza, un largo lago tranquillo. Un buon terzo del suolo era sott'acqua. L'aria aveva uno strano odore tutto particolare, l'alito dell'acqua e della roccia viva. Più in alto, in qualche punto, c'era uno sgocciolio, e ogni colpo era preciso come quello di un piccolo martello sul metallo. Presi la torcia che bruciava lentamente dalle mani di Cerdic e mi avvicinai al bordo dell'acqua. Tenni la luce più in alto che potevo, sporgendola sopra l'acqua, e abbassai lo sguardo. Non c'era niente da vedere. La luce tornava indietro riflessa da una superficie dura come il metallo. Aspettai. La luce correva, scintillava e si smorzava nelle tenebre. Non c'era nient'altro che il mio riflesso, come lo spirito nello specchio di Galapas. Restituii la torcia a Cerdic. Lui non aveva detto una parola. Mi osservava tutto il tempo con quello sguardo obliquo, che faceva apparire il bianco dell'occhio. Gli toccai il braccio. «Adesso possiamo andarcene. Questa è quasi spenta, comunque. Forza.» Non parlammo mentre ripercorrevamo in senso inverso la galleria che girava, poi superammo il mucchio di pietrisco, e oltrepassando l'ingresso uscimmo di nuovo nel pomeriggio gelido. Il cielo era di un azzurro pallido, latteo. Gli alberi invernali si ergevano fragili e immobili contro di esso, le betulle erano bianche come ossa. Dal basso veniva il richiamo imperioso di un corno, portato dall'aria metallica senza vento. «Stanno partendo.» Cerdic trascinò la torcia sul terreno gelato per spegnerla. Io attraversai faticosamente la macchia. La colomba era ancora li, fredda e ormai rigida. Anche lo smeriglio c'era; si era staccato dalla sua preda ed era accanto a lei su una pietra, ripiegato e immobile anche quando mi avvicinai. Raccolsi la colomba e la buttai a Cerdic. «Ficcala nella tua bisaccia da sella. Non c'è bisogno che io ti dica di non parlarne, vero?» «Non ce n'è bisogno. Che cosa fai?» «È tramortito. Se lo lasciamo qui tra un'ora sarà morto congelato. Lo prendo.» «Sta' attento. È uno smeriglio adulto...» «Non mi farà male.» Raccolsi lo smeriglio, aveva le penne arruffate per
ripararsi dal freddo e tra le mie mani era morbido come un piccolo gufo. Tirai la manica di pelle giù sul mio polso sinistro, e lui vi si aggrappò, furiosamente. Adesso le palpebre erano aperte, e i selvaggi occhi scuri mi guardavano. Ma l'uccello rimaneva fermo, con le ali chiuse. Sentii Cerdic brontolare tra sé mentre si chinava a recuperare le mie cose nel punto in cui avevo mangiato. Poi disse una cosa che non gli avevo mai sentito dire: «Andiamo allora, padroncino». Lo smeriglio rimase docile sul mio polso quando m'imbattei nella retroguardia del seguito di mio nonno che cavalcava verso Maridunum. Dieci E non tentò neanche di lasciarmi quando arrivammo a casa. Scoprii, esaminandolo, che alcune delle penne delle ali erano rimaste danneggiate da quella caduta a precipizio nell'inseguimento della colomba selvatica, perciò le aggiustai come mi aveva insegnato Galapas, dopo di che egli rimase sul pero fuori della mia finestra, accettando il cibo che gli davo e senza tentare di fuggire. Lo portai con me la prima volta che andai a trovare Galapas. Era il primo febbraio e la notte precedente la brina si era sciolta in pioggia. Era una giornata grigia come il piombo, con nuvole basse e un venticello tagliente insieme alla pioggia. Nel palazzo soffiavano dappertutto degli spifferi, e in fretta si tiravano tende sulle porte, le persone si tenevano indosso i mantelli di lana e si accalcavano intorno ai bracieri. A me pareva che anche sul palazzo gravasse un silenzio grigio e di piombo; avevo sì e no visto il nonno dopo il nostro rientro a Maridunum, ma lui e i nobili rimanevano chiusi ore e ore a concilio, e si parlava di litigi e di voci che si alzavano quando lui e Camlach erano a colloquio. Una volta andai in camera di mia madre e mi fu detto che stava pregando e non poteva vedermi. Io la vidi di sfuggita dalla porta socchiusa e avrei giurato che mentre s'inginocchiava sotto l'immagine sacra stesse piangendo. Ma nell'alta valle non era cambiato niente. Galapas prese lo smeriglio, lodò il mio intervento sulle sue ali, poi lo posò su una sporgenza riparata vicino all'ingresso della grotta, e mi disse di avvicinarmi al fuoco e di scaldarmi. Tirò fuori con un mestolo un po' di stufato dalla pentola che bolliva piano, e mi fece mangiare prima di ascoltare il mio racconto. Poi gli dissi tutto, fino alle dispute nel palazzo e alle lagrime di mia madre. «Era la stessa grotta, Galapas, lo giuro! Ma perché? Non c'era niente. E
non è successo nient'altro, niente di niente. Ho chiesto in giro più che ho potuto, e Cerdic ha chiesto tra gli schiavi, ma nessuno sa di che cosa hanno parlato i re, o perché mio nonno e Camlach hanno litigato. Però mi ha detto una cosa: che sono controllato. Dagli uomini di • Camlach. Non fosse stato per questo, sarei venuto a trovarti prima. Oggi sono usciti, Camlach e Alun e gli altri, così ho detto che andavo alla marcita per addestrare lo smeriglio, e sono venuto quassù.» Poi, siccome egli rimaneva in silenzio, insistetti, preoccupatissimo: «Che sta succedendo, Galapas? Che significa tutto questo?». «A proposito del tuo sogno e della tua scoperta della caverna, non so niente. A proposito dei conflitti a palazzo, posso indovinarlo. Sai che il Sommo re ha dei figli della prima moglie, Vortimer e Katigern e il giovane Pascenzio?» Annuii. «Non c'era nessuno di loro a Segontium?» «No.» «Mi è stato detto che hanno rotto con il padre» disse Galapas «e Vortimer sta procurandosi truppe. Dicono che vorrebbe essere lui il Sommo re e che Vortigern si trova davanti una ribellione proprio nel momento in cui meno può permetterselo. La regina è molto odiata, questo lo sai; la madre di Vortimer era britanna, e inoltre i giovani vogliono un re giovane.» «Camlach sta con Vortimer, allora?» chiesi in fretta, e lui sorrise. «Cosi pare.» Ci pensai su un momento. «Be', non si dice che quando i lupi litigano i corvi si fanno avanti?» Nato di settembre, sotto Mercurio, il corvo era mio. «Forse» disse Galapas. «È più probabile che ti sbattano nella tua gabbia prima di quanto ti aspetti.» Ma lo disse con aria assente, come se avesse il pensiero altrove, e io tornai a quel che più mi interessava. «Galapas, hai detto che non sai niente del sogno della caverna. Ma questo... questo dev'essere stato la mano del dio.» Alzai lo sguardo alla sporgenza sulla quale era posato lo smeriglio, pazientemente meditabondo, con gli occhi mezzo chiusi, fessure di fuoco. «Così parrebbe.» Esitai. «Non possiamo scoprire quel che lui... che tutto questo significa?» «Vuoi tornare nella grotta di cristallo?» «N... no, non voglio. Ma credo che forse dovrei. Tu certo me lo puoi dire?»
Dopo qualche momento, lui disse gravemente: «Credo che tu ci debba andare, si. Ma prima devo insegnarti qualcos'altro. Questa volta devi accendere il fuoco da solo. Non cosi...» sorrise mentre io protendevo un braccio a prendere un ramo per smuovere i tizzoni. «Quello lascialo stare. Mi chiedesti prima di partire di mostrarti qualcosa di vero. È l'unica cosa che mi sia rimasta da mostrarti. Non mi ero reso conto... Be', lasciamo stare. È tempo. No, stai fermo, non hai più bisogno di libri, figlio. Guarda ora». Di quello che viene dopo non voglio scrivere. Fu tutta l'arte che egli mi insegnò, a parte certi trucchi di medicina. Ma come ho detto, fu la prima magia che mi si presentò e sarà l'ultima a lasciarmi. La trovai facile, anche fare il fuoco freddo come ghiaccio e il fuoco greco, e il fuoco che attraversa il buio come una frusta; ed era proprio un bene, perché ero giovane per ricevere l'insegnamento di queste cose e quella è un'arte che, se uno è indegno o impreparato, può accecare. Faceva buio fuori quando avemmo finito. Egli si alzò. «Tornerò a svegliarti tra un'ora.» Tirò giù il suo mantello da dove era appeso a nascondere lo specchio, se lo avvolse intorno e uscì. Le fiamme facevano un rumore di cavalli al galoppo. Una lingua di fuoco lunga e chiara schioccò come una frusta. Un ceppo cadde con un sibilo che pareva un sospiro di donna, poi mille rametti secchi crepitarono come se ci fosse gente che parlava, bisbigliava, chiacchierava delle notizie... Svanì tutto in una grande vampata lucente di silenzio. Lo specchio lampeggiò. Raccolsi il mio mantello, ora bello asciutto, e con quello mi arrampicai nella grotta di cristallo. Lo piegai e mi ci sdraiai sopra, con gli occhi fissi sulla volta di cristallo che s'incurvava sopra di me. Le fiamme mi seguirono, in ranghi regolari e lucenti, riempiendo l'aria, finché fui immerso in un globo di luce come l'interno di una stella, che diventava sempre più lucente, sempre più lucente finché a un tratto si ruppe e ci furono le tenebre... Gli zoccoli al galoppo mandavano scintille sulla ghiaia della strada romana. La frusta del cavaliere schioccò ripetutamente, ma il cavallo già andava di gran carriera, le froge larghe e rosse, il respiro come vapore nell'aria fredda. Il cavaliere era Camlach. Molto dietro di lui, quasi a mezzo miglio, ormai, venivano gli altri giovani del suo gruppo, e ancora più lontano dietro a loro, su un cavallo azzoppato e grondante, veniva il messag-
gero che aveva recato la notizia al figlio del re. La città era viva di torce, di uomini che correvano incontro al cavallo al galoppo, ma Camlach non prestò loro attenzione. Affondò gli speroni appuntiti nei fianchi del cavallo, e al galoppo attraversò la città, scendendo la strada ripida ed entrando poi nel cortile esterno del palazzo. Anche qui brillavano le torce. Essi videro fugacemente i suoi capelli rossi mentre scendeva volteggiando dal cavallo, abbandonando le redini tra le mani di uno schiavo in attesa. I morbidi stivali da cavaliere non facevano alcun rumore mentr'egli saliva di corsa i gradini e sempre di corsa percorreva il colonnato che conduceva alla camera di suo padre. Per un attimo la veloce figura nera si perse nell'ombra sotto l'arco, poi spalancò la porta ed entrò. Il messaggero aveva detto il vero. Era stata una morte rapida. Il vecchio era disteso sul letto romano scolpito, e sopra di lui qualcuno aveva tirato un copriletto di seta purpurea. Erano riusciti in qualche modo a puntellargli la mascella, perché la fiera barba grigia si protendeva verso il soffitto e un piccolo poggiatesta di terracotta sotto il collo gli teneva dritta la testa, mentre il corpo lentamente diventava rigido come il ferro. Già il vecchio viso aveva cominciato ad affilarsi, a restringersi come se la morte riducesse a poco a poco la carne dalla sporgenza del naso finché sarebbe rimasta semplicemente in piani di fredda cera. Le monete d'oro appoggiate sulla sua bocca e sulle palpebre chiuse brillavano alla luce delle torce poste ai quattro angoli del letto. Ai piedi del letto, in mezzo alle torce, era Niniane. Era immobile e diritta, vestita di bianco, con le mani tranquillamente chiuse su un crocifisso, la testa china. Quando la porta si aprì non la alzò, ma tenne gli occhi fissi sul copriletto purpureo, non con dolore ma quasi come se fosse più in là del pensiero. Al suo fianco arrivò rapido il fratello, snello nei vestiti neri, con una specie di grazia furibonda nello sguardo che parve scuotere la stanza. Costeggiò il letto deciso e rimase fermo al capezzale, fissando suo padre. Poi abbassò una mano e la poggiò sulle mani morte, congiunte sulla seta purpurea. La sua mano indugiò per un momento su quelle, poi si ritrasse. Egli fissò Niniane. Dietro di lei, a distanza di alcuni passi, nell'ombra, la piccola folla di uomini, donne, servi si mescolava e bisbigliava. In mezzo a loro, silenziosi e a occhi asciutti, Mael e Duach fissavano la scena. Anche Dinias, e tutta la sua attenzione era concentrata su Camlach. Camlach parlò sommessamente, rivolto a Niniane. «Mi hanno detto che è stata una disgrazia. È vero?»
Lei non rispose e neppure si mosse. Egli la fissò un momento, poi con un gesto irritato guardò oltre di lei, alzando la voce. «Uno di voi mi risponda. È stata una disgrazia?» Un uomo fece un passo avanti, uno dei servi del re, uno che si chiamava Mabon. «È vero, mio signore.» Si passò la lingua sulle labbra, esitando. Camlach mostrò i denti. «In nome di tutti i diavoli dell'inferno, che cosa avete tutti?» Poi seguendo la direzione del loro sguardo abbassò gli occhi sul suo fianco destro, dove il pugnale, sguainato, era infilato nella sua cintura. Era insanguinato fino all'elsa. Egli emise un suono d'impazienza e di disgusto e lo estrasse, lo gettò lontano da sé, e il pugnale schizzò sul pavimento e finì contro il muro con un leggero suono metallico che risuonò nel silenzio. «Di chi credete che sia questo sangue?» chiese lui, ancora con le labbra sollevate sui denti. «È il sangue di un daino, solo questo. Quando è arrivato il messaggero, lo avevamo appena ucciso, eravamo a dodici miglia di distanza, io e i miei uomini.» Li fissò, come se avessero osato far commenti. Nessuno si mosse. «Avanti, Mabon. È scivolato ed è caduto, mi ha detto l'uomo. Com'è successo?» L'uomo si schiarì la voce. «È stata una cosa così stupida, signore, nient'altro che una disgrazia. È che non c'era nessuno vicino a lui. Era nel cortile piccolo, dove sono le camere dei servi e i gradini sono consumati. Uno degli uomini stava portando l'olio per riempire le lampade. Ne aveva versato un po' sui gradini e prima che tornasse a pulirlo arrivò il re, un tantino di fretta. Lui... Non lo aspettavano lì in quel momento. Be', mio signore, cammina sull'olio, e cade proprio sulla schiena, e batte la testa sulla pietra. Così è successo, mio signore. Lo hanno visto. C'è chi può attestarlo.» «E l'uomo per colpa del quale ciò è accaduto?» «Uno schiavo, mio signore.» «Vi siete occupati di lui?». «È morto, mio signore.» Mentre parlavano si era verificato un certo movimento sotto il colonnato, perché era arrivato il resto del drappello di Camlach, che si era precipitato dopo di lui nella camera del re. Gli uomini si erano affollati nella camera mentre Malon parlava e ora Alun, avvicinandosi in silenzio al principe, gli toccava il braccio. «La notizia si è diffusa per tutta la città, Camlach. Di fuori si è raccolta una folla. Un milione di storie che circolano... ci sarà presto del disordine. Dovrai farti vedere e parlargli.»
Camlach gli lanciò un'occhiata e annuì. «Vai a vedere, vuoi? Bran, vai con lui, e anche tu, Ruan. Chiudete i cancelli. Dite al popolo che tra poco esco. E adesso, tutti gli altri, fuori.» La camera si svuotò. Dinias si attardò sulla soglia, non ottenne neppure uno sguardo e seguì gli altri. La porta fu chiusa. «Be', Niniane?» In tutto quel tempo essa non lo aveva neppure guardato. Adesso alzò gli occhi. «Che cosa vuoi da me? È vero quello che Mabon ti ha raccontato. Quello che non ha detto è che il re era stato a divertirsi con una serva e che era ubriaco. Ma è stata una disgrazia, ed è morto... E tu con tutti i tuoi amici eravate a dodici miglia buone di distanza. Così adesso sei re, Camlach, e non c'è uomo che possa segnarti a dito e dire: "Voleva la morte di suo padre".» «E neppure nessuna donna può dirmelo, Niniane.» «Io non l'ho detto. Sto solo osservando che i litigi qui sono finiti. Il regno è tuo... e adesso è come dice Alun, meglio che tu vada a parlare al popolo.» «Prima a te. Perché te ne stai lì in quel modo, come se comunque non t'importasse? Come se quasi tu non fossi qui con noi?» «Forse perché è così. Ciò che tu sei, fratello, e ciò che vuoi, non mi interessa, a parte una richiesta.» «Cioè?» «Che tu mi lasci andare adesso. Lui non l'avrebbe fatto mai, ma credo che tu lo farai.» «A San Pietro?» Essa chinò la testa. «Ti ho detto che qui più niente mi importa. È un po' di tempo che non m'importa, e meno che mai m'importa adesso, con tutto questo parlare che si fa di invasione, e di guerra in primavera, e con tutte le voci di cambiamenti di potere e di morte di re... Oh, non mi guardare in quel modo; non sono una sciocca, e mio padre parlava con me. Ma non c'è bisogno che tu abbia paura di me; niente di ciò che so o che posso fare potrà mai nuocere ai tuoi piani, fratello. Te lo assicuro, non desidero niente dalla vita se non che mi si permetta di andarmene in pace, e di vivere in pace, e mio figlio con me.» «Avevi parlato di una richiesta. Queste sono due.» Per la prima volta qualcosa si animò negli occhi di lei, poteva essere paura. Disse in fretta: «È stato sempre quello il progetto per lui, il tuo progetto, prima ancora che ci pensasse mio padre. Certamente, da quando è venu-
to Gorlan sapevi che se anche il padre di Merlino fosse venuto qui al galoppo, spada in pugno e con tremila uomini dietro di lui, io non sarei andata da lui. Merlino non può farti alcun male, Camlach. Non sarà mai altro che un bastardo senza nome, e tu sai che non è un soldato. Gli dei sanno che non può fare assolutamente del male». «E ancor meno se è rinchiuso come ecclesiastico?» La voce di Camlach era insinuante. «Ancora meno, se è rinchiuso come ecclesiastico. Camlach, ti stai divertendo con me? Che cos'hai in mente?» «Quello schiavo che ha versato l'olio» fece lui. «Chi era?» E di nuovo quel guizzo negli occhi di lei. Poi le palpebre si abbassarono. «Il sassone. Cerdic.» Egli non si mosse, ma lo smeraldo sul suo petto scintillò a un tratto contro il nero della veste come se il cuore avesse fatto un balzo dentro di lui. Lei disse, fieramente: «Non fingere di averlo indovinato! Come potevi indovinarlo?». «Indovinato no. Quando sono arrivato c'era tutto un brusio di bisbigli come un'arpa fracassata.» Aggiunse, improvvisamente irritato: «Non startene li come uno spettro con le mani sulla pancia, come se ci fosse ancora lì. un bastardo da proteggere». Stranamente essa sorrise. «Ma c'è.» Poi siccome lo smeraldo di nuovo balzava sul suo petto: «No, non essere sciocco. Da dove mi verrebbe un altro bastardo, adesso? Volevo dire che non posso andarmene finché non saprò che è al sicuro da te. E che siamo tutti e due al sicuro da quello che tu ti prefiggi di fare». «Da quello che io mi prefiggo di fare a te? Ti giuro che non c'è niente...» «Parlavo del regno di mio padre. Ma lasciamo andare ora. Te l'ho detto, l'unica cosa che mi importa è che San Pietro sia lasciato in pace... E lo sarà.» «Lo hai visto nella sfera di cristallo?» «Non è permesso ad un cristiano occuparsi di divinazione» disse Niniane, ma la sua voce era un po' troppo compassata, ed egli la guardò acutamente poi, di colpo irrequieto, si allontanò di un paio di passi andando nell'ombra, per ritornare subito alla luce. «Dimmi» fece bruscamente. «Che ne sarà di Vortimer?» «Morrà» disse lei indifferente. «Morremo tutti, un giorno o l'altro. Ma tu sai che adesso io sono impegnato con lui. Puoi dirmi che cosa accadrà la prossima primavera?»
«Non vedo niente e non posso dirti niente. Ma quali che siano i tuoi piani per il regno, non servirà a niente lasciare che cominci a circolare anche il più leggero bisbiglio di assassinio, e posso dirti questo, sei uno sciocco se pensi che la morte del re sia stata qualcosa di diverso da una disgrazia. Due palafrenieri hanno visto quando è successo, e anche la ragazza con la quale lui era stato.» «L'uomo ha detto qualcosa prima che lo uccidessero?» «Cerdic? No. Solo che era stata una disgrazia. Pareva gl'importasse più di mio figlio che di sé. È stato tutto quello che ha detto.» «Così ho sentito» disse Camlach. Tra loro scese di nuovo il silenzio. Si fissarono. Essa disse: «Non lo farai». Lui non rispose. Rimasero lì, sempre fissandosi, mentre una corrente d'aria, insinuandosi nella camera, faceva consumare le torce. Poi egli sorrise e se ne andò. Mentre la porta sbatteva alle sue spalle una raffica di vento attraversò la camera, scompigliando la fiamma delle torce, finché ombra e luce vacillarono. Le fiamme stavano morendo e i cristalli si offuscavano. Mentre uscivo carponi dalla grotta, il mantello, che mi trascinavo dietro, si lacerò. I tizzoni nel braciere erano di un rosso cupo. Adesso fuori era quasi buio. Inciampai uscendo dalla piattaforma e corsi verso l'entrata. «Galapas!» gridai. «Galapas!» C'era. La sua alta sagoma curva si staccò dalle tenebre e si fece avanti per entrare nella grotta. I suoi piedi, scalzi nei vecchi sandali, erano lividi per il freddo. Mi fermai a un metro da lui, ma era come se fossi corso diritto nelle sue braccia e mi fossi rannicchiato contro il suo mantello. «Galapas, hanno ucciso Cerdic.» Non disse nulla, ma il suo silenzio era come parole di conforto o strette di mano. Deglutii per allentare la strozza alla gola. «Se non fossi venuto qui oggi pomeriggio... L'ho evitato, insieme agli altri. Ma avrei potuto fidarmi di lui, anche per quanto riguardava te. Galapas, se fossi rimasto... se ci fossi stato io... forse avrei potuto fare qualcosa.» «No. Non contavi niente. Lo sai.» «Adesso conterò meno di niente.» Mi portai una mano alla testa: mi doleva terribilmente, e i miei occhi erano inondati di lagrime che mi acceca-
vano. Egli mi prese dolcemente per il braccio e mi fece sedere accanto al fuoco. «Perché dici così? Ora, Merlino, dimmi che è accaduto.» «Non lo sai?» dissi, sorpreso. «Stava riempiendo le lampade nel colonnato, e un po' d'olio si è versato sugli scalini, e il re ci è scivolato, è caduto e si è rotto il collo. Non è stata colpa di Cerdic, Galapas. Ha versato l'olio, questo è tutto, e stava tornando indietro, veramente stava tornando indietro per pulirlo quando tutto è successo. Così lo hanno preso e lo hanno ucciso.» «E adesso Camlach è re.» Credo che lo fissai per un po', senza vederlo con quegli occhi accecati dal sogno, con il cervello per il momento incapace di considerare più di un fatto alla volta. Egli insistette, dolcemente: «E tua madre? Che ne è di lei?». «Che cosa? Che cosa dici?» La forma calda di una coppa mi fu messa nella mano. Potevo sentire l'odore della stessa bevanda che mi aveva dato prima, quando sognavo nella grotta. «Bevi. Avresti dovuto dormire finché ti svegliavo io, e allora non ti sarebbe venuto così. Bevila tutta.» Mentre bevevo, il dolore acuto alle tempie si smorzava diventando solo una pulsazione e le forme che galleggiavano intorno a me riandavano a fuoco. E insieme il pensiero. «Scusa. Adesso sto bene. Posso pensare di nuovo, sono ritornato... Ti dirò il resto. Mia madre andrà a San Pietro. Ha tentato di farsi promettere da Camlach di lasciar andare anche me, ma lui non ha promesso. Credo...» «Sì?» Io dissi lentamente, riflettendo con intensità: «Non ho capito tutto. Pensavo a Cerdic. Ma credo che abbia intenzione di uccidermi. Credo che si servirà per questo della morte del nonno, dirà che è stato il mio schiavo... Ah, nessuno crederà che io avrei potuto prendere qualcosa da' Camlach, ma se mi fa rinchiudere in un convento, e poi io muoio senza far rumore, poco dopo, ormai le chiacchiere avranno funzionato e nessuno dirà niente sulla faccenda. E ormai, se mia madre sarà solo una delle sante donne di San Pietro, e non più la figlia del re, neppure lei potrà dire niente». Chiusi le mani sulla coppa, fissandolo. «Perché mai qualcuno dovrebbe aver paura di me, Galapas?» Egli non rispose, ma indicò la coppa nelle mie mani. «Finiscila. Poi, mio caro, devi andare.»
«Andare? Ma se torno mi uccideranno, oppure mi rinchiuderanno... Non è così?» «Se ti troveranno, ci proveranno.» Io dissi appassionatamente: «Se rimanessi qui con te... nessuno sa che vengo qui... anche se lo avessero scoperto e mi avessero seguito, tu non saresti in pericolo! Li vedremmo risalire la valle per molte miglia, oppure sapremmo che stanno venendo, tu e io... Non mi troverebbero mai; potrei andare nella grotta di cristallo». Egli scosse la testa. «Ancora non è venuto il tempo per questo. Un giorno, adesso no. Adesso non puoi stare nascosto, così come il tuo smeriglio non potrebbe rientrare nell'uovo.» Lanciai un'occhiata dietro di me, alla sporgenza dove lo smeriglio era stato a meditare, immobile come la civetta di Atena. L'uccello non c'era più. Mi passai sugli occhi il dorso di una mano e sbattei le palpebre, incredulo. Ma era vero. Le ombre interrotte dalla luce del fuoco erano vuote. «Galapas, se n'è andato!» «Sì.» «Lo hai visto andare via?» «È passato quando tu mi hai richiamato nella grotta.» «Io... da che parte?» «Verso sud.» Bevvi il resto della pozione, poi rovesciai la coppa e versai le ultime gocce per il dio. Poi la deposi e tesi la mano per prendere il mantello. «Ti rivedrò, vero?» «Sì. Te lo prometto.» «Allora tornerò?» «Questo te l'ho già promesso. Un giorno, la grotta sarà tua, e tutto quello che essa contiene.» Oltre di lui, proveniente dalla notte, entrò un soffio di aria gelida che agitò il mio mantello e mi sollevò i capelli sulla nuca. Mi sentii rabbrividire. Mi alzai e mi avvolsi nel mantello, poi chiusi il fermaglio. «Te ne vai, allora?» Sorrideva. «Hai una tale fiducia in me? Dove pensi di andare?» «Non lo so. A casa, suppongo, tanto per cominciare. Avrò il tempo di pensare strada facendo, se ce ne sarà bisogno. Ma sono ancora sulla strada del dio. Sento il vento che soffia. Perché sorridi, Galapas?» Ma a questo egli non rispose. Si alzò, poi mi attirò a sé, si chinò e mi baciò. Il suo bacio era arido e leggero, un bacio di vecchio, come una foglia
secca che cadendo ti sfiora. Poi mi spinse verso l'ingresso. «Vai. Ho già sellato il pony per te.» Pioveva ancora mentre scendevo la valle. La pioggia era fredda e sottile, e penetrava nelle ossa, si raccoglieva sul mio mantello e lentamente mi arrivava alle spalle, e si confondeva con le lagrime che mi rigavano il viso. Fu la seconda volta in vita mia che piansi. Undici La porta del cortile delle scuderie era chiusa. Non era più di quanto mi fossi aspettato. Quel giorno ero uscito apertamente al cortile principale con lo smeriglio, e fosse stata qualsiasi altra sera avrei potuto rischiare di rientrare dalla stessa strada, con la scusa di aver perso il mio falcone e di esser rimasto fuori a cavallo fino a notte per cercarlo. Ma non quella sera. E quella sera non ci sarebbe stato nessuno ad aspettarmi, nessuno in ascolto per accorgersi del mio ritorno, per farmi entrare. Benché il bisogno di affrettarmi mi alitasse sul collo, tenni al passo il mio pony impaziente e fiancheggiammo piano il muro del palazzo in direzione del ponte. Questo, e la strada che ad esso conduceva, erano animati di gente, di torce e di rumori, e due volte nei pochi minuti da quando la scorgevo, un cavaliere uscì galoppando a precipizio sul ponte, e si diresse a sud. Ora gli alberi spogli e bagnati del frutteto sovrastavano la strada alzaia. Sotto l'alto muro c'era un fossato, e oltre quello si protendevano i rami, gocciolando. Mi lasciai scivolare a terra, condussi il pony sotto il mio melo storto e lo legai. Poi di nuovo mi arrampicai in sella, mi alzai vacillante in piedi, mi dondolai un momento e saltai verso il ramo che era sopra di me. Era fradicio, e una mano mi scivolò, ma l'altra resse. Alzai le gambe verso l'alto, le feci passare sul ramo, e dopo fu solo questione di momenti scavalcare il muro e scendere nell'erba del frutteto. Lì avevo alla mia sinistra il muro alto che nascondeva il giardino del nonno, alla destra la colombaia e il ripiano rialzato sul quale Moravik era solita star seduta a filare. Davanti a me si estendevano gli alloggi dei servi. Con mio sollievo non si vedevano luci. Tutta la luce e il trambusto del palazzo erano concentrati al di là del muro alla mia sinistra, nell'edificio principale. Da più lontano ancora, attutito dalla pioggia, arrivava il tumulto delle strade.
Ma alla mia finestra non brillava alcuna luce. Mi misi a correre. Quello che non avevo calcolato era che lo avessero portato qui, nella sua vecchia stanza. Il suo pagliericcio adesso non era più dall'altra parte della porta ma nell'angolo, accanto al mio letto. Qui non c'era porpora, né torce; lui era disteso nella stessa posizione in cui l'avevano gettato giù. Tutto quel che potei vedere nella semioscurità fu il corpo adagiato in modo scomposto con un braccio disteso e la mano, obliqua, sul pavimento freddo. Era troppo buio per vedere come fosse morto. Mi chinai su di lui e presi la sua mano. Era già fredda, e il braccio aveva cominciato a irrigidirsi. Lo appoggiai delicatamente sul pagliericcio accanto al corpo, poi corsi al mio letto e ne strappai il bel copriletto di lana. Lo spiegai sopra di lui, poi alzai la testa, in ascolto, mentre una voce d'uomo gridava qualcosa in lontananza, poi ci fu un rumore di passi all'estremità del colonnato e mi giunse la risposta, urlata: «No. Da qui non è passato. Sono stato a guardia della porta. Il pony è già rientrato?». «No. Non c'è nessuna traccia.» Poi, in risposta a un altro grido: «Be', non può essere andato lontano. Rimane spesso fuori fino a quest'ora. Cosa? Ah, benissimo...» Il rumore di passi si allontanò rapidamente. Poi fu silenzio. C'era una lampada sul suo piedistallo in un punto del colonnato. Proiettava, attraverso la porta semiaperta, abbastanza luce perché vedessi quello che stavo facendo. Sollevai adagio il coperchio della mia cassapanca, ne trassi i pochi indumenti che possedevo, con il mio mantello migliore e un paio di sandali di riserva. Misi tutte queste cose in una sacca, insieme con quanto d'altro possedevo, il mio pettine di avorio, un paio di fermagli, una fibbia di corniola. Queste cose avrei potuto venderle. Mi arrampicai sul letto e lanciai la sacca fuori della finestra. Poi, di corsa, tornai da Cerdic, tirai da un lato il copriletto e, inginocchiandomi, lo frugai al fianco. Gli avevano lasciato il pugnale. Tirai la fibbia con dita che erano ancora più goffe di quanto le rendessero le tenebre, e si aprì. Io lo presi, cintura e tutto, un pugnale da uomo, lungo il doppio del mio e affilato per uccidere. Il mio glielo posi accanto, sul pagliericcio. Poteva darsi che gli servisse là dov'era andato, ma ne dubitavo; erano sempre bastate le sue mani. Ero pronto. Rimasi a guardarlo ancora un momento, e invece di lui vidi, come se lo vedessi nel cristallo lampeggiante, come avevano disposto mio nonno, con la luce delle torce, le sentinelle e la porpora. Qui c'era solo il buio, la morte di un cane. La morte di uno schiavo.
«Cerdic.» Lo dissi quasi ad alta voce, nell'oscurità. Adesso non piangevo più. «Cerdic, riposa ora. Ti manderò dai tuoi dei come tu volevi, come un re.» Corsi alla porta, rimasi un momento in ascolto, poi sgusciai nel colonnato deserto. Sollevai la lampada dal suo sostegno. Era pesante, e un po' d'olio cadde. Naturale: l'aveva riempita proprio quella sera. Rientrato nella mia camera portai il lume fin dove lui era disteso. Adesso, e questo non l'avevo previsto, potei vedere com'era morto. Gli avevano tagliato la gola. Anche se non me lo fossi proposto, sarebbe accaduto. Il lume tremò nella mia mano, e l'olio caldo cadde sul copriletto. Un frammento infiammato si staccò dal lucignolo, cadde, prese fuoco, con un sibilo. Allora gettai il lume sul corpo e rimasi cinque lunghi secondi a osservare la fiamma correre nell'olio e prorompere come una schiuma che si allargava. «Va' con i tuoi dei, Cerdic» dissi, e saltai dalla finestra. Atterrai sulla mia sacca e andai a finire nell'erba umida, poi la raccolsi in fretta e corsi verso il muro lungo il fiume. Per non spaventare il pony, mi diressi in un punto che era a qualche metro dal melo e lanciai la sacca al di là del muro, nel fossato. Poi ritornai all'albero, mi ci arrampicai e di lì passai sull'alta cimasa. A cavalcioni di questa, mi voltai a guardare alle mie spalle. Il fuoco aveva preso. La mia finestra adesso risplendeva, rossa di una luce animata. Ancora non era stato dato l'allarme, ma poteva essere ormai solo questione di secondi perché vedessero le fiamme o qualcuno sentisse l'odore del fumo. Mi calai dall'altra parte del muro, tenendomi un momento con le mani, poi mi lasciai cadere. Appena toccai terra un'ombra enorme mi saltò addosso e mi colpì. Caddi con sopra di me il corpo pesante di un uomo, che mi teneva inchiodato all'erba infangata. Una mano aperta mi calò, dura, sulla faccia, soffocando il mio grido. Proprio accanto a me ci fu un rapido rumore di passi, uno stridio di coltello che usciva dal fodero e una voce d'uomo che diceva, pressante, in brettone: «Aspetta. Prima fallo parlare». Io rimanevo immobile. Ed era facile, perché non solo la forza dell'attacco del primo uomo mi aveva lasciato senza respiro, ma potevo sentire il suo coltello alla gola. Quando il secondo uomo parlò, quello che mi aveva catturato, con un grugnito sorpreso, sollevò il suo peso da me e allontanò il coltello di qualche centimetro. Poi disse, con un tono tra la sorpresa e la ripugnanza: «È solo un ragaz-
zo». E a me, aspro, in gallese: «Non fare il minimo rumore, o ti taglio la gola senza perder tempo. Capito?». Annuii. Egli mi tolse la mano dalla bocca e, alzandosi, tirò anche me in piedi. Mi sbatté di nuovo contro il muro e mi ci tenne, col coltello che continuava a pungermi la clavicola. «Che significa? Che cosa stai facendo, a svignartela dal palazzo come un ratto inseguito dai cani? Sei un ladro? Avanti, piccolo ratto, prima che ti strozzi.» Mi scosse come se fossi veramente un ratto. Riuscii a boccheggiare: «Niente. Non stavo facendo niente di male! Lasciatemi andare». L'altro uomo disse sotto voce, uscendo dal buio: «Ecco quello che aveva gettato oltre il muro. Una sacca piena di roba». «Cosa contiene?» chiese quello che mi aveva catturato. E a me: «Sta' fermo, tu!». Non c'era bisogno che me lo dicesse. Mi parve di sentire l'odore del fumo, adesso, e di vedere il primo guizzo di luce mentre il fuoco che avevo appiccato arrivava alle travi del tetto. Mi appiattii ancor più nell'ombra nera sotto il muro. L'altro uomo stava esaminando il mio fagotto. «Vestiti... sandali... qualche gioiello si direbbe al tatto...» Si era spostato fin sulla strada alzaia e, con gli occhi ormai abituati all'oscurità, potei distinguerlo. Un ometto che pareva una donnola, con spalle incurvate e un viso stretto, appuntito, sotto un ciuffo di capelli. Nessuno che io avessi mai visto. Feci un sospiro di sollievo. «Non siete gli uomini del re! Chi siete, allora? Che cosa volete qui?» La Donnola la smise con la mia sacca e mi guardò. «Questo non ti riguarda» disse l'uomo grosso che mi teneva. «Le domande le facciamo noi. Perché avresti dovuto aver tanta paura degli uomini del re? Allora li conosci, eh?» «Naturale. Vivo nel palazzo. Sono... uno schiavo del palazzo.» «Marric...» era la Donnola, con voce acuta, «guarda là, è scoppiato un incendio. C'è un brusio come in un nido di vespe. Non ha senso stare qui a perder tempo con un marmocchio di schiavo scappato. Tagliagli la gola e mettiamoci in salvo finché possiamo.» «Un momento,» disse l'uomo grosso «forse sa qualche cosa. Sta' a sentire, tu...» «Se comunque avete intenzione di tagliarmi la gola» dissi io «perché dovrei dirvi qualcosa? Chi siete?»
Egli spinse allora la testa in avanti, per vedermi. «Canti bene, tutt'a un tratto, eh? Non ha importanza chi siamo noi. Sei uno schiavo, eh? E stai scappando?» «Sì.» «Hai rubato?» «No.» «No? I gioielli nel fagotto? E questo... questo non è un mantello da schiavo.» Strinse ancora la mano sul mio mantello, alla gola finché mi contorsi. «E quel pony? Forza, la verità.» «Va bene.» Sperai che la mia voce ora risultasse abbastanza astiosa e sottomessa per essere la voce di uno schiavo. «Ho preso qualche cosa. Quello è il pony del principe, di Myrddin... l'ho... l'ho trovato che vagava. Davvero, signore. Il principe oggi è uscito e non è ancora tornato. Sarà stato gettato a terra, è schifoso come cavaliere. Io ho avuto un pizzico di fortuna, si accorgeranno della sua assenza solo quando sarò lontano.» Lo tirai per il vestito, supplichevole. «Per piacere, lasciatemi andare. Per piacere! Che male posso fare?...» «Marric, per pietà, non c'è tempo.» Le fiamme adesso avevano preso sul serio e balzavano nell'aria. Si sentiva gridare nel palazzo, e la Donnola tirò per il braccio quello che mi aveva catturato. «La marea si abbassa in fretta, e solo gli dei sanno se ci sarà, con questo tempo. Ascolta quel rumore... verranno da questa parte da un momento all'altro.» «Non verranno» dissi io. «Saranno troppo occupati a spegnere l'incendio per pensare a qualsiasi altra cosa. Era bene avviato quando l'ho lasciato.» «Quando l'hai lasciato!» Marric non si era mosso; mi fissava, e la sua stretta era meno dura. «Sei stato tu a mettere fuoco?» «Sì.» Adesso la loro attenzione era tutta concentrata su di me, anche quella della Donnola. «Perché?» «L'ho fatto perché li odio. Hanno ucciso il mio amico.» «Chi l'ha ucciso?» «Camlach e i suoi. Il nuovo re.» Ci fu una pausa. Adesso potevo vedere Marric meglio. Era un uomo grande e corpulento, con un cespuglio di capelli neri, e occhi neri che sbirciavano il fuoco. Aggiunsi: «E se fossi rimasto avrebbero ucciso anche me. Perciò ho dato fuoco al palazzo e sono scappato. Per piacere, lasciatemi andare».
«Perché avrebbero dovuto ucciderti? Lo vorranno adesso, naturale, con il palazzo che brucia come una torcia... ma prima, perché? Che cosa avevi fatto?» «Niente. Ma ero lo schiavo del vecchio re, e... immagino che avevo sentito delle cose. Gli schiavi sentono sempre tutto. Camlach crede che potrei essere pericoloso... Ha i suoi progetti... io li conoscevo. Credimi, signore,» dissi con tono appassionato: «io lo avrei servito bene come servivo il vecchio re, ma lui ha ucciso il mio amico.» «Che amico? E perché?» «Un altro schiavo, un sassone, si chiamava Cerdic. Aveva versato l'olio sui gradini e il vecchio re è caduto. È stata una disgrazia, ma loro gli hanno tagliato la gola.» Marric voltò la testa verso l'altro: «Hai sentito, Hanno? Questo dev'essere vero. L'ho sentito dire in città». Poi di nuovo a me: «Va bene. Adesso puoi raccontarci un po' di più. Hai detto che conosci i piani di Camlach?». Ma Hanno lo interruppe di nuovo, questa volta con tono disperato: «Marric, per pietà! Se credi che ha qualcosa da raccontarci, portatelo. Può parlare nella barca, no? Te lo dico io, se aspettiamo ancora perdiamo la marea, e lei se ne sarà andata. A giudicare da adesso, sta per venire brutto tempo, e ho idea che non aspetteranno». Poi in brettone: «Per noi è lo stesso sbarazzarcene dopo o adesso». «La barca?» dissi io. «Andate sul fiume?» «E dove sennò? Ti pare che possiamo andare dalla strada? Guarda il ponte» Marric indicò con la testa di lato. «D'accordo, Hanno. Sali. Andiamo.» Cominciò a trascinarmi attraverso la strada alzaia. Esitai. «Perché mi prendete?» «Sono fatti nostri. Sai nuotare?» «No.» L'uomo rise piano. Non era un suono rassicurante. «Allora che cosa t'importa da che strada passiamo? Vieni.» E ancora una volta mi appoggiò con forza la mano sulla bocca, mi fece girare come se non fossi più pesante della mia sacca, e attraversò in fretta il sentiero verso lo scuro, lucido scintillio che era il fiume. La barca era un coracle (un'imbarcazione dall'intelaiatura di vimini ricoperta da pelli cucite tra loro), ed era mezzo nascosta sotto l'argine sporgente. Hanno stava già sciogliendo gli ormeggi. Marric scese l'argine con un balzo e uno scivolone, mi scaricò nella barca che rollava e si arrampicò
dietro di me. Mentre l'imbarcazione usciva dondolando da sotto l'argine, mi fece sentire di nuovo il coltello sul collo. «Qua. Lo senti? Adesso tieni a freno la lingua finché non ci siamo allontanati dal ponte.» Hanno spinse per allontanarsi dalla riva e ci guidò con il remo nella corrente. A pochi palmi dalla riva sentii il fiume impadronirsi della barca, e prendemmo velocità. Hanno si chinò sul remo e mantenne la barca dritta verso l'arcata sud del ponte. Sempre saldamente tenuto da Marric, ero seduto con il viso rivolto a poppa. Proprio mentre, ormai nel vortice della corrente, cominciavamo a muoverci rapidamente verso sud, udii il nitrito alto e spaventato di Aster che aveva sentito l'odore del fumo e, alla luce del fuoco che adesso divampava, lo vidi, trascinando una briglia rotta emergere dall'ombra del muro e correre come un fantasma lungo la strada alzaia. Fuoco o no, si sarebbe diretto al cancello e alla sua scuderia, ed essi lo avrebbero trovato. Mi domandai che cosa avrebbero pensato, dove mi avrebbero cercato. Cerdic ormai doveva essere scomparso, e con lui la mia camera con la cassapanca dipinta e il copriletto degno di un principe. Avrebbero pensato che avevo trovato il corpo di Cerdic e che, per la paura e l'emozione, avevo lasciato cadere il lume? E che anche il mio corpo era lì, carbonizzato e distrutto, in quello che rimaneva dell'ala della servitù? Be', qualsiasi cosa pensassero, non aveva importanza. Cerdic era andato dai suoi dei e io, pareva, stavo andando dal mio. Dodici L'arcata nera del ponte piombò sulla barca e passò. Seguivamo la corrente. La marea stava quasi per cambiare, ma l'ultimo riflusso verso il largo ci spinse dandoci velocità. L'aria si rinfrescò e la barca cominciò a dondolare. Il coltello si allontanò da me. Ignorandomi, Marric disse: «Be', ottimo finora. Il marmocchio ci ha reso un buon servizio con il suo incendio. Nessuno stava a guardare il fiume e nessuno ha visto la nostra barca scivolare sotto il ponte. E adesso, ragazzo, sentiamo quello che hai da dirci. Come ti chiami?» «Myrddin Emrys.» «E hai detto che eri... ehi, un momento! Myrddin hai detto? Non sarai mica il bastardo?». «Sì.» Emise un lungo fischio e il remo di Hanno si fermò, per immergersi poi
di nuovo precipitosamente mentre l'imbarcazione girava e oscillava nella corrente. «Hai sentito questa, Hanno? È il bastardo. Allora perché, in nome degli spiriti infernali, ci hai detto che eri uno schiavo?» «Non sapevo chi foste. Voi non mi avevate riconosciuto, perciò ho pensato che se eravate ladri, o uomini di Vortigern, mi avreste lasciato andare.» «Sacca, pony e tutto... Perciò era vero che stavi scappando? Be',» aggiunse pensieroso «se sono vere tutte le storie che si dicono, non c'è molto da biasimarti per questo. Ma perché hai appiccato il fuoco?» «Anche quello era vero. Ve l'ho detto. Camlach ha ucciso un mio amico, Cerdic il sassone, benché non avesse fatto niente per meritarlo. Credo che l'hanno ucciso solo perché era mio e intendevano servirsi della sua morte contro di me. Hanno messo il suo corpo in camera mia così che io lo trovassi. Perciò ho dato fuoco alla camera. Ai suoi piace andare dai loro dei in quel modo.» «E degli altri, a palazzo, non te ne fregava niente?» Dissi con indifferenza: «L'ala della servitù era vuota. Erano tutti a cena, o a cercarmi, o a servire Camlach. È straordinario, o forse no, quanto la gente può cambiare bandiera in fretta. Immagino che spegneranno il fuoco prima che raggiunga gli appartamenti del re». Egli mi guardò un momento in silenzio. Stavamo ancora gareggiando con la marea che cambiava, ormai eravamo usciti nell'estuario. Hanno non dava segno di far rotta verso l'altra riva. Mi strinsi il mantello e rabbrividii. «Da chi stavi correndo?» chiese Marric. «Da nessuno.» «Sta' a sentire, ragazzo, voglio la verità, altrimenti, che tu sia principe bastardo o no, adesso voli fuori. Mi ascolti? Non avresti durato una settimana, se non avevi qualcuno da cui andare, al cui servizio metterti. Chi avevi in mente? Vortigern?» «Sarebbe stato sensato, no? Camlach sta per mettersi con Vortimer.» «Che cosa sta per fare?» La sua voce divenne più tagliente. «Ne sei sicuro?» «Assolutamente sicuro. Già ci pensava prima, e litigava con il vecchio re per questo motivo. Lui e i suoi ci si sarebbero messi comunque, penso. Ora può portarsi dietro tutto il regno e tener fuori Vortigern.» «E aprirlo a chi?» «Questo non l'ho sentito. Chi c'è? Potete immaginarlo, non è stato molto franco su questo punto fino a stasera, quando il re suo padre era lì morto.»
«Ehm.» Rifletté un momento. «Il vecchio re lascia un altro figlio. Se i nobili non vogliono quest'alleanza...» «Un bambino piccolo? Non sei un tantino ingenuo? Camlach aveva un buon esempio davanti a sé: Vortimer non sarebbe dov'è se suo padre non avesse fatto esattamente quello che vuol fare Camlach.»' «Cioè?» «Lo sai quanto me. Sta' a sentire, perché dovrei dire di più finché non so chi siete? Non è ora che me lo diciate?» Egli ignorò questa richiesta. Pareva pensieroso. «Si direbbe che la sai lunga. Quanti anni hai?» «Dodici. Ne compirò tredici a settembre. Ma non occorre essere intelligente per sapere di Camlach e di Vortimer. Ho sentito proprio lui che lo diceva.» «L'hai sentito davvero, per il Toro? E che altro hai sentito?» «Un sacco di cose. Stavo sempre tra loro. Nessuno si accorgeva di me. Ma adesso mia madre sta per entrare nel convento di San Pietro, e io non darei un fico per la mia vita, perciò ho tagliato la corda.» «Per andare da Vortigern?» Io dissi, sinceramente: «Non ho la minima idea. Non... non ho progetti. Alla fin fine avrebbe potuto essere Vortigern. Quale scelta può esserci, se non tra lui e i lupi sassoni che ci saltano alla gola tutto il tempo finché avranno dilaniato la Britannia e l'avranno inghiottita? Chi altro c'è?». «Be',» disse Marric «Ambrogio.» Risi. «Ah, sì, Ambrogio. Credevo che parlassi seriamente. Lo so che siete brettoni, l'ho capito dall'accento, ma...» «Hai chiesto chi siamo. Siamo uomini di Ambrogio.» Ci fu silenzio. Mi resi conto che le rive del fiume erano scomparse. Lontano, nel buio, verso nord, si vedeva una luce: il faro. Poco prima la pioggia era diminuita e aveva smesso. Adesso faceva freddo, con il vento che veniva dal largo, e il mare era increspato. La barca beccheggiò e oscillò e io provai un primo senso di nausea. Mi strinsi le mani contro la pancia, per difendermi dal freddo come dalla nausea, e dissi, tagliente: «Uomini di Ambrogio? Allora siete spie? Le sue spie?». «Chiamaci i suoi fedeli.» «Allora è vero? È vero che lui aspetta in Britannia minore?» «Sissignore, è vero.» Io dissi, atterrito: «Allora state andando lì? Non penserete mica di arrivarci con quest'orribile barchetta?».
Marric rise e Hanno disse arcigno: «Potremmo essere obbligati a farlo, per questo, se non c'è la nave». «Quale nave potrebbe essere qui d'inverno?» chiesi. «Non è tempo per navigare.» «È tempo per navigare se si paga abbastanza» disse Marric seccamente. «Ambrogio paga. La nave ci sarà.» La sua grossa mano mi calò sulla spalla, senza durezza. «Lasciamo perdere, ci sono ancora cose che voglio sapere.» Mi raggomitolai, abbracciandomi la pancia, tentando di inspirare a fondo l'aria limpida e fredda. «Ah, sì, ci sono moltissime cose che potrei dirti. Ma se avete intenzione di buttarmi a mare comunque, non ho niente da perdere, no? Potrei tenermi per me il resto delle notizie che ho... o vedere se Ambrogio è disposto a pagarle. E la nave c'è. Guarda; se ancora non la vedi devi essere cieco. Adesso non mi parlare più, ho la nausea.» Lo udii ridere, di nuovo sottovoce. «Sei furbo, non si sbaglia. Sissignore, la nave c'è, la vedo abbastanza chiaramente. Be', visto chi sei, ti prendiamo a bordo. E ti dirò un altro motivo: mi è piaciuto quello che hai detto del tuo amico. Suonava piuttosto vero. Così sai essere fedele, eh? E a conti fatti non hai nessun titolo per essere fedele a Camlach, o a Vortigern. Sapresti esser fedele ad Ambrogio?» «Lo saprò quando lo vedrò.» Il suo pugno mi mandò disteso sul fondo della barca. «Principino o no, parla come si deve quando parli di lui. Ci sono molte centinaia di uomini che lo ritengono il loro re, per legittima nascita.» Mi tirai su, con conati di vomito. Ci giunse, da vicino, un richiamo a bassa voce, e in un momento ci trovammo a oscillare nell'ombra più densa della nave. «Se è un uomo, basterà» dissi. La nave era piccola, robusta e bassa sull'acqua. Era lì ferma, senza luci, un'ombra sul mare scuro. Potevo appena scorgere l'inclinazione del suo albero che oscillava - in un modo nauseante, mi parve - contro la nuvola in movimento che era solo di poco più chiara del cielo nero sopra di noi. Era attrezzata come le navi mercantili che frequentavano per commercio il porto di Maridunum durante la buona stagione, ma pensai che pareva migliore come proporzioni, e più veloce. Marric rispose al richiamo, poi una corda scivolò lungo il fianco della nave, e Hanno la prese e l'assicurò per bene.
«Forza tu, muoviti. Sai arrampicarti, no?» Non so come, mi tirai in piedi nel coracle che dondolava. La corda era bagnata e mi sobbalzava nelle mani. Dalla nave venne una voce insistente: «Presto, per favore. Saremo fortunati se riusciremo ad arrivare, con il tempo che si prepara». «Sali, accidenti a te» disse Marric brusco, dandomi una spinta. Era proprio quello che ci voleva. Le mie mani scivolarono, inerti, abbandonando la corda e ricaddi di traverso sul fondo della barca dove rimasi, senza fiato e in preda ai conati di vomito, senza curarmi del destino che mi sarebbe toccato e neppure di mezza dozzina di regni. In quel momento, se mi avessero accoltellato e buttato a mare, penso che non me ne sarei neppure accorto, salvo benedire la morte come un sollievo. Semplicemente restai lì di traverso sul fondo della barca, come un mucchio di stracci fradici, a vomitare. Ricordo pochissimo ciò che accadde dopo. Ci fu un bel po' di imprecazioni, e credo di ricordare Hanno che sollecitava Marric a tagliar corto con le indecisioni e a buttarmi a mare; invece fui preso, tutt'un mucchio com'ero, e lanciato in qualche modo alle mani che aspettavano, di sopra. Poi qualcuno un po' mi portò, un po' mi trascinò in basso, e mi lasciò cadere su un mucchio di coperte, con un secchio a portata di mano e l'aria che mi arrivava sul viso coperto di sudore attraverso un portello aperto. Credo che il viaggio durò quattro giorni. Il tempo grosso lo era di sicuro, ma almeno era dietro di noi, e tenemmo un'ottima velocità. Rimasi sempre di sotto, ammucchiato con riconoscenza nelle coperte sotto il portello, arrischiandomi si e no a sollevare la testa. La nausea dopo un po' diminuì, ma dubito che sarei stato in grado di muovermi, e per fortuna nessuno provò a farmi muovere. Marric scese una volta. Lo ricordo vagamente, come un sogno. Si fece un varco attraverso vecchie catene di ancoraggio verso l'angolo nel quale ero disteso e rimase fermo, il grosso corpo curvo, a sbirciarmi. Poi scosse la testa. «E pensare che credevo di aver fatto un bel colpo, prendendoti. Avremmo dovuto buttarti subito a mare, e ci saremmo risparmiato un sacco di guai. E scommetto che non hai molto più da dirci, comunque.» Non risposi. Lui fece uno strano piccolo grugnito, che pareva una risata, e uscì. Mi addormentai. Quando mi svegliai mi accorsi che il mio mantello bagnato, i sandali e la tunica erano stati tolti e che, asciutto e nudo, ero bene avvolto nelle coper-
te. Vicino alla mia testa c'era una brocca d'acqua, tappata con un pezzo di straccio attorcigliato, e un bel pezzo di pane d'orzo. Non avrei potuto toccare né l'una né l'altro, ma indovinai il messaggio. Dormii. Poi un giorno, poco prima del crepuscolo, arrivammo in vista della Costa Selvaggia, e gettammo l'ancora nelle acque calme del Morbihan che gli uomini chiamano il Piccolo Mare. LIBRO II Il falcone Uno La prima cosa che seppi quando arrivammo a riva, fu di essere stato svegliato, ancora pesante per quel sonno di spossatezza, dalle voci che parlavano sopra di me. «Be', va bene, se gli credi, ma non penserai sul serio che un principe anche se bastardo se ne andrebbe in giro con quella roba addosso? Tutto fradicio, neppure una fibbia d'oro alla cintura, e guarda un po' i suoi sandali. Ammetto che il mantello è buono, ma è lacero. È più probabile che sia vera la sua prima storia, che è uno schiavo che scappa con la roba del padrone.» Era la voce di Hanno, e parlava brettone. Per fortuna voltavo loro le spalle, raggomitolato com'ero nel disordine delle coperte. Era facile fingere di dormire. Rimasi immobile, cercando perfino di trattenere il respiro. «No, è il bastardo sul serio; l'ho visto nella città. L'avrei riconosciuto prima se avessimo potuto accendere una luce.» La voce più profonda era quella di Marric. «Comunque, ha poca importanza chi era; schiavo o bastardo reale che sia, era a conoscenza di un sacco di cose a palazzo, e Ambrogio vorrà ascoltarle. Ed è un ragazzo sveglio; ah, sì, è quello che dice di essere. Nelle cucine non s'impara a comportarsi in quel modo freddo e a parlare cosi.» «Va be', ma...» Il cambiamento di tono nella voce di Hanno mi fece rabbrividire. Rimasi più fermo che potevo. «Be', ma che cosa?» La Donnola abbassò ancora la voce. «Forse se prima lo facciamo parlare noi... Voglio dire, cerca di vederla in questo modo. Tutta quella roba che ci ha detto, quando ascoltava quello che il re Camlach intendeva fare e tutto...
Se ci tenessimo le notizie per noi e poi scappassimo a riferirle, ci sarebbe un bel mucchietto di soldi per noi, no?» Marric grugnì. «E poi lui sbarca e racconta a qualcuno da dove viene? Ambrogio lo verrebbe a sapere. Sa sempre tutto.» «Vuoi fare l'ingenuo?» Il tono era ironico. Tutto quello che potevo fare era starmene fermo. C'era un punto tra le mie scapole dove la pelle, tesa, era fredda sulla carne come se già sentisse il contatto del coltello. «Ah, non sono poi cosi ingenuo. Ho capito quello che volevi dire. Ma non mi pare che...» «A Maridunum nessuno sa dov'è andato.» Il bisbiglio di Hanno era precipitoso e impaziente. «Quanto agli uomini che l'hanno visto a bordo, penseranno che l'abbiamo portato con noi adesso. Anzi, faremo proprio così, ce lo portiamo con noi adesso e ci sono tanti posti tra qui e la città dove...» Lo udii deglutire. «Te l'avevo detto prima di salpare, che non aveva senso spendere il denaro della traversata per lui...» «Se avevamo intenzione di sbarazzarci di lui,» disse Marric seccamente «facevamo meglio a non pagare affatto la traversata per lui. Cerca di ragionare, adesso in ogni caso il denaro ci verrà restituito, e magari con qualche cosa in più.» «Come lo sai?» «Be', se il ragazzo ha delle informazioni da dare, Ambrogio pagherà la traversata, di questo puoi esser sicuro. Se poi risulta che è il bastardo - e io sono sicuro che lo è - potrebbe esserci un supplemento per noi. I figli, o i nipoti, di re sono sempre utili, e chi dovrebbe saperlo meglio di Ambrogio?» «Ambrogio deve sapere che come ostaggio il ragazzo non serve a niente.» Hanno pareva imbronciato. «Chi lo dice? E se comunque ad Ambrogio non serve, allora ci teniamo il ragazzo, lo vendiamo e ci dividiamo il ricavato. Perciò lascia perdere, te lo dico io. Vivo, potrebbe valere qualche cosa; morto, non vale proprio niente, e potrebbe andare a finire che abbiamo pagato la traversata di tasca nostra.» Sentii il piede di Hanno spingermi, senza delicatezza. «Comunque, in questo momento non si direbbe che valga molto. Hai mai visto un mal di mare simile? Deve avere lo stomaco come una ragazzina. Credi che possa camminare?» «Ora lo sapremo» disse Marric, e mi scosse. «Su, ragazzo, in piedi.»
Gemetti, girandomi adagio fino a mostrar loro il mio viso che speravo mortalmente pallido. «Che c'è? Ci siamo?» chiesi in gallese. «Sì, ci siamo. Forza adesso, alzati, scendiamo a terra.» Gemetti di nuovo, ancora più tristemente, e mi tenni la pancia. «Oh, Dio, no, lasciatemi in pace.» «Un secchio d'acqua di mare» propose Hanno. Marric si raddrizzò. «Non c'è tempo.» Parlava di nuovo brettone. «Mi ha l'aria che dovremo portarlo noi. No, dovremo lasciarlo qui: dobbiamo andare direttamente dal conte. È la sera della riunione, ti ricordi? Lui già saprà che la nave ha attraccato, e si aspetterà di vederci prima di andarsene. Meglio che andiamo subito a far rapporto a lui, o saranno guai. Nel frattempo lasceremo qui il ragazzo. Possiamo chiuderlo a chiave e dire alla sentinella di dargli un'occhiata. Possiamo con comodo essere di ritorno prima di mezzanotte.» «Tu puoi essere di ritorno» disse Hanno acido. «Io ho qualcosa che non può aspettare.» «Anche Ambrogio non può aspettare, perciò se vuoi i soldi per questa faccenda è meglio che vieni. Hanno già quasi finito di scaricare. Chi è di guardia?» Hanno disse qualche cosa, ma lo stridio della pesante porta che essi si chiusero alle loro spalle e il rumore sordo dei catenacci che scivolavano nell'alloggiamento coprirono la risposta. Sentii i cunei penetrare, poi il suono delle loro voci e dei passi, si perse nel fracasso delle operazioni di scarico che scuotevano la nave: lo stridore degli argani, le grida degli uomini sopra di me e a pochi metri di distanza, a riva, il sibilo e il cigolio delle gomene in movimento, il rumore sordo delle merci sollevate e scaricate sul molo. Gettai da parte le coperte e mi misi a sedere. Adesso che quel terribile movimento della nave si era interrotto, mi sentivo di nuovo saldo, addirittura bene, con una specie di vacuità leggera e purificata che mi dava una strana sensazione di benessere, l'impressione quasi irreale di galleggiare, come la facoltà che si ha nei sogni. M'inginocchiai sulle coperte e mi guardai intorno. Sul molo lavoravano alla luce di lanterne, e quella stessa luce penetrava dal piccolo portello quadrato. Così vedevo la brocca dalla bocca larga, ancora al suo posto, e un altro grosso pezzo di pane d'orzo. Stappai la brocca e con prudenza assaggiai l'acqua. Sapeva un po' di stantio, per via dello straccio, ma era abbastanza buona, e mi tolse dalla bocca quel sapore
metallico della nausea. Il pane era duro come pietra, ma lo immersi nell'acqua finché riuscii a romperne un pezzo da masticare. Poi mi alzai per guardare fuori del portello. Per fare ciò dovetti arrivare al davanzale e tirarmi su con le mani, trovando un appiglio per i piedi in uno dei contropali che fiancheggiavano la paratia. Dalla forma della mia prigione avevo indovinato che essa si trovava a prua, e adesso vidi che avevo ragione. La nave era accostata a un molo di pietra, sul quale un paio di lanterne pendevano da pali, e alla loro luce una ventina di uomini, di soldati, stava lavorando a scaricare le balle e le casse dalla nave. Dietro il molo si ergeva una fila di edifici dall'aspetto solido, presumibilmente magazzini, ma quella sera pareva che le merci fossero dirette altrove. Dietro i pilastri delle lanterne erano in attesa alcuni carri, con pazienti muli già attaccati. Gli uomini ai carri indossavano uniformi, ed erano armati, e un ufficiale sovrintendeva alle operazioni di scarico. La nave era ormeggiata vicinissima al molo a mezza nave, dov'era il ponticello di sbarco. La gomena anteriore correva dalla battagliola che era sopra la mia testa fino al molo, e questo aveva fatto sì che la prua girando si allontanasse da terra, in modo che adesso tra me e la riva c'erano una quindicina di metri d'acqua. A quest'estremità della nave non c'era alcuna luce, e per di più c'era l'ombra scura delle costruzioni. Ma avrei dovuto aspettare, decisi, che finissero di scaricare e che i carri, e probabilmente i soldati con loro, se ne andassero. Tempo per scappare ce ne sarebbe stato poi, solo con la sentinella a bordo e magari anche le lanterne spente sul molo. Perché era ovvio che dovevo scappare. Se fossi rimasto li, la mia unica speranza di salvezza sarebbe stata nel buon volere di Marric, e questo a sua volta dipendeva dal risultato del suo colloquio con Ambrogio. E se per qualche ragione Marric non avesse potuto tornare, e invece di lui fosse venuto Hanno... Oltretutto avevo fame. L'acqua e l'orribile bocconcino di pane ammollato avevano fatto agitare i succhi gastrici nella mia pancia ferocemente vuota, e la prospettiva di aspettare ancora due o tre ore prima che qualcuno tornasse a cercarmi era insopportabile, anche a prescindere dalla paura di quanto quel ritorno poteva apportarmi. E anche nella migliore delle ipotesi, che Ambrogio mi mandasse a cercare, non potevo essere troppo sicuro del mio destino in mano sua una volta che avesse ottenuto tutte le informazioni che potevo dargli. A dispetto della millanteria che mi aveva salvato la
vita con le spie, le notizie che avevo erano pochine, e Marric aveva avuto ragione sospettando - questo Ambrogio lo avrebbe saputo - che come ostaggio ero inutile. La mia condizione semiregale poteva fare impressione a Marric e a Hanno, ma né il fatto che mio nonno fosse stato alleato di Vortigern, né quello che mio zio fosse alleato di Vortimer, potevano costituire una valida raccomandazione per la benevolenza di Ambrogio. Pareva che, regale o no, il mio destino sarebbe stato la schiavitù se ero fortunato, e se no una morte non eroica. E questo non avevo intenzione di restare ad aspettarlo. Almeno non finché il portello rimaneva aperto, e la gomena scorreva, abbassandosi leggermente, partendo proprio da sopra di me fino al palo d'ormeggio sul molo. Le due spie, pensavo, erano così poco abituate a trattare con prigionieri della mia taglia che non avevano neppure preso in considerazione il portello. Nessun uomo, neppure quell'Hanno che pareva una donnola, avrebbe potuto tentare di scappare di là, ma un ragazzo snello poteva farcela. E anche se ci avessero pensato, sapevano che non nuotavo e non avevano considerato la gomena. Ma osservandola attentamente mentre ero lì appoggiato al portello, pensai che avrei potuto farcela. Se sul cavo riuscivano a passare i ratti - potevo vederne uno in quel momento, un ratto enorme e grasso, ben pasciuto di rifiuti - potevo farlo anch'io. Ma dovevo aspettare. Intanto faceva freddo, e io ero nudo. Indietreggiai leggermente nel rifugio, e mi misi alla ricerca dei miei vestiti. La luce che veniva dalla riva era debole, ma sufficiente. Mi mostrava la piccola gabbia che era la mia prigione, con le coperte in disordine sul mucchio di vecchi sacchi che avevano costituito il mio letto; contro una paratia una cassa da marinaio di legno incurvato e scheggiato; un mucchio di catene arrugginite troppo pesanti perché io potessi spostarle; la brocca dell'acqua e nell'angolo più lontano, qui più lontano significava una distanza di due passi, l'orribile secchio mezzo pieno del mio vomito. Non vedevo altro. Forse era stato un impulso gentile quello che aveva spinto Marric a togliermi i vestiti bagnati, ma o aveva dimenticato di riportarli o non l'aveva fatto proprio per impedirmi di attuare quel progetto. Cinque secondi bastarono a mostrarmi che la cassa non conteneva altro che alcune tavolette per scrivere, una coppa di bronzo e alcune stringhe da sandali in cuoio. Almeno, pensai riabbassando il coperchio con delicatezza su quella raccolta che non prometteva niente di buono, mi avevano lasciato i sandali. Non che non fossi abituato ad andare scalzo, ma d'inverno e per la strada no... Perché, nudo o no, dovevo pur sempre fuggire. Le stesse
precauzioni prese da Marric mi rendevano più che mai ansioso di andarmene. Di quello che avrei fatto, di dove mi sarei diretto, non avevo la minima idea, ma il dio mi aveva tratto in salvo dalle mani di Camlach e condotto al di là dello Stretto, e io avevo fiducia nel mio destino. Se un piano potevo avere, era di avvicinarmi ad Ambrogio quel tanto che mi permettesse di giudicare che tipo di uomo fosse, poi, se avessi ritenuto che da quella parte poteva esserci protezione, o almeno pietà, avrei potuto avvicinarlo e offrirgli la mia storia e i miei servigi. Non mi passò mai per la testa che potesse esserci qualcosa di assurdo nel chiedere a un principe di servirsi di un ragazzo di dodici anni. Suppongo che, almeno in questo, io fossi regale. Se mi fosse venuto a mancare il programma di servire Ambrogio, avevo, credo, la vaga idea di dirigermi verso il villaggio settentrionale di Kerrec dal quale veniva Moravik, e di cercare la sua famiglia. I sacchi sul pavimento erano vecchi e cominciavano a rompersi. Fu abbastanza facile aprirne uno con uno strappo alla cucitura per infilarci la testa e le braccia. Costituiva un indumento orrendo, ma in qualche modo mi copriva. Aprii un altro sacco e anche quello me lo infilai dalla testa, per aver caldo. Un terzo avrebbe fatto troppo volume. Palpai con desiderio le coperte, ma erano coperte buone, troppo compatte per strapparle, e mi avrebbero ostacolato nello scendere dalla nave. A malincuore le lasciai stare. Un paio di lacci di cuoio, legati insieme, fecero una cintura. Infilai il pezzo di pane d'orzo rimasto sul davanti del mio sacco, mi sciacquai la faccia, le mani e i capelli con quanto rimaneva dell'acqua, poi mi avvicinai di nuovo al portello e mi sporsi per guardare. Mentre mi vestivo avevo sentito grida e scalpicciare di piedi, come se qualcuno avesse disposto gli uomini in ordine di marcia. Adesso vedevo che era proprio così. Uomini e carri si stavano allontanando. L'ultimo dei carri, con un pesante carico, stava giusto oltrepassando le costruzioni, e cigolava, mentre la frusta si abbatteva sui muli tesi nello sforzo. Insieme a loro si allontanava lo scalpiccio di piedi. Mi domandai da che cosa fosse costituito il carico; difficile che fossero cereali, in quella stagione; più probabile, pensai, metallo o minerali, scaricati dai soldati e mandati in città sotto scorta. I rumori si allontanarono. Mi guardai attentamente intorno. Le lanterne erano ancora attaccate ai pali, ma per quanto riuscivo a vedere il molo era deserto. Era tempo di andare, prima che la sentinella decidesse di venire a controllare il prigioniero. Era facile, per un ragazzo sveglio. Mi trovai ben presto a cavalcioni del
portello, con il corpo fuori e le gambe aggrappate alla paratia, tentando di arrivare ad afferrare la corda. Fu un brutto momento quando scoprii che non ci arrivavo e avrei dovuto stare dritto, tenendomi in qualche modo contro la chiglia della nave, al di sopra del baratro nero che separava la nave dal molo, dove l'acqua sciabordava e formava un risucchio, mandando i rifiuti contro le pareti gocciolanti. Ma ci riuscii, artigliando il fianco della nave come se fossi stato uno dei ratti che scendevano a riva, finché alla fine fui in grado di stendermi e afferrare la gomena. Questa era tesa e asciutta e scendeva con un'inclinazione non eccessiva verso il palo d'ormeggio sul molo. La tenni stretta con tutt'e due le mani, girato a faccia in su, poi lanciai le gambe, ormai separate dalla nave, fin sulla corda. Avevo pensato di lasciarmi calare pian piano, una mano dopo l'altra, per scendere a terra nell'ombra, ma quello che non avevo calcolato, non essendo marinaio, era la leggerezza di una nave piccola sull'acqua. Anche il mio peso modesto, quando mi mossi lungo la corda, la fece inclinare, in modo sconcertante e accentuato, poi, piegandosi, girare improvvisamente la prua verso il molo. La gomena cedette, si allentò, si abbassò sotto il mio peso mentre la tensione diminuiva, poi cadde formando un cappio. Il tratto nel quale mi ero girato, tenendomi aggrappato come una scimmia, di colpo diventò verticale. I miei piedi persero l'appiglio e scivolarono lontani da me; le mie mani non riuscivano a reggere il mio peso. Calai lungo la fiancata della nave scivolando su quella gomena come il grano di una collana lungo uno spago. Se la nave avesse girato più lentamente sarei stato schiacciato contro il molo, o mi sarei affogato arrivando in fondo al cappio, ma quella si mosse come un cavallo che fa uno scarto. Quando urtò il bordo del molo io ero proprio sopra a esso, e lo strattone mi fece allentare quel po' di presa che mi era rimasta e mi lanciò, libero. Mancai il palo d'ormeggio di pochi centimetri e atterrai scompostamente sulla terra indurita dal gelo, all'ombra di un muro. Due Non ebbi il tempo di chiedermi se mi fossi fatto male. Sentivo il rumore di piedi nudi sopra coperta, mentre la sentinella correva a vedere che cosa fosse accaduto. Mi rimisi in sesto, barcollai e fui in piedi, cominciai a correre, prima che, spostando la lanterna, quello raggiungesse il punto in cui mi trovavo. Lo udii gridare, ma ero già saltato oltre l'angolo degli edifici
ed ero sicuro che non mi avesse visto. E anche se mi aveva visto, pensavo di essere abbastanza al sicuro. Prima di tutto avrebbe controllato la mia prigione, e anche in questo caso dubitavo che osasse abbandonare la nave. Mi appoggiai un momento al muro, strofinandomi i solchi lasciati dalla corda sulle mie mani e cercando di abituare gli occhi alla notte. Dato che venivo dalla quasi oscurità della mia prigione, non mi ci volle per questo più di qualche secondo, e io potei presto guardarmi intorno per orientarmi. Il capannone che mi nascondeva era l'ultimo della fila, e dietro, sul lato più lontano dal molo, c'era la strada, un nastro di ghiaia diritto, che si dirigeva verso un gruppo di luci un po' in lontananza. Certamente doveva essere la città. Più vicino, dove la strada era inghiottita dalle tenebre, c'era un chiarore incerto e in movimento, che doveva essere la luce posteriore dell'ultimo carro. Nient'altro si muoveva. Era fare una supposizione alquanto fondata pensare che carri così scortati dovessero esser diretti al quartier generale di Ambrogio. Non sapevo se avrei potuto arrivare da lui, o almeno in una qualsiasi città o in un villaggio, e tutto quello che volevo a quel punto era trovare del cibo, e un posto caldo in cui nascondermi a mangiare e ad aspettare il giorno. Quando avessi ripreso l'orientamento, certamente il dio mi avrebbe guidato in tutta sicurezza. Gli sarebbe anche toccato darmi da mangiare. In origine avevo pensato di vendere uno dei miei fermagli per procurarmi il cibo ma ormai, pensai mentre mi avviavo lentamente nella scia dei carri, avrei dovuto rubare qualche cosa. Alla peggio, avevo ancora un pezzo di pane d'orzo. Poi un posto in cui nascondermi fino al giorno... Se Ambrogio era «alla riunione», come aveva detto Marric, sarebbe stato peggio che inutile recarmi al suo quartier generale e chiedere di vederlo subito. Qualunque concetto potessi avere della mia importanza, non arrivavo a supporre un trattamento privilegiato da parte dei soldati di Ambrogio nel caso fossi capitato lì, così vestito, in sua assenza. Col giorno, ci avremmo pensato. Faceva freddo. Il fiato mi usciva grigio nell'aria scura e glaciale. La notte era senza luna, ma le stelle parevano occhi di lupo, e splendevano. Il ghiaccio scintillava sulle pietre della strada, e risuonava sotto gli zoccoli dei cavalli che mi precedevano. Grazie al cielo non c'era vento, e il sangue mi si riscaldava correndo, ma non osavo raggiungere il convoglio che avanzava lentamente, sicché ogni tanto dovevo fermarmi e perder tempo, con quell'aria gelata che mi mordeva attraverso i sacchi strappati, tanto che
per riscaldarmi mi battevo le braccia contro il corpo. Per fortuna c'era una quantità di ripari: cespugli, a volte in ciuffi fitti e a volte isolati, piegati così come si erano gelati nella direzione del vento più forte,' ancora tesi verso di lui con dita irrigidite; e in mezzo ai cespugli, grandi pietre appuntite si ergevano verso le stelle. La prima di esse la scambiai per un'enorme pietra miliare, ma poi vidi le altre, in fila, alzarsi dal suolo come viali di alberi colpiti dal fulmine. O come colonnati in cui camminavano gli dei, ma dei che io non conoscevo. La luce delle stelle colpì la superficie della pietra accanto alla quale mi ero fermato ad aspettare, e qualcosa attrasse la mia attenzione, una sagoma grossolanamente scolpita nel granito, incisa dalla luce fredda come nerofumo. Una scure, a due tagli. Le grandi pietre erette si stendevano davanti a me come una marcia di giganti. Un cardo secco, spezzato al gambo, mi pungeva le gambe nude. Andandomene, guardai di nuovo la scure. Era scomparsa. Corsi di nuovo alla strada, stringendo i denti perché non battessero. Era il freddo, naturalmente, a farmi tremare; e che altro? I carri si erano di nuovo allontanati e io mi misi a seguirli di corsa, tenendomi sui bordi erbosi della strada, anche se erano duri come la ghiaia. Il ghiaccio si rompeva e strideva sotto i miei sandali. Dietro di me l'esercito silenzioso delle pietre rimpiccioliva nell'oscurità, e davanti a me c'erano adesso le luci di una città e il calore delle sue case che mi venivano incontro. Pensai che era la prima volta che io, Merlino, correvo verso la luce e la compagnia, fuggivo dalla solitudine come se essa fosse una cerchia di occhi di lupo che mi costringeva ad avvicinarmi al fuoco. Era una città circondata da mura. Avrei dovuto immaginarlo, vicina com'era al mare. C'era un alto terrapieno e sopra una palizzata, e il fossato al di fuori del terrapieno era largo e bianco di ghiaccio. Avevano rotto il ghiaccio a intervalli, perciò non mi avrebbe sostenuto; potevo vedere i raggi scuri e la rete delle incrinature che appena si rimarginavano di vetro grigio, via via che si formava il nuovo ghiaccio. C'era un ponte di legno davanti alla porta, e qui i carri si fermarono, mentre l'ufficiale avanzava a cavallo per parlare con le sentinelle, e gli uomini erano immobili come rocce con i muli che scalpicciavano e facevano risuonare i finimenti, ansiosi di arrivare al calore della scuderia. Se mai avessi avuto l'idea di saltare nella parte posteriore di un carro e di farmi trasportare in quel modo, avrei dovuto abbandonarla. Per tutta la strada fino alla città i soldati erano stati disposti in fila ai due lati del convoglio, mentre l'ufficiale cavalcava dalla parte esterna dei carri, da dove
poteva osservare l'insieme. Adesso, quando diede ordine di avanzare e di rompere il passo per inoltrarsi sul ponte, girò il cavallo e si diresse verso la retroguardia, per veder entrare l'ultimo carro. Vidi per un attimo il suo viso, quello di un uomo di mezza età, di malumore e tossicchiante a causa del freddo. Non il tipo d'uomo da starti ad ascoltare con pazienza, e neppure da starti semplicemente ad ascoltare. Ero più sicuro fuori con le stelle e i giganti in marcia. La porta si chiuse con rumore sordo dietro il convoglio e sentii i catenacci rientrare nell'alloggiamento. C'era un sentiero che si vedeva appena e si allontanava verso est lungo il bordo del fossato. Quando guardai da quella parte vidi che, un po' più in là, così lontano che dovevano indicare una colonna o una fattoria chiaramente fuori della città, si vedevano altre luci. Mi lanciai sul sentiero di buon passo, masticando mentre camminavo il mio pezzo di pane d'orzo. Le luci risultarono appartenere a una dimora piuttosto vasta, le cui diverse costruzioni circondavano un cortile. La casa stessa, a due piani, formava una delle pareti del cortile, che sugli altri tre lati era circondato da edifici a un piano - bagni, appartamenti della servitù, stalle, forno - e il tutto era chiuso da alte mura e mostrava solo alcune feritoie molto al di là delle mie possibilità. C'era una porta ad arco accanto alla quale, su una mensola di ferro all'altezza di un uomo, crepitava tetramente una torcia di pece umida. Nel cortile c'erano altre luci, ma non sentivo rumori di movimento né voci. La porta, naturalmente, era chiusa. Non avrei certo osato entrare da lì, per incontrare magari una fine sommaria per mano del portiere. Costeggiai il muro, cercando speranzoso un punto dal quale issarmi ed entrare. La terza finestra era quella del forno; l'odore che ne usciva era vecchio di ore e freddo ormai; mi sarei anche potuto arrampicare su per il muro, se la finestra non fosse stata una semplice feritoia dalla quale neppure io sarei riuscito a passare. La successiva era una scuderia, e anche quella dopo... Sentivo l'odore dei cavalli e quello del bestiame che si confondevano, e la dolcezza del fieno. Poi la casa, sulla quale addirittura non c'erano affatto finestre che guardassero verso l'esterno. Lo stesso nell'edificio dei bagni. E di nuovo si arrivava alla porta. A un tratto si sentì il fragore di una catena e a pochi passi da me, all'interno della porta, un grosso cane cominciò a latrare insistentemente. Credo
di aver fatto un salto all'indietro, poi mi appiattii contro il muro quando sentii una porta aprirsi piuttosto vicino. Ci fu una pausa, il cane ringhiava e qualcuno era lì, in ascolto, poi una voce maschile disse qualcosa, seccamente, e la porta si chiuse. Il cane rimase per un po' a lamentarsi da solo, annusando ai piedi della grande porta d'ingresso, poi di nuovo trascinò la sua catena fino al canile e lo udii risistemarsi sulla paglia. Evidentemente non c'era modo di entrare per trovare un riparo. Rimasi un po' lì, tentando di riflettere, con la schiena premuta contro il muro gelato anche se sembrava più caldo dell'aria glaciale. Ora tremavo per il freddo, con tale violenza, che mi pareva di sentir battere le mie ossa. Non dubitavo di aver fatto bene ad abbandonare la nave e a non affidarmi alla clemenza dei soldati, però adesso cominciavo a chiedermi se dovevo osare bussare alla porta e pregare di darmi rifugio. Come mendicante avrei ricevuto un'ingrata accoglienza, lo sapevo, ma rimanendo lì fuori era possibilissimo che morissi assiderato prima dell'alba. Poi vidi, appena al di là della luce proiettata dalla torcia, la sagoma bassa e scura di una costruzione che doveva essere un capannone per le vacche o una stalla, a circa venti passi di distanza, sull'angolo di un campo circondato da piccoli terrapieni coronati di rovi. Si sentiva, proveniente di lì, il rumore delle bestie. Almeno ci sarebbe stato caldo e, se riuscivo a piantarci i denti che battevano, avevo ancora un boccone di pane d'orzo. Mi ero allontanato di un passo dal muro e avanzavo, l'avrei giurato, senza far rumore, quando il cane uscì dal suo canile a precipizio e ricominciò quel suo abbaiare infernale. Questa volta la porta della casa sì aprì subito e udii un passo d'uomo nel cortile. Si stava avvicinando alla porta del muro. Udii lo stridio del metallo mentre estraeva un'arma. Stavo proprio per voltarmi e prendere la fuga quando sentii, chiaro e penetrante nell'aria gelida, quello che aveva avvertito il cane. Il rumore di zoccoli di una bestia al galoppo, che si dirigeva verso di noi. Rapidissimo, attraversai di corsa il tratto scoperto verso il capannone. Un'apertura nel terrapieno accanto a questo costituiva una via d'accesso che era stata bloccata con un biancospino secco. Mi feci strada in mezzo ai suoi rami poi sgusciai, più silenziosamente che potevo per non disturbare le bestie, per andare ad accovacciarmi sulla soglia del capannone, non visibile dalla porta della casa. Il capannone era solo un piccolo riparo, innalzato alla meno peggio, con mura non molto più alte di un uomo e il tetto di paglia, ed era pieno zeppo di bestie. Queste parevano per la maggior parte giovani tori, troppo pigiati
per riuscire a sdraiarsi ma in apparenza abbastanza soddisfatti del reciproco calore e di un po' di foraggio asciutto da ruminare. Una rozza tavola messa di traverso sulla soglia fungeva da barriera per tenerli dentro. Fuori, il campo si stendeva, vuoto, alla luce delle stelle, grigio di brina, limitato da quei bassi terrapieni sormontati da cespugli ricurvi e storti. In mezzo al campo era una delle pietre erette. Vicino all'entrata, sentii un uomo che parlava per acquetare il cane. Il rumore degli zoccoli si dilatò, martellando la pista dura, poi tutt'a un tratto il cavaliere ci fu addosso, uscì dall'ombra arrestando bruscamente il suo cavallo con uno stridore di metallo sulla pietra, un turbinio di ghiaia e d'erba gelata, e il tonfo degli zoccoli della bestia proprio contro il legno della porta. Dall'interno l'uomo gridò qualche cosa, una domanda, e il cavaliere gli rispose nell'atto stesso di scendere di sella. «Certo che lo è. Apri per piacere.» Sentii aprire la griglia della porta, poi i due uomini parlare, ma salvo una parola qua e là non riuscii ad afferrare il senso. Pareva, dalla luce che si spostava, che il portiere (o chiunque fosse venuto alla porta) avesse alzato la torcia dal suo piedistallo. Inoltre la luce si spostava da questa parte, e insieme a lei i due uomini, che conducevano il cavallo. Udii il cavaliere dire, impaziente: «Ah, sì, qui starà bene. Se è per questo, mi fa comodo potermene andare alla svelta. C'è foraggio?». «Sissignore. Ho messo qui le bestie giovani per lasciare il posto ai cavalli.» «Staranno stretti, allora?» La voce era giovane, decisa, un po' aspra, ma poteva dipendere dal freddo quanto dall'arroganza. Una voce nobile, istintiva come il suo modo di andare a cavallo, portando il cavallo quasi pancia a terra, fino alla porta. «Sono un bel po'» disse il portiere. «Attenzione, adesso, signore, è da quest'apertura. Se mi lasci andare avanti con la luce...» «Ci vedo,» disse il giovane irritato «purché non mi pianti la torcia proprio in faccia. Dritto, tu.» Le ultime parole erano rivolte al cavallo che aveva inciampato in una pietra. «Sarebbe meglio che mi lasciassi andare avanti, signore. C'è un mucchio di rovi davanti all'apertura per non farli uscire. Se rimani da una parte un minuto, lo tolgo.» Io ero già sgattaiolato fuori dalla soglia del capannone, e avevo girato l'angolo, fin nel punto dove il muro irregolare arrivava all'argine del campo. Qui c'erano zolle erbose ammonticchiate e un mucchio di fascine e
felci secche che pensai fossero lettiere per l'inverno. Mi acquattai dietro la catasta. Sentii che sollevavano il rovo di biancospino e lo spostavano. «Qua, signore, fallo entrare per di qua. Non c'è molto spazio, ma se sei sicuro di volerlo lasciare qui fuori...» «L'ho detto. Solleva la tavola e fallo entrare. Presto, sono in ritardo.» «Se lo lasci a me, adesso, signore, gli tolgo io la sella.» «Non c'è bisogno. Per un paio d'ore starà bene così. Allenta solo il sottopancia. Credo sia meglio lo copra con il mio mantello. Dio, che freddo... Sbarazzalo delle briglie, per favore. Io entro subito...» Lo sentii allontanarsi rapido, con gli speroni che risuonavano. La tavola fu rimessa a posto, e poi anche il biancospino. Mentre il portiere si affrettava a seguirlo, colsi una frase che suonava come: «E fammi passare da dietro, da dove il padre non mi vede». La grande porta si chiuse alle loro spalle. La catena tintinnò ma il cane rimase silenzioso. Sentii i passi degli uomini attraversare il cortile, poi la porta della casa si richiuse dietro loro. Tre Anche se avessi osato correre il rischio della luce e del cane, arrampicarmi sul terrapieno dietro di me e correre per quei venti passi che mi separavano dalla porta d'ingresso, non ce ne sarebbe stato bisogno. Il dio aveva fatto la sua parte; mi aveva mandato un bel caldo e, come scoprii, del cibo. Non appena la porta si fu chiusa, io tornai di nuovo nella stalla, bisbigliando parole rassicuranti al cavallo mentre arrivavo vicino a lui per derubarlo del mantello. Non era molto sudato; doveva aver percorso al galoppo quel miglio circa che ci separava dalla città, e nel capannone, in mezzo a tutte quelle bestie, il freddo non poteva fargli male; comunque, le mie necessità venivano prima delle sue, e quel mantello dovevo averlo. Era un mantello da ufficiale, compatto, morbido e di buona qualità. Quando me ne impadronii scoprii, con grande eccitazione, che il mio signore mi aveva lasciato non solo il suo mantello ma anche una bisaccia da sella piena. Mi alzai in punta di piedi e vi frugai dentro. Una borraccia di pelle, che scossi. Era quasi colma. Certamente vino, quel giovanotto non si sarebbe mai portato appresso dell'acqua. Dentro a un tovagliolo gallette e uva passa, e qualche striscia di carne secca.
Le bestie si sospingevano, bavando, e mi soffiavano contro l'alito caldo. Il lungo mantello era scivolato e un angolo si trascinava per terra nello sporco, sotto gli zoccoli. Lo tirai su, afferrai la borraccia e il cibo e sgusciai fuori da sotto la tavola. Le fascine nell'angolo di fuori erano pulite, ma non mi sarebbe importato neanche se fosse stato un mucchio di letame. Mi ci rintanai dentro, tiepidamente avvolto nel morbido tessuto di lana, e mangiai e bevvi con gusto tutto quello che il dio mi aveva mandato. Non dovevo dormire, a qualsiasi costo. Purtroppo, a quanto pareva, il giovane non si sarebbe trattenuto più di un'ora o due; ma, con l'aiuto del cibo, tanto sarebbe bastato per riscaldarmi cosicché avrei poi potuto starmene sdraiato abbastanza bene fino all'alba. Dalla casa li avrei sentiti muoversi in tempo per tornare nel capanno e rimettere al suo posto il mantello. Molto probabilmente il mio signore non si sarebbe neppure accorto che dalla bisaccia erano sparite le sue razioni di marcia. Bevvi ancora un poco di vino. Era sorprendente come perfino quel tozzo stantio di pane d'orzo risultasse migliore con il vino. Era buono, forte e dolce, con un sapore di uva passa. M'inondò il corpo di calore, finché le articolazioni rigide si allentarono, si sciolsero e la smisero di tremare, e io potetti raggomitolarmi, caldo e rilassato, nel mio nido buio, con le felci che mi coprivano per proteggermi dal freddo. Devo aver dormito un po'. Non ho idea di che cosa mi svegliasse; non si sentiva nessun rumore. Anche le bestie nel capannone stavano tranquille. Pareva più scuro, e mi domandai se non fosse vicina l'alba, quando le stelle impallidiscono. Ma quando aprii la mia coperta di felci e guardai fuori, vidi che c'erano ancora, e scintillavano nel cielo nero. La cosa strana era che faceva più caldo. Si era levato un po' di vento, portando qualche nuvola, raffiche veloci che si rincorrevano, poi si sparpagliavano e svanivano, cosicché buio e luce delle stelle si succedevano a ondate sui campi grigi di brina e sul paesaggio tranquillo, dove i cardi e le rigide erbe invernali parevano fluttuare come acqua, o come un campo di grano nel vento. Non si sentiva il rumore del vento. Sopra i veli di nuvole in movimento le stelle splendevano, costellando la cupola nera. Il tepore e la mia posizione, raggomitolato com'ero al buio, dovevano avermi fatto sognare (credo) la sicurezza, Galapas e la conca di cristallo dove ero stato raggomitolato, guardando la luce. Adesso l'arco lucente delle stelle sopra di me era come il soffitto concavo della grotta,
con la luce proiettata dai cristalli e le ombre passeggere che volavano, messe in fuga dal fuoco. Si vedevano punti rossi e color zaffiro; e una stella era d'oro sfavillante. Poi il vento silenziosamente sospinse un'altra ombra attraverso il cielo, e la luce ne fu nascosta, e fremettero il biancospino, e l'ombra della pietra eretta. Dovevo esser affondato troppo nel mio letto, e starci troppo comodo, per sentire il fruscio del vento nell'erba e nei pruni. E non udii neppure il giovane entrare nella stalla, attraversando i rami secchi che il portiere aveva ricollocato davanti all'apertura nel terrapieno. Perché tutt'a un tratto egli fu lì, una sagoma alta che percorreva il campo a lunghi passi, silenzioso e irreale come il vento. Mi ritrassi, come una lumaca nel guscio. Troppo tardi, ormai, per correre a rimettere il mantello al suo posto. L'unica cosa che potevo sperare era che pensasse che il ladro fosse scappato, e che non cominciasse a cercarlo troppo vicino. Ma egli non si avvicinò alla stalla. Stava attraversando il campo, allontanandosi da me. Poi lo vidi, sul limite dell'ombra proiettata dalla pietra eretta, il bianco animale che pascolava. Il suo cavallo doveva essersi liberato. Solo gli dei sapevano che cosa trovasse da mangiare in quel campo gelato, ma io la vedevo, irreale a quella distanza, la bestia bianca che pascolava accanto alla pietra eretta. E doveva aver sfregato il sottopancia fino a farlo spezzare; anche la sella non c'era più. Almeno, quando il cavaliere si fosse risolto a prenderlo, io avrei potuto filare... O meglio, abbandonare il mantello accanto alla stalla, dove lui avrebbe pensato che era scivolato dal dorso del cavallo, e poi ritornarmene nel mio nido caldo finché lui se ne fosse andato. Per la fuga della bestia poteva solo dar la colpa al portiere; e giustamente: io non avevo neanche toccato la tavola messa di traverso sulla soglia. Mi alzai, cauto, aspettando l'occasione. La bestia che pascolava aveva alzato la testa per osservare l'uomo che si avvicinava. Una nuvola passò attraverso le stelle, rabbuiando il campo. Dopo l'oscurità, la luce percorse il campo brinato. Colpì la pietra eretta. Vidi che mi ero sbagliato, non era il cavallo. E neppure, come pensai subito dopo, poteva essere una delle bestie giovani della stalla. Questo era un toro, un massiccio toro bianco, adulto, con un'apertura di corna regali e un collo imponente. Abbassò la testa fino a sfiorare con la giogaia il terreno, poi scalpitò una volta, due volte. Il giovane si fermò. Adesso lo vedevo, nitidamente, mentre l'ombra si sollevava. Era alto e robusto, e i suoi capelli parevano imbiancati alla luce
delle stelle. Aveva un abbigliamento da straniero: pantaloni con una legatura di stringhe incrociate sotto una tunica che era stretta in basso sui fianchi, e un alto copricapo floscio. Sotto di esso, i capelli biondi si allargavano intorno al viso come raggi. Aveva una corda nella mano, e la teneva lenta, sicché le spire della corda sfioravano la brina. Il suo mantello svolazzava al vento; un mantello corto, di un colore scuro che non riuscivo a distinguere. Il suo mantello? Allora non poteva essere il mio giovane signore. E dopo tutto, perché mai quel giovane arrogante avrebbe dovuto venire a prendere un toro che si era perso nella notte? Senza che nulla lo lasciasse prevedere, e senza emetter suono, il toro bianco caricò. Ombra e luce si avventarono con lui, vacillando, rendendo confusa la scena. La corda volteggiò, formò un cappio, calò. L'uomo balzò di lato mentre il grosso animale gli passava accanto di corsa, fermandosi poi con uno scivolone, la corda tesa che schioccava e la brina che emanava nuvole di vapore sotto gli zoccoli che slittavano. Il toro si girò rapidamente e di nuovo caricò. L'uomo aspettava immobile, i piedi un poco divaricati, l'atteggiamento incurante, quasi sprezzante. Quando il toro lo raggiunse parve oscillare da una parte, come un ballerino. Il toro gli andò cosi vicino che vidi un corno tranciare il mantello turbinante, e il dorso della bestia sfiorò la coscia dell'uomo come un amante in cerca di una carezza. La mano dell'uomo si mosse. La corda sibilò formando un anello e un altro cappio calò su quelle corna regali. L'uomo si appoggiò al toro, e quando questo, ancora una volta, subito dopo si risollevò, girandosi impetuosamente nel suo stesso fumo, egli saltò. Non allontanandosi. Verso il toro, proprio sul collo tozzo, con le ginocchia che gli affondavano nella giogaia, e le mani selvagge che usavano la corda come redini. Il toro si fermò di colpo, le zampe larghe, la testa rivolta verso terra con tutto il peso e la forza contro la corda. Ancora non si sentiva alcun rumore, né lo scalpicciare degli zoccoli, o lo stridio della corda o il possente respiro. Adesso ero a metà fuori della fascina, rigido e con lo sguardo fisso, senza curarmi d'altro che della battaglia tra l'uomo e il toro. Di nuovo una nuvola copri d'oscurità il campo. Mi alzai in piedi. Credo che pensassi di afferrare la tavola nella stalla e precipitarmi con quella attraverso il campo a portare quel mio futile aiuto. Ma prima che riuscissi a muovermi la nuvola si era spostata, mostrandomi il toro fermo come prima, con l'uomo che ancora gli stava sul collo. Adesso però la testa della
bestia si rialzava. L'uomo aveva abbandonato la corda e teneva le mani sulle corna del toro, e le trascinava indietro... indietro... verso l'alto... Lentamente, quasi come in un rituale di resa, la testa del toro si alzò, con il collo potente disteso, esposto. Ci fu un lampo nella destra dell'uomo. Egli si chinò in avanti, poi calò il coltello. Sempre in silenzio, lentamente, il toro si piegò sulle ginocchia. Del nero inondò la pelle bianca, la terra bianca, la bianca base della pietra. Uscii dal mio nascondiglio e corsi, gridando qualche cosa, non so che cosa, attraverso il campo, verso di loro. Non so che cosa avessi in mente di fare. L'uomo mi vide arrivare e voltò la testa, e io vidi che non c'era bisogno di nulla. Sorrideva, ma il suo viso alla luce delle stelle appariva stranamente calmo e sovrumano con quella sua assenza di espressione. Non potei vedere segno di tensione o di sforzo. Anche i suoi occhi erano privi di espressione, freddi e scuri, e non sorridevano. Inciampai, tentai di fermarmi ma il piede mi s'impigliò nel mantello che si trascinava e caddi, rotolando verso di lui come un fagotto ridicolo e indifeso, proprio mentre il toro bianco, con un movimento lento, crollava. Qualcosa mi colpì dalla parte del cuore. Udii un grido acuto, infantile, ed ero io che urlavo, poi fu il buio. Quattro Qualcuno mi prendeva di nuovo a calci, con durezza, nelle costole. Grugnii e mi rotolai, tentando di pormi fuori tiro, ma il mantello mi impediva i movimenti. Una torcia, puzzolente per il fumo nero, fu rivolta verso il basso, mi fu quasi piantata in faccia. La solita voce giovanile disse irosamente: «Il mio mantello, per Dio! Prendetelo, voi, presto. Che io possa essere dannato se lo tocco, sporco com'è». Furono tutti intorno a me, trascinando i piedi sulla brina, con le torce che fiammeggiavano, voci maschili curiose, o irate, o indifferenti e divertite. Alcuni erano a cavallo, e le loro bestie baruffavano ai limiti del gruppo, scalpitando e agitandosi per il freddo. Mi accovacciai, sbattendo le palpebre verso l'alto. La testa mi doleva e la scena che si svolgeva sopra di me fluttuava, a frammenti, come se realtà e sogno s'intersecassero e si amalgamassero in modo da annientare i sensi. Fuoco, voci, il rollio di una nave, il toro bianco che cadeva...
Una mano mi strappò di dosso il mantello. Insieme a quello vennero via alcuni dei sacchi sdruciti che mi coprivano, lasciandomi nudi una spalla e un fianco, fino alla vita. Qualcuno mi afferrò un polso, con uno strattone mi tirò in piedi e mi tenne fermo. Con l'altra mano mi tirò sgarbatamente per i capelli e mi fece alzare la testa in modo da guardare l'uomo che mi stava sopra. Era alto, giovane, con capelli castano chiari che alla luce della torcia parevano ramati e una barba elegante che gli ornava il mento. Aveva gli occhi azzurri e pareva in collera. Era senza mantello in quel freddo. Nella mano sinistra reggeva una frusta. Mi guardò, emettendo un suono di disgusto. «Un marmocchio mendicante, che soprattutto puzza. Mi toccherà far bruciare la roba, immagino. Me la pagherai, maledetto piccolo parassita. Avevi forse l'intenzione di rubarmi anche il cavallo?» «No, signore. Giuro che è stato solo il mantello. L'avrei rimesso a posto, te lo assicuro.» «E anche il fermaglio?» «Il fermaglio?» L'uomo che mi tratteneva disse: «Il tuo fermaglio è ancora sul mantello, mio signore». Io dissi in fretta: «È stato solo un prestito, per scaldarmi... faceva così freddo, perciò...». «Perciò hai solo spogliato il mio cavallo lasciandolo a prendere freddo? È così?» «Non credevo che gli avrebbe fatto male, signore. Nella stalla faceva caldo. Lo avrei rimesso a posto, lo avrei rimesso sul serio.» «In modo che io lo indossassi dopo di te, piccolo schifoso? Dovrei tagliarti la gola per questo.» Qualcuno, uno degli uomini a cavallo, disse: «Oh, basta. Non è successo niente di male, salvo che domani il tuo mantello dovrà andare dal follatore. Questo disgraziato ragazzo è mezzo nudo, e fa abbastanza freddo da gelare una salamandra. Lascialo andare». «Almeno,» disse il giovane ufficiale tra i denti «mi riscalderò a frustarlo. Ah, no, non... tienilo stretto, Cadal.» La frusta sibilò di nuovo. L'uomo che mi teneva rafforzò la stretta mentre io lottavo per liberarmi, ma prima che la frusta calasse un'ombra passò davanti alla luce e una mano scese leggera, non più di un tocco, sul polso del giovane. Qualcuno disse: «Di che si tratta?».
Gli uomini tacquero, come ubbidendo a un ordine. Il giovane lasciò cadere la frusta e si voltò. L'uomo che mi teneva aveva allentato la presa mentre il nuovo arrivato parlava e io mi svincolai. Forse avrei potuto svignarmela in mezzo agli uomini e ai cavalli e scappare, benché penso che un uomo a cavallo mi avrebbe raggiunto in qualche secondo. Ma non feci neanche il tentativo di andarmene. Sgranai gli occhi. Il nuovo venuto era alto, più di mezza testa più alto del mio giovane ufficiale senza mantello. Si trovava tra me e le torce e controluce non potevo vederlo bene. Le luci vacillavano, incerte e accecanti; la testa mi faceva male, e il freddo mi aveva artigliato di nuovo. Tutto ciò che vedevo era la sagoma alta, indistinta, guardarmi, con gli occhi scuri in un volto privo di espressione. Feci un respiro come un rantolo. «Eri tu! Tu mi hai visto, vero? Stavo venendo ad aiutarti, solo ho inciampato e sono caduto. Non stavo scappando... diglielo ti prego, mio signore. Pensavo di rimetter a posto il mantello prima che egli tornasse a prenderlo. Ti prego, digli quello che è accaduto!» «Di che cosa stai parlando? Dirgli che cosa?» Sbattei le palpebre contro il riverbero delle torce. «Di quello che è successo poco fa. È stato... sei stato tu a uccidere il toro?» «A fare che?» Gli altri erano stati calmi fino a quel momento, ma adesso cadde il silenzio, un silenzio rotto solo dal respiro degli uomini che si affollavano intorno a noi, e dallo scalpiccio dei cavalli. Il giovane ufficiale disse aspro: «Quale toro?». «Il toro bianco» dissi io. «Lui gli ha tagliato la gola, e il sangue è zampillato come una fontana. È stato cosi che ho macchiato il tuo mantello. Stavo tentando...» «Come diavolo hai saputo del toro? Dov'eri? Chi ha parlato?» «Nessuno» dissi io, sorpreso. «Ho visto tutto. È una cosa tanto segreta? In principio ho pensato che fosse un sogno, ero insonnolito dopo il pane e il vino...» «Per la Luce!» Era ancora il giovane ufficiale, ma adesso gli altri imprecavano con lui, la loro collera si manifestava intorno a me. «Uccidilo e falla finita...», «Sta mentendo...», «Mentendo per salvare la sua maledetta pelle...», «Di sicuro ha spiato...» L'uomo alto non aveva parlato. E non mi aveva tolto gli occhi di dosso. Chissà da dove, dentro di me zampillò l'ira e io dissi in tono appassionato,
rivolto a lui: «E non sono un mendicante, mio signore. Sono un uomo libero venuto a offrire i miei servizi ad Ambrogio, se mi vorrà. Per questo sono venuto qui dal mio paese, ed è stata... è stata una disgrazia se ho perso i miei vestiti. Io... forse sono giovane, ma so qualche cosa che può valere, e parlo cinque lingue...». La voce mi mancò. Qualcuno aveva emesso un suono soffocato come una risata. Strinsi i denti che mi battevano e aggiunsi, regale: «Ti chiedo solo di darmi rifugio adesso, mio signore, e di dirmi dove posso trovarlo, domani mattina». Questa volta il silenzio fu così denso che si sarebbe potuto tagliarlo con un coltello. Udii il giovane ufficiale prender fiato come per parlare, ma l'altro alzò una mano. Doveva essere, dal modo in cui seguivano le sue parole e i suoi gesti, il loro capo. «Aspetta. Non sta facendo l'insolente. Guardalo. Tieni più alta la torcia, Lucio. E adesso, come ti chiami?» «Myrddin, signore.» «Bene, Myrddin, ti ascolto, ma sii chiaro e fai presto. Voglio sentire questa storia del toro. Comincia dal principio. Hai visto mio fratello mettere il suo cavallo nella stalla laggiù, e per riscaldarti hai preso il mantello dal cavallo. Continua da qui.» «Sì, mio signore» dissi. «Ho preso anche il mangiare dalle bisacce della sella, e il vino...» «Parli del mio pane e del mio vino?» chiese il giovane ufficiale. «Sì, signore. Mi dispiace, ma erano quattro giorni che non mangiavo...» «Non importa» disse il comandante secco. «Continua.» «Mi sono nascosto nel mucchio di fascine all'angolo della stalla, e credo di essermi addormentato. Quando mi sono svegliato ho visto il toro, vicino alla pietra eretta. Stava pascolando, molto tranquillo. Poi sei venuto tu, con la corda. Il toro ha caricato e tu lo hai legato, poi gli sei saltato sul dorso, hai tirato la testa verso l'alto e lo hai ucciso con un coltello. C'era sangue dappertutto. Io stavo correndo per dare aiuto. Non so che cosa avrei potuto fare, ma sono corso lo stesso. Poi sono inciampato nel mantello e sono caduto. Questo è tutto.» Mi fermai. Un cavallo scalciava e un uomo si schiariva la gola. Nessuno disse nulla. Mi parve che Cadal, il servo che mi aveva tenuto stretto, si allontanasse ancora un po'. Il comandante disse, molto calmo: «Accanto alla pietra eretta?». «Sì, signore.» Egli voltò la testa. Il gruppo di uomini e cavalli era vicinissimo alla pietra. La potevo vedere dietro le spalle dei cavalieri ergersi, illuminata dalle
torce, contro il cielo notturno. «Scostatevi e lasciate che possa vedere» disse l'uomo alto e alcuni di loro si spostarono. La pietra era alta una decina di metri. L'erba coperta di brina vicino alla base appariva calpestata da stivali e da zoccoli di cavallo, ma niente altro. Nel punto in cui avevo visto il toro bianco cadere, con il sangue scuro che gli zampillava dalla gola, non c'era altro che brina calpestata, e l'ombra della pietra. L'uomo che portava la torcia l'aveva sollevata per proiettare la luce verso la pietra. La luce cadeva adesso in modo diretto su colui che mi interrogava e per la prima volta lo vidi distintamente. Non era giovane come avevo creduto; il suo volto era attraversato da rughe e le sopracciglia erano abbassate, aggrottate. Gli occhi erano scuri, non azzurri come quelli del fratello, e la sua struttura era più solida di quanto avessi pensato. Al bavero e ai polsi c'era un lampeggiare d'oro e un pesante mantello gli cadeva armoniosamente dalle spalle ai calcagni. Io dissi, balbettando: «Non eri tu. Mi dispiace... adesso capisco, devo averlo sognato. Nessuno andrebbe con una corda e un coltello a lama corta, tutto solo contro un toro... E nessun uomo potrebbe tirare verso l'alto la testa di un toro e tagliargli la gola... È stato uno dei miei... è stato un sogno. E non eri tu, adesso lo vedo. Io... pensavo che tu fossi l'uomo del copricapo. Scusa». Gli uomini adesso mormoravano, ma non erano più minacce. Il giovane ufficiale disse, con un tono che era del tutto diverso da quello usato prima: «Com'era, quell'uomo con il copricapo?». Il fratello disse in fretta: «Non importa. Non ora». Stese una mano, mi prese per il mento e mi sollevò il viso. «Hai detto che ti chiami Myrddin. Da dove vieni?» «Dal Galles, signore.» «Ah, allora sei il ragazzo che hanno portato da Maridunum?» «Sì. Tu sapevi di me? Ah!» Istupidito dal freddo e dalla confusione, scoprivo quello che avrei dovuto scoprire da un pezzo. Rabbrividii come un pony nervoso, per il freddo e per una curiosa sensazione, fatta in parte di eccitazione e in parte di paura. «Tu devi essere il conte. Devi essere Ambrogio in persona.» Egli non si disturbò a rispondere. «Quanti anni hai?» «Dodici, signore.» «E chi sei, Myrddin, per parlare di offrirmi i tuoi servigi? Che cosa puoi
offrirmi perché io non debba finirti immediatamente, e lasciare che questi signori rientrino senza più stare al freddo?» «Non importa chi io sia, signore. Mio nonno era il re del Galles meridionale, ma è morto. Adesso il re è mio zio Camlach, ma anche questo non mi è di alcun aiuto; mi vuole morto. Perciò non ti servirei neppure come ostaggio. Non chi io sia ha importanza, ma che cosa io sia. Ho qualcosa da offrirti, mio signore. Vedrai, se mi lascerai vivere fino a domattina.» «Ah, si, informazioni preziose e cinque lingue. E sogni, anche, a quanto pare.» Le parole erano ironiche, ma egli non sorrideva. «Nipote del vecchio re, hai detto? E Camlach non è tuo padre? Neppure Dyved? Non ho mai saputo che il vecchio avesse un nipote, a parte il piccolo di Camlach. Da quello che mi avevano detto le mie spie, pensavo che tu fossi il suo bastardo.» «A volte lui mi faceva passare per il suo bastardo... per risparmiare la vergogna a mia madre, diceva, ma lei non la considerò mai una vergogna, e lei doveva saperlo. Mia madre era Niniane, la figlia del vecchio re.» «Ah?» Una pausa. «Era?» Io dissi: «È ancora viva, ma ormai è nel convento di San Pietro. Si può dire che è con loro da anni, ma solo adesso che il re è morto le è stato permesso di lasciare il palazzo.» «E tuo padre?» «Lei non ha mai parlato di lui, né a me né a nessuno. Dicono che era il Principe delle tenebre.» Mi aspettavo qui la solita reazione, le dita incrociate o la rapida occhiata dietro la schiena. Egli non fece né l'una né l'altra cosa. Rise. «Allora non c'è da stupirsi se parli di aiutare re a riprendersi il loro regno e sogni dei sotto le stelle.» Si girò, facendo turbinare il lungo mantello. «Prendetelo, uno di voi. Uther, puoi pure ridargli il tuo mantello prima che ci muoia davanti agli occhi.» «Credi che lo toccherei dopo di lui, anche se fosse il Principe delle tenebre in persona?» chiese Uther. Ambrogio rise. «Se cavalchi quella tua povera bestia nel tuo solito modo, avrai caldo anche senza. E se il tuo mantello è macchiato con il sangue del toro, significa che non è per te, stanotte, non è vero?» «Stai bestemmiando?» «Io?» disse Ambrogio con una specie di fredda inespressività. Il fratello aprì la bocca, ci ripensò, alzò le spalle e balzò in sella al suo cavallo grigio. Qualcuno mi lanciò il mantello e, poiché cercavo con le
mani che mi tremavano di avvolgermelo di nuovo intorno, mi prese, mi ci infagottò alla meno peggio e mi gettò come un pacchetto a un cavaliere su un cavallo che girava su se stesso. Ambrogio saltò in sella a un gran cavallo nero. «Venite, signori.» Lo stallone nero balzò in avanti e il mantello di Ambrogio ondeggiò. Il cavallo grigio corse dietro di lui. Gli altri cavalieri, in fila ordinata, al piccolo galoppo, ripresero il sentiero che li riportava in città. Cinque Il quartier generale di Ambrogio era nella città. Appresi in seguito che in realtà la città si era formata intorno al campo dove, negli ultimi due anni, Ambrogio e suo fratello avevano cominciato a radunare e ad addestrare quell'esercito che per tanto tempo era stato una mitica minaccia per Vortigern e che adesso, con l'aiuto del re Budec e delle truppe raccolte da metà delle province della Gallia, stava diventando realtà. Budec era re della Britannia minore, e cugino di Ambrogio e Uther. Era stato lui ad accogliere i due fratelli vent'anni prima quando, Ambrogio allora decenne e Uther ancora al seno della balia, erano stati portati in salvo al di là del mare, dopo che Vortigern aveva assassinato il loro fratello maggiore, il re. Anche il castello di Budec era a un tiro di pietra dal campo militare costruito da Ambrogio e intorno a quei due capisaldi si era sviluppata la città, una raccolta eterogenea di case, botteghe e capanne, con le mura e il fossato tutt'intorno, come protezione. Budec ormai era vecchio e aveva nominato Ambrogio suo erede, e anche comes o conte dei suoi uomini. In passato si era supposto che i fratelli sarebbero stati paghi di rimanere in Britannia minore e di governarla dopo la morte di Budec; ma adesso che Vortigern stava allentando la presa sulla Britannia maggiore, uomini e denaro arrivavano in massa, e non era un segreto per nessuno che Ambrogio aveva gettato gli occhi sulla Britannia meridionale e occidentale per sé, mentre Uther, che già a vent'anni era un brillante soldato, avrebbe conservato, si sperava, la Britannia minore, e così almeno per un'altra generazione i due regni avrebbero costituito un bastione romanoceltico contro i barbari del nord. Scoprii presto che in un punto Ambrogio era romano puro. La prima cosa che mi accadde dopo esser stato scaricato, mantello e tutto, sulla soglia della porta dell'atrio esterno, fu di essere afferrato, spogliato e, ormai trop-
po esausto per poter protestare o anche solo far domande, depositato in un bagno. Il sistema di riscaldamento certo qui funzionava; l'acqua era fumante e scongelò il mio corpo intirizzito in tre dolorosi ed estatici minuti. L'uomo che mi aveva portato - Cadal, che risultò poi uno dei servi personali del conte - mi fece lui stesso il bagno. Per ordine di Ambrogio in persona, mi disse seccamente strofinandomi, ungendomi e asciugandomi; poi rimase a sorvegliarmi mentre indossavo una tunica pulita di lana bianca, solo di un paio di misure troppo grande per me. «Solo per essere sicuro che non te la svigni di nuovo. Vuole parlarti, non mi chiedere perché. Non puoi portare quei sandali in questa casa, Dio solo sa dove sei stato. O almeno, è evidente dove sei stato; vacche, no? Puoi andare scalzo, il pavimento è caldo. Be', almeno adesso sei pulito. Hai fame?» «Stai cercando di esser spiritoso?» «Vieni, allora. La cucina è da questa parte. A meno che, essendo nipote bastardo di re, o quello che gli hai raccontato, tu sia troppo orgoglioso per mangiare in cucina.» «Solo per questa volta,» dissi «mi ci rassegnerò.» Lui mi lanciò un'occhiata, torvo in viso, poi rise. «Hai fegato, questo lo ammetto. Li hai affrontati molto bene. Non riesco a capire come riuscivi a pensare in tempo a tutta quella roba. Li hai proprio storditi. Non avrei dato due soldi per te quando Uther ti ha messo le mani addosso. In ogni caso, sei riuscito a farti ascoltare.» «Era vero.» «Ah, certo, certo. Be', puoi ripeterglielo tra un minuto, e vedi di fare del tuo meglio perché non gli piacciono quelli che gli fanno perdere tempo, capito?» «Adesso?» «Sicuro. Scoprirai se vivrai fino a domani mattina; lui non spreca molto tempo per dormire. E neppure il principe Uther, se è per questo, ma lui non lo fa per lavorare. Cioè, non lavora sulle sue carte, sebbene pare che ci metta una bella fatica, in altre direzioni. Vieni.» Alcuni metri prima di arrivare alla porta della cucina mi venne incontro l'odore del cibo caldo, e il rumore di qualcosa che friggeva. La cucina era uno stanzone ampio, ai miei occhi altrettanto imponente della sala da pranzo a casa. Il pavimento era di lisci mattoni rossi, c'era un focolare rialzato a ogni estremità della stanza e lungo le pareti piani di lavoro con sotto orci pieni di olio e di vino e sopra scaffali carichi di piatti.
A uno dei focolari, un ragazzo con gli occhi assonnati faceva scaldare l'olio in una pignatta; aveva riacceso un fuoco di carbonella nei fornelli, su uno dei quali un caldaio di minestra cominciava a bollire, mentre alcune salsicce friggevano e scoppiettavano su una griglia e potevo sentir l'odore di pollo fritto. Notai che - malgrado l'implicita incredulità di Cadal per la mia storia - mi veniva dato un piatto di ceramica di Samo, così bella che doveva essere quella usata anche alla tavola del conte, e il vino era versato in un bicchiere di vetro da una brocca smaltata rossa con un sigillo inciso, che recava l'etichetta «Riserva». C'era anche un bel tovagliolo bianco. Il giovane cuoco, dovevano averlo fatto alzare dal letto per prepararmi la cena, neanche si curava di guardare per chi stesse lavorando; dopo aver servito la cena si mise a sfregare precipitosamente i fornelli in modo che fossero puliti per l'indomani, pulì le pentole in modo ancor più approssimativo, poi chiedendo il permesso a Cadal con un'occhiata, se ne ritornò sbadigliando a etto. Mi servì Cadal, e andò anche a prendere il pane fresco dal forno, dove la prima infornata era stata appena tirata fuori per la mattina. La minestra era una gustosa mistura di crostacei, cibo che in Britannia minore si mangia quasi ogni giorno. Era fumante e deliziosa, e io pensai di non aver mai mangiato niente di così buono, finché non assaggiai il pollo, croccante e fritto nell'olio, e le salsicce alla griglia, scure e gonfie di carne speziata e di cipolle. Pulii il piatto con il pane fresco e scossi la testa quando Cadal mi presentò un piatto di datteri secchi, formaggio e dolci al miele. «No, grazie.» «Basta così?» «Ah, sì.» Allontanai da me il mio piatto. «Non avevo mai mangiato così bene in vita mia. Grazie.» «Be',» disse lui «la fame è il miglior condimento, come si dice. Anche se devo riconoscere che qui si mangia bene.» Portò acqua pulita e un asciugamano e aspettò che io mi lavassi le mani e le asciugassi. «Be', adesso potrei anche credere al resto della tua storia.» Alzai gli occhi verso di lui. «Che cosa vuoi dire?» «Questi modi non li hai imparati in una cucina, questo è certo. Pronto? Vieni, allora; ha detto di interromperlo anche se sta lavorando.» Ambrogio, però, non stava lavorando quando arrivammo nella sua camera. Il suo tavolo, un enorme piano di marmo italiano, era sì cosparso di rotoli, mappe e materiale per scrivere, e il conte era seduto dietro di esso sulla sua grande sedia, ma era un po' di traverso, con il mento appoggiato
al pugno, e fissava il braciere che riempiva la camera di tepore e di tenue profumo di legno di melo. Non alzò gli occhi quando Cadal parlò alla sentinella e questa, con un rumore di armi, mi fece entrare. «Il ragazzo, signore.» Non era la voce che Cadal aveva usato con me. «Grazie. Tu puoi andare a letto, Cadal.» Se ne andò. Le tende di pelle ricaddero alle sue spalle. Allora Ambrogio girò la testa. Mi esaminò per alcuni minuti in silenzio dalla testa ai piedi. Poi con un cenno della testa indicò uno sgabello. «Siedi.» Ubbidii. «Vedo che hanno trovato qualcosa per vestirti. Ti hanno dato da mangiare?» «Sì, grazie, signore.» «E ti sei riscaldato abbastanza? Tira lo sgabello più vicino al fuoco, se vuoi.» Si rimise dritto sulla sedia e si appoggiò all'indietro, con le mani posate sulle teste di leone scolpite dei braccioli. C'era un lume sul tavolo in mezzo a noi, e alla sua luce chiara e regolare ogni somiglianza tra il conte Ambrogio e lo strano uomo del mio sogno era svanita completamente. È difficile adesso, guardando indietro dopo tanto tempo, ricordare la mia prima reale impressione di Ambrogio. In quel tempo non doveva avere molto più di trent'anni, ma io ne avevo solo dodici e a me, naturalmente, egli appariva già venerabile. Credo però che sembrasse più vecchio della sua età; questa era la naturale conseguenza della vita che aveva condotto e della grave responsabilità che aveva sopportato fin da quando era un po' più giovane di me. C'erano rughe intorno ai suoi occhi, e due solchi profondi tra le sopracciglia che parlavano di fermezza e forse di un carattere facile all'ira; la sua bocca era dura e diritta e in genere non sorrideva. Le sopracciglia erano scure come i capelli e potevano annegare nell'ombra gli occhi. La sottile linea bianca di una cicatrice gli attraversava la guancia sinistra dall'orecchio a metà dello zigomo. Il naso pareva romano, pronunciato e prominente, ma il colorito era abbronzato più che olivastro, e c'era qualcosa negli occhi che ricordava più il nero celta che il romano. Era un viso svuotato di ogni espressione, un viso, avrei poi scoperto, che poteva rannuvolarsi per una delusione e per l'ira, o anche per il controllo ferreo che egli esercitava su questi sentimenti, ma era un viso del quale ci si poteva fidare. Non era un uomo che si potesse amare facilmente, certo non un
uomo che riuscisse simpatico, ma un uomo da odiare o da venerare. O lo combattevi o lo seguivi. Ma dovevi fare o l'una o l'altra cosa; una volta che entravi nella sua sfera, non avevi più pace. Tutto questo avrei dovuto impararlo. Ricordo poco, adesso, di quello che pensai di lui, a parte quegli occhi profondi che mi fissavano dall'altra parte del lume, e quelle mani strette sulle teste di leone. Ma ricordo tutto quello che fu detto, parola per parola. Egli continuava a esaminarmi. «Myrddin, figlio di Niniane, figlia del re del Galles meridionale... e a conoscenza, mi dicono, dei segreti del palazzo di Maridunum?» «Io... ho detto questo? Gli ho detto che vivevo lì, e che ogni tanto sentivo delle cose.» «I miei uomini ti hanno portato al di qua dello Stretto perché tu hai detto che conoscevi dei segreti che mi sarebbero stati utili. Non era vero?» «Signore,» dissi io con un po' di disperazione «non so che cosa potrebbe esserti utile. A loro ho parlato il linguaggio che pensavo avrebbero capito. Credevo che stessero per uccidermi. Cercavo di salvarmi la vita.» «Capisco. Be', adesso sei qui, e sei al sicuro. Perché te ne sei andato da casa?» «Perché quando è morto mio nonno non sono stato più sicuro a palazzo. Mia madre stava per entrare in un convento e mio zio Camlach aveva già tentato di uccidermi, e i suoi servi hanno ucciso il mio amico.» «Il tuo amico?» «Il mio servo. Si chiamava Cerdic. Era uno schiavo.» «Ah, sì. Me l'hanno raccontato. Hanno detto che hai appiccato fuoco al palazzo. Forse non sei stato un tantino... drastico?» «Credo di sì. Ma qualcuno doveva pur rendergli onore. Era mio.» Le sue sopracciglia si sollevarono. «Questo lo adduci come una ragione o come un dovere?» «Signore?» Poi capii e dissi lentamente: «Tutti e due, immagino». Egli abbassò lo sguardo sulle sue mani. Le aveva tolte dai braccioli e adesso erano giunte sul tavolo davanti a lui. «Tua madre, la principessa,» lo disse come se il pensiero scaturisse direttamente da quello che avevamo detto fino allora, «le hanno fatto del male, anche a lei?» «Certo che no!» Egli alzò gli occhi, sorpreso dal mio tono. Spiegai in fretta: «Scusami, mio signore, volevo solo dire che se avessero voluto farle del male come avrei potuto andarmene? No, Camlach non le farebbe mai del male. Te l'ho
detto, erano anni che parlava di entrare nel convento di San Pietro. Non ricordo periodo in cui non ricevesse tutti i preti cristiani di passaggio a Maridunum, e perfino il vescovo, quando veniva da Caerleon, alloggiava a palazzo. Ma il nonno non l'avrebbe mai lasciata andare. Lui e il vescovo litigavano sempre a causa di lei... e di me... Il vescovo voleva che io fossi battezzato, capisci, e mio nonno non ne voleva sapere. Io... io credo che forse si servisse di questa storia come ricatto nei confronti di mia madre, perché lei gli dicesse chi era mio padre, o magari perché acconsentisse a sposare qualcuno scelto da lui, ma lei non acconsentì mai, né mai gli disse niente». M'interruppi, chiedendomi se non parlassi troppo, ma lui continuava a guardarmi e pareva attento. «Mio nonno giurava che non sarebbe mai entrata nella Chiesa,» aggiunsi «ma appena lui è morto lei lo ha chiesto a Camlach, e questi le ha dato il permesso. Avrebbe voluto rinchiudere anche me, perciò sono scappato.» Egli annuì. «Dove pensavi di andare?». «Non ne avevo idea. È vero quello che Marric mi ha detto quando eravamo nella barca, che avrei dovuto andare da qualcuno. Ho solo dodici anni, e dato che non posso essere padrone di me stesso, devo trovare un padrone. Io non volevo Vortigern, né Vortimer, e non sapevo dove altro andare.» «Così hai persuaso Marric e Hanno a non ucciderti e a portarti da me?» «Non proprio» dissi onestamente. «In principio io non sapevo dove stessero andando, e mi sono limitato a dire tutto quello che mi veniva in mente per salvarmi. Io mi ero messo nelle mani del dio, e lui mi aveva mandato sulla loro strada, e poi c'era la nave. Perciò li ho persuasi a portarmi.» «Da me?» Annuii. Il braciere guizzava e le ombre danzavano. Un'ombra si spostò sulla sua guancia, come se lui stesse sorridendo. «Allora perché non aspettare che lo facessero? Perché saltar giù dalla nave rischiando di morire assiderato in un campo gelido?» «Perché avevo paura che dopo tutto non intendessero portarmi da te. Ho pensato che forse si erano resi conto di quanto... di quanto poco avrei potuto esserti utile.» «Cosi sei sbarcato da solo nel cuore di una notte invernale, e in un paese straniero, e il dio ti ha gettato direttamente ai miei piedi. Te e il tuo dio, Myrddin, formate una coppia molto potente. Vedo già che non ho scelta.» «Signore?» «Forse hai ragione, e ci sono vie in cui puoi servirmi.» Abbassò di nuo-
vo lo sguardo sul tavolo, raccolse una penna e se la girò nella mano, come se l'esaminasse. «Ma dimmi prima di tutto, perché ti chiami Myrddin? Hai detto che tua madre non ti disse mai chi era tuo padre. Neppure te lo lasciò indovinare? Potrebbe averti chiamato con il suo nome?» «Non chiamandomi Myrddin, signore. Questo è uno dei vecchi dei... c'è un santuario proprio accanto al cancello di San Pietro. Era il dio della collina vicina, e alcuni dicono di altre zone oltre il Galles meridionale. Ma ho un altro nome.» Esitai. «Questo non l'avevo mai detto a nessuno, ma sono sicuro che era il nome di mio padre.» «Cioè?» «Emrys. Una volta l'ho sentita che gli parlava, di notte, molti anni fa quando io ero molto piccolo. Non l'ho mai dimenticato. C'era qualcosa nella voce di mia madre. Uno lo capisce.» La penna si fermò. Egli mi guardò da sotto le sopracciglia. «Che gli parlava? Allora era qualcuno a palazzo?» «Oh, no, non in questo senso. Non nella realtà.» «Vuoi dire che era un sogno? Una visione? Come stasera quella del toro?» «No, signore. E neppure quello l'avrei chiamato un sogno... anche quello era realtà, in un modo diverso. A volte ho di queste cose. Ma quella volta che sentii mia madre... C'era nel palazzo un vecchio ipocausto che non era usato da anni; in seguito lo hanno riempito, ma quand'ero giovane... quand'ero piccolo... strisciavo lì dentro per stare lontano dagli altri. Ci tenevo delle cose... quel genere di cose che uno si tiene quand'è piccolo, e se loro le trovano le gettano via.» «Lo so. Continua.» «Lo sai? Io... io strisciavo attraverso tutto l'ipocausto, e una notte ero sotto la camera di lei, e la udii parlare tra sé, ad alta voce, come si fa a volte quando si prega. La udii dire "Emrys", ma non ricordo altro.» Lo guardai. «Sai come si riesce ad afferrare il proprio nome anche se il resto sfugge? Pensai che stesse pregando per me, ma quando fui più grande e me ne ricordai mi venne in mente che Emrys doveva essere mio padre. C'era qualcosa nella sua voce... e in ogni caso lei non mi chiamava mai così; mi chiamava Merlino.» «Perché?» «Per un falcone. È un nome del corwalch.» «Allora richiamerò anch'io Merlino. Hai coraggio e sembra che tu abbia occhi che vedono lontano. Potrei aver bisogno dei tuoi occhi, un giorno o
l'altro. Ma adesso comincerai con cose più semplici. Mi parlerai della tua casa. Be', che c'è?» «Se devo servirti... Naturalmente ti dirò tutto quello che posso... Ma...» Esitai ed egli continuò per me: «Ma devi avere la mia promessa che quando invaderò la Britannia nessun male verrà fatto a tua madre? Hai la mia promessa. Tua madre sarà salva, e lo sarà chiunque altro, uomo o donna, tu mi chiederai di risparmiare perché è stato gentile con te». Dovetti spalancare gli occhi. «Sei... molto generoso.» «Se prendo la Britannia posso permettermi di esserlo. Forse avrei dovuto fare qualche riserva.» Sorrise. «Potrebbe essere difficile se tu mi chiedessi la grazia per tuo zio Camlach.» «Non succederà» dissi. «Quando tu prenderai la Britannia sarà morto.» Ci fu un silenzio. Egli aprì le labbra come per dire qualche cosa, ma credo che cambiò idea. «Ho detto che un giorno avrei potuto servirmi dei tuoi occhi. Adesso, hai la mia promessa, perciò parliamo. Non importa se ci sono cose che non ti sembrano abbastanza importanti per esser dette. Lascia che sia io a giudicare.» Così gli parlai. Non mi colpì come una stranezza che egli mi parlasse da pari a pari, né che passasse metà della notte con me facendo domande alle quali in parte potevano aver risposto le sue spie. Credo che due volte, mentre parlavamo, uno schiavo entrò silenziosamente e riempì il braciere, e una volta sentii il fracasso e gli ordini impartiti per il cambio della guardia alla porta. Ambrogio interrogava, suggeriva, ascoltava, a volte scrivendo qualcosa su una tavoletta posta davanti a lui, a volte fissando, con il mento appoggiato alla mano chiusa, il piano del tavolo, ma più spesso guardando me, con quello sguardo fisso, in ombra. Quando esitavo, o mi dilungavo in qualche particolare irrilevante, oppure balbettavo semplicemente per la stanchezza, tornava a spronarmi con le sue domande verso qualche meta che io non vedevo, come un mulattiere che pungola il suo mulo. «Questa fortezza sul fiume Seint, dove tuo nonno si è incontrato con Vortigern. Quanto dista da Caerleon verso nord? Su quale strada? Parlami della strada... Come si arriva alla fortezza dal mare?» E poi: «La torre dov'era alloggiato il Sommo re, la torre di Massimo... voi la chiamate di Macsen... Parlamene. Quanti uomini vi si trovavano. Che strada c'è per arrivare al porto...». Oppure: «Hai detto che il seguito del re fece sosta in un valico a sud della Collina di neve, e che i re si allontanarono insieme. Il tuo uomo, Cerdic,
disse che stavano esaminando un vecchio forte sulla rupe. Descrivi il luogo... Altezza della rupe? Fino a che distanza si potrebbe vedere dalla cima, a nord... a sud... a est?». Oppure: «Adesso pensa ai nobili di tuo nonno. Quanti saranno fedeli a Camlach? I loro nomi? Quanti uomini hanno? E chi dei suoi alleati? Il loro numero... la loro forza in battaglia». E poi a un tratto: «Adesso dimmi questo. Come sapevi che Camlach stava andando da Vortimer». «Lo disse lui a mia madre,» risposi «accanto alla bara di mio nonno. Lo sentii. C'erano state delle voci che ciò sarebbe accaduto, e io sapevo che aveva bisticciato con mio nonno, ma nessuno sapeva niente di sicuro. Anche mia madre sospettava soltanto quello che egli intendeva fare. Ma appena è morto il re, lui gliel'ha detto.» «Lo ha annunciato pubblicamente? Allora come mai Marric e Hanno non hanno sentito niente, a parte le voci sul litigio?» La stanchezza e il lungo, ininterrotto interrogatorio mi avevano reso imprudente. Dissi, prima di riflettere: «Egli non lo annunciò. Lo disse solo a lei. Era solo con lei». «A parte te?» La sua voce era cambiata, sicché feci un salto sul mio sgabello. «Credevo mi avessi detto che l'ipocausto era stato riempito!» Io mi limitavo a rimanere seduto e a guardarlo. Non mi veniva in mente niente da dire. «Sembra strano, non è vero?,» disse con voce piatta «che egli dicesse questo a tua madre di fronte a te, mentre doveva sapere che gli eri nemico? Quando i suoi uomini avevano appena ucciso il tuo servo? E poi, dopo che lui ti aveva detto i suoi piani segreti, come hai fatto a uscire dal palazzo e finire nelle mani dei miei uomini, "inducendoli" a portarti con loro, 'da me?» «Io...» balbettavo. «Mio signore, non puoi credere che io... mio signore, te l'ho detto che non sono una spia. Io... tutto quello che ti ho detto è vero. Lui lo disse, lo giuro.» «Stai attento. È importante che sia vero o no. Te lo disse tua madre?» «No.» «Chiacchiere di schiavi, allora? Tutto qui?» Io dissi, disperatamente: «Lo sentii io stesso». «Allora dov'eri?» Incontrai il suo sguardo. Senza capire assolutamente il perché, gli dissi la semplice verità: «Mio signore, ero addormentato nelle colline, a sei mi-
glia di distanza». Ci fu un silenzio, il più lungo fin lì. Potevo sentire la brace sistemarsi nel braciere e di fuori, a qualche distanza, un cane abbaiare. Rimasi fermo aspettando la sua collera. «Merlino?» Alzai gli occhi. «Da chi ti viene la Vista? Da tua madre?» Contrariamente a qualsiasi aspettativa, mi credeva. Dissi, appassionatamente: «Sì, ma è una cosa diversa. Lei vedeva solo cose di donne, che hanno a che fare con l'amore. Poi cominciò ad aver paura di questo potere, e lo abbandonò». «Tu ne hai paura?» «Io sarò un uomo.» «Un uomo che prende il potere dove gli è offerto. Sì. Hai capito quello che hai visto stasera?» «Il toro? No, mio signore, solo che era qualcosa di segreto.» «Bene, un giorno lo saprai, ma non ora. Ascolta.» Fuori, chissà dove, un gallo cantò, un suono acuto e argentino come quello di una tromba. Egli disse: «Questo, comunque, mette fine ai tuoi fantasmi. Dovresti stare a dormire da un pezzo. Sembri mezzo morto di sonno». Si alzò. Io scivolai piano dal mio sgabello e lui rimase per un momento con lo sguardo abbassato su di me. «Avevo dieci anni quando attraversai lo Stretto verso la Britannia minore e stetti male tutto il tempo.» «Anche io» dissi. Rise. «Allora sarai esausto come lo ero io. Quando avrai dormito, decideremo il da farsi con te.» Toccò un campanello e uno schiavo aprì la porta e vi rimase accanto, in attesa. «Stanotte dormi nella mia camera. Da questa parte.» Anche la camera da letto era romana. Avrei poi scoperto che paragonata con quella, per esempio, di Uther, era piuttosto austera, ma agli occhi di un ragazzo abituato ai modelli provinciali e spesso rimediati di un piccolo regno periferico, pareva lussuosa, con il grande letto ricoperto di lana scarlatta e di pelliccia, le pelli di pecora sul pavimento, il tripode di bronzo alto come un uomo dove tre lampade, a forma di piccoli draghi, lanciavano lingue di fiamma. Spesse tende scure tenevano fuori la notte gelida, e tutto era molto tranquillo. Mentre seguivo Ambrogio e lo schiavo nella stanza, superando le sentinelle - ce n'erano due sulla porta, rigide e immobili a parte gli occhi che
scivolarono, cautamente svuotati di qualsiasi pensiero, da Ambrogio a me mi venne per la prima volta da domandarmi se egli non potesse essere romano, chissà, sotto altri aspetti. Ma egli si limitò a indicare un arco dove un'altra tenda scura nascondeva a metà una rientranza contenente un letto. Immagino che qualche volta vi dormisse uno schiavo, a portata di voce. Il servo tirò da una parte la tenda e mi mostrò le coperte ripiegate sul materasso, e i bei cuscini riempiti di lana di pecora, poi mi lasciò per servire Ambrogio. Mi tolsi la tunica che mi era stata prestata e la piegai con cura. Le coperte erano folte, di lana nuova, e profumavano di legno di cedro. Ambrogio e lo schiavo stavano parlando, ma in tono sommesso, e le loro voci mi giungevano come echi dall'estremità di una grotta profonda e tranquilla. Era una felicità solo trovarmi di nuovo in un vero letto, stare lì, caldo e sazio, in un luogo cui non arrivava neppure il rumore del mare. E al sicuro. Credo che egli disse: «Buona notte», ma io ero già sprofondato nel sonno e non potevo trascinarmi di nuovo alla superficie per rispondere. L'ultima cosa che ricordo fu lo schiavo che si muoveva silenziosamente per portare fuori le lampade. Sei Quando mi svegliai, la mattina dopo, era tardi. Le tende erano state tirate e lasciavano entrare una luce grigia e invernale, e il letto di Ambrogio era vuoto. Dalla finestra potei vedere un piccolo cortile con un colonnato che incorniciava un quadrato di giardino, al centro del quale una fontana lanciava i suoi giochi d'acqua... in silenzio, pensai, finché non vidi che la cascata era solido ghiaccio. I mattoni del pavimento erano caldi sotto i miei piedi scalzi. Tesi la mano per prendere la tunica bianca che avevo lasciato ripiegata su uno sgabello accanto al letto, ma vidi che qualcuno ne aveva messo al suo posto un'altra nuova, color verde scuro, il colore dei tassi, che mi andava bene. C'era una bella cintura di pelle per accompagnarla, e un paio di sandali nuovi in sostituzione dei miei vecchi. C'era anche un mantello, questo di un chiaro verde faggio, e un fermaglio di rame per chiuderlo. Sul fermaglio c'era un disegno sbalzato: un drago di smalto scarlatto, lo stesso stemma che avevo visto la sera prima sull'anello a sigillo che egli portava. Fu la prima volta, per quanto ricordi, che sentii di aver l'aspetto di un
principe, e trovai strano che ciò avvenisse proprio nel momento in cui si sarebbe detto che avevo toccato il fondo. Qui in Britannia minore non avevo niente, neppure un nome da bastardo per proteggermi, né parenti, e neppure uno straccio che fosse mio. Non avevo quasi parlato con nessuno salvo che con Ambrogio e per lui ero un servo, un dipendente, qualcosa di cui servirsi, e vivo soltanto perché lui lo tollerava. Cadal mi portò la colazione: pane scuro, miele e fichi secchi. Chiesi dove fosse Ambrogio. «Fuori con gli uomini, a fare esercitazioni. O meglio, a guardare le esercitazioni. Ci va ogni giorno.» «Che cosa credi che voglia farmi fare?» «Tutto quello che ha detto è stato che potevi stare qui in giro per riposarti e ambientarti. Ho mandato qualcuno sulla nave, perciò se mi dici che cos'erano i bagagli che hai perso li farò portare.» «Non c'era un granché, non ho avuto tempo. Un paio di tuniche e sandali avvolti in un mantello azzurro, poi qualche piccola cosa... un fermaglio, una fibbia che mi ha dato mia madre, cose simili.» Palpai il tessuto costoso della tunica che indossavo. «Niente di bello come questa. Cadal, spero che potrò servirlo. Ha detto che cosa voleva da me?» «Neanche una parola. Non penserai che mi dica i suoi segreti pensieri, no? Adesso fa' come dice lui, vedi di ambientarti, tieni la bocca chiusa e cerca di non metterti nei guai. Non credo che lo vedrai molto.» «Non pensavo che lo avrei visto» dissi. «Dove vivrò?» «Qui.» «In questa camera?» «Non credo sia probabile. Volevo dire, nella casa.» Spinsi da parte il mio piatto. «Cadal, il mio signore Uther ha una casa sua personale?» Cadal ammiccò. Era un uomo piccolo e tarchiato, con un viso quadrato e rossiccio, ispidi capelli neri e piccoli occhi neri non più grandi di due olive. Il loro scintillio adesso mi dimostrava che sapeva esattamente quello che stavo pensando, e anche che tutti in casa dovevano sapere esattamente che cosa era successo tra me e il principe la notte prima. «No, non ce l'ha. Vive qui, anche lui. A contatto di gomiti, si può dire.» «Ah.» «Non ti preoccupare, anche lui non lo vedrai molto. Tra un paio di settimane parte per il nord. Dovrebbe sbollire in fretta, con questo tempo... In ogni caso, forse ha già dimenticato tutta la tua storia.» Sorrise e uscì.
Aveva ragione; durante le due settimane che seguirono vidi molto poco Uther, poi egli partì con le truppe per il nord, per una spedizione ideata un po' come esercitazione per la sua compagnia e un po' come incursione allo scopo di procurare rifornimenti. Cadal aveva indovinato pensando che questo mi avrebbe portato un bel sollievo: non mi dispiaceva trovarmi fuori della portata di Uther. Avevo l'idea che non avesse accolto bene la mia presenza in casa del fratello, e in verità quella perdurante gentilezza di Ambrogio gli aveva dato un gran fastidio. Mi ero aspettato di vedere molto poco il conte dopo quella prima notte in cui gli avevo detto tutto quello che sapevo, ma in seguito egli mi mandava a cercare la maggior parte delle sere in cui era libero, a volte per farmi domande e ascoltare quello che potevo raccontargli di casa mia, a volte, quand'era stanco, perché gli suonassi qualche cosa oppure, parecchie volte, per fare una partita a scacchi. Qui, con mia sorpresa, eravamo più o meno pari, e non credo che egli si lasciasse vincere da me apposta. Era fuori esercizio, mi disse; normalmente si giocava a dadi e lui non ci si sarebbe arrischiato con un avversario che era un giovane indovino. Gli scacchi, essendo una faccenda di matematica piuttosto che di magia, erano meno sensibili alle arti magiche. Mantenne la sua promessa e mi spiegò che cosa avevo visto quella prima sera accanto alla pietra eretta. Col passar del tempo, il ricordo si era fatto indistinto e più tenue, finché avevo cominciato a credere che potesse esser stato un sogno favorito dal freddo, dalla fame e da qualche vaga riminiscenza della sbiadita pittura che ornava la cassapanca romana nella mia camera di Maridunum, il toro inginocchiato e l'uomo con un coltello sotto un arco costellato di stelle. Ma quando Ambrogio me ne parlò, seppi di aver visto più di quanto era nella pittura. Avevo visto il dio dei soldati, la Parola, la Luce, il Buon Pastore, mediatore tra il Dio unico e l'uomo. Avevo visto Mitra, uscito dall'Asia mille anni prima. Egli uccise il toro per portare alla terra vita e fertilità con il suo sangue sparso, poi, dopo il suo ultimo pasto di pane e vino, fu chiamato in cielo. Era il dio della forza, della dolcezza, del coraggio, del controllo di sé. «Il dio dei soldati» ripeté Ambrogio «e per questo abbiamo ristabilito il suo culto qui... per avere, come facevano gli eserciti romani, qualche base d'incontro comune per i capi e i piccoli re di lingue e convinzioni diverse che combattono con noi. Del suo culto non posso parlarti, perché è proibito, ma avrai indovinato che quella prima notte io e i miei ufficiali ci eravamo riuniti per una cerimonia di culto, e che il fatto che tu parlassi di pane e vino e dell'uccisione
di un toro faceva l'effetto che tu avessi visto della nostra cerimonia più di quanto a noi è addirittura permesso parlare. Un giorno saprai tutto, forse. Fino a quel momento, stai attento, e se qualcuno ti chiede della tua visione ricordati che è stato solo un sogno. Capisci?» Annuii, ma la mia mente era piena, a un tratto, di una sola delle cose dette da lui. Pensai a mia madre e ai preti cristiani, a Galapas e alla sorgente di Myrddin, a cose viste nell'acqua e udite nel vento. «Tu vuoi che io sia un iniziato di Mitra?» «Un uomo prende il potere dove gli è offerto» egli ripeté. «Tu mi hai detto che non sai quale dio tiene la mano sopra di te; forse è stato Mitra il dio sulla cui strada ti sei messo, e che ti ha portato da me. Vedremo. Intanto, è sempre il dio degli eserciti e avremo bisogno del suo aiuto... Adesso porta l'arpa, se vuoi, e canta per me.» Così si comportava con me, trattandomi da principe più di quanto fossi mai stato trattato nella casa di mio nonno, dove almeno un certo diritto a questo lo avrei avuto. Cadal mi fu assegnato come mio servo personale. Pensai in un primo momento che potesse risentirsene, essendo questo un misero surrogato dell'incarico di servire Ambrogio, ma non pareva che gliene importasse, anzi ebbi l'impressione che fosse contento. I nostri reciproci rapporti divennero ben presto familiari e dato che non c'erano lì altri ragazzi della mia età, fu lui mio assiduo compagno. Mi venne anche dato un cavallo. In un primo momento me ne diedero uno di quelli di Ambrogio, ma dopo averlo sperimentato un giorno chiesi timidamente se potevo avere una bestia più della mia misura e ricevetti un piccolo cavallo grigio flemmatico che, e fu il mio unico momento di nostalgia, chiamai Aster. Così trascorsero i primi giorni. Uscivo a cavallo con Cadal a fianco per vedere la regione; questa era ancora nella morsa del gelo, e presto il gelo diventò pioggia cosicché i campi si trasformarono in fango smosso, le strade erano scivolose e sporche, e un vento freddo prese a soffiare giorno e notte sulle pianure, flagellando il Piccolo Mare che diventò bianco o grigio-ferro, e scurendo per l'umidità la faccia nord delle pietre erette. Un giorno cercai quella con l'ascia incisa, e non la trovai. Ma ce n'era un'altra dove, con una certa luce, si poteva vedere un pugnale scolpito, e una pietra grossa, un po' in disparte, dove sotto il lichene e gli escrementi degli uccelli ti fissava la forma di un occhio aperto. Con la luce le pietre non ti mandavano più quell'alito freddo sulla nuca, ma c'era ancora qualcosa che vigilava, e non era una strada dove al mio pony facesse piacere andare.
Naturalmente esplorai la città. Il castello del re Budec si ergeva in mezzo alla città, su un affioramento roccioso che era stato circondato da alte mura. Una rampa di pietra conduceva alla porta, che era chiusa e sorvegliata da sentinelle. Vidi spesso Ambrogio, o i suoi ufficiali, salire a cavallo quella rampa, ma personalmente non oltrepassai mai il posto di guardia che era in fondo a essa. Vidi però parecchie volte il re Budec uscire a cavallo con i suoi uomini. I suoi capelli e la sua lunga barba erano quasi bianchi, ma cavalcava il suo grande baio castrato come se avesse trent'anni di meno e udii innumerevoli storie del suo valore in battaglia e come avesse giurato di vendicarsi su Vortigern dell'uccisione di suo cugino Costanzo, anche se gli ci sarebbe voluto per questo tutta la vita. Così, infatti, minacciava di succedere, perché pareva un'impresa quasi impossibile per un paese così povero raccogliere quel tipo di esercito che avrebbe potuto sconfiggere Vortigern e i sassoni, e dopo di ciò governare la Britannia maggiore. Ma ormai presto, dicevano gli uomini, presto... Ogni giorno, con qualsiasi tempo, gli uomini compivano le esercitazioni sui campi piatti fuori delle mura della città. Ambrogio aveva a quel tempo, appresi, un esercito permanente di circa quattromila uomini. Per quanto riguardava Budec, si guadagnava da vivere abbondantemente, perché per poco più di trenta miglia aveva confini in comune con un giovane re che era sempre pronto al saccheggio e che era trattenuto solo dalle voci della crescente forza di Ambrogio e dalla formidabile reputazione dei suoi uomini. Budec e Ambrogio alimentavano l'idea che l'esercito fosse addestrato soprattutto a scopo difensivo e badavano a che Vortigern non sapesse niente di sicuro: notizie di preparativi di un'invasione gli arrivavano come prima solo sotto forma di voci, e le spie di Ambrogio si assicuravano che facessero l'effetto di voci. Quello che effettivamente Vortigern credeva era quanto Budec si sforzava di fargli credere, che Ambrogio e Uther avevano accettato il loro destino di esuli, che si erano stabiliti in Britannia minore come eredi di Budec e che s'interessavano di difendere quei confini che un giorno sarebbero stati loro. Tale impressione era incoraggiata dal fatto che l'esercito veniva usato per il foraggiamento della città. Niente era troppo umile o troppo pesante per gli uomini di Ambrogio. Lavori che sarebbero stati considerati con disprezzo perfino dai soldati addestrati al duro tirocinio dell'esercito di mio nonno, quei soldati allenati li facevano con naturalezza. Portavano in città la legna e l'accatastavano nei cortili. Scavavano e immagazzinavano la torba e facevano il carbone di legna. Costruivano fucine e le facevano fun-
zionare, fabbricando non solo armi per la guerra ma arnesi per arare, per mietere e per costruire: vanghe, vomeri, asce, falci. Sapevano domare cavalli, pascolare il bestiame, guidarlo e anche macellarlo; fabbricavano carri; sapevano montare il campo e organizzarvi i turni di guardia in neanche due ore, poi smontarlo con un'ora di meno. C'era un corpo di ingegneri che aveva mezzo miglio quadrato di officine e poteva fornire qualsiasi cosa, da un lucchetto a una nave per trasportare truppe. Si stavano preparando, insomma, al compito di sbarcare alla cieca in un paese straniero e forse vivere dei suoi prodotti, e di spostarsi in fretta in quel paese con qualsiasi tempo. «Perché» disse una volta Ambrogio ai suoi soldati in mia presenza «solo per i soldati del bel tempo la guerra è un gioco da bel tempo. Io combatterò per vincere, e quando avrò vinto per governare. E la Britannia è un grande paese; paragonato a lei, quest'angolo di Gallia non è più di un prato. Perciò, signori, noi combattiamo di primavera e d'estate ma non ci ritiriamo alla prima brina di ottobre a riposare e ad affilare le spade per la primavera. Combattiamo sulla... nella neve se necessario, nella tempesta e nel gelo e nel fango bagnato dell'inverno. E in tutte queste stagioni e per tutto questo tempo, dobbiamo mangiare, e quindicimila uomini devono mangiare... bene.» Poco dopo questo episodio, circa un mese dopo il mio arrivo in Britannia minore, i miei giorni di libertà finirono. Ambrogio mi trovò un precettore. Belasio era molto diverso da Galapas e dal dolce ubriacone che era stato Demetrio, mio precettore ufficiale quand'ero a casa. Nel fiore degli anni, era uno degli «uomini d'affari» del conte e pareva che quello che lo riguardava fosse il lato preventivi e contabilità degli affari di Ambrogio; aveva una preparazione di matematico e astronomo. Era metà galloromano e metà siculo: piuttosto alto, con un viso olivastro e occhi neri allungati, un'espressione malinconica e la bocca crudele. Aveva la lingua mordente e scatti di collera improvvisa e feroce, ma non era mai mutevole d'umore. Imparai presto che il metodo per evitare i suoi sarcasmi e la sua mano pesante consisteva nel fare il mio lavoro presto e bene, e dato che in questo riuscivo facilmente e mi piaceva, fummo presto in grado di capirci e di andare abbastanza d'accordo. Un pomeriggio verso la fine di marzo eravamo al lavoro nella mia camera, in casa di Ambrogio. Belasio aveva in città un appartamento del quale era molto attento a non parlare mai, perciò avevo dedotto che vivesse con qualche prostituta e si vergognasse che io potessi vederla; lavorava soprat-
tutto al quartier generale, ma gli uffici vicino alla tesoreria erano sempre pieni di impiegati e di ufficiali pagatori, perciò le nostre lezioni quotidiane si svolgevano nella mia stanza. Questa non era grande ma a me pareva molto ben arredata, con pavimento di mattoni rossi di fabbricazione locale, mobili intagliati, di legno di alberi da frutta, uno specchio di bronzo, e un braciere e una lampada che venivano da Roma. Quel giorno, la lampada era stata accesa anche durante il pomeriggio, perché la giornata era scura e coperta. Belasio era contento di me; stavamo facendo matematica ed era uno di quei giorni in cui non dimenticavo niente, ma attraversavo i problemi che egli mi proponeva come se il campo della conoscenza fosse un prato aperto solcato da un sentiero che permetteva di vedere tutto. Egli passò il palmo della mano sulla cera per cancellare i miei segni, spinse da parte le tavolette e si alzò. «Oggi hai lavorato bene, e va proprio bene perché io devo andarmene presto.» Tese la mano e suonò la campana. La porta si aprì con tale prontezza che capii che il suo servo doveva esser rimasto lì fuori in attesa. Il ragazzo entrò con il mantello del padrone sul braccio e lo spiegò tenendolo in modo che egli lo indossasse. Non gettò neppure uno sguardo dalla parte mia per chiedermi il permesso, ma guardò Belasio e vidi che aveva paura di lui. Aveva all'incirca la mia età, forse meno, con capelli scuri tagliati cortissimi, un berretto arricciato e occhi grigi troppo grandi per il suo viso. Belasio non parlò né lo guardò, ma voltò le spalle al mantello e il ragazzo cercò di farsi più alto per allacciargli il fermaglio. Dietro di lui Belasio mi disse: «Dirò al conte i tuoi progressi. Sarà soddisfatto». L'espressione del suo viso era la più vicina a un sorriso che egli si fosse mai permessa. Reso audace da questo, mi voltai sul mio sgabello: «Belasio...». Egli si fermò mentre si stava dirigendo alla porta. «Ebbene?» «Tu certamente devi sapere... Per piacere, dimmi: quali sono i suoi progetti per me?» «Che tu studi la tua matematica e la tua astronomia, e che non dimentichi le lingue.» Il suo tono era uniforme e meccanico, ma i suoi occhi erano divertiti, perciò insistetti: «Per diventare che cosa?». «Tu che cosa desideri diventare?» Non risposi. Egli annuì, esattamente come se avessi parlato. «Se voleva
che tu portassi una spada per lui, adesso saresti fuori nella piazza.» «Ma... vivere qui, con te che mi insegni, e Cadal come servo... Non lo capisco. Dovrei servirlo in qualche modo, non solo studiare... e vivere qui in questo modo, come un principe. So benissimo che sono vivo solo grazie a lui.» Egli mi guardò un momento da sotto quelle palpebre allungate. Poi sorrise. «C'è una cosa che devi ricordare. Credo tu gli abbia detto una volta che quello che eri, non chi eri, importava. Credimi, lui ti userà, come usa tutti. Perciò smettila di preoccuparti e non parlarne più. Adesso devo andare.» Il ragazzo aprì la porta per farlo passare, rivelando Cadal fermo fuori, con una mano alzata per bussare. «Oh, scusami, signore. Venivo a vedere quando avrai finito per oggi. I cavalli sono pronti, padrone Merlino.» «Abbiamo già finito» disse Belasio. Si fermò sulla soglia e si voltò a guardarmi. «Dove avevi in programma di andare?» «A nord, penso, sulla strada che attraversa la foresta. Il selciato è ancora buono e la strada sarà asciutta.» Egli esitò, poi disse, più a Cadal che a me: «Allora restate sulla strada e fate in modo di tornare prima che sia buio». Fece un cenno e uscì, con il ragazzo che lo seguiva. «Prima che sia buio?» disse Cadal. «È tutta la giornata che è buio, e per di più adesso piove. Sta' a sentire, Merlino,» quand'eravamo soli eravamo meno formali «perché non ci limitiamo a dare uno sguardo alle officine degli ingegneri? Ti ci diverti sempre, e Tremorino ormai dovrebbe aver messo in funzione quell'ariete. Che cosa ne diresti di restare in città?» Scossi la testa. «Mi spiace, Cadal, ma devo andare, pioggia o non pioggia. Ho una certa irrequietezza, o qualcosa del genere, e devo uscire.» «Be', allora un paio di miglia fino al porto dovrebbe andarti bene. Avanti, ecco il tuo mantello. Nella foresta sarà nero come la pece: cerca di essere ragionevole.» «La foresta» dissi ostinato, voltando la testa mentre egli assicurava il fermaglio. «E non discutere con me, Cadal. Se vuoi saperlo, Belasio la pensa giusta. Il suo servo non osa neanche parlare, altro che discutere. Dovrei trattarti nello stesso modo... anzi comincio subito... Che cos'hai da ridere?» «Niente. Va benissimo, so quando mi devo arrendere. Foresta sia, e se ci perdiamo e non torniamo vivi, almeno morrò con te e non mi toccherà af-
frontare il conte.» «Proprio non posso credere che gliene importerebbe molto.» «Ah, non gliene importerebbe» disse Cadal reggendo la porta per farmi passare. «Era un modo di dire. Dubito che mi abbia mai anche solo notato, a me.» Sette Fuori non era così scuro com'era sembrato, e faceva caldo, una di quelle giornate pesanti, noiose, piene di foschia, e con una pioggerellina che si posava come brina sulla lana pesante dei nostri mantelli. Circa a un miglio a nord della città i prati piatti, impregnati di acqua salina, cominciavano a cedere il terreno alla zona boscosa, dapprima rada, con gli alberi che s'innalzavano qua e là solitari, e veli di foschia bianca adagiati sui rami più bassi o sul terreno, come pozzanghere, di quando in quando lacerati e turbinanti per la fuga improvvisa di un daino. La strada che andava a nord era una vecchia strada, selciata, e quelli che l'avevano costruita avevano abbattuto alberi e macchia per un centinaio di passi ai lati della strada, ma con il tempo e l'abbandono quel terreno si era coperto di erica, ginestre e alberi giovani, cosicché adesso la foresta pareva stringertisi intorno mentre l'attraversavi a cavallo, e la via era buia. Presso la città avevamo visto un paio di contadini che si portavano a casa sui muli legna da ardere, e una volta uno dei messaggeri di Ambrogio ci superò, guardandoci e facendo un gesto che parve un mezzo saluto verso di me. Ma nella foresta non incontrammo nessuno. Era l'ora silenziosa tra l'esile canto di un uccello, in un giorno di marzo, e la caccia delle civette. Quando arrivammo all'altezza degli alberi più grandi aveva smesso di piovere, e la foschia si stava diradando. Arrivammo dopo poco a un incrocio dove un sentiero - questa volta non selciato - attraversava perpendicolarmente la nostra strada. La pista era usata per il trasporto del legname e anche dai carri dei carbonai, e benché fosse appena accennata e avesse profondi solchi, era sgombra e diritta, e tenendo il cavallo sul bordo si poteva metterlo al galoppo. «Voltiamo di qui, Cadal.» a Lo sai che Belasio ha detto di restare sulla strada.» «Sì, lo so, ma non capisco perché. La foresta è perfettamente sicura.» Era vero. Quella era un'altra delle conquiste di Ambrogio; la gente non aveva più paura di uscire a cavallo in Britannia minore, a una distanza ra-
gionevole dalla città. La zona era di continuo pattugliata dalle sue compagnie, sempre pronte e desiderose di fare qualcosa. In realtà il pericolo maggiore era (come una volta lo sentii ammettere) che, per l'eccessivo addestramento, le sue truppe perdessero entusiasmo e andassero in cerca di guai. Intanto fuorilegge e scontenti stavano alla larga, e la gente comune poteva accudire in pace ai suoi affari. Perfino le donne potevano viaggiare senza grande scorta. «Inoltre,» aggiunsi «che importa quello che ha detto? Non è il mio padrone. Ha solo l'incarico di insegnarmi, nient'altro. Non possiamo perdere la strada se seguiamo le tracce, e se non ci facciamo una galoppata adesso sarà troppo buio per spingere i cavalli quando arriviamo di nuovo ai campi. Ti lamenti sempre che non cavalco abbastanza bene. Come potrei, se andiamo sempre al trotto lungo la strada? Ti prego, Cadal.» «D'accordo, neanch'io sono il tuo padrone. E va bene, però non andare lontano. E sta' attento al pony; farà buio sotto gli alberi. Meglio che mi lasci andare per primo.» Io misi una mano sulle sue briglie. «No. Vorrei andare avanti io, tu non potresti tenerti un po' indietro, per piacere? Il fatto è che... sto cosi poco solo, qui, mentre ci ero abituato. Era uno dei motivi per cui ho voluto uscire da questa parte.» Aggiunsi con prudenza: «Non che io non sia contento della tua compagnia, ma a volte uno ha bisogno di un po' di tempo per... be', per riflettere. Vuoi lasciarmi appena cinquanta passi?». Egli fece immediatamente indietreggiare il suo cavallo. Poi si schiarì la voce. «Te l'ho detto che non sono il tuo padrone. Va' avanti. Ma sii prudente.» Feci girare Aster sul sentiero e lo spinsi a un piccolo galoppo. Erano tre giorni che il pony non usciva dalla scuderia e malgrado il lungo percorso compiuto era impaziente. Abbassò le orecchie all'indietro e acquistò velocità lanciandosi sull'orlo erboso della pista. Per fortuna la caligine si era quasi diradata, ma qua e là, dove il sentiero s'incavava, la si vedeva di nuovo fumare, e i cavalli vi si tuffavano, guadandola come se fosse acqua. Cadal si teneva un bel po' indietro; sentivo il rumore degli zoccoli della sua cavalla come un'eco pesante del galoppo del mio pony. Anche la pioggerellina era finita, e l'aria era fredda e frizzante e odorava di resina per via dei pini. Una beccaccia volò alta sopra di noi con un dolce grido di richiamo e un morbido rametto di abete rosso mi spruzzò di goccioline sulla bocca e giù per il collo. Scossi la testa e risi e il pony affrettò il passo, sollevando schizzi da una pozzanghera. M'incurvai ancor più sul suo collo
perché la pista si restringeva e i rami ci frustavano. Faceva più buio; il cielo si addensava al calar della notte tra i rami, e la foresta scorreva come una nuvola scura, selvaggia nei suoi profumi e silenziosa, non fosse stato per il galoppare veloce di Aster e per il passo placido della cavalla. Cadal mi gridò di fermarmi. Siccome non risposi immediatamente, il rumore sordo degli zoccoli della cavalla diventò più rapido e si avvicinò. Aster drizzò le orecchie, poi le riabbassò, e cominciò a correre. Lo trattenni. Fu facile, perché il sentiero era fangoso e lui stava sudando. Rallentò, poi si fermò e rimase tranquillo ad aspettare che Cadal ci raggiungesse. La cavalla baia si fermò. Adesso, l'unico rumore che rompeva il silenzio della foresta era il respiro dei cavalli. «Be',» disse Cadal alla fine «hai fatto quello che volevi?» «Sì, ma mi hai chiamato troppo presto.» «Dobbiamo ritornare, se vogliamo essere in tempo per la cena. Va forte, quel pony. Vuoi andare per primo anche al ritorno?» «Se è possibile.» «Ti ho detto che non c'è problema, tu fai quello che desideri. Lo so che non esci da solo, ma sei ancora giovane e tocca a me badare che non ti succeda niente di male, questo è tutto.» «Che potrebbe succedermi di male? A casa mia andavo da solo dappertutto.» «Qui non è casa tua. Ancora non conosci il paese. Potresti perderti, o cadere di sella e rimanere nella foresta con una gamba rotta...» «Non è molto probabile, no? Ti hanno detto di sorvegliarmi, perché non lo ammetti?» «Devo badare a te.» «Potrebbe essere la stessa cosa. Ho sentito come ti chiamano: il cane da guardia.» Egli grugni. «Non c'è bisogno che tu lo abbellisca. "Il cane nero di Merlino" così l'ho sentita io. Non credere che ci badi. Io faccio quello che dice lui, senza far domande, ma mi dispiace se ti irrita.» «No... oh, non mi irrita. Non la intendevo in questo modo... Va benissimo, solo... Cadal...» «Sì?» «Tutto sommato, sono un ostaggio?» «Questo non direi» fece Cadal rigido. «Vieni, allora, puoi passare?» Nel punto in cui erano fermi i nostri cavalli il sentiero era stretto, perché nel mezzo c'era uno strato profondo di fango dove l'acqua rifletteva de-
bolmente il cielo notturno. Cadal fece indietreggiare la sua cavalla nel boschetto che costeggiava il sentiero, mentre io costringevo Aster, che a meno di esservi obbligato non si bagnava le zampe, a oltrepassare la cavalla. Mentre i grandi quarti della cavalla indietreggiavano nel groviglio di querce e di noccioli, vi fu a un tratto uno scricchiolio proprio dietro la bestia, rumore di rami rotti, e un animale emerse dal sottobosco finendo quasi sotto la pancia della cavalla e si precipitò attraverso il sentiero proprio di fronte al mio pony. Entrambe le nostre cavalcature reagirono bruscamente. La cavalla, con uno sbuffo di paura, si slanciò in avanti con forza contrastando l'ordine impartito dalle briglie. Contemporaneamente Aster fece uno scarto così violento da sbalzarmi quasi di sella. Allora la cavalla, nel suo slancio in avanti, lo investì fragorosamente e il pony barcollò, volteggiò, sferrò calci e mi lanciò a terra. Per un pelo non andai a finire nell'acqua e atterrai pesantemente sull'orlo morbido del sentiero, proprio contro un ceppo di pino che avrebbe potuto farmi molto male se ci fossi finito sopra. Così me la cavai con qualche graffio, un paio di lividi e una storta alla caviglia che, quando mi girai e tentai di appoggiare il piede a terra, mi trafisse con un dolore sul momento così acuto da far ondeggiare davanti a me il bosco nero. Prima ancora che la cavalla avesse smesso di girare, Cadal era smontato, lasciando le briglie su un cespuglio, e si stava chinando su di me. «Merlino... Padron Merlino... ti sei fatto male?» Disserrai i denti e cominciai pian piano, con tutt'e due le mani, a tener dritta la gamba. «No, solo la caviglia, un po'.» «Fammi vedere... No. Sta' fermo. Per il cane di Mitra, Ambrogio me la farà pagare.» «Che cosa è stato?» «Un cinghiale, credo. Troppo piccolo per essere un daino, troppo grande per essere una volpe.» «L'avevo pensato che fosse un cinghiale, ho sentito l'odore. Il mio pony?» «A quest'ora sarà a mezza strada verso casa, immagino. Hai dovuto mollare le redini, vero?» «Mi dispiace. È rotta?» Le sue mani si spostavano sulla mia caviglia, spingendo, tastando. «Non credo... No, sono sicuro di no. Per il resto tutto a posto? Qua, forza, vediamo se puoi appoggiartici. La cavalla ci porterà tutti e due, e io voglio
essere di ritorno, se si può, prima che il tuo pony arrivi a casa con la sella vuota. Se Ambrogio lo vede io finisco alle murene.» «Non è stata colpa tua. È cosi ingiusto?» «Lui penserà che lo sia stata, e non sbaglierebbe di molto. Forza adesso, prova.» «No, aspetta un momento. E non ripreoccupare di Ambrogio, il pony non è tornato a casa, si è fermato un po' più in là. Faresti meglio ad andare a riprenderlo.» Era inginocchiato sopra di me e potevo vederlo confusamente contro il cielo. Voltò la testa per guardare sul sentiero. Accanto a noi la cavalla era ferma, tranquilla, a parte le orecchie irrequiete e il bordo bianco intorno agli occhi. Il silenzio era interrotto solo dal grido di una civetta che cresceva, e in lontananza, appena percettibile, un altro grido, come la sua eco. «È nero come la pece a venti passi di distanza» disse Cadal. «Non vedo niente. Lo hai sentito fermarsi?» «Sì.» Era una bugia, ma quello non era né il luogo né il momento per la verità. «Va' a riprenderlo, presto. A piedi. Non è arrivato lontano.» Lo vidi abbassare un rapido sguardo su di me, poi si alzò in piedi senza una parola e si allontanò sul sentiero. Come se fosse stato giorno pieno vedevo la sua espressione perplessa. Mi ricordò, in modo pungente, Cerdic, quel giorno al Forte del re. Mi riappoggiai al ceppo. Sentivo le ammaccature, e la caviglia mi faceva male, ma malgrado tutto questo mi permeava, come una bevanda di vino caldo, quell'eccitazione e quel senso di libertà che accompagnano il potere. Adesso sapevo che avevo dovuto venire da questa parte; che questo sarebbe stato un altro dei momenti in cui buio, distanza e tempo non contano. La civetta svolazzava silenziosa su di me, attraversando il sentiero. La cavalla drizzò le orecchie, osservandola senza paura. In qualche punto, sopra di me, sentivo il rumore lieve dei pipistrelli. Pensai alla grotta di cristallo e agli occhi di Galapas quando gli avevo raccontato la mia visione. Non era stato perplesso, e neanche sorpreso. Mi venne da chiedermi, a un tratto, che effetto avrebbe fatto a Belasio. E sapevo che neppure lui sarebbe stato sorpreso. Il rumore degli zoccoli risuonò, leggero, sulle zolle erbose. Per primo vidi Aster, che si avvicinava, grigio in modo irreale, poi Cadal come un'ombra al suo fianco. «Era proprio lì» disse «e per una buona ragione. È completamente azzoppato. Deve avere qualche cosa di slogato.» «Be', almeno non tornerà a casa prima di noi.»
«Avremo dei guai per stanotte, questo è certo, a qualunque ora arriviamo a casa. Perciò, forza, ti metto su Rufa.» Mentre lui mi aiutava con una mano, mi tirai cautamente in piedi. Quando tentai di appoggiarmi sul piede sinistro sentii che mi faceva ancora molto male, ma capii che era solo una storta e che presto sarebbe andata meglio. Cadal mi tirò sul dorso della cavalla, sciolse le redini dai rami e me le pose nella mano. Poi schioccò la lingua ad Aster e cominciò a guidarlo lentamente in avanti. «Che cosa fai?» chiesi. «La cavalla può benissimo portarci tutti e due, no?» «Non è questo. Vedi quanto zoppica il pony. Bisognerà guidarlo. Se lo tengo dal davanti può dare il passo. La cavalla verrà dietro di lui. Stai bene così?» «Ottimamente, grazie.» Il pony grigio era proprio azzoppato. Camminava adagio accanto a Cadal con la testa abbassata, spostandosi davanti a me come un segnale di fumo nell'oscurità. La cavalla seguiva tranquilla. Ci sarebbe voluto, calcolai, un paio d'ore per arrivare a casa, anche senza quello che ci aspettava. Di nuovo c'era qui una specie di solitudine, e nessun rumore a parte quello degli zoccoli dei cavalli che avanzavano a fatica, lo stridio del cuoio, e di tanto in tanto i lievi rumori della foresta intorno a noi. Cadal era invisibile, non più di un'ombra accanto allo spettro di caligine in movimento che era Aster. Issato sulla grande cavalla che avanzava con comodità, io ero solo con il buio e con gli alberi. Avevamo percorso forse mezzo miglio quando, scintillante tra i rami di un'immensa quercia alla mia destra, vidi una stella bianca, dalla luce costante. «Cadal, non c'è una scorciatoia per tornare a casa? Ricordo un sentiero che andava a sud, proprio vicino alla quercia. La caligine si è completamente diradata e si vedono le stelle. Guarda, c'è l'Orsa.» La sua voce mi raggiunse dalle tenebre. «Meglio che ci dirigiamo alla strada.» Ma dopo due o tre passi arrestò il pony all'imboccatura del sentiero che andava verso sud, e aspettò che arrivasse la cavalla. «Sembra abbastanza bello, no?» chiesi io. «È diritto e molto più asciutto del sentiero su cui ci troviamo. Tutto quello che dobbiamo fare è di lasciarci alle spalle l'Orsa, e tra un paio di miglia si dovrebbe sentire l'odore del mare. Non ti raccapezzi nella foresta?» «Sì, abbastanza. È vero che questo sarebbe più corto, se vediamo dove
andiamo. Be'...» Lo sentii allentare nel fodero il suo breve pugnale. «Non che ci siano probabilità di guai, ma meglio esser preparati, perciò abbassa la voce, per piacere, e tieni pronto il coltello. E lascia che ti dica una cosa, giovane Merlino, se dovesse succedere qualche cosa, tu vattene verso casa e lascia che sistemi io tutto. Capito?» «Anche questi sono ordini di Ambrogio?» «Puoi dirlo.» «Va bene, se questo ti fa sentire più tranquillo, ti prometto che ti abbandonerò a tutta velocità. Ma non ci saranno guai.» Egli grugni: «Si direbbe che lo sai». Risi: «Ah, lo so». La luce della stella colpi un attimo la cornea dei suoi occhi e il rapido gesto della sua mano. Poi egli si voltò senza dir nulla e fece entrare Aster sul sentiero che andava verso sud. Otto Benché il sentiero fosse abbastanza largo da permettere a due cavalieri di avanzare affiancati, proseguimmo in fila, e la cavalla baia continuò ad adattare la sua lunga e comoda falcata al passo più corto e molto irregolare del pony. Adesso faceva più freddo; mi strinsi intorno i lembi del mantello per riscaldarmi. La nebbia era svanita del tutto con l'abbassamento della temperatura, il cielo era limpido, con qualche stella, ed era più facile vedere la strada. Qui gli alberi erano immensi; soprattutto querce, grandi massicce e molto distanziate tra loro, mentre nel mezzo crescevano fitti e indisciplinati piccoli alberelli e l'edera si attaccava ai fili nudi del caprifoglio e ai pruni. Qua e là qualche pino si ergeva orgogliosamente nero contro il cielo e di quando in quando sentivo un ticchettio quando l'umidità si raccoglieva e gocciolava dalle foglie, e una volta il grido di qualche piccola creatura che moriva tra gli artigli di un gufo. L'aria profumava di umidità, di muschio, di foglie morte e di sostanze in decomposizione. Cadal avanzava in silenzio, gli occhi sul sentiero che qua e là diventa a difficile per la presenza di rami caduti o putrescenti. Dietro di lui, dondolando sulla grande sella della cavalla, io ero ancora pervaso da quella stessa luce, l'eccitazione del potere. Qualcosa era avanti a noi, verso la quale io ero guidato, lo sapevo, con la stessa sicurezza con cui lo smeriglio mi aveva guidato alla caverna del Forte del re.
Rufa drizzò le orecchie e sentii il fremito delle sue morbide froge. Essa alzò la testa. Cadal non aveva senato e il pony grigio, preoccupato per la sua zampa, non dava segno di aver fiutato gli altri cavalli. Ma anche prima che Rufa se ne accorgesse, io sapevo che c'erano. Il sentiero svoltò e cominciò a scendere dolcemente. Gli alberi crescevano ora più lontani dai lati del sentiero, sicché i loro rami non si congiungevano più sopra di noi e ci si vedeva meglio. Sugli argini c'erano dei terrapieni, con affioramenti rocciosi e terra smossa, dove d'estate crescevano digitali e felci, ma dove adesso si scatenavano solo rovi morti e filiformi. Gli zoccoli dei nostri cavalli raschiavano e risuonavano mentre ci inoltravamo sulla discesa. A un tratto Rufa, senza rallentare il passo, alzò la testa e lanciò un lungo nitrito. Cadal si fermò di colpo, con un'esclamazione, e la cavalla gli passò accanto, con la testa alzata e le orecchie drizzate verso la foresta alla nostra destra. Cadal l'afferrò per le redini, le spinse la testa verso il basso e con un gancio del braccio le coprì le froge. Aster aveva alzato la testa pure lui, ma non emise alcun suono. «Cavalli» dissi io piano. «Non senti l'odore?» Udii Cadal mormorare qualcosa che pareva: «Di tutto senti l'odore, si direbbe; devi avere un naso come una volpe femmina» poi, cominciando precipitosamente a trascinare la cavalla fuori dal sentiero: «È troppo tardi per tornare indietro, avranno sentito questa dannata cavalla. Meglio che ci buttiamo nella foresta». Lo fermai. «Non c'è bisogno. Qui non ci sono pasticci, ne sono sicuro. Proseguiamo.» «Tu parli bello e deciso, ma come fai a sapere?...» «Lo so. In ogni caso, se intendevano farci del male, lo avremmo già saputo, a quest'ora. Ci hanno sentiti arrivare da un pezzo, e devono sapere che ci sono solo due cavalli, uno dei quali zoppo.» Ma egli esitava ancora, palpando il suo pugnale. Sentivo le spine dell'eccitazione pungermi la pelle. Avevo visto la direzione verso cui erano puntate le orecchie della cavalla: un folto gruppo di pini, cinquanta passi davanti a noi, un po' arretrato sulla destra del sentiero. I pini erano neri perfino contro il nero della foresta. A un tratto, non mi fu più possibile aspettare. Dissi impaziente: «Io comunque vado. Puoi seguirmi o no, a tua scelta». Spinsi in su la testa di Rufa, allontanandola da lui, e la pungolai con il piede sano, sicché essa si slanciò in avanti, oltrepassando il pony grigio. La diressi subito contro il terrapieno e verso il folto dei pini.
I cavalli erano lì. Attraverso uno squarcio nel tetto compatto dei pini, brillavano le stelle, illuminandoli. Erano solo due, fermi immobili, con le teste basse e le narici contro il petto di un personaggio snello, che si riparava dal freddo con un pesante mantello e con un cappuccio. Quando si voltò a guardare, il cappuccio gli ricadde sulla schiena; l'ovale del suo viso appariva pallido nell'oscurità. Non c'era nessun altro. Per un attimo pensai che il cavallo nero più vicino a me fosse il grande stallone di Ambrogio, poi quando egli tirò la testa liberandosi del mantello dell'uomo vidi la grande macchia bianca sulla sua fronte e seppi in un bagliore improvviso come una stella cadente perché ero stato condotto li. Dietro di me, arrampicandosi con un'imprecazione spaventata, Cadal stava tirando Aster nel folto dei pini. Vidi il lampeggiare grigio della sua spada quand'egli l'alzò. Dissi con calma, senza voltarmi: «Mettila via. È Belasio... Almeno quello è il suo cavallo. Ce n'è anche un altro, e il ragazzo. E basta». Egli venne avanti. La sua spada stava già scivolando di nuovo nel fodero. «Per il cane di Mitra, hai ragione, quella chiazza bianca la riconoscerei ovunque. Ehi, Ulfin, ben trovato. Dov'è il tuo padrone?» Da una distanza di sei passi udii il ragazzo fare un sospiro di sollievo. «Ah, sei tu, Cadal... Mio signore Merlino... Ho sentito il tuo cavallo nitrire... mi chiedevo... Non viene nessuno da questa parte.» Feci avanzare la cavalla e abbassai gli occhi. Il suo viso era una macchia pallida rivolta verso l'alto, enormi gli occhi. Era ancora spaventato. «Pare che Belasio ci venga» dissi. «Perché?» «Lui... lui non mi dice niente, mio signore.» Cadal disse chiaro e tondo: «Questa non ce la raccontare. Non c'è molto che tu non sappia di lui, sei sempre appiccicato a lui, notte e giorno, lo sanno tutti. Forza, fuori. Dov'è il tuo padrone?». «Io... non tarderà molto.» «Non possiamo aspettarlo» disse Cadal. «Vogliamo un cavallo. Va' a dirgli che siamo qui, e che il mio signore Merlino si è fatto male, il pony si è azzoppato, e dobbiamo tornare a casa presto... Be'? Perché non vai? Che ti succede?» «Non posso. Lui ha detto che non dovevo. Mi ha proibito di muovermi da qui.» «Come ci ha proibito di abbandonare la strada, se fossimo venuti da questa parte» dissi io. «Sì. Adesso... ti chiami Ulfin, vero? Bene, Ulfin, al cavallo non ci pensare. Voglio sapere dov'è Belasio.»
«Non... non lo so.» «Devi almeno aver visto da che parte andava.» «N... no, mio signore.» «Per il cane di Mitra,» esclamò Cadal «chi se ne importa dov'è, purché troviamo il cavallo? Sta' a sentire, ragazzo, cerca di ragionare, non possiamo aspettare il tuo padrone metà della notte, dobbiamo tornare a casa. Se tu gli dici che il cavallo è per il mio signore Merlino, non ti mangerà vivo questa volta, no?» Poi, siccome il ragazzo balbettava: «Be', va bene, vuoi che andiamo noi a trovarcelo da soli per farci dare il permesso?». Allora il ragazzo si mosse, premendosi un pugno sulla bocca come un idiota. «No... Non dovete... Non dovete!...» «Per Mitra» dissi io - era un'imprecazione che a quell'epoca usavo, avendola sentita da Ambrogio - «che cosa sta facendo? Un assassinio?» Mentre pronunciavo quella parola, giunse il grido. Non un grido di dolore, peggio, la voce di un uomo colpito da un terrore mortale. Pensai che il grido contenesse una parola, come se il terrore avesse preso forma, ma non era una parola che conoscessi. L'urlo si alzò, insopportabile, sembrava che stesse per esplodere, poi fu bruscamente interrotto, come da un colpo alla gola. Nel silenzio pauroso che seguì, se ne senti la debole eco in un sospiro del ragazzo Ulfin. Cadal rimase agghiacciato nella stessa posizione in cui si era voltato, con una mano sulla spada, l'altra che stringeva le briglie di Aster. Girai la testa della cavalla e la sferzai sul collo con le redini. La bestia balzò in avanti, quasi disarcionandomi. Si slanciò sotto i pini in direzione del sentiero. Mi appiattii sul suo collo mentre i rami si rinchiudevano al nostro passaggio, infilai una mano nel collare, attaccato a lei come una zecca. Né Cadal né il ragazzo si erano mossi o avevano fatto il minimo rumore. La cavalla discese il terrapieno a fatica, scivolando, e quando arrivammo al sentiero vidi, così inevitabilmente che non ne provai alcuna sorpresa, anzi per la verità non mi suscitò nessun genere di pensiero, un altro viottolo, stretto e quasi cancellato, che conduceva in direzione opposta alla pista, dall'altra parte del boschetto di pini. Tirai le redini con forza, e quando la cavalla recalcitrò, tentando di dirigersi verso il sentiero più largo che portava a casa, la frustai di nuovo. La bestia abbassò le orecchie e s'inoltrò nel sentiero al galoppo. Il sentiero serpeggiava e girava, sicché quasi subito la nostra andatura si moderò, rallentò, si ridusse a un piccolo trotto. Questa era la direzione da cui era venuto quel suono terrificante. Anche alla luce delle stelle era evi-
dente che qualcuno era passato di lì da poco. Il sentiero era così poco usato che l'erba invernale e l'erica l'avevano quasi soffocato, ma qualcuno qualcosa - vi si era aperto una strada. I rumori erano così attutiti che perfino un cavallo al piccolo trotto quasi non si sentiva. Tesi l'orecchio per sentire se Cadal mi stesse seguendo, ma non percepii nessun rumore. Solo allora mi venne in mente che sia lui che il ragazzo dovevano aver pensato che, terrorizzato da quel grido, mi fossi slanciato sulla via di casa, come Cadal mi aveva raccomandato. Misi Rufa al passo. Lei rallentò di buon grado, con la testa alta, le orecchie puntate in avanti. Fremeva. Anche lei aveva udito il grido. Trecento passi avanti appariva una radura nella foresta, così chiara che pensai dovessero esser finiti gli alberi. Guardai con attenzione mentre ci avvicinavamo, ma nulla si muoveva contro il cielo. Poi, così sommesso che dovetti tendere l'orecchio per essere sicuro che non fosse il vento né il mare, udii salmodiare. Mi si aggricciò la carne. Adesso sapevo dove fosse Belasio e perché Ulfin fosse così spaventato. E sapevo perché Belasio aveva detto: «Restate sulla strada e fate in modo di esser tornati prima che sia buio». Mi raddrizzai sulla sella. Un'ondata di calore mi percorse la pelle in piccole onde, come una brezza leggera sull'acqua. Il mio respiro diventò breve e affrettato. Per un attimo mi domandai se fosse paura, poi seppi che era ancora eccitazione. Fermai la cavalla e silenziosamente scivolai dalla sella. La ricondussi all'inizio della foresta, legai le redini a un ramo e la lasciai lì. Il piede mi fece male quando lo appoggiai a terra, ma le fitte erano sopportabili e le dimenticai presto mentre mi avviavo rapidamente, zoppicando, verso il canto e il cielo più chiaro. Nove Non mi ero sbagliato pensando che il mare fosse vicino. La foresta terminava sul mare, anzi una striscia di mare si addentrava nella foresta cosicché dapprima pensai che fosse un grande lago, poi avvertii l'odore del sale e vidi, sulla stretta spiaggia di ciottoli, la bava scura delle alghe. La foresta finiva in modo improvviso, con un terrapieno alto dove apparivano radici messe a nudo nell'argilla corrosa anno dopo anno dalle maree. La stretta spiaggia era per lo più di ciottoli, ma qua e là si vedevano strisce di pallida sabbia e in mezzo grigiastri ventagli scintillanti che si allargavano come felci, dove l'acqua poco profonda scorreva verso il mare. La baia era
molto tranquilla, quasi come se il gelo delle settimane precedenti l'avesse tenuta chiusa nella sua morsa, poi, linea chiara sotto le tenebre, si vedeva un'interruzione tra i promontori lontani dove il mare aperto si faceva bianco. A destra, a sud, la foresta nera s'inerpicava per una cresta rocciosa, mentre a nord, dove il terreno era più dolce, i grandi alberi offrivano un riparo. Un porto perfetto, uno avrebbe potuto pensare, finché non avesse visto quant'era poco profondo, come alla bassa marea le sagome delle rocce e dei macigni emergessero nere dall'acqua, scintillanti per le alghe alla luce delle stelle. Al centro della baia, cosi perfettamente al centro che dapprima pensai fosse artificiale, c'era un'isola, o meglio, quello che doveva essere un'isola con l'alta marea, ma che adesso era una penisola, un lembo di terra di forma ovale unito alla spiaggia da una rudimentale gettata di pietre, questa certamente artificiale, che si protendeva come un cordone ombelicale per Unirla alla spiaggia. Nel più vicino dei porti poco profondi formati dalla gettata e dalla spiaggia, alcune barchette, coracle mi parve, erano tirate a secco come foche. Qui c'era di nuovo nebbia, bassa sulla baia, e fluttuava qua e là tra i rami come reti da pesca appese ad asciugare. Sulla superficie dell'acqua galleggiava, si assottigliava e poi si riduceva a niente, solo per ridiventare spessa in un altro punto e lentamente formare di nuovo come un fumo sull'acqua. Girava tutt'intorno alla base dell'isola, e lì era così densa che quella pareva galleggiare su una nuvola, e le stelle riflettevano una luce grigia per via di quella nebbia che mi mostrava con chiarezza l'isola. Questa era ovoidale più che ovale; stretta all'estremità della gettata si allargava all'altra estremità dove una piccola collina, di forma regolare come un'arnia, si ergeva sulla terra piatta. Intorno alla base di questa collinetta c'era un circolo di pietre erette, un circolo interrotto solo nel punto che era davanti a me, dove una larga apertura formava un ingresso dal quale un viale di pietre si dirigeva, come un colonnato, direttamente alla gettata. Non si notava alcun suono né movimento. Non fosse stato per le sagome incerte delle barche tirate a secco avrei pensato che il grido, il salmodiare, fossero creazioni di un sogno. Io me ne stavo, fermo, là dove finiva la foresta, con il braccio sinistro che circondava un giovane frassino e il peso del corpo appoggiato sul piede destro, osservando con occhi talmente abituati al buio della foresta che l'isola illuminata dalla nebbia mi pareva chiara come il giorno. Ai piedi della collina, proprio alla fine di quel viale centrale, brillò a un
tratto la luce di una torcia. Illuminò, per un attimo, un'apertura bassa nel fianco della collina e davanti ad essa, nitida, la figura vestita di bianco di colui che portava la torcia. Vidi allora che quelli che avevo preso per banchi di nebbia all'ombra dei cromlech, erano gruppi di figure immobili, pure coperte da lunghi vesti bianche. Quando la torcia si alzò udii di nuovo il salmodiare, assai sommesso, con un ritmo slegato e vaneggiante che per me era inconsueto. Poi la torcia e colui che la portava lentamente sprofondarono verso terra e io capii che la volta dell'ingresso si abbassava e che il portatore della torcia stava percorrendo una rampa di scale che scendeva nel cuore della collina. Gli altri gli si affollarono intorno, gruppi che si raggrumavano, che si fondevano intorno all'arco, poi svanivano come fumo aspirato nella porta di un forno. Il salmodiare continuò, ma così fievole e smorzato che ormai pareva solo un ronzio di api in un'arnia d'inverno. Non lo attraversava nessuna melodia, solo il ritmo che si abbassava fino a diventare un semplice palpito nell'aria, la pulsazione di un suono avvertito con un senso diverso dall'udito, che poco a poco si strinse e si fece più veloce, finché risuonò duro e rapido e il mio sangue pulsò all'unisono con esso... A un tratto s'interruppe. Ci fu una pausa di una quiete mortale, una quiete carica di tante cose che mi sentii la gola annodata e deglutii per la tensione. Scoprii che avevo lasciato gli alberi ed ero uscito, ben visibile, sopra il terrapieno, dimenticando di essermi fatto male, e che stavo lì, a gambe larghe, ben equilibrato sul suolo, come se il mio corpo vi fosse radicato e teso nello sforzo di trarre vita dalla terra come un albero ne trae la linfa. E come il virgulto di un albero che cresce e s'innalza, crebbe e si dilatò in me l'eccitazione, pulsando chissà da dove nelle profondità dell'isola e lungo il cordone ombelicale della gettata, prorompendo attraverso la carne e lo spirito, per modo che quando alla fine venne il grido era come se fosse esploso dal mio stesso corpo. Un grido diverso questa volta, acuto e tagliente, che avrebbe potuto significare qualsiasi cosa, trionfo o resa o dolore. Un grido di morte, ma questa volta non proveniente dalla vittima ma dall'assassino. E poi, silenzio. La notte era immobile e calma. L'isola era un alveare chiuso, sigillato su quanto strisciava o ronzava nel suo interno. Poi il capo, supposi che fosse lui, benché questa volta la torcia fosse spenta, apparve improvvisamente come un'ombra nell'arco e risalì gli scalini. Gli altri lo seguivano, spostandosi non come persone in un corteo, ma lentamente e armoniosamente, in gruppi che si rompevano e si riformava-
no, secondo uno schema che pareva quello di una danza, finché ancora una volta si fermarono divisi in due file accanto ai cromlech. E di nuovo un'immobilità completa. Poi il capo alzò le braccia. Come a un segnale, bianca e scintillante come la lama di un coltello, sulla collina apparve la falce della luna. Il capo gridò e questo grido, il terzo, era inequivocabilmente un'espressione di trionfo, mentre egli tendeva alte le braccia distese sopra la testa come se offrisse quello che teneva tra le mani. La folla gli rispose, canto e controcanto. Poi, mentre la luna si alzava chiara sulla collina, il sacerdote abbassò le braccia e si voltò. Quello che aveva offerto alla dea, adesso lo offriva ai fedeli. La folla lo circondò. Ero rimasto cosi attento alla cerimonia che si svolgeva al centro dell'isola che non avevo guardato la spiaggia, né mi ero reso conto che la nebbia, alzandosi, adesso nascondeva anche il viale. I miei occhi, sforzandosi nell'oscurità, vedevano le figure bianche dei fedeli come parte della nebbia che si aggrumava, deviava e turbinava qua e là in viluppi di bianco. E poi fui conscio che in realtà era questo che stava avvenendo. La folla si divideva e a gruppi di due o tre le persone scendevano silenziose il viale, entrando e uscendo dalle ombre che la luna nascente disegnava tra le pietre. Si dirigevano alle barche. Non ho idea di quanto tempo durasse tutto questo, ma quando tornai in me mi accorsi che ero rigido e dove avevo lasciato cadermi di dosso il mantello ero fradicio di nebbia. Mi scossi come un cane, indietreggiando di nuovo nel riparo degli alberi. L'eccitazione si era rovesciata fuori di me, spiritualmente e fisicamente, in un fiotto caldo che mi scendeva lungo le cosce, e mi sentivo vuoto e pieno di vergogna. Oscuramente sapevo che questo era diverso; non era la forza che avevo imparato a ricevere e a dominare, e questa sensazione di rovesciato fuori non era la conseguenza del potere. Quello mi aveva lasciato leggero e libero e affilato come una lama tagliente; adesso mi sentivo vuoto come un recipiente ripulito con la lingua ma ancora viscido e impregnato dell'odore di ciò che ha contenuto. Mi chinai, con i tendini rigidi, a strappare un ciuffo d'erba pallida e umida, e mi pulii, strofinandomi le mani e raccogliendo gocce di rugiada sul suolo erboso per lavarmi la faccia. L'acqua che odorava di foglie, e anche l'aria umida, mi fecero pensare a Galapas e alla sacra fonte, alla lunga coppa di corno. Mi asciugai le mani nell'interno del mantello, me lo strinsi intorno e tornai al mio posto accanto al frassino. La baia era punteggiata dalle piccole imbarcazioni che si allontanavano.
L'isola era ormai vuota, a parte un'unica figura, alta, che si avviava adesso lungo il viale. La nebbia lo avvolgeva, lo rivelava, tornava ad avvolgerlo. Lui non si dirigeva a una barca, ma quando raggiunse l'estremità del viale si fermò all'ombra dell'ultima pietra e svanì. Aspettai, non provando altro che stanchezza, desiderio di un po' di acqua fresca e la sensazione familiare della mia camera tiepida e tranquilla. Non c'era alcuna magia nell'aria; la notte era scialba come vecchio vino inacidito. Poi, con sufficiente chiarezza, lo vidi emergere alla luce lunare sulla gettata. Adesso indossava una lunga veste scura. Si era soltanto tolto quella bianca. E la portava sul braccio. L'ultima delle barche era un punto che diventava sempre più piccolo nell'oscurità. L'uomo solitario percorse rapido la gettata. Io mi feci avanti di sotto gli alberi e scesi incontro a lui sulla riva coperta di ciottoli. Dieci Belasio mi vide prima ancora che fossi uscito dall'ombra degli alberi. Non mi fece nessun cenno, ma uscendo dalla gettata deviò. Risalì il pendio senza fretta e si fermò accanto a me, dominandomi, gli occhi abbassati su di me. «Ah.» Fu il suo unico saluto, pronunciato senza sorpresa. «Avrei dovuto saperlo. Da quanto tempo sei qui?» «Non lo so. Il tempo è passato così in fretta. Mi interessava.» Egli rimase in silenzio. La luce della luna, adesso chiarissima, cadde obliquamente sulla sua guancia destra. Non potevo vedere gli occhi nascosti dalle scure palpebre allungate, ma c'era qualcosa di calmo, quasi di assonnato, nella sua voce e nel suo portamento. Avevo provato la stessa cosa dopo quel grido di liberazione, qui nella foresta. Il fulmine aveva colpito e adesso l'arco era allentato. Egli non rilevò la mia provocazione, limitandosi a chiedere: «Che cosa ti ha portato qui?». «Cavalcavo laggiù quando ho sentito il grido.» «Ah» disse lui di nuovo, e poi: «Laggiù dove?». «Vicino al bosco di pini dove hai lasciato il tuo cavallo.» «Perché sei venuto da questa parte? Ti avevo detto di rimanere sulla strada.» «Lo so, ma volevo fare una galoppata, perciò abbiamo voltato nella pista più grande, e io ho avuto un incidente con Aster; si è azzoppato a una
zampa anteriore, perciò bisognava riportarlo a casa. Si andava lentamente, ed era tardi, allora abbiamo preso una scorciatoia.» «Capisco. E dov'è Cadal?» «Credo abbia pensato che fuggivo verso casa, e deve essere andato in quella direzione. Comunque qui non mi ha seguito.» «Ragionevole da parte sua» disse Belasio. La sua voce era ancora calma, assonnata quasi, ma del sonno di un gatto, velluto che copre la lucida punta di una daga. «Ma malgrado... quello che hai sentito... non ti è venuto in testa di tornare di corsa a casa?» «No, naturalmente.» Vidi i suoi occhi scintillare per un attimo sotto le palpebre allungate. «No, naturalmente?» «Dovevo sapere che cosa stava succedendo.» «Ah. Sapevi che io ci sarei stato?» «Prima di vedere Ulfin con i cavalli no. E neppure perché tu mi avevi detto di restare sulla strada. Ma io... diciamo che sapevo che stanotte c'era qualcosa in giro nella foresta, e che dovevo scoprirlo.» Egli mi guardò un attimo di più. Avevo avuto ragione a pensare che non sarebbe parso sorpreso. Poi fece un cenno con la testa. «Vieni, fa freddo e voglio il mio mantello.» Mentre lo seguivo su per la spiaggia di ciottoli che stridevano, aggiunse, voltando la testa sulla spalla: «A quanto capisco Ulfin c'è ancora?». «Penserei di sì. Lo hai spaventato in modo molto efficace.» «Non c'è bisogno che sia spaventato, purché si tenga alla larga e non veda niente.» «Allora è vero che non sa?» «Qualunque cosa sappia o non sappia» disse lui indifferente «ha il buonsenso di starsene zitto. Gli ho promesso che se mi ubbidisce in questo senza far domande, lo libererò in tempo per salvarsi.» «Salvarsi? Da che?» «Dalla morte quando io morrò. È normale mandare i servi dei sacerdoti con loro.» Stavamo risalendo il sentiero affiancati. Gli lanciai un'occhiata. Indossava un lungo vestito scuro, più elegante di qualsiasi cosa avessi mai visto a casa mia, più elegante anche delle vesti di Camlach; la sua cintura era di pelle finemente lavorata, probabilmente italiana, e sulla sua spalla scintillava un grosso fermaglio rotondo, dove la luce lunare rivelava dei cerchi e dei serpenti annodati, d'oro. Appariva, anche sotto il velo che la riunione
della notte aveva tirato su di lui, romanizzato, civile, intelligente. Dissi: «Perdonami, Belasio, ma questo genere di cose non è scomparso con gli egiziani? Perfino nel Galles lo riterremmo antiquato». «Può darsi. Ma allora si potrebbe dire che anche la dea è antiquata, e che le piace essere adorata nei modi che le sono noti. E il nostro modo è vecchio quasi quanto lei, più vecchio di quanto gli uomini possano ricordare, anche nei loro canti o sulle pietre. Molto prima che in Persia si uccidessero i tori, molto prima che arrivassero a Creta, molto prima addirittura che gli dei celesti uscissero dall'Africa e che queste pietre fossero innalzate in loro onore, la dea era qui nel bosco sacro. Adesso la foresta ci è chiusa, e noi adoriamo dove ci è possibile, ma ovunque si trovi la dea, sia pietra o albero o grotta, c'è un bosco chiamato Nemet, e lì noi facciamo l'offerta... Vedo che mi capisci.» «Molto bene. Mi hanno insegnato queste cose nel Galles. Ma sono passate alcune centinaia d'anni da quando facevano quel genere di offerta che tu hai fatto stanotte.» La sua voce era liscia come l'olio. «È stato ucciso per sacrilegio. Non ti hanno insegnato...» Si fermò di colpo, e la sua mano corse al suo fianco. «Questo è il cavallo di Cadal.» Girò intorno la testa come un cane da caccia. «L'ho portato io» dissi. «Ti avevo raccontato che il mio pony si è azzoppato. Cadal sarà tornato a casa. Suppongo abbia preso uno dei tuoi.» Sciolsi la cavalla e la portai alla luce della luna, in mezzo al sentiero. Lui stava rimettendo il pugnale nel fodero. Proseguimmo, con la cavalla che ci seguiva, le froge sulla mia spalla. Il piede aveva quasi smesso di farmi male. Io dissi: «Perciò, morte anche per Cadal? Allora non si tratta solo di sacrilegio? Le vostre cerimonie sono così segrete! È una questione di mistero, Belasio, o quello che fate è illegale?». «È segreto e illegale. Ci riuniamo dove possiamo. Stanotte abbiamo dovuto servirci dell'isola; è abbastanza sicura... di solito non un'anima vi si avvicinerebbe la notte dell'equinozio. Ma se ne arrivasse parola a Budec sarebbero guai. L'uomo che abbiamo ucciso stanotte era un uomo del re; è stato tenuto qui otto giorni, e i gruppi di esplorazione di Budec hanno continuato a cercarlo. Ma doveva morire.» «Adesso lo troveranno?» «Ah, sì, molto distante da qui, nella foresta. Crederanno che un cinghiale lo abbia dilaniato.» Di nuovo quello sguardo obliquo. «Si può dire che è
morto facilmente, alla fine. Ai vecchi tempi gli avrebbero strappato l'ombelico e lo avrebbero fatto girare intorno all'albero sacro finché le sue budella vi fossero avvolte come la lana su un fuso.» «E Ambrogio lo sa?» «Anche Ambrogio è un uomo del re.» Facemmo qualche passo in silenzio. «Bene, e che cosa succede a me, Belasio?» «Niente.» «Non è sacrilegio spiare i vostri segreti?» «Tu sei abbastanza al sicuro» disse lui seccamente. «Ambrogio ha un braccio che arriva lontano. Perché fai quella faccia?» Scossi la testa. Non avrei saputo esprimerlo in parole, neppure a me stesso. Era come trovarsi a un tratto uno scudo in mano quando si è nudi in battaglia. Lui disse: «Non hai avuto paura?». «No.» «Per la Dea, credo sia vero. Ambrogio aveva ragione, hai coraggio.» «Se ce l'ho, non è il genere di coraggio che tu devi ammirare. Una volta credevo di essere migliore degli altri ragazzi perché c'erano tante delle loro paure che non potevo condividere, né capire. Ne avevo altre mie proprie, naturalmente, ma imparai a tenermele per me. Immagino fosse un genere di orgoglio. Ma adesso comincio a capire perché, anche quando il pericolo e la morte sono chiaramente in attesa lungo la strada, io posso passare diritto accanto a loro.» Egli si fermò. Eravamo quasi arrivati al bosco di pini. «Dimmi perché.» «Perché non sono per me. Ho avuto paura per altri, ma mai in quel senso per me. Non ancora. Credo che quello che gli uomini temono sia l'ignoto. Essi temono il dolore e la morte, perché possono essere in attesa a ogni angolo. Ma ci sono volte in cui so ciò che è nascosto, e in attesa. E so se dolore e pericolo sono per me, e so che la morte non deve ancora venire; perciò non ho paura. Non è coraggio, questo.» Lui disse lentamente: «Sì. Lo sapevo che possiedi la Vista». «Viene solo a volte, e per volontà del dio, non per la mia.» Avevo già parlato troppo; quello non era uomo con cui dividere i propri dei. Dissi in fretta, per cambiare argomento: «Belasio, devi ascoltarmi. Ulfin non ha nessuna colpa. Si è rifiutato di dirci la minima cosa, e se avesse potuto mi avrebbe fermato». «Vuoi dire che se qualcuno deve pagare, ti offri tu?»
«Be', mi sembra solo onesto, e dopo tutto posso permettermelo.» Lo deridevo, sicuro dietro il mio scudo invisibile. «Che cosa sarà? Una religione antiquata come la tua deve avere alcune pene minori di riserva. Morrò di crampi durante il sonno stanotte, o sarò dilaniato da un cinghiale la prossima volta che uscirò a cavallo nella foresta senza il mio cane nero?» Per la prima volta, egli sorrise. «Non devi pensare che ne uscirai senza pagare nessuno scotto. Mi servi tu e questa tua Vista, stanne certo. Ambrogio non è il solo a servirsi degli uomini per quello che valgono, e io intendo servirmi di te. Mi hai detto che stanotte sei stato condotto qui; era la dea in persona che ti guidava, e alla dea tu devi andare.» Abbassò un braccio e mi circondò le spalle. «Pagherai per stanotte, Merlino Emrys, in una moneta che la soddisferà. La dea ti darà la caccia, come fa con tutti quelli che spiano il suo mistero... ma non per distruggerti. Oh, no; non Atteone, mio intelligente piccolo discepolo, ma Endimione. Essa ti prenderà nel suo amplesso. In altre parole, Studierai finché potrò portarti con me al santuario e presentarti.» Mi sarebbe piaciuto dire: "Neanche se tu avvolgessi le mie viscere intorno a ogni albero della foresta", ma mi trattenni. Prendi il potere dove ti è offerto, egli aveva detto e, ricordando la mia attesa presso il frassino, qui un potere c'era stato, un certo genere di potere. Si sarebbe visto. Mi liberai, ma cortesemente, del braccio che mi circondava le spalle, e per primo penetrai nel bosco di pini. Se prima Ulfin aveva avuto paura, adesso ammutolì quasi per il terrore quando mi vide con il suo padrone e capi dov'ero stato. «Mio signore... credevo che fosse andato a casa... Veramente, mio signore, Cadal ha detto...» «Dammi il mantello» disse Belasio «e metti questa roba nella bisaccia della sella.» Gli tendeva la veste bianca che aveva indossato. Questa cadde, aprendosi, vicino all'albero a cui era legato Aster, e mentre quasi lo sfiorava il pony si spaventò e sbuffò. In un primo momento pensai che fosse solo quella forma bianca che gli cadeva accanto ai piedi, ma poi lo vidi, nero sul bianco, reso ancora più scuro dall'oscurità dei pini, in macchie e schizzi, e da dove mi trovai ne avvertii l'odore, fumo e sangue fresco. Ulfin tendeva meccanicamente il mantello. «Mio signore...» era senza fiato per la paura e per lo sforzo di tenere nello stesso tempo il cavallo recalcitrante «Cadal ha preso il cavallo da soma. Pensavamo che il mio signore Merlino fosse tornato in città. Davvero, signore, anch'io ero sicuro
che fosse andato da quella parte. Io non gli ho detto niente, lo giuro...» «C'è una bisaccia da sella sulla cavalla di Cadal. Mettila lì.» Belasio indossò il mantello e lo chiuse, poi tese la mano per prendere le redini. «Dammi.» Il ragazzo ubbidì cercando, lo vedevo, non solo di scusarsi, ma anche di misurare l'intensità dell'ira di Belasio. «Mio signore, ti prego, credimi, non ho detto niente. Lo giurerò per tutti gli dei che esistono.» Belasio lo ignorò. Poteva esser crudele, lo sapevo; in effetti, per tutto il tempo che lo conobbi, non ebbe mai, neppure una volta, un pensiero per l'ansia o il dolore di un altro; per essere più esatti, non gli veniva mai in testa che potesse esistere il sentimento, neppure in un uomo libero. In quel momento Ulfin doveva parergli meno reale del cavallo che stava reggendo. Balzò disinvolto in sella, dicendo seccamente: «Tirati indietro». Poi a me: «Puoi cavartela con la cavalla se andiamo al galoppo? Voglio esser di ritorno prima che Cadal scopra che non sei a casa e metta tutti in subbuglio». «Posso provare. E Ulfin?» «Ti interessa? Verrà a piedi e riporterà il tuo pony a casa, naturalmente.» Girò il cavallo e si avviò tra i rami di pino. Ulfin era già corso a ripiegare la veste macchiata di sangue e a riporla nella bisaccia da sella della cavalla. Adesso si affrettava a offrirmi la sua spalla, e in qualche modo, con il suo aiuto, riuscii ad arrampicarmi in sella e a sistemarmi. Il ragazzo si tirò indietro, in silenzio, ma mi ero accorto che tremava. Immagino che per uno schiavo fosse normale esser così spaventato. Mi venne in mente che doveva aver paura anche di riportare il mio pony a casa attraversando da solo la foresta. Per un attimo rimasi attaccato alle redini e mi chinai. «Ulfin, non è arrabbiato con te; non succederà niente. Te lo giuro. Perciò non aver paura.» «Hai... visto qualche cosa, mio signore?» «Assolutamente niente.» Nel senso importante era la verità. Lo guardai calmo. «Una vampata di buio» dissi «e una luna innocente. Ma qualsiasi cosa io potessi aver visto, Ulfin, non avrebbe avuto importanza. Devo essere iniziato. Perciò capisci perché lui non è arrabbiato? Tutto qui. Ecco, prendi questo.» Estrassi il pugnale dalla guaina e lo mandai a conficcarsi tra gli aghi di pino. «Se ti rende più tranquillo,» dissi «ma non ne avrai bisogno. Sarai assolutamente al sicuro. Lasciatelo dire da me. Lo so. Conduci il mio pony
delicatamente, per piacere.» Pungolai la cavalla nelle costole e la spinsi a seguire Belasio. Lui mi stava aspettando... cioè stava andando a un piccolo galoppo, che diventò un buon galoppo quando lo raggiunsi. Gli zoccoli della cavalla risuonavano dietro di lui. Afferrai il collare e vi rimasi attaccato come una zecca. Il sentiero era abbastanza aperto perché potessimo vedere chiaramente la strada alla luce della luna. Tagliò un po' in salita attraverso la foresta fino a una cresta dalla quale, tra poco, avremmo potuto veder scintillare le luci della città. Poi scese di nuovo e dopo un po' uscimmo dalla foresta, su quelle distese salmastre che fiancheggiavano il mare. Belasio non rallentò né parlò. Io mi tenevo attaccato alla cavalla, vedevo il sentiero da dietro il suo collo, e mi domandavo se avremmo incontrato Cadal, tornato a cercarmi con una scorta, o se sarebbe venuto da solo. Coprendoci di schizzi attraversammo un torrente in cui l'acqua arrivava alla barbetta dei cavalli, poi la pista, che correva piatta sulla distesa erbosa, girò a destra in direzione della strada. Adesso sapevo dove ci trovavamo; uscendo, avevo notato questa pista che arrivava alla strada subito dopo un ponte al limitare della foresta. In pochi minuti saremmo arrivati al ponte e alla strada. Belasio moderò il passo del suo cavallo e diede un'occhiata dietro la spalla. La cavalla gli si accostò, allora egli alzò una mano e tirò le briglie. I cavalli si misero al passo. «Ascolta.» Cavalli. Molti cavalli, che correvano al trotto sulla strada selciata. Si dirigevano verso la città. Si alzò, concisa, una voce d'uomo. Il ponte fu attraversato da un turbine di torce agitate, e noi li vedemmo, uno squadrone che avanzava compatto. Alla luce delle torce vedemmo sullo stendardo un drago rosso. La mano di Belasio si abbatté con durezza sulle mie redini, e i nostri cavalli si fermarono. «Gli uomini di Ambrogio» disse, o almeno cominciò a dire quando, limpido come il canto di un gallo, la mia cavalla nitri e un cavallo dello squadrone le rispose. Qualcuno abbaiò un ordine. Lo squadrone si fermò. Un altro ordine e i cavalli si diressero al galoppo verso di noi. Udii Belasio imprecare sottovoce mentre mollava le mie redini. «Qui tu mi lasci. Continua adesso, e bada a tenere a freno la lingua. Ne-
anche il braccio di Ambrogio può proteggerti contro una maledizione,» Frustò la mia cavalla sui quarti posteriori, e quella balzò in avanti, quasi disarcionandomi. Io ero troppo occupato a guardarlo andare via, ma dietro di me ci fu rumore di schizzi mentre il cavallo nero con un balzo attraversava il torrente ed era inghiottito dalla foresta solo qualche secondo prima che i soldati arrivassero a me e mi girassero intorno per scortarmi dal loro ufficiale. Lo stallone grigio si muoveva irrequieto alla luce delle torce, sotto lo stendardo. Uno di quelli che mi scortavano teneva la mia cavalla per il morso e mi conduceva in avanti. Fece il saluto militare. «Solo questo, signore. Non è armato.» L'ufficiale spinse in alto la celata. Gli occhi azzurri si spalancarono e una voce che ricordavo troppo bene, la voce di Uther, disse: «Dovevi essere tu, naturalmente. Bene, Merlino il bastardo, che cosa fai qui tutto solo, e dove sei stato?» Undici Non risposi subito. Mi stavo chiedendo quanto dovessi raccontare. A qualsiasi altro ufficiale avrei potuto dire una facile mezza verità, ma era probabile che Uther mi passasse al torchio e per chiunque fosse stato a una riunione "segreta e illegale", Uther non era solo un qualsiasi ufficiale, era pericoloso. Non che io avessi nessuna ragione per proteggere Belasio, ma non dovevo notizie, o spiegazioni, a nessuno all'infuori di Ambrogio. In ogni caso, mi venne naturale mettermi al riparo dalla collera di Uther. Perciò lo guardai negli occhi con un'espressione che speravo splendesse di franchezza. «Il mio pony si è azzoppato, signore, perciò ho lasciato che il mio servo lo riportasse a casa e ho preso il cavallo del mio servo per tornare a casa anche io.» Quando lui aprì la bocca per parlare sollevai lo scudo invisibile che Belasio mi aveva messo nella mano. «Di solito tuo fratello mi manda a cercare dopo cena, e non desideravo farlo aspettare.» Le sue sopracciglia si abbassarono di colpo quando accennai a suo fratello, ma tutto quello che disse fu: «Perché da questa parte, a quest'ora? Perché non dalla strada?». «Ci eravamo un po' inoltrati nella foresta quando Aster si è fatto male. Abbiamo voltato verso est all'incrocio, nella pista su cui trasportano il legname, e su quella c'era un sentiero che andava verso sud, e pareva fosse un po' più breve, perciò l'abbiamo preso. La luce della luna ci rendeva faci-
le vedere.» «Che sentiero era?» «Non conosco la foresta, signore. Saliva sulla cresta, poi ridiscendeva fino a un guado circa un miglio a valle.» Mi esaminò un momento, accigliato. «Dove hai lasciato il tuo servo?» «Dopo aver percorso un tratto del secondo sentiero. Volevamo essere sicuri che fosse la strada giusta prima che lui mi lasciasse andare da solo. Adesso starà salendo verso la cresta, immagino.» Dentro di me pregavo, in modo confuso ma sincero, qualsiasi dio mi stesse per caso ascoltando, che in quel momento Cadal non stesse tornando di nuovo a cavallo dalla città, per cercarmi. Uther mi guardò, stando in sella al suo cavallo irrequieto come se questo non esistesse. Per la prima volta, mi resi conto di quanto somigliasse al fratello. E per la prima volta, anche, riconobbi in lui qualcosa che era il potere e capii, giovane com'ero, quello che mi aveva detto Ambrogio sulle sue grandi capacità di condottiero. Sapeva giudicare un uomo al millimetro. Io sapevo che mi guardava attraverso, fiutando una bugia, senza sapere dove, o perché, ma chiedendoselo. E deciso a scoprirla... Per una volta parlò in modo quasi affabile, senza collera, addirittura gentilmente. «Stai mentendo, vero? Perché?» «È la pura verità, mio signore. Se guardi il mio pony quando torni a casa...» «Ah, certo, questo è vero. Sono sicuro che lo troverò zoppo. E se mando degli uomini dietro a noi sul sentiero, essi troveranno Cadal che lo riporta a casa. Ma quello che voglio sapere...» Io dissi in fretta: «Non Cadal, mio signore; Ulfin. Cadal aveva altre incombenze e Belasio ha mandato Ulfin con me.» «Due della stessa razza?» Il tono era sprezzante. «Signore?» La sua voce improvvisamente si ruppe per l'ira. «Inutile giocare con le parole, con me, piccolo amasio. Stai dicendo una bugia e voglio sapere quale. So fiutare una bugia ad un miglio di distanza.» Poi guardò dietro di me e la sua voce cambiò. «Che cosa c'è nella bisaccia della tua sella?» Fece un cenno con la testa a uno dei soldati che mi stavano al fianco. Un angolo della veste di Belasio sporgeva. L'uomo mise la mano nella bisaccia e la tirò fuori. Sul bianco sporcato e spiegazzato le macchie spiccavano, scure e inequivocabili. Anche nella resina scoppiettante delle torce sentivo l'odore del sangue.
Dietro Uther i cavalli sbuffarono e agitarono la testa, fiutandolo, e gli uomini si guardarono. Vidi quelli che portavano le torce guardarmi con sospetto, e il soldato accanto a me brontolò sottovoce. Uther disse, con violenza: «Per tutti gli dei dell'inferno, così era questo! Uno di quelli, per Mitra! Avrei dovuto saperlo, sento da qui l'odore del fumo sacro addosso a te! Benissimo, bastardo, tu che usi con tanta libertà del nome di mio fratello, e che tanto godi del suo favore, vedremo che cosa avrà da dire lui adesso, davanti a una cosa simile. E tu, che cosa hai da dire in tua difesa? Non c'è senso a negare, vero?». Alzai la testa. In sella a quella grande cavalla com'ero, potevo quasi incontrare il suo sguardo da pari a pari. «Negare? Nego di aver infranto una legge, o di aver fatto qualcosa che non piacerebbe al conte... e queste sono le uniche due cose che importano, mio signore Uther. Lo spiegherò a lui.» «Per Dio se glielo spiegherai! Cosi Ulfin ti ci ha portato?» Risposi senza esitazione: «Ulfin non ha niente a che fare con tutto questo. Lo avevo già lasciato. In ogni modo, è uno schiavo, e fa quello che io gli chiedo». A un tratto egli spinse il suo cavallo fino accanto al mio. Si chinò in avanti, afferrandomi i lembi del mantello vicino al collo, e stringendo la presa fin quasi a sollevarmi dalla sella. Il suo viso era accanto al mio, il suo braccio armato mi faceva male alla gamba mentre i cavalli scalpicciavano vicini. Egli parlò tra i denti: «E tu fai come ti comando, ascolta me. Qualsiasi cosa tu possa essere per mio fratello, tu ubbidisci anche a me». Strinse ancora la presa, scuotendomi: «Capito, Merlino Emrys?». Annuii. Egli imprecò perché il mio fermaglio l'aveva graffiato, e mi mollò. C'era una striatura di sangue sulla sua mano. Vidi i suoi occhi fissi sul mio fermaglio. Fece schioccare le dita verso l'uomo che portava la torcia, e l'uomo si avvicinò, tenendo alta la fiamma. «Te l'ha dato lui da portare? Il drago rosso?» Poi s'interruppe mentre i suoi occhi arrivavano sul mio viso e vi si soffermavano, fissi, spalancati. L'azzurro intenso parve sfavillare. Lo stallone grigio si spostò ed egli lo frenò con durezza, sicché la bocca della bestia schiumò. «Merlino Emrys...» Lo disse di nuovo, questa volta per se stesso, così piano che lo colsi a fatica. Poi a un tratto proruppe in una risata, divertita e gaia e dura, che non assomigliava a niente di quanto avevo sentito in lui fino a quel momento. «Bene, Merlino Emrys, avrai ancora da rispondere a lui su dove sei stato stanotte!» Fece girare il suo cavallo, e intanto gridò ai suoi uomini, dietro
di lui: «Portatelo con voi, e badate che non cada. Pare che mio fratello ci tenga molto». Il cavallo grigio si slanciò in avanti sotto lo sprone, e lo squadrone si agitò dietro di lui. Gli uomini che mi avevano retto, sempre tenendo per le redini la cavalla, seguirono gli altri, tenendomi tra loro. La lunga veste del druido rimase, calpestata e sporca, nel fango, là dove erano passati i cavalli. Mi chiesi se Belasio l'avrebbe vista e se ciò gli sarebbe servito da avvertimento. Poi lo dimenticai. Mi rimaneva da affrontare Ambrogio. Cadal era nella mia camera. Dissi, sollevato: «Bene, siano ringraziati gli dei che non sei tornato a cercarmi. Sona stato acchiappato da quelli di Uther, e Uther è furioso perché sa dove sono stato». «Lo so» disse Cadal torvo; «ho visto.» «Che vuoi dire?» «Sono tornato indietro a cercarti. Ero sicuro che avevi avuto il buonsenso di scappartene a casa quando hai sentito quel... rumore, perciò ti sono venuto appresso. Quando non ho visto traccia di te sulla strada, ho pensato solo che avevi sforzato a fondo la cavalla... il terreno a me, mi bruciava sotto ai piedi, ti dico! Allora quando...» «Avevi indovinato quello che stava succedendo? Dov'era Belasio?» «Sissignore.» Voltò la testa come per sputare sul pavimento, si riprese, e fece il segno contro il malocchio. «Be', quando sono arrivato qui, e di te non c'era traccia, ho capito che dovevi esser andato dritto dritto a vedere che cosa succedeva. Piccolo sciocco e temerario. Potevi farti ammazzare, a mischiarti con quella gente.» «Lo stesso tu. Ma tu sei tornato indietro.» «Che altro potevo fare? Dovresti aver sentito quante te ne ho dette, poi. Maledetto scocciatore era l'espressione più gentile. Be', mi trovavo a mezzo miglio dalla città quando li ho visti arrivare, e mi sono tirato da parte aspettando che passassero. Conosci quella vecchia stazione di posta, quella distrutta? Stavo li. Li ho guardati passare, e tu per ultimo sotto scorta. Perciò ho capito che lui sapeva, li ho seguiti di nuovo fino in città avvicinandomi per quanto ne avevo coraggio, e poi ho preso una scorciatoia per venire a casa dalle stradine laterali. Sono appena entrato. L'ha scoperto, allora?» Annuii, cominciando a slacciarmi il mantello. «Allora ci sarà il finimondo, non si sbaglia» disse Cadal. «Come l'ha
scoperto?» «Belasio aveva messo la sua veste nella bisaccia della mia sella, e loro l'hanno trovata. Credono che sia mia» sogghignai. «Se me l'avessero provata e avessero visto la misura, avrebbero dovuto ricredersi. Ma a loro non è venuto in mente. Si sono limitati a buttarla nel fango e vi hanno fatto passare sopra i cavalli.» «Ben fatto, questo.» Si era inginocchiato per slacciarmi i sandali. S'interruppe, con uno dei miei sandali in mano. «Mi dicevi che Belasio ti ha visto? Che ti ha parlato?» «Sì. Io l'ho aspettato e siamo tornati insieme verso i cavalli. A proposito, Ulfin porta a casa Aster.» Egli ignorò questo particolare. Mi guardava con gli occhi spalancati e credo fosse impallidito. «Uther non ha visto Belasio» dissi io. «Belasio lo ha evitato in tempo. Sapeva che loro avevano sentito un solo cavallo, così mi ha mandato avanti incontro a loro, altrimenti suppongo ci avrebbero inseguiti, tutti e due. Deve aver dimenticato che la veste l'avevo io, oppure ha corso il rischio, sperando che non la trovassero. Nessuno che non fosse Uther ci avrebbe guardato.» «Non avresti mai dovuto avvicinarti a Belasio. Le cose stanno peggio di quanto pensassi. Su, lascia fare a me. Tu hai le mani fredde.» Tolse il fermaglio con il drago e mi prese il mantello. «Tu vuoi vedere, e lo fai. È un individuo pericoloso... lo sono tutti, se è per questo... e lui più di tutti.» «Tu sapevi di lui?» «Sapere non si può dire. Avrei potuto indovinarlo. È una cosa che gli si addice perfettamente, se vuoi saperlo. Ma quel che volevo dire è che sono una razza pericolosa per chi ci si infila.» «Be', lui è l'arcidruido, o almeno il capo di questa setta, perciò un certo peso l'avrà. Non fare quella faccia turbata, Cadal, non credo che mi farà del male, o che permetterà a qualcun altro di farmene.» «Ti ha minacciato?» Risi. «Si. Con una maledizione.» «Dicono che queste son cose che si attaccano. Dicono che i druidi ti possono mandare appresso un coltello, e che il coltello ti insegue per giorni, e tu non ne sai niente, senti solo un sibilo nell'aria dietro di te un attimo prima che ti colpisca.» «Dicono ogni sorta di cose, Cadal. Cadal, ho un'altra tunica che sia decente? La mia runica migliore è tornata dal lavandaio? E voglio fare un
bagno prima di andare dal conte.» Egli mi guardò di traverso mentre cercava un'altra tunica nella cassapanca. «Uther sarà andato direttamente da lui. Questo lo sai?» Risi. «Certo. Ti avverto, dirò ad Ambrogio la verità.» «Completa?» «Completa.» «Be', immagino sia meglio così» disse lui. «Se c'è qualcuno che può proteggerti da loro...» «Non è per questo. Semplicemente lui deve sapere. Ne ha il diritto. Inoltre, che cosa ho da nascondergli?» Lui disse, a disagio: «Stavo pensando alla maledizione... Perfino Ambrogio potrebbe non esser capace di difenderti da quella». «Ah, per la maledizione.» Feci un gesto che non si vedeva di frequente nelle case dei nobili. «Dimenticala. Né tu né io abbiamo fatto qualcosa di male, e io mi rifiuto di mentire ad Ambrogio.» «Un giorno o l'altro ti vedrò spaventato, Merlino.» «È probabile.» «Non ti sei spaventato neppure di Belasio?» «Avrei forse dovuto?» Mi interessava. «Non mi farà alcun male.» Mi slacciai la cintura della tunica, e la gettai sul letto. Guardai Cadal. «Avresti paura se conoscessi la tua fine, Cadal?» «Sì, per il cane di Mitra! E tu?» «A volte, saltuariamente. A volte la vedo. Mi riempie di paura.» Egli rimase fermo, guardandomi, e sul suo viso c'era la paura. «Che cos'è, allora?» «Una grotta. La grotta di cristallo. A volte penso che sia la morte, e altre volte che sia la nascita, o la soglia di una visione, o un oscuro limbo di sonno... Non so dirlo. Ma un giorno lo saprò. Fino a quel giorno, suppongo non avrò paura di molte altre cose. Alla fine verrò nella grotta, come tu...» M'interruppi. «Come io cosa?» chiese lui pronto. «Io dove andrò?» Sorrisi. «Stavo per dire: come tu arriverai alla tarda età.» «È una bugia» disse lui brusco. «Ho visto i tuoi occhi. Quando vedi delle cose, i tuoi occhi diventano strani; l'avevo già notato. Il nero si allarga ed è come sfocato, come se fosse un sogno... ma senza dolcezza; no, il tuo sguardo diventa freddo, come ferro freddo, come se tu non vedessi e non ti curassi di quello che succede intorno a te. E tu parli come se fossi solo una voce e non una persona... O come se fossi andato in qualche altro posto e
avessi lasciato il tuo corpo a fare un'altra cosa, per parlare. Come un corno che ci si soffia dentro per emettere un suono. Ah, io so che l'ho visto solo un paio di volte, per un attimo, ma è una cosa soprannaturale, e mi fa paura.» «Fa paura anche a me, Cadal.» Avevo lasciato che la tunica verde mi scivolasse dal corpo e cadesse sul pavimento. Egli mi stava porgendo la veste di lana grigia che indossavo a letto. Tesi la mano per prenderla, assente, e mi sedetti sull'orlo del letto, con la veste appoggiata sulle ginocchia che si trascinava per terra. Parlavo a me stesso, più che a Cadal. «Fa paura anche a me. Hai ragione, è di questo che fa l'effetto, come se io fossi una conchiglia vuota con qualcosa che lavora attraverso di me. Dico delle cose, vedo delle cose, penso delle cose, che fino a quel momento non sapevo neppure. Mi fa male. Credo che ciò avvenga perché non so dominare ciò che parla attraverso di me... Voglio dire, non so ancora dominare. Ma ci arriverò. Anche questo, lo so. Un giorno dominerò questa parte di me che sa e vede, questo dio, e quello sarà veramente potere. Saprò quando ciò che dico è istinto umano, e quando è l'ombra di Dio.» «E quando hai parlato della mia fine, che cos'era?» Alzai gli occhi. Strano, era stato più facile mentire a Uther che adesso a Cadal. «Ma io non ho visto la tua morte, Cadal, non ho visto la morte di nessuno salvo la mia. Stavo per mancare di tatto. Stavo per dire: come tu finirai in una tomba straniera, chissà dove...» Sorrisi. «So che per un brettone questo è peggio dell'inferno. Ma credo che è quanto ti accadrà... Voglio dire, se rimani mio servo.» Lo sguardo gli si illuminò, ed egli fece un largo sorriso. Questo era potere, pensai, se una mia parola poteva spaventare gli uomini in questo modo. Egli disse: «Ah, certo che ci rimarrò. Anche se lui non me l'avesse chiesto, io ci rimarrei. Tu hai dei modi così familiari, che badare a te è una gioia.» «Davvero? Credevo che tu mi trovassi un piccolo sciocco temerario, e per di più uno scocciatore?» «Ecco, vedi? Non ho mai osato dire questo a nessun altro del tuo ceto, e tu ti limiti a riderci, tu che sei due volte regale.» «Due volte regale? Non puoi calcolare mio nonno oltre a mia...» M'interruppi. Ciò che mi fece interrompere fu il suo viso. Aveva parlato senza pensarci, poi, affannosamente, aveva tentato di riafferrare le parole, di non averle dette. Lui non diceva niente, rimaneva lì fermo con la tunica sporca in mano. Mi alzai lentamente, dimenticando la veste da notte che scivolò a terra.
Non c'era bisogno che parlasse. Lo sapevo. Non riuscivo a capire come non l'avessi saputo prima, al momento stesso in cui mi trovavo di fronte ad Ambrogio nel campo gelato ed egli mi squadrava dall'alto alla luce della torcia. Lui lo sapeva. E centinaia di altri dovevano averlo indovinato. Ricordavo ora gli sguardi obliqui degli uomini, i mormorii degli ufficiali, la deferenza dei servi che io avevo interpretato come rispetto per gli ordini di Ambrogio, ma che, adesso lo vedevo, era deferenza per il figlio di Ambrogio. La camera era ancora una grotta. Il braciere mandò un guizzo e la sua luce si diffuse sullo specchio di bronzo appoggiato alla parete. Lo guardai. Nel bronzo illuminato dal fuoco il mio corpo nudo appariva esile e irreale, una cosa irreale di luce e di tenebre che si spostava secondo il movimento delle fiamme. Ma il viso era illuminato, e nei suoi piani marcati di fuoco e d'ombra, vidi il viso di lui come l'avevo visto nella sua camera, quando l'avevo trovato seduto accanto al braciere, in attesa che mi portassero da lui. In attesa di me, a cui avrebbe potuto chiedere di Niniane. E qui, di nuovo, la Vista non mi aveva aiutato. Quelli che hanno la vista del dio, ho scoperto, sono spesso di una cecità umana. Dissi a Cadal: «Lo sanno tutti?». Egli annuì. Non chiese che cosa intendessi. «Così si dice. Gli assomigli molto, qualche volta.» «Credo che forse Uther l'ha indovinato. Lui non lo sapeva prima?» «No. È partito prima che cominciasse a correre questa voce. Non era per questo che ce l'aveva con te.» «Sono felice di apprenderlo» dissi. «Per che cos'era, allora? Solo perché mi sono imbattuto in lui durante quella faccenda della pietra eretta?» «Oh, per quello e per altre cose.» «Per esempio?» Cadal disse, schietto: «Credeva che tu fossi l'amasio del conte. Ambrogio non va molto a donne. Non va neanche a uomini, se è per questo, ma se c'è una cosa che Uther non riesce a capire è che uno non entri ed esca dal letto di qualcuno sette sere alla settimana. Quando il fratello ha cominciato a preoccuparsi tanto di te, ti ha fatto stare in casa sua e mi ha messo a servirà e tutto il resto, Uther ha pensato che era una cosa che sarebbe durata, e non gli piaceva neanche un po'». «Capisco. Ha detto qualcosa del genere stanotte, ma credevo che fosse solo perché era in collera.» «Se si fosse disturbato a guardarti, o avesse dato ascolto a quello che di-
ce la gente, lo avrebbe saputo presto.» «Adesso lo sa.» Parlai con improvvisa, assoluta certezza. «Lo ha visto, lì sulla strada, quando ha visto il fermaglio con il drago che mi ha dato il conte. Io non ci avevo mai pensato, ma naturalmente lui ha capito che il conte non avrebbe messo il monogramma reale sul suo amasio. Aveva fatto alzare la torcia, e mi ha guardato bene. Credo che l'abbia visto allora.» Un pensiero mi colpì improvvisamente. «E credo che anche Belasio lo sappia.» «Ah, sì,» disse Cadal «lo sa. Perché?» «Il modo in cui parlava... Come se sapesse che non osava toccarmi. Per questo ha cercato di spaventarmi con la minaccia di una maledizione. Che impudenza, no? Deve aver molto riflettuto mentre tornavamo al bosco di pini. Non osa togliermi semplicemente di mezzo per sacrilegio, ma in qualche modo doveva impedirmi di parlare. Quindi la maledizione. E anche...» M'interruppi. «E anche che cosa?» «Non essere così spaventato. Era solo un'altra garanzia che io avrei tenuto a freno la lingua.» «Per amor degli dei, quale?» Scossi le spalle, mi accorsi di essere ancora nudo, e presi di nuovo la veste da notte. «Ha detto che mi avrebbe portato con sé al santuario. Credo che gli piacerebbe fare di me un druido.» «Ha detto questo?» Mi stavo abituando al segno di Cadal per scongiurare il malocchio. «Che cosa farai?» «Andrò con lui... una volta, almeno. Non fare quella faccia, Cadal. Non c'è la minima probabilità che io desideri andarci più di una volta.» Lo guardai con calma. «Ma non c'è niente al mondo che io non sia pronto a vedere e ad apprendere, e nessun dio al quale io non sia pronto ad avvicinarmi a modo suo. Ti ho detto che la verità è l'ombra di Dio. Se devo usarla, devo sapere chi Egli sia. Mi capisci?» «E come potrei? Di quale dio stai parlando?» «Credo che ce ne sia solo uno. Oh, ci sono dei dappertutto, nelle colline piene di grotte, nel vento e nel mare, nell'erba stèssa che noi calpestiamo e nell'aria che respiriamo, e nelle ombre macchiate di sangue dove uomini come Belasio li aspettano. Ma io credo che debba esserci uno che è Dio lui stesso, come il grande mare, e noialtri tutti, piccoli dei e uomini e tutto il resto, come fiumi, tutti alla fine confluiamo in Lui. È pronto il bagno?» Venti minuti dopo, con indosso una tunica blu chiusa alla spalla con il
fermaglio del drago, mi recavo da mio padre. Dodici Il segretario era in corridoio, accuratamente intento a non far niente. Al di là della tenda udii la voce di Ambrogio che parlava con calma. Le due sentinelle alla porta parevano di legno. Poi la tenda fu tirata da una parte e Uther uscì. Quando mi vide si fermò, ebbe un momento di esitazione come se stesse per parlare, poi parve cogliere lo sguardo interessato del segretario e passò oltre con un turbinio del mantello rosso e in un afrore di cavalli. Si poteva sempre dire dove era stato Uther: pareva che assorbisse gli odori come un cencio per lavare i piatti. Doveva essersi recato direttamente dal fratello senza neppure lavarsi dopo la cavalcata del viaggio di ritorno. Il segretario, che si chiamava Sollio, mi disse: «Puoi entrare direttamente, signore. Ti sta aspettando». Quasi non notai quel "signore". Pareva qualcosa a cui ero già abituato. Entrai. Lui era in piedi con le spalle alla porta, accanto al tavolo. Questo era cosparso di tavolette, e su una di esse era appoggiato uno stilo, come se egli fosse stato interrotto mentre stava scrivendo. Sulla scrivania del segretario accanto alla finestra, un libro semisrotolato era rimasto dove era stato appoggiato. La porta si chiuse alle mie spalle. Mi fermai, e la tenda di cuoio cadde accanto a me con un rumore leggero. Egli si voltò. I nostri occhi s'incontrarono in silenzio, per interminabili secondi, parve, poi egli si schiarì la gola e disse: «Ah, Merlino» e poi, con un lieve movimento della mano: «siediti». Gli ubbidii, dirigendomi al mio solito sgabello accanto al braciere. Egli rimase in silenzio per un momento, con lo sguardo abbassato sul tavolo. Raccolse lo stilo, guardò con espressione assente la cera e aggiunse una parola. Io aspettavo. Egli guardò aggrottato quello che aveva fatto, lo cancellò con un frego, poi buttò lo stilo e disse bruscamente: «Uther è stato a trovarmi». «Sì, signore.» Egli alzò lo sguardo aggrottando le sopracciglia. «A quanto ho capito ti ha incontrato mentre eri solo a cavallo fuori della città.»
Io dissi in fretta: «Non ero uscito da solo. Cadal era con me». «Cadal?» «Si, signore.» «Non è questo che hai detto a Uther.» «No, signore.» Il suo sguardo adesso era penetrante, fisso su di me. «Bene, continua.» «Cadal mi accompagna sempre, mio signore. È... più che fedele. Siamo andati verso nord fino alla pista per il trasporto del legname, nella foresta, e dopo un piccolo tratto su quella pista il mio pony si è azzoppato, perciò Cadal mi ha dato la sua cavalla, e abbiamo deciso di tornare a casa.» Feci un respiro. «Abbiamo preso una scorciatoia, e abbiamo incontrato Belasio e il suo servo. Belasio ha cavalcato per una parte della strada con me, ma non... non gli andava bene incontrare il principe Uther, perciò mi ha lasciato.» «Capisco.» La sua voce non tradiva niente, ma ebbi la sensazione che capisse un mucchio di cose. La domanda successiva che mi rivolse lo confermò. «Sei andato nell'isola dei druidi?» «La conosci?» dissi, sorpreso. Poi, siccome egli non rispondeva ma aspettava in freddo silenzio che io parlassi, proseguii: «Ti ho detto che Cadal e io abbiamo preso una scorciatoia attraverso la foresta. Se conosci l'isola, conoscerai la pista che abbiamo seguito. Proprio dove il sentiero scende al mare c'è un bosco di pini. Lì abbiamo trovato Ulfin - cioè il servo di Belasio - con i due cavalli. Cadal voleva prendere il cavallo di Ulfin e portarmi presto a casa, ma mentre parlavamo con Ulfin abbiamo sentito un grido, un urlo, piuttosto, da un punto a est del bosco di pini. Sono andato a vedere. Giuro che non immaginavo che ci fosse l'isola, né che cosa vi si svolgesse. E neppure Cadal lo immaginava, e se fosse stato a cavallo come me mi avrebbe fermato. Prima che egli avesse preso il cavallo di Ulfin e fosse partito all'inseguimento, io ero nascosto alla sua vista, e lui ha pensato che avevo avuto paura e ero tornato a casa, questo lui mi aveva detto di fare, e solo quando è arrivato qui ha scoperto che non ero venuto da questa parte. È tornato indietro a cercarmi, ma questa volta io avevo incontrato lo squadrone». Cacciai le mani tra le ginocchia, stringendole forte tra loro. «Non so che cosa mi abbia spinto a scendere fino all'isola. Oppure lo so: c'era stato quel grido, perciò sono andato a vedere... Ma non è stato solo a causa del grido. Non so spiegarlo, non ancora...» Feci un profondo respiro. «Mio signore...» «Ebbene?»
«Devo dirtelo. Stanotte lì hanno ucciso un uomo, non so chi fosse, ma ho sentito che era un uomo del re che mancava da qualche giorno. Il suo corpo verrà trovato in qualche punto della foresta, come se l'avesse ucciso un animale selvaggio.» Mi fermai. Sul suo viso non si leggeva niente. «Ho pensato che dovevo dirtelo.» «Sei andato sull'isola?» «Oh, no! Dubito che sarei vivo ora se lo avessi fatto. Ho saputo dopo dell'uomo che era stato ucciso. Era per sacrilegio, hanno detto. Io non avevo chiesto.» Alzai lo sguardo verso di lui. «Mi sono limitato a scendere fino alla spiaggia. Ho aspettato lì tra gli alberi, e ho guardato... la danza e l'offerta. Sentivo il canto. Non sapevo allora che fosse illegale... Da noi è proibito, naturalmente, ma si sa che ancora continua, e pensavo che forse qui era diverso. Ma quando il mio signore Uther ha saputo dov'ero stato, si è arrabbiato molto. Pare che odi i druidi.» «I druidi?» La sua voce adesso era assente. Continuava a giocherellare con lo stilo sul tavolo. «Ah, sì. Uther non li ama. È fanatico di Mitra, e la luce è nemica delle tenebre, suppongo. Be', che c'è?» Le ultime parole, in tono aspro, erano rivolte a Sollio, che era entrato scusandosi e aspettava sulla porta. «Perdonami» disse il segretario. «C'è un messaggero del re Budec. Gli ho detto che eri occupato, ma dice che è importante. Devo dirgli di aspettare?» «Portalo qui» disse Ambrogio. L'uomo entrò con un rotolo di pergamena. Lo tese ad Ambrogio che si sedette sul suo grande seggio e lo srotolò. Lo lesse, aggrottando la fronte. Io l'osservavo. Le fiamme che guizzavano nel braciere si allargarono, illuminando i piani di quel viso che mi pareva di conoscere altrettanto bene quanto il mio. Il centro del braciere era infuocato, la luce si spargeva e si proiettava intorno. Me la sentii sugli occhi che improvvisamente erano spalancati e offuscati... «Merlino Emrys? Merlino?» L'eco si spense diventando una voce normale. La visione svanì. Ero seduto sul mio sgabello nella camera di Ambrogio, con lo sguardo abbassato sulle mie mani afferrate alle ginocchia. Ambrogio si era alzato ed era accanto a me, tra me e il fuoco. Il segretario se n'era andato, eravamo soli. Sentendo ripetere il mio nome sbattei le palpebre e mi alzai in piedi anch'io. Lui stava dicendo: «Che cosa vedi, lì nel fuoco?». Risposi senza alzare gli occhi: «Un folto di biancospini sul fianco di una
collina, e una fanciulla su un pony sauro, e un giovane con un fermaglio ornato di un drago alla spalla, e la nebbia alta fino alle ginocchia». Lo udii tirare un lungo respiro, poi la sua mano scese a prendermi il mento e mi sollevò il viso. I suoi occhi erano decisi e fieri. «È vera, allora, questa tua Vista. Ne ero cosi sicuro, e adesso... adesso, al di là di ogni dubbio, è vera. Pensavo che lo fosse, quella prima notte accanto alla pietra eretta, ma avrebbe potuto essere qualsiasi cosa, la favola di un ragazzo, un'intuizione fortunata per attrarre il mio interesse. Ma questo... Avevo ragione a proposito di te.» Sollevò la mano dal mio viso e si raddrizzò. «Hai visto il viso della fanciulla?» Annuii. «E quello dell'uomo?» Incontrai il suo sguardo allora. «Sì, signore.» Bruscamente egli voltò la testa, voltandomi le spalle, a testa bassa. Raccolse ancora una volta lo stilo dal tavolo, e ricominciò a girarselo tra le dita. Dopo un po' disse: «Da quanto tempo lo sai?». «Solo da quando sono rientrato, stasera. È stato qualcosa che ha detto Cadal, poi ho ricordato certi particolari, e come tuo fratello spalancasse gli occhi, stasera, quando ha visto che portavo questo.» Toccai il fermaglio con il drago al mio collo. Egli mi guardò, poi fece un cenno: «È stata la prima volta che hai avuto quella... visione?». «Sì. Non ci pensavo affatto. Adesso mi pare strano non averlo mai neppure sospettato... ma giuro che non lo feci.» Egli rimase in silenzio, con una mano aperta sul tavolo, appoggiandosi ad essa. Non so che cosa mi fossi aspettato, ma non avevo mai pensato di vedere il grande Aurelio Ambrogio senza parole. Egli fece un giro per la camera fino alla finestra, poi tornò al tavolo e parlò: «Questo è uno strano incontro, Merlino. Tante cose da dire, eppure così poche. Capisci adesso perché ti ho fatto tante domande? Perché ho cercato con ogni mezzo di scoprire che cosa ti avesse portato qui?». «È opera degli dei, mio signore, sono stati loro a portarmi qui» dissi io. «Perché la lasciasti?» Non avevo pensato che la domanda sarebbe sgorgata in modo così brusco, ma immagino che mi tormentasse da tanto tempo che adesso esplodeva con la forza di un'accusa. Cominciai a balbettare qualche cosa, ma egli m'interruppe con un gesto e rispose dolcemente. «Avevo diciotto anni, Merlino, e una taglia sulla mia testa se avessi
messo piede nel mio regno. Tu conosci la storia... come mio cugino Budec mi prendesse con sé quando il re mio fratello fu assassinato, e come non smettesse mai di progettare una vendetta contro Vortigern, anche se per molti anni ciò sembrasse impossibile. Ma egli continuava a mandare esploratori, riceveva rapporti, continuava a far progetti. E poi quando ebbi diciotto anni, mandò sull'altra sponda proprio me, in segreto, da Gorlois di Cornovaglia, che era amico di mio padre e non aveva mai amato Vortigern. Gorlois mi mandò verso il nord con un paio di uomini dei quali poteva fidarsi, a osservare e ascoltare e imparare la configurazione del terreno. Un giorno ti racconterò dove andammo, e quello che accadde, ma non ora. Quello che adesso ti riguarda è questo... Verso la fine di ottobre ci dirigevamo a cavallo verso sud, verso la Cornovaglia, dove dovevamo imbarcarci per tornare a casa, quando fummo assaliti, e dovemmo combattere per la vita. Erano gli uomini di Vortigern. Ancora oggi non so se ci sospettassero o se uccidessero, com'è solito per i sassoni e per le volpi, per capriccio e per sentire il dolce sapore del sangue. Credo che così fosse, altrimenti non avrebbero mancato di assicurarsi di avermi ucciso. Uccisero i miei due compagni, ma io fui fortunato, me la cavai con una ferita superficiale, e un colpo sulla testa che mi fece cadere privo di sensi, sicché essi mi abbandonarono credendomi morto. Succedeva al crepuscolo. Quando mi spostai e mi guardai intorno era il mattino, e sopra di me c'era un pony sauro, che portava una fanciulla il cui sguardo passava insistentemente da me ai morti, senza mai neppure un suono.» Il primo scintillio di un sorriso, rivolto non a me ma al ricordo. «Ricordo che cercai di parlare, ma avevo perso molto sangue, e la notte all'aperto mi aveva procurato la febbre. Ebbi paura che essa si spaventasse e se ne tornasse al galoppo in città, e sarebbe stata la fine. Ma essa non lo fece. Prese il mio cavallo e tirò fuori le mie cose dalla bisaccia della sella, mi diede da bere, poi pulì la ferita e la fasciò, e poi, Dio sa come, mi mise sul cavallo e mi portò fuori da quella valle. C'era un luogo che essa conosceva, disse, vicino alla città, ma solitario e segreto; nessuno ci andava mai. Era una grotta, con una fonte... Che c'è?» «Niente» dissi io. «Avrei dovuto saperlo. Continua. Allora lì non ci viveva nessuno?» «Nessuno. Quando vi arrivammo, immagino che ero in delirio; non ricordo niente. Essa mi nascose nella grotta, insieme al mio cavallo, nascosto alla vista. C'era cibo e vino nella bisaccia della sella, e avevo il mio mantello e una coperta. Era ormai pomeriggio inoltrato e quando essa tornò a casa apprese che i due morti erano già stati trovati, con i loro cavalli
che erravano nelle vicinanze. Lo squadrone aveva fatto una sortita verso nord; non era probabile che qualcuno in città sapesse che avrebbero dovuto trovare tre cadaveri. Così ero salvo. Il giorno successivo essa tornò alla grotta, portando cibo e medicine... E anche il giorno dopo.» Si fermò un momento. «E tu conosci la fine della storia.» «Quando le dicesti chi eri?» «Quando lei mi disse che non poteva lasciare Maridunum e venire con me. Avevo creduto fino a quel momento che essa fosse magari una delle damigelle della regina - dalle sue maniere e da come parlava avevo capito che era stata allevata in una casa regale. Forse lei vide la stessa cosa in me. Ma non aveva importanza. Niente aveva importanza, salvo il fatto che io ero un uomo e lei una donna. Dal primo giorno, sapemmo entrambi che cosa sarebbe accaduto. Capirai com'è quando sarai più grande.» E di nuovo il sorriso, che questa volta oltre che gli occhi sfiorava la bocca. «Questo è un genere di conoscenza per il quale credo dovrai aspettare, Merlino. In questioni d'amore la Vista non ti aiuterà molto.» «Tu le chiedesti di andare con te... di venire qui?» Egli annuì. «Anche prima di sapere chi fosse. Quando lo seppi, ebbi paura per lei, e ancor più cercai di convincerla, ma lei non voleva venire con me. Da come parlava, sapevo che odiava e temeva i sassoni, e temeva quel che Vortigern stava facendo ai regni, ma pure non voleva venire. Una cosa, essa disse, era fare quello che aveva fatto, ma un'altra era attraversare il mare con l'uomo che, quando fosse ritornato lì, sarebbe stato nemico di suo padre. Dobbiamo finirla, essa disse, come sta finendo l'anno, e poi dimenticare.» Rimase in silenzio per un minuto, guardandosi le mani. Io dissi: «E tu non sapesti mai che aveva avuto un bambino?» «No. Ci pensavo, naturalmente. La primavera successiva mandai un messaggio, ma non ottenni risposta. Allora abbandonai la partita, sapendo che se essa mi avesse voluto avrebbe saputo, lo sapevano tutti, dove trovarmi. Poi appresi, fu, credo, un paio d'anni dopo, che era fidanzata. So adesso che non era vero, ma allora servi a farmi togliere tutto questo dalla testa.» Mi guardò. «Lo capisci?» Annuii. «Può anche darsi che fosse vero, però non nel senso in cui tu lo intendesti, mio signore. Essa si votò alla Chiesa, quando io non avessi avuto più bisogno di lei. Questo i cristiani lo chiamano un fidanzamento.» «Davvero?» Egli rifletté un momento. «Qualunque cosa fosse, io non mandai altri messaggi. E quando in seguito si parlò di un bambino, un ba-
stardo, non mi passò neppure per la mente che potesse essere il mio. Un tale venne qui una volta, un oculista ambulante che aveva viaggiato per il Galles, e io lo mandai a cercare e lo interrogai, e lui disse che sì, c'era un bambino bastardo a palazzo, di tot anni, coi capelli rossi, e bastardo dello stesso re.» «Dinias» dissi io. «Probabilmente non mi vide nemmeno. Mi tenevano fuori dai piedi... E a volte mio nonno raccontava agli estranei che ero suo. Ne aveva alcuni sparsi qua e là.» «Così venni a sapere. Perciò quando poi mi arrivò la voce di un ragazzo, forse bastardo del re, forse bastardo di sua figlia, quasi non vi prestai ascolto. Tutto era stato tanto tempo prima, e c'erano cose urgenti da fare, e sempre mi tornava lo stesso pensiero... se lei avesse avuto un bambino da me, non me l'avrebbe fatto sapere? Se mi avesse voluto, non mi avrebbe mandato una parola?» Ricadde nel silenzio, immerso nei suoi pensieri. Non so adesso ricordare se capissi tutto allora, mentre lui parlava. Ma in seguito, quando le tessere del mosaico si riunirono, fu abbastanza chiaro. Lo stesso orgoglio che le aveva proibito di andare con il suo amante, le aveva anche proibito, quando aveva scoperto di essere incinta, di richiamarlo. E l'aveva aiutata nei mesi che seguirono. Più ancora; se, fuggendo o in qualsiasi altro modo, avesse tradito l'identità del suo amante, niente avrebbe impedito ai suoi fratelli di correre alla corte di Budec a ucciderlo. Dovevano esserci stati, conoscendo mio nonno, abbastanza giuramenti pieni di collera su quello che avrebbero fatto all'uomo che le aveva generato il suo bastardo. E poi passò il tempo, e la venuta di lui diventava remota, poi impossibile, come se egli fosse solo un mito, un ricordo della notte. Poi l'altro amore, di lunga durata, subentrò a prendere il posto di lui, i preti ebbero il sopravvento e l'appuntamento invernale fu dimenticato. Salvo per quanto riguardava il bambino, tanto somigliante al padre; ma una volta compiuto il suo dovere verso di lui, lei avrebbe potuto andare a stare in quella solitudine e quella pace che, tanti anni prima, l'avevano spinta a cavalcare su per la valle, come in seguito io sarei uscito a cavallo da solo su quello stesso sentiero, forse in cerca delle stesse cose. Quando egli parlò di nuovo, feci un salto. «Hai avuto anni molto difficili, come figlio di nessuno?» «Abbastanza difficili.» «Mi credi se ti dico che non lo sapevo?» «Io credo tutto quello che tu mi dici, mio signore.»
«Mi odi per questo, mi odi molto, Merlino?» Dissi lentamente, abbassando gli occhi sulle mie mani: «C'è una cosa nel fatto di essere un bastardo e un figlio di nessuno. Sei libero di immaginarti tuo padre. Puoi rappresentarti per te stesso il peggio e il meglio, puoi creare tuo padre per te, a immagine del momento. Da quando sono stato abbastanza grande da capire che cosa ero, ho visto mio padre in ogni soldato e in ogni principe e in ogni prete. E l'ho visto anche in ogni bello schiavo del regno del Galles meridionale». Egli parlò con molta dolcezza, chino su di me: «E adesso lo vedi nella realtà, Merlino Emrys. Ti ho chiesto, mi odi per il genere di vita che ti ho dato?». Io non alzai lo sguardo. Risposi, gli occhi fissi sulle fiamme: «Da quando ero bambino, ho avuto tutto il mondo per scegliervi un padre. E di tutti, Aurelio Ambrogio, avrei scelto te». Silenzio. Le fiamme danzavano come i battiti di un cuore. Aggiunsi, cercando di prendere un tono leggero: «Dopo tutto, quale ragazzo non si sceglierebbe per padre il re di tutta la Britannia?». La sua mano calò di nuovo, con durezza, sul mio mento, facendo girare la mia testa rivolta al braciere e distogliere i miei occhi dalle fiamme. La sua voce era tagliente. «Che cosa hai detto?» «Che cosa ho detto?» Lo guardai sbattendo le palpebre. «Ho detto che avrei scelto te.» Le sue dita affondarono nella mia carne. «Mi hai chiamato re di tutta la Britannia.» «Davvero?» «Ma questo è...» S'interruppe. Il suo sguardo pareva penetrare in me e bruciarmi. Poi lasciò cadere la mano e si raddrizzò. «Lasciamo perdere. Se è una cosa importante, il dio parlerà di nuovo.» Mi sorrise. «Quello che adesso è importante è quello che hai detto proprio tu. Non è dato a tutti udire questo da un figlio già cresciuto. Chissà, forse è meglio cosi, conoscersi da uomini, quando ognuno di noi ha qualcosa da dare all'altro. A chi ha avuto i figli d'attorno fin dall'infanzia, non è dato, tutto a un tratto, vedersi impresso sul viso di un ragazzo come io sono impresso sul tuo.» «Ti assomiglio tanto?» «Lo dicono. E io vedo in te abbastanza di Uther da capire perché tutti hanno detto che sei mio.» «Apparentemente lui non lo aveva visto» dissi io. «È molto in collera per questo fatto, o è solo sollevato di scoprire che dopo tutto non sono il
tuo amasio?» «Lo sapevi?» Pareva divertito. «Se ragionasse con il cervello anziché con il corpo a volte sarebbe tanto di guadagnato per lui. Così come stanno le cose, andiamo avanti molto bene insieme. Lui fa un genere di lavoro, io un altro, e se posso spianargli la strada, lui sarà re dopo di me, se io non ho...» Inghiottì la parola. Nello strano breve silenzio che seguì io guardavo il pavimento. «Perdonami.» Parlava calmo, da pari a pari. «Ho parlato senza pensare. Per tanto tempo sono stato abituato all'idea di non avere un figlio.» Rialzai lo sguardo. «È ancora la verità, nel senso che tu intendi. Ed è certamente la verità come la vedrà Uther.» «Allora se tu la vedi nello stesso modo, la mia strada è più facile.» Risi. «Non mi vedo come re. Mezzo re, forse, o più probabilmente un quarto... quella piccola parte che vede e pensa, ma non può fare. Forse Uther e io, insieme, potremmo farne uno, se tu non ci sei? Lui è già più grande del normale, non ti pare?» Ma lui non sorrise. I suoi occhi si erano fatti più stretti, e avevano uno sguardo intento. «Così pensavo io, o qualcosa del genere. Lo hai indovinato?» «No, signore, come avrei potuto?» Mi raddrizzai, colpito dall'idea. «È così che tu pensi di utilizzarmi? Naturalmente adesso capisco perché mi hai tenuto qui, nella tua casa, e mi hai trattato in modo così regale, ma io ho desiderato credere che tu avessi dei progetti per me... che avrei potuto esserti utile. Belasio mi ha detto che tu usi ogni uomo a seconda delle sue capacità, e che anche se ero inutile come soldato, pure tu in qualche modo mi avresti usato. È vero?» «Verissimo. L'ho saputo subito, prima ancora di pensare che potevi essere mio figlio, quando ho visto come affrontavi Uther quella notte nel campo, con gli occhi ancora colmi di visioni, e il potere che ti avvolgeva come un involucro risplendente. No, Merlino, non sarai mai un re, e neppure un principe nel senso in cui lo intende il mondo, ma quando sarai grande credo che sarai un uomo tale che, se un re ti avesse accanto, potrebbe governare il mondo. Adesso cominci a capire perché ti ho mandato da Belasio?» «È un uomo molto colto» dissi cautamente. «È un uomo corrotto e pericoloso,» disse Ambrogio senza mezzi termini «ma è un uomo raffinato e intelligente che ha viaggiato molto e che sa fare cose che tu non hai avuto l'opportunità di imparare bene nel Galles. Impara
da lui. Non ti dico di seguirlo, perché ci sono luoghi in cui non devi seguirlo, ma impara tutto quello che puoi.» Alzai gli occhi e annuii. «Sai tutto di lui.» Era una conclusione, non una domanda. «So che è sacerdote della vecchia religione. Sì.» «Non ti importa?» «Non posso permettermi di buttar via strumenti di valore perché non mi piacciono i loro scopi» disse lui. «Belasio è utile, perciò lo uso. E tu farai lo stesso, se sei saggio.» «Vuole portarmi alla prossima riunione.» Egli sollevò le sopracciglia ma non disse niente. «Lo proibirai?» chiesi. «No. Tu ci andrai?» «Sì.» Lentamente e molto seriamente, cercando le parole, dissi: «Mio signore, quando si cerca... quello che io sto cercando, bisogna guardare in luoghi strani. Gli uomini non possono mai guardare il sole, se non cercando, in basso, il suo riflesso nelle cose della terra. Se si riflette in una pozzanghera sporca, è sempre il sole. Non c'è nessun luogo in cui io non guarderò, per trovarlo». Egli sorrideva. «Vedi? Non hai bisogno di altra sorveglianza, se non di quella che Cadal può esercitare.» Si appoggiò di nuovo contro l'orlo del tavolo, quasi sedendosi, rilassato adesso, e disteso. «Emrys, ti ha chiamato. Figlio della luce. Degli immortali. Divino. Lo sapevi che questo significa?» «Sì.» «Non sapevi che era il mio stesso nome?» «Il mio nome?» chiesi stupidamente. Egli annui. «Emrys... Ambrogio; è la stessa parola. Merlino Ambrogio... ti ha dato il mio nome.» Lo guardavo con occhi spalancati. «Io... sì, naturalmente. Non mi è mai venuto in testa.» Risi. «Perché ridi?» «Per via dei nostri nomi. Ambrogio principe della luce... Lei diceva a tutti che mio padre era il principe delle tenebre. Ho sentito perfino una canzone su questo. Facciamo canzoni su ogni cosa, nel Galles.» «Un giorno devi cantarmela.» Poi di colpo si calmò. La sua voce divenne più profonda. «Merlino Ambrogio, figlio della luce, guarda il fuoco adesso, e dimmi che cosa vedi.» Poi, mentre lo guardavo, sbigottito, insi-
stette: «Adesso, stanotte, prima che il fuoco muoia, adesso che sei stanco e c'è sonno sul tuo viso. Guarda il braciere e parlami. Che accadrà alla Britannia? Che accadrà a me, e a Uther? Guarda adesso, lavora per me, figlio mio, e dimmi». Era inutile; io ero sveglio, e le fiamme morivano nel braciere; il potere se n'era andato, lasciando solo una stanza piena di ombre che si raffreddavano rapidamente, e un uomo e un ragazzo che parlavano. Ma poiché lo amavo, volsi gli occhi verso i tizzoni. Il silenzio era assoluto, a parte il sibilo della cenere che si posava, e il crepitare leggero del metallo che si raffreddava. Dissi: «Non vedo altro che il fuoco che si spegne nel braciere e una grotta di carbone in fiamme». «Continua a guardare.» Sentivo il mio corpo che cominciava a sudare, goccioline di sudore che mi scorrevano ai lati del naso, sotto le braccia, all'inguine, finché ne ebbi le cosce appiccicate. Le mie mani si tormentavano, strette tra le ginocchia finché le ossa mi fecero male. Le tempie mi dolevano. Scossi forte la testa per svuotarla, e alzai gli occhi. «Mio signore, è inutile. Mi dispiace ma è inutile. Io non comando il dio, è lui che comanda me. Forse un giorno potrò vedere quando voglio, o quando tu me lo ordini, ma adesso viene da sé, o non viene affatto.» Allargai le mani, tentando di spiegare: «È come aspettare sotto un velo di nuvole, poi a un tratto un vento lo divide e lo squarcia, e la luce scende e mi colpisce, a volte in pieno a volte solo l'orlo ondeggiante delle colonne di luce. Un giorno mi sarà aperto tutto il tempio. Ma non ancora. Non vedo niente». La spossatezza mi logorava. Lo sentivo nella mia voce. «Mi dispiace», mio signore. Sono inutile per te. Non hai ancora trovato il tuo profeta.» «No» disse Ambrogio. Lasciò cadere la mano e mentre mi alzavo mi attirò a sé e mi baciò. «Solo un figlio, che non ha cenato e che è stanco morto. Vai a letto, Merlino, e dormi senza sogni il resto della notte. C'è tanto tempo per le visioni. Buona notte.» Quella notte non ebbi più visioni, ma feci un sogno. Non l'ho mai detto ad Ambrogio. Rivedevo la grotta sul fianco della collina, e la fanciulla Niniane che avanzava nella nebbia, e l'uomo che l'aspettava vicino alla grotta. Ma il volto di Niniane non era il volto di mia madre, e l'uomo accanto alla grotta non era il giovane Ambrogio. Era un vecchio, e il suo viso era il mio.
LIBRO III Il lupo Uno Rimasi cinque anni in Bretagna con Ambrogio. Riandando indietro col pensiero, ora, vedo che molto di ciò che accadde si è trasformato nella mia memoria, come un mosaico rotto e riparato dopo anni da un uomo che ha quasi dimenticato il disegno originario. Certe cose mi ritornano chiare, con tutti i loro colori e in tutti i particolari; altre, forse più importanti, sono confuse, come se il disegno ne fosse stato velato da quanto è accaduto in seguito, morte, dolore, mutamenti del cuore. I luoghi li ricordo sempre bene, alcuni cosi nitidamente che addirittura mi sembra che potrei muovermi in essi, e che se avessi la forza di concentrarmi e il potere che un tempo mi si adattava come la mia veste, potrei addirittura ricostruirli qui al buio come, tanti anni fa, ricostruii per Ambrogio la Danza dei giganti. I luoghi sono chiari, e anche le idee che allora mi si presentavano così nuove e vivide, ma le persone non sempre: a volte, adesso, mentre frugo nella mia memoria, mi domando se di quando in quando non le ho confuse, Belasio con Galapas, Cadal con Cerdic, l'ufficiale brettone il cui nome adesso ho dimenticato con quel capitano di mio nonno che una volta, a Maridunum, tentò di trasformarmi in quel genere di spadaccino che egli riteneva anche un principe bastardo dovrebbe essere. Ma quando scrivo di Ambrogio, è come se lui fosse qui con me adesso, illuminato in questa oscurità come l'uomo con il copricapo era illuminato in quella prima notte resa magica dalla brina, in Bretagna. Anche senza la mia veste di potere posso evocare i suoi occhi sullo sfondo di queste tenebre, fermi sotto le sopracciglia aggrottate, le linee pesanti del suo corpo, il volto (che adesso mi sembra così giovane) scolpito nella durezza dalla volontà divorante, pungolante che aveva tenuto i suoi occhi rivolti a occidente, a quel regno che gli era precluso, per i venti e più anni che gli ci erano voluti per passare da bambino a comes e costruire, a dispetto di una situazione resa sfavorevole da inferiorità e debolezza, quella forza straordinaria che cresceva con lui, aspettando il momento. Più difficile scrivere di Uther. O meglio è difficile scrivere di Uther come se fosse situato nel passato, parte di una storia ormai finita da tutti questi anni. In modo ancora più vivido di Ambrogio, egli è qui con me; non
qui nelle tenebre... è la parte di me che era Myrddin che è qui nelle tenebre. Quella parte che era Uther è fuori al sole, e tiene unita la Britannia, seguendo il disegno da me concepito per lui, il disegno che Galapas mi mostrò un giorno d'estate nel Galles. Ma qui, naturalmente, non è più di Uther che scrivo. Scrivo dell'uomo che era la somma di noi, che era il totale di noi; Ambrogio, che mi ha fatto; Uther, che ha lavorato con me; io stesso, che mi sono servito di lui, come mi sono servito di tutti gli uomini che mi capitavano, per fare Artù per la Britannia. Di quando in quando giungevano notizie dalla Britannia, e a volte, insieme a quelle, attraverso Gorlois di Cornovaglia, notizie della mia famiglia. Pareva che dopo la morte di mio nonno, Camlach non avesse abbandonato subito la vecchia alleanza con il suo parente Vortigern. Doveva sentirsi più sicuro prima di osare staccarsi per sostenere il «partito dei giovani», come veniva chiamata la fazione di Vortimer. In realtà, lo stesso Vortimer aveva abbandonato la ribellione aperta, ma pareva chiaro che alla fine questa sarebbe dovuta arrivare. Re Vortigern era di nuovo tra l'incudine e il martello; per rimanere re dei britannici doveva richiedere l'aiuto dei compatrioti della sua consorte sassone, e i mercenari sassoni aumentavano le richieste un anno dopo l'altro, finché il paese fu diviso e sanguinante sotto quello che veniva chiamato apertamente il Terrore sassone e, soprattutto nella parte occidentale dove gli uomini erano ancora liberi, la ribellione aspettava solo un capo che potesse guidare i capi. E la situazione di Vortigern stava diventando così disperata che egli era costretto, contro il suo stesso discernimento, ad affidare sempre più gli uomini armati delle regioni occidentali a Vortimer e ai suoi fratelli, il cui sangue almeno non era contaminato da sangue sassone. Di mia madre non c'erano notizie, salvo che era al sicuro nel convento di San Pietro. Ambrogio non le mandò alcun messaggio. Se fosse giunto alle sue orecchie che un certo Merlino Ambrogio era con il conte di Bretagna, avrebbe saputo che pensare, ma una lettera o un messaggio provenienti dal nemico del re le avrebbero fatto correre pericoli non necessari. Avrebbe saputo in tempo, diceva Ambrogio. In realtà passarono cinque anni prima che giungesse la rottura, ma il tempo passò come il corso della marea. Con le possibilità che si verificasse un'apertura nel Galles e in Cornovaglia, Ambrogio accelerò i preparativi.
Se gli uomini della regione occidentale avevano bisogno di un capo, egli aveva tutte le intenzioni di far sì che quel capo non fosse Vortimer ma lui stesso. Avrebbe aspettato il suo momento e lasciato che Vortimer fosse il cuneo, ma lui e Uther sarebbero stati il martello che avanzava dietro quello nell'incrinatura. Nel frattempo, in Britannia minore la speranza aumentava; offerte di truppe e di alleanze arrivavano in massa, il paese tremava per lo scalpitio di cavalli e di piedi in marcia, e le strade degli ingegneri e degli armaioli risonavano fino a notte alta perché gli uomini raddoppiavano gli sforzi cercando di fare due armi nel tempo che prima sarebbe stato necessario per una. Adesso finalmente la frattura stava per determinarsi, e quando si fosse verificata Ambrogio doveva essere pronto, senza possibilità di insuccesso. Uno non passa metà della vita a raccogliere materiale per fare un'asta mortale, per poi lanciarla a caso nel buio. Non solo gli uomini e i materiali, ma anche il tempo e lo spirito e il soffio stesso del cielo dovevano essere nelle condizioni esatte per lui, e gli dei in persona dovevano aprirgli il cancello. E per questo, egli diceva, essi mi avevano mandato a lui. Fu la mia venuta proprio in quel periodo con parole di vittoria, piene della visione del dio non conquistato, a persuaderlo (e cosa ancora più importante, a persuadere i soldati con lui) che finalmente si stava avvicinando il momento in cui avrebbe potuto colpire con la certezza della vittoria. Così, scoprii con paura, egli mi considerava. Di certo io non gli avevo mai più chiesto di nuovo in che modo intendesse usarmi. Egli lo chiarì a sufficienza, e combattuto tra orgoglio, paura e desiderio io lottavo per imparare tutto quello che poteva essermi insegnato, e per aprirmi al potere che era tutto quello che potevo dargli. Se egli aveva desiderato un profeta pronto a portata di mano, dovette esser deluso; in quel periodo non vidi nulla d'importante. La conoscenza, suppongo, bloccava i cancelli della visione; studiai con Belasio fino a sorpassarlo, imparando - cosa che egli non aveva mai fatto - il modo di applicare quei calcoli che per lui erano un'arte come lo erano per me le canzoni; anche quelle, in verità, le avrei usate. Trascorrevo lunghe ore nelle strade degli ingegneri, e di frequente dovevo esser trascinato via da un Cadal brontolante che cercava di allontanarmi da qualche lavoro materiale particolarmente sporco che mi rendeva adatto, egli sosteneva, solo alla compagnia di uno schiavo delle terme. Scrissi anche, in quel tempo, tutto ciò che potei ricordare dell'insegnamento medico di Galapas, e aumentai la mia esperienza pratica in questo settore aiutando i dottori militari tutte le volte che mi era possibile. Avevo libero accesso al campo e alla città e con il nome
di Ambrogio alle spalle ne approfittavo come fa un giovane lupo affamato con il suo primo pasto completo. Imparavo in continuazione, da qualsiasi uomo o donna conoscessi. Guardavo, come avevo promesso, la luce e le tenebre, il sole che splendeva e la pozzanghera di acqua stagnante. Mi recavo con Ambrogio al santuario di Mitra sotto la cascina, e con Belasio alle riunioni nella foresta. Mi era anche permesso di partecipare in silenzio ai consigli del conte con i suoi capitani, benché nessuno fingesse che sarei stato di grande utilità in battaglia «a meno che» disse una volta Uther, un po' divertito e un po' maligno, «non debba stare sopra di noi come Giosuè che tiene indietro il sole, dandoci più tempo per svolgere il nostro lavoro. Benché, scherzi a parte, potrebbe fare di peggio... pare che gli uomini lo ritengano qualcosa di mezzo tra un messaggero di Mitra e una scheggia della Vera Croce - con tutto il rispetto, fratello - e, maledizione, sono sicuro che sarebbe più utile piantato su una collina come un amuleto portafortuna, che giù sul campo dove non durerebbe cinque minuti». Ebbe ancora più da dire quando, all'età di sedici anni, rinunciai a quella pratica quotidiana della spada che dava a un uomo un minimo di allenamento per la propria difesa; ma mio padre si limitò a ridere e non disse niente. Credo che sapesse, benché io ancora non lo sapessi, che avevo un mio tipo particolare di protezione. Così apprendevo da tutti: dalle vecchie che raccoglievano piante, ragnatele e alghe marine per farne medicamenti; dai venditori ambulanti e dai ciarlatani che si dicevano guaritori; dai dottori dei cavalli, dagli indovini, dai sacerdoti. Ascoltavo le chiacchiere dei soldati fuori delle taverne, le chiacchiere degli ufficiali nella casa di mio padre e le chiacchiere dei ragazzi nelle strade. Ma c'era una cosa sulla quale non appresi nulla: quando lasciai la Bretagna a diciassette anni, ero ancora ignorante in materia di donne. Quando pensavo a loro, e questo accadeva abbastanza spesso, mi dicevo che non avevo tempo, che avevo tutta una vita davanti a me per simili cose, e che dovevo lavorare per fare quello che era più importante. Ma immagino che semplicemente mi facessero paura. Così annegavo i miei desideri nel lavoro, e in verità ritengo adesso che quella paura mi venisse dal dio. Perciò aspettavo e badavo ai fatti miei che, così vedevo le cose a quel tempo, consistevano nel prepararmi a servire mio padre. Un giorno mi trovavo nell'officina di Tremorino. Tremorino, l'ingegnere capo, era un uomo simpatico che mi permetteva di imparare tutto il possi-
bile da lui, mi dava spazio nelle officine e materiale con cui fare esperimenti. Quel giorno in particolare ricordo che quando egli entrò nell'officina e mi vide occupato con un modello dietro al mio banco in angolo, si avvicinò per dare un'occhiata. Quando vide quello che stavo facendo rise. «Avrei pensato che ce n'era in quantità qui intorno, senza che ci si debba disturbare a metterne altre.» «Mi interessa come le hanno portate lì» rimisi al suo posto il modello in scala della pietra eretta. Lui parve sorpreso. Lo sapevo perché. Aveva sempre vissuto in Britannia minore, e il paesaggio di questa regione è talmente solcato da quelle pietre che la gente non le vede più. Si cammina ogni giorno attraverso una foresta di pietra, e alla maggioranza questa sembra pietra morta... Ma non a me. A me quelle pietre dicevano ancora qualche cosa, e dovevo scoprire che cosa; ma questo non lo dissi a Tremorino. Mi limitai ad aggiungere: «Stavo cercando di riprodurre la cosa in scala». «Posso dirti subito una cosa: ci hanno provato e non funziona.» Lui stava guardando la carrucola che avevo sistemato per sollevare il modello. «Questo potrebbe andare per i montanti, ma solo per le pietre più leggere, e non funziona affatto per quelle che servono da architrave.» «No. L'avevo già scoperto. Ma avevo un'idea... avevo intenzione di affrontare il problema in un altro modo.» «Stai perdendo il tuo tempo. Facci vedere che ti dedichi a qualcosa di pratico, a qualcosa di cui abbiamo bisogno e che possiamo utilizzare. Ora, quella tua idea di una gru mobile leggera, potrebbe valer la pena svilupparla...» Alcuni minuti dopo lo chiamarono e dovette andarsene. Smontai il modello e mi immersi nei miei nuovi calcoli. A Tremorino non ne avevo parlato; aveva cose più importanti a cui pensare, e comunque avrebbe riso se gli avessi detto di aver appreso da un poeta come si sollevavano le pietre erette. Era andata così. Un giorno, circa una settimana prima di questo episodio, mentre passeggiavo accanto al fossato che proteggeva le mura della città, avevo sentito un uomo cantare. La voce era vecchia e titubante, e roca per l'abuso che ne era stato fatto: la voce di un cantore di professione che l'aveva sforzata per farle dominare il rumore della folla, e che cantava con il freddo invernale nella gola. Quel che attirò la mia attenzione non fu né la voce né la melodia, che era difficile distinguere, ma il suono del mio nome.
Merlino, Merlino, dove stai andando? L'uomo era seduto accanto al ponte, con una ciotola per le elemosine. Vidi che era cieco, ma quel che restava della sua voce era autentico, e non fece alcun gesto con la ciotola quando mi sentì fermarmi accanto a lui, ma si sedette come ci si siede all'arpa, con la testa china, ascoltando ciò che dicono le corde, con le dita che si muovevano come se sentissero le note. Aveva cantato, giudicai, alle corti di re. Merlino, Merlino, dove stai andando Così presto al mattino con il tuo cane nero? Sono stato in cerca dell'uovo, L'uovo rosso del serpente marino, Che è posato vicino alla spiaggia nella pietra incavata. E vado a raccogliere crescione nel prato, Il crescione verde e le erbe dorate, Il muschio dorato che dà il sonno, E il vischio lassù sulla quercia, il ramo dei druidi Che cresce nel cuore dei boschi accanto all'acqua chiara. Merlino, Merlino, torna indietro dal bosco e dalla fontana Lascia la quercia e le erbe dorate Lascia il crescione nella marcita, E l'uovo rosso del serpente di mare Nella schiuma presso la pietra incavata! Merlino, Merlino, lascia la tua ricerca! Non esiste altro indovino che Dio. Ormai la canzone è nota come quella di Maria Vergine, o quella del Re e del Sigillo grigio, ma quella fu la prima volta che la udii. Quando egli seppe chi era colui che si era fermato ad ascoltare, parve contento che mi sedessi accanto a lui sull'argine, e che facessi delle domande. Ricordo che quella prima mattina parlammo soprattutto della canzone, poi di lui; scoprii che da giovane era stato sull'isola di Mona, l'isola dei druidi, che conosceva Caer'n-ar-Von e che era stato a Snowdon. Era stato nell'isola dei druidi che aveva perso la vista; non mi raccontò mai in che modo, ma quando gli dissi che le alghe e il crescione che cercavo lungo la spiaggia erano solo piante curative, che non servivano per fare magia, sorrise e can-
tò un verso che avevo sentito cantare da mia madre e che, egli disse, sarebbe stato una protezione. Contro che cosa, non lo disse, né io glielo chiesi. Misi nella sua ciotola del denaro che egli accettò con dignità, ma quando gli promisi di trovargli un'arpa si fece silenzioso, fissando davanti a sé con quelle orbite vuote, e potei vedere che non mi credeva. Il giorno successivo gli portai l'arpa; mio padre era generoso, e non ebbi nemmeno bisogno di dirgli per che cosa mi servisse il denaro. Quando gli misi l'arpa tra le mani, il vecchio cantore pianse, poi mi prese le mani e le baciò. Dopo questo episodio, fino a quando lasciai la Britannia minore, lo cercai spesso. Aveva viaggiato molto, in terre remote come l'Irlanda e l'Africa. Mi insegnò canzoni di ogni paese, dell'Italia, della Gallia e del bianco nord, e vecchie canzoni orientali, strane melodie erranti che erano giunte in occidente, egli diceva, dalle isole orientali insieme agli uomini del passato che avevano innalzato le pietre erette, e parlavano di fatti e credenze tradizionali da lungo tempo dimenticati, salvo che nelle canzoni. Non credo che egli stesso le considerasse qualcosa di più che canzoni di antica magia, favole di poeti, ma a me, più ci riflettevo e più chiaramente mi parlavano di uomini realmente vissuti, di opere da loro realmente compiute, quando avevano innalzato le grandi pietre per indicare il sole e la luna e per erigere un monumento ai loro dei e ai re giganti del passato. Ne parlai una volta con Tremolino, che era gentile oltre che intelligente e di solito riusciva sempre a trovare un po' di tempo per me; ma egli rise e abbandonò il discorso, sicché io non dissi più niente. I tecnici di Ambrogio avevano già abbastanza cose a cui pensare in quel periodo, senza che ci si mettesse anche un ragazzo a elaborare una serie di calcoli che non avrebbero avuto nessuna utilizzazione pratica per la prossima invasione. Così lasciai stare. Fu durante la primavera del mio diciottesimo anno che giunsero finalmente le notizie dalla Britannia. Per tutto gennaio e febbraio, l'inverno aveva bloccato le rotte e fu solo ai primi di marzo, approfittando del tempo freddo e calmo prima dell'inizio delle burrasche, che una piccola imbarcazione mercantile fece scalo al porto, e Ambrogio ebbe le notizie. Erano notizie da mettere in subbuglio... letteralmente, perché solo a poche ore dalla loro venuta i messaggeri del conte cavalcavano verso nord e verso est, per radunare infine gli alleati, e alla svelta, dato che le notizie non erano tanto recenti. Pareva che Vortimer avesse finalmente, qualche tempo prima, rotto con
suo padre e con la regina sassone. Stanchi di supplicare il Sommo re di rompere con gli alleati sassoni e di proteggere il suo popolo contro di loro, parecchi capi britannici, e tra loro quelli della regione occidentale, avevano persuaso Vortimer a occuparsene lui alla fine, e si erano sollevati con lui. Lo avevano acclamato re, si erano raccolti sotto il suo stendardo contro i sassoni, riuscendo a ricacciarli a sud e a est, finché quelli si erano rifugiati con le loro galee sull'isola di Thanet. Anche qui Vortimer li aveva inseguiti, e per tutta la fine dell'autunno e il principio dell'inverno li aveva assediati, finché quelli chiesero solo che venisse riconosciuto loro il diritto di andarsene in pace, si presero i loro dei e se ne tornarono in Germania, lasciando dietro di sé le loro donne e i bambini. Ma il regno vittorioso di Vortimer non durò a lungo. Non era del tutto chiaro cosa fosse accaduto, ma correva voce che fosse morto per un veleno somministratogli a tradimento da qualche intimo della regina. Qualunque fosse la verità, fatto è che era morto e suo padre Vortigern aveva di nuovo il comando. Tra i suoi primi atti c'era stato (e anche di questo si dava la colpa a sua moglie) quello di richiamare in Britannia Hengist e i suoi sassoni. «Con forze militari limitatissime» aveva detto «quanto bastava a mantenere l'ordine pubblico e ad aiutare lui, Vortigern, a riunire il suo regno diviso.» In realtà i sassoni avevano promesso trecentomila uomini. Questo dicevano le voci, e anche se si doveva ritenere che non dicessero il vero, era certo comunque che Hengist progettava di tornare con forze considerevoli. C'era anche qualche notizia da Maridunum. Il messaggero non era una spia di Ambrogio; le notizie che ci portò erano, per così dire, le voci più correnti. Erano abbastanza cattive. Pare che mio zio Camlach, con tutti i suoi nobili, gli uomini di mio nonno, cioè, che io conoscevo bene, si fosse sollevato con Vortimer e avesse combattuto dalla sua parte in quattro battaglie campali contro i sassoni. Nella seconda di esse, quella di Episford, Camlach era stato ucciso, insieme a Katigern, il fratello di Vortimer. Quel che mi riguardava più da vicino era che dopo la morte di Vortimer erano iniziate le rappresaglie contro quelli che avevano combattuto con lui. Vortigern aveva annesso alle sue terre di Guent il regno di Camlach e, avendo bisogno di ostaggi, aveva ripetuto l'azione di venticinque anni prima: aveva preso i figli di Camlach, uno dei quali neonato, e li aveva affidati alle cure della regina Rowena. Non avemmo modo di sapere se erano ancora vivi. E non sapevamo neppure se il figlio di Olwen, che aveva incontrato la stessa sorte, fosse sopravvissuto. Pareva improbabile. Di mia madre non
si avevano notizie. Due giorni dopo l'arrivo delle notizie, cominciarono le burrasche primaverili, e ancora una volta il mare si chiuse a noi e ad altre notizie. Ma non aveva importanza; in realtà, la cosa funzionava in tutti e due i sensi. Come noi non potevamo avere notizie dalla Britannia, così loro non potevano averne di noi e degli ultimi preparativi accelerati per l'invasione della Britannia occidentale. Perché era certo che ormai il momento era giunto. Non si trattava solo di andare a liberare il Galles e la Cornovaglia, ma se erano rimasti uomini da chiamare a raccolta sotto il Drago rosso, il Drago rosso avrebbe dovuto combattere per la sua corona quell'anno stesso. «Partirai con la prima nave» mi disse Ambrogio, ma senza sollevare gli occhi dalla mappa che era aperta sul tavolo davanti a lui. Io ero in piedi accanto alla finestra. Anche con le imposte chiuse e con le tende tirate potevo sentire il vento, e le tende accanto a me si muovevano per la corrente. Dissi: «Sì, signore» e mi avvicinai al tavolo. Allora vidi il punto che il suo dito segnava sulla mappa. «Devo andare a Maridunum?» Egli annuì. «Prenderai la prima nave diretta alle coste occidentali e da qualsiasi punto in cui attraccherà ti dirigerai a casa. Devi andare direttamente da Galapas a prendere notizie. Non credo che in città ti riconoscerebbero, ma non correre rischi. Galapas è al sicuro. Puoi fare base da lui.» «Allora non si è saputo niente della Cornovaglia?» «Niente, a parte una voce secondo la quale Gorlois si era messo con Vortigern.» «Con Vortigern?» Assimilai un momento l'idea. «Allora non si è sollevato con Vortimer?» «Secondo le notizie che ho ricevuto, no.» «Allora fa l'opportunista.» «Può darsi. Provo difficoltà a crederlo. Può non voler dire niente. So che ha sposato una donna giovane, e forse significa soltanto che è rimasto tutto l'inverno entro le mura per tenerla al caldo. Oppure che aveva previsto quel che sarebbe successo a Vortimer e ha preferito servire la mia causa rimanendosene al sicuro e apparentemente fedele al Sommo re. Ma finché non lo so di sicuro, non posso mandargli un messaggero direttamente. Può darsi che sia sorvegliato. Perciò tu devi andare da Galapas a sentire le notizie del Galles. Mi dicono che le truppe di Vortigern sono imbucate lì, in qualche punto, mentre tutta la Britannia orientale è aperta davanti a Hengist. Dovrò per prima cosa annientare il vecchio lupo, poi saldare le regioni occidentali contro i sassoni. Ma bisognerà fare presto. E voglio Caerle-
on.» Allora alzò lo sguardo. «Mando con te il tuo vecchio amico... Marric. Puoi mandarmi un messaggio tramite suo. Speriamo che tu trovi tutto bene. Vorrai notizie anche tu, credo.» «Questo può aspettare» dissi io. Lui non rispose, ma sollevò le sopracciglia guardandomi, poi si immerse di nuovo nella contemplazione della mappa. «Be', siediti e ti darò le istruzioni. Speriamo che tu possa ritornare presto:» Indicai le tende mosse dal vento. «Avrò il mal di mare per tutto il viaggio.» Lui alzò lo sguardo dalla mappa e rise. «Per Mitra, non ci avevo pensato. Pensi che lo avrò anch'io? Un modo maledettamente poco dignitoso di far ritorno nella propria casa.» «Nel proprio regno» dissi io. Due Compii la traversata ai primi di aprile, e sulla stessa nave della volta precedente. Ma il viaggio non avrebbe potuto essere più diverso. Non c'era più Myrddin, il fuggiasco, ma Merlino, un giovane romano ben vestito e fornito di denaro, con servi alle sue dipendenze. Laddove Myrddin era stato rinchiuso nudo nella stiva, Merlino aveva una comoda cabina e il capitano gli dimostrava profonda deferenza. Cadal era uno dei miei servi e l'altro, con mio divertimento ma non suo, credo, era Marric. (Hanno era morto, avendo sopravvalutato le proprie forze, dovetti concludere, in un affaretto di ricatto.) Naturalmente non recavo tracce esteriori della mia parentela con Ambrogio, ma niente mi avrebbe fatto separare dal fermaglio che egli mi aveva dato: lo portavo appuntato all'interno della mia tunica, sulla spalla. È poco probabile che qualcuno riconoscesse in me il fuggiasco di cinque anni prima, e certo il capitano non parve avermi riconosciuto, ma io mi tenni in disparte e feci attenzione a parlare solo brettone. Come voleva il destino, la nave era diretta proprio alla foce del Tywy e avrebbe gettato l'ancora a Maridunum, ma era convenuto che Cadal e io saremmo stati traghettati a terra da una barca appena la nave mercantile fosse arrivata nell'estuario. Era, proprio, il mio primo viaggio per mare in senso opposto, ma per quanto riguardava l'aspetto più importante non vi fu alcuna differenza. Stetti male per tutta la traversata. Il fatto che questa volta avessi una comoda cuccetta e Cadal per assistermi, invece di un mucchio di sacchi e di
un secchio nella stiva, da questo punto di vista non costituiva la minima differenza. Non appena la nave si spinse fuori del Piccolo Mare e incontrò il vento d'aprile nella Baia, abbandonai la mia elegante posizione a prua e andai a sdraiarmi di sotto. Avemmo, mi dissero, vento favorevole, e potemmo entrare nell'estuario e buttare l'ancora poco prima dell'alba, dieci giorni prima delle idi di aprile. Era un'alba silenziosa, fredda e nebbiosa. C'era una gran tranquillità. La marea stava cambiando, cominciava a risalire l'estuario, e quando la nostra barca si staccò dal fianco della nave si sentì solo il sibilo e il gorgoglio dell'acqua contro la nave, e insieme il battere attutito dei remi. In lontananza, esile e metallico, sentivo il canto del gallo. Oltre la nebbia, chissà dove, c'era un belare di agnelli cui rispondeva quello, più profondo, delle pecore. L'aria aveva un profumo delicato, sano e salino, in un certo senso, stranamente, il profumo di casa. Ci mantenevamo proprio nel centro del fiume e la nebbia ci nascondeva da chi si trovasse sugli argini. Il poco che parlavamo, lo facevamo bisbigliando; una volta, un cane abbaiò sulla riva e udimmo un uomo parlargli, le sue parole altrettanto chiare che se fosse stato con noi nella barca; era sufficiente come avvertimento, e continuammo a parlare pianissimo. La marea di primavera era forte, e ci trasportò rapidamente. Fu un bene, perché avevamo gettato l'ancora più tardi di quanto avremmo dovuto, e si stava facendo chiaro. Vidi i rematori guardare ansiosi il cielo e poi affrettare il ritmo dei remi. Mi chinai un po' in avanti, sforzando gli occhi per cogliere uno squarcio noto della riva. Cadal mi sussurrò all'orecchio: «Contento di esser tornato?». «Dipende da cosa troveremo. Ma ho fame, per Mitra.» «Non è strano» disse lui ridacchiando. «Che cosa stai cercando?» «Dovrebbe esserci un'insenatura... sabbia bianca con un torrente che corre attraverso gli alberi... e dietro una cresta rocciosa con sopra dei pini. Ci inoltreremo da quel punto.» Egli annuì. Il programma era che Cadal e io saremmo stati sbarcati sulla riva dell'estuario più lontana da Maridunum, in un punto dal quale sapevo avremmo potuto avanzare non visti fino a raggiungere la strada che veniva da sud. Saremmo stati viaggiatori provenienti dalla Cornovaglia; la conversazione l'avrei tenuta io, ma l'accento di Cadal era passabile, a patto di non imbattersi proprio in un cornovagliese. Avevo con me alcuni barattoli di unguento e una cassettina di medicine e se me l'avessero chiesto avrei
potuto farmi passare per un medico ambulante, un travestimento che avrebbe funzionato come un lasciapassare più o meno in tutti i posti in cui volevo andare. Marric era ancora a bordo. Era rimasto sul mercantile e sarebbe sbarcato normalmente sul molo. Avrebbe tentato di trovare i suoi vecchi contatti nella città, raccogliendo tutte le notizie che gli sarebbe stato possibile. Cadal sarebbe venuto con me alla grotta di Galapas, e avrebbe funzionato come collegamento con Marric per trasmettere le informazioni che io avrei trovato. La nave doveva rimanere tre giorni all'ancora nel Tywy; quando fosse salpata Marric avrebbe portato le notizie in Bretagna. Che io e Cadal partissimo o no con lui dipendeva da quanto avremmo trovato, né io né mio padre dimenticavamo che, dopo la parte avuta da Camlach nella rivolta, Vortigern doveva esser passato da Maridunum come una volpe da un pollaio, magari accompagnato dai suoi sassoni. Il mio primo compito era di trovare notizie di Vortigern, e mandarle a mio padre; il secondo era trovare mia madre e accertarmi che fosse in salvo. Era bello esser di nuovo sulla terraferma; ferma ma non asciutta, perché in cresta l'erba era lunga e bagnata, ma io mi sentivo leggero ed eccitato quando la barca svanì nella nebbia e Cadal e io ci avviammo verso la strada, nell'interno. Non so che cosa mi aspettassi di trovare a Maridunum; non so neanche se me ne importasse molto; non era il fatto di tornare a casa ad alzarmi il morale, ma il fatto che finalmente avessi un lavoro da svolgere per Ambrogio. Se non potevo ancora fargli da profeta, almeno potevo svolgere per lui un lavoro da uomo, e poi da figlio. Credo che per tutto il tempo quasi sperassi che mi venisse chiesto di morire per lui. Ero molto giovane. Arrivammo al ponte senza incidenti. Qui la fortuna fu con noi perché c'imbattemmo in un mercante di cavalli che aveva un paio di bestie da sella che sperava di vendere in città. Ne comprai una, mercanteggiando quel tanto che bastava a evitare i sospetti; lui fu soddisfatto del prezzo, tanto da aggiungervi una sella abbastanza vecchia. Quando l'acquisto fu concluso era ormai giorno chiaro, e c'era un paio di persone in giro, ma nessuna ci dedicò più di un'occhiata superficiale, salvo un tipo che, apparentemente riconoscendo il cavallo, sogghignò e disse, a Cadal più che a me: «Hai intenzione di fare molta strada, amico?». lo feci finta di non sentire, ma con la coda dell'occhio vidi Cadal allargare le mani, stringersi nelle spalle e girare gli occhi verso di me. Lo sguardo diceva, fin troppo chiaramente: «Mi limito a seguirlo, e in ogni caso è un
idiota». La strada alzaia in quel momento era vuota. Cadal mi si accostò e infilò una mano nel collare. «Ha ragione, sai? Questo vecchio ronzino non ti farà fare molta strada. È molto lontano, comunque?» «Forse meno di quanto io mi ricordi. Sei miglia al massimo.» «La maggior parte della strada è in salita, dicevi?» «Posso sempre camminare.» Accarezzai il collo magro della bestia. «Non è poi quel disastro che sembra, sai? Non ha guai tali che qualche buon pasto non riesca a far sparire.» «Almeno non avrai sprecato i tuoi soldi. Che cosa stai guardando oltre quel muro?» «È lì che vivevo.» Stavamo superando la casa di mio nonno. Pareva molto poco cambiata. Stando a cavallo potevo proprio vedere, oltre il muro, il ripiano su cui si ergeva il melo cotogno, la cui sfolgorante fioritura si apriva al sole del mattino. E lì era il giardino in cui Camlach mi aveva dato l'albicocca avvelenata. E lì la grande porta da cui ero fuggito in lagrime. Il cavallo avanzava coraggiosamente. Qui era il frutteto, i meli già gonfi di gemme, l'erba che spuntava verde e incolta intorno al piccolo ripiano sul quale Moravik si sedeva a filare, mentre io giocavo ai suoi piedi. E qui, adesso, era il punto in cui avevo scavalcato il muro la notte della mia fuga; qui era il melo storto dove avevo lasciato Aster legato. Il muro era crollato in quel punto, e attraverso l'apertura potei vedere il terreno coperto di erbacce che quella notte avevo attraversato di corsa, dopo aver lasciato la mia stanza con il rogo nel quale ardeva il corpo di Cerdic. Fermai il cavallo e allungai il collo per vedere di più. Dovevo aver fatto una bella pulizia, quella notte; i fabbricati erano completamente distrutti, la mia camera e i due lati del cortile esterno. Le scuderie, osservai, erano sempre uguali; sicché il fuoco non le aveva raggiunte. I due lati del colonnato erano stati ricostruiti in uno stile moderno che pareva del tutto fuor di luogo con il resto, grosse pietre grossolanamente squadrate e architettura rozza, colonne quadrate che sostenevano un tetto di travi, e finestre profonde e quadrate. Era brutto e pareva poco accogliente; il suo unico pregio doveva essere che non ci pioveva. Tanto valeva, pensai risistemandomi in sella e dando il via al cavallo, vivere in una grotta... «Di che cosa stai ridendo?» chiese Cadal. «Solo di quanto sono diventato romano. È buffo, casa mia non è più questa. E se devo essere sincero non credo che sia neppure in Britannia
minore.» «Dove, allora?» «Non lo so. Certamente dov'è il conte. Questo sarà il mio posto, immagino, per un po' di tempo, in futuro.» Con un cenno della testa indicai le mura delle vecchie caserme romane dietro il palazzo. Erano in rovina, e il luogo era abbandonato. Pensai: almeno non pareva che Ambrogio avrebbe dovuto combattere per conquistarlo. Date a Uther ventiquattr'ore, e tutto sarebbe ridiventato come nuovo. E qui era il convento di San Pietro, in apparenza indenne, che non rivelava alcuna traccia di ferro o di fuoco. «Sai una cosa?» dissi a Cadal mentre uscivamo dall'ombra delle mura del convento e proseguivamo lungo il sentiero verso il mulino. «Credo che se c'è in qualche posto ciò che potrei chiamare casa, è la grotta di Galapas.» «Questo non mi sembra molto da romano» disse Cadal. «A me da' una buona taverna di giorno e un letto decente e un po' di montone da mangiare, e puoi tenerti tutte le grotte del mondo.» Anche con quel miserabile cavallo, la strada mi parve più corta di quanto ricordassi. Arrivammo presto al mulino, poi seguimmo ancora il sentiero che voltava addentrandosi nella valle. Il tempo si annullava. Pareva solo il giorno prima che avevo risalito questa stessa valle con il sole alto e con il vento che faceva agitare la criniera grigia di Aster. Anzi, non era neppure quella di Aster - perché qui sotto lo stesso biancospino c'era sicuramente lo stesso ragazzo mezzo scemo che badava alle stesse pecore come nella mia prima cavalcata attraverso questa valle. Quando raggiungemmo il bivio, mi scopersi a cercare la colomba selvatica. Ma la collina era tranquilla, immobile a parte i conigli che correvano tra le giovani felci. Che il cavallo avvertisse la vicinanza della meta, o che semplicemente gli piacesse sentire l'erba sotto gli zoccoli e un peso leggero sulla groppa, fatto sta che parve affrettare il passo. Davanti a me, adesso, potevo vedere la parte più alta della collina dietro la quale si trovava la grotta. Tirai le briglie arrivato al cespuglio di biancospini. «Eccoci qua. È su di là, sopra il dirupo.» Smontai dal cavallo e tesi le redini a Cadal. «Rimani qui ad aspettarmi. Puoi salire lassù tra un'ora.» Aggiunsi, dopo un attimo di riflessione: «E non ti spaventare se vedi qualcosa che ti sembra fumo. Sono i pipistrelli che escono dalla grotta». Avevo quasi dimenticato il gesto di Cadal contro il malocchio. Lo fece, questa volta, e io risi e lo lasciai. Tre
Prima ancora di essermi arrampicato su per la piccola balza rocciosa fino al prato davanti alla grotta, lo seppi. Chiamatela preveggenza; non c'era alcun segno. Silenzio, naturalmente, ma anche allora di solito c'era il silenzio mentre mi avvicinavo alla grotta. Questo silenzio era diverso. Fu solo dopo qualche attimo che capii che cos'era. Non si sentiva più lo sgocciolio della fonte. Arrivai in cima al sentiero, uscii sul terreno erboso, e vidi. Non c'era bisogno di entrare nella grotta per sapere che egli non c'era e che non ci sarebbe stato mai più. L'erba calpestata davanti all'ingresso della grotta era cosparsa di rottami. Mi avvicinai per guardare. Non era molto che l'avevano fatto. C'era stato un incendio, un incendio spento dalla pioggia prima di distruggere tutto per bene. C'era un mucchio di roba inzuppata: legna mezzo carbonizzata, stracci, pergamena ridiventata una massa di materia organica ma con gli orli anneriti ancora visibili. Con il piede rivoltai il pezzo più vicino di legno bruciacchiato; dall'intaglio ancora apparente capii che cos'era: la cassa che aveva contenuto i suoi libri. E la pergamena era tutto quel che rimaneva dei libri. Immagino che ci fosse altra roba sua in mezzo a quei rottami. Io non mi fermai a guardare oltre. Se i libri erano stati distrutti, sapevo che anche tutto il resto lo sarebbe stato. E Galapas con loro. Mi avvicinai lentamente all'ingresso della grotta. Mi fermai accanto alla sorgente. Adesso capivo perché non si sentiva alcun rumore; qualcuno aveva riempito la piccola conca di pietre e terra, e anche di rottami gettati fuori dalla grotta. Attraverso tutta quella roba l'acqua continuava a scaturire, pigramente, stillando in silenzio sul filo della pietra e poi scendendo a formare un piccolo pantano fangoso nell'erba. Mi parve di vedere lo scheletro di un pipistrello, spolpato dall'acqua. Era strano, ma la torcia era ancora sulla sporgenza al di sopra dell'ingresso della grotta, ed era asciutta. Non c'era pietra focaia né ferro, ma io feci fuoco e, tenendo la torcia davanti a me, entrai lentamente nella grotta. Credo che rabbrividii, come se un vento freddo proveniente dalla grotta mi colpisse. Già sapevo quel che avrei trovato. La grotta era stata spogliata. Ogni cosa era stata gettata fuori per essere bruciata. Cioè, ogni cosa eccetto lo specchio di bronzo. Quello, naturalmente, non si sarebbe bruciato, e immagino fosse troppo pesante per esser portato via. Era stato strappato dalla parete e adesso era appoggiato a un
lato della grotta, tutto storto. Nient'altro. Neppure un leggero movimento o un fruscio di pipistrelli su in alto. La grotta risuonava di vuotezza. Sollevai la torcia e guardai in alto verso la grotta di cristallo. Non c'era. Credo che per un paio di secondi, mentre la luce della torcia palpitava, pensai che egli fosse riuscito a celare la grotta più interna e vi si nascondesse. Poi vidi. L'apertura che dava accesso alla grotta di cristallo c'era ancora, ma il caso, chiamatelo come volete, l'aveva resa invisibile a chi non la conoscesse. Lo specchio di bronzo era caduto cosicché, invece di dirigere la luce verso l'apertura, vi proiettava oscurità. La sua luce era orientata e concentrata su una sporgenza della roccia che proiettava, proprio sull'ingresso della grotta di cristallo, un cuneo nero d'ombra. A chi, nella grotta più bassa, fosse stato intento solo al saccheggio e alla distruzione, l'apertura sarebbe stata del tutto invisibile. «Galapas?» dissi, per sentirne il suono nel vuoto della grotta. «Galapas?» Dalla grotta di cristallo giunse il più lieve dei sussurri, un dolce ronzio irreale come la musica che una volta ero rimasto ad ascoltare nella notte. Niente di umano; non me l'ero aspettato. Ma ciononostante mi arrampicai sulla sporgenza, mi inginocchiai e gettai un'occhiata all'interno. La luce della torcia investì i cristalli e proiettò l'ombra della mia arpa, fremente, nitida contro il globo illuminato. L'arpa, intatta, era al centro della grotta. Nient'altro, salvo il sussurro che si spegneva contro le pareti scintillanti. Dovevano esserci visioni, lì, nei bagliori diretti e riflessi della luce, ma io sapevo che non sarei stato aperto ad esse. Misi una mano a terra e con un balzo, facendo ondeggiare la luce,, tornai nella prima grotta. Passando davanti allo specchio inclinato, colsi l'immagine fuggevole di un giovane alto, che correva in un turbinio di luce e di fumo. Il viso era pallido, gli occhi neri ed enormi. Corsi fuori sull'erba. Avevo dimenticato la torcia, che ardeva e ondeggiava dietro di me. Corsi alla sporgenza rocciosa e mi portai una mano, a coppa, intorno alla bocca per chiamare Cadal, ma in quell'istante un rumore alle mie spalle mi fece fare una giravolta e alzare lo sguardo. Era un rumore molto normale. Un paio di corvi e un avvoltoio si erano alzati dalla collina e mi gridavano le loro minacce. I corvi volarono ancora più in alto, con grida rabbiose. Altri due avvoltoi si allontanarono volando basso tra le felci nuove. Ce n'erano ancora uno o due, che si accanivano su una cosa abbandonata tra i prugnoli in fiore.
Girai la torcia e diressi la luce su di loro per disperderli. Poi corsi verso quel punto. Era impossibile dire da quanto tempo fosse morto. Le ossa erano quasi completamente pulite. Ma lo riconobbi dagli stracci scuri sbiaditi che erano ripiegati sotto lo scheletro, e dal sandalo rotto che era abbandonato a poca distanza, in mezzo alle margheritine. Una delle mani si era staccata dal polso e le ossa fragili, pulite, erano accanto al mio piede. Vedevo dove il dito mignolo si era rotto e si era risaldato, storto. E già, attraverso la cassa toracica nuda, spuntava l'erba di aprile. Spirava una brezza pura, calda di sole e profumata di ginestrone in fiore. La torcia era stata spenta nell'erba fresca. Mi chinai e la raccolsi. Non mi sarebbe toccato gettarla contro di loro, pensai. I suoi uccelli gli avevano dato un viaggio decoroso. Un passo dietro di me mi fece girare, ma era solo Cadal. «Ho visto gli uccelli alzarsi» disse. Stava guardando la cosa abbandonata sotto i cespugli del prugnolo. «Galapas?» Annuii. «Ho visto quel disastro giù alla grotta. Avevo indovinato.» «Non mi ero accorto di esser rimasto qui tanto tempo.» «Lascia che ci penso io.» Già si stava chinando. «Lo seppellirò. Va' ad aspettarmi dove abbiamo lasciato il cavallo. Forse posso trovare qualche arnese laggiù, oppure potrei ritornare...» «No. Lasciamolo in pace sotto i pruni. Gli costruiremo sopra un tumulo e lasceremo che esso lo prenda dentro di sé. Facciamolo insieme, Cadal.» C'era una quantità di pietre da ammucchiare sopra di lui per formare un tumulo e con le spade tagliammo zolle erbose per coprirlo di verde. Già alla fine dell'estate felci, digitali e erbette sarebbero cresciute proprio sopra di lui, e sarebbero state il suo sudario. Così lo lasciammo. Mentre, scendendo, passavo di nuovo davanti alla grotta, pensai all'ultima volta che avevo percorso quella strada. Piangevo allora, lo ricordavo, per la morte di Cerdic, per la perdita di mia madre e di Galapas, per chissà quale prescienza del futuro. «Mi rivedrai,» aveva detto «te lo prometto.» Bene, l'avevo rivisto. E un giorno, non c'era dubbio, l'altra sua promessa si sarebbe realizzata a suo modo. Rabbrividii, colsi un rapido sguardo di Cadal e parlai bruscamente: «Spero tu abbia avuto il buonsenso di portarti appresso una borraccia. Ho bisogno di bere qualcosa».
Quattro Cadal non si era limitato a portare una borraccia, aveva portato anche da mangiare: castrato sotto sale, pane e olive dell'annata in una bottiglia con il loro olio. Ci sedemmo in un punto riparato del bosco a mangiare, mentre il cavallo pascolava accanto a noi e sotto di noi, in lontananza, le anse tranquille del fiume scintillavano nel verde primaverile dei campi e attraverso le colline dove gli alberi avevano già rimesso le foglie. La nebbia era scomparsa e la giornata era bella. «Be',» disse alla fine Cadal «che dobbiamo fare?» «Andiamo a vedere mia madre. Se è ancora lì, naturalmente.» Poi, con una violenza che proruppe da me così improvvisa che non ne avrei sospettata l'esistenza: «Per Mitra, quanto darei per sapere chi l'ha fatto, lassù!» «E che, chi potrebbe essere se non Vortigern?» «Vortimer, Pascenzio, chiunque. Quando un uomo è saggio e dolce e buono» aggiunsi amaro «mi sembra che la mano di qualsiasi uomo, di tutti gli uomini, possa levarsi contro di lui. Galapas avrebbe potuto esser assassinato da un fuorilegge in cerca di cibo, da un pastore in cerca di rifugio o da un soldato di passaggio in cerca di un sorso d'acqua.» «Quello non è stato un assassinio.» «Che cosa, allora?» «Volevo dire, è stato fatto da più di un uomo. Gli uomini in gruppo sono peggio che da soli. A occhio, sono stati gli uomini di Vortigern, di ritorno dalla città.» «Forse hai ragione. Lo scoprirò.» «Credi che riuscirai a vedere tua madre?» «Posso provare.» «Lui ti... hai un messaggio per lei?» Il fatto che Cadal osasse farmi quella domanda dava la misura del nostro rapporto. Gli risposi in tutta semplicità. «Se vuoi sapere se Ambrogio mi ha chiesto di dirle qualcosa, no. Ha lasciato che decidessi io. Quello che le dirò dipende solo da quello che è accaduto da quando sono partito. Prima le parlerò, per vedere poi quanto posso dirle. Non ti dimenticare che è molto tempo che non la vedo, e che le persone cambiano. Voglio dire, la loro fedeltà può cambiare. Guarda me. Quando l'ho vista l'ultima volta ero bambino e ho solo ricordi di bambino... per quanto ne so, non l'ho assolutamente capita, il modo in cui pensava e le cose che voleva. La sua fedeltà può essere rivolta altrove... non solo la sua fedeltà alla Chiesa, ma il suo
sentimento per Ambrogio. Gli dei sanno che non sarebbe da biasimare se avesse cambiato. Non doveva niente ad Ambrogio. È stata molto attenta a questo.» Cadal disse pensieroso, con gli occhi persi nella distanza solcata dallo scintillio del fiume: «Il convento non è stato toccato». «Sì. Qualunque cosa sia accaduta al resto della città, Vortigern ha lasciato in piedi San Pietro. Perciò, vedi, devo scoprire chi è da una parte e chi dall'altra prima di trasmettere qualsiasi messaggio. Quel che per tutti questi anni non ha saputo, non le farà male continuare a ignorarlo ancora per qualche giorno. Qualsiasi cosa accada, con Ambrogio che viene così presto, non devo assumermi il rischio di dirle qualcosa di troppo.» Egli cominciò a riporre gli avanzi del cibo mentre io rimanevo, con il mento appoggiato alla mano, a fissare pensieroso lo scintillio lontano. Aggiunsi, lentamente: «È abbastanza facile scoprire dov'è ora Vortigern, se Hengist è già sbarcato e con quanti uomini. Marric lo scoprirà senza troppa difficoltà. Ma vi sono altre ricerche che il conte voleva che io facessi, cose di cui difficilmente possono essere al corrente nel convento, perciò adesso che Galapas è morto dovrò cercare altrove. Aspetteremo qui fino al crepuscolo, poi scenderemo a San Pietro. Mia madre potrà dirmi da chi posso recarmi con sicurezza». Lo guardai. «Qualunque sia il re per il quale parteggia, non è probabile che mi tradisca.» «Questo è vero. Be', speriamo che te la lascino vedere.» «Se lei sa chi la vuole, immagino che ci vorrà più di una parola della badessa per impedirle di vedermi. Non ti dimenticare che è sempre una figlia di re.» Mi sdraiai sull'erba calda, con le mani dietro la testa. «Anche se io non sono ancora figlio di re...» Ma, fossi o no figlio di re, non c'era modo di entrare nel convento. Avevo avuto ragione pensando che esso non aveva ricevuto danni. Le alte mura si vedevano in lontananza intatte, e le porte erano nuove e solide, di quercia con cardini e chiavistelli di ferro. Erano ben chiuse. E per fortuna, nessuna torcia ardeva all'esterno, in guisa di benvenuto. La strada stretta era vuota e oscura nel crepuscolo. Al nostro pressante richiamo si aprì una finestrella quadrata nella porta, e un occhio si avvicinò all'inferriata. «Veniamo dalla Cornovaglia» dissi con tono dolce. «Devo dire una parola a madonna Niniane.» «Madonna chi?» Era la voce piatta, inespressiva dei sordi. Mi chiesi irritato perché dovessero mettere alla porta una guardiana sorda, e mi avvicinai un po' all'inferriata, alzando leggermente la voce.
«Madonna Niniane. Non so come si chiama adesso, ma era la sorella del defunto re. È ancora qui con voi?» «Sissignore, ma non vede nessuno. Hai una lettera per lei? Sa leggere.» «No, devo parlarle. Vaglielo a dire; dille che c'è... qualcuno della sua famiglia.» «Della sua famiglia?» Credetti di vedere un lampo di interesse nei suoi occhi. «Sono quasi tutti morti e dispersi. Non vi arrivano le notizie in Cornovaglia? Suo fratello il re è morto in battaglia l'anno scorso, e i bambini sono andati da Vortigern. Quanto a suo figlio, sono cinque anni che è morto.» «Lo sapevo. Io non sono della famiglia di suo fratello. Sono come lei fedele al Sommo re. Vaglielo a dire. E senti... prendi questo per le tue... devozioni.» Un borsellino passò attraverso l'inferriata e fu ghermito con rapida mossa scimmiesca. «Le porterò un messaggio da parte tua. Dammi il tuo nome. Non dico che ti vedrà, ma io le porterò il tuo nome.» «Il mio nome è Emrys.» Esitai. «Una volta mi conosceva. Diglielo. E fai presto. Ti aspettiamo qui.» Non erano trascorsi dieci minuti quando udii il rumore dei passi che si riavvicinavano. Per un attimo pensai che potesse essere mia madre, ma fu lo stesso occhio di vecchia quello che mi sbirciò attraverso la grata, la stessa mano armata di artigli quella che si afferrò alle sbarre di ferro. «Ti vedrà. Ah no, non adesso, padroncino. Tu non puoi entrare. E lei non può ancora uscire, finché non sono finite le preghiere. Perciò ti incontrerà sul sentiero del fiume, ha detto; c'è un'altra porta nel muro, lì. Ma fai in modo che nessuno ti veda.» «Benissimo. Staremo attenti.» Potevo vedere la cornea dei suoi occhi girare, mentre essa tentava di vedermi nell'ombra. «Ti conosceva, certo che ti conosceva. Emrys, eh? Be', non ti preoccupare che non dirò niente. Sono tempi difficili, e meno si dice meglio è, di qualsiasi cosa si tratti.» «A che ora?» «Un'ora dopo che si leva la luna. Sentirai la campana.» «Ci sarò» dissi, ma l'inferriata era già chiusa. Dal fiume si stava di nuovo levando la nebbia. Mi sarebbe stata d'aiuto, pensai. Scendemmo silenziosamente il sentiero che costeggiava il muro del convento. Conduceva lontano dalla città, verso la strada alzaia. «E adesso?» chiese Cadal. «Ci mancano due ore perché si alzi la luna, e
a occhio saremo fortunati se si potrà addirittura vedere la luna. Non ti arrischierai a entrare in città?» «No, ma non ha senso stare ad aspettare in questa pioggerella. Troveremo un posto al riparo dall'umidità da dove si possa sentire la campana. Da questa parte.» La porta del cortile delle scuderie era chiusa a chiave. Non rimasi a perderci tempo, ma mi feci strada verso il muro del frutteto. Nel palazzo non brillavano luci. Scavalcammo dove il muro era sbrecciato, ci addentrammo nell'erba bagnata del frutteto e di lì passammo nel giardino di mio nonno. L'aria era carica del profumo della terra bagnata e di tutta la vegetazione, menta e rose canine, muschio e foglie tenere, cariche di umidità. La frutta della stagione precedente, non raccolta, si schiacciava sotto i nostri piedi. Dietro di noi la porta cigolò, a vuoto. Il colonnato era deserto, le porte chiuse, le imposte serrate sulle finestre. Tutto era buio, echi e fughe di topi. Ma non c'erano danni evidenti. Immagino che, quando Vortigern aveva conquistato la città, aveva pensato di tenersi la casa per sé, e chissà come aveva persuaso o obbligato i suoi sassoni a trascurarla nei loro saccheggi, come, per paura dei vescovi, li aveva costretti a trascurare San Pietro. Meglio così, per noi. Almeno avremmo avuto un'attesa comoda, all'asciutto. Il tempo che avevo trascorso con Tremorino sarebbe stato proprio sprecato se non fossi stato in grado di forzare tutte le serrature del palazzo. Proprio questo stavo dicendo a Cadal quando improvvisamente, da dietro l'angolo della casa, avanzando col morbido passo di un gatto sulle pietre coperte di muschio, arrivò, veloce, un giovane. Si fermò di colpo vedendoci, e io scorsi la sua mano corrergli al fianco. Ma proprio mentre il pugnale di Cadal, con un leggero sibilo, veniva estratto dalla guaina, il giovane sbirciò, mi fissò e poi esclamò: «Per la sacra quercia, Myrddin!». Per un attimo, non lo riconobbi, ed era comprensibile, dato che non era molto più vecchio di me ed era assai cambiato in quei cinque anni. Poi, senza possibilità di equivoco, capii chi era: spalle larghe, mascella sporgente, capelli che anche in quella semioscurità apparivano rossi. Dinias, che era stato principe e figlio di re mentre io ero un bastardo senza nome; Dinias, mio "cugino", che non accettava neppure un così tenue rapporto di parentela con me, ma che per sé aveva reclamato il titolo di principe, e che l'aveva fatta franca. Adesso sarebbe stato difficile prenderlo per un principe. Anche in quella poca luce potevo vedere che era vestito non poveramente ma con abiti che
potevano essere quelli di un mercante, e indossava solo un gioiello, un bracciale di rame. La sua cintura era di pelle non lavorata, anche l'elsa della spada non era lavorata e il suo mantello, benché fosse di buona stoffa, era macchiato e logoro all'orlo. Tutta la sua persona emanava quell'indefinibile malessere che viene dal vivere inesorabilmente alla giornata, o forse addirittura ogni volta senza la sicurezza del pasto successivo. Poiché, malgrado i mutamenti considerevoli era, senza dubbio, ancora mio cugino Dinias, si poteva supporre che, avendomi lui riconosciuto, non aveva molto senso fingere che si sbagliasse. Sorrisi e gli tesi la mano. «Benvenuto, Dinias. Il tuo è il primo viso conosciuto che vedo oggi.» «Che stai facendo qui, in nome degli dei? Tutti dicevano che eri morto, ma io non ci ho creduto.» Spinse in avanti la sua grossa testa, e gli occhi rapidi mi percorsero tutto. «Dovunque tu sia stato, ti è andata benissimo, a quanto pare. Da quanto tempo sei tornato?» «Siamo arrivati oggi.» «Allora hai saputo le notizie?» «Sapevo che Camlach era morto. Me ne dispiace... se ti è dispiaciuto. Come certo saprai, non mi era amico, ma non era una faccenda politica...» Mi fermai, aspettando. Lascia che faccia lui qualche mossa. Con la coda dell'occhio vedevo che Cadal era teso e attento, con la mano ancora al fianco. Abbassai allora la mia, a palmo in giù, in un movimento appena accennato che induceva alla calma, e lo vidi rilassarsi. Dinias alzò le spalle. «Camlach? Era un pazzo. Gli avevo detto in che modo il lupo sarebbe balzato.» Ma mentre parlava vidi i suoi occhi scivolare di lato, verso le tenebre. Pareva che la gente stesse attenta a come parlava, adesso, a Maridunum. I suoi occhi tornarono a posarsi su di me, sospettosi, diffidenti. «Che ci fai qui, comunque? Perché sei tornato?» «Per vedere mia madre. Sono stato in Cornovaglia, e tutto quello che arrivava lì erano le voci di combattimenti, così quando ho saputo che Camlach era morto, e anche Vortimer, mi sono chiesto che cosa fosse successo a casa.» «Be', lei è viva, questo lo avrai già scoperto, no? Il Sommo re» questo lo diceva ad alta voce «rispetta la Chiesa. Non so se riuscirai a vederla, però.» «Probabilmente hai ragione. Sono salito al convento, e non mi hanno fatto entrare. Ma rimango qui alcuni giorni. Manderò un messaggio e se lei vuole vedermi immagino saprà trovare il modo. Almeno so che è salva. È stato proprio un colpo di fortuna incontrare te! Potrai darmi le altre notizie.
Non avevo idea di che cosa avrei potuto trovare qui, come vedi, sono entrato senza far rumore stamane, solo con il mio servo.» «Senza far rumore è esatto. Pensavo che foste ladri. Sei stato fortunato che non vi abbia prima messo a terra e fatto le domande dopo.» Era il vecchio Dinias, di nuovo con quella nota di spacconeria, immediata reazione al mio tono mite, di scusa. «Be', non volevo rischiare finché non sapevo come stava la famiglia. Sono andato a San Pietro... ho aspettato il crepuscolo per farlo... poi sono venuto a dare un'occhiata qui. Allora qui non c'è nessuno?» «Io vivo qui. Dove altro dovrei vivere?» L'arroganza suonava irreale come il colonnato vuoto, e per un attimo provai la tentazione di chiedergli ospitalità per vedere che cosa avrebbe detto. Proprio come se il pensiero lo avesse colpito nello stesso momento, egli disse in fretta: «Cornovaglia, eh? Che notizie ci sono? Dicono che i messaggeri di Ambrogio corrono avanti e indietro sullo Stretto come insetti acquatici». Risi. «Non saprei. Ho condotto una vita ritirata.» «Hai scelto il posto giusto.» Il disprezzo che ricordavo cosi bene era di nuovo nella sua voce. «Dicono che il vecchio Gorlois ha passato l'inverno rannicchiato a letto con una ragazza che ha sì e no vent'anni, lasciando tutti gli altri re a farsi i loro giochi fuori nella neve. Dicono che accanto a lei anche Elena di Troia farebbe la figura di una pescivendola. Com'è?» «Non l'ho mai vista. Lui è un marito geloso.» «Geloso di te?» Rise e alla risata fece seguire un commento che fece trattenere il fiato a Cadal, dietro di me. Ma il sarcasmo aveva rimesso di buon umore mio cugino, facendogli abbandonare la sua posizione di vigilanza. Io ero ancora il cuginetto bastardo, di nessun conto. Aggiunse: «Bene, ti si addiceva. Hai avuto un inverno tranquillo, con il tuo vecchio duca libidinoso, mentre noialtri battevamo tutto il paese inseguendo i sassoni». Così aveva combattuto con Camlach e Vortimer. Era quanto volevo sapere. Dissi, mite: «Non ero responsabile della politica del duca. E non lo sono neppure ora». «Ah! Buon per te. Sapevi che è a nord con Vortigern?» «Sapevo che era partito per unirsi a lui, a Caer'n-ar-Von, vero? Anche tu vai lassù?» Misi nella mia domanda il più soave dei toni, aggiungendo, con mitezza: «Davvero non ero in posizione da apprendere molte notizie importanti». Una corrente fredda, satura di umidità, turbinò tra le colonne. Da qual-
che grondaia rotta, sopra di noi, improvvisamente un po' d'acqua si rovesciò in mezzo a noi, sulle pietre del lastricato. Lo vidi stringersi il mantello intorno al corpo. «Perché ce ne stiamo qui?» Parlava con improvvisa cordialità, che suonava falsa come l'arroganza. «Vieni e scambiamoci le notizie vicino a una bottiglia di vino, eh?» Esitai, ma solo un attimo. Pareva ovvio che Dinias avesse le sue buone ragioni per tenersi lontano dagli occhi del Sommo re; da una parte, se fosse riuscito a far dimenticare la sua alleanza con Camlach, sarebbe stato certamente con l'esercito di Vortigern, non qui rintanato in un palazzo vuoto, con questo aspetto dimesso. Dall'altra, adesso che sapeva che mi trovavo a Maridunum, preferivo tenerlo d'occhio piuttosto che lasciarlo andare a parlare con chi gli pareva. Perciò accettai con un'apparenza di lusingato piacere, insistendo solo che avrebbe dovuto cenare con me, se poteva indicarmi dove si poteva avere un buon pasto, in un cantuccio caldo e senza umidità... Quasi prima che avessi finito di parlare, egli mi aveva preso per il braccio e mi faceva fretta attraverso l'atrio, e poi verso la porta che dava sulla strada. «Bene, bene. C'è un posto verso il quartiere occidentale, al di là del ponte. Si mangia bene e c'è il tipo di clienti che badano ai fatti loro.» Ammiccò. «Non che tu abbia voglia di darti da fare con una ragazza, eh? Benché non sembra che siano riusciti a fare di te un uomo di chiesa, dopo tutto?... Be', per ora basta, non va aver l'aria di aver troppo da parlare, di questi tempi... O ti scontri con i gallesi, o ti scontri con Vortigern... e qui adesso è pieno delle sue spie. Non so chi stiano cercando, ma corre voce... No, togli la tua robaccia.» Le ultime parole erano rivolte a un mendicante che stendeva davanti a noi un vassoio di rozze pietre e stringhe di cuoio. L'uomo si ritirò senza una parola. Vidi che era cieco di un occhio per una ferita; un orribile sfregio gli attraversava una guancia e gli appiattiva il dorso del naso. Pareva una ferita di spada. Passando, lasciai cadere una moneta nel suo vassoio, e Dinias mi scoccò un'occhiata tutt'altro che cordiale. «I tempi sono cambiati, eh? Sei diventato ricco in Cornovaglia. Raccontami, che successe quella notte? Intendevi appiccar fuoco a tutto questo maledetto palazzo?» «Ti racconterò tutto durante la cena» dissi, e non aggiunsi altro finché non arrivammo al riparo della taverna e non ci conquistammo una panca in un angolo, con le spalle contro il muro.
Cinque Non mi ero ingannato a proposito della miseria di Dinias. Anche nel buio pieno di fumo dell'ambiente affollato della taverna potevo vedere lo stato dimesso dei suoi vestiti e sentire l'espressione mezzo risentita e mezzo avida con cui mi osservava mentre ordinavo da mangiare e una brocca del miglior vino che avevano. Mentre aspettavamo ciò che avevo ordinato, mi scusai e mi spostai in un angolo per dire due parole in fretta a Cadal. «Forse posso sapere da lui qualcosa delle cose che ci servono. Comunque ho pensato fosse meglio rimanergli appiccicato... preferisco tenerlo d'occhio per il momento. Con tutta probabilità, quando sorgerà la luna sarà cosi ubriaco da essere innocuo, e allora le cose sono due: o lo lascerò a letto al sicuro con una ragazza, oppure se proprio non ce la fa più lo accompagnerò a casa mentre mi dirigo al convento. Se non ti sembra che io riesca a uscire di qui per quando sorge la luna, vai tu alla porta sulla strada alzaia per incontrare mia madre. Conosci la nostra storia. Dille che verrò, ma che mi sono imbattuto in mio cugino Dinias e per prima cosa devo liberarmi di lui. Capirà. Adesso trovati anche tu da mangiare:» «Attento a come ti muovi, Merlino. Tuo cugino, hai detto? Proprio uno come si deve, e non c'è da sbagliarsi. Non gli sei simpatico.» Risi. «Credi che sia una novità? È reciproco.» «Ah. Be', purché tu stia in guardia.» «Lo sarò.» I modi di Dinias erano ancora abbastanza buoni da fargli aspettare, per versare il vino, che io avessi congedato Cadal e mi fossi riseduto. A proposito del cibo aveva detto la verità: il pasticcio che ci servirono era farcito di manzo e di ostriche, il tutto condito con un sugo denso e fumante, e il pane, benché d'orzo, era fresco. Il formaggio, ben stagionato, era ottimo. Le altre mercanzie offerte dalla taverna parevano non inferiori al cibo; ogni tanto se ne aveva una fugace visione, quando una ragazza si affacciava ridacchiando da una porta guarnita di una tenda, e un uomo deponeva la sua coppa e si affrettava a seguirla. Da come gli occhi di Dinias si attardavano sulla tenda anche mentre mangiavamo, pensai che avrei incontrato poca difficoltà a sbarazzarmi di lui tranquillamente una volta ottenute le informazioni di cui avevo bisogno. Aspettai, per cominciare a fargli domande, che fosse arrivato a metà del pasticcio. Non mi andava di aspettare di più perché, dal modo in cui tendeva la mano verso la brocca del vino quasi a ogni boccone, malgrado la
sua fame, temevo che se lo avessi lasciato fare per troppo tempo non sarebbe stato più abbastanza lucido per dirmi quello che volevo sapere. Finché non ero del tutto sicuro di come stavano le cose, non mi sentivo pronto ad avventurarmi su un terreno che poteva essere infido, ma dato che la mia famiglia era quella che era, bastava semplicemente chiedere notizie dei miei parenti per raccogliere quelle informazioni di cui Ambrogio aveva bisogno. A queste domande egli rispondeva con sufficiente prontezza. Tanto per cominciare, ero stato creduto morto fin dalla notte dell'incendio. Il corpo di Cerdic era stato distrutto, e con lui tutto quel lato del cortile, e quando il mio pony era stato trovato, diretto verso casa, mentre di me non c'era traccia, si era potuto solo supporre che ero perito insieme a Cerdic ed ero scomparso nello stesso modo. Mia madre e Camlach avevano mandato uomini a cercarmi in tutta la zona, ma questi naturalmente non avevano trovato alcuna traccia di me. Era chiaro che non era rimasto alcun segno della mia partenza per mare. Il mercantile non aveva gettato l'ancora a Maridunum, e nessuno aveva visto il coracle. La mia scomparsa aveva provocato ben poca agitazione, e questo non era strano. Quel che mia madre aveva pensato nessuno lo sapeva, si sapeva solo che pochissimo tempo dopo si era ritirata nella solitudine di San Pietro. Camlach non aveva perso tempo per proclamarsi re e tanto per la forma aveva offerto la sua protezione a Olwen, ma poiché anche sua moglie aveva un figlio ed era incinta di un altro, non era un segreto per nessuno che la regina Olwen sarebbe stata presto fatta sposare con qualche innocuo e preferibilmente lontano capo di clan... E così via, e così via. Questo per quanto riguardava le notizie del passato, nessuna delle quali costituiva una novità per me o per Ambrogio. Quando Dinias ebbe finito di mangiare e si appoggiò contro la parete allentandosi la cintura, rilassato per il cibo, il vino e il calduccio, pensai fosse giunto il momento di deviare verso problemi più immediati del presente. La taverna si era riempita ormai, e c'era un sacco di rumore per coprire quello che dicevamo. Un paio di ragazze erano venute fuori dalle stanze interne e si sentivano molte risate e qualche scherzo volgare. Adesso fuori era completamente buio, e pareva ci fosse più umidità che mai; gli uomini entravano scuotendosi come cani e chiedendo a gran voce bevande calde. L'atmosfera era carica del fumo di torba e di odore di carbone proveniente dalle graticole, dei profumi del cibo caldo e delle esalazioni di lampade a olio da poco prezzo. Non avevo paura di esser riconosciuto: solo per vedermi, chiunque avrebbe dovuto chinarsi sul nostro tavolo e piantarmi gli occhi proprio in faccia.
«Ordino altra carne?» chiesi. Dinias scosse la testa, ruttò e sogghignò. «No grazie. Era buono. Ti sono debitore. Adesso le tue notizie. Le mie le hai sentite. Dove sei stato in questi anni?» Allungò di nuovo la mano verso la brocca del vino e la rovesciò sopra la sua coppa vuota. «Questa è vuota, maledizione. Ne chiediamo dell'altro?» Esitai. Era evidente che non reggeva bene il vino, e io non volevo che si ubriacasse troppo presto. Lui non capì la mia esitazione. «Forza, forza, certo non rifiuterai di pagarmi un'altra brocca di vino, eh? Non succede tutti i giorni che un giovane parente ricco torni dalla Cornovaglia. Che cosa ti ha portato lì, eh? E che cosa hai fatto tutti questi anni? Forza, giovane Myrddin, facci sentire, no? Ma prima il vino.» «Bene, certo» dissi, e passai l'ordinazione al garzone. «Ma non usare il mio nome qui, se non ti dispiace. Adesso io mi faccio chiamare Emrys, finché non vedo da che parte soffia il vento.» Egli accettò la mia richiesta con tale prontezza che mi resi conto che la situazione a Maridunum era molto più delicata di quanto avessi pensato. Pareva che fosse pericoloso semplicemente dire quello che si pensava. La maggior parte degli uomini presenti pareva gallese; non ne riconobbi nessuno, e non era strano considerando le compagnie che avevo frequentato cinque anni prima. Ma c'era un gruppo di persone vicino alla porta che, dalle barbe e dai capelli biondi, avrebbero potuto essere sassoni. Immaginai che fossero uomini di Vortigern. Non dicemmo niente finché il garzone non ebbe depositato sulla tavola davanti a noi una brocca piena. Mio cugino versò da bere, spinse da parte il suo piatto, si appoggiò contro il muro e mi guardò con aria interrogativa. «Be', forza, parlami di te. Che cosa avvenne la notte in cui te ne andasti? Con chi andasti via? Non potevi avere più di dodici o tredici anni, a quell'epoca, no?» «Mi imbattei in un paio di commercianti che andavano verso sud» dissi io. «Mi pagai il viaggio con uno dei fermagli che mio non... che il vecchio re mi aveva dato. Mi portarono con sé fino a Glastonbury. Lì ebbi una certa fortuna... incontrai un mercante che viaggiava verso ovest, attraverso la Cornovaglia, con vetri d'Islanda e che mi prese con sé» abbassai lo sguardo come se evitassi il suo e mi feci girare la coppa tra le dita. «Il mercante voleva fare vita da gentiluomo e pensò che gli avrebbe dato tono avere con sé un ragazzo che sapeva cantare e suonare l'arpa, e nello stesso tempo
leggere e scrivere.» «Ehm. Sì, probabile.» Sapevo prima di parlare quello che lui avrebbe pensato della mia storia, e il suo tono era effettivamente pieno di soddisfazione, come se il disprezzo che provava per me avesse trovato una giustificazione. Tanto meglio. A me non importava quello che pensava lui. «E poi?» incalzò. «Ah, rimasi con lui alcuni mesi, ed era molto generoso, lui e anche i suoi amici. Mi sono anche messo un bel po' di soldi da parte.» «Suonando l'arpa?» chiese lui sollevando le labbra da un angolo. «Suonando l'arpa» dissi io soavemente. «Anche leggendo e scrivendo... gli tenevo i conti. Quando tornò verso nord, voleva che rimanessi con lui, ma io non volli tornare. Non osavo» aggiunsi con disarmante franchezza. «Non fu difficile trovare un posto in un convento. Ah, no, ero troppo giovane per essere qualcos'altro che un laico. Per dire la verità, mi è piaciuto moltissimo: è una vita molto tranquilla. Lavoravo aiutandoli a fare copie di una storia della caduta di Troia.» L'espressione del suo viso mi fece venir voglia di ridere, perciò riabbassai lo sguardo verso la mia coppa. Era di buona qualità, ceramica di Samo, molto lucida, e si leggeva con chiarezza la firma del vasaio. A.M. Per mano di Ambrogio, pensai a un tratto, e lisciai dolcemente con il pollice le lettere, mentre finivo per Dinias il resoconto dei cinque, innocui anni trascorsi dal cuginetto bastardo. «Ho lavorato lì finché non sono cominciate a circolare voci a proposito di quello che accadeva qui. In principio non ci ho fatto molto caso... di voci ce n'erano sempre. Ma quando ho saputo che la notizia della morte di Camlach era vera, e anche quella della morte di Vortimer, ho cominciato a chiedermi che cosa potesse esser successo a Maridunum. Ho capito che dovevo rivedere mia madre.» «Hai intenzione di rimanere qui?» «Non credo. La Cornovaglia mi piace, e in un certo senso lì ho una casa.» «Allora diventerai prete?» Mi strinsi nelle spalle. «Ancora non lo so. Dopo tutto, è quello che hanno sempre pensato per me. Qualunque sia il mio futuro laggiù, qui comunque il mio posto non c'è più... ammesso che mai ne abbia avuto uno. E certamente non sono un soldato.» A questa battuta Dinias sogghignò. «Be', non lo sei mai stato, proprio così, vero? E la guerra qui non è finita; non è neanche cominciata, lasciatelo dire da me.» Si chinò attraverso la tavola per avvicinarsi a me, con gesto
confidenziale, ma così facendo urtò la sua coppa che traballò, mentre il vino arrivava fino all'orlo. Egli afferrò la coppa e la tenne ferma. «Quasi si rovesciava, e il vino è quasi finito daccapo. Non è male, eh? Che ne diresti di un'altra brocca?» «Se vuoi. Ma stavi dicendo...» «Parliamo della Cornovaglia, adesso. Ho sempre pensato che mi piacerebbe andarci. Che cosa dicono lì di Ambrogio?» Il vino cominciava a farlo parlare. Aveva dimenticato di essere riservato; la sua voce era alta e vidi una o due teste voltarsi nella nostra direzione. Egli non se ne accorse. «Sì, immagino che la sapresti laggiù, se ci fosse qualche notizia da sapere. Dicono che è lì che sbarcherà, eh?» «Oh,» dissi io con tono disinvolto «ci sono sempre delle voci. Sono anni che ci sono, sai com'è. Lui non è ancora venuto, perciò tutte le supposizioni sono buone.» «Scommettiamo?» Vidi che aveva messo mano al borsellino che aveva alla cintura, traendone un paio di dadi, e che li lanciava pigramente da una mano all'altra. «Forza, facciamo una partita?» «No, grazie. Comunque, non qui. Stai a sentire, Dinias, ti dico io cosa, ci prendiamo un'altra fiasca, o due se vuoi, e andiamo a bercele a casa?» «A casa?» fece un sorriso beffardo, a labbra aperte. «E dove sarebbe? Un palazzo vuoto?» Parlava ancora ad alta voce e notai qualcuno che ci guardava dall'altro lato della sala. Nessuno che io conoscessi. Due uomini vestiti di scuro, uno col viso orlato da una barba nera, l'altro con lineamenti sottili e capelli rossi, con un naso lungo che lo faceva assomigliare a una volpe. Gallesi, dall'aspetto. Avevano una fiasca su uno sgabello davanti a loro e le coppe tra le mani, ma il livello del vino nella fiasca non si abbassava da mezz'ora buona. Lanciai un'occhiata a Dinias. Mi parve avesse raggiunto la fase in cui sarebbe stato disponibile tanto per le amichevoli confidenze quanto per un alterco. Insistere per andarsene ora poteva significare provocare quell'alterco, e se eravamo osservati e se il gruppo vicino alla porta era veramente costituito da uomini di Vortigern, era meglio rimanere qui a parlare tranquillamente che portar fuori in strada mio cugino, con il rischio di essere seguiti. Dopo tutto, che importanza poteva avere il fatto che nella conversazione fosse stato citato il nome di Ambrogio? Doveva essere sulla bocca di tutti e se, come pareva probabile, di recente le voci si erano fatte più insistenti, tutti, amici e nemici di Vortigern, le avrebbero discusse. Dinias aveva lasciato cadere i dadi sulla tavola e li stava sospingendo
qua e là con un indice quasi fermo. I dadi, almeno, ci avrebbero fornito una scusa per quel colloquio a quattr'occhi nel nostro angolo. E avrebbero potuto distrarre la sua attenzione dal vino. Tirai fuori una manciata di monetine. «Senti, se proprio vuoi una partita. Che cosa puoi mettere sul tavolo?» Mentre giocavamo ero conscio del fatto che Barbanera e l'Uomo volpe ci stessero a sentire. I sassoni accanto alla porta parevano piuttosto innocui; erano, per lo più, già sbronzi a tre quarti e alzavano troppo la voce parlando tra loro per poter fare attenzione a chiunque altro. Ma Barbanera pareva interessato. Gettai i dadi. Cinque e quattro. Troppo bene; volevo che Dinias vincesse qualcosa. Non potevo regalargli il denaro per farlo andare dietro la tenda con una ragazza. Intanto, per sviare i sospetti di Barbanera... Dissi, a voce non troppo alta ma molto chiara: «Ambrogio, dicevi? Be', le voci che girano le conosci. Non ho sentito niente di preciso su di lui, solo le solite storie che sono in giro da dieci anni. Ah, sì, dicono che verrà in Cornovaglia, a Maridunum, a Londra, a Avon-moum... c'è da scegliere. Getta». L'attenzione di Barbanera era stata sviata. Mi chinai per guardare meglio i dadi lanciati da Dinias e abbassai la voce. «E se venisse adesso, che succederebbe? Questo lo saprai meglio di me. Quello che è rimasto della regione occidentale insorgerebbe in suo aiuto, o rimarrebbe fedele a Vortigern?» «La regione occidentale si solleverebbe in fiamme. È già accaduto, Dio lo sa. Raddoppi la posta o smetti? Fiamme come la notte in cui te ne sei andato. Dio, quanto ho riso: il piccolo bastardo che appicca l'incendio e se ne va. Perché l'hai fatto? Questa è mia, due cinque. Getta di nuovo.» «Giusto. Perché me ne sono andato, volevi dire? Te l'ho detto, avevo paura di Camlach.» «Non dicevo questo. Intendevo, perché hai appiccato il fuoco? Non mi raccontare che è stata una disgrazia perché non ci credo.» «È stato un rogo funebre. L'ho acceso perché avevano ucciso il mio servo.» Egli mi fissò, trattenendo i dadi in mano per un momento. «Hai incendiato il palazzo del re per uno schiavo?» «Perché no? Si dava il caso che il mio servo mi fosse più simpatico di Camlach.» Mi lanciò un'occhiata leggermente confusa e tirò. Un due e un quattro. Tirai verso di me un paio di monete.
«Maledetto,» disse Dinias «non è giusto che tu vinca di nuovo, hai già vinto abbastanza. Benissimo, ancora. Il tuo servo, proprio! Hai un tono un bel po' altezzoso per un bastardo che gioca a fare il copista in una cella di prete.» Sorrisi. «Anche tu sei un bastardo, non lo dimenticare caro cugino.» «Può darsi, ma almeno so chi era mio padre.» «Abbassa la voce, la gente ci ascolta. Va benissimo, getta tu di nuovo.» Una pausa mentre i dadi risuonavano. Li osservai con ansia. Fino a quel momento, mi avevano piuttosto favorito. Quanto sarebbe stato utile, pensai, se il potere avesse potuto essere indirizzato a influenzare piccole cose così; non ci sarebbe voluto nessuno sforzo, e avrebbe reso le cose più semplici. Ma avevo cominciato a scoprire che in realtà il potere non rendeva niente più semplice; quando veniva era come avere un lupo alla gola. A volte mi ero sentito come il ragazzo del vecchio mito che metteva i finimenti ai cavalli del sole e con loro percorreva il mondo come un dio finché il potere lo inceneriva. Mi domandavo se avrei mai di nuovo sentito il fuoco. I dadi caddero dalle mie dita. Un due e un uno. Non c'era bisogno di avere il potere se si poteva avere la fortuna. Dinias fece un grugnito soddisfatto e li raccolse, mentre io facevo scivolare qualche moneta verso di lui. La partita proseguì. Persi i tre giri successivi, e il mucchietto accanto a lui aumentò in misura considerevole. Si stava rilassando. Nessuno badava a noi; me l'ero solo immaginato. Era il momento, forse, per qualche altra notizia. «Dov'è il re, adesso?» chiesi. «Eh? Ah, sissignore, il re. È partito da qui circa un mese fa. È andato verso nord appena il tempo si è addolcito e le strade erano aperte.» «A Caer'n-ar-Von, hai detto?» «L'ho detto? Ah, va bene, credo che lui la chiami la sua base, ma a chi piacerebbe farsi prendere in quell'angolo tra Wyddfa e il mare? No, si sta costruendo una nuova roccaforte, dicono. Hai detto che ordinavi un'altra fiasca?» «Ecco che arriva. Serviti, per me basta così. Una roccaforte, dicevi? Dove?» «Cosa? Ah, sì. Buono questo vino. Non so esattamente dove se la costruisca, in qualche punto dello Snowdon. Te l'ho detto. Dinas Brenin, lo chiamano... O lo chiamerebbero, se riuscisse a farsela costruire.» «Che cosa glielo impedisce? Ci sono ancora disordini da quelle parti?
Ancora il partito di Vortimer, o qualcosa di nuovo? In Cornovaglia si dice che ha trentamila sassoni alle spalle.» «Alle spalle, da tutte le parti... dappertutto sassoni, ha il nostro re. Ma non con lui. Con Hengist... e Hengist e il re non la pensano proprio nello stesso modo. Ah, è alle strette, Vortigern, te lo dico io!» Per fortuna parlava piano, le sue parole si perdevano nel risonare dei dadi e nel chiasso che ci circondava. Credo mi avesse quasi dimenticato. Guardò torvo il tavolo gettando i dadi. «Guarda. Questi maledetti sono sotto cattivi auspici. Come il Forte del re.» Le sue parole sfiorarono chissà dove una corda della memoria, provocando un ronzio, inafferrabile e introvabile come un'ape tra i limoni. Dissi fingendo disinvoltura, mentre gettavo i dadi: «Sotto cattivi auspici? Come?». «Ah, così va meglio. Dovrei riuscire a batterti. Oh, be', li conosci questi vichinghi... se una mattina il vento è più freddo dicono che è uno spirito morto che passa. Non si servono di architetti in quell'esercito, fanno tutto gli indovini. Ho sentito dire che per quattro volte gli avevano edificato le mura alte come un uomo, e ogni volta la mattina dopo le hanno trovate lesionate da una parte all'altra... Com'è questo tiro?» «Niente male. Non riuscirei a vincerti, temo. E lui ci ha messo le sentinelle?» «Naturale. Non hanno visto niente.» «Be', che dovevano vedere?» Pareva che la fortuna ci fosse di nuovo avversa, a tutti e due; i dadi erano per Dinias sotto auspici altrettanto sfavorevoli che le mura per Vortigern. Mio malgrado tirai e feci un paio di doppie. Con occhio torvo, Dinias spinse verso di me metà del suo mucchio. Io dissi: «Si direbbe solo che abbia scelto un terreno non solido. Perché non si sposta?». «Ha scelto la cima di una rupe scoscesa, la miglior posizione per una difesa che si possa trovare nel Galles. Domina la valle a nord e a sud e sovrasta la strada proprio nel punto in cui le pareti rocciose si restringono da tutt'e due le parti e la strada è strozzata proprio sotto la rupe. E, maledizione, prima c'era una torre là sopra. Quelli del luogo la chiamavano da tempo immemorabile il Forte del re.» Il Forte del re... Dinas Brenin... Il ronzio si gonfiò e divenne nitido nella memoria. Betulle bianche come ossa secche contro un cielo latteo. Il grido di un falcone. Due re che passeggiavano insieme, e la voce di Cerdic che diceva: «Vieni giù, e ti faccio entrare in una partita a dadi».
Prima ancora di rendermene conto, l'avevo fatto, con la stessa destrezza con cui l'avrebbe fatto Cerdic in persona. Con un dito rapido, diedi un colpetto al dado che ancora girava. Un due e un uno. Dissi con voce lamentosa: «Non farai molta fatica a vincere questo». Lui vinse, ma di stretta misura. Tirò le monete verso di sé con un grugnito di trionfo, poi quasi si sdraiò sulla tavola, con il gomito in una pozza di vino versato. Anche se riuscissi, pensai, a lasciare che questo idiota ubriaco mi vinca abbastanza denaro, sarei già fortunato a farlo arrivare fino alla tenda che ci separa dal bordello. Di nuovo toccava a me. Mentre scuotevo la scatoletta, vidi Cadal sulla soglia, che aspettava di attrarre il mio sguardo. Era ora di andare. Annuii e lui si ritirò. Mentre Dinias guardava per vedere a chi avevo fatto cenno, tirai di nuovo, e con la manica riuscii a far volare un sei che si stava posando. Uno e tre. Dinias emise un suono soddisfatto e tese la mano verso la scatola dei dadi. «Sai che ti dico,» feci io «un altro giro e ce ne andiamo. Che vinca o che perda, compro un'altra fiasca e ce la portiamo via a bere nelle mie camere. Staremo più comodi di qui.» Se fossi riuscito a farlo uscire, calcolavo, Cadal e io avremmo saputo come occuparci di lui. «Camere? Potevo dartene io di camere. C'è un sacco di posto, non avevi bisogno di mandare il tuo uomo in cerca di camere. Bisogna esser prudenti di questi tempi, capito. Ecco. Due cinque. Vedi un po' se ti riesce di vincermi qui, Merlino bastardo.» Si buttò in gola il vino che rimaneva, inghiottì e si appoggiò di nuovo al muro, sghignazzando. «Mi dichiaro vinto.» Spinsi le monete verso di lui e mi alzai. Mentre mi guardavo intorno in cerca del garzone cui ordinare la fiasca promessa, Dinias batté la mano sulla tavola, fragorosamente. I dadi saltarono e risonarono e una coppa si spostò, rotolò e si ruppe sul pavimento. Gli uomini smisero di parlare e ci fissarono. «Ah, no, non lo farai! Giocheremo finché ne avremo voglia! Uscire proprio quando la fortuna sta girando, vorresti? Questa non la subisco da te, né da nessun altro! Siediti e gioca, mio cugino bastardo...» «Oh, per amor di Dio, Dinias...» «Va benissimo, allora, sono bastardo anch'io! Tutto quello che posso dire è che è meglio essere il bastardo di un re piuttosto che un figlio di nessuno, che non ha mai avuto un padre!» Fini con un singhiozzo e qualcuno rise. Anch'io risi, e tesi la mano per prendere i dadi. «Va bene, li portiamo con noi. Te l'ho detto, che io vinca o che perda, ci portiamo una fiasca a casa. Possiamo finire la partita li. Or-
mai tanto vale che chiudiamo la serata bevendo.» Una mano si abbatté pesante sulla mia spalla. Mentre mi giravo per vedere a chi appartenesse, qualcuno mi si avvicinò dall'altro fianco e mi afferrò il braccio. Vidi Dinias fissarci, a bocca aperta. Intorno a noi, gli avventori improvvisamente tacevano. Barbanera strinse ancora la presa. «Tranquillo, giovane signore. Non vogliamo una rissa, vero? Possiamo scambiarci una parola, di fuori?» Sei Saltai in piedi. Nessuna indicazione mi veniva dalle facce che ci circondavano, fissandomi. Nessuno disse niente. «Di che si tratta?» «Fuori, per piacere» ripeté Barbanera. «Non vogliamo una...» «Non ho la minima intenzione di scatenare una rissa» dissi seccamente. «Mi direte chi siete prima che io faccia un solo passo con voi. E tanto per cominciare, toglietemi le mani di dosso. Oste, chi sono questi uomini?» «Uomini del re, signore. Meglio che tu faccia come dicono loro. Se non hai niente da nascondere...» «Non hai niente da temere?» dissi. «Lo conosco questo detto, e non è mai vero.» Allontanai la mano di Barbanera dalla mia spalla e mi voltai per guardarlo in faccia. Vidi Dinias fissarci con la bocca semiaperta. Quello, pensai, non era il cugino dalla voce mite che lui conosceva. Be', il momento della voce mite era passato. «Non m'importa che questi uomini sentano quello che avete da dire. Ditemelo qui. Perché volete parlarmi?» «Ci interessa quello che diceva questo tuo amico.» «Allora perché non parlate con lui?» Barbanera disse, flemmatico: «Ogni cosa a suo tempo. Se tu mi dicessi chi sei e da dove vieni?...». «Mi chiamo Emrys e sono nato qui a Maridunum. Alcuni anni fa sono andato in Cornovaglia, ero ancora bambino, e adesso avevo voglia di tornare a casa e sentire le notizie. Questo è tutto.» «E questo giovanotto? Ti ha chiamato cugino.» «Era solo un modo di dire. Siamo parenti, ma non prossimi. Probabilmente lo avete anche sentito chiamarmi bastardo.» «Un momento.» La nuova voce si era levata dietro di me, tra la folla degli avventori. Un uomo anziano con i capelli grigi, che io non riconobbi, si apriva un varco per arrivare fino a noi. «Lo conosco. Ha detto la verità.
Certo, che è Myrddin Emrys, proprio vero, era il nipote del vecchio re.» Poi, rivolto a me: «Tu non ti ricorderai di me, signore. Ero maggiordomo di tuo nonno, uno dei maggiordomi. E vi dico una cosa...» allungò il collo come una gallina, alzando gli occhi verso Barbanera, «siate o non siate uomini del re, non spetta a voi mettere le mani su questo giovane gentiluomo. Vi ha detto la verità. Se ne andò da Maridunum cinque anni fa... proprio così, cinque, era la notte in cui morì il vecchio re... e nessuno ha mai saputo dov'era andato. Ma vi giuro su tutto quello che volete che non alzerebbe mai una mano contro il re Vortigern. Ma come, stava studiando per diventare prete e non ha mai preso armi in vita sua. E se vuole bere in pace con il principe Dinias, be', sono parenti, come ti ha detto, e con chi altro dovrebbe bere, per avere notizie della famiglia?» Mi indicò, con un cenno della testa. «Sì, davvero, è Myrddin Emrys, che adesso è adulto invece che un ragazzino, ma io lo riconoscerei ovunque. E lascia che ti dica, signore, che sono davvero contento di vederti sano e salvo. Si temeva che tu fossi morto nell'incendio.» Barbanera non lo degnò neppure di uno sguardo. Si trovava tra me e la porta. Non mi toglieva gli occhi di dosso. «Myrddin Emrys. Il nipote del vecchio re» lo disse lentamente. «E bastardo? Figlio di chi, allora?» Non aveva senso negarlo. Adesso avevo riconosciuto il maggiordomo. Lui mi rivolse un cenno, soddisfatto di sé. Dissi: «Mia madre era la figlia del re, Niniane». Gli occhi neri diventarono stretti come una fessura. «È vero?» «Assolutamente vero, assolutamente vero.» Era il maggiordomo, il cui zelo nei miei confronti traluceva negli sbiaditi, stupidi occhi. Barbanera si rivolse di nuovo a me. Vidi formarsi sulle sue labbra la domanda successiva. Il cuore mi martellava e sentivo il sangue salirmi in viso. Cercai di costringerlo ad andarsene. «E tuo padre?» «Non lo so.» Forse avrebbe pensato solo che il rossore delle mie guance era vergogna. «Attento a come parli, ora» disse Barbanera. «Devi saperlo. Chi ti ha generato?» «Non lo so.» Egli mi guardò. «Tua madre, la figlia del re. La ricordi?» «La ricordo benissimo.» «E non te l'ha mai detto? Ti aspetti che ci crediamo?» Dissi, con tono irritato: «Non m'importa quello che credete e quello che
non credete. Sono stanco di tutto questo. Per tutta la vita la gente mi ha fatto questa domanda, è per tutta la vita la gente non mi ha creduto. È vero, lei non me lo disse mai. Credo che non l'abbia detto a nessuno. Per quanto ne so io, può darsi che dicesse la verità quando affermava che ero figlio di un diavolo». Feci un gesto d'impazienza. «Perché lo chiedete?» «Abbiamo sentito quello che diceva l'altro giovane gentiluomo.» Il tono e l'espressione erano calmi. «Preferisco essere bastardo e avere un re per padre, piuttosto che un figlio di nessuno che non ha mai avuto un padre!» «Se non mi offendo io, a voi che importa? Lo vedete che è un po' brillo.» «Volevamo esser sicuri, questo è tutto. E adesso lo siamo. Il re ti vuole.» «Il re?» Il tono della mia voce doveva essere del tutto inespressivo. Quello annuì. «Vortigern. Sono tre settimane che ti cerchiamo. Devi andare da lui.» «Non capisco.» Dovevo apparire sconcertato più che spaventato. Vedevo crollare la mia missione, ma con un misto di confusione e di sollievo. Se erano tre settimane che mi cercavano, questo certamente non aveva niente a che fare con Ambrogio. Dinias era rimasto seduto abbastanza tranquillo nel suo cantuccio. Pensavo che la maggior parte di quanto era stato detto non gli era neanche arrivata, quando lo vidi chinarsi in avanti, con le mani aperte sul tavolo bagnato di vino. «Per che cosa lo vuole il re? Ditemelo.» «Tu non hai diritto di preoccuparti.» Barbanera gli lanciò la frase quasi con disprezzo. «Non sei tu che lui vuole. Ma ti dirò che, dato che sei stato tu a farci arrivare a lui, sei tu che dovresti avere la ricompensa.» «Ricompensa?» chiesi. «Che discorso è questo?» Di colpo Dinias fu completamente sobrio. «Io non ho detto niente. Che cosa intendi dire?» Barbanera annuì. «È stato quello che hai detto che ci ha portati a lui.» «Lui faceva solo domande sulla famiglia... è stato lontano» disse mio cugino. «Stavate ascoltando. Chiunque poteva ascoltare, non abbassavamo la voce. Per gli dei, se volevamo preparare tradimenti, ne avremmo parlato qui?» «Nessuno ha parlato di tradimenti. Sto solo facendo il mio dovere. Il re vuole vederlo, e lui deve venire con me.» Il vecchio maggiordomo disse, con un'espressione turbata: «Non potete fargli del male. È quello che dice, il figlio di Niniane. Potete chiederlo anche a lei».
Questo indusse Barbanera a girarsi per piantargli gli occhi in faccia. «È ancora viva?» «Ah, sì, sta benissimo. È a meno di un tiro di pietra da qui, al convento di San Pietro, oltre la vecchia quercia al bivio.» «Lasciatela in pace» dissi, ora davvero spaventato. Mi chiedevo che cosa avrebbe potuto dir loro. «Non vi scordate chi è. Perfino Vortigern non oserebbe toccarla. E poi, non avete alcuna autorità: né su di me né su di lei.» «Credi?» «Be', quale autorità avete?» «Questa.» La breve spada balenò nella sua mano. Abbagliava da quanto era tagliente. Io dissi: «È questa la legge di Vortigern? Non male come argomento. Verrò con voi, ma con mia madre non potrete combinare molto. Lasciatela in pace. Non vi dirà più di quanto vi ho detto io». «Ma almeno non ci toccherà crederle se dice che non lo sa.» «Ma è vero.» Era il maggiordomo, sempre ciarliero. «Ve lo dico io, ho servito tutta la vita a palazzo, e lo ricordo bene. Si diceva che avesse generato un figlio dal diavolo, dal principe delle tenebre.» Molte mani si mossero rapide mentre i presenti facevano il segno di scongiuro. Alzando lo sguardo su di me il vecchio disse: «Vai con loro, figliolo, non faranno del male al figlio di Niniane, e neanche a lei. Verrà un tempo in cui il re avrà bisogno del popolo della regione occidentale, e chi può saperlo meglio di lui?». «Pare che io debba andare con loro, con quest'ordine del re così tagliente alla mia gola» dissi. «Va bene, Dinias, non è stata colpa tua. Di' al mio servo dove sono. Voi portatemi da Vortigern, ma toglietemi le mani di dosso.» In mezzo a loro mi avviai alla porta, mentre gli avventori facevano largo al nostro passaggio. Vidi Dinias alzarsi barcollando e seguirci. Quando arrivammo alla strada Barbanera si voltò. «Mi stavo dimenticando. Ecco, questa è tua.» La borsa con il denaro tintinnò cadendo a terra ai piedi di mio cugino. Io non mi voltai. Ma camminando vidi, senza neppure guardare, l'espressione che si dipinse sul viso di mio cugino quando, con un'occhiata rapida a destra e a sinistra, si chinò a raccogliere la borsa e se la cacciò nella cintura. Sette
Vortigern era cambiato. L'impressione che fosse diventato più piccolo, meno imponente, non dipendeva solo dal fatto che a mia volta, invece di essere un bambino, io ero ormai un giovane di alta statura. Si era, in un certo senso, ripiegato su se stesso. Non era necessaria la vista della corte, che più che una corte era un assembramento di capi guerrieri e di quelle donne che essi tenevano con sé, a indicare che era un uomo in fuga. O meglio, un uomo con le spalle al muro. Ma un lupo con le spalle al muro è più pericoloso di un lupo libero, e Vortigern era pur sempre un lupo. E di sicuro il suo muro l'aveva scelto bene. Il Forte del re era come lo ricordavo, una rupe che sovrastava la valle in cui scorreva il fiume, alla cui cima era possibile avvicinarsi solo seguendo una stretta sella anticlinale che pareva un ponte. Questo promontorio sporgeva da una cerchia di colline rocciose al riparo delle quali si trovava una cavità naturale in cui i cavalli potevano pascolare e in cui si poteva condurre il bestiame e sorvegliarlo. Intorno alla valle si ergevano maestose le montagne, grigie di ghiaia e non ancora rinverdite dalla primavera. Tutto quel che aveva fatto la pioggia di aprile era una lunga cascata che si rovesciava dall'alto fino in fondo alla valle, trecento metri più in basso. Un luogo selvaggio, oscuro, impressionante. Bastava che il lupo si trincerasse in cima a quella rupe e anche per Ambrogio sarebbe stato difficile stanarlo di lì. Per arrivarci impiegammo sei giorni. Partimmo alle prime luci del giorno, per la strada che esce da Maridunum in direzione nord, una strada peggiore di quella che andava verso est ma più rapida, benché fossimo ritardati dal cattivo tempo e dal passo delle lettighe delle donne. Il ponte era rotto a Penmal, e quasi trascinato via, e ci occorse circa mezza giornata per guadare l'Afon Dyfi, prima che la compagnia potesse proseguire a fatica verso Tomen-y-mur, dove la strada era buona. Il pomeriggio del sesto giorno arrivammo sul sentiero lungo il fiume che conduceva a Dinas Brenin, dove si trovava il re. Barbanera non aveva incontrato la minima difficoltà a persuadere i responsabili del convento di San Pietro a portar mia madre dal re. Se aveva usato la stessa tattica di cui si era servito con me, questo si poteva anche capire, ma non ebbi modo di chiederlo a lei, e neppure di scoprire se ne sapesse più di me a proposito del motivo per cui Vortigern ci voleva. Le era stata data una lettiga chiusa, e due donne del convento viaggiavano con lei. Poiché le rimanevano accanto notte e giorno, mi era impossibile avvicinarla per parlarle in privato, e in realtà essa non dimostrava di volermi
vedere da solo. A volte la sorpresi a guardarmi con un'espressione ansiosa e forse confusa, ma quando parlava era calma e staccata, e non c'era in lei neppure il minimo indizio che sapesse qualcosa che lo stesso Vortigern non avrebbe potuto venir a sapere. Dato che non mi era concesso di vederla da sola, avevo ritenuto meglio raccontarle la stessa storia che avevo già detto a Barbanera; la stessa, anche (perché per quanto ne sapevo era stato interrogato) che avevo raccontato a Dinias. Avrebbe dovuto pensare quello che poteva in proposito, anche riguardo alle ragioni che mi avevano spinto a non mettermi prima in contatto con lei. Era, naturalmente, impossibile citare la Bretagna, o anche amici della Bretagna, senza correre il rischio che essa indovinasse la verità a proposito di Ambrogio, e questo rischio non osavo correrlo. La trovavo molto cambiata. Era pallida e tranquilla, si era appesantita, acquistando nello stesso tempo una specie di torpore spirituale che prima non aveva. Fu solo dopo un paio di giorni, mentre lentamente ci muovevamo verso nord con la nostra scorta, in mezzo alle colline, che di colpo capii di che si trattava: aveva perso quanto aveva avuto di potere. Se glielo avesse tolto il tempo, o la malattia, oppure vi avesse rinunciato lei stessa a favore del simbolo cristiano che portava sul petto, non avevo modo di indovinare. Ma comunque il potere l'aveva abbandonata. Per un motivo mi tranquillizzai subito. Mia madre era trattata con cortesia, anche con deferenza, come si addiceva alla figlia di un re. Io non ricevevo uguale deferenza, ma mi era stato dato un buon cavallo, la notte ero ben alloggiato e la mia scorta era abbastanza educata quando tentavo di fare un po' di conversazione. Oltre a questo, facevano ben pochi sforzi con me; non rispondevano a nessuna delle mie domande, benché mi paresse che sapessero benissimo perché il re mi voleva. Li sorprendevo lanciarmi sguardi curiosi e furtivi, e un paio di volte anche uno sguardo di pietà. Fummo portati direttamente dal re. Questi aveva stabilito il suo quartier generale sul terreno in piano compreso tra la rupe e il fiume, da dove aveva sperato poter sovrintendere alla costruzione della sua roccaforte. Era molto diverso dai campi di fortuna di Uther e di Ambrogio. La maggior parte degli uomini era alloggiata in tende e, a parte gli alti terrapieni e una palizzata sul fianco che guardava la strada, apparentemente essi facevano assegnamento sulle difese naturali: il fiume e la rupe da una parte, il roccione di Dinas Brenin dall'altra, e dietro di loro la massa impenetrabile e deserta delle montagne. Vortigern era alloggiato in modo abbastanza regale. Ci ricevette in una
sala alle cui colonne di legno pendevano tende con lucidi ricami, e il cui pavimento di ardesia verdolina, di produzione locale, era tutto cosparso di giunchi freschi. Il seggio sulla predella era scolpito e dorato come si addiceva a un re. Accanto a lui, su un seggio ugualmente ornato e solo di poco più piccolo, era seduta Rowena, la sua regina sassone. La sala era affollata. C'erano, in piedi accanto al re, alcuni uomini vestiti da cortigiani, ma la maggior parte dei presenti era armata. C'erano anche un bel po' di sassoni. Dietro il seggio di Vortigern, sulla predella, era fermo un gruppo di preti e di santoni. Quando ci portarono dentro, cadde il silenzio. Tutti gli occhi si voltarono verso di noi. Allora il re si alzò e, scendendo dalla predella, avanzò incontro a mia madre, sorridente e con tutt'e due le mani tese. «Tu sia benvenuta, principessa» disse e si voltò per presentarla con cerimoniosa cortesia alla regina. Il ronzio dei bisbigli percorreva la sala, e molti si scambiavano degli sguardi. Il re aveva fatto chiaramente capire con la sua accoglienza di non tenere mia madre responsabile per la parte avuta da Camlach nella recente ribellione. Egli lanciò uno sguardo anche a me, rapido ma mi parve molto interessato, mi fece un cenno di saluto, poi si appoggiò sul braccio la mano di mia madre e la condusse fin sulla predella. A un suo cenno, qualcuno si affrettò a sistemare una sedia per lei sul gradino più basso di quello su cui si trovava lui. Egli la pregò di sedersi, e lui stesso e la regina ripresero i propri posti. Avanzando con gli uomini di scorta alle spalle, mi fermai sotto la predella, di fronte al re. Vortigern allargò le mani sul bracciolo del suo seggio e rimase seduto diritto, sorridendo a mia madre e a me con espressione cordiale e perfino soddisfatta. I bisbigli si erano spenti. Regnava il silenzio. La gente ci fissava, in attesa. Ma tutto quel che il re disse, rivolgendosi a mia madre, fu: «Ti prego di perdonarmi, signora, per averti imposto questo viaggio in simile stagione. Confido che tu l'abbia compiuto in modo abbastanza comodo». A queste parole fece seguire le più banali cortesie mentre i presenti guardavano e aspettavano, e mia madre, chinando la testa, mormorava educate risposte, diritta e indifferente come lui. Le due donne che l'avevano accompagnata stavano dietro di lei, come fossero sue cameriere personali. Essa teneva una mano al seno, toccando la piccola croce che portava come talismano; l'altra appariva tra le pieghe scure della veste. Anche nel suo semplice abbigliamento da religiosa appariva regale.
Vortigern disse, sorridendo: «E adesso vuoi presentarci tuo figlio?». «Mio figlio si chiama Merlino. Ha abbandonato Maridunum cinque anni fa dopo la morte di mio padre, tuo parente. Da allora è stato in Cornovaglia, in un monastero. Io lo raccomando a te.» Il re si rivolse a me. a Cinque anni? Dovevi essere poco più di un bambino a quel tempo, Merlino. Quanti anni hai adesso?» «Diciassette, signore.» Sostenni imperterrito il suo sguardo. «Perché hai mandato a prendere mia madre e me? Avevo appena rimesso piede a Maridunum che i tuoi uomini mi hanno preso, con la forza.» «Questo mi dispiace. Devi perdonare il loro zelo. Sapevano soltanto che la cosa era urgente e hanno adottato i sistemi più rapidi per fare quello che io desideravo.» Si rivolse di nuovo a mia madre. «Devo assicurarti, madonna Niniane, che nessun male ti verrà fatto? Lo giuro. So che sono cinque anni che ti trovi nella Casa di San Pietro e che sei stata del tutto estranea all'alleanza di tuo fratello con mio figlio.» «E lo è stato anche mio figlio, mio signore» disse lei calma. «Merlino partì da Maridunum la notte della morte di mio padre, e da quel giorno fino a ora non ho saputo nulla di lui. Ma una cosa è certa, non ha preso parte alla ribellione; era solo un bambino quando se n'è andato... e in verità, adesso che so che quella notte si diresse verso il sud, verso la Cornovaglia, posso solo dedurre che scappò semplicemente per paura di mio fratello Camlach, che non gli era amico. Ti assicuro, re mio signore, che qualsiasi cosa io stessa possa aver indovinato delle intenzioni di mio fratello nei tuoi confronti, mio figlio non ne sapeva nulla. Non capisco proprio per quale ragione tu possa volere la sua presenza qui.» Con mia sorpresa Vortigern non parve interessarsi affatto al mio soggiorno in Cornovaglia, e non mi guardò. Aveva appoggiato il mento al pugno chiuso e guardava mia madre da sotto le sopracciglia aggrottate. La sua voce e la sua espressione erano gravi e cortesi al tempo stesso, ma c'era nell'aria qualcosa che non mi piaceva. A un tratto capii che cos'era. Anche mentre mia madre e il re parlavano, guardandosi, i preti fermi dietro il seggio del re osservavano me. E quando con la coda dell'occhio lanciai un'occhiata alle persone presenti nella sala, scoprii che anche queste avevano gli occhi fissi su di me. C'era un gran silenzio nella sala e io pensai, all'improvviso: Adesso verrà al dunque. Egli disse calmo, come dopo riflessione: «Non ti sei mai sposata». «No.» Essa abbassò le palpebre e io capii che si era fatta tutt'a un tratto prudente.
«Allora il padre di tuo figlio morì prima che poteste sposarvi? Ucciso in battaglia, forse?» «No, mio signore.» La voce di lei era dolce, ma chiarissima. La vidi muovere le mani e stringerle un po'. «Dunque vive ancora?» Essa non disse nulla, ma chinò la testa cosicché il cappuccio le cadde in avanti nascondendo il suo viso alle altre persone presenti nella sala. Quelli sulla predella potevano ancora vederlo, però. Vidi la regina fissarla con curiosità e disprezzo. Aveva occhi azzurro pallidi, e grandi seni che sporgevano nivei da uno stretto corsetto azzurro. La sua bocca era piccola. Le mani erano bianche come i seni, ma con dita tozze e brutte, come quelle di una serva. Erano coperte di anelli d'oro, di smalto e di rame. Le sopracciglia del re si corrugarono al silenzio di mia madre, ma la sua voce era ancora cordiale. «Dimmi una cosa, madonna Niniane. Hai mai detto a tuo figlio il nome di suo padre?» «No.» Il tono della sua voce, pieno e categorico, contrastava stranamente con la posizione a testa china e volto velato. Era la posa di una donna coperta di vergogna, e mi chiesi se intendesse apparire in quel modo per scusare il suo silenzio. Neanche io potevo vederla in viso, vedevo però la mano che reggeva il lembo della sua lunga gonna. Mi ricordai vividamente la Niniane che aveva sfidato suo padre rifiutando Gorlan, re di Lanascol. Alla mia memoria risalì un altro viso, il viso di mio padre che mi guardava attraverso il tavolo alla luce della lampada. Lo cacciai. Ambrogio era davanti a me con tale vivezza che mi pareva un miracolo che tutta la sala piena di uomini potesse non vederlo. Poi mi colpì, violentemente e terrorizzandomi, l'idea che Vortigern lo aveva visto. Vortigern sapeva. Per questo eravamo qui. Aveva sentito qualche voce sulla mia venuta e aveva voluto assicurarsi. Restava da vedere se sarei stato trattato come spia o come ostaggio. Dovetti muovermi, mio malgrado. Mia madre alzò lo sguardo e io vidi i suoi occhi sotto il cappuccio. Adesso non aveva più l'aspetto di una principessa, aveva l'aspetto di una donna che ha paura. Le sorrisi, e qualcosa ritornò sul suo viso, e vidi allora che la sua paura era solo per me. Mi tenni fermo e aspettai. Lascia che sia lui a fare la mossa. Ci sarà tempo per reagire quando mi avrà lasciato vedere su che base battermi. Egli stava girando il grosso anello che portava al dito. «È quanto tuo figlio ha detto ai miei messaggeri. E ho sentito anche dire che nessuno nel regno ha mai conosciuto il nome di suo padre. Da quanto mi dicono, ma-
donna Niniane, e da quello che so di te, tuo figlio non sarebbe stato mai generato da nessuno di indegno. Perché, allora, non dirglielo? È una cosa che un uomo dovrebbe sapere.» Io dissi irosamente, dimenticando ogni cautela: «Che te ne importa?». Mia madre mi dardeggiò uno sguardo che mi fece tacere. Poi a Vortigern: «Perché mi fai queste domande?». «Madonna,» disse il re «ho mandato oggi a prendere te e tuo figlio per chiederti una cosa sola. Il nome di suo padre.» «Ripeto, perché lo chiedi?» Egli sorrise. Era solo un modo di mostrare i denti. Feci un passo avanti. «Madre, non ha il diritto di chiedertelo. Non oserà...» «Fallo star zitto» disse Vortigern. L'uomo che era accanto a me mi tappò la bocca con una mano, e mi tenne stretto. Ci fu uno sfrigolio di metallo quando l'altro tirò fuori la sua spada e me la spinse contro il fianco. Io stetti fermo. Mia madre gridò: «Lasciatelo! Se gli fai del male, Vortigern, re o non re, non ti dirò mai quello che vuoi sapere, dovessi tu uccidermi. Credi che io abbia tenuta nascosta la verità al mio stesso padre, a mio fratello e persino a mio figlio per tutti questi anni, solo per andarla a raccontare a chi me la chiede?». «La dirai a me per amore di tuo figlio» disse Vortigern. A un suo cenno l'uomo mi tolse la mano dalla bocca e indietreggiò un poco. Ma continuò a tenere l'altra mano sul mio braccio, e potevo sentire la spada dell'altro pungermi attraverso la tunica. Mia madre aveva gettato indietro il cappuccio, adesso, e sedeva eretta sul suo seggio, con le mani aggrappate ai braccioli. Pallida e scossa com'era, vestita per di più di quell'umile saio scuro, faceva apparire la regina una serva. Adesso il silenzio della sala era mortale. Dietro il seggio del re, i preti, immobili, continuavano a fissarmi. Mi aggrappai ai miei pensieri. Se quegli uomini erano preti e maghi, allora nessun pensiero rivolto ad Ambrogio, neppure il suo nome, doveva passarmi nella mente. Sentii che cominciavo a sudare e il mio pensiero tentò di raggiungere mia madre e di sostenerla, senza formulare un'immagine che quegli uomini potessero vedere. Ma il potere mi aveva abbandonato, e nessun aiuto mi giungeva qui dal dio; non sapevo neppure se sarei stato abbastanza uomo per quello che avrebbe potuto accadere quando essa avrebbe parlato. Non osavo più parlare; avevo paura che se avessero usato la forza contro di me lei avrebbe parlato per salvarmi. E quando essi avessero saputo, quando avessero co-
minciato a interrogarmi... Qualcosa dovette arrivarle, perché si voltò e mi guardò di nuovo, muovendo le spalle sotto la rozza veste come se avesse sentito una mano sfiorarla. Quando i suoi occhi incontrarono i miei seppi che questo non aveva nulla a che fare con il potere. Stava tentando, come avrebbe fatto qualsiasi donna, di dirmi qualcosa con gli occhi. Era un messaggio d'amore e di conforto, ma su un livello umano, e io non riuscii a capirlo. Essa si voltò di nuovo verso Vortigern. «Scegli uno strano luogo per le tue domande, o re. Ti aspetti veramente che io parli di queste cose qui, nella tua sala aperta a tutti, dove chiunque venga può udirmi?» Egli meditò un momento, le sopracciglia aggrottate e basse sugli occhi. Il suo viso era sudato e vidi le sue mani contrarsi sui braccioli. Fremeva come la corda di un'arpa. La tensione serpeggiava nella sala, in modo quasi visibile. Sentivo la pelle formicolarmi e la paura, fredda come la zampa di un lupo, mi sali per la spina dorsale. Uno dei preti, dietro il re, si chinò verso di lui e bisbigliò qualche parola. Il re annuì. «Il popolo esca. Ma i preti e i maghi devono restare.» Controvoglia, con un brusio di voci, il popolo cominciò a defluire dalla sala. I preti rimasero, una dozzina circa di uomini in vesti lunghe, fermi dietro i seggi del re e della regina. Uno di essi, quello che aveva parlato al re, un uomo alto che si accarezzava la barba grigia con una mano sporca e inanellata, sorrideva. Dall'abbigliamento, capii che doveva essere il capo. Cercai sul suo viso i segni del potere, ma benché gli uomini fossero vestiti da preti, non scorsi altro che morte. Era nei loro occhi. Di più non potevo vedere. La gelida zampa del lupo mi percorse di nuovo le ossa. Mi offrii senza resistere alla presa del soldato. «Lasciatelo» disse Vortigern. «Non ho intenzione di fare del male al figlio di madonna Niniane. Ma tu, Merlino, se ti muovi o parli prima che io te ne dia il permesso, verrai allontanato dalla sala.» La spada sul mio fianco fu ritirata, ma vidi che l'uomo continuava a tenerla sguainata. Le sentinelle indietreggiarono di mezzo passo allontanandosi da me. Io non mi mossi né parlai. Da quando ero bambino non mi ero mai sentito così indifeso, cosi spoglio di conoscenza e di potere, così privo di Dio. Sapevo, nella mia amara incapacità, che se fossi stato nella grotta di cristallo con lo scintillio dei fuochi e gli occhi del mio maestro posati su di me, non avrei visto nulla. Ricordai, a un tratto, che Galapas era morto. Forse, pensai, il potere veniva solo da lui, forse se n'era andato con lui. Il re aveva volto di nuovo verso mia madre gli occhi incavati. Era chino
in avanti, con un'espressione improvvisamente selvaggia e intenta. «E adesso, signora, risponderai alla mia domanda?» «Volentieri» disse lei. «Perché no?» Otto Aveva parlato con tale calma che vidi l'aria sorpresa del re. Essa alzò una mano per respingere indietro il cappuccio e incontrò gli occhi di lui, alla stessa altezza. «Perché no? Non ci vedo alcun male. Avrei potuto dirtelo prima, mio signore, se tu me lo avessi chiesto in modo diverso, e in un luogo diverso. Non c'è alcun male, ora, nel fatto che la gente sappia. Io non sono più nel mondo, e non devo sostenere gli sguardi degli uomini o udire le loro lingue. E poiché so, adesso, che anche mio figlio si è ritirato dal mondo, so quanto poco gli importerà di quanto si può dire di lui. Perciò ti dirò quello che vuoi sapere. E quando te l'avrò detto, vedrai perché non ne ho mai parlato prima, neppure a mio padre o a mio fratello.» Non c'era traccia di paura, adesso. Addirittura sorrideva. Non mi aveva più guardato. Cercai di impedirmi di guardarla, per controllare il mio viso rendendolo inespressivo. Non avevo idea di quel che essa pensasse di dire, ma sapevo che non avrebbe compiuto alcun tradimento. Stava giocando un suo gioco ed era sicura, intimamente, che esso sarebbe servito a stornare da me il pericolo che mi minacciava qualunque fosse. Sapevo, con certezza, che non avrebbe detto niente di Ambrogio. Ma nonostante tutto, ovunque, nella sala, aleggiava un'atmosfera mortale. Fuori aveva cominciato a piovere e il pomeriggio si avviava lentamente verso il crepuscolo. Un servo si affacciò sulla porta, recando le torce, ma Vortigern gli fece cenno di andarsene. Per rendergli giustizia, devo dire che credo pensasse alla vergogna di mia madre, ma io pensai: Non può esserci aiuto neanche in questo, niente luce, niente fuoco... «Parla, allora» disse Vortigern. «Chi ha generato tuo figlio?» «Io non lo vidi mai.» Essa parlava con grande semplicità. «Non era uomo che avessi mai conosciuto.» Si fermò, poi disse, senza guardarmi, gli occhi sempre sullo stesso piano di quelli del re: «Mio figlio mi perdonerà per quello che sta per apprendere, ma tu mi hai costretta e questo egli lo capirà». Vortigern mi dardeggiò di uno sguardo. Io lo sostenni impassibile. Adesso ero certo di lei.
Mia madre proseguì: «Quando ero giovane, avevo circa sedici anni, e pensavo, come sono solite le fanciulle, all'amore. Accadde la vigilia della festa di san Martino, dopo che io e le mie donzelle eravamo andate a letto. La ragazza che dormiva nella mia camera era addormentata e le altre erano nella stanza vicina, ma io non potevo dormire. Dopo un po' mi alzai dal letto e mi avvicinai alla finestra. Era una notte chiara, di luna. Quando mi voltai per tornare al mio letto, vidi quello che mi parve un giovane uomo in piedi, nel bel mezzo della mia camera. Era bello, e giovane, con una tunica e un lungo mantello, con una breve spada al fianco. Aveva indosso ricchi gioielli. Il mio primo pensiero fu che era entrato passando dalla stanza vicina nella quale dormivano le mie donzelle; il secondo fu che ero in camicia, e scalza, con i capelli sciolti. Pensai che avesse intenzioni cattive e stavo per aprire la bocca e chiamare per svegliare le donne, quando il giovane mi sorrise, con un gesto che pareva volermi dire di stare tranquilla, che egli non intendeva farmi del male. Poi fece un passo di lato, nell'ombra, e quando mi spostai anch'io per guardare non c'era più nessuno». S'interruppe. Nessuno parlò. Ricordavo il modo in cui mi raccontava le storie quand'ero bambino. Nella sala non si notava alcun movimento, né rumore, ma sentii l'uomo che mi stava accanto tremare, come se fosse desideroso di andarsene. La rossa bocca della regina era aperta, un po' per la meraviglia, un po' (pensai) per l'invidia. Mia madre fissava la parete sopra la testa del re. «Pensai che fosse stato un sogno, o una fantasia di fanciulla prodotta dal chiaro di luna. Me ne andai a letto e non ne parlai con nessuno. Ma egli tornò; non sempre quand'ero sola. Cosi capii che non era un sogno ma uno spirito familiare che desiderava qualcosa da me. Pregai, ma egli continuò a ritornare. Mentre ero seduta con le mie donzelle, a filare, o quando passeggiavo, nelle belle giornate, nel frutteto di mio padre, sentivo il suo tocco sul braccio e la sua voce all'orecchio. Ma in tali occasioni non lo vedevo, e nessuno lo udiva tranne me.» Senza guardare, cercò la croce che aveva sul petto e la afferrò. Il gesto parve cosi poco forzato, così naturale che io ne fui sorpreso, finché non capii che era naturale, perché essa non teneva la croce per implorarne protezione ma perdono. Pensai: Non è il Dio cristiano che dovrebbe temere quando mente; dovrebbe aver paura di mentire così sulle cose connesse con il potere. Gli occhi del re, che era chino verso di lei, erano selvaggi e, mi parve, pieni di esultanza. I preti la guardavano come se volessero mangiarsi viva la sua anima.
«Così per tutto l'inverno egli mi visitò. E venne di notte. Non ero mai sola nella mia camera, ma egli attraversava porte e finestre e muri, e giaceva con me. Non lo vidi più, ma udivo la sua voce e sentivo il suo corpo. Poi, d'estate, quand'ero già grossa del bambino, mi lasciò.» S'interruppe. «Tutti ti diranno come mio padre mi picchiasse e mi rinchiudesse, e come, quando il bimbo fu nato, non volesse dargli un nome adatto a un principe cristiano ma, poiché era nato in settembre, gli desse il nome del dio del cielo, il vagabondo, che non ha altra casa che la mobile aria. Ma io lo chiamai sempre Merlino, perché il giorno della sua nascita un falcone selvatico entrò dalla mia finestra e si posò sopra il letto, guardandomi con gli occhi del mio amante.» I suoi occhi incontrarono i miei, allora, in un breve balenio. Questo, sì, era vero. E anche quell'Emrys che essa mi aveva dato, a dispetto di tutti loro; dopo tutto, aveva conservato per me tutto questo di lui. Essa aveva distolto lo sguardo. «Io credo, o re mio signore, che quanto ti ho detto non ti sorprenderà. Devi aver udito delle voci secondo cui mio figlio non è un ragazzo normale... non è sempre possibile tacere e io so che segretamente se ne è parlato, ma adesso io ti ho detto la verità, senza veli; e perciò ti prego, mio signore Vortigern, di permettere a me e a mio figlio di tornarcene in pace nei nostri rispettivi conventi.» Quando ebbe finito ci fu silenzio. Essa chinò il capo e tirò di nuovo in avanti il cappuccio, per nascondere il viso. Io osservavo il re e gli uomini che erano dietro di lui. Credevo di vederlo incollerito, con la fronte corrugata per l'impazienza, ma con mia sorpresa le sue sopracciglia si appianarono ed egli sorrise. Aprì la bocca per rispondere a mia madre, ma la regina lo prevenne. Si chinò in avanti, leccandosi le labbra rosse, e per la prima volta parlò, ai preti. «Maugan, è possibile?» Fu l'uomo alto, il prete più importante con la barba, che le rispose. Parlò senza esitazione, mite e con un'enfasi sorprendente. «Signora, è possibile. Chi non ha udito parlare di queste creature di aria e di tenebre, che s'ingrassano di uomini e donne mortali? Nei miei studi e in molti dei libri che ho letto ho trovato storie di bambini venuti al mondo in questo modo.» Mi occhieggiò, trastullandosi con la sua barba, poi si rivolse al re. «In verità, mio signore, abbiamo l'autorità stessa degli antichi. Essi ben sapevano che certe creature, che frequentano l'aria notturna tra la terra e la luna, coabitano quando vogliono con donne mortali, assumendo la forma di uomini. È certamente possibile che questa principessa, questa virtuosa principessa,
sia stata vittima di una simile creatura. Sappiamo, ed essa stessa ce lo ha detto, che così si è mormorato per molti anni. Io stesso parlai con una delle sue donzelle personali la quale disse che sicuramente il bambino non poteva esser stato generato da nessun altro che il diavolo, e che nessun uomo l'aveva avvicinata. E anche sul figlio, quand'era bambino, udii dire molte strane cose. In verità, re Vortigern, la storia della principessa è vera.» Nessuno guardava più Niniane. Tutti gli occhi adesso erano su di me. Sul viso del re non vedevo niente che non fosse insieme feroce e innocente, una specie di avida soddisfazione simile a quella di un bimbo, o di un animale feroce che veda la preda lentamente avvicinarsi. Sconcertato, mi trattenni dal parlare e aspettai. Se i preti credevano a mia madre e Vortigern credeva ai preti, non vedevo da dove potesse venire il pericolo. Non il più lieve indizio aveva fatto dirigere il pensiero degli uomini verso Ambrogio. Maugan e il re parevano affrettarsi, con ardente soddisfazione, a percorrere il sentiero che mia madre aveva loro aperto. Il re lanciò un'occhiata alle mie sentinelle. Queste avevano fatto un passo indietro allontanandosi da me, certo impaurite di trovarsi accanto a un figlio del demonio. Al suo cenno mi si riaccostarono. L'uomo alla mia destra aveva ancora la spada sguainata, però la teneva abbandonata lungo il fianco e in modo che mia madre non la vedesse. L'arma non era del tutto ferma. Quello alla mia sinistra l'aveva rimessa furtivamente nel fodero. Entrambi avevano un respiro affannoso, e in loro potevo fiutare la paura. I preti annuivano con aria saggia e alcuni di essi, notai, tenevano le mani davanti a sé per respingere qualsiasi incantesimo. Pareva che credessero a Maugan, che credessero a mia madre, che vedessero in me il figlio del diavolo. Era accaduto semplicemente che la sua storia aveva confermato le loro convinzioni, le antiche voci. Per questo, appunto, essa era stata portata lì. E adesso mi guardavano soddisfatti, ma anche con una specie di cauta paura. A me, invece, la paura mi stava abbandonando. Credevo di cominciare a vedere quello che volevano. La superstizione di Vortigern era leggendaria. Ricordavo quanto mi aveva detto Dinias a proposito della fortezza che continuava a crollare, e degli indovini del re che sostenevano che era stregata. Pareva possibile che, a causa delle voci che circolavano sulla mia nascita, e forse a causa dei poteri infantili che avevo dimostrato prima di andarmene da casa, poteri ai quali si era riferito Maugan, pensassero che potevo dare loro qualche consiglio o aiutarli. Se così era, se davvero mi avevano portato lì a causa dei miei famosi poteri, potevo trovare il modo di
aiutare Ambrogio proprio dal campo nemico. Forse dopo tutto il dio mi aveva portato qui per questo, forse mi stava ancora guidando. Mettiti sulla sua strada... Be', ci si poteva servire di quello che si aveva a disposizione. Se non avevo nessun potere di cui servirmi, avevo il sapere. Riandai con la mente al giorno in cui ero stato al Forte del re, e alla miniera allagata nel cuore della rupe; a cui mi aveva condotto il sogno. Di certo sarei stato in grado di dire perché le loro fondamenta non reggevano. Era una risposta da ingegnere, non da mago. Ma, pensai incontrando gli occhi inespressivi di Maugan, mentre egli si sfregava quelle lunghe mani sporche davanti a sé, l'avrebbero avuta. E Vortigern con loro. Alzai la testa. Credo che sorridevo. «Re Vortigern!» Fu come lanciare una pietra in uno stagno, la sala era così silenziosa, così attenta a me. Dissi con forza: «Mia madre ti ha detto quanto le avevi chiesto. Sono sicuro che adesso tu mi dirai in che modo posso servirti, ma prima devo chiederti di mantenere la tua regale promessa e di lasciarla andare». «Madonna Niniane è nostra riverita ospite.» La risposta del re parve automatica. Egli lanciò uno sguardo al portico che guardava sul fiume, dove le lame bianche della pioggia scendevano sibilando attraverso un cielo grigio scuro. «Siete liberi tutti e due di andarvene quando deciderete, ma questa non è l'ora giusta per cominciare un lungo viaggio fino a Maridunum. Vorrai certo dormire qui stanotte, signora, sperando che domani non piova?» Egli si alzò, e la regina seguì il suo esempio. «Le stanze sono state preparate, e ora la regina ti ci condurrà perché tu possa riposare e prepararti per cenare con noi. La nostra corte qui, e le nostre stanze, sono purtroppo di fortuna, ma quali sono esse sono a tua disposizione. Domani riceverai una scorta per tornartene a casa.» Mia madre si era alzata con loro. «E mio figlio? Ancora non ci hai detto perché ci hai fatto portare qui.» «Tuo figlio può essermi utile. Ha dei poteri dei quali posso servirmi. Adesso, signora, se vuoi andare con la regina, io parlerò con tuo figlio e gli dirò che cosa voglio da lui. Credimi, è libero quanto te. L'ho solo tenuto prigioniero finché tu mi hai detto la verità che desideravo ascoltare. Ti devo ringraziare per aver confermato quanto sospettavo.» Stese una mano avanti a sé. «Ti giuro, madonna Niniane, davanti a qualsiasi dio tu voglia, che non gli farò colpa della sua nascita, né ora né mai.» Essa lo guardò un attimo, poi chinò la testa e, ignorando il suo gesto, si avvicinò a me, con entrambe le mani tese. Attraversai il tratto che mi sepa-
rava da lei e gliele presi tra le mie. Erano piccole e fredde. Io ero più alto di lei. Alzò lo sguardo verso di me con gli occhi che ricordavo: c'era ansia in quegli occhi, tracce di paura e un messaggio trasmesso d'urgenza, nel silenzio. «Merlino, non avrei voluto che tu lo sapessi in questo modo. Ti avrei risparmiato questo.» Ma non era questo che dicevano gli occhi. Le sorrisi e dissi, guardingo: «Madre, oggi tu non hai detto niente che mi urtasse. In verità, non c'è niente di quanto potevi dirmi sulla mia nascita che io già non conoscessi. Stai tranquilla». Essa riprese fiato e i suoi occhi si allargarono, mentre mi frugavano in viso. Io proseguii, lentamente: «Chiunque fosse mio padre, questo non mi verrà ascritto a colpa. Hai sentito quello che il re ha promesso. È tutto ciò che avevamo bisogno di sapere». Non riuscii a indovinare se avesse ricevuto questa parte del messaggio. Lei stava ancora assorbendo quello che avevo detto prima. «Lo sapevi? Lo sapevi?» «Lo sapevo. Non puoi pensare che in tutù questi anni in cui sono stato lontano da te, e con il genere di studi che ho intrapreso, io non abbia mai scoperto la mia origine. Già da alcuni anni mio padre si è fatto conoscere da me. Ti assicuro che ho parlato con lui, non una volta ma molte. Non trovo nella mia nascita niente di cui debba vergognarmi.» Essa mi guardò un attimo di più, poi annui e abbassò le palpebre. Un leggero colorito le era salito in viso. Mi aveva capito. Si voltò, tirandosi il cappuccio fino a nascondere il viso, e appoggiò la mano sul braccio del re. Uscì dalla sala, tra lui e la regina, seguita dalle sue due donne. I preti rimasero, gracchiando, bisbigliando e fissandomi. Non feci loro caso, ma osservai mia madre allontanarsi. Il re si fermò sulla soglia, e udii la sua voce salutare mia madre. Nel porticato esterno, c'era una piccola folla in attesa. La folla si aprì per lasciar passare mia madre e Rowena, e quella mezza dozzina di donne che era presente le seguì. Udii il frusciare delle loro vesti e le loro voci leggere smorzarsi nel rumore della pioggia. Vortigern rimaneva fermo sulla soglia, guardandole allontanarsi. Fuori la pioggia cadeva con uno scroscio torrenziale. La luce andava rapidamente oscurandosi. Il re girò sui calcagni e tornò nella sala, seguito dai suoi guerrieri. Nove
Fecero ressa intorno a me, rumoreggiando, ma tenendosi un po' indietro in cerchio, come cani prima di avvicinarsi per uccidere. La morte era di nuovo nella sala; la sentivo, ma non potevo crederlo né capirlo. Feci un movimento come per seguire mia madre, e le spade delle mie sentinelle si alzarono e fremettero. Rimasi fermo. Dissi con voce tagliente, al re: «Che cos'è? Hai dato la tua parola. Così presto sei spergiuro?». «Non spergiuro. Ho dato la mia parola che tu mi saresti servito, che la tua nascita non ti sarebbe stata ascritta a colpa. Questo è vero. È per quello che so di te, perché non sei figlio di uomo, che ti ho fatto portare da me oggi. Mi servirai, Merlino a causa della tua nascita.» «Ebbene?» Egli salì i gradini fino al tropo e si risedette. I suoi movimenti erano lenti e intenzionali. Tutti gli uomini della sua corte avevano fatto ressa intorno a lui, e con loro i portatori di torce. La sala si riempì di luce fumosa, dei rumori del cuoio sfregato e delle maglie di ferro. Fuori, la pioggia cadeva sferzante. Vortigern si chinò in avanti, il mento appoggiato al pugno. «Merlino, abbiamo appreso oggi quanto in parte già sospettavamo, che tu non sei figlio di uomo ma del diavolo. In quanto tale, non puoi pretendere la misericordia di nessun uomo. Ma poiché tua madre è figlia di re, e di conseguenza per questo qualcosa ti è dovuto, ti dirò perché ti ho fatto portare qui. Forse tu sai che sto costruendo una roccaforte qui sulla roccia che è detta la Fortezza?» «Tutti lo sanno,» dissi «e sanno anche che non regge in piedi e che cade ogni volta che arriva all'altezza dell'uomo.» Egli annuì. «E i miei maghi e i miei saggi, miei consiglieri, me ne hanno detto la ragione. Le fondamenta non sono state gettate a dovere.» «Bene,» dissi «mi pare una cosa molto sensata.» C'era un uomo alto alla destra del re, accanto ai preti. I suoi chiari occhi azzurri erano irati sotto le sopracciglia bianche sporgenti. Mi guardava fisso e credetti di vedere pietà nel suo sguardo. Mentre parlavo, alzò una mano alla barba, come per nascondere un sorriso. Il re parve non udirmi. «Mi dicono» proseguì «che la roccaforte di un re dovrebbe esser costruita sul sangue.» «Parlano per metafora, è ovvio» dissi educatamente. Maugan batté improvvisamente il suo bastone sulla predella. «Parlano alla lettera!» gridò. «Bisogna spegnere la calce col sangue! Bisogna spar-
gere il sangue sulle fondamenta. Anticamente, nessun re costruiva una fortezza senza osservare questo rito. Il sangue di un uomo forte, di un guerriero, faceva reggere le mura.» Ci fu una pausa dolorosa. Il mio cuore aveva cominciato a battere con un ritmo lento, martellante, che mi faceva fremere il sangue nelle braccia e nelle gambe. Dissi, freddamente: «E questo che cosa ha a che vedere con me? Io non sono un guerriero». «Non sei neppure un uomo» disse il re aspro. «Questa, o Merlino, è la magia che essi mi hanno rivelato, e cioè che dovevo trovare un ragazzo che non avesse mai avuto padre, e spegnere la calce delle fondamenta con il suo sangue.» Lo fissai, poi guardai intorno quella cerchia di visi. C'erano spostamenti, e mormorii, e pochi sguardi incontrarono il mio, ma in tutti i loro volti potevo vedere quella morte che avevo fiutato fin da quando ero entrato nella sala. Mi rivolsi di nuovo al re. «Che sciocchezze sono queste? Il Galles, quando l'ho lasciato, era un paese di uomini civili e di poeti, di arasti e di studiosi, di guerrieri e di re che uccidevano in nome del loro paese, ma in modo pulito e alla luce del giorno. E adesso tu parli di sangue e di sacrifici umani. Pensi di spingere il Galles moderno indietro, ai riti dell'antica Babilonia e di Creta?» «Io non ho parlato di sacrifici umani» disse Vortigern. «Tu non sei figlio d'uomo. Ricordalo.» Nel silenzio che seguì, si sentì la pioggia sferzare le pozzanghere, all'esterno. Qualcuno si schiarì la gola. Colsi il fiero bagliore azzurro degli occhi del vecchio guerriero. Non mi ero sbagliato; lì c'era pietà. Ma anche coloro che provavano pietà per me non avrebbero alzato una mano contro quella stupidità. Tutto era diventato chiaro adesso, come un fulmine che rompe le tenebre. Tutto questo non aveva nulla a che fare con Ambrogio, o con mia madre. Lei era abbastanza al sicuro, dopo aver semplicemente confermato quel che loro volevano farsi confermare. Sarebbe stata persino onorata, per aver fornito loro quello che desideravano. E Ambrogio non era mai entrato nei loro pensieri. Io non mi trovavo lì in quanto suo figlio, sua spia, suo messaggero; tutto quello che volevano era il "figlio del diavolo" da uccidere per la loro rozza e sporca magia. E, c'era da ridere, quello che avevano trovato non era figlio del diavolo, e nemmeno il ragazzo che una volta aveva pensato di avere in mano il potere. Tutto quello che avevano trovato era un giovane uomo, con nessun
altro potere se non le sue facoltà mentali. Ma per il dio, pensai, queste potrebbero pur bastare... Ne avevo imparato abbastanza per combatterli, potere o non potere, con le loro stesse armi. Riuscii a sorridere, guardando, oltre Maugan, gli altri preti. Questi stavano ancora facendo il segno di scongiuro contro di me, e anche Maugan si stringeva il bastone al petto come se avesse il potere di proteggerlo. «E che cosa ti rende così sicuro che il diavolo mio padre non verrà in mio aiuto?» «Queste sono solo parole, o re. Non abbiamo tempo di ascoltarle.» Maugan parlava rapidamente e ad alta voce e gli altri preti si spingevano in avanti con lui intorno al trono del re. Parlavano tutti insieme. «Sì, uccidilo ora. Non c'è tempo da perdere. Portalo sulla rupe e uccidilo ora. Vedrai che gli dei si placheranno e che le mura rimarranno ferme. Sua madre non lo saprà, e anche se lo sapesse, che cosa può fare?» Ci fu un movimento generale, come cani che mi stringessero. Io tentavo di riflettere, ma ero svuotato di qualsiasi pensiero coerente. L'aria si faceva scura, e c'era cattivo odore. Potevo già sentire l'odore del sangue e le lame delle spade - adesso apertamente rivolte contro di me - lampeggiavano alla luce delle torce. Fissai gli occhi sul metallo su cui giocavano riflessi di fuoco e tentai di rendere vuota la mia mente, ma tutto quello che riuscii a vedere fu lo scheletro scarnificato di Galapas, su sulla collina al sole, e le ali degli uccelli sopra di lui... Dissi, rivolto a quelle spade: «Ditemi una cosa. Chi ha ucciso Galapas?». «Che cosa ha detto? Che cosa ha detto il figlio del diavolo?» La domanda percorse la sala come un ronzio. Una voce dura disse, forte: «Lasciatelo parlare». Era il vecchio guerriero dalla barba grigia. «Chi ha ucciso Galapas, il mago che viveva a Bryn Myrddin sopra Maridunum?» Avevo quasi gridato. La mia voce suonava strana, anche per me. Essi rimasero in silenzio, guardandosi l'un l'altro di sottecchi, senza capire. Vortigern disse: «Il vecchio? Dicevano che era una spia». «Era un mago, e il mio maestro» dissi. «E ha insegnato a me, Vortigern.» «Che cosa ti ha insegnato?» Sorrisi. «Quanto basta. Quanto basta a sapere che questi uomini sono degli idioti ciarlatani. Benissimo, Vortigern. Portami su alla rupe e portate con voi i coltelli, tu e i tuoi indovini. Mostrami quella fortezza, quelle mu-
ra crollanti, e vedi se non posso dirti meglio di loro perché il tuo forte non rimarrà in piedi. Colui che non è figlio d'uomo!» Questo lo dissi con tono sprezzante. «Queste sono le cose che evocano, questi stupidi vecchi, quando non riescono a pensare a nient'altro. Non ti viene in mente, o re, che il figlio di uno spirito delle tenebre potrebbe avere una magia che superi gli incantesimi di questi vecchi sciocchi? Se quello che essi dicono è vero, e se il mio sangue farà restare in piedi quelle pietre, allora perché sono stati a guardarle cadere non una, non due, ma quattro volte prima di essere in grado di dirti il da farsi? Lascia che io veda il luogo una volta, e poi ti dirò. Per il dio degli dei, Vortigern, se è vero che il mio sangue morto può far stare in piedi la tua fortezza, quanto meglio potrebbe servirti il mio corpo vivo?» «Stregoneria! Stregoneria! Non lo ascoltare! Che cosa ne sa un ragazzo come lui di queste cose?» Maugan cominciò a gridare, e i preti a gracchiare e a chiacchierare. Ma il vecchio guerriero disse, burbero e aspro: «Lascia che provi. In questo non c'è alcun male. Aiuto devi ricevere, Vortigern, venga esso da dio o dal diavolo. Lascia che provi, ti dico». E in tutta la sala sentii riecheggiare, da parte dei guerrieri che non avevano motivo di amare i preti: «Lascia che provi». Vortigern aggrottò la fronte, indeciso, spostando lo sguardo da Maugan ai guerrieri e poi al portico grigio in cui si vedeva cadere la pioggia. «Ora?» «Meglio ora» essi dissero. «Non c'è molto tempo.» «No,» dissi io con voce chiara «non c'è molto tempo.» Regnò di nuovo il silenzio, e tutu gli occhi si appuntarono su di me. «La pioggia è forte, Vortigern. Che genere di re è quello la cui fortezza è abbattuta da uno scroscio di pioggia? Troverai le tue mura di nuovo crollate. Questo dipende dall'aver costruito al buio, con dei ciechi come consiglieri. Adesso portami in cima alla tua rupe, e io ti dirò perché sono cadute le tue mura. E se ascolti me invece di questi sacerdoti delle tenebre, ti dirò come ricostruire la tua roccaforte alla luce.» Mentre parlavo, l'acquazzone cessò come se avessero chiuso un rubinetto. Nel silenzio improvviso, gli uomini erano rimasti a bocca aperta. Perfino Maugan era muto. Poi, come se fosse stata aperta una tenda scura, usci il sole. Risi. «Vedi? Vieni, re, portami in cima alla rupe e io ti mostrerò, alla luce del sole, perché crollano le tue mura. Ma di' loro di portare le torce. Ne avremo bisogno.»
Dieci Prima che fossimo arrivati ai piedi della rupe, risultò che avevo ragione. Si potevano vedere gli operai ammassati sull'orlo della cima rocciosa, in attesa del re, e alcuni di loro erano scesi per venirgli incontro. Il caposquadra sali ansimando; era un uomo robusto con rozza tela di sacco gettata sulle spalle come un mantello, ancora gocciolante di umidità. Pareva non si fosse accorto che aveva smesso di piovere. Era pallido, con gli occhi cerchiati di rosso come se fossero notti che non dormiva. Si fermò a tre passi di distanza, guardando nervosamente il re e passandosi il dorso della mano bagnata sul viso. «Daccapo?» disse Vortigern conciso. «Sissignore, mio signore, e nessuno può dire che sia colpa nostra, lo giuro, non più dell'ultima volta, o di quelle precedenti. Hai visto ieri come l'abbiamo posato, questa volta. Hai visto come abbiamo sgombrato tutto il posto, per ricominciare, arrivando fino alla roccia solida. Ed è roccia solida, mio signore, lo giuro. Ma pure, il muro crolla.» Si passò la lingua sulle labbra e i suoi occhi incontrarono i miei, ed egli li distolse, sicché capii che sapeva quello che il re e i suoi indovini progettavano. «Vai su adesso, mio signore?» «Sì. Fai sgomberare gli uomini.» L'uomo deglutì, si voltò e risali di corsa il sentiero sinuoso. Lo udii gridare qualcosa. Venne portato un mulo e il re vi montò. Il mio polso era legato strettamente ai finimenti. Mago o non mago, alla vittima non doveva essere data la possibilità di fuggire finché non fosse stata messa alla prova. Le sentinelle mi tenevano stretto tra loro. Ufficiali e cortigiani del re facevano ressa intorno a noi, parlando a voce bassa tra loro, ma i preti si tenevano indietro, in disparte e diffidenti. Vedevo che non avevano molta paura delle conseguenze; sapevano quanto me che la loro magia era il potere dei loro dei e che l'inganno opera sulla fede. Avevano fiducia che io non avrei potuto fare più di loro; che anche se fossi stato uno della loro razza avrebbero trovato il modo di battermi. Tutto quel che avevo da opporre ai loro riti collaudati dal tempo era, essi pensavano, quel tipo di millanteria che era loro familiare e la fortuna, che aveva fatto cessare la pioggia e spuntare il sole mentre parlavo. Il sole scintillava tra le erbe bagnate sulla vetta della rupe. Sotto si stendeva la valle in cui il fiume descriveva le sue anse sinuose come un ser-
pente lucente tra le rive verdi. Dai tetti del campo del re si levava il vapore. Intorno alla sala e agli alloggiamenti di legno le piccole tende di pelle si raccoglievano come funghi velenosi, e gli uomini che si muovevano in mezzo a loro non erano più grandi di insetti. Era un punto magnifico, un vero nido d'aquila. Il re fermò il suo mulo in un boschetto di querce piegate dal vento e indicò avanti a sé sotto i rami spogli. «Ieri da qui avresti potuto vedere il muro ovest.» Oltre il boschetto c'era una stretta cresta rocciosa, una sella naturale, sulla quale gli operai e le loro bestie avevano tracciato una larga pista. Il Forte del re era una torre di roccia su una rupe, cui da un lato si avvicinava la sella mentre gli altri tre lati cadevano a picco, con pendii vertiginosi e pareti rocciose. La cima era un pianoro, grande forse cento passi per cento, e doveva un tempo esser stato coperto di erbe con affioramenti di roccia e alcuni alberi e cespugli stentati. Adesso era un pantano di fango smosso intorno alle rovine di quella torre nata sotto cattivi auspici. Su tre lati il muro era arrivato quasi fino all'altezza delle mie spalle; sul quarto il muro aveva ceduto in un caos di pietre ammucchiate, alcune delle quali erano cadute e mezzo sprofondate nel fango, mentre altre ancora erano precariamente fissate con la malta agli affioramenti di roccia viva. Pesanti travi di pino erano state piantate qua e là e tra l'una e l'altra erano tesi teli di sacco per riparare i lavori dalla pioggia. Alcune travi erano cadute, altre erano state evidentemente frantumate dal recente crollo. Su quelle intatte rimaneva appeso il telo, penzolante, oppure era teso e si era strappato con la pioggia. Tutto era fradicio, e c'erano pozzanghere dappertutto. Gli operai avevano lasciato libero il luogo e si ammassavano in un punto del pianoro, accanto alla sella. Erano silenziosi, la paura dipinta sui loro volti. Vedevo che quella paura non era provocata dall'ira del re per quanto era accaduto al lavoro, ma dalla forza che essi credevano ne fosse la causa, una forza che non comprendevano. C'erano sentinelle all'inizio della sella. Io sapevo che senza di loro nessun operaio sarebbe stato lasciato sul luogo. Le sentinelle avevano incrociato le lance, ma riconoscendo il re le ritirarono. Alzai gli occhi. «Vortigern, qui non posso sfuggirti se non buttandomi dalla rupe, e questo farebbe spargere il mio sangue proprio come vuole Maugan. Ma non posso neppure vedere che cosa c'è che non va nelle tue fondamenta se non mi sciogli.» Egli alzò la testa con un cenno e una delle sentinelle mi liberò. Avanzai. Il mulo seguiva, affondando cautamente le zampe nel fango denso. Gli altri ci seguivano. Maugan si era spinto avanti e parlava con tono insistente
al re. Colsi qua e là qualche parola: «Inganno... fuga... adesso o mai... sangue...». Il re si fermò, e con lui tutto il gruppo. Qualcuno disse: «Ecco, ragazzo», e io mi guardai in giro per vedere il barbagrigia che mi tendeva un bastone. Scossi la testa, poi voltai loro la schiena e avanzai, solo. C'era acqua dappertutto, scintillante nelle pozzanghere tra i ciuffi d'erba, o tra le foglie incurvate delle giovani felci che spuntavano in mezzo alla pallida erba invernale. La roccia grigia brillava. Mentre avanzavo dovetti stringere gli occhi contro quell'umidità abbagliante per vederci. Era il muro ovest quello che era caduto. Era stato eretto molto vicino all'orlo della rupe e benché fosse crollato per la maggior parte verso l'interno, c'era un mucchio di macerie che arrivavano fino all'orlo della parete rocciosa dove si vedeva una nuova frana umida e sdrucciolevole per l'argilla. Nel muro nord c'era uno spazio nel quale andava costruito un ingresso; passai di lì, facendomi strada tra i mucchi di pietrisco e gli utensili degli operai, e arrivai nel centro della torre. Qui il pavimento era un guazzabuglio di fango smosso, con pozzanghere cui il sole dava un abbagliante color rame. Era al tramonto ormai, l'ultima vampa di luce prima del crepuscolo e mi feriva gli occhi mentre esaminavo il muro crollato, le lesioni, l'angolo di caduta, la posizione rivelatrice degli affioramenti. Ero consapevole, in tutto quel tempo, dell'agitazione e dei mormorii di quelli che mi guardavano. Di quando in quando il sole faceva scintillare le armi sguainate. La voce di Maugan, alta e aspra, attaccava il silenzio del re. Tra poco, se non avessi fatto e detto qualcosa, la gente avrebbe dato retta a lui. Dal mulo in sella al quale era rimasto, il re poteva vedermi dall'apertura della parete nord, ma la maggior parte delle persone non mi vedeva. Mi arrampicai, o meglio salii, tanta era la mia dignità, sui blocchi di pietra crollati del muro ovest, finché emersi da quel che rimaneva della costruzione e tutti poterono vedermi. Non lo feci solo per impressionare il re. Dovevo vedere, da quella posizione di vantaggio, le pendici boscose che avevamo percorso per arrivare fin li tentando, ora che non avevo addosso tutta quella ressa, di riconoscere la strada che avevo seguito, tanti anni prima, per arrivare alla galleria della vecchia miniera. Le voci della folla, sempre più impazienti, mi aggredirono a un tratto, e lentamente io alzai le braccia verso il sole con una specie di gesto rituale, come avevo visto fare ai preti per invocare gli spiriti. Se almeno mi esibivo
un po' come mago, potevo tenere a bada il corteo, nel dubbio i preti e nella speranza il re, finché fossi riuscito a ricordare. Non potevo permettermi di lanciarmi esitante nel bosco come un cane che segue le tracce della preda; dovevo guidarli rapido e sicuro come una volta lo smeriglio aveva guidato me. E la fortuna mi sostenne. Mentre alzavo le braccia il sole calò e si nascose, e il crepuscolo cominciò ad addensarsi. Adesso, non più abbagliato, ci vedevo. Guardai dietro di me lungo la sella fino alla curva della collina su cui ero salito, tanti anni prima, per allontanarmi dalla folla che circondava i due re. Le pendici erano fittamente coperte di alberi, più di quanto ricordassi. Già, al riparo della depressione nel fianco della collina, spuntavano le prime foglie, e i boschi erano verdi di rovi e di agrifoglio. Non riuscivo a riconoscere la strada che avevo percorso attraverso i boschi spogli dell'inverno. Fissai il crepuscolo che si addensava, richiamando alla memoria il bambino che si era arrampicato per di qua... Eravamo venuti a cavallo dalla valle aperta, lungo quel fiume, sotto gli alberi fitti, attraverso quella bassa cresta rocciosa, fino alla depressione nel fianco della collina. I re, con Camlach e Dinias e gli altri, si erano fermati sul pendio meridionale, sotto il gruppo di querce. Li c'erano i fuochi per preparare i cibi, laggiù i cavalli. Era mezzogiorno e mentre mi allontanavo, da quella parte, calpestavo la mia ombra. Mi ero seduto a mangiare al riparo di una roccia... Adesso c'ero. Una roccia grigia, spaccata da una giovane quercia. E dall'altro lato della roccia i re si erano allontanati verso il Forte del re. Una roccia grigia, spaccata da una giovane quercia, accanto al sentiero. E diritta davanti alla roccia, su attraverso il bosco in pendio, la strada segnata dal volo dello smeriglio. Abbassai le braccia e mi voltai. Il crepuscolo era calato in fretta sulla scia delle nuvole grigie. Sotto di me le pendici boscose ondeggiavano fitte nell'imbrunire. La massa di nuvole dietro Vortigern era orlata di giallo e un'unica freccia di luce indistinta cadeva perpendicolarmente sulle colline nere in lontananza. Gli uomini erano sagome scure, con i mantelli che fluttuavano nella brezza piena di umidità. Le torce tremolavano. Scesi adagio dal mio osservatorio. Quando raggiunsi il centro del pavimento della torre mi fermai, lì il re mi vedeva perfettamente, e stesi le mani in fuori, con le palme rivolte verso terra, come un indovino che si fermasse a sentire che cosa c'era sotto la terra. Udii il mormorio dilagare e un
suono aspro di disprezzo che partiva da Maugan. Allora abbassai le mani e mi avvicinai a loro. «Ebbene?» La voce del re era dura e concisa, come una sfida. Egli si agitava sulla sella. Lo ignorai, camminando oltrepassai il mulo dirigendomi senza esitazione verso il punto più folto della folla come se questa non ci fosse. Tenevo ancora le mani abbandonate lungo i fianchi e gli occhi fissi a terra; vedevo i loro piedi esitare, trascinarsi, e infine farsi da parte per farmi passare. Ripercorsi la cresta rocciosa, cercando di muovermi con dignità sul suolo sconnesso e bagnato. Le sentinelle non fecero alcun tentativo per fermarmi. Quando superai uno degli uomini che portavano le torce alzai una mano e quello senza una parola si mise al mio fianco. La pista che gli operai e le loro bestie avevano aperto sul pendio della collina era nuova ma, come avevo sperato, seguiva il vecchio sentiero dei cervi dal quale erano passati i re. A metà discesa, inconfondibilmente, trovai la roccia. Piccole felci spuntavano nella crepa tra le radici della quercia, e tra le galle della quercia dell'anno precedente già si vedevano le gemme. Senza esitare un attimo, abbandonai la pista e mi diressi nel ripido groviglio del bosco. Era molto più fitto di quanto lo ricordassi e certo nessuno era passato di lì da molto tempo, probabilmente da quando Cerdic e io ci eravamo aperti un varco in quell'intrico. Ma io ricordavo la strada con la stessa chiarezza che se fosse stato il mezzogiorno di quella giornata invernale. Avanzavo svelto, e anche dove gli arbusti crescevano più alti di me cercavo di camminare senza scosse, incurante, attraversandoli come se fossero stati un mare. Il giorno dopo scontai quella mia dignità di mago con tagli, sgraffi e strappi nelle vesti, ma sono sicuro che in quei momenti dovevo fare impressione. Ricordo, quando il mio mantello s'impigliò e rimase preso in qualche cosa, come il portatore di torcia fece un balzo in avanti come uno schiavo, per liberarlo e tendermelo. Ed ecco la macchia, proprio al margine della piccola valle. Dal pendio sovrastante erano cadute altre pietre, formando un mucchio tra i rami dei pruneti come schiuma tra le canne di un acquitrino. Su di esso facevano ressa i cespugli, sambuchi spogli, caprifoglio come ciocche di capelli, rovi pungenti e flessibili, edera che scintillava alla luce della torcia. Mi fermai. Il mulo scivolò e si fermò rumorosamente alle mie spalle. La voce del re disse: «Che cos'è? Che cos'è? Dove ci stai portando? Merlino, ti dico che il tuo tempo sta per finire. Se non hai niente da farci vedere...».
«Ho molte cose da farti vedere.» Alzai la voce in modo che tutti loro, che si accalcavano dietro di lui, potessero sentirmi. «Mostrerò a te, re Vortigern, o a qualsiasi altro uomo che abbia il coraggio di seguirmi, la bestia magica nascosta sotto la tua roccaforte che corrode le tue fondamenta. Dammi la torcia.» L'uomo me la porse. Senza neppure voltare la testa per vedere chi mi seguiva, mi tuffai nelle tenebre della macchia e spinsi da parte i cespugli che ostruivano l'imboccatura della galleria. Era ancora aperta, ben puntellata e quadrata, con il cunicolo asciutto che conduceva in piano fin nel cuore della collina. Dovetti chinare la testa, questa volta, per passare sotto l'architrave. Mi curvai ed entrai, tenendo la torcia davanti a me. Nel mio ricordo la cavità era enorme, ed ero preparato a scoprire questo dato inesatto, come lo sono spesso le nozioni conservate dall'infanzia. Invece era ancora più grande di quanto la ricordassi. La cavità tenebrosa si raddoppiava nel grande specchio d'acqua che aveva ricoperto quasi tutto il suolo salvo un semicerchio di roccia asciutto, largo sei passi, proprio all'imboccatura della galleria. In quel gran lago tranquillo, le nervature sporgenti delle pareti della grotta correvano come speroni fino a incontrare l'angolo della loro immagine riflessa, poi riaffondavano nelle tenebre. Chissà dove, nel più profondo della collina, c'era un rumore d'acqua che cadeva, ma qui nulla agitava la superficie brunita. Mentre prima scorrevano e scintillavano ruscelletti come rubinetti chiusi male, adesso ogni parete era coperta di un sottile velo lucente di umidità, che scivolava impercettibilmente a gonfiare lo stagno. Avanzai fino all'orlo, tenendo alta la torcia. La piccola luce respingeva le tenebre, tenebre palpabili, ancora più profonde di quelle notti buie in cui il nero è fitto come la pelliccia di un animale selvatico e pesa su di te come una coperta soffocante. Mille sfaccettature di luce scintillavano e lampeggiavano mentre la luce colpiva l'acqua che scivolava. L'aria era immobile e fredda, con echi di suoni che parevano canti d'uccello in un bosco profondo. Li sentivo avanzare lungo la galleria dietro di me. Riflettevo rapido. Avrei potuto dir loro la verità, freddamente. Avrei potuto prendere la torcia e arrampicarmi nel cunicolo buio facendo notare le faglie che stavano cedendo sotto il peso della costruzione sovrastante. Ma dubitavo che mi avrebbero ascoltato. Inoltre, come essi avevano cominciato a dire, non
c'era tempo. Il nemico era alle porte, e ciò di cui Vortigern aveva bisogno adesso non era la logica e neppure un ingegnere; gli serviva la magia e qualche cosa, una cosa qualsiasi, che gli promettesse una veloce soluzione e gli conservasse la fedeltà dei suoi seguaci. Personalmente, il re poteva anche credere alla voce della ragione, ma non poteva permettersi di ascoltarla. Io sospettavo che prima di tutto mi avrebbe ucciso, e poi avrebbe tentato di puntellare la galleria, probabilmente con me dentro. Altrimenti avrebbe perso i suoi operai. Gli uomini si rovesciavano nell'imboccatura buia della galleria come api nei fori d'ingresso di un alveare. Altre torce splendettero, facendo a poco a poco indietreggiare le tenebre. Il luogo si riempiva di mantelli colorati, del lampeggiare delle armi e dello scintillio dei gioielli. Gli occhi parevano liquidi, mentre guardavano in giro, colmi di terrorizzata meraviglia. Il respiro diventava vapore nell'aria fredda. C'era un fruscio e un mormorio, come di persone che si trovino in un luogo sacro, ma nessuno parlava ad alta voce. Alzai una mano per chiamare il re ed egli avanzò e si fermò vicino a me sull'orlo dello stagno. Puntai il dito verso il basso. Sotto la superficie qualche cosa, forse una roccia, scintillava debolmente, e aveva la forma di un drago. Cominciai a parlare, adagio, come se saggiassi l'aria che ci divideva. Le mie parole caddero chiare e pesanti, come gocce d'acqua sulla roccia. «Questa è la magia, o re Vortigern, che si nasconde sotto la tua torre. Per questo i tuoi muri si spaccavano con la stessa rapidità con cui i tuoi operai li innalzavano. Quale dei tuoi indovini poteva mostrarti ciò che io ti mostro ora?» I suoi due portatori di torcia erano avanzati con lui, gli altri si tenevano ancora indietro. La luce aumentò, vacillando sulle pareti, mentre essi si facevano avanti. I rigagnoli d'acqua captarono la luce e continuarono a scorrere incontro al loro riflesso, sicché il fuoco pareva nascere dallo stagno come le bollicine di un vino spumante che vengono a scoppiare in superficie. Dappertutto, mentre le torce si spostavano, l'acqua scintillava e riluceva, getti e schizzi di luce che si rompevano, balzavano e si fondevano attraverso la superficie immobile, finché il lago fu fuoco liquido, e cascate di luce percorsero le pareti e scintillarono come cristalli; come la grotta di cristallo che si animava, si muoveva, mi girava intorno; come la volta stellata di mezzanotte che turbina e dardeggia. Respirai, dolorosamente, e parlai di nuovo: «Se tu potessi asciugare que-
sto stagno, re Vortigern, per trovare quello che è sepolto sotto di esso...». M'interruppi. La luce era cambiata. Nessuno si era mosso e l'aria era ferma, ma la luce delle torce ondeggiava come se le mani degli uomini tremassero. Non potevo più vedere il re: le fiamme ci separavano. Ombre fuggivano attraverso torrenti e scalinate di fuoco, e la grotta era piena di occhi e di ali e di zoccoli martellanti e dell'impeto scarlatto di un gran drago chino sulla preda... Una voce gridava, forte e monotona, ansimante. Il dolore mi trafisse, diffondendosi dall'inguine e dal ventre come sangue che zampilla da una ferita. Non riuscivo a vedere niente. Sentii le mani stringersi e aprirsi. La testa mi doleva, e la roccia era dura e umida sotto il mio zigomo. Ero svenuto ed essi mi avevano preso da terra e mi stavano uccidendo: questo era il mio sangue che sgorgava da me per spargersi nello stagno e puntellare le fondamenta della loro putrida torre. Soffocavo e il mio respiro mi pareva bile. Le mie mani laceravano con tutta la loro forza la roccia e i miei occhi erano aperti, ma tutto quel che riuscivo a vedere era il turbinio degli stendardi e ali e occhi di lupo e orribili bocche spalancate, poi la coda di una cometa come un tizzone e stelle cadenti attraverso una pioggia di sangue. Il dolore mi trafisse ancora, un coltello arroventato nelle viscere. Gridai e improvvisamente le mie mani furono libere. Le lanciai in alto tra me e le visioni dardeggianti e udii la mia stessa voce gridare, ma non capii cosa. Davanti a me le visioni turbinarono, si frantumarono, si spalancarono su una luce intollerabile, poi si richiusero nelle tenebre e nel silenzio. Undici Mi svegliai in una camera splendidamente ricoperta di arazzi ricamati, con il sole che si rovesciava dalla finestra producendo chiazze chiare e oblunghe sul pavimento di assi. Mi mossi con cautela, saggiando le mie braccia e le mie gambe. Non mi era stato fatto del male. Non avevo neppure una traccia di mal di testa. Ero nudo, morbidamente e tiepidamente avvolto in pellicce, e i miei arti si muovevano senza la minima rigidità. Sbattei le palpebre con meraviglia verso la finestra, poi voltai la testa scoprendo Cadal in piedi accanto al letto, con un viso che si illuminava di sollievo come sole dopo le nuvole. «Era ora» disse. «Cadal! Per Mitra, ma che bellezza vederti! Che è successo? Dove siamo?»
«Nella migliore camera per ospiti di Vortigern, ecco dove siamo. L'hai sistemato, giovane Merlino, sul serio l'hai sistemato.» «Io? Non ricordo. Avevo l'impressione che stessero loro sistemando me. Vuoi dire che non hanno più in programma di uccidermi?» «Ucciderti? Di ficcarti in una grotta sacra, piuttosto, e sacrificarti delle vergini. Peccato, sarebbe un tale spreco! Non me ne dispiacerebbe un tantino per me.» «Te le passerò io. Oh, Cadal, ma che bellezza vederti! Come hai fatto ad arrivare qui?» «Ero appena tornato alla porta del convento quando sono venuti a prendere tua madre. Li ho sentiti chiedere di lei, e dire che ti avevano preso e che il giorno dopo vi avrebbero portati tutti e due, all'alba, da Vortigern. Ho passato metà della notte a cercare Marric, e l'altra metà a tentare di ottenere un cavallo decente, e avrei potuto risparmiarmi la fatica, ho dovuto rassegnarmi a quel ronzino che avevi comprato tu. Anche con il vostro passo, ero un giorno di cammino dietro di voi quando siete arrivati a Pennal... Non che volessi raggiungervi finché non vedevo come si mettevano le cose... Be', non importa, alla fine sono arrivato qui, ieri sera all'imbrunire, e ho trovato il campo che ronzava come un alveare calpestato.» Abbaiò una breve risata. «Era tutto un "Merlino qua e Merlino là"... ti chiamavano già il profeta del re! Quando ho detto che ero il tuo servo, hanno fatto a gara per farmi entrare da te. Non si direbbe che si litighino esattamente l'onore di servire uno stregone della tua classe. Puoi mangiare qualcosa?» «No... sì. Sì, posso. Ho fame.» Mi sollevai appoggiandomi ai cuscini. «Aspetta un momento, hai detto che sei arrivato ieri? Quanto tempo ho dormito?» «Tutta la notte e tutto il giorno. Stiamo arrivando al tramonto.» «Tutta la notte e tutto il giorno? Allora è... Cadal, che è accaduto a mia madre? Lo sai?» «È partita, sana e salva, per tornare a casa. Non ti crucciare per lei. Mangia adesso, mentre io ti racconto. Ecco.» Mi portò un vassoio con una ciotola di brodo fumante, e un piatto di carne con pane e formaggio e albicocche secche. Non riuscii a toccare la carne ma mangiai tutto il resto mentre lui parlava. «Non sa niente di quello che hanno tentato di fare, né di quello che è successo. Quando ha chiesto di te ieri sera, le hanno detto che eri qui, "alloggiato regalmente e molto nelle grazie del re". Le hanno detto che avevi sputato in faccia ai preti, diciamo così, e fatto profezie tali da battere Sa-
lomone, e che adesso dormivi profondamente, in tutta comodità. Lei è venuta a darti un'occhiata stamane per assicurarsene, ti ha visto dormire come un neonato e poi è partita. Non mi è stato possibile parlarle, ma l'ho vista partire. Aveva una scorta regale, posso assicurartelo; aveva con sé mezzo squadrone a cavallo, e le sue donzelle avevano lettighe imponenti quasi come quella di lei.» «Hai detto che ho fatto profezie? Che ho sputato in faccia ai preti?» Mi portai una mano alla testa. «Vorrei potermi ricordare... Eravamo nella grotta sotto il Forte del re... questo te l'hanno raccontato, immagino?» Lo guardai. «Che è successo, Cadal?» «Vuoi dirmi che non te lo ricordi?» Scossi la testa. «Tutto quello che so è che avevano intenzione di uccidermi per impedire alla loro putrida torre di crollare di nuovo, e io ho montato tutto un imbroglio. Pensavo che se fossi riuscito a screditare i preti avrei potuto salvarmi la pelle, ma tutto quello che ho sperato era solo di guadagnare un po' di tempo in modo da poter forse scappare.» «Sissignore, ho sentito quello che avevi intenzione di fare. Certe persone sono cosi ignoranti che ti meraviglieresti.» Ma mi guardava con quello sguardo che conoscevo. «È stato uno strano imbroglio, no? Come facevi a sapere dove avresti trovato la galleria?» «Ah, quello. Quello è stato facile. Sono già stato da queste parti, quand'ero ragazzo. Sono venuto proprio qui una volta, tanti anni fa, con Cerdic che era il mio servo allora, e stavo seguendo un falcone nel bosco quando trovai quella vecchia galleria.» «Ho capito. Alcuni potrebbero chiamarla fortuna... se non ti conoscessero, cioè. Suppongo che ci sei subito entrato?» «Si. Appena ho sentito parlare del muro ovest che crollava di sopra, ho pensato che dovesse essere in qualche modo in rapporto con la galleria della vecchia miniera.» Poi gli raccontai, rapidamente, tutto quel che riuscivo a ricordare di quanto era accaduto nella grotta. «Le luci...» dissi «l'acqua che scintillava... il fracasso... Non era come le visioni che avevo avuto in passato... il toro bianco e le altre cose che a volte ho visto. Questo era diverso. Intanto, faceva molto più male. Doveva essere qualcosa come la morte. Suppongo di essere svenuto, alla fine. Non ricordo affatto che mi abbiano portato qui.» «Questo io non lo so. Quando sono entrato a vederti, eri addormentato, molto profondamente ma in modo del tutto normale, mi è parso. Non ho esitato, ti ho. dato una bella occhiata, per vedere se ti avevano ferito, ma
non ho potuto trovare nessuna traccia di niente del genere, a parte un sacco di sgraffi ed escoriazioni che mi hanno detto ti sei fatto nei boschi. I tuoi vestiti avevano un aspetto, anche loro, te lo dico io... Ma da come eri alloggiato qui, e da come parlavano di te, ho pensato che non avrebbero osato alzare un dito contro di te... non ora. Qualunque cosa sia stata, svenimento, convulsione o più probabilmente trance, gli hai messo addosso una fifa matta, questo hai fatto.» «Sì, ma come esattamente? Te lo hanno detto?» «Ah, sissignore, me l'hanno detto, quelli che potevano parlarne. Berric, quello che ti ha dato la torcia, mi ha detto che erano tutti decisi a tagliarti la gola, quei vecchi preti schifosi, e pare che se il re non fosse stato perplesso e non fosse rimasto impressionato da tua madre e dal fatto che tutti e due non dimostravate paura di loro, non avrebbe certo aspettato. Ah, ho saputo tutto, non ti preoccupare. Berric ha detto che non avrebbe dato due soldi per la tua vita qui nella sala quando tua madre ha raccontato la sua storia.» Mi scoccò un'occhiata. «Tutta quella tiritera sul diavolo al buio. Incastrandoti in questo modo. Che le è preso?» «Ha pensato che potesse aiutare. Immagino pensasse che il re avesse scoperto chi era mio padre e ci avesse fatto trascinare qui per vedere se avevamo notizie dei suoi progetti. È quello che ho pensato anch'io.» Parlando riflettevo. «E c'era un'altra cosa... Quando un ambiente è pieno di superstizione e di paura, lo senti. Te lo dico io, avevo la pelle d'oca dappertutto. Anche lei deve averlo sentito. Si potrebbe quasi dire che ha seguito il mio stesso sistema, cercando di combattere magia con magia. Così ha raccontato la vecchia storia, di me che ero nato da uno spirito maligno, con qualche abbellimento in più per renderla convincente.» Gli sorrisi. «Lo ha fatto bene. Ci avrei creduto anche io se non avessi saputo che le cose stavano diversamente. Ma non importa, continua. Voglio sapere che cosa è successo nella grotta. Vuoi dire che ho detto qualcosa di sensato?» «Be', non intendevo proprio questo. Non ho capito niente di quello che mi ha raccontato Berric. Lui giurava di ripeterlo quasi parola per parola... pare che abbia ambizioni di cantore o qualcosa del genere... Be', ecco quello che ha detto: tu stavi li fermo a fissare l'acqua che scorreva lungo le pareti, e poi ti sei messo a parlare, in modo normalissimo al principio, a parlare al re, come se gli spiegassi in che modo era stato scavato il pozzo nella collina ed erano state sfruttate le vene d'acqua, ma allora il vecchio prete ha cominciato a gridare: "Sono chiacchiere di sciocchi", o qualcosa del genere, quando a un tratto tu hai lanciato un urlo da far gelare i coglio-
ni a tutti - espressione di Berric, non mia, lui non è abituato al servizio dei signori - e hai rovesciato gli occhi e hai alzato le mani come se stessi staccando le stelle dalle loro orbite - anche queste sono parole di Berric, dovrebbe fare il poeta - e hai cominciato a far profezie.» «Davvero?» «È quello che dicono tutti. Tutto velato, era, con aquile e lupi e leoni e cinghiali e tante altre bestie quante ce ne sono nell'arena, e anche qualcuna di più, draghi e simili... e tutto in anticipo di centinaia d'anni, il che è un sistema abbastanza sicuro, Dio lo sa, ma Berric ha detto che suonava proprio vera, tutta questa roba, come se tu ci avessi scommesso su il tuo ultimo soldo.» «Forse dovrò farlo» dissi secco «se ho detto qualcosa di Vortigern o di mio padre.» «Come infatti è stato» disse Cadal. «Bene, vorrei saperlo; dovrò attenermici.» «Era tutto velato, come fanno i poeti, draghi rossi e draghi bianchi che combattevano devastando il paese, piogge di sangue, tutta roba di questo genere. Mi pare che tu gli abbia dato tutte le indicazioni su quello che sta per accadere; il drago bianco dei sassoni e il drago rosso di Ambrogio che si battono fino all'ultimo sangue, e il drago rosso non sembra tanto in gamba in principio, ma alla fine vince. Poi un orso che esce dalla Cornovaglia per ripulire il campo.» «Un orso? Vuoi dire il Cinghiale, che è l'emblema della Cornovaglia. Ehm. Allora, dopo tutto, forse sta dalla parte di mio padre...» «Berric ha detto orso. Artos, era la parola... lo ha notato perché anche lui ci rifletteva su. Ma su questo eri molto chiaro, dice. Artos, lo hai chiamato, Artù... qualcosa del genere. Vuoi dirmi che non ti ricordi una parola di tutto questo?» «Non una parola.» «Be', sta' a sentire, io non ne ricordo più di così, ma se loro cominciano a chiederti, puoi trovare il modo di farti dire da loro tutto quello che hai detto. È proprio la regola, no?, che i profeti non sappiano di che cosa stanno parlando. Oracoli e simili.» «Credo di si.» «Quel che voglio dire è che, se hai finito di mangiare, e sul serio ti senti bene, forse è meglio che ti alzi e ti vesti. Stanno tutti aspettando te, lì fuori.» «Per che cosa? Per amor del cielo, non vogliono mica altri consigli?
Stanno cambiando la posizione scelta per la torre?» «No. Fanno quello che tu gli hai detto di fare.» «E cioè?» «Drenano lo stagno per mezzo di una conduttura. Hanno lavorato tutta la notte e tutto il giorno, montando le pompe per far uscire l'acqua dalla conduttura.» «Ma perché? Questo non renderà più solida la torre. Potrebbe addirittura far crollare dentro tutta la cima della rupe. Sì, ho finito, portalo via.» Spinsi verso di lui il vassoio e gettai indietro le coperte. «Cadal, stai cercando di dirmi che ho detto questo nel mio... delirio?» «Sissignore. Gli hai detto di drenare lo stagno, e che sul fondo troveranno le bestie che fanno crollare il forte del re. Due draghi, hai detto, uno rosso e uno bianco.» Mi sedetti sul bordo del letto, con la testa tra le mani. «Adesso ricordo qualche cosa... qualche cosa che ho visto. Sì, dev'essere questo... Ho visto davvero qualche cosa sotto l'acqua, probabilmente solo una roccia, a forma di drago... E ricordo di aver cominciato a dire qualcosa al re sul fatto di drenare lo stagno... Ma non ho detto loro di drenarlo, stavo dicendo: "Anche se drenaste lo stagno, non vi servirebbe a niente". Per lo meno, questo avevo cominciato a dire.» Lasciai cadere le mani e alzai la testa. «Vuoi dire che stanno drenando l'acqua, convinti che c'è lì sotto qualche animale acquatico che scuote le fondamenta?» «Questo è quello che tu gli hai detto, dice Berric.» «Berric è un poeta, ha abbellito il racconto.» «Può darsi. Però questo stanno facendo adesso, e le pompe hanno lavorato a pieno ritmo per ore. Il re è qui, che ti aspetta.» Rimasi seduto in silenzio. Egli mi lanciò un'occhiata dubbiosa, poi portò via il vassoio e ritornò con alcuni asciugamani e un bacile d'argento pieno d'acqua bollente. Mentre mi lavavo, lui si dava da fare su una cassa all'estremità della camera, estraendone vestiti e scuotendoli per spiegarli, e intanto continuava a parlare rivolto a me che ero dietro di lui. «Non mi sembri preoccupato. Se drenano lo stagno fino in fondo, e non c'è niente...» «Qualcosa ci sarà. Non mi chiedere che cosa, non lo so, ma se ho detto così... È vero, sai. Le cose che vedo in quel modo sono vere. Io ho la Vista.» Sollevò le sopracciglia. «Credi di dirmi qualcosa di nuovo? Non mi hai forse spaventato fino alle unghie dei piedi un sacco di volte con quello che
dicevi e con le cose che vedevi e che nessun altro può vedere?» «Avevi paura di me, vero Cadal?» «In un certo senso sì. Ma adesso non ho paura, e non ho intenzione di lasciarmi impaurire. Qualcuno deve pur badare al diavolo in persona, se il diavolo indossa vestiti e ha bisogno di mangiare e di bere. Se hai finito, padroncino, vediamo se ti vanno bene queste cose che il re ti ha mandato.» «Le ha mandate il re?» «Sissignore. Sembra quel genere di cose che secondo loro un mago dovrebbe mettersi addosso.» Mi avvicinai per guardare. «Non ci sono lunghe vesti bianche con sopra le stelle e la luna, e un bastone con serpenti arrotolati? Oh, sul serio, Cadal...» «Be', i tuoi vestiti sono tutti rotti, qualcosa ti devi mettere. Forza, starai proprio bene con questi, e secondo me dovresti cercare di fargli impressione, data la tua posizione.» Risi. «Forse hai ragione. Lasciameli vedere. Ehm, no. Il bianco no, non faccio concorrenza alla congrega di Maugan. Qualcosa di scuro, direi, e il mantello nero. Sì, quello va bene. E mi metterò il fermaglio col drago.» «Spero tu abbia ragione a essere così sicuro di te.» Esitò. «Senti, lo so che adesso sono tutu amore e baci, ma forse dovremmo tagliare la corda subito, non stare ad aspettare per vedere che dadi ci toccano. Potrei rubare un paio di cavalli...» «Tagliare la corda? Allora sono ancora prigioniero?» «Ci sono sentinelle tutt'intorno. Adesso ti sorvegliano, non ti stanno più addosso, ma per il cane di Mitra, alla fine è la stessa cosa.» Lanciò un'occhiata alla finestra. «Tra non molto sarà buio. Sta' a sentire, io potrei raccontare una storia per tenerli buoni, e magari tu potresti far finta di metterti di nuovo a dormire fino a notte...» «No. Devo rimanere. Se riesco a far sì che Vortigern mi ascolti... Lasciami riflettere, Cadal. Tu hai visto Marric la notte in cui siamo stati presi. Questo significa che la notizia è in viaggio verso mio padre e secondo me lui partirà subito. Fin qui, ottimo; prima arriva, meglio è; se può sorprendere Vortigern qui nella regione occidentale prima che riesca a riunirsi con Hengist...» Riflettei un momento. «Ora, la nave doveva salpare tre... no, quattro giorni fa...» «È salpata prima che tu uscissi da Maridunum» disse lui sicuro. «Cosa?» Sorrise all'espressione del mio viso. «Be', che ti aspettavi? Il figlio del
conte e la sua principessa portati via in questo modo... nessuno sapeva di sicuro perché, ma giravano certe storie, e anche Marric ha visto la necessità di tornare subito da Ambrogio con quella storia. La nave ha salpato con la marea all'alba di quello stesso giorno; era già fuori dell'estuario che tu non eri ancora uscito dalla città.» Rimasi immobile. Ricordo che egli si diede da fare intorno a me, drappeggiando il mantello nero, tirando furtivamente una piega per coprire il fermaglio del drago che lo teneva chiuso. Allora feci un profondo respiro. «Era tutto quello che avevo bisogno di sapere. Ora so che cosa devo fare. Il profeta del re, hai detto? Le loro parole sono più vere di quel che credono. Quello che ora il profeta del re deve fare è di fiaccare il cuore a questi parassiti amici dei sassoni, e condurre Vortigern fuori di questo piccolo angolo del Galles, in un posto dove Ambrogio possa distruggerlo rapidamente.» «Credi di poterlo fare?» «Lo so.» «Allora spero che tu sappia anche come potremo uscire tutti e due di qui prima che scoprano da che parte stai.» «Perché no? Appena saprò dove è diretto Vortigern, porteremo noi stessi la notizia a mio padre.» Mi sistemai il mantello sulle spalle e gli sorrisi. «Perciò, ruba pure quei cavalli, Cadal, e falli aspettare giù vicino al fiume. C'è un albero caduto proprio attraverso il fiume; non puoi sbagliare il posto; aspetta lì al riparo. Io verrò. Ma prima devo andare ad aiutare Vortigern a scoprire i draghi.» Mi avviai alla porta, ma egli mi precedette e si fermò con la mano sulla maniglia. I suoi occhi erano impauriti. «Vuoi dire lasciarti qui solo in mezzo a questa muta di lupi?» «Non sono solo. Ricordalo, e se non puoi credere a me, credi a quello che è in me. Io ho imparato a farlo. Ho imparato che il dio viene quando vuole lui, e ora lo vuole, e ti squarcia la carne per entrare in te, e quando ha fatto si libera lacerando tutto con la stessa violenza usata per entrare. Dopo adesso uno si sente leggero e vuoto e gli sembra di volare come un angelo... No, loro non possono farmi niente, Cadal. Non aver paura. Io ho il potere.» «Hanno ucciso Galapas.» «Un giorno forse mi uccideranno» dissi. «Ma non oggi. Apri la porta.» Dodici
Erano tutti raccolti ai piedi della rupe dove la pista degli operai arrivava al piano acquitrinoso della depressione nel fianco della collina. Ero ancora sorvegliato ma questa volta, almeno in apparenza, da una guardia d'onore. Quattro uomini in uniforme, con le spade chiuse felicemente nel fodero, mi scortarono fino al re. Avevano messo un pontile di tavole sul piano acquitrinoso formando una piattaforma sulla quale avevano posto un seggio per il re. Alcuni avevano piantato un rompivento di alberelli e di frasche intrecciati su tre lati, l'avevano coperto e avevano ornato il tutto di tappeti e pelli tinte. Vortigern era seduto lì, con il mento appoggiato alla mano, in silenzio. Non c'era traccia della regina, né di alcuna delle donne. I preti erano in piedi accanto a lui, ma si tenevano un po' indietro e non parlavano. I capitani erano ai lati del suo seggio. Il sole stava calando dietro l'improvvisato padiglione in una chiazza scarlatta. Doveva aver piovuto di nuovo, quel giorno; l'erba era bagnata, ogni filo era carico di gocce. Le solite nuvole grigio ardesia si addensavano e si dissipavano lentamente nel tramonto. Mentre mi conducevano avanti, furono accese le torce. Parevano piccole e deboli contro il tramonto, più fumo che fiamme, trascinate e appiattite da un vento di burrasca. Aspettai ai piedi della piattaforma. Gli occhi del re mi percorrevano da capo a piedi, ma il re non diceva niente. Stava ancora rimandando il suo giudizio. E perché no, pensai. Quel tipo di cose che pareva io avessi prodotto doveva essergli un bel po' familiare. Adesso aspettava che risultasse esatta almeno qualche parte della mia profezia. Se non si realizzava niente, quello era ancora il momento e il luogo per versare il mio sangue. Mi domandai come soffiasse il vento della Britannia minore. Il fiume era a trecento passi buoni, scuro sotto le querce e i salici. Vortigern mi fece segno di prender posto sulla piattaforma accanto a lui e io vi salii rimanendo alla sua destra, dal lato opposto a quello in cui si trovavano i preti. Un ufficiale o due si scostarono da me; i loro visi erano come di pietra, e non mi guardavano, ma io vidi le dita incrociate e pensai: Drago o non drago, questi qui posso manovrarli. Poi sentii uno sguardo posato su di me, e cercai in giro. Era il barbagrigia. Guardava fisso il fermaglio sulla mia spalla, nel punto in cui il mantello, ricadendo, lo aveva scoperto. Mentre voltavo la testa, i nostri occhi s'incontrarono. Vidi i suoi allargarsi, poi la mano gli corse al fianco, non per formare il segno, ma per liberare la spada dal fodero. Io distolsi lo sguardo. Nessuno parlò.
Era un'attesa scomoda. Mentre il sole calava il fresco vento primaverile diventò più pungente, agitando i tappeti appesi. Nelle pozzanghere di cui era cosparso il terreno pieno di canne l'acqua s'increspò e schizzò per il vento. Correnti d'aria fredda passavano taglienti tra le connessure del tavolato. Sentii un chiurlo fischiare chissà dove, su nel cielo che si oscurava, poi il canto calò, gorgogliando come una cascata, e fini nel silenzio. Sopra di noi, lo stendardo del re si agitava rumorosamente al vento. L'ombra del padiglione si allungò sul campo molle di pioggia. Da dove ci trovavamo, l'unico segno visibile di attività era un certo andirivieni tra gli alberi. Gli ultimi raggi del sole, orizzontali e rossi, centravano la parete ovest del Forte del re, illuminando la cima della rupe incoronata dal muro crollato. Lì non si vedevano operai; dovevano essere tutti nella grotta e nella galleria. Staffette di ragazzi correvano avanti e indietro portando notizie dei progressi. Le pompe funzionavano bene e facevano abbassare l'acqua; il livello era sceso di due spanne nell'ultima mezz'ora... Se il re voleva aver pazienza, le pompe si erano bloccate ma gli ingegneri stavano lavorando per aggiustarle e intanto gli uomini avevano sistemato un argano e stavano passando i secchi... Di nuovo andava tutto bene, le pompe funzionavano e il livello dell'acqua scendeva a vista d'occhio... Furono due ore piene di attesa in un freddo che ci intirizziva, ed era quasi buio quando le luci scesero dalla pista e con loro la folla degli operai. Avanzavano svelti ma decisi, e non sembravano impauriti sicché anche prima che fossero abbastanza vicini da essere chiaramente visibili seppi che cosa avevano trovato. I capi si fermarono a un metro dalla piattaforma, e mentre gli altri si raggruppavano sentii le mie sentinelle farsi più vicine. Con gli operai c'erano dei soldati. Il loro capitano fece un passo in avanti e salutò militarmente. «Lo stagno è vuoto?» chiese Vortigern. «Sì, signore.» «E che cosa c'è sotto?» L'ufficiale tacque. Ma, come se fosse un bardo, non avrebbe avuto bisogno di tacere per far convergere su di sé tutù gli sguardi: erano già fissi su di lui. Una raffica di vento, improvviso e più forte di prima, gli tirò il mantello da una parte con un rumore che pareva una frustata, e fece agitare il padiglione. Un uccello volò sopra di noi, seguendo precipitosamente il vento. Non uno smeriglio, quella sera, no. Solo una cornacchia ritardataria che correva verso il nido.
«Non c'è niente sotto lo stagno, signore.» La sua voce era inespressiva, accuratamente ufficiale, ma sentii un mormorio percorrere la folla come un'altra raffica di vento. Maugan allungò il collo in avanti, gli occhi scintillanti come quelli di un avvoltoio, ma vidi che non osava parlare finché non capiva che piega avesse preso il pensiero del re. Vortigern era chino in avanti. «Ne sei certo? L'avete drenato fino al fondo?» «Così è, signore.» Fece un cenno agli uomini che erano accanto a lui e tre o quattro di essi fecero un passo avanti, rovesciando davanti alla piattaforma una raccolta di oggetti eterogenei. Un piccone rotto, corroso dalla ruggine, alcune teste d'ascia di silice, più antiche di qualsiasi manufatto romano, una fibbia da cintura, un coltello la cui lama era ridotta quasi a niente, un breve tratto di catena, un manico di frusta metallico, qualche altro oggetto di impossibile identificazione e alcuni cocci di pignatte. L'ufficiale mostrò una mano, tenendo il palmo verso l'alto. «Quando ho detto niente, signore, intendevo solo quello che ci si poteva aspettare: queste cose. E siamo arrivati quasi al fondo. Si poteva vedere giù fino alla roccia e al fango, ma noi abbiamo dragato anche l'ultimo secchio, per buona misura. Il caposquadra confermerà quello che dico.» Allora il caposquadra fece un passo avanti e vidi che reggeva un secchio pieno, traboccante di acqua. «Signore, è vero, li non c'è niente. Puoi vedere tu stesso se entri nella galleria e ti spingi proprio fino sul fondo. Ma è meglio che non ci provi, la galleria è piena di fango adesso, e non è il momento di entrare. Però ho portato fuori l'ultimo secchio pieno, perché veda di persona.» Parlando, rovesciò il secchio, inondando il terreno già bagnato, e l'acqua scese a riempire la pozzanghera intorno alla base dell'insegna reale. Insieme al fango dal fondo uscirono alcuni frammenti di pietra e una moneta d'argento. Il re si voltò allora a guardarmi. Doveva costituire la misura di quanto era accaduto il giorno prima nella grotta il fatto che i preti ancora stessero zitti e che il re stesse evidentemente aspettando, non una scusa ma una spiegazione. Dio sa se ne avevo avuto di tempo per riflettere, durante tutta quella lunga, fredda, silenziosa attesa, ma sapevo che riflettere non mi sarebbe servito a nulla. Se lui era con me, ora sarebbe venuto. Guardai le pozzanghere in cui l'ultima luce rossa del tramonto pareva sangue. Alzai lo sguardo oltre la rupe dove già si vedevano le stelle rilucere nell'oriente chiaro. Sta-
va arrivando un'altra raffica di vento; la sentivo investire le cime delle querce presso le quali Cadal doveva esser fermo ad aspettare. «Ebbene?» disse Vortigern. Feci un passo avanti verso l'orlo della piattaforma. Mi sentivo ancora svuotato, ma in qualche modo avrei dovuto parlare. Mentre mi muovevo, la raffica colpì il padiglione, nettamente. Ci fu uno scricchiolio, un turbinio di rumore, come cani che dilaniano un cervo, e il grido di qualcuno, di colpo strozzato. Sulle nostre teste lo stendardo del re sbatteva furiosamente, poi, impigliatosi nelle sue corde, si gonfiò come una vela sopportando tutto il peso del vento. L'asta sussultava avanti e indietro nella terra molle, resa ancora più molle dal secchio d'acqua che vi era stato gettato, poi improvvisamente si liberò dalle mani che l'afferravano, e girò su se stessa. Precipitò sul campo bagnato proprio ai piedi del re. Il vento si allontanò, e ci fu la quiete nella sua scia. Lo stendardo era a terra, appesantito dall'acqua. Il drago bianco su un campo verde. Mentre guardavamo, affondò lentamente in una pozzanghera e l'acqua lo ricoprì. Gli ultimi deboli raggi del tramonto arrossarono l'acqua. Qualcuno disse, la voce piena di paura: «Un cattivo presagio», e un'altra voce, forte: «Gran Thor, il Drago è caduto!». Altri cominciarono a gridare. L'uomo che portava lo stendardo, il viso cinereo, già stava curvandosi, ma io balzai fuori della piattaforma davanti a tutti loro e lanciai in alto le braccia. «Può qualcuno dubitare che il dio ha parlato? Alzate gli occhi dalla terra e guardate dove parla ancora!» Attraversò in quel momento l'oriente scuro, incandescente, con una coda come una giovane cometa, una stella cadente, quella che gli uomini chiamano meteora infiammata o drago di fuoco. «Ecco dove corre!» gridai. «Ecco dove corre! Il Drago rosso dell'occidente! Io ti dico, o re Vortigern, di non sprecare più tempo qui con questi idioti ignoranti che blaterano di sacrifici di sangue e costruiscono un muro di pietra per te, un palmo al giorno! Quale muro terrà fuori il Drago? Io, Merlino, ti dico: manda via questi preti e raccogli intorno a te i capitani, e vattene dalle colline del Galles verso il tuo paese. Il Forte del re non è per te. Stanotte hai visto venire il Drago rosso, e il Drago bianco giace sotto di lui. E, per il Dio, hai visto il vero! Ti avverto. Smonta le tue tende adesso, e vai nel tuo paese, e sorveglia i tuoi confini per timore che il Drago ti segua e ti distrugga! Tu mi hai portato qui perché parli, e io ho parlato. Io te lo dico, il Drago è qui!» Il re era in piedi e gli uomini gridavano. Mi strinsi addosso il mantello
nero e senza affrettarmi mi voltai allontanandomi attraverso la folla di operai e di soldati che si assiepavano intorno alla piattaforma. Essi non tentarono di fermarmi. Avrebbero preferito, credo, toccare piuttosto un serpente velenoso. Dietro di me, nella confusione, udii la voce di Maugan e per un attimo pensai che mi stessero inseguendo, ma gli uomini si allontanarono dalla piattaforma e cominciarono a farsi strada in mezzo alla folla di operai, di ritorno verso l'accampamento. Le torce si agitarono. Qualcuno tirò su lo stendardo inzuppato e lo vidi dondolare e gocciolare probabilmente dove i capitani facevano strada al re. Mi strinsi nel mantello nero e scivolai nell'ombra al margine della folla. Adesso, non visto, potevo girare dietro al padiglione. Le querce erano a trecento passi, al di là del campo immerso nelle tenebre. Sotto di loro il fiume scorreva fragorosamente sulle pietre levigate. La voce di Cadal disse, piano e con tono pressante: «Da questa parte». Uno zoccolo mandò qualche scintilla sulla pietra. «Te ne ho trovato uno tranquillo» disse lui, e mi mise una mano sotto il piede per farmi salire in sella. Risi piano. «Stanotte potrei cavalcare il drago di fuoco in persona. L'hai visto?» «Sissignore, mio signore. E ho visto te, e ti ho sentito, anche.» «Cadal, hai giurato che non avresti mai avuto paura di me. Era soltanto una stella cadente.» «Ma è venuta quando è venuta.» «Si. E adesso è meglio che ce ne andiamo finché possiamo. Quello che è importante è la tempestività, Cadal.» «Non dovresti riderci sopra, padron Merlino.» «Per il dio,» dissi «non sto ridendo.» I cavalli uscirono di sotto gli alberi che gocciolavano e cominciarono ad attraversare il crinale a un piccolo galoppo allegro. Alla nostra destra una collina coperta di boschi si ergeva tra noi e l'occidente. Davanti a noi era la stretta gola della valle tra la collina e il fiume. «Ti seguiranno?» «Non credo.» Ma quando spronammo le bestie al galoppo tra la cresta rocciosa e il fiume apparve indistinto un cavaliere e i cavalli fecero uno scarto e s'impennarono. Quello di Cadal balzò in avanti, pungolato dallo sprone. Si sentì raschiare il metallo. Una voce, vagamente familiare, disse distintamente: «Fermi.
È un amico». I cavalli scalpicciavano e ansimavano. Vidi la mano di Cadal sulle redini del cavaliere. Questi rimase immobile in sella. «Amico di chi?» «Di Ambrogio.» Io dissi: «Aspetta, Cadal, è barbagrigia. Il tuo nome, signore? E che vuoi da me?». Egli si schiarì la gola, forte: «Il mio nome è Gorlois, di Tintagel in Cornovaglia». Vidi il moto di sorpresa di Cadal e udii tintinnare il morso dei cavalli. Reggeva ancora le redini dell'altro e la sua daga sguainata scintillava. Il vecchio guerriero era immobile. Non si sentiva rumore di zoccoli dietro di noi. Io dissi lentamente: «Allora, signore, ti chiederei piuttosto che volevi da Vortigern». «Quello che volevi tu, Merlino Ambrogio.» Vidi i suoi denti scintillare nella barba. «Sono venuto a nord per vedere da me, e per mandargli notizie. La regione occidentale ha aspettato abbastanza, e il tempo sarà maturo, la primavera che viene. Ma tu sei venuto presto. Avrei potuto risparmiarmi la fatica, a quanto pare.» «Sei venuto solo?» Egli fece una breve risata, dura, come il latrato di un cane. «Da Vortigern? No. I miei uomini arriveranno. Ma io dovevo raggiungerti. Voglio notizie.» Poi, aspro: «Per la passione di Cristo, uomo, non ti fidi di me? Sono venuto solo da te». «No, signore. Lascialo, Cadal. Mio signore, se vuoi parlarmi dovremo farlo cavalcando. Dovremmo muoverci, presto.» «Volentieri.» Demmo il via ai cavalli. Mentre questi si mettevano al galoppo, dissi, voltandomi per parlargli: «Hai indovinato quando hai visto il fermaglio?». «Prima. Gli assomigli, Merlino Ambrogio.» Lo udii ridere di nuovo, un profondo riso di gola. «E, per il Dio, a volte assomigli anche al tuo genitore demoniaco! Stai saldo, ora, siamo quasi arrivati al guado. L'acqua sarà profonda. Dicono che i maghi non possono attraversare l'acqua.» Risi. «Ho sempre il mal di mare, nella traversata, ma qui ce la faccio.» I cavalli si lanciarono senza esitare nell'acqua e attaccarono al galoppo il pendio successivo. Poi arrivammo sulla strada lastricata, che appariva liscia alla luce delle stelle; la strada che attraverso l'altopiano conduceva
direttamente a sud. Cavalcammo tutta la notte, senza che nessuno ci inseguisse. Tre giorni dopo, di mattina presto, Ambrogio sbarcò. LIBRO IV Il drago rosso Uno Da come lo raccontano le cronache, si potrebbe pensare che ci vollero due mesi ad Ambrogio per farsi incoronare re e pacificare la Britannia. In realtà, ci vollero più di due anni. La prima parte fu abbastanza rapida. Non per niente aveva impiegato tutti quegli anni in Britannia minore, a mettere a punto, lui e Uther, forze di attacco esperte, quali non si erano viste in nessuna parte d'Europa dopo lo sbandamento, avvenuto circa un secolo prima, dell'esercito comandato dal conte della Sponda sassone. In effetti, Ambrogio aveva modellato il suo esercito su quello della Sponda sassone, uno strumento di guerra meravigliosamente mobile, capace di ricavare i propri mezzi di sussistenza dal paese occupato e di fare qualsiasi cosa a una velocità doppia di quella di un normale esercito. Velocità di Cesare, la chiamavano ancora quand'ero giovane. Sbarcò a Totnes nel Devon, col vento propizio e mare calmo, e aveva appena innalzato il Drago rosso che tutto l'occidente insorse al suo fianco. Fu re di Cornovaglia e del Devon prima ancora di aver lasciato la spiaggia, e dappertutto, mentre si spostava verso nord, capi e re venivano a ingrossare il suo esercito. Eldol di Gloucester, un vecchio feroce che aveva combattuto con Costantino contro Vortigern, con Vortigern contro Hengist, con Vortimer contro Vortigern e Hengist, e che avrebbe combattuto ovunque per il puro piacere di farlo, lo vide a Glastonbury e gli giurò fedeltà. Con lui venne una moltitudine di capi minori, non ultimo dei quali il suo stesso fratello Eldad, vescovo il cui devoto cristianesimo faceva apparire al confronto i lupi pagani teneri agnelli, e del quale mi chiedevo dove trascorresse le notti buie del solstizio d'inverno. Ma era potente; avevo sentito mia madre parlare di lui con riverenza; e quando si fu messo apertamente dalla parte di Ambrogio, tutta la Britannia cristiana lo seguì, spinta dalla necessità di respingere le orde pagane che si dirigevano assiduamente verso l'interno dai loro punti di sbarco nel sud e nell'est. Per ultimo arrivò
Gorlois di Tintagel, proveniente direttamente dal campo di Vortigern e recando la notizia del frettoloso abbandono delle montagne del Galles da parte di Vortigern, pronto a ratificare il giuramento di fedeltà grazie al quale, se Ambrogio fosse risultato vincitore, per la prima volta l'intero regno di Cornovaglia si sarebbe unito al Sommo regno di Britannia. La principale preoccupazione di Ambrogio, per la verità, non era rappresentata dalla mancanza di aiuti ma dalla natura dei medesimi. I britanni, stanchi di Vortigern, erano impazienti di combattere per sgomberare il loro paese dei sassoni e ritrovare le loro case e le loro abitudini, ma per lo più conoscevano solo la guerriglia e quel genere di tattica che consiste nel colpire e ritirarsi che è abbastanza utile a stancare il nemico ma non lo tiene indietro a lungo se ha intenzione di far sul serio. Inoltre, ogni squadrone veniva con il suo capo, e nemmeno il comandante con tutta la sua autorità osava suggerire agli uomini che dovevano unirsi e addestrarsi con stranieri. Da quando l'ultima legione aveva lasciato la Britannia quasi un secolo prima, avevano combattuto (come del resto era sempre stato prima della venuta dei romani) per tribù. Ed era inutile dire che, per esempio, gli uomini del Devet potevano combattere al fianco di quelli del Galles settentrionale, anche sotto i loro stessi capi: da tutt'e due le parti ci sarebbero state gole tagliate, ancora prima del primo squillo di tromba. Qui Ambrogio, come in tutto, si dimostrò maestro. Come sempre utilizzò ogni uomo secondo la sua forza. Sparse i suoi ufficiali tra i britannici per la coordinazione, disse, non altro - e grazie a loro pian piano modificò le tattiche di ogni esercito in modo da adattarle al suo piano generale, mentre il suo corpo di truppe scelte si assumeva lo sforzo più grosso dell'attacco. Tutto questo l'ho saputo dopo, o avrei potuto indovinarlo da quello che sapevo di lui. Avrei potuto indovinare, anche, quel che sarebbe accaduto nel momento in cui i suoi eserciti si sarebbero riuniti e lo avrebbero acclamato re. I suoi alleati britannici chiedevano a gran voce che si dedicasse subito all'inseguimento di Hengist e ricacciasse i sassoni nel loro paese. A loro non importava eccessivamente di Vortigern. In verità, il potere di cui Vortigern era stato detentore lo aveva già in gran parte abbandonato e sarebbe stato abbastanza semplice per Ambrogio ignorarlo e concentrarsi sui sassoni. Ma egli rifiutò di cedere alle pressioni. Prima bisogna distruggere il vecchio lupo, disse, e sgombrare il campo per la battaglia vera e propria. Inoltre, fece notare, Hengist e i suoi sassoni erano vichinghi e particolarmente
sensibili alle voci e alla paura; lasciate che Ambrogio riunisca i britannici per distruggere Vortigern, e i sassoni cominceranno a temerlo come una forza con cui è necessario fare i conti. Egli sospettava che, dando loro tempo, avrebbero raccolto un grande esercito per affrontarlo, sicché lui avrebbe potuto distruggerli tutt'in una volta. Su questo argomento si tenne consiglio, nel forte presso Gloucester dove il primo ponte attraversa il fiume Sefern. Potrei dipingere la scena, Ambrogio che ascoltava, soppesava e giudicava, rispondendo con quei suoi modi gravi e piacevoli, lasciando parlare ogni uomo per dare soddisfazione al suo amor proprio; poi alla fine prendendo la decisione che aveva in mente fin dall'inizio, ma qua e là facendo concessioni su piccole cose, cosicché ognuno pensasse di aver fatto un affare e di aver conquistato, se non quello che voleva, almeno qualcosa che ci si avvicinava, in cambio di una concessione fatta dal suo comandante. Come risultato, entro la settimana si misero in marcia diretti a nord e incontrarono Vortigern a Doward. Doward si trova nella valle del Guoy, che i sassoni pronunciano Way o Wye. Questo è un grande fiume che scorre profondo e apparentemente placido attraverso una gola le cui pendici diritte sono coperte di foreste. Qua e là la valle si allarga lasciando spazio a verdi pascoli, ma la marea risale il fiume di parecchie miglia e quei prati bassi spesso d'inverno sono inondati da tumultuose acque giallastre, perché il grande Wye non è placido come sembra e anche d'estate vi sono tonfarli profondi, pieni di grossi pesci, dove le correnti sono abbastanza forti da capovolgere un coracle e far annegare un uomo. A nord del limite massimo raggiunto dalle inondazioni provocate dalla marea, in un'ampia sinuosità della valle, si ergono le due colline chiamate Doward. Quella a nord è la più grande, coperta da folte foreste e cosparsa di grotte abitate, dicono, da animali selvatici e da fuorilegge. La collina detta Doward minore è anche coperta di foreste, ma meno fitte, perché è rocciosa e la sua vetta scoscesa, che si erge sopra gli alberi, costituisce una cittadella naturale così sicura che da tempo immemorabile è fortificata. Molto prima, addirittura, che venissero i romani, qualche re britannico si costruì una fortezza sulla cima della collina che, con la sua posizione dominante e le sue difese naturali costituite dalla rupe e dal fiume, rappresentava una roccaforte formidabile. La collina ha una sommità ampia e pendici ripide e scoscese, e benché le macchine da assedio potessero in un punto
esser trascinate su un ripiano, questo finiva in rupi dove quei macchinari erano inutili. Dappertutto, salvo che in quel punto, c'era un doppio bastione e un fossato da attraversare prima di arrivare alle mura esterne della fortezza. I romani stessi una volta l'avevano attaccata ed erano riusciti a espugnarla solo con il tradimento. Questo accadeva al tempo di Carataco. Doward era quel tipo di cittadella che, come Troia, doveva essere presa dall'interno. Anche questa volta fu espugnata dall'interno. Ma non mediante il tradimento; mediante il fuoco. Tutti sanno quello che accadde. Gli uomini di Vortigern non si erano ancora sistemati dopo la fuga precipitosa da Snowdon, quando l'esercito di Ambrogio risalì la valle del Wye e si accampò a ovest di Doward, in un luogo chiamato Ganarew. Non ho mai saputo che riserve di viveri avesse Vortigern; ma il luogo era stato tenuto pronto ed era noto che dentro la fortezza c'erano due buone sorgenti delle quali non si sapeva che si fossero mai esaurite; perciò avrebbe potuto esser necessario un po' di tempo ad Ambrogio per vincerlo con l'assedio. Ma un assedio era proprio quello che egli non poteva permettersi, con Hengist che raccoglieva le forze, e i mari di primavera aperti e transitabili tra la Britannia e le sponde sassoni. Inoltre, i suoi alleati britannici erano inquieti e non si sarebbero mai disposti a un assedio prolungato. Doveva essere una cosa rapida. Fu rapida e brutale al tempo stesso. Ho sentito dire in seguito che Ambrogio agì per vendicare il fratello da tanto tempo morto. Non credo che sia vero. Un'amarezza così persistente non era nella sua natura; inoltre egli era un generale e un buon comandante in battaglia prima ancora di essere un uomo. Fu spinto solo dalla necessità e, alla fine, dalla brutalità dello stesso Vortigern. Ambrogio assediò la fortezza con il metodo tradizionale per circa tre giorni. Dove poteva, avvicinò macchine per assedio e cercò di infrangere le difese. In effetti in due punti riuscì a praticare una breccia nel bastione esterno sopra quella che ancora veniva chiamata la Strada romana, ma quando si vide fermato dal bastione interno e vide che le sue truppe erano esposte ai difensori si ritirò. Quando capì quanto sarebbe durato l'assedio e come, anche in quei tre giorni, alcuni degli squadroni britannici piano piano lo avessero abbandonato andandosene per conto loro, come cani, sulle tracce delle lepri sassoni, decise di farla finita alla svelta. Mandò un uomo da Vortigern, per esporgli le condizioni della resa. Vortigern, che doveva
aver visto la defezione di quegli squadroni britannici e che ben capiva la posizione di Ambrogio, rise e rimandò il messaggero senza messaggio ma con le due mani tagliate e legate in un panno insanguinato alla cintura. L'uomo andò a inciampare nella tenda di Ambrogio proprio dopo il tramonto del terzo giorno, e riuscì a rimanere in piedi quel tanto che bastava per riferire l'unico messaggio che gli fosse stato affidato. «Dicono che puoi stare qui, mio signore, finché il tuo esercito si disperderà e sarai lasciato senza mani come me. Hanno viveri in quantità, signore, l'ho visto io, e acqua...» Ambrogio disse solo: «Lo ha ordinato lui personalmente?». «La regina» disse l'uomo. «È stata la regina.» A questo punto cadde ai piedi di Ambrogio, e dal panno gocciolante fissato alla sua cintura caddero le mani, scompostamente. «Allora bruceremo quel nido di vespe, regina compresa» disse Ambrogio. «Occupatevi di lui.» Quella notte, con apparente piacere della guarnigione, le macchine da assedio furono ritirate dalla Strada romana e dalle brecce praticate nel bastione esterno. Al loro posto, grandi mucchi di fascine e di rami tagliati furono accatastati nelle aperture e l'esercito strinse il cerchio intorno alla cima della collina, con una fila di arcieri in attesa e uomini pronti ad abbattere chiunque tentasse la fuga. Nell'ora tranquilla che precede l'alba fu dato l'ordine. Da ogni direzione piovvero nella fortezza frecce con sulle punte stracci inzuppati d'olio e infiammati. Non ci volle molto tempo. Il complesso era in gran parte di legno e pieno di carri, viveri, bestie e foraggio per le medesime. Prese fuoco con facilità. E quando tutto fu in fiamme presero fuoco le fascine al di fuori delle mura, in modo che se qualcuno riusciva a strisciar fuori delle mura incontrava un'altra barriera di fuoco. E all'esterno di questa, c'era il cerchio di ferro dell'esercito. Dicono che per tutto il tempo Ambrogio rimase in sella al suo grande cavallo bianco, a guardare, finché le fiamme resero il cavallo rosso come il Drago rosso che era sopra la sua testa. E sulla torre della fortezza il Drago bianco prese un colore rosso sangue come le fiamme, poi si annerì e cadde. Due Mentre Ambrogio attaccava Doward, io mi trovavo ancora a Maridunum, dopo essermi separato da Gorlois nel nostro viaggio verso il sud e averlo visto dirigersi incontro a mio padre.
Era andata cosi. Per tutta la prima notte cavalcammo senza tregua, ma non c'era traccia di inseguimento, sicché al levar del sole uscimmo di strada per riposarci, aspettando che gli uomini di Gorlois ci raggiungessero. Questo avvenne nella mattinata, essendo essi riusciti ad allontanarsi non visti nella situazione di quasi panico che si era determinata a Dinas Brenin. Confermarono quello che Gorlois mi aveva già detto, cioè che Vortigern si sarebbe diretto non verso la sua fortezza di Caer-Guent ma verso Doward, sul fiume Wye. E vi stava andando, dissero, dalla strada che andava verso est, attraverso Caer Gai verso Bravonium. Superata Tomen-y-mur, non c'era più pericolo che fossimo raggiunti. Cosi continuammo ad avanzare, eravamo ormai un drappello di circa venti persone, ma ce la prendevamo comoda. Mia madre, con la sua scorta di guerrieri, era sì e no a un giorno di distanza da noi, e il suo gruppo, con le lettighe, andava certo molto più lento di noi. Non avevamo alcun desiderio di raggiungerli e magari impegnare una battaglia che avrebbe potuto mettere in pericolo le donne; era sicuro, mi disse Gorlois, che queste sarebbero state condotte sane e salve a Maridunum. «Però,» aggiunse in quel suo modo aspro, burbero, «incontreremo gli uomini di scorta sulla via del ritorno. Perché tornare torneranno, non possono sapere che il re si sta spostando verso est. E ogni uomo di meno per Vortigern è uno di più per tuo padre. A Bremia troveremo notizie e ci accamperemo più in là per aspettarli.» Bremia era solo un gruppo di casupole di pietra che odoravano di fumo di torba e di sterco, ingressi neri riparati contro il vento e la pioggia da pelli o sacchi, da cui spuntavano occhi impauriti di donne e bambini. Non si vide nessun uomo, anche quando ci fermammo nel bel mezzo dell'agglomerato e dei cagnacci vennero ad abbaiare intorno alle zampe dei cavalli. Questo ci rese perplessi finché, conoscendo il dialetto, io gridai qualche cosa rivolgendomi agli occhi che spuntavano dalla tenda più vicina, per rassicurare gli abitanti e chiedere notizie. Allora vennero fuori, donne, bambini e un paio di vecchi, facendo ressa intorno a noi e disposti a parlare. La prima notizia era che il gruppo di mia madre si era fermato li il giorno prima e la notte, partendo solo quella mattina stessa per le insistenze della principessa. Essa si era ammalata, mi dissero, ed era rimasta metà della giornata e la notte nella casa del capo tribù, dove era stata curata. Le sue donne avevano cercato di persuaderla a dirigersi verso un monastero nelle colline circostanti, dove avrebbe potuto riposare, ma essa aveva rifiu-
tato ed era parso che stesse meglio, quella mattina, sicché il gruppo aveva ripreso la strada. Era stato un colpo di freddo, disse la moglie del capotribù; la principessa aveva la febbre e tossiva un po', ma era apparsa in condizioni tanto migliori la mattina successiva, e Maridunum era a non più di un giorno di cavallo; avevano ritenuto opportuno lasciarla fare come desiderava... Diedi un'occhiata alla squallida capanna dalla quale la donna era uscita per avvicinarsi a me, pensando che, effettivamente, il pericolo di qualche altra ora nella lettiga poteva essere ben poca cosa paragonato a un così miserabile rifugio a Bremia; perciò ringraziai la donna per la sua cortesia e le chiesi dove fosse andato il suo uomo. Quanto a questo, essa mi disse, tutti gli uomini erano andati a unirsi alle truppe di Ambrogio... Interpretò male la mia espressione sorpresa. «Non lo sapevi? C'era un profeta a Dinas Brenin, il quale ha detto che il Drago rosso sarebbe venuto. Me l'ha detto la principessa in persona, e si vedeva benissimo che i soldati avevano paura. E adesso è sbarcato. È qui.» «Come lo sai?» chiesi io. «Non abbiamo incontrato messaggeri.» Essa mi guardò come se fossi ammattito o come se fossi uno sciocco. Non avevo visto il drago di fuoco? Tutto il villaggio sapeva che si trattava del presagio, da quando il profeta aveva parlato in quel modo. Gli uomini si erano armati ed erano partiti lo stesso giorno. Se i soldati fossero tornati, donne e bambini si sarebbero diretti verso le colline, ma tutti sapevano che Ambrogio si muoveva più rapido del vento e loro non avevano paura... La lasciai continuare mentre traducevo per Gorlois. I nostri sguardi s'incontrarono con lo stesso pensiero. Ringraziammo di nuovo la donna, le demmo quanto le spettava per le cure prestate a mia madre, e ci mettemmo all'inseguimento degli uomini di Bremia. A sud del villaggio la strada si biforca; la derivazione principale volta verso sudest, supera la miniera d'oro, poi attraversa le colline e le profonde valli e sfocia nella larga valle del Wye da dove è facile dirigersi verso la confluenza con il Sefern e verso sudovest. L'altra strada, secondaria, si dirige direttamente verso sud, a un giorno di cavallo da Maridunum. Avevo deciso che in ogni caso avrei seguito mia madre a sud e avrei parlato con lei prima di raggiungere Ambrogio; adesso le notizie della sua malattia rendevano perentoria questa decisione. Gorlois avrebbe continuato direttamente per andare a incontrare Ambrogio e dargli le notizie relative agli spostamenti di Vortigern. Al bivio dove le nostre strade si separavano, ci imbattemmo negli abi-
tanti del villaggio. Ci avevano sentito arrivare e si erano nascosti - era un punto pieno di rocce e di cespugli - ma non abbastanza in fretta; il vento a raffiche doveva aver loro impedito di accorgersi del nostro arrivo finché non fummo quasi alle loro spalle. Gli uomini non si vedevano, si vedeva però uno dei loro miserabili asini da soma e sul ghiaione ancora rotolava qualche ciottolo. Fu daccapo come a Bremia. Ci fermammo, e io gridai nel silenzio agitato dal vento. Questa volta dissi chi ero, e in un attimo, parve, i lati della strada brulicarono di uomini. Si affollarono intorno ai nostri cavalli, mostrando i denti e brandendo uno strano assortimento di armi che andavano da una spada romana ricurva a una punta di lancia di pietra fissata su un forcone da fieno. Raccontarono la stessa storia che già ci avevano detto le loro donne; avevano sentito la profezia e avevano visto il prodigio; erano diretti verso sud per raggiungere Ambrogio e tutti gli uomini della regione occidentale presto si sarebbero uniti a loro. Il loro morale era alto e le loro condizioni pietose; era una fortuna che avessimo la possibilità di aiutarli. «Parlagli» mi disse Gorlois. «Di' loro che se aspettano qui un altro giorno con noi avranno armi e cavalli. Hanno scelto il posto giusto per un'imboscata, e chi può saperlo meglio di loro?» Così io dissi loro che quello era il duca di Cornovaglia, un grande condottiero, e che se avessero deciso di aspettare un giorno con noi avremmo pensato a far loro avere armi e cavalli. «Perché gli uomini di Vortigern tornando passeranno da questa strada» dissi. «Non sanno che il Sommo re è già in fuga verso est; passeranno da questa strada, perciò noi li aspetteremo qui e voi farete bene ad aspettare insieme a noi.» E aspettammo. La scorta doveva essersi fermata a Maridunum più di quanto fosse necessario, e dopo quel viaggio a cavallo nel freddo umido chi avrebbe potuto biasimarli per questo? Ma sull'imbrunire del secondo giorno furono di ritorno, cavalcando senza affrettarsi, forse progettando un riparo per la notte a Bremia. Li prendemmo di sorpresa e avemmo con loro un piccolo scontro sanguinoso e molto spiacevole. Le scaramucce lungo la strada sono tutte uguali. Questa differì solo per il fatto di esser condotta meglio e per una raccolta di armi più eterogenee, ma avemmo i vantaggi sia del numero e sia della sorpresa e facemmo quanto avevamo stabilito di fare, privammo Vortigern di venti uomini, contro una perdita, da parte nostra, di solo tre uomini e qualche ferito. Io ne uscii con maggior onore di quanto avrei creduto possibile, uccidendo l'uomo che avevo scelto prima che il combatti-
mento si spostasse più in là e mi oltrepassasse; poi un altro mi fece sbalzare da cavallo e forse mi avrebbe ucciso se Cadal non avesse parato il colpo, uccidendo a sua volta il compare. Finì in fretta. Bruciammo i nostri morti e lasciammo gli altri ai nibbi, dopo averli spogliati delle armi. Eravamo stati attenti a non far male ai cavalli, e quando la mattina seguente Gorlois mi salutò e condusse i suoi nuovi squadroni verso sudest, ogni uomo aveva un cavallo, e una buona arma, di qualsiasi tipo fosse. Cadal e io voltammo verso sud, diretti a Maridunum che raggiungemmo nelle prime ore della sera. La prima persona che vidi mentre scendevo la strada che conduce a San Pietro fu mio cugino Dinias. C'imbattemmo in lui improvvisamente a un angolo, e lui fece un salto e impallidì. Immagino che attraverso la città si fossero diffuse veloci le dicerie quando la scorta aveva riportato mia madre senza di me. «Merlino. Pensavo... pensavo...» «Ben trovato, cugino, ti stavo venendo a cercare.» Lui disse in fretta: «Sta' a sentire, ti giuro che non avevo idea di chi fossero quegli uomini...» «Lo so. Quel che è accaduto non è stato colpa tua. Non è per questo che ti cercavo.» «... ed ero ubriaco, lo sai. Ma anche se avessi indovinato chi erano, come avrei potuto sapere che ti avrebbero preso per una cosa simile? Avevo udito qualche voce circa quello che stavano cercando, lo riconosco, ma giuro che non mi era mai venuto in mente...» «Ho detto che non è stata colpa tua. E sono tornato sano e salvo, no? Tutto è bene quel che finisce bene. Lascia stare, Dinias. Non è di questo che volevo parlarti.» Ma lui insistette: «Ho preso il denaro, vero? Mi hai visto». «E allora? Non hai dato informazioni per denaro, lo hai preso dopo. È diverso, a mio modo di vedere. Se a Vortigern fa piacere gettare i suoi soldi, derubalo con ogni mezzo. Scordati questa storia, te lo dico io. Hai notizie di mia madre?» «Vengo proprio di lì. È malata, lo sapevi?» «Ho avuto sue notizie durante il viaggio di ritorno» dissi. «Che cos'ha? Sta molto male?» «Un raffreddore, mi hanno detto, ma pare che stia meglio. Io ho trovato che aveva ancora un brutto aspetto, ma era stanca del viaggio e preoccupata per te. Che voleva da te Vortigern, alla fine?»
«Uccidermi» dissi io laconico. Lui mi fissò, poi cominciò a balbettare: «Io... in nome di Dio, Merlino, ti conosco e non sono mai stato... cioè, ci sono stati dei momenti...». S'interruppe e lo udii deglutire. «Io non vendo i miei parenti, sai.» «Ti ho detto che ti credevo. Non ci pensare più. Non aveva niente a vedere con te, questa storia, sciocchezze dei suoi indovini. Ma come ho detto, eccomi qua sano e salvo.» «Tua madre non ha parlato di questo.» «Non lo sapeva. Credi che si sarebbe lasciata rimandare docilmente a casa se avesse saputo che cosa il re aveva intenzione di fare? Gli uomini che l'hanno riaccompagnata a casa, loro sì, lo sapevano, puoi starne certo. Allora non gliel'hanno fatto capire?» «Pare di no» disse Dinias. «Ma...» «Ne sono lieto. Spero di poterla vedere presto, questa volta alla luce del giorno.» «Perciò adesso non corri più alcun pericolo con Vortigern?» «Lo correrei, immagino,» dissi «se la città fosse ancora piena dei suoi uomini, ma alla porta mi hanno detto che hanno sgombrato il campo per raggiungerlo, vero?» «È esatto. Alcuni si sono diretti a nord, altri a oriente verso Caer-Guent. Hai saputo le notizie, allora?» «Quali notizie?» Benché nella strada non ci fosse nessuno, egli guardò dietro di sé, nel vecchio modo furtivo. Io mi lasciai scivolare di sella e tesi le briglie a Cadal. «Che notizie?» ripetei. «Ambrogio» disse lui piano. «È sbarcato a sud, nella regione occidentale, dicono, e si dirige verso nord. Una nave ha portato la notizia ieri, e immediatamente gli uomini di Vortigern si sono messi in marcia. Ma... se sei appena arrivato dal nord, devi averli incontrati.» «Due compagnie, stamattina. Ma le abbiamo viste in tempo e siamo usciti dalla strada. Ieri avevamo incontrato la scorta di mia madre, al bivio.» «Incontrato?» Parve perplesso. «Ma se sapevano che Vortigern ti voleva morto...» «Avrebbero dovuto sapere che non ero diretto a sud e avrebbero dovuto farmi fuori? Certo. Invece, siamo stati noi a far fuori loro. Ah, non mi guardare in quel modo... non è stata magia ma soltanto strategia. Ci eravamo imbattuti in alcuni gallesi che stavano andando a raggiungere Ambrogio, abbiamo teso un'imboscata allo squadrone di Vortigern e lo abbia-
mo distrutto.» «I gallesi già sapevano? Era stata la profezia?» Nel crepuscolo vidi il bianco dei suoi occhi. «Ne ho sentito parlare... tutta la città mormora questa storia. Ce l'hanno detta gli squadroni. Hanno detto che tu avevi mostrato loro una specie di grande lago sotto la rupe... in quel posto ci fermammo anni fa e giuro che allora non c'era traccia di lago... ma c'era questo lago pieno d'acqua con dentro dei draghi, sotto le fondamenta della torre. È vero?» «Che io abbia mostrato loro un lago, si.» «Ma i draghi. Che cos'erano?» Dissi lentamente: «Draghi. Qualcosa evocato dal niente perché lo vedessero, dato che se non avessero visto non avrebbero ascoltato, figuriamoci poi se avrebbero creduto». Ci fu un breve silenzio. Poi lui disse, con una nota di paura nella voce: «Ed è stata la magia a farti vedere l'arrivo di Ambrogio?». «Si e no.» Sorrisi. «Sapevo che stava venendo, ma non sapevo quando. È stata la magia a dirmi che era effettivamente in viaggio.» Mi guardava di nuovo a occhi spalancati. «Sapevi che stava venendo? Allora hai avuto notizie in Cornovaglia? Avresti potuto dirmelo.» «Perché?» «Sarei andato a raggiungerlo.» Lo guardai un attimo, soppesandolo. «Puoi farlo ancora. Tu e gli altri tuoi amici che hanno combattuto con Vortimer. Che ne è del fratello di Vortimer, Pascenzio? Sai dov'è? Ce l'ha ancora con Vortigern?» «Si, ma dicono che sia andato a fare la pace con Hengist. Non si unirà mai ad Ambrogio, vuole la Britannia per sé.» «E tu?» chiesi. «Che cosa vuoi?» Lui rispose con grande semplicità, per una volta senza ira e senza tracotanza: «Solo un luogo da poter chiamare mio. Questo, se possibile. Dopo tutto, adesso è mio. Ha ucciso i bambini, lo sapevi?» «No, ma non mi sorprende. È un'abitudine per lui, dopo tutto.» M'interruppi. «Stai a sentire, Dinias, c'è molto da dire, e anche io ho un sacco di cose da dirti. Ma prima devo chiederti un favore.» «Cioè?» «Ospitalità. Non c'è nessun altro posto che conosca nel quale m'importi andare finché non sarà pronto un posto tutto mio, e ho voglia di stare di nuovo nella casa di mio nonno.» Lui disse, senza fingere e senza trovar pretesti: «Non è più quella che e-
ra». Risi. «Forse qualcosa lo è? Purché ci sia un tetto per proteggermi da questa pioggia infernale, e un fuoco per asciugare i vestiti, oltre a qualcosa da mangiare, non importa che cosa. Che ne diresti se mandassimo Cadal a far provviste e mangiassimo a casa? Ti racconterò tutto mangiando un pasticcio e davanti a una fiasca di vino. Però ti avverto, se appena mi fai vedere un paio di dadi, chiamo io stesso gli uomini di Vortigern.» Lui sorrise, rilassandosi di colpo. «Niente paura. Vieni allora. C'è un paio di camere ancora abitabili, e ti troveremo un letto.» Mi fu data la camera di Camlach. Era flagellata dalla corrente e piena di polvere, e Cadal rifiutò di lasciarmi usare le coperte prima di averle tenute stese per un'ora davanti a un fuoco scoppiettante. Dinias non aveva alcun servo, a parte una sciattona di ragazza che badava a lui, apparentemente in cambio del privilegio di dividere il suo letto. Cadal la mandò a prendere legna e acqua calda mentre lui portava un messaggio al convento per mia madre, poi si recava alla taverna a procurarsi vino e cibi. Mangiammo davanti al fuoco, con Cadal che ci serviva. Parlammo fino a tardi, ma qui è sufficiente annotare che raccontai a Dinias la mia storia, o quelle parti di essa che egli avrebbe potuto capire. Avrei potuto trovare una certa soddisfazione personale nel raccontargli i fatti della mia origine, ma finché non ero sicuro di lui e non si sapeva che il paese era libero degli uomini di Vortigern, ritenni più opportuno non dirgli niente. Cosi gli raccontai semplicemente come fossi andato in Bretagna, diventando poi seguace di Ambrogio. Dinias aveva già saputo abbastanza della mia "profezia" nella grotta al Forte del re per credere implicitamente nella prossima vittoria di Ambrogio, cosi la nostra chiacchierata terminò con la promessa da parte sua di recarsi la mattina successiva a cavallo verso ovest con le notizie, raccogliendo tutto l'appoggio possibile per Ambrogio dalle zone periferiche del Galles. Avrebbe avuto paura, lo sapevo, a non mantenere la promessa; qualsiasi cosa avessero detto i soldati a proposito dell'episodio nel Forte del re, bastava a incutere in quell'ingenuo di mio cugino Dinias il più profondo terrore dei miei poteri. Ma anche a parte questo, sapevo che qui avrei potuto fidarmi di lui. Parlammo quasi fino all'alba, poi gli diedi del denaro e gli augurai la buona notte. (Era già partito prima che io mi svegliassi la mattina dopo. Mantenne la parola e si unì in seguito ad Ambrogio, raggiungendolo a York con alcune centinaia di uomini. Fu ricevuto con onore e si comportò bene ma poco
dopo, in uno scontro non importante, riportò ferite delle quali in seguito mori.) Cadal si chiuse la porta alle spalle. «Almeno c'è una buona serratura e una spranga robusta.» «Hai paura di Dinias?» chièsi. «Ho paura di tutti in questa maledetta città. Non sarò contento finché non la lasceremo e non torneremo da Ambrogio.» «Penso che adesso tu non abbia bisogno di preoccuparti. Gli uomini di Vortigern sono partiti. Hai sentito che cosa ha detto Dinias.» «Sissignore, e ho sentito anche quello che hai detto tu.» Si era curvato per raccogliere le coperte stese davanti al fuoco, e si fermò con le braccia cariche, guardandomi. «Che cosa intendevi dicendo che stai preparandoti un posto tutto tuo qui? Non stai mica pensando di mettere su casa qui?» «Non una casa, no.» «Quella grotta?» Sorrisi per l'espressione del suo viso. «Quando Ambrogio avrà finito di servirsi di me, e il paese sarà tranquillo, è lì che andrò. Te l'avevo detto, no, che se rimanevi con me saresti vissuto lontano da casa tua?» «Parlavamo di morire, per quanto mi ricordi. Vuoi dire, vivere qui?» «Non lo so» dissi. «Forse no. Ma credo che avrò bisogno di un luogo in cui poter essere solo, lontano da tutto quello che succede. Pensare e progettare è un aspetto della vita; agire è un altro aspetto. Uno non può agire in continuazione.» «Vallo a dire a Uther.» «Io non sono Uther.» «Va bene, servono tutti e due i tipi, come si dice.» Depose le coperte sul letto. «Perché stai ridendo?» «Ridevo? Non importa. Andiamo a letto, bisognerà trovarsi al convento di buon'ora. Hai dovuto di nuovo corrompere quella vecchia?» «Nessuna vecchia.» Si raddrizzò. «Questa volta era una ragazza. E anche un bel pezzo di ragazza, per quanto ho potuto vedere con quel sacco di vestito e con il cappuccio sulla testa. Chi mette in convento una ragazza simile si meriterebbe...» Cominciò a spiegare che cosa si sarebbe meritato, ma lo interruppi. «Hai scoperto come stava mia madre?» «Hanno detto che stava meglio. La febbre è passata, ma lei non riposa e non è tranquilla finché non ti ha visto. Le dirai tutto, adesso?» «Sì.»
«E poi?» «Andremo da Ambrogio.» «Ah» disse lui, e dopo aver tirato davanti alla porta il suo materasso spense la lampada e senza aggiungere altro si mise a dormire. Il mio letto era abbastanza comodo e la camera, per abbandonata che fosse, era la concretizzazione stessa del lusso dopo il viaggio. Ma dormii male. Con l'immaginazione mi trovavo con Ambrogio in viaggio per Doward. Da quanto avevo sentito raccontare di Doward, non sarebbe stato facile espugnarla. Cominciai a domandarmi se dopo tutto non avessi reso un cattivo servizio a mio padre cacciando il Sommo re dal suo fortilizio di Snowdon. Avrei dovuto lasciarlo lì, pensavo, con la sua putrida torre, e Ambrogio lo avrebbe respinto verso il mare. Fu con sforzo e quasi con sorpresa che ricordai la mia profezia. Quello che avevo fatto a Dinas Brenin non l'avevo fatto da solo. Non ero stato io a decidere di far fuggire Vortigern dal Galles. Dalla profondità del buio, del lontano, disordinato turbinio delle stelle, il dio mi aveva parlato. Il Drago rosso avrebbe trionfato, quello bianco sarebbe caduto. La voce che aveva detto così, che adesso diceva così nell'oscurità che odorava di muffa della camera di Camlach, non era la mia; era la voce del dio. Non si rimaneva svegli a cercare le ragioni; si ubbidiva e poi si dormiva. Tre Fu la ragazza di cui Cadal aveva parlato ad aprirci la porta del convento. Doveva esser stata li ad aspettarci perché quando la mano di Cadal si sollevò verso il cordone della campana, quasi immediatamente la porta si aprì ed essa ci fece cenno di entrare. Ebbi una rapida impressione di due grandi occhi sotto il cappuccio marrone e di un corpo giovane e agile nascosto nella rozza veste, mentre lei sprangava la pesante porta e, tirandosi il cappuccio più accosto al viso e ai capelli, ci guidava svelta attraverso il cortile. I suoi piedi, nudi nei sandali di grossa tela, parevano gelati ed erano tutti schizzati di fango per via delle pozzanghere del cortile, però erano snelli e graziosi di forma, e le mani erano belle. Senza parlare, essa ci guidò attraverso il cortile e lungo uno stretto corridoio, tra due edifici, che sbucava in uno spiazzo più grande. Qui, contro i muri, crescevano alberi da frutta e c'erano anche alcuni fiori, ma per lo più si trattava di erbacce e di fiori di campo, le porte delle celle che davano sul cortile non erano state ridipinte e quelle aperte lasciavano vedere piccole stanze nude dove la
semplicità era diventata bruttezza e spesso squallore. Non così la cella di mia madre. Essa era alloggiata in modo adeguato, se non proprio regale, confortevole. Le avevano permesso di portarsi i suoi mobili, la camera era imbiancata a calce e immacolata, e con quella nuova atmosfera d'aprile il sole era spuntato ed entrava nella stanza dalla piccola finestra andando a battere sul letto. Ricordavo i mobili, quello era stato il suo letto a casa e la tenda alla finestra l'aveva tessuta lei stessa, quel tessuto rosso con il disegno verde cui essa era intenta il giorno in cui mio zio Camlach era tornato a casa. Ricordavo, inoltre, la pelle di lupo sul pavimento; mio nonno aveva ucciso l'animale con le sue nude mani e con l'impugnatura della sua daga rotta; gli occhi piccoli e scintillanti e il sogghigno dell'animale mi avevano terrorizzato da piccolo. La croce appesa alla parete spoglia ai piedi del suo letto era di argento opaco, con un bel disegno dalle linee intrecciate ma fluide e borchie di ametista che imprigionavano la luce. La ragazza mi indicò la porta senza parlare, e si ritirò. Cadal si sedette su una panca, fuori della stanza, ad aspettare. Mia madre era distesa sul letto, sostenuta dai cuscini, colpita da un raggio di sole. Appariva pallida e stanca e la sua voce non si alzava di molto al di sopra di un bisbiglio, ma si stava rimettendo, mi disse. Quando le feci qualche domanda sulla sua malattia e le posai una mano sulle tempie, mi allontanò, sorridendo, e disse che c'era già chi la curava. Non insistetti: la guarigione dipende per metà dalla fiducia del paziente e nessuna donna ritiene mai il proprio figlio molto più di un bambino. Inoltre, capivo che la febbre era passata e adesso che non era più in ansia per me avrebbe potuto dormire. Così mi limitai ad avvicinare al letto l'unica sedia della camera, mi sedetti e cominciai a raccontarle tutto quello che voleva sapere, senza aspettare le sue domande: la mia fuga da Maridunum, la volata, come la freccia lanciata dall'arco del dio, che mi aveva portato direttamente dalla Britannia ai piedi di Ambrogio e tutto quello che era accaduto a partire da allora. Essa era adagiata all'indietro sui suoi cuscini e mi guardava con stupore e con una emozione che cresceva lentamente e che io identificai con l'emozione che prova un uccello da gabbia se gli si dà da covare un uovo di smeriglio. Quando ebbi finito era stanca e aveva gli occhi così cerchiati che mi alzai per andarmene. Ma pareva contenta e disse, come se fosse la ricapitolazione e la fine della storia, e suppongo che lo fosse per lei:
«Ti ha riconosciuto». «Sì. Mi chiamano Merlino Ambrogio.» Lei rimase zitta un momento, sorridendo tra sé. Mi avvicinai alla finestra e coi gomiti mi appoggiai al davanzale, guardando fuori. Il sole era caldo. Cadal, mezzo addormentato sulla sua panca, fece un cenno con il capo. Dall'altra parte del cortile, qualcosa che si muoveva attrasse il mio sguardo: su una soglia in ombra era ferma, in piedi, la ragazza, e guardava la porta di mia madre come se aspettasse la mia uscita. Aveva mandato indietro il cappuccio e anche in quell'ombra potei vedere l'oro dei suoi capelli e un giovane viso bello come un fiore. Poi vide che la guardavo. Per due secondi, forse, i nostri sguardi s'incrociarono. Capii allora perché gli antichi avessero armato di frecce il più crudele degli dei; ne sentii l'urto in tutto il mio corpo. Poi lei non ci fu più, era indietreggiata di nuovo nell'ombra stringendosi il cappuccio sulla testa, e dietro di me mia madre stava dicendo: «E adesso? Che farai adesso?». Mi voltai, la schiena al sole. «Vado a raggiungerlo. Ma non prima che tu stia meglio. Quando andrò voglio portargli tue notizie.» Lei parve preoccupata. «Non devi rimanere qui! Maridunum non è sicura per te.» «Credo che lo sia. Da quando è arrivata la notizia dello sbarco, la città si è vuotata degli uomini di Vortigern. Venendo verso sud, abbiamo dovuto buttarci per i sentieri di collina; la strada era piena di uomini che stavano andando a raggiungerlo.» «È vero, ma...» «E poi non me ne andrò in giro, te lo prometto. Ieri sera sono stato fortunato; appena ho messo piede in città mi sono imbattuto in Dinias. Mi ha dato una camera a casa.» «Dinias?» Risi del suo stupore. «Dinias pensa di dovermi qualcosa, non importa che cosa, ma ieri sera ci siamo trovati abbastanza d'accordo.» Le dissi della missione che gli avevo affidato ed essa annuì. «Lui...» e io sapevo che non parlava di Dinias «... avrà bisogno di ogni uomo che possa reggere una spada.» Corrugò la fronte. «Dicono che Hengist ha tremila uomini. Lui...» e anche qui non si riferiva a Hengist «...sarà in grado di resistere contro Vortigern, e poi contro Hengist e i sassoni?» Credo che in quel momento pensavo ancora alla veglia della sera prima. Dissi, senza fermarmi a riflettere che effetto avrebbe fatto: «Io l'ho detto,
perciò dev'essere vero». Un movimento intravisto con la coda dell'occhio, mi fece riportare gli occhi su di lei. Si stava facendo il segno della croce, gli occhi tutt'a un tratto allarmati e seri, e per di più spaventati. «Merlino...», ma mentre pronunciava il mio nome fu scossa da una tosse violenta, sicché quando riuscì a parlare di nuovo emise solo un bisbiglio discordante: «guardati dalla presunzione. Anche se Dio ti ha dato il potere...». Le appoggiai una mano sul polso, interrompendola. «Non mi hai capito. Mi sono espresso male. Volevo solo dire che il dio lo ha detto attraverso di me, e poiché lo ha detto deve essere vero. Ambrogio deve vincere, è scritto nelle stelle.» Lei annuì e io vidi un senso di sollievo percorrerla, allentando la sua tensione, nel corpo e nella mente, come un bimbo sfinito. Dissi dolcemente: «Non aver paura per me, madre. Chiunque sia il dio che mi usa, io sono contento di essere la sua voce e il suo strumento. Vado dove egli mi manda. E quando avrà finito con me, mi riprenderà». «C'è solo un Dio» bisbigliò lei. Le sorrisi. «È quello che comincio a credere. Adesso dormi. Tornerò domani mattina.» Tornai a vedere mia madre la mattina seguente. Questa volta ci andai solo. Avevo mandato Cadal a far spese al mercato, perché la sciattona di Dinias era svanita quando lui se n'era andato, lasciandoci a cavarcela da soli nel palazzo abbandonato. Fui ricompensato, perché la ragazza era di nuovo di turno alla porta e di nuovo mi guidò alla camera di mia madre. Ma quando le dissi qualche cosa essa si limitò a tirarsi ancora più sugli occhi il cappuccio senza parlare, cosicché di nuovo di lei non vedevo null'altro che mani e piedi snelli. Questa volta i selci erano asciutti e non c'erano più pozzanghere. Lei si era lavata i piedi che, costretti in quei rozzi sandali, apparivano fragili come fiori venati di azzurro nel paniere di un contadino. La freccia ancora vibrava dove mi aveva colpito e tutto il mio corpo pareva palpitare e tendersi alla vista di lei. Mi indicò di nuovo la porta, come se potessi averla dimenticata, e si ritirò ad aspettare. Mia madre sembrava stare un po' meglio e aveva riposato, mi disse. Parlammo per un po', lei aveva domande da farmi sui particolari della mia storia e io glieli completai. Quando mi alzai per andarmene chiesi, con la voce più indifferente che mi fu possibile:
«Quella ragazza che mi ha aperto la porta; è giovane, no?, per essere qui. Chi è?». «Sua madre lavorava a palazzo. Keridwen. La ricordi?» Scossi la testa. «Dovrei ricordarla?» «No.» Ma quando le chiesi perché sorrideva, non volle dir nulla e di fronte al suo viso divertito non osai insistere. Il terzo giorno c'era la vecchia portiera sorda e io passai tutto il tempo della visita a mia madre a chiedermi se questa non avesse scorto (come succede alle donne) quello che in realtà si nascondeva sotto la mia aria attentamente indifferente, e non avesse passato voce perché la ragazza fosse tenuta lontana da me. Ma il quarto giorno lei c'era e questa volta seppi, prima di aver fatto tre passi all'interno, che aveva sentito le storie di Dinas Brenin. Era così intenta a guardarsi il mago che lasciò il cappuccio ricadere un po' indietro e a mia volta potei vedere i grandi occhi, grigioazzurri, colmi di una specie di timorosa curiosità e meraviglia. Quando le sorrisi e pronunciai una forma di saluto, si rifugiò di nuovo nel cappuccio, ma stavolta rispose. La sua voce era leggera e sottile, una voce da bambina, e mi chiamò «mio signore» come se davvero ci credesse. «Come ti chiami?» le chiesi. «Keri, mio signore.» Mi attardai, per trattenerla. «Come sta oggi mia madre, Keri?» Ma lei non rispose, si limitò a condurmi direttamente nel cortile interno e lì mi lasciò. Quella notte rimasi sveglio di nuovo, ma nessun dio mi parlò, neppure per dirmi che essa non era per me. Gli dei non ci visitano per ricordarci ciò che già sappiamo. L'ultimo giorno di aprile mia madre stava già tanto meglio che quando tornai a vederla la trovai sulla sedia accanto alla finestra, con una lunga veste di lana sulla camicia e con il sole che la investiva. Un cotogno, immobilizzato contro il muro di fuori, era carico di coppe rosate in cui ronzavano le api, e proprio accanto a lei, sul davanzale, due colombe bianche camminavano impettite, tubando. «Hai notizie?» chiese appena vide la mia faccia. «È arrivato oggi un messaggero. Vortigern è morto e la regina anche. Dicono che Hengist sta scendendo a sud con un grande esercito, e che ci sono anche il fratello di Vortimer, Pascenzio, e quel che rimane del suo esercito. Ambrogio è già in cammino per affrontarli.» Lei era seduta molto dritta, e guardava la parete dietro di me. Quel gior-
no c'era una donna con lei, seduta su uno sgabello dall'altro lato del letto; era una delle monache che l'avevano accompagnata a Dinas Brenin. La vidi farsi il segno della croce, ma Niniane era seduta tranquilla e rigida e guardava qualche cosa dietro di me, riflettendo. «Raccontami, allora.» Le raccontai quello che avevo appreso sui fatti di Doward. L'altra donna di nuovo si segnò, ma mia madre non si mosse mai. Quando ebbi finito, i suoi occhi tornarono a posarsi su di me. «E adesso tu andrai?» «Si. Vuoi darmi un messaggio per lui?» «Quando lo rivedrò» disse lei: «ci sarà tempo allora.» Quando presi commiato da lei, era ancora seduta con lo sguardo fisso oltre le ametiste scintillanti sulla parete, su qualcosa di lontano nel tempo e nello spazio. Keri non era lì in attesa, perciò io mi attardai un momento prima di attraversare il cortile esterno, dirigendomi, lentamente, alla porta. Allora la vidi, che aspettava nell'ombra fonda del vano della porta, e affrettai il passo. Stavo rimuginando una quantità di cose da dire, tutte ugualmente inutili per prolungare quel che non si poteva prolungare, ma non ce ne fu bisogno. Essa tese una di quelle sue belle mani e mi toccò la manica, implorante. «Mio signore...» Il cappuccio le era quasi caduto e vidi che nei suoi occhi c'erano lacrime. Dissi pronto: «Che c'è?». Credo che per un attimo folle pensassi che piangeva perché me ne stavo andando. «Keri, che c'è?» «Ho mal di denti.» La guardai a bocca aperta. Dovevo avere un'aria sciocca come se fossi stato appena schiaffeggiato. «Qui» disse lei, e si portò una mano alla guancia. Il cappuccio cadde del tutto. «Sono giorni che mi fa male. Ti prego, mio signore...» Io dissi, roco: «Non sono un cavadenti». «Ma se tu volessi appena toccarmi...» «Né un mago» cominciai a dire, ma lei mi si avvicinò e la voce mi morì in gola. Profumava di caprifoglio. I suoi capelli erano dorati come l'orzo e gli occhi grigi come campanule non ancora aperte. Prima che me ne rendessi conto, mi aveva preso la mano tra le sue e se l'era portata alla guancia. Mi irrigidii appena, come per tirarla indietro, poi mi controllai e distesi la palma dolcemente sulla sua guancia. I grandi occhi color di campanula
grigia erano innocenti come il cielo. Mentre si chinava verso di me il collo della sua veste si abbassò in avanti e potei vedere i suoi seni. La sua pelle era liscia come l'acqua e il suo alito dolce contro la mia guancia. Ritirai la mano abbastanza dolcemente e mi raddrizzai. «Non posso fare niente per questo.» Penso che la mia voce fosse brusca. Lei abbassò le palpebre e rimase in atteggiamento di umiltà, con le mani giunte. Le sue ciglia erano corte, spesse e dorate come i suoi capelli. Aveva un piccolo neo all'angolo della bocca. Io dissi: «Se domattina non va meglio, fattelo togliere». «Va già meglio, mio signore. Ha smesso di dolere appena l'hai toccato.» La sua voce era colma di meraviglia e la sua mano corse furtiva alla guancia dove la mia si era posata. Fu come una carezza e sentii il sangue balzarmi con un colpo che era quasi un dolore. Con un gesto improvviso prese di nuovo la mia mano e rapida, timidamente, si chinò in avanti e vi premette sopra le labbra. Poi la porta si spalancò accanto a me ed io fui fuori, nella strada vuota. Quattro Pareva, da quanto mi aveva detto il messaggero, che Ambrogio avesse avuto ragione decidendo di farla finita con Vortigern prima di pensare ai sassoni. Il fatto che avesse espugnato Doward, e la ferocia con cui vi era riuscito, sortirono il loro effetto. Quelli dei sassoni invasori che si erano avventurati più nell'interno cominciarono a ritirarsi verso il nord, verso le selvagge terre oggetto di contestazione che avevano sempre costituito una testa di sbarco per le invasioni. Si fermarono a nord dello Humber per preparare opere di fortificazione dove potevano, e lo aspettarono. Dapprima Hengist credette che Ambrogio avesse ai suoi ordini poco più dell'esercito di invasione brettone... e per di più ignorava la natura di quel mortale strumento di guerra. Riteneva questo fu riferito che pochissimi britannici dell'isola si fossero uniti ad Ambrogio; in ogni caso i sassoni avevano battuto i britannici, nei loro piccoli eserciti tribali, tanto spesso che li disprezzavano considerandoli una facile preda. Ma adesso, quando gli giunse notizia delle migliaia di uomini che si erano radunate sotto il Drago rosso, e del successo di Doward, il capo dei sassoni decise di non rimanere più nelle fortificazioni a nord dello Humber, ma di avviarsi di nuovo rapidamente verso sud per affrontare i britannici in un punto di sua scelta, dove avrebbe potuto sorprendere Ambrogio e distruggere il suo esercito.
Ancora una volta, Ambrogio si spostò con una velocità degna di Cesare. Questo era reso necessario dal fatto che dove i sassoni si erano ritirati avevano devastato il paese. La fine arrivò nella seconda settimana di maggio, una settimana calda con un sole che pareva di giugno ma interrotto da acquazzoni che parevano un residuo di aprile... una settimana presa a prestito e per i sassoni un debito di cui il destino esigeva la restituzione. Hengist, con i preparativi a metà, fu sorpreso da Ambrogio a Maesbeli, presso il Forte di Conan, o Kaerconan, che la gente chiama a volte Conisburgh. È una zona collinosa, con il forte su una rupe e tutt'intorno un profondo burrone. Qui i sassoni avevano cercato di tendere un'imboscata all'esercito di Ambrogio, ma gli esploratori di Ambrogio ne ebbero notizia da un britanno in cui s'imbatterono mentre cercava di nascondersi in una grotta in cima a una collina dove era fuggito per salvare la sua donna e i loro due bambini dalle scuri dei vichinghi. Così Ambrogio, avvertito, aumentò la velocità della sua marcia e riuscì a raggiungere Hengist prima che l'imboscata fosse messa a punto, forzandolo a scendere in campo aperto. Il tentativo di Hengist di preparare un'imboscata aveva fatto girare la fortuna contro di lui; nel punto in cui si fermò e spiegò il suo esercito, Ambrogio si trovò in posizione di vantaggio. La parte più importante del suo esercito, i brettoni, i galli e i britannici dell'isola provenienti da sud e da sudest, aspettava su una piccola altura, con davanti un campo aperto sul quale era possibile attaccare senza trovar ostacoli. Tra queste truppe, eterogenee, erano altri britannici che si erano uniti a lui con i loro capi. Dietro a questo nucleo principale il terreno cominciava a salire dolcemente, interrotto solo da cespugli di pruno e di ginestrone, verso una lunga cresta rocciosa che s'incurvava verso ovest in una serie di basse colline pietrose e verso est era coperta da fitti boschi di querce. Gli uomini del Galles, montanari, erano appostati soprattutto alle ali, i gallesi settentrionali nel bosco di querce e, separati da loro dal complesso dell'esercito di Ambrogio, i gallesi meridionali sulle colline a ovest. Questi uomini, estremamente mobili, con armature leggere e con vecchi conti da saldare, dovevano tenersi pronti come rinforzi, essere insomma quei colpi di maglio che durante la battaglia si potevano dirigere contro i punti deboli della difesa nemica. Si poteva anche fare affidamento su di loro per prendere e abbattere tutti i sassoni di Hengist che rompessero i ranghi e abbandonassero il campo. I sassoni, presi nella loro stessa trappola, con quell'immenso esercito spiegato davanti a loro, e dietro le rocce di Kaerconan e la stretta gola dove
avrebbe dovuto esser tesa l'imboscata, combatterono come diavoli. Ma erano in svantaggio: partirono impauriti, impauriti dalla fama di Ambrogio, dalla sua recente e feroce vittoria a Doward e, più ancora che da queste due cose, cosi mi dissero gli uomini, dalla profezia che avevo fatto a Vortigern e che era passata di bocca in bocca con la stessa rapidità con cui si era diffuso il fuoco nella torre di Doward. E naturalmente i presagi lavoravano in senso opposto per Ambrogio. Si cominciò la battaglia poco prima di mezzogiorno, e al tramonto tutto era finito. La vidi dal principio alla fine. Fu la mia prima grande battaglia e non mi vergogno di dire che fu quasi l'ultima. Le mie battaglie non furono combattute con la spada e con la lancia. Se è per questo, avevo già posto mano alla vittoria di Kaerconan prima di esservi presente; e quando vi fui presente, fu per scoprirmi a rappresentare proprio quella parte che, per scherzo, una volta Uther mi aveva assegnato. Ero arrivato con Cadal fino a Caerleon, dove trovammo la fortezza occupata da un piccolo gruppo di soldati di Ambrogio, mentre un altro gruppo si stava avviando ad assediare e riparare il forte di Maridunum. E anche, mi disse confidenzialmente il loro ufficiale, per assicurarsi che la comunità cristiana - «tutta la comunità» aggiunse serio con appena un'ombra di cenno d'intesa, «tanta è la religiosità del comandante» - fosse salva. Inoltre era stato incaricato di mandare indietro con me alcuni dei suoi uomini, che mi avrebbero scortato fino da Ambrogio. Mio padre aveva perfino pensato a farmi avere alcuni dei miei vestiti. Così mandai indietro Cadal, con suo disappunto, a fare quello che gli sarebbe stato possibile per la grotta di Galapas, con l'incarico di aspettarmi lì, e io mi avviai verso nordest con la scorta. Raggiungemmo l'esercito proprio fuori Kaerconan. Le truppe erano già disposte per la battaglia e era fuori discussione vedere il comandante, perciò ci ritirammo, secondo le istruzioni, sulla collina a ovest, dove gli uomini delle tribù del Galles meridionale sì guardavano l'un l'altro sospettosi, al di sopra delle spade tenute pronte per i sassoni. Gli uomini della mia scorta mi guardavano un po' nello stesso modo: non avevano disturbato il mio silenzio durante la cavalcata ed era chiaro che mi consideravano con un certo timore riverenziale, non solo in quanto figlio riconosciuto di Ambrogio, ma anche in quanto "profeta di Vortigern", titolo che già mi si era appiccicato e del quale mi ci vollero alcuni anni per liberarmi. Quando mi presentai con loro all'ufficiale di turno e gli chiesi di assegnarmi un posto tra i suoi uomini, egli inorridì e mi pregò con la massima serietà di rimane-
re al di fuori della battaglia ma di trovare un posto dove gli uomini potessero vedermi e sapere, come egli si espresse, «che il profeta era con loro». Alla fine feci come lui desiderava e mi ritirai in cima a una piccola rupe rocciosa da dove, avvolgendo il mantello intorno a me, mi preparai a osservare il campo di battaglia che si stendeva li sotto come una mappa in movimento. Ambrogio era al centro; potevo vedere lo stallone bianco sopra il quale brillava il Drago rosso. Sulla destra il mantello azzurro di Uther si muoveva mentre il suo cavallo, al piccolo galoppo, passava lungo le linee. Il capo dell'ala sinistra non lo riconobbi subito; un cavallo grigio, una grossa sagoma pesante che lo cavalcava, uno stendardo che recava un emblema in bianco e che non riuscii a tutta prima a distinguere. Poi vidi che cos'era. Un cinghiale. Il Cinghiale della Cornovaglia. Il comandante l'ala sinistra dell'esercito di Ambrogio altri non era che il barbagrigia Gorlois, signore di Tintagel. Dell'ordine in cui i sassoni erano disposti non si riusciva a decifrare niente. Per tutta la vita avevo sentito parlare della ferocia di quei grandi giganti biondi e tutti i bambini britannici erano allevati fin dalla più tenera infanzia con storie terrificanti sul loro conto. In guerra impazzivano, si diceva, e potevano combattere perdendo sangue da una dozzina di ferite senza che si notasse in loro alcuna diminuzione di forza o di ferocia. Ma quel che avevano come forza e crudeltà faceva loro difetto in disciplina. E in verità, pareva che fosse proprio cosi. Non si vedeva alcun ordine nell'immensa ondata di metallo scintillante e di criniere al vento, continuamente in movimento, come un maroso che aspetta che la diga s'infranga. Anche a quella distanza riuscii a distinguere Hengist e suo fratello, due giganti con lunghi baffi che gli spazzolavano il torace e con capelli lunghi che svolazzavano mentre spronavano i loro piccoli cavalli irsuti e robusti su e giù lungo i ranghi. Gridavano, e l'eco di quelle grida mi arrivava chiaro: preghiere agli dei, giuramenti, esortazioni, ordini, che si alzavano in crescendo feroce finché, all'ultimo grido selvaggio, «Uccidi, uccidi, uccidi!», le scuri si levarono ruotando, e scintillarono nel sole di maggio, e la muta si slanciò in avanti, verso le linee ordinate dell'esercito di Ambrogio. Le due armate si scontrarono con un urto che fece alzare, schiamazzando, le cornacchie da Kaerconan e parve frantumare l'aria stessa. Era impossibile, anche dalla mia posizione di vantaggio, vedere in che modo si svolgesse la battaglia, o meglio i numerosi, distinti movimenti della battaglia. Un momento pareva che i sassoni, con le loro scuri e i loro elmi alati,
si stessero aprendo un varco nella schiera britannica; il momento successivo, vedevi un pugno di sassoni isolato in un mare di britannici, e poi li vedevi svanire, come inghiottiti. Il corpo centrale di Ambrogio si prese la maggior parte dell'urto della carica, poi la cavalleria di Uther, con un rapido movimento di fianco, arrivò da est. I cornovagliesi guidati da Gorlois dapprima si tennero indietro, ma appena la prima linea dei sassoni cominciò a ondeggiare, arrivarono dalla sinistra come un colpo di maglio e l'annientarono. Dopo, il campo diventò un caos. Dappertutto combattevano in gruppetti, o anche singolarmente, e in corpo a corpo. Il rumore, gli urti e le grida, perfino l'odore del sudore e del sangue che si confondevano, parevano salire fino a quell'alto piedistallo sul quale ero seduto, avvolto nel mio mantello, a guardare. Percepivo, immediatamente sotto di me, movimenti e mormorii da parte dei gallesi, poi l'improvviso evviva quando uno squadrone di sassoni si lanciò al galoppo verso di noi. In un attimo la cima della collina si svuotò di tutti gli uomini, fuorché di me, solo parve che il fragore fosse portato più vicino alla base della collina, come la marea che sale rapida. Un pettirosso si posò su un prugnolo accanto a me e cominciò a cantare. La sua voce si alzò dolce e spensierata nel fragore della battaglia. Ancora oggi, ogni volta che penso alla battaglia di Kaerconan mi torna alla mente quel canto di pettirosso, confuso con il gracchiare dei corvi. Perché già giravano intorno, alti sopra di noi: si dice che possano udire il cozzo delle spade da una distanza di dieci miglia. Al tramonto era finita. Eldol, duca di Gloucester, trascinò Hengist dal suo cavallo fin sotto le mura stesse di Kaerconan cui egli si era volto per fuggire, e il resto dei sassoni si disperse e fuggi, alcuni riuscendo a scampare, ma molti per essere uccisi nelle colline o nella stretta gola ai piedi di Kaerconan. Quando cominciò a calare il crepuscolo, furono accese le torce all'entrata della fortezza; le porte furono spalancate e lo stallone bianco di Ambrogio, al passo, attraversò il ponte ed entrò nella cittadella, lasciando il campo ai corvi, ai preti e ai gruppi dei seppellitori. Io non lo cercai subito. Lascialo seppellire i suoi morti e sgomberare la fortezza. C'era lavoro per me laggiù tra i feriti, e inoltre adesso non c'era fretta di trasmettergli il messaggio di mia madre. Mentre ero seduto lassù sulla rupe rocciosa, nel sole di maggio, tra il canto del pettirosso e il fragore della battaglia, avevo visto che si era di nuovo ammalata e che era già morta. Cinque
Discesi il pendio facendomi strada tra i cespugli di ginestra di pruni. Le truppe gallesi, da un pezzo erano svanite fino all'ultimo uomo; urla isolate e grida di battaglia indicavano i punti in cui qualche gruppo cacciava i fuggiaschi giù per il bosco e per la collina. In pianura, il combattimento era finito. Stavano trasportando i feriti dentro Kaerconan. Dappertutto si spostavano le torce, finché il campo fu tutto luce e fumo. Gli uomini si rivolgevano l'uno all'altro con grida, e gli urli e i lamenti dei feriti salivano distintamente fino a me, con, di quando in quando, il nitrito di un cavallo, gli ordini rapidi degli ufficiali e lo scalpiccio dei piedi dei barellieri. Qua e là, negli angoli non rischiarati dalla luce delle torce, alcuni uomini si muovevano, da soli o in gruppi di due, tra i corpi ammonticchiati. Li si vedeva curvarsi, raddrizzarsi e affrettarsi ad andarsene. A volte dove passavano si sentiva un grido, un gemito improvviso, o anche si scorgeva un rapido lampeggiare del metallo o un colpo vibrato da vicino verso il basso. Saccheggiatori, che rovistavano tra i morti e i moribondi, precedendo di poco le pattuglie regolari di soccorso. I corvi stavano calando; li vedevo scivolar d'ala mentre sorvolavano le torce, e un paio di loro, fermi, in attesa su una roccia poco lontana da me. Col giungere delle tenebre sarebbero arrivati anche i ratti, risalendo dalle umide fondamenta delle mura del castello per venire ad attaccare quei corpi morti. Il lavoro di portare in salvo i vivi veniva effettuato con quella rapidità e quella efficienza che contraddistingueva qualsiasi lavoro intrapreso dall'esercito del conte. Quando fossero rientrati tutti, sarebbero state chiuse le porte. Sarei andato a cercarlo, decisi, dopo aver compiute le prime incombenze. Dovevano avergli già detto che ero arrivato e che ero sano e salvo, e avrebbe immaginato che ero andato a dare una mano ai medici. Ci sarebbe stato tempo, più tardi, per mangiare e poi tempo sufficiente per parlare con lui. Sul campo, mentre lo attraversavo, i gruppi dei barellieri ancora si sforzavano di separare l'amico dal nemico. I morti sassoni erano stati ammucchiati al centro del campo; immaginai che sarebbero stati cremati secondo la consuetudine. Accanto alla collina di corpi che cresceva, un plotone montava la guardia al cumulo scintillante di armi e di ornamenti tolti ai morti. I morti britannici erano deposti accanto alle mura, in fila, perché fossero identificati. C'erano piccoli gruppi di uomini, ognuno guidato da un ufficiale, che si chinavano su di loro, esaminandoli uno per uno. Mentre camminavo su quel fango viscido, che puzzava di sangue e di bitume, ol-
trepassai i cadaveri di una mezza dozzina di straccioni, contadini o fuorilegge, all'aspetto, distesi in mezzo agli altri morti armati e rimasti con gli occhi aperti. Erano saccheggiatori, uccisi o trafitti dai soldati. Uno di essi ancora si contorceva, come una falena inchiodata, frettolosamente trafitto e buttato a terra da un'arma sassone spezzata che gli era stata lasciata nel corpo. Esitai, poi mi avvicinai e mi chinai su di lui. Egli mi guardò, parlare non poteva, e potei vedere che ancora sperava. Se la lancia fosse stata conficcata in lui a dovere, avrei estratto l'arma e l'avrei lasciato dissanguare, ma così come stavano le cose c'era un modo più rapido di aiutarlo. Estrassi la mia daga, tirai da parte il mantello perché non intralciasse e facendo attenzione per non essere investito dal getto di sangue, gli conficcai l'arma, lateralmente, nella gola. La asciugai sugli stracci dei morti e mentre mi tiravo su incontrai uno sguardo freddo, fisso su di me al di sopra di una spada a lama corta, alzata a tre passi da me. Grazie al cielo, era uno che conoscevo. Vidi che mi riconosceva, poi rise e abbassò la spada. «Sei fortunato. Per poco non te la piantavo nella schiena.» «Non ci avevo pensato.» Feci scivolare di nuovo la daga nel fodero. «Sarebbe stato un peccato morire per derubare questo qui. Che cosa pensi che abbia, che valga la pena di togliergli?» «Ti meraviglieresti se sapessi che cosa li sorprendiamo a rubare. Qualsiasi cosa, da un impiastro per calli alla cinghietta rotta di un sandalo.» Indicò con una mossa del mento le alte mura della fortezza. «Lui ha chiesto in giro dov'eri.» «Sto andando.» «Dicono che tu hai predetto la vittoria, qui; e anche a Doward.» «Ho detto che il Drago rosso avrebbe sconfitto quello bianco» risposi. «Ma credo che questa non sia ancora la fine. Che ne è stato di Hengist?» «Lassù.» Indicò di nuovo con la testa la cittadella. «Si è diretto verso il forte quando la linea sassone ha ceduto, ed è stato catturato vicinissimo alla porta.» «Questo l'avevo visto. Allora adesso è dentro? Ancora vivo?» «Sì.» «E Octa? Suo figlio?» «Scappato. Lui e il cugino... Eosa si chiama, vero?... sono partiti al galoppo verso nord.» «Perciò non è finita. Lui li ha fatti inseguire?» «Non ancora. Dice che c'è tempo.» Mi guardò. «Ce n'è?»
«Come posso saperlo?» Non potevo essere di aiuto. «Quanto tempo pensa di rimanere qui? Qualche giorno?» «Tre, dice. Il tempo di seppellire i morti.» «Che cosa farà con Hengist?» «Tu che cosa pensi?» Fece un piccolo gesto verso il basso, con il taglio della mano. «È molto in ritardo, se lo chiedi a me. Ne stanno parlando lassù, ma non si può chiamarlo un processo. Il conte ancora non ha detto niente, ma Uther sta tuonando che vuole che sia ucciso, e i preti chiedono un po' di sangue freddo per completare cosi la giornata. Be', devo tornare al lavoro, vedere se trovo altri saccheggiatori.» Aggiunse, andandosene: «Ti abbiamo visto in cima alla collina durante la battaglia. Gli uomini dicevano che era un augurio». Si allontanò. Un corvo si abbassò battendo le ali dietro di me, gracchiando, e si posò sul petto dell'uomo che avevo ucciso. Gridai a un portatore di torcia di illuminarmi il resto della strada e mi diressi verso la porta principale della fortezza. Mentre mi trovavo ancora a una certa distanza dal ponte, ne uscì un bagliore agitato di torce, e nel mezzo, legato e tenuto fermo, il grande gigante biondo che, lo sapevo, doveva essere Hengist in persona. Gli squadroni di Ambrogio lasciarono libero uno spiazzo nel mezzo, e in quello spazio fu condotto il capo dei sassoni, e lì dovettero costringerlo a inginocchiarsi, perché la testa bionda scomparve dietro i ranghi serrati dei britannici. Allora vidi Ambrogio, che veniva fuori attraversando il ponte, seguito da vicino alla sua sinistra da Uther e, a destra, da una persona che non conoscevo, con la veste del vescovo cristiano, Ambrogio ancora sporco di fango e di sangue. Dietro di loro altri uomini fecero ressa. Il vescovo stava parlando animatamente all'orecchio di Ambrogio. Il viso di Ambrogio era una maschera, la fredda maschera inespressiva che conoscevo così bene. Lo udii dire qualcosa come: «Vedrai, saranno soddisfatti», poi, seccamente, qualche altra cosa che fece tacere il vescovo. Ambrogio prese posto. Lo vidi fare un cenno con la testa a un ufficiale. Fu pronunciato un ordine, seguito dal sibilo e dal rumore sordo di un colpo. Un mormorio di soddisfazione si levò dagli uomini che assistevano. La voce del vescovo, arrochita e trionfante: «Così periscano tutti i nemici pagani dell'unico vero Dio! Adesso lascia che il suo corpo venga gettato ai lupi e ai nibbi!». Allora la voce di Ambrogio, fredda e calma: «Andrà dai suoi dei con il suo esercito intorno a lui, secondo il costume del suo popolo». Poi, all'ufficiale: «Fammi sapere quando tutto è pronto e verrò».
Il vescovo ricominciò a gridare, ma Ambrogio si allontanò senza dargli retta, con Uther e gli altri capitani, riattraversò il ponte ed entrò nella fortezza. Li seguii. Ci fu un bagliore di alabarde che si abbassarono per impedirmi il passaggio, poi - la fortezza era presidiata dai brettoni di Ambrogio - fui riconosciuto e le alabarde vennero ritirate. Dentro alla fortezza c'era un grande cortile quadrato, adesso pieno di una confusione di cavalli e di uomini che si affaccendavano e si spostavano. All'estremità del cortile una breve rampa di scale conduceva alla porta della sala principale e della torre. Il gruppo al seguito di Ambrogio stava salendo le scale, ma io mi voltai altrove. Non c'era bisogno di chiedere dove erano stati messi i feriti. Sul lato est dello spiazzo una lunga costruzione a due piani era stata adibita a posto di medicazione; mi guidarono i suoni che uscivano di lì. Fui salutato con riconoscenza dal medico responsabile, un certo Gandar, che era stato mio maestro in Bretagna e che chiaramente non sapeva che farsene di preti o di maghi ma che aveva molto bisogno di un altro paio di mani esperte. Mi assegnò un paio di inservienti, mi trovò qualche strumento e una scatola di balsami e medicine e mi spinse, letteralmente, in una lunga stanza che era di poco migliore di un capannone coperto ma che adesso conteneva circa cinquanta feriti. Mi denudai fino alla vita e mi misi al lavoro. All'incirca verso mezzanotte il peggio era fatto e le cose erano più tranquille. Mi trovavo proprio all'estremità del mio settore quando un leggero movimento vicino alla porta mi fece alzare gli occhi. Vidi Ambrogio con Gandar e due ufficiali entrare silenziosamente e passare lungo la fila di feriti, fermandosi accanto a ognuno per parlare o, con i feriti più gravi, per interrogare sottovoce il medico. Stavo cucendo una ferita a una coscia - era una bella ferita, e sarebbe guarita, ma era profonda e frastagliata, tanto che con sollievo generale l'uomo era svenuto - quando il gruppo arrivò vicino a me. Io non alzai gli occhi e Ambrogio aspettò in silenzio che avessi finito e che, tendendo la mano verso i materiali occorrenti per la medicazione che l'inserviente aveva preparato, fasciassi la ferita. Finii e mi alzai mentre l'inserviente tornava con un bacile d'acqua. Vi immersi le mani e alzando lo sguardo vidi Ambrogio che sorrideva. Indossava ancora l'armatura ammaccata e sporca, ma appariva fresco e vivace, pronto se necessario a cominciare un'altra battaglia. Vidi i feriti guardarlo come se potessero attingere forza solo dalla sua vista. «Mio signore» dissi.
Lui si chinò sull'uomo svenuto. «Come sta?» «Una ferita profonda. Guarirà e vivrà, perché ha avuto la fortuna di non riceverla pochi centimetri più a sinistra.» «Hai fatto un bel lavoro, vedo.» Poi, mentre finivo di asciugarmi le mani e congedavo l'inserviente con una parola di ringraziamento, Ambrogio tese la mano. «E adesso, bene arrivato. Credo che ti dobbiamo molto, Merlino. Non intendo per questo; voglio dire per Doward, e anche per oggi. In ogni modo gli uomini la pensano così, e se i soldati decidono che una cosa porta fortuna, allora porta fortuna. Bene, sono contento di vederti sano e salvo. Hai notizie per me, credo.» «Sì.» Lo dissi con tono inespressivo, per via degli uomini che erano con noi, ma vidi il sorriso dileguarsi dai suoi occhi. Esitò, poi disse con calma: «Signori, scusateci». Loro se ne andarono. Lui e io rimanemmo faccia a faccia, sopra il corpo dell'uomo svenuto. Vicino a noi, un soldato si agitava lamentandosi e un altro gridava e cercava di trattenersi. In tutto l'ambiente l'odore era terribile, odore di sangue, di sudore che si asciugava e di vomito. «Qual è la notizia?» «Riguarda mia madre.» Credo che già sapesse quello che stavo per dirgli. Parlò lentamente, misurando le parole, come se ognuna avesse un peso che egli doveva sentire. «Gli uomini che sono venuti a cavallo con te... mi hanno portato notizie di lei. Era stata male, ma era guarita, hanno detto, e rientrata sana e salva a Maridunum. Non è vero?» «Era vero quando sono partito da Maridunum. Se avessi saputo che la malattia era mortale non l'avrei lasciata.» «Era mortale?» «Sì, mio signore.» Egli rimase in silenzio, guardando, ma senza vederlo, il ferito. Questi cominciava ad agitarsi; presto avrebbe sentito di nuovo il dolore e il tanfo e la paura che è dei mortali. Dissi: «Usciamo all'aria. Io qui ho finito. Manderò qualcuno da quest'uomo.» «Sì. E devi rivestirti. La notte è fredda.» Poi, ancora senza muoversi: «Quando è morta?». «Oggi al tramonto.» Alzò lo sguardo quasi di scatto, gli occhi stretti e attenti, poi annuì, come in segno di accettazione. Si voltò per uscire, invitandomi con un gesto ad accompagnarlo. Mentre ci allontanavamo mi chiese: «Credi che lei lo sa-
pesse?» «Penso di sì.» «Non ha mandato nessun messaggio?» «Non direttamente. Ha detto: "Quando ci rivedremo, ci sarà tempo". È cristiana, non lo dimenticare. I cristiani credono...» «So quello che credono.» Si senti un certo scompiglio di fuori, una voce che abbaiava ordini, scalpiccio di piedi. Ambrogio s'interruppe, in ascolto. Qualcuno veniva verso di noi, a passo rapido. «Parleremo dopo, Merlino. Devi raccontarmi tante cose. Ma prima dobbiamo mandare lo spirito di Hengist a raggiungere i suoi avi. Vieni.» Avevano innalzato i morti sassoni a mucchio su una grande catasta di legno, e vi versavano sopra olio e pece. In cima alla piramide, su una piattaforma di assi inchiodate alla meglio, era disteso Hengist. Come fosse riuscito Ambrogio a impedir loro di depredarlo non lo saprò mai, ma depredato non era stato. Il suo scudo era appoggiato sul petto e accanto alla mano destra aveva una spada. Avevano nascosto il collo tagliato con un alto collare di pelle, del genere usato da alcuni soldati come gorgiera. Il collare era ornato d'oro. Un mantello lo copriva dalla gola ai piedi e i lembi scarlatti scendevano a coprire la catasta di legno. Appena le torce furono infilate sotto, le fiamme si propagarono con vigore. Era una notte tranquilla, e il fumo saliva in una densa colonna nera guarnita di fuoco. Gli orli del mantello di Hengist presero fuoco, si annerirono, si arricciarono, poi un torrente di fumo e di fiamme lo sottrasse tutto alla vista. Il fuoco schioccava come una frusta, anzi come tante fruste, e mentre i ceppi bruciavano e si consumavano, gli uomini correvano, sudati e anneriti, per buttarne altri sul rogo. Anche dove ci trovavamo noi, bene indietro, il caldo era intenso e l'odore di pece bruciata e di carne arsa arrivava a noi in raffiche nauseanti con l'aria umida della notte. Al di là della cerchia illuminata degli uomini che assistevano alla cerimonia, sul campo di battaglia le torce ancora si spostavano e si sentiva il tonfo regolare delle vanghe che scavavano la terra per i morti britannici. Oltre quel rogo ardente, oltre le pendici scure delle lontane colline, appariva, un po' coperta dal fumo, la luna di maggio. «Che cosa vedi?» La voce di Ambrogio mi fece trasalire. Lo guardai, sorpreso. «Che cosa vedo?»
«Nel fuoco, profeta Merlino.» «Niente, all'infuori di uomini che stanno ardendo.» «Allora guarda e vedi qualche cosa per me, Merlino. Dov'è andato Octa?» Risi. «Come potrei saperlo? Ti ho detto tutto quello che potevo vedere.» Ma lui non sorrise. «Guarda meglio. Dimmi dov'è andato Octa. E pure Eosa. Dove si trincereranno per aspettarmi. E quando.» «Te l'ho detto. Io non guardo cercando cose. Se è volontà del dio che le cose vengano a me, esse escono dalle fiamme, o dalla notte buia, escono silenziose come una freccia dall'agguato. Io non vado a cercare l'arciere, tutto quello che posso fare è esporre il petto nudo e aspettare che la freccia mi colpisca.» «Allora fallo adesso.» Parlava con violenza, ostinato. Vidi che diceva sul serio. «Per Vortigern hai visto.» «Ti pare si possa dire che l'ho fatto per lui? Profetizzare la sua morte? Quando lo feci, mio signore, non sapevo neppure quello che dicevo. Immagino che Gorlois ti abbia detto quello che avvenne... anche ora, non riuscirei a raccontartelo. Io non so né quando verrà né quando mi lascerà.» «Soltanto oggi hai saputo di Niniane, e senza fuoco né tenebre.» «È vero. Ma non so dirti in che modo, non più di come sapessi quello che dissi a Vortigern.» «Gli uomini ti chiamano il profeta di Vortigern. Hai profetizzato la vittoria per noi, e l'abbiamo avuta, qui e a Doward. Gli uomini credono in te e hanno fede in te. E anch'io. Non è un titolo migliore, adesso, essere il profeta di Ambrogio?» «Mio signore, tu sai che io accetterei qualsiasi titolo tu ti degnassi di conferirmi. Ma questo viene da qualcos'altro. Io non posso chiamarlo, ma so che se è importante verrà. E quando verrà, stai certo che te lo dirò. Lo sai che sono al tuo servizio. Ora, per quanto riguarda Octa ed Eosa, non so niente. Posso solo indovinare... indovinare come uomo. Combattono ancora sotto il Drago bianco, vero?» I suoi occhi si strinsero. «Sì.» «Allora quello che ha detto il profeta di Vortigern deve essere ancora ritenuto valido.» «Posso dirlo agli uomini?» «Se ne hanno bisogno. Quando hai in progetto di metterti in marcia?» «Fra tre giorni.» «In quale direzione?»
«York.» Alzai una mano. «Allora il tuo fiuto di comandante è probabilmente altrettanto buono del mio fiuto di mago. Mi porterai con te?» Egli sorrise. «Mi sarai di qualche utilità?» «Forse non come profeta. Ma non hai bisogno di un ingegnere? O di un apprendista medico? O anche di un cantore?» Egli rise. «Sei uno che ne vale dieci, lo so. Purché tu non mi diventi prete, Merlino. Di quelli ne ho abbastanza.» «Non devi aver paura di questo.» Le fiamme stavano morendo. L'ufficiale responsabile della cerimonia si avvicinò, fece il saluto militare e chiese se poteva congedare gli uomini. Ambrogio gliene diede il permesso, poi mi guardò. «Vieni con me a York, allora. Avrò del lavoro per te, lì. Vero lavoro. Mi dicono che il posto è mezzo in rovina e ho bisogno di qualcuno che dia una mano per dirigere gli ingegneri. Tremolino è a Caerleon. Adesso, trova Caio Valerio e digli di badare a te, e torna da me tra un'ora.» Aggiunse, voltandosi, mentre si allontanava: «E nel frattempo se qualcosa ti uscisse dalle tenebre come una freccia, me lo farai sapere?». «A meno che non sia davvero una freccia.» Lui rise e se ne andò. Improvvisamente, vidi Uther accanto a me. «Be', Merlino il bastardo? Stanno dicendo che hai vinto la battaglia per noi stando in cima alla collina.» Notai, con sorpresa, che non c'era malizia nel suo tono. Era rilassato, a suo agio, quasi allegro, come un prigioniero lasciato libero. Immagino che così si sentisse veramente, dopo la lunga frustrazione degli anni trascorsi in Bretagna. Lasciato a se stesso Uther si sarebbe lanciato sullo Stretto un bel po' prima di arrivare all'età adulta, e in compenso si sarebbe lasciato valorosamente fare a pezzi. Adesso, come un falco lanciato per la prima volta nella caccia, assaporava la sua forza. Anch'io la potevo sentire: lo avvolgeva come un paio d'ali ripiegate. Dissi qualche parola di saluto, ma egli mi interruppe. «Hai visto qualche cosa nelle fiamme poco fa?» «Oh, non mettertici anche tu» dissi con foga. «Si direbbe che il comandante pensi che tutto quello che devo fare è guardare una torcia e predire il futuro. Ho cercato di spiegargli che non funziona cosi.» «Mi deludi. Stavo per chiederti di dirmi la sorte.» «Oh, Eros, è abbastanza facile. Entro un'ora circa, appena avrai sistemato i tuoi uomini, sarai a letto con una ragazza.» «Non è affatto una cosa così sicura. Come diavolo hai fatto a sapere che
ero riuscito a trovarne una? Non ce n'è abbondanza da queste parti... solo un uomo su cinquanta è riuscito ad averne una. Io sono stato fortunato.» «È proprio questo che voglio dire» risposi. «Se ci sono cinquanta uomini e solo una donna tra loro, sarà Uther ad avere la donna. Questo è quello che io chiamo uno dei punti fermi della vita. Dove posso trovare Caio Valerio?» «Ti manderò qualcuno che te lo indichi. Verrei io, ma mi tengo alla larga da lui.» «Perché?» «Quando ci siamo giocata la ragazza, lui ha perso» disse Uther allegro. «Avrà un sacco di tempo per badare a te. Tutta la notte, addirittura. Vieni.» Sei Entrammo a York tre giorni prima della fine di maggio. Gli esploratori di Ambrogio avevano confermato i sospetti del comandante a proposito di York; da Kaerconan c'era una buona strada verso il nord, e Octa se n'era servito per fuggire insieme al suo congiunto Eosa, rifugiandosi nella città fortificata che i romani chiamavano Eboracum e i sassoni Eoforwick, o York. Ma le fortificazioni a York erano in cattivo stato e gli abitanti, quando appresero della fragorosa vittoria di Ambrogio a Kaerconan, offrirono magra accoglienza ai sassoni in fuga. Malgrado tutta la velocità di Octa, Ambrogio non era neppure a due giorni di distanza da lui, e la vista del nostro enorme esercito, riposato e rafforzato da nuovi alleati britannici incoraggiati dalle vittorie del Drago rosso, indusse i sassoni, che non erano sicuri di poter tenere la città contro di lui, a chiedere clemenza. Io lo vidi personalmente, dato che mi trovavo proprio in testa con le macchine da assedio, sotto le mura. A modo suo fu addirittura più sgradevole di una battaglia. Il capo dei sassoni era una specie di gigante, biondo come suo padre, e giovane. Comparve davanti ad Ambrogio nudo fino alle brache, che erano di rozza stoffa e legate con stringhe. Anche i suoi polsi erano legati, con una catena però, e la testa e il corpo erano cosparsi di polvere, un segno di umiliazione di cui poco bisogno egli aveva. I suoi occhi erano colmi d'ira, e io vidi che era stato costretto a questo passo dalla vigliaccheria, o saggezza, se così preferite chiamarla, di quel gruppo di notabili sassoni o britannici che si stringevano intorno a lui fuori della porta della città, implorando da Ambrogio clemenza per sé e per le loro fami-
glie. Questa volta egli gliela accordò. Chiese solo che i resti dell'esercito sassone si ritirassero a nord, oltre il vecchio Vallo di Adriano che, egli disse, avrebbe considerato come frontiera del suo regno. Le terre al di là del Vallo, dicono, sono selvagge e tetre, e difficilmente abitabili, ma Octa si prese questa libertà con sufficiente soddisfazione e dopo di lui, implorando la stessa grazia, venne suo cugino Eosa fidando nella generosità di Ambrogio. La ottenne e la città di York aprì le porte al suo nuovo re. L'occupazione di una città da parte di Ambrogio seguiva sempre lo stesso schema. Prima di tutto, ristabilire l'ordine; egli non permetteva mai agli ausiliari britannici di entrare nella città; erano i suoi uomini della Bretagna, liberi da fedeltà locali, quelli che ristabilivano l'ordine e lo mantenevano. Le strade venivano pulite, le fortificazioni provvisoriamente riparate, si tracciavano piani per il lavoro futuro che venivano affidati a un piccolo gruppo di ingegneri esperti i quali si sarebbero poi serviti di mano d'opera locale. Poi aveva luogo una riunione dei capi cittadini, con una discussione sulla politica futura, un giuramento di fedeltà ad Ambrogio, e le disposizioni concernenti il presidio della città una volta partito l'esercito. Infine c'era una cerimonia religiosa di ringraziamento con un banchetto e festa pubblica. A York, la prima grande città espugnata da Ambrogio, la cerimonia si svolse nella chiesa, in un giorno splendido verso la fine di giugno, alla presenza di tutto l'esercito e di un ampio gruppo di popolo. Io avevo già preso parte a una cerimonia privata altrove. Non era prevedibile che a York esistesse ancora un tempio a Mitra. Il culto ne era proibito, e comunque doveva essersi spento quando l'ultima legione aveva lasciato la Sponda sassone quasi un secolo prima, ma al tempo d'oro delle legioni il tempio di York era stato uno dei più belli del paese. Poiché nelle vicinanze non c'erano grotte naturali, era stato costruito in origine sotto la casa del comandante romano, in una grande cantina, e per questo i cristiani non avevano potuto profanarlo e distruggerlo com'era loro costume con i luoghi sacri degli altri. Ma il tempo e l'umidità avevano fatto il loro lavoro e il santuario era caduto in sfacelo. Una volta, sotto un governatore cristiano, c'era stato il tentativo di trasformare quel luogo in una cripta adibita a cappella, ma il successivo governatore era stato dichiaratamente, per non dire violentemente, contrario all'idea. Era anch'egli cristiano, ma non vedeva la ragione per non usare l'ottima cantina sotto la sua casa secondo quella che, per lui, era la vera destinazione di una cantina,
cioè contenere vino. E cantina per il vino quella era rimasta, fino al giorno in cui Uther vi mandò una squadra di operai a pulirla e restaurarla per la riunione che avrebbe dovuto aver luogo il giorno della festa del dio, il sedici giugno. Questa volta l'adunanza fu segreta, non per paura ma per motivi politici, in quanto la cerimonia ufficiale di ringraziamento sarebbe stata cristiana e Ambrogio l'avrebbe presenziata, offrendo grazie, con la partecipazione dei vescovi e di tutta la popolazione. Io stesso non avevo visto il santuario, essendo stato occupato durante i primi giorni che trascorsi a York a riparare la chiesa cristiana in modo che fosse pronta per la cerimonia pubblica. Ma alla festa di Mitra dovevo presentarmi con gli altri miei pari grado nel tempio sotterraneo. Per la maggior parte non li conoscevo, né potevo identificarli dalla voce che veniva da dietro la maschera; ma Uther era riconoscibile e naturalmente ci sarebbe stato mio padre, nella sua funzione di Messaggero del Sole. La porta del tempio era chiusa. Noi del grado più basso aspettammo il nostro turno nell'ingresso. Questo era una stanza piuttosto piccola, quadrata, illuminata solo dalle due torce poste nelle mani delle statue, una a ogni lato della porta del tempio. Sopra la porta c'era la vecchia testa di leone di pietra, consumata e malandata, fissata nel muro. Ai due lati, altrettanto consumati e scheggiati, con nasi e altre parti rotti e staccati, i due portatori di torcia di pietra conservavano ciononostante un aspetto antico e solenne. L'anticamera era fredda, malgrado le torce, e odorava di fumo. Sentii il freddo farsi strada sul mio corpo; mi colpiva dai piedi nudi sul pavimento di pietra, e sotto la lunga tunica di lana bianca ero nudo. Ma proprio quando il primo brivido mi corse sulla pelle, la porta del tempio si aprì e in un attimo tutto fu luce e colore e fuoco. Anche adesso, dopo tutti questi anni, e sapendo tutto ciò che ho appreso in una vita, non trovo in me la forza di infrangere il voto di silenzio e di segretezza che feci allora. E nessun uomo l'ha fatto, per quanto ne so. Si dice che quello che ci viene insegnato da giovani non può essere del tutto cancellato dalla mente, e io so che, personalmente, non sono mai sfuggito all'incantesimo del dio segreto che mi condusse in Bretagna e mi gettò ai piedi di mio padre. E in verità, che questo dipenda da un freno dello spirito del quale ho già scritto o dall'intervento dello stesso dio, trovo che il mio ricordo del suo culto è diventato nebuloso, come se fosse stato un sogno. E
può darsi che sia un sogno, non solo di quella volta ma composto di tutte le altre volte, dalla prima visione del campo notturno alla cerimonia di quella notte a York, che fu anche l'ultima. Alcune cose le ricordo. Molti portatori di torcia in pietra. Le lunghe panche ai due lati della navata centrale con uomini chini nelle loro vesti chiare, le maschere rivolte verso di noi, gli occhi attenti. I gradini all'estremità e la grande abside con l'arco simile all'ingresso di una grotta che dava nella grotta stessa dove, sotto un soffitto ornato di stelle, era il vecchio rilievo di pietra di Mitra che uccide il toro. Chissà come doveva esser stata protetta dai martelli sacrileghi, perché conservava ancora tutta la sua forza drammatica. Eccolo lì, alla luce delle torce, il giovane della pietra eretta, il tipo con il copricapo, inginocchiato sul toro caduto, con la testa voltata da una parte per la pena, che gli conficcava la spada nella gola. Ai piedi dei gradini erano gli altari di fuoco, uno a ogni lato. Accanto a uno di essi un uomo con lunga veste e coperto da una maschera di Leone, con una verga nella mano sinistra. Accanto all'altro l'Eliodromo, il Messaggero del Sole. E in cima ai gradini, al centro dell'abside, il Padre che aspettava di riceverci. La mia maschera di Corvo aveva le aperture per gli occhi così piccole che potevo vedere solo dritto davanti a me. Non sarebbe stato decoroso guardare da una parte all'altra con quella maschera da uccello appuntita, così rimasi fermo ascoltando le voci, e domandandomi quanti amici fossero presenti, quanti uomini io conoscessi. L'unico di cui potevo essere sicuro era il Messaggero, alto e immobile accanto al fuoco dell'altare, e anche di uno dei Leoni, o quello presso l'arcivolta, oppure quello dello stesso grado che stava guardando da un punto lungo la fila delle panche. Questa era la struttura della cerimonia, ed è tutto quello che riesco a ricordare, eccetto la fine. Il Leone officiante non era Udier, dopo tutto. Era un uomo più basso, corpulento e apparentemente più vecchio di Uther e il colpo che mi menò non era niente più della botta rituale senza quel tanto di voluto che Uther riusciva di solito a imprimervi. E neppure il Messaggero era Ambrogio. Quando mi porse il pasto simbolico, pane e vino, vidi l'anello al mignolo della sua mano sinistra, con una pietra incastonata di diaspro rosso su cui era incisa la cresta di un drago. Ma quando egli alzò la coppa fino alle mie labbra e la veste scarlatta gli scivolò indietro sul braccio, vidi una cicatrice che ben conoscevo, bianca sulla pelle scura e alzando lo sguardo incontrai quello degli occhi azzurri dietro la maschera, illuminato da una luce divertita che s'intensificò diventando risata quando sobbalzai e rovesciai il vino. Uther era salito di due gradi, pareva, dall'ul-
tima volta in cui avevo partecipato ai misteri. E poiché non c'era un altro Messaggero lì presente, rimaneva solo un posto per Ambrogio... Mi allontanai dal Messaggero per andarmi a inginocchiare ai piedi del Padre. Ma le mani che presero la mia tra le loro per il giuramento erano mani di vecchio, e quando alzai lo sguardo gli occhi dietro la maschera erano gli occhi di un estraneo. Otto giorni dopo si svolse la cerimonia ufficiale del rendimento di grazie. Ambrogio era presente, con tutti i suoi ufficiali e perfino Uther, «perché» mi disse in seguito mio padre quando fummo soli «come tu scoprirai, tutti gli dei nati nella luce sono fratelli e in questa terra se Mitra che ci dà la vittoria deve avere il volto di Cristo, be', allora noi adoriamo Cristo.» Non parlammo mai più di questo. La capitolazione di York segnò la fine della prima fase della campagna di Ambrogio. Dopo York ci recammo a Londra a piccole tappe e senza altri combattimenti, a meno di non voler calcolare alcune scaramucce lungo la strada. Quello che aspettava il re, adesso, era un enorme lavoro di ricostruzione e di consolidamento del regno. In ogni città e roccaforte egli lasciò guarnigioni di uomini sperimentati sotto ufficiali fidati dando incarico ai suoi ingegneri di collaborare nell'organizzazione del lavoro di ricostruire e riparare città, strade e fortezze. Il panorama era dappertutto lo stesso; edifici già belli crollati o danneggiati in modo quasi irreparabile; strade mezzo cancellate per negligenza; villaggi distrutti e gente che si nascondeva impaurita in grotte e in foreste; luoghi di culto demoliti o profanati. Era come se la stupidità e la sfrenata ingordigia delle orde sassoni avesse gettato un'influenza maligna su tutto il paese. Tutto quello che aveva emanato luce - arte, canto, cultura, culto, le assemblee cerimoniali del popolo, le feste a Pasqua e a Ognissanti o a metà inverno, perfino le arti dell'agricoltura - tutto questo era svanito sotto le nuvole scure sulle quali viaggiavano gli dei nordici della guerra e del tuono. Ed erano stati invitati qui da Vortigern, re britannico. Questo, adesso, era tutto quel che il popolo ricordava. Dimenticavano che Vortigern aveva regnato abbastanza bene per dieci anni e decentemente per alcuni altri anni, prima di scoprire che lo spirito della guerra che egli aveva scatenato sul suo paese gli era scappato di mano. Ricordavano solo che si era conquistato il trono con lo spargimento di sangue, il tradimento e l'assassinio di un parente... e che quel parente era il vero re. Così adesso accorsero in folla, da Ambrogio, implo-
rando su di lui le benedizioni dei loro diversi dei, salutandolo con gioia re, il primo «re di tutta la Britannia», la prima splendida opportunità di unità per il paese. Altri hanno raccontato la storia dell'incoronazione di Ambrogio e dell'inizio della sua opera come re di Britannia; è stata perfino scritta, sicché qui io dirò solo che fui con lui durante quei due primi anni, come ho già detto, ma poi, nella primavera del mio ventesimo anno, lo lasciai. Ne avevo abbastanza di consigli e di marce, e delle lunghe discussioni giuridiche in cui Ambrogio tentava di imporre di nuovo le leggi che erano cadute in disuso, delle eterne riunioni con gli anziani e i vescovi che ronzavano come api, giorni e settimane per ogni goccia di miele. Ero perfino stanco di costruire e progettare; questo era il solo lavoro che io avessi fatto per lui in tutti i lunghi mesi in cui ero rimasto nell'esercito. Seppi infine che dovevo lasciarlo, sottrarmi alla stretta delle cose che lo circondavano: il dio non parla a chi non ha tempo di ascoltarlo. Lo spirito deve scoprire di che cosa ha bisogno di esser nutrito, e mi venne infine il pensiero che qualsiasi fosse il lavoro che dovevo svolgere, dovevo farlo nella quiete delle mie colline. Così, in primavera, quando venimmo a Winchester, mandai un messaggio a Cadal, poi cercai Ambrogio per dirgli che dovevo andarmene. Egli mi ascoltò quasi distrattamente; le preoccupazioni si facevano sentire in modo pesante su di lui in quel periodo, e gli anni che prima di allora erano stati leggeri su di lui adesso parevano opprimerlo. Ho notato che spesso accade così agli uomini che dirigono la loro vita verso lo splendore lontano di un fuoco che divampa in alto; quando si raggiunge la cima e non ci si può arrampicare più in là, e l'unica cosa che rimane da fare è aggiungere legna e mantenere in vita il fuoco, be', allora essi si siedono lì accanto e diventano vecchi. Dove il sangue in fermento prima li riscaldava, adesso deve farlo il fuoco del falò dall'esterno. Così era per Ambrogio. Il re che sedeva sul suo grande seggio a Winchester e mi ascoltava non era il giovane comandante che avevo avuto di fronte dall'altra parte di un tavolo coperto da una mappa spiegata in Britannia minore, e neppure il Messaggero di Mitra che aveva cavalcato incontro a me attraverso il campo gelato. «Io non posso trattenerti» disse il re. «Non sei un mio ufficiale, sei solo mio figlio. Andrai dove desideri.» «Sono al tuo servizio. Tu lo sai. Ma adesso so in che modo posso servirti meglio. Parlavi l'altro giorno di mandare uno squadrone verso Caerleon. Chi va?» Egli abbassò gli occhi verso un foglio di carta. Un anno prima l'avrebbe
saputo senza guardare. «Prisco, Valente. Probabilmente Sidonio. Partono entro due giorni.» «Allora andrò con loro.» Mi guardò. A un tratto fu di nuovo l'antico Ambrogio di un tempo. «Una freccia che esce dal buio?» «Possiamo dire così. So che devo andare.» «Allora vai. E un giorno o l'altro, ritorna da me.» A questo punto, qualcuno ci interruppe. Quando lo lasciai, si stava già inoltrando, una parola dopo l'altra, in qualche laborioso abbozzo dei nuovi statuti per la città. Sette La strada da Winchester a Caerleon era una buona strada, il tempo era bello e asciutto, perciò non ci fermammo a Sarum ma continuammo verso nord finché durava la luce, attraversando direttamente la Grande Pianura. Poco oltre Sarum è il luogo in cui è nato Ambrogio. Non posso neppure ricordare ora che nome avesse in tempi passati, ma già allora cominciavano a chiamarlo, da lui, Amberesburg, o Amesbury. Non ero mai passato di li e avevo intenzione di vederlo, perciò ci affrettammo e arrivammo proprio prima del tramonto. Io, insieme agli ufficiali, ricevetti una comoda sistemazione con il capo della città; questa era poco più di un villaggio, ma molto conscia, adesso, del suo rango di luogo natale del re. Non lontano di lì era il punto in cui, molti anni prima, un centinaio o più di nobili britannici erano stati proditoriamente massacrati dai sassoni e sepolti in una fossa comune. Questo punto è un po' a ovest di Amesbury, oltre quell'anello di pietre che chiamano la Danza dei giganti, o la Danza delle pietre pendenti. Da un pezzo avevo sentito parlare della Danza ed ero curioso di vederla, perciò quando lo squadrone giunse ad Amesbury, e si preparava a sistemarsi per la notte, mi scusai con il mio ospite e uscii solo a cavallo verso occidente nell'aperta pianura. Qui, per miglia e miglia, si stende la lunga pianura, senza una collina o una valle, interrotta solo da cespugli di biancospini e di ginestrone e, qua e là, da una quercia solitaria spogliata dai venti. Il sole tramonta tardi e quella sera, mentre cavalcavo lentamente verso occidente il mio cavallo stanco, il cielo sopra di me era ancora illuminato dagli ultimi raggi, mentre dietro di me, verso est, le nuvole della sera si accalcavano, di un azzurro ardesia, e spuntava una prima stella.
Credo mi fossi aspettato la Danza molto meno suggestiva degli eserciti di pietre in file ordinate cui mi ero abituato in Bretagna, qualcosa, forse, sulla scala dell'anello nell'isola dei druidi. Ma queste pietre erano enormi, più grandi di quante ne avessi mai viste; e il fatto stesso che fossero cosi isolate, erette al centro di quell'immensa pianura desolata, colpiva il cuore di timore riverenziale. Andai in giro un po' a cavallo, lentamente, guardando, poi smontai e lasciando il mio cavallo pascolare mi diressi davanti a me, tra due pietre erette dell'anello esterno. La mia ombra, proiettata davanti a me tra le loro ombre, era minuscola, una cosa da pigmeo. Involontariamente mi arrestai, come se i giganti avessero unito le mani per fermarmi. Ambrogio mi aveva chiesto se quella era «una freccia che esce dal buio». Gli avevo risposto di sì, ed era vero, ma mi restava da scoprire perché fossi stato portato qui. Tutto quello che sapevo era che, adesso che ero qui, desideravo non esserci. Avevo provato un po' la stessa cosa in Bretagna, la prima volta che ero passato tra i viali di pietre; un soffio sulla nuca, come se qualcosa di più antico del tempo mi guardasse da dietro le spalle; ma qui non era proprio la stessa cosa. Era come se il terreno, le pietre che toccavo, benché ancora caldi per il sole primaverile, emanassero freddo da chissà quale profondità sottostante. Un po' riluttante, continuai ad avanzare. La luce calava rapidamente, e bisognava stare attenti per trovare la strada verso il centro. Il tempo e gli elementi, e forse gli dei della guerra, avevano compiuto l'opera loro, e molte delle pietre erano cadute a terra alla rinfusa, ma si poteva ancora scorgere la disposizione originale. Era un anello, ma non assomigliava a niente che io avessi visto in Bretagna, a niente che io avessi mai visto. C'era stato, in origine, un anello esterno di quelle immense pietre, e dove ancora rimaneva eretto un semicerchio vidi che i montanti erano coronati da un architrave continuo di pietre grandi come quelli, una grande curva di pietra ininterrotta, eretta come una siepe di giganti attraverso il cielo. Qua e là, altre pietre dell'anello esterno erano ancora in piedi, ma per la maggior parte erano cadute, o inclinate formando angoli sghembi, con le pietre dell'architrave sparse intorno sul terreno. Dentro l'anello più grande ce n'era uno più piccolo di montanti, e alcuni dei giganti esterni erano caduti contro questi facendoli a loro volta cadere. Ancora all'interno, a segnare il centro, pietre enormi a ferro di cavallo, sormontate a due a due da un architrave. Tre di questi triliti erano in piedi intatti; il quarto era caduto, trascinando con sé il suo vicino. Sullo stesso modello c'era di nuovo un ferro
di cavallo ancora più interno, di pietre più piccole, quasi tutte in piedi. Il centro era vuoto, attraversato dalle ombre. Il sole era sparito, e il cielo a occidente si prosciugava di colore, lasciando una stella lucente in un mare fluido di verde. Io rimanevo immobile. Tutto era silenzio, un silenzio tale che potevo sentire il rumore del mio cavallo che brucava l'erba, e il lieve tintinnio del suo morso mentre si muoveva. A parte questo, l'unico rumore che si sentiva era il cinguettio degli storni che nidificavano tra i grandi triliti che ci sovrastavano. Lo storno è un uccello sacro ai druidi, e avevo sentito che in passato la Danza era stata usata per il culto dai preti druidi. Ci sono molte storie a proposito della Danza, su come le pietre furono portate dall'Africa ed erette da giganti dell'antichità, o sul fatto che fossero i giganti stessi, presi e trasformati in pietre da una maledizione mentre danzavano in cerchio. Ma non erano i giganti né le maledizioni che adesso alitavano freddo dalla terra e dalle pietre; quelle pietre erano state messe li da uomini, e il loro innalzamento era stato cantato dai poeti, come il vecchio cieco in Bretagna. Una striscia di luce che indugiava colpì la pietra vicino a me; l'immensa protuberanza di pietra sulla superficie di arenaria corrispondeva al buco nell'architrave caduto lì accosto. Questi tenoni e queste cavità erano stati foggiati da uomini, artigiani come io avevo osservato quasi ogni giorno negli ultimi anni, in Britannia minore, poi a York, Londra, Winchester. E massicci come erano, con quell'aspetto di creazione di giganti, erano stati innalzati da mani di operai, all'ordine di ingegneri, e al suono di una musica come quella che avevo ascoltato dal cieco cantore di Kerrec. Avanzai lentamente fino in mezzo all'anello. La debole luce nel cielo di occidente proiettava la mia ombra, obliqua, davanti a me, e incideva per un attimo nella luce passeggera, la forma di un'ascia, a due teste, su una delle pietre. Esitai, poi mi voltai a guardare. La mia ombra si agitò e si abbassò. Misi il piede in una buca poco profonda e caddi, lungo disteso. Era solo un abbassamento del terreno, come poteva esser stato prodotto, in passato, dalla caduta di una delle grandi pietre. Oppure da una tomba... Non c'era una pietra di quelle dimensioni, lì vicino, né segni di scavo, e nessuno che fosse stato sepolto lì. L'erba era liscia, brucata da pecore e mucche e sotto le mie mani, mentre lentamente mi rialzavo, erano le corolle profumate e increspate delle margheritine. Ma, disteso per terra, avevo sentito il freddo colpirmi da sotto, con una fitta improvvisa come quella di una freccia, e avevo capito che quello era il motivo per cui ero stato portato lì.
Presi il mio cavallo, montai in sella e ripercorsi le due miglia che mi separavano dal luogo natale di mio padre. Arrivammo a Caerleon quattro giorni dopo e la trovammo completamente cambiata. Ambrogio intendeva usarla come una delle sue tre basi più importanti, insieme a Londra e a York, e Tremorino in persona ci aveva lavorato. Le mura erano state ricostruite, il ponte riparato, il fiume dragato e gli argini rafforzati, e tutto il complesso est di caserme ricostruito. In passato, il quartiere militare a Caerleon, chiuso tra le basse colline e protetto da un'ansa del fiume, era stato molto esteso; adesso non occorreva che fosse neanche la metà, perciò Tremorino aveva buttato giù quel che rimaneva dei complessi ovest di caserme e aveva usato il materiale per costruire i nuovi alloggiamenti, i bagni e qualche cucina nuova di zecca. Le vecchie erano, prima, in condizioni ancora peggiori dell'edificio dei bagni a Maridunum e adesso: «Tutti gli uomini in Britannia chiederanno di venir dislocati qui» dissi a Tremorino, e lui parve contento. «Non saremo pronti neppure un momento troppo presto» disse lui. «Ci sono voci di guai in arrivo. Hai saputo niente?» «Niente. Ma se si tratta di notizie recenti non avrei potuto. Siamo stati in viaggio quasi una settimana. Che genere di guai? Di certo, non sarà di nuovo Octa?» «No, Pascenzio.» Era questi il fratello di Vortimer, che aveva combattuto con lui nella rivolta ed era fuggito verso nord dopo la morte di Vortimer. «Sapevi che si era imbarcato per la Germania? Dicono che tornerà.» «Dagli tempo,» dissi io «puoi star certo che lo farà. Be', mi manderai tutte le notizie che arrivano?» «Mandarti? Non rimani qui?» «No. Proseguo per Maridunum. È casa mia, sai.» «L'avevo dimenticato. Be', forse ci rivedremo; anch'io mi fermo qui un po' di più... abbiamo cominciato a lavorare per la chiesa adesso.» Rise. «Il vescovo mi tormenta come un tafano; pare che avrei dovuto pensarci prima di dedicare tanto tempo a cose di questa terra. E si parla, anche, di erigere qualcosa come un monumento alle vittorie del re. Un arco di trionfo, dicono alcuni, secondo il vecchio stile romano. Naturalmente qui a Caerleon dicono che dovremmo costruire la chiesa per questo: la gloria di Dio e in aggiunta Ambrogio. Benché personalmente io pensi che se c'è un vescovo che dovrebbe avere il credito della gloria di Dio e di quella del re messe insieme, questo dovrebbe essere quello di Gloucester... il vecchio Eldad ha
combattuto con i migliori. L'hai visto?» «L'ho sentito.» Rise. «Be', comunque, stanotte ti fermi, spero. Vieni a cena con me.» «Grazie. Volentieri.» Parlammo fino a tardi quella notte, ed egli mi mostrò alcuni dei suoi progetti e disegni e parve molto desideroso, in modo addirittura lusinghiero, che io tornassi da Maridunum per vedere le varie fasi dei lavori. Promisi e il giorno dopo partì solo da Caerleon, eludendo la preghiera ugualmente lusinghiera e pressante, del comandante in campo, di permettergli di darmi una scorta. Ma rifiutai e alla fine del pomeriggio giunsi, solo, finalmente in vista delle mie colline. C'erano nuvole di pioggia che si ammassavano a occidente, ma davanti a quelle, come un velo luminoso, i raggi obliqui del sole. In una giornata come quella si poteva capire perché le verdi colline gallesi fossero state chiamate Montagne Nere, e le valli che le attraversavano Valli dell'Oro. Tra gli alberi delle valli dorate filtravano strisce di sole, e dietro di loro spiccavano le colline, azzurro ardesia o nere, con le cime che sostenevano il cielo. Mi ci vollero due giorni per il viaggio, andando comodamente e notando, strada facendo, come la terra sembrasse già ritornata in pieno alla pace. Un contadino che costruiva un muricciolo sì e no mi guardò mentre gli passavo accanto a cavallo, e una ragazza che badava a un gregge di pecore mi sorrise. E quando arrivai al mulino sul Tywy, mi parve che funzionasse normalmente; c'erano sacchi di granaglie ammucchiati nel cortile e percepii il rumore regolare della ruota che girava. Superai il fondo del sentiero che salendo portava alla grotta e continuai senza fermarmi verso la città. Credo mi dissi che il mio primo dovere e interesse era recarmi al convento di San Pietro e informarmi sulla morte di mia madre, e vedere il luogo in cui era sepolta. Ma quando scesi dal cavallo alla porta del convento e alzai una mano verso la campana, seppi dai battiti del mio cuore che avevo mentito a me stesso. Avrei potuto risparmiarmi quell'inganno; fu la vecchia portiera a farmi entrare e a condurmi direttamente, senza che glielo chiedessi, attraverso il cortile interno e lungo il verde pendio fin vicino al fiume dove mia madre era sepolta. Era un bel posto, un appezzamento verde vicino al muro dove il caldo aveva indotto i peri a una precoce fioritura e dove, sopra il loro candore, le colombe bianche che essa aveva amato gonfiavano il petto al sole. Potevo sentire il mormorio del fiume oltre il muro e attraverso lo stormire degli alberi lo squillo della campana nella cappella.
La badessa mi ricevette con gentilezza, ma non aveva niente da aggiungere al resoconto che avevo ricevuto subito dopo la morte di mia madre e che avevo trasmesso a mio padre. Lasciai del denaro per le preghiere e perché facessero fare una lapide scolpita, e quando me ne andai nella mia borsa da sella era riposta la croce d'argento con le ametiste. Una domanda non osai farla, anche quando una ragazza che non era Keri portò del vino e me lo offrì. E alla fine, con la mia domanda non formulata, fui ricondotto alla porta che dava sulla strada. Qui pensai un attimo che la mia fortuna fosse cambiata, perché mentre stavo sciogliendo le redini del cavallo dall'anello accanto alla porta vidi la vecchia portiera che mi sbirciava attraverso l'inferriata... certo ricordando l'oro che le avevo dato in occasione della mia prima visita. Ma quando, mostrando il denaro, le feci cenno di avvicinarsi per gridarle la mia domanda nell'orecchio e finalmente, dopo averla ripetuta tre volte, riuscii a farmi sentire, l'unica risposta fu una scrollata di spalle e quella parola, «Partita», che, anche ammesso che lei mi avesse capito, poco poteva aiutarmi. Alla fine ci rinunciai. Comunque, mi dissi, era una cosa da dimenticare. Perciò, sempre a cavallo, uscii dalla città e ripercorsi le miglia che mi separavano dalla mia valle, con il ricordo del viso di lei inciso in ogni cosa che vedevo, e l'oro dei suoi capelli in ogni raggio di quel sole obliquo. Cadal aveva ricostruito il recinto che Galapas e io avevamo fatto nel boschetto di biancospino. Adesso aveva un buon tetto e una porta robusta, e poteva facilmente ospitare un paio di grossi cavalli. Uno, quello di Cadal, immaginai, già ce n'era. Anche Cadal doveva avermi sentito risalire la valle perché, quasi prima che smontassi, scese correndo il sentiero prèsso la cresta rocciosa, mi prese le briglie dalla mano e, alzando tutt'e due le mie mani nella sua, le baciò. «Be', che succede?» chiesi sorpreso. Non doveva aver avuto paura per la mia incolumità, i messaggi che gli avevo mandato erano stati regolari e rassicuranti. «Non hai ricevuto il messaggio che stavo arrivando?» «Sì, l'ho ricevuto. È stato molto tempo fa. Hai un bell'aspetto.» «Anche tu. Tutto bene qui?» «Vedrai da te. Se devi vivere in un posto come questo, c'è modo e modo di metterlo a posto. Adesso vai su, la tua cena è pronta.» Si chinò a sciogliere le cinghie del cavallo, lasciandomi salire da solo fino alla grotta. Aveva avuto molto tempo per farlo, ma anche così ne provai un colpo, come per un miracolo. Era com'era sempre stato, un luogo di erba verde e di sole. Margheritine e viole del pensiero costellavano il tappeto erboso tra
le verdi volute delle giovani felci e piccoli conigli guizzando si nascondevano sotto i prugnoli in fiore. La fonte scorreva limpida come cristallo, e chiaramente attraverso l'acqua si poteva vedere la ghiaia argentea sul fondo. Sopra, nella sua nicchia coperta di felci, era la figura scolpita del dio; Cadal doveva averla trovata ripulendo la fonte dai rottami. Aveva trovato anche la coppa di corno. Adesso era dov'era sempre stata. La usai per bere, versai le gocce per il dio ed entrai nella grotta. I miei libri erano venuti dalla Britannia minore; la grande cassa era addossata alla parete della grotta, là dov'era stata quella di Galapas. Dov'era stato il suo tavolo adesso ce n'era un altro, che riconobbi perché proveniva dalla casa di mio nonno. Lo specchio di bronzo era stato rimesso al suo posto. La grotta era pulita, profumata e asciutta. Cadal aveva costruito un focolare di pietra, e in esso c'erano ceppi pronti a essere accesi. Quasi mi aspettavo di vedere Galapas seduto accanto al focolare e, sulla sporgenza sopra l'ingresso, il falcone che era stato appollaiato lì la notte in cui un ragazzino aveva lasciato la grotta in lagrime. Immersa nell'ombra sopra la sporgenza sul retro era l'incisione d'ombra più profonda che nascondeva la grotta di cristallo. Quella notte, sul mio letto di felci con le coperte intorno a me, rimasi disteso ad ascoltare, dopo che il fuoco si fu spento, lo stormire delle foglie fuori della grotta e, oltre quello, il gorgoglio della fonte. Erano gli unici rumori al mondo. Chiusi gli occhi e dormii come non avevo più dormito da quando ero bambino. Otto Come un ubriacone che, finché non c'è vino a disposizione, si crede guarito dal vizio, mi ero creduto guarito della sete di silenzio e di solitudine. Ma fin dal primo mattino in cui mi svegliai a Bryn Myrddin, seppi che quello non era solo un rifugio; era il mio posto. Aprile si dilungò in maggio e i cuculi lanciavano i loro richiami da una collina all'altra, le campanule si aprivano fra le giovani felci e le sere erano piene del belato degli agnelli, ma io ancora non mi ero mai spinto, per avvicinarmi alla città, oltre la cresta di una collina, due miglia a nord, dove raccoglievo foglie e crescione. Cadal scendeva ogni giorno per i rifornimenti e anche per sentire le notizie, e due volte un messaggero risalì la valle, una volta con un fascio di disegni, da parte di Tremorino, l'altra con notizie da Winchester e soldi, da parte di mio padre niente lettera, ma la conferma che Pascenzio
stava ammassando truppe in Germania e che di sicuro ci sarebbe stata la guerra prima della fine dell'estate. Per il resto, leggevo, passeggiavo sulle colline, raccoglievo piante e preparavo medicine. Facevo anche musica, e scrissi una quantità di canzoni che facevano sollevare gli occhi a Cadal dal suo lavoro, guardarmi di traverso e scuotere la testa. Alcune di quelle canzoni si cantano ancora, ma la maggior parte di esse sono giustamente dimenticate. Tra quelle ormai dimenticate c'era questa che cantai una sera di maggio, mentre le campanule da grigie diventavano azzurre tra le felci. La terra è grigia e spoglia, gli alberi nudi come ossi, La loro estate strappata da loro; la chioma del salice, La bellezza dell'acqua azzurra, le erbe dorate, Anche il fischio dell'uccello è stato rubato, Rubato da una fanciulla, rapito da una fanciulla flessibile come il salice. Gaia essa è come l'uccello sull'albero di maggio, Dolce essa è come la campana nel campanile, E danza sui flessibili giunchi E i suoi passi scintillano sull'erba grigia. Un dono vorrei farle, regina delle fanciulle, Ma che cosa è rimasto che a lei si possa dare nella mia valle nuda? Voci di vento nel canneto, un gioiello di pioggia E pelliccia di muschio sulla fredda pietra? Cosa è rimasto qui che a lei si possa dare oltre il muschio sulla pietra? Chiude gli occhi e nel sonno si allontana da me. Il giorno dopo mi aggiravo in una valle boscosa a un miglio da casa in cerca di menta selvatica e di assenzio quando, come se l'avessi chiamata, essa spuntò sul sentiero tra le felci e le campanule. Per quanto ne so io, può darsi che l'abbia chiamata. Una freccia è una freccia, qualunque sia il dio che la lancia. Rimasi fermo vicino a un ciuffo di betulle, fissandola come se potesse svanire; come se davvero io l'avessi evocata in quel momento dal sogno e
dal desiderio, un fantasma alla luce del sole. Non potevo spostarmi, benché tutto il mio corpo e il mio spirito paressero balzarle subito incontro. Essa mi vide, e il sorriso le spuntò sulla faccia, e con passo leggero si avvicinò a me. Nella scacchiera di luce e ombra che danzava seguendo i movimenti dei rami della betulla, pareva ancora incorporea, come se i suoi passi non muovessero l'erba, ma poi arrivò più vicina e non era una visione, ma Keri quale io la ricordavo, vestita di una rozza stoffa marrone e profumata di caprifoglio. Adesso, però, non aveva il cappuccio; i capelli erano sciolti sulle spalle e i piedi scalzi. Il sole, guizzando tra le foglie che si muovevano, fece scintillare i suoi capelli come luce sull'acqua. Le sue mani erano piene di campanule. «Mio signore!» La piccola voce ansimante era colma di piacere. Io rimasi fermo, avvolto in tutta la mia dignità come in un manto, e sotto di quello il mio corpo era inquieto come un cavallo che sente freno e sperone nello stesso tempo. Mi domandai se mi avrebbe di nuovo baciato la mano, e che cosa avrei fatto in questo caso. «Keri! Che cosa fai qui?» «Be', raccolgo le campanule.» Tutta l'innocenza del suo sguardo spogliò le parole di insolenza. Le teneva alte, e dietro quello schermo rideva di me. Dio sa che cosa poteva vedere sul mio viso. No, non aveva intenzione di baciarmi la mano. «Non sapevi che avevo lasciato San Pietro?» «Si, me l'hanno detto. Pensavo che fossi andata in qualche altro convento.» «No, questo mai. Lo odiavo. Era come essere in gabbia. Ad alcune piaceva, le faceva sentire al sicuro, ma a me no. Io non ero fatta per quel genere di vita.» «Tentarono di fare lo stesso a me, una volta» dissi io. «Scappasti anche tu?» «Ah, certo. Ma scappai prima che mi rinchiudessero. Dove vivi adesso, Keri?» Essa non parve sentire la domanda. «Neanche tu eri nato per questo? Per essere in catene, voglio dire.» «In quelle catene no.» Vidi che stava tentando di capire la mia risposta, ma io stesso non ero certo di che cosa avessi voluto dire, perciò tacqui, guardandola senza pensare, sentendo solo l'intensa felicità del momento. «Mi è dispiaciuto per tua madre» disse lei. «Grazie, Keri.» «È morta appena sei partito. Ti hanno raccontato, vero?»
«Si. Sono andato al convento appena tornato a Maridunum.» Tacque per un momento, con gli occhi bassi. Puntò verso il basso il piede nudo, accennando a un timido movimento di danza che fece tintinnare le mele d'oro alla sua cintura. «Lo sapevo che eri tornato. Ne parlano tutti.» «Davvero?» Annuì. «In città mi hanno detto che eri un principe e anche un grande mago...» A questo punto alzò gli occhi, e la voce le morì nel dubbio, mentre mi guardava. Io indossavo i miei vestiti più vecchi, una tunica con macchie d'erba che neppure Cadal riusciva a far sparire, e il mio mantello era costellato di piccoli cardi e strappato da spine e da rovi. I miei sandali erano di grossa tela come quelli di uno schiavo; era inutile portare sandali di pelle nell'erba alta e bagnata. Anche paragonato con il giovane pur semplicemente vestito che essa aveva conosciuto, dovevo sembrare un mendicante. Chiese, con la franchezza dell'innocenza: «Sei ancora un principe, adesso che tua madre se n'è andata?». «Sì. Mio padre è il Sommo re.» Aprì le labbra. «Tuo padre? Il re? Non lo sapevo. Nessuno l'ha detto.» «Non molti lo sanno. Ma adesso che mia madre è morta, non ha importanza. Sì, sono suo figlio.» «Il figlio del Sommo re...» Lo disse in un sussurro, con riverenza. «E anche un mago. Io so che è vero.» «Sì, è vero.» «Una volta mi dicesti che non lo eri.» Sorrisi. «Ti dissi che non potevo guarirti dal mal di denti.» «Ma mi guaristi.» «Tu lo dicesti. Io non ti credetti.» «Il tuo tocco guarirebbe qualsiasi cosa» disse lei, e si avvicinò a me. La scollatura della sua veste era allentata. La sua gola era pallida come caprifoglio. Sentivo il suo profumo e il profumo delle campanule, e il succo dolceamaro dei fiori schiacciati tra noi. Tesi una mano e tirai la scollatura, e di colpo il laccio che la chiudeva si ruppe. I suoi seni erano rotondi e pieni e più morbidi di qualsiasi cosa avessi mai immaginato. Si gonfiavano nelle mie mani come il petto delle colombe di mia madre. Credo mi fossi aspettato che lei gridasse e mi respingesse, ma lei si strinse a me, e rise e alzò le mani a circondarmi la testa, affondò le dita tra i miei capelli e mi morse sulla bocca. Poi, a un tratto, lasciò pesare su di me tutto il suo peso, in modo che, mentre mi tendevo per tenerla e precipitavo goffamente
nel bacio, inciampai in avanti e caddi con lei sotto di me e i fiori che nella caduta si sparpagliarono intorno a noi. Mi ci volle un bel po' per capire. Dapprima furono risa e respiro irregolare e tutto quello che infiamma l'immaginazione di notte, ma ancora contenuto, per via della sua esilità e di quei leggeri suoni che essa emetteva quando le facevo male. Era sottile come un giunco ma morbida e avresti pensato che questo mi avrebbe fatto sentire padrone del mondo, ma poi a un tratto lei emise un suono profondo, di gola, come se soffocasse, e si contorse nelle mie braccia come avevo visto un moribondo contorcersi nel dolore, e la sua bocca diventò qualcosa che colpiva e si saldò alla mia. A un tratto, ero io che soffocavo; le sue braccia mi trascinavano, la sua bocca mi assorbì, il suo corpo mi tirò in quella stretta oscurità finale, senza aria, senza luce, senza respiro, senza il minimo sussurro dello spirito vigilante. Una tomba nella tomba. La paura penetrò bruciante nel mio cervello come una lama incandescente conficcata negli occhi. Li aprii e non riuscii a vedere altro che la luce che ruotava e l'ombra di un albero su di me, un albero le cui spine laceravano come lance. Una sorta di terrore mi artigliò il viso. L'ombra del biancospino si dilatò e tremò, l'ingresso della caverna si spalancò e le mura pulsarono, schiacciandomi. Lottai per uscire, fuori, mi strappai via e rotolai lontano da lei, sudando di paura e di vergogna. «Che succede?» Anche la sua voce suonava cieca. Le sue mani ancora si muovevano nello spazio di aria in cui ero stato io. «Scusami, Keri. Scusami.» «Che vuoi dire? Che è successo?» Voltò la testa, in un turbine d'oro. I suoi occhi erano strettì e annuvolati. Tese la mano verso di me. «Oh, se è tutto qui, vieni. È tutto a posto, ti mostrerò io, basta che tu venga.» «No.» Tentai di respingerla, dolcemente, ma tremavo. «No, Keri. Lasciami. No.» «Che succede?» Improvvisamente i suoi occhi si spalancarono. Essa si sollevò appoggiandosi sul gomito. «Be', credo che tu non l'abbia fatto mai, ancora. È vero? È vero?» Non parlai. Lei fece una risata che doveva suonare allegra, ma risultò stridula. Si rivoltò di nuovo e tese le mani. «Be', non importa, puoi imparare, no? Sei un uomo, dopo tutto. Per lo meno, credevo che tu lo fossi...» Poi improvvisamente, in un parossismo d'impazienza: «Oh, per amor di Dio. Fai presto, puoi? Te lo dico io, andrà benissimo».
La presi per i polsi e la tenni ferma. «Keri, scusami. Non posso spiegarlo, ma questo è... Non devo, questo è tutto quello che so. No, ascolta, dammi un minuto.» «Lasciami andare!» La lasciai e lei si staccò e si sedette. Aveva gli occhi colmi d'ira. C'erano fiori tra i suoi capelli. Dissi: «Tu non c'entri, Keri, non pensare questo. Non ha niente a che vedere con te...». «Non sono abbastanza per te; è questo? Perché mia madre era una puttana?» «Davvero? Neanche lo sapevo.» A un tratto mi sentii immensamente stanco. Dissi cauto: «Ti ho detto che questo non aveva niente a che vedere con te. Tu sei molto bella, Keri, e dal primo momento che ti ho vista ho provato... devi saperlo che cosa ho provato. Ma questo non ha niente a che fare con il sentimento. È qualcosa che è tra me e... è qualcosa che ha a che fare con il mio...» Mi fermai. Era inutile. Gli occhi di lei mi guardavano, brillanti e senza vedermi, poi essa si voltò agitandosi un po' e cominciò a rassettarsi la veste. Invece di "potere" dissi: «...qualcosa che ha a che fare con la mia magia». «Magia.» Le sue labbra erano spinte in fuori come quelle di un bambino che si è fatto male. Essa si legò stretta la cintura, dando un piccolo strappo, poi cominciò a raccogliere le campanule cadute ripetendo sprezzante: «Magia. Pensi che io ci creda alla tua stupida magia? Pensi davvero che avessi mal di denti, quella volta?». «Non lo so» dissi io stancamente. Mi alzai. «Be', può darsi che per essere mago non hai bisogno di essere uomo. Dopo tutto, avresti dovuto andare in quel convento.» «Forse.» Un fiore era impigliato nei suoi capelli, ed essa alzò una mano per strapparlo. La peluria delicata scintillò al sole come ragnatela. I miei occhi colsero il segno azzurrognolo di un livido sul suo polso. «Stai bene? Ti ho fatto male?» Non rispose e neppure alzò gli occhi, e io voltai la testa. «Bene, arrivederci, Keri.» Avevo fatto forse sei passi quando la sua voce mi fermò. «Principe...» Mi voltai. «Questa è la tua risposta?» disse lei. «Sono sorpresa. Figlio del Sommo re, dici di essere e non mi lasci neppure una moneta d'argento per ripagarmi la veste?»
Credo che rimasi a fissarla come un sonnambulo. Essa lanciò di nuovo sulle spalle i capelli d'oro e mi rise in faccia. Come un cieco, tastai nella borsa che avevo alla cintura e ne estrassi una moneta. Era d'oro. Feci di nuovo un passo verso di lei per dargliela. Lei si chinò in avanti, sempre ridendo, con le mani tese, incavate come quelle di un mendicante. La veste lacerata pendeva giù dalla bella gola. Lanciai a terra la moneta e di corsa mi allontanai da lei, su attraverso il bosco. La sua risata mi seguì finché non fui al di là della cresta rocciosa, in fondo al declivio, buttato a pancia sotto sulla riva del torrente, per annegare il contatto e il profumo di lei nell'impeto dell'acqua montana che odorava di neve. Nove In giugno Ambrogio venne a Caerleon, e mi mandò a cercare. Mi misi in viaggio, a cavallo, da solo, arrivando una sera un bel po' dopo l'ora della cena, quando le luci erano state accese e il campo era tranquillo. Il re era ancora al lavoro; vidi la luce uscire dal quartier generale e brillare sullo stendardo del drago, all'esterno. Ero ancora a una certa distanza quando udii il rumore di un saluto militare e vidi uscire di lì una figura alta nella quale riconobbi Uther. Egli si diresse verso una porta di fronte a quella del re, ma già con il piede sul primo gradino mi vide, si fermò e tornò indietro. «Merlino. Così sei arrivato. Te la sei presa comoda, eh?» «La chiamata è stata affrettata. Se mi tocca andare all'estero, devo fare certe cose.» Lui rimase fermo. «Chi ha detto che ti tocca andare all'estero?» «La gente non parla d'altro. L'Irlanda, non è vero? Dicono che Pascenzio si è fatto alcuni alleati pericolosi da quella parte, e che Ambrogio vuole distruggerli in fretta. Ma perché io?» «Perché quello che vuole distruggere è la loro piazzaforte centrale. Hai mai sentito parlare di Killare?» «E chi non ne ha sentito parlare? Dicono che è una fortezza che non è mai stata espugnata.» «Allora dicono la verità. C'è un monte nel centro dell'Irlanda, e dicono che dalla vetta si può vedere ogni costa. E in cima c'è una fortezza, non fatta di terra e di palizzate, ma di dura pietra. «Capisco. Avete bisogno di macchine.»
«Abbiamo bisogno di macchine. Dobbiamo attaccare Killare. Se riusciamo a prenderla, puoi essere sicuro che non ci saranno guai da quella parte per i prossimi anni. Così faccio venire Tremorino, e Tremorino insiste per far venire te.» «A quanto capisco il re non viene.» «No. Adesso ti do la buona notte; ho faccende a cui badare, altrimenti ti farei entrare per aspettare. Lui ha il comandante del campo, ma non credo che ci starà molto.» A questo punto, mi disse un buona notte abbastanza affabile e salì di corsa i gradini che lo portavano al suo alloggio, chiamando forte il suo servo prima ancora di essere entrato. Quasi immediatamente, dalla porta del re giunse il rumore di un altro saluto militare e il comandante del campo uscì. Non vedendomi, si fermò a parlare con una delle sentinelle e io rimasi ad aspettare che avesse finito. Un movimento attrasse il mio sguardo, un'ombra furtiva che si spostava lungo uno stretto corridoio tra gli edifici davanti a quello dove mi trovavo, là dove era alloggiato Uther. Le sentinelle, occupate con il comandante, non avevano visto niente. Mi spostai dal cono di luce proiettata dalla torcia, guardando. Una figura esile, con mantello e cappuccio. Una ragazza. Arrivò all'angolo illuminato e si fermò, guardandosi intorno. Poi, con un gesto di discrezione più che di paura, si tirò il cappuccio più vicino al viso. Era un gesto che riconobbi, come riconobbi la scia di profumo rimasto nell'aria, simile a caprifoglio, e, sotto il cappuccio, la ciocca di capelli ricci, d'oro alla luce della torcia. Rimasi fermo. Mi domandavo perché mi avesse seguito fin lì, che cosa sperasse di ricavarne. Non credo che fosse vergogna quella che provavo, non ora, ma c'era del dolore, e credo ci fosse ancora desiderio. Esitai, poi feci un passo avanti e parlai. «Keri?» Ma lei non vi fece caso. Scivolò fuori dell'ombra e, rapida e leggera, corse su per i gradini che conducevano alla porta di Uther. Udii la sentinella intimarle di fermarsi, poi ci fu un sussurro e una sommessa risata da parte dell'uomo. Quando arrivai all'altezza della porta di Uther, questa era chiusa. Alla luce della torcia, vidi il sorriso che indugiava sul viso della sentinella. Ambrogio era ancora seduto al tavolo, e il suo servo ronzava intorno a lui nell'ombra.
Spinse da parte le sue carte e mi salutò. Il servo portò del vino e lo versò, poi si ritirò lasciandoci soli. Per un po' parlammo. Egli mi diede le notizie di quello che era successo dopo la mia partenza da Winchester; l'opera di costruzione che aveva fatto progressi e i suoi progetti per il futuro. Poi parlammo del lavoro di Tremorino a Caerleon e così arrivammo al discorso della guerra. Gli chiesi le ultime notizie di Pascenzio. «Perché» dissi «siamo rimasti per settimane ad aspettare di apprendere che è sbarcato nel nord e che sta saccheggiando il paese?» «Non è ancora successo. Anzi, se i miei progetti portano a qualche cosa, può darsi che non sentiamo più parlare di Pascenzio fino a primavera, e allora saremo più preparati. Se gli permettiamo di venire adesso, può benissimo rivelarsi più pericoloso di qualsiasi nemico contro cui io abbia combattuto.» «Ho sentito qualcosa in merito. Intendi parlare delle notizie dall'Irlanda?» «Sì. Le notizie dall'Irlanda sono cattive. Lo sai che hanno un giovane re, Gilloman? Una giovane meteora, mi dicono, impaziente di scendere in guerra. Bene, forse l'hai saputo, le notizie dicono che Pascenzio è impegnato con la sorella di Gilloman. Capisci che cosa può significare? Un simile matrimonio potrebbe mettere in pericolo il nord e l'occidente della Britannia.» «Pascenzio è in Irlanda? Sapevamo che era in Germania, e che cercava di raccogliere aiuti.» «Così è» disse lui. «Non posso avere informazioni precise sul numero, ma direi sono circa ventimila. E ancora non ho saputo che cosa hanno in animo lui e Gilloman.» Sollevò un sopracciglio verso di me, divertito. «Rilassati, ragazzo, non ti ho chiamato qui per farti predire qualche cosa. Ti sei spiegato benissimo a Kaerconan; son contento di aspettare, come te, il tuo dio.» Risi. «Lo so. Mi vuoi per quello che tu chiami vero lavoro.» «Proprio così. È questo. Non mi va di aspettare qui in Britannia mentre Irlanda e Germania radunano le forze e poi si abbatteranno insieme su entrambe le nostre coste come un temporale d'estate, incontrandosi in Britannia per sconfiggere il nord. La Britannia è in mezzo a loro, adesso, e può dividerli prima ancora che si uniscano per attaccarla.» «E tu prenderai per prima l'Irlanda?» «Gilloman» disse lui, annuendo. «È giovane e inesperto... ed è anche il
più vicino. Uther salperà per l'Irlanda prima della fine del mese.» C'era una mappa davanti a lui. Egli la girò in parte, in modo che potessi vedere. «Qui. Questo è il caposaldo di Gilloman; ne avrai sentito parlare, di certo. È una fortezza montuosa, chiamata Killare. Non ho trovato nessuno che l'abbia vista, ma mi dicono che ha robuste fortificazioni e che può esser difesa contro qualsiasi assalto. Mi dicono, in verità, che non è mai caduta. Ora, non possiamo permetterci di lasciare Uther davanti a questa fortezza per mesi, mentre Pascenzio entra dalla porta sul retro. Killare dev'essere presa alla svelta e non può, mi dicono, esser presa col fuoco.» «Davvero?» Avevo già notato che c'erano disegni miei sul tavolo, in mezzo alle mappe e ai piani. Egli disse, come se cambiasse discorso: «Tremorino parla molto bene di te.» «Molto gentile da parte sua.» Poi, cambiando a mia volta discorso: «Fuori ho incontrato Uther. Mi ha detto che cosa volevi». «Allora andrai con lui?» «Sono al tuo servizio, naturalmente. Ma, signore,» indicai i disegni «non ho fatto disegni nuovi. Tutto quello che ho progettato è già stato costruito qui. E se c'è tanta fretta...» «Questo no, no. Non ti chiedo niente di nuovo. Le macchine che abbiamo sono buone... e devono servire. Quello che abbiamo costruito adesso è pronto per essere imbarcato. Da te voglio qualcosa di più.» Tacque. «Killare, Merlino, è più di una piazzaforte, è un luogo sacro, il luogo sacro dei re d'Irlanda. Mi dicono che sulla cresta della collina si trova una Danza di pietra, un anello come ne conoscevi in Britannia. E a Killare, dicono, è il cuore dell'Irlanda e il luogo sacro del regno di Gilloman. Voglio che tu, Merlino, abbatta il luogo sacro e prenda il cuore dell'Irlanda.» Rimasi in silenzio. «Ne ho parlato con Tremorino» egli continuò «e lui mi ha detto che dovevo mandarti a chiamare. Andrai?» «Ti ho detto che andrò. Naturalmente.» Sorrise e mi ringraziò, come se lui non fosse il Sommo re e io un soggetto che ubbidivo a un suo ordine, come se fossi un suo pari che gli facevo un favore. Poi parlò ancora un poco di Killare, ciò che ne aveva sentito dire e quali preparativi pensava avremmo dovuto fare; finalmente si appoggiò allo schienale dicendo con un sorriso: «Una cosa mi dispiace. Sono in partenza per Maridunum e mi sarebbe piaciuto avere la tua compagnia, ma adesso non è il momento. Puoi affidarmi qualche messaggio che ti stia
a cuore». «Grazie, ma non ne ho. Anche se io fossi stato lì, non avrei osato offrirti l'ospitalità di una grotta.» «Mi piacerebbe vederla.» «Chiunque può indicartene la strada. Ma non è adatta a ricevere un re.» M'interruppi. Il suo viso era illuminato da un sorriso divertito che lo faceva parere più giovane di vent'anni. Deposi la mia coppa. «Sono uno sciocco. Avevo dimenticato.» «Che sei stato concepito lì? L'avevo pensato. Posso trovare la strada da solo, non temere.» Poi parlò dei suoi progetti. Sarebbe andato a Caerleon, «perché, se Pascenzio attacca» disse «sospetto che seguirà questa strada» tracciò col dito una linea sulla mappa «e io potrò prenderlo a sud di Carlisle. Il che ci porta a un altro argomento. C'è un'altra cosa che voglio discutere con te. L'ultima volta che sei passato da Caerleon andando a Maridunum in aprile, credo che tu abbia parlato con Tremorino, vero?» Aspettai. «A proposito di questo.» Sollevò un fascio di disegni, non miei, e me li passò attraverso il tavolo. Non erano del campo, né di qualsiasi costruzione avessi visto. C'era una chiesa, una grande sala, una torre. Li studiai alcuni minuti in silenzio. Per chissà quale ragione mi sentivo stanco, come se il mio cuore fosse troppo pesante per me. La lampada mandava fumo e si affievoliva, proiettando ombre che danzavano sulle carte. Ripresi animo e alzai lo sguardo su mio padre. «Capisco. Penso tu stia parlando del monumento commemorativo.» Egli sorrise. «Sono abbastanza romano da desiderare un monumento visibile.» Battei leggermente sui disegni. «E abbastanza britannico da volerlo britannico? Sì, ho saputo anche questo.» «Che cosa ti ha detto Tremorino?» «Che si pensava che si sarebbe dovuto erigere un monumento alle tue vittorie, e per commemorare il fatto che hai conseguito l'unità del regno. Sono stato d'accordo con Tremorino che costruire un arco di trionfo qui in Britannia sarebbe assurdo. Lui ha detto che alcuni uomini di chiesa volevano che fosse costruita una grande chiesa... il vescovo di Caerleon, per esempio, ne voleva una lì. Ma certo, signore, questo non andrebbe, vero? Se la costruisci a Caerleon, Londra e Winchester, per non parlare di York, penseranno che avrebbe dovuto essere da loro. Di tutte queste città, credo,
Winchester sarebbe la migliore. È la tua capitale.» «No. Io ho avuto un'idea. Quando ero in viaggio da Winchester verso nord, ho attraversato Amesbury...» A un tratto si chinò in avanti. «Che succede, Merlino? Stai male?» «No. È una notte calda, questo è tutto. Un temporale in arrivo, penso. Continua. Hai attraversato Amesbury.» «Sapevi che lì sono nato? Bene, mi è parso che erigere il monumento in un luogo simile potrebbe non suscitare lamentele... e per un'altra ragione è una buona scelta.» Corrugò la fronte. «Sei bianco come uno straccio, ragazzo. Sei sicuro di star bene?» «Perfettamente. Forse un po' stanco.» «Hai cenato? Sono stato uno sbadato a non chiedertelo.» «Ho mangiato strada facendo, grazie. Ho avuto tutto quello di cui avevo bisogno. Forse... ancora un po' di vino...» Cominciai ad alzarmi, ma prima che avessi completato il movimento lui era in piedi, si avvicinava al tavolo su cui si trovava la brocca e mi serviva personalmente. Mentre bevevo lui rimase dove si trovava, accanto a me, sedendosi poi sull'orlo del tavolo. Mi tornò in mente, in modo acuto, che proprio in quella posizione era stato quando l'avevo sorpreso, quella notte in Britannia. Ricordo che continuai a pensarci, e in pochi minuti fui in grado di sorridergli. «Sto benissimo, signore, davvero. Per favore, continua. Mi stavi per dire la seconda ragione per erigere il tuo monumento ad Amesbury.» «Forse sai che non lontano da li sono sepolti i britannici assassinati dal tradimento di Hengist. Mi sembra giusto - e credo che su questo punto nessuno vorrà dimostrarmi il contrario - che il monumento alla mia vittoria, alla creazione di un unico regno sotto un unico re, sia anche un monumento alla memoria di quei guerrieri.» Tacque un momento. «E poi tu potresti dire che c'è una terza ragione, più forte delle altre due.» Io dissi, senza guardarlo, ma con gli occhi fissi sulla coppa di vino, calmo: «Che ad Amesbury c'è già il più grande monumento della Britannia? Forse il più grande di tutto l'occidente?» «Già.» Era una sillaba che esprimeva profonda soddisfazione. «Perciò anche tu ragioni in questo modo? Hai visto la Danza dei giganti?» «Ci sono andato apposta da Amesbury, quando stavo tornando a casa da Winchester.» A questo punto egli si raddrizzò e contornando il tavolo tornò alla sua sedia. Si sedette, poi si chinò in avanti, appoggiando le mani sul tavolo.
«Allora sai come la penso. Hai visto abbastanza, vivendo in Britannia, da sapere com'era un tempo la Danza. E hai visto com'è adesso... un caos di pietre ciclopiche in un luogo solitario battuto dal sole e dai venti.» Aggiunse più lentamente, guardandomi: «Ne ho parlato con Tremorino. Dice che nessuna forza umana potrebbe rialzare quelle pietre». Sorrisi. «Perciò mi hai mandato a chiamare perché te le sollevassi?» «Tu sai che si dice non siano state alzate da uomini, ma mediante magia.» «Allora» dissi io «diranno certamente di nuovo la stessa cosa.» Egli strinse gli occhi. «Mi stai dicendo che puoi farlo?» «Perché no?» Rimase in silenzio, semplicemente aspettando. Dava la misura della sua fede in me il fatto che non sorridesse. Io dissi: «Ho sentito tutte le storie che raccontano, le stesse storie che raccontavano a proposito delle pietre erette in Britannia minore. Ma le pietre sono state messe li da uomini, signore, E quello che degli uomini hanno messo lì una volta, altri uomini possono mettercelo di nuovo». «Dunque, se non ho un mago, ho almeno un ingegnere capace?» «Appunto.» «Come farai?» «Per il momento, non lo so neanche a metà. Ma è stato fatto una volta e può essere fatto di nuovo.» «Allora tu lo farai per me, Merlino?» «Certo. Non ti ho detto che sono qui solo per servirti come meglio posso? Ricostruirò la Danza dei giganti per te, Ambrogio.» «Un simbolo potente per la Britannia.» Adesso parlava meditabondo, guardandosi le mani accigliato. «Sarò sepolto lì, Merlino, quando il mio tempo verrà. Quello che Vortigern voleva fare per la sua fortezza nelle tenebre, io lo farò per la mia nella luce; farò seppellire sotto le pietre il corpo del suo re, il guerriero sotto la soglia di tutta la Britannia.» Qualcuno doveva aver tirato le tende che chiudevano la porta. Le sentinelle non si vedevano, il campo era silenzioso. Gli stipiti di pietra e il pesante architrave che li sormontava facevano da cornice a una notte trapunta di stelle. Tutt'intorno a noi s'innalzavano immense ombre, pietre ciclopiche collegate come alberi intrecciati in cui mani che da molto tempo erano solo più ossa avevano inciso i simboli degli dei dell'aria, della terra e dell'acqua. Qualcuno stava parlando con voce calma; una voce di re; la voce di Ambrogio. Era un po' che parlava: indistintamente, come echi nel buio, la udi-
vo. «...e finché il re riposa li sotto la pietra il regno non cadrà. Per un periodo pari a quello in cui è stata eretta prima, e per un periodo anche più lungo, la Danza sarà di nuovo eretta, e la luce la colpirà dal cielo vivente. E io riporterò indietro la grande pietra perché stia sopra il luogo tombale, e quello sarà il cuore della Britannia, e d'ora in poi tutti i re saranno un unico re e tutti gli dei saranno un unico Dio. E tu vivrai di nuovo in Britannia, e per sempre, perché tu e io faremo un re il cui nome durerà finché sarà in piedi la Danza, e che sarà più di un simbolo, sarà uno scudo e una spada vivente.» Non era la voce del re; era la mia. Il re era ancora seduto dall'altro lato del tavolo coperto dalla mappa, le mani ferme e appoggiate aperte sulle carte, gli occhi scuri sotto le sopracciglia non aggrottate. In mezzo a noi la lampada si affievoliva, ondeggiando per la corrente che veniva da sotto la porta chiusa. Lo fissai, mentre la vista lentamente mi si schiariva. «Che cosa ho detto?» Scosse la testa, sorridendo, e tese la mano verso la brocca del vino. Io dissi, irritato: «Mi viene addosso come uno svenimento a una ragazza incinta. Scusami. Dimmi che cosa ho detto.» «Mi hai dato un regno. E mi hai dato l'immortalità. Che altro può esserci? Bevi, adesso, profeta di Ambrogio.» «Non vino. C'è acqua?» «Qui.» Si alzò in piedi. «E adesso devi andare a dormire, e lo stesso io. Parto di buon'ora per Maridunum. Sei sicuro di non voler mandare nessun messaggio?» «Di' a Cadal di darti la croce d'argento con le ametiste.» Ci guardammo, silenziosi per un momento. Ero quasi alto quanto lui. Lui disse, con dolcezza: «Perciò, adesso è arrivederci». «Come si dice arrivederci a un re che ha appena ricevuto l'immortalità?» Mi guardò in modo strano. «Ci vedremo ancora, perciò?» «Ci vedremo ancora, Ambrogio.» Fu allora che seppi che quello che gli avevo profetizzato era la sua morte. Dieci Killare, mi era stato detto, è una montagna proprio al centro dell'Irlanda.
Esistono in altre parti di quest'isola monti che, pur se meno alti di quelli del nostro paese, potrebbero ciò nonostante meritare tale nome. Ma Killare non è un monte. È una dolce collina a forma conica il cui punto più alto, immagino, non supera i trecento metri. Non è neppure coperta di boschi, solo rivestita di erbaccia, con qua e là un cespuglio di biancospini, o qualche quercia solitaria. Anche cosi, nella posizione in cui si trova, fa l'effetto di una montagna a quelli che si avvicinano, perché si erge solitaria, unica collina al centro di una estesa pianura. Ma non è vero che dalla cima si possono vedere le coste; si ha solo la vista interminabile da ogni parte di quel paese verde e dolce, sormontato da un tenero cielo nuvoloso. Anche l'aria è mite qui. Avemmo venti favorevoli e sbarcammo su una lunga spiaggia grigia in un dolce mattino estivo, con una brezza che soffiava da terra e odorava di tamarisco palustre, di ginestrone e di erba imbevuta di sale. I cigni selvatici incedevano sull'acqua con i giovani cigni e le pavoncelle, gridando, si rovesciavano sui prati dove i loro piccoli avevano il nido tra i giunchi. Non era il momento, né il paese, avresti detto, per la guerra. E in verità la guerra fu presto finita. Gilloman, il re, era giovane - dicevano non avesse più di diciott'anni - e non diede retta ai suoi consiglieri che avrebbero voluto aspettare il momento opportuno per fronteggiare il nostro attacco. Cosi coraggioso egli era che, appena gli giunse la notizia che truppe straniere erano sbarcate sul sacro suolo dell'Irlanda, il giovane re raccolse i suoi uomini e li lanciò contro le truppe ben addestrate di Uther. Lo scontro avvenne in una pianura, dove noi avevamo alle spalle una collina e loro un fiume. Le truppe di Uther sostennero il primo selvaggio, coraggioso attacco, senza perder terreno nemmeno di due passi; poi a loro volta avanzarono con fermezza, spingendo nell'acqua gli irlandesi. Fortunatamente per loro, si trattava di un fiume largo e poco profondo, e benché quella sera fosse diventato rosso, molte centinaia di irlandesi scamparono. Il re Gilloman fu tra questi, e quando ci raggiunse la notizia che era fuggito a ovest con un pugno di fedeli, Uther, indovinando che si sarebbe diretto a Killare, lo fece inseguire da un migliaio di uomini a cavallo, raccomandando loro di prenderlo prima che raggiungesse la porta della fortezza. Essi riuscirono a fare esattamente così, risalendo con lui fino a meno di mezzo miglio dalla roccaforte, proprio ai piedi della collina, da dove già si vedevano le mura. La seconda battaglia fu breve ma più sanguinosa della prima. Ebbe luogo di notte, e nella confusione della mischia, Gilloman riuscì di nuovo a
sfuggire, e si allontanò al galoppo con un piccolo gruppo di uomini, senza che questa volta nessuno sapesse dov'era diretto. Ma ormai era fatta; quando noi, il corpo principale dell'esercito, arrivammo ai piedi di Killare, le truppe britanniche già ne avevano preso possesso, e le porte erano aperte. Si sono dette moltissime sciocchezze a proposito di quel che avvenne poi. Io stesso ho udito alcune delle canzoni composte per l'avvenimento, e ho anche letto un resoconto che era stato elaborato in un libro. Ambrogio era stato informato male. Killare non era una costruzione fatta di enormi pietre; cioè, le fortificazioni esterne erano come al solito composte da terrapieni e palizzate dietro un largo fossato, e dentro c'era un secondo fossato, profondo, con infisse delle punte. La fortezza centrale aveva certo, mura di pietra, e le pietre erano grosse, ma niente che una squadra di normali operai, con l'attrezzatura adatta, non potesse facilmente maneggiare. Dentro le mura della fortezza c'erano case per la maggior parte di legno, ma pure alcune fortificazioni sotterranee, come ne abbiamo anche noi in Britannia. Più in alto ancora c'era il recinto interno, un muro che correva intorno alla cresta della collina come una corona posata sulla fronte di un re. E dentro a questo muro, proprio al centro e sulla sommità della collina, era il luogo sacro. Qui si ergeva la Danza, l'anello di pietre che si diceva contenesse il cuore dell'Irlanda. Non era da paragonare con la Grande Danza di Amesbury, essendo solo un anello di pietre non collegate tra loro, ma era abbastanza impressionante, e rimaneva solido con la maggior parte dell'anello intatto e due montanti sormontati da un architrave al centro, dove altre pietre erano a terra, apparentemente senza un preciso disegno, nell'erba alta. Vi arrivai, da solo, quella stessa sera. I fianchi della collina erano animati dall'agitazione e dal frastuono, che conoscevo cosi bene da Kaerconan, dell'esito della battaglia. Ma quando oltrepassai il muro che cingeva il luogo sacro e mi avviai verso la cresta della collina, fu come lasciare una sala piena di trambusto per la quiete di una stanza in cima a una torre. I rumori si allontanavano sotto le mura, e mentre camminavo nell'alta erba dell'estate il silenzio era quasi completo e io ero solo. Una luna rotonda era bassa nel cielo, ancora pallida e macchiata d'ombra e sottile sull'orlo come una moneta consunta. C'erano tante piccole stelle sparpagliate, con qua e là le stelle guida che le riunivano, e di fronte dalla parte opposta alla luna un'unica grande stella, che mandava una luce bianca. Le ombre erano lunghe e leggere sulle erbe cariche di semi. C'era una grande pietra solitaria, eretta ma leggermente inclinata verso
est. Poco più in là c'era un pozzo, e oltre quello un altro macigno rotondo, che pareva nero alla luce lunare. C'era qualcosa qui. Mi fermai. Nulla a cui potessi dare un nome, ma la vecchia pietra nera poteva esser stata chissà quale oscura creatura curva sull'orlo del pozzo. Sentii un brivido corrermi addosso e voltai la testa. Questa, non l'avrei disturbata. La luna saliva con me, e mentre entravo nell'anello essa alzò il suo disco bianco sui montanti sormontati dall'architrave e irradio di chiarore il centro dell'anello. Camminavo su un terreno secco e friabile, che i miei passi facevano scricchiolare, dove di recente erano stati accesi dei fuochi. Vidi forme bianche di ossa e una pietra piatta fatta come un altare. La luce della luna mostrava delle sculture su un lato, rozze forme attorcigliate, di corde o serpenti. Mi chinai per passarvi sopra un dito. Lì vicino, un topo si mosse squittendo con un fruscio. Nessun altro rumore. La pietra era pulita, morta, priva di un dio. La lasciai, spostandomi lentamente attraverso le ombre proiettate dalla luna. C'era un'altra pietra, a cupola come un alveare, una pietra come un ombelico. E qui c'era un montante caduto, con l'erba alta che quasi lo nascondeva. Mentre lo superavo, sempre cercando, un soffio di vento leggero passò attraverso l'erba, rendendo sfocate le ombre e incerta la luce come fosse stata nebbia. Con il piede incontrai qualche cosa, inciampai e caddi in ginocchio alla fine di una lunga pietra piatta quasi nascosta nell'erba. Le mie mani vi passarono sopra. Era massiccia, oblunga, non scolpita, semplicemente una grande pietra allo stato naturale sulla quale adesso si rovesciava la luce lunare. Non c'era bisogno del freddo che invase le mie mani, del sibilo delle erbe impallidite sotto l'improvvisa sferza del vento, del profumo delle margheritine, per sapere che quella era la pietra. Tutt'intorno a me, come danzatori che indietreggiano, si ergevano nere le pietre silenziose. Da un lato la luna bianca, dall'altro la stella maggiore, con la sua luce bianca. Mi alzai lentamente e rimasi fermo ai piedi della lunga pietra, come si potrebbe stare ai piedi di un letto, aspettando la morte di chi lo occupa. Fu il caldo che mi svegliò, il caldo e le voci degli uomini accanto a me. Alzai la testa. Ero mezzo inginocchiato, mezzo sdraiato, con le braccia e la parte superiore del corpo distese lungo la pietra. Il sole mattutino era alto e batteva direttamente sul centro della Danza. La nebbia saliva fumando dall'erba umida e le sue bianche ghirlande nascondevano le pendici più basse della collina. Alcuni uomini erano passati attraverso le pietre della Danza e adesso stavano lì, mormorando tra sé e guardandomi. Quando
sbattei le palpebre, muovendo gli arti irrigiditi, il gruppo si apri lasciando passare Uther, seguito da una mezza dozzina di ufficiali, tra i quali si trovava Tremorino. Due soldati spingevano quello che era evidentemente un prigioniero irlandese; l'uomo aveva le mani legate e una ferita sulla guancia con il sangue già secco, ma pareva in buone condizioni e io pensai che gli uomini che lo custodivano avevano un'aria più spaventata di lui. Uther si fermò quando mi vide, poi si avvicinò mentre io ancora mezzo irrigidito mi rimettevo in piedi. I segni della notte dovevano apparire ancora sul mio viso, perché nel gruppo degli ufficiali alle sue spalle vidi l'espressione cui mi ero ormai abituato, in parte diffidenza e in parte stupore, e perfino Uther parlò con una voce di una frazione troppo alta. «Così la tua magia è forte quanto la loro?» La luce era troppo forte per i miei occhi. Egli mi appariva colorato e irreale, come un'immagine che si veda nell'acqua in movimento. Tentai di parlare, mi schiarii la voce e tentai di nuovo. «Sono ancora vivo, se è questo che intendi.» Tremorino disse, arcigno: «Nessun altro uomo di tutto l'esercito avrebbe trascorso la notte qui». «Per paura della pietra nera?» Vidi la mano di Uther muoversi con un gesto involontario, come se scattasse da sola per fare il segno. Lui vide che lo avevo notato, e parve adirato. «Chi ti ha parlato della pietra nera?». Prima che potessi rispondere l'irlandese disse improvvisamente: «L'hai vista? Chi sei?». «Mi chiamo Merlino.» Annuì lentamente. Ancora non dimostrava paura né timore riverenziale. Leggeva il mio pensiero e sorrideva, come per dire: "Tu e io sappiamo badare a noi stessi". «Perché ti hanno portato qui in questo modo?» gli chiesi. «Per dire loro qual è la pietra del re.» Uther disse: «Ce l'ha detto. È l'altare scolpito da quella parte». «Lasciatelo andare» dissi io. «Non avete bisogno di lui. E lasciate perdere l'altare. La pietra è questa.» Ci fu un momento di silenzio, poi l'irlandese rise. «In fede mia, se vi portate il mago del re in persona, che speranza ha un povero poeta? Era scritto nelle stelle che l'avreste presa, e per la verità non è altro che giustizia. Quella pietra non è stata il cuore dell'Irlanda ma la sua maledizione, e può darsi che l'Irlanda starà tanto meglio vedendola andare via.»
«Come?» gli chiesi. Poi, rivolto a Uther: «Di' loro di slegarlo». Uther annui, e gli uomini sciolsero le mani al prigioniero. Questi si strofinò i polsi, sorridendomi. Si sarebbe detto che eravamo noi due soli nella Danza. «Dicono che in passato la pietra venne dalla Britannia, dalle montagne occidentali, quelle che sono davanti al mar d'Irlanda, e che il grande re di tutta l'Irlanda, Fionn Mac Cumhaill era il suo nome, la portasse una notte tra le braccia, e con quella attraversasse il mare per arrivare in Irlanda, e poi la mettesse qui.» «E adesso» dissi io «con un po' più di fatica la riportiamo in Britannia.» Rise. «Avrei pensato che da quel gran mago che sei l'avresti sollevata con una mano sola.» «Non sono Fionn» dissi io. «E adesso, se sei saggio, poeta, torna a casa tua e alla tua arpa, e non fare più guerre, ma componi una canzone sulla pietra, e su Merlino il mago che la prese dalla Danza di Killare e la portò agilmente alla Danza delle pietre pendenti di Amesbury.» Egli mi rivolse un saluto militare e, sempre ridendo, si allontanò. E certo attraversò senza incidenti il campo e se ne andò perché in seguito ho sentito la canzone che aveva composto. Ma allora quasi non si notò il fatto che se ne fosse andato. Ci fu una pausa, mentre Uther guardava accigliato la grande pietra tra l'erba, e pareva mentalmente soppesarla. «Hai detto al re che potevi fare questo. È vero?» «Ho detto al re che ciò che gli uomini hanno portato qui, gli uomini potevano anche portare via di qui.» Mi guardò accigliato, incerto, ancora un po' adirato. «Lui mi ha riferito quello che avevi detto. Sono d'accordo. Non c'è bisogno di magia e di belle parole, solo di una squadra di esperti con le macchine adatte. Tremorino?» «Signore?» «Se prendiamo questa, la pietra del re, non ci sarà bisogno di preoccuparci troppo delle altre. Buttale giù dove puoi e lasciale stare.» «Sì, signore. Se potessi avere Merlino...» «La squadra di Merlino sarà al lavoro sulle fortificazioni. Merlino, andiamo, vuoi? Ti do ventiquattr'ore.» Quello era qualcosa in cui gli uomini erano esperti; buttarono giù le mura e con essi colmarono i fossati. Alle palizzate e alle case, molto semplicemente, demmo fuoco. Gli uomini lavoravano bene ed erano su di morale. Uther era sempre generoso con i suoi soldati, e si era trovata una quan-
tità di beni da saccheggiare, bracciali di rame, di bronzo e d'oro, fermagli e armi di buona fattura con intarsi di rame e di smalto, come ce ne sono in Irlanda. Il lavoro fu finito per il crepuscolo e ci ritirammo dalla collina nell'accampamento provvisorio che era stato piantato nella pianura ai piedi delle pendici. Fu dopo cena che Tremorino venne da me. Potevo vedere le torce e i fuochi ancora accesi in cima alla collina, che mettevano in risalto quanto era rimasto della Danza. Tremolino era scuro in viso e appariva stanco. «Tutta la giornata» disse amaro. «E l'abbiamo alzata sì e no di mezzo metro, e mezz'ora fa i puntelli hanno ceduto, così la pietra è tornata nel suo letto. Perché diavolo hai dovuto indicare quella pietra. L'altare dell'irlandese sarebbe stato più facile.» «L'altare dell'irlandese non sarebbe andato bene.» «Be', per gli dei, si direbbe che non riuscirai ad avere neanche questa. Stai a sentire, Merlino, non m'importa quello che dice lui. Io ho la responsabilità di questo lavoro, e ti chiedo di venire a dare un'occhiata. Vieni?» Il resto è diventato materia di leggenda. Sarebbe noioso adesso raccontare come lo facemmo, ma fu abbastanza facile; avevo avuto tutta la giornata per pensarci, avendo visto la pietra e il fianco della collina, e le macchine le avevo in mente fin dalla Bretagna. Dove fu possibile, la trasportammo per via d'acqua... scendendo il fiume da Killare al mare, e di lì nel Galles e di nuovo finché fu possibile per fiume, usando i due grandi Avon, con poco più di una ventina di miglia per terra tra l'uno e l'altro. Non ero Fionn Fortebraccio, ma ero Merlino, e la grande pietra arrivò a casa senza scosse come una chiatta su un fiume tranquillo, con me accanto per tutto il viaggio. Immagino che dormii, in quel viaggio, ma non riesco a ricordare di averlo effettivamente fatto. Ero insonne, come quando si è a un letto di morte, e durante quella traversata, di quante ne ho fatte in vita mia, non avvertii mai il movimento del mare, ma rimasi seduto (mi dicono) calmo e silenzioso, come se fossi stato sulla mia sedia a casa. Uther venne una volta a parlarmi - in collera, suppongo, perché avevo fatto con tanta facilità quello che i suoi ingegneri non erano riusciti a fare - ma se ne andò dopo un momento e non si riavvicinò più a me. Non ricordo niente di quel viaggio. Credo che non ero lì. Ero sveglio, nell'ora che è tra il giorno e la notte, nella grande camera da letto a Winchester. La notizia ci raggiunse a Caerleon. Pascenzio aveva attaccato dal nord, con il suo esercito di alleati germanici e sassoni, e il re aveva marciato verso Carlisle e lì lo aveva battuto. Ma poi, rientrato senza incidenti a
Winchester, si era ammalato. Su questo, di voci ce n'erano tante. Alcuni dicevano che uno degli uomini di Pascenzio era venuto travestito a Winchester, dove Ambrogio era a letto per un colpo di freddo e gli aveva fatto bere del veleno. Altri dicevano che l'uomo era stato mandato da Eosa. Ma la verità era quella: il re era molto malato a Winchester. La stella maggiore si levò di nuovo quella notte, e aveva l'aspetto, dissero, di un drago di fuoco, e trascinava con sé una nuvola di stelle minori che pareva fumo. Ma non era necessario quel presagio per dirmi quello che sapevo dalla notte trascorsa in cima al Killare, quando avevo giurato di portare la grande pietra dall'Irlanda e di metterla sulla sua tomba. Così fu che trasportammo di nuovo la pietra ad Amesbury, e io rialzai e rimisi a posto gli anelli caduti della Danza dei giganti perché fossero il suo monumento. E alla Pasqua che seguì, nella città di Londra, Uther Pendragon fu incoronato re. LIBRO V L'arrivo dell'orso Uno In seguito dissero che la grande stella del drago che aveva sfavillato alla morte di Ambrogio e dalla quale Uther aveva preso il nome reale di Pendragon, era presagio funesto per il nuovo regno. In verità, all'inizio, tutto parve mettersi contro Uther. Era come se la caduta della stella di Ambrogio fosse stato un segnale che incitava i suoi antichi nemici a rialzarsi dai margini scuri della terra per distruggere il suo successore. Octa, figlio di Hengist, ed Eosa, suo congiunto, considerandosi sciolti, con la morte di Ambrogio, dalla loro promessa di rimanere a nord dei suoi confini, radunarono quanto di forze era ancora loro possibile per l'attacco, e appena la chiamata si diffuse tutti i malcontenti si levarono. Soldati avidi di terra e di bottino affluirono di nuovo dalla Germania, i resti dei sassoni di Pascenzio si unirono agli irlandesi di Gilloman in fuga e a tutti quei britanni che si consideravano trascurati dal nuovo re. Poche settimane dopo la morte di Ambrogio, Octa, con un numeroso esercito, scorrazzava per tutto il nord come un lupo, e prima che il nuovo re potesse raggiungerlo aveva distrutto città e fortezze, in tutta la regione compresa tra il Vallo di Adriano e York. A York, roccaforte di Ambrogio, trovò le mura in buono stato, le porte chiuse e gli uomini pronti a difendersi. Egli tirò fuori tutte le macchine da
assedio che aveva e si dispose ad aspettare. Doveva aver saputo che Uther lo avrebbe raggiunto li, ma i suoi uomini erano così numerosi che egli non mostrò paura dei britannici. In seguito calcolarono che avesse trentamila uomini. Comunque fosse, quando Uther venne a togliere l'assedio con tutti gli uomini che riuscì a raccogliere, i sassoni superavano di numero i britannici per più di due a uno. Fu un'impresa sanguinosa, ed ebbe esito disastroso. Io stesso credo che la morte di Ambrogio avesse scosso il regno; malgrado tutta la fama di guerriero di cui godeva Uther, come comandante supremo non era sperimentato, e già si sapeva che non possedeva la calma e l'acume del fratello davanti alle difficoltà. Quel che gli mancava di saggezza, lo compensava col coraggio, ma anche questo non sarebbe servito a superare i problemi che avrebbe dovuto affrontare quel giorno a York. I britannici furono soverchiati, si dettero alla fuga e furono salvati solo dal crepuscolo, che in quella stagione cade di buon'ora. Uther, con Gorlois di Cornovaglia, suo secondo al comando, riuscì a riunirsi a quel che rimaneva del suo esercito vicino alla cima della collinetta chiamata Damen. Era una collina erta e offriva un certo tipo di rifugio, rocce e grotte e fitti noccioleti, ma poteva essere solo un rifugio temporaneo contro i sassoni che ne circondarono trionfanti la base, aspettando il mattino. Era una posizione disperata per i britannici, e richiedeva l'adozione di misure disperate. Con viso arcigno Uther, accampato in una grotta, chiamò a raccolta i suoi stanchi capitani mentre gli uomini ghermivano quel poco di riposo che potevano, e con loro elaborò un piano per mettere nel sacco il potente nemico che li aspettava ai piedi della collina. Dapprima nessuno aveva molte idee oltre che era necessario fuggire, ma qualcuno - poi sentii che era stato Gorlois - fece notare che ritirarsi ancora significava semplicemente rimandare la sconfitta e la distruzione del nuovo regno; se scampo era possibile, lo era nell'attacco e questo pareva attuabile se i britannici non aspettavano la luce del giorno ma si servivano di quell'elemento di sorpresa che c'era nell'attaccare al buio, scendendo la collina molto prima di quanto il nemico si aspettasse. Una tattica semplice, in verità, che i sassoni avrebbero potuto prevedere da parte di uomini così disperatamente chiusi in trappola, ma i sassoni sono soldati stupidi, come ho già detto, e difettano di disciplina. Era quasi certo che non si aspettassero alcuna mossa fino all'alba e che dormissero profondamente dove si erano distesi quella notte, fiduciosi nella vittoria e con ogni probabilità per tre quarti ubriachi grazie alle riserve che si erano portati. Per rendere giustizia ai sassoni va detto che Octa aveva appostato degli
esploratori, e questi erano abbastanza abili. Ma il piano di Gorlois funzionò, con l'aiuto di un po' di nebbia che sali prima dell'alba dalla pianura e circondò la base della collina come un velo. Attraverso questo, due volte più grandi di quanto fossero in realtà, e ugualmente due volte più numerosi, uscirono i britannici in corsa silenziosa, incontenibile, non appena ci fu abbastanza luce da vedere la strada attraverso le rocce. Quegli avamposti sassoni che non furono distrutti in silenzio diedero l'allarme, ma troppo tardi. I soldati si rovesciarono, imprecando, afferrando le armi appoggiate accanto a loro, ma i britannici, non più silenziosi, passarono urlando attraverso i nemici mezzo addormentati e li fecero a pezzi. Fu finita prima di mezzogiorno, e Octa ed Eosa furono fatti prigionieri. Prima dell'inverno, con il nord sgomberato dai sassoni e le lunghe navi che finivano di bruciare fumando sulle spiagge settentrionali, Uther ritornò a Londra, con i suoi prigionieri al sicuro, e si preparava all'incoronazione nella primavera successiva. La sua battaglia con i sassoni, la sua quasi sconfitta e la successiva improvvisa e brillante vittoria, erano le cose di cui il regno aveva bisogno. Gli uomini dimenticarono il dolore per la morte di Ambrogio e parlarono di Uther come di un astro nascente. Il suo nome era sulle labbra di tutti, dai nobili e dai guerrieri che facevano ressa intorno a lui in attesa di doni e di onori, agli operai che costruivano i suoi palazzi e alle dame della sua corte che ostentavano vestiti nuovi di un colore che era chiamato "rosso pendragon". Lo vidi solo una volta in quelle prime settimane. Mi trovavo ancora ad Amesbury, e sovrintendevo al rialzamento della Danza dei giganti. Tremorino si trovava nel nord, ma avevo una buona squadra e dopo l'esperienza della pietra del re a Killare gli uomini erano ansiosi di affrontare le massicce pietre della Danza. Per tirare su i montanti, quando avemmo messo in fila le pietre e scavato le buche non c'era niente che non si potesse fare con corda, capre e filo a piombo. Le difficoltà sorgevano con i grandi architravi, ma il miracolo della edificazione della Danza era stato compiuto innumerevoli anni prima, dai vecchi operai che avevano dato forma a quelle pietre ciclopiche per adattarle l'una nell'altra con la stessa precisione con cui s'incastra il legno calettato a coda di rondine per opera di un mastro carpentiere. Dovemmo solo trovare il sistema per sollevarli. A questo mi ero allenato tutù quegli anni, dalla prima volta in cui avevo visto le pietre sormontate da un architrave in Britannia minore e avevo cominciato i miei calcoli. E neppure avevo dimenticato quanto avevo imparato dalle canzoni.
Alla fine avevo disegnato una puntellatura di sostegno in legno, di un tipo che un ingegnere moderno avrebbe forse scartato giudicandola primitiva, ma che - me ne era testimone il cantore brettone - aveva fatto l'affar suo in passato e lo avrebbe fatto ancora. Fu una cosa lenta ma funzionò. E suppongo dovette essere una visione piuttosto meravigliosa, quella di quegli enormi massi che si alzavano, grado a grado, e finalmente andavano a posto nel loro alloggiamento con la stessa facilità che se fossero stati di sego. Ci vollero duecento uomini per ogni pietra quando la spostammo, squadre addestrate che lavoravano a turno e mantenevano il ritmo, come i rematori, con la musica. Il ritmo dei movimenti naturalmente era regolato dal lavoro, e le melodie erano vecchie melodie che ricordavo dall'infanzia; la mia bambinaia me le aveva cantate, senza però mai cantare le parole che gli uomini a volte vi adattavano. In genere queste erano realistiche, scurrili e molto personali, e spesso riguardavano personaggi altolocati. Né Uther né io eravamo risparmiati, benché le canzoni non venissero mai cantate apposta perché io le udissi. Inoltre, quando erano presenti estranei, le parole diventavano correttissime oppure indistinte. Seppi che si diceva, molto tempo dopo, che avevo spostato le pietre della Danza con la magia e con la musica. Immagino si potrebbe dire che l'una e l'altra cosa fossero vere. Ho pensato, in seguito, che cosi deve esser nata la storia secondo la quale Febo Apollo costruì con la musica le mura di Troia. Però, la magia e la musica che spostarono la Danza dei giganti, io le avevo in comune con il cantore cieco di Kerrec. Verso la metà di novembre, il freddo era tagliente e il lavoro finito. L'ultimo fuoco di campo fu spento e l'ultimo convoglio di carri che trasportavano uomini e materiali si avviò verso sud, facendo ritorno a Sarum. Cadal mi aveva preceduto ad Amesbury. Io mi attardai, trattenendo il mio cavallo irrequieto, finché il convoglio fu sparito alla mia vista oltre la pianura, e fui solo. Il cielo incombeva sulla pianura silenziosa come una coppa di stagno. Era ancora presto e l'erba era bianca di brina. Il tenue sole invernale proiettava lunghe ombre dalle pietre ormai di nuovo collegate. Io ricordavo la pietra eretta e la brina bianca, il toro e il sangue, il giovane dio sorridente dai capelli biondi. Abbassai gli occhi sulla pietra. Lo avevano sepolto, lo sapevo, con la sua spada in mano. Gli dissi: «Torneremo, tutti e due, al solstizio d'inverno». Poi lo lasciai, salii a cavallo e mi avviai ad Amesbury. Due
In dicembre ebbi notizie di Uther; aveva lasciato Londra e si dirigeva a Winchester per Natale. Gli mandai un messaggio, non ottenni risposta e ancora una volta partii, a cavallo, con Cadal, diretto alla Danza dei giganti, che si ergeva solitaria, nella morsa del gelo, al centro della pianura. Era il venti dicembre. In un avvallamento del terreno, appena più in là della Danza, legammo i cavalli e accendemmo un fuoco. Avevo temuto che la notte potesse essere nuvolosa, ma l'aria era limpida e frizzante, con le stelle a sciami, come pulviscolo nella luce lunare. «Dormi un po', se ci riesci con questo freddo» disse Cadal. «Ti sveglierò io prima dell'alba. Che cosa ti fa pensare che verrà?» Poi, siccome non rispondevo: «Be', il mago sei tu, lo devi sapere. Ecco qua, se per caso la tua magia non ti facesse dormire, meglio che ti metta anche il mantello. Ti sveglio in tempo, perciò non ti preoccupare». Gli ubbidii, avvolgendomi nel doppio spessore di lana e sdraiandomi vicino al fuoco, con la testa appoggiata alla sella. Più che dormire sonnecchiai, conscio di tutti i piccoli rumori della notte circondata dall'immenso silenzio di quella pianura: il fruscio e lo scricchiolio del fuoco, il rumore prodotto da Cadal per aggiungervi legna, quello regolare dei cavalli che strappavano l'erba, il grido di un gufo in cerca di preda. E poi, poco prima dell'alba, il rumore che aspettavo; il battito regolare della terra sotto la mia testa che significava cavalli in arrivo. Mi alzai a sedere. Cadal, con gli occhi velati dal sonno, parlò con voce scontenta: «Hai ancora un'ora, secondo me». «Non importa. Ho dormito. Posa l'orecchio a terra e dimmi che cosa senti.» Egli si chinò, aspettò per un tempo equivalente forse a cinque pulsazioni, poi saltò in piedi e si avvicinò ai nostri cavalli. La gente reagiva in fretta, a quell'epoca, al rumore di cavalieri che si avvicinavano nella notte. Lo fermai. «Tutto a posto. È Uther. Quanti cavalli calcoli?» «Venti, forse trenta. Ne sei sicuro?» «Assolutamente. Adesso sella i cavalli e rimani con loro. Io entro.» Era l'ora che precede il mattino, quando l'aria è immobile. Arrivavano al galoppo. Si sarebbe detto che tutta la pianura gelata pulsasse di quel rumore. La luna non c'era più. Aspettai vicino alla pietra. Egli lasciò lo squadrone un po' più in là, e avanzò con un solo compagno. Non pensavo che mi avessero visto, benché dovessero aver notato il
guizzo del fuoco di Cadal che si spegneva, nell'avvallamento. La notte stellata era stata abbastanza chiara, cosicché avevano cavalcato senza torce e ci vedevano bene. I due avanzarono a un piccolo galoppo sostenuto verso l'anello esterno della Danza, e dapprima pensai che sarebbero entrati a cavallo. Ma i cavalli furono fermati di colpo, con uno scricchiolio di ghiaccio che si scheggiava e il re scese di sella. Udii il tintinnio, mentre gettava le redini al suo compagno. «Tienilo in movimento» lo udii dire, poi si avvicinò, ed era un'ombra che avanzava rapida tra le ombre enormi della Danza. «Merlino?» «Mio signore?» «Hai uno strano modo di scegliere i tempi. Doveva proprio essere nel cuor della notte?» Dalla voce si sentiva che era completamente sveglio e non più gentile del solito. Ma era venuto. Dissi: «Volevi vedere che cosa ho fatto qui, e stanotte era il momento per mostrartelo. Ti sono grato per essere venuto». «Mostrarmi che cosa? Una visione? Si tratta di un altro dei tuoi sogni? Ti avverto...» «No. Niente di tutto questo. Ma c'è qualcosa che volevo tu vedessi e che si può vedere solo stanotte. Per questo, temo dovremo aspettare un po'.» «Molto? Fa freddo.» «Non tanto, mio signore. Fino all'alba.» Era fermo accanto alla pietra del re, dal lato opposto a quello dove mi trovavo io, e al debole chiarore delle stelle lo vidi abbassare lo sguardo su quella pietra, con la testa china e accarezzarsi il mento con una mano. «La prima volta che rimanesti di notte accanto a questa pietra, dicono, avesti delle visioni. Adesso, a Winchester, mi dicono che in punto di morte egli parlò con te come se tu fossi stato li nella sua camera, fermo ai piedi del suo letto. È vero?» «Sì.» Rialzò la testa con un gesto vivace. «Tu dici che a Killare sapevi che mio fratello stava morendo, eppure non me ne parlasti?» «Non sarebbe servito a nulla. Non avresti potuto tornare più in fretta sapendo che stava male. In quel modo, viaggiasti tranquillo e a Caerleon, quando egli morì, te lo dissi.» «Per gli dei, Merlino, non spettava a te giudicare se parlare o no! Non sei il re! Avresti dovuto dirmelo.» «Neppure tu eri il re, Uther Pendragon. Feci quello che lui mi chiese di fare.»
Lo vidi accennare un gesto vivace, poi si calmò. «Facile a dirsi.» Ma dalla voce seppi che mi credeva e che un timore riverenziale lo pervadeva, di me e del luogo. «E adesso che siamo qui, in attesa dell'alba e di quello che tu devi mostrarmi, credo che dobbiamo mettere in chiaro tra noi un paio di cose. Tu non puoi servire me come servivi mio fratello. Devi saperlo. Non voglio le tue profezie. Mio fratello si sbagliava quando disse che avremmo lavorato insieme per la Britannia. Le nostre stelle non si congiungeranno. Riconosco di averti giudicato troppo duramente, in Bretagna e a Killare; me ne dispiace, ma adesso è troppo tardi. Seguiamo vie diverse.» «Sì. Lo so.» Lo dissi senza alcuna espressione particolare, semplicemente consentendo, e fui sorpreso quando egli rise, sommessamente, tra sé. Una mano, non priva di cordialità, calò sulla mia spalla. «Allora ci capiamo. Non credevo che sarebbe stato così facile. Se sapessi quanto mi rallegra una cosa simile, dopo le settimane che ho passato con gente che sollecita il mio aiuto, che striscia per avere pietà, che chiede favori... E adesso l'unico di tutto il regno che potrebbe avanzare pretese fondate su di me, se ne andrà per la sua strada e lascerà me andare per la mia?» «Certo. I nostri sentieri s'incroceranno ancora, ma non ora. E allora avremo qualcosa da fare in comune, che lo vogliamo o no.» «Vedremo. Tu hai il potere, lo riconosco, ma a me che cosa serve? Non ho bisogno di preti.» La sua voce era animata e cordiale, come se volesse bandire con la volontà la singolarità di quella notte. Lui era ancorato alla terra, era Uther. Ambrogio avrebbe capito quello che dicevo, ma Uther seguiva le tracce umane come il cane segue il sangue. «Pare che tu mi abbia già servito piuttosto bene, a Killare e qui con le Pietre pendenti. Meriti qualcosa da me, non foss'altro che per questo.» «Dove posso, sarò al tuo servizio. Se mi vuoi sai dove trovarmi.» «Non alla mia corte?» «No, a Maridunum. Quella è casa mia.» «Ah, sì, la famosa grotta. Meriti un po' più di questo da me, credo.» «Non c'è nulla che io desideri» dissi. Adesso c'era un po' più di luce. Lo vidi lanciarmi uno sguardo obliquo. «Ti ho parlato stanotte come non avevo mai parlato a nessuno. Mi fai una colpa del passato?» «Non ti faccio colpa di niente, mio signore.» «Niente?»
«Una ragazza a Caerleon. Tu la chiameresti niente.» Lo vidi fissarmi, poi sorridere. «Quando?» «Non ha importanza. Avrai dimenticato, comunque.» «Per il cane di Mitra, ti avevo giudicato male.» Parlò con ciò che di più vicino al calore avessi mai sentito nella sua voce. Se avesse saputo, pensai, avrebbe riso. Dissi: «Te l'ho detto, non ha importanza. Non ne aveva allora, meno ancora ne ha adesso». «Ancora non mi hai detto perché mi hai trascinato qui a quest'ora. Guarda il cielo; sta andando verso l'alba... e appena in tempo, i cavalli sentiranno freddo.» Alzò la testa verso l'oriente. «Dovrebbe essere una bella giornata. Sarà interessante vedere che specie di lavoro hai fatto qui. Adesso posso dirtelo, Tremorino ha insistito, proprio fino a quando ho ricevuto il tuo messaggio, che non era possibile farlo. Profeta o non profeta, utile puoi esserlo, Merlino.» La luce cresceva, le tenebre si diradavano per lasciarla passare. Adesso potevo vederlo più chiaramente, in piedi con la testa alzata e la mano che di nuovo si accarezzava il mento. Dissi: «Meno male che sei venuto di notte, sicché ho riconosciuto la tua voce. Di giorno non ti avrei riconosciuto. Ti sei fatto crescere una gran barba.» «Più regale, no? Non c'era tempo per fare nient'altro, durante la campagna. Prima che raggiungessimo l'Humber...» Cominciò a raccontarmi di quel periodo, parlando, per la prima volta da quando lo conoscevo, con disinvoltura e naturalezza. Può darsi dipendesse dal fatto che adesso ero, di tutti i suoi sudditi, l'unico che gli era parente, e il sangue parla al sangue, si dice. Parlò della campagna nel nord, delle battaglie, delle rovine fumanti che i sassoni si erano lasciati dietro. «E adesso passiamo Natale a Winchester. Io sarò incoronato a Londra in primavera e già...» «Aspetta.» Non avevo avuto l'intenzione di interromperlo in modo così perentorio, ma le cose mi incalzavano, il peso del cielo, la luce che passava rapidamente. Non c'era il tempo per cercare le parole da dire a un re. Dissi in fretta: «Adesso arriva. Stai vicino a me ai piedi della pietra». Mi allontanai di un passo da lui fermandomi ai piedi della lunga pietra del re, davanti all'oriente infuocato. Non avevo occhi per Uther. Lo udii trattenere il respiro come se fosse in collera, poi si frenò e si voltò con uno scintillio di gioielli e un balenare della maglia di ferro per avvicinarsi a me. Ai nostri piedi si stendeva la pietra. A oriente la notte perdeva spessore, indietreggiava come un velo e il sole
sorgeva. Diritta come una torcia scagliata via, o come una freccia di fuoco, la luce trafisse l'aria grigia e tracciò una linea senza incertezze dall'orizzonte alla pietra del re, ai nostri piedi. Per la durata di forse venti pulsazioni, l'immenso trilite sentinella fu la cornice nera e rigida di quella vampata invernale. Poi il sole si alzò sull'orizzonte, così in fretta che si poté vedere l'ombra del cerchio di pietre spostarsi nella sua lunga ellisse, diventare sfocata e svanire quasi immediatamente nella luce completa di un'alba invernale. Guardai il re. I suoi occhi, spalancati e fissi, guardavano la pietra ai suoi piedi. Non potevo leggere i suoi pensieri. Poi alzò la testa e distolse lo sguardo da me, posandolo sull'anello esterno dove le grandi pietre si ergevano incatenate l'una all'altra davanti alla luce. Si allontanò lentamente da me, poi si voltò, abbracciando con lo sguardo tutto l'anello delle Pietre pendenti. Vidi che la sua barba era rossiccia e riccia; portava i capelli più lunghi e sul suo elmo brillava un cerchio d'oro. I suoi occhi erano azzurri come fumo di legna in quella luce nuova. Alla fine incontrarono i miei. «Non c'è da meravigliarsi che tu sorrida. È impressionante.» «Sorrido per il sollievo» dissi io. «I calcoli di questo lavoro mi hanno tenuto sveglio per mesi.» «Tremorino me l'ha detto.» Mi guardò, a lungo, come se mi valutasse. «Mi ha anche detto quello che avevi detto tu.» «Quello che avevo detto?» «Sì. "Non rivestirò questa tomba con qualcosa che sia inferiore alla luce."» Non dissi niente. Lui continuò lentamente: «Ti ho detto che non sapevo niente di profeti e di preti. Sono solo un soldato, e ragiono da soldato. Ma questo... quello che tu hai fatto qui... questo è qualcosa che capisco. Forse c'è posto per tutti e due, dopo tutto. Ti ho detto che passerò il Natale a Winchester. Tornerai con me?». Chiedeva, non ordinava. Parlavamo con la pietra in mezzo a noi. Era il principio di qualche cosa, ma qualche cosa che ancora non mi era stata mostrata. Scossi la testa. «In primavera, forse. Mi piacerebbe vedere l'incoronazione. Sta' certo che quando avrai bisogno di me ci sarò. Ma adesso devo andare a casa.» a Alla tua buca nella terra. Bene, se è questo che vuoi... I tuoi desideri sono poca cosa, Dio lo sa. Non c'è niente che tu voglia chiedermi?» Ac-
cennò con la mano all'anello silenzioso. «Si parlerà male di un re che non ti compensa per questo.» «Sono stato compensato.» «A Maridunum, adesso. La casa di tuo nonno sarebbe più adatta a te. La prenderai?» Scossi la testa. «Non voglio una casa. Ma prenderei la collina.» «Allora prendila. Mi dicono che già la chiamano la Collina di Merlino. E adesso si è fatto giorno, e i cavalli avranno freddo. Se mai sei stato un soldato, Merlino, devi sapere che c'è una cosa più importante perfino delle tombe dei re, non tener fermi i cavalli.» Di nuovo mi diede un colpetto sulla spalla, si voltò con un turbinio del mantello scarlatto e si avviò rapidamente verso il suo cavallo che lo aspettava. Io andai a cercare Cadal. Tre Quando arrivò Pasqua, ancora io non avevo alcuna idea di lasciare Bryn Myrddin (Uther, fedele alla parola, mi aveva dato la collina sulla quale era situata la grotta, e la gente già ne associava il nome a me, piuttosto che al dio, chiamandola la Collina di Merlino), ma arrivò un messaggio dal re, che mi ordinava di recarmi a Londra. Questa volta era un ordine, non una preghiera, e così pressante che il re aveva mandato una scorta, per evitare qualsiasi ritardo avesse potuto procurarmi la ricerca di una compagnia. A quei tempi non era ancora sicuro viaggiare in gruppi meno numerosi di una dozzina e anche più, e si andava armati e con tutte le precauzioni. Chi non si poteva permettere una scorta personale aspettava che si radunasse un gruppetto di persone, e i mercanti usavano anche unirsi per pagare delle sentinelle che li accompagnassero. Le zone più selvagge del paese erano ancora piene di fuggiaschi dell'esercito di Octa, di irlandesi che non erano riusciti a tornarsene in patria e di alcuni sassoni dispersi che tentavano miseramente di nascondere la pelle chiara e a cui veniva data spietatamente la caccia quando non ci riuscivano. Questi gruppi si tenevano al margine delle fattorie, si muovevano furtivamente nelle colline, nelle brughiere e nei luoghi deserti, compiendo all'improvviso selvagge scorrerie in cerca di cibo e spiando sulle strade qualsiasi viaggiatore solitario o male armato, per quanto male in arnese potesse essere. Chiunque avesse un mantello e dei sandali era ricco e valeva la pena di spogliarlo. Niente di tutto ciò mi avrebbe dissuaso dal fare il viaggio solo con Cadal
da Maridunum a Londra. Nessun fuorilegge o ladro avrebbe affrontato un mio sguardo, figuriamoci poi una maledizione. Dopo gli avvenimenti di Dinas Brenin, Killare e Amesbury la mia fama si era diffusa, ingigantendosi nelle canzoni e nelle storie finché a fatica riconobbi i miei propri atti. Dinas Brenin aveva anche ricevuto un altro nome; era diventata Dinas Emrys, per un omaggio a me quanto per ricordare lo sbarco di Ambrogio e il caposaldo che egli vi aveva costruito con successo. Inoltre, vivevo altrettanto bene di quanto avevo vissuto nel palazzo di mio nonno o nella casa di Ambrogio. Ogni giorno davanti alla grotta venivano lasciate offerte di cibo e di vino, e i poveri che non avevano nient'altro da portarmi in ringraziamento delle medicine che io davo loro, portavano legna o paglia per le lettiere dei cavalli, o aiutavano in lavori di costruzione o a fabbricare dei mobili. Così l'inverno era trascorso comodo e tranquillo, finché un giorno limpido ai primi di marzo il messaggero di Uther, dopo aver lasciato la scorta in città, risalì a cavallo la valle. Era il primo giorno asciutto dopo più di due settimane di pioggia e di vento che portava nevischio, e io ero salito sulla collina sopra la grotta, in cerca delle prime erbe medicinali. Mi fermai al limitare di un gruppo di pini, per osservare il cavaliere solitario che risaliva la collina al piccolo galoppo. Cadal doveva aver sentito il rumore degli zoccoli, lo vidi, piccolo sotto di me, uscire dalla grotta e salutare l'uomo, poi lo vidi tendere il braccio per indicare da che parte ero andato. Il messaggero quasi non si fermò. Voltò la bestia verso la salita, diede di sprone e venne verso di me. Si fermò dopo pochi passi, scese con mossa rigida di sella e mi si avvicinò. Era un giovane con capelli castani, all'incirca della mia età, il cui viso mi risultò vagamente familiare. Pensai che dovevo averlo visto in qualche posto intorno al seguito di Uther. Aveva schizzi di fango fin sulle sopracciglia e il suo viso, dove non era coperto dal fango, era pallido per la stanchezza. Doveva aver trovato a Maridunum un cavallo fresco per quell'ultima tappa, perché l'animale era riposato, e irrequieto anche, e vidi il giovane trasalire quando alzò la testa e tirò le briglie. «Mio signore Merlino. Ti porto i saluti del re, da Londra.» «Ne sono onorato» dissi usando la formula convenzionale. «Egli sollecita la tua presenza alla festa dell'incoronazione. Ti ha mandato una scorta, mio signore. Gli uomini sono in città, per far riposare i cavalli.» «Hai detto... sollecita?»
«Avrei dovuto dire comanda, mio signore. Mi ha detto che devo riportarti con me immediatamente.» «Il messaggio era solo questo?» «Non mi ha detto altro, mio signore. Solo che dovevi andare immediatamente da lui a Londra.» «Senza dubbio verrò. Domani mattina, quando avrai fatto riposare i cavalli.» «Oggi, mio signore. Adesso.» Era un peccato che l'arrogante ordine di Uther venisse trasmesso con un tono leggermente di scusa. Lo guardai. «Sei venuto da me direttamente?» «Sì, mio signore.» «Senza riposarti?» «Sì.» «Quanto tempo ci hai messo?» «Quattro giorni, mio signore. Questo è un cavallo nuovo. Io sono pronto a ripartire oggi.» A questo punto l'animale levò di nuovo la testa e vidi il messaggero trasalire. «Ti sei fatto male?» «Niente di cui meriti parlare. Ieri sono caduto e mi sono fatto male al polso. È il polso destro, non la mano che mi serve per reggere le briglie.» «Già, quella che impugna la daga. Scendi alla grotta e di' al mio servo quello che hai detto a me, e digli anche che deve darti da bere e da mangiare. Quando scenderò guarderò il tuo polso.» Egli esitò. «Mio signore, il re ha insistito. Questo è più di un invito ad assistere all'incoronazione.» «Ti toccherà aspettare che il mio servo faccia i miei bagagli e che selli i cavalli. E pure che io mangi e beva. Posso fasciarti il polso in pochi minuti. E mentre io farò questo, tu potrai darmi le notizie di Londra e dirmi perché il re mi ordina in modo così pressante di intervenire alla festa. Adesso scendi; io vengo tra un momento.» «Ma, signore...» Io dissi: «Per quando Cadal avrà preparato da mangiare per noi tre, ti raggiungerò. Non puoi farmi fretta più di cosi. Adesso vai». Egli mi lanciò un'occhiata dubbiosa, poi si allontanò, scivolando senza cadere sul pendio bagnato e trascinando dietro di sé il cavallo recalcitrante. Strinsi il mantello intorno a me per ripararmi dal vento e me ne andai al di là del bosco di pini, da dove non potevo vedere la grotta. Mi fermai all'estremità di uno sperone roccioso dove il vento, scendendo
senza ostacoli dalla valle, mi strappava il mantello. Dietro di me i pini rumoreggiavano e contro quel rumore di fondo si sentivano gli aridi biancospini della tomba di Galapas scuotersi al vento. Un piviere precoce lanciò il suo grido nell'aria grigia. Alzai il viso verso il cielo e pensai a Uther e a Londra, e all'ordine appena giunto. Ma non c'era nient'altro che il cielo e i pini e il vento tra i biancospini. Guardai in un'altra direzione, in basso verso Maridunum. Da quell'altitudine potevo vedere tutta la città, piccola come un giocattolo a quella distanza. La valle era di un verde cupo nel vento di marzo. Il fiume descriveva delle anse, grigio sotto il cielo grigio. Un carro stava attraversando il ponte. Si vedeva un punto colorato, là dove uno stendardo sventolava sulla fortezza. Una barca scendeva il fiume sospinta dal vento. Le colline, ancora avvolte nel manto violaceo dell'inverno, chiudevano la valle come si potrebbe chiudere un globo di vetro nel cavo della mano... Il vento mi sferzò gli occhi con l'acqua e tutta la scena si offuscò. Il globo di cristallo era freddo nelle mie mani. Vi guardai dentro. Piccola e perfetta nel cuore del cristallo era la città, con il suo ponte, il suo fiume in movimento e la minuscola imbarcazione sospinta dal vento. Intorno a lei s'incurvavano i campi rinchiudendola, distorcendosi nella curva del cristallo finché campi, cielo, nuvole tennero la città con i suoi cittadini sgambettanti, come foglie e sepali tengono il bocciolo prima che si apra e diventi fiore. Era come se tutto il paese, tutto il Galles, tutta la Britannia, potesse essere tenuto, piccolo, scintillante e sicuro, tra le mie mani, come qualcosa racchiuso nell'ambra. Abbassai gli occhi sulla terra, contenuta in un globo di cristallo, e seppi che per questo ero stato generato. Il momento era venuto e io dovevo accettarlo con fede cieca. Il globo di cristallo si sciolse scivolando fuori delle mie mani incavate e fu solo un pugno di erbe che avevo raccolto, fredde di pioggia. Le lasciai cadere e col dorso della mano mi asciugai gli occhi bagnati. La scena sotto di me era cambiata; il carro e la barca erano spariti; la città era immobile. Scesi alla grotta dove trovai Cadal affaccendato con le sue pignatte e il giovane che già si dava da fare con le selle dei nostri cavalli. «Lascia stare» gli dissi. «Cadal, c'è acqua calda?» «In quantità. Partiamo subito, ordini del re. Londra, no?» Cadal pareva contento e non lo biasimai per questo. «Era tempo che facessimo qualcosa di diverso, se vuoi sapere come la penso. Che cosa credi che sia? Lui...» e alzando il mento indicò il giovane «pare che non lo sappia, oppure non lo dice. Guai, mi hanno l'aria di essere.»
«Puoi darsi. Lo scopriremo. Qua, meglio che tu faccia asciugare questo.» Gli diedi il mio mantello, mi sedetti accanto al fuoco e chiamai il giovane. «Adesso fammi vedere il tuo braccio.» Aveva il polso livido per il colpo, gonfio, e ovviamente gli faceva male quando si toccava, ma non c'era nessun osso rotto. Mentre lui si lavava preparai una compressa, poi gliela applicai sopra e lo fasciai. Egli mi guardava con una certa apprensione, cercava di evitare che lo toccassi e, lo sentivo, non solo per il dolore. Adesso che si era lavato e non aveva più fango e io potevo vederlo meglio, la sensazione di persona conosciuta persisteva ed era anzi ancora più forte. Gli diedi un'occhiata alzando lo sguardo dalle fasciature che stavo facendo. «Io ti conosco, non è così?» «Tu non puoi ricordarti di me, mio signore. Ma io ti ricordo. Una volta sei stato gentile con me.» Risi. «Era una cosa così rara? Come ti chiami?» «Ulfin.» «Ulfin? Mi suona familiare... Un momento. Sì, ci sono. Il ragazzo di Belasio?» «Sì. Ti ricordi di me?» «Perfettamente. Quella notte nella foresta, quando il mio cavallo si azzoppò e tu dovesti riportarlo a casa. Immagino che eri in giro quasi tutto il tempo ma ti facevi notare all'incirca quanto un topolino. Quella è la sola volta che io ricordi. Ci sarà Belasio all'incoronazione?» «È morto.» Qualcosa nel suo tono mi indusse a lanciargli un'occhiata al di sopra del polso fasciato. «Tanto lo odiavi? No, non rispondere, lo indovinai già allora, giovane com'ero. Bene, non ti chiedo perché. Gli dei sanno che neanch'io lo amavo, e io non ero il suo schiavo. Che gli è successo?» «È morto di una febbre, mio signore.» «E tu sei riuscito a sopravvivergli? Mi pare di ricordare qualche cosa su una vecchia e barbara usanza...» «Il principe Uther mi ha preso al suo servizio. Sono con lui adesso... con il re.» Parlava in fretta, distogliendo lo sguardo da me. Capii che non avrei appreso di più. «E hai sempre così paura del mondo, Ulfin?» Ma a questa domanda non rispose. Finii di bendare il polso. «Bene, è un luogo selvaggio e violento, e i tempi sono crudeli. Ma diventeranno migliori, e credo che tu collaborerai a renderli tali. Ecco fatto. Adesso prenditi qualcosa da mangiare. Cadal, ti ricordi Ulfin? Il ragazzo che ha riportato
a casa Aster quella notte che c'imbattemmo con gli squadroni di Uther, a Nemet?» «Per il cane di Mitra, è così.» Cadal lo ispezionava dalla testa ai piedi. «Che è successo al druido? È morto per una maledizione? Vieni a prendere qualcosa da mangiare. Il tuo è qui, Merlino, e bada di mangiare quel che basta a un essere umano, tanto per cambiare, e non solo quello che potrebbe tenere in vita uno dei tuoi preziosi uccelli.» «Ci proverò» dissi mitemente, poi risi dell'espressione di Ulfin che guardava alternativamente me e il mio servo. Quella notte la trascorremmo in una locanda presso il bivio, dove c'è la strada che va a nord verso le Cinque colline e la miniera d'oro. Mangiai solo nella mia camera, servito da Cadal. La porta si era appena chiusa alle spalle del servo che aveva portato i piatti, quando Cadal si rivolse a me, pieno di notizie e ansioso di comunicarle. «Be', ci dev'essere un bel movimento a Londra, a quanto pare.» «Ci sarebbe da aspettarselo» dissi io conciliante. «Ho sentito dire che c'è Budec, insieme alla maggior parte dei re di oltre lo Stretto, e che la maggior parte di loro e parecchi nobili del re hanno portato con sé le figlie considerando che una metà del trono è vacante.» Risi. «Dovrebbe andare bene a Uther.» «Dicono che già si è fatto la metà delle ragazze di Londra» disse Cadal, posando un piatto davanti a me. Era montone alla gallese, con una buona salsa di cipolla, caldo e gustoso. «Direbbero qualsiasi cosa di lui.» Cominciai a servirmi. «Potrebbe anche essere vero.» «Sì, ma sul serio, ci sono guai, dicono. Guai per una donna.» «O dio, Cadal, risparmiami. Uther è fatto apposta per avere guai per qualche donna.» «No, parlo di qualcosa di serio. Alcuni della scorta parlavano, e non è strano che Ulfin sia stato zitto. Questo è un guaio serio. La moglie di Gorlois.» Alzai lo sguardo, allarmato. «La duchessa di Cornovaglia? Non può essere.» «Non ancora. Ma dicono che non è che non ci abbia provato.» Bevvi un po' di vino. «Puoi star certo che sono solo chiacchiere. Ha meno della metà degli anni del marito, e ho sentito dire che è bella. Immagino che Uther le faccia un po' la corte, dato che il duca è il suo vicecomandan-
te, e Uther è quello che è.» Cadal abbassò i pugni sul tavolo e mi guardò. Era insolitamente solenne. «Un po' di corte, eh? Dicono che non la perde mai di vista. Ogni giorno le manda a tavola i piatti migliori, bada che sia servita per prima, anche prima di lui stesso, brinda alla sua salute davanti a tutti nella sala ogni volta che alza il bicchiere. Non si parla d'altro da Londra a Winchester. Mi dicono che nelle cucine ci scommettono sopra.» «Non ne dubito. E Gorlois non ha niente da ridire?» «Ha cercato di passarci sopra, in principio, dicono, ma la cosa è tale che non potrebbe continuare a far finta di non accorgersene. Ha tentato di credere che Uther stesse semplicemente rendendo onore a tutti e due loro, ma quando è successo che madonna Ygraine - è il nome di lei - era a sedere alla destra di Uther, e il vecchio sei posti più in là dall'altra parte...» Si fermò. Io dissi, a disagio: «Deve essere ammattito. Non può ancora permettersi dei pasticci... pasticci di qualunque genere, lasciamo stare questo in particolare, e proprio con Gorlois. Per tutti gli dei, Cadal, è stata la Cornovaglia che ha aiutato Ambrogio a entrare in Britannia, e la Cornovaglia che ha messo Uther dove si trova adesso. Chi ha vinto la battaglia di Damen Hill per lui?» «Anche gli uomini dicono la stessa cosa.» «Davvero?» Riflettei un momento, accigliato. «E la donna? Che cosa... a parte la solita roba da letamaio... che cosa dicono di lei?» «Che parla poco e parla meno ogni giorno. Certo Gorlois ha un sacco di cose da dirle la notte quando sono soli insieme. In tutti i casi, mi hanno detto che difficilmente alza gli occhi in pubblico adesso, per paura di vedere il re che la fissa da sopra il suo bicchiere, o che si china attraverso la tavola per guardare il suo vestito.» «Questo è quello che io chiamo roba da letamaio, Cadal. Volevo dire, com'è?» «Be', è proprio quello che non dicono; dicono solo che sta zitta, e che è bella come questo, quello e quell'altro.» Si raddrizzò. «Ah, no, nessuno dice che lei lo incoraggi. E Dio sa che Uther non ha proprio bisogno di comportarsi come uno che muore di fame di fronte a un bel boccone; potrebbe averne quanti ne vuole di bocconi ogni notte. Non c'è ragazza a Londra che non stia cercando di attrarre la sua attenzione.» «Ti credo. Ha bisticciato con Gorlois? Apertamente, voglio dire?» «Per quanto ho sentito, no. Anzi, lui è stato più che cordiale, e ha conti-
nuato così per la prima settimana all'incirca; il vecchio era lusingato. Ma, Merlino, mi sa che sono guai; lei ha meno della metà degli anni di Gorlois e passa la vita segregata in uno di quei vecchi castelli della Cornovaglia e non ha niente da fare se non tessere i mantelli per quando lui va in guerra e sognarci sopra, e puoi star certo che non sogna un vecchio con la barba grigia.» Spinsi da parte il piatto. Ricordo che mi sentivo ancora totalmente indifferente alla condotta di Uther. Ma l'ultima osservazione di Cadal andò un po' troppo vicina al segno per non essere scomoda. C'era stata un altra fanciulla, una volta, che non aveva nient'altro da fare che stare a casa a tessere e sognare... Dissi brusco: «Va benissimo, Cadal. Sono contento di saperlo. Spero solo che potremo tenercene al di fuori. Ho già visto Uther impazzire per una donna, ma erano sempre donne che poteva avere. Questo è un suicidio». «Impazzito, hai detto. È quello che dicono anche gli uomini» disse Cadal lentamente. «Stregato, dicono.» Mi guardò un po' di sottecchi. «Forse per questo ha mandato il giovane Ulfin così a precipizio per assicurarsi che tu saresti andato a Londra. Forse vuole che tu sia lì, per rompere l'incantesimo.» «Io non ne rompo» dissi seccamente. «Io ne faccio.» Mi fissò un momento, ringoiandosi quello che pareva sul punto di dire. Poi spostò la testa e prese la brocca del vino. Mentre mi versava il vino, in silenzio, vidi che con la sinistra faceva il segno di scongiuro. Quella sera non parlammo più. Quattro Appena fui di fronte a Uther vidi che Cadal aveva detto il vero. C erano guai seri. Arrivammo a Londra la vigilia stessa dell'incoronazione. Era tardi e le porte della città erano chiuse, ma pareva che per noi fossero stati impartiti ordini speciali, perché ci fecero passare immediatamente senza una domanda e ci portarono direttamente al castello in cui si trovava il re. Sì e no mi lasciarono il tempo di togliermi di dosso i miei indumenti infangati e mi condussero subito nella sua camera da letto dove mi introdussero. Subito i servi si ritirarono lasciandoci soli. Uther era già preparato per la notte, con una lunga veste da camera di velluto marrone scuro orlata di pelliccia. Il suo alto seggio era stato tirato
accanto a un fuoco scoppiettante e su uno sgabello lì accanto c'erano un paio di coppe e un bricco d'argento chiuso da un coperchio, con il vapore che usciva pian piano dal beccuccio. Sentii l'odore del vino aromatico entrando nella camera e la mia gola riarsa si contrasse per il desiderio, ma il re non fece alcun gesto per offrirmi da bere. Non era seduto accanto al fuoco. Andava senza tregua su e giù per la stanza come una bestia in gabbia e il suo cane lupo lo seguiva, passo a passo. Appena la porta si chiuse sui servi, disse brusco, come già mi aveva detto un'altra volta: «Te la sei presa comoda». «In quattro giorni? Avresti dovuto mandare dei cavalli migliori.» Questo lo fece fermare di colpo. Non si era aspettato che gli rispondessi. Disse, in tono abbastanza mite: «Erano i migliori delle mie scuderie». «Allora avresti dovuto trovare dei cavalli alati, se volevi una velocità più elevata di quella che abbiamo tenuto, mio signore. E uomini più resistenti. Ne abbiamo lasciati due per la strada.» Ma non mi ascoltava più. Sprofondato di nuovo nei suoi pensieri, aveva ripreso a camminare senza tregua e io lo osservavo. Aveva perso peso e si muoveva rapido e leggero, come un lupo famelico. Aveva gli occhi cerchiati per mancanza di sonno e tic che non gli conoscevo, non riusciva a tener ferme le mani. Se le stringeva dietro alle spalle, facendo scricchiolare le giunture, giocherellava con i bordi della sua veste, con la sua barba. Mi lanciò, voltando la testa indietro: «Ho bisogno del tuo aiuto». «Capisco.» Allora si voltò. «Lo sai?» Alzai le spalle. «Nessuno parla d'altro che del desiderio del re per la moglie di Gorlois. Capisco che non hai neanche tentato di nasconderlo. Ma ormai è passata più di una settimana da quando hai mandato Ulfin a prendermi. Che è successo, nel frattempo? Gorlois e sua moglie sono ancora qui?» «Certo che sono ancora qui. Non possono andarsene senza il mio permesso.» «Capisco. È stato detto qualcosa fra te e Gorlois?» «No.» «Ma lui deve saperlo.» «Per lui è la stessa cosa che per me. Una volta che questa cosa è stata formulata con parole, nulla potrà più fermarla. E domani c'è l'incoronazione. Non posso parlare con lui.»
«E con lei?» «No. No. Ah, Dio, Merlino, non posso avvicinarmi a lei. Le fanno la guardia come a Danae.» Aggrottai la fronte. «Le ha messo intorno delle guardie, eh? Certo questo è abbastanza insolito da costituire una pubblica ammissione che c'è qualcosa che non va.» «Voglio dire soltanto che i servi di lui le stanno sempre intorno, e anche i suoi uomini. Non solo la guardia del corpo di lui... molte delle sue truppe da combattimento sono ancora qui, quelle che erano con noi nel nord. Mi posso avvicinare a lei solo in pubblico, Merlino. Questo te l'avranno detto.» «Sì. Sei riuscito a farle pervenire qualche messaggio in privato?» «No. Si difende. Tutto il giorno sta con le sue donzelle, e i suoi servi fanno la guardia alla porta. E lui...» S'interruppe. Aveva il viso imperlato di sudore. «Lui è con lei ogni notte.» Si allontanò di nuovo facendo turbinare la veste di velluto e percorse a passo felpato tutta la camera, fino alla parte non illuminata dal fuoco. Poi si voltò. Allargò le mani e parlò semplicemente, come un ragazzo. «Merlino, che cosa devo fare?» Attraversai la stanza fino al focolare, sollevai il bricco e versai due coppe di vino aromatico bollente. Ne porsi uno a lui. «Tanto per cominciare, mettiti a sedere. Non posso parlare con una folata di vento. Qua.» Lui ubbidì, sprofondando nell'alto seggio con la coppa tra le mani. Io bevvi la mia, con piacere, poi mi sedetti dall'altro lato del focolare. Uther non bevve. Pensai che non sapeva neppure che cosa avesse tra le mani. Fissava il fuoco attraverso il vapore che si diradava uscendo dalla coppa. «Appena lui l'ha portata qui e me l'ha presentata, l'ho saputo. Dio sa se dapprima non ho creduto che non fosse più di un'altra febbre passeggera, come me n'erano capitate migliaia prima di allora, solo questa volta mille volte più forte...» «E di cui guarire» dissi «in una notte, una settimana di notti, un mese. Non so qual è il periodo più lungo in cui una donna ha durato con te, Uther, ma un mese, o anche tre, sono abbastanza perché si mandi in rovina un regno?» Lo sguardo che mi lanciò, azzurro come il lampeggiare di una spada, era uno sguardo del vecchio Uther che ricordavo. «Per l'Ade, perché credi che ti abbia mandato a chiamare? Avrei potuto mandare in rovina il mio regno ogni momento, nelle settimane passate, se mi fosse garbato. Perché credi
che tutto questo non sia ancora al di là della follia? Ah, sì, riconosco che c'è stata follia, ma ti dico che questa è una febbre, e non come quelle che ho già avuto e poi smesso di avere. Questa mi brucia in modo tale che non posso dormire. Come posso comandare e combattere e trattare con gli uomini se non posso dormire?» «Ti sei portato a letto una ragazza?» Mi guardò, poi bevve. «Sei matto?» «Perdonami, era una domanda stupida. E neanche così dormi?» «No.» Appoggiò accanto a sé la coppa e si strinse le mani. «È inutile. Tutto è inutile. Tu devi portarla da me, Merlino. Tu sai le arti magiche. Per questo ti ho mandato a cercare. Tu devi portarla da me in modo che nessuno lo sappia. Far sì che lei mi ami. Portarla qui da me mentre lui dorme. Tu puoi farlo.» «Far sì che ti ami? La mia magia? No, Uther, questa è una cosa che la magia non può fare. Devi saperlo.» «È qualcosa che qualsiasi vecchia giura di saper fare. E tu... tu hai il potere più di qualsiasi essere umano. Tu hai sollevato le Pietre pendenti. Tu hai sollevato la pietra del re, mentre Tremorino non è riuscito a farlo.» «Le mie cognizioni matematiche sono migliori delle sue, questo è tutto. Per amor di Dio, Uther, qualsiasi cosa ne dicano, tu lo sai com'è stato fatto. Non era magia.» «Tu hai parlato con mio fratello mentre lui moriva. Vuoi negarlo, adesso?» «No.» «E neppure che giurasti di servirmi quando io ne avessi avuto bisogno?» «No.» «Ho bisogno di te adesso. Del tuo potere, qualsiasi cosa sia. Osi dirmi di non essere un mago?» «Non sono quel tipo di mago che attraversa i muri» dissi «e che trasporta corpi attraverso porte chiuse.» Lui fece una mossa brusca e vidi la lucentezza febbrile dei suoi occhi, provocata questa volta, pensai, non dall'ira ma dal dolore. Aggiunsi: «Ma non ho rifiutato di aiutarti». Gli occhi scintillarono: «Mi aiuterai?». «Sì, ti aiuterò. Ti dissi, l'ultima volta in cui ci vedemmo, che sarebbe venuto il momento in cui avremmo dovuto fare qualcosa in comune. Questo è il momento. Ancora non so che cosa devo fare, ma questo mi verrà mostrato e il risultato è nelle mani del dio. Ma una cosa posso fare per te, stanotte. Posso fard dormire. No, stai fermo e ascoltami... Se devi essere inco-
ronato domani, e prendere tra le tue mani la Britannia, stanotte farai come ti dico io. Io ti preparerò una bevanda che ti farà dormire, e tu ti porterai a letto una ragazza come al solito. Potrebbe essere meglio che ci sia qualcuno, oltre al tuo servo, che giuri che eri nella tua camera.» «Perché? Che cosa hai intenzione di fare?» La sua voce rivelava la tensione. «Cercherò di parlare con Ygraine.» Lui era seduto un po' chino in avanti, le mani strette sui braccioli. «Sì. Parlale. Forse puoi arrivare da lei mentre io non posso. Dille...» «Un momento. Poco fa mi hai detto che dovevo far sì che ti amasse. Tu vuoi che invochi qualsiasi potere esistente per portarla a te. Se non le hai mai parlato del tuo amore e non l'hai mai vista fuorché in pubblico, come sai che verrebbe da te, anche se la via fosse libera? Conosci forse il suo pensiero, mio signore re?» «No. Essa non dice niente. Sorride, con gli occhi a terra, e non dice niente. Ma io lo so. Lo so. È come se tutte le altre volte avessi giocato all'amore solo con qualche nota isolata. Messe insieme, formano una canzone. Lei è la canzone.» Ci fu un silenzio. Dietro di lui, su una predella nell'angolo della stanza, c'era il letto, pronto per il sonno. Sopra al letto, sulla parete, rampante, c'era un grande drago di oro rosso. Alla luce del fuoco si muoveva, stendendo gli artigli. Uther disse a un tratto: «L'ultima volta che ci siamo parlati, in mezzo alle Pietre pendenti, hai detto che non volevi niente da me. Ma per tutti gli dei, Merlino, se adesso mi aiuti, se io posso averla e senza incidenti, puoi chiedermi tutto quello che vuoi. Lo giuro». Scossi la testa e lui non aggiunse altro. Credo capisse che non pensavo più a lui; che altre forze mi incalzavano, facendo ressa nella camera illuminata dal fuoco. Il drago splendeva e mandava bagliori sulla parete scura. Nella sua ombra, un'altra ombra si muoveva, fondendosi con quella, fiamma nella fiamma. Qualcosa mi colpì gli occhi, dolorosa come un artiglio. Li chiusi e ci fu silenzio. Quando li riaprii il fuoco si era spento e la parete era buia. Guardai il re, immobile sul suo seggio, intento a guardarmi. Dissi, lentamente: «Ti chiederò una cosa, adesso». «Sì?» «Che quando io ti porterò da lei senza incidenti, tu generi un figlio.» Qualsiasi cosa si fosse aspettato, non era questa. Mi guardò con gli occhi spalancati poi, a un tratto, rise. «Questo è nelle mani degli dei, no?»
«Sì, è nelle mani di Dio.» Si allungò di nuovo nella sua sedia, come se gli avessero tolto un peso dalle spalle. «Se vado da lei, Merlino, ti prometto che quanto è in mio potere di fare lo farò. E qualsiasi altra cosa tu mi chieda. Anche di dormire stanotte.» Mi alzai. «Allora vado a farti la pozione e te la mando.» «E la vedrai?» «La vedrò. Buona notte.» Ulfin dormiva quasi in piedi fuori della porta. Sbatté le palpebre vedendomi uscire. «Devo entrare adesso?» «Tra un minuto. Prima vieni nella mia camera e ti darò una bevanda per lui. Bada che la prenda. Lo farò dormire. Domani sarà una lunga giornata.» C'era una ragazza che dormiva in un angolo, avvolta in una coperta azzurra su un mucchio di cuscini. Mentre le passavamo accanto, vidi la curva di una spalla nuda e una cascata di lisci capelli castani. Pareva molto giovane, Guardai Ulfin sollevando le sopracciglia e lui annuì, poi alzando il mento indicò la porta chiusa con uno sguardo interrogativo. «Sì,» dissi «ma non subito. Quando gli porterai la bevanda. Adesso lasciala dormire. Dall'aspetto si direbbe che anche a te un po' di sonno non farebbe male.» «Se stanotte lui dorme, potrò dormire un po' anch'io.» Mi rivolse un accenno di sorriso. «Falla forte, ti prego, mio signore. E bada che abbia un buon sapore.» «Ah, la berrà comunque, non temere.» «Non pensavo a questo» disse Ulfin. «Pensavo a me.» «A te? Ah, capisco, vuoi dire che ti toccherà assaggiarla prima?» Annuì. «Devi assaggiare tutto? Tutto quello che mangia. Anche i filtri d'amore?» «I filtri d'amore? Per lui?» Mi guardava a bocca spalancata. Poi rise. «Ah, stai scherzando!» Sorrisi. «Volevo vedere se sai ridere. Eccoci qua. Aspetta, adesso, ci metterò un minuto.» Cadal mi aspettava nella mia camera, accanto al fuoco. Era una stanza comoda nella curva di una parte della torre, e Cadal aveva tenuto acceso un bel fuoco allegro mentre un grosso caldaio d'acqua fumava sugli alari di
ferro. Aveva tirato fuori una veste da camera di lana e l'aveva stesa sul letto. Su una cassapanca accanto alla finestra c'era un mucchio di vestiti, un luccichio di tessuti d'oro, porpora e pelliccia. «Che roba è?» chiesi, sedendomi per farmi togliere le scarpe. «Il re ha mandato una veste per domani, mio signore.» Cadal, sbirciando il ragazzo che versava l'acqua, teneva un linguaggio ufficiale. Notai che la mano del ragazzo tremava leggermente, e che l'acqua si rovesciava sul pavimento. Appena ebbe finito, ubbidiente a un gesto di Cadal, si affrettò ad andarsene. «Che ha quel ragazzo?» «Non capita tutte le sere di preparare il bagno a un mago.» «Per amor di Dio. Che cosa gli hai raccontato?» «Solo che l'avresti trasformato in pipistrello se non ti serviva bene.» «Sciocco. No, un momento, Cadal. Portami la mia cassetta. Ulfin sta aspettando di fuori. Gli ho promesso di preparare una pozione.» Cadal ubbidì. «Che succede? Il suo braccio va ancora male?» «Non è per lui. Per il re.» «Ah.» Non fece altri commenti, ma quando la pozione fu pronta e Ulfin se ne fu andato, mentre mi stavo spogliando per il bagno, chiese: «Va male come dicono?». «Peggio.» Gli feci un breve resoconto della mia conversazione con il re. Mi ascoltò fino alla fine, accigliato. «E che bisogna fare, adesso?» «Trovare il modo di vedere madonna. No, non la veste da camera; non ancora, ahimè. Trovami una veste pulita... qualcosa di scuro.» «Di certo non andrai da lei stanotte? Mezzanotte è passata da un pezzo.» «Non andrò in nessun posto. Chiunque stia venendo, verrà da me.» «Ma Gorlois sarà con lei...» «Basta adesso, Cadal. Ho bisogno di riflettere. Lasciami solo. Buona notte.» Quando la porta si fu richiusa dietro di lui, mi diressi alla sedia accanto al fuoco. Non era vero che avevo bisogno di tempo per riflettere. Tutto quel che mi serviva era il silenzio, e il fuoco. Poco alla volta, lentamente, feci il vuoto nella mia mente, lasciando che il pensiero scivolasse fuori di me come la sabbia da un vaso, mentre io rimanevo vuoto e leggero. C'era una gran calma. Da un angolo scuro della stanza, chissà quale, venne lo scricchiolio del legno vecchio che si assestava nella notte. Il fuoco guizzò. Io l'osservavo, con la mente assente però, come qualsiasi uomo potrebbe
osservare le fiamme per ricavarne una sensazione piacevole in una notte fredda. Non avevo bisogno di sognare. Ero disteso, leggero come una foglia secca, sul fiume che scorreva quella notte per incontrare il mare. Fuori della porta ci furono a un tratto rumori, voci. Qualcuno bussò leggermente ed entrò Cadal, chiudendosi la porta alle spalle. Aveva un'aria circospetta e un po' timorosa. «Gorlois?» chiesi. Deglutì, poi annuì. «Va bene, fallo entrare.» «Ha chiesto se eri stato a vedere il re. Gli ho detto che eri arrivato sì e no da un paio d'ore e che non avevi avuto tempo di vedere nessuno. Ho fatto bene?» Sorrisi. «Hai avuto un'ispirazione. Adesso fallo passare.» Gorlois entrò svelto e io mi alzai per salutarlo. Si notava in lui, pensai, un cambiamento altrettanto importante di quello che avevo visto in Uther; la sua struttura possente era incurvata e per la prima volta si notava subito che era vecchio. Ignorò la formalità del mio saluto. «Non sei ancora a letto? Mi avevano detto che eri arrivato da poco.» «Appena in tempo per l'incoronazione, ma dopo tutto riuscirò a vederla. Vuoi sederti, mio signore?» «Grazie, no. Sono venuto a chiederti aiuto, Merlino, per mia moglie.» Gli occhi penetranti mi sbirciavano da sotto le sopracciglia grigie. «Nessuno potrebbe dire che cosa pensi, ma questo l'hai sentito, vero?» «C'erano delle chiacchiere,» dissi cautamente «ma del resto ci sono sempre state chiacchiere su Uther. Non ho sentito nessuno arrischiare una parola contro tua moglie.» «Per Dio, meglio che non ci si provino! Ma non è per questo che sono venuto stanotte. Per quello non potresti fare niente... benché forse tu sia l'unica persona che potrebbe fare un po' ragionare il re. Adesso tu non lo avvicinerai fin dopo l'incoronazione, ma potresti convincerlo a lasciarci tornare in Cornovaglia senza aspettare la fine della festa... Mi faresti questo piacere?» «Se posso.» «Sapevo di poter contare su di te. Così come stanno le cose proprio adesso in città, è difficile sapere chi è veramente un amico. Non è facile contraddire Uther. Ma tu potresti farlo... e la cosa più importante è che ne avresti il coraggio. Sei figlio di tuo padre, e per amore del mio vecchio
amico...» «Ho detto che l'avrei fatto.» «Che c'è? Stai male?» «Non è niente. Sono stanco. La cavalcata è stata dura. Vedrò il re domani mattina presto, prima che esca per l'incoronazione.» Egli abbozzò un cenno di ringraziamento. «Non sono venuto a chiederti solo questo. Vorresti venire a visitare mia moglie stanotte?» Ci fu una pausa di assoluto silenzio, così prolungata che pensai dovesse notarla. Poi io dissi: «Se lo desideri, sì. Ma perché?». «È malata, ecco perché, e io vorrei che tu venissi a vederla, se vuoi. Quando le sue donne le hanno detto che eri qui a Londra, mi ha pregato di mandarti a chiamare. Te lo dico io, ho accolto con gratitudine la notizia del tuo arrivo. Non ci sono molti di cui mi fiderei in questo momento, ed è sacrosanta verità. Ma di te mi fido.» Vicino a me Un pezzo di legno si sgretolò e cadde in mezzo al fuoco. Le fiamme guizzarono, macchiandogli il viso di rosso, come sangue. «Verrai?» chiese il vecchio. «Certo.» Distolsi lo sguardo da lui. «Vengo immediatamente.» Cinque Uther non aveva esagerato dicendo che madonna Ygraine era ben sorvegliata. Lei e il suo signore erano alloggiati in una magione a ovest degli appartamenti del re e a una certa distanza da questi, e la magione era affollata di uomini d'arme della Cornovaglia. C'erano uomini armati anche nell'anticamera, e nella camera da letto sostava una mezza dozzina di donne. Quando entrammo, la più vecchia, una donna con i capelli grigi e l'espressione preoccupata, venne avanti mostrandosi subito sollevata. «Principe Merlino.» Piegò le ginocchia davanti a me, guardandomi con timore riverenziale, e mi condusse verso il letto. La camera era calda e profumata. Nelle lampade ardeva olio dolce e il fuoco era di legno di melo. Il letto era al centro della parete, di fronte al fuoco. I cuscini erano di seta grigia, con nappine dorate, e il copriletto riccamente lavorato con fiori, strani animali e creature alate. La sola camera di donna, oltre quella, che avessi mai visto era quella di mia madre, con il semplice letto di legno, la cassapanca di quercia intarsiata, il telaio e il mosaico rotto del pavimento. Avanzai e rimasi ai piedi del letto, guardando la moglie di Gorlois.
Se mi avessero chiesto com'era non sarei riuscito a dirlo. Cadal mi aveva detto che era bella e io avevo visto quella fame sul viso del re, perciò sapevo che era desiderabile; ma mentre me ne stavo lì fermo nella bella stanza profumata e guardavo la donna con gli occhi chiusi che si appoggiava ai cuscini di seta grigia, non era una donna quella che vedevo. E non vedevo neppure la camera o le altre persone presenti. Vedevo solo il balenio della luce come in un globo di cristallo. Parlai senza spostare gli occhi dalla donna che era nel letto. «Una delle sue donne rimanga qui. Gli altri se ne vadano. Anche tu, te ne prego, mio signore.» Egli uscì senza esitare, sospingendo le donne davanti a sé come un gregge di pecore. Quella che mi aveva salutato rimase accanto al letto della sua signora. Appena la porta si chiuse sull'ultimo che usciva, la donna nel letto apri gli occhi. Per alcuni attimi di silenzio i nostri sguardi si incontrarono. Poi io dissi: «Che cosa vuoi da me, Ygraine?» Lei rispose bruscamente, senza finzioni: «Ti ho mandato a cercare, principe, perché ho bisogno del tuo aiuto». Annuii. «Per la faccenda del re.» Lei disse con franchezza: «Così già lo sai? Quando mio marito ti ha portato qui, avevi indovinato che non ero malata?». «L'avevo indovinato.» «Allora puoi anche indovinare che cosa voglio da te.» «Non del tutto. Dimmi, non avresti potuto in qualche modo parlare direttamente con il re? Ciò avrebbe potuto risparmiargli qualche cosa. E anche a tuo marito.» I suoi occhi si spalancarono: «Come potevo parlare con il re? Sei passato dal cortile?». «Sì.» «Allora hai visto le scolte di mio marito e gli uomini d'arme. Che cosa credi che sarebbe accaduto se avessi parlato a Uther? Non potevo rispondergli in pubblico e se lo avessi incontrato in segreto - ammesso che fosse possibile - non sarebbe passata un'ora che mezza Londra lo avrebbe saputo. È chiaro che non potevo parlargli né mandargli un messaggio. L'unica protezione era il silenzio.» Io dissi, con lentezza: «Se nel messaggio fosse stato scritto semplicemente che eri una moglie onesta e fedele e che egli doveva rivolgere gli occhi altrove, allora il messaggio avrebbe potuto essergli consegnato in qualsiasi momento e da qualsiasi messaggero». Sorrise. Poi chinò la testa.
Io trattenni il respiro. «Ah. Era questo che volevo sapere. Sei sincera, Ygraine.» «A che servirebbe mentire a te? Ho sentito parlare di te. Oh, non sono così ingenua da credere a tutto quello che dicono nelle canzoni e nelle storie, ma tu sei intelligente, freddo e saggio, e si dice che non ami alcuna donna e non sei legato ad alcun uomo. Perciò puoi ascoltare e giudicare.» Abbassò lo sguardo sulle sue mani, abbandonate sul copriletto, poi lo rialzò verso di me. «Ma credo che puoi prevedere il futuro. Voglio che tu mi dica come sarà il futuro.» «Io non predico la sorte come una donnetta. Per questo mi hai mandato a chiamare?» «Tu sai perché ti ho mandato a chiamare. Sei l'unico uomo con il quale posso parlare in privato senza suscitare l'ira e il sospetto di mio marito... e il re ti ascolta.» Benché fosse solo una donna, e giovane, a letto, con me in piedi accanto a lei, quella era come l'udienza di una regina. Mi guardò con molta franchezza. «Il re ti ha già parlato?» «Non c'è bisogno che mi parli. Tutti sanno che cos'è che lo fa soffrire.» «E gli dirai quello che hai saputo da me?» «Dipende.» «Da che cosa?» chiese lei. Dissi lentamente: «Da te. Finora sei stata saggia. Se fossi stata meno controllata nei modi e nelle parole, ci sarebbero stati pasticci, avrebbe potuto esserci perfino la guerra. Capisco che non hai voluto rimanere neppure un momento del tuo tempo sola o non accompagnata; hai avuto cura di essere sempre dove potevi essere vista». Mi guardò un momento in silenzio, alzando le sopracciglia. «Naturale.» «Molte donne, specie desiderando quello che tu desideri, non ne sarebbero state capaci, madonna Ygraine.» «Io non sono molte donne.» Le parole furono come un lampo. Di colpo essa si alzò a sedere, gettando indietro i capelli scuri, e respinse le coperte. La vecchia raccolse in fretta una lunga veste azzurra e si fece avanti. Ygraine se la buttò sulle spalle e saltò fuori dal letto, poi cominciò a camminare senza tregua tra il letto e la finestra. In piedi, era alta per una donna, con forme che avrebbero potuto fare impressione a qualcuno anche più austero di Uther. Il collo era lungo e sottile, la testa aveva un atteggiamento pieno di grazia. I capelli scuri le fluivano sciolti sulle spalle. I suoi occhi erano azzurri, non l'azzurro selvaggio di quelli di Uther, ma l'azzurro scuro, profondo dei celti. La bocca
era orgogliosa. Era molto bella, e non era un giocattolo per un uomo. Se Uther la voleva, pensai, avrebbe dovuto farla regina. Si era fermata proprio prima di arrivare alla finestra. Se vi si fosse avvicinata, avrebbero potuto vederla dal cortile. No, non era una donna da perdere la testa. Si voltò. «Sono figlia di re e discendo da una stirpe di re. Non vedi come devo esser stata indotta anche a ragionare come ragiono adesso?» Ripeté con passione: «Non lo vedi? Mi sono sposata a sedici anni con il duca di Cornovaglia; è un brav'uomo: io l'onoro e lo rispetto. Prima di venire a Londra ero quasi soddisfatta di intristire e di morire laggiù in Cornovaglia, ma lui mi ha portato qui e adesso è successo. Adesso so quello che devo avere, ma è al di là delle mie possibilità averlo, al di là delle possibilità della moglie di Gorlois di Cornovaglia. Perciò che altro vorresti che facessi? Non c'è niente da fare se non aspettare qui e tacere, perché dal mio silenzio dipende non solo il mio onore e quello di mio marito e della mia casa, ma la salvezza del regno per il quale Ambrogio è morto, e che anche Uther ha appena suggellato con il sangue e con il fuoco.» Si girò, fece due passi rapidi e tornò. «Non sono la spregevole Elena per cui gli uomini debbano combattere, morire, distruggere regni. Io non rimango in attesa sulle mura come premio di un muscoloso vincitore. Non posso disonorare Gorlois e il re agli occhi degli uomini. E non posso andare da lui in segreto e disonorarmi ai miei stessi occhi. Sono una donna consumata d'amore, si. Ma sono anche Ygraine di Cornovaglia.» Io dissi, freddo: «Perciò intendi aspettare finché potrai andare da lui onorevolmente, come sua regina?». «Che altro posso fare?» «Era questo il messaggio che dovevo trasmettergli?» Essa rimase in silenzio. Dissi: «Oppure hai voluto che venissi qui per leggerti il futuro? Per dirti la lunghezza della vita di tuo marito?». Lei non diceva ancora niente. «Ygraine,» dissi «i due punti sono uno solo. Se io dico a Uther che tu lo ami e lo desideri ma che non andrai da lui finché vive tuo marito, quale durata profetizzeresti per la vita di Gorlois?» Lei non disse ancora niente. Il dono del silenzio, anche quello, pensai. Io ero fermo tra lei e il fuoco. Guardai la luce che colpiva, che ondeggiava sulla veste bianca e sulla veste azzurra, luce e ombra che s'increspavano come acqua corrente o come il vento sull'erba. Una fiamma guizzò e la mia
ombra balzò sulla sua e crebbe, salendo con la luce che pulsava a incontrare la sua ombra che saliva e a unirsi con quella, sicché lì sul muro dietro di lei s'innalzò... non un drago d'oro o scarlatto, non una meteora con la coda in fiamme, ma una grande forma nuvolosa d'aria e di tenebre, proiettata li dalla fiamma, che sprofondò quando la fiamma sprofondò, per contrarsi e fissarsi finché fu solo l'ombra di lei, l'ombra di una donna, sottile e diritta, come una spada. E dov'ero io non c'era niente. Essa si mosse e la luce della lampada ricostruì la stanza intorno a noi, calda, concreta e odorosa di legno di melo. Lei mi guardava e sul suo viso c'era qualcosa che prima non c'era stato. Alla fine disse, con voce tranquilla: «Ti avevo detto che nulla ti era nascosto. Fai bene a metterlo in parole. Tutto questo io l'avevo pensato. Ma speravo che facendoti venire avrei potuto assolvermi e assolvere il re». «Quando un pensiero oscuro è tradotto in parole è nella luce. Avresti potuto soddisfare il tuo desiderio da un pezzo alle condizioni di qualsiasi altra donna, così come avrebbe potuto il re alle condizioni di qualsiasi altro uomo.» M'interruppi. Tutto adesso era immobile. Le parole mi vennero chiare, chissà da dove, senza che io dovessi rifletterci. «Ti dirò io, se lo desideri, come puoi soddisfare l'amore del re alle tue condizioni e alle sue, senza disonore per te o per lui, e neppure per tuo marito. Se ti dico questo, andrai da lui?» Gli occhi le erano diventati più grandi, e c'era un bagliore in quello sguardo, mentre parlavo. Ma pure così essa si prese il tempo per pensare. «Sì.» La sua voce non mi disse niente. «Se mi ubbidirai, potrò far questo per te» dissi. «Dimmi che cosa devo fare.» «Allora ho la tua promessa?» «Vai troppo in fretta» disse lei seccamente. «Forse che tu suggelli un patto prima di vedere a che cosa ti impegni?» Sorrisi. «No. Va benissimo, allora, ascoltami. Quando hai finto di star male perché mi portassero da te, che cosa hai detto a tuo marito e alle tue donne?» «Solo che mi sentivo debole e che stavo male, e non mi andava la compagnia. Che se dovevo apparire accanto a mio marito all'incoronazione dovevo vedere un medico stanotte e prendere una medicina.» Sorrise in modo un po' obliquo. «Mi ero preparata la strada, oltre tutto, per non stare accanto al re alla festa.» «Fin qui, va bene. Dirai a Gorlois che sei incinta.»
«Che sono incinta?» Per la prima volta parve scossa. Mi fissò. «È possibile? Lui è vecchio, ma credevo...» «È possibile. Ma io...» Si morse le labbra. Dopo un momento disse con calma: «Continua. Ho chiesto il tuo consiglio, perciò devo permetterti di darmelo». Non avevo mai conosciuto prima d'allora una donna con cui non fosse necessario scegliere le parole, alla quale fosse possibile parlare come avrei parlato a un uomo. Dissi: «Tuo marito non può aver motivo di sospettare che sei incinta di un altro uomo. Perciò gli dirai questo, e gli dirai anche che hai paura per il bambino se rimani ancora a Londra, con la tensione provocata dai pettegolezzi e dalle attenzioni del re. Digli che desideri partire appena conclusa l'incoronazione. Che non vuoi andare alla festa, ricevere un trattamento particolare dal re e trovarti al centro di tutti gli sguardi e di tutti i pettegolezzi. Partirai con Gorlois e con le sue truppe domani, prima che le porte siano chiuse al tramonto. Uther non ne avrà notizia finché durerà la festa.» «Ma...» mi fissava di nuovo «è follia. Avremmo potuto andarcene in qualsiasi momento durante le ultime tre settimane se avessimo voluto rischiare l'ira del re. Dobbiamo rimanere qui finché lui ci dà licenza di parure. Se ce ne andiamo così, per qualsiasi ragione...» La interruppi. «Uther non può far niente il giorno dell'incoronazione. Deve rimanere qui per i giorni dei festeggiamenti. Credi che possa recare offesa a Budec e a Merrovio e agli altri re qui raccolti? Tu sarai in Cornovaglia prima ancora che lui possa muoversi.» «E poi si muoverà.» Fece un gesto d'impazienza. «E ci sarà la guerra, mentre adesso dovrebbe fare e aggiustare, non rompere e bruciare. E non può vincere: se è vincitore sul campo, perde la fedeltà della regione occidentale. Vincere o perdere. La Britannia è divisa e ripiomba nelle tenebre.» Si, sarebbe stata una regina. Era infiammata per Uther non meno di quanto lui lo fosse per lei, eppure poteva ancora ragionare. Era più intelligente di Uther, lucida e, pensai, anche più forte. «Ah, sì, si muoverà.» Alzai una mano. «Ma stammi a sentire. Io parlerò al re prima dell'incoronazione. Egli saprà che la storia che hai raccontato a Gorlois è una bugia. Saprà che ti ho detto di tornare in Cornovaglia. Fingerà rabbia e giurerà pubblicamente di vendicarsi dell'insulto recatogli da Gorlois all'incoronazione... E si preparerà a seguirti in Cornovaglia non appena la festa è finita...» «Ma nel frattempo le nostre truppe saranno uscite da Londra senza in-
convenienti. Sì, vedo. Non ti avevo capito. Continua.» Infilò le mani nelle maniche della veste azzurra e si strinse i gomiti, sostenendosi i seni. Non aveva tutta quella calma glaciale che pareva, madonna Ygraine. «E allora?» «E tu sarai al sicuro a casa» dissi «e il tuo onore e l'onore della Cornovaglia saranno inviolati.» «Al sicuro, sì. Sarò a Tintagel e li neppure Uther può arrivare fino a me. Hai mai visto la fortezza, Merlino? Le scogliere di quella costa sono alte e crudeli; da loro si diparte uno stretto ponte di roccia, l'unico passaggio che conduca all'isola su cui si erge il castello. Il ponte è cosi stretto che gli uomini possono percorrerlo solo uno alla volta, neppure un cavallo può passarci. Anche l'estremità del ponte verso la terra è difesa da una fortezza situata al centro della scogliera, e nel castello c'è acqua e cibo per un anno. È il luogo più difeso di tutta la Cornovaglia. Non può essere preso da terra ed è impossibile avvicinarvisi dal mare. Se vuoi chiudermi per sempre lontana da Uther, quello è il posto adatto.» «L'ho sentito dire. Questo sarà, allora, il luogo in cui Gorlois ti manderà. Se Uther ti segue, madonna, Gorlois si limiterebbe ad aspettarlo nella fortezza con te per un anno come una bestia in trappola? E le sue truppe potrebbero esser fatte entrare con lui?» Essa scosse la testa. «Se non può essere presa, non può neanche essere usata come base. Tutto quello che si può fare è aspettare che finisca l'assedio.» «Allora devi persuaderlo che, a meno che non voglia aspettare lì dentro mentre le truppe del re devastano la Cornovaglia, deve uscire fuori, dove può combattere.» Lei batté le mani. «Lo farà. Non potrebbe restare ad aspettare nascosto mentre la Cornovaglia soffre. E io non riesco a capire il tuo piano, Merlino. Se stai cercando di salvare il tuo re e il tuo regno da me, dillo. Posso fingere di essere malata qui, finché Uther pensa che deve lasciarmi andare a casa. Potremmo andarcene senza ingiuria e senza spargimento di sangue.» «Hai detto che avresti ascoltato. Il tempo stringe» dissi io aspro. Lei era di nuovo calma. «Ti ascolto.» «Gorlois ti chiuderà a Tintagel. Lui dove andrà ad affrontare Uther?» «A Dimilioc. È a qualche miglio da Tintagel, risalendo la costa. È una buona fortezza e anche la regione è buona per combattere di lì. Ma poi? Credi che Gorlois non combatterà?» Si avvicinò al fuoco e si sedette, e
vidi che cercava di tener ferme le mani aprendo le dita sul ginocchio. «E credi che il re verrà da me a Tintagel, che Gorlois ci sia o non ci sia?» «Se farai come ti ho pregato di fare, tu e il re potrete parlare e trarre piacere l'uno dall'altra. E farai questo in pace. No...» lei aveva alzato bruscamente la testa «questa parte lasciala a me. Qui è il punto in cui arriviamo alla magia. Fidati di me per il resto. Limitati ad andare a Tintagel e aspetta. Io ti porterò Uther. E ti prometto adesso, per il re, che egli non darà battaglia a Gorlois e che dopo che tu e lui vi sarete incontrati nell'amore la Cornovaglia avrà la pace. E come questo avverrà, è nelle mani di Dio. Io posso solo dirti quello che so. Qualsiasi potere sia in me ora, mi viene da lui e noi siamo nelle sue mani per fare o per distruggere. Ma posso dirti anche questo, Ygraine, che ho visto un fuoco chiaro brillare, e nel fuoco una corona e una spada, diritta sopra un altare come una croce.» Essa si alzò in fretta e per la prima volta nei suoi occhi c'era una specie di paura. Aprì la bocca come se volesse parlare, poi richiuse di nuovo le labbra e si diresse ancora verso la finestra. Si fermò di nuovo a poca distanza da questa, ma la vidi sollevare la testa come se le mancasse l'aria. Avrebbe dovuto avere le ali. Se aveva trascorso la sua gioventù murata a Tintagel, non era strano che desiderasse volare. Alzò le mani e spinse indietro i capelli che le cadevano sulla fronte. Parlò rivolta verso la finestra, senza guardarmi. «Farò così. Se gli dico che aspetto un bambino, mi porterà a Tintagel. È lì che sono nati tutti i duchi di Cornovaglia. E poi devo fidarmi di te.» Allora si voltò e mi guardò, lasciando cadere le mani. «Se solo potessi parlargli... anche solo questo... Ma se attraverso me avrai portato uno spargimento di sangue in Como vaglia, o la morte a mio marito, allora passerò il resto della mia vita a pregare tutti gli dei che esistono che anche tu, Merlino, muoia tradito da una donna.» «Sono disposto ad affrontare le tue preghiere. E adesso devo andare. C'è qualcuno che tu possa mandare con me? Preparerò una pozione per te e te la manderò. Sarà solo papavero; puoi prenderla e non temere.» «Può venire Ralf, il mio paggio. Lo troverai fuori della porta. È nipote di Marcia, e ci si può fidare di lui come io mi fido di lei.» Fece un cenno alla vecchia che si mosse per aprirmi la porta. «Allora per qualsiasi messaggio che possa esser necessario farti arrivare» dissi «lo manderò per suo tramite facendolo portare dal mio uomo, Cadal. E ora buona notte.» Quando uscii, era ferma immobile al centro della stanza, con. la luce del
fuoco che le danzava intorno. Sei Compimmo il viaggio verso la Cornovaglia a una velocità pazzesca. Pasqua quell'anno era caduta presto come non mai, perciò eravamo a mala pena fuori dell'inverno quando, una notte buia e tempestosa, fermammo i nostri cavalli in cima alla scogliera presso Tintagel e guardammo in basso sfidando il vento. Eravamo solo noi quattro, Uther, io, Ulfin e Cadal. Ogni cosa, fino a quel momento, era andata liscia e secondo il piano. Ci avvicinavamo alla mezzanotte del ventiquattro marzo. Ygraine mi aveva ubbidito alla lettera. Non avevo osato, quella notte a Londra, andare direttamente dal suo alloggio alla camera di Uther, per paura che questo venisse poi riferito a Gorlois; ma comunque Uther dormiva. Ero stato a trovarlo di buon'ora la mattina seguente, mentre si faceva il bagno e si preparava all'incoronazione. Lui aveva mandato via i suoi servi, salvo Ulfin, e avevo potuto dirgli esattamente quello che doveva fare. Gli aveva giovato quella notte di sonno drogato; mi salutò abbastanza vivacemente e rimase ad ascoltare con gli occhi chiari e incavati colmi di impazienza. «E lei farà come tu le hai detto?» «Sì. Ho la sua parola. Tu lo farai?» «Sai che lo farò.» Mi guardò con franchezza. «E adesso non mi dici il risultato?» «Te l'ho detto. Un bambino.» «Ah, quello.» Sollevò le spalle impaziente. «Sei come mio fratello; non pensava ad altro... Lavori ancora per lui, immagino?» «Se vuoi.» «Bene, prima o poi devo averne uno, immagino. No, intendevo Gorlois. Che gli accadrà? C'è rischio, di certo?» «Non si fa niente senza rischio. Devi fare come me, devi accettare il momento con fede cieca. Però posso dirti che il tuo nome, e il tuo regno, sopravviveranno a questa notte.» Un breve silenzio. Egli mi misurò con lo sguardo. «Detto da te, suppongo che sia abbastanza. Sono soddisfatto.» «Fai bene a esserlo. Tu sopravvivrai a lui, Uther.» Ebbe un riso improvviso. «Per il martirio di Dio, uomo, questo potevo profetizzarmelo da solo. Ho trent'anni di meno e lui, non è uno che se ne
rimanga a casa quando c'è la guerra. E questa è una buona ragione perché io rifiuti di macchiarmi le mani del suo sangue. Perciò, per la stessa considerazione...» Allora si voltò a Ulfin e cominciò a impartirgli ordini. Era di nuovo il solito Uther, scattante, conciso, chiaro. Un messaggero doveva partire immediatamente per Caerleon, da dove avrebbero dovuto essere inviate delle truppe verso la Cornovaglia settentrionale. Uther stesso vi sarebbe andato direttamente da Londra appena gli fosse stato possibile, viaggiando veloce con una piccola guardia del corpo fino al punto dove sarebbero state accampate le sue truppe. In questo modo il re avrebbe potuto seguire da vicino Gorlois, anche se questi fosse partito quel giorno stesso mentre il re doveva rimanere a festeggiare i suoi pari per altri quattro lunghi giorni. Un altro uomo doveva compiere immediatamente il percorso che avremmo poi seguito verso la Cornovaglia e vedere che fossero tenuti pronti buoni cavalli lungo tutta la strada, a brevi intervalli. Così tutto andò come avevo progettato. Vidi Ygraine all'incoronazione, calma, composta, eretta e con gli occhi bassi, e così pallida che se non l'avessi vista la notte precedente avrei creduto anche io alla storia. Non finirò mai di meravigliarmi delle donne. Anche dotati di potere, non è possibile leggere nel loro pensiero. Duchessa e prostituta in questo sono identiche, non hanno neppure bisogno di riflettere per ingannare. Immagino che sia lo stesso con gli schiavi, che vivono nella paura, e con quegli animali che si camuffano per l'istinto di salvarsi la vita. Essa rimase seduta durante tutta la lunga, vivace cerimonia, come cera che in qualsiasi momento potesse sciogliersi e crollare; poi colsi lo sguardo di lei che, sostenuta dalle sue donne, si allontanava dalla folla mentre lo splendido corteo si spostava lentamente verso la sala dei festeggiamenti. Circa a metà del banchetto, quando il vino era già scorso in abbondanza, vidi Gorlois che senza farsi notare lasciava la sala con un paio di altri uomini che dovevano soddisfare un bisogno naturale. Non ritornò nella sala. Uther, per essere uno che conosceva la verità, forse non fu altrettanto convincente di Ygraine, ma tra la spossatezza, il vino, la sua ardente esaltazione e quello che doveva venire, convincente lo fu abbastanza. Gli uomini parlavano tra loro, abbassando la voce, del suo furore quando aveva scoperto l'assenza di Gorlois e dei suoi irati propositi di vendetta non appena i suoi regali ospiti se ne furono andati. Se anche quell'ira era un tantino troppo accentuata e quelle minacce eccessive essendo dirette contro un duca la cui unica colpa era il desiderio di proteggere la propria moglie, il re
si era già mostrato abbastanza violento prima d'allora perché gli uomini non vedessero la scena come parte dello stesso quadro. E così lucente era allora la stella di Uther, così radioso lo splendore dell'incoronato Pendragon, che Londra gli avrebbe perdonato pure un pubblico stupro. Meno facilmente poteva perdonare a Ygraine di averlo rifiutato. Così arrivammo in Cornovaglia. Il messaggero aveva fatto bene il suo lavoro e il viaggio a cavallo, in brevi e dure tappe di non più di venti miglia l'una, durò due giorni e una notte. Trovammo le nostre truppe che aspettavano accampate nel luogo prescelto, a qualche miglio all'interno dalla Punta di Ercole e proprio accanto alla frontiera della Cornovaglia, e la notizia che Ygraine era chiusa a Tintagel con un piccolo gruppo di uomini scelti, comunque avesse fatto per riuscirci, mentre il marito con il resto delle sue forze era sceso su Dimilioc, chiamando a raccolta gli uomini della Cornovaglia in difesa del loro duca. Doveva sapere della presenza delle truppe reali così vicino al suo confine, ma certamente pensava che aspettassero la venuta del loro re e non poteva ancora neanche immaginare che questi fosse già arrivato. Penetrammo segretamente nel nostro campo al crepuscolo dirigendoci non verso i padiglioni reali ma verso quelli di un capitano di cui egli si poteva fidare. Cadal già c'era, avendoci preceduti per preparare i travestimenti che secondo il mio piano avremmo usato e per aspettare il messaggio di Ralf da Tintagel quando fosse giunto il momento. Il mio piano era abbastanza semplice, di quella semplicità che spesso ha successo, ed era aiutato dall'abitudine acquisita da Gorlois dopo il matrimonio, di tornare di notte quando gli era possibile - da Dimilioc o da altre sue fortezze - a trovare sua moglie. Immagino che dovevano esserci stati troppi scherzi sulla passione del vecchio, sicché questi aveva preso l'abitudine (me lo aveva detto Ralf) di rientrare usando la porta privata, un passaggio segreto e nascosto il cui accesso era difficile se non si conosceva la strada. Il mio piano consisteva semplicemente nel travestire Uther, Ulfin e me in modo tale da passare, se ci avessero visti, per Gorlois, il suo compagno e il suo servo, e di recarci a Tintagel di notte. Ralf avrebbe fatto in modo di essere di servizio alla porta segreta, ci avrebbe visti e ci avrebbe guidati per il percorso segreto. Ygraine, chissà come, aveva persuaso Gorlois - questo era stato il pericolo maggiore - a non venirla a trovare quella notte, e avrebbe congedato tutte le donne eccetto Marcia. Ralf e Cadal avevano preparato gli indumenti che avremmo dovuto indossare: il gruppo dei cornovagliesi era tornato da Londra con tale fretta che una parte dei
bagagli era rimasta dietro di loro, ed era stato facile trovare gualdrappe con il blasone della Cornovaglia e perfino uno degli usuali mantelli di guerra di Gorlois con il doppio bordo d'argento. L'ultimo messaggio di Ralf era rassicurante; il momento era venuto, la notte abbastanza buia da nasconderci e abbastanza tempestosa da far rimanere a casa la maggior parte della gente. Partimmo quando fu completamente buio e scivolammo tutti e quattro inosservati fuori del campo. Appena ci fummo allontanati abbastanza dai nostri, ci dirigemmo al galoppo verso Tintagel, e solo l'occhio acuto del sospetto avrebbe potuto dire che quello non era il duca di Cornovaglia con tre compagni, che cavalcava veloce per tornare a casa da sua moglie. La barba di Uther era stata imbiancata e una fascia scendeva su un lato del viso fino a coprire l'angolo della bocca per motivare in qualche modo, nel caso fosse stato obbligato a parlare, qualsiasi diversità del suo tono di voce. Il cappuccio del suo mantello, tirato basso come era naturale in una notte cosi terribile, oscurava i suoi lineamenti. Uther era più diritto e più possente di Gorlois, ma questo era abbastanza facile da nascondere, e indossava manopole per coprire le mani, che non erano quelle di un vecchio. Ulfin poteva passare abbastanza bene per un certo Jordan, un servo di Gorlois che avevamo scelto perché era il più vicino a lui come corporatura e colore. Io indossavo le vesti di Brithael, amico e capitano di Gorlois: Brithael era in verità più vecchio di me, ma la sua voce non era dissimile dalla mia e io conoscevo bene il cornovagliese. Sono sempre stato bravo per imitare le voci. Dovevo sostenere io la conversazione quando risultasse necessario. Cadal veniva con noi senza travestimenti: doveva aspettare fuori con i cavalli e servirci da messaggero caso mai ne avessimo bisogno. Avvicinai il mio cavallo a quello del re e accostai la bocca al suo orecchio. «Il castello è a meno di un miglio da qui. Adesso scendiamo alla spiaggia. Ralf sarà lì per farci entrare. Vado avanti io?» Fece cenno di sì. Anche in quel buio non uniforme, ondeggiante, mi parve di vedere lo scintillio dei suoi occhi. Aggiunsi: «E non fare quella faccia, altrimenti non crederanno mai che tu sia Gorlois, con tanti anni di matrimonio alle spalle.» Lo sentii ridere, allora feci girare il cavallo e feci strada cautamente per il pendio battuto dai conigli e coperto di boscaglia e di ghiaione, fino in fondo alla stretta valle che scende verso la spiaggia. Questa valle è poco più di una gola che porta al mare un torrentello. Nel punto più largo il torrente non supera i tre passi di larghezza ed è così poco
profondo che un cavallo può guadarlo ovunque. Nella parte più bassa della valle l'acqua cade, dopo aver attraversato una bassa scogliera, direttamente su una spiaggia di ciottoli color ardesia. Avanzammo uno alla volta seguendo il sentiero, con il torrente che scorreva più in basso alla nostra sinistra e alla nostra destra un terrapieno coperto di cespugli. Poiché il vento soffiava da sudovest e la valle era profonda e orientata quasi verso nord, eravamo al riparo ma in cima al terrapieno i cespugli gemevano nel vento e ramoscelli anche non tanto piccoli erano scagliati nell'aria attraverso il sentiero. Anche senza il vento, per la ripidità del sentiero pietroso e il buio, l'avanzata sarebbe stata ardua; i cavalli, con la bufera e una certa tensione che doveva sprigionarsi da noi tre - Cadal era solido come una roccia, ma c'è anche il fatto che non sarebbe entrato nel castello - erano molto nervosi. Quando, a un quarto di miglio dal mare, scendemmo al torrente e spingemmo le bestie ad attraversarlo, il mio, in testa, abbassò le orecchie e rifiutò, e quando io lo frustai per fargli attraversare l'acqua e lo misi al piccolo galoppo per risalire lo stretto sentiero e una figura d'uomo si staccò dall'ombra davanti a noi a fianco del sentiero, il cavallo si fermò di colpo impennandosi, con le zampe anteriori così alte che per un momento fui certo che sarebbe caduto sulla schiena fracassandosi, e me con lui. L'ombra scattò in avanti e prese le briglie, facendo riabbassare il cavallo. L'animale rimase dritto, sudato e tremante. «Brithiael» dissi. «Tutto bene?» Lo udii lanciare un'esclamazione, poi lo vidi fare un passo avvicinandosi alla testa del cavallo, e guardando in su, al buio. Dietro di me il cavallo grigio di Uther si alzava sul sentiero bloccandosi con un rumore sordo. L'uomo che si era accostato al mio cavallo disse, con voce incerta: «Mio signore Gorlois?... Non ti aspettavamo stanotte. C'è qualcosa di nuovo, allora?». Era la voce di Ralf. Io dissi, con la mia voce, adesso: «Allora possiamo passare, almeno al buio». Lo sentii tirare il fiato. «Sì, mio signore... Per un momento ho creduto che fosse davvero Brithael. E poi il cavallo grigio... È il re?» «Per stanotte,» dissi «è il duca di Cornovaglia. Va tutto bene?» «Sì, signore.» Afferrò le redini del mio cavallo sopra il morso e lo condusse avanti, del che gli fui grato perché il sentiero era pericoloso, stretto e viscido e serpeggiava lungo l'argine ripido tra i cespugli che frusciavano, un sentiero sul quale non avrei desiderato cavalcare neanche di giorno con un cavallo
sconosciuto e spaventato. Gli altri seguivano, la cavalcatura di Cadal e quella di Ulfin avanzavano lentamente, imperturbabili, e subito dietro di me lo stallone grigio che sbuffava a ogni cespuglio e tentava di liberarsi dal controllo del suo cavaliere, ma Uther avrebbe potuto cavalcare Pegaso in persona e lo avrebbe azzoppato prima di avere a sua volta i polsi solo indolenziti. Il mio cavallo fece uno scarto davanti a qualcosa che non riuscivo a vedere, inciampò e mi avrebbe precipitato giù per l'argine non fosse stato per Ralf che lo teneva. Imprecai, poi chiesi a Ralf: «Quanto ci manca?». «Circa duecento passi fino alla spiaggia, signore, e lì lasciamo i cavalli. Sul promontorio saliamo a piedi.» «Per tutti gli dei della bufera, sarò lieto di essere al riparo. Hai qualche difficoltà?» «Nessuna, signore.» Doveva alzare la voce per farsi sentire da me, ma in quello scompiglio non c'era pericolo di esser sentiti a più di tre passi di distanza. «Madonna ha detto lei stessa a Felix - sarebbe il portiere - che aveva chiesto al duca di tornare appena le sue truppe fossero distribuite a Dimilioc. Naturalmente è corsa la voce che è incinta, perciò è abbastanza naturale che lo voglia qui, con gli eserciti del re così vicini. Ha detto a Felix che il duca sarebbe passato dalla porta segreta, caso mai il re avesse già appostato delle spie. Non lo avrebbe detto alla guarnigione, ha detto, perché gli uomini potevano allarmarsi sapendo che lasciava Dimilioc con tutte le truppe, ma il re non poteva assolutamente essere in Cornovaglia prima di un altro giorno come minimo... Felix non sospetta niente. Perché dovrebbe?» «Il portiere è solo alla porta?» «Sì, ma ci sono due sentinelle al corpo di guardia.» Ci aveva già detto che cosa c'era all'interno della porta segreta. Questa era una piccola porta praticata nel muro esterno del castello, e all'interno c'era subito una lunga rampa di scale che saliva a destra, attaccata al muro. A metà della scala c'era un largo pianerottolo, sul quale si apriva il corpo di guardia. Dopo questo la scala continuava e in cima c'era la porta privata dalla quale si accedeva alle camere. «Le sentinelle sanno?» chiesi. Lui scosse la testa. «Mio signore, non abbiamo osato. Tutti gli uomini rimasti con madonna Ygraine sono stati scelti uno per uno dal duca.» «Le scale sono bene illuminate?» «Una torcia. Ho badato che fosse molto fumosa.»
Mi voltai per guardare il cavallo grigio che avanzava dietro di me, irreale nelle tenebre. Ralf aveva dovuto alzare la voce per farsi sentire da me malgrado il vento che gemeva nella parte più alta della valle, e avrei creduto che il re aspettasse di sapere che cosa accadeva tra noi. Invece rimase silenzioso, come era stato dall'inizio di quella cavalcata. Pareva veramente acconsentisse a fidarsi ciecamente del momento. O a fidarsi di me. Mi rivolsi di nuovo a Ralf, chinandomi sul collo del mio cavallo. «C'è una parola d'ordine?» «Sì, mio signore. È: "pellegrino". E madonna ha mandato un anello perché il re lo portasse. È un anello che a volte il duca porta. Qui finisce il sentiero, riesci a vedere? È a strapiombo sulla spiaggia.» Fermò il mio cavallo, rimettendolo in equilibrio, poi la bestia si precipitò giù in avanti e gli zoccoli stridettero sui ciottoli. Fui felice di scendere di sella. Per quanto riuscivo a vedere, ci trovavamo in una piccola insenatura riparata dal vento grazie a un massiccio promontorio molto vicino alla nostra sinistra, ma il mare, precipitandosi oltre la fine di questo promontorio e girando intorno per irrompere tra gli scogli al largo, era grossissimo e veniva a infrangersi sul greto di ciottoli in torrenti bianchi di spuma, con un fragore simile a quello provocato dal. cozzo di due eserciti infuriati. Più lontano a destra vidi un altro alto promontorio, e tra i due promontori questo fiume ruggente di acqua bianca interrotta dalle dentellature scure degli scogli. Il torrente che ci eravamo lasciati alle spalle cadeva nel mare da sopra la sua scogliera bassa in due lunghe cascate che ondeggiavano nel vento come due trecce di capelli. Al di là di queste cascate e sotto la muraglia sporgente della scogliera centrale, c'era un riparo per i cavalli. Ralf stava indicando il grande promontorio alla nostra sinistra. «Il sentiero è da quella parte. Di' al re di venirmi dietro e di starmi vicino. Mettere un piede in fallo stanotte significherebbe esser trasportato via dalla marea fino alle stelle dell'occidente, prima ancora di poter gridare aiuto.» Il cavallo grigio scese con un tonfo accanto a noi e il re fu svelto a smontare di sella. Lo sentii ridere, quella stessa risata chiara, esultante. Anche se non lo avesse atteso alcun premio al termine del cammino di quella notte, lui sarebbe stato lo stesso. Per Uther, il pericolo era come il vino o i sogni. Gli altri due arrivarono fino a noi e smontarono, e Cadal prese le redini. Uther mi arrivò alle spalle, osservando la corsa crudele dell'acqua. «Ci arriviamo a nuoto, adesso?»
«Può darsi che sia necessario. Dio lo sa. Sembra che le onde arrivino alle mura del castello.» Era immobile, dimentico del vento e della pioggia sferzanti, con la testa alzata a fissare il promontorio. In alto, una luce brillava contro il cielo di tempesta. Gli toccai il braccio. «Ascolta. Le cose stanno come ce l'aspettavamo. C'è un portiere, Felix, e due uomini d'arme nel corpo di guardia. Dovrebbe esserci pochissima luce. Tu sai la strada per entrare. Sarà sufficiente, mentre entriamo, che tu brontoli un grazie a Felix e salga rapidamente le scale. Marcia, la vecchia, sarà ad attenderti alla porta delle stanze di Ygraine e ti farà entrare. Per il resto ci pensiamo noi. Se ci sono pasticci, siamo tre contro tre e in una notte come questa non si sentirà niente. Io verrò un'ora prima dell'alba e farò entrare Marcia a cercarti. Adesso non ci sarà più possibile parlare ancora. Segui da vicino Ralf, il sentiero è molto pericoloso. Lui ha un anello per te, e la parola d'ordine. Adesso va'.» Egli si voltò senza una parola e attraversò il greto di ciottoli spazzato dall'acqua per arrivare al punto in cui il ragazzo aspettava. Mi trovai accanto Cadal, con le briglie dei quattro cavalli strette nel pugno. Il suo viso, come il mio, era solcato dall'acqua, il mantello gli fluttuava intorno come una nuvola di bufera. Io dissi: «Mi hai sentito. Un'ora prima dell'alba». Anche lui guardò la rupe che si ergeva sopra di noi, dove torreggiava il castello. Per un attimo, alla luce passeggera di una nuvola che si squarciò, vidi le mura del castello, che uscivano dalla roccia. Sotto quelle mura la scogliera cadeva, quasi verticale, fino ai marosi mugghianti. Tra il promontorio e la terra ferma correva una cresta rocciosa naturale, che univa il castello alla scogliera della terra ferma, con il fianco a strapiombo levigato dal mare come la lama di una spada. Dalla spiaggia dove ci trovavamo, pareva non esserci altra via d'uscita che la valle; era impossibile scalare la fortezza in terra ferma, né la sella, né la roccia su cui si ergeva il castello. Non era strano che qui non lasciassero sentinelle. E il sentiero che conduceva all'ingresso segreto poteva essere difeso da un uomo solo contro un esercito. Cadal stava dicendo: «Metto i cavalli qui, sotto la sporgenza, con quel po' di riparo che c'è. E, per amor mio, se non per amore del nostro gentiluomo malato d'amore, sii puntuale. Se quelli lassù appena appena sospettano che c'è qualche cosa fuori posto, siamo tutti in trappola come topi. Possono chiudere questa dannata valletta con la stessa rapidità con cui
possono bloccare la sella, lo sai? E per conto mio, non me la sentirei proprio di scappare a nuoto dall'altra parte». «Neppure io. Ma sta' calmo, Cadal, so quello che faccio.» «Ti credo. Hai qualcosa stanotte... Il modo in cui hai parlato un momento fa al re, senza pensarci, più secco che se avessi parlato a un servo. E lui non ha detto neppure una parola, solo ha fatto quello che tu gli chiedevi. Si, direi che sai quello che fai. E meno male, padron Merlino, perché altrimenti, ti rendi conto?, stai rischiando la vita del re di Britannia per il piacere di una notte.» Allora feci una cosa che non avevo mai fatto; che in genere non faccio. Allungai la mano e la posai su quella di Cadal, quella che teneva le briglie. I cavalli erano calmi adesso, bagnati e infelici, stretti l'uno all'altro con le groppe contro il vento e con le teste abbassate. Io dissi: «Se Uther entra nel castello stanotte e va a letto con lei, allora, Cadal, davanti a Dio, se anche dovesse essere ammazzato in quel letto questo non avrà più importanza di quanta ne abbia una goccia di questo mare. Io ti dico che da questa notte verrà fuori un re, il cui nome sarà scudo e usbergo agli uomini fino a quando questo bel paese, da un mare all'altro, non s'inabisserà nel mare che lo contiene e gli uomini abbandoneranno la terra per vivere tra le stelle. Credi forse che Uther sia un re, Cadal? E solo un reggente per colui che è venuto prima e per quello che viene dopo, il re passato e il re futuro. E stanotte è ancora meno di questo: è uno strumento, e lei è un vaso, e io... io sono uno spirito, una parola, una cosa d'aria e di tenebre, e la mia opera in quello che sto facendo non ha più valore di quella di una canna attraverso la quale soffia il vento di Dio. Tu e io, Cadal, siamo impotenti come foglie morte nell'acqua di questa baia.» Lasciai cadere la mano che era poggiata sulla sua. «Un'ora prima dell'alba.» «Arrivederci, mio signore.» Allora lo lasciai e, seguito da Ulfin, m'incamminai dietro Ralf e il re attraverso il greto di ciottoli verso la base della scogliera nera. Sette Non credo che adesso, anche alla luce del sole, sarei più capace di ritrovare il sentiero senza una guida, non parliamo poi di risalirlo. Ralf apriva la marcia, con la mano del re sulla spalla e a mia volta io tenevo un lembo del mantello di Uther, e Ulfin un lembo del mio. Grazie al cielo, vicini com'eravamo alla parete di roccia su cui sorgeva il castello, eravamo al
riparo dal vento, se vi fossimo stati esposti, la scalata sarebbe stata impossibile; saremmo stati strappati dalla scogliera come piume. Ma dalla parte del mare non avevamo protezione. I marosi dovevano innalzarsi fino a più di dodici metri e le onde più impetuose, quelle che vengono ogni sette, erano alte come torri e mugghiando ci inzuppavano di sale a venticinque metri buoni di altezza dalla spiaggia. Un vantaggio lo presentava, quel selvaggio ribollire del mare, ed era che il suo biancore rimandava verso l'alto quel po' di luce che veniva dal cielo. Alla fine vedemmo, sopra le nostre teste, le radici delle mura del castello, là dove spuntavano dalla roccia. Anche col tempo asciutto, le mura sarebbero state invalicabili, stanotte poi l'acqua vi scorreva in abbondanza. Non potevo vedere nessuna porta, niente che interrompesse le lisce mura di ardesia. Ralf non si fermò ma ci guidò sotto le mura verso un angolo della scogliera che guardava il mare. Poi si arrestò un attimo, e lo vidi muovere il braccio con un gesto che significava "Attenzione". Aggirò cautamente quell'angolo e sparì alla nostra vista. Sentii Uther barcollare quando a sua volta raggiunse l'angolo e incontrò la forza del vento. Si fermò un momento e poi proseguì, tenendosi attaccato alla parete della scogliera. Ulfin e io lo seguimmo. Per qualche metro, atroce, lottammo per andare avanti, con la faccia contro la scogliera bagnata e viscida, poi uno sperone sporgente ci diede riparo e all'improvviso ci trovammo a incespicare su un infido pendio morbido di statice; li, davanti a noi, profondamente incassata nella roccia sotto il muro del castello e nascosta dai bastioni sovrastanti grazie all'aggetto accentuato, era la porta di emergenza di Tintagel. Vidi Ralf lanciare una lunga occhiata verso l'alto prima di farci entrare sotto la roccia. Sopra non c'erano sentinelle. E d'altronde, che bisogno poteva esserci di appostare degli uomini sui bastioni rivolti al mare? Egli estrasse la daga e bussò forte alla porta, una serie di colpi che, da dove eravamo, alle sue spalle, udimmo a mala pena in quella burrasca. Il portiere doveva esser rimasto in attesa proprio dietro la porta. Questa si apri immediatamente. Si aprì silenziosamente di pochi centimetri, poi si fermò, e io sentii il rumore metallico di una catena. Dall'apertura uscì una mano, che reggeva una torcia. Accanto a me, Uther si strinse ancora il cappuccio e io lo superai e mi fermai dietro a Ralf, tenendomi stretto il mantello davanti alla bocca e curvando le spalle contro le raffiche di vento e di pioggia che m'investivano. Il viso del portiere, la metà di esso, apparve sotto la torcia. Un occhio ci scrutava. Ralf, avanti, bene in luce, disse con tono pressante: «Svelto, ami-
co. Un pellegrino. Sono io di ritorno, con il duca». La torcia si sollevò appena. Vidi il grosso smeraldo al dito di Uther colpito dalla luce e dissi conciso, con la voce di Brithael: «Apri, Felix, e facci entrare al riparo da tutto questo, per amor del cielo. Il duca è caduto da cavallo stamani e la sua fasciatura è fradicia. Siamo solo noi quattro. Sbrigati». La catena fu tolta e la porta si spalancò. Ralf vi appoggiò una mano in modo da poter, mentre in apparenza la teneva aperta per il suo padrone, fermarsi sul passaggio tra Felix e Uther mentre il re entrava. Uther entrò rapido superando l'uomo che s'inchinava, si scosse di dosso l'acqua come un cane, e rispose con un mugolio che si sentì appena al saluto del portiere. Poi con un breve cenno della mano che fece di nuovo lampeggiare lo smeraldo, si diresse deciso alle scale che conducevano in alto alla nostra destra e cominciò a salire rapidamente. Ralf prese la torcia dalla mano del portiere mentre Ulfin e io ci affrettavamo a entrare dietro Uther. «Faccio luce io fino in alto con questa. Chiudi la porta e sbarrala di nuovo. Più tardi scenderò e ti darò le notizie, Felix, ma siamo tutti zuppi come cani annegati e abbiamo bisogno di un fuoco. È acceso nel corpo di guardia, immagino?» «Sissignore.» Il portiere si era già voltato per sbarrare la porta. Ralf teneva la torcia in modo che Ulfin e io passando fossimo in ombra. Cominciai a salire le scale rapidamente, sulla scia di Uther, con Ulfin alle calcagna. Le scale erano illuminate solo da una fiaccola fumosa che ardeva fissata su un braccio alla parete del grande pianerottolo sopra di noi. Era stato facile. Troppo facile. Improvvisamente, sopra di noi sul pianerottolo, quella luce tetra aumentò per via di una torcia lucente, e due uomini d'arme si staccarono da una soglia, le spade in pugno. Uther, sei gradini sopra di me, si fermò per una frazione di secondo, poi proseguì. Vidi la sua mano, sotto il mantello, scendere alla spada. Io, sotto il mio, avevo l'arma già libera nel fodero. Si sentì il passo leggero di Ralf che saliva di corsa gli scalini dietro di noi. «Mio signore duca!» Uther, potevo immaginare con quanta gratitudine, si fermò e si voltò per aspettarlo, dando la schiena alle sentinelle. «Mio signore duca, lascia che ti faccia luce... ah, quassù hanno una torcia.» Parve notare solo allora le sentinelle sopra di noi, con quella luce
abbagliante. Di corsa oltrepassò Uther, chiamando allegramente: «Ohilà, Marco, Sellic, datemi quella torcia per far luce al mio signore fin su dalla duchessa. Questo maledetto arnese fa solo fumo». L'uomo che reggeva la torcia l'aveva alzata e tutti e due ci scrutavano mentre salivamo le scale. Il ragazzo non ebbe un attimo di esitazione. Corse fin sul pianerottolo, infilandosi deciso in mezzo alle spade, e prese la torcia dalla mano dell'uomo. Prima che essi potessero fare anche solo il gesto di prenderla, egli si girò rapidamente per spegnere la prima torcia nel mastello di sabbia che era vicino alla porta del corpo d'arme. Si spense con un fumo denso. La nuova torcia ardeva bene, ma ballava e ondeggiava con i movimenti del ragazzo, sicché le ombre delle guardie proiettandosi gigantesche e grottesche giù per le scale aiutarono a nasconderci. Uther, approfittando di quelle ombre ondeggianti, ricominciò a salire rapidamente la rampa. La mano che portava l'anello di Gorlois era mezzo alzata in risposta al saluto militare degli uomini. Le guardie si fecero da parte. Ma si spostarono ognuna verso una parete in cima ai gradini, e avevano sempre le spade in mano. Dietro di me, sentii il lieve fruscio della daga di Ulfin non più protetta nel fodero. La mia, sotto il mantello, era per metà sguainata. Non c'era speranza di passare in mezzo a loro e superarli. Ci sarebbe toccato ucciderli, pregando il cielo di non far rumore. Sentii il passo di Ulfin rallentare e capii che pensava al portiere. Forse avrebbe dovuto tornare da lui mentre noi ce la sbrigavamo con le guardie. Ma non ce ne fu bisogno. A un tratto, in cima alla seconda rampa di scale, una porta si spalancò e lì, alla luce che splendeva, era ferma Ygraine. Era vestita di bianco, come l'altra volta che l'avevo vista; ma adesso non era in camicia da notte. La lunga veste mandava bagliori come l'acqua di un lago. Su un braccio e una spalla indossava, secondo la moda romana, un mantello di un tenero blu notte. I capelli erano acconciati con gioielli. Tese le mani e il blu e il bianco delle vesti le lasciarono scoperti i polsi sui quali scintillava l'oro rosso. «Benvenuto, mio signore!» La sua voce, alta e chiara, fece voltare le guardie che vennero a trovarsi di fronte a lei. Uther percorse in due balzi l'ultima mezza dozzina di scalini per arrivare al pianerottolo, poi li oltrepassò, mentre il suo mantello sfiorava le lame delle spade, oltrepassò la torcia lucente di Ralf, e cominciò a salire rapido la seconda rampa di scale. Le guardie scattarono di nuovo sull'attenti, uno per parte in cima alla rampa, con le spalle alla parete. Dietro di me sentii Ulfin ansimare, ma egli
mi seguì abbastanza tranquillo mentre, con calma e senza fretta, salivo gli ultimi scalini prima del pianerottolo. Significa qualche cosa, immagino, esser nato principe, anche se bastardo; sapevo che gli occhi delle sentinelle erano inchiodati sulla parete di fronte a loro dalla presenza della duchessa, con una tale intensità che era come se fossero ciechi. Passai attraverso le spade, seguito da Ulfin. Uther era arrivato in cima alla scalinata. Prese le mani di lei e lì, davanti alla porta illuminata, con le spade dei nemici colpite dalla luce della torcia sotto di lui, il re chinò la testa e baciò Ygraine. Il mantello rosso turbinò intorno a loro due, inghiottendo il bianco. Oltre di loro vidi l'ombra della vecchia, Marcia, che teneva aperta la porta. Poi il re disse: «Vieni» e con quel grande mantello che ancora li copriva tutti e due la condusse dentro alla luce del fuoco, e la porta si richiuse alle loro spalle. Così prendemmo Tintagel. Otto Fummo serviti bene quella notte, Ulfin e io. La porta della camera si era appena chiusa, lasciandoci isolati a metà della rampa con la porta sopra di noi e le guardie sotto, quando sentii di nuovo la voce di Ralf, tranquilla e rapida, sovrastare lo stridio delle spade che venivano rimesse nel fodero: «Dei e angeli, che notte! E mi toccherà ancora riportarlo indietro quando sarà finito! Avete il fuoco nella stanza lassù? Bene. Potremo almeno asciugarci mentre aspettiamo. Adesso voi potete andarvene e lasciare che ci pensiamo noi. Forza, che aspettate? Avete avuto gli ordini... e non una parola di tutto questo, attenzione, a chiunque venga». Una delle guardie, rinfoderando la spada, rientrò subito nel corpo di guardia, ma l'altra esitò e alzò gli occhi verso di me. «Mio signore Brithael, è giusto così? Smontiamo?» Cominciai a scendere lentamente le scale. «Giustissimo. Potete andare. Vi manderemo a cercare dal portiere quando dobbiamo andarcene. E soprattutto, non una parola sulla presenza del duca. State attenti a questo.» Mi voltai verso Ulfin, fermo per le scale dietro di me con gli occhi spalancati. «Jordan, tu sali alla porta delle camere lassù e rimani di guardia. No, dammi il tuo mantello. Lo metterò davanti al fuoco.» Mentre lui si allontanava ringraziando il cielo, la spada finalmente ben salda nella mano, udii Ralf attraversare il corpo di guardia sottolineando i
miei ordini con minacce che potetti solo indovinare. Scesi le scale, senza affrettarmi, per dargli il tempo di sbarazzarsi degli uomini. Sentii chiudersi la porta interna ed entrai. Nel corpo di guardia, bene illuminato dalla torcia e dal fuoco fiammeggiante, non c'era nessuno tranne noi. Ralf mi rivolse un sorriso, allegro e al limite della tensione. «Non lo farei più, neppure per far piacere a madonna, per tutto l'oro di Cornovaglia!» «Non ce ne sarà più bisogno. Hai lavorato più che bene, Ralf. Il re non lo dimenticherà.» Egli alzò la mano per appoggiare la torcia sul braccio al muro, vide il mio viso e disse con tono ansioso: «Che c'è, signore? Stai male?». «No. Quella porta si può chiudere a chiave?» Con la testa indicai la porta chiusa dalla quale le guardie erano andate via. «L'ho già chiusa. Se avessero avuto qualche sospetto non mi avrebbero dato la chiave. Ma non ne avevano, come avrebbero potuto? Io stesso, ora, avrei giurato che era Brithael che parlava, lì dalle scale. Sembrava... una magia.» L'ultima parola conteneva una domanda e il ragazzo mi osservava con uno sguardo che mi era ben noto, ma poiché non dicevo niente si limitò a chiedere: «E adesso, signore?». «Adesso scendi dal portiere e tienlo lontano da qui.» Sorrisi. «Avrai il tuo turno al fuoco, Ralf, quando ce ne saremo andati.» Con passo leggero come al solito, lui scese le scale. Lo udii gridare qualche cosa e Felix rispondere con una risata. Mi tolsi il mantello inzuppato e lo stesi, con quello di Ulfin, davanti alla fiamma. Sotto il mantello, i miei vestiti erano abbastanza asciutti. Mi sedetti un momento, tendendo le mani verso il fuoco. La stanza illuminata dal fuoco era molto silenziosa, ma fuori l'aria rimbombava dello strepito dell'acqua e del temporale che flagellava le mura del castello. I pensieri mi bruciavano come scintille. Non potevo rimanere seduto. Mi alzai e cominciai ad andare avanti e indietro per il piccolo locale, irrequieto. Ascoltavo il temporale di fuori e avvicinandomi alla porta sentii il mormorio di voci e il rumore secco dei dadi con cui Ralf e Felix passavano il tempo giù alla porta. Guardai nell'altra direzione. Nessun rumore proveniva dalla rampa di scale, dove riuscivo a vedere solo Ulfin, o forse la sua ombra, immobile davanti alla porta dell'appartamento... Qualcuno scendeva le scale lentamente; una donna, nascosta in un mantello, che portava qualche cosa. Arrivò senza rumore, e anche da parte di Ulfin non c'era stato né un rumore né un movimento. Uscii dal corpo di
guardia e mi fermai sul pianerottolo, e la luce mi segui dall'interno, luce del fuoco e ombra. Era Marcia. Vidi le lagrime scintillare sul suo viso mentre chinava la testa sulla cosa che portava tra le braccia. Un bambino, avvolto in caldi panni per ripararlo dalla notte invernale. Essa mi vide e mi porse il suo fardello. «Abbi cura di lui» disse e attraverso lo splendore delle lagrime vidi i gradini della scalinata delinearsi di nuovo dietro di lei. «Abbi cura di lui...» Il mormorio si perse tra l'ondeggiare della torcia e il sussurro della bufera, all'esterno. Ero solo sulle scale, e davanti a me c'era una porta chiusa. Ulfin non si era mosso. Lasciai cadere le braccia vuote e tornai accanto al fuoco. Stava spegnendosi e io lo rianimai, ma mi dette poco piacere perché di nuovo la luce mi feri. Benché avessi visto quello che volevo vedere, in qualche punto, prima della fine, c'era la morte e ne fui spaventato. Il corpo mi faceva male e la camera era soffocante. Raccolsi il mio mantello, che era quasi asciutto, me lo gettai sulle spalle e attraversai il pianerottolo verso il punto in cui, nel muro esterno, c'era una piccola porta sotto la quale il vento s'infilava come una lama. Spalancai la porta lottando contro la bufera e uscii. In un primo momento, dopo tutta la luce del corpo di guardia, non riuscii a vedere niente. Chiusi la porta dietro di me e mi appoggiai al muro bagnato, mentre l'aria notturna si rovesciava su di me come un fiume. Poi le cose presero forma intorno a me. Davanti a me, a pochi passi di distanza, c'era un muro merlato, che come altezza mi arrivava alla vita, il muro esterno del castello. Tra questo muro e il punto in cui mi trovavo c'era una piattaforma, e sopra di me una parete che arrivava di nuovo a un merlo, e oltre questo si ergeva la scogliera e le mura che la sovrastavano, e tutta la sagoma della fortezza che torreggiava sopra di me, grado a grado, fino in cima al promontorio. In cima in cima, là dove avevamo visto la finestra illuminata, adesso la torre si stagliava nera e senza luci contro il cielo. Avanzai fino al muro merlato e mi sporsi. Sotto di me c'era una cornice della scogliera che alla luce doveva essere un pendio erboso coperto di statice e di agrostemma, pieno di nidi di uccelli marini. Più in là e più in basso, la furia bianca della baia. Guardai in basso verso destra, da dove eravamo passati. A parte gli archi di spuma bianca in movimento, la baia in cui Cadal aspettava era invisibile nelle tenebre. Aveva smesso di piovere e le nuvole si alzavano e si diradavano. Il vento aveva un po' girato, moderandosi. Verso l'alba sarebbe caduto. Qua e là, alti e neri tra le nuvole in corsa, gli spazi della notte erano pieni di stelle.
Poi a un tratto, proprio sopra di me, le nuvole si aprirono e in quel punto, muovendosi in mezzo a loro come una nave tra le onde veloci, la stella. Rimase lì nel chiarore abbagliante delle stelle più piccole, e dapprima fremette, poi pulsò, crebbe, fu un'esplosione di luce e di tutti i colori che si vedono nell'acqua agitata. Io la guardavo crescere e sfolgorare e frantumarsi in luce, poi un vento in fuga le tirò sopra un velo di nuvole finché fu grigia, offuscata e lontana, persa allo sguardo in mezzo alle altre stelle minori. Poi, mentre la folla di stelle ricominciava la sua danza, ritornò crescendo gradatamente, gonfiandosi e dilatandosi di luce finché fu in mezzo alle altre stelle come una torcia che proietta un turbine di scintille. E cosi continuò per tutta la notte, mentre io me ne stavo solo sui bastioni a guardarla; vivida e brillante, poi grigia e addormentata, risvegliandosi però ogni volta per brillare più dolcemente, finché emanò luce piuttosto che battiti e verso il mattino era li, splendente e tranquilla, con la luce che le cresceva intorno mentre il nuovo giorno prometteva di arrivare limpido e calmo. Respirai e mi asciugai il sudore dal viso. Chino com'ero contro il bastione, mi raddrizzai. Il mio corpo era rigido, ma il dolore era sparito. Alzai gli occhi verso la finestra buia di Ygraine dove, adesso, essi dormivano. Nove Riattraversai lentamente la piattaforma verso la porta. Mentre l'aprivo sentii, proveniente da sotto, nitidi e forti, dei colpi battuti alla porta segreta. Con passo rapido arrivai al pianerottolo e mi chiusi la porta alle spalle senza far rumore proprio mentre Felix, uscito dalla portineria, in fondo alle scale, si dirigeva alla porta segreta. Quando la sua mano si alzò verso la catena, Ralf uscì di scatto dietro di lui, con il braccio alzato. Gli vidi scintillare in pugno la daga, rovesciata. Balzò con passo felpato e lo colpi con l'elsa. Da fuori, dovette sentirsi un leggero rumore, al di sopra dello strepito del mare, perché la voce suonò attenta: «Che c'è? Felix?» e i colpi si ripetettero, più forti di prima. Ero già sceso fino a metà della rampa. Ralf si era chinato sul corpo del portiere, ma si voltò quando mi vide venire e, bene interpretando il mio gesto, si raddrizzò e disse a voce alta e chiara: «Chi va là?». «Un pellegrino.»
Era una voce d'uomo, pressante e ansimante. Scesi di corsa il resto della rampa. Correndo, mi tolsi il mantello di dosso e me lo avvolsi intorno al braccio sinistro. Ralf mi gettò un'occhiata da cui erano scomparse tutta l'allegria e l'audacia. Non c'era neanche bisogno che facesse l'altra domanda: conoscevamo tutti e due la risposta. «Chi fa il pellegrinaggio?» La voce del ragazzo era roca. «Brithael. Adesso apri, svelto.» «Mio signore Brithael! Mio signore... non posso... non ho ordini di far passare nessuno da questa parte...» Mi guardava mentre mi chinavo, prendevo Felix dalle ascelle e lo trascinavo il più silenziosamente possibile dentro la portineria, dove non si vedesse. Vidi Ralf passarsi la lingua sulle labbra. «Non puoi arrivare fino alla porta principale, mio signore? La duchessa dormirà e io non ho ordini...» «Chi è là?» chiese Brithael. «Ralf, dalla voce. Dov'è Felix?» «Salito al corpo di guardia, signore.» «Allora fatti dare la chiave da lui, o mandalo giù.» La voce dell'uomo si fece più aspra e un pugno fu battuto sulla porta. «Fa' come ti dico, ragazzo, o, per Dio, ti toglierò la pelle dal sedere. Ho un messaggio per la duchessa, e lei non ti ringrazierà se mi trattieni qui. Forza, sbrigati!» «La... la chiave è qui, mio signore. Un momento.» Gettò uno sguardo disperato dietro di sé mentre cominciava a maneggiare maldestramente la serratura. Abbandonai l'uomo svenuto tutto raggomitolato fuori della vista e fui di nuovo alle spalle di Ralf, mormorandogli all'orecchio: «Prima guarda se è solo. Poi fallo entrare». Lui annuì e la porta si apri con la catena di sicurezza. Approfittando del rumore di questa sguainai la spada e svanii nell'ombra dietro il ragazzo, dove la porta aprendosi mi nascondeva a Brithael. Rimasi fermo contro il muro. Ralf accostò l'occhio alla fessura, poi lo ritirò, facendomi un cenno e cominciò a far scivolare la catena fuori dell'alloggiamento. «Scusami, mio signore Brithael.» La voce era disperata e confusa. «Dovevo assicurarmi... Ci sono guai?» «Che altro c'è?» Brithael spalancò la porta con tanta forza che mi sarebbe venuta addosso se Ralf non l'avesse fermata. «Non importa, hai fatto bene.» Entrò rapidamente e si fermò, dominando il ragazzo con l'alta sutura. «Qualcun altro è passato da questa porta stanotte?» «Be', no, signore.» Ralf faceva la voce spaventata, per quanto gli era possibile, e perciò risultava convincente. «Nessuno finché ci sono stato io, e Felix non ha detto niente... Perché, che è successo?»
Brithael emise un grugnito e il suo equipaggiamento di armi tintinnò mentre scrollava le spalle. «C'era uno laggiù, un cavaliere. Ci ha attaccato. Ho lasciato Jordan a sbrigarsela con lui. Non c'è stato niente qui, allora? Nessun pasticcio?» «Nessuno, mio signore.» «Allora chiudi a chiave la porta e non far entrare nessuno, salvo Jordan. E adesso devo vedere la duchessa. Porto notizie gravi, Ralf. Il duca è morto.» «Il duca?» Il ragazzo cominciò a balbettare. Non tentò neanche di chiudere la porta ma la lasciò girare, libera, sui cardini. Così questa mi nascondeva ancora Brithael, ma Ralf era proprio accanto a me, e alla luce incerta vidi il suo viso teso e come svuotato per il colpo ricevuto. «Il duca... m... morto, mio signore? Assassinato?» Brithael, che già si allontanava, si fermò e si voltò. Un altro passo e sarebbe stato al di là della porta che mi nascondeva a lui. Non dovevo lasciarlo arrivare alle scale dove si sarebbe trovato più in alto di me. «Assassinato? Perché, in nome di Dio? Chi farebbe una cosa simile? Non è nello stile di Uther. No, il duca ha voluto rischiare prima che il re arrivasse, e abbiamo attaccato il campo del re stanotte, uscendo da Dimilioc. Ma loro erano preparati. Gorlois è stato ucciso nella prima sortita. Io sono venuto con Jordan a portare la notizia. Siamo venuti direttamente dal campo. Adesso sbarra quella porta e fai come ti dico.» Voltò la testa e si diresse verso le scale. C'era spazio, adesso, per usare una spada. Uscii dall'ombra dietro la porta. «Brithael.» L'uomo si girò di scatto. Le sue reazioni furono cosi rapide da annullare il vantaggio della sorpresa che giocava a mio favore. Immagino che non avrei dovuto parlare affatto, ma anche qui ci sono cose che un principe deve fare. Mi costò abbastanza caro e avrebbe potuto costarmi la vita. Avrei dovuto ricordare che quella notte non ero un principe: ero una creatura del destino, come Gorlois che avevo tradito, e Brithael che adesso dovevo uccidere. E ero un pegno del futuro. Ma il fardello era pesante per me e la sua spada fu sguainata quasi prima che alzassi la mia, poi rimanemmo fermi misurandoci, gli occhi negli occhi. Allora egli mi riconobbe, quando i nostri sguardi s'incontrarono. Vidi l'emozione nei suoi, e un lampo rapido di paura che svanì in un attimo, quando la mia posizione e la mia spada sguainata gli dissero che quello sarebbe stato il suo genere di combattimento, non il mio. Può darsi che
vedesse dal mio viso che avevo già combattuto più duramente di lui, quella notte. «Avrei dovuto sapere che eri qui. Jordan diceva che era il tuo uomo, quello laggiù, dannato stregone. Ralf! Felix! Guardia... a me, guardia!» Vidi che non aveva capito che ero stato all'interno tutto il tempo. Poi il silenzio sulle scale, e Ralf che si allontanava rapido da me per chiudere la porta parlarono da soli. Rapido come un lupo, troppo rapido perché io potessi fare qualsiasi cosa, Brithael calò la mano sinistra, chiusa a pugno e guantata di ferro, che si abbatté sulla tempia del ragazzo. Ralf cadde senza far rumore e il suo corpo s'incastrò nella porta spalancata. Brithael con un balzo all'indietro fu di nuovo sull'entrata. «Jordan! Jordan! A me! Tradimento!» Allora gli fui addosso, eludendo chissà come la sua vigilanza, il petto contro il suo petto, e le nostre spade s'incontrarono di taglio e scivolarono con gemiti di metallo e cozzi che mandavano scintille. Rapidi passi giù per le scale. La voce di Ulfin: «Mio signore... Ralf...». Io dissi, affannosamente:? Ulfin... Di' al re... Gorlois è morto. Dobbiamo andarcene... Fai presto...». Lo sentii allontanarsi, salire di corsa le scale incespicando. Brithael disse tra i denti: «Il re. Adesso capisco, razza di ruffiano puttaniere». Era un uomo di corporatura massiccia, un soldato nel fiore degli anni e in preda a una giusta ira. Io ero privo di esperienza e odiavo quello che mi toccava fare, ma dovevo farlo. Non ero più un principe, e neppure un uomo che combatteva secondo le regole umane. Ero un animale feroce che combatteva per uccidere perché doveva farlo. Con la mano libera lo colpii con violenza sulla bocca e vidi la sorpresa nei suoi occhi mentre faceva un balzo all'indietro per liberare la spada. Poi si riprese rapido, la spada un anello di ferro che mandava bagliori intorno a lui. Non so come riuscii a evitare la lama sibilante, parai un colpo e lo tenni sospeso, poi gli mollai un calcio che lo prese proprio sul ginocchio. La spada mi sferzò la guancia con un sibilo, e fu come una scottatura. Sentii il dolore bruciante e il sangue che scorreva. Quando il suo peso gravò sul ginocchio colpito fece un passo di traverso, scivolò sul suolo erboso bagnato e cadde pesantemente, colpendo una pietra con il gomito, mentre la spada gli volava via dalla mano. Chiunque altro avrebbe indietreggiato per permettergli di raccoglierla. Io mi buttai su di lui con tutto il mio peso, con la spada spezzata cercando di colpirlo alla gola.
Adesso era chiaro, e diventava sempre più chiaro. Vidi il disprezzo e la rabbia nei suoi occhi mentre rotolava lontano dalla lama mortale. Questa lo mancò e affondò in un ciuffo poroso di statice. Nel secondo in cui mi sforzavo di liberarla, e intanto rimanevo fuori guardia, lui cambiò tattica per adeguarla alla mia e con quel suo pugno di ferro mi colpì con forza dietro l'orecchio poi, girandosi di fianco, si alzò in piedi e si buttò su quella paurosa discesa dove la sua spada scintillava nell'erba, a due passi dall'orlo della scogliera. Se l'avesse raggiunta, mi avrebbe ucciso in pochi secondi. Rotolai, raggomitolandomi per rialzarmi di scatto, lanciandomi come capitava per il pendio sdrucciolevole verso la spada. Lui mi colpì prima ancora che arrivassi a stare in ginocchio. Il suo piede calzato dallo stivale mi colpì al fianco, poi nella schiena. Il dolore fece irruzione in me come un gorgoglio di sangue e le ossa mi si. sciolsero, facendomi di nuovo appiattire, ma intanto sentii il mio piede che batteva il terreno, raggiungere il metallo e la spada scattò dal punto in cui era affondata nell'erba scivolando, con uno scintillio quanto dolce!, oltre l'orlo. Qualche secondo più tardi, mi parve che si potesse udire, sottile e lieve nel rimbombo delle onde, il gemito del metallo che colpiva gli scogli sottostanti. Ma ancora prima che quel suono ci arrivasse, egli mi era di nuovo addosso. Io avevo un ginocchio ripiegato sotto il corpo e stavo tirandomi su, dolorosamente. Attraverso il sangue che mi velava gli occhi vidi arrivare il colpo e tentai di scansarmi, ma il suo pugno mi prese alla gola, colpendomi di lato con una ferocia che mi lasciò di nuovo completamente prostrato sull'erba bagnata, senza respiro e accecato. Mi sentii rotolare e scivolare e, ricordando quello che c'era sotto, cacciai la sinistra alla cieca nell'erba per arrestare la mia caduta. Con la destra reggevo ancora la spada. Egli balzò di nuovo verso di me e con tutto il peso del suo corpo massiccio calcò con tutti e due i piedi sulla mia mano che afferrava la spada. Sotto la protezione di ferro la mano si spezzò. Sentii che partiva. La spada con uno schiocco balzò in alto come una trappola che si apra di scatto e lo colpì alla mano aperta. Egli imprecò in un rantolo, senza parole, e indietreggiò un attimo. Non so come, mi ritrovai la spada nella sinistra. Lui riattaccò con la stessa velocità di prima e anzi mentre tentavo di trascinarmi più lontano avanzò rapido e di nuovo mi calpestò la mano spezzata. Qualcuno gridò. Mi sentii rotolare giù, istupidito dal dolore, cieco. Con le mie ultime forze spinsi la spada, irrimediabilmente spezzata verso di lui che se ne stava a gambe divaricate, me la sentii strappale di mano e rimasi fermo ad aspettare senza
più resistere, l'ultimo calcio nel fianco che mi avrebbe fatto rotolare giù dalla scogliera. Ero disteso senza respiro, in preda a conati di vomito, soffocando di bile, con la faccia contro il terreno e la mano sinistra affondata nei morbidi ciuffi di statice, quasi aggrappata alla vita. L'impeto e lo strepito del mare scuotevano la scogliera e anche quel leggero tremolio pareva permearmi il corpo di dolore. Questo mi faceva male dappertutto. Il fianco mi doleva come se le costole lo sfondassero e la guancia che era premuta contro il suolo erboso era completamente scorticata. Avevo sangue nella bocca e la mia mano destra era una poltiglia di dolore. Sentivo qualcuno, un altro uomo molto distante da me, emettere miserabili piccoli gemiti di dolore. Il sangue nella mia bocca gorgogliava e dal mento colava fino a terra; capii che ero io a lamentarmi. Merlino, figlio di Ambrogio, Merlino il principe, il grande mago. Chiusi la bocca e cominciai a spingere e ad afferrarmi per rialzarmi in piedi. Il dolore alla mano era crudele, era la cosa peggiore; udii, più che sentire, le piccole ossa scricchiolare là dove le estremità erano rotte. Mi sentii barcollare mentre mi alzavo sulle ginocchia e non osai alzarmi in piedi così vicino all'orlo della scogliera. Sotto di me un maroso si abbatté, tuonò, s'innalzò nella luce che diventava grigia, poi ricadde infrangendosi nella successiva ondata. La scogliera tremò. Un uccello marino, il primo di quel giorno, volò sopra di me, lanciando un richiamo. Strisciando mi allontanai dall'orlo e mi alzai. Brithael era disteso vicino alla porta segreta, a pancia sotto, come se cercasse di strisciare dentro. Dietro di lui sull'erba c'era una scia di sangue, e scintillava come la traccia di una lumaca. Era morto. L'ultimo colpo disperato lo aveva raggiunto nella grossa vena all'inguine e la vita lo aveva abbandonato mentre cercava di strisciare per chiedere aiuto. Il sangue che mi bagnava doveva in parte essere suo. In ginocchio, mi avvicinai a lui per esserne sicuro. Poi lo feci rotolare finché il precipizio lo inghiottì ed egli seguì in mare la sua spada. Non avevo tempo di badare al sangue. Pioveva di nuovo e con un po' di fortuna sarebbe scomparso prima che qualcuno lo vedesse. La porta segreta era rimasta aperta. In qualche modo la raggiunsi e rimasi fermo in piedi, appoggiandomi con una spalla contro lo stipite. Anche negli occhi avevo sangue. Me lo pulii con una manica bagnata. Ralf non c'era. Neanche il portiere. La torcia si era consumata fino al supporto e la luce fumosa mostrava la portineria e la scala deserte. Il ca-
stello era silenzioso. In cima alle scale la porta era semiaperta, e ne uscivano voci e luce. Voci tranquille, pressanti ma non allarmate. Il gruppo di Uther doveva mantenere il controllo della situazione; l'allarme non era stato dato. Rabbrividii al freddo dell'alba. Il mio mantello, chissà dove, mi era scivolato dal braccio senza che me ne accorgessi. Non mi presi il disturbo di cercarlo. Mi staccai dalla porta e cercai di stare in piedi senza appoggio. Potevo farcela. Cominciai a incamminarmi lungo il sentiero verso la baia. Dieci La luce bastava appena a vedere dove mettevo i piedi; bastava anche a vedere la spaventosa scogliera e l'abisso tumultuoso di sotto. Ma ero così occupato con la debolezza del mio corpo, con il semplice meccanismo di tenere in piedi quel corpo e di far lavorare la mano sana tenendo al riparo quella ferita, che neppure una volta pensai al mare sotto di me e alla pericolosa strettezza di quella striscia di solida roccia. Superai rapidamente il primo tratto, poi mi feci strada a forza di unghie, mezzo strisciando giù per l'erto pendio attraverso i ciuffi d'erba e le cenge rumorose di ghiaione. Quando il sentiero si abbassò, il mare mi arrivò più vicino, fragorosamente, finché sentii gli spruzzi delle onde più forti impregnare di sale il sangue salato che mi copriva il viso. Era l'alta marea del mattino, le onde ancora alte per il vento della notte lanciavano getti ghiacciati su per la scogliera e prorompevano accanto a me con un fragore cavernoso che mi scuoteva tutte le ossa del corpo, bagnando il sentiero sul quale strisciavo e incespicavo. Lo trovai a mezza strada dalla spiaggia e era disteso faccia a terra, a neanche un palmo dal bordo. Un braccio pendeva oltre il margine e la mano, molle, era mossa dai colpi dell'aria spostata dalle onde. L'altra mano pareva diventata rigida ed era uncinata a una sporgenza rocciosa. Le dita erano nere di sangue rappreso. Il sentiero era appena largo quanto bastava. Non so come lo rovesciai, tirandolo e spingendolo come meglio potevo, disteso com'era contro la scogliera. Mi inginocchiai tra lui e il mare. «Cadal. Cadal.» La sua carne era fredda. In quella quasi oscurità riuscii a vedere il viso pieno di sangue e il punto da cui esso sgorgava, certo una ferita accanto all'attaccatura dei capelli. Ci misi la mano; era un taglio, ma non tale da
ucciderlo. Tentai di sentirgli il polso, ma la mia mano intorpidita cominciò a scivolare sulla pelle bagnata e non riuscii a sentire niente. Tirai la sua tunica inzuppata senza riuscire ad aprirla, poi un fermaglio si aprì e la stoffa si ruppe sul petto nudo. Quando vidi quello che prima era stato nascosto dalla tunica, capii che non avevo bisogno di sentirgli il cuore. Gli tirai di nuovo sopra il tessuto fradicio, come se potesse fargli caldo, e mi risedetti sui calcagni, solo allora facendo attenzione al fatto che dal castello alcuni uomini stavano scendendo il sentiero. Uther contornava la scogliera con la stessa disinvoltura con cui avrebbe attraversato la sala del suo palazzo. Aveva la spada sguainata in mano, il lungo mantello era tenuto raccolto sul braccio sinistro. Ulfin, che pareva uno spettro, lo seguiva. Il re rimase fermo sopra di me e per qualche momento non parlò. Poi tutto quello che disse fu: «Morto?» «Sì.» «E Jordan?» «Anche lui, immagino, altrimenti Cadal non sarebbe arrivato fin qui per avvertirci.» «E Brithael?» «Morto.» «Sapevi tutto questo prima che venissimo qui, stanotte?» «No» dissi io. «Neppure che Gorlois sarebbe morto?» «No.» «Se tu fossi un profeta come pretendi di essere, lo avresti saputo.» La sua voce era debole e amara. Alzai gli occhi. Il suo viso era calmo, la febbre lo aveva abbandonato, ma gli occhi, color ardesia in quella luce grigia, erano tristi e stanchi. Dissi seccamente: «Te l'avevo detto. Dovevo accettare il momento con fede cieca. Questo era il momento. Ci siamo riusciti.» «E se avessimo aspettato fino a domani, questi uomini, sissignore, e anche il tuo servo qui, sarebbero ancora vivi, e Gorlois morto e sua moglie vedova... E mia, da rivendicare senza questi morti e senza chiacchiere.» «Ma domani avresti generato un figlio diverso.» «Un figlio legittimo» disse lui pronto. «Non un bastardo come l'abbiamo fatto stanotte. Per la testa di Mitra, pensi veramente che il mio nome e
quello di lei potranno resistere a questa notte? Anche se ci sposiamo entro la settimana, lo sai che cosa diranno. Che sono l'assassino di Gorlois. E ci sono persone che continueranno a credere che lei fosse davvero incinta di lui come aveva detto, e che il bambino è di lui.» «Non lo diranno. Neanche un uomo dubiterà che non sia tuo, Uther, e a giusto titolo re di tutta la Britannia.» Egli emise un suono breve, non una risata, che però esprimeva insieme divertimento e disprezzo. «Credi che ti starò mai più a sentire? Capisco adesso che cos'è la tua magia, questo potere di cui parli... Non è altro che inganno umano, un tentativo di arte politica che mio fratello ti insegnò ad amare, cui ti insegnò a giocare convincendoti che era il tuo mistero. È un inganno promettere agli uomini quello che desiderano, far loro credere che hai il potere di darglielo, ma tenerne segreto il prezzo e poi lasciare che lo paghino.» «È Dio che tiene segreto il prezzo, Uther, non io.» «Dio? Dio? quale Dio? Ti ho sentito parlare di tanti di quegli dei. Se intendi Mitra...» «Mitra, Apollo, Artù, Cristo... chiamalo come vuoi» dissi io. «Che importa come gli uomini chiamano la luce? È sempre la stessa luce, di cui gli uomini devono vivere o morire. Io so solo che Dio è la sorgente di tutta la luce che ha illuminato il mondo, e che il suo fine attraversa il mondo e ognuno di noi come un grande fiume, e noi non possiamo fermarlo o deviarlo, possiamo solo bere a quel fiume finché siamo in vita, affidargli il nostro corpo quando moriamo.» Il sangue mi scorreva di nuovo dalla bocca. Alzai il braccio per pulirmelo con la manica. Lui lo vide, ma il suo viso non cambiò. Dubito che avesse addirittura ascoltato quello che dicevo, o anche che potesse udirmi nel fragore del mare. Disse solo, con quella stessa indifferenza che si ergeva come un muro tra noi: «Queste sono solo parole. Tu usi anche Dio per arrivare ai tuoi fini. "È Dio che mi dice di fare queste cose, è Dio che esige il prezzo, è Dio che bada a che altri paghino..." Per che cosa, Merlino? Per la tua ambizione? Per il grande profeta e mago di cui gli uomini parlano con un fil di voce e cui dedicano un culto maggiore che a un re o a un sommo sacerdote? E chi paga questo debito a Dio per realizzare i tuoi piani? Non tu. Gli uomini che giocano la partita per te, e ne pagano il prezzo. Ambrogio, Vortigern, Gorlois. Questi altri uomini qui stanotte. Ma tu non paghi niente. Tu mai.» Un'onda venne a infrangersi accanto a noi e la schiuma coprì la sporgen-
za, abbattendosi sul viso volto verso l'alto di Cadal. Io mi chinai ad asciugarlo, pulendolo anche un po' dal sangue. «No» dissi. Uther continuò, fermo al di sopra di me: «Io ti dico, Merlino, che non ti servirai di me. Non sono più un burattino di cui tu possa tirare i fili. Perciò tienti lontano da me. E ti dico anche questo. Non riconoscerò il bastardo che ho generato stanotte». Era un re che parlava, e non ammetteva replica. Una figura immobile, fredda, e alle sue spalle la stella, alta e chiara in quel grigiore. Non dissi niente. «Mi senti?» «Si.» Sollevò il mantello dal braccio e lo lanciò a Ulfin, che glielo tenne perché lo indossasse. Egli se lo sistemò sulle spalle, poi di nuovo abbassò lo sguardo su di me. «Per il servizio che mi hai reso, ti terrai la terra che ti ho dato. Perciò, ritornatene alle tue montagne del Galles e non mi disturbare più.» Io dissi, stancamente: «Non ti disturberò più, Uther. Tu non avrai più bisogno di me». Rimase un momento in silenzio, poi disse a un tratto: «Ulfin ti aiuterà a portare giù il corpo». Distolsi lo sguardo. «Non ce n'è bisogno. Adesso lasciami.» Una pausa, riempita dal rumoreggiare del mare. Non era stata mia intenzione parlare cosi, ma era al di là delle mie possibilità stare attento a quello che dicevo, o anche solo saperlo. Volevo solo che se ne andasse. La punta della sua spada era all'altezza dei miei occhi. La vidi muoversi e mandare bagliori e pensai per un momento che fosse abbastanza irato da usarla. Poi si alzò con un baleno e fu rinfoderata con forza. Egli fece un mezzo giro e prosegui giù per il sentiero. Ulfin mi oltrepassò lentamente senza una parola e segui il suo padrone. Prima che fossero arrivati alla curva successiva, il mare aveva annullato il rumore dei loro passi. Mi voltai e vidi Cadal che mi guardava. «Cadal!» «È un re che fa per te.» La sua voce era un bisbiglio, ma era la sua, roca e divertita. «Dagli qualcosa per cui giura che sta morendo, e poi "Credi che possa resistere stanotte?" dice. Un bel lavoro questa notte ha fatto, questo è certo, e si vede.» «Cadal...» «Tu, anche. Ti sei fatto male... la tua mano? Sangue sul viso?»
«Non è niente. Niente che non si possa aggiustare. Non ci badare. Ma tu... tu...» Egli spostò appena la testa. «È inutile. Lascia stare. Sto abbastanza bene.» «Non hai dolori adesso?» «No, però fa freddo.» Mi avvicinai a lui, tentando di riparargli il corpo con il mio dagli schizzi delle onde che flagellavano la roccia. Gli presi la mano nella mia mano valida. Non potevo frizionarla, ma mi aprii la tunica e la tenni lì contro il petto. «Ho paura di aver perso il mio mantello» dissi. «Allora Jordan è morto?» «Si.» Tacque un momento. «Che cosa... è successo lassù?» «È andato tutto come avevamo predisposto. Ma Gorlois è uscito da Dimilioc per attaccare ed è rimasto ucciso. Per questo Brithael e Jordan sono passati di qui, per avvertire la duchessa.» «Li ho sentiti venire. Sapevo che avrebbero per forza visto me e i cavalli. Dovevo impedire che dessero l'allarme mentre il re era ancora...» S'interruppe per respirare. «Non ti preoccupare» dissi. «È finito, e va tutto bene.» Lui non badò a quello che dicevo. La sua voce ormai era solo un esile bisbiglio, ma distinto, e udivo tutte le parole attraverso l'infuriare del mare. «Così sono montato in sella e ho fatto un pezzo di strada per andargli incontro... sull'altra riva... poi quando sono arrivati alla mia altezza ho saltato il torrente e ho tentato di fermarli.» Si fermò un momento. «Ma Brithael... quello è un soldato sul serio. Svelto come un serpente. Non esita mai. La spada sguainata contro di me, e poi mi è passato sopra col cavallo. Mi ha lasciato perché Jordan mi finisse.» «Uno sbaglio.» I muscoli delle sue guance si contrassero leggermente. Era un sorriso. Dopo un po' chiese: «I cavalli li aveva poi visti?». «No. Ralf era alla porta quando è arrivato e Brithael ha chiesto solo se qualcuno era venuto su al castello perché aveva visto un cavaliere giù in basso. Quando Ralf ha detto di no ci ha creduto. Lo abbiamo lasciato entrare e poi lo abbiamo ucciso.» «Uther.» Era un'affermazione, non una domanda. I suoi occhi erano chiusi. «No. Uther era ancora con la duchessa. Non potevo correre il rischio che Brithael lo sorprendesse disarmato. Avrebbe ucciso anche lei.»
Gli occhi si spalancarono, per un attimo limpidi e allarmati. «Tu?» «Andiamo, Cadal, non mi lusinghi.» Gli rivolsi un sorriso. «Benché non ti abbia fatto onore, temo. È stato un combattimento molto brutto. Neppure il re ne conoscerebbe le regole. Le ho inventate io man mano.» Questa volta era proprio un sorriso. «Merlino... il piccolo Merlino che non sapeva nemmeno stare in sella... Mi uccidi.» La marea stava cambiando. Adesso l'onda che ci raggiunse scrosciando mandò solo spruzzi finissimi che mi caddero sulle spalle come nebbiolina. Dissi: «Ti ho ucciso, Cadal». «Gli dei...» disse lui, e fece un lungo respiro sospirando. Sapevo che cosa voleva dire. Stavo uscendo dal tempo. Con la luce ormai più chiara potevo vedere quanto del suo sangue aveva bagnato il sentiero. «Ho sentito quello che diceva il re. Non avrebbe potuto succedere senza... tutto questo?» «No, Cadal.» I suoi occhi si chiusero per un momento, poi si riaprirono. «Bene» fu tutto quello che disse, ma in quella sillaba c'era tutta la docile fede degli ultimi otto anni. I suoi occhi erano bianchi adesso, sotto la pupilla, e la mascella rilassata. Misi il mio braccio buono sotto di lui e lo sollevai un poco. Parlai rapido e chiaro: «Succederà, Cadal, come mio padre desiderava e come Dio ha deciso attraverso me. Hai sentito che cosa ha detto Uther del bambino. Questo non cambia niente. Grazie a stanotte Ygraine partorirà un figlio, e grazie a stanotte lo manderà via appena nato, perché il re non lo veda. Lo manderà a me e io lo terrò al di fuori della portata del re, lo terrò e gli insegnerò tutto quello che Galapas insegnò a me, quello che mi insegnaste Ambrogio, tu e perfino Belasio. Sarà la somma di tutte le nostre vite e quando sarà cresciuto tornerà e sarà incoronato re a Winchester». «Lo sai? Mi giuri che lo sai?» Le parole si capivano appena. Il respiro era ormai un rantolo gorgogliante. Gli occhi erano piccoli, bianchi e ciechi. Lo sollevai e lo tenni forte contro di me. Dissi, con dolcezza e con molta chiarezza: «Lo so. Io, Merlino, principe e profeta, ti giuro questo, Cadal.» La testa gli ricadde di lato contro di me, troppo pesante per lui adesso che non dominava più i muscoli. Gli occhi erano senza vita. Emise qualche leggero mormorio poi a un tratto, con chiarezza, disse: «Fai il segno per me» e morì. Lo consegnai al mare, con Brithael che lo aveva ucciso. La marea lo avrebbe preso, aveva detto Ralf, e lo avrebbe portato lontano, fino alle stelle
d'occidente. A parte il rumore lento degli zoccoli e un risuonare di metallo, non si sentiva niente nella valle. Il temporale si era calmato. Non c'era vento e quando arrivai oltre la prima ansa del torrente non sentii più neppure il mare. Accanto a me, in basso lungo il torrente, la nebbia indugiava ancora, come un velo. Sopra di me, il cielo era chiaro, e impallidiva verso il punto in cui sorgeva il sole. Nel cielo, alta adesso e ferma, brillava ancora la stella. Ma mentre la guardavo il cielo pallido diventò più luminoso intorno a lei, inondandola d'oro e di luce splendente, mentre sulla terra che la stella dell'annuncio aveva sovrastato, sorgeva il nuovo sole. La leggenda di Merlino Vortigern, re di Britannia, volendo costruire una fortezza a Snowdon, riunì muratori di molti paesi e chiese loro di erigere una robusta torre. Ma quello che gli scalpellini edificavano ogni giorno, ogni notte crollava ed era inghiottito dalla terra. Perciò Vortigern tenne consiglio con i suoi maghi, i quali gli dissero che doveva cercare un ragazzo che non aveva mai avuto un padre, e trovatolo doveva ucciderlo e spargere il suo sangue sulle fondamenta perché la torre reggesse e fosse solida. Vortigern mandò in tutte le province messaggeri alla ricerca del ragazzo e questi giunsero alla fine nella città che fu in seguito chiamata Carmarthen. Lì videro ragazzi che giocavano davanti alle porte, ed essendo stanchi si sedettero a guardarli giocare. Alla fine, verso sera, un litigio scoppiò improvvisamente tra due di essi, i cui nomi erano Merlino e Dinabuzio. Mentre bisticciavano, si sentì Dinabuzio dire a Merlino: «Quanto devi essere sciocco per credere di essere un avversario per me! Guardami, io sono nato da re, ma te nessuno sa chi sei, perché non hai mai avuto un padre!». Quando i messaggeri udirono questo chiesero ai presenti chi fosse Merlino e venne loro risposto che nessuno conosceva suo padre, ma che sua madre era figlia del re del Galles meridionale e che viveva con le monache della chiesa di San Pietro in quella stessa città. I messaggeri portarono Merlino e sua madre a re Vortigern. Il re ricevette la madre con tutta l'attenzione dovuta al suo rango e le chiese chi fosse il padre del ragazzo. Essa rispose di non saperlo. «Una volta,» raccontò «mentre io e le mie damigelle eravamo nelle nostre camere, mi apparve un
essere sotto le sembianze di un bel giovane che, abbracciandomi e baciandomi, rimase con me per un po' di tempo, ma poi altrettanto improvvisamente svanì. Ritornò molte volte a parlare con me quando ero sola, ma io non riuscii a vederlo mai più. Dopo che mi ebbe frequentata in questo modo per molto tempo, giacque con me per un certo periodo sotto le sembianze di uomo e mi lasciò gravida di questo figlio.» Il re, sbalordito per le sue parole, chiese all'indovino Mauganzio se potesse essere vera una cosa simile. Mauganzio lo assicurò che tali cose erano note e che Merlino doveva esser stato generato da uno degli «spiriti che si trovano tra la luna e la terra, che chiamiamo spiriti maligni o demoni». Merlino, che aveva ascoltato tutto questo, chiese allora che gli fosse permesso incontrarsi con i maghi. «Chiedi ai maghi di venire davanti a me e io li dichiarerò colpevoli di aver escogitato una bugia.» Il re, colpito dall'audacia e dall'apparente mancanza di paura del giovane, fece come questi aveva chiesto e mandò a chiamare i maghi. A loro Merlino parlò in questi termini: «Poiché non sapete che cosa impedisce di porre le fondamenta di questa torre, avete dato il consiglio di spegnere col mio sangue la calce, affinché la torre regga. Adesso ditemi: che cosa sta nascosto sotto le fondamenta, perché c'è lì qualche cosa che non permette alla torre di restare in piedi?» I saggi, temendo di dover mostrare la loro ignoranza, restarono in silenzio. Allora disse Merlino (chiamato anche Ambrogio): «Mio signore re, chiama i tuoi operai e chiedi loro di scavare sotto la torre, e vi troverai un lago che impedisce alle tue mura di reggere». Così fu fatto, e fu scoperto il lago. Merlino ordinò allora che il lago venisse drenato mediante condutture; due pietre, egli disse, sarebbero state trovate in fondo, e lì due draghi addormentati, uno rosso e uno bianco. Quando il lago fu dovutamente drenato e le pietre portate alla luce, i draghi si svegliarono e cominciarono a combattere selvaggiamente, finché il rosso sconfisse e uccise il bianco. Il re, sbalordito, chiese a Merlino il significato di quella visione e Merlino, alzando gli occhi al cielo, profetizzò la venuta di Ambrogio e la morte di Vortigern. La mattina seguente, Aurelio Ambrogio sbarcò a Totnes nel Devon. Quando Ambrogio ebbe conquistato Vortigern e i sassoni e fu incoronato re, radunò maestri artigiani di ogni regione e chiese loro di progettare un nuovo tipo di costruzione che rimanesse in eterno come un monumento. Nessuno di loro seppe aiutarlo finché Tremorino, arcivescovo di Caerleon, suggerì al re di mandare a cercare Merlino, il profeta di Vortigern, l'uomo più intelligente del regno, «tanto nel predire ciò che sarà quanto nell'inven-
tare straordinari meccanismi». Ambrogio inviò immediatamente messaggeri che trovarono Merlino nel paese di Gwent, alla sorgente di Galapas dove in genere egli abitava. Il re lo ricevette onorevolmente, e prima di tutto gli chiese di predire il futuro, ma Merlino rispose: «Misteri di tale specie non si dovrebbero in alcun caso rivelare se non per estrema necessità. Perché se io dovessi pronunciarli con leggerezza o scherzarci sopra lo spirito che mi è maestro rimarrebbe muto e mi abbandonerebbe nell'ora del bisogno». Il re gli chiese allora consigli sul monumento, ma quando Merlino gli disse di mandare a prendere la «Danza dei giganti che si trova a Killare, una montagna dell'Irlanda», Ambrogio rise e rispose che era impossibile spostare pietre di cui tutti sapevano che erano state messe li dai giganti. Alla fine, però, il re fu persuaso a mandare suo fratello Uther, con quindicimila uomini, a combatter Gilloman, re d'Irlanda, e a riportare in patria la Danza. L'esercito di Uther vinse sul campo, ma quando gli uomini tentarono di smantellare l'anello gigantesco di Killare e di appoggiare a terra le pietre, non riuscirono a spostarle. Quando alla fine si diedero per vinti, Merlino montò le sue macchine e per mezzo loro mise per terra le pietre con facilità, le trasportò alle navi e subito dopo le portò nel luogo presso Amesbury dove avrebbero dovuto essere sistemate. Lì Merlino rimontò le sue macchine e sistemò la Danza di Killare a Stonehenge, esattamente nella stessa posizione in cui si trovava prima in Irlanda. Poco dopo apparve una grande stella sotto forma di drago, e Merlino sapendo che era presagio della morte di Ambrogio pianse amaramente e profetizzò che Uther sarebbe stato re sotto il segno del drago e che gli sarebbe nato un figlio «di autorità superiore, il cui potere arriverà su tutti i reami che si estendono sotto i raggi (della stella)». L'anno seguente, alla festa dell'incoronazione, il re Uther si innamorò di Ygraine, moglie di Gorlois, duca di Cornovaglia. figli le prodigò attenzioni, con scandalo della corte; essa non gli corrispose ma suo marito, incollerito, partì dalla corte senza chiedere congedo, riportando in Cornovaglia la moglie e gli uomini d'arme. Uther, adirato, gli ordinò di ritornare ma Gorlois rifiutò di ubbidire. Allora il re, sdegnato oltremisura, raccolse un esercito e marciò contro la Cornovaglia, bruciando città e castelli. Gorlois non aveva forze sufficienti per resistergli, perciò mise sua moglie nel castello di Tintagel, il rifugio più sicuro, e si preparò a difendere il castello di Dimilioc. Immediatamente Uther cinse d'assedio Dimilioc, imprigionandovi Gorlois e le sue truppe, e intanto cercò di escogitare il modo di irrompere nel castello di Tintagel per rapire Ygraine. Dopo qualche giorno chiese
consiglio a uno dei suoi intimi chiamato Ulfin. «Consigliami perciò in qual guisa io possa soddisfare il mio desiderio» disse il re «perché se cosi non sarà di questo mio dolore io morrò.» Ulfin, ricordandogli quello che egli già sapeva, cioè che Tintagel era inespugnabile, gli suggerì di mandare a cercare Merlino. Merlino, commosso dall'evidente sofferenza del re, promise di aiutarlo. Con le sue arti magiche diede a Uther le sembianze di Gorlois, a Ulfin quelle di Jordan, amico di Gorlois, e a se stesso quelle di Brithael, uno dei capitani di Gorlois. Tutti e tre si recarono a Tintagel e il portiere li fece entrare. Ygraine, scambiando Uther per il duca suo marito, gli diede il benvenuto e lo accolse nel suo letto. Così quella notte Uther giacque con Ygraine ed «essa non pensò di negargli quanto egli poteva desiderare». Quella notte fu concepito Artù. Ma nel frattempo era stato ingaggiato il combattimento a Dimilioc e Gorlois, avventurandosi fuori del castello per dare battaglia, fu ucciso. Alcuni messaggeri si recarono a Tintagel per comunicare a Ygraine la morte del marito. Quando trovarono "Gorlois" apparentemente ancora vivo, in colloquio privato con Ygraine, ammutolirono, ma il re confessò l'inganno e alcuni giorni dopo sposò Ygraine. Uther Pendragon avrebbe regnato altri quindici anni. In questo periodo egli non vide più suo figlio Artù che la notte stessa della nascita era stato portato alla porta segreta di Tintagel e consegnato a Merlino, che nascostamente ebbe cura del bimbo finché giunse il momento per Artù di ereditare il trono di Britannia. Durante tutto il lungo regno di Artù, Merlino gli fu prodigo di consigli e di aiuto. Da vecchio Merlino s'innamorò alla follia di una fanciulla, Vivian, che lo persuase a insegnarle, come ricompensa del suo amore, tutte le sue arti magiche. Quando ciò egli ebbe fatto, con un incantesimo essa lo lasciò legato e addormentato; alcuni dicono in una grotta presso un boschetto di biancospino, altri in una torre di cristallo, altri infine dicono nascosto solo dallo splendore dell'aria che lo circonda. Si sveglierà quando si sveglierà Artù e tornerà quando il suo paese si troverà nel momento del bisogno. Nota dell'Autrice Nessun romanziere, trattando della Britannia dell'alto medioevo, osa avventurarsi alla luce senza qualche spiegazione sul problema dei Luoghi e dei Nomi. È d'uso spiegare il procedimento seguito e io sono subito meno e più della maggior parte degli altri colpevole di incoerenza. In un periodo
storico in cui celti, sassoni, romani, galli e chissà chi altri scorrazzarono attraverso una Britannia turbolenta e divisa, ogni località dovette avere almeno tre nomi e a chiunque è lecito immaginare quale fosse l'uso corrente in un determinato momento. In verità, il "momento" della nascita di re Artù si colloca intorno al 470 d.C, e la fine del V secolo è uno dei periodi più oscuri che la storia della Britannia abbia conosciuto. Ad accrescere la mia confusione, ho attinto come fonte della mia storia a un resoconto semimitologico scritto in Oxford da un gallese4 del XII secolo che tramanda i nomi di luoghi e di persone in quella che si potrebbe definire una prospettiva postnormanna con un ipertono di latino clericale. Quindi nella mia storia il lettore troverà Winchester così come Rutupiae e Dinas Emrys, e cornovagliesi, abitanti del Galles meridionale e brettoni invece di dumnonii, demetae e armoricani. Sono partita, semplicemente, dal principio fondamentale di rendere chiara la storia. Volevo, se possibile, evitare l'irritante espediente del glossario, dove il lettore deve interrompersi per controllare i toponimi oppure decidere di continuare a leggere e smarrirsi. Per i lettori non inglesi, il procedimento è ancora più negativo: cercano nel glossario Calleva, trovano che è Silchester e non ne sanno più di prima finché non consultano una carta geografica. Sia in un modo che nell'altro ne soffre la narrazione. Perciò dove c'era scelta di nomi ho cercato di utilizzare quello che metterà immediatamente il lettore nel quadro: per questo a volte ho adottato l'espediente di far dare dal narratore tutti i nomi correnti, infilandovi anche quello moderno quando non suona troppo fuori posto. Per esempio: "Maesbeli, presso il Forte di Conan, o Kaerconan, chiamata a volte Conisburgh". Altrove sono stata più arbitraria. È chiaro che in una narrazione il cui inglese va letto, nella fantasia del lettore, come latino o celtico del Galles meridionale, sarebbe una pedanteria scrivere "Londinium" mentre è talmente ovvio pensare Londra; ho inoltre usato i nomi moderni di Glastonbury, Winchester e Tintagel perché questi nomi, benché di origine medievale, sono talmente consacrati dall'uso da adattarsi a contesti dove sarebbe ovviamente impossibile intromettere arbitrariamente le immagini moderne di Manchester o Newcastle, per esempio. Tali "regole" non vogliono, naturalmente, suonare critica ai sistemi di qualsiasi altro scrittore; si adotta la forma resa necessaria dalla natura dell'opera, e poiché questa è un esercizio di immaginazione che nessuno considererà un trattato di storia, mi sono concessa di lasciarmi guidare dalle regole della poesia; ciò che serve a comunicare con semplicità e vivacità, e suona meglio, è migliore.
La stessa regola di orecchiabilità si applica alla lingua usata in tutto il libro. Il narratore, raccontando la sua storia nel gallese del V secolo, si servirebbe di altrettante espressioni d'uso corrente e familiare quante ne ho usate io; i servi Cerdic e Cadal parlerebbero qualche tipo di dialetto mentre, per esempio, ci si potrebbe giustamente aspettare una "lingua aulica" dai re o dai profeti nell'atto di profetizzare. Ho deliberatamente introdotto alcuni anacronismi se si trattava di parole più colorite, e qualche tocco appena di gergo per rendere più vivace la narrazione. In breve, sono andata dappertutto a orecchio, seguendo il principio per il quale ciò che suona giusto è accettabile nel contesto di un'opera di pura immaginazione. Perché questo è tutto ciò che La grotta di cristallo intende essere. Non è un'opera di scienza e naturalmente non può pretendere di essere un'opera storica. Gli storici seri, immagino, non arriverebbero neanche a pensarlo perché avranno scoperto che la fonte principale della trama di questo libro è la Historia regum Britanniae di Goffredo di Monmouth. Per gli storici seri, il nome di Goffredo è un'indegnità. Dal suo studio nella Oxford del XII secolo, egli produsse un lungo e gustoso intruglio di "storia" che andava dalla guerra di Troia (in cui combatteva Bruto, "re dei britanni") al VII secolo della nostra era, manipolando i fatti per farli quadrare con il suo racconto e inventandoli di sana pianta quando gli mancavano (il che succedeva a ogni pagina). Da un punto di vista storico la Historia è terribile, ma come narrazione è fantastica ed è stata fonte e ispirazione per il grande ciclo che costituisce il mondo poetico brettone, dalla Morte d'Arthur di Malory agli Idylls of the King di Tennyson, da Parsifal a Camelot. Il personaggio centrale della Historia è Artù, re della prima Britannia unita. L'Artù di Goffredo è eroe di leggenda, ma è certo che Artù fu una persona vera, e ritengo che lo stesso possa dirsi di Merlino, anche se il "Merlino" che noi conosciamo è un composto di almeno quattro persone diverse: principe, profeta, poeta e ingegnere. Nella leggenda lo vediamo in un primo tempo come un giovane. Il mio immaginario resoconto della sua infanzia prende colore da una frase della Historia: «il pozzo di Galapas5 che egli era solito frequentare» e da un accenno al «mio maestro Blaise», che nella mia storia diventa Belasio. La leggenda di Merlino è ugualmente viva in Bretagna e in Britannia. E per finire due brevi osservazioni. Ho dato alla madre di Merlino il nome di Niniane perché tale (VivianNiniane-Nimue) è il nome della fanciulla che secondo la leggenda sedusse
il mago quand'era un vecchio rimbambito e così lo privò dei suoi poteri, lasciandolo chiuso nella sua grotta a dormire fino alla fine dei tempi. Al personaggio di Merlino non si associa nessun'altra donna. Nella leggenda (e per la verità anche nella storia) è così forte il rapporto tra celibato o verginità e potere, che mi è parso ragionevole insistere sulla verginità di Merlino. Il mitraismo era sopravvissuto per anni in modo sotterraneo (letteralmente). Ho ipotizzato ai fini del mio racconto una riesumazione locale del culto mitraico, e le ragioni che ne dà Ambrogio sembrano verosimili. Da quello che sappiamo di Ambrogio, questi era abbastanza romano da adorare il «dio dei soldati6». Per quanto riguarda gli antichi druidi, cosi poco ce ne è noto che (secondo l'eminente studioso da me consultato) essi si prestano a tutte le supposizioni. Lo stesso può dirsi dei megaliti di Carnàc (Kerrec) in Bretagna e della Danza dei giganti di Stonehenge presso Amesbury. Stonehenge fu eretta verso il 1500 a.C, perciò ho permesso a Merlino solo di apportarvi urta pietra presa da Killare. È vero, del resto, che a Stonehenge una pietra, la più grande, è diversa dalle altre. Proviene, a detta dei geologhi, da una località vicina a Milford Haven, nel Galles. È anche vero che nell'anello si trova una tomba; non è in centro, per cui mi sono servita dell'alba del solstizio d'inverno piuttosto che di quella del solstizio d'estate verso la quale la Danza è orientata. Tutti i luoghi che descrivo sono autentici, con eccezioni irrilevanti, esclusa la grotta di Galapas... e se Merlino è davvero addormentato dentro di essa, «circondato da tutti i suoi fuochi e le mobili aureole», è presumibile che debba essere invisibile. Ma la sorgente esiste davvero su Bryn Myrddin, e in cima alla collina c'è un tumulò tombale. Pare che il nome "merlino" non compaia fino al medioevo per il falcone columbarius, e la parola è forse francese; ma la derivazione ne è incerta, e questa era una scusa sufficiente per uno scrittore la cui immaginazione ha già tessuto una serie di immagini partendo dalla parola, prima che il libro fosse anche solo incominciato. Nel marchio del vasaio, A.M., osservato da Merlino, la A. è l'iniziale del vasaio stesso, laddove ovviamente la M. sta per manu, per mano. Il rapporto tra Merlino e Ambrogio non ha, credo, alcuna base nella leggenda. Uno storico del IX secolo, Nennio, dal quale Goffredo di Monmouth ha tratto parte del suo materiale, chiama il suo profeta Ambrogio. Nennio racconta la storia dei draghi nel lago e della prima profezia ricor-
data del giovane veggente. Goffredo, mutuando il racconto, tranquillamente livella i due profeti: «Allora disse Merlino, che è anche detto Ambrogio...». Questa casuale "enormità", come la definisce Gwyn Jones7, mi ha dato l'idea di individuare il "principe delle tenebre" che generò Merlino... mi ha fornito in realtà il nucleo essenziale della Grotta di cristallo. Il mio maggiore debito è ovviamente quello contratto verso Goffredo di Monmouth, maestro di questo genere letterario. Tra gli altri cui sono debitrice, troppo numerosi per nominarli tutti e con cui mi sarà impossibile sdebitarmi, vorrei in particolar modo ringraziare Francis Jones, archivista della contea, Carmarthen, il signor e la signora Morris di Bryn Myrddin, Carmarthen; G.B. Lancashire dell'Hotel The Chase, Ross-on-Wye; il generale R. Waller, di Wyaston Leys, Monmouthshire, nel cui territorio si trovano Doward minore e la Strada romana; Hermann Bruck, astronomo reale per la Scozia, e signora Bruck; Stuart Piggott, dell'istituto di archeologia all'università di Edimbutgo; Elizabeth Manners, direttrice del Felixstowe College e Robin Denniston, di Hodder & Stoughton Ltd., Londra. M.S. NOTE
1
Il merlin inglese è in italiano lo "smeriglio" (uno dei falchi più piccoli presenti in Italia), e così è tradotto quando il termine è riferito all'uccello. In realtà è parola di origine piuttosto germanica, derivando dal francone smiril. [N.d.T.] 2 Cantina di un edificio usata dai Romani dal I sec. a.C. per l'impianto di riscaldamento ad aria calda. [N.d.T.] 3 Il gruppo dd si pronuncia all'incirca come il th inglese. Myrddin è, grosso modo, equivalente a Murthin. Caer-Myrddin è la moderna Carmarthen. [N.d.T.] 4 O, forse, brettone. 5 Così, qualche volta, è tradotto fontes galabes. 6 Il Venerabile Beda, storico del VII secolo, nella sua Historia ecclesiastica gentil Anglorum, lo chiama "Ambrogio, un romano". 7 Nell'introduzione alla History of the Kings of Britain, nella ed. Everyman.
FINE