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CELIA REES LA CASA DEI DESIDERI (The Wish House, 2005) A Julia Voglio anche ringraziare: Terry, come sempre, per tutto l'aiuto e il sostegno. E anche Osi e Hilary Rhys Osmond, per l'aiuto sui particolari riguardanti i gallesi e l'arte. CLIO DALTON L'Arte sanguina Arte (tecnica mista) ANDREW FISHER (stra) Fatti (ceramica) ANGELA GIBBONS Da madre a madre (tessuti) Siete invitati alla INAUGURAZIONE Giovedì 10 giugno 1982 Dalle 18.00 alle 20.00 Introduzione di CHARLES HAMMOND Alla GALLERIA X 5, D'Arblay St Soho Londra W1 Metropolitana: Oxford Circus, Tottenham Court Road, Piccadilly Circus
Ingresso su invito Vale per due persone L'ESTATE DI WISH HOUSE Quando ci pensava, Richard lo vedeva così, a grandi caratteri cubitali; il titolo di un periodo molto speciale. L'estate di Wish House, la Casa dei Desideri. La fine dell'infanzia. Aveva quindici anni allora, un'età sufficiente per cominciare a essere adulti, ma forse la transizione da una fase della vita all'altra non era segnata dal passaggio degli anni, bensì da un evento. Come quando si fa qualcosa per la prima volta: la prima bevuta, la prima sigaretta, la prima canna, il primo vero bacio, il primo vero amore, la prima volta. La prima morte. Insomma. C'era stato tutto questo, e anche di più. Buoni motivi per smettere di essere un bambino. Cioè, se poi l'infanzia finisce davvero. Secondo alcuni non è così. Credono che il bambino resti rannicchiato per sempre dentro di noi. Richard uscì dalla stazione della metro di Tottenham Court Road e si avviò verso Soho. Prese l'invito spiegazzato dalla tasca per esaminare la mappa sul retro; pensava di conoscere abbastanza bene Soho, ma era facile confondersi in quel dedalo di stradine. Rigirò il biglietto fra le mani e guardò i nomi delle vie, orientandosi di nuovo prima di riprendere a camminare, ora con più sicurezza. Ficcò di nuovo l'invito in tasca e tornò a esaminare i propri pensieri, maneggiandoli con delicatezza, sorpreso addirittura che ci fossero. Dentro di lui si era formato un mosaico improvvisato di vergogna e colpa. Spegnere quei pensieri era diventato automatico. Si avvicinò alla galleria lentamente, a testa bassa, con le spalle curve, le mani affondate nelle tasche. Si tuffò nell'ingresso di una piccola casa dall'altra parte della strada. Non voleva ancora entrare nel mondo di pesci rossi che vedeva dalla grande vetrina, ma sapeva di doverlo fare. Era qui per rassicurarsi. Il bambino dentro di lui non dormiva tranquillo. Osservò le persone che si muovevano, scivolando proprio come pesci attraverso e intorno agli altri, ai vari piccoli piedistalli e colonne, fermandosi davanti a qualche opera prima di passare alla successiva. Si costrinse a non cercarla, ma la riconobbe facilmente nell'inquieta mischia di punk, dark e new romantic vanitosi. Molte delle persone attorno a lei avevano capelli a cresta, o riempiti di gel e tinti di viola, rosa o azzurro. Lei si era tagliata i
capelli appena sotto le orecchie dall'ultima volta che l'aveva vista, ma ricadevano ancora lisci e pesanti quando voltava la testa, neri e lucidi come strisce di liquirizia. Sembrava molto più grande, ma probabilmente questo valeva anche per lui. Era magra, e gli alti scarponi da lavoro con i lacci sembravano pesanti per le sue gambe snelle, ma il seno era florido, come quello di sua madre. Il suo corpo sembrava fragile e maturo allo stesso tempo in quell'abito retrò con gli strappi fatti apposta attorno all'orlo e sulla spalla. La dolcezza se n'era in parte andata dal suo viso. Gli zigomi erano più prominenti, le labbra piene dipinte di un porpora intenso, gli occhi viola resi enormi dal mascara e da una spessa linea nera. Richard si avvicinò alla galleria con apprensione, attraversando la strada stretta con qualcosa che somigliava alla paura. Perché lei l'aveva invitato? Cosa cercava? Arrivato al marciapiede, i suoi passi esitarono. Di certo era matto a venire fin qui. Folle. Come riaprire una ferita quasi sanata. Perché esporsi ad altri colpi? Andò alla vetrina. Erano passati sei anni da quando l'aveva vista: l'ultimo incontro gli tornò alla mente, vivido come se fosse appena accaduto. La pioggia fredda, l'odore forte e aspro della terra dopo una lunga siccità. Le cose che lui aveva fatto. Il modo in cui aveva sbagliato tutto. L'imbarazzo insopportabile. Fu quasi sul punto di voltarsi, convinto che nemmeno dopo tutto quel tempo sarebbe stato capace di affrontarla. E c'erano cose che lei non sapeva. Cose che avrebbe dovuto dirle. Aveva pensato di potercela fare, ma tutte le sue riflessioni, tutti i suoi piani non lo avevano preparato ad averla davvero così vicina. Fu come un colpo improvviso al suo baricentro: lo sentì attraversare il suo corpo, formicolare nelle gambe e su verso il petto, un dolore quasi fisico che lo lasciò stordito. Era più che un senso di colpa: percepiva il potere di lei, la sua magia, anche attraverso la spessa lastra di vetro. Ne fu catturato di nuovo, e un'improvvisa paura lo fece rabbrividire dal freddo, malgrado l'opprimente afa della sera. Forse non si sarebbe mai ripreso, forse lei gli era entrata nel sangue per sempre, una febbre che sarebbe tornata durante tutta la sua vita, come la malaria. Forse era questo che voleva dire Jay. Poteva quasi sentire la voce dell'artista morto, un sussurro profondo all'interno del suo orecchio. Va' via, ragazzo. Vai via finché puoi. Non devi farlo per forza. Fece un passo indietro, come per andarsene, come se non avesse mai avuto intenzione di entrare, comunque. Ma rimase a guardarla attraverso la vetrina.
Gli sembrò di udire la risata beffarda di Jay: Non dire che non ti avevo avvertito! Lei si mescolava con le persone che la circondavano, una studentessa di arte appena uscita dal college, ma non era davvero come loro. Lei era famosa. La sua storia era una di quelle che la gente ama raccontarsi: suo padre, J.A. Dalton, il noto artista, non proprio un monumento nazionale ma quasi; la sua bizzarra morte, così improvvisa. Tutti quei dipinti. Tutti quei soldi. E lei, così giovane. Richard ricordava lo shock nel leggere i dettagli dell'inchiesta sulla morte dell'artista. I nomi, i fatti, le circostanze balzavano ai suoi occhi dalle pagine dei giornali. La realizzazione del peggiore dei timori. Un incubo divenuto realtà. Vederlo così esposto l'aveva reso reale come non era mai stato prima. Gli aveva dato la nausea. Aveva afferrato il giornale, scorso le colonne, con le dita che lasciavano impronte umide sulla carta. Perfino ora, a ripensarci gli si torceva lo stomaco. Aveva seguito la vicenda in privato, comprando da sé il giornale e chiudendosi a chiave in bagno per leggerlo. Era rimasto sbalordito dal verdetto finale: 'Morte accidentale', 'La gente strana fa cose strane'. Questo aveva suggerito il medico legale. Pensavano che fosse stato un incidente, ma Richard si sentiva ancora colpevole, perfino adesso, come se in qualche modo fosse stato lui. E se Joe, il fratello di lei, fosse stato lì? Oppure sua madre, Lucia? Quello che doveva fare davvero era girare i tacchi senza guardarsi indietro. Fissò l'ingresso della galleria. Fino a poco tempo prima era stato un negozio. L'insegna originale: Grisham & Figli, Sartoria su misura e Abiti da uomo si intravedeva appena sotto la scritta Galleria X in argento e bianco. Dall'altra parte della strada, un'insegna equivoca ammiccava a intermittenza sopra una libreria 'per adulti'. La zona era piuttosto malmessa, ma piena di personalità. Cool e alternativa. In ascesa, ma ancora abbastanza losca da mantenere la sua credibilità. Figurati se lei non sceglieva un posto come questo. Era una mostra su invito, ma lui non avrebbe dovuto sgomitare via il tizio alla porta. Tirò fuori l'invito, spedito da casa. Si domandava come facesse lei a conoscere l'indirizzo, non ricordava di averglielo mai detto. Ma se lei voleva, lo trovava. Era quel tipo di ragazza. Doveva averlo cercato apposta. Quell'idea gli scosse i nervi ancora di più. Si inserì senza problemi. Non tutti gli studenti d'arte amici di lei erano punk, e lui era solo un altro tizio vestito di nero e con i capelli lunghi lega-
ti. Lei era in piena conversazione con un gruppo di persone. Quando lui entrò, lei alzò la testa e i loro sguardi si incrociarono per un secondo. Lei annuì e gli fece un largo sorriso che gli fece balzare il cuore in gola. Disse qualcosa che lui non sentì, con i denti bianchissimi contro il rossetto scuro, gli occhi grandi lucenti e leggermente ironici. Richard ricordava molto bene quello sguardo. Si stava allontanando dal resto del gruppo, avanzando verso di lui nella sala affollata, mentre lui cercava freneticamente di ricordare una delle frasi che aveva preparato. Era pronto a farfugliare le parole quando qualcuno la prese per il braccio, facendole cambiare strada. Lei si voltò, atteggiò le labbra come per mandare un bacio e pronunciò qualcosa che a lui parve «A dopo» e «Ciao, Ricardo». Nessuno lo aveva più chiamato così da quell'estate. Richard si sentì improvvisamente mancare. Si guardò intorno in cerca di un muro, un punto in cui appoggiarsi, e trovò delle scale che sembravano salire verso il nulla. Doveva riprendersi. Sedette e aprì il programma con mani tremanti: Questa mostra non è una mostra comunemente intesa. Questa mostra è l'opera. Un'installazione che deve essere vista come un concetto unico all'interno dello spazio. Come... Poi c'era un elenco di artisti e installazioni. Richard non li aveva mai sentiti nominare. Continuò a leggere, appartandosi, come aveva previsto nel caso lei l'avesse completamente ignorato. Aveva un suo modo di prendere le distanze. Voleva fare il giornalista dopo gli studi, avrebbe potuto scrivere di questo per il giornale studentesco. È solo una storia, si disse. Solo una storia. Vediamo che succede. Vediamo dove mi porta. Una ruga gli attraversò la fronte quando voltò la pagina. Aveva delle difficoltà a capire che significavano quei paragrafi di prosa contorta. E la musica a tutto volume fornita da un gruppo che suonava in fondo alla galleria non aiutava molto. Che cavolo fanno qui quei casinari? È una galleria d'arte, per la miseria, non una discoteca. Richard risentì ancora la voce di Jay. Guardò l'opuscolo che aveva fra le mani. Forse stava davvero diventando matto. Non stare a leggere quelle balle. Mica sei in biblioteca. Hai mai ascoltato niente di quello che ti ho detto? Guarda l'arte, ragazzo. Guarda l'arte! Richard ubbidì. Dall'altra parte della stanza, i visitatori si accalcavano nel tentativo di avvicinarsi a un pezzo in particolare. Richard si alzò, curioso, salì qualche
gradino. Le scale lo portarono abbastanza in alto da vedere al di sopra delle teste. C'era un avviso in grandi caratteri rossi: ATTENZIONE: CONTENUTO ESPLICITO Fra tutti i pezzi della mostra, era quello a fare più scalpore. Sembrava che Clio avrebbe presto goduto di una certa fama personale. Le illustrazioni erano chiare e immediate, nello stile inconfondibile di J.A. Dalton. La gente tratteneva il respiro, e faceva «Oooh» e «Aaah», parlando poi di «Innocenza. Purezza. Bellezza mozzafiato del tratto», cercando di avvicinarsi per guardare ancora meglio e leggere il testo di accompagnamento. Richard non si unì alla massa. Rimase dov'era. Non fu il contenuto a sconvolgerlo: aveva visto la sua parte di pornografia, solo che di solito non era lui il protagonista. Non temeva che qualcuno lo avrebbe riconosciuto. Era improbabile, con i vestiti addosso. Pensava di aver distrutto tutte le immagini di quella particolare serie. Lo shock venne dal fatto stesso di vederle. Distolse lo sguardo a fatica e si costrinse a guardare il programma. Pezzi 9a e 9b Clio Dalton ha aggiunto il suo commento ai disegni a penna à la Beardsley, meravigliosamente sovversivi, di suo padre. Scrive alla maniera di una cronica medioevale, ma il testo prende la forma di un monologo irrefrenabilmente pornografico. Il testo è eseguito mirabilmente ma è troppo elaborato, le parole scorrono in senso orizzontale e verticale allo stesso tempo, conferendo l'urgenza, sovrapponendo le esperienze, con l'intento apparentemente deliberato di nasconderle all'osservatore, svelando e celando per produrre una densità di significato in un modo che già emerge come la cifra di questa giovane, entusiasmante artista. Che voleva dire? Non lo so, rispose il sussurro di Jay. Ma non puoi liberarti tanto facilmente dell'arte, ragazzo. Avrebbe dovuto saperlo. Era un'inaugurazione, perciò c'era da bere. Richard si avvicinò a un tavolino traballante che ospitava alcuni boccioni di vino da due litri con il tappo a vite. Aveva bisogno di tenersi su, tanto valeva approfittare dell'alcol gratis. Il rosso era già finito, così Richard prese un bicchiere di bianco.
Era caldo, sembrava piscio e aveva più o meno quel sapore, ma lo mandò giù, e anche un altro. Un cartello sul muro, sopra la sua testa, diceva: Gli elementi che costituiscono l'insieme non devono essere visti in alcun ordine. La casualità è essenziale in questo contesto, in cui riproduce l'interfaccia, significativa e assurda a un tempo, con la quale l'artista si confronta continuamente... Richard si guardò intorno. Gli altri magari sapevano cosa voleva dire, ma lui non capiva una parola. Ne ho abbastanza, pensò passandosi il dorso della mano sulla bocca. Me ne vado al pub. La galleria era piccola. Per guadagnare spazio espositivo, dei pannelli erano stati disposti ad angolo, l'uno contro l'altro. Richard mandò giù un altro bicchiere di vino e si avviò verso il punto in cui credeva ci fosse la porta, ma il labirinto di pannelli e la folla l'avevano disorientato. Girò un angolo e andò dritto contro un ritratto a grandezza naturale di se stesso. Preso! La voce profonda di Jay gli risuonò nell'orecchio. Ora non puoi scappare! Richard entra nel Giardino (1976) Olio su tela (incompiuto) 182 x 152 cm Tate Collection Jethro Arnold Dalton R.A.* (1916-1976) Dalton stava lavorando a questo dipinto all'epoca della sua morte improvvisa. La figura del ragazzo campeggia in primo piano. Sta entrando nel giardino, colto nel movimento e in un istante, con una mano protesa dietro e allo stesso tempo in avanti, mentre il suo corpo getta un'ombra profonda sulla figura distesa sull'erba. La qualità classica del ragazzo, la liscia pelle chiara e le membra soffici suggeriscono un giovane Apollo ed è forse un riferimento ironico all'opera di John Dalton. Tuttavia, gli abiti moderni (calzoncini kaki, camicia di aertex, pullover a righe, calzini grigi, sandali di cuoio) aggiungono quel realismo che fa di questa l'opera inequivocabile di J.A. Dalton piuttosto che di suo padre. Come
in molti dei suoi dipinti, Dalton preferisce il mistero e resiste alla narrazione lineare, ma la magnifica solidità delle membra e l'incarnato pallido suggeriscono l'universalità del tema: il momento della transizione dall'infanzia alla virilità. La casa (Wish House, l'abitazione di Dalton nel Galles del Sud) è un'altra presenza solida. Raffigurata con diligenza, la forte luce del sole si riflette sui vetri e rende la pietra grigia di un candore assoluto e accecante in contrasto con i verdi scuri degli alberi e gli azzurri intensi del cielo. (Dal catalogo: Retrospettiva Dalton, 1980) * Royal Academy (N.d.T.) Richard non aveva mai visto una donna nuda prima. Non nella vita reale. Aveva solo visto le fotografie sulle pagine spiegazzate delle riviste che i ragazzi portavano a scuola, o tra le copertine delle copie di Playboy e Penthouse che suo padre teneva chiuse a chiave nel cassetto superiore dello scrittoio. Questa donna non somigliava a quelle. Era tutta dorata. Non c'erano segni del bikini a sciupare la liscia distesa della sua pelle. Giaceva con un braccio disteso in fuori sull'erba fragrante, e l'altro piegato a riparare gli occhi dal sole. I capelli erano sparsi attorno alla testa in una corolla di un rosso vibrante. Un colore che senza dubbio sua madre avrebbe condannato come «Mai naturale!» Si fermò col piede a mezz'aria, intensamente consapevole del proprio pallore racchiuso nella lana pelosa e nel tessuto kaki. Non si aspettava di trovare qualcuno salendo su per i consunti gradini fino al giardino. La grande casa di pietra grigia era vuota, quando ci era venuto l'estate prima con Dylan. Era vuota da anni ed era diventata uno dei loro posti preferiti, dove andavano a giocare e a esplorare. Si chiamava Wish House, gli aveva detto Dylan, perché gli alberi intorno sembravano in costante movimento. Anche in una giornata serena come quella, sembravano sussurrare «Wish... Wish...». Questo dava alla casa un'aria ancora più sinistra che aggiungeva pepe alle loro visite. Adesso c'era quel suono, misto a una musica acuta, vagamente stonata, prodotta da uno strumento a corde e da un tamburo. Era stato questo a spingere Richard a salire le scale, pensando di aver scoperto qualcosa di veramente misterioso... finché non aveva visto quella donna.
Cercò di distogliere lo sguardo, ma non ci riuscì. Sollevò la mano, come per allontanare la visione, o per impedirsi di guardare. Allungò il braccio all'indietro, come per appoggiarsi al muro tiepido coperto di lichene. Stava cominciando a sudare. Sentiva l'umidità strisciargli fra i capelli, le goccioline che si formavano sulla fronte e sul labbro superiore. Doveva proseguire? Tornare indietro? Non sapeva cosa fare. La decisione fu presa per lui. La donna si sollevò sul gomito, sbattendo le palpebre per metterlo a fuoco, facendosi ombra agli occhi contro il sole forte che splendeva alle spalle di lui, contro lo scintillio del mare. «Oh, ciao. E tu chi saresti?» Non fece nessun tentativo di coprirsi, si limitò a prendere gli occhiali da sole e si distese nuovamente. «Mi chiamo, mi chiamo...» L'aveva temporaneamente dimenticato, e tanto comunque le parole non sarebbero uscite. La voce gli si era ridotta a uno stridulo gracchiare. Con la bocca arida, fissava la pelle dorata, la peluria d'oro filato, e poi su, fino agli occhi neri e a mandorla che lo guardavano. Il sorriso di lei si allargò. Il viso di lui divenne di un intenso rosso barbabietola. «Rick, Ricky, Richard». Annaspò alla ricerca di una versione del suo nome che non suonasse infantile. Che stupido. «Bene, Rickrickyrichard». Con una profonda risata di gola, lei si alzò con un unico, fluido movimento, raccogliendo dall'erba asciutta una pezza di una stoffa sottile e setosa, blu e verde. «Ti chiamerò Ricardo». Arrotò la 'R' e insistette sulla sillaba di mezzo. La sua voce era roca, bassa e musicale. Faceva sembrare all'improvviso il suo nome affascinante ed esotico. Si avvolse nel telo, legandoselo come una specie di sari, e gli andò incontro. I suoi passi erano leggeri, sembrava scivolare sull'erba. «Io sono Lucia. Ciao, bambino». Pronunciava il suo nome all'italiana, con la 'c' dolce. «Ti piace la musica? È marocchina. Mio figlio Joe ha messo su un impianto. C'è musica ovunque andiamo». Canterellò le ultime parole mentre gli si avvicinava. Alle finestre c'erano degli altoparlanti, ora Richard li vedeva. Combatté il desiderio di asciugarsi il palmo sudato sui calzoncini prima di prendere la mano che lei gli tendeva. Le dita erano sottili, cariche di anelli d'argento, e le unghie dipinte dello stesso rosso delle labbra. La mano di lei era asciutta, mentre quella di lui era umida come un pesce. «Fa caldo, non è vero?» Lei sorrise. I denti erano piccoli e bianchi, un
po' larghi sul davanti. Su un lato del naso aveva un gioiello. «Secondo me vuoi qualcosa da bere. Io la voglio di sicuro. Perché non entri? Ti starai squagliando con quella maglia di lana». Lei continuò a tenergli la mano, ma senza stringerla, e lo guidò verso il riquadro buio della porta. Un rumore dall'alto gli fece sollevare lo sguardo. Sbatté le palpebre: la luce forte rimbalzava sulle vecchie mura di pietra grigia e ammiccava dai vetri delle finestre sul lato sud della casa. Il tetto spioveva su una serie di piccoli frontoni aggettanti, con le pietre screziate inarcate come sopracciglia. La finestra del frontone centrale era spalancata e una ragazza era appoggiata al davanzale, e lo guardava. La braccia erano nude, e i capelli neri ricadevano in avanti, resi argentei dal sole; gli occhi scuri brillavano beffardi. Aveva visto tutta la scena e stava ridendo. Di lui. Jay lo vide prima di Clio. Lei posava con le spalle al mondo esterno e improvvisamente si rese conto che lui non stava guardando lei, ma qualcosa al di là della sua spalla. Si voltò per vedere che cosa poteva averlo attratto. Giunsero delle voci: un ragazzo che si presentava «Rick, Ricky, Richard...», la profonda risata di Lucia in risposta. Clio sorrise. Senza dubbio sopraffatto dalla vista di Lucia nuda, non era nemmeno riuscito a dire bene il suo nome. Lasciò il suo posto e andò alla finestra aperta, gustandosi il quadretto comico messo in scena di sotto. Jay la fissò per un momento, studiandola con la testa inclinata da un lato mentre studiava la sua posizione. Le dita si mossero rapide mentre schizzava l'angolo esatto della testa, la linea del collo, l'incavo del gomito appoggiato sul davanzale. Solo allora la seguì per guardare fuori dalla finestra. Rimase alle sue spalle, pensieroso e immobile. Chiaramente, non trovava la scena divertente quanto lei. Lei si voltò e vide che lui stringeva la mascella, ed era piuttosto pallido. «Lo voglio» disse lui, stringendole il braccio e macchiandole di colore la pelle nuda. «Lui?» Clio rise ancora di più mentre il ragazzo passava sotto la finestra, seguendo Lucia all'interno. Sembrava un vitello portato al macello. «Che potresti mai volere da lui?» Jay continuava a guardare, anche se il ragazzo era ormai sparito in casa. «Lo voglio e basta, ecco tutto». La presa si fece più forte. La stretta le fece venire le lacrime agli occhi, ma sopportò il dolore. Non aveva senso protestare, lui probabilmente non l'avrebbe nemmeno sentita. Era altrove, e fissava vagamente il punto in cui c'era stato il ragazzo.
Clio riconobbe i segnali. Lucia sarebbe stata al settimo cielo. Nel suo ruolo di arci-musa e aiutante, l'avrebbe visto come un ritorno di fiamma della sua creatività. Ormai dipingeva di rado Lucia. Il suo interesse si era trasferito su Clio anni prima, ma di recente anche il suo entusiasmo per lei sembrava essersi raffreddato, e quasi ridotto in cenere. Si era riacceso quando lei era tornata dalla scuola. Erano andati nello studio tutti i giorni, ma fino a ora non ne era venuto fuori nulla. Spesso la licenziava dopo solo un paio di minuti, e restava solo, pensieroso e accigliato. Oppure perdeva tempo a mescolare i colori, come oggi, ma senza dare segno di cominciare. Oppure si metteva a fare disegni, per poi strapparli prima che fossero finiti, in un accesso di rabbia. Non dipingeva nulla da mesi. Il suo studio occupava l'intero piano superiore della casa e Clio lo sentiva di notte camminare su e giù, su e giù, fino al mattino. Clio si divincolò dalla stretta e prese il pareo. Quel ragazzo avrebbe portato guai, pensò con un'intuizione improvvisa, o forse era solo il dolore che si trasformava in risentimento verso il ragazzo, e verso Lucia che tendeva a raccattare i randagi. Jay rimase alla finestra, con le braccia conserte, mentre Clio si dileguava. Già l'aveva dimenticata, e pensava al ragazzo. La somiglianza era incredibile, perfino il nome... Chi era? Perché era venuto? Perché ora? Doveva voler dire qualcosa. Doveva essere importante. Jay non credeva alla magia, a differenza di Lucia con i suoi cristalli e i suoi tarocchi, ma credeva nel destino, nel fato. Forse il passato l'aveva finalmente raggiunto. Il che voleva dire che non c'era via di scampo; sia quel che sia. Sapeva solo che doveva dipingere quel ragazzo. Aveva sentito il vecchio entusiasmo riaccendersi nel profondo. Gli bruciava nella mente, inebriante come lo champagne, e gli formicolava nei polsi, facendogli dolere le giunture delle dita, e prudere i polpastrelli. Strinse forte le mani per controllare il leggero tremito che era iniziato. Era l'eccitazione, si disse. Doveva esserlo. Anche con questa sensazione, una parte di lui già sentiva una sorta di pena, si preparava alla delusione che sapeva ci sarebbe stata. Niente era mai come pensavi che fosse. Era questo che ti faceva andare avanti, giorno dopo giorno, dipinto dopo dipinto. Cercare di creare la perfezione: sapendo che nulla sarebbe mai stato alla pari con quel primo lampo creativo. Nella Grotta degli Incantesimi
(1969) Collage 90 x 53,12 cm Collezione Walton Jethro Arnold Dalton R.A. (1916-1976) Dalton era un grande ammiratore dei Preraffaelliti e dei loro seguaci, che vedevano tra gli altri suo padre, John Dalton (18691948), e condivideva molti dei loro interessi, sia nella tecnica che nei temi. In questo dipinto, Dalton unisce aspetti di Morgana la Fata e Medea di Anthony Frederick Augustus Sandys (18291904). La sua musa, la moglie Lucia, posa nei panni di Morgana, abbigliata con pelli e stoffe decorate con magici simboli runici, mentre mescola pozioni con le sostanze velenose disposte in evidenza attorno a lei. Lavora in un interno buio e senza tempo, pieno di parafernalia da strega. Immagini ritagliate e strappate da riviste femminili (pentole e padelle, un'asse da stiro, un cesto per la biancheria, una cucina a gas) rappresentano una insolita (per Dalton) incursione nella tecnica mista e sono un commento ironico sugli interessi esoterici di sua moglie, sul suo personaggio di strega sui generis e la sua relativa indifferenza verso i prosaici lavori di casa. (Dal catalogo: Retrospettiva Dalton, 1980)
L'interno della casa era buio come una caverna; gli occhi di Richard ci misero un po' ad adattarsi. Quello che vide alla fine lo lasciò sbalordito: quel posto era sempre stato chiuso, da quel che ricordava, da quando venivano là in vacanza. Quando era stato qui con Dylan l'anno prima avevano vagato in una casa che cominciava ad andare in rovina. La pioggia entrava dai punti in cui le tegole del tetto erano cadute, e il rivestimento di pannelli di legno aveva cominciato a staccarsi dalle pareti, piegandosi in avanti come delicati ventagli. Il pavimento di pietra era sporco di guano ed escrementi di gufo. Qua è là c'erano mucchietti di intonaco sbriciolato, staccatisi dai muri a mostrare la pietra verdastra, o uno strato di assi di legno, le ossa della casa. Ora era completamente diversa. I pavimenti erano stati grattati e coperti di tappeti a colori vivaci. I pannelli erano stati fissati di nuovo, anche se
erano stati lasciati di un colore argento brunito, con un velo di muffa verde ancora visibile qua e là. L'intonaco era stato eliminato dalle altre pareti, per scoprire la ruvida pietra grigia con cui la casa era costruita. Una serie di piccole stanze erano state trasformate in un grande spazio unico, che si estendeva in alto, verso una balconata superiore. Un'ampia scalinata di legno aveva sostituito la stretta scala a chiocciola. Malgrado la giornata calda, degli enormi ciocchi ardevano e incenerivano nel focolare cavernoso. «Questi muri...» Lucia misurò due spanne con le mani. «Sono così spessi! Per me qui dentro fa freddo anche in una giornata calda come questa». Si sfregò le braccia. «Per questo mi piace tenere il fuoco acceso. Ho il sangue leggero». Le massicce travi di legno che attraversavano il soffitto erano ornate di ghirlande di luppolo fiorito, fasci di foglie secche, strisce di corteccia ricurve, mazzi di alghe rinsecchite legati accanto a collane di aglio e cipolle. C'erano ghirlande fatte di cose che sembravano berrettini a punta legati insieme a funghi a ombrello secchi, spessi e duri come orecchie avvizzite. Sul pavimento di pietra c'erano candelabri di ferro di varie dimensioni. Contenevano file di grosse candele, simili a grandi stalagmiti, bordate di cera colata. Richard le immaginò tutte accese, con la luce calda che splendeva sulle lampade di ottone e sugli incensieri appesi al soffitto. L'effetto doveva essere magico. Esotico. Ecco la parola. E strano. Una grande credenza di quercia e degli armadietti di legno aperti, appesi alle pareti, contenevano bizzarre serie di oggetti: teschi di animali, conchiglie di madreperla translucida, un lungo corno levigato montato in argento; bambole di legno intagliato; una figurina di pietra dal volto liscio e gli occhi a fessura; fossili; frecce fatte di schegge di pietra e una testa d'ascia lucidata. Bottiglie di vetro ornate di nastri blu e verdi stavano in fila davanti a insegne pubblicitarie smaltate, macchiate di ruggine, di farmaci dimenticati, marche di sigarette, carni in scatola. Era una specie di museo delle stranezze. In ogni angolo della stanza, l'insolito stava accanto all'ordinario; vecchie pentole di rame impilate su una cucina a gas smaltata di rosso vivo; un'asse da stiro appoggiata a una Madonna votiva in legno. Una bellissima ciotola di ceramica di un verdeazzurro profondo conteneva una varietà di frutti dall'aria esotica, tutti sul punto di marcire. Il sole splendeva attraverso i vetri colorati delle finestre, e copriva il pavimento con un motivo mobile di rosso, verde e blu. Richard era consapevole della propria espressione sba-
lordita, ma non poteva farne a meno. Non era mai stato in un posto simile in vita sua. Fece un passo avanti nelle pozze di luce. In effetti, la stanza era più squallida di quanto sembrasse a prima vista. Il lungo tavolo basso al centro era ingombro di bottiglie e posacenere strapieni. Le stoffe multicolori stese sui mobili mascheravano una banale e logora moquette rossa. Un giovane era sdraiato sul divano. Richard non l'aveva notato nello stupore iniziale: era pallido e molto magro, la camicia di cotone nero gli stava attillata sul torace stretto. Portava pantaloni di velluto a zampa di elefante, macchiati d'olio sui lati e lisi sulle cosce, tenuti tanto bassi da mostrare le ossa sporgenti dei fianchi. I lunghi piedi nudi spuntavano dagli orli svasati e sfilacciati e pendevano oltre il bracciolo del divano. Le unghie erano nere, i calcagni ruvidi e grigi come asfalto. Il ragazzo ignorò Richard e Lucia, sporgendosi a schiacciare la sigaretta nel mezzo di un uovo che si rapprendeva su un piatto posato a terra. Prese una tabacchiera quadrata, ne trasse una sigaretta fatta a mano, accese la punta ritorta e aspirò a fondo, chiudendo gli occhi e trattenendo il fumo. Lucia allungò il braccio e batté sul dorso della sua mano. Lui le porse la sigaretta. Il fumo si arricciò in una spirale sottile, riempiendo la stanza di un odore aspro e pungente. Richard lo annusò, sembravano fascine che ardevano piano in un falò, non come le sigarette di sua madre. «Grazie, Joe». Lucia aspirò profondamente come il ragazzo, trattenendo il fumo nei polmoni. Lo lasciò uscire con un lungo soffio, stringendo gli occhi. «Mmmh, buona. Ne vuoi?» Porse la sigaretta a Richard. «Ehm, no». Scosse la testa. «Non fumo, grazie». Aveva provato solo una volta o due, ma il gusto non gli era piaciuto. Comunque, fumavano erba. Cercò a fatica di non mostrarsi scioccato. Quella non era una sigaretta normale. «È roba fantastica. Fantastica! Ben fatto, Joe». Ripassò lo spinello al ragazzo sul divano. «Joe, ti presento Ricardo. È il mio nuovo amico». «Ciao». Joe agitò languidamente una mano dalle dita lunghe, senza guardarlo. «Ti va di bere qualcosa?» Lucia girò intorno al pesante tavolo basso e selezionò con cura i vuoti, badando a non disturbare i posacenere, sollevando una bottiglia dopo l'altra e inclinandole per determinare il contenuto. «Ci dev'essere qualcosa in una di queste». «Sono a posto, così, davvero. Grazie». La famiglia di Richard beveva vino solo a Natale, e in qualche occasione speciale. Non riusciva a concepire di berlo nel mezzo di una giornata qual-
siasi. «Sei sicuro?» La fronte liscia di Lucia si aggrottò di improvvisa preoccupazione. «Fa così caldo. Devi bere qualcosa!» «Magari un'aranciata» disse Richard, non perché avesse davvero sete. Più per compiacerla che altro. «Se ce l'avete». «Aranciata?» La fronte di Lucia si corrugò ancora di più. «Non credo che ne abbiamo. Abbiamo aranciata, Joe?» Il ragazzo sul divano sembrò non aver sentito. «Clio lo saprebbe. Che ore sono?» Si guardò intorno, improvvisamente insicura, perfino ansiosa. A Richard ricordò il Bianconiglio di Alice. Se cercava un orologio, Richard non ne vide, e né lei né Joe lo portavano. «Le tre e un quarto» rispose lui, guardando il suo nuovo modello digitale. «Allora va bene!» Il viso di lei si rischiarò. «Dovrebbero aver finito». Andò ai piedi delle scale. «Tesoro! Puoi liberare Clio? Abbiamo un ospite che vorrebbe un'aranciata». Lo faceva sembrare un bambino di cinque anni. Richard era imbarazzato. La ragazza stava già scendendo le scale. Lentamente, aggiustandosi addosso un telo come quello di Lucia. Dietro di lei c'era un uomo. Rimase in ombra ma Richard riusciva a sentire la sua presenza, l'attenzione concentrata su di lui. Era alto e bruno, con una barba a punta striata d'argento e capelli neri lunghi fino alle spalle. Era magro, come Joe, ma portava una lunga veste svolazzante e sandali infradito ai piedi nudi e ossuti. Sembrava un profeta, o qualcuno di un tempo passato. Stava a braccia conserte, e studiava da sotto le sopracciglia sporgenti la stanza sotto di lui, gli occhi neri fissi sul ragazzo. Richard sentiva il suo sguardo, e questo lo metteva a disagio. Fu felice quando Lucia parlò per presentarlo. «Questo è Ricardo». Lucia arrotò di nuovo il suo nome, rendendolo sonoramente esotico, in contrasto con il suo aspetto. La ragazza sorrise. «L'ho trovato in giardino. Ora vuole dell'aranciata». Richard fissò il pavimento, imbarazzato. Quando alzò gli occhi, l'uomo era sparito. «C'è della limonata in dispensa» disse la ragazza, scendendo verso di lui. «Vieni con me». Lui bevve in fretta, ingoiando il liquido caldo. La maggior parte del gas se n'era andata. All'improvviso fu cosciente del fatto che con lui c'era una persona della sua stessa età, una persona che non indossava quasi nulla.
Portava un gioiello nel naso, come Lucia. Non l'aveva mai visto prima. Si domandò se dava fastidio. Bloccava la narice? Te lo sentivi lì, come una caccola? Faceva male quando te lo mettevano? Lei aveva un segno sul braccio nudo, come se qualcuno l'avesse afferrata in quel punto, marchiandole la pelle con la vernice. Lui distolse lo sguardo da lei, esaminando la piccola stanza: una credenza aperta accanto alla porta conteneva pacchi di erbe aromatiche e spezie, riso e pasta, bottiglie di olio e barattoli con etichette straniere. L'altra estremità della stanza era diversa, più simile a una dispensa vecchio stile. File di vecchi barattoli sporchi sotto larghi scaffali polverosi che ospitavano una varietà di latte arrugginite, vasi di marmellata senza etichetta e cestini pieni di roba avvizzita e secca. Una piccola finestra piena di ragnatele, nel mezzo della parete di fondo, dava su un giardino dall'aria formale, con piccole siepi che circondavano un gruppo di piante alte. Sembrava un giardino di piante medicinali: riconobbe le chiazze rosa intenso della digitale e c'erano altre piante, quasi altrettanto alte, alcune con spesse foglie pelose, altre con fiori ricurvi di un viola quasi nero. «Hai finito?» Lei tese la mano per prendere il bicchiere. Lui annuì, pulendosi la bocca con il dorso della mano. Non gli piaceva fissare le persone, ma non riusciva a farne a meno. Gli occhi di lei avevano un colore così insolito. Insolito e bello: le iridi viola scuro, screziate di cenere, bordate di nero. Non che Richard avesse molte occasioni di studiarli, perché lei lo guardava a malapena. Lui si sorprese a fissarla solo nella speranza che lei lo guardasse, ma lei rimaneva voltata, perciò lui le studiò la guancia, il profilo. La sua pelle era del colore del miele scuro, e perfetta. Doveva passare molto tempo fuori al sole. «Bene». Gli prese il bicchiere dalle mani. «Allora è meglio che te ne vai». Andò verso la porta, mettendo in chiaro che lui doveva seguirla. «Mica stai già andando?» Lucia alzò la testa dal divano su cui era distesa sopra Joe, mentre si passavano un altro spinello. Non c'era traccia dell'uomo più anziano. «Pensavo che saresti rimasto a cena. Ho un tagine* in forno». Anche se Lucia non si curava degli aspetti più prosaici dei lavori di casa, era un'ottima cuoca. «No, Luce. Lui deve andare» rispose per lui la ragazza. Il suo tono era freddo, indifferente, superiore. «Vero?» Richard annuì. Non sarebbe rimasto dove non lo volevano e quella ra-
gazza aveva espresso la sua opinione in merito piuttosto chiaramente. Inoltre, non sapeva nemmeno cosa fosse un tagine, figuriamoci poi se gli sarebbe piaciuto o no. Anche se l'odore non era male. «Non importa. Un'altra volta». Lucia gli sorrise. Era tanto calorosa quanto la figlia era di ghiaccio. «Sai dove siamo, perciò non fare complimenti. Sei sempre il benvenuto. Giusto, Clio? Joe?» Nessuno dei due rispose. La ragazza lo scortò fuori in giardino. Lui sbatté le palpebre nella luce del sole, abbagliato dopo l'oscurità fumosa dell'interno. Era come svegliarsi in un altro mondo. «Be', Rickrickyrichard, è stato un piacere. Giuro che la prossima volta avremo dell'aranciata». Scoppiò in una risata che sembrava dare per scontato che non ci sarebbe stata una prossima volta e gli afferrò il braccio in una stretta dolorosa, proprio sopra il gomito, spingendolo attraverso il prato. Quando arrivarono ai gradini, lei gettò una rapida occhiata indietro, verso la casa. Non c'era niente da vedere, le finestre erano accecanti come specchi, ma lui ebbe la sensazione che fossero osservati. «Sembri un ragazzo simpatico» disse lei, stringendogli il braccio ancora più forte, sporgendosi per sussurrargli nell'orecchio. «Perciò ti do un consiglio. Non tornare». La stretta di lei gli fece lacrimare gli occhi; la sua ostilità gli fece ancora più male. In quel momento lei non doveva preoccuparsi, lui non aveva intenzione di tornare. Tuttavia, mentre scendeva le scale si sentiva in qualche modo escluso e abbandonato; come se gli fosse stato strappato un premio che gli spettava, impossibile da riavere, il che glielo faceva solo desiderare di più. Corse via senza dirle un'altra parola, nutrendo dentro di sé un dolore che prima non c'era. Avrebbe potuto non tornare mai, restare fuori dalla loro vita, se non fosse stato per Dylan. Ma se non fosse stato per Dylan, non sarebbe mai andato a Wish House. Strano come funzionano certe cose. Dylan era suo amico da quando avevano cominciato ad andare lì in vacanza, quando Richard aveva nove anni e Dylan andava per gli undici. Suo padre era il proprietario del terreno su cui sorgeva il campeggio per i caravan, e la prima cosa che Richard faceva quando arrivavano per le vacanze era andare a cercare Dylan. Erano inseparabili, giocavano insieme tutti i giorni, si accampavano fuori per la notte, nei boschi, nei campi, sulle dune. Se pioveva, dormivano nel fienile in una delle stalle. Richard amava quelle
notti, in cui si sistemava accanto a Dylan con la paglia che li pungeva attraverso le coperte, e parlavano sussurrando, come se avessero potuto disturbare gli animali nella stalla. L'odore forte e pungente che emanavano diventava da rivoltante a rassicurante, mentre la pioggia tamburellava sul tetto a V e i rumori tranquillizzanti degli zoccoli e delle mandibole, e i muggiti e gli sbuffi, salivano insieme al calore degli animali sotto di loro. Stavolta le cose erano diverse. Appena scaricata la macchina, Richard era andato a cercare Dylan, lasciando i suoi genitori ad arieggiare il caravan e a prepararsi per il soggiorno. Non venivano dall'anno precedente, ma in estate restavano sempre per un mese. «Sta lavorando con suo padre» aveva detto la madre di Dylan quando Richard era andato a chiamarlo. Lei stava annaffiando il giardino, dirigendo il getto sul terreno il tempo necessario a scambiare giusto qualche parola. La tuta marrone, sformata, apparteneva al padre di Dylan: lei la portava stretta in vita con una delle spesse cinture di cuoio del marito. Soffiò via dagli occhi un ricciolo castano a cavatappi mentre esaminava Richard, con le labbra strette in una linea dritta. I suoi occhi azzurro pallido si strinsero in un'espressione che a lui sembrò sprezzante. Non giocherà più con te, dolcezza, sembrò dire il suo sguardo, prima che si voltasse. È un uomo ora. Era una donna di poche parole, e non ammetteva sciocchezze. Diresse di nuovo il getto d'acqua, non più disposta a perdere tempo con Richard. Alcuni spruzzi gli arrivarono sulle gambe. Richard aveva mugugnato qualcosa e se n'era andato da solo, per conto suo, a zonzo. Ecco come era finito a Wish House. Dietro un angolo, sulla via del ritorno verso il parcheggio dei caravan, Richard trovò la strada bloccata da una mandria di mucche. Ne occupavano tutta la larghezza, spingendosi e accalcandosi, lagnandosi con i loro muggiti per la strettezza della strada. Un cane da pastore nero e bianco vagava alle loro calcagna, correndo avanti e facendo scattare le mascelle per tenere in riga le bestie borbottanti, e un ragazzo emetteva urla e richiami, battendo i loro dorsi lucenti con un bastone. «Ehi, Dylan!» gridò Richard al di sopra del fragore della mandria. «Aspetta! Aspettami!» Il ragazzo si voltò e fece un cenno di saluto, agitando il bastone. Aspettò che Richard lo raggiungesse e proseguirono insieme. Dylan sembrava diverso. Più grande. Si era fatto crescere i riccioli neri, il mento era velato di
barba scura e le basette gli segnavano le mascelle. Era più alto, più largo di torace e di spalle. Il suo corpo era slanciato e abbronzato dal lavoro all'aperto. Non portava camicia e una linea di peli scuri saliva verso l'ombelico, chiuso in una fessura tra muscoli massicci che prima non c'erano. «Lavoro tutto il giorno per mio padre, ora che ho lasciato la scuola». «Hai mollato!» Richard era scioccato. «Sarei finito qui comunque». Dylan distolse lo sguardo, verso i campi che digradavano dolcemente verso il mare. «Che senso aveva andare a fare altri esami? Papà dice che il college è una perdita di tempo». Si voltò a guardare Richard, sbattendo gli occhi. «E tu che hai fatto di bello?» «Devo ancora fare gli esami...» «Non quello!» rise Dylan. «Dicevo oggi, scemo!» «Oh». Richard sorrise. «Sono andato a Wish House». «Ora c'è quell'artista». «Lo so. Mi hanno fatto entrare». «Ah sì?» Dylan si fermò a raccogliere un filo d'erba da masticare, pronto a una storia interessante. «E come sono?» «Boh». Richard si strinse nelle spalle. Non riusciva a esprimere a parole ciò che pensava, nemmeno a se stesso. «Un po' strani, mi sa». «Così dicono. Un bel branco di matti. Una specie di hippy. Amore libero, droga... va bene tutto. Mi spiego?» «Fumavano erba» buttò lì Richard. «Erba?» Dylan sbuffò, disgustato. «E basta? Quella la fumano tutti». «Tu l'hai provata?» «Certo». Dylan lo guardò. «Come no. Tutti l'hanno provata. Tu no?» «Be', una specie...» mentì Richard. «Ma comunque, non parlavo di quello. Si fanno altra roba quelli. Roba strana. LSD, funghi magici, tutto quello che vuoi. Vanno in giro senza vestiti, alla spiaggia e dappertutto. Mamma sta dando una mano a far girare una petizione in paese. Non sono molto simpatici ai campeggiatori, e la spiaggia è pubblica. Loro fanno come se il loro tratto fosse privato. E quanto all'amore libero...» abbassò un po' la voce e si avvicinò a Richard, come se fosse preoccupato di farsi sentire dalle mucche, «... è vero. Conosco un paio dei ragazzi che hanno fatto i lavori alla casa. Lei si dà da fare. Al vecchio non gliene può importare di meno». «Chi? La ragazza?» «Ma no, amico! La madre!» «Pensavo che il posto fosse deserto» sorrise Richard. «È stata un po' una
sorpresa quando sono arrivato su. Lei era stesa sul prato...» fece una pausa prima di lasciar cadere l'ultima parola: «nuda». Dylan fischiò, con un misto di invidia e approvazione. «Bastardo fortunato! Avrei voluto vederla! Ho sentito dire che non è male. Per la sua età, cioè. Il vecchio, l'artista, la casa è sua. È della sua famiglia da un sacco di tempo. Suo padre riceveva gente, là. Artisti e poeti. Gente famosa, ai loro tempi. Il posto aveva una certa fama. Mia nonna sa un sacco di storie. Quando il vecchio morì, arrivò il figlio. Una volta veniva giù ogni estate, ma un sacco di anni fa». Le mucche si erano fermate a brucare i ripidi cigli della strada. Dylan usò il bastone per spingerle avanti. «Sono andati a vivere fuori, hanno lasciato che il posto andasse in rovina. Noi speravamo di comprarlo, e farci degli appartamenti per le vacanze. Poi abbiamo sentito che stavano tornando». Dylan scosse la testa, come se trovasse difficile capire il perché. «Da quant'è che sono tornati, allora?» domandò Richard. Voleva saperne di più sulla famiglia di Wish House. Non che ci sarebbe andato, non dopo che la ragazza l'aveva buttato fuori, ma non riusciva a non essere curioso. «Dall'autunno scorso. Hanno rimesso a posto tutto, ci hanno speso un botto. I lavori li hanno fatti quasi tutti i ragazzi del paese». Dylan rise. «Gli stessi che avevano rubato tutto. Ci hanno lavorato per mesi. Joe... il figlio, quello stecco coi calzoni a zampa, hai presente? Lui era responsabile dei lavori». «Lui è suo figlio?» Richard ne fu sorpreso. «Sì. Cosa credevi?» Richard scrollò le spalle. «Non lo so». «Secondo te lei non sembra così vecchia?» domandò Dylan, curioso. Richard scrollò di nuovo le spalle. «Sì, penso di sì». Non era quello. Era il modo in cui lei gli stava addosso. Il modo in cui dividevano lo spinello. La disinvoltura che avevano. Non sembrava adatta a madre e figlio. Non nella sua esperienza. Non conosceva nessun altro che si comportasse in quel modo con la propria madre. Ma non l'avrebbe detto a Dylan, che forse l'avrebbe deriso, come se quello fosse stato il modo in cui si comportava la gente giusta. Anche se non ce lo vedeva proprio, Dylan, con sua madre... «Perché sorridi?» gli chiese Dylan con uno sguardo curioso. Richard scosse la testa. «Okay, allora. Dicevamo di Joe. È più utile di quello che sembra. Non è
male, in effetti» rise Dylan, riprendendo il filo. «Era in una di quelle scuole per ricchi ed è stato buttato fuori, però è stato al college. È bravo con l'elettricità, ha sistemato il jukebox del pub. Paga sempre quando tocca a lui, non ha problemi». Dylan probabilmente passava molte più serate al pub ora. Lanciò un richiamo alle mucche e fischiò al cane mentre Richard strappava qualche filo d'erba da masticare. Voleva chiedergli della ragazza, ma non voleva che Dylan pensasse che gli interessava. Prima che riuscisse a decidersi, erano arrivati al cancello della fattoria. Dylan fece entrare la mandria, poi si voltò verso Richard. «Ora devo andare a mungere» fece una pausa. «Io e i ragazzi andiamo al pub più tardi. Ti direi di venire, ma più che altro staremo al bancone». Richard sapeva dove Dylan voleva arrivare. Lui sembrava troppo giovane. Anche se l'avessero fatto entrare, non l'avrebbero mai servito. «Non c'è problema». Richard fece un passo indietro. «Ci vediamo in giro, Dylan». «Sì». Il ragazzo più grande sorrise. «Sono contento di vederti». Si allontanò, guidando le mucche alla mungitura. Dylan era gentile e cordiale come sempre, ma Richard aveva perso il suo amico d'infanzia. Non avrebbero passato quest'estate insieme. Le cose erano cambiate. Richard non poté fare altro che tornare al caravan. Superò il negozietto e i bagni, poi si fece strada tra le file di roulotte, scansando i fili del bucato, i padri che sistemavano le antenne della tv e le orde di bambini che venivano richiamati per il tè. Una volta tornato l'avrebbero mandato a prendere l'acqua alla fontana. Era uno dei suoi compiti, insieme a portare via la spazzatura e svuotare il secchio di plastica dell'acqua sporca che straripava sempre ed era difficile da portare senza bagnarsi le gambe con il suo contenuto torbido e unto. Suo padre sarebbe andato a pesca tutto il giorno, e sua madre non avrebbe fatto nulla. Non veniva in vacanza per fare le faccende, così diceva. Non cucinava neanche molto, restava seduta nel caravan a fare un solitario, oppure fuori su una delle sdraio, a fumare e leggere uno dei suoi gialli. Perciò per cena ci sarebbero stati tramezzini di carne in scatola, a meno che suo padre non prendesse qualcosa. Aveva costruito un piccolo barbecue sui mattoni e ci cuoceva qualsiasi cosa pescasse, per quanto immangiabile. Perciò la scelta sarebbe stata tramezzini di carne in scatola, oppure uno sgombro unto e annerito, o qualche altra cosa senza nome, tutta pelle e ossa. A Richard si rivoltò lo stomaco al solo pensiero.
Dopo che ebbe sbrigato i suoi compiti, sedettero attorno al tavolo pieghevole di formica effetto legno, a mangiare nei piatti di plastica verde del caravan e a bere tè al latte nelle tazze coordinate. Suo padre non aveva preso nulla, perciò c'era carne in scatola. Richard si domandò che cosa fosse il tagine. L'odore era davvero buono, ricco e fragrante. Si chiese che sapore avesse. Era pronto a scommettere che era meglio di qualsiasi cosa lui avesse mai mangiato. Al di là della sua avversione per l'aglio e per la roba straniera, sua madre non era comunque una gran cuoca. Richard immaginò di cenare a lume di candela, mangiando cibo delizioso, profumato di erbe e spezie, bevendo vino rosso in bicchieri di cristallo mentre Lucia si chinava sul tavolo per servirlo, con le labbra sorridenti e il velo che si apriva... «Noi andiamo al pub» annunciò sua madre. «Come?» «Ho detto che noi andiamo al pub. Perché devo sempre ripetere le cose due volte?» «Oh». Stavolta Richard la sentì. «Oh, va bene». «Allora?» Sua madre alzò gli occhi al cielo con impazienza. «Vuoi venire o no? Possiamo sederci fuori nel giardino. È una bella serata». Seduto a un tavolo da picnic a bere acqua tonica con sua madre e suo padre. Sarebbe stato proprio come il coperchio sul secchio dell'immondizia. «No, grazie, mamma» rispose Richard. «Rimango qui, se non ti dispiace. Sono a posto». «Come ti pare». Sua madre aprì la borsetta e prese rossetto e cipria. «Lava i piatti allora, fa' il bravo ragazzo. E vedi se riesci a far funzionare la tivù». Era difficile sentire cosa diceva attraverso la forma contorta che le sue labbra assumevano mentre passava il rossetto. «Papà non riesce a beccare un'immagine». * Piatto di carne marocchino (N.d.T.). La Foresta di Celyddon: Il Sottobosco dei Druidi (1966) Olio su legno 29,2 x 23,5 cm National Library of Wales
Jethro Arnold Dalton R.A. (1916-1976) J.A. Dalton dipinse ossessivamente questi boschi fin da ragazzo. In un'intervista radiofonica del 1966 li descrisse come: «Il bosco sacro. Bello, misterioso, un luogo in cui leggenda e folclore si uniscono. È assurdamente antico, si dice che Arawn, Re di Annwn, l'oltretomba dei celti, andasse a caccia con i suoi cani proprio in questi boschi. [Pausa] Dovrebbe esserci una valle lì vicino, una valle perduta: la Valle delle Illusioni, il Regno dell'Incanto. Ciò che resta della strana terra dove camminano ancora gli dei degli antichi: Hafgan Bianco-Estate e Arawn Lingua d'Argento. [Ride] L'ho cercata per una vita, ma devo ancora trovarla». (Tratto dall'articolo: La campagna di Dalton, in New Arts Review, 16 aprile 1968) Nemmeno Richard riuscì a far funzionare la televisione. Cincischiò con l'antenna portatile ma l'immagine era confusa. Era come guardare attraverso una pioggia di cenere. Alla radio la ricezione non era migliore: ogni volta che passava una canzone che gli piaceva il suono veniva inghiottito dagli scoppiettii. Decise di uscire finché c'era ancora un po' di luce. I suoi non sarebbero tornati fino all'ora di chiusura e lui vagava spesso sulle colline con Dylan di sera, perciò conosceva la zona molto bene e non c'era pericolo di perdersi. Prese il sentiero che si allontanava dalle scogliere e dal mare, lasciandosi alle spalle il campeggio dei caravan finché i piccoli tetti non gli apparvero come altrettante carte da gioco dal dorso argentato, disposte per uno degli infiniti solitari di sua madre. Camminò senza una meta precisa, lasciando che i suoi piedi lo portassero ovunque, seguendo tracce di animali, un sentiero dopo l'altro attraverso le felci alte fino alla vita, senza curarsi di passeggiare da solo. Nessuno che lo vedesse e si chiedesse il perché della mancanza di compagnia. Fu preso da un senso di avventura per la prima volta in quell'estate. Quello era il suo posto preferito. I suoi passi lo portarono su per dolci colline e giù per valli ombrose. Il terreno piegava dietro di lui in morbide curve. Si fermò a guardarsi alle spalle, per vedere fin dove era arrivato. Il mare era piuttosto lontano ora, e scintillava nell'ultimo sole, un luminoso triangolo di argento battuto tra di-
ta intrecciate di colline ammantate di verde. Davanti a lui il profilo scuro del bosco di Celyddon. Gli alberi coprivano un'altura, drappeggiandosi attorno a essa, tuffandosi da un lato sul fondo della valle, dove un piccolo fiume sembrava un nastro d'acciaio. Il sole se n'era andato dalle colline, ma la sera aveva ancora qualcosa dello scintillio estivo. Richard si fermò un momento, con i peli che gli si drizzavano sulla nuca e sulle braccia, anche se non sentiva affatto freddo. Sopra di lui, era comparsa una sottile lama di luna, affilata come uno scalpello nel blu sempre più cupo del cielo, e alcune stelle luminose punteggiavano in lontananza l'orizzonte violetto, brillanti come lampade lontane. Si voltò e prese il sentiero che si addentrava tra gli alberi alti. Le foglie sembrarono agitarsi intorno a lui quando entrò nel bosco, emettendo un fruscio simile a un respiro della foresta, che lo accoglieva nella penombra muschiata del suo interno buio. Seguì ampi sentieri per i cavalli e tortuosi viottoli coperti di foglie, diretto in un posto speciale che lui e Dylan avevano trovato anni prima, sprofondato nel centro segreto del bosco. In passato parte del terreno doveva essere smottata, lasciando un'ampia radura su una valle scoscesa. Una macchia di querce se ne stava acquattata come un circolo di streghe, con i rami tesi a coprire quel luogo. Uno degli alberi stava proprio sull'orlo del precipizio. Enormi radici, incrostate di terra rossa, sporgevano fuori in una massa intricata che costituiva un ottimo tetto per la zona nascosta sottostante, mantenendola asciutta come una caverna. Strati di foglie cadute, deposito di molti anni, creavano un soffice e spesso tappeto dorato. Qualche volta si erano accampati là, stendendo le coperte su letti di felci secche, a dormire sotto gli alberi sussurranti, con le stelle che brillavano tra i rami in movimento. Andavano tutti e due pazzi per Tolkien, e fingevano di essere nel Signore degli Anelli, accampati come Frodo e la Compagnia. Richard era Frodo. A Dylan non piaceva l'idea di essere un hobbit, perciò era sempre Aragorn o Boromir. In altre occasioni si fingevano cacciatori, o i guerrieri dei tempi antichi che avevano vagato per quelle foreste. In alcuni punti gli alberi erano davvero vecchi, con i tronchi nodosi grigi e verdi, incrostati di licheni. Crescevano bassi sul terreno, con i rami spiegati come le grinfie di una mano tesa in fuori. Quei posti avevano qualcosa di strano e spettrale: a volte non riuscivi più a ritrovarli, quei boschetti. E quando li trovavi, riuscivi a immaginare di essere in un altro tempo, e che ne saresti uscito solo per scoprire che il tuo mondo era cambiato e ti aveva lasciato indietro.
Era facile immaginare cose di ogni genere ed era molto divertente. Richard seguì il sentiero tra betulle lisce e querce rugose; per tutto il tempo le foglie sussurrarono i suoi ricordi. Sentiva crescere dentro di sé l'eccitazione di quelle sere passate all'aperto, a guardare lo splendore rosso del fuoco nel buio profondo della notte. E poi si svegliava presto, con il fondo della valle perso negli strati di nebbia bianca, aspettava che Dylan facesse bollire l'acqua, e poi bevevano il tè nero e amaro, appena addolcito dallo zucchero portato da casa in un involto di carta. Si dicevano l'un l'altro che il tè non era mai stato così buono. Questa era vera avventura. Come quella che leggi nei libri. Il sentiero si biforcava e si divideva, ma lui pensava di ricordare la strada. Più avanti nel bosco il sentiero si restringeva, i rovi sconfinavano e le ortiche erano alte. Richard si fermò a tagliare un ramoscello di nocciolo per respingere la vegetazione. La sua immaginazione prese il sopravvento mentre si faceva strada a sciabolate tra il sottobosco. Riusciva quasi a sentire lo scoccare delle frecce, il rumore degli zoccoli dei cavalieri all'inseguimento. Si mise a correre, combattendo tutti i nemici fino alla radura. Se ci fosse stato qualcun altro non l'avrebbe fatto. Comportarsi in quel modo, perdersi nel gioco, sarebbe sembrato stupido. Infantile. Ma non c'era nessuno, perciò chi l'avrebbe saputo? Ora erano vicini. Riusciva a sentire i cespugli che si dividevano, gli sbuffi dei cavalli che si avvicinavano. Lui stesso stava ansimando. Il sudore bruciava in graffi e tagli che non sapeva nemmeno di avere. Si fermò un attimo, sconcertato. Il bosco si era fatto all'improvviso molto silenzioso. L'unico suono era il suo stesso respiro. Il terreno attorno a lui sembrava strano e sconosciuto, anche se quello era un territorio che credeva di conoscere. Forse era arrivato in una parte inesplorata, per quanto avrebbe potuto giurare di essere stato già ovunque con Dylan. Cercava la grande quercia e il santuario, ma la luce stava scomparendo dal bosco, e la notte si faceva strada tra gli alberi. Le cose avevano un aspetto diverso. Riprese a camminare silenzioso e cauto, restando in attesa del lieve tintinnio dei finimenti, del leggero cigolio degli speroni. Strisciò avanti, restando chino. All'improvviso un grande tronco caduto gli sbarrò la strada, con i rami morti protesi come una mano puntata verso l'altura dove gli alberi erano più alti. Sapeva dove si trovava. Dette un ultimo grido di sfida e si lanciò verso la radura nascosta. Raggiunse la quercia più alta, afferrò una delle grosse radici alla base e si calò nel suo nascondiglio. Ora non l'avrebbero mai trovato.
La ragazza sobbalzò, sorpresa quanto lui, ritraendosi come un fauno spaventato. Lui rimase appeso a dondolare, fissandola sbalordito, augurandosi che qualcuno riavvolgesse il film e lo portasse via di lì. «Scusa» disse, lasciandosi cadere. «Non volevo spaventarti. Non mi aspettavo di trovare qualcuno». «Non mi hai spaventata». La risposta di lei fu altezzosa. «Non mi aspettavo di vedere qualcuno piombare giù come un gorilla ubriaco, ecco tutto». Ovviamente era un invito ad andarsene, ma Richard non ne vide il motivo. Il posto era tanto suo quanto di lei, ecco come la pensava. Non trovò strano che fossero finiti insieme nello stesso posto. Non in quel momento. Si lasciò cadere pesantemente, tenendosi a cauta distanza, e sedette abbracciandosi le ginocchia. Lei lo ignorò ed entrambi rimasero a fissare l'ultima luce, a guardare le rondini e i rondoni che gridando si tuffavano in voli incrociati sulla valle che digradava, acchiappando gli insetti nel blu che incupiva. Un gufo si lanciò in volo, e tutti gli uccelli piccoli si sparpagliarono. Il predatore non emise il suo verso, ma all'improvviso ci fu abbastanza silenzio da sentire il leggero battito delle sue ali. «Questo posto è speciale» disse lei. La voce era roca e aveva perso la sua ostilità. Parlava piano, quasi in un sussurro, come se l'avesse accettato in quel luogo. «Lo so» rispose lui. «Anche per me è speciale». «Venivo qui con Jay. Mi raccontava delle storie». «Chi è Jay?» «Lo sai». Ma Richard non lo sapeva. «L'hai visto oggi pomeriggio». «Il ragazzo con i piedi sporchi?» «Non lui!» Guardò Richard come se fosse stato un imbecille. «Quello è Joe». «Oh! Vuoi dire l'artista?» «Sì, venivo qui con lui. È mio padre». «Oh». Lui si chinò in avanti, cercando di vedere meglio il suo viso. «E quando ci venivi?» «Quando ero piccola». Lei chinò la testa. I lunghi capelli neri ricaddero come una pesante tenda. Allungò la mano e smosse le foglie secche attorno a lei. «Quando vivevamo qui prima. Molto tempo fa». «Io di solito venivo qui con il mio amico Dylan». Richard si distese, appoggiandosi sui gomiti. «Ci accampavamo qui. Anche noi raccontavamo delle storie».
«Dylan è il ragazzo che vive alla fattoria?» Richard annuì. «Lo conosci?» Lei non rispose. Si voltò verso di lui, spingendo il peso dei capelli dietro l'orecchio. «E di che parlavano le vostre storie?» «Be', ecco...» Richard era riluttante a dirglielo, certo che lei le avrebbe trovate stupide, temendo che lei lo stesse attirando solo per prenderlo meglio in giro. Se quella era la sua intenzione, non ne dava segno. L'antagonismo che aveva dimostrato prima sembrava sparito, e sedeva in silenzio, in attesa, con gli occhi viola screziati fissi su di lui. Richard fu colpito ancora una volta dalla loro bellezza ed ebbe voglia di guardarli più da vicino, solo per confermare che fossero proprio di quel colore. «Stupidaggini da maschi» proseguì alla fine. «Hai capito, no?» «No». Scosse la testa. «Non conosco molti ragazzi. A parte Joe, e lui è mio fratello ed è più grande. Perciò non conta. Raccontami di Dylan e delle storie». «Non so. Ora mi sembra da scemi». Richard non voleva proprio dirglielo, certo che lei avrebbe riso. «Giuri che non mi sfotti?» «Giuro». Lei annuì, con la faccia seria, facendosi la croce sul cuore. «Facevamo finta di stare in un'avventura». Le parole vennero fuori di getto. «Il Signore degli Anelli, i Cavalieri di Re Artù. Cose del genere. Ci accampavamo fuori». Si guardò intorno. «Passavamo la notte qui». «Davvero? Che cosa eccitante!» Lui le lanciò un'occhiata tagliente. Doveva sfotterlo per forza, qualsiasi giuramento avesse fatto. A casa era stata così superiore, così sprezzante, e non gli aveva dato proprio il benvenuto pochi minuti prima. Ma ora il suo interesse sembrava genuino. O era veramente lunatica, oppure era sola quanto lui. Forse tutte e due le cose. Richard si accigliò. O forse c'era qualcos'altro sotto, qualcosa che lui non capiva. «Infatti». Richard si guardò intorno. «Avevamo trovato una vecchia scatola di munizioni con della roba dentro, nascosta quassù». Indicò una rientranza sotto le radici sporgenti della grande quercia. «C'era una padelletta e un vecchio pentolino, un paio di coperte, dei mozziconi di candela e dei fiammiferi ammollati. Abbiamo preso delle candele nuove. Le coperte erano tutte ammuffite e mangiate dalle tarme, così abbiamo portato su le nostre». Strisciò fino in fondo alla sporgenza, scavando tra i mucchi di foglie ac-
cumulate. Tornò trascinando una scatola di latta consunta. «Guarda». Era ancora là. Dylan ci aveva messo un lucchetto. Richard usò una pietra per rompere la cerniera arrugginita. Un forte odore di umidità salì da una coperta ammuffita. Sotto c'era qualche mozzicone di candela, il pentolino annerito, una padella consumata, un paio di piatti e due tazze di latta. Sul fondo c'era un barattolo di marmellata, ormai ridotta a una fanghiglia nera coperta da uno strato spesso e bozzoluto di muffa blu-verdastra. Clio guardò dentro come se fosse stato il forziere del tesoro. «Che cosa assolutamente fantastica! Proprio come avevi detto! È come nei vecchi libri di avventura, con i ragazzi che scoprono i misteri. Si accampavano sempre anche loro. Io adoravo quei libri!» «Eh, sì». Richard si sedette sui talloni. «Più o meno...» Richard e Dylan avevano sempre preferito la fantasy con un sacco di combattimenti. Il genere che preferiva lei non era mai passato per le loro teste. «Potremmo farlo». Lei si strinse il labbro inferiore tra i denti, fissando su di lui i suoi occhi viola. Ora erano scuri, quasi neri. «Potremmo accamparci...» La luce se n'era quasi andata. Il viso di lei era diventato un chiarore indistinto nel buio, una macchia bianca. Si avvicinò per vederlo meglio, poi si avvicinò ancora. Lui sentiva il calore della sua pelle. Gli occhi di lei erano chiusi, le ciglia nere sfioravano le guance. Le sue labbra erano molto vicine, appena socchiuse, il respiro si fece più rapido, profumava di mandorle caramellate e pane caldo. Lei esitò appena un istante, poi gli passò la mano dietro la nuca, attirandolo a sé. Non ci furono scontri di nasi, né urti di denti, né angoli scomodi come con altre ragazze. Lei allargò le dita fra i suoi capelli, guidandogli il viso verso il suo. Il bacio fu leggero, dolce e lungo. Lui sentì le labbra di lei aprirsi e la lingua calda nella sua bocca. Non era mai stato baciato così prima di allora. Gli tolse il respiro. Alla fine lei si staccò. «Dicevo, potremmo accamparci». La voce era più profonda, arrochita dal respiro. «Va bene» rispose lui. Qualcosa parve sciogliersi e cadere dentro di lui, nei profondo, e le parole riecheggiarono nella sua testa, riverberando nel suo corpo, come un grande vento che ruggisce nel bosco. Era in preda all'eccitazione più gran-
de che avesse mai provato nella sua vita. Scorreva dentro di lui, come un arco voltaico, facendogli formicolare le dita delle mani e dei piedi. Era una sensazione completamente nuova. Lei lo baciò di nuovo, facendolo stendere accanto a sé, le labbra che scivolavano sulle sue. Sembrava così sicura di cosa fare. Solo qualche tempo dopo lui si chiese come mai lo sapesse. Alla fine si staccò da lui e sedette, aggiustandosi i vestiti. «Credo che dovremmo andare. Prima però dobbiamo fare una lista, secondo me...» Tirò fuori un taccuino nero dalla tasca. Le pagine erano di pesante carta da disegno color crema. Era chiuso con un elastico, ed era gonfio di cose infilate tra le pagine: fotografie, cartoline, fiori secchi. Lei girò le pagine finché ne trovò una bianca. Lui colse di sfuggita degli schizzi e delle frasi di accompagnamento, scritte con una grafia grande e decisa. «Dovresti sempre portare un taccuino. Così dice Jay. Non sai mai quando ti può servire. Ora, che cosa ci serve?» «Ci serve per cosa?» «Per accamparci». Lei sedette a gambe incrociate, scrivendo la lista con una matita a mina grossa. Non erano arrivati fino in fondo, ma ci erano andati vicini. Richard si sollevò su un gomito. Che genere di ragazza si sarebbe messa a fare liste proprio adesso? Non ne sapeva abbastanza per capire se era solo lei, o se erano tutte così. «Ecco». Strappò la pagina con un rumore secco. Richard quasi trasalì. Sembrava un peccato rovinare quel taccuino. «Ecco quello che devi portare tu». Piegò il foglio e si chinò a metterglielo in tasca. «Ci vediamo qui domani sera». La sua mano scivolò in basso, aprendogli la camicia sbottonata. «Si sta facendo tremendamente buio» sussurrò, «ma io ho una torcia. Io non credo che dobbiamo andarcene proprio adesso, tu che dici?» Testa di Chwyfleian Studio per: Le profezie di Chwyfleian. Lei narra una storia (1975) Tempera su carta 76,2 x 50,8 cm Tribereth Gallery Jethro Arnold Dalton R.A. (1916-1976)
«Secondo la leggenda, Myrddin perse la ragione e si ritirò nella foresta di Celyddon a vivere con i selvaggi. Qui incontra Chwyfleian, una giovane profetessa». Nel dipinto, Le Profezie di Chwyfleian... Dalton unisce il suo interesse per le leggende celtiche e per la scuola dei Preraffaelliti. La posizione di Myrddin (Merlino) e della giovane profetessa ricordano L'incantesimo di Merlino di Edward Burne-Jones, così come pure questo sublime studio a tempera, fin nell'angolazione dello sguardo e nella ghirlanda di serpi tra i capelli della modella, che per questo studio, e per il dipinto, fu la figlia e 'musa minore' Clio Dalton. Dalton commenta: «Mi attirava l'idea dell'incantatrice che intrappola, del potere magico della gioventù e della bellezza. Ho sempre ammirato la pittura di Burne-Jones, e credo che lui catturi il momento dell'incanto. Il trasferimento di potere dall'uno all'altra è quasi palpabile. Volevo ottenere anche qui un po' di quella sensazione». (Note dalla mostra: Tribereth Gallery Retrospettiva Dalton, 1980) Si accampava fuori con Dylan. Ecco cosa avrebbe detto ai suoi. Ma se poi incontravano Dylan al pub? Sua madre non si preoccupava tanto di quello che faceva lui, ma le cose illogiche non le piacevano e aveva un sesto senso per le storie che non tornavano. Avrebbe detto che dovevano incontrarsi dopo. Ma se Dylan fosse stato troppo ubriaco per andare in giro? Doveva pensare a qualcosa. Richard ripassò la sua storia di copertura, a caccia di ogni possibile problema ed eventualità. Alla fine non ebbe bisogno di preoccuparsi. Non per quella notte, comunque: i suoi avevano deciso di passare una tranquilla serata nel caravan. Suo padre era perfino riuscito a ottenere un'immagine tollerabile alla tv. Preparò lo zaino con la roba della lista che aveva comprato al negozio, e s'incamminò mentre calava la sera. Aveva trascorso tutto il giorno in uno stato di agitazione, preoccupato per la storia da raccontare, alternando la crescente eccitazione al terrore. Non aveva quasi esperienza con le ragazze. La sera precedente si era spinto più in là che mai. Anche più in là, sospettava, di qualunque suo compagno di scuola, malgrado ciò che raccontavano. Lei non sembrava avere alcuna inibizione. Stanotte si sarebbe aspettata di più. Come poteva sapere cosa fare, lui?
Conosceva la meccanica della faccenda, ma sentiva che tra teoria e pratica c'era un abisso. E se non fosse riuscito? Se fosse venuto troppo presto? E se credeva che lei volesse, ma invece no? Come faceva a saperlo? Ripassò nella sua mente tutte le cose che aveva letto, tutto quello che aveva sentito a scuola, ma non riuscì a ricordare... nulla. I suoi pensieri si frammentavano e fuggivano, lasciandolo in un vuoto terrificante. Qui non c'era nessuno a cui chiedere, nemmeno indirettamente, non come a scuola. Non poteva mica chiedere a suo padre, e Dylan era escluso. Aveva perfino pensato di andare con l'autobus alla città più vicina e comprare un libro (Le gioie del sesso o qualcosa del genere) o magari andare in biblioteca. Poteva imparare a memoria i passaggi importanti, o prendere appunti. Ma se sua madre avesse voluto andare con lui? O se avesse suggerito a papà di andarci tutti insieme, in gita familiare? Gli venivano i sudori freddi solo a pensarci. E cosa avrebbe fatto per premunirsi? Il 'necessario', come lo chiamava il suo amico Giles. Glielo aveva raccomandato: portane sempre tre nel portafogli, come faceva lui stesso. E aveva mostrato una manciata di quadratini di stagnola tutti spiegazzati, nel caso che Richard non gli avesse creduto. C'era un distributore nel bagno degli uomini al campeggio. Richard aveva aspettato che non ci fosse nessuno ed era andato a controllare. Quello gli aveva solo fregato i soldi. Quando girò la manopola non venne fuori nulla. Gli aveva appena dato un bel pugno quando era comparso un vecchio che gli aveva detto: «Ehi, fermo! Quella è proprietà privata!» E aveva aggiunto: «E poi non dovresti averne bisogno, alla tua età» prima di sparire in una delle cabine. Così era venuto via con cinquanta pence in meno e nulla in cambio. Aveva vaghe idee sulle farmacie e sui barbieri, ma quello voleva dire andare a Tenby o a Carmarthen, che era fuori questione. E comunque sarebbe stato troppo imbarazzante. Alla fine non fece nulla. Arrivando nel bosco, sperava quasi che lei non ci fosse, che non venisse, ma quando si calò dalla radice dell'albero, eccola lì. Lei gli sorrise. Lui non aveva mai visto una creatura così bella. Al solo vederla, tutte le sue paure si ripresentarono di corsa. Doveva esserci un errore. Com'era possibile che lei stesse aspettando lui? Avrebbe voluto risparmiarle la delusione risalendo e scomparendo per sempre. «Allora?» Il sorriso di lei si allargò. «Vuoi restare appeso lì tutta la notte?»
Lui si lasciò cadere e si avvicinò con cautela, tenendosi a distanza così che lei non vedesse quanto stava tremando e quanto era nervoso. Lei aveva raccolto felci secche, con cui aveva costruito un materasso morbido sotto una delle numerose coperte a strisce colorate che aveva portato con sé. Lui disfece lo zaino, le mostrò cosa era riuscito a mettere insieme, lasciando fuori ciò che serviva e mettendo il resto nella vecchia scatola di munizioni. Gradatamente Richard si rilassò. Se facevano cose pratiche, come preparare l'accampamento, forse poi non sarebbe successo niente altro. «Sai, oggi...» disse lei, inginocchiandosi, «non riuscivo a smettere di pensare a com'era strano che fossimo finiti tutti e due nello stesso posto ieri sera, senza che nessuno dei due sapesse che l'altro era qui». «Be', sì». Richard scrollò le spalle. Era un po' strano se ci pensavi. Molto strano. Non che ci avesse riflettuto molto. Aveva altre cose per la testa. «Una coincidenza, immagino». «Chiamala così se vuoi». Clio si accigliò. «Lucia la chiama sincronicità». «Che vuol dire?» «È difficile da spiegare. È come quando io dico una parola, e nello stesso momento la stavi pensando anche tu. Oppure se penso a te, e subito dopo tu sei lì con me. Come una chiamata». «È vero? Stavi pensando a me?» «Be', no». Clio distolse rapidamente lo sguardo. «Ma che siamo finiti qui tutti e due, senza saperlo, è più che una coincidenza. Così dice Lucia. Dice che era destino». Raccolse una foglia secca e ne esaminò le venature sul dorso. «Lei legge i tarocchi. Le sa, queste cose. Ha una sfera di cristallo avvolta nel velluto nero». «Gliel'hai detto?» «Certo». La fronte di lei si distese. «Che c'è di male?» «Niente». Richard scosse la testa. Non riusciva proprio a immaginare di parlare di una cosa del genere con i suoi genitori. Era una faccenda privata, non erano affari loro. Era al di sotto del loro interesse. «Mi ha letto i tarocchi». «Ah sì? E che hanno detto?» «Mmh». Tornò ad accigliarsi appena. «Non era molto chiaro, ma c'eri tu: il Fante di Bastoni. Non era mai comparso nelle mie distese prima». Si abbracciò le ginocchia e si guardò intorno. «Qui una volta crescevano i galletti».
«Eh?» La mente di lei saltava da una cosa all'altra. Richard aveva difficoltà a seguirla. «Galletti. Sono una specie di funghi. Jay e io venivamo a raccoglierli qui. È ancora un po' presto». Strisciò verso un angolo della sporgenza, cercando sul terreno umido sotto le grandi radici. «Qui ce n'è un gruppetto. Vieni a vedere». Richard la raggiunse, e si ritrasse immediatamente dai funghi arancione riuniti insieme come una massa tremante di dita intrecciate. «Bleah! Sono velenosi! Quelli non si mangiano!» «Questi non sono velenosi!» rise lei. «Quelli sono velenosi!» Indicò sul terrapieno alcuni cappelli di un verde disgustoso, che spuntavano tra le foglie cadute. «E quelli». Indicò un altro gruppo, rossi a pois, come quelli che si vedono nei libri di fiabe. «Questi sono perfettamente commestibili. Sono buonissimi». Accarezzò dolcemente i cappelli chiusi, sfiorando la polpa tenera e liberando un lieve profumo di albicocca. «Jay ci va pazzo». «Perché non gliene raccogli un po'?» «Non ce ne sono abbastanza. Aspettiamo che crescano ancora. Oh, guarda. Funghi magici!» Richard guardò il mazzetto di funghi di colore fulvo che crescevano su un tronco marcio. Gli ombrelli a campana, piccoli cappelli su steli delicati e sottili, tremolavano sulla mano di lei. A lui sembravano funghi velenosi qualsiasi. Non ci vedeva nulla di particolarmente magico. «Devo dirlo a Joe» disse, pulendosi le mani sui jeans. «Sarà contento». La valle in cui si trovavano guardava a ovest e conservava ancora un po' del calore del giorno. Sedettero sul letto di foglie, guardando il tramonto. Mentre il giorno calava, la nebbia cominciava a salire su per la valle. Gli ultimi raggi del sole la trasformavano in un fiume dorato. In lontananza si vedevano le cime delle colline, e altre colline che si estendevano all'orizzonte lattiginoso, e più vicino, le cime degli alberi spuntavano come isole dalla nebbia dorata. Il paesaggio familiare era sparito e sembrava loro di guardare a un altro mondo, un luogo magico e misterioso dove tutto era possibile. Guardarono molto a lungo, e nessuno parlò, finché Richard non seppe più come rompere il silenzio fra loro. «Jay dice che da queste parti c'è una valle, una valle perduta... la Valle delle Illusioni, la chiama lui» disse lei infine. «È il Regno dell'Incanto, dove vagano ancora gli dei degli antichi: Hafgan Bianco-Estate e Arawn Lingua d'Argento. Dev'essere vicina, perché si dice che Arawn vada a caccia con i suoi cani proprio in questi boschi; a volte la gente li sente ululare».
Richard annuì. In una serata come quella, certe cose sembravano possibili. Dylan gli aveva raccontato certe leggende del posto. E poi le avevano inserite nei loro giochi. «Anche Merlino». Clio si voltò verso di lui. «Dicono che sia qui con il fantasma bianco, Chwyfleian, perso per sempre nel suo stesso incantesimo. Credi che possa essere vero?» Si prese il labbro inferiore fra i denti, come faceva sempre, e si chinò verso di lui, con gli occhi violetti fissi nei suoi. «Non lo so...» disse Richard, con la voce impastata. Il cuore gli batteva forte. Non riusciva a pensare a nulla da dire. Le parole sembravano bloccate nel suo petto. Invece, la abbracciò e l'attirò a sé, sbalordito di se stesso, fiero di aver preso l'iniziativa. Si svegliò nell'aria fredda dell'alba, e vide che lei lo guardava. «Sei così bello» disse lei, passandogli il dorso della mano sul petto. «Non mi stupisce...» «Cosa non ti stupisce?» «Oh, niente». Richard scosse la testa. Non si considerava bello. Quello era un termine riservato alle ragazze. Ragazze come lei. Si puntò sui gomiti, felice anche solo di guardarla. Lei sì che era bella. Seminascosta dai capelli neri, leggera e snella, il seno piccolo, pallida nella luce dell'alba. Non aveva mai visto nulla di così bello. Pensò che non l'avrebbe mai superata, che il desiderio e la nostalgia sarebbero rimasti dentro di lui per sempre, come una ferita che non guarisce. «Non capisco proprio. Voglio dire, a Wish House, quando ti ho vista la prima volta...» «Sì?» «Ecco, non sei stata molto carina. Ma ora...» «Esatto! Questa è sincronicità!» Pronunciò quella parola trionfalmente, come se spiegasse tutto e rendesse del tutto inutile ogni altra considerazione sul perché i suoi sentimenti verso di lui fossero così cambiati. La sua ostilità iniziale era stata basata sull'intuito. Si portò la mano al braccio, coprendo i lividi. Aveva avuto la sensazione, molto forte, che lui avrebbe portato dei guai. Ma le prime impressioni possono essere sbagliate. Lucia non la pensava affatto così. E in certe cose Clio si rimetteva a lei. «E Jay...» cominciò a dire. «Jay cosa?» domandò Richard, improvvisamente ansioso. E se ne aveva
parlato anche con lui? Lei scosse la testa. «Abbiamo la sincronicità, questo è l'importante». «Come te li sei fatti?» domandò Richard, toccando le chiazze gialle e viola. Lei stese il braccio. «Bei colori, eh? Lilla e giallo cadmio». Le dita di lui corsero alle sue spalle, sfiorando la clavicola delicata e l'incavo alla base della gola, e poi proseguirono sui seni. Lei rabbrividì e cadde fra le sue braccia, tirando la coperta sopra a entrambi. La pelle di lei era fresca contro la sua, una lieve umidità di fungo; i capelli lisci sapevano di fumo e foglie morte, lo spirito della terra. Ciascuno di quegli odori l'avrebbe riportato là, per sempre. La prima volta che avevano fatto l'amore lei aveva gridato. Lui aveva temuto di averle fatto male in qualche modo, ma ora ci si stava abituando. Nel piacere, lei era disinibita come in tutto il resto. Non c'era nessuno che li sentisse. Le grida di lei si addicevano a quel posto selvaggio, come una civetta o un'altra creatura della notte. Lui era fiero e anche un po' spaventato di procurarle un piacere così strano. Erano selvaggi, tutti e due. Fecero l'amore finché il sole fu alto e loro due esausti. Lui si distese accanto a lei, pensando a come aveva passato il giorno precedente a preoccuparsi, ridendo della propria stupidità. «Che c'è da ridere?» Lei gli rovesciò addosso una pioggia di foglie. «Niente» disse lui. «Sono solo felice, ecco tutto». Non aveva avuto bisogno di preservativi. Clio prendeva la pillola da quando aveva cominciato ad avere il ciclo. Lucia aveva avuto Joe quando era molto giovane e non voleva che sua figlia restasse incastrata allo stesso modo. «Chi era il padre?» domandò Richard. «Jay, naturalmente». Clio parve sorpresa dalla domanda. «Lui la portò in Italia e si sposarono lì. È stato là che si è cambiata il nome in Lucia. Joe da piccolo stava con i miei nonni». «E non se la sono presa?» «Presa per cosa?» «Be', hai detto che lei era molto giovane. Lui doveva essere molto più grande...» I genitori delle ragazze che Richard conosceva avrebbero dato fuori di matto. «Erano amici di Jay e Meg».
«Chi è Meg?» «La prima moglie di Jay». Clio sorrise. «Viene il prossimo fine settimana, con Naeve e Freya». «Chi sono?» Richard aggrottò la fronte, confuso da tutti quei nomi nuovi. «Le mie sorellastre. Sono molto più grandi di me. Ti piaceranno. E Meg... era amica di mia nonna, andavano a scuola insieme. I miei nonni sono artisti. Vivevano tutti in una comune. È un po' complicato...» «Ci credo». Richard non trovò nient'altro da dire. Non riusciva a venirne a capo. La sua vita, quello che lei considerava normale, era così diversa. Lo faceva sentire ancora più profondamente ordinario che mai. Lei sembrò intuire quanto tutto fosse strano per lui e cambiò argomento. «Non ci pensare. Ho fame. Facciamo colazione». Dopo tutto, voleva ancora giocare. Richard si mise ad accendere il fuoco e rise. C'era un ruscello in fondo alla valle, con delle pozze più profonde in cui l'acqua cadeva da una serie di rocce a gradini. Le pozze non erano abbastanza ampie per nuotare, ma profonde a sufficienza per fare il bagno. L'acqua scura, color della torba, era gelida, ma a loro non importava. Sguazzarono in giro, ridendo e strillando, inseguendosi e scivolando sulle pietre viscide del fiume finché si strinsero in un altro abbraccio, afferrandosi l'uno all'altra, freddi e scivolosi come pesci. Il sole aveva liberato le cime degli alberi e stava scaldando il fondo della valle. Si stesero ad asciugarsi, lasciando che il sole li riscaldasse, prima di tornare al loro rifugio. Era quasi mezzogiorno. Clio disse che doveva andare. «Perché?» «Ho delle cose da fare» rispose lei, abbottonandosi la camicetta. «E dovresti andare anche tu. I tuoi non ti cercano?» «Penso di sì» mormorò lui riluttante. Non voleva che finisse, mai. «Che problema c'è?» Lei gli afferrò il mento, costringendolo a guardarla. «Possiamo rivederci qui. Alla stessa ora di ieri sera». «Perché non prima?» Richard era contrariato. Le ore tra qui e stasera sembravano allungarsi in un cupo lasso di tempo, impossibile da riempire. «Te l'ho detto. Devo fare delle cose». Lo baciò appena sulle labbra. «Ci vediamo dopo. Promesso». Si leccò il dito e si fece la croce sul cuore, poi si issò oltre le radici e
sparì. Richard aspettò un po' prima di seguirla. Non sapeva cosa avrebbe fatto del suo tempo prima di tornare là. Lei se n'era andata solo da qualche minuto, ma a lui sembrava una vita. Le Cronache di Pryderi (1964) Studio per illustrazione di copertina 20 x 30 cm Panther Children's Books Jethro Arnold Dalton R.A. (1916-1976) Pryderi vagava per gli antichi boschi, vestito di pelli di animali, con arco e frecce, senza alcuna idea di chi fosse e di quale destino lo attendesse. La foresta era la sua casa fin da quando aveva memoria; gli animali che ci vivevano erano i suoi soli amici e compagni. Li conosceva tutti per nome: gli uccelli che facevano il nido sugli alberi sopra la sua testa; gli scoiattoli che vivevano tra i rami; i tassi, le volpi e i conigli che avevano la loro casa tra le radici; i cinghiali che abitavano nel sottobosco; il cervo che vagava nelle radure. Viveva così, ignorando tutto del genere umano, finché un giorno... «Finché un giorno cosa?» Richard si voltò a guardare Clio. Stava appoggiato a lei, ascoltava la storia che gli raccontava, cullato dalla sua voce, mezzo addormentato nel calore del sole. All'improvviso lei si era interrotta. «Che succede dopo?» «Non lo so». Lei scrollò le spalle. «Dobbiamo inventarcela. Questo è il bello delle storie». Richard si alzò a sedere, leggermente infastidito. Si sentiva ingannato da quel vuoto improvviso. Voleva la storia tutta intera. Voleva andare avanti. «Okay, okay». Lei sorrise all'espressione imbronciata sulla sua faccia e lo attirò di nuovo a sé, con la testa sul suo grembo. «Pryderi ormai era straordinariamente bello, con occhi azzurri e riccioli d'oro». Rise, passandogli le dita fra i capelli. «Ma non aveva modo di sapere quant'era bello, poiché viveva solo nella foresta. Finché un giorno...» «Finché un giorno...» ripeté Richard. «Stai prendendo tempo». Voltò la testa per guardarla di nuovo. «Tu non sai cosa succede dopo». «Certo che lo so». Lei gli sorrise. «Finché un giorno udì il suono di un
grande corno. Egli aveva già sentito il richiamo dei corni da caccia prima di allora, e fece attenzione a tenersi alla larga, poiché a volte Arawn Lingua d'Argento, il grande Re dell'Oltretomba, veniva a caccia lì con i suoi possenti cani. Erano bestie terribili, dal pelo bianco come la neve e le orecchie rosse e lucenti, spaventosi quasi quanto il loro padrone. Il corno di Arawn e i latrati dei suoi cani incutevano timore in ogni mortale che li udiva, ma il suono di questo corno era molto più dolce, e sembrava attirarlo, finché si ritrovò a correre tra le radure, saltando oltre i rami caduti, scavalcando rapidi ruscelli per rispondere alla chiamata. «Alla fine giunse a una radura, proprio nel cuore del bosco. Al centro c'era un cavaliere, in groppa a un grigio destriero pezzato. Si tolse dalle labbra il corno ricurvo e volse la testa, coperta dall'elmo, verso Pryderi. «'Perché ci hai messo tanto?' «Prima che il giovane potesse rispondere, il cavaliere scivolò giù di sella e si avvicinò a lui. «'Sono qui su richiesta di mio padre, il Re' annunciò il cavaliere, togliendosi l'elmo e scuotendo i lunghi capelli scuri. «Pryderi si rese conto che non si trattava di un cavaliere ma di una donna, in armatura di metallo bianco e oro. Era la vergine più bella del mondo...» «Come faceva lui a sapere che era vergine?» «Ma certo che lo era!» insorse Clio. «A quei tempi tutte le ragazze erano vergini». «Okay, allora come faceva a sapere che era la più bella del mondo se non aveva mai visto una ragazza prima?» «Lo sapeva e basta. Non aveva bisogno di vederne altre per saperlo. E comunque shh! Silenzio!» Lo colpì leggermente sulla testa. «Smettila di interrompere la storia. Dov'ero rimasta? Ah, sì... «Pryderi cadde istantaneamente vittima del fascino di lei e capì che sarebbe andato in capo al mondo, avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei. «'Mio padre ha mandato cavalieri in lungo e in largo, in cerca in tutto il regno di un giovane, bello in volto e puro di cuore, e credo di averlo trovato. Vieni'. Gli fece cenno di avvicinarsi. 'Il Re ha annunciato che avrà luogo una grande ricerca per trovare il Santo Graal, la reliquia più sacra di tutta la cristianità, e che tu ne faccia parte. Acconsenti?' «Il giovane annuì e si inginocchiò di fronte a lei senza che gli venisse chiesto. Ella estrasse la spada e gli toccò con la lama prima una spalla, poi l'altra.
«'Alzatevi, cavaliere' disse. 'Ora siete membro della Corte del Re. Proseguiremo insieme...' «Così iniziano Le Cronache di Pryderi». «E poi che succede?» Richard alzò la testa per guardarla. «Dipende da noi» mormorò lei, toccandogli la guancia. «Consenti a intraprendere la ricerca?» Richard annuì, con il desiderio che gli chiudeva la gola e lo rendeva incapace di parlare. «Molto bene». Lei si chinò a baciarlo, con i lunghi capelli, caldi di sole, che coprivano entrambi. Così cominciarono Le Cronache di Pryderi. Richard era Pryderi, Cavaliere del Graal. Clio era la figlia del Re, travestita da cavaliere senza insegne. Si incontravano nel pomeriggio dorato, quando il giorno cominciava a volgere nella sera, e passavano insieme il tempo in cerca del Santo Graal. Quando si faceva buio tornavano nel rifugio sopra la valle nascosta, dove si dedicavano ad altri giochi. La 'ricerca' li portò in tutta la foresta, tra urla e richiami, grida e risate, a vivere una fantasia sempre più elaborata basata sul racconto di lei, a mettere in scena un'avventura epica di loro invenzione. Clio non aveva mai giocato in quel modo prima e ne traeva una gioia profonda. Era stata in molti posti ed era vissuta in diverse comunità, ma apparentemente aveva passato la maggior parte del tempo in compagnia di adulti. Richard era affascinato dalla vita di lei, tanto diversa dalla sua, da tutto ciò che conosceva. Lei aveva vissuto in Marocco e in Italia, ma era piuttosto difficile convincerla a parlarne. «Com'era?» chiese lui. «Boh, sai...» disse lei, quando era ovvio che lui non lo sapeva. «Piuttosto noioso, a dire il vero». Richard si accigliò. Come era possibile? «Parliamo di te, invece». «No». Scosse la testa. «La mia vita è noiosa. Voglio sapere dove vivevi tu. Cosa facevi». «Passavamo molto tempo all'estero, in viaggio. Prima in Italia, ma ero troppo piccola e non mi ricordo molto, e poi in Marocco». Richard la incalzò perché andasse avanti, ma tutti i ricordi che era disposta a condividere facevano sembrare le sue esperienze banali e noiose quanto quelle di lui. Richard cominciò a pensare che lo facesse apposta per
punirlo, per il fatto stesso di averglielo chiesto. Descrisse pomeriggi senza fine passati in appartamenti anonimi, a bere cordiali disgustosi o tè dolce alla menta, sfogliando dei tascabili ridotti quasi a pezzi che aveva già letto cento volte, mentre le mosche volavano in schemi geometrici sotto il ventilatore da soffitto. «Jay non c'era quasi mai, sempre in giro con gli amici o in qualche spedizione di pittura. Joe era a scuola in Inghilterra. Io stavo con Lucia». «Ma com'era? La gente, il paese?» Richard non era mai stato all'estero. Per le vacanze avevano il caravan e per i suoi genitori i viaggi all'estero proposti dalla scuola erano decisamente troppo cari. «Faceva sempre troppo caldo per qualsiasi cosa, e comunque non mi piaceva uscire. Gli uomini ci seguivano ovunque perché Lucia rifiutava di coprirsi, men che meno i capelli. E c'era un mendicante accanto al nostro palazzo. Aveva un buco rosa e molle dove di solito c'è il naso, e la bocca era tutta contorta. Sapevo che avrei dovuto compatirlo, o magari era una donna (sotto quegli stracci era difficile da capire), ma invece mi dava il voltastomaco. La nausea. Faceva un verso lamentoso, sbuffante... immagino che chiedesse soldi. E appena vedeva qualcuno, si trascinava avanti su quelle gambe contorte come rami. Non so se quello fosse il motivo per cui quella creatura mendicava, o se il fatto di stare seduta tutto il giorno a chiedere l'elemosina gliele avesse fatte diventare così. Lucia gli dava quasi sempre qualcosa, ma quelle mani ci spingevano sempre. Le dita erano tutte intrecciate insieme». Rabbrividì. «Sembravano una tazza di cuoio schiacciata». «Sì, ma...» Richard si stava ancora chiedendo che sapore avesse il tè alla menta. «Ma niente. Quante volte te lo devo dire? Era una noia! Mi sembrava di stare sempre ad aspettare che Lucia finisse con uno dei suoi amanti... vecchi conti francesi, o così dicevano loro. Lucia va matta per i titoli. Tizi con vestiti bianchi spiegazzati. Marocchini in jeans e giubbotto. Quelli erano sempre molto giovani. E belli. Lucia ci si divertiva». «E a Jay non importava?» chiese Richard. «No, lui...» Stava per dire qualcosa ma si trattenne. «Non gli importa quanti amanti ha lei. Non è quello che conta, per lui». Alla fine, Clio aveva pregato di essere mandata a scuola in Inghilterra, come Joe. «È stato ancora peggio. Pensavo che sarebbe stato come nei romanzi che leggevo, ma invece no. Pensavo che sarei stata famosa, che avrei risolto
misteri e avrei avuto un sacco di amici... o perlomeno un paio di quelli fidati, ma tutte le ragazze pensavano che ero strana perché non avevo un pony e i miei non vivevano in una grande casa di campagna. E se invece poi venivano da me per qualcosa...» Clio rabbrividì al ricordo. «Ora però va bene». «Come mai?» «Vado in un'altra scuola». Batté sulla gemma che portava sul lato del naso. «Tutte le ragazze mi trovano forte». Aspirò una boccata dallo spinello che aveva portato. «Ne vuoi un po'?» Richard scosse la testa. Questo era il massimo che poteva tirarle fuori. Lei voleva tornare a giocare. Lui era più che contento di assecondarla. Gli sembrava di vivere in un'età più giovane, riscoprendo le gioie perdute dell'infanzia: dolcetti al cocco, liquirizia, ma queste erano delizie con un sapore speciale e diverso. I favori fatti e i benefici concessi erano di un genere molto adulto. Facevano l'amore ovunque: nelle antiche radure, nelle valli piene di foglie, su prati nascosti. Giocarono per giorni e notti, ogni volta che stavano insieme, espandendo i confini della ricerca, spingendosi sempre più oltre, finché giunsero al luogo più magico di tutti. 'La Cappella Insidiosa' da Le Cronache di Pryderi (1964) Illustrazione: penna e inchiostro 17,8 x 12,7 cm Panther Children's Books Jethro Arnold Dalton R.A. (1916-1976) «Mirate! La Cappella Insidiosa!» Il cavaliere indicò la radura. «Attento a come vi avvicinate. Attento, o la sventura macchierà il vostro cuore e vi porterà alla rovina...» (Didascalia dell'illustrazione) Lei lanciò il suo avvertimento e fece un passo indietro. Richard non riusciva a credere a ciò che vedeva di fronte a sé. In mezzo a un cerchio di alberi antichi, circondata da un prato, c'era una cappella in rovina... Era la loro meta, il luogo dove si trovava il Graal. Ed era così perfetto.
Era come se lei avesse evocato dal nulla una visione, ma invece era reale. Un luogo vero. Lei doveva aver saputo che si trovava lì, ma non importava. Richard credeva quasi che se fosse entrato avrebbe trovato il favoloso Graal. Avanzò, facendosi strada tra i rami contorti e coperti di licheni per guardare meglio. La chiesa era minuscola, un basso edificio di pietra grigia. Una tozza torre sorgeva a un'estremità del presbiterio privo di tetto, dove le mura arrivavano appena sopra le strette finestre a ogiva. Un grosso tasso gettava l'ombra sulla bassa arcata dell'ingresso e l'edera aveva invaso un lato dell'edificio, intrecciandosi attorno alle finestre come una nervatura vivente. La cappella era al centro di un prato. Richard fece un passo nella luce del sole, facendosi largo nell'erba alta fino alla vita, sfiorando con le mani le cime setose, pallide come stoppa, curve sotto il peso dei semi. Il campo era punteggiato di fiori. Le farfalle si alzavano in volo dal rosso e azzurro dei papaveri e dei fiordalisi, e dalle profumate regine dei prati color latte. Al di là di un'altra fila di alberi c'era il mare. «Un momento, Cavaliere». Lui sentì la mano di lei sulla spalla, la sua voce in un basso mormorio concitato; il suo respiro caldo sul collo. «Prima che incontriate il vostro destino, vi chiedo ancora un privilegio...» Lui rise mentre lei lo tirava giù nell'erba. 'Mâth il mago', da Le Cronache di Pryderi (1964) Illustrazione: penna e inchiostro (non utilizzata nella pubblicazione) 17,8 x 12,7 cm Panther Children's Books Jethro Arnold Dalton R.A. (1916-1976) D: Notoriamente, lei non ha mai dipinto se stesso, perlomeno non in tempi recenti, ma qui si tratta ovviamente di un piccolo autoritratto. Come mai? R: Mâth Ap Mathonwy è il Druido principale della tradizione inglese. I druidi si distinguevano dagli altri nella tribù per via dei loro particolari doni. Li consideravano degli artisti. Persone dotate. Questo mi piace. Trovo molte somiglianze tra i maghi e gli artisti. Mâth era un trasformista, un mutaforma. Mi piace pensare che sia
quello che faccio io: prendo un soggetto e lo trasformo in qualcos'altro. Però non è questa la cosa che preferisco di Mâth. Mi piace la leggenda in cui si unisce a Gwydion, un altro mago, e creano una donna fatta di fiori, Blodeuwedd. Ma fanno un pasticcio, e non riescono a controllare la loro creazione. Lei li tradisce e alla fine deve essere trasformata in un gufo. Un mago che ogni tanto sbaglia... [ride] questo mi piace. (Arts in Context, giugno 1974, intervista di Charles Hammond) Ci volle un po' di tempo prima che Richard potesse riprendere l'ultima parte della ricerca. Si alzò dalla capanna che avevano fatto insieme, scuotendosi via i semi dai capelli. La porta era ancora a una certa distanza, ma mentre si avvicinava percepì un movimento nell'ombra. C'era qualcuno nella cappella. Era come se la storia che avevano inventato avesse preso vita per conto suo. C'era un uomo, chino sul punto in cui doveva esserci stato l'altare. Era come se avessero sorpreso Mâth il Mago nel mezzo di qualche incantesimo. Indossava una lunga veste nera, e i capelli scendevano come serpi d'ebano e argento intrecciate insieme. Si voltò, alto e severo, con le labbra sottili e pallide fra la barba striata di bianco. Le sopracciglia folte si univano sul naso carnoso e adunco. La pelle era scura e bruciata dal sole; gli occhi a mandorla neri come prugne. Sembrava venire da un luogo remoto: Mongolia, o Siberia. Posti dove c'erano ancora gli sciamani, molto lontano da lì. Li guardò avvicinarsi, spostando lo sguardo da Richard alla ragazza e viceversa, con occhi profondi e insondabili. Richard sentì che il nervosismo si trasformava in paura. «Che ci fai tu qui?» Clio parlò per prima. «Potrei chiederti la stessa cosa» rispose l'artista, e sorrise. C'era qualcosa, nel modo in cui li guardava, nel suo sorriso, che spinse Richard a chiedersi se quella non fosse una recita. Un incontro deliberatamente preordinato. Oppure quell'uomo era lì per caso? Richard non riusciva a decidersi, e non aveva modo di saperlo, ma avvertiva un vago disagio, la sensazione che le cose non fossero come sembravano. Qualcosa di non detto era passato tra l'uomo e la ragazza. «Sono andato a fare una nuotata». L'artista scosse i capelli, allargandoli sulle spalle. «Sono venuto qui per fare qualche sfondo per un dipinto. Venite a vedere».
Tornò nel punto in cui stava lavorando: su un tavolino pieghevole erano disposti un blocco da disegno e una tavolozza. Richard esitò, incerto sul da farsi, su come comportarsi. Li aveva visti, nell'erba alta? La sedia dava le spalle all'entrata e il blocco aperto mostrava schizzi della pietra grigia e dell'edera sinuosa e ritorta. La pittura era fresca, come se ci stesse veramente lavorando. E tuttavia poteva averli visti lo stesso. Il leggero sorriso sulle labbra dell'uomo gli fece pensare che forse era così. Scoperto. Beccato in flagrante. Richard sentì l'impulso di fuggire a gambe levate. Sarebbe sembrato strano, ma non gli importava. L'imbarazzo, l'umiliazione sarebbe stata più di quanto poteva sopportare. Se avesse mai rivisto qualcuno di loro, sarebbe stato sempre troppo presto. «Tu non sei il ragazzo che è venuto a casa l'altro giorno?» domandò l'artista. «Lucia non ti ha chiamato Ricardo?» «Sì» rispose Richard. «Sono io. Mi chiamo Richard, in effetti» aggiunse. L artista sorrise. «Ho mandato Clio a cercarti. Non te l'ha detto?» «No». Richard guardò Clio, che distolse lo sguardo. «Voglio dipingerti». «Me?» Richard era sbalordito. «Perché?» «Non sempre scelgo i miei soggetti, a volte sono loro a scegliere me». L'artista scrollò le spalle. Il pennello tintinnò contro il vetro del barattolo. «Anche Lucia pensa che dovrei farlo. Lei è brava in certe decisioni. Ecco perché dico che è la mia musa». Gettò via l'acqua sporca e iniziò a mettere via le sue cose in una vecchia borsa di cuoio consunta. «Perché non torni con noi? Mi puoi dare una mano a portare questa roba». Posò la mano sullo schienale della sedia. «Rimani a cena. Ti va, vero Clio?» Guardò la ragazza, che non rispose. Né aiutò Richard con il tavolino pieghevole e la sedia. Rimase semplicemente a strappare l'edera dal muro in rovina. Richard si mise i mobili sotto braccio. Erano piuttosto pesanti e scomodi da portare, e non aveva idea di come fare conversazione con quell'uomo per tutta la strada del ritorno, ora che Clio sembrava aver smesso del tutto di parlare. Forse era stata colpita di nuovo da una delle sue intuizioni. Di certo non sembrava che volesse offrirsi di portare qualcosa. Malgrado i suoi sospetti, Richard si sentì obbligato a dare una mano a quell'uomo. «Ho sentito che siete stati su alla Radura dei Druidi» disse lui mentre andavano. Richard lo guardò senza capire. «Il boschetto che dà sulla valle. C'è una caverna nascosta sotto la bosca-
glia». «Oh, sì. Sì, ci siamo stati». Richard lanciò un'occhiata a Clio. Aveva raccontato tutto? «Non sapevo che si chiamasse così». L'uomo annuì. «Da ragazzo ci passavo molto tempo. Con mio fratello. Si chiamava Richard». Guardò il ragazzo che camminava al suo fianco, poi distolse lo sguardo. «Tu gli somigli perfino. Che coincidenza, eh? Senza dubbio Lucia la chiamerebbe sincronicità». «È un nome abbastanza comune» replicò Richard. «Allora sì, ora non tanto. Venivamo qui tutte le estati. Ci accampavamo lassù. Tenevamo la roba in un vecchio cofano di latta». «Davvero?» Richard s'illuminò. «Io e Dylan... Dylan è il mio amico, lo conosce, quello che vive alla fattoria? L'abbiamo trovato! Ci siamo sempre chiesti di chi fosse!» «Ah, bene». L'uomo sorrise. «Ecco che ci siamo! Ci siamo divertiti parecchio a giocare nei boschi lassù, io e mio fratello...» Posò la mano sulla spalla di Richard, con gli occhi annebbiati dai ricordi, opachi come pietre. «A volte non tornavamo a casa per giorni. Sono contento che abbiate fatto buon uso della nostra roba». Quando Richard l'aveva visto la prima volta, aveva pensato che l'artista fosse un tipo straordinario, che sarebbe stato inavvicinabile, ma invece eccoli lì a chiacchierare sui boschi e sui giochi, quasi come se tra loro non ci fosse alcuna differenza. Domande e risposte fluivano dall'uno all'altro, rilassate e naturali. Richard camminava accanto a lui, godendosi la conversazione. Il tavolo pieghevole e la sedia non gli pesavano più, e prima che se ne rendesse conto, erano arrivati a Wish House. Avevano percorso una stradina stretta e dissestata dove non passava quasi traffico. Al centro cresceva l'erba. Rovi, rose selvatiche e noccioli spuntavano dai due cigli, restringendola ancora di più e chiudendosi ad arco, tanto che sembrava di passare sotto una galleria verde. All'improvviso, eccola lì. Erano arrivati di fronte alla casa. Da quel lato, il posto aveva un aspetto completamente diverso. Più maestoso in un certo senso, ma anche più decrepito. I cancelli di ferro arrugginito erano costantemente respinti all'indietro da due alte colonne in pietra. Tra la ghiaia del vialetto circolare crescevano erba e muschio, e un sentierino di asfalto spaccato conduceva a un portico imponente, ma l'entrata principale non veniva mai usata. L'intonaco scrostato si staccava dalle colonne e dalle balaustre. La pesante porta di legno si era gonfiata, rendendo quasi impossibile l'apertura. Tutta la zona era in ombra, in parte per via
della casa, in parte per il fogliame, fitto su entrambi i lati. Alti alberi crescevano sui terrapieni che fiancheggiavano la costruzione. Il giardino era limitato da folte siepi di tasso, biancospino e alloro, cresciute per anni senza mai essere toccate da una lama, e che erano ormai delle dimensioni di piccoli alberi. Richard pensò al ligustro squadrato intorno al suo giardino di periferia, a come suo padre non faceva altro che tosare l'erba e dare una spuntatina alla siepe. Su un lato del vialetto, rose dallo stelo lungo lottavano per farsi strada tra l'erba alta e arida. L'altro lato doveva essere stato un frutteto, un tempo: qualche melo nodoso sopravviveva, incrostato di chiazze ondulate di lichene grigio-verde. L'isola centrale era stata piantata con uno schema di piccole aiuole fiorite circondate da siepi basse. Richard riconobbe l'aspetto esausto e fiacco e l'odore penetrante di volpe del bosso. Era il giardino che aveva visto dalla finestra, il primo giorno alla casa. Aveva già visto giardini formali così, nelle case di campagna visitate con i suoi, e quando era andato a Stratford-on-Avon con la scuola. Questo era diverso. Si fermò a esaminarlo. Le aiuole erano di forma triangolare e la maggior parte dei fiori che vi crescevano erano neri. Il Giardino delle Streghe (1978) Collage e tecnica mista 115,3 x 86 cm Clio Dalton (I960-) Scuola d'Arte - Mostra del primo anno Un giardino formale visto da una finestra centrale. Basse siepi di bosso circondano piante insolite: digitale scura e alta, aconito viola intenso, pallida ruta, assenzio giallo e belladonna verde scuro. Su un lato della finestra, pagine arricciate strappate da diversi erbari, fissate a una bacheca di sughero, portano le piante nell'ambiente domestico e offrono altre prospettive su ciò che cresce all'esterno. Digitale, cicuta, giusquiamo, aconito e belladonna sono illustrati con meticolosi dettagli botanici. Letali ma belli, velenosi ma con proprietà curative, rappresentano un dualismo ripetuto dagli oggetti allineati sugli scaffali: vasi senza etichetta di frutti rossi; funghi velenosi scarlatti mescolati in un cestino; flaconi blu
e verdi di vetro lavorato. Enfatizzando l'insalubrità che sta sotto a ciò che è sano, questo lavoro inquietante ci ricorda che non esiste innocenza. Niente è come appare, sembra dirci l'artista. Non puoi fidarti di nulla. (Note di accompagnamento) Jay scomparve dietro la casa, con un «A dopo» e un cenno disinvolto della mano. Richard fissava l'aiuola di erbe. «È strano». «Perché è un Giardino di Streghe» spiegò Clio. «È fatto a forma di pentacolo». Erano le prime parole che gli diceva da quando avevano lasciato la cappella diroccata. «Una stella a cinque punte con una figura a cinque lati nel mezzo. È una specie di presa in giro, perché somiglia a un giardino di erbe officinali, ma non lo è. Un bel po' di queste piante sono velenose, e alcune sono nere». Indicò l'aconito curvo, la belladonna pendula con le sue lucide bacche scure. «Questo è giusquiamo». La pianta aveva dei fiori a campanula, con i petali del colore della pelle secca, striati di venature scure e sottili come carta. «Le streghe lo usavano per fare l'unguento del volo. A quanto pare ora è abbastanza raro. E quella è l'erba da latte». Indicò un arbusto dalle foglie spesse, verde chiaro, a forma di mani protese. «Vedi queste?» Raccolse una bacca spinosa e rossa, e la aprì per mostrare tre semi lucidi e chiazzati. «Producono la ricina, uno dei veleni più letali conosciuti dall'uomo». Richard fece un passo indietro. Sperava che lei si sarebbe lavata le mani. «Non è mica Il Giorno dei Trifidi!» rise Clio. «Non ti mordono mica. Sono solo piante». «Lo so!» Richard fece un passo avanti, sentendosi vagamente stupido. Erano innocenti come qualsiasi altro fiore, naturalmente. Malgrado ciò avevano un fascino, una bellezza corrotta. Il potere di uccidere si nascondeva dietro la vegetazione variegata, le foglie pelose, i gambi chiazzati di viola, le bacche pendule e le corolle chine. Attiravano mosche più che api o farfalle. Il calore del sole traeva da loro un odore pungente, leggermente muschiato, al limite della sgradevolezza. Un avvertimento per gli incauti. «Allora Lucia è davvero una strega?» domandò Richard a Clio. «Certo che lo sono». Richard si voltò, trasalendo. Si guardò intorno, esaminando le finestre
superiori, le siepi intrecciate, cercando di localizzare quella voce senza corpo. La scoprì grazie alla risata. Era alla finestra aperta della dispensa, appoggiata al davanzale. «Nulla è celato. Nulla è proibito. Sia benedetta la dea. Fa' ciò che vuoi, sarà la legge». Recitò le parole in una cantilena ironica e canzonatoria. Clio si unì a lei. Le loro voci erano molto simili, l'effetto stereofonico. Richard guardò prima una e poi l'altra, preso nella rete di parole e risa, non completamente certo che stessero scherzando. Anche lui rise, un verso poco convincente che non riuscì a nascondere il suo sconcerto. «È bello rivederti, Richard». Lucia gli rivolse un caldo sorriso. «Te l'avevo detto di non fare complimenti. Clio, è molto egoista da parte tua tenerlo tutto per te. E che stanno facendo? Ti fanno trasportare mobili? Lasciali sul portico. Abbiamo ospiti, devi unirti a noi. Clio» disse rivolta alla figlia, «vieni a darmi una mano». Lucia si ritirò dalla finestra, scomparendo in casa. Delle voci si levarono in saluto quando tornò dai suoi ospiti. Tintinnii di bicchieri. L'odore acre della marijuana fluttuava nell'aria. Dall'impianto di Joe veniva della musica. Non marocchina, stavolta. Tubular Bells. Sembrava proprio una festa. «Chi c'è?» domandò Richard a Clio. Gettò un'occhiata al punto in cui il vialetto curvava verso il garage e alle dépendance. C'erano delle auto parcheggiate. Alla Citroen di Dalton si erano aggiunte una vecchia Jaguar, un Volkswagen camperizzato, una Due Cavalli e una Renault 4. Lei scrollò le spalle. «Meg e il resto della famiglia. Restano qui per il fine settimana. Vieni». Sembrava impaziente di raggiungerli, come se stare sola con lui non bastasse più. «Chi è Meg?» chiese Richard. «La prima moglie di Jay» spiegò lei di nuovo. «Te l'ho detto. Ci sono Naeve e Freya, le mie sorellastre. Ti piaceranno...» «Quante ne hai?» la interruppe lui, anche se ora ricordava. Come faceva lei a sapere se gli sarebbero piaciute o no? Gli stava parlando come a un mezzo scemo, e la cosa gli dava fastidio. «Due, e un fratellastro. Lui non c'è. È in Afghanistan, o da qualche altra parte. Sono tutti molto più vecchi di me. Naeve e Freya avranno portato altra gente, e poi ci sono i bambini. Io sono zia. Ho un sacco di nipoti». Rise. «Alcuni sono più grandi di me». «Ehi, aspetta! Non mi avevi detto di avere tutta un'altra famiglia!»
«Ah no? Be', non fa niente». Gli prese la mano. «Vieni a conoscerli. Sono divertenti». «No, grazie». Richard scosse la testa. Non aveva voglia di incontrare un altro gruppo di persone. Già aveva abbastanza difficoltà con i membri della famiglia. «È meglio che vada». «Perché?» «Devo andare e basta. Lo sai come sono i genitori». Clio sembrava non saperlo. «Si staranno chiedendo dove sono». «Pensavo che a loro non importasse dove andavi, o cosa facevi». «Ci sono dei limiti». Non voleva spiegare perché doveva andare. Non lo sapeva davvero neanche lui. Riusciva solo a immaginarli, gente di Londra, sdraiati sul prato a oziare, bere e fumare, a ridere in un modo che l'avrebbe messo a disagio, a parlare di cose che probabilmente lui non avrebbe capito. All'improvviso desiderava ritrovarsi fra cose banali e comuni: i bagni, le file dei lavandini. Voleva tornare al campeggio dei caravan. Oltretutto, magari si stavano chiedendo davvero dove fosse. Magari erano in pensiero. Sentì un piccola fitta di colpa. Era ora di tornare. «Non vuoi stare con me?» Lei gli sorrise, con gli occhi socchiusi. «Puoi restare a dormire. A Lucia non dispiacerà...» «Non posso» disse, scuotendo di nuovo la testa. «Non posso restare fuori due notti di fila. E poi sarebbe diverso. Diverso da quando ci siamo solo tu e io». «Ma Jay ti aspetta». Piegò in basso gli angoli della bocca, con aria petulante. «E allora? Tanto mi vedrà di nuovo, no?» «Forse» disse lei, voltandogli le spalle. «E forse no». Si allontanò, a braccia conserte, senza guardarsi indietro. Richard rimase a fissare il Giardino delle Streghe senza realmente vederlo. Si pentì immediatamente della sua testardaggine. Sei un codardo, si disse. Aveva paura di incontrare quella gente perché non era come loro. Avrebbero potuto ridere di lui, dei suoi vestiti, del suo modo di parlare, della sua ordinarietà. Voleva solo stare con lei, e non voleva dividerla, né sentirsi sminuito ai suoi occhi. Qualcosa poteva rompersi tra loro se lui non l'avesse seguita, ma ogni secondo che restava rendeva più difficile andarle dietro. «L'ha perso» disse Lucia a suo marito quando Clio tornò alla festa da sola.
«Tornerà». Jay sorrise alla moglie, arrotolando tra le dita scure una ciocca dei vividi capelli di lei. «Tale madre, tale figlia. Per te tornano sempre». Lucia gli restituì il sorriso. «Come facevi a sapere dove l'avrebbe trovato?» L'artista si batté sul naso e strizzò l'occhio. «Sono un mago. Non lo sapevi?» Lucia rise nel suo modo gutturale. «No, dico sul serio!» «I ragazzi sono come i cani». L'artista sospirò. «Vanno sempre negli stessi posti, come se dovessero lasciare il loro odore. Lui è venuto qui, dove era già stato con il ragazzo della fattoria». «Dylan?» «Proprio lui. Li ho visti l'anno scorso, quando sono tornato a dare un'occhiata al posto. Ho fatto una passeggiata fino alla Radura dei Druidi e l'ho trovata occupata. Perciò ho pensato che potesse andare lassù». «Astuto. Così hai mandato Clio a cercarlo?» «Non sapevo per certo che l'avrebbe trovato». Jay scrollò le spalle, torcendo l'orlo della sua voluminosa djellaba. «Ma ho pensato che fosse una forte possibilità». «Sembra che lei abbia fatto qualcosa di più che trovarlo e basta. Non torna quasi più a casa». «Un ragazzo come quello? Una ragazza come lei? Si tratta di imbrigliare le forze della natura. È quello che fanno i maghi». «Perché tutti questi misteri? Non capisco perché non gli hai semplicemente chiesto di posare per te». «Perché i misteri?» Jay inarcò un sopracciglio. «Pensavo che ti ci crogiolassi, nei misteri. Non è il dipinto la sola cosa che voglio da lui». «E che altro potrebbe essere?» Jay esaminò gli ospiti riuniti. «A volte ho bisogno di un cambiamento. Chi altro viene?» «Hammond, insieme a Martin». Jay fece una smorfia. Martin era il figlio dell'ex compagno di Naeve, il che lo rendeva una specie di nipote. A Jay non era piaciuto il padre, e non apprezzava molto nemmeno il figlio. Hammond gli piaceva ancora meno. «Che vuole Hammond?» «Lo sai cosa vuole». «Be', quando viene, digli che non vendo». Jay si alzò. «Io vado in spiaggia».
Pagina di provini di Clio, b/n Cara Clio, ho pensato che avresti voluto dare un'occhiata a questi. Alcuni non sono affatto male - disse egli modestamente - considerato il materiale con cui ho dovuto lavorare! No, sul serio: fammi sapere se ce n'è qualcuna su cui vuoi che lavori. Ricordati del portfolio... conosco un tizio che conosce un tizio! Baci Martin xxx (Nota sul retro) Richard lasciò Wish House, seguendo la strada incassata verso il villaggio. A destra e sinistra si aprivano i cancelli delle fattorie, e dovette badare a dove metteva i piedi; il pendio era ripido e il terreno era punteggiato da sterco di mucca. Gli ci voleva solo quello, scivolare e riempirsi di cacca, ma ora era contento di essersene andato. Stava diventando tutto troppo, e troppo pesante. Voleva prendersi una pausa da lei. Mentre si avvicinava alla fattoria provò a cercare Dylan, ma nel cortile non ce n'era traccia. Un cane da pastore corse fuori; il suo abbaiare furioso lo fece trasalire. Il cane era giovane, con una chiazza di pelo marrone chiaro su una zampa, come un calzino. Smise di abbaiare e cominciò a ringhiare, tenendosi a una cauta distanza. Richard pensò di avanzare spavaldo come avrebbe fatto Dylan, chiamandolo buffone e ordinandogli di tornare nel cortile. Invece attraversò la strada e passò sul lato opposto. C'erano altre cose da fare, pensò mentre proseguiva. Più tardi poteva andare a cercare Dylan. Andare al pub stasera, vedere se era lì. Poi magari avrebbero potuto fare qualcosa. Andare a Carmarthen. O a Tenby. Ci doveva essere qualcosa in giro. C'erano pub in cui probabilmente sarebbe potuto entrare, se si fosse messo jeans e felpa. Magari c'era una sagra, o una discoteca. Forse avrebbero perfino conosciuto delle ragazze. Non doveva per forza tornare a Wish House. Forse non ci sarebbe mai tornato. Non dipendeva da lei, questo era certo. Richard non uscì, rimase nel caravan. Il giorno seguente si ritrovò sulla
strada. La strada che portava a Wish House. Jay. Clio. Lucia. Clio. Lucia. Jay. I nomi risuonavano a tempo del suo passo. Non riusciva a smettere di pensare a loro. Occupavano la sua mente. A volte tutti allo stesso tempo. Svoltò un angolo e trovò la strada bloccata da un trattore. Il guidatore si sporse in basso, spegnendo il motore. «Ehi Rick, amico» gridò Dylan. «Finalmente ci vediamo. Che hai combinato?» Richard si ficcò le mani nelle tasche e scrollò le spalle. «Niente di particolare». Dylan saltò giù. «Che fai? Vai dagli hippy?» «Sì» annunciò, augurandosi che venisse fuori lentamente, «in effetti sì. L'ho rincontrata, la ragazza...» «Clio?» Richard arrossì suo malgrado. «Ieri sera era giù al pub con suo fratello e un tizio che si chiama Martin, che è ancora più secco. Sembrava uno skinhead ma parlava tutto preciso. Erano con degli altri. Se la sono spassata. Avresti dovuto esserci». Dylan fece una pausa, realizzò. «Ma ci sei stato, non è vero? Piccolo zozzone!» Richard sorrise e gonfiò un po' il petto. «Può darsi». «Vai tranquillo, amico». Dylan sorrise e ammiccò. «Lei conosce tutte le mosse». «Sì?» Richard aspettò un secondo prima di chiedere. «Che vuoi dire?» «È una che ci sa fare». «Come lo sai?» «Secondo te?» Strizzò l'occhio e lanciò un'occhiata a Richard, che fissava il terreno cercando di darsi un contegno. «Quindi tu...» «Ma certo!» rise Dylan. «Io, e metà dei ragazzi del paese». «Non me l'avevi detto!» «Non me l'hai chiesto! Te l'ho detto che ci stavano dentro». Sollevò due dita. «Pace e amore, amico. Non dirmi che pensavi di essere l'unico e solo? Che fosse vero amore? Gesù, Rick. Svegliati!» Dylan gli mise il braccio intorno. «Hai saltato il fosso, e questo è l'importante... e non avresti potuto scegliere meglio per cominciare. Lei è una vera bomba». Richard voleva divincolarsi da quell'abbraccio consolatorio, voleva colpire la faccia sorridente di Dylan fino a vedere quegli occhi caldi e lucenti
pieni di lacrime, ma farlo avrebbe dimostrato quanto ci teneva, quanto ciò che aveva detto Dylan lo avesse ferito. Non gli venne in mente di dubitare delle sue parole. Che motivo avrebbe avuto di mentirgli? Lei era così brava a guidare i suoi tentativi, così sicura del suo divertimento, così furiosa nella ricerca del proprio piacere. Nel profondo, Richard sapeva che era vero. L'aveva pensato lui stesso. «Bisogna festeggiare!» Dylan lo abbracciò ancora più stretto, cercando di rallegrarlo. «Che ne dici se prendiamo un paio di bottiglie e ce ne andiamo in spiaggia stasera? Accendiamo un fuoco. Ci ubriachiamo. Come ai vecchi tempi. Non ti ho visto quasi mai quest'estate». «Sì» mormorò Richard. «Si può fare». «Grandioso! Ci vediamo là. Sette e mezzo, va bene?» «Okay». Richard si sentì un po' risollevato. Una grigliata sulla spiaggia, un paio di bicchieri proibiti. Come ai vecchi tempi. «Ci divertiamo, amico. Io porto il sidro. Tu porta un po' di mangime... salsicce e roba varia». Risalì sul trattore. «Aspetta! Dove vai?» Richard mise un piede sul predellino. Non voleva che Dylan lo lasciasse lì. Certamente non sarebbe andato a Wish House ora. «A raccogliere le balle nel campo su in cima». Dylan guardò il ragazzo più giovane. «Mi farebbe comodo una mano. Vuoi venire?» «Sì. Perché no?» «Salta sul rimorchio, allora. Si va!» Dylan avviò il motore e Richard saltò dietro con Jesse il cane da pastore. O lavorava con Dylan, o passava un'altra giornata senza sapere cosa fare. E comunque, poteva essere divertente. Finirono attorno alle cinque e Richard andò alle docce. La maggior parte della gente non era ancora tornata dalla spiaggia, perciò c'era ancora molta acqua calda. Se la lasciò scorrere addosso, per calmare il dolore delle spalle bruciate e della schiena indolenzita. I palmi delle mani erano pieni di vesciche, faceva male anche solo a tenere il sapone, ma era stata una giornata fantastica. Si erano divertiti, e lui era riuscito a stare al passo con Dylan abbastanza bene. Era fiero di sé. Dylan passò verso le sette e insieme attraversarono le Tane, il nome che la gente del posto dava alla zona di erba secca e dune immediatamente prima della spiaggia. Richard si fermò sull'ultima asse della passerella a guardare la spianata che si apriva davanti a lui. C'erano ancora delle perso-
ne: ragazzini che correvano, qualche bagnante tenace ancora nell'acqua, anche se la spiaggia non era l'ideale per nuotare. Perfino con l'alta marea l'acqua era bassa, arrivava a malapena alle cosce. Con la bassa marea praticamente spariva del tutto, lasciando una distesa luccicante di sabbia e fango traditore. L'acqua, se pure ci arrivavi, era soggetta a maree di ritorno e pericolose correnti di fiume. Nessuno sano di mente avrebbe fatto il bagno in quel momento. Delle coppie facevano passeggiare i cani sulla lunga curva dorata della spiaggia. Si fermò un minuto, adattando la scena reale al suo ricordo. Non gliene importava molto di nuotare; amava quel posto. Lo sognava, e probabilmente l'avrebbe sognato tutta la vita. Si aggiustò lo zaino sulle spalle doloranti e bruciate e s'incamminò insieme a Dylan. Si diressero verso una roccia sporgente che affiorava dalla sabbia, simile a una piega, una lunga increspatura che segnava il limite della zona più affollata. Qui le dune lasciavano il posto alle rocce e a lisce pietre grigio-violetto che curvavano verso il mare, incise da lunghe spaccature e squarci che la marea, ritirandosi, trasformava in pozze. Richard e Dylan le scavalcarono d'un balzo, sollevando gli spruzzi dei bassi torrentelli che correvano rapidi tra le rocce e sparivano nella sabbia. Andarono in giro a raccogliere legna finché non ne ebbero a sufficienza per un falò. Poi cercarono e trovarono il luogo adatto, quello in cui andavano sempre: una spaccatura nella scogliera che offriva ulteriore riparo. Il sole stava calando a occidente mentre Dylan costruiva un focolare con massi e lastre di pietra, e iniziava l'operazione delicata dell'accensione. Aveva portato delle patate e le mise sul fondo ad arrostire, circondandole di rametti. Richard andò a cercare altra legna. Il sole se ne stava andando dietro un lontano promontorio, aggiungendo onde dorate ai nastri di nubi rosse e viola che si stendevano sul mare. La spiaggia sprofondò nell'ombra e Richard vide che c'era un'altra festa a una certa distanza da loro. La spiaggia ingannava sulle distanze, ma dovevano essere quelli di Wish House. C'era un piccolo pontile, e parte della spiaggia era direttamente sotto la casa. Il suono delle chiacchiere e delle risate viaggiava lungo la piatta distesa di sabbia. La spiaggia creava trucchi sonori, oltre che visivi. All'improvviso sembrarono molto vicini, come se fosse stato possibile sentire cosa dicevano, anche se le parole nel vento erano solo rumori senza senso. Che faccia tosta, questa gente! Immaginava suo padre e sua madre che parlavano. Fanno come se fosse tutta roba loro.
Sarebbero stati veramente fuori di sé. Non potrebbero fare silenzio? Devono per forza imporsi in questo modo sugli altri? Qualcuno si mise a correre verso il mare, inseguito da qualcun altro. Finirono in acqua tra strilli e grida. Anche da quella distanza Richard vide che erano entrambi nudi. Che faccia tosta, questa gente. Avevano acceso un falò. Enorme. Le scintille volavano e si spargevano in giro quando qualcuno gettava dentro altra legna. Il loro fuocherello era patetico al confronto. Le fiamme si alzavano e venivano prese nelle raffiche di vento, lampeggiando nella sua direzione come un faro che emettesse segnali da un altro mondo. C'erano due uomini che camminavano sul bagnasciuga verso di lui. Uno era Jay, lo riconosceva dalla veste svolazzante. L'altro era leggermente più basso, con capelli scuri lunghi fino alle spalle e baffi alla Che Guevara. Indossava un completo di lino spiegazzato, ma era a piedi nudi, come Jay, con i pantaloni chiari arrotolati fino alle ginocchia. I due uomini erano immersi nella conversazione e probabilmente non avrebbero neanche fatto caso a lui, ma Richard si allontanò. Non voleva dare l'impressione di spiare. Tornò indietro, trascinandosi il suo carico di legna. La maggior parte probabilmente era troppo umida per bruciare. «Potrei esserci anch'io. Se volessi» si disse, ma malgrado ciò si sentiva escluso. Poco dopo l'altra festa fu nascosta da una curva nella scogliera. Si sentì sollevato, come se fosse sfuggito a qualche osservazione segreta. Cosa improbabile, comunque. Decise di non parlarne a Dylan. Sorse la luna, bianca e scintillante come fosforo, che gettava però una luce fredda su tutto. Le salsicce sfrigolavano su una specie di griglia fatta di fil di ferro, cadendo continuamente nel fuoco da dove bisognava salvarle con dei bastoncini. Parlavano mentre preparavano il cibo, ma le cose tra loro erano cambiate. Lo sentivano entrambi. Dylan aveva quasi due anni di più, e ora che aveva lasciato la scuola e aveva cominciato a lavorare faceva sentire Richard ancora più giovane. Non parlava altro che della fattoria e del lavoro con suo padre. Dylan era un ragazzo sveglio; avrebbe potuto proseguire gli studi, e andare all'università. Era quello che Richard aveva intenzione di fare: non aveva preso in considerazione altre alternative, era quello che andava fatto, e lui non aveva mai pensato ad altro. Dylan aveva piani diversi. «L'idea me l'ha data proprio quella di Wish House» stava dicendo. «Lo
sai che compra le uova da noi?» «E allora?» Dylan scosse la testa per la stupidità dell'amico. «Non le piacciono quelle di batteria! Lo stava dicendo a mia madre. Devono venire da galline ruspanti. E anche la carne. Manzo e agnello di animali che pascolano naturalmente. L'ho detto a mio padre, non è solo lei. Ce ne sono altri come loro, che per la qualità sono disposti a pagare di più. E le verdure. Coltivate senza fertilizzanti chimici e pesticidi e roba del genere. Mio nonno lo diceva sempre. Non è naturale, diceva. Rovina il gusto e tutto quanto. Papà non capisce, ma secondo me c'è da farci i soldi. A ogni modo è disposto a farmi fare un tentativo». Era pieno di piani per il futuro. «Prendi il campeggio per i caravan... papà voleva venderlo». «Ah sì?» Questa era nuova per Richard. «Sì, ne parlava l'anno scorso. Ma io l'ho convinto a investirci. A espanderlo. A creare più piazzole permanenti. Magari costruire qualche bungalow, oppure trasformare una parte della fattoria in case per vacanze. Poi usiamo i soldi per reinvestire ed espandere l'attività specializzata della fattoria. Vedi, Rick, devi diversificare: non puoi restare sempre al punto di partenza. Bisogna andare avanti». Mentre parlava, tracciava dei piccoli quadrati nella sabbia con un bastoncino per descrivere le diverse aree di attività e come erano legate fra loro. Era come ascoltare un uomo adulto. In un certo senso, Richard lo invidiava. Dylan sapeva esattamente cosa voleva fare, e lo stava facendo, mentre lui non ne aveva ancora la minima idea. «Secondo te sono fatte le patate?» domandò, per interrompere il monologo. Riusciva a cogliere solo qualche dettaglio sulle rese relative, anche se ammirava l'intraprendenza e la competenza di Dylan. «Boh». Dylan smosse il fuoco. «Le salsicce però sì. Diamo un'occhiata». Le salsicce erano mezzo carbonizzate, ma le mangiarono lo stesso, buttandole giù con sorsate di sidro dolce. Poi tirarono fuori le patate, spaccarono la buccia annerita e raccolsero l'interno cremoso con delle conchiglie. Masticavano in silenzio. Prima, Richard non avrebbe notato le parti bruciacchiate, la cenere granulosa attorno alle patate, la sensazione costante di avere della sabbia in bocca. Quel genere di cose prima aggiungeva sapore alla serata, ma ora gli faceva venire la nausea. Non era proprio più la stessa cosa. I tizzoni si raffreddavano rapidamente, e il luccichio rosso ciliegia la-
sciava il posto all'oscurità. Avevano mangiato tutto e terminato il sidro. Era ora di andare a casa. Anche Dylan era della stessa idea, e stavano proprio per alzarsi e gettare sabbia su ciò che restava del fuoco quando una figura uscì dall'oscurità. Era Clio. I jeans larghi erano bassi sui fianchi, e il maglione tagliato risaliva fino a mostrare il ventre piatto e abbronzato. Non portava il reggiseno. La maglia a coste era aderente sul seno, e mostrava i capezzoli. Nessuno dei ragazzi disse una parola. «Ciao!» disse lei con un sorriso. «Che combinazione vedervi qui!» «Sì» disse alla fine Richard. «Che combinazione. Dev'essere la sincronicità di Lucia». «Te l'ho detto che funzionava!» Il sorriso di lei si allargò. «Stavo facendo un giro per cercare altra legna, quando ho visto il vostro fuoco. È una notte fantastica per stare in spiaggia, non è vero?» Lanciò un'occhiata alla cenere, e alle bottiglie vuote di sidro. «Noi stiamo facendo una festa. C'è ancora un sacco di roba. Perché non venite?» Parlava a entrambi, ma guardava Richard. Si voltò, aspettandosi di essere seguita. I due ragazzi si scambiarono un'occhiata. «Sincroché?» Dylan inarcò le sopracciglia, storcendo il angoli della bocca mentre cercava di trattenere una risata. «Andiamo, amico» disse urtando Richard con la spalla. «Ha detto che hanno ancora da bere. Forza!» Richard scosse la testa. «Vai tu» mormorò, così che lei non sentisse. «Non fare lo scemo! Certe offerte non si rifiutano!» Dylan afferrò Richard attorno alle spalle e lo fece voltare per seguire Clio. Anche se il falò cominciava a sfumare in tizzoni rossastri, l'intera zona era illuminata. Piccole lanterne pendevano da tronchi abbandonati e c'erano candele che tremolavano all'interno di vasi colorati piantati nella sabbia. Un tavolo pieghevole era carico di cibo e di ogni genere di bevanda. La gente era appollaiata sui tronchi o distesa su tappeti e coperte multicolori. Sembrava un festino di fate, la scena di una leggenda: persone vestite in abiti sgargianti, il banchetto, le piccole luci. Jay sedeva su un tronco rovesciato, disposto come un trono al centro di un gruppo di persone scelte. Sembrava un re, o un dio del mare circondato dalla sua corte. Stava parlando, con le braccia protese dalle ampie maniche della veste sciolta, i capelli lunghi che ricadevano in avanti e l'argento nella barba che scintillava nella luce. Un fotografo si arrampicava su tutto con le gambe magre come zampe di
ragno, calpestando la gente con i suoi pesanti scarponi, nel tentativo di avvicinarsi il più possibile a Jay. Richard sentì una punta di gelosia. Quello doveva essere il tipo di cui parlava Dylan, quello che era con Clio al pub la sera prima. Il flash illuminò il viso di Jay, facendolo trasalire e sbattere le palpebre. Quella sarebbe stata buona per l'album. Jay alzò la mano per bloccare un altro scatto e continuò a parlare con il tizio con cui prima aveva passeggiato sulla spiaggia. Il fotografo rivolse la sua attenzione a Clio, che era accanto a loro. Lei si mise in posa ridendo, e si allontanò con lui al seguito. Sembrava che si stessero divertendo. «Ricardo!» esclamò Lucia con voce acuta, facendo voltare tutti verso di lui. Tutti tranne Clio. «Ciao, bambino, ciao!» Lo baciò su entrambe le guance. Nella sua famiglia non lo faceva nessuno. Rimase paralizzato dall'imbarazzo e riuscì a voltarsi dalla parte sbagliata, finendo quasi per baciarla sulla bocca e scontrandosi con il suo naso. Lei rise e disse: «Hai bisogno di pratica!» prima di rivolgere la sua attenzione a Dylan. «Dylan! Benvenuto!» Circondò con il braccio il ragazzo più grande. «Sei stata brava a trovarli, Clio!» Li strinse entrambi a sé. «Ragazzi, voi due dovete avere fame. Io cucino sempre troppo, perciò c'è un sacco di roba rimasta. Ho appena messo su qualche altro kebab, ormai dovrebbero essere pronti. Adoro mangiare fuori e cucinare su un falò. Mi ricorda il Marocco, e le riunioni dei Tuareg. Provate questi». Prese un panno ricamato e raccolse diversi spiedini, mettendoli sul piatto. Richard ne prese uno esitando, e mordicchiò la carne che ancora sfrigolava. Sembrava una salsiccia su uno spiedo. Era caldo, non solo per la temperatura: era talmente piccante che quasi gli rese insensibile la lingua. Aspettò che si raffreddasse un poco e assaggiò di nuovo. A sua madre non piaceva il cibo piccante, perciò a casa non ne mangiavano mai. Lei non avrebbe mai provato nemmeno il cinese, e quindi lui non aveva mai mangiato niente del genere prima. Il gusto era estraneo, ma interessante. «Ti piace?» domandò Lucia. Lui annuì, con la bocca piena. Decise che gli piaceva. «Provalo con queste». Mise sul suo piatto qualcosa di scuro e fumante. «Che cos'è?» «Melanzane». Lui non le aveva neanche mai sentite nominare. La guardò senza capire. «È viola, è un... frutto? Una verdura?» Lucia piegò la testa da un lato, come se non sapesse decidersi. «Cresce come i pomodori, o i peperoni. È
molto difficile trovarle da queste parti. Me le sono fatte mandare da Londra. Assaggia. Dimmi come ti sembrano». Richard ne prese un boccone. La pietanza era condita con il pomodoro, ed era piccante, ma ci si stava abituando. E c'era qualcos'altro. Ne assaggiò un'altra forchettata. Una consistenza strana, soffice e cremosa, una ricchezza vellutata che non aveva mai provato. Ti faceva venire voglia di prenderne ancora. «Ti piace?» Lui annuì. «E a te, Dylan?» «Sì. Buone. Ma queste melanzane, dove crescono? Si possono coltivare qui?» Richard prese un altro paio di kebab e lasciò Dylan a parlare con Lucia di verdure esotiche. Osservò Clio che si spostava da un gruppo di persone all'altro. Una parte di lui voleva che lei lo notasse, l'altra parte era sul chi vive in modo da poterla evitare se lei si fosse avvicinata. Si muoveva con grazia leggera, come una ballerina. Il fotografo le ronzava ancora intorno, inquadrandola con le dita, facendo fotografie da angoli stupidi, come se lei fosse stata una modella, un'attrice o qualcosa del genere. E avrebbe potuto esserlo. Richard lo sapeva. La gelosia gli strinse lo stomaco mentre la guardava parlare con questa o quell'altra persona. Era come se stesse concedendo la sua bellezza a ognuno di loro, vecchi e giovani, facendoli sentire come gli unici al mondo con i quali volesse parlare. Era diversa, si disse lui, diversa dalle altre ragazze. Proprio come questo kebab era diverso dall'agnello della domenica con la salsa alla menta. Forse era sbagliato giudicarla allo stesso modo, o giudicarla del tutto. Non sapeva ancora che cosa le avrebbe detto, perciò probabilmente era meglio non parlarle, ma non poteva fare a meno di guardarla, e sapeva di essere perduto. La sua bellezza lo feriva, portando il dolore nel profondo, peggiorando le cose. C'erano bambini che scorrazzavano dappertutto, gridando e strepitando, e gli davano ai nervi. Due di loro gli finirono addosso e lui fece quasi cadere uno dei kebab nella sabbia. Lanciò loro un'occhiata che li fece scappare via. Dovrebbero essere tutti a letto. Ne aveva abbastanza di quella gente. Non era posto per lui. Voleva andarsene. Adesso. Andarsene finché poteva. «A chi stai facendo gli occhiacci?» L'aveva persa di vista solo per un istante, e ora eccola lì davanti a lui. La notte stava diventando fredda. Lei si era avvolta intorno alle spalle una coperta a colori vivaci, come uno scialle.
«Mi stai evitando?» «No, sto solo...» «Vagolando in giro con aria depressa» terminò lei. «Che succede, Richard?» «Niente, io...» «È per quello che ho detto nel Giardino delle Streghe? Volevo solo che restassi. Non intendevo essere acida». «Non sei stata acida». Richard scosse la testa. «Non è quello. È un'altra cosa». «Che cosa?» Lei lo guardò. «È Dylan? Ha detto qualcosa?» Lui la fissò. Come faceva a saperlo? «Ha detto che ieri sera eri al pub. Con Joe... e un altro tizio». «Martin? C'erano anche altri». Clio parve perplessa. «E comunque non sapevo che non mi fosse permesso andare. Non è solo quello, vero?» Richard scosse la testa. «Che altro ti ha detto?» Guardò con gli occhi stretti l'altro ragazzo che ancora parlava con sua madre. «Come fai a sapere che ha detto qualcosa?» «Chiamalo intuito. Che cosa ha detto? Come se non lo immaginassi». «Tu e lui, e anche altri, lui ha detto... be', lo sai». Richard sospirò. Non voleva davvero parlare di questo. Si voltò, sopraffatto dall'imbarazzo. Lei non disse nulla per un po', ma Richard capì che era arrabbiata. «E tu gli hai creduto?» domandò con voce tremante. Lui non la guardava; lei si spostò per metterglisi davanti. «Certo che gli hai creduto». Vide la sua espressione mortificata. Gli prese il mento tra le dita, pizzicandolo forte e costringendolo a guardarla. «Non ti è venuto in mente che potesse mentire, giusto?» «Perché mai?» Lui si liberò dalla stretta. «Perché dovrebbe mentire?» «Perché tu sei più piccolo di lui. Perché è invidioso. Perché si vanta, si dà delle arie. Riesco a pensare a un sacco di motivi». Clio incrociò le braccia e gli voltò le spalle. «Non sono mai stata con lui. Né con uno dei suoi amichetti. Non sono mai stata con nessun ragazzo. A parte te». Si voltò e lo abbracciò. «Che ne so io di che cosa fanno loro?» Ne sei sicura? Voleva chiedere lui. Ne sei davvero sicura? Ma non voleva dubitare di lei. Era la sua parola contro quella di Dylan e lui voleva crederle. Dylan poteva aver mentito, come aveva detto lei, per darsi delle arie sulle sue conquiste. Un sacco di ragazzi lo facevano per farti sentire a disagio. Era un modo comune di sminuire gli altri ragazzi. Giles lo faceva
continuamente, raccontando storie piccanti del suo sabato sera quando sapeva che tu eri stato a casa con mamma e papà a guardare la televisione. Lei gli prese la mano, portandolo via dalla festa. Lui non protestò, né chiese di saperne di più. Il cuore gli batteva forte mentre la seguiva tra le dune. Le luci della festa svanirono dietro di loro. Le voci sfumarono. Il ritmo della risacca sul bagnasciuga andava a tempo con il suo cuore, con le parole nella sua testa. Non sono mai stata con nessun ragazzo. A parte te... Le parole di lei l'avevano rassicurato, ma le parole hanno il significato che gli vuoi dare. La scelta di lei gli consentiva di abbandonare i suoi sospetti. Non gli venne in mente di metterli in discussione, anche se lei ne sapeva molto più di lui. Quella prima volta lei aveva saputo esattamente cosa fare, mentre lui non ne aveva la minima idea. Camminarono nella sabbia soffice, tra ciuffi di sparto grigio-verde e spinoso, solo con la fredda luna a guidarli. Trovarono un punto profondo, scivolarono giù per le dune ripide e atterrarono insieme. La sabbia era fresca e setosa al tocco. Clio stese la coperta e gli fece segno di stendersi accanto a lei. Lui si chinò su di lei carezzandole via i capelli dal viso. Era pallida alla luce della luna, le labbra leggermente aperte. Lui si avvicinò, baciandola appena, poi più profondamente, e in quel momento non gliene importò più un accidenti di ciò che lei aveva fatto, o con chi. Ora era con lui. Il Giardino delle Streghe (particolare) Collage (1978) Disegni botanici su carta da disegno (note a mano) 15,3 x 8,6 cm Lucy Ivanoff (poi Lucia Dalton) (1940-) Aconito Aconitum Napellus Pianta perenne originaria del sud ovest dell'Inghilterra, e del sud del Galles. Predilige il terreno boschivo umido e le rive ombrose dei corsi d'acqua. Fiorisce tra maggio e luglio. Cresce fino a 1 m di altezza. I fori sono grandi e a forma di elmo, dall'azzurro al nero violaceo intenso. Una delle piante più velenose d'Inghilterra: una piccola quantità può causare la morte in breve tempo. Amanita
Amanita Phalloides Cresce da luglio a ottobre in terreno boschivo deciduo e misto. L'ombrello è liscio, di colore che va dal marroncino al giallo verdastro, dal verde chiaro al bianco giallastro, le lamelle sono spesso candide e il gambo termina con un bulbo soffice circondato da una volva simile a una calza. La polpa è candida, il gusto delizioso, l'aroma dolce, gli esemplari secchi possono avere odore di fiori marci, o di formaggio stagionato. Il veleno è letale. Fino al 95% delle persone che ingeriscono questi funghi muoiono. Cicuta Corium maculatum Pianta biennale alta e robusta. Cresce fino a 2 m. Si riconosce facilmente dagli steli maculati e dall'odore sgradevole. Nelle isole britanniche si trova sui terreni umidi: paludi, fiumi, torrenti, canali e presso le scogliere. Altamente tossica in ogni parte. Usata come strumento di esecuzione nell'antica, Grecia. Socrate scelse di prendere la cicuta dopo essere stato condannato per empietà e corruzione dei giovani. Richard si svegliò tardi il giorno dopo, e quando arrivò a Wish House non c'era nessuno. La porta sul retro era aperta, ma non gli sembrava giusto entrare senza essere invitato. Andò sul davanti della casa e trovò una donna che non aveva mai visto. Era in ginocchio e si sporgeva nel Giardino delle Streghe al di là della siepe di bosso. Un cestino basso, intrecciato con larghe lamelle di legno e sostenuto da piedini, era sull'erba accanto a lei. L'unico rumore era costituito dalle api e dal raspare della sua zappa. «Ehm, mi scusi» attaccò lui esitando, per non spaventarla. «Ciao! Da dove salti fuori?» Lei si voltò rapidamente, guardandolo da sotto un cappello floscio decorato con grandi margherite rosa. «Ero fra le nuvole. Mi hai fatto sobbalzare». «Mi dispiace, non volevo. Stavo solo cercando...» «Clio, immagino. Tu sei il suo amico. Ti ho visto ieri sera. Io sono Meg». «Richard» disse lui. «Piacere di conoscerti, Richard. Ti darei la mano, ma sono piena di terra». Si guardò le mani coperte di polvere. Erano grandi, con dita lunghe dalla punta squadrata. Come le mani di un uomo. «Non riesco a lavorare in
giardino senza ficcare le mani nella terra». Era una donna grande. Quando si alzò era più alta di Richard, con un largo viso scuro, ormai pieno di rughe, ma ancora notevolmente bello. Una massa di folti capelli bianchi le pendeva sulla schiena in una grossa treccia. Qualche ciocca era sfuggita, da sotto il cappello e dalla treccia, in riccioli sinuosi. Indossava una maglietta rosa e pantaloni arancio decorati a grossi fiori verde acido, le ginocchia erano chiazzate di terra, incrostate di pezzetti di legno, erba e fango. «Clio è andata alla fattoria. Siamo rimasti senza latte e uova. Jay è in spiaggia a fare il bagno. Non so dove siano gli altri». Si guardò intorno con aria vaga, come se gli altri avessero potuto saltar fuori da un momento all'altro. «Abbiamo fatto abbastanza tardi ieri notte. Probabilmente sono tutti ancora a letto. Ed è una giornata così bella. Io sono uscita a fare un po' di giardinaggio. Lucia l'ha lasciato troppo andare. Ha tremendamente bisogno di acqua, con quest'estate che stiamo avendo». Indicò con un cenno della testa un innaffiatoio di metallo consunto. «Ti va di aiutarmi?» Richard annuì, sentendo di non avere molta scelta. Portò acqua avanti e indietro, riempiendo l'innaffiatoio da un rubinetto all'esterno, chiedendosi perché non avevano un tubo come suo padre. Quando ebbe finito lei gli porse un paio di cesoie. «Qui». Indicò la siepe di bosso. «Da' una tagliata a quella, come se le stessi spuntando i capelli. Senza perderci troppo tempo, ecco. Hai un giardino a casa?» Richard spiegò che ce l'aveva. Anche se era suo padre il giardiniere. A sua madre non importava molto, le piaceva solo sedersi fuori. Il suo regno era la casa. «Mio padre lo tiene...» Stava per dire 'molto bene'. Ma poi decise per: «Diverso da questo». Meg dette una fragorosa e profonda risata. «Ci scommetto! Questo è proprio diverso. Anche se tutti hanno bisogno di cure. Non esiste un giardino selvatico. In particolare questo. Tutte le piante sono state scelte con attenzione. Crescono in questo modo solo perché Lucia non le cura». Indicò diverse piante. «C'è la digitale che probabilmente conosci, e poi l'aconito, il giusquiamo, il pungitopo, il barbasso, l'assenzio, la liquirizia, il papavero da oppio, la peonia, l'actaea racemosa, e il vischio». Indicò le balle verde acceso attaccate ai rami superiori di un vecchio melo.
«Non mi stupisce che Clio lo chiami il Giardino delle Streghe» disse lui. Lei rise. «Quello è il nome che gli ha dato Jay quando Lucia e io ne abbiamo parlato la prima volta. Perciò l'abbiamo fatto a forma di pentacolo, tanto per ridere, e ci abbiamo messo anche altre cose. Erbe per un filtro magico». Strinse tra le dita alcune foglie pallide, aspirandone il profumo aspro e forte. «Non sono aromi da cucina, questo è certo. Ma hanno i loro utilizzi. Ce l'hanno eccome». Continuarono a lavorare in silenzio. «Questa casa un tempo si chiamava TÞ Wraig Hysby» disse lei dopo un po'. «Che approssimativamente significa la casa della sciamana... La Casa della Strega». «Non lo sapevo». Le raccontò della teoria di Dylan a proposito degli alberi che dicevano 'Wish... wish...' «Può darsi». Meg s'inginocchiò. «Chi lo sa? I nomi sono strani, non credi? Tu quale preferisci, Richard?» «Non lo so». Le parole di lei gli avevano fatto venire in mente una canzone. Era dei Cream, Strange Brew. E ora non riusciva a togliersela dalla testa. Cominciò a canticchiare tra i denti. «Com'è silenzioso». Lei lo guardò. I loro occhi erano allo stesso livello. «Ci hai fatto caso? È stata la prima cosa che ho notato quando sono venuta qui con Jay. Ero giovane. Studiavo. Suo padre era ancora vivo...» Sospirò. «Sono passati molti anni. Più di quanti abbia voglia di contarne. Sono rimasta subito colpita dalla tranquillità. Mi piace pensarlo come un luogo di antica guarigione. C'era un monastero qui vicino, lo sapevi? La casa è costruita con le sue pietre. Questo poteva essere stato il loro giardino di piante medicinali. La maggiorana cresce selvatica, e anche il partenio, la valeriana e la camomilla». Mentre parlava toccava le erbe, che così liberavano un leggero profumo. «Potrebbe perfino risalire ad ancora prima... Ai Druidi. Hai presente quell'ascia che Jay tiene in casa? L'hanno trovata lui e suo fratello. Questo posto è popolato da molto tempo. Mi piace quest'idea di continuità». Si guardò intorno per valutare il loro lavoro. «Ecco, così va meglio. Perlomeno non moriranno soffocate dal dente canino». Gettò uno stelo tozzo, dalle giunture gonfie, sul mucchio di erbacce che aveva raccolto. «Per quanto, anche questo ha il suo utilizzo. La maggior parte delle piante ce l'ha». Parlava come se lui non fosse stato lì. «Lei sa un sacco di cose sulle piante» disse Richard, più per riaffermare
la propria presenza che per altro. «Ecco, adoro le piante e adoro coltivarle». Sfiorò le fronde leggere davanti a lei come se stesse accarezzando una pelliccia. «Vedi questo? È finocchio. Mi piace la sua consistenza, il colore, il profumo». Strofinò uno stelo fra le dita e tese la mano. Chiuse gli occhi ed entrambi aspirarono il delicato aroma di anice emanato dalle piante stropicciate. «Lo puoi usare in cucina, o prenderlo per facilitare la digestione, depurare il sangue, riparare il fegato». «Come fa a sapere tutte queste cose?» domandò Richard. «Come fa a sapere cosa usare e per che cosa?» «Sono gli studi di una vita. Io sono un medico». Lo guardò e rise. «Non fare quella faccia sorpresa. Ho abbandonato la medicina convenzionale molto tempo fa. Ora mi occupo di medicina alternativa e sono specializzata in rimedi naturali». Richard aggrottò la fronte. Non riusciva a capire perché una persona non volesse più essere un vero dottore. Riusciva a immaginare la reazione di sua madre. 'Ciarlatana' l'avrebbe chiamata; 'robaccia senza senso'. C'erano più medicine nel suo armadietto del bagno che nello scaffale di una farmacia. «Per oggi basta». Meg si alzò, spazzolandosi via erba e terriccio dalle ginocchia. «Ti va una tazza di tè? Credo che ce la meritiamo». Richard la seguì in casa. Poteva anche aspettare qui che Clio tornasse. Il tè era fatto di erbe fresche che lei aveva messo in infusione. «Abbiamo anche tè normale, se preferisci». Richard scosse la testa. Non aveva voglia di tè normale. Voleva essere come loro. Se questo era il tè che bevevano, allora l'avrebbe bevuto anche lui. Arricciò il naso all'odore aspro e penetrante, ma era determinato ad assaggiare il liquido verde oliva che lei gli offrì. «Salvia e rosmarino». Meg rise dell'espressione sulla sua faccia. «Non ti preoccupare, non ti sto avvelenando. Aspetta, che ti aggiungo una cucchiaiata di miele. Fa bene al sangue». Soffiò via il vapore dalla cima della sua tazza. «Dev'essere un po' sconcertante per te, con tutta questa gente nuova. Quando siamo tutti insieme siamo una bella tribù». Richard bevve un sorso sperimentale e si domandò se c'era qualche altro modo di liberarsene, oltre che berlo. Quella era una strana famiglia. Gli tornò in mente ciò che aveva detto Clio: Lucia era la figlia della migliore amica di Meg ed era praticamente una bambina quando Jay l'aveva portata con sé in Italia. Si domandò se a Meg fosse dispiaciuto. Se era così, non lo
dimostrava. Forse non più, perché era successo molto tempo prima, ma allora? Si chiese come si fosse sentita quando era accaduto. Nel posto da cui veniva Richard, sarebbe stata 'affranta'. Come la zia Rosie della porta accanto, quando zio Jeff era scappato con quella donna del suo ufficio. Era successo anni prima, ma lei era ancora in lacrime. «Non lo supererà mai» era stato il verdetto di sua madre. Uno scandalo di prima categoria. Se ne parlava solo a bassa voce, se se ne parlava. Nel mondo di Richard, quel tipo di rottura portava più amarezza di ogni foglia o radice del Giardino delle Streghe. Qui invece sembravano essere tutti grandi amici. Richard non riusciva a capirlo. Meg stava parlando delle 'ragazze', le sue figlie adulte Naeve e Freya, dei loro compagni attuali, degli ex e di tutti i nipoti. Richard perse il conto dei loro nomi dopo pochissimo. Non stava davvero ascoltando. Era troppo occupato a pensare a Clio, a chiedersi dove fosse. Probabilmente era con quel Martin. Richard l'aveva osservato di proposito la notte prima. Era giovane, non molto più grande di lui, con lunghe membra ossute che sembravano muoversi di loro volontà, e gli davano una strana camminata dondolante, come un personaggio dei cartoni. Aveva una bruttissima acne, le guance erano coperte di brufoli e macchie rossastre che cercava di nascondere con una roba colorata che aveva tutta l'aria di essere trucco. Era un fasullo, decise Richard; come faceva lei a non capirlo? Aveva i capelli rasati e portava Doc Martens alte, jeans neri attillati, maglietta e bretelle, perciò poteva sembrare uno skinhead, ma gli orecchini e l'accento facevano a botte con quell'idea. Richard non sopportava le persone che fingevano di essere qualcosa che non erano. Odiava il modo in cui quel tizio ciondolava in giro con quella Nikon con l'obiettivo enorme, che gli pendeva all'altezza dell'inguine. La notte prima era stato ovunque: si arrampicava sulle persone, si metteva in mostra, attirava l'attenzione su di sé, faceva foto, inquadrava con le dita, ballava intorno a Clio come un idiota. Ma probabilmente a lei piaceva. Probabilmente ora era con lui. Proprio in quel momento. «Per pranzo arriverà un'altra truppa» stava dicendo Meg. «Amici da Londra. Jay non va più in città, così devono venire loro da lui». Si alzò dalla sedia. «Di Lucia nessuna traccia. Sarà meglio che mi occupi del pranzo». Si allontanò verso la cucina, con le labbra strette. Poteva essere disapprovazione? Forse dopotutto un po' di tensione c'era anche lì. Richard si alzò per andarsene.
«Non c'è bisogno che te ne vai» gli disse lei. «Rimani per pranzo, li conoscerai tutti». Era esattamente il motivo per cui aveva deciso di defilarsi. Forse riusciva a convincere Clio ad andare con lui da qualche parte. «Clio dovrebbe tornare tra poco. Non so dove possa essere andata». Nemmeno Richard lo sapeva, e il non saperlo acuiva il suo inquieto disagio. Voleva incontrarla comunque. La voglia di vederla, anche se per poco, era un bisogno costante, un desiderio dentro di lui, come per certe persone era la droga o le sigarette. Sedette sul divano, sentendosi sempre più a disagio. Ancora nessun segno di Clio. Davanti a lui comparvero due bambini piccoli, di quattro o cinque anni, con i capelli lunghi fino alle spalle, e solo delle canottiere sporche addosso. Non parlarono, ma si limitarono a fissarlo con occhi da gufo. Il maschio si trascinava dietro una coperta grigia macchiata e si succhiava il pollice. L'altra si esplorava il naso con l'indice della mano destra. Richard non conosceva molti bambini piccoli. Cercò di sorridere e disse: «Ciao, come ti chiami?» ma non andò molto lontano. Così cercò di guardarli altrettanto fisso. Vinsero loro. Chiuse gli occhi, fingendo di dormire. Un dito umido gli toccò la guancia, poi cercò di farsi strada nella sua bocca. Lui si alzò rapidamente a sedere. Il viso della bambina era a pochi centimetri dal suo, con una bolla di muco che spuntava dalla sua piccola narice incrostata. Richard si alzò in fretta. Fuori, la ghiaia scricchiolò sotto le ruote di una macchina. Un motore ruggì e poi tacque mentre il guidatore spegneva l'auto. Sembrava potente. Stavano arrivando altre persone in macchine di lusso. Era decisamente ora di andare. Mentre usciva, sentì la voce di Clio e qualcuno che rispondeva. Un uomo. Si fermò, combattuto tra la voglia di andarsene prima che lei lo vedesse e la voglia di vedere con chi stava parlando. «Non capisco perché Hammond ti fa guidare la sua macchina». Clio stava ridendo. «Guidi come un pazzo!» «E allora?» La voce si fece più chiara, stavano venendo verso di lui. Era un ragazzo, doveva essere Martin. «Lui guida come una vecchia signora. È un peccato sprecare una macchina come quella», E infatti, Martin girò l'angolo camminando all'indietro e scattando fotografie. «Conosco un tizio» stava dicendo. «Lo chiamano Tom. Lui può fare molto per te. È così con un sacco di agenzie». Sollevò due dita incrociate.
«Dovremmo fare una sessione, mettere insieme un book. Tu hai quello che ci vuole, Clio. Credimi. Lo so». Clio portava un cesto pieno di scatole di uova e bottiglie di latte. Rideva, scuotendo la testa. «Non fare lo stupido» disse. «Dico sul serio! Posso...» Richard doveva passare davanti a loro, oppure tornare indietro a sedersi. Al di là della porta, i bambini dagli occhi di gufo lo fissavano ancora. Una era appollaiata sul divano, e sotto di lei si allargava una macchia umida. Richard preferì tentare la sorte fuori. Probabilmente l'avrebbero ignorato. Lui non era un fotografo. Lui non conosceva un tizio di nome Tom che avrebbe potuto fare molto per lei, che era così con tutte le agenzie. Lui era solo uno scolaro. «Ciao, Richard». Clio sorrise quando lo vide. «Ehi! Dove vai?» «Io, ehm, devo andare» disse lui superandoli. «Chi è quello?» sentì che chiedeva Martin. «È Richard. È un amico. Ehi, Richard! Torna indietro!» «Davvero?» disse Martin con voce strascicata. «Pensavo che fosse un boy scout che si era perso. Ciao ciao!» gridò quando Richard si voltò. Poi scoppiò a ridere, una specie di nitrito stridulo, e lo salutò agitando le dita flosce. Richard rispose con il solo dito medio e scese giù per le scale. Testa di ragazzo (1) (Joe) (1960) Matita su carta marroncina 17,5 x 17,5 cm The Dalton Estate Jethro Arnold Dalton R.A. (1916-1976) Testa di ragazzo (2) (Richard) (1976) Carboncino e inchiostro 29,7 x 42 cm The Dalton Estate Jethro Arnold Dalton R.A. (1916-1976) Questi due studi (pannelli 31, 32), uno di un bambino, l'altro di un
adolescente, ci ricordano che Dalton ha dato il suo meglio nella rappresentazione della giovinezza. Questi affascinanti disegni mostrano una soavità e una freschezza della visione che negano la loro apparente semplicità. L'esecuzione delicata e tenera dell'artista non fa che aumentare la scaltra probità nella sua definizione del carattere. Il modo in cui cattura l'accenno di broncio nel viso del bambino, il nervosismo smanioso dell'adolescente, appare privo di sforzo, ed è qui che la grandezza di Dalton è al suo culmine. Non permette mai alla bellezza fisica del soggetto, o alla sua apparente innocenza, di offuscare la chiarezza della sua visione. Qualcosa della vita interiore del soggetto e della sua personalità traspare in ogni caso. (Dalton: Una vita in pittura, J.R. Pyne; Phaeton, Londra 1980) Richard tornò a Wish House nel primo pomeriggio, giusto in tempo per vedere la Sunbeam Alpine convertibile bianca che usciva dal cancello. I capelli di Clio ondeggiarono, con un riflesso metallico alla luce del sole. Forse guardò nella sua direzione, ma la macchina non si fermò, e nemmeno rallentò. Lei continuò a ridere e a parlare con Hammond, che era alla guida. Nemmeno lui guardò nella direzione di Richard. Il suo grosso orologio splendeva sul polso abbronzato mentre girava lo sterzo. Martin sedeva dietro, con le gambe divaricate e le ginocchia sollevate, piegate in due come graffette. Anche lui ignorò Richard, fissandolo senza vederlo mentre la macchina sfrecciava via. «Cercavi Clio?» Joe era seduto a gambe incrociate sul prato, circondato dalla sua attrezzatura sonora. «L'hai mancata per un pelo, amico. Hammond conosce un tizio che ha uno yacht a Saundersfoot. Sono andati tutti in macchine diverse». Richard non disse che l'aveva vista. C'era voluto parecchio per inghiottire il suo orgoglio e tornare indietro. Per poi rimanere fregato in quel modo. Si sentiva un idiota. «Anche Jay è andato?» Per qualche motivo, Richard non riusciva a immaginarselo su uno yacht. «Nah». Il viso sottile di Joe si aprì in un sorriso. «Non sopporta le barche. È su nel suo studio». «Oh». Richard si guardò intorno, sentendosi ancora di più una ruota di scorta.
«Puoi aiutarmi, se ti va. Mi farebbe comodo un altro paio di mani». Accennò con la testa alla profusione intricata di cavi. «Devi essere una piovra per manovrare questa roba». «Che stai facendo?» «Cerco di cavare più suono da questi». Batté su uno degli altoparlanti. «Ho un ampli nuovo. L'ho preso stamattina. Sto cercando di capire che cosa ne posso ricavare. Il problema è che non so se il resto del sistema lo regge». Richard distingueva a malapena i bassi dagli alti, ma gli andava di maneggiare cacciavite e spinotti, non avendo niente di meglio da fare. Lavorarono insieme senza parlare molto. «Ti piace questa roba?» domandò Richard per rompere il silenzio. «Ah sì. Sì, mi piace». Joe alzò la testa. Aveva gli stessi occhi di Clio. Lo stesso viola, con le ciglia lunghe. Sorrise. Aveva i denti un po' storti. «Il vecchio mi ha mandato al college a fare Fondamenti dell'Arte, ma facevo schifo, mica come la piccola Miss Picasso. Sono passato a Ingegneria Elettrica. Il vecchio pensava che fossi matto. Lui non sa nemmeno cambiare una lampadina. Ho lavorato con dei gruppi ogni tanto, gli curo il suono. L'ultimo si è sciolto. Adesso mi guardo intorno e aspetto di vedere che succede. E tu? Che vuoi fare?» «Non lo so. Sono ancora a scuola». «Ah, okay» rispose Joe, come se quello spiegasse tutto e niente. «Tieni». Porse a Richard un fascio di cavi. «Inseriscili là, là e là». Richard seguì le istruzioni di Joe. «Ora siamo pronti». Joe si alzò da terra. «Che ti va di sentire?» «Hai qualcosa dei Cream?» Joe srotolò un lungo cavo fin dentro la casa. «Una canzone in particolare?» «Strange Brew?» chiese Richard, ripensando a quella mattina. «Ecco un ragazzo che mi va a genio!» Joe fece balenare il suo sorriso e gettò indietro i capelli lunghi. In quel momento somigliava in modo inquietante a sua sorella. «Anche a me piace quella canzone. Affare fatto!» Esplosero gli accordi iniziali. Richard era seduto accanto all'uscita dei bassi. Il suono profondo era così forte da scuotere il terreno e vibrare dentro di lui. «Che ne dici?» Joe tornò ballando. «Forte, eh?» Il pezzo finì in un fragore di chitarre e frusciando iniziò I Feel Free. Richard canticchiò e batté le mani, e poi cominciò a suonare la batteria sul
bordo di legno dell'altoparlante, mentre Joe saltava per tutto il giardino cantando e fingendo di suonare la chitarra. «Che diavolo succede?» Una finestra sì aprì di sopra, e Jay mise fuori la testa. «Per la miseria, Joe, spegni quell'accidenti! Sto cercando di lavorare. Non sento neanche i miei pensieri!» La finestra si richiuse di schianto. Joe aspettò che il pezzo finisse e rientrò in casa. «Troppa distorsione, comunque» disse, tornando fuori. «Devo aumentare gli alti in qualche modo». La finestra si riaprì. «C'è Richard lì con te?» La voce di Jay risuonò alta nell'improvviso silenzio del giardino. «Voglio vederlo. Vieni su». Richard si alzò, pronto a ubbidire all'ordine. Joe alzò la testa dai cavi che stava cominciando a sguainare. «Perché ti vuole? Vuole che posi?» Richard annuì. All'improvviso si sentiva nervoso. Aveva la bocca arida e le gambe molli. «Dov'è esattamente il suo studio?» Non era mai stato di sopra. «Su per le scale, a sinistra. Devi passare per la botola». «Bene». «C'è una tribù da qualche parte». Joe torceva il lucido filo elettrico tra le dita sottili e forti. «Sud America? Africa?» Scrollò le spalle, come se non fosse poi così importante. «Credono che fare un ritratto sia come rubare l'anima. Stai attento. A me mi dipingeva sempre quand'ero piccolo». Jay ritirò la scaletta con una corda. La botola si chiuse di schianto. «Tiene lontani i curiosi». Jay rise vedendo l'espressione di Richard. «Non fare quella faccia preoccupata! Non intendo farti nulla di male. Non mi piace essere disturbato mentre lavoro, ecco tutto». Una serie di lucernari era stata aperta sul lato del tetto che dava a nord, il che dava a quella parte della stanza un'aria diversa, fragile, come una serra. La luce cadeva in lame oblique, dando una brillantezza morbida alle assi scure e lucide del pavimento. La pittura era sgocciolata, schizzata e sbavata ovunque. Rovinare un bel pavimento come quello. Alla madre di Richard sarebbe venuto un colpo. Un grosso e antiquato telescopio di ottone stava accanto alla finestra aperta, orientato verso il mare. Una lunga matassa di alghe, appesa al lucernario, rilasciava un leggero odore di ammoniaca dalle foglie che avvizzivano al calore.
Due grandi cavalletti erano disposti ad angolo con un lungo tavolo costituito da una vecchia porta appoggiata su un paio di sostegni. Accanto al punto dove lavorava l'artista la superficie era incrostata di catene montuose di colore in miniatura. Tubetti metallici ritorti e stritolati sputavano colore e c'erano pennelli di diverse dimensioni ammucchiati come in un gioco di shanghai. Un paio di vasi dall'imboccatura larga, sporchi di salsedine, stavano accanto a un mucchio di bottiglie dai tappi di sughero, contenenti trementina e olio di lino dorato, il cui vetro lavorato era appannato e pieno di impronte di colore. Schizzi e disegni erano sparsi ovunque, e il pavimento sotto il tavolo era coperto di stracci appallottolati, macchiati e rigidi come bende sporche. Su uno dei cavalletti c'era una grande tela coperta da un lenzuolo; Richard immaginò che fosse il ritratto di Clio. Gli sarebbe piaciuto da morire poter dare un'occhiata, ma non chiese nemmeno. Sapeva già che una tale richiesta sarebbe stata respinta. L'altra tela era bianca. «Hai pranzato?» «No» rispose Richard spiazzato, chiedendosi se l'artista volesse offrirgli qualcosa. Non voleva. «Bene. Non voglio che la tua pancia sporga come quella di una scimmia obesa. Non fare quella faccia preoccupata». L'artista dette una risata ansante. «Non ti devi togliere le mutande per me, ragazzo. Basterà solo la maglietta. Ora mettiti in piedi lì». Richard fece come gli diceva. «No». L'artista cambiò idea. «Siediti sullo sgabello. Non così. Più rilassato. Non ti afflosciare! Sembri un burattino con i fili tagliati. Tieni la schiena dritta. Giù le braccia. No. Una mano sul ginocchio. Guarda di là. No. Guarda me». L'artista gli girò intorno, abbaiando ordini, manipolando e cambiando la sua posizione finché fu soddisfatto. Si avvicinò, e poi ancora, guardandolo da angoli diversi. Poi fece un passo indietro e rimase immobile, con il mento sulla mano. I suoi occhi sembravano farsi enormi e poi stringersi, come l'otturatore di una macchina fotografica. «Così va meglio. Va bene. Ora non muoverti». Non tornò al cavalletto, ma tirò fuori da sotto il tavolo una vecchia sedia di cucina macchiata di colore. Cercò a tastoni il carboncino e il blocco senza staccare gli occhi da Richard. «Non ti voltare! Rimani come stavi. Bene. Così è bello. Non ti
spostare di un millimetro. Non muovere un muscolo finché non te lo dico io». Era seduto con la caviglia sinistra sul ginocchio destro. Era mancino, notò Richard, con i polsi grossi e le braccia forti per un uomo della sua età. Si mise il blocco in grembo e cominciò a disegnare, parlando a malapena fino alla fine della seduta. Una mosca ronzava, continuando a sbattere contro il vetro di una finestra. Gli unici altri suoni erano il rumore del carboncino che Jay strusciava sulla carta e lo strofinio del pollice che sfumava le linee. Un pennino d'acciaio che scricchiolava e grattava quando passò a penna e inchiostro. La carta strappata dal blocco e appallottolata, foglio dopo foglio. L'artista sibilava fra i denti e mormorava man mano che ogni disegno scivolava dal suo grembo al pavimento. Ogni minimo movimento di Richard veniva notato, e rimproverato; per il resto, l'artista lo ignorò. Un profondo pulsare di basso veniva dal piano di sotto. Joe era riuscito a far andare il suo stereo. Richard cercò di individuare la canzone, aspettando che l'artista urlasse di nuovo. Non sembrava sentire né vedere nulla a parte Richard e il foglio davanti a sé. «Ecco fatto». L'artista smise di disegnare e lasciò scivolare il blocco dalle ginocchia sul pavimento. Pareva stanco. Aveva gli occhi chiusi e il volto tirato. Anche Richard era piuttosto stanco. Strano come lo stare fermo tanto tempo ti esaurisse, pensò mentre si rimetteva la maglietta. «Ci vediamo domani alla stessa ora». Jay riaprì gli occhi. «Mettiti la roba che portavi il primo giorno». La giornata era ancora calda e il cielo luminoso, ma Richard fu sorpreso quando guardò l'orologio e vide quanto tempo era passato. «Come sta andando?» Joe stava ancora trafficando con il suo impianto stereo. «Senti questo!» Premette un bottone e il suono esplose. «Fantastico!» «Sì. Tutto bilanciato, e ancora non è esploso nulla». Si sfilò la sottile maglietta nera dal petto magro. Portava dei vecchi jeans, bassi sui fianchi, tagliati appena sopra le ginocchia. «Fa caldo. Ti va una nuotata?» «Non ho il costume». Joe sbuffò. «Non ti serve. Tanto non lo porta nessuno». «Nessuno?» Richard ebbe un tuffo al cuore. «Clio?» «È tornata un secolo fa. Sono tutti giù in spiaggia».
«E lo yacht?» «Hammond ha sbagliato marea. Il tizio se n'era già andato. Io vado a prendere un asciugamano. Tu vieni, Rick?» «Devo andare». Richard fece per andarsene. «Un'altra volta». «Okay. Vieni domani?» «Penso di sì». Lo sguardo di Richard andò verso le finestre della mansarda. «Ci vediamo, allora. E grazie per l'aiuto, amico». Joe gli strinse la mano. «Ciao, ci vediamo». Richard ricambiò la stretta, felice di sentirsi chiamare Rick. «Che fai, Richard?» disse sua madre da fuori, mentre Richard apriva e chiudeva sportelli. «Cerco il binocolo di papà». «A che ti serve?» «A guardare gli uccelli». Era solo una mezza bugia. «Dylan dice che c'è un falco che ha fatto il nido nella scogliera, dopo Hope Bay». «Mica esci di nuovo?» Era in piedi sulla porta ora, e lo guardava. «Pensavo giusto a cosa fare per il tè». «Che si mangia?» Richard non vedeva tracce di cibo in preparazione. «Tramezzini. Pensavo che qualche tramezzino ci sarebbe stato bene. Una cosa leggera. Fa troppo caldo per il resto». «Non ho fame». Il ripieno dei tramezzini era disgustoso. Una specie di insalata russa con delle cose dentro che parevano vomito. Il binocolo era appeso a un gancio nell'armadio, dietro la giacca impermeabile di suo padre. «Torno più tardi». Si allontanò prima che lei potesse fare altre obiezioni. Era sdraiato sulla scogliera, e li guardava, sparpagliati in giro come una tribù del deserto su un mosaico di asciugamani e teli. Cercò Clio, ma non riuscì a vederla. Fu sollevato di non trovarla lì, perché per la maggior parte erano nudi, come aveva detto Joe. Sapeva che era sbagliato, ma non voleva vederla in quel modo. Non in pubblico. Trovò Martin, che spalmava l'olio sulla schiena abbronzata di Hammond. Lucia stava facendo lo stesso con Joe. Spostò il binocolo. Accanto ai due uomini c'era un asciugamano vuoto. Mancava qualcuno. Poteva essere una cosa a tre. La gelosia lo assalì. Poteva essere Clio. Osservò il resto del gruppo. Meg e le figlie, i nipoti che scavavano enormi crateri e costruivano castelli di sabbia molto più vicino all'accam-
pamento degli adulti di quanto sua madre gli avrebbe mai permesso. Erano così diversi dalla sua famiglia. Da tutti quelli che conosceva. Parlavano a voce alta, tanto per cominciare; le voci arrivavano fin lì. Sembravano del tutto inconsapevoli delle altre persone intorno. Nessuno diceva mai all'altro di tenere bassa la voce, non saltellavano in circolo, cercando di ficcare un piede in un paio di mutande mentre si vestivano dentro un asciugamano. Non gliene importava di cosa dicevano gli altri, né di cosa pensassero di loro. Erano così a loro agio insieme, a spalmarsi d'olio l'un l'altro. Nella sua famiglia non si usava nemmeno; loro si bruciavano e basta. Era così che la chiamavano, scottatura, non abbronzatura. Lucia e Meg in particolare sembravano incapaci di parlare con qualcuno senza stargli addosso, come se quella fosse una parte vitale della conversazione. Si trattavano con un'intimità che sembrava del tutto naturale, ma era inimmaginabile nel mondo che Richard conosceva. «Nulla è celato. Nulla è proibito». Non aveva detto così Lucia? Parlavano senza sosta di tutto. A differenza della sua famiglia, dove il silenzio era d'oro e le cose avvenivano sotto una superficie lucida e intatta, come un tavolo di formica da colazione decorato con un facsimile di vita familiare moderna. «Che fai quassù?» Doveva essersi addormentato. Si svegliò di soprassalto e vide Clio china su di lui, il pareo aperto. Sotto, era nuda. «Ah, ecco. Spiavi». Prese il binocolo. «Che senso ha? Perché non vieni giù con noi?» Si distese anche lei, puntando il binocolo sul gruppo di sotto. «Ehi! Questo sì che è interessante!» Rise. «Come un programma che ho visto su una colonia di scimmie, in Giappone mi pare. Vivevano vicino al mare. Perché te ne sei andato stamattina?» «Perché stavi con quel tizio». «Quale tizio?» domandò Clio in tono tagliente. «Martin». Richard non voleva guardarla. Il suo cambiamento di tono doveva ammettere qualche colpa. «E poi oggi pomeriggio te ne sei andata con lui in macchina». «Martin!» Parve sorpresa. «Non devi essere geloso di Martin». Continuò a guardare nel binocolo. «È solo chiacchiere. Non conosce nessuno nella moda, è solo uno studente. E oltretutto, non è interessato a me». «Ah davvero?» disse piano Richard. «Esiste un ragazzo che non lo è?»
«Be', ecco. Lui non lo è. Tanto per cominciare, è mio nipote. Cioè, mezzo nipote, una specie di nipote acquisito». «Nipote?» Come poteva essere? «La mia famiglia è complicata, te l'ho detto. Lui è il figlio maggiore dell'ex compagno di Naeve. Ed è gay, tanto per dirne un'altra. O perlomeno crede di esserlo». «È un finocchio?» Richard le tolse di mano il binocolo. «Fammi vedere. Come fa a non saperlo?» Mise meglio a fuoco. «O lo sei o non lo sei, pensavo». «Non è sempre così semplice. Non tutti sono come te. Sta dietro a Charles Hammond». «Quello con i baffi alla Che? Ma è vecchio! Non dirmi che pure lui...?» Clio scrollò le spalle, gli occhi ombrosi, enigmatici. «Che vuoi dire?» «Sì, insomma, una checca». Richard li studiò con attenzione. «Non ne avevo mai vista una vera prima». «Non parlare così». Gli tolse il binocolo. «Non sono animali dello zoo». «Sei stata tu a cominciare». Richard si girò per guadarla. «Allora, lo è?» «No, non credo». Lei guardava di nuovo nel binocolo. «Anche se passa molto tempo in Marocco. È un vecchio amico di Jay, o lo era una volta. Era suo allievo. È entrato in pubblicità, ha fatto un sacco di soldi. Ora è un mercante. Ha una galleria. Vuole dei dipinti da Jay, ma lui non vende. Non gli piacciono molto i mercanti. Li chiama piranha. Lui pensa che Hammond si sia venduto». A Richard non interessava molto. «Che volevi dire?» domandò. «Sul Marocco. Cioè, stanno tutti lì?» «L'omosessualità è accettata come un fatto piuttosto naturale, se è questo che intendi. Non voglio che ne parli in quel modo. E comunque, sono quasi completamente certa che Hammond non lo sia». «Come fai a esserne così sicura?» domandò Richard, più che altro per curiosità. Perfino i suoi sospetti non si estendevano agli uomini anziani. «È stato l'amante di Lucia per un po'. E...» «E cosa?» «È stato l'amante di Lucia. Non basta?» Clio continuò a guardare nel binocolo. «E comunque Martin non potrebbe interessargli». «Perché no?» «Perché è troppo brutto. Lo stesso motivo per cui non interessa a me». Si staccò il binocolo dagli occhi e lo rovesciò. «Come sei piccolo. Piccolo ma perfettamente formato».
«Ma Jay e Lucia». Richard rotolò via, non voleva che lei lo prendesse in giro. «Sono sposati. Sembrano felici insieme. Perché...?» Lei sospirò e mise via il binocolo. «Perché si prendono altri amanti? Che te ne importa?» «È che non capisco». «Perché devi capire tutto? Sono diversi, punto e basta. Fanno un tipo di vita diverso. Perché non riesci ad accettarlo? E poi, non sono affari tuoi, quindi perché ti preoccupi?» Richard si sentì azzittito, ammonito, ma poi lei lo prese per mano e lo attirò a sé. «Non fare quella faccia. Lo so». Si alzò in piedi, tirandoselo dietro. «Andiamo in un posto un po' più privato». «Vuoi continuare a vedermi?» disse quando furono soli in un posto tra le dune. «Certo!» Richard la guardò negli occhi. «Allora devi smettere di essere così possessivo e geloso». Gli prese un ricciolo e se lo rigirò fra le dita. «Non lo sopporto. Quando c'è gente, devo restare a casa per aiutare Lucia. Oltretutto, è la mia famiglia. Non posso stare esclusivamente con te». Si alzò, avvolgendosi nel pareo. «Vieni giù con me». Tese la mano per farlo alzare. «Vieni a conoscere tutti. Ti piaceranno». Richard andò con lei, anche se non voleva dividerla. La voleva solo per sé. Il suo desiderio era come un fuoco, ma era bravo a nasconderlo. Era tutta la vita che nascondeva le cose. Fante di Bastoni Mazzo di Waite Aspetto tradizionale: un giovane in piedi, all'aperto, che tiene un bastone in verticale, con entrambe le mani. È rappresentato di profilo, con indosso una corta tunica e un mantello lungo fino al ginocchio. Sulla testa porta un berretto floscio. Significati divinatori: Dritto: ambizioso e pieno di risorse, entusiasta e adattabile. È un messaggero che porta buone nuove, notizie stimolanti, pettegolezzi arguti. È per natura fedele e fidato, forte nel servire, chi ha autorità su di lui.
Rovescio: Porta informazioni fuorvianti e pettegolezzi calunniosi, e semina scandalo. È incapace di mantenere un segreto e tradisce prontamente la fiducia. È superficiale, anche se si ritiene profondo. (I Tarocchi, Alfred Douglas e Victor Gollancz, 1974) Carta dei tarocchi conservata nel taccuino di Clio Dalton con i significati divinatori (agosto 1976). Seguiti da RICHARD (sottolineato tre volte). Se la voleva, se voleva stare con lei, doveva diventare parte della mutevole comunità che faceva capo a Jay e a sua moglie. Clio l'aveva detto chiaramente. Quella si stava dimostrando un'estate eccezionale, e gli ospiti arrivavano e restavano, trattenuti dalla successione delle lunghe giornate calde, dalla bellezza del luogo. Non solo familiari. Lucia e Jay avevano molti amici: allievi passati e presenti, altri artisti, ragazze magre in abiti filiformi accompagnate da giovani in nero, hippy dai capelli lunghi, uomini più anziani, con barbe e occhialetti cerchiati d'acciaio, mogli incinte e orde di bambini al seguito. Richard li osservava andare e venire in una parata di vecchie auto, furgoni e camper Volkswagen. A volte non c'era abbastanza spazio, così dormivano sul pavimento, si accampavano in giardino o sulla spiaggia, oppure affittavano una casa in paese. I pomeriggi si trascorrevano in spiaggia. Richard cominciò a imparare a non badare troppo a se stesso e faceva il bagno nudo come gli altri. I suoi capelli si schiarirono al sole spietato e la pelle divenne dorata. Non vedeva l'ora di spiegarne il motivo nelle docce, a scuola. C'era un prezzo da pagare per essere incluso in quella festa senza fine. Richard doveva passare parte della giornata a posare per Jay. Doveva indossare gli stessi abiti che portava quel primo giorno. «Rilassati» disse il pittore. «Non ti voglio rigido come un manichino solo perché ora cominciamo a dipingere. Che ti ho detto prima? No, no, no». Scosse la testa davanti agli sforzi di Richard di accontentarlo. «Sembri una ragazzina che deve andare al bagno. Aspetta». Jay andò a spostarlo. Era molto più rigoroso di quando faceva solo degli schizzi. Richard sentiva mani forti che lo afferravano, tirando, spingendolo in posizione come se fosse stato una specie di giocattolo di gomma. «Così va meglio». Jay fece un passo indietro, accarezzandosi la barba,
fissando di nuovo Richard con il suo sguardo da obiettivo fotografico. «Così va bene. Ora rimani fermo. È tutto nello sguardo. Gli artisti guardano diversamente. Usano gli occhi nel modo giusto. Ricordatelo, ragazzo. Devi guardare con attenzione se vuoi vedere sul serio». Quella fu l'unica spiegazione che l'artista dette per aver messo Richard in una condizione così scomoda. Si sentiva assurdamente tirato, in una postura disperatamente innaturale. I muscoli già gli dolevano. Era sicuro di non poter restare così nemmeno un paio di secondi, figuriamoci per delle ore. Clio lo aveva avvisato che le sedute potevano andare avanti molto a lungo. «A lungo quanto?» aveva domandato lui. «Per tutto il tempo che lui ti vuole». Eppure l'artista non iniziava. Studiava Richard, con i suoi occhi neri e opachi, la fronte solcata da rughe profonde. Più lui lo fissava, più Richard si sentiva esposto. Sapere di non dover posare nudo era stato un sollievo, ma ora il fatto di avere i vestiti addosso non sembrava contare molto. Era come se Jay potesse vedere fino alla pelle, e anche oltre. Richard si sentiva scorticato dal suo sguardo, messo in un luogo al di là dell'imbarazzo. Gli occhi di Jay ebbero un guizzo, la fronte si distese. «Ecco! Ecco l'espressione che voglio!» Andò al cavalletto e cominciò a suddividere la tela, schizzando la figura di Richard. Lavorò in fretta, senza parlare, finché Richard fu licenziato con un secco: «Per oggi basta». Jay dipingeva tutto il giorno, come in preda a una frenesia: Clio al mattino, e Richard nel pomeriggio. A volte dipingeva tutta la notte, diceva Clio; lo sentivano camminare su e giù quando il lavoro non andava bene. Lucia era preoccupata, ma non avrebbe cercato di fermarlo. Jay faceva sempre ciò che voleva. Nulla poteva interferire con il suo lavoro. Le sedute erano intense. Richard non si abituò mai a posare, a differenza di Clio. Lo considerò sempre un disagio. In parte il motivo era fisico, poiché era costretto a mantenere la stessa posizione per quelle che a lui sembravano ore, ma il tempo che passavano insieme poteva essere inquietante anche per altri motivi. A volte Jay parlava, gli faceva delle domande. A volte lavorava in silenzio. «Ai tuoi genitori non dispiace che passi così tanto tempo qui?» Era una domanda che Lucia gli aveva posto molte volte. Richard aveva
cominciato a temere di star approfittando troppo della loro ospitalità, ma Clio aveva detto di no, che Lucia era solo preoccupata che i suoi genitori sentissero la sua mancanza. Questo l'aveva fatto sorridere. Suo padre andava a pescare tutti i giorni e non aveva particolarmente voglia di portarlo con sé. Sua madre non vedeva l'ora che se ne andasse. Riusciva a vederla, raggomitolata sulla sua sdraio. «Per l'amor del cielo, Richard». Non avrebbe alzato neanche gli occhi dalla pagina che stava leggendo. «Trovati qualcosa da fare, fammi il piacere. E smettila di ciondolare». «No» rispose Richard quando Jay glielo chiese. Aveva imparato a non scuotere la testa. «Mia madre dice che è la miglior vacanza che abbia mai fatto. Lei dice sempre che le vacanze servono a fare quello che ti piace, e a lei piace non fare nulla. Si siede fuori dal caravan a leggere sulla sdraio. È perché soffre di nervi» aggiunse a mo' di spiegazione. «Ha bisogno di riposo». Richard sospettava che la sua stanchezza e indifferenza fossero più dovute alle pillole che prendeva, anche se quando non le prendeva era ansiosa e irritabile, il che era molto, molto peggio. Richard e suo padre preferivano avere a che fare con lei come era adesso piuttosto che nell'altro modo: la preoccupazione costante senza motivo, gli attacchi d'ira e i cambiamenti di umore; ma non aveva voglia di raccontare tutta la sua storia familiare a Jay. E comunque, l'ultima cosa che voleva in quel momento era che sua madre si interessasse troppo a dove andava e a che cosa faceva. Avrebbe solo cominciato a interferire. «Cosa crede che tu faccia tutto il giorno?» «Crede che stia con Dylan». «Il ragazzo della fattoria?» Jay dette una risata roca. «Quello che condivide l'interesse di Lucia per l'orticoltura?» «Proprio lui». «Si è offerto di mostrarle un paio di rarità locali». Jay rise di nuovo. «Lei è molto entusiasta». Richard credeva di sapere che cosa stava succedendo e dovette resistere all'impulso di sorridere. Dopo il barbecue, Dylan aveva avuto difficoltà ad accettare l'idea di Richard e Clio insieme, ma non era tipo da tenere il broncio. Così aveva deciso di andare dietro alla madre. Lei era rimasta impressionata dalla sua conoscenza della storia locale, doveva avere accettato la sua offerta di mostrarle alcuni luoghi di interesse particolare. «Seduzione botanica» la chiamava Dylan.
Era un po' che non lo vedeva. Si domandò a che punto fosse arrivato con la sua campagna. Jay sapeva che cos'altro poteva succedere? E se sì, quanto gliene importava? E se gliene importava, quello che doveva tenere d'occhio era Hammond, piuttosto. Quando Richard veniva per le sedute, lo trovava sempre lì. «E tuo padre?» «Cosa?» «Tu sei qui. Tua madre è sulla sdraio. Cosa fa tuo padre tutto il giorno?» «Va a pesca». «E a te non piace pescare?» «Dipende. Non mi dispiace pescare dalla spiaggia, dai frangiflutti o dalla scogliera, ma a mio padre piace andare fuori con un tipo del villaggio che ha una barca. Non mi piacciono le barche. Mi viene il mal di mare sul lago». «Preferisci passare il tempo quassù con noi. Con Clio?» «Sì, direi di sì». Richard si sentì arrossire. «Perciò sei tu il responsabile di tutti quei lividi che ha sulla schiena». Richard arrossì ancora di più. «Sembra che tu le piaccia». Richard non seppe cosa rispondere. La conversazione tra loro morì. Sentiva addosso quello sguardo intenso, nero-blu. Non doveva muoversi, né girare la testa. Tuttavia, riusciva a sentire quando gli occhi dell'artista erano su di lui. A volte la sensazione era quasi fisica, come se gli grattassero via la pelle. A volte non parlavano affatto finché non arrivava il breve «Per oggi basta» a mandarlo via. Altre volte, come quel giorno, Jay era più loquace. La capacità di Richard di rispondere era limitata dalla sua posizione, il che rendeva quelle conversazioni piuttosto unilaterali. Comunque, non sempre riusciva a capire esattamente di cosa parlasse l'artista. «La transitorietà è la tragedia dell'artista» proseguì Jay dopo un lungo silenzio. «Gli artisti spesso collezionano oggetti, a volte in maniera compulsiva. Si aggrappano alle cose. Non vogliono lasciarle andare. Come i dipinti. Io non voglio separarmi da loro. Ce ne sono alcuni che non venderò a nessun prezzo. Non permetto a nessuno di vederli». I dipinti erano conservati su rastrelliere che si estendevano su tutto un lato della stanza. La maggior parte degli spazi erano occupati. Richard aveva fatto ipotesi su che cosa contenessero. Ora si domandava che cosa ci fosse di così speciale in quei dipinti, riservati solo alla visione privata. Per lui
non aveva senso. Come faceva un artista a guadagnarsi da vivere senza vendere le sue opere? Sembrava una cosa molto bizzarra. «Perché no?» domandò. «Non è quello lo scopo?» «Perché?» Gli occhi di Dalton erano terribili. «Non sono per loro. Guarda avanti!» sbottò. «Smettila di girarti!» Anche il minimo movimento lo rendeva irritabile. Richard ubbidì. «Se vendo un quadro, spesso devo dipingerlo di nuovo. Per me. Capisci?» Richard non capiva. «Come fa a fare soldi» chiese, «se non vende i quadri? Chi paga tutto?» Una risata riecheggiò dal petto di Jay. «Non ho detto che non vendo mai. Ne vendo abbastanza. Non sono solo io, anche altri lo fanno. Non ci piace il cambiamento e siamo possessivi. Forse è per questo che lo facciamo. Vogliamo restare attaccati alle cose. A un momento. Non vogliamo che passi. Vogliamo catturarlo, conservarlo per sempre. O una persona, il modo in cui era in quel momento. Ecco cosa voglio. Fermare il tempo. Avere questo potere». Richard sentì gli occhi lividi che lo fotografavano e cercò di non rabbrividire per il formicolio sulla pelle. «Tu sei già cambiato. La tua pelle è uno o due toni più scura, i capelli sono più lunghi e più chiari per il sole». Jay borbottava sempre sul suo colorito e sui capelli sbiaditi. Richard non aveva intenzione di rinunciare alle ore in spiaggia per l'arte. Si stava divertendo troppo. «Stai ancora crescendo, per cui sarai un po' più alto, avrai le membra più lunghe. Probabilmente sei cambiato anche in altre cose». Il suo esame attento divenne a un tratto di un'intensità bruciante. «Quindi il giardino del quadro, la casa sullo sfondo, ciò che contiene, queste cose non sono più una novità per te. È il cambiamento, capisci?» «Ma tenere le cose come sono è impossibile». «Lo so». Jay tornò a dipingere. «Ma questo non mi impedisce di volerlo. Tu non hai mai voluto qualcosa di impossibile, Richard?» «Non lo so...» mormorò Richard, consapevole che i suoi sogni privati di giocare a calcio nell'Aston Villa, far parte di una band, essere genericamente famoso, sarebbero parsi frivoli e volgari. «Sì che lo sai». Jay posò il pennello. «Tu vuoi che una ragazza come Clio ti ami». Prese lo straccio con cui si puliva le mani. Richard sentì l'odore della trementina. «Per oggi basta. Puoi andare». Ragazza con scialle giallo
(1955) Olio su tela 76,2 x 101,62 cm Tate Gallery Jethro Arnold Dalton R.A. (1916-1976) La modella per questo nudo è Lucy (in seguito Lucia) Ivanoff, la seconda moglie dell'artista. Lei è l'oggetto dell'osservazione intensa così tipica dell'opera di Dalton a quell'epoca: lo stile iperrealista e la meticolosa attenzione al dettaglio. Gli oggetti nella stanza, il tappeto a terra, la seta dello scialle, la carne e i capelli della modella, sono equamente analizzati e resi in un modo che serve sia a svelare che a nascondere. L'occhio dell'osservatore è sia attratto che distratto dalla ragazza sul letto. Il modo in cui l'artista gioca con lo sguardo dell'osservatore dà a questo dipinto la sua qualità magica ed erotica. ('Sguardo e Genere', A. Price, in Revisione radicale: Saggi sulla cultura popolare, a cura di A. Price e J. Stanley, Pandora Press, Londra 1980)
A volte, il lavoro non andava così bene. La seduta del giorno dopo fu interrotta praticamente subito. Jay sollevò il pennello, esitando, poi lo posò di nuovo. Lo fece più e più volte, posando il pennello con entrambe le mani, come se fosse uno sforzo, come se ci fosse qualche genere di entità o di forza racchiusa nel legno, come una bacchetta di nocciolo, o un bastone divinatorio. Alla fine il pennello si spezzò tra le sue mani. Gettò le due metà a terra e cominciò a camminare su e giù, imprecando. Infine tornò al tavolo, battendo i pugni sulla superficie, facendo rotolare e rovesciare gli oggetti. Un barattolo si infranse sul pavimento, versando del liquido. Richard cercò di non trasalire e mantenere la posizione, restando il più fermo possibile. Pensò che Jay fosse arrabbiato, ma quando l'artista finalmente si rivolse a lui aveva gli occhi pieni di lacrime. «Oggi non ce la faccio, ragazzo». Teneva le mani davanti a sé, con la sinistra che stringeva la destra. «È meglio che vada». Richard non ebbe bisogno di farsi pregare. Nel giro di qualche secondo era sparito, scivolando sulla scaletta a pioli per fare prima, sollevato di es-
sere fuori da lì, beandosi all'idea di passare il tempo con Clio. La scaletta fu ritirata appena lui arrivò in fondo, e la botola si chiuse con uno schianto. Andò in bagno per cambiarsi i calzoncini e la camicia. L'aertex e il kaki erano riservati al ritratto. Si mise i jeans. Li aveva tagliati alle ginocchia, con grande orrore di sua madre. «Che stai facendo?» aveva squittito, in un modo che aveva ricordato a Richard l'epoca precedente alle pillole. «Quei pantaloni sono perfetti! Li puoi portare ancora per anni!» Non era esattamente vero, perché Richard continuava a crescere, ma non disse nulla, scrollò le spalle e continuò a tagliare. Li voleva come quelli di Joe. Aveva adattato altre parti del suo guardaroba: strappato il collo delle magliette, e abbassato la parte posteriore delle scarpe da tennis. Scese di sotto, aspettandosi di trovare Clio, ma non c'era nessuno. «Oh, ciao!» Si voltò rapidamente, pensando che fosse Clio, invece era Lucia. A volte avevano proprio la stessa voce. Il sorriso gli si spense. «Non sono Clio, temo» rise Lucia. «Mi dispiace deluderti. Avete già finito?» «Mi ha detto di andare. Dov'è Clio?» «Stamattina c'è stato un problema. Jay l'ha fatta arrabbiare. Se n'è andata da qualche parte». Lucia sollevò le mani con i palmi in su, come a dire 'lo sai com'è fatta'. Richard annuì, come se avesse capito. Lei sapeva essere un tantino imprevedibile. Non era sempre in casa quando lui terminava la seduta, non sempre si presentava agli appuntamenti. Lui aveva imparato a non farle domande. Dopo il monito di lei, rispettava le regole. «Pensavo che Jay si sarebbe comportato meglio con te. Ovviamente non è così». Lucia sollevò l'orlo della gonna lunga e si avviò su per le scale. «È meglio che vada a vedere...» «Ha ritirato il ponte levatoio». «Oh, davvero? Allora doveva essere su tutte le furie, dico bene? Perché non rimani ad aspettare Clio? Sono sicura che non tarderà. Siediti. Fuori fa troppo caldo perfino per me. Ci prendiamo un po' di tè alla menta». Bevvero il tè in piccoli bicchieri di vetro. «Buono?» domandò Lucia. «Mmm». Richard assaporò il liquido dolce e profumato. «Diverso. Buono, però». Lucia sorrise. «Sono contenta che ti piaccia. È molto rinfrescante con questo caldo». Teneva il bicchiere con la punta delle dita e bevve un picco-
lo sorso prima di posarlo. «Ti piace essere ritratto? È strano, non è vero?» Richard annuì. «Ti fa un sacco di domande?» Richard annuì ancora. «Gli piace. Gli piace avvicinarsi al modello». «Com'era lui? Voglio dire, quand'era giovane?» «Non lo so». Lucia rise. «Non lo conoscevo allora. La prima volta che l'ho incontrato avevo dieci anni e lui trentaquattro. Però posso farti vedere una foto». Si alzò e andò a uno scaffale stipato di libri e riviste ammucchiate in orizzontale. «Un paio di anni fa c'è stata una retrospettiva. È un tipo di mostra speciale» disse a mo' di spiegazione. «Uno sguardo su tutta la vita dell'artista fino a quel momento. Da qualche parte c'è il catalogo... eccolo qua». Tirò fuori una grossa brossura, con gli angoli leggermente piegati, scatenando una valanga tra gli altri libri, che però ignorò. Tornò indietro sfogliando le pagine. «Eccolo». Si sedette accanto a Richard sul divano e tenne il libro aperto perché lui vedesse. Richard si chinò per guardare meglio. Con ogni seduta la sua curiosità era andata aumentando. Stavano insieme per ore ogni giorno. L'artista ormai sapeva tutto ciò che c'era da sapere su di lui, ma Richard non sapeva quasi nulla di Jay. Afferrò l'angolo del libro, curvando le pagine per la fretta di vedere. Il primo shock fu la mancanza della barba, le guance e il mento coperti da un'ombra bluastra. Richard non si era reso conto di quanto la barba facesse da maschera. Esaminò intensamente il volto. La bocca era finemente modellata, con le labbra piene: lo faceva apparire vulnerabile e molto giovane. Quello fu il secondo shock. Per un istante Richard pensò di stare guardando Joe. La stessa fronte ampia, gli zigomi alti e la mascella sottile. I folti capelli neri ricadevano sulla fronte alta. Gli occhi erano grandi, lucenti e scuri, come quelli di un falco, più acuti e molto più rapaci dello sguardo vago e violetto di Joe. «Assomiglia a Joe». Lucia sorrise. «Aveva più o meno la sua età quando ha dipinto questo». Sfogliò ancora le pagine. Il libro si aprì sul nudo di una giovane donna. «Indovina chi è». Ragazza con scialle giallo (1955). Richard non ebbe bisogno. Così nuda. Così bella. Così inquietantemente simile a Clio. Richard si agitò sul divano, messo a disagio dalla vicinanza di Lucia. «Avevo sedici anni». Lucia si appoggiò allo schienale, con il libro aper-
to sulle ginocchia. «Un po' più grande di Clio. I miei genitori sono artisti. Mia madre è una ceramista, mio padre fa incisioni, illustrazioni. Avevano messo su una comune con altri artisti, nel profondo Wiltshire». «Vivono là adesso?» domandò Richard. «No». Lucia scosse la testa. «Si sono trasferiti in Cornovaglia anni fa». «Come ha conosciuto Jay?» «Meg era un'amica di mia madre. Erano state a scuola insieme. Lei e i ragazzi si unirono alla comune. Jay veniva nei fine settimana». «Che tipo era?» Richard voleva sapere di più di quanto poteva rivelargli un ritratto. «Elettrico. Carismatico. E aveva questa specie di lucentezza. Era un fusto, credo che sia questa la parola che usavamo allora». Il suo viso si addolcì e gli occhi scintillarono, come se fosse stata di nuovo giovane come nel ritratto. «Te ne accorgevi, quando entrava in una stanza. Aveva un modo di guardare che faceva sì che la gente volesse essere notata da lui, volesse compiacerlo. A parte quello, era... schivo. Le sue visite erano rare, casuali. A volte veniva...» si strinse nelle spalle, con il viso velato da un'antica delusione, «a volte no. Non gli piaceva stare a lungo lontano da Londra. Poi tutto a un tratto, decise che ne aveva abbastanza della città e che voleva lavorare in pace e tranquillità». Guardò il libro sulle sue ginocchia. «Mi aveva già ritratta, ma non così». «E cosa ha pensato?» «Ero terrorizzata». Rise. «Ma lui rese le cose facili. Sa essere sorprendentemente gentile. Nelle prime sedute non dipinse affatto, voleva solo conoscermi, mettermi a mio agio con me stessa, con il mio corpo e con lui. È stato bello. Riuscì a creare un'intimità profonda tra noi, che non aveva nulla di sessuale. Quello venne dopo. Fu incredibile. Con gli abiti mi toglievo la normalità quotidiana. Lui mi faceva sentire straordinaria. Sembrava riuscire a vedermi nel profondo. Quello sguardo così intenso, che si avvicina sempre di più... ma tu lo sai, vero?» Richard annuì, anche lui sentiva quello sguardo. «Mi chiamava la sua musa. Clio si chiama come una delle muse, te l'ha detto?» Richard scosse la testa. «Alla fine andammo via insieme. Creammo un po' di scompiglio allora, ma ora è tutto a posto». Girò ancora le pagine, mostrando altri studi di nudo. «Sono anni che non mi dipinge. Specchio, specchio delle mie brame...» Sorrise, e Richard vide le linee sottili attorno agli occhi. «Ora ha un'altra musa». Nel silenzio che cadde fra loro si inserì il rumore di un'auto che veniva giù per il viale. Richard riconobbe la voce del motore. Era l'Alpine.
La macchina si fermò davanti alla casa. Una portiera sbatté e la macchina ripartì, con la ghiaia che scricchiolava sotto le ruote. «Probabilmente è Clio. Sei un ragazzo dolcissimo, Ricardo». Gli toccò la guancia. «È bello che Clio stia con qualcuno della sua età. Spero che non ti faccia soffrire troppo». «Hai finito presto» disse Clio entrando. «Chi era?» «Hammond. L'ho incontrato in città, mi ha dato un passaggio a casa». «Non entra?» Lucia sembrava delusa. «Doveva tornare a Londra. Sarà qui di nuovo nel fine settimana con quegli altri che hai invitato». «Oh dio! Me n'ero completamente dimenticata. E con Jay in questo stato...» Lucia sospirò, con il viso tirato. Attorno alla bocca apparvero rughe di tensione e gli occhi azzurri si fecero improvvisamente stanchi. «Forse dovrei cercare di disdire...» «Non lo puoi fare!» disse Clio indignata. «Non sarebbe educato. Magari per allora starà bene. Inoltre, pensavo che fossero tutti i suoi vecchi amici artisti. Potrebbero creare un diversivo, distrarlo dai suoi problemi». «Forse hai ragione». Lucia distese la fronte e baciò la figlia. «Sei troppo saggia per la tua età. Ho un cestino pronto per la spiaggia. Meg è già lì con Naeve e i bambini. Ho pensato che potevamo fare un picnic. Voi due potreste portarmelo giù». «Qui va bene». Clio trovò un posto fra le dune. «Cosa abbiamo qui?» Aprì il coperchio del cestino. «Mmm! Pollo arrosto e torta di ciliegie. Un vero banchetto da spiaggia! Uuh, guarda! Limonata!» Agitò la bottiglia. «Che carina, Lucia. Dev'essere per te». «Aspetta!» Richard cercò di impedirle di tirare fuori la roba. «Non dovrebbe essere per tutti?» «Lasciali perdere. Non so te, ma io sto morendo di fame. Loro possono avere gli avanzi». «Che penseranno quando ci presentiamo con un mucchio di ossi e un po' di briciole?» «Chi se ne importa?» «Ma non è giusto!» «Questo è il tuo problema, Richard. Ti preoccupi sempre di cosa pensano gli altri, e di cosa è giusto o no. E se non ci fosse una cosa giusta? Ci
hai mai pensato? Non è che muoiono di fame, no? Devi imparare a essere più egoista. Tieni». Sollevò una coscia di pollo per fargliela mordere. «Considerala una ricompensa per aver portato il cestino». Richard dette un morso, strappando la carne dolce con i denti. «Così mi piaci!» Clio rise, saccheggiando il cestino in cerca di altro cibo da dargli, e gettando poi gli ossi di pollo ai gabbiani. L'I Ching di Jay Esagramma 36 - Ming 1: L'Ottenebramento della Luce ----- --------- --------- --------------------- ----------------TRIGRAMMI Sopra: k'un - Terra Sotto: Li - Fuoco Nucleo: Chen - Tuono (sopra) K'an- Acqua (sotto) Terra su fuoco - come nel sole che cala sotto terra e viene oscurato. Il nome significa: luminosità ferita. LINEE: [dal basso] [Egli] vola con ali flosce. Quando il saggio è determinato ad andarsene, può non mangiare per tre giorni. Ovunque vada, gli altri lo deridono. [Egli] è ferito alla coscia sinistra. [Egli] si salva grazie alla forza di un cavallo veloce. Fortunato. [Egli] va a caccia nel sud e cattura il grande capo dell'oscurità. [Egli] non dovrebbe voler fare tutto giustamente, e subito. [Egli] entra nel lato sinistro del ventre della terra oscura, ma è in grado di uscire dai cancelli e dal cortile della Terra dell'oscurità.
[Egli] compie il suo dovere. Essere fermo e corretto gli porterà vantaggio. Non c'è luce, solo oscurità. [Egli] ascende prima al cielo, ma il suo futuro sarà andare nelle profondità della terra. INFAUSTO! (L'I Ching di Jay, 25/8/76, dal taccuino di Lucia) L'estate di Wish House procedeva per fasi, proprio come la luna. Quando Richard aveva conosciuto Clio, la luna era una sottile lama d'argento, tanto luminosa da mostrare la luna vecchia in trasparenza spettrale. Ora stava avvicinandosi alla fase piena, e si stagliava nel cielo come un lustro gong di bronzo, con montagne e mari che ne punteggiavano la superficie. Prima della fine della settimana, Meg e le figlie si erano trasferite nella casa di altri amici, più a sud lungo la costa, dopo che Meg aveva litigato con Jay. A che proposito? Clio non ne aveva idea. «Lei è l'unica a non avere paura di lui» disse. «Probabilmente si è stufata di vederlo così ingrugnato». C'erano molte persone a cena. C'era abbastanza luce per mangiare fuori, ma Lucia decise che c'erano troppe zanzare e nessuno aveva voglia di spostare i mobili. I posti a sedere erano distribuiti a casaccio, e Richard si ritrovò a un'estremità del tavolo, lontanissimo da Clio. Lei era seduta quasi a capotavola, tra Hammond e sua madre. Lucia doveva continuamente alzarsi per fare qualcosa: controllare la cottura, portare dentro i piatti, prendere altro vino dalla dispensa. Clio non sembrava molto interessata ad aiutarla ed era intenta a conversare con il mercante d'arte. Richard drizzò le orecchie, cercando di sentire di cosa parlavano, ma non riuscì a cogliere quasi nulla. La sua parte del tavolo era dominata da Martin. Martin era arrivato da Londra sfoggiando una maglietta bianca macchiata, con su l'Union Jack strappata e ulteriormente decorata con vari slogan attaccati con spille da balia e spillette a forma di bulldog. Le unghie mangiate erano dipinte di nero e i pantaloni stretti avevano chiusure lampo ovunque, piuttosto lontano dal solito posto. Nessuno fece commenti sul suo abbigliamento, anche se da dove veniva Richard l'avrebbero massacrato per aver sfigurato in quel modo la bandiera. Erano seduti vicino a Joe e a un paio di tizi dall'aria di studenti che Richard non conosceva. Joe era gentile, ma gli altri lo ignoravano. Ascoltavano Martin.
«È roba morta, amico, te lo dico io». Martin si servì altro vino rosso, facendolo straripare dal bicchiere e spargendolo lungo i solchi del ruvido tavolo di legno. «Disegno. Pittura. Una perdita di tempo. Ecco perché mi sono dato alla fotografia». «Sei proprio un cazzaro!» Joe rise e scosse la testa. «Ti sei dato alla fotografia perché in tutto il resto facevi schifo. Eri anche peggio di me». «Non è questo il punto!» Martin puntò verso Joe un indice macchiato di nicotina. «Le cose stanno cambiando. Lui ha chiuso, se lo chiedi a me». Indicò con il pollice Jay, che era seduto tra un paio di artisti più anziani. «Il suo tipo di arte è morto. Il cadavere sta già cominciando a decomporsi». Agitò una mano. «Vedi, già cominciano ad arrivare le mosche». Si sporse sul tavolo. «Nah, il futuro non è con lui. È con quel tizio che ha messo i mattoni alla Tate». «L'Equivalent VIII di Carl Andre?» suggerì qualcuno. «Proprio lui. Quello è il futuro. Non tutte queste stronzate sulla pittura! Perdita di tempo...» Il posto di Jay era a capotavola. Le persone intorno a lui erano intente nella conversazione ma lui non partecipava. Ascoltava, lisciandosi la barba, le labbra contorte in un mezzo sorriso, gli occhi scuri che andavano da un volto all'altro. La voce di Martin stava salendo di tono, attraversando le altre conversazioni. Hammond gli lanciò un'occhiata d'avvertimento che lo fece solo parlare più forte. All'improvviso, Jay si alzò. Un movimento tanto inaspettato da zittire quelli più vicini a lui. Il silenzio si allargò a tutto il tavolo. Martin fu l'ultimo a smettere di parlare. Tutte le facce si girarono verso l'artista, ma lui non disse nulla. I suoi occhi andavano da una persona all'altra, come per stimare il loro valore. Scosse leggermente la testa, come se li trovasse tutti scarsi, poi spinse indietro la sedia e si avviò verso le scale. Lucia lo seguì. La conversazione ricominciò in un mormorio nervoso e concitato. Forte, ma non abbastanza da non sentire le istruzioni di Jay a Lucia, di buttarli fuori tutti. Anche subito sarebbe stato troppo tardi. Lucia tornò, con un sorriso fisso sul volto. «Non badate a lui. È un po' ubriaco» annunciò avvicinandosi a Clio. Mise la mano sulla spalla della figlia e le sussurrò qualcosa all'orecchio. Clio si alzò e andò verso le scale; gli altri guardarono Lucia. Lei disse con un gesto che tutto andava bene e che potevano proseguire con la cena. «Sta lavorando troppo» aggiunse, come se quello spiegasse tutto. «È tutto a posto!» Sospirò quando passò accanto alla sedia di Richard, mormo-
rando: «Mi sento come Lady Macbeth». Lui si alzò, offrendosi di aiutare. «Non c'è molto che tu possa fare» disse lei con un debole sorriso. «Le cose non miglioreranno. Andrei a casa, se fossi in te». «È meglio che saluti Clio» disse lui. «Non ce n'è bisogno». «Ma dovevo restare. Potrebbe chiedersi...» «Le dirò io che te ne sei andato. Capirà. Andiamo». Gli mise il braccio attorno alla vita, guidandolo verso la porta. «L'ho mandata su a calmarlo. Potrebbe volerci un po'. Ci vediamo domani, Ricardo, mio caro». Il pesante portone di legno si chiuse alle sue spalle. Richard restò fuori, a guardare le luci della casa che si accendevano in diverse combinazioni. Lo studio era completamente illuminato. Jay doveva essere andato lì, seguito da Clio. Forse la stava dipingendo. No. Una luce si accese nella stanza di Clio. Lei venne alla finestra per tirare le tende. Richard fece un passo avanti, con l'idea di attirare la sua attenzione, ma poi si trattenne e rimase nascosto nell'ombra. Dietro di lei c'era una sagoma scura. C'era qualcun altro con lei. Forse Jay l'aveva seguita per parlarle. Le tende si chiusero. La luce filtrava attraverso la stoffa rossa come una fiamma al di là di una membrana. Si avvicinò nuovamente alla casa. Dalle finestre riusciva a vedere Joe e Martin stravaccati alle due estremità del divano, e altre persone distese sui cuscini. Qualcuno fumava delle pipe, altri si passavano uno spinello delle dimensioni di una carota. Nessun segno di Lucia. Né di Hammond. Nella stanza che Lucia divideva con Jay si erano accese le luci. Forse lui era lì con lei. La luce di Clio ormai si era spenta. Doveva essere sola. Richard attraversò in punta di piedi il prato e lanciò un sassolino per chiamarla, poi un altro, ma non ebbe risposta. Non gli venne in mente nessun altro modo di attrarre la sua attenzione, a parte rompere il vetro. Richard si ritirò in fondo al giardino. Sedette sul freddo muro di pietra, al chiaro di luna, cancellandosi la traccia di rossetto dalla guancia e chiedendosi come mai lui era l'unico al quale fosse stato chiesto di andarsene. La baruffa a tavola impose un limite rigido ai visitatori. Troppa gente interferiva con la pittura di Jay. Da quel momento, nessun estraneo sarebbe stato ammesso nel cerchio magico. Questo non includeva Richard. Lucia disse che la sua presenza era essenziale. Richard ne fu lusingato e il senso di esclusione che aveva provato in giardino cominciò a svanire.
Faceva ancora molto caldo e Jay più di una volta decise di dipingere nelle ore serali, più fresche. Richard veniva spesso invitato a restare a cena con la famiglia. Una sera stava aiutando Clio a sparecchiare, quando Lucia comparve alle sue spalle. «Richard?» La voce di lei era ricca e seducente. Ormai lo chiamava raramente 'Ricardo', il che era un sollievo, ma lui trasaliva ancora appena, quando lei lo chiamava 'Richard', con una vaga sorpresa di sentirla pronunciare il suo vero nome. «Vuoi che ti predica il futuro?» «Certo che vuole» rispose Clio per lui. Era un'abitudine che aveva preso quando lui si trovava in famiglia. «Non è vero?» aggiunse, come ripensandoci. «Sì, direi di sì» rispose lui. «Non me l'hanno mai fatto prima». «Vieni qui allora». Lucia gli fece cenno di avvicinarsi al tavolo. «Che cosa preferisci?» chiese. «Carte o cristallo?» «Scegli le carte, amico» consigliò Joe dal divano. «Non vede mai niente nella sfera di cristallo». «Piantala, Joe» disse Clio. «Che ne sai tu?» «Per me non vede mai nulla». Joe fece un lungo tiro dallo spinello che stava fumando. «È perché il tuo futuro è oscurato da nuvole di fumo di erba. Ammesso che tu ne abbia uno». «Vada per il cristallo allora». Lucia andò all'armadio dove teneva vari oggetti legati alla divinazione e alla magia: un mazzo di tarocchi avvolti in una sciarpa di seta gialla, una sottile bacchetta di nocciolo biforcuta, un fascio di bastoncini per l'I Ching, simboli runici in un sacchetto tessuto a mano. Portò al tavolo la sfera di cristallo, avvolta nel velluto nero. La teneva con attenzione, come se fosse fragile e speciale, come l'uovo di un uccello raro. La posò dolcemente al centro del tavolo e accese delle candele tutto intorno. «Vieni qui, Richard. Siediti di fronte a me». Richard eseguì. «Ora, hai una moneta da darmi? Preferibilmente d'argento». «Questa va bene?» Richard rovistò nelle tasche e tirò fuori una moneta da cinquanta pence. «Magnifico». Lei tese la mano. «Ora mettimela sul palmo. Perfetto». Chiuse la mano sulla moneta, trasferendola in un borsellino di velluto liso con la chiusura di metallo. Solo allora aprì il panno di velluto, stendendolo a mo' di tappeto per la sfera. Passò la mano sulla sfera lucente, avanti e indietro. La superficie si appannò leggermente al calore della sua mano.
Fece alcuni altri passaggi, in un senso e nell'altro, come se la stesse scaldando, poi fissò lo sguardo nel profondo della sfera. «Questa è la parte in cui comincia a inventare» rise Joe. «Giuro che nelle fiere andresti da dio, Lucia». «Shh! Mi sto concentrando. Ora fate tutti silenzio. Devo focalizzare». Il silenzio crebbe e riempì lo spazio circostante, finché anche le risatine di Joe si spensero. La luna splendeva attraverso la finestra priva di tende, aggiungendo una lucentezza dorata alla luce gialla delle candele. I rumori filtravano dall'esterno e poi morivano: il richiamo di un gufo, e il lontananza il ronzio di un trattore che tornava dopo una lunga giornata di raccolto sui campi sbiaditi dal sole. Nessuno si mosse nella stanza. Tutti rimasero seduti immobili a guardare Lucia che fissava il cristallo. Richard non riusciva a vedere niente di speciale, solo il nero intenso del panno, una macchia nel punto in cui si riflettevano le finestre, il tremolio delle candele. Tuttavia capiva come poteva funzionare. Fissa a lungo un punto e l'effetto è ipnotico, le forme cominciano ad allungarsi e a scivolare... Lucia iniziò a parlare, sulle prime lentamente, poi con più autorità. Nessuno emise un suono, gli sguardi di tutti erano fissi su di lei. La sua voce bassa e musicale li catturò con uno strano potere magnetico. «Ti vedo. Almeno credo che sia tu. In riva al mare. Proprio al limite dell'acqua. Ci sono sagome bianche che ti fluttuano intorno. Uccelli? Sì, devono essere uccelli». Fece una pausa, accigliandosi, come se l'immagine fosse difficile da catturare. «È sparita». Sospirò, frustrata. «No. Aspetta». Alzò la mano, come per bloccare potenziali disturbi. «È molto nuvoloso, ma vedo le sagome bianche che turbinano... ma non è lo stesso. Il mare è in tempesta. E tu indossi qualcosa di veramente stravagante...» S'interruppe di nuovo. «Credo che sia tutto. È diventato nero». Sollevò uno a uno gli angoli della stoffa di velluto per coprire il cristallo. «Che strano!» Guardò Richard. «Portavi dei calzoni gialli alti fino alle ascelle!» «Sono impermeabili» spiegò Richard. «Ne ho un paio per la pesca». «Hai visto Richard a pesca!» Joe ricominciò a ridacchiare. «Ha preso qualcosa? Falle dare un'altra occhiata, amico. Vedi se stai usando l'esca giusta». Richard sorrise e si agitò sulla sedia. Aveva avuto qualche speranza su ciò che Lucia poteva vedere. Aveva rapidamente escluso visioni di se stesso sul palco con una rock band, o sul campo di Wembley con il Villa, ma era un tantino deluso. Pesca? Era strano e banale allo stesso tempo. Per lui
non aveva molto più senso che per Joe. Lucia lanciò a suo figlio uno sguardo fulminante. «Non aveva una canna né niente del genere, non che io abbia visto. E poi non è quello il punto. La divinazione non è fatta per essere esatta. Se c'è un significato, si svelerà». Riportò la sfera nell'armadio. «I Ching. Quello è più preciso. Potrebbe aiutarci a interpretare». «Quello con i bastoncini?» gemette Joe. «È ancora più noioso, e ci vuole una vita. È ora di smontare la tenda da zingara, Lucia». Lucia gli lanciò un'altra occhiata. «L'I Ching non è solo divinazione! È un modo serio di mettere l'individuo in contatto con ciò che accade nella sua vita, e con le possibili azioni da intraprendere. È vecchio di cinquemila anni. I cinesi lo considerano praticamente la loro Bibbia...» «Sì, sì». Suo figlio rise. «Quello che vuoi tu, Lucia». Lei lo ignorò. «Tu che ne pensi, Jay? Una volta ti piaceva l'I Ching». «Cosa?» Jay alzò la testa. Era rimasto tutto il tempo semisdraiato sulla poltrona, con gli occhi chiusi. Richard credeva che non stesse nemmeno ascoltando. «No. Per stasera basta. Sono d'accordo con Joe». Chiuse di nuovo gli occhi e tornò in un luogo che vedeva nella sua mente, dove c'era un ragazzo solo sulla riva del mare, con uccelli bianchi che gli volavano intorno. Clio mandò con gli occhi un segnale a Richard. Nessuno sembrò badare né curarsi del fatto che se ne andassero. Richard la seguì attraverso il prato illuminato dalla luna. Questa era passata dall'oro all'argento, come una moneta lanciata in aria. Lui e Clio usavano la sua luce per svignarsela, per scappare tra i boschi o giù fra le pallide dune, nella sabbia fredda e setosa. Lì, entravano nel mondo privato che esisteva solo quando erano soli insieme. Quanti giorni? Quante notti? Richard aveva perso il conto e non voleva pensarci. Voleva solo quell'istinto, quell'intimità che ancora gli toglieva il fiato, piena di un appetito che si nutriva di se stesso, un desiderio che non si estingueva mai. Trittico: pannelli destro e sinistro Clio (1969-1973) Quattro dipinti (due per lato) 90,2 x 61 cm Olio su tavola
Jethro Arnold Dalton R.A. (1916-1976) Mai esposta durante la vita dell'artista, questa serie di ritratti raffigura Clio Dalton, sua figlia. Ora di proprietà di Charles Hammond, questi studi di nudo straordinariamente belli hanno ottenuto una grande notorietà dalla prematura morte dell'artista. Qualsiasi pretesa sia stata avanzata sui ritratti e sul modo in cui Hammond ne è venuto in possesso, questi restano davvero sublimi e dovrebbero essere giudicati solo per il loro valore artistico. (M.H. Randolf, Sunday Times, 25 maggio 1980) «Ogni esplorazione è valida. Per me, il sacro è contenuto nel profano». J.A.D., 1968 Per quanto il giorno precedente fosse stato caldo, o lo sarebbe diventato, le mattine avevano una certa frescura, con l'umidità che saliva dal mare e la nebbia che si alzava dalle valli come il primo alito d'autunno. Presto Richard sarebbe andato via. Vacanze finite. Niente dura per sempre. Il pensiero gli attraversava la coscienza mentre andava a Wish House ogni giorno, risuonando come il ritornello di una canzone che non riusciva a togliersi dalla mente. Lo sapevano entrambi. Era nel bacio di lei, nel modo in cui lo abbracciava. Dava una dolcezza ulteriore a ogni incontro, ma le parole restavano non dette. Pronunciarle avrebbe significato renderle realtà. Jay era l'unico a sapere quanto poco tempo era rimasto. Doveva finire il dipinto, perciò Richard dovette dirglielo. Era giusto. «Va bene». Il pittore sorrise. «Non resta molto da fare ormai. È meglio andare avanti, allora. Dov'ero rimasto?» Tornò al lavoro. Aveva invertito le sedute, per cui Richard veniva da lui al mattino. Aveva a che fare con la luce, aveva detto, e ora che il tempo stringeva voleva concentrarsi su Richard. Sembrava stanco, con il volto molto più tirato di quando Richard l'aveva visto la prima volta, gli occhi più infossati e segnati da occhiaie scure. Scuoteva la testa in modo quasi impercettibile quando fissava la tela. Prese un lungo bastone, appoggiando l'estremità imbottita contro l'orlo della tela, e posandoci il polso per tener fermo il pennello mentre aggiungeva gli ultimi dettagli al dipinto quasi finito. «Come si chiama quell'affare?» chiese Richard.
«Si chiama appoggiamano». «Non l'aveva mai usato prima» osservò Richard. L'artista non rispose. Da qualche parte di sotto il telefono continuava a squillare. Jay lo ignorò. Non rispondeva mai comunque, anche se non stava lavorando. Il telefono smise. «Jay?» chiamò Lucia da giù. Quando non rispose, lei venne a portare il messaggio di persona. «Che cosa vuole?» «Vederti». «Digli che non può. Devo lavorare. Pensavo di aver detto basta con la gente». «È troppo tardi. Chiamava dal paese, ha preso una stanza. Sta venendo qui». «Cristo! Pensavo che fosse al telefono da Londra». Jay si asciugò le mani con uno straccio. «Ci manca solo lui». Lasciò la stanza senza una parola. Richard seguì le loro voci di sotto finché ciò che dicevano divenne troppo indistinto. Si era concentrato così tanto che era rimasto nella sua posizione. Gradualmente si rilassò e uscì dalla posa. Era come essere una statua umana. Tutto ciò che faceva in quella stanza era entrare e stare fermo. Sembrava strano andare in giro con indosso quegli abiti, come se stesse camminando nel quadro. Non era mai riuscito a vederlo prima. Andò a dare un'occhiata e si accigliò. Lo faceva sembrare più grosso, più carnoso, più giovane di come si sentiva lui. Non che non fosse lusinghiero, non esattamente. Era solo che il quadro mostrava certi aspetti di lui, una goffaggine e una mancanza di grazia che avrebbe preferito che gli altri non vedessero. Comunque, era ciò che lui vedeva. Si allontanò dal quadro con un sospiro di delusione. Si guardò intorno. Prima aveva potuto solo esplorare la stanza con gli occhi da un punto fisso. Ora poteva spostarsi. A volte Jay dormiva qui quando lavorava di notte e non voleva disturbare Lucia. Uno stretto letto singolo dalla struttura in ferro era accostato alla parete in fondo. Sopra c'era un mucchio di pelose coperte dell'esercito grigie e marroni. Accanto c'era uno scatolone da imballaggio, con un mozzicone di candela sopra. Tutto qui. Era austero come la cella di un monaco, o una baracca di soldati. Sotto il letto c'era una vecchia scatola di tele, con gli angoli rinforzati che spuntavano fuori, come il muso di un animale. Richard lo spinse con il piede. Era tentato di accovacciarsi a terra e dare un'occhiata ad alcune delle carte che impedivano al coperchio di chiudersi, ma avrebbero potuto spargersi
in giro e magari non avrebbe fatto in tempo a rimetterle a posto. Si alzò e andò alle rastrelliere che occupavano un'intera parete. Era qui che Jay teneva i dipinti che non aveva venduto e che non voleva mostrare. Richard ne tirò fuori alcuni a caso. Paesaggi marini, altri paesaggi marini. Sembravano tutti uguali, o perlomeno molto simili. Anche se Richard vedeva le differenze nella luce e nelle condizioni del tempo, nella marea e nel mare stesso, non rimase particolarmente interessato. Fece un passo indietro, vagamente deluso. Quei quadri erano così noiosi. Aveva passato settimane a fissare quelle misteriose rastrelliere, chiedendosi cosa ci fosse di così speciale che Jay voleva tenere segreto. La curiosità aveva superato qualsiasi senso di colpa; ciò nondimeno trasalì quando sentì la porta sul retro aprirsi e poi chiudersi. Le voci salirono fino a lui. Avrebbe fatto meglio a darsi una mossa se voleva vedere il resto dei quadri. Non avrebbe avuto un'altra possibilità così. Andò avanti, aspirando l'odore di olio di lino dei quadri, che sembrava trasudare dalle tele, intensificato dal calore dell'aria della stanza. Era un odore che gli sarebbe rimasto impresso per sempre, anche solo un accenno l'avrebbe riportato in quella stanza. Clio 9, Clio 10, Clio 11, Clio 12 scarabocchiato con una grossa matita nera sull'orlo stretto e arrotondato delle tele bianche. Richard le tirò fuori una alla volta. Clio ritratta in una serie di spazi luminosi. Era nuda in tutti i quadri, ma le immagini erano prive di contesto, così che le figure nude sembravano fluttuare in un mondo nebuloso al di là del reale. Il primo che tirò fuori aveva un'intensità quasi crudele, con la figura pallida immersa in una luce rosso-arancio. Il successivo era interamente dorato, con i capelli e la pelle illuminati dal sole calante d'autunno. Un altro era completamente blu, un'immensità fredda al centro della quale la ragazza era immobile come un magnifico cadavere. L'ultimo era tutto in toni di verde, che tingevano addirittura la pelle, rendendo la creatura quasi simile a un elfo. Di un altro mondo. Ma le immagini erano reali, fin troppo. E meravigliose. Era difficile guardare una bellezza simile. Richard dovette spostare lo sguardo da una parte, come distratto da una luce troppo forte o da un essere di tale assoluta bellezza che a guardarlo poteva accecare. L'artista l'aveva colta nei momenti di transizione, dall'infanzia alla pubertà e all'adolescenza. Nessuna falsa modestia, piuttosto il contrario. C'era un'assoluta onestà unita a un'intensità brutale; un'innocenza sfacciata che non era affatto innocente. Richard aveva già visto quello sguardo. Per lui, i dipinti era-
no sovraccarichi del potere di lei. Il potere che aveva su di lui. Il potere che scorreva dentro di lui come un'eco profonda che minacciava di andare avanti per sempre e di non fermarsi mai finché non l'avesse fatto cadere a pezzi. Richard aveva visto abbastanza. Rimise a posto i dipinti uno a uno. L'ultimo s'impigliò in un chiodo. Ci fu il secco rumore della stoffa rigida che si strappava. Richard spinse più forte. Lo strappo peggiorò, ma non gli importava. Distruggerlo gli dava soddisfazione, curava la ferita che i dipinti avevano aperto dentro di lui, come un balsamo rinfrescante. Andò alla finestra e guardò fuori, guardando senza vedere Jay e Hammond che litigavano sotto di lui nel giardino. Ciò che sentiva per lei, tutto ciò che avrebbe mai potuto sentire per lei, non era nulla. Non poteva mai eguagliare l'amore mostrato in quei quadri. Ma che razza di amore era? Che tipo di amore avrebbe potuto dipingere quello? «E con questo abbiamo chiuso». Jay rientrò fregandosi le mani. «È meglio che non si faccia più vedere da queste parti. Una volta lo consideravo un amico. Si è trasformato in uno squalo proprio come tutti gli altri. Non capisco perché non imbottiglino il nostro sangue per venderlo. Forse un giorno lo faranno e non dovremo più prenderci il disturbo di dipingere. Ora si definisce Commentatore Culturale! Che significa? Bastardo presuntuoso!» Jay dette una risata aspra e senza gioia e fissò Richard col suo sguardo pensieroso. «Che ti prende? Hai la faccia di un sedere sculacciato». Richard scosse la testa. «Niente». «Okay, allora. Torna in posizione». «Io devo...» cominciò a dire Richard. Voleva disperatamente andarsene. Ora, subito. Gli spiaceva non aver colto l'occasione quando poteva. «Devi cosa?» «Andare». «No». Jay lo guardò con occhi inespressivi. «Mi servi qui. Non vai da nessuna parte. C'è ancora del lavoro da fare». Richard distolse lo sguardo. Non si sentiva abbastanza forte da contrastarlo. Avrebbe dovuto fare come gli diceva. Jay lo studiò per un po', mentre Richard guardava fisso davanti a sé. Poi staccò gli occhi dal modello, ed esaminò la stanza angolo per angolo. Richard cominciò a sudare nei vestiti. Non seguì lo sguardo dell'artista, sapendo che avrebbe visto tutto, che aveva gli occhi allenati a notare ogni cambiamento, per quanto minimo.
Andò alle rastrelliere, con un piccolo grugnito, come se ciò che vedeva confermasse qualcosa. Richard rischiò un'occhiata di traverso di puro panico e vide le lunghe dita aperte che spingevano il quadro che sporgeva appena. Si sentì un lieve strappo quando la tela s'impigliò nel chiodo invisibile, o quello che era. L'artista grugnì di nuovo, stavolta con fastidio e frustrazione. «Ma che è successo qui?» Inclinò con attenzione il dipinto avanti e indietro, cercando di liberarlo. Poi lanciò un'occhiata a Richard, che riuscì a distogliere lo sguardo appena in tempo. «Eccola!» Lasciò andare la tela impigliata e tornò al cavalletto. «Ecco l'espressione che avevi la prima volta che ti ho visto. Aspettavo di vederla di nuovo». Intinse un pennello sottile in diversi mucchietti di colore e cominciò a dipingere. Per un po' non disse nulla. Il nervosismo di Richard non diminuì, né lui riuscì a rilassarsi. Si sentiva intrappolato nel silenzio tra loro. Incapace di andarsene, immobile come una statua, cominciò ad aver paura di ciò che l'artista poteva dirgli se avesse parlato. «Dimmi, Richard...» La voce profonda lo fece sobbalzare. Il sorriso dell'artista pareva esprimere soddisfazione, ma le parole che seguirono non erano quelle che Richard si aspettava. «... C'è qualcosa che non vuoi condividere? Qualcosa che non vuoi che gli altri vedano?» Richard annuì appena. Non era così per tutti? «È solo questo il punto. Questo è ciò che Hammond vuole da me» proseguì Jay, tornando con la mente al litigio in giardino. Era come se parlasse a se stesso. «I dipinti sono come un confessionale. Hai mai tenuto un diario?» Richard annuì. «Imbarazzante, non è vero?» Jay rise, un suono aspro e rauco. «L'età non fa che peggiorare le cose. Tutte quelle versioni più giovani di te stesso che ti perseguitano e ti prendono in giro, e ridono di come sei diventato vecchio». Si fermò a riflettere. «Sei cattolico?» Richard scosse la testa di nuovo e una fitta dolorosa alla base del collo lo fece trasalire. Tutta la tensione, aggiunta al modo in cui doveva stare, gli stava dando il mal di testa. «Nemmeno io. In effetti non credo in nulla, ma li ho sempre invidiati. La confessione mi sembra una buona cosa. Un modo per mantenere la salute mentale. E tutti ne abbiamo bisogno. Fa bene all'anima, non è così che dicono? Tu hai qualcosa da confessare, Richard? Qualcosa di cui ti senti colpevole?»
Richard si strinse appena nelle spalle, mentre tutte quelle cose sfilavano in parata davanti a lui: tutto, dal modo in cui aveva trascurato i suoi genitori e Dylan a come aveva strappato quel dipinto poco fa. Per una volta fu contento di non essere incoraggiato a parlare. «Scommetto di sì» rispose per lui l'artista. «E peggiorerà, man mano che diventi vecchio. E si incancrenirà dentro di te, in segreto». Smise di parlare, il silenzio tornò. «Non credo nella psicoterapia» proseguì dopo un po'. «Sono un mucchio di fesserie. Ma è così che funziona la pittura per me. Ecco perché non tutti possono vedere tutti i quadri. La gente potrebbe fraintendere, interpretare male. Ho detto a Hammond che non li può avere. Dovrà aspettare che io sia morto». Gli occhi di Richard andarono alle rastrelliere sulle pareti. Credeva di sapere quali erano i dipinti che Hammond voleva. «Smettila di agitarti!» lo rimproverò l'artista. «Quante volte te lo devo dire! Non accetterò nulla di meno della perfezione. In questa impresa siamo coinvolti insieme. Pittore e soggetto. Ricordatelo». Richard non lo dimenticò mai. Terminarono la seduta in silenzio, mentre il mal di testa di Richard peggiorava. Quando Jay lo lasciò andare, aveva la sensazione che qualcuno gli stesse trapanando la base del cranio. «Che succede?» domandò Clio quando scese le scale. «Non hai un bell'aspetto». «Non mi sento bene... ho un mal di testa feroce». «Che cosa potrebbe aiutarti?» Clio si accigliò. Senza Lucia non sapeva dove mettere le mani. «Aspirina?» suggerì Richard. «Paracetamolo?» «No». Clio parve scioccata. «Ti fanno male. L'aspirina fa sanguinare lo stomaco. Il paracetamolo attacca il fegato. No, stavo pensando a qualche rimedio, ma Lucia è fuori a raccogliere...» «A raccogliere cosa?» Altri ingredienti per i rimedi, senza dubbio. Lucia era bravissima con le medicine alternative, ma il dolore alla testa era così intenso che Richard riusciva a malapena a concentrare lo sguardo. Le ali di pipistrello in polvere non avrebbero fatto effetto, e nemmeno un tè fatto con chissà cosa. Per mandarlo via ci volevano soltanto un paio delle pasticche di sua madre. «È andata in cerca di funghi. Stamattina era umido». «Perché non li compra e basta?»
«Perché quelli che raccoglie lei non si comprano» disse Clio, come parlando a un idiota. «Non in questo paese». Richard chiuse gli occhi e strinse la radice del naso. A volte perdeva la pazienza. Con tutti i soldi che avevano, lei tornava sempre con il cesto pieno di roba strana. «Cibo gratis» lo chiamavano. Richard lanciò un'occhiata dalla finestra che dava sul Giardino delle Streghe. «Vi avvelena tutti, se non state attenti». Clio rise. «Lei sa quello che fa. Sta cercando ciliegie tardive, le prime prugne e le more. Vuole fare un po' di marmellata. Il tuo amico Dylan la sta aiutando, dice che conosce dei posti». «Ah, ci scommetto». Quindi Dylan stava continuando la sua campagna di 'seduzione botanica'. Malgrado il dolore alla testa, Richard quasi sorrise. Clio voleva che lui restasse fin dopo la sua seduta con Jay, ma il mal di testa non accennava a diminuire e Richard voleva una scusa per andar via. Voleva chiederle dei quadri che aveva visto. Che cosa significavano? Ma non era sicuro di voler osare tanto. Era meglio che tornasse al caravan. Gli avrebbe dato la possibilità di pensarci su. Cronache #2 (1976) Inchiostro su carta da disegno 21 x 29,7 cm Jethro Arnold Dalton R.A. (1916-1976) Uno dei pochi rimasti di una serie di straordinari disegni eseguiti poco prima della morte dell'artista. Il soggetto è chiaramente erotico, ma le figure sono quasi astratte, ogni individualità persa nella fluidità della forma. Il tratto rapido, abile e senza sforzo è quasi orientale, ma possiede una solidità iconica molto simile alla scultura. Resi pubblici solo di recente dagli eredi dell'artista, questi disegni sono stati ascritti 'tra le più grandi espressioni dell'arte erotica; una celebrazione universale dell'amore umano'. (E. Baines, Art in Focus, 1980) Se al caravan ci fosse stato qualcuno, se avesse avuto con sé la chiave, forse non sarebbe mai tornato indietro, non avrebbe mai visto ciò che vide,
e tutto ciò che accadde dopo avrebbe potuto non accadere mai. Quando tornò a Wish House erano le due passate. Clio a quell'ora doveva essere nel pieno della sua seduta. Bussò appena, pensando che Lucia fosse tornata. Quando non ebbe risposta, spinse la porta. Era chiusa a chiave. Era strano: non chiudevano mai a chiave la porta, a meno che non fossero usciti tutti. Aveva pensato che Jay e Clio fossero in casa a lavorare, ma invece dovevano essere andati da qualche parte. Non se l'era aspettato. Richard si guardò intorno, sconcertato e deluso. La testa gli faceva ancora male e la luce era accecante; voleva che passasse, più di ogni altra cosa. Tutto era immobile intorno a lui. La sua pelle umida era punteggiata di piccoli insetti neri e nell'aria c'era una pesantezza afosa, come se si stesse preparando un temporale, anche se non c'era una sola nuvola. Il sole splendeva impietoso e bianco da un cielo che sembrava peltro lucidato. Alzò gli occhi verso la casa, imprecando. Vedeva a frammenti. Aveva lasciato gli occhiali da sole nel caravan quella mattina, e ora gli sarebbero proprio serviti. Poi gli venne in mente qualcosa. Lucia teneva sempre la chiave di riserva sotto uno dei vasi di gerani. Non portava mai con sé le chiavi e ne aveva messa una lì per quelle occasioni, come questa, in cui la porta, solitamente aperta, era chiusa. Spostò la terracotta calda di sole, inalando l'odore pungente delle piante. I fiori stavano cadendo; i petali si sparsero sulle sue mani come gocce brillanti di sangue arterioso. Richard chiuse gli occhi e li riaprì. Tutti i suoi sensi sembravano acuiti. Forse era il mal di testa. Pensieri e osservazioni casuali andavano e venivano, mescolati con lampi di ricordi: quei vasi il primo giorno, Lucia sul prato riarso dal sole, l'erba che al chiaro di luna sembrava blu, lui che guardava la finestra di Clio, le tende tirate. Prese la chiave ed entrò nella fresca penombra della casa. Sospirò. Era un sollievo dopo essere stato fuori. Barcollò, quasi accecato, fino al divano e vi si gettò sopra, con il braccio sugli occhi. Avrebbe riposato lì, magari dormito un poco; a volte quello curava il mal di testa senza dover prendere nulla. Temeva che potesse essere l'emicrania che mandava sua madre a stendersi sul letto per ore al buio, con un panno umido sulla fronte. I pensieri che si accalcavano sulla superficie della sua mente cominciarono a placarsi, e gradualmente il dolore diminuì, poco a poco. La casa era molto silenziosa, si sentiva ogni minimo rumore. Da fuori, il tintinnio leggero di una campana a vento quasi immobile, il ronzio della lavatrice, che compiva il suo ciclo...
La vaga attenzione di Richard fu catturata da un basso mormorio proveniente dal piano superiore. Aprì gli occhi. Su c'era qualcuno. Doveva essersi addormentato. Altrimenti come avrebbero fatto a passargli davanti e a salire le scale? O era così, oppure erano sempre stati in casa. Richard guardò l'orologio. Sapeva che Jay non voleva essere disturbato mentre dipingeva, ma avrebbero finito tra poco. Si alzò e andò alle scale. Si sarebbe solo affacciato nello studio, per far sapere che era lì. Lo studio era deserto. Richard tornò giù per la scala a pioli. La seduta doveva essere stata cancellata o interrotta, cosa piuttosto insolita. Jay era un maniaco della routine, per quanto riguardava il lavoro. Potevi regolare l'orologio su di lui... ma tanto nessuno lo faceva. Alla fine, dovevano essere usciti tutti. Richard aggrottò la fronte e rimase in ascolto. Forse si era sbagliato, o forse qualcuno aveva lasciato la radio accesa. No, eccolo di nuovo, un lieve mormorio. Intimo. Due voci, una di donna. Sembrava Clio. L'altra voce era troppo bassa per riconoscerla ma la risata era decisamente maschile. Il suono veniva dalla stanza di Clio. Richard si avvicinò alla porta. C'era dell'acqua sul pavimento, come se lei avesse appena fatto una doccia. Chi poteva esserci con lei? Doveva essere Dylan. Era sempre stato dietro a Clio in realtà, non a Lucia. Ora sembrava così ovvio. Richard avanzò in silenzio, deciso a sorprenderli insieme. Dylan era più grosso, ma Richard aveva la sorpresa dalla sua parte. Gliel'avrebbe fatta vedere. Strinse i pugni e li riaprì. L'avrebbe ammazzato. La porta era vecchia, fatta di assi che si erano incurvate. L'odore denso, pungente e familiare della marijuana filtrava dalle fessure. Richard sbirciò attraverso una di quelle. Ciò che vide lo fece ritrarre in fretta, come se il suo sguardo ne avesse incontrato uno di rimando. Clio era distesa sul letto, nuda a parte un asciugamano che le copriva in parte le gambe. Fece un tiro da uno spinello, in modo rapido e secco, e lo passò a una figura che le dava quasi le spalle, stagliata contro la finestra. Le luce che filtrava dalle tende tirate rendeva la stanza rossa, come una grotta cremisi. L'uomo era alto, dai capelli lunghi e la pelle scura, magro e inequivocabilmente nudo. Tese un braccio muscoloso mentre si chinava a prendere lo spinello, il volto nascosto dai capelli. Era Jay. Richard lo riconobbe all'istante. Si ritrasse dalla fessura della porta e rimase con la schiena contro il muro, sbattendo gli occhi come per vederci più chiaro. Tremava in tutto il corpo, il respiro si era fatto talmente corto che temeva di svenire. Si mise le mani sulle ginocchia per mantener-
si saldo, inspirando profondamente. Il suo cervello era privo di qualsiasi pensiero, e che chiudesse gli occhi o li aprisse, non riusciva a vedere altro che quei due insieme. Lo shock di quella visione si era impresso a fuoco nella sua mente e nella sua memoria, e ci sarebbe rimasto per sempre, per il resto della sua vita, pronto a riaffiorare nei momenti più strani della giornata, nei sogni e al risveglio, vivido come pochi momenti prima. Non era consapevole di alcuna decisione cosciente, ma i suoi passi lo portarono nello studio di Jay. Non gli importava di non poterci entrare; e gli importava ancora meno che potessero scoprirlo; non che fosse molto probabile, visto che erano occupati in altre cose. Annusò l'aria entrando nella stanza. Odorava leggermente di mare e iodio, un leggero odore di decomposizione marina che veniva dai nastri di quercia marina appesi alla finestra a seccare. Erano dentro, invece che fuori. Quello voleva dire qualcosa. L'abito che Clio aveva indossato era appeso a una trave. La stoffa frusciò e ondeggiò sul suo gancio quando Richard passò, sottile e lucente sfiorò il suo braccio nudo quando richiuse la botola, liscia come i capelli di lei, fredda come una pelle di pesce. Guardò i cavalletti e le tele attorno a lui, i tubetti strizzati e ritorti, il tavolo che Jay usava come tavolozza, le macchie fresche della seduta del giorno che si rapprendevano in grumi scuri. Raccolse un mestichino dalla lama sottile, provandolo con il pollice finché non apparve una fila di goccioline di sangue. Era abbastanza affilato. Lo tenne per il manico di legno, impugnandolo come una daga. La tela sul cavalletto. Clio nei panni di una sirena. Richard si avvicinò. Con Jay non si poteva mai dire, ma il quadro sembrava finito. Sarebbe stato ancora meglio. Le sue dita si strinsero attorno al coltello. Lanciò un'occhiata alle rastrelliere che contenevano le altre tele, quelle di Clio da bambina. I suoi occhi tornarono lì, come aveva fatto la sua mente fin da quella mattina. Ovunque guardasse, ciò che vedeva assumeva un nuovo significato. Tutto era improvvisamente chiaro. Richard andò alle rastrelliere lungo la parete. Si avvicinò con sfrontatezza dove prima era andato in punta di piedi. Non gli importava di essere scoperto. Un portfolio era stato tirato fuori ed era appoggiato contro le rastrelliere. Era rivestito di carta marmorizzata rosa e verdastra, come l'interno delle copertine dei vecchi libri. Gli angoli erano consumati, piegati, e mostravano il cartone ingiallito. Il nastro rosso che lo chiudeva in cima era diventa-
to rosa. Quando Richard lo spostò, la copertina cadde a terra con un tonfo sordo. I fogli volarono via e si sparsero in giro, smossi dall'improvviso spostamento d'aria. Finirono a terra in un mucchio disordinato. Richard si chinò a raccoglierli. Poi la sua mano si raggelò. Arrossì violentemente, con il sangue che gli pulsava nella testa e gli rombava nelle orecchie, anche se non c'era nessuno a vederlo. Pagine strappate da un blocco per schizzi, disegni nello stile delle illustrazioni per i libri: appunti scarabocchiati in fondo li identificavano come scene da Le Cronache di Pryderi. Richard ne sollevò uno, poi un altro. Non poteva esserci niente del genere in un libro pubblicato. Li fissò, agghiacciato. Il sangue gocciolò dal pollice mentre la carta tremava e si piegava nella sua stretta. Era come insensibile, paralizzato, la sua mente rifiutava di mettere in ordine le implicazioni di ciò che stava vedendo. Essere tradito in quel modo non sembrava possibile. Non vedeva alcuna bellezza in quei disegni, anche se il tratto a penna e inchiostro era perfetto, sublime. Era cieco alla fondamentale innocenza delle immagini. Non vedeva altro che il viso di Clio, e la sua propria nudità. Si sentiva violato. I momenti illustrati in quei disegni erano assolutamente personali, intensamente privati. Da non condividere con nessuno. La prima volta. Il primo amore. Dovevano essere conservati nei suoi ricordi, ognuno intatto. Da portare con sé tutta la vita. E invece eccoli rovinati, infangati e insudiciati per sempre. Le mani gli tremavano di rabbia mentre rovistava tra le carte. Richiuse le copertine di schianto, annodando strettamente i nastri. Guardò le rastrelliere di quadri sopra di lui. Il suo impulso quando era entrato lì era stato di dare fuori di matto, mettere la stanza a ferro e fuoco, strappare e spaccare, rompere e calpestare, ma poteva fare di meglio. Trittico: pannello centrale Clio 1978 (ME) 180 x 180 cm Olio su pannello Mostra finale Clio Dalton (I960-) Anche se la figura è vestita, l'opera è sbalorditiva nella sua nuda crudezza. È come se molti strati fossero stati strappati via dai dipinti di Dalton sui pannelli opposti, dove la ragazza nell'ombra
sembra essere stata privata della sua umanità, idealizzata, velata nella sua nudità, trasformata in una sorta di feticcio fatato di donna-bambina. Clio Dalton non offre una grande somiglianza, sebbene sia stata il modello di quei dipinti e questo sia un autoritratto. Questa ragazza è reale. La testa è spinta all'indietro, la bocca aperta, i denti scoperti, un buco nero nel viso. Il dipinto non ha nulla della grazia, della morbida, soave, seducente perfezione di porcellana delle meticolose figure infantili di Dalton. Il corpo è dipinto in pennellate goffe e angolari, i pugni sono stretti con rabbia. Lo spesso strato di colore suggerisce capelli umidi, incollati alla testa. Il viso è striato di rosso: carne viva, che trasuda emozione. Le membra sono ugualmente coperte di colore: fangose, sporche, che forniscono un ulteriore elemento di realismo e di commento ironico... (Commento dell'esaminatore) Richard aveva messo in moto una serie di eventi e non poteva importargliene di meno di quale strada avrebbero preso, non pensò di poter essere toccato dalle conseguenze. Tornò al campeggio passando per il paese. Lasciò il pacco con i quadri alla locanda, all'attenzione di Charles Hammond. Poi si liberò del portfolio, piegando e spezzando le copertine di cartone, strappando disegni a pezzi piccoli, e gettando il tutto nei grandi bidoni consunti dietro l'edificio dei bagni. Rimase in giro abbastanza da vedere una donna che ci scaricava sopra un secchio pieno di foglie di tè e bucce. Poi, andò a pescare con suo padre. Tornarono presto. Poco dopo che arrivarono alla scogliera, il vento si alzò e cominciò a scuotere le lenze. Le sistemarono, ma il vento aumentava con la marea, mandando onde sempre più grandi a sbattere sui loro piedi. L'acqua di mare entrò nella scatola degli attrezzi e delle esche, costringendoli ad andarsene. Al largo, la tempesta che minacciava da tutto il giorno stava montando, le nuvole si ammassavano in grandi torri grigie e violette. Quando il sole calò, la temperatura cominciò a scendere. Loro erano in calzoncini e sandali e si aspettavano di finire inzuppati da un momento all'altro. Era ora di tornare a casa. Richard non era tornato da molto quando ci fu un colpo secco alla porta del caravan, seguito da un altro. «Vieni fuori, Richard, okay?»
Richard non si mosse. Doveva essere Clio, ma che cosa le avrebbe detto? Aveva ripensato tutto il pomeriggio a ciò che aveva fatto. Poteva giustificarsi con se stesso, su quello non c'erano problemi, ma lei non avrebbe mai capito. A meno che lui non glielo spiegasse, e quello non voleva farlo. Sarebbe stato meglio se non l'avesse mai più vista, ma lei sapeva dove trovarlo, e l'avrebbe cercato. Le cose che aveva visto gli tornarono alla mente. Come avrebbe fatto a parlargliene? Sua madre sospirò quando vide che lui non si alzava e segnò la pagina piegandone l'angolo. Guardò il figlio attraverso il fumo della sigaretta, ma lui fece finta di non aver sentito e non la guardò. Lei mise via il libro con un altro sospiro esagerato e andò lentamente alla porta. «C'è una ragazza». La madre si voltò verso di lui. «Vuole vederti». Richard scese i gradini, costringendo Clio ad arretrare, e si chiuse la porta alle spalle. Lei non perse tempo. «Perché l'hai fatto?» «Perché ho fatto cosa?» Non voleva che sua madre sentisse. Cominciò ad allontanarsi dal caravan, costringendola a seguirlo se voleva continuare a parlare. «Lo sai. Sei stato tu, non è vero?» Richard scrollò le spalle e continuò a camminare. Non c'era un posto giusto per litigare in campeggio, ma non erano il centro dell'attenzione dei campeggiatori. Il vento soffiava più forte ora, e la pioggia cadeva in grosse gocce. L'aria sapeva di polvere arida. La gente si affannava a ritirare il bucato, a piegare le sdraio di tela, i seggiolini, i tavoli del picnic, tutto ciò che poteva bagnarsi o volare via. Richard sperò che fossero tutti troppo occupati per notare lui e Clio. «Che cosa pensavi di ottenere? Soldi? Quanto credi che valgano i dipinti che hai rubato?» Il disprezzo nella sua voce fece voltare Richard. «Non pensavo niente. Io non gli ho chiesto niente. Glieli ho solo lasciati sulla porta. Come hai fatto a sapere che sono stato io?» «Dovevi essere tu, no? Comunque è stato Hammond a dirlo... quando li ha riportati. La donna del pub ti ha descritto. Come hai potuto pensare che se li sarebbe tenuti? Che li avrebbe voluti? Tanto per cominciare è un furto». Scosse la testa. «Tu non sai niente. Sei così stupido! «Come hai potuto farlo? Come?» proseguì, senza dargli il tempo di rispondere. «Dopo che Jay è stato così buono con te. E Lucia. Perfino Joe.
Credevo che noi ti piacessimo. Ormai facevi parte della famiglia. E io? Credevo...» Strinse gli occhi. «Sei una serpe velenosa, lo sai? Una piccola vipera velenosa». Lui attese che la tempesta di parole finisse. «Non volevo far del male a te» cominciò a dire. «Oh, questa è bella! Certo che mi hai fatto del male! Tutto ciò che fa del male a Jay fa male a me!» «Ti ho visto» disse lui. «Oggi pomeriggio. Non... non è giusto, Clio» proseguì in fretta per non essere interrotto, sapendo che avrebbe potuto dirlo solo una volta. «Lo so che probabilmente non riesci a dire di no, e che dev'essere molto difficile. Ma... ma...» s'interruppe. Se non altro, lo sguardo di lei era ancora più infuriato. Era difficile parlarne, quasi impossibile. Ma si costrinse ad andare avanti. «Pensavo... pensavo che se altri l'avessero saputo, o se lui avesse pensato di essere scoperto... avrebbe smesso, smesso di farti questo». «Di che stai parlando?» «I quadri» proseguì lui in fretta, deciso a farsi ascoltare. «Quelli che ha dipinto quando eri una bambina. I disegni di te e me. È come...» Alla fine gli stavano mancando le parole. «È come se non ci fosse niente di sacro. E forse per lui non c'è. Non come per chiunque altro. Tutte quelle storie sui druidi, sulle radure sacre, sui pagani. Lui è eccezionale» aggiunse, anticipando quella che pensava essere una delle obiezioni di lei. «Lo so. Ha un talento eccezionale, ma per tutto il resto è solo un uomo. Per lui valgono le stesse regole che per chiunque altro». Sulle prime lei non rispose. Stava tremando, aveva difficoltà a mantenere il controllo. «Tu pensavi che fosse Jay!» Lo disse piano, quasi incredula, ma l'isteria stava montando in lei, stringendole la gola fino a darle l'impressione di soffocare. «Ecco perché l'hai fatto, non è così? Pensavi che stessi con Jay. Oh mio Dio!» Cominciò a ridere. Una risatina acuta e metallica che cominciò nel naso e poi esplose, sgorgando dal profondo e proseguendo in una serie di risate omeriche, prima di assestarsi in un ritmo di scoppi soffocati, al punto che Richard temette che non avrebbe mai smesso. Lei teneva le braccia strette attorno al corpo, come per tenersi insieme. Scuoteva la testa e i capelli umidi, sottili come fruste. Rise fino a singhiozzare, a bocca aperta, con le lacrime che scendevano dagli occhi chiusi. Era chiaramente isterica. A Richard prudevano le mani, voleva colpirla, schiaffeggiarla, ma tenne i pugni
chiusi in tasca. Doveva solo aspettare che il tornado si placasse. La gente ormai li fissava apertamente, dimenticando il mobilio da giardino. Se non avevano attirato gli sguardi prima, lo stavano facendo adesso. «Non era Jay, idiota!» singultò lei quando finalmente si fermò. «Come hai potuto solo pensarlo! Sei malato!» Richard non riusciva a guardarla. La paura di aver sbagliato gli faceva distogliere lo sguardo. Doveva aver frainteso qualcosa. La vergogna cominciò a investirlo come decine di aghi incandescenti sulla pelle. Il calore tornò ad affluire in lui, scorrendo fin nelle ossa. «Okay. Allora... allora chi era?» dovette chiedere alla fine. «Eri con qualcuno». Lei non rispose subito, volendo prolungare il più possibile il suo imbarazzo e la sua umiliazione. «Era Hammond, se proprio vuoi saperlo. Non che siano fatti tuoi. Avresti potuto risparmiarti il disturbo se l'avessi saputo. Dovevi solo consegnare i dipinti nella mia stanza!» Richard pensò che stesse per ricominciare a ridere e indietreggiò, come per paura di essere colpito. «Da quanto tempo?» chiese. Non voleva parlarle, ma doveva saperlo. «Un po'. Ma perché dovrei dirtelo?» Lo sguardo di lei andò da Richard alle file ordinate di caravan e alle auto parcheggiate: Rover, Marina e Cortina. «Sei troppo normale per capire». Aveva sbagliato, su Jay. Lei aveva ragione a essere infuriata, e gli dispiaceva. Ma Hammond? Quello era spuntato dal nulla. Richard stava per chiedere scusa, ma non voleva farlo. Hammond era vecchio. Poteva essere suo padre. Per Richard, non cambiava le cose. «Non hai niente da dire?» disse lei. Lui scosse la testa. «È tutto, allora» disse lei, senza trattenere la rabbia e il sarcasmo. Rabbrividì, improvvisamente cosciente che stava piovendo e che era zuppa. «Non voglio vederti più. Nessuno di noi vuole vederti più. Perciò che importa cosa pensi?» E con quello se ne andò a grandi passi, le braccia strette attorno al corpo, i capelli che ondeggiavano e la testa china contro la pioggia. Fu l'ultima volta che la vide, mentre si allontanava nelle pozzanghere e il fango rosso le schizzava sulle gambe nude. marina #452
(1976) Olio su carta Patrimonio dell'artista Jethro Arnold Dalton R.A. (1916-1976) Mare scuro, lunghe diagonali, navi da guerra dal grigio al carbone, verde bottiglia nelle onde che si infrangono sulla riva. Pallido riflesso del sole sulla sinistra, zafferano/zolfo che illumina obliquamente le onde bianco/gialle, riflesso metallico qua e là, secche in nero-blu. Cielo: nembi grigio scuro, muscolosi, stretti come pugni, pioggia a vento che sbava l'orizzonte. Cieli a pecorelle verso lo zenit. Uccelli bianchi che turbinano. Sulla sinistra un promontorio lontano, una macchia nero-verdastra, offuscata dal muschio. Nota dell'artista: blocco #50 Dalton dipinse lo stesso punto della costa proprio sotto la sua casa, annotando meticolosamente ogni mutamento nella marea e nel clima. «E perché non dovrei? Il panorama è nuovo, fresco ogni giorno. La sfida è costante. Le possibilità sono infinite. Il mare va avanti per sempre». ('J.A. Dalton: Ultime conversazioni', Charles Hammond in New Arts Review, dicembre 1976) Erano anni ormai che studiava lo stesso punto, dallo stesso angolo, lo stesso spazio tra terra e cielo. Aveva dipinto quella vista dalla spiaggia più volte di quante riuscisse a ricordare, con ogni condizione della marea, in ogni momento dell'anno, ma sapeva che stavolta sarebbe stata l'ultima. «È qui la bellezza! Questa la meraviglia» sussurrò, anche se non c'era nessuno che potesse sentirlo mentre caricava il pennello di colore. Il tremito della mano era peggiorato, molto più di prima. Era solo sulla lunga spiaggia, a parte un paio di pescatori, abbastanza lontani per non disturbare, che lanciavano la lenza nelle onde schiumose. Erano entrambi vestiti in abiti impermeabili, con calzoni giallo cromo tirati fino al petto. Miniaturizzati dalla distanza, stavano fermi come modellini, esattamente alla stes-
sa angolazione, il più basso appena più avanti dell'altro, le lunghe canne ad angolo con il mare, sottili come stuzzicadenti. Si afferrò il gomito, mentre il suo corpo era scosso da uno spasmo. I crampi diventavano più forti. Chiuse il pugno contro la morsa nell'addome e si piegò in due. I lunghi capelli neri ricaddero in avanti a sfiorare la tavolozza, raccogliendo dalla superficie gocce bianche e gialle. Il viso gli si coprì di sudore freddo, imperlandogli la fronte. Si morse il labbro, in parte contro il dolore, ma anche in cerca dell'insensibilità che sarebbe seguita. Se doveva farlo, era meglio che si sbrigasse. Non poteva dire quanto sarebbe andato avanti. Eppure non iniziava, non posava il pennello sulla superficie bianca. Fissava i flutti gelidi, la sabbia marrone che mulinava e i sassi, le onde dalle cime bianche, il promontorio lontano oscurato dalla nebbia e dagli spruzzi, la pioggia che cadeva obliqua, come limatura di ferro, sull'orizzonte, e l'orizzonte stesso, che curvava tra cielo e terra. Il punto di fuga. Guardava, ma i suoi occhi erano rivolti all'interno, il paesaggio si oscurava, coperto dal ricordo. Una facoltà di cui diffidava come pittore, e ancor più come uomo. Lycidas (1946) Olio su tela 204.5 x 257,2 cm John Dalton (1869-1948) Più stimato come mecenate che come artista in proprio, questo è l'ultimo e certamente il più apprezzato esempio della sua opera. L'insistenza di Dalton nel dipingere in uno stile classico, profondamente fuori moda, di certo non lo aiutò nel suo sogno di diventare un pittore rispettato. Aggiungiamo poi una certa mancanza di fluidità, una legnosità nell'esecuzione, ed è facile capire perché il successo che bramava rimase lontano. A parte questo dipinto. L'ultimo. La morte incombente, o la natura toccante del soggetto, forse gli permisero di raggiungere... (Note alla mostra, Whitehall Galleries, 1958) Il mare si è ritirato, lasciando solo una vasta distesa di sabbia. Il cielo è
azzurro, il sole dorato. La striscia lontana dell'acqua brilla come un anello nuziale. Una figura le corre incontro, sempre più lontana. Disturba gli stormi di uccelli marini che vagano sul fondale esposto. Si alzano turbinando in volo quando passa di corsa in mezzo a loro. Le volteggiano intorno quando si ferma, proprio al limite dell'acqua; una manciata di schegge bianche che diventano d'argento quando il sole illumina le ali. La sagoma di lui diventa indistinta, e tremola dentro e fuori dall'alone di luce che la distanza gli ha formato intorno. Il ragazzo sulla spiaggia aspetta e guarda. Il sangue che gli è uscito dal naso diventa appiccicoso, poi si secca in uno smalto duro, tirandogli la pelle, immobilizzando il volto come una maschera. Dopo un po', segue suo fratello fino al pericoloso limite dell'acqua, dove il canale è profondo, e reso turbinoso dalle correnti contrastanti del fiume che agitano la superficie in creste lucenti e onde a spina di pesce. Suo fratello è un forte nuotatore ed è venuto qui dove l'acqua è più profonda, ma ha giudicato male la marea, lo stato del fiume. È stato afferrato e trascinato via, impotente come una foglia, un ramoscello, e non si vede da nessuna parte. Poi Jethro vede un braccio che si agita, molto lontano, e sente un grido acuto, sottile, troppo distante per distinguere le parole. Il gesto dice: «Aiuto! Aiuto!» Jethro sente forte il grido di suo fratello nella testa. Si guarda intorno sulla spiaggia. È vuota. Non c'è nessuno che li aiuti. Al largo, il braccio si indebolisce, la testa, che fa su e giù come quella di una foca, è a malapena visibile. Jethro deve concentrarsi per vederla tra l'incessante movimento delle onde. Jethro fa per voltarsi, ma pensa che forse qualcun altro sta guardando, qualcun altro l'ha visto. Forse papà con il grande telescopio d'ottone del suo studio. Forse Dio. Jethro non vuole, ma questo pensiero lo fa entrare nell'acqua. Fa un passo, poi un altro. Il mare è freddo e la corrente forte, anche così vicino alla riva. Il mare qui è pericoloso. È una spiaggia pericolosa. Lo sa il cielo quante navi sono naufragate. Fin da quando erano piccoli hanno sentito raccontare quelle storie, ancora e ancora: «Il mare qui è pericoloso. È una spiaggia pericolosa». I bagnanti, pescatori, spazzati via dalla corrente, tirati giù dalle sabbie mobili, sopraffatti dalla marea, dal fiume sinuoso. Sente l'acqua che gli tira le caviglie, che risucchia fango e sassolini da sotto le dita dei piedi, così forte da farlo quasi cadere. Non è un bravo nuotatore e non ama l'acqua. Avanza ancora. La corrente rapida lo colpisce dietro le ginocchia. Le gambe gli si piegano come se avesse ricevuto un calcio. Se cade sarà trascinato al largo. Che senso ha
annegare tutti e due? Non riesce neanche più a vederlo. Si volta verso la spiaggia, con tutto il corpo proteso in avanti mentre lotta con la forza della corrente. L'acqua si divide e poi si ricongiunge, creando piccoli ruscelli turbinosi attorno ai suoi polpacci. È quasi arrivato, è quasi al sicuro. Allora si volta per cercare ancora suo fratello. Nessuna traccia. È come se non ci fosse mai stato. Corre lungo la spiaggia, con le spalle al mare deserto. La prima cosa da fare è trovare qualcuno, dirlo a qualcuno. Vede se stesso correre, indicare, le teste degli uomini che si alzano per vedere oltre le onde, come cani da punta. «Dove, ragazzo? Dove, esattamente?» Crede di conoscere il punto esatto, ma non è sicuro. La luce comincia a calare e la marea sta tornando, più veloce di un treno, correndo sulla sabbia, mangiando la costa, facendo sembrare tutto diverso. Già mentre stanno lì a guardare, il mare li lambisce, tira loro i piedi, li costringe ad arretrare. Partono le barche, comincia la ricerca. Jethro rimane sulla spiaggia. «Sto aspettando mio fratello. Aspetto Richard» dice a se stesso. È notte quando lo trovano. È buio. Le lampade ondeggiano, creando scie tremolanti sull'acqua nera, come quelle che usano i pescatori di notte. C'è un grido, poi un altro; una barca dondola e si sente il rumore di qualcosa di pesante che viene lanciato dall'acqua nel piccolo scafo. Un motore si avvia scoppiettando. Il motore a due tempi singhiozza laboriosamente fino alla riva, mentre la barca taglia un arco schiumoso sull'acqua. Un uomo è in piedi a prua, con un piede avanti, si sporge come un tuffatore pronto a saltare appena raggiungono la secca. Il ragazzo è lì a vedere suo fratello portato a riva. Le sue labbra sono di un pallido azzurro verdastro. Gli occhi, non del tutto chiusi, mostrano schegge di cobalto da sotto le lunghe ciglia. La pelle splende di un viola perlaceo nella luce dorata delle lampade; i capelli bagnati sono attaccati alla testa come onde scolpite nel marmo. Sembra un angelo annegato. Nessuno può fare niente. Le grida di allarme e di orrore diventano più sommesse, e si trasformano in singhiozzi e lacrime. Il ragazzo rimane in silenzio, i suoi occhi agiscono come una macchina fotografica. Già allora possiede quella capacità. Mentre guarda, la sua mente prende nota dei colori insoliti, della qualità della luce, dell'esatta disposizione del corpo: l'angolo della testa sulla sabbia, la curva della schiena, la piega del-
le ginocchia come se stesse correndo, la posizione della mano. Le sue dita si riflettono e si stringono, come attorno a una matita o un pennello. Sente una mano pesante sulla spalla, un dito ruvido che gli asciuga le lacrime dalle guance. «Non è colpa tua, figliolo. Hai fatto quello che hai potuto». Morte accidentale. Questo fu il verdetto. Andò all'udienza con un nuovo vestito blu, una camicia e una cravatta. Sedette tra suo padre e sua madre, ripassando la sua storia, col grande colletto che sembrava strangolarlo, preoccupandosi di cosa avrebbe detto. Era stato l'ultimo a vederlo vivo, ma alla fine nessuno lo chiamò. Nessuno gli chiese niente. A nessuno importava ciò che sapeva. Il vecchio ne morì quasi. Non fu più lo stesso dopo. Andava nel suo studio alla stessa ora tutti i giorni, come aveva sempre fatto. Andò avanti per anni. Tutti in casa fingevano che stesse lavorando, ma non dipinse più nulla. Nessuno sapeva che cosa facesse lì dentro tutto il giorno perché nessuno osava entrare e scoprirlo. Disturbarlo avrebbe distrutto l'illusione. Alla fine toccò a Jay. Tornò dalla guerra e non riuscì più a sopportarlo. Non poteva più tollerare la finzione che il vecchio stesse dipingendo. All'epoca aveva già il morbo di Parkinson. Le sue mani tremavano così forte che non riusciva neanche a tenere il pennello. Jay guardò il movimento convulso delle sue stesse mani. Questa era una svolta che non aveva previsto, anche se sapeva che la malattia poteva essere ereditaria. Non sembrava più in grado di controllare il suo volto. Il suo sorriso di consapevolezza si contrasse in una smorfia. Un giorno entrò e trovò il vecchio che guardava il mare con quel grande telescopio di ottone. Alle sue spalle c'era una tela con lo schizzo per una grande opera classica. Era basata su Licida, il giovane annegato. Il vecchio aveva scarabocchiato qualche verso di Milton con mano tremante in fondo alla tela: Perché Licida è morto, morto prima del fiore, Licida così giovane! Né lasciò chi lo valga. Chi negherà il canto a Licida?* Jay terminò il dipinto per il vecchio. Fece cantare il suo pennello per lui. Gli dette un enorme, ampio, fiammeggiante cielo livido, con striature malate d'arancio e color zafferano all'orizzonte, come ricordava da quel
giorno. Luce appena sufficiente da illuminare il corpo sulla spiaggia, da far splendere la carne pallida e marmorea, e ombreggiare le curve nei toni verdastri della morte. Aggiunse degli elementi classici, drappeggi fluttuanti, guizzi trasparenti di materiali setosi per nascondere la nudità del ragazzo. Dipinse delle altre figure. I volti che ricordava rivissero nei pescatori, nei pastori attirati sulla spiaggia dal trambusto. Fece tutto nello stile dei vecchi maestri che suo padre aveva tanto ammirato nella sua vita, aveva cercato così tanto di emulare, fallendo clamorosamente... fino a ora. Fu l'unica delle croste del vecchio a ottenere un certo successo. Aveva girato l'America in una grande mostra sui 'Preraffaelliti e i loro seguaci' ed era stata comprata da una grande fondazione americana. Jay non disse mai una parola sul suo contributo. E comunque, il vecchio a quel punto era talmente rimbambito che credeva sul serio di averlo fatto lui. Jay non volle disilluderlo. Il quadro ora era da qualche parte in America. Jay alzò la testa. Il cielo aveva esattamente lo stesso aspetto. Toccò la tavolozza, caricando il pennello. Strana la piega che prendono certe cose. Richard non aveva dormito bene. Di solito gli piaceva il suono della pioggia sul caravan, ma il tamburellare insistente e continuo l'aveva tenuto sveglio per gran parte della notte. Appena aveva preso sonno, il vento aveva scosso la parete del caravan, facendolo sobbalzare. Una volta, aveva creduto di sentire delle sirene, ma aveva deciso che doveva essere stato un sogno oppure il rumore del vento. Al mattino, la tempesta si era placata, il vento ridotto quasi a nulla, ma aveva fatto salire la marea e la risacca. Suo padre lo svegliò non molto dopo le prime luci dell'alba per andare alla spiaggia con lui e cercare di prendere le ultime spigole. Vide l'uomo sulla spiaggia da molto lontano. Il suo primo impulso fu di ignorarlo, fingere di non averlo visto. Piegò indietro la canna e lanciò l'insieme ondeggiante delle esche e dei pesi nella risacca schiumosa. Cercò di concentrare tutta la sua attenzione sulla lenza che aveva fra le mani, sulla punta della canna, ma la mente continuava ad andare altrove, gli occhi cercavano la figura curva. Non poteva concentrarsi sulla pesca. Avevano degli affari in sospeso. Chiese a suo padre di badare alla canna e s'incamminò lungo la spiaggia. «Non sapevo se ti avrei rivisto» disse l'artista senza alzare lo sguardo.
«Infatti c'è mancato poco» rispose Richard. Si mise accanto alla sedia dell'artista, guardandolo. L'uomo alzò la testa per un istante. I suoi occhi erano cambiati. La luce se n'era andata dal colore nero. Erano opachi, velati, come i fiori che crescono sui prugnoli d'autunno. Il volto era pallido sotto l'abbronzatura, e rigido. Malgrado il vento freddo, aveva la pelle imperlata di sudore. I capelli erano sporchi di colore. Le lunghe ciocche arruffate vibravano appena, scosse da un tremito che l'uomo non riusciva a controllare. «Ho sentito che hai trovato Clio e Hammond. Dev'essere stato un po' uno shock per te». Rise, poi si asciugò la saliva dalle labbra. Se lo sapeva lui, lo sapevano tutti. Ma a quel punto l'avrebbero saputo comunque. Che stupido era stato. Che ingenuo. Richard sentì il gusto metallico dell'umiliazione in bocca. Almeno non sa cosa ho pensato davvero, rifletté Richard; quello sarebbe stato brutto. «Pensavi che fossi io, vero?» L'artista lo guardò, stringendo gli occhi. «Hai più immaginazione di quella che ti attribuivo. Non è possibile, vecchio mio. Sono impotente, sai. Non lo tiro più su». Richard non sapeva cosa dire. Fissò le conchiglie di cardio, candide come ossa, sparse sulla sabbia bagnata, mentre la vergogna tornava e minacciava di inghiottirlo. «Tutti quanti facciamo pensieri oscuri a volte. Non ti preoccupare». Tossì e sputò del muco sulla sabbia, simile a una medusa in miniatura. Non sta bene, pensò Richard. Non sta bene per niente. Si chiese se doveva fare un commento in proposito. Dire qualcosa. «Nuoto tutti i giorni quando sono qui» gli aveva detto l'artista una volta. «Con qualsiasi clima, in qualunque momento dell'anno». Oggi non era un buon giorno per nuotare. Forse si era preso un raffreddore. L'artista tornò a contemplare il mare davanti a loro. «Ti ho messo io con lei. Lo sai questo, non è vero? Con Clio. Volevo che tu e lei steste insieme. Volevo che lei stesse con qualcuno della sua età. C'era un'innocenza in questa storia che mi attirava. Una simmetria. I giochi che facevate, che belli. Ecco perché ho fatto i disegni. Tu non l'hai vista allo stesso modo. Evidentemente. Oh, be'». Sospirò. «Chiamalo un esperimento fallito». Richard non disse nulla. Si sentiva usato. Sfruttato. Da lui, da tutti loro. Ogni simpatia che aveva cominciato a provare sparì come acqua inghiottita
dalla sabbia. «Devo dirti qualcosa» disse l'artista. Ancora? «Qualcosa che non ho mai detto a nessuno». «Perché a me?» Richard non era sicuro di volerlo sentire. «Tu o un altro, è lo stesso». La mano dell'uomo tremava quando cominciò a dipingere. Malgrado ciò che provava, Richard dovette ammirare la sua bravura. La finezza che dava a un panorama che a Richard sembrava solo grigio e piatto. Te lo faceva vedere in modo diverso. Richard cambiò posizione, distogliendo deliberatamente lo sguardo dalla luminosità, dalla qualità perlacea e lucente che si sviluppava sotto le dita dell'artista. «Tu non hai fratelli o sorelle» proseguì l'artista. «Mi hai detto così, vero?» «Sì» rispose alla fine Richard. «Ci sono solo io». «In un certo senso sei fortunato. In un certo senso. Io avevo un fratello. Tu gli somigli un po'. L'ho notato la prima volta che sei entrato in giardino». Richard non disse nulla. Lo sapeva. La mente dell'artista doveva stare divagando. Non riusciva a decidere se restare o andarsene. «Era più grande di me». L'artista raccolse altro colore dalla tavolozza. «È annegato. Qui, proprio in questo punto. E io ero qui a guardare. Non nuotavo bene all'epoca e non ho potuto fare niente per salvarlo. Questo è ciò che mi sono detto. Non c'era nessuno in giro, la spiaggia era deserta. Quando ho trovato aiuto, era troppo tardi. Non è stata colpa mia. Sorprendenti, le bugie che ci raccontiamo. Avevamo litigato». «Per cosa?» domandò Richard. Le parole vennero fuori prima che potesse impedirlo. «Non ne ho la minima idea». La risata dell'artista divenne una tosse aspra e sibilante. «Qualcosa. Niente. Mi ha dato un pugno, quello lo ricordo. Non è così che funziona, tra fratelli? Per cosa litigano i ragazzi?» Scrollò le spalle e passò il pennello sulla manica per togliere l'eccesso di colore. «Cerchi un senso dove non c'è. Ecco cosa sono arrivato a capire. Forse avrei potuto salvarlo. Anche se il nostro litigio era banale, una parte di me voleva che affogasse». «Era troppo occupato a salvare se stesso». «Non sei tanto stupido, eh?» L'artista lanciò a Richard un'occhiata di traverso, con un sopracciglio inarcato, poi tornò al dipinto. «Non so perché
ti sto raccontando questo». Si interruppe, come per raccogliere le forze. Il viso era del colore della creta sporca, il sudore gli scorreva sulle guance in gocce oleose. Il tremito della mano era diventato spasmodico, eppure continuò a prendere piccole quantità di colore: blu, rosso, giallo, e li mescolò in un mare e in un cielo dove Richard non vedeva alcun colore. «Non l'ho mai detto a nessuno, da quel giorno. Non c'è modo di fuggire. Voglio che tu lo sappia, Richard». Guardò il ragazzo. «Finisci sempre per pagare». Smise di parlare. Il suo volto si tirò in un sorriso rigido mentre inspirava con un sibilo. «Sta bene?» chiese Richard con riluttanza, anche se era chiaro che non stava affatto bene. «Mai stato meglio». L'uomo guardò verso il mare. «La luce sta cambiando. Il momento è passato. Un momento. È tutto quello che ottieni, tutto quello che puoi avere. Un momento, bello o brutto. Ormai è finito. Finito per sempre. Ecco...» Strappò la pagina dal suo blocco e la dette al ragazzo. «È tuo. I miei omaggi». Aveva un aspetto terribile. Le labbra erano di un colore strano, Richard non conosceva il nome di quella tinta: blu petrolio? Guardò il dipinto, non sapendo perché gli venisse offerto, né se doveva accettarlo. Alla fine lo prese e lasciò l'uomo a mani vuote, a fissare il mare. Quando si voltò di nuovo, la sedia era vuota. In tutta la spiaggia non c'era anima viva. Richard continuò a camminare, tornò da suo padre, alla pesca. Le pagine del blocco dell'artista volavano ovunque nel vento forte, fluttuando e volteggiando come gabbiani. Poteva essere una pioggia di banconote. Quelle carte valevano una fortuna. Planarono in giro, a faccia in giù sulla sabbia, sull'acqua, trasformandosi lentamente in inutili fogli inzuppati dalla pioggia, lavati dalle onde. Richard sarebbe tornato indietro per continuare a pescare, mentre sua madre caricava l'auto per tornare a casa. Quando la marea fosse cambiata e le onde calmate sarebbe stato il momento di ritirare le lenze e tornare al campeggio. Poi suo padre avrebbe agganciato il caravan al rimorchio della Rover e sarebbero tornati a casa. L'estate successiva, i piani di Dylan sarebbero stati operativi; gli affitti delle piazzole aumentarono così tanto che il padre di Richard non ne volle più sapere. Il caravan sarebbe finito su dei mattoni, sul vialetto di casa. Non sarebbero mai più tornati là. Sirena
(1976) Olio su tela 183 x 122 cm Tate Gallery Jethro Arnold Dalton (1916-1976) Il quadro era uguale all'ultima volta che l'aveva visto. Clio alla finestra, con il mento appoggiato alla mano, le lunghe braccia appoggiate al davanzale. Indossa lo scintillante abito da pesce, con la schiena nuda fin sotto la vita. I capelli neri, che ricadono oltre le spalle, brillano come squame, l'abito scende sul pavimento dietro di lei come una coda di sirena; ma lo stile dell'abito, la curva del seno, l'ampiezza dei fianchi suggeriscono che Jay l'ha dipinta non come sirena o come la ragazza che era allora, ma come la donna che diventerà. La didascalia dice: Quest'ultimo dipinto è stato dichiarato da molti il capolavoro di Dalton. In esso si combinano molti dei suoi temi abituali: il mito, la giovinezza, la bellezza e la perdita. Il dipinto possiede una qualità di incanto potente, e la sua realizzazione perfetta, lo stile quasi fotografico gli conferiscono una sensibilità superiore e surreale, esteticamente attraente e insieme profondamente inquietante. Il telescopio di ottone è da una parte e punta verso il basso, cieco e ridondante. Di fronte a lei c'è uno specchio, ma lei guarda oltre, verso un mare in tempesta dove le navi affondano e gli uomini annegano - minuscole braccia che si sollevano disperatamente, teste come puntini scuri sul punto di sparire tra le onde grigio ardesia. Lo specchio riflette la stanza, uno spazio buio e familiare: il mondo che lei si lascerà alle spalle. L'artista, una presenza incombente nell'ombra. Avvicinandosi, Richard vede il suo ritratto in una minuscola miniatura. «L'ha terminato quel giorno» disse una voce alle sue spalle. «Ecco perché non era in casa quando sei tornato». Richard continuò a guardare il quadro. Clio gli si avvicinò, prendendolo sottobraccio. Portava un profumo speziato, meno pesante e stucchevole dell'estratto di patchouli che ricordava. Ora lui era più alto di lei. Quando si voltò, i capelli di lei sapevano di prati e fiori.
Lei lo baciò sulla guancia. Poi rise e strofinò via le tracce viola lasciate dalle sue labbra. «Come stai, Richard? Come te la passi?» «Bene. Sto bene» riuscì a dire. «Ti ho visto quando sei entrato. Morivo dalla voglia di parlarti. Non pensavo che saresti venuto». Lo guardò, prendendosi il labbro inferiore tra i denti nel modo in cui lui ricordava. «Che stai facendo?» Si avvicinò a lui. «Devi dirmi tutto di te. Voglio sapere tutto». Gli strinse più forte il braccio. Lui sentì il calore della sua pelle attraverso il cotone della camicia, mentre lei lo portava in giro per la sala. Parlarono delle loro vite, di cosa avevano fatto da quando si erano separati. Clio chiacchierava con facilità e gli fece un sacco di domande, ma Richard trovava difficile sostenere la conversazione. La vicinanza di lei lo ammutoliva quasi, e anche se erano circondati dai ricordi di quell'estate, si sentiva bloccato da tutta quella gente. C'erano tante altre cose che voleva chiederle, tante cose che voleva dire. Clio continuò a parlare, come se fossero stati amici casuali che rinverdivano una vecchia conoscenza. Lui la guidò nella zona che conteneva il trittico e le strinse le mani fra le sue. Guardò le versioni più giovani di lei che li osservavano e chiese: «Perché tutto questo, Clio?» «Ho pensato...» Gli occhi di lei vagarono da un'immagine all'altra. «Ho pensato che metterlo su una parete avrebbe anche potuto contenerlo». Fece una sfera con le mani. «In una capsula». Richard non ebbe bisogno di chiedere altro. Era tutto lì nei dipinti, nelle opere che aveva messo insieme. Il suo dolore. E anche quello di lui. «Come una terapia?» «Penso di sì. Anche se ho fatto pure quella». «E ha funzionato? La mostra, dico». Lei rise, ma gli occhi erano lucidi di lacrime. «Un pochino». Tese la mano a misurare lo spazio tra i due lati del trittico. «Questi erano i dipinti che cercasti di dare a Hammond». «Avevo quindici anni». Richard distolse lo sguardo. «Non capivo. Non sapevo. Non avevo idea che gli avrebbe fatto quell'effetto». Sapevano entrambi che parlava di Jay. «Infatti non è stato così. Non sei stato tu. Non hai nemmeno distrutto tutti i disegni, ce n'erano ancora nel suo blocco. Non devi biasimarti, Richard. Non è stata affatto colpa tua. Non è stata colpa di nessuno, in realtà.
Devi aver sentito cosa è successo. Alcune specie velenose mischiate ai funghi magici che aveva raccolto insieme a Lucia». «Così ho letto» disse Richard. Gli stava dando la storia, la versione ufficiale. Ma dal suo viso capiva che c'era altro. «Perché tu non sei stata avvelenata?» «Non li ho presi. Solo Lucia, Jay e Joe. Joe si svegliò in piena notte con dei dolori di pancia, dicendo che non stava bene. L'ambulanza arrivò subito dopo. Jay rifiutò di andare con loro. Disse che stava bene». «Ma invece non era così, giusto?» Richard rivide il volto di Jay, grigio come la cenere, le labbra che diventavano blu. Sentì il rumore della risacca, l'odore del mare. Hai qualcosa da confessare, Richard? Qualcosa di cui ti senti colpevole? Le parole dell'artista gli tornarono alla mente. Scommetto di sì. «Ero là con lui. Sulla spiaggia» disse Richard. Riusciva a malapena a guardare Clio. «Ho visto che stava male. Avrei dovuto fare qualcosa, cercare aiuto. Dirlo a mio padre. Forse se avessi...» «Non torturarti. A quel punto ogni aiuto era inutile. È stato furbo. Ha mescolato i funghi velenosi fra gli altri, abbastanza per far star male tutti, ma lui ha preso anche qualcos'altro. Un decotto di piante del Giardino delle Streghe. E poi è entrato in acqua. Tanto per essere sicuro». «Ma perché l'ha fatto?» «Perché si fa?» Clio lo guardò. «Non voleva più vivere». Richard scosse la testa, rifiutando di accettare che potesse essere così semplice. «È quello che dice Lucia. E lei lo conosceva meglio, perciò credo che dovremmo accettarlo. Ci siamo colpevolizzati tutti, ma credo che nessuno di noi c'entrasse nulla. Lui viveva in se stesso, l'ha sempre fatto. Noi eravamo una parentesi. Viveva per la sua arte, niente altro contava. Aveva i primi sintomi del morbo di Parkinson, ma non lo sapeva nessuno. Meg aveva dei sospetti, ma lui non l'ascoltava. Sai com'era fatto». «Perché Meg non l'ha detto a Lucia?» «Lui le fece promettere di non farlo; e poi è stato troppo tardi. Aveva preso la sua decisione. Era come se avesse un orologio che ticchettava dentro di lui, e quel giorno si è fermato». «Ma uccidersi! Ancora non lo capisco». «Nemmeno io, allora. Ero solo furiosa. Furiosa con tutti. Incolpavo perfino te, il modo in cui eri entrato nelle nostre vite, in qualche modo disturbando l'equilibrio. Ma più che altro ero arrabbiata con lui. Come aveva po-
tuto farmi questo? Lucia mi ha aiutato a vedere le cose in modo diverso. E anche Meg. Il Parkinson è degenerativo e incurabile. Per un artista, perdere l'uso delle mani...» Richard annuì. «Meg è qui? E Lucia?» «No». Clio scosse la testa. «Meg è venuta e se ne è andata. Stasera deve fare la babysitter. Lucia è in Italia. Ha un altro uomo, e un bambino. Te lo immagini!» Richard ci provò, ma era difficile. «E Joe?» «È in California. Era andato a trovare un amico ed è rimasto. Gli piace quello stile di vita. Ha un nuovo lavoro, per un'azienda di computer che ha il nome di un frutto. Martin è lì...» «Dove?» Richard l'aveva un po' cercato, ma senza vederlo. «Lì. Parla con quel tipo accanto al tavolo del vino». Richard guardò ancora. Lo riconobbe solo dalla magrezza. Portava jeans scoloriti strappati alle ginocchia, e stivali da cowboy con i tacchi alti. La camicia con i volant era aperta, a mostrare il petto ossuto, e i capelli erano rasati da un lato, mentre dall'altro ricadevano lunghi, biondi e lisci su un occhio carico di mascara, kajal e ombretto azzurro. Portava un rossetto più scuro di quello di Clio e le guance truccate avevano un velo di porporina. «La sua pelle sembra guarita» osservò Richard. «E a quanto pare si è chiarito le idee». Scosse la testa. «Non riesco a credere a ciò che ho detto quel giorno». «Lo so» sorrise Clio. «Hai un sacco di amici gay». «Non così tanti». Sorrise del luogo comune. «Ma di certo oggi non direi quelle cose». Si stava domandando cosa fare, cosa dire, quando qualcuno comparve alle spalle di lei. «Eccoti, mia cara. Ti ho cercata dappertutto. È il momento che io dica qualche parola. Meglio farlo adesso, prima che siano tutti troppo ubriachi». La voce baritonale di Hammond era di una carezzevole possessività. I suoi occhi azzurri incrociarono quelli di Richard, solo per un istante, e lui sorrise mentre cingeva con le braccia la vita sottile di lei. Si chinò a strofinarle il naso sul collo. Lei rise, una profonda risata di gola, come quella di Lucia. Chiuse appena gli occhi e si voltò a ricevere il bacio. Richard ap-
profittò di quel momento per fuggire. Se stava con lui, buona fortuna. Ovviamente lui teneva molto a lei. Ciò che sentiva Clio era il solito mistero, ma lui era un amante conveniente. Sfondare come artista era difficile. Lei lo bloccò fuori dalla porta. Lui si era fermato, il tempo di riprendersi. Nel frattempo era piovuto e lui restò appoggiato al muro, a guardare la strada bagnata e a bere l'aria fresca. «È bello vederti, Richard» disse lei, prendendogli la mano e avvicinandosi a lui. «Grazie per essere venuto. Sono proprio felice che tu l'abbia fatto». Poi lo baciò. Le labbra calde di lei indugiarono sulle sue, riportandogli all'improvviso alla mente tutto ciò che ricordava di lei quell'estate. Voleva dire qualcosa per trattenerla, ma lei si stava già voltando, e spariva nella galleria affollata. Questo era il suo mondo ora, e lui non ne faceva parte, non avrebbe mai potuto. Nessuno dei due avrebbe mai dimenticato l'altro, ma il loro tempo insieme era finito. Lei l'aveva amato? Probabilmente no. Non nel modo in cui lui aveva amato lei. Non nel modo in cui lui aveva voluto, ma non la biasimava più. L'amore è un'emozione profondamente autoreferenziale; da allora l'aveva capito. Aveva imparato molto da Clio, compresa la tecnica. Molte ragazze si erano innamorate di lui, e lui le aveva trattate tutte male. Proprio come aveva fatto lei. Le luci della galleria illuminavano la strada. La gente andava via, si salutava. Per loro era stata solo un'altra inaugurazione su invito. Jay aveva voluto conservare il momento, mantenerlo per sempre. Là dentro c'erano alcuni suoi tentativi in questo senso. Richard aveva obiettato che era impossibile, ma aveva continuato a tornare a quell'estate. Ora sentiva che non era più necessario farlo. Il tempo era stato contenuto, messo in una capsula. Brava Clio. Le augurava davvero il meglio. Il bacio di lei vibrava ancora sulle sue labbra mentre si incamminava per le strade bagnate e illuminate dai neon. Si fermò all'angolo, decidendo in quale pub andare, sentendosi in qualche modo liberato. FINE