G.M. FORD LA CASA DEI CORPI (A Blind Eye, 2003) A Joe e Donna Bocco, amici di sempre. Ai figli ingrati numero Uno e Due...
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G.M. FORD LA CASA DEI CORPI (A Blind Eye, 2003) A Joe e Donna Bocco, amici di sempre. Ai figli ingrati numero Uno e Due. A Oakland e Jimmy e Rose e Hugo e Francis, Pugno nell'occhio e Spina nel fianco e Signore e Signora Berkowitz dovunque si trovino. Dio vi benedica. GMF Poiché i bambini sono innocenti e amano la giustizia, mentre molti di noi sono malvagi e preferiscono la pietà. G.K. Chesterton Mamma dice che tutti noi abbiamo un fondo di cattiveria in cui possiamo cercare rifugio. Un rifugio dove non esistono né fratelli né sorelle, né papà né mamma, e l'unica cosa che conta siamo noi stessi. Dove non siamo obbligati a essere gentili e neanche a sorridere, se non ne abbiamo voglia. Dove possiamo fare solo ciò che vogliamo, senza renderne conto a nessuno. Dove la nostra unica preoccupazione è sopravvivere. Perché non è cosa da tutti. Nossignore. Non tutti riescono a trovare quel briciolo di durezza nel proprio cuore. E quelli che non ce la fanno... ecco... per loro sarà una realtà dura. La vita li masticherà per benino e infine li sputerà fuori. Lasciandoli completamente inerti, un guscio vuoto di noce, fino a quando, prima che sia giunta la loro ora, saranno già pronti a lasciare il campo. Senza protestare. Perché non avranno vissuto altro che bugie, e non sarà rimasto loro niente per cui valga la pena di lottare. Allora tanto vale andarsene subito, dico io.
1 «Capisco.» La donna sospirò, sforzandosi di mantenere il sorriso. «Non mi è neanche stato a sentire, vero?» «L'ho ascoltata» ribatté Corso. «Allora la frase "domani a mezzogiorno" per lei non significa nulla?» Esitò. «E dico mezzogiorno perché sono ottimista.» «Ma io devo andarmene da qui.» Con una certa riluttanza la donna smise di controllare la pila di biglietti e alzò lo sguardo. «Come le ho già detto, signore, tutti i voli sono cancellati a tempo indeterminato.» «Ma sono bloccato in questo... questa specie di aeroporto... da due giorni.» La donna sospirò. «Signore... sia gentile, è una situazione spiacevole per tutti noi, ma le assicuro che non c'è proprio niente da fare.» Indicò con un gesto le vetrate, scuotendo la testa con aria sconsolata, e ricominciò a spulciare fra gli incartamenti. Corso si ficcò le mani in tasca, le voltò le spalle e si allontanò dal banco informazioni. Fuori dell'aeroporto, la tormenta di neve e ghiaccio continuava a soffiare da ovest con un'angolatura di trenta gradi. All'esterno, non c'era anima viva. Anche le impronte di passi e di pneumatici del giorno prima erano seppellite sotto il mezzo metro di neve fresca che aveva trasformato la pista in un compatto manto bianco sferzato dal vento. All'interno, l'aeroporto O'Hare sembrava un campo profughi. Ogni centimetro di superficie calpestabile era occupato da qualche passeggero o dal suo bagaglio. In fondo all'atrio, un paio di guardie, con i fucili automatici a tracolla, zigzagavano fra la folla, fermandosi ogni tanto a controllare un lucchetto o a osservare da vicino i volti dei passeggeri addormentati. Gli elmetti si girarono all'unisono quando Meg Dougherty attraversò la stanza a grandi falcate, i tacchi degli stivali che risuonavano sul pavimento e il mantello che le sventolava alle spalle come un paio di ali d'ebano. Corso la vide mormorare qualcosa ai ragazzi, ma non riuscì a cogliere le parole. Il più alto dei due le fece un breve saluto, dando poi di gomito al compagno, che si chinò a sussurrargli qualcosa nell'orecchio. Infine ridacchiarono entrambi, urtandosi l'un l'altro, mentre la donna li oltrepassava. Sotto le aspre luci al neon della hall, sembrava la regina dei vampiri. O forse l'angelo della morte. Puro gotico. Nera da capo a piedi. Mantello,
pantaloni, stivali, unghie, labbra e capelli. Con il suo metro e ottanta fendeva l'atmosfera rarefatta come una freccia acuminata. Un gemito soffocato attirò l'attenzione di Corso. Alla sua destra, una donna anziana si lamentava nel sonno. Dougherty gli si fermò accanto e guardò fuori delle vetrate, nella desolata landa invernale. Poi si volse verso di lui, lanciandogli un'occhiata furiosa. Corso se ne accorse e distolse lo sguardo, fingendo di scrutare con grande interesse la notte ghiacciata. «Ti è piaciuta l'escursione?» le chiese. «Non c'è niente di meglio di una bella passeggiata in aeroporto per ossigenare i polmoni.» Corso si avvicinò al gigantesco pannello di vetro che li separava dalla tormenta e vi appoggiò per un secondo la mano. Meg lo seguì. «È stata una parentesi molto istruttiva. Davvero.» Qualcosa nel tono di lei lo mise in allerta. «In che senso?» domandò. «Beh, prima di tutto ho scoperto che con ogni probabilità non ci muoveremo da qui per un bel pezzo.» Corso la guardò di sottecchi. «Da quando sei diventata esperta di previsioni atmosferiche?» «Da quando ho incontrato un meteorologo al bar.» «Ah, davvero?» «Un tipo simpatico... si chiama Jerry.» «Jerry?» «Dice che la bufera è ferma proprio sopra di noi.» «Ah, sì?» «Già. Secondo Jerry si estende per circa centocinquanta chilometri sul Midwest e non si sposterà tanto in fretta.» «Hai detto centocinquanta chilometri?» «Così ha detto lui.» Corso girò sui tacchi e ritornò al banco informazioni. Gli occhi della donna erano gonfi e arrossati. «Non vorrà creare altri problemi, vero signore?» «Che tipo di problemi?» «Non mi costringerà a chiamare la Sicurezza?» «E perché mai dovrebbe farlo?» «Perché, signore, lei sembra essere il solo a non voler capire in quale situazione ci troviamo.»
«Devo assolutamente andarmene da qui.» L'espressione della donna diceva a chiare lettere che non gliene fregava un accidenti. «Come le ho ripetuto ogni dieci minuti nelle ultime sei ore,» esclamò, alzando le mani con aria esasperata, «nessuno può muoversi da qui.» Corso fece per ribattere, ma la donna lo interruppe: «A meno che, naturalmente, non preferisca discuterne con la Sicurezza». «Perché continua a tirarla in ballo?» «È solo che per via del terrorismo hanno inasprito le misure di sicurezza e tutto il resto» disse annuendo in direzione delle due guardie che si avvicinavano. «E mi è parso di capire che i controlli possono durare un'eternità ed essere davvero sgradevoli.» Corso sentì lo scricchiolio degli scarponi e percepì alle sue spalle la presenza delle guardie. Una voce domandò: «Problemi, Annie?». La donna fece un sorriso sarcastico e guardò Corso in attesa di una risposta. Lui alzò entrambe le mani in segno di resa. «Nessun problema» rispose. La donna inarcò ironicamente un sopracciglio in direzione delle guardie e si volse nuovamente verso Corso. «Allora, cosa posso fare per lei, signore?» «Volevo solo farle una domanda.» «Che domanda?» «Qual è l'aeroporto più vicino ancora agibile?» Lei appoggiò gli incartamenti sul bancone e prese a battere sulla tastiera del computer. Ogni unghia era laccata con un diverso disegno natalizio: un Babbo Natale, un albero di Natale, un bastoncino di zucchero, una renna e una ghirlanda. «Madison» rispose dopo qualche secondo. «E quanto dista da qui?» «Più o meno trecento chilometri.» Corso la ringraziò e tornò sui suoi passi. Meg era rimasta di fronte alla vetrata in contemplazione della tormenta. «Andiamo» disse Corso. «Avrei giusto un paio di suggerimenti su dove potresti andare tu...» rispose lei senza neanche girarsi. Corso ignorò il sarcasmo. «Andiamo a Madison.» «E cosa c'è a Madison?» «Aerei che decollano.» Meg lanciò un'occhiata al banco informazioni dove Annie e le due guar-
die avevano formato un capannello strettissimo ed erano tutti presi a confabulare tra loro, alternando bisbigli a occhiate furtive nella loro direzione. Le sfuggì una risata secca, priva di umorismo. «Un tipo con i tuoi problemi non dovrebbe cercare di attirare così tanto l'attenzione.» Visto che Corso continuava a fissare fuori della finestra, lo aggirò e andò a piazzarglisi di fronte. «Era un modo come un altro per attaccare discorso, Frank. Mi avresti dovuto chiedere subito a quali problemi mi riferissi.» Il volto di lui finse sorpresa. «Non sapevo che ci fosse un copione prestabilito.» «Neanch'io... fino a circa mezz'ora fa, quando ero seduta al bar a bere Irish Coffee e a guardare la televisione.» Si scambiarono uno sguardo minaccioso. «Con Jerry» disse lui. «Proprio sullo sgabello accanto al suo. Fianco a fianco, a dire il vero.» Scese un silenzio carico di tensione. «Indovina chi appare in tutti i notiziari?» sbottò lei alla fine. Corso cercò di assumere un'espressione annoiata. «Non mi piacciono gli indovinelli.» «Pare che il super eremita Frank Corso si sia beccato un mandato di comparizione.» «Davvero?» «Frank Corso, famoso autore di best-seller. O meglio, testimone in fuga.» «Chi lo dice?» «La CNN, la NBC, la ABC, la CBS. Praticamente tutte le emittenti televisive. Manca solo Chi l'ha visto.» «Interessante» mormorò lui, incrociando le braccia. «La cosa ti crea qualche problema, per caso?» Meg fece un passo avanti e le parole le uscirono sibilando tra i denti. «Ma certo che mi crea qualche problema, cretino che sei. Mi hai assunta con una scusa... senza preavviso... dicendo che avevi bisogno di me per scattare alcune foto sul caso Manderson. Che ne avevi bisogno subito. Ho dovuto mollare quello che stavo facendo e precipitarmi all'aeroporto.» «Sei pagata per il tuo tempo.» «Non è questo il punto, Frank» ringhiò lei. «Il punto è che sono una professionista. Questo è il mio lavoro. Se ti servono fotografie per i tuoi libri, sono più che felice di fartele.» Scrollò le spalle. «Mi paghi più del dovuto e io te lo permetto, dicendomi che i soldi in eccesso sono per riguardo alla
nostra precedente... relazione intima. Ma non sono la tua balia.» Fece una lunga pausa. «Ricordi? È una discussione che abbiamo fatto un'infinità di volte.» Corso non rispose. E Meg proseguì alzando la voce. «Perciò mi scuserai se rimango un po' sconcertata quando scopro in televisione che il nostro viaggio d'affari nel fottuto Minnesota serve solo a eludere la legge... e che ti servo solo da copertura.» Corso si voltò a controllare i sedili vicini a loro. «Doveva trattarsi solo di pochi giorni» bisbigliò. «Poi l'intera faccenda si sarebbe sgonfiata e tutto sarebbe tornato alla normalità.» «Pochi giorni?» «I termini del Gran Giurì scadono domenica prossima. Poi sarà tutto finito.» «Ma sono nove giorni!» Batté un piede per terra. «Pensavi di potermi trascinare in giro per il Paese per nove giorni senza che notassi che non stavamo combinando un bel niente?» Corso alzò le spalle. «Pensavo che avresti resistito una settimana» disse. «Forse un po' meno.» Scosse la testa disgustata. «Avrei dovuto dar retta al mio sesto senso» disse. «Appena ho appeso la cornetta, una voce dentro di me si è domandata che razza di foto potevano ancora servirti in quel cavolo di posto in Minnesota. Mi dicevo: "Cristo, che diavolo vorrà ancora quel maniaco? Ho foto di ogni schifosissimo particolare di quel buco del mondo. Ho persino immortalato i polmoni di quel tipo, Comesichiama, ancora collegati e appesi alla trave del soffitto. Ho immagini di...".» «Doveva essere soltanto...» insisté Corso. «E i tuoi capelli...» Lo interruppe, puntandogli un dito contro il petto. «Ecco perché ti sei tagliato la coda di cavallo.» Fece una smorfia. «E io che pensavo che fossi finalmente cresciuto.» «Shhh, abbassa la voce.» «Dunque... vediamo se ho capito bene» riprese lei, a voce sempre più alta. «Mi devi scusare, ma sono rimasta un po' indietro con i tuoi libri.» Corso trasalì. Si portò un dito alle labbra. «Parla piano» bisbigliò. «Nel tuo ultimo libro...» «Morte a Dallas.» «Esatto. Hai affermato di sapere dove quel riccone... come si chiama?» «Harding Coles.» «Ecco, Harding Coles. Hai affermato di sapere dove avesse sepolto il corpo dell'ex moglie.»
«Pensavo di saperlo, sì.» «Pensavi?» «Le cose si sono messe male.» «In che senso?» «Abrams. Arnold Jay Abrams, il tizio che aveva giurato di sapere dove Harding avesse seppellito la moglie.» «Sì?» «È scomparso.» «E allora? Chiama quel numero a cui ti attacchi sempre quando hai bisogno di trovare qualcuno o qualcosa. Da quel che ho capito, riescono a scovare anche l'impossibile.» Corso si fece improvvisamente serio. «Te l'ho già detto. Per il bene di entrambi, dimenticati di quella faccenda. Si trattava di un'emergenza. Una tantum.» «Quindi... ci hai già provato?» Corso rimase in silenzio. La cosa parve prenderla alla sprovvista. «Davvero? Persino quei tizi hanno fatto cilecca?» «Adesso come adesso, non ho in mano niente.» «E allora inventati qualcosa, coinvolgi i poliziotti texani e facciamola finita con questa follia.» «Non posso.» «Perché no?» «Pensaci. Che succede se vanno a curiosare dove li indirizzo io e non trovano niente?» Ponderò la faccenda per un istante prima di stringere le labbra ed emettere un lungo fischio. «Non hai davvero la minima idea di dove sia seppellita quella poveretta, non è così?» «No» rispose Corso. «Quindi... se ritorno in Texas, i casi sono due: o passo sei mesi in galera, oppure mi invento qualcosa e finisco come Geraldo Rivera portato fuori dalla cantina di Al Capone con niente in mano se non i suoi testicoli.» Meg fece per ribattere, ma Frank alzò una mano. «E una volta chiuso il caso, mi citano in giudizio e perdo la causa.» «Di nuovo» aggiunse lei. «Grazie di avermelo ricordato.» «Avresti dovuto pensarci prima di metterti a urlare ai quattro venti che sapevi dove fosse seppellito il corpo.» «Dovevo consegnare il libro, pensavo di essere sulla buona strada.» Fece
una smorfia. «Che posso dire?» «Così il tuo plotone di avvocati è riuscito a tenere a bada i tizi del Texas per tutto questo tempo, e tu sei potuto rimanere a Seatde.» «Già.» «E come mai le cose sono degenerate tutto d'un tratto?» «Barry ha chiamato» rispose Corso riferendosi al suo avvocato Barry Fine. «Pare proprio che giù in Texas siano davvero fuori dalle grazie. Hanno deciso di mandare qualcuno a prendermi.» «Possono farlo?» «Solo se riescono a ottenere la collaborazione delle autorità locali.» Agitò una mano. «A quanto pare la contea di King ha deciso di autorizzare l'estradizione. Barry ha detto che avrei fatto meglio a sparire fino a quando non fossero scaduti i termini del Gran Giurì.» Meg scoppiò a ridere. «Questo perché sei davvero molto popolare fra le autorità della contea di King.» «Sono ancora inferociti per la faccenda di Walter Himes.» Meg prese a camminare in circolo. «Così hai deciso di nasconderti, ma non volevi rimanere solo... quindi mi hai trascinato con una scusa ridicola fino in Minnesota, dove potevo finire anch'io con il culo per terra e...» Alle spalle di Corso, Annie e le guardie non si sforzavano neanche più di nascondere la loro curiosità. «Dovrei denunciarti» esclamò Meg. «Dovrei andare dritta filata da quelle guardie e dire chi sei veramente. Magari c'è una ricompensa o qualcosa del genere.» Corso fece finta di non aver sentito. «Possiamo guidare fino a Madison e prendere un volo notturno.» Lei indicò con una mano la vetrata. «In questo delirio?» Corso inclinò il capo verso l'anziana donna addormentata, tenendo sotto controllo il banco informazioni dove Annie stava bisbigliando nella cornetta del telefono senza levargli gli occhi di dosso. «Non posso passare un'altra notte qui.» Mentre Meg rifletteva sul da farsi, la donna anziana riprese a gemere nel sonno e si voltò verso il soffitto rivelando una guancia rugosa ricoperta di saliva. Alla vista, Meg trasalì. «Guidare?» «Noleggeremo un fuoristrada. Quattro ruote motrici. Sarà un'avventura.» Meg non riusciva a staccare gli occhi dalla donna. Inconsciamente si portò una mano alla guancia. «Io non sbavo quando dormo... vero?» «A litri» rispose Corso. «Ti odio per avermi trascinato in tutto questo.»
«Mi spiace.» «Beh» ribatté Meg. «Almeno in qualcosa siamo d'accordo.» «Preferisci noleggiare la macchina o occuparti del bagaglio?» «Quel che voglio è ritornare a Seatde» ribatté lei. «Non hai bisogno di una compagna di giochi e io non accetto incarichi dai ricercati. Dovrai tenere a bada i poliziotti da solo, Frank. Ho la mia vita da vivere.» Corso fece per ribattere, ma poi cambiò idea. Dopo un istante disse a voce bassa: «Non appena arriviamo a Madison, ti metto su un volo per Seattle». «Sul serio? Nessun ripensamento? Nessun casino all'aeroporto?» Alzò due dita mimando il giuramento degli scout. «Hai la mia parola.» «Continuo a pensare che farei meglio a denunciarti: ti servirebbe da lezione.» «La macchina o i bagagli?» «Vado a prendere la macchina.» Corso frugò nello zaino e prese il portafoglio. «Pago io» disse. «Ci mancherebbe altro» sibilò lei, strappandogli la carta di credito dalla mano e allontanandosi a grandi passi. 2 «Sta peggiorando» mormorò Meg. Aveva ragione. I candidi batuffoli di neve che fluttuavano nel cielo avevano lasciato il posto a un torrente di grandine in piena che scaricava tutta la sua violenza sulla carrozzeria della Ford Explorer e ne metteva a dura prova gli ammortizzatori. Persino i tergicristalli faticavano a compiere il loro ritmico tragitto perché, nonostante il riscaldamento, la neve si era accumulata agli angoli del parabrezza, lasciando libere solo una coppia di mezze lune attraverso cui scrutare l'autostrada deserta. «Quanta strada abbiamo fatto?» domandò Meg. Corso controllò sul contachilometri. «Circa duecentocinquanta chilometri.» «A quest'ora dovremmo esserne fuori.» «Sempre che il tuo amico Jerry avesse ragione.» La donna si dimenò sul sedile, digrignando i denti. «Non prendertela con me, Corso. Questa è stata una tua idea, nel caso te lo fossi scordato. Se ben ricordo...»
Le parole le rimasero in gola, perché una violenta raffica di vento colpì la macchina, trascinandola fuori dalla scia di pneumatici che avevano seguito nell'ultima ora. Le ruote posteriori presero a slittare sulla superficie ghiacciata. Meg si aggrappò alla maniglia della portiera. «Cos'è stato?» «Il vento» rispose lui, mentre la Ford ritornava sbandando in carreggiata. Batté con l'unghia sul cruscotto. «Hai notato la temperatura esterna?» Corso lanciò un'occhiata al display digitale: dai meno quattro gradi di Chicago, l'indicatore era sceso a meno quindici. «Saremmo dovuti tornare indietro quando abbiamo visto lo spazzaneve invertire la marcia» esclamò lei. Corso grugnì infastidito, per quanto riconoscesse che forse Meg aveva ragione. Durante tutta l'ultima ora non avevano incrociato anima viva, l'autostrada deserta, le aree di servizio chiuse. Lungo la strada, solo vetture completamente ricoperte di neve e camion abbandonati sul ciglio della carreggiata. Sembrava che l'intero stato dell'Illinois avesse deciso di mettersi seduto davanti al camino ad attendere la fine della bufera. «Quando persino uno spazzaneve si arrende e si volta per tornare indietro... so che potrà sembrare assurdo a uno come te, ma forse avremmo dovuto capire l'antifona... forse avremmo dovuto dar prova di un minino di... di...» ripeté Meg. Corso ripulì l'interno del parabrezza con la manica. «Esattamente dove siamo?» la interruppe. «Nel bel mezzo di una dannata tormenta di neve, ecco dove siamo!» «Voglio dire sul globo terrestre» puntualizzò lui. «Dov'è la cartina?» Lei allungò il braccio sotto il sedile, mentre Corso con cautela premeva ripetutamente sui freni per arrestare la macchina. Meg gli lanciò uno sguardo corrucciato. «Che c'è?» Corso fece un cenno con la testa in direzione della strada. Lei si raddrizzò e guardò fuori. Le impronte che avevano seguito nelle ultime due ore erano sparite, lasciando il posto a un manto compatto di neve. Le corsie dell'autostrada nella direzione opposta, invece, erano un dedalo di solchi di pneumatici. «E adesso cosa facciamo?» chiese Meg, rivolgendo la domanda più a se stessa che a Corso. «Non saprei. Dipende da dove siamo.» Lei riprese a cercare sotto il sedile.
«Mi sembra che tu abbia messo la cartina nello scomparto della portiera» suggerì Corso. Meg la trovò e accese la luce dell'abitacolo. «Supponendo che il contachilometri funzioni, dovremmo essere da qualche parte lungo il confine fra l'Illinois e il Wisconsin.» «E se provassimo a tornare indietro, quanto dista da qui Milwaukee?» Prese nuovamente le misure. «Circa centocinquanta chilometri.» «E Madison?» «La metà, più o meno.» «Siamo rimasti con un quarto di serbatoio.» Meg controllò nuovamente la cartina. «Da qualche parte nei dintorni dovremmo incontrare una cittadina che si chiama Avalon.» Corso fece scattare nuovamente l'interruttore della luce, senza riuscire ad aumentare la visibilità nell'abitacolo. Sembrava di essere all'interno di una palla di neve natalizia. «È stata davvero una sciocchezza...» «Prenderemo la prossima uscita» la interruppe Corso. «E passeremo la notte ad Avalon.» «Quanto tempo sarà passato da quando abbiamo incrociato qualcuno?» «Forse un'ora» rispose lui togliendo il piede dal freno. «E lo sai perché non abbiamo visto anima viva?» continuò lei. «No, ma ho la sensazione che ci penserai tu a illuminarmi.» «Perché siamo gli unici deficienti sull'intero pianeta a essersi avventurati fuori in macchina in una notte del genere... ecco perché.» Corso strinse le labbra e diede gas alla Ford. Gli doleva la schiena a furia di stare piegato in avanti, strizzando gli occhi nella tempesta. Tolse una mano dal volante e si massaggiò il collo. I due coni di luce dei fari scomparivano a una decina di metri dal cofano della macchina. Le luci dell'autostrada illuminavano solo se stesse. Il monotono andirivieni dei tergicristalli e il ronzio del riscaldamento erano gli unici suoni all'interno della vettura. Corso allungò una mano per accendere la radio. «Oh, per favore» sibilò Meg a denti stretti «non credo che potrei sopportare anche questo.» Proseguirono in silenzio per circa un chilometro, quando lei gridò: «Ferma!». Corso arrestò la Ford a circa venti metri da un cartello stradale sferzato dal vento. Meg spalancò la portiera e l'abitacolo si riempì immediatamente
di un vortice di neve. «Torno subito» urlò, sbattendo lo sportello. Rimase a osservarla mentre il vento la spingeva violentemente verso il ciglio della carreggiata. Il mantello le si stringeva addosso delineando i contorni del suo corpo. Con il palmo della mano cercò di liberare il cartello dalla neve: AVALON 3 KM. E sotto c'erano altri simboli bianchi e blu: benzina, vitto e alloggio. Sul tragitto di ritorno, Meg scivolò sul ghiaccio, vacillò e cadde in un cumulo di neve. Corso prese ad armeggiare con la cintura di sicurezza, ma proprio quando riuscì a sganciarla vide che lei si era rialzata e, lottando contro il vento, stava risalendo in macchina. Le ciglia ghiacciate, batteva furiosamente i denti: «Maledizione f-f-fa ff-freddo là fuori». «Stai bene?» Annuì col capo e una pioggia di candidi fiocchi le atterrò dolcemente in grembo. «Andiamocene da qui» esclamò poi, liberandosi gli abiti dalla neve. «Avalon, stiamo arrivando» esclamò Corso rimettendo in moto la Ford. Meg rabbrividì. Cercò di alzare il riscaldamento ma scoprì che era già al massimo, così si appoggiò allo schienale e allacciò la cintura di sicurezza. «Che diavolo di nome è, Avalon?» «Si riferisce a una leggenda celtica. È un'isola dell'Oceano Atlantico, dove si dice che Re Artù e i suoi cavalieri furono portati dopo la morte. Una sorta di paradiso della Tavola Rotonda.» «Ecco l'uscita» lo interruppe. Corso pigiò sui freni diverse volte per imboccare la strada, ma la Ford sbandò fino a fermarsi. «Ghiaccio» fece Corso laconico. Un nuovo cartello con i simboli di benzina, vitto e alloggio indicava di dirigersi a destra. Si sporsero entrambi in avanti per scrutare la strada nella tormenta. Meg provò a pulire ancora una volta l'interno del parabrezza con una manica. «Non vedo niente» disse sconsolata. «La città è probabilmente dietro l'angolo» azzardò Corso. Cinquanta metri dopo, senza alcun preavviso, la pendenza si accentuò. La Ford slittò diverse volte, mentre la strada si snodava in discesa verso la valle sottostante. Corso ingranò la prima per frenare la vettura con il motore e ingaggiò una lotta corpo a corpo con il volante per mantenere i pneumatici aderenti al terreno. «Ghiaccio» ripeté. «La città sarà proprio in fondo alla valle» suggerì lei a bassa voce.
«Lo spero davvero» borbottò lui «perché escludo che si possa ripercorrere questa strada in salita fintanto che non si sarà sciolta la neve.» «Un problema che non avremmo se tu non...» «Dacci un taglio, ti spiace?» scattò lui. La voce di Meg divenne gelida. «È il mio datore di lavoro che parla? Che mi ordina quando scattare le foto e quando tenere la bocca chiusa per non disturbarlo?» Lui sospirò. «No... è il tuo amico Frank Corso che parla. Va bene, forse cercare di arrivare a Madison in macchina non è stata l'idea più brillante che mi sia venuta, ma ormai siamo in ballo tutti e due... perciò tanto vale smetterla di...» Cercò disperatamente la parola adatta a completare la frase, ma si arrese e tacque. «Capisco. Vuoi che io smetta di fare la rompipalle.» Corso sembrò sul punto di negare, ma quello che gli uscì fu: «Qualcosa del genere». «Come si dimentica in fretta» mormorò Meg con l'aria di chi la sa lunga. «Cosa vorresti dire?» «Quello che più ti aggrada.» «Non trovi che questa conversazione sia una vera delizia in una notte di tormenta?» «Mi ricordo di quando la pensavi diversamente.» «Ma allora era un'altra cosa. Eravamo... ecco, era...» Fece un gesto con la mano. «Era tutto diverso, sai cosa voglio dire.» Lo guardò con un'espressione sconcertata. «No che non lo so. Perché il famoso scrittore non mi illumina?» «Quando si è... quando...» «Quando si va a letto insieme.» «Già.» «Continua.» «Lo sai, se si... se si ha quel tipo di legame... beh, le regole sono diverse. Si sopportano molte più sciocchezze rispetto al solito.» Meg rimase seduta in silenzio per qualche istante, poi scoppiò in una risata amara. «Mi stai dicendo che quando vai a letto con una persona sei molto più disponibile ad ascoltare le sue stronzate?» Corso ci pensò su. «Mi sembra logico» disse infine. Rimase a fissarlo per un lungo istante. «Incredibile» esclamò. «Gli uomini sono assolutamente incredibili.» E vedendo che lui non ribatteva, si sistemò contro lo schienale a braccia conserte. «Fammi sapere quando avrò
il permesso di parlare di nuovo, d'accordo?» Corso serrò la mascella. Davanti a loro un cartello giallo annunciava una pendenza del venti per cento. Azionò i freni stringendo i denti e, mentre la Ford slittava compiendo una curva, voltò la testa verso Meg. La donna sedeva rigida, fissando avanti con aria annoiata e indifferente. «Perché non ci limitiamo a...» esordì. La vide spalancare gli occhi. «Frank!» urlò. Tornò di scatto a fissare la strada e gli ci volle un attimo perché il cervello registrasse la scena: poco più avanti, un pick-up coperto di neve giaceva riverso su un fianco, bloccando entrambe le corsie. La porta del passeggero era aperta e puntava verso il cielo. Corso frenò di scatto e la Ford sembrò perdere quel poco di aderenza che la ancorava al terreno e prese ad accelerare lungo il pendio scosceso. «Fa' qualcosa!» urlò Meg, il volto trasformato in una maschera di paura. Corso allentò i freni ma la macchina era ormai fuori controllo e, dopo un completo giro su se stessa, andò a sbattere violentemente contro il pick-up. L'ultima immagine che Meg riuscì a mettere a fuoco fu il volto di Corso coperto di sangue. Poi la vettura cominciò a vorticare su se stessa, colpendo ripetutamente il telaio del pick-up tra gli urli del metallo squarciato, prima di sfondare il guard-rail e volare nel vuoto. 3 «Dannazione, Frank... tirati su.» Cercò con tutte le sue forze di allontanarlo da sé, ma il corpo privo di sensi di Corso giaceva inanimato sopra la sua spalla sinistra. I tergicristalli si muovevano sempre più lentamente e il riscaldamento era ridotto a un lieve sussurro. Sentiva che l'orecchio destro, premuto contro il finestrino, iniziava a congelarsi. Riuscì a sollevare il volto di Corso prendendolo per le orecchie. Aveva il naso completamente schiacciato. Alla luce della luna, i due rivoli di sangue che gli scendevano sulla bocca e sul mento avevano i riflessi violacei del petrolio. Lo scosse delicatamente, chiamandolo per nome. Niente. Poi ci mise più vigore e lui tossì. Gemette. D'un tratto spalancò gli occhi, cercò di alzare la spalla per liberarsi il braccio e portare la mano al viso. Meg lo vide sbattere le palpebre diverse volte, nel tentativo di mettere a fuoco le dita insanguinate. «Corso» lo chiamò. «Credo che il tuo naso sia rotto.» Lui le rivolse uno sguardo spento, mentre si toccava la faccia trasalendo
per il dolore. «Naso» ripeté, come se non riconoscesse la parola. D'un tratto la macchina riprese a scivolare lungo il pendio, lo stridio del metallo lacerato che tornava a squarciare l'aria. Meg soffocò un urlo mentre la Ford faceva due grandi sobbalzi prima di arrestarsi nuovamente. Con la coda dell'occhio scorse il ramo di un albero premuto contro il finestrino del passeggero. «Dobbiamo uscire di qui» disse. Corso continuava a fissare in silenzio la propria mano. «Forza... muoviti.» Lui sbatté le palpebre, cercando di schiarirsi la vista, poi spostò il peso verso sinistra e, aggrappandosi al volante, riuscì a trascinarsi sul sedile del guidatore. Poi si inginocchiò annaspando in cerca della maniglia della portiera. Meg sentì lo scatto della serratura. Lo vide spingere con entrambe le mani senza riuscire a forzare il blocco e poi tentare ancora e ancora, ma senza risultato. Il sangue gli colava dal naso come un fiume in piena, mentre si allungava in cerca del pulsante del finestrino e lo premeva verso il basso. Il finestrino cigolò ma non si mosse. Corso colpì il vetro con la mano e la macchina cominciò a ruotare intorno al proprio asse. Rimasero perfettamente immobili ad attendere che si fermasse nuovamente, quindi lui riprovò a premere il pulsante del finestrino. Con un gemito doloroso, il vetro cominciò a scendere lentamente fino a scomparire all'interno della portiera. Le luci del cruscotto si erano affievolite e i tergicristalli producevano un lento fruscio sul parabrezza. Un vortice di neve farinosa invase l'abitacolo. L'aria ghiacciata spazzò via in un istante quello che rimaneva del riscaldamento e del calore dei loro corpi. Portandosi un ginocchio al petto, Corso appoggiò il piede al volante e fece leva per issarsi e uscire dal finestrino. Liberata dal peso di Corso, Meg si chinò in avanti aggrappandosi allo sterzo e, puntando i piedi sul bracciolo del sedile, rimase in bilico affacciata al finestrino. Sopra di lei, l'oscurità la fissava, nera come la pece. «Corso» gridò. Attese. Niente. E per un istante la paura rischiò di soffocarla. Era caduto precipitando sul fondo del baratro? Nello stordimento dell'incidente se n'era semplicemente andato dimenticandosi di lei? Di nuovo invocò il suo nome e di nuovo la voce fu inghiottita dall'oscurità. Sentì la neve pungerle le guance, mentre ingoiava le lacrime cercando di chiamare a raccolta il coraggio. Ed ecco che d'un tratto la macchina si mosse e il baratro nero sopra la sua testa venne colmato dal corpo di Corso. L'uomo aveva cercato di arrestare il flusso di sangue con un impacco di
neve. Infilò le braccia nell'abitacolo e l'afferrò saldamente per le spalle. Era rimasta pomeriggi interi a osservare il gioco di muscoli sulle sue braccia possenti mentre lavorava sul ponte della barca. E notti intere si era cullata nella forza del suo abbraccio mentre facevano l'amore nella cabina sottostante. Conosceva bene la sua forza, ma non pensava arrivasse fino a quel punto. Corso le passò le mani sotto le ascelle e la tirò fuori dalla macchina come se fosse stata una bambina. Prima di rendersene conto era seduta per terra accanto alla Ford, la visuale impedita da un groviglio di capelli e neve. Si scosse, strinse il mantello sulle spalle e si guardò intorno. La Ford era appoggiata contro un albero, a circa quindici metri dalla sommità del dirupo. In lontananza si intravedeva il balenare delle luci stradali. Sotto di loro il pendio sembrava farsi più ripido prima di scomparire, inghiottito dall'oscurità. Nonostante la tormenta, riuscì a sentire Corso che respirava a fatica. «Andiamo» le disse prendendole una mano, prima di inerpicarsi sulla collina, aggrappandosi ad arbusti e cespugli per aiutarsi nella risalita. A metà strada Corso cadde pesantemente sulle ginocchia e cominciò a scivolare verso di lei. Per un attimo sembrò che dovessero capitombolare insieme nel vuoto, ma con i piedi lui riuscì ad arrestare la caduta, e riprese la scalata. Giunto al guard-rail, lo oltrepassò e si sporse per aiutarla. Meg sussultò quando sentì le sue mani che le sfioravano il seno prima di trovare la presa sotto le braccia per sollevarla. «Cristo, Frank... se volevi toccarmi potevi chiedermelo.» «Non ci vedo bene» rantolò lui. «Cosa?» «Ho una visuale completamente deformata. È come se fossi diventato strabico.» Prima che potesse rispondergli, sobbalzarono al suono di vetri infranti che proveniva dal fondo del dirupo. Rimasero impietriti sulla corsia innevata, mentre la Ford rimbalzava sugli alberi disseminati lungo il pendio per finire inghiottita nel vuoto. Tremando di freddo, Meg allungò una mano e allacciò i bottoni del cappotto di Corso. «Dobbiamo trovare rifugio da qualche parte» balbettò. «Non resisteremo a lungo qua fuori.» «Giù» rispose lui. «Dobbiamo proseguire verso valle.» Le sue parole parvero irritare la tempesta. Sopra la loro testa gli alberi ondeggiavano come ballerini impazziti. La tormenta di neve si era infittita
e celava quasi completamente alla vista il pick-up rovesciato a circa quaranta metri da loro. Meg estrasse una mano dal mantello e prese Corso per una manica. L'uomo si toccò la faccia, cercando di stropicciarsi gli occhi, scosse la testa un paio di volte e poi la seguì. Costeggiarono il relitto. Il telaio del pick-up era uno strato solido di ghiaccio sporco. La portiera aperta oscillava al vento. Meg tirò Corso verso la parte anteriore del veicolo, si chinò e tentò di raschiare a mani nude la neve dal parabrezza. Il vetro era completamente ghiacciato. Non c'era modo di capire se ci fosse qualcuno all'interno. «Non riesco a vedere niente» gridò, cercando di sovrastare il sibilo del vento. Sempre tenendosi per mano, tornarono sui loro passi. Corso cercò a tentoni lungo al telaio e, dopo aver fatto un passo indietro, sferrò un violento calcio contro la lastra di ghiaccio. Ripeté il colpo quattro volte fino a che un blocco di neve ghiacciata non gli cadde sugli stivali, rivelando una marmitta e un tubo di scappamento arrugginiti. Corso le lasciò la mano. Si aggrappò al telaio della portiera aperta e, issandosi sul tubo di scappamento, riuscì a sbirciare all'interno dell'abitacolo. Sbatté varie volte le palpebre per cercare di mettere a fuoco la scena. Un vecchio giaceva sul fondo della vettura, schiacciato contro il finestrino. Morto stecchito. Era congelato e parzialmente ricoperto di neve. Allungandosi, Corso riuscì ad appoggiare lo stomaco sul telaio della portiera e, in bilico, si sporse in avanti per liberare il corpo dell'uomo dalla neve, come se così facendo potesse riportarlo in vita. Sentì Meg che gli chiedeva cosa avesse trovato. Stava per scendere dal pick-up con un salto, quando notò la strana posizione del braccio destro del vecchio, proteso in avanti e lontano dal corpo. Spazzò via la neve che lo ricopriva e rimase di stucco. Le dita irrigidite tenevano ancora saldamente in pugno un accendino giallo, con cui il vecchio aveva forse cercato di riscaldarsi negli ultimi istanti di vita. Corso si domandò se un gesto così futile non rappresentasse una metafora della vita. Candele al vento e tutto il resto. Poi, senza spiegarsene la ragione, tentò di prendere l'accendino. Il vecchio lo teneva stretto in una presa mortale. Aiutandosi con l'altra mano, Corso riuscì ad allentare le dita irrigidite allargandole una a una, finché l'accendino non gli cadde sul palmo. Si districò dai rottami del pick-up e balzò a terra. Meg saltellava da un piede all'altro premendo i tasti del cellulare. Aveva i capelli completamente ricoperti di neve. «Non c'è campo» gli urlò.
«C'è un vecchio là dentro. Morto congelato.» Meg si infilò il cellulare in tasca. «Finiremo anche noi così se non troviamo un riparo.» A mo' di consolazione, Corso le mostrò l'accendino coperto di ghiaccio. Meg fece una smorfia. «Santo Dio, Corso. Devi aver preso davvero un brutto colpo in testa. Cosa diavolo ce ne facciamo? Forza, andiamo!» Gli strappò l'accendino di mano e si rimisero in marcia. Dopo qualche centinaio di metri e tre curve a gomito, la strada cominciò a farsi pianeggiante. Camminarono fianco a fianco rabbrividendo per il vento gelido. Dopo circa mezzo chilometro si ritrovarono a incespicare sotto un'arcata naturale di alberi spogli, fino a che Meg non cominciò a sbandare lievemente, a barcollare e infine cadde in ginocchio sulla neve. «Le gambe» gemette. «Non le sento più.» Corso la afferrò e la rimise in piedi. «Devi continuare a camminare» le disse. Lei annuì. Fece un solo passo avanti e piombò a faccia in giù sulla neve. Lui si piegò su un ginocchio e la prese fra le braccia, risollevandosi a fatica. Dopo di che riprese ad arrancare, un passo alla volta, lentamente. Meg si ritirò in se stessa. In un luogo dove il resto dell'universo non esisteva. Dove le uniche parole rimaste erano rappresentate dalle voci nella sua testa e dove le immagini create da quelle voci erano le uniche palpabili manifestazioni di vita. Le tornò in mente il vecchio nel pick-up. E si chiese come avesse fatto a tener viva la speranza. Se a un certo punto non avesse capito che era giunta la sua ora. Si era preso gli ultimi istanti per urlare all'universo la sua sfida? O se ne era andato nell'oscurità della notte senza opporre resistenza? Si interrogò sulla speranza, unico peccato dell'umanità rimasto nel vaso dopo che quella sciocca di Pandora aveva sollevato il coperchio. Era immersa in quelle riflessioni, quando un rumore dall'esterno interruppe il flusso dei suoi pensieri. «Riesci a vederla?» diceva la voce. «Quella luce laggiù?» Una mano le spinse il mento verso sinistra. «La vedi?» «È una casa» rispose. «Mettimi giù. Da solo puoi farcela. Va' a chiamare qualcuno. E torna a prendermi.» Per tutta risposta Corso la strinse di più a sé e continuò ad avanzare, il respiro ormai ridotto a un rantolo nel buio. Erano ormai all'imbocco del viale d'ingresso. Attraverso il vòrtice di neve e gelo riuscì a scorgere da
lontano una luce e il profilo di una casa. «Mettimi giù. Va' a chiamare qualcuno» lo implorò, ma lui la sollevò più in alto, infilandosi poi fino al ginocchio nella neve fresca. Ogni passo era pura agonia. Prese a percuotergli il petto urlando. Piangendo. «Dio, Frank, mettimi giù. Non fare il pazzo. Stai sanguinando a fiumi dal naso. Ti prego. Ce la faccio da sola. Davvero. Dobbiamo fermare l'emorragia. Ti prego, ti prego.» Dalla bocca di Corso usciva solo un rantolo, un lamento simile a una cantilena che lo accompagnava nello sforzo di procedere, passo dopo passo, la vista sempre più annebbiata, la voce che lo supplicava ridotta al silenzio. A un tratto inciampò e cadde, scaraventando Meg in avanti e facendola atterrare su qualcosa di duro. 4 Quando riaprì gli occhi per la prima volta, Corso vide le fiamme che danzavano sul soffitto e percepì solo il crepitio del fuoco. Incapace di sollevare la testa e di muovere le estremità, lo assalì il dubbio di essere morto e finito all'inferno. Stava ancora vagliando quella possibilità, quando le ali nere della notte lo avvolsero nelle loro spire e ripiombò nell'oscurità. Quando riprese coscienza per la seconda volta, l'alba cominciava a filtrare dalle finestre. Questa volta fu in grado di sollevare la testa sostenendola con una mano. Aveva la sensazione che qualcuno si divertisse a strimpellare i suoi ritmici accordi alla chitarra a un centimetro dai suoi occhi, onde sonore che penetravano indisturbate nei meandri del suo cervello indifeso. Non riusciva a respirare dal naso, ma si ricordò dove si trovasse. La vecchia casa con il cartello PROPRIETÀ PRIVATA all'ingresso. Disabitata. Le finestre inchiodate con delle assi. Ricordò Meg che spalancava la porta con un calcio. Che lo portava dentro a forza, trascinandolo per le spalle e spingendolo sul pavimento gelato. Poi ricordò di essere rimasto a terra e di aver visto una luce nell'oscurità. Un'unica fiammella guizzante nella stanza vuota. Aveva chiuso gli occhi sperando di arrestare gli incessanti colpi di martello che gli risuonavano in testa e poi... Quando si svegliò per la terza volta, si raddrizzò a sedere e sussultò per la fitta atroce alla testa che quasi lo rimandò disteso a terra. La neve rifletteva un chiarore alogeno dalle finestre. A quel punto gli tornò in mente ogni cosa. Meg gli aveva salvato la vita. Si guardò intorno. Era distesa dall'altra parte del camino, acciambellata sotto il mantello. Si ricordò di come
si fosse servita dell'accendino che avevano trovato in mano al vecchio del pick-up, per farsi strada nella casa disabitata e trovare qualcosa da bruciare. Di come avesse trovato dei cassetti vuoti in cucina, ancora foderati di carta colorata. Di come li avesse impilati sul focolare, facendoli a pezzi a furia di calci. Rivide il tremore delle sue mani mentre accendeva della carta appallottolata e aspettava che il legno prendesse fuoco. Poi era stata la volta del mobile che conteneva i cassetti; e infine degli sportelli della cucina. A quel punto il calore aveva cominciato a diffondersi. Ricordava di aver cercato di alzarsi senza riuscirci e di come Meg gli avesse intimato dolcemente di non muoversi, ripetendogli che sarebbe andato tutto bene. Da quel momento i ricordi si erano fatti nebulosi. Il fuoco era ormai ridotto a un letto di braci ardenti. Muovendosi un centimetro alla volta, Corso si mise in piedi. Gli girava la testa e per un attimo temette di perdere i sensi e di crollare di nuovo a terra. Malfermo sulle gambe, barcollò in avanti e mise una mano sui mattoni del camino. Sulla destra giacevano impilate diverse assi pronte per essere bruciate. Lentamente spostò il parafuoco arrugginito e sistemò la legna sulla brace ardente. Per un attimo non accadde niente e Corso temette di aver soffocato il fuoco. Poi un fumo denso cominciò a diffondersi nella stanza finché, dopo qualche istante di panico, un'unica fiamma gialla guizzò fra le assi con un paio di crepiti e un sibilo. Corso richiuse il parafuoco. Ai suoi piedi, Meg si mosse nel sonno. Sostenendosi alla parete, Corso si fece strada fino in cucina, dove faceva sensibilmente più freddo. Entrò nella stanza, preceduto da nuvolette biancastre di fiato condensato. La donna aveva bruciato ogni singolo pezzo di legno rimovibile. Lungo la parete a nord era rimasto solo il telaio di quella che un tempo doveva essere stata una modesta cucina. Appoggiandosi con una mano al bancone, attraversò la stanza e si avviò alla porta che d'ava sul retro. La sua immagine riflessa nel vetro lo fece fermare di soprassalto. Non riconobbe il volto che lo fissava. Una ferita sanguinante gli attraversava la fronte da parte a parte, come una bandana. Gli occhi erano talmente gonfi da sembrare quasi chiusi. Al di sotto vide un unico grumo di sangue coagulato. Si toccò esitante il naso e fu subito colpito da una fitta di dolore. Appoggiò un braccio al bancone e chinò la testa respirando profondamente, finché non udì una voce dall'altra stanza. «Corso» lo chiamò Meg. Dovette schiarirsi la voce tre volte prima di poter emettere un rauco: «Sono qui». «Devi stare sdraiato.»
«Sto bene» rispose. «No, non stai bene per niente» insistette lei. Per dimostrarle che aveva torto, Corso si allontanò con uno sforzo dal bancone e ritornò con passo malfermo nell'altra stanza. Meg era inginocchiata, un'espressione sofferente negli occhi, e si cullava leggermente, come se il movimento ritmico potesse in qualche modo distrarla dal dolore. Le si sedette accanto avvicinando il volto al suo. «E tu stai bene?» le domandò. Meg annuì col capo, senza convinzione. «Le mani» mormorò estraendole da sotto il mantello. Gonfie e rosse, sembravano lessate. «Mi si sono congelate ieri notte. E bruciano da morire.» «Tienile al caldo» fu tutto ciò che riuscì a dirle. «Dovresti vedere la tua faccia» ribatté lei a denti stretti, facendo scivolare nuovamente le mani sotto il mantello. «Già fatto.» Meg fece per alzarsi, ma lui la fermò, mettendole una mano sulla spalla. «Mi hai salvato la pelle» disse. Cercò di liberarsi dalla presa, ma Corso la tenne stretta. «Devi metterti sdraiato, Frank. Hai preso un brutto colpo in testa. Per un attimo ho temuto che morissi dissanguato.» «Mi hai salvato» ripeté lui. «La cosa è reciproca» ribatté Meg. «Mi hai portato in braccio per un chilometro nella tormenta di neve.» Trasalì al ricordo. «La cosa più assurda che abbia mai visto. Io mi sono limitata ad accendere un fuoco e a controllare che non si spegnesse.» Sentendosi chiamato in causa, il fuoco nel camino crollò su se stesso in un'esplosione di scintille. «Dove hai preso quelle assi?» le chiese. «C'è un fienile.» Si strinse nelle spalle. «Non era rimasto niente da bruciare in casa, così ho deciso di fare un tentativo là fuori. È così che mi sono congelata le mani. A furia di sradicare le vecchie assi del pavimento e trascinarle qua dentro.» Corso si alzò in piedi. «Dobbiamo mantenere vivo il fuoco. Solo così ci troveranno.» Meg fece per protestare e si alzò a sua volta. «Rimani seduta» le intimò. «Mi sento un po' stordito, ma sto bene.» Si mise una mano sulla testa come per controllare che fosse ancora al suo posto, poi attraversò la stanza e aprì la porta. Una luce accecante lo investì costringendolo a chiudere gli occhi. Rimase qualche istante fermo
sull'uscio, cercando di abituare il respiro all'aria gelata. La tempesta era passata, lasciandosi dietro un manto bianco di neve sferzato dal vento che arrivava quasi a coprire i pali del recinto allineati lungo il viale d'accesso. Uscì sul portico e si chiuse la porta alle spalle. Rabbrividì nel cappotto e si sfregò le mani per riscaldarle. A perdita d'occhio, nessun segnale di vita, eccetto un'unica impronta sulla neve, una striscia discontinua di passi che conduceva a un fienile a circa trenta metri dalla casa. Si incamminò lentamente in quella direzione, cercando di sollevare in alto le ginocchia e di non muovere troppo la testa. Il cielo terso era solcato da nuvole enormi e l'aria sfavillava di cristalli di neve soffiati dal vento. Più che un fienile, sembrava un capanno. Non doveva essere più grande di quattro metri per tre ed era inclinato pericolosamente verso destra. Un cerchione arrugginito e un rastrello sgangherato erano appesi alla parete. Meg aveva bruciato quasi metà del pavimento. Corso afferrò l'estremità di un'asse. Il legno fradicio gli si sbriciolò in mano mentre cercava di far leva verso l'alto per liberarlo dai chiodi arrugginiti. Infine, lo buttò fuori sulla neve. Solo quando cercò di scardinare a calci una seconda asse, si accorse che l'altra metà del pavimento non era nelle stesse condizioni. Il legno non era vecchio né marcio, ma solido legno massiccio inchiodato lungo tutto il perimetro esterno della stanza. Camminando con cautela sui travetti esposti del pavimento, si avvicinò alla parete dove era appeso il cerchione arrugginito e allungò un braccio per afferrarlo. Più pesante di quanto si fosse immaginato, gli scivolò tra le mani e riuscì a fermarne la caduta prima che gli piombasse sulle ginocchia. Tra le dita gli rimase uno spesso strato di ruggine. Tornato sui suoi passi, lo sollevò con un grugnito e lo scaraventò con forza sull'asse di legno più vicina. La tavola si spaccò in due. Si spostò a destra e ripeté l'operazione, fino a rompere tutte le assi. Alla fine, la testa gli pulsava all'impazzata e per un attimo temette di svenire. Il naso aveva ricominciato a sanguinare. Lasciò cadere a terra il cerchione e si piegò in due, aspettando che la vista gli si schiarisse, quando a un tratto sentì un rumore che veniva dall'esterno. Un motore, simile al latrato di un diesel. Si fece strada fino alla porta, attraversando con cautela il pavimento divelto. Facendosi schermo con una mano sugli occhi per proteggersi dal riflesso della neve, scrutò l'orizzonte. Niente. Rimase immobile in ascolto, ma il suono era svanito. Con un sospiro ritornò nel capanno, dove finì di fare a pezzi le assi,
ammonticchiandole poi davanti all'ingresso. Mentre il perimetro esterno del pavimento aveva rivelato solo sporcizia e polvere, il lato più vicino alla porta sembrava foderato di plastica nera. Corso si accorse che non si trattava di un singolo strato di materiale disposto orizzontalmente, ma di un rotolo tenuto insieme da nastro adesivo argentato. La curiosità ebbe il sopravvento e con il palmo della mano premette sullo strato superiore della plastica. Al di sotto qualcosa di friabile si spezzò con un rumore secco. Ritrasse istintivamente la mano, sbirciandosi il palmo sporco di ruggine. Poi sentì di nuovo quel rumore. Questa volta non c'erano dubbi, era un motore diesel. Sulla strada, uno spazzaneve giallo brillante procedeva spostando cumuli di neve ed emettendo uno sbuffo nerastro verso il cielo. Corso cominciò a sbracciarsi per attirare l'attenzione dell'autista. Un intero minuto di cenni frenetici lo ridusse in ginocchio a capo chino, a osservare la neve tingersi di rosso goccia dopo goccia. D'un tratto sentì i colpi del clacson e, alzando lo sguardo, vide che uno dei finestrini dello spazzaneve era aperto e una mano stava rispondendo ai suo cenni. Rimase in ginocchio mentre l'enorme bestione faceva retromarcia e si dirigeva verso di lui. Al di sopra del rombo del motore, sentì la voce di Meg che gridava: «Ehiiii!!!». Guardò alla sua destra. Era in piedi sul portico. Corso rientrò nel capanno e afferrò l'estremità del nastro isolante per srotolarlo. Gli strati di plastica cominciarono a separarsi da soli. Corso allungò una mano e aprì il primo involucro. Quel che vide lo fece arretrare inorridito. Inciampò e cadde pesantemente al suolo. Facendosi coraggio ritornò sui suoi passi con la testa che gli pulsava. Diede una sbirciatila. Veloce. Con la coda dell'occhio. Come temendo di tramutarsi in pietra. Eccolo lì. Il ghigno d'avorio. Un ciuffo di capelli ancora attaccato al teschio. Le orbite vuote che lo fissavano. Si portò una mano alla bocca e si girò di scatto, lo stomaco sottosopra. Poi si avviò lentamente verso l'uscita. Lo spazzaneve era a pochi passi da lui e l'autista aveva aperto lo sportello per scendere. Era un giovane dal volto rubicondo che indossava una tuta termica arancione e un cappello scozzese con i paraorecchie. Quando fu abbastanza vicino a Corso, la faccia da scolaretto si incupì. Senza una parola il ragazzo risalì sul mezzo e si affacciò dal finestrino gridando: «Non hai un bell'aspetto, amico». Corso annuì. «Manderò subito un'ambulanza» promise. «Cerca di stare calmo, nel frattempo.» Mentre si avvicinava, Corso sentì il clic della sicura della porta. Alzò lo
sguardo sul volto preoccupato del giovane. «Sarà meglio chiamare anche gli agenti di polizia» gridò di rimando. «Nel capanno c'è qualcosa che dovrebbero vedere.» 5 «Il posto era disabitato da più di quindici anni» disse lo sceriffo. «Da quando Eldred Holmes ha chiuso baracca con moglie e figli e se ne è andato.» Parve riflettere un istante. «Verso la metà degli anni Ottanta, mi pare. Non riesco assolutamente a ricordare dove avessero intenzione di trasferirsi.» Si guardò alle spalle in direzione del capanno, circondato dal nastro giallo della polizia e da una decina di agenti. «A quanto pare non sono andati molto lontano.» «Pensa che si tratti di loro, là dentro?» domandò Corso. La donna scrollò le spalle. «Ho dato un'occhiata dentro i sacchi prima che li sigillassero.» Abbassò lo sguardo su Corso. «Non abbiamo un laboratorio della Scientifica, qui. Dobbiamo aspettare che ci pensino i ragazzi della Polizia di Stato. Ma la protesi dentale mi sembra proprio quella di Eldred Holmes.» Prima che Corso potesse fare la domanda, la donna si affrettò a proseguire. «Da ragazzo, si divertiva a spaventare gli amici. Aveva gli incisivi che sporgevano completamente dalla bocca. Più tardi se li è fatti aggiustare. Glieli hanno tolti e gli hanno fatto un ponte. Lo so perché una volta me l'ha fatto vedere. Proprio nel bel mezzo del Royals Drugstore.» Agitò il pollice in direzione del capanno. «E mi sembra proprio quello che ho visto in bocca a uno dei teschi.» A circa venti metri, alcuni paramedici del pronto soccorso uscirono di casa portando Meg su una barella. Aveva le mani fasciate come quelle di un pugile. Le ruote della barella non riuscivano a procedere nella neve, perciò dovettero sollevarla per caricarla sull'ambulanza che aspettava a porte aperte. Agitò un mano fasciata in direzione di Corso. Lui rispose al saluto osservando gli uomini che ripiegavano le gambe di alluminio e facevano scivolare la barella sull'ambulanza. Una Lincoln nera con le insegne municipali spuntò all'imbocco del vialetto d'ingresso. Dal tubo di scappamento usciva un fumo nero che sembrava un mantello al vento. Si aprì una portiera. Un uomo basso e tarchiato, stretto in un nero cappotto, scese dalla macchina e si fece strada lentamente verso la casa. Lo sceriffo si schermò gli occhi con una mano. A due terzi del vialetto, l'uomo li scorse e cambiò direzione. La donna
borbottò qualcosa a fior di labbra, ma Corso non riuscì a distinguere le parole. Era un uomo dai lineamenti marcati, sulla sessantina. Le sopracciglia erano folte e cespugliose, a differenza dei baffi, ordinatamente tagliati. L'effetto generale era quello di uno studioso. «Giudice» lo salutò lo sceriffo senza dargli la mano. «Che cosa abbiamo qui?» le rispose in tono imperioso. «Delle ossa seppellite sotto le assi del pavimento del capanno, Vostro Onore.» Prima che potesse farle un'altra domanda, la donna proseguì. «È tutto ciò che sappiamo per il momento, giudice Powell. Stiamo aspettando la Polizia di Stato e la squadra della Scientifica.» Il giudice serrò la mascella e fece per incamminarsi verso il capanno. Lo sceriffo gli sbarrò la strada con un braccio. L'uomo abbassò gli occhi sull'ostacolo con un misto di ira e sdegno. «Non oserà...» esordì. La donna sostenne impassibile lo sguardo minaccioso. «C'è un'indagine in corso, Vostro Onore.» Indicò il nastro giallo tutt'intorno al capanno. «Ho fatto sigillare l'area. La Polizia di Stato non sopporta che si contamini la scena del crimine. Potrebbero pensare che siamo una banda di incompetenti.» Lasciò ricadere il braccio. «Devo tenere tutti a distanza.» Il labbro inferiore dell'uomo tremò, mentre inghiottiva la risposta che gli era salita alle labbra. Fece un profondo respiro, espirando l'aria dal naso come una locomotiva in partenza. «Mi tenga informato» disse. E non era una richiesta. «Naturalmente.» Lanciò un'occhiata a Corso e poi riportò lo sguardo gelido sullo sceriffo. «Sarò in ufficio tutto il giorno. Mi aspetto di ricevere sue notizie entro sera.» «I tempi sono fuori dal mio controllo, Vostro Onore» rispose la donna. «Saranno i ragazzi della Scientifica a...» «Entro sera» tagliò corto Powell, prima di girare sui tacchi e allontanarsi. La donna rimase a osservarlo in silenzio mentre ritornava alla Lincoln, e seguì con gli occhi la berlina nera fino a che non scomparve in lontananza. Poi sospirò. «Richardson» grugnì. Al di là della distesa di neve, un tizio alto in uniforme scura si voltò. Al posto del copricapo munito di paraorecchi che indossava lo sceriffo, portava uno di quei cappelli della polizia a cavallo che
si legano sotto il mento. La cinghia di pelle era talmente stretta che c'era da stupirsi se riusciva ancora a muovere le labbra. Le sue orecchie erano rosse come bandierine di segnalazione. «Sissignore» gridò in risposta. Lo sceriffo si portò le mani a coppa davanti alla bocca. «Dobbiamo far uscire le ambulanze. Fa' sgombrare il viale d'accesso.» Indicò un furgoncino bianco con la parabolica sul tetto. «Comincia da quei tipi della televisione. Mandali via.» «Il pubblico ha il diritto di essere informato» gridò Richardson di rimando. «Ed è per questo che li ha chiamati?» sibilò la donna. Lo richiamò a sé con un dito. Richardson si avvicinò a grandi passi e si mise sull'attenti, fissando un punto al di sopra della testa della donna. «Per prima cosa li mandi subito fuori dalle palle» ordinò lo sceriffo rivolgendosi al bavero della giacca dell'uomo. «Poi discuteremo del perché li hai chiamati.» Lui si irrigidì. «Il diritto del pubblico di avere libero accesso a...» cominciò a recitare. «Chiudi il becco» gli intimò lei a denti stretti. «Al momento, quei poveretti nel capanno sono tutto ciò di cui mi preoccupo... e loro hanno diritto di essere trattati con un po' di dignità.» Lo sguardo vacuo di Richardson non vacillò un istante durante la tirata dello sceriffo. «E se fossero state persone che conoscevi? Se fossero stati tuoi familiari?» Gli batté la mano sulla spalla. «Cerca di valutare anche questo aspetto, prima di farti travolgere dallo smodato desiderio di apparire in televisione.» Un altro colpetto, questa volta più forte. «Chissà... magari il tuo lato buono riuscirà a emergere.» Prima che l'uomo potesse ribattere, lo sceriffo proseguì. «Fa' sgombrare il viale di accesso. E ricorda ai tizi della televisione che non si può parcheggiare su Hawthorne Road, specialmente in un'emergenza come questa. Se si ostinano a lasciare lì il furgone, chiama Bob Sowers e faglielo rimuovere con il carro attrezzi. Una volta che le ambulanze se ne saranno andate, le autopattuglie potranno rientrare.» «Sissignore» ringhiò nuovamente l'uomo, prima di girare sui tacchi e tornarsene a grandi passi al suo lavoro. Lo sceriffo sospirò profondamente, osservando l'agente allontanarsi, poi spostò lo sguardo su Corso, che era adagiato su una barella accanto al portellone posteriore dell'ambulanza, con la testa avvolta nelle bende e il naso tamponato di garza. Sembrava una mummia.
La donna scosse tristemente la testa. «Questa storia del sissignore è il modo che ha Richardson di ricordarmi che lo sceriffo non è un lavoro da donne» disse. «Era in lizza contro di me l'anno scorso e l'ho battuto per trentasette voti. Parteciperà ancora l'anno prossimo, perciò cerca di apparire il più possibile davanti alle telecamere.» Sospirò nuovamente. «E probabilmente vincerà.» Sfoderò un sorriso tirato. «Un eroe della Guerra del Golfo, sa?» Era una donna di mezza età, probabilmente verso la cinquantina, viste le rughe che si increspavano agli angoli degli occhi azzurri. Aveva i capelli neri, castani sulle punte, raccolti sotto il cappello invernale, ed era impossibile capire se fosse grassa o magra, con tutti gli strati di maglioni che aveva addosso. Sembrò leggergli nel pensiero. «Non l'ho assunto io, perciò non posso licenziarlo» disse. «Suo padre, Clint Richardson, è il presidente del Consiglio Comunale. È stato lui a convincere gli altri membri della giunta ad assumere il figlio come vice sceriffo. Ha detto che non avevo un impatto abbastanza forte sulla comunità. Che mi serviva carne fresca.» Corso osservò il portello dell'altra ambulanza chiudersi con un tonfo. Un paramedico era rimasto all'interno, mentre gli altri tre si avviarono nella sua direzione. L'ultima autopattuglia stava uscendo a retromarcia dal vialetto d'ingresso. «Non fa altro che contrastarmi su ogni sciocchezza» proseguì lo sceriffo. «Si rifiuta persino di indossare un cappello normale, santo Dio!» «Le orecchie sono le sue» tentò di mediare Corso. «Voleva portare una calibro 40 e, quando non gliel'ho permesso, ha cominciato a caricare la sua 38 con tanta di quella polvere da farsi scoppiare la mano o da uccidere qualcuno nella casa accanto.» Scosse la testa. «Proprio non riesce a capire.» Gli appoggiò una mano sulla spalla e Corso si voltò verso di lei. «A proposito di stranezze, signor Corso, mi vuole dire cosa ci facevano uno scrittore di fama internazionale e la sua amica fotografa in macchina con quel tempo, la notte scorsa?» Corso si limitò ad alzare le spalle. «Che Ole Swanson sia morto assiderato sul suo pick-up, non mi stupisce. Da quando la moglie è mancata la primavera scorsa, si ubriacava ogni sera a tal punto che era solo questione di tempo prima che commettesse qualche sciocchezza. Ma da lei, signor Corso, se posso permettermi... mi sarei aspettata un comportamento più ragionevole.» Dato che gli occhi non riuscivano a star dietro ai movimenti della testa,
Corso distolse lo sguardo lentamente. Osservò uno dei paramedici scivolare e cadere sulla neve. I suoi amici lo aiutarono a risollevarsi, spazzolandogli la neve dai vestiti. Poi si affrettarono a raggiungere l'ambulanza. Corso si sentiva addosso lo sguardo dello sceriffo. «Immagino stessi cercando qualcosa» rispose. «E di cosa si trattava?» «Un pasto gratis.» Lo sceriffo si lasciò sfuggire un breve fischio. «Una comodità costosa.» «A quanto pare.» I paramedici controllarono che fosse ben fissato con le cinghie alla barella e lo sollevarono mentre la donna rimase a guardarli completare l'operazione. «Pensa che lì dentro ci sia tutta la famiglia?» le domandò Corso. «Non ho voluto toccare niente» rispose. «Ma se vuol sapere come la penso, c'è più di un corpo.» «Già» acconsentì Corso mentre si chiudeva il portellone dell'ambulanza. È difficile conoscere veramente Gesù. Per quanto provi a trattenere il suo volto nella mia mente, l'immagine scivola via come sabbia da una clessidra. Dev'essere perché ho così tante altre cose in testa, cose che sono successe proprio a me... non a qualcun altro, in un tempo lontano. Posso rimanere ore intere a fissare l'immagine di Gesù sulla Bibbia di papà... quella dove è seduto su una nuvola, con tutta quella luce bianca che lo circonda come se fosse il sole... Posso fissarla per ore, ma nell'attimo in cui distolgo lo sguardo vedo solo gli occhi di Billy Cameron e quell'abito rosa che Brittany Armstrong indossava l'ultimo giorno di scuola... E i miei capelli... tutti i miei capelli sparsi a terra. Mamma dice che è per questo che le suore indossano quelle tuniche nere e si rinchiudono in vecchi edifici pieni di muffa. Così riescono a mantenere sgombra la mente e ad accogliervi Gesù. 6 L'immagine televisiva tremolava, ma la voce di Richardson arrivava forte e chiara. Sulla parte inferiore dello schermo, sotto la schiera di microfoni, scorreva in sovrimpressione la scritta: COLE RICHAEDSON, VICE SCERIFFO, IN DIRETTA PER VOI DALL'OSPEDALE DI AVALON. Dietro di lui appariva l'uomo che aveva fatto la sua comparsa in casa degli
Holmes, il giudice Powell, accanto a un signore alto che assomigliava molto a Richardson. Il padre probabilmente, nonché il presidente del Consiglio Comunale, dedusse Corso. Per quanto non lo dicesse apertamente, il messaggio di Richardson non lasciava margini di dubbio: se fosse stato lui lo sceriffo, quei poveretti nel capanno non sarebbero rimasti nascosti sotto le assi del pavimento per diciassette anni. Bussarono alla porta. Corso spense il televisore. «Avanti» gridò. La giacca del ragazzo era gialla, con la scritta HERTZ stampata a caratteri cubitali sul davanti e Craig, il nome, ricamato in corsivo sul petto. «Ehm... signore» balbettò il ragazzo avvicinandosi. «Dovrebbe per favore firmare...» Gli allungò un portablocco a molla. Corso infilò un segnalibro nel suo diario e firmò il modulo. Il ragazzo strappò la prima copia del contratto di noleggio e gliela porse. Dalla tasca destra estrasse un mazzo di chiavi. Corso indicò con la testa il comodino. Il ragazzo capì l'antifona e depositò il tutto accanto alla brocca dell'acqua. Poi si diresse alla finestra e indicò il parcheggio sottostante. «È una Expedition verde. Il numero di targa è sul portachiavi» disse accennando al comodino. Corso annuì in segno di ringraziamento e riprese in mano il diario. Il ragazzo si avviò verso la porta, lasciando intravedere che teneva qualcosa infilato sotto il braccio. «Che cos'ha lì sotto?» domandò. Il giovane si fermò, guardandosi intorno disorientato. «Sotto il braccio» disse Corso. Il ragazzo finse di accorgersi solo in quel momento del libro infilato sotto l'ascella. «Oh, ecco... è...» Estrasse il volume osservando la copertina. «Ho letto tutti i suoi libri, signor Corso.» Aveva in mano una copia di La lince scomparsa, il suo secondo best seller. «Questo è il mio preferito.» «E vuole che le faccia un autografo?» «Se non... voglio dire... l'ho portato ma non volevo sembrare...» «Non c'è problema» si affrettò a rispondere. «Dia pure.» Corso appoggiò il libro sul letto e riprese la penna. «Posso personalizzarlo?» Il ragazzo lo guardò sconcertato. «Mi scusi?» «Vuole che ci scriva il suo nome?» spiegò. Il volto gli si illuminò. «Se non è di troppo disturbo...» «Si chiama Craig?»
Il ragazzo coprì la scritta sul petto con una mano. «Oh, no» rispose. «Mi chiamo Michael. Ho preso in prestito la giacca da... perché la mia aveva un...» Corso scrisse qualcosa sulla prima pagina del libro e glielo porse. «Ecco qua, Michael.» Il ragazzo si strinse il libro al petto con entrambe le mani. «Grazie» disse arretrando verso la porta. «Se c'è qualcos'altro che posso... la Hertz è sempre a sua...» «Ha già fatto più del dovuto» lo rassicurò Corso. L'espressione del ragazzo rivelò che concordava perfettamente. Annuì sorridendo e uscì chiudendosi silenziosamente la porta alle spalle. Poi la riaprì e infilò la testa nello spiraglio. «Ehm, signor Corso... il mio capo, Craig Mason... voleva che le chiedessi se magari...» Sbatté ripetutamente le palpebre a disagio. «Ecco... magari... se lei riuscisse a essere un po' più... un po' più...» «Vorrebbe che questa volta non gli sfasciassi la macchina.» «Qualcosa del genere. Sì, signore.» «Gli dica che farò del mio meglio.» La porta si era chiusa solo da qualche istante quando arrivò lo sceriffo. Era accompagnata da due uomini che indossavano due identiche divise beige da cowboy e reggevano il tipico cappello a falde larghe, lo Stetson, in una mano e un berretto di lana marrone scuro nell'altra. La donna lo guardò con aria afflitta. «Signor Corso, questi signori sono dell'ufficio dello sceriffo di Dallas. Le presento l'agente Duckett» disse indicando il più anziano dei due, un uomo che aveva gli occhi ridotti a due sottili fessure come se avesse passato tutta la sua vita a strizzarli al sole della prateria. «E l'agente Caruth» proseguì, indicando un giovane sotto la trentina con lo sguardo disorientato che dava l'idea di non essersi mai spinto così lontano da casa. «Non appena i dottori stabiliranno che lei è in grado di viaggiare, questi due agenti hanno il compito di riportarla in Texas. Hanno un mandato di comparizione perché lei vada a testimoniare davanti al Gran Giurì.» Corso riprese a scrivere. Qualcuno si schiarì la voce. «Bene, allora...» balbettò lo sceriffo. «Signori, vi farò sapere quando il signor Corso sarà in grado di mettersi in viaggio.» I due cowboy mormorarono un grazie a fior di labbra e lasciarono la stanza di malavoglia. Una volta usciti, lo sceriffo Trask rimase per qualche istante in silenzio, con le mani sui fianchi. «Ma che problema hanno con quei cappelli?» esclamò in-
fine. «Non sarebbe più logico lasciare gli Stetson in albergo, invece di portarseli dietro tutto il giorno?» «È una tradizione del Texas» le venne in aiuto Corso. «Bisogna passarci un po' di tempo per capire.» La donna scosse la testa sorridendo. «Preferisce che cominci dalle notizie mediamente brutte, da quelle molto brutte, o passiamo subito alle peggiori?» chiese in tono affabile. «Intende dire... a parte la cavalleria texana?» «Già.» Finì la frase che stava scrivendo e alzò lo sguardo. «Cominciamo da quelle brutte. In questo modo avrò qualcosa di cui rallegrarmi.» «È riuscito ad attirare una gran bella folla, signor Corso. Abbiamo ogni dannata agenzia di stampa giù nell'atrio, e tutti vogliono parlare con lei o...» Agitò una mano con aria disgustata. «Oppure con me, insomma con chiunque possa dar loro qualche informazione. Ho dovuto usare ogni agente a disposizione per tenerli a bada.» Indicò il televisore. «Scelga un canale a caso, non importa quale, e troverà qualche sua vecchia foto, più tutta la tiritera sui suoi trascorsi turbolenti al "New York Times". E via di seguito. Quando non parlano di lei, ci siamo io o qualcuno dei federali a ripetere la solita sfilza di "no comment". È così che i ragazzi di Dallas l'hanno trovata.» Si massaggiò il collo con la mano destra. «Oppure, cosa ancora peggiore, c'è Richardson che fa le sue filippiche su come Eldred e Sissy siano rimasti sepolti là dentro per tutti questi anni senza che io mi accorgessi di nulla.» «Ne ho avuto un assaggio poco fa.» «Mi sta scavando la fossa, signor Corso.» «Di certo sta facendo di tutto per farle lo sgambetto. La promessa di un annuncio sensazionale alla stampa per i prossimi giorni sembra solo un invito alle dimissioni, se vuole un mio parere.» La donna rimase a riflettere in silenzio per qualche istante. Le parole che seguirono sembravano appartenere a un copione recitato innumerevoli volte. «Sono troppo vecchia per ricominciare» mormorò. «Se Richardson mi batte a novembre, cosa diavolo posso fare? Cercare lavoro da Burger King? Vedere se hanno un posto libero nella Forestale? Fare lo sceriffo è l'unica professione che conosco. Non riesco a immaginarmi...» D'un tratto si interruppe e cambiò discorso. «Ci sono anche gli agenti del Wisconsin che vogliono farle alcune domande sui cadaveri ritrovati» concluse, andando su e giù per la stanza. Corso alzò le mani e le lasciò ricadere sul lenzuolo.
«Non ho niente da nascondere.» La donna annuì. «E poi c'è la sua amica, la signorina Dougherty.» «Che c'entra lei?» «Sembra che presenti una serie di immagini pittoresche tatuate su tutto il corpo.» Gli occhi di Corso si trasformarono in sottili fessure e chiese con tono gelido: «E questo le crea qualche problema?». «Da queste parti non si era mai vista una cosa del genere. L'unico modo per evitare che il personale trovasse ogni scusa per entrare a dare una sbirciata è stato mettere una guardia alla porta. In pratica, un altro agente al lavoro.» Lanciò uno sguardo a Corso, fece per aggiungere qualcosa poi si fermò. Lui le lesse nel pensiero. «Glieli hanno fatti.» «Vuol dire che... non è stata lei a...?» «Uno stronzo di ex fidanzato l'ha drogata e le ha tatuato tutte quelle schifezze addosso.» «Sta scherzando!» «Per poco non ci lasciava la pelle.» Scosse la testa sbalordita. «E io che pensavo che fossimo noi a passarcela male.» «Mi creda, sceriffo, quei due Starsky e Hutch là fuori sono davvero un problema per me.» Lo guardò allibita. «Ma deve solo testimoniare.» «Sì, ma c'è un piccolo imprevisto.» «Sarebbe a dire?» «Non ho le informazioni che credono.» La donna fu presa alla sprovvista. «Mi era parso di capire il contrario.» «Lo credevo anch'io» ribatté Corso. «Ma non è andata così.» Lo scrutò attentamente. «Beh, vediamo... lei è già stato licenziato dal "New York Times" anni fa con l'accusa di essersi inventato una storia... significa che cadrebbe dalla padella nella brace, mi sbaglio?» «Significa che possono trattenermi a tempo indeterminato senza neanche formulare una vera accusa. Avvocati o non avvocati. Niente cauzione. Niente di niente. Da sei a nove mesi dietro le sbarre» terminò Corso. «Il Gran Giurì ha molto potere.» «Immagino non ci sia modo di convincerla a mandare a spasso quei ragazzi di Dallas» disse Corso. «Da quanto ho capito sulle leggi dell'estradizione, non è obbligata a consegnarmi a loro.»
La donna annuì. «Di solito ho una certa libertà di azione: devo solo riuscire a soppesare il valore di una collaborazione tra dipartimenti e la gravità del crimine in questione, per poi prendere una decisione autonoma. In circostanze normali potrei obbligarli ad andare in tribunale per spuntarla. Potrei persino lasciarla andare, se volessi.» «Ma...» «Ma con tutta questa dannata faccenda dei cadaveri, gli occhi di tutto il mondo puntati su di noi e il mio vice sceriffo che non aspetta altro che screditarmi agli occhi della comunità... non ho altra scelta se non quella di consegnarla alle autorità texane.» «Ognuno deve fare quello che si sente» commentò Corso. Gli lanciò un'occhiata irritata. «Piano con i sensi di colpa, Corso. Non ho bisogno di altri stimoli per rimproverarmi.» Andò su e giù per la stanza fermandosi poi davanti alla finestra. «Forse i miei detrattori hanno ragione» mormorò dopo un istante. «Devo aver proprio perso i contatti con la mia gente.» Qualcosa nel tono della donna gli fece drizzare le antenne. Si tirò su nel letto, aggrottando la fronte. «Cosa glielo fa pensare?» domandò. L'espressione dello sceriffo gli rivelò quanto considerasse sciocca la domanda. «Un'intera famiglia in decomposizione sotto le assi del pavimento. Li ho avuti sotto il naso per più di quindici anni.» Agitò una mano. «In linea d'aria non erano più distanti di otto chilometri e io non...» Si interruppe. Un muscolo della mascella le tremò impercettibilmente. «C'è qualcosa di personale in tutto questo?» chiese Corso. Aprì la bocca per negare, ma non ne uscì niente. «Lei è un attento ascoltatore» mormorò infine. «È il mio lavoro.» Continuò a fissare in silenzio fuori della finestra. «Allora?» la sollecitò Corso. «Sissy Warwick» rispose la donna. 7 «Era il 1973. Io avevo ventidue anni ed ero fresca di college.» Alzò gli occhi al cielo con una smorfia. «Mi ero appena resa conto di non essere Shirley Tempie e che il primo aggettivo che veniva in mente guardandomi non era certo "bambolina". "Puledrina", forse... ma sicuramente non "bambolina".» Soffocò un sospiro. «Comunque... ero tornata a casa per l'estate a
leccarmi le ferite. Un po' di riposo prima di decidere cosa fare nella vita.» Guardò Corso. «È mai vissuto in un paesino come questo?» Corso scosse il capo. «Non più, da quando ero bambino» rispose. «Beh, ecco, allora deve cercare di capire... cittadine come queste sono per lo più società chiuse. La gente va e viene, ma in definitiva non cambia mai nulla. I ragazzi che mandiamo all'università a Madison rimangono lontani per un po', conoscono altre persone, si sposano e talvolta si trasferiscono altrove. Tornano ad Avalon in vacanza per far vedere i nipotini ai genitori; poi, più avanti, per vedere come stanno i parenti. Alla fine si fermano qui... sa, per fuggire dal ritmo infernale della città, la vita frenetica e roba del genere.» Corso annuì. «Quel che sto cercando di dire è che... fino a un paio di anni fa, beh, non c'era neanche un motel. Tutto quel che avevamo era un affittacamere vecchio di cent'anni.» Incrociò le braccia. «Ospitava sempre le stesse persone da tempo immemore perché chiunque arrivasse in città era imparentato con qualcun altro e di solito si faceva ospitare dalla famiglia. Non avevamo bisogno di un motel per i forestieri, perché non ne veniva nessuno.» Sospirò e si grattò il collo. «Non siamo esattamente una località turistica... non so se mi spiego.» Corso ridacchiò. «Perciò, quando una ragazza che non è imparentata con nessuno arriva in città e vi si stabilisce, la faccenda non passa inosservata. Finalmente qualcosa di cui parlare bevendo un caffè o aspettando il proprio turno dal barbiere.» «Quando è successo?» «Subito dopo il mio ritorno dal college, doveva essere giugno o giù di lì. Sissy Warwick. Capelli neri e grandi occhi blu. Un'aria davvero esotica. Mai visto nessuno così prima d'ora. Poteva venire dal Medio Oriente, dalla Turchia o giù di lì. Dichiarava vent'anni, ma ho sempre pensato che non ne avesse più di diciotto.» Si accorse di divagare e tornò al punto. «A ogni modo, un giorno Sissy Warwick fa la sua apparizione in città. Si prende una stanza da Harrison. E in men che non si dica si trova un lavoro come centralinista nello studio medico e non puoi fare neanche due passi per la strada senza trovartela fra i piedi.» Corso sorrise. «La città non era grande abbastanza per voi due, eh?» Lo sceriffo inarcò un sopracciglio. «Potrebbe essere come dice, forse era solo che due polli nello stesso pollaio... lo sa il Signore... A ogni modo, qualunque cosa facesse Sissy quell'estate, mi insospettiva.» Si interruppe, come se stesse riflettendo. «Non ero la sola, però. Un sacco di gente la
pensava come me. Per un po' di tempo non si parlò d'altro che di lei e di cosa fosse venuta a fare in città.» «E poi?» «E poi, durante quell'estate infuocata...» Allargò le braccia. «Sissy sembrava trovarsi dovunque. Ti andavi a sedere sotto un albero, uno qualunque, e lei era lì. Andavi in biblioteca ed eccola seduta in un angolo a leggere un libro. Se...» Parve leggergli nel pensiero. «Okay forse sto esagerando un po'...» «A sentirla sembra quasi che sia successo ieri.» Ridiventò seria. «È come se lo fosse. Non mi ero resa conto di quanto fossi rimasta colpita da quella donna fino a quando non ho dato un'occhiata nel capanno, ieri mattina. Mi ero quasi dimenticata di Eldred, Tommie e James. Ma Sissy... Sissy Warwick non è mai stata lontano dai miei pensieri. In qualche modo quella donna mi si è impressa nella memoria, per tutti questi anni.» «Che giochi bizzarri quelli dei ricordi, non è così?» Lo sceriffo ci pensò su. Decise che era d'accordo. «C'era qualcosa in lei che non mi convinceva fino in fondo» disse infine. «Ero molto vulnerabile in quel momento. Stavo cercando di capire chi fossi e alcune risposte che ricevevo dagli altri non mi convincevano affatto. Non credevo in me stessa e per qualche strana ragione non credevo neanche in lei. È come se nessuna di noi due fosse reale.» «Interessante.» «Una voce dentro di me mi diceva che non potevamo coesistere in pace nell'universo, io e lei. Qualcosa di viscerale. Come se sentissi che ci escludevamo a vicenda...» «E che altro?» «Era un po' troppo gentile. Si ricordava il nome di tutti. Aveva l'atteggiamento dei venditori a domicilio. Sempre a far domande. Dopo poco tempo dal suo arrivo conosceva questa città quasi meglio di noi che eravamo nati e cresciuti qui.» «E poi?» «Ecco... dopo circa sei mesi sono cominciate a girare quelle voci e io... penso di essere stata l'ultima a saperlo. Ero così indaffarata ad andare avanti e indietro da Madison, facendo finta di cercare un lavoro, che a momenti mi perdevo l'intera faccenda.» «Che tipo di voci?» Corso osservò la facciata professionale sgretolarsi per rivelare un certo
imbarazzo. «Aveva intrecciato un certo numero di rapporti» disse tracciando per aria il segno delle virgolette. «Con gli uomini del posto.» «Relazioni?» Annuì. «Con rispettabili uomini del posto.» «Per esempio?» «Per esempio il mio predecessore, Sam Tate. Il che spiega come sono finita a fare lo sceriffo.» Vedendo che Corso non faceva commenti, gli puntò contro il petto un dito accusatorio. «Lei è come un serpente fra le pietre» esclamò. «Se ne sta fermo sotto il sole fino a che la gente non le spiattella ciò che vuole sapere.» Corso sorrise. «Da come la vedo io, molte persone desiderano raccontare la propria storia. Basta solo starsene zitti e dar loro la possibilità di sfogarsi.» La donna socchiuse gli occhi. «Da quel che ricordo Sissy usava la stessa strategia.» Corso mantenne un'espressione sostenuta. «Vuol forse insinuare che sono destinato a sviluppare un insaziabile desiderio sessuale per le forze dell'ordine locali?» «Non credo che a Richardson piacerebbe la cosa» ribatté lei impassibile. «Probabilmente no» acconsentì lui con un sorriso. «Dunque... è stata l'inclinazione alle scappatelle di Sam Tate che l'ha fatta eleggere.» «In realtà è stata la sua inclinazione alla morte.» «Ah.» «Due settimane prima delle elezioni.» «Ottimo tempismo.» «Sicuramente più per me che per Sam.» «Di solito è così che funziona.» «Mi avrebbe battuto venti a uno. Mi ero messa in lizza solo perché non riuscivo a decidere cos'altro fare nella vita.» Si rabbuiò in viso. «Ero tornata a casa per occuparmi di mio padre.» Alzò lo sguardo a incontrare quello di Corso. «Alzheimer. Avevo una laurea in Diritto Penale e cinque anni di esperienza come vice sceriffo a Saint Paul.» Scrollò le spalle. «Perciò mi candidai.» «E poi... quella notte fatale.» «Sam aveva portato Sissy nel cottage di famiglia sul lago Hunter. In seguito venne fuori che non era la prima volta.» Strinse le labbra con disappunto. «Morì di un'emorragia cerebrale. Stecchito su di lei mentre se la spassavano. Fu Sissy a chiamare l'ambulanza e tutto il resto.»
«Quindi trovarono Sam Tate morto.» «Trovarono anche una macchina fotografica, una Polaroid, e una serie di istantanee di lei e Sam a letto insieme. È lì che cominciarono a girare le voci su tutti gli altri. Sul fatto che avesse un sacco di amanti. E che le piacesse fotografarli. Se lo può immaginare, la città sembrava un vulcano in ebollizione.» «Chi era stato a mettere in giro le voci?» Lo sceriffo fece spallucce. «E chi lo sa. È un paesino minuscolo.» «Pieno di cittadini rispettabili» ribatté Corso con un sogghigno. «E a quel punto la bomba esplose. Era più o meno questo periodo dell'anno, un paio di mesi prima di Natale. Tutti si guardavano l'un l'altro di sottecchi, pieni di sospetti. Sembrava la versione aggiornata di Peyton Place. Temevo addirittura che uno dei suoi amanti l'avrebbe uccisa, o che le mogli tradite avrebbero fatto fronte comune per buttarla fuori della città. In ogni modo, con Sam morto e solo due settimane alle elezioni, sapevo che prima o poi avrei dovuto affrontare la situazione in prima persona.» «E così vinse le elezioni.» «Diavolo, no!» Rise lei. «Mi ha battuto anche dalla tomba!» «Probabilmente un voto di incoraggiamento.» «Lo statuto cittadino prevede che se un candidato muore, l'altro assume automaticamente il suo posto.» Allargò le mani in un gesto di rassegnazione. «Il resto è storia.» «Qual era la grande attrattiva?» domandò Corso. «In che senso?» «Qual era l'attrattiva sessuale che Sissy esercitava sugli uomini?» «Non sapevo che ne servisse una.» Corso torse le labbra in un sorriso. «Si concentri, sceriffo. I pezzi grossi di una comunità non rischiano tutto lasciandosi fotografare, a meno che non ci sia sotto qualcosa di speciale.» La vide arrossire fino alla radice dei capelli. «Immagino che... fosse un portento a letto.» «Tutto qui? Una bella scopata? Questi tizi rischiano vita, reputazione e rispetto solo per...» Concluse la frase con un gesto volgare. La donna sussultò. «Le foto di lei e Sam dimostravano chiaramente che era... era...» Corso non aprì bocca. «Perversa» esplose infine lo sceriffo. «Era decisamente...» Un'altra pausa. «... disponibile a esplorare le alternative.»
«Che tipo di alternative?» Sembrava che lo sceriffo avesse appena annusato qualcosa di marcio. «Travestimenti... giochetti sadomaso...» Si passò una mano davanti al viso come a cacciare l'odore. «E qualunque altra cosa la gente sia disposta a subire e a infliggere.» «E i nomi di questi rispettabili cittadini vennero mai alla luce?» «Non ufficialmente. Ma mi creda, signor Corso, chiunque in città aveva compilato la sua lista personale e pensava di sapere chi fossero.» Trasse un profondo respiro e distolse lo sguardo. Il modo in cui irrigidiva le spalle disse a Corso più di quanto volesse sapere. «E che altro?» insistette lui. Si voltò di scatto, l'imbarazzo tramutato in ira. «Altro? In che senso altro? Non è abbastanza, per Dio?» Fissò lo sguardo impassibile dell'uomo, senza abbassare il suo. Il silenzio nella stanza era denso come il fumo di una sigaretta. «Girava voce che le piacesse farsi prendere da dietro» proseguì la donna dopo qualche istante di imbarazzo. «Dunque la nostra Sissy Warwick era la favola della città» disse Corso. «Dava ai ragazzi quello che non trovavano a casa. Scattava foto a più non posso, causando un gran trambusto fra i rispettabili cittadini del paese.» «Vedo che lei è un incurabile romantico» commentò lo sceriffo. Per la seconda volta Corso scoppiò a ridere. «Già... chiunque glielo può confermare.» «Tutti in città pensavano che la cosa migliore che potesse fare fosse uccidersi o tornarsene da dove era venuta» proseguì la donna. «Invece no.» «In men che non si dica vengo a sapere che è tutta smancerie con Eldred Holmes.» Scosse la testa. «La prima volta che me lo dissero scoppiai in una fragorosa risata.» «E perché?» «Era pazzesco. Erano una coppia del tutto improbabile.» «Ah.» «Eldred... voglio dire, non era certo il Principe Azzurro. Poteva essere considerato il cittadino meno ragguardevole di tutta la città. Se vogliamo parlare di arretratezza e goffaggine, signor Corso, allora Eldred era l'uomo perfetto. Quel povero ragazzo aveva passato tutta la sua vita su quei trenta ettari di terreno dove l'ha ritrovato lei ieri mattina. I genitori sordi. Morti l'anno prima che Sissy arrivasse in città. La prima volta che li vidi insieme
si era già fatto sistemare i denti. Si era comprato dei vestiti nuovi. Aveva smesso di tagliarsi i capelli da solo.» «Secondo lei, Eldred sapeva degli altri uomini?» «Non avrebbe avuto alcuna importanza» rispose aggrottando la fronte. «Sissy lo teneva in pugno.» «E poi?» «In un battibaleno, mentre tutti se ne stavano con il fiato sospeso in attesa di veder comparire la propria foto sul giornale, Eldred e Sissy si sposarono. Tutta la città si domandò cosa volesse da quel poveretto. Immaginando che si sarebbe stabilita da lui per un po' e poi gli avrebbe fregato l'unica cosa che possedeva, cioè la fattoria.» Lanciò un'occhiata a Corso. «Invece no.» «No» disse scuotendo la testa. «Dopo poco rimase incinta di Tommie. E se ne stavano tutti e due rintanati lassù a cercare di sopravvivere con quel poco che la terra offriva loro. Qualche mucca, un po' di pascoli. Si comportavano come la maggior parte della gente da queste parti.» «E poi che accadde?» «Niente. È qui che la cosa si fa davvero strana. La coppia si sistemò e fece un secondo figlio, James. Erano degli eremiti. Se ne stavano sempre per conto loro. Una volta o due all'anno, Eldred capitava in città se aveva bisogno di comprare qualcosa, ma niente di più. Non li si vedeva mai in giro. Fu solo quando i ragazzi diventarono adolescenti che ci ricordammo di loro, ma a quel punto molti di quelli al corrente dello scandalo erano morti.» Fece una pausa, come a voler riflettere. «E poi un giorno lei stessa fu costretta a ritornare in città per tirare fuori dai guai i ragazzi e pagare loro la cauzione.» «Gioventù bruciata, eh?» «Eccome. Non è un bene per dei ragazzi crescere nell'isolamento. Si erano persi tutte le fasi dell'integrazione sociale. Il processo di socializzazione. Non era stato un bene per Eldred e neanche per i suoi figli. Non appena cominciarono a crescere, più o meno nel periodo della pubertà, diventarono un problema. Rubavano macchine. Si azzuffavano il sabato sera.» Curvò le labbra in un sorriso. «Una sera si ubriacarono e sfondarono la vetrina del Dairy Queen con il furgone di Eldred. Una spacconata via l'altra. Passavo metà del tempo a sistemare i casini che avevano combinato i ragazzi Holmes.» «E...?» «Fu proprio in quel periodo che decisero di costruire l'autostrada. Pro-
prio sul lato della montagna che costeggiava la fattoria. Sissy venne in città per la prima volta dopo anni e fece una scenata alla Commissione lavori pubblici, dovettero scortarla fuori del tribunale. E poi un paio di settimane dopo, sentii dire che tutta la famiglia si era trasferita altrove.» «Per colpa dell'autostrada?» Si volse verso Corso. «Così pensammo tutti all'epoca.» Seguì un altro silenzio. «Davvero un mistero interessante» osservò Corso. «Qualcuno potrebbe farsi una reputazione...» Lasciò la frase a metà. «Probabilmente essere rieletto» disse lei. «Molte volte.» «Dieci anni magari.» Un clic metallico alla porta seguito da un fruscio. Richardson comparve sulla soglia, tenendo il cappello davanti a sé, quasi a volersi proteggere l'inguine. «Se voi due avete finito di commiserarvi...» Fece una pausa. «Qui fuori ci sono degli agenti che stanno perdendo la pazienza.» 8 Due poliziotti. Pattuglia dello stato del Wisconsin. Uno in uniforme, l'altro in abito grigio. Gli ultimi due agenti degli Stati Uniti a portare ancora i capelli a spazzola come i Marines. Tutti tirati a lucido e con lo sguardo infido. Cinque minuti di presentazioni e chiacchiere sul tempo prima che il più basso dei due portasse il suo completo grigio fino alla parete, e cercasse di scostare il letto dal muro per infilarsi tra questo e il davanzale, con l'evidente intenzione di far sentire Corso il più possibile in trappola. Fece leva con il fianco sul letto, ma le ruote si rifiutarono di obbedire. «Lo lasci dov'è» gli disse Corso. «Non vorrà peggiorare le mie delicate condizioni di salute, vero?» I due poliziotti si scambiarono un'occhiata d'intesa. Completo Grigio tornò accanto al compagno. «A quanto pare il signor Corso è un po' suscettibile stamattina» commentò. «Sarà la lunga vacanza che lo aspetta in Texas» ribatté il compagno. Le folte sopracciglia sale e pepe si univano al centro della fronte formando un grande punto interrogativo. Completo Grigio si avvicinò a Corso e appoggiò una mano ai piedi del letto. Aveva un naso enorme, e continuava a far vibrare le due larghe narici come se annusasse l'aria in cerca di carogne in putrefazione. Con l'altra
mano si sbottonò la giacca. «Perché non ci racconta di quei cadaveri nel capanno?» «L'ho già spiegato allo sceriffo Trask. Stavo scardinando le assi del pavimento quando ho visto un telo di plastica arrotolato e tenuto insieme con del nastro adesivo. Mi sono incuriosito. Ho strappato un pezzo di nastro e nel giro di un secondo mi sono ritrovato a fissare le orbite vuote di un teschio. Poi è arrivato un ragazzo su uno spazzaneve. L'ho mandato ad avvertire la polizia.» Spostò lo sguardo da un poliziotto all'altro. «Ecco tutto.» Completo Grigio si avvicinò a Corso tanto da fargli sentire il profumo delle sue mentine per l'alito. «Perciò... vorrebbe dirci che è stata soltanto una casualità.» Lanciò un'occhiata di sottecchi al compagno. «Un giornalista famoso come lei... che si guadagna la vita facendo fare la figura degli idioti ai poliziotti... e dovremmo credere che sia incappato per caso in un ammasso di ossa.» Corso prese in mano la penna e aprì il diario. «Potete credere quel che volete. Stavo solo cercando di non morire assiderato. Non ero mai stato da queste parti, non avevo neanche mai sentito nominare questo posto prima di ieri notte. Se volete credere che ci sia sotto una specie di complotto... fate pure.» E riprese a scrivere. «Quindi...» proseguì Uniforme «Ci sta dicendo che non aveva mai avuto contatti con la famiglia Holmes prima d'ora.» Le sopracciglia sembravano vivere di vita propria e si muovevano sugli occhi come un bruco indaffarato. «Proprio così.» «Ne è sicuro?» Corso non tentò di celare la sua disapprovazione. «Qual è l'alternativa, amici? Pensate che abbia assassinato l'intera famiglia e che abbia aspettato diciassette anni per tornare sulla scena del crimine? In quell'incubo di notte? Nel bel mezzo di una tormenta?» Un sorriso ironico gli sfiorò le labbra. «Era una notte buia e tempestosa...» intonò con accento affettato. I due non avevano l'aria di divertirsi. «Un uomo con un paio di condanne per aggressione dovrebbe cercare di collaborare di più» osservò Uniforme. «Un atteggiamento così arrogante potrebbe far pensare che abbia qualcosa da nascondere.» «Pensate quel che volete» rispose Corso. La porta si aprì di colpo e lo sceriffo Trask entrò nella stanza. Teneva una grossa busta con entrambe le mani. Si appoggiò alla parete. Stringeva
il plico talmente forte che le nocche si erano sbiancate. Aveva il volto colore della farina d'avena. Corso infilò un dito nel diario. Sorrise ai poliziotti. «Sono stati i pezzi grossi a spedirvi quaggiù, vero?» I due rimasero impassibili. Lui sbottò in una risata secca. «Vogliono assicurarsi che non stia scrivendo un libro, non è così? L'idea che possa scoprire qualcosa che faccia far loro l'ennesima figura da idioti li manda su tutte le furie, giusto? Perciò hanno mandato voi per assicurarsi che tutto il casino non finisca sulla carta stampata.» I poliziotti cambiarono tattica. «Abbiamo inserito i suoi dati nel computer» disse Completo Grigio. «Abbiamo trovato la fedina penale» soggiunse Uniforme. «Sono stato riabilitato» ribatté Corso con un sorriso. «Ci sono arrivate un paio di segnalazioni dall'Interpol.» «Sono pubblicato in tredici lingue.» «Il suo nome è collegato ad Anatol Kalisnakov.» «Conosco il signor Kalisnakov.» «In che veste?» «L'ho assunto per darmi lezioni di autodifesa.» «Lei ha assoldato un ex assassino del KGB per farsi insegnare l'autodifesa?» «Il suo curriculum era impeccabile.» I due si scambiarono nuovamente uno sguardo e poi Completo Grigio gli domandò a bruciapelo: «Che cosa sa di un'organizzazione chiamata Melissa-D?». Corso fece finta di rifletterci. «Conosco una donna di nome Melissa Duncan» azzardò. «Vive a Sandpoint, nell'Idaho.» «Non una persona» scattò Completo Grigio. «Un'organizzazione che si chiama Melissa-D.» «È una leggenda metropolitana» rispose Corso mantenendo un tono di voce sostenuto e un'espressione impassibile. «Qualcosa di cui si vantano i giornalisti quando hanno bevuto troppo, cioè spesso e volentieri. È solo una storia. Non esiste. È apocrifa.» «Ah, sì? Apocrifa» ripeté Uniforme rivolto al compagno. «Usa i paroloni.» Corso sillabò la parola lentamente. Nessuno dei due si prese la briga di trascriverla sul proprio bloc-notes per gli appunti. «Secondo le nostre informazioni, Melissa-D è un'organizzazione mondiale che fornisce dati riservati a una dozzina di clienti. Supersegreta. Su-
percostosa.» «Di cui lei farebbe parte.» «Ve l'ho già detto. È una leggenda.» «Pare che riescano a infiltrarsi in ogni sistema informativo» proseguì Completo Grigio. «Dipartimenti di polizia. Agenzie governative di tutto il mondo. Dipartimenti di Stato. FBI. Faccia un nome a caso, loro sono sicuramente già entrati nell'archivio in questione.» «Si dice anche» intervenne Uniforme «che per il giusto prezzo riescano a fornire qualunque tipo di informazione o documentazione richiesta.» «Ve lo ripeto» esclamò Corso. «Sono solo dicerie. Non esiste un'organizzazione del genere.» «Secondo l'Interpol esiste eccome» disse Uniforme. «E lei vi appare come cliente regolare. Dicono che sia stato Kalisnakov a metterla in contatto con l'organizzazione. Pensano che sia lì che lei trova informazioni a cui nessun altro ha accesso. La roba che infila nei suoi libri.» «Allora, cosa ne dice?» domandò Completo Grigio. Corso si strinse nelle spalle. «Evidentemente la stupidità non rispetta i confini nazionali.» «Quindi secondo lei se lo sono inventato. È questo che ci sta dicendo?» Corso cominciò ad alzare la voce. «Magari sono confusi. Magari la conversione all'euro li ha sconvolti. Come diavolo faccio a saperlo?» Si allungò, afferrò Completo Grigio per un polso e gli tolse la mano dal letto. «Perché non andate a farvi un giro voi due?» esclamò. «Se avete altre domande, rivolgetevi al mio avvocato.» Recitò a memoria l'indirizzo e il telefono di Barry Fine. Non trascrissero una riga. «Si goda la sua vacanza in Texas, signor Corso» disse Completo Grigio con un sogghigno. «Chi lo sa, magari con il tempo quei gentiluomini riusciranno a insegnarle le buone maniere.» «Ha presente la cortesia antebellica che li contraddistingue?» soggiunse Uniforme. Corso ricambiò il sorriso. «Che il Signore mi aiuti» disse imitando l'accento strascicato del sud. «Sarebbe già qualcosa, no?» I due agenti indugiarono ancora qualche istante prima di lasciare la stanza con il tipico atteggiamento da piedipiatti, volto a sottolineare che non avevano nessuna fretta. Infine, dopo aver lanciato un cenno di saluto allo sceriffo e varie occhiate compiaciute a Corso, la porta si chiuse finalmente alle loro spalle. La donna si staccò d'un balzo dalla parete e si avvicinò al letto. «Ha ra-
gione» disse. «I pezzi grossi sono terrorizzati che lei possa scrivere un libro e farci sembrare tutti una massa di idioti.» Tolse una mano dalla busta e se la passò fra i capelli. «Tutto d'un tratto sono diventata molto popolare. Sento gente che non si è mai presa la briga di chiamarmi. Ho ricevuto una telefonata dal comandante della Polizia di Stato. Un'altra dal vice governatore.» Sorrise. «Per non parlare di tutti gli altri notabili cittadini.» Corso ricambiò il sorriso e la donna proseguì. «Sembra che se la stiano facendo sotto per quel che potrebbe aver scoperto a casa Holmes e che potrebbe pubblicare.» «Per ora l'unica cosa che farò è finire al fresco in Texas.» Lo sceriffo Trask sollevò la busta. «Ecco qualcosa su cui riflettere mentre se ne sta laggiù» esclamò. «Di che si tratta?» «Lei non c'è.» «Chi non c'è?» «Abbiamo avuto i risultati preliminari della Scientifica. Tre scheletri. Tutti maschi. Eldred e i due ragazzi. Niente Sissy.» «Scherza?» «Questo l'hanno trovato insieme ai corpi» disse la donna aprendo la busta. «Accuratamente sigillato in una custodia con tanto di cerniera.» Lo sceriffo estrasse un piccolo quaderno blu scuro con la scritta ALBUM DI FAMIGLIA incisa a lettere dorate. La copertina era ricoperta di chiazze nere. Polvere per il rilevamento delle impronte. Corso lo aprì. Tutto come previsto. Foto di famiglia sistemate in ordine cronologico. Eldred Holmes era come se lo aspettava, con l'aria impacciata e confusa. I ragazzi, invece, gli fecero gelare il sangue nelle vene. Avevano una fisionomia molto particolare; dai tratti somatici si sarebbero potuti scambiare per hawaiani, o anche afroamericani. Lo sceriffo parve leggergli nel pensiero. «All'epoca hanno scatenato un sacco di chiacchiere in città. C'era chi pensava che Sissy non fosse neanche bianca.» Corso voltò pagina. La casa, interni ed esterni. La fattoria. Il progetto dell'autostrada che avrebbe tagliato la collina a ridosso della proprietà. Sissy Warwick appariva in quasi tutte le immagini. O, per lo meno, si supponeva che fosse lei: qualcuno aveva accuratamente ritagliato il suo viso da ogni foto, lasciando solo un'anonima forma senza volto nel bel bezzo dell'immagine. Corso sfogliò l'album sino alla fine e poi lo restituì allo sceriffo. «Nessuna impronta di qualche utilità?» «Neanche l'ombra» rispose. «Completamente pulito, comprese le foto.»
«Davvero meticoloso» disse Corso. «Quasi psicotico.» Lo sceriffo chiuse l'album e lo fece scivolare all'interno della busta. L'espressione diceva chiaramente quanto non gradisse il compito che le spettava. «Quei texani stanno diventando impazienti, signor Corso. Credo che il nostro clima non sia di loro gradimento.» Si strinse nelle spalle. «Ho cercato di rimandare il più a lungo possibile, ma hanno fretta di tornarsene a casa e i dottori sostengono che lei è in grado di viaggiare. Farebbe meglio a vestirsi. Fa davvero troppo freddo là fuori per uscire solo con quel camice da ospedale.» Rimase un attimo a fissarlo. «Se i presupposti fossero diversi... vorrei...» «Lo so» rispose Corso, sforzandosi di sorridere. «Anch'io.» La donna fece per avviarsi alla porta, poi ci ripensò e si voltò. «La sua amica Dougherty vorrebbe salutarla prima di andarsene. Aspetterò qualche minuto e poi...» Corso tagliò corto. «La faccia entrare» disse. «Conosce già la mercanzia.» «Le darò un po' di tempo per i saluti e per fare i bagagli prima di tornare con i texani» disse lo sceriffo con la mano sulla maniglia della porta. «Mi spiace che debba finire così.» Si portò due dita al cappello in segno di saluto e scomparve. Corso si distese nuovamente sul letto e attese diversi minuti. Vedendo che Meg non compariva, allungò le gambe e appoggiò i piedi per terra. Il contatto con le piastrelle fredde gli procurò un brivido lungo tutto il corpo, mentre si metteva faticosamente in posizione eretta. Si sentiva debole e leggermente instabile, dato che si reggeva da solo sulle gambe per la prima volta da tre giorni. Raggiunto l'armadio a piccoli passi, si sentì di nuovo in forma, si stirò e fece ruotare il collo. Poi aprì l'anta e vide la sua giacca di Versace gettata in un angolo, spiegazzata e impolverata. Il resto dei vestiti pendeva in modo disordinato dagli ometti. Si chinò a raccogliere la valigia. Bastò quel gesto per scatenargli una fitta alla testa. Si appoggiò un attimo all'armadio prima di continuare. Appoggiò la valigia sulla sedia più vicina, fece scattare la serratura e prese a scrutare l'interno. Un'immagine sfocata di sua madre si materializzò improvvisamente davanti ai suoi occhi. E gli parve anche di udirne la voce. Rimase in ascolto, ma ciò che giunse alle sue orecchie furono solo le parole di Dougherty: «Hai il sedere di fuori, Corso».
«Già» si limitò a rispondere, tirando fuori un cambio di calze e biancheria pulita. Trovò i jeans e si voltò verso di lei. Le mani non erano più fasciate e le pendevano inerti come pesci bolliti. L'espressione del viso e gli abiti che indossava erano intonati alla parte che stava recitando. Sorrideva con le labbra contratte, come faceva sempre quando le cose le sfuggivano di mano e non voleva che Corso capisse che era terrorizzata, e portava una camicia di flanella bianca e nera a maniche lunghe su un paio di jeans neri, la tenuta da lavoro che era solita utilizzare quando la maschera da regina dei vampiri non poteva più funzionare. «Come vanno le mani?» le chiese, mentre si abbottonava i jeans e si sfilava il camice da ospedale dalla testa, buttandolo per terra. Lei riuscì a sfoderare un debole sorriso. «Un po' troppo sensibili, ma non c'è male.» A dimostrazione di quanto detto, le sollevò in alto, flettendo le dita diverse volte. Corso prese a frugare nella valigia. Estrasse una maglietta nera con il logo dell'Harley Davidson. Ci infilò dentro un braccio alla volta, poi la testa e infine la ficcò nei jeans. Tenendosi in equilibrio su un piede solo indossò un paio di stivali da cowboy neri e se li sistemò sotto i pantaloni. «È così che ci si veste in prigione, di questi tempi?» «Ho deciso per il look minaccioso» rispose con un sogghigno. «A quanto ricordo, una volta arrivato in Texas la mia scelta in fatto d'abbigliamento non andrà molto oltre una tuta arancione e un paio di infradito.» «Devi assolutamente dir loro che l'arancione non ti si addice. Sei un tipo invernale, i colori dell'autunno non fanno per te.» «Lo terrò presente» rispose ridacchiando. «Le chiavi della nuova macchina a noleggio sono sul comodino. È una Expedition verde, si trova già nel parcheggio» aggiunse, facendo un breve cenno della testa in direzione della finestra. «La Hertz ci prega di non distruggere anche questa.» Meg prese le chiavi e le infilò nella tasca destra dei jeans. Non riusciva più a fingersi coraggiosa, anche la sua voce tradiva preoccupazione: «Sicuro che non ci sia niente che io...?». «Non c'è nulla da fare a questo punto» rispose lui in fretta. «Barry ha assoldato un plotone di avvocati. Nel frattempo dovrò fare buon viso a cattivo gioco.» «Ma forse... se io...» attaccò Meg. Corso la incenerì con lo sguardo. «Guida con prudenza» le disse. «Ti faccio un fischio quando torno a Seattle.»
«Potrei...» Alzò una mano. «Ascolta. Cerca di non rendere tutto ancora più difficile. Mi dispiace di averti trascinato in questo casino. È stato uno sbaglio. Stavi quasi per lasciarci le penne e sono riuscito lo stesso a farmi arrestare ed estradare in Texas. Se non fossi superstizioso, direi che non potrebbe andare peggio di così. Io...» Prima che potesse finire la frase, Meg attraversò la stanza e lo cinse in un abbraccio. Rimase rigido, le braccia lungo i fianchi, mentre lei lo teneva stretto a sé. Dopo un istante le sue mani decisero autonomamente di risalire lungo la schiena della donna e fare la loro parte. Rimasero allacciati nella luce grigia della stanza. Superato di un buon trenta secondi il limite di un abbraccio amichevole, fecero un passo indietro, facendo finta di riassettarsi i vestiti. Meg si schiarì la voce. «Se voglio prendere l'aereo devo fare i bagagli e andarmene da qui.» Corso si voltò verso la finestra. «Ci vediamo» mormorò. «Sì.» Rimase a fissare il parcheggio sottostante e la città in lontananza, finché non sentì la porta chiudersi con un fruscio e il silenzio avvolgere la stanza. Allora si avvicinò al letto, recuperò il diario e la penna e cominciò a scrivere. 9 Non sentì aprirsi la porta. Alzò la testa solo quando udì lo scalpiccio delle scarpe. A quel punto lo sceriffo Trask aveva già attraversato la stanza e lo stava fissando, come se volesse perforarlo con lo sguardo. Corso infilò la penna nella pagina che stava scrivendo, chiuse il diario e lo mise nella tasca esterna della valigia. Si alzò in piedi. «Dove sono i miei amici texani?» domandò. «A quanto pare avevano fame e sono andati a pranzo da Ruth.» La donna ispezionò brevemente la stanza. «Mi hanno lasciato un biglietto dicendo che torneranno a prenderla all'una in punto.» Corso lanciò un'occhiata all'orologio. Le dodici e nove minuti. Stava riprendendo in mano il diario quando la donna mormorò: «Uno come lei dovrebbe riuscire a filarsela da qui entro quell'ora». E poi proseguì, senza muovere un muscolo del viso: «Con un po' di fortuna, uno come lei potrebbe persino riuscire a darsi alla macchia per una
settimana circa, finché non scadano i termini del Gran Giurì. E poi... ecco... magari buttarsi tutta la faccenda alle spalle». Corso si prese del tempo per alzarsi in piedi. L'espressione di lei gli confermò che non stava scherzando. «Mi devo essere perso l'inizio del film» disse. «Per non parlare del fatto che con quei capelli corti, quella fasciatura sulla fronte e quegli occhi pesti, non assomiglia affatto alle foto che trasmettono in televisione. Sembra tutt'altra persona.» Corso non aggiunse altro. «Che ne direbbe se la lasciassi andare?» chiese lei infine. «Se le lascio prendere la valigia e uscire di qui indisturbato?» «Pensavo fosse preoccupata per la sua immagine.» Fece schioccare la lingua. «Richardson mi ha già messo al tappeto» esclamò. «L'unico modo di uscire vittoriosa da questa situazione è mettere a segno un colpo sensazionale in questa faccenda di casa Holmes. Qualcosa che nessuno è riuscito a scoprire. Qualcosa per cui indire una conferenza stampa e mandare quel poppante all'inferno.» «Non mi farei troppe speranze» ribatté Corso. «Il caso è vecchissimo.» La donna strizzò gli occhi. «È qui che entra in gioco il grande Corso» ribatté. «E come?» Controllò nuovamente l'ora. Le dodici e tredici. «Mancano ancora cinque giorni, giusto? E poi il Gran Giurì sarà fuori gioco.» Non aspettò la risposta di lui. «Se la faccio uscire di qua... mi dà la sua parola che passerà quel tempo a indagare sulla signorina Sissy Warwick?» Corso aprì la bocca, ma la donna continuò implacabile. «Chieda a quei tizi della Melissa-D di scoprire da dove sia sbucata. Poi...» «Non esiste nessuna Melissa-D» si affrettò a negare Corso. Spazzò via con un gesto della mano la protesta. «Faccia tutto il possibile per darmi qualcosa da usare nell'indagine.» Gli si piazzò davanti. «Mi guardi negli occhi e mi dica che farà del suo meglio in questi cinque giorni. E io la lascerò uscire da qui.» «La mia fuga non farà granché bene alla sua immagine.» «Non è una fuga» ribatté. «Lei non è in arresto. Per quanto ne so, si è semplicemente stufato della nostra ospitalità e ha deciso di andare in cerca di climi più miti.» «La notizia scatenerà comunque un gran polverone.» «Saprò cavarmela.» «Non le posso dare alcuna garanzia.»
Annuì. «Affare fatto?» Gli porse la mano. Lui la strinse. Era dura e callosa. «Affare fatto» ripeté. Le dodici e quattordici. Corso guardò la porta. La donna gli lesse nel pensiero. «Meg Dougherty è ancora nell'edificio. Le ho detto che doveva firmare dei moduli prima di andarsene. Vada a prendere la macchina a noleggio. Quando le acque si saranno calmate, vedrò di fare arrivare la sua amica all'aeroporto e di metterla su un volo per Seattle.» Prima ancora che avesse finito di parlare Corso si era infilato il cappotto e aveva afferrato la valigia. Gli fece cenno di seguirla. Attraversò la stanza, aprì la porta con cautela e sbirciò fuori. Lo spinse davanti a sé e gli indicò il corridoio sulla destra, in direzione della scritta verde USCITA. «La sua amica Dougherty è quattro porte più in là, nella camera 411. Vada a salutarla e poi prosegua giù per le scale di servizio. Giri a destra e si troverà nel parcheggio.» Corso annuì. La donna lo agganciò con lo sguardo. «Abbiamo un accordo, giusto?» «Farò del mio meglio» rispose. Lo sceriffo lo soppesò ancora un istante con lo sguardo, prima di spalancare la porta e uscire in corridoio. Si fermò a ispezionare la zona. Passò un minuto. Corso sentiva un rumore di passi sul pavimento. «Adesso» esclamò infine lei. Lui si affrettò lungo il corridoio deserto senza voltarsi indietro, afferrò la maniglia della porta ed entrò senza bussare nella camera 411. Meg aveva sparso l'attrezzatura fotografica sul letto e la stava pulendo con un asciugamano. Si portò una mano alla gola, deglutendo due volte. «Oh, mi hai spaventato a morte. Pensavo fossi...» «Lo sceriffo... lo so» ribatté Corso d'un fiato. Le tese una mano. «C'è un cambio di programma. Mi serve la macchina.» Meg si riprese in fretta. Cercò le chiavi nella tasca dei jeans. «Cosa succede? Pensavo che...» «Me ne vado.» «Dove?» «In qualunque posto che non sia il Texas.» Gli porse le chiavi. Corso si avvicinò per prenderle, ma all'ultimo istante Meg chiuse la mano a pugno, nascondendola dietro la schiena. «Non c'è tempo per giochetti cretini, tesoro. Ho molta fretta» le disse. «Vengo anch'io» annunciò lei. «E non chiamarmi tesoro.»
Corso fece finta di non capire. «Come sarebbe a dire che vieni anche tu?» «Quel che ho detto. Vengo anch'io.» Dodici e diciassette. Corso abbassò la voce. «Un paio di giorni fa non volevi avere niente a che fare con tutto questo» sibilò gesticolando con una mano. «Ti sentivi insultata e hai fatto fuoco e fiamme per tornare a Seatde il più in fretta possibile. E ora, tutto d'un tratto...» Si interruppe. Meg non aveva sentito neanche una parola. Stava impacchettando velocemente tutta l'attrezzatura, sussultando ogni tanto per il dolore alle mani. «Prima era prima... e adesso è adesso» sentenziò chiudendo la cerniera della borsa. Afferrò i bagagli e si voltò verso Corso. «Non startene lì a bocca aperta. Aprimi la porta. Vado giù a mettere in moto la macchina.» Lui non si mosse. Meg scosse la testa esasperata. «Non cercare di capire, Frank. Fa parte del nostro fascino. È questo che rende le donne un mistero. Ora aprimi quella dannata porta.» Corso afferrò la maniglia e obbedì. Il tempo di controllare il corridoio e farle un cenno, che Meg lo aveva già oltrepassato dirigendosi a grandi passi verso gli ascensori. Il suo profumo aleggiava ancora nella stanza quando Corso rientrò, appoggiò la borsa sul letto e ne estrasse il cellulare. Si guardò attorno istintivamente prima di digitare il numero. Dopo le scariche elettrostatiche cui ormai era abituato, una voce: «Questa non è una comunicazione sicura». «Lo so» disse lui. «Non saranno accettati ulteriori messaggi da questo numero.» «Lo so.» «L'unità di invio dovrà essere distrutta.» «Sì, lo so.» «Digiti il codice di accesso.» Corso obbedì. «Un'altra volta.» Corso ripeté il numero. Tre bip e un'altra voce. Femminile, questa volta. «Il collegamento telefonico non è sicuro.» «Lo so.» «Non si accettano nuove transazioni su una connessione insicura.» «Si tratta di una vecchia transazione» ribatté Corso. Udì il ticchettio di una tastiera. «Abrams, Arnold Jay. Nessun dato iden-
tificato.» Altri clic. «Niente.» «Dieci mesi e non ha ancora prodotto neanche un singolo documento?» si meravigliò Corso. «È così, signore» replicò la donna. «Dato che questa è la sua unica transazione, la comunicazione verrà...» «Ehi, ehi, ehi!» cantilenò Corso nel microfono. «... interrotta.» Si aspettava di sentire il segnale di libero. Quando percepì solo silenzio, proseguì. «So che è fuori dal protocollo» iniziò «ma ho un problema.» Dall'altro capo del filo sempre solo silenzio. «Sissy Warwick. Dovrebbe essere sui quarantacinque anni. Ha vissuto ad Avalon, nel Wisconsin, dal 1973 al 1987. Dopo di che se ne sono perse le tracce.» «Questo collegamento non è sicuro. Dovrò consultare il mio superiore. Vuole attendere?» «No» rispose Corso. «Devo andare.» Clic. Corso andò in bagno. Appoggiò il cellulare sull'asse del water e sollevò con entrambe le mani il coperchio del serbatoio di scarico. Appoggiò il coperchio sul lavandino e prese il telefono. Premette due tasti. La luce si accese. Buttò il cellulare nella vaschetta dell'acqua e lo osservò affondare. Aspettò che la luce si spegnesse, poi sistemò nuovamente il coperchio e si avviò alla porta. 10 Le dodici e ventuno. In piedi davanti alla finestra, Corso osservò la nuvola di gas di scappamento che fuoriusciva dalla Ford Expedition. Si intravedeva la sagoma di Meg dai finestrini appannati. Con la coda dell'occhio scorse sulla sinistra Duckett e Caruth che attraversavano la strada, di ritorno dal pranzo. Sorrise. La Trask aveva ragione. Benché indossassero identici cappellini di lana calati fin sotto le orecchie, entrambi tenevano in mano il cappello da cowboy. Non si sa mai. Corso continuò a sorridere, mentre contava silenziosamente. Ancora un minuto di attesa. Nel corridoio due infermiere in candide uniformi bianche chiacchieravano nella luce argentata del bancone dell'accettazione. Una gesticolò con in mano un blocco a molla di alluminio, estrasse una penna dalla tasca e vi scrisse qualcosa. L'altra sembrava d'accordo con l'amica. Corso aspettò ancora.
Dodici e ventitré. Le infermiere si separarono, una sparì dietro il bancone e l'altra si incamminò lungo il corridoio, entrando infine in una stanza. Era l'ora di muoversi. Gli stivali da cowboy di Corso echeggiarono sul linoleum consunto, mentre si affrettava verso l'uscita. La tromba delle scale puzzava di disinfettante, un odore acre che pungeva le narici. Allungando il passo Corso cominciò a scendere i gradini a due a due, atterrando sul pianerottolo e facendo leva sulla ringhiera con la mano libera per girare l'angolo con un balzo. Era a metà strada quando sentì dei passi sulle scale. Frenò di colpo. Rimase immobile. Cercando di controllare il respiro, drizzò le orecchie. Nessun dubbio. Qualcuno stava salendo le scale di buona lena. Fischiettando, anche. Rimase in ascolto. Il motivetto era distorto, ma riconoscibile. Un inno, forse. Gesù mi ama. Sì, proprio quello: Lo dice la Bibbia... Gesù mi ama... Adesso si era fatto più vicino. Dopo aver inspirato a fondo, Corso cercò di assumere l'espressione più indifferente possibile e continuò a scendere. Era a quattro gradini dal pianerottolo quando lo sconosciuto entrò nel suo campo visivo. Richardson. Orecchie arrossate e cappello ridicolo compresi. I loro sguardi si incrociarono. La bocca del vice sceriffo si spalancò dallo stupore, ma non gli uscì alcun suono. Strizzò gli occhi, sorrise e si portò la mano al cinturone. Aveva quasi estratto la pistola dalla fondina quando Corso gli lanciò addosso la borsa. Non con troppa forza, ma come un passaggio a football. Proprio come sperato, Richardson dimenticò l'arma e istintivamente afferrò la borsa con entrambe le mani. Corso fece un balzo e atterrò fra le braccia del vice sceriffo, la borsa a separare i corpi, i nasi che quasi si toccavano. L'impatto catapultò l'agente contro il muro alle sue spalle. La testa andò a sbattere contro il cemento producendo un rumore simile a quello di un melone che cade sull'asfalto. Richardson rovesciò gli occhi all'indietro mentre si afflosciava a terra. Solo allora Corso si accorse che la pistola stava rotolando giù per le scale, gradino dopo gradino. Incassò la testa fra le spalle e chiuse gli occhi in attesa del colpo. Niente. Per un attimo sentì la testa che girava e gli parve di rivedere il riflesso del fuoco sul soffitto di casa Holmes. Annaspò in cerca di aria e si guardò intorno. Silenzio. Armandosi di coraggio, appoggiò due dita alla gola di Richardson. Sentì il pulsare ritmico del cuore. Soddisfatto, girò l'uomo svenuto a pancia in
giù, sollevò la pesante giacca di ordinanza e gli sfilò le manette dalla cintura. Gli ci volle un intero minuto, ma alla fine riuscì a chiuderle intorno ai polsi di Richardson. Poi lo rivoltò supino, gli tolse la cravatta e gliela avvolse attorno alle caviglie facendola poi passare dentro le manette. Il polso dell'uomo era ancora forte e stabile. Corso afferrò la borsa e ricominciò a scendere le scale. La pistola giaceva sul pianerottolo del primo piano, puntata verso il soffitto come se si fosse arresa. Corso la raccolse, se la infilò nella tasca della giacca e spalancò la porta esterna. L'aria gelida gli sferzò il viso mentre attraversava il parcheggio per raggiungere la macchina. Rabbrividì. Si guardò intorno. Dalla stanza dell'ospedale, la neve impilata lungo tutto il perimetro dell'area sembrava arrivare ad altezza vita. Ma una volta sceso a terra si accorse di quanto si fosse sbagliato. Lì nella terra dei ghiacci, dove la temperatura non risale mai oltre lo zero fino a maggio, gli spartineve avevano formato cumuli alti quasi quattro metri. La sensazione era quella di trovarsi all'interno di un enorme igloo. Aprì la portiera della macchina e si gettò sul sedile. «Andiamocene» esclamò. Meg lo fissò preoccupata. «Andiamo!» ripeté lui. «Va tutto bene?» gli domandò. «Certo.» «Hai l'aria di uno che ha appena visto un fantasma.» «Portami via da qui.» Meg infilò la retromarcia e si spostò lentamente al centro del parcheggio. «Dove si va?» chiese. «Dovunque, tranne che all'inferno o in Texas.» 11 I raggi argentei della luna gli lambivano le palpebre con insistenza. Alla fine Corso socchiuse un occhio e lanciò uno sguardo furtivo al cielo notturno. La vecchia grande luna, simile a una monetina opaca, stava di sentinella a campi ghiacciati e alberi scheletrici allineati lungo la strada a due corsie. Rimise lo schienale in posizione eretta e si stirò. Quando si passò le mani sul viso, emise un lungo gemito. «Dove siamo?» domandò. «Non lo so di preciso, da qualche parte nell'Iowa» rispose Meg senza to-
gliere gli occhi dalla strada. «Ho preso la Statale 76 in direzione sud circa un'ora fa. Secondo l'ultimo cartello che ho visto siamo a centocinquanta chilometri da Cedar Rapids.» In lontananza scorsero le insegne di un autogrill. «Devo fare pipì» annunciò Meg. «Tanto vale fare il pieno, già che ci siamo.» Scosse la testa. «Prima il bagno.» La ghiaia gelata scricchiolò sotto le ruote della macchina mentre entravano nell'area di parcheggio e posteggiavano in mezzo a un paio di pick-up sgangherati. Una mezza dozzina di camion era allineata all'estremità del parcheggio. Il diner si chiamava «Da Earl». Un grosso cubo aerodinamico, costruito alla fine degli anni Cinquanta, tutto acciaio inossidabile e niente maiolica. La luce gialla che filtrava dalle finestre del locale lanciava ombre trapezoidali sul terreno gelato. Corso aprì la portiera e lasciò che Meg lo precedesse all'interno. Dodici sgabelli d'acciaio da una parte, per lo più occupati. Sei séparé dall'altra, per lo più vuoti. Torte in una teca a specchi sul bancone e vicino alla cassa un televisore bianco e nero sintonizzato sul notiziario locale. Un paio di cameriere in là con gli anni e un tizio con un grembiule macchiato dietro il banco. In tutto una decina di clienti, per lo più camionisti. Cappellino da baseball, jeans, camicia di flanella e il tipico profilo, pancia sporgente e sedere piatto, che viene a stare diciotto ore al giorno seduti dietro al volante. In attesa sulla porta, Meg e Corso vennero apostrofati da una cameriera: «Dentro o fuori, ragazzi. Non riscaldiamo l'esterno». Lui la sospinse in avanti ed entrò a sua volta, lasciando che la porta si chiudesse alle loro spalle. L'aria odorava di sigarette e olio fritto. Corso mise una mano sulla spalla di Meg guidandola a sinistra verso la toilette. A metà percorso, si infilò in uno dei séparé, con le spalle alla porta. Osservò Meg passare sotto un arco e girare a sinistra. La vide arrestarsi di colpo, con la mano sulla maniglia della porta, rivolgersi a qualcuno che era nei bagni, esitare qualche secondo e poi entrare. Una cameriera si materializzò al suo fianco. Aveva una faccia che sembrava una borsa di cuoio e una manciata di denti anneriti. «Cosa prendete?» Corso ordinò due caffè. Al di sopra dell'acciottolio delle posate e del brusio degli avventori, lo speaker in TV rantolava: «...nella valle temperature in ribasso, cielo limpido, in montagna meno venti, pianura vicino allo
zero. Il servizio meteorologico nazionale riporta...». Dougherty arrivò due minuti dopo, insieme ai caffè. Dall'espressione sul suo viso Corso capì che qualcosa non andava. «Problemi?» Aspettò che la cameriera si fosse allontanata e si sporse verso di lui sul tavolino. «C'è una donna là dentro. Una faccia da far paura. Sta vomitando l'anima nel lavandino. E non c'è porta divisoria... niente. Mi scappava talmente... che mi sono dovuta calare le mutande davanti a lei.» «Immagino sia rimasta colpita dai tuoi capolavori tatuati.» «Penso che la vista del mio sedere le abbia fatto passare la sbornia.» Guardò la tazza di caffè che aveva di fronte. Aggrottò la fronte. Poi guardò Corso. «Ho pensato che da queste parti non sapessero neanche cosa fosse un cappuccino con latte di mandorla scremato, perciò mi sono limitato al caffè» mormorò lui. Meg si strinse nelle spalle con aria rassegnata. Bevve un sorso. Sussultò. «Ma è imbevibile!» esclamò. Nel frattempo, udirono lo speaker televisivo intonare con voce solenne: «Il presidente Bush ha proposto una campagna per promuovere l'astinenza sessuale fra gli adolescenti. Nel suo discorso ufficiale...». Qualunque effetto avessero sortito i tatuaggi di Meg, era stato di breve durata. La donna barcollò fuori del bagno come pattinando sul ghiaccio e andò a sbattere contro la parete di fronte. Era sulla sessantina, una criniera di capelli nero corvino cotonati che sembrava galleggiare sopra la testa come il fumo di una caldaia a gasolio. Doveva aver usato una crema autoabbronzante, perché aveva la faccia e il collo pieni di chiazze arancioni. Barcollando tra una parete e l'altra, riuscì a passare sotto l'arco ed entrò nel salone principale. Si appoggiò con le grandi mani piene di venature a uno dei séparé per ritrovare l'equilibrio, e riprese il cammino facendo roteare gli occhi. Se la stava cavando niente male, quando arrivò accanto a Dougherty. A quel punto si fermò di botto, si protese in avanti cercando di mettere a fuoco l'immagine e biascicò: «Ti ho vista là dentro. Sei del circo o cosa?». Sghignazzò, ondeggiando pericolosamente, e poi cominciò a canticchiare: «Lydia, sono Lydia...». Dougherty fissava in silenzio il suo caffè. La donna si chinò un po' di più, appoggiando i gomiti sul tavolo. «Non avevo mai visto niente del genere prima d'ora. Tutte quelle frecce che puntano proprio al...» Meg si alzò di scatto, furente. «Sparisci» le intimò. «Prima che ti prenda
a calci in culo per tutto il locale.» Sembrò sul punto di ribattere, poi ci ripensò e se ne andò, voltandosi ogni tanto a guardarli e borbottando qualcosa fra sé e sé. Meg prese a fissare nel vuoto. Dall'altra parte del locale giungevano le parole della donna, che aveva cominciato ad alzare la voce e a gridare il suo sdegno al mondo. Nessuno nel locale sembrò prestarle ascolto. Un altro sabato sera da Earl. Meg d'un tratto si irrigidì. Seguendo il suo sguardo Corso si voltò. Un uomo in giacca a vento rossa stava venendo dalla loro parte. I capelli, un tempo biondi, erano adesso color ottone sporco, pettinati all'indietro. Anche da lontano si capiva che era ubriaco fradicio. Si fermò accanto a Dougherty, respirando pesantemente con la bocca. «Sei tu quella puttana che ha minacciato la mia Emily?» ringhiò. Aveva lo sguardo iniettato di sangue. Il naso sembrava un ammasso di carne cruda tritata. «Emily farebbe meglio a farsi passare la sbornia» ribatté Meg. L'uomo la afferrò per la spalla e si chinò a pochi centimetri dal suo viso. «Nessuna stupida puttana si deve permettere di...» «Non c'è bisogno di usare quel linguaggio» intervenne Corso. «Stavo parlando con te, testa di cazzo?» domandò il tizio. «Se volevo parlare con uno stronzo, allora...» Non riuscì a terminare la frase, perché Corso lo afferrò per i capelli spingendogli la faccia sul tavolo con tale violenza che l'intero locale tremò. L'uomo scivolò a terra. Nessuno si mosse. Eccettuato il brusio della televisione, il posto era avvolto nel silenzio. Tutti gli occhi erano puntati su di loro. «Me la cavavo da sola» obiettò Meg. «Le parolacce mi fanno venire i nervi.» Lei sorrise, poi allontanò con la mano la tazza di caffè. «Usciamo di qui» mormorò. Si alzarono all'unisono. Scavalcarono l'uomo a terra e si incamminarono lungo il corridoio. Corso lasciò un biglietto da cinque dollari sul tavolo. «Il Dipartimento di Polizia dello Stato del Wisconsin» annunciò lo speaker alla televisione «sta indagando sull'omicidio di Cole Richardson, vice sceriffo di Avalon. L'uomo è stato ucciso con un colpo d'arma da fuoco alla testa questo pomeriggio. Fonti attendibili hanno rivelato alla nostra emittente che il proiettile sembra provenire dalla sua stessa arma d'ordinanza. Sebbene non siano state formulate accuse formali, le autorità del Wisconsin sono sulle tracce del giornalista Frank Corso...» Una foto vecchia di cinque
anni apparve sullo schermo. «... il cui ultimo libro, Morte a Dallas, è rimasto in testa alle classifiche per quasi trentatré settimane. In passato il famoso scrittore era stato...» Prima che Corso potesse riprendersi dallo shock, Meg era già fuori dalla porta. «... licenziato dal "New York Times" per aver fabbricato uno scoop...» Corso si affrettò a seguirla. 12 Aveva una buona mira. Le chiavi arrivarono sibilando e lo colpirono in pieno petto prima di cadere a terra. Corso non fece alcun tentativo di raccoglierle. Rimase fermo a fissarla. «Ti spiacerebbe spiegarmi cosa diavolo succede?» Corso si chinò e raccolse le chiavi, facendo scivolare l'anello di metallo attorno all'indice. Meg si avviò alla macchina, fece per aprire la porta e la trovò chiusa. «Devo salire» gli disse. Corso se la prese comoda, voltandosi a sbirciare i curiosi affacciati alle finestre del locale, poi le si avvicinò. Meg si ritrasse d'istinto. Le mise una mano sulla spalla. «Mi sono imbattuto nel vice sceriffo mentre scappavo. Stava...» «Perché è sempre tutto così complicato, Frank? Cinque minuti insieme a te e i problemi si trasformano in disastri.» «Non l'ho ucciso io. Lo giuro.» «Questo lo so, idiota» ribatté con aria disgustata. «Ne ho solo le palle piene, ecco tutto. Apri quella dannata macchina.» «Mi ha puntato contro la pistola.» «E tu?» «L'ho ammanettato e l'ho lasciato sulle scale.» Cercò di strappargli le chiavi. Corso nascose la mano dietro la schiena, poi infilò l'altra nella tasca del cappotto e tirò fuori una pistola. «Ho preso la sua pistola.» Aprì il caricatore e ne svuotò i proiettili sul palmo. «Guarda.» Dopo un attimo di esitazione, Meg diede una sbirciatina. Aggrottò la fronte, lanciandogli un'occhiataccia, poi con un unghia controllò i proiettili. «Ci sono tutti» disse. Corso annuì e le porse l'arma. «Annusala.»
Tenendo la pistola con due dita Meg si portò la canna al naso. «Che odore senti?» le chiese Corso. Ci pensò un attimo. «Olio» rispose. «Giusto. Questo perché non è stata usata da quando l'hanno lubrificata.» Si riprese la pistola, inserì i proiettili uno a uno e richiuse il caricatore prima di infilarsi l'arma in tasca. Meg spostò il peso da un piede all'altro. «Ma allora... perché la TV diceva...?» «Probabilmente perché risultiamo entrambi dispersi, io e la pistola. Se fossi al posto loro, penserei la stessa cosa.» «Devi... devi tornare là. Fare in modo che ti credano, che capiscano che non sei stato tu. Devi mostrar loro l'arma...» Si interruppe e rimase a fissarlo. «Giusto» rispose. «È quello che pensavo anch'io. È per questo che l'ho tenuta.» «Allora muoviamoci...» «Poi mi è venuto in niente che non possono avere la certezza che non sia stato io a ucciderlo. Ho avuto tutto il tempo di pulire l'arma e ricaricarla.» Scosse il capo. «Come faccio a provare che non sono colpevole?» Si massaggiò le tempie. «Non lo so» mormorò dopo un istante. «Neanch'io» fece Corso. «Ma ho la sensazione che tutta la faccenda abbia a che fare con la famiglia ritrovata nel capanno.» «E perché mai?» «Perché nient'altro in quel paesino riesce a scatenare una ridda di passioni tale da portare all'omicidio.» Prese le chiavi e aprì la porta posteriore. «Ti accompagno all'aeroporto più vicino» disse. «Vorrei che tornassi a casa il più in fretta possibile.» «Io vengo con te» ribatté Meg. «Non essere sciocca. Non è più un gioco, ormai. Non stiamo più parlando di una piccola diatriba da tribunale, ma di omicidio. Adesso la caccia all'uomo si fa seria. E non voglio che tu sia coinvolta.» «Vengo con te, Corso. Che ti piaccia o no. Mi hai tirato tu dentro a questa faccenda e ci rimarrò fino alla fine. Punto e basta.» «Pensaci...» attaccò lui. «Ci ho già pensato. E vengo con te.» Corso sospirò. Conosceva quello sguardo ostinato, sapeva che non c'era verso di discutere. Si guardò alle spalle, in direzione del locale. Non c'era più nessuno alle finestre. Una coppia di camionisti stava scendendo le scale in direzione del parcheggio.
«Sarà meglio organizzarsi, allora» borbottò Corso fra sé e sé. Meg lo osservò in silenzio mentre apriva la valigia e ne estraeva il contenuto. Sentì il rumore di una cerniera interna. Corso sfilò la fodera, aprì un'altra cerniera e tirò fuori un sacchetto di plastica bianca. Appoggiò il sacchetto sul paraurti posteriore. Dopo aver sciolto la cordicella che lo teneva legato, ci infilò una mano ed estrasse una mazzetta rigonfia di banconote. Meg rimase di stucco. «Gesù» esclamò. «Ma quanti sono?» «Diecimila.» Tolse l'elastico dalla mazzetta. Prese circa un quarto delle banconote e se le infilò nella tasca posteriore dei pantaloni. «In caso ne avessimo avuto bisogno mentre giocavamo a nascondino con la polizia del Texas» disse a mo' di spiegazione. Rimise l'elastico, appoggiò il resto delle banconote sullo sportello posteriore e tirò fuori dal sacchetto una busta di carta marrone. Ne sparpagliò il contenuto nel bagagliaio. Meg vide fascicoli, documenti e carte di credito e immediatamente le saltò agli occhi una sua foto su una patente dello Stato di Washington. «E questa cos'è?» esclamò raccogliendola all'istante. «Un documento alternativo» rispose Corso, strizzandole l'occhio. «Per ogni evenienza.» «Margaret Dolan» borbottò accigliata. «Che razza di nome è?» «Irlandese» ribatté lui. «Sono stato attento alle origini della tua famiglia.» Meg lasciò la patente dove l'aveva presa. «Le cose vanno già abbastanza male, Corso. Non ho intenzione di andare in giro con documenti falsi...» «Non sono falsi» rispose lui. «Ma certo che lo sono» ribatté lei. «Io non mi chiamo Dolan...» «Puoi mostrare quel documento a qualsiasi poliziotto d'America e venirne fuori pulita.» La zittì alzando un dito. «Perché i dati su questi documenti corrispondono a quelli di qualsiasi database.» Fece una pausa aspettando che il messaggio le arrivasse forte e chiaro. «Il documento è reale. Le carte di credito sono valide. Da ora in poi tu sei Margaret Dolan, nessun secondo nome, e io sono Francis A. Falco. La A sta per Albert.» «Come Sinatra.» Le sorrise. «Sempre per la faccenda delle origini.» Divise i nuovi documenti, tirò fuori il portafoglio e cominciò a svuotarlo. «Meglio far sparire gli altri. Non vorrei mostrarli per sbaglio.» Rimase a osservarlo mentre sostituiva ogni tessera con quella nuova. Poi Meg sollevò il mantello, prese il portafoglio dalla borsetta messicana che
portava a tracolla e fece altrettanto. Un minuto dopo la trasformazione era completata. Corso infilò soldi, documenti e pistola nella tasca interna della borsa. Rimise a posto la fodera e i vestiti e richiuse il portellone. «Sicura di volerlo fare?» le domandò. Lo fulminò con lo sguardo. «Dove andiamo?» Corso rimase a osservare un paio di camion che si mettevano in moto e uscivano dal parcheggio. «Non lo so» rispose. «Hai il cellulare?» «Che fine ha fatto il tuo?» «Ha avuto un incidente.» Con una certa riluttanza infilò una mano sotto il mantello ed estrasse un piccolo Nokia rosso. Corso afferrò il telefono e le mise in mano le chiavi della macchina. «Devo fare una telefonata» disse. «Perché non fai benzina intanto?» Meg afferrò le chiavi e salì al posto di guida. Corso rimase sul terriccio gelato. Aspettò di sentire la portiera sbattere e la macchina allontanarsi. Meg guidò fino alla pompa di benzina senza accendere le luci. Un ragazzo con una tuta blu si avvicinò di corsa. Corso si voltò dall'altra parte. Schiacciò il pulsante di accensione. Il livello delle batterie era buono. Il campo di ricezione non molto. Compose un numero. Aspettò che la sinfonia di scariche elettrostatiche si calmasse e digitò il codice di accesso. La stessa voce di sempre. «Non è una connessione sicura.» «Lo so» rispose. «Non saranno accettati ulteriori messaggi da questo numero.» «Lo so.» «L'unità d'invio dovrà essere distrutta.» «Sì, lo so.» «Immetta nuovamente il codice di accesso.» Corso eseguì. Altri scatti. «Nessuna nuova transazione può essere effettuata da una connessione non sicura.» «Sissy Warwick» disse. Sentì il rumore di una tastiera. «Duecentosettantatré nomi parziali corrispondono. Settantasei ancora viventi. Uno corrisponde in toto.» «Qual è?» «Sissy Marie Warwick. Nata il 4 settembre 1957. Morta lo stesso giorno
nel 1972. Causa della morte: leucemia. Seppellita nel cimitero delle Sorelle del Sacro Cuore, ad Allentown, Pennsylvania. Numero della tomba unouno-due-sei-sette. Sopravvissuti: i fratelli Robert e Allen e i genitori Rose e Alfred.» Corso rifletté sull'ignominia di morire il giorno del proprio compleanno, mentre ascoltava il rumore dei tasti. «Abbiamo un'anomalia» annunciò la voce. «Lo stesso settembre 1972, sei giorni dopo la morte, Sissy Marie Warwick ha richiesto e ottenuto una copia autenticata del suo certificato di nascita.» «Sei giorni dopo la morte.» «Sì, signore.» «Bel trucchetto.» «L'undici settembre di quello stesso anno le è stato fornito un duplicato della tessera sanitaria e del codice fiscale.» Altri tasti battuti. «Segue una lacuna nei dati» disse la voce. «Essere morti fa di questi scherzi» commentò Corso. «Poi il nome riappare. 1973, Avalon, nel Wisconsin. Una persona con stesso nome e data di nascita sposa un certo Eldred Holmes, mette al mondo...» «Sì questo lo so, grazie» la interruppe Corso. «Dopo Avalon nient'altro?» «Niente, signore.» Prima che potesse farle altre domande la voce proseguì: «Ho ricevuto istruzioni di informarla che, data la situazione, non saranno accettate altre richieste dal suo codice d'accesso». «Capisco.» «Dovrà distruggere la presente unità telefonica.» «Naturalmente.» Segnale libero. Attraversò il parcheggio, facendo rimbalzare il cellulare sul palmo della mano. Dougherty stava firmando la ricevuta della carta di credito quando la raggiunse. L'inserviente le porse la copia e si affrettò a tornare al riparo nella stazione di servizio. Meg aspettò che la porta si chiudesse. «La carta di credito funziona.» «Te l'avevo detto. Sono documenti autentici.» L'espressione sul volto di lei gli confermò quanto poco ne fosse convinta. «Vuoi guidare?» gli domandò. «Non particolarmente» rispose Corso. «E tu?» «Certo. Dove si va?» Ci rifletté un istante. «Verso est» disse infine. «In Pennsylvania.»
Meg salì al posto di guida. Corso fece il giro della macchina e, chinandosi sulle ginocchia, appoggiò qualcosa per terra, davanti a una delle ruote anteriori. Il motore rombò in tutta la sua potenza. Corso salì in macchina e si allacciò la cintura di sicurezza. Meg ingranò la prima. Uno schianto secco tagliò l'aria della notte. «Cosa è stato?» chiese Meg. «Devo aver schiacciato qualcosa.» «Infatti.» «Cos'era?» «Il tuo telefono.» Non m'importa di quel che dice lei. Non m'importa di quel che dicono tutti. Ci deve essere una giustizia a questo mondo. Le cose devono risolversi in qualche modo. Altrimenti non c'è ragione di andare avanti, no? Tanto vale ammazzarsi, se la situazione sfugge di mano. Il fatto è che... la maggior parte delle persone se ne sta lì ferma, in attesa che capiti qualcosa di bello. Come se fosse la vita a balzarti incontro e non viceversa. Quelli come Mama May sono sempre lì a ripetere che la vita è ingiusta. Perché a loro fa comodo crederlo, altrimenti dovrebbero guardarsi dentro e ammettere con se stessi di non essere riusciti lontanamente a realizzare i propri sogni. E non per colpa della sfortuna. È più facile continuare a pensare che la gente di successo sia semplicemente stata fortunata. Tutti quei discorsi sulla giustizia e l'ingiustizia sono solo fesserie. La gente fa solo quel che le viene più facile. Poi si pente. È come in quei documentari sulla natura. Solo i più forti sopravvivono. 13 «Come diavolo si chiama questa strada?» brontolò Meg. Corso lesse di nuovo il nome ad alta voce. «Mauch Chunk Road.» «E che diavolo di nome è?» ribatté Meg azionando i freni per arrestare la macchina. Davanti a loro, nient'altro che la linea infinita del guard-rail. Perma Avenue piegava ad angolo verso destra. Girard Avenue verso sinistra. La Lincoln Continental bianca che li tallonava da cinque minuti suonò il clacson un paio di volte e li superò accelerando, con uno stridio di gomme e frustrazione. «Prendi la Perma» suggerì Corso indicando la strada a destra. «Te l'ha detto il benzinaio?» «A dire il vero, il nostro amico si è dimenticato di segnalare un bivio
sulla strada, ma ha detto che il cimitero era in cima alla collina. La strada a destra va in salita, mentre l'altra sembra scendere.» Si batté un dito sulla tempia. «Niente sfugge a Francis Albert Falco.» Meg controllò nello specchietto retrovisore prima di ripartire. «Perché i cimiteri sono sempre in cima a una collina?» domandò. «La gente non va mica lì armata di sdraio a godersi la vista.» «Per esserti più vicino, mio Signore... E roba del genere» rispose Corso. Guidarono in silenzio fino in cima alla collina, sotto un cielo di nuvole grigie di passaggio, sinuose come lava raffreddata. Il vento rapiva le ultime foglie autunnali e le depositava a terra in spirali di polvere. In cima al pendio, dopo una curva a gomito, apparve ai loro occhi la vallata. Le guglie dei campanili svettavano sul mosaico di tetti a tegola del paese, come lunghe dita affusolate che indicavano il cammino verso casa. «Il posto ha un'aria migliore da quassù» commentò Meg, imboccando un altro tornante. «Queste città industriali mi danno i brividi. Mi fanno venir voglia di farmi una doccia.» «Allentown era famosa per il ferro, il carbone e l'acciaio al cromo» la informò Corso. «Quando il carbone si esaurì d'improvviso, sembrò fermarsi anche tutto il resto.» Meg storse il naso all'odore pungente. «Perché mai la gente rimane in posti come questi?» «Perché è nata qui. Non conosce altro. E perché le era stato promesso che, se avesse lavorato duramente e si fosse comportata bene, avrebbe avuto una vita migliore. Un posto in cui allevare i bambini, mettere radici e magari ritirarsi sulla veranda davanti a casa a guardare la parata del quattro di luglio.» Meg si concentrò su un altro paio di curve, poi gli lanciò un'occhiata. «È così che immagini i tuoi anni d'oro, Frank? Ad agitare una bandierina sulla veranda?» Corso sbuffò. «Io no» ribatté. «E tu neanche, tesoro. Non facciamo parte del programma. Nessuno di noi due porterà mai una torta di mele ai nuovi vicini di casa. Ce ne staremo sempre fuori, a guardare dalla finestra. È il nostro destino.» Si aspettava un commento sarcastico, invece Meg indicò un punto davanti ai loro occhi. «Eccolo là» esclamò. «Dev'essere quello.» Era un grande cimitero vecchio stile, annidato sotto un mantello di querce e aceri dai folti rami scheletrici. Era delimitato da una cancellata in ferro battuto alta circa due metri che si snodava tutt'attorno serpeggiando a
zig zag. Dal punto in cui si trovavano, Corso poteva scorgerne il disegno irregolare. In altri tempi e luoghi, quella cancellata sarebbe stata più costosa del terreno che delimitava, ma in una cittadina come Allentown, dove per sessant'anni il bagliore rossastro delle caldaie aveva illuminato il cielo notturno, mezzo chilometro di ferro battuto non rappresentava nulla di speciale. Solo un divisorio arrugginito tra ciò che era stato... e ciò che doveva ancora venire. Qualcosa stava bruciando. Qualcosa di oleoso e denso le cui ceneri in volo, nere come l'inchiostro, oscuravano il cielo come una nebbia infernale. L'aria pungente pizzicava in gola. Mentre andava su e giù davanti alla tomba, Corso sentiva le ghiandole sul collo gonfiarsi. La lapide era semplice, un blocco di granito grezzo levigato su un lato e rilievi di foglie intrecciate a incorniciare una scritta: SISSY MARIE WARWICK, 4 SETTEMBRE 1957 - 4 SETTEMBRE 1972. FIGLIA ADORATA. LA GRAZIA DEL SIGNORE DONI A LEI PACE ETERNA. Un brivido lo scosse, inducendolo a fermarsi tutto d'un tratto. Attraverso un velo gli apparve il sottile profilo di una ragazza con le braccia conserte e i capelli castani che ondeggiavano al vento. Prima di potersi muovere o parlare, lei aveva voltato la testa dalla sua parte spalancando gli occhi infossati e poi, mentre il vento sibilava, era sparita di nuovo. Sbatté gli occhi due volte, poi si girò, imbarazzato da quell'improvviso scherzo della sua fantasia. Meg si era alzata il cappuccio del mantello. Ondeggiava sui tacchi con il volto alzato verso il sole del tramonto. Corso si strinse nel cappotto incassando la testa fra le spalle. «Lei è stata qui» disse. «Chi?» «La nuova Sissy Warwick.» Fece un gesto con la mano. «È venuta qui. Ha visto questa lapide, ha letto l'iscrizione e ha deciso che quello sarebbe stato il suo nome.» Meg ci rifletté. «Pensi che abbia addirittura assistito alla sepoltura?» «Pensiero interessante, non trovi?» la motteggiò lui guardandosi attorno. «Magari da lontano. Magari dietro quel tronco di quercia.» Riprese a passeggiare in circolo. «Già... sarei pronto a scommettere che l'ha fatto. Mi sembra nel suo stile.» Si voltò verso Meg. «Stiamo parlando di una persona con in mente un piano ben preciso. Meno di una settimana dopo la se-
poltura della vera Sissy Marie, qualcuno stava già usando la sua identìtà per farsi dare copia del certificato di nascita e della tessera sanitaria.» «Ma come facciamo a essere certi che si tratti della stessa Sissy Marie Warwick comparsa ad Avalon un anno dopo?» «Perché la donna di Avalon ha usato lo stesso certificato di nascita e la stessa tessera sanitaria quando ha sposato Eldred Holmes, circa un anno più tardi.» Lo fissò duramente. «E tu come lo sai?» «Me l'ha detto lo sceriffo» rispose Corso con prontezza. La sua espressione scettica diceva più delle parole, ma Dougherty si limitò a un tiepido: «Strano». «Quel che è davvero strano è che era poco più di una bambina.» Meg aggrottò la fronte. «Pensaci» proseguì Corso. «La vera Sissy Warwick era morta il giorno del suo quindicesimo compleanno. Quindi si può tranquillamente dedurre che chiunque abbia preso la sua identità doveva avere più o meno la stessa età. Forse era leggermente più vecchia, perché dubito che una persona più giovane riesca a organizzare un piano simile.» «Una ragazzina, eh?» «Non vedo come potrebbe essere altrimenti.» Meg non stette a discutere. Lo prese sotto braccio. «Andiamocene» mormorò. «Dammi pure della sciocca, ma non ho voglia di trovarmi in un cimitero quando fa buio.» A braccetto cominciarono a camminare fra le tombe che sembravano disposte quasi a caso, come se lapidi e ossa fossero state afferrate da una mano gigantesca e gettate sul terreno come una coppia di dadi. Era il cimitero dei padri fondatori della città. O almeno di quelli di religione cattolica. Ricchi o poveri. Vecchi o giovani. Lavapiatti o magnati dell'acciaio. Semplici lapidi ricoperte da detriti si alternavano ad arzigogolati mausolei familiari logorati dalle intemperie. Gli angeli barocchi che abbellivano le pietre tombali più sontuose sembravano guardare con eterno disdegno le tombe dei meno fortunati. Verso sud, la collina cominciava a degradare. In lontananza, Allentown riposava sotto un manto di fumo azzurrognolo che si alzava dalle ciminiere, diffondendosi su tutta la vallata come una cappa di cotone sporco. «E adesso?» domandò Meg. Corso ci rifletté un istante continuando a camminare. «Adesso prendiamo l'elenco telefonico della città e vediamo quanti Warwick riusciamo a
trovare.» Meg sfilò il braccio e si scostò da lui. «Siamo ridotti all'elenco telefonico? È tutto quello che hai in mano?» «Esatto.» «Allora siamo proprio disperati.» «Se lo dici tu.» Quando raggiunsero l'estremità settentrionale del cimitero, Corso vide un agglomerato di edifici dietro un filare di alberi allineati. Si fermò e indicò un punto. «Là nel mezzo» esclamò. «Quella è una chiesa.» «Poco ma sicuro.» La guglia del campanile si perdeva fra l'intrico di rami, ma si riuscivano comunque a scorgere quattro edifici, chiesa compresa. In quello più basso, tre finestre erano illuminate dall'interno. «Probabilmente le Sorelle di Non-so-cosa» commentò Meg. Corso annuì. «Già.» La donna si voltò e fece per allontanarsi. «Andiamo» lo esortò. Poi, vedendo che Corso non si muoveva, tornò sui suoi passi. «Andiamo» ripeté. «Questo posto mi fa venire i brividi.» «Facciamo una capatina dalle Sorelle» disse lui. «Le suore mi innervosiscono» ribatté Meg. «Mi fanno sempre sentire come se avessi fatto qualcosa di male e mi dovessi confessare.» «Puoi aspettarmi in macchina se preferisci.» Si mise le mani sui fianchi. «Già, certo. Sai che voglia ho di starti ad aspettare in un cimitero mentre tu...» Corso non la stava più ascoltando. Le falde del cappotto scuro ondeggiavano nella notte mentre si dirigeva a grandi passi verso la casa. Meg ci rifletté un istante, si guardò attorno e decise di corrergli dietro. 14 C'era qualcuno all'interno. Corso ne era certo. Provò ancora a forzare la maniglia di ferro finché non arrivò quasi a scardinare un pezzo di catena arrugginita dal muro. A quel punto lasciò perdere. Dentro la canonica lo squillo sordo del campanello echeggiava nell'oscurità. «Il posto mi sembra completamente deserto» osservò Meg. «Scommetto che hanno lasciato le luci accese per motivi di sicurezza.» «C'è qualcuno là dentro» insistette Corso. «Te lo dico io.» «Raggi X, eh?»
«Vengo da una famiglia che da molte generazioni si rifiuta di rispondere al campanello. Fidati, lì dentro c'è qualcuno.» Il vento soffiava forte e diffondeva un odore di terra, decadenza e morte. Lungo il viale d'accesso al convento di Nostra Signora del Perpetuo Dolore, gli alberi ondeggiavano come ballerini fantasmi. Il selciato dava l'impressione di non essere stato calpestato da nessuno per secoli, ricoperto com'era di foglie morte, ghiande e rami spezzati. Nelle aiuole erano rimasti solo i gambi congelati dei fiori selvatici cresciuti sotto il sole estivo. L'antico portone d'ingresso era costituito da assi d'acero tenute insieme da elaborati cardini di ferro battuto. Corso cercò di aprire la finestrella scorrevole al centro dell'arcata. Con il pollice provò a far scorrere di lato la placca di metallo, ma questa non si spostava. Mentre faceva un secondo tentativo, la finestrella si aprì dall'interno pizzicandogli la pelle del dito fra il metallo e il legno. Istintivamente si portò il pollice alla bocca e si chinò a scrutare attraverso lo spioncino. Quello che riuscì a scorgere furono solo un paio di occhiali e due vivaci occhi blu. «Non vi aspettavamo fino a domattina» disse una voce di donna. «Mi scusi?» disse Corso. «Siete i trasportatori, no?» «No, signora. Volevo domandarle qualcosa a proposito del cimitero.» Si udì un sospiro. «Non accettiamo più nessuna richiesta» sentenziò la voce. «No, volevo chiederle di una tomba che è già nel cimitero.» Gli sembrò di udire un bisbiglio dietro la porta. «Di che tomba si tratta?» chiese la voce. «Nella parte orientale del cimitero. Sissy Marie Warwick.» Questa volta non ebbe dubbi. Il bisbiglio si infittì e poi, senza preavviso, la finestrella si chiuse di scatto. «Vedo che hai sempre un gran successo con le donne» sibilò Meg. Mentre Corso sollevava la mano stretta a pugno per bussare, si udì una serie di scatti metallici e la porta si spalancò verso l'interno. Una suora. Di età indefinibile. Sicuramente più di settanta. Indossava il tipico velo sopra un semplice abito grigio e spesse calze nere. Una croce di metallo le pendeva dal collo come un albatro. Scrutò Corso dalla testa ai piedi. Gli occhi si soffermarono sulla fronte ferita. «Cosa le è successo alla testa?» Si informò. «Un incidente di macchina» rispose. «Me la sono cavata piuttosto male.»
La donna rimase per un attimo sconcertata quando Meg si fece avanti nel riquadro di luce. «Oh» balbettò. «Pensavo... non avevo capito... una signorina...» La porta si richiuse. Un battibecco concitato trapelò da dietro le assi d'acero. Corso non riusciva a capire le parole, ma il ritmo delle frasi gli fece pensare a un acceso dibattito. La catena tornò a cigolare e la porta si aprì nuovamente. Corso fu momentaneamente preso in contropiede. C'era qualcosa di diverso. Stessa faccia, stessi occhiali, eccetto un cardigan nero indossato sul vestito. «Non volete entrare?» disse la donna. Corso si fece da parte per lasciar passare Meg, ma, vedendo che esitava, entrò per primo. L'aria era calda e odorava di infuso di tè. Dougherty lo seguì. La porta si chiuse alle loro spalle e si ritrovarono in un'angusta stanzetta lastricata in pietra. Due suore. Identiche in tutto tranne che per il cardigan. «Siamo sorelle» spiegò la prima. Prima che Corso potesse replicare, l'altra si intromise. «Sorelle vere, non solo Sorelle di Cristo.» «Gemelle» puntualizzò Cardigan. «Ah» fece Corso. «Lei è suor Agnese. Io sono suor Veronica» disse Cardigan. Meg stava per presentarsi, ma Corso la interruppe. «Sono Frank Falco e lei è Meg Dolan.» Dougherty gli lanciò un'occhiata come a puntualizzare che non aveva bisogno del suo aiuto per ricordarsi gli pseudonimi. Sfoggiando il suo sorriso di circostanza, prese a fregarsi le mani arrossate per riscaldarle. «Possiamo offrirvi del tè?» si informò suor Veronica. «Sarebbe fantastico» accettò Meg. Seguirono le due donne lungo uno stretto corridoio fino a una piccola cucina sul retro dell'edificio. Un tavolo di legno e quattro sedie al centro della stanza, e ogni altra superficie piatta ricoperta di scatole di cartone, chiuse con nastro adesivo e contrassegnate in rosso. Piatti. Utensili. Libri di cucina. Suor Veronica si scusò per il disordine. «Incredibile quanta roba si riesca ad accumulare nel corso degli anni» mormorò con un debole sorriso. L'altra si rabbuiò e fece un verso di disprezzo con le labbra. «Certa gente è fin troppo attaccata ai beni materiali» borbottò. La bocca era circondata
da una ragnatela di minuscole rughe. «Mia sorella si riferisce a padre Jonathan» spiegò suor Veronica. «Ha vissuto nella canonica per trentasette anni.» Il volto le si aprì in un sorriso. «E teneva molto alle sue comodità.» «Fin troppo» soggiunse suor Agnese. «Sono le brutte abitudini che l'hanno condotto alla morte.» «È mancato lo scorso febbraio. Attacco cardiaco.» «Accidia e gola» borbottò suor Agnese. «I peccati più...» Suor Veronica alzò gli occhi al cielo. «Vi prego di scusare mia sorella» disse. «Anche dopo tutti questi anni al servizio del Signore, non si è ancora rassegnata alle debolezze della natura umana.» «Un po' di giusta indignazione non guasterebbe a questo mondo.» «Forse hai ragione» ribatté l'altra. «Ma non troppa.» Sembrava stessero recitando una parte di un copione prestabilito, ma davano l'idea di averla ripetuta talmente a lungo da esserne persino stufe. Suor Veronica sfiorò Meg con una mano. «Ma le avevamo promesso del tè, mia cara, non è così?» fece una risatina. «Che razza di ospite sono diventata!» Attraversò la stanza fino ai fornelli ed estrasse una tazza bianca da una delle scatole. Guardò Corso con aria interrogativa. Lui scosse il capo. La donna appoggiò la tazza sul lavello e vi versò il tè da una piccola teiera di maiolica. Ritornò verso Meg con la tazza stretta fra le mani come un'offerta votiva e le porse la bevanda fumante. «Temo di non avere né zucchero né latte» si scusò. «Partiamo domattina.» «Sarebbe stato uno spreco» aggiunse rapidamente suor Agnese. «Dove vi trasferite?» domandò Meg sorseggiando il tè. «A Muncie, nell'Indiana» rispose. «Il nostro ordine ha una canonica in quella città.» «L'Arcidiocesi ha deciso di chiudere la chiesa» li informò suor Veronica. «Vende la proprietà» disse l'altra scuotendo il capo. «Dopo centoventicinque anni. Come se la casa del Signore fosse un mercato all'ingrosso o roba del genere.» «Le cose cambiano, sorella» mormorò suor Veronica a bassa voce. Temendo di veder sfumare il momento opportuno a causa del loro disaccordo, Corso si affrettò a domandare: «Venderanno anche il cimitero?». «Ma certo che no» ribatté suor Veronica con aria scandalizzata. «Come potrebbero...»
«Lo avrebbero fatto se avessero potuto» scattò l'altra. «È solo questione di soldi. Tutto in nome del dio denaro.» Suor Veronica sospirò. Dietro gli occhiali lo sguardo sembrò perdersi nei ricordi. «Quando arrivammo quaggiù eravamo quarantadue sorelle. Ora siamo rimaste solo noi.» «E quand'è stato?» si informò Meg. «1959» risposero all'unisono. «Eravamo insegnanti» spiegò suor Agnese. «Matematica e letteratura» aggiunse suor Veronica indicando a turno sua sorella e poi se stessa. «Questo prima che la scuola chiudesse, nel 1981.» «Stava dicendo...» disse suor Agnese rivolta a Corso. Suor Veronica la interruppe. «Avevamo ottanta ragazze allora. Venti interne e sessanta esterne. Eravamo la scuola femminile cattolica più grande di...» Mentre parlava alzò la voce e assunse un tono artificiale e teatrale, come se così facendo potesse mettere al bando la paura ed evitare che le tenebre le affondassero gli artigli nella schiena. Ma suor Agnese non aveva nessuna intenzione di farsi mettere da parte e, con espressione determinata, si intromise nella conversazione: «Stava dicendo di essere interessato alla tomba Warwick» esclamò a voce un po' troppo alta. L'affermazione era diretta a Corso, ma i suoi occhi non abbandonarono per un istante il volto della sorella. Le due donne si lanciarono uno sguardo denso di rancori e recriminazioni, come solo due persone che avevano vissuto sempre in compagnia una dell'altra potevano scambiarsi. «A quanto pare ho toccato un nervo scoperto» osservò Corso senza rivolgersi a nessuno in particolare. Meg fu colta da un singulto e si rovesciò il tè sulle mani. Nessuna delle due suore sembrò farci caso. Se ne stavano là, a pochi metri di distanza, sfidandosi in un alterco silenzioso. «Sorella, per favore...» mormorò suor Veronica alla fine. «È un presagio» rispose l'altra. «Non lo capisci?» «Non essere blasfema» la rimproverò la sorella. «Non osare.» «Non è forse vero che ogni cosa viene da Dio?» esclamò indicando Corso e Meg. «Non è quel che mi ripeti sempre?» «Veramente noi veniamo dal Wisconsin» mormorò Corso. Meg sorrise e gli schiacciò un piede. Suor Veronica fu la prima ad abbassare lo sguardo. Sospirò e si voltò dall'altra parte. Si avvicinò al lavello e versò il resto del tè nello scarico del lavandino. Suor Agnese rimase a fissarla per qualche istante, poi tornò a
rivolgersi ai suoi ospiti. «Perché le interessa quella tomba in particolare, signor...?» «Falco.» «Abbiamo più di tremila tombe nel nostro cimitero. Perché proprio quella?» «Penso che qualcuno abbia rubato l'identità di Sissy Marie Warwick» rispose misurando attentamente le parole. «Penso che qualcuno possa aver usato quel nome per commettere dei crimini.» «Che tipo di crimini?» domandò suor Agnese. Sembrava che l'ossigeno fosse sparito dalla stanza, sostituito dall'aria carica di elettricità e di aspettativa che precede un tuono. Corso fece scorrere lo sguardo da una suora all'altra. «Forse addirittura un omicidio» rispose Meg. Un fracasso di cocci rotti alle sue spalle: suor Veronica aveva lasciato cadere nel lavello la teiera, che era andata in mille pezzi. «Oh, santo cielo, guarda cos'ho combinato» esclamò la donna. «Incredibile come sia diventata maldestra.» Raccattò i frantumi dal lavandino continuando a blaterare sui danni dell'età, ma nessuno le dava ascolto. Suor Agnese fece un passo avanti, piazzandosi di fronte a Corso. «Forse sarebbe il caso che me ne parlasse» disse. Corso l'accontentò. Circa a metà del racconto, suor Veronica si voltò, con le mani sui fianchi e le labbra ridotte a una piega sottile. «Doveva essere qualcuno della stessa età della ragazza» concluse Corso. «Solo così si spiegherebbe tutto.» «Di che anno stiamo parlando?» domandò suor Agnese. «È comparsa nel Wisconsin nel 1973.» Suor Agnese si voltò verso la sorella. «Beh... questa è la ciliegina sulla torta, non trovi?» disse. Suor Veronica esitò e poi fece un cenno d'assenso. «Avevi ragione» mormorò a bassa voce. «Avevate tutte ragione.» Sembrava sul punto di vomitare. Corso incontrò lo sguardo di suor Agnese. «A quanto pare adesso tocca a voi raccontarmi qualcosa.» «Finalmente» ribatté lei. Trasse un profondo respiro e iniziò a parlare. Ai tempi in cui il collegio del Sacro Cuore era agli esordi, raccontò suor Agnese, le suore erano solite accogliere occasionalmente ragazze orfane o vittime di abusi. Era così che funzionavano le cose a quei tempi, prima che il governo ci mettesse lo zampino e rovinasse tutto. Suor Agnese si pro-
trasse per qualche minuto in dissertazioni socio-politiche, prima di tornare sull'argomento. Poco prima del Natale del 1970, continuò, una ragazza comparve sulla soglia della canonica, affermando di essere orfana. Diceva di chiamarsi Mary Anne Moody. Di avere quattordici anni e di non sapere dove altro andare. «Ci raccontò che l'intera famiglia era morta in un incendio» aggiunse suor Veronica. Suor Agnese scoccò alla sorella uno sguardo irritato e proseguì. L'arrivo della ragazza aveva creato molto scompiglio fra le suore. Alcune erano propense a mandarla via. Dopo tutto non era una ragazza del posto. E non era neanche cattolica. Altre sembravano più disponibili. Dopo una discussione piuttosto accesa, era stato deciso di accoglierla nella comunità. «La carità non deve avere limiti» mormorò suor Veronica. «Era nostro dovere di cristiane.» Suor Agnese ignorò l'interruzione. Mary Anne Moody era rimasta con le suore, frequentando la scuola e vivendo in canonica per quasi due anni. Si era rivelata una ragazza difficile e testarda, spesso in conflitto sia con le suore sia con le sue compagne. A volte era violenta. Continuamente soggetta a punizioni. Dal tono di suor Agnese, si capiva che le suore dovevano aver rimpianto a lungo la loro decisione. «Era un bel problema» affermò suor Agnese. «La ragazzina più cocciuta e problematica che abbia mai visto.» Suor Veronica distolse lo sguardo senza proferir parola. E l'altra riprese a raccontare. Non era solo una piantagrane, ma aveva anche tutta una serie di abitudini che avevano dato motivo alle buone suore di dubitare del proprio istinto caritatevole. La prima era venuta alla luce con il ritrovamento di una serie di disegni in camera sua. Il tono secco con cui suor Agnese li liquidò come «inappropriati» e il rossore che le salì alle guance parlavano da soli. «E non era neanche la cosa peggiore.» Suor Agnese fece una pausa. «Era morbosamente attratta dal cimitero. Dalla morte e dai defunti.» A quanto pareva, ogni volta che Mary Anne Moody scompariva, il che succedeva regolarmente, bastava recarsi al cimitero. Lei era là. Che gironzolava fra le tombe, parlando fra sé e sé. Che copiava le date dalle lapidi su un blocchetto che si portava sempre appresso. «A cosa le servivano?» domandò Meg. Le suore scossero il capo, incapaci di dare una risposta. «E che mi dite della tomba Warwick?» le incalzò Corso.
«Poco prima di andarsene...» saltò su suor Veronica che non riusciva più a stare zitta. «Di scappare...» la corresse suor Agnese. Poco prima di sparire la ragazza si era fissata con la tomba di Sissy Warwick. Era stata trovata in piedi a fissarne la lapide almeno una dozzina di volte. Suor Veronica e alcune altre suore avevano ipotizzato che Mary Anne, come spesso succede ai sopravvissuti, subisse il fascino malsano di quella tomba perché si sentiva in colpa di essere l'unico membro della famiglia uscito indenne dalla tragedia. E che in qualche modo si identificasse con quella coetanea che aveva raggiunto una pace a lei negata. Questa era la versione caritatevole. Altre suore dal carattere più pragmatico, fra cui suor Agnese, avevano considerato gli strani comportamenti della ragazza come segnali di seri disturbi emotivi e avevano richiesto che la giovinetta venisse sottoposta alle cure di un professionista. Al solo nominare il dottor William Harkens, psicologo dei servizi sociali della contea, entrambe le suore arrossirono violentemente. «Era giovane e di bell'aspetto» disse suor Veronica, quasi a volerlo scusare. Suor Agnese scosse la testa. «Una cosa era certa, sorella...» Fece un pausa ad effetto. «... era veloce a calarsi i pantaloni.» Anche lì la versione dei fatti era contraddittoria. Alcuni erano stati propensi a credere che il giovane psicologo avesse cercato di approfittare sessualmente della ragazza. Questo perché aveva insistito nel restare da solo con lei durante le sedute di terapia. La situazione era degenerata quando suor Ellen, sentendo degli strani rumori provenire dall'ufficio di padre Jonathan, aveva spalancato la porta e aveva trovato Mary Anne e il terapeuta in una situazione che avrebbe in seguito definito «di palpabile tensione sessuale e parziale nudità». Il dottor Harkens aveva invece dichiarato di essere stato vittima di ripetuti tentativi di seduzione da parte della ragazza, che lui descriveva come un soggetto perverso e fin troppo esperto in preliminari sessuali per una persona della sua età. Superfluo aggiungere che il dottore era stato immediatamente rimosso dall'incarico e che le sedute di terapia si erano interrotte bruscamente. «E la faccenda è finita lì?» domandò Meg. «No, subentrarono delle complicazioni» disse suor Veronica. «Fu la signorina Mary Anne Moody a subentrare, ecco cosa!» la corres-
se l'altra. Dal tono in cui lo disse, suor Agnese sembrava non avere dubbi sull'accaduto. A quei tempi le suore organizzavano il gioco del Bingo ogni venerdì sera, nei sotterranei della canonica. La gente accorreva numerosa e riuscivano a tirar su un bel gruzzolo. La cassa era responsabilità di Alice Ignatius, una suora che all'epoca era già sull'ottantina, la quale conservava il denaro in camera sua fino all'apertura delle banche, il lunedì mattina. In diverse occasioni, a causa dell'età avanzata, suor Alice aveva dimenticato dove avesse nascosto i soldi. Ma dato che la sua stanza era molto piccola e con pochi nascondigli a disposizione, bastava un breve sopralluogo da parte delle suore più giovani per ritrovare i soldi, con grande profusione di ringraziamenti e lacrime da parte di suor Alice. «Vi sto dicendo tutto questo» disse suor Agnese «perché voglio che capiate come mai alcune di noi non vollero chiamare le autorità.» «Si riferisce a me» precisò suor Veronica. «La trovammo morta» proseguì suor Agnese. «Un sabato mattina. In fondo alle scale.» Deglutì a fatica. «Con il collo spezzato.» Corso si irrigidì. «E i soldi del Bingo?» «Mai più trovati» disse suor Agnese. «Di che cifra stiamo parlando?» «Cinquemilatrecento dollari.» Le suore si scambiarono un'occhiata. «Che altro?» domandò Corso. Suor Agnese trasse un lungo sospiro. «Suor Alice venne ritrovata in una posizione molto compromettente» mormorò infine. «Avrebbe potuto anche cadere e atterrare così» obiettò suor Veronica. «Neanche per sogno» ribatté sua sorella. «Cosa dissero le autorità del modo in cui fu ritrovata?» «Oh... non l'abbiamo lasciata com'era» balbettò suor Agnese. «Non potevano. Noi non...» «E la ragazza?» «Sparita.» Corso lanciò suo malgrado un'occhiata a suor Veronica. La donna si era tolta gli occhiali e stava pulendo le lenti con un fazzoletto di carta. «Suor Alice era molto avanti negli anni» mormorò. «Abbiamo pensato che Mary Anne avesse trovato il corpo, o che fosse stata presente al momento dell'incidente. Pensavamo che, avendo perso la famiglia e tutto il resto, fosse rimasta così traumatizzata dall'evento da scappare via.»
«Mia sorella guarda il mondo attraverso lenti rosate» commentò suor Agnese. «Che c'è di male ad avere un po' di compassione?» chiese suor Veronica. «Quando è mal riposta... ce n'è molto di male.» Corso le interruppe. «Dunque... dato che la suora era molto anziana ed era solita dimenticare dove metteva i soldi...» Parve esitare. «Alcune di voi non hanno voluto credere che ci fosse un collegamento fra la sua morte, il denaro mancante e l'improvvisa scomparsa di Mary Anne Moody?» «Che ci creda o no» rispose Agnese. «Del senno di poi sono piene le fosse, sorella» la rintuzzò suor Veronica, risistemandosi gli occhiali sul naso. «Adesso può sembrare tutto assurdo, ma...» Non trovò le parole per terminare la frase. «Si è lasciata niente alle spalle?» chiese Corso. «Suor Alice?» domandò suor Veronica. Agnese alzò gli occhi al cielo. «Intende la ragazza.» Suor Veronica scosse il capo tristemente. «No» mormorò. «Sì, invece» la corresse suor Agnese. «Qualcosa ha lasciato.» 15 Dougherty gettò la borsa sul letto più lontano dalla porta. Si guardò intorno sospirando. «Sono io, o queste dannate stanze d'albergo sembrano tutte uguali?» Corso si strinse nelle spalle. «Io non le guardo neanche più» rispose. Aprì l'anta del mobiletto e vi appoggiò la borsa. «Davvero uno spasso quelle due» commentò. «Scherzi» ribatté Meg. «Viene da chiedersi perché mai uno scelga di fare una vita del genere.» Corso aprì la borsa. «Una volta l'ho chiesto a una vecchia suora avventista. Le ho domandato perché avesse scelto una vita di castità e devozione religiosa rispetto a un'esistenza più mondana.» «E cosa ti ha detto?» chiese Meg, mentre infilava gli indumenti nei cassetti del comò. Era sua abitudine disfare i bagagli anche se si fermavano in albergo una sola notte. Corso, invece, si vestiva direttamente dalla borsa. «Mi ha detto di avere avuto gli stessi desideri che abbiamo tutti. Voleva dei bambini, una famiglia ed essere felice come chiunque altro.» «Davvero?» «Sì, ma desiderava anche una maggiore vicinanza con Dio. Voleva vive-
re la vita dello spirito più che quella del corpo. L'unica cosa di cui era certa è che non sarebbe riuscita a far coincidere le due istanze. Anche sessant'anni dopo, mentre parlava con me, non era certa di aver preso la decisione giusta... ma in qualche modo si era sentita obbligata a scegliere.» «Come La scelta di Sophie, eh?» Corso ridacchiò. «Qualcosa del genere» rispose. Estrasse una cartelletta consumata, legata con un elastico rosso. La gettò sul letto prima di dirigersi verso il bagno. «Non cominciare senza di me» le disse. «Torno subito.» Meg di solito si toglieva gli abiti che aveva indossato tutto il giorno non appena messo piede in camera. Corso invece si addormentava con ancora gli stivali addosso. Mentre si infilava una tuta nera, Meg sentì scorrere l'acqua in bagno e le tornò in mente come suor Veronica si fosse messa velocemente ad armeggiare attorno al lavello non appena nominati i disegni di Mary Anne Moody. E come le due sorelle, per la prima volta in tutta la serata, si fossero trovate d'accordo su qualcosa, e cioè che Corso doveva portarsi via i disegni, per poterli studiare con più calma altrove... soprattutto altrove. Corso emerse dal bagno asciugandosi la faccia con un piccolo asciugamano bianco e si avvicinò a Meg. «Qualunque cosa contenga quella cartellina, le buone suore non volevano essere presenti quando l'avremmo aperta» commentò. «Vuoi avere tu l'onore?» domandò Meg. «Lo lascio volentieri a te» rispose. Meg sfilò l'elastico con cautela, come se si trattasse di un pacchetto esplosivo. Usò la punta del dito per sollevare la copertina. Corso occhieggiava da dietro le sue spalle. Meg estrasse dalla cartelletta una mezza dozzina di fogli di carta ruvida piegati in quattro. Li aprì uno a uno, lisciandoli poi sul copriletto. Il primo disegno mozzò loro il fiato. Rimasero a fissarlo a bocca aperta, finché Meg non spezzò l'incantesimo. «È disgustoso...» A prima vista il disegno era talmente rudimentale da sembrare opera di un bambino più piccolo. Un tratto irregolare e violento. Figure stilizzate. Una casa che andava a fuoco. Immersa in una sinfonia di rossi e arancioni. Dalle finestre usciva la scritta AAAGGGHHH, a grandi lettere. Davanti alla casa, un bambino e una bambina si tenevano per mano, osservando placidamente la scena. Sopra di loro, un paio di angeli che salivano in cielo. Il resto del foglio era occupato da tombe e lapidi. Cinque per l'esattezza. RIPOSA IN PACE. I cadaveri sopra le bare. Quattro uomini e una donna.
Non era difficile distinguerli perché lì il disegno raggiungeva la maggior punta di realismo: anche nella morte, infatti, le figure maschili sfoggiavano un enorme fallo rosso, eretto e teso verso l'alto, così reale e pieno di vita che sembrava vibrare nella sua tumescenza. Meg sollevò il primo disegno dalla pila. E poi quello successivo. E quello successivo ancora. Erano sette in tutto. Più o meno simili al primo. Cadaveri, angeli ed enormi falli. Nell'ultimo la faccenda si faceva davvero macabra poiché le figure maschili erano sorte dalla tomba e usavano le proprie enormi appendici sulla figura femminile in ogni immaginabile variante. Corso allungò una mano e ridiede una scorsa ai disegni. In cima al terzo, la ragazza aveva scritto con una matita rossa: S'VILLE. Lungo il margine destro dell'ultimo, aveva allineato una serie di numeri in verticale: 1 0 1 2 4. Meg ripiegò velocemente i fogli e li ripose nella cartellina. Una volta finito, ritrasse le mani di scatto come temendo di scottarsi. «Non voglio più vederli» esclamò. «Mi fanno venire il voltastomaco.» «Difficile credere che non abbiano fatto scattare un campanello d'allarme sull'infanzia della ragazza. Quel povero psicologo poteva anche risparmiarsi il disturbo.» «È tipico dei cattolici!» ribatté Meg in tono tagliente. «Nascondere lo sporco sotto il tappeto. Non ammettere mai niente. Comprare una via d'uscita se necessario. Basta trasferire i preti pedofili da una parrocchia a un'altra, l'importante non è che possano continuare a insidiare i ragazzini ma che la loro dannata immagine non venga offuscata.» Corso controllò l'orologio digitale sul comodino. Nove e ventitré. «Hai fame?» le chiese. «No» scattò lei sgarbata. Poi ci ripensò. «Sì» disse. Corso compose il numero. «Servizio in camera.» Corso si drizzò a sedere di scatto. Per un lungo istante non riuscì a capire dove fosse. Soltanto quando sentì il frusciò delle lenzuola e vide Meg girarsi nel sonno ricordò: hotel Hilton, Allentown, Pennsylvania. Guardò l'orologio. L'una di notte. Si sedette sul bordo del letto ripetendo l'ora tra sé e sé, come se recitasse una litania. E poi, d'improvviso, un'illuminazione: e se si fosse trattato di un codice postale? Preso alla sprovvista, si sdraiò nuovamente e chiuse gli occhi. Ma tornò a sedersi in men che non si dica e accese la lampada sul comodino. Meg si girò sul fianco, fissando accigliata
la luce. Corso afferrò la cornetta del telefono e digitò lo zero. «Reception.» Voce femminile. Sotto i trenta. Un leggero accento straniero. «Avrei bisogno di un favore.» «Mi dica, signore.» «Avete un computer, vero?» «Sì, signore.» «Siete collegati a Internet?» «Sì, signore.» «Ho un numero di codice postale. Vorrei sapere a che città corrisponde.» Udì un sospiro. «Signore... non sono certa che... a quest'ora di notte...» «Come si chiama?» domandò Corso. Percepì l'imbarazzo della donna. «Denise» rispose dopo un attimo. «Le dico una cosa, Denise. Mi trovi a cosa corrisponde questo codice postale e le darò cento dollari. Che ne dice?» «Qual è il numero?» Corso glielo dettò. Ci vollero nove minuti prima di sentir bussare alla porta. Denise era una ragazzotta ispanica, infagottata nella divisa rossa dell'albergo. Porse a Corso un bigliettino di carta ripiegato e lui ricambiò il gesto con una banconota da cento dollari. Si scambiarono un sorriso stentato, prima che lui togliesse il piede dalla porta e questa si richiudesse di scatto. Quando tornò a letto, trovò Meg sveglia, con la testa appoggiata a un gomito. «Un'altra delle tue illuminazioni folgoranti?» Corso annuì. «Ero addormentato. In sogno sentivo cantare quei numeri da un gruppo di bambini. Come nelle tabelline a scuola. Come se qualcuno stesse insegnando loro a ripetere a memoria una cantilena.» Si strinse nelle spalle. Sapeva quanto fossero inspiegabili e imprevedibili le intuizioni della Musa. La gente lo riteneva pazzo o si aspettava che potesse evocarla a richiesta. Nessuno si era mai dato pena di riflettere sul fatto che non è un caso se la Musa viene sempre rappresentata come una donna. «E allora... qual è il verdetto?» lo incalzò Meg. Corso le allungò il biglietto. Alzò lo sguardo. «Smithville, New Jersey.» «Mai sentito.» «Neanch'io» ribatté. «Il che è molto strano considerando quanto tempo io abbia passato da quelle parti. Se me l'avessi chiesto ieri, avrei detto di conoscere ogni singola località del New Jersey. Non è poi così grande.» «Pensi che abbia fatto secca la suora, vero?» chiese Meg. «Già» rispose prontamente. «Potrei scommetterci.»
Meg fece una smorfia. «Ma che razza di persona uccide una suora?» Si sdraiò coprendosi le spalle con le lenzuola. «Come fai a dormire di notte dopo aver spinto dalle scale una suora di ottant'anni?» «Deve proprio essere una a cui non gliene frega un cazzo» fu l'unica risposta che gli venne. Sarah Fulbrook, a cavalcioni sulla bicicletta, abbassò lo sguardo sulla sorellina minore. Emily era inginocchiata sulla ghiaia, armeggiando con il congegno che usava per far sembrare la nuova bici un motorino: una carta da gioco fissata con una molletta per il bucato ai raggi della ruota posteriore. «Ti sbrighi o no» esclamò Sarah. «Sei una tale rottura!» «Un momento» mormorò la bambina, che faticava a sistemare la molletta di legno perché la catena si era allentata durante il percorso da casa. «Dobbiamo arrivare da Mama May prima che faccia buio» esclamò la più grande. «Sbrigati.» «Ho la luce» ribatté la piccola in tono fiero. Strinse le labbra e tirò con tutta la forza la catena, che non si mosse. «Giuro che ti lascio qui» disse Sarah. «Lasciami qui da sola e la mamma ti ammazza.» «Non ho paura di lei.» Emily smise di armeggiare e si guardò attorno. «Sta' attenta» mormorò sbirciando impaurita fra gli alberi. «Ti sentirà.» «Ma che problema hai?» domandò Sarah. «La mamma sente tutto» rispose Emily. «Stronzate.» «Glielo dico.» «Prova a dirglielo e te ne pentirai.» Emily lanciò un'altra occhiata nel bosco, più per cercare un alleato che per timore di scorgervi una spia. La minaccia di spifferare tutto alla madre era fasulla, e lo sapevano entrambe. Bastava aver avuto Sarah contro una volta per sapere che fare la spia non era una buona idea. «Si può sapere che cos'hai?» domandò Sarah. «La mamma è a casa. Non è mica una strega. Non vede tutto, non sente tutto. Lo dice solo perché le si obbedisca. Lo fa anche con papà.» Emily non ne sembrava convinta. «Sei solo arrabbiata perché ti ha rapato a zero» ribatté. Sarah smontò, gettando la bicicletta per terra. Emily cercò di scappare,
ma la sorella era più veloce e in un istante le fu addosso. Senza fiato, rimase a guardare impotente mentre Sarah le strappava la carta di mano e la faceva a pezzettini, lasciandoli ricadere a pioggia sulla sua testa. «Sali su quella bici, mi hai sentita?» Afferrò la bambina per la coda di cavallo trascinandola in piedi. «Sali su quella dannata bici» ripeté. 16 Dougherty mise la freccia e si infilò con la Ford sulla corsia di estrema sinistra, seguendo il cartello verde e bianco che indicava Ramapo Valley College. Si concentrò nel superare la lunga curva a gomito del raccordo stradale, svoltando a est sulla Ramapo Valley Road. Mentre si allontanavano dall'autostrada sfrecciando sotto una coltre di alberi lussureggianti, Meg scorse nello specchietto retrovisore una volante della polizia della contea di Bergen che aveva azionato il lampeggiante. «Accidenti» esclamò. «Abbiamo compagnia.» «Sta' calma» le disse Corso. «Siamo puliti.» Si infilò una mano in tasca ed estrasse una mazzetta di banconote da cento dollari. «Ecco, tieni queste. Qualunque cosa succeda, avrai modo di tornare a casa senza problemi.» Meg non ribatté. Si limitò a strappargli i soldi di mano e a ficcarseli nella tasca dei jeans. Dopo un centinaio di metri rallentò fino a fermarsi in una piazzuola di sosta. Il poliziotto lasciò acceso il lampeggiante e si avvicinò al posto di guida. Meg abbassò il finestrino sfoderando un sorriso abbagliante. «Qualche problema, agente?» domandò. «Posso vedere patente e libretto, per favore?» Frugò nella borsa e recuperò la patente mentre Corso trovò il contratto di noleggio nel cassetto anteriore e glielo passò. Meg consegnò il tutto al poliziotto. Mentre quello stava ancora esaminando i documenti, un'altra volante si accostò alla prima. Il secondo agente scese dalla macchina e si avvicinò alla Ford dalla parte del passeggero, rimanendo a pochi metri con la mano appoggiata alla fondina della pistola. Il primo agente si chinò, sporgendosi verso l'interno della vettura. «È lei il signor Falco?» domandò. Corso fece un cenno del capo in segno di assenso.
«Posso vedere un documento?» Corso gli diede la sua patente. «C'è qualche problema?» domandò. «Rimanete in macchina» rispose l'agente. «Torno subito.» Corso contò fino a trenta poi si voltò a guardare cosa accadeva alle loro spalle. Il primo agente stava parlando alla radio della polizia, tenendo i documenti in mano. Il secondo aveva raggiunto il collega. «Cosa stanno facendo?» si informò Meg. «La solita trafila dei poliziotti.» «Non stavo correndo o roba del genere» protestò. «Lo so.» «Ma se poi...» iniziò. «Sta' calma» ripeté Corso. «Non sei ricercata. Anche nella peggiore delle ipotesi, sarai libera di tornartene a casa.» Ancora un minuto e i poliziotti furono di ritorno. Il secondo agente rimase dietro la macchina mentre il primo si avvicinò al finestrino. «Vi dispiace se do un'occhiata nel bagagliaio?» domandò. Prima che Meg potesse aprire la bocca, Corso rispose: «Sì, ci dispiace». «Mi scusi?» fece il poliziotto. «Sì, ci dispiace se perquisite la macchina» ripeté Corso. Il poliziotto lo fissò con sguardo impassibile. Poi si raddrizzò e raggiunse il collega dietro la vettura, dove rimasero a conferire per un po', prima di riaccostarsi al finestrino. Si chinò verso di loro. «Dunque si rifiuta di darci il permesso di perquisire la macchina?» «Esatto.» «E perché mai, signore?» «Perché è mio diritto farlo» rispose Corso. Adesso anche il secondo poliziotto si era accostato al finestrino. «Il suo atteggiamento potrebbe far pensare che avete qualcosa da nascondere» commentò. «Come decidete di interpretare le cose è affar vostro» ribatté Corso. «Se abbiamo commesso qualche violazione al traffico, comunicatecelo. Altrimenti vorremmo proseguire per la nostra strada.» Di nuovo gli agenti si spostarono dietro il veicolo a confabulare. Passarono circa cinque minuti, prima di vederli ricomparire. «Non si può dire che abbiate un grande spirito di collaborazione» commentò il primo agente. «Ne prendo nota» replicò lui, sostenendo impassibile lo sguardo dell'uomo.
Con gli occhi ancora fissi in quelli di Corso, l'agente porse i documenti a Meg. «Guidi con prudenza» disse. Rimasero seduti in silenzio mentre i due poliziotti tornavano alle macchine e si allontanavano, prendendo direzioni opposte. A Meg sembrò di respirare per la prima volta dopo un'eternità. «Sei un tale stronzo!» esclamò. «Avresti potuto metterci...» «Ridammi i miei soldi» replicò. Meg prese i soldi dai jeans e glieli buttò in grembo. «Maledizione a te.» «Andiamo a trovare quel Rosen.» «Siamo andati all'ufficio postale» esordì Corso. «Ci hanno detto che non consegnano più la posta a Smithville. Per quel che li riguarda, quel codice postale non esiste più.» «Il direttore dell'ufficio postale di...» Meg guardò Corso. «Che città era?» «Suffern, nello stato di New York» disse Corso. «Ci ha detto che dovevamo venire qui all'università. Ha detto che lei è esperto di quella zona.» Si chiamava Randy Rosen. Professore associato di storia presso il Ramapo Valley College del New Jersey. Sui cinquanta, la pelle rovinata e un naso sproporzionato rispetto alle dimensioni del volto. Seduto nel suo ufficio striminzito senza riscaldamento, aveva il tipico aspetto trasandato dell'accademico fallito: folti capelli sale e pepe che non vedevano un barbiere da tempo e giacca sportiva di tweed che aveva bisogno di una buona ripulita. «Non siamo più un'università pubblica. Abbiamo superato le nostre origini popolari. Siamo un vero e proprio...» tracciò in aria delle immaginarie virgolette «... college, a tutti gli effetti ormai.» Dalla sua voce trapelavano note di amarezza e disappunto, un tratto comune agli accademici che erano giunti all'ultimo gradino della scala gerarchica universitaria, livello oltre il quale non erano destinati a salire. Rosen si appoggiò all'indietro sulla sedia e li osservò. «Se si parla di Smithville, si parla dei Jackson White.» «Chi sono?» domandò Meg lanciando un'occhiata a Corso. Era la stessa espressione che aveva usato anche il funzionario dell'ufficio postale. «Dipende a chi lo domandate» rispose Rosen. «Ci sono svariate leggende che riguardano l'origine di quella gente.» Riprese a studiarli con la massima attenzione. «Vi spiacerebbe dirmi perché vi interessa?» Corso glielo riferì. Mentre la storia si dipanava, l'espressione distaccata
di Rosen si trasformava in attento interesse. «E pensate che questa ragazza...» Si interruppe. «... naturalmente ormai sarà una donna di mezz'età... Pensate che possa essere di Smithville?» «È possibile» disse Corso. Rosen si appoggiò allo schienale, intrecciando le dita sullo stomaco. Corso lo osservò ripassare mentalmente le informazioni appena ricevute. Non occorreva molta fantasia per intuire cosa stesse pensando. Poteva scapparci una bella monografia. Magari un trattato in piena regola. Qualcosa che lo liberasse da quel purgatorio accademico, un ultimo fuoco d'artificio per rivitalizzare la carriera. Magari anche una cattedra da qualche parte. «Di che anno stiamo parlando?» domandò. Corso ci pensò. «Credo fine anni Sessanta, inizio Settanta.» Rosen cercò di dissimularlo, ma qualcosa riguardo a quelle date lo aveva galvanizzato. «Da dove volete che cominci?» chiese. «Cos'è un Jackson White?» domandò Corso. «Diciamo che è un modo gentile per dire negro.» «Non sapevo ci fosse un modo gentile» ribatté Meg. «È così che chiamavano la gente di colore nel sedicesimo secolo.» «Quindi... i Jackson White non sono bianchi» commentò Corso. «Si tratta di una popolazione arroccata sulle montagne. Isolati dalla civiltà e decisamente misti dal punto di vista etnico.» Corso e Meg si scambiarono un'occhiata. Rosen sorrise. «So cosa state pensando. È pazzo? Siamo nel New Jersey, lo stato con la maggiore densità di popolazione del paese. Cosa blatera a proposito di gente isolata sulle montagne?» Nessuno lo contraddisse. «È un grande clan formato da famiglie collegate fra loro» proseguì Rosen. «Vivono sulle montagne qui vicino.» Fece una pausa. «Abitano lassù sin dalla guerra d'Indipendenza.» «Vuol dire tipo... le popolazioni che vivono sulle montagne nel sud del Paese?» domandò Meg. «Più o meno» rispose l'uomo. «Molto più isolati e molto più organizzati in clan.» «Di quali montagne stiamo parlando?» domandò Corso. «Le Ramapo.» Rosen si alzò e si diresse alla porta, facendo segno di seguirlo. Attraversarono l'atrio deserto ed entrarono in una classe vuota. L'uomo
oltrepassò la cattedra e tirò giù una cartina. Corso e Meg si avvicinarono. Indicò una zona a nord del New Jersey e a sud dello stato di New York, tracciando un cerchio con una bacchetta. «Esattamente qui» disse. «Difficile a credersi, vero? A meno di cinquanta chilometri da Manhattan, una delle aree più isolate dell'intero Paese, dal punto di vista geografico e culturale.» Batté sulla cartina con la punta della bacchetta. «Una catena montagnosa lunga quasi cento chilometri in linea d'aria, incuneata tra il fiume Hudson e la contea di Bergen, di cui quasi nessuno è a conoscenza.» «Come ha fatto un'area così estesa a rimanere selvaggia?» domandò Corso. «Come mai gli speculatori non ci hanno già messo sopra le mani?» «All'epoca era troppo rocciosa e remota per trarci qualcosa di buono» rispose Rosen. «E prima che qualcuno pensasse di accamparci qualche diritto, i Jackson White vi si erano insediati da un centinaio di anni e non avevano alcuna intenzione di traslocare.» «Come ci sono arrivati, tanto per cominciare?» chiese Corso. «Si narrano un paio di storie» disse Rosen. «La leggenda più comune dice che la zona fosse inizialmente abitata dagli indiani Tuscarora, che si erano spostati dal Nord Carolina per unirsi ai loro alleati, gli Iroquois, verso il 1713. A quanto pare ne avevano le tasche piene di farsi prendere a calci dagli inglesi durante le guerre con la Francia ed erano alla ricerca di un posto in cui nascondersi. Più o meno nel periodo in cui si insediarono nel territorio, i figli dei neri liberati, originari delle piantagioni nella valle dell'Hudson, sentirono parlare del posto e cominciarono ad arrivare a frotte, unendosi a loro. Cominciarono i matrimoni con i Tuscarora e anche con qualcuno degli indiani locali, i Lenni-Lenape. È più o meno in quel periodo che i vicini iniziarono a riferirsi a loro come ai Jackson White.» «E l'altra storia?» domandò Corso. Rosen si appoggiò alla cattedra e attaccò a parlare a raffica. Secondo l'altra leggenda, durante la guerra d'Indipendenza il comando dell'esercito britannico a New York si era accordato con un capitano di mare di nome Jackson per fare arrivare in città tremilacinquecento prostitute, reclutate nelle città inglesi per allietare le guarnigioni. Incapace di raggiungere il numero richiesto, lo zelante Jackson aveva fatto rotta verso le Indie occidentali raccogliendo quattrocento donne di colore per incrementare le reclute inglesi. All'arrivo a New York, le prostitute di colore erano state separate dalle altre donne e alloggiate in alcuni terreni da pascolo nel Greenwich Village chiamati Lispenard's Meadows. Quando gli inglesi furono cacciati da New
York durante la guerra d'Indipendenza, le donne, temendo rappresaglie, abbandonarono Manhattan, e si spinsero verso nord nella valle dell'Hudson, dove erano venute a sapere, probabilmente da alcuni disertori tedeschi, che le Ramapo erano un paradiso per rifugiati, avventurieri olandesi e ogni altro tipo di canaglie. I vicini ovviamente li disprezzavano, vuoi perché erano tedeschi oppure simpatizzanti degli inglesi, vuoi per il sangue misto o perché neri di pelle o indiani o fuorilegge, insomma per tutte queste cose messe assieme. «E mi sta dicendo che questa gente è ancora lassù?» domandò Corso quando Rosen ebbe finito. «Isolati... a cinquanta chilometri da Manhattan?» «Forse cinquecento persone. Tutte imparentate tra loro» rispose Rosen. «Per lo più con cognomi olandesi come de Fries, van der Donk e Mann. Roba del genere.» «Quando dice imparentati» lo interruppe Meg. «Intende...» Rosen annuì. «La genetica non è mai stata amica dei Jackson White. Il loro isolamento ha dato vita ad alcune gravi anomalie congenite. Sono particolarmente comuni la sindattilia e la polidattilia, cioè le dita delle mani e dei piedi unite o in eccesso...» Si guardò una mano. «Inoltre un sacco di albinismo, disturbi e ritardi mentali... chi più ne ha più ne metta.» «Come mai è diventato un esperto in materia?» domandò Corso. «Nel 1963 furono obbligati per legge a mandare i figli alle scuole pubbliche. Ero studente alla Mahwah High School.» Il volto assunse uno sguardo nostalgico. «C'era una ragazza, Justine de Vries.» Scosse il capo. «La creatura più esotica che avessi mai visto. Cominciai a passare un sacco di tempo lassù. Armi dopo, quando ebbi bisogno di un argomento per la tesi...» allargò le mani come a scusarsi. «Il resto, come si dice, è storia.» «E dov'è adesso la ragazza?» chiese Meg. Un'ombra di tristezza oscurò il volto del docente. «Ancora lassù da qualche parte, credo.» Sembrò sentirsi in dovere di dare una spiegazione. «Ho sentito che ha sposato un tizio di nome van Dykan. Dopo quell'estate, ci siamo persi di vista. A quei tempi non era proprio possibile, sapete, un ebreo e una Jackson White... Non era... i miei genitori erano liberali e tutto, ma...» Deglutì imbarazzato. «Non la vedo da quasi trent'anni.» Fece una smorfia. «Forse è meglio così.» Il silenzio che seguì venne finalmente spezzato dallo scalpiccio dei piedi e dalle voci nell'atrio. Gli studenti cambiavano aula. Rosen guardò l'orologio a muro: le dieci e trenta. «Devo andare a lezione» annunciò. Per un at-
timo sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, poi cambiò idea. Corso e Meg gli strinsero la mano, ringraziandolo per la disponibilità. Rosen fece per uscire dall'aula. Poi si fermò. «Non vado lassù da dieci anni» mormorò con aria assente. «Da quando è morta Arlene... mia moglie. Lei...» Stavano per sorbirsi la storia della morte di Arlene e della loro felicità coniugale. Corso ne era certo, quindi si affrettò a chiedere: «Come facciamo ad arrivare lassù?». Rosen ci rifletté qualche secondo. Controllò di nuovo l'orologio. «Volete andarci, eh? Dove un tempo sorgeva Smithville.» Corso e Meg annuirono. «Trovatevi nel mio ufficio a mezzogiorno.» 17 Più che una strada vera e propria, sembrava una sottile linea nera fra un intrico di querce, pini e cedri dell'Atlantico, i cui rami contorti si libravano al di sopra del terreno come antichi archi a volta. Il sole spuntava a intermittenza, creando l'effetto ottico di un caleidoscopio sul parabrezza della Ford. Rosen parlava ininterrottamente, come per farsi coraggio, mentre Corso spingeva la macchina in salita, un tornante dopo l'altro. «Tanto vale iniziare dall'emporio. È più o meno il centro dell'universo nella Ramapo.» «C'è un emporio quassù?» domandò Meg dal sedile posteriore. «C'è un emporio, una caserma dei vigili del fuoco... una chiesa, un ufficio postale... persino uno spaccio di liquori. Tutti i servizi di prima necessità. Il negozio è stato aperto nel 1830 con il nome di Van Dynes Dry Goods. Ha cambiato talmente tanti proprietari che i locali hanno rinunciato a dargli un nome. Se sentite uno di loro dire che va all'emporio... è lì che è diretto.» Corso inserì una marcia bassa. La strada, partita a due corsie, nel giro di dieci chilometri si era trasformata in una mulattiera sempre più ripida che serpeggiava attorno alla collina. «Al giorno d'oggi i ragazzi non vivono più in isolamento dal resto della comunità. Il modello demografico si è molto diversificato. Vanno alle scuole pubbliche ormai da tre generazioni e non sono più così diversi dagli altri ragazzini. Molti di loro abbandonano la zona per andare a vivere giù in pianura.»
«Dov'era Smithville rispetto all'emporio?» domandò Meg. «Più a nord, nello stato di New York.» Puntò un dito verso il finestrino. «Circa quindici chilometri in quella direzione, verso il confine della contea di Rockland.» Si girò per guardarla in viso. «Persino per gli standard dei Jackson White, Smithville era fuori del mondo,» affermò, «nella zona di confine, all'estremo nord. I ragazzi del paese andavano a scuola a Mahwah. Ho sentito dire che l'intera cittadina era un'unica famiglia allargata. Quaranta, cinquanta persone, tutti con lo stesso cognome. Un vero e proprio clan. Si diceva che fossero ostili con i forestieri, forse anche pericolosi, perciò lei... Justine... era...» Per un attimo si guardò attorno nell'abitacolo, perso nei ricordi. «La ragazza esotica del liceo» gli venne in aiuto Meg. Le parole sembrarono strappare Rosen dalle sue fantasticherie. «Sì. Io ero impaziente di andare a Smithville. Sarebbe stato come scoprire una tribù amazzonica scomparsa o roba del genere. Ma non mi ha mai voluto accompagnare lassù. A quanto pareva il suo clan e quello di Smithville avevano avuto una lite. Mi raccontò che la sua famiglia non aveva fatto altro che ripeterle di tenersi alla larga da quella gente, come se ci fosse qualcosa di marcio in loro, ma che nessuno le aveva mai voluto dire di cosa si trattasse esattamente.» Una volta giunti in cima alla salita, gli alberi si diradarono e il parabrezza si tinse d'improvviso del chiaro azzurro del cielo. Le ruote anteriori sembrarono librarsi da terra per una frazione di secondo, per poi riabbassarsi nuovamente con un sobbalzo. Istintivamente, sia Meg sia Rosen afferrarono la maniglia della portiera, fissando increduli la cittadina che si presentò ai loro occhi nella radura. A prima vista Fredrikstown sembrava più piccola di quanto non fosse. Per prima cosa videro la stazione di benzina, il grande cartello verde e rosso che indicava la località, poi l'ufficio postale, lo spaccio di liquori e in lontananza la caserma dei pompieri. Solo in un secondo momento notarono le sette case di legno, un po' arretrate rispetto alla strada, poste a ventaglio da entrambi i lati degli edifici commerciali. Con i tetti verdi di muschio, le facciate venate di grigio e bianco, le piccole staccionate e i giardini ben tenuti, le case facevano da contrappunto al prevalente squallore rurale, dando una parvenza di rispettabilità che mancava altrimenti allo scenario. Solo dopo essere sceso dalla macchina ed essersi guardato intorno, Corso si avvide delle altre abitazioni nascoste all'estremità della radura. Un e-
same accurato a trecentosessanta gradi rivelò una dozzina di case e cinque o sei camper sparsi in mezzo agli alberi. Contando anche qualche casa in più, probabilmente nascosta alla vista, Corso calcolò approssimativamente centocinquanta abitanti. Quasi un terzo dell'intera popolazione dei Jackson White, se le cifre di Rosen erano esatte. «Stupefacente» esclamò Meg dal sedile posteriore. «Sembra di essere nella città dei Flinstones.» Corso ridacchiò, stirandosi la schiena. Rosen trasalì. «Mi raccomando di non dire mai una cosa del genere davanti a loro. Non solo questa gente non pensa di essere bizzarra, ma nel corso degli anni i loro contatti con i forestieri sono stati tutt'altro che positivi... perciò tendono ad essere un po' suscettibili.» Un trio di pick-up impolverati era parcheggiato a spina di pesce di fronte all'ufficio postale. L'emporio occupava il centro dell'edificio. Le scale di cemento armato che conducevano all'ingresso del locale erano state costruite in ampiezza, per offrire un comodo accesso da tutte le direzioni. Seguirono Rosen, che si era incamminato verso l'entrata. Scaffali a tutt'altezza. Scale scorrevoli lungo ogni parete. Un paio di quelle prolunghe di legno con artigli metallici per afferrare la merce dagli scaffali in alto lasciandola poi cadere nei grembiuli tesi. Insomma, quel tipo di negozio che oggi si vede solo nei film. Nastro isolante e cassetta del pronto soccorso. Noce moscata e legno a doghe. Fucili da caccia e pane integrale. Basta chiedere. Sembrava una giornata tranquilla. A parte una coppia sui sessant'anni, il posto era vuoto. Musica gospel filtrava da una radiolina bianca di plastica. Dietro al bancone, l'uomo e la donna stavano rifornendo gli scaffali. Fu l'uomo ad accorgersi per primo di loro. Aveva perso gran parte dei capelli, ma si era fatto crescere i pochi ciuffi rimasti fino alle spalle. «Ilta» mormorò. La donna finì di sistemare una lattina di latte condensato sullo scaffale prima di voltarsi. Il suo sguardo passò da Corso a Meg, per posarsi infine su Rosen, dove i suoi occhi ebbero un lieve fremito. Era tanto esile quanto l'uomo era paffuto. Lunghi capelli grigi raccolti in una crocchia. Il naso aquilino che puntava con determinazione verso Rosen. «Mi ricordo di te» sentenziò. «Sei quello che scodinzolava dietro alla ragazza degli Hewlitt.» E siccome Rosen non negò, si mise a frugare ancora nei suoi ricordi. «Sei tornato anche dopo, diverse volte, se non mi sbaglio. A studiarci.» «È quello che scrive su di noi?» domandò il vecchio.
«Proprio lui.» «Randy Rosen» si presentò il professore, porgendo la mano all'uomo che, per tutta risposta, si voltò dall'altra parte. Rosen deglutì imbarazzato e fece le presentazioni: Ilta e Hiram Woolfe. «Cos'è venuto a fare quassù?» chiese l'uomo. «Di nuovo a esaminarci come insetti al microscopio? È tornato per questo?» «No, signore, assolutamente» rispose Rosen in tono affabile. «Allora perché?» domandò l'uomo anziano. «Sto cercando delle informazioni su una ragazza di Smithville.» La risposta sembrò tranquillizzarli. «Quel posto non c'è più» esclamò Ilta Woolfe. «Da più di trent'anni. Fine delle trasmissioni.» «Il giorno prima c'era e il giorno dopo... sparito» proseguì il marito. Quando si voltò verso di loro, il suo sguardo era sprezzante. «Brava gente. Che badava ai fatti propri. Non si occupava d'altro che dei fatti propri.» Rosen sembrò disorientato per un attimo e Corso si affrettò a intervenire. «E allora come ha fatto una comunità così riservata a scomparire nel giro di una notte?» «È cominciato tutto con quel Parker» rispose la donna. «Se ben ricordo è stata quella faccenda a segnare l'inizio della fine per Smithville.» Rosen si voltò verso Meg e Corso. «Vi ricordate di Richard Leon Parker?» domandò. Meg scosse la testa, ma Corso annuì. «Il serial killer.» «Ha ucciso un sacco di ragazze in questa zona» proseguì Ilta Woolfe. «Nella zona a nord dello stato. Ammazzò anche una ragazza di Smithville, si chiamava Velma de Groot.» Si toccò la tempia con un dito. «Poverina. Non c'era tutta con la testa, non so se mi spiego. Quel Parker la rimorchiò alla fermata dell'autobus... la sua famiglia diede la colpa al governo per quel che le era successo. E quelli di Smithville smisero di mandare i loro ragazzi alle scuole in città.» Corso si ricordava bene di Richard Leon Parker. Era stato il principale indiziato per una serie di stupri e omicidi raccapriccianti. Studentesse. A quanto gli sembrava di ricordare, l'uomo era sui trent'anni. Si era impiccato in cella prima che potessero processarlo, forse per vergogna, in modo che nessuno potesse essere sicuro di quel che aveva o non aveva fatto; o per estrema crudeltà, per lasciare i parenti delle vittime senza neanche la misera consolazione di vedere fatta giustizia. «Non sarebbe mai successo se il governo ci avesse lasciati in pace» sog-
giunse il marito. «Ce la cavavamo fin troppo bene senza di loro, le loro dannate leggi e le loro dannate scuole.» Sua moglie alzò gli occhi al cielo. «Non appena smisero di mandare i figli a scuola, arrivarono gli assistenti sociali e subito dopo i poliziotti...» «Quegli stessi poliziotti che avrebbero dovuto dare la caccia all'assassino di quella povera ragazza de Groot. Invece di ficcare il naso in quel che non li riguardava.» Rosen agitò un dito verso la coppia. «Esatto» esclamò. «Si chiamava de Groot. Era il nome più comune a Smithville... de Groot.» «Era l'unico nome a Smithville» ribatté secco l'uomo. Rosen si accigliò. «Che anni erano?» domandò. Ilta Woolfe sporse in fuori il labbro inferiore, riflettendo. «Sessantotto, sessantanove, giù di lì.» «Ilta ha ragione» confermò il marito. «Me lo ricordo perché è più o meno in quel periodo che alcuni hippy di pianura pensarono bene di unirsi a noi sulle colline.» La bocca gli si allargò in un sorriso. «Scoprirono in fretta che era meglio tornarsene da dove erano venuti.» Si batté una mano sulla coscia, divertito. «Molto in fretta.» «E non è rimasto più niente della cittadina?» domandò Rosen. I due scossero il capo. «Ammassi di rifiuti» rispose la donna. «Vecchie palizzate rotte.» «Solo cadaveri de Groot, da quelle parti» soggiunse l'uomo con un sorriso maligno. «Il cimitero è tutto ciò che ne è rimasto» confermò la moglie. «Un bel casino, ecco cos'è stato» proseguì l'uomo. «Erano persone che non facevano niente di male se non baciare ai fatti propri e all'improvviso sono spuntati poliziotti dappertutto a impartire ordini a tutti. E in men che non si dica un sacco di gente finisce in galera e l'intera città sparisce nel nulla. Ormai non si trova un de Groot in tutta la zona. Era il nome più comune e oggi, tranne il vecchio Rodney, non ce n'è più neanche uno da queste parti.» Sua moglie lo interruppe. «Se volete sapere qualcosa di Smithville, andate a trovare Rodney de Groot. È l'unico sopravvissuto. Adesso vive al lago Sterling. Sulla costa sud. Se c'è qualcuno che può sapere cosa sia veramente successo a Smithville, quello è lui. Era lì quando la comunità si è sfaldata. È l'unico a sapere cosa sia successo.» «Siete sicuri che viva ancora lassù?» domandò Rosen. Il vecchio sbuffò. «Ma certo. Dove altro dovrebbe essere?» Ridacchiò
un'ultima volta e tornò a riempire gli scaffali. «Non potrebbe farci uno schizzo della strada da seguire?» chiese Rosen. La donna indicò il marito con un dito. «Hiram vi può aiutare. Non sono brava a dare indicazioni. Ho vissuto qui tuttala vita e non ho alcun senso dell'orientamento.» Il vecchio non aveva molta voglia di collaborare, ma dopo qualche borbottio accompagnò Rosen fino a una vecchia mappa in bianco e nero appesa al muro. «Ora, presta attenzione» disse alzando un dito ossuto. «Perché te lo farò vedere solo una volta.» La donna era tornata al lavoro. Meg le si avvicinò. «Si ricorda quella ragazza che il professor Rosen corteggiava?» domandò rivolta alla sua schiena. Ilta Woolfe improvvisamente si fermò, e quello fu l'unico segno che avesse sentito la domanda. Lanciò una rapida occhiata verso la mappa sulla quale suo marito stava tracciando la strada, mentre Rosen prendeva appunti. Poi si voltò. «Forse.» Lo disse come se il solo ammettere l'esistenza di una persona violasse qualche codice non scritto delle montagne. «Sa dove trovarla?» chiese Meg. Gli occhi della donna saettarono di nuovo verso il marito, per poi tornare a fissarsi nei suoi. «Ci pensa ancora, eh? Dopo tutti questi anni.» «Credo di sì.» La fissò negli occhi per un lungo istante. «Le donne si accorgono sempre di certe cose, vero?» mormorò. Meg annuì. Rosen si stava infilando in tasca l'agendina, tentando di ringraziare il vecchio, che non ne voleva sapere. «Non prendetevela con me se vi perdete.» Hiram fece un cenno vago con la mano in aria. «La gente di città viene da queste parti... e senza neanche accorgersene...» La donna le fece cenno di avvicinarsi, per sussurrarle nell'orecchio: «È morta nell'ottantotto. Tumore al cervello». Lanciò un'occhiata a Rosen che stava tornando. «Glielo dirà?» chiese. Meg scosse il capo. «Io no di certo» rispose. 18 La casa di Rodney de Groot sorgeva su una strada non asfaltata che costeggiava la riva meridionale del lago Sterling, un nastro di acqua scura oleosa che aveva subito la trasformazione in quartiere residenziale lungo la costa nord, ma che dalla parte di Rodney rimaneva fermamente ancorata al
diciannovesimo secolo. La proprietà si estendeva fino alla riva del lago, ma un fitto bosco di cedri ne impediva la vista, come si fosse scelto di sacrificarla in nome della privacy. Era un cottage a due piani. In alcuni punti il rivestimento esterno era venuto via, rivelando le originali assi di legno di cedro. Il cortile, ricoperto di vegetazione incolta, era ingombro di macchine d'epoca. Una issata su una piattaforma. Due rovesciate di traverso. Il modello più recente era una Chevy Impala, parcheggiata di fronte alla porta di casa. A quanto pareva Rodney amava anche collezionare anticaglie, dato che qua e là, nell'erba, erano sparpagliati diversi oggetti: un paio di vecchi frigoriferi, una lavatrice a manovella, un aspirapolvere e i resti di un flipper. La cosa che attrasse l'attenzione di Corso fu l'insolito accostamento al centro del cortile: una pompa a mano rossa su una pedana di legno, accanto a un'antenna satellitare fissata a un'asta d'acciaio alta tre metri. Corso arrestò la Ford dietro a un pick-up Studebaker rosso e nero che aveva visto tempi migliori. Attraverso il lunotto posteriore, riuscì a vedere un fucile ad alta precisione munito di telescopio appeso a una rastrelliera. Scese dalla macchina, guardò di nuovo la pompa a mano e sorrise fra sé e sé. A sinistra della porta d'ingresso, vide un uomo con una massa di lunghi capelli arruffati che se ne stava seduto su una robusta asse di legno sostenuta da un paio di taniche di benzina e si rollava una sigaretta. Rosen si portò le mani a coppa intorno alla bocca, senza avvicinarsi. «È lei Rodney de Groot?» gridò. L'uomo sul portico diede un impercettibile cenno con la testa, abbassando poi lo sguardo sulla sigaretta che teneva in mano. «Ehi» tentò di nuovo Rosen. Il tizio si portò la sigaretta alla bocca e leccò la cartina, confermando, se ancora ci fossero stati dei dubbi, che non avrebbero ottenuto altro da lui, se non il cenno della testa. Un uomo dai tratti afroamericani apparve sulla porta. Capelli bianchi, un corpo atletico e muscoloso, si muoveva con un'agilità che nascondeva l'età avanzata. Indossava una maglietta rossa sbiadita cui da tempo era stato strappato il taschino, e un paio di sudici calzoncini bianchi. Quando parlò, il vapore che gli uscì di bocca si trasformò in una piuma bianca nell'aria gelida. «Non statevene lì fuori a sbraitare» tuonò. «Entrate, una buona volta.» Detto questo, si voltò e scomparve rapidamente all'interno della casa, lasciandosi alle spalle solo le sottili tracce del suo respiro.
In fila indiana, i tre si incamminarono sul sentiero sconnesso che portava alla casa. L'uomo sul portico non mosse neanche un muscolo fino a che Rosen non lo raggiunse. La testa era troppo piccola rispetto al corpo. Aveva un viso sottile e appuntito e vividi occhi blu. Da vicino sembrava più giovane di come era apparso dalla macchina. Indossava un cappellino di pelle con visiera che si era scurito con il passare degli anni. Di pelle era anche il nastro intrecciato alle asole della camicia di jeans. Portava dei pantaloni di tela e un paio di logori stivali da lavoro. Mentre il terzetto saliva i gradini del portico, distolse lo sguardo, rifiutandosi di riconoscere la loro presenza. «Bella giornata» azzardò Corso mentre passava. L'uomo lo guardò con occhi insolenti. «Se lo dici tu.» I baffi e le dita erano ingialliti dalla nicotina. Lanciò la sigaretta in aria e l'afferrò con l'angolo della bocca, usando contemporaneamente il pollice per accendere un fiammifero. Compiaciuto del suo giochetto, fece un lungo tiro espellendo il fumo dalle narici. Sempre tenendo lo sguardo fisso su Corso, sputò per terra e poi con un breve sorriso voltò le spalle alla porta. Corso seguì gli altri all'interno e si voltò per chiudere la porta. «Lasciala aperta» disse Rodney de Groot. «Così passa l'aria.» Il cottage era a forma di L. Davanti all'ingresso c'era la cucina. Rodney era seduto a un tavolo di linoleum giallo, davanti a una braciola di maiale, patatine fritte e pane bianco. Al centro del locale troneggiava un'enorme caldaia a carbone da cui irradiavano bagliori di fuoco in tutte le direzioni. Sulla destra, la stanza era delimitata da divani logori ma dall'aria comoda e da sedie di tutte le fogge, mentre all'estremità opposta troneggiava un grande televisore Toshiba a schermo piatto. CNN. Sottotitoli che scorrevano sullo schermo e, in primo piano, Yasser Arafat che teneva un discorso. De Groot propose di cucinare per tutti braciole di maiale, disse che c'era pane bianco a volontà, ma sembrò abbastanza sollevato che nessuno accettasse la sua offerta. «Anche io non amo mangiare se non ho appetito» dichiarò. «Spero non vi dispiaccia se intanto finisco.» Si ficcò in bocca una forchettata di patate e, masticando rumorosamente, fece un gesto circolare con il braccio. «Trovatevi una sedia» disse. «Non sono abituato a ricevere molte visite. Talvolta qualche turista che si è perso... o qualcuno dei nuovi residenti della zona... ma nessuno che cerchi proprio Rodney de Groot.» Corso, Rosen e Dougherty si misero a sedere. Per i successivi cinque minuti rimasero in silenzio a osservarlo mangiare. Si interruppe in due occasioni, ma solo per versarsi dell'acqua da una brocca, poi riprese a masti-
care. Una volta ripulito il piatto, Rodney lo allontanò da sé e si appoggiò allo schienale fino a far sollevare da terra le gambe anteriori della sedia. «Dunque» esclamò, allacciandosi le mani sullo stomaco «ne avete fatta di strada per arrivare fino a qui. Cosa posso fare per voi?» «Speravamo ci potesse raccontare qualcosa di Smithville» esordì Rosen. Rodney de Groot spalancò gli occhi. Lentamente riportò le gambe della sedia sul pavimento e si alzò in piedi. Il viso, solcato da profonde rughe, era duro e inespressivo. «Morta e sepolta» disse. «Non ne è rimasto più niente.» Il tono era secco e le parole definitive, come se Smithville non si potesse più neanche nominare. Si piazzò le mani sui fianchi e rimase a fissare la porta aperta finché Corso non interruppe i suoi ricordi. «È proprio di questo che volevamo parlarle» spiegò. «Verso la fine degli anni Sessanta quel tizio, Parker, uccise una ragazza di Smithville e da quel momento la comunità iniziò a sfaldarsi fino a dissolversi.» «Era il maggio del sessantotto» disse Rodney. «Uscivamo da un inverno di siccità. Non era ancora estate, ma i boschi erano già in fiamme...» Andò avanti per venti minuti. Sembrava conoscesse ogni abitante di Smithville, i bambini, le famiglie, tutti quanti. Interruppe il racconto solo per infilarsi uno stuzzicadenti in bocca, poi riprese a parlare, quando tutto a un tratto la sua sicurezza parve sul punto di vacillare. Cominciò a guardarsi attorno come se udisse altre voci. I suoi fantasmi. Chinò la testa. «Erano persone che vivevano la loro vita come avevano sempre fatto. Nello stesso modo in cui avevano vissuto i loro genitori, nonni, antenati... come l'avevano vissuta tutti... in passato.» Lo disse con enfasi, per sancire la conclusione definitiva del racconto. E subito parve imbarazzato, come se avesse dato prova di cattivo gusto e rimpiangesse ogni singola parola pronunciata. Trasse un profondo respiro. «Ed ecco che all'improvviso qualcuno decise che il loro stile di vita non andava bene. E non ci fu più niente da fare. Chi non decise di trasferirsi... finì ucciso o in galera.» Il tono era indignato, ma le parole sembravano prive di convinzione. Corso lo percepì immediatamente. E anche Meg, che si sporse in avanti incrociando lo sguardo di Rodney. «In prigione per quale reato?» domandò. L'uomo sventolò una mano davanti al viso come per scacciare una mosca. «Tutta una serie di cose» disse. «La situazione era sfuggita di mano.» «In che senso?» insistette Meg.
«Le persone cominciarono a odiarsi. Fratelli contro fratelli. Figli contro genitori... e poi gli assistenti sociali che facevano intervenire la legge.» Scosse il capo disgustato. «Tutto è andato in pezzi.» Fece schioccare le dita. «Così.» «Durante quel periodo» intervenne Corso «si ricorda se c'è stato un incendio a Smithville? Un'intera famiglia rimasta intrappolata nelle fiamme di casa?» Rodney si portò un dito alle labbra con aria preoccupata. Il silenzio cadde nella stanza mentre si dirigeva in punta di piedi alla porta, ne afferrava la maniglia come a volerla chiudere e poi, ripensandoci, dava una veloce sbirciata all'esterno. Si voltò con il viso notevolmente sollevato e, lasciandosi alle spalle la porta spalancata, esclamò: «Il ragazzo se n'è andato. È fatto così. Un minuto è qui, e l'attimo dopo è scomparso da qualche parte nei boschi». Rodney tornò al tavolo. Voltò la sedia e si sedette a cavalcioni, appoggiando le braccia sullo schienale. «Tommie de Groot» spiegò «il figlio di mia cugina Jeannine. La notte in cui scoppiò l'incendio era in ospedale. È l'unico superstite.» Rodney lasciò vagare lo sguardo sui loro volti confusi. «Avvelenamento da cibo» spiegò. «Gli salvò la vita.» Vedendo che le sue parole non dissipavano la confusione del terzetto, sospirò. «Proprio in quel periodo, mentre Smithville andava in rovina» si interruppe un istante per assicurarsi che lo seguissero, «l'intera famiglia di Tommie bruciò viva in un incendio. Mia cugina Jeannine e suo marito, Paul. E anche tre dei loro quattro figli.» Contò sulle dita. «James, Christopher e la ragazzina, Leslie Louise.» Schioccò nuovamente le dita. «Tutti andati, in un istante.» «Quanti anni aveva la ragazza?» domandò Meg. Rodney continuò, fingendo di non aver sentito. «Continuo a ripetermi che forse è stato meglio così.» Cercò approvazione nello sguardo dei suoi ospiti, ma non la trovò. «Erano proprio nel pieno del casino. E non ne sarebbe venuto fuori niente di buono. Non hanno assistito alla fine di tutto...» Gli occhi guardavano nel vuoto. «Per come si sono messe poi le cose... meglio finire al cimitero con tutta la famiglia» concluse. «Meglio di cosa?» si informò Corso. Di nuovo, Rodney ignorò la domanda. «L'unico sopravvissuto fu il povero Tommie. Rimase solo, io ero l'unico parente su cui potesse contare. Quando si calmarono le acque, i servizi sociali lo diedero in affidamento per un paio d'anni. Poi fu il mio turno. Da allora è sempre stato con me.»
Lanciò uno sguardo di sfida ai visitatori. «Non c'era altro da fare. Ero l'unica famiglia che aveva. Non potevo certo voltare le spalle a un bambino di sei anni, no?» Indicò un punto alle spalle di Rosen. «Gli ho costruito un casolare dall'altra parte della collina, ma passa la maggior parte del tempo qui.» Fece una smorfia. «Non si può biasimarlo se cerca un po' di compagnia, non vi pare? Dopo tutto quello che gli è successo è naturale.» Questa volta ottenne l'approvazione che cercava. A quel punto si sentì in dovere di fornire altre spiegazioni. «Tommie è stato un po' di tempo nei Marines. È vero, ogni tanto se ne va in giro. È un falegname provetto e il miglior tiratore della zona. Conosce queste dannate montagne come le sue tasche!» si accalorò. «Ogni estate prende quel suo vecchio pick-up e va a trovare degli amici nell'Idaho. Ragazzi con cui è andato a scuola. Si concede una visita dal barbiere, barba, capelli e tutto il resto.» Sembrò rinchiudersi in se stesso per un istante. «Non è come tutti gli altri, che hanno abbandonato queste montagne per sempre...» Si avvicinò alla porta e guardò fuori. L'assenza del ragazzo sembrava preoccuparlo. «Già... Tommie se ne va in giro ogni tanto, ma poi torna. Dopo un paio di settimane. Torna sempre.» «Non mi è ancora ben chiaro...» si intromise Corso. Rodney lo zittì con un gesto della mano e poi uscì sul portico. Ne aveva abbastanza di chiacchiere. «Sto invecchiando» mormorò. «Seduto qui a blaterare come una vecchia, a parlare dei morti invece che occuparmi delle mie faccende.» Rientrò e si fermò accanto alla porta. Era troppo gentile per chiedere loro di andarsene, ma il colloquio era finito. Li ringraziò per la visita. Mentre Rosen e Meg si avviavano alla macchina, Corso si avvicinò alla pompa. Una tazza di metallo blu pendeva da una cordicella arrugginita. Una brocca piena d'acqua era appoggiata accanto al manico. Corso lo azionò e dopo un paio di spinte a vuoto si riempì la tazza d'acqua. Bevve avidamente, lasciandosi scorrere il liquido freddo sul mento. Rimise a posto la tazza, annuì in segno di saluto verso Rodney de Groot e si avviò alla macchina. «Grazie per l'acqua» gridò. Il vecchio scoppiò a ridere. «Non è di mia proprietà» ribatté. «È acqua del Signore, ecco cos'è. Se proprio vuole ringraziare qualcuno... è a Lui che si deve rivolgere.» 19
Il pick-up Studebaker era sparito. E a tutta velocità, a quanto sembrava. Un paio di strisce nerastre segnavano il punto in cui Tommie de Groot doveva aver fatto manovra per imboccare il viale d'uscita. Meg si allacciò la cintura di sicurezza. «Forse Rodney ha ragione» convenne. «Forse i morti devono essere lasciati in pace.» Rosen sembrava d'accordo con lei. Guardò l'orologio. «Tra circa un'ora farà buio» annunciò. «E se a voi non dispiace, non vorrei trovarmi da queste parti quando cala il sole.» «Quanto dista Smithville da qui?» domandò Corso. «È dall'altra parte della collina» disse Rosen. «Facciamo in tempo ad arrivarci?» Il professore sembrava esausto e anche leggermente spaventato. «Immagino di sì» sospirò. Corso girò la chiave e il motore si avviò con un ruggito. «Da che parte?» domandò. «Usciti dal vialetto a sinistra» rispose Rosen, che continuò poi a parlare durante tutto il tragitto. Dava l'impressione di voler riempire il silenzio con la propria voce, di volerlo tenere sotto controllo con un costante flusso di parole. A metà di un ripida salita, Corso scorse un bagliore metallico nello specchietto retrovisore. Pigiò sui freni e si voltò a controllare la strada. «Che c'è?» domandò Meg. «Mi sembrava di aver visto qualcuno alle nostre spalle.» Tutti si girarono a guardare dal lunotto posteriore, ma di qualunque cosa si fosse trattato, non c'era più traccia. Corso sollevò il piede dal freno e avviò la macchina su per la collina. Rosen riprese a chiacchierare dicendo che aveva sempre desiderato visitare Smithville, ma Justine non ne aveva mai voluto sentir parlare. Poi si interruppe. «Ma ve l'ho già raccontato, vero?» domandò. «Non le è mai venuto in mente di tornare a cercarla?» domandò Corso. Meg trattenne il fiato e si voltò verso il finestrino. Rosen sembrò sorpreso dalla domanda. «No, io... voglio dire... sono certo che...» «Magari anche Justine desidererebbe rivederla» proseguì Corso. «Con le donne, non si sa mai.» Rosen mormorò qualcosa a proposito di treni persi. Sul sedile posteriore, Meg si morse le labbra cercando di non ascoltare. Avrebbe voluto tapparsi le orecchie e urlare così forte da non sentire più la conversazione fra i due
uomini. Corso arrestò la macchina davanti a un bivio. Rosen consultò gli appunti. «A destra» disse infine. «Smithville dovrebbe essere alla fine di questa strada.» Corso ubbidì. Per un chilometro e mezzo si dovettero sorbire una lezione di vita da Rosen, che aveva preso a ragionare ad alta voce su come l'intera esistenza possa essere determinata da decisioni e scelte anche insignificanti, prese in tutta fretta senza riflettere. Aveva passato così tanto tempo a insegnare ai ragazzini, che non gli passava neanche per l'anticamera del cervello di non avere argomenti particolarmente originali. Il solo fatto di poter parlare in pubblico, lo riempiva di soddisfazione. Corso accese la radio ma non ne uscì nient'altro che un fruscio, perciò la spense con un gesto di stizza. D'un tratto, sulla destra comparve un recinto di rami di cedro intrecciati, una versione primitiva ma robusta di una staccionata in legno. Cinquanta metri più in là, un ampio spiazzo sfociava in un angusto sentiero che portava al cimitero. Corso fermò la macchina. Niente mausolei. Niente angeli vendicatori. Solo semplici lapidi e croci di legno. Le tombe dei de Groot. Sembrava che nessuno si fosse mai avventurato oltre il cimitero. Da lì in avanti, infatti, la strada era per lo più nascosta da una fitta vegetazione, un intreccio inestricabile di erba, cespugli, radici e rami che parevano voler impedire il passaggio. Rosen sembrava nervoso. «Che ne dite?» domandò, sperando che fossero entrambi d'accordo di voltare la macchina e andarsene. Corso, però, non era della stessa idea e, pigiando sull'acceleratore, rispose: «Dico che daremo un altro bel grattacapo alla Hertz». La Ford si fece strada fra gli arbusti mentre un migliaio di unghie affilate raschiava la carrozzeria. Mezzo chilometro dopo la vegetazione si assottigliò. La macchina fece un ultimo balzo e atterrò planando in una radura. O, meglio, in un cul-desac, visto che lo spiazzo segnava la fine della strada. Smithville, probabilmente. I coniugi Woolfe e Rodney de Groot avevano ragione. Non era rimasto più niente. Solo vecchie fondamenta ricoperte di muschio e una sparuta recinzione che faceva da sentinella nella luce crepuscolare. Corso mise in folle e scese dalla macchina, lasciando il motore acceso. Cominciava a piovigginare. Meg lo seguì e lo prese sotto braccio. Insieme vagarono tra le macerie. «Sono passati appena trent'anni» gli disse.
«Dovrebbero esserci più cose.» Fece un gesto circolare con la mano. «Sai, cianfrusaglie, case in rovina e roba del genere.» Corso si fermò. La guardò e sorrise. «Sì... hai proprio ragione.» La prese per mano, fece qualche passo e poi si accovacciò, facendola chinare accanto a sé. Cominciò a scavare a mani nude. Sotto la superficie gelata il terriccio era morbido. Corso ne sollevò una manciata, annusandolo. Poi ricominciò a scavare. Più in fondo trovò uno strato di terreno annerito. Di nuovo lo portò alle narici. Questa volta sorrise. Aprì la mano e gliela avvicinò al volto. «Che odore senti?» chiese. Meg annusò, prima titubante, poi con maggior convinzione. «Fuoco» rispose. «Sento odore di fuoco.» Ritornarono alla macchina. Rosen aveva messo in moto i tergicristalli e li stava osservando con attenzione, chinato in avanti sul sedile. Corso si mise a scavare a ridosso delle fondamenta. Estrasse la mano dalla terra e la fece scorrere sul muro di pietra. Apparve una lunga striscia nerastra. «Quassù è successo qualcosa di cui nessuno vuole parlare» mormorò. «Qualcosa di così grave da mettere a fuoco un'intera città.» Il professore diede un colpo di clacson. Fece loro segno che si stava facendo tardi. Meg afferrò Corso per un braccio. «Dovresti smettere di fare il nostalgico con Rosen» gli sussurrò. «La montanara dei suoi sogni è morta ormai da anni.» Corso si voltò dall'altra parte con un'espressione addolorata. «Dannazione» borbottò scuotendo la testa. «Così imparo a fare l'ottimista.» «Conferma la tua teoria che il miglior modo per vincere le tentazioni è cedervi.» Le mise una mano intorno alle spalle e la accompagnò fino alla macchina. «La prossima volta che mi comporto da inguaribile romantico, fammelo presente» disse. L'interno dell'abitacolo era caldo. Rosen sembrò sollevato vedendo Corso mettere in moto e fare inversione. Ma il suo sollievo durò solo fino all'entrata del cimitero di Smithville. Corso pigiò sul freno e si voltò verso il professore. «Lascio il motore acceso per lei» gli disse. Rosen sembrava non avere obiezioni a restarsene in macchina, ma sentendo che anche lo sportello di Meg si apriva, balzò giù a sua volta. «Tanto vale dare un'occhiata, visto che siamo arrivati fin qui» affermò. Corso spense il motore e chiuse le portiere con il dispositivo automatico. Poi fece loro un segno come a dire «dopo di voi», e li seguì lungo il sentie-
ro. Il cimitero era un piccolo appezzamento di terra che, a confronto con quello di Allentown, sarebbe passato del tutto inosservato. Una sessantina di tombe in tutto. La più antica risaliva al 1784. Un tizio di nome Wilhelm Van Dunk. Morto a cinquantasette anni. Si incamminarono fra le tombe, tenendosi a distanza rispettosa dalle lapidi e saltellando qua e là per evitare di calpestare i defunti. Naturalmente Rosen non smise un attimo di parlare, mentre la sua voce echeggiava fra gli alberi con un tono misto di esaltazione e nostalgia. L'escursione sulle montagne doveva essere stata per lui un viaggio a ritroso nel passato. Mentre camminava, annunciò di voler riprendere le ricerche sulla popolazione della Ramapo Valley e di voler scoprire, aggiunse con sempre maggiore enfasi, cosa ne fosse stato del suo agognato oggetto del desiderio, Justine de Vries. Nell'entusiasmo del momento, il professore non notò le espressioni dei suoi compagni di viaggio, più che sollevati della sua cecità. Se avessero intrapreso la ricerca partendo dal lato opposto del cimitero, sarebbero incappati subito in quel che cercavano. Invece ci arrivarono alla fine e forse fu meglio così, perché la vista mozzò loro il fiato in gola e tutti fece drizzare i capelli in testa. Cinque tombe in fila, una accanto all'altra. Cinque identiche lapidi in legno, allineate in ordine d'età. Sulla sinistra PAUL DE GROOT, MARITO E PADRE, 1924-1968. Poi a seguire JEANNINE DE GROOT, SPOSA E MADRE, 1926-1968. E infine i ragazzi, JAMES DE GROOT, 1949-1968; CHRISTOPHER DE GROOT, 19501968; e infine, ultima della fila, LESLIE LOUISE, 1951-1968. Le prime quattro tombe erano state oggetto di vandalismo. Ogni lettera e ogni numero dell'iscrizione era segnato con una X nera, come se qualcuno tenesse un punteggio. I nomi e le date erano state poi cancellate orizzontalmente, come estremo atto di rifiuto. Le tombe erano abbandonate e ricoperte di erbacce. Tranne quella di Leslie Louise, che non presentava segni di violenza e che si ergeva su un terreno livellato e sgombro di detriti. Una lattina arrugginita piena d'acqua era stata deposta davanti alla lapide. Conteneva un mazzo di fiori di salice le cui foglie argentate tremavano nella brezza serale. Fu Meg a rompere il silenzio. «C'è qualcuno davvero incazzato da queste parti» mormorò. Nessuno la contraddisse. Alla fine Corso tossì, coprendosi la bocca con la mano. «Erano entrambi de Groot» osservò indicando i coniugi. «Giusto? Rodney de Groot non ha detto che Jeannine era sua cugina?» Meg assentì. «Anche Paul era un de Groot.» Rosen ritrovò la voce. «Probabilmente erano anch'essi cugini» disse. «E-
ra abbastanza comune per...» Meg gli passò davanti e si avvicinò alle lapidi. «Quanti anni pensate che abbia Tommie de Groot, quel tizio seduto sul portico di Rodney?» «Quello sì che è un bell'esemplare di disastro genetico» disse Corso. «Trenta, trentacinque» azzardò Rosen. Corso annuì. «Una bella differenza fra i due ultimi figli» commentò Meg. «La madre aveva quasi quarant'anni quando Tommie è nato» soggiunse Corso. «Un sacco di neonati nascono con delle anomalie quando la madre è avanti con gli anni» affermò Rosen, «Forse questo spiega...» Un rumore dal bosco interruppe bruscamente la conversazione. Si immobilizzarono, respirando a fatica. Poi lentamente si volsero verso il folto di vegetazione che li circondava. In attesa. Scrutando il labirinto di rami intrecciati per localizzare il minimo segno di movimento. Un altro schiocco secco. Questa volta più lontano. E poi un altro. «Andiamocene di qua» esclamò Corso prendendo Meg per un gomito e avviandosi lungo il sentiero in silenzio. Solo quando la macchina riapparve ai loro occhi, ripresero a respirare normalmente. Una volta dentro l'abitacolo, iniziarono a scherzare sulla loro fervida immaginazione, mentre Corso ingranava la retromarcia per tornare sulla strada principale. Ma le risate svanirono quando il pick-up Studebaker rosso e nero si materializzò pochi metri più in là, bloccando il passaggio. «Oh» mormorò Rosen. Quando Tommie de Groot scese dal pick-up stringendo il fucile con entrambe le mani, Corso si abbassò di scatto e prese a strisciare lungo il fondo della vettura per raggiungere il bagagliaio sul retro. Aveva trovato la borsa e stava rovesciandone fuori il contenuto, quando udì lo scatto di una portiera che si apriva. Si voltò in tempo per vedere Rosen che scendeva dalla macchina con le mani in alto. «Giovanotto» esordì il professore. «Le assicuro che noi non...» De Groot non si tolse neanche la sigaretta dall'angolo della bocca per sollevare il fucile e sparare. Prima ancora di udire il rumore assordante del colpo, prima che gli occhi potessero registrare il lampo del proiettile, la parte posteriore della testa di Rosen esplose in uno spruzzo di sangue, ossa e materia cerebrale e il suo corpo venne sbalzato contro la macchina per poi afflosciarsi a terra con le gambe piegate come una bambola di pezza. Con una mano, Corso fece scattare la sicura agli sportelli e con l'altra afferrò la chiusura lampo in fondo alla borsa. «Sbrigati!» urlò rivolto a Meg.
«Porta le chiappe qua dietro!» La donna non se lo fece ripetere due volte. Il tempo che Corso aprisse il portellone posteriore e già era acciambellata per terra al suo fianco, proprio nell'istante in cui partiva un altro colpo. Il proiettile colpì il parabrezza e passò così vicino alla testa di Corso da assordarlo. De Groot nel frattempo aveva coperto metà distanza fra il suo pick-up e la Ford e stava prendendo di nuovo la mira. Corso riuscì finalmente a mettere le mani sulla pistola del vice sceriffo Richardson e si catapultò con una capriola in mezzo alla strada. Mentre atterrava allo scoperto, un altro proiettile centrò la macchina, sibilando sopra le loro teste. Corso si allungò sul ventre sbucando a sinistra della ruota posteriore e sparò un colpo in direzione di de Groot. Mentre tornava di scatto dietro la macchina, sentì lo schianto del proiettile sul metallo e l'inconfondibile fragore di vetri rotti. Appoggiò la faccia per terra, sbirciando da sotto la machina. Come aveva sperato, i passi si stavano allontanando. Allungò una mano e trasse Meg accanto a sé. «Penso che se ne stia andando» bisbigliò. Si drizzò sulle ginocchia e, sbirciando da dietro la Ford, scorse il pick-up rosso e nero allontanarsi sgommando e scomparire in lontananza. «Il professor Rosen» balbettò Meg, aggrappandosi a lui. Corso la fissò a lungo negli occhi e scosse la testa. «Mi dispiace» mormorò prendendola fra le braccia. Rimasero abbracciati sulla terra umida, ascoltando il motore del pick-up che svaniva in lontananza. Solo allora si accorsero del rombo del motore della Ford ancora acceso e della pioggia sulle ultime foglie della stagione. 20 Una persona ammanettata ha solo due possibilità: o si piega completamente in avanti o si sdraia all'indietro sul sedile, ed era così che Corso aveva trascorso la maggior parte di quelle tre ore, finché il poliziotto non aveva spalancato la portiera, intimandogli di alzarsi per potergli togliere le manette. «Era ora, cazzo!» grugnì Corso. L'agente lo ammonì per il linguaggio e per l'atteggiamento mentre gli toglieva i braccialetti di acciaio e se li infilava in tasca. Corso stava ancora inveendo, mentre si massaggiava i polsi indolenziti, quando si aprì la portiera e Meg prese posto accanto a lui sul sedile poste-
riore. Stava per dire qualcosa, ma Corso le lanciò un'occhiata significativa, guardandosi intorno nella macchina di pattuglia e scuotendo il capo. Meg afferrò il messaggio. «Che ne diresti di prendere un po' d'aria?» Scesero dalla macchina. «Posso sgranchirmi un po' le gambe?» domandò Corso a uno dei due poliziotti della contea di Bergen. L'uomo guardò il collega, che si strinse nelle spalle. «Hollister ha detto di toglier loro le manette» replicò il secondo agente. «Quindi, perché no?» Corso e Meg si incamminarono fianco a fianco. Lentamente. In silenzio. Ad esclusione degli unici tre lampioni stradali, Fredrikstown era immersa nell'oscurità. La città aveva chiuso gli occhi e voltato la faccia da un'altra parte, come a sottolineare che non si trattava della sua gente e che quindi non era un problema suo. Badare ai fatti propri sembrava essere la caratteristica principale dagli abitanti locali. Meg voltò le spalle al dispiego di pattuglie della polizia che ingombravano l'area di parcheggio. «Penso che ce la caveremo» disse a bassa voce. «Cosa te lo fa credere?» le chiese Corso. «Ci hanno rivoltato da capo a piedi, controllando tutto quello che potevano» bisbigliò. «Hanno contattato persone che non conosco, citate come referenze per un prestito bancario di cui non so neanche l'esistenza.» Fece una pausa a effetto. «E tutto combaciava, Corso. Dall'inizio alla fine. Assolutamente incredibile. Ogni singola persona contattata ha confermato.» Allungò una mano e lo colpì scherzosamente sulla spalla. «Non so dove tu abbia preso quei documenti, ma sono... assolutamente micidiali.» Corso emise un borbottio, fregandosi i polsi. «Hai visto passare l'ambulanza?» chiese Meg. Annuì. L'ambulanza della contea di Bergen ci aveva impiegato quasi tre ore a portar giù dalle montagne il corpo di Randy Rosen. Probabilmente la Scientifica non aveva permesso di toccare niente prima di aver finito i rilevamenti del caso. Circa un'ora prima, i lampeggianti della polizia avevano fatto drizzare Corso sul sedile, giusto in tempo per vedere una macchina di pattuglia guidare a valle la triste processione. Dall'espressione degli occhi di Meg, Corso capì la piega che avrebbe preso la conversazione. «Stavo pensando...» esordì lei con una voce triste. «Non tormentarti» la interruppe. «Non potevamo in alcun modo...» «Ah, chiudi il becco» scattò lei. «Ho bisogno di sfogarmi. Perciò stammi a sentire e taci!» Corso smise di fregarsi i polsi e si ficcò le mani in tasca. Meg trasse un profondo respiro. «Non faccio altro che pensare che quel-
l'uomo sia morto per colpa nostra. So già cosa vorresti dire. Che ciascuno di noi è responsabile delle proprie azioni. Che era sufficientemente grande per...» Alzò gli occhi pieni di lacrime verso Corso. «Cos'è che dici sempre? Dopo una certa età siamo tutti adulti e vaccinati.» Corso si voltò dall'altra parte. «Ma non aveva più la faccia, Frank. Era...» L'immagine la lasciò momentaneamente senza parole. Corso le posò una mano sulla spalla. Meg fece un passo indietro per liberarsene. «Mi devi spiegare» cominciò a singhiozzare. «Come mai... se non siamo responsabili per la morte di quel poveretto... com'è possibile... com'è possibile che lui sarebbe ancora vivo se non fossimo entrati nella sua vita questa mattina?» Proseguì in tono rabbioso. «Forza, dimmelo. Sdrammatizza. Non è quello che fai sempre?» Si rese conto di urlare e lanciò un'occhiata ai poliziotti, che avevano smesso di scherzare fra loro e la stavano fissando. Rabbrividì nell'aria della notte e si strinse le braccia attorno al corpo. «Scusa» mormorò. «No, hai ragione» ribatté Corso. «Se non fosse stato per noi, il professor Rosen se ne starebbe seduto in poltrona in casa sua, mangiando un takeaway cinese o roba del genere.» Si passò le mani sul viso. «Non so se siamo responsabili della sua morte, almeno per come intendo io la parola, ma di certo vi abbiamo contribuito. Poco, ma sicuro.» «Non era così che dovevi rispondere» piagnucolò lei. «Ma non detesti il mio modo di sdrammatizzare?» «È così... ma non ora. Ora vorrei solo...» «Avrei dovuto capirlo» mormorò Corso. «Capire cosa?» «Rodney de Groot era spaventato. Pensavo che fosse preoccupato per Tommie... in modo paterno o qualcosa del genere. Ma non era quello. Era spaventato di ciò che Tommie avrebbe potuto fare, se avesse scoperto che stavamo indagando sulla sua famiglia. Ecco perché si è agitato e tutto a un tratto ha voluto liberarsi di noi. Aveva paura per tutti, incluso lui stesso.» La porta dell'ufficio postale si aprì, riversando un brusio di voci nel silenzio della notte. Un paio di agenti della polizia di New York uscirono sul portico. «Di cosa stanno discutendo?» domandò Corso. «È un problema di giurisdizione» disse Meg. «Qui siamo nel New Jersey. Rosen è stato...» Si portò una mano alla gola. «La sparatoria ha avuto luogo nello stato di New York.» «E chi ha vinto?» «Il New Jersey. Hanno tirato giù dal letto il preside del college. Rosen
ha una madre in un ricovero per anziani nel sud dello stato. I poliziotti stanno mandando qualcuno laggiù per comunicarglielo di persona.» «Ehi... voi due» gridò una voce. In mezzo alle autopattuglie si era assembrata una folla di persone. I vice sceriffo della contea di Bergen erano stati raggiunti dagli agenti della Polizia di Stato e da quelli della contea, emersi in massa dall'ufficio postale, dove si erano intrattenuti nell'ultima ora e mezzo. Meg e Corso si avviarono nella loro direzione. «Quello in smoking e cappotto da sera è il capo della polizia del New Jersey, si chiama Hollister. Sono tutti lì a leccargli il culo» bisbigliò Meg. «È stato lui a far pressione perché il caso fosse assegnato al suo dipartimento.» L'eleganza del tenente Hollister faceva supporre che, al momento della chiamata, fosse stato impegnato in qualche evento mondano. L'espressione afflitta sul suo volto rivelava invece l'esistenza di una signora Hollister, che non doveva aver troppo gradito il fuori programma. Sembrava inoltre che il marito avesse un'idea piuttosto chiara di chi avrebbe pagato per l'interruzione. La polizia dello stato di New York si accomiatò avviandosi alle macchine. Quando Hollister si diresse verso Meg e Corso, l'intero contingente del New Jersey lo seguì a ruota. L'uomo si presentò, porgendo una mano che Corso ignorò. Tra il rombo dei motori e le luci alogene dei fari che fendevano l'aria brumosa della notte, rimasero per un attimo fermi a osservare gli agenti di New York che uscivano dal parcheggio e cominciavano a scendere lungo la collina. «Spiacente di averci messo cosi tanto» esordi Hollister. «Capita una faccenda del genere, proprio sulla linea di confine fra due stati, e una situazione che dovrebbe essere semplice si rivela un casino.» Lanciò un'occhiata al sergente dal volto rubizzo alla sua destra e l'intera delegazione del New Jersey prese a studiarsi le scarpe. «Mettete insieme le faccende giurisdizionali e il fatto che i locali non siano proprio disponibili, ed ecco che si finisce in un fottuto groviglio di prima categoria.» Salutò Meg con un cenno rispettoso del capo. «Scusi il linguaggio, signorina Dolan» disse. «Sono un po' sopra le righe questa sera. Ero a teatro quando è arrivata la chiamata d'emergenza.» Di nuovo gli occhi si spostarono impercettibilmente verso il sergente per poi ritornare su Meg e Corso. «Okay, le cose stanno così» esclamò. «I primi resoconti della Scientifica confermano la vostra versione dei fatti.» Si avvicinò a Corso mettendogli una mano sul braccio. «Ma c'è una cosa
che ancora non mi è chiara, signor Falco. Lei ha spostato il corpo. Vorrebbe chiarirmi perché?» «Era stato colpito sulla strada» rispose Corso. Il proiettile aveva colpito Randy Rosen proprio sotto l'occhio destro, facendo esplodere l'orbita e la maggior parte del cranio. Corso aveva sollevato l'uomo, stringendolo fra le braccia come un bambino addormentato. Gli tremavano le mani mentre adagiava il corpo fra le felci umide lungo il bordo della strada. Poi si era rimesso al volante. Hollister girò la testa per osservare la Ford, che era parcheggiata di fronte all'emporio, con i fori dei proiettili ben visibili sul parabrezza. «Quella macchina ha un servosterzo incredibile.....» ribatté. «Avrebbe potuto...» «Non volevo passargli sopra con le ruote» lo interruppe Corso. «A prescindere dalla precisione del servosterzo, quell'uomo meritava qualcosa di meglio che essere calpestato da una macchina.» Hollister serrò la mascella e assentì con il capo. «Capisco.» Sospirò e riprese a parlare. «Dai primi controlli sembra che il signor de Groot abbia un passato di problemi psichiatrici che risalgono all'infanzia. Abbiamo emesso un mandato di cattura nei suoi confronti. Qualcosa di così stravagante come uno Studebaker dovrebbe essere facile da rintracciare. Nel frattempo ho intenzione di farvi accompagnare al distretto di polizia di Ramsey per rilasciare la dichiarazione formale. C'è uno stenografo non particolarmente felice che è già per strada in questo momento.» Guardò alla sua sinistra. «Vi accompagnerà l'agente Paris. Rilasciate la vostra dichiarazione, lasciate un recapito per potervi contattare in caso di bisogno e siete liberi. Per voi va bene?» Assentirono all'unisono. Meg stava ancora stringendo la mano di Hollister quando udirono un boato e alzarono tutti gli occhi al cielo. Prima il rombo del motore, poi il saettare delle eliche che schiaffeggiavano l'aria, infine le luci accecanti che li illuminavano dall'alto e la girandola di vento dell'elicottero che iniziava la sua discesa a terra. A quel punto tutti avevano girato le spalle per proteggersi dai detriti e dalla polvere che si stava sollevando. L'uccellaccio nero atterrò fra le auto-pattuglie rimaste, le eliche rallentarono fino a fermarsi e lo sportello si spalancò. Ne emersero tre uomini in completo grigio. Nel frattempo, Fredrikstown si era destata. Luci accese, tende scostate e volti alle finestre: la curiosità aveva avuto la meglio sulla reticenza. L'uomo che guidava il trio aveva più o meno la stessa età di Hollister, ma era più basso e robusto, con una zazzera nera di capelli che avevano
tutta l'aria di essere tinti. Estrasse un distintivo dalla tasca interna della giacca e lo sbatté praticamente in faccia a Hollister. «Agente speciale Capo Angelo Molina» esclamò. «FBI.» Hollister lanciò una breve occhiata al tesserino di riconoscimento e poi allontanò la mano dell'uomo. «Che diavolo significa?» domandò. «Ho appena sistemato questa dannata faccenda della giurisdizione con i ragazzi di New York. Che interesse può mai avere l'FBI in tutto questo?» «Avete controllato l'arma?» chiese Molina. Hollister guardò il sergente, che annuì vigorosamente. Molina fece un cenno a uno dei colleglli, che estrasse un foglio di carta e lo porse a Hollister. Questi si voltò per poterlo esaminare alla luce dei lampioni. Mano a mano che procedeva nella lettura, l'espressione si faceva sempre più accigliata. Infine alzò lo sguardo, la mascella serrata, lasciò ricadere la mano lungo il fianco e lanciò a Corso un'occhiata di fuoco. «Una vera fortuna, siete arrivati appena in tempo» esclamò rivolto a Molina. «Stavo proprio per lasciar andare questo fottuto assassino di poliziotti.» 21 «Ve l'ho già detto.» «Ce lo ripeta.» Corso mantenne lo sguardo fisso davanti a sé. Poi strizzò l'occhio alle ombre nascoste dietro il vetro oscurato. «Ho comprato quei documenti da uno spacciatore a Karachi» dichiarò. «Un tizio di nome Abdul.» «Abdul, eh?» «Garcia» Corso fece lo spelling del nome. «Abdul Garcia.» «E ha pensato che fosse il suo vero nome?» «Mi sembrava una persona onesta.» L'agente speciale Fullmer era sui trent'anni. Le lezioni di dizione non erano riuscite a cancellare del tutto il suo accento strascicato del sud. Allo stesso modo la pettinatura accurata non poteva occultare i segni evidenti dell'incipiente calvizie. La sua pazienza era agli sgoccioli. Gettò in faccia a Corso una manciata di documenti che si sparsero per terra come foglie di plastica. «E non ha mai sentito parlare di un'organizzazione segreta chiamata Melissa-D, è questo che vuole farmi credere?» «Non ho detto questo» ribatté Corso. «È una voce che circola da anni nel mondo del giornalismo. Ma è, appunto, solo una voce. Non esiste un'organizzazione del genere. Conoscevo una donna a Sandpoint nell'Idaho, che si
chiamava...» «Chiuda il becco!» urlò quello di rimando. Si avvicinò e gli si mise alle spalle. «Ho una gran voglia di cancellarle quel sorriso beffardo dalla faccia, signor Corso. Davvero una gran voglia.» «Sono qui, agente speciale Fullmer» rispose. Fece tintinnare le manette. «Che ne dice di togliermele e darci dentro?» Usuo compagno, l'agente speciale Dean, sembrava più propenso a mediare. Le borse sotto gli occhi la dicevano lunga sulla sua scarsa resistenza alle nottate in bianco. Probabilmente quello era il motivo per cui gli avevano affibbiato il ruolo del poliziotto buono. «Non ti preoccupare, Gene» intervenne. «Una volta che i ragazzi del Wisconsin lo avranno sbattuto nel carcere di Boscope, troverà sicuramente qualcuno che gli cancellerà quel sorrisino dalla faccia a furia di calci nel culo.» L'uomo si alzò in piedi. «Inoltre, la sua ragazza ci ha già detto tutto quello che ci serve. Non riuscivamo a farla smettere di parlare.» Corso scoppiò a ridere. Fullmer si chinò a pochi centimetri dal suo viso. «Ti sembra divertente, eh?» gridò. «Divertente, non è così?» «Non vi piscerebbe addosso neanche se steste andando a fuoco» disse Corso. «Perché non la smettete con le stronzate e iniziate a fare il vostro mestiere? Per quanto mi riguarda, la festa è finita. Voi federali siete solo dei rompipalle. Mi incontrerò con il mio avvocato nel Wisconsin. Fino ad allora, non ho intenzione di aprire bocca. Con nessuno.» Il volto di Fullmer gli era così vicino che sentiva gracchiare la ricetrasmittente nel suo orecchio. Osservò l'agente scostarsi, fermarsi in ascolto e lanciare un'occhiata al rettangolo scuro dello specchio. «Andiamo» disse al compagno con un'espressione accigliata. Dean marciò dritto verso la porta. Fullmer invece si voltò verso Corso. Allungò una mano e saggiò la robustezza della catena che correva dalle manette al gancio d'acciaio fissato a terra. «Resti nei paraggi, signor Corso» disse con un sogghigno. «Torniamo subito.» Subito significò venti minuti più tardi. E quando si aprì la porta, non furono Fullmer e Dean a comparire, ma il loro capo, l'agente speciale Angelo Molina. «Siete davvero una barzelletta, lei e la sua amica Dougherty.» Si piazzò dall'altra parte del tavolo con le mani in tasca. «Ho ottenuto più informazioni dai cadaveri di alcuni kamikaze che non da voi due.» Sembrava pieno di ammirazione. Ma Corso non se la bevve. «Deve essersi perso l'ultima parte della mia chiacchierata con Fullmer e
Dean» ribatté. «Non ho più intenzione di dire una sola parola in assenza del mio avvocato. Dato che Barry Fine rappresenta anche la signorina Dougherty, non dirà più una parola neanche lei.» «Sa una cosa, signor Corso, tenere la bocca chiusa fino all'arrivo di un avvocato di solito è la tattica migliore. Tuttavia, in questo caso...» Qualcosa nel tono di Molina attirò la sua attenzione. «Sono stato onesto con lei» rispose Corso. «Non mi sono cucito la bocca. Ho raccontato la verità. Non ho ucciso quel poliziotto. Il massimo che poteva avere dopo il nostro incontro era un gran mal di testa. È così che è andata. Se non mi credete, non rimane altro da dire.» Con deliberata lentezza Molina estrasse la sedia di metallo verde da sotto il tavolo e si sedette di fronte a Corso, con la schiena allo specchio. «Tanto per il piacere di discutere...» Agitò una mano dalle unghie curate. «... supponiamo per il momento che io le creda.» «Per il piacere di discutere» ripeté Corso. «Ipoteticamente.» «D'accordo, allora lei mi crede. Posso andare adesso?» Molina sorrise. «Forse» rispose. «Ma c'è un piccolo particolare da chiarire.» «Come mai la cosa non mi sorprende?» «Vede, l'ho sentita dire che non ha intenzione di rispondere ad altre domande senza il suo avvocato... il che è naturalmente un suo diritto... proprio quel genere di diritto che l'FBI è incaricata di difendere.» Corso trasalì. «Oh, per favore» esclamò. Molina alzò un dito. «Se, tuttavia, volesse acconsentire a rispondere ad alcune mie domande...» Scrollò le spalle. «Chi lo sa?» Corso ci rifletté. «Per esempio?» «Nella sua dichiarazione ha detto di aver sparato con la pistola del vice sceriffo Richardson a Tommie de Groot.» «Sì.» «Quante volte ha sparato?» «Ve l'ho già detto. Una.» «E le sembra di aver colpito qualcosa.» «Il pick-up, non lui. Mi è sembrato di aver rotto un vetro o qualcosa di simile.» «Ma non ne è sicuro, giusto?» «Quel tizio aveva un fucile di precisione con tanto di telescopio. Ero nascosto dietro alla macchina, ho allungato un braccio e ho sparato. Non sta-
vo guardando.» «Una mossa saggia, probabilmente» ammise Molina. Corso cercò di sporgersi verso l'agente, ma la catena glielo impedì. «Cosa c'entra tutto questo con l'agente morto nel Wisconsin?» domandò. Molina estrasse dalle tasche la mano stretta a pugno e, dopo averla tenuta per qualche secondo sollevata, la apri. Sei proiettili si sparpagliarono sulla superficie del tavolo con un tintinnio metallico. Cinque pieni e uno vuoto. «Questi c'entrano eccome con l'agente morto nel Wisconsin.» «In che modo?» «Sono caricati a mano» disse Molina. «Tutti quanti. Con quindici grammi extra di polvere.» Guardò le cartucce con aria sdegnata. «Il vice sceriffo Richardson è stato fortunato che questa roba non gli sia esplosa in mano. Sparerei personalmente ai miei uomini se usassero giocattoli di questo tipo.» «Dove porta questa conversazione?» si informò Corso. «All'aeroporto di Newark, credo.» «Che cosa c'è all'aeroporto di Newark?» «Il pick-up del signor de Groot. Nel parcheggio a lunga sosta.» «Ah.» «Con uno dei fari anteriori rotto.» Lasciò un istante a Corso per digerire l'informazione. «La scientifica dice che corrisponde. I miei ragazzi hanno trovato frammenti di vetri rotti nel punto in cui secondo lei il pick-up di de Groot bloccava la strada. I vetri corrispondono ai campioni di una società che fornisce pezzi di ricambio per macchine d'epoca.» Allargò le mani appoggiandole sul tavolo. «A prima vista questo sembrerebbe giustificare la cartuccia vuota nella pistola del vice sceriffo Richardson.» «È quello che vi sto dicendo da ore. Non avrei mai accoppato un poliziotto per una testimonianza davanti al Gran Giurì. Non credo che esista nessuno così stupido da fare una cosa del genere.» «Poi» proseguì Molina «mi mostrano dei dossier che la riguardano, e mi accorgo subito che è un uomo pericoloso, con difficoltà a controllare il suo brutto carattere. Ma...» batté delicatamente con un dito sul tavolo. «Ho già il riscontro per l'unica cartuccia sparata da lei.» Trasse un profondo respiro. «Naturalmente... sono una persona cinica, che fa un lavoro cinico. Perciò immediatamente comincio a pensare che lei avrebbe potuto impadronirsi di altri proiettili dello stesso genere. Penso che magari ha lasciato la città con altre munizioni, di cui non sappiamo nulla. Che possa aver preso tutto l'equipaggiamento di Richardson, liberandosene poi lungo la strada,
gettandolo dal finestrino. Chi lo sa?» «Perciò ha chiamato il Wisconsin.» Molina annuì. «E...?» «E il resto dell'equipaggiamento del vice sceriffo è stato ritrovato intatto. Due caricatori completi di proiettili... Non manca niente.» Allacciò le dita dietro la testa e si sporse in avanti sulla sedia. «Tranne la cravatta. Mi pare che lei ne abbia parlato nella sua dichiarazione, non è così?» «Sì, perché l'ho usata per legare Richardson. L'ho fatta passare attorno alle caviglie e poi nelle manette, in modo che non potesse arrivare a slegarsi i piedi. Non è il tipo di persona che vorrei trovarmi alle calcagna.» «Naturalmente potrebbe aver preso la cravatta nella speranza di poterla usare in seguito per confondere le acque.» Corrugò la fronte, poi fece un cenno con la mano. «Ma ora entra in campo la televisione.» Molina guardò Corso in cerca di un segno di approvazione, ma senza risultato. «Così... mi sono messo un'altra volta al telefono. Ho pensato... magari Richardson non indossava la cravatta quel giorno. Magari era fuori servizio, chi lo sa?» «E cosa le hanno detto?» domandò Corso. «Non c'era unanimità di pareri. Lo sceriffo non riusciva a ricordare se indossasse la cravatta o meno. I colleghi sembravano invece certi che la portasse.» «E allora?» «Mi sono ricordato che nella sua dichiarazione lei affermava che Richardson aveva un debole per i media. Che amava apparire in televisione.» «Perciò si è fatto mandare delle foto dal Wisconsin» disse Corso. «E indovini un po'?» «Cosa?» «Se si eccettua l'immagine in cui Richardson è con il padre a pesca... il vice sceriffo indossa sempre la stessa cravatta marrone, in ogni foto.» «Posso andare ora?» Molina assunse un'espressione titubante. «Sono certo che capirà il dilemma in cui mi trovo. Da una parte sono obbligato a rispettare il mandato di cattura del Wisconsin. Dall'altra, sono abbastanza sicuro che non sia lei il colpevole. Non per quello di cui l'accusano laggiù.» Di nuovo allargò le mani con fare rassegnato. «Non ho tempo e risorse da sprecare per qualcosa di così vecchio. Ho le mie gatte da pelare. Perciò, che fare?» Molina spinse indietro la sedia e si alzò in piedi. «Ho fatto come sempre. Prendere le distanze. Semplificare invece di complicare. Se mi mostrano
dei cerchi in un campo di grano, penso a ragazzini in preda all'alcol, non a marziani. Sono fatto così. Comunque... ho telefonato nel Wisconsin. Volevo parlare con il patologo che ha fatto l'autopsia.» Scosse il capo con aria disgustata. «È venuto fuori che non hanno neanche un medico legale da quelle parti. Trovano un tizio con una pallottola nel cervello e deducono che sia morto perché gli hanno sparato. Che posso dire? Finisce che parlo con un impresario di pompe funebri. Insomma... se le cose fossero andate come aveva detto lei, l'agente avrebbe dovuto presentare una contusione alla nuca. Sempre supponendo che ce l'avesse ancora... la nuca. Il referto diceva solo che era stato ucciso con una pallottola in testa, sparata dalla sua stessa pistola d'ordinanza. Voglio dire, tutto è possibile.» «E...?» «Ci sono un paio di dettagli che non tornano. Primo, la traiettoria del proiettile. Pare che sia entrato dal mento andando a incunearsi nel cranio. Secondo la balistica è tipico delle ferite riportate durante una colluttazione per il possesso di un'arma, quando parte un colpo inavvertitamente. Ma l'ematoma... ecco, questo è tutt'altra faccenda.» Prese a percorrere a grandi passi la saletta. «Vede... sembra ci sia stato un lasso di tempo fra il momento in cui la vittima ha battuto la testa e quello in cui qualcuno gli ha fatto saltare le cervella e poi rubato la cravatta. Venti minuti come minimo. Più probabile trenta. Perché se il cuore avesse smesso di pompare sangue, non ci sarebbe stato un bernoccolo di quelle dimensioni sulla nuca. Mi segue fin qui?» Corso annuì. «Perciò» proseguì Molina «adesso sì che abbiamo un bel problema. Sono praticamente certo che non sia lei il colpevole, ma non trovo una sola buona ragione per aiutarla. Voglio dire, certo, ci ha dato la sua versione dei fatti in meno di cinquanta parole. Ma poi ha trascorso le successive sei ore a prendere per i fondelli i miei agenti, mentre la sua amica nella stanza accanto non voleva neanche ammettere di chiamarsi Dougherty. Con questo tipo di atteggiamento, perché diavolo dovrei espormi per togliervi dal vostro brodo?» «Lei infila sempre il cibo nelle sue metafore» disse Corso. «Ci ha mai fatto caso?» «Sono italiano» rispose Molina stringendosi nelle spalle. «Che cosa vuole?» gli chiese Corso. Molina si chinò per raccogliere una ventiquattrore da terra. La appoggiò sul tavolo e fece scattare la linguetta metallica. Si assicurò di guardare Corso fisso negli occhi quando il rotolo di fogli atterrò sul tavolo. Erano i
disegni di Mary Anne Moody. «Perché non mi parla un po' di questa roba?» chiese. «Ora sono io a chiedermi perché dovrei aiutarla» mormorò Corso. Molina sorrise. «Perché, signor Corso, lei è riuscito a far incazzare un mucchio di gente da queste parti. La troviamo con una valigia piena di documenti falsi - documenti in grado di compromettere l'integrità di ogni database di questo Paese, compreso il nostro - e lei continua a blaterare cazzate a proposito di un certo Abdul Garcia. Gli agenti aspettano solo di poterla portare nel seminterrato e usare le maniere forti. Per vedere cosa riuscirebbero a estorcerle con i piedi infilati in un secchio d'acqua e le parti intime collegate a fili elettrici. Non so se mi spiego.» Molina fece per sciogliere il rotolo di disegni. «Non ce n'è bisogno» lo prevenì Corso. «Li ho già visti.» «Non sono il tipo di immagini che si dimenticano facilmente, vero?» «Voglio un quid pro quo» disse Corso. «Lei non è nelle condizioni di...» «Le dirò tutto quel che so.» «Cosa vuole in cambio?» «Voglio sapere cosa è successo a Smithville, stato di New York, nella primavera del 1968. Qualcosa che ha a che fare con persone finite in galera e altre scappate dalla città in tutta fretta. Con assistenti sociali che hanno chiesto l'intervento della polizia. Qualcosa che coinvolge le scuole pubbliche e quindi i minorenni, il che significa dossier sotto sigillo e documenti protetti. Voglio vedere tutto.» Fece tintinnare la catena. «Poi, voglio che mi togliate queste dannate manette e mi ridiate i miei vestiti. Dopo di che, forse, possiamo parlare.» «E lei cosa mi darà in cambio?» chiese Molina. Corso ci pensò su. «Non credo che abbia un nome.» «Mi metta alla prova.» «I serial killer uccidono persone che non conoscono, giusto?» disse Corso. «Di solito cominciano con qualcuno vicino a casa, ma una volta che ci prendono gusto passano agli sconosciuti. Perché?» insistette Molina. «Perché penso che stavolta siamo incappati in una nuova categoria di assassino.» 22
«Cosa dovrei dire al giudice?» si informò Molina. «Che un famoso giornalista sospetta che una ragazzina, che si suppone morta e sepolta sulle montagne da oltre trent'anni, in realtà se ne vada in giro per il Paese uccidendo la gente? Uccidendo il marito e i suoi stessi figli. Uccidendo suore, per carità di Dio. E per giunta il giornalista in questione è stato licenziato dal "New York Times" per aver messo in piedi una notizia falsa, al momento è sotto accusa in Texas per informazioni che sosteneva di avere e che non ha e in più ha a suo carico un paio di denunce per aggressione. Coraggio, mi dia una mano, Corso. Se dobbiamo riesumare cadaveri dalle tombe, ci serve ben altro che questo.» Corso indicò con le mani la mole di fascicoli e raccoglitori sparsi sul tavolo. «Qua dentro c'è tutto» ribatté. «Lo stato di New York ha costretto gli abitanti di Smithville a mandare a scuola i propri ragazzi nel marzo del 1968. Otto maschi e sei femmine. Dieci secondi dopo aver messo piede all'interno del sistema scolastico, le ragazze hanno cominciato a raccontare a chiunque fosse a portata di orecchio di aver subito abusi sessuali a casa. Non c'è da meravigliarsi che i genitori non volessero mandare i figli a scuola. Sapevano cosa sarebbe successo.» Raccolse un fascicolo rosso con la scritta RISERVATO e lo agitò per aria. «Ci sono centosettanta pagine» disse. «Centosettanta pagine di colloqui fra gli assistenti sociali e cinque ragazze di Smithville. Stupro, sodomia, percosse.» Ributtò il fascicolo sul tavolo. «Venivano passate di casa in casa come merce di scambio. Non sono neanche arrivato a metà di questi documenti e ce n'è abbastanza da far arrossire un camionista, Cristo santo!» Afferrò nuovamente il documento, sfogliò fra le pagine e trovò quel che cercava. «Senta qua: In seguito alla richiesta di profilo psicologico per la minore Leslie Louise de Groot, il 21 marzo 1968 mi sono incontrata con la ragazza nel mio ufficio per un totale di tre ore. Prima di tutto, desidero sottolineare le difficoltà di redigere una diagnosi dopo un contatto così breve con la paziente, sulla quale non sembrano sussistere precedenti cartelle cliniche. Detto questo: la signorina de Groot dovrebbe avere circa quindici anni. Alta un metro e settanta, più o meno sessanta chili di peso. Ha capelli neri ondulati e occhi azzurri. Per quanto si descriva una nativa Ramapo, in assenza di dati medici, non me la sento di azzardare un'ipotesi sulle sue effettive origini o sulla sua appartenenza etnica".»
«Punto e a capo» lesse Corso. «E, ancora: "Nel corso del colloquio, la signorina de Groot ha descritto lo stesso schema terrificante di abusi sessuali, a opera della sua estesa famiglia, già riferito al vostro personale. Non ho alcun dubbio sulla veridicità dei suoi racconti. Né nutro la benché minima incertezza sugli effetti devastanti che simili esperienze provocano sulla sua psiche in formazione. La signorina de Groot è una paziente estremamente disturbata. Le esperienze che ha vissuto l'hanno obbligata ad adattarsi a comportamenti solitamente non richiesti a un essere umano, e di certo non a un bambino. Cova fantasie omicide nei riguardi dei suoi aguzzini e ciò nonostante, come spesso accade in questi casi, è incapace di immaginarsi in un qualunque altro ambiente. Siamo di fronte al classico caso di sindrome odio-amore, nella sua forma più estrema: una vittima che è inesorabilmente e, con ogni probabilità, per sempre legata ai suoi carnefici. La signorina de Groot gestisce la situazione cercando di tenere tutto sotto controllo all'interno della sua sfera emotiva. Le variabili che non sono sotto il suo controllo sono viste come minacce e trattate di conseguenza. Senza ulteriori dati non posso, al momento, esprimere opinioni più approfondite".» «E non è finito: "La gamma di possibili comportamenti derivanti dall'esperienza subita da Leslie può variare dalla violenza verso sé e verso il prossimo, a una vasta gamma di disordini comportamentali compulsivi, aggressioni sessuali estreme (che nel caso di Leslie possono essere dirette sia a uomini che a donne) e, come spesso succede, può implicare estrema depressione clinica e schizofrenia. La prognosi per questa giovane donna non è incoraggiante".» «Firmato dottoressa Phoebe Hill, eccetera eccetera.» Corso buttò i documenti sul tavolo. «Se non è follia questa!» esclamò. «È anche una diagnosi vecchia di trent'anni» fece Molina accigliandosi. «Nove adulti sono finiti in prigione per abuso aggravato su minori. Il resto dei ragazzi è stato dato in affidamento. A tempo indeterminato. Una
notte qualcuno ha dato fuoco a ciò che rimaneva della città. Cosa diavolo le serve ancora?» Molina si appoggiò con entrambe le mani sul tavolo, sporgendosi verso Corso. «Ma cosa crede?» ringhiò. «Che queste cose mi abbiano lasciato indifferente? Ho due figlie, amico. Dodici e quindici anni. E mi ci vuole tutto l'autocontrollo che possiedo per non seguirle di nascosto quando escono di casa. Ogni giorno vedo con i miei stessi occhi cosa arrivano a farsi gli esseri umani per un pompino, una bottiglia di vino o magari solo per il gusto di farlo. E ogni volta che le mie ragazze escono di casa, cominciano a scorrermi davanti agli occhi le immagini di venti anni di lavoro all'FBI. Perciò non alzi la voce con me, come se avesse l'esclusiva dell'indignazione, okay?» «Scusi» mormorò Corso. «Adesso, ci serve qualcosa che colleghi tutto nel modo giusto. Qualcosa che ci dia il diritto di andare a disturbare i morti. Qualcosa che colleghi nel tempo Leslie Louise de Groot con questa Mary Anne Moody e questa...» Guardò Corso in cerca di aiuto. «Sissy Marie Warwick» terminò Corso. «Una prova tangibile, al di là della sua sensazione di pelle, che siano tutte la stessa persona.» «Mostriamo al giudice i disegni» disse Corso. Molina trasalì. «Edith Wells è nonna di tre nipotini. Ogni estate, lei e suo marito Grant trascorrono due mesi in un eremo sulle montagne Poconos. Sono membri finanziatori del teatro lirico della contea di Rockland. Non so se si rende conto di quello che mi sta proponendo. Se le mostro questi dannati disegni, finisco nel Sud Dakota nel giro di quarantotto ore. E non credo che la mia famiglia ne sarebbe felice. A dire il vero, non credo neanche che mi seguirebbe.» Scosse il capo. «Non se ne parla.» «Allora le domandi cosa pensa che stia facendo la ragazza de Groot adesso.» «In che senso: adesso?» «Voglio dire in questo stesso momento, mentre noi ce ne stiamo qui a discutere. Aveva poco più di trent'anni quando ha lasciato Avalon. Oggi, sempre che io non mi sbagli e che lei sia ancora viva, dovrebbe averne circa sui quarantacinque. Magari ha avuto il tempo di farsi un'altra bella famigliola. Chi lo sa?» Molina sporse in avanti il labbro inferiore. «Come sarà il clima nel Sud Dakota in questo periodo?»
«Freddo come una tomba» rispose Corso. 23 «Scusa se mi sono defilata ieri sera» disse Meg. «Ma non potevo sopportare il pensiero di ritrovarmi davanti quell'orrore.» Agitò la bottiglietta di coca-cola. «Non che sia servito. Non ho chiuso occhio.» «Neanch'io» rispose Corso. «Siamo ancora in arresto?» «Non credo.» «E come sei messo con quelli del Wisconsin?» «Non ne ho idea.» «Si sa niente di come procedono le indagini?» «No.» «Neanche se hanno scoperto qualcosa?» «Uhm.» Gli uffici dell'FBI di Newark, nel New Jersey, occupavano l'intero settimo piano dell'Ethan Dombrowski Building sulla East Third Street. Una volta superato il banco dell'accettazione, con la vecchia grande insegna del bureau appesa alla parete, se si riusciva a dimenticare le tre stanze destinate agli interrogatori in fondo al corridoio, il posto assomigliava alla sede di una qualunque multinazionale. Sulla sinistra, due sale per le conferenze, una molto più ampia dell'altra, poi la stanza adibita alle riunioni, dove gli agenti erano soliti trovarsi quasi tutte le mattine. In fondo, i bagni. Sulla destra si aprivano invece gli uffici privati. Ogni agente speciale condivideva lo spazio con il proprio partner e utilizzava le toilette comuni. Gli agenti speciali Capo avevano stanze migliori, con vista sulla strada e bagno privato annesso. Angelo Molina uscì in corridoio, fece loro cenno di seguirlo, dopo di che scomparve nuovamente nel suo ufficio, lasciando la porta aperta. La sua segretaria era seduta alla scrivania a braccia conserte e li guardò passare senza muovere un solo muscolo del viso. L'ufficio di Molina vantava tutto l'armamentario al gran completo. Le bandiere colorate con il passamano dorato. Il sigillo alla parete. Le sedie in pelle rosso mattone davanti a un'enorme scrivania di mogano. La poltrona del capo, da dove Molina poteva troneggiare sulla plebe al suo cospetto. Quel giorno, però, aveva l'espressione di uno a cui hanno appena ammazzato il gatto. «Chiudete la porta.»
Corso ubbidì. «I risultati sono ancora approssimativi» disse Molina. «Il corpo è gravemente ustionato, tanto per cominciare, e dopo trenta e passa anni nella terra, non ne è rimasto granché.» Indicò con un dito lo schermo del computer. «Quello che sappiamo di sicuro è che i resti appartengono a una femmina tra i tredici e i diciotto anni, probabilmente incinta di quattro mesi al momento della morte. I denti erano intatti. Ne stanno controllando i calchi proprio in questo momento. A un certo punto della sua vita deve essere ricorsa a cure mediche. La tibia sinistra è fissata da tre viti di acciaio. L'informazione potrebbe anche tornarci utile, se solo riuscissimo a trovare una cartella medica o dentistica per questi ragazzi. Ma finora non è saltato fuori niente.» Guardò Corso allargando le braccia. «Fine del viaggio. Abbiamo preso una cantonata. Leslie Louise de Groot si trova esattamente dove dovrebbe essere.» «E adesso?» domandò Corso. «Ho parlato con lo sceriffo Trask questa mattina. Le ho spiegato perché non può essere stato lei a commettere il reato e le ho detto che non è più in arresto.» Qualcosa guizzò nel suo sguardo, divertimento forse. O disapprovazione. Difficile a dirsi. «E cosa ha detto?» chiese Corso. «È rimasta senza parole. Ho avuto l'impressione che desse per scontato di aver trovato il colpevole. Forse non ha controllato attentamente tutti gli indizi, non ha seguito le procedure standard.» Si strinse nelle spalle. «Di certo non è il tipo di indagine di cui si occupa ogni giorno... un paesino come quello... sperduto nel Wisconsin...» Si voltò dall'altra parte, come infastidito dalle sue stesse parole di scusa. «Allora... Frank è fuori dai guai?» domandò Meg. «Sì.» Molina ridacchiò. «Fatta eccezione per i due agenti della contea di Dallas, che sono comparsi dal nulla stamattina presto pretendendo che consegnassi loro il prigioniero per estradarlo in Texas.» Strizzò gli occhi. «È stato fortunato, signor Corso, perché non avevo ancora ricevuto i risultati della perizia sulla ragazza nella tomba. Se li avessi avuti sotto mano, l'avrei consegnata senza esitazione.» «Cosa ha fatto invece?» chiese Meg. «Ho detto che per il momento eravate entrambi sotto la protezione dell'FBI e quindi non suscettibili di estradizione.» «E loro?» «Sono li che aspettano in ingresso.»
Corso non poté trattenersi e scoppiò a ridere. «Quei ragazzi sono tutti d'un pezzo, non è così? Non si arrendono mai.» «I veri cowboy prendono sempre il loro uomo» confermò Molina. «A proposito... avete trovato Tommie de Groot?» Molina sembrò seccato dalla domanda. «Il pick-up all'aeroporto era un diversivo. De Groot non si è imbarcato su nessun volo, non ha noleggiato una macchina, né una limousine, né un aereo privato e non è neanche salito su un autobus. Non ha incassato un assegno, né usato il bancomat, né pagato con carta di credito. Se l'avesse fatto, a quest'ora l'avremmo preso. Stiamo battendo palmo a palmo la zona dell'aeroporto e indagando in altre possibili direzioni.» «Magari conosceva anche lui Abdul Garcia» osservò Corso. Molina arrossì lievemente. «Sa una cosa, Corso? Penso di averne avuto abbastanza della sua compagnia. Per finire, comunque, de Groot ha passato metà della sua vita in ospedali psichiatrici. È stato congedato dai Marines per aver quasi ucciso un compagno. Comincio a pensare che lei non sia affatto divertente e sono pronto a scommettere che anche la mamma del professor Rosen non riderebbe alle sue battute.» L'atmosfera era carica di rancore. Meg deglutì nervosamente. «Allora possiamo andare?» «Senz'altro» bofonchiò Molina. «Andate pure.» Meg afferrò Corso per un gomito e cominciò a tirarlo verso la porta. Corso aveva deciso di non ribattere e si stava avviando verso la porta quando la voce di Molina lo fermò. «Ancora alcune cose prima che ve ne andiate.» Usò le dita per contare. «Primo, potete rivolgervi alla mia segretaria per recuperare i vostri effetti personali. Secondo, avrete bisogno di un'altra auto a noleggio. La Ford ormai costituisce una prova in un'indagine di omicidio. Terzo, vi consiglierei di non tornare alla Hertz. Non godete di buona fama come loro clienti. Quarto, fossi in voi starei in guardia con quei tizi di Dallas. Hanno l'aria davvero determinata. E, quinto, la prossima volta che sogna qualche altra teoria campata in aria su adolescenti che sorgono dalla tomba, la vada a raccontare a qualcun altro.» Fece con la mano un gesto di congedo. «E ora fuori di qui.» Non arrivarono neanche a toccare la maniglia della porta. «Fermi!» esclamò Molina. «Non ci posso credere.» Con lo sguardo incollato allo schermo del computer, alzò una mano per richiamare la loro attenzione e poi prese a digitare sulla tastiera.
«Credo di dovervi delle scuse» disse poi. «E come mai?» domandò Corso. «Il medico legale stava immettendo i risultati delle analisi compiute sul cadavere della ragazza. E sul database ha trovato un riscontro per quanto riguarda le viti nella tibia.» «Pensavo che non ci fosse una cartella clinica della ragazza.» «Infatti. Il riscontro fa riferimento a una ragazza scomparsa di nome Velma de Groot.» Alzò lo sguardo su Corso. «Il corpo non venne mai trovato. Sembrava trattarsi di un'altra vittima di Richard Leon Parker.» Batté con un dito sullo schermo del computer. «Frattura composta della tibia quando aveva nove anni.» Voltò lo schermo verso Corso. Mentre questi attraversava la stanza per avvicinarsi al monitor, Molina premette un tasto del telefono. «Dean» esclamò. «Trova chi ha esaminato il cadavere. E fa' riesumare anche il resto della famiglia... li voglio all'obitorio prima possibile.» Ascoltò per qualche istante prima di perdere la pazienza. «Lascia che sia io a preoccuparmi dei permessi. Fa' riesumare quelle persone e portale dove ti ho detto. Subito!» «Cosa è venuto a fare tuo fratello in questo periodo dell'anno?» si informò l'uomo. «Di solito non arriva fino all'estate.» «Che importanza ha?» «In estate posso portare le ragazze al campeggio, lontane da lui e dalle sue dannatissime sigarette.» La donna distolse lo sguardo. «Aveva un po' di tempo libero. Voleva vedermi.» «Alle ragazze non piace. Dicono che non la finisce mai di mettere loro le mani addosso. Lo sapevi?» «È quella sciocca di Sarah» ribatté lei. «È solo una gran bugiarda.» «Per questo le hai rasato i capelli a zero?» «Glieli ho tagliati in modo che non passasse tutto il tempo a curarli.» Si volse ad affrontarlo. «Perché non lasci che sia io a occuparmi della moda femminile da queste parti? Uno con così pochi capelli in testa non dovrebbe impicciarsi di queste cose.» «Ancora un paio di giorni e lo voglio fuori di qui.» «È anche casa mia.» «È casa di mia madre» la corresse lui. «E non perdete mai occasione, né tu né lei, di ricordarmelo, vero?» «Un paio di giorni» ripeté l'uomo.
La donna attraversò la stanza e si diresse ai fornelli. «Se passassi più tempo a sistemare la nuova cucina e meno a preoccuparti di mio fratello, magari non starei ancora qui in attesa di poter cucinare qualcosa di caldo.» L'uomo si avvicinò ma lei non si mosse, costringendolo ad aggirarla per afferrare il pezzo di tubatura appoggiato al muro. Le indicò un estremità. «Serve un altro riduttore, proprio qui, e Ajax li aveva finiti. Ci vorranno ancora un paio di giorni perché gli arrivino. E poi potrò sistemarla.» La donna si voltò e fece scorrere l'acqua nel lavandino. «Sarebbe anche ora.» «Un paio di giorni e voglio che se ne vada» ripeté lui. 24 «Stiamo seguendo anche altre piste» ripeté lo sceriffo Trask, continuando a elencare tutte le persone che si trovavano all'interno dell'ospedale al momento del delitto Richardson. Gli operatori della stampa locale e nazionale, i curiosi e i membri del personale ospedaliero: erano in molti a dover essere ancora sottoposti a interrogatorio per essere esclusi dalla rosa dei sospettati. «Questi due hanno creato una bella grana» proseguì la donna, indicando con un cenno del capo Meg e Corso. «Era scoppiato l'inferno quella mattina.» Molina continuava ad annuire, come a confermare la sua completa fiducia nelle indagini svolte. La verità era che la donna non aveva il benché minimo indizio, non disponeva del personale adeguato, e non aveva né le risorse economiche né l'esperienza per occuparsi della faccenda. Tutti nella stanza sapevano benissimo che l'indagine non stava affatto procedendo, ma nessuno voleva dirlo ad alta voce. Cortesia professionale, o qualcosa del genere. «Avete il proiettile?» chiese Molina. «Certo» rispose lo sceriffo. «Calibro 38. Il laboratorio dice che proviene da una Smith & Wesson modello 10 con canna da 12 centimetri. Guarda caso è proprio il modello d'ordinanza qui al dipartimento. La Polizia di Stato ha controllato ogni singolo pezzo in dotazione, compreso il mio. Nessun riscontro.» Lanciò un'occhiata a Corso. «Per questo ho pensato al signor Corso.» «Mi sembra tutto molto sensato» disse Molina. «La Smith & Wesson modello 10 è una delle più comuni. Ce ne saranno a migliaia in giro.»
Lo sceriffo fece un profondo respiro e riuscì finalmente a incrociare lo guardo di Angelo Molina. «E allora... come devo prendere questa visita dell'FBI? Specialmente dal lontano New Jersey?» Sfoderò a Molina un sorriso stiracchiato. «Come può constatare di persona, sono già abbastanza sotto pressione.» Si sedette dietro la scrivania con le mani appoggiate di fronte a sé. Le tre sedie libere erano occupate da Meg e dagli agenti speciali Fullmer e Dean. Molina e Corso avevano preferito rimanere in piedi e se ne stavano appoggiati alla parete, fra medaglie, targhe, encomi e foto dello sceriffo Trask in compagnia dei notabili del paese. Molina era il ritratto della cordialità. «Ci stiamo occupando di una faccenda che pensiamo possa aver avuto origine nella nostra giurisdizione per poi spostarsi nella vostra. Un caso federale, appunto.» «E di che faccenda si tratta?» Difficile capire cosa si aspettasse come risposta. Di certo non quella che arrivò. «Della sua vecchia amica, Sissy Warwick» rispose Corso. Lo sceriffo alzò gli occhi al cielo come a dire che non era proprio il momento di sentirsi ricordare un altro caso irrisolto. «Sto cercando di concentrare le poche risorse a mia disposizione su quanto accaduto pochi giorni fa» disse. «Abbiamo perso un collega e, fino a quando la faccenda non verrà risolta, temo di non avere personale a disposizione, né voglia di dedicarmi a un caso così vecchio.» Alzò una mano per prevenire le interruzioni. «Non ce ne siamo certo dimenticati. Anzi, a dire il vero, siamo in attesa dei risultati della Scientifica. Ma, come ho già detto, per il momento le mie priorità sono altre.» «È giusto» dichiarò Molina. «La morte di un poliziotto è un affronto per tutto il corpo delle forze dell'ordine.» Corso osservò il contegno professionale dello sceriffo combattere con la curiosità personale che, dopo un silenzio imbarazzato, ebbe il sopravvento. «E come avrebbe fatto Sissy Warwick Holmes a finire nella vostra giurisdizione?» domandò. Molina glielo disse. Per filo e per segno. Gli ci vollero meno di dieci minuti. Maria Trask ascoltò in silenzio mentre l'agente la metteva al corrente delle ultime scoperte. «Ovviamente le condizioni di decomposizione dei corpi hanno impedito le normali procedure di accertamento della Scientifica per quanto riguarda la causa del decesso.» Sollevò un dito. «Ma come certo lei saprà, alcune componenti chimiche non si deteriorano con il
tempo. Rimangono nel corpo, immutate.» «Sì, credo che la notizia sia giunta persino a noi» rispose lo sceriffo con un sorriso. Molina proseguì. «Le analisi preliminari sugli altri quattro componenti della famiglia de Groot hanno rivelato tracce di un prodotto a base di arsenico ancora presente nei capelli e nelle unghie. Tale residuo è compatìbile con una sostanza usata come veleno per topi intorno agli anni Sessanta. Naturalmente quel tipo di prodotto non è più in commercio, per problemi di salute e inquinamento, ma a quei tempi era molto in voga.» Lo sceriffo intrecciò le dita e si sporse in avanti sulla scrivania. «Mi sta dicendo che quella ragazzina, quanti anni aveva... quattordici o quindici all'epoca?... dopo aver avvelenato l'intera famiglia, è riuscita in qualche modo a trascinare una coetanea nel suo letto e poi ha dato fuoco alla casa?» «Tutta la famiglia, ad eccezione del fratellino minore» la corresse Corso. «Quella notte era in ospedale per avvelenamento da cibo.» «Sembra proprio che sia andata così» concluse Molina. «Con tutto il rispetto, mi sembra un po' tirato per i capelli» ribatté lo sceriffo. «Dobbiamo presumere che abbia ucciso lei l'altra ragazza?» «Non lo sappiamo con certezza» ribatté Molina. «La ragazza era scomparsa due giorni prima dell'incendio. Prendevano lo stesso autobus per andare a scuola. Louise era stata interrogata dalle autorità locali e dalla Polizia di Stato e aveva dichiarato che l'altra ragazza...» Molina rivolse uno sguardo a Fullmer in cerca di aiuto. «Velma» precisò l'agente chiamato a intervenire. «... che Velma si era allontanata dalla fermata dell'autobus dicendo che sarebbe tornata subito. E che quella era stata l'ultima volta che l'aveva vista. Poi si scoprì che Richard Leon Parker aveva rapito un'altra ragazza da quella stessa fermata.» Molina si strinse nelle spalle. «Così tutti pensarono che la de Groot fosse stata una delle sue vittime.» «Fino a quando non è rispuntata fuori nella tomba di un'altra.» Molina lanciò una rapida occhiata a Corso. «Già» acconsentì. «Lo stato avanzato di decomposizione del corpo impedisce di determinarne la causa di morte. Non è stata avvelenata come gli altri, questo è sicuro.» «Inoltre, mancano alcune informazioni, due periodi di tempo sui quali non sappiamo nulla» intervenne Corso. «Abbiamo circa due anni e mezzo fra l'incendio della casa e il momento in cui Sissy rispuntò ad Allentown, in Pennsylvania, e quasi un anno fra quando lasciò Allentown e arrivò qui da voi. Cosa abbia fatto nel frattempo, non si sa.»
«Ma ci stiamo lavorando» assicurò Molina. «Che mi dite del fratello? Quello che ha ucciso il professor Rosen.» «Tommie de Groot ha preso un taxi dall'aeroporto di Newark fino alla città di Elizabeth, nel New Jersey, dove, il giorno dopo l'omicidio, ha acquistato in contanti una Chevy Cavalier dell'88. La targa registrata del veicolo è stata ritrovata durante un controllo di routine a Elgin, nell'Illinois, ieri mattina. Una coppia di persone anziane. Non si erano neanche accorti di non aver più una targa dell'Illinois. A quanto pare de Groot è abile a scambiare le targhe mentre viaggia. A dire la verità, se continua così, saremo molto fortunati se riusciremo a beccarlo.» «E in cosa posso esservi utile?» disse lo sceriffo. «Siamo qui più che altro per una visita di cortesia» rispose Molina. «Siamo in stretto contatto con la Polizia di stato del Wisconsin e abbiamo a nostra disposizione tutte le risorse della sede locale dell'FBI, a Madison. Una squadra della Scientifica setaccerà casa Holmes questo pomeriggio.» Molina guardò alla sua sinistra. «Il signor Corso mi ha detto che insieme ai cadaveri è stato ritrovato un album di famiglia.» «Sì, è così» rispose lo sceriffo annuendo. «Vorremmo prenderlo in prestito, se fosse possibile.» Si affrettò a proseguire prima che la donna potesse ribattere. «Inoltre, ho saputo che i ragazzi Holmes hanno avuto un incidente con il furgone di famiglia.» «Sono volati attraverso la vetrina del Dairy Queen» puntualizzò lo sceriffo. «Perciò da qualche parte nei vostri fascicoli dovreste avere il numero di targa e del telaio. Ci sarebbero di grande aiuto.» «Non penserete di ritrovare quel furgone quindici anni dopo, vero?» Molina le sorrise timidamente. «Stiamo seguendo anche altre piste.» Se lo sceriffo colse il riferimento all'affermazione che aveva dato inizio alla conversazione, non lo diede a vedere. Invece sospirò e premette un pulsante rosso sul telefono. «Barbara» chiamò. «Sì, sceriffo Trask» gracchiò l'interfono. La porta dell'ufficio era aperta e le voci dello sceriffo e della segretaria si sentivano in stereofonia, con la voce reale e quella elettronica che si sovrapponevano. Fullmer aprì la bocca per la prima volta. «Ecco... sceriffo... già che ci siamo... potrebbe anche farci avere i numeri di serie della pistola di Richardson? Abbiamo consegnato l'arma alla Polizia di Stato e...» L'uomo assunse un'aria imbarazzata «... a quanto pare abbiamo dimenticato di trascrivere i numeri di serie.»
«Per i nostri verbali» soggiunse Molina. «Devo rientrare nel New Jersey. E voglio assicurarmi che sia tutto a posto prima di partire.» Lo sceriffo si lasciò quasi sfuggire un sorriso. «Non pensavo che voi ragazzi poteste commettere errori del genere.» «Errare è umano» disse Fullmer, stringendosi nelle spalle. «Basterà aggiungerlo adesso al dossier, non dovrebbero esserci problemi.» «Torno subito» disse lo sceriffo. La suola di gomma delle scarpe cigolava a ogni passo. A metà strada fra la scrivania e la porta, si fermò. «Nient'altro che voi ragazzi avete dimenticato e per cui possa darvi una mano?» domandò. Questa volta non riuscì a nascondere un sogghigno. «Sempre lieta di aiutare i federali a riempire i loro verbali.» Le assicurarono che non c'era altro. La donna annuì brevemente e si avviò nel corridoio. Molina recuperò la ventiquattrore da terra e l'appoggiò sulla scrivania. «Chi di voi due mi accompagna all'aeroporto?» domandò rivolto a Fullmer e Dean. Dean rispose che se ne sarebbe occupato personalmente. Molina aprì la valigetta ed estrasse una lista di cose che voleva fossero controllate dalla Scientifica. Poi un'altra lista per Fullmer e Dean. Entrambi presero nota. Molina si rivolse infine a Corso e Dougherty. «Da qui in avanti, la faccenda di Leslie Louise de Groot e di Sissy Marie Warwick è di competenza dell'ufficio di Madison. Lascerò qui gli agenti speciali Dean e Fullmer per il coordinamento necessario. Potete fermarvi anche voi, se volete. Ma non appena i federali di Madison rileveranno il caso, sarete definitivamente fuori dalle indagini. Paul Waymer è l'agente incaricato. Lo conosco dai tempi dell'accademia e so con certezza che non vi darà modo di intromettervi mentre conduce le indagini.» Chiuse di scatto la ventiquattrore e digitò il codice di sicurezza. Il cigolio delle scarpe annunciò l'arrivo dello sceriffo. Aveva con sé l'album di famiglia degli Holmes e due fascicoli, uno giallo e uno verde. Il sorriso le aleggiava ancora sulle labbra. «Codice colore e tutto il resto» annunciò, buttando l'album e i fascicoli sulla scrivania. «Saremo anche gente di campagna, ma conosciamo il nostro mestiere, potete starne certi.» Molina passò i documenti a Dean e Fullmer, che si affrettarono a metterli da parte. Strinse poi la mano allo sceriffo prendendo commiato. Corso si attardò, lasciando che gli uomini dell'FBI lo precedessero fuori dalla porta. Quando Meg si voltò per aspettarlo, le fece cenno di avviarsi. «Solo un attimo» esclamò alzando un dito. Lo sceriffo gli rivolse uno sguardo gelido. «Sì, signor Corso?»
«Quel nostro piccolo accordo...» «Non so di cosa stia parlando» fu la risposta. La ignorò. «Era una questione personale e tale rimarrà.» La donna si alzò in piedi. «Se vuole scusarmi, sono davvero oberata di lavoro.» Di nuovo il cigolio delle suole la accompagnò mentre attraversava la stanza e usciva dall'ufficio. Dieci secondi dopo, ricomparve sulla soglia. Alla cruda luce del neon aveva un'aria stanca e tirata. Controllò il corridoio in entrambe le direzioni. «Mi scusi» mormorò. «Sono sotto pressione. Non sapevo cosa diavolo avrei potuto fare se avesse cominciato a raccontare a quella gente che le avevo permesso di andarsene. Ora come ora non sono in grado di sopportare altro. Clint Richardson passa più tempo nel mio ufficio che nel suo.» Scosse la testa. «Due settimane fa mi preoccupavo di poter perdere le elezioni e ora sarei disposta a dar via questo dannato incarico per un dollaro.» Raccolse alcuni fascicoli dal tavolo. «È ora della flagellazione mediatica quotidiana» mormorò con un sorriso amaro. «Rimarrà in città a lungo?» «Un paio di giorni, forse.» «Glielo domando perché Clint Richardson ha preso piuttosto male la morte del figlio. Ed è tuttora convinto che sia lei il colpevole. Pensa che sia riuscito a cavarsela per qualche cavillo legale. Clint è un brav'uomo, ma al momento non è molto in sé. Al suo posto, terrei gli occhi ben aperti.» «Grazie» rispose Corso. «Non ci tratterremo a lungo. Immagino che l'FBI di Madison non sarà particolarmente disposta a impiegare le sue energie in un caso morto e sepolto da anni. Cercheranno di scoprire dove la donna possa essersi trasferita. Se trovano subito qualcosa ci daranno dentro. Ma se l'indagine sembrerà non procedere in alcuna direzione, ributteranno la palla alla Polizia di Stato, che a sua volta la ripasserà a lei, sceriffo, in modo che alla fine sarà l'unica a fare una brutta figura.» «Vedo che ha già lavorato con i federali.» «Un paio di volte» ammise Corso. Si passò una mano fra i capelli. «Pensa davvero che tutte quelle ragazze... Sissy e... come si chiamavano le altre?» «Leslie Louise de Groot e Mary Anne Moody.» «Pensa davvero che siano tutte la stessa persona?» «Sì, credo di sì.» Scosse la testa. «Sembra uscito da un racconto di fantascienza.» Sollevò le mani, lasciandole poi ricadere lungo i fianchi. «Tutto ciò che chiedevo
era un indizio da dare in pasto alla stampa. Non ero in cerca di un altro mistero.» «Bisogna stare attenti ai desideri che si esprimono» ribatté Corso. La donna ammise che era vero e si avviò verso il. corridoio. «Andiamo» soggiunse. «Non vogliamo fare aspettare i nostri amici federali, giusto?» Si salutarono sulla porta dell'ufficio. Nell'atrio, Molina, Dean e Fullmer avevano formato uno stretto capannello e stavano parlando animatamente. Meg era accanto alla porta e strizzava gli occhi per il riflesso accecante della neve. Fullmer strappò una pagina dal suo blocco per gli appunti e la porse a Molina, che si staccò dagli altri due e si incamminò verso Corso. Gli consegnò la pagina. «Ecco ciò che voleva» disse. I suoi occhi scuri lo fissarono gelidi. «Pensa di sapere qualcosa, non è così?» Corso intascò il pezzo di carta. «Forse» rispose. 25 Della nevicata, era rimasta solo una fanghiglia melmosa che circondava la fattoria degli Holmes. Il nastro isolante della polizia aleggiava nella brezza del tardo pomeriggio. Quattro furgoncini dell'FBI senza insegne occupavano il viale d'accesso alla casa. Una mezza dozzina di cavi elettrici correva dal generatore al portico, passando poi attraverso la porta d'entrata per arrivare nell'ingresso, dove i federali avevano allestito il loro quartier generale. «Sembra molto più spazioso alla luce del sole» osservò Meg. «Tutto quel che ricordo di quella notte era la fucina in lontananza. Talmente piccola da sembrare la fiamma di un cerino.» «Sai che cosa mi è rimasto impresso?» chiese lei, mentre si fermava e guardava il capanno. Avevano scardinato la porta e ogni asse del pavimento. Restava solo un profondo avvallamento nel terreno costellato di bandierine bianche con numeri rossi in sovrimpressione, che indicavano con precisione il punto esatto di rinvenimento delle diverse prove. «Mi ricordo la fatica che ho fatto per spostarti» proseguì Meg dopo un attimo. «Avevo la sensazione di trascinare un camion, o qualcosa di simile.» Guardò la casa e poi riportò lo sguardo sul capanno. «Dubito seriamente che Sissy sia riuscita da sola a trasportarli tutti e tre fuori di casa, e poi a farne un unico bel pacchetto. Forse poteva farcela con i due ragazzi. Ma il marito? Sono riuscita a malapena a trascinarti per quindici metri, con te che per giunta pro-
vavi a collaborare.» «È il furgone che non mi convince» la interruppe Corso. «Perché?» «Continuo a cercare di raffigurarmi la scena... dunque, che succede? Sissy fa fuori la famiglia, nasconde i corpi nel capanno, poi ritorna dentro, fa i bagagli, carica tutto sul furgone da sola, si mette al volante e si allontana al tramonto?» Scosse il capo. «Impossibile.» Dougherty incrociò le braccia pensierosa. «Magari l'ha fatto caricare da Eldred e dai ragazzi prima di farli fuori» suggerì. «Possibile» ammise Corso. «Oppure, qualcuno l'ha aiutata.» Meg scoppiò a ridere. «Chissà, magari ha chiesto ai vicini: vi spiacerebbe darmi una mano con il vecchio Eldred? È un po' pesante.» Si coprì il volto con le mani. «Scusa» mormorò. «Sono davvero una sciocca.» Con la coda dell'occhio vide uno degli uomini della Scientifica che si stava avvicinando. Era un piccoletto, indossava un paio di occhiali a lenti spesse e la tipica giacca a vento dell'FBI, nera con la scritta bianca sulla schiena. Si muoveva con circospezione, cercando di non affondare nel fango. «Margaret Dougherty?» «Sono io.» «Avremmo bisogno di lei, là dentro.» «Per cosa?» «Dobbiamo prenderle le impronte digitali» rispose l'uomo guardandola. «Lei invece può restare, le sue le abbiamo trovate, ce n'è tutta una serie» spiegò, lanciando una breve occhiata a Corso. «La polizia di Avalon ha in archivio quelle dei ragazzi. Quindi, una volta escluse quelle della signorina Dougherty, qualunque altra impronta dev'essere della madre o del padre.» Sorrise. «Ho sentito che non amavano molto socializzare.» «È possibile rilevare le impronte digitali dopo quindici anni?» domandò Corso. «Dipende dalla superficie» rispose il piccoletto. «Nella maggior parte dei casi si saranno già volatilizzate, ma su alcune superfici potrebbero... sempre che non siano esposte agli elementi...» allargò le mani «... tutto è possibile.» Corso guardò Meg. «Non ti hanno mai preso le impronte digitali?» «No.» L'agente la prese per un gomito e fece per avviarsi verso la casa. «Non le faremo male» la rassicurò. Meg si volse in cerca di Corso.
«Resto ancora un po' qua fuori» le disse lui. «Arrivo subito.» Camminarono con cautela sul terreno congelato del viale che conduceva alla fattoria. «Mi chiamo Warren» disse il piccoletto, porgendole la mano mentre salivano i gradini del portico. Meg si bloccò un istante sulla soglia, assalita da un'ondata di immagini che la riportarono a quella notte. Rabbrividì al ricordo del vento che ruggiva e del freddo che le attanagliava le membra. L'FBI si era sistemata alla grande. Sulla sinistra, lungo tutta la parete, c'erano alcuni tavoli a mo' di scrivanie. Tre uomini sedevano di fronte a computer portatili, battendo nervosamente sui tasti. Gli agenti speciali Fullmer e Dean erano allo stesso tavolo, uno di fianco all'altro, con un cellulare incollato all'orecchio. Parlavano e prendevano contemporaneamente appunti. Il resto della casa era tutta un formicolio di uomini della Scientifica che si muovevano rapidamente in un dedalo di cavi elettrici. Meg si fece strada verso la cucina al fianco di Warren, che poi l'affidò a una donna di mezz'età di nome Claire e scomparve. Quando il piccoletto tornò, Meg si stava asciugando l'inchiostro dalle dita. «Possiamo anche aspettare il riscontro ufficiale» gli annunciò Claire. «Ma ti posso già anticipare che le sue impronte non coincidono con quelle che abbiamo trovato là dentro.» Sollevò il cartoncino che aveva appena preparato e lo porse a Warren. Il ragazzo lo osservò con attenzione. «Gli esemplari rilevati in casa erano tutti archi» proseguì Claire. «Questi sono tutti spirali e doppi occhielli.» Warren annuì. «Di' a Billy di fare degli scatti delle impronte rilevate in casa e di mandarle a Washington. Vediamo cosa dice il computer.» Claire si avviò verso il retro della casa, e ritornò un minuto dopo seguita da un tecnico, Billy probabilmente, un tizio calvo che aveva la classica espressione da eterno scontento. Meg osservò l'uomo attaccare una Nikon digitale a un cavalletto, far scivolare le impronte sotto le lenti e scattare delle foto. Una volta concluso il lavoro, ripose l'apparecchiatura nella borsa e si diresse verso i computer nell'altra stanza. «Abbiamo quasi finito» annunciò Warren. «Abbiamo delle impronte abbastanza nitide di una mano destra su un foglio di carta adesiva che abbiamo trovato accanto al camino. La colla si è seccata, ma le impronte sono ancora nitide. Come se fossero state lasciate ieri.» «L'ho usata io per accendere il fuoco» disse Meg. «Era il rivestimento dei cassetti della cucina.»
«Proprio come pensavo» rispose Warren. «Se quelle impronte non coincidono con le sue appena rilevate, come sostiene Claire, allora potrebbero appartenere a chi ha foderato i cassetti, tanto per cominciare. E credo si tratti della cara mammina.» E poi, rivolgendosi all'esperta di impronte digitali, concluse: «Penso che per ora sia tutto. Quel che abbiamo trovato corrisponde ai risultati di laboratorio. Perché non facciamo i bagagli e torniamo al motel?». Claire alzò gli occhi al cielo. «Un'altra notte al Timber Inn» esclamò. «Calmati, mio povero cuore.» «Saremo di ritorno a Madison per mezzogiorno» cercò di consolarla. «Sempre che si sopravviva alla cena» borbottò Claire, dirigendosi verso il portico. Warren guardò fuori della cucina, socchiudendo gli occhi per il riverbero della neve. «Li ha stesi là fuori» mormorò. «Stesi?» «Dalle analisi di laboratorio sembra che fossero morti da settantadue ore quando sono stati avvolti nella plastica. Li ha lasciati lì fuori, probabilmente nudi.» Lasciò distrattamente vagare lo sguardo per la stanza. «Tutto ciò che abbiamo scoperto convalida questa tesi.» «Come avete fatto a determinarlo?» domandò Meg. «Le larve» rispose Warren. «Nelle cavità rettali ne abbiamo trovate un bel po'. Erano del terzo instar.» «Terzo cosa?» «Terzo instar. È uno stadio del loro sviluppo.» Lo sguardo disgustato che ottenne di rimando sembrò incoraggiarlo a proseguire nella spiegazione. «Ecco, non che sia il mio campo, è qualcosa di cui si occupa l'entomologo della Scientifica... perciò, prenda le mie parole per quello che sono, non sarò precisissimo.» Sogghignò. «Allora, vediamo, se si prende un cadavere e lo si lascia all'aperto, le prime a fargli visita solitamente sono le mosche. Per lo più quelle comuni e i mosconi della carne. Una volta che si posano sul corpo, cominciano a depositare una serie infinita di uova in ogni cavità e in ogni ferita del corpo.» «Uova?» «Milioni. È qui che la faccenda si fa interessante. A seconda della temperatura e della specie di mosche, le uova ci mettono dalle quindici alle trenta ore per schiudersi. Nella maggior parte dei casi il tutto avviene pressappoco in venti ore. Perciò, le uova danno origine a larve al primo stadio di sviluppo.»
«Il primo instar.» «Esattamente. Dunque, dopo essersi dischiuse cominciano immediatamente a nutrirsi di tessuti e naturalmente cominciano a crescere. Ben presto diventano troppo grandi per la loro cuticola.» Warren si interruppe un istante. «Sarebbe l'involucro flessibile di cui sono rivestite. A ogni modo, non appena la loro stessa cuticola si fa troppo stretta, se ne forma una nuova e quella vecchia si stacca e cade. La maggior parte delle larve compie questo processo tre volte durante il suo ciclo vitale.» «Primo, secondo e terzo instar.» «Precisamente. Il primo solitamente è quello più breve. In media sedici ore. Il secondo dura circa ventitré ore e il terzo trenta. Facendo una media, se si trova un terzo instar, si può facilmente dedurre che il cadavere è rimasto esposto per tre giorni. Se poi trovi le larve nelle cavità rettali, vuol dire che il cadavere era nudo, altrimenti avrebbero trovato un altro modo per farsi strada all'interno del corpo.» Le rivolse un timido sorriso. «Le ho già detto che i corpi sono stati dati alle fiamme? Post mortem. E poi spenti con l'acqua prima di essere imballati nella plastica.» «Ma per quale motivo?» chiese Meg. Il volto di Warren le rispose che non ne aveva idea. «Dovendo fare delle deduzioni, direi che probabilmente i corpi erano tutti ricoperti di insetti e vermi. Forse era un modo per sbarazzarsene prima di dover muovere i cadaveri. Oppure... magari è una persona che ama dare fuoco alle cose. Ha messo l'album di famiglia nella tomba insieme ai cadaveri e questo, per come la vedo io, la rende abbastanza imprevedibile. Qualunque sia stato il motivo, il fuoco non ha danneggiato granché i corpi ma ha ucciso le larve prima che avessero la possibilità di continuare il loro lavoro. La plastica ha impedito ad altre mosche di depositare le uova sui corpi che sono rimasti sotto le assi, come mummificati.» «Si sa cosa li abbia uccisi?» La domanda sembrò offenderlo. «Non ci vuole certo uno scienziato nucleare per capirlo. Trauma cranico. Un oggetto acuminato. Probabilmente un'ascia o una piccola accetta.» Indicò le scale. «Li hanno beccati a letto. Prima il padre e poi i ragazzi.» Meg trasalì. «Mi sta prendendo in giro?» «No di certo.» «Vorrebbe farmi credere che dopo tutto questo tempo voi venite qui, in un posto abbandonato da anni, e riuscite a capire come sono morti, cosa sia accaduto e tutto il resto in solo poche ore?»
«Vuole vedere?» «Ma certo» rispose Meg. «Mi piacerebbe.» Warren si avvicinò alla strumentazione scientifica appoggiata alla parete, frugò per qualche istante ed estrasse una specie di cintura porta-attrezzi nera che si allacciò intorno alla vita. Rituffò la mano nel mucchio e ne estrasse una torcia gialla. L'accese con un rapido movimento del pollice per assicurarsi che funzionasse e poi andò a slegare i cordoni delle tende, lasciandole ricadere sulla porta che dava sulle scale. «Dev'essere buio» spiegò e prese Meg per il gomito facendola salire sul primo gradino. Poi si piazzò accanto a lei, mettendole una mano attorno alla vita e muovendosi con circospezione dietro al cerchio luminoso della torcia. In cima alle scale, la guidò a destra in una stanza spoglia che si affacciava sul fronte della casa. Puntò un raggio di luce sulla parete più lontana e la lasciò scorrere avanti e indietro per un po'. «Il letto doveva essere proprio lì» mormorò. «Il marito dormiva sulla sinistra. Mammina sulla destra.» «Oh, ma per favore» sbuffò Meg. «Stia a guardare» disse lui prendendola per mano e avvicinandosi al centro della stanza. Le porse la torcia. «La tenga lei.» Meg la prese e cominciò a farla scorrere lungo le pareti mentre Warren apriva la cintura portaattrezzi estraendone una piccola pistola a spruzzo, attaccata a un filo non più lungo di dieci centimetri. «Spenga la torcia» le disse. Dougherty obbedì e per un istante rimasero nell'oscurità più completa, fino a che si udì uno scatto e una luce spettrale comparve d'improvviso in mano a Warren. «Ultravioletti» le spiegò. «Faccia attenzione.» Meg gli si avvicinò. Una macchia luminosa si stagliò sulla parete, come una galassia spessa e scura al centro che si diramava in piccoli spruzzi in ogni direzione per poi sfumare in minuscole macchioline che punteggiavano la parete. «Sangue» sentenziò Warren. «Se ci si spruzza sopra del luminolo, non importa quanto sia vecchio o quanto abbiano provato a raschiarlo via, riappare comunque.» Istintivamente Meg allungò la mano e toccò la macchia. «Il marito era sdraiato proprio lì.» Indicò un punto nell'oscurità, poi si avvicinò a un letto immaginario. «L'assassino era qui in piedi. Usava la mano destra.» Alzò un braccio. «Si è abbattuto sulla vittima, così.» E diede una dimostrazione vibrando un colpo violento, poi indicò un altro spruzzo sul muro. «Il primo colpo non l'ha ucciso. Perciò l'assassino ci ha riprovato. E questa macchia ne è il frutto.»
Meg trasalì. «Che brutto modo di andarsene» mormorò. «Perché, ce ne sono di belli?» chiese Warren. Vedendo che non gli rispondeva, spostò il raggio di luce verso di lei. «Si guardi alle spalle» disse. Il pavimento mostrava una spaventosa scia di macchie gialle e nere che portavano alla porta. «Proseguono per tutta la casa fino alla porta sul retro. Vede quelle macchie più scure, nere? È dove qualcuno ha provato a pulire.» Scosse il capo. «Fatica sprecata.» Seguirono la scia fino alle scale dove un fiume di macchie giallastre segnava ogni gradino, per culminare in una pozza scura sul primo gradino. Vi puntò contro la luce violetta. «Vede come le macchie sono sparse a casaccio un po' dappertutto? Non in linea netta? Questo suggerisce che le vittime siano state trasportate fino a qui e poi buttate giù per le scale, una sull'altra, per poi essere nuovamente trascinate fuori dalla porta posteriore.» Dougherty si guardò alle spalle. Un paio di scie spettrali si snodava lungo tutto il corridoio. Warren puntò la luce in quella direzione. «In fondo al corridoio ci sono le stanze dei ragazzi.» Meg si avviò come in trance e Warren la seguì. «Lo stesso schema di prima. Il loro sangue è sopra quello del padre, perciò lui dev'essere caduto per primo.» Aprì la porta ed entrarono. Meg si bloccò sulla soglia, incapace di avvicinarsi ulteriormente alla parete cosparsa di macchie. Si volse, accese la torcia e ritornò in corridoio. Rimase ferma in cima alle scale, vedendo scorrere davanti a sé il film del massacro. Sentendo il tonfo dell'ascia che penetrava nella carne e nelle ossa. Osservando lo spruzzo di sangue schizzare sulla parete. Eldred che si torceva in agonia e il secondo colpo che lo finiva. I cadaveri gettati giù per le scale. Benché razionalmente sapesse che non era possibile, percepiva l'odore del sangue nelle narici, metallico e dolciastro come sempre, inconfondibile anche dopo averlo sperimentato una sola volta. «Usciamo da qui» esclamò, puntando la torcia sulle scale. «Questo posto mi fa venire i brividi.» Scese le scale di corsa, scostò la tenda e tornò nell'ingresso illuminato, dove Corso stava confabulando in un angolo con Fullmer e Dean. Le attrezzature ammonticchiate contro la parete erano state impacchettate per il trasporto. Claire stava finendo di inscatolare il resto del materiale insieme a un paio di tecnici in giacca a vento nera. «Ci vediamo in città» disse a War-
ren, prima di seguire gli altri due fuori della porta. Il trillo di un telefono. Dean rispose e si mise in ascolto. Le stufe elettriche erano spente. Il generatore esterno si era arrestato. Un paio di minuti più tardi anche i cavi erano stati arrotolati e impilati su uno dei furgoni. Dean si spostò in un angolo in modo che i tecnici potessero portar via i tavoli. Corso si aggirava per la stanza. Fece un cenno di saluto a Warren, che usciva dalla porta con una manciata di attrezzature sotto il braccio. L'uomo strizzò l'occhio a Meg. «Mi sa che il piccoletto ha un debole per te» disse Corso. «Warren?» Si voltò a guardarlo. «È in gamba.» Ridacchiò. «Conosce un po' troppi particolari sulle larve per i miei gusti, ma chi lo sa... ne è passato di tempo. Se gioca bene le sue carte potrebbe anche andargli bene.» Corso sogghignò. «Gli manca solo una scaletta per dar vita alle sue manie di grandezza.» Lo ammonì scherzosamente con un dito. «Sai cosa si dice dei piccoletti, Corso...» E fece un gesto con la mano come a misurare una lunghezza. «Rimarresti stupefatto.» Prima che Corso potesse ribattere, Fullmer e Dean gli erano comparsi alle spalle. «Abbiamo avuto una soffiata sulla macchina acquistata da Tommie de Groot. Mi serve una linea fissa per i dettagli.» Fullmer lanciò un'ultima occhiata alla stanza. «Che topaia» esclamò. «Oh, non saprei» commentò Meg. «Scommetto che l'avevano arredata con gusto.» Per la prima volta nella giornata, tutti sorrisero. Dean condusse la processione fuori della porta dove la brezza del tardo pomeriggio si era rinfrescata. Erano rimasti solo una macchina blu e un furgone bianco. Warren si era fermato di fronte al portico e si stava pulendo gli occhiali. «Torna in città?» gli gridò Meg. «Già» rispose con un sorriso timido. «Vuole un passaggio?» «Perché no? Mi può sempre spiegare qualcos'altro su quelle larve.» La prospettiva sembrò rallegrarlo incredibilmente. 26 Meg stava punzecchiando le uova con la forchetta. Corso bevve un sorso di caffè. «Non giocare con il cibo» le disse. «Non avevo chiesto uova strapazzate poco cotte? Mi hai sentito anche tu, no? Sono dure come mattoni.» «Allora... era davvero così?»
«Era davvero così cosa?» Corso allineò le mani a una certa distanza. Poi le allontanò ancora. Meg scoppiò a ridere. «Di più» rispose lasciando cadere la forchetta sul piatto. «A dire il vero, siamo andati a passeggiare nel parco. C'era una specie di luna park invernale. Sai, piste di pattinaggio, cavalli, quel genere di cose. Abbiamo fatto un giro sulla ruota della fortuna.» «Davvero un quadretto d'altri tempi.» «È un ragazzo dolcissimo. Laureato al MIT.» «Che Dio ce ne scampi.» Meg si asciugò le labbra con un tovagliolino di carta e lo gettò nel piatto. «Dobbiamo andarcene da qui, Corso. Abbiamo fatto tutto ciò che potevamo. Questo posto comincia a darmi sui nervi. Mi ricorda la cittadina dove sono cresciuta nell'Iowa.» «Alla mezzanotte di oggi scadono i termini del Gran Giurì» annunciò Corso. «Dopo di che potrò noleggiare una macchina con la mia vera carta di credito, senza che quei due cowboy mi trascinino in Texas per i capelli.» «Mi devi ancora un cellulare.» «Non appena ce ne andranno da qui, te ne comprerò una decina.» Vedendo un'ombra profilarsi accanto al tavolino, Corso coprì la tazza di caffè con la mano, ma non si trattava di una cameriera desiderosa di placare la sua sete, quanto piuttosto dei due agenti speciali Fullmer e Dean che, sbarbati di fresco, si erano materializzati all'improvviso nel ristorante. Corso e Meg scivolarono sui sedili, addossandosi al muro, e i due uomini si sedettero, Dean accanto a Corso e Fullmer di fronte. Fu quest'ultimo a rompere gli indugi: «Ce ne andiamo da qui» annunciò. «D'ora in poi la faccenda riguarda solo l'ufficio di Madison.» «La Chevy di de Groot è stata ritrovata lungo la Statale 83 vicino al lago Geneva, nel Michigan» soggiunse Dean. «Sembra che sia saltata una guarnizione e il nostro amico abbia abbandonato il veicolo.» «Molto vicino a Chicago» commentò Fullmer. «Probabilmente se l'è fatta in taxi fino in città. Per poi disperdersi tra la folla. Stiamo ancora facendo dei controlli.» «Lo prenderemo» assicurò Dean. «È solo questione di tempo. Ha un mandato federale sulle spalle. Si sta spostando da uno stato all'altro per evitare l'incriminazione, ma appena smette di vagabondare lo inchiodiamo.» «Pensate veramente che l'ufficio di Madison abbia intenzione di proseguire le indagini su Sissy Warwick?» chiese Corso.
«Sono in un vicolo cieco» fece Fullmer. «Il furgone della famiglia Holmes è stato venduto quattordici anni fa a un tizio di Wayne, nell'Indiana, che è morto nell'89. La firma sul passaggio di proprietà è di Sissy Marie Holmes. Da allora il furgone ha cambiato tre volte proprietario. Per poi finire i suoi giorni in fondo a un burrone, nei pressi di una fattoria a Davenport, nell'Iowa, dove si trova tuttora.» Dean fece un sorrisetto compiaciuto. «Gli agenti di Minneapolis erano abbastanza seccati di essersi dovuti calare là sotto per verificare il numero di telaio.» «La pista finisce qua» concluse Fullmer. «Niente neppure a proposito del mobilio di casa» soggiunse Dean. «Abbiamo mostrato le foto a ogni rivenditore di mobili usati del Midwest. Niente. Nessuno ricorda di aver mai visto uno di quei pezzi. Considerando gli anni che sono passati, non me ne stupisco.» «Supponendo che Sissy Warwick sia ancora viva, di certo non ha lasciato dietro di sé nessuna traccia cartacea dal giorno della firma per il passaggio di proprietà del furgone, nell'87. Non ha mai usato la carta di credito, la tessera della biblioteca, la patente di guida. Basandosi sui dati del computer, sembra scomparsa dalla faccia della terra.» «Pare proprio che ci si debba mettere una, pietra sopra» osservò Meg. I due agenti si scambiarono un'occhiata fuggevole. «Non proprio» mormorò Dean, mentre estraeva una foto in bianco e nero dalla tasca interna della giacca. «Le impronte rilevate nella casa» spiegò Fullmer. «Secondo il computer appartengono a una giovane donna arrestata due volte a Cleveland, nell'Ohio. Per adescamento, prostituzione e aggressione. A quanto pare i fatti risalgono a cinque mesi dopo la fuga dalle suore.» «Ha usato un rasoio affilato su un paio di uomini. A uno hanno dovuto dare ottanta punti.» «Al secondo ha quasi staccato gli attributi» proseguì Dean. «Date le circostanze, nessuno dei due ha voluto sporgere denuncia» affermò Fullmer. «Erano entrambi sposati. Non avevano nessuna intenzione di andare a testimoniare in tribunale. Bastava già aver dovuto spiegare i punti di sutura alle mogli.» «E ancora adesso non ne vogliono sentir parlare» concluse, volgendosi verso il collega, titubante. Dean annuì di rimando, stringendosi nelle spalle, e mise sul tavolo quello che teneva in mano. Era una foto segnaletica. Distretto di polizia di Cleveland, numero 1258793.
Avrebbe potuto essere greca, spagnola, portoricana, afroamericana... impossibile definirlo. Lineamenti delicati e un sottile nasino all'insù. Capelli castani ondulati. Occhi così chiari da far venire il sospetto che portasse lenti a contatto colorate. Il volto appariva asimmetrico, complice un grosso livido violaceo sulla guancia sinistra. «Sa, signor Corso» esordì Dean senza riuscire a camuffare il rancore «quando ha avuto quell'intuizione sulla tomba, ho pensato che si trattasse solo di fortuna, pura e semplice casualità.» «Ed è ancora la mia teoria» soggiunse Fullmer senza accennare un sorriso. «No, Gene» lo rintuzzò il compagno. «Bisogna riconoscerlo. Il resto del mondo ci ha messo quindici anni a capire quel che Corso ha intuito in una settimana.» Scosse il testone calvo. «Non possiamo negarlo.» Meg si sporse in avanti sul tavolo. «Intendete dire che... voi ragazzi ora siete convinti che tutte queste donne siano esattamente la stessa persona?» «Fino ad Allentown senza dubbio» rispose Fullmer. «Lo sceriffo Trask dice che corrisponde alla donna che conosceva sotto il nome di Sissy Marie Warwick. E le Castiglione sono altrettanto certe che si tratti della ragazza che si faceva chiamare Mary Anne Moody.» «Le Castiglione?» A Dean scappò un sorriso. «Le due suore, le gemelle Agnese e Veronica Castiglione.» «E che mi dite del New Jersey?» domandò Corso. Dean sospirò. «L'ufficio dell'FBI locale ci sta lavorando» rispose. «Sembra che abbiano serie difficoltà a trovare qualcuno che ammetta di aver visto la ragazza.» «E Rodney de Groot?» «Non è mai ritornato a casa dal giorno dell'omicidio del professor Rosen. Pensiamo che si nasconda da qualche parte nei paraggi, ma non siamo ancora riusciti a mettergli le mani addosso.» Fullmer allungò una mano e batté un dito sulla foto. «Agli agenti che l'hanno arrestata ha detto di chiamarsi Nancy Lee Jamison.» «Sceglie sempre un doppio nome» osservò Meg. «È tipico dei clan familiari molto estesi» spiegò Corso. «Ogni membro della famiglia viene chiamato con il nome di qualche parente. Per capire poi a chi si fa riferimento, si utilizza sempre il secondo nome.» «Fino a ora non c'è niente che colleghi direttamente questa persona all'indagine di nostra competenza» affermò Fullmer.
«Ce ne sono a bizzeffe di collegamenti con l'indagine del New Jersey» ribatté Corso. «Per esempio?» «Per esempio il modo in cui sono stati organizzati i crimini. A parte la faccenda dell'adescamento, si tratta sempre di reati che prevedono una certa premeditazione, organizzati nel minimo dettaglio. Secondo il mio parere, se una ragazza di diciassette anni trova il modo di far fuori l'intera famiglia e di fingersi anch'essa tra le vittime per far perdere le sue tracce, vuol dire che ci troviamo di fronte a un criminale fatto e finito.» «Non esiste un profilo psicologico per un killer che uccide i propri familiari» obiettò Dean. «Che si fottano i profili» scattò Corso. «C'è la stessa mente dietro tutti questi crimini. Me lo sento. Qualcuno che non si ferma a pensare se è giusto o sbagliato, buono o cattivo, semplicemente non gliene frega un accidenti. Una persona che è stata sottoposta a una tale pressione che le è scattato qualcosa in testa, convincendola di avere il diritto di commettere ogni possibile nefandezza per sopravvivere.» Fece scorrere lo sguardo da un agente all'altro. «Coraggio, ragazzi... non posso essere il solo ad avere questa sensazione. Datemi una mano.» Prima che potessero schermirsi, arrivò la cameriera con altre due tazze e una caraffa di caffè. Gli agenti declinarono l'offerta e scivolarono fuori dai sedili. «Non bastano le sensazioni» sentenziò Fullmer. «Non portano da nessuna parte. Per quanto ne sappiamo, quella donna è morta e sepolta. Non possiamo permetterci di buttare tempo e risorse in una faccenda del genere.» Corso afferrò la foto segnaletica. «Se la tenga pure» disse porgendola a Fullmer, che non si diede pena di riprenderla. «Abbiamo inviato un comunicato» aggiunse Dean. «Chiedendo informazioni su qualunque caso verificatosi negli ultimi quindici anni in cui un'intera famiglia sia rimasta vittima di un incidente o sia scomparsa, oppure casi di madri che si siano eclissate nel nulla. Risultato: zero. Niente di niente.» «E che mi dite del comportamento rituale?» chiese Corso. «A cosa si riferisce?» domandò Dean. «A quelle azioni non strettamente necessarie alla perpetrazione del crimine.» «Per esempio?» «Rimanere a guardare la tua famiglia che arde viva nelle fiamme.»
«Sta parlando dei disegni» disse Fullmer. «O sistemare il cadavere della suora in una posizione oscena. Oppure lasciare figli e marito nudi nel cortile di casa per tre giorni; o ancora gettare l'album di famiglia nella tomba insieme alle vittime.» Corso alzò le marni.. «Non erano azioni strettamente necessarie al crimine, ma erano fondamentali per le pulsioni emotive dell'omicida.» Fissò gli agenti dell'FBI in cerca di un assenso, ma incontrò solo sguardi impassibili. «Niente di tutto questo ci è d'aiuto, signor Corso» rispose l'agente Dean. «Magari prima dell'undici settembre avremmo potuto seguire una pista del genere, ma ora non è più possibile.» «Anche noi siamo in un vicolo cieco» proseguì Fullmer. «Non ci sono mandati di cattura sulla persona e non abbiamo appigli legali per procedere.» «Che mi dite della sua famiglia d'origine? E di quella Velma de Groot che hanno trovato al suo posto nella tomba?» «La contea di Bergen non ha ancora preso una decisione, ma se dovessi dirle come la penso, sono certo che si limiteranno ad aprire un altro incartamento. Niente di più.» «Qui fuori, da qualche parte, c'è una donna seriamente disturbata» esclamò Corso. «Ha già ucciso per lo meno otto persone e ne ha ferite diverse altre. E non sappiamo ancora tutto della sua vita. Dovunque vada, spuntano cadaveri.» Dean scosse il capo. «Anche supponendo che sia ancora in vita, non è detto che farà del male a qualcun altro.» «Cosa vorreste farmi credere? Che abbia riconosciuto gli errori commessi? Che abbia messo la testa a posto e si stia occupando amorevolmente della sua famiglia in Florida?» «Non vogliamo farle credere un bel niente» rispose Dean. «Non ci sono neppure molte probabilità che sia ancora in circolazione. Conduceva una vita ad alto rischio. E da più di trent'anni. È facile che sia già finita morta stecchita.» Dean raddrizzò le spalle e si abbottonò la giacca. «Non so se l'ha notato, signor Corso, ma il nostro Paese non se la passa tanto bene di questi giorni. Sembra che il mondo intero abbia intenzione di farci fuori. Gente che se ne sta da qualche parte a complottare la nostra rovina mentre lei è lì a mangiare le sue uova. Perciò ci scuserà se torniamo a fare quello per cui siamo pagati.» Se ne andarono senza lasciare la mancia. Mentre si dirigevano all'uscita,
Fullmer afferrò al volo una fettina di melone dal banco del bar e se la ficcò in bocca. Stava ancora masticando il suo boccone quando scomparve dietro l'angolo. Meg cercò di interpretare l'espressione di Corso. «Questa faccenda è davvero diventata la tua spina nel fianco, non è così?» Corso infilò il naso nella tazza di caffè senza rispondere. «Non perderemo un'altra settimana dietro al caso, vero?» azzardò ancora lei. Corso scivolò fuori dal sedile. «È come aveva detto il professor Rosen a proposito della popolazione Ramapo. È stato come scoprire una tribù amazzonica scomparsa.» La fissò duramente. «Hai sentito l'agente Fullmer: non esiste un profilo psicologico per un assassino che toglie di mezzo ripetutamente l'intera famiglia. Per quanto ne sappiamo, nessuno si è mai macchiato di quel delitto più di una volta. Siamo di fronte a un criminale unico nel suo genere, mai visto prima d'ora.» Agitò un dito. «Quella donna è malvagia come uno squalo.» «Uno squalo non può comportarsi altrimenti» osservò Meg. «Lo stesso vale per lei.» Si alzarono e si diressero verso la cassa. «Uno squalo non è malvagio di per sé, a dire il vero.» «Lo è, invece, soprattutto se ha la tua gamba tra i denti.» Nove dollari e settantacinque centesimi dopo, incluso un venti per cento di mancia, erano all'aperto, a godersi quella che in Wisconsin poteva passare per una bella mattinata di tardo novembre. Luminosa, bianca e fredda come il ghiaccio, sotto un cielo blu acrilico. Con gli occhi ancora mezzo chiusi per il riverbero accecante della neve, Corso stava cercando gli occhiali da sole quando due mani lo afferrarono alle spalle, facendogli compiere mezzo giro su se stesso e mandandolo a sbattere la fronte contro la vetrina del ristorante. Corso sferrò un violento calcio all'indietro con il piede destro, che andò a centrare la tibia dell'agente Caruth. L'uomo si lasciò scappare un gemito e mollò del tutto la presa, mentre Corso faceva scattare la testa all'indietro colpendogli il mento. Se non fosse stato per l'intervento tempestivo dell'agente Duckett, l'incontro sarebbe finito in modo totalmente diverso. Ma in due ci misero meno di un minuto a far scattare le manette ai polsi di Corso. E questo mise fine alla discussione. I clienti del ristorante, nel frattempo, avevano abbandonato i tavolini per pigiarsi l'uno contro l'altro e assistere alla scena da dietro le vetrine. Il cappello da cowboy dell'agente Caruth si era tutto spiegazzato nel taf-
feruglio ed era caduto sul marciapiede. Duckett lo raccolse. «Frank Corso» recitò Duckett «è in arresto per mancata testimonianza presso il tribunale di Dallas, stato del Texas. È suo diritto non...» 27 Corso cercò di fare resistenza, puntando i piedi, ma la pressione esercitata dai due agenti lo costringeva ad avanzare. «Forza, ragazzi, dateci un taglio» esclamò. «Mancano meno di quattordici ore alla scadenza del mandato di comparizione. Non riuscirete mai a riportarmi in Texas entro mezzanotte.» «Secondo la legge ci basta far scattare le manette in tempo» rispose Caruth. «Si tratta solo di un malinteso fra me e l'Ufficio del Procuratore Distrettuale, santo cielo. Mi state trattando come se fossi accusato di omicidio. Qual è il problema? Non avete dei veri criminali in Texas?» «Ci ha fatto fare brutta figura tante di quelle volte...» «... facendoci sembrare dei completi idioti...» puntualizzò Caruth. «... che non ci dispiace fare qualche piccolo sforzo in più, non so se mi sono spiegato» concluse Duckett con una strizzatina d'occhi al compagno. Il vice sceriffo Caruth teneva Corso per la catena delle manette, mentre procedevano a passo spedito lungo la strada. La prima giornata serena dopo la tempesta aveva attirato fuori casa i cittadini di Avalon, che avevano occupato i parcheggi con i loro pick-up infangati e affollavano i marciapiedi spazzati dalla neve. La gente passeggiava per le strade, si fermava a fare compere o a scambiare due chiacchiere con gli amici. Nel veder passare Corso, ammanettato e sotto scorta, i rispettabili compaesani si facevano da parte, scambiandosi occhiate stupefatte. Corso sentì qualcuno borbottare: «Ma non è quel famoso scrittore?». «Pensavo che se la fosse svignata» commentò una donna. «Era così infatti» soggiunse una terza voce. Caruth e Duckett continuavano ad annuire sorridendo, toccandosi la falda del cappello in segno di saluto. Corso voltò la testa per dare un'occhiata alle sue spalle. Erano seguiti da un gruppo di ragazzini che giocavano a guardie e ladri, sparandosi a vicenda con pistole immaginarie, e da una folla di curiosi, che si tenevano a debita distanza. Si fermarono all'angolo fra la Brad e la Main, aspettando il verde del semaforo. Il traffico procedeva a rilento lungo le strade ghiacciate e il ci-
golio delle catene da neve annunciava il passaggio di ogni vettura. Caruth premette per la terza volta il pulsante per i pedoni, ma senza risultato. Uno scricchiolio di pneumatici che frenavano sulla neve attirò l'attenzione di Corso, che si voltò di scatto. Una Cadillac Seville blu si era fermata a poca distanza da loro. La portiera si spalancò con tale violenza che la macchina ondeggiò sulle ruote. La prima cosa che spuntò dallo sportello fu la canna di una pistola, con il cane in posizione di sparo. Clint Richardson tremava così nervosamente che doveva tenere l'arma con entrambe le mani. Caruth non riuscì nemmeno a sfiorare la sua fondina che Richardson urlò: «Non ci provare!». Il volto era cinereo. Gli occhi gonfi e arrossati. «Non voglio far del male a nessun altro. Allontanatevi da lui» urlò. «Ha ucciso il mio ragazzo! Ha ucciso mio figlio!» «Stia calmo, signore» disse Duckett con un filo di voce. Alzò un braccio in un gesto pacificatore. Richardson spostò la canna della pistola nella sua direzione. L'agente trattenne il fiato e lentamente riabbassò la mano. Un pick-up blu si fermò accanto a loro. L'autista scese tenendo le mani bene in vista. «Clint» esclamò. «Ascolta, amico...» Richardson lo vide con la coda dell'occhio. «Vattene di qui, Charlie» singhiozzò. «Rimettiti al volante e tornatene a casa.» L'uomo fece un passo avanti. «Clint, ti prego...» Più in là non riuscì ad arrivare, perché Richardson si voltò di scatto puntandogli contro la pistola. L'uomo si immobilizzò, trattenendo il fiato e chiudendo gli occhi. In attesa del colpo. «Forse è meglio che risalga in macchina, signore» lo esortò Duckett. Charlie non se lo fece ripetere due volte. Con gli occhi sbarrati indietreggiò fino alla portiera aperta, montò al posto di guida e, ingranata la marcia, partì a razzo con ancora un piede fuori dallo sportello. Approfittando della momentanea confusione, l'agente Caruth spinse con l'anca Corso contro il palo della luce. Il movimento catturò l'attenzione di Richardson. La pistola ritornò a puntarsi contro di loro. «Allontanati da lui!» ripeté l'uomo. Nessuno si mosse. «Un passo indietro!» gridò ancora, prendendo di mira Caruth. L'agente alzò le mani in segno di resa, abbandonando le manette di Corso, il quale fece un mezzo giro intorno al palo della luce frapponendo il pilone d'acciaio tra sé e l'arma. «Non faccia sciocchezze, Richardson» lo ammonì Duckett. «Nessuno
può biasimarla per come si sente. Non dopo quello che ha passato. La perdita di un figlio è un dolore inimmaginabile. Metta via la pistola, signore, e dimenticheremo l'intera faccenda.» Richardson cominciò a singhiozzare. «Taci!» gridò. Si asciugò con la manica il fiume di lacrime che gli scendeva sul volto. Poi urlò a Caruth: «Allontanati da lui!». L'agente raddrizzò le spalle, le vene del collo tese come corde di violino. «Temo di non poterlo fare. Il signor Corso è sotto la mia custodia. Non posso...» Richardson raggiunse con un balzo l'agente e gli premette la canna della pistola contro la fronte. «Ti ho avvertito... Non voglio farti del male...» Il dito sul grilletto cominciò a tremare. Il pomo d'Adamo di Caruth sobbalzava come una pallina da tennis. Duckett stava cominciando a spostare in maniera impercettibile la mano verso la tasca interna, quando Corso uscì allo scoperto. «Fermo... se vuole sparare a qualcuno... eccomi. Sono io quello che le interessa. Non ha senso fare del male a qualcun altro» disse avvicinandosi all'uomo. Richardson gli puntò la canna della pistola sotto il mento. «Ti ammazzo, brutto figlio di puttana!» ansimò. «Proprio come hai ucciso mio figlio!» Corso fissò l'uomo negli occhi arrossati. «Non sono stato io ad ammazzare suo figlio» mormorò. «Brutto figlio di puttana bugiardo!» sibilò Richardson. Corso rimase a osservare il dito che si stringeva sul grilletto, trattenendo il fiato. «Implora!» gli urlò in faccia Richardson. «Brutto vigliacco bastardo... implora per la tua miserabile vita!» Corso non abbassò lo sguardo. «Gliel'ho detto. Non ho ucciso suo figlio» ripeté. «Perciò perché non va a farsi fottere?» Caruth spostò la mano verso il fianco, Duckett verso la tasca interna. Corso chiuse gli occhi. «Bang! Bang! Bang!» Il grido di giubilo arrivò all'improvviso. Tutti si immobilizzarono, il fiato corto in gola. Corso riaprì gli occhi. Avrà avuto all'incirca cinque anni. Un bambino paffutello con la candela al naso, una tutina da neve bianca e le galosce rosse. Si muoveva in tondo sul marciapiede simulando una cavalcata su un destriero indomabile. I guantini a manopola marroni erano fissati alle maniche con spille da balia. Ne puntò uno contro Corso, premendo un grilletto immaginario. «Bang!
Bang! Bang!» Clint Richardson tremava con tale violenza che la canna prese a sbattere rumorosamente contro il mento di Corso. Il piccolo guardò Richardson in volto e sorrise. «Bang!» ripeté. L'uomo strinse forte il calcio della pistola. Esitò un istante prima di abbassare il cane del grilletto e abbandonare la mano lungo il fianco. Cominciò a singhiozzare. L'arma gli scivolò dalle dita e cadde sul marciapiede. Duckett si avvicinò e la raccolse. A quel punto Caruth aveva già la sua pistola in pugno, ma il collega gli fece segno di metterla via e prese Richardson per un braccio. «Venga, signore» mormorò. «Non si preoccupi. Cercheremo qualcuno che possa aiutarla a superare questo difficile momento.» Richardson piangeva a dirotto, in silenzio, le spalle scosse dai sussulti. Una donna, bigodini in testa e vestita solo con un golfino rosa e un paio di jeans, si fece strada tra la folla, prese in braccio il bambino e lo portò via. Duckett si voltò e chiese: «C'è qualcuno che può riportare questo signore a casa?». I volontari non mancarono. Dopo aver confabulato tra loro, due uomini si fecero avanti e si affiancarono a Clint Richardson per accompagnarlo a casa. Un terzo si mise alla guida della Cadillac, fece un'inversione a U e si allontanò. Mentre la folla cominciava a disperdersi, Duckett fissò Corso con rinnovato rispetto. «Lei è davvero incredibile, sa?» Gli girò attorno, come se lo vedesse per la prima volta. «Così su due piedi non so se definirla molto coraggioso o molto stupido. Ma una persona ambigua come lei non può essere tanto stupida, perciò non mi restano che due alternative: o è un vero e proprio eroe oppure non gliene importa molto di morire.» Si asciugò gli angoli della bocca con l'indice e il pollice della mano destra. «Allora, lei per quale teoria propende?» «Se un giorno dovessi scoprirlo, glielo farò sapere» rispose Corso, guardando la folla che retrocedeva per far passare Clint Richardson. «Avrebbe sparato a Ray, poco ma sicuro» proseguì Duckett, accennando col capo al compagno. «Se non si fosse intromesso lei, adesso saremmo qui a raccogliere i frammenti del suo cervello.» «A volte proviamo l'impulso di fare qualcosa di insensato» mormorò Corso. «In modo che la gente capisca quanto soffriamo. Come se l'unico modo per controllare il dolore fosse quello di rovinarsi la vita con un gesto irreparabile.» «Non posso neanche pensare di sopravvivere a uno dei miei figli» osser-
vò Duckett. «Non so cosa mi darebbe la forza di alzarmi dal letto la mattina.» Guardò il collega. «Il nostro amico ti ha salvato il culo, figliolo» disse. «Sì, signore» rispose Caruth. «Mi sa tanto che lo stato del Texas dovrà proprio fare a meno del signor Corso, non ti pare?» «Non mi sembrerebbe giusto arrestarlo proprio adesso.» «Perché non gli togli quelle manette, allora?» proseguì Duckett. «Mi sembra il minimo che possiamo fare per lui.» «Un istante...» disse Corso. «Vi spiacerebbe rispondere prima a una domanda?» «Cosa vuole sapere?» «Come avete fatto a trovarmi? Per quanto ne sapevate, ero ancora sospettato di omicidio in questa città. Un particolare che avrebbe dovuto renderla l'ultimo posto al mondo in cui cercarmi. Come avete fatto ad andare così sul sicuro?» Duckett ci rifletté un istante e poi glielo disse. «Come pensavo» rispose Corso. «Perché non mi lasciate ancora un po' le manette ai polsi? Vediamo se riesco a smuovere un po' le acque...» 28 Meg Dougherty rimase a osservare i due poliziotti vestiti da cowboy scortare Corso lungo la strada per scomparire di lì a poco dietro l'angolo. Sentendosi tutti gli occhi puntati addosso, voltò le spalle ai volti incollati alla vetrina del ristorante e si incamminò verso il Timber Inn Motel. Il suono di un clacson attirò la sua attenzione e scorse un furgone bianco parcheggiato sull'altro lato della strada. Warren aveva abbassato il finestrino e si stava pulendo gli occhiali con un fazzoletto di carta. «Tutto bene?» gridò. Meg scese dal marciapiede e si diresse verso il furgone. «Che diavolo è successo?» le chiese. Lei gli fornì una versione assai sintetica dell'accaduto. Sul marciapiede opposto, i clienti del ristorante si erano riversati in strada, mentre la storia dell'arresto di Corso cominciava a passare di bocca in bocca, nel rituale del passaparola fatto di bisbigli e mormorii a mezzo fiato. «Ti serve un passaggio da qualche parte?» le domandò Warren. «Sì, direi di sì» rispose Meg, dopo averci riflettuto un attimo. «Penso
che farò i bagagli e prenderò il primo aereo per Seatde.» Warren cercò di mascherare la felicità. «Sono diretto a Madison» disse. «Posso aspettarti mentre fai le valige e poi ti accompagno all'aeroporto, se ti va.» «Oh... no, non posso chiederti una cosa simile» protestò Meg. «Chiamerò un taxi e...» «Sarebbe un onore per me» insisté Warren. «E poi, vado proprio da quelle parti.» Si sporse in avanti e le aprì la porta del passeggero. «Sono certa che hai di meglio da fare che non scarrozzarmi per la città» protestò Meg. «Potremmo pranzare insieme» propose lui. «Pago io» esclamò Meg. «Affare fatto.» Fece il giro del furgone e salì. Tre svolte a destra più tardi erano di nuovo al motel. Una volta impacchettata la sua roba e quella di Corso, Meg prenotò un volo per Seattle e pagò la stanza. Warren gettò le valige nel portabagagli e chiuse il portellone. «Immagino che il tuo amico non ne avrà bisogno per un po'» osservò. «Con lui non si sa mai» rispose Meg, allacciandosi la cintura di sicurezza. «Ha in serbo un intero plotone di avvocati super pagati. Conoscendolo, troverà il modo di aggirare l'ostacolo. Probabilmente arriverà a Seatde prima di me.» «Lavori con lui da molto tempo?» chiese Warren mentre il furgone usciva sobbalzando dal vialetto d'ingresso per immettersi nel traffico. «Da anni. Ogni volta che sta per pubblicare un libro, mi occupo delle foto e lo aiuto nelle ricerche.» Scrollò le spalle. «Mi paga molto più del dovuto e io chiudo un occhio sulle sue stronzate.» Il tono spavaldo di Meg attirò l'attenzione di Warren. «Quindi... voglio dire... tu e lui non...» Arrossì leggermente. «Non più» rispose lei. «Siamo stati una coppia, ma tanti anni fa. È finita da un pezzo. Ultimamente tra me e Corso è solo una questione d'affari.» Captando una seconda domanda in arrivo, si affrettò a cambiare argomento. «Pensi che l'ufficio di Madison seguirà la pista della famiglia Holmes?» domandò. «Solo se qualcuno andrà a Chi l'ha visto» rispose Warren, mentre sorpassavano il palazzo del tribunale e prendevano un ampio viale alberato fiancheggiato da bassi edifici in stile minimalista, tutti colonne squadrate e planimetrie orizzontali.
«Il tuo amico Corso» riattaccò Warren «è davvero l'eremita che la stampa dipinge?» «Frank ama definirsi un artista reticente.» «Questa è buona» ridacchiò lui. Alla fine del viale il furgoncino svoltò a sinistra, dirigendosi verso nord, lunga la strada che costeggiava il McCauley Park. Meg osservò dal finestrino i prati deserti ricoperti di neve, le panchine vuote, i giochi silenziosi dei bambini e il bianco gazebo che troneggiava al centro della scena. Pensò a come il luogo dovesse animarsi nelle serate estive e immaginò la banda militare che suonava, le donne sedute ad ascoltare sventolando il programma come un ventaglio e i bambini che correvano eccitati sull'erba. La sede del dipartimento forestale separava McCauley Park da Avalon Gardens, il cimitero cittadino. Un posto ben curato, immerso negli alberi, di dimensioni imprecisate perché il confine scompariva al di là di una collinetta. «Ultimamente non faccio altro che finire nei pressi dei cimiteri» disse Meg. «Spero che non sia un cattivo presagio.» Warren la assicurò che niente di simile le sarebbe accaduto nel prossimo futuro. «Come fai a saperlo?» gli chiese. «Solo una sensazione» rispose Warren sogghignando. «Corso crede che tutte queste ragazze siano la stessa persona. Voi federali invece pensate che abbia torto. Come faccio a sapere che anche tu non ti stia sbagliando?» «Sono solo un tecnico, non un investigatore, ma è la mancanza di un modus operandi coerente che spiazza tutti» asserì Warren. «Contrariamente a quello che affermano in televisione, di solito i criminali non sono le persone più intelligenti del mondo. Se trovano un metodo che funziona, ci si attengono. Per questo il modus operandi è così importante nelle indagini su un omicidio. È un segno di riconoscimento, come una firma o un'impronta digitale. Per dare ragione a Corso dovrei accettare il fatto che un pluriomicida possa usare ogni volta un modus operandi diverso. Avvelena la famiglia di origine e poi dà fuoco alla casa, usa un coltello su un paio di tizi, spinge una suora giù dalle scale, fa a pezzi con un'ascia la seconda famiglia... Non ha senso» esclamò. «Perché cambiare, se il metodo funziona?» «Esiste sempre la possibilità, però.» «Immagino di sì. Una cosa del genere richiederebbe una procedura inve-
stigativa completamente diversa e un profilo psicologico nuovo di zecca. Non mi sembrano ipotesi verosimili.» Meg allungò una mano e la posò sul braccio del ragazzo. «Cos'hai detto?» «Ho detto che non mi sembrano ipotesi...» «No... prima.» «Ho detto che... se un modus operandi funziona, il criminale tende a ripeterlo, perché non ha motivo di cambiarlo.» Davanti a loro, dal lato della montagna, una colonna ininterrotta di autoarticolati arrancava sulla rampa dell'autostrada, in fila indiana come un'orda di elefanti di metallo. Meg si guardò alle spalle. La foresta circostante aveva inghiottito completamente Avalon. «Warren...» mormorò. «Ho bisogno di un favore.» «Dimmi.» «Riportami in città.» Accostò lentamente a destra ed entrò in un'area di sosta. «Devo ritornare a Madison» obiettò lui. «Mi aspettano in laboratorio domattina alle sette.» «Per favore.» Scosse la testa. «A quest'ora si staranno già chiedendo che fine abbia fatto.» «Ti prego» implorò Meg. «Ho un'idea.» «Quale?» Warren gliela disse. Una risata irrefrenabile le uscì dal cuore. «Piccolo pervertito che non sei altro» esclamò. «E io che pensavo che fossi l'ultimo dei gentiluomini.» «A volte bisogna vedere le cose al microscopio» sogghignò il ragazzo. «Di solito tutto diventa più chiaro in quel modo. Affare fatto?» Lei rise ancora più forte. «Mi sembra di avere di nuovo nove anni» concluse. «Nel fienile con Jimmy Crabtree.» 29 «Me ne andrò fischiettando» annunciò Corso. Lo sceriffo Trask alzò lo sguardo sulle manette e sorrise. «Non credo proprio, data la situazione.» Richiuse il cassetto superiore dello schedario e aprì il successivo. «Non appena Barbara finirà di preparare i documenti per
l'estradizione e io li avrò firmati, temo che l'unico posto in cui andrà sarà il Texas.» Corso si staccò dalla parete cui era appoggiato e si avvicinò pigramente allo sceriffo, che stava archiviando i documenti. La segretaria le aveva facilitato il compito codificando le etichette dei cassetti per colore, rosso, giallo, verde e blu dall'alto in basso. Lo sceriffo doveva limitarsi a mantenere l'ordine alfabetico tra le carte. «Che ne direbbe di stipulare un altro patto?» «Che sarebbe?» «Mi libera da queste manette e mi lascia uscire dalla porta sul retro. Mi basta solo restarmene fuori dai piedi fino a mezzanotte. Che ne dice?» «Sa bene che non posso farlo, signor Corso! Se perdo le sue tracce una seconda volta penseranno che abbia l'Alzheimer.» «Anche se mi prenderanno, non dirò una sola parola. Neanche sull'altra faccenda.» Sospirò e si voltò un attimo dalla sua parte. «Vuole andare a raccontare che l'ho lasciata scappare? Si accomodi pure. Negherò tutto.» Riprese il lavoro di archiviazione. Corso arrancò fino all'estremità opposta della stanza, si appoggiò con una sola natica sulla scrivania dello sceriffo e prese ad armeggiare con le mani dietro la schiena. «Non sto parlando di quando mi ha lasciato scappare, sceriffo. Sto parlando del fatto che sa benissimo come sono andate le cose con Cole Richardson.» Era brava. Le sue mani si bloccarono un solo istante prima di rimettersi al lavoro. «Non merita neanche una risposta, signor Corso.» Appoggiò gli incartamenti in cima allo schedario e si voltò a guardarlo. «E, se mi permette, questo tipo di calunnia è abbastanza di cattivo gusto.» Lo squadrò dall'alto in basso. «Mi sono sbagliata sul suo conto, signor Corso. Si è rivelato esattamente l'irresponsabile che dipingono.» «Ho capito che era stata lei non appena l'agente speciale Molina mi ha riferito che non era sicura se Cole Richardson, quel giorno, indossasse la cravatta o meno.» Scosse la testa sbalordito. «Quel figlio di puttana la portava anche a letto, e lo sapevamo entrambi. Questo mi ha fatto capire chiaramente che era a conoscenza di qualcosa che il resto di noi ignorava. Qualcosa che era assolutamente necessario mantenere sotto silenzio.» La donna richiuse il secondo cassetto e aprì il terzo. «E insiste, anche!» esclamò facendo una smorfia. «Un uomo con la sua reputazione dovrebbe andarci piano con le sparate, non so se mi spiego.»
«Non c'è bisogno che mi credano» ribadì Corso. «Devono solo controllare il numero di serie della pistola che porta in questo momento e confrontarlo con quello della sua arma nel registro ufficiale. Numero unosette-cinque-tre-nove-otto-SWA-dieci, se non mi sbaglio.» Fece una pausa. «Adesso mi mostri la pistola che indossa, sceriffo.» Lo ignorò. Corso proseguì. «Perché sono più che certo che i numeri non combacino. Figuriamoci se porta ancora alla fondina l'arma che ha usato per piantare un proiettile in testa a Cole Richardson. L'ha detto lei stessa: la Polizia di Stato del Wisconsin ha verificato ogni pistola del dipartimento, compresa la sua, e non ha trovato niente. Forza, sceriffo, mi faccia vedere l'arma e mi tapperò la bocca, andandomene buono buono in Texas.» Il volto di lei cominciò ad arrossarsi. «Chiuda quella boccaccia, mi ha sentito?» «Mi mostri la pistola.» «Non farò proprio niente di niente» scattò lei. «Chiuda il becco!» «Cos'è successo? Richardson ha capito che mi aveva lasciato andare e l'ha minacciata di annunciarlo pubblicamente? Di andarlo a dire al paparino? Di farla licenziare per negligenza? Può dirlo allo zio Frank» la schernì Corso. «La confessione è un balsamo per l'anima.» La donna si allungò e lanciò un'occhiata alla porta dell'ufficio. Si avvicinò e la spinse per controllare che la serratura fosse scattata fino in fondo, poi tornò sui suoi passi e si piantò a pochi centimetri dal viso di Corso. «Chiuda quella dannata bocca» sibilò. «Ho già abbastanza problemi senza dover ascoltare le sue ridicole menzogne.» «Mi faccia vedere il numero di serie.» «Sta cominciando a darmi sui nervi, Corso.» «Faccio a tutti questo effetto. È un dono. La pistola.» «Non capisce» iniziò lei. «Mi illumini, allora.» «Non sa neanche di cosa parla.» «Bene... allora mi spieghi.» Un altro sguardo alla porta. «Quello stupido figlio di puttana ha cercato di arrestarmi. Non appena l'ho aiutato a rialzarsi, ha cercato di prendermi la pistola.» Lo sguardo attonito rivelò che stava rivivendo il momento. «Non ho neppure fatto resistenza, perché non appena mi ha afferrato... dalla pistola è partito un colpo. E lui... era morto...» La voce le si indurì. «È stato un incidente, puro e semplice. E se pensa che qualcuno crederà alla parola di un bugiardo, un giornalista già condannato per ingiuria, invece
che alla mia... beh, si sbaglia di grosso.» Lo afferrò per la camicia e stava per spingerlo violentemente contro la porta quando la luce attirò la sua attenzione. Si fermò a metà del gesto, lasciandolo andare, e abbassò lentamente le mani lungo i fianchi. A bocca aperta e con espressione incredula, rimase a fissare il pulsante del telefono con la spia luminosa rossa. Corso continuò a indietreggiare fino alla porta, dove le sue mani riuscirono ad afferrare la maniglia e ad aprirla. Maria Trask non guardò in quella direzione. Come se potesse evitare, così facendo, di affrontare la realtà. E i due agenti della Polizia di Stato del Wisconsin potessero volatilizzarsi come per incanto. Cercò di bluffare. Raddrizzò le spalle. «C'è qualche problema?» chiese. Il suono della sua voce amplificata che giunse dalla stanza della segretaria, le tolse ogni speranza. Finalmente si decise a guardare verso la porta. Passò in rassegna un poliziotto dopo l'altro, per fermarsi sugli agenti Caruth e Duckett, che se ne stavano appoggiati al muro con un'espressione corrucciata. «Si è trattato di...» balbettò la donna. «Non dica una parola» la ammonì Corso. «Chiami un avvocato.» «Non volevo...» disse guardandosi attorno disperata. «Chiami un avvocato» ripeté Corso. Fece un cenno verso il telefono. «Non credo che in tribunale potranno usare le informazioni ottenute in questo modo. Non solo, se le cose sono andate come mi ha raccontato... si è trattato davvero di un incidente. Senza precedenti penali e con un buon avvocato, dovrebbe riuscire a cavarsela.» «Non avrei dovuto...» iniziò, poi strinse la mascella e guardò Corso. «Non avrei dovuto...» ripeté. Corso la interruppe. «Non avrebbe dovuto andare a dire ai ragazzi di Dallas dove mi potevano trovare. Non era obbligata a farlo, ovviamente, a meno che non temesse che me ne andassi in giro a fare troppe domande. E questo mi ha confermato che avevo ragione a sospettare di lei... e che, contrariamente a quanto pensassi, non le dovevo proprio un bel niente.» 30 «Lei è davvero uno spasso, signor Corso» esordì Duckett. «Quando questa storia sarà finita, ho intenzione di passare una serata in casa, con un bel bicchiere di bourbon, per vedere se riesco a capire come... funziona il suo cervello.»
«Personalmente non mi sforzo neanche più di analizzarlo.» «Possiede un talento speciale nel mettere insieme due più due e uscirsene con un nove. E non è finita: di solito riesce poi a convincere tutti gli altri che il risultato è proprio quello. Non credo di aver mai visto niente del genere in vita mia.» L'agente Duckett si sfregò le mani battendo i piedi per terra. «Una cosa è certa, mi manca il Texas» borbottò. «Non ho mai avuto così freddo in vita mia.» «Il suo giovane collega diventerà un gran bravo poliziotto.» «Caruth? È solo un ragazzo... Molto in gamba, questo è certo.» «Aveva una pistola puntata alla testa e un vecchio fuori di sé che gli intimava di allontanarsi... la maggior parte della gente se la sarebbe data a gambe. Il ragazzo ha le palle» concluse Corso. Duckett fece una smorfia. «Se ben ricordo, in una circostanza molto simile lei ha detto a quel signore di andare a farsi fottere.» «Non mi piace essere chiamato bugiardo.» Duckett rimuginò per qualche istante sull'affermazione di Corso. «Posso capire che uno si senta seriamente offeso per una frase del genere» concluse. «Davvero.» Una Crown Victoria marrone si accostò al marciapiede davanti alla stazione di polizia. Ne scese l'agente Caruth, che rimase in piedi accanto allo sportello aperto. Corso lo salutò con la mano. «Tornate a casa a scaldarvi» disse poi, rivolto a Duckett. Si strinsero la mano un po' più a lungo del dovuto e infine il cowboy si avviò giù per le scale. Corso gridò un saluto a Caruth, che in risposta si toccò la falda del cappello prima di risalire in macchina, inserire la marcia e immettersi nel traffico. Corso si abbottonò il cappotto fino al mento e rialzò il bavero. Incassò le spalle per difendersi dal freddo e scese a sua volta le scale di granito grigio. «Ehi» sentì chiamare da una voce familiare. Si voltò verso il parcheggio della polizia, dall'altra parte della strada. Si sfilò una mano di tasca e la usò per schermarsi dal riverbero del sole al tramonto. Dougherty e Warren erano appoggiati una accanto all'altro allo sportello posteriore di un furgone bianco. Il piccoletto arrivava a malapena alle spalle di Meg. Sembrava un elfo catturato dai vampiri. «Te l'avevo detto» esclamò lei rivolta a Warren, mentre Corso si avvicinava. «In un modo o nell'altro riesce sempre a cavarsela. Un attimo prima è in arresto, pronto per essere estradato in Texas, e subito dopo ti trovi ad
assistere a uno spettacolo di sentita solidarietà maschile fra lui e i suoi persecutori, che si allontanano poi lentamente al tramonto, senza il prigioniero. È assolutamente strabiliante.» «Davvero scaltro» ammise Warren. «Che ci fai qui?» le chiese Corso. «Ti immaginavo già di ritorno a Seattle, a goderti quel po' di sole rachitico che offre la città.» «Ci sono grandi novità. Abbiamo deciso di fare un salto al Dipartimento di Polizia per cercarti. La segretaria ha detto che, non eri più agli arresti e che c'erano nuovi sviluppi sull'indagine di cui non poteva parlare. Ci ha assicurato che se fossimo rimasti nei paraggi, con ogni probabilità saresti riapparso nel pomeriggio.» «Davvero una giornata memorabile al Dipartimento di Polizia di Avalon» osservò Warren. «Un andirivieni di agenti per tutto il pomeriggio. E certe facce truci...» «Già, c'è stato un bel po' di movimento.» Corso iniziò a raccontare loro la storia, dalla scenata per strada di Clint Richardson al colpo di scena finale. Aveva dovuto rilasciare una dichiarazione ufficiale insieme a Duckett e Caruth e, dopo aver sbrigato tutte le pratiche burocratiche del caso, lo avevano lasciato libero. «Che diavolo!» esclamò Meg. «Lo sceriffo in persona!» «Non è più lo sceriffo» disse Corso rabbrividendo dal freddo. «Ma perché ce ne stiamo tutti qui a tremare?» si chiese Meg. Aprì la portiera scorrevole del furgone e si sistemò sul sedile posteriore. Warren la richiuse e si avviò al posto di guida mentre Corso si issava accanto a lui, richiudendo lo sportello. Dentro il furgone c'erano almeno trenta gradi in più. Corso fece scorrere lo sguardo da Meg a Warren, mentre si sbottonava il cappotto. Facevano fatica a trattenere un sorriso compiaciuto. «Allora...» esordì Corso. «Di che novità si tratta?» Li osservò scambiarsi un'occhiata. Aspettò che Meg decidesse se vuotare il sacco d'impulso o torturarlo per un po', come al solito. La donna optò per la prima ipotesi. «L'abbiamo trovata!» esclamò. «Sissy?» «Nancy Anne Goff.» «E chi è?» «La nuova identità di Sissy, da quando ha lasciato Avalon» rispose Warren. Corso ripeté il nome. «E abbiamo almeno idea di dove sia andata questa
Nancy Anne una volta scomparsa da qui?» chiese. «Puoi starne certo» rispose Meg con un sogghigno. «Hai intenzione di torturarmi, non è così?» «Ci puoi contare.» «A Midland, nel Michigan» intervenne Warren. Corso si mise a braccia conserte. «Okay, voglio stare al gioco... come avete fatto a scoprirlo?» «Warren mi stava accompagnando all'aeroporto quando ha detto qualcosa che mi ha fatto venire un'illuminazione. Siamo tornati indietro, abbiamo controllato e... indovina un po', è venuto fuori che ci avevo azzeccato. L'abbiamo beccata al primo tentativo.» «Che cosa ti aveva detto Warren?» «Mi stava raccontando che il modus operandi è molto importante nelle indagini, perché di solito i criminali ne trovano uno e vi si attengono scrupolosamente.» «Se qualcosa funziona, perché cambiarla?» osservò Corso. «E allora?» «Warren diceva che il modus operandi dei vari delitti non combacia.» Si sporse in avanti sul sedile. «Proprio in quel momento stavamo superando un cimitero e mi sono accorta che ultimamente ho passato un sacco di tempo a vagare tra le tombe.» Mise una mano sulla spalla di Corso. «È stato allora che mi è venuta l'idea. Magari il modus operandi non combacia, ma che dire invece del modo in cui la donna si crea ogni volta una nuova identità? E se fosse ricorsa allo stesso espediente?» «Quindi?» «Quindi siamo andati in tribunale e abbiamo controllato il registro dei decessi risalenti all'anno precedente la scomparsa della Warwick. Donne. Dai ventotto ai trentacinque anni.» «Quante?» si informò Corso. «Due» rispose Meg. «Una aveva il doppio nome, l'altra no. Quale pensi che abbia controllato per prima? La contea ha ricevuto richiesta del certificato di nascita di Nancy Anne Goff sette settimane dopo il suo funerale. L'ufficio della previdenza sociale ha rilasciato una nuova tessera sanitaria a suo nome circa un mese dopo. Prima ancora di scomparire, Sissy Warwick aveva tutta una serie di documenti nuovi di zecca, patente di guida e due carte di credito.» «Il tutto fatto recapitare a una cassetta postale di Midland, nel Michigan» aggiunse Warren. «Ragazzi!» esclamò Corso. «Ottimo lavoro, davvero eccellente!»
«E adesso?» si informò Meg. «Avete una copia della patente?» «Niente foto» rispose Warren. «Il Wisconsin ha cominciato a richiederle solo dall'89.» «Merda.» «Abbiamo sempre quella foto segnaletica» obiettò Meg. «Ma è la foto di una diciassettenne con la faccia gonfia come un melone. Se riusciamo a cavarne fuori qualcosa, è una vera fortuna.» «E allora... che si fa? Ci arrendiamo e torniamo a Seattle con la coda fra le gambe?» «Certo che no. Sarebbe una soluzione troppo assennata.» Corso ci rifletté. «Dove si trova Midland?» domandò. «Nel nord dello stato del Michigan» rispose Warren. «Vuoi vedere una cartina?» «Non sarebbe una cattiva idea.» Il ragazzo frugò nello sportello sotto il cruscotto e trovò un rotolo di carte stradali tenuto insieme da un elastico rosso. Lo porse a Corso, che aprì la mappa sulle ginocchia e accese la luce sul tettuccio del furgone. «È a sud della cosiddetta Upper Peninsula» disse Meg, mentre Corso seguiva con un dito le sue indicazioni fino ad arrivare a Midland. «Il posto è perfetto» mormorò Corso annuendo. «Sperduto e lontano da tutti, ma con un numero di abitanti sufficiente a confondersi tra loro senza lasciare traccia.» «Il nascondiglio ideale» osservò Meg. «Veramente il nascondiglio ideale sarebbe stato Chicago, dove la gente va e viene in continuazione e a nessuno gliene frega un cazzo degli altri.» Picchiettò con un dito sulla cartina. «Cittadine come Midland, invece, sono abbastanza grandi per riuscire a nascondersi, e nello stesso tempo sufficientemente piccole per riuscire a crearsi un rifugio, magari fuori città.» «Ed è per questo che non ha scelto una grande metropoli come Chicago» gli fece eco Meg. «Le grandi città sono incontrollabili per lei» proseguì Corso. Si voltò verso Meg. «Ti ricordi cosa aveva detto quella strizzacervelli del New Jersey?» «Cosa?» «Deve poter tenere sotto controllo tutto ciò che la circonda. Se qualcosa le sfugge, per lei diventa una minaccia e deve provvedere a toglierla di mezzo. In un posto come Chicago, puoi controllare le cose solo se te ne
stai chiuso in casa. Nel momento in cui metti piede fuori è un delirio.» Ripiegò la cartina in due. «Troppo inquietante. Per lei il controllo è tutto. Si deve costruire un piccolo porto sicuro da cui muovere le fila e avere a che fare il meno possibile con gli estranei.» «Ma se è lei che li cerca, gli estranei!» ribatté Meg. «Ad Avalon si è portata a letto la metà del paese. Si è sposata. Ha messo su famiglia.» Corso riconsegnò le cartine a Warren. «Questo è un altro aspetto di cui ha parlato la strizzacervelli. Non può fare a meno delle sue radici. Non riesce neanche a immaginare di vivere senza essere circondata da una grande famiglia. È l'unico ambiente che conosce. L'unico stile di vita che abbia un senso per lei, perciò cerca sempre di riprodurlo.» «Allora perché poi se ne sbarazza?» «Perché non riesce più a controllarlo. Per un motivo o per l'altro, le cose cominciano a sfuggirle di mano. E in lei nasce l'impulso irrefrenabile di ricominciare tutto da capo. In modo da poter riacquistare il controllo su quello che la circonda. Ecco cosa facevano gli angeli nei suoi disegni. Tagliavano tutti i ponti e voltavano pagina, muovendosi verso nuovi lidi.» «I bambini crescono» mormorò Meg pensosa. «Diventano adolescenti... e sfuggono al controllo, sfasciano il furgone di famiglia... e si fanno arrestare, attirando fin troppa attenzione sul piccolo e felice porto sicuro.» «L'amministrazione minaccia di costruire un'autostrada che passa in giardino...» «Tempo di spiegare le ali e volare via» concluse Corso. «Ma se ne va sempre da sola» obiettò Meg. «Nel disegno, sono due gli angeli che si librano in cielo.» «Chi è l'altro angelo?» domandò Warren. «Non ne ho idea» rispose Corso. «Magari una sorta di alter ego che la accompagna sempre. Con quel profilo psicologico, chi può saperlo?» «Un amico immaginario?» «Qualcosa del genere. Un personaggio di fantasia che le viene in soccorso quando le cose si mettono male.» «O viceversa» interloquì Warren. «Magari è lei la redentrice, e non il contrario.» «Redentrice di chi?» domandò Meg. «Non le è rimasto più nessun parente, tranne Rodney e Tommie» fece Corso. «E loro credono che sia morta.»
«Perciò... chi rimane da salvare?» «E chi lo sa?» borbottò Corso stringendosi nelle spalle. «Magari...» Si arrestò di colpo, come in preda a una folgorazione. «Hai una cartina generale degli Stati Uniti?» chiese a Warren. Il ragazzo non ne era certo ma, dopo una ricerca affannosa nello scomparto, estrasse una mappa che, una volta aperta, ricoprì l'intero cruscotto. Corso la esaminò e grugnì soddisfatto. «Che razza di idioti siamo stati» commentò. «Cosa hai scoperto?» «Un angelo» rispose indicando la mappa. Meg si sporse sul sedile per vedere meglio. «Guardate, è iniziato tutto qui, nella parte settentrionale del New Jersey, vero?» «Sì.» Fece scorrere il dito lungo la cartina verso ovest, seguendo le coste meridionali dei Grandi Laghi. «Tommie de Groot ha rubato una targa automobilistica a Elgin, nell'Illinois. Giusto?» Nessuno obiettò e Corso proseguì. «Hanno trovato la macchina abbandonata qui.» Indicò un punto sulla cartina. «Lago Geneva, Michigan, Statale 83.» Il dito di Corso riprese a muoversi. «Se seguiamo la Statale 83 in direzione nord... dove ci porta?» «A Midland, nel Michigan» risposero i due all'unisono. Era sdraiato per terra, con la testa infilata sotto la cucina a gas. «Passami la chiave inglese, quella grande, arancione» le disse. Sarah frugò nella cassetta degli attrezzi. «Questa, papà?» gli chiese. «Esatto.» La ragazzina si chinò e gliela porse. Quando si raddrizzò e guardò fuori della finestra della cucina, vide un camioncino bianco e blu che si allontanava. «È arrivata la posta, papà» esclamò. «Posso prendere la macchina e andare a ritirarla?» L'uomo appoggiò la chiave inglese per terra, scivolò indietro e si appoggiò sui gomiti per sollevare il capo. Si guardò attorno. «Dov'è tua madre?» chiese. Sarah indicò con il pollice alle proprie spalle. «Nel fienile, con testa di rapa.» «Non farti sentire chiamarlo così.» «Allora, posso?»
«Mi hai sentito?» «Sì, ti ho sentito.» La ragazzina spostò il peso da un piede all'altro. «Dai, posso?» «Ma sì» acconsentì lui. «Perché no?» Sarah spiccò un balzo verso il frigorifero e staccò le chiavi appese al gancio. «Ehi, piccola...» «Sì, lo so... starò attenta.» «Non ho voglia di starla a sentire, se fai un graffio a quel vecchio catorcio.» «Io non ho voglia di starla a sentire comunque.» La minacciò con un dito sporco di grasso. «È tua madre. Non parlare così di lei... mi hai sentito?» «Sì, papà» rispose la ragazzina prima di sgusciare fuori della porta. L'uomo rimase a osservarla mentre saliva in macchina e si avviava lentamente lungo il viale d'ingresso fino alla cassetta della posta, poi si distese nuovamente sulla schiena e afferrò la chiave inglese. La porta della cucina si spalancò di colpo. La donna entrò come una furia, le mani sui fianchi. «Cosa ti avevo detto sul fatto di lasciarle prendere la macchina?» L'uomo si alzò in piedi. «Ma guida bene» obiettò. «Non ha ancora l'età.» «Manca poco.» «Ti avevo detto...» «Sì, me l'hai detto... e ridetto... un'infinità di volte.» Guardò fuori della finestra. Sarah stava tornando. «Vedi» disse indicando la macchina. «Se la sa cavare bene.» La donna uscì di corsa dalla cucina sbattendo violentemente la porta. L'uomo si avvicinò all'ingresso e sbirciò fuori. Vide Sarah arrestare la macchina nel cortile e incamminarsi verso casa. A metà strada la madre le piombò addosso urlando e strappandole le chiavi di mano. Quando alzò la mano con aria minacciosa sulla figlia, l'uomo voltò le spalle. Un attimo dopo Sarah entrò di corsa in cucina. Aveva un segno rosso sulla guancia sinistra. «La odio!» esclamò. «Vorrei che fosse morta.» Lui fece per ribattere qualcosa, ma poi cambiò idea. 31
Corso aveva aperto la cartina del Michigan sul cruscotto. «Allora» esordì. «Non mi hai ancora detto come hai fatto a convincere un agente dell'FBI a darsi malato per aiutarti nella tua piccola indagine.» «Gli ho fatto vedere le mie illustrazioni.» «Che cosa?!» «Mi hai sentito. Gli ho fatto vedere i tatuaggi.» «Tutti?» «Per quanto era possibile in un furgoncino... e in pieno giorno.» Tracciò in aria un gesto vago con la mano dopo averla staccata dal volante. «Sai... cercando di non ritrovarmi in posizione ginecologica o roba del genere.» «Ma perché diavolo hai fatto una cosa del genere?» «Perché li voleva vedere.» «Hai corrotto...» «Ho fatto uno scambio alla pari.» «Hai sedotto un agente federale... spogliandoti davanti a lui. È questo che mi stai dicendo?» «Quello che ti sto dicendo è che, se Warren non avesse fatto le sue telefonate, non avremmo saputo un bel nulla di Nancy Anne Goff, e di sicuro adesso non saremmo in Michigan per cercare di stanarla.» «Non riesco a crederci.» Gli scoccò un'occhiata penetrante. «Oooh... non sarai mica geloso? Ho capito bene?» «Non essere ridicola. Ho già visto lo spettacolo... te ne sei scordata?» «Ah-ah.» «Non rispondermi così.» «Ah-ah.» Corso cercò di rimettere via la cartina, ma non riuscendo a piegarla per il verso giusto l'aprì nuovamente e ci riprovò. Quando anche il secondo tentativo fallì, ci rinunciò e la ficcò malamente nello sportello del cruscotto. A ovest, oltre le distese di campi, alberi e case, una fila di piloni per l'elettricità correva parallela alla strada, i montanti d'acciaio che luccicavano in lontananza. «Ti sei mai chiesto come facesse Tommie de Groot a sapere che sua sorella era viva?» domandò Meg dopo un paio di chilometri. «Dev'essere tornata nel New Jersey per riprenderselo. Altrimenti la storia non quadra. Tommie aveva quattro anni ai tempi dell'incendio. E sei anni quando è tornato da Rodney, dopo che i servizi sociali l'avevano dato in affidamento. La famiglia che l'ha accolto era sicuramente al corrente
della fine che avevano fatto i de Groot, perciò è escluso che Sissy sia andata da loro a chiedere del fratellino. Anche perché a quel punto lei risultava morta da più di due anni. Deve essersi rifatta viva quando Tommie viveva già con Rodney.» «Probabilmente dopo essere scappata dalle suore» soggiunse Meg. «Perciò... dev'essere successo durante quei tre anni e mezzo di cui non sappiamo nulla, o quando viveva ad Avalon.» «In entrambi i casi, Rodney doveva saperlo.» «Senza dubbio.» «Perciò tutte quelle storie sulle visite di Tommie agli amici nell'Idaho erano solo un scusa per andare a visitare la sorella.» «Certamente.» «Ma perché lui?» chiese Meg. «Rodney?» «No... perché Tommie? Aveva altri due fratelli, oltre a una madre e un padre, e li ha avvelenati e dati alle fiamme. Perché tutta questa fatica per tenersi in contatto con un fratello di tredici o quattordici anni più giovane?» «Forse è sempre quella storia dei legami familiari» azzardò Corso. «Ha corso tutti quei rischi per una persona che aveva solo quattro anni l'ultima volta che si erano visti. Che poteva anche non ricordarsi affatto di lei.» Lanciò un'occhiata a Corso. «Mi succede sempre con i miei nipoti che vivono nell'Iowa. Di anno in anno si dimenticano di me. Devono essere imboccati per dire il mio nome.» «Forse, proprio per la sua età, Tommie era l'unico a non far parte dei suoi carnefici.» Corso trasalì. «Magari era stato anch'egli vittima degli abusi.» «A quattro anni?» «Chi può dirlo con quella gente?» Proseguirono in silenzio finché non fu di nuovo Meg a spezzare l'incantesimo. «Magari il fatto che il piccolo Tommie fosse in ospedale quella notte non è affatto una coincidenza.» «Vuoi dire... che lei aveva organizzato tutto?» «Sì, solo un assaggino del veleno che avrebbe poi servito in grande quantità all'intera famiglia. Così, una volta messo in salvo il bambino, poteva agire indisturbata.» «Osservazione interessante... ma come tu stessa mi hai fatto notare poco fa, portarsi dietro un bambino di quattro anni è solo una seccatura, di cui la
nostra amica avrebbe fatto probabilmente a meno.» «E non stiamo parlando certo della persona più sentimentale del mondo.» «Ma non mi dire!» «Chi lo sa» fece Meg stringendosi nelle spalle. Un cartello stradale bianco e nero indicava: MIDLAND, 5 KM. «Che cosa sappiamo di questa cittadina?» «Hai presente la Dow Chemical?» «L'industria chimica?» «Sì, beh, ecco... possiede l'intera dannata città.» «Davvero?» «Che tu ci creda o meno, sono già stato da queste parti» affermò Corso. «Nell'89 lavoravo nel Nord Carolina. Una fuoriuscita di sostanze tossiche aveva decimato i pesci del fiume. Tutti pensavano che provenisse dalla nuova fabbrica della Dow. Il "Charlotte Observer" mi spedì a Midland per intervistare i dirigenti aziendali.» «E hai ottenuto qualcosa da loro?» «Un invito a pranzo.» Meg si tenne sulla corsia di destra per imboccare lo svincolo. Un chilometro più avanti, giunsero ai confini della città. MIDLAND, IL CUORE DELL'AMERICA, diceva il cartello. «Gira a sinistra» le disse Corso. «Main Street è da quella parte. Lungo il fiume.» «Che fiume è?» «Il Tittabawassee» rispose Corso. «Me lo ricordo perché non riuscivo mai a scriverlo correttamente. Ho fatto impazzire il mio direttore. Midland sorge alla convergenza di due fiumi, il Tittabawassee appunto, e il Chippewa. Hanno costruito uno strano ponte, al centro della città, proprio dove confluiscono i due corsi d'acqua. È a forma di Y. Si biforca circa a metà e lo puoi percorrere in entrambe le direzioni.» Si fermarono a un semaforo, osservando una sfilza di cartelli stradali blu e bianchi attaccati a un palo della luce. «Non esageravi a proposito della Dow» esclamò Meg, notando che sulle insegne il nome dell'industria chimica compariva sempre, sia che si trattasse di uffici, sia del parco, della scuola, della biblioteca. «L'ultima grande città industriale» disse Corso. «Gira a destra sulla Main.» «Cosa stiamo cercando esattamente?» «Un posto piccolo e un po' fuori mano. A due piani, almeno non siamo
costretti a dormire a livello della strada. E con un'unica porta d'ingresso, in modo che non ci sia altra possibilità di entrare.» «Ha tutta l'aria di un altro Timber Inn» rispose lei con un sogghigno. «Questa volta non ho intenzione di correre rischi» ribatté Corso. «Questa è gente che uccide con la stessa indifferenza con cui si cambia i calzini. Manterremo le distanze. Se scopriamo qualcosa, chiamiamo Molina e lasciamo che siano i federali a occuparsene.» Senza quasi accorgersene, attraversarono il centro della città, che consisteva di sei blocchi di edifici moderni allineati parallelamente al fiume e ristoranti, negozi di souvenir, antiquari, due banche e la Camera di Commercio. Una delle tante anonime cittadine americane. La superficie increspata del fiume brillava alla luce del tardo pomeriggio. Dougherty abbassò l'aletta parasole e si fece schermo con una mano sugli occhi mentre procedeva a rilento nel traffico. «Sempre dritto» le disse Corso. Un chilometro più avanti, mentre costeggiavano un grande parco di nome Emerson Park, trovarono quel che cercavano. Hotel Motor Inn. TV via cavo. Sconti per gli anziani. La camera 223 era al secondo piano, sul retro, lontano dalla strada. Una stanza per non fumatori che sapeva di fumo, con segni di bruciature su entrambi i comodini. Meg controllò i servizi. Arricciò il naso. «Non so cosa darei per avere il mio bagno» commentò. Corso aveva entrambe le mani infilate nella borsa. Alzò lo sguardo e annuì. «Solo un paio di giorni ancora» disse. «Comunque vadano le cose.» Estrasse la foto segnaletica e richiuse la borsa. «Vado a farmi fare delle copie per domani» annunciò. Meg si stava legando i capelli. «E io mi faccio una doccia prima di cena.» «Non puoi rimanere» gli disse. «Gordie non ti vuole. Sei arrivato da tre giorni e mi sta già dando il tormento. Continua a chiedere quando te ne vai.» «Non so dove altro andare» piagnucolò lui. «Pensavo di cercarmi un qualche lavoretto alla Dow. Gordie potrebbe darmi una mano.» Lei fece una risata amara. «Ma figurati, quell'idiota non riesce neanche ad aiutare se stesso. Lavora alla Dow da diciannove anni ed è ancora talmente in basso nella scala gerarchica che deve alzare la testa per non an-
negare nel fango.» Fece un gesto rabbioso con la mano. «Passa tutto il giorno immerso nella tinozza del colorante, a fregare con una spazzola, ecco quel che fa il grand'uomo. E ha sempre addosso quell'odore. Gli è penetrato nella carne. Non riesce a toglierselo neanche lavandosi. Mi fa venire il voltastomaco.» «E allora cosa faccio?» «Quanti soldi hai?» «Milleottocento dollari.» «Andiamo in città domattina. Proveremo a...» «Più il mio assegno mensile» la interruppe lui. «Non più» ribatté la donna. «Prova a incassarne uno e ti trovano nel giro di poche ore.» Scosse la testa. «No, è ora che tu prenda il volo. Domattina andiamo in città. E ci diamo da fare. Faremo in modo che Tommie de Groot scompaia dalla faccia della terra.» L'uomo si infilò una mano in tasca ed estrasse un sacchetto di tabacco. «Vai fuori» gli ordinò. «Lo sai che il fumo lo fa davvero incazzare. Quel figlio di puttana sente l'odore prima ancora di scendere dalla macchina.» «'Fanculo Gordie» ribatté lui imbronciato. «Non ho bisogno di lui.» La donna gli puntò un dito contro il petto. «Io si invece. Almeno per ora.» L'altro aprì la bocca per ribattere, ma lei gli appoggiò il dito sulle labbra. «Sono bloccata qui per il momento, hai capito? Perciò vedi di non fare casino, bada agli affari tuoi e non crearmi più problemi di quanti non ne abbia già.» «Se mi rompe ancora le palle, lo sistemo per le feste.» «Non farai niente del genere» ribatté lei premendogli il dito contro il petto con tale violenza da farlo indietreggiare di un passo. «Se non fosse per me non saresti neanche qui. Ricordatelo.» Meg si portò il bicchiere di vino alle labbra e osservò Corso gettare il tovagliolo sul tavolo annunciando soddisfatto: «Niente male». «Difficile sbagliare una bistecca» replicò lei. «È già successo. Credimi.» Sorseggiò lentamente il Meursault. Poi posò il bicchiere sul tavolo, estrasse la bottiglia dal secchiello del ghiaccio e si versò l'ultimo goccio. «Finita anche questa» esclamò. «Direi che stasera abbiamo battuto il nostro record.» «Ce lo siamo meritati. È stata una settimana dura.» Meg finì il vino e si pulì le labbra con il tovagliolo.
«Pronta?» le chiese Corso. Per tutta risposta lei scivolò fuori dal sedile. Corso gettò un paio di banconote da venti dollari sul tavolo, si alzò e la seguì fuori del locale. Un vento gelido fece ondeggiare la porta sui cardini. Corso dovette usare entrambe le mani per chiuderla. Lei lo prese sotto braccio e insieme si incamminarono in direzione del motel. Tre edifici più avanti, l'insegna al neon del Motor Inn annunciava che c'erano ancora camere a disposizione. Meg appoggiò la testa sulla spalla di Corso. «Ti sei mai chiesto come mai siamo finiti così?» «Così come?» «Come due adulti che... non riescono, non si sa bene per quale ragione, a portare avanti una relazione sentimentale.» «Se ben ricordo è stata tua l'idea di lasciarci.» Corso le passò un braccio attorno alle spalle. «Credo che le parole esatte che hai usato per definirmi siano state "emotivamente irraggiungibile" e pertanto sono stato bandito dal giardino delle delizie.» «Lo sei, infatti.» «Tutti hanno problemi a mantenere le proprie relazioni» rispose lui stringendola a sé. «Ecco perché gli psicanalisti continuano ad arricchirsi.» «Già, ma di solito non succede a persone che si vogliono bene come noi. Le relazioni non sono perfette. I problemi ce li hanno tutti, ma...» «Noi ci voghamo bene?» «Piantala, Corso.» Attraversarono la strada deserta. «Il centro si spopola alla grande dopo il tramonto» osservò lui. «Vivono tutti nei sobborghi. Vengono quaggiù solo per lavorare e fare spese.» «Non cambiare argomento.» Corso sospirò. «Se ammetto che è tutta colpa mia, possiamo parlare d'altro?» «No.» «Allora nego tutto.» «Sei come una tartaruga, Frank. Esci dal guscio solo per fare l'amore. Poi torni difilato al riparo. Ma non mi basta. Ho bisogno di qualcosa di più.» «Hai mai visto una tartaruga senza guscio?» «Non sto scherzando, maledizione.» «Neanch'io» ribatté Corso. «Non esiste creatura al mondo più ridicola di una tartaruga senza guscio. Solo un mucchietto di cartilagine con attaccata
una testa. Sembra quasi uno scherzo della natura.» «Quando hai visto una tartaruga senza guscio?» «Alle Bahamas. Stava per trasformarsi in brodo.» «Ma è disgustoso.» «No, è la catena alimentare.» Erano arrivati all'entrata del motel. «Da quanto tempo ci conosciamo?» gli chiese Meg. «Cinque o sei anni... perché?» «Dove sei nato?» «Ma cosa c'entra?» «C'entra eccome. Ti conosco da più di cinque anni. Siamo stati insieme quasi due anni e sai una cosa?» Corso contrasse i muscoli della mascella, lei continuò. «Non so dove sei nato. Non so il nome di tua madre. Una volta ti sei lasciato andare e hai detto qualcosa a proposito di un fratello. È l'unica notizia che abbia mai scoperto sul tuo conto. In tutto questo tempo. Abbiamo passato ore e ore in compagnia l'uno dell'altra e non so ancora un bel niente di te.» «Dove vuoi arrivare?» Meg si arrestò di colpo e si sciolse dall'abbraccio, allontanandosi di un passo. «Quella pompa a mano nel giardino di Rodney de Groot» biascicò con la voce impastata di alcol. «Come facevi a sapere come funziona?» Alzò entrambe le mani, esasperata. «Io vengo dall'Iowa, fottutissimo stato agricolo, e non avevo mai visto un attrezzo del genere in vita mia. Come mai tu sì?» Corso le volse le spalle e alzò lo sguardo sul cielo notturno. Riusciva a distinguere la cintura di Orione e, più in alto, la stella polare. «Allora?» Si girò sui tacchi. «Da bambino è così che mi procuravo l'acqua» rispose. «Si deve pompare a vuoto un paio di volte, altrimenti non esce che aria.» Meg alzò la testa di scatto cercando di capire se stava scherzando. Corso le appoggiò una mano sulla schiena guidandola verso le scale. Sentiva lo sguardo di lei sul suo volto mentre salivano i gradini. A metà strada, la donna barcollò e gli crollò addosso. Corso la strinse a sé, sospingendola poi dolcemente contro la parete. Infine aprì la porta della loro stanza e accese la luce. Una volta dentro, Meg si avviò a passo incerto verso il bagno. Lui si se-
dette sul.bordo del letto e si sfilò gli stivali. Si chinò verso il televisore e armeggiò con le manopole fino a trovare la CNN. Ammonticchiò entrambi i cuscini contro la testiera del letto e si sdraiò sospirando. L'orologio a cristalli liquidi dello schermo indicava le nove e cinquantaquattro minuti. George Bush Senior stava tenendo un discorso. Corso chiuse gli occhi per un attimo. Quando li riaprì l'orologio indicava le dieci e nove minuti, e i risultati delle partite di football scorrevano ai margini dello schermo. Non la vide entrare e spegnere la luce e il televisore. La stanza passò dai bagliori grigiastri dello schermo all'oscurità più assoluta. Corso sbatté gli occhi diverse volte cercando di adattarli al buio. Sentì il letto cigolare per il peso di lei e allungò una mano per cercare il tepore del suo corpo. Le sue dita sfiorarono i rilievi dei disegni e delle parole incise sulla pelle. Meg si sporse e lo baciò, schiacciando i seni contro il suo petto. «Domani te ne pentirai» le sussurrò. «Lo so» fu la sua unica risposta. «Me la farai pagare per giorni» mormorò ancora lui. Intuì che lei stava sorridendo nel buio. «È l'unico modo che ho per pareggiare i conti.» «Ne vale la pena?» «Lo scopriremo presto» rispose lei senza esitazione. Lo baciò di nuovo, con maggior intensità questa volta, poi si alzò. Corso non fece in tempo a sfilarsi la camicia che lei gli era di nuovo addosso, pelle contro pelle, respiro contro respiro. «Sarai gentile con me, vero?» le chiese in tono scherzoso. «No» rispose lei senza la minima traccia di umorismo. 32 Il vecchio sollevò gli occhiali sulla fronte e strizzò gli occhi per scrutare il volantino. In alto, una scritta a chiare lettere: RICOMPENSA. E, sotto il volto della donna, CHI L'HA VISTA? con un numero telefonico. «Un bel bocconcino» commentò il vecchio. «Cos'è... ricercata?» «È solo una brutta foto» gli assicurò Corso, come aveva ripetuto tutto il giorno a chiunque gli avesse posto quella domanda. «L'ha mai vista?» «Non credo» rispose il vecchio, restituendogli la foto. «Le spiace se la appendo in negozio?» gli domandò Corso. Il vecchio
lanciò un'occhiata alla vetrina. «Stacchi quel volantino arancione» rispose. «Il brunch da Elk era domenica scorsa. Non credo che ne abbia più bisogno.» Corso obbedì e attaccò la fotografia nello spazio vuoto. Il vecchio gli augurò buona fortuna. Corso gli strizzò l'occhio, mentre usciva richiudendosi la porta alle spalle. La giornata era iniziata lentamente. Corso e Meg avevano languito a letto fino quasi alle nove. Avevano fatto l'amore due volte e poi si erano fatti una doccia. Corso per primo, in modo da poter sbrigare alcune commissioni. Meg si stava ancora strofinando i capelli con l'asciugamano quando lui era rientrato con due cellulari, un paio di pinzatrici, caffè e ciambelle per colazione. Dopo aver mangiato velocemente, si erano divisi a metà la pila di volantini, convenendo di dividersi la città per le affissioni: Meg si sarebbe occupata della zona est, Corso di quella ovest. Poi erano usciti insieme. Corso controllò l'ora. Le tre e trentaquattro. Non gli erano rimasti che venticinque volantini. Aveva abbellito ogni lavanderia automatica, parrucchiere, negozio di anticaglie e caffè di Midland. Tirò fuori la pinzatrice dalla tasca per completare il lavoro su un palo del telefono. Poi, soddisfatto, gettò il resto dei volantini in un cestino dei rifiuti. Quel giorno, a Midland, non era possibile volgere lo sguardo in nessun luogo senza incontrare il volto tumefatto di Nancy Anne Goff. Le falde del cappotto ondeggiavano al vento mentre procedeva lungo Prospect Street. Nubi sparse si allineavano all'orizzonte veleggiando nel cielo azzurro. Era quasi a metà strada quando sentì fischiare. Si voltò e scorse Meg che si avvicinava a grandi passi. «Hai avuto fortuna?» le domandò quando lo raggiunse. «Una donna al supermercato ha detto che le sembrava di conoscerla» rispose Meg prendendolo sotto braccio. «Dice che ultimamente si è fatta dei colpi di sole ai capelli. Le sembra che sia sposata con un tizio che lavora alla Dow.» «Oh, questo restringe davvero il campo» commentò Corso in tono sarcastico. «E tu?» «Niente» rispose attirandola a sé mentre camminavano. «Tutti molto gentili, ma nessuno ha riconosciuto la faccia.» «E adesso?»
«Hai mangiato?» «Solo le ciambelle.» «Ti va di pranzare?» «Qualcosa di leggero.» «Dopo di che possiamo tornare nella nostra lussuosissima suite ad attendere le chiamate.» «Possiamo farlo nudi?» «Penso di sì.» Parcheggiò la Pontiac all'interno delle righe diagonali e scese dalla macchina. Infilò tre quarti di dollaro nel parchimetro e si incamminò per Midland Avenue, il ticchettio dei tacchi a spillo che echeggiava a ogni passo. Tommie de Groot doveva allungare il passo per starle dietro. «Dove stiamo andando?» le domandò trotterellandole accanto. «In tribunale» rispose lei. «Si comincia da lì.» «Hai fatto così le altre volte?» si informò. «Sì, io...» Le parole le morirono in gola. Si arrestò di botto e rimase immobile a fissare la porta d'ingresso della Guzman Gallery. Il sangue le defluì dal volto finché la pelle non assunse il colore del latte scremato. Le vene del collo pulsavano. Si guardò attorno. Individuò qualcosa a metà strada fra loro e l'edificio di fronte e corse in quella direzione, con Tommie alle calcagna. Un attimo dopo fissava a distanza ravvicinata la propria immagine affissa a un palo del telefono. Per un attimo si sentì sul punto di vomitare e dovette soffocare un paio di conati. Allungò una mano e si appoggiò al palo per tenersi in equilibrio. Poi con le unghie tentò di staccare il volantino. «Sei tu» esclamò Tommie. «Come...» «Sta zitto!» sibilò lei. Il petto le si sollevava come un mantice. Si guardò nuovamente attorno e, senza una parola, ritornò velocemente alla macchina. Quasi di corsa. Quando Tommie salì a bordo, la donna aveva già messo in moto, con il volantino ancora stretto in mano. Quando lui fece per parlare, lo colpì. Un pugno sulla bocca. E poi un altro, e un altro ancora. Tommie nascose il volto insanguinato fra le braccia e sopportò in silenzio. Ansimava, ora, e il respiro le usciva in rantoli. «Stupido figlio di puttana. Te li sei portati dietro tu! Nessuno mi aveva seguita fin qui.» Tommie aveva le lacrime agli occhi e la bocca piena di sangue quando alzò la testa. «Nessuno mi ha seguito. Te lo giuro. Nessuno mi ha seguito
fino a qui.» Lo colpì di nuovo sulla bocca e di nuovo l'uomo seppellì la testa fra le braccia. Mise la retromarcia e uscì a razzo dal parcheggio. Una sinfonia di clacson l'accolse mentre si infilava sbandando nella corsia e partiva a tutta velocità. La donna si era messa a urlare e la sua voce infuriata echeggiava nell'abitacolo. «Avrei dovuto ucciderti insieme a tutti gli altri! Giuro che se non fossi carne della mia carne ti ammazzerei adesso!» Sempre a capo chino, Tommie piagnucolava. «Non sono stato io. Devi credermi... non sono stato io...» La macchina svoltò in mezzo allo stridio dei pneumatici, mentre lei teneva lo sguardo fisso oltre il cofano, il volto pietrificato. Tommie sbirciò da sotto le braccia e poi si raddrizzò sul sedile. La donna aveva ripreso a respirare più tranquillamente, diminuendo lievemente la pressione sul pedale dell' acceleratore. All'angolo fra la Midland e la Main arrestò la Pontiac e rimase a tamburellare con le dita sul volante, aspettando che il semaforo tornasse verde. Una coppia attraversò la strada davanti a loro, camminando a braccetto, tutta presa da un'animata conversazione. «Devi credermi» disse Tommie con il sangue che gli colava sulle labbra. «Non sono stato io a...» Si interruppe di colpo. «Sono loro!» esclamò indicando la coppia che passava davanti alla macchina. «Quelli che sono venuti a casa di Rodney a chiedere di noi. Riconoscerei quel grosso figlio di puttana ovunque.» Vide che i due stavano per svoltare all' angolo. «Sono proprio loro, quelli laggiù!» «Cerchiamo di farci dare le informazioni per telefono» stava dicendo Corso. «Se insistono per un incontro faccia a faccia, ci andrò da solo e fisserò l'appuntamento alla luce del sole, in qualche luogo pubblico.» «Sembri piuttosto sicuro che smuoveremo le acque» commentò Meg. «Una ricompensa fa uscire tutti i mentecatti dalle tane» assicurò lui. «Sì... penso proprio che ne vedremo delle belle.» Sentirono dei clacson alle loro spalle. Si voltarono per vedere cosa fosse tutto quel frastuono. Una vecchia Pontiac del '69 bloccava l'incrocio e la fila di motori alle sue spalle ruggiva la propria impazienza. Un camion, cinque macchine più indietro, fece sentire la sua tromba acustica. Il tempo che la Pontiac si decidesse a partire e il semaforo era di nuovo rosso. In prima fila, adesso c'era un tizio con una berlina che per la frustrazione stava col-
pendo il volante con la mano. Corso e Dougherty proseguirono lentamente lungo la strada, separandosi occasionalmente per lasciar passare la gente e poi riavvicinandosi. «Ieri notte è stato bello» mormorò Corso mentre le loro spalle si toccavano. «Anche stamattina non è stato male» rispose lei. Corso si dichiarò d'accordo. Si separarono per lasciar passare un ragazzino in skateboard. «Forse dovrei smetterla di tormentarmi per te» annunciò Meg. «Dovrei imparare a prenderti per quello che sei, senza guastarmi tutto il divertimento solo perché sei sfuggente e scostante.» «Mi sembra un'ottima idea.» «Ma non mi dire!» A metà dell'isolato la Pontiac si arrestò. La donna estrasse dei fazzoletti di carta da una scatola attaccata al cruscotto e li allungò a Tommie, che si tamponò la bocca sanguinante. «Sei sicuro che siano proprio loro?» Tommie annuì. «Sicuro al cento per cento.» «Seguili» gli ordinò. «Scopri dove alloggiano.» Tommie fece per replicare, ma lo zittì all'istante. «Ormai è finita. Dobbiamo levare le tende.» Indicò con il pollice alle sue spalle. «Come lo faremo dipende da chi altro sa che siamo qui. A parte quei due. Ora sbrigati, faccio il giro dell'isolato e ti carico quando hai finito.» Tommie si incamminò lungo il marciapiede e sbirciò da dietro l'angolo dove la coppia aveva svoltato. Li avvistò poco più avanti: camminavano abbracciati e dimentichi di tutto il resto. Attraversò la strada, zigzagando fra le macchine come un torero, finché non li raggiunse sullo stesso marciapiede. Si mantenne a una certa distanza, mentre alla sua sinistra il fiume scorreva rapido, illuminato dal sole del tardo pomeriggio che si rifletteva poi sulle vetrine alla sua destra, obbligandolo a strizzare gli occhi per non perdere di vista la coppia. Meg e Corso attraversarono Dexter Avenue, infilandosi nelle stradine del centro. Si accucciò dietro la siepe che separava Emerson Park dalla strada, mentre alle sue spalle un paio di adolescenti si tirava un frisbee e un golden retriever correva sul prato, seguendo freneticamente il disco di plastica da uno all'altro dei giocatori nel tentativo di acchiapparlo. Quando Meg e Corso svoltarono a destra nel vialetto d'ingresso del Motor Inn, uscì dal suo nascondiglio affrettandosi a seguirli. Mentre at-
traversava la strada venne distratto dalla vista della Pontiac, che si era fermata ad attenderlo sul marciapiede, un isolato più in là. Tommie evitò un camion per un pelo. La coppia si avviò sulle scale mano nella mano e salì al secondo piano, scomparendo poi dietro la prima porta a sinistra. Tommie li seguì fino a leggere il numero della camera. Stanza 223. Non appena si voltò per tornare indietro, scorse il muso della Pontiac sbucare all'imbocco del viale di accesso. Si affrettò a raggiungerla. «Sono nella 223» annunciò. «Okay.» La donna inspirò profondamente. «Sarà meglio fare un salto all'emporio e in banca» disse. «Poi torniamo di corsa alla fattoria.» Non sembrava più in preda al panico. Aveva assunto il volto di pietra che Tommie ormai sapeva riconoscere. L'espressione indecifrabile di quando arrivava il momento delle decisioni drastiche, la stessa che aveva nel Wisconsin mentre gli porgeva la scure. Trasse un sospiro di sollievo. Le cose si sarebbero sistemate. Ci avrebbe pensato lei, come sempre. E una volta finito tutto, non si sarebbero più lasciati. 33 «Dobbiamo sbrigarci» esclamò. «Le ragazze saranno a casa da scuola fra venti minuti. Per allora dev'essere tutto pronto.» Buttò un rotolo di nastro adesivo nella borsa di cotone appoggiata sul tavolo della cucina. «Dirò a Gordie che ti accompagno all'aeroporto, a Chicago» proseguì. «Che dovrò passare la notte fuori. Così non mi cercherà fino a domani sera, quando tornerà a casa per cena.» Fece un gesto con la mano. «E neppure allora si preoccuperà più di tanto. Penserà a un guasto alla macchina e andrà da sua madre.» Guardò Tommie. «Hai la pistola?» «Due.» «Meglio portarle» affermò. «Dobbiamo far sparire tutte le tracce prima di tagliare la corda.» «Li uccideremo?» «Non prima di scoprire se c'è qualcun altro che sa dove mi trovo. Poi li porteremo nel bosco e li seppelliremo dove nessuno li troverà mai.» «E Gordon e le ragazze?» «Non siamo pronti per occuparci di loro. Quella ficcanaso di Mama May capirebbe dopo tre secondi che qualcosa non quadra.» Si guardò at-
torno. «Questa casa è di sua proprietà.» Lo sguardo le si indurì. «E la vecchia non permette mai a nessuno di dimenticarsene, neanche a Gordie. Lo tira fuori ogni dannata volta che si parla di soldi.» Ricacciò il pensiero. «A parte questo, anche se riuscissimo a toglierli di mezzo... non ci sarebbe modo di coprire le tracce. No. Meglio occuparsi di quegli altri due ficcanaso, per il momento. Per quanto riguarda Gordie e le ragazze... si sveglieranno una mattina e scopriranno che me ne sono andata.» Si massaggiò il collo. «Per come vanno le cose qui ultimamente, immagino che ne saranno tutti felici. La vecchia in particolar modo.» Attraversò la cucina dirigendosi al telefono a muro e compose un numero. «Mama May» disse dopo qualche istante. «Devo portare mio fratello all' aeroporto di Chicago. Ha trovato una buona tariffa su un volo notturno.» Rimase in ascolto. «Sì, d'accordo. Ho bisogno che tu mi tenga le ragazze. E che le accompagni a scuola domattina.» Alzò gli occhi al cielo. «Sì, sì. Lascerò un biglietto a Gordie. Sì, saranno pronte.» Riappese e si avviò per le scale. «Vado a fare la valigia» disse. «Prepara le tue cose e poi caricheremo i bagagli in macchina.» La voce al telefono era un rauco sussurro. «Quant'è la ricompensa?» «Dipende» rispose Corso. «Prima voglio vedere i soldi.» «Lei mi dia le informazioni. Io controllo e poi le faccio avere i soldi.» «A quel punto sarà volata via.» Corso si raddrizzò di colpo sul letto e indicò il telefono. Meg smise di darsi lo smalto e trattenne il fiato. «Volata via, ha detto?» «Certo» gracchiò la voce. «Come un uccellino.» Dougherty appoggiò la boccetta dello smalto sul comodino. I disegni e le scritte tatuate sulle spalle e sul petto brillavano in technicolor alla luce del neon. «E in che modo?» domandò Corso. Mentre ascoltava, il volto di Corso passò da una rapita attenzione al lieve divertimento. «Capisco» disse infine. «Grazie per aver chiamato. No, no. Sì. Ho scritto tutto, non si preoccupi. Ci terremo in contatto. D'accordo.» Interruppe la comunicazione. Meg inarcò un sopracciglio con aria interrogativa. «Fa parte della congrega di streghe che vive da queste parti» spiegò Corso.
«Dobbiamo agire con cautela o volerà via. Pare che abbia una scopa magica.» Indicò il telefono. «L'ha vista lui stesso alzarsi in volo.» «Ma da dove spunta questa gente?» «Dalla corte dei miracoli» rispose Corso. Suonò il telefono. Corso rispose. Una voce di donna. «È lei che cerca quella donna?» «Sì.» «La conosco. Incontriamoci questa sera alle dieci. In centro. Dietro Emerson Park. Lungo il fiume. Porti i soldi.» Segnale di libero. Rimase con il telefono in mano a guardare fuori dalla finestra, mentre Sarah ed Emily percorrevano a piedi il vialetto d'entrata dirigendosi verso casa. Qualcosa nel fossato aveva attirato l'attenzione di Emily. Era rimasta indietro e Sarah era tornata sui suoi passi e l'aveva costretta a rialzarsi. Osservò Sarah minacciare Emily con un dito e poi schiaffeggiarla duramente. Si allontanò dalla finestra quando le due ragazze si rimisero in marcia, Sarah in testa con un sorriso sulle labbra ed Emily che la seguiva asciugandosi le lacrime. Dougherty soffiò sulle unghie appena smaltate. «Un altro pazzo?» «Credo fosse lei» mormorò Corso. «Perché, ha detto qualcosa?» «No, solo una sensazione.» «E allora?» «Vuole che ci incontriamo qua di fronte, dall'altra parte della strada, stasera alle dieci.» «Nel parco?» «In fondo al parco, lungo il fiume.» «Pensavo accettassimo solo appuntamenti in luoghi pubblici alla luce del giorno.» «Non mi ha dato altra scelta.» «Non siamo obbligati ad andarci.» «No... non lo siamo. Ma se fosse una buona traccia?» Corso domandò. «Potrebbe essere l'unica.» «Pensi che sia solo una coincidenza?» fece Meg, agitando le unghie color rosso cupo. «Ci hanno dato appuntamento proprio qui di fronte, non è strano?»
«Che altro potrebbe essere se non un caso?» «Dimmelo tu.» Corso prese ad andare avanti e indietro per la stanza. «Magari è l'unica zona isolata del centro» osservò. «Magari...» «Quando fa buio, quel posto è un cimitero. Inoltre, perché per forza in città? Perché non da qualche altra parte?» «Forse hai ragione. Facciamo così, ci muoviamo con molto anticipo. In modo da essere sicuri di non cadere in trappola. Se solo annusiamo il pericolo da lontano, tagliamo la corda e chiamiamo Molina.» Lo guardò di sottecchi. «Quella donna ti spaventa, non è così?» Corso si indurì. «Abbiamo scoperto alcune cose del suo passato. E il ritratto è già abbastanza inquietante. Immagina cosa sarà diventata adesso.» «Non voglio andare dalla nonna» piagnucolò Emily. «Smettila di frignare» le intimò la madre. «Mama May sarà qui a minuti.» «Voglio stare qui, voglio aspettare papà.» La madre afferrò la bambina per le spalle strattonandola con tale violenza da farle ciondolare la testa avanti e indietro come una marionetta. Quando alzò la mano per colpirla, un rumore metallico l'indusse a fermarsi. Voltò la testa. La tubatura della nuova cucina giaceva per terra ai piedi di Sarah. «Quante volte te lo devo ripetere? Lascia stare quella roba!» urlò. La ragazzina fece per raccoglierla, ma la madre le fu addosso prima che riuscisse ad afferrarla. Sarah fece un passo indietro mentre la donna recuperava la tubatura e, dopo aver attraversato la stanza, l'appoggiava alla parete dietro la porta. «Ecco» esclamò. «Adesso è fuori dalle scatole.» Puntò un dito contro Sarah. «Va' a metterti il cappotto. Mama May sta venendo a prendervi.» «Dove vai?» si informò la ragazza. «Porto lo zio Tommie all'aeroporto, a Chicago.» «Finalmente.» Quando la madre fece per avventarsi su di lei, Sarah svicolò e si mise a correre su per le scale. «Ti insegno io a chiudere quella boccaccia!» le urlò dietro la madre. Emily scappò sulle scale dietro alla sorella. «Mettetevi il cappotto!» Non appena le ragazze scomparvero al piano di sopra, la donna si voltò
verso la finestra in tempo per vedere la Ford blu di Mama May fermarsi con un sobbalzo davanti a casa. Guardò impassibile la donna anziana scendere con fatica dalla macchina e avviarsi zoppicando alla porta. Tre anni prima aveva subito un'operazione all'anca e, anche con la nuova protesi, non aveva più ripreso a camminare normalmente. Mama May non doveva essere mai stata molto attraente, neppure ai tempi della sua giovinezza, quando ancora tutti la chiamavano May Galindo. Era una donna alta, fianchi larghi e naso aquilino, e aveva un'espressione sempre imbronciata e un'aria di perenne disapprovazione che testimoniavano una vita di delusioni. Negli anni Cinquanta aveva ereditato la fattoria dai genitori di Homer, uno dei suoi tre mariti. E da allora quella era casa sua. Da padrona, appunto, entrò senza bussare e squadrò la nuora con tutto il calore di un serpente. «Gordon lavora fino a tardi anche stasera?» chiese. «Fino a mezzanotte.» Le due donne si lanciarono un'occhiata talmente gelida da far appassire i fiori sul davanzale. «È un bene che tuo fratello se ne vada» disse Mama May. «Deve tornare a casa» rispose l'altra soffocando un'ondata di bile. «Alle ragazze non piace. Dicono che cerca di toccarle. Lo sapevi?» La donna scrollò le spalle. «Sai come sono quelle due. Specialmente Sarah.» «Non è questo il modo di parlare dei propri figli.» «Perché non lasci che sia io ad occuparmene? Se volessi fare un corso su come essere un buon genitore, saresti l'ultima persona a cui mi rivolgerei.» Le due donne rimasero a fissarsi, unite dall'odio reciproco, fino a che la più giovane si allontanò per chiamare le ragazze: «Forza, voi due. È arrivata Mama May!». «Si chiama Teresa Fulbrook. O per lo meno è così che si fa chiamare.» Dougherty trattenne il fiato. «La conosce?» «Non mi impiccio degli affari degli altri. Non sono il tipo.» «Certo che no» disse Meg. «Ma stavolta è diverso.» Meg allungò una mano e pizzicò Corso sullo stomaco. Poi gli indicò il
cellulare premuto sull'orecchio e lui si drizzò a sedere di scatto sul letto. «Sì, stavolta è diverso» rispose poi dolcemente a chi stava all'altro capo del filo.. Mentre Corso si alzava in piedi, la donna al telefono proseguì: «Come ho detto... ora si chiama Teresa Fulbrook. Porta i capelli pettinati alla punk, con i colpi di sole biondo platino. Ha due figlie. Sette e quattordici anni. È per loro che sono preoccupata... quelle ragazzine». Si schiarì la voce. «Non me ne importa un accidenti di quella donna.» Meg alzò al massimo il volume del cellulare. Corso avvicinò la testa alla sua per sentire la voce amplificata. «Come fa a conoscerla?» domandò Meg. «La figlia maggiore si chiama Sarah. È in classe con mio figlio Billy. Sono in quell'età in cui, sa... i ragazzi cominciano a notare le ragazze... e viceversa.» Meg percepì l'imbarazzo nella voce della donna, che continuò in tono agitato: «Immagino che quella Fulbrook abbia visto Billy e Sarah che si tenevano per mano...». Fece una pausa cercando di riprendere il controllo. «Billy mi ha detto che la donna è piombata su di loro urlando inviperita, poi ha trascinato la figlia verso la macchina ed è ripartita come un'invasata.» «Sul serio?» «Ma il peggio deve ancora venire. La ragazza non è tornata a scuola per una settimana. E quando è riapparsa non aveva più i capelli. Completamente rasata. Ha detto a Billy che era stata sua mamma a farlo.» «Solo perché si tenevano per mano?» «Che razza di donna può fare una cosa simile a una figlia? E per di più a una ragazza adolescente, con tutti i problemi che già hanno a quell'età!» «Sa dove abiti questa donna?» «Da qualche parte a est, sulla Statale 10. Devo andare» sussurrò all'improvviso. «Sono arrivati i ragazzi.» Un soffice clic interruppe la conversazione. «Tombola» esclamò Meg. «L'acconciatura corrisponde» disse Corso facendo una smorfia. «Ma fidarsi dei testimoni oculari è un azzardo.» «Il nome corrisponde.» «Teresa Fulbrook?» «Teresa Thomes. Era l'altra donna deceduta ad Avalon nel periodo della scomparsa di Sissy. Non avevo controllato quel nome perché ero certa che avesse scelto lo pseudonimo di Nancy Anne Goff. Scommetto che, se fa-
cessimo un piccolo controllo, scopriremmo che ha usato entrambe le identità contemporaneamente.» «Davvero abile» osservò Corso. «Un nome per lasciare la città. Un altro per stabilirsi altrove. Sempre più difficile da rintracciare.» «E ora che si fa?» Corso alzò una mano. «Molina.» 34 Teresa Fulbrook si passò una mano fra i capelli mentre li asciugava con il phon. Le punte biondo platino erano sparite. La chioma di morbidi riccioli castano scuro si avvicinava al suo colore naturale. Si lisciò i capelli e, specchiandosi nel vetro della cucina, sistemò in diversi punti l'acconciatura con un paio di forbici. Una volta finito, le ripose ordinatamente nel cassetto. Tommie de Groot fece roteare il tamburo della colt. «Due piccioni con una fava» disse. «Ci liberiamo di quei ficcanaso che ti hanno rintracciato e allo stesso tempo facciamo fuori le uniche persone che mi hanno visto sparare a quel professore. Davvero un bel colpo.» Teresa aprì la bocca per ribattere, ma con la coda dell'occhio scorse qualcosa che distrasse la sua attenzione. Si avvicinò velocemente alla finestra. «Gordie è tornato a casa» sussurrò. Tommie smise di giocherellare con la pistola e la infilò nella borsa. Si avvicinò alla sorella. «Non doveva lavorare?» «Magari sta male» disse lei. «Non è in gran forma ultimamente.» Rimasero fianco a fianco a osservare il pick-up bianco fermarsi a pochi metri dalla porta d'ingresso, l'uomo scendere e avviarsi a passi incerti verso casa. Gordon Fulbrook aveva cinquantasei anni, la fronte calva solcata da un unico, testardo ricciolo nero. A differenza di Mama May, era piuttosto grasso e di bassa statura. «Piccolo dappertutto!» gli urlava sempre Teresa nei momenti di rabbia. Scapolo impenitente e riservato, anni prima si era arreso senza riserve al fascino della donna che poi aveva deciso di sposare in tutta fretta. Erano convolati a nozze dopo pochi mesi, prima che Teresa scoprisse l'esistenza di Mama May e, soprattutto, prima che venisse a conoscenza del fatto che il marito non era il padrone della fattoria, un malinteso che lo stesso Gordie non si era mai premurato di chiarire. Non ap-
pena la sposina aveva appreso che i tre ettari di terreno appartenevano a quel falco di suocera, con cui aveva immediatamente condiviso un'avversione viscerale reciproca, la fontana di delizie carnali in cui il marito si bagnava si era prosciugata molto rapidamente. Gordie irruppe nella stanza, spalancando la porta della cucina con violenza. «Ti sei tinta i capelli» disse. «Già.» «Tanto quella pettinatura non mi era mai piaciuta. Non si addiceva a una donna della tua età.» «Se lo dici tu.» «Dove sono le ragazze?» «Da tua madre.» Volse la testa e si accorse di Tommie, in piedi accanto alle due borse sul tavolo della cucina. «Vai da qualche parte?» «Accompagno mio fratello all'aeroporto, a Chicago.» «Ah, sì?» «Ha trovato una buona tariffa su un volo notturno.» «Una buona tariffa, eh?» «Già.» «E allora come mai non ci sono più soldi in banca?» «Che cosa?» «Mi hai sentito. Avevo deciso di uscire con Ferry e gli altri. Ma non mi bastavano i soldi per il pranzo e la torta che avevo promesso alle ragazze, perciò mi sono fermato al bancomat. La macchina non mi voleva dare i soldi.» Lanciò un'occhiata alle borse. «Sono entrato in banca e mi hanno detto che hai chiuso tutti e due i conti.» «Ti ho preparato il pranzo.» Attraversò la stanza. «Dove sono i soldi?» sbraitò. «Milleduecento dollari su un conto. E ottomilaquattrocento sull'altro.» «Non so di cosa stai parlando.» Lanciò un'occhiata a Tommie. «Tu e quella testa di rapa di tuo fratello pensate di svignarvela da qui con...» Lo colpì sulla guancia. Uno schiaffo così forte da farlo barcollare. Lui si toccò il volto e chiuse le mani a pugno, ma non appena fece per avventarsi su di lei si bloccò, sentendo la canna di una pistola puntata contro l'orecchio. «Coraggio» sibilò Tommie. «Fa' qualcosa di veramente stupido.» Affer-
rò Gordie per il colletto premendogli la faccia contro il bancone della cucina. Guardò la donna in cerca di incoraggiamento, ma nei suoi occhi trovò solo velata cautela. Gordie cominciò a balbettare. «Cristo, Teresa... dai... fagli mettere via quella pistola. Qualcuno potrebbe farsi male.» «Stai zitto» gli intimò lei. «I soldi non sono un problema. Se ne avevi bisogno...» «Ti ricordi Doug?» domandò lei. «Doug?» balbettò Gordie. «Non conosco nessun...» «Quello di Omaha?» domandò Tommie. «Proprio quello.» Gordie ricominciò a farfugliare. L'altro gli premette la canna del revolver contro l'orecchio. «Nessuno l'ha mai scoperto» proseguì lei. «E anche questo deve fare la stessa fine. Un lavoretto pulito.» Tommie annuì. «Non muoverti, figlio di puttana» sibilò, aumentando la pressione della pistola contro il collo di Gordie «o ti faccio saltare le cervella, puoi starne certo!» Teresa attraversò velocemente la cucina e, alzandosi in punta di piedi, aprì lo sportello sopra al frigorifero. Ne estrasse un sacchetto di plastica bianco. Portandoselo alle labbra, vi soffiò dentro per controllare che non avesse buchi, poi recuperò il nastro adesivo dalla borsa e ritornò verso il marito. «Non fare così, Terry» la implorò lui. «Se ti servono i soldi, prendili. Non c'è bisogno di...» Con una mano, Tommie afferrò Gordie per i capelli e lo sollevò di scatto. Si infilò la pistola nella tasca posteriore dei pantaloni e poi bloccò l'uomo con entrambe le braccia, immobilizzandolo. Quando Teresa gli fece scivolare il sacchetto sulla testa, Gordie iniziò a dimenarsi e contorcersi come un pazzo, fino a capitombolare per terra insieme al suo aguzzino. I due lottarono avvinghiati per qualche istante finché Tommie non lo circondò gambe e braccia, riuscendo a bloccarlo con la faccia rivolta verso l'alto. Teresa si chinò rapidamente, atterrando in ginocchio sullo sterno del marito. Mentre l'uomo lottava per respirare, lei staccò una striscia di nastro adesivo e lo attaccò alla parte inferiore del sacchetto, sigillando la plastica attorno alla gola di Gordie. Fece un altro giro di nastro. E poi un altro ancora. Nel giro di pochi respiri l'aria del sacchetto era terminata e la plastica bianca aveva cominciato ad assumere i contorni del viso dell'uomo, gonfiandosi e sgonfiandosi in prossimi-
tà della bocca e del naso. Gordie fece pochi altri tentativi disperati di liberarsi e poi collassò. Rimase per terra contorcendosi negli ultimi spasimi come un pesce agganciato all'amo, con Tommie ancora aggrappato alla schiena e Teresa a cavalcioni sopra di lui, finché con un ultimo sussulto si irrigidì e rimase immobile. Il frigorifero attaccò a ronzare rumorosamente, spaventandoli a morte. Riuscirono a riprendere fiato solo dopo qualche minuto. Tommie si districò dal corpo dell'uomo e si alzò in piedi. Teresa guardò il volto contorto e paonazzo di Gordie. Si era vomitato addosso nel sacchetto. «Avresti fatto meglio a mangiare il pranzo che ti avevo preparato.» «Come sarebbe a dire che non basta?» «Dice che è una traccia troppo debole. Secondo lui è meglio vedere di persona se si tratta della nostra donna, prima di far piovere federali da tutte le parti.» Corso appoggiò il telefono sul comodino. Controllò l'orologio. Le otto e nove minuti. Aveva perso un'ora e mezzo per riuscire mettersi in contatto con Molina. L'agente speciale si trovava insieme alla moglie a Nyack, nello stato di New York, per festeggiare un collega che andava in pensione. Si era dimostrato ben poco entusiasta delle novità. «Non posso fare granché con quel che avete in mano» aveva detto. «Non ha neanche lo stesso nome. È un po' troppo rischioso. Se devo pagare di tasca mia i biglietti aerei, dovrete fare di meglio.» Quando Corso si era messo a protestare, Molina aveva tagliato corto. «Se non sto più che attento, finirò per avere problemi di credibilità come qualcun altro di mia conoscenza. Non voglio fare nomi.» Avendo ben poche obiezioni in risposta, Corso si era limitato a riagganciare. «Non possiamo far altro che andare a vedere chi si presenta stanotte nel parco» concluse sospirando. «Meglio arrivare per primi» osservò Meg. Corso raccolse i jeans da terra e se li infilò. «Nessun contatto» ribadì. «Diamo solo un'occhiata.» «Assolutamente.» «Mettiti qualcosa di pesante. Rimarremo là fuori un bel po'.» «Non mi piace per niente.» «Figurati a me.» 35
Il cielo era una coltre di fumo. L'aria calda aveva portato la nebbia dal lago Huron, trasformandola in un tappeto mobile che avvolgeva la città in uno strato di garza. Sotto il balenare opaco dei lampioni, le pozzanghere di Main Street sembravano un filo di perle scintillanti, che si snodava a perdita d'occhio verso sud. I cespugli e gli arbusti di Emerson Park emergevano dalla nebbia come schizzi di un disegno lasciato a metà, mentre Corso e Meg procedevano lentamente lungo il sentiero principale del parco, frugando con gli occhi in cerca di nascondigli. «Mi sembra uno di quei film dell'orrore» bisbigliò Meg. «Già... solo che questo mi fa molta più paura» rispose Corso. Gli sferrò una gomitata nel fianco. «Non dirlo neanche per scherzo. Se un amante del pericolo come te ammette di avere paura, come minimo può venirmi un attacco di ansia.» Si arrestò di colpo e la fissò negli occhi. «Ti riaccompagno in albergo.» Meg scosse il capo. «Dove vai tu, vengo anch'io.» Sapeva che era inutile discutere. La prese per mano e si allontanarono dal sentiero e dalle luci, attraversando il prato per poi farsi strada tra gli arbusti che separavano l'area picnic dal fiume. Camminarono accovacciati tra le radici contorte fino a raggiungere un punto dove riuscivano ad avere una visuale soddisfacente del sentiero asfaltato che correva lungo la riva. Quindi si acquattarono nell'oscurità, in attesa. Il nascondiglio era nel punto più alto del sentiero. A destra, per una cinquantina di metri, tutto era deserto. A sinistra, per quasi il doppio della distanza, non c'era nessuno in vista. «Aspettiamo» sussurrò Corso. Meg appoggiò il mantello per terra e ci si sedette. Tommie de Groot abbassò il binocolo. A circa duecento metri da dove si trovava, due figure erano nascoste fra i cespugli, immerse nella nebbia del parco. Se non li avesse seguiti passo dopo passo da quando erano entrati nel parco, non avrebbe potuto scovarli nemmeno con il binocolo del fucile da caccia. Chiuse un occhio come per prendere la mira. «Se avessi il mio fucile li passerei tutti e due da parte a parte con un solo proiettile.» «Ci servono vivi, ricordatelo» bisbigliò Teresa. «Altrimenti non sapremo mai cos'altro ci aspetta.» Si sporse in avanti e gli sussurrò all'orecchio. «Se non sai quel che ti aspetta, non sai come muoverti. Quanto devi darti da fare. Fin dove scappare.» Gli mise una mano sulla spalla. «Non ho fatto altro che scappare per tutta la vita» sussurrò. «Scappare dalla
gente e dalle cose che mi avevano fatto. Scappare da ciò che mi avevano costretta a fare. È sempre la stessa storia. Butti via la spaziatura e volti pagina.» Quando Corso le strinse il braccio, Meg si limitò a muovere gli occhi. Una figura solitaria era emersa dalla foschia, camminando velocemente lungo il sentiero. Dopo aver superato la staccionata di legno che delimitava i confini del parco, rallentò l'andatura, come frenata dalla lieve pendenza. Corso si chinò fino a toccare con il petto il terreno umido, sbirciando da sotto i rami la donna che si avvicinava. Indossava una giacca a vento con il cappuccio rialzato che le nascondeva il volto. Quando fu più vicina, girò la faccia verso il fiume, nascondendosi completamente ai loro occhi. Arrivata a pochi metri da dove erano accucciati si voltò e ritornò sui suoi passi, fino a essere nuovamente inghiottita dalla nebbia. Corso e Meg attesero al buio. Il fiume gorgogliò un paio di volte, il clacson di un camion li raggiunse dalla strada e poi tutto fu silenzio. Corso fece per alzarsi, ma la mano di Meg lo bloccò. La donna era di ritorno. La sua silhouette scura riapparve sotto i raggi argentei della luna. Ritornò nuovamente verso di loro, il viso sempre rivolto all'acqua increspata del fiume. Si sporse dalla ringhiera e controllò l'orologio. Corso la imitò: erano le dieci e cinque. Un mormorio di voci ruppe il silenzio. La donna si voltò in direzione del suono e lui riuscì a scorgerne per un istante il profilo. Una cosa era certa, i capelli non erano biondo platino. O la persona che aveva chiamato si era sbagliata oppure non si trattava di lei. Corso si sentì invadere dalla delusione. Nel frattempo una coppia anziana era emersa dalla foschia. La donna alla ringhiera voltò loro le spalle mentre passavano chiacchierando. Prima di scomparire, lanciarono un'occhiata interrogativa verso la figura solitaria in piedi sulla riva del fiume. L'odore di sudore rancido e di nicotina arrivò alle narici di Corso un istante prima di sentire il gemito di Meg. Poi vide una pistola premuta contro la tempia di lei e una mano che le copriva la bocca, con lunghe dita che sembravano avvolgerle completamente la testa. In un primo momento non lo riconobbe. Solo quando sentì sibilare: «Non muoverti!», capì di trovarsi di fronte Tommie de Groot, sbarbato e con i capelli corti. «Fuori!» gli intimò questi. «Esci subito da lì sotto.» Corso non si mosse, ma quando de Groot alzò il cane del grilletto, si affrettò a dire: «Eccomi!». Gli occhi di Meg erano sbarrati dal terrore.
Strisciò sull'erba che separava il sentiero dagli arbusti. Poi la vide. Si era abbassata il cappuccio. I capelli non erano biondo platino e neppure pettinati alla punk, ma era decisamente lei. I lineamenti vagamente esotici erano invecchiati con grazia. Poteva passare per una tipica casalinga americana. Solo lo sguardo gelido e la pistola che teneva in mano raccontavano un'altra storia. «Da quella parte» gli intimò la donna. «Appoggiati alla ringhiera.» «Muoviti» ringhiò Tommie alle sue spalle. Corso sentì la mano gelida della paura corrergli lungo la schiena. Non aveva alcun dubbio. Stavolta non ne sarebbero usciti vivi. Quei due non avevano niente da perdere. Appoggiò le mani sulla balaustra. Tommie gli spinse accanto Meg, che aveva la bocca socchiusa e gli occhi pieni di lacrime. Corso sentì un rumore e si guardò alle spalle. Teresa Fulbrook aveva in mano un rotolo di nastro adesivo e stava per staccarne un pezzo con i denti. Tommie de Groot gli teneva la pistola puntata alla testa. Guardò Dougherty. Lei gli lesse negli occhi il terrore e la disperazione. «Non possiamo lasciarglielo fare» le sussurrò. Prima che Meg potesse digerire le parole, Corso si era staccato con un balzo dalla ringhiera e si stava lanciando contro la canna della pistola. «No!» urlò Teresa Fulbrook lasciando cadere il nastro adesivo e allungando la mano per prendere il suo revolver. Tommie de Groot fece fuoco. La nebbia inghiottì la detonazione. Corso si abbatté al suolo. Era stato colpito pochi centimetri sopra il ginocchio sinistro. Quando Teresa si voltò, tutto quello che riuscì a vedere fu un mantello nero che svolazzava al vento. Meg aveva già scavalcato la ringhiera e si era tuffata nel fiume. E poi il silenzio l'avvolse. Solo acqua e freddo e buio e ancora acqua che la spingeva sempre più a fondo in un vortice senza fine. Una capriola dopo l'altra. Nessun appiglio per le mani e nessun appoggio per i piedi. Solo rocce scivolose e sassi. Doveva tornare alla luce, doveva interrompere la pressione sulle orecchie e sui polmoni, doveva provarci, cercare disperatamente di appoggiare i piedi, spingere, scalciare, qualsiasi cosa pur di sollevare la testa dall'acqua, respirare dell'aria, tornare alla luce, tornare alla luce... Proprio mentre pensava di non farcela più, sentì una mano che l'afferrava d'improvviso... sentì l'aria umida della sera sulla pelle bagnata... sentì...
Staccò con i denti un'altra striscia di nastro adesivo. La usò per legargli i gomiti dietro la schiena. Poi lo voltò per controllare ancora una volta che avesse bocca e occhi bendati. Non voleva che sanguinasse a morte perciò fece un altro paio di giri di nastro attorno alla ferita sulla gamba. Uno scalpiccio di passi le fece alzare lo sguardo. Tommie era senza fiato. Si appoggiò con le mani alle ginocchia cercando di mandare un po' di ossigeno ai polmoni. «Non è più riemersa.» disse infine. «L'ho seguita per un bel pezzo, finché non ho sentito arrivare gente. Di lei nessun segno.» «Un'altra turista annegata nelle acque del fiume. Succede in continuazione» commentò Teresa alzandosi in piedi. Diede un calcio a Corso, che giaceva a terra svenuto. «Legato o no, questo qui ci darà del filo da torcere quando tornerà in sé.» Si guardò attorno. «Trasciniamolo sotto i cespugli. Tu rimani con lui. Io vado a prendere la macchina.» ... sentì una mano che le afferrava il polso, che la tirava a sé per poi perderla di nuovo... sentì altre dita tra i capelli che cercavano di trattenerla, mentre il suo corpo non poteva far altro che seguire la corrente... sentì le ginocchia sbattere su una roccia e riuscì a fare leva sulla pietra per sollevarsi dall'acqua, ansimando, sputando, tossendo e annaspando in cerca di un appiglio, finché qualcuno riuscì finalmente a trascinarla fuori e, con solo i piedi ancora immersi nel fiume, cominciò a respirare in conati convulsi. «Vai a chiamare un'ambulanza» disse una voce di donna. «Rimango io con lei.» Sentì un rumore di passi nel fango, poi qualcuno le appoggiò una mano sulla schiena. «È solo questione di minuti, tesoro» diceva la voce. «Stai tranquilla, ti portiamo subito all'ospedale. Andrà tutto bene, vedrai.» L'avevano adagiato ai piedi del sedile posteriore della macchina, la faccia rivolta al pavimento e l'albero della trasmissione tra le costole. A ogni sobbalzo, la pressione sui polmoni gli toglieva il fiato. Tommie de Groot gli teneva un piede sulla schiena. «Una volta fatto fuori questo» chiese «dove andremo?» «Un passo alla volta» rispose Teresa dal posto di guida. «Non corriamo troppo. Per prima cosa dobbiamo scoprire chi è il signor Ficcanaso qua dietro e che cosa sa di noi.» «Pensi che ce lo dirà?» La donna rise. Era una risata che Tommie aveva sentito solo una volta
prima di allora, quando era ancora un bambino e lei gli aveva raccontato come aveva fatto a farsi dire dalla suora dove avesse nascosto il denaro. Il ricordo gli fece correre un brivido lungo la schiena. «Oh, ce lo dirà» ridacchiò la donna. «Puoi starne certo.» Dougherty si passò la lingua sui denti e sputò per terra. Dopo un secondo si tirò su, appoggiando prima un ginocchio e poi l'altro per terra. Sentì intensificarsi la pressione della mano sulla schiena. «Rimani sdraiata finché arriva l'ambulanza, tesoro» fece la donna con voce chioccia. «Andrà tutto bene.» Meg si alzò in piedi di scatto, incespicò e quasi cadde di nuovo sulle rocce. Cercò di schiarirsi la vista e di recuperare l'equilibrio. La voce che sentiva apparteneva a una donna sulla sessantina, bassa e robusta, con qualcosa di blu elettrico addosso e uno strano cappello in testa. «Oh, tesoro» la supplicò vedendo che si aggrappava alla ringhiera di metallo cercando di muovere qualche passo stentato. «Ti prego, stai calma, John è andato a telefonare...» Dougherty si perse il seguito della frase, che venne coperto dai rantoli del suo stesso respiro, mentre si allontanava costeggiando il fiume in direzione nord. Cercò di accelerare il passo, di mettersi a correre, ma riuscì solo a inciampare e cadere pesantemente sull'asfalto. Pochi minuti più tardi era di nuovo in cima al sentiero. Con le ginocchia che sanguinavano e il respiro che ricordava il soffio di una locomotiva, aguzzò lo sguardo nell'oscurità. Scrutò fra i cespugli e si avviò verso il punto in cui aveva saltato la ringhiera. Niente. Nessun rumore. Controllò il fiume. Il sentiero. Rifece tutto il percorso a ritroso. Niente sangue. Nessun segno di Corso. Si mise a correre lungo i cespugli e, una volta raggiunto il prato, lo attraversò di corsa verso le luci di Main Street. Era circa a metà strada quando riuscì a scorgere chiaramente una scia di pneumatici. Il cuore le balzò in gola. Le impronte conducevano fino al cancello e di lì in strada. «Lo hanno preso» esclamò ad alta voce prima di rimettersi a correre. «Oh, Signore, l'hanno preso.» 36 Dougherty spalancò la porta della stanza del motel con tale forza che la maniglia fece un buco nell'intonaco del muro. Lo specchio all'estremità
della stanza le rimandò un'immagine irriconoscibile. Era completamente ricoperta di fango, dalla testa ai piedi. Aveva perso una scarpa. I capelli impastati di terriccio le ricadevano davanti al volto. I jeans erano strappati all'altezza delle ginocchia, che sanguinavano visibilmente. Si tolse l'unica scarpa con un calcio e corse al comodino, dove una luce rossa lampeggiante sul cellulare indicava nuovi messaggi. Strappò il telefono dal caricatore e se lo appoggiò all'orecchio, prima di rendersi conto che non conosceva il numero. Le ci volle un intero minuto per capire come fare, poi premette il tasto redial. Sette squilli. Una voce assonnata. «Molina.» «L'abbiamo trovata!» urlò. «Trovata...?» «La donna. Quella de Groot. L'abbiamo trovata!» La comunicazione era talmente limpida che sentì il frusciare delle lenzuola mentre l'uomo si drizzava seduto sul letto. «Siete sicuri...?» esordì Molina. «È lei» urlò Meg nella cornetta. «Ha preso Corso.» «Rallenti» la interruppe Molina. «Cosa diavolo...?» «L'abbiamo trovata. Si fa chiamare Teresa Fulbrook. Vive da qualche parte a est di Midland, nel Michigan, sulla Statale 10. La prego... dovete...» «Chiami subito il Nove Uno Uno.» «Non c'è tempo» ansimò Meg. «Tommie de Groot è qui. Ha sparato a Corso. L'hanno portato da qualche parte. La prego... la prego... deve aiutarmi.» «D'accordo... d'accordo...» ripeté Molina, cercando di calmarla. Meg non aspettò il resto. Interruppe la comunicazione e gettò il telefono sul letto. Rimase incerta per qualche istante, fissando stupidamente la parete, poi corse a prendere la guida telefonica dal cassetto della scrivania. Le tremavano le mani mentre sfogliava le pagine, passando dalla D alla H per poi tornare indietro alla G e finalmente alla F. Fu... una L o due? Poi la trovò. Due indirizzi: M.L. Fulbrook, 27654, Strada Statale 10 e G.F. Fulbrook, 24788, Strada Statale 10. Strappò la pagina dall'elenco, afferrò le chiavi della macchina dalla scrivania e si avviò alla porta. Poi si arrestò di colpo. Tornò sui suoi passi, recuperò il cellulare dal letto. Riprese in mano la guida telefonica. Sfogliò le pagine iniziali finché trovò la mappa. Strappò anche quella e corse fuori dalla stanza.
«Papà è tornato a casa» esclamò Sarah. Emily corse difilato a mettersi alla finestra accanto alla sorella. Dal primo piano della casa di Mama May, le luci di casa loro erano ben visibili oltre i campi, e lo stesso dicasi per il pick-up bianco parcheggiato davanti alla porta della cucina. «Andiamo da papà» gridò Emily. «Mamma non gradisce le sorprese.» Il labbro inferiore della bambina tremò. «Voglio vedere papà» piagnucolò. «Domani» disse Sarah. «Ha detto che ci avrebbe portato una torta.» «Se usciamo di qui, la mamma ci pesterà a sangue.» «No, papà è in casa» ribatté la piccola. «Non glielo permetterà.» «Ma lui deve andare a lavorare» le ricordò Sarah, anche se Emily non la stava più a sentire. Si era avvicinata all'armadio e stava togliendo la giacchetta rossa dall'attaccapanni. Se la infilò annunciando: «Io vado dal mio papà». «La mamma te la farà pagare» l'ammonì la sorella maggiore, ma la piccola ormai aveva deciso. Tornò di corsa alla finestra, aprì il vetro e si arrampicò sul tetto del portico. Sarah rimase immobile nella camera che divideva con la sorella e osservò la bambina lasciarsi scivolare lungo la tettoia e poi saltare sul prato sottostante, proprio come le aveva insegnato lei l'estate prima. Poi alzò lo sguardo verso le luci della casa che si stagliavano in lontananza e verso il pick-up bianco nel cortile. Pensò alla torta e le sembrò di assaporarne la cremosità. Proprio in quel momento vide Emily spuntare da dietro l'angolo, inforcare la bicicletta nuova e mettersi a pedalare lungo il sentiero che, tagliando per i campi, univa le due case. Sarah sorrise. Emily le avrebbe prese di santa ragione. Ne era certa. Non appena fosse rimasta sola con la strega. Sempre sorridendo allungò la mano verso il telefono e compose il numero. A casa sua non l'avrebbe mai fatto. Per lo meno in presenza della madre. Rispose una burbera voce maschile. «Sì?» «Posso parlare con Billy, per favore?» «Un attimo.» Dalla finestra osservò il fanalino posteriore della bici di Emily che si allontanava. Una voce di donna nella cornetta. «Sarah?» La madre di Billy.
«Sì, signora» rispose. «Senti...» Un breve silenzio. «Sono sicura che tu sia una brava ragazza, Sarah, ma Billy non è ancora pronto per... specialmente dopo quello che ha fatto tua madre...» Di nuovo silenzio. «Ecco... ti prego, non chiamare più.» Fine della conversazione. Tommie de Groot fece un ultimo tiro di sigaretta prima di spegnergliela sulla spalla. A torso nudo, legato a una sedia della cucina, Corso poté fare ben poco se non cercare di divincolarsi, mugolando dietro il nastro che gli tappava la bocca. La ferita al ginocchio stava sanguinando copiosamente, formando una pozza di sangue sul pavimento attorno ai suoi piedi. Teresa Fulbrook gli strappò la striscia adesiva dalla bocca, lasciandola penzolare da un'estremità sulle diverse bruciatura che gli ricoprivano il petto e le spalle. «Ripetimelo ancora» gli disse. «Solo tu e quella ragazza che è annegata nel fiume. Nessun altro, giusto? È questo che mi stai dicendo? Ci avete trovato da soli.» Tommie lo schiaffeggiò, lasciandogli l'impronta delle cinque dita sul viso. «Rispondi, maledizione» esclamò. Corso rimase in silenzio, con la testa china. Tommie lo afferrò per i capelli. «Mi hai sentito?» urlò piazzandosi a pochi centimetri dal suo viso. «Sto parlando con te! Mi senti?» «Oh, ti sente, ti sente» intervenne Teresa. «Questo...» allungò una mano verso il tavolo dove era posato il portafoglio di Corso. Aprì la sua patente di guida. «Questo Frank Corso si illude di essere un vero duro.» «Lascia che me lo lavori un po' con il coltello e vediamo di che stoffa è fatto» ribatté Tommie. Teresa accostò le labbra all'orecchio di Corso. «Vuoi che lo accontenti?» domandò. «Vuoi che gli dia un coltello da cucina e lo faccia divertire un po'?» Corso rialzò il capo e la guardò negli occhi chiari, quasi incolori. «Solo noi due» ripeté. «Abbiamo controllato il registro dei decessi di Avalon. E abbiamo fatto tutto da soli.» Tommie sollevò di nuovo il braccio per colpirlo, ma lei lo fermò con un cenno del capo. «Davvero furbo» mormorò. «Sai, pensavo che un uomo in gamba come te... capace di rintracciarmi fin qua... avrebbe capito subito che non poteva uscire vivo da questa casa. E che l'unica cosa su cui a-
vrebbe potuto trattare sarebbe stato il modo di morire... velocemente o meno.» Si avvicinò lentamente alla cucina a gas e aprì la cassetta degli attrezzi posata per terra. Sollevò lentamente il coperchio e lo appoggiò sul pavimento. Quando la mano di lei riapparve, Corso cominciò a emettere gemiti disperati come un animale ferito. Poi prese a dimenarsi per strappare il nastro che lo immobilizzava, a ondeggiare da parte a parte nella speranza di rovesciare la sedia, a tirare con tutta la forza che aveva in corpo, anche a rischio di perdere l'uso delle braccia. Lo sguardo di terrore che gli si disegnò sul volto parve rallegrarla. 37 Meg Dougherty non si rese conto di essere a piedi nudi finché non balzò fuori dalla macchina e corse a perdifiato lungo la Statale 10, su entrambi i lati, controllando i numeri sulle cassette della posta. Quando si infilò nuovamente al posto di guida sfregò le piante dei piedi sui tappetini per liberarle degli innumerevoli sassolini di asfalto che le si erano conficcati nella pelle. Mise in moto, parlando ad alta voce. «Uno nove sei quattro due.» Afferrò la pagina strappata della guida telefonica. «Due quattro sette otto otto» ripeté, mentre procedeva a rallentatore lungo la strada. Appena si lasciò alle spalle la città, entrò in una zona di villette ordinate e prati ben tenuti, con cassette della posta su entrambi i lati della carreggiata. Un decina di chilometri più avanti, il quartiere residenziale lasciava il posto a fattorie e cascine sparse tra i campi. Qui le cassette della posta erano allineate lungo una sola corsia per dar modo al postino di accostare il furgone sulla destra durante il giro di consegne quotidiano. Proseguì ancora per un chilometro. Tutto d'un tratto arrestò la macchina e ingranò la retromarcia accorgendosi di aver superato un altro gruppo di case senza controllarne i numeri. 2 1 4 6 8, lesse su una cassetta postale fatta a forma di fienile. Una freccia indicava il viale d'accesso che conduceva alla fattoria. «Numeri pari sulla destra» borbottò Meg fra sé e sé, ingranando nuovamente la prima. «Ci siamo» sussurrò. «Ci siamo quasi.» Sarah Fulbrook si passò le mani su quel che rimaneva dei suoi capelli. Prese un fazzoletto di carta, si asciugò gli occhi e si soffiò il naso. Le parole della madre di Billy le echeggiavano ancora in testa: «Non chiamare mai più». Continuava a sentirle, senza interruzione, e la voce al telefono si
era trasformata in un urlo di disperazione che le rimbombava nelle tempie. Buttò il fazzoletto bagnato sulla scrivania e si prese la testa fra le mani, dondolandosi avanti e indietro sulla sedia, canticchiando a bassa voce e poi sempre più forte per trovare un mantra che impedisse a quelle parole di tormentarle l'anima. Mentre la cantilena cresceva d'intensità e il dondolio si faceva più frenetico, la stanza cominciò a svanire in lontananza... vedeva il cielo azzurro e un'altalena... c'era lei sull'altalena... a scuola. Qualcuno la spingeva, ma non riusciva a vedere chi fosse. A ogni spinta si sollevava sempre più in alto, fin quasi a toccare il cielo, finché con la testa raggiunse la sbarra in alto e il sedile cominciò a decollare, facendo schioccare la catena ogni volta che iniziava la discesa. Al di sopra delle sue risate, sentì il fruscio dell'aria e il cinguettio degli uccelli. «Più in alto» gridò. «Spingimi ancora più in alto.» Dondolò per quel che le parve un'eternità e poi, senza preavviso, le spinte si fermarono. Si voltò ma non c'era nessuno. La velocità dell'altalena diminuì, finché non si fermò e tutt'intorno non ci fu che silenzio. Sarah si alzò dalla sedia, si avvicinò lentamente all'armadio e prese il cappotto. Stava ancora canticchiando quando si arrampicò fuori della finestra e scivolò sulla tettoia del portico. Teresa Fulbrook girò la piccola valvola sulla fiamma ossidrica. Il sibilo del gas riempì la stanza. Con un unico abile movimento, Tommie estrasse un fiammifero di tasca e lo accese con le unghie, accostandolo infine al gas pressurizzato. Teresa armeggiò con la manopola finché la fiamma bluastra non raggiunse l'intensità desiderata e poi alzò lo sguardo su Corso. «L'hai voluto tu, non dimenticarlo.» Fece un passo verso di lui. Corso cominciò a dimenarsi. Solo le mani di Tommie sulla spalliera gli impedirono di rovesciarsi all'indietro con tutta la sedia. «Se non mi avessi mentito, tutto questo non sarebbe successo, perciò non dare la colpa a me.» Continuò a parlare agitandogli la fiamma davanti al viso. «Ti avevo solo chiesto di dirmi la verità. Dopo di che Tommie ti avrebbe finito senza farti soffrire.» Gli accostò la fiamma ai capelli e Corso sentì un odore pungente penetrargli nelle narici. Prese ad agitarsi freneticamente, ma riusciva solo a dimenarsi sulla sedia. «Vedi, hai continuato a ripeterci che avete scoperto tutto da soli. Potevo anche crederti, ma...» In tre passi raggiunse il tavolo della cucina e ritornò con in mano il volantino. «Ma tutte
quelle chiacchiere non spiegano affatto come abbiate messo le mani su questa foto... E dato che io so esattamente da dove viene e quando è stata fatta...» Con la fiamma ossidrica appiccò il fuoco a un angolo del volantino. Lo tenne in mano mentre si riduceva in cenere, lasciandone cadere i residui sul pavimento. Poi si avvicinò e riassestò il nastro sulla bocca di Corso. «Perciò, ecco cosa faremo adesso» proseguì. «Ti brucerò l'orecchio destro e poi ci faremo un'altra piccola chiacchierata. Se anche questa volta non riuscirò a catturare la tua attenzione, ti brucerò l'altro.» Guardò Tommie. «Tienigli ferma la testa.» Corso cominciò a dimenarsi in preda al terrore mentre l'uomo gli afferrava con una mano i capelli facendogli scivolare l'altra sotto il mento, e si appoggiava con tutto il suo peso allo schienale della sedia. Teresa avvicinò lentamente la fiamma e Corso urlò attraverso il nastro adesivo, tremando in maniera incontrollata. Di nuovo sentì l'odore di bruciato sui capelli e poi, mentre la mano della donna si avvicinava, percepì il calore della fiamma sulla carne. Un grido gli sgorgò dal petto. Un gemito acuto cominciò a fuoriuscire dal nastro adesivo. Il sangue spruzzò dappertutto non appena i suoi piedi presero a vivere di vita propria colpendo il pavimento in un ritmo frenetico. A Corso sembrò di avere una sirena nelle orecchie. Poi, all'improvviso, Tommie lasciò la presa. Silenzio. Corso aprì gli occhi e vide che lui indicava un punto alle spalle della donna. Fuori, nell'oscurità, una piccola luce ballonzolava verso di loro. «Cosa diavolo è?» domandò Tommie. Lei volse di scatto la testa. «Una di quelle dannate bambine» esclamò. Spense la fiamma ossidrica e indicò la porta che divideva la cucina dal soggiorno. «Portalo nell'altra stanza, insieme a Gordie» ordinò. La luce tremolante era a meno di cento metri quando Tommie afferrò la spalliera e cominciò ad arretrare verso la porta, trascinando un recalcitrante Corso, con sedia e tutto, fuori dalla stanza. Emily appoggiò la bici ai gradini dell'ingresso e piombò in casa. «Papà» gridò correndo in cucina. Fatti tre passi si voltò verso il lavello e si immobilizzò di colpo. Sua madre era appoggiata al bancone, a braccia conserte, con un'espressione sul viso che la bambina non aveva mai visto in vita sua. «Dov'è papà?» domandò deglutendo a fatica. Sua madre lanciò un'occhiata al pick-up parcheggiato in cortile. «Cosa ci fai qui?» le chiese. «Dovresti essere da Mama May. Perché
diavolo sei tornata?» «Volevo vedere...» Al primo passo della madre nella sua direzione, Emily si lanciò verso la porta del soggiorno. «Papà» gridò. «Papà!» Ma nessuno le rispose. Il primo schiaffo le fece perdere l'equilibrio. Il secondo la mandò a sbattere all'indietro con tale violenza che colpì con la testa il frigorifero e scivolò a terra. «Va' di sopra!» le urlò sua madre. «Subito!» Anche in quello stato di confusione, Emily sapeva che non era il caso di disubbidire. Portandosi una mano alla guancia si alzò in piedi e si diresse verso le scale, dove prese a salire i gradini due alla volta, tallonata da Teresa. Una volta arrivata al pianerottolo, sentì la madre che la sollevava. Alzò le mani per parare i colpi, ma le botte tanto temute non arrivarono. Una volta in camera, Emily venne gettata sul letto. «Svestiti e mettiti sotto le coperte» le ordinò Teresa a denti stretti. «Prova a farti rivedere di sotto e te ne farò pentire.» La bambina gettò la giacca per terra e si sfilò il maglione. «Sbrigati, dannazione!» gridò la madre. Emily saltò sul letto, tirandosi le coperte fin sopra la testa. Rimase in ascolto dei passi fuori della stanza. Sentì una porta che sbatteva, il rumore dell'acqua corrente. E infine la madre tornò nella stanza. «Tirati su» ordinò. La testa di Emily sbucò da sotto le coperte. Teresa era in piedi accanto al letto con due pillole bianche in una mano e un bicchiere d'acqua nell'altra. «Prendi queste» le intimò. Emily si tirò a sedere sul letto e fece come le era stato ordinato. Appoggiò le due pillole sulla lingua e le buttò già con l'acqua. Teresa lasciò la porta aperta e uscì. Una volta in corridoio, si accorse che Tommie l'aspettava in fondo alle scale. Gli fece cenno di tornare in cucina e lo seguì. «Quella dannata bambina cambia i nostri piani» disse. «Dobbiamo guadagnare un po' di tempo.» Si guardò intorno nella stanza e i suoi occhi si soffermarono sulla nuova cucina a gas. Si voltò verso Tommie. «Tu porta fuori Corso e sistemalo nel baule della Pontiac. Ricordati di prendere una pala e un piccone. Lo seppelliremo vicino al campeggio dove Gordie portava le bambine.» Tommie fece per avviarsi. «Ci sono delle taniche di carburante per le emergenze. Prendile, sono nel fienile» gli ricordò Teresa., «C'è anche un vecchio tubo a imbuto, appeso a un gancio. Fa' il pieno alla Pontiac.
Dobbiamo fare più strada possibile prima di fermarci.» 38 Sarah gettò la bici sopra quella della sorella e si avviò lungo le scale che portavano alla cucina. Dopo i primi due gradini si fermò. Aprì la bocca per chiamare, ma cambiò rapidamente idea. Rimase immobile, aguzzando le orecchie in ascolto. Niente, neanche un rumore. E poi... sentì la voce della madre dal corridoio che parlava tra sé e sé con quel tono cantilenante che Sarah odiava, quello che usava quando pensava che nessuno potesse sentirla. Solo che stavolta era diverso. Sembrava stesse facendo uno sforzo. Spostando qualcosa di pesante. «Su, coraggio» stava dicendo. «Adesso ti porto fuori. Su, forza. Ci siamo. Ecco. Su...» Sentendo la voce avvicinarsi, Sarah fu presa dal panico e si nascose dietro la porta della cucina. Aspettò qualche secondo e poi sbirciò da dietro l'angolo: Teresa era di spalle, china, e trascinava qualcosa. Qualcuno, anzi! Trascinava qualcuno per i piedi. Il respiro le si mozzò in gola. Si coprì la bocca con la mano e rimase a guardare pietrificata, mentre sua madre finiva di trascinare il corpo nella stanza e la porta si richiudeva alle sue spalle. Si schiacciò ancora di più contro la parete. La sua mano incontrò qualcosa di duro e freddo. Guardò a sinistra e vide la tubatura che il padre aveva ordinato per la nuova cucina, appoggiata contro il muro. Poi tornò a sbirciare da dietro la porta. Il corpo aveva la testa avvolta in un sacchetto di plastica bianco. Ma non aveva importanza, avrebbe riconosciuto ovunque quella camicia. Mama May l'aveva regalata a papà a Natale. Sarah soffocò un singhiozzo e si tirò nuovamente indietro. Teresa aveva ricominciato a parlare. «Adesso ti sistemo qui» stava dicendo. «Penseranno a un incidente. Mentre sistemavi la nuova cucina. Qualcosa con il gas. Una terribile tragedia. Che vi ha uccisi tutti e due.» Mentre ascoltava quelle parole, Sarah si sentì soffocare dalla rabbia. Il viso le avvampò fino alle orecchie, finché non sentì altro che il proprio sangue pulsarle nelle vene e il cuore batterle furiosamente nelle tempie. Poi udì un rumore. Un sibilo. E quasi contemporaneamente l'odore di gas che riempiva la stanza. Sbirciò da dietro la porta. La madre le volgeva le spalle e, tenendosi uno strofinaccio da cucina premuto sul viso, estraeva degli attrezzi dalla cassetta rossa di metallo. Sarah sentì gli occhi che si inumidivano e represse un colpo di tosse.
Quando Tommie de Groot si piegò per sollevare il prigioniero e infilarlo nel baule della macchina, Corso scattò in avanti, assestandogli una testata in faccia e facendolo capitombolare a terra. Tommie si alzò in piedi, si passò una mano sul viso e poi gli sferrò un calcio alla testa. «Questa me la paghi più tardi, figlio di puttana» esclamò. «Giuro che me la paghi.» Colpì nuovamente Corso allo sterno, mandandolo quasi in convulsioni nel tentativo di respirare attraverso il nastro adesivo. Poi lo afferrò per la collottola e riuscì a ficcargli la parte superiore del corpo nel bagagliaio della macchina. Si passò ancora una volta la mano sul viso, lo afferrò per i piedi e lo buttò dentro. La macchina ondeggiò sugli ammortizzatori, mentre Corso piombava nell'antro oscuro della Pontiac. Stava correndo alla cieca. Non c'era illuminazione. Filava veloce lungo il viale d'ingresso. Una mano sul volante e l'altra sul cellulare appiccicato all'orecchio. «Posso avere il suo nome, per favore?» ripeté per la terza volta la centralinista della polizia. «La prego» implorò Meg. «È un'emergenza. Sono al due-sette-seicinque-quattro della Statale 10. Sulla cassetta della posta c'è scritto M. Fulbrook. Mandate qualcuno, per favore.» «Non posso inoltrare la comunicazione se non...» Meg gettò il cellulare sul sedile. La voce continuò a gracchiare. Allungò la mano e spense il telefono. Ancora poche centinaia di metri e giunse in vista della casa. Solo allora si rese conto di non avere un piano. Non sapeva cosa l'aspettasse, perciò spense il motore e lasciò che la macchina scivolasse silenziosamente lungo la strada, usando l'ultimo abbrivio di velocità per fare inversione. Non si sa mai. Recuperò il volantino dal sedile del passeggero, scese e chiuse le portiere. Le luci erano accese. Pianoterra e primo piano. Nella stanza che dava sul portico, si intravedeva il tremolio di uno schermo televisivo. Si avviò in quella direzione, sussultando per i sassolini appuntiti del vialetto sulla pianta dei piedi nudi. Issandosi su un muretto di pietra, sbirciò all'interno. La fiamma artificiale nel caminetto aumentava il tremolio di luci della semioscurità. Una signora anziana era distesa su una poltrona reclinabile, con la bocca aperta e le braccia abbandonate sui braccioli. Spostandosi a destra, Meg controllò il televisore. Era sintonizzato su Survivor.
Corso era disteso su un fianco a fissare il grigio cielo notturno. Stava per perdere i sensi, se lo sentiva. Era sul punto di piombare nell'oblio, nel nulla da cui non sarebbe più emerso, perciò si sforzò di ascoltare il gorgoglio del carburante che veniva versato nel serbatoio. Si concentrò per contare il numero di volte in cui la tanica veniva svuotata e poi buttata da parte, e fece attenzione al fischiettio dell'uomo e allo scalpiccio degli scarponi sul terreno. Dilatò le narici nel tentativo di inalare i fumi del gasolio, sperando che l'odore potesse aiutarlo a mantenersi cosciente. Non aveva alcun dubbio. Lasciarsi andare voleva dire morire. Poi la luce vacillò e Corso vide Tommie de Groot che lo fissava prima di buttare un piccone e una pala sopra di lui e chiudere lo sportello del bagagliaio. 39 Emily si sentiva la gola in fiamme. Gli occhi le bruciavano come quella volta che se li era sfregati con un'erba velenosa durante una gita in campagna. La stanza ondeggiava davanti ai suoi occhi e ogni cosa sembrava galleggiare in aria come in uno scenario di cartapesta. Sporse un piede fuori dal letto e, prima di rendersene conto, cadde sul pavimento, trascinandosi appresso coperte e lenzuola. Rimase sdraiata a terra cercando di rimettere a fuoco la vista, ma la stanza continuava a ruotare vorticosamente attorno a lei. Si districò dalle coperte e cercò di strisciare fino alla porta. La testa le girava. Dal piano di sotto proveniva una specie di sibilo che si confondeva con la voce di sua madre. Cercò di rialzarsi, ma non le riuscì, perciò percorse tutto il corridoio strisciando. In cima alle scale cercò nuovamente di mettersi in piedi, ma di nuovo fu incapace di controllare i muscoli delle gambe. «Papà» gracchiò con voce roca. Il sibilo dalla cucina stava aumentando di intensità, superando persino il rombo che sentiva nelle orecchie. Mentre cercava di raggiungere il pianterreno perse l'equilibrio e capitombolò giù, atterrando in un groviglio di gambe e braccia in fondo alle scale. Sentiva i polmoni come congelati. E le lacrime presero a scorrerle lungo le guance. Strisciò verso la porta sul retro senza riuscire a smettere di tossire. L'andatura zoppicante era sparita di colpo. Mama May scese le scale di volata. «Su non ci sono» esclamò, il volto contratto dalla preoccupazione. «Devono essersela svignata mentre dormivo.» In piedi sul portico accanto a Meg, le indicò la casa illuminata oltre i
campi. «Mio figlio abita lì.» Senza attendere oltre, Meg si voltò e cominciò a correre, con la donna anziana alle calcagna. Balzarono in macchina contemporaneamente. Mama May stava ancora cercando di chiudere la portiera, quando Meg inserì la prima e partì di corsa. Solo quando si infilarono sulla statale, Mama May si accorse di stringere ancora convulsamente in mano il volantino. Sarah uscì in punta di piedi dal suo nascondiglio dietro la porta, tenendo la tubatura davanti a sé con entrambe le mani. Il sibilo del gas riempiva la stanza, ovattando i suoi passi sul pavimento di linoleum. L'odore era insopportabile. Le bruciava in petto come fuoco liquido mentre attraversava lentamente la stanza. Teresa tossiva e ansimava, mentre con le mani tremanti staccava il nastro adesivo e sfilava il sacchetto di plastica dalla testa di Gordie. Forse fu un riflesso della sua ombra. Oppure qualche vestigia dell'antico istinto di sopravvivenza che si risvegliava all'improvviso. Fatto sta che Teresa Fulbrook alzò gli occhi per l'ultima volta. Il suo sguardo incontrò per un attimo quello della figlia maggiore, proprio nel momento in cui la pesante tubatura calava con forza sopra di lei. Il primo colpo sembrò solo stordirla. Barcollò all'indietro e si toccò la testa con una mano, come per soppesare l'entità del danno. Era ancora accucciata nella stessa posizione quando il secondo colpo vibrò con violenza prendendola in pieno volto, tra il naso e gli zigomi, e gettandola a terra, dove rimase a fissare Sarah con un'espressione incredula. La ragazzina calò il tubo ancora e ancora. Fino a che non le mancò il fiato. Fino a che il volto della madre non fu ridotto a una poltiglia di sangue. A quel punto, tenendosi stretto il tubo al petto e coprendosi naso e bocca con la mano, afferrò le chiavi della macchina dal gancio accanto al frigorifero e barcollò fino a uscire nel cortile sul retro. Tommie de Groot si fregò le mani per ripulirle dalla polvere. Aprì la portiera e salì in macchina. Il sedile era regolato sull'altezza di Teresa, perciò dovette spingerlo all'indietro. Fu solo quando allungò la mano verso l'accensione che si accorse di non aver preso le chiavi. «Merda» borbottò fra sé e sé, scendendo dalla macchina e sbattendo lo sportello per la frustrazione. Si fermò un istante davanti al cofano per farsi una sigaretta. Estrasse la busta, la aprì, prese un piccola quantità di tabacco schiac-
ciandola poi in una cartina, infine leccò il bordo e la chiuse tra le dita. Rimise in tasca la busta e si avviò verso casa. «Posso fumare dove cavolo mi pare e piace adesso, eh, Gordie?» disse ridacchiando, mentre saliva i gradini che portavano alla cucina. «Non devo più sorbirmi tutte le tue stronzate sul fumo, ti pare?» Mentre camminava faceva roteare la sigaretta fra le dita. «Quel figlio di puttana ha avuto quel che si meritava» concluse con un sorriso. 40 Sarah si gettò trafelata fuori della porta sul retro, atterrando sull'erba indurita dal gelo invernale. Con il petto ansante e gli occhi annebbiati, annaspò in cerca d'aria come una maratoneta. Si asciugò gli occhi con la manica e si rese conto di non essere sola. Emily. La sorella, in maglietta e mutande, barcollando svoltò dietro l'angolo e sparì. La domanda sembrò echeggiarle minacciosa nel cervello: «Mi avrà vista? Mi avrà vista?». Sarah si rimise in piedi a fatica e si avviò dietro a Emily. Poi si fermò e tornò di corsa sui suoi passi. Afferrò le chiavi della macchina che erano cadute per terra, se le ficcò in tasca, raccolse il tubo e seguì la sorella dietro l'angolo. Mentre affrettava il passo, Tommie de Groot cercò di ricordare da quale film fosse tratta la battuta. Una pellicola che aveva visto quando era nei Marines. Ricordava perfettamente il volto dell'uomo. Un attore famoso. Una star del cinema. Teneva in mano un'accetta e sbirciava dalla porta divelta esclamando: «Tesoro... sono a casa». Chi diavolo era? si domandò, aprendo la porta ed entrando in cucina. Con un unico movimento sinuoso si ficcò la sigaretta nell'angolo della bocca e accese il fiammifero con l'unghia del pollice. Ebbe solo una frazione di secondo per mettere a fuoco la scena... la donna con la testa ridotta a una poltiglia di sangue e ossa rotte, riversa a terra accanto a Gordie... Il tempo di inviare il messaggio al cervello e il mondo esplose, riversandogli addosso una terribile ondata di fuoco come lava dall'inferno. Il suo ultimo pensiero e la sua ultima parola, una cosa sola. «Mamma» urlò, divorato dalle fiamme. «Oh, mamma.» Meg Dougherty sterzò con forza verso destra e la macchina slittò sulla
ghiaia del viale. Solo quando recuperò il controllo della vettura, si accorse della scia di lampeggianti rossi che la tallonava e sentì l'ululato delle sirene che sovrastava il rombo del motore. La vecchia signora sedeva rigida accanto a lei, tenendosi alla maniglia in alto, il volto cinereo. Quando Meg riportò l'attenzione sulla strada, ebbe solo un secondo per inquadrare la scena. Un pick-up bianco. Una macchina con il bagagliaio aperto. E dietro, cos'era? Ragazzine? Un istante dopo la casa esplose in un nugolo di fiammate bluastre. La forza della deflagrazione catapultò all'esterno una figura avvolta nel fuoco, che si mise a correre in tondo agitando le braccia, come cercando di decollare, per poi abbattersi a terra continuando a bruciare. Fu solo quando si spense la sirena della polizia che Meg riuscì a udire l'urlo raccapricciante che usciva da quella torcia umana che si dimenava sul vialetto d'accesso. E lo sfrigolio... il terribile sfrigolio di carne bruciata. Scoppiò in singhiozzi. 41 Meg spinse la sedia a rotelle, facendo forza sulle zolle indurite di terreno che facevano incagliare le ruote davanti. Corso si lasciava trasportare in silenzio, mentre lei doveva correggere continuamente la direzione facendo forza sull'impugnatura. «Al momento ho pensato che fossi tu» mormorò. «Che bruciavi vivo, proprio davanti ai miei occhi.» Trasalì al ricordo. «Si sentiva addirittura lo sfrigolio della carne... come pancetta abbrustolita. È stato...» Rimase senza parole. Corso chiuse gli occhi. Rivedeva ancora la scena... se la sentiva addosso, sulla pelle. Il calore che si sprigionava per tutto il corpo mentre giaceva nell'oscurità del bagagliaio. Tommie de Groot che bofonchiava tra sé e sé allontanandosi dalla macchina. Poi lo sportello che si sollevava inaspettatamente e una ragazzina che lo fissava strabiliata, con un'espressione che passava dalla paura allo stupore, a... cosa nascondeva quel viso mentre lei sollevava il braccio in alto? Terrore? Al momento gli era sembrato il volto del diavolo in persona, bestiale e furioso, che alzava la sua spada argentata in trepida attesa, pregustando il momento in cui lo avrebbe colpito in mezzo alla fronte. E poi il boato dell'esplosione. La ragazzina che veniva spazzata via come dallo schiaffo di un gigante. E la macchina che ondeggiava, i detriti che si abbattevano sulla carrozzeria, la tempesta che lasciava il po-
sto all'ululato delle sirene... E infine quell'urlo agghiacciante, che sembrava galleggiare nell'aria come fumo di cannone. «Me n'ero fatto una ragione» disse d'un tratto Corso. «Di cosa?» «Del fatto di dover morire.» La sentì sussultare alle sue spalle. «Sdraiato in quel bagagliaio... non so come spiegartelo, ma ho avuto una specie di esperienza cosmica... come se in un certo senso avessi accettato di morire e mi sentissi in pace con il mondo. Come se stessi per recarmi in un posto che conoscevo e la cosa mi stesse bene. Ero pronto ad andare.» Meg non si arrischiò a dire nulla. Per tutta la settimana era stato più imbronciato e chiuso in sé del solito. L'aveva attribuito agli effetti del trauma, ma da qualche parte, nel suo cuore, aveva capito che era in atto una trasformazione più profonda e che Corso era cambiato per sempre. L'uomo che avevano estratto dal quel bagagliaio non era lo stesso che vi era entrato. «Non parlare così» mormorò infine. «Mi fai paura.» «No... è una cosa positiva» ribatté lui. «Ti senti avvolgere da una certa pace... e pensi... magari andrà tutto bene, sarà come...» Si interruppe e scoppiò a ridere. «Ma senti cosa mi esce dalla bocca» osservò con una punta di amarezza. «Eppure dovrei saperlo ormai. Gli unici esperti in fatto di morte sono i defunti. E in genere sono piuttosto avari di parole.» Meg continuò a spingere la sedia a rotelle sul terreno sconnesso. Superato un piccolo pendio, arrivarono nello spiazzo in cui si teneva il funerale. «Eccoci di nuovo in un cimitero» commentò. «È come essere a casa» soggiunse Corso. Gli diede un buffetto sulla nuca. «Piantala!» Un gruppo di una cinquantina di persone. In piedi sotto gli alberi. Un cassa di bronzo ricoperta da una cascata di fiori. La dimora finale di Gordon Fulbrook. La folla fece ala per lasciar passare l'agente speciale Molina. Si stava dirigendo nella loro direzione. «Bello sapere che è ancora tra noi» disse rivolto a Corso. «Come procedono le indagini?» si informò Corso di rimando. «La più schifosa scena del crimine in cui mi sia mai imbattuto.» «Come mai?» Molina si guardò intorno con aria circospetta. Poi si chinò a parlargli all'orecchio. «Non c'è niente che abbia senso» sussurrò. «Il marito è morto asfissiato. Niente bruciature nei polmoni, il che significa che, al momento dell'esplosione, era già morto. E neanche cicatrici, quindi non ha respirato
propano prima che il posto saltasse il aria.» «Mi sta dicendo che era già morto quando hanno catturato Corso?» domandò Meg. «Proprio così» rispose Molina guardandosi attorno. «Con la nostra piccola Sissy, Teresa, Louise... come diavolo vogliamo chiamarla...» Fece una smorfia disgustata. «... le cose non sono mai semplici. Presenta quattro fratture multiple al cranio, il naso rotto ed entrambi gli zigomi maciullati.» «Qualcuno l'ha massacrata di botte» commentò Corso. «Sì, ma non ha portato a termine l'operazione. La donna era solo svenuta. La causa ufficiale di morte è stata l'immissione di propano infuocato che ha incenerito i polmoni.» Dougherty rabbrividì. «Ma non è finita» proseguì Molina. «Adesso arriva la parte migliore. La macchina in cui la tenevano nascosto» disse indicando Corso. «Quella vecchia Pontiac...» «Già.» «Per terra, dietro la macchina, hanno trovato un tubo di ferro zincato lungo circa un metro. Un bel pezzo di tubatura idraulica delle dimensioni di una mazza da baseball. I commercianti locali dicono che Gordon Fulbrook stava montando da solo una nuova cucina a gas. A ogni modo, i ragazzi del laboratorio hanno eseguito i dovuti controlli sul tubo, e indovinate un po'?» «Corrisponde alle ferite sulla testa della mammina» indovinò Corso. «Esatto» confermò Molina. Alzò gli occhi su Meg corrugando la fronte. «Vi ho parlato della figlia minore? Emily?» «Non mi pare» rispose Meg. «È stata trovata svenuta sull'erba. Proprio dietro la Pontiac. Grave frattura del cranio. Il medico legale dice che è stata trascinata da dietro casa fino al punto in cui l'abbiamo ritrovata.» Alzò un dito. «Tracce del suo sangue e dei suoi capelli sono state rinvenute sulla stessa tubatura.» «Com'è possibile?» domandò Corso. «Ditemelo voi.» «È in grado di essere interrogata?» «Le ho parlato personalmente.» «Che cosa ha detto?» «Che è sgattaiolata di nascosto fuori dalla casa della nonna perché voleva vedere il padre. Ha detto che sua madre le ha fatto prendere un paio di pillole e l'ha messa a letto. Poi ricorda di essersi svegliata a un certo punto
senza riuscire a respirare. Pensa di essere caduta giù dalle scale. L'ultima cosa che ricorda è di essere uscita nel giardino sul retro. Dopo di che, il vuoto.» «Impronte sulla tubatura?» «Di tutti... padre, madre, Tommie, la figlia maggiore, il negoziante che l'ha venduta...» Alzò le mani in un gesto di rassegnazione. «Una settantina di impronte diverse su quel cavolo di tubo.» «E la figlia maggiore?» «Sarah?» «Che mi dice di lei?» «È l'eroina del momento. Ha salvato la sorellina dall'incendio. Ieri è apparsa la sua foto sul giornale locale. Ho sentito che la CNN vuole intervistarla.» «Quale sarà la versione ufficiale?» «Lasceremo decidere alle autorità locali» disse Molina. «Sarebbe a dire?» «Non siamo riusciti a ottenere un risultato che ci soddisfi, perciò ci terremo in disparte. Abbiamo chiuso il caso Rosen. Le nostre competenze finiscono qui.» «E le autorità locali che cosa dicono?» «Sono propense ad attribuire a Tommie de Groot tutta la faccenda del tubo. Pensano che abbia avuto un diverbio con la sorella e che l'abbia massacrata con quello. Poi, credendo di essere stato visto dalla bambina, deve aver cercato di far fuori anche lei. E forse nel frattempo ha anche rotto una tubatura del gas. Ma prima che potesse fare qualsiasi cosa, l'intera casa è andata in fiamme.» «La storia non sta in piedi» obiettò Corso. «Tommie era là fuori con me. A fare il pieno di gasolio alla macchina. A meno che io non sia svenuto, non mi pare che abbia avuto il tempo di fare tutto quello che gli attribuite.» Molina parve studiare l'orizzonte. «Lo vada a dire allo sceriffo.» «Resterò qui un altro mese.» Il federale si strinse nelle spalle. «Una bella vacanza esotica» disse poi con un sorriso. «Sta iniziando» sussurrò Meg. Il prete, vestito con i paramenti sacri, si era avvicinato alla tomba e aveva cominciato a leggere un passo della Bibbia. Molina indicò con la mano la sedia a rotelle. «Posso?» domandò a Meg. Lei fece un passo indietro, permettendogli di afferrare l'impugnatura.
Arrivarono in tempo per sentire il prete che descriveva il paradiso celestiale a cui Gordon Fulbrook era destinato. Di fronte a lui, schierato in semicerchio, il gruppetto dei partecipanti alle esequie. May Fulbrook era seduta su una sedia pieghevole di metallo. Si teneva un fazzoletto di raso premuto contro gli occhi. Alla sua destra, su una sedia identica, la nipote Sarah sembrava cavarsela decisamente bene per una ragazzina che aveva appena perso entrambi i genitori. Mentre il prete declamava a voce tonante l'elogio funebre di Gordie, la ragazzina si volse impercettibilmente verso il terzetto appena arrivato. Corso si tolse gli occhiali da sole e se li appoggiò in grembo. Quando alzò nuovamente gli occhi, Sarah Fulbrook lo stava fissando, lo sguardo freddo e inespressivo. Neanche un accenno di dolore. Niente. Magari si sbagliava. Poteva essere la tensione dell'ultima settimana... ma in quei trenta secondi di contatto visivo, prima che la ragazza distogliesse lo sguardo, a Corso parve di percepire il disprezzo che lei nutriva nei loro confronti. Disprezzo e derisione per la loro stupidità e inettitudine. Un brivido gli corse lungo la schiena. E la sensazione si acuì quando si sentì perforare nuovamente da quello sguardo gelido. Questa volta fu lui a distogliere gli occhi. Venti minuti dopo era tutto finito. I partecipanti si allontanarono a gruppetti di tre o quattro finché non rimasero che Molina, Meg e Corso. Due impresari delle pompe funebri arrivarono su un escavatore arancione. «Bella funzione» commentò Molina. Tutti si dichiararono d'accordo. Strinse loro la mano a turno. «Scommetto che questa storia finirà in un libro» disse rivolgendosi a Corso. «Può starne certo» rispose lui, sorridendo per la prima volta dopo una settimana. Rimasero a osservare Molina che si allontanava. Corso si chinò in avanti sulla sedia e raccolse un paio di ghiande dal terreno. L'escavatore accelerò sbuffando, mentre una nuvola di gas fuoriusciva dal tubo di scappamento. Dougherty afferrò la sedia a rotelle e prese a spingere Corso attraverso il prato. Lo guardò sbucciare una ghianda fino a che in mano non gli rimase che il piccolo frutto ovale con la cima appuntita. «Fai provviste per l'inverno?» gli chiese. «No» rispose scuotendo il capo. «Pensavo solo a come il frutto non cada mai molto lontano dall'albero.»
Lo sa. Lo capisco da come mi guarda. Seduto immobile sulla sua sedia a rotelle a lanciarmi occhiate severe, mentre tutti intorno mormorano preghiere sottovoce. Che vada al diavolo anche lui. Non aveva tanto l'aria da duro steso nel bagagliaio della macchina della mamma, giusto? Sembrava anzi sul punto di farsela addosso come un poppante. Chi se ne frega di quel che pensa, dopotutto. Se avesse voluto raccontare qualcosa, l'avrebbe già fatto. Avrà le sue buone ragioni per tenere la bocca chiusa. La gente è fatta così. Pensa di sapere cosa frulla per la testa al prossimo, ma si sbaglia. Si illude di capire cosa provano gli altri, ma in realtà non ne ha la minima idea. Perché ognuno di noi fa solo quello che sa di dover fare per sopravvivere. Non ha importanza quanto possa sembrare pazzesco dal di fuori, per noi ha perfettamente senso. Mama May dice che l'assicurazione sulla vita di papà sarà sufficiente per me e per Emily per molto tempo. Dice che potremo dividerci i soldi quando saremo grandi e andare al college. Che ci saranno d'aiuto per iniziare una professione. Che potremo persino comprarci una casetta per ciascuna. Se avessi i soldi tutti per me, potrei prendermi una grande villa lussuosa lontano da qui e non tornare mai più. Naturalmente a lei non l'ho detto. FINE