Le idee e le istituzioni
Tommaso Greco (Caloveto, CS, 1968) è ricercatore di filosofia del diritto nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa. Oltre a vari altri scritti, ha pubblicato i volumi Norberto Bobbio. Un itinerario intellettuale tra filosofia e politica (Donzelli, Roma 2000) e Diritto e legame sociale. Appunti di filosofia e sociologia del diritto (SEU, Pisa 2006).
Tommaso Greco T. Greco – La bilancia e la croce. Diritto e giustizia in Simone Weil
Il rapporto tra diritto e forza e tra diritto e giustizia, come pure quello tra giustizia e carità, o l’interrogativo sul fondamento e sulla ragion d’essere della punizione penale sono solo alcuni dei temi nodali della riflessione filosofica sul diritto affrontati con profonda originalità da Simone Weil in pagine memorabili pur nella loro apparente frammentarietà. Se per un verso può essere all’origine dell’inadeguata attenzione fin qui prestata alla sua opera da parte della cultura filosofico-giuridica, per un altro verso, il particolare punto di vista da non addetta ai lavori fatto proprio dalla pensatrice francese, le ha consentito di guardare e far guardare in modo nuovo anche a questioni che nuove certamente non sono. L’intento di questo volume è quello di cercare il filo conduttore che lega e attraversa i vari momenti dell’itinerario weiliano – la fase dell’impegno politico e sindacale non meno di quella “mistico-religiosa” – al fine di tentarne una ricomposizione unitaria che metta in luce la radicale ‘provocatorietà’ di una visione dell’universo giuridico nella quale la straordinaria sensibilità di un’intellettuale di raro rigore etico si coniuga con una capacità di analisi singolarmente penetrante.
La bilancia e la croce Diritto e giustizia in Simone Weil
ISBN / EAN
E 21,00
G. Giappichelli Editore – Torino
Le idee e le istituzioni collana diretta da Riccardo Faucci ed Eugenio Ripepe NUOVA SERIE
Volumi pubblicati: GIOVANNI PAVANELLI, Dalla carità al credito. La Cassa di Risparmio di Firenze dalle origini alla 1a guerra mondiale, 1991, pp. 250. CLAUDIO CRESSATI, L’Europa necessaria. Il federalismo liberale di Luigi Einaudi, Saggio introduttivo di Riccardo Faucci, 1992, pp. 154. ADELINO ZANINI, Genesi imperfetta. Il governo delle passioni in Adam Smith, 1995, pp. 188. BRUNO DI PORTO, Politica, economia e cultura in una rivista tra le due guerre. “Echi e Commenti” 1920-1943, 1995, pp. XIV-286. SAMUEL TAYLOR COLERIDGE, Sulla costituzione della Chiesa e dello Stato secondo la rispettiva idea, a cura di Claudio Palazzolo, 1996, pp. VI234.
Nuova serie: TOMMASO GRECO, La bilancia e la croce. Diritto e giustizia in Simone Weil, 2006, pp. 192.
Tommaso Greco
La bilancia e la croce Diritto e giustizia in Simone Weil
G. Giappichelli Editore – Torino
© Copyright 2006 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100
http://www.giappichelli.it
ISBN 978-88-348-6696-2
Il presente volume viene pubblicato con un contributo derivante da fondi di Ateneo dell’Università di Pisa
Composizione e Stampa: Media Print – Livorno Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4 della legge 22 aprile 1941, n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni ad uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02-80.95.06, e-mail:
[email protected] a Giovanni e Paolo
INDICE
pag. Tavola delle abbreviazioni Introduzione
9 11
Capitolo Primo
L’antinomia del diritto
15
Capitolo Secondo
La forza della legge
29
Capitolo Terzo
Tra forza e giustizia
45
Capitolo Quarto
La nudità della giustizia
61
Capitolo Quinto
I bracci disuguali della bilancia
77
Capitolo Sesto
Il limite sovrano
89
Capitolo Settimo
La facoltà del giusto
101
8
La bilancia e la croce
Capitolo Ottavo
Nel silenzio
121
Capitolo Nono
L’obbligo che unisce
143
Capitolo Decimo
Il radicamento della giustizia
155
Riferimenti bibliografici
173
TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI
AD C CJB CO CSW EHP,1 EHP,2 EHP,3 EL GR LF LR OL P PEP PR PSF Q,I Q,II Q,III Q,IV R SC SG SGT VS
Attesa di Dio I catari e la civiltà mediterranea Corrispondenza con Joë Bousquet La condizione operaia «Cahiers Simone Weil» Œuvres complètes. II. Écrits historique et politiques.1 Œuvres complètes. II. Écrits historique et politiques.2 Œuvres complètes. II. Écrits historique et politiques.3 Écrits de Londres et derniéres lettres La Grecia e le intuizioni precristiane Lezioni di filosofia Lettera a un religioso Oppressione e libertà La persona e il sacro Œuvres complètes. I. Premiers écrits philosophiques La prima radice Primi scritti filosofici Quaderni, vol. I Quaderni, vol. II Quaderni, vol. III Quaderni, vol. IV Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale Sul colonialismo Sulla guerra Sulla Germania totalitaria Venezia salva
INTRODUZIONE
Per quanto sia vero che l’opera di Simone Weil «difficilmente può essere accostata da un punto di vista preferenziale senza affievolire la forza luminosa del suo insieme»1, è indubbia la necessità – e anche l’utilità – di percorsi tematici che permettano di penetrare nel corpo vivo di un’opera così ricca. La lettura degli scritti weiliani che viene proposta in questo lavoro non mira, perciò, a offrirne uno studio sistematico, ma solo a tracciare un itinerario che privilegia le questioni relative al diritto e alla giustizia2, pur nella consapevolezza che la varietà degli argomenti e la frammentarietà della produzione weiliana, rendono particolarmente precarie le possibilità di raggiungere anche un tale obiettivo limitato. Qualunque ricostruzione tematica del pensiero di Simone Weil, infatti, deve fare i conti con la difficoltà di disciplinare i molteplici rimandi evocati, e quasi imposti alla mente, dalle parole e dai concetti utilizzati dalla pensatrice francese; e ciò vale anche, e forse in modo del tutto particolare, per quanto concerne i temi della giustizia e del diritto. 1 A. MARCHETTI, Simone Weil. La critica disvelante, prefazione di A. Devaux, Clueb, Bologna, 1989, p. 5. 2 In questo senso, si opera consapevolmente una “violenza” nei confronti di un’autrice per la quale è stato ritenuto «impossibile lo scomporla in analisi, relegarla in classificazioni, confinarla in raffronti» (G. FIORI, Simone Weil. Una donna assoluta, La Tartaruga edizioni, Milano, 1991, p. 7).
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La bilancia e la croce
Ormai da molti anni, il pensiero di Simone Weil offre spunti fecondi alla riflessione filosofica, e in particolare alla riflessione filosofica sulla politica, soprattutto grazie a una generazione di studiosi che è stata in grado di far maturare e di cogliere quanto a quella riflessione poteva venire da uno stuolo di autori precedentemente trascurati dalla tradizione accademica e scientifica. Da Hannah Arendt a Elias Canetti, da Albert Camus a Romano Guardini, autori difficilmente catalogabili – non solo per quel che riguarda le loro posizioni lato sensu ideologiche, ma anche per ciò che concerne il loro “statuto scientifico” – sono stati valorizzati e significativamente portati al centro di una nuova stagione di studi. Con riguardo a Simone Weil, oltre all’immensa mole degli studi agiografici, e l’altrettanto immensa quantità di studi meramente ricostruttivi del suo ricco (quanto breve) itinerario esistenziale, si sono avuti lavori importanti che hanno assunto la sua riflessione come punto di riferimento di un serio ripensamento delle categorie politiche moderne3. Più complicato, invece, appare l’approccio al suo pensiero per gli studi filosofico-giuridici4. Se in questo ambito è mancato, almeno sotto il profilo quantitativo, un contributo rilevante, ciò non è dovuto tanto a un disinteresse o ad una svista, ma anche, e soprattutto, alla particolarità del pensiero weiliano sul diritto, non immune da espressioni che potrebbero far collocare l’autri3 Valga per tutti il riferimento ai lavori di R. ESPOSITO, Categorie dell’impolitico, Il Mulino, Bologna, 1999 (la cui prima edizione risale al 1988), e L’origine della politica. Simone Weil o Hannah Arendt?, Donzelli, Roma, 1996. 4 Ancora pochi anni fa, era possibile affermare che nell’ambito filosofico-giuridico «la figura di Simone Weil appare quella di una illustre sconosciuta» (M.A. CATTANEO, Simone Weil e la critica dell’ideologia sociale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2002, p. 10). Secondo E. BEA PÉREZ, Simone Weil. La memoria de los oprimidos, Ediciones Encuentro, Madrid, 1992, tr. it. Simone Weil. La memoria degli oppressi, Sei, Torino, 1997, pp. 222-223, il fatto che «pochissimi studiosi si [siano] impegnati nella valutazione di questo settore del pensiero weiliano, che è stato considerato come marginale», è dovuto sia alla difficoltà di trovare «risposte sul piano giuridico-politico agli interrogativi posti dalla Weil», sia alla precipitazione, alla brevità (e anche alla superficialità in molti punti importanti) degli scritti che hanno un maggiore rilievo giuridico.
Introduzione
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ce nella schiera dei pensatori per i quali è possibile parlare di antigiuridismo. Certo, Simone Weil non solo non era una giurista, ma non si è mai confrontata direttamente con gli argomenti e le tecniche propri dei giuristi. Vi è un unico scritto, difatti, che ella ha espressamente dedicato al diritto. Ciononostante – e quantunque questo scritto risalga al periodo della produzione giovanile (se è lecito dir così per un autrice scomparsa all’età di 34 anni) –, si può affermare ugualmente che la riflessione sul problema giuridico (inteso come riflessione anche sulla giustizia) costituisce una costante del pensiero weiliano, non foss’altro perché, come tanti altri temi, attraversa la riflessione politica e sociale, propria del “periodo dell’impegno”, e la riflessione religiosa, propria degli ultimi anni di vita (la cosiddetta fase “mistica”)5. La principale ragione, dunque, per la quale il pensiero di Simone Weil si propone anche all’attenzione dei filosofi del diritto, è che esso può essere letto come una profonda ed originale riflessione sull’origine e sulla natura del “giusto”, sui suoi rapporti con la dimensione del diritto e della politica, sui legami che intrattiene con il concetto del Bene. Più in generale, però – e si spera possa risultare evidente dalle pagine che seguono –, la riflessione weiliana può costituire un luogo di confronto critico radicale nel quale far affluire alcuni temi di fondo che rappresentano, coscientemente o no, punti di snodo fondamentali per le speculazioni dei giuristi, e a maggior ragione dei filosofi del diritto. Temi come il rapporto tra diritto e forza, o tra diritto e violenza; la distinzione tra diritto e giustizia; o ancora la in/distinzione tra giustizia e carità appartengono alla tradizione degli studi giuridici, e trovano spunti assai fecondi nelle pagine dense della pensatrice francese. Se è vero che la filosofia giuridica contemporanea appare aperta 5
Il tema della giustizia può essere anzi considerato come esemplare della convivenza tra «pensiero basso» e «pensiero alto» che ha accompagnato l’intera riflessione politica, filosofica e religiosa di Simone Weil (cfr., a tal proposito, G.P. DI NICOLA, La contraddizione nel sociale, in G.P. DI NICOLA - A. DANESE, Simone Weil. Abitare la contraddizione, Edizioni Dehoniane, Roma, 1991, p. 79).
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a sollecitazioni innumerevoli, che la allontanano dagli schemi spesso rigidi conosciuti in un recente passato6, il pensiero di Simone Weil può costituirne dunque un capitolo, forse non centrale, ma certamente assai stimolante. Dal “margine” in cui si pone rispetto al luogo del diritto, quel pensiero ci offre la possibilità di guardare più nitidamente alle cose che in esso si trovano7.
6
Per una panoramica del dibattito contemporaneo basti rinviare ai lavori di C. FARALLI, La filosofia del diritto contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2002; G. MINDA, Postmodern Legal Movements. Law and Jurisprudence at Century’s End, New York University Press, New York-London, 1995, tr. it. Teorie postmoderne del diritto, a cura di M. Barberis, Il Mulino, Bologna, 2001; G. ZANETTI (a cura di), Filosofi del diritto contemporanei, Cortina, Milano, 1999. 7 In questo lavoro non ci si soffermerà sulla vicenda biografica di Simone Weil (nata a Parigi nel 1909 e morta ad Ashford nel 1943), i cui momenti più significativi, strettamente legati agli aspetti salienti della sua riflessione, verranno richiamati per quel tanto che risulterà necessario. Si rinvia perciò qui, una volta per tutte, alla biografia principale dedicata alla pensatrice francese, scritta dalla sua amica S. PÉTREMENT, La vie de Simone Weil, Fayard, Paris, 1973, tr. it. parziale, La vita di Simone Weil, a cura di M.C. Sala, con una nota di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 1994. Tra gli altri lavori biografici, si possono vedere sia il lavoro di G. FIORI, Simone Weil. Biografia di un pensiero, Garzanti, Milano, 1990, sia quello di G. HOURDIN Simone Weil, La Découverte, Paris, 1989, tr. it. Simone Weil, Borla, Roma, 1992. Di utile consultazione risultano pure i Tratti biografici premessi da Giancarlo Gaeta al primo volume della traduzione italiana dei Cahiers (Quaderni, vol. I, Adelphi, Milano, 1982, pp. 38 ss). Tra le biografie intellettuali, particolarmente importante è il lavoro critico di T.R. NEVILL, Simone Weil. Portrait of a Self-Exiled Jew, The University of North Carolina Press, Chapel Hill-London, 1991, tr. it. Simone Weil. Ritratto di un’ebrea che si volle esiliare, Bollati Boringhieri, Torino, 1997. Quanto alle testimonianze, va menzionata almeno quella offerta dal padre domenicano Joseph-M. Perrin e dal filosofo cattolico Gustave Thibon, con i quali Simone Weil aveva stabilito un intenso dialogo spirituale e filosofico, e ai quali aveva affidato i suoi scritti prima di imbarcarsi con i genitori per New York nel 1942: J.M. PERRIN - G. THIBON, Simone Weil telle que nous l’avons connue, La Colombe, Paris, 1952, tr. it. Simone Weil come l’abbiamo conosciuta, prefazione di F. Ferrarotti, Àncora, Milano, 2000. Molti dei volumi contenenti scritti di Simone Weil o che si presentano come indagini sul suo pensiero contengono comunque le notizie essenziali sulla sua vita.
CAPITOLO PRIMO
L’ANTINOMIA DEL DIRITTO
1. Nell’unico scritto in cui si occupa espressamente del mondo giuridico1, Simone Weil muove da un’affermazione di Spinoza per mettere in rilievo l’esistenza di un’antinomia nel concetto stesso di diritto. La frase spinoziana è quella del capitolo XVI del Trattato teologico-politico, nel quale viene postulata una rigorosa corrispondenza tra diritto e potenza. Stando al diritto naturale, dice Spinoza, «ogni individuo ha un diritto sovrano su tutto ciò che cade sotto il suo potere». Ciò significa che «il diritto di ciascuno si estende fin là dove giunge la sua particolare potenza»2. Si tratta, com’è noto, di un passo fondamentale per la compren1
D’une antinomie du droit (1930 circa), in PEP, 255-259; tr. it. in PSF, 212-218. Si tratta certamente di uno scritto isolato, come osserva P. ROLLAND, Simone Weil et le droit (en marge des projects constitutionnels de la France Libre), in CSW, n. 3, 1990, p. 227; uno scritto peraltro del tutto occasionale, originato dalla necessità di rispondere ad uno dei quesiti che Alain assegnava ai suoi allievi. Tuttavia il tema che in esso viene affrontato è centrale nella riflessione weiliana, come si cercherà di mostrare in questo capitolo; il che impedisce di accantonarlo o di considerarlo quale risultato di un mero esercizio. Perciò, non si può condividere l’opinione dello stesso Rolland, secondo cui «la rencontre de Simone Weil et du droit est, à tout prendre, tardive, conjoncturelle et finalment assez brève» (ibid.), perché si fonda su un giudizio che prende in considerazione solo le riflessioni weiliane relative all’assetto costituzionale della Francia del dopoguerra, trascurando ad esempio la rilevanza per la riflessione giuridica delle numerose considerazioni sulla forza sparse in tutto l’itinerario weiliano. 2 B. SPINOZA, Tractatus theologico-politicus, cap. XVI, tr. it. in Etica-Trattato teologico-politico, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, Tea, Milano, 1991, p. 644.
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sione del pensiero di Spinoza. In esso, il filosofo olandese esprime la sua concezione del diritto naturale, dopo aver distinto, nel capitolo IV dello stesso Trattato, le leggi di natura dalle leggi umane. Posto che per “legge”, in generale, bisogna intendere «quel principio in base a cui ciascun individuo, o tutti gli appartenenti ad una stessa specie o alcuni di essi, agiscono secondo una norma unica, fissa e determinata», Spinoza precisa che questa norma può dipendere «o dalla necessità naturale o dalla decisione dell’uomo»3. Considerando per adesso il solo diritto naturale, bisogna distinguere la “legge della natura” dal “diritto naturale individuale”. La prima è «l’insieme delle regole naturali proprie di ogni essere, regole secondo le quali concepiamo ciascun individuo come naturalmente determinato ad esistere e ad agire in un modo particolare»; il secondo è invece il «diritto sovrano» che ciascuno ha «su tutto ciò che cade sotto il suo potere»4. Si tratta della distinzione canonica tra diritto oggettivo e diritto soggettivo, ed è a quest’ultimo che Spinoza si riferisce nella famosa definizione che costituisce l’oggetto del commento weiliano. In questo commento, le due distinzioni appena richiamate – diritto naturale/diritto umano, legge di natura/diritto di natura – vengono del tutto trascurate. Simone Weil si sofferma, infatti, sul senso generico (e immediato) della frase di Spinoza senza approfondirne il significato in relazione ai diversi elementi del pensiero giuridico e filosofico spinoziano. Tuttavia, ponendo una serie di domande, ella coglie una delle implicazioni più rilevanti dell’affermazione di Spinoza, che è stata sottolineata da Balibar: la recissione del filo «che collega il diritto degli individui o delle collettività all’esistenza preliminare di un ordine giuridico dato […], cioè a un “diritto oggettivo” che autorizza certe azioni, certe prese di possesso, e ne vieta altre»5. Cosa significa concretamente, si chiede infatti la Weil, 3
Ivi, cap. IV, tr. it. cit., p. 455. Ivi, p. 455-456. 5 É. BALIBAR, Spinoza et la politique, Presses Universitaires de France, Paris, 1985, tr. it. Spinoza e la politica, manifestolibri, Roma, 1996, p. 82. 4
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che un individuo ha tanto diritto quanta ha di potenza? Cosa rimane del diritto se è la potenza ad esprimerne per intero la “forza”? Difatti, se il diritto è misurato dalla potenza, ciò significa che esso «è una forza», che «è di fatto», che esiste, ciò che lo conduce a non essere «più niente» perché al fatto non serve altro che esistere. «Dire che il diritto si misura con la potenza è esprimere male la negazione pura e semplice del diritto, perché è come dire che niente di ciò che si fa è contrario al diritto» (PSF, 214-215) 6. Come Spinoza stesso aveva chiarito, è nel «diritto» del pesce grande che esso domini e si nutra del più piccolo. Simone Weil, qui, non fa altro che riprendere un’osservazione che appartiene alla tradizione degli studi filosofico-giuridici, e che era stata ripetuta da Rousseau nelle prime pagine del Contrat social. Nella sua opera politica principale, Rousseau aveva sinteticamente ma efficacemente messo in luce la distanza, a suo avviso incolmabile, che non può non esistere tra il diritto e la forza. Se si afferma che qualcuno ha diritto a qualcosa non ci si riferisce al fatto che questo qualcuno ha la mera forza di ottenerla; si dice invece che qualcun altro ha un dovere nei suoi confronti. L’affermazione di un diritto, cioè, è sempre la rivendicazione di qualcosa che qualcun altro ci deve sulla base di un obbligo; non può essere la rivendicazione di qualcosa che si può ottenere con l’esercizio della forza. «La forza è una potenza fisica» – scrive Rousseau – e dinanzi ad essa non si può fare altro che soggiacere; il diritto, per converso, implica sempre una doverosità e una volontà di adempimento. La forza si subisce, al diritto si obbedisce. E difatti, «cedere alla forza è un atto di necessità, non di volontà». «Se bisogna obbedire per forza – commenta ancora Rousseau –, non occorre obbedire per dovere, e se non si è più costretti ad obbedire non si è più obbligati. Si vede dunque che 6
Come risulta da questo primo esempio, il rapporto di Simone Weil con Spinoza è controverso. La ripresa di alcuni temi spinoziani non sempre coincide con una condivisione di posizioni. Che l’influenza del pensiero di Spinoza sulla Weil sia stata molto inferiore di quanto si possa credere è la tesi di A. COMTE-SPONVILLE, Le Dieu et l’idole. Alain e Simone Weil face à Spinoza, in AA.VV., Spinoza au XXe siècle, presentation par Olivier Bloch, Presses Universitaires de France, Paris, 1993, pp. 13-39.
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questa parola diritto non aggiunge niente alla forza; non significa qui assolutamente nulla»7. Questa idea, dicevamo, non è nuova quando la esprime la Weil, e non era nuova ai tempi di Rousseau. Se non altro perché la messa in discussione della coincidenza tra diritto e potenza rinvia, sul piano del diritto oggettivo, alla dimensione morale dell’obbligazione giuridica, e sul piano del diritto soggettivo al rapporto tra diritti e doveri. Da un lato, infatti, la norma giuridica può avere ad oggetto – e quindi può “obbligare” – soltanto atti liberi e non necessitati; dall’altro lato, un diritto può essere vero “diritto” soltanto in quanto ci sia una norma che imponga un obbligo corrispondente8. La conclusione di Rousseau, che «la forza non costituisce il diritto»9, sembra in ogni caso condivisa dalla Weil, essenzialmente sulla base di una considerazione empirica: «le opposizioni tra il diritto e la forza, tra il diritto e il fatto, appartengono al linguaggio comune e la parola stessa diritto indica che il diritto non è di fatto, ma una regola con la quale si può giudicare il fatto» (PSF, 215). Si tratta, del resto, di una conclusione che potrebbe trovare appigli nelle pagine dello stesso Spinoza, se si valorizzasse la distinzione, più sopra richiamata, tra diritto di natura e leggi umane; una distinzione che serviva a Spinoza per rendere evidente che solo queste ultime – vale a dire l’insieme delle leggi che gli uomini prescrivono «per sé o per altri in vista di una vita più sicura e più confortevole o in vista di qualche altro fine» – costituiscono «ciò che si chiama più propriamente “diritto”»10. Ora, se la particolarità di questo diritto è quella di poter essere eseguito o ignorato11, non può non 7
J.-J. ROUSSEAU, Du contrat social, I, 3, tr. it. Il contratto sociale, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1994, p. 13. 8 Entrambe queste idee sono consolidate, ad esempio, nella tradizione scolastica, da Tommaso a Suárez. Cfr. L. MILAZZO, Legge, diritto, guerra in De Vitoria e Suárez, Tesi di dottorato in “Giustizia costituzionale e diritti fondamentali”, Università di Pisa, 2005. 9 ROUSSEAU, Il contratto sociale, cit., p. 14. 10 SPINOZA, Trattato teologico-politico, IV, cit., p. 455. 11 Anche nel Tractatus politicus Spinoza distingue la condizione dello stato di
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seguirne che il diritto cessi ad un certo punto di essere espresso dal fatto e acquisti un suo valore normativo (che non coincide mai con il fatto), un suo dover essere che non si esaurisce nell’essere. È per questa ragione, fra l’altro – dato che gli uomini non sono tutti dotati di raziocinio –, che la legge può (e deve) essere sanzionata, garantendo tutela a chi la rispetta e minacciando pene per chi la trasgredisce. Per quanto l’uomo continui, anche nello stato civile, ad essere soggetto alla legge di natura e a perseguire il proprio utile, precisa Spinoza nel Trattato politico, «non si può concepire che dalle istituzioni cittadine sia permesso a un cittadino qualsiasi di vivere a modo proprio»12. La provvisoria conclusione che il diritto non è “fatto”, ma “regola che giudica il fatto”, nel segnare una singolare convergenza con gli assunti del normativismo kelseniano13, non consente però di rispondere all’interrogativo principale. Da dove viene l’obbligatorietà della norma? Cosa permette in fin dei conti di segnare la differenza tra il diritto e la potenza? È qui che si evidenzia, infatti, l’antinatura, nel quale «non si dà trasgressione», perché in esso niente è vietato «se non ciò che a nessuno è possibile» (II, 18), dalla condizione in cui sia stato istituito uno Stato, nella quale si dà trasgressione quando si compie qualcosa che «è proibito dalla legge». L’obbedienza – continua Spinoza – è in questo caso «la costante volontà di fare le cose che secondo il diritto sono buone e che per comune decisione devono esser fatte» (II, 51). Questo, oltretutto, è il presupposto per poter parlare della giustizia e del «dare a ciascuno il suo», che non è concepibile nello stato di natura ma lo diventa invece nella società civile (II, 23). Cfr. B. SPINOZA, Trattato politico, a cura di P. Cristofolini, Ets, Pisa, 1999. 12 SPINOZA, Trattato politico, III, 3, tr. it. cit., p. 57. Ciò rimane fermo anche tenendo presente la limitazione posta da Spinoza, in base alla quale il timore e il rispetto dei sudditi verso la cittadinanza vale in determinate condizioni, venute meno le quali la cittadinanza cessa, e con essa l’obbligo nei confronti dei suoi dettami (cfr. ivi, IV, 4, p. 77). 13 Secondo la definizione datane nella Teoria generale del diritto e dello Stato, la norma giuridica «forma la base di un giudizio specifico di valore che qualifica il comportamento dell’organo o del soggetto come giuridico (legittimo, lecito), o antigiuridico (illegittimo, illecito). Questi sono i giudizi di valore specificamente giuridici» (H. KELSEN, General Theory of Law and State, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1945, tr. it. di S. COTTA- G. TREVES, Teoria generale del diritto e dello stato, Etas, Milano, 1984, p. 48).
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nomia che è propria del diritto, anzi che addirittura definisce il diritto. La regola c’è, non può non esserci; ma non si capisce come abbia origine la sua obbligatorietà. Perché è evidente, almeno per Simone Weil, che questa regola non può venire né dalla legge né dall’ordine sociale, vale a dire da due delle “fonti” alle quali tradizionalmente viene ricondotta l’origine delle norme giuridiche: la legislazione, come strumento specifico di normazione, e la “società” come “causa” (efficiente e finale) di qualsiasi tipo di norme. Non dalla legge, perché – nota la Weil, con ulteriore accento kelseniano – «le leggi scritte non esigono affatto che le azioni si conformino a ciò che prescrivono»; esse «non fanno che proclamare pene, nel caso contrario» (PSF, 215)14. E nemmeno dall’ordine sociale, poiché anch’esso è un mero fatto, che non «esige» di essere rispettato. Non si tratta ora di mettere in discussione queste conclusioni, invero affrettate, raggiunte dalla giovane allieva di Alain. È chiaro infatti che i due esempi portati dalla Weil avrebbero consentito conclusioni affatto diverse. Una volta costituito lo Stato, come Spinoza aveva affermato, non può che esserci produzione di regole (anche legislative), le quali trovano nella potenza stessa dello Stato – e dunque anche nell’ordine sociale – la forza della propria vigenza, della propria normatività. Certo: c’è una potenza che fonda questa obbli14
È piuttosto degno di nota il fatto che Simone Weil, per evidenziare la normatività propria delle leggi, utilizzi il paragone con l’invito a tenersi lontani dal fuoco, che è lo stesso di cui si servirà di lì a poco Olivecrona per spiegare, in senso antikelseniano, l’origine della forza vincolante del diritto. «Se rubo, mi si metterà in prigione; ma se metto la mia mano sul fuoco mi brucerò; ne consegue forse che non avevo il diritto di mettere la mano sul fuoco?» (PSF, 215). In Law as fact (Oxford University Press, London, 1939, tr. it. Il diritto come fatto, a cura di S. Castignone, Giuffrè, Milano, 1967, pp. 7-8), Olivecrona scrive che «la forza vincolante del diritto non coincide per nulla col fatto che determinate conseguenze spiacevoli colpiranno con ogni probabilità qualsiasi comportamento illegale. Se così fosse, allora potremmo sostenere con eguale ragione che vi è una norma obbligatoria che proibisce di mettere le mani sul fuoco; le conseguenze di un simile atto sono oltremodo spiacevoli e tuttavia noi non ci sentiamo obbligati a non compierlo». Per quanto le spiegazioni dell’origine della normatività non coincidano, è in entrambi i casi affermata una differenza sostanziale tra comportamenti la cui obbligatorietà è riconducibile a norme giuridiche e altri tipi di comportamenti, per così dire, “vietati”.
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gatorietà, ed è la potenza della comunità politica originata dal trasferimento delle potenze individuali; nondimeno quelle con le quali si ha a che fare sono regole profondamente diverse da quelle naturali cui l’uomo si trova pure sottoposto15. Si tratta precisamente di quelle regole che Spinoza riconduceva «alla decisione dell’uomo»16. Non c’è quindi ricaduta nell’espressione che «sciocca e suona giusta allo stesso tempo»: che il diritto è la potenza. Anche nel più assoluto degli stati, il diritto non può mai essere un mero fatto, ma sarà sempre una “regola che giudica il fatto”, per quanto questa regola debba la sua vigenza alla sola capacità dell’autorità sovrana di rendere effettivo il proprio potere17. 2. La stessa Weil sembra come placarsi in questo punto fermo allorché sposta la sua attenzione dal diritto inteso come regola al diritto inteso come facoltà soggettiva. Qui, l’espressione spinoziana può avere questo unico significato: che «non è permesso a nessuno di diminuire la propria potenza di agire, l’efficacia del proprio volere» (PSF, 217). Anche stavolta, viene ripreso un assunto della teoria 15
In questa direzione sembrano condurre anche le conclusioni di BALIBAR, Spinoza e la politica, cit., p. 85, il quale porta l’esempio delle relazioni contrattuali per affermare che «solo una potenza superiore (per esempio un sovrano che fa del rispetto degli impegni presi una legge del suo Stato)» può «impedire la rottura dei contratti quando non esistono più gli interessi che li hanno fatti concludere». Ora, per quanto egli precisi ancora che «il diritto del sovrano non si estende mai al di là della sua capacità di farsi effettivamente obbedire», è evidente che il sovrano agisce sulla base di una regola (quella che impone di rispettare le obbligazioni che si sono assunte) che indica un dover essere al comportamento individuale. Con ciò non si viene a contraddire, ma piuttosto a confermare, l’affermazione con la quale Balibar chiude il suo ragionamento, secondo cui «l’equivalenza tra diritto e fatto – quest’enunciato che sciocca la morale – può essere posta […] solo a titolo di conseguenza, dal punto di vista dei rapporti di potenza, e non come principio costitutivo» (ibid.). 16 SPINOZA, Trattato teologico-politico, IV, cit., p. 455. 17 «Il diritto di imporre incondizionatamente il proprio volere compete alle autorità sovrane tanto a lungo quanto a lungo dispongono del sommo potere effettivo: nel momento preciso in cui perdono tale potere, perdono anche il diritto di comando ed esso cade nelle mani di quel singolo o di quel gruppo che avrà saputo acquisirlo e che è in grado di conservarlo» (ivi, cap. XVI, p. 650).
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spinoziana sullo stato di natura. Non solo a ciascun individuo, «in quanto considerato sotto il dominio della natura», è permesso perseguire i propri fini con ogni mezzo da lui ritenuto utile; ma esso non può mai spogliarsi completamente della propria potenza perché ciò significherebbe anche spogliarsi completamente del proprio diritto. Nessuno – scrive Spinoza – «potrà mai trasferire ad un altro ogni suo potere e di conseguenza ogni suo diritto, fino al punto di rinunciare alla propria qualità di uomo»18. Al centro del discorso weiliano sembra essere inizialmente proprio l’elemento della rinuncia. Il diritto, infatti, è per ciascuno «ciò che gli si può togliere senza diminuirlo, ma ciò a cui egli non può rinunciare senza rinunciare a se stesso» (PSF, 217)19. Tuttavia – e qui utilizziamo nuovamente quelle distinzioni che non sono presenti nello scritto della Weil – questo può valere solo per quanto concerne il diritto di natura; non può essere così quando si voglia far riferimento al diritto derivante da una decisione dello Stato. O meglio, quella che possiamo chiamare «impossibilità della rinuncia», si fa valere anche in presenza dello Stato allorché le leggi che attribuiscono i diritti ai singoli individui, nel compiere questa attribuzione, si discostano eccessivamente dalla potenza di cui si fa portatore ogni soggetto. È esattamente questo il senso che possiamo assegnare al seguito del discorso di Simone Weil, precisando naturalmente che la corrispondenza tra diritti e potenza non è instaurata sulla base della potenza originaria, “naturale”, degli individui medesimi, bensì sulla base di una potenza che va commisurata a qualche altro criterio. La ragione per cui l’attribuzione dei diritti non può essere compiuta avendo riguardo alla potenza originaria dei soggetti dovrebbe risultare evidente, per il semplice fatto che un diritto corrispondente alla potenza naturale, sulla base del ragionamento già visto, sarebbe 18
Cfr. ivi, cap. XVII, p. 662. Traduzione leggermente modificata rispetto a PSF. Il testo originale è il seguente: «Le droit serait ainsi pour chacun ce qu’on peut lui ôter sans le diminuer, ma ce à quoi il ne peut renoncer sans renoncer à lui-même» (PEP, 258). 19
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solo impropriamente chiamato diritto, risultando essere invece una mera questione di fatto. Quale diritto, del resto, si potrebbe attribuire al pesce piccolo nei confronti del pesce grande, se si dovesse tener conto solo della sua potenza naturale? Di qui, la soluzione proposta dalla Weil. La potenza di ciascun individuo, sulla base della quale vanno attribuiti i rispettivi diritti, va misurata sulla base del “lavoro”, della “funzione”. Ed è a questo punto che si fa valere la “potenza”: posto che sono le leggi a definire le funzioni, «si vede anche in che cosa le leggi scritte possono essere contrarie al diritto, se il potere legale che accordano a un uomo è più grande o più piccolo della potenza definita dal lavoro», come avviene nel caso della schiavitù o del dispotismo (PSF, 218). Il diritto del singolo, pertanto, non è abbandonato all’arbitrio delle leggi scritte, perché queste non possono assegnare poteri che non corrispondano ai lavori compiuti. È come se soltanto la funzione svolta attraverso il lavoro fornisse la base ad una sorta di “diritto naturale” che non potrebbe non trovare corrispondenza nelle norme dell’ordinamento. 3. Va precisato che proprio alla nozione di lavoro, piuttosto che a quella di diritto, è particolarmente interessata la Weil nel periodo iniziale della sua riflessione20. Anche perché quello della professio20 Tanto da alimentare la convinzione che «la nozione di lavoro considerato come un valore umano è di sicuro l’unica conquista spirituale che il pensiero umano abbia fatto dopo il miracolo greco» (R, 106). Ancora ne L’enracinement è affermato che «la missione, la vocazione della nostra epoca, è di costituire una civiltà fondata sulla spiritualità del lavoro» (PR, 90). Sulla centralità di questa nozione nella formazione filosofica e nell’esperienza di Simone Weil, si veda innanzi tutto l’ampio lavoro monografico di R. CHENAVIER, Simone Weil. Une philosophie du travail, Les Éditions du Cerf, Paris, 2001. Cfr. inoltre M. AZZALINI, La causalità morale del lavoro e l’irrazionalità della storia, saggio introduttivo a PSF; R. CHENAVIER, Simone Weil et Hannah Arendt. La place du travail dans la modernité, in M. CEDRONIO (a cura di), Modernité, Démocratie et Totalitarisme. Simone Weil et Hannah Arendt, Klincksieck, Paris, 1996, pp. 109-120; G. FORNI ROSA, Sulla nozione weiliana di divisione del lavoro, in ID., Simone Weil. Politica e mistica, Rosenberg & Sellier, Torino, 1996, pp. 5786. La questione del lavoro ha fornito anche un punto di vista privilegiato per la “riscoperta” di Simone Weil nel corso degli anni ottanta: cfr. A. ACCORNERO - G. BIANCHI A. MARCHETTI, Simone Weil e la condizione operaia, Editori Riuniti, Roma, 1985.
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ne rappresenta l’ambito privilegiato in cui individuo e società entrano realmente in contatto superando la loro sempre latente opposizione. Ciò avviene, non solo perché l’esercizio della professione «fa passare l’individuo nella società, ma soprattutto per il fatto che esso fa passare la società nell’individuo, che soltanto allora diventa veramente un individuo» (PSF, 220)21. Tuttavia, i due concetti di lavoro e diritto sono costantemente collegati, e anzi è proprio il loro nesso che permette di cogliere il significato ultimo del ragionamento weiliano sul diritto, confermando alcuni punti messi fin qui in evidenza. Nello scritto su La division du travail e l’égalité des salaires viene chiarito che la divisione del lavoro, in quanto suppone uno scambio dei lavori, necessita di «un diritto che regoli questo scambio» (PSF, 203). All’origine dello scambio c’è una convenzione – l’idea che il lavoro, cambiando oggetto, non cambia però natura – e c’è un valore al fondo della convenzione, l’idea cioè «di un uguale che scambia il suo lavoro con il lavoro di un uguale». Ciò che rende stabile questo scambio è proprio la norma posta dal diritto: 21 Comunque, c’è da dire che Simone Weil non concorda affatto con Durkheim, il cui discorso le appare destinato a sfociare nell’idea che la virtù di un individuo non consista in altro che nella subordinazione al gruppo sociale. L’idea che la professione possa costituire un fattore morale non la persuade fino in fondo: per lei, kantianamente, la virtù e la professione appartengono ad ambiti distinti. Se la prima coincide con la libertà interiore («la libertà interiore è la virtù stessa»), e tenderebbe semmai a realizzarsi nell’ozio più completo, la seconda appartiene all’ambito della necessità, della natura: «essa ha come scopo la vita, l’utilità, il benessere». L’esercizio della professione «sottomette lo spirito al mondo per un certo numero di ore, come fa il sonno, e per effetto della stessa necessità naturale». Tuttavia, la Weil concorda con il pensiero comune, il quale «è lontano dal considerare il mestiere come una semplice sottomissione dell’uomo alla necessità esterna». Ed in effetti, «il lavoro non può essere definito solo dal bisogno», perché «il lavoro libera». La conclusione di Simone Weil è che «la professione ha al contempo una funzione morale e una funzione sociale, o piuttosto è definita dal rapporto tra queste due funzioni». Meglio: «è con il lavoro che la moralità pura assume un senso in rapporto alla società»; o detto ancora diversamente, «il mestiere è ciò per cui la moralità ha un significato sociale»; «attraverso il mestiere il regno della virtù è di questo mondo» (Fonctions morales de la profession, in PEP, 261 ss, tr. it. in PSF, 219 ss).
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Lo scambio come istituzione presuppone una regola diversa dalla fantasia individuale, perché la fantasia va naturalmente verso la forza e prende con la stessa facilità con cui scambia; lo scambio che non è regolato da nessuna convenzione, lo scambio naturale, è soltanto la peggiore delle ipotesi, derivante dal fatto che due esseri, essendosi misurati, si sono giudicati ciascuno troppo debole per derubare l’altro. Il bambino prende i giochi del più piccolo, fa cambio con il suo compagno. Perché lo scambio sia un’istituzione, occorre un diritto degli scambi, e questo diritto può esprimersi solamente così: il simile si scambia con il simile (PSF, 208).
Sembra di poter dire che, per questa via, Simone Weil giunga a cogliere quell’essenza della norma giuridica che aveva intuito essere messa in discussione dall’espressione del Trattato spinoziano. Si tratta precisamente di evitare che lo scambio sia determinato dalla forza, dalla potenza; è per questo che si ha bisogno di una regola del diritto. Questa è necessaria per rendere possibile uno scambio tra “diseguali”; per rendere eguale ciò che eguale non è. L’idea di equilibrio domina questa concezione; precisamente, l’idea di equilibrio delle forze. Se questo equilibrio esiste in natura, non c’è particolare necessità di una regola che lo determini: di fronte al compagno suo pari, il bambino scambia il suo gioco. È come se la Weil mettesse in questione l’immagine hobbesiana dello stato di natura quale presupposto dell’ordinamento giuridico. Se davvero gli uomini fossero uguali nelle forze, non ci sarebbe bisogno di stabilire delle regole, perché l’equilibrio si produrrebbe spontaneamente. Lo aveva già notato Montesquieu criticando esplicitamente la teoria hobbesiana. Postulando l’originaria uguaglianza degli uomini, nelle condizioni dello stato di natura ognuno avvertirebbe soltanto la propria debolezza; e perciò si sentirebbe «in stato d’inferiorità o appena appena uguale agli altri». Nessuno perciò attaccherebbe per primo un suo simile «e la pace sarebbe la prima legge naturale»22. È invece dove l’eguaglianza non c’è che bisogna intervenire per 22
MONTESQUIEU, De l’esprit des lois, I, 2, tr. it. Lo spirito delle leggi, a cura di R. Derathé, Rizzoli, Milano, 1989, p. 150.
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produrla; ed è a questo punto che entra in gioco il diritto. Come aveva osservato Alain, il maestro di Simone Weil, il diritto «è l’uguaglianza», ed è un assai povero argomento quello di chi sostiene che l’ineguaglianza è nella natura delle cose, perché è proprio «contro l’ineguaglianza che il diritto è stato inventato»23. Si tratta, naturalmente, di un’immagine ideale; perché se all’origine c’è disuguaglianza delle forze, il diritto non può che nascere come diritto del più forte, e dunque come un diritto che esprime la potenza, fondando su questa la sua forza normativa, e ricevendo da questa il suo contenuto. Se davvero «il gioco delle potenze anima tutto»24, come è possibile che questo diritto si voti poi all’equilibrio e all’uguaglianza? Su questo si avrà modo di tornare. Ciò che ora va ribadito è che, nella giovane Weil, è su questo crinale che si gioca la differenza tra diritto e violenza, tra diritto e forza, tra diritto e potenza. Persino in alcuni frammenti dei Quaderni – siamo nel 1942, in un contesto di pensiero ed esistenziale assai differente – il compito della legge sarà ancora individuato nella produzione dell’equilibrio: «grazie ad essa i deboli sono più forti dei forti» (Q, III, 332); solo grazie alla sua presenza «coloro che si trovano nel gradino più basso» possono prendere parte alla forza (Q, III, 196); tutto l’ordine sociale non può che fondarsi su un equilibrio di forze, perché «solo l’equilibrio distrugge la forza» (Q, III, 181), come dimostra eloquentemente l’immagine della bilancia. La legge è esattamente quel dispositivo che scatta quando si verifica un eccesso che va compensato da una forza di segno contrario (Q, III, 273). È appena il caso di osservare che il tentativo di mettere in questione, se non di superare, il legame tra diritto e potenza trova il suo compimento alla fine del percorso weiliano, attraverso la fissazione di un legame – un legame rovesciato rispetto a quello iniziale – tra
23 ALAIN, Cento e un ragionamenti, a cura di S. Solmi, Einaudi, Torino, 1975, pp. 154-155. Si vedano anche più avanti pp. 173-174. 24 E. R ESTA, La certezza e la speranza. Saggio su diritto e violenza, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 66.
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potenza e dovere, tra forza e responsabilità. Nell’ultima opera scritta da Simone Weil, l’incompiuto volume londinese intitolato L’enracinement, uno dei metodi meno grossolani per ovviare all’eterno conflitto tra l’aspirazione all’uguaglianza e le inevitabili differenze esistenti tra gli uomini, è quello di imporre a ogni uomo delle responsabilità corrispondenti alla potenza che egli esercita. Una concezione, questa, su cui dovrebbe essere fondata non solo la distribuzione dei rischi connessi all’esercizio delle funzioni pubbliche, ma persino la comminazione delle pene nell’esecuzione del diritto penale (PR, 25). Queste prospettive opposte e simmetriche stanno all’inizio e alla fine di una riflessione che ha reso assai complesso l’intreccio tra il diritto e la giustizia, collocandolo in un contesto di riferimenti che risultano del tutto inconsueti – e forse, proprio per questo, più stimolanti – per la filosofia giuridica contemporanea. Ma questo inizio e questa fine non sono affatto resi distanti dalla ricchezza del percorso weiliano. Basti qui anticipare come l’insufficienza della garanzia giuridica dello scambio dei lavori al fine del raggiungimento di un sistema di libertà e uguaglianza25, configuri già il momento centrale del discorso sulla giustizia, quello in cui si realizza il passaggio da una giustizia «naturale», scaturita dal mero equilibrio delle forze, a una giustizia che coincide con l’«amore sovrannaturale», l’unica in grado di riequilibrare realmente la disparità ineliminabile delle forze e delle condizioni.
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Certo non è lo scambio tutelato dal diritto il sistema che, secondo la Weil, può garantire libertà e uguaglianza ai lavoratori; a tal fine sarebbe necessario piuttosto sostituire il diritto dello scambio con un «diritto della cooperazione» e il sistema dei bisogni con un sistema dei prodotti (PSF, 238). Nelle Lezioni tenute a Roanne, la cooperazione e lo scambio dei lavori vengono definiti come «l’unica forma di rapporti conforme alla legge morale di Kant: trattare gli uomini come fini» (LF, 184). Nelle stesse Lezioni, peraltro, il problema del «che fare?» viene risolto con una fiducia tutta razionalistica nell’«educazione delle masse operaie» (LF, 185).
CAPITOLO SECONDO
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1. L’approccio di Simone Weil al diritto è sorretto dunque inizialmente dalla convinzione che si possa «scommettere»1 sulla differenza tra il diritto e la forza. L’importanza di questa differenza – esplicitamente tematizzata dalla Weil – viene rintracciata dalla pensatrice francese in Machiavelli, autore da lei molto ammirato, e messa alla prova della storia. Se il grande merito del segretario fiorentino è stato di mostrarci la forza pura, avvertendoci che confondere la forza col diritto è un tentativo ricorrente dei tiranni (LF, 172), l’insegnamento che viene dalla storia ci mette in guardia dal credere, da un lato, che la causa giusta sia destinata sempre a prevalere, o quanto meno a mantenere intatta la sua veste di giustizia, nonostante sia stata sconfitta dalla forza; e dall’altro lato, che la forza non abbia bisogno di altro appoggio che di se stessa per avere ragione degli avversari (SGT, 239). A smentire la prima di queste convinzioni, è la storia di tutte quelle civiltà ricche di valori spirituali che sono state cancellate con la forza2; a smentire la seconda è il tenta1
Si utilizza qui un’espressione che è al centro del già citato lavoro di RESTA, La certezza e la speranza, nel quale si interpreta il diritto come il «luogo in cui si è giocata, e si continua a giocare, la scommessa di una differenza rispetto alla violenza» (p. X). 2 «Nulla è più crudele nei riguardi del passato che il luogo comune secondo cui la forza è impotente a distruggere i valori spirituali» (C, 26); «Contrariamente a quanto si afferma, la forza uccide benissimo i valori spirituali, e può cancellarne persino le tracce» (SG, 110).
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tivo, sempre compiuto da chi sta per esercitare la forza, di salvare le apparenze e di «ostentare pretesti plausibili», non solo per smorzare la possibile reazione delle vittime, ma pure per convincersi di possedere, oltre che il diritto del più forte, «il diritto puro e semplice» (SGT, 239-240). Proprio queste distinzioni permettono a Simone Weil di tenere il diritto ben separato dalla forza, presentandolo piuttosto come uno strumento per disciplinarla. In quanto vale a limitare l’arbitrio, il diritto è un sicuro passo avanti sulla via della civiltà, un progresso prezioso nella vita degli uomini. In questo senso, risponde ad una meditata convinzione, e non ad una occasionale esigenza polemica, la frase contenuta in una delle lettere inviate da Simone Weil all’ingegnere Victor Bernard, direttore tecnico delle fonderie di Rosières, a proposito dei licenziamenti e dell’arbitrarietà attraverso cui vi si arriva: «la regola più assurda, purché stabile, sarebbe un progresso» (CO, 172). Non può che essere così, in una condizione come quella degli operai, drammaticamente – ma volutamente – sperimentata da Simone Weil sulla sua pelle. In tale condizione, infatti, si ha il «senso di esser preda di una grande macchina ignota», in cui «non si sa a cosa serva il lavoro che si sta facendo, non si sa cosa si farà domani, né se il salario sarà diminuito. Né se ci saranno licenziamenti» (CO, 114). Una situazione in cui l’unica cosa che veramente si guadagna è la certezza che non si ha «nessun diritto», e nella quale «la coscienza della dignità personale, quale la società l’ha costruita, è spezzata» (CO, 94). Il riconosciuto valore delle regole giuridiche, allora, non solo permette di giudicare la legge dell’arbitrato obbligatorio come «una risorsa preziosa per la classe operaia e l’azione sindacale» (CO, 219), ma, pur nell’ammissione che le condizioni dell’impresa capitalistica non consentono di impedire del tutto i licenziamenti, porta ad immaginare una serie di precetti a cui bisogna attenersi nel momento in cui essi vengono decisi3. 3
Nei Principes d’un projet pour un régime intérieur nouveau dans les entrepris industriel (1937, in EHP, 2, 431 ss), Simone Weil scrive che il compromesso tra ope-
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È soprattutto in alcuni frammenti dei Cahiers, chiaramente ispirati a Montesquieu, comunque, che la «grandezza delle leggi» viene celebrata. Qui, le leggi sono viste come la «sola fonte della libertà». Nelle religioni primitive «tutto ciò che è regola (formule e riti magici, tabù) costituisce un grande progresso» (Q, I, 112). Si tratta, in questo caso, di affermare un concetto di libertà, non inteso semplicemente come “non-impedimento”, bensì come “nondominio”, secondo una linea di pensiero che è propria della tradizione repubblicana4. Un concetto di libertà da cui emerga innanzi tutto la differenza sostanziale che passa tra l’essere uno schiavo sottoposto all’arbitrio del padrone e l’essere un cittadino: difatti, «lo schiavo è sottomesso al suo signore e il cittadino alle leggi». Ed è significativo che, per quanto «il signore [possa] essere molto mite e le leggi molto dure», questo non cambi nulla: «tutto sta nella distanza tra il capriccio e la regola» (Q, I, 129). La grandezza delle leggi, rai e proprietari delle imprese dovrebbe basarsi innanzi tutto sulla regola che «il padrone che licenzia un operaio ha l’obbligo di cercargli in precedenza un posto in un’altra azienda». Solo a questa condizione egli potrà attuare misure di licenziamento «senza dover renderne conto a nessuno». Tuttavia, la libertà del padrone è comunque limitata nel caso in cui l’operaio licenziato sia un responsabile sindacale, oppure che il nuovo posto di lavoro risulti «inaccettabile per gravi motivi» (CO, 227-228). 4 Cfr. in particolare PH. PETTIT, Republicanism. A Theory of Freedom and Government, Oxford University Press, New York, 1997, tr. it. Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, a cura di M. Geuna, Feltrinelli, Milano, 2000, e M. VIROLI, Repubblicanesimo, Laterza, Roma-Bari, 1999. Per un quadro dei molteplici aspetti teorici riconducibili a questa tradizione, si rinvia ai lavori di M. GEUNA, La tradizione repubblicana e i suoi interpreti: famiglie teoriche e discontinuità concettuali, in «Filosofia Politica», n. 1, 1998, pp. 101-132, e di L. BACCELLI, Critica del repubblicanesimo, Laterza, Roma-Bari, 2003. Un esempio del ragionamento repubblicano di Simone Weil è nella critica alla riduzione della scienza a privilegio di specialisti, il cui elitismo dovrebbe essere mitigato dall’illusione che si possa dare a ogni giovane operaio le conoscenze di uno studente. «Credere che, quando si potrà, se ne farà un uomo libero – commenta la Weil – sarà ragionare tanto male quanto gli Americani, quando, a coloro che li accusano di ridurre i loro operai in schiavitù nelle fabbriche di automobili, rispondono che anche quegli operai hanno delle automobili. Se l’accusa è giustificata, dare un’automobile a uno di quegli operai è fare uno schiavo vestito da gitante e non un uomo libero. Allo stesso modo, far partecipare un po’ i lavoratori a questa scienza, attraverso la quale l’élite li assoggetta, non sarà liberarli» (PSF, 210-211).
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«anche le più inumane», sta dunque tutta nella loro funzione di “limite” nei confronti dell’arbitrio e della dismisura. Analogamente a quanto si potrebbe sostenere anche per altri autori, come ad esempio Hannah Arendt5, il concetto di “limite” può essere assunto come centrale, non solo in questa fase particolare, ma in tutto l’arco della riflessione weiliana6. Se ora si tratta di trovare limiti giuridici alla «naturale tendenza di ogni collettività, senza eccezione, ad abusare del potere» (come la Weil riconosce aderendo a una tesi presente già in Erodoto7 e sulla quale convergono la lezione del realismo politico di Machiavelli e quella del liberalismo di Montesquieu), in futuro si tratterà invece di impegnare questo con5 Il confronto con il pensiero di Hannah Arendt è uno dei punti più battuti dalla letteratura critica su Simone Weil. Si veda innanzi tutto il lavoro di ESPOSITO, L’origine della politica, cit., insieme ai saggi raccolti in Modernité, Démocratie et Totalitarisme, cit., e a L. BAZZICALUPO, Il paradosso dei diritti umani: le prospettive di Arendt e Weil, in A. TARANTINO (a cura di), Filosofia e politica dei diritti umani nel terzo millennio, Giuffrè, Milano, 2003, pp. 253-265. Tra gli altri saggi, ci si limita a ricordare quello di L. BOELLA, Dialoghi a distanza: Ingeborg Bachmann, Simone Weil, Hannah Arendt, in A. MARCHETTI (a cura di), Politeia e sapienza. In questione con Simone Weil, Pàtron, Bologna, 1993, pp. 173-184, e di E. GABELLIERI, «Vie publique» e «Vita activa» chez Simone Weil et Hannah Arendt, in CSW, n. 2, 1999, pp. 135-152. Per quel che concerne il concetto di limite in Hannah Arendt cfr. il saggio di T. CASADEI, Il senso del ‘limite’. Montesquieu nella riflessione di Hannah Arendt, in D. FELICE (a cura di), Montesquieu e i suoi interpreti, Ets, Pisa, 2005, vol. II, pp. 805-838. 6 Cfr. M.-J. RUSTAN, La notion de limite chez Simone Weil et chez Albert Camus, «Terre Humain» n. 3, 1953, pp. 32-43. 7 È uno degli argomenti di cui si serve Otane per proporre ai Persiani di introdurre il governo popolare. «Anche l’uomo migliore del mondo», investito dell’autorità del comando, «si troverà al di fuori del consueto modo di pensare, e crederà di poter fare «quello che vuole, senza rendere conto ad alcuno» (ERODOTO, Storie, III, 80, tr. it. a cura di L. Annibaletto, Mondadori, Milano, 1988, p. 309). In uno scritto del 1929, Pour la Ligue (in EHP, 1, 54-55), con ennesima notazione spinoziana, Simone Weil scrive che «tout pouvoir, par cela même qu’il est pouvoir, tend à se perpetuer, et aime, par suite, maintenir l’état des choses». Nello scritto Perspective del 1933, la stessa legge dell’autoconservazione spiega la ricerca dell’accrescimento: «Ogni gruppo umano che esercita un potere lo esercita non per rendere felici quelli che vi sono sottomessi, ma per accrescere questo potere: è una questione di vita o di morte per qualsiasi forma di dominio» (SGT, 185).
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cetto in un’impresa che è, allo stesso tempo, più “personale” e più universale, in quanto investe il concetto stesso – e un concetto del tutto particolare – della giustizia. «Restare entro dei limiti rappresenta per le cose materiali l’equivalente di ciò che è per lo spirito umano il consenso all’esistenza degli altri, vale a dire la carità del prossimo. D’altra parte, per l’uomo in quanto essere naturale, il mantenersi entro dei limiti è la giustizia» (GR, 198). Ecco dunque una delle poche possibilità di rintracciare negli scritti di Simone Weil una definizione esplicita della giustizia, che a partire proprio dal concetto di limite viene intesa come «coesistenza». «La suprema giustizia è l’accettazione della coesistenza con noi di tutte le cose e di tutti gli esseri che di fatto esistano» (GR, 201). Si tratta di un concetto che impegna soprattutto sul piano personale, e che si pone dunque su una linea “relazionale”. Dire che si accetta la coesistenza con gli altri, significa innanzi tutto che «non si farà loro alcun male. Nulla di più è prescritto, se si capisce che astenersi, nei riguardi di un essere umano, dal bene che si ha l’occasione e il diritto di fargli, è fargli del male» (GR, 201-202). Dovremo tornare su questo significato della giustizia, profondamente radicato in una fase nuova del percorso che si sta ricostruendo. Quel che è significativo, e vale la pena sottolinearlo, è che proprio l’idea del limite sembra assumere un ruolo rilevante come concetto che dà continuità alla riflessione weiliana. In un contesto del tutto diverso, nel quale il diritto è divenuto ormai “totalmente altro” rispetto alla giustizia, la pensatrice francese affermerà ancora che «nelle cose sociali, la legge è il limite» (Q, III, 182). E se si pensa che il «sociale» diverrà sempre più insistentemente l’ambito del puro dominio della forza, nel quale impazza il platonico «grosso animale», si apprezza ancora di più il valore di un’osservazione nella quale il metodo del mondo feudale, in cui l’obbedienza fondata sulla relazione personale faceva diminuire «di molto la parte del grosso animale», è comunque inferiore a un metodo in cui si può ricorrere allo strumento della legge (Q, III, 159). L’idea del “limite” e della “misura”, insita in questa visione delle leggi, non riduce però il diritto a semplice garante della libertà negativa, perché la «trasparenza» da esso postulata lo rende veicolo di
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una libertà che appare sostanzialmente una libertà positiva8. La libertà, nel senso concreto della parola, consiste nella possibilità di scelta. Si tratta, beninteso, di una possibilità reale. Ovunque c’è vita comune, è inevitabile che regole imposte dall’utilità comune limitino la scelta. Ma la libertà non è più o meno grande a seconda che i limiti siano più o meno larghi. Giunge alla sua pienezza in condizioni meno facili da misurare. Occorre che le regole siano abbastanza ragionevoli e semplici perché chiunque lo desideri e disponga di una media facoltà di attenzione possa capire sia l’utilità cui corrispondono sia le necessità di fatto che le hanno imposte. Occorre che provengano da un’autorità che non sia considerata straniera o nemica, ma che venga amata come appartenente a coloro che dirige. Occorre, perché il pensiero le possa assimilare una volta per sempre e non urti contro di loro ogni volta che c’è una decisione da prendere, che le regole siano abbastanza stabili, in numero piuttosto ridotto e sufficientemente generali (PR, 21).
Quelli che appaiono riassunti e messi in evidenza in questo passo dell’ultima Weil, sono in sostanza gran parte dei caratteri tradizionalmente assegnati (o richiesti) alla legge e al diritto; anche se va sottolineato che la loro individuazione da parte della pensatrice francese non è il frutto di una particolare frequentazione della letteratura giuridica e filosofico-giuridica, ma di una intuitiva capacità di orientamento e di analisi, e di una sensibilità veramente fuori del comune. Generalità e chiarezza; ma anche, e ancor più, legittimità, stabilità, essenzialità: il quadro che ne risulta si rivela sostanzialmente coerente con quello delineato all’avvio di questo capitolo. 2. Sempre più intensamente, però, la riflessione della Weil sembra orientarsi verso conclusioni assai distanti dall’idea che il diritto non abbia a che fare con la forza. È come se, interrogandosi impli8
Gli aggettivi negativo e positivo con riferimento alla libertà sono ovviamente qui adoperati secondo l’uso reso familiare dal saggio di I. BERLIN, Two Concept of Liberty, Oxford University Press, Oxford, 1969, tr. it. Due concetti di libertà, a cura di M. Ricciardi, Feltrinelli, Milano, 2000.
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citamente sulle vie che rendono possibile al diritto lo svolgimento della sua funzione di limite e di misura, la Weil giungesse alla convinzione che il fenomeno giuridico in quanto tale sia contaminato dalla forza come da una sorta di peccato originale. Il processo che porta quasi a rovesciare le conclusioni precedenti non si svolge, ovviamente, nemmeno stavolta sul filo di una rigorosa e puntuale riflessione filosofico-giuridica. Questa, una volta riconosciuto che nel diritto trova espressione una normatività che eccede la pura forza, avrebbe richiesto un duplice chiarimento: da un lato, per quanto concerne il modo in cui le norme giuridiche impongono la loro obbligatorietà; e dall’altro lato, per quanto concerne il modo in cui esse fanno sì che non sia la “potenza naturale” dei soggetti a fissare i diritti di ciascuno rispetto a tutti gli altri. Sollecitati da questi problemi non si sarebbe potuti giungere che ad una conclusione: per poter efficacemente svolgere la funzione che (anche da Simone Weil) gli viene assegnata, il diritto non può che ricorrere ad un uso regolato della coercizione9. È il paradosso di una tecnica non violenta di risoluzione dei conflitti che per raggiungere il suo scopo è obbligata a servirsi della spada10. La riflessione su questo tema è notoriamente centrale nella filosofia del diritto11, ed è nota la conclusione cui essa è pervenuta in 9 Da questo punto di vista – lo ha ricordato anche Jacques Derrida (Force de loi. Le «fondement mystique de l’autorité», Éditions Galilée, Paris, 1994, tr. it. Forza di legge. Il «fondamento mistico dell’autorità», a cura di F. Garritano, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 52) – «non c’è diritto che non implichi in se stesso, a priori, nella struttura stessa del suo concetto, la possibilità di essere enforced, applicato con la forza». 10 Riprendo l’osservazione da F. D’AGOSTINO, Diritto e violenza, in Il diritto come problema teologico ed altri saggi di filosofia e teologia del diritto, Giappichelli, Torino, 1997, p. 99. 11 Una riflessione, del resto, che affonda le sue radici nelle culture antiche alle quali Simone Weil era maggiormente legata. Per la Grecia si possono prendere le mosse dai versi di Esiodo, e dal suo famoso apologo dello sparviero e dell’usignolo contenuto ne Le opere i giorni (vv. 202-212), per avere testimonianza di una cultura che, pur tra ambiguità e incertezze (cfr. F. D’AGOSTINO, BIA. Violenza e giustizia nella filosofia e nella letteratura della Grecia antica, Giuffrè, Milano, 1983), considera il mondo del diritto in antitesi a quello della violenza («Agli uomini, infatti, il
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alcuni suoi capitoli fondamentali, i quali hanno trovato nelle pagine di Max Weber la loro espressione definitiva e più fortunata: la strada che porta a uscire dalla spirale della violenza innescata dal gioco delle “potenze”, e dalla sopraffazione che ne deriva, non può che essere quella della monopolizzazione dell’uso legittimo della violenza medesima. Attraverso questa operazione di centralizzazione, infatti, «il diritto si appropria della reazione alla violenza, opponendole la sua violenza regolata, statuita, limitata»12. È un processo che ha trovato ampio riconoscimento nelle costruzioni teoriche, e precisa realizzazione negli Stati nazionali moderni. Come è evidente in particolare nel pensiero di Hobbes, lo Stato nasce appositamente per porre un freno alla violenza, cosa che è in grado di fare soltanto sulla base di una esclusione e segnando una differenza: uso legittimo della violenza è quello dello Stato, di fronte al quale starà un uso illegittimo, qualora un soggetto non autorizzato vi faccia comunque ricorso. Nella teoria politica, questo passaggio avviene mediante l’idea di un contratto che è in grado di fissare un nuovo “inizio”. È col contratto che viene istituito «un sovrano che garantisca la pace attraverso una violenza terza, giusta quin-
Cronide dettò questa legge: è proprio dei pesci, delle fiere, dei volanti uccelli divorarsi l’un l’altro, perché non esiste giustizia fra loro; ma agli uomini diede la giustizia, che è cosa di gran lunga migliore»: sono i vv. 276 ss, nella traduzione di L. Magugliani, Rizzoli, Milano, 1998, p. 115. Sul significato del termine «giustizia» in Esiodo, cfr. E.A. HAVELOCK, The Greek Concept of Justice from Its Shadows in Homer to Its Substance in Plato, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1978, tr. it. Dike. La nascita della coscienza, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 237 ss; E. RIPEPE, Torah e Dike: una preistoria dell’obbligo giuridico?, in ID. (a cura di) Interrogativi sul diritto giusto, Plus, Pisa, 2001, p. 48 ss). Per la civiltà egizia si può invece richiamare la dottrina della Ma’ at, che trova la sua incarnazione nella figura del faraone e che indica allo stesso tempo la giustizia e l’ordinamento. Tra le implicazioni di questa dottrina vi è il fatto che il re faccia uso della violenza affinché «si instauri la giustizia» e «sia garantita la protezione del debole dalla prepotenza del forte» (così J. ASSMANN, Herrschaft und Heil. Politische Theologie in Altägypten, Israel und Europa, Carl Hanser Verlag, München-Wien, 2000, tr. it. Potere e salvezza. Teologia politica nell’antico Egitto, in Israele e in Europa, Einaudi, Torino, 2003, p. 52). 12 RESTA, La certezza e la speranza, cit., p. 80.
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di diversa»13. E come sa ben riconoscere la Weil, «è perché gli individui, anche laddove sono liberi, non dispongono sovranamente di se stessi e dei loro beni, che esiste un ordine civile» (SGT, 274). Della forza, come è ben noto, si è fatto di volta in volta, il mezzo per l’attuazione del diritto oppure l’unico suo vero contenuto14. Sia, però, che si pensi al diritto come ordinamento coattivo, sia che lo si pensi come un insieme di norme che ha ad oggetto l’uso della forza, è la conclusione a cui si giunge – «non è possibile concepire una società che non si basi sull’organizzazione della forza»15 – che rappresenta lo scoglio su cui s’infrange la scommessa weiliana. Simone Weil sembra temerne a tal punto il rischio di una confusione con la forza, da giungere a rifiutare del tutto la nozione di diritto16. Si può forse dire, anzi, che quanto più s’intensifica la sua riflessione sulla forza, tanto più s’indebolisce la fiducia nel diritto, e l’attenzione si rivolge alla giustizia e alla sua dimensione soprannaturale. Nello scritto del periodo londinese dedicato a La personne et le sacré – il testo weiliano in cui maggiore appare la distanza dal linguaggio del diritto e dei diritti – compaiono queste parole definitive di condanna: La nozione di diritto ci viene da Roma, e come tutto ciò che viene dall’antica Roma, la donna gravida dei nomi della bestemmia di cui parla 13
Ivi, p. 103. Per un quadro, come sempre chiaro, delle diverse posizioni al riguardo cfr. N. BOBBIO Diritto e forza, in ID., Studi per una teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino, 1970, pp. 119 e ss. 15 OLIVECRONA, Il diritto come fatto, cit., p. 114. 16 Secondo M. NARDO, Diritto soggettivo e diritto oggettivo nella prospettiva del pensiero di Simone Weil, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», n. 1, 1977, p. 43, la critica weiliana riguarderebbe soltanto la nozione di diritto soggettivo, totalmente identificato con la forza, mentre bisognerebbe registrare «un giudizio nettamente più positivo del diritto oggettivo», inteso appunto «come regola o limite dell’azione umana». Il fatto è che, come riconosce lo stesso Nardo, «il linguaggio weiliano ignora completamente la distinzione terminologica tra diritto soggettivo e diritto oggettivo» (p. 27), per quanto spesso risulti chiaro il riferimento all’uno o all’altro. In ogni caso, l’accusa di contaminazione con la forza riguarda certamente anche il diritto oggettivo, al quale verrà d’ora in avanti sempre contrapposto il termine ‘giustizia’. 14
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l’Apocalisse, è pagana e non battezzabile. I Romani che avevano capito, come Hitler, che la forza ha la pienezza dell’efficacia solo quando è rivestita di alcune idee, impiegavano la nozione di diritto a questo scopo. Vi si presta benissimo (P, 50)17.
Al di là della fondatezza di una tale lettura della storia (e della natura) del diritto, è certo che in essa vengono trascurati – non si sa quanto coscientemente – gli esiti dello sforzo che l’uomo ha compiuto nei secoli per incanalare l’uso della forza mediante l’impiego di regole giuridiche; regole che si presentano spesso, peraltro, alla stregua di “norme di giustizia” (o quali applicazioni di norme di giustizia). La stessa civiltà romana, alla quale Simone Weil riconosce la paternità della tradizione giuridica occidentale, ha il merito di aver posto alcuni punti fermi nella storia del diritto, che a pieno titolo possono essere assunti tra le formule o gli strumenti della giustizia. Si tratta di una civiltà, infatti, che non solo ha saputo formulare nel senso più universale il principio fondamentale di giustizia, attraverso la formula del suum cuique tribuere, ma ha saputo anche vedere i limiti della sua “invenzione” più feconda, adottando il correttivo 17
Senza voler troppo anticipare rispetto a quanto verrà detto nelle pagine seguenti, bisogna però dire subito che la connessione tra diritto e forza conduce alla disconnessione di diritto e giustizia. Si tratta di una disconnessione che è anche opposizione; una opposizione che Simone Weil rinforza legando una nozione alla eredità dei Romani, l’altra a quella dei Greci: questi ultimi «non avevano la nozione di diritto. Non avevano parole per esprimerla. Si accontentavano del nome giustizia» (P, 50). A questo proposito vale però l’osservazione avanzata da una delle più attente studiose del pensiero weiliano: «Il ne faut pas trop se fier aux références sémantiques avancées par Simone Weil qui souvent sont guidées par ses préventions. Elle préfère la justice au droit. Mais en latin le mot justitia, la justice, a été précisément formé d’après le mot jus, le droit, racine latine incontestée. Quant aux Grecs, ils disposaient de plusieurs mots qui, sans être exactement équivalents, jouaient le même rôle que le jus latin: nomoi, les lois; dikè, la justice; to dikaion, le juste. Par exemple, le nomos grec et le jus romain avaient des fonctions assez proches: tout deux régissaient le partage des biens attribués à chaque citoyen» (S. FRAISSE, Simone Weil, la personne et les droits de l’homme, in CSW, n. 2, 1984, pp. 126-127). Per Rolland, addirittura, «Simone Weil enferme le droit dans un jeu d’oppositions schématiques et caricaturales» (Simone Weil et le droit, cit., p. 240).
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dell’equum, e comunque avendo la piena consapevolezza, espressa nella massima «summum ius summa iniuria», del fatto che l’applicazione del diritto non conduce meccanicamente alla giustizia18. Si potrebbe notare, in aggiunta, che nella pensatrice francese non emerge alcuna preoccupazione per il fatto che la sua posizione possa sfociare in una forma di nichilismo giuridico che non riconosce alcun luogo intermedio tra l’esercizio della forza bruta e l’annullamento di sé richiesto dalla “vera giustizia”. Ma si tratterebbe di una osservazione che potrebbe risultare eccessiva. La verità, infatti, è che la Weil accoglie (inconsapevolmente) una tesi cara al realismo giuridico e politico, ma aprendovi uno spiraglio a questo sconosciuto. Perché se è vero, come ha sostenuto Alf Ross, che «una concezione realistica non considera giustizia e forza come contrapposte», dato che «il diritto è uno strumento del potere» e ciò che conta è «la relazione fra timore e rispetto»19, allora Simone Weil non fa altro che sottoscrivere una tale asserzione, cercando però di «salvare» la giustizia, svincolandola completamente dal diritto: ed è appunto in questo la particolarità del suo pensiero. È muovendo da qui che possono essere elusi gli esiti nichilistici insiti in una teoria radicalmente realistica: Simone Weil non avrebbe mai potuto affermare, come Ross, che «invocare la giustizia è la stessa cosa che picchiare un pugno sul tavolo»20. Quanto al diritto, va ancora detto che esso non viene da lei nemmeno semplicisticamente confuso con la forza, ma è considerato alla stregua di una maschera della forza, in quanto rientra nell’«arte di salvare le apparenze». Esso non si riduce perciò fino al punto da non aggiungere niente alla forza, come traspare dal passo precedentemente citato, e come, anche stavolta, aveva insegnato Rous18
Un quadro esauriente dei diversi motivi e delle varie “epoche” che hanno costituito l’esperienza giuridica romana è stato da ultimo offerto da A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Einaudi, Torino, 2005. 19 A. ROSS, On Law and Justice, Steven & Sons LTD, London, 1958, tr. it. Diritto e giustizia, a cura di G. Gavazzi, Einaudi, Torino, 2001, p. 56. 20 Ivi, p. 259.
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seau: «il più forte non sarebbe mai abbastanza forte per essere sempre il padrone, se non trasformasse la sua forza in diritto e l’obbedienza in dovere»21. In ogni caso, la scommessa sulla differenza tra diritto e violenza viene considerata definitivamente “perduta”. E a far maturare questa convinzione ha certamente contribuito il fatto che anche lo Stato moderno, nella sua incarnazione totalitaria, stesse mostrando il suo volto più violento e crudele. 3. L’analisi del totalitarismo – che consente di registrare una «convergenza sorprendente», ma anche alcune divergenze sostanziali, tra il pensiero della Weil e quello di Hannah Arendt22 – interessa in questa sede, non tanto perché mette in luce la natura di un regime che produce «l’umiliazione degli spiriti e dei cuori» (SGT, 204), quanto perché permette di sottolineare il dato che forse sta a cuore maggiormente alla Weil nella sua indagine sull’hitlerismo: la continuità che è possibile cogliere nella storia delle società umane, quanto meno in relazione all’esplicarsi della potenza e della forza. Da questo punto di vista – è nota la lettura weiliana – lo Stato hitleriano non si presenta affatto come un qualcosa di nuovo o di eccezionale, con caratteri inediti e singolari. Esso ha avuto dei precedenti illustri nella Francia di Luigi XIV e di Napoleone ed ha il suo antecedente principale nello Stato imperiale degli antichi Romani23. Ma 21
ROUSSEAU, Il contratto sociale, cit., p. 13. La convergenza riguarda l’analisi del totalitarismo come fenomeno che «tende a un annientamento della presenza umana attraverso un doppio procedimento combinato di derealizzazione di ciò che esiste e di costruzione ideologica di un mondo a tal punto finto da rendere quello reale incredibile». La divergenza si realizza invece nel diverso rapporto che il fenomeno totalitario viene ad instaurare con la storia passata, e in particolare con la modernità. Cfr. ESPOSITO, L’origine della politica, cit., pp. 13-14. 23 Se già lo Stato creato da Richelieu «era la macchina anonima, cieca, produttrice di ordine e di potenza, che oggi noi conosciamo sotto questo nome e che alcuni paesi adorano» (SGT, 207), furono i Romani a conoscere per primi «l’arte di alterare nel terrore l’anima stessa dei loro avversari, o di addormentarli con la speranza, prima di asservirli con le armi» (SGT, 220). A Roma, «la propaganda e la forza si sostenevano reciprocamente» (SGT, 243). 22
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è anche un fenomeno che può tornare a ripetersi, ogni volta che uno Stato «centralizzato e sovrano» diventi «conquistatore e dittatoriale», ciò che si verifica sempre non appena esso «crede di averne la forza» (SGT, 276)24. Il dito di Simone Weil è puntato, fin dall’inizio degli anni ’30, contro una forma di organizzazione politica che ha i caratteri associati della centralizzazione e della sovranità, i quali fanno dello Stato il «centro della vita economica e sociale», unico soggetto legittimato a «decidere sovranamente in tutti gli àmbiti» (R, 118-9), in quanto ha weberianamente «espropriato» dei propri poteri tutti gli altri centri di normazione e regolazione che producevano “ordine” nella vita sociale. La particolarità del pensiero della Weil consiste nel fatto che ella non ne fa un fenomeno esclusivamente moderno. Lo Stato centralizzato e sovrano è innanzi tutto quello dei Romani, la cui struttura è stata replicata nella vicenda dello Stato moderno. Quasi elaborando una legge dell’evoluzione storica, Simone Weil vede alternarsi epoche di centralizzazione ad epoche di decentralizzazione, e viceversa25. Le epoche di centralizzazione, nelle quali, oltre a Roma, si iscrivono non solo la Francia dell’assolutismo e la Germania dell’hitlerismo, ma tutte le singole storie degli Stati nazionali moderni, si caratterizzano per l’affermazione di una struttura di potere impersonale e burocratica che opera energicamente nel senso del livellamento e del controllo capillare. Il suo effetto è quello di «fare affluire la vita del paese verso la capitale» producendo una vera e propria «sparizione» della vita locale e regionale (SGT, 259). L’analisi della monarchia assoluta francese condotta ne L’enraci24 Ciò significa che l’incubo non è mai finito, come nota G. GAETA, La rivoluzione impossibile e lo spettro del totalitarismo (postfazione a SGT, p. 306); esso ha «assunto la dimensione storica di un fenomeno nient’affatto contingente, che anzi si iscrive profondamente e coerentemente nella cultura politica dell’Occidente». 25 Cfr. SGT, 278, dove la formulazione, en passant, di questa legge è funzionale alla espressione di una speranza: «è inevitabile – scrive la Weil – che la trasformazione che l’umanità da qualche secolo ha compiuto nel senso della centralizzazione sia un giorno seguita da una trasformazione in senso contrario; perché ogni cosa nella natura finisce col trovare il proprio limite».
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nement mette in risalto tutti questi caratteri. Il regime di Luigi XIV era già essenzialmente totalitario. E non solo per il terrore, le denunce, l’idolatria dello Stato imposta ed organizzata tramite la propaganda; ma soprattutto perché «lo sradicamento delle province francesi e la distruzione della vita locale» – l’eliminazione di «tutto ciò che non era Parigi» (C, 35) – raggiunse un grado incredibilmente elevato. Un processo, questo, dice la Weil sulla scia di Tocqueville, che venne accentuato, e non certo arrestato, dalla Rivoluzione dell’89 e dallo Stato che ne nacque: essa portò «nuove distruzioni nell’ambito della vita locale» e lo Stato divenne sempre più totalitario (PR, 111). Un processo lungo, che ha conosciuto tappe diverse, ma che ha avuto un unico esito: lo Stato ha finito per sopprimere «tutti i legami che, al di fuori della vita pubblica, potevano orientare il sentimento di fedeltà» (PR, 116). Queste vicende hanno avuto ovviamente inevitabili riflessi nella sfera giuridica. La sovranità dello Stato è divenuta sempre più incontrastata e senza limiti, e il diritto sempre più decisamente un mero strumento di potenza e di esercizio della forza sovrana. A Roma, dove la sovranità della città incontrò per lungo tempo un limite nella sovranità delle famiglie, «via via che la città si trasformava in Stato e la famiglia si disgregava, questo limite perse forza». Di sicuro, guardando all’evoluzione di Roma, «sarebbe estremamente difficile sostenere sulla base dei testi che i Romani abbiano concepito il diritto come emanazione degli individui e in grado di stabilire un limite alla sovranità dello Stato nei suoi rapporti con essi» (SGT, 262). In passi come quello appena riportato sembra di poter cogliere una persistenza dell’idea che sia possibile preservare la purezza del diritto, purché esso rimanga sganciato dalla sovranità dello Stato. Ciò che è perverso, e che condanna irrevocabilmente il momento giuridico, è la sua subordinazione all’esercizio della forza, una subordinazione che non c’è modo di rovesciare una volta che il diritto sia stato “inglobato” nelle viscere profonde ed oscure dello Stato. Il connubio tra diritto e Stato crea una forma di dominio irresistibile, in cui l’esercizio della forza legittima serve solo momentaneamente a temperare (meglio, a mascherare) l’esercizio della forza
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tout court. È come se Simone Weil si rendesse conto, in consonanza con la parte più tragica della scienza giuridica europea tra le due guerre, che il tempo del positivismo giuridico è tramontato, e che l’epoca in cui il giurista poteva guardare al diritto potendo non preoccuparsi della politica, è finito. La Gewalt che è fondatrice e conservatrice del diritto, come aveva detto Walter Benjamin26, assume i connotati spaventosi di un Leviatano gigantesco che non può conoscere limiti. Il diritto ha cessato per sempre di essere «emanazione degli individui» e dei corpi sociali ed è ormai puro strumento nelle mani di coloro che manovrano la grande macchina del potere statale. Se verso l’esterno il potere dello Stato è limitato dalla presenza di altri Stati – i quali però rappresentano sempre «un limite di fatto e non di diritto» –, all’interno non c’è limite che possa valere, persino in uno Stato democratico: «se gli uomini che hanno in mano per ragioni diverse l’autorità dello Stato cessano di volere la democrazia, possono essere talora costretti dal timore della ribellione, ma nessuna legge può obbligarli a restarle fedeli» (SGT, 273). Quello paventato da Simone Weil è l’avvento di una sorta di «stato di eccezione permanente», nel quale viene meno definitivamente ogni stabilità, ogni equilibrio, ogni armonia. Stabilità ed equilibrio soprattutto, i valori che venivano garantiti dal diritto contro la lotta delle potenze, vengono ora definitivamente perduti. Si potrebbe dire che valga per Simone Weil ciò che valeva per l’analisi di molti giuristi europei, che nello “stato di eccezione” vedevano non più una misura eccezionale o straordinaria, ma «il paradigma costitutivo dell’ordine giuridico»27, come risulta anche da una considerazione come questa: «Lo stadio finale di una simile evoluzione, stadio per fortuna teorico, sarebbe una situazione tale per cui su tutto il globo terrestre ogni essere umano obbedirebbe continuamente ed 26
Cfr. W. BENJAMIN, Zur Kritik der Gewalt, in Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Mein, 1955, tr. it. Per la critica della violenza, in Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torinio 1995. 27 G. AGAMBEN, Stato di eccezione. Homo sacer, II, I, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 16.
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esclusivamente allo Stato di cui è suddito, mentre ogni Stato obbedirebbe solo ai propri capricci» (SGT, 274). Se è così, appare del tutto illusoria ogni costruzione giuridicopolitica che rimandi alla finzione del contratto sociale. Non c’è contenimento della violenza che possa essere garantito una volta per tutte dal trasferimento dei poteri individuali al sovrano. E non perché, spinozianamente, lo stato di natura continui a valere anche nello stato civile, ma perché la costruzione del nuovo soggetto legittimato all’uso della violenza non lascia spazio ad alcuna ragione di fiducia e di certezza. Il problema non è tanto quello di non riuscire a «confinare all’origine» (e quindi lasciarsi alle spalle) la violenza diffusa derivante dall’esplicarsi delle singole potenze individuali; ma è piuttosto quello di non riuscire a contenere una violenza concentrata che è sempre potenzialmente “devastante” non appena sorga qualcuno o qualcosa che osi metterla minimamente in discussione. Oltre la dialettica tra posizione e conservazione del diritto28, la forza si fa valere nella sua nudità. E dunque, poiché per giudicare se una forza è oppressiva si deve guardare non al modo in cui viene usata ma alla sua natura profonda, bisogna riconoscere non solo che lo Stato è «una macchina per stritolare gli uomini», ma anche che «non può smettere di stritolare finché è in funzione, nelle mani di chiunque essa si trovi» (R, 47). Questa riflessione sulla violenza dello Stato totalitario si inserisce in una generale meditazione sulla forza, che negli ultimi anni della vita della Weil non è soltanto uno dei luoghi più frequentati della sua riflessione, ma soprattutto il punto in cui si gioca il passaggio fondamentale verso la fase più compiuta – verrebbe da dire persino “sistematica” – del suo pensiero filosofico-religioso, nella quale trova collocazione una profonda considerazione del tema della giustizia. 28
Su tale dialettica si veda innanzitutto il già ricordato lavoro di DERRIDA, Forza di legge, che costituisce in gran parte un commento al noto saggio di Benjamin. Si vedano inoltre, M. CACCIARI, Icone della legge, quarta edizione, Adelphi, Milano, 2002, p. 50 s; F. GARRITANO, Aporie comunitarie. Sino alla fine del mondo, Jaca Book, Milano, 1999, cap. I.
CAPITOLO TERZO
TRA FORZA E GIUSTIZIA
1. «Su questa terra non c’è altra forza che la forza. Questo potrebbe essere un assioma. In quanto alla forza che non è di questa terra, il contatto con essa si paga solo a prezzo di un transito attraverso qualcosa che somiglia alla morte» (PR, 199). Possiamo assumere questo passo emblematico de L’enracinement come punto di partenza per cogliere la doppia verità su cui poggia la fase più matura del pensiero weiliano. Da un lato, la constatazione drammaticamente vissuta che la realtà è sottoposta al completo dominio della forza; dall’altro lato, la certezza che è possibile sottrarsi a questo dominio attraverso un’operazione che coinvolge innanzi tutto l’impegno personale alla riduzione e alla compressione dell’io. Si tratta di due verità strettamente legate, in un duplice senso: intanto sul piano causale e formale, perché solo la certezza relativa alla prima (con i vari corollari che ne derivano) impone di adottare la seconda; e in secondo luogo sul piano sostanziale, perché la particolarità del contenuto della seconda si spiega con la necessità di fuggire completamente alla “pesantezza” con cui si afferma la prima. Il discorso sulla realtà della forza procede soprattutto per la via delle analisi storiche. Il saggio sull’Iliade, i due saggi sulla civiltà occitana, i saggi sulle origini dell’hitlerismo, gli scritti sulla guerra, assieme a molti altri articoli e frammenti, costituiscono tappe diverse di un’unica strategia rivelativa tesa a dimostrare che la storia dell’uomo non è stata altro che un lungo e continuo avvicendamento di forze. Un «tetro gioco di forze cieche», anzi, che ha avuto e conti-
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nua ad avere l’unico effetto di stritolare gli sventurati che vi incappano. È significativo che, proprio con riferimento all’Iliade, come dire agli inizi della civiltà occidentale, Simone Weil proclami il regno della forza come già insediato nelle vicende umane: «il vero eroe, il vero argomento, il centro dell’Iliade, è la forza. La forza adoperata dagli uomini, la forza dinanzi alla quale si ritrae la carne degli uomini. L’anima umana vi appare continuamente modificata dai suoi rapporti con la forza: travolta, accecata dalla forza di cui crede disporre, si curva sotto l’imperio della forza che subisce»1. Quel poema non è affatto un documento in cui leggere una storia del passato; per chi non si lascia illudere da false idee sul progresso morale, e sa vedere la presenza perenne della forza, esso costituisce «il più bello, il più puro degli specchi» (GR, 9). Una lettura attenta dell’Iliade dimostra che è la forza a dominare sugli uomini, e non viceversa. Non diversamente dal potere, «che racchiude in sé una sorta di fatalità che pesa con uguale spietatezza su coloro che comandano e su coloro che obbediscono» (R, 49), la forza impone le sue leggi, e il contatto con essa, da qualunque parte si attui, marchia con un segno indelebile, «stritola quelli che tocca» (GR, 21). Come è stato efficacemente notato a proposito di questa lettura, che accomuna la Weil ad altri grandi interpreti della tradi1
Già nelle Réflexions sur les causes de la liberté et de l’oppression sociale, il «grande testo» del 1934 – quindi in un periodo assai precedente a quello cui si riferiscono i materiali preparatori del saggio sull’Iliade (Cfr. S. FRAISSE, Genèse de l’article sur l’«Iliade», appendice a EHP, 3, 304-309) –, Simone Weil aveva individuato nell’opera omerica il poema dell’«imperio della guerra sui guerrieri e, mediante loro, su tutti gli esseri umani» (R, 53) (anche se naturalmente rimane fermo che nelle Réflexions il concetto centrale dell’analisi non è quello di forza ma quello di bisogno. Cfr. G. GAETA, Individuo e società nel pensiero politico di Simone Weil, in MARCHETTI (a cura di), Politeia e sapienza, cit., p. 240). Per una lettura critica dell’interpretazione weiliana dell’Iliade, cfr. J. GAILLARDOT, «L’Iliade» poeme de la force?, in CSW, n. 3, 1982, pp. 184-191, la quale sostiene che il vero oggetto del poema è «l’affrontement» tra il regno della vita e quello della morte. Va segnalato inoltre che del saggio weiliano è stata anche pubblicata un’edizione critica in J.P. HOLOKA (ed.), Simone Weil’s The Iliad or the Poem of Force. A Critical Edition, Peter Lang, New York, 2003.
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zione greca, nell’Iliade non ci sono “soggetti” che non siano sempre «assoggettati a potenze indomabili»2. La forza è innanzi tutto ciò che annulla ogni umanità nel volto dell’uomo, rendendolo «cosa»3. Il potere ch’essa possiede, di trasformare gli uomini in cose, è duplice e si esercita da ambo le parti; essa pietrifica diversamente, ma egualmente, le anime di quelli che la subiscono e di quelli che la usano. Tale proprietà tocca il più alto grado in mezzo alle armi, dal momento nel quale una battaglia si orienta verso una decisione. Le battaglie non si decidono tra uomini che calcolano, combinano, prendono una risoluzione e la attuano, ma tra uomini spogliati di queste facoltà, trasformati, caduti al livello della materia inerte che non è che passività, come delle cieche forze che non sono che impeto. È questo il segreto ultimo della guerra, e l’Iliade lo esprime paragonando i guerrieri all’incendio, all’inondazione, al vento, alle bestie feroci, a qualsiasi causa cieca di disastro, oppure agli animali paurosi, agli alberi, all’acqua, alla sabbia, a tutto ciò che è mosso dalla violenza delle forze esterne (GR, 26).
Qui non interessa, naturalmente, ripercorrere tutti i “capitoli” che la Weil ha dedicato alla forza al fine di dimostrare il suo incontrastato dominio. Sarà sufficiente ricordare l’abisso incolmabile che ella pone tra le varie civiltà, a seconda dell’atteggiamento che queste hanno assunto (e che è sempre possibile continuare ad assumere) rispetto a tale dominio. Due sono infatti gli atteggiamenti praticabili, posti a una siderale distanza: quello della contemplazione e quello dell’adorazione. Antica Grecia e civiltà occitana, da una parte; Roma e Israele, dall’altra, ne rappresentano le incarnazioni storiche più rilevanti, i cui caratteri sono accentuati dalla Weil fino a farne quasi dei “tipi ideali”4. Le prime non si sono affatto ingannate: hanno avuto la piena 2
ESPOSITO, L’origine della politica, cit., p. 74. Sui diversi possibili significati di questa «cosificazione» prodotta dalla forza si sofferma analiticamente P. WINCH, Simone Weil: «The just balance», Cambridge University Press, Cambridge 1989, tr. it. Simone Weil. La giusta bilancia, a cura di F.R. Recchia Luciani, prefazione di F. Cassano, Palomar, Bari, 1995, p. 177 ss. 4 Come ricorda BEA PÉREZ, Simone Weil. La memoria degli oppressi, cit., p. 119, 3
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capacità di comprendere che il dominio della forza era totale nelle cose del mondo, e proprio per questo hanno cercato il modo di sfuggirle. Le seconde, invece, hanno avuto entrambe il culto della forza e del “collettivo” che ne è espressione. Non è un caso, per Simone Weil, che Israele sia l’unico esempio di una civiltà del Mediterraneo che sia riuscita a sopravvivere alla furia devastatrice di Roma: gli Ebrei, come i Romani, hanno saputo riconoscere solo valori collettivi5. l’aver operato una opposizione netta tra civiltà storiche aventi caratteri positivi e civiltà storiche cui sono attribuiti caratteri esclusivamente negativi costituisce uno dei lati più critici, e criticati, del pensiero della Weil. Gustave Thibon riconduce l’atteggiamento weiliano alla convinzione che la realtà sia governata da una necessità ferrea, superabile solo mediante la grazia. In questo modo, solo le civiltà in cui si sia scoperta una qualche azione della grazia possono essere “salvate”, mentre in tutte le altre non si può vedere nulla che non sia imputabile all’azione del male e della pesantezza: «Simone Weil – scrive Thibon – rasenta qui il totalitarismo che ha sempre combattuto con tanta grandezza, e questo scivolamento è il seguito logico della sua impazienza dell’assoluto» (Le mie impressioni su Simone Weil, in PERRIN-THIBON, Simone Weil come l’abbiamo conosciuta, cit., pp. 148-149). Di uno schema «troppo rigido e semplificatore», parla G. POTESTÀ nella sua Nota posta in appendice a C, 86. Sulla riflessione storica di Simone Weil cfr. comunque M. BROC-LAPEYRE, Simone Weil et l’histoire, in AA.VV., Simone Weil. Philosophe, historienne et mystique. Communications regroupées par G. Kahn, Aubier Montaigne, Paris, 1978, pp. 167-191. 5 Ha scritto padre Perrin che «Israele era davvero la cittadella di tutte le sue opposizioni, il nodo di tutte le sue resistenze» (PERRIN-THIBON, Simone Weil come l’abbiamo conosciuta, cit., p. 75). Ed effettivamente, la quantità di accuse che Simone Weil rivolge al popolo ebraico, congiuntamente a quello romano, è davvero impressionante, e a tratti sconcertante. Quella ebraica e quella romana rappresentano i due soli esempi di società in cui abbia regnato la gravità, senza alcuna presenza sovrannaturale (Q, II, 50): «Roma è il grosso animale ateo, materialista, che adora solo se stesso. Israele è il grosso animale religioso. Nessuno dei due è amabile. Il grosso animale è sempre ripugnante» (Q, III, 177). «Roma e Israele hanno fatto passare nel cristianesimo, mescolato allo spirito del Cristo, quello della Bestia […] La Bestia è l’idolatria sociale, l’idolatria del grosso animale di Platone» (Q, IV, 148). Tuttavia, Simone Weil riconosce che solo la resistenza religiosa degli ebrei ha potuto rendere possibile la nascita del cristianesimo (Q, II, 183). E la terribile accusa secondo cui Israele era il popolo eletto «per essere il carnefice di Cristo» (Q, III 287), va letta in connessione con la necessità della Passione del Cristo, che assume un ruolo assolutamente centrale nel discorso weiliano anche – come si vedrà più avanti – con riguardo alla giustizia. Sull’antigiudaismo weiliano, che ha dato naturalmente luogo a qualche polemica nei confronti della pensatrice francese (cfr. soprattutto P. GINIEWSKI, Simone Weil ou la
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La distanza tra questi due mondi è misurata dalla differenza di valutazioni e di accenti che è possibile trovare nell’Iliade e nell’Antico Testamento. In un caso, la preoccupazione di non contaminare con la forza i pochi «punti luminosi» presenti nella vita degli uomini, conduce al fatto che «nulla di prezioso, sia o non destinato a perire, è disprezzato» e che anzi «tutto ciò che è distrutto è rimpianto» (GR, 29); nell’altro caso, è possibile trovare la testimonianza che «l’adorazione della potenza ha fatto perdere agli Ebrei la nozione del bene e del male» (C, 42). Se il vero, e incompreso, merito dell’Iliade sta nel non avere celato «la fredda brutalità dei fatti di guerra», e per converso nell’aver avvolto di poesia tutto ciò che dalla guerra è assente e che è minacciato di distruzione (GR, 30)6, la dignità di testo sacro «accordata a racconti pieni di crudeltà spietate» (C, 42), come avviene per molti libri del Vecchio Testamento, non può avere altro effetto che di tenere lontani da quel cristianesimo che (in gran parte) ne ha ereditato lo spirito. Quanto ai Romani, le loro gesta e le loro imprese sono per la Weil la testimonianza inequivocabile della loro adorazione della forza. Il racconto, ripreso dalle Guerre puniche di Appiano, di come essi distrussero Cartagine rimanendo sordi alle suppliche e ai lamenti, porta a concludere che nessuno ha eguagliato Roma nell’usare la crudeltà come «un incomparabile strumento di dominio» (SGT, 226)7. haine de soi, Berg International, Paris, 1978), si possono vedere: G. KAHN, Limites et raisons du refus de l’Ancien Testament par Simone Weil, in CSW, n. 2, 1980, pp. 98110; P.C. BORI, Simone Weil e la Bibbia ebraica, in MARCHETTI (a cura di), Politeia e sapienza, cit., pp. 33-46; NEVILL, Simone Weil, cit., cap. 9; W. TOMMASI, Il Dio nascosto e il Dio della tribù: Simone Weil e l’ebraismo, in EAD., Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile, Liguori, Napoli, 1997, pp. 119-134. 6 È il fatto di percepire la forza sempre congiuntamente all’«assenza che essa riempie» che permette – secondo l’interpretazione di Esposito – di passare «dall’assoluto realismo politico al suo rovescio impolitico» (L’origine della politica, cit., p. 78). Per la nozione di «impolitico», si veda il testo di riferimento dello stesso ESPOSITO, Categorie dell’impolitico, cit., assieme a Oltre la politica. Antologia del pensiero «impolitico», a cura di R. Esposito, Bruno Mondadori, Milano, 1996. 7 La validità storiografica delle tesi weiliane su Roma, assieme a quella della metodologia impiegata per raggiungerle, è argomentata da P. DESIDERI, Il modello romano, in MARCHETTI (a cura di), Politeia e sapienza, cit., pp. 113-134.
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Lontanissima dal pensare, con Bodin, che i Romani «conformavano ogni loro azione al modello della vera giustizia»8, Simone Weil avrebbe sottoscritto – compiacendosi di vederle pronunciate – le parole uscite dalla penna di Massimo D’Azeglio: «Non il sentimento del dritto e del giusto è la vera eredità dell’antica Roma: la sua vera e triste eredità, il sentimento da lei consacrato, e rimasto più o meno latente nella coscienza dell’umanità per quattordici secoli, è invece la glorificazione della forza a danno del dritto»9. Ci sarebbe stato da eccepire soltanto che quella eredità non è affatto rimasta latente, che non si è estinta dopo quattordici secoli, e soprattutto che forza e «dritto» non erano affatto in contrasto ma erano una sola e medesima cosa. 2. La nozione di forza non fornisce soltanto uno strumento per la lettura delle vicende della storia, ma è posta al centro di ogni questione sociale. Ciò significa principalmente che un’esatta cognizione di essa e delle sue dinamiche serve non solo a spiegare la natura delle organizzazioni oppressive, ma anche a disilludere sulle speranze vanamente riposte in ogni sorta di trasformazione sociale, e in particolare nella rivoluzione10. Dietro ogni trasformazione, qualunque sia la sua forma, esiste solo un gioco ininterrotto di forze, «le 8
J. BODIN, Les six livres de la République, I, 1, tr. it. I Sei libri dello Stato, vol. I, a cura di M. Isnardi Parente, Utet, Torino, 1964, p. 171. 9 M. D’AZEGLIO, I miei ricordi, a cura di M. Legnani, Feltrinelli, Milano, 1963, p. 275. 10 Merita certamente di essere riportato per intero il seguente passo dedicato alla fede nella rivoluzione: «L’illusione della Rivoluzione consiste nel credere che le vittime della forza siano innocenti riguardo alle violenze che si verificano, e, quindi, se si mette la forza nelle loro mani, esse ne faranno un uso giusto. Ma, se si eccettuano quelli che sono almeno assai prossimi alla santità, le vittime sono macchiate dalla forza quanto i carnefici. Il male che è all’impugnatura della spada si trasmette alla punta. E così le vittime, pervenute ai fastigi e inebriate dal cambiamento, fanno altrettanto o più male, poi ricadono ben presto. Il socialismo consiste nel collocare il bene nei vinti; il razzismo, nel collocarlo nei vincitori. Ma l’ala rivoluzionaria del socialismo si serve di quelli che, benché nati in basso, sono per natura e per vocazione vincitori; e così approda alla stessa etica» (Q, III, 266).
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quali si uniscono o si urtano, progrediscono o declinano, si sostituiscono le une alle altre» (R, 67), senza smettere mai di produrre i loro effetti nefasti. In queste condizioni, la forza può essere combattuta esclusivamente da una forza contraria, in quanto solo «l’equilibrio annulla la forza». Ma per il gioco continuo delle forze, la struttura di una società non può non riposare sempre su un «equilibrio instabile», risultato dei movimenti opposti prodotti da una pressione che proviene dal basso e da una resistenza esercitata dall’alto (OL, 182). Questo fa sì che una forza possa espandersi quando l’altra si indebolisce: così, ad esempio, se nel giugno del 1936 gli operai hanno alzato la testa è perché «la pressione del giogo s’è allentata» (CO, 184). Ne deriva, sul piano della riflessione politica ma anche dell’azione immediata, il riconoscimento della fecondità, della necessità, e soprattutto dell’inevitabilità del conflitto sociale11. Simone Weil, infatti, concorda con la letteratura conflittualistica classica (in primis Machiavelli) nel pensare che chi invoca l’interesse generale nasconde le ragioni del conflitto, e perciò mente sulle proprie intenzioni12. Ed è significativo notare, a tal proposito, come la convinzione della positività del conflitto le faccia scrivere le uniche parole di elogio rivolte a una parte del popolo romano, con riferimento alla lotta della plebe per l’istituzione dei tribuni13. Proprio l’analisi della forza, tuttavia, porta la pensatrice francese a ripetere un assioma dell’Etica spinoziana, secondo cui nella natura «non c’è alcuna cosa singola della quale non ve ne sia un’altra più potente e più forte»14. C’è sempre un limite per l’illimitato, e per 11
«Le lotte tra cittadini non derivano da mancanza di comprensione o di buona volontà; esse derivano dalla natura delle cose, e non possono essere placate, ma soltanto soffocate dalla costrizione. Per chiunque ama la libertà, non è desiderabile ch’esse spariscano, ma soltanto che rimangano al di qua di un certo limite di violenza» (OL, 207). 12 «L’interesse generale è l’interesse di coloro che gestiscono l’apparato sociale, opposto all’interesse di coloro che sono subordinati» (LF, 192). 13 Cfr. Ne recommençons pas la guerre de Troie, tr. it. in SG, 65. Ma si veda anche La grève des plébéiens romains, in EHP, 3, 161-163. 14 SPINOZA, Etica, IV, Assioma, in Etica - Trattato teologico-politico, cit., p. 268.
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quanto possano crescere, le potenze non possono uscire dalla legge che le limita (Q, III, 135). È allora illusorio pensare che l’esercizio della forza possa mai essere fonte di ordine o semplicemente di equilibrio. Di fronte alla sua intrinseca capacità di impossessarsi di ciò che la tocca e di ciò che essa tocca, e quindi di espandere incessantemente il suo dominio, cade ogni possibilità di trovare riposo o certezze, perché nessuno la possiede mai veramente. «Nell’Iliade gli uomini non sono divisi in vinti, schiavi, supplici da un lato, in vincitore e capi dall’altro; non vi si trova un solo uomo che a un certo momento non sia costretto a piegare sotto la forza» (GR, 15). Questo deve portare a concludere, evidentemente, che l’equilibrio non è mai realmente possibile, se non come frutto di un «effimero istante» (Q, I, 163). Possono darsi in realtà soltanto squilibri superati da altri squilibri: se l’equilibrio in generale è un «limite tra due squilibri» (Q, I, 336), è Simone Weil stessa a rendersi conto del fatto che, applicato in un mondo in cui governa la forza, il principio di equilibrio diventa «un principio di guerra» (SG, 77, 90). Essere più forte dell’altro – hobbesianamente – è l’unico modo per non soccombere; e poiché le forze non sono mai misurabili con precisione matematica, c’è un’unica garanzia per la propria conservazione, ed è di cercare di essere sempre il più forte15. Così, l’equilibrio ha iscritto in sé lo squilibrio: la forza non conosce equilibri16. Tali considerazioni valgono, e ricevono conferma, se si guarda ad una manifestazione della forza, e cioè al potere e alla lotta che lo riguarda. Tale lotta è per Simone Weil una lotta affatto particolare perché sembra essere «senza misura». La perenne incertezza in cui 15
Può essere interessante osservare che proprio sulla base di questo ragionamento è svolta da Bobbio la critica al principio dell’«equilibrio del terrore». Cfr. in particolare Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e la guerra, a cura di P. Polito, Sonda, Torino, 1989. 16 Nota Peter Winch che «tutta l’opera di Simone Weil è stata orientata a scoprire una descrizione della condizione umana che rendesse almeno concepibile un autentico equilibrio tra esseri umani. Fu sempre realisticamente pessimista riguardo alla possibilità di determinare mai un tale equilibrio come un durevole stato di cose» (WINCH, Simone Weil, p. 109).
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è costretto a vivere colui che detiene il potere – a causa sia di chi preme dal basso per liberarsi, sia di coloro che cercano di conquistare il potere – fa sì che «nell’essenza stessa della potenza [ci sia] una contraddizione fondamentale che, a voler essere precisi, le impedisce in ogni caso di esistere» (R, 51): Appunto perché non c’è mai potere, ma solamente corsa al potere, e questa corsa è senza termine, senza limite, senza misura, non c’è limite né misura agli sforzi che essa esige; coloro che vi si abbandonano, costretti a fare sempre più dei loro rivali, i quali a loro volta si sforzano di fare più di loro, devono sacrificare non solo l’esistenza degli schiavi, ma la propria e quella degli esseri più cari; così Agamennone che immola sua figlia rivive nei capitalisti che, per conservare i propri privilegi, accettano a cuor leggero guerre che possono rapire loro i propri figli (R, 52-53).
È questa dinamica perversa che porta il potere ad accrescersi continuamente, finché sul suo cammino non incontra dei limiti. Qui, tuttavia, non c’è spazio per ripetere la lezione del costituzionalismo moderno, stando alla quale bisogna determinare dei meccanismi che frenino il potere con il potere; anzi, lo sforzo del pensiero weiliano sembra consistere nell’impedirsi ogni illusione sulla possibilità di costruire delle reti che possano in qualche modo “imbrigliare” il potere. I limiti del potere sono, genericamente, i medesimi che valevano per la forza: derivano dal fatto che nemmeno il potere, come ogni altra cosa di questo mondo, può procedere «senza incontrare un limite» (Q, I, 299). Per il resto, poiché anche il potere – o meglio, la lotta per il potere – è un meccanismo cieco cui soggiacciono coloro che comandano e coloro che obbediscono, pare non ci sia altro da fare se non accettarne il peso17. Non è dunque con la forza che si può uscire dal regno della forza, ma il riconoscimento di questo dominio è il passo fondamentale per 17
«Considerare sempre gli uomini al potere come cose pericolose. Evitarli nella piena misura in cui lo si può senza disprezzare se stessi. E se un giorno ci si vede costretti, salvo cadere nella viltà, ad andarsi a spezzare contro la loro potenza, considerarsi come vinti dalla natura delle cose e non dagli uomini» (Q, I, 126).
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tentare di sottrarvisi e di superarlo. Nella lettura già ricordata della Weil, solo chi ha avuto il coraggio di non nascondersi la realtà di questo regno ha potuto realmente disprezzarlo. «Conoscere la forza significa riconoscerla come pressoché assolutamente sovrana in questo mondo, e rifiutarla con disgusto e disprezzo» (C, 32). Una consapevolezza così piena «che consente di non mentire a se stessi», lo abbiamo già ricordato, è appartenuta secondo la Weil soltanto a due civiltà, quella greca e quella occitana, immagini di civiltà pure, «senza adorazione della forza» (Q, III, 142). L’antica Grecia, in particolare, avrebbe offerto il modello insuperato di contemplazione del dominio della forza, e allo stesso tempo del suo rifiuto più netto; un rifiuto che per la Weil è evidente, ad esempio, nell’atteggiamento rispetto alla violenza con cui essa aveva distrutto la civiltà di Troia: lungi dal sentirsi come dèi per questo atto di potenza, i Greci sentirono il bisogno di pentirsene (Q, II, 210). Da questo punto di vista, i Greci – e Simone Weil con loro, nel momento in cui ne riscopre il messaggio18 – possono essere considerati quali «testimoni», nell’accezione che a questa parola è stata data per caratterizzare l’opera di Primo Levi. La loro è la testimonianza di «chi sente che vi è, oltre un regno infernale, pur sempre un regno di bene, puro e incontaminato, nel quale l’uomo ha la possibilità di risiedere». Il testimone è infatti «colui che immediatamente ha la percezione di un oltre – avente significato etico – rispetto al mondo, e che cerca di agire secondo questa percezione»19. Dev’essere questo l’esito necessario di un pensiero che, avendo sperimentato la pesantezza del dominio della forza, ha però trovato nel 18
Riscoperta che non è confinabile all’ambito puramente letterario della scrittura, considerato che in Simone Weil si può rintracciare «un esempio raro di identificazione di scrittura ed esperienza. Lo scrivere come necessità, la vita come applicazione immediata del pensiero». Così scrive Dal Lago nel suo saggio L’etica della debolezza, originariamente pubblicato in Il pensiero debole, a cura di P.A. Rovatti e G. Vattimo, Feltrinelli, Milano, 1983, e ora in Il paradosso dell’agire. Studi su etica, politica, secolarizzazione, Liguori editore, Napoli, 1990, p. 95. 19 I. KAJON, Il pensiero ebraico del Novecento. Una introduzione, Donzelli, Roma, 2002, pp. 11-12.
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punto più riposto dell’anima un nucleo di resistenza intangibile20. I Greci, infatti, avevano orrore della forza e sapevano che tutto è forza, salvo un punto» (Q, III, 151). Ma qual è precisamente questo punto? Dove si situa esattamente quell’«oltre» che la forza non tocca? 3. Ci si avvicina così all’altra faccia della doppia verità di cui si parlava all’inizio di questo capitolo. Del resto, se abbiamo insistito sulla questione della forza, è perché da essa bisognava necessariamente passare per cogliere il significato della giustizia, coerentemente con uno degli elementi cruciali del pensiero della Weil, vale a dire la «passione del reale» come via per la conoscenza del Bene21. Ma, in questo caso, si incontra anche una chiave di lettura ricorrente nelle pagine weiliane, che consente di cogliere le cose attraverso la loro negazione22. È questo difatti lo strumento ermeneutico 20
Alla fine della Seconda Guerra mondiale, interrogandosi sulla colpa del popolo tedesco, Karl Jaspers quasi faceva eco alla riflessione weiliana: «la potenza e la forza costituiscono effettivamente una realtà decisiva nel mondo degli uomini. Ma non la sola. Prendere in senso assoluto questa realtà significa annullare ogni legame sicuro tra gli uomini» (K. JASPERS, Die Schuldfrage, R. Piper & Co., München, 1965, tr. it. La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, Cortina, Milano, 1996, p. 54). Una tale convinzione impone evidentemente di ripensare la relazione di Simone Weil con la tradizione del realismo politico, nel momento in cui la pensatrice francese si sottrae ad uno dei suoi postulati, che vede nel regno della necessità una realtà “intrascendibile” (cfr. P.P. PORTINARO, Il realismo politico, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 15). 21 Cfr. DAL LAGO, L’etica della debolezza, cit. p. 92, nota 2. 22 Come avviene ad esempio nella lettura della tragedia attica, la quale appare alla Weil illuminata dal pensiero della giustizia, senza che la giustizia vi compaia mai direttamente, perché «la forza vi appare nella sua fredda durezza, sempre accompagnata dagli effetti funesti ai quali non sfugge né colui che la usa né colui che la soffre» (GR, 32). Nel Prometeo di Eschilo «tutto è libertà» pur essendo un «dramma fatto di catene e di chiodi» (GR, 163). Ma già nel discorso sull’Iliade, la giustizia è presente solo attraverso la sua assenza: «la giustizia e l’amore, che non possono esistere in questo quadro di estreme e ingiuste violenze, lo bagnano con la loro luce facendosi sentire solo indirettamente, attraverso l’accento» (GR, 29). Viene in mente una delle proposizioni wittgensteiniane secondo cui la filosofia «significherà l’indicibile rappresentando chiaramente il dicibile» (L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophi-
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che conduce a conoscere la giustizia attraverso la raggiunta confidenza con la forza. Così, una volta accertato, nietzscheanamente, che non si può «pretendere dalla forza che non si estrinsechi come forza», e che la sua logica impone di accettare come sue conseguenze naturali la sopraffazione, il «voler abbattere», una incessante sete di nemici, di opposizioni e trionfi23, la risposta di Simone Weil alla domanda su come uscire dal dominio della forza non può non passare per quell’«assurdo» evidenziato da Nietzsche nello stesso luogo della Genealogia della morale: dalla debolezza. Ciò che per Nietzsche è l’“inconcepibile” – che la debolezza si estrinsechi come forza – per Simone Weil rappresenta l’imperativo principale cui devono obbedire gli uomini che davvero hanno sete di giustizia24. Alla parentela della forza con il male bisogna rispondere sposando la parentela della debolezza col bene. L’«etica della debolezza»25 è perciò il luogo intorno a cui ruota fin dall’inizio il discorso della Weil sulla giustizia. Tale affermazione va intesa nuovamente in un duplice senso, perché implica, da un cus, Routledge and Kegan Paul, London, 1961, tr. it. in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di A.G. Conte, Einaudi, Torino, 1995. La proposizione citata è la n. 4.115). Interessanti paralleli tra la riflessione weiliana e quella di Wittgenstein (a cominciare dalle questioni epistemologiche) sono stati tracciati nel lavoro di WINCH, Simone Weil, cit. 23 F. NIETZSCHE, Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift, tr. it. Genealogia della morale. Uno scritto polemico, a cura di M. Montinari e F. Masini, Adelphi, Milano, 1993, p. 34. 24 Proprio su questo punto si può registrare la distanza maggiore di Simone Weil rispetto a Nietzsche, in quanto gli eroi della Weil sono sempre «uomini che sperimentano la loro debolezza dinanzi alla durezza della necessità», sono «dei forti che declinano» e non dei «forti che guardano oltre» come in Nietzsche stesso. L’osservazione è di DAL LAGO, L’etica della debolezza, cit., p. 99, il quale coglie diverse affinità tra la Weil e l’autore della Nascita della tragedia, pur sapendo che questi era «un filosofo che certamente [la Weil] non amava». Alcune «affinità profonde» tra il pensiero weiliano e quello nietzschiano si possono cogliere anche secondo L.A. MANFREDA, Tempo e redenzione. Linguaggio etico e forme dell’esperienza da Nietzsche a Simone Weil, Jaca Book, Milano, 2001, p. 289 s. 25 È il titolo del saggio, già più volte citato, col quale Dal Lago ha riassunto il lascito etico e filosofico weiliano.
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lato, una scelta per la diminuzione dell’«io», la «decreazione» (su cui si avrà modo di tornare); e dall’altro lato, un’attenzione esclusiva per i deboli, gli sventurati, i perdenti. È una scelta precisa, che affonda le sue ragioni nell’analisi della forza appena riportata. Di fronte al dominio dei forti, i quali oltre tutto contraffanno la natura del loro dominio coprendola con la maschera del diritto, non si può che parteggiare per coloro che sono caduti, stando sempre pronti peraltro a cambiare parte, poiché la Giustizia è sempre «fuggitiva dal campo dei vincitori» (Q, III, 158). Ancora una volta, la lezione maggiore viene dai Greci. Se si considera che nella contemplazione della forza di cui sono stati capaci non poteva non essere contenuta una delle loro verità elementari, che «l’esistenza è intrisa di dolore»26, si spiega come mai nella loro letteratura, e in modo del tutto particolare nella tragedia, abbiano avuto uno strumento prezioso per conoscere e «catturare» la sventura – l’«illimitato» della sventura (Q, I, 236). Momento cruciale per l’inveramento della giustizia, questo, perché «il sentimento della miseria umana è una condizione della giustizia e dell’amore» (GR, 32). Fondamentale è conoscere la sventura, sapere che ad essa nessuno è veramente sottratto. Colui che ignora fino a qual punto la volubile fortuna e la necessità tengono ogni anima umana alla loro mercé, non può considerare suoi simili né amare come se stesso quelli che il caso ha separato da lui con un abisso. La diversità delle costrizioni che pesano sugli uomini fa nascere l’illusione che vi siano tra di loro specie distinte cui non è dato comunicare. Non è possibile amare né essere giusti se non si conosca l’imperio della forza e non lo si sappia rispettare (GR, 32).
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Cfr. S. NATOLI, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 180. La concezione greca del dolore e dell’accettazione del dolore, così lontana dalla logica della «ricompensa»; il «talento [dei Greci] per il soffrire», di cui parla Natoli, sembrano trovare perfetta corrispondenza nell’atteggiamento che Simone Weil mostrava di avere anche nei confronti delle proprie sofferenze fisiche: «Se pensassi che Dio m’invia il dolore con un atto della sua volontà e per il mio bene, crederei di essere qualcosa, e trascurerei l’uso principale del dolore, che è d’insegnarmi che sono niente. Non si deve dunque pensare nulla di simile» (Q, II, 198).
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È precisamente qui, allora, nel luogo in cui si conosce la sventura portata dall’imperio della forza, che è possibile compiere quel salto che dalla forza conduce alla giustizia. Lungi dal comportare una «decisione per la violenza», la conoscenza della necessità e del dominio della forza indica la strada maestra che permette di abbandonarla. Per questo, solo una concezione della forza come quella trasmessa dall’Iliade «permette di riversare equamente la stessa compassione su tutti gli esseri umani che sono immersi interamente nel suo regno, e di imitare in tal modo l’equità del Padre celeste che sparge equamente su tutti la pioggia e la luce del sole» (GR, 126). Ma «la straordinaria equità che ispira l’Iliade» (GR, 31) aspetta ancora i suoi imitatori. 4. Il totalmente altro rispetto alla forza: questo si rivela essere dunque la giustizia. La sua possibilità si gioca tutta nello spazio di una fuoriuscita quasi miracolosa dal regno della forza, nel quale – l’abbiamo visto – è catturato anche il diritto. Se si rimanesse nell’ottica di «questo mondo», in cui «non c’è altra forza che la forza», la giustizia sarebbe impossibile. Ma il fatto che la condizione umana, pur soggetta alla necessità, consente alcuni «istanti di arresto, di contemplazione, d’intuizione pura» (Q, II, 47), apre spazi alla sua attuabilità. Questa concezione produce l’apertura di uno spazio nuovo, che consente a Simone Weil di negare alla radice ogni tentativo, più o meno camuffato, di riproporre l’argomento di Trasimaco. La definizione della giustizia come “utile del più forte” perde ogni appiglio e ogni credibilità. E non perché a cadere sia il riferimento all’utilità, ma perché la giustizia viene sottratta seccamente dalle mani del “forte”. Dove c’è forza non c’è giustizia, questo è l’assioma weiliano, che ha come suo paradossale corollario il fatto che il giusto, «in quanto tale è sempre vantaggioso, anche se le conseguenze possono risultare svantaggiose» (Q, II, 91). Prima di approfondire il significato di queste assunzioni, vale la pena di notare che l’impossibilità di pensare la giustizia se non come fuoriuscita dal dominio della forza viene confermata dall’opposto legame che l’una e l’altra intrattengono con la dimensione del prestigio sociale.
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Il rapporto tra il prestigio e la forza è costitutivo: il prestigio «per più di tre quarti costituisce la forza» (GR, 21), è «l’essenza della forza» (SG, 99). La forza è talmente legata al prestigio da divenire persino superflua là dove il prestigio ormai conquistato basta da solo a garantire il dominio27. Come aveva notato Pascal, c’è un momento nel quale la forza cessa di dominare perché entra in gioco quella che egli chiamava l’immaginazione28. Richiamando di nuovo il cattivo esempio dei Romani, Simone Weil ricorda come essi fossero maestri nell’usare il terrore, la perfidia e la crudeltà al fine di accrescere il prestigio che rende inutile l’esercizio della forza. Essi ubbidivano ad una legge inesorabile, secondo la quale chiunque aspiri a un dominio universale non può che cercare di conquistare il prestigio: «è impossibile altrimenti passare da una certa quantità di potenza al dominio universale» perché «un solo popolo non può dominarne molti altri con la forza di cui dispone realmente» (SGT, 235). Il prestigio, in tal modo, conferisce stabilità al potere, perché ogni potere si mantiene soltanto se appare assoluto e intangibile, non solo a coloro che lo subiscono, ma anche a coloro che lo detengono. Perciò la propaganda è uno strumento così importante per coloro che aspirano al prestigio. Gli antichi Romani – salvo una sola eccezione, che Simone Weil identifica con Lucrezio – erano tutti divulgatori naturali della forza di Roma, perché partecipi di una vita spirituale ridotta «a un’espressione della volontà di potenza» (SGT, 241). Ma se la natura del prestigio è tale da farne «il valore sociale supremo» (GR, 141); se è la società che conferisce il prestigio, tanto che negli uomini è forte la tentazione di essere virtuosi solo «per obbedienza al grosso animale» (Q, III, 21), colui che aspira alla giustizia non potrà in alcun modo farsi trascinare dalla passione del riconoscimento sociale. Al contrario: egli dovrà avere a modello il «giusto perfetto», perché solo se è «nudo» la sua giustizia sarà vera. 27
Su questo tema, S. FRAISSE, La force, le prestige et les mystifications historiques, in AA.VV., Simone Weil. Philosophe, historienne et mystique, cit., pp. 163-165. 28 Cfr. B. PASCAL, Pensèes, ed. Brunschvicg § 304, tr. it. Pensieri, a cura di P. Serini, p. 148 (§ 319).
CAPITOLO QUARTO
LA NUDITÀ DELLA GIUSTIZIA
1. Affinché si possa dire che il giusto è tale per amore della sola giustizia, e non per i doni e gli onori che ne ricava, dice Glaucone nel II libro della Repubblica, bisogna «spogliarlo di tutto tranne che della giustizia». Non solo, ma se dovesse essere accusato d’ingiustizia, egli non dovrà farsi vincere dai «colpi della cattiva fama e delle conseguenze che ne derivano»1. Il discorso paradossale di Glaucone, teso a dimostrare che in realtà, se portato alle estreme conseguenze e «dopo aver sofferto ogni sorta di mali», il giusto ammetterà che «si deve volere non essere giusti, ma soltanto sembrarlo», viene invece preso sul serio da Simone Weil, che vi ritrova il modello della giustizia perfetta2. Ella ritorna più volte su questa pagina platonica, soprattutto per sottolinearne la paradigmaticità rispetto a una figura – quella del Dio incarnato, sofferente, morto, resuscitato, redentore – che ritiene essere stata diffusa in tutte le civiltà antiche più sensibili, come dimo1
Repubblica, 361 c, tr. it. in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano, 2001, p. 1111. 2 Secondo M. NARCY, Una lettura politica di Platone, in MARCHETTI (a cura di), Politeia e sapienza, cit., p. 105, la centralità di questa figura nel discorso weiliano è direttamente collegata con la messa in mora della figura del filosofo-re; consapevole di quanto fosse degradante la divisione del lavoro in manuale ed intellettuale, la Weil recupererebbe Platone a patto di cancellare «tutto ciò che potrebbe assomigliare a un modello politico fondato sulla specializzazione, o sulla dominazione di una classe su un’altra».
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strerebbero alcune tracce significative3. Una di queste tracce è indicata nel libro di Giobbe, che Simone Weil pone alla stessa altezza della pagina platonica, considerandolo un libro estraneo alla tradizione di Israele4. Non a caso in esso viene riconosciuta la stessa 3 Il tema del giusto sofferente ed innocente rinvia a quello del capro espiatorio. Si deve notare, a questo proposito, come la riflessione di Simone Weil sia per molti aspetti vicina a quella di René Girard, soprattutto per quel che concerne l’analisi della violenza umana e della natura (non violenta) del divino, ma se ne distacchi in un aspetto decisivo, relativo al ruolo da assegnare ai testi mitologici e a quelli evangelici, oltre che nell’intepretazione da dare ai libri dell’Antico Testamento. L’affascinante e ricca rilettura dei testi antichi e moderni contenuta nelle opere di Girard ha un punto fermo nell’individuazione dei Vangeli quale luogo in cui, per la prima volta, viene svelato il meccanismo vittimario, perché la figura di Cristo è la prima in cui viene resa visibile l’innocenza della vittima (cfr. soprattutto Le bouc émissaire, Éditions Grasset & Fasquell, Paris, 1982, tr. it. Il capro espiatorio, Adelphi, Milano, 1999 e, per una presentazione sintetica dell’intero percorso girardiano, Celui par qui le scandale arrive, Desclée de Brouwez, Paris, 2001, tr. it. La pietra dello scandalo, a cura di G. Fornari, Adelphi, Milano, 2004). Per Simone Weil, invece, già i testi greci (e le principali civiltà religiose antiche) avevano avuto questa intuizione, dato che erano in grado di ipotizzare e descrivere la fine della violenza solo a patto che a farsene carico fosse un essere perfettamente puro (cfr. ad es. Q, III, 277). Sul rapporto Weil-Girard, si veda innanzi tutto la testimonianza fornita dallo stesso antropologo in R. GIRARD - C. DE MAUSSION, Simone Weil vu par René Girard, CSW, n. 3, 1988, pp. 201-213. Un confronto tra il pensiero dei due autori, attento a metterne in luce le molte convergenze e le poche (e quasi sempre ritenute attenuabili) divergenze, è proposto invece nei saggi di G. CHAROT, Le refus de la violence chez René Girard: rencontre avec la pensée de Simone Weil, CSW, n. 3, 1980, pp. 179-197; W. TOMMASI, Dalla non violenza di Dio alla violenza delle collettività: Simone Weil e René Girard, in EAD., Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile, cit., pp. 95-117; J.-M., MULLER Simone Weil: l’exigence de non-violence, Editions du Témoignage Chrétien, Paris, 1991, tr. it. Simone Weil. L’esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1994, cap. 18. Per una analisi filosofico-giuridica del pensiero di Girard si rinvia al lavoro di M. GENTILE, Giustizia e desiderio. La verità della vittima nel pensiero di René Girard, Giappichelli, Torino, 2003. 4 «Giobbe deve essere un libro rivelato di un’altra religione» (Q, IV, 329) che è stato tradotto – questa la ricostruzione della Weil – verso il X o IX secolo da «un ebreo convertito alla cosiddetta idolatria», e successivamente «trovato e adottato da un ebreo del tempo dell’esilio, appartenente a una generazione nata nell’esilio. Il pensiero della sventura degli innocenti poteva fare presa solo su questi» (Q, IV, 299). Una critica dell’interpretazione weiliana, e in generale la segnalazione dei pericoli derivanti da una «lecture exclusivement christologique de l’Ancien Testament», è in M. SOURISSE, Job, figure du Christ ?, in CSW, n. 2, 2003, pp. 119-148.
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attenzione per la sventura che è possibile trovare nell’Iliade. La figura del protagonista è assunta dalla Weil come un’immagine del «Giusto sofferente di Platone, talmente giusto da apparire ingiusto» (Q, IV, 295). Il significato del “giusto sofferente” è che la vera giustizia non può mai presentarsi come tale. Ma se non vi è giustizia nell’immagine della giustizia, si ha un paradosso della giustizia. Come quei pensieri che «sono veri a condizione di non pensarli e diventano falsi appena li si pensa» (Q, IV, 243), la giustizia è reale solo se non si mostra, se rimane celata agli occhi degli uomini. Essa è «ugualmente dissimulata dall’apparenza di giustizia e dall’apparenza d’ingiustizia» (GR, 147), e perciò il giusto perfetto – così come l’eroe puro della tragedia5 – risulta solo dall’«unione della giustizia estrema con l’apparenza dell’estrema ingiustizia» (Q, III, 42). / , paLa giustizia si configura allora come uno dei lo/ goi alogoi role senza parole (Q, II, 32), di cui non si può mai parlare direttamente senza rischiare di tradirle. Per dirla con Derrida, sembra configurarsi come una «esperienza di ciò di cui non possiamo fare esperienza», una «esperienza dell’impossibile»6. Poiché, allo stesso modo di «verità» e «legittimità», essa indica una virtù «infiniment plus grande qu’aucune conception humaine», bisogna vincere ogni tentazione di darne una definizione precisa, altrimenti «perd toute sa vertu et devient cause du mal» (EL, 58). La necessità di evitare ogni contatto col prestigio, perciò, costrin5
A proposito delle tragedie greche, Simone Weil scrive: «Dans chacun de ces drames, le personnage principal est un être courageux et fier qui lutte tout seul contre une situation intolérablement douloureuse; il fléchit sous le poids de la solitude, de la misère, de l’humiliation, de l’injustice; par moments son courage se brise; mais il tient bon et ne se laisse jamais dégrader par le malheur» (Antigone, in EHP, 2, 334). Sui caratteri dell’eroe weiliano, cfr. ESPOSITO, L’origine della politica, cit., p. 113 ss; sulla lettura della figura di Antigone come prefigurazione del Cristo, si veda invece DI NICOLA, La contraddizione nel sociale, cit., p. 114 ss. Più in generale, sul rapporto tra Simone Weil e i tragici greci del V secolo a.C., S. FRAISSE, Oppressione e libertà: una lettura weiliana della tragedia greca, in MARCHETTI (a cura di), Politeia e sapienza, cit., pp. 23-32; EAD., Simone Weil et la tragedie greque, in CSW, n. 3, 1982, pp. 207. 6 DERRIDA, Forza di legge, cit., pp. 58 e 66.
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ge il giusto perfetto a fare sì che la giustizia sia «celata agli uomini, agli dèi e a lui stesso» (Q, III, 356). E poiché «esige che durante questa vita si sia nudi e morti» (GR, 45) essa rischia di rivelarsi davvero come «una cosa impossibile alla natura umana», che perderebbe così una delle sue compagne più amate. La necessità di rendere pura la giustizia porterebbe a non avere giustizia. Non è certo un gesto di resa, tuttavia, quello che ci viene dalla riflessione weiliana. Il fatto che la giustizia si configuri come l’«impossibile» dell’azione umana è un modo per non arrestarne mai la ricerca. Essa è «fuggitrice dal campo dei vincitori», e perciò, anche quando ci si illude di averla raggiunta, bisogna cominciare di nuovo a cercarla, perché ci ha già lasciato da tempo7. Quel che conta è la «domanda di giustizia»8, e qui più che altrove vale il principio ermeneutico in base al quale la domanda ha il primato sulla risposta9: il 7
Anche perché «il successo è per la sua essenza una dismisura» (Q I, 161) Traggo l’espressione dal titolo del volume pubblicato da C.M. MARTINI e G. ZAGREBELSKY (Einaudi, Torino, 2003). 9 Cfr. H.G. GADAMER, Wahrheit und Methode, J.C.B. Mohr, Tübingen, 1960, tr. it. Verità e metodo, a cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano, 1983, p. 418 ss. L’importanza del “domandare” viene ricordata in alcuni studi dedicati alla Weil. G. SCALIA, In principio la de-creazione, in MARCHETTI (a cura di), Politeia e sapienza, cit., p. 261, ha scritto che «il cammino di pensiero di Simone Weil è un domandare che non dà risposte significative e definitive, ma non è senza risposte. Il rispondere è un altro ulteriore passo nel suo perenne domandare». Sembra diversa l’opinione di M. BLANCHOT, L’entretien infini, Gallimard, Paris, 1969, tr. it. L’infinito intrattenimento. Scritti sull’«insensato gioco di scrivere», a cura di R. Ferrara, Einaudi, Torino, 1977, p. 144, per il quale in Simone Weil «le domande sono rare, il dubbio quasi assente», quasi che ella cominci sempre dalla risposta e che perciò il rispondere sia sempre «anteriore al domandare e ad ogni possibilità di domandare». Lo stesso Blanchot, tuttavia, ne conclude che «affermare è spesso il suo modo di domandare o di mettere alla prova» (p. 145). Di Simone Weil come una vera e propria “incarnazione” del domandare parla invece padre Perrin nella sua testimonianza, allorché invita a ricordare sempre che «Simone Weil non è una soluzione, ma una domanda; non una risposta, ma un appello; non una conclusione ma un’esigenza» (PERRIN-THIBON, Simone Weil come l’abbiamo conosciuta, cit., p. 40). Tutti questi autori, tuttavia, si riferiscono alla personalità di Simone Weil. L’osservazione fatta nel testo vuole invece rendere evidente, per quanto riguarda il concetto di giustizia, il suo essere legato non a una definizione che ne «chiude» la ricerca, bensì a una domanda sempre aperta. 8
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giusto assomiglia, per una volta, al Mitja dei Karamazov, il quale, passando dal villaggio incendiato e vedendo le madri nere dalla miseria e i bimbi piangenti che chiedono un pane che non hanno, domanda il perché di tanto strazio, e pur sentendo che il suo domandare è insensato e senza costrutto, «pur tuttavia c’è in lui un bisogno irresistibile di domandare così, e sente che appunto così bisogna domandare»10. Il «domandare», fra l’altro, non è senza appigli, non è privo di riferimenti. Perciò si può affermare con certezza che in esso non c’è alcuna resa, alcun abbandono della giustizia. Intanto perché questa è protetta in uno spazio non caduco, che sembra quasi rinviare a una sorta di legge naturale scritta nel cuore di tutti gli uomini: pur essendo un mistero incomprensibile (allo stesso modo della bellezza e della verità), essa è infatti ugualmente presupposta da tutti come «norma per ciò che è conosciuto» (Q, IV, 343). Di più, essa è una vera e propria legge perché la vera legge è sempre «una legge non scritta»(Q, IV, 302)11. Ma soprattutto, c’è un modello preciso a cui il giusto può rivolgersi sempre, pur sapendo che si tratta di un modello “inimitabile”. È la figura del Cristo – alla quale la Weil ha dedicato una meditazione intensa, partecipe, volta a cercarne la necessità nella storia dell’uomo12 – a rappresentare il modello del giusto perfetto. È chiaro che, non è l’adesione a una Chiesa quella che alla Weil interessa pro10 M. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, Parte III, libro IX, capitolo VIII, tr. it. di A. Villa, Einaudi, Torino, 1993, p. 664. Una lettura di Dostoevskij alla luce di alcuni temi weiliani (in particolare quello del dualismo tra il regno della necessità e quello del bene), è offerta da K.T. BRUECK, Simone Weil et Dostoïevsky. Une lecture de Crime et Châtiment à la lumière du dualisme weilian, in CSW, n. 3, 1985, pp. 273-280. 11 Nella prosecuzione di questo passo – attraverso l’ennesima accusa rivolta a Israele e a Roma – è tracciato nuovamente un solco profondissimo tra diritto e giustizia: «la vera legge è una legge non scritta, come sapeva Sofocle. Perché la lettera uccide. Dunque Mosè non veniva da parte di Dio. Israele era quella società di briganti di cui parla Platone, che al suo interno tenta di stabilire la giustizia. Lo stesso genere di società era Roma, col suo diritto romano» (Q, IV, 302). 12 Cfr. A.A. DEVAUX, Le Christ dans la vie et dans l’œuvre de Simone Weil, in CSW, n. 1, 1981, pp. 4-15, e n. 2, 1981, pp. 100-117.
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porre13. È piuttosto il riconoscimento di una verità che è appartenuta alle civiltà più diverse, solo che abbiano concepito l’idea di un Dio mediatore, vale a dire una figura divina segnata dallo «svuotamento» della propria divinità. Quella che Simone Weil mette in atto, soprattutto nelle pagine dei Cahiers, oltre che ovviamente nelle Intuition pré-chrétiennes, è una vera e propria operazione di scavo alla ricerca delle tracce di questo divino14, che ella ritrova non soltanto nei Greci, ma anche nella religione dell’antico Egitto, nelle religioni orientali, nelle concezioni astrologiche, nei miti, nelle fiabe15. Il punto di arrivo di questa ricerca, almeno per quel che interessa in questa sede, è che la vera giustizia è nel «dominio del debole in quanto debole», di cui Cristo in croce ha fornito l’esempio (Q, III, 331). 2. Una pagina di Giuseppe Capograssi testimonia che la riflessione della Weil incrociava segretamente i pensieri di altri che cercava13
Per l’atteggiamento della Weil nei confronti del cristianesimo, e del cattolicesimo in particolare, si vedano la Lettera a un religioso e gli scritti pubblicati in Attesa di Dio. Le posizioni della pensatrice francese sono discusse nel volume di AA.VV., Réponses aux questions de Simone Weil, préface de J.-M. Perrin, Aubier-Montaigne, Paris, 1964. Su questo tema centrale, soprattutto per ragioni di carattere biografico, cfr. almeno G. KAHN, Simone Weil et le christianisme, in AA.VV., Simone Weil. Philosophe, historienne et mystique, cit., pp. 33-53; PERRIN-THIBON, Simone Weil come l’abbiamo conosciuta, cit., in particolare pp. 72 ss e 157 ss; G. GAETA, Sulla soglia della Chiesa, postfazione a LR, pp. 97-132. Sul pensiero religioso in generale, si vedano tra gli altri i saggi di AA.VV., Simone Weil. Verità religiosa e vita profana, in «Filosofia e Teologia», n. 3, 1994. 14 Si realizza principalmente qui il tentativo, non privo di elementi contraddittori, di coniugare platonismo e cristianesimo. Cfr. a tal proposito, TOMMASI, Simone Weil: segni, idoli, simboli, Franco Angeli, Milano, 1993, p. 188 ss. Analizzando la posizione della Weil riguardo alla figura del Cristo, X. TILLIETTE, Filosofi davanti a Cristo, a cura di G. Sansonetti, Queriniana, Brescia, 1991, p. 437, parla di sincretismo, ma anche di una straordinaria «ospitalità intellettuale» che «ha un limite, costituito, paradossalmente, da Israele […] La sua razza attizzava la sua infelicità». 15 Un’utile rassegna, unita ad un tentativo di classificazione, dei miti e dei simboli cui si riferiva la Weil è quella di M. MARIANELLI, La metafora ritrovata. Miti e simboli nella filosofia di Simone Weil, Città Nuova, Roma, 2004. Cfr. anche P. LITTLE, Signification de la mythologie et des contes chez Simone Weil, in AA.VV., Simone Weil. Philosophe, historienne et mystique, cit., pp. 105-121.
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no uno spiraglio nell’epoca della guerra e della catastrofe. In uno dei suoi scritti minori, ma non per questo meno intrisi di quel misto singolare che univa afflato etico ed impegno scientifico, il filosofo dell’esperienza giuridica scriveva queste parole sulla giustizia, assai vicine (si sarrebbe tentati di dire addirittura coincidenti) con quelle weiliane: Fin dove arriva questa virtù si vede non nell’astratto concetto, ma nel concreto della vita dell’Uomo Giusto, che è venuto proprio a insegnarci col Suo esempio la giustizia e a darci la grazia per adempirla. È nel Giusto, nell’Uomo perfetto, che vediamo che cosa è veramente la giustizia, fin dove arriva la giustizia […] La giustizia è questo Giusto. Questo uomo vivente amante sofferente pregante e morente sulla Croce è per noi la giustizia. Aver fame e sete della giustizia [è] volere quello che questo Giusto ha voluto per sé, l’abnegazione di se stesso il disprezzo il dolore la povertà la nudità assoluta la Croce. Amare queste cose che Egli ha amato, perché solo passando per queste cose, passando per la morte di se stessi si arriva alla giustizia16.
Per la Weil, tuttavia, il significato della figura del Cristo sta nel fatto che egli «non ha semplicemente sofferto, ma ha sofferto una sofferenza penale, il trattamento dei criminali» (Q, III, 42)17. Ad 16
G. CAPOGRASSI, Beati qui esuriunt et sitiunt iustitiam, in Opere, vol VI, Giuffrè, Milano, 1959, pp. 115-116. 17 Tra l’altro, Simone Weil critica la tradizione cattolica per aver offuscato il carattere «infamante» del supplizio di Cristo, privilegiando l’immagine della resurrezione, e provocando così l’insensibilità nei confronti dell’essenza stessa della Passione. Invece, «l’agonia sulla croce è qualcosa di più divino della resurrezione, è il punto in cui si concentra la divinità del Cristo» (G, 147-8). E nella Lettera a un religioso: «Se l’Evangelo omettesse ogni menzione della resurrezione del Cristo, la fede mi sarebbe più facile. La Croce da sola mi basta» (LR, 56). E ancora, nei Cahiers: «Il Cristo che guarisce gli infermi, risuscita i morti; è la parte umile, umana, quasi bassa della sua missione. La parte soprannaturale è il sudore di sangue, il desiderio insoddisfatto di trovare consolazione nei suoi amici, la supplica di essere risparmiato, il sentimento di essere abbandonato da Dio […] Questa è la prova autentica che il cristianesimo è qualcosa di divino» (Q, II, 200). Sulla croce come simbolo del pensiero e della vicenda esistenziale di Simone Weil, cfr. L. BOELLA, Cuori pensanti. Hannah Arendt, Simone Weil, Edith Stein, Maria Zambrano, Edizioni Tre Lune, Mantova, 1998, p. 31 ss; men-
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assumere un particolare valore è proprio questo elemento, perché solo l’essere vittima di un tale trattamento garantisce che la giustizia, come voleva Platone e con lui Simone Weil18, sia del tutto senza prestigio: «l’uomo non è veramente spogliato di ogni partecipazione al prestigio sociale se non quando la giustizia penale l’ha tagliato via dalla società. Nessun’altra specie di sofferenza ha questo carattere di degradazione irriducibile, incancellabile, che è proprio delle sofferenze che infligge la giustizia penale. Ma bisogna che sia davvero la giustizia penale, quella che si abbatte sui criminali comuni» (GR, 143)19. Tale la sofferenza alla quale è stato sottoposto il Cristo (ma anche Osiride e Prometeo, che Simone Weil considera espressamente come figure del Cristo medesimo). La sua sofferenza gli sembrava talmente irragionevole e senza motivo – il fatto che egli fosse l’incarnazione della giustizia era talmente nascosto a lui stesso – che Cristo gridò a Dio di averlo abbandonato20. È per questo che il buon tre un’analisi dei diversi aspetti della figura del Cristo che hanno trovato risonanza nella Weil, è in NEVILL, Simone Weil, cit., p. 305 ss. Interessanti considerazioni sul significato espiativo della sofferenza del Cristo sono invece nel lavoro di S. DIANICH, Il Messia sconfitto. L’enigma della morte di Gesù, Piemme, Casale Monferrato, 1997, in particolare nei capp. 16-18. 18 Platone deve essere necessariamente richiamato in più luoghi come punto di riferimento del pensiero weiliano. Sul tema della giustizia (in generale) si può vedere il saggio di J. PARAIN-VIAL, L’influence de Platon sur la théorie de la justice dans l’œuvre de Simone Weil, in CSW, n. 3, 1990, pp. 253-263, da leggere insieme a M. NARCY, Le Platon de Simone Weil, in CSW, n. 4, 1982, pp. 250-267, che oltre a costituire una ricostruzione accurata, e una contestualizzazione, dei diversi aspetti che compongono la lettura weiliana del filosofo ateniese, dedica una sezione a «le juste parfait». 19 È l’aver subito la sofferenza penale che pone una differenza sostanziale tra il Cristo, costretto a chiedere al Padre di allontanare da Lui quel calice, e l’esperienza dei martiri, che potevano andare incontro alla morte con gioia. La loro esperienza non era del tutto priva di prestigio (cfr. GR, 143). 20 Mt, XXVII, 46. Commenta Simone Weil: «Quando questo grido sgorga dal cuore di un uomo, il dolore ha risvegliato nelle profondità della sua anima la parte in cui risiede, sepolta sotto i crimini, una innocenza uguale a quella del Cristo» (Q, IV, 367). E riferendosi a se stessa: «Per il privilegio di trovarmi prima di morire in una situazione simile a quella del Cristo quando, sulla croce, diceva: “Mio Dio, perché mi hai
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ladrone, che si è trovato al suo fianco, «nella sua stessa situazione, durante la crocifissione» (AD, 34), ha una posizione assai più invidiabile di colui che si troverà alla sua destra nel giorno della sua gloria. Lui soltanto ha avuto la ventura di vedere la giustizia «quale Platone la concepiva: distinta perfetta e nuda, attraverso l’apparenza di un criminale» (GR, 148). Può, tuttavia, la croce fare da modello? Non c’è ancora una «impossibilità» nella proposta weiliana? A ben vedere, infatti, si potrebbero rintracciare due ragioni di impossibilità nell’adozione del Cristo crocifisso come modello del giusto perfetto. Partendo, intanto, dalla banale considerazione che quando parliamo di giustizia parliamo anche di qualcosa di umano, di una nozione che ha a che fare con la vita comune degli uomini, non si può non notare come ciò che Simone Weil propone appartenga al «soprannaturale», perché non può essere «naturale» una giustizia che esige la nudità e la morte. In che modo, come si domanda l’autrice medesima, l’accettare di essere anonimi, il rinunciare a qualunque prestigio può essere «compatibile con la vita sociale»? (Q, II, 138). Inoltre, ed è il secondo punto, la seconda «impossibilità» cui si accennava, è il paradosso stesso della giustizia che impedisce al modello perfetto di svolgere la propria funzione. «Perché la giustizia divina possa essere per gli uomini un modello da imitare, non basta che essa sia incarnata in un uomo. Bisogna altresì che in quest’uomo l’autenticità della giustizia perfetta sia manifesta», e per questo «bisogna che in lui la giustizia
abbandonato?” – per questo privilegio, rinuncerei volentieri a tutto ciò che si chiama Paradiso» (Q, IV, 198). Qui, la pensatrice francese affronta e “decide” un nodo controverso della riflessione teologica, che solo di recente è giunta a leggere nel grido di Gesù il punto culminante della rivelazione di Dio nella figura del Cristo (cfr. G. ROSSÉ, Il grido di Cristo in croce. Una panoramica esegetica e teologica, Città Nuova, Roma, 1984). Il magistero ecclesiastico parla di una compresenza di angoscia e speranza (vedi ad es. GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Novo millennio ineunte, § 27, il quale legge nel «volto dolente» il «paradosso di Gesù beato e angosciato»). Da parte sua, NATOLI, L’esperienza del dolore, cit., p. 205, interpreta il grido di Gesù sulla croce come un grido «non disperato» perché esso non è «l’urlo di una materia deformata che torna alla sua matrice: al fondo di quel grido c’è lo spirito di abbandono, c’è la confidenza in Dio».
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sia vista senza prestigio, nuda, spogliata di tutto il fulgore che dà la fama di giustizia, senza onore» (GR, 147). Ma nel momento in cui si manifesta, la giustizia perfetta decade, perché quando la giustizia appare, essa non può non essere ricoperta di prestigio. Essa perciò dovrebbe riuscire a superare l’assurdo, apparendo senza apparire. Ma, come ben comprende la Weil, «se non appare, se nessuno sa che il giusto perfetto è giusto, come potrebbe questi servir da modello?» (GR, 147). Si tratta, in realtà, di contraddizioni difficili da superare. E non potrebbe essere diversamente, se si pensa che la giustizia della croce «non è una soluzione giuridica», e in quanto tale «lascia intatti tutti i problemi»21. Certo, si può avanzare l’ipotesi che la riflessione della Weil si collochi «dans tout autre domaine» e precisamente al di fuori del dominio di questo mondo22. Non si può non ricordare però che le contraddizioni sono chiamate a svolgere nel pensiero weiliano una funzione essenziale in virtù della loro stessa natura di contraddizioni. Se è considerato sempre illegittimo il tentativo di combinare come se fossero compatibili affermazioni che sono incompatibili, è ritenuto invece, non solo legittimo, ma anche profondamente salutare, utilizzare la contraddizione come strumento che permette l’esercizio delle facoltà più alte dell’uomo attraverso la contemplazione di verità incompatibili. Bisogna adoperare queste verità, dice la Weil, dopo averle riconosciute per tali, come «due braccia d’una tenaglia, uno strumento per entrare direttamente in contatto col dominio della verità trascendente, inaccessibile alla nostra intelligenza» (OL, 225). Come, per Platone, «le cose che si presentano ai sensi insieme ai loro contrari» sono stimolatrici della ragione23, così la contraddizione, in Simone Weil, «è la leva della trascendenza» (Q, IV, 169). 21 C.M. MARTINI, La giustizia della croce, in MARTINI - ZAGREBELSKY, La domanda di giustizia, cit., p. 63. 22 Come fa FRAISSE, Simone Weil, la personne et les droits de l’homme, cit., pp. 131-132. 23 Repubblica, 454 d, tr. it. in Tutti gli scritti, cit., p. 1247.
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3. Nel portare all’estremo il paradosso di una giustizia che non si lascia irretire dalle tentazioni della gloria, la figura del Cristo può svolgere comunque la sua funzione di modello se si guarda al significato che essa assume nella storia della Creazione. In quanto «si è svuotato della sua natura divina e ha assunto quella di uno schiavo» (Q, II, 126), il Cristo è per eccellenza immagine della «decreazione»: egli non fa che ripetere il gesto con cui Dio ha creato il mondo, decreandosi. Dio, infatti, secondo Simone Weil, creando l’uomo non ha affatto esteso la sua potenza, ma «si è ritirato, consentendo a una parte dell’essere di essere altro da Dio» (GR, 205)24. Questa concezione della natura di Dio e della creazione, che affonda le sue radici nella mistica ebraica25 e che Simone Weil condivide con importanti esponenti della cultura del Novecento26, ha un significato molto preciso per l’uomo, in quanto è un invito a ripete24
Cfr. anche Q, III, 403: «La Creazione, per Dio, non è consistita nell’estendersi, ma nel ritirarsi. Egli ha cessato di “comandare ovunque ne aveva il potere”». Sull’interpretazione della creazione come decreazione, cfr. innanzi tutto M. VETÖ, La métaphysique religieuse de Simone Weil, Vrin, Paris, 1971, tr. it. La metafisica religiosa di Simone Weil, Arianna editrice, Casalecchio (BO), 2001, cap. I; e per una analisi della decreazione in relazione ai temi del potere e della giustizia, T. NUMMINEN, God, Power and Justice in texts of Simone Weil and Dorothee Sölle, Åbo Akademi University Press, Åbo, 2001, p. 103 ss. Cfr. anche G. SCALIA, In principio la de-creazione, cit., pp. 261-270; E. SONCINI, Simone Weil e la decreazione, in «La società degli individui», III, n. 1, 2000, pp. 91-102. Più in generale, per una presentazione della meditazione weiliana sul divino, cfr. D. CANCIANI, Tra sventura e bellezza. Riflessione religiosa e esperienza mistica in Simone Weil, Edizioni Lavoro, Roma, 1998, e A. PUTINO, Simone Weil e la Passione di Dio. Il ritmo divino nell’uomo, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1997. 25 Cfr. il classico lavoro di G. SCHOLEM, Die jüdische Mystik in ihren Hauptströmungen, Rhein Verlag, Zürich, 1957, tr. it. Le grandi correnti della mistica ebraica, a cura di G. Busi, Einaudi, Torino, 1993. A questo proposito, Blanchot osserva che «questo pensiero [della decreazione] è stato ritrovato da Simone Weil (nulla infatti consente di dire che l’abbia copiato)» (L’infinito intrattenimento, cit., p. 157). Sul punto si veda il saggio di W. RABI, La conception weilianne de la Création. Rencontre avec la Kabbala juive, in AA.VV., Simone Weil. Philosophe, historienne et mystique, cit., pp. 141-154. 26 Cfr. R.A. FREUND, La tradition mystique juive et Simone Weil, in CSW, n. 3, 1987, pp. 289-295.
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re il gesto di Dio, diminuendo la propria potenza fino alla tendenziale soppressione dell’io. Se la potenza e la forza sono legate per loro natura all’affermazione dell’io, per uscire dal loro dominio non rimane che la soppressione dell’io medesimo27. Alla tentazione di avere una propria volontà, l’uomo deve rispondere abdicando ad essa, ripetendo l’unico gesto che salva28. Il racconto della caduta di Adamo, lungi dal presupporre un divieto «assolutamente arbitrario e irragionevole di Dio»29, ha proprio questo significato: che Dio dà all’uomo una volontà affinché esso vi rinunci. Se non lo fa, è perché egli si illude di poter essere come Dio accrescendo la propria potenza, dimentico del fatto che l’unico modo di essere davvero come Dio è quello di abbandonare ogni pretesa di questa natura. La punizione divina, la cacciata dal Paradiso, serve perciò a ricordare all’uomo «che non è sicut deus» (Q, II, 162). Bisognava rinunciare, «per amore di Dio, al potere illusorio che egli ci lascia di dire “Io sono”» (Q, III, 411). All’originarietà di questa caduta – dovuta al fatto che «l’umani27
Dalla consapevolezza che «non esiste reale alternativa al potere» e che il potere «inerisce naturalmente alla natura del soggetto», scaturisce la conclusione che «l’unico modo di contenere il potere è quello di ridurre il soggetto» (ESPOSITO, Categorie dell’impolitico, cit., pp. 20-21). 28 È questo il punto essenziale della tradizione mistica orientale ed occidentale (cfr. M. VANNINI, Storia della mistica occidentale. Dall’Iliade a Simone Weil, Mondadori, Milano, 2005; ID. Mistica e filosofia, prefazione di M. Cacciari, Piemme, Casale Monferrato, 1996), come osserva la stessa Simone Weil: «Tutto lo sforzo dei mistici è sempre stato volto ad ottenere che non ci fosse più nella loro anima nessuna parte che dicesse “io”» (P, 43). Uno studio assai interessante del profilo mistico di Simone Weil è quello di I. TESTONI, Il sacrifico del corpo. Dialogo tra Caterina da Siena e Simone Weil, prefazione di E. Severino, Il Melangolo, Genova, 2002. Tra i molti testi volti a ricostruire l’esperienza mistica weiliana, cfr. G.P. DI NICOLA - A. DANESE A., Abissi e vette. Il percorso spirituale e mistico di Simone Weil, Libreria Editrice Vaticana, Roma, 2002, e TOMMASI, Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile, cit., in particolare p. 59 ss. 29 Così Alf Ross definisce il divieto di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male (Cfr. Skyld, ansvar og straf, Berlingske Forlag, Kobenhavn, 1970, tr. it. Colpa, responsabilità e pena, a cura di B. Bendixen e P.L. Lucchini, presentazione di V. Frosini, Giuffrè, Milano, 1972, p. 19).
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tà è stata creata con una volontà propria e la vocazione a rinunciarvi» (Q, II, 207) – corrisponde perfettamente l’originarietà della redenzione, il fatto che l’Agnello sia sgozzato fin dalla creazione del mondo. Quasi descrivendo un’Annunciazione del Beato Angelico, in cui l’Angelo dà l’annuncio a Maria mentre sullo sfondo compare la cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden30, Simone Weil considera l’incarnazione come una figura necessaria e originaria della creazione, stabilendo una simmetria tra l’albero della colpa e l’albero della salvezza. Da questo punto di vista, i diversi momenti della creazione, della caduta, dell’incarnazione e della passione sono momenti distinguibili non cronologicamente ma solo logicamente; come è stato notato, «sono aspetti diversi e tra loro inscindibilmente legati» dell’unico atto d’amore con cui Dio si è decreato31. È qui che si attende una risposta dall’uomo: ciò che non può non sembrare una «follia» ai suoi occhi – la rinuncia a dire io, la rinuncia alla potenza – è l’unico modo di compensare la «follia» della creazione (GR, 196). Ma non si tratta di una cosa impossibile, perché essendo stato creato a immagine di Dio, l’uomo ha il potere di imitarlo, «abdicando in suo favore come egli ha abdicato per noi» (Q, IV, 350). Il significato di questo gesto di riduzione nei confronti del mondo corrisponde al significato attribuito alla creazione da parte di Dio: si tratta in entrambi i casi di ridurre la propria potenza per far esistere l’altro da sé. Lo specifico dell’uomo che cerca la giustizia è allora il suo ritrarsi, il suo «abbassarsi» per fare spazio all’altro, per fare in modo che l’altro sia32. Si può cogliere qui nella sua pienezza il senso della giustizia come coesistenza cui si faceva cenno nelle pagine precedenti. Se decrearsi vuol dire far esistere gli altri, allora solo per questa via c’è 30 Per questo ed altri suggerimenti iconografici cfr. A. GAROFALO, Immagini del silenzio. Sguardi su santità e follia, Ets, Pisa, 2006. 31 G. GAETA, Il linguaggio simbolico di Dio, introduzione a Q, IV, p. 24. 32 Sul radicamento della giustizia nella «decreazione» insiste pure MANFREDA, Tempo e redenzione, cit., p. 237 ss.
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vera coesistenza, la quale non è mai semplice delimitazione di sfere, di diritti; non può dipendere dalla precisione con cui si fissano limiti alla proprietà e alla libertà individuale. La coesistenza è innanzi tutto responsabilità per l’altro, farsi carico dell’esistenza dell’altro. Si può capire, così, come mai la Weil consideri la «facoltà d’amore soprannaturale» come l’unico principio di giustizia presente nell’animo umano (GR, 126). È attraverso questo amore che si può imitare l’Amore divino e sottrarsi totalmente al contatto con la forza. Un contatto a cui ci si sottrae, da un lato, consentendo «a tutte le ferite» che il corso degli avvenimenti potrà recare, e quindi attraverso l’esercizio della «virtù di obbedienza» (l’amor fati degli stoici33); dall’altro lato, cercando di non esercitare mai la forza, o almeno di non esercitarla mai in quantità superiore a quanto si è obbligati a fare: Per imitare l’Amore divino bisogna anche non esercitare mai la forza. Esseri di carne e prigionieri della necessità, possiamo esser costretti da un obbligo rigoroso a trasmettere la violenza del meccanismo di cui siamo un ingranaggio: ad esempio come capi su dei subordinati, come soldati su dei nemici. È spesso difficilissimo, doloroso e angosciante determinare fino a qual punto giunga l’obbligo rigoroso. Ma è semplice farsi una regola di non andar mai, in rapporto agli altri e neppure in rapporto a se stessi nell’uso della costrizione, neppure un millimetro al di là dell’obbligo rigoroso, e ciò non solo a proposito della costrizione propriamente detta, ma anche di tutte le forme mascherate della costrizione, la pressione, l’eloquenza, la persuasione che si vale di molle psicologiche (GR, 128-9).
Per questa via si arriva alla formulazione di un vero e proprio imperativo categorico: «Non fare uso di alcuna specie di costrizione né verso altri né verso se stessi fuori del campo dell’obbligo rigoroso» (GR, 129); un imperativo che va rispettato anche quando ci si proponga di produrre del bene. Si tratta, in sostanza, di fare delle rinunce che sono sempre rinunce di potere, a cominciare da quel 33
Su Simone Weil e lo stoicismo, G. KAHN, Simone Weil et le stoïcisme grec, in CSW, n. 4, 1982, pp. 270-284.
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potere «di pensar tutto in prima persona» che impedisce a un uomo «di sapere che gli altri sono suoi simili» (GR, 188). Contravvenendo a una «legge naturale», secondo la quale l’uomo è portato a esercitare la sua potenza quando ne abbia la possibilità34, l’uomo giusto sa che «è meglio non comandare dovunque si ha il potere di farlo» (AD, 111). È precisamente in questo punto che la giustizia comincia a incarnarsi: attraverso la rinuncia e il ritrarsi, la bilancia della giustizia, squilibrata dalla differenza delle forze, può finalmente tornare in equilibrio. Ecco quanto scrive Simone Weil in quella che è da considerare probabilmente la sua pagina più importante relativa al concetto di giustizia (contenuta nello scritto Formes de l’amour implicite de Dieu del 1942): La bilancia in equilibrio, immagine del rapporto di uguaglianza delle forze, è stata fin dai tempi più antichi, e soprattutto in Egitto, il simbolo della giustizia. Forse essa è stata un oggetto religioso prima di venir usata nel commercio [...] Se ci si trova in una posizione di vantaggio in un rapporto inuguale di forze, la virtù soprannaturale di giustizia consiste nel comportarsi esattamente come se in quel rapporto vi fosse uguaglianza [...] Se si tratta da uguali coloro che il rapporto di forze pone su un piano inferiore, si fa loro veramente dono della qualità di esseri umani di cui il destino li privava, e si riproduce nei loro confronti, per quanto umanamente possibile, la generosità originaria del creatore (AD, 107-108).
In queste parole, la bilancia non è uno strumento che si limita a 34 Si tratta delle parole che gli ambasciatori ateniesi rivolgono ai Meli, in un passo di Tucidide che Simone Weil ama citare: «Noi crediamo infatti che per legge di natura chi è più forte comandi: che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini, lo crediamo perché è evidente» (TUCIDIDE, La guerra del Peloponneso, V, 105, tr. it. a cura di C. Moreschini, Boringhieri, Torino, 1963, pp. 418-419). È sempre a Tucidide che Simone Weil si rifà ricordando che «per una necessità della natura, ogni essere, chiunque egli sia, esercita, per quanto può, tutto il potere di cui dispone» (Q, I, 316). Anche Renaud, il personaggio della Venise sauvée, «è convinto che gli esseri pensanti senza eccezione tendano a esercitare tutto il potere che è dato loro di esercitare» (VS, 42).
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«descrivere», a misurare i rapporti oggettivi, sulla base dei quali definire le spettanze di ognuno; non è un mero registratore delle forze e dei pesi che ogni individuo può riversare sul piatto in cui è collocato; non è insomma «metafora potente della giustizia negoziata»35. Essa è invece il luogo simbolico in cui operare un vero e proprio “sbilanciamento” dei rapporti medesimi, alla ricerca di un equilibrio “innaturale”, in quanto prodotto dalla scelta del “vuoto” fatta da colui che era troppo “pesante” rispetto al soggetto reso “leggero” dalla sventura.
35 SBRICCOLI, La benda della giustizia. Iconografia, diritto e leggi penali dal medioevo all’età moderna, in AA.VV., Ordo Iuris. Storia e forme dell’esperienza giuridica, Giuffrè, Milano, 2003, p. 69 ss, p. 61. Una descrizione di questa funzione «misuratrice» della bilancia è fornita anche da Ferdinand Tönnies in una pagina del suo classico lavoro Gemeinschaft und Gesellschaft (1887), Hans Buske, Darmstadt, 1935, tr. it. Comunità e società, a cura di R. Treves, Comunità, Milano, 1963, p. 191: «la bilancia è il simbolo della giustizia in quanto esprime i rapporti oggettivi, veri e reali del fare e del subire, dell’avere e del dovere, i diritti e gli obblighi. Specialmente in quanto vale il principio che a ognuno spetti la sua parte di godimento e di sopportazione, diventa necessaria la comparazione della grandezza, del peso, dell’utilità, della bellezza di oggetti singoli o divisi, di animali o uomini predati, di terreni o di utensili. E dalla comparazione generale nascono le attività formali particolari – la misura, il peso, il calcolo di ogni genere – le quali riguardano tutte la determinazione di quantità e dei loro rapporti reciproci». Non a caso questa descrizione è inserita in una pagina che riguarda la composizione dei conflitti.
CAPITOLO QUINTO
I BRACCI DISUGUALI DELLA BILANCIA
1. Tra le molte accuse rivolte ai Romani, quella di aver disonorato il senso della supplica misura più di altre la distanza che Simone Weil pone tra essi e la giustizia. La supplica è il grido dello sventurato che cerca di «trasmettere allo spirito altrui la propria nozione dei valori» (Q, I, 199); è il grido di chi subisce l’ingiustizia e chiede: «perché mi viene fatto del male?» (P, 39). La «particolare specie di rispetto» che si deve a chi avanza una supplica non è altro che la giustizia, perché rinvia a una lettura della sventura come miseria umana e non semplicemente come sventura di un singolo individuo (o di un popolo). Ma i Romani si credevano «sottratti alla comune miseria umana» (GR, 33). Perciò, essi non hanno saputo riconoscere il «carattere sacro dei supplici» (Q, II, 226) e hanno imposto che la supplica venisse avanzata con «la menzogna e l’adulazione» (PR, 131). Se la giustizia si realizza nel gesto che innalza l’altro abbassando se stessi, l’attenzione per lo sventurato, per colui che avanza una supplica, costituisce il suo primo momento, il momento in cui si conosce la situazione sbilanciata che chiede di essere riequilibrata. La giustizia pertanto sembra inestricabilmente legata alla possibilità di uscire da se stessi, di assumere un altro punto di vista. Naturalmente, non si tratta solo di comprendere qual è il punto di vista dell’altro: un atteggiamento che, come ricordava Leibniz, non è esclusivo dell’ambito morale ma è sempre consigliabile, anche in politica, per cercare di interpretare, ad esempio, le intenzioni di chi
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vuole farci del male1. Qui, propriamente, «rendere giustizia all’essere diverso da sé significa mettersi al suo posto». Perché solo così «si ammette la sua esistenza come persona, non come cosa» (Q, II, 238)2. Assumere il giusto punto di vista è già un poco essere giusti, poiché se ci si sbaglia non si arriverà mai alla giustizia3. È proprio il punto di vista, infatti, che «è la radice dell’ingiustizia» (Q, IV, 316). Visto dalla parte del debole, l’atto di supplicare «è come spingere una pietra troppo pesante» (Q, II, 57). Il peso difficile da muovere è costituito innanzitutto dall’incapacità umana di «vedere» la sventura, di volgere ad essa quell’«attenzione creatrice» che permette a un individuo privo della personalità umana di tornare ad essere uomo. Ma questa attenzione è difficile, e uscire completamente da se stessi è impossibile. L’esperienza operaia soprattutto 1
G.W. LEIBNIZ, Osservazioni sulla vita sociale, in ID., Scritti politici e di diritto naturale, a cura di V. Mathieu, Utet, Torino, 1951, p. 351. 2 «Giustizia. Essere continuamente pronti ad ammettere che un altro è altra cosa da ciò che si legge quando egli è presente (ovvero quando si pensa a lui). O piuttosto: leggere in lui anche (e continuamente) che egli è certamente altra cosa, forse tutt’altra cosa, da quel che in lui si legge» (Q, I, 257). 3 È condivisibile, allora, l’osservazione di W INCH, Simone Weil, cit., p. 215, secondo cui «la giustizia va considerata non soltanto come un ideale morale o sociale per cui lottare, ma come il solo punto di vista dal quale un certo genere di comprensione della vita umana è possibile: quindi, come un concetto epistemologico». Su questa base, lo stesso Winch procede a un paragone tra l’idea della giustizia weiliana e quella espressa da Rawls nella sua opera principale A Theory of Justice (Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1971, tr. it. Una teoria della giustizia, a cura di S. Maffettone, Feltrinelli, Milano, 1993). Entrambe le concezioni appaiono fondate sul fatto della comprensione e del consenso delle parti interessate. «La giustizia è vista da entrambi come scaturente essenzialmente da una sorta di comunicazione tra le parti interessate; non è qualche cosa che deve essere dapprima decisa, poi comunicata ad esse. Ma, secondo il resoconto di Rawls, io acconsento ad un accordo perché vedo che è il miglior affare che posso concludere; ossia, è un accordo al quale posso ragionevolmente aspettarmi che altri acconsentano, e il loro consenso è necessario per me se voglio ottenere quello che cerco. Mentre, secondo il resoconto di Simone Weil, non cerco il consenso altrui come una condizione per ottenere qualcos’altro; esso è, al contrario, la cosa principale che cerco. Così, bado a quel che gli altri dicono, o esprimono in qualche altro modo, non allo scopo di valutare le mie possibilità di realizzare i miei progetti. Non bado affatto a loro per qualcosa; la mia attenzione è un’espressione del mio tentativo di comprendere» (p. 224).
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aveva insegnato alla Weil, non soltanto che «comandare non rende facile porsi dal punto di vista di chi ubbidisce», ma assai più in generale che «gli uomini non sanno mai mettersi gli uni nei panni degli altri» (CO, 145). È difficile stabilire se la simpatia degli uomini per i propri simili proceda più sicura dalla visione del dolore o della gioia. Se Rousseau aveva individuato uno dei due principi che sono anteriori alla ragione nella «ripugnanza naturale a veder perire o soffrire ogni essere sensibile, e principalmente i nostri simili»4, facendo così del dolore un principio di legame sociale superiore al suo opposto gioioso, Adam Smith propendeva per una soluzione diversa, che almeno in un punto converge con la riflessione weiliana. Anche ammettendo che la simpatia che gli uomini provano per coloro che soffrono è più universale e più acuta della simpatia provata per chi è nella gioia, dice Smith nella sua Theory of Moral Sentiments, è però inoppugnabile che «la nostra propensione a simpatizzare con la gioia è molto più forte che la nostra propensione a simpatizzare con la sofferenza»5. Di certo, in ogni caso, c’è il fatto che «il nostro sentimento di partecipazione per l’emozione piacevole si avvicina molto di più alla vivacità di ciò che è naturalmente sentito dalla persona principalmente interessata di quanto non faccia quello che proviamo per l’emozione dolorosa»6. Non basta dire che è più facile partecipare alla gioia degli altri; bisogna aggiungere che l’identificazione è più completa, o comunque più vicina alla completezza di quanto potrà mai essere l’identificazione col soggetto che soffre. Tale conclusione – se è vera – spiega come mai l’attenzione per la sventura sia una cosa così «innaturale». È l’istinto di conservazione che porta a fuggire la sventura; e l’attenzione verso di essa appare talmente 4
J.-J. ROUSSEAU, Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, tr. it. Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini, in Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni, Firenze, 1972, p. 41. 5 A. SMITH, The Theory of Moral Sentiments, I.III.1 § 2, tr. it. Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. Lecaldano, Rizzoli, Milano, 1993, p. 139. 6 Ivi, I.III.1 § 5, p. 141.
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lontana dalle inclinazioni umane da far dire che «solo Dio può fare attenzione a uno sventurato» (Q, IV, 228). Simili al re di un racconto di Saramago, che è sempre affacciato sulla porta degli ossequi e mai su quella delle petizioni7, gli uomini non hanno orecchie per lo sventurato che – muto – li chiama. E tuttavia, è proprio qui che si insedia la giustizia; o meglio, è qui che bisogna cercarla. Come è possibile che un peso infinitamente piccolo – il grido dello sventurato, il grido di chi non ha voce – possa spostarne uno più grande? Come è possibile che due pesi così differenti possano trovare un equilibrio e un’armonia? Il punto è significativo perché permette di porsi nel luogo in cui l’amore soprannaturale, attraverso cui l’uomo imita Dio, crea la possibilità di una giustizia nel mondo. 2. La teoria della bilancia formulata da Archimede afferma che la bilancia è in equilibrio quando tra i pesi esiste un rapporto inverso al «rapporto delle distanze da questi pesi al punto d’appoggio» (GR, 218). Sulla base di questa teoria – afferma Simone Weil fin dai tempi delle lezioni nel liceo di Roanne – qualunque peso può essere opposto a una forza: «basta sempre stabilire un rapporto» (LF, 69). In qualsiasi bilancia, un peso considerevole, ma vicino al punto d’appoggio, «può essere sollevato da un peso piccolissimo posto ad una distanza molto grande» (CO, 288). Perciò è la bilancia «a bracci disuguali» il vero simbolo della giustizia (Q, I, 338), perché grazie ad essa «il grammo prevale sul chilo» (Q, IV, 366), e il debole prevale sul forte. La forza dell’«infinitamente piccolo» è un motivo ricorrente nella riflessione dell’ultima Weil. Esso può operare «in modo decisivo», come un batterio invisibile o un catalizzatore che provocano trasformazioni chimiche, o come una sostanza minuscola che inibisce certe reazioni (PR, 260-261). Ma, come insegna la teoria della bilancia appena richiamata, la possibilità che esso possa operare realmente
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J. SARAMAGO, O Conto da Ilha Desconhecida, Editorial Caminho, Lisboa, 1997, tr. it. Il racconto dell’isola sconosciuta, Einaudi, Torino, 1998, p. 3.
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nelle vicende degli uomini è vincolata alla possibilità di utilizzare un braccio più lungo, che per Simone Weil è fornito dal legame col soprannaturale. La sfida paradossale di Archimede – «datemi un punto d’appoggio e io solleverò il mondo» – mette in luce la verità nascosta nella legge della bilancia: «per mettere in atto questa frase erano necessarie due condizioni. Prima di tutto, che il punto d’appoggio stesso non appartenesse al mondo. Poi che questo punto d’appoggio fosse a una distanza finita dal centro del mondo e a una distanza infinita dalla mano che agisce. L’operazione di sollevare il mondo per mezzo di una leva è possibile solo a Dio» (GR, 218). Difatti, è la croce che realizza quella sfida, perché «l’Incarnazione fornisce il punto d’appoggio»8: La croce fu una bilancia ove il corpo del Cristo fece da contrappeso al mondo. Perché il Cristo appartiene al cielo, e la distanza dal cielo al punto d’incrocio dei rami della croce sta alla distanza da questo punto alla terra come il peso del mondo sta a quello del corpo del Cristo (GR, 218). Il corpo del Cristo era un peso ben lieve, ma per la distanza fra la terra e il cielo ha fatto da contrappeso all’universo (CO, 288).
Questa operazione dell’infinitamente piccolo – vero e proprio «paradosso che l’intelligenza umana fatica a riconoscere» (OL, 235) – può essere realizzata anche dagli uomini. Nella misura in cui un essere umano «obbedisce perfettamente a Dio», rappresenta un punto d’appoggio, perché egli, come Cristo, «è nel mondo ma non è del mondo». La sua forza così piccola diventa grande quanto quella del mondo, perché in virtù dell’obbedienza il punto di applicazione della sua forza «è trasportato nel cielo» (GR, 218). Oltretutto, questo è l’unico modo in cui Dio agisce nel mondo9. Può essere opportuno, a questo punto, richiamare un ragiona8 «L’Incarnazione, presenza di ciò che non pesa, nel mondo della gravità, sotto forma di un punto pesante» (Q, III, 177). 9 «La potenza di Dio quaggiù, paragonata a quella del Principe di questo mondo, è un infinatamente piccolo» (Q, IV, 149). E tuttavia la sua azione, che si svolge attraverso «particelle infinitesimali» opposte a «corpi infinitamente grandi» (G, 218), è efficace grazie alla legge della leva (cioè della bilancia a bracci disuguali).
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mento analogo fatto dalla Weil a proposito dell’oppressione sociale. Il suo cruccio costante negli anni della maturazione, che trova nelle Réflexions del ’34 la testimonianza più viva e compiuta, è che ogni individuo singolo non è che un essere senza peso di fronte alla società che lo sovrasta, dato che la sua forza non può nulla contro la potenza del collettivo. In ciò la Weil è certamente figlia del suo tempo, particolarmente segnato dall’opposizione tra le esigenze dei singoli e quelle dell’organizzazione sociale. Negli scritti della prima metà degli anni ‘30, Simone Weil affida le possibilità di agire nel mondo – contro il mondo – al pensiero, come unica dimensione in cui un individuo può vantare una superiorità sul collettivo. Nella misura in cui l’attività del pensiero di un uomo è «materialmente indispensabile» alla società di cui egli fa parte, il suo pensiero è una forza che si contrappone alla pressione che la società esercita su di lui in ogni ambito dell’esistenza10. Così, una società perfettamente libera sarebbe quella in cui ogni atto e ogni sforzo compiuto dagli individui fosse guidato soltanto dal «pensiero illuminato» (R, 95). Non sono molto diverse le considerazioni a proposito della giustizia, e della “forza” che l’infinitamente piccolo può esercitare nelle vicende del mondo. Se l’umile atto del pensare può bastare da solo a bilanciare l’immensa forza della società, un gesto colmo d’amore soprannaturale può fare da solo il miracolo di produrre la giustizia. È il gesto, ad esempio, del buon Samaritano di cui parla il Vangelo di Luca (X, 30-37). Per Simone Weil quel gesto è l’esempio più perfetto di attenzione creatrice, perché, grazie ad esso, colui che un attimo prima era solo uno straccio ai margini della 10
Cfr. in particolare R, 94, cui corrisponde un frammento del primo dei Cahiers – l’unico antecedente al periodo marsigliese: «La collettività è più potente dell’individuo in tutti gli àmbiti, salvo uno: il pensare» (Q, I, 115). Tuttavia, si tratta di una convinzione ribadita nei Cahiers di Marsiglia: «Il grosso animale per vivere ha bisogno dell’intelligenza inseparabile dall’individuo. Per questo l’uomo intelligente ha il potere di esercitare un ricatto sul grosso animale, se solo lo vuole». La conclusione è espressa con un Teorema, che rivela anche il nuovo linguaggio utilizzato dalla Weil: «Tutto ciò che tende a diminuire la somma dell’intelligenza socialmente necessaria, sia per la quantità sia per la qualità – allontanandola così dall’amore – è cattivo» (Q, III, 295).
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strada, torna nuovamente ad esistere11. È certamente questo il punto culminante della riflessione weiliana sulla giustizia. La cosa importante, in questa vicenda e non solo, è infatti che «il Vangelo non fa alcuna distinzione fra l’amore del prossimo e la giustizia» (AD, 104). E ciò per una ragione molto semplice: che il vero atto di giustizia è quello che viene a prodursi in una situazione talmente «sbilanciata» da poter tornare in equilibrio solo attraverso un atto d’amore soprannaturale, quell’atto con cui il buon Samaritano accetta di «diminuirsi» per far esistere l’altro. Richiamando ancora una volta quanto ha scritto Derrida, si può dire che mai come in questa occasione la giustizia si presenta come «ciò che non può attendere». Perché se una decisione giusta «è sempre richiesta immediatamente, subito, il più presto possibile», dato che essa «non può concedersi l’informazione infinita e il sapere senza limiti delle condizioni»12, nessuna situazione più di quella in cui si trova il Samaritano è adatta a richiedere una decisione giusta, immediata, senza possibilità di essere “istruita”. Non c’è tempo per chiedersi chi è colui che giace sul ciglio della strada, cosa ha fatto, perché si trova in quelle condizioni; se è stato persino “giusto” che qualcuno lo riducesse in quello stato. Non c’è tempo per l’informazione infinita. Si può solo passare avanti, come tutti gli altri, oppure 11
Per VETÖ, La metafisica religiosa di Simone Weil, cit., p. 26, questo gesto corrisponde alla «prima prescrizione della metafisica dell’uomo», la quale consiste nel «riconoscere questa coesistenza, proteggerla e, se necessario, ristabilirla». Un’interpretazione di questo episodio del vangelo di Luca che si muove nella stessa direzione weiliana è quella offerta da P. THIBAUD, L’autre et le prochaine. Commentaire de la parabole du bon Samaritain, in «Esprit» n. 295, juin 2003, tr. it. L’altro e il prossimo. Commento alla parabola del buon Samaritano, Città Aperta Edizioni, Enna, 2004, il quale scrive, tra l’altro, che «per principio, il diritto separa, spartisce, divide tra chi querela e chi si difende, tra il creditore e il debitore, tra la vittima e il colpevole. Esso fa, per principio, il bilancio di una situazione, chiude il dibattito. Relativamente a questi due punti, il diritto si situa all’opposto dell’atteggiamento preconizzato dal racconto di Luca, dove l’azione etica non è attivata da una lamentela (la vittima è muta e passiva), ma dalla capacità del Samaritano di vedere e di fare, e dove, d’altra parte, non bisogna saldare dei conti ma dischiudere un avvenire» (pp. 43-44). 12 DERRIDA, Forza di legge, cit., p. 80.
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decidere che ci si deve fermare. E allora, se ci si vuole comportare secondo giustizia, ci si ferma, ci si sbilancia, ci si abbassa. Si tratta di un gesto innaturale ed umano allo stesso tempo. Esso fa violenza alla natura animale dell’uomo, la quale spingerebbe piuttosto a non piegarsi13; ma rinvia però alla convinzione che ogni rapporto umano si fondi solo sull’uguaglianza, e su un’uguaglianza particolare, che supera i sistemi di ripartizione tradizionali ed anonimi, in quanto implica un impegno personale, diretto, che deriva dal precetto di amare il prossimo come se stessi14. Quello del Samaritano è dunque l’unico gesto che rende concreta, umana, una giustizia che altrimenti rimarrebbe impossibile. 3. Nel gesto del Samaritano non si trova solo concettualizzata e concretizzata una concezione dell’alterità che si direbbe centrata su elementi che, con Lévinas, si possono definire di prossimità, responsabilità, sostituzione15; vi si trova soprattutto una definitiva conferma del distacco della giustizia dal diritto. L’accoglienza dell’altro – dell’“infinito” che, ancora lévinassianamente, si manifesta nel volto dell’altro – risponde ad una logica incomparabile con quella del diritto; e non necessariamente perché la logica del diritto, come pensavano Locke e Spinoza, si fonda in ultima istanza sulla possibilità di uccidere l’altro, sulla sua possibile messa a morte, e dunque sulla sua negazione come “altro”16; ma perché, meno radicalmente, 13
Se si pensa al «ben noto fenomeno che spinge le galline a gettarsi su un’altra gallina ferita per beccarla», si capisce come mai «ogni uomo, in ogni momento» sia dominato da una necessità meccanica «alla quale riesce a sottrarsi soltanto in proporzione alla parte che il soprannaturale autentico ha nella sua anima» (AD, 63-4). 14 Cfr. in tal senso THIBAUD, L’altro e il prossimo, cit., p. 45 ss, che da un lato individua l’insegnamento evangelico nel fatto che «l’uguaglianza passa per una profusione infinita di relazioni particolari», e dall’altro lato legge nella «vecchia polemica laica che opponeva la giustizia alla carità» una forma classica del rifiuto dell’insegnamento evangelico stesso. 15 Nel senso di una «prossimità definita in termini di responsabilità» e di una «responsabilità intesa come sostituzione». Cfr. A. PONZIO, Responsabilità e alterità in Emmanuel Lévinas, Jaca Book, Milano, 1995, p. 15. 16 Sia Locke che Spinoza, come è noto, hanno istituito un nesso tra l’istituzione di
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il diritto rinvia sempre a misurazioni (delle forze) e a commisurazioni (degli interessi) che impediscono di “vedere” l’altro nella sua realtà più completa. L’identità della giustizia con l’amore, postulata dal rinvio alla parabola del Samaritano, nelle intenzioni weiliane vuole perciò superare il mero rispetto dei diritti, che lascia i soggetti nella loro estraneità e “inaccessibilità”. Essa implica invece un riconoscimento più diretto che chiama l’altro dentro una relazione più piena, fondata su quella che la Weil, a rischio di ingenerare qualche confusione, indica anche col termine di «amicizia» (che qui coincide appunto con l’amore)17. Bisogna perciò riuscire a dare la giusta collocazione ad un gesto inaspettato (e che sembra produrre un’apertura inattesa), con il quale la Weil distingue due possibili tipi di giustizia nei rapporti che si possono stabilire tra gli uomini: la giustizia che fa tutt’uno con l’amicizia, e quindi con l’amore; e la giustizia per così dire «naturale», che viene in qualche modo «imposta dal di fuori, dalle circostanze». Questo secondo tipo di giustizia si ha quando un ordinamento giuridico e la minaccia della pena capitale. Il §3 del Secondo Trattato definisce il potere politico come «il diritto di far leggi con penalità di morte, e per conseguenza con ogni penalità minore, per il regolamento e la conservazione della proprietà, e di impiegare la forza della comunità nell’esecuzione di tali leggi e nella difesa della società politica da offese straniere, e tutto questo unicamente per il pubblico bene» (Due trattati sul governo e altri scritti politici, a cura di L. Pareyson, Utet, Torino, 1982, p. 228). Da parte sua, nel già più volte citato cap. XVI del Trattato teologico-politico, Spinoza precisa che ha il potere supremo su tutti «colui che potrà costringere ognuno con la forza tenendolo a freno con il timore dell’estremo supplizio che è universalmente paventato» (Trattato teologico-politico, cit., p. 647). A ragione, perciò, poteva essere osservato da Benjamin che «i critici della pena di morte sentivano […] che la sua contestazione non impugna un determinato grado di pena, non assale determinate leggi, ma il diritto stesso nella sua origine» (Per la critica della violenza, cit., p. 14). 17 L’intenzione della Weil è evidentemente quella di accomunare amore e amicizia nella loro opposizione al diritto, «quale rapporto che non è univocamente di amore e che non si instaura a livello personale». Utilizzo qui quanto ha scritto L. LOMBARDI VALLAURI, Amicizia, carità, diritto. L’esperienza giuridica nella tipologia delle esperienze di rapporto, Giuffrè, Milano, 1969, p. 122.
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due esseri umani si incontrano in circostanze tali che nessuno dei due sia sottomesso all’altro da nessuna forma di forza e che ognuno abbia in egual grado bisogno del consenso dell’altro. Ciascuno allora, senza cessar di pensare in prima persona, comprende realmente che anche l’altro pensa in prima persona. Allora la giustizia si attua come un fenomeno naturale [...] Ma la giustizia che si attua in tal modo non costituisce un’armonia, ed è una giustizia senza amicizia (GR, 187).
Si tratta, infatti, di una giustizia che procede dall’uguaglianza delle forze; in cui il riconoscimento dell’altro è imposto dalla consapevolezza che la forza di cui egli dispone non è inferiore a quella di chi agisce18. Lo spazio inatteso che si apre non è altro che quello relativo al concetto tradizionale della giustizia, legato ai requisiti che, muovendo dall’insegnamento aristotelico, sono stati compendiati nella alterità, nella parità e nella reciprocità, e che trova nelle massime del suum cuique tribuere e dell’alterum non laedere la sua espressione universale (e formale)19. Qui ciò che conta è proprio la corrispondenza tra doveri e pretese, e la giustizia non è altro che «delimitazione e intersecazione delle esigibilità reciproche tra soggetti»20. Ora, pur non sottovalutando affatto l’importanza di questo tipo di giustizia, e anzi auspicando che «lo sforzo del legislatore [tenda] a rendere queste occasioni [di parità delle forze] numerose quanto è possibile», Simone Weil non ritiene che sia questa la giustizia che può soddisfare i bisogni più profondi del mondo: essa infatti non ha 18
Qui si manifesta nuovamente l’antinomia del diritto. La giustizia «naturale» infatti si basa sull’equivalenza delle forze, equivalenza che rende superfluo il diritto; ma nello stesso tempo, il diritto è necessario affinché lo scambio abbia luogo. A questo proposito è stato giustamente osservato come «l’apparente inconciliabilità tra necessità e superfluità, che è una meravigliosa ambivalenza del diritto, rientra in quelle contraddizioni che accompagnano il pensiero weiliano e che hanno il potere di spingere l’anima verso un ordine superiore, in questo caso quello della giustizia» (DI NICOLA, La contraddizione nel sociale, cit., p. 101). 19 Cfr. DEL VECCHIO, La giustizia, terza edizione riveduta e accresciuta, Studium, Roma, 1946, capp. VIII e XI. 20 Ivi, p. 87.
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come fondamento il riconoscimento della miseria e della sventura che pesano inesorabilmente sul destino degli uomini, dal quale deve cominciare il circolo virtuoso che, dalla «rinuncia al potere di pensar tutto in prima persona», conduce al riconoscimento dell’altro, e quindi al gesto d’amore soprannaturale che permette di ristabilire la giustizia e di riequilibrare i piatti della bilancia. Ma è possibile pensare di predisporre le condizioni (istituzionali?) ottimali perché quei gesti di giustizia possano prodursi? Se, platonicamente, vi fosse un «re» che ama la giustizia, tutto si orienterebbe naturalmente verso la giustizia (Q, III, 180). Ma questo re non esiste, e dunque bisogna pensare a come il gesto della giustizia possa essere praticato dagli uomini nel mondo. Così come un architetto, nel progettare una costruzione, studia le condizioni dell’equilibrio dei corpi, e non soltanto la caduta dei pesi verso il basso, allo stesso modo, scrive Simone Weil, «la vera conoscenza della meccanica sociale implica quella delle condizioni cui l’operazione sovrannaturale d’una quantità infinitamente piccola di bene puro, messa al posto conveniente, può neutralizzare la pesantezza» (OL, 236). Per far ciò, naturalmente, è necessario «un autentico sforzo d’invenzione»; ma la prima condizione per realizzare un ordine simile «è di pensarci» (OL, 237)21.
21 Tutte le civiltà veramente creatrici, secondo Simone Weil, hanno avuto al loro centro «un posto vuoto riservato al puro soprannaturale, alla realtà situata fuori di questo mondo», orientando tutto il resto verso questo vuoto. La sfida per la società contemporanea – “inebetita” «dall’orgoglio della tecnica» – è di riuscire anch’essa a «disporre le forze cieche della meccanica sociale attorno al punto che serve anche di centro della meccanica celeste, ossia “l’Amore che muove il sole e le altre stelle”» (OL, 237).
CAPITOLO SESTO
IL LIMITE SOVRANO
1. Nonostante le radicate convinzioni, da lei manifestate senza indulgere a compromessi, alle quali si è fatto riferimento finora, non si può dire che Simone Weil nutra particolare fiducia in un progetto istituzionale che sia in grado di rendere efficace la forza dell’«infinitamente piccolo» al fine di affermare le ragioni della giustizia. È assai difficile che la società in quanto tale, o anche una qualunque organizzazione collettiva, si faccia carico di autentiche esigenze di giustizia: «società» indica sempre una realtà negativa nel linguaggio della Weil, nel cui contesto essa è via via identificata, ora con una macchina oppressiva, ora con la Bestia dell’Apocalisse, ora con il «grosso animale» di cui parla Platone. E tuttavia, è ugualmente possibile segnare un percorso che, muovendo dall’analisi dell’oppressione giunga a fare intravedere uno spiraglio attraverso cui possa passare la giustizia. È opportuno ricordare, a questo proposito, quelli che sono i tratti salienti dell’analisi weiliana dell’oppressione sociale, i cui elementi fondamentali sono riassunti nelle dense pagine delle Réflexions. In questo lavoro la speranza di una liberazione per effetto della rivoluzione proletaria – alle cui ragioni Simone Weil si è sentita vicina, e alla quale ha pensato di dover dare un contributo attraverso l’impegno nel sindacalismo rivoluzionario1 – si è spenta
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Oltre al volume della PÉTREMENT, La vita di Simone Weil, cit., per una ricostru-
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ormai completamente. È ora evidente in lei la consapevolezza che a determinare l’oppressione non è la proprietà privata dei mezzi di produzione, bensì la natura stessa del sistema produttivo moderno: «la totale subordinazione dell’operaio all’impresa e a coloro che la dirigono poggia sulla struttura della fabbrica e non sul regime di proprietà» (R, 16). Si aggiunga che l’idea di rivoluzione è messa in crisi dalla constatazione che le rivoluzioni che raggiungono il loro obiettivo, instaurando un nuovo potere, non fanno altro che «rinforzare la macchina burocratica, militare e poliziesca» (SGT, 36). La differenza tra il prima e il dopo di una rivoluzione operaia è che, prima, la fabbrica, la polizia, le prigioni sono nelle mani di soggetti diversi, mentre dopo si troveranno nelle mani dello stesso soggetto: «l’ineguaglianza nei rapporti di forza non sarebbe quindi diminuita, bensì accentuata» (CO, 159). Più in generale, la pensatrice francese – in sintonia con autori appartenenti a tradizioni culturali certamente diverse dalla sua, ma altrettanto avvertiti e attenti nei confronti dei movimenti del loro tempo (si pensi solo ad Ortega e a Weber) – nota come l’aumento dell’oppressione sia inscritta nella struttura della società contemporanea: è fin troppo evidente che tutti i gruppi politici, ora in nome della rivoluzione, ora richiamandosi al fascismo, ora invocando la difesa nazionale, «tendono egualmente tanto all’accentuazione dell’oppressione quanto a porre nelle mani dello stato tutti gli strumenti del potere» (CO, 159). Non è il caso di ripercorrere ancora una volta le tappe della critica che Simone Weil rivolge al marxismo e alle idee di “rivoluzione” e di “progresso” 2. Di essa interessano, per ora, alcuni passaggi zione attenta soprattutto al contesto storico e culturale degli anni trenta si veda D. CANCIANI, Simone Weil, il coraggio di pensare. Impegno e riflessione politica tra le due guerre, Edizioni Lavoro, Roma, 1996. 2 Si vedano soprattutto i saggi compresi in EHP, 2 (parte I «Écrits sur le marxisme»), tra i quali le Réflexions. A proposito di questa critica, meritano di essere menzionate le osservazioni di A. DEL NOCE, Simone Weil interprete del mondo di oggi, in ID., L’epoca della secolarizzazione, Giuffrè, Milano, 1970, pp. 137-177, per il quale
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fondamentali, a cominciare dall’osservazione secondo la quale la condizione dell’operaio in fabbrica è soltanto una delle forme in cui si manifesta l’oppressione di una società fondata sulla specializzazione. Nel suo saggio di «addio alla rivoluzione» del 1933, intitolato Perspectives3, la Weil, dopo aver constatato il fallimento della rivoluzione sovietica4, si chiede se non ne sia derivata «un’oppressione di una specie nuova», la cui particolarità consiste nell’essere «esercitata nel nome della funzione» (SGT, 176). Si tratta di una forma di oppressione che non solo non può essere eliminata da una rivoluzione, ma è frutto di un’evoluzione che ha interessato ogni ambito sociale, finendo per rendere le forze dell’individuo assolutamente impotenti ad affrontare il mondo in cui vive: «In quasi tutti i campi, l’individuo, chiuso nei limiti di una competenza ristretta, si trova preso in un insieme per lui troppo complesso, sul quale egli deve regolare tutta la sua attività, e di cui non può capire il funzionamento» (SGT, 181-2). Specializzazione, burocratizzazione, razionalizzazione: ecco le parole più adeguate per descrivere una espropriazione continua e progressiva che si è consumata ai danni dell’individuo e a vantaggio della società5. la critica del marxismo come filosofia del primato dell’azione non può non implicare il «ritrovamento di Platone […] il filosofo del primato della contemplazione». Tale ritrovamento da parte della Weil sarebbe infatti «una necessità inscritta nelle essenze filosofiche» (p. 143). Più in generale, va ricordato che il pensiero weiliano è stato giudicato da Del Noce come una forma di pensiero negativo, per il rifiuto totale che esso contiene delle «“menzogne vitali” e dei falsi idoli». Si tratterebbe di un pensiero in cui si rivelano «le idee dell’Ordine come principio metafisico e dell’obbedienza a Dio come virtù essenziale» e in cui si realizza «la congiunzione tra platonismo e cristianesimo» (p. 140). 3 Perspectives, in EHP, 1, pp. 260-281. La traduzione a cui si fa riferimento è quella di G. Gaeta in SGT, pp. 163-196. 4 Le linee fondamentali della critica weiliana alla politica sovietica sono ripercorse da G. LEROY, Simone Weil e il fenomeno stalinista, in MARCHETTI (a cura di), Politeia e sapienza, cit., p. 137-149. 5 «Nel corso dell’ultimo secolo si è capito che la società stessa è una forza della natura, cieca quanto le altre, altrettanto pericolosa per l’uomo se non giunge a dominarla. Attualmente questa forza pesa su di noi più crudelmente dell’acqua, della terra, dell’aria e del fuoco; dato che proprio essa ha in mano, grazie al progresso della tec-
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Non che oppressione e organizzazione sociale coincidano. Qualunque società, per sussistere, non può fare a meno di imporre regole agli individui che la compongono; e perciò la semplice e ovvia «subordinazione dei capricci individuali a un ordine sociale» non può bastare a definire l’oppressione. In una prospettiva che, anche stavolta, potremmo definire “repubblicana”, Simone Weil osserva che si ha oppressione quando la costrizione sociale, «provocando una separazione tra coloro che l’esercitano e coloro che la subiscono [...] mette i secondi alla discrezione dei primi e fa così gravare fino all’annientamento fisico e morale la pressione di quelli che comandano su quelli che eseguono» (R, 36). C’è ancora Rousseau alle spalle di Simone Weil, se la strada per diminuire l’oppressione passa per una «semplificazione» della vita sociale6. In uno dei passaggi più noti delle Réflexions, si sostiene che le uniche (poche) società prive di oppressione, «corrispondono tutte a un livello estremamente basso della produzione», che non conosce la divisione del lavoro (R, 44). In queste società, ogni uomo è occupato «a cercarsi il cibo da solo» ed è «continuamente alle prese con la natura esterna». A una stretta dipendenza dalla natura, corrisponde una libertà pressoché totale dall’intervento di altri uomini. Man mano che il sistema della produzione progredisce, il peso della natura diminuisce (o meglio, sembra diminuire); ma «invece di essere tormentato dalla natura, l’uomo è ormai tormentato dall’uomo» (R, 46). Lo sguardo realistico della Weil non consente di ricorrere a facili formule ideologiche. La nascita dei privilegi e delle situazioni di oppressione non è da ricercare nell’usurpazione di qualcuno ai danni di qualcun altro, o nelle statuizioni di leggi e decreti, ma nella stessa «natura delle cose»: Alcune circostanze, che corrispondono a tappe probabilmente inevitabili dello sviluppo umano, danno origine a quelle forze che si frappon-
nica, l’uso dell’acqua, della terra, dell’aria e del fuoco. L’individuo si è trovato brutalmente spossessato dei mezzi di lotta e di lavoro» (SGT, 191). 6 Cfr. G. FORNI ROSA, Rivolta e rivoluzione. Il rousseauismo di Simone Weil, in ID. Simone Weil. Politica e mistica, cit., p. 17.
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gono tra l’uomo comune e le sue condizioni di esistenza, tra lo sforzo e il frutto dello sforzo, e sono, per loro stessa essenza, monopolio di alcuni, perché non possono essere ripartite tra tutti; a partire dal quel momento, tali privilegiati, benché dipendano, per vivere, dal lavoro degli altri, hanno in mano la sorte di quegli stessi da cui dipendono, e l’uguaglianza muore (R, 47).
Più in generale, col progresso della tecnica e col perfezionamento dei mezzi di produzione, il mondo raggiunge una complessità ed un’estensione «che superano infinitamente le possibilità del nostro spirito» (R, 80). Da qui, una scissione radicale tra il pensiero e l’azione, e un ribaltamento del rapporto tra mezzi e fini, che trovano nel fenomeno del «macchinismo» un’immagine che può essere considerata esemplare. Con parole che di lì a qualche settimana sentirà dolorosamente confermate dalla sua stessa esperienza operaia7, la Weil descrive il «singolare spettacolo di macchine nelle quali il metodo si è così perfettamente cristallizzato in metallo da dare l’impressione che siano esse a pensare, mentre gli uomini addetti al loro servizio sono ridotti allo stato di automi» (R, 87). 2. Fin dall’inizio della sua riflessione filosofica8, Simone Weil 7
L’esperienza operaia, protrattasi dal 4 dicembre 1934 fino alla metà di agosto del 1935, è decisiva nel percorso di Simone Weil. Di essa la Weil ha tenuto un dettagliato Journal d’usine, pubblicato in CO. Nel periodo della sua intensa riflessione religiosa, Simone Weil indicherà nell’esperienza operaia un luogo di esercizio per la pratica della decreazione, in particolare per un ipotetico ordine religioso «senza abito né distintivo, formato da uomini e donne […] a cui fosse impartita la più alta cultura estetica, filosofica, teologica, e che in seguito discendessero per degli anni, astenendosi da ogni pratica religiosa appena le circostanze lo richiedano, nelle prigioni come criminali, nelle officine come operai, nei campi come contadini, e così via» (Q, III, 45). In generale, il periodo operaio è da interpretare come parte di una strategia di conoscenza che intende capire le cose «attraverso l’esperienza fisica fatta in prima persona» (C. ZAMBONI, Simone Weil: sentire il mondo con tutta se stessa, in AA.VV., Fedeltà a se stesse e amore per il mondo. Arendt, Heller, Hersch, Stein, Weil, Zambrano, a cura di G. Miglio, Ets, Pisa, 2005, p. 31). 8 Cfr. ad esempio La nécessité, in PEP, 371 ss, ma anche le riflessioni sul tempo: «Non posso dunque liberarmi dal tempo, se non conformando le mie azioni alla condizione che esso mi impone» (PSF, 171).
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medita sulla nozione di necessità e sui presupposti indispensabili di un agire veramente libero9. Punto di avvio è la consapevolezza che tutto ciò che esiste è sottoposto a leggi sulle quali l’uomo non può nulla; e ciò che distingue la realtà dal sogno e dall’illusione non è altro che il «contatto con la necessità» (GR, 192)10. Di fronte alla spinoziana «potenza delle cause esterne»11, tuttavia, non è il problema di come affrancarsi dal loro peso che l’uomo deve porsi e risolvere: l’unica alternativa concreta è tra concedere e non concedere il proprio «consenso» a questa potenza12. Un’alternativa che non ha come poli una prospettiva ideale che promette il passaggio «dal regno della necessità al regno della libertà» e una prospettiva che lo nega, ma il subìre passivamente la necessità e l’operare entro la stessa, accettandola. E riproponendo (inconsapevolmente?) un motivo spinoziano, la Weil ritiene inevitabile concludere che, se è vero che «ogni uomo è schiavo della necessità», «lo schiavo cosciente è molto superiore» (Q, I, 155). Ma la necessità non è altro che lo strumento attraverso il quale Dio è presente nel mondo (dopo il suo «ritiro» dal mondo)13, e dunque l’obbedienza ad essa è obbedienza a Dio. Questo «consenso ad obbedire» rappresenta la sfera in cui si esprime la libertà umana: «la necessità è l’obbedienza della materia a Dio. Così la coppia di con9
Su questo aspetto, cfr. WINCH, Simone Weil, cit., cap. VI. Questo sentimento della necessità investe tutta la teoria dell’azione: «Solo le azioni e i pensieri che comportano una necessità sono veramente umani. Tutte le volte che non si è forzati ad agire, bisogna sopprimere le azioni e i pensieri privi di necessità» (LF, 89). «Agire non per qualche cosa, ma perché non è possibile fare altrimenti» (Q, I, 276). 11 SPINOZA, Etica, Appendice alla Parte IV, cap. XXXII (Etica - Trattato teologicopolitico, cit., p. 340). 12 Su questi aspetti, che avvicinano la riflessione di Simone Weil a quella spinoziana, cfr. W. TOMMASI, Simone Weil: segni, idoli e simboli, p. 78 s. Sul tema, in generale, cfr. l’utile indagine storica di M. MORI, Libertà, necessità, determinismo, Il Mulino, Bologna, 2001. 13 A questo passaggio si lega la concezione di una Provvidenza impersonale, che Simone Weil contrappone all’idea della Provvidenza personale privilegiata dal cristianesimo nella sua qualità di «religione romana ufficiale» (PR, 225). 10
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trari costituita dalla necessità nella materia e dalla libertà in noi ha la sua unità nell’obbedienza, perché esser liberi, per noi, non è altra cosa che desiderare di obbedire a Dio. Ogni altra libertà è una menzogna» (GR, 199)14. Colui che non consente ad obbedire, non è per questo meno sottomesso alla necessità di colui che accorda il suo consenso; solo, egli si priva di quel rapporto con il soprannaturale che permette di trovare la propria libertà nell’ordine dell’universo: L’universo tutto intero non è altro che una massa compatta di obbedienza. Questa massa compatta è disseminata di punti luminosi. Ciascuno di questi punti è la parte soprannaturale dell’anima di una creatura ragionevole che ama Dio e che consente ad obbedire. Il resto dell’anima è prigioniero nella massa compatta. Gli esseri dotati di ragione che non amano Dio sono soltanto frammenti della massa compatta ed oscura. Anch’essi sono tutti interi obbedienza, ma solo al modo d’una pietra che cade. Anche la loro anima è materia, materia psichica, sottoposta a un meccanismo altrettanto rigoroso quanto quello della forza di gravità. Anche la loro credenza nel proprio libero arbitrio, le illusioni del loro orgoglio, le loro sfide, le loro rivolte, tutto ciò non sono che fenomeni altrettanto rigorosamente determinati quanto la rifrazione della luce (GR, 206).
È questa stessa idea della necessità che governa l’Universo – la cui immagine perfetta è data dalla matematica15 – che implica la 14
Va ricordato che la stessa concezione della libertà «spinoziana» come obbedienza alla necessità è presente anche nella Weil che non utilizzava ancora il linguaggio religioso. Nelle Réflexions, la libertà «autentica» è definita attraverso il rapporto dell’azione col pensiero, ma si tratta sempre della stessa obbedienza: «disporre delle proprie azioni non significa affatto agire arbitrariamente [...] L’uomo vivente non può in alcun caso evitare di essere incalzato da tutte le parti da una necessità assolutamente inflessibile; ma, poiché pensa, ha la facoltà di scegliere tra cedere ciecamente al pungolo con il quale essa lo incalza dal di fuori, oppure conformarsi alla raffigurazione interiore che egli se ne forgia; e in questo consiste l’opposizione tra servitù e libertà» (R, 77). Il concetto di «necessità amata», inoltre, sembra confondersi col concetto di dharma che la Weil riprende dalla tradizione e dalla cultura indiana. Secondo S. MARCHIGNOLI, Simone Weil a colloquio con i testi indù: il desiderio, l’ a¯ tman e il dharma, in MARCHETTI (a cura di), Politeia e sapienza, cit., p. 63, qui si realizza «uno dei punti di più intima consonanza tra il pensiero di Simone Weil e il pensiero indiano». 15 «Per pensare la necessità in modo puro, bisogna staccarla dalla materia che la
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legge del limite e della misura, alla quale tutto ciò che si trova in quest’ordine è sottoposto. La necessità costituisce una mediazione non soltanto tra l’uomo e Dio, ma tra le cose, in modo tale che «ogni cosa, essendo al suo posto, permette a tutte le altre cose di esistere» (GR, 198). Tutto, nel mondo, «riposa sulla misura e l’equilibrio» (Q, I, 125), perché, come dicevano i pitagorici, le cose risultano dal contatto tra «ciò che limita» e l’«illimitato», e ciò che limita è Dio stesso. Pertanto, conclude Simone Weil, «non ci sono quaggiù che beni e mali finiti» (GR, 112). Si può comprendere allora l’atteggiamento che la Weil propone di tenere di fronte alla necessità, all’oppressione sociale, al potere. Per il fatto stesso di appartenere a questo mondo, il fenomeno del potere, ad esempio, non può non avere dei limiti: anch’esso è costretto a muoversi sotto il «bel semicerchio dell’arcobaleno», con il quale Dio vuole ricordare agli uomini «che i fenomeni terrestri, per quanto siano terrificanti, sono tutti sottoposti a un limite» (PR, 255-256)16. sostiene, e concepirla come un tessuto di condizioni legate le une alle altre. Questa necessità pura e condizionale non è altro che l’oggetto stesso della matematica», che perciò «è la scienza della natura per eccellenza, la sola» (G, 194), ed è allo stesso tempo mediazione «verso l’aspetto impersonale di Dio» (Q, II, 169) che si esprime nella necessità. 16 È sulla base di questa convinzione che Simone Weil può giustificare, nel 1938, la sua posizione pacifista, che la porta ad accettare l’idea di un’egemonia tedesca nel centro dell’Europa: «non si è mai verificato che l’egemonia non indebolisca in ultima analisi il paese che l’ha ottenuta» (SG, 78); e «ciò che rende questi regimi terrificanti è anche ciò che li indebolisce con gli anni, e cioè il loro prodigioso dinamismo» (SG, 106). Tale idea rinvia al pensiero di Montesquieu, secondo cui «è errato credere che nel mondo esista un’autorità umana dispotica da ogni punto di vista; non c’è mai stata e mai ci sarà, giacché il potere più immenso è sempre sottoposto a qualche limite […] In ogni nazione c’è uno spirito generale su cui si fonda il potere stesso: quando essa si oppone a tale spirito si oppone anche a se stessa, e deve necessariamente fermarsi» (Considérations sur le causes de la grandeur des Romains et de leur décadence, cap. XXII, tr. it. Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza, a cura di D. Monda, Rizzoli, Milano, 2001, pp. 240-241). E può essere interessante notare che un pensiero analogo a quello weiliano viene espresso nel 1938 da Jean Giono, in uno scritto che sarebbe certamente piaciuto alla Weil: «La forza o la violenza non possono sfuggire alla determinazione delle leggi fisiche: non possono
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Ciò non significa, naturalmente, che il potere non tenti di forzare questi limiti. Anzi, in quanto non disgiungibile dalla lotta per il potere, esso è portato sempre a cercare di superare i suoi limiti intrinseci. Ma come accade a chiunque voglia portare l’illimitato dentro il limitato17, anche chi abusa del potere viene colpito da ciò che i Greci chiamavano Nemesi: man mano che tenta di allargare la sfera del proprio dominio, egli «restringe le fondamenta» sulle quali poggia la sua potenza, accrescendo il disordine e generando situazioni che sfuggiranno sempre più alle sue possibilità di controllo18. «Coloro a cui la forza è prestata dal destino, periscono per troppa sicurezza», perché nel momento in cui vanno al di là della forza di cui dispongono, «sono abbandonati al caso senza rimedio e le cose non gli obbediscono più» (GR, 18): è questo uno dei tanti insegnamenti dell’Iliade. E tuttavia rimane fermo il punto decisivo: la descrizione dello spazio occupato dalla logica della potenza, per quanto grande questo possa essere, non è ancora la descrizione di tutta la realtà, perché la giustizia è altrettanto reale quanto lo sono la forza e il potere19. venire esercitate in forma continua. Pur ammettendo che diverse generazioni siano impiegate nel mantenimento dell’uso della forza e della violenza, queste avranno come ogni altra cosa un andamento di forma ondulatoria. In altri termini, ci saranno alti e bassi; non ci sarà regolarità, bensì momenti di debolezza, soste durante le quali i forti e i violenti, dicendosi di avere annientato tutto, si riposeranno, forse senza nemmeno lasciare la spada, ma osserveranno un riposo, anche solo per un quarto di secondo, magari neanche perché son stanchi, ma soltanto per vedere come va, tutta la loro opera di violenza. Quel quarto di secondo […] è il segno della loro sconfitta» (Lettre aux paysans sur la pauvreté et la paix, Éditions Bernard Grasset, Paris, 1938, tr. it. Lettera ai contadini sulla povertà e la pace, a cura di M.G. Gini, Ponte alle Grazie, Milano, 1997, p. 15). 17 Il voler «situare l’illimitato in un ambito essenzialmente limitato» è anche «una delle forme più pericolose del peccato, o forse la più pericolosa» (AD, 22). 18 Cfr. R, 63-65, riassunte in Q, I, 162: «L’ambizione è illimitata, mentre le possibilità reali non lo sono mai; nell’oltrepassarle si cade». 19 In questo punto si situa anche la critica di Simone Weil alla scienza moderna, colpevole di aver creduto che la forza domini dappertutto, di non aver saputo riconoscere i meccanismi che governano l’universo, e di aver mancato quindi di adempiere al proprio compito sovrannaturale. Perciò, gli scienziati «sono forse più colpevoli dei delitti di Hitler di quanto lo sia Hitler medesimo» (PR, 207).
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Come si è già precedentemente accennato, la giustizia conserva una sua realtà quale «legge non scritta», paolinamente presente in tutti i cuori degli uomini: Se la forza è assolutamente sovrana, la giustizia è assolutamente irreale. Ma non lo è. Lo sappiamo per via sperimentale. Essa è reale in fondo al cuore degli uomini. La struttura di un cuore umano è una realtà fra le realtà di questo universo, non diversamente dalla traiettoria di un astro. L’uomo non ha il potere di escludere assolutamente ogni sorta di giustizia dai fini che egli propone alle azioni sue (PR, 218).
Ora, se è vero che «la descrizione delle società umane in funzione dei soli rapporti di forza rende conto quasi di tutto» e «non lascia da parte che il sovrannaturale» (OL, 234), che peso ha di fronte alla forza questo «poco» che impedisce alla forza di essere tutto? Torna in gioco, a questo punto, quell’«infinitamente piccolo» al quale la pensatrice francese affida il compito di produrre la giustizia. Pur rimanendone ancora incerta la traducibilità in un principio da far valere sul piano istituzionale, sappiamo almeno che per Simone Weil è possibile mettere in atto singole iniziative organizzate che possano far «prevalere» il grammo sul chilo, secondo l’immagine già riportata. Così, a proposito della Jeunesse Ouvrière Chrétienne con la quale ha avuto dei contatti nel periodo del suo soggiorno a Marsiglia, ad esempio, la pensatrice francese parla di un caso di «azione soprannaturale» suscettibile di una «crescita esponenziale» (Q, III, 178). Ma in questa direzione va soprattutto il Projet d’une formation d’infirmières de première ligne, la cui esecuzione costituisce l’obiettivo invano perseguito degli ultimi anni di vita della Weil20. Ciò che più risalta nelle pagine del Projet è l’insistenza sulla necessità di creare un prestigio fondato sull’azione del bene e sull’esercizio 20
Cfr. PÉTREMENT, La vita di Simone Weil, cit., p. 477 ss, che riconosce nel Projet qualcosa di più della «volontà di immolarsi» che sarebbe appartenuta a Simone Weil, e ammette che al fondo c’è «una riflessione forse realistica sulle condizioni della vittoria». Si veda anche G. GAETA, Il radicamento della politica, in appendice alla edizione di PR, Se, Milano, 1990, p. 272.
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costante della virtù, da contrapporre al prestigio fondato sulla violenza e sulla forza, quasi che gli eventi drammatici della Seconda guerra mondiale la abbiano convinta che la giustizia debba rassegnarsi a mostrare il suo volto, e che non sia più (o non sia ancora) il tempo del «giusto perfetto», e debba, per una volta, cadere la «convenzione divina» che condanna la giustizia al silenzio. L’intenzione di portare nel cuore della battaglia – vale a dire nel luogo del massimo dominio della forza – un gruppo ristretto di donne addette alla cura immediata dei feriti, ha il sapore della sfida che l’«infinitamente piccolo» porta nei confronti della «massa pesante» del mondo. Il contributo decisivo di queste donne, infatti, non è tanto nel soccorso prestato ai soldati, quanto nel dimostrare che esiste «una qualità di coraggio differente e più rara» che procede da un’ispirazione che è tutt’altra rispetto alla volontà di potenza (CJB, 55). Si tratta di fornire uno «spettacolo talmente nuovo» da poter colpire l’immaginazione di tutti; e soprattutto di dare, ancor prima della fine della guerra, «la rappresentazione più clamorosa possibile delle due direzioni tra le quali l’umanità oggi deve scegliere» (CJB, 56).
CAPITOLO SETTIMO
LA FACOLTÀ DEL GIUSTO
1. Un passo del Taccuino di Londra presenta nel modo più chiaro i termini ultimi nei quali Simone Weil pone la questione della giustizia: Tra i problemi politici, il principale è il modo in cui gli uomini investiti di potere trascorrono le loro giornate. Se le trascorrono in condizioni tali da rendere materialmente impossibile uno sforzo di attenzione lungamente mantenuto ad un livello alto, è impossibile che vi sia giustizia. Si è cercato di affidare la giustizia a dei meccanismi per fare a meno dell’attenzione umana. Non si può. La Provvidenza di Dio vi si oppone (Q, IV, 383-384).
«Attenzione» è parola cruciale del vocabolario weiliano. Se nelle Leçons di Roanne è definita come una «forma della volontà» (LF, 62), nello scritto più compiuto ad essa dedicato, le Réflexions sur le bon usage des études scolaires en vue de l’amour de Dieu1, l’attenzione è piuttosto legata al desiderio: la volontà non vi ha alcuna parte, coerentemente con una critica al volontarismo che diventa radicale nell’ultima Weil2. L’attenzione implica uno sforzo, ma non 1
Uno degli scritti consegnati a padre Perrin e pubblicato in AD. La volontà «non può produrre alcun bene dell’anima» e lo «sforzo di volontà verso il bene è una delle menzogne che la parte mediocre del nostro io crea per paura di essere distrutta […] Il concetto di morale laica è un’assurdità appunto perché la volontà è impotente a produrre la salvezza. Ciò che si chiama morale, infatti, fa appel2
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ha nulla a che fare con lo «sforzo muscolare» (AD, 79); è frutto di un «lungo apprendistato», di una vera e propria «ginnastica dell’attenzione» (Q, III, 257, 322); ha il potere di suscitare la realtà nel momento in cui opera le connessioni necessarie di cui la realtà è costituita (GR, 200). Ma sopratutto, è «la forma più rara e più pura della generosità», e in quanto tale permette di scoprire «che le cose e gli esseri esistono» (CJB, 13). Che il prestare attenzione non si risolva in un mero esercizio di pazienza, o nel frutto di un qualche sforzo «muscolare», può essere dimostrato ricorrendo al libro di Giobbe, peraltro dalla pensatrice francese non citato, nel quale gli amici dello sventurato, pur sostando presso di lui sette giorni e sette notti in silenzio prima di prendere la parola (Gb 2,13), e dunque “sacrificandosi” per lui, non riescono a comprendere la vera situazione di Giobbe, non riescono a cogliere la particolarità del suo punto di vista. Il fatto che la loro attenzione fosse impura, è dimostrato dalle parole che essi a turno iniziano a rivolgere a Giobbe. Si attaglia perfettamente a questo episodio l’osservazione contenuta nei Cahiers, secondo cui uno degli ostacoli principali alla realizzazione della facoltà di attenzione è che spesso «l’attenzione di chi parla si colloca nel punto in cui la parola è emessa invece di essere automaticamente trasportata nel punto in cui essa sarà ricevuta» (Q, IV, 397). lo solo alla volontà, e proprio a ciò che essa ha, per così dire, di più muscolare. La religione invece corrisponde al desiderio, ed è il desiderio che salva» (AD, 150-1). L’«attesa» e il «desiderio» sono le categorie che la Weil contrappone alla volontà. ESPOSITO, Categorie dell’impolitico, cit., p. 210 ss, parla di una «triade categoriale che sostiene tutta la metafisica weiliana: “attenzione”, “desiderio senza oggetto” e “azione non agente”». In particolare, l’attenzione è il «lato attivo dell’attesa», cui il desiderio fornisce l’energia necessaria. Sul tema dell’attesa, cfr. i saggi raccolti in A. PUTINO - S. SORRENTINO (a cura di), Obbedire al tempo. L’attesa nel pensiero filosofico politico e religioso di Simone Weil, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1995, mentre sull’azione non-agente, oltre a VETÖ, La metafisica religiosa di Simone Weil, cit., pp. 155 ss, anche il saggio di G. BONOLA, Alterità resistenti e misconosciute. L’incontro di Simone Weil con taoismo, buddhismo tibetano e zen, in MARCHETTI (a cura di), Politeia e sapienza, cit., pp. 67-95, nel quale da un lato ne viene rilevata la «sintonia perfetta con il monismo taoista» (p. 76), e dall’altro ne vengono mostrate la complessità e le “torsioni” applicative.
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Si comprende allora perché il possesso e l’esercizio della facoltà di attenzione siano condizioni essenziali per l’attuazione della giustizia. Solo chi sa realmente prestare attenzione è in grado di «contemplare la sventura altrui senza distoglierne lo sguardo» (Q, II, 248). Ma poiché si tratta di una facoltà individuale, che solo il singolo può esercitare – nel suo sforzo di imitazione di Dio, perché l’attenzione è creatrice e permette all’altro di esistere3 –, si illude chi pensa che essa possa scaturire dal funzionamento di un meccanismo. Come è stato notato, «non si dà “codice” in cui il giusto weiliano possa riconoscersi»4. La sfiducia nei congegni istituzionali attraverso i quali deve prodursi la giustizia è massima nei confronti della funzione giudiziaria: Nulla è più misero di un essere umano, rivestito di un’apparenza di colpevolezza vera o falsa, alla totale discrezione di alcuni uomini che con poche parole decideranno della sua sorte. Quegli uomini non gli prestano attenzione. D’altronde, dal momento in cui un uomo cade nelle mani della giustizia fino al momento in cui ne esce – e i cosiddetti recidivi, così come le prostitute, non ne escono quasi mai fino alla morte – non è mai oggetto d’attenzione. Tutto è combinato fin nei più piccoli particolari, fin nelle inflessioni di voce, per renderlo una cosa spregevole, un rifiuto agli occhi di tutti e anche ai suoi. La brutalità, la superficialità, i termini sprezzanti, i sarcasmi, il modo di rivolgergli la parola, di ascoltarlo o di non ascoltarlo, tutto è ugualmente efficace (AD, 116).
«Soltanto l’attenzione umana esercita legittimamente la funzione giudiziaria (Q, IV, 384)5»: una prospettiva di questo tipo, evidente3 Questo stesso sforzo di attenzione sta al fondo del rapporto di Simone Weil con le società del passato. Il vizio dello studio della storia, secondo la Weil, consiste nel fatto che esso è basato su documenti che non solo sono lacunosi, ma sono prodotti dai vincitori. L’effetto di un tale metodo è che «i vinti sfuggono all’attenzione» […] spariscono. Non sono» (PR, 193). L’atteggiamento giusto è perciò quello di tentare di «leggere tra le righe dei documenti [...], trattenere l’attenzione sulle piccole cose ed estrarne tutto il senso possibile» (ivi, 195). 4 MANFREDA, Tempo e redenzione, cit., p. 271. 5 In un altro passo dei Cahiers, la funzione giudiziaria, anziché amministrazione
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mente, porta all’estremo la divaricazione tra giustizia e diritto, perché si preclude fin dall’origine la possibilità di valutare le ragioni di attenzione al più debole che possono essere in qualche modo sancite in una norma giuridica, e perfino in una norma di carattere procedurale. Un’indicazione solo parzialmente diversa da questa concezione, che non vede possibilità di giustizia se non nel gesto d’amore del singolo individuo, sembra provenire da alcuni passaggi de L’enracinement, nei quali viene proposta un’idea della politica che abbandona il campo della lotta per il potere per volgersi direttamente alla realizzazione del bene. La certezza che la giustizia è reale quanto la forza, perché occupa uno spazio indistruttibile nel cuore dell’uomo, porta l’autrice a concepire ciò che non è «umanamente concepibile». Anche l’azione del politico può fondarsi sull’attenzione, purché lo desideri con «ostinazione» e «umiltà»6. Per quanto si tratti di un pensiero che «supera le possibilità dell’intelligenza umana», e anzi proprio per questo, non bisogna chiedersi se sia possibile realizzarlo, ma «bisogna concepirlo in un modo assolutamente chiaro; [contemplarlo] a lungo e spesso; affondarlo per sempre in quella parte dell’anima dove i pensieri si radicano, e tenerlo presente in ogni decisione. È forse possibile, in questo caso, che le decisioni, benché imperfette, siano buone» (PR, 196-197). Anche per questa via, comunque, non si giunge certo a stabilire delle regole o a delineare meccanismi istituzionali adeguati; ci si può solo affidare a quegli esseri che sono riusciti ad andare «oltre un certo limite» e sono perciò in grado di rendere efficace l’opera del della giustizia, diviene persino propagatrice del male: «L’apparato della giustizia penale è stato a tal punto contaminato dal male, dopo secoli di contatto con i malfattori senza la compensazione di un principio di purificazione, che molto spesso una condanna si risolve in un trasferimento di male dall’apparato penale al condannato, in un crimine contro il condannato, e questo anche se egli è colpevole e la pena non è sproporzionata. I criminali incalliti sono i soli a cui l’apparato penale non possa far male. Agli innocenti fa un male orribile» (Q, III, 360). 6 Cfr. G. BORRELLO, La politica come aspirazione al bene, in PUTINO-SORRENTINO (a cura di), Obbedire al tempo, cit., pp. 97-105.
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«seme impercettibile di bene puro» che è posto dentro la loro anima (P, 66). Bisogna soltanto cercare di fare in modo che questi esseri siano «messi nel posto giusto», affinché possano portare il massimo frutto. Ma rimane sempre un quesito cruciale: «come metterli al posto giusto?». Nel rispondere a questa domanda che non può evitare di porsi, la Weil pare rinviare definitivamente alla sola forza della testimonianza e dell’esempio: Sarebbe già molto se fra coloro che hanno l’incarico di indicare al pubblico cose da lodare, da ammirare, da sperare, da ricercare, da chiedere, per lo meno alcuni decidessero in cuor loro di disprezzare recisamente e senza eccezione tutto ciò che non è il puro bene, la perfezione, la verità, la giustizia, l’amore. Sarebbe ancora di più se la maggior parte di coloro che detengono oggi frammenti d’autorità spirituale si sentissero costretti a non proporre mai altro alle aspirazioni degli uomini se non bene reale e perfettamente puro (P, 66-67).
Val la pena di rilevare come la tradizione di pensiero nella quale si collocano queste riflessioni si possa ricondurre a Platone, alla sua sfiducia nei confronti di giudici «sonnolenti» o annoiati7, alla sua convinzione che «una legge non potrà mai ordinare con precisione la cosa più buona e più giusta per tutti», alla sua fermezza nel credere che un re che governa con intelligenza è «cosa di maggior valore» rispetto a una legge «arrogante ed ignorante» se si vuole giungere alla giustizia8. 2. Appare legittimo chiedersi, a questo punto, se, per il fatto stesso di proporre una giustizia senza diritto e senza istituzioni, Simone Weil non si stia muovendo su un terreno che non ha nulla a che fare con ciò che siamo abituati ad associare al tema della giustizia, ivi compreso ciò che si fa rientrare nella sfera del “giuridico”9. Ciò 7
Repubblica, 405 b-c, tr. it. in Tutti gli scritti, cit., p. 1149. Il politico, 294 a-c (ivi, p. 352). 9 Sull’alterità tra giustizia e diritto, si veda il denso saggio di M. CACCIARI, Diritto e giustizia. Saggio sulle dimensioni teologica e mistica del moderno Politico, in «Il Centauro», n. 2, 1981, pp. 58-81. 8
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vale, a maggior ragione, di fronte all’aspra messa in discussione di quella terzietà che invece è tradizionalmente considerata un elemento originario di ogni pratica (oltre che di ogni teoria) del giusto processo e di un diritto «giusto»10. Negli anni in cui scriveva la Weil, una teoria della giustizia e del diritto esplicitamente fondata sulla presenza del “Terzo” era stata formulata da Alexandre Kojève, secondo il quale la definizione stessa della giustizia – e del diritto nella sua natura di «applicazione di una certa idea di giustizia a particolari interazioni sociali» – includeva necessariamente la presenza del Terzo; per la semplice ragione che diritto e giustizia non possono non rinviare a una norma che regola l’«interazione tra due esseri umani» attraverso l’intervento di un terzo che è allo stesso tempo «imparziale e disinteressato»11. Alla Weil, invece, la dimensione della terzietà appariva viziata sin dall’origine dall’impossibilità che vi possa albergare la facoltà di attenzione. Il legame tra terzietà e giustizia era per lei fondato essenzialmente su una “anonimizzazione” degli esseri umani, e quindi su un sostanziale ed inevitabile misconoscimento della sventura. Sarebbe errato, tuttavia, concludere che nella prospettiva della giustizia weiliana venga a cadere del tutto il rinvio ad una relazione triadica. L’atto d’amore sovrannaturale, infatti, col quale si instaura una relazione di giustizia tra due soggetti, ha il suo radicamento nel cielo, condizione essenziale perché esso sia possibile e possa produrre un effetto reale: «Solo la luce che cade in continuazione dal 10
«Il contenuto di un giudizio è detto giuridico perché non è lasciato né al gioco del “pari o dispari”, né alla forza del più forte; è detto giuridico perché viene pronunciato da un terzo imparziale e disinteressato». È questo carattere che fa sì che la ragione del diritto sia «fenomenologicamente differenziata dalla ragione del mercato, della politica, del gioco e degli altri sistemi sociali» (B. ROMANO, Note sulla terzietà giuridica, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», n. 1, 2006, p. 1). Sull’intervento del terzo, come elemento «che distingue l’obbligatorità giuridica dai profili di obbligatorietà che riguardano altre sfere dell’agire umano», cfr. anche B. MONTANARI, Itinerario di filosofia del diritto, Cedam, Padova, 1999, p. 152. 11 A. KOJÈVE, Esquisse d’une phenomenologie du droit, Gallimard, Paris, 1981, tr. it. Linee di una fenomenologia del diritto, tr. it. a cura di F. D’Agostino, Jaca Book, Milano, 1989, p. 76.
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cielo fornisce a un albero l’energia che fa affondare nella terra le potenti radici. In realtà l’albero è radicato nel cielo» (P, 55)12. Viene in tal modo ad essere prefigurato un rapporto a tre, nel quale Dio, come Terzo, più che rappresentare un vertice, rappresenta il punto d’appoggio di una bilancia a bracci disuguali, venendo tra l’altro a costituire un Terzo assai più “fermo” di quello rintracciabile nella giustizia “del diritto”. In questa, infatti, per utilizzare le parole che in seguito sarebbero state di Jankélévitch – un autore che ha analizzato a fondo i rapporti tra amore e giustizia –, le relazioni tra i diversi elementi sono tali da raffigurare invece «un triangolo ridotto al suo vertice»13, in cui il meccanismo che sta in superficie (l’istituzione) prevale sui lati che lo mantengono in vita, e cioè sulla realtà umana alla quale esso dovrebbe fare da strumento. 3. Si potrebbero, a questo punto, riprendere tutti i frammenti dei Cahiers e i passi delle altre opere14, nei quali, in sostanza, si afferma che «giustizia e amore (del prossimo) [sono] identici» (Q, III, 411), per porre finalmente un punto fermo, in relazione alle tradizionali categorie del pensiero filosofico-giuridico: il concetto weiliano della giustizia si confonde con quello della carità. Se ne può trovare persino una conferma biografica, testimoniata dalla stessa pensatrice francese, che nelle pagine di Attente de Dieu scrive al suo confidente, padre Perrin, di aver posseduto «fin dalla prima infanzia la nozione di carità verso il prossimo», alla quale ella dava quel nome «così bello» di giustizia «che si trova in parecchi passi del Vangelo» (AD, 39). Sulla base di quanto si è detto finora, sembra infatti che tra giu12
Sull’agape come amore non diadico, ma triadico, cfr. LOMBARDI VALLAURI, Amicizia, carità, diritto, cit., p. 97. 13 JANKÉLÉVITCH, Dalla giustizia alla carità, a cura di G. Loschi, in «La società degli individui», n. 2, 2003, p. 132 (si tratta della traduzione dei capitoli Le vous du respect et le tu de l’amour, e Justice et Charité, contenuti nel vol. II, tomo 2, del Traité des vertus, Flammarion-Champs, Paris, 1986). 14 Una ricognizione in tal senso è svolta da NUMMINEN, God, Power and Justice in texts of Simone Weil and Dorothee Sölle, cit., p. 81 ss.
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stizia e carità non ci sia modo di fare distinzioni. Se ancora nelle Lezioni di Roanne esse erano considerate identiche solo se prese dal punto di vista morale, ma non dal punto di vista sociale (LF, 253), adesso Simone Weil non dubita che anche sul piano sociale non ci sia altro spazio per la giustizia che non sia quello stesso dell’amore verso il prossimo. Lo testimonia il riferimento alla parabola evangelica del Samaritano, che è quella a cui rinvia tutta la letteratura cristiana che ha trattato dei rapporti tra carità e giustizia. Da questo punto di vista, più che essere genericamente riconducibile a una tradizione che confonde il diritto con l’etica, considerando la giustizia quale «virtù generale»15, il pensiero di Simone Weil si inserisce a suo modo in un filone che affonda le sue radici nella riflessione cristiana sul diritto, chiamata sin dall’inizio a definire lo spazio della carità rispetto a quello della giustizia. In particolare, la pensatrice francese sembra riproporre l’opposizione paolina tra la «giustizia secondo la legge» e la carità cristiana che si esprime innanzi tutto come «giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede»16. Ma anche tale affermazione può valere solo fino ad un certo punto, e proprio il riferimento a San Paolo impone una precisazione ulteriore: non tanto per il rinvio alla fede in Dio, che è essenziale nel discorso paolino, quanto perché Simone Weil chiama “giustizia” la 15 Su cui cfr. DEL VECCHIO, La giustizia, cit., cap. IV. Opportunamente, Del Vecchio include in questa tradizione anche la teoria di Leibniz, il quale, come è noto, in più scritti definì la giustizia come «carità del saggio». L’indeterminatezza di questo concetto di giustizia – o comunque la sua completa risoluzione in un concetto generale di virtù – emerge ad esempio nella definizione offerta nello scritto del 1677-78 intitolato proprio La giustizia come carità del saggio: «La giustizia – scrive Leibniz – è la carità del saggio, quale cioè si conviene alla volontà di un uomo buono e prudente. Ovvero è la virtù che modera e dirige secondo la retta ragione il sentimento dell’uomo verso gli altri uomini: l’amore e l’odio; in modo, precisamente, che noi ci comportiamo egualmente verso tutti, e negli altri amiamo unicamente la virtù, e abbiamo in odio i vizi» (LEIBNIZ, Scritti politici e di diritto naturale, cit., p. 133). 16 Lettera ai Filippesi, III, 6-9. Un’analisi approfondita del tema, a partire dagli essenziali chiarimenti lessicali, è in E. BORGHI, Giustizia e amore nelle lettere di Paolo. Dall’esegesi alla cultura contemporanea, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2004.
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“carità” e la “carità” “giustizia” (identificandole perfettamente), là dove in quella tradizione (e innanzi tutto in San Paolo) la giustizia indica ancora il mondo del giuridico, quasi sempre contrapposto a quello della carità17. In Simone Weil la giustizia è la carità; in quella tradizione la carità è suprema (vera) giustizia, intendendo che c’è comunque una giustizia non piena e non vera che appartiene al mondo giuridico e che deve essere integrata con la carità. Simone Weil insomma è votata a una scelta più radicale: al mondo del giuridico non si può accostare in alcun modo un nome alto come quello di giustizia. La distinzione tra giustizia e carità, in effetti, rimanda inevitabilmente la giustizia verso la sfera del diritto, riducendola spesso a un valore esterno che il diritto è chiamato ad attuare. Quasi rendendosi conto che una carità che integra la giustizia lascia il primato alla giustizia, e si pone soltanto come arricchimento eventuale e meramente sentimentale18, la Weil scrive che «quand les deux notions sont opposées, la charité n’est plus qu’un caprice d’origine souvent basse, et la justice n’est que de la contrainte sociale» (EL, 51). Ed 17
Una tradizione che è stata confermata nella prima lettera enciclica di BENEXVI, Deus Caritas Est, dedicata proprio al tema della carità (cfr. in particolare il § 28). Da parte sua, C.M. MARTINI, Sulla giustizia, Mondadori, Milano, 1999, p. 91, parla di un «irriducibile scarto» tra «la misura della giustizia cristiana che attinge la dimensione del perdono gratuito e la giustizia civile storicamente possibile». Per la ricostruzione di tale tradizione è da vedere soprattutto R. PIZZORNI, Giustizia e carità, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1995, ma molto utile è anche il lavoro di M. CASCAVILLA, Il diritto insufficiente e necessario, Giappichelli, Torino, 2003 (in particolare, le parti dedicate ai Padri della Chiesa e al pensiero di Antonio Rosmini). Cfr. anche S. BERLINGÒ, Dalla «giustizia della carità» alla «carità della giustizia», in ID., Giustizia e carità nell’economia della Chiesa. Contributi per una teoria generale del diritto canonico, Giappichelli, Torino, 1991, pp. 3-36. All’uso consolidato nella tradizione cristiana corrisponde l’impiego dei termini giustizia e carità sia da parte di P. RICOEUR, Liebe und Gerechtigkeit – Amour et justice, Mohr, Tübingen, 1990, tr. it. Amore e giustizia, a cura di I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia, 2003, sia da parte di JANKÉLÉVITCH Dalla giustizia alla carità, cit. 18 Secondo un’osservazione, non riferita alla Weil, ma avente valore generale, avanzata da F. D’AGOSTINO, Sulla giustizia in rapporto all’amore, in L. ALICI (a cura di), Forme della reciprocità. Comunità, istituzioni, ethos, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 68. DETTO
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ella sembra cogliere un punto fondamentale dello schema tradizionale allorché scrive che «siamo noi che abbiamo inventato la distinzione fra giustizia e carità»; ciò perché «la giustizia, come noi l’intendiamo, dispensa dal dare colui che possiede» (AD, 104). Se si guarda al loro oggetto, si nota che giustizia e carità sono entrambe virtù ad alterum, ma mentre nella «giustizia giuridica» ciò che mi obbliga è solo il diritto altrui, e dove non c’è tale diritto non esiste per me alcun obbligo, nella «giustizia-carità» ciò che determina il mio obbligo non è più il diritto ma il bisogno dell’altro19. Dal punto di vista assunto dalla Weil, la distinzione tra giustizia e carità è una distinzione di comodo che gli uomini hanno inventato per sentirsi meno impegnati, in quanto meno responsabili. Un’intuizione che trova una significativa consonanza, tra gli altri, in Ricoeur, il quale, proprio perché mantiene viva la distinzione tra carità (amore) e giustizia, nota che «il punto più alto a cui può mirare l’ideale di giustizia è quello di una società ove il sentimento di reciproca dipendenza» non può non restare «subordinato a quello di reciproco disinteresse»20. 4. Si può discutere – e si è in effetti molto discusso21 – sulla correttezza di questa reductio ad unum tra due concetti che la tradizio19 Per queste ed altre precisazioni, si rinvia al volume di PIZZORNI, Giustizia e carità, cit., p. 240 ss. 20 RICOEUR, Amore e giustizia, cit., p. 30. Sull’idea di giustizia in Ricoeur, considerata quale «nucleo originario dell’interrogazione filosofica», cfr. D. CANALE, Ricoeur e la dialettica del riconoscimento, in B. PIERI - A. ROTOLO (a cura di), La filosofia del diritto dei giuristi, vol. II, Gedit Edizioni, Bologna, 2003, pp. 115-133. Cfr. anche A. ARGIROFFI, Identità personale, giustizia ed effettività. Martin Heidegger e Paul Ricoeur, Giappichelli, Torino, 2002, in particolare p. 181 ss. 21 Ci si limita a ricordare qui la nota polemica svoltasi a metà degli anni cinquanta del Novecento tra Guido Fassò e Francesco Carnelutti. Cfr. G. FASSÒ, La carità, la giustizia e qualche pericolo per i giuristi cristiani, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1955, pp. 419-423; ora in ID., Scritti di filosofia del diritto, a cura di E. Pattaro, C. Faralli, G. Zucchini, Vol. I, Giuffrè, Milano, 1982, pp. 241-247; F. CARNELUTTI, La giustizia, la carità e qualche pericolo per i filosofi non cristiani, dapprima in «Rivista di diritto processuale», n. 1, 1955, p. 284 ss e poi in Discorsi intorno al diritto, vol. III, Cedam, Padova, 1961, pp. 87-99.
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ne e la storia hanno sempre tenuti distinti. In ogni caso, non si può non notare come l’impostazione scelta dalla pensatrice francese permetta, se non altro, di non incorrere in una delle accuse rivolte a coloro che quella identificazione hanno accolto, a volte consapevolmente, altre meno. Secondo Fassò, ad esempio, la confusione tra giustizia e carità si fonda su una sostanziale alterazione del significato di entrambe, e soprattutto della seconda. La carità è amore di Dio, e solo come riflesso di questo può essere intesa come amore del prossimo. Confondendo invece la carità con la giustizia si finisce per eliminare la dimensione trascendente, riducendo in tal modo la carità a mera filantropia22. Da quanto detto sinora, risulta invece evidente che nella concezione weiliana è tutt’altro che assente la dimensione della trascendenza, posto che è proprio il radicamento in Dio che sorregge l’attenzione umana per la sventura (e dunque la realizzazione della giustizia). Per quanto possa sorprendere, una tale interpretazione della giustizia ha ricevuto legittimazione dall’autorità di Hans Kelsen. Considerando che il precetto di giustizia «a ciascuno secondo i suoi bisogni» può essere rivolto non soltanto all’autorità, ma anche ad ogni individuo per indicargli quale comportamento deve tenere nei confronti degli altri, secondo il grande giurista austriaco non c’è alcun impedimento al fatto che esso – mantenendo ferma la sua qualità di precetto di giustizia – si trasformi nel precetto dell’amore del prossimo. Non è difficile intendere il precetto dell’amore del prossimo nel senso della prescrizione di aiutare chiunque sia soggettivamente in preda al dolore o alla necessità, con o senza sua colpa. Tale principio, nella sua applicazione, non presuppone allora alcun ordinamento sociale, differenziandosi così da altre norme di giustizia. Questo non è però motivo
22
Cfr. G. FASSÒ, Giustizia, carità e filantropia, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1960, pp. 1017-1048, ora in ID., Scritti di filosofia del diritto, vol. I., cit., pp. 419-455, che costituisce un’importante messa a punto dei termini della questione, nella direzione già indicata dallo studioso bolognese nel volume Cristianesimo e società, Giuffrè, Milano, 1956.
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sufficiente per negare del tutto – come talora accade – il carattere di norma di giustizia al precetto dell’amore del prossimo interpretato in questo senso. Tale opinione è fondata soltanto se si limita il concetto di giustizia alle sole esigenze avanzate nei riguardi dell’autorità legislativa. Se, invece, per giustizia si intende una norma che prescriva come un uomo deve trattare un altro e che non deve necessariamente essere indirizzata all’autorità normativa, il precetto dell’amore del prossimo può senz’altro essere considerato come una delle molte norme di giustizia23.
L’interpretazione kelseniana si muove evidentemente in direzione opposta rispetto a quella di Perelman, per il quale il precetto «a ciascuno secondo i suoi bisogni», pur essendo quello più vicino «alla nostra concezione della carità», non può tuttavia confondersi con essa. Nel ragionamento di Perelman, infatti, ogni regola di giustizia, per il fatto stesso di essere tale, deve sempre riferirsi a una classe di individui, i quali perciò non possono mai essere presi in considerazione nei loro bisogni più personali. Se «la carità considera gli esseri come individui e tiene conto delle loro caratteristiche specifiche», la giustizia segue la «tendenza a fare astrazione dagli elementi che non sono comuni a parecchi esseri» e dunque a lasciare da parte le loro caratteristiche individuali. Per questo, «colui che, mosso dal sentimento di carità, cerca di soddisfare i desideri del suo prossimo, si sforzerà di tener conto dell’elemento psicologico, individuale, più di colui che vi è indotto dalla sua concezione della giustizia»24. Nell’opposizione tra questi due modi di intendere un medesimo precetto si ripete il paradosso antico della giustizia, che forse costituisce la sua natura più profonda: quello di dover essere allo stesso tempo universale e particolare, generale e individuale25. Ma c’è 23
H. KELSEN, Das Problem der Gerechtigkeit, Franz Deuticke, Wien, 1960, tr. it. Il problema della giustizia, a cura di M.G. Losano, Einaudi, Torino, 1975, p. 46. 24 CH. PERELMAN, De la justice, Institut de Sociologie Solvay, Bruxelles, 1945, tr. it. La giustizia, a cura di N. Bobbio, Giappichelli, Torino, 1959, pp. 46-47. 25 Una recente discussione del tema è in M. ROSENFELD M., Just Interpretations. Law between Ethics and Politics, University of California Press, Berkeley, 1998, tr. it. Interpretazioni. Il diritto fra etica e politica, a cura di G. Pino, Il Mulino, Bologna, 2000, di cui si veda in particolare il Cap. III.
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anche dell’altro, per quanto concerne l’uso delle parole. Non tanto nel senso che occorre intendersi sul significato che si vuole attribuire ad una determinata parola, perché, nell’opera weiliana, l’accezione del termine giustizia non dà adito ad equivoci; quanto nel senso che già di per sé la scelta di una parola può essere considerata come gesto di attribuzione di un determinato valore alla cosa che essa designa26. È fin troppo evidente, infatti, che Simone Weil non vuole concedere nulla al mondo del diritto: il termine “giustizia” viene da lei sottratto a quel mondo fin dall’origine, senza che si dia la possibilità di rinviare a tentativi di mediazione, che trovano nel principio di equità il loro riferimento più classico27. Non c’è spazio per postulare quel «rispetto della carità per il diritto come ordinamento [che] si manifesta, anzitutto, generando diritto» (facendo valere la formula: “carità oggi, diritto domani”)28. È come se Simone Weil volesse 26
È noto quanto Simone Weil credesse nel «potere delle parole», nel bene come nel male. Il saggio del 1937, Ne recommençons pas la guerre de Troie, è un tentativo assai efficace di dimostrare quanto le «parole gonfie di sangue» che stanno per portare la distruzione in Europa sono in realtà prive di ogni contenuto: «Si possono prendere quasi tutti i termini, tutte le espressioni del nostro vocabolario politico e aprirli; al loro interno si troverà il vuoto» (SG, 66). Ciononostante, esse hanno il potere di catturare la mente e l’animo di milioni di uomini, trascinandoli verso la catastrofe. Anzi, è proprio il vuoto che riempie queste parole a far sì che esse, adornate da maiuscole, possano svolgere lo stesso ruolo che fu di Elena nella guerra di Troia, quello di nascondere un obiettivo che non è definibile perché non ha un minimo di concretezza. Così, un’alternativa alla logica della forza, della potenza, dell’ingiustizia non può che procedere da una doppia rivoluzione nell’uso della parola: la prima, frutto di una vera e propria «caccia alle entità» (SG, 73), ha l’obiettivo di fornire un contenuto reale alle parole, unica via per dare una misura alla lotta politica e sociale; la seconda, ha l’ambizione di sostituire il vocabolario del bene, della bellezza e dell’amore al vocabolario nefasto della forza e del potere. Perciò, se coloro che hanno già incontrato Dio hanno una «immensa responsabilità» (Q, III, 131), non ne hanno meno coloro che continuano a pronunciare parole che non hanno niente a che vedere col bene. La «falsa idea di grandezza» che sta al fondo di tutta la vita politica è uno degli ostacoli principali che impediscono di dare forma a «una civiltà che valga qualcosa» (PR, 190). Gli altri ostacoli elencati – ma non trattati – nelle incompiute pagine finali de L’enracinement, sono «la degradazione del senso della giustizia»; l’«idolatria per il danaro; e l’assenza di ispirazione religiosa» (PR, 190). 27 Cfr. D’AGOSTINO, Sulla giustizia in rapporto all’amore, cit., p. 65. 28 LOMBARDI VALLAURI, Amicizia, felicità, diritto, cit., p. 163.
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rimarcare che non c’è comunicabilità tra diritto e giustizia, e dunque che non può esserci alcuna carità che venga in soccorso del diritto. Ci può essere soltanto una scelta: per il diritto o per la giustizia. 5. La nettezza di tale posizione è dunque in chiaro contrasto con le convinzioni di quanti ritengono possibile trovare un punto d’incontro tra la carità (in termini weiliani, la giustizia) e il diritto. Un tale incontro sarebbe, infatti, possibile solo facendo della carità una stampella del diritto, oppure del diritto il luogo in cui la carità deve necessariamente manifestarsi affinché il diritto stesso possa dirsi legittimo. È questa un’altra forma della più tradizionale contrapposizione interna alle teorie filosofico-giuridiche. La prima di queste soluzioni, infatti, è quella adottata nell’impostazione positivistica, quale è riproposta, ad esempio, da Alessandro Levi in uno dei capitoli delle sue Riflessioni sulla giustizia. Nel sostenere che una società fondata sulla giustizia può tendenzialmente fare a meno della carità (perché un pieno realizzarsi della giustizia distributiva la renderebbe superflua, mentre la sua applicazione quale principio della giustizia correttiva porterebbe a una “ingiustizia”), Levi conclude che la carità può essere ammessa soltanto come una manifestazione della giustizia medesima, come avviene con l’esercizio del diritto di grazia oppure con l’applicazione del principio di equità29. Il punto di vista opposto è invece quello proprio della tradizione giusnaturalistica. Si tratta del punto di vista assunto da Francesco Carnelutti nel contesto della polemica che intrattenne con Guido Fassò a metà degli anni cinquanta proprio sul tema del rapporto tra giustizia e carità. Qui, solo l’intervento della carità rende possibile al diritto di raggiungere il suo vero fine, che è quello della giustizia: giustizia e carità sono «una per l’altra o, meglio ancora, una nell’altra», e al diritto, che «appartiene al regno di Cesare», è necessaria la cari29
A. LEVI, Riflessioni sul problema della giustizia, Tipografia Editrice G. Biancardi, Lodi, 1943, poi ripubblicato in Scritti minori di filosofia del diritto, Vol. II, Cedam, Padova, 1957, pp. 303-379, e anche, con un’introduzione e un ampio commento di G. Gilardoni, dall’editrice Liviana di Padova nel 1972. Il capitolo a cui ci si riferisce, intitolato «Giustizia e carità», è il secondo.
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tà per poter raggiungere la giustizia. La «trascendenza della giustizia sul diritto», che un giurista cristiano deve sempre difendere, secondo Carnelutti, «si risolve nella implicazione di giustizia e carità»30. Poste in questo modo le cose, risulta chiaro che il punto di vista di Simone Weil non può essere interamente ricondotto né all’una né all’altra delle posizioni or ora ricordate. Permane in queste, infatti, un nesso tra diritto, giustizia e carità che la Weil vuole interamente recidere. Riprendendo implicitamente la lezione radicale di Agostino sull’opposizione delle due Città (di Dio e dell’uomo), Simone Weil pone una cesura netta tra regno di Dio e regno di Cesare: invece di credere che possa esistere una carità impiegata a mitigare, o a legittimare, il diritto e l’ordine che esso è inteso a regolare, la pensatrice francese insiste nel riferirsi ad una giustizia che è di tutt’altra natura rispetto a quella del mondo e del diritto. Con le dovute cautele, si potrebbe forse richiamare, a questo proposito, anche il pensiero di Pascal, un autore che da giovanissima «citava a memoria»31, ma al quale più avanti la Weil non ha dedicato meditazioni approfondite. In Pascal, infatti, la giustizia umana non solo non è collocabile lungo una linea di continuità con la giustizia divina, ma di questa non può rappresentare nemmeno l’ombra, perché l’unica mediazione possibile tra l’una e l’altra, la presenza del diritto naturale, è resa impossibile dalla caduta dell’uomo nel peccato32. Facendo giocare alla forza il ruolo che in Pascal giocava l’«opinione» (che è però connessa sempre alla forza)33, e dunque in un 30
CARNELUTTI, La giustizia, la carità e qualche pericolo per i filosofi non cristiani, cit., pp. 96-98. 31 PÉTREMENT, La vita di Simone Weil, cit., p. 29. 32 Cfr. R. GATTI, «Ne pouvant faire que ce qui est just fût fort…»: sovranità e trascendenza in Pascal, in L. BAZZICALUPO - R. ESPOSITO (a cura di), Politica della vita. Sovranità, biopotere, diritti, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 188 s, che parla di concezione discontinuistica con riguardo ai rapporti tra “carità” (la weiliana giustizia) e “giustizia” (giuridica). Cfr. anche C. VENTIMIGLIA, Società politica diritto. Il cristiano e il mondo in Pascal e Domat, Edizioni Zara, Parma, 1983, p. 135. 33 Cfr. PASCAL, Pensieri, cit., p. 146 (§ 313; ed. Brunschvicg § 301): «Perché si segue l’opinione dei più? perché hanno più ragione? no, ma perché hanno più forza».
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medesimo quadro di sostanziale pessimismo antropologico, la Weil rompe ogni linea di continuità immaginabile tra diritto e giustizia, confinando il primo su un piano dal quale ci si può sollevare solo in virtù di una “forza” superiore che deriva dall’amore soprannaturale. Il commento al dialogo sofocleo tra Antigone e Creonte – luogo quant’altri mai tradizionale per l’individuazione di un «diritto naturale» da contrapporre al diritto positivo34, e dunque quasi un riferimento obbligato per chi voglia appellarsi alla giustizia per allontanarsi dal diritto – conferma nel modo più esplicito (e forse inaspettato) la persistenza di questo punto di fuga, nel quale si realizza la strenua volontà di negare legittimità a qualunque cosa voglia esprimersi in termini giuridici, fosse pure riferendosi al «diritto naturale». Solo «per via di una singolare confusione», dice la Weil, «si è potuto assimilare la legge non scritta di Antigone al diritto naturale [...] La legge non scritta a cui ubbidiva questa bambina, ben lungi dall’avere qualcosa in comune con un qualche diritto o con qualcosa di naturale non era altro che l’amore estremo, assurdo, che ha spinto il Cristo sulla Croce» (P, 50-1). Il significato più profondo della figura di Antigone, perciò, anziché essere ricercato in uno scontro tra due diversi fondamenti dell’obbligo giuridico, è rintracciato nella sua totale e completa alterità rispetto alla logica della forza che domina il mondo degli uomini. Insieme ad altre figure – Giobbe, il giusto di Isaia, il Cristo –, Antigone non sarebbe altro che una incarnazione della purezza che, al fine di non propagare il male, sa che deve assumersene il peso, trasformando in sofferenza il male proveniente dall’esterno: «L’essere perfettamente puro – infatti – trasforma in sofferenza tutta quella parte del peccato del mondo che viene a contatto con lui. È questa la funzione del giusto di Isaia, dell’Agnello di Dio. È questa la sofferenza redentrice» (Q, III, 206).
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Una discussione critica delle interpretazioni tradizionali della tragedia sofoclea, le quali rinviano immancabilmente al conflitto tra diritto naturale e diritto positivo, è in E. RIPEPE, Ricominciare da Antigone o ricominciare dall’Antigone? Ancora una volta sulla più antica lezione di filosofia del diritto, in Scritti in onore di Antonio Cristiani. Omaggio della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa, Giappichelli, Torino, 2001, pp. 677-718.
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Quasi che non ci sia altra via per sottrarsi alla logica del mondo, se non quella di fuggire dal mondo, annullandosi, o accettando che il mondo ci annulli. 6. Al di là della sua plausibilità, tale interpretazione è importante perché permette di precisare ulteriormente alcuni punti relativi al soggetto della giustizia. Il fatto che sia Antigone a “decrearsi”, che sia lei a sopprimere il proprio «io» di fronte a Creonte che severo la accusa (dopo essersi, in un certo senso, già “decreata” per dare giusta sepoltura al fratello), chiarisce ancora di più quale sia il senso di quel “diminuirsi” che, solo, può realizzare la giustizia. All’obiezione che saremmo portati ad avanzare, che soltanto chi ha qualcosa a cui rinunciare può veramente essere giusto – che potrebbe paradossalmente portare a pensare che solo il pre-potente può porsi l’obiettivo della giustizia –, l’Antigone weiliana risponde che è sempre il “debole” a produrre la rinuncia, e che non si è mai abbastanza deboli da non dover rinunciare a qualcosa, finché non si sia prodotto il totale annullamento, finché non sia sopravvenuta la morte. Si chiude in tal modo il cerchio aperto con l’assioma secondo cui «su questa terra non c’è altra forza che la forza». Antigone dimostra esaurientemente che per quanto riguarda la «forza che non è di questa terra», «il contatto con essa si paga solo a prezzo di un transito attraverso qualcosa che assomiglia alla morte» (PR, 199). La grandezza dei tragici greci nell’avere intuito questa verità è tale, per Simone Weil, da richiedere di essere imitata. Nel suo poema Venise sauvée, che rappresenta uno splendido e riuscito résumé di tutti i temi che le sono più cari, la Weil mette in scena la tragedia della forza che sta per scatenarsi sulla città e di un gesto puro di attenzione compiuto da colui che «la vede e la salva»35. Il personag35 C. CAMPO, Prefazione a VS, p. 12. Cfr. inoltre C. ZAMBONI, Sacralità e bellezza della cosa negli scritti di Simone Weil, in AA.VV., Simone Weil. La provocazione della verità, introduzione di G. Fiori, Liguori, Napoli, 1990, p. 122 ss, dove si osserva che la lettura di «quella grande metafora della politica che è Venezia salva» è fondamentale «per comprendere la complessità di un reale in cui dominio della forza, giustizia sovrannaturale, sradicamento e bellezza convivono».
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gio di Jaffier, infatti, decide di svelare il complotto spagnolo, nel quale egli stesso doveva avere parte rilevante, riuscendo a salvare la città. Il gesto con il quale egli denuncia i suoi compagni e se stesso, però, non può che rivoltarglisi contro: egli, che ha rinunciato al suo potere per preservare Venezia, piomba nella sventura, rimanendo schiacciato dal male da lui stesso evocato. Il destino di Jaffier, come quello di Antigone, si accosta al mistero della passione: «uno dei significati della passione è che il dolore, la vergogna, la morte che non si vogliono infliggere intorno a sé ricadono su se stessi, senza che lo si sia voluto» (Q, I, 212). È l’insegnamento di Socrate nel Gorgia platonico che Simone Weil vuol tramandare, quello che individua nel soggetto che commette ingiustizia il più sciagurato tra gli uomini36: ognuno, forse, desidera «non essere né autore né vittima dell’ingiustizia»; ma se la scelta è tra il commetterla e il subirla, bisogna preferire senza dubbio il subirla. Ed è certo che questa scelta si impone, perché «di fatto non si può essere che l’uno o l’altra» (autore o vittima) (Q, III, 87), in ogni occasione. La virtù del giusto, pertanto, consiste proprio «nel custodire in sé il male che si patisce», nel «non liberarsene diffondendolo al di fuori con gli atti o l’immaginazione» (Q, I, 212). Non c’è una norma a cui sia possibile appellarsi, né per salvare gli altri, né per salvare se stessi. Jaffier impara che non può invocare altro diritto «se non le lacrime, solo diritto agli sventurati» (VS, 90). È forse qui, allora, nel male che evita di diffondere nel mondo, anche se ne subisce inevitabilmente il castigo, l’utilità a cui il giusto deve mirare? La sua sofferenza infatti è «redentrice» (Q, III, 88), ma lo è solo nella misura in cui partecipa alla contraddizione della croce, a un modello di giustizia tale «che sia impossibile volerlo imitare» (Q, III, 87)37. Se per ascoltare il grido (interiore, silenzioso) di chi 36
Cfr. Gorgia, 469 a-c. Siamo evidentemente al culmine dell’antivolontarismo weiliano: «È necessario un uomo giusto da imitare perché la imitazione di Dio non sia una parola vuota, ma è necessario, affinché siamo portati al di là della volontà, che sia impossibile volerlo 37
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il male lo subisce, o sta per subirlo38, è necessaria una grande capacità di attenzione, quale miglior esempio di giustizia di colui che sa ascoltare questo grido e fa ricadere su di sé il male del mondo?
imitare. Non si può volere la Croce». Oltre che un’offerta, infatti, la croce è stata per Cristo «un castigo che egli ha subìto suo malgrado [...] Ma non si può volere un castigo subìto malgrado sé» (Q, III, 87). 38 La Weil ha sempre collegato al grado estremo della sventura l’incapacità della rivolta: la sventura ha tra i suoi effetti «quello di rendere l’anima sua complice, iniettandole a poco a poco il veleno dell’inerzia» (AD, 90). Poiché la sventura sfugge all’attenzione degli uomini – salvo l’operazione sovrannaturale della grazia – gli stessi sventurati «sono colpiti d’impotenza nell’uso del linguaggio per la certezza di non essere sentiti» (P, 61).
CAPITOLO OTTAVO
NEL SILENZIO
1. Nella prospettiva sin qui ricostruita, il cosiddetto «linguaggio dei diritti» appare immediatamente come una nota stonata. La critica alla nozione di diritto, elaborata da Simone Weil nel periodo londinese, è talmente radicale da mettere in questione tutta la tradizione giuridica e politica dell’occidente moderno, che col riferimento a quella nozione ha scandito i suoi passaggi storici più significativi1. Va detto che nemmeno in questa fase la pensatrice francese dimostra di cogliere la distinzione tra diritto in senso soggettivo e diritto in senso oggettivo. L’attacco da lei portato a una nozione che ha i tratti evidenti del primo investe così, inevitabilmente, anche il secondo, quale ordinamento chiamato a fornire i contenuti e le garanzie dei diritti attribuiti ai singoli individui. È noto che per la critica al concetto di diritto che costituisce l’oggetto de La personne et le sacré la Weil parte dalla critica alla «per1
Cfr., a mero titolo esemplificativo, G. OESTREICH, Geschichte der Menschenrechte und Grundfreiheiten im Umriß, Duncker & Humblot, Berlin, 1978, tr. it. Storia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, a cura di G. Gozzi, Laterza, Roma-Bari, 2001. Come osserva ESPOSITO, Categorie dell’impolitico, cit., p. 237, il saggio weiliano sulla persona «sottopone il concetto di diritto ad un tale “bombardamento” critico da dissolvere ogni “aura” conferitagli dalla tradizione giuridica occidentale». Cfr. anche GAETA, Individuo e società nel pensiero politico di Simone Weil, cit., p. 244. Va ricordato che la stessa Simone Weil ha utilizzato il linguaggio dei diritti all’epoca del giovanile impegno nella «Ligue des droits de l’homme». Cfr. Pour la Ligue, cit., in EHP, 1, 54-55.
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sona», una nozione da molti impiegata, soprattutto nella Francia degli anni trenta, per un attacco congiunto all’individualismo e al totalitarismo2. Secondo l’autrice, il vocabolario personalista è errato e dannoso perché, non sapendo riconoscere ciò che è veramente sacro nell’essere umano, finisce per affidare a nozioni equivoche – come, per l’appunto, quella di diritto – il compito di garantire la giustizia; compito al quale quelle nozioni non possono essere in alcun modo funzionali. Nello specifico, l’errore intrinseco al concetto di persona sta non soltanto nel fatto che esso delinea l’individualità dell’uomo attraverso la sfera del proprium (e quindi di qualcosa che «appartiene» ma può anche non appartenere), ma anche nel fatto che attribuisce all’individuo una perfezione che non gli si addice, dimenticando che l’unica cosa che veramente gli è propria è la sfera «dell’errore e del peccato»: «se un bambino fa un’addizione, e si sbaglia, l’errore porta lo stampo della sua persona. Se procede in maniera perfettamente corretta, la sua persona è assente da tutta l’operazione» (P, 43). Come non può non essere, stando a quanto si è detto sinora sulla centralità della decreazione e dell’annullamento dell’io3, l’assunto che la Weil vuole affermare è che la sacralità dell’uomo sta precisamente in ciò che in lui c’è di impersonale: «Tutto ciò che è impersonale nell’uomo è sacro, e soltanto quello» (P, 41). Ed è a questo rovesciamento di prospettiva – che pone il punto più sacro dell’essere umano in ciò che meno gli appartiene – che va legato quello che 2
I nomi più rilevanti, a questo riguardo, sono naturalmente quelli di Emmanuel Mounier – e della sua rivista «Esprit» – e di Jacques Maritain. È a quest’ultimo, e non al primo, che secondo Simone Fraisse sono rivolte le critiche della Weil, rimanendo fermo in generale, secondo questa autrice, che le differenze tra Simone Weil e i personalisti sono relative soltanto all’uso dei vocaboli; nella sostanza «Simone Weil et les personnalistes ne pouvaint être des adversaires». Cfr. S. FRAISSE, Simone Weil, la personne et les droits de l’homme, cit. p. 125. 3 Secondo VETÖ, La metafisica religiosa di Simone Weil, cit., p. 31, il «non avere diritti» è legato alle convinzioni metafisiche e ontologiche di Simone Weil: «il “non avere diritti” implica che non si conta niente: per Simone Weil questa condizione non è la conseguenza di una qualsiasi degradazione, ma l’espressione stessa della verità della nostra condizione».
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si potrebbe chiamare il rifiuto del linguaggio dei diritti. Colui che rivendica il proprio diritto, infatti, non fa che alzare la voce per ottenere qualcosa, per acquisire nuovi poteri, per acquistare altre facoltà, per incrementare le potenzialità della sua «persona». Simone Weil sembra riprendere un argomento ricorrente nella letteratura critica sui diritti – e che è centrale, per esempio, in Mazzini – quando mette in luce il principio di separazione che è intrinseco alla richiesta di tutela delle posizioni soggettive: Parole come: «Ho il diritto di...», «Non ha il diritto di...»; racchiudono una guerra latente e svegliano uno spirito di guerra. La nozione di diritto, posta al centro dei conflitti sociali, rende impossibile sia da una parte che dall’altra ogni sfumatura di carità (P, 51-52).
Se si aggiunge il fatto che un diritto non può essere tutelato senza attivare un meccanismo di forze, non sorprende che si possano leggere queste parole: La nozione di diritto è legata a quella di divisione, di scambio, di quantità. Ha qualcosa di commerciale. Evoca di per sé il processo, l’arringa. Il diritto non si sostiene che col tono della rivendicazione; e quando questo tono è adottato, la forza non è lontana, è subito dietro, per confermarlo, se no sarebbe ridicolo (P, 49).
Vista in questa luce, «la nozione di diritto si riallaccia alla gravità» e dunque alla forza (Q, I, 390), e la contrarietà ad essa non avrebbe nemmeno bisogno di essere ulteriormente motivata una volta accertato quale sia, secondo la Weil, l’atteggiamento che quelle richiedono. Di contro a chi cerca di ostentare la sua forza rivendicando il proprio diritto, Simone Weil riconosce il valore di chi avanza una supplica per il male che gli si viene facendo. Prima di abbandonarsi alle lacrime, «solo diritto agli sventurati», Jaffier accampa dei diritti, salvo rendersi conto che egli li ha perduti per sempre insieme al potere cui ha rinunciato (VS, 90). Il grido con cui qualcuno chiede: «Perché mi viene fatto del male?» proviene invece dalla natura sacra dell’uomo, perché in questo caso ad essere in gioco è quella parte dell’anima, comune ad ogni essere umano, «che si aspetta
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invincibilmente che gli si faccia del bene e non del male» (P, 38)4. Una tale prospettiva, ovviamente, può destare più di un semplice dubbio. In particolare, si può rilevare come, secondo l’opinione diffusa, siano stati proprio i diritti soggettivi lo strumento più raffinato con cui la civiltà occidentale ha cercato di impedire che ci fossero individui costretti ad alzare grida di dolore. Come è stato notato, i diritti umani costituiscono infatti «le risorse essenziali per la minimizzazione della sofferenza socialmente evitabile»; quella sofferenza che «l’esercizio di poteri politici, sociali, economici, religiosi – privi di vincoli e di limiti – infligge a esseri umani»5. E la necessità di tutela è particolarmente forte nel diritto penale, se è vero che qui, più che altrove, è in gioco la «protezione del debole contro il più forte: del debole offeso o minacciato dal reato, come del debole offeso o minacciato dalle vendette; contro il più forte, che nel delitto è il delinquente e nella vendetta è la parte offesa o i soggetti pubblici o privati con lei solidali»6. 4
Come giustamente nota PARAIN-VIAL, L’influence de Platon sur la théorie de la justice dans l’œuvre de Simone Weil, cit., p. 254, «Simone Weil va chercher ce qu’est la justice à partir de l’expérience de l’injustice, de l’indignation que celle-ci suscite dans l’âme». Si tratta di un motivo interessante, che pone nel “dolore innocente” il punto di partenza di una rinnovata meditazione sulla giustizia. Una riflessione importante, in tal senso, è quella di G. ZAGREBELSKY, Il rifiuto dell’ingiustizia come fondamento minimo, in Lezioni Bobbio. Sette interventi su etica e politica, a cura di M. Revelli, Einaudi, Torino, 2006, pp. 81-109. In questa direzione muoveva anche il lavoro di E. WOLGAST, The grammar of justice, Cornell University, Ithaca-London, 1987, tr. it. La grammatica della giustizia, prefazione di P. Barcellona, Editori Riuniti, Roma, 1991, la quale partiva dalla tesi che «la giustizia non è una nozione originaria dalla quale discende l’ingiustizia: è vero il contrario, e perciò è tanto difficile definire la giustizia» (p. 129). Per S. VECA, La penultima parola e altri enigmi. Questioni di filosofia, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 47, «ogni teoria della giustizia prende le mosse dal fatto dell’ingiustizia». 5 S. VECA, Che i diritti ci liberino dal male, in «Il Sole 24 Ore – Domenica», 3 settembre 2006, p. 37. Cfr. anche P.P. PORTINARO, Ingiustizia, in ID. (a cura di), I concetti del male, Einaudi, Torino, 2002, in particolare, p. 122. Per una sintesi estremamente lucida dei diversi motivi che sono confluiti nella protezione dei diritti individuali, si rinvia a G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, Einaudi, Torino, 1992, in particolare i capp. III e IV. 6 L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, introduzione di N. Bobbio, sesta edizione, Laterza, Roma-Bari, 2000, p. 329.
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Ma per quanto possa apparire paradossale che una critica radicale dei diritti provenga da chi certamente appartiene alla «realtà delle vittime»7, la Weil non può non respingere tali argomenti: d’accordo con l’impostazione realistica, ella insiste su una considerazione che va in direzione esattamente contraria a quella che nei diritti vede, sempre e comunque, un presidio del debole. Tutt’al più, la pensatrice francese è disposta ad ammettere che se essi sono uno strumento dei deboli, lo sono soltanto in quanto questi «si trovano momentaneamente a non essere i più forti», ed è solo perché vogliono diventarlo che si appellano ai loro diritti (AD, 53-4)8. Invece di appellarsi ai diritti, di cui peraltro si può pretendere il rispetto solo a patto di averne la forza9, è assai più efficace – ed è coerente con la vera giustizia – percorrere la via della relazione con l’altro, interrogando direttamente il suo cuore: «Se si dice a qualcuno in grado di intendere: “Quel che mi fate non è giusto”, si può scuotere e risvegliare alla sua sorgente lo spirito d’attenzione e d’amore» (P, 51). Come a dire che la lotta per i diritti può eventualmente incrociare la lotta per la giustizia, ma non può mai confondersi con essa10. Tuttavia, proprio a questo punto, e sempre nello scritto su La personne et le sacré, Simone Weil introduce una distinzione che, com’era avvenuto per il concetto “giuridico” della giustizia, ridà un 7 Come segnala BAZZICALUPO, Il paradosso dei diritti umani: le prospettive di Arendt e Weil, cit., p. 255, che inscrive la critica weiliana, insieme a quella arendtiana, nell’orizzonte della critica alla biopolitica. 8 La posizione della Weil è accostabile anche per questo verso a quella di Ross, secondo il quale «un diritto naturale originariamente rivoluzionario diventerà conservatore una volta che le classi sociali di cui difendeva gli interessi siano salite al potere» (ROSS, Diritto e giustizia, cit., p. 248). 9 «Il prevalere del discorso dei diritti rispetto a quello degli obblighi – nota ancora BAZZICALUPO, Il paradosso dei diritti umani: le prospettive di Arendt e Weil, cit., pp. 262-263 – nasconde e esalta, eticizzandola, la prova di forza cui qualcuno dovrà soccombere ed è perciò doppiamente colpevole: nella rivendicazione dei diritti della persona si esprime la volontà di potenza del soggetto, e nella eticizzazione della forza si legittima il male, cioè la necessità della realtà presentata come bene, accreditata come bene». 10 Cfr. WINCH, Simone Weil, cit., p. 217.
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inaspettato ruolo al diritto (e ai diritti). Se è vero che lo sventurato senza voce può ottenere risposta soltanto da un essere dotato di un adeguato spirito d’attenzione, è altrettanto vero che le domande che un uomo può avanzare possono derivare da un “al di qua” della sventura, ed essere relative a un grado meno intenso (ma non per questo illegittimo) di sofferenza e di bisogno11: La giustizia consiste nel badare che non venga fatto del male agli uomini. Vien fatto del male a un essere umano quando grida interiormente: «Perché mi vien fatto del male?». Spesso si sbaglia appena cerca di rendersi conto del male che subisce, di chi glielo infligge, del perché gli venga inflitto. Ma il grido è infallibile. L’altro grido sentito così spesso: «Perché lui ha più di me?» è relativo al diritto. Bisogna imparare a distinguere i due gridi e a far tacere il più possibile il secondo, con meno brutalità possibile, aiutandosi con un codice, con tribunali ordinari e con la polizia. Per formare menti capaci di risolvere i problemi che si pongono in questo campo, basta la Scuola del Diritto. Ma il grido: «Perché mi viene fatto del male?» pone tutt’altri problemi, per i quali è indispensabile lo spirito di verità, di giustizia e d’amore (P, 63).
Una precisazione di questo tenore può indurre a rilevare la presenza, nel pensiero di Simone Weil, di una oscillazione tra due poli, «l’un extrême selon lequel le droit relève des mœurs du Gros Animal, l’autre plus modéré qui souligne que le droit est du domaine de la zone moyenne et relative»12. Essa può condurre però a segnare un altro importante punto fermo dell’itinerario “giuridico” weiliano. Anche tenendo presenti i momenti in cui il diritto sembra giocare il ruolo meno apprezzato dalla Weil – quello di pura e semplice maschera della forza – è difficile infatti poter concludere che 11 «Nel campo della sofferenza, la sventura è una cosa a sé, specifica, irriducibile. È tutt’altra cosa che la semplice sofferenza. Si impadronisce dell’anima e le imprime in profondità un marchio suo proprio, il marchio della schiavitù» (AD, 85). 12 Così ROLLAND, Simone Weil et le droit, cit., p. 239. Di «ambivalenza» con riguardo allo statuto dei diritti parla anche D. MC LELLAN, Simone Weil et la philosophie politique libérale contemporaine, in CSW, n. 2, 1999, p. 129.
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quello weiliano sia un pensiero completamente e irriducibilmente antigiuridico. Il tentativo di separare nettamente il piano del diritto da quello della giustizia – nel quale si può riassumere e sintetizzare il discorso weiliano –, non solo non si spinge fino al punto da ipotizzare che le «tipologie di rapporto» possano esaurirsi nel rapporto di carità (o di giustizia), ma soprattutto non rinvia mai al solo presupposto metafisico in grado di giustificare una posizione radicalmente e coerentemente antigiuridica: l’unicità del soggetto, che si impone alla realtà in virtù della sua sola potenza. Non a caso, l’accoglimento di questo presupposto, in un autore come Stirner, conduceva alla conclusione logica che la «dubbia espressione» contenuta nella parola “diritto” dovesse essere definitivamente «ritirata»: «Che io abbia o no un legittimo diritto – si legge ne L’Unico e la sua proprietà –, non mi interessa affatto; se sono potente, sono anche investito del potere, dell’autorità, e non ho bisogno di altra autorizzazione o legittimazione»13. Del resto, nella Weil, il fatto stesso che la realtà umana sia inevitabilmente (ma non esclusivamente!) dominata dalla forza finisce per recare con sé la necessità di una regolamentazione giuridica, non importa se per mascherare, oppure, come era all’inizio di questo percorso, per “regolare” la forza. Perciò, impiegando una formula che ci pare felice, anche per la Weil si potrebbe forse parlare di un diritto che è allo stesso tempo insufficiente e necessario14. Non c’è dubbio, ovviamente, che il lato che più emerge in questo itinerario è quello della “insufficienza” del diritto; una insufficienza 13
M. STIRNER, Der Einzige und sein Eigentum, tr. it. L’Unico e la sua proprietà, con un saggio di R. Calasso, Adelphi, Milano, 1995, p. 220. 14 Il riferimento è al volume di CASCAVILLA, Il diritto insufficiente e necessario, cit. A questa conclusione ha ritenuto di poter giungere W. Tommasi in uno dei pochissimi saggi dedicati in lingua italiana al pensiero “giuridico” della Weil. «La critica weiliana al diritto – scrive questa autrice – va interpretata […] non come rifiuto della normazione giuridica, ma come segnalazione della radicale insufficienza di una politica di rivendicazione rispetto alla sofferenza di chi non può accampare diritti perché nessuno è disposto a riconoscerglieli» (W. TOMMASI, «Al di là della legge». Diritto e giustizia nell’ultima Weil, in PUTINO-SORRENTINO (a cura di), Obbedire al tempo, cit., p. 78).
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talmente grave da renderlo remoto da qualsiasi idea di giustizia. La messa a punto qui presa in considerazione lascia infatti assolutamente incolmato l’abisso che separa il diritto, quale possibile risposta alla rivendicazione e al bisogno, dalla giustizia, quale unica e necessaria risposta alla specificità della sventura. Certo, se dal punto di vista dell’uno, è possibile pensare a un codice, a tribunali, a una apposita scuola del diritto che tramandi ed insegni un sistema di regole, perché si tratta di attuare una giustizia “giuridica” il cui compito è di «delimita[re] e armonizza[re] i desideri in conflitto, le pretese e gli interessi nella vita sociale del popolo»15, dal punto di vista dell’altra rimangono in piedi tutte le difficoltà di individuare adeguate forme istituzionali che spostino l’equilibrio sociale verso il grido silenzioso dello sventurato. Ciononostante, in una fase in cui bisognava preoccuparsi di ricostruire il mondo che sarebbe sopravvissuto alla catastrofe, e precisamente nelle pagine de L’enracinement, Simone Weil appare convinta che queste istituzioni siano altrettanto necessarie, e anche possibili. Insieme alle istituzioni «destinate a proteggere il diritto, le persone, le libertà democratiche» bisogna inventarne altre, da porre a un livello superiore, le quali devono essere «destinate a discernere e ad abolire tutto ciò che, nella vita contemporanea, schiaccia le anime sotto il peso dell’ingiustizia, della menzogna e della bruttezza». Se pure finora esse sono sconosciute, «è impossibile dubitare che siano indispensabili» (P, 68-69). Si tratta, nientemeno, di creare «un’atmosfera di silenzio e di attenzione» in cui possa farsi sentire il grido «debole e maldestro» di chi soffre. 2. Tale prospettiva assume tratti ancora più nitidi se confrontata con una prospettiva differente, relativa alle modalità attraverso cui è possibile rispondere alle grida di dolore degli uomini e alla domanda di giustizia che ne consegue16. 15
ROSS, Diritto e giustizia, cit., p. 253. Ho sviluppato più ampiamente le considerazioni contenute in questo paragrafo nel saggio Dal dolore alla giustizia. Strategie di risposta tra carità e diritto, in V. 16
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Nella tradizione della riflessione filosofica sul diritto non manca un interessante filone di pensiero che si è soffermato sulla possibilità di legare al dolore il concetto della giustizia. Autori come Rudolf von Jhering o Alessandro Levi, ad esempio, hanno visto nel dolore una “domanda” nei confronti della quale la giustizia costituisce una risposta, nel momento in cui essa si fa carico del bisogno o della violazione che quel dolore hanno generato17. Il discorso di questi autori rinvia non solo alla preoccupazione di ancorare verso il “basso” il contenuto della giustizia (che deve evidentemente corrispondere alle sollecitazioni di quanti “domandano”), ma contiene soprattutto una strategia di risposta al dolore nella quale la giustizia si pone come esito finale di un circolo virtuoso, nel contesto del quale il diritto viene a svolgere un ruolo cruciale. È nelle norme dell’ordinamento, infatti, nel loro continuo adeguamento alla realtà, che la risposta al dolore trova il suo momento principale di realizzazione e di efficacia. Si tratta di un processo incessante, perché incessante è l’insorgere di bisogni e di dolori; ma si tratta di un processo che è costituito da una serie di momenti e luoghi ben individuabili, nei quali il dolore trova una risposta (anche se mai definitiva, e certamente non risolutoria). Questi momenti sono rappresentati appunto dalle norme giuridiche, e questi luoghi non sono altro che i luoghi istituzionali (soprattutto gli organi legislativi) nei quali l’adeguamento delle norme viene realizzato. L’alterità di una tale strategia rispetto a quella weiliana è evidente. L’impianto riformistico che sostiene le argomentazioni di Jhering e di Levi rinvia all’esistenza di un continuum tra dolore, diritto e giustizia. Il dolore genera domande di giustizia, che trovano una (momentanea) risposta nelle norme appositamente approvate, le quali rappresentano il punto da cui muovere per le domande relative
OMAGGIO (a cura di), Diritto in trasformazione. Questioni di filosofia giuridica, Editoriale Scientifica, Napoli, 2005, pp. 407-440, cui mi permetto di rinviare. 17 Cfr. R. VON JHERING, Der Kampf um’s Recht, Manz, Wien 1891, tr. it. in La lotta per il diritto e altri saggi, a cura di R. Racinaro, Giuffrè, Milano, 1989, p. 120; LEVI, Riflessioni sul problema della giustizia, cit., cap. I.
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ai nuovi bisogni. Tale continuum è impensabile nella prospettiva della Weil. Non solo per la ragione già detta, che la giustizia può realizzarsi esclusivamente mediante un’attenzione per la sventura che è impossibile da fissare in una norma; ma anche perché presuppone sempre una “dicibilità” del dolore, che la Weil ammette soltanto per i bisogni (e i dolori) di rango inferiore: quelli a cui appunto è chiamato a rispondere il diritto (ma non la giustizia). Ancora una volta, dunque, emerge la particolarità della scelta effettuata dalla Weil, di attribuire alla giustizia uno spazio altro rispetto al diritto: la strada che dal dolore conduce alla giustizia passa non dalle istituzioni e dalla loro capacità di (e legittimazione a) trasformare l’ordinamento giuridico, ma dalla capacità di attenzione nei confronti di chi è talmente sventurato da non avere nemmeno la voce necessaria per rivendicare i suoi diritti18. 18
Per quanto soltanto di sfuggita, si deve rilevare come tale prospettiva non sia senza riscontri nella filosofia politica contemporanea, soprattutto in quella più impegnata a mostrare i limiti di una strategia di intervento sociale centrata sul diritto e sui diritti. Basti pensare al lavoro di WOLGAST, La grammatica della giustizia, cit. A questo tipo di riflessione è accostabile la letteratura che insiste sulla specificità della «voce» femminile, prefigurando un’etica della cura che si contrappone, quale etica della relazione, all’etica fondata sui diritti. Tra i lavori a cui rinviare vi è innanzi tutto quello di C. GILLIGAN, In a different Voice. Psychological theory and women’s development, Harvard University Press, Harvard, 1982, tr. it. Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Feltrinelli, Milano, 1987, cui è da aggiungere quanto meno, per la diversa impostazione, J. TRONTO, Moral Boundaries. A Political Argument for an Ethic of Care, Routledge, New York, 1993, tr. it. Confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura, a cura di A. Facchi, Diabasis, Reggio Emilia, 2006. Per un quadro di questa letteratura si possono vedere: G. MINDA, Teorie postmoderne del diritto, cit., p. 224 ss; A. FACCHI, Il pensiero femminista sul diritto: un percorso da Carol Gilligan a Tove Stang Dahl, in GF. ZANETTI (a cura di), Filosofi del diritto contemporanei, cit., pp. 129-153. Cfr. inoltre i contributi di GF. ZANETTI, L’etica della cura e i diritti, in «Ragion Pratica», n.2, 2004, pp. 523-529, e di S. CASTIGNONE, L’etica della cura e l’etica della simpatia, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», n. 1, 2006, pp. 199-207. In questa direzione, il pensiero di Simone Weil è stato letto come anticipazione di una teoria morale «expressed through a woman’s eyes, enabling us to hear and see something differently», da R.H. BELL, Simone Weil. The Way of Justice as Compassion, Rowman & Littlefield, Lanham, 1998, p. 85. Tra i molti lavori che, muovendo dalle riflessioni weiliane, sviluppano un
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3. C’è un luogo privilegiato del pensiero weiliano nel quale le varie dimensioni fin qui ricostruite si incontrano (o forse dovremmo dire si scontrano; in ogni caso “precipitano”), dando vita ad un quadro che ha destato la perplessità di molti interpreti e lettori della Weil: si tratta della riflessione sulla punizione penale19. Si tratta di un luogo privilegiato per vari motivi. Innanzi tutto, perché se la giustizia consiste «nel badare che non venga fatto del male agli uomini», sono i concetti di colpa e delitto, punizione e castigo quelli che prima degli altri vengono alla mente. In seconda battuta, perché la riflessione “penalistica” della Weil appare rilevante già dal punto di vista quantitativo20, tanto che si può dire che quello penale è l’unico campo del diritto oggettivo di cui ella si sia occupata in modo diretto. Forse perché qui, più che altrove, si viene a contatto con la sventura: Padre Perrin ha ricordato che la Weil si recava spesso al Palazzo di Giustizia proprio per contemplare la sventura, e ha ricondotto a questo la particolare attenzione prestata nei suoi scritti a «tribunali e accusati, giudici e condannati»21. Infine, e soprattutto, perché qui si pone un punto estremamente interessante e delicato di contiguità tra la giustizia umana e quella soprannaturale. Il modello soprannaturale della giustizia – la croce su cui pensiero della «differenza», cfr. almeno LIBRERIA DELLE DONNE DI MILANO, Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, Torino, 1987. 19 Cfr. ad es. ROLLAND, Simone Weil et le droit, cit., p. 247, che, in generale, avverte i rischi di una «“sur-pénalisation” de la vie sociale et politique», e TOMMASI, «Al di là della legge». Diritto e giustizia nell’ultima Weil, cit., p. 77, che ritiene sconcertante, oltre che «inassimilabile», il pensiero della Weil su questo punto (p. 94). Di «vera e propria aberrazione» parla, in un testo che pure costituisce una valorizzazione e un’attualizzazione del pensiero weiliano, MULLER, Simone Weil, cit, p. 41, mentre W. RABI, La justice selon Simone Weil, «Esprit», set.-ott. 1977, p. 125, riferendosi in particolare alla giustificazione della pena di morte, accusa la pensatrice francese di puntare alla dimostrazione dei suoi assunti «avec une intrépidité folle, jusqu’à l’insupportable». «Non, non et non – conclude quest’ultimo –. L’admiration que nous pouvons ressentir pour Simone Weil ne peut nous contraindre à admettre tout ce qu’elle dit». 20 Diversa l’opinione di CATTANEO, Simone Weil e l’idolatria sociale, cit., p. 43, secondo il quale «non moltissime», anche se «assai puntuali e significative, sono le osservazioni che Simone Weil ha compiuto in rapporto al tema della pena». 21 PERRIN-THIBON, Simone Weil come l’abbiamo conosciuta, cit., p. 52.
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Cristo si è immolato –, al quale finora bisognava guardare con sguardo attento e fedele ma senza aver la pretesa di volerlo incarnare, sembra adesso un modello da utilizzare nella pratica della punizione22. Nel tentare di ricostruire questo aspetto del pensiero weiliano il punto da cui partire è rappresentato dalla convinzione che in ogni uomo sia possibile trovare un seme di bene puro, che solo per effetto dell’inerzia e della mancanza di desiderio si degrada e decade23. Bisogna perciò aiutare colui che ha commesso il male a ritrovare quel bene: «infliggere la punizione è dichiarare di aver fede che al fondo dell’essere colpevole c’è un seme di bene puro. Punire senza questa fede significa fare il male per il male» (Q, IV, 376-7). Non è perciò per gusto del paradosso che, dopo aver più volte affermato che attraverso i diritti non si può mai arrivare alla giustizia, la pensatrice francese si fa inconsapevolmente e paradossalmente hegeliana24, giungendo ad attribuire un «diritto alla punizione» a coloro che 22
Cfr. TOMMASI, «Al di là della legge». Diritto e giustizia nell’ultima Weil, cit., p.
94. 23
Come commenta NEVILL, Simone Weil, cit., p. 346, «la Weil mostra di avere un’alta stima del criminale». Una stima che rimanda addirittura ad una spiegazione fisiologica, che si riallaccia a temi della tradizione indù (cfr. MARCHIGNOLI, Simone Weil a colloquio con i testi indù, cit., p. 60): «Il seme soprannaturale – scrive la pensatrice francese – è in noi un essere vivente diverso da noi, un essere divino, un mediatore. Il suo corpo ruota nel cranio come un astro. A ogni rivoluzione, esso sale all’orifizio del cranio (come gli dèi all’orifizio del cielo nel Fedro), vi respira, vi riceve il suo nutrimento dal cielo al quale è sospeso e al quale noi siamo sospesi mediante lui. Esso è la carità, l’organo dell’amore soprannaturale. Ma se a causa dell’inerzia del pensiero il movimento rotatorio del cervello non lo sospinge, esso cade nella colonna vertebrale; il bisogno di respirare lo sospinge fino agli organi sessuali, dai quali vuole uscire per vivere. E questo lo può solo con l’emissione sessuale se è maschio; se è femmina, solo con il parto, dopo essersi unito nel concepimento con il seme maschile. Dopo di che, nel nuovo essere così prodotto, il processo ricomincia. Questo dio in noi, una volta caduto nella parte bassa della colonna vertebrale, dove si trova l’anima vegetale, è demone. Fa violenza alla volontà e costringe al male» (Q, III, 341). In EL, 76, tutti gli esseri umani sono considerati identici, in quanto costituiti «par une exigence centrale de bien autour de laquelle est disposée de la matière psychique et charnelle». 24 Fu Hegel, infatti, come è noto, a parlare della pena come di «un diritto posto nel delinquente», sottolineando che in essa «il delinquente viene onorato come essere
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si siano macchiati di un qualche delitto. Il classico “diritto di punire” diventa dunque, nelle pagine della Weil, un “diritto ad essere punito”, con la conseguenza che il discorso sulla pena finisce con l’avere i suoi momenti essenziali nelle funzioni espiativa e redentiva della punizione penale; pur distinte, tali funzioni vengono strettamente connesse nella convinzione che l’espiazione del reo sia il passaggio necessario e ineludibile per la sua redenzione. Ciò consente di avanzare un’altra osservazione preliminare. La concezione della Weil si sottrae all’alternativa – interna alle teorie della pena giustificazionistiche (che si oppongono alle teorie abolizionistiche) –, tra retributivismo e utilitarismo25. La pena non ha, infatti, per la pensatrice francese, né un valore assoluto, «un dover essere meta-giuridico che ha in sé medesimo il proprio fondamento», né un valore relativo, collegato al principio di utilità che si realizza nella prevenzione generale e speciale26. Essa ha certamente un obiettivo che le è esterno, un fine da raggiungere, ciò che porterebbe a rinviare alle teorie relativistiche; ma tale esteriorità si pone su un piano che non è minimamente riducile a quello dell’utilità, perché ha come suo obiettivo esclusivo la riaffermazione del bene. Riaffermazione, peraltro, che non va mai intesa, nemmeno quale obiettivo subordinato e secondario, come relativa al “bene comune”, al “bene sociale” o simili, tutti aventi ad oggetto il bene del soggetto che punisce. L’unico caso in cui sembra evocata dalla Weil una specie di funzione preventiva dell’azione penale si ha quando viene attribuito alla razionale» (Grundlinien der Philosophie des Rechts, § 100, tr. it. Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio, a cura di G. Marini, Laterza, Roma-Bari, 1999, pp. 89-90). Valorizzando questo spunto, tra i molti offerti dalla riflessione hegeliana, si potrebbe sostenere che «la vera finalità della pena per Hegel non sarebbe la retribuzione, ma l’emenda», come nota S. FUSELLI, Hegel come critico della retribuzione, in F. CAVALLA - F. TODESCAN (a cura di), Pena e riparazione, Cedam, Padova, 2000, p. 205. 25 Si utilizzano qui le categorie ricostruite nel lavoro di FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., in particolare nel cap. V, §§ 19-20. 26 Cfr. ivi, p. 239.
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società il compito di impedire al criminale di nuocere, in quanto egli non risulti «guaribile». E tuttavia, questa funzione non rientra propriamente nella funzione penale; perché se davvero si crede che un soggetto non sia in alcun modo guaribile allora propriamente «non si ha il diritto di punirlo» (Q, IV, 376)27. Ne consegue che il fine esclusivo della pena sia da ricondurre alla guarigione di colui che ha mancato, il che sembra ascrivere la teoria weiliana alla tradizione dottrinaria che assegna alla pena una funzione emendativa28. Se si analizzano i rapporti che possono essere stabiliti tra il castigo inflitto e il perdono, infatti, solo lo scopo della guarigione è da considerarsi veramente legittimo, perché è l’unico che permette di fermare la (altrimenti inevitabile) trasmissione del male. Se si pensa infatti che il castigo debba avere come scopo quello della soddisfazione di colui che è stato offeso, si attua un mero trasferimento del male, e si punisce solo perché questi «non può dimenticare l’offesa o pensarvi senza turbamento se non dopo aver visto soffrire il colpevole» (Q, IV, 192). L’idea di una giustizia meramente repressiva è il segno che la retta nozione di castigo è stata dimenticata completamente: «non sappiamo più che esso serve a procurare il bene. Per noi si limita ad infliggere il male» (P, 65). Il punto di riferimento da tenere presente per comprendere l’origine della teoria weiliana della pena è senza alcun dubbio Platone, nel pensiero del quale la funzione riparatrice della sanzione penale 27 Ciò significa che per Simone Weil la pena non può mai costituire un semplice malum passionis giustificato dal malum actionis rappresentato dal delitto. Per una riflessione che, almeno su questo punto, si muove nella medesima direzione, cfr. le considerazioni di G. DEL VECCHIO, Sul fondamento della giustizia penale, in ID., La giustizia, cit., pp. 181-206. 28 Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, Cedam, Padova, 1988, p. 716. Per una storia di questa teoria della pena, cfr. M.A. CATTANEO, Pena, diritto e dignità umana. Saggio sulla filosofia del diritto penale, Giappichelli, Torino, 1998, p. 162 ss. Implicando una vera e propria “conversione interiore”, la concezione weiliana non può essere ricondotta alla figura della prevenzione speciale, come avrebbe potuto essere se fosse stata incentrata sulla mera “rieducazione” del condannato. Cfr. F. CAVALLA, La pena come riparazione. Oltre la concezione liberale dello Stato: per una teoria radicale della pena, in CAVALLA - TODESCAN (a cura di), Pena e riparazione, cit., p. 66 s.
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è direttamente collegata (e condizionata) alla sua funzione redentrice. L’idea che il reo possa essere “salvato” attraverso l’inflizione di una pena è legata alla convinzione, espressa nelle Leggi, che «i cosiddetti mali sono in verità dei beni per le persone malvagie»29, le quali hanno interesse alla punizione, perché, come è scritto nella Repubblica, solo passando per essa possono “addomesticare” «la parte selvaggia» della loro anima e “liberare” «quella mansueta»30. Allo stesso modo, l’idea che la vera pena non abbia a che fare con la mera retribuzione (e quindi con la vendetta) viene espressa da Platone in un passo della sua opera ultima e incompiuta, nel quale la pena giusta (di/ kh) è considerata come un bene per colui che la subisce, mentre la punizione (timwri/ a) è sempre considerata un male, perché non migliora affatto l’anima del condannato e lo lascia in preda alla sua parte malvagia31. Nel riproporre, non sempre esplicitamente e forse non sempre consapevolmente, gli spunti platonici, Simone Weil mette in questione, più che in qualunque altra parte della sua sofferta riflessione, le acquisizioni del pensiero giuridico moderno. Ciò avviene a cominciare dalla distinzione tra diritto e morale, la quale viene a cadere già nella qualificazione dell’atto criminoso come “peccato” che deve essere espiato32. Il reato che merita il castigo è sempre un peccato poiché rappresenta un «illimitato» che si rivolge contro gli altri, i quali «costituiscono un limite e un’esistenza fuori di noi» (Q, I, 191)33. A parte l’utilizzo (evidentemente improprio) del termine 29
Leggi, 661 d; tr. it. in Tutti gli scritti, cit., p. 1489. Repubblica, 591 b (ivi, p. 1305). Tale teoria è comunque sviluppata soprattutto nel Gorgia, 470-479. 31 Cfr. Leggi, 728 c-d, (ivi, p. 1544). A proposito della complicata distinzione tra pena e punizione si veda la nota del curatore n. 178 a p. 1752. 32 Per una ricostruzione di ampio respiro della vicenda giuridica dell’occidente moderno, anche relativamente al punto in questione, cfr. H.J. BERMAN, Law and Revolution. The Formation of the Western Legal Tradition, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1983, tr. it. Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale, Il Mulino, Bologna, 1998. 33 Per questo, «se nel corso normale della vita ci sono pochi crimini, è perché leg30
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“peccato” per riferirsi ad azioni che non hanno a che fare con violazioni dell’ordine divino, tale concezione ha un riflesso diretto nella confusione che viene a crearsi tra gli effetti, tendenzialmente distinti, del crimine e del peccato medesimo34. La sofferenza espiatrice, prodotta spontaneamente dalla (e quindi immanente alla) coscienza del peccato, viene qui richiesta quale prestazione della pena, quasi che debba essere la procedura giudiziaria, conclusa con la sentenza e la condanna, a garantire automaticamente il sorgere nel reo di un sentimento di autocondanna, considerato quale momento fondamentale e imprescindibile per la sua redenzione e la sua rinascita al bene. Alle parole di Ayrault ricordate da Michel Foucault, secondo cui «non è tutto che i malvagi siano giustamente puniti. Bisogna, se è possibile, che essi si giudichino e si condannino da loro stessi»35, dovrebbero perciò logicamente seguire, ancora una volta, quelle del Mitja dostoevskijano, che solo grazie alla sventura della sua incriminazione (lui innocente! e addirittura prima della condanna) scopre che un «uomo nuovo è risuscitato» dentro di lui: «era rinchiuso nel [suo] intimo, ma non si sarebbe mai manifestato, se non ci fosse stato [quel] colpo di fulmine»36. giamo nei colori che penetrano attraverso i nostri occhi, quando un essere umano ci sta dinanzi, qualcosa che dev’essere in certa misura rispettato» (Saggio sulla nozione di lettura, in Q, IV, 412). 34 Per questa distinzione si rinvia allo studio, purtroppo soltanto abbozzato, di R. HERTZ, Il peccato e l’espiazione nelle società primitive, pubblicato per la prima volta a cura di M. Mauss in Sociologie religieuse, Presses Universitaires de France, Paris, 1928, e tradotto in italiano nel volume La preminenza della destra e altri saggi, a cura di A. Prosperi, Einaudi, Torino, 1994. Si vedano in particolare le pp. 40 ss. 35 M. FOUCAULT, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris, 1975, tr. it. Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1993, p. 42. 36 DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, Parte IV, libro XI, capitolo IV, cit., p. 777. «Ciò che più conta per Dostoevskij», scrive Cattaneo, è «la ricerca della pena quale frutto del rimorso per la colpa, la auto-condanna da parte del delinquente […] La pena giuridica eteronoma […] non ha più nessuna rilevanza: ciò che conta è il processo imperscrutabile di auto-condanna, di espiazione e di redenzione che avviene nella coscienza del colpevole» (M.A. CATTANEO, Dostoevskij, la coscienza e la pena, in ID., Suggestioni penalistiche in testi letterari, Giuffrè, Milano, 1992, p. 198). Sulla concezione penale di Dostoevskji, cfr. anche M. CASCAVILLA, Pena, cristianesimo, società:
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Purtroppo, però – e la cosa non può stupire più di tanto –, il discorso di Simone Weil procede nella totale mancanza di quei riferimenti a fattispecie criminose che senza dubbio sarebbero stati opportuni. Si tratta di un’assenza significativa, che merita una spiegazione: i riferimenti alla necessità della punizione, infatti, sembrano andare molto al di là della mera necessità di punire un singolo crimine, rinviando piuttosto all’idea di una colpa originaria che richiede di essere espiata37. È come se nel corpo del condannato debbano ogni volta ripetersi e ricongiungersi la caduta di Adamo e la venuta del Cristo38. Una considerazione, questa, che da un lato permette di superare l’apparente contraddittorietà di un discorso sulla punizione penale inserito in un “sistema” che nelle azioni umane legge una conseguenza della necessità e delle forze39; e, dall’altro lato, induce ad avanzare l’ipotesi che l’interesse weiliano per la giustizia penale sia motivato dal fatto che in essa si attua per lei un meccanismo che riguarda tutti gli uomini, nella loro natura di un confronto tra Tolstoj e Dostoevskji, in ID., Il diritto insufficiente e necessario, cit., p. 151 ss. 37 Nei rari casi in cui la Weil cita qualche fattispecie lo fa per riconoscere la partecipazione che esse implicano alla colpa di Adamo, che era consistita nel voler essere come Dio: «L’assassinio e la violenza carnale sono crimini in quanto imitazioni illegittime di Dio» (Q, III, 47). Ma se il crimine non è altro che la ripetizione della colpa originaria esso riguarda indistintamente tutti: «Bisogna sentirsi perpetuamente criminali finché non si ha la perfezione, e gridare continuamente con tutta l’anima nel silenzio per ottenerla, finché la morte mette fine a questa tortura, o finché Dio, esasperato, manda la perfezione» (Q, IV, 378). 38 Per ogni singolo vale, infatti, ciò che la Weil dice dell’umanità, la quale, «considerata come un solo essere ha peccato in Adamo e ha espiato nel Cristo» (Q, IV, 142). Qui la Weil sembra riprendere quanto Hertz scriveva nel suo studio, più sopra citato, su Il peccato e l’espiazione nelle società primitive. In apertura del saggio, l’autore ricordava come i due fatti della caduta di Adamo e della redenzione di Cristo «rivelano all’uomo il mistero della sua duplice natura: egli è essenzialmente un peccatore, ma un peccatore redento» (cfr. La preminenza della destra e altri saggi, cit., p. 6). 39 Per una confutazione della tesi della incompatibilità tra determinismo e giudizio morale (e giuridico), cfr. ROSS, Colpa, responsabilità e pena, cit., pp. 113 ss (parte IV).
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esseri che sperimentano continuamente la caduta e che perciò sono chiamati alla sofferenza, nel tentativo di incarnare in se stessi il modello del giusto perfetto. 4. Possiamo così riunire in un insieme coerente – senza che ci sia bisogno di svilupparli singolarmente – gli elementi essenziali della teoria weiliana che si sta cercando di ricostruire. La necessità di infliggere la pena circondandola di elementi religiosi40, l’obiettivo 40
«Il carattere legale di un castigo non ha un vero significato se non gli conferisce qualcosa di religioso, se non lo rende simile a un sacramento; di conseguenza, tutte le funzioni penali, da quella del giudice a quella del carnefice e del carceriere, dovrebbero, in qualche modo, assimilarsi alla funzione sacerdotale» (AD, 115). «Per quanto si riformi il codice, il castigo non può essere umano se non passa attraverso Cristo» (ivi, 117). È stato osservato che la trasformazione del castigo in un «sacramento» avvicina la riflessione della Weil a quella di René Girard per quel che concerne le «virtù protettrici del sacro», in quanto «solo il carattere religioso dei rapporti tra il giudice e l’accusato può far sì che la giustizia non sia sinonimo di vendetta» (TOMMASI, Dalla non violenza di Dio alla violenza delle collettività: Simone Weil e René Girard, in EAD, Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile, cit., p. 109). Non è mancato, d’altra parte, chi ha ricondotto le riflessioni weiliane sul «sacramento» della pena a un «puro sforzo immaginifico» che fa di quelle riflessioni una «visione essenzialmente mistica [che] non perviene, attraverso l’utopia che raffigura, a congiungersi alla realtà» (MULLER, Simone Weil, cit., p. 39). La concezione della pena come sacramento, tuttavia, deve essere ricondotta alla più generale messa in questione della separazione moderna tra politica e religione. La necessità di una relazione tra questi due ambiti è dalla Weil ritenuta essenziale per evitare di cadere nel peccato di idolatria. Proprio l’esistenza di una relazione vera, concreta, evita di confondere i due piani del soprannaturale e del mondo sociale; mentre la finzione di una distinzione porta facilmente a fonderli, generando sempre tendenze idolatre. In questo senso, viene criticata l’impostazione moderna che rinvia a una scissione tra pubblico e privato, scissione che ha ridotto la religione a una questione di scelta individuale, ancor prima che a un fatto di coscienza. Ciò ha vanificato la funzione specifica della religione, «che consiste nell’impregnare di luce tutta la vita profana, pubblica e privata, senza mai dominarla» (PR, 109). Se si aggiunge la separazione tra religione e scienza – altro frutto tipico dei tempi moderni – si capisce come mai siano soltanto le tendenze totalitarie, di qualunque colore si vestano, a dare «una solida illusione di unità interiore» (PR, 212). Secondo la Weil, insomma, «non può esserci legittimità senza religione» (Q, III, 267), e «l’obbedienza a uomini la cui autorità non è illuminata dalla legittimità, è un incubo» (Q, III, 270). «Finché nella vita sociale ci sarà la sventura, finché l’elemosina legale o privata e il castigo saranno inevitabili, la separazione tra istituzioni civili e vita religiosa sarà un delitto. L’idea laica in sé è del tutto falsa» (AD, 118). Questa
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di produrre una vera e propria sventura mediante il castigo, in modo che si abbia il desiderio di uscirne41, il bisogno di acquisire il consenso del condannato affinché l’espiazione si tramuti in redenzione42, sono tutte parti di un unico disegno argomentativo che permetrelazione particolare – che sussiste ma mantiene distinti, anzi sussiste in quanto mantiene distinti i termini che la costituiscono – deve stare a garanzia dell’efficacia del diritto penale; o meglio, è il diritto penale che la richiede espressamente: «la funzione penale rende indispensabile che lo Stato sia fondato sulla religione. Bisogna trovare una relazione tale che esso lo sia, e al tempo stesso sussista la separazione» (Q, III, 330). Quest’ultimo passo richiede di precisare ancora meglio la posizione della Weil. Va ricordato, infatti, da un lato, che «per poter essere presente dappertutto» la religione «deve mantenersi rigorosamente sul piano dell’amore soprannaturale» (AD, 118); dall’altro lato, che esiste un limite entro cui questa relazione deve svolgersi: «Restringere al minimo la parte di soprannaturale indispensabile a rendere la vita sociale respirabile. Tutto ciò che tende ad accrescerla è cattivo. (È tentare Dio)». Ciò per la ragione che il sociale rimane pur sempre «l’ambito del Principe di questo mondo» (Q, II, 247). Sulla visione weiliana dei rapporti tra religione e città, cfr. P. ROLLAND, Religion et politique: expérience et pensée de Simone Weil, in CSW, n. 4, 1984, pp. 368-391; ID. L’enracinement: un tentativo di pensare una politica postmoderna?, in MARCHETTI (a cura di), Politeia e sapienza, cit., p. 252 ss. 41 Colui che deve subire il castigo deve assomigliare a colui che è nella sventura perché solo «la sventura indurisce l’anima e porta alla disperazione» (AD, 89). Solo quando, mediante il castigo, si sarà risvegliato nel reo il grido di Cristo sulla croce – «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?» – si potrà dire che «il dolore ha risvegliato nelle profondità della sua anima la parte in cui risiede, sepolta sotto i crimini, una innocenza uguale a quella del Cristo» (Q, IV, 367). Queste espressioni confermano l’estraneità delle posizioni weiliane rispetto alle teorie giustificazionistiche di stampo utilitaristico, le quali, nel fissare lo scopo della pena, rinviano o alla «massima utilità possibile da assicurare alla maggioranza dei non devianti», oppure alla «minima sofferenza necessaria da infliggere alla minoranza dei devianti» (FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 248). Si potrebbe dire che la teoria della Weil rinvia invece alla massima sofferenza dei devianti, o comunque a tutta la sofferenza che è ritenuta necessaria affinché essi si sentano nella sventura. Di esiti «giuridicamente aberranti» a proposito della teoria dell’emenda parla F. D’AGOSTINO, La sanzione nell’esperienza giuridica, Giappichelli, Torino, 1999, p. 105; mentre CATTANEO, Pena, diritto e dignità umana, cit., p. 172, oltre a sottolineare i pericoli derivanti dall’attribuzione allo Stato di «un compito di valutazione del comportamento morale dell’individuo», vede in essa anche aspetti di «paternalismo», scorgendovi un «passo indietro rispetto all’opera di secolarizzazione del diritto penale». 42 È questo un punto sul quale la Weil dimostra di tenere una coerenza a tratti sconcertante: bisogna «ricondurre il criminale all’obbedienza con la costrizione, infliggendogli dolore, tendendogli delle trappole con lo scopo di suscitare un giorno il
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te di comprendere più a fondo le ragioni per le quali al giusto perfetto – come ricordato a suo tempo – si addice la punizione «dei criminali». Questo passo de La personne et le sacré riassume efficacemente tutti i motivi della riflessione weiliana: Coloro che sono diventati tanto estranei al bene da cercare di spargere il male intorno a loro, non possono reintegrare il bene che infliggendo del male. Bisogna infliggergliene fino a che si svegli anche in fondo a loro quella voce perfettamente innocente che dice con stupore: «Perché mi vien fatto del male?». Bisogna che questa parte innocente dell’anima del criminale riceva nutrimento e che cresca, fino a costituirsi in tribunale all’interno dell’anima, per giudicare i crimini passati, per condannarli, e in seguito, coll’aiuto della grazia, per perdonarli. L’operazione del castigo è allora compiuta; il colpevole è reintegrato nel bene, e deve essere pubblicamente e solennemente reintegrato nella città (P, 65).
5. Sarebbe probabilmente fuori luogo, a questo punto, interrogare ancora i testi al fine di mettere in luce incongruenze e difficoltà presenti in questa teoria della pena. È difficile, infatti, trovare risposte esaurienti alla domanda su quali siano le vie percorribili perché il reo possa tornare al bene; le procedure da seguire prima e durante il castigo; i luoghi (istituzionali?) in cui si svolgono i processi, si emettono i giudizi, si eseguono le sentenze e si infliggono le pene; le soluzioni che permettono in ogni momento di tener ferma la capacità di attenzione, senza la quale il castigo non può raggiungere il suo scopo. Domande a cui la Weil non cerca una risposta, e che anzi, a dire il vero, nemmeno si pone, concentrata com’è sull’unico punto che davvero le interessa, vale a dire la necessità di sottolineare i caratteri essenziali del «vero castigo». Desta invece maggiore perplessità il fatto che non sia in alcun
consenso», fino a fargli sentire «che l’evento per lui più felice è di essere stato condannato» (Q, IV, 376). Come ha ricordato padre Perrin, Simone Weil «così misericordiosa, era talvolta portata a un’impietosa esigenza logica» (PERRIN-THIBON, Simone Weil come l’abbiamo conosciuta, cit., p. 51).
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modo tematizzato il punto centrale di ogni teoria della pena, vale a dire l’uso della violenza. Il legame essenziale tra diritto e forza, che abbiamo ricordato fin dall’inizio come il “fuoco” intorno a cui si muove tutta la riflessione “giuridica” della Weil, non viene praticamente mai menzionato nei molti passi in cui viene affermata la necessità della pena. Eppure, è proprio nel diritto penale che quel legame è più diretto e manifesto; ed è in esso che principalmente si gioca il problema del dosaggio nell’uso della violenza, a maggior ragione quando si tratta, non tanto della prevenzione di ulteriore violenza (ciò che darebbe di per sé una misura), ma di suscitare il desiderio del bene nel soggetto che subisce il castigo43. Ma anche tale critica, evidentemente, non può raggiungere la Weil perché nel suo “pensiero penalistico” manca un nesso che è ancora precedente, e che si rimane davvero sorpresi nel non veder menzionato. Il rapporto tra diritto e forza nella punizione penale viene trascurato perché, ancor prima, è rimasto trascurato il rapporto tra pena e diritto. Il venir meno del diritto nel discorso della Weil, paradossalmente, non solo non implica il venir meno della pena, ma lascia ad essa uno spazio privo di quei limiti che il diritto stesso è tradizionalmente chiamato a definire. Così, nell’unico momento in cui mette in relazione la giustizia umana e la giustizia sovrannaturale, la Weil si accorge – o meglio, noi ci accorgiamo –, che il diritto non può essere “abbandonato” alla forza: perché se per rifiutare la forza si rifiuta anche il diritto (di cui la forza talora si serve o che talora si serve della forza), si rischia di rimanere in balìa della forza, senza le protezioni che il diritto ci offre.
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Se non si vuole arrivare a sostenere che «il diritto penale, per quanto circondato da limiti e garanzie, conserva sempre un’intrinseca brutalità che ne rende problematica e incerta la legittimità morale e politica» (FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 1), si può però sottoscrivere l’affermazione secondo cui «è precisamente quando il sistema giuridico stesso si serve delle armi della violenza, che dobbiamo costringerlo entro i confini più rigorosi del due process» (L. FULLER, The Morality of Law, Yale University Press, New Haven, 1964, tr. it. La moralità del diritto, a cura di A. Dal Brollo, Giuffrè, Milano, 1986, p. 145).
CAPITOLO NONO
L’OBBLIGO CHE UNISCE
1. La critica radicale della nozione di diritto soggettivo venuta da Simone Weil ha il suo risvolto positivo nella centralità da lei assegnata alla nozione di “obbligo”. Vale la pena riportare per intero la celebre apertura de L’enracinement: La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto, che le è relativa e subordinata. Un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui esso corrisponde; l’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa […] L’obbligo anche se non fosse riconosciuto da nessuno, non perderebbe nulla della pienezza del suo essere. Un diritto che non è riconosciuto da nessuno non vale molto (PR, 13).
Il terreno su cui si muove la pensatrice francese non è naturalmente quello della scienza giuridica del Novecento, che (valga per tutti il nome di Hans Kelsen) non ha certo trascurato il tema della correlazione tra diritto e dovere, sia per sottolineare l’illogicità di un diritto soggettivo concepito come prioritario rispetto all’ordinamento giuridico, sia per ribadire che solo l’obbligo giuridico gravante su un soggetto può dare un fondamento al diritto di un altro soggetto1. E in effetti, le pagine iniziali del lavoro londinese chiari1
«Se il diritto soggettivo è un diritto in senso giuridico, esso è necessariamente
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scono subito la particolarissima natura attribuita all’obbligo nella prospettiva adottata dalla Weil. Lungi dall’essere stabilito da un ordinamento giuridico, quello preso in esame è piuttosto un obbligo «incondizionato», che «non si fonda su nessuna situazione di fatto», né tanto meno su una convenzione. In un passo che è quasi un inventario delle culture giuridiche e delle tradizioni politiche – un elenco stilato al fine di negarle –, viene affermato che tale obbligo non si fonda «né sulla giurisprudenza, né sui costumi, né sulla struttura sociale, né sui rapporti di forza, né sull’eredità del passato, né sul presunto orientamento della storia». Dal momento che la sua origine è situata «al di sopra di questo mondo», «nessun cambiamento nella volontà degli uomini» può modificarlo (PR, 14)2. E tuttavia, si tratta di un obbligo che deve avere una sua forza (anche) giuridica, poiché se dovesse verificarsi il caso di un diritto positivo che entra in contraddizione con esso, quel diritto non sarebbe valido (PR, 15). Come altre teorie che insistono sulla priorità del dovere sul dirit3 to , la prospettiva di Simone Weil mette in luce il “movimento” che un diritto al comportamento di qualcun altro, e cioè a quel comportamento al quale l’altro è giuridicamente obbligato» (H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 75). Il discorso vale, secondo Kelsen, non solo quando si tratta di un diritto al comportamento di un altro soggetto, ma pure per un diritto concernente il proprio comportamento, poiché un soggetto può dirsi giuridicamente libero, rispetto a un dato comportamento, solo se un altro individuo o tutti gli altri individui sono obbligati a una condotta corrispondente (cfr. ivi, p. 76). Non è tuttavia mancato chi ha ritenuto possibile confutare le tesi kelseniane anche in una prospettiva positivistico-normativistica, sostenendo che, lungi dall’essere condizionati dalla presenza di un dovere corrispondente, i diritti esistono in quanto normativamente stabiliti, e che l’eventuale assenza di un dovere in capo a un altro soggetto è da considerare alla stregua di una lacuna che è compito dell’ordinamento colmare (L. FERRAJOLI, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura di E. Vitale, Laterza, Roma-Bari, 2001). 2 E più avanti: «Quest’obbligo è incondizionato. Se è fondato su qualcosa, questo non appartiene al nostro mondo. Nel nostro mondo, non è fondato su nulla. È l’unico obbligo relativo alle cose umane che non sia sottomesso a condizione alcuna» (PR, 17). 3 Sia consentito rinviare su questo punto a T. GRECO, Dai diritti al dovere: tra Mazzini e Calogero, in T. CASADEI (a cura di), Repubblicanesimo, democrazia, socialismo delle libertà. «Incroci» per un rinnovato impegno politico, Franco Angeli, Milano, 2004, pp. 137-150.
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è sotteso alla logica del dovere, “movimento” che va in direzione contraria a quello che già si è visto essere proprio della logica dei diritti. Il compimento di un dovere, infatti, in quanto tende a superare la distanza nei confronti dell’altro, produce sempre un movimento verso di esso, e tende dunque ad attivare un legame, mentre, al contrario, la rivendicazione di un diritto produce piuttosto una separazione4. Da questo punto di vista, non si può sminuire la critica weiliana, attribuendole l’intenzione di mostrare solo l’insufficienza dei diritti al fine della protezione e della valorizzazione della dignità dell’uomo5. Il vero fine perseguito da Simone Weil è l’affermazione di una logica differente ed opposta rispetto a quella implicita nei diritti. L’obbligo costringe, infatti, a pensare agli altri, mentre i diritti fanno pensare innanzi tutto a se stessi. Una medesima logica accomuna invece obblighi giuridici e doveri etici: «Non uccidere; non rubare; non mentire; castità. Si tratta sempre di costringersi con la violenza a riconoscere che gli altri esistono» (Q III, 328). In quanto si fa carico di uno dei tratti nodali del pensiero weiliano, la nozione di obbligo non può dunque essere in alcun modo considerata solo in funzione di quella di diritto. La sua centralità emerge dal fatto che in essa è possibile ritrovare alcuni degli elementi essenziali dell’azione del giusto, a partire dall’esercizio della capacità di attenzione: «come in un pezzo di pane si legge qualcosa da mangiare, e lo si mangia; così in un certo insieme di circostanze si legge un obbligo; e lo si esegue». Imparare a leggere le situazioni è imparare a riconoscere i propri obblighi, perché non c’è dubbio che si esegue un obbligo «tanto più presto e più direttamente quanto più chiaramente lo si è letto» (Q, II, 182). Ma la lettura va imparata: è qui che torna in gioco l’attenzione, ed è per questo che «l’attenzione dovrebbe essere l’unico oggetto dell’educazione» (Q, II, 184). 4
Cfr. P. BARCELLONA, Excursus sulla modernità. Aporie e prospettive, c.u.e.c.m., Catania, 1999, p. 171 ss. 5 Come sembra fare ad esempio BEA PÉREZ, Simone Weil. La memoria degli oppressi, cit., p. 218.
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Al contrario del diritto, che si lega al concetto di persona e alle determinazioni volontaristiche attraverso cui questa viene a definirsi, l’obbligo si lega alla nozione di impersonale, alla necessità della quale è espressione. Si può quindi dire che esso costituisce il momento iniziale di un processo che approda alla giustizia, fino a un punto in cui i due termini si identificano: il «dharma» è la giustizia, ma contemporaneamente indica l’«obbligo» (Q, II, 357). Anche questa nozione – anzi, a maggior ragione questa nozione – permette di misurare la distanza che separa la giustizia dal diritto. Se ci si chiedesse, infatti, fino a che punto l’obbligo possa essere giustiziabile, o fino a che punto se ne possa chiedere l’adempimento, la risposta non sarebbe difficile da trovare: Non bisogna mai cercare di fare al prossimo altro bene che trattarlo con giustizia. Per provare una gratitudine pura (il caso dell’amicizia a parte), ho bisogno di pensare che mi si tratta bene, non per pietà, o per simpatia, o per capriccio, a titolo di favore o di privilegio, neppure per un effetto naturale del temperamento, ma per desiderio di fare quanto la giustizia esige. Dunque chi mi tratta così si augura che quanti sono nella mia situazione siano trattati allo stesso modo da tutti quelli che sono nella sua (ma non necessariamente forzati da una costrizione, perché può accadere che simili costrizioni abbiano conseguenze più pericolose che utili) (Q, II, 42)6.
Ciascuno è chiamato ad adempiere al suo obbligo, dunque, ma nessuno vi può essere costretto. Ma non è proprio nell’impossibilità di questa costrizione che il diritto trova la sua legittimazione? E non è nel rovescio di questa impossibilità che esso colloca il suo intervento mediante l’articolazione di una serie di diritti? Se, come la stessa Weil riconosce, «non ci si può legittimamente aspettare che le 6
Ancora più esplicitamente, nel Taccuino di Granata, i cui appunti sono in parte poi confluiti nel quinto Quaderno: «Questo non implica necessariamente che egli desideri che una costrizione sociale obblighi quelli che sono nella sua situazione ad agire così verso quelli che sono nella mia. Non lo desidererà se questo gli sembrasse praticamente impossibile o suscettibile di conseguenze pericolose. Ma solo tali ragioni possono impedirgli di desiderarlo» (Q, II, 42, nota 1).
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cose avvengano conformemente alla giustizia; tanto più che noi stessi siamo ben lungi dall’essere giusti» (Q, II, 41), il compito da affrontare è anche quello di trovare vie più certe rispetto all’adempimento spontaneo degli obblighi, per poter assolvere al mandato di «badare che non venga fatto del male agli uomini» (P, 64). 2. Ma in quale modo dovrebbe essere articolata una «Dichiarazione dei doveri» da contrapporre a quella dei diritti? Perché in realtà c’è un unico dovere, ed è il «rispetto» che si deve a ogni essere umano. La pluralità dei doveri discende dal fatto che il rispetto si rivolge ai bisogni terrestri dell’uomo, in particolare a tutti quei bisogni «vitali» che possono essere ricavati per analogia dal bisogno di non soffrire la fame. Il riferimento alla necessità di nutrirsi fa capire che tutti gli altri bisogni vanno individuati con riguardo a una natura umana che non è mai mutata nel tempo. Per le esigenze di carattere materiale (protezione dalla violenza, abitazione, vestiario, cure mediche, ecc.), come per quelle di carattere morale, bisogna avere la medesima capacità di discernere l’essenziale dall’accidentale, avendo in mente le necessità vitali dalle quali è segnato il cammino terrestre dell’uomo. L’elenco dei bisogni fornito nella prima sezione de L’enracinement è assai significativo e ha ingenerato non pochi equivoci sulla natura del pensiero politico-sociale weiliano7. A parte l’esigenza di radicamento, cui è prevalentemente dedicato questo grande lavoro incompiuto, l’autrice propone, quali bisogni che comportano il dovere di rispettarli, l’ordine, la libertà, l’ubbidienza, la responsabilità, l’uguaglianza, la gerarchia, l’onore, la punizione, la libertà di opinione, la sicurezza, il rischio, la proprietà privata e collettiva, la verità. Si tratta di bisogni che impongono obblighi a tutti e a ciascuno, 7
Tra gli interventi critici che assumono a bersaglio la nozione weiliana dell’obbligo, cfr. innanzi tutto G. BATAILLE, La victoir militaire et la banqueroute de la morale qui maudit, «Critique», 1949, pp. 789-803 , tr. it. Simone Weil e il riscatto della morale, in «Micromega-Almanacco di Filosofia», 1996, pp. 246-261. Sul rapporto Weil-Bataille, fondamentali le pagine di ESPOSITO, Categorie dell’impolitico, cit., p. 245 ss.
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e il cui studio attento potrebbe evitare ai governi di «agitarsi» in modo casuale (PR, 18). Non è necessario adesso riportare quanto viene detto a proposito di ognuno di questi bisogni. Basti solo ricordare che essi sono pensati e disposti per coppie di contrari, con l’obiettivo di cercarne una composizione equilibrata che non sacrifichi l’uno alle ragioni dell’altro8. Importa maggiormente, invece, mettere in luce due aspetti dell’operazione realizzata dalla Weil, che si potrebbero definire mediante l’immagine di un “rovesciamento” e di una “rotazione”. Da un lato, infatti, risulta capovolto il piano su cui fondare un nuovo ordine sociale, dal momento che vengono portati nella sfera dell’obbligo concetti che sono stati tradizionalmente impiegati in un contesto di rivendicazione e di affermazione dei diritti9; dall’altro lato, con un gesto altrettanto innovativo, l’obbligo viene sottratto alla dialettica tra Stato (o collettività) e individuo, passando da un piano “verticale” ad uno “orizzontale”: «L’obbligo lega solo gli esseri umani» e «l’oggetto dell’obbligo, nel campo delle cose umane, è sempre l’essere umano in quanto tale» (PR, 14). La dichiarazione dei doveri non deve, pertanto, essere intesa come un elenco di comportamenti che gli individui sono obbligati a tenere per rispettare un qualche ordine politico o sociale10. Prova ne 8 Il vero equilibrio si avrebbe quando «i bisogni contrari sono, l’uno e l’altro, pienamente soddisfatti», e non quando si ricorre a una «via di mezzo» che non soddisfa nessuno dei bisogni in questione (PR, 22). Per un’analisi dei bisogni elencati da Simone Weil, cfr. L. BLECH-LIDOLF, La critique weilienne de la notion de droit dans son rapport avec la théorie des «besoins de l’âme», in CSW, n. 2, 1984, pp. 133-140. Merita di essere ricordata l’interessante osservazione di Winch, secondo il quale la teoria dei bisogni rivela un cambiamento nella concezione weiliana della natura umana, che si è lasciata alle spalle l’immagine attiva degli individui: i bisogni, infatti, «non sono trattati come qualcosa contro cui l’individuo deve semplicemente lottare […] ma come effettivamente costitutivi della natura umana»; essi «caratterizzano la sua prospettiva sul mondo» (WINCH, Simone Weil, cit., p. 99). 9 Un rovesciamento che è particolarmente evidente nel caso dei diritti di libertà, di proprietà e di sicurezza, che figurano sia nell’art. 2 della Dichiarazione dei diritti del 1789, insieme al diritto di resistenza all’oppressione, sia nell’art. 2 dell’analoga Dichiarazione del 1793, questa volta preceduti dall’uguaglianza. 10 In tal modo, la Weil prende le distanze dall’uso «reazionario» che nel XIX seco-
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sia il fatto che la Weil giunge a parlare di un obbligo verso la patria solo dopo aver sottopposto tale nozione a una critica storica e concettuale che non salva pressoché nulla nella storia delle moderne nazioni europee (e della Francia in particolare)11, e solo in quanto la patria viene a costituire il terreno privilegiato per il soddisfacimento del bisogno di radicamento. La sfera in cui l’obbligo va collocato – coerentemente col discorso weiliano – è dunque quella del bene che ogni essere umano si aspetta dagli altri, e che ciascuno ha il dovere di compiere per rispettare quanto c’è di sacro in chi gli sta di fronte. È proprio il fatto che questo movimento parte da colui che deve compierlo, e non da colui che ne sarà il beneficiario, a radicare l’obbligo nel territorio del bene: La nozione di diritto è infinitamente più remota dal bene puro. Essa contiene in sé bene e male; perché il possesso di un diritto implica la possibilità di farne un uso buono o cattivo. L’adempimento di un obbligo è invece, sempre e incondizionatamente, un bene sotto qualsiasi riguardo (PR, 247-248).
Tra i meriti della prospettiva proposta, la pensatrice francese annovera il superamento della condizione di precarietà cui è condannato colui che fonda la sua sicurezza sulla nozione dei propri diritti – anche qui rovesciando gran parte delle argomentazioni con cui le rivendicazioni dei diritti vengono avanzate. «Credere di avere dei diritti», infatti, è come essere orgogliosi di qualcosa che non si ha per propri meriti e di cui si può essere privati all’improvviso dalle circostanze. Se l’orgoglio è una menzogna, si chiede la Weil, non lo è allo stesso modo la convinzione di possedere dei diritti «in un mondo in cui tutto ci può uccidere?» (Q, I, 368).
lo è stato fatto dell’opposizione tra diritti e doveri. Cfr. P. ROLLAND, Simone Weil et le droit, cit., pp. 241-242. Non per questo appare condivisibile la conclusione dello stesso Rolland secondo cui Simone Weil rimarrebbe «dans la cadre de l’individualisme moderne», dal momento che la sua prospettiva è certamente opposta a questa. Cfr. MC LELLAN, Simone Weil et la philosophie politique libérale contemporaine, cit., p. 131. 11 Cfr. B. SAINT-SERNIN, L’idée de Patrie e l’universel chez Simone Weil, in CSW, n. 4, 1999, pp. 355-365.
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Per converso, così come «sfuggono alle circostanze solamente i doni della grazia», dei quali però non si può essere orgogliosi, sfuggono alla precarietà solo i diritti che ci vengono accordati, o meglio che sono stabiliti dal reciproco sentimento dell’obbligo: così, da un lato, «bisogna essere riconoscenti se si viene trattati con giustizia»; dall’altro lato, «non bisogna mai cercare di fare al prossimo altro bene che trattarlo con giustizia» (Q, II, 42). Infine, scegliendo l’obbligo come momento primario, si riesce a sottrarre il diritto a quel legame strutturale con la forza che nella rivendicazione viene proclamato. Non si tratta quindi di sopprimere i diritti dell’uomo; essi tuttavia possono servire solo a patto di ripensarne radicalmente la natura e il fondamento12. Attraverso la nozione di obbligo la condizione umana pone le sue garanzie nel punto di contatto tra la realtà di questo mondo e la realtà soprannaturale13, perché per mezzo di essa il riconoscimento di una realtà trascendente si traduce nel gesto di rispetto che l’uomo rivolge all’altro uomo. 3. Il riferimento all’obbligo consente di dare un profilo del tutto particolare al bisogno di radicamento, che nel discorso della Weil costituisce il presupposto essenziale per il soddisfacimento di tutti gli altri bisogni14. Più precisamente, esso fornisce l’unico terreno su cui realizzare un radicamento che non comporti ricadute pericolose sul piano della divinizzazione della società o di un qualunque altro ente collettivo. Su questa base, la comunità non può venire definita col riferimento a una comune appartenenza o una presunta comune identità. 12
Cfr. ROLLAND, L’enracinement: un tentativo di pensare un politica postmoderna?, cit., p. 249; E.O. SPRINGSTED, Droits et obligations, in CSW, n. 4, 1986, pp. 394404. La giustezza dell’impostazione weiliana sarebbe confermata da alcuni segnali “istituzionali” prevalentemente verificatisi in sede ONU, secondo E.J. DOERING, Déclarations des droits et des devoirs. Problèmes contemporains à la lumière de Simone Weil, in CSW, n. 3, 2003, pp. 265-280. 13 Cfr. GAETA, Il radicamento della politica, cit., p. 279. 14 Anche su questo punto, cfr. GAETA, Il radicamento della politica, cit., p. 282.
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Diviene centrale, invece, quel nesso che permette agli individui di sentirsi comunità attraverso l’obbligo che reciprocamente li lega – dunque attraverso una sottrazione, anziché una espansione del proprio io15. Tale impostazione è evidente, ad esempio, nel già citato passo de L’enracinement in cui si descrive lo sradicamento prodotto dallo Stato francese in termini di distruzione di tutti «i legami che, al di fuori della vita pubblica, potevano orientare il sentimento di fedeltà» (PR, 116); la fedeltà, infatti, implica un obbligo da osservare. Ma quell’impostazione è evidente soprattutto nella critica demolitrice che la pensatrice francese ha rivolto nei confronti della società e di qualunque altra entità che spinga gli individui a fondersi in un noi. Tra tutte le considerazioni che confluiscono nella critica della società, ce n’è una su cui sembra opportuno richiamare l’attenzione. Posto che, pitagoricamente, «l’amicizia è un’eguaglianza fatta d’armonia» (intesa l’armonia come «unione dei contrari»), per Simone Weil il rapporto tra i due contrari – io e l’altro – è possibile solo in quanto mediato da Dio. Difatti, è la rinuncia a porre l’io al centro della relazione – rinuncia equivalente a quella con cui Dio ha creato il mondo – che permette di rendersi conto che l’altro esiste. Quando Cristo ha promesso ai suoi amici che sarebbe stato sempre presente allorché «due o tre» si fossero riuniti nel suo nome, ha fornito l’immagine di questa mediazione. Ebbene, c’è una relazione particolare nella quale Cristo «non è mai presente anche se è esplicitamente e appassionatamente invocato»: Ciò si verifica quando si rinuncia alla prima persona singolare soltanto per sostituirvi la prima persona plurale. Allora i termini in relazione non sono più io e l’altro, oppure io e gli altri, ma dei frammenti omogenei di noi; questi termini sono dunque della stessa specie, della stessa radice, dello stesso rango; di conseguenza, secondo il postulato di
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Una riflessione sulla comunità centrata sull’idea del dovere – precisamente del munus («l’obbligo che si è contratto nei confronti dell’altro e che sollecita un’adeguata disobbligazione») – è quella di R. ESPOSITO, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino, 1998, delle cui categorie ci si è serviti per delineare i caratteri della comunità weiliana.
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Filolao, non possono esser legati da un’armonia. Sono legati per se stessi e senza mediazione. Non c’è distanza fra loro, non c’è spazio vuoto fra loro in cui Dio possa scivolare (GR, 190).
Il sentimento dell’obbligo è propriamente lo strumento per mezzo del quale Simone Weil pensa di preservare lo «spazio vuoto» in cui Dio possa «scivolare». In questo senso la comunità weiliana, ben lontana dall’immagine di un corpo organico tenuto insieme da una qualche identità o appartenenza, può essere presentata come comunità di coloro che sono uniti dall’obbligo, da quel «ritrarsi» reciproco che è il modo più vero – l’unico – di aprirsi all’altro e di stabilire con lui una relazione16. Nel linguaggio weiliano, “radici” e “città” sono i termini positivi in cui il bisogno di radicamento si traduce, di contro all’assoluta ne16
Opposta è l’interpretazione di MANFREDA, Tempo e redenzione, cit., p. 283, secondo il quale «l’appello all’assoluto morale dell’obligation […] non contiene il passaggio dall’individuale al comunitario». Non sembra condivisibile neppure l’opinione espressa da CATTANEO, Simone Weil e la critica dell’idolatria sociale, cit., p. 37, il quale, nel ricostruire le coordinate della critica weiliana al concetto di persona, attribuisce alla pensatrice francese «un’idea dell’essere umano inteso nella sua irriducibile individualità, nella sua capacità di gioire e di soffrire», totalmente estranea a qualsiasi idea di qualsivoglia comunità. Allo stesso rischio, infine, si espone (nel senso che converge verso lo stesso esito, di negazione pura e semplice della comunità) l’interpretazione di quanti, nel cercare di interpretare i caratteri della comunità weiliana in un senso che fosse il più lontano possibile dalla compattezza della collettività e dei legami che il termine comunità è solito richiamare, hanno finito per “perdere” l’idea stessa del legame sociale. Così, per esempio, TOMMASI, Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile, cit., p. 73, ha avvicinato il tema della comunità a quello mistico, affermando che il connubio tra religione e politica in Simone Weil può avere il solo significato di delineare una comunità «in cui ciascuno è consegnato, al di sotto dei vincoli sociali, a una “solitudine essenziale”, necessaria per la ricerca individuale di Dio». Per tale autrice, «la centralità della mistica nella collettività segnala proprio il contrario di quella compattezza della congiunzione teologico-politica di stampo reazionario, che altri hanno voluto vedervi: la ricerca di Dio, fatta da ciascuno singolarmente, in assoluta libertà, è proprio ciò che impedisce alla comunità di solidificarsi, è ciò che separa ciascuno da tutti gli altri, è ciò che, in ogni gruppo, salvaguarda quello spazio di solitudine essenziale che permette a ciascuno il colloquio con il Dio segreto» (si vedano anche p. 82 ss e p. 128 ss). Per questa via però rischia di risultare eccessivamente radicalizzata l’alternativa weiliana tra regno della forza e regno dell’amore sovrannaturale, negando a quest’ultimo la possibilità di svolgere quell’azione che abbiamo definito “orizzontale”.
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gatività del “sociale”17: «in tutto ciò che è sociale c’è la forza» (Q, III, 158); «il sociale è irriducibilmente l’ambito del principe di questo mondo», rispetto al quale «non c’è altro dovere che tentare di limitare il male» (Q, II, 247). Il radicamento, anzi, prende corpo nella divaricazione tra sociale e radici, tra sociale e città: bisogna imparare a vivere nella lacerazione prodotta dal fatto che «l’uomo è un animale sociale» ma allo stesso tempo «la società è il male» (Q, III, 157). Bisogna recuperare l’idea di città, quale luogo di cui «non si ha maggiore coscienza che dell’aria che si respira», attraverso il «contatto con la natura, il passato, la tradizione»18. Così, facendone il meno possibile un luogo costruito dalla volontà umana, la città «non evoca qualcosa di sociale» (Q, II, 247-8) e può rappresentare il luogo in cui lo sradicamento dell’io produce l’unico radicamento possibile19. Se la città è il luogo il cui tessuto di relazioni è costituito dagli obblighi che gli esseri umani si assumono reciprocamente20, proprio l’obbligo è il terreno più fecondo per il radicamento della giustizia. La nozione di obbligo, dunque, rende immuni dall’ingenua illusione di chi crede che la giustizia sia di questa terra21, ma nello stesso tempo impegna ciascuno a realizzarla.
17 Cfr. F. VELTRI, L’enracinement. Une quête de la cité perdue, in CSW, n. 4, 2003, pp. 387-398. 18 A questo proposito FORNI ROSA, Simone Weil. Politica e mistica, cit., p. 42, ha parlato di «atteggiamento neo-romantico che privilegia le “comunità naturali” sulle comunità artificiali». 19 «Il radicamento è altra cosa dal sociale» (Q, II, 247-8): tanto è vero che sia Roma che Israele rappresentano città artificiali, fatte da fuggitivi, e quindi senza radicamento (ivi, 249). «Sociale senza radici; sociale senza città. Impero Romano. Un romano pensava sempre noi. Anche un ebreo» (ivi, 251). 20 Cfr. A. MARCHETTI, Riflessioni sulla Polis, in ID. (a cura di), Politeia e sapienza, cit., p. 228. 21 Ingenui, secondo Simone Weil, sono stati gli illuministi, i quali hanno creduto di poter fare a meno del soprannaturale, pensando nello stesso tempo di poter descrivere il mondo come una combinazione di forze materiali e morali. Ciò li ha portati a credere che la giustizia sia di questa terra, un’«illusione estremamente pericolosa racchiusa [anche] in quelli che si chiamano i princìpi del 1789, ossia nella fede laica» (OL, 250). Molto più vicino alla verità sarebbe, invece, il materialismo che, descrivendo l’universo solo come materia, percepisce almeno una parte di verità.
CAPITOLO DECIMO
IL RADICAMENTO DELLA GIUSTIZIA
1. Lasciandoci L’enracinement – è stato scritto – Simone Weil ha composto per noi la sua Repubblica1. Il che è vero, se si guarda al proposito di «remédier aux désordre de la cité» e all’enorme ruolo che in esso gioca l’educazione. E tuttavia, proprio in considerazione delle consonanze che legano la concezione weiliana della giustizia alla riflessione platonica sul giusto, si sarebbe tentati di dire piuttosto che l’estremo atto di impegno con cui la pensatrice francese si congeda dalle vicende di questo mondo realizzi un passaggio analogo a quello già attuato da Platone con la matura meditazione delle Leggi. Gli Écrits de Londres e L’enracinement costituiscono, infatti, una intensa e insistita riflessione sull’organizzazione della “città futura” da costruire sulle macerie della seconda guerra mondiale2. Si tratta, come è noto, di una riflessione i cui esiti risultano particolarmente critici nei confronti della struttura stessa della politica occidentale, che la Weil vede fin dall’origine votata alle aberrazioni del regime totalitario. Basterà ricordare solo alcuni dei punti salienti 1
Cfr. M. SOURISSE, Le passé comme besoin de l’âme, in CSW, n. 3, 1992, p. 260. Si tratta di scritti composti da Simone Weil prevalentemente nella veste di redattrice addetta ai servizi civili del Commissariato per gli Interni e il Lavoro di «France libre», l’organizzazione politica in esilio guidata da De Gaulle. Cfr. PÉTREMENT, La vita di Simone Weil, cit., p. 615 ss; GAETA, Il radicamento della politica, cit., p. 271. 2
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della sua proposta per dare un’idea dell’entità di questa messa in discussione: la critica della democrazia rappresentativa e la proposta di abolizione dei partiti politici, l’insistenza sul principio di legittimità e sulla necessità del radicamento, unite alla già ricordata critica dei diritti, rappresentano il culmine di un’argomentazione che ha come obiettivo dichiarato un sovvertimento radicale del punto di vista da cui si guarda alla politica e in generale alla vita collettiva3. È ancora la prospettiva filosofico-giuridica, comunque, a fornire un luogo privilegiato nel quale far confluire tutti questi motivi. Il discorso weiliano, infatti, si presenta stavolta come una vera e propria scommessa sulla possibilità di creare le condizioni più adatte per la realizzazione della giustizia. E non perché la Weil si sia convinta improvvisamente che il gesto di attenzione che produce la giustizia possa essere istituzionalizzato o codificato; ma perché la nozione di giustizia viene ad assumere un significato ulteriore, questo sì suscettibile di essere reso concreto dalle norme di un ordinamento. Si tratta di fare in modo che all’esercizio di un qualunque potere corrisponda sempre l’attribuzione di una responsabilità, graduata a seconda del potere che si esercita. Il concetto di proporzione e di “equilibrio”, ancora una volta, costituisce il riferimento essenziale cui la giustizia deve mirare: «La justice exige avant tout, relativement au pouvoir, un équilibre entre le pouvoir et la responsabilité» (EL, 68). Una proporzionalità che non deve essere stabilita soltanto punendo più severamente colui che abbia commesso un illecito approfittando della sua posizione di potere, quale può essere quella configurata ad esempio nelle disposizioni di un codice penale che preveda circostanze aggravanti per «avere commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione»4. Essa deve trovare attuazione soprattutto attivando livelli di responsabilità laddove essi non siano previsti: non c’è proporzione alcuna, ad esempio, tra la soffe3
Come aveva notato immediatamente dopo la pubblicazione de L’enracinement E. MOUNIER, Une lecture de «L’enracinement», in «Esprit», 1950, pp. 172-174. 4 Così recita l’art. 61 c. 9 del codice penale italiano.
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renza che si infligge a un miserabile che ruba qualcosa da mangiare e quella che (non) si infligge a un capo di governo che, per crudeltà, insensibilità o disattenzione causa la sofferenza di migliaia o addirittura di milioni di persone. Di fronte a un così «monstrueux renversement de la justice» (EL, 69), il principio della giustizia impone invece che ci sia una stretta corrispondenza tra la quantità di bene e di male che un soggetto, per la posizione che ricopre nella società, può infliggere agli altri e la quantità di sofferenza cui egli deve essere sottoposto nel caso in cui abbia provocato del male: Celui qui ne peut presque rien ni pour le bien ni pour le mal ne doit avoir presque rien à souffrir, et cela quoi qu’il fasse, tant qu’il s’abstient de violences sur les personnes. Celui qui consent à occuper une situation où on peut beaucoup et pour le bien et pour le mal doit souffrir beaucoup, et dans son honneur, et dans sa chair, et dans toute sa destinée, s’il fait le mal (EL, 69)5.
In questa stessa chiave, la Weil si chiede come mai sia previsto un giuramento solo per le funzioni elettive e amministrative, e non, ad esempio, per i giornalisti o i padroni delle fabbriche. Nella sua prospettiva, chiunque abbia «le pouvoir de brimer ou de tromper des hommes doit être obligé à prendre l’engagement de ne pas le faire» (EL, 87). L’importanza di tale principio, quale cardine di ogni vero equilibrio sociale, emerge anche dalla determinazione con la quale la pensatrice francese ricerca un’istituzione che possa garantirne l’applicazione. E se può sorprendere che tale istituzione sia ricondotta alla giurisdizione, bisogna rammentare che la figura del potere giudiziario viene completamente ridisegnata dalla Weil sulla base delle proprie convinzioni etiche6. La critica dell’immagine montesquieiana 5 In generale, bisogna applicare una concezione della punizione penale «in base alla quale il rango sociale, come circostanza aggravante, agisca sempre su larga scala per la determinazione della pena» (PR, 27). 6 Secondo ROLLAND, Simone Weil et le droit, cit., p. 228, la preoccupazione maggiore degli scritti londinesi è quella di dare concretezza al mondo soprannaturale nell’ambito delle istituzioni sociali, giuridiche e politiche.
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del magistrato come «bouche de la loi», a causa del suo compito di mera «esecuzione automatica» di ciò che gli è ordinato da altri7, è funzionale alla proposizione di una nuova formazione e di un nuovo ruolo del giudice, chiamato stavolta a svolgere il difficile ufficio di istituzione-garante dell’idea di giustizia8. Due sono i punti essenziali su cui poggia il nuovo modo di configurare il potere giudiziario: quello relativo alla formazione di una classe di magistrati che abbia ricevuto un’adeguata educazione (soprattutto spirituale), e quello relativo alla modalità del giudizio, che dev’essere prevalentemente fondato su una valutazione di equità (EL, 87). Les juges doivent avoir une formation spirituelle, intellectuelle, historique, sociale, bien plus que juridique (le domaine proprement juridique ne doit être conservé que relativement aux choses sans importance); il doivent être beaucoup, beaucoup plus nombreux; et il doivent toujours juger en équité. La legislation ne leur sert que de guide. Les jugement précédents aussi (EL, 95)9.
È evidente il rinnovato tentativo di tenere quanto meno distinto il diritto dalla giustizia: nel momento in cui la giustizia viene chiamata ad incarnarsi, essa deve farlo attraverso un giudizio che non assuma come criterio – almeno non come criterio ultimo e definitivo – 7
«Il est faux – scrive la Weil – que dans le système actuel la magistrature constitue un pouvoir. Il n’y a pas de pouvoir judiciaire. Les juges ne font qu’exécuter automatiquement, avec une marge d’appréciation personnelle en réalité très faible, ce qui leur est ordonné par un mélange informe de textes provenant des rois, des deux Empires, du Parlement, et dénués de toute relation avec l’esprit ou la lettre de la Déclaration de 1789» (EL, 87). 8 «Il y a une fonction de l’Etat qui a pour objet la justice ! C’est la fonction judiciaire» (EL, 152). 9 Quasi scontata l’obiezione che una tale considerazione solleva, esplicitata ad esempio da RABI, La justice selon Simone Weil, cit., p. 121: «Or on enseigne tout à l’Ecole nationale de la magistrature: l’histoire, le droit, les sciences économiques et sociales, mais aucunement la spiritualité qui demeure le jardin secret de chacun des étudiants. Et peut-être même qu’ils en riraient s’il étaient l’objet d’une telle formation, et peut-être qu’ils dénonceraient ce retour à un nouvel ordre moral».
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quello inscritto in una norma giuridica, bensì quello, di volta in volta, desumibile dalla giustizia medesima, guardando alla particolarità del caso da decidere. Qui l’equità non si pone affatto, aristotelicamente, come un «correttivo del giusto legale», non viene a mitigare la legge, invocando nello stesso tempo «l’aiuto della legge»10; essa si pone piuttosto come l’unica vera fonte della decisione, cui la legge può soltanto fornire un orientamento di fondo. Così, se da un lato tutto il peso e la responsabilità della realizzazione della giustizia non possono non ricadere sui giudici, dall’altro lato l’unico appiglio che rimane a colui che si trova sottoposto al loro giudizio sembra essere la fiducia nella loro «formazione». Particolarmente centrate possono apparire allora le osservazioni critiche avanzate da Patrice Rolland in un saggio da considerare tra i più importanti di quelli dedicati al pensiero giuridico weiliano. Posto che il rinvio esclusivo al giudizio di equità può trovare giustificazione nel fatto che le esigenze morali che muovono il pensiero della Weil sono difficilmente traducibili in regole giuridiche11, si deve osservare come una tale impostazione produca un risultato affatto contrario alla più elementare esigenza di sicurezza giuridica. L’esclusività – o anche la sola preminenza – del giudizio di equità sembra condurre infatti, «non seulement à l’exclusion du droit écrit mais aussi à empêcher la formation d’un droit jurisprudentiel». Del tutto inconsapevolmente, a quanto pare, la pensatrice francese «exclut pratiquement la possibilité d’une connaissance a priori de la règle juridique, sans laquelle il n’y a pas de véritable civilisation juridique ni probablement de société véritablement supportable»12. Una tale conclusione, tuttavia, rischia di non tener sufficientemente conto del rovesciamento di prospettiva al quale punta la Weil, che nella Déclaration des obligations, destinata a fare da preambolo alla futura costituzione, trova la sua formalizzazione giuridica. Il 10
Etica Nicomachea, V, 10, 1137b, tr. it. a cura di A. Plebe, Laterza, Bari, 1979, p. 135. 11 ROLLAND, Simone Weil et le droit, cit., p. 248. 12 Ivi, p. 250.
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riconoscimento dei «bisogni dell’anima e del corpo» quale base per la fissazione degli obblighi13, impone un nuovo punto di vista, le cui ricadute riguardano ogni ambito della vita sociale, politica ed istituzionale, e prima ancora la concezione stessa del potere e della legge. Se la molla legittima di ogni azione umana è l’adempimento degli obblighi che ciascuno ha nei confronti degli altri, l’esercizio del potere (di ogni potere, sia pubblico che privato) non può non essere sottoposto alla medesima condizione. Esso si tramuta in un vero e proprio «crimine» allorché si abbia a che fare con un uomo che, nello svolgimento delle sue funzioni, rifiuti di riconoscersi «obbligato» pur avendo influenza sul destino di altri uomini. Il compito principale della legge – anzi, la sua ragion d’essere – è di fare in modo che ogni forma di potere possa sempre essere nelle mani di «ceux qui consentent en fait à être liés par l’obligation dont chaque homme est tenue envers tous les êtres humains, e qui en possèdent la connaissance» (EL, 80). La nozione di obbligo, che avevamo già visto fornire il luogo più concreto di inveramento della giustizia, diviene così, non solo il principio di legittimazione del potere e di giustificazione della legge14, ma anche la base su cui far crescere un nuovo senso della «certezza giuridica», in virtù della quale è appunto il riconoscimento universale del sistema degli obblighi a fornire la conoscenza a priori della regola da rispettare. 2. È fuor di dubbio, in ogni caso, che il discorso della Weil appare particolarmente complesso, e certamente non privo di elementi poco chiari, per non dire di vere e proprie contraddizioni. Nel tentare di ricostruirne i principali punti fermi bisogna perciò sforzarsi di 13
«L’obligation fondamentale envers les êtres humains se subdivise en plusieurs obligations concrètes par l’énumeration des besoins essentiels de la créature humaine. Chaque besoin est l’objet d’une obligation. Chaque obligation a pour objet un besoin» (EL, 81). 14 Un sistema di leggi che non sia in grado di garantire che il potere sia esercitato da coloro che si riconoscono «obbligati», dice Simone Weil, difetta dell’essenza della legge (EL, 79).
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coglierne i significati profondi, e non solo immaginarne le ricadute immediate sul piano politico ed istituzionale. È degno di rilievo, ad esempio, il fatto che la figura del giudice sia posta al centro di un sistema costituzionale nel quale nessun potere può mai sussistere senza che vi sia un’istanza superiore di controllo. Non solo i giudici stessi sono sottoposti a una Corte speciale che può irrogare anche pene assai severe; ma tutti i politici, concluso il proprio mandato, devono sottomettere il loro operato all’analisi di un tribunale, che deve esprimere pubblicamente la sua valutazione. Persino la suprema carica dello Stato, un Président de la République scelto dalla magistratura nel suo seno e chiamato poi a vegliare su di essa, pur essendo nominato a vita, decade ed è sottoposto a «degradazione sociale» e persino alla morte se il referendum ventennale, col quale il popolo deve esprimere il proprio grado di soddisfazione sull’andamento della vita pubblica, ha un esito negativo (EL, 97). È chiaro che un sistema siffatto non può non esporre la Weil ad una serie di accuse ulteriori: di voler abbandonare non solo il sistema parlamentare, ma pure il concetto di responsabilità politica a vantaggio di quella penale15; di voler instaurare un «liberalismo autoritario», tipico «di una persona che si è impegnata a istituire a ogni costo un ideale trascendente»16; «di voler rendere la giustizia sovrana» attraverso un’immagine «profondamente moralistica» della magistratura17, e altre simili. Ma se si guarda, per un momento, all’esigenza che la pensatrice francese cerca di soddisfare non è difficile vedere come la previsione di un fitto sistema di controlli (e di relative punizioni), a «chiusura» del quale sta l’istituto del referendum ventennale, evidenzi paradossalmente l’intento di stabilire una legittimità interamente fondata sul consenso. La vera obbedienza, 15
Così ROLLAND, Simone Weil et le droit, cit., p. 238, il quale parla non solo, in generale, di una «“pénalisation” de la vie sociale», ma anche di una «régression historique vers le mécanisme de répression pénale des ministres» (ivi, p. 246). 16 Cfr. NEVILL, Simone Weil, cit., p. 373, che nota una «spietatezza inquietante» nella dedizione weiliana al bene comune. 17 Ivi, p. 379. «Peccato – commenta ancora Nevill – che, pur ammirando i suoi sforzi, venga un certo brivido alla schiena» (p. 381).
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infatti, dev’essere generata dal «consenso interiore» di chi è sottoposto all’autorità, e non frutto della coercizione: non può essere «la paura della punizione o l’esca della ricompensa» a costituire «la molla principale dell’ubbidienza» (PR, 22). Per quanto la legittimità sia individuata da una di quelle parole la cui precisa definizione è impossibile allo spirito umano (EL, 59), è certamente il consenso ad offrire la prova della sua esistenza18. Ma – ed è quello che va sottolineato – non può trattarsi di un consenso qualsiasi. Consapevole della confusione che si può ingenerare allorché la legittimità viene fatta derivare dall’effettività, dal fatto cioè che un qualche consenso vi sia, magari ottenuto mediante un disciplinamento forzato o un indottrinamento delle coscienze, la pensatrice francese si preoccupa di instaurare un legame indissolubile tra la legittimità, il consenso e la giustizia. Può esserci consenso reale solo quando esso è concesso a un potere che agisce secondo giustizia. Soltanto si celui qui gouverne a pour mobile le souci de la justice et du bien public, si le peuple a l’assurance qu’il en est ainsi et des motifs raisonnable d’être assuré que cela continuera, si le chef ne désire conserver le pouvoir qu’autant que le peuple conserve cette assurance, il y a gouvernement legitime (EL, 66).
Toccando il vertice di un itinerario che, per quel che riguarda il concetto di giustizia, si è dipanato sulla scia di una convinzione che possiamo definire «antirealista»19, la Weil afferma così che «seul ce qui est just est légitime» (EL, 127). Anche in questo caso, in fin dei conti, come in ogni tappa del percorso che si sta ricostruendo, si tratta di impedire quell’oppressione 18
Discutendo del progetto di costituzione, la Weil propone di sostituire, al tradizionale riferimento alla sovranità della nazione, il riferimento alla legittimità: «La légitimité est constituée par le libre consentement du peuple à l’ensemble des autorités auxquelles il est soumis» (EL, 92). 19 Sul rapporto tra i due piani – realistico e spirituale – in cui si colloca l’itinerario intellettuale weiliano, cfr. M. BROC-LAPEYRE, Réalisme politique et stratégie spirituelle, in CSW, n. 4, 1999, pp. 389-407.
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alla quale «la forza inclina naturalmente». Perché se è vero che nella realtà è la forza che s’impone come sovrana, proprio per questo il fine di una costituzione dev’essere quello di fare in modo che ad essere sovrana sia invece la giustizia (EL, 86). Da questo punto di vista, la lettura degli scritti londinesi, oltre a dare l’impressione di una sorta di apologia del diritto costituzionale, sembra riportare in superficie un motivo già rilevato nella prima riflessione weiliana e poi rimasto trascurato, forse perché coinvolto nella critica della dimensione giuridica. La possibilità storica di un nuovo tipo di legittimità convince, infatti, la Weil a recuperare l’idea del governo della legge, nel contesto di una concezione nella quale al centro dell’attenzione sembra essere il problema del come si governa (e non quello, o non solo quello, appartenente alla tradizione democratica, del chi governa). Nelle Idées essentielles pour une nouvelle constitution, al primo punto viene esplicitamente sottolineato che «il n’importe pas comment le chef du gouvernement est nommé, mai comment son pouvoir est limité, comment l’exercice en est contrôlé, comment il est eventuellement châtié»; ciò che vale per ogni specie di potere, sia esso «politique, administratif, judiciaire, militaire, économique, etc.» (EL, 93). Lo stesso ripensamento del ruolo del giudice appare funzionale a una ripresa e ad un rafforzamento del principio della separazione dei poteri, sia per garantire la necessaria autonomia di una giurisdizione che non rappresenti un’istituzione “meccanica”, sia, in generale, per fare in modo che ciascun potere non sconfini nel territorio dell’altro. Nel rivolgere la propria attenzione alle diverse competenze da attribuire ai poteri tradizionali dello Stato, la Weil pone una barriera netta tra la potestà legislativa spettante al Parlamento e l’attività amministrativa spettante all’esecutivo20. Quasi a sottolineare che il «governo della legge» non è solo governo sub lege, ma è anche governo per leges, viene quindi ricordato che le leggi sono testi 20
«Il faut séparer rigoureusement les décrets, mesures gouvernamentales, et les lois qui expriment le résultat de [l’] effort de pensée relatif aux notions essentielles» (EL, 93-94).
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generali e che il loro scopo principale è di rendere concreta la Dichiarazione fondamentale in cui è espresso il sistema degli obblighi. Un’apposita Corte di giustizia – vera e propria istanza di controllo di costituzionalità – è chiamata a vegliare sulla conformità delle leggi alla Dichiarazione, pronunciando una condanna di quelle delle quali sia eventualmente riscontrata la difformità (EL, 94). A fondamento di tale architettura costituzionale sta il convincimento (tutto rousseauiano)21 che la garanzia ultima della sua tenuta stia in una sorta di volonté generale, sulla cui reale dedizione al bene comune sembra riposare, in fin dei conti, la possibilità del “radicamento” della giustizia. Persino alcuni conflitti tra poteri sono decisi mediante referendum popolare, strumento di democrazia diretta cui si fa ricorso anche per il giudizio definitivo sulla costituzionalità delle leggi, qualora la Camera legislativa si opponga alla sentenza della Corte di giustizia. Bisognerebbe rilevare, qui, una stridente contraddizione con la critica della collettività e del «grosso animale», che si è visto essere un punto fermo della meditazione weiliana, se non fosse che, proprio su questo punto, vengono enunciate le tesi più radicali (e criticate) riguardanti l’organizzazione della politica. In particolare, la proposta di soppressione dei partiti politici – che tante accuse di totalitarismo ha attirato sulla fase londinese del pensiero della Weil22 – ha l’obiettivo esplicito di impedire qualsiasi «passione collettiva», la cui formazione e la cui influenza sono sempre d’ostacolo al perseguimento del bene comune. Muovendo dalle tesi di Rousseau, soprattutto dal legame diretto che, a suo avviso, egli avrebbe instaurato tra l’esercizio della ragione e la scelta della giustizia, la pensatrice francese conclude, da un lato, che solo l’individuo non influenzato da passioni collettive è in grado di vedere la giustizia, e dall’altro, che solo se ci si muove in 21
Cfr. R. CHENAVIER, Simone Weil et Rousseau. Volonté générale, partis politiques, République, in CSW, n. 3, 1999, pp. 299-314. 22 Cfr., per tutti, PH. DUJARDIN, Simone Weil, idéologie et politique, Presses Universitaires de Grenoble, Grenoble, 1975, p. 169 s.
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questa direzione è possibile concepire correttamente il legame tra consenso e giustizia. Lungi dal sostenere, infatti, che una cosa sia giusta esclusivamente perché è voluta dal popolo, per la Weil, in determinate circostanze, «le vouloir du peuple a plus de chances qu’aucun autre vouloir d’être conforme à la justice» (EL, 129)23. È solo perché ha maggiori probabilità di “scoprire” la giustizia che la volontà popolare – l’incontro cioè delle volontà individuali – deve prevalere. Ma perché quella scoperta possa avvenire è necessario innanzi tutto sgombrare il terreno da quelle «macchine per fabbricare passioni collettive» che sono i partiti, la cui pressione sul pensiero degli individui è sempre fonte di distorsioni e di errori. Una tale presa di posizione comporta ovviamente una precisa ricaduta sull’idea della democrazia e in particolare della rappresentanza democratica. L’analisi del rapporto di dipendenza che s’instaura tra un rappresentante del popolo e il partito in cui egli è stato eletto, non può non condurre all’idea che i rappresentanti debbano essere eletti solo in base alle idee che esprimono e che devono presentare agli elettori, e non perché appartengono a un dato partito24. Se si aggiunge che la dignità della funzione parlamentare viene ritenuta incompatibile con il «prostituirsi» nel contesto di una campagna elettorale (EL, 95), c’è da chiedersi se davvero la Weil pensasse a un sistema da lei ritenuto praticabile, o se non stesse eseguendo solo un puro esercizio mentale. Il fatto è che l’analisi delle proposte politico-istituzionali del periodo londinese non dovrebbe mai perdere di vista la fondamentale preoccupazione che è al centro della riflessione weiliana in quegli anni: la necessità del radicamento. Un passo delle Idées essentielles dà l’idea del paesaggio che la pensatrice francese ha in mente: 23
«Toute la conception politique de Simone Weil est dans cette formule, et c’est dans Rousseau qu’elle puise son inspiration» (CHENAVIER, Simone Weil et Rousseau, cit., p. 304). 24 Si tratta, peraltro, di un’idea che risale almeno al 1928, allorché la Weil chiamava «surveillants» i parlamentari, attribuendo loro il solo compito di vegliare sul governo e specificando che essi rimangono cittadini e non possono mai formare un corpo. Cfr. Les devoirs des représentants du peuple, in EHP, 1, 51 ss.
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Il faut que les membres de cette Chambre [législative] soient sollicités d’en faire partie. Cela suppose une vie sociale qui n’ait pas le caractère à la fois grégaire et désertique de celle d’aujourd’hui. Si les groupements de jeunesse, œuvres éducatives, etc., si la vie locale se développent, des hommes d’élite pourront être connus dans leur région sans s’être dégradés par la publicité (EL, 95).
La selezione del personale politico deve avvenire dunque attraverso una sorta di procedimento spontaneo: sono la qualità e la ricchezza della vita sociale che garantiscono l’emergere di una élite dirigente, senza che nessuno si impegni direttamente nella ricerca delle posizioni di potere25. Un’idea davvero in controtendenza rispetto alla realtà del proprio tempo (ma si potrebbe forse dire, di ogni tempo), che solo nel contesto di una proposta di generale rinnovamento della società e del costume può assumere un significato concreto26. 3. È la necessità dell’enracinement, il suo accoglimento quale «bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana» (PR, 49), a rappresentare dunque il supporto di tutto l’impianto di pensiero weiliano. Un punto in cui confluiscono riflessioni politiche, storiche e religiose, e che non a caso rappresenta un luogo ineludibile di ogni indagine che abbia ad oggetto il pensiero dell’autrice francese. Per quel che interessa ora qui, la sua rilevanza s’impone innanzi tutto per la stretta connessione in cui esso viene a trovarsi con la legittimità27. Se avere una «radice» significa poter partecipare realmente, attivamente e naturalmente «all’esistenza di una collettività 25
Si è detto, a questo proposito, che «l’intera struttura istituzionale emergente dal “progetto di costituzione” redatto da Simone Weil è la più adatta alla instaurazione e conservazione di un regime consuetudinario» (NARDO, Diritto soggettivo e diritto oggettivo nella prospettiva del pensiero di Simone Weil, cit., p. 41). 26 Cfr. P. ROLLAND, Approche politique de l’Enrecinement, in CSW, n. 4, 1983, pp. 297-318. 27 Sul rapporto tra necessità del radicamento e ricomparsa di una legittimità «perduta», M. SOURISSE, L’idée de légitimité, in CSW, n. 1, 2004, pp. 1-31.
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che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro» (PR, 49), è da rimarcare il fatto che la legittimità venga a caratterizzarsi ulteriormente attraverso le medesime coordinate temporali: essa, infatti, «è la continuità nel tempo; la permanenza, un invariante. Essa dà come finalità alla vita sociale qualcosa che esiste e che è concepito come esistito da sempre e che sempre deve essere. Essa obbliga gli uomini, in tutti gli atti della vita sociale, a volere esattamente ciò che è» (Q, III, 270). Una tale visione della legittimità, che richiama implicitamente la categoria weberiana del potere legittimo di carattere tradizionale, se da un lato aggiunge frecce ulteriori all’arco di quanti hanno concentrato la loro attenzione critica sull’itinerario ideologico weiliano – sempre più vicino, a parere di alcuni, a posizioni «reazionarie» quando non «totalitarie»28 –, dall’altro lato ha comunque l’effetto di misurare ancora una volta la distanza incolmabile tra il “progetto” weiliano e l’intero impianto politico-giuridico moderno. Anzi, più in generale, è la modernità stessa in quanto tale ad esser messa in questione, almeno come progetto di autonomizzazione degli individui da tutti i legami che possono derivare dal passato e dall’appartenenza ad un luogo29. Se la legittimità coincide con la “fedeltà al passato”, verrebbe da dire, non si dà legittimità nel mondo moderno. Ancora una volta, però, bisogna resistere alla tentazione di proiettare le posizioni weiliane sul piano immediato della politica, quasi che abbia senso collocare la pensatrice francese entro le coordinate della lotta quotidiana per il potere30: «on ne comprend pas 28
Cfr., oltre a DUJARDIN, Simone Weil, idéologie et politique, cit., A. BOSCHETTI, Cristianesimo, etica, politica: il caso Weil, in «Servitium», 1977, p. 737, citato in BEA PEREZ, Simone Weil, cit., p. 200. 29 Tra i molti riferimenti possibili, si rinvia alla sintesi di B. DE JOUVENEL, Du pouvoir, Hachette, Paris, 1972, tr. it. Del potere, SugarCo, Milano, 1991, p. 336, che descrive l’uomo moderno come un «uomo senza superiori, senza antenati, senza credenze e senza costumi». 30 Qui, più che altrove, vale l’avvertenza di un autore certamente non mosso da intenti celebrativi nei confronti della Weil, secondo il quale, prendere gli scritti weiliani «come un insieme di princìpi dispensati vuol dire fare sia a essi sia a lei una particolare, violenta ingiustizia» (NEVILL, Simone Weil, cit., p. 422).
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Simone Weil si on cherche à l’étiqueter»31. Non si tratta nemmeno, ovviamente, di assumere le “provocazioni” della Weil per farne un’autrice più o meno attuale, a seconda del punto di vista di chi giudica. Importa, invece, vedere come si collochino certe prese di posizione, o l’uso di determinate categorie teoriche, all’interno di un pensiero che non si lascia rinchiudere né dentro steccati ideologici, né dentro recinti scientifici o accademici. Solo allora sarà possibile cogliere in tutta la sua portata il significato politico radicale che il pensiero weiliano certamente contiene. In questo senso, il modo più corretto di intendere il legame tra radicamento e legittimità – confermato anche, in negativo, nella considerazione che lo sradicamento è «rottura della legittimità» (Q, III, 271) – è probabilmente quello di considerarlo come momento culminante di un pensiero (che è indistintamente filosofico, politico e religioso) nel quale il punto di partenza logico è rappresentato dal rapporto che l’uomo è chiamato ad instaurare con la trascendenza. È come se la legittimità fornisse la prova ultima dell’assolvimento del difficile compito assegnato al radicamento: creare lo spazio più idoneo in cui l’individuo possa uscire da se stesso; non, come si è cercato di mostrare a suo tempo, per annullarsi in un noi collettivo, ma per acquistare coscienza della propria incompletezza, e conseguentemente prendere atto dell’esistenza di una realtà al di fuori di lui e superiore a lui. Il fondo della questione è semplice. Se le facoltà umane da sole bastano, non c’è alcun inconveniente a far tabula rasa di tutto il passato, contando solo sulle risorse della volontà e dell’intelligenza per vincere ogni tipo d’ostacolo. [Ma] se l’uomo ha bisogno d’un soccorso esterno, e se si ammette che questo soccorso sia d’ordine spirituale, il passato si rivela indispensabile, perché esso è il deposito di tutti i tesori spirituali. Certamente l’azione della grazia, al limite, mette l’uomo in contatto diretto con un altro mondo. Ma solo la luce proveniente dai tesori spirituali del passato può mettere un’anima in quello stato che costituisce
31
M. SOURISSE, La dialectique de l’enracinement et du déracinement dans la pensée de Simone Weil, in CSW, n. 4, 1986, p. 379.
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la condizione necessaria affinché la grazia possa essere accolta […] La perdita del passato equivale alla perdita del soprannaturale (SC, 50).
La lunga serie di riflessioni della Weil a proposito delle civiltà radicate e sradicate conferma così l’idea che il radicamento sia una forma della mediazione, uno di quei “ponti” che la Grecia antica, consapevole «della miseria umana, della trascendenza di Dio, della infinita distanza tra Dio e l’uomo», aveva costruito per ridurre questa distanza (C, 29). È stata una vera e propria disgrazia, perciò, che l’Europa, bisognosa periodicamente di «contatti reali con l’Oriente per rimanere spiritualmente viva», abbia invece esportato lo spirito dello sradicamento (SC, 46), costringendo intere civiltà a perdere il contatto con il proprio passato32. Se davvero lo sradicamento è da considerare quale fonte e prodotto, allo stesso tempo, di tutti i mali di cui l’umanità ha sofferto (e sta soffrendo), come si sostiene nelle pagine de L’enracinement, non può che seguirne l’invito a fare in modo che in occasione di «qualsiasi innovazione politica, giuridica o tecnica suscettibile di ripercussioni sociali» si mettano sempre «in programma provvedimenti che consentano agli esseri umani di riavere radici» (PR, 56). 4. Nel segno del radicamento si conclude dunque l’itinerario filosofico-giuridico all’interno della riflessione weiliana. La coppia oppositiva radicamento/sradicamento fornisce anzi l’estrema riprova – oltre che l’ultima incarnazione – del legame tra la giustizia e l’amore soprannaturale, da un lato, e tra il diritto e la forza, dall’altro. Tutto ciò che trova espressione nel radicamento, infatti, ha un legame con la giustizia in quanto è frutto di attenzione creatrice, a cominciare dal rispetto per le testimonianze del passato; al contrario, tutto ciò che sradica agisce mediante la forza e il suo operato viene spesso codificato in regole giuridiche, i suoi effetti custoditi all’interno di appositi recinti normativi. Lo Stato medesimo, il frut-
32
Cfr. D. CANCIANI, Dalla dominazione coloniale all’incontro tra Occidente e Oriente, introduzione a SC, pp. 7-23.
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to più maturo della modernità giuridica e politica, il creatore primo del diritto e il detentore del monopolio della forza, non è che il risultato di uno sradicamento che diffonde sradicamento dovunque giunga la sua azione: insieme al denaro, esso ha «sostituito tutti gli altri legami» (PR, 95)33. Dovrebbe essere del tutto superfluo ribadire, comunque, che la considerazione positiva del radicamento non suona mai come un appello alla «chiusura». Il fatto che la giustizia sia per la Weil qualcosa di «eterno», di «immutabile», che non ha nulla a che fare con la particolarità di determinate condizioni storiche, sociali e ambientali, permette di rigettare definitivamente i pericoli insiti in ogni celebrazione delle «radici». L’«obbligo» che ciascuno ha nei confronti dei bisogni dell’altro, infatti, non ha connotazioni etniche, né politiche, né religiose, come avviene in un romanzo dal sapore weiliano, scritto da un autore che ha molto ammirato la Weil. In Una manciata di more di Ignazio Silone, due contadini non riescono a capire il linguaggio di un carabiniere che viene prima a redarguirli e poi ad annunciargli la concessione di una medaglia perché hanno dato del pane a un uomo che aveva fame. Al momento in cui lo avevano soccorso, l’uomo era un nemico della patria, ma poiché nel frattempo erano «mutate varie cosette» e il nemico era diventato alleato, il loro gesto andava premiato. I due non capiscono e non sanno far altro che ripetere: «era un pezzo di pane scuro, come usiamo noi contadini. Un pezzo di pane qualsiasi. L’uomo aveva fame. Anche lui era un figlio di madre». Nello stupore dei contadini, che non comprendono quale significato politico, e tanto meno quali conseguenze giuridiche, possa avere un gesto semplice come quello di dare del pane agli affamati, sembra espresso il senso ultimo della distanza tra il mondo del diritto (considerato nei suoi rapporti con la forza e il potere) e la sfera 33
Col fatto che «tutte le unità geografiche più piccole della nazione» – villaggi, città, circondari, province, ecc. – hanno cessato di avere importanza, «il bene più prezioso dell’uomo nell’ordine temporale, cioè la continuità nel tempo, al di là dei limiti dell’esistenza umana […] è stato interamente rimesso allo stato» (PR, 94).
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della giustizia su cui insiste Simone Weil, che avrebbe dato a quel carabiniere le stesse risposte dei due contadini: di fronte a chi afferma che «in città» le cose sono cambiate e che è cambiato anche «il modo di decidere se un fatto è bene o male», si sarebbe forse limitata ad osservare, per difendere la purezza del suo gesto, che nulla di ciò che la riguardava poteva mai cambiare veramente: se i contadini rispondono che «le pietre sono rimaste dure [e] la pioggia è sempre umida»34, ella avrebbe ricordato che l’obbligo «non si fonda su alcuna convenzione. Perché tutte le convenzioni sono modificabili secondo la volontà dei contraenti mentre in esso nessun cambiamento nella volontà degli uomini può nulla modificare» (PR, 14). Come dire, una volta per tutte, che al diritto che cambia e che può imporre oggi ciò che ieri riteneva illegale, risponde sempre l’unicità e la semplicità di un gesto, nel quale l’attenzione per l’altro realizza pienamente e senza intermediari il comandamento supremo della giustizia.
34
I. SILONE, Una manciata di more, parte terza, cap. 5, Mondadori, Milano, 1991, p. 250 ss. Come è noto, Silone si è ispirato alla figura di Simone Weil per il personaggio del suo ultimo ed incompiuto romanzo, Severina, pubblicato a cura di D. Silone, Mondadori, Milano, 1993. Sull’«incontro» postumo tra lo scrittore italiano e la pensatrice francese, che aveva letto e «amato» Pane e vino, cfr. M. PIERACCI HARWELL, Silone e Simone Weil, in «Quaderni Satyagraha» n. 1, 2000, pp. 102-124, oltre alla breve nota di R. KUHN, Sur un possible rapprochement entre Ignazio Silone e Simone Weil, in CSW, n. 2, 1983, pp. 158-160.
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Finito di stampare nel mese di Novembre 2006 da Media Print, Livorno via G. Gozzano, 7