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ANNE RICE IL VAMPIRO MARIUS (Blood And Gold, 2001) Dedicato al mio caro marito, Stan Rice, e alla mia amata sorella, Karen O'Brien L'ASCOLTATORE 1 Si chiamava Thorne. Nell'antico linguaggio delle rune il suo nome era più lungo - Thornevald - ma quando divenne un bevitore di sangue, fu abbreviato. Ed era Thorne anche adesso, secoli più tardi, mentre stava sdraiato e sognava nella sua caverna in mezzo al ghiaccio. Quando arrivò per la prima volta nella terra glaciale sperava di dormire in eterno, ma di tanto in tanto veniva destato dalla sete di sangue, allora, grazie alla facoltà di volare, si innalzava nell'aria e andava in cerca dei cacciatori delle nevi. Si cibava di loro, badando di non prendere mai troppo sangue per evitare che qualcuno morisse a causa sua. Quando aveva bisogno di pellicce e stivali prendeva da loro anche quelli, poi tornava nel suo nascondiglio. Quei cacciatori delle nevi non appartenevano al suo popolo: avevano la pelle scura, gli occhi a mandorla e parlavano una lingua diversa. Li aveva già conosciuti in tempi antichi, quando si era spinto nella terra d'Oriente insieme allo zio commerciante. A Thorne non era mai piaciuto il commercio, lui preferiva la guerra, tuttavia, nel corso di quelle avventure aveva imparato molte cose. Durante il suo sonno nel Nord sognava. Non poteva evitarlo. Le doti medianiche gli permettevano di sentire le voci di altri bevitori di sangue e, suo malgrado, attraverso i loro occhi osservava il mondo come lo vedevano loro. A volte non gli dispiaceva, anzi. Gli oggetti moderni lo divertivano. Ascoltava canzoni lontane, elettriche. Grazie ai suoi poteri psichici riusciva a comprendere congegni come i motori a vapore, le ferrovie e persino i computer e le automobili. Sentiva e riconosceva le città che si era lasciato alle spalle, benché fossero passati secoli da quando le aveva abbandonate. Era stato assalito dalla consapevolezza che non sarebbe morto. La soli-
tudine di per sé non poteva annientarlo, la trascuratezza non bastava. Così dormiva. Poi accadde una cosa strana: una catastrofe si abbatté sul mondo dei bevitori di sangue. Era arrivato un giovane cantore di saghe. Si chiamava Lestat, e con le sue canzoni elettriche divulgava antichi segreti, segreti che Thorne non aveva mai conosciuto. In seguito si era destata una regina, un essere malvagio e ambizioso. Sosteneva di racchiudere dentro di sé il Sacro Nucleo di tutti i bevitori di sangue, tanto che in caso di sua morte, tutta la specie sarebbe perita con lei. Thorne era rimasto sbigottito. Non aveva mai sentito parlare di quei miti legati alla sua razza. Non era sicuro di crederci. Tuttavia, mentre lui dormiva, mentre sognava, mentre osservava, quella regina con il dono del fuoco cominciò ad annientare bevitori di sangue sparsi per il mondo. Thorne sentì le loro grida mentre tentavano di fuggire, assistette alle loro morti nella misura in cui altri vi assistevano. Nel corso delle sue peregrinazioni, la regina arrivò vicino a Thorne, ma se lo lasciò sfuggire: era ben nascosto e silenzioso nella sua caverna, forse lei non ne percepì la presenza. Ma lui percepì la sua e non aveva mai conosciuto una tale età o forza, se non in colei che gli aveva dato il Sangue. E si ritrovò a pensare a lei, la Creatrice, la strega dai capelli rossi e dagli occhi sanguinanti. La catastrofe tra la sua gente si aggravò. Le uccisioni continuarono, e bevitori di sangue vecchi come la regina uscirono dai rispettivi nascondigli, e lui li vide. Alla fine giunse l'essere dai capelli rossi che l'aveva creato. Thorne la vide attraverso gli occhi di quanti la vedevano. All'inizio non riuscì a credere che fosse ancora viva; era passato così tanto tempo da quando l'aveva lasciata in Estremo Oriente che non aveva osato sperare fosse sopravvissuta. Gli occhi e le orecchie di altri bevitori di sangue gli fornirono la prova inconfutabile. Quando la osservava nei suoi sogni veniva sopraffatto dalla tenerezza e dalla rabbia. La creatura che gli aveva donato il Sangue disprezzava la regina malvagia ed era decisa a fermarla. Il loro era un odio reciproco che risaliva a migliaia di anni prima. Infine quegli esseri si riunirono: anziani appartenenti alla Prima Stirpe
dei bevitori di sangue, e altri amati dal vampiro Lestat che quindi la regina malvagia scelse di non annientare. Mentre giaceva immobile nel ghiaccio, Thorne udì vagamente la loro strana conversazione: stavano seduti intorno a una tavola rotonda, come potenti cavalieri, solo che in quel concilio le donne erano sullo stesso piano degli uomini. Tentarono di ragionare con la regina, sforzandosi di convincerla a porre fine al suo regno di violenza, a rinunciare ai suoi piani crudeli. Lui rimase in ascolto, ma non riuscì a capire sino in fondo quanto veniva detto. Sapeva soltanto che la regina andava assolutamente fermata. La regina amava il bevitore di sangue Lestat, ma nemmeno lui riusciva a distoglierla dalle catastrofi che provocava, tanto era sprezzante la sua visione e depravata la sua mente. Racchiudeva davvero dentro di sé il Sacro Nucleo di tutti i bevitori di sangue? E, in tal caso, come la si poteva annientare? Thorne rimpianse che le sue doti medianiche non fossero più. potenti, e di non averle usate più spesso. Durante i lunghi secoli di sonno la sua forza era aumentata, tuttavia adesso avvertiva la propria distanza e la propria debolezza. Mentre osservava con gli occhi aperti, come se ciò potesse aiutarlo a vedere meglio, gli apparve un'altra donna dai capelli rossi, la gemella di quella che lo aveva amato molto tempo prima. Quella visione lo lasciò esterrefatto, come soltanto un gemello può fare. Capì che la Creatrice, un tempo tanto amata, aveva perso la gemella migliaia di anni prima, e che la regina malvagia era l'artefice di quella sventura. Lei, che disprezzava le gemelle dai capelli rossi, le aveva separate. E adesso la sorella perduta veniva a tradurre in realtà l'antica maledizione che aveva lanciato contro la regina. Mentre le si avvicinava sempre più, la gemella perduta pensava unicamente ad annientarla. Non si sedette al tavolo del concilio. Non conosceva ragionevolezza né restrizioni. «Moriremo tutti», sussurrò Thorne nel suo torpore assonnato, in mezzo alla neve e al ghiaccio dell'eterna notte artica che lo avviluppava gelida. Non si mosse per raggiungere i compagni immortali, ma continuò a guardare. Rimase in ascolto. Sarebbe rimasto così fino all'ultimo istante. Non poteva fare altro. Finalmente la gemella perduta si scagliò contro la regina. Gli altri bevitori di sangue osservarono la scena, orripilati. Mentre i due esseri lottavano
e combattevano come due guerrieri sul campo di battaglia, una strana visione colmò all'improvviso la mente di Thorne, benché fosse steso nella neve e stesse fissando il cielo. Quello che vide fu un'immensa e intricata ragnatela che si diramava in ogni direzione, in cui erano intrappolati numerosi puntini di luce pulsanti, e al centro della quale spiccava un'unica fiamma vibrante. Capì che la fiamma era la regina e che i puntini luminosi erano tutti gli altri bevitori di sangue. Lui stesso era uno di quei minuscoli puntini. La storia del Sacro Nucleo era vera. Lo vide con i propri occhi, poi giunse per tutti il momento di arrendersi all'oscurità e al silenzio. Giunse la fine. L'ampia e complessa ragnatela prese a scintillare, il nucleo parve esplodere; tutto si affievolì per un lungo istante, durante il quale Thorne percepì nelle membra una dolce vibrazione che sentiva spesso durante il semplice sonno, e pensò: Ah, quindi stiamo morendo. Non avvertì alcun dolore, eppure era come Ragnarok per i suoi antichi dei, quando il grande dio Heimdall, colui che illumina il mondo, soffiava nel suo corno per chiamare gli dei di Aesir alla battaglia finale. «E anche noi finiamo con una guerra», sussurrò Thorne nella sua caverna, ma i suoi pensieri non si interruppero. Cessare di vivere gli sembrò la cosa migliore, ma poi pensò a lei, la creatura dai capelli rossi, la sua Creatrice, che aveva desiderato intensamente rivedere. Come mai lei non gli aveva mai parlato della gemella perduta? Perché non gli aveva mai confidato i segreti e i miti cantati del bevitore di sangue Lestat? Sicuramente la Creatrice era stata al corrente del segreto della regina malvagia con il Sacro Nucleo. Thorne si agitò nel sonno. La gigantesca ragnatela era scomparsa dalla sua visione, ma lui riuscì a distinguere con insolita nitidezza le gemelle dai capelli rossi: donne grandiose. Erano in piedi l'una accanto all'altra, quelle avvenenti creature, l'una vestita di stracci, l'altra sontuosamente abbigliata. E attraverso gli occhi di altri bevitori di sangue lui scoprì che la gemella sconosciuta aveva ucciso la regina e trasferito dentro di sé il Sacro Nucleo. «Guardate, la Regina dei dannati», disse la sua Creatrice, mentre presentava agli altri la sorella perduta da tempo. Thorne la comprese, vide la sofferenza sul suo volto. Ma il volto della sorella sconosciuta, la Regina dei dannati, era del tutto inespressivo. Durante le notti successive, i sopravvissuti alla catastrofe rimasero in-
sieme. Si raccontarono storie, e le storie colmarono l'aria come i canti dei bardi dei tempi antichi, intonati nella sala dell'idromele. E Lestat, abbandonando i suoi strumenti musicali elettrici, divenne ancora una volta il cronista, stilando un resoconto della battaglia che avrebbe diffuso agevolmente nel mondo mortale. Ben presto le sorelle dai capelli rossi se ne andarono, trovando un nascondiglio ove l'occhio distante di Thorne non riusciva a trovarle. Stai fermo, si disse. Dimentica le cose che hai visto. Non hai motivo di uscire dal ghiaccio, così come non l'hai mai avuto. Il sonno è tuo amico. I sogni sono i tuoi ospiti non invitati. Rimani steso tranquillamente e scivolerai ancora nella quiete. Sii come il dio Heimdall prima della chiamata alle armi, talmente silenzioso da poter udire la lana che cresce sul dorso delle pecore e l'erba che cresce nelle terre lontane dove la neve si scioglie. Ma gli apparvero altre visioni. Il bevitore di sangue Lestat provocò un nuovo e sconcertante scompiglio nel mondo mortale. Quello che recava era uno splendido segreto risalente al passato cristiano, e lo aveva affidato a una fanciulla mortale. Non ci sarebbe stata pace per Lestat. Era come un compatriota di Thorne, come uno dei guerrieri della sua epoca. Thorne rimase a guardare, mentre, ancora una volta, appariva la creatura dai capelli fulvi, la sua adorabile Creatrice, gli occhi arrossati come sempre dal sangue mortale, elegantemente vestita e colma di autorevolezza e potere, e stavolta venne a mettere in catene l'infelice vampiro Lestat. Catene capaci di trattenere un essere così potente? Thorne rifletté; si chiese quali catene potessero riuscirci. Sembrava sentire il bisogno di conoscere la risposta a quella domanda. E vide la creatura dai capelli rossi seduta pazientemente lì accanto, mentre Lestat, legato e inerme, si dibatteva e strepitava, senza però riuscire a liberarsi. Di cosa erano fatti quei legacci apparentemente morbidi e sagomati, che riuscivano a trattenere un tale essere? L'interrogativo lo tormentava senza posa. E come mai la sua Creatrice dai capelli rossi amava Lestat e gli permetteva di vivere? Come mai restava così tranquilla mentre il giovane si agitava? Cosa si provava a essere legati dalle sue catene, e vicino a lei? I ricordi lo riassalirono, preoccupanti visioni della sua Creatrice quando lui, un guerriero mortale, l'aveva scorta per la prima volta in una caverna nella terra del Nord che era stata la sua casa. Era notte, e lui l'aveva vista con la rocca e il fuso in mano, e gli occhi sanguinanti.
Lei si era strappata un capello dopo l'altro dalle lunghe ciocche rosse e li aveva trasformati in filo, lavorando con silenziosa celerità mentre Thorne le si avvicinava. Era un inverno rigido, e il fuoco dietro di lei appariva magico nella sua luminosità; Thorne era rimasto fermo nella neve a guardarla filare come aveva visto fare a un centinaio di donne mortali. «Una strega», aveva detto ad alta voce. Bandì quel ricordo dalla memoria. Adesso la vide mentre sorvegliava Lestat, ormai forte quanto lei. Vide le strane catene che legavano il giovane, il quale ormai aveva smesso di lottare. Alla fine Lestat venne liberato, e raccogliendo le catene magiche la sua Creatrice dai capelli rossi abbandonò lui e i compagni. Gli altri erano visibili, ma lei si era sottratta alla loro visuale e, così facendo, era uscita anche dalle visioni di Thorne. Ancora una volta lui si ripromise di tornare a dormire. Spalancò la propria mente al sonno, ma nella caverna di ghiaccio le notti trascorsero distintamente una dopo l'altra, mentre il rumore del mondo continuava a essere assordante e amorfo. Il tempo passava, ma Thorne non riusciva a dimenticare la visione della sua Creatrice a lungo bramata; non poteva dimenticare che era vitale e splendida come sempre, e antichi pensieri lo riassalirono con penosa intensità. Perché avevano litigato? Lei gli aveva mai voltato davvero le spalle? Perché lui aveva odiato così tanto gli altri compagni che la Creatrice aveva scelto? Perché aveva nutrito un simile rancore verso i bevitori di sangue erranti, che scoprendo lei e la sua coorte, la adoravano mentre si raccontavano dei rispettivi viaggi nel Sangue? E i miti - quelli della regina e del Sacro Nucleo - avrebbero avuto qualche importanza per lui? Non lo sapeva. Non aveva avuto fame di miti. La cosa lo confondeva. Inoltre non riusciva a scacciare dalla mente l'immagine di Lestat legato da quelle misteriose catene. La memoria si rifiutava di lasciarlo in pace. Era metà inverno, nel periodo in cui il sole non brilla affatto sul ghiaccio, quando si rese conto che il sonno lo aveva abbandonato, e che non avrebbe più avuto pace. Così lasciò la caverna per iniziare la lunga camminata verso sud, attraverso la neve, prendendosela comoda e ascoltando le voci elettriche del mondo sottostante, non sapendo bene da dove ci sarebbe
rientrato. Il vento gli agitava i lunghi e folti capelli rossi; si rialzò davanti alla bocca il colletto foderato di pelliccia e si tolse il ghiaccio dalle sopracciglia. Gli stivali si bagnarono in fretta, così allargò le braccia, evocando silenziosamente la facoltà di volare, e cominciò a innalzarsi per poter viaggiare a bassa quota sopra la terra, tendendo le orecchie per sentire altri della sua specie, sperando di trovarne uno antico come lui, qualcuno che potesse dargli il benvenuto. Stanco delle doti medianiche e dei loro messaggi casuali, adesso voleva sentire parole vere, pronunciate ad alta voce. 2 Viaggiò per diversi giorni senza sole e per diverse notti di mezzo inverno, ma non dovette aspettare a lungo prima di sentire il grido di un altro. Era un bevitore di sangue più vecchio di lui e si trovava in una città che Thorne aveva conosciuto secoli prima. Nel corso del suo lungo sonno non aveva mai dimenticato quella città. Ricordava che c'erano un grande mercato e un'elegante cattedrale, tuttavia, quando l'aveva vista, in occasione del suo lungo viaggio verso nord, tantissimi anni prima, Thorne l'aveva trovata afflitta dal terribile flagello della peste, e aveva persino dubitato della sua capacità di sopravvivere. In realtà aveva sospettato che tutti i popoli del mondo sarebbero periti a causa di quell'orrenda pestilenza, tanto era terribile e spietata. Ancora una volta, fu assalito da nitidi e tormentosi ricordi. Rivide l'epoca della pestilenza e ne risentì l'odore: l'epoca in cui i bambini vagavano senza meta né genitori, e i cadaveri restavano ammonticchiati per le strade, e il puzzo di carne putrescente aleggiava ovunque. Come avrebbe potuto spiegare il dolore che aveva provato per il genere umano colpito da una tale catastrofe? Non era la sua città, tuttavia non voleva vederla morire, assieme ai villaggi circostanti. Quando si cibava degli infetti non restava contagiato, ma non poteva curare nessuno, perciò si era spostato a nord, certo che le mirabili opere create dall'umanità sarebbero infine state abbandonate e poi ricoperte dalla neve o dai rampicanti o dalla stessa morbida terra, per cadere nell'oblio definitivo. Invece non era tutto morto in quella città, come lui aveva temuto all'epoca. Alcuni abitanti erano sopravvissuti, e ora i loro discendenti vivevano
nelle strette stradine medievali di acciottolato in cui Thorne stava camminando, trovando la pulizia che vi regnava più consolatoria di quanto avrebbe potuto sperare. Sì, era bello passeggiare in quel luogo vitale e ordinato. Le vecchie case di legno erano solide ed eleganti, e all'interno di esse sentiva ticchettare e ronzare le macchine moderne. Riusciva a percepire e vedere i miracoli che aveva soltanto intravisto grazie ai suoi poteri mentali. I televisori erano colmi di sogni variopinti. E la gente assaporava un riparo dalla neve e dal ghiaccio che l'epoca di Thorne non aveva concesso a nessuno. Stupito da tutte quelle cose, desiderava conoscere più. a fondo quei portenti. Desiderava vedere treni e navi, aeroplani e automobili, computer e telefoni senza filo. Forse poteva farlo. Forse poteva concedersi il tempo di farlo. Non era tornato alla vita con uno scopo di quel genere ma, in fin dei conti, chi gli imponeva di portare a termine rapidamente il suo incarico? Nessuno era al corrente della sua esistenza, tranne forse il bevitore di sangue che lo chiamava, che schiudeva con tanta facilità la propria mente. Dove si trovava la creatura da lui udita qualche ora prima? Irradiò un lungo appello silenzioso, senza rivelare il proprio nome, ma limitandosi a giurare solennemente che gli offriva la sua amicizia. Ricevette ben presto una risposta. Grazie alle facoltà psichiche vide uno sconosciuto biondo, seduto nella saletta sul retro di una certa taverna, un locale in cui i bevitori di sangue si riunivano spesso. Raggiungimi qui. L'indicazione era chiara e Thorne si affrettò a seguirla. Nel corso dell'ultimo secolo aveva sentito le voci dei bevitori di sangue parlare di simili rifugi. Taverne di vampiri, bar di bevitori di sangue, club di bevitori di sangue. Costituivano la Vampire Connection. Incredibile! La cosa gli strappò un sorriso. Con gli occhi della mente rivide la fulgida e disturbante allucinazione dell'enorme ragnatela in cui era imprigionata una miriade di minuscole lucine pulsanti. Quella visione aveva rappresentato tutti i bevitori di sangue collegati al Sacro Nucleo della regina malvagia. E anche se la Vampire Connection era un'eco di quella ragnatela, ne era affascinato. Quei bevitori di sangue moderni si chiamavano a vicenda attraverso i computer, trascurando i poteri telepatici? Si ripromise di non lasciarsi sorprendere pericolosamente da nulla.
Eppure avvertì brividi in tutto il corpo, rammentando i confusi sogni imperniati sulla catastrofe. Sperava e pregava che l'amico appena trovato confermasse ciò che lui aveva visto. Sperava e pregava che il bevitore di sangue fosse davvero vecchio, non giovane, tenero e goffo. Sperava che possedesse il dono delle parole, perché il suo più grande desiderio era sentire delle parole. Riusciva raramente a trovare le parole giuste e adesso, più di qualsiasi altra cosa, voleva ascoltare. Si trovava quasi in fondo alla ripida stradina, con la neve che cadeva leggera tutt'intorno, quando vide l'insegna della taverna: IL LUPO MANNARO. Scoppiò a ridere. Quindi questi bevitori di sangue si dedicano a giochetti sconsiderati, pensò. Ai suoi tempi era tutto diverso. Chi, tra il suo popolo, non aveva creduto che un uomo potesse trasformarsi in lupo? Chi, tra il suo popolo, non sarebbe stato disposto a qualsiasi cosa pur di evitare che quel male lo colpisse? Eppure, eccolo là, il concetto trasformato in un balocco, con quell'insegna dipinta che oscillava nel vento sui suoi cardini, e le finestre protette da sbarre che brillavano sotto di essa. Tirò la maniglia della porta massiccia e si ritrovò subito in una stanza affollata, calda, pervasa dall'odore di fumo, vino, birra e sangue umano. Il tepore era di per sé soverchiante. A dire il vero, Thorne non aveva mai sentito niente del genere. Il calore era ovunque, uniforme e magnifico. E nella mente gli balenò la consapevolezza che nemmeno uno dei mortali lì presenti si rendesse conto di quanto fosse meraviglioso. Nei tempi antichi, un tale tepore sarebbe stato impossibile, perché il rigido inverno rappresentava la maledizione comune, per tutti. Tuttavia non c'era tempo per simili riflessioni. Rammentò a se stesso che non doveva lasciarsi cogliere alla sprovvista, ma l'ondata di chiacchiericcio dei mortali lo paralizzò, il sangue intorno a lui lo paralizzò. Per un attimo venne colto da una sete paralizzante. In mezzo a quella rumorosa folla indifferente avrebbe potuto scatenarsi, ghermendo questo e quello, solo per il piacere di essere scoperto: il mostro da braccare fino all'annientamento. Trovò un posticino accanto al muro e vi si appoggiò, a occhi chiusi. Ricordò i membri del suo clan che correvano su per la montagna, cercando la strega dai capelli rossi che non avrebbero mai trovato. Soltanto lui l'aveva vista. L'aveva vista cavare gli occhi al guerriero morto e infilar-
seli nelle proprie orbite; l'aveva vista tornare, sotto la neve leggera, nella caverna dove teneva sollevata la sua rocca; l'aveva vista avvolgere sul fuso il filo di un rosso dorato. E il clan aveva deciso di distruggerla, e lui aveva partecipato brandendo l'ascia. Come sembrava tutto sciocco, adesso che sapeva che lei aveva voluto che lui la vedesse. Era venuta a nord proprio per cercare un guerriero come lui. Aveva scelto Thorne, e ne aveva amato la giovinezza, la forza e il coraggio puro. Aprì gli occhi. I mortali presenti nel locale non gli badarono, benché i suoi abiti fossero fatiscenti e logori. Per quanto sarebbe riuscito a passare inosservato? In tasca non aveva monete per comprarsi un posto a sedere o una coppa di vino. Ma giunse di nuovo la voce del bevitore di sangue, che lo blandiva, lo rassicurava. Devi ignorare la folla. Non sa nulla di noi, né sa perché teniamo questo posto. Sono semplici pedine. Raggiungi la porta sul retro. Spingila con tutta la tua forza e la sentirai cedere. Gli sembrava impossibile poter attraversare impunemente la stanza, senza che quei mortali capissero che cos'era, ma doveva sconfiggere la paura e raggiungere il bevitore di sangue che lo stava chiamando. Rialzandosi il bavero fin sopra la bocca, si aprì un varco tra i corpi morbidi, cercando di non incrociare lo sguardo di chi gli lanciava una distratta occhiata. Quando vide la porta senza maniglia la spinse con decisione, come gli era stato detto di fare. L'uscio si aprì su un'ampia stanza scarsamente illuminata da grosse candele sistemate sui tavoli di legno sparsi qua e là. Il tepore era denso e gradevole come quello dello stanzone esterno. E il bevitore di sangue era solo. Era una creatura alta, dalla carnagione chiara, con capelli lunghi, ben pettinati e tanto biondi che sembravano bianchi. Aveva duri occhi azzurri e un viso delicato, coperto da un sottile strato di sangue misto a cenere per apparire di colore più umano agli occhi dei mortali. Portava un mantello di un rosso acceso con il cappuccio gettato sulla schiena. Thorne lo trovò bellissimo e garbato, più simile a un erudito che non a un uomo abile con la spada; notò che aveva mani grandi ma snelle, con le dita sottili. Si rese conto di averlo già visto grazie alle doti medianiche, stava seduto
al tavolo del concilio insieme agli altri bevitori di sangue, prima che la regina malvagia venisse abbattuta. Sì, era proprio lui, quello che aveva cercato strenuamente di ragionare con la regina pur covando dentro di sé una rabbia feroce e un odio irrazionale. Lo aveva visto lottare con le parole, parole scelte con estrema cura, per salvare tutti. Il bevitore di sangue gli indicò con un gesto di sedersi sulla destra, contro la parete. Thorne accettò l'invito e si ritrovò su uno spesso cuscino di pelle, la fiammella della candela gli danzava davanti birichina, proiettando la sua luce giocosa negli occhi dell'altro. Ormai Thorne riusciva a percepire l'odore del sangue nello sconosciuto. Si rese conto che il viso di quest'ultimo ne era intiepidito, così come le sue lunghe dita affusolate. Sì, stanotte ho cacciato, ma tornerò a caccia insieme a te. Ne hai bisogno. «Sì», confermò Thorne. «Non puoi nemmeno immaginare quanto tempo è passato dall'ultima volta. Soffrire in solitudine nella neve e nel ghiaccio era semplice, ma ora sono circondato da queste tenere creature.» «Capisco. Lo so.» Erano le prime parole che Thorne avesse pronunciato dopo moltissimi anni di silenzio; chiuse gli occhi per meglio assaporare il momento. La memoria è una maledizione, sì, ma anche il dono più sublime, pensò, perché se perdi la memoria perdi tutto. Un frammento della sua antica religione gli si riaffacciò alla mente: in cambio della memoria Odino aveva ceduto il proprio occhio ed era rimasto aggrappato all'albero sacro per nove giorni. Ma non era così semplice. Odino non aveva ottenuto solo la memoria, ma anche l'idromele che gli consentiva di cantare poemi. Una volta, anni prima, Thorne aveva bevuto quell'idromele da poeti, offertogli dai sacerdoti della foresta sacra, ed era rimasto in piedi al centro della casa paterna a cantare poemi su di lei, la creatura dai capelli rossi, la bevitrice di sangue, che aveva visto con i suoi stessi occhi. Le persone intorno a lui avevano riso e lo avevano schernito, ma quando lei aveva cominciato a uccidere i membri del clan, avevano smesso di prenderlo in giro. Una volta visti i cadaveri esangui con le orbite vuote, lo avevano trasformato nel loro eroe. Si scrollò. La neve gli cadde dai capelli e dalle spalle. Con mano indifferente si tolse i pezzetti di ghiaccio dalle sopracciglia. Vide il ghiaccio scio-
gliersi sulle sue dita. Strofinò energicamente la brina sul suo viso. Non c'era nessun fuoco in quella stanza? Si guardò intorno. Il calore entrava magicamente da alcune finestrelle. Ma com'era gradevole, com'era divorante! Avrebbe voluto togliersi i vestiti di scatto per immergersi in quel tepore. Ho il caminetto acceso, a casa mia. Ti ci porterò. Thorne si riscosse come da uno stato di trance per guardare lo sconosciuto. Si maledisse per essere rimasto seduto lì in preda alla goffaggine e al mutismo. L'altro parlò: «È più che comprensibile. Capisci la mia lingua?» «È la lingua delle doti medianiche», replicò lui. «Uomini in tutto il mondo la parlano.» Fissò nuovamente l'interlocutore. «Mi chiamo Thorne», disse. «Thor era il mio dio.» Infilò frettolosamente una mano sotto la consunta giacca di pelle e, da sotto la pelliccia, estrasse l'amuleto d'oro che teneva appeso a una catenina. «Il tempo non può arrugginire un oggetto del genere», spiegò. «E il martello di Thor.» Il bevitore di sangue annuì. «E i tuoi dei?» domandò Thorne. «Chi sono? Non parlo di credenze, capisci, ma di ciò che abbiamo perduto, tu e io. Capisci cosa voglio dire?» «Gli dei dell'antica Roma, sono quelli gli dei che ho perduto», dichiarò lo sconosciuto. «Mi chiamo Marius.» Thorne annuì. Era troppo meraviglioso parlare e sentire la voce di un altro. Per il momento dimenticò il sangue che bramava e desiderò unicamente un profluvio di parole. «Parlami, Marius», disse. «Raccontami cose meravigliose. Raccontami tutto ciò che vorresti farmi sapere.» Tentò di interrompersi ma non ci riuscì. «Una volta sono rimasto fermo a parlare con il vento, rivelandogli tutto ciò che racchiudevo nella mente e nel cuore. Eppure, quando sono andato a nord, in mezzo al ghiaccio, non avevo linguaggio.» Si interruppe, fissando gli occhi dell'interlocutore. «La mia anima è troppo ferita. Non ho pensieri veri e propri.» «Ti capisco», ribatté Marius. «Vieni a casa mia. Sarò felice di offrirti un bel bagno e gli abiti che ti servono. Poi andremo a caccia e tu ti rimetterai in forze, dopo di che parleremo. Posso raccontarti un'infinità di storie. Posso raccontarti tutte le storie della mia vita che desidero condividere con un altro.» Un lungo sospiro sfuggì dalle labbra di Thorne. Non riuscì a impedirsi di sorridere di gratitudine, gli occhi umidi e le mani tremanti. Scrutò il viso
dello sconosciuto. Non riuscì a trovarvi segni di disonestà o astuzia, Marius sembrava saggio e schietto. «Amico mio», dichiarò, poi si piegò in avanti per offrire il bacio di benvenuto. Mordendosi con forza la lingua si riempì la bocca di sangue e posò le labbra socchiuse su quelle dell'altro. Il bacio non colse di sorpresa Marius, era un'usanza che seguiva anche lui. Ricevette il sangue e diede la netta impressione di gradirlo. «Ora non possiamo litigare su nessuna questione irrilevante», affermò Thorne. Si mise più comodo contro la parete, tutt'a un tratto profondamente confuso. Non era solo. Temeva di dover dare libero sfogo alle lacrime. Temeva di non avere la forza di tornare fuori nel gelo per andare a casa dello sconosciuto, eppure era quello che sentiva il bisogno di fare. «Vieni», lo sollecitò Marius, «ti aiuterò.» Si alzarono dal tavolo insieme. La sofferenza di fendere la calca di mortali fu persino più intensa di prima. Una miriade di occhi brillanti e sfavillanti si fissarono su di lui, anche se solo per un attimo. Si ritrovarono nella stradina stretta, in mezzo al nevischio turbinante, con Marius che lo cingeva saldamente con un braccio. Thorne stava boccheggiando nel tentativo di incamerare aria, perché i battiti del suo cuore erano notevolmente accelerati; la neve gli sferzava il viso, mista a raffiche di vento. Per un attimo fu costretto a fermarsi e a gesticolare per pregare il suo nuovo amico di pazientare. «Ho visto talmente tante cose, grazie ai miei poteri mentali», asserì. «Ma non le ho capite.» «Forse posso spiegartele io», replicò Marius. «Posso spiegarti tutto quello che so, e tu puoi farne ciò che meglio credi. Per me la conoscenza non è equivalsa alla salvezza, ultimamente. Mi sento solo.» «Resterò con te», promise Thorne. Quel soave cameratismo gli stava scaldando il cuore. Camminarono a lungo, mentre Thorne riacquistava gradualmente le forze, dimenticando il tepore della taverna come se fosse stato un'illusione. Alla fine raggiunsero un'abitazione elegante, con un alto tetto spiovente e numerose finestre. Marius infilò la chiave nella porta e si lasciarono dietro la neve mista a vento, entrando in un ampio vestibolo. Una luce soffusa proveniva dalle stanze retrostanti. Pareti e soffitto erano rivestiti di legno accuratamente oliato, così come il pavimento, con tutti gli angoli realizzati a regola d'arte.
«Un genio del mondo moderno mi ha costruito questa casa», spiegò Marius. «Ho vissuto in molte dimore, tutte in stile diverso. Questa è solo una delle tante. Vieni dentro con me.» Incassato nel muro di legno del salone c'era un caminetto rettangolare di pietra in cui era impilata della legna che aspettava solo di essere accesa. Dietro le enormi vetrate, Thorne vide le luci della città. Capì che si trovavano sul margine della collina e che sotto di loro si stendeva una vallata. «Vieni», gli disse Marius. «Devo presentarti all'altro che vive qui con me.» Thorne rimase stupito, perché non aveva percepito la presenza di altri, ma lo seguì oltre la soglia del salone, in una stanza sulla sinistra dove si ritrovò davanti uno spettacolo bizzarro che lo disorientò. Molti tavoli riempivano la sala, o forse si trattava di un unico grande tavolo interamente occupato da un paesaggio in miniatura fatto di colline, vallate, villaggi e città. Era costellato di piccoli alberelli e persino di minuscoli cespugli, e qua e là spiccava la neve, come se un villaggio stesse affrontando l'inverno e un altro la primavera o l'estate. Innumerevoli casette gremivano il paesaggio, molte con le finestre illuminate. C'erano laghetti sfavillanti fatti di un materiale solido che imitava il baluginio dell'acqua, c'erano gallerie che fendevano le montagne. E, su binari di ferro ricurvi che si snodavano lungo quelle piccole vallate, correvano trenini che sembravano fatti di ferro, come quelli del grande mondo moderno. Su quel mondo in miniatura presiedeva un bevitore di sangue che non si prese il disturbo di alzare gli occhi sentendo entrare Thorne. Era stato giovane quando lo avevano trasformato. Era alto, ma di corporatura molto esile, con dita estremamente delicate. Il colore dei suoi capelli era il biondo sbiadito più diffuso tra gli inglesi che tra i norvegesi. Sedeva accanto al tavolo sul quale spiccava uno spazio sgombro riservato ai pennelli e a diversi vasetti di pittura, e stava dipingendo il tronco di un alberello che poi avrebbe sistemato nel mondo che occupava l'intera stanza. Thorne fu assalito da un'ondata di piacere, osservando quel paesaggio in miniatura. All'improvviso si rese conto che avrebbe potuto passare un'intera ora a ispezionare tutti i minuscoli edifici. Non era il crudele, sconfinato mondo esterno, ma qualcosa di prezioso e riparato, e persino leggermente ammaliante. Parecchi trenini neri correvano sui binari erranti, producendo un fioco
ronzio simile a quello delle api in un alveare. Dietro i loro minuscoli finestrini brillavano delle luci. La miriade di dettagli di quel paese delle meraviglie in miniatura sembrava perfettamente realistica. «In questa stanza, mi sembra di essere il gigante di brina della mitologia nordica», sussurrò con reverenza Thorne. Era un'offerta di amicizia al maschio più giovane, il quale non rispose, ma continuò ad applicare la vernice marrone sul tronco del minuscolo albero che stringeva così delicatamente tra le dita della mano sinistra. «Queste città e villaggi in miniatura sembrano pieni di squisita magia», aggiunse Thorne, leggermente più intimidito. L'altro sembrava sordo. «Daniel?» gli disse gentilmente Marius. «Non vuoi salutare Thorne, che stasera è nostro ospite?» «Benvenuto, Thorne», disse l'altro senza alzare gli occhi. Poi, come se gli altri due non fossero presenti, smise di dipingere l'alberello e, intingendo un altro pennello in una nuova boccetta, creò nel grande mondo che aveva davanti una chiazza umida su cui posò energicamente l'alberello, che si fissò saldamente come se avesse messo radici. «La casa è piena di stanze come questa», spiegò Marius in tono pacato, gli occhi che fissavano gentilmente Thorne. «Guarda sotto il tavolo. Si possono comprare migliaia di alberelli e migliaia di casette.» Indicò le numerose pile di scatole posate sul pavimento. «Daniel è bravissimo a montare le case. Vedi come sono complicate? Ormai lui non fa altro.» Nella sua voce Thorne percepì un accenno di gentile critica, ma il giovane bevitore di sangue non vi badò. Aveva preso un altro alberello e stava esaminando la massiccia sezione verde che rappresentava i frondosi rami più alti. Quindi cominciò a colorarla con il pennellino. «Hai mai visto uno della nostra specie colpito da un tale incantesimo?» chiese Marius. Thorne scosse il capo. No, mai, però capiva come potesse verificarsi un fenomeno del genere. «A volte capita», spiegò Marius. «Il bevitore di sangue resta incantato. Ricordo di aver sentito, secoli fa, la storia di una bevitrice di sangue in una terra del Sud, la cui unica passione era trovare bellissime conchiglie sulla spiaggia, attività a cui si dedicava per tutta la notte, fino all'approssimarsi del mattino. Andava a caccia e beveva, ma solo per poter tornare alle conchiglie che esaminava a una a una e poi gettava da parte, riprendendo la
sua ricerca. Nessuno riusciva a distoglierla da quel lavoro. Daniel è ammaliato nello stesso modo. Costruisce queste piccole città, non vuole fare nient'altro, è come se lo avessero fatto prigioniero. E io sono l'unico che si occupi di lui.» Thorne tacque per rispetto. Non fu in grado di capire se le parole di Marius avessero colpito il giovane che continuava a lavorare sul suo mondo in miniatura. Però si accorse che ebbe un attimo di sconcerto e una gioviale risata eruppe dalle labbra del giovane. «Daniel resterà così per qualche tempo», spiegò Marius, «ma dopo riacquisterà le sue antiche facoltà.» «Tu hai idee davvero bizzarre, Marius», dichiarò Daniel con un'altra breve risata disinvolta che fu poco più di un mormorio. Intinse nuovamente il pennello nella colla per saldare sull'erba verde l'alberello che vi appoggiò con la debita energia. Quindi ne estrasse un altro dalla scatola accanto a sé. Nel frattempo i trenini continuarono a muoversi, seguendo rumorosamente il loro tortuoso tragitto fra colline, vallate, chiese e casine ammantate di neve. Quel minuscolo mondo includeva persino piccolissime persone perfette in ogni dettaglio! «Posso inginocchiarmi per guardarlo?» chiese rispettosamente Thorne. «Certo», ribatté Marius. «Lo faresti felice.» Thorne si chinò verso il piccolo villaggio con il suo agglomerato di minuscoli edifici, su cui notò alcuni segni delicati di cui ignorava il significato. Rimase ammutolito dallo stupore, sbalordito dal fatto che, levandosi e affrontando il grande mondo, fosse dovuto arrivare là per imbattersi in quel piccolo universo. Un trenino di pregevole fattura, con il motore che ruggiva e le carrozze collegate tra loro, lo superò sferragliando sul binario. Gli sembrò di vedere minuscole figure al suo interno. Per un attimo dimenticò ogni altra cosa. Immaginò che quel mondo di fattura artigianale fosse reale e ne comprese l'incanto, pur trovandolo spaventoso. «Bellissimo», disse a mo' di ringraziamento. Si alzò. Il giovane non si mosse, né parlò. «Sei andato a caccia, Daniel?» chiese Marius. «Non stanotte», rispose lui senza sollevare lo sguardo. Subito dopo, all'improvviso, i suoi occhi lampeggiarono su Thorne, che rimase stupito dal loro colore violetto.
«Norvegese», dichiarò Daniel con una flebile nota di gradita sorpresa. «Capelli rossi come quelli delle gemelle.» Scoppiò a ridere, una risata lieve, come se fosse un tantino svitato. «Creato da Maharet. Forte.» Thorne fu talmente colto di sorpresa da quelle parole che rimase stordito, riuscendo a stento a mantenere l'equilibrio. Avrebbe voluto picchiare quel giovane sconsiderato. Per poco non sollevò la mano stretta a pugno, ma Marius gli strinse saldamente il braccio. Le immagini gli gremirono la mente. Le gemelle: la sua amata Creatrice e la sorella perduta. Le vide chiaramente. La Regina dei dannati. Ancora una volta rivide l'inerme bevitore di sangue Lestat cinto dalle catene. Delle semplici catene di metallo non sarebbero mai riuscite a trattenerlo. Con cosa aveva forgiato quelle catene, la sua Creatrice dai capelli rossi? Cercò di scacciare quei pensieri per ritornare al presente. Marius, che continuava a stringergli energicamente il braccio, riprese a parlare con Daniel. «Lascia che ti guidi, se vuoi andare a caccia.» «Non ne ho bisogno», ribatté Daniel. Era tornato al suo lavoro. Recuperò una grossa scatola da sotto il tavolo e la tenne sollevata per mostrarla a Marius. Sul coperchio era dipinta o stampata - Thorne non fu in grado di stabilirlo - l'immagine di una casa a tre piani dotata di numerose finestre. «Voglio costruire questa casetta», disse. «È più difficile di qualsiasi cosa vediate qui, ma grazie al mio sangue vampiresco non avrò alcun problema.» «Ora ti lasciamo solo», disse Marius, «ma non cercare di uscire senza di me.» «Non lo farei mai», replicò l'altro. Stava già strappando il sottile involucro trasparente che avvolgeva la scatola. All'interno c'erano pezzetti di legno di varie forme. «Verrò a caccia con te domani notte e potrai trattarmi come se fossi un bambino, come ti piace fare.» Marius mantenne la sua amichevole presa sul braccio di Thorne. Lo accompagnò fuori dalla stanza e chiuse la porta. «Quando va in giro da solo finisce nei guai», spiegò. «Si perde, oppure si ritrova talmente assetato da non poter più cacciare da solo. Sono costretto a cercarlo. Era così anche quando era un mortale, ancor prima che venisse trasformato in un bevitore di sangue. Il sangue non l'ha cambiato, se non per un breve periodo. E ora è schiavo dei minuscoli mondi che crea. Tutto quello che gli serve è spazio per allestirli e le confezioni di edifici e alberi e via dicendo che acquista via computer.»
«Ah, avete quegli strani motori della mente», ribatté Thorne. «Sì, sotto questo tetto ci sono ottimi computer. Ho tutto quello che mi serve», disse Marius. «Ma tu sei stanco e i tuoi abiti sono vecchi. Hai bisogno di rifocillarti. Ne riparleremo più tardi.» Lo condusse su per una corta ed echeggiante scala di legno e in un'ampia camera da letto. Tutto il legno delle pareti e delle porte era dipinto di verde e giallo, e il letto era inserito in un enorme ripostiglio intagliato, con solo un lato aperto. Thorne lo giudicò un luogo sicuro e bizzarro, senza neppure una superficie che non fosse stata toccata da mani umane. Persino il pavimento di legno era lucidato. Varcando una grande porta entrarono in un immenso bagno illuminato da numerose candele, con i muri rivestiti da pannelli di legno grezzo e il pavimento in marmo. Il colore del legno appariva splendido nella luce soffusa. Thorne si sentì girare la testa. Ma fu la vasca da bagno a lasciarlo esterrefatto. Di fronte a un'altra parete di vetro, troneggiava un'enorme tinozza di legno piena di acqua bollente. Era a forma di barile gigantesco e abbastanza grande per accogliere diverse persone. Su uno sgabello poco distante c'erano impilate quelle che sembravano salviette. Su altri sgabelli erano posate ciotole di fiori secchi ed erbe aromatiche di cui lui riuscì a captare il profumo grazie ai suoi acuti sensi di bevitore di sangue. C'erano anche varie boccette e vasetti contenenti quelli che avrebbero potuto essere unguenti. Gli sembrava un vero miracolo poter fare il bagno in quel posto. «Togliti i vestiti sporchi», gli consigliò Marius. «Lasciameli gettare via. C'è qualcosa che vuoi tenere, a parte il tuo ciondolo?» «Niente», rispose Thorne. «Come potrò mai ripagarti per tutto questo?» «Lo hai già fatto», ribatté Marius. Si tolse la giacca di pelle, poi la tunica di lana. Il suo petto nudo era glabro. Lui era pallido come tutti i bevitori di sangue anziani, e il suo corpo appariva forte e naturalmente bello. Era stato trasformato in vampiro nel fiore degli anni, evidentemente. Ma qual era la sua vera età, in relazione alla vita mortale di tanto tempo prima o secondo l'attuale computo degli anni dei bevitori di sangue? Thorne non riuscì a stabilirlo. Marius si tolse gli stivali di pelle e i lunghi calzoni di lana, e senza aspettare l'amico - limitandosi a un cenno che lo invitava a seguirlo - entrò nell'enorme vasca di acqua bollente. Thorne si spogliò e, nella fretta di farlo, lacerò il farsetto foderato di pelo. Gli tremavano le dita mentre si toglieva i calzoni sbrandellati. Dopo un
attimo restò nudo e, con goffa rapidità, radunò i suoi cenciosi abiti formando un piccolo ammasso. Poi si guardò intorno. «Non preoccuparti di simili dettagli», gli disse Marius. Il vapore si levava tutt'intorno a lui. «Entra qui con me. Goditi il calduccio, per ora.» Thorne lo seguì nella vasca, prima restando in piedi e poi inginocchiandosi nell'acqua calda. Alla fine si sedette in modo da immergersi fino al collo. Lo shock provocato dal calore fu soverchiante e assolutamente delizioso. Pronunciò una breve preghiera di ringraziamento, una prece antica e stringata che aveva imparato da bambino per recitarla quando succedeva qualcosa di meramente positivo. Marius allungò la mano verso la ciotola contenente i fiori essiccati e le erbe aromatiche, ne prese una manciata e la lasciò cadere nell'acqua bollente, facendo scaturire un intenso e piacevole profumo d'estate. Thorne chiuse gli occhi. Gli sembrava quasi impossibile essersi svegliato dal suo lungo sonno, aver percorso tutta quella strada, e aver trovato quel bagno puro e lussuoso. Per un attimo temette di essere vittima dei poteri psichici e di svegliarsi, ritrovandosi di nuovo nella sua caverna priva di speranza, prigioniero dell'autoimposto esilio, sognando semplicemente gli altri. Chinò lentamente il capo e si accostò al viso la purificante acqua calda racchiusa nelle mani messe a coppa. Ripeté più volte il gesto e infine, come se l'atto richiedesse coraggio, immerse completamente la testa nella vasca. Quando riaffiorò si sentì riscaldato come se non avesse mai avuto freddo, rimanendo sbalordito dallo spettacolo di luci che traspariva dalla vetrata. Persino attraverso il vapore riusciva a vedere la neve che fioccava, e fu deliziosamente consapevole di trovarsi così vicino eppure così lontano da essa. All'improvviso rimpianse di essersi destato dal suo sonno per uno scopo così tetro. Perché non poteva servire solo ciò che era buono? Perché non poteva vivere per ciò che era piacevole? Ma quello non era mai stato il suo destino. Non aveva importanza, per il momento l'essenziale era di serbare il suo segreto. Perché angustiare il suo amico con cupe riflessioni? Perché angustiare se stesso con confessioni colpevoli? Guardò il compagno che teneva la schiena addossata alla parete della tinozza di legno, con le braccia posate sul bordo. I capelli bagnati gli aderivano al collo e alle spalle. Non fissava Thorne, ma era palesemente con-
scio della sua presenza. Thorne immerse di nuovo la testa; si spinse in avanti e si sdraiò, rialzandosi di scatto e voltandosi, lasciando che l'acqua gli scorresse via dal corpo. Emise una risatina di piacere. Si passò le dita tra la peluria sul petto. Chinò il capo all'indietro finché l'acqua gli lambì il viso. Si girò più volte per lavarsi la folta chioma prima di sollevarsi e appoggiarsi al bordo della vasca, soddisfatto. Assunse la stessa posizione di Marius, e i due si guardarono. «Vivi in questo modo», chiese Thorne, «stai in mezzo ai mortali, e sei al sicuro da loro?» «Attualmente non credono alla nostra esistenza», spiegò Marius. «A dispetto di ciò che vedono, non ci credono. E la ricchezza può comprare qualunque cosa.» Gli occhi azzurri apparivano sinceri e il viso tranquillo, come se lui non celasse alcun segreto malvagio, come se non odiasse nessuno. Ma non era così. «I mortali puliscono questa casa», spiegò. «I mortali prendono i soldi che pago per tutto quello che va fatto qui. Conosci abbastanza il mondo moderno per capire come un posto del genere venga riscaldato e raffreddato e mantenuto a prova di intrusi?» «Capisco. Ma non siamo mai al sicuro quanto immaginiamo, vero?» Un sorriso amaro comparve sul volto di Marius. «Non sono mai stato ferito dai mortali», dichiarò. «Ti riferisci alla regina malvagia e a tutti coloro che ha ucciso, vero?» «Sì, mi riferisco a quello e ad altri orrori.» Lentamente, senza parlare, Marius utilizzò le doti medianiche per comunicare a Thorne che lui dava la caccia solo a malfattori. «È così che rimango in pace con il mondo», spiegò. «È così che riesco ad andare avanti. Uso le facoltà medianiche per dare la caccia ai mortali che uccidono. Nelle grandi città riesco sempre a trovarli.» «E io mi limito a una bevutina», precisò Thorne. «Stanne certo. Non ho bisogno di avidi banchetti. Prendo il sangue da molti, ma faccio in modo che nessuno di loro muoia. Per secoli ho vissuto in questo modo tra il popolo della neve. Quando venni creato non ne ero capace, bevevo in modo troppo rapido e sconsiderato. Ma in seguito ho imparato. Nemmeno un'anima mi apparteneva; riuscivo a passare da uno all'altro come l'ape di fiore in fiore. Avevo l'abitudine di entrare nelle taverne dove molti mortali sono a stretto contatto e di attingere da uno dopo l'altro.» Marius annuì. «Uno stile lodevole», commentò con un sorrisino. «Per
essere un figlio di Thor sei misericordioso.» Il suo sorriso si allargò. «È un atteggiamento davvero misericordioso.» «Disprezzi il mio dio?» chiese educatamente Thorne. «Non credo. Ti ho già detto che ho perso gli dei di Roma, ma in realtà non li ho mai posseduti. Il mio temperamento era troppo freddo per consentirmi di avere degli dei. E non avendone di veri, parlo di tutti gli dei come se fossero poesia. La poesia di Thor era un poema di guerra, non è vero? Una poesia di battaglie senza fine, e di frastuono in paradiso, giusto?» La cosa deliziò Thorne, che non riuscì a celare il proprio piacere. I poteri mentali non davano mai quel tipo di intima comunicazione con un altro, e le parole pronunciate da Marius non lo stavano soltanto impressionando, riuscivano anche a confonderlo leggermente, e la cosa era magnifica. «Sì, era quella la poesia di Thor», confermò, «ma nulla era chiaro e sicuro come il rombo del tuono tra le montagne quando lui brandiva il suo martello. E la notte, da solo, quando uscivo dalla casa di mio padre ritrovandomi assalito dalla pioggia e dal vento, quando scalavo intrepido la montagna bagnata per udire quel tuono, sapevo che il dio era là, ed ero lontano dalla poesia.» Si interruppe. Rivide mentalmente la sua terra natale, la sua giovinezza. «C'erano altri dei», ammise quietamente senza guardare Marius. «Udivo Odino impegnato nella caccia selvaggia nei cieli. Anche lui produceva forti rumori; ho visto e sentito passare quegli spiriti. Non li ho mai dimenticati.» «Riesci ancora a vederli?» domandò Marius. La sua non era una precisa domanda, parlava per semplice curiosità, non scevra da un pizzico di rispetto. «Io lo spero», si affrettò ad aggiungere, come se potessero esistere dubbi sull'interpretazione. «Non lo so», rispose Thorne. «È passato così tanto tempo. Non ho mai pensato di poter recuperare quelle cose.» Ma ormai erano vivide nella sua mente. Benché fosse seduto in quella vasca calda, il suo sangue placato, il freddo crudele ormai scacciato dalle sue membra, rivide la vallata gelida. Udì la tempesta e scorse gli spettri che volavano ben in alto, tutti quei defunti perduti che seguivano il dio Odino nel cielo. «Venite», aveva detto ai giovani compagni, sgattaiolati fuori dal salone insieme a lui, «andiamo nella foresta, fermiamoci lì mentre il tuono rimbomba.» Tutti avevano avuto paura del terreno sacro, ma non potevano darlo a vedere.
«Sei stato un bambino vichingo», affermò quietamente Marius. «Sì, così ci chiamavano i britanni», confermò Thorne. «Dubito che usassimo quel nome per noi stessi. Lo abbiamo appreso dai nostri nemici. Ne ricordo le urla quando scalavamo le loro mura, quando rubavamo l'oro dagli altari delle chiese.» Si interruppe. Lasciò che per un attimo i suoi occhi restassero posati tranquillamente su Marius. «Sei davvero tollerante. Vuoi davvero ascoltare.» L'altro annuì. «Ascolto con tutta l'anima.» Trasse un lieve sospiro e guardò fuori dall'enorme vetrata. «Sono stanco di stare da solo, amico mio», ammise. «Non sopporto la compagnia di coloro che conosco più intimamente. E loro non sopportano la mia per colpa di ciò che ho fatto.» Thorne rimase stupito dall'improvvisa confessione. Pensò al bevitore di sangue Lestat e alle sue canzoni. Pensò a tutti quelli riuniti nel concilio, all'arrivo della regina malvagia. Sapeva che erano tutti sopravvissuti. E sapeva che quella creatura bionda, Marius, aveva parlato con energica ragionevolezza più di chiunque altro. «Prosegui con la tua storia», lo sollecitò Marius. «Non volevo interromperti. Stavi per dire una cosa ben precisa.» «Solo che ho ucciso molti uomini prima di diventare un bevitore di sangue», affermò Thorne. «Facevo roteare il martello di Thor così come la mia spada e la mia azza. Da ragazzo ho combattuto accanto a mio padre, e ho continuato a combattere anche dopo averlo sepolto. Lui non è morto nel suo letto, te lo assicuro, ma con la spada in mano, come desiderava.» Si interruppe. «E tu, amico mio?» chiese. «Eri un soldato?» Marius scosse il capo. «Un senatore», disse, «un creatore di leggi, una sorta di filosofo. Sono andato in guerra per un certo periodo, perché la mia famiglia lo desiderava, e ho rivestito un'alta carica in una delle legioni, ma non ho servito a lungo prima di tornare a casa e nella mia biblioteca. Amavo i libri, e li amo ancora. In questa casa ci sono stanze che ne sono piene, e ho dimore colme di volumi anche altrove. Non ho mai conosciuto davvero la battaglia.» Si interruppe. Si piegò in avanti, si portò l'acqua al viso come Thorne aveva fatto poco prima, e se la lasciò scorrere sulle palpebre. «Vieni», disse, «mettiamo fine a questo piacere per passare a un altro. Andiamo a caccia. Percepisco la tua fame. Ho dei nuovi vestiti da darti, e tutto quello che ti serve. Oppure preferisci restare ancora in quest'acqua tiepida?» «No, sono pronto», ribatté Thorne. Era passato così tanto tempo da
quando si era nutrito, che si vergognava ad ammetterlo. Si sciacquò viso e capelli ancora una volta. Immerse la testa nell'acqua e la tirò fuori, scostandosi i capelli bagnati dalla fronte. Marius era già uscito dalla vasca e gli stava tendendo una grossa salvietta bianca. Era spessa e ruvida, perfetta per assorbire l'acqua dalla sua pelle di bevitore di sangue che non assorbe mai nulla. Per un attimo l'aria nella stanza sembrò fredda, mentre Thorne restava in piedi sul pavimento di marmo, ma in pochi secondi provò di nuovo un senso di tepore, strofinandosi vigorosamente i capelli per eliminare anche le ultime goccioline. Marius, che aveva finito di asciugarsi, prese un'altra salvietta dalla pila e cominciò a strofinare la schiena e le spalle del compagno. Quella familiarità fece correre dei brividi freddi lungo le membra di Thorne. Marius gli frizionò con forza la testa e cominciò a pettinargli i capelli bagnati per eliminare i nodi. «Come mai non hai una barba rossa, amico mio?» chiese, mentre si guardavano. «Ricordo i norvegesi con le loro barbe. Li ricordo quando vennero a Bisanzio. Quel nome significa qualcosa per te?» «Oh, sì», rispose Thorne. «Mi hanno portato a vedere quella splendida città.» Si voltò e accettò la salvietta offertagli. «Avevo una barba lunga e folta, persino quando ero giovanissimo, te lo assicuro, ma è stata rasata la notte in cui sono diventato un bevitore di sangue. Mi hanno messo in ghingheri per il sangue magico. Così ha voluto la creatura che mi ha trasformato.» Marius annuì, ma era troppo educato per pronunciarne il nome, anche se Daniel lo aveva detto sfacciatamente. «Sai che è stata Maharet», asserì Thorne. «Non avevi bisogno di sentirlo dire dal tuo giovane amico. L'hai captato nei miei pensieri, vero?» Si interruppe per un attimo. «Sai che è stata la sua visione a farmi uscire dal ghiaccio e dalla neve. Si è opposta alla regina malvagia; ha messo in catene il vampiro Lestat. Ma parlare di lei ora mi toglie il fiato. Quando riuscirò mai a parlarne? Non lo so. Andiamo a caccia, forse potremo davvero discorrere.» Aveva un'aria solenne mentre si stringeva al petto la salvietta. In fondo al cuore cercò di provare amore per colei che lo aveva creato. Cercò di attingere dai secoli una saggezza che potesse placare la rabbia, ma non ci riuscì. Non poteva fare altro che restare in silenzio, e andare a caccia con Marius.
3 In un'ampia stanza di legno dipinto, piena di armadi e cassettoni finemente decorati, Marius disse a Thorne di scegliersi i vestiti tra eleganti giacche di pelle con bottoncini d'osso, molte foderate di pelliccia argentea, e attillati pantaloni di lana talmente morbida che lui non riuscì a distinguerne l'ordito. Solo gli stivali gli andavano un po' stretti, ma Thorne era convinto di poterlo sopportare. Che importanza poteva mai avere un simile dettaglio? Insoddisfatto, Marius continuò a cercare finché ne trovò un paio più larghi, che si rivelarono più che adeguati. Quanto alla moda dell'epoca, non era poi tanto diversa dall'antico modo di vestire di Thorne: lino per la pregiata camicia a contatto con la pelle, lana e pellame per gli indumenti esterni. Rimase affascinato dai minuscoli bottoni della camicia e, pur sapendo che le cuciture erano state realizzate a macchina ed erano assai comuni, le trovò deliziose. Cominciava a capire quanto piacere lo aspettava, a prescindere dalla sua tetra missione. Marius, vestendosi, scelse ancora una volta il rosso per la giacca e il mantello con cappuccio. Thorne lo trovò curioso, pur avendogli già visto addosso indumenti simili nella taverna dei vampiri. Ciò nonostante, i colori sembravano troppo brillanti per la caccia. «Sono avvezzo a vestirmi di rosso», replicò Marius al suo tacito interesse. «Tu fai come meglio credi. Lestat, che talvolta è mio allievo, ama anch'egli il rosso, particolare che trovo assai irritante ma che tollero di buon grado. Sembriamo maestro e apprendista, quando la sua sfumatura di rosso acceso si avvicina così tanto alla mia.» «E ami anche lui?» chiese Thorne. L'altro non rispose. Indicò gli abiti. A Thorne toccò del pellame marrone scuro, più efficace ai fini del camuffamento eppure serico al tatto, e i suoi piedi si infilarono nudi negli stivali bordati di pelo, vista la misura di questi ultimi. Non gli serviva un mantello, temeva che gli fosse d'intralcio. Da un piatto d'argento posato su un mobile, Marius prese un pizzico di cenere e, mescolandola con il sangue prelevato dalla propria bocca, ottenne la pasta semiliquida che si spalmò su tutto il viso. La pomata gli scurì l'incarnato e fece risaltare le antiche rughe sul suo viso. Conferì un che di
scultoreo ai suoi occhi. In realtà lo rese nettamente più visibile per Thorne e al contempo meno appariscente agli occhi dei mortali. Con un gesto indicò al compagno che poteva imitarlo, ma qualcosa impedì a Thorne di accettare. Forse era solo perché non l'aveva mai fatto. Marius gli offrì dei guanti, ma lui rifiutò anche quelli. Non gli piaceva tastare le cose con i guanti. Dopo aver trascorso così tanto tempo nel ghiaccio voleva toccare tutto a mani nude. «A me piacciono», spiegò Marius. «Non me li tolgo mai. Le nostre mani spaventano i mortali, quando loro si prendono il tempo di osservarle. Inoltre i guanti procurano una sensazione di calore, che normalmente non proviamo mai.» Si riempì le tasche di banconote. Ne offrì qualche manciata a Thorne, che però rifiutò, giudicando un segno di avidità accettare del denaro da chi lo ospitava. Marius disse: «È tutto a posto. Baderò io a te. Ma se per caso veniamo separati, ti basta tornare qui. Gira dietro la casa e troverai la porta aperta». Separati? Com'era mai possibile che succedesse? Thorne era sbalordito da tutto quello che stava succedendo. Anche il particolare più irrilevante lo colmava di piacere. Erano quasi pronti a uscire quando il giovane Daniel entrò e li fissò. «Vuoi unirti a noi?» domandò Marius. Stava tirando i guanti in modo che gli aderissero perfettamente alle mani, tanto da rivelarne le nocche. Daniel non rispose. Dava l'impressione di ascoltare ma non aprì bocca. Il suo viso giovane era ingannevole, ma gli occhi violetti erano davvero splendidi. «Sai che puoi venire», aggiunse Marius. Il giovanotto si voltò e uscì, presumibilmente per tornare al suo piccolo regno. Dopo pochi minuti stavano già avanzando sotto la neve. Marius con il braccio cingeva Thorne come se quest'ultimo avesse bisogno di quel gesto rassicurante. E presto berrò. Quando raggiunsero finalmente una grande locanda, scesero nello scantinato trovandovi centinaia di mortali. Thorne rimase sopraffatto dalle dimensioni della sala. Mortali scintillanti e rumorosi che non si limitavano a mangiare e bere in quel locale, ma formavano numerosi capannelli, e ballavano al ritmo creato da parecchi musicisti solerti. Intorno a grandi tavoli verdi su cui troneg-
giavano delle ruote, giocavano d'azzardo, emettendo aspre grida e risate disinvolte. La musica era elettrica e ad alto volume, le luci lampeggianti orrende, l'odore di cibo e sangue soverchiante. Nessuno badò ai due bevitori di sangue, eccettuata la cameriera che li accompagnò senza fare domande a un tavolino giusto al centro del tutto. Da lì potevano vedere i ballerini che si dimenavano, dando l'impressione di ballare da soli più che con qualcun altro. Ognuno di loro seguiva la musica muovendosi in modo primitivo, come se ne fosse ebbro. La musica ferì Thorne. Non gli piacque. Sembrava un'accozzaglia di suoni. E le luci lampeggianti gli risultavano sgradevoli. Marius si chinò verso di lui per sussurrargli qualcosa all'orecchio. «Quelle luci sono nostre alleate, Thorne. Rendono difficile vedere cosa siamo. Cerca di sopportarle.» Ordinò da bere. La piccola cameriera spostò su Thorne i suoi luminosi occhi civettuoli. Fece un fugace commento sui suoi capelli rossi e lui le sorrise. Non avrebbe bevuto da lei, nemmeno se tutti gli altri mortali del mondo fossero stati prosciugati e resi a lui inaccessibili. Perlustrò la stanza con lo sguardo, cercando di ignorare il fracasso che gli martellava nelle orecchie e gli intensissimi odori che gli davano quasi la nausea. «Guarda quelle donne accanto alla parete più. lontana da noi», disse Marius. «Vogliono ballare. È per questo che sono venute. Stanno aspettando un invito. Riesci a farlo mentre balli?» «Sì», rispose Thorne in tono quasi solenne, come per dire: «Perché me lo chiedi?» «Ma come faccio a ballare?» domandò, osservando le coppie che gremivano lo spazio designato. Rise per la prima volta da quando si era trasferito a nord. Rise, e a causa del frastuono riuscì a stento a udire la propria risata. «Sì, posso bere senza che nessun mortale se ne accorga, nemmeno la mia vittima, ma come faccio a ballare in quel modo bizzarro?» Vide il compagno fare un ampio sorriso. Marius, che aveva gettato indietro il mantello, appariva tranquillo in mezzo a quel tremendo, insopportabile abbinamento di illuminazione e musica. «Cosa fanno se non muoversi goffamente insieme?» chiese Thorne. «Imitali», ribatté l'altro. «Muoviti lentamente mentre bevi. Lascia che la musica e il sangue ti parlino.» Thorne scoppiò di nuovo a ridere. All'improvviso, con un pizzico sfrenato di nervosismo, si alzò e costeggiò i margini della pista da ballo gremita
fino a raggiungere le donne che stavano già guardando bramosamente nella sua direzione. Scelse, fra le tre, quella bruna perché le donne con occhi e capelli scuri lo avevano sempre affascinato. Inoltre era la più vecchia e quella con meno probabilità di essere scelta da un uomo, e lui non intendeva ferirla con una mancanza d'interesse. Lei si alzò subito e Thorne le strinse le piccole e molli mani guidandola fino al pavimento lucido. La musica inesorabile suggeriva solo un disinvolto e insensato ritmo, ma la donna si adeguò all'istante e goffamente le sue scarpe eleganti e delicate ticchettarono sul legno. «Oh, ma hai le mani fredde!» esclamò. «Mi dispiace tanto!» ribatté lui. «Devi perdonarmi. Sono rimasto troppo a lungo sotto la neve.» Sì, per gli dei, doveva stare attento a non farle del male. Era una creatura semplice e fiduciosa, con gli occhi e la bocca dipinti in modo sciatto, le guance imbellettate e il seno proteso in avanti e tenuto fermo da spalline ben tirate sotto l'abito di seta nera. Lei gli si premette contro, audace. E Thorne, abbracciandola con tutta la delicatezza possibile, si piegò per affondarle furtivamente nel collo le minuscole zanne. Sogna, mio tesoro, sogna cose splendide. Ti proibisco di avere paura o ricordare. Ah, il sangue! Dopo così tanto tempo giunse il sangue pompato dal cuoricino dal ritmo pressante, il cuoricino indifeso della donna! Thorne perse il filo del deliquio di lei piombando nel proprio. Vide la sua Creatrice dai capelli rossi. Con un gemito smorzato, parlò davvero alla donna che stringeva. Dammi tutto. Ma era sbagliato, e lo sapeva. Si staccò rapidamente, e in quel momento scoprì che Marius stava al suo fianco e gli aveva appoggiato una mano sulla spalla. Mentre la lasciava andare, la donna lo guardò con occhi vitrei e sonnolenti, e lui le fece fare una rapida piroetta, ridendo di nuovo, ignorando lo scorrere del sangue nelle vene, ignorando il soverchiante desiderio di altro sangue. Continuarono a ballare, goffamente come le altre coppie. Ma continuava a essere assetato. Alla fine lei volle tornare al suo tavolino, dicendo che aveva sonno e non riusciva a capire come mai. Gli chiese scusa. Thorne chinò il capo e annuì, poi le baciò la mano con fare innocente. Del terzetto iniziale era rimasta solo una donna, perché Marius stava ballando con l'altra. Thorne tese la mano all'ultima delle tre e giurò che stavolta non avrebbe avuto bisogno di un guardiano.
Lei era più forte dell'amica. Aveva gli occhi bordati di nero come un'antica egizia e le labbra truccate di un rosso intenso, i capelli biondi erano pieni d'argento. «Sei l'uomo dei miei sogni?» gli chiese, alzando coraggiosamente la voce per sovrastare la musica. Lo avrebbe portato su con sé in una camera della locanda in quel preciso istante. «Forse», replicò lui, «se mi permetti di baciarti.» Accarezzandola con forza le affondò velocemente i denti nel collo, bevendo con bramosia e rapidità per poi lasciarla andare, guardandola assumere un'aria svagata e sorridere, scaltra eppure dolce, ignara di quanto le era successo. Impossibile ottenere molto sangue da quelle tre donne, erano troppo delicate. La fece piroettare più e più volte, desiderando disperatamente di rubarle un'altra sorsata ma non osò farlo. Sentiva il sangue pulsare dentro di sé, ma il sangue chiamava altro sangue. Ormai aveva mani e piedi dolorosamente intirizziti. Vide che Marius era tornato al loro tavolo e stava parlando con un mortale massiccio e dagli abiti pesanti seduto accanto a lui. Gli aveva posato un braccio sulla spalla. Alla fine Thorne riportò indietro la donna carina. Lei lo guardò con tenerezza e gli sussurrò: «Non andartene. Non puoi restare con me?» «No, mia cara», rispose lui. Sentì il mostro dentro di sé, mentre la guardava. E, indietreggiando, si voltò e tornò da Marius. La musica era tanto tetra e insistente che lo rendeva malfermo sulle gambe. Marius stava bevendo dall'uomo, era chino su di lui come se stesse ascoltando segreti sussurrati. Alla fine lo lasciò andare e lo raddrizzò sulla sedia. «Ne servirebbero troppi, qui», dichiarò Thorne. Le sue parole risultarono inudibili nel frastuono della musica elettrica, ma sapeva che l'amico lo aveva sentito. Marius annuì. «Allora cerchiamo dei malfattori, amico mio, e banchettiamo», propose. Rimase immobile mentre perlustrava la stanza con lo sguardo, come se stesse ascoltando ogni mente. Thorne lo imitò, continuando a sondare con i suoi poteri telepatici, ma non riuscì a sentire altro che la confusione elettrica dei musicisti e il disperato bisogno della donna graziosa che lo guardava con insistenza. Quanto la desiderava! Però non poteva prendere una creatura così innocente, non poteva abbandonare il suo compagno per assentarsi con lei nell'intimità di
una camera della locanda, perché quello era più importante della sua stessa coscienza. «Vieni», lo sollecitò Marius. «Andiamo via.» Tornarono fuori nella notte. Bastarono pochi passi per raggiungere un'ampia sala da gioco, piena di tavoli verdi su cui gli uomini giocano a dadi e su cui le ruote giravano per tutti i cruciali numeri vincenti. «Ecco, guarda», disse Marius, indicando con il dito guantato un giovanotto alto, magro e bruno che aveva appena smesso di giocare e stringeva un freddo bicchiere di birra scura, limitandosi a guardare. «Portalo nell'angolo. Ci sono tanti posticini adatti, lungo la parete.» Thorne si diede subito da fare. Con una mano posata sulla spalla del giovane lo guardò negli occhi. Ormai era sicuramente in grado di usare l'antica facoltà di incantare che mancava a così tanti bevitori di sangue. «Vieni con me», ordinò. «Mi stavi aspettando.» Gli ricordò vecchie battute di caccia e vecchie battaglie. Vide la foschia negli occhi del mortale, vide la memoria scomparire. Il giovane raggiunse insieme a lui la panca lungo la parete, dove si sedettero fianco a fianco. Prima di bere Thorne gli massaggiò il collo con le dita, pensando tra sé: Ora la tua vita sarà mia, poi affondò i denti e bevve agevolmente e lentamente, con tutta la sua forza. Il flusso di sangue gli inondò l'anima. Vide le tristi immagini del crimine dilagante, di altre vite a cui la sua vittima aveva messo fine senza mai preoccuparsi dell'eventuale giudizio o castigo. Dammi solo il tuo sangue. Sentì scoppiare il cuore dell'uomo. Lasciò andare il corpo e lo appoggiò al muro. Baciò la ferita, facendo sì che qualche goccia del suo sangue la richiudesse. Riscuotendosi dal deliquio del banchetto, si guardò intorno nella stanza semibuia e fumosa, piena di sconosciuti. Come gli sembravano estranei tutti gli umani e disperata la loro triste condizione. Per quanto maledetto, lui non poteva morire, ma la morte stava alitando su tutti loro. Dov'era Marius? Non riusciva a vederlo! Lasciò la panca, ansioso di allontanarsi dal corpo sudicio e sgradevole della sua vittima, e si infilò di nuovo tra la calca, scontrandosi in pieno con un uomo crudele e dal viso duro che trasformò la gomitata in un pretesto per litigare. «Mi stai spingendo, amico?» chiese con occhi socchiusi e pieni d'odio, fissando Thorne. «Avanti», replicò lui, sondandogli la mente, «hai ucciso degli uomini solo perché ti hanno spinto?»
«Sì», rispose l'altro, aveva la bocca tirata in un sogghigno malvagio. «Ucciderò anche te, se non te ne vai.» «Prima lascia che ti baci», disse Thorne. Lo prese per le spalle e si chinò per affondare i denti incurante di quanti li circondavano, i quali, del tutto ignari delle zanne segrete, ridevano di quel gesto intimo e sconcertante. Bevve una densa sorsata, poi leccò la ferita a regola d'arte. Lo sconosciuto odioso rimase sconcertato e indebolito, e barcollò, mentre i suoi amici continuavano a ridere. Thorne uscì rapidamente dal locale dove trovò Marius che lo aspettava in mezzo alla neve. Il vento era aumentato d'intensità, ma aveva smesso di nevicare. «La sete è troppo forte, adesso», dichiarò. «Quando dormivo nel ghiaccio la tenevo come una fiera incantenata, ma ora mi domina. Una volta iniziato, non riesco a fermarmi. Ne voglio ancora.» «Allora ne avrai, ma non puoi uccidere. Nemmeno in una città grande come questa. Forza, seguimi.» Thorne annuì. Aveva già ucciso. Guardò l'amico, confessando silenziosamente quel crimine. Marius si strinse nelle spalle, poi lo cinse con un braccio mentre camminavano. «Abbiamo parecchi posti da visitare.» Era quasi l'alba quando rincasarono. Scesero nella cantina con le pareti rivestite di legno e Marius gli mostrò una camera scavata nella pietra. Le pareti erano fredde, ma era stato preparato un letto ampio e sontuoso schermato da cortine di lino dai colori vivaci e sul quale erano stese diverse coperte con cuciture elaborate. Il materasso sembrava morbido, così come i numerosi cuscini. Thorne trovò stupefacente che non vi fosse una cripta, nessun nascondiglio vero e proprio. Chiunque avrebbe potuto trovarlo in quel posto. Il luogo era spartano come la sua caverna su nel Nord, ma molto più invitante, molto più lussuoso. Sentiva le membra talmente stanche che riusciva a stento a parlare, eppure era in ansia. «Chi mai dovrebbe disturbarci, qui?» chiese Marius. «Altri bevitori di sangue vanno a riposare in questa strana oscurità, proprio come facciamo noi. E non esiste mortale capace di entrare qui. Ma, se hai paura, mi rendo conto che per te dobbiamo cercare un altro rifugio.» «Tu dormi in questo modo, così indifeso?» «Ancora più indifeso, nella camera al piano di sopra, come un uomo mortale, sdraiato scompostamente sul materasso del mio letto nello stanzi-
no, tra i miei comfort. L'unico nemico che mi abbia mai fatto del male è stata un'orda di bevitori di sangue. Sono arrivati quando ero perfettamente sveglio e cosciente come bisogna essere. Se vuoi ti racconterò quell'orribile storia.» Il viso di Marius si era incupito, come se la semplice menzione di quella vicenda evocasse un dolore straziante. All'improvviso Thorne capì una cosa: l'amico voleva raccontare quella storia. Aveva bisogno di pronunciare un lungo flusso di parole, tanto quanto lui aveva bisogno di sentirne. Si erano incontrati al momento giusto. Ma avrebbero dovuto aspettare la notte seguente, quella volgeva ormai al termine. Marius si raddrizzò e continuò a rassicurarlo. «La luce non arriverà, come ben sai, e nessuno ti disturberà, qui. Dormi e sogna come devi. Parleremo domani. Ora ti devo salutare. Daniel, il mio amico, è giovane e crolla sul pavimento accanto al suo piccolo impero se non lo costringo a rifugiarsi in un posto comodo, anche se talvolta mi chiedo se la cosa abbia qualche importanza.» «Vorresti rispondere a una domanda, prima di andare?» domandò Thorne. «Se posso», ribatté Marius in tono gentile, pur sembrando improvvisamente in preda a una soverchiante esitazione. Dava l'impressione di racchiudere gravosi segreti che doveva svelare eppure temeva di svelare. «La bevitrice di sangue che passeggiava sulla spiaggia, osservando le conchiglie a una a una. Cosa ne è stato di lei?» chiese Thorne. Marius si colmò di sollievo. Gli rivolse una lunga occhiata e, scegliendo con cura le parole, rispose: «Mi hanno detto che si è immolata al sole. Non era tanto vecchia. L'hanno trovata una sera, al chiaro di luna. Aveva disposto le conchiglie in cerchio, intorno a sé, quindi gli altri capirono che la morte era stata volontaria. Di lei restavano solo ceneri, in parte già sparpagliate dal vento. Coloro che l'amavano rimasero fermi lì a guardare, mentre il vento prendeva anche il resto. Prima del mattino era tutto finito.» «Ah, che cosa terribile. Non provava alcun piacere nell'essere una di noi?» Marius parve colpito dalle sue parole. In tono gentile, chiese: «Tu provi piacere nell'essere uno di noi?» «Credo... credo di aver ripreso a farlo», rispose Thorne con una certa esitazione.
4 Venne svegliato dal profumo di legno di quercia che bruciava. Si girò nel letto morbido, non ricordando dov'era, ma non provando alcun timore. Si aspettava il ghiaccio e la solitudine, invece si trovava in un luogo gradevole, e qualcuno lo stava aspettando. Doveva solo alzarsi e salire le scale. All'improvviso fu tutto chiaro: era con Marius, il suo amico strano e ospitale. Si trovavano in una nuova città colma di promesse e bellezza, eretta sopra le rovine della vecchia. E lo aspettava una bella chiacchierata. Si alzò, stiracchiandosi nell'agevole tepore della stanza, e si guardò intorno, capendo che la luminosità era dovuta a due vecchie lampade a olio fatte di vetro. Come sembrava sicura, quella stanza. Com'era bello il legno dipinto delle pareti. Una camicia di lino pulita era stata posata sulla sedia, per lui. La infilò, incontrando notevoli difficoltà con i minuscoli bottoncini. I pantaloni erano splendidi. Portava una calzamaglia di lana ma niente scarpe. Il pavimento era levigato e lucido e tiepido. Lasciò che i suoi passi annunciassero il suo arrivo, mentre saliva le scale. Sembrava decisamente appropriato, in quella casa, avvisare Marius che stava per raggiungerlo, così da non essere tacciato di sfrontatezza o atteggiamento troppo furtivo. Mentre si avvicinava alla porta della stanza in cui Daniel creava le sue meravigliose città e villaggi, si fermò e, molto discretamente, guardò dentro per scoprire il biondo bevitore di sangue con l'aria da ragazzino, che lavorava come se non si fosse mai ritirato all'approssimarsi del giorno. Il giovane alzò lo sguardo e, inaspettatamente, gli rivolse un ampio sorriso mentre lo salutava. «Thorne, il nostro ospite», disse. Le sue parole racchiudevano una lieve nota di scherno, ma Thorne percepì che era un'emozione di scarso rilievo. «Daniel, amico mio», replicò, osservando di nuovo le montagne e le vallate minuscole, i rapidi trenini dai finestrini illuminati, la fitta foresta d'alberi che pareva l'attuale ossessione del giovane. L'altro riportò lo sguardo sul suo lavoro, come se non avessero nemmeno parlato. Era vernice verde quella che applicò sull'alberello. Thorne cominciò ad allontanarsi silenziosamente ma, mentre lo faceva, Daniel disse: «Marius dice che è un mestiere e non un'arte, quello a cui mi dedico». Sollevò l'alberello.
Thorne non seppe cosa ribattere. «Costruisco le montagne con le mie mani», aggiunse il giovane. «Secondo lui dovrei costruire anche le case.» Thorne si scoprì incapace di replicare anche stavolta. L'altro continuò: «Mi piacciono le case contenute in quelle scatole. Sono difficili da montare, persino per me. Inoltre, non mi verrebbero mai in mente così tanti tipi diversi di abitazioni. Non capisco perché Marius debba fare affermazioni tanto denigratorie». Thorne, perplesso, alla fine si limitò ad ammettere: «Non so che dire». Daniel tacque. Thorne rimase in attesa per un educato lasso di tempo, poi raggiunse il salone. Il fuoco era acceso nell'annerito focolare di pietre massicce, e Marius si trovava là accanto, seduto scompostamente nella sua ampia poltrona di pelle, con una postura più da ragazzo che da uomo, e gli indicò di accomodarsi sul grande divano di pelle di fronte a lui. «Siediti lì, se vuoi, oppure qui, se preferisci», gli disse in tono gentile. «Se il fuoco ti dà fastidio lo spengo.» «Perché mai dovrebbe darmi fastidio, amico mio?» replicò Thorne mentre si sedeva. I cuscini erano voluminosi e morbidi. Esaminando la stanza vide che quasi tutti i pannelli di legno erano dipinti di color oro o azzurro, e i travetti del soffitto e quelli sopra gli stipiti delle porte erano ornati da intagli che gli rammentarono la sua epoca. Ma lì era tutto nuovo; Marius gli aveva spiegato che la casa era opera di un uomo moderno, ma costruita e decorata in modo magistrale, con palese ponderatezza e cura. «A volte i bevitori di sangue temono il fuoco», affermò Marius, fissando le fiamme, il pallido viso sereno pieno di luci e ombre. «Non si può mai sapere. A me è sempre piaciuto, anche se una volta ho sofferto atrocemente a causa sua. Conosci già quella storia?» «Non credo», lo contraddisse Thorne. «No, non l'ho mai sentita. Se vuoi raccontarmela sarò felice di ascoltarla.» «Prima, però, ci sono alcune domande a cui ti piacerebbe dare una risposta», dichiarò Marius. «Vuoi sapere se le cose che hai visto grazie alle doti medianiche erano totalmente reali.» «Sì», confermò Thorne. Ricordò la ragnatela, i puntini luminosi, il Sacro Nucleo. Pensò alla regina malvagia. Cosa aveva forgiato la visione che aveva avuto di lei? Erano stati i pensieri dei bevitori di sangue riuniti intor-
no al suo tavolo del concilio. Si accorse che stava guardando l'amico dritto negli occhi, e che l'altro era al corrente di tutti i suoi pensieri. Marius distolse lo sguardo, posandolo sul fuoco, poi parlò senza cerimonie. «Posa i piedi sul tavolo. L'unica cosa che conta, qui, è la comodità.» Lo fece lui stesso, allora Thorne allungò le gambe, incrociando le caviglie. «Parla liberamente», lo sollecitò Marius. «Raccontami quello che sai, se vuoi; dimmi cosa vorresti sapere.» La sua voce sembrava velata da un pizzico di rabbia, ma a Thorne non sembrò tale. «Io non ho segreti», continuò. Studiò il viso dell'interlocutore con aria meditabonda, poi aggiunse: «Ci sono gli altri - quelli che hai visto intorno al tavolo del concilio - e persino altri ancora, sparsi in ogni angolo del globo». Emise un fioco sospiro e scosse il capo, prima di riprendere a parlare. «Ma ormai mi sento troppo solo. Voglio stare con coloro che amo, però non posso farlo.» Guardò il fuoco. «Passo qualche tempo con loro e poi me ne vado... «... ho portato qui Daniel perché aveva bisogno di me. L'ho portato perché non sopporto di restare completamente solo. Mi sono trasferito nei paesi del Nord perché ero stanco delle splendide terre del Sud, stanco persino dell'Italia in cui sono nato. Un tempo pensavo che nessun mortale o bevitore di sangue potesse mai stancarsi della generosa Italia, ma ora sono stanco e desidero osservare il candore puro della neve.» «Capisco», ribatté Thorne. Il silenzio lo invitò a proseguire. «Dopo essere stato trasformato in un bevitore di sangue», raccontò, «sono stato portato a sud, e sembrava il Valhalla. A Roma ho vissuto in un palazzo sontuoso e ogni notte ammiravo i sette colli. È stato un vero e proprio incanto di dolci brezze e alberi da frutta. Restavo seduto accanto a una finestra ben alta sopra il mare e guardavo le onde sferzare le rocce. Sono sceso fino al mare e l'ho trovato tiepido.» Marius gli rivolse un sorriso davvero gentile e fiducioso. Annuì. «Italia, la mia Italia», mormorò. Thorne trovò assolutamente magnifica l'espressione sul suo viso e desiderò che l'altro conservasse quel sorriso, che però scomparve con estrema rapidità. Marius era tornato impassibile e stava fissando le fiamme come se fosse assorto nella propria tristezza. Alla luce del fuoco i suoi capelli sembrava-
no quasi del tutto candidi. «Parlami, ti prego», lo sollecitò Thorne. «Le mie domande possono aspettare. Bramo il suono della tua voce, bramo le tue parole.» Ebbe un attimo di esitazione. «So che hai parecchie cose da raccontare.» Marius lo guardò come se fosse sbalordito e in un certo senso rinfrancato dalla richiesta, poi parlò. «Sono vecchio, amico mio», disse. «Sono un autentico Figlio dei Millenni. Fu all'epoca di Cesare Augusto che divenni un bevitore di sangue. Fu un sacerdote druido a condurmi a questa morte peculiare, una creatura chiamata Mael, mortale quando mi arrecò questo torto ma di lì a poco trasformato anch'egli in un bevitore di sangue, e tuttora vivente, benché non molto tempo fa abbia tentato di sacrificare la propria vita in preda a un nuovo fervore religioso. Che sciocco. «Il tempo ci ha reso compagni più di una volta. Un'autentica stranezza. È una menzogna che lui occupi un posto di rilievo nei miei affetti. La mia vita è piena di simili menzogne. Non sono sicuro di averlo mai perdonato per ciò che mi ha fatto: prendermi prigioniero, trascinarmi fuori dalla mia vita mortale e fino a un lontano bosco della Gallia, dove un antico bevitore di sangue, gravemente ustionato, ma ancora convinto di essere un dio della foresta sacra, mi ha donato il Sangue Tenebroso.» Si interruppe. «Riesci a seguirmi?» «Sì», rispose Thorne. «Ricordo quei boschi; tra noi si mormorava di dei che vi avevano abitato. Stai dicendo che un bevitore di sangue dimorava all'interno della quercia sacra?» Marius annuì, poi riprese il suo racconto. «'Vai in Egitto', mi ordinò quel dio gravemente ustionato, quel dio ferito, 'e trova la Madre. Scopri il motivo del terribile fuoco che è scaturito da lei, bruciandoci in lungo e in largo.'» «E quella Madre», chiese Thorne, «era la regina malvagia che racchiudeva il Sacro Nucleo?» «Sì», confermò Marius, i suoi calmi occhi azzurri esaminavano dolcemente l'interlocutore. «Era la regina malvagia, amico mio, su questo non c'è dubbio... «Ma a quei tempi, duemila anni fa, era silenziosa e immobile e sembrava la più disperata delle vittime. Avevano quattromila anni, lei e il suo consorte, Enkil. E lei possedeva il Sacro Nucleo, non c'erano dubbi, perché il terribile fuoco aveva colpito tutti i bevitori di sangue il mattino in cui uno di loro, stremato e anziano, aveva lasciato il re e la regina esposti al cocen-
te sole del deserto. «Bevitori di sangue sparsi in tutto il mondo - dei, creature della notte, lamie o comunque chiamino se stessi - avevano sofferto atrocemente, alcuni annientati da orrende fiamme, altri meramente anneriti e lasciati in preda al dolore. I più antichi soffrirono relativamente, i più giovani vennero ridotti in cenere. «Quanto ai Sacri Genitori - presumo che questa sia una definizione gentile - cosa avevano fatto al sorgere del sole? Nulla. L'Anziano, gravemente ustionato a causa dei suoi sforzi di indurli a destarsi, parlare o correre in cerca di un riparo, li trovò identici a come li aveva lasciati, inamovibili, incoscienti, e così, temendo ulteriori sofferenze per se stesso, li riportò in una stanza oscurata, che non era niente di più che una miserevole cella di prigione sotterranea.» Marius si interruppe. Smise di parlare così completamente da dare l'impressione che i ricordi fossero troppo dolorosi per lui. Stava fissando le fiamme come fanno gli uomini, e le fiamme eseguivano la loro affidabile ed eterna danza. «Ti prego, dimmelo», gli chiese Thorne. «L'hai trovata, questa regina, l'hai osservata con i tuoi occhi tanto tempo fa?» «Sì, l'ho trovata», bisbigliò Marius, in tono serio, ma non amareggiato. «Sono diventato il suo guardiano. 'Portaci via dall'Egitto, Marius', mi chiese con voce silenziosa - con quelle che tu chiami le doti medianiche, Thorne - senza mai muovere le labbra. «Così presi lei e il suo compagno, Enkil, e li tenni al sicuro per duemila anni, mentre continuavano a rimanere immobili e silenziosi come statue. «Li ho tenuti nascosti in un sacrario. Era la mia vita, era il mio solenne incarico. «Sistemavo fiori e incenso davanti a loro. Mi prendevo cura dei loro abiti. Toglievo la polvere dai loro visi immoti. Era il mio obbligo sacro svolgere queste incombenze e, al contempo, proteggere il segreto da immortali erranti che avessero cercato di bere il loro sangue potente o addirittura catturarli.» I suoi occhi rimasero posati sul fuoco ma i muscoli della sua gola si contrassero, e per un attimo Thorne riuscì a vedere le vene spiccare sulla levigatezza delle tempie. «E per tutto quel tempo», raccontò Marius, «l'ho amata, quell'apparente divinità che tu chiami giustamente la nostra regina malvagia; quella è forse la più grande menzogna che io abbia mai vissuto. L'ho amata.»
«Come potevi non amare una tale creatura?» chiese Thorne. «Persino nel mio sonno l'ho vista in faccia. Ho percepito il suo mistero. La regina malvagia. Ho captato il suo incantesimo. Ed era preceduta dal suo silenzio. Quando ha preso vita, a tutti dev'essere sembrato che una maledizione si fosse spezzata e lei fosse stata finalmente liberata.» Quelle parole parvero colpire profondamente Marius, i cui occhi studiarono l'amico con una certa freddezza, per poi tornare sul fuoco. «Se ho detto qualcosa di offensivo ti chiedo scusa», aggiunse l'altro. «Stavo solo cercando di capire.» «Sì, sembrava una dea», affermò Marius. «Così ho pensato e così ho sognato, pur dichiarando il contrario a me stesso e a chiunque altro. Faceva parte della mia complessa bugia.» «Dobbiamo forse confessare i nostri amori a tutti?» domandò pacatamente Thorne. «Non possiamo serbare qualche segreto?» Pensò con soverchiante dolore alla sua Creatrice. Non fece nulla per celare quei pensieri. La rivide seduta nella caverna, con il fuoco sfavillante alle spalle. La vide strapparsi alcuni capelli per trasformarli in filo con la rocca e il fuso. Ne vide gli occhi orlati di sangue, poi si staccò da quei ricordi. Li spinse di nuovo all'interno del cuore, ben in fondo. Guardò Marius. L'amico non aveva risposto alla sua domanda. Il silenzio rese ansioso Thorne. Sentiva che avrebbe dovuto tacere e lasciare che l'altro continuasse, eppure la domanda gli salì alle labbra. «Come si è giunti alla catastrofe?» chiese. «Perché la regina malvagia ha lasciato il suo trono? È stato Lestat con le sue canzoni elettriche a svegliarla? L'ho visto in vesti umane, intento a ballare per gli umani come fosse uno di loro. Ho sorriso nel sonno mentre vedevo il mondo moderno abbracciarlo, incredulo, divertito, e ballare seguendo i ritmi da lui creati.» «È questo che è successo, amico mio», dichiarò Marius, «almeno con il mondo moderno. Quanto a lei e al suo lasciare il trono... Le canzoni di Lestat hanno svolto un ruolo importante. «Perché non dobbiamo dimenticare che per migliaia di anni è esistita nel silenzio. Fiori e incenso, sì, queste cose gliele offrivo in abbondanza, ma la musica? Mai. Non finché il mondo moderno rese possibile una cosa del genere, dopo di che la musica di Lestat entrò nella stanza stessa in cui lei sedeva sfavillante nelle sue vesti. E la destò, non una ma due volte. «La prima volta fu scioccante, per me, come il successivo disastro, anche se vi posi rimedio con una certa rapidità. Questa sorpresina si è verifi-
cata duecento anni fa - su un'isola del mar Egeo - e avrei dovuto imparare la lezione, ma è per orgoglio che non l'ho fatto.» «Cos'è successo?» «Lestat era stato trasformato da poco in un bevitore di sangue e, avendo sentito parlare di me, mi cercò e lo fece con cuore sincero. Voleva sapere cosa avevo da rivelare. Mi aveva cercato in tutto il mondo, poi giunse un tempo in cui si sentì debole e avvilito dal dono stesso dell'immortalità, in cui scelse di rifugiarsi nella terra così come tu ti sei rifugiato nel ghiaccio dell'Estremo Nord. «Lo condussi da me, gli parlai come ora sto parlando a te. Ma con lui successe una cosa curiosa che mi colse alla sprovvista: provai un improvviso empito di pura devozione nei suoi confronti, accompagnato da una straordinaria fiducia. «Era giovane, ma non innocente, e quando parlavo mi ascoltava in modo attento. Anche quando giocavo a fargli da insegnante, non discuteva mai quello che dicevo. Volevo raccontargli i miei più antichi segreti. Volevo rivelare il segreto del nostro re e della nostra regina. «Era da molto, moltissimo tempo che non lo rivelavo a nessuno. Per un secolo ero rimasto solo, tra i mortali. E Lestat, con la sua devozione così assoluta nei miei confronti, sembrava perfettamente degno della mia fiducia. «Lo accompagnai nel tempio sotterraneo. Aprii il portale sulle due figure sedute. «Per qualche istante lui credette che i Sacri Genitori fossero statue, ma all'improvviso capì che erano vivi. Capì che in realtà erano bevitori di sangue ed estremamente antichi, e che in loro poteva vedere quale destino lo aspettava, se fosse sopravvissuto per tante migliaia di anni. «È una consapevolezza terrificante. Persino per i giovani che mi osservano è difficile rendersi conto che potrebbero diventare pallidi e granitici come me. Con la Madre e il Padre fu orrendo, e Lestat fu sopraffatto dalla paura. «Eppure riuscì a dominare il terrore e ad avvicinarsi alla regina e persino a baciarla sulle labbra. Fu un gesto audace, ma mentre lo guardavo capii che gli veniva naturale, e in seguito mi confessò che quando si era staccato da lei, conosceva il suo nome. «Akasha. Era come se glielo avesse detto lei. Glielo aveva comunicato mentalmente: dopo secoli di silenzio, la sua voce era sgorgata di nuovo, con quella seducente confessione.
«Cerca di capire com'era giovane Lestat. Avendo ricevuto il Sangue Tenebroso a vent'anni, era un bevitore di sangue da circa dieci, non di più. «Come dovevo interpretare questo bacio e questa rivelazione segreta? «Negai categoricamente il mio amore e la mia gelosia. Negai la mia schiacciante delusione. Dissi a me stesso: 'Sei troppo saggio per una cosa del genere. Cerca di imparare da quanto è successo. Forse questo giovane trarrà qualcosa di splendido da lei. Non è forse una dea?' «Portai Lestat nel mio salone, una stanza confortevole come questa, benché di stile diverso, e lì parlammo fino alle prime luci del mattino. Gli raccontai la storia della mia creazione, del mio viaggio in Egitto. Svolsi il ruolo dell'insegnante con notevole solerzia e generosità, e una certa autoindulgenza. Era per il bene di Lestat o per il mio che volevo informarlo di tutto? Lo ignoro. Ma furono ore splendide per me, questo lo so. «La notte seguente, tuttavia, mentre mi stavo prendendo cura dei mortali che vivevano sulla mia isola e mi credevano il loro signore, Lestat fece una cosa orribile. «Estrasse dalla sua valigia un violino per lui preziosissimo - uno strumento musicale dal potere inquietante - e scese nel tempio. «Ormai mi è chiaro - come lo fu all'epoca - che non avrebbe potuto farlo senza l'aiuto della regina, che con le doti medianiche gli aveva aperto le numerose porte che lo separavano da lei. «In realtà, stando a come lo racconta Lestat, Akasha potrebbe addirittura avergli instillato nella mente l'idea di suonare lo strumento. Io ne dubito. Penso che gli abbia aperto le porte e lo abbia chiamato, ma che lui abbia portato il violino di sua iniziativa. «Immaginando che lo strumento avrebbe prodotto un suono del tutto sconosciuto e splendido, per lei, prese a mimare i violinisti che aveva ascoltato, perché in realtà non lo sapeva suonare. «Dopo pochi istanti, la mia bellissima regina si alzò dal trono per avvicinarglisi. E Lestat, in preda al terrore, lasciò cadere il violino che lei frantumò sotto il piede. Non importava. Akasha prese Lestat tra le braccia e gli offrì il proprio sangue, poi accadde una cosa talmente straordinaria che mi addolora rivelarla: non solo gli permise di bere da lei, bevve lei stessa da lui. «Sembra una cosa banale, ma non lo è affatto, perché durante tutti i secoli in cui mi ero recato da lei, in cui avevo preso il suo sangue, non avevo mai sentito la pressione dei suoi denti su di me. «A dire il vero, non sono al corrente di alcun supplice di cui Akasha ab-
bia mai bevuto il sangue. Una volta ci fu un sacrificio, e sì, lei bevve da quella vittima, che venne annientata. Ma da coloro che la supplicavano? No, mai. Era la fonte, la donatrice, la guaritrice degli dei del sangue e dei figli ustionati, ma non beveva da loro. «Eppure bevve da Lestat. «Cosa vide in quei momenti? Non riesco a immaginarlo, eppure deve essersi trattato di una rapida occhiata agli anni di quell'epoca, di una rapida occhiata nell'anima di Lestat. Comunque sia, fu una cosa momentanea, perché ben presto il suo consorte Enkil si alzò e si mosse per mettervi fine, ma a quel punto io ero già arrivato e stavo cercando disperatamente ed efficacemente di impedire che Lestat venisse annientato da Enkil, che sembrava avere quell'unico scopo. «Il re e la regina tornarono sul trono, sporchi e insanguinati e finalmente silenziosi. Ma per il resto della nottata Enkil fu irrequieto, distruggendo i vasi e i bracieri del sacrario. «Fu una terrificante dimostrazione di potere. E io capii che per tutelare Lestat, e in realtà anche me stesso, dovevo dirgli subito addio, il che mi causò un dolore straziante. Così, la notte seguente, ci separammo.» Marius tacque. Thorne rimase pazientemente in attesa, finché l'altro riprese a parlare. «Non so cosa mi abbia fatto soffrire di più, se la perdita di Lestat o la gelosia che provavo per quel dare e avere della regina con lui. Non sono in grado di leggere la mia mente. Cerca di capire, sentivo che Akasha mi apparteneva. Sentivo che era la mia regina.» La sua voce si ridusse a un sussurro. «Quando l'ho mostrata a Lestat, stavo esibendo qualcosa che mi apparteneva! Capisci che bugiardo sono stato?» chiese. «E poi perderlo, perdere questo giovane nei cui confronti provavo un senso di comunione totale. Ah, fu una pena atroce! Molto simile alla musica del violino, credo, con tinte altrettanto cariche, un dolore terribile!» «Cosa posso fare per lenire la tristezza che porti con te, come se lei fosse ancora qui?» domandò Thorne. Marius alzò gli occhi e, all'improvviso, un'espressione di assoluto stupore gli illuminò il viso. «Hai ragione», affermò. «Porto con me l'obbligo, come se lei fosse ancora con me, come se persino adesso dovessi andare a trascorrere le ore nel suo sacrario.» «Non riesci a essere felice che sia tutto finito? Mentre giacevo nella mia caverna di ghiaccio e ho visto in sogno queste cose, ho avuto l'impressione che ci fossero altri che provarono un senso di pace quando tutto finì. Persi-
no le gemelle dai capelli rossi, che ho visto in piedi davanti a tutti gli altri, sembravano avere la sensazione che ormai fosse tutto finito.» Marius annuì. «La provavano tutti, tranne forse Lestat.» Guardò Thorne con aria meditabonda. «Ora spiegami come venne destata definitivamente», gli chiese l'altro, «come divenne l'assassina dei suoi figli. L'ho sentita passarmi vicina e con occhi scrutatori, ma in qualche modo non mi ha individuato.» «Anche altri le sono sfuggiti», raccontò Marius, «benché nessuno sappia di preciso quanti fossero. Lei si stancò della carneficina e venne da noi. Credo pensasse di avere il tempo di portare a termine la propria opera, ma la sua fine giunse rapidamente. «Quanto alla seconda resurrezione, fu di nuovo opera di Lestat, ma la colpa è mia quanto sua. «Ecco cosa presumo che sia successo. Le portai le invenzioni del mondo moderno, come offerte. All'inizio furono i congegni che trasmettevano la musica, poi quelli che mostravano immagini in movimento. Alla fine le portai il più potente di tutti, il televisore che restava sempre acceso. Lo collocai nel suo sacrario come se fosse un sacrificio.» «E lei se ne cibò», disse Thorne, «come sono soliti fare gli dei quando scendono ai loro altari.» «Sì, se ne cibò. Si cibò della sua terribile violenza elettrica. Colori estremamente vividi le lampeggiarono sul viso, e le immagini la raggiunsero. Forse fu il semplice frastuono a destarla. E talvolta mi chiedo se l'incessante eloquio pubblico dell'immenso mondo non possa, di per sé, aver suscitato una parvenza di raziocinio dentro di lei.» «Una parvenza di raziocinio?» «Akasha si destò con uno scopo semplice, orrendo. Voleva dominare il mondo.» Marius scosse il capo. Il suo atteggiamento rivelava una profonda tristezza. «Era decisa a battere in astuzia le più pregevoli menti umane», spiegò mestamente. «Voleva eliminare gran parte dei bambini maschi di questo mondo. In un paradiso femminile avrebbe creato e mantenuto la pace. Era assurdo: un concetto impregnato di sangue e violenza. «Quanti tra noi cercarono di ragionare con lei dovettero scegliere le parole con estrema cura per non insultarla. Da dove poteva aver tratto queste nozioni se non dai brandelli di sogni elettrici che osservava sullo schermo gigante che le avevo fornito? Fiction di ogni genere, e quelli che il mondo
chiama notiziari, tutto questo l'aveva inondata. Ero stato io a provocare la piena.» Lo sguardo di Marius si posò brillante sull'interlocutore, mentre lui continuava. «Naturalmente lei vide i variopinti video del vampiro Lestat.» Sorrise di nuovo, ma fu un sorriso triste, che gli illuminò il viso come fanno le canzoni tristi. «E nei suoi video Lestat mostrò l'immagine stessa di Akasha sul trono, così come l'aveva vista secoli prima. Venendo meno alle promesse che mi aveva fatto, svelò i segreti che gli avevo confidato.» «Perché allora non l'hai annientato?» chiese Thorne prima di potersi trattenere. «Io l'avrei fatto.» Marius si limitò a scuotere il capo. «Credo di aver scelto di annientare me stesso, invece», ammise. «Ho scelto di lasciare che mi si spezzasse il cuore.» «Spiegamelo, ti prego.» «Non posso, non riesco a spiegarlo nemmeno a me stesso», ribatté Marius. «Forse capisco fin troppo bene Lestat. Non sopportava il voto di silenzio che mi aveva fatto. Non in questo mondo che vedi intorno a te con tutti i suoi portenti. Si sentiva costretto a rivelare la nostra storia.» Il calore gli danzò sul viso. Le sue dita strinsero i braccioli della poltrona manifestando solo una lieve irrequietezza. «Si è liberato da tutti i legami che ci univano», spiegò, «amico e amico, insegnante e allievo, vecchio e giovane, osservatore e cercatore.» «Un vero oltraggio», commentò Thorne, «cos'altro potevi provare se non una furia cieca?» «Sì, in cuor mio la provavo. Ma vedi, ho mentito a loro, agli altri bevitori di sangue, ai nostri fratelli e sorelle. Perché, una volta destatasi la regina, avevano bisogno di me...» «Sì, l'ho visto.» «Avevano bisogno del saggio che ragionasse con lei e la facesse deviare dalla sua rotta. Non c'era il tempo di litigare. Le canzoni di Lestat l'avevano trasformata in un mostro. Dissi agli altri che non c'era nessuna ferita. Presi tra le braccia Lestat. Quanto alla mia regina, ah, la mia regina, come negai di averla mai amata. E tutto questo per la compagnia di una piccola banda di immortali. Ma a te dico la verità.» «Dirla ti fa sentire meglio?» «Oh, sì», rispose Marius. «Come venne annientata?»
«Migliaia di anni fa le fu lanciata contro una maledizione da una creatura che lei aveva trattato crudelmente e che ora era ritornata per pareggiare i conti. Un unico colpo decapitò la nostra regina, dal cui corpo il Sacro Nucleo venne prontamente trasferito in quello della vendicatrice dopo essere stato prelevato dal cervello o dal cuore, non lo so bene perché durante quei momenti fatali fui cieco come chiunque altro. «So soltanto che colei che uccise la regina racchiude ora in sé il Sacro Nucleo, e non so dirti dove sia andata o come.» «Ho visto le gemelle dai capelli rossi», spiegò Thorne. «Erano ferme accanto al suo corpo. 'La Regina dei dannati', ha detto la mia Maharet. Le ho sentito pronunciare quelle parole. L'ho vista mentre cingeva la sorella con un braccio.» Marius non rispose. Thorne fu riassalito dall'inquietudine. Sentì i prodromi della sofferenza dentro di sé. Con la memoria rivide la sua Creatrice che gli si avvicinava tra la neve. Che tipo di paura aveva provato lui, un guerriero mortale che si trovava di fronte una strega solitaria che sarebbe stato in grado di uccidere con la spada o l'azza? Com'era apparsa fragile e bellissima, lei, una creatura alta con un abito di lana viola scuro, le braccia protese in avanti come per dargli il benvenuto. Sono venuta qui per te. È per te che rimango. Lui non sarebbe rimasto vittima del suo incantesimo. Il suo corpo non sarebbe stato ritrovato tra la neve, con le orbite oculari vuote e insanguinate, così come era successo a molti altri. Voleva che il ricordo svanisse. Parlò. «È la mia Creatrice, quella con i capelli rossi», dichiarò, «Maharet, la sorella di colei che ha accolto dentro di sé il Sacro Nucleo.» Si interruppe. Riusciva a stento a respirare, tanto era lancinante il dolore. Marius lo fissò attentamente. «Era venuta nel Nord per trovare un amante tra la nostra gente.», spiegò Thorne. Si interruppe ancora, la sua convinzione vacillava, ma poi riprese a parlare. «Dava la caccia al nostro clan e agli altri abitanti della nostra vallata. Rubava gli occhi di coloro che uccideva.» «Gli occhi e il sangue», annuì sommessamente Marius. «E quando ti ha trasformato in un bevitore di sangue hai scoperto come mai le servissero gli occhi?» «Sì, ma non ho capito la vera storia, e neppure il racconto su colui che le aveva sottratto gli occhi mortali. E della sua gemella non sapevo nulla.
L'amavo con tutto il cuore. Le ponevo poche domande. Non riuscivo a spartire con altri la sua compagnia. Mi faceva impazzire.» «Fu la regina malvagia a prenderle gli occhi», spiegò Marius, «quando era ancora umana, mentre a sua sorella tagliò la lingua. Fu un'ingiustizia crudele. E un essere che possedeva anch'egli il Sangue non riuscì a sopportarlo, così le trasformò in bevitrici di sangue prima che la regina malvagia le separasse e le spedisse ai capi opposti del mondo.» Thorne boccheggiò mentre ci pensava. Cercò di provare amore. Rivide la sua Creatrice nella caverna vivacemente illuminata, con la rocca e il fuso in mano. Rivide i suoi lunghi capelli rossi. «E così ebbe termine la catastrofe che vidi mentre dormivo nel ghiaccio», affermò. «La regina malvagia non esiste più, punita per sempre, e le gemelle hanno preso il Sacro Nucleo, sì, ma quando ho perlustrato il mondo cercando le visioni o le voci della nostra stirpe non sono riuscito a trovarle. Non percepisco nulla di loro, pur desiderando scoprire dove si trovano.» «Si sono rifugiate in un luogo remoto», spiegò Marius. «Sanno di doversi nascondere. Sanno che qualcuno potrebbe tentare di rubare loro il Sacro Nucleo. Sanno che qualcuno, amareggiato e ormai ritiratosi dal mondo, potrebbe cercare di annientarci tutti.» «Ah, sì», ribatté Thorne. Sentì un brivido freddo invadergli le membra. A un tratto rimpianse di non avere una maggior quantità di sangue nelle vene. Rimpianse di non poter uscire a cacciare, ma in fin dei conti non desiderava lasciare quel luogo caldo e quel flusso di parole, non ancora. Era troppo presto. Si sentì in colpa per non aver raccontato a Marius tutta la verità sulla sua sofferenza e il suo scopo. Non sapeva se poteva farlo e gli sembrava terribile trovarsi sotto il suo tetto, eppure vi rimase. «Conosco la tua verità», disse gentilmente Marius. «Sei uscito dal tuo isolamento con un solenne proposito che è quello di trovare Maharet e farle del male.» Thorne trasalì come se fosse stato colpito con violenza al petto. Non rispose. «È impossibile riuscirci», continuò l'altro. «Lo sapevi quando hai lasciato Maharet, secoli fa, per andare a dormire nel ghiaccio. La sua potenza travalica la nostra immaginazione. E posso dirti con assoluta certezza che sua sorella non la lascia mai.» Thorne non riusciva a trovare le parole. Alla fine rispose con un sussurro
carico di tensione. «Come mai la odio per la forma di vita che mi ha dato, quando invece non ho mai odiato i miei genitori mortali?» Marius annuì, con un sorriso amaro. «È una domanda saggia», affermò. «Rinuncia alla speranza di farle del male. Smetti di sognare le catene con cui lei ha imprigionato Lestat, a meno che tu non voglia davvero che Maharet ti riservi lo stesso trattamento.» Stavolta toccò a Thorne annuire. «Ma di cosa erano fatte quelle catene?» chiese, in tono teso e amareggiato come prima. «E perché voglio diventare l'orrendo prigioniero di Maharet? Perché lei possa conoscere ogni notte la mia furia, mentre mi tiene accanto a sé?» «Catene fatte di capelli rossi?» ipotizzò Marius, con una lieve scrollata di spalle. «Rinforzate dall'acciaio e dal suo sangue? Rinforzate da acciaio e sangue e oro, forse. Non le ho mai viste. Ne ho solo sentito parlare e ho sentito dire che Lestat non riusciva a liberarsene, nonostante tutta la sua collera.» «Voglio sapere di cosa erano fatte. Voglio trovarla.» «Rinuncia al tuo proposito, Thorne. Non posso portarti da lei. E se Maharet ti chiamasse a sé, come ha fatto tanto tempo fa, per poi annientarti quando scopre il tuo odio?» «Sapeva che la odiavo, quando l'ho lasciata», precisò Thorne. «Perché te ne sei andato?» domandò Marius. «A causa della semplice gelosia per gli altri che capto nei tuoi pensieri?» «Lei ne faceva i suoi favoriti, uno per volta. E io non lo sopportavo. Tu hai parlato di un sacerdote druido che divenne un bevitore di sangue. Lo conosco. Si chiamava Mael, lo stesso nome che hai citato. Maharet lo accolse nella sua cerchia come un amante gradito. Era vecchio nel Sangue e aveva storie da raccontare, cosa che lei desiderava più di qualsiasi altra. A quel punto l'ho lasciata. Dubito che si sia accorta della mia partenza. Dubito che abbia percepito il mio odio.» Marius, dopo averlo ascoltato attentamente, parlò: «Mael», disse, in tono dolce e paziente. «Sempre alto e magro, con naso aquilino e occhi azzurri infossati e lunghi capelli biondi, retaggio della sua schiavitù nella foresta sacra. È questo il Mael che ti ha rubato la tua dolce Maharet?» «Sì», rispose Thorne. Sentì attenuarsi il dolore al petto. «Con me era dolce, non posso negarlo, e non mi ha mai trattato con disprezzo. Sono stato io ad andarmene, verso la terra del Nord. Ero io a odiarlo per il modo in
cui la adulava e per le sue storie così interessanti.» «Non cercare di litigare con Maharet», gli consigliò Marius. «Rimani qui con me, ed entro breve lei potrebbe scoprire che sei qui e inviarti il suo benvenuto. A quel punto dimostrati saggio, te ne supplico.» Thorne annuì di nuovo. Era come se la terribile battaglia fosse finita. Aveva confessato la propria collera e l'aveva sentita svanire, e ora sedeva immobile e tranquillo accanto al fuoco, senza più sfoggiare l'atteggiamento da guerriero. Pensò che la magia delle parole era davvero potente. Poi il ricordo di sei secoli prima si riaffacciò. Si trovava nella caverna e vedeva guizzare il bagliore del fuoco. Era legato e non poteva muoversi. Lei era sdraiata al suo fianco, guardandolo negli occhi e parlandogli sottovoce. Lui non riusciva a rammentare le parole perché facevano parte di una cosa più vasta e terribile, una cosa forte come i legacci che lo imprigionavano. Adesso però poteva spezzare quei legacci. Poteva liberarsi dai ricordi e ancorarsi saldamente in quella stanza. Poteva guardare Marius. Emise un lungo sospiro sommesso. «Riprendi il tuo racconto, se non ti dispiace», disse. «Perché, dopo che la regina venne annientata e le gemelle se ne andarono, non hai rivelato la tua rabbia al bevitore di sangue Lestat, perché non ti sei vendicato? Eri stato tradito! E il tradimento aveva provocato una catastrofe.» «Perché volevo ancora amarlo», confessò Marius, come se conoscesse da tempo la risposta, «e volevo essere amato, e non potevo rinunciare al mio ruolo di creatura saggia e paziente, come ti ho già spiegato. La rabbia è troppo dolorosa per me, è troppo patetica. Non la sopporto. Non posso lasciare che guidi le mie azioni.» «Aspetta un attimo», disse Thorne. «Ripetilo, per favore.» «La rabbia è troppo patetica», ripeté Marius. «Rappresenta uno svantaggio eccessivo, sempre e comunque. Non posso agire in base a essa. Non posso farla mia.» Thorne lo pregò di tacere con un gesto. Si appoggiò allo schienale, riflettendo, e gli sembrò di essere sferzato dall'aria fredda nonostante il tepore del fuoco. «La rabbia è un segno di debolezza», sussurrò. Era un concetto nuovo, per lui. Nella sua mente la rabbia e la furia erano sempre state affini. E la rabbia era sembrata simile alla collera di Odino. Si evocava la collera prima di scendere in battaglia, le si dava il benvenuto nel proprio cuore. E nella caverna di ghiaccio lui aveva permesso a un'antica collera di destarlo.
«La collera è un segno di debolezza come la paura», asserì Marius. «Uno di noi due sopporta forse la paura?» «No», rispose Thorne. «Ma stai parlando di qualcosa dentro di te che è appassionato e forte.» «Sì, dentro di me c'è qualcosa di brutale e ferito, e io vago da solo, rifiutando il calice della rabbia, scegliendo il silenzio invece di parole irate. Eppure ti ho incontrato: per me sei uno sconosciuto, ma nonostante questo riesco a mettere a nudo la mia anima davanti a te.» «Sì, perché sai di poterlo fare», confermò Thorne. «Data l'ospitalità che mi hai offerto puoi dirmi qualsiasi cosa. Non tradirò mai la tua fiducia, te lo prometto. Dalle mie labbra non usciranno parole o canzoni banali. Nulla può far sì che accada una cosa del genere.» Sentì la propria voce farsi più stentorea. Dipendeva dalla sincerità con cui stava parlando. «Cosa ne è stato di Lestat? Perché ora è silenzioso? Non riesco a sentire altre canzoni o saghe che siano opera sua.» «Saghe, ah, sì, è questo che scriveva, saghe della nostra specie», replicò Marius, e sorrise di nuovo, quasi radiosamente. «Soffre a causa di terribili ferite. È stato con gli angeli, o con esseri che si proclamano tali e lo hanno condotto all'inferno e in paradiso.» «Tu credi a queste cose?» «Non lo so. Posso dirti solo che Lestat non si trovava su questa terra nel periodo in cui quelle creature sostengono di averlo tenuto con sé. E ha riportato qui un velo insanguinato su cui è impresso splendidamente il volto di Cristo.» «Ah, e hai visto questo velo?» «Sì», rispose Marius, «così come ho visto altre reliquie. È stato proprio vedendolo esporsi al sole e morire che il nostro sacerdote druido Mael ci è stato quasi tolto.» «Come mai Mael non è morto?» chiese Thorne. Non riuscì a celare l'emozione quando pronunciò quel nome. «Era troppo anziano», spiegò Marius. «Rimase gravemente ustionato e profondamente avvilito, come può succedere a quanti tra noi sono molto antichi, e dopo un intero giorno sotto il sole non ebbe il coraggio di affrontare altre sofferenze. È tornato dai suoi compagni e lì è rimasto.» «E tu? Sei disposto a dirmelo in tutta sincerità? Lo disprezzi davvero per ciò che ti ha fatto oppure è il tuo disgusto nei confronti della rabbia che ti spinge a voltare le spalle a questa faccenda?» «Non lo so. A volte non riesco a guardarlo in faccia, altre volte desidero
stare con lui. In alcune occasioni, invece, non riesco a cercare nessuno di loro. Sono venuto qui solo con Daniel, che ha perennemente bisogno di qualcuno che badi a lui. Mi va benissimo restargli vicino. Non è obbligato a parlare. Mi basta che sia qui.» «Ti capisco.» «Cerca di capire anche questo: io voglio continuare a vivere. Non sono il tipo che desidera esporsi al sole o cercare un'altra forma di annientamento. Se hai davvero lasciato il ghiaccio per distruggere Maharet, per far infuriare la sua gemella...» Thorne sollevò la mano destra per chiedergli pazienza e silenzio. Poi parlò: «No», disse. «Quelli erano sogni. Sono morti in questa stessa casa. Ci vorrà più tempo perché muoiano i ricordi...» «Allora rammenta la bellezza e il potere di Maharet», gli consigliò Marius. «Una volta le ho chiesto perché non avesse mai preso gli occhi di un bevitore di sangue, perché abbia sempre preferito quelli deboli e sanguinanti di una vittima mortale. Mi ha risposto di non aver mai provato il desiderio di annientare e neppure ferire nessun bevitore di sangue, se non la regina malvagia a cui non poteva prendere gli occhi. Il puro odio glielo impediva.» Thorne vi rifletté a lungo, senza parlare. «Sempre occhi mortali», sussurrò. «E con ogni paio, fintanto che dura, Maharet vede più di quanto possiamo vedere noi due». «Sì, capisco.» «Voglio l'energia necessaria per invecchiare», spiegò Marius. «Voglio scoprire meraviglie intorno a me, come ho sempre fatto, altrimenti perderò la forza di continuare, ed è questo che mi rode, adesso. La morte mi ha posato la mano sulla spalla. È arrivata sotto forma di delusione e timore del disprezzo.» «Ah, capisco tutto benissimo», ammise Thorne. «Quando mi sono rifugiato tra la neve volevo fuggire da queste cose. Desideravo morire e allo stesso tempo non morire, come succede ai mortali. Dubito di aver pensato che sarei sopravvissuto tra il ghiaccio o tra la neve. Ero convinto che mi avrebbero divorato, mi avrebbero congelato come sarebbe successo a un mortale. Invece non accadde niente del genere. Quanto al dolore causato dal freddo, mi ci sono abituato, come se rappresentasse il mio pane quotidiano, come se non meritassi altro. Ma è stato il dolore ad attirarmi qui, perciò ti capisco. Ormai preferiresti lottare contro la sofferenza, piuttosto
di ritirarti da qualche parte.» «Si», confermò Marius. «Quando la regina è uscita dal suo sacrario sotterraneo, mi ha lasciato sepolto nel ghiaccio e nell'indifferenza. Altri sono venuti a salvarmi e a condurmi al tavolo conciliare dove abbiamo cercato di farla ragionare. Prima che questo succedesse, non sarei mai riuscito a immaginare un tale disprezzo o un tale affronto da parte sua. Non avrei mai potuto immaginare la mia pazienza e il mio apparente perdono. «Ma a quel tavolo conciliare Akasha ha incontrato l'annientamento. L'insulto a me arrecato è stato vendicato in modo definitivo. La creatura che avevo custodito per duemila anni mi era stata tolta. La mia regina, tolta a me... «Quindi ormai riesco a vedere il quadro generale della mia esistenza, di cui la mia bellissima regina rappresentava solo una componente, persino nella sua crudeltà verso di me. Riesco a vedere tutte le storie della mia vita, posso scegliere tra di esse.» «Permettimi di ascoltarle», disse Thorne. «Le tue parole scorrono su di me come acqua tiepida. Mi confortano. Bramo le tue immagini. Ho fame di tutto ciò che potresti raccontare.» Marius ci pensò su. «Lasciami provare a narrare le mie storie», disse. «Lascia che facciano ciò che le storie fanno sempre. Lascia che ti tengano lontano dai tuoi sogni più cupi e dal tuo tetro viaggio. Lascia che ti trattengano qui.» Thorne sorrise. «Sì», ribatté, «mi fido di te. Continua.» LA STORIA 5 Come ti ho già detto, sono nato nell'era romana, all'epoca di Cesare Augusto, quando l'Impero Romano era immenso e potente, benché le tribù settentrionali di barbari che alla fine lo avrebbero invaso si opponessero alla sua avanzata e combattessero già da tempo lungo i suoi confini settentrionali. L'Europa era un mondo di città grandi e potenti, proprio come oggi. Quanto a me, come ho già detto, amavo i libri e avevo avuto la sventura di essere stato rapito al mio mondo, portato nei territori dei druidi per essere consegnato a un bevitore di sangue che si credeva un sacro dio della foresta, che non mi donò nient'altro che la superstizione, insieme al Sangue
Tenebroso. Successivamente feci un viaggio in Egitto per trovare la Madre; lo intrapresi solo per me stesso. Cosa sarebbe successo se il fuoco descritto dal dio annerito e sofferente fosse tornato? Bene, trovai la Coppia Divina e la sottrassi a coloro che erano da tempo i suoi guardiani. Non ero spinto solo dal desiderio di impadronirmi del Sacro Nucleo della regina divina, ma anche dall'amore per Akasha, dalla convinzione che mi avesse parlato per ordinarmi di salvarla, e dalla consapevolezza che mi avrebbe donato il suo prezioso sangue. Cerca di capire, nulla eguagliava la potenza di quella fonte originaria. Il suo sangue mi avrebbe trasformato in un bevitore di sangue straordinario, in grado di respingere l'assalto di qualunque antico dio ustionato potesse aggredirmi negli anni a venire. Ma devi capire anche un'altra cosa: non fui guidato da nessun impulso religioso. Avevo considerato un mostro il «dio» dei boschi druidici. E mi rendevo conto che, a suo modo, anche Akasha era un mostro. Lo ero anch'io. Non intendevo istituire un culto che la onorasse. Lei era un segreto. E dal momento in cui giunsero nelle mie mani, Akasha e il suo consorte furono davvero Coloro-che-devono-essere-conservati. Ciò non mi impedì di adorarla, in cuor mio, e di erigerle il più sontuoso dei sacrari e di sognare che avendomi parlato una volta, grazie ai poteri telepatici, mi parlasse di nuovo. La prima città in cui portai la coppia misteriosa fu Antiochia, un luogo splendido e assai interessante. Si trovava nell'Est, come dicevamo all'epoca, eppure era una città romana ed era stata plasmata dalla fortissima influenza dell'ellenismo, cioè dalla filosofia e dalle idee dei greci. Era costituita da nuovi e magnifici edifici romani e, benché di notte vi andassi a caccia, ormai ridotto all'ombra di me stesso, ospitava uomini geniali da spiare e cose portentose da sentire. Tuttavia, i miei primi anni come guardiano della Madre e del Padre furono colmi di amarezza a causa della solitudine, e spesso il silenzio dei Divini Genitori mi appariva particolarmente crudele. Ero penosamente ignorante, riguardo alla mia stessa natura, e rimuginavo senza sosta sul mio destino. Trovavo spaventoso e sconcertante il silenzio di Akasha. Dopo tutto, perché mi aveva chiesto di portarla via dall'Egitto se intendeva semplicemente restarsene seduta sul suo trono, in una perenne immobilità? A volte sospettavo che l'autodistruzione fosse preferibile all'esistenza che dovevo
sopportare. A un certo punto scoprii vicino a me la squisita Pandora, una donna che conoscevo sin dai tempi della sua adolescenza a Roma. In realtà, una volta, quando era solo una ragazzina precoce, ero andato da suo padre a chiederne la mano. Ed eccola lì ad Antiochia, adorabile nel fiore degli anni come lo era stata da fanciulla, a colmare di impossibile desiderio i miei pensieri. Le nostre vite si intrecciarono fatalmente. Per la verità, la repentinità e la violenza con cui Pandora venne trasformata in una bevitrice di sangue mi lasciarono indebolito dal senso di colpa e dalla perplessità. Ma lei era convinta che fosse stata Akasha a orchestrare la nostra unione, a porre rimedio alla mia solitudine e a spingerla verso di me. Se hai visto il tavolo del concilio attorno al quale eravamo seduti quando Akasha si è destata, allora hai visto anche Pandora, la splendida donna alta, dalla pelle chiara con i capelli castani ondulati, che ora figura tra i potenti Figli dei Millenni esattamente come te e me. Potresti chiedermi come mai non mi trovo con lei adesso. Cosa c'è in me che si rifiuta di ammettere quanto ammiro la mente di Pandora, la sua bellezza, la sua deliziosa comprensione di tutte le cose? Perché non posso andare da lei? Non lo so. So solo che una rabbia e un dolore terribili ci dividono, proprio come hanno fatto tanti anni fa. Non riesco ad ammettere come sono stato ingiusto nei suoi confronti, quanto ho mentito sul mio amore per lei e il mio bisogno di averla vicina. E forse quel bisogno è ciò che mi tiene a distanza, là dove sono al sicuro dall'attento esame dei suoi dolci e saggi occhi castani. E anche vero che lei mi giudica severamente a causa di alcuni miei atti recenti. Ma è una questione troppo ardua da spiegare. In quei tempi antichi, quando ormai vivevamo insieme da poco meno di due secoli, fui io a spezzare la nostra unione in maniera sciocca e terribile. Avevamo passato quasi ogni notte della nostra vita insieme a discutere, e io non riuscivo ad ammettere i suoi vantaggi e le sue vittorie, e fu a causa della mia debolezza che la abbandonai scioccamente e impetuosamente. Fu il più grave errore di tutti i miei lunghi anni. Ma lascia che ti racconti brevemente come arrivammo a essere separati dalla mia amarezza e dal mio orgoglio. Mentre custodivamo la Madre e il Padre, gli antichi dei delle buie foreste del Nord morirono ma, di tanto in tanto, un bevitore di sangue ci scopriva e veniva a esigere il sangue di Coloro-che-devono-essere-conservati.
Molto spesso, quando un simile mostro si rivelava violento, veniva agevolmente eliminato nell'incandescenza della rabbia, dopo di che tornavamo alla nostra vita civilizzata. Una sera, tuttavia, nella nostra villa fuori Antiochia comparve un branco di bevitori di sangue da poco creati, erano in quattro o cinque, tutti vestiti di una semplice tunica. Fui sbalordito scoprendo che si consideravano servitori di Satana nell'ambito di un piano divino che riteneva il diavolo dotato di poteri pari a quelli del Dio cristiano. Non sapevano della Madre e del Padre, nonostante il sacrario si trovasse in quella stessa casa, sotto il pavimento. Eppure loro non percepivano alcun segno dei Divini Genitori: erano troppo giovani e innocenti. In realtà il loro zelo e la loro sincerità bastavano a spezzarti il cuore. Ma, benché profondamente toccato dal loro guazzabuglio di idee cristiane e persiane, dalle loro folli nozioni e dal loro curioso aspetto innocente, trovai orripilante che quella nuova religione si fosse diffusa tra i bevitori di sangue. Parlavano di altri adepti. Parlavano di un culto. L'essere umano in me era disgustato, mentre il romano razionale era più confuso e allarmato di quanto io non sappia dire. Fu Pandora a riportarmi rapidamente alla ragione e a farmi capire che dovevamo sterminare l'intera banda. Se li avessimo lasciati andare, altri sarebbero venuti da noi, e la Madre e il Padre avrebbero rischiato di cadere nelle loro mani. Io, che avevo ucciso senza sforzo antichi bevitori di sangue pagani, in un certo senso sembravo incapace di ubbidirle, forse perché mi resi conto per la prima volta che se restavamo ad Antiochia, nella stessa casa e mantenendo invariato il nostro stile di vita, saremmo stati avvicinati da bevitori di sangue sempre più numerosi e avremmo dovuto continuare a ucciderli senza sosta per proteggere il nostro prezioso segreto. All'improvviso la mia anima trovò insopportabile quella prospettiva. Pensai di nuovo alla morte per me stesso e persino per Coloro-che-devono-essere-conservati. Uccidemmo i fanatici. Fu facile perché erano giovanissimi. Fu questione di pochi istanti, con le torce e le spade. Li riducemmo in cenere che poi sparpagliammo come bisogna fare: tu lo sai sicuramente. Ma, quando fu tutto finito, piombai in un terribile silenzio e per mesi mi rifiutai di lasciare il sacrario. Abbandonai Pandora per la mia sofferenza. Non riuscivo a spiegarle che avevo previsto un futuro assai tetro, e quando lei usciva per andare a caccia in città o per fare qualunque cosa la divertis-
se, mi recavo da Akasha. Andavo dalla mia regina. Mi inginocchiavo davanti a lei e le chiedevo cosa desiderava che facessi. «Dopo tutto», dicevo, «questi sono i tuoi figli, non è vero? Giungono i nuovi battaglioni e non conoscono il tuo nome. Hanno paragonato i loro denti aguzzi a quelli dei serpenti. Hanno parlato del profeta ebreo Mosè che innalzò il bastone-serpente nel deserto. Hanno parlato di altri che potrebbero venire.» Da Akasha non venne nessuna risposta. E non ne sarebbero giunte per duemila anni. Ma all'epoca ero soltanto all'inizio del mio terribile viaggio. E l'unica cosa che sapevo di dover fare, in quei momenti carichi d'ansia, era che dovevo tenere nascoste le mie preghiere a Pandora, che non potevo permetterle di vedere Marius, il filosofo, in ginocchio. Continuai con la mia preghiera, continuai con la mia febbrile adorazione. E, come sempre succede quando si prega un oggetto immobile, anche in quelle occasioni la luce giocava sul viso di Akasha e le dava una parvenza di vita. Nel frattempo Pandora, amareggiata dal mio silenzio, tanto quanto io ero amareggiato dal silenzio di Akasha, era sempre più sconvolta. Una notte mi disse: «Vorrei tanto sbarazzarmi di loro e di te». Uscì dalla casa e non tornò né la sera seguente né quella successiva. Come puoi capire, stava facendo con me lo stesso giochetto che io avevo fatto con lei. Si rifiutava di essere testimone della mia durezza, ma non riusciva a capire quanto io avessi disperatamente bisogno della sua presenza e persino dei suoi vani appelli. Nonostante questo io fui spudoratamente egoista. Fu una catastrofe del tutto gratuita, ma ero davvero furioso con lei, perciò compii il passo irrevocabile di organizzare la mia partenza da Antiochia. Alla fioca luce della lanterna, per non destare sospetti nei miei agenti mortali, diedi ordini affinché io e Coloro-che-devono-essere-conservati venissimo trasportati via mare a Roma, chiusi in tre enormi sarcofagi. Abbandonai la mia Pandora. Portai con me tutto ciò che mi apparteneva e le lasciai solo la villa vuota, con le sue cose sparpagliate qua e là, in modo indifferente e offensivo. Abbandonai l'unica creatura al mondo che potesse comprendermi e offrirmi la sua pazienza, a prescindere dalle frequenti liti e dalla loro violenza. Abbandonai così l'unica creatura che sapeva cos'ero! Naturalmente non immaginavo quali sarebbero state le conseguenze. Non mi resi conto che non sarei riuscito a ritrovare Pandora per centinaia di anni. Non sapevo che
nella mia mente sarebbe diventata una dea, un essere potente nella mia memoria come Akasha lo era nella realtà, notte dopo notte. Vedi, fu un'altra bugia, simile a quella che ti ho raccontato su Akasha. Amavo Pandora e avevo bisogno di lei, ma, nel corso delle nostre liti, a dispetto della mia emotività io avevo sempre interpretato il ruolo della mente superiore che non aveva bisogno dei suoi discorsi irrazionali, di lei e del suo affetto sempre palese. Rammento come avevamo discusso la notte stessa in cui le diedi il Sangue Tenebroso. «Non trasformare la ragione e la logica in una religione», mi disse, «perché, con il passare del tempo, la ragione potrebbe tradirti e a quel punto potresti ritrovarti a cercare rifugio nella follia.» Quelle parole, uscendo dalla bocca della splendida donna i cui occhi mi ipnotizzavano, mi offesero a tal punto che riuscii a stento a seguire le sue riflessioni. Eppure in quei mesi di silenzio, dopo che uccidemmo gli adoratori di Satana, accadde proprio questo. Ero scivolato in una forma di pazzia e rifiutavo di proferire parola. Soltanto adesso riconosco che fu una vera follia, posso ammettere che trovavo insopportabile la mia stessa debolezza e non tolleravo che Pandora fosse testimone della malinconia che mi avviluppava l'anima. Persino ora non sopporto che sia testimone della mia sofferenza. E vivo da solo in questo posto, con l'unica compagnia di Daniel. Parlo con te perché sei un nuovo amico e puoi trarre da me impressioni e consigli freschi. Perché tu non mi guardi con un'antica conoscenza e un'antica paura. Ma lasciami proseguire con il racconto. La nostra nave attraccò regolarmente nel porto di Ostia e, dopo che fummo trasportati nella città di Roma dentro i nostri sarcofagi, mi levai dalla mia «tomba», quindi diedi disposizioni per l'acquisto di una costosa villa appena fuori dalle mura cittadine, e per Coloro-che-devono-essereconservati allestii un sacrario sotterraneo tra le colline, a parecchia distanza dalla casa. Ero oppresso da un profondo senso di colpa per averli sistemati così lontano dal luogo in cui vivevo, leggevo i miei libri e mi rifugiavo nottetempo nella mia cripta. Dopo tutto, ad Antiochia erano rimasti all'interno della mia dimora, al sicuro sotto di essa, mentre adesso distavano alcuni chilometri dalla mia casa. Ma desideravo vivere vicino alla grande città, tuttavia nel giro di pochi anni le sue mura vennero spostate in avanti ed erette intorno alla mia abitazione, quindi Roma la fagocitò. A quel punto possedevo una villa di cam-
pagna in città, e non sarebbe stata un posto sicuro per Coloro-che-devonoessere-conservati, quindi si rivelò estremamente saggio da parte mia aver creato loro un santuario ben lontano dalla città in piena espansione. Rimanendo in quella villa, interpretai la parte del «gentiluomo romano» con coloro che mi stavano intorno, e l'affettuoso padrone di numerosi schiavi sempliciotti e ingenui. Cerca di capire: ero rimasto lontano da Roma per più di duecento anni, crogiolandomi nelle ricchezze culturali di Antiochia, una città romana, sì, ma orientale, ascoltando i suoi poeti e insegnanti nel foro. Perlustrando le biblioteche alla luce di una fiaccola, ero rimasto orripilato dalle descrizioni dei più recenti imperatori romani che con le loro stramberie avevano infamato il ruolo cui erano assunti ed erano stati inevitabilmente uccisi dalle guardie del corpo o dalle truppe. Ma mi ero sbagliato pensando che la Città Eterna fosse piombata nel degrado. Nell'ultimo secolo c'erano stati grandi imperatori del calibro di Adriano e Marco Aurelio e Settimio Severo; era stata eretta una miriade di edifici monumentali e la popolazione era cresciuta a dismisura. Nemmeno un bevitore di sangue come me avrebbe potuto ispezionare tutti i templi, gli anfiteatri e le terme della capitale. Con ogni probabilità Roma era la città più grande e straordinaria del mondo. Contava circa due milioni di abitanti, molti dei quali appartenenti alla plebe, così venivano definiti i poveri, che ricevevano una razione quotidiana di granturco e vino. Rimasi subito vittima del suo incantesimo. E, trascurando gli orrori delle lotte imperiali e l'incessante guerra lungo le frontiere, mi distrassi studiando le opere intellettuali ed estetiche dell'umanità, come ho sempre fatto. Naturalmente andai subito a interpretare il ruolo del fantasma vagabondo nelle case dei miei discendenti perché avevo seguito le loro vicende, pur non confessandolo mai a Pandora. Scoprii che erano valenti membri dell'antica classe senatoriale, impegnati nello strenuo sforzo di mantenere un certo ordine nel governo, mentre l'esercito eleggeva un imperatore dopo l'altro nel disperato tentativo di assicurarsi il potere per questa o quella fazione in questo o quel luogo remoto. Mi si spezzò il cuore nel vedere quei giovani discendenti dei miei zii e zie, dei miei nipoti e delle mie nipoti, e fu durante quel periodo che smisi di interessarmi a loro, anche se non saprei dire di preciso come mai. In quel periodo tagliai i legami con tutti. Avevo abbandonato Pandora; avevo sistemato Coloro-che-devono-essere-conservati a una certa distanza
da me, e una sera, dopo aver osservato furtivamente una cena organizzata nella dimora di uno dei miei numerosi discendenti, tornai a casa, estrassi da un baule tutti i rotoli di pergamena su cui avevo scritto i nomi di quei giovani, spigolati dalle lettere spedite a vari agenti, e li bruciai, sentendomi saggio nella mia mostruosità, come se quell'atto potesse risparmiarmi ulteriori sofferenze. In seguito mi aggirai in territori sconosciuti, per acquisire informazioni. Con abilità vampiresca mi intrufolavo nei giardini immersi nell'ombra e restavo in ascolto accanto alle porte aperte delle ville fiocamente illuminate, mentre le persone all'interno conversavano in toni sommessi durante la cena o si godevano il canto delicato di un ragazzo che si accompagnava con la lira. Trovai assai commovente l'antica Roma conservatrice e, benché le biblioteche non fossero pregevoli come lo erano diventate quelle di Antiochia, c'era parecchio da leggere. Naturalmente c'erano scuole di filosofia e, pur non trovandole all'altezza di quelle di Antiochia, mi interessava ascoltare tutto il possibile. Tuttavia non mi inserii in quel mondo mortale. Non facevo amicizia con i mortali, non conversavo con loro. Mi limitavo a osservarli, come avevo sempre fatto ad Antiochia. All'epoca non credevo di potermi insinuare con autentica efficacia nel loro regno naturale. Quanto alla mia sete di sangue, cacciavo furiosamente. Bevevo sempre e soltanto dai malfattori, una cosa semplicissima, te lo assicuro, ma nutrivo la mia fame di gran lunga più del necessario. Mostravo crudelmente le zanne a coloro che uccidevo. L'enorme popolazione non mi lasciava mai affamato. Mi comportavo da bevitore di sangue più di quanto avessi mai fatto nel corso della mia esistenza. Per me rappresentava una sfida farlo nel modo giusto, affondare i denti soltanto una volta e in maniera pulita, e non versavo nemmeno una goccia, mentre assorbivo la morte insieme al sangue. In un luogo come la Roma dell'epoca, non vi era alcun bisogno di nascondere i cadaveri per timore di essere scoperto. A volte li gettavo nel Tevere, altre volte li lasciavo semplicemente per la strada. Amavo soprattutto uccidere nelle taverne, cosa che apprezzo persino ora, come sai. Non c'è nulla di più piacevole di fare una lunga camminata nella notte umida e buia, e vedere l'improvviso spalancarsi di una porta di una taverna all'interno della quale c'è un intero microcosmo di luce e tepore ed esseri umani che cantano e ridono. Trovavo le taverne estremamente attraenti.
Naturalmente, tutti quegli avidi banchetti, quelle uccisioni senza fine dipendevano dal mio dolore per Pandora e dalla mia solitudine. Chi poteva trattenermi? Chi poteva sconfiggermi? Nessuno! E sai, durante i primi mesi avrei potuto scriverle! Esisteva sicuramente la possibilità che fosse rimasta ad Antiochia, nella nostra casa, ad aspettare che io tornassi in me, ma non feci nulla del genere. Una rabbia feroce, la stessa rabbia che ora cerco di combattere, montava dentro di me e mi indeboliva, come ti ho già spiegato. Non potevo fare ciò che dovevo: riportare Pandora da me. E talvolta la solitudine mi spingeva a prendere tre o quattro vittime nella stessa notte, finché versavo sangue che non riuscivo più a bere. A volte, nelle prime ore del mattino, la mia furia si quietava e io tornavo ai miei scritti storici, un'attività che avevo iniziato ad Antiochia senza mai rivelarla a nessuno. Descrivevo i segnali di progresso o fallimento che notavo a Roma, descrivevo con dovizia di particolari gli edifici. Ma poi giungevano notti in cui giudicavo inutile tutto ciò che avevo scritto. Alla fin fine, qual era lo scopo? Non potevo introdurre nel mondo mortale quelle descrizioni, quelle osservazioni, quei poemi, quei saggi! Erano contaminati perché si trattava di opere di un bevitore di sangue, un mostro che uccideva gli esseri umani per sopravvivere. Non c'era posto per la poesia o la storia scaturite da una mente e da un cuore saturi di avidità. Così iniziai a distruggere non solo i miei scritti più recenti, ma persino quelli redatti ad Antiochia. Estrassi i rotoli di pergamena dai bauli, uno dopo l'altro, e li bruciai come avevo fatto con le cronache relative alla mia famiglia. Oppure mi limitavo a riporli in un posto sicuro e lontano dai miei occhi, in modo che nulla di quanto avevo scritto potesse suscitare qualcosa di nuovo dentro di me. Fu una profonda crisi dell'anima. Poi si verificò un fatto inaspettato. Mi imbattei in un altro bevitore di sangue; in realtà ne incontrai due, nelle strade buie della città, a tarda notte, mentre scendevo da una collina. La luna si era appena nascosta dietro le nubi, ma naturalmente io ci vedevo benissimo grazie ai miei occhi preternaturali. Le due creature mi si stavano avvicinando di buon passo senza vedere che mi ero addossato al muro nel tentativo di non bloccare loro la strada. Alla fine, il primo sollevò il capo e io lo riconobbi all'istante. Riconobbi
il naso aquilino e gli occhi infossati. Riconobbi le guance scavate. A dire il vero riconobbi tutto di lui, le spalle spioventi, i lunghi capelli biondi e persino la mano che stringeva il mantello all'altezza della gola. Era Mael, il druido che tanto tempo prima mi aveva catturato e tenuto prigioniero per poi darmi in pasto al dio della foresta ustionato e moribondo. Era Mael, che mi aveva tenuto in cattività per mesi, mentre mi preparava per la Magia Tenebrosa. Era Mael, il puro di cuore e l'intrepido, che ero arrivato a conoscere così intimamente. Chi lo aveva trasformato in un bevitore di sangue? In quale bosco era stato consacrato alla sua antica religione? Come mai non era rinchiuso in qualche quercia della Gallia, con il compito di presiedere ai banchetti degli altri druidi? I nostri sguardi si incrociarono, ma non provai il minimo timore. Avevo valutato la sua forza, trovandola carente. Era vecchio quanto me, sì, non c'erano dubbi, ma non aveva bevuto da Akasha come me. Io ero di gran lunga più forte. Non c'era nulla che Mael potesse farmi. Così distolsi lo sguardo da lui per posarlo sull'altro bevitore di sangue, che era molto più alto e infinitamente più forte, e con la pelle marrone scuro, sicuramente a causa delle ustioni provocate dal Terribile Fuoco. Aveva un viso largo, dai lineamenti piuttosto gradevoli e franchi, con grandi occhi neri e indagatori, una bocca carnosa e ben proporzionata, e una folta chioma di ondulati capelli neri. Guardai di nuovo la creatura dalla testa bionda che aveva preso la mia vita mortale con tanta convinzione religiosa e mi resi conto che avrei potuto distruggerla staccandole la testa per poi piazzarla in un punto del mio giardino in cui il sole l'avrebbe inevitabilmente trovata e bruciata. Mi resi conto che avrei dovuto farlo, che quella creatura non meritava nulla di più, eppure altre riflessioni mi turbinavano nella mente. Volevo parlare con quella creatura. Volevo conoscerla. Volevo conoscere l'essere che la accompagnava, il bevitore di sangue dalla pelle marrone che mi fissava con un miscuglio di innocenza e cordialità. Era molto più vecchio. Non somigliava a nessun immortale che mi avesse mai avvicinato ad Antiochia, piangendo per la Madre e il Padre. Rappresentava un'assoluta novità. Fu in quel momento che capii, forse per la prima volta, che la rabbia è un segno di debolezza. La rabbia mi aveva sottratto Pandora a causa di una frase costituita da meno di venti parole; la rabbia mi avrebbe sottratto Mael, se lo avessi distrutto. Inoltre, pensai: Posso sempre posporre l'omicidio.
Ora posso parlare con lui. Posso lasciare che la mia mente si goda la compagnia che brama e posso sempre ucciderlo in un secondo tempo. Ma sicuramente saprai che è un modo di ragionare fallace, perché una volta che arriviamo ad amare qualcuno, è improbabile che ne desideriamo la morte. Mentre quei pensieri mi turbinavano nel cervello, le parole mi sgorgarono improvvise dalle labbra. «Sono Marius, ti ricordi di me?» chiesi. «Mi hai condotto nella foresta dell'antico dio, mi hai consegnato a lui, ma io sono fuggito.» L'ostilità con cui avevo parlato mi sgomentò. Mael celò completamente i propri pensieri, impedendomi di stabilire se mi avesse riconosciuto dall'aspetto o no. Poi rispose rapidamente, in latino: «Sì, hai lasciato la foresta. Hai abbandonato tutti coloro che ti adoravano. Hai preso il potere a te concesso, e cosa hai lasciato per i fedeli della foresta? Cosa hai donato, in cambio?» «E tu, mio prezioso druido», replicai, «servi i tuoi antichi dei? È questo che ti ha portato a Roma?» La voce mi tremava per la rabbia, di cui percepii la debolezza. Mi sforzai di riacquistare ragionevolezza e forza. «Quando ti ho conosciuto eri puro di cuore. Raramente ho incontrato una creatura più illusa di te, più dedita alle consolazioni e illusioni della religione...» Mi interruppi. Dovevo controllarmi, e lo feci. «L'antica religione è scomparsa», dichiarò lui, furioso. «I romani hanno invaso persino i nostri luoghi più segreti. Ormai le loro città sono ovunque. E barbari razziatori provenienti dalla riva opposta del Danubio sono piombati su di noi. E i cristiani arrivano in luoghi dove non ci sono i romani. Non v'è modo di fermarli.» La sua voce aumentò di volume, pur avendo assunto il tono di un sussurro. «Ma sei stato tu», continuò, «tu, a corrompermi. Sei stato tu, Marius, ad avvelenarmi, sei stato tu a separarmi dai fedeli della foresta, tu a farmi sognare cose più grandi!» Era furibondo quanto me. Stava tremando. E, come spesso succede con due persone intente a litigare, la sua collera suscitò in me una calma piacevole. Riuscii a seppellire l'ostilità dentro di me grazie a quel mio proposito, posso sempre ucciderlo in un secondo tempo, e continuai, mentre l'altra creatura pareva stupita e insieme affascinata da quanto stava succedendo, sfoggiando un'espressione quasi puerile. «Quello che stai dicendo è assurdo», affermai. «Dovrei annientarti. Ci
riuscirei facilmente.» «Benissimo, allora provaci», ribatté Mael. L'altro allungò una mano per posarla su quella di Mael. «No, ascoltatemi», disse con voce gentile e profonda. «Smettete di litigare. Qualunque sia il modo in cui siamo giunti al Sangue Tenebroso, tramite le menzogne o la violenza, questo ci ha reso immortali. Dobbiamo dimostrarci così ingrati?» «Non sono un ingrato», precisai, «ma sono in debito con il Fato, non con Mael. Ciò nonostante, desidero la vostra compagnia. È questa la verità. Venite a casa mia. Non farei mai del male a chi si trova sotto il mio tetto in qualità di ospite.» Io stesso rimasi leggermente stupito da quel discorsetto, ma era sincero. «Hai una casa in questa città?» chiese Mael. «Cosa intendi con 'casa'?» «Ho una dimora, una dimora confortevole. Vi invito ad accompagnarmi là, così potremo parlare. Ho un giardino grazioso, con bellissime fontane. Ho degli schiavi, molto ingenui. La luce è gradevole. Il giardino è pieno di fiori che si schiudono di notte. Venite.» Quello con i capelli corvini rimase palesemente stupito. «Voglio andare», disse guardando Mael, pur trovandosi ancora dietro di lui. La sua voce rivelava una certa autorevolezza, una forza pura, nonostante il tono sommesso. Mael era rigido e impotente per colpa della rabbia. Con il naso aquilino e gli occhi spaventosi, mi ricordò un uccello selvatico. Gli uomini con nasi del genere mi fanno sempre quell'effetto. In verità, però, possedeva una bellezza fuori dal comune. Aveva una fronte alta e liscia, e una bocca forte. Ma, per proseguire con il mio racconto, fu solo a quel punto che notai che erano vestiti entrambi di stracci, come mendicanti. Erano scalzi e, benché i bevitori di sangue non siano mai davvero sudici perché nessun tipo di sporcizia gli si attacca addosso, apparivano decisamente trasandati. Comunque io ero in grado di porvi rimedio, se me l'avessero permesso. Avevo diversi bauli pieni di indumenti, come sempre. Che uscissi per cacciare o per studiare un affresco in una casa abbandonata, ero sempre un romano elegante, e portavo spesso con me pugnale e spada. Alla fine accettarono il mio invito. Da parte mia, compiendo un enorme sforzo di volontà, li precedetti, dando loro le spalle per guidarli, sfruttando al massimo le mie doti medianiche per tenerli d'occhio ed evitare che cercassero di colpirmi.
Naturalmente ero felicissimo che Coloro-che-devono-essere-conservati non si trovassero in casa, dove uno qualsiasi di quei due avrebbe potuto captarne il tonante battito cardiaco, ma non potevo permettermi di visualizzare quelle creature. Continuammo a camminare. Infine entrarono nella mia dimora, guardandosi intorno come se si trovassero in mezzo ad autentici portenti, quando invece non possedevo altro che i semplici arredi tipici di una persona ricca. Fissarono avidamente le lampade a olio in bronzo che riempivano di luce brillante le stanze dal pavimento di marmo, e toccarono con palese esitazione divani e poltrone. Non so dirti quante volte mi è capitato, nel corso dei secoli, che un bevitore di sangue errante, privo di qualsiasi legame con gli umani, sia entrato in casa mia per sorprendersi di cose semplicissime. Ecco perché avevo un letto per te quando sei venuto qui. Ecco perché avevo dei vestiti da darti. «Sedetevi pure», dissi loro, «qui non c'è nulla che non possa essere lavato o gettato via. Insisto perché vi mettiate comodi. Vorrei che avessimo un gesto preciso per dare il benvenuto, così come i mortali offrono una coppa di vino agli ospiti.» L'uomo più alto e robusto fu il primo a sedersi su una sedia, invece che su un divano. Presi una sedia anch'io, indicando cortesemente a Mael di accomodarsi alla mia destra. Vedevo con chiarezza che l'immortale più. massiccio era infinitamente più potente di Mael. Era più antico di me. Ecco come mai era guarito dopo il Terribile Fuoco, benché quest'ultimo risalisse a duecento anni prima, dovetti ammettere. Ma in lui non percepii alcun pericolo per la mia incolumità, e poi, inaspettatamente, silenziosamente, mi rivelò il suo nome. «Avicus.» Mael mi fissò con astio. Non si appoggiò allo schienale come avrebbe potuto fare, ma rimase malignamente eretto e pronto, come per una rissa. Cercai di leggergli la mente, senza successo. Quanto a me, mi consideravo il consumato padrone del mio odio e della mia rabbia, ma notando l'espressione ansiosa di Avicus temetti di sbagliarmi. All'improvviso lui parlò: «Deponete il vostro odio reciproco», disse in latino, pur con un marcato accento straniero, «e forse una battaglia verbale sistemerà tutto». Mael non aspettò che mi dicessi d'accordo. «Ti abbiamo portato nella foresta perché ce lo ordinò il nostro dio»,
spiegò. «Era ustionato e in fin di vita, ma rifiutava di svelarcene il motivo. Voleva che tu andassi in Egitto, ma non voleva dirci come mai. Disse che era necessario creare un nuovo dio, ma non ci spiegò il perché.» «Calmati», mormorò Avicus, «affinché le tue parole esprimano davvero quello che hai nel cuore.» Persino vestito di stracci esibiva una certa dignità e una spiccata curiosità per quanto sarebbe stato detto. Mael strinse i braccioli della poltrona e mi guardò in cagnesco, con i lunghi capelli biondi che gli celavano parzialmente il viso. «'Portate un umano perfetto per la magia del vecchio dio', ci chiese. E le nostre leggende confermavano che era vero: quando un vecchio dio è debole, ne serve uno nuovo. E solo un uomo perfetto può essere consegnato al dio morente per consentirgli di operare la sua magia nella quercia.» «Così tu hai trovato un romano nel fiore degli anni, ricco e felice», affermai, «e lo hai trascinato via contro la sua volontà. Tra voi non c'erano uomini adatti alla vostra religione? Perché venire da me con le vostre orride credenze?» Mael non si lasciò distrarre dalle mie parole, riprendendo subito a parlare. «'Portatemi qualcuno che sia idoneo', ordinò il dio, 'qualcuno che conosca le lingue di tutti i regni!' Fu questo il suo ordine. Sai per quanto tempo fummo costretti a cercare una persona come te?» «Dovrei forse compatirti?» chiesi bruscamente e scioccamente. Lui continuò: «Ti abbiamo portato alla quercia come ci era stato ordinato. In seguito, quando ne sei uscito per presiedere al nostro grande sacrificio, abbiamo visto che eri stato trasformato in un dio scintillante, con capelli brillanti e occhi che ci spaventarono. «Senza una sola parola di protesta hai alzato le braccia per dare inizio alla grande festività di Samhain. Hai bevuto il sangue delle vittime che ti abbiamo portato. Ti abbiamo visto berlo! La magia venne ricreata dentro di te. Sentimmo che avremmo prosperato e che era tempo di bruciare il vecchio dio come ci prescrivevano le nostre leggende. «È a quel punto che sei fuggito.» Si appoggiò allo schienale come se il lungo discorso lo avesse stremato. «Non sei tornato», aggiunse in tono carico di disgusto. «Conoscevi i nostri segreti ma non sei tornato!» Sulla stanza calò il silenzio. Non sapevano della Madre e del Padre. Non sapevano nulla delle antiche tradizioni egizie. Per un lungo istante provai un sollievo talmente intenso che non riuscii ad aprir bocca. Mi sentivo più calmo e controllato che mai.
In realtà, sembrava assurdo che stessimo avendo quel diverbio visto che, come aveva sottolineato Avicus, eravamo immortali. Ma eravamo ancora umani, ognuno a modo suo. Alla fine mi accorsi che Mael mi stava fissando, e i suoi occhi continuavano a essere colmi di rabbia. Appariva pallido, affamato e selvaggio. Entrambe le creature, però, stavano aspettando che io dicessi o facessi qualcosa, e apparentemente l'onere spettava a me. Alla fine presi una decisione che a mio parere rappresentava di per sé una sorta di resa dei conti e una sorta di trionfo. «No, non sono tornato», ammisi onestamente con Mael. «Non volevo essere il dio della foresta. Non mi importava nulla dei fedeli della foresta. Scelsi di vagare attraverso il tempo. Non credo ai tuoi dei o ai tuoi sacrifici. Cosa ti aspettavi da me?» «Hai portato con te la magia del nostro dio.» «Non avevo altra scelta», spiegai. «Se avessi lasciato il vecchio dio ustionato senza prenderne la magia mi avreste annientato, e io non volevo morire. Perché mai sarei dovuto morire? Sì, ho portato con me la magia che lui mi ha donato e, sì, ho presieduto ai vostri sacrifici e subito dopo sono fuggito come avrebbe fatto chiunque possedesse la mia natura.» Lui mi fissò a lungo, come se stesse tentando di stabilire se volevo continuare a discutere o no. «E cosa vedo ora in te?» domandai. «Non sei forse scappato dai tuoi fedeli della foresta? Come mai ti incontro qui a Roma?» Mael tacque per qualche istante. «Il nostro dio», disse poi, «il nostro dio ustionato parlava dell'Egitto. Parlava della necessità che gli portassimo qualcuno che potesse scendere in Egitto. Sei andato in Egitto? Vi hai cercato la Buona Madre?» Cercai di schermare la mente il più possibile. Assunsi un'aria severa e tentai di capire fino a che punto dovessi confessare, e perché. «Sì, ci sono andato», risposi. «Sono andato a cercare la causa del fuoco che aveva bruciato gli dei in tutti i territori settentrionali.» «E cos'hai trovato?» chiese Mael. Spostai lo sguardo su Avicus e vidi che anche lui stava aspettando la mia risposta. «Non ho trovato nulla», dichiarai. «Nulla se non esseri ustionati che rimuginavano sullo stesso mistero. L'antica leggenda della Buona Madre. Niente di più. È tutto finito. Non c'è altro da dire.» Mi credettero? Non riuscii a stabilirlo. Davano l'impressione di celare
dentro di sé alcuni segreti, scelte fatte molto tempo prima. Avicus pareva angustiato per il compagno. Mael alzò gli occhi e parlò con rabbia: «Vorrei tanto non aver mai posato lo sguardo su di te. Un romano malvagio, un ricco romano con tutta la tua raffinatezza e le tue parole eleganti». Si guardò intorno, osservando gli affreschi sui muri, i divani e i tavoli, i pavimenti di marmo. «Perché dici una cosa del genere?» chiesi. Cercai di non disprezzarlo ma di vederlo e capirlo, ma il mio odio era troppo grande. «Quando ti ho preso prigioniero», raccontò, «quando ho cercato di insegnarti la nostra poesia e i nostri canti, ricordi come hai cercato di corrompermi? Hai parlato della tua splendida villa affacciata sulla baia di Napoli. Hai promesso di portarmici, se solo ti avessi aiutato a scappare. Ricordi queste cose terribili?» «Sì, le ricordo», risposi freddamente. «Ero tuo prigioniero! Mi hai condotto nel folto della foresta contro la mia volontà. Cosa ti aspettavi da me? Inoltre, se mi avessi lasciato scappare, ti avrei davvero portato nella mia casa sulla baia di Napoli. Avrei pagato il mio riscatto, lo avrebbe pagato la mia famiglia. Ma ora è troppo stupido parlare di queste cose.» Scossi il capo. Ero troppo agitato. La mia antica solitudine mi chiamava. Volevo che in quelle stanze tornasse a regnare il silenzio. Che bisogno avevo di quei due? Avicus mi rivolse un appello silenzioso con la sua espressione, e io mi chiesi chi potesse mai essere. «Ti prego, mantieni la calma», mi chiese. «Sono io la causa delle sue sofferenze.» «No», si affrettò a contraddirlo Mael. Gli lanciò un'occhiata. «Non è vero.» «Oh, sì, invece», dichiarò Avicus, «ed è sempre stato così, sin da quando ti ho dato il Sangue Tenebroso. Cerca di trovare la forza di prendere una decisone: restare con me, oppure lasciarmi. Non si può andare avanti in questo modo.» Allungò una mano per posarla sul braccio del compagno. «Tu hai trovato Marius, questo strano essere», gli disse, «e gli hai raccontato gli ultimi anni delle tue salde credenze. Hai rivissuto quella terribile infelicità. Non devi essere così stolto da odiarlo per quanto è successo. Lui ha fatto bene a cercare la libertà. Quanto a noi, l'antica fede è morta. Il Terribile Fuoco l'ha distrutta, e non si sarebbe potuto fare niente di più.»
Mael appariva più abbattuto di qualunque creatura io avessi mai visto. Nel frattempo il mio cuore si mise al passo con la mia mente. Stavo pensando: Qui ci sono due immortali, ma non possiamo confortarci a vicenda, non possiamo diventare amici. Possiamo solo separarci dopo esserci scambiati parole astiose. E in seguito resterò di nuovo solo. Sarò l'orgoglioso Marius che ha lasciato Pandora. Avrò la mia bellissima casa e i miei raffinati oggetti tutti per me. Mi accorsi che Avicus mi stava fissando, cercando di sondarmi la mente, senza riuscirci benché i suoi poteri psichici fossero spaventosi. «Perché vivete come vagabondi?» chiesi. «Non sappiamo vivere altrimenti», rispose. «Non ci abbiamo mai provato. Ci teniamo lontani dai mortali, se non quando andiamo a caccia. Temiamo la scoperta. Temiamo il fuoco.» Annuii. «Cosa cercate, a parte il sangue?» Un'espressione mesta gli balenò sul viso. Stava soffrendo, ma tentava di nasconderlo, o forse tentava di scacciare il dolore. «Non sono sicuro che stiamo cercando qualcosa», disse. «Non sappiamo come fare.» «Siete disposti a rimanere con me», domandai, «per imparare?» Mi accorsi della sfrontatezza, dell'arroganza di quella proposta, ma ormai l'avevo fatta. «Posso mostrarvi i templi di Roma, posso mostrarvi i grandi palazzi, le dimore che fanno sembrare umile questa casa. Posso insegnarvi a sfruttare le ombre in modo da non essere mai visti dai mortali, a scalare i muri rapidamente e silenziosamente, a camminare nottetempo sui tetti attraversando l'intera città senza mai toccare il suolo.» Avicus era esterrefatto. Guardò il compagno che era seduto scompostamente, in silenzio. Poi Mael raddrizzò la schiena e con voce fioca proseguì con il suo biasimo. «Sarei stato più forte se tu non mi avessi raccontato tutte quelle cose meravigliose», affermò, «e ora chiedi se vogliamo assaporare gli stessi piaceri di un romano?» «È ciò che ho da offrire», replicai. «Fate come preferite.» Scosse il capo. Ricominciò a parlare, non so a beneficio di chi. «Quando divenne chiaro che non saresti tornato», raccontò, «loro scelsero me. Dovevo diventare il dio. Ma perché questo avvenisse dovevamo
trovare un dio della foresta che non fosse stato ucciso dal Terribile Fuoco. Dopo tutto, avevamo annientato stupidamente il nostro dio tanto gentile! Una creatura che aveva posseduto la magia necessaria per crearti.» Feci un gesto come per dire che era stato un vero peccato. «Spargemmo la voce in lungo e in largo», continuò lui. «Alla fine giunse una risposta dalla Britannia. Lì era sopravvissuto un dio, un dio estremamente antico e forte.» Guardai Avicus, ma la sua espressione rimase immutata. «Tuttavia ci avvisarono di non andare da lui. Ci spiegarono che forse ci conveniva evitarlo. Questi messaggi ci confusero, e alla fine ci disponemmo a fare quanto sentivamo di dover fare.» «E come ti sei sentito, dopo essere stato scelto e sapendo che saresti stato rinchiuso nella quercia, per non rivedere mai più il sole e bere sangue solo durante le grandi festività e il plenilunio?» domandai malignamente. Lui guardò dritto davanti a sé come se non potesse darmi una risposta accettabile, poi replicò. «Mi avevi corrotto, te l'ho già detto.» «Ah, quindi avevi paura. I fedeli della foresta non riuscivano a consolarti. E la colpa era mia.» «Non avevo paura», dichiarò furiosamente, serrando i denti. «Ero corrotto, te lo ripeto.» Posò fugacemente su di me i piccoli occhi infossati. «Sai cosa significa non credere assolutamente a nulla, non avere nessun dio, nessuna verità?» «Certo che lo so», affermai. «Non credo a nulla e lo ritengo un atteggiamento saggio. Non credevo a nulla quando ero un mortale. Non credo a nulla nemmeno ora.» Mi sembrò di veder trasalire Avicus. Avrei potuto dire cose più brutali, ma mi accorsi che Mael voleva proseguire. Guardando fisso davanti a sé, riprese il suo racconto. «Ci mettemmo in viaggio, attraversammo lo stretto mare che ci separava dalla Britannia e puntammo verso nord, in una terra di boschi verdi dove incontrammo un gruppo di sacerdoti che cantavano i nostri inni e conoscevano la nostra poesia e le nostre leggi. Erano druidi come lo eravamo noi, erano fedeli della foresta come lo eravamo noi. Ci buttammo gli uni nelle braccia degli altri.» Avicus lo stava osservando attentamente. I miei occhi apparivano senza dubbio più pazienti e freddi, eppure devo ammettere che quella semplice
narrazione mi affascinava. «Entrai nella foresta», continuò Mael. «Gli alberi erano enormi, antichissimi. Uno qualunque di essi avrebbe potuto essere il Grande Albero. Alla fine mi ci accompagnarono e vidi la porta con i numerosi lucchetti di ferro. Capii che il dio si trovava all'interno.» All'improvviso lanciò un'occhiata ansiosa verso Avicus, che gli fece cenno di continuare. «Raccontalo a Marius», lo sollecitò gentilmente, «e raccontandolo a lui lo racconti anche a me.» Suonò così dolce, quell'invito. Provai un brivido sulla pelle, la mia pelle solitaria e perfetta. «Ma quei sacerdoti», disse Mael, «mi misero in guardia: 'Mael, se in te alberga una qualsiasi menzogna o imperfezione, il dio lo saprà. Si limiterà a ucciderti e tu sarai una vittima sacrificale e nulla più. Rifletti attentamente, perché il dio vede in profondità. Il dio è forte ma preferisce essere temuto che adorato e, quando provocato, si vendica con enorme piacere'. «Quelle parole mi scossero. Ero davvero pronto ad affrontare quello strano miracolo?» Mi guardò in cagnesco, selvaggiamente. «Riflettei a fondo sul tutto. Rammentai le immagini create dalle tue parole: la splendida villa affacciata sulla baia di Napoli; la tua descrizione delle sontuose stanze in cui vivevi; le tiepide brezze e il suono prodotto dalle onde sul litorale roccioso; la descrizione dei tuoi giardini. Avevi parlato di giardini. Mi chiesi se potevo tollerare l'oscurità della quercia, la necessità di bere sangue, l'inedia negli intervalli tra un sacrificio e l'altro, per quello che sarebbe stato.» Si interruppe come se non potesse proseguire. Lanciò un'altra occhiata ad Avicus. «Continua», lo esortò quietamente lui con la sua voce profonda. Mael riprese a parlare. «Uno dei sacerdoti mi si avvicinò, mi prese da parte e disse: 'Mael, questo è un dio irato. È un dio che implora sangue quando invece non dovrebbe volerlo. Hai la forza di presentarti a lui?' «Non ebbi la possibilità di rispondere. Il sole era appena tramontato. La foresta brulicava di torce. I fedeli della foresta si erano riuniti. Tutti gli altri druidi giunti lì con me mi circondavano. Mi stavano spingendo verso la quercia. «Quando la raggiunsi, insistetti perché mi lasciassero andare. Posai le mani sulla corteccia, chiusi gli occhi e con la voce silente, così come avevo pregato nella foresta della mia patria, mi rivolsi a quel dio. 'Sono uno dei
fedeli della foresta', dissi. 'Sei disposto a darmi il Sangue Sacro per consentirmi di tornare a casa e fare ciò che desidera la mia gente?'» Si interruppe ancora una volta. Era come se stesse fissando qualcosa di orribile che io non riuscivo a vedere. Avicus intervenne di nuovo. «Continua», gli disse. Mael sospirò. «Dall'interno della quercia giunse una risata silenziosa, una strana risata seguita da una voce irata! Mi entrò nella testa e mi turbò profondamente. Il dio mi disse: 'Prima portami un sacrificio di sangue. A quel punto e soltanto a quel punto avrò la forza di trasformarti in un dio'.» Mael tacque per un attimo, poi aggiunse: «Sai sicuramente, Marius, com'era gentile il nostro dio. Quando ti creò, quando parlò con te, non c'era traccia di rabbia o odio in lui, mentre quel dio sconosciuto traboccava d'ira». Annuii. «Riferii la sua richiesta ai sacerdoti, che si allontanarono per formare un capannello, tutti in preda al timore e alla disapprovazione. «'No', dissero, 'sta chiedendo il sangue troppo spesso. Non è opportuno che lo abbia. Ora deve digiunare come fa sempre tra un plenilunio e l'altro e fino ai riti annuali, così da uscire dalla quercia magro e famelico, un perfetto simbolo dei campi morti, pronto a bere il sangue del sacrificio e a rifiorire grazie a esso, simboleggiando l'abbondanza della primavera imminente.' «Cosa potevo dire?» chiese Mael. «Alla fine cercai di convincere alcuni di loro. 'Per creare un dio ha sicuramente bisogno di energie', spiegai. 'È rimasto ustionato dal Terribile Fuoco, e forse il sangue lo aiuta e lo guarisce. Perché non offrirgli un sacrificio umano? Avete sicuramente, in uno dei villaggi o degli insediamenti, un uomo condannato che si possa portare alla quercia.' «Si ritrassero e fissarono l'albero, la sua porta e le sue serrature. Capii che avevano paura. «Poi accadde una cosa terribile, che mi cambiò drasticamente. Dalla quercia sgorgò un flusso di ostilità che percepii come se qualcuno colmo di rancore mi stesse fissando! «Lo avvertii come se l'essere mi stesse osservando con tutta la sua collera, la spada sollevata per distruggermi. Naturalmente si trattava del potere del dio, che usava la propria mente per colmare la mia con il suo odio. Ma era talmente intenso che non riuscii a pensare a cosa fosse o a cosa fare.
«Gli altri sacerdoti fuggirono di corsa. Anche loro avevano percepito quella rabbia e quell'odio. Io non riuscivo a correre, non riuscivo a muovermi. Fissai la quercia. Penso che l'antica magia mi avesse già catturato. Dio, poemi, canti, sacrificio. All'improvviso queste cose non ebbero più la minima importanza, per me. Ma sapevo che una creatura potente si trovava dentro la quercia. E non fuggii. In quel momento nacque la mia anima dalle trame malvagie!» Mael emise un altro drammatico sospiro. Restò in silenzio, gli occhi fissi su di me. «In che senso?» chiesi. «Cos'hai tramato? Avevi parlato telepaticamente con il gentile dio della tua foresta; lo avevi visto accettare sacrifici, al plenilunio, sia prima che dopo il Terribile Fuoco; hai visto me dopo la trasformazione. L'hai appena detto. Cos'è che ti ha colpito tanto, di quel dio?» Per un attimo parve sopraffatto. Poi, guardando ancora fisso davanti a sé, come se vi fosse costretto, continuò: «Quel dio era più che arrabbiato, Marius. Voleva fare di testa sua». «Allora, come mai non avevi paura?» Il silenzio calò nella stanza. Io ero perplesso. Guardai Avicus. Desideravo una conferma: era lui quel dio, vero? Ma non potevo porre una simile domanda, sarebbe stato maleducato. In precedenza era stato detto che Avicus aveva dato il Sangue Tenebroso a Mael. Rimasi in attesa, come era giusto che facessi. Alla fine Mael mi guardò in modo estremamente astuto e bizzarro. «Il dio voleva uscire da quella quercia», spiegò, lanciandomi occhiate truci, «e io sapevo che se lo avessi aiutato mi avrebbe donato il Sangue Magico!» «Ah, ecco», dissi sorridendo, perché non riuscii a evitarlo. «Voleva fuggire dalla quercia. Naturale.» «Mi ricordai di te, di quando eri fuggito», affermò Mael, «il possente Marius, rifiorito grazie al sacrificio di sangue, che scappava così rapidamente! Bene, mi sarei messo a correre come te! Sì, sì, e mentre pensavo a queste cose, mentre tramavo, mentre riflettevo, risentii la voce proveniente dalla quercia, sommessa e furtiva, rivolta solo a me. «'Avvicinati', mi ordinò, e poi, mentre premevo la fronte sull'albero, aggiunse: 'Dimmi di questo Marius, dimmi della sua fuga. Dimmelo e io ti darò il Sangue Oscuro e fuggiremo insieme da questo posto, tu e io'.» Mael stava tremando, ma Avicus appariva rassegnato a quelle verità, come se vi avesse riflettuto sopra parecchie volte.
«La faccenda comincia a chiarirsi», commentai. «Non c'è nulla che non sia collegato a te», dichiarò Mael. Fece oscillare verso di me la mano stretta a pugno. Mi rammentò un bambino. «È tutta opera tua», replicai. «Dal momento in cui mi hai rapito in quella taverna della Gallia. Sei stato tu a venire da me. Non dimenticarlo. Mi hai tenuto prigioniero, ma la tua storia che si dipana ti tranquillizza. Hai bisogno di raccontarcela. Continua.» Per un attimo temetti che mi si scagliasse contro, disperatamente furibondo, ma in lui si verificò un cambiamento. Scuotendo il capo si calmò, accigliandosi, e riprese a parlare. «Quando ricevetti quella conferma dalla mente stessa del dio», spiegò, «imboccai fatalmente la rotta prefissata. Dissi subito agli altri sacerdoti che dovevano portare una vittima sacrificale. Non avevamo il tempo di discutere e io dovevo controllare che il condannato venisse consegnato al dio. Sarei dovuto entrare nell'albero insieme a lui. Non avevo paura di farlo. Loro dovevano occuparsi di tutto in gran fretta, visto che forse il dio e il sottoscritto avrebbero avuto bisogno dell'intera nottata per operare la magia. «Sembrò che passasse un'ora prima che trovassero il poveretto destinato a morire nell'albero, ma alla fine lo portarono, legato e piangente, e, terrorizzati, aprirono la massiccia porta. «Percepivo la furia montante del dio rinchiuso all'interno. Percepivo la sua fame. Spingendo davanti a me quel povero condannato, entrai, la fiaccola in mano, nel tronco cavo della pianta.» Annuii con un fioco sorriso, come per dire che se non lo sapevo io... Nel frattempo gli occhi di Mael si erano posati su Avicus. «Lì c'era Avicus, molto simile a come lo vedi ora», aggiunse Mael, sempre guardando il compagno. «Si avventò subito sull'uomo condannato. Bevve il sangue della vittima con misericordiosa rapidità, poi gettò da parte il cadavere. «Subito dopo si lanciò su di me, strappandomi di mano la fiaccola, fissandola al muro tanto che essa parve pericolosamente vicina al legno, e ghermendomi con forza le spalle intimò: 'Dimmi di Marius, dimmi come è fuggito dalla quercia sacra. Raccontamelo altrimenti ti uccido'.» Avicus, che ascoltava con aria impassibile, annuì come per confermare che era proprio andata così. Mael distolse lo sguardo da lui per riprendere a fissare un punto imprecisato davanti a sé.
«Mi stava facendo male», raccontò. «Se non avessi detto qualcosa in fretta mi avrebbe rotto la spalla, così parlai, sapendo con quanta efficacia poteva sondarmi la mente, e dissi: 'Dammi il Sangue Tenebroso e fuggiremo insieme come mi hai promesso. Non c'è nessun grande segreto in ciò che so. È solo questione di forza e rapidità. Ci arrampichiamo sui rami più alti dell'albero, cosa che i nostri inseguitori non possono fare altrettanto agevolmente, poi ci allontaniamo passando da un albero all'altro'. «'Ma tu conosci il mondo', mi disse lui. 'Io invece non so nulla. Sono imprigionato qui da centinaia di anni. Ricordo solo vagamente l'Egitto. Ricordo solo vagamente la Grande Madre. Devi guidarmi tu. Perciò ti darò la magia e lo farò bene.' «Mantenne la promessa. Venni reso forte sin dall'inizio. Poi, insieme, ascoltammo con la mente e le orecchie i fedeli della foresta e i druidi riuniti e, trovandoli impreparati alla nostra partenza, spingemmo la porta unendo le forze. «Salimmo subito in cima all'albero, come avevi fatto tu, Marius. Distanziammo di parecchio gli inseguitori, e prima dell'alba stavamo già cacciando in un insediamento a moltissimi chilometri di distanza.» Si appoggiò allo schienale, come se la confessione l'avesse stremato. Mentre restavo seduto, ancora troppo paziente e orgoglioso per annientarlo, vidi come mi aveva coinvolto nell'intera faccenda e me ne stupii. Guardai Avicus, il dio rimasto così a lungo nell'albero. Lui ricambiò tranquillamente il mio sguardo. «Siamo insieme sin da allora», continuò Mael in tono più sommesso. «Andiamo a caccia nelle grandi città perché per noi è più facile, e cacciamo qui a Roma perché è la città più grande del mondo.» Non risposi. «A volte incontriamo altri come noi», aggiunse. Il suo sguardo saettò all'improvviso verso di me. «E talvolta siamo costretti a combatterli, perché si ostinano a non lasciarci in pace.» «In che senso?» chiesi. «Sono dei della foresta, come Avicus, gravemente ustionati e deboli, e vogliono il nostro sangue potente. Li hai sicuramente visti. Devono averti scovato. Non puoi essere rimasto nascosto per tutti questi anni.» Non fiatai. «Ma siamo in grado di difenderci», continuò lui. «Abbiamo i nostri nascondigli, e dedichiamo ai mortali il nostro passatempo, i nostri giochi. Cos'altro devo dire?»
Aveva davvero finito. Ripensai alla mia esistenza, alla mia vita gremita da tante letture e vagabondaggi e da così tante domande, e provai per lui una profonda pietà abbinata al disprezzo. Nel frattempo, l'espressione di Avicus mi commosse. Appariva pensieroso e compassionevole, mentre osservava Mael, ma poi spostò lo sguardo su di me e il suo viso si animò. «Come ti appare il mondo, Avicus?» domandai. Mael mi scoccò subito un'occhiata di fuoco, si alzò e mi raggiunse, chinandosi su di me, la mano protesa come se volesse colpirmi. «È questo che hai da dire in risposta alla mia storia?» domandò. «Chiedi semplicemente a lui come vede il mondo?» Non risposi, mi rendevo conto del mio sbaglio e dovetti ammettere con me stesso che non l'avevo fatto apposta. Ma desideravo ferire Mael, su quello non c'erano dubbi. E c'ero riuscito. Avicus si alzò in piedi. Raggiunse il compagno e lo costrinse ad allontanarsi da me indietreggiando. «Calma, mio caro», gli disse dolcemente. Lo riaccompagnò alla poltrona. «Parliamo ancora un poco prima di separarci da Marius. Abbiamo tutta la notte a disposizione. Ti prego, stai calmo.» A quel punto capii cosa aveva reso Mael tanto furioso: non la convinzione che lo avessi ignorato - era troppo saggio per pensarlo - bensì la gelosia. Credeva che io stessi cercando di rubargli l'amico. Non appena Mael si rimise seduto, Avicus mi guardò quasi con affetto. «Il mondo è meraviglioso, Marius», dichiarò placidamente. «Mi sono accostato a esso come un cieco dopo un miracolo. Non rammento nulla della mia vita mortale, se non che si è svolta in Egitto e che non ero nato in Egitto. Ora non oso tornarci. Ho paura che gli antichi dei siano rimasti là. Visitiamo le città dell'impero, tranne quelle dell'Egitto. E ci sono una miriade di cose da vedere, per noi.» Mael era ancora diffidente. Si strinse addosso il mantello cencioso e sporco, come se dovesse andarsene da un momento all'altro. Quanto ad Avicus, sembrava più che mai a proprio agio, pur essendo scalzo e sudicio come il compagno. «Ogni volta che ci siamo imbattuti in altri bevitori di sangue», raccontò, «il che non capita spesso, li ho temuti, ho temuto che riconoscessero in me un dio rinnegato.» Lo affermò con notevole energia e sicurezza di sé, che mi sorprese.
«Ma non capita mai», aggiunse. «E talvolta parlano della Buona Madre e dell'antico culto diffuso nell'epoca in cui gli dei bevevano il sangue dei malfattori, ma in proposito ne sanno meno di me.» «Tu cosa sai, Avicus?» domandai, sfrontato. Ci pensò su come se non fosse sicuro di volermi dire la verità. «Credo di essere stato portato davanti a lei», dichiarò poi, negli occhi scuri un'espressione schietta e sincera. Mael si voltò a guardarlo di scatto, come se volesse percuoterlo per la sua franchezza, ma Avicus proseguì: «Era bellissima, ma io tenevo gli occhi bassi e non potevo vederla davvero. Gli altri stavano pronunciando delle strane parole, e il loro salmodiare mi spaventava. Ero un adulto, questo lo so, e loro mi umiliarono. Parlavano di onori che erano maledizioni. Il resto potrei averlo sognato». «Siamo rimasti qui abbastanza a lungo», disse tutt'a un tratto Mael. «Voglio andarmene.» Si alzò, e il compagno lo seguì con palese riluttanza. Tra noi due, Avicus e me, passò una sorta di comunicazione silenziosa e segreta, che Mael non poteva interrompere. Ma se ne accorse, credo, e fu assalito da una furia cieca, perché non poteva impedirlo. Ormai era cosa fatta. «Grazie dell'ospitalità», mi disse Avicus, allungando la mano per prendere la mia. Per un attimo parve quasi allegro. «A volte rammento piccoli usi e costumi mortali. Ricordo di aver toccato le mani in questo modo.» Mael era pallido di rabbia. Naturalmente avrei voluto dire molte cose ad Avicus ma sapevo che era impossibile. «Ricordate», dichiarai, «vivo come un uomo mortale, con gli stessi comfort. E mi dedico sempre agli studi sui miei libri. Alla fine comincerò a viaggiare nell'impero, ma per il momento Roma, la città in cui sono nato, è casa mia. La cosa più importante, per me, è ciò che apprendo, ciò che vedo con questi occhi.» Spostai lo sguardo dall'uno all'altro. «Potete vivere in questo modo, se volete», aggiunsi. «Ora dovete permettermi di darvi dei nuovi indumenti e dei comodi sandali per i vostri piedi. Se desiderate una casa, una dimora elegante in cui assaporare le ore di ozio, posso aiutarvi a procurarvela. Vi prego, accettate il mio aiuto.» Gli occhi di Mael sfavillarono d'odio. «Oh, sì», sussurrò, troppo furioso per parlare ad alta voce. «E perché non ci offri una villa nella baia di Na-
poli, con balaustre di marmo affacciate sul mare turchese?» Avicus mi fissò. Sembrava tranquillo e genuinamente commosso dalle mie parole. Ma non aggiunse altro. La mia calma orgogliosa venne improvvisamente infranta. La rabbia ritornò insieme alla sua debolezza. Ricordai gli inni della foresta e fui assalito dal desiderio di aggredire Mael e di strappargli un arto dopo l'altro. Avicus avrebbe cercato di salvarlo? Probabilmente sì. Ma se invece non lo faceva? Se mi dimostravo più forte di entrambi, io che avevo bevuto dalla regina? Guardai Mael. Non aveva paura di me, cosa che trovai interessante. Il mio orgoglio riaffiorò. Non potevo abbassarmi tanto da lasciarmi coinvolgere in un banale scontro fisico, soprattutto uno scontro che rischiava di farsi sgradevolmente goffo e spiacevole, e soprattutto uno scontro che rischiavo di non vincere. No, ero troppo saggio per farlo, troppo buono. Ero Marius, che uccideva i malfattori, mentre quello era Mael, uno stolto. Mentre si allontanavano attraverso il giardino, io non riuscii a trovare nulla da dire, ma Avicus si voltò a guardarmi e disse rapidamente: «Addio, Marius. Ti ringrazio e non ti dimenticherò». Le sue parole mi commossero. «Addio, Avicus», ribattei. Rimasi in ascolto mentre scomparivano nella notte. Rimasi seduto lì, in preda a un soverchiante senso di solitudine. Guardai le mie numerose scaffalature piene di libri, e il mio scrittoio. Guardai il calamaio. Guardai gli affreschi sulle pareti. Avrei dovuto tentare di riconciliarmi con Mael, e di diventare amico di Avicus. Dovevo seguirli. Dovevo supplicarli di restare con me. Avevamo ancora così tante cose da dirci. Avevo bisogno di loro tanto quanto loro avevano bisogno l'uno dell'altro. Tanto quanto io avevo bisogno di Pandora. Ma decisi di fingere e lo feci per rabbia. Ecco cosa sto cercando di dirti. Ho ceduto alla finzione. L'ho fatto più e più volte. Lo faccio perché non sopporto la debolezza della rabbia e non riesco ad ammettere l'irrazionalità dell'amore. Oh, le menzogne che ho raccontato a me stesso e ad altri. Lo sapevo eppure lo ignoravo. 6
Per un mese intero non osai visitare il sacrario di Coloro-che-devonoessere-conservati. Sapevo che Mael e Avicus continuavano a cacciare a Roma. Li intravedevo fuggevolmente con le mie doti medianiche e di tanto in tanto ne spiavo addirittura i pensieri. A volta udivo i loro passi. In realtà avevo l'impressione che Mael mi stesse tormentando con la sua presenza, tentando di rovinare il mio soggiorno nella grande città, e la cosa mi amareggiava. Contemplai l'ipotesi di cercare di scacciare lui e il compagno. Mi preoccupavo molto anche per Avicus, di cui non riuscivo a scordare il viso. Qual è la disposizione d'animo di quello strano essere? mi chiedevo. Cosa significherebbe per lui essere il mio compagno? Temevo che non l'avrei mai scoperto. Nel frattempo, altri bevitori di sangue si aggiravano saltuariamente nella città. Ne percepivo la presenza. Una notte nacque una scaramuccia tra Avicus e Mael e un potente e ostile bevitore di sangue; venni a conoscenza del fatto grazie alle mie facoltà psichiche. I due terrorizzarono a tal punto l'avversario che lui se ne andò prima del sorgere del sole, confessando sommessamente che non sarebbe mai più tornato a Roma. La cosa mi diede da pensare. Avicus e Mael avrebbero mantenuto la città priva di altri immortali, per lasciarmi solo? Con il passare dei mesi sembrò che fosse proprio così. Qualche tempo dopo, un manipolo di bevitori di sangue cristiani tentò di infestare il nostro terreno di caccia. Appartenevano alla stessa tribù di adoratori del serpente che mi avevano avvicinato ad Antiochia sostenendo di celare antiche verità. Mentalmente li vidi allestire con fervore il tempio dove intendevano sacrificare dei mortali. Ne rimasi profondamente disgustato. Però, ancora una volta, Avicus e Mael li costrinsero a ritirarsi, senza lasciarsi contaminare dalle loro bizzarre convinzioni secondo cui stavano servendo Satana, una figura che ai due non destava alcun timore, essendo essi pagani. E la città tornò a essere nostra. Tuttavia, osservando da lontano quelle attività, notai che né Mael né Avicus sembravano rendersi conto della propria forza. Avrebbero potuto sfuggire ai druidi della Britannia sfruttando le proprie facoltà soprannaturali, ma ignoravano un segreto che io avevo già scoperto: il loro potere aumentava con il passare del tempo. Io avevo bevuto il sangue della Madre, quindi mi ritenevo molto più for-
te di loro, ma, a parte quello, la mia forza era aumentata con il trascorrere dei secoli. Ormai ero in grado di raggiungere con relativa facilità la cima di edifici di quattro piani, che a Roma erano numerosi. E nessun drappello di soldati mortali avrebbe mai potuto farmi prigioniero: ero di gran lunga troppo veloce. In realtà, quando prendevo le mie vittime, avevo già affrontato il problema degli antichi: impedire alle mie mani di annientare la vita che mi pompava in bocca il sangue. Ed ero sempre assetato di quel sangue! Tuttavia mentre spiavo quelle loro attività di scontri vittoriosi con i vampiri satanici, rimasi troppo a lungo lontano dal sacrario di Akasha ed Enkil. Alla fine, una sera, sfruttando al massimo i miei poteri per celare la mia presenza, mi diressi verso le colline e il sacrario. Sentivo di dover fare quella visita. Non avevo mai lasciato sola la grande coppia così a lungo, e non sapevo se una simile trascuratezza potesse avere conseguenze o no. Adesso capisco che quel timore era del tutto assurdo: mentre passavano gli anni avrei anche potuto trascurare il santuario per secoli. La cosa non aveva la minima importanza. Ma all'epoca avevo solo iniziato a imparare. Così arrivai nella cappella che era estremamente spoglia. Portai con me i fiori e l'incenso di rigore, e diversi flaconi di profumo da spruzzare sugli abiti di Akasha. Dopo aver acceso le lampade, sistemati i fiori nei vasi e messo a bruciare l'incenso, fui assalito da una profonda debolezza che mi costrinse a mettermi in ginocchio. Durante gli anni trascorsi con Pandora non avevo quasi mai pregato in quel modo, ma ormai Akasha apparteneva soltanto a me. Alzai gli occhi verso la coppia immobile, con i lunghi capelli neri intrecciati, assisa sul trono come quando l'avevo lasciata; entrambi portavano freschi indumenti egizi di lino pregiato, Akasha una veste pieghettata, il re il tipico gonnellino. Gli occhi di Akasha sfoggiavano ancora l'imperituro kayal nero che Pandora aveva applicato con estrema cura. E a cingerle il capo c'era lo sfavillante diadema d'oro costellato di rubini che Pandora aveva sistemato con mani affettuose. Persino i bracciali d'oro a forma di serpente che le ornavano le braccia erano un dono di Pandora. E i piedi di entrambi erano infilati nei sandali meticolosamente allacciati da Pandora. Nella luce intensa sembrò che il loro incarnato fosse più pallido, e adesso, secoli dopo, so che avevo ragione. Stavano guarendo rapidamente dai danni provocati dal Terribile Fuoco. In occasione di quella particolare visita, studiai attentamente anche l'e-
spressione di Enkil. Ero fin troppo consapevole del fatto che lui non sollecitava la mia devozione né l'aveva mai fatto, un atteggiamento che giudicavo tutt'altro che saggio. In Egitto, quando ero riuscito a trovarli per la prima volta - quando ero uno zelante bevitore di sangue recentemente reso tale, infiammato dalla richiesta di Akasha di portarli via dall'Egitto - si era mosso per bloccarmi la strada, mentre mi avvicinavo a lei. Solo con notevole difficoltà Enkil era stato costretto a riassumere la sua postura di sovrano assiso. Akasha aveva collaborato, in quel momento cruciale, ma i movimenti di entrambi erano apparsi torpidi, ultraterreni e terribili a vedersi. Era successo trecento anni prima, e dal quel momento l'unico movimento fatto da uno di loro era stato il braccio allargato da Akasha per dare il benvenuto a Pandora e stringerla sul suo petto. Oh, com'era stata benedetta Pandora da quel gesto! Non l'avrei mai dimenticato, nel corso dei miei lunghi anni. Quali sono i pensieri di Enkil? mi chiesi. È geloso del fatto che rivolgo le mie preghiere solo ad Akasha? Se ne rendeva conto? Comunque fosse, gli assicurai con voce silente che gli ero devoto, che avrei sempre protetto lui e la sua regina. Alla fine, la ragione mi abbandonò mentre li fissavo. Comunicai ad Akasha quanto la veneravo e quanto fosse stato pericoloso per me andare là. Era stata solo la cautela a tenermi lontano. Non avrei mai lasciato deserto il sacrario volontariamente. In realtà, avrei dovuto restarvi, usando i miei poteri vampireschi per affrescare le pareti o decorarle con mosaici. In precedenza, pur non avendo mai creduto di possedere la minima abilità in quel campo, avevo sfruttato i miei poteri per creare nel santuario di Antiochia decorazioni passabili, anzi, assai pregevoli, trascorrendo nel contempo le piacevoli lunghe ore della notte. Ma là le pareti erano semplicemente imbiancate a calce, e la profusione di fiori che avevo portato sembrava un tocco di colore molto gradito. «Mia regina, aiutami», pregai. Subito dopo, mentre mi accingevo a spiegare quanto mi rattristasse la vicinanza degli altri due bevitori di sangue, un pensiero terribile e ovvio mi si affacciò alla mente: non avrei mai potuto avere Avicus come compagno. Non avrei mai potuto avere nessun compagno, perché qualsiasi bevitore di sangue minimamente dotato avrebbe colto nella mia mente il segreto di Coloro-che-devono-essere-conservati. Era stato vanitoso e sciocco offrire abiti e ospitalità ad Avicus e Mael; io
ero destinato a restare solo. Mi sentii nauseato e intirizzito nella mia mestizia. Alzai lo sguardo sulla regina e non riuscii a formulare preghiere. Poi, sentendomi impotente, supplicai: «Riporta Pandora da me. Se davvero l'hai condotta da me all'inizio, riportala indietro, te ne supplico, non litigherò mai più con lei. Non la maltratterò più. È insopportabile, questa solitudine. Ho bisogno di sentire il suono della sua voce. Ho bisogno di vederla». Continuai così per parecchio tempo, finché fui colto dall'improvviso timore che Avicus e Mael si trovassero vicino a me, perciò mi alzai, mi rassettai gli abiti e feci per andarmene. «Tornerò», promisi alla Madre e al Padre. «Renderò questo sacrario splendido come quello di Antiochia. Aspetto soltanto che loro se ne vadano.» Stavo per uscire quando fui assalito dalla repentina consapevolezza che avevo bisogno di bere ancora il potente sangue di Akasha. Ne avevo bisogno per essere più forte dei miei nemici. Ne avevo bisogno per affrontare ciò che dovevo affrontare. Capisci cosa voglio dire? Dopo la prima notte in cui avevo bevuto da Akasha non avevo più preso il suo sangue. Ci trovavamo in Egitto, quella prima notte, quando lei mi chiese tramite le sue doti medianiche di portarla via da quella terra. Allora e soltanto allora avevo assaporato il suo sangue. Persino quando Pandora era stata trasformata e aveva bevuto da Akasha io non avevo osato avvicinarmi alla Madre. Sapevo bene che poteva abbattere quanti venivano per rubarle con la forza il Sangue Sacro, perché avevo già assistito a un simile crimine. Quella sera, mentre indugiavo davanti alla piccola pedana sopra cui sedevano i sovrani, l'idea mi ossessionò. Dovevo prendere di nuovo il sangue della Madre. In silenzio chiesi mentalmente il suo permesso. Aspettai un segno. Quando Pandora era stata creata, Akasha aveva sollevato il braccio per chiamarla a sé. Lo avevo visto e ne ero rimasto sbigottito. Desideravo che succedesse anche adesso. Non ricevetti nessun segno, eppure l'ossessione infuriava dentro di me, così avanzai, deciso a bere il Sangue Divino o morire. All'improvviso mi ritrovai ad abbracciare la mia fredda e adorabile Akasha con un braccio che le cingeva la schiena e l'altro sollevato per poterle stringere la testa con la mano. Mi avvicinai sempre più al suo collo e infine le premetti le labbra sulla
carne fresca e immota, senza che lei avesse accennato di volermi annientare. Non sentii alcuna stretta mortale sulla nuca. Akasha rimase silenziosa come sempre tra le mie braccia. I miei denti le lacerarono la pelle, e il sangue denso, diverso da quello di chiunque di noi, mi riempì la bocca. Mi ritrovai subito immerso in un'atmosfera onirica, fluttuando in un impossibile paradiso di luce solare ed erba verde e alberi in fiore. Che consolazione, che balsamo! Sembrava un giardino dell'antico mito romano, un giardino che in un certo senso mi era familiare, perennemente al riparo dall'inverno e pieno dei fiori più splendidi. Sì, familiare ed eternamente sicuro, quel luogo lussureggiante. Il sangue mi devastò; sentii che mi rendeva più forte, come aveva fatto la prima volta in cui mi era entrato nelle vene. Il sole nel giardino a me familiare divenne sempre più luminoso, finché gli alberi in fiore cominciarono a svanire nella luce accecante. Una parte di me, una parte minuscola e debole, temeva quel sole, ma il resto di me ne gioì, assaporò il tepore che mi stava invadendo il corpo e il conforto che traevo dallo spettacolo; poi, tutt'a un tratto, con la stessa rapidità con cui era iniziato, il sogno terminò. Mi ritrovai steso supino sul pavimento freddo e duro della cappella, a parecchi metri di distanza dalla base della pedana. Per un attimo non fui sicuro di cosa fosse successo. Ero ferito? Stavo per essere colpito da una giustizia terribile? Ma nel giro di pochi secondi mi resi conto che ero illeso e che il sangue mi aveva notevolmente rinvigorito, come avevo pensato. Mi inginocchiai e mi accertai che la coppia reale fosse rimasta immutata. Perché ero stato scagliato lontano da Akasha con tanta violenza? Apparentemente non era cambiato nulla. Ringraziai a lungo e silenziosamente per quanto era avvenuto. Solo quando fui sicuro che non sarebbe successo altro mi alzai e, promettendo di tornare presto per iniziare a decorare il sacrario, uscii. Ero enormemente eccitato quando rincasai. La mia accresciuta agilità e acutezza mentale mi galvanizzavano. Decisi di mettermi alla prova: impugnai un pugnale, me lo affondai nella mano sinistra fino all'impugnatura per poi estrarlo, osservando la ferita che si rimarginava all'istante. Stesi subito un rotolo della pergamena più pregiata e cominciai ad annotare l'accaduto usando il mio codice personale, che nessun altro poteva decifrare. Tuttavia continuavo a non capire come mai, dopo aver bevuto il Sangue Sacro, mi ero ritrovato steso sul pavimento della cappella. La regina mi ha permesso di bere nuovamente da lei, e se questo accade
spesso, se posso trarre nutrimento dalla nostra misteriosa sovrana, posso conquistare una forza enorme. Nemmeno Avicus sarà alla mia altezza benché prima di stanotte lo fosse, molto probabilmente. In realtà, scoprii che avevo perfettamente ragione sulle implicazioni di quell'evento, e nel corso dei secoli successivi mi accostai più volte ad Akasha. Lo feci non solo quando fui gravemente ferito - ma questa è una storia che intendo raccontarti in seguito - ma anche nelle occasioni in cui il capriccio si impadroniva di me, come se me l'avesse messo in testa lei. Eppure mai, nemmeno una volta, come ti ho amaramente confessato, lei mi ha premuto i denti sulla gola e mi ha preso il sangue. No, quell'onore venne riservato a Lestat, come ti ho già detto. Nei mesi seguenti, quel nuovo sangue si rivelò prezioso. Scoprii che i miei poteri psichici erano potenziati. Riuscivo a percepire la presenza di Mael e Avicus a notevole distanza e, benché l'atto di spiare schiuda un passaggio mentale attraverso il quale loro potevano vedermi mentre li osservavo, potevo schermare con rapidità la mia mente dopo averli individuati. Inoltre mi accorgevo quando tentavano di scoprire dov'ero, e naturalmente sentivo, sentivo davvero, i loro passi quando si trovavano nelle vicinanze della mia casa. Allora decisi di aprire la mia dimora agli umani! Presi la decisione una sera, mentre ero steso sull'erba del mio giardino a sognare. Avrei organizzato regolarmente dei banchetti. Avrei invitato le persone celebri e quelle diffamate. Avrei offerto musica e luci soffuse. Esaminai la questione sotto ogni punto di vista! Sapevo di poterlo fare. Sapevo di poter ingannare i mortali sulla mia natura e sapevo che la loro compagnia avrebbe consolato il mio cuore solitario! Durante il giorno non riposavo nella mia dimora ma in un nascondiglio molto distante, quindi quale rischio poteva comportare quella decisione? Nessuno! Potevo riuscirci senza grossi problemi. Naturalmente non mi sarei mai nutrito dei miei ospiti. Sotto il mio tetto avrebbero goduto di una sicurezza e di un'ospitalità totali, sempre. Sarei andato a caccia in quartieri lontani e con il favore delle tenebre. Ma la mia casa, la mia casa sarebbe stata piena di tepore e musica e vita. Mi misi al lavoro e il compito si rivelò più semplice di quanto avessi pensato. Dopo aver incaricato i miei dolci e gentili schiavi di allestire tavole co-
perte di cibo e bevande, invitai i filosofi screditati affinché conversassero tutta la notte con me, e ne ascoltai i loro vaneggiamenti come facevo con i vecchi e dimenticati soldati quando raccontavano storie di guerra che nemmeno i loro stessi figli avevano voglia di sentire. Oh, fu un vero miracolo ammettere i mortali nelle mie stanze, mortali che mi consideravano vivo mentre annuivo e li persuadevo a raccontarmi le loro storie alimentate dal vino. La faccenda mi entusiasmava, e desiderai che Pandora fosse lì con me ad assaporarla, perché era proprio il genere di cosa che lei avrebbe voluto fare. Ben presto la mia casa non fu mai vuota e io feci la stupefacente scoperta che, se mai mi annoiavo in mezzo a quella compagnia eccitata e ubriaca, mi era facile alzarmi per raggiungere la mia biblioteca e cominciare a scrivere, perché tutti gli ospiti alticci continuavano semplicemente a conversare tra loro, badando a stento a quanto facevo e rianimandosi solo per salutarmi quando tornavo. Tuttavia non diventai amico di nessuna di quelle creature disonorevoli o cadute in disgrazia. Per loro ero soltanto un anfitrione e uno spettatore cordiale che ascoltava senza mai criticare e non mandava mai via nessuno, fino all'alba. Ma era tutto molto diverso dalla mia precedente solitudine, e se non fosse stato per il corroborante sangue di Akasha, e forse per il mio diverbio con Avicus e Mael, non avrei mai preso una simile iniziativa. Così la mia casa divenne affollata e rumorosa; i vinai cercavano di offrirmi i loro nuovi prodotti, e giovani menestrelli venivano a supplicarmi di ascoltare i loro canti. Di tanto in tanto persino alcuni filosofi in voga si presentarono alla mia porta; saltuariamente anche un grande precettore. Godetti enormemente della loro compagnia, assicurandomi che le lampade fossero regolate al minimo e le stanze immerse nella penombra, tanta era la mia paura che le persone dall'intelletto pronto scoprissero che non ero quello che fingevo di essere. Quanto alle mie visite al tempio e a Coloro-che-devono-essereconservati, sapevo di spostarmi in assoluta segretezza perché la mia mente era meglio schermata di prima. Talvolta, la notte - quando il banchetto poteva proseguire con agio anche in mia assenza e mi ritenevo perfettamente al sicuro da qualsiasi intrusione - mi recavo nel sacrario per svolgere il lavoro che immaginavo fosse di conforto ai miei poveri Akasha ed Enkil.
Nel corso di quegli anni, invece di dedicarmi ai mosaici che ad Antiochia si erano rivelati di difficile attuazione per me, realizzai sulle pareti il tipo di affreschi comune in tante dimore romane, raffiguranti dei e dee in giardini in cui regnava un'eterna primavera e traboccanti di una miriade di fiori e frutti. Una sera stavo lavorando alacremente, canticchiando tra me e me, felice tra tutte le ciotoline di colore, quando mi resi conto all'improvviso che il giardino che stavo rendendo fedelmente era in realtà quello che avevo visto mentre bevevo il sangue di Akasha. Allora mi bloccai e rimasi seduto immobile sul pavimento del sacrario, come un bambino a gambe incrociate, e alzai lo sguardo verso i Venerabili Genitori. Era così che doveva essere? Non ne avevo idea. Il giardino sembrava vagamente familiare. Ne avevo visto uno simile, molto tempo prima di bere il sangue di Akasha? Non riuscivo a rammentarlo. E io, Marius, mi vantavo della mia memoria infallibile. Proseguii la mia opera; coprii di intonaco una parete e ricominciai tutto da capo, per avvicinarmi maggiormente alla perfezione. Dipinsi alberi e cespugli più verosimili. Dipinsi la luce del sole e i suoi effetti sulle foglie verdi. Quando l'ispirazione mi abbandonava usavo la mia delicatezza da bevitore di sangue per introdurmi furtivamente in qualche villa alla moda fuori dalle mura dell'enorme città in perenne espansione e, grazie alla più fioca delle luci, esaminavo gli affreschi immancabilmente sontuosi per cercare nuove figure, nuove danze, nuovi atteggiamenti e sorrisi. Naturalmente riuscivo a farlo con agio senza svegliare nessuno, nella casa in questione, e talvolta non avevo bisogno di preoccuparmi di destare qualcuno perché la dimora era deserta. Roma era immensa, brulicante di attività come sempre, ma con tutte le guerre, con la politica mutevole e i cospiratori sempre intenti a tramare e gli imperatori che si succedevano rapidamente, la gente veniva esiliata e richiamata con regolarità, perciò magnifiche abitazioni restavano spesso vuote, consentendomi di vagarvi in tutta tranquillità per assaporarne le bellezze. Nel frattempo, i banchetti a casa mia erano diventati talmente famosi che le mie stanze erano sempre affollate. E, a prescindere da quelli che potevano essere i miei piani per la serata, la iniziavo in mezzo al cordiale gruppetto di ubriachi che avevano iniziato a banchettare e discutere prima ancora del mio arrivo.
«Ah, Marius, benvenuto!» gridavano quando entravo nella stanza. Io sorridevo a tutti loro, a quei miei preziosi ospiti. Nessuno nutrì mai il minimo sospetto su di me, e giunsi ad amare alcune di quelle deliziose creature, ma rammentavo sempre che ero un predatore di uomini e quindi non potevo sperare di essere ricambiato, perciò tenevo celato il mio cuore. Con quel conforto mortale trascorsero gli anni, mentre mi tenevo impegnato con l'energia di un folle, scrivendo sui diari per poi bruciarli, oppure affrescando le pareti del santuario. Nel frattempo, giunsero di nuovo gli orrendi bevitori di sangue che adoravano il serpente, tentando di erigere il loro assurdo tempio in una delle catacombe abbandonate in cui i mortali cristiani avevano smesso di riunirsi, e ancora una volta Avicus e Mael li scacciarono. Osservai tutto ciò in preda a un enorme sollievo, perché non era stato sollecitato il mio intervento e ricordando penosamente l'occasione in cui, ad Antiochia, avevo massacrato una banda simile per poi piombare in uno stato di dolorosa pazzia che mi era costata l'amore di Pandora, apparentemente in eterno. Ma no, non in eterno: lei sarebbe venuta da me, ne ero sicuro. Lo annotai nei miei diari e quando posai la penna d'oca, chiusi gli occhi. Desideravo ardentemente Pandora. Pregai che tornasse da me. Me la raffigurai con gli ondulati capelli castani e il malinconico viso ovale. Cercai di rammentare con precisione la forma e lo splendido colore dei suoi occhi scuri. Ricordai come aveva discusso con me. Com'era stata profonda la sua conoscenza dei poeti e dei filosofi. Com'era stata mirabile la sua capacità di ragionare. E io? Io l'avevo schernita davvero troppo. Non so dirti quanti anni passarono in quel modo. Mi rendevo conto che, benché non ci parlassimo, quando casualmente ci incontravamo per la strada, Avicus e Mael erano diventati miei compagni in virtù della loro stessa presenza. Inoltre, ero in debito nei loro confronti perché non permettevano ad altri vampiri di stabilirsi a Roma. Non prestavo molta attenzione a ciò che stava succedendo con il governo imperiale, come immagino tu possa dedurre da quanto ti ho raccontato. Ma in verità mi preoccupavo appassionatamente del suo destino perché per me l'Impero Romano rappresentava il mondo civilizzato. E, pur essendo nottetempo un cacciatore segreto, un lurido assassino di esseri umani, ero un romano e sotto ogni altro aspetto conducevo un'esistenza civile. Probabilmente diedi per scontato, proprio come molti vecchi senatori
dell'epoca, che presto o tardi le interminabili lotte degli imperatori sarebbero terminate. Un grand'uomo, dotato della forza di Ottaviano, si sarebbe levato per riunire ancora una volta il mondo intero. Nel frattempo gli eserciti avrebbero pattugliato i confini, respingendo incessantemente la minaccia barbara, e la responsabilità di scegliere un imperatore ricadeva sempre sugli eserciti, almeno fintanto che l'impero restava intatto. Quanto ai cristiani diffusi ovunque, non sapevo cosa pensarne. Per me era un vero mistero che quel piccolo culto, iniziato - tra tutti i luoghi possibili - a Gerusalemme, avesse potuto raggiungere dimensioni così enormi. Prima di lasciare Antiochia ero rimasto sbigottito dal successo del cristianesimo, dal modo in cui cominciava a organizzarsi e in cui sembrava prosperare grazie alla divisione e al dissenso. Ma Antiochia era l'Oriente, come ho già precisato. Il fatto che Roma stesse capitolando davanti ai cristiani andava al di là dei miei sogni più sfrenati. Dappertutto gli schiavi si erano convertiti alla nuova religione, ma lo stesso avevano fatto uomini e donne di alto lignaggio. E le persecuzioni non sortivano il minimo effetto. Prima di continuare, tuttavia, vorrei sottolineare ciò che anche altri storici hanno evidenziato, vale a dire che, prima dell'avvento del cristianesimo, tutto il mondo antico viveva in una sorta di armonia religiosa. Nessuno perseguitava qualcun altro per motivi religiosi. Persino gli ebrei, che mai si erano associati agli altri, vennero agevolmente inglobati dai greci e dai romani e autorizzati a praticare il loro culto estremamente antisociale. Furono loro a ribellarsi a Roma, non Roma a cercare di renderli schiavi. E così quell'armonia era diffusa nel mondo intero. Naturalmente tutto ciò mi indusse a pensare, soprattutto quando udii per la prima volta una predicazione cristiana, che quella religione non avesse la minima chance di guadagnare terreno. Ai nuovi adepti prescriveva drasticamente di evitare qualsiasi contatto con i venerati dei della Grecia e di Roma, perciò immaginavo che la setta si sarebbe estinta presto. Invece non accadde nulla del genere; la Roma in cui vissi per trecento anni era gremita di cristiani. Per le loro cerimonie apparentemente magiche si riunivano nelle catacombe e anche in case private. Ora, mentre continuavo a vivere così, osservando tutto ciò e allo stesso tempo ignorandolo, si verificarono un paio di avvenimenti che mi costrinsero a riscuotermi dai miei sogni.
Lascia che ti spieghi. Come ti ho già detto, gli imperatori romani erano costantemente in guerra. Non appena l'antico senato romano ratificava la nomina di uno di loro, costui veniva ucciso da un altro. E le truppe marciavano perennemente sulle lontane province dell'impero per insediare un nuovo Cesare laddove un altro era stato deposto. Nell'anno 305 c'erano due di quei sovrani noti come Augusti e due noti come Cesari, e nemmeno io sapevo bene cosa significassero quei titoli. O forse dovrei dire che nutrivo troppo disprezzo per tutte le persone coinvolte per sapere cosa significassero. In realtà, quei cosiddetti «imperatori» invadevano l'Italia più spesso di quanto avrei voluto; nel 307 uno di loro, chiamato Severo, era giunto fino alle porte di Roma e il sottoscritto, che per compagnia non aveva altro che la grandezza di Roma, non voleva certo vedere saccheggiata la sua città natale! A quel tempo Roma era dominata dall'imperatore Massenzio, e fu lui a respingere Severo, così come in seguito sconfisse e cacciò Galerio. Quando cominciai a occuparmi della cosa, i domini di Massenzio si estendevano in tutta Italia, compresi Sicilia, Sardegna e Nord Africa. L'imperatore, che viveva a soli dieci chilometri dalle mura della città, era un vero bruto. In un'occasione permise addirittura ai suoi pretoriani, vale a dire le sue guardie personali, di massacrare buona parte della popolazione di Roma. Egli avversava e perseguitava violentemente i cristiani con una crudeltà del tutto gratuita; si diceva inoltre che avesse sedotto molte mogli di illustri cittadini, arrecando a questi un infamante oltraggio. I senatori stessi erano oggetto di abusi da parte dei suoi soldati che lasciava liberi di agire in tutta Roma. Comunque, nulla di tutto questo aveva molta importanza per me, finché non venni a sapere che uno degli altri imperatori, che si chiamava Costantino, stava marciando sulla capitale. Era la terza volta che nel giro di pochi anni la mia amata città veniva minacciata, perciò accolsi con sollievo la notizia che Massenzio stava marciando per andare a combattere la battaglia cruciale a distanza di sicurezza dalle mura cittadine. Naturalmente Massenzio si mosse per allontanarsi da Roma, perché sapeva che i romani non l'avrebbero sostenuto. Ma chi avrebbe potuto immaginare che quella sarebbe stata una delle battaglie più decisive nella storia del mondo occidentale? Lo scontro ebbe luogo durante il giorno, quindi non ricevetti notizie fino
al mio risveglio, al tramonto. Salii di corsa le scale che portavano fuori dal mio nascondiglio sotterraneo e, arrivato in casa, trovai tutti i miei ospiti, regolari e filosofi, completamente ubriachi e addormentati, perciò uscii in strada per sapere dalla gente cos'era successo. Costantino aveva riportato una vittoria schiacciante: le truppe di Massenzio erano state massacrate e anche l'imperatore era annegato nel fiume Tevere. Ma la cosa più significativa agli occhi di tutti era la notizia che, prima di scendere in battaglia, Costantino avesse visto apparire in cielo un simbolo inviato da Gesù Cristo. Gli era comparso subito dopo mezzogiorno, quando, alzando gli occhi al cielo, aveva notato il simbolo della croce con le parole: «In hoc signo vinces». La mia reazione fu di grande incredulità: possibile che un imperatore romano avesse avuto una visione cristiana? Tornai di corsa allo scrittoio, annotai tutti quei particolari nel mio diario, e rimasi in attesa di vedere cosa sarebbe successo in seguito. Nel frattempo, gli ospiti riuniti nella sala dei banchetti si erano tutti svegliati e stavano discutendo della questione. Nessuno riusciva a crederci: Costantino un cristiano? Tra lo sbalordimento generale, ma senza lasciare adito a dubbi, l'imperatore dimostrò subito di esserlo davvero: invece di fare donazioni ai templi per celebrare la sua grande vittoria, com'era consuetudine, le fece alle chiese cristiane e informò i suoi governatori che avrebbero dovuto imitarlo. Poi donò al papa dei cristiani un sontuoso palazzo sul Celio. Lasciami sottolineare che quell'edificio sarebbe rimasto nelle mani dei pontefici romani per un migliaio di anni. Un tempo avevo conosciuto coloro che vi abitavano, così andai di persona a vedere il Vicario di Cristo, chiedendomi cosa avrebbe significato tutto questo. Ben presto Costantino promulgò leggi che proibivano la crocifissione come metodo di esecuzione e vietavano anche i popolari giochi tra gladiatori. La domenica divenne una festività e l'imperatore concesse altri benefici ai cristiani, e di lì a breve scoprimmo che questi ultimi gli indirizzavano petizioni per sollecitare il suo intervento nelle loro dispute dottrinali! In realtà, nelle città africane i diverbi su simili questioni divennero così seri che scoppiarono alcune sommosse durante le quali i cristiani si uccisero a vicenda. La gente richiedeva l'intervento dell'imperatore. Ritengo fondamentale comprendere quel particolare aspetto del cristianesimo: apparentemente fu sin dall'inizio una religione di grandi lotte e
guerre; corteggiò il potere delle autorità temporali e le inglobò nel tentativo di dirimere con la mera forza le proprie numerose dispute. Osservavo tutto ciò con occhi sbigottiti, mentre i miei ospiti ne discutevano con foga. Sembrava che alcuni di quelli che cenavano al mio tavolo fossero cristiani e lo fossero da tempo. Tuttavia, anche se il segreto era stato svelato, il vino continuava a scorrere a fiumi. Cerca di capire, non provavo nessun vero timore o intrinseco disgusto nei confronti di quella religione, ma ne seguivo sbalordito lo sviluppo. Nei dieci anni che seguirono Costantino condivise faticosamente l'impero con Licinio, e io assistetti a cambiamenti che non avrei mai creduto possibili. Il cristianesimo ebbe un autentico trionfo. Mi parve di notare una fusione tra pensiero romano e idee cristiane. Forse sarebbe meglio parlare di una fusione di stili e modi di guardare il mondo. Alla fine, scomparso Licinio, Costantino divenne l'unico signore dell'impero e unì sotto il suo dominio tutte le province dell'impero. Poi cominciò a preoccuparsi in particolar modo della mancanza di unità dei cristiani, e a Roma sentimmo parlare di grandi concili cristiani che si svolgevano in Oriente. Il primo si tenne ad Antiochia, la città in cui avevo vissuto con Pandora e che era tuttora splendida e che, sotto diversi aspetti, forse era ormai più vivace e interessante di Roma. L'eresia ariana era la causa delle preoccupazioni di Costantino; l'intera faccenda era legata a un dettaglio estremamente secondario citato nelle Scritture che, secondo l'imperatore, minacciava di diventare oggetto di controversie. Alcuni vescovi vennero scomunicati dalla Chiesa sempre più vasta, e poco dopo si tenne un altro concilio a Nicea, a cui presiedette lo stesso Costantino. In quella occasione venne adottato il credo niceano, recitato ancora oggi dai cristiani. I vescovi che firmarono quel credo condannarono e scomunicarono, ancora una volta, lo scrittore teorico cristiano Ario definendolo un eretico, e ordinarono che i suoi scritti venissero bruciati. Inoltre, Ario doveva essere esiliato dalla sua città natale, Alessandria. Il giudizio era inappellabile. Ma vale la pena di notare, come feci io, che Ario continuò la sua battaglia per il riconoscimento delle sue tesi, pur essendo stato estromesso dal concilio. L'altro tema cruciale di quell'assemblea, e una questione che genera ancora una certa confusione nella cristianità, era il dubbio sulla vera data del-
la Pasqua, o anniversario della resurrezione di Cristo. Si stabilì un metodo per calcolarla, basandolo su un sistema occidentale. Quando l'illustre consesso ebbe termine, ai vescovi che vi avevano partecipato venne chiesto di rimanere in città per aiutare l'imperatore a festeggiare i suoi vent'anni sul trono. Naturalmente accettarono, come avrebbero potuto fare altrimenti? Non appena la notizia di quelle elaborate celebrazioni giunse a Roma, la cosa suscitò parecchia gelosia e malcontento, perché Roma si sentì ignorata. Si diffuse perciò un considerevole sollievo misto a gioia quando, nel gennaio del 326, l'imperatore partì per ritornare. Prima che arrivasse, tuttavia, atti terribili vennero associati al suo nome. Per motivi che nessuno riuscì a comprendere, Costantino si fermò lungo la strada e fece giustiziare il figlio Crispo, il figliastro Liciniano e la stessa moglie, l'imperatrice Fausta. Gli storici potranno speculare in eterno sulla ragione per cui accadde. La verità è che nessuno seppe perché l'imperatore avesse agito in quel modo; qualcuno ipotizzò che avevano congiurato contro di lui. La faccenda, comunque, gettò delle ombre sul suo ritorno a Roma, e il suo arrivo non fu di consolazione per l'antica classe dominante, perché Costantino si presentò ai romani vestito nello stravagante stile orientale, fatto di seta e damasco, e contrariamente alle aspettative della popolazione rifiutò di partecipare all'importante processione al tempio di Giove. Naturalmente i cristiani lo adoravano. Ricchi e poveri accorsero a frotte per vederlo con le vesti e i gioielli orientali, e tutti rimasero sopraffatti dalla sua generosità quando spianò la strada per la costruzione di altre chiese. Inoltre, pur avendo trascorso pochissimo tempo a Roma, nel corso degli anni sollecitò il completamento di edifici secolari iniziati da Massenzio, facendo erigere grandi terme pubbliche che portavano il suo nome. In seguito si diffusero voci spaventose. Si diceva che Costantino progettasse di costruire una città completamente nuova. Si mormorava che giudicasse Roma vecchia e decaduta, ormai inadatta a essere la capitale e che intendesse erigere una nuova capitale in Oriente, per onorare il suo nome! Prova a immaginarlo, se ci riesci. Gli imperatori dell'ultimo secolo si erano spostati in tutte le province imperiali; si erano combattuti l'un l'altro, scindendosi in coppie e tetrarchie, incontrandosi qui e assassinandosi là. Ma rinunciare a Roma come capitale? Costruire un'altra grande città perché diventasse il centro dell'impero?
Per me era impensabile. Preso dalla disperazione, cominciai a rimuginare in preda all'odio. I miei ospiti notturni condividevano la mia infelicità. Gli anziani soldati erano rimasti annientati dalla notizia, e uno dei vecchi filosofi pianse amaramente. Un'altra città doveva diventare la capitale dell'Impero Romano? Gli uomini più giovani erano furibondi, anche se non riuscivano a celare la propria amara curiosità o i riluttanti tentativi di indovinare quale potesse essere la sede della nuova città. Io non osavo piangere come desideravo, perché le mie lacrime sarebbero state piene di sangue. Chiesi ai musici di suonare antichi canti che gli avevo insegnato io stesso, ma non avevo mai sentito, e giunse uno strano momento in cui intonammo insieme - i miei ospiti mortali e io - un canto lento e lamentoso sull'offuscata gloria di Roma che non avremmo dimenticato. Quella sera l'aria era fresca. Uscii in giardino e guardai giù, sul fianco del colle. Vidi luci sparse qua e là nel buio. Sentii risate e conversazioni provenienti da altre case. «Questa è Roma!» sussurrai. Come poteva Costantino abbandonare la città che era stata la capitale dell'impero per un migliaio di anni superando lotte, trionfi, sconfitte e glorie? Qualcuno doveva farlo ragionare, perché era impossibile che succedesse una cosa del genere. Tuttavia, mentre mi aggiravo per la città, ascoltando le conversazioni della gente, mentre vagavo all'esterno delle mura e nelle cittadine limitrofe, arrivai gradualmente a capire cosa aveva motivato l'imperatore. Costantino voleva dare inizio al suo impero cristiano in un luogo per lui più avvantaggiato. Non poteva restare nella penisola italiana, quando la cultura sua e della sua gente aveva le proprie radici in Oriente. Inoltre doveva difendere i confini orientali. L'Impero Persiano dell'Est rappresentava una perenne minaccia, e Roma non era il posto adatto per gestire il potere supremo. Perciò aveva scelto la lontana città greca di Bisanzio come sede di Costantinopoli, la sua nuova dimora. E io sarei stato costretto a vedere la mia casa, la mia città sacra, trasformarsi nello scarto di un uomo, che per me, come romano, era inaccettabile. Giunsero voci sull'incredibile, se non miracolosa, rapidità con cui Costantinopoli era stata progettata e con cui la si stava costruendo. Numerosi romani seguirono Costantino nella nuova città in rapido svi-
luppo. Dietro l'invito dell'imperatore, forse, o semplicemente di loro iniziativa, i senatori levarono le tende con le rispettive famiglie e ricchezze per stabilirsi in quel luogo nuovo e scintillante, che era sulle labbra di tutti. Ben presto scoprii che senatori provenienti da tutte le città dell'impero venivano attirati a Costantinopoli e che, mentre nella nuova capitale si erigevano terme, luoghi di raduno e arene, splendide statue venivano razziate nelle città di tutta la Grecia e dell'Asia per ornare le nuove opere architettoniche. Roma, mia Roma, cosa ne sarà di te? pensavo. Naturalmente i miei banchetti serali non ne risentirono più di tanto. Coloro che venivano a cenare con Marius erano precettori e storici in miseria che non disponevano dei mezzi necessari per trasferirsi a Costantinopoli, oppure giovanotti curiosi e irrequieti che non avevano ancora fatto la scelta più saggia. Come sempre, potevo contare su una profusione di compagni mortali, e in realtà avevo ereditato alcuni filosofi greci d'ingegno assai pronto, abbandonati lì dalle famiglie che si erano trasferite a Costantinopoli, dove avrebbero sicuramente trovato uomini più brillanti che potessero fare da precettori ai loro figli. Ma quella compagnia che frequentava la mia casa diventava sempre meno importante, perché con il passare degli anni, la mia anima soffriva sempre più. Trovavo orrendo non avere accanto un compagno immortale in grado di capire quello che provavo. Mi chiesi se Mael o Avicus riuscissero a comprendere quanto stava succedendo. Sapevo che continuavano a cacciare nelle stesse strade che battevo io. Li sentivo. Il mio bisogno di Pandora divenne talmente intenso che non riuscivo più a raffigurarmela o a pensare a lei. Eppure, riflettevo disperato, se Costantino può preservare l'impero, se il cristianesimo può tenerlo insieme e impedire che vada a pezzi, se le disparate provincie possono essere unite, se l'imperatore può tenere a bada i barbari che saccheggiano sempre senza mai costruire o conservare nulla, chi sono io per giudicarlo, io che esisto al di fuori della vita? Tornai a scribacchiare nelle notti in cui la mia mente si agitava febbrile e, durante quelle in cui ero sicuro che Mael e Avicus non si trovassero nelle vicinanze, andavo invece in campagna per visitare il sacrario. Il mio lavoro sulle sue pareti continuava. Non appena finivo di affrescare l'intera cappella ricoprivo di intonaco un muro e ricominciavo da capo. Non riuscivo a ritrarre ninfee e dee all'altezza dei miei desideri. Le loro fi-
gure non erano abbastanza snelle, oppure le braccia non abbastanza aggraziate. I capelli non erano come li volevo. Quanto ai giardini che dipingevo, non esistevano abbastanza tipi di fiori che potessi includervi. Come sempre, provavo quella sensazione di familiarità; l'impressione di aver già visto quel giardino, di averlo conosciuto molto tempo prima che Akasha mi permettesse di bere il suo sangue. Avevo visto le sue panche di pietra, osservato le fontane, e non riuscivo a scrollarmi di dosso l'impressione di trovarmi al suo interno mentre lo dipingevo. La sensazione era tanto intensa da non consentirmi di lavorare come desideravo. Forse, addirittura, mi intralciava. Mentre la mia maestria come pittore cresceva, altri aspetti dell'opera mi infastidivano. Ero convinto che vi fosse qualcosa di innaturale in quello che dipingevo; qualcosa di intrinsecamente orrendo nel modo in cui ritraevo figure umane rasentando così la perfezione; qualcosa di innaturale nel modo in cui creavo colori insolitamente brillanti e aggiungevo tanti piccoli dettagli pregnanti. Trovavo particolarmente disgustoso il mio debole per i particolari decorativi. Tanto mi sentivo spinto a compiere quel lavoro, tanto lo odiavo. Creavo interi giardini di graziose creature mitiche solo per cancellarli. A volte dipingevo talmente in fretta da ritrovarmi stremato e stramazzavo sul pavimento della cappella, trascorrendovi impotente un sonno paralitico per l'intera giornata, invece di rifugiarmi nel mio luogo di riposo segreto - il mio sarcofago - nascosto nei paraggi di casa mia. Siamo mostri, pensavo ogni volta che dipingevo o esaminavo la mia opera, e continuo a pensarlo. Non importa che io voglia continuare a esistere. Siamo esseri innaturali. Siamo testimoni dotati sia di troppo che di troppo poco sentimento. E mentre riflettevo su simili questioni, avevo dinanzi i testimoni muti, Akasha ed Enkil. Che importanza aveva, per loro, ciò che facevo? Un paio di volte l'anno cambiavo i loro abiti eleganti, sistemando con meticolosa accuratezza la veste di Akasha; portavo spesso nuovi bracciali e glieli disponevo sulle braccia fredde e torpide con movimenti lenti e affettuosi, in modo da non insultarla con i miei gesti. Mi occupavo dei fili d'oro intrecciati nei loro capelli corvini; sistemavo un pregevole collare sulle spalle nude del re. Non mi rivolgevo mai oziosamente a nessuno dei due. Erano troppo solenni. Parlavo loro solo in preghiera.
Restavo in silenzio mentre lavoravo con le ciotole di colori e i pennelli. Rimanevo in silenzio quando fissavo con schietto disgusto quello che avevo dipinto. Una notte, dopo molti anni di zelante attività nel sacrario, mi allontanai per osservare l'insieme come non avevo mai fatto. Mi girava la testa. Raggiunsi l'ingresso per esaminare il dipinto dal punto di vista di uno che mettesse piede nella cappella per la prima volta e, scordandomi completamente della Coppia Divina, mi limitai a osservare le pareti. A quel punto fui assalito da una consapevolezza penosamente nitida: avevo ritratto Pandora, l'avevo ritratta ovunque. Ogni ninfa, ogni dea era Pandora. Come mai non me n'ero reso conto? Rimasi esterrefatto e avvilito. Pensai che i miei occhi mi stessero giocando un brutto tiro. Me li sfregai, li sfregai davvero come potrebbe fare un mortale per vederci meglio, poi guardai di nuovo. No, non sbagliavo: era Pandora, raffigurata splendidamente, ovunque posassi lo sguardo. L'abito variava e anche l'acconciatura, certo, così come altri ornamenti, ma quelle creature erano tutte Pandora, e io non me n'ero mai accorto. Naturalmente l'imperituro giardino mi appariva familiare. Non importava. Pandora aveva poco o nulla a che fare con quelle sensazioni. Pandora era ineluttabile e proveniva da una fonte di sensazioni diversa. Mi resi conto che Pandora non mi avrebbe mai lasciato. Era quella la maledizione. Nascosi tutti i colori e i pennelli dietro i Divini Genitori, come facevo sempre - sarebbe stato un insulto verso la Madre e il Padre lasciarli dov'erano - e tornai a Roma. Prima dell'alba avevo ancora a disposizione parecchie ore in cui soffrire, in cui pensare a Pandora come mai prima. Come sempre accadeva nelle prime ore del mattino, la festicciola degli ubriachi cominciava a languire. Alcuni erano addormentati sull'erba del giardino e altri cantavano in coro, perciò nessuno badò a me quando raggiunsi la biblioteca e mi sedetti allo scrittoio. Attraverso le porte spalancate guardai fuori, verso gli alberi scuri, e desiderai che la mia vita volgesse al termine. A quanto pareva non avevo il coraggio di proseguire con l'esistenza che mi ero creato. A un certo punto mi voltai e decisi - per mera disperazione di osservare gli affreschi sulle pareti della stanza. Naturalmente li avevo approvati e avevo pagato perché venissero restaurati e modificati più volte, ma stavolta li esaminai dal punto di vista non di Marius il nababbo, che poteva avere qualunque cosa desiderasse, ma di Marius il mostro-pittore
che aveva ritratto ventun volte Pandora sui quattro muri del sacrario di Akasha. All'improvviso notai come quegli affreschi fossero qualitativamente miseri, come apparissero rigide e pallide le dee e le ninfe che affollavano le pareti del mio studio. Allora svegliai immediatamente gli schiavi per avvisarli che l'indomani dovevano far ricoprire tutto di intonaco bianco. Inoltre dovevano acquistare e far portare in casa un'intera fornitura dei migliori colori. Li esortai a non preoccuparsi di come andassero ridecorate le pareti: ci avrei pensato io. Bastava che loro facessero coprire tutto. Erano abituati alle mie stranezze, quindi dopo essersi accertati di aver giustamente compreso le mie istruzioni, tornarono a dormire. Non sapevo cosa intendevo fare, sapevo solo che mi sentivo spinto a creare immagini e intuivo che se fossi riuscito a tenermici aggrappato, se fossi riuscito a farlo, avrei potuto continuare a vivere. La mia infelicità si accentuò. Stesi una pergamena per riprendere il mio diario di un tempo e cominciai a descrivere come scoprivo la mia amata ovunque, intorno a me, e come ciò sembrasse racchiudere un elemento di stregoneria. All'improvviso sentii un rumore inconfondibile. Avicus era fermo accanto al mio cancello. Mi stava chiedendo, con una forte corrente di facoltà psichiche, se poteva raggiungermi. Diffidava dei mortali presenti nella sala dei banchetti e nel giardino, ma mi chiedeva ugualmente se poteva entrare. Silenziosamente lo invitai subito a venire. Erano passati anni da quando lo avevo intravisto nelle stradine secondarie e non mi stupì più di tanto vederlo vestito da soldato romano e notare che portava un pugnale e una daga. Lui lanciò un'occhiata seccata verso la porta della sala banchetti, ma gli indicai con un gesto che non doveva badare agli ospiti. I suoi folti e ricciuti capelli scuri apparivano ben curati e puliti, e lui emanava un'aria di prosperità e benessere, se si eccettuava il fatto che gli abiti erano orrendamente insanguinati. Non era sangue umano, altrimenti ne avrei captato l'odore. Ben presto, con una semplice espressione facciale, mi rivelò di trovarsi in gravi difficoltà. «Cosa c'è? Cosa posso fare per te?» chiesi. Cercai di celare la mia totale solitudine, il mio intenso bisogno di toccargli la mano. «Sei una creatura come me», avrei voluto dirgli. «Siamo mostri e possiamo abbracciarci. Cosa sono i miei ospiti, se non tenere creature?» Però
non aprii bocca. Fu invece lui a parlare. «È successa una cosa terribile. Non so come porvi rimedio e neppure se sia possibile farlo. Ti supplico di venire con me.» «Dove?» domandai in tono comprensivo. «Si tratta di Mael. È stato ferito gravemente e non so se lo si possa guarire.» Uscimmo subito, dirigendoci verso un affollatissimo quartiere di Roma dove gli edifici di più recente costruzione si fronteggiavano l'un l'altro, talvolta a solo mezzo metro di distanza. Alla fine raggiungemmo una imponente casa nuova, situata nei sobborghi, una ricca dimora dal cancello massiccio, e lui mi guidò all'interno attraverso l'ingresso e poi nell'ampio, splendido atrio interno. Lasciami precisare che Avicus non sfruttò tutta la sua forza, durante il breve tragitto, ma io preferii non farglielo notare, limitandomi a seguirlo e adattando l'andatura ai suoi passi lenti. Passammo dall'atrio alla stanza principale della casa, quella in cui i mortali avrebbero cenato, e là, alla luce di un'unica lampada, vidi Mael riverso sul pavimento di piastrelle e apparentemente senza vita. La luce si rifletteva anche nei suoi occhi. Mi inginocchiai subito al suo fianco. Aveva la testa girata di lato in modo innaturale, e la posizione di un braccio faceva sospettare che la spalla fosse rotta. Tutto il corpo era orrendamente magro e la pelle aveva un terribile pallore. Eppure i suoi occhi mi fissarono senza traccia di supplica. Gli abiti, simili a quelli di Avicus, si adagiavano flosci sulla sua sagoma denutrita ed erano impregnati di sangue. Quanto ai lunghi capelli biondi, erano anch'essi incrostati di sangue, e le labbra tremavano come se stesse tentando invano di parlare. Avicus allargò entrambe le braccia per segnalarmi la propria impotenza. Mi chinai su Mael per osservarlo meglio, mentre Avicus prendeva la lampada a olio e la reggeva in modo da proiettare una luce calda e brillante. Mael emise un rantolo sommesso, aspro; notai gradualmente le orribili ferite rosse sulla gola e sulla spalla nuda, laddove la tunica era stata spostata per non intralciare l'arma. Il braccio formava un angolo innaturale rispetto al corpo, decisamente innaturale, e il collo era stato torto orrendamente, tanto che la testa non si trovava dove avrebbe dovuto.
Provai un attimo di orrore quando mi resi conto che quelle parti del corpo - testa e braccio - erano state separate dalla loro sede naturale. «Com'è successo?» chiesi, alzando gli occhi verso Avicus. «Lo sai?» «Gli hanno tagliato la testa e il braccio», rispose lui. «È stata una banda di soldati, ubriachi e in cerca di guai. Abbiamo cercato di aggirarli ma ci hanno aggredito. Saremmo dovuti salire sui tetti. Eravamo troppo sicuri di noi. Ci ritenevamo così superiori, così invincibilmente forti.» «Capisco», replicai. Afferrai la mano del braccio sano di Mael, che reagì subito stringendo la mia. Ero profondamente scioccato, ma non potevo permettere che gli altri due se ne accorgessero, sarebbe servito solo a spaventarli ancora di più. Mi ero spesso chiesto se fosse possibile annientarci tramite smembramento, e adesso la terribile verità mi apparve evidente: simili lesioni non bastavano a staccare le nostre anime da questo mondo. «Lo hanno circondato prima che capissi come dovevo reagire», raccontò Avicus. «Ho respinto quelli che cercavano di uccidermi, ma guarda cos'hanno fatto a lui.» «Lo hai riportato qui», dissi, «e hai cercato di risistemare testa e braccio.» «Era ancora vivo!» esclamò Avicus. «Quando quelle canaglie ubriache e barcollanti sono scappate via, ho visto subito che era ancora vivo, e pur perdendo fiumi di sangue, mi stava guardando! Anzi, stava allungando il braccio buono verso la sua testa.» Mi guardò come per supplicarmi di comprenderlo o forse perdonarlo. «Era vivo», ripeté. «Il sangue gli sgorgava dal collo e dalla testa. Immediatamente, lì in strada, gli ho rimesso la testa sul collo, ma è stato solo qui che ho riattaccato il braccio alla spalla. E guarda cos'ho combinato.» Le dita di Mael mi serrarono la mano. «Riesci a rispondermi?» gli chiesi. «Se sì emetti un suono.» Si udì nuovamente quel rantolo aspro, ma stavolta mi parve di sentire la sillaba «sì». «Vuoi vivere?» domandai. «Oh, non chiedergli una cosa del genere, adesso», mi implorò Avicus. «Potrebbe mancargliene il coraggio. Basta che tu mi aiuti, se sai cosa fare.» Si inginocchiò accanto all'amico, si piegò su di lui, tenendo accuratamente scostata la lampada, e gli premette le labbra sulla fronte. Da Mael era giunta la stessa risposta di prima: «Sì». «Portami altre lampade», dissi ad Avicus, «ma prima di fare qualunque
cosa, sappi che non possiedo nessuna straordinaria arte magica, in questo campo. Credo di sapere come si può rimediare, ma è tutto qui.» Lui andò subito a prendere altre lanterne a olio in giro per la casa, le accese e le posò sul pavimento formando un ovale intorno a Mael. Il risultato mi ricordò stranamente l'opera di uno stregone che prepari un luogo per una magia, ma non permisi a quel seccante dettaglio di distrarmi e, quando finalmente riuscii a vederci bene, mi inginocchiai a esaminare tutte le ferite e osservai la sagoma scavata, esangue e scheletrica di Mael. Alla fine mi sedetti sui talloni. Guardai Avicus, seduto di fronte a me, sul lato opposto del suo compagno. «Spiegami esattamente cos'hai fatto», gli chiesi. «Ho riattaccato la testa al collo come meglio potevo ma ho sbagliato, evidentemente, l'ho fatto nel modo sbagliato. Come facciamo a sapere qual è la procedura giusta? Tu lo sai?» «E anche il braccio è unito malamente alla spalla», precisai. «Cosa possiamo fare?» «Hai forzato il ricongiungimento?» Dopo un attimo di riflessione, dichiarò: «Sì, credo di sì. Capisco cosa vuoi dire. L'ho fatto con forza. Volevo che le parti aderissero di nuovo. Ho usato troppa energia». «Be', abbiamo un'unica possibilità per rimediare, credo, ma ti ripeto di tener presente che non possiedo alcun sapere segreto. Mi baso unicamente sul fatto che lui sia ancora vivo. Credo che dobbiamo staccare sia la testa che il braccio e vedere se, una volta adeguatamente sistemati accanto al corpo, si salderanno di nuovo con la debita angolazione.» Avicus si illuminò in volto, mentre capiva gradualmente quello che stavo dicendo. «Sì», commentò, «forse si salderanno come dovrebbero! Se possono riattaccarsi così malamente possono sicuramente farlo nel modo giusto.» «Infatti», confermai, «ma sei tu a doverci provare. Sei l'unico di cui Mael si fidi.» Avicus abbassò lo sguardo sull'amico e dalla sua espressione vidi che per lui non sarebbe stato facile. Alzò lentamente gli occhi su di me. «Prima dobbiamo dargli il nostro sangue per rinvigorirlo», affermò. «No, lo faremo dopo», replicai, «gli servirà per guarire. Solo a quel punto lo lasceremo bere.» Improvvisamente mi ero reso conto che non volevo assolutamente veder morire Mael. E non lo volevo a tal punto che per un attimo fui tentato di assumermi la responsabilità dell'intera operazione. Pe-
rò non potevo intromettermi; stava ad Avicus decidere come procedere. Quasi di scatto posò saldamente la mano sinistra sulla spalla di Mael, e con tutta la sua forza tirò il braccio malamente saldato, che si staccò subito dal corpo con diversi legamenti insanguinati che penzolavano all'estremità, simili alle radici di un albero. «Ora posaglielo vicino, ecco, bravo, e guarda se cerca la sua sede naturale.» Lui ubbidì, ma la mia mano si protese per guidare rapidamente il braccio, non permettendogli di avvicinarsi troppo, ma aspettando che cominciasse a muoversi di sua iniziativa. Sentii bruscamente lo spasimo che lo scuoteva e lo lasciai andare. Subito dopo, vidi l'arto riunirsi rapidamente alla spalla, e i legamenti fluttuanti che si introducevano nel corpo come serpentelli, fino a saldare il tutto. Ahimè, i miei sospetti si rivelavano fondati: il corpo seguiva le proprie regole soprannaturali. Mi incisi subito il polso con i denti e feci colare il sangue sulla ferita, la quale si rimarginò davanti ai miei occhi. Avicus sembrò sbigottito da quel semplice trucco, anche se doveva sicuramente conoscerlo, visto che le limitate proprietà curative del nostro sangue sono quasi universalmente note tra la nostra specie. In un attimo avevo dato tutto ciò che avevo voluto dare, e la ferita era quasi scomparsa. Mi sedetti per osservare gli occhi di Mael fissi su di me come prima. La sua testa appariva patetica e grottesca, con quell'angolazione errata, e la sua espressione era orrendamente vacua. Gli tastai di nuovo la mano, e la stretta venne ricambiata. «Sei pronto a farlo?» chiesi ad Avicus. «Tienilo per le spalle», ribatté lui. «Per l'amor del cielo, usa tutta la tua forza.» Sollevai le mani e ghermii Mael il più saldamente possibile. Gli avrei posato le ginocchia sul torace, ma era decisamente troppo debole per sopportare il mio peso, perciò gli rimasi di fianco. Alla fine, con un sonoro gemito, Avicus gli tirò la testa con entrambe le mani. Il fiotto di sangue fu spaventoso ed ero pronto a giurare di aver sentito lacerarsi la pelle soprannaturale. Avicus cadde all'indietro per il contraccolpo e crollò su un fianco, stringendo tra le mani la testa impotente. «Presto, posala accanto al corpo!» gridai. Continuai a stringere le spalle,
benché il corpo avesse sussultato all'improvviso e in modo orribile. Le braccia schizzarono verso l'alto come per cercare la testa. Avicus sistemò la testa sul pavimento, tra il sangue che sgorgava, spingendola sempre più vicino al collo lacerato, finché, tutt'a un tratto, essa parve muoversi autonomamente, i legamenti simili a serpentelli ancora una volta andavano a ricongiungersi con quelli del tronco. L'intero corpo sobbalzò e la testa parve fissata saldamente, come doveva. Vidi sbattere le palpebre di Mael e la sua bocca aprirsi. «Avicus», gridò con tutta la sua forza. Avicus si chinò sull'amico, incidendosi il polso con i denti come avevo fatto io, solo che stavolta lo zampillo di sangue doveva finire nella bocca di Mael. Mael tese le mani verso il braccio del compagno e se lo portò alle labbra, bevendo freneticamente mentre inarcava la schiena, e le sue gambe magre e disgraziate tremarono e si irrigidirono. Mi allontanai dalla coppia, uscendo dall'alone di luce. Rimasi a lungo seduto immobile nell'ombra, gli occhi fissi su di loro, e quando vidi che Avicus era esausto, che il suo cuore era stanco per aver donato così tanto sangue, li raggiunsi furtivamente e chiesi se potevo permettere a Mael di bere anche da me. Oh, come si ribellava a quel gesto, la mia anima! Perché mai mi sentivo costretto a farlo? Non sono in grado di dare una risposta. Lo ignoro adesso come allora. Mael riuscì a mettersi seduto. La sua figura appariva più vigorosa, ma l'espressione sul suo viso era terribile a vedersi. Il sangue sul pavimento, ormai secco, era scintillante come lo è sempre il nostro sangue. Sarebbe stato necessario grattarlo via e bruciarlo. Si piegò in avanti, mi cinse con le braccia in un gesto terribilmente intimo e mi baciò sul collo. Non osò affondare i denti. «Benissimo, fallo», dissi, nonostante la mia orrenda esitazione, e mi riempii la mente di immagini di Roma per mostrargliele mentre beveva, immagini di splendidi nuovi templi, lo stupefacente arco di trionfo di Costantino e tutte le magnifiche chiese che venivano costruite ovunque. Pensai ai cristiani e alle loro cerimonie magiche. Pensai a qualsiasi cosa pur di celare e cancellare tutti i segreti della mia vita. Continuai a provare una triste repulsione mentre sentivo l'attrazione della sua fame e del suo bisogno. Mi rifiutai di vedere qualcosa della sua anima grazie alle mie doti medianiche, e credo che a un certo punto il mio
sguardo abbia incontrato quello di Avicus, la cui espressione grave e complessa mi stupì. Alla fine, tutto ebbe termine. Non potevo donare altro sangue. Era quasi l'alba, e avevo bisogno delle energie rimastemi per raggiungere in fretta il mio nascondiglio. Mi alzai e feci per andarmene, quando Avicus parlò. «Possiamo essere amici, ora?» chiese. «Siamo stati nemici per tanti, tantissimi anni.» Mael era ancora orrendamente provato da quanto gli era successo e forse non era in condizioni di esprimersi in proposito, in un senso o nell'altro, ma alzò verso di me gli occhi accusatori e parlò. «In Egitto hai visto la Grande Madre, te l'ho vista nel cuore quando ho bevuto il tuo sangue.» Mi irrigidii per lo shock e la rabbia. Pensai che dovevo ucciderlo. L'esperienza che avevo appena fatto era stata utile solo a fini di apprendimento - per capire come riassemblare i bevitori di sangue smembrati - ed era tempo di portare a termine ciò che gli ubriachi avevano soltanto iniziato, quella notte. Eppure non dissi, né feci nulla. Oh, com'era gelido il mio cuore. Avicus era terribilmente deluso e colmo di disapprovazione. «Marius, ti ringrazio», disse, triste e stanco, mentre mi accompagnava al cancello. «Non avrei saputo cosa fare se tu avessi rifiutato di venire qui. Ti sono debitore.» «Non c'è nessuna Buona Madre», gli spiegai. «Arrivederci.» Mentre tornavo rapidamente verso casa, sui tetti di Roma, in cuor mio capii che avevo raccontato loro la sacrosanta verità. 7 La sera successiva rimasi sbalordito nel trovare le pareti della mia biblioteca completamente imbiancate. Mi ero dimenticato di aver impartito quell'ordine agli schiavi, ma quando notai le ciotole di pittura fresca in una miriade di colori diversi, rammentai cosa avevo chiesto loro di fare. In realtà non riuscivo a pensare ad altro che a Mael e Avicus, e devo confessare che ero affascinato dal misto di maniere garbate e pacata dignità in Avicus, che non riscontravo neppur lontanamente nel suo compagno. Per me Mael sarebbe sempre stato un barbaro, ignorante, rozzo e soprattutto esaltato, perché era a causa della sua credenza fanatica negli dei della foresta che aveva preso la mia vita.
Rendendomi conto che l'unico modo per smettere di pensare alla coppia era di cominciare ad affrescare le pareti appena preparate, mi misi subito al lavoro, senza badare ai miei ospiti, che naturalmente stavano già cenando, né a coloro che andavano e venivano dal giardino e dal cancello aperto. Considera, ti prego, che ormai non avevo bisogno di cacciare spesso per bere sangue e, pur essendo un vero selvaggio sotto quel punto di vista, rimandavo sovente la caccia fino a tarda sera o alle prime ore del mattino, oppure non ci andavo affatto. Così mi dedicai agli affreschi. Non mi spostai neppure a una certa distanza dalle pareti per raccogliere le idee su quello che intendevo dipingere, ma mi misi ferocemente all'opera, coprendo il muro con grandi chiazze vistose, raffigurando il solito giardino che mi ossessionava, e ninfe e dee le cui forme erano ormai così familiari alla mia mente. Quelle creature non avevano un nome, per me. Sarebbero benissimo potute giungere da qualsiasi verso di Ovidio, oppure dagli scritti di Lucrezio, o magari dal poeta cieco Omero: non mi importava. Mi lasciai assorbire totalmente dal compito di ritrarre braccia sollevate e colli aggraziati, di dipingere visi ovali e indumenti agitati dolcemente dalla brezza. Suddivisi un muro dipingendovi colonne attorno a cui disegnai delle piante rampicanti. Su un'altra parete creai rigide bordure di vegetazione stilizzata e, in una terza, piccoli pannelli in cui avrei raffigurato vari dei. Nel frattempo, la casa era gremita dalla sempre nutrita compagnia, e alcuni dei miei ubriaconi preferiti vagabondarono inevitabilmente fin nella biblioteca e mi guardarono lavorare. Fui tanto saggio da rallentare leggermente il ritmo per non insospettirli con la mia velocità innaturale ma per il resto non badai a loro, e solo quando uno dei suonatori di lira venne a cantare per me, mi resi conto di come doveva apparire folle quello che succedeva nella mia abitazione. Ormai le persone impegnate a cenare e bere vagavano ovunque, e il padrone di casa con la sua lunga tunica stava affrescando una parete, un'attività adatta ad artigiani o artisti, non certo ai patrizi, capisci, e apparentemente non venivano osservati limiti di decenza. Allora cominciai a ridere per quell'assurdità. Uno degli ospiti più giovani si stupì del mio talento. «Marius, non ce l'avevi mai detto. Non avremmo mai immaginato che tu fossi un artista.» «Nemmeno io», replicai in tono piatto, senza smettere di lavorare, osservando lo strato di intonaco bianco scomparire sotto il mio pennello.
Continuai a dipingere per mesi, spostandomi addirittura nella sala banchetti dove gli ospiti mi incitavano mentre lavoravo. Qualsiasi cosa creassi non riusciva a soddisfarmi e di certo non colmava loro di meraviglia. Trovavano divertente ed eccentrico che un uomo ricco decorasse le proprie pareti. E tutti i consigli da ubriachi che ricevetti non ammontavano a granché. Gli uomini istruiti conoscevano le vicende mitiche che rappresentavo e le apprezzavano, mentre i giovani tentavano di coinvolgermi in discussioni che rifiutavo. Il soggetto che soprattutto amavo raffigurare era l'ampio giardino, e lo dipingevo senza nessuna cornice per separarlo dalle figure danzanti e gli arbusti di alloro piegati. Era il giardino a me così familiare. Immaginavo di potermi rifugiare al suo interno, mentalmente. In quel periodo non ebbi tempo di occuparmi del sacrario: preferivo affrescare tutte le stanze della mia abitazione. Nel frattempo, gli antichi dei che ritraevo stavano scomparendo rapidamente dai templi di Roma; a un certo punto, Costantino aveva trasformato il cristianesimo nella religione ufficiale dell'Impero Romano e ormai erano i pagani a non poter più praticare il loro culto. Dubito che l'imperatore abbia mai decretato di costringere chicchessia in materia religiosa, ma è quello che accadde. Dipinsi il povero vecchio Bacco, il dio del vino, con i suoi allegri seguaci, e il brillante Apollo che inseguiva la disperata e adorabile Dafne che si trasformava in un cespuglio di alloro piuttosto di permettere lo stupro divino; continuai a lavorare, felice della mia compagnia mortale, implorando silenziosamente Mael e Avicus di non sondarmi la mente in cerca di segreti. Ma, a dire il vero, durante tutto quel periodo li sentivo molto vicini. I banchetti che organizzavo per i mortali li colmavano di sconcerto e timore. Ogni sera li udivo avvicinarsi alla casa per poi andarsene, finché giunse la notte inevitabile, quando li percepii fermi e in attesa davanti al mio cancello. Mael insisteva perché entrassero senza il mio permesso, ma Avicus lo tratteneva, supplicandomi con i suoi poteri psichici di ammetterli ancora una volta in casa mia. Io mi trovavo nella biblioteca e stavo affrescando le pareti per la terza volta. Grazie al cielo, quella sera i festosi ospiti non si erano riversati nella stanza. Posai il pennello. Fissai la mia opera incompiuta. Apparentemente, u-
n'altra Pandora era emersa nella figura appena abbozzata di Dafne, e il fatto che quest'ultima fosse sfuggita al suo innamorato fece vibrare una tragica corda del mio cuore. Che sciocco ero stato a fuggire da colei che mi amava. Per un lungo istante di autoindulgenza osservai ciò che avevo dipinto: la creatura ultraterrena dagli ondulati capelli castani. Comprendevi la mia anima, pensai, e ora altri stanno arrivando solo per rubare al mio cuore tutte le sue ricchezze. Cosa devo fare? Litigavamo, certo, ma con affettuoso rispetto, vero? Non resisto senza di te. Ti prego, torna da me, ovunque tu sia. Non c'era tempo, però, per la mia solitudine che all'improvviso mi parve preziosa, a prescindere da quanto spesso l'avevo sperimentata negli ultimi anni. Chiusi fuori dalla biblioteca i miei felici ospiti umani e, silenziosamente, comunicai ai bevitori di sangue che potevano entrare. Portavano ricchi abiti, e spada e pugnale tempestati di gemme preziose. Il mantello era fissato sulla spalla da una ricca spilla e persino i sandali erano molto ornati. Così vestiti avrebbero potuto prepararsi a raggiungere gli eleganti abitanti della nuova capitale, Costantinopoli, dove grandi sogni venivano ancora tradotti in realtà, benché Costantino fosse già morto. Fu con sentimenti contrastanti che indicai loro di sedersi. Per quanto rimpiangessi di non aver lasciato morire Mael, ero attratto da Avicus, dalla sua espressione sagace e dalla cordialità con cui mi guardava. Ebbi il tempo di osservare che ormai aveva la pelle di un marrone più chiaro, e che quella tonalità scura conferiva un che di scultoreo ai suoi lineamenti marcati, soprattutto alla bocca. Quanto agli occhi, erano limpidi e non mostravano alcuna traccia di astuzia o mendacia. Rimasero entrambi in piedi, lanciando occhiate ansiose verso la stanza in cui banchettavano i mortali. Ancora una volta, li invitai a sedersi. Mael rimase in piedi, osservandomi letteralmente dall'alto in basso, ma Avicus prese posto sulla sedia. Mael appariva ancora debole, il corpo emaciato. Evidentemente avrebbe dovuto bere dalle sue vittime per parecchie notti, prima che le lesioni subite venissero completamente sanate. «Come vi sono andate le cose?» chiesi per pura cortesia. Subito dopo, data la mia segreta disperazione, lasciai che la mia mente evocasse Pandora. Lasciai che la ricordasse totalmente, in tutti i suoi magnifici dettagli. Speravo così di trasmettere a entrambi il messaggio ri-
guardante Pandora, affinché lei, ovunque fosse, potesse in qualche modo riceverlo, potesse captare il richiamo che io, a causa del sangue donatole per trasformarla, non ero in grado di inviare. Non so se uno di loro ricevette una qualsiasi impressione del mio amore perduto. Avicus rispose garbatamente alla mia domanda, ma Mael non proferì parola. «Ormai stiamo meglio», dichiarò. «Mael sta guarendo senza problemi.» «Voglio dirvi un paio di cose», affermai, senza chiedere se desiderassero o no sentire cosa dovevo dire. «In base a quanto è successo, credo che nessuno di voi due sia consapevole della propria forza. So per esperienza che il potere cresce con l'età, visto che ora sono più agile e forte di quanto lo fossi quando sono stato creato. Anche voi siete forti, e questo incidente con i mortali ubriachi si sarebbe potuto evitare. Avreste potuto arrampicarvi sul muro, quando vi siete ritrovati circondati.» «Oh, finiscila!» esclamò all'improvviso Mael. La sua maleducazione mi lasciò di stucco. Mi limitai a stringermi nelle spalle. «Ho visto alcune cose», continuò lui con voce sommessa, ma severa, come se il tono confidenziale potesse rendere più significative le sue parole. «Quando ho bevuto da te ho visto cose che non hai potuto impedirmi di vedere. Ho visto una regina sul trono.» Sospirai. Le sue parole non avevano un'intonazione astiosa, non era come un tempo. Lui desiderava la verità e sapeva di non poterla ottenere con metodi ostili. Quanto a me, ero talmente impaurito da non riuscire a muovermi o parlare. Naturalmente rimasi annientato dalla notizia, assolutamente annientato, ignorando quali chance avessi di evitare che venisse tutto alla luce. Fissai i miei affreschi. Rimpiansi di non aver dipinto un giardino più bello. Avrei potuto trasportarmi mentalmente in un giardino. Pensai vagamente: Ma ne hai uno magnifico appena fuori dalla porta. «Non vuoi dirmi cos'hai trovato in Egitto?» chiese Mael. «So che ci sei andato. So che il dio della foresta voleva mandarti. Non vuoi essere tanto misericordioso da rivelarmi cos'hai trovato?» «E perché mai dovrei essere misericordioso?» domandai garbatamente. «Anche se in Egitto avessi trovato miracoli o misteri, perché mai dovrei dirtelo? Non vuoi nemmeno sederti sotto il mio tetto come un vero e proprio ospite. Cosa c'è tra noi due? Odio e miracoli?» Mi interruppi. Ero
troppo eccitato. Dipendeva dalla rabbia, dalla debolezza. Sai cosa intendo. A quel punto lui si accomodò su una sedia accanto ad Avicus e cominciò a guardare dritto davanti a sé come aveva fatto la sera in cui mi aveva raccontato come era stato trasformato in bevitore di sangue. Quando lo osservai con maggiore attenzione, vidi che aveva ancora il collo livido a causa della sua ordalia. La spalla era coperta dal mantello, ma immaginai che fosse nelle stesse condizioni. Spostai lo sguardo su Avicus e rimasi stupito vedendo le sue sopracciglia unite in uno strano, lieve cipiglio. All'improvviso lui fissò Mael e parlò: «Marius non può dirci che cosa ha scoperto», spiegò quietamente. «E noi non dobbiamo chiederglielo. Marius porta sulle spalle un terribile fardello. Ha un segreto legato a tutti noi e a quanto possiamo resistere.» Ne fui terribilmente addolorato. Non ero riuscito a schermare la mia mente e loro avevano scoperto quasi tutto. Avevo ben poche speranze di impedirgli di introdursi nel sacrario. Non sapevo cosa fare; non potevo nemmeno riflettere sulla situazione, in loro presenza. Era troppo pericoloso. Eppure, a dispetto dei rischi, provai l'impulso di raccontare tutto. Mael rimase allarmato ed eccitato dalle dichiarazioni di Avicus. «Ne sei sicuro?» gli chiese. «Sì», rispose Avicus. «Con il passare degli anni la mia mente è diventata più potente. Stimolato da quanto ho visto di Marius, ho messo alla prova i miei poteri. Riesco a penetrare nei suoi pensieri persino quando non ne ho l'intenzione. La notte in cui è venuto ad aiutarci, mentre sedeva accanto a te, mentre ti guardava guarire dalle ferite e bere da me, lui ha pensato a numerosi misteri e segreti e, benché ti stessi dando il mio sangue, gli ho letto la mente.» Ero troppo rattristato per controbattere una qualunque delle loro affermazioni. I miei occhi si posarono sul giardino. Mi concentrai per sentire il suono della fontana, poi mi appoggiai allo schienale e osservai le varie pergamene che costituivano il mio diario, sparse alla rinfusa sullo scrittoio, in balia di chiunque volesse leggerle o rubarle. Anche se erano scritte in codice, un bevitore di sangue intelligente sarebbe riuscito a decifrarle. Che importanza aveva, ormai? All'improvviso fui assalito dal forte impulso di tentare di far ragionare Mael. Ancora una volta scorsi la debolezza della rabbia. Dovevo mettere da
parte la rabbia e il disprezzo, e supplicarlo di capire. «È proprio così», ammisi. «In Egitto ho trovato alcune cose. Ma credimi, nessuna di esse ha la benché minima importanza. Se esiste davvero una regina, una Madre come la chiami tu, e bada che non sto dicendo che esiste, immagina che sia antica e non reattiva e ormai incapace di dare alcunché ai suoi figli, immagina che siano passati così tanti secoli, dai nostri esordi nebulosi, che nessuna creatura dotata di un minimo di raziocinio li capisce e che la questione viene lasciata letteralmente sepolta perché non ha alcuna importanza.» Avevo ammesso più del voluto, e spostai lo sguardo dall'uno all'altro per valutare quanto avessero compreso o accettato di ciò che avevo rivelato. Mael sfoggiava l'espressione stupefatta dell'innocente, ma quella di Avicus era tutt'altra cosa. Mi scrutò come se volesse disperatamente raccontarmi parecchie cose. In realtà i suoi occhi parlarono silenziosamente, anche se la sua mente non mi comunicò nulla. Poi parlò davvero. «Secoli fa, prima di essere mandato in Britannia per iniziare il mio soggiorno nella quercia in qualità di dio, venni condotto davanti a lei. Ricorderai che te l'ho raccontato.» «Sì», confermai. «L'ho vista!» Si interruppe. Sembrava che soffrisse nel rivivere quel momento. «Venni umiliato davanti a lei, costretto a inginocchiarmi, costretto a recitare giuramenti. Ricordo di aver odiato coloro che mi stavano intorno. Quanto a lei, la giudicai una statua, ma ora capisco le strane parole pronunciate dagli altri. In seguito, quando mi venne dato il Sangue Magico, mi arresi al miracolo. Le baciai i piedi.» «Perché non me l'hai mai detto?» chiese Mael in tono implorante. Sembrava ferito e sconcertato più che arrabbiato o offeso. «Te ne ho raccontata una parte», puntualizzò Avicus. «È soltanto adesso che riesco a vedere il quadro generale. La mia esistenza era orrenda, non capisci?» Guardò prima me e poi Mael, e il suo tono si fece leggermente più ragionevole e sommesso. «Mael, non capisci? Marius sta cercando di dirtelo. Questo sentiero nel passato è un sentiero di dolore!» «Ma chi è e cos'è, lei?» domandò Mael. In quell'istante fatidico presi una decisione. Fu la rabbia a spingermi, e forse nel modo sbagliato. «È la prima di noi», spiegai, in preda a una fredda collera. «Così sostiene l'antica storia. Lei e il suo consorte, o re, sono i Divini Genitori. Tutto
qui.» «E tu li hai visti», affermò lui, come se nulla potesse rallentarne l'implacabile interrogatorio. «Esistono, sono al sicuro», dichiarai. «Ascolta ciò che Avicus ti ha appena detto e senti cosa gli venne raccontato.» Avicus stava cercando disperatamente di ricordare. Stava risalendo talmente indietro da scoprire la propria età. Alla fine parlò con la stessa voce rispettosa e garbata di sempre. «Racchiudono entrambi il seme da cui tutti nasciamo!» ribatté. «A causa di ciò non possono essere annientati, perché, se lo fossero, noi moriremmo con loro. Ah, non capisci?» Guardò l'amico. «Ora conosco la causa del Terribile Fuoco. Qualcuno che stava cercando di annientarci li ha bruciati o esposti al sole.» Ero totalmente sconfitto. Lui aveva appena rivelato uno dei segreti più preziosi. Conosceva anche l'altro? Rimasi immerso in un silenzio astioso. Avicus si alzò e cominciò a passeggiare nella stanza, stimolato dai ricordi. «Per quanto tempo sono rimasti nel fuoco? Oppure si è trattato solo di un unico giorno nella sabbia del deserto?» Si rivolse a me. «Erano bianchi come marmo quando li ho visti. 'Questa è la Divina Madre', mi dissero gli altri. Le mie labbra le toccarono il piede e il sacerdote premette il tallone sul mio collo. Quando giunse il Terribile Fuoco ero già rimasto nella quercia talmente a lungo da non rammentare nulla. Avevo cancellato volutamente la mia memoria. Avevo cancellato la cognizione del tempo. Vivevo per il sacrificio di sangue mensile e per la festività annuale di Sanhaim. Digiunavo e sognavo, come mi era stato ordinato. La mia vita consisteva nel levarmi in occasione di Sanhaim per giudicare i malvagi, scrutare nel cuore degli accusati e pronunciarmi sulla loro colpevolezza o innocenza. «Ma ora ricordo. Ricordo il loro aspetto - l'aspetto della Madre e del Padre - perché li vidi entrambi, prima che mi costringessero a baciarle il piede. Com'era fredda. Com'era tutto terribile. E io ero riluttante, così pieno di rabbia e paura. Ed era la paura di un uomo audace.» Trasalii sentendo le sue ultime parole. Sapevo cosa intendeva dire. Cosa deve provare un generale impavido, quando sa che la battaglia è ormai perduta e non rimane altro che la morte? Mael alzò lo sguardo verso il compagno con un'espressione colma di tristezza e compassione. Ma Avicus non aveva ancora finito. Continuò a camminare, senza vede-
re nulla se non la propria memoria, i folti capelli neri gli ricadevano sul viso, mentre chinava il capo sotto il peso dei ricordi. Gli occhi neri luccicavano alla luce delle numerose lanterne, ma era l'espressione il suo tratto più pregevole. «È stato il sole, oppure un Terribile Fuoco?» chiese. «Qualcuno cercò di bruciarli? Qualcuno giudicava fattibile una simile impresa? Oh, è così semplice. Avrei dovuto rammentarlo, ma la memoria è disperatamente ansiosa di abbandonarci. Sa che non sopportiamo la sua compagnia. Le piacerebbe ridurci a semplici sciocchi. Ah, ascoltate i mortali anziani quando non possiedono altro che ricordi dell'infanzia. Come continuano a scambiare per persone defunte da tempo coloro che li circondano, e nessuno li ascolta. Quante volte ho origliato le loro parole infelici. Quante volte mi sono stupito delle loro lunghe e ininterrotte conversazioni con i fantasmi, in stanze deserte.» Non aprii bocca nemmeno stavolta, ma alla fine lui mi guardò e mi fece una domanda. «Li hai visti, il re e la regina. Sai dove si trovano?» Aspettai per un lungo istante, prima di rispondere, poi parlai con estrema semplicità. «Li ho visti, sì. E dovete credermi quando dico che sono al sicuro e che è meglio che non sappiate dove si trovano.» Li esaminai entrambi. «Se lo sapeste, magari altri bevitori di sangue potrebbero farvi prigionieri, una notte, ed estorcervi la verità, e potrebbero tentare di reclamare il re e la regina per sé.» Mael mi fissò a lungo prima di ribattere: «Combattiamo tutti quelli che tentano di sottrarci Roma. Sai che lo abbiamo fatto: li costringiamo ad andarsene». «Lo so», confermai. «Ma i vampiri cristiani continuano ad arrivare, e arrivano a frotte, a frotte sempre più nutrite. Sono devoti al loro diavolo, al loro serpente, al loro Satana. Verranno di nuovo. Saranno sempre più numerosi.» «Non significano nulla, per noi», dichiarò Mael con disgusto. «Perché dovrebbero volere la Sacra Coppia?» Per un attimo non risposi, poi la verità mi sgorgò orrendamente dalle labbra, come se non potessi proteggere loro o me stesso da essa. «D'accordo», dissi. «Visto che sapete così tante cose, lasciate che vi spieghi: numerosi bevitori di sangue vogliono la Madre e il Padre. Sono tutti quelli che provengono dall'Estremo Oriente a sapere di loro. Vogliono
il Sangue Primordiale. Credono nel suo potere. È più potente di qualsiasi altro sangue. La Madre e il Padre possono muoversi per difendersi, eppure i ladri continueranno a cercarli, pronti ad annientare chiunque li tenga nascosti. E in passato questi ladri sono venuti da me.» I due mi ascoltavano in silenzio, allora continuai: «Nessuno di voi due deve sapere altro della Madre e del Padre, se non volete che delle canaglie vi incontrino e cerchino di sopraffarvi per ottenere le informazioni in vostro possesso. Non dovete conoscere segreti che possano esservi strappati dal cuore». Guardai in cagnesco Mael, mentre pronunciavo quelle parole, poi ripresi a parlare. «Sapere della Madre e del Padre è una maledizione.» Sulla stanza calò il silenzio, ma vidi che Mael non avrebbe permesso che durasse troppo a lungo. Si illuminò in volto e, con voce tremante, mi fece una domanda. «Hai bevuto quel Sangue Primordiale?» Si lasciò prendere gradualmente dall'irritazione. «L'hai bevuto, vero?» «Calma, Mael», disse Avicus, inutilmente. «Lo hai bevuto», dichiarò l'altro, furibondo. «E sai dove sono nascosti la Madre e il Padre.» Improvvisamente si alzò dalla sedia e mi si avventò contro serrandomi le mani sulle spalle. Io, per natura, non sono propenso agli scontri fisici ma, in preda all'ira, lo spinsi via con tanta forza da farlo volare al di sopra del pavimento, contro la parete. «Come osi?» domandai con ferocia. Mi sforzai di non alzare la voce per non mettere in allarme i mortali nella sala dei banchetti. «Dovrei ucciderti. Che pace mentale mi darebbe sapere che sei morto! Potrei ridurti in pezzi che nessuno stregone sarebbe in grado di riassemblare. Che tu sia dannato!» Stavo tremando a causa di quella collera insolita e umiliante. Lui mi fissò, la mente immutata, la volontà solo lievemente redarguita, e parlò con straordinario fervore: «Tu hai la Madre e il Padre. Hai bevuto il sangue della Madre. Lo vedo in te. Non puoi nascondermelo. Come potrai mai nasconderlo a chicchessia?» Mi alzai. «Allora devi morire», affermai, «non è così? Perché sai, e non devi mai rivelarlo a nessun altro.» Feci per lanciarmi su di lui, ma Avicus, che ave-
va assistito alla scena in preda allo shock e all'orrore, rapidamente si frappose tra noi due, mentre Mael sguainava il pugnale e sembrava pronto a lottare. «No, Marius, ti prego», disse Avicus, «non possiamo continuare a litigare. Non combattere con Mael. Quale potrebbe mai esserne il risultato, se non due creature ferite che si odiano persino più di adesso?» Mael era in piedi e brandiva goffamente il pugnale. Dubito che conoscesse le armi. Quanto ai poteri soprannaturali, credo che nessuno dei due capisse fino in fondo cos'erano capaci di fare. Tutto ciò, naturalmente, era un calcolo difensivo da parte mia. Non desideravo quello scontro più di quanto lo desiderasse Avicus, eppure guardai quest'ultimo e dichiarai in tono freddo: «Posso ucciderlo. Non intralciarmi». «Ma è proprio questo il punto», ribatté lui. «Non posso non intralciarti, quindi dovrai lottare contro noi due, e non puoi vincere un simile scontro.» Lo fissai per qualche istante, senza trovare parole per replicare. Osservai Mael con il pugnale sollevato, poi, preso da un attimo di disperazione, raggiunsi lo scrittoio e mi sedetti con la testa tra le mani. Ripensai a quella notte ad Antiochia quando Pandora e io avevamo massacrato un branco di vampiri cristiani venuti incautamente nella nostra casa per parlarci di Mosè che innalzava il serpente nel deserto, di segreti egizi e di altre cose simili e apparentemente meravigliose. Ripensai a tutto il sangue e al rogo che erano seguiti. Pensai anche che quelle due creature che avevo davanti, benché non ci parlassimo o vedessimo mai, erano stati i miei veri, unici compagni in tutti gli anni trascorsi a Roma. Pensai a tutto quello che poteva avere importanza. La mia mente tentò autonomamente di trovare il giusto modo di comportarmi con Mael e Avicus, obbligandomi a spostare lo sguardo da uno all'altro per poi riportarlo sul giardino. «Sono pronto a combatterti», annunciò Mael con la sua tipica impazienza. «E cosa otterrai? Pensi di potermi estorcere dal cuore il segreto della Madre e del Padre?» Avicus si avvicinò allo scrittoio. Si sedette di fronte a me, mi fissò intensamente e disse: «Marius, si trovano vicino a Roma. Lo so. Lo so da tempo. Più e più volte hai raggiunto le colline per visitare un luogo strano e solitario, e con le doti medianiche ti ho seguito, chiedendomi cosa potesse condurti in un posto così distante. Ora sono convinto che tu vada a far visita alla Madre e al Padre. Sono convinto che tu li abbia portati via dal-
l'Egitto. Puoi affidarmi il tuo segreto, lo custodirò. Puoi affidarmi anche il tuo silenzio, se preferisci». «No», intervenne Mael, facendosi avanti all'improvviso. «Parla, Marius, altrimenti ti annienterò. Avicus e io andremo a vedere la Madre e il Padre da soli.» «No», dichiarò Avicus, arrabbiandosi per la prima volta. Scosse il capo. «Non ci andremo senza Marius. Ti stai dimostrando sciocco», disse a Mael. «Badate, loro sono in grado di difendersi», li avvertii freddamente. «L'ho visto fare con i miei occhi. Potrebbero concedervi di bere il Sangue Divino, ma possono anche impedirvelo e, se rifiutano, verrete annientati.» Mi interruppi per dare maggiore enfasi alle mie parole, poi ripresi: «Una volta, un potente dio proveniente dall'Est venne nella mia casa ad Antiochia», raccontai. «Si aprì un varco con la forza fino a trovarsi in presenza della Madre e del Padre. Cercò di bere dalla Madre. Quando fece per affondarle le zanne nel collo, lei gli stritolò la testa e inviò le lampade della stanza a bruciare il suo corpo che si dimenava, finché di lui non rimase nulla. Non vi sto mentendo.» Emisi un profondo sospiro. Ero stanco della mia rabbia. «Adesso che vi ho avvertiti sul pericolo che correte, vi accompagnerò là, se lo desiderate.» «Ma tu hai bevuto il suo sangue», insistette Mael. «Sei proprio un ingenuo», replicai. «Non capisci cosa sto dicendo? Lei potrebbe distruggerti. Non posso prevedere come reagirà. Inoltre c'è il problema del re. Qual è il suo volere? Lo ignoro. Comunque, se lo volete, vi accompagnerò là.» Lessi nella mente di Mael che nulla sarebbe riuscito a fermarlo. Avicus, invece, aveva una gran paura e se ne vergognava profondamente. «Devo andarci», annunciò Mael. «Un tempo ero il suo sacerdote. Ho servito il suo dio nella quercia. Non ho altra scelta, devo andarci.» I suoi occhi brillavano per l'eccitazione. «Devo vederla. Non posso dar retta ai tuoi avvertimenti, Marius. Devi portarmi in quel luogo.» Annuii e indicai loro di aspettare. Raggiunsi la porta a doppio battente della sala banchetti e la aprii. Controllai e vidi che i miei ospiti erano felici, stavano benissimo. Un paio di loro esultarono per la mia improvvisa presenza, ma si dimenticarono in fretta di me. Uno schiavo assonnato versò loro del vino dal profumo delizioso. Tornai da Avicus e Mael e uscimmo nella notte. Mentre ci dirigevamo verso il sacrario, notai che né Mael né Avicus si muovevano con la veloci-
tà che i loro poteri avrebbero consentito. Li esortai ad accelerare il passo, soprattutto in quel momento che non c'erano mortali che potessero vederci. I due accolsero il sollecito e si lasciarono prendere da una silenziosa euforia, sfruttando maggiormente le proprie doti. Quando arrivammo al portale di granito del tempietto, mostrai loro come fosse impossibile per una squadra di mortali aprirlo, poi accesi la fiaccola e li accompagnai giù per i gradini di pietra. «Questo è terreno sacro», precisai prima di aprire la doppia porta di bronzo. «Non dovete parlare in modo irriverente o gratuito né parlare di loro come se non potessero sentire.» Erano entrambi affascinati. Quando fummo all'interno, accesi la torcia e li invitai a entrare e a fermarsi davanti alla pedana. Sollevai la fiaccola per illuminare meglio la stanza, notando con soddisfazione che tutto era perfetto come mi aspettavo. Come sempre, la regina sedeva con le mani posate sulle cosce; Enkil stava nella stessa posizione. I loro volti, incorniciati in maniera splendida dalle trecce di capelli corvini, erano magnificamente privi di tracce di pensiero o dolore. Chi avrebbe potuto immaginare, vedendoli, che la vita pompava dentro di loro? «Madre e Padre», dissi lentamente perché le mie parole fossero ben udite, «ho portato due visitatori che hanno supplicato di potervi vedere. Sono Mael e Avicus. Sono venuti nella reverenza e nel rispetto.» Mael si inginocchiò. Lo fece con la stessa naturalezza di un cristiano. Allungò le braccia in avanti e cominciò a pregare nella lingua dei druidi. Disse alla regina che era splendida. Narrò storie degli antichi dei della quercia. Poi la supplicò di dargli il suo sangue. Avicus trasalì, e credo di aver fatto altrettanto. Mael si alzò e si avvicinò alla pedana. «Mia regina», dissi tranquillamente, «Mael chiede con profondo rispetto e umiltà se può bere dalla fonte primordiale.» Lui salì sulla pedana, si chinò con affetto e audacia sulla regina per bere dalla sua gola. All'inizio sembrò che non sarebbe successo niente, che lei glielo avrebbe permesso. Gli occhi vitrei di Akasha continuavano a fissare il vuoto come se la cosa non avesse la minima importanza. Le sue mani rimasero posate sulle cosce. Ma, tutt'a un tratto, con mostruosa rapidità, il re dall'ossatura robusta si
girò da una parte, come fosse una macchina di legno azionata da ruote e ingranaggi, e protese di scatto la mano destra. Mi lanciai in avanti, cinsi Mael con le braccia e lo tirai all'indietro, appena sotto il braccio che calava con violenza, e lo gettai in un angolo. «Resta lì!» sussurrai. Mi alzai. Enkil rimase girato, gli occhi vacui come se non riuscisse a trovare l'oggetto della sua furia, la mano ancora sospesa nell'aria. Quante volte, mentre li vestivo o li lavavo, avevo visto in lui lo stesso atteggiamento di torpida indifferenza? Superando il terrore, salii sulla pedana. Mi rivolsi a Enkil in tono suadente. «Ti prego, mio sovrano, è finita», dichiarai. Gli posai la mano tremante sul braccio e lo rimisi delicatamente nella posizione consueta. Il suo viso era orrendamente inespressivo. Gli posai le mani sulle spalle e lo girai finché non riprese a guardare dritto davanti a sé. Gli risistemai dolcemente il massiccio collare d'oro. Gli distesi accuratamente le dita. Gli lisciai il pesante gonnellino. Quanto alla regina, essa rimase imperterrita. Era come se non fosse successo nulla, o almeno così pensai finché non vidi le goccioline di sangue sulla spalla della sua veste di lino. Avrei dovuto cambiarla, alla prima occasione. Ma il particolare dimostrava che lei aveva permesso il bacio, mentre lui l'aveva proibito. Bene, era davvero molto interessante, perché adesso sapevo che l'ultima volta in cui avevo bevuto da Akasha era stato Enkil a scagliarmi sul pavimento della cappella. Non c'era il tempo di rimuginarci sopra. Dovevo portare Avicus e Mael fuori dal tempio. Solo quando ci ritrovammo entro i confini del mio studio brillantemente illuminato sfogai la mia furia su Mael. «Per due volte ho salvato la tua miserabile vita», dichiarai. «E ne pagherò le conseguenze, ne sono sicuro, perché avrei dovuto lasciarti morire la notte in cui Avicus mi ha chiesto di aiutarti e avrei dovuto lasciare che il re ti stritolasse come avrebbe voluto fare stasera. Ti disprezzo, renditene conto. Il trascorrere del tempo non potrà mai cambiare la cosa. Sei avventato, caparbio e reso folle dai tuoi desideri.» Avicus sedeva a capo chino, annuendo come se fosse d'accordo con me. Mael invece si era alzato in piedi, con le mani posate sul pugnale, e mi osservava immerso in un riluttante silenzio.
«Esci da casa mia», gli intimai alla fine. «E se vuoi mettere fine alla tua vita, disturba un'altra volta la quiete della Madre e del Padre. Essi, per quanto antichi e silenziosi, ti stritoleranno, come hai potuto constatare di persona. Conosci l'ubicazione del santuario.» «Non ti rendi conto dell'enormità del tuo crimine?» ribatté lui. «Come hai potuto mantenere un simile segreto? Come hai osato!» «Taci, ti prego», gli disse Avicus. «No, non intendo tacere», replicò Mael. «Tu, Marius, hai rubato la regina dei cieli e l'hai tenuta come se fosse tua? L'hai chiusa a chiave in una cappella affrescata come se fosse una dea romana scolpita nel legno? Come hai osato fare una cosa del genere?» «Stolto», replicai, «cosa avrei dovuto farne, secondo te? Tu sputi menzogne. Quello che volevi tu è ciò che vogliono tutti. Volevi il suo sangue. E cosa vorresti fare, ora che sai dove si trova? Hai intenzione di liberarla? E per chi, come e quando?» «Calmatevi, per favore», intervenne Avicus. «Mael, te ne supplico, andiamocene.» «E gli adoratori del serpente che hanno udito i sussurri del mio segreto, cosa faranno?» chiesi, ormai smarrito nella mia rabbia. «E se dovessero impadronirsi di lei e berne il sangue, e trasformarsi in un esercito più forte di noi? A quel punto, la razza umana come si solleverebbe contro la nostra stirpe, usando leggi e battute di caccia per eliminarci? Oh, non puoi immaginare nemmeno lontanamente tutti i mali che si scatenerebbero contro questo mondo se lei fosse nota a tutta la nostra specie, stupido sognatore pazzo ed egocentrico!» Avicus mi si parò davanti, implorandomi con le mani alzate, il viso tristissimo. «Immagina colui che li esporrebbe di nuovo al sole», continuai, «scagliandoci contro un fuoco come quello che ha già fatto soffrire Avicus! Saresti disposto a terminare il viaggio della tua vita tra sofferenze così atroci e per mano di un altro?» «Ti prego, Marius», disse Avicus. «Lascia che lo porti via con me. Ora andiamo. Te lo prometto, non avrai altri problemi per causa nostra.» Diedi loro la schiena. Udii Mael che usciva, ma Avicus rimase nella stanza. E all'improvviso sentii il suo braccio cingermi le spalle e le sue labbra sulla guancia. «Vai», mormorai, «prima che il tuo impetuoso amico cerchi di pugnalarmi per meschina gelosia.»
«È un grandissimo miracolo quello che hai rivelato», sussurrò. «Lascia che lui ci pensi su fino a renderne la grandezza abbastanza minuscola per la sua mente.» Sorrisi. «Quanto a me, non voglio assistervi mai più. È troppo triste.» Annuii. «Ma permettimi di entrare qui la sera, quietamente», sussurrò. «Permettimi di guardarti in silenzio dal giardino, mentre dipingi le pareti.» 8 Gli anni passarono troppo rapidamente. In Oriente, la splendida città di Costantinopoli era il principale argomento di conversazione a Roma. Erano sempre più numerosi gli onorati patrizi attratti dalla sua magia. Nel frattempo, dopo Costantino il Grande, gli imperatori continuarono a guerreggiare senza sosta. E la pressione lungo i confini dell'impero continuava a essere intollerabile, richiedendo la totale devozione di chiunque venisse elevato al trono. Si dimostrò un personaggio assai interessante Giuliano, in seguito noto come l'Apostata, che tentò di restaurare il paganesimo e fallì miseramente. Quali che fossero le sue illusioni religiose, si dimostrò un valente soldato e morì durante una campagna militare contro gli indomabili persiani, a parecchi chilometri da casa. L'impero continuò a essere invaso da ogni direzione da goti, visigoti, germani e persiani. Le sue ricche e splendide città, con i loro ginnasi, teatri, portici e templi, furono attaccate da tribù di uomini che non provavano il minimo interesse per la filosofia o la buona educazione, la poesia o gli antichi valori della vita signorile. Persino Antiochia, dove un tempo avevo vissuto con Pandora, era stata saccheggiata dai barbari; uno spettacolo per me inimmaginabile, che non potevo ignorare. Solo la città di Roma sembrava immune a un simile orrore, e in realtà credo che le antiche famiglie, persino mentre le case crollavano tutt'intorno a loro, fossero convinte che la Città Eterna non potesse mai subire un simile destino. Quanto a me, proseguii con i miei banchetti per gli screditati e i disprezzati; scrivevo sovente nei miei diari e continuavo ad affrescare le pareti. Quando, com'era inevitabile, i miei ospiti regolari morivano, ne soffrivo
profondamente, ma mi preoccupavo di sostituirli facendo in modo che la compagnia fosse sempre numerosissima. Proseguivo a stendere i colori delle ciotole a prescindere da chi beveva o vomitava in giardino, quindi la villa appariva davvero folle con tutte le lampade accese e il padrone che riempiva i muri delle sue illusioni, e gli ospiti che ridevano di lui e alzavano le coppe nella sua direzione, e la musica che continuava fino all'alba. All'inizio pensai che essere spiato da Avicus potesse rappresentare un diversivo, ma poi mi abituai a sentirlo scavalcare il muro di cinta ed entrare in giardino. Mi abituai alla vicinanza di qualcuno che condivideva quei momenti come solo lui poteva fare. Continuai a dipingere le mie dee - Venere, Arianna, Giunone - e mi rassegnai gradualmente alla consapevolezza che le sembianze di Pandora avrebbero dominato qualunque cosa io avessi fatto in quel campo, ma lavorai anche sugli dei. Apollo mi affascinava in particolar modo. Ebbi però tutto il tempo di ritrarre altre figure mitologiche quali Teseo, Enea ed Ercole, e talvolta ricorsi direttamente alla lettura di Ovidio, Omero e Lucrezio per trarne ispirazione. In altre occasioni inventai di sana pianta i miei temi. Ma i giardini dipinti erano sempre una consolazione, per me, perché in cuor mio sentivo di vivere dentro di essi. Affrescai più e più volte tutte le stanze, e dato che la mia dimora aveva la struttura di una villa invece che di una casa con atrio centrale, Avicus poteva girarle intorno restando sempre nel giardino, osservando tutto ciò che facevo, e non potei evitare di chiedermi se la mia opera venisse modificata da ciò che lui vedeva. A commuovermi più di ogni altra cosa era, forse, il fatto che indugiasse così fedelmente e rimanesse in silenzio con rispetto. Passava raramente una settimana senza che venisse per fermarsi quasi tutta la notte. Spesso veniva per quattro o cinque notti di seguito, se non di più. Naturalmente non ci parlavamo mai. C'era una certa eleganza nel nostro silenzio. E anche se una volta i miei schiavi si accorsero di lui e mi irritarono con la loro ansia, misi ben presto fine alla cosa. Le notti in cui mi recavo da Coloro-che-devono-essere-conservati, Avicus non mi seguiva. E devo confessare di aver assaporato un certo senso di libertà quando dipingevo da solo nel sacrario. Ma su di me calava anche la malinconia, più intensa che mai. Trovando un posticino tra la pedana e la preziosa coppia, spesso restavo seduto in un angolo, abbattuto dalla tristezza, e dormivo per tutto il giorno
e persino tutta la notte, senza uscire. La mia mente era sgombra, la consolazione inconcepibile, i pensieri sull'impero e su quanto poteva succedergli indicibili. Poi mi rammentavo di Avicus e mi alzavo, riscuotendomi dal mio languore; tornavo in città e riprendevo ad affrescare le pareti delle mie stanze. Non saprei dire quanti anni trascorsero in quel modo. È di gran lunga più importante sottolineare che un branco di bevitori di sangue satanici si insediò nuovamente in una catacomba abbandonata e cominciò a banchettare degli innocenti, com'era loro abitudine, dimostrando una totale noncuranza davanti al rischio di spaventare i mortali e dare origine a storie terrificanti. Avevo sperato che Mael e Avicus li annientassero, visto che erano tutti estremamente deboli e goffi, quindi distruggerli sarebbe stato tutt'altro che difficile. Ma Avicus venne da me per comunicarmi una verità che avrei dovuto individuare da tempo. «Questi adoratori di Satana sono sempre giovani», mi spiegò, «non ve n'è mai uno che abbia più di trenta o quarant'anni, in fatto di vita mortale. Vengono sempre dall'Est, sostenendo che il diavolo è il loro signore e che, servendo lui, servono Cristo.» «Conosco quella vecchia storia», replicai. Stavo dipingendo come se Avicus non fosse lì, non per scortesia, ma per stanchezza nei confronti degli adoratori di Satana che tanto tempo prima mi erano costati Pandora. «Ma vedi, Marius, sicuramente una creatura molto anziana ci sta mandando questi letali piccoli emissari, ed è lui che dobbiamo distruggere.» «E come ti proponi di farlo?» «Abbiamo intenzione di attirarlo qui a Roma», spiegò lui, «e siamo venuti a chiederti di unirti a noi. Scendi nelle catacombe con noi, stanotte, e di' a questi giovani che sei un amico.» «Ah, no, sei pazzo a proporre una cosa del genere!» esclamai. «Non ti rendi conto che sanno della Madre e del Padre? Non ricordi tutto quello che ti ho raccontato?» «Intendiamo annientarli tutti, dal primo all'ultimo», annunciò Mael, in piedi dietro di me. «Ma per mettere la parola fine all'intera faccenda, prima di farlo dobbiamo attirare qui l'anziano.» «Vieni, Marius», mi pregò Avicus, «abbiamo bisogno di te e della tua eloquenza. Convincili che li comprendi e che devono portare qui il loro capo se vogliono restare a Roma. Mael e io non riusciremmo a impressio-
narli e convincerli come puoi fare tu. La mia non è semplice adulazione, te lo assicuro.» Rimasi a lungo immobile con il pennello in mano, osservandoli e riflettendo sull'opportunità di accontentarli ma, alla fine, ammisi che non ero in grado di farlo. «Non chiedetemelo», dissi ad Avicus. «Tentate da soli di attirare qui quella creatura. Quando arriva avvisatemi, e a quel punto prometto che verrò.» La notte seguente, lui tornò a trovarmi. «Sono come bambini, quelle creature sataniche», raccontò, «parlano del loro capo spontaneamente, ammettendo che vive in un luogo deserto nell'Egitto settentrionale. È stato bruciato dal Terribile Fuoco, non vi sono dubbi, e ha insegnato loro tutto sulla Grande Madre. Sarà triste annientarli, ma si scatenano in giro per la città, cercando i più dolci dei mortali come vittime, e non lo si può tollerare.» «Lo so», replicai tranquillamente. Mi vergognavo di aver sempre lasciato che Mael e Avicus scacciassero quelle creature da Roma da soli. «Ma per stanare il loro capo, come si può fare?» «Abbiamo dato loro grandi ricchezze», spiegò lui, «in modo che possano portarlo qui. Gli abbiamo promesso il nostro sangue potente in cambio della sua venuta e lo abbiamo convinto che ha un estremo bisogno di creare altri sacerdoti e sacerdotesse devoti alla sua causa satanica.» «Ah, il vostro sangue potente, certo», ribattei. «Come ho fatto a non pensarci? L'ho sempre messo in relazione alla Madre e al Padre, non ci ho mai pensato in relazione a noi.» «L'idea non è stata mia», precisò Avicus. «È stato uno di quei bambini satanici a proporlo: sembra che il loro capo sia talmente debole da non riuscire ad alzarsi dal letto. Sopravvive solo per ricevere vittime e creare seguaci. Naturalmente Mael e io abbiamo subito promesso di aiutarlo. Cosa siamo noi agli occhi di questi bambini, con le nostre centinaia di anni?» Nei mesi seguenti non ricevetti nessuna notizia, ma scoprii, grazie alle facoltà psichiche, che Avicus aveva ucciso parecchi adoratori di Satana a causa dei loro crimini pubblici che lui giudicava altamente pericolosi; inoltre, in una mite serata estiva, udii da lontano Mael che discuteva con lui per stabilire se dovevano sterminare anche tutti gli altri. Alla fine il branco venne eliminato e la catacomba rimase deserta e inzuppata di sangue, dopo di che Mael e Avicus comparvero a casa mia per supplicarmi di tornare là perché quelli che rientravano dall'Egitto erano at-
tesi nel giro di un'ora, e dovevamo colpire in fretta. Lasciai la mia tiepida stanza felice, portando le mie armi più belle, e li seguii come promesso. La catacomba era talmente bassa e angusta da costringermi a tenere la schiena piegata. Capii subito che per i cristiani mortali rappresentava un luogo di sepoltura, anche se all'inizio era stato un nascondiglio dove si riunivano nei primissimi anni della loro setta. Ci addentrammo al suo interno per una ventina di metri, prima di raggiungere un sotterraneo dove trovammo l'anziano bevitore di sangue egizio che, ritto sul suo sarcofago, ci osservava adirato, mentre i suoi giovani assistenti orripilati guardavano la loro dimora deserta e piena di ceneri dei compagni defunti. L'antico immortale aveva sofferto molto. Calvo, magro e annerito dal Grande Fuoco, si era dedicato strenuamente alla creazione dei propri figli satanici, quindi non guariva come avrebbe potuto fare un altro vampiro. Ormai sapeva di essere stato ingannato: quelli che aveva mandato a Roma erano persi per sempre, e ora noi gli stavamo dinanzi, guardandolo dall'alto in basso e giudicandolo. Per lui eravamo bevitori di sangue di inimmaginabile potere che non provavano la minima pietà per lui e la sua causa. Avicus fu il primo a sollevare la spada, ma si fermò quando l'anziana creatura parlò. «Non serviamo forse Dio?» urlò. «Lo saprai prima di me», ribatté Avicus, e gli mozzò la testa. I vampiri rimasti si rifiutarono di fuggire. Caddero in ginocchio e subirono in silenzio i nostri colpi violenti. E lo stesso avvenne con il fuoco che li avviluppò. Per due notti tornammo tutti e tre a raccogliere i resti onde poterli bruciare di nuovo, finché fu tutto finito e ci convincemmo di aver eliminato una volta per tutte gli adoratori di Satana. Magari fosse stato davvero così. Non posso dire che quel terribile capitolo delle nostre vite abbia rafforzato i miei legami con Avicus e Mael. Fu troppo orribile, troppo contrario alla mia natura e troppo penoso. Tornato a casa, ricominciai a dipingere con gioia. Apprezzavo davvero che nessuno dei miei ospiti si ponesse mai domande sulla mia vera età o sul motivo per cui non invecchiavo o morivo. Credo dipendesse dal fatto che mi circondavo sempre di così tante persone che nessuno poteva mai riflettere troppo a lungo sulla cosa.
Comunque fosse, dopo la strage di creature sataniche desiderai la musica più di prima e dipinsi più implacabilmente e con maggiore fantasia e abilità. Nel frattempo, l'Impero Romano versava in gravi condizioni. Ormai era diviso quasi completamente tra l'Oriente e l'Occidente. In Occidente, che naturalmente includeva anche Roma, si parlava latino, mentre in Oriente la lingua comune era il greco. Anche i cristiani soffrivano per quella netta divisione e continuavano a litigare in merito alle loro credenze. Alla fine, la situazione della mia amata città divenne insopportabile. Il capo visigoto Alarico aveva occupato il vicino porto di Ostia e stava minacciando la stessa Roma. Il senato sembrava incapace di evitare l'imminente invasione, e in tutta la città si diceva che gli schiavi si sarebbero schierati con gli invasori, facendo così piombare la catastrofe su tutti noi. Alla fine, una mezzanotte, venne divelto il cancello salariano della città e subito si udì l'orripilante suono di una tromba gotica, poi le orde rapaci di goti e sciti entrarono a saccheggiare Roma. Corsi in strada per vedere la carneficina tutt'intorno a me. Avicus fu subito al mio fianco. Passando rapidamente di tetto in tetto scoprimmo che gli schiavi si erano ribellati ovunque ai padroni, le case venivano aperte con la forza, gioielli e oro erano offerti da vittime terrorizzate che poi venivano uccise ugualmente; statue ornamentali venivano caricate su carri per essere portate via e ben presto ci furono cadaveri disseminati dappertutto, mentre il sangue scorreva nei canali di scolo e le inevitabili fiamme cominciavano ad avvolgere tutto ciò che potevano. I giovani e i sani vennero riuniti per essere venduti come schiavi, ma la carneficina era spesso casuale. In quella situazione, capii ben presto di non poter fare nulla per aiutare quegli inermi mortali. Tornando a casa, scoprii orripilato che era già in preda alle fiamme. I miei ospiti erano stati fatti prigionieri oppure erano fuggiti. I miei libri stavano bruciando! Tutte le mie copie di Virgilio, Petronio, Apuleio, Cicerone, Lucrezio, Omero e Plinio giacevano tra le fiamme. I miei affreschi si stavano annerendo e disintegrando. Il fumo puzzolente mi riempiva i polmoni, soffocandomi. Ebbi a malapena il tempo di arraffare una manciata di pergamene importanti. Cercai disperatamente Ovidio, che Pandora aveva tanto amato, e i grandi tragici greci. Avicus si diede da fare per aiutarmi. Stavo prendendo altri testi e tentando di salvare i miei diari, quando improvvisamente alcuni
soldati goti si riversarono nel mio giardino con alte grida, brandendo le armi. Sguainai subito la spada e cominciai a decapitarli con feroce rapidità, urlando come loro, assordandoli e confondendoli con la mia voce preternaturale mentre mozzavo arti a casaccio. Avicus si rivelò ancora più feroce di me, forse perché più avvezzo a quel tipo di battaglia, così, nel giro di pochi minuti, il branco di goti giaceva sterminato ai nostri piedi. Ma ormai la mia villa era completamente avviluppata dalle fiamme: le poche pergamene che avevamo tentato di salvare stavano bruciando. Non c'era nulla da fare. Potevo solo pregare che i miei schiavi avessero trovato un riparo, perché in caso contrario sarebbero stati presi come bottino. «Al sacrario di Coloro-che-devono-essere-conservati», dissi. «Dove, se no?» Tornammo rapidamente sui tetti, sfrecciando dentro e fuori dalle fiamme che illuminavano ovunque il cielo notturno. Roma stava piangendo, stava implorando pietà a gran voce, stava morendo. Roma non c'era più. Raggiungemmo il santuario sani e salvi, benché le truppe di Alarico stessero saccheggiando anche le campagne. Scendendo entro i freschi confini della cappella, accesi rapidamente le lanterne e mi inginocchiai davanti ad Akasha, non preoccupandomi di ciò che Avicus potesse pensare per quel gesto, e le illustrai sussurrando la natura della tragedia che si era abbattuta sulla mia dimora mortale. «Hai visto la morte dell'Egitto», pregai con reverenza. «L'hai visto diventare una provincia romana. Ora Roma muore a sua volta. Roma è durata per millecento anni e ora non è più. Come farà il mondo a sopravvivere? Chi si prenderà cura delle migliaia di strade e ponti che ovunque riuniscono uomini e donne? Chi curerà le favolose città in cui uomini e donne prosperano in case sicure, insegnando ai figli a leggere e scrivere e ad adorare gli dei e le dee? Chi respingerà queste maledette creature che non sanno coltivare la terra che stanno bruciando e che vivono solo per distruggere?» Naturalmente non ebbi risposta dai Sacri Genitori. Caddi in avanti e allungai una mano per toccare il piede di Akasha, emettendo un profondo sospiro. Alla fine, dimenticando ogni formalità, strisciai nell'angolo e mi sedetti come un ragazzino esausto. Avicus venne a sedersi accanto a me, e mi prese la mano. «E Mael?» chiesi sommessamente.
«È intelligente», dichiarò. «Ama combattere. Ha annientato parecchi bevitori di sangue. Non si lascerà mai ferire come quella notte di tanto tempo fa. E sa come nascondersi quando tutto è perduto.» Restammo nel sacrario per sei notti. Fuori sentivamo le urla, i lamenti e i pianti, mentre il saccheggio e la devastazione continuavano. Poi, finalmente, Alarico marciò fuori da Roma per seminare il caos nelle campagne più a sud. Alla fine il bisogno di sangue ci costrinse a tornare nel mondo soprastante. Avicus mi disse addio e andò in cerca di Mael, mentre io mi ritrovavo nella strada accanto alla mia casa, imbattendomi in un soldato morente, con il petto trafitto da una lancia. Aveva perso conoscenza. Estrassi la lancia, strappandogli un gemito, poi lo sollevai e avvicinai la bocca alla ferita fiottante. Il sangue era colmo di scene di battaglia, e ben presto ne ebbi abbastanza. Posai il corpo a terra, sistemandogli ad arte le membra, poi mi guardai attorno: avevo ancora fame e un altro moribondo non sarebbe bastato. Ripresi a camminare, scavalcando cadaveri putrefatti e puzzolenti, oltrepassando ruderi di case sventrate, fino a trovare un soldato isolato, con un sacco pieno di bottino sulla spalla. Questi fece per sguainare la spada, ma riuscii a sopraffarlo rapidamente e gli morsi la gola. Morì troppo in fretta, per i miei gusti, ma adesso ero soddisfatto. Lasciai che stramazzasse ai miei piedi. Infine arrivai alla mia villa, completamente distrutta. Che spettacolo era il mio giardino, costellato di soldati morti, enfi e maleodoranti! Non un singolo libro era scampato alle fiamme. Mentre piangevo mi resi conto, crudelmente scioccato, che tutte le pergamene egizie in mio possesso - tutti i primi racconti della Madre e del Padre - erano bruciate. Erano pergamene che avevo preso nell'antico tempio di Alessandria la notte in cui avevo portato la Madre e il Padre fuori dall'Egitto; pergamene che raccontavano l'antica storia di come uno spirito maligno si fosse insinuato nel sangue di Akasha e di Enkil e di come fosse nata la razza dei bevitori di sangue. Ormai tutto ciò era perso, ridotto in cenere, mi era stato sottratto insieme ai miei poeti e storici greci e romani. Era svanito insieme a tutto ciò che avevo scritto io stesso.
Sembrava impossibile che fosse accaduta una cosa del genere. Mi biasimai per non aver copiato le antiche narrazioni egizie, per non averle messe al sicuro nel sacrario. Dopo tutto, in qualche altro mercato avrei potuto trovare Cicerone e Virgilio, Senofonte e Omero, ma le leggende egizie? Quelle non sarei mai più riuscito a recuperarle. Cominciai a chiedermi se la mia bellissima regina si sarebbe preoccupata per la perdita delle storie scritte che la riguardavano. Oppure le sarebbe solo importato che io serbassi quelle storie nella mente e nel cuore? Mi addentrai nell'ammasso di rovine che un tempo erano state le mie stanze e guardai il poco rimasto degli affreschi sugli anneriti muri di gesso. Guardai in alto, fra le travi nere che rischiavano di cadermi addosso da un momento all'altro, scavalcando cataste di legno bruciato. Alla fine lasciai il luogo in cui avevo vissuto tanto a lungo, e mentre camminavo vidi che la città stava già risorgendo dal duro colpo subito. Non tutto era stato dato alle fiamme: Roma era immensa, con troppi edifici in pietra. Ma cosa significava per me quel penoso spettacolo di cristiani che correvano ad aiutare i confratelli e di bambini che piangevano per i genitori uccisi? Quindi Roma non era stata completamente rasa al suolo, e non aveva importanza se ci sarebbero state altre invasioni. Quelli che erano sopravvissuti erano rimasti nella loro città e si davano da fare per ricostruirla, tollerando un'umiliazione che io non potevo accettare. Tornai alla cappella. Scesi i gradini ed entrai nel sancta sanctorum, andando a stendermi in un angolo, sazio e stremato, e chiusi gli occhi per quello che sarebbe diventato il mio primo, lungo sonno. Nel corso della mia esistenza di immortale, durante la notte ero sempre uscito e avevo trascorso il tempo concessomi dalle tenebre per cacciare, oppure per godermi distrazioni e tutti i piaceri possibili, ma adesso non badai affatto al tramonto del sole. Diventai come te nella tua caverna di ghiaccio. Dormii. Sapevo di essere al sicuro. Sapevo che Coloro-che-devonoessere-conservati erano ben protetti. E udivo troppa dell'infelicità proveniente da Roma. Così decisi di dormire. Forse fui ispirato dalla storia degli dei della foresta, che potevano digiunare per un mese di seguito nella quercia, eppure levarsi a ricevere il sacrificio. Non ne sono sicuro. Pregai Akasha: «Concedimi il sonno. Concedimi la quiete. Concedimi l'immobilità. Concedimi il silenzio delle voci che odo con tanta forza.
Concedimi la pace». Quanto durò quel sonno? Certamente diversi mesi, tanto che cominciai a soffrire terribilmente la fame e a sognare il sangue. Eppure, ostinato, rimasi steso sul pavimento del sacrario, gli occhi chiusi durante la notte quando avrei invece potuto vagare, sordo alle notizie del mondo esterno. Non sopportavo di rivedere la mia amata città. Non riuscivo a pensare a un altro luogo in cui andare. Poi feci uno strano sogno: Mael e Avicus mi apparvero sollecitandomi ad alzarmi, offrendomi il loro sangue per rafforzarmi. «Sei affamato, sei debole», disse Avicus. Che aria triste aveva, e com'era gentile. «Roma esiste ancora», dichiarò. «È invasa da goti e visigoti, ma i vecchi senatori sono gli stessi di sempre. Assecondano i rozzi barbari. I cristiani chiamano a sé i poveri e danno loro il pane. Niente può uccidere davvero la tua città. Alarico è morto, come se fosse caduto vittima di una maledizione a causa di ciò che ha fatto, e il suo esercito è scomparso da tempo.» Fui confortato da tutto ciò? Non lo so. Non riuscivo a concedermi di svegliarmi. Non riuscivo ad aprire gli occhi. Volevo unicamente restare sdraiato là dov'ero, solo. Alla fine se ne andarono; non avevano alternative. Apparentemente, tornarono in altre occasioni, e io li vedevo grazie alla luce di una lampada mentre mi parlavano, ma sembrava un sogno e non aveva alcuna importanza. Trascorsero altri mesi, poi anni. Sentivo gli arti privi di forza e solo le facoltà psichiche sembravano intatte. Una volta, una visione si impadronì di me. Mi vidi sdraiato tra le braccia di una donna, una bellissima donna egizia dai capelli neri. Era Akasha che mi consolava, mi sollecitava a dormire e diceva che nulla poteva danneggiarmi, nemmeno la sete, perché avevo bevuto il suo sangue. Mi diceva che ero diverso da tutti gli altri immortali. Potevo digiunare per poi levarmi di nuovo; non mi sarei indebolito fatalmente. Ci trovavamo in una splendida sala con arazzi di seta. Eravamo stesi su un letto, circondati da cortine di seta talmente sottili che riuscivo a vedere attraverso di esse. Vidi colonne dorate con foglie di loto sui capitelli. Sentivo i morbidi cuscini sotto di me, ma soprattutto sentivo colei che mi consolava, che mi stringeva saldamente e affettuosamente e mi esortava a dormire. Dopo parecchio tempo mi alzai e uscii in giardino e notai che era quello
che avevo dipinto, solo che era stato perfezionato, allora cercai di vedere le ninfe danzanti, ma erano troppo rapide per me: scomparvero prima che riuscissi a distinguerle, e in lontananza il canto risultava troppo fioco perché potessi sentirlo. Sognai dei colori. Avrei voluto avere davanti le ciotoline di pittura, i colori puri per far prendere vita al giardino. Sì, dormire. Alla fine, una divina oscurità calò sulla mia mente e nessun pensiero riuscì a penetrarvi. Sapevo che Akasha mi stringeva ancora perché sentivo le sue braccia intorno a me e le sue labbra sulla guancia. Non mi interessava altro. E gli anni passarono. Gli anni passarono. All'improvviso i miei occhi si aprirono. Fui assalito da un'intensa sensazione di allarme che mi fece capire che ero un essere vivente con testa e braccia e gambe. Non mi mossi, ma fissai il buio sopra di me, poi udii uno scalpiccio di passi rapidi, e per un attimo una luce mi accecò. Una voce parlò. Era Avicus. «Marius, vieni con noi», disse. Cercai di alzarmi dal pavimento di pietra ma non vi riuscii. Non riuscivo a sollevare le braccia. Stai fermo, mi dissi, e rifletti. Pensa a quanto è successo. Avicus si stagliò ancora una volta davanti a me, reggendo la piccola e guizzante lanterna di bronzo. Indossava un'elegante doppia tunica con un farsetto, un po' come un soldato, e i calzoni tipici dei goti. Mael era al suo fianco, sfoggiava anche lui raffinati indumenti e aveva i capelli biondi pettinati accuratamente all'indietro, il suo viso era ormai privo di qualsiasi traccia di malizia. «Stiamo per andarcene», annunciò, gli occhi grandi e generosi. «Vieni con noi. Metti fine a questo sonno da morti e seguici.» Avicus posò un ginocchio a terra e sistemò la lanterna dietro di me, perché la luce non mi ferisse gli occhi. «Marius, stiamo per trasferirci a Costantinopoli. Abbiamo una nave pronta a condurci là, dei rematori, un nocchiero e assistenti ben pagati che non faranno domande sulle nostre abitudini notturne. Devi venire con noi. Non hai motivo di restare qui.» «Dobbiamo andare», sollecitò Mael. «Sai da quanto tempo giaci qui?»
«Da mezzo secolo», risposi con una sorta di sussurro, «e durante questo lasso di tempo Roma è stata devastata di nuovo.» Avicus scosse il capo. «È trascorso molto più tempo, vecchio amico mio», precisò. «Non so dirti quante volte abbiamo cercato di svegliarti. Marius, l'impero d'Occidente non esiste più.» «Vieni con noi a Costantinopoli», insistette Mael. «È la città più ricca del mondo.» «Prendi il mio sangue», propose Avicus, e fece per mordersi il polso per darmi da bere. «Non possiamo abbandonarti qui.» «No», dissi. «Lasciate che mi levi di mia volontà.» Mi chiesi se riuscissero a sentire le mie parole, tanto erano sommesse. Mi puntellai lentamente sui gomiti, poi mi resi conto di essermi messo a sedere, mi inginocchiai e infine mi alzai. Mi girava la testa. La mia radiosa Akasha, seduta così eretta sul trono, fissava ciecamente un punto alle mie spalle. Il mio re era immutato. Però erano entrambi coperti da uno spesso strato di polvere, e sembrava un crimine inimmaginabile che fossero stati trascurati in quel modo. I fiori avvizziti parevano fieno nei vasi prosciugati. Ma di chi era la colpa di tutto ciò? Mi diressi con palese esitazione verso la pedana. Chiusi gli occhi. Sentii Avicus che mi sorreggeva perché evidentemente ero stato sul punto di cadere. «Lasciatemi solo, vi prego», chiesi sottovoce. «Solo per un poco. Devo recitare le mie preghiere per le consolazioni ricevute mentre dormivo. Vi raggiungerò presto.» E imponendomi di restare più saldo sulle gambe, chiusi di nuovo gli occhi. Subito mi si affacciò alla mente la visione di me stesso sdraiato sul sontuoso letto all'interno del palazzo straordinario, e di Akasha, la mia regina, che mi abbracciava. Vidi la cortina serica del letto che oscillava nella brezza. Non era la mia visione, vale a dire che non era scaturita da me. Mi era stata donata, piuttosto, e sapevo che sarebbe potuta arrivare solo da lei. Riaprii gli occhi e fissai il suo viso duro, perfetto. Sicuramente una donna meno bella non sarebbe riuscita a sopravvivere tanto a lungo. Nessun bevitore di sangue aveva mai avuto il coraggio di annientarla davvero. Nessun bevitore di sangue l'avrebbe mai avuto. Ma i miei pensieri si fecero improvvisamente confusi. Avicus e Mael erano ancora lì.
«Verrò con voi», promisi, «ma per il momento dovete lasciarmi solo. Dovete aspettarmi di sopra.» Finalmente ubbidirono. Sentii i loro passi sulle scale. Salii i gradini della pedana e mi chinai ancora una volta sulla mia regina seduta, con la stessa reverenza di sempre, con la stessa audacia di sempre, e le diedi il bacio che avrebbe potuto decretare la mia condanna a morte. Nulla si mosse, nel santuario. La Sacra Coppia rimase immobile. Enkil non levò il braccio per colpirmi. Non percepii alcun movimento nel corpo di Akasha. Affondai rapidamente i denti. Bevvi lunghe sorsate di sangue denso, il più in fretta possibile, poi giunse di nuovo la visione del soleggiato giardino, magnifico, pieno di alberi in fiore e rose, qualcosa che sembrava fatto per una reggia, dove ogni pianta è parte di un progetto imperiale. Vidi la camera da letto; vidi le colonne dorate. Mi sembrò di sentire un sussurro: «Marius». La mia anima si dilatò. Lo udii di nuovo, come se stesse echeggiando nell'intero palazzo dai drappi di seta. La luce nel giardino si fece più intensa. Poi, con una violenta pulsazione, mi resi conto di non poterne bere altro. Mi staccai. Vidi i minuscoli forellini contrarsi e richiudersi. Premetti le labbra su di essi, in un lungo bacio. Inginocchiato, la ringraziai di cuore. Non avevo il minimo dubbio sul fatto che mi avesse protetto durante il sonno. Ne ero sicuro. Sapevo anche che era stata lei a svegliarmi. Avicus e Mael non ci sarebbero mai riusciti senza il suo intervento divino. Akasha mi apparteneva più di quando avevamo lasciato l'Egitto. Era la mia regina. Mi ritrassi, potente, con gli occhi limpidi e pronto ad affrontare il lungo viaggio per mare fino a Bisanzio. Dopo tutto, avevo Mael e Avicus ad aiutarmi con i Divini Genitori, che dovevano essere messi al sicuro in sarcofagi di pietra; ci aspettavano numerose lunghe notti in mare durante le quali avrei potuto piangere per la mia splendida Italia, la mia Italia ormai perduta. 9 Le notti seguenti non resistetti alla tentazione di visitare Roma, benché Avicus e Mael me lo sconsigliassero. Temevano che non sapessi quanto a lungo avevo dormito, invece lo sapevo benissimo: erano passati quasi cen-
to anni. Trovai i maestosi edifici della gloria imperiale ridotti a cumuli di macerie, infestati da animali e usati come cave da quanti venivano a prendere la pietra. Enormi statue erano state abbattute e giacevano tra le erbacce. La mia antica strada era irriconoscibile. La popolazione si era ridotta a non più di qualche migliaio di anime, eppure i cristiani provvedevano ai compagni, e la loro virtù era fonte di profonda ispirazione. Inoltre, visto che in alcuni casi gli invasori erano stati cristiani, molte chiese erano rimaste intatte. Il vescovo di Roma cercava di difenderle dai capi dei barbari e manteneva forti legami con Costantinopoli, la città che dominava sia l'Oriente che l'Occidente. Per le antiche famiglie rimaste c'era solo l'umiliazione di servire i nuovi signori barbari e di convincersi che, grazie a loro, i rozzi goti e vandali avrebbero potuto acquisire una certa raffinatezza e la passione per la letteratura e imparare ad apprezzare il diritto romano. Ancora una volta mi stupii della resistenza del cristianesimo, del fatto che sembrasse cibarsi della catastrofe come in passato della persecuzione, e di come prosperasse durante gli interludi di pace. Mi meravigliai anche delle capacità di recupero degli antichi patrizi, che non si erano ritirati dalla vita pubblica e si sforzavano di inculcare gli antichi valori come meglio potevano. Ovunque si vedevano barbari baffuti con indosso rudimentali calzoni, i capelli unti e incolti. Molti erano cristiani ariani, che osservavano cerimonie diverse da quelle dei loro fratelli e sorelle cattolici «ortodossi». Che cos'erano? Goti, visigoti, alemanni, unni? Alcuni non riuscii affatto a riconoscerli. E il sovrano di quell'enorme Stato non viveva a Roma bensì a Ravenna, più a nord. Scoprii che alcuni vampiri satanici si erano creati un nuovo covo in una catacomba dimenticata della città, dove organizzavano cerimonie in onore del loro Diavolo Serpente prima di uscire a uccidere innocenti e colpevoli in modo indiscriminato. Avicus e Mael, perplessi sulle origini di quei nuovi fanatici e ormai stanchi di loro, avevano deciso di lasciarli in pace. Mentre mi aggiravo in strade diroccate e case deserte, quelle creature fanatiche mi spiavano. Le odiavo, ma non le consideravo un pericolo. Nell'inedia mi ero rafforzato. Il sangue di Akasha mi scorreva nelle vene. Come mi sbagliavo nel giudicare i vampiri satanici, oh, come mi sbagliavo. Ma ci arriverò a tempo debito.
Lasciami tornare alle notti durante le quali vagai tra le rovine della civiltà classica. Non ne ero esacerbato come si potrebbe pensare. In realtà il sangue di Akasha non mi aveva solo conferito un enorme, nuovo potere fisico, aveva anche accresciuto la mia lucidità mentale, la capacità di concentrazione, l'abilità di prendere ciò che giudicavo prezioso e scartare quanto non serviva più. Tuttavia le condizioni di Roma erano demoralizzanti, e con ogni probabilità sarebbero peggiorate. Contavo su Costantinopoli perché preservasse quella che definivo civiltà, ed ero più che pronto ad affrontare il viaggio che mi aspettava. Bene, era arrivato il momento di aiutare Avicus e Mael con gli ultimi preparativi. Loro mi assistettero nel compito di bendare come mummie la Madre e il Padre, meticolosamente e con profonda reverenza, e di deporli nei sarcofagi che nemmeno una squadra di uomini poteva aprire, come era stato fatto in passato da me e sarebbe stato fatto in futuro ogni volta che fosse stato necessario trasferirli. Fu davvero terrificante per Avicus e Mael vedere la coppia spostata e avvolta completamente in bende di lino bianco. Non compresero nulla delle antiche preghiere che recitai in lingua egizia, incantesimi volti a garantire un viaggio tranquillo, orazioni che avevo riesumato dai miei anni di letture, e dubito che ciò li abbia consolati. Ma i Divini Genitori erano una mia responsabilità. Mentre stavo per bendarle gli occhi, Akasha li chiuse, e lo stesso accadde con Enkil. Che bizzarro e fugace indizio di coscienza. La cosa mi causò un brivido freddo, eppure adempii al mio dovere, come se fossi un antico egizio che fasciava un faraone defunto nella Sacra Casa dei Morti. Alla fine, con Mael e Avicus raggiungemmo Ostia, il porto da cui saremmo partiti, e lì caricammo il vascello, facendo sistemare sottocoperta i Divini Genitori. Quanto agli schiavi comprati dai miei due compagni, li trovai magnifici, tutti scelti con cura ed eccellenti, compresi i rematori che sapevano di lavorare in cambio della futura libertà in Oriente e di ricche ricompense. Un forte manipolo di soldati avrebbe viaggiato con noi, tutti massicciamente armati, estremamente abili e convinti della stessa promessa; rimasi colpito in particolar modo dal capitano del vascello, un romano cristiano di nome Clemente, dotato di intelligenza e spirito, che durante il lungo viaggio avrebbe mantenuto desta la fede degli altri nella ricompensa finale.
La nave era la galera più grande che avessi mai visto, con un'immensa vela yariopinta, e includeva una massiccia e inespugnabile cabina contenente tre lunghi e modesti bauli di bronzo e ferro in cui Mael, Avicus e io avremmo dormito durante il giorno. Come i sarcofagi, sarebbero risultati di impossibile apertura da parte dei mortali, se non a costo di enormi difficoltà, ed erano anch'essi di gran lunga troppo pesanti per poter essere sollevati persino da una banda di uomini. Quando fu tutto pronto, armati fino ai denti contro i pirati, salpammo durante la notte, guidando la nave con i nostri occhi soprannaturali per impedirle di cozzare contro gli scogli, mentre avanzavamo rapidi lungo la costa. La cosa intimorì l'equipaggio e i soldati, come si può ben immaginare, perché all'epoca le navi viaggiavano solo durante il giorno. Era troppo pericoloso fare altrimenti, data l'impossibilità di vedere la costa o gli isolotti rocciosi che si potevano incontrare e, anche disponendo di mappe dettagliate e navigatori abili, al buio si correva comunque il rischio di naufragare. Noi capovolgemmo quella saggezza secolare: durante il giorno la nave restava ormeggiata nel porto per consentire agli uomini di godersi ciò che la città locale aveva da offrire - cosa che rendeva ancora più felici e devoti i nostri schiavi e soldati - mentre il capitano manteneva un saldo controllo sull'equipaggio permettendo solo ad alcuni di scendere a terra in determinati orari e insistendo perché altri rimanessero a bordo a fare la guardia o dormire. Quando ci svegliavamo e uscivamo dalla cabina, trovavamo invariabilmente i nostri servitori di ottimo umore, musicisti che suonavano per i soldati alla luce della luna, e Clemente, il capitano, deliziosamente ubriaco. Nessuno di loro sospettava minimamente che fossimo qualcosa di diverso da tre esseri umani estremamente bizzarri ed enormemente ricchi. In realtà, una volta origliai le loro teorie su di noi, tra cui quella che fossimo Magi provenienti dall'Estremo Oriente, simili ai tre venuti a deporre doni davanti a Gesù Bambino, che trovai molto divertente. Il nostro unico vero problema era assurdo: dovevamo chiedere che ci venissero portati i pasti per poi sbarazzarci del cibo lanciandolo fuori dagli oblò della cabina, direttamente in mare. Il gesto provocava divertimento ad Avicus e Mael, ma io lo consideravo poco dignitoso. Periodicamente trascorrevamo una notte sulla terraferma per poterci nutrire. La nostra veneranda età ci aveva conferito una notevole maestria in
quel campo. Avremmo persino potuto digiunare per l'intera durata del viaggio, ma scegliemmo di non farlo. Quanto al nostro cameratismo a bordo della nave, lo trovavo estremamente interessante. Stavo vivendo a stretto contatto con i mortali più di quanto avessi mai fatto. Parlavo spesso con il capitano e i soldati. Scoprii di apprezzare terribilmente la cosa, e provavo un enorme sollievo vedendo che, nonostante la mia pelle pallidissima, risultava così facile. Mi scoprii appassionatamente attratto dal capitano. Amavo sentirlo parlare della sua giovinezza trascorsa a bordo di navi mercantili che solcavano il Mediterraneo, e mi divertiva sentire le descrizioni dei porti che aveva visitato, alcuni dei quali mi erano stati noti centinaia di anni prima, mentre altri mi erano del tutto sconosciuti. La mia tristezza si attenuava quando lo ascoltavo. Vedevo il mondo attraverso i suoi occhi e conoscevo la sua speranza. Non vedevo l'ora di possedere una casa ricca di animazione a Costantinopoli, dove Clemente avrebbe potuto farmi visita come amico. Nel frattempo si era verificato un altro notevole cambiamento: ormai ero diventato un intimo amico sia per Avicus sia per Mael. Trascorrevamo parecchie notti nella cabina, davanti a una coppa piena di vino, a parlare di tutto ciò che era successo in Italia e anche di altri argomenti. Avicus, come avevo sempre saputo, possedeva una mente acuta e un forte desiderio di leggere e imparare: nel corso dei secoli aveva studiato il greco e il latino, ma c'erano parecchie cose che non capiva del mio mondo e della sua antica religiosità. Aveva portato con sé cronache redatte da Tacito e Tito Livio, e anche La storia vera di Luciano e le biografie scritte in greco da Plutarco, ma non era in grado di comprendere quell'opera. Trascorsi diverse ore felici a leggere ad alta voce per lui, mentre seguiva sul mio testo, spiegandogli come lo si poteva interpretare. Notai che assimilava un enorme numero di informazioni. Voleva conoscere il mondo. Mael non condivideva quello spirito, anche se non lo osteggiava più come aveva fatto moltissimo tempo prima. Ascoltava tutte le nostre discussioni e forse riuscì a trarne un certo giovamento. Per me era chiaro che lui e Avicus sopravvivevano come bevitori di sangue l'uno grazie all'altro, ma Mael non mi guardava più con timore. Quanto a me, apprezzai notevolmente il ruolo di precettore, e mi procurò
un nuovo piacere dibattere con Plutarco come se si trovasse nella stanza insieme a me, e commentare Tacito come se anche lui fosse presente. Sia Avicus, sia Mael erano diventati più pallidi e più forti, con il passare del tempo. Entrambi, confessarono, a un certo punto avevano avvertito la minaccia della disperazione. «Fu lo spettacolo di te addormentato nel sacrario», dichiarò Mael senza alcuna ostilità, «a impedirmi di scendere in un sotterraneo per abbandonarmi allo stesso sonno. Sentivo che non avrei mai dovuto svegliarmi, e Avicus, il mio compagno Avicus, non mi permetteva di andare.» Quando invece era toccato ad Avicus sentirsi stanco del mondo e incapace di andare avanti, era stato Mael a impedirgli di piombare nel sonno fatale. Entrambi avevano provato una terribile angoscia per la mia condizione e, nel corso dei lunghi decenni durante i quali ero rimasto sdraiato e insensibile ai loro appelli, avevano avuto troppa paura dei Nobili Genitori per deporre fiori davanti a loro o bruciare l'incenso o fare qualsiasi altra cosa per curare il santuario. «Temevamo che ci colpissero», ammise Avicus. «Anche il semplice fatto di guardarli in viso ci colmava di timore.» Annuii. «I Divini Genitori», spiegai, «non hanno mai dimostrato di aver bisogno di queste cose. Simili gesti di devozione sono soltanto una mia iniziativa. Il buio può benissimo compiacerli quanto le lanterne accese. Guardate come dormono ora sotto le bende, nei sarcofagi, l'uno accanto all'altra sottocoperta.» Le mie passate visioni mi incoraggiavano a fare quelle affermazioni, anche se non accennai mai a esse, né mi vantai di aver bevuto il Sangue Sacro. Durante tutto il tempo che trascorremmo per mare, rimase sospesa sopra di noi la prospettiva di un grande orrore: il rischio che la nostra nave venisse attaccata di giorno o di notte e che i Divini Genitori potessero finire in fondo al mare. Era un'idea decisamente troppo orribile per poterne parlare, e forse fu proprio per quello che non lo facemmo. Ogni volta che ci rimuginavo sopra, capivo che avremmo dovuto seguire il tragitto più sicuro, cioè quello via terra. Poi, nelle prime ore di un mattino, una terribile verità mi apparve chiara: se restavamo vittime di una catastrofe, forse io mi sarei levato dal mare, ma Coloro-che-devono-essere-conservati no. Cosa ne sarebbe stato di loro
sul misterioso fondale dell'immenso oceano? Il mio strazio mentale divenne troppo intenso. Allora misi da parte l'angoscia e proseguii la gradevole conversazione con i miei compagni. Più tardi, quando uscii sul ponte a guardare il mare color argento, telepaticamente inviai il mio amore a Pandora. Non condividevo l'entusiasmo di Mael e Avicus per Bisanzio. Molto tempo prima avevo vissuto ad Antiochia, che pur essendo una città orientale era soggetta a una forte influenza occidentale, eppure l'avevo lasciata per tornare a Roma, perché ero un figlio dell'Occidente. Adesso ci stavamo dirigendo verso quella che consideravo una capitale puramente orientale, e temevo di trovare, nella sua straordinaria vitalità, solo ciò che non potevo abbracciare. Era comprensibile: dal punto di vista romano, l'Oriente - vale a dire le terre dell'Asia Minore e della Persia - aveva sempre suscitato una certa diffidenza per la sua enfasi sul lusso e la sua generale debolezza. Io e molti altri romani eravamo convinti che la Persia avesse fiaccato Alessandro il Grande e, di conseguenza, la cultura greca. Naturalmente quell'indebolimento era stato accompagnato da una cultura e un'arte immense. I romani abbracciarono il sapere greco in ogni campo. Non dissi nulla ad Avicus e Mael, ovviamente; preferivo non guastare il loro entusiasmo per quella potente sede dell'imperatore d'Oriente. Finalmente, dopo la lunga traversata, una sera arrivammo nello scintillante mar di Marinara e osservammo gli alti bastioni di Costantinopoli con la loro miriade di torce, e per la prima volta compresi la gloria della penisola scelta tanto tempo prima da Costantino. La nostra nave entrò lentamente nello splendido porto. Io venni scelto come colui che doveva usare la sua «magia» sui funzionari del molo affinché potessimo organizzare con calma il nostro arrivo e avere il tempo di trovare alloggi adeguati prima di spostare il sacro carico dei venerabili antenati ricondotti nella loro terra natia per esservi sepolti. Naturalmente avevamo problemi di carattere pratico: per cominciare, trovare un agente che ci aiutasse con gli alloggi, perciò vennero chiamati diversi mortali in grado di consigliarci. Era semplicemente una questione di monete e di capacità di incantare, perciò non incontrai la minima difficoltà. Ben presto ci ritrovammo sulla terraferma e pronti a esplorare il luogo mitico dove Dio aveva ordinato a Costantino di creare la più grande città del mondo. Non posso dire di essere rimasto deluso, quella notte.
La nostra prima, straordinaria scoperta fu che ai mercanti di Costantinopoli era richiesto di fissare delle fiaccole all'esterno dei loro negozi, quindi le strade erano splendidamente illuminate. La città ospitava qualche milione di abitanti e percepii subito un immenso vigore che ormai Roma aveva perso. Capimmo subito che c'era una grande quantità di chiese maestose che potevamo esplorare. Accompagnato dai miei due gradevoli compagni, mi recai nell'enorme piazza aperta chiamata Augusteum, dove ammirai la facciata di Hagia Sophia - la chiesa della Santa Saggezza - e gli altri immensi edifici regali, incluse le magnifiche terme pubbliche di Zeuxippo, decorate con statue pagane di mirabile fattura, portate li da varie città del mondo. Avrei voluto avanzare contemporaneamente in ogni direzione, perché da una parte spiccava il grande ippodromo in cui durante il giorno migliaia di persone assistevano alle corse di bighe che appassionavano la popolazione, mentre dall'altra si stagliava l'indescrivibilmente gigantesco e labirintico palazzo reale, in cui avremmo potuto agevolmente intrufolarci inosservati. Da quella piazza un'amplissima strada si dipartiva verso ovest e costituiva l'arteria principale della città in quanto su di essa si aprivano altre piazze e sfociavano altre strade che, naturalmente, confluivano in innumerevoli viali. Mael e Avicus continuarono a seguirmi educatamente, mentre li portavo qua e là e all'interno di Hagia Sophia, e ci fermavamo ad ammirare le sue splendide pareti sotto l'immensa cupola. Rimasi sopraffatto dalla bellezza della chiesa, con la sua miriade di archi e gli alti, complessi e dettagliati mosaici di Giustiniano e Teodora, incredibilmente splendidi e scintillanti nella luce di innumerevoli lanterne. Le notti seguenti furono caratterizzate da una serie interminabile di magnifiche avventure. I miei compagni potevano anche stancarsene, ma io no. Ben presto mi sarei introdotto nella corte imperiale, sfruttando la mia rapidità e scaltrezza per aggirarmi nel palazzo. Inoltre, nel bene e nel male, mi trovavo in una città in piena fioritura dove sarei stato confortato dalla vicinanza di numerosissime anime umane. Nelle settimane che seguirono comprammo una magnifica casa, ben fortificata e con il giardino interamente cintato, e ci creammo una cripta segreta e sicura sotto il pavimento a mosaici. Quanto ai Divini Genitori, insistetti in modo irremovibile perché venissero nascosti a una certa distanza dalla città. Avevo già sentito parlare spesso delle sommosse che scoppiavano a Costantinopoli e volevo che il
sacrario non corresse rischi. Tuttavia non riuscii a trovare antiche cripte o tombe situate in campagna, come l'antica tomba etrusca che avevo utilizzato fuori Roma. E alla fine capii di non avere altra scelta se non quella di far costruire da una squadra di schiavi un santuario sotto la nostra casa. La prospettiva mi inquietava: ad Antiochia e a Roma avevo creato io stesso le cappelle, mentre adesso dovevo affidarmi ad altri. Alla fine architettai un piano complesso. Progettai una serie di passaggi sovrapposti che scendevano in un vasto salone e avrebbero richiesto a chiunque li imboccasse di svoltare prima a destra, poi a sinistra, poi a destra e infine di nuovo a sinistra, ritrovandosi terribilmente disorientato. Collocai a intervalli regolari una serie di massicce doppie porte di bronzo, ognuna dotata di un grosso chiavistello. La spessa pietra che bloccava l'ingresso di quel passaggio sinuoso e zigzagante non era soltanto camufFata onde sembrare parte integrante del pavimento della casa ma, come sottolineo così spesso descrivendo simili oggetti, era di gran lunga troppo pesante perché persino una squadra di mortali potesse sollevarla. Anche gli anelli di ferro erano talmente numerosi ed elaborati da sembrare inclusi nella decorazione del pavimento soprastante. Mael e Avicus giudicarono il tutto leggermente eccessivo, ma non proferirono parola. Espressero invece la loro approvazione quando feci ricoprire le pareti della cappella di mosaici dorati identici a quelli che vedevo in tutte le splendide chiese, e il pavimento di pregiatissime piastrelle di marmo. Un ampio e stupendo trono di oro martellato venne preparato per la Coppia Reale e numerose lampade furono appese al soffitto mediante catene. Come venne eseguito tutto quel lavoro, potresti chiedermi, senza mettere a repentaglio il segreto della camera sotterranea? Assassinai chiunque avesse collaborato all'allestimento del sacrario? No. Ci riuscii sfruttando la mia capacità di incantare per confondere quanti vi lavoravano e utilizzando talvolta semplici bende per gli occhi di cui gli schiavi e persino gli artisti non potevano lamentarsi. Parole infiorettate a proposito di «amanti e spose» placavano qualunque obiezione mortale. E il denaro faceva il resto. Alla fine giunse la notte in cui avrei dovuto condurre i Genitori Reali nel loro tempietto. Avicus e Mael confessarono educatamente che avrebbero preferito che, della cosa, me ne occupassi da solo.
Non avevo obiezioni. Come un potente angelo della morte cristiano, portai prima un sarcofago e poi l'altro nell'elegante sacrario, sistemandoli l'uno accanto all'altro. Tolsi le bende di lino ad Akasha, tenendola tra le braccia, mentre restavo inginocchiato sul pavimento. Aveva gli occhi chiusi, ma all'improvviso li aprì, fissando un imprecisato punto alle mie spalle, con la sua solita espressione rigida e vacua. Fui colto da una debilitante delusione, ma per nasconderla, le sussurrai preghiere, mentre spingevo da parte le bende e la sollevavo per portare in braccio la mia sposa silenziosa fino al trono su cui la deposi. Là rimase, gli abiti sgualciti e disadorni, cieca come sempre. Mentre sbendavo Enkil, anche gli occhi del re si spalancarono. A lui non osai parlare: mi limitai a sollevarlo, trovandolo più flessibile e addirittura più leggero, e lo sistemai sul trono accanto alla sua regina. Passarono diverse notti prima che riuscissi a vestirli di tutto punto, ma il loro abbigliamento doveva risultare identico ai ricordi che ancora serbavo dei pregiati indumenti egizi, quindi cercai di procurare loro gioielli nuovi e interessanti. Costantinopoli traboccava di simili oggetti preziosi e di artigiani che li creavano. Feci tutto da solo e senza la minima difficoltà, continuando sempre a pregare nel tono più rispettoso. Alla fine la cappella risultò persino più bella della prima che avevo allestito ad Antiochia e di gran lunga più pregevole di quella costruita alla periferia di Roma. Vi collocai i consueti bracieri su cui avrei bruciato l'incenso e riempii di olio profumato le numerose lanterne appese al soffitto. Solo a quel punto tornai a dedicarmi a quella nuova città e a come fosse, anche se continuai a chiedermi se Akasha ed Enkil fossero davvero al sicuro. Mi sentivo profondamente a disagio perché non conoscevo ancora la capitale: mi sarebbe piaciuto continuare a visitare le chiese e a saziarmi della bellezza di Costantinopoli, ma ero preoccupato non sapendo se fossimo o no gli unici bevitori di sangue presenti nella capitale, anche se lo ritenevo estremamente improbabile. Dopo tutto, perché altri bevitori di sangue non sarebbero dovuti venire nella città più bella del mondo? Quanto alla grecità di Costantinopoli, la cosa non mi piaceva. Mi vergogno un tantino ad ammetterlo, ma era vero. Non mi piaceva che il popolino parlasse in greco invece che in latino, benché io conoscessi perfettamente quella lingua, naturalmente. E non mi piacevano tutti i monasteri cristiani in cui sembrava regnare un profondo misticismo che appariva più orientale
che occidentale. L'arte che vedevo ovunque era impressionante, certo, ma stava perdendo qualunque legame con l'arte classica della Grecia e di Roma. Nuove statue raffiguravano uomini massicci e poco raffinati, con teste estremamente rotonde. Gli occhi erano bulbosi, i visi inespressivi. E le icone o immagini sacre, ormai così diffuse, apparivano altamente stilizzate, con visi accigliati. Persino gli stupendi mosaici di Giustiniano e Teodora - figure con la lunga tunica che parevano fluttuare sulle pareti della chiesa - sembravano rigide e sognanti più che classiche, oppure erano bellissime in base a standard che non avevo assimilato. Era un luogo magnifico ma non era il mio. Trovavo qualcosa di intrinsecamente repellente nel gigantesco palazzo reale con i suoi eunuchi e i suoi schiavi. Quando ci entravo di soppiatto per vagabondarvi visitando le sale del trono, i saloni per le udienze, le magnifiche cappelle, l'immensa sala da pranzo e le numerose camere da letto, vedevo la licenziosità della Persia e, pur non potendone dare la colpa a nessuno, mi sentivo a disagio. E gli abitanti, per quanto numerosissimi e vitali, potevano azzuffarsi per la strada sull'esito delle corse delle bighe nell'ippodromo o insorgere nelle chiese stesse, uccidendosi a vicenda, anche per questioni religiose. In realtà, le interminabili lotte religiose rasentavano la pura follia; perciò le divergenze dottrinali mantenevano in uno stato di tumulto quasi perenne tutto l'impero. Quanto ai problemi lungo i confini di quest'ultimo, essi erano costanti, come ai tempi dei Cesari: i persiani minacciavano senza sosta l'Oriente e innumerevoli barbari giungevano da occidente. Avendo identificato da tempo la mia anima con la salvezza dell'impero, non trovai alcuna consolazione in quella città, che mi ispirava diffidenza e un profondo disgusto. Eppure mi aggiravo spesso per Santa Sofia per ammirare sbalordito l'enorme cupola che sembrava fluttuare sopra di me senza bisogno di supporti. In quella maestosa chiesa era stato catturato qualcosa di ineffabile che riusciva a intimidire anche gli spiriti più fieri. Avicus e Mael erano felici nella nuova città. Inoltre sembravano avermi eletto a loro capo; quando la sera andavo a comprare libri al mercato, Avicus era ansioso di accompagnarmi e di sentirmi leggere ad alta voce ciò che trovavo.
Nel frattempo arredai in modo confortevole la nostra casa e assoldai alcuni artigiani perché affrescassero le pareti. Non volevo tornare a smarrirmi nei miei giardini dipinti, perché mi facevano pensare alla mia perduta Pandora, procurandomi una intensa angoscia. In realtà continuavo a cercarla. Raccontai ad Avicus e Mael alcuni aneddoti innocui e irrilevanti sulle notti trascorse con lei, ma soprattutto su quanto l'avevo amata, affinché la loro mente serbasse immagini di Pandora fintanto che avevano il potere di mantenerle vive. Se lei si fosse aggirata per quelle strade, e se si fosse imbattuta in loro, forse avrebbe potuto captare dalla loro mente la notizia che mi trovavo a Costantinopoli e desideravo disperatamente riunirmi a lei. Cominciai subito a creare una biblioteca, acquistando interi scrigni di pergamene che poi esaminavo con comodo; comprai un elegante scrittoio e iniziai a tenere un distaccato e impersonale diario delle mie avventure, utilizzando l'antico codice che precedentemente avevo inventato. Ci trovavamo a Costantinopoli da meno di sei mesi quando ci apparve chiaro che altri bevitori di sangue si stavano avvicinando a casa nostra. Li udimmo nelle prime ore del mattino. Si avvicinarono a noi per sentire con le loro doti medianiche tutto quello che potevano captare, poi scapparono via. «Come mai hanno aspettato tanto?» chiesi. «Ci hanno osservati e studiati.» «Forse la loro presenza è il motivo per cui qui non abbiamo trovato adoratori del diavolo», ipotizzò Avicus. Poteva essere vero, perché quelli che ci stavano osservando non erano creature di Satana. Riuscimmo a stabilirlo grazie ai brandelli di immagini che avevamo colto nelle loro menti. Poi, una sera, vennero da noi e fu impossibile equivocarne il garbato invito a seguirli per conoscere la loro signora. Quando uscii di casa per salutarli, scoprii che erano in due: due ragazzi pallidi e bellissimi. Non potevano aver avuto più di tredici anni quando erano stati trasformati in vampiri; avevano occhi scuri estremamente limpidi, e corti e ricciuti capelli neri. Indossavano lunghe tuniche orientali di pregevolissimo tessuto decorato, bordate da una frangia rossa e color oro, sopra lunghe vesti di seta. Portavano babbucce ornate e numerosi anelli con incastonate delle gemme. Due mortali, che sembravano ingenui e costosi schiavi persiani, reggevano le torce per loro. Uno dei due giovani e radiosi vampiri mi porse una piccola pergamena,
che srotolai subito per leggere le parole greche vergate con estrema eleganza. «Vige l'usanza, prima di cacciare nella mia città, di chiedere la mia autorizzazione», c'era scritto. «Vi prego di venire nel mio palazzo.» Era firmata «Eudoxia». Non apprezzai lo stile del messaggio più di quanto avessi apprezzato lo stile di qualsiasi altra cosa a Costantinopoli. Non posso dire di esserne rimasto stupito, ma ci si offriva la chance di parlare con altri bevitori di sangue che non erano i fanatici adoratori del Serpente e quella possibilità non ci si era mai presentata, prima. Consentimi anche di sottolineare che, nel corso della mia lunga esistenza come bevitore di sangue, non avevo mai visto una coppia raffinata, elegante e avvenente come quella. Indubbiamente il gruppo di adoratori di Satana comprendeva vampiri di tal fatta, con un bel viso e occhi innocenti, ma per lo più, come ho già detto, non ero mai stato io, bensì Avicus e Mael, a ucciderli o a venire a patti con loro. Inoltre erano sempre stati corrotti dal proprio zelo. In quel caso mi trovavo davanti qualcosa di diverso. Quei due ragazzi sembravano enormemente più interessanti, grazie alla dignità e agli ornamenti sfoggiati, e al coraggio con cui mi guardavano. Quanto al nome Eudoxia, alla fin fine mi incuriosiva più di quanto mi intimorisse. «Lasciate che venga solo io», proposi, ma i ragazzi indicarono a gesti che anche Avicus e Mael dovevano accompagnarci. «Come mai?» domandai, ansioso di proteggerli. I miei amici, però, mi dissero che volevano unirsi a me. «Quanti siete?» chiesi ai ragazzi. «Eudoxia risponderà alle tue domande», rispose quello che mi aveva consegnato la pergamena. «Vi prego, seguiteci senza più parlare. Eudoxia vi sente già da tempo.» Fummo accompagnati per un lungo tragitto, fino a un quartiere addirittura più elegante di quello in cui vivevamo e una casa molto più grande della nostra. Nonostante mostrasse la consueta facciata di pietra ruvida, sicuramente al suo interno aveva un giardino e ricche stanze. Mentre camminavamo, i due giovani bevitori di sangue avevano schermato con estrema efficacia i propri pensieri, tuttavia riuscii a captare, forse perché volevano che lo facessi, che si chiamavano Asphar e Rashid. A farci entrare in casa fu un'altra coppia di schiavi mortali che ci guida-
rono in un ampio salone interamente decorato in oro. Le fiaccole che ardevano tutt'intorno a noi illuminavano una stanza, al centro della quale, su un sofà dorato con cuscini di seta color porpora, era adagiata una splendida vampira, con folti riccioli neri non diversi da quelli dei ragazzi venuti da noi, benché lei li portasse lunghi e ornati di pietre; indossava una tunica di pregiata seta di damasco, una delle più pregiate che avessi avuto occasione di ammirare fino a quel momento a Costantinopoli. Aveva un viso piccolo e ovale che rasentava la perfezione più di qualsiasi cosa io avessi mai visto, anche se in lei non ravvisai alcuna somiglianza con Pandora, che per me rappresentava la perfezione assoluta. Gli occhi erano rotondi ed enormi, le labbra perfettamente truccate, e da lei emanava un profumo indubbiamente creato da un mago persiano per farci uscire di senno. Numerose sedie e divani erano disseminati sul pavimento a mosaico dove esuberanti dee e dei greci erano raffigurati con la stessa eleganza con cui li si sarebbe potuti ritrarre circa cinquecento anni prima. Vidi immagini simili sulle pareti, anche se le colonne, leggermente grossolane ma decorate, sembravano di stile più tardo. Quanto alla pelle della donna vampiro, era bianchissima, e talmente priva di un qualsivoglia tocco di umanità da causarmi un brivido freddo. Ma la sua espressione, manifestata quasi unicamente dal sorriso, appariva cordiale, anche se intensamente curiosa. Puntellandosi sul gomito del braccio coperto di bracciali, si alzò leggermente e parlò: «Marius», disse in un latino colto e perfetto, la voce adorabile come il volto, «leggi le mie pareti e il mio pavimento come fossero un libro». «Perdonami», replicai, «ma, quando una stanza è decorata in modo tanto squisito, mi sembra un atto quantomeno doveroso.» «Inoltre hai nostalgia dell'antica Roma o di Atene, o persino di Antiochia dove un tempo vivevi.» Era davvero formidabile: aveva colto quell'informazione dai miei più intimi ricordi. Schermai la mente, ma non chiusi il mio cuore. «Mi chiamo Eudoxia», annunciò. «Vorrei poter dire che vi do il benvenuto a Costantinopoli, ma questa è la mia città e non sono del tutto felice della vostra presenza qui.» «Non possiamo giungere a un accordo con te?» chiesi. «Abbiamo affrontato un viaggio lungo e periglioso. La città è grande.»
Lei fece un piccolo gesto agli schiavi mortali che si ritirarono. Solo Asphar e Rashid rimasero al loro posto, come in attesa di un suo ordine. Cercai di stabilire se la casa ospitasse altri vampiri, ma non potevo farlo senza che lei lo sapesse, perciò rinunciai subito al mio tentativo. «Sedetevi, vi prego», disse. Sentendo l'invito, i due bellissimi ragazzi, Asphar e Rashid, avvicinarono al suo sofà i divani in modo che potessimo sistemarci più comodamente. Io però chiesi di avere una sedia. Avicus e Mael, con un sussurro incerto, mi imitarono. Fummo accontentati e ci sedemmo. «Come mai un antico romano disdegna un divano e preferisce una sedia?» chiese Eudoxia con un radioso sorriso. Proruppi in una breve risata cortese. Subito dopo, un avvertimento invisibile eppure forte mi costrinse a lanciare un'occhiata ad Avicus: questi stava fissando la splendida bevitrice di sangue come se una freccia di Cupido gli avesse appena trafitto il cuore. Quanto a Mael, la scrutava in cagnesco, proprio come si era comportato nei miei confronti a Roma, diversi secoli prima. «Non preoccuparti per i tuoi amici», disse all'improvviso lei, lasciandomi stupito. «Ti sono leali e ti seguiranno in qualsiasi cosa tu dica. Siamo tu e io a dover parlare, ora. Cerca di capire che, benché questa città sia immensa e vi sia abbastanza sangue per molti, spesso arrivano dei vampiri canaglie che devono essere scacciati.» «Ci consideri canaglie?» chiesi gentilmente. Non potevo fare a meno di esaminare i suoi lineamenti: il mento arrotondato e con la fossetta, le guance minute. Quanto a età mortale, Eudoxia sembrava giovane come i due ragazzi. Gli occhi erano neri come il giaietto, con ciglia talmente folte da far sospettare che vi avesse applicato della tintura egizia, quando in realtà non era così. Quell'osservazione mi fece improvvisamente pensare ad Akasha e provai un attimo di panico, mentre tentavo di svuotare la mente. Cosa avevo mai fatto, portando lì Coloro-che-devono-essere-conservati? Sarei dovuto restare tra le rovine di Roma. Ma, ancora una volta, non potevo pensarci proprio in quel momento. Osservai la fanciulla, leggermente abbagliato dalle innumerevoli gemme della sua tunica e dallo spettacolo delle sue unghie scintillanti, molto più brillanti di tutte quelle che avevo mai visto, eccettuate le unghie di Akasha, e radunai di nuovo le forze per tentare di insinuarmi nella sua mente. Eudoxia mi rivolse un dolce sorriso, poi affermò: «Marius, sono di gran
lunga troppo vecchia nel Sangue per ciò che intendi fare, ma ti dirò qualsiasi cosa tu voglia sapere». «Posso chiamarti con il nome che ci hai dato?» chiesi. «Era quello il mio scopo nel comunicarvelo», ribatté. «Ma lasciati dire che da te mi aspetto sincerità, altrimenti non tollererò la tua presenza nel mio regno.» All'improvviso percepii un'ondata di rabbia sgorgare da Mael. Gli lanciai un'occhiata ammonitrice, e ancora una volta notai l'espressione totalmente rapita sul viso di Avicus. Tutt'a un tratto capii che forse lui non aveva mai visto una bevitrice di sangue come quella. Le giovani vampire degli adoratori di Satana erano volutamente sudice e scarmigliate, mentre lì, reclinata sul bellissimo divano, c'era una donna che sembrava l'imperatrice che aveva regnato su Bisanzio. In realtà, forse era proprio così che Eudoxia si vedeva. Sorrise come se per lei tutte quelle riflessioni fossero trasparenti, poi, con un lieve cenno della mano, ordinò ai due giovani vampiri, Asphar e Rashid, di ritirarsi. Con estrema tranquillità e lentezza fece scorrere lo sguardo sui miei due compagni, come se stesse assimilando ogni singolo pensiero logico che avesse attraversato le loro menti. Continuai a studiare la sua sagoma, le perle nei suoi capelli, i fili di perle che portava al collo e i gioielli che adornavano le dita dei piedi nudi, così come quelli delle mani. Alla fine lei mi guardò, e un sorriso le tirò di nuovo le labbra, illuminando l'intero volto. «Se vi concedo il permesso di restare - e non sono del tutto sicura di volerlo fare - dovete dimostrarmi la vostra lealtà quando altri verranno a infrangere la pace che condividiamo. Non dovete mai associarvi a loro contro di me. Dovete fare in modo che Costantinopoli appartenga solo a noi.» «E cosa farai se non ti dimostriamo la nostra lealtà?» chiese Mael, con la rabbia di un tempo. Lei continuò a fissarmi per qualche istante, come se volesse insultarlo e, subito dopo, quasi riscuotendosi da un incantesimo, lo guardò. «Cosa posso fare per zittirti prima che tu dica nuovamente qualcosa di sciocco?» gli chiese. I suoi occhi tornarono su di me. «Lasciate che vi informi di una cosa. So che possedete la Madre e il Padre. So che li avete portati qui e che si tro-
vano in una cappella sotto la vostra casa.» Rimasi brutalmente esterrefatto; assalito da un'ondata di dolore. Ancora una volta, non ero riuscito a mantenere il segreto. Non c'ero riuscito nemmeno ad Antiochia, tanto tempo prima. Non sarei mai stato in grado di tenerlo celato? Non era forse quello il mio destino? Come avrei dovuto agire? «Non essere così lesto a ritrarti da me, Marius», aggiunse Eudoxia. «Ho bevuto dalla Madre in Egitto secoli prima che tu la portassi via.» Quella dichiarazione mi lasciò ancora più sbalordito, eppure racchiudeva una strana promessa; proiettava una flebile luce nel mio animo. All'improvviso mi sentii incredibilmente eccitato. Mi trovavo di fronte a qualcuno che capiva tutto degli antichi misteri, proprio come aveva fatto Pandora. Quella creatura dal viso e dall'eloquio delicati apparteneva a un mondo diverso, rispetto ad Avicus o Mael, e sembrava estremamente gentile e ragionevole. «Ti racconterò la mia storia, Marius, se vuoi», dichiarò. «Sono sempre stata una bevitrice di sangue mondana, mai dedita all'antica religione degli Dei del Sangue dell'Egitto. Ero già vecchia di trecento anni nel Sangue, quando sei nato. Ma ti racconterò tutto quello che vuoi sapere. È evidente che ti fai strada nel mondo grazie alle domande.» «Sì», confermai. «Mi faccio strada nel mondo grazie alle domande, e troppo spesso le ho poste nel silenzio assoluto, oppure le ho fatte per secoli a persone le cui risposte hanno rappresentato frammenti che ho dovuto riassemblare come fossero brandelli di antichi papiri. Ho fame di conoscenza. Ho fame di ciò che vuoi dirmi.» Lei annuì e la cosa parve darle un immenso piacere. «Alcuni di noi non richiedono un'intima comprensione», affermò. «Per te è necessaria, Marius? Riesco a leggere diverse cose nei tuoi pensieri, ma questo è un mistero, per me. Hai bisogno di essere capito?» Ero sconcertato. «Se ho bisogno di essere capito?» ripetei, riflettendoci sopra segretamente. Avicus o Mael mi capivano? Loro no, ma una volta, molto tempo prima, la Madre mi aveva capito. Forse lo aveva fatto quando mi ero innamorato di lei. «Non so cosa risponderti», ammisi. «Credo di essere arrivato ad apprezzare la solitudine. Credo di averla amata, quando ero un mortale e vagavo senza sosta. Ma perché mi fai questa domanda?» «Perché io non ho bisogno di comprensione», dichiarò, e per la prima
volta nella voce le si insinuò una certa freddezza. «Se vuoi ti racconterò della mia vita.» «Non vedo l'ora di sentire la tua storia», spiegai. Ero infatuato. Ancora una volta, pensai alla mia bellissima Pandora. Ed ecco lì, davanti a me, una donna incomparabile che sembrava possedere gli stessi doni. Desideravo ardentemente ascoltarla, e dovevo farlo per salvaguardare la nostra sicurezza. Ma come potevamo gestire il disagio di Mael e la palese ossessione di Avicus? Lei captò subito il pensiero in me, guardando dolcemente Avicus e poi spostando l'attenzione, per qualche istante neutro, sul furibondo Mael. «Tu eri un sacerdote in Gallia», gli disse tranquilla, «eppure hai l'atteggiamento di un guerriero ispirato. Vorresti distruggermi. Come mai?» «Non rispetto la tua autorità qui», ribatté Mael, cercando di usare un tono altrettanto pacato. «Chi sei, per me? Dici di non aver mai rispettato l'antica religione. Bene, io invece la rispettavo, e Avicus anche. Ne andiamo fieri.» «Vogliamo tutti la stessa cosa», sottolineò Eudoxia. Sorrise, mettendo in mostra i canini appuntiti. «Vogliamo un terreno di caccia che non sia sovraffollato. Vogliamo che i bevitori di sangue satanici siano tenuti alla larga, perché si moltiplicano in modo folle e cercano di fomentare problemi nel mondo mortale. La mia autorità si basa sui miei passati trionfi. È semplice abitudine. Se riusciamo a stipulare un accordo...» Si interruppe e, alla maniera di un mortale, si strinse nelle spalle e allargò le braccia. All'improvviso intervenne Avicus. «Marius parla per noi», precisò. «Marius, stipula l'accordo con Eudoxia, ti prego.» «Ti offriamo la nostra lealtà», dichiarai, «nella misura in cui desideriamo le stesse cose, come hai appena detto. Ma vorrei tanto parlare con te. Voglio sapere quanti bevitori di sangue si trovano attualmente qui. Quanto alla tua storia, lasciami ripetere che desidero ascoltarla. Una cosa che possiamo donarci a vicenda sono proprio le nostre storie. Sì, desidero conoscere la tua.» Lei si alzò dal divano con movenze estremamente aggraziate, rivelandosi un po' più alta di quanto avessi immaginato. Aveva spalle piuttosto larghe per essere una donna, e camminava molto eretta, con i piedi nudi che non producevano il minimo rumore. «Venite nella mia biblioteca», ci disse, guidandoci in una stanza attigua al salone. «È più adatta alle conversazioni.» I capelli le coprivano la schie-
na, una pesante massa di riccioli scuri, e si muoveva con grazia nonostante il peso degli abiti decorati e tempestati di gemme. La biblioteca era immensa, con scaffalature riservate a pergamene e codici, vale a dire volumi rilegati come quelli che abbiamo oggi. Qua e là c'erano delle sedie, alcune di esse erano raggruppate al centro, e due divani per stendersi e tavoli su cui scrivere. Le lampade d'oro mi parvero persiane, vista la ricca decorazione, ma non potevo esserne sicuro. I tappeti erano sicuramente persiani, quello lo sapevo. Naturalmente, appena vidi i libri, come mi capitava spesso, fui sopraffatto dal piacere. Rammentai la biblioteca dell'antico Egitto in cui avevo trovato l'Anziano che aveva esposto al sole la Madre e il Padre. Mi sento stupidamente al sicuro con i libri, il che potrebbe rappresentare un errore. Pensai a tutto ciò che avevo perso durante il primo assedio di Roma. Non potei evitare di chiedermi quali autori greci e romani fossero conservati lì. Perché i cristiani, pur essendo più gentili con gli antichi di quanto si creda attualmente, non sempre conservavano gli antichi testi. «I tuoi occhi sono affamati», commentò Eudoxia, «anche se la tua mente è schermata. So che desideri leggere, qui sei il benvenuto. Manda i tuoi scribi a copiare ciò che preferisci. Ma sto correndo troppo, vero? Prima dobbiamo parlare. Dobbiamo capire se possiamo giungere a un accordo. Non ne sono sicura.» Spostò lo sguardo su Avicus. «E tu, tu che sei antico, tu che hai ricevuto il Sangue in Egitto, stai solo cominciando ad amare il regno delle lettere. Strano che ti ci sia voluto così tanto tempo.» Riuscii a percepire l'immensa eccitazione e la tenera confusione di Avicus. «Sto imparando», confermò. «Marius mi sta insegnando.» Gli si arrossarono le gote. Quanto a Mael, non potevo fare a meno di notarne la quieta furia, e mi colpì che fosse stato così a lungo l'artefice della propria infelicità, ma adesso stava succedendo qualcosa che per lui poteva diventare un ulteriore motivo di sofferenza. Naturalmente mi turbava che nessuno dei due riuscisse a schermare la propria mente. Molto tempo prima, a Roma, quando avevo cercato di trovarli, si erano dimostrati più abili. «Sediamoci», propose Eudoxia, «e lasciate che vi racconti chi sono.» Prendemmo le sedie, ci avvicinammo, e lei cominciò a narrare tranquillamente la sua storia.
10 «La mia vita mortale non ha molta importanza, ma ve la racconterò per sommi capi», disse Eudoxia. «Appartenevo a una stimata famiglia greca della prima ondata di coloni che, da Atene, vennero ad Alessandria per trasformarla nella grande città che Alessandro desiderava, quando la fondò, trecento anni prima della nascita di Cristo. «Venni allevata come qualsiasi fanciulla di una famiglia greca; conducevo un'esistenza estremamente protetta e non potevo mai uscire di casa. Imparai però a leggere e scrivere, perché mio padre voleva che fossi in grado di mandargli lettere anche dopo essermi sposata e desiderava che in seguito potessi leggere le poesie ai miei figli. «Lo amavo per questo, benché nessun altro della famiglia lo capisse, quindi mi dedicai con passione all'apprendimento, trascurando tutto il resto. «Organizzarono per me un matrimonio precoce. Non avevo nemmeno quindici anni quando ne venni informata e, francamente, ne fui contenta perché avevo visto il mio promesso sposo e l'avevo trovato affascinante, anche se un po' strano. Mi chiedevo se il fatto di sposarlo mi avrebbe permesso una nuova vita, qualcosa di più interessante di ciò che avevo conosciuto tra le mura domestiche. La mia vera madre era morta e non amavo affatto la mia matrigna, perciò ero ansiosa di andarmene di casa.» Si interruppe per un attimo, e nel frattempo io stavo facendo qualche calcolo, naturalmente. Era molto più vecchia di me, me lo stava dicendo chiaramente, doveva avere il doppio dei miei anni, ecco perché sembrava tanto perfetta. Il tempo aveva fatto il suo lavoro sulle sue rughe d'espressione, proprio come stava facendo sulle mie. Lei mi osservò e, dopo un attimo di esitazione, riprese a parlare. «Un mese prima delle nozze, venni prelevata nottetempo dal mio letto e trasportata al di sopra delle mura di cinta della casa per essere condotta in un luogo buio e sudicio, dove fui gettata in un angolo del pavimento di pietra, mentre diversi uomini discutevano rudemente su chi sarebbe stato pagato, e quanto, per avermi rapito. «Ero sicura che volessero uccidermi. E sapevo che dietro la mia rovina c'era la mia matrigna. «Ma poi entrò uno sconosciuto alto e magro, con una gran chioma di arruffati capelli neri e con viso e mani bianchi come la luna. Questi uccise
tutti gli uomini, lanciandoli a destra e a manca quasi fossero leggeri come piume e tenendosi l'ultimo accostato alla bocca per lungo tempo, come se stesse bevendo sangue dal cadavere o se lo stesse divorando. «Temetti di essere sul punto di impazzire. «Mentre lasciava cadere il corpo, quell'uomo dal viso bianco si accorse che lo stavo guardando. Ero coperta solo da una lacera e sudicia veste per la notte, tuttavia mi alzai in piedi per affrontarlo coraggiosamente. «'Una donna', disse. Non lo dimenticherò mai. 'Una donna', come se fosse un dettaglio curioso.» «A volte lo è», precisai. Lei mi sorrise con una certa tolleranza. Tornò alla sua storia. «A quel commento fece seguire una strana risatina, poi mi si avvicinò. «Ancora una volta, temetti di venire uccisa, invece mi trasformò in una bevitrice di sangue. Senza cerimonie, senza parole, niente. Lo fece semplicemente, lì sul posto. «Subito dopo, strappando tunica e sandali a uno degli uomini, mi vestì grosso modo da ragazzo e per il resto della notte andammo a caccia per le strade. Mentre procedevamo, lui mi trattava rudemente, strattonandomi per farmi voltare da questa o quella parte, istruendomi tanto con gli spintoni, quanto con parole sgarbate. «Prima dell'alba mi condusse nella sua bizzarra dimora. Non si trovava nel raffinato quartiere greco dove ero cresciuta, ma all'epoca non lo sapevo. A dire il vero non ero mai uscita dalla casa paterna, e la mia prima esperienza delle strade cittadine non era stata francamente affascinante. «Venni portata al di sopra dell'alto muro di una casa a tre piani e giù nel nudo cortiletto. «Il posto era un'immensa e disordinata stanza del tesoro, ogni sala racchiudeva ricchezze inimmaginabili. «'Guarda quanta roba!' mi disse orgogliosamente il bevitore di sangue. «Il caos regnava ovunque. C'erano cumuli di tendaggi di seta e splendidi cuscini, che lui radunò per creare una sorta di nido per entrambi. Mi mise alcune massicce collane e disse: 'Attireranno le tue vittime, dopo di che potrai ghermirle con rapidità'. «Ero inebriata e impaurita. «Poi estrasse il pugnale e, ghermendomi per i capelli, me li tagliò quasi a zero, il che mi indusse a gridare lamentosamente come non avevo fatto per nulla di quanto era accaduto fino a quel momento. Avevo ucciso; avevo bevuto sangue; avevo corso per le strade, quasi in preda alla follia, e
tutto ciò non mi aveva strappato nemmeno un gemito, ma il taglio dei capelli fu davvero troppo. «Lui non parve minimamente turbato dalle mie grida, ma all'improvviso mi prese e mi gettò dentro una grossa cassa, su un duro letto di gioielli e catene d'oro, e chiuse il coperchio. Non sapevo che stava sorgendo il sole. Ancora una volta, temetti di morire. «Quando aprii gli occhi, lui era lì accanto, sorridente, e con voce burbera, senza la benché minima traccia di arguzia o eloquenza, spiegò che dovevamo dormire per tutto il giorno, lontano dal sole. Faceva parte della nostra natura. E dovevamo bere un sacco di sangue. Il sangue era la sola cosa importante, per noi. «Forse per te, pensai, ma non osai discutere. «In seguito i miei capelli, naturalmente, erano ricresciuti come avrebbero fatto ogni giorno, per sempre, così lui me li tagliò ancora una volta. Qualche notte più tardi, con mio profondo sollievo, si procurò un paio di costose forbici per agevolare l'operazione ma, a prescindere da ciò che dovevamo fare, non sopportò mai i miei riccioli lunghi. «Rimasi con lui per diversi anni. «Non fu mai educato o gentile, ma nemmeno terribilmente crudele. Non mi perse mai di vista. Quando chiesi se poteva trovarmi vestiti migliori, mi accontentò, per quanto fosse evidente che non gliene importava granché. Quanto a lui, portava una lunga tunica e un mantello che sostituiva solo quando erano molto logori, rubando i nuovi abiti a una delle sue vittime. «Spesso mi dava pacche sulla testa. Non aveva parole affettuose, né immaginazione. Quando portavo a casa libri presi al mercato per leggere poesie rideva di me, ammesso di poter definire una risata il suono inespressivo che emetteva. Gli leggevo ugualmente qualche poema e, dopo la risata iniziale, si limitava a fissarmi a lungo. «Un paio di volte gli chiesi come fosse stato trasformato in un bevitore di sangue; lui rispose che era stata opera di un vampiro malvagio proveniente dall'Alto Egitto. 'Sono tutti bugiardi, gli anziani', spiegò. 'Io li chiamo i Bevitori di Sangue del Tempio.' E queste poche parole rappresentarono tutta la storia che mi lasciò in eredità. «Se mi opponevo a lui su qualunque questione, mi picchiava. I suoi non erano colpi terribilmente violenti, ma sufficienti a impedirmi di contraddirlo a qualsiasi proposito. «Quando cercavo di mettere un po' d'ordine in casa, mi fissava con aria ottusa, non offrendosi mai di aiutarmi, ma nemmeno percuotendomi. Arro-
tolai alcuni dei tappeti babilonesi; accostai al muro una parte delle statue di marmo in modo che apparissero rispettabili; ripulii il cortile. «Durante quel periodo udii altri bevitori di sangue ad Alessandria. Li intravidi addirittura, ma non si avvicinarono mai molto. «Quando accennavo alla cosa, lui si stringeva semplicemente nelle spalle e diceva che non dovevo preoccuparmene. 'Sono troppo forte per loro', spiegava, 'inoltre non vogliono problemi. Sanno che so troppe cose su di loro.' Non fornì ulteriori chiarimenti, ma sottolineò che ero stata davvero fortunata a ricevere l'antico sangue da lui. «Non so cosa mi rese tanto felice durante quel periodo. Forse andare a caccia in diversi rioni di Alessandria o il semplice fatto di poter leggere nuovi libri o nuotare nel mare. Lui e io uscivamo insieme per andare a tuffarci tra le onde. «Non so se potete immaginare cosa significasse per me il mare, la possibilità di immergermi, di passeggiare lungo la costa. Una casalinga greca chiusa in casa non avrebbe mai goduto di quel privilegio. Ed ero un bevitore di sangue. Ero un ragazzo. Andavo a caccia sulle navi nel porto. Camminavo con uomini audaci e crudeli. «Una notte il mio Creatore non mi tagliò i capelli, come era solito fare ogni sera, e mi accompagnò in uno strano luogo che si trovava nel quartiere egiziano della città. Una volta aperta la porta, fummo costretti a imboccare un lungo tunnel che scendeva sottoterra prima di raggiungere un'enorme stanza con le pareti coperte dall'antica scrittura per immagini tipica dell'Egitto. Enormi pilastri quadrati sostenevano il soffitto. Era un luogo che suscitava timore misto ad ammirazione. «Credo che mi abbia riportato alla memoria un'epoca più raffinata, durante la quale avevo conosciuto cose misteriose e splendide, benché ormai non ne sia più sicura. «C'erano diversi bevitori di sangue. Erano pallidi e bellissimi, ma neppure lontanamente bianchi come il mio Creatore, di cui avevano palesemente paura. Rimasi sbalordita nel vedere tutto ciò, ma poi ricordai la sua frase, 'Bevitori di Sangue del Tempio', e immaginai che si trattasse di loro. «Lui mi spinse in avanti come fossi un piccolo miracolo che non avevano mai visto. Poi ebbe inizio una discussione nel loro linguaggio, che capivo a malapena. «Apparentemente gli dissero che la Madre avrebbe preso una decisione e che soltanto a quel punto lui avrebbe potuto essere perdonato per le sue scelte. Il mio Creatore affermò che non gli importava di essere perdonato o
no, ma stava per andarsene, era ansioso di sbarazzarsi di me e l'unica cosa che voleva sapere era se mi avrebbero accettato. «Ero terrorizzata. Quel posto tetro, per quanto maestoso, non mi piaceva, inoltre noi due avevamo passato diversi anni insieme. Per quale ragione voleva lasciarmi? Avrei voluto chiedergli quale errore avevo commesso. Probabilmente capii in quel preciso istante che gli volevo bene. Avrei fatto qualsiasi cosa, pur di fargli cambiare idea. «Gli altri mi si avventarono contro. Mi afferrarono per entrambe le braccia e mi trascinarono con forza in un'altra stanza gigantesca. «La Madre e il Padre stavano lì, lucidi e scintillanti, seduti su un enorme trono di diorite nera, in cima a sei o sette gradini di marmo. «Era la stanza principale del tempio; tutte le colonne e le pareti erano magnificamente decorate dalla scrittura egizia, e il soffitto era coperto di piastre d'oro. «Naturalmente pensai, come tutti facciamo, che la Madre e il Padre fossero statue, e mentre venivo trascinata verso di loro provai un folle risentimento per quanto stava succedendo. «Inoltre ero in preda a una curiosa vergogna, mi vergognavo di portare sandali vecchi e una sudicia tunica da ragazzo e di avere i capelli sparsi disordinatamente sulla schiena - perché, per la prima volta, quella notte il mio Creatore non me li aveva tagliati - e non ero affatto preparata all'imprecisato rituale che stava per aver luogo. «La pelle di Akasha e di Enkil era del bianco più puro, e loro sedevano immobili come hanno sempre fatto da quando li ho visti la prima volta, come siedono ora nella vostra cappella sotterranea.» Mael interruppe la narrazione con una domanda irata: «Come fai a sapere che aspetto hanno la Madre e il Padre nella nostra cappella sotterranea?» Le sue parole mi irritarono profondamente. Eudoxia, invece, rimase impassibile. «Tu non hai il potere di vedere attraverso la mente di altri bevitori di sangue?» chiese. I suoi occhi erano duri, forse persino un tantino crudeli. Mael rimase perplesso. Da parte mia, mi resi perfettamente conto che lui aveva rivelato un segreto a Eudoxia, vale a dire che non possedeva quel potere o ignorava di averlo, e non sapevo bene cosa fare. Mael sapeva di poter individuare altri vampiri ascoltandone i pensieri, ma non sapeva come sfruttare ancora più a fondo quel potere, vedendo ciò che vedevano loro.
In realtà, nessuno di noi tre conosceva bene le proprie capacità. Allora capii quanto fossimo stupidi. Quando Eudoxia non ricevette risposta alla sua domanda, cercai invano un modo di distrarla. «Ti prego», le dissi, «ti dispiacerebbe continuare? Raccontaci la tua storia.» Non osavo scusarmi per la maleducazione di Mael perché temevo che la cosa lo mandasse su tutte le furie. «Benissimo», ribatté lei, guardandomi dritto in faccia, come se volesse liquidare i miei impossibili compagni. «Come stavo dicendo», aggiunse, «il mio Creatore mi spinse avanti e mi ordinò di inginocchiarmi davanti al Padre e alla Madre. Io ubbidii terrorizzata. «Alzai gli occhi verso i loro visi, come i bevitori di sangue fanno ormai da tempo immemorabile, e non notai la benché minima vitalità, la benché minima delicatezza espressiva, solo l'immobilità delle statue, nient'altro. «Ma, un attimo dopo, nella Madre avvenne un cambiamento: la sua mano destra si sollevò quasi impercettibilmente dal grembo e ruotò per rivolgermi un semplicissimo gesto che mi invitava ad avvicinarmi. «Rimasi sbalordita. Quindi quelle creature vivevano e respiravano? Oppure si trattava di un trucco, di una specie di illusione? Non potevo saperlo. «Il mio Creatore, rozzo persino in quel momento sacro, disse: 'Forza, va' da lei, bevi il suo sangue. È la Madre di tutti noi'. Mi sferrò un calcio con il piede nudo. 'È la nostra progenitrice. Bevi.' «Gli altri vampiri cominciarono a litigare furiosamente con lui, usando di nuovo l'antica lingua egizia, dicendogli che il gesto non era chiaro, che la Madre avrebbe potuto annientarmi. Chi era lui per impartire un simile ordine e come osava entrare in quel tempio con una miserevole bevitrice di sangue sudicia e ignorante come lui? «Ma il mio Creatore non badò a loro. 'Bevi il suo sangue e la tua forza sarà incommensurabile', mi disse. Mi tirò in piedi e quasi mi scagliò in avanti, tanto che le mie mani piombarono sui gradini di marmo davanti al trono. «Gli altri bevitori di sangue rimasero scioccati dal suo comportamento. Sentii sgorgare una bassa risata dal mio Creatore, mentre tenevo lo sguardo fisso sul re e la regina. «Vidi che lei aveva mosso nuovamente la mano aprendo le dita e, benché i suoi occhi rimanessero immutati, il cenno d'invito era inequivocabile.
«'Dal collo', mi istruì il mio Creatore. 'Non avere paura. Non annienta mai coloro che chiama a sé. Fai come dico.' Ubbidii. Bevvi da lei tutto ciò che riuscii a bere. E bada bene, Marius, è successo più di trecento anni prima che l'Anziano esponesse al sole la Madre e il Padre. In seguito avrei bevuto da lei più di una volta. Bada bene, più di una volta, molto tempo prima che tu venissi ad Alessandria, molto tempo prima che tu prendessi il nostro re e la nostra regina.» Inarcò leggermente le sopracciglia corvine, mentre mi guardava come se non volesse lasciarmi dubbi su quanto intendeva dire. Era molto, molto forte. «Eudoxia», replicai, «perché quando sono venuto ad Alessandria a cercare la Madre e il Padre e per scoprire chi li aveva esposti al sole, non ti sei palesata a me? Non eri nel tempio? Non eri in quella città?» «No», disse, «mi trovavo a Efeso, dove mi ero recata con un altro bevitore di sangue distrutto dal Fuoco. O forse dovrei dire che stavo tornando a casa, ad Alessandria, a scoprire la causa del Fuoco e a bere dalla fonte risanatrice, quando tu li hai portati via.» Mi rivolse un sorriso fugace ma freddo. «Riesci a immaginare la mia angoscia quando ho scoperto che l'Anziano era morto e il tempio deserto? Puoi capire la mia ira, quando i pochi sopravvissuti del tempio mi hanno raccontato che un romano di nome Marius era venuto a rubare il nostro re e la nostra regina?» Non replicai, perché capii il suo palese risentimento. Il suo viso mostrava emozioni umane: uno scintillio di lacrime di sangue comparve nei suoi rotondi occhi scuri. «Il tempo mi ha sanato, Marius», dichiarò, «perché racchiudo una cospicua quantità di sangue della regina e sono molto forte sin dal momento in cui sono stata creata. In realtà, il Grande Fuoco mi ha solo conferito una tinta marrone scuro, causandomi ben poco dolore. Ma se tu non avessi portato Akasha via da Alessandria, lei mi avrebbe lasciato bere nuovamente il suo sangue e io sarei guarita in fretta. Non mi ci sarebbe voluto così tanto tempo.» «E adesso berresti il sangue della regina, Eudoxia?» chiesi. «È questo che hai intenzione di fare? Tu sai sicuramente perché ho fatto ciò che ho fatto; sai sicuramente che è stato l'Anziano a esporre al sole la Madre e il Padre.» Non rispose. Non riuscii a stabilire se la notizia l'avesse stupita o no. Stava schermando alla perfezione la propria mente. Poi parlò: «Secondo te,
ho bisogno del Sangue, Marius? Guardami. Cosa vedi?» Dopo un attimo di esitazione risposi: «No, non ne hai bisogno, Eudoxia. A meno che quel sangue non rappresenti sempre una benedizione». Mi fissò per qualche istante, poi annuì lentamente, con aria quasi sonnolenta, e le sue sopracciglia scure si unirono in un lieve cipiglio. «Sempre una benedizione?» domandò, ripetendo le mie parole. «Non so se sia vero.» «Vuoi raccontarmi qualcos'altro della tua storia? Cos'è successo dopo che hai bevuto da Akasha la prima volta, dopo che il tuo Creatore se n'è andato per la sua strada?» Posi quegli interrogativi in modo gentile. «Sei rimasta nel tempio dopo la sua partenza?» «No, non rimasi là», rispose lei. «Anche se i sacerdoti mi blandirono, raccontandomi sfrenate storie sull'antico culto e spiegandomi che la Madre poteva essere uccisa unicamente dalla luce del sole, e che se mai fosse bruciata lo avremmo fatto tutti. Uno di loro sottolineò con veemenza quel monito, come se la prospettiva lo tormentasse...» «L'Anziano», ipotizzai, «che alla fine tentò di appurarne la fondatezza.» «Sì», confermò Eudoxia. «Ma per me non era un Anziano, e non badai alle sue parole. «Uscii, libera dal mio Creatore e, ritrovandomi padrona della sua casa e del suo tesoro, optai per uno stile di vita diverso. Naturalmente i sacerdoti del tempio vennero spesso da me ad accusarmi di essere blasfema e sconsiderata, ma visto che si limitarono a quello li ignorai. «Ormai mi si poteva scambiare agevolmente per un essere umano, soprattutto se mi coprivo la pelle con determinati oli.» Sospirò. «Ed ero abituata a farmi passare per un giovanotto. Mi fu facile abbellire la casa e procurarmi bei vestiti, vale a dire trasformarmi da povera a ricca nel giro di poche notti. «Feci spargere la voce nelle scuole e nella piazza del mercato che potevo scrivere lettere per la gente, e copiare libri durante la notte, quando gli altri copisti avevano già smesso di lavorare per tornare a casa. Allestendo un ampio studio nella mia dimora, illuminato da parecchia luce, mi dedicai a quell'attività per conto degli esseri umani, e fu così che arrivai a conoscere sia loro, sia quello che i precettori gli insegnavano durante il giorno. «Per me era un autentico strazio non poter ascoltare i grandi filosofi che tenevano banco nelle ore diurne, ma me la cavai egregiamente con quell'occupazione notturna, ottenendo ugualmente ciò che desideravo: le calde voci degli umani che mi parlavano. Diventai amica dei mortali. E spesso,
la sera, la mia casa era piena di ospiti che banchettavano. «Appresi notizie sul mondo grazie a studenti, poeti, soldati. Nelle prime ore del mattino mi intrufolavo nella grande biblioteca di Alessandria, un luogo che avresti dovuto visitare, Marius. È incredibile che tu ti sia lasciato sfuggire un simile tesoro fatto di libri. A me non è successo.» Si interruppe. Il suo viso era orribilmente inespressivo; capii che dipendeva da un eccesso di emozione. Non guardò nessuno di noi. «Sì, lo capisco», replicai, «capisco benissimo. Provo lo stesso bisogno di avere vicino voci umane, mortali che mi sorridano come se appartenessi a loro.» «Conosco la tua solitudine», dichiarò lei in tono severo. Per la prima volta sospettai che anche le sue fugaci espressioni facciali fossero altrettanto dure, che il suo volto non fosse altro che il bellissimo guscio di un'anima disturbata, di cui apprendevo ben poco dalle sue parole. «Ho vissuto a lungo e piacevolmente, ad Alessandria», raccontò. «Esisteva forse una città più grande? E ho creduto, come molti bevitori di sangue, che la sola sapienza sarebbe bastata a sostenermi nel corso dei decenni, che in qualche modo la conoscenza potesse scacciare la disperazione.» Rimasi impressionato dalle sue parole ma non replicai. «Sarei dovuta restare ad Alessandria», ammise, fissando il vuoto, la voce bassa e all'improvviso colma di rimpianto. «Mi innamorai di un mortale, un giovane che mi amava profondamente. Una notte mi confessò il suo amore, la sua volontà di rinunciare a tutto - al matrimonio che gli era stato proposto, e alla sua stessa famiglia - se solo fossi andata con lui a Efeso, il luogo da cui proveniva e dove desiderava tornare.» Si interruppe come se non intendesse proseguire. «Era un grande amore», disse poi, in tono più lento, «e tutto questo mentre mi credeva un giovane uomo.» Continuavo ad ascoltare senza aprir bocca. «La notte in cui si dichiarò gli svelai la mia vera identità. Rimase orripilato, allora io mi vendicai.» Si accigliò come se non fosse completamente sicura di aver usato il termine giusto. «Sì, mi vendicai.» «Lo trasformasti in un bevitore di sangue?» le chiesi. «Sì», confermò, continuando a fissare il vuoto come se fosse tornata a quell'epoca. «Lo feci, e con la violenza più brutale e sgraziata, dopo di che lui mi vide con occhi nudi e amorevoli.» «Occhi amorevoli?» ripetei. Lei lanciò un'occhiata significativa ad Avicus, poi ritornò su di me, e
quindi ancora su lui. Lo osservai: lo avevo sempre considerato splendido e, data la sua bellezza, avevo dedotto che gli dei della foresta venissero scelti per la loro avvenenza oltre che per la resistenza, ma in quel momento cercai di vederlo come lo vedeva lei. Ormai la sua pelle era dorata invece che marrone, e i folti capelli neri costituivano un'elegante cornice per il viso insolitamente attraente. Riportai lo sguardo su Eudoxia e scoprii, leggermente scioccato, che stava fissando me. «Lui riprese ad amarti?» chiesi, concentrandomi subito sulla storia e sul suo significato. «Ti ha amato persino quando il Sangue gli scorreva nelle vene?» Non avevo idea di quali fossero i suoi pensieri più intimi. Mi rivolse un solenne cenno d'assenso. «Sì, riprese ad amarmi», ammise. «E aveva i nuovi occhi del Sangue, e io ero la sua insegnante, e tutti sappiamo quale fascino sia racchiuso in tutto ciò.» Mi rivolse un sorriso carico d'amarezza. Fui assalito dalla orrenda sensazione che in lei ci fosse qualcosa che non andava; che potesse essere pazza, ma ero costretto a seppellirla dentro di me, bene a fondo, così lo feci. «Partimmo per Efeso», disse Eudoxia, riprendendo il racconto, «che, pur non potendo reggere il paragone con Alessandria, era comunque una grande città greca, animata da ricchi scambi commerciali con l'Oriente e da pellegrini che arrivavano continuamente per venerare la grande dea Artemide, e vi restammo fino al Grande Fuoco.» Il suo tono si fece tanto sommesso che i mortali non sarebbero riusciti a sentirla. «Il Grande Fuoco lo annientò completamente», continuò. «Aveva raggiunto solo l'età in cui la carne umana è ormai sparita e rimane solo il bevitore di sangue, ma il bevitore di sangue aveva semplicemente iniziato a essere forte.» Si interruppe, come se non fosse in grado di continuare, ma dopo un attimo lo fece. «Di lui mi rimasero solo ceneri. Ceneri e nulla più.» Tacque e io non osai sollecitarla. Quindi ricominciò a parlare: «Avrei dovuto condurlo dalla regina, prima di lasciare Alessandria. Ma non sopportavo i Bevitori di Sangue del Tempio; quando ero andata da loro lo avevo fatto in veste di ribelle, ero riuscita a entrare con fierezza parlando dei cenni che mi aveva rivolto la regina, e
dicendo di volerle deporre dei fiori. Cosa sarebbe successo se le avessi portato il mio amante senza che lei avesse fatto alcun gesto, come quello un tempo indirizzato a me? Così, capisci, non lo accompagnai là, e a Efeso rimasi ferma lì con le sue ceneri». Non parlai per rispetto, ma non potei fare a meno di lanciare un'altra occhiata ad Avicus. Era sul punto di piangere. Eudoxia lo possedeva completamente, cuore e anima. «Ti chiederai perché sono tornata ad Alessandria dopo quella terribile perdita?» chiese stancamente lei. «Perché i vampiri del tempio mi avevano spiegato che la Madre era la regina di noi tutti. Perché avevano parlato del sole e del nostro rischio di bruciare. E sapevo che doveva esserle accaduto qualcosa, che qualcosa aveva causato il Grande Fuoco e che solo i Bevitori di Sangue del Tempio avrebbero potuto dirmi cos'era. Inoltre la mia carne soffriva. Non era un dolore insopportabile, ma lo avrei fatto sanare alla Madre, se l'avessi trovata là.» Non dissi nulla. Durante tutti gli anni trascorsi da quando avevo preso Coloro-chedevono-essere-conservati non avevo mai incontrato una creatura come Eudoxia. E dovrei anche aggiungere che nessun bevitore di sangue come lei aveva mai incontrato me; non avevo mai conosciuto nessuno armato di una simile eloquenza, esperto di storia e poesia antica. «Per secoli», spiegai in tono pacato e gentile, «ho tenuto la Madre e il Padre ad Antiochia. Altri bevitori di sangue mi hanno trovato, creature bellicose e violente, creature gravemente ustionate e decisissime a rubare quel forte sangue. Ma tu, tu non sei mai venuta.» Lei scosse il capo. «Non ho mai pensato ad Antiochia», confessò. «Credevo che tu li avessi portati a Roma. Ti conoscevamo come Marius il romano. Marius, il romano che aveva preso la Madre e il Padre. Quindi, vedi, commisi un grave errore andando nella Città Imperiale. Subito dopo mi recai a Creta, perciò non ero destinata ad arrivarti mai vicino, a rintracciarti grazie alle doti medianiche, a sentir dire dove avrei potuto trovarti. «Ma non cercai continuamente la Madre e il Padre. Avevo le mie passioni. Creai bevitori di sangue che potessero diventare miei compagni. I secoli mi hanno guarito, come vedi. Ora sono molto più forte di te, Marius. Sono infinitamente più forte dei tuoi compagni. E, benché colpita dai tuoi eleganti modi patrizi e dal tuo latino antiquato, e dalla devozione del tuo amico Avicus, devo imporvi alcune condizioni severe.»
«Come mai, Eudoxia?» domandai tranquillamente. Mael era furibondo. Lei rimase in silenzio per diversi istanti, durante i quali i suoi lineamenti minuti e delicati non sfoggiarono altro che un'espressione dolce e gentile, poi parlò con estremo garbo: «Consegnami la Madre e il Padre, Marius, altrimenti annienterò te e i tuoi compagni. Non vi sarà permesso né di restare né di andarvene». Vidi lo shock di Avicus. Quanto a Mael, era ammutolito, grazie agli dei. Io rimasi di nuovo esterrefatto. Aspettai per diversi secondi, poi chiesi: «Perché vuoi la Madre e il Padre, Eudoxia?» «Oh, Marius, non essere stolto.» Scosse il capo, seccata. «Sai che il sangue della Madre è il più potente in assoluto. Ti ho già detto che ogni volta che mi sono appellata a lei mi ha rivolto il gesto di benvenuto e mi ha concesso di bere. La voglio perché voglio il potere che racchiude. E anche perché non desidero che questo re e questa regina, che possono essere bruciati o esposti di nuovo al sole, siano affidati ad altri che potrebbero prendere iniziative avventate.» «Ci hai riflettuto a fondo?» chiesi freddamente. «Come faresti a tenere nascósto il sacrario? Da quanto ho visto dei tuoi compagni vampiri, sono quasi dei bambini sia in anni mortali che nel Sangue. Conosci il peso di questo fardello?» «Lo conoscevo prima ancora che tu nascessi», dichiarò lei, con il viso soffuso di rabbia. «Stai giocando con me, Marius, e non intendo permetterlo. So cosa hai nel cuore. Non vuoi rinunciare alla Madre, perché non vuoi rinunciare al Sangue.» «Forse sì, Eudoxia», replicai, sforzandomi di mantenere un atteggiamento pacato. «Voglio un po' di tempo per riflettere su quanto mi hai detto.» «Non lo avrai», ribatté rabbiosamente lei. Il suo viso si era arrossato. «Rispondimi subito, altrimenti ti distruggo.» La sua furia fu talmente improvvisa che mi colse alla sprovvista, eppure mi ripresi in fretta. «E come ti proponi di fare?» domandai. Mael balzò in piedi e si mise dietro la sua sedia. Gli indicai di stare fermo. Avicus era rimasto seduto, in preda a una silenziosa disperazione. Le lacrime di sangue avevano iniziato a sgorgargli dagli occhi e gli rigavano le guance. Era assai più deluso che spaventato. In realtà, appariva solennemente audace. Eudoxia si voltò verso di lui e nella sua postura io percepii subito una
minaccia. Irrigidì le membra, e gli occhi parvero diventare insolitamente duri. Intendeva fare qualcosa di crudele ad Avicus, e io non potevo aspettare di scoprire cosa fosse. Avventandomi su di lei, le afferrai entrambi i polsi, girandola in modo che mi guardasse inevitabilmente e furiosamente dal basso. Certo, la forza fisica poteva ottenere ben poco, in quel caso, ma cosa potevo fare di più? Cos'erano diventati i miei poteri, nel corso degli anni? Lo ignoravo, ma non avevo il tempo di riflettere o sperimentare. Evocai, dalle più remote profondità del mio essere, tutta la forza distruttiva che forse possedevo. Sentii un dolore al ventre e poi al capo e, mentre Eudoxia con gli occhi chiusi si afflosciava nella mia stretta, un terribile calore mi colpì viso e petto con estrema violenza. Ma non mi ustionò. Lo respinsi e lo rispedii là da dove era venuto. Si trattava di una battaglia e non avevo idea di chi potesse vincerla. Tentai di nuovo di scatenare tutta la potenza che forse controllavo e, ancora una volta, vidi Eudoxia indebolirsi, la sentii indebolirsi, eppure l'ondata di calore mi assalì di nuovo, ma senza sortire alcun effetto. La gettai sul pavimento e rimasi fermo al suo fianco, raccogliendo le energie con tutta la mia forza di volontà e dirigendole contro di lei, che si contorse sul marmo, gli occhi chiusi e le mani tremanti. La mia potenza la teneva bloccata a terra, le impediva di alzarsi. Alla fine si immobilizzò; inspirò a fondo, poi aprì gli occhi e mi guardò. Con la coda dell'occhio vidi i suoi accoliti Asphar e Rashid correre ad aiutarla. Brandivano enormi spade scintillanti. Mi guardai freneticamente intorno per cercare una delle lanterne, nella speranza di poterli ustionare con l'olio fiammeggiante, ma i miei pensieri mi precedettero subito con tutta la mia energia e con estremo odio: Oh, se solo potessi bruciarti! Rashid si bloccò, gridò e prese fuoco. Osservai la scena in preda all'orrore; sapevo che ero stato io. E lo sapevano anche tutti gli altri. Le ossa del ragazzo rimasero visibili per un attimo, poi caddero a terra, e le fiamme sussultarono e danzarono sul pavimento. Non avevo altra scelta, dovevo concentrarmi su Asphar, ma Eudoxia gridò: «Basta». Tentò di rialzarsi, inutilmente. Le presi le mani e la tirai in piedi. Lei chinò la testa e si allontanò da me camminando a ritroso, quindi si voltò a guardare i resti di Rashid. «Hai annientato qualcuno che mi era caro», dichiarò con voce tremula.
«E non sapevi nemmeno di possedere il potere del fuoco.» «Tu volevi annientare Avicus», replicai, «e volevi annientare anche me.» Sospirai, mentre la guardavo. «Mi hai forse lasciato altra scelta? Sei stata tu la mia insegnante, per quanto riguarda i miei poteri.» Tremavo di stanchezza e di rabbia. «Avremmo potuto vivere tutti qui, in pace.» Guardai Asphar, che non osava avvicinarsi. Guardai Eudoxia, debole e inutile sulla sua sedia. «Ora voglio andarmene», annunciai, «e portare con me i miei due compagni. Se cercherai di fare del male a uno di noi, rivolgerò contro di te tutto il mio potere, che come hai appena detto, nemmeno io so quale sia.» «Mi minacci per paura», ribatté stancamente lei. «Non te ne andrai di qui senza darmi una vita in cambio di una vita. Hai bruciato Rashid. Dammi Avicus. Dammelo ora, di tua spontanea volontà.» «No», dissi freddamente. Sentii il mio potere concentrarsi dentro di me. Guardai in cagnesco Asphar. Il povero giovane tremava di terrore. Eudoxia sedeva astiosa sulla sedia, sempre a capo chino. «Che enorme perdita ha avuto luogo qui, Eudoxia», commentai. «Avremmo potuto donarci a vicenda tali e tante ricchezze mentali.» «Smettila con il tuo eloquio raffinato, Marius», mi intimò lei, alzando rabbiosamente gli occhi pieni di lacrime di sangue. «Hai ancora paura di me. Portami dalla Madre e dal Padre, e lascia che la Madre decida chi sarà il guardiano, tu o io.» Risposi rapidamente: «Non ti accoglierò sotto il mio tetto, Eudoxia, ma sottoporrò il quesito alla Madre e al Padre. E dopo che loro parleranno con me, io parlerò con te». Quindi mi rivolsi ad Asphar: «Portaci subito via da qui», gli ordinai, «altrimenti ti brucerò come ho bruciato il tuo compagno». Lui ubbidì senza esitare, e non appena fummo in strada, fuggimmo. 11 Fuggimmo. Non c'è altro modo di descrivere la cosa. Eravamo terrorizzati e fuggimmo. Giunti a casa, sbarrammo subito tutte le finestre e le porte con gli scuri più massicci, ma a cosa poteva servire contro un potere come quello di Eudoxia? Riuniti nella corte interna, valutammo la situazione: dovevamo scoprire quali fossero i nostri poteri. Dovevamo sapere cosa ci era stato donato dal
tempo e dal Sangue. Nel giro di qualche ora ottenemmo alcune risposte. Avicus e io riuscivamo a spostare agevolmente gli oggetti senza toccarli; potevamo farli volare. Il dono del fuoco, invece, lo possedevo soltanto io, e non riuscimmo a trovare alcun limite a quella mia capacità entro lo spazio della nostra casa. Ciò significa che potevo appiccare il fuoco al legno a prescindere dalla sua distanza. Quanto alle creature viventi, scelsi come vittime i topi e li bruciai da notevole distanza e senza troppa fatica. La nostra forza fisica si rivelò nettamente maggiore di quanto avessimo mai immaginato. Ero il primo anche in quel campo, come in tutti gli altri. Avicus veniva dopo di me, seguito da Mael. Mentre ero con Eudoxia, però, avevo percepito qualcos'altro e tentai di spiegarlo ai miei compagni. «Quando abbiamo lottato, lei ha cercato di bruciarmi con il dono del fuoco. (Usammo queste parole, in una forma o nell'altra.) Ne sono sicuro, ho avvertito il calore. Ma io la stavo affrontando con un potere diverso. Stavo usando la pressione, contro di lei. È una cosa che devo arrivare a capire.» Ancora una volta, scelsi gli sventurati roditori della nostra dimora per esercitarmi: stringendone uno, esercitai la stessa forza utilizzata durante la lotta con Eudoxia; in pratica la creatura esplose, ma senza l'intervento delle fiamme. A quel punto mi resi conto di possedere un potere diverso dal dono del fuoco, che potrei definire la facoltà di uccidere e che avevo usato per difendermi. Se avessi dovuto sfruttare quella pressione contro un mortale, cosa che non intendevo fare, gli organi interni del poveretto sarebbero esplosi, uccidendolo. «Ora, Avicus», dissi, «dato che sei il più anziano di noi, cerca di scoprire se anche tu possiedi questo potere di uccidere, perché potrebbe benissimo essere così.» Catturai un topo e lo tenni stretto, mentre lui incanalava i pensieri con la debita concentrazione; nel giro di pochi secondi la povera creaturina cominciò a perdere sangue dalle orecchie e dalla bocca e morì. La cosa rattristò Avicus. Insistetti perché Mael si dedicasse allo stesso esperimento. Stavolta il ratto si dibatté furiosamente, emettendo terribili squittii, ma non morì. Quando lo posai sul pavimento a mosaico della corte vidi che non riusciva a correre e nemmeno a rialzarsi, allora, impietosito, lo uccisi.
Guardai Mael. «Il potere sta crescendo, in te», dichiarai. «I poteri stanno aumentando in tutti noi. Dobbiamo essere molto più scaltri, infinitamente più scaltri, quando affrontiamo i nostri nemici.» Lui annuì. «A quanto pare potrei menomare un mortale.» «O persino farlo stramazzare al suolo», precisai. «Ma ora concentriamoci sulle facoltà psichiche. Le abbiamo tutti utilizzate per localizzarci a vicenda, e talvolta per comunicare una tacita domanda o una riflessione, ma solo nei modi più semplici e maggiormente legati all'autodifesa.» Entrammo in biblioteca, ci sedemmo formando un piccolo triangolo, quindi tentai di inserire nella mente di Avicus immagini di quanto avevo visto nella grande chiesa di Hagia Sophia, in particolare i mosaici che più avevo amato. Lui fu subito in grado di descrivermeli, nei minimi dettagli. Poi divenni depositario dei suoi pensieri, che consistevano in ricordi del lontanissimo anno in cui venne portato a nord, lontano dall'Egitto e in Britannia, per iniziare il lungo servizio nella foresta dei druidi. Lo avevano messo in catene e io rimasi turbato da quelle immagini. Non mi limitavo a vederle, provocavano in me un'intensa reazione fisica. Fui costretto a schiarirmi la vista, oltre alla mente. Racchiudevano qualcosa di straordinariamente intimo e, al contempo, qualcosa di vago. Capii che non avrei più provato le stesse sensazioni, riguardo ad Avicus. Giunse poi il mio turno con Mael. Tentai di inviargli vivide immagini della mia vecchia casa ad Antiochia, dove ero stato così felice - o infelice con Pandora. Ancora una volta, lui fu in grado di descriverle a parole. Quando toccò a lui mandarmi una serie di immagini, mi permise di vedere la notte della sua giovinezza, quando gli fu concesso per la prima volta di unirsi ai fedeli della foresta nelle cerimonie del loro dio. Quelle scene non mi piacquero, per ovvie ragioni, e le trovai nuovamente irritanti, però mi fecero capire che lo conoscevo meglio di quanto desiderassi. In seguito tentammo di insinuarci l'uno nella mente dell'altro, una capacità che avevamo sempre saputo di possedere. Ci dimostrammo molto più forti del previsto, in quella pratica. Quanto a schermare i pensieri, riuscivamo a farlo quasi perfettamente, persino Mael. Decidemmo di rafforzare i nostri poteri nella misura in cui potevamo farlo da soli. Avremmo usato più spesso le doti medianiche; avremmo fatto tutto il possibile per prepararci ad affrontare Eudoxia e ciò che intendeva fare. Alla fine, conclusi i nostri esperimenti e non avendo ricevuto altre noti-
zie di Eudoxia o dei suoi domestici, decisi di scendere nel sacrario di Coloro-che-devono-essere-conservati. Avicus e Mael erano restii a rimanere al piano di sopra senza di me, perciò permisi loro di scendere e aspettare accanto alla porta, ma insistetti per entrare nella cappella da solo. Mi inginocchiai davanti ai Divini Genitori e riferii sottovoce l'accaduto. Naturalmente era assurdo, perché con ogni probabilità sapevano già tutto. Comunque fosse, parlai francamente ad Akasha ed Enkil di tutto quello che Eudoxia mi aveva rivelato, della nostra terribile battaglia, e confessai che non sapevo cosa fare. Mi trovavo dinanzi una creatura che li aveva rivendicati e non mi fidavo di lei, perché non rispettava me e coloro che amavo. Dissi che se desideravano essere consegnati a Eudoxia, non dovevano fare altro che darmi un segno, ma li supplicai di salvare me e i miei compagni. Nulla infranse il silenzio del santuario, a parte i miei sussurri. Nulla cambiò. «Ho bisogno del Sangue, Madre», spiegai ad Akasha. «Non ne ho mai avuto più bisogno. Se stavolta devo difendermi, mi serve il Sangue.» Mi alzai. Rimasi in attesa. Desiderai di vedere la sua mano sollevarsi come aveva fatto per Eudoxia. Ripensai alle parole del Creatore di quest'ultima: «Lei non annienta mai coloro che chiama a sé». Ma non vi fu alcun gesto affettuoso, per me. Vi fu solo il mio coraggio, mentre abbracciavo ancora una volta Akasha e le premevo le labbra sul collo, poi le lacerai la pelle e sentii il sangue squisito, indescrivibile. Cosa vidi nella mia estasi? Cosa vidi in quel sublime appagamento? Era il lussureggiante e magnifico giardino del palazzo, colmo di alberi da frutta ben curati, e la morbida erba scura, e il sole che brillava attraverso i rami. Come avrei mai potuto dimenticare quel sole fatale e di suprema bellezza? Sotto il piede nudo sentii il soffice petalo di un fiore, Uscio e vellutato. Sul viso sentii la carezza di teneri rami. Continuai a bere, scivolando via dal tempo, e il tepore mi paralizzò. È questo il tuo segnale, Madre? Stavo camminando nel giardino del palazzo e apparentemente stringevo un pennello; quando alzai gli occhi stavo dipingendo gli stessi alberi che vedevo sopra di me, creando sulla parete di casa mia lo stesso giardino in cui stavo camminando. Compresi perfettamente il paradosso. Quello era un giardino che una volta avevo dipinto sulle pareti del sacrario. E adesso mi apparteneva, potevo vederlo sia su un muro liscio, sia tutt'intorno a me, come se esistesse davvero. Quello era il
presagio. Tieni la Madre e il Padre. Non temere. Mi staccai. Non potevo berne altro. Mi aggrappai ad Akasha come un bambino. Le strinsi il collo con la sinistra, la fronte posata sulle sue pesanti trecce nere, e la baciai, più e più volte, la baciai come se quello e soltanto quello fosse il gesto più eloquente del mondo. Enkil non si mosse, Akasha nemmeno. Sospirai, e quello fu l'unico suono. Indietreggiai e mi inginocchiai davanti a loro, e ringraziai. Amavo disperatamente la mia scintillante dea egizia; ero convinto che mi appartenesse. In seguito riflettei a lungo sul problema con Eudoxia e lo vidi con un po' più di chiarezza. Mi venne in mente che, in assenza di un chiaro segnale indirizzato a Eudoxia, la battaglia tra lei e me sarebbe terminata solo con la morte. Non mi avrebbe mai permesso di restare in quella città e intendeva sottrarmi Coloro-che-devono-essere-conservati, tanto che avrei dovuto usare il dono del fuoco contro di lei come meglio potevo. Quello che era successo qualche ora prima era solo l'inizio della nostra piccola guerra. Lo trovavo terribilmente triste perché ammiravo Eudoxia, ma sapevo che era stata di gran lunga troppo umiliata dalla nostra lotta per potersi mai arrendere. Alzai gli occhi verso Akasha. «Come faccio a combattere quella creatura fino alla morte?» chiesi. «Questa creatura ha il tuo sangue dentro di sé. Io ho il tuo sangue. Esiste sicuramente un segnale che possa indicarmi più chiaramente cosa vuoi che faccia.» Rimasi lì per un'ora o più, e infine me ne andai. Trovai Avicus e Mael ad aspettarmi là dove li avevo lasciati. «Mi ha dato il suo sangue», raccontai. «Non lo dico per vantarmi, voglio solo che lo sappiate. Credo sia quello il suo segnale, ma come posso esserne sicuro? Credo che lei non voglia essere consegnata a Eudoxia, e nel caso venga provocata annienterà il colpevole.» Avicus sembrava disperato. «Durante tutti gli anni trascorsi a Roma», disse, «siamo stati davvero fortunati a non essere sfidati da nessun immortale molto potente.» Ero d'accordo. «I bevitori di sangue potenti stanno alla larga da chi è come loro», spiegai. «Ma capisci sicuramente che la stiamo sfidando. Potremmo andarcene, come ci ha chiesto di fare.» «Non ha il diritto di chiedercelo», dichiarò Avicus. «Perché non può
cercare di amarci?» «Amarci?» ripetei. «Cosa ti spinge a fare un'affermazione così strana? So che sei infatuato di lei. È naturale: l'ho visto. Ma perché mai dovrebbe amarci?» «Proprio perché siamo forti», rispose. «Intorno a sé ha soltanto i vampiri più deboli, creature che non hanno più di mezzo secolo. Noi siamo in grado di rivelarle delle conoscenze di cui forse non dispone.» «Ah, sì, è proprio quello che ho pensato, quando ho posato gli occhi su di lei per la prima volta. Ma non è destino che sia così, con Eudoxia.» «Perché?» domandò di nuovo lui. «Se desiderasse vampiri forti come noi, sarebbero qui», replicai. Poi, in tono triste, aggiunsi: «Possiamo sempre tornare a Roma». Avicus non seppe rispondermi. Io stesso non sapevo se avevo detto sul serio. Mentre salivamo i gradini e percorrevamo i tunnel che portavano verso la superficie, lo presi per un braccio. «Pensare continuamente a lei ti ha reso folle», dissi. «Devi riacquistare il controllo di te stesso, dal punto di vista spirituale. Non amarla. Trasformalo in un semplice atto di volontà.» Lui annuì, ma era troppo preoccupato per nasconderlo. Lanciai un'occhiata a Mael, notando che era più calmo del previsto. Poi mi rivolse la domanda inevitabile: «Avrebbe annientato Avicus, se tu non l'avessi contrastata?» chiese. «Avrebbe sicuramente tentato», risposi. «Ma Avicus è molto antico, più antico di te o me, forse anche di lei. E stasera abbiamo entrambi visto com'è forte.» A disagio, colmi di timori e di brutti presentimenti, ci ritirammo per il nostro empio riposo. La sera seguente, non appena mi levai, avvertii la presenza di estranei in casa nostra. Andai su tutte le furie, ma persino in quel momento conservai la consapevolezza che la rabbia rende deboli. Mael e Avicus mi raggiunsero subito, e insieme scoprimmo Eudoxia, accompagnata da un terrificato Asphar e da altri due giovani bevitori di sangue che non avevo mai visto. Sedevano in biblioteca come se fossero ospiti invitati. Eudoxia sfoggiava splendidi e pesanti abiti orientali dalle lunghe maniche svasate, e babbucce persiane; i suoi folti riccioli neri erano raccolti sopra le orecchie e ornati da gioielli e perle. La stanza non era elegante come quella in cui mi aveva accolto lei, per-
ché non avevo ancora terminato di arredarla, quindi Eudoxia sembrava l'ornamento più sontuoso. Mi colpì di nuovo la bellezza del suo visino, soprattutto la bocca, credo, benché i freddi occhi scuri risultassero ipnotici come prima. Mi impietosì il povero Asphar che aveva così paura di me; quanto agli altri due vampiri, entrambi fanciulli quando erano stati creati e giovani anche nell'immortalità, provai compassione anche per loro. Ho forse bisogno di precisare che erano bellissimi? Quando erano stati trasformati erano bambini cresciuti, vale a dire splendide creature con il corpo adulto, ma gote paffute e bocca da ragazzini. «Perché sei venuta senza essere invitata?» chiesi a Eudoxia. «Siedi sulla mia sedia come se fossi mia ospite.» «Perdonami», ribatté gentilmente lei. «Sono venuta perché mi sentivo costretta a farlo. Ho frugato accuratamente in tutta la casa.» «Te ne vanti?» domandai. Socchiuse le labbra come se intendesse rispondere, ma poi le si colmarono gli occhi di lacrime. «Dove sono i libri, Marius?» chiese sottovoce. Mi guardò. «Dove sono tutti gli antichi testi dell'Egitto, quelli che si trovavano nel tempio quando li hai rubati?» Non risposi e neppure mi sedetti. «Sono venuta qui nella speranza di trovarli», ammise, guardando dritto davanti a sé, con le lacrime che le scorrevano copiose. «Sono venuta qui, perché ieri notte ho sognato i sacerdoti del tempio e la loro abitudine di dirmi che dovevo leggere le antiche storie.» Continuai a tacere. Lei alzò gli occhi e si asciugò le lacrime con il dorso della mano. «Sono riuscita a sentire i profumi del tempio, l'aroma del papiro. Ho visto l'Anziano seduto al suo scrittoio.» «Ha esposto al sole i Genitori, Eudoxia», replicai. «Non scivolare in un sogno che lo rende innocente. L'Anziano era malvagio e colpevole, era egoista e amareggiato. Vuoi sapere qual è stato il suo destino?» «Nel mio sogno, i sacerdoti hanno detto che tu hai preso i libri, Marius. Hanno detto che, senza incontrare la minima resistenza, sei entrato nella biblioteca del tempio e hai preso tutti gli antichi papiri.» Continuai a tacere. La sua pena era straziante. «Dimmelo, Marius. Dove sono? Se mi permetterai di leggerli, se mi
permetterai di leggere le antiche storie dell'Egitto, la mia anima potrà trovare un po' di pace, con te. Puoi farlo per me?» Con quanta amarezza trattenni il fiato! «Eudoxia», dissi in tono gentile. «Quei libri sono scomparsi, tutto ciò che ne rimane è qui nella mia testa.» Mi picchiettai la fronte con un dito. «A Roma, quando i selvaggi provenienti da nord si sono aperti una breccia, la mia casa è stata bruciata e la mia biblioteca distrutta.» Lei scosse il capo e si prese il viso tra le mani, come se trovasse insopportabile la cosa. Mi inginocchiai accanto a lei e tentai di farla voltare verso di me, ma non ne volle sapere. Continuò a piangere silenziosamente. «Scriverò tutto, tutto quello che ricordo, e sono molte le cose che ricordo», dichiarai. «Oppure vuoi che lo reciti ad alta voce per i nostri scribi? Decidi come preferisci ricevere i miei ricordi: te li darò, con affetto. Comprendo benissimo il tuo desiderio.» Non era il momento adatto per spiegarle che gran parte di ciò che cercava si riduceva a un niente, che le antiche storie erano colme di superstizione e assurdità, persino di incantesimi privi di significato. Persino il malvagio Anziano lo aveva affermato. Tuttavia, io avevo letto quelle pergamene durante gli anni passati ad Antiochia, e le rammentavo; erano racchiuse nel mio cuore e nella mia anima. Lei si voltò lentamente verso di me. Sollevando la mano sinistra, mi carezzò i capelli. «Perché hai rubato quei libri?» sussurrò disperatamente, con le lacrime che continuavano a scorrere. «Perché li hai portati via da un sacrario dove erano rimasti al sicuro così a lungo?» «Volevo scoprire cosa dicevano», risposi candidamente. «Perché tu non li hai letti quando avevi a disposizione un'intera vita per farlo?» chiesi in tono gentile. «Perché non li hai copiati quando hai copiato per i greci e i romani? Come puoi biasimarmi, per ciò che ho fatto?» «Biasimarti?» domandò con foga. «Ti odio per questo.» «L'Anziano era morto, Eudoxia», affermai quietamente. «È stata la Madre a ucciderlo.» All'improvviso i suoi occhi, a dispetto delle lacrime, si spalancarono. «Vuoi farmi credere una cosa del genere, vuoi farmi credere che non sei stato tu?» «Io? Uccidere un bevitore di sangue vecchio di mille anni, quando ero appena nato?» Emisi una breve risata. «No, fu la Madre a farlo. E fu la
Madre a pregarmi di portarla via dall'Egitto. Ho fatto solo quello che lei mi ha chiesto.» La fissai dritta negli occhi, deciso a convincerla, a indurla a soppesare quella prova finale ed essenziale prima di procedere contro di me con il suo odio. «Scruta nella mia mente, Eudoxia», la sollecitai. «Guarda tu stessa le immagini dell'accaduto.» Rivissi i tristi momenti in cui Akasha aveva stritolato l'Anziano malvagio sotto il suo piede. Rammentai la lanterna, staccata magicamente dal suo supporto per versare l'olio fiammeggiante sui resti dell'Anziano. Il modo in cui il Sangue Tenebroso era bruciato. «Sì», sussurrò lei. «Il fuoco è nostro nemico, sempre. Stai dicendo la verità.» «Con tutto il cuore e l'anima», affermai. «È vero: avendo ricevuto questo incarico e assistito alla morte dell'Anziano, come potevo lasciare lì i libri? Li desideravo come li desideravi tu. Li ho letti, mentre vivevo ad Antiochia. Ti rivelerò tutto quello che contenevano.» Eudoxia ci pensò su a lungo, poi annuì. Mi alzai. La guardai; sedeva immobile, a capo chino, poi estrasse un elegante fazzolettino da sotto le vesti e si asciugò le lacrime di sangue. Ancora una volta, reiterai le mie promesse. «Scriverò tutto ciò che rammento», dissi. «Scriverò tutto ciò che l'Anziano mi ha raccontato quando ho messo piede per la prima volta nel tempio. Dedicherò le notti a questa fatica, finché non verrà annotato tutto.» Lei non rispose; non riuscii a vederle il viso, finché non mi inginocchiai di nuovo. «Eudoxia», aggiunsi, «sappiamo molte cose che possiamo donarci a vicenda. A Roma ho finito per sentirmi così esausto che ho perso il filo della vita per un secolo. Sono ansioso di sentire tutto quello che sai.» Stava soppesando la proposta? Non riuscii a stabilirlo. Quando parlò, lo fece senza guardarmi. «Quest'ultimo giorno, il mio sonno è stato febbrile», dichiarò. «Ho sognato Rashid che mi invocava a gran voce.» Cosa potevo dire? Ero disperato. «No, non ti chiedo parole che possano placarmi», precisò. «Voglio semplicemente dire che ho avuto un sonno agitato. A un certo punto mi sono ritrovata nel tempio, circondata dai sacerdoti, e ho avuto una sensazione terribile, una percezione purissima della morte e del tempo.»
Posai un ginocchio sul pavimento, davanti a lei. «Possiamo superarlo», dissi. Mi guardò dritto negli occhi come se diffidasse di me e io stessi cercando di ingannarla. «No», ribatté sommessamente. «Anche noi moriamo, quando è giusto che sia così.» «Io non voglio morire», affermai. «Dormire sì, e talvolta quasi in eterno, certo, ma non morire.» Lei sorrise. «Cosa scriveresti per me, se potessi scrivere qualsiasi cosa?» chiese. «Cosa sceglieresti di annotare sulla pergamena, perché io possa leggerlo e impararlo?» «Non ciò che era scritto in quegli antichi testi egizi», risposi con veemenza, «ma qualcosa di più delicato, più autenticamente universale, qualcosa pieno di speranza e vitalità, qualcosa che parli di sviluppo e trionfo, che parli - come posso descriverla in altro modo? - di vita.» Annuì con aria solenne, sorrise di nuovo e mi guardò per qualche istante, apparentemente con affetto. «Portami giù nel sacrario», chiese. Allungò una mano e afferrò la mia. «Benissimo», replicai. Mentre mi alzavo lo fece anche lei, poi mi oltrepassò per potermi precedere, forse per dimostrarmi che conosceva la strada. Grazie agli dei, i suoi compagni rimasero nella stanza, quindi non fui costretto a imporglielo io. Scesi con lei, aprendo le numerose porte senza toccarle, grazie ai miei poteri mentali. Se la cosa la impressionò, non lo diede a vedere. Non capivo, però, se fossimo ancora in guerra, non riuscivo a decifrare il suo stato d'animo. Quando vide la Madre e il Padre con i pregiati indumenti di lino e gli splendidi gioielli, rimase senza fiato. «Oh, Sacri Genitori», bisbigliò. «Vengo da così lontano...» La sua voce mi commosse. Le sue lacrime avevano ripreso a scorrere. «Vorrei tanto avere qualcosa da offrirti», aggiunse, guardando la regina. Stava tremando. «Vorrei tanto avere una vittima sacrificale, un dono.» Non capii come mai, ma qualcosa prese vita dentro di me quando la sentii pronunciare quelle parole. Guardai prima la Madre e poi il Padre senza notare nulla di strano, eppure qualcosa era cambiato all'interno della cappella, qualcosa che forse Eudoxia percepì. Inspirai l'intensa fragranza che si levava dagli incensieri; guardai i fiori
tremolanti nei loro vasi; guardai gli occhi scintillanti della mia regina. «Che dono posso darti?» insistette lei mentre avanzava. «Cosa vorresti prendere da me che io possa donarti con tutta l'anima?» Si avvicinò sempre più ai gradini con le braccia protese. «Sono la tua schiava. Ero la tua schiava ad Alessandria, quando mi hai dato il tuo sangue per la prima volta, e lo sono anche adesso.» «Stai indietro», le ordinai all'improvviso, pur non sapendo perché. «Stai indietro e taci.» Ma lei continuò semplicemente ad avanzare, salendo i primi gradini della pedana. «Non vedi che dico sul serio?» mi chiese senza voltare la testa, fissando il re e la regina. «Lasciami essere la tua vittima, santissima Akasha, lasciami essere il tuo sacrificio di sangue, santissima regina.» In un lampo, il braccio destro di Akasha si alzò e la ghermì in un abbraccio brutale e violento. Un terribile gemito si levò da Eudoxia. La bocca imbellettata della regina si abbassò, con un lievissimo movimento del capo: intravidi i denti aguzzi solo per un istante, prima che penetrassero nel collo di Eudoxia. Quest'ultima rimase inerme, la testa reclinata da una parte, braccia e gambe che penzolavano flosce, mentre Akasha beveva da lei con il volto inespressivo, come sempre, mentre stringeva ancora più forte e continuava a bere. Rimasi immobile, orripilato, non osando sfidare nulla di quanto vedevo. Passarono solo pochi secondi, forse mezzo minuto, prima che Eudoxia emettesse un urlo animalesco e terribile. Cercò disperatamente di alzare le braccia. «Fermati, Madre, ti supplico!» gridai, e con tutta la mia forza afferrai Eudoxia. «Smettila, ti supplico, non prendere la sua vita! Risparmiala!» Tirai energicamente. «Risparmiala, Madre!» gridai. Sentii il corpo spostarsi nella mia stretta e lo staccai subito dal braccio ripiegato, che rimase sospeso nell'aria. Eudoxia respirava ancora, pur essendo livida, e gemeva pietosamente. Ricademmo entrambi all'indietro, giù dalla pedana, mentre il braccio di Akasha riprendeva la sua posizione secolare, le dita posate sulla coscia, come se nulla fosse successo. Ero steso scompostamente a terra, con Eudoxia che boccheggiava. «Volevi morire!» esclamai. «No», disse in tono disperato. Rimase sdraiata, con il seno che si solle-
vava e abbassava rapidamente, le mani tremanti, apparentemente incapace di alzarsi. Sollevai gli occhi per esaminare il volto della regina. Il sacrificio non le aveva arrossato le gote. E sulle labbra non c'erano tracce di sangue scarlatto. Ero esterrefatto. Presi in braccio Eudoxia e correndo la portai fuori dal sacrario, su per i gradini, lungo i vari tunnel e infine in casa. Ordinai a tutti gli altri di uscire dalla biblioteca, chiudendo energicamente la porta a doppio battente con i miei poteri mentali, quindi la adagiai sul divano per consentirle di riprendere fiato. «Ma dove hai trovato il coraggio di staccarmi da lei?» mi chiese. Mi si aggrappò al collo. «Tienimi stretta, Marius, non lasciarmi andare, non ancora. Non posso... non sono... tienimi stretta. Dove hai trovato il coraggio di opporti alla nostra regina?» «Stava per annientarti», replicai. «Stava per esaudire la mia preghiera.» «Quale preghiera?» domandò. Mi lasciò andare. Presi una sedia per sedermi accanto a lei. Il suo viso era tirato e tragico, gli occhi brillanti. Allungò una mano e mi strinse la manica. «Le ho chiesto un segno che mi rivelasse cosa desiderava», dichiarai. «Se preferiva essere consegnata a te, oppure restare con me. Lei ha parlato, e tu ora sai cosa desidera.» Lei scosse il capo, ma non per negare una qualsiasi delle mie affermazioni. Stava cercando di recuperare la lucidità mentale. Tentò di alzarsi dal divano, ma ricadde pesantemente all'indietro. Rimase stesa là a lungo, fissando il soffitto, senza che io riuscissi a captarne i pensieri. Cercai di prenderle la mano, ma la ritrasse e mi parlò sottovoce: «Tu hai bevuto il suo sangue. Possiedi il dono del fuoco e hai bevuto il suo sangue. E lei ha fatto questo in risposta alla tua preghiera». «Dimmi, cosa ti ha spinto a offrirti a lei?» chiesi. «Come mai hai pronunciato simili parole? Ti eri mai rivolta a loro, in Egitto?» «Mai», rispose con un mormorio eccitato. «Avevo dimenticato la bellezza.» Appariva confusa, debole. «Avevo dimenticato la qualità senza tempo», sussurrò. «Avevo dimenticato il silenzio che li avviluppava come una serie di veli.» Si voltò a fissarmi con aria languida. Si guardò intorno. Percepii la sua fame, la sua debolezza. «Sì», disse con un sospiro. «Chiama i miei schiavi, e lasciali uscire af-
finché mi portino una vittima sacrificale. Io sono troppo debole per farlo, proprio perché lo sono stata anch'io.» Uscii nel giardino e invitai la piccola banda di deliziosi bevitori di sangue a raggiungerla. Eudoxia poteva benissimo impartire da sola il suo sgradevole ordine. Quando uscirono per svolgere il loro incarico, tornai da lei. Era seduta, aveva il viso ancora tirato e le mani bianche che tremavano. «Forse sarei dovuta morire», affermò. «Forse era destino che morissi.» «Sarebbe questo il tuo destino?» domandai in tono sprezzante. «È destino che noi viviamo tutti e due a Costantinopoli, tu nella tua casa con i tuoi giovani compagni, e io qui nella mia. E ogni tanto dobbiamo organizzare una mescolanza dei nostri due gruppi che risulti gradevole. Io dico che è questo il destino.» Mi fissò con aria meditabonda, come se stesse riflettendo sull'affermazione, tanto quanto poteva riflettere su qualcosa dopo la recente esperienza nel sacrario. «Fidati di me», la implorai disperatamente, sottovoce. «Fidati di me per qualche tempo. E in seguito, se proprio dobbiamo separarci, che la nostra sia una separazione amichevole.» Lei sorrise. «Come se fossimo degli antichi greci?» chiese. «Perché dovremmo rinunciare alle buone maniere?» domandai. «Non erano forse alimentate dall'intelligenza come le arti che ancora ci circondano, la poesia che ancora ci consola e le commoventi storie di eroismo che ci distraggono dal crudele trascorrere del tempo?» «Le buone maniere?», ripeté lei in tono assorto. «Che strana creatura sei.» Mi era amica o nemica? Non lo capivo. I suoi giovani vampiri tornarono quasi subito con una vittima infelice e terrorizzata: un ricco mercante che ci guardò in cagnesco con occhi dilatati dall'ira, ma ci offrì spontaneamente del denaro in cambio della sua vita. Volevo mettere fine a quell'abominio. Non era mai successa una cosa simile sotto il mio tetto, e non potevo permettere che accadesse a una creatura che mi stava chiedendo pietà. Ma non feci in tempo a intervenire: nel giro di pochi secondi l'uomo venne costretto a inginocchiarsi, ed Eudoxia cominciò a bere il suo sangue, senza curarsi del fatto che io mi trovassi là a osservare lo spettacolo. Allora uscii dalla biblioteca e ne rimasi lontano, finché l'uomo morì e il suo cadavere sontuosamente abbigliato venne portato via.
Alla fine tornai nella stanza, esausto, indignato e confuso. Mi resi subito conto che Eudoxia si era ripresa e stava decisamente meglio dopo aver banchettato con quel disgraziato e mi fissava con attenzione. Stavolta mi sedetti perché non avevo motivo di restare in piedi, colmo di indignazione per una faccenda ormai conclusa, e mi sentii sprofondare nei miei pensieri. «Ci divideremo questa città?» chiesi pacatamente. La guardai. «Lo si può fare in pace?» «Non conosco la risposta alle tue domande», ammise lei. C'era qualcosa di stonato nella sua voce, nei suoi occhi, nei suoi modi. «Ora voglio lasciarti, ma parleremo ancora.» Radunò la sua banda di seguaci e se ne andarono tutti silenziosamente, uscendo dalla porta sul retro come li avevo pregati di fare. Rimasi seduto là, perfettamente immobile e stremato dall'accaduto, a chiedermi se si sarebbe verificato qualche cambiamento in Akasha, dopo che aveva tentato di bere il sangue di Eudoxia. Naturalmente non sarebbe cambiato nulla. Ripensai ai miei primi anni, quando mi ero sentito sicuro di poterla riportare in vita. E poco prima si era mossa, sì, si era mossa, ma com'era risultata orrenda l'espressione sul suo viso liscio e innocente, più vacua di quella dei mortali dopo la morte. Fui assalito da un orribile pensiero che fece sembrare la forza di Eudoxia più come un incanto che una maledizione. E, in preda a quel presentimento, fui colto da una terribile tentazione, un terribile pensiero ribelle: perché non avevo consegnato la Madre e il Padre a Eudoxia? Mi sarei sbarazzato di loro, mi sarei sbarazzato del fardello che portavo sin dalle primissime notti della mia esistenza tra i Non Morti. Perché non l'avevo fatto? Sarebbe stato così semplice. E io sarei stato finalmente libero. Mentre riconoscevo quel desiderio colpevole dentro di me, mentre lo vedevo divampare come un fuoco alimentato dal mantice, mi resi conto che durante quelle lunghe notti per mare, durante il viaggio verso Costantinopoli, avevo segretamente sperato che la nostra nave cozzasse contro qualcosa, che colassimo a picco e che Coloro-che-devono-essereconservati finissero in fondo all'oceano per non riaffiorare mai più. Io sarei potuto sopravvivere a qualsiasi naufragio, ma loro sarebbero rimasti sepolti proprio come mi aveva detto tanto tempo prima l'Anziano in Egitto, imprecando e cianciando, chiedendo: «Perché non li faccio affondare in mare?»
Oh, erano pensieri terribili. Non amavo Akasha? Non avevo dato in pegno la mia anima? Ero consumato dall'odio per me stesso e dal timore che la regina scoprisse il mio meschino segreto, ossia che desideravo sbarazzarmi di lei, che desideravo sbarazzarmi di tutti loro - Avicus, Mael, sicuramente Eudoxia e che, per la primissima volta, desideravo vagabondare liberamente come tanti altri; non avere nome né casa né meta, ma restare semplicemente da solo. Quelle riflessioni erano troppo dolorose, mi separavano da tutto ciò che ritenevo prezioso. Dovevo scacciarle dalla mente, ma prima che potessi riacquistare il controllo, Mael e Avicus entrarono di corsa in biblioteca per avvertirmi che era scoppiato un tafferuglio nei pressi della casa. «Lo senti?» chiese freneticamente Avicus. «Per gli dei», dissi, «perché tutta quella gente sta urlando?» Nella strada si era scatenato un gran clamore: alcuni stavano percuotendo le serrande delle nostre finestre, che non avrebbero retto per molto tempo prima di essere sfondate, altri scagliavano sassi contro la porta e i muri della nostra abitazione. «Cosa succede? Qual è il motivo di tutto ciò?» domandò Mael, disperato. «Ascoltate!» esclamai furiosamente. «Stanno urlando che abbiamo attirato un ricco mercante dentro casa per ucciderlo e poi gettato il corpo sulla strada! Oh, dannata Eudoxia, ora capisco qual era il suo scopo. Ha fatto in modo che la folla insorgesse contro di noi! Ci resta giusto il tempo di rifugiarci nel sacrario.» Li guidai fino all'entrata, sollevai la pesante lastra di marmo che immetteva nel passaggio, sapendo benissimo che lì eravamo al sicuro, ma non saremmo stati in grado di proteggere la nostra dimora. Non potemmo fare altro che restare in ascolto, mentre la folla inferocita irrompeva all'interno e saccheggiava l'abitazione, distruggendo la mia nuova biblioteca e tutto ciò che possedevo. Non ci fu bisogno di sentire le urla degli assalitori per capire che avevano appiccato il fuoco alla casa. Alla fine, quando al piano di sopra tornò la quiete, quando i pochi saccheggiatori rimasti stavano lasciando la casa, passando tra travi fumanti e macerie, uscimmo dal tunnel e fissammo le rovine con profondo disgusto. Quando la nostra apparizione spaventò quella residua plebaglia, che si diede alla fuga, ci assicurammo che l'ingresso al tempietto fosse davvero sicuro e ben nascosto, e infine raggiungemmo una taverna affollata dove,
seduti a un tavolo in mezzo ai mortali, potevamo parlare in santa pace. Per noi fuggire in quel modo era stato incredibile, ma cos'altro potevamo fare? Riferirii ad Avicus e Mael cos'era accaduto nel santuario, come Eudoxia fosse stata privata di quasi tutto il sangue dalla Madre e come fossi intervenuto per salvarle la vita. Spiegai com'era andata con il mercante mortale portato dentro casa e poi, ormai cadavere, gettato fuori. «Hanno lasciato il suo corpo là dove sarebbe stato sicuramente trovato», affermò Avicus. «Hanno fatto in modo che la folla si radunasse.» «Sì. La nostra casa non esiste più», dichiarai alla fine, «e il sacrario sarà per noi inaccessibile finché, sotto falso nome, non riuscirò ad acquistate quel che resta della casa. Inoltre, la famiglia del mercante esigerà che sia fatta giustizia e chiederà la mia condanna. Se voi due rimanete con me, potrei non riuscire a ricomprare la casa.» «Cosa si aspetta Eudoxia da noi?» chiese Avicus. «Questo è un oltraggio nei confronti di Coloro-che-devono-essereconservati», dichiarò Mael. «Lei sa che il sacrario si trova sotto la casa, eppure ha fomentato una sommossa per distruggerla.» Lo fissai, pronto a condannarlo per la sua ira, ma all'improvviso capii che aveva ragione. «Non ci avevo pensato», ammisi, «ma credo che tu abbia perfettamente ragione: è stato un oltraggio nei confronti di Coloro-che-devono-essereconservati.» «Oh, sì, lei ha offeso la Madre», confermò Avicus. «Non c'è dubbio. Di giorno i ladri potrebbero spaccare il pavimento che ostruisce l'entrata del tempietto sottostante.» Una tremenda tristezza si impadronì di me. Includeva una rabbia pura, giovanile, che alimentò la mia forza di volontà. «Cosa c'è?» chiese Avicus. «Hai cambiato espressione. Rivelaci subito i tuoi pensieri, ti prego, con il cuore.» «Non sono così sicuro di poterli esprimere a parole», precisai, «ma li conosco, e non promettono niente di buono per Eudoxia o coloro che lei sostiene di amare. Schermate completamente le vostre menti così da non fornire alcun indizio su dove siete. Uscite subito dalla città e nascondetevi tra le colline prima che sorga il sole. Domani ci incontreremo in questa taverna.» Li accompagnai per un tratto di strada, quindi, vedendoli dirigersi verso le colline senza correre rischi, andai subito a casa di Eudoxia.
Per me fu facile udire che dietro la porta sostavano alcuni dei suoi schiavi vampiri, a cui ordinai bruscamente di aprirmi la porta. Eudoxia, arrogante come sempre, li esortò a fare quanto chiedevo. Una volta dentro casa, vedendo i due giovani bevitori di sangue, cominciai a tremare di rabbia: non potevo esitare e li bruciai all'istante. Quel fuoco violento mi fece boccheggiare e tremare, ma non avevo tempo di soffermarmi sulla scena. Asphar stava per fuggire; Eudoxia mi urlò ferocemente di fermarmi, ma io lo bruciai, trasalendo nell'udire le sue urla miserevoli, mentre continuavo a lottare contro gli enormi poteri di Eudoxia con tutta la potenza che riuscivo a radunare. In realtà il fuoco diretto contro il mio petto fu tanto ustionante che temetti di morire, ma irrigidii il corpo e le scagliai contro il mio dono del fuoco, con tutta la sua potenza. Nel frattempo, gli schiavi mortali stavano fuggendo, lanciandosi fuori casa da ogni porta e finestra. Eudoxia mi si avventò contro, le mani strette a pugno, il viso deformato dalla collera. «Perché mi fai una cosa del genere?» chiese. La ghermii mentre combatteva e le sue ondate di calore mi passavano sopra la testa. La spinsi fuori dalla casa, trascinandola lungo le strade buie, verso le macerie fumanti sopra il sacrario. «Hai inviato la plebaglia a distruggere la mia dimora», dissi. «Lo hai fatto dopo che ti ho salvato, lo hai fatto mentre mi ingannavi con i tuoi ringraziamenti.» «Non ti ho ringraziato», puntualizzò lei, dimenandosi e lottando; il suo calore mi sfiniva, mentre cercavo di tenerla a bada, e le sue mani si opponevano alle mie con incredibile forza. «Hai pregato per la mia morte, hai pregato la Madre di annientarmi», gridò. «Me l'hai confessato tu stesso.» Alla fine raggiunsi il fumante cumulo di legname e macerie; trovai la lastra rivestita di mosaici che chiudeva la botola, la sollevai con le mie doti mentali, dando così a Eudoxia il tempo di scagliarmi contro il viso una zaffata ustionante. La sentii come un mortale potrebbe sentire sulla pelle dell'acqua bollente, ma ormai la massiccia botola era aperta. Riuscii a proteggermi dai successivi attacchi di Eudoxia, mentre, richiudendomi alle spalle la gigantesca lastra di pietra con una mano, la tenevo stretta con l'altra, poi cominciai a trascinarla lungo il labirinto di passaggi che portava al tempio. Lei continuava a colpirmi con il suo calore che mi ustionava; sentivo
l'odore dei miei capelli strinati e vedevo il fumo nell'aria intorno. Indubbiamente lei riusciva a riportare alcune vittorie a dispetto della mia potenza. Tuttavia continuai a schivare i suoi attacchi e, senza mai allentare la presa, aprii le varie porte, una dopo l'altra, respingendo il suo potere persino mentre inciampavo. Continuai a trascinarla verso il sacrario. Nulla sarebbe riuscito a fermarmi, ma non potevo ferirla con tutta la mia forza; quel privilegio era riservato a qualcuno molto più grande di me. Infine raggiungemmo la cappella e gettai Eudoxia sul pavimento. Proteggendomi da lei con tutta la mia energia posai gli occhi sulla Madre e sul Padre, solo per vedere la stessa immagine muta che aveva sempre incontrato il mio sguardo. Non ottenendo altri segni e respingendo l'ennesima, distruttiva ondata di calore, sollevai Eudoxia prima che potesse alzarsi in piedi e, bloccandole i polsi dietro la schiena, la offrii alla Madre avvicinandomi tanto quanto osavo fare, senza scompigliarle gli abiti, senza commettere, in nome del gesto che intendevo compiere, quello che giudicavo un sacrilegio. Il braccio destro della Madre si allungò verso Eudoxia, staccandosi, per così dire, dalla placidità di Akasha e, ancora una volta, la sua testa fece quel movimento lieve, sottile e totalmente grottesco, le labbra che si socchiudevano rivelando le zanne. Eudoxia gridò mentre la lasciavo andare e indietreggiavo. Un enorme sospiro disperato mi sgorgò dalle labbra. Ah, così sia! Rimasi a guardare, in preda a un silenzioso orrore, mentre Eudoxia diventava la vittima della Madre, le braccia che si agitavano senza speranza, e le ginocchia premevano contro la Madre, finché il suo corpo esanime scivolò a terra, sottraendosi all'abbraccio della regina. Una volta stesa sul pavimento di marmo sembrò una deliziosa bambola di cera bianca. Non emetteva alcun respiro udibile. I tondi occhi scuri erano fissi nel vuoto. Ma non era morta, no, niente affatto. Era il corpo di un bevitore di sangue, con l'anima di un bevitore di sangue. Solo il fuoco poteva ucciderlo. Rimasi in attesa, tenendo a bada i miei poteri. Molto tempo prima, ad Antiochia, quando sgraditi vampiri l'avevano aggredita, la Madre aveva usato i propri poteri mentali per sollevare una lanterna e bruciare i loro resti con il fuoco e l'olio. Aveva riservato lo stesso trattamento ai resti dell'Anziano in Egitto, come ho già descritto. Lo avrebbe fatto anche stavolta? Accadde una cosa più semplice.
All'improvviso vidi le fiamme erompere dal seno di Eudoxia per poi scorrerle selvaggiamente nelle vene. Il suo viso rimase dolce e impassibile, gli occhi vitrei. Le membra si contrassero. Non fu il mio dono del fuoco a provocare quell'esecuzione. Fu il potere di Akasha. Di cos'altro avrebbe potuto trattarsi? Un nuovo potere, rimasto dormiente dentro di lei per secoli, adesso le era forse noto a causa di Eudoxia e me? Non osavo tentare di indovinare. Non osavo fare domande. Subito le fiamme che si levavano dal sangue altamente combustibile del corpo preternaturale si propagarono sui pesanti indumenti ornati, fino ad avviluppare l'intera forma. Si spensero solo parecchio tempo dopo, lasciando un mucchietto scintillante di ceneri. La creatura intelligente e colta che era stata Eudoxia non esisteva più. La creatura scaltra e affascinante che aveva vissuto così agiatamente e tanto a lungo non esisteva più. L'essere che aveva suscitato in me tante speranze quando l'avevo vista e ne avevo sentito la voce per la prima volta, non esisteva più. Mi tolsi il mantello, inginocchiandomi come una donna delle pulizie, e raccolsi quella sostanza che contaminava il tempio e poi mi sedetti in un angolo, esausto, con la testa posata sul muro. Infine, con mia profonda sorpresa - forse con profonda sorpresa della Madre e del Padre - mi abbandonai alle lacrime. Piansi a lungo per Eudoxia e anche per me stesso, che avevo arso brutalmente quei giovani vampiri, quegli immortali stolti e privi di istruzione e disciplina che erano nati alle tenebre, come diciamo ora, solo per diventare semplici pedine in una zuffa. Avvertivo dentro di me una crudeltà che potevo soltanto aborrire. Alla fine, sicuro che la mia cripta sotterranea restava inespugnabile perché ormai i saccheggiatori brulicavano tra le rovine soprastanti - mi stesi per il sonno diurno. Sapevo cosa intendevo fare la notte seguente, e nulla avrebbe potuto farmi cambiare idea. 12 La sera dopo, incontrai Avicus e Mael nella taverna. Erano terrorizzati, mentre ascoltavano il mio racconto con gli occhi sgranati.
Avicus rimase annientato dalle notizie, Mael no. «Distruggerla?» chiese Avicus. «Perché è stato necessario?» Non sentendo alcun falso bisogno virile di celare il dolore e la tristezza, cominciò a piangere. «Lo sai», lo consolò Mael. «La sua ostilità non avrebbe mai avuto fine. Marius lo sapeva. Non tormentarlo con le tue domande. Non poteva evitarlo.» Non fui in grado di parlare, perché io stesso nutrivo troppi dubbi sul mio operato: era stato così definitivo e improvviso! Ripensandoci, avvertivo una morsa al cuore e al petto, una sorta di panico che proveniva dal corpo invece che dal cervello. Mi appoggiai allo schienale, osservando i miei due compagni e riflettendo su cosa aveva significato per me il loro affetto. Era stato molto dolce e non avrei voluto lasciarli, ma era proprio quello che mi proponevo di fare. Alla fine, dopo che ebbero discusso pacatamente per qualche minuto, dissi loro di ascoltarmi. Sulla faccenda di Eudoxia restavano solo un paio di cose da dire. «È stata la mia rabbia a richiederlo», spiegai, «perché quale altra parte di me, se non la rabbia, aveva ricevuto l'insulto di ciò che lei ci aveva fatto distruggendo la nostra casa? Non rimpiango che Eudoxia non esista più, no, non ci riesco. Inoltre, come vi ho appena spiegato, è stato fatto solo tramite un'offerta alla Madre; quanto al motivo per cui lei desiderava una tale offerta, e l'ha accettata, questo lo ignoro. «Molto tempo fa, ad Antiochia, ho offerto vittime ai Divini Genitori. Ho portato nel tempio i malfattori, drogati e inconsapevoli. Ma né la Madre né il Padre hanno mai accettato quel sangue. «Non so come mai la Madre abbia bevuto da Eudoxia, so solo che Eudoxia aveva offerto se stessa e io avevo pregato per un segno. Adesso questa faccenda è finita: Eudoxia non esiste più, nonostante tutta la sua bellezza e il suo fascino. «Ma ascoltate attentamente quello che devo dirvi: Sto per lasciarvi. Sto per lasciare questa città, che detesto, e porterò con me la Madre e il Padre, naturalmente. Sto per lasciarvi e vi prego di restare insieme, come sono sicuro che intendete fare, perché il vostro amore reciproco è la fonte della vostra resistenza e della vostra forza.» «Ma perché vuoi lasciarci?» esclamò Avicus. Il suo viso espressivo era carico di emozione. «Come puoi fare una cosa del genere? Siamo stati felici qui, noi tre, abbiamo cacciato insieme, abbiamo trovato una miriade di
malfattori. Perché te ne vuoi andare, adesso?» «Ho bisogno di solitudine», dichiarai. «Era così in passato ed è così anche ora.» «Marius, è una follia», commentò Mael. «Finirai di nuovo nella cripta con i Divini Genitori, dormendo finché diventerai troppo debole per svegliarti da solo.» «Forse, ma se succederà una cosa del genere», replicai, «potete stare più che certi che Coloro-che-devono-essere-conservati saranno al sicuro.» «Non ti capisco», disse Avicus, e ricominciò a piangere; piangeva tanto per Eudoxia quanto per me. Non tentai di farlo smettere. La taverna, immersa nella penombra, era sovraffollata e nessuno badava a una creatura, magari ubriaca, per quanto si trattasse di una splendida figura maschile, che si copriva il viso con la sua mano bianca, mentre piangeva sulla sua coppa di vino e si asciugava le lacrime. Mael sembrava terribilmente abbattuto. «Devo andare», spiegai. «Dovete capire che il segreto della Madre e del Padre va tutelato. Finché io resto con voi, non è al sicuro. Tutti gli immortali, persino quelli deboli come gli schiavi di Eudoxia, Asphar e Rashid, possono leggervelo nella mente.» «Come fai a sapere che l'hanno fatto?» protestò Mael. Oh, era tutto troppo triste, ma non potevo lasciarmi frenare. «Se sono solo», dichiarai, «soltanto io conosco il segreto di dove i Divini Genitori siedono solenni o dormono riversi.» Mi interruppi, sentendomi infelice e rimpiangendo che non fosse stato possibile fare tutto in modo semplice, e disprezzandomi come forse non ho mai fatto. Mi chiesi di nuovo perché avessi abbandonato Pandora, e all'improvviso mi parve di aver messo fine all'esistenza di Eudoxia per lo stesso motivo; pensai che nella mia mente quelle due creature fossero più legate di quanto non fossi disposto ad ammettere. Ma no, non era vero. In realtà non lo sapevo per certo. Sapevo soltanto che ero una creatura tanto debole quanto forte e che avrei potuto amare Eudoxia, forse profondamente come avevo amato Pandora, se il tempo me ne avesse dato la possibilità. «Resta con noi», mi supplicò ancora Avicus. «Non ti biasimo per ciò che hai fatto. Non devi andartene perché pensi altrimenti. Sono caduto vittima del suo incantesimo, sì, lo ammetto, ma non ti disprezzo per ciò che hai fatto.»
«Lo so», replicai, prendendogli la mano e cercando di rassicurarlo. «Ma devo stare da solo.» Non potevo consolarlo. «Ora ascoltatemi», dissi. «Sapete bene come trovarvi un nascondiglio. Dovete assolutamente farlo. Io andrò nella vecchia casa di Eudoxia a organizzare la mia partenza, visto che non ho un'altra dimora in cui poter lavorare. Potete venire con me, se volete, e scoprire quali cripte potrebbero trovarsi sotto l'edificio, ma è pericoloso.» Dissero entrambi che preferivano non avvicinarsi all'abitazione di Eudoxia. «Benissimo, vi dimostrate saggi come sempre. Ora vi lascio ai vostri progetti. Non partirò subito da Costantinopoli: ci sono ancora luoghi che voglio rivisitare, tra cui le grandi chiese, e persino il palazzo imperiale. Venite a cercarmi a casa di Eudoxia, altrimenti vi rintraccerò io.» Li baciai entrambi, come si baciano gli uomini, rudemente, con gesti burberi e veementi e con energici abbracci, poi me ne andai per restare da solo come tanto desideravo. La dimora di Eudoxia era completamente deserta, ma alcuni schiavi mortali erano passati di là e avevano lasciato le lampade accese quasi in ogni stanza. Perlustrai con estrema cura quelle sontuose sale senza trovare nessuno: non c'erano altri bevitori di sangue da scoprire. I sontuosi salotti e la biblioteca erano ammantati da una sottile cappa di silenzio, l'unico suono era quello prodotto dalle numerose fontane del grazioso giardino interno, dove il sole poteva penetrare durante il giorno. Sotto la casa c'erano cripte con massicci sarcofagi di bronzo che contai per assicurarmi di aver davvero annientato tutti gli schiavi vampiri di Eudoxia. Rintracciai senza difficoltà la cripta dove lei giaceva durante le ore diurne; conteneva ancora tutti i suoi tesori e ricchezze: due magnifici sarcofagi riccamente ornati con oro e argento e rubini e smeraldi e grandi perle perfette. Non avevo idea del perché fossero due. Potevo soltanto ipotizzare che un tempo avesse avuto un compagno. Mentre esaminavo quella magnifica sala, un dolore straziante mi attanagliò; un dolore simile alla pena che avevo provato a Roma, quando avevo capito di aver perso irrimediabilmente Pandora e che nulla avrebbe potuto ricondurla da me. Anzi, fu addirittura peggiore perché sapevo che Pandora esisteva sicuramente in un luogo imprecisato, mentre Eudoxia no.
Mi inginocchiai accanto a uno dei sarcofagi, ripiegai le braccia sotto la testa e piansi come la notte precedente. Mi trovavo lì da poco più di un'ora, in preda a un senso di colpa morboso e infelice, quando all'improvviso udii dei passi sulle scale. Non si trattava di un mortale, lo capii subito, e percepii anche che non era un bevitore di sangue che avessi già visto. Decisi di non muovermi; chiunque fosse, non era forte, anzi, era una creatura talmente debole e giovane da lasciarmi udire il rumore prodotto dai suoi piedi nudi. Apparve silenziosamente nella luce delle fiaccole una fanciulla, forse non più vecchia di Eudoxia quando era stata resa immortale; aveva i capelli neri e divisi da una scriminatura centrale che le ricadevano sulle spalle, gli abiti eleganti come quelli di Eudoxia. Il viso era perfetto, gli occhi angustiati e scintillanti, la bocca scarlatta. Stava arrossendo a causa del tessuto umano che ancora possedeva. E la dolorosa serietà della sua espressione rendeva ancora più notevoli tutte le fattezze e la linea decisa delle labbra carnose. Naturalmente dovevo aver visto da qualche parte qualcuno più bello di lei, ma non riuscii a rammentarlo. Ero talmente intimidito, davvero, talmente sbalordito da quell'avvenenza che mi sentivo un perfetto idiota. Eppure capii subito che la ragazza era stata l'amante vampira di Eudoxia, che era stata scelta perché impareggiabilmente bella oltre che estremamente colta e intelligente, e che Eudoxia, prima di convocarci, l'aveva nascosta chissà dove. L'altro sarcofago presente nella stanza apparteneva a quella fanciulla. Era stata molto amata. Sì, tutto ciò appariva logico ed evidente, e per il momento non fui costretto a parlare. Dovevo solo fissare la creatura radiosa ferma sulla soglia della cripta, la fiaccola che fiammeggiava sopra la sua testa, i suoi occhi angosciati posati su di me. Alla fine parlò con un sussurro smorzato. «L'hai uccisa, vero?» chiese. Non aveva paura, grazie alla mera gioventù o a una considerevole audacia. «L'hai annientata. Non esiste più.» Mi alzai in piedi come se me l'avesse ordinato una regina. I suoi occhi mi studiarono, poi il suo viso si fece tristissimo ed ebbi la precisa sensazione che stesse per stramazzare al suolo. La afferrai giusto in tempo, la sollevai tra le braccia e salii lentamente i gradini di marmo. Lei lasciò ricadere la testa contro il mio petto, emettendo un profondo
sospiro. La portai nell'elegantissima camera e la deposi sull'enorme letto, ma rifiutò di sdraiarsi, mettendosi invece seduta. Presi posto al suo fianco, aspettando che mi interrogasse, che diventasse violenta, che sfogasse il suo odio su di me, pur avendo pochissima forza. Doveva essere stata trasformata in vampiro meno di dieci anni prima, e probabilmente all'epoca non aveva avuto più di quattordici anni. «Dov'eri nascosta?» chiesi. «In una vecchia casa», mormorò. «Un luogo deserto. Lei ha insistito perché restassi là. Ha promesso di mandarmi a prendere.» «Quando?» «Quando avesse finito con te, quando tu fossi stato annientato o scacciato.» Mi guardò. Non era altro che una squisita donna-bambina! Avrei tanto voluto baciarle le gote, ma la sua tristezza era terribile. «Disse che ci sarebbe sicuramente stata una battaglia», raccontò, «che tu eri uno dei più forti che fossero mai giunti qui. Con gli altri era stato facile, ma nel tuo caso non era sicura dell'esito finale, quindi doveva nascondermi.» Annuii. Non osavo toccarla, ma non provavo il desiderio di proteggerla, di prenderla tra le braccia, di dirle che se voleva picchiarmi i pugni sul petto e maledirmi doveva farlo, che se voleva piangere doveva fare anche quello. «Perché non parli?» mi chiese, gli occhi colmi di dolore e meraviglia. «Perché sei così silenzioso?» Scossi il capo. «Cosa posso dire?» domandai. «È stata una lotta terribile. Non la desideravo; pensavo che potessimo vivere tutti qui, in pace.» A quelle parole sorrise. «Lei non l'avrebbe mai permesso», si affrettò a dire. «Se sapessi quanti ne ha annientati... ma in fondo non lo so nemmeno io.» Era una lieve consolazione per la mia coscienza, eppure non mi ci aggrappai; la lasciai andare. «Diceva che questa città apparteneva a lei, e che era necessario il potere di un'imperatrice per proteggerla. Mi ha tolto dal palazzo, dove ero una schiava. Una notte mi ha portato qui, ed ero così spaventata, ma poi ho imparato ad amarla. Lei era sicurissima che l'avrei fatto. Raccontava storie così incredibili sulle sue peregrinazioni. Quando arrivavano gli altri mi nascondeva, e li combatteva finché la città non ridiventava sua.»
Annuii mentre ascoltavo tutto ciò, sentendomi triste per lei e per il modo sonnolento e afflitto in cui parlava. Non appresi nulla di più di quanto avevo già immaginato. «Come farai a sopravvivere se ti lascio qui?» chiesi. «Non riuscirò a sopravvivere!» rispose. Mi guardò negli occhi. «Non puoi abbandonarmi, devi prenderti cura di me. Ti supplico. Non so cosa significa esistere da sola.» Imprecai sommessamente. La fanciulla mi sentì e io vidi il dolore nella sua espressione. Mi alzai e presi a misurare la stanza a grandi passi. Mi voltai a guardare la donna-bambina, con la bocca tenera e i lunghi capelli neri sciolti. «Come ti chiami?» domandai. «Zenobia», rispose. «Perché non riesci a leggermelo nella mente? Lei riusciva sempre a leggermi il pensiero.» «Potrei farlo, se lo volessi», spiegai, «ma preferisco parlare con te. La tua bellezza mi confonde. Preferisco sentire la tua voce. Chi ti ha trasformato in vampiro?» «Uno dei suoi schiavi», disse. «Quello chiamato Asphar. Neanche lui esiste più, vero? Nessuno di loro esiste più. Ho visto le ceneri.» Fece un gesto vago in direzione delle altre stanze. Mormorò una serie di nomi. «Sì», confermai, «sono tutti morti.» «Avresti ucciso anche me, se mi fossi trovata qui», dichiarò, con la stessa espressione sconcertata e ferita. «Forse», ammisi. «Ma ormai è tutto finito. È stata una battaglia, e quando una battaglia termina, tutto cambia. Chi altri è rimasto nascosto?» «Nessuno», rispose sinceramente, «solo io, con uno schiavo mortale, che stanotte, quando mi sono svegliata, è scomparso.» Dovevo apparire estremamente abbattuto perché mi sentivo sicuramente tale. Lei si voltò con le movenze di una persona intontita, infilò una mano sono i pesanti cuscini ed estrasse un pugnale. Subito dopo si alzò volgendosi verso di me, tenendo il pugnale sollevato con entrambe le mani e puntato verso il mio petto. Guardava fisso davanti a sé, ma non i miei occhi. I lunghi e ondulati capelli neri le ricadevano ai lati del viso. «Dovrei vendicarmi», annunciò quietamente, «ma se ci provo, tu ti limiterai a fermarmi.» «Non provarci», le consigliai nello stesso tono calmo che avevo sempre
usato con lei. Alzai una mano e spinsi delicatamente da parte il pugnale. «Come mai Eudoxia non ti ha dato il Sangue?» volli sapere. «Il suo sangue era troppo forte per noi. Così diceva. Tutti i suoi schiavi bevitori di sangue erano stati rapiti o trasformati l'uno dall'altro, dietro suo ordine. Diceva che il suo sangue non doveva essere condiviso. Sarebbe stato accompagnato da forza e silenzio. Crea un bevitore di sangue e in seguito non puoi più udirne i pensieri. Ecco cosa ci diceva. Così mi creò Asphar, e io ero sorda ad Asphar come lui lo era a me. Lei doveva mantenerci tutti ubbidienti e non ci sarebbe riuscita se fossimo stati creati dal suo sangue potente.» Ora mi addolorava che Eudoxia fosse l'insegnante, e fosse morta. La fanciulla mi osservò, poi proseguì, con il più ingenuo dei toni. «Perché non mi vuoi? Cosa posso fare perché tu mi voglia?» chiese dolcemente. «Sei molto bello con quei capelli biondo chiaro. Sembri un dio, davvero, alto come sei e con quegli occhi azzurri. Anche lei ti considerava bellissimo. Me lo confessò, anche se non mi permise mai di vederti, ma mi spiegò che somigliavi agli uomini del Nord. Ti ha descritto mentre te ne andavi in giro con i tuoi abiti rossi...» «Non aggiungere altro, ti prego», le chiesi. «Non devi adularmi, perché non farà alcuna differenza: io non posso prenderti con me.» «Perché?» domandò. «Perché so della Madre e del Padre?» Rimasi scioccato. Avrei dovuto leggerle i pensieri, tutti, carpirle dall'anima tutto ciò che sapeva, ma non volevo farlo. Preferivo non assaporare quella sensazione di intimità, con lei. La sua bellezza era davvero eccessiva, impossibile negarlo. Diversamente dal mio modello di perfezione, Pandora, quella adorabile fanciulla racchiudeva la promessa di una vergine - la possibilità di poter fare di lei ciò che volevi, pur non perdendo nulla - ed ero convinto che quella promessa contenesse una menzogna. Le risposi con un sussurro affettuoso, cercando di non ferirla. «È proprio questo il motivo per cui non posso prenderti. Inoltre devo stare da solo.» Lei chinò il capo. «Cosa devo fare?» chiese. «Dimmelo. Qui verranno degli uomini, uomini mortali, a esigere le imposte su questa casa o qualche altra banalità, e io verrò scoperta e chiamata strega o eretica e trascinata per le strade. Oppure arriveranno durante il giorno e mi troveranno sotto il pavimento, immobile come un cadavere, e nel tentativo di rianimarmi mi porteranno su fino alla morte sicura nella luce del sole.» «Smettila, so tutto», replicai. «Non vedi, sto cercando di riflettere! La-
sciami solo per qualche istante.» «Se ti lascio solo», annunciò, «comincerò a piangere o a urlare di dolore, e tu non riuscirai a sopportarlo. Mi abbandonerai.» «No, non lo farò», promisi. «Taci.» Ripresi a camminare a grandi passi, il cuore che soffriva per lei, e l'anima ferita da quanto mi stava succedendo. Sembrava una punizione giusta, ma terribile, per la mia uccisione di Eudoxia. In realtà la fanciulla sembrava il fantasma sorto dalle ceneri di Eudoxia per tormentarmi, proprio mentre progettavo la fuga da quello che avevo fatto. Alla fine chiamai silenziosamente Avicus e Mael; usando i più forti tra i miei poteri psichici gli chiesi, no, ordinai loro di raggiungermi a casa di Eudoxia: spiegai che avevo bisogno di loro e che li aspettavo. Poi mi sedetti accanto alla giovane e feci quello che avevo desiderato sin dall'inizio: le spostai dietro le spalle gli spessi capelli neri e le baciai le gote morbide. Erano baci avidi, me ne rendevo conto, ma la consistenza della pelle levigata come quella di un bambino e della folta chioma ondulata mi indusse a una tranquilla follia, e non volevo fermarmi. Lei rimase sbalordita da quell'intimità, ma non fece nulla per spingermi via. «Eudoxia ha sofferto?» mi chiese. «Pochissimo o nulla», risposi. Smisi di baciarla. «Ma spiegami come mai non ha semplicemente tentato di annientarmi. Perché mi ha invitato qui? Perché ha parlato con me? Perché mi ha fatto sperare che potessimo accordarci?» Zenobia rifletté, prima di rispondere. «Ai suoi occhi possedevi un fascino che altri non avevano», spiegò. «Non dipendeva solo dalla tua avvenenza, benché per lei la bellezza rappresentasse una componente importante. Mi disse di aver sentito parlare di te da una bevitrice di sangue a Creta, molto tempo fa.» Non osai interromperla! La fissai con gli occhi sgranati. «Molti anni fa», aggiunse, «quella bevitrice di sangue romana era giunta sull'isola di Creta, cercandoti e parlando di Marius: il romano, patrizio di nascita, studioso per scelta. La donna ti amava. Non sfidò l'autorità di Eudoxia, che rivendicava tutta l'isola. Cercava soltanto te e quando scoprì che non c'eri andò altrove.» Non riuscivo a parlare! Mi sentivo talmente infelice ed eccitato da non poterle rispondere. Era Pandora! Ed era la prima volta in trecento anni che la sentivo menzionare.
«Non piangere», mi disse gentilmente Zenobia. «È successo secoli fa. Il tempo riesce sicuramente a cancellare un simile amore, altrimenti è una vera maledizione.» «Non ci riesce», dichiarai. Avevo la voce roca e gli occhi colmi di lacrime. «Cos'altro ha detto? Ti prego, rivelami anche i più minimi dettagli che riesci a rammentare.» Il cuore mi martellava nel petto. In effetti era come se avessi dimenticato di avere un cuore e dovessi scoprirlo soltanto adesso. «Cos'altro? Non c'è altro. Solo che la donna era potente e un degno avversario per Eudoxia. Sai che lei parlava sempre di simili questioni. La donna non poteva essere annientata né era disposta a rivelare l'origine della sua grande forza. Per Eudoxia era un mistero. Poi tu sei venuto a Costantinopoli e lei ha visto Marius il romano, con i brillanti indumenti rossi, che si aggirava per la piazza, pallido come marmo, eppure con tutta la convinzione di un uomo mortale.» Si interruppe. Alzò una mano per toccarmi il viso. «Non piangere. È proprio questo che ha detto: 'Con tutta la convinzione di un uomo mortale'.» «Come hai saputo della Madre e del Padre? E cosa significano per te queste parole?» «Eudoxia parlava di loro con meraviglia», spiegò. «Diceva che tu eri avventato, se non pazzo. Ma vedi, imboccava una direzione e poi quella opposta, il che era parte integrante della sua natura. Ti malediceva perché la Madre e il Padre si trovavano in questa stessa città, eppure voleva portarti qui a casa sua. Ecco perché io dovevo restare nascosta: tenne con sé i ragazzi di cui le importava ben poco. Io, invece, dovevo stare al sicuro.» «E la Madre e il Padre?» domandai. «Sai cosa sono?» Scosse il capo. «So solo che li hai tu, o almeno li avevi quando lei ne parlava. Sono i primi di noi?» Non le risposi, ma le credevo, ero sicuro che non sapesse altro che quello, per quanto eclatante. Le penetrai nella mente, facendo appello alla mia capacità di conoscere il suo passato e presente, di scoprire i suoi pensieri più intimi e fortuiti. Lei mi guardò con occhi limpidi e fiduciosi, come se sentisse cosa le stavo facendo, e diede l'impressione di non volermi nascondere alcunché. Cosa appresi, però? Solo che mi aveva detto la verità. Non so altro della tua bellissima bevitrice di sangue. Fu paziente con me, poi giunse un'ondata di autentica sofferenza. Amavo Eudoxia. Tu l'hai annientata. E ora non
puoi lasciarmi sola. Mi alzai e ripresi ad aggirarmi per la stanza. I sontuosi arredi bizantini rischiavano di soffocarmi; gli spessi e ornati drappi appesi sembravano riempire l'aria di polvere. Inoltre, da lì non riuscivo a intravedere il cielo notturno: eravamo troppo lontani dal giardino nella corte interna. Ma cosa desideravo, ormai? Solo liberarmi di quella creatura? No! Liberarmi del fatto di conoscerla, di sapere della sua esistenza, di averla mai vista, ed era impossibile, giusto? All'improvviso un suono mi interruppe e capii che finalmente Avicus e Mael erano arrivati. Riuscirono a trovare il modo di raggiungere la camera nel labirinto di stanze, e quando entrarono rimasero sbalorditi vedendo la splendida fanciulla seduta su un lato dell'enorme letto dalle cortine pesanti. Rimasi in silenzio, mentre loro assorbivano lo shock. Avicus fu subito attratto da Zenobia, tanto quanto lo era stato da Eudoxia, benché la creatura non avesse ancora aperto bocca. In Mael, invece, scorsi la diffidenza e un pizzico di preoccupazione. Mi guardò con aria interrogativa. Non rimase affascinato dalla bellezza della sconosciuta, mantenne un totale controllo sulle sue emozioni. Avicus le si avvicinò e, mentre lo osservavo, mentre osservavo i suoi occhi fiammeggiare di passione per lei, vidi una via d'uscita. La vidi chiaramente e, facendolo, provai un terribile rimpianto. Sentii il mio solenne giuramento di restare solo gravarmi sulle spalle, come se lo avessi pronunciato in nome di un dio, e forse era davvero così. Lo avevo pronunciato in nome di Coloro-che-devono-essere-conservati. Ma non dovevo pensare più a loro, non in presenza di Zenobia. Quanto alla donna-bambina, era di gran lunga più attratta da Avicus, forse a causa dell'immediata e palese devozione di lui, che non dal distaccato e vagamente sospettoso Mael. «Grazie di essere venuti», dissi. «Perdonatemi se vi ho chiesto di farlo, nonostante la vostra decisione di non voler mettere piede in questa casa.» «Cos'è successo?» chiese Mael. «Chi è questa creatura?» «La compagna di Eudoxia, era stata allontanata dalla sua protezione finché non si fosse conclusa la battaglia con noi e, ora che è finita, ecco qui la bambina.» «Bambina?» chiese gentilmente Zenobia. «Non sono una bambina.» Avicus e Mael le sorrisero con aria indulgente, a dispetto della sua espressione solenne e carica di disapprovazione.
«Sono vecchia come Eudoxia», raccontò, «quando le venne dato il Sangue. 'Non creare mai un vampiro di età più avanzata', diceva, 'perché, in seguito, quest'ultima può condurre unicamente all'infelicità dovuta ad abitudini apprese nella vita mortale.' Tutti i suoi schiavi ricevettero il Sangue alla mia stessa età, quindi non erano più bambini, bensì bevitori di sangue pronti per la vita eterna all'interno del Sangue.» Non replicai, ma non avrei mai dimenticato quella dichiarazione. Ascoltami bene: non l'ho mai dimenticata. In realtà, un migliaio di anni dopo sarebbe giunto un periodo in cui quelle parole avrebbero significato moltissimo per me e avrebbero preso a ossessionarmi e a tormentare le mie notti. Ma ci arriveremo presto, perché intendo trattare assai rapidamente quei mille anni. Lasciami tornare al mio racconto. Zenobia pronunciò quelle parole con la stessa dolcezza con cui aveva sempre parlato, e alla fine vidi che Avicus era incantato. Bada bene, questo non significava che lui l'avrebbe amata totalmente o in eterno, lo sapevo, ma vidi che non esisteva alcuna barriera tra loro due. Avicus le si avvicinò, incapace di esprimere la sua ammirazione per la bellezza di Zenobia, dopo di che, sorprendendomi parecchio, si rivolse a lei: «Mi chiamo Avicus», disse. «Sono un vecchio amico di Marius.» Mi guardò, poi riportò lo sguardo sulla ragazza. «Sei sola?» le chiese. «Sì», rispose lei, benché lanciandomi prima un'occhiata per vedere se intendevo zittirla. «E se voi non mi portate via di qui, o non restate in questa casa con me, sono perduta.» Rivolsi un cenno d'assenso ai miei compagni di lunga data. Mael mi scoccò un'occhiata fulminante, scuotendo il capo, poi guardò Avicus, che però stava ancora fissando la nostra bambina. «Non sarai lasciata qui senza difese», annunciò Avicus, «è impensabile. Ma ora devi lasciarci soli, in modo che possiamo parlare. Anzi, tu rimani qui. Ci possiamo muovere noi: Marius, dove possiamo andare?» «Nella biblioteca», proposi subito. «Venite, voi due. Zenobia, non aver paura e non cercare di ascoltare perché potresti udire solo stralci di quanto diciamo, mentre è l'insieme che conta; quello che racchiuderà i veri sentimenti del cuore.» Andammo a sederci rapidamente nell'elegante biblioteca di Eudoxia, proprio come avevamo fatto poco tempo prima. «Dovete prenderla voi», dichiarai. «Io non posso. Sto per andarmene e porterò via la Madre e il Padre, come vi ho spiegato. Prendetela sotto la vostra ala.»
«Impossibile», affermò Mael, «è troppo debole. Inoltre non la voglio! Te lo dico chiaramente, non la voglio!» Avicus allungò una mano per posarla sopra quella dell'amico. «Marius non può portarla con sé», gli spiegò. «Sta dicendo la pura e semplice verità. La sua non è una scelta. Non può tenere con sé una creatura così giovane.» «Una creatura giovane», dichiarò Mael in tono disgustato. «Di' la verità. È una creatura fragile, una creatura ignara, e ci porterà male.» «Vi supplico, prendetela voi», li pregai. «Insegnatele tutto quello che sapete. Insegnatele ciò di cui ha bisogno per poter restare sola.» «Ma è una donna», aggiunse Mael, disgustato. «Come potrebbe mai stare da sola?» «Mael, quando si è bevitori di sangue, questo non conta», precisai. «Una volta che sarà forte, una volta che conoscerà davvero tutto, potrà vivere come un tempo viveva Eudoxia, se così deciderà. Può vivere in qualsiasi modo desideri.» «Non la voglio», dichiarò lui. «Non intendo prenderla. A nessun prezzo e a nessuna condizione.» Stavo per parlare, ma quando vidi la sua espressione capii che stava dicendo la verità più completamente di quanto lui stesso immaginasse. Non sarebbe mai riuscito ad accettare Zenobia, e se lasciavo la fanciulla con Mael, l'avrei lasciata in pericolo perché lui l'avrebbe abbandonata, o tradita, o peggio. Sarebbe stata solo questione di tempo. Guardai Avicus solo per scoprirlo tristemente alla mercé delle parole di Mael. Come sempre, era sua in balia. Come sempre, non riusciva a liberarsi dalla collera di Mael. Supplicò l'amico, rassicurandolo che la presenza della ragazza non avrebbe modificato la loro vita. Potevano insegnare a cacciare a quell'adorabile essere, che non era poi tanto umana e che si trovava in una situazione disperata. «Voglio che rimanga con noi», concluse Avicus in tono affettuoso. «La trovo adorabile; vedo in lei una dolcezza che mi tocca il cuore.» «Sì, davvero», confermai. «È molto autentica, la sua dolcezza.» «E perché mai una caratteristica del genere dovrebbe risultare utile in un bevitore di sangue?» protestò Mael. «Un bevitore di sangue deve forse essere dolce?» Non riuscivo a parlare. Pensai a Pandora. Il dolore dentro di me era semplicemente troppo intenso per consentirmi di formulare parole. Ma ri-
vidi Pandora. La rividi, e capii che aveva sempre abbinato passione e dolcezza; che sia gli uomini sia le donne possono avere simili tratti, e che probabilmente quella bambina, Zenobia, li avrebbe visti aumentare entrambi, dentro di sé. Distolsi lo sguardo, incapace di rivolgermi a uno qualsiasi di loro. Mentre discutevano, mi accorsi che Avicus si era arrabbiato e Mael era sempre più furioso. Quando ripresi a fissarli si zittirono, poi Avicus mi scrutò come in cerca di un'autorevolezza che sapevo di non possedere. «Non posso decidere del vostro futuro», dissi. «Sto per partire, lo sapete.» «Rimani e tienila con te, insieme a noi», mi chiese Avicus. «Impensabile!» replicai. «Sei ostinato, Marius», commentò sommessamente lui. «Le tue passioni più intense ti spaventano. Potremmo restare tutti e quattro in questa casa.» «Ho causato la morte della proprietaria di questa dimora», ammisi, «non posso viverci. È blasfemo nei confronti degli antichi dei che io indugi così a lungo. Gli antichi dei si vendicheranno non tanto perché esistono, ma perché un tempo li onoravo. Quanto a questa città, vi ripeto che devo lasciarla, e devo portare Coloro-che-devono-essere-conservati laddove saranno davvero ben nascosti e al sicuro.» «La casa ti appartiene di diritto», puntualizzò Avicus. «E lo sai. L'hai offerta a noi.» «Voi non avete annientato Eudoxia», dissi. «Ora torniamo al problema più urgente. Prenderete con voi questa ragazza?» «No», rispose Mael. Avicus non poteva obiettare: non aveva altra scelta. Distolsi ancora una volta lo sguardo; i miei pensieri erano totalmente concentrati su Pandora errante sull'isola di Creta, una situazione che non riuscivo nemmeno a immaginare. Non parlai per diverso tempo. Mi alzai senza rivolgermi a nessuno di quei due che mi avevano deluso, e tornai nella camera dove l'adorabile giovane creatura attendeva stesa sul letto. Aveva gli occhi chiusi. La luce delle lanterne era fioca. Che creatura succulenta e passiva sembrava, i capelli sparsi sul cuscino, la pelle perfetta, la bocca socchiusa. Mi sedetti nuovamente accanto a lei. «Oltre che per la tua bellezza, per cosa ti ha scelto Eudoxia?» chiesi. «Te
l'ha mai spiegato?» Lei aprì gli occhi come se fosse rimasta stupita, il che poteva essere vero in una creatura così giovane, e dopo qualche istante di riflessione parlò in tono sommesso. «Perché sono di intelletto pronto e conosco a memoria libri interi. Mi chiedeva di recitarglieli.» Senza sollevarsi dai cuscini, alzò le mani come se stesse stringendo un libro. «Mi basta dare un'occhiata a una pagina per rammentarla perfettamente. Non avevo mortali per cui affliggermi; ero soltanto una delle cento servitrici dell'imperatrice, ed ero una schiava vergine.» «Capisco. Nient'altro?» Mi accorsi che Avicus era fermo sulla soglia, ma non dissi nulla per prendere atto della sua presenza. Dopo un attimo di riflessione, Zenobia rispose. «Diceva che la mia anima era incorruttibile, che pur avendo visto la malvagità nel palazzo imperiale riuscivo ancora a udire la musica nella pioggia.» Annuii. «La senti ancora, questa musica?» «Si», rispose. «Più che mai. Ma, se mi lasci qui, non basterà a salvarmi.» «Ho intenzione di darti una cosa, prima di lasciarti», annunciai. «Di cosa si tratta? Cosa può mai essere?» Si drizzò a sedere, facendo leva sui cuscini. «Cosa puoi darmi che sia in grado di aiutarmi?» «Secondo te, cosa può essere?» chiesi gentilmente. «Il mio sangue.» Sentii Avicus trattenere il fiato, ma non vi feci caso. In realtà non badavo a nulla se non a lei. «Sono forte, piccola, molto forte», spiegai. «E dopo che avrai bevuto da me, finché vuoi e quanto vuoi, sarai una creatura diversa da quella che sei ora.» Era sconcertata e insieme attratta dall'idea. Timidamente, sollevò le mani e me le posò sulle spalle. «E dovrei farlo ora?» «Sì», risposi. Ero seduto ben comodo e lasciai che mi abbracciasse, e quando sentii i suoi denti penetrarmi nel collo emisi un lungo sospiro. «Bevi, mia cara», dissi. «Aspira con forza per prendere da me tutto il sangue possibile.» La mia mente fu invasa da un migliaio di visioni fluttuanti: il palazzo imperiale, stanze dorate, banchetti, musica e maghi: la città illuminata dalla luce del sole con le sfrenate gare di bighe che solcavano fragorosamente
l'ippodromo, la folla esultante; l'imperatore che si alzava nella tribuna imperiale per salutare quanti lo adoravano; le enormi processioni che entravano a Hagia Sophia; candele e incenso, e ancora una volta uno splendore regale, stavolta sotto quello stesso tetto. Mi sentii debole e nauseato, ma non aveva importanza. L'importante era che lei prendesse tutto quello che poteva. Alla fine ricadde all'indietro sui cuscini. La guardai, e vidi le sue gote rese pallide dal Sangue. Mettendosi faticosamente seduta per guardarmi, osservò tutto come una vampira appena creata, come se non avesse mai assaporato l'autentica visione del Sangue, fino allora. Scese dal letto e si aggirò per la stanza. Descrisse un ampio cerchio, la mano destra che stringeva con forza il tessuto della tunica, il viso che brillava del suo nuovo candore, gli occhi sgranati e lucidi e brillanti. Mi fissò come se non mi avesse mai visto prima. Poi si fermò, udendo palesemente suoni lontani a cui prima era stata sorda. Si coprì le orecchie con le mani. Il viso le si colmò di quieto timore reverenziale e dolcezza, sì, dolcezza, poi i suoi occhi si posarono su di me. Cercai di alzarmi in piedi, ma ero troppo debole per riuscirci. Avicus venne ad aiutarmi, ma lo scacciai con un gesto. «Cosa le hai fatto?» esclamò. «Lo vedi», replicai. «Voi due non volevate prenderla. Le ho dato il mio sangue. Le ho dato una possibilità.» Raggiunsi Zenobia e la costrinsi a guardarmi. «Ascoltami attentamente», le chiesi. «Eudoxia ti ha parlato della sua vita di un tempo? Adesso tu sai di poter andare a caccia per le strade come un uomo?» Mi fissò con i suoi nuovi occhi, troppo abbagliata, incapace di capire. «Sai che i capelli, se tagliati, ricresceranno nello spazio di un giorno, e torneranno lunghi e folti come prima?» Scosse il capo, lo sguardo che sfiorava me e la miriade di lampade in bronzo della stanza, e i mosaici che abbellivano pareti e pavimento. «Ascoltami, adorabile creatura, non ho molto tempo per istruirti, ma ho intenzione di lasciarti armata di conoscenza oltre che di forza.» Assicurandole nuovamente che i capelli sarebbe ricresciuti, glieli tagliai, guardandoli cadere a terra, poi la accompagnai nelle stanze dei bevitori di sangue e le feci indossare abiti maschili. Ordinando severamente a Mael e Avicus di lasciarci, la portai in città
con me e tentai di mostrarle come avrebbe camminato un uomo; come poteva essere intrepido, e qual era la vita delle taverne, che lei non aveva mai nemmeno sognato, e come andare a caccia da sola. Continuavo a trovarla incantevole, ma ora sembrava un'altra: una sorella maggiore e più saggia. Mentre rideva della consueta coppa di vino sprecata sul tavolo della taverna, mi scoprii quasi deciso a pregarla di venire con me, ma capii di non poterlo fare. «Non sembri un uomo, sai», le dissi sorridendo, «capelli o non capelli.» Scoppiò a ridere. «Certo, lo so. Ma non avrei mai pensato di trovarmi in un posto come questo; un posto che non avrei mai visto se non fosse stato per te...» «Ormai puoi fare qualsiasi cosa», le spiegai. «Basta che tu ci rifletta. Puoi essere un maschio, così come puoi essere una femmina; e puoi non essere nessuna delle due cose. Cerca il malfattore come faccio io e non resterai mai soffocata dalla morte. Ma qualsiasi siano le tue gioie, qualsiasi sia la tua infelicità, non esporti mai al rischio del giudizio altrui. Dosa la tua forza e stai attenta.» Lei annuì, con gli occhi sgranati per la fascinazione. Naturalmente gli uomini presenti nella taverna le lanciavano occhiate, pensando che avessi portato il mio leggiadro ragazzino a bere con me. Prima che la situazione mi sfuggisse di mano uscii insieme a lei, ma non prima che avesse messo alla prova i suoi poteri per leggere la mente di chi le stava intorno, e incantare il povero fanciullo schiavo che ci aveva servito il vino. Mentre camminavamo per le strade, la istruii sugli usi e costumi del mondo, istruzioni casuali che pensavo potessero servirle. La cosa mi piacque decisamente troppo. Da parte sua, lei mi rivelò tutti i segreti del palazzo imperiale per consentirmi di penetrarvi più agevolmente, così da soddisfare la mia curiosità, poi ci ritrovammo di nuovo in una taverna. La misi in guardia. «Arriverai a odiarmi per quello che ho fatto a Eudoxia, e anche per quello che ho fatto agli altri bevitori di sangue.» «No, non è così», ribatté in tono schietto. «Devi capire che Eudoxia non mi ha mai concesso un attimo di libertà; quanto agli altri, per me provavano solo disprezzo o gelosia, non ho mai capito quale dei due con maggiore intensità.» Annuii, accettando la cosa, ma le feci una domanda. «Perché pensi che Eudoxia mi abbia raccontato la storia della sua vita, di
come un tempo si sia aggirata per Alessandria vestita da ragazzo, quando a te non ha mai rivelato simili dettagli?» «Sperava di amarti», rispose Zenobia. «Me l'ha confidato, non direttamente, capisci, ma tramite le descrizioni che faceva di te e il suo intenso desiderio di vederti. Ma nella sua mente queste emozioni si mescolavano alla diffidenza e all'astuzia. E credo che il timore che le incutevi abbia trionfato, alla fine.» Rimasi in silenzio, riflettendo su quelle parole, tra i rumori della taverna simili a musica. Zenobia mi fissò per qualche istante, poi continuò: «Non desiderava affatto che io riuscissi a conoscerla o comprenderla in quel modo. Si accontentava di avermi come giocattolo. E persino quando leggevo ad alta voce o cantavo per lei non mi guardava, né si preoccupava per me. Nel tuo caso, invece... in te vedeva una creatura degna di lei. Quando parlava di te era come se nessuno stesse ascoltando. Parlava e parlava, architettando piani per convocarti a casa sua e parlare con te. Era un'ossessione colma di paura, capisci?» «È andato tutto storto», dichiarai. «Ma vieni, ho ancora parecchie cose da insegnarti. Ci restano solo poche ore prima dell'alba.» Uscimmo nella notte, restando sempre insieme. Adoravo istruirla! Quel compito esercitava un forte fascino su di me. Le mostrai come poteva arrampicarsi senza sforzo sui muri e com'era facile non farsi notare dai mortali celandosi nell'ombra, e come poteva attirare a sé vittime mortali. Ci intrufolammo all'interno di Hagia Sophia, impresa che lei riteneva impossibile, e per la prima volta, da quando aveva ricevuto il Sangue, rivide la grande chiesa che da viva aveva conosciuto così bene. Alla fine, dopo che entrambi ci procurammo vittime nelle stradine laterali per saziare la sete notturna - occasioni in cui lei scoprì la propria considerevole nuova forza - tornammo alla casa. Trovai i documenti ufficiali relativi alla proprietà dell'abitazione; dopo averli esaminati, le suggerii uno stratagemma per tenere per sé la casa di Eudoxia. Avicus e Mael erano ancora là, e siccome l'alba stava per approssimarsi, chiesero se potevano trattenersi. «Dovete chiederlo a Zenobia», replicai. «La casa è sua.» Data la sua gentilezza d'animo, lei rispose che potevano restare e sistemarsi nei nascondigli che erano appartenuti ad Asphar e Rashid.
Mi accorsi che trovava davvero avvenente Avicus, ben piantato e dai lineamenti delicati, e dava l'impressione di guardare con eccessiva gentilezza e innocenza anche Mael. Non dissi nulla, ma ero in preda a una confusione e a un dolore straordinari. Non volevo separarmi da Zenobia; desideravo giacere nell'oscurità della cripta insieme a lei. Ma era tempo che mi congedassi. Sentendomi esausto anche se la caccia era stata estremamente piacevole, davvero splendida, tornai alle ceneri della mia casa, scesi nel sacrario dei Divini Genitori e mi stesi a dormire. 13 Sono arrivato a un punto cruciale della mia storia perché ho intenzione di balzare in avanti nel tempo, verso il presente, di circa mille anni. Non posso dire esattamente quanto tempo fosse trascorso, perché non ricordo bene quando lasciai Costantinopoli, so soltanto che fu parecchi decenni dopo il regno dell'imperatore Giustiniano e Teodora, e prima che gli arabi sorgessero con la nuova religione dell'islam e iniziassero la loro rapida e strabiliante conquista da Oriente a Occidente. Ma la questione importante, qui, è che non posso raccontarti tutta la mia vita, e preferisco sorvolare sui secoli che la storia ha definito Alto Medioevo, durante i quali, in realtà, ho vissuto numerose piccole vicende che potrò raccontarti in un secondo tempo. Per il momento lasciami dire soltanto che quella notte, mentre lasciavo la casa di Zenobia, ero profondamente angustiato riguardo alla sicurezza di Coloro-che-devono-essere-conservati. L'attacco della plebaglia contro la mia casa mi aveva lasciato in preda al terrore. Era necessario trasferirli in un posto sicuro, lontano da qualsiasi città o qualsiasi mia dimora che avessi scelto all'interno di una città. Dovevano essere irraggiungibili per chiunque, tranne me. Il problema era dove portarli. Non potevo andare in Oriente a causa dell'Impero Persiano che aveva già sottratto tutta l'Asia Minore ai greci e conquistato persino la città di Alessandria; quanto alla mia amata Italia, avrei voluto trovarmi vicino a essa, ma non al suo interno perché non sopportavo di vedere il tumulto che vi regnava. Però conoscevo un luogo ideale: le Alpi, la catena montuosa a nord della penisola italiana che avevo conosciuto durante i miei anni mortali. I roma-
ni avevano creato diversi valichi tra le montagne e io, quand'ero giovane e intrepido, avevo viaggiato lungo la Via Claudia Augusta e conoscevo le caratteristiche del territorio. Nonostante i barbari avessero devastato frequentemente le vallate alpine, sia mentre scendevano ad attaccare l'Italia, sia durante la ritirata, ormai in quelle terre si era ben radicato il cristianesimo, con chiese, monasteri e via dicendo. Tuttavia, io non avrei cercato una vallata fertile e popolata, e sicuramente neppure la vetta di un monte su cui fosse stato eretto un castello o un monastero; a me serviva la solitudine di una valle angusta, una vallata completamente nascosta situata a una notevole altitudine, che solo io potessi raggiungere. Mi sarei dedicato all'arduo compito di arrampicarmi, scavare, diboscare e creare una cripta, per poi portare la Madre e il Padre in quel luogo sicuro. Solo una creatura sovrumana poteva riuscirci, ma io ero in grado di farlo. Dovevo farlo. Non avevo alternative. Mentre riflettevo sulla cosa, mentre assoldavo schiavi e compravo carri per il viaggio, mentre mi occupavo dei preparativi, Zenobia rimase sempre con me, anche se Avicus e Mael si sarebbero uniti a noi se solo glielo avessi permesso. Ero ancora troppo arrabbiato per il loro rifiuto di proteggerla e il fatto che adesso volessero restare con Zenobia non placò la mia collera. Zenobia trascorse con me lunghe ore, in questa o quella taverna, mentre architettavo il piano; non ero preoccupato che potesse leggermi nella mente dove intendessi dirigermi, perché io stesso avevo elaborato uno schema piuttosto vago, al riguardo. L'ubicazione finale del sacrario di Coloro-chedevono-essere-conservati sarebbe stata nota solo e soltanto a me. Da quella vallata lontana da ogni sentiero, avrei potuto avventurarmi all'esterno per nutrirmi degli abitanti di svariati villaggi. In realtà, erano stati creati numerosi insediamenti nel territorio dei franchi, come venivano chiamati, e avrei potuto addirittura spingermi in Italia, volendo, perché ormai mi era chiaro che Coloro-che-devono-essere-conservati non richiedevano affatto la mia vigilanza o presenza quotidiana. Alla fine giunse l'ultima notte. Sui carri erano stati caricati i preziosi sarcofagi, gli schiavi erano stati incantati, blandamente minacciati e generosamente corrotti con beni di lusso e denaro, le guardie del corpo erano pronte ad affrontare il viaggio e io a partire.
Andai a casa di Zenobia e la trovai che piangeva disperata. «Marius, non voglio che tu te ne vada», dichiarò. Anche Avicus e Mael erano lì e mi fissavano intimoriti, come se non osassero esprimere ciò che avevano nel cuore. «Neanch'io vorrei andarmene», le spiegai, poi la abbracciai più affettuosamente che mai e le coprii il viso di baci come avevo fatto la sera in cui l'avevo trovata: non ne avevo mai abbastanza della sua morbida pelle di donna-bambina. «Ma devo», aggiunsi. «Il mio cuore non accetterebbe nulla di meno.» Quando ci staccammo dall'abbraccio, entrambi stremati dal pianto e per nulla consolati da esso, mi rivolsi agli altri due: «Vi prenderete cura di lei?» chiesi severamente. «Sì, abbiamo intenzione di restare insieme», annunciò Avicus. «E non capisco perché non puoi rimanere con noi.» Mentre lo guardavo, un terribile amore montò dentro di me. «So di averti fatto del male in tutta questa vicenda. Sono stato troppo avventato, ma non posso restare.» Lui cominciò a piangere, senza curarsi delle occhiate cariche di disapprovazione di Mael. «Hai soltanto cominciato a insegnarmi tante cose...» mormorò. «Puoi impararle dal mondo che ti circonda», replicai. «Puoi imparare dai libri che ci sono in questa casa. Puoi imparare da... da coloro che una notte potresti trasformare con il Sangue.» Annuì. Cos'altro c'era da dire? Sembrava che per me fosse giunto il momento di voltarmi e andarmene, ma non ci riuscivo. Raggiunsi un'altra stanza e rimasi fermo lì, a capo chino, provando forse la sofferenza più atroce che avessi mai sperimentato. Volevo disperatamente restare con loro! Non c'erano dubbi in proposito. E in quel momento tutti i miei progetti non mi diedero affatto forza. Mi posai una mano sulla vita e avvertii il dolore dentro di me come se fosse fuoco. Non riuscivo a parlare. Non riuscivo a muovermi. Zenobia venne da me. E anche Avicus. Mi cinsero con le braccia, poi lui mi disse: «Capisco che devi andare. Davvero. Lo capisco». Non riuscii a rispondere. Mi morsicai con forza la lingua per far scorrere il sangue e posai le labbra sulle sue, in modo che il sangue gli fluisse nella bocca. Avicus rabbrividì a causa del bacio e la sua stretta si accentuò. Subito dopo, mi riempii nuovamente la bocca di sangue e baciai nello stesso modo Zenobia, che mi strinse forte. Le sollevai i lunghi, leggeri ca-
pelli profumati e vi affondai il viso, o meglio me li posai sul volto come fossero un velo, riuscendo a stento a respirare a causa della sofferenza. «Vi amo», sussurrai. Mi chiesi se riuscissero a sentirmi. Poi, senza ulteriori parole o gesti, chinai la testa, mi feci forza e uscii dalla casa. Un'ora più tardi avevo lasciato Costantinopoli e mi trovavo sul battuto sentiero che portava in Italia, seduto sul primo dei carri, dove potevo parlare con il capo delle mie guardie, che teneva le redini. Mi stavo dedicando al gioco mortale della conversazione e delle risate, pur avendo il cuore spezzato, e lo feci per molte delle notti seguenti. Non ricordo per quanto tempo viaggiammo; percorrendo strade che non erano affatto dissestate come avevo temuto, incontrammo numerose cittadine in cui poterci fermare, mentre continuavo a tenere d'occhio le mie guardie del corpo e distribuivo generosamente l'oro per comprarne la lealtà. Continuammo ad avanzare e finalmente raggiungemmo le Alpi, dove impiegai qualche tempo per trovare il luogo estremamente isolato in cui poter costruire il sacrario. Ma alla fine, una sera, quando l'inverno non era così freddo e il cielo appariva perfettamente limpido, notai sopra di me una ripida serie di pendii deserti, non lontani dalla strada principale, che sembravano l'ideale per il mio piano. Condussi la mia carovana nel villaggio più vicino e tornai indietro da solo. Mi arrampicai su un terreno impervio, che avrebbe sconfitto qualunque mortale, finché trovai il punto preciso: una minuscola vallata sopra la quale avrei eretto il tempietto. Tornato al villaggio, acquistai una casa per me stesso e per Coloro-chedevono-essere-conservati, quindi congedai e rimandai a Costantinopoli le guardie del corpo e gli schiavi, con ricche ricompense per tutto quello che avevano fatto. Questi, dopo molti affettuosi saluti, partirono gaiamente con uno dei carri che gli lasciai in dono per affrontare il viaggio di ritorno. Visto che il villaggio in cui avrei dimorato non era al sicuro dalle invasioni, a prescindere da quanto fossero sereni i suoi abitanti lombardi, mi misi al lavoro la sera seguente. Solo un bevitore di sangue avrebbe potuto coprire tanto rapidamente la distanza che separava la mia casa nel villaggio dalla sede definitiva del santuario; solo un bevitore di sangue avrebbe potuto scavare nel duro terriccio sassoso per creare i passaggi che dovevano condurre alla sala qua-
drata della cripta e in seguito realizzare la porta di pietra profilata in ferro che avrebbe protetto il re e la regina dalla luce del giorno; solo un bevitore di sangue sarebbe riuscito a dipingere sulle pareti gli antichi dei e dee greco-romani; solo un bevitore di sangue sarebbe riuscito a costruire con tanta abilità e rapidità il trono di granito. E solo un bevitore di sangue avrebbe potuto portare la Madre e il Padre, uno alla volta, su per la montagna, nel luogo di riposo ormai terminato, e avrebbe potuto sistemarli fianco a fianco sul trono di granito. E quando fu tutto finito, chi altri si sarebbe steso al freddo per piangere di nuovo a causa di una solitudine ormai abituale? Chi altri sarebbe potuto restare sdraiato per quasi due settimane, silenzioso e stremato, rifiutando di muoversi? Non stupisce che, durante quei primi mesi, io abbia cercato di suscitare un minimo di vitalità in Coloro-che-devono-essere-conservati portando loro sacrifici umani, ma per quei poveri mortali disgraziati - tutti malfattori, te lo assicuro - Akasha si rifiutò di muovere l'onnipotente braccio destro. Perciò dovevo io stesso finire le miserevoli vittime e portarne i resti su tra le montagne, dove li buttavo giù dai picchi frastagliati, trasformandoli in offerte a dei crudeli. Nei secoli seguenti continuai a cacciare nei villaggi vicini con estrema accuratezza, bevendo poco da molti, per evitare di mettere in agitazione gli abitanti del posto, e talvolta coprivo grandi distanze per scoprire quale fosse la situazione nelle città che un tempo avevo conosciuto. Visitai Pavia, Marsiglia e Lione. Frequentai le taverne come era sempre stata mia abitudine, osando intavolare conversazioni con i mortali, offrendo loro il vino per convincerli a raccontarmi tutto quanto stava succedendo nel mondo. Di tanto in tanto, esploravo i campi di battaglia dove i guerrieri islamici conseguivano le loro vittorie, oppure seguivo le azioni di guerra dei franchi, usando agevolmente il buio come scudo. E durante quel periodo - per la prima volta nel corso della mia esistenza di immortale - divenni intimo amico di alcuni esseri umani. Vale a dire che sceglievo un mortale, per esempio un soldato, e mi incontravo spesso con lui nella taverna del luogo, per parlare della sua visione del mondo, della sua vita. Quei rapporti di amicizia non erano mai molto lunghi o profondi, perché non lo permettevo, e se mai mi assaliva la tentazione di creare un vampiro passavo rapidamente oltre. Così facendo, conobbi numerosi mortali, persino monaci dei monasteri, perché nessuna timidezza mi impediva di avvicinarli per la strada, soprat-
tutto quando attraversavano un territorio pericoloso; li accompagnavo per un breve tratto e approfittavo garbatamente per interrogarli sulle vicende del papa e della Chiesa, e delle piccole comunità in cui vivevano. Ci sono molte storie che potrei raccontare di quei mortali, perché talvolta non riuscivo a dominare perfettamente il mio cuore, ma non ne ho il tempo, ora. Lasciami solo confessare che allacciai quei rapporti di amicizia e, quando ci ripenso, prego un imprecisato dio disposto a rispondermi, prego di aver io stesso fornito una consolazione efficace, come quella che ricevetti. Quando mi sentivo davvero coraggioso scendevo in Italia, fino a Ravenna, per ammirare le magnifiche chiese ornate dagli stessi splendidi mosaici che avevo visto a Costantinopoli. Tuttavia non osai mai addentrarmi più a fondo nella mia terra natale: avevo troppa paura di vedere la distruzione di tutto ciò che vi era stato un tempo. Quanto alle notize del mondo che appresi dai miei amici, per lo più mi spezzarono il cuore. Costantinopoli aveva abbandonato l'Italia, e soltanto il papa di Roma si opponeva agli invasori; gli arabi islamici conquistavano il mondo intero, apparentemente, inclusa la Gallia. Poi Costantinopoli rimase coinvolta in una terribile crisi riguardante la validità delle immagini sacre, ordinandone la rimozione, il che significò la totale distruzione dei mosaici delle chiese, oltre che le icone: fu un'orrenda guerra contro l'arte che mi ferì l'anima. Il papa di Roma non volle averci nulla a che fare, grazie al cielo: diede ufficialmente la schiena all'impero orientale e si alleò con i franchi. Quella fu la fine del sogno del grande impero che comprendeva l'Oriente e l'Occidente. Fu la fine del mio sogno che Bisanzio riuscisse in qualche modo a preservare la civiltà un tempo preservata da Roma. Ma non significò la fine del mondo civile. Persino io, l'amareggiato patrizio romano, fui costretto ad ammetterlo. Ben presto si distinse tra i franchi un grande condottiero chiamato Carlo Magno, che ottenne numerose vittorie nel suo sforzo di mantenere una sorta di pace in Occidente. Nel frattempo, intorno a lui si formò una corte, in cui parte dell'antica letteratura latina venne alimentata come una flebile fiamma. Nel complesso, tuttavia, ormai era la Chiesa a mantenere in vita aspetti della cultura che avevano fatto parte del mondo romano in cui ero nato. Ah, che ironia che il cristianesimo, quella religione ribelle sorta dal martirio durante la Pax Romana, conservasse adesso gli antichi scritti, l'antica lingua, l'antica poesia e l'antico eloquio.
Con il passare dei secoli divenni più forte, ogni mio potere aumentò. Mentre giacevo nella cripta con la Madre e il Padre, udivo le voci delle persone in cittadine lontane; udivo un occasionale bevitore di sangue passarmi vicino; udivo pensieri o preghiere. Alla fine sviluppai la facoltà di volare. Non avevo più bisogno di inerpicarmi sul pendio che portava alla cripta. Mi bastava impormi di innalzarmi dalla strada e mi ritrovavo davanti alle ben celate porte del passaggio. Era un dono terrificante eppure lo amavo perché mi consentiva di coprire distanze ancora più grandi, quando ne avevo la forza, il che succedeva meno spesso con il passare del tempo. Nel frattempo castelli e monasteri avevano preso a comparire in quella zona, un tempo territorio di tribù barbare in guerra. Grazie alla capacità di volare potevo visitare le alte cime su cui venivano erette quelle splendide strutture e talvolta introdurmi nelle loro stanze. Ero un vagabondo nell'eternità, una spia tra altri cuori. Ero una creatura dannata che non sapeva niente della morte e, in definitiva, niente del tempo. Talvolta andavo alla deriva lasciandomi trasportare dai venti. Andavo sempre alla deriva tra le vite altrui. E nella cripta sulle montagne mi dedicavo alla consueta pittura per Coloro-che-devono-essere-conservati, coprendo stavolta le pareti con raffigurazioni di antichi egizi venuti a offrire sacrifici, e tenevo là i pochi libri che mi confortavano l'anima. Nei monasteri spiavo spesso i monaci. Amavo osservarli mentre lavoravano nelle sale di scrittura e per me era un sollievo vedere che tenevano al sicuro l'antica poesia greca e romana. Nelle prime ore del mattino entravo nelle biblioteche e lì, come una figura incappucciata china sul leggio, leggevo l'antica poesia e la storia risalenti alla mia epoca. Non mi feci mai scoprire, ero troppo scaltro. Spesso, la sera, indugiavo accanto alla cappella, ascoltando il canto gregoriano dei monaci che mi donava un senso di pace, un po' come passeggiare nei chiostri o ascoltare le campane del campanile. Nel frattempo, l'arte della Grecia e di Roma, che tanto avevo amato, si estinse completamente. Fu sostituita da una severa arte religiosa dove le proporzioni e il naturalismo smisero di essere importanti. Quello che contava era che le immagini evocassero la devozione a Dio. Le figure umane dipinte o scolpite erano spesso incredibilmente magre, con sfrontati occhi fissi. Regnava un terribile stile grottesco che non dipendeva dalla mancanza di conoscenze o abilità, perché i manoscritti veni-
vano decorati con immane pazienza, e i monasteri e le chiese costruiti sostenendo enormi spese. Quelli che creavano quell'arte avrebbero potuto fare qualsiasi cosa. La loro era una scelta. L'arte non doveva essere sensuale, doveva essere pia, doveva essere cupa. E così il mondo classico andò perduto. Naturalmente trovai alcune meraviglie in quel nuovo mondo, non posso negarlo. Grazie alla facoltà di volare, raggiunsi le grandi cattedrali gotiche, i cui altissimi archi superavano qualsiasi cosa avessi mai visto, ed ero sbalordito dalla loro bellezza. Mi stupii delle città di mercato che si stavano sviluppando in tutta l'Europa. Sembrava che il commercio e l'artigianato avessero stabilizzato le terre, come la guerra da sola non era mai riuscita a fare. Nuove lingue venivano parlate ovunque. Il francese era la lingua dell'elite, ma c'erano anche l'inglese e il tedesco e l'italiano. Vidi succedere tutto ciò, eppure non vidi nulla. Alla fine, forse nell'anno 1200 - non ne sono sicuro - mi abbandonai a un lungo sonno nella cripta. Ero stanco del mondo e incredibilmente forte. Confessai le mie intenzioni a Coloro-che-devono-essere-conservati e li avvisai che alla fine le lanterne si sarebbero spente. Poi ci sarebbe stato solo il buio, ma li pregai di perdonarmi. Ero stanco; volevo dormire per molto, moltissimo tempo. Mentre dormivo imparavo. Ormai il mio udito preternaturale era troppo acuto perché potessi giacere nel silenzio. Non potevo evitare le voci di coloro che gridavano, fossero bevitori di sangue o esseri umani. Non potevo evitare la storia fluttuante del mondo. E così fu anche nell'alto valico alpino dove ero nascosto. Percepii le preghiere dell'Italia; sentii le preghiere della Gallia, che ormai era divenuta il paese noto come Francia. Sentii le anime che soffrivano per la terribile malattia del 1300 nota ormai, in modo assai appropriato, come Morte Nera. Finalmente aprii gli occhi nel buio e rimasi in ascolto; forse studiai addirittura. Alla fine mi alzai e scesi in Italia, temendo per il destino del mondo intero. Dovevo vedere con i miei occhi la terra che amavo. Dovevo tornare. Ad attirarmi fu una città che non avevo mai conosciuto. Era nuova, nel senso che non era esistita nell'antica epoca dei Cesari, e adesso era un grande porto. In realtà, molto probabilmente era la più grande città d'Europa. Si chiamava Venezia, e la Morte Nera l'aveva raggiunta tramite le navi attraccate nel suo porto, e migliaia di abitanti erano irrimediabilmente ma-
lati. Non l'avevo mai visitata prima. Sarebbe stato troppo penoso. Quando vi entrai, scoprii una città di stupendi palazzi eretti sopra canali verde scuro. Ma la Morte Nera aveva ghermito il popolino e ogni giorno le vittime erano numerosissime; i traghetti portavano via i cadaveri per seppellirli ben a fondo nel suolo delle isole sparse nell'immensa laguna. Ovunque regnavano pianto e desolazione. La gente si radunava a morire nelle camere degli ammalati, con il viso madido di sudore e il corpo torturato da gonfiori incurabili. Il puzzo dei defunti si levava ovunque. Alcuni stavano cercando di fuggire dalla città e dalla sua infezione, altri restavano con i congiunti malati. Non avevo mai assistito a un simile flagello, eppure si era diffuso in una città di tale splendore che mi ritrovai intontito dal dolore, tormentato dalla bellezza dei palazzi e dalla magnificenza della chiesa di San Marco, che testimoniava in modo squisito i legami della città con Bisanzio, dove essa inviava le sue numerose navi mercantili. Non potei fare altro che piangere, in un luogo simile. Non era il momento adatto per esaminare alla luce della fiaccola dipinti o statue che mi erano del tutto nuovi. Dovevo andarmene, per rispetto verso i morenti, a prescindere da chi fossi. Mi diressi a sud, verso un'altra città che non avevo conosciuto durante la mia vita mortale: Firenze, situata nel cuore della Toscana, una terra magnifica e fertile. Cerca di capire: a quel punto stavo evitando Roma. Non sopportavo di vedere la mia patria ancora una volta in rovina e infelice. Non potevo vedere Roma martoriata da quel flagello. Perciò la mia scelta cadde su Firenze, come ho detto, una città per me nuova, e prosperosa benché non fosse ricca come Venezia, né altrettanto magnifica, per quanto piena di enormi palazzi e strade di acciottolato. E cosa vi trovai se non la stessa terribile pestilenza? Bravacci crudeli esigevano denaro per portare via i cadaveri, spesso picchiando i moribondi o quanti tentavano di badare a loro. Seisette corpi giacevano davanti alla porta di varie case. I preti andavano e venivano, alla luce delle fiaccole, per impartire l'estrema unzione, e ovunque regnava lo stesso tanfo di Venezia, il tanfo che indica che tutto sta per finire. Stanco e abbattuto, entrai in una chiesa nei pressi del centro città, anche se non saprei dire quale, e mi appoggiai al muro, osservando il lontano tabernacolo illuminato dalle candele, ponendomi la stessa domanda di tanti
mortali in preghiera: cosa ne sarebbe stato di quel mondo? Avevo visto cristiani perseguitati; avevo visto i barbari saccheggiare le città; avevo visto Oriente e Occidente combattere e infine separarsi; avevo visto i soldati islamici intraprendere la loro guerra santa contro gli infedeli, e adesso vedevo quella malattia che si stava diffondendo nel mondo intero. E che mondo! Di certo era cambiato rispetto all'anno in cui ero fuggito da Costantinopoli: le città europee erano diventate grandi e ricche; le orde barbare si erano trasformate in popoli stanziali; Bisanzio continuava a tenere unite le città orientali. E ora quel terribile flagello, quella peste. Perché sono rimasto in vita? mi chiesi. Perché dovevo sopravvivere in veste di testimone di tutte quelle vicende tragiche e splendide? Come dovevo interpretare ciò che vedevo? Eppure, persino in preda alla sofferenza, giudicai bellissima la chiesa con la sua miriade di candele accese; notando una distante macchia di colore davanti a me, in una delle cappelle sulla destra dell'altare maggiore, mi diressi da quella parte, sapendo benissimo che vi avrei trovato sontuosi dipinti, perché riuscivo già a intravederli. Nessuno di quanti stavano pregando con fervore nella chiesa badò a me, un essere solitario con un mantello di velluto rosso corredato di cappuccio, che si dirigeva silenziosamente e rapidamente verso la cappella aperta per poter vedere cosa vi era dipinto. Oh, se solo la luce delle candele fosse stata più brillante! Se solo avessi osato accendere una torcia! Ma avevo gli occhi di un bevitore di sangue, perché lamentarsi? E in quella cappella vidi figure dipinte di un tipo che non avevo mai visto prima: erano religiose, sì, e severe, certo, e pie, sì, ma là era nato qualcosa di nuovo, qualcosa che si sarebbe quasi potuto definire sublime. Era stata creata una mescolanza di elementi. Provai un'enorme gioia persino nella mia sofferenza, finché udii una voce sommessa dietro di me, una voce mortale. Parlava talmente piano che dubito che un altro mortale sarebbe riuscito a sentirla. «È morto», disse lo sconosciuto. «Sono tutti morti, i pittori che hanno creato quest'opera.» Rimasi scioccato dal dolore. «Li ha uccisi la peste», aggiunse l'uomo. Era una figura incappucciata come me, solo che il suo mantello era di un colore più scuro, che mi guardò con occhi brillanti e febbrili.
«Non temere», mi disse. «Ne ho sofferto, ma non mi ha ucciso e non posso trasmetterla, capisci? Ma sono tutti morti, quei pittori. Scomparsi. La peste ha preso loro e tutto ciò che sapevano.» «E tu?» chiesi. «Sei un pittore?» Annuì. «Erano i miei insegnanti», spiegò, mentre indicava le pareti. «Questa è la nostra opera, incompiuta. Non posso terminarla da solo.» «Devi farlo», replicai. Infilai una mano nel borsellino, estrassi parecchie monete d'oro e gliele diedi. «Pensi che questo mi aiuterà?» domandò, scoraggiato. «È tutto quello che ho da dare», precisai. «Forse ti permetterà di comprare un po' di quiete. Così potrai ricominciare a dipingere.» Feci per andarmene, ma quello mi trattenne. «Non lasciarmi», mi pregò lui all'improvviso. Mi voltai a guardarlo. Il suo sguardo era all'altezza del mio e molto insistente. «Stanno tutti morendo, tranne noi due», dichiarò. «Non andare. Vieni con me, bevi un bicchiere di vino con me. Resta con me.» «Non posso», dissi. Stavo tremando. Ero troppo affascinato dallo sconosciuto, davvero troppo. Ero così tentato di ucciderlo. «Rimarrei con te, se potessi.» Lasciai Firenze per tornare nella cripta di Coloro-che-devono-essereconservati. Mi sdraiai di nuovo per un lungo sonno, sentendomi un codardo per non essere andato a Roma e grato di non aver bevuto tutto il sangue della squisita anima che mi aveva avvicinato nella chiesa. Ma qualcosa, in me, era irrimediabilmente cambiato. Nella chiesa di Firenze avevo intravisto nuovi dipinti, avevo intravisto qualcosa che mi colmava di speranza. Che la peste faccia il suo corso, pregai, e chiusi gli occhi. E alla fine la pestilenza ebbe termine. Tutte le voci d'Europa cantarono. Cantarono di nuove città, si levarono canti di grandi vittorie e terribili sconfitte. Tutto, in Europa, si stava trasformando. Il commercio e la prosperità alimentavano l'arte e la cultura, come avevano fatto le corti reali e le cattedrali e i monasteri del recente passato. Cantarono di un uomo chiamato Gutenberg, che nella città di Magonza aveva inventato una macchina da stampa che poteva produrre libri a buon mercato in centinaia di esemplari. La gente comune poteva ormai avere
una propria copia delle Sacre Scritture, dei Libri delle Ore, dei libri di racconti comici e di graziosi poemi. In tutta Europa si stavano costruendo nuove macchine come quella. Cantarono della tragica caduta di Costantinopoli per mano dell'invincibile esercito turco. Ma le orgogliose città dell'Occidente non dipendevano più dal distante Impero Greco per farsi difendere. Il lamento per Costantinopoli rimase inascoltato. L'Italia, la mia Italia, era illuminata dalla gloria di Venezia e Firenze e Roma. Mi riscossi dai miei sogni eccitati: era arrivato il momento di vedere il mondo che indicava il suo tempo come l'anno 1482 dopo Cristo. Non so bene come mai scelsi proprio quell'anno, so solo che le voci di Venezia e Firenze mi chiamarono nel modo più eloquente. In precedenza avevo visto quelle città afflitte da tribolazioni e sofferenze; ora volevo disperatamente ammirarle nel loro pieno splendore. Ma prima dovevo tornare a casa, affrontando il lungo tragitto verso sud, fino a Roma. Così, dopo aver ancora una volta acceso le lampade a olio per i miei amati Genitori; dopo aver tolto la polvere dai loro ornamenti e dalle fragili vesti, e dopo averli pregati, come sempre facevo, mi congedai per entrare in una delle epoche più eccitanti che il mondo occidentale avesse mai visto. 14 Andai a Roma. Non potevo accontentarmi di nulla di meno. Ciò che vi trovai mi avrebbe ferito al cuore, ma anche sbalordito. Era una città enorme e brulicante di attività, decisa a sollevarsi dai vari strati di macerie, piena di mercanti e di artigiani che faticavano in maestosi palazzi per il papa e i suoi cardinali, e per altri uomini ricchi. L'antico foro e il colosseo erano ancora in piedi; in realtà c'erano moltissime rovine della Roma imperiale tuttora riconoscibili - compreso l'arco di Costantino - ma blocchi di pietra antica venivano continuamente rubati per i nuovi edifici. Tuttavia, ovunque c'erano studiosi che esaminavano quelle rovine, e molti insistevano perché venissero conservate così com'erano. A dire il vero, l'impulso dell'epoca era quello di preservare i resti dei tempi antichi in cui ero nato, e di imparare da essi e imitarne l'arte e la poesia, e il vigore di quel movimento andava al di là dei miei sogni più sfre-
nati. Come posso esprimerlo con maggior chiarezza? Quell'epoca prospera, dedita al commercio e all'attività bancaria, in cui così tante migliaia di persone indossavano spessi e magnifici abiti di velluto, si era innamorata della bellezza di Roma e della Grecia antiche. Non avevo mai immaginato che si sarebbe verificata una simile inversione di tendenza, mentre giacevo nella mia cripta durante i secoli stanchi, e all'inizio mi sentivo talmente euforico per quanto vedevo, che non potevo fare granché, oltre a camminare nelle strade fangose, avvicinando i mortali con tutta la cortesia che riuscivo a radunare, interrogandoli su quanto stava succedendo intorno a loro e su cosa pensavano dell'epoca in cui vivevano. Naturalmente parlavo l'italiano, la nuova lingua che si era sviluppata dall'antico latino, e ben presto mi abituai ad averla nelle orecchie e sulla bocca. Non era una lingua sgradevole, anzi, era bellissima, anche se scoprii che gli studiosi erano molto versati nel latino e nel greco. Dalla moltitudine di risposte che ricevetti ai miei quesiti, appresi anche che Firenze e Venezia, quanto a rinascita spirituale, erano ritenute nettamente in anticipo su Roma, ma la situazione sarebbe ben presto cambiata, se il papa fosse riuscito a fare a modo suo. Il pontefice non era più. solo un governante cristiano. Aveva deciso che Roma doveva diventare un'autentica capitale culturale e artistica, e non stava solo completando i lavori per la nuova basilica di San Pietro, ma anche lavorando alla Cappella Sistina, una grande impresa all'interno delle mura del suo palazzo. Per affrescarla erano stati chiamati alcuni artisti da Firenze, e la città era affascinata dai dipinti già realizzati. Passai molto tempo nelle strade e nelle taverne, ascoltando tutti i pettegolezzi, prima di andare a vedere di persona la Cappella Sistina. Che notte fatidica fu, per me. Durante i secoli bui, trascorsi da quando avevo lasciato i miei amati Avicus e Zenobia, mi ero lasciato rapire il cuore da diversi mortali e varie opere d'arte, ma nulla di quanto avevo sperimentato poteva prepararmi a ciò che avrei visto entrando in quella cappella. Cerca di capire: non parlo di Michelangelo, così famoso in tutto il mondo per l'opera là realizzata; all'epoca era solo un bambino, e i suoi affreschi nella Cappella Sistina sarebbero giunti in seguito. No, non fu l'opera di Michelangelo ciò che vidi in quella notte fatidica. Togliti dalla testa Michelangelo. Fu il lavoro di qualcun altro. Superando agevolmente le guardie del palazzo, mi ritrovai all'interno del
grande rettangolo dell'augusta cappella che, benché non aperta al largo pubblico, era destinata a essere utilizzata per le cerimonie di maggior rilievo, una volta completata. Ad attirare subito la mia attenzione, tra il gran numero di affreschi, fu quello enorme e pieno di figure dipinte in modo brillante tra cui, apparentemente, spiccava sempre lo stesso uomo anziano con la luce dorata che gli avvolgeva la testa, mentre appariva con tre diversi gruppi formati da coloro che ubbidivano al suo comando. Nulla mi aveva preparato al naturalismo con cui erano dipinte le molteplici figure, le espressioni vivide, eppure dignitose sui loro volti, e gli indumenti elegantemente drappeggiati che le coprivano. Si notava un gran tumulto fra i tre capannelli di persone squisitamente rappresentate, mentre la figura canuta con la luce dorata attorno al capo le istruiva o rimproverava o correggeva, con il viso apparentemente severo e tranquillo. Tutti esistevano in un'armonia che non sarei mai riuscito a immaginare, e benché la sola loro creazione sembrasse sufficiente a fare di quell'affresco un autentico capolavoro, dietro le figure si intravedeva la magnifica rappresentazione di una bizzarra landa desolata e di un mondo indifferente. Due grandi navi di foggia contemporanea erano ancorate nel porto lontano, e dietro di esse si stagliavano montagne sormontate da un cielo di un azzurro intenso, mentre sulla destra si ergevano lo stesso arco di Costantino che ancora oggi si può ammirare a Roma, perfetto fin nei minimi dettagli dorati, come se non fosse mai stato abbattuto, e le colonne di un altro edificio romano, un tempo splendido, ma ormai ridotto a un rudere alto e fiero, benché un castello scuro spiccasse dietro di esso. Ah, quale complessità, che abbinamenti inspiegabili, che strano tema: ogni viso umano era irresistibile, ogni mano era dipinta in modo squisito. Temetti di impazzire solo guardando i volti. Temetti di impazzire solo guardando le mani. Avrei voluto avere a disposizione varie notti per memorizzare quell'affresco. Volevo mettermi subito in ascolto accanto alle porte di studiosi capaci di dirmi cosa rappresentava, perché non riuscivo a indovinarne il tema! Avevo bisogno di informazioni per poterlo fare. E, più di qualunque altra cosa, la sua pura bellezza parlava alla mia anima. Tutti i miei anni bui erano svaniti, come se in quella cappella fossero state accese un milione di candele. «Oh, Pandora, se tu potessi vederlo!» sussurrai. «Oh, Pandora, se solo tu
lo conoscessi!» C'erano altri affreschi nella Cappella Sistina incompiuta. Li percorsi rapidamente con lo sguardo, finché i miei occhi ne individuarono altri due dello stesso maestro, magici come il primo. Ancora una volta c'era una moltitudine di persone, tutte con gli stessi volti divini. Gli indumenti erano resi con una profondità scultorea. E, pur riconoscendo il Cristo con i suoi angeli alati che appariva in più di un punto del sublime affresco, non riuscii a interpretare quelle opere più della prima. Alla fin fine non importava quale fosse il significato di quei dipinti: mi affascinavano completamente. Uno mostrava due fanciulle ritratte in maniera così sensibile eppure così sensuale da lasciarmi esterrefatto. L'antica arte delle chiese e dei monasteri non aveva mai consentito una cosa del genere, anzi, aveva totalmente bandito una simile carnalità. Eppure, lì nella cappella del papa c'erano quelle donzelle, una che dava la schiena agli osservatori e l'altra girata verso di loro, un'espressione sognante negli occhi. «Pandora», sussurrai. «Ti ho trovata qui, ti ho trovata ritratta nella tua giovinezza e nella tua eterna bellezza. Pandora, sei qui sul muro.» Diedi la schiena agli affreschi, cominciando a camminare a grandi passi. Poi tornai a guardarli, studiandoli con le mani alzate, badando di non toccarli, ma muovendole semplicemente sopra di essi, come se dovessi osservare con le mani tanto quanto con gli occhi. Dovevo scoprire il nome di quel pittore! Dovevo vedere gli altri suoi lavori. Mi ero innamorato di lui. Dovevo vedere qualunque opera avesse realizzato. Era giovane? Era vecchio? Era ancora vivo? Era morto? Dovevo assolutamente scoprirlo. Uscii dalla cappella, non sapendo a chi chiedere notizie su quelle opere straordinarie, perché non potevo certo svegliare il papa nel suo letto per domandarlo a lui. In una strada buia in cima a una collina, incontrai un malfattore, un ubriaco con un coltello pronto per me: bevvi la mia dose di sangue in un accesso di avidità che non sperimentavo da anni. Povera, triste vittima. Mi chiesi se, nel prenderla, le avessi donato qualche fugace visione degli affreschi. Rammento con estrema chiarezza il momento, perché ero fermo in cima a una stretta scalinata che scendeva lungo la collina, fino alla piazza sotto-
stante; pensavo solo a quei dipinti; mentre il suo sangue mi scaldava, avrei voluto tornare subito nella cappella. Improvvisamente qualcosa mi interruppe; percepii il ben distinto rumore di un bevitore di sangue vicino a me, il passo impacciato di un vampiro ancora giovane. Un centinaio d'anni? Non di più, secondo i miei calcoli. La creatura voleva avvisarmi della sua presenza. Mi voltai e vidi una figura alta, muscolosa e bruna, con la veste nera di un monaco. Aveva il viso bianco e non faceva nulla per nasconderlo. Al collo portava un crocifisso d'oro scintillante, capovolto. «Marius!» bisbigliò. «Dannazione a te», replicai. Oh, dei, come poteva conoscere il mio nome? «Chiunque tu sia. Lasciami in pace. Allontanati da me. Ti avverto. Non restare in mia presenza se vuoi continuare a vivere.» «Marius!» ripeté lui, avvicinandosi. «Non ho paura di te. Ti ho raggiunto perché abbiamo bisogno di te. Sai chi siamo.» «Adoratori di Satana!» esclamai in tono disgustato. «Guarda lo stupido ornamento che porti al collo. Se il Cristo esiste, credi che si curi di voi? A quanto pare, organizzate ancora i vostri sciocchi raduni, continuate con le vostre menzogne.» «Sciocchi?» chiese con molta calma. «Non siamo mai stati sciocchi. Svolgiamo il lavoro di Dio, mentre serviamo Satana. Senza Satana, come avrebbe potuto esserci il Cristo?» Gli rivolsi un gesto sprezzante. «Vattene», dissi. «Non voglio avere nulla a che fare con te.» Nel mio cuore era racchiuso il segreto di Coloro-che-devono-essere-conservati. Pensai agli affreschi della Cappella Sistina. Oh, quelle figure adorabili, quei colori... «Ma non capisci?» ribatté lui. «Se qualcuno antico e potente come te dovesse diventare il nostro capo, potremmo essere una legione nelle catacombe di questa città! Stando così le cose, invece, siamo terribilmente in pochi.» I suoi grandi occhi neri erano colmi dell'inevitabile fanatismo. E i folti capelli neri brillavano nella luce fioca. Era una creatura avvenente, persino coperta di polvere e sudiciume com'era. Sentii l'odore delle catacombe sui suoi abiti. Sentii l'odore della morte su di lui, come se si fosse steso insieme a dei resti mortali. Ma era bello, di corporatura e proporzioni perfette come Avicus, anche se diversissimo da Avicus. «Volete essere una legione?» gli domandai. «Dici assurdità! Io ero vivo
quando nessuno parlava di Satana e nessuno parlava di Cristo. Siete semplicemente bevitori di sangue e inventate fandonie per voi stessi. Come hai potuto credere che sarei venuto da voi per diventare il vostro capo?» Lui si avvicinò, tanto che riuscii a vederlo ancora meglio in faccia. Traboccava di esuberanza e sincerità. Teneva la testa orgogliosamente eretta. «Raggiungici nella nostra catacomba», mi chiese, «vieni a vederci e sii parte del nostro rituale. Canta insieme a noi, domani notte, prima che usciamo per cacciare.» Lo disse con foga e aspettò in silenzio una mia risposta. Non era affatto una creatura stupida, né sembravainesperto come gli altri seguaci di Satana che avevo intravisto nei secoli passati. Scossi il capo, ma lui insistette. «Mi chiamo Santino», disse. «Sento parlare di te da un centinaio d'anni. Ho sognato il momento in cui ci saremmo conosciuti. È stato Satana a farci incontrare. Devi guidarci. Solo a te cederei il mio ruolo di capo. Vieni a vedere il mio covo con le sue centinaia di teschi.» La sua voce era elegante, ben modulata. Parlava un italiano perfetto. «Vieni a vedere i miei seguaci che adorano la Bestia con tutto il cuore. È il volere della Bestia che tu ci guidi. È il volere di Dio.» Com'ero disgustato, come deploravo lui e i suoi accoliti! Però vedevo il suo intelletto. Vedevo la sua prontezza mentale, l'arguzia e la speranza di comprensione. Se solo Avicus e Mael fossero stati lì per distruggere lui e tutti i suoi compari. «Il tuo covo con le sue centinaia di teschi?» ripetei. «Credi che io desideri esserne il capo? Stanotte ho visto dipinti di tale bellezza che non sono in grado di descriverteli. Splendide opere ricche di colore e brillantezza. Questa città mi circonda con le sue splendide attrattive.» «Dove hai visto questi dipinti?» mi chiese. «Nella cappella del papa», risposi. «Come hai osato andare là?» «È stato facilissimo, per me. Posso insegnarti a usare i tuoi poteri...» «Ma noi siamo creature delle tenebre», dichiarò in tutta semplicità. «Non dobbiamo mai entrare nei luoghi della luce. Dio ci ha condannato a vivere nell'ombra.» «Quale dio?» domandai. «Vado dove voglio. Bevo il sangue dei malvagi. Il mondo mi appartiene. E tu mi chiedi di scendere sottoterra con te? In una catacomba piena di teschi? Mi chiedi di guidare dei bevitori di sangue in nome di un demone? Sei troppo intelligente per il tuo credo, amico mio.
Abbandonalo.» «No», replicò, scuotendo la testa e indietreggiando. «La nostra è una purezza satanica! Non puoi convincermi a rinunciarvi, nonostante tutto il tuo potere e i tuoi trucchi, e ti do il benvenuto.» Avevo fatto nascere qualcosa, in lui. Glielo lessi negli occhi neri. Era attratto da me, attratto dalle mie parole, ma non poteva ammetterlo. «Non sarete mai una legione», affermai. «Il mondo non lo permetterà. Non siete niente. Rinunciate ai vostri orpelli. Non convincerete altri immortali a unirsi a questa stolta crociata.» Santino mi si avvicinò ulteriormente, come se io fossi una luce e lui volesse entrare nel suo alone. Mi guardò negli occhi, senza dubbio cercando di leggermi i pensieri, di cui non riusciva a captare nulla se non quanto avevo espresso a parole. «Siamo talmente dotati», dissi. «C'è così tanto da osservare, da imparare. Lascia che ti porti con me nella cappella del papa a vedere gli affreschi che ho appena descritto.» Si avvicinò ancora di più e la sua espressione cambiò. «Coloro-che-devono-essere-conservati», disse, «cosa sono?» Fu come ricevere un colpo violento capire che, ancora una volta, un altro era al corrente del segreto, un segreto che avevo serbato tanto efficacemente per un migliaio di anni. «Non lo saprai mai», ribattei. «No, ascoltami. Sono qualcosa di profano? Oppure sono sacri?» Strinsi i denti. Allungai la mano verso Santino, ma con una rapidità che mi sorprese, lui mi sfuggì. Lo seguii, lo afferrai, e facendolo ruotare verso di me, lo trascinai fino alla stretta scalinata di pietra che scendeva il pendio della collina. «Non avvicinarti mai più a me, hai capito?» gli intimai. Lottò disperatamente per sottrarsi alla mia stretta. «Posso ucciderti con il fuoco grazie ai miei poteri mentali, se voglio. E perché non scelgo di farlo? Perché non scelgo di massacrarvi tutti, miserabile feccia? Perché non lo faccio? Perché odio la violenza di quest'atto e la crudeltà, anche se siete più malvagi del mortale che stanotte ho ucciso per placare la mia sete.» Stava cercando freneticamente di liberarsi, ma naturalmente non aveva nessuna possibilità. Perché non lo annientai? La mia mente era troppo piena degli splendidi affreschi? Era troppo sintonizzata sul mondo mortale per essere trascinata di nuovo in quell'abissale lerciume?
Non lo so. Quello che so è che lo scaraventai giù per i gradini di pietra, tanto che ruzzolò più e più volte, goffamente, tristemente, finché si rialzò con fatica in fondo alle scale. Mi guardò in cagnesco: aveva il viso distorto dall'odio. «Ti maledico, Marius!» esclamò con notevole coraggio. «Maledico te e il tuo segreto di Coloro-che-devono-essere-conservati.» Fui colto alla sprovvista dalla sua sfida. «Ti avviso, stammi lontano, Santino!» replicai, mentre lo guardavo dall'alto. «Siate vagabondi nel tempo. Siate testimoni di tutte le splendide e magnifiche vicende umane. Siate autentici immortali. Non adoratori di Satana! Non servite un dio che vuole piazzarvi in un inferno cristiano. Ma qualsiasi cosa facciate, restate lontani da me, per il vostro bene.» Mi stava fissando, furibondo. Pensai di dargli un piccolo avvertimento, se solo ci riuscivo. E intendevo provarci. Evocai dentro di me il dono del fuoco, sentendolo farsi potente, poi lo domai con estrema cura e lo scagliai verso di lui, e gli ordinai di incendiare solo l'orlo della nera veste monacale. Subito il tessuto intorno ai suoi piedi prese a fumare, e quando lui balzò all'indietro, orripilato, bloccai il potere. Lui cominciò a piroettare in preda al panico e si strappò di dosso la veste bruciacchiata, restando con una lunga tunica bianca, fissando il tessuto fumante ai suoi piedi. Ancora una volta mi guardò, intrepido come prima, ma furioso per la sua impotenza. «Renditi conto di cosa potrei farti», dissi, «e non avvicinarti mai più a me.» Poi gli diedi le spalle e me ne andai. Rabbrividii pensando a lui e ai suoi seguaci. Rabbrividii al pensiero di aver dovuto usare di nuovo il dono del fuoco, dopo così tanti anni. Rabbrividii rammentando il massacro degli schiavi di Eudoxia. Non era ancora mezzanotte. Bramavo il brillante nuovo mondo dell'Italia. Bramavo i geniali studiosi e artisti di quei tempi. Bramavo gli enormi palazzi dei cardinali e degli altri potenti abitanti della Città Eterna che era risorta dopo tutti i lunghi anni miserevoli. Scacciando dalla mente la figura di Santino, mi avvicinai a uno dei nuo-
vi palazzi al cui interno si stava svolgendo una festa, una festa mascherata con danze e tavoli carichi di cibo. Per me non fu certo un problema entrare; ero abbigliato con gli eleganti abiti di velluto tipici del periodo e, una volta tra gli invitati, venni accolto cordialmente come chiunque altro. Non avevo nessuna maschera, solo il mio viso bianco e il consueto mantello di velluto rosso con cappuccio che mi distingueva dagli ospiti e allo stesso tempo mi rendeva uno di loro. La musica era inebriante. Le pareti risplendevano di affreschi pregevoli, benché nessuno di essi fosse magico come quelli visti nella Cappella Sistina, e la folla era enorme e sontuosamente vestita. Cominciai subito a conversare con i giovani studiosi, quelli che stavano parlando con foga di pittura e di poesia, e posi la mia sciocca domanda: chi aveva realizzato i magnifici affreschi nella Cappella Sistina che avevo appena ammirato? «Li hai visti?» chiese uno degli invitati. «Non ci credo. A noi non è stato permesso di entrare ad ammirarli. Descrivimi ciò che hai visto.» Riferii ogni cosa con estrema semplicità, come se fossi uno scolaretto. «Le figure sono straordinariamente delicate», spiegai, «con volti sensibili, e ognuna di esse, benché resa con grande naturalezza, è leggermente troppo lunga.» Le persone riunite intorno a me scoppiarono in una bonaria risata. «Leggermente troppo lunga», ripeté uno degli anziani. «Chi è l'autore degli affreschi?» domandai in tono implorante. «Devo assolutamente conoscerlo.» «Dovrai andare a Firenze, per conoscerlo», mi disse lo studioso attempato. «Stai parlando di Botticelli, ed è già tornato a casa.» «Botticelli», sussurrai. Era un nome strano, quasi ridicolo. Ricorda la parola «botticella» ma per me significava magnificenza. «Siete sicuro che li abbia realizzati Botticelli?» chiesi. «Oh, sì», confermò l'anziano studioso. Anche gli altri stavano annuendo. «Tutti sono sbalorditi da quello che riesce a fare. Ecco perché il papa l'ha mandato a chiamare. È rimasto qui due anni a lavorare alla Cappella Sistina. Tutti lo conoscono. E ora, a Firenze, è sicuramente indaffarato come lo era qui.» «Voglio vederlo con i miei occhi», dichiarai. «Chi sei?» chiese uno degli studiosi. «Nessuno», sussurrai. «Assolutamente nessuno.»
Scoppiò una risata generale, che parve fondersi in modo leggiadro con la musica che ci circondava e con il bagliore delle numerosissime candele. Mi sentivo ebbro dell'odore dei mortali e di sogni su Botticelli. «Devo trovarlo», mormorai. Augurai la buonanotte a tutti e uscii nella notte. Ma cosa avrei fatto, quando lo avessi trovato? Era quello il problema. Cosa mi spingeva? Cosa desideravo? Vedere tutte le sue opere, sì, sicuramente, ma cos'altro esigeva la mia anima? La mia solitudine sembrava cospicua come la mia età e mi spaventava. Tornai nella Cappella Sistina. Trascorsi il resto della nottata osservando ancora una volta gli affreschi. Prima dell'alba una guardia mi scoprì; lasciai che succedesse, perché grazie alle mie doti telepatiche non ebbi problemi a convincerla che avevo il diritto di trovarmi là. «Chi è la figura ritratta in questi dipinti?» chiesi. «L'anziano con la barba e con la luce dorata che gli illumina il capo?» «Mosè», rispose. «Il profeta. Quell'affresco è tutto legato a Mosè, mentre l'altro è legato a Cristo.» Me lo indicò. «Non vedi l'iscrizione?» Prima non l'avevo notata: La tentazione di Mosè, latore della legge scritta. Sospirai. «Vorrei conoscere più a fondo le loro storie», ammisi, «anche se questi dipinti sono talmente squisiti che la storia non ha importanza.» La guardia si limitò a stringersi nelle spalle. «Non pensi che questi affreschi siano incomparabilmente stupendi?» le chiesi. Mi guardò con aria leggermente ottusa. Mi resi conto di quanto mi sentivo solo, visto che stavo parlando con quella povera creatura, cercando di suscitare in lei una seppur vaga comprensione di ciò che provavo. «I dipinti stupendi sono ovunque, ormai», affermò. «Oh, sì», dissi, «sì, lo so. Ma non somigliano a questo.» Le diedi qualche moneta d'oro e lasciai la cappella. Avevo giusto il tempo di raggiungere la cripta di Coloro-che-devonoessere-conservati, prima che spuntasse il sole. Mentre mi sdraiavo per dormire, sognai Botticelli, ma fu la voce di Santino a tormentarmi. Rimpiansi di non averlo annientato; un rimpianto davvero insolito per me.
15 La sera seguente mi recai a Firenze, e fu magnifico vedere che si era ripresa dalla devastazione della Morte Nera, e ormai era caratterizzata da più prosperità e ingegnosità ed energia di Roma. Compresi ben presto la fondatezza delle mie deduzioni: essendosi sviluppata intorno al commercio, Firenze non aveva sofferto il declino di un'era classica; si era invece progressivamente rafforzata nel corso dei secoli, mentre la famiglia che la governava, i Medici, conservava il potere grazie a una grande banca internazionale. Tutt'intorno a me spiccavano elementi che mi attiravano profondamente: numerosi monumenti architettonici, gli affreschi d'interni, gli studiosi brillanti, ora nulla poteva impedirmi di scoprire l'identità di Botticelli e vedere di persona non solo le sue opere, ma anche lui. Eppure preferii torturarmi nell'attesa. Affittai delle stanze in un palazzo vicino alla piazza principale; assoldai un servitore pasticcione e notevolmente ingenuo, perché acquistasse per mio conto un bel guardaroba di abiti costosi, tutti del colore che preferivo e preferisco tuttora, il rosso; anche se era tarda sera, mi recai subito da un libraio e continuai a bussare alla sua porta finché non mi aprì, e da lui acquistai gli ultimi libri che «tutti stavano leggendo» e che parlavano di poesia, arte, filosofia. Quando uscii dal suo negozio, l'uomo si dimostrò molto soddisfatto della bella cifra in monete d'oro che aveva incassato. Ritornai nelle mie stanze e, seduto accanto a una lanterna accesa, divorai tutto il possibile sul pensiero del mio secolo. Alla fine mi stesi sul pavimento, fissando il soffitto, sopraffatto dal vigore del ritorno del classico, dall'appassionato entusiasmo per gli antichi poeti greci e romani, e dalla fiducia nella sensualità che quell'epoca sembrava nutrire. Lasciami sottolineare che quei testi erano libri realizzati a stampa, grazie alla miracolosa invenzione di Gutenberg; pur preferendo la bellezza degli antichi codici redatti a mano, così come molti uomini del periodo, rimasi sbalordito dalla loro qualità. In realtà è ironico che, persino dopo il diffondersi del torchio da stampa, la gente si vantasse ancora di possedere biblioteche di manoscritti, ma sto divagando. Stavo parlando del ritorno degli antichi poeti greci e romani, dell'infatuazione di quel tempo per l'epoca della mia nascita. La Chiesa romana era enormemente potente, come ho già menzionato,
ma quella era un'epoca di fusione, oltre che di inconcepibile espansione, ed era fusione ciò che avevo visto nella pittura di Botticelli, così colma di grazia e bellezza naturale, benché creata per l'interno della cappella del papa. Verso mezzanotte uscii barcollando dal mio alloggio; la città era sotto il coprifuoco, ma le taverne lo violavano, così come lo ignoravano le inevitabili canaglie che gironzolavano qua e là. Mi sentivo intontito mentre mi dirigevo verso un'enorme taverna piena di giovani e allegri ubriaconi, dove un ragazzo dalle gote rosee cantava e suonava il liuto. Mi sedetti in un angolo, pensando di dominare i miei inquieti entusiasmi, le mie folli passioni, eppure dovevo trovare la casa di Botticelli. Dovevo assolutamente trovarla. Dovevo vedere altre sue opere. Cosa mi impediva di farlo? Di cosa avevo paura? Cosa mi passava per la testa? Sicuramente gli dei sapevano che ero una creatura dotata di un ferreo autocontrollo: non l'avevo forse dimostrato un migliaio di volte? Per mantenere un segreto divino non avevo forse voltato la schiena a Zenobia? E non soffrivo forse abitualmente e giustamente per aver abbandonato la mia incomparabile Pandora, che rischiavo di non ritrovare mai più? Alla fine non riuscii più a sopportare i miei pensieri confusi. Mi avvicinai a uno degli avventori più anziani, che non stava cantando insieme ai più giovani. «Sono venuto qui per trovare un grande pittore», gli spiegai. Si strinse nelle spalle e bevve un sorso di vino. «Un tempo lo ero», dichiarò, «ma ora non più. L'unica cosa che faccio è bere.» Scoppiai a ridere. Chiamai la cameriera perché gli portasse un altro boccale. Lui mi ringraziò con un cenno d'assenso. «L'uomo che sto cercando si chiama Botticelli, o così mi hanno detto.» Adesso toccò a lui ridere. «Stai cercando il più grande pittore di Firenze», disse. «Non avrai alcun problema a trovarlo. È sempre molto impegnato, a prescindere da quanti sfaccendati ciondolino nella sua bottega. A quest'ora, forse, sta dipingendo.» «Dov'è la sua bottega?» chiesi. «Botticelli vive in via Nuova, proprio davanti a via Paolino.» «Ma dimmi...» Dopo un attimo di esitazione continuai. «Che tipo d'uomo è? Secondo te, intendo.»
Lo sconosciuto fece nuovamente spallucce. «Né cattivo, né buono, ed è dotato di uno spiccato senso dell'umorismo. Non il tipo che ti lascia un'impressione indelebile, se non tramite la sua pittura. Lo vedrai tu stesso, quando lo incontrerai. Ma non credere di poterlo ingaggiare. Botticelli ha già parecchio lavoro da fare.» Lo ringraziai, posai davanti a lui il denaro per prendersi dell'altro vino, e sgusciai fuori dalla taverna. Facendo qui e là qualche domanda, riuscii a raggiungere la via Nuova, dove una sentinella notturna mi indicò come arrivare alla casa di Botticelli: un'abitazione di discrete dimensioni, ma non certo un grande palazzo, dove il pittore viveva insieme al fratello e alla famiglia di quest'ultimo. Rimasi fermo davanti a quella semplice dimora come se fosse un sacrario, intuendo dove fosse la bottega per l'ampia doppia porta affacciata sulla strada, che durante il giorno sarebbe rimasta costantemente aperta. Vidi che tutte le stanze, sia al pianoterra sia a quello superiore, erano buie. Come potevo entrare in quella bottega? Come potevo scoprire quale lavoro vi si stava eseguendo, potendo andarci solo dopo il tramonto? In quel momento maledissi la notte. Non mi restava che ricorrere all'aiuto dell'oro, e alla mia capacità di incantare, anche se non avevo idea di come avrei osato abbacinare Botticelli. All'improvviso, non riuscendo a trattenermi, bussai alla porta dell'abitazione. Naturalmente nessuno rispose, perciò bussai di nuovo finché una luce si accese alla finestra al piano di sopra. Udii dei passi all'interno e una voce chiese chi fossi e cosa volessi. Cosa dovevo rispondere a una simile domanda? Fui costretto a mentire a una persona che veneravo, ma dovevo entrare a tutti i costi. «Marius de Romanus», risposi, inventandomi il nome sul momento. «Sono venuto con una borsa piena d'oro per Botticelli. Ho visto i suoi affreschi a Roma e lo ammiro profondamente. Devo mettere questo borsellino nelle sue mani.» Ci fu una pausa di silenzio, poi le voci di due uomini che confabulavano sulla mia possibile identità o sul motivo per cui avrei dovuto raccontare una simile menzogna. Un uomo consigliò di non aprirmi, l'altro replicò che valeva la pena di dare una rapida occhiata, e fu quest'ultimo a far scorrere il chiavistello e aprire la porta. Il secondo teneva sospesa la lanterna alle sue spalle, quindi vidi solo un viso nell'ombra. «Sono Sandro», disse semplicemente. «Sono Botticelli. Perché dovresti
darmi una borsa piena d'oro?» Per alcuni istanti rimasi senza parole, ma durante quel silenzio ebbi il buonsenso di mostrargli il denaro. Gli passai la borsa e lo guardai in silenzio, mentre l'apriva e versava fiorini d'oro sul palmo della mano. «Cosa vuoi?» chiese. La sua voce era schietta come i suoi modi. Era piuttosto alto, con i capelli castano chiari già screziati di grigio, benché non fosse vecchio. Aveva grandi occhi che apparivano compassionevoli, e bocca e naso ben disegnati. Rimase fermo a guardarmi senza traccia di irritazione né diffidenza, palesemente pronto a restituirmi il denaro. Doveva avere meno di quarant'anni. Cercai di parlare, ma per la prima volta in vita mia balbettai, prima di riuscire a pronunciare parole intelligibili. «Lasciami entrare nella tua bottega stanotte», chiesi. «Lasciami vedere i tuoi dipinti. Non desidero altro.» «Puoi vederli durante il giorno.» Si strinse nelle spalle. «La bottega è sempre aperta. Oppure puoi andare nelle chiese in cui ho dipinto. I miei lavori sono sparsi in tutta Firenze. Non devi pagarmi per una cosa del genere.» Che voce sublime, che voce sincera! Aveva qualcosa di paziente e tenero. Lo fissai come avevo fissato i suoi affreschi. Ma lui stava aspettando una risposta, perciò fui costretto a controllarmi. «Ho i miei motivi», dichiarai. «Ho le mie passioni. Voglio vedere il tuo lavoro adesso, se me lo permetterai. In cambio ti offro l'oro.» Lui sorrise e proruppe in una breve risata tranquilla. «Bene, giungi come uno dei Magi», disse. «Perché questi fiorini mi sono sicuramente utili. Entra.» Nel corso della mia lunga esistenza, per la seconda volta che venivo paragonato a uno dei Magi delle Sacre Scritture, e la cosa mi piacque. Entrai in quella casa tutt'altro che lussuosa; lui tolse la lanterna di mano all'altro uomo e mi fece strada. Lo seguii oltre una porta laterale e nella sua bottega, dove posò la lanterna su un tavolo ingombro di colori e pennelli e stracci. Non riuscivo a levargli gli occhi di dosso. Quello era l'uomo che aveva realizzato gli splendidi affreschi nella Cappella Sistina, quell'uomo così normale? La luce aumentò e riempì la stanza. Sandro, come si era definito, indicò un punto alla sua sinistra; quando mi voltai credetti di essere sul punto di perdere la ragione.
C'era un'enorme tela contro la parete; mi ero aspettato di vedere un dipinto religioso, non importa quanto sensuale, invece vidi una cosa del tutto diversa che mi lasciò ancora una volta senza parole. Il dipinto era gigantesco e costituito da diverse figure; però, mentre gli affreschi di Roma mi avevano reso perplesso riguardo al loro tema, capii subito cosa raffigurasse questo: non ritraeva santi e angeli, o Cristo, o i profeti, tutt'altro! Raffigurava la dea Venere in tutta la sua gloriosa nudità, con i piedi posati su una conchiglia, i capelli color oro scompigliati da dolci brezze, lo sguardo sognante ben saldo, assistita fedelmente dal dio Zefiro intento a soffiare il vento che la sospingeva verso terra, e da una ninfa bella come la dea stessa che le dava il benvenuto sulla riva. Trattenni il fiato e mi coprii il viso con le mani. Botticelli emise un sospiro leggermente impaziente. Cosa potevo dirgli, in nome degli dei, sulla genialità di quell'opera? Cosa potevo dirgli per esternare tutta l'ammirazione che provavo? Poi lui parlò in tono sommesso e rassegnato: «Se hai intenzione di sostenere che è scioccante e malvagio, ti avviso che l'ho già sentito dire un migliaio di volte. Ti restituirò il tuo oro, se vuoi». Mi voltai e mi inginocchiai; gli presi le mani e le baciai, premendo le labbra tanto quanto osavo, poi mi alzai lentamente, come un vecchio che sollevi prima un ginocchio e poi l'altro, e rimasi fermo a lungo a guardare il pannello dipinto. Osservai di nuovo la figura perfetta di Venere che si copriva il segreto più intimo con ciocche dei suoi foltissimi capelli; osservai la ninfa con la mano protesa e gli abiti vaporosi; osservai il dio Zefiro e la dea insieme a lui, e tutti i minuscoli dettagli del quadro mi si impressero nella mente. «Com'è successo?» chiesi. «Dopo un così lungo periodo di Cristi e Vergini, come hai potuto dipingere una cosa simile?» L'uomo mi guardò e sorrise. «Dipende dal mio committente», spiegò. «Siccome il mio latino non è certo perfetto, mi hanno letto la poesia, e io ho dipinto quello che mi hanno detto di dipingere.» Si interruppe. Sembrava preoccupato. «Lo trovi peccaminoso?» «Certo che no», risposi. «Mi chiedi cosa penso? Penso che sia un miracolo. Mi stupisce che tu me lo domandi.» Guardai il dipinto. «Questa è una dea. Come potrebbe essere altro che sacra? C'è stata un'epoca in cui milioni di persone l'adoravano con tutto il cuore; un tempo in cui le persone si
consacravano a lei con tutta l'anima,» «Be', sì», ribatté lui sommessamente, «ma è una dea pagana, e non tutti pensano che sia la patrona delle nozze, come qualcuno sostiene adesso. Alcuni dicono che questo dipinto è peccaminoso, che non dovrei realizzarlo.» Emise un sospiro carico di frustrazione. Avrebbe voluto dire di più, ma intuii che quegli argomenti erano superiori alle sue capacità. «Non ascoltare simili commenti», lo esortai. «Ha una purezza che non ho visto quasi mai nella pittura. Il viso di Venere, il modo in cui l'hai dipinto... sembra appena nata, eppure sublime; una donna eppure divina. Non pensare al peccato quando lavori su questo dipinto. Questo dipinto è troppo vitale, troppo eloquente. Scaccia dalla mente le lotte del peccato.» Lui rimase in silenzio, ma sapevo che stava riflettendo. Mi voltai e cercai di leggergli la mente. Sembrava caotica, piena di pensieri errabondi e senso di colpa. Era un pittore quasi totalmente alla mercé di coloro che lo ingaggiavano, ma si era reso straordinario in virtù delle particolarità che tutti apprezzavano nel suo lavoro. Da nessuna parte il suo talento era espresso più pienamente che in quel particolare quadro, e lui lo sapeva, pur non riuscendo a spiegarlo a parole. Rifletté intensamente su come parlarmi del suo mestiere e della sua originalità, ma non era semplicemente in grado di farlo. E io non intendevo fargli pressioni. Sarebbe stato crudele. «Non possiedo le tue parole», confessò con semplicità. «Credi davvero che il dipinto non sia peccaminoso?» «Sì, te lo ripeto, non lo è. Se qualcuno ti dice qualcosa di diverso sta mentendo.» Non potevo sottolinearlo abbastanza. «Guarda l'innocenza nel viso della dea. Non pensare ad altro.» Sembrava tormentato, poi mi resi conto di come fosse fragile, a dispetto del suo enorme talento e dell'enorme energia che metteva nel lavoro. L'impeto della sua arte poteva essere completamente annientato da quanti lo criticavano. Eppure, in qualche modo, lui continuava a creare ogni giorno le immagini migliori che sapesse dipingere. «Non credergli», aggiunsi, spingendolo a guardarmi di nuovo. «Vieni», mi disse, «mi hai pagato generosamente per osservare il mio lavoro. Ora guarda questo tondo della Vergine Maria con gli angeli. Dimmi cosa ne pensi.» Portò la lanterna accanto alla parete più lontana e la tenne sollevata per permettermi di vedere il dipinto appeso là. Ancora una volta rimasi troppo scioccato dalla bellezza dell'opera per
poter parlare. Ma era evidente che la Vergine esibiva la stessa pura avvenenza della dea Venere, e gli angeli erano sensuali e seducenti, come solo i fanciulli e le fanciulle molto giovani possono essere. «Lo so», affermò Botticelli. «Non hai bisogno di dirmelo. La mia Venere somiglia alla Vergine e la Vergine somiglia a Venere, così dicono. Ma i miei committenti mi pagano ugualmente.» «Ascolta i tuoi committenti», gli consigliai. Avrei tanto voluto afferrarlo per le braccia. Avrei voluto scrollarlo delicatamente affinché non dimenticasse mai le mie parole. «Fai ciò che ti dicono. Entrambi i dipinti sono magnifici, più meravigliosi di qualunque cosa abbia mai visto.» Non poteva sapere cosa intendevo, e non potevo spiegarglielo. Lo fissai, e per la prima volta notai in lui una lieve apprensione. Aveva cominciato a notare la mia pelle, e forse le mie mani. Era giunto il momento di lasciarlo, prima che si insospettisse ancora di più, e volevo che mi ricordasse con gentilezza, non con timore. Estrassi un altro borsellino che avevo portato con me, pieno di fiorini d'oro. Lui fece il gesto di rifiutarlo, anzi, mi oppose un rifiuto molto ostinato. Allora lo posai sul tavolo. Per un attimo ci limitammo a fissarci a vicenda. «Addio, Sandro», dissi. «Marius, vero? Mi ricorderò di te.» Raggiunsi la porta e uscii in strada; camminai di buon passo per due isolati e poi mi fermai, respirando troppo in fretta. Mi sembrava un sogno essere stato con Botticelli e aver visto le sue opere, un sogno che simili dipinti fossero stati creati dall'uomo. Non tornai nelle stanze che avevo affittato. Quando raggiunsi la cripta di Coloro-che-devono-essere-conservati, piombai in un nuovo tipo di spossatezza, reso folle da quanto avevo visto. Non riuscivo a levarmi dalla mente l'impressione che mi aveva fatto quell'uomo. Non riuscivo a smettere di vedermelo davanti, con i morbidi capelli opachi e gli occhi sinceri. Quanto ai dipinti, essi mi perseguitarono. Sapevo che il mio tormento, la mia ossessione, il mio totale abbandono all'amore per Botticelli erano soltanto iniziati. 16
Nei mesi successivi divenni un impegnato visitatore di Firenze, entrando di soppiatto in vari palazzi e varie chiese per vedere le opere realizzate da Botticelli. I suoi estimatori non avevano mentito. Era il pittore più ammirato di Firenze, e coloro che si lamentavano erano quelli per cui lui non aveva tempo di lavorare, essendo solo un uomo mortale. Nella chiesa di San Paolino trovai una pala d'altare destinata a farmi impazzire. Scoprii che il dipinto trattava un tema piuttosto comune, solitamente definito Compianto su Cristo morto, e ritraeva personaggi che piangevano sul corpo del Signore appena deposto dalla croce. Rappresentava un perfetto e splendido esempio della sensualità di Botticelli, specificamente nella tenera rappresentazione di Cristo con lo splendido corpo di un dio greco, e nel totale abbandono della donna che premeva il viso contro il suo, perché, per quanto Gesù fosse disteso con la testa reclinata all'indietro, lei era inginocchiata e aveva gli occhi vicinissimi alla sua bocca. Ah, vedere quei due visi accostati e la delicatezza di ogni volto e di ogni forma che li circondavano fu più di quanto potessi sopportare. Per quanto tempo avrei lasciato che la cosa mi torturasse? Per quanto tempo dovevo tollerare quell'entusiasmo sfrenato, quella folle celebrazione, prima di rifugiarmi nella mia solitudine e nel gelo della cripta? Sapevo bene come punire me stesso, ma dovevo proprio spingermi fino a Firenze per farlo? Inoltre esistevano altri motivi per cui me ne sarei dovuto andare: la città era infestata da due bevitori di sangue che forse avrebbero desiderato non vedermi in giro, anche se fino a quel momento mi avevano lasciato in pace. Erano giovanissini e poco astuti, tuttavia preferivo che non mi incontrassero per non dar loro modo di diffondere ulteriormente «la leggenda di Marius». Esisteva anche il problema del mostro che avevo incontrato a Roma: il crudele Santino che sarebbe potuto venire fin lì per assillarmi con i suoi piccoli adoratori di Satana che deploravo disperatamente. Ma nulla di tutto ciò aveva davvero importanza. Avevo il tempo di restare a Firenze e lo sapevo. Per il momento non ospitava adoratori del diavolo, il che era un bene. Avevo tutto il tempo di soffrire quanto desideravo. Inoltre ero pazzo di quel Botticelli, quel mortale pittore, quel genio, e in pratica non riuscivo a pensare ad altro.
Nel frattempo la sua maestria produsse l'ennesimo, incredibile capolavoro pagano, che ammirai nel palazzo in cui fu sistemato non appena finito, un luogo in cui mi intrufolai nelle prime ore del mattino per ammirare il dipinto, mentre i proprietari dell'edificio dormivano. Ancora una volta Botticelli si era ispirato alla mitologia romana, o forse alla mitologia greca che la sottendeva, per creare un giardino - sì, tra tutte le cose possibili proprio un giardino - di eterna primavera in cui figure mitiche incedevano in modo sublime, con gesti armoniosi ed espressioni sognanti, l'atteggiamento squisitamente e straordinariamente soave. In un lato del giardino verdeggiante danzavano le tre Grazie, giovani e inevitabilmente splendide, con indumenti trasparenti e fluttuanti, mentre all'estremità opposta spiccava la dea Flora, magnificamente vestita e intenta a spargere i fiori presi da un lembo del proprio vestito. La dea Venere compariva ancora una volta al centro del dipinto, abbigliata come una ricca dama fiorentina, la mano sollevata in un gesto di benvenuto, la testa piegata leggermente di lato. La figura di Mercurio, nell'angolo sinistro, e parecchie altre creature mitiche completavano l'assemblea che mi affascinò a tal punto che rimasi fermo per ore davanti al capolavoro, studiandone ogni dettaglio, talvolta sorridendo, talvolta piangendo, asciugandomi il viso, e di tanto in tanto coprendomi addirittura gli occhi e poi scoprendoli per vedere i colori vividi e i gesti e gli atteggiamenti delicati di quelle creature: il tutto mi rammentava vividamente la perduta gloria di Roma, eppure risultava talmente nuovo e diverso che temetti di perdere la testa, tanto l'amavo. Qualsiasi giardino avessi mai dipinto o immaginato venne cancellato da quel quadro. Come avrei mai potuto rivaleggiare, anche solo nei miei sogni, con un'opera del genere? A quel punto sarebbe stato davvero piacevole morire di felicità, dopo essermi sentito tanto a lungo triste e miserabilmente solo. Era sublime osservare quel trionfo di forma e colore; era squisito studiare con amaro sacrificio così tante forme che non riuscivo a comprendere. Ormai in me non c'era più disperazione, ma solo gioia, una gioia continua e incessante. È possibile? Con riluttanza mi separai dal quadro del giardino primaverile, voltando le spalle alla sua scura erba costellata di fiori e i soprastanti alberi di arance, per dedicarmi al compito di rintracciare, ove possibile, altri lavori di Botticelli.
Avrei potuto aggirarmi con passo malfermo per Firenze per varie notti di seguito, ebbro di quanto avevo già visto in quel quadro, ma c'erano altre cose, molte altre cose che dovevo ammirare. Bada bene, durante tutto quel periodo, mentre sgattaiolavo nelle chiese per ammirare altre opere del maestro, mentre mi infilavo in un palazzo per vedere un suo famoso dipinto che ritraeva l'irresistibile dio Marte addormentato inerme sull'erba accanto a una Venere paziente e all'erta, mentre me ne andavo in giro tappandomi di scatto la bocca con le mani per non urlare come un folle, non rimisi mai piede nella bottega del genio. Mi trattenni. Non puoi interferire con la sua vita, mi dicevo. Non puoi arrivare con monete d'oro e distoglierlo dai suoi lavori. Il suo è un destino mortale. Già l'intera città lo conosce. Roma lo conosce. I suoi quadri sopravvivranno. Non è una persona che hai bisogno di togliere dalla strada. È sulla bocca di tutti a Firenze, è sulla bocca di tutti nel palazzo papale a Roma. Lascialo in pace. Così non ritornai da Botticelli, pur morendo dalla voglia di guardarlo semplicemente, di parlare semplicemente con lui, di dirgli semplicemente che il meraviglioso dipinto delle tre Grazie e delle altre dee nel giardino primaverile era più magnifico di qualunque altra opera avesse mai realizzato. Lo avrei pagato solo per poter restare seduto nella sua bottega, la sera, a guardarlo lavorare. Ma era sbagliato, era tutto sbagliato. Tornai nella chiesa di San Paolino e vi rimasi a lungo, fissando il Compianto su Cristo morto. Era molto più rigido dei suoi dipinti «pagani». In realtà, raramente Botticelli aveva realizzato un'opera così severa. E includeva molti toni scuri, nelle vesti dalle tinte cariche delle varie figure e nei recessi in ombra della tomba aperta. Ma persino in quella severità si notava la tenerezza, l'amabilità. E i due visi - quello di Maria e quello del Cristo, premuti l'uno sull'altro - mi attraevano e mi impedivano di distogliere lo sguardo. Ah, Botticelli. Come spiegare il suo dono? Le sue figure, benché perfette, erano sempre leggermente allungate, persino i visi lo erano, e le espressioni sui volti apparivano assonnate e forse persino un pizzico infelici, è difficile stabilirlo. Tutte le figure presenti in uno qualsiasi dei dipinti sembravano smarrite in un sogno comune. Quanto alle tempere che utilizzava - e d'uso così comune a Firenze - erano nettamente superiori a qualunque materiale avessimo avuto a disposi-
zione nei tempi antichi di Roma, perché mescolavano semplice tuorlo d'uovo e pigmento triturato per ottenere i colori e gli smalti e le vernicette necessarie a garantire una brillantezza e una durata insuperate. In altre parole, le opere esibivano una lucentezza che ai miei occhi appariva miracolosa. Ero talmente affascinato da quei colori che mandai il mio servo mortale a procurarmi tutti i pigmenti disponibili, oltre alle uova, e a cercarmi per le ore notturne un anziano apprendista che potesse miscelarmeli fino a ottenere la densità desiderata, in modo che potessi dipingere qualcosa nelle stanze che avevo affittato. Era solo un esperimento ozioso, ma mi ritrovai a lavorare furiosamente e a coprire ben presto ogni pezzo di legno e tela già preparati e acquistati dal mio apprendista e dal mio servo. Naturalmente i due rimasero scioccati dalla mia rapidità, il che mi diede da pensare. Dovevo dimostrarmi scaltro, non capriccioso. Non lo avevo forse imparato molti anni prima, quando avevo affrescato la mia sala dei banchetti mentre gli ospiti mi incitavano? Li mandai via con parecchio oro, ordinando loro di tornare con altri materiali. E quello che avevo dipinto? Era una misera imitazione di Botticelli, perché nemmeno con il mio sangue immortale potevo catturare ciò che lui aveva catturato. Non ero in grado di creare volti come i suoi, no, nemmeno lontanamente. C'era qualcosa di fragile e privo di speranza in ciò che dipingevo. Non riuscivo a guardare la mia opera. La odiavo. C'era un che di piatto e accusatorio nei visi che avevo creato. C'era un che di minaccioso nelle espressioni che mi fissavano dal muro. Inquieto, uscii nella notte, udendo altri bevitori di sangue: una giovane coppia che, pur avendo giustamente timore di me, osservava attentamente ogni mia mossa, per un motivo che ignoravo. Inviai un tacito messaggio a tutta la feccia immortale che poteva importunarmi: Non avvicinatevi perché sono in preda a un intensa passione e non tollererò la minima interruzione. Sgattaiolai nella chiesa di San Paolino e mi inginocchiai davanti al Compianto su Cristo morto. Mi passai la lingua sui denti aguzzi: ero affamato di sangue e neppure la bellezza delle figure dipinte mi saziava. Avrei potuto prendere una vittima nella chiesa stessa. Poi mi venne la più malvagia delle idee. Era puramente malvagia tanto quanto il dipinto era puramente religioso. Mi si affacciò alla mente spontaneamente, come se al mondo esistesse davvero un Satana che mi si fosse
avvicinato strisciando sul pavimento di pietra per poi insinuarmi l'idea nel cervello. «Lo ami, Marius», disse il diavolo. «Bene, rendilo uguale a te. Dai il Sangue a Botticelli.» Rabbrividii quietamente. Scivolai giù, sedendomi sul pavimento della chiesa, con la schiena addossata al muro di pietra. Avvertii di nuovo la sete. Il semplice pensiero mi aveva colmato d'orrore, eppure mi vidi prendere Botticelli tra le braccia e affondargli i denti nella gola. Il sangue di Botticelli. Ci pensai. E il mio sangue, il mio sangue donato a lui. «Pensa alla tua lunga attesa, Marius», disse la maligna voce di Satana. «Durante tutti quei lunghi secoli non hai mai dato il tuo sangue a nessuno, ma puoi darlo a Botticelli! Puoi prendere Botticelli, ora.» Avrebbe continuato a dipingere, avrebbe avuto il Sangue, e la sua pittura sarebbe rimasta insuperata. Avrebbe vissuto in eterno con il suo talento quell'umile uomo sulla quarantina che era grato per una mera borsa d'oro quell'umile uomo che aveva creato il Cristo squisito che stavo fissando, la testa reclinata all'indietro sulla mano di Maria, che premeva gli occhi sulla sua bocca. Quell'atto non sarebbe stato compiuto. No, non doveva mai compiersi. Non potevo compierlo. Non l'avrei compiuto. Eppure mi alzai lentamente in piedi e uscii dalla chiesa; imboccai la stradina angusta e buia, diretto verso la casa di Botticelli. Udivo chiaramente i battiti del mio cuore. E sentivo la mente curiosamente sgombra, il corpo leggero, predatorio e colmo di malvagità, una malvagità che ammettevo liberamente e capivo fino in fondo. Ero in preda a una forte eccitazione. Prendi Botticelli tra le braccia. Per sempre tra le tue braccia. Pur udendo i due giovani vampiri che mi seguivano, non badai a loro: avevano troppa paura di me per avvicinarsi. Continuai ad avanzare verso ciò che avevo deciso di fare. Pochi isolati dopo mi ritrovai davanti alla porta di Sandro; le luci all'interno erano accese e io avevo una borsa piena d'oro. Fluttuando, sognando, sentendomi assetato, bussai come avevo bussato la prima volta. No, è una cosa che non farai mai, pensai. Non toglierai dal mondo una persona così vitale. Non interferirai con il destino di chi ha donato agli altri così tante opere da amare e assaporare. Fu il fratello di Sandro ad aprire la porta, ma stavolta fu gentile con me e
mi accompagnò nella bottega, dove Botticelli era solo e stava lavorando. Lui si voltò a salutarmi non appena entrai nell'ampia stanza. Dietro di lui si stagliava un grande pannello che appariva incredibilmente diverso da qualsiasi altra sua opera. Mi soffermai con lo sguardo su di esso, pensando che fosse proprio questo che Botticelli desiderava, e dubito di essere riuscito a celare la mia disapprovazione o il mio timore. La fame di sangue montò dentro di me, ma riuscii ad accantonarla; mi limitai a fissare il dipinto, senza pensare a nulla, né a Sandro, né alla sua morte e rinascita attraverso me. No, a nulla se non al dipinto, mentre mi fingevo umano per lui. Era una tetra e raggelante rappresentazione della Trinità, con Cristo sulla croce, la figura di Dio Padre dietro di lui e una colomba che simboleggiava lo Spirito Santo. Da una parte si stagliava san Giovanni Battista che apriva la veste scarlatta di Dio Padre, sul lato opposto Maria Maddalena penitente, coperta solo dai lunghi capelli, mentre fissava afflitta il Signore crocefisso. Sembrava un utilizzo crudele del talento di Botticelli! Sembrava una cosa orrenda. Oh, era realizzata con perizia, certo, ma appariva spietata. Soltanto in quel momento mi resi conto di aver visto nel Compianto su Cristo morto un perfetto equilibrio di chiari e scuri, perché non trovai quell'equilibrio, là. Al contrario, era stupefacente che Botticelli fosse riuscito a creare un dipinto così totalmente buio. Era un quadro severo. Se lo avessi visto altrove, non lo avrei mai ritenuto una sua opera. E sembrava rappresentare un profondo giudizio su di me, sul fatto che avessi pensato per un solo istante di donargli il Sangue Tenebroso! Il Dio cristiano esisteva davvero? Poteva frenarmi? Poteva giudicarmi? Era per quello che ero arrivato di fronte a quel quadro, con Botticelli fermo lì accanto che mi guardava fisso negli occhi? Stava aspettando un mio commento sul quadro. Stava aspettando pazientemente di essere ferito da quanto intendevo dire. E dentro di me c'era un amore per il suo talento che non aveva nulla a che fare con Dio o il diavolo o con la mia malvagità o il mio potere. L'amore per il talento di Botticelli rispettava Botticelli e, al momento, quella era l'unica cosa importante. Alzai di nuovo gli occhi verso il dipinto. «Dov'è l'innocenza, Sandro?» gli chiesi, usando il tono più gentile possibile. Lottai di nuovo contro la fame di sangue. Guarda com'è vecchio. Se non
lo fai, Sandro Botticelli morirà. «Dov'è la tenerezza, nel quadro?» domandai. «Dov'è la sublime dolcezza che ci fa dimenticare tutto? Ne vedo solo qualche traccia, forse, nel viso di Dio Padre, ma il resto... è buio, Sandro. Non è affatto da te, questo buio. Non capisco perché lo fai quando potresti fare tante altre cose.» La fame di sangue infuriava, ma continuavo a dominarla, spingendola bene a fondo dentro di me. Lo amavo troppo per farlo. Non potevo farlo. Non sarei riuscito a sopportarne il risultato. Quanto ai miei commenti, Botticelli annuì. Era infelice. Era un uomo combattuto, che voleva dipingere le sue dee, ma anche soggetti sacri. «Marius», disse, «non voglio fare ciò che è peccaminoso. Non voglio fare ciò che è malvagio o che possa spingere un'altra persona a commettere un peccato, semplicemente per aver guardato un dipinto.» «Sei ben lungi dal fare una cosa simile, Sandro», replicai. «A mio parere, le tue dee sono magnifiche come i tuoi dei. A Roma, i tuoi affreschi di Cristo traboccano di luce e bellezza. Perché intraprendere un viaggio nelle tenebre come hai fatto in questo caso?» Estrassi la borsa e la posai sul tavolo. Me ne sarei andato subito, e lui non avrebbe mai saputo quale autentico male gli si fosse avvicinato. Non avrebbe mai immaginato che cosa ero e cosa, forse, avevo desiderato fare. Mi si avvicinò, prese la borsa e tentò di restituirmela. «No, tienila», lo incitai. «Te la meriti. Fai ciò che ritieni di dover fare.» «Marius, devo fare ciò che è giusto», dichiarò con semplicità. «Ora guarda questo, voglio mostrartelo.» Mi condusse in un angolo della bottega, lontano dai grandi dipinti. Su un tavolo erano posati numerosi fogli di pergamena coperti di minuscoli disegni. «Sono illustrazioni dell'Inferno di Dante», mi spiegò. «L'hai letto sicuramente. Voglio realizzare una versione illustrata dell'intero libro.» Ebbi un tuffo al cuore, sentendolo, ma cosa potevo dire? Abbassai lo sguardo sulle immagini di quei corpi contorti e sofferenti! Come si poteva difendere la scelta di una simile impresa da parte del pittore che aveva ritratto Venere e la Vergine con miracolosa maestria? L'Inferno di Dante. Avevo disprezzato l'opera pur riconoscendone il valore. «Sandro, com'è possibile che tu voglia farlo?» chiesi. Stavo tremando. Non volevo che mi vedesse in faccia. «Trovo la gloria nei dipinti che sono colmi della luce del paradiso, che sia esso cristiano o pagano. Non c'è al-
cun piacere nel vedere le illustrazioni di quelli che soffrono all'inferno.» Era palesemente confuso e forse lo sarebbe sempre stato. Era quello il suo destino. Io vi ero soltanto entrato, e forse avevo alimentato un fuoco che era già troppo debole per sopravvivere. Dovevo andarmene. Dovevo lasciare Botticelli per sempre. Lo sapevo. Non potevo tornare in quella casa. Non potevo fidarmi di me stesso, quando ero vicino a lui. Dovevo lasciare Firenze, altrimenti la mia determinazione sarebbe venuta meno. «Non ti vedrò più, Sandro», annunciai. «Ma perché?» volle sapere. «Ero ansioso di rivederti. Oh, non a causa della borsa, credimi.» «Lo so, ma devo andarmene. Ricorda: credo nei tuoi dei e nelle tue dee. Ci crederò sempre.» Uscii da casa sua, ma arrivai solo fino alla chiesa. Ero così sopraffatto dal desiderio di Botticelli, dal desiderio di renderlo uguale a me e rivelargli tutti gli oscuri segreti del Sangue, che riuscivo a stento a respirare e a vedere la strada che percorrevo, o persino a sentire l'aria nei polmoni. Lo bramavo. Bramavo il suo talento. Sognai noi due - Sandro e me - insieme in un grande palazzo, da cui sarebbero usciti quadri tinti dalla magia del Sangue. Sarebbe stata una conferma del Sangue. Dopo tutto, pensai, non è forse vero che sta sprecando il suo talento dedicandosi a ciò che è buio? Come si poteva spiegare il suo desiderio di passare dalle dee a un poema intitolato Inferno? Non potevo, attraverso il Sangue, ricondurlo alle sue visioni celestiali? Ma niente di tutto ciò doveva succedere. Lo capii ancor prima di aver visto la sua crudele crocifissione. Lo avevo capito anche prima di entrare in casa sua. A quel punto dovevo trovare una vittima, anzi, parecchie. Così andai a caccia. Crudelmente, finché capii di non poter prendere altro sangue dalle poche anime condannate che trovai nelle strade di Firenze. Alla fine, circa un'ora prima dell'alba, mi ritrovai seduto, come un mendicante, forse, se i mendicanti avessero indossato mantelli scarlatti, contro la porta di una chiesa in una piazzetta. I due giovani vampiri che avevo udito seguirmi mi si avvicinarono con passi impauriti. Ero stanco e impaziente. «Andatevene», dissi loro. «Altrimenti vi annienterò.»
I due - un maschio e una femmina, entrambi presi quando erano fanciulli ed entrambi tremanti - rifiutarono di allontanarsi. Poi il maschio parlò a nome di entrambi, dimostrando un coraggio tremulo ma autentico. «Non fare del male a Botticelli!» implorò. «Non fargli del male! Prendi la feccia, sì, fai pure, ma non Botticelli, mai Botticelli.» Scoppiai in una mesta risata. Piegai la testa all'indietro e continuai a ridere sommessamente. «Non lo farò», dichiarai. «Lo amo tanto quanto voi. Ora lasciatemi solo. Altrimenti, credetemi, non ci saranno altre notti per nessuno di voi due. Andate.» Tornando alla cripta tra le montagne, piansi per Botticelli. Chiusi gli occhi ed entrai nel giardino in cui Flora lasciava cadere le sue tenere rose sul tappeto di erba e fiori. Allungai la mano per toccare i capelli di una delle giovani Grazie. «Pandora», sussurrai. «Pandora, è il nostro giardino. Erano tutte belle come te.» 17 Nelle settimane che seguirono riempii il sacrario sulle Alpi con una miriade di nuovi oggetti sontuosi. Comprai nuove lanterne d'oro e incensieri; acquistai pregiati tappeti nei mercati di Venezia, e sete dorate provenienti dalla Cina. Alle sarte di Firenze commissionai nuovi indumenti per i miei Immortali Genitori, poi li vestii con cura, liberandoli dagli stracci che avrebbero dovuto essere bruciati già da tempo, mentre continuavo a raccontare loro, in tono consolatorio, i miracoli a cui avevo assistito nel mondo in perenne mutamento. Posai davanti alla coppia splendidi libri stampati, spiegando l'ingegnosa invenzione del torchio da stampa. Appesi sul portale del sacrario un nuovo arazzo fiammingo, anch'esso acquistato a Firenze, che descrissi dettagliatamente affinché potessero scegliere di guardare con i loro occhi apparentemente ciechi. Poi tornai a Firenze; radunai tutti i pigmenti, gli olii e gli altri materiali che il mio servo mi aveva procurato, e li portai nel santuario tra le montagne dove cominciai a dipingere le pareti nel nuovo stile. Stavolta non cercai di imitare Botticelli, tornai invece all'antico motivo del giardino che avevo tanto amato secoli prima, e ben presto mi ritrovai a dipingere la mia Venere, le mie Grazie, la mia Flora, e a infondere nell'o-
pera tutti i dettagli della vita che solo un bevitore di sangue riesce a scorgere. Laddove Botticelli aveva dipinto l'erba scura costellata di fiori, io rivelai i minuscoli insetti che inevitabilmente vi si nascondevano, poi le più sgargianti e splendide delle creature: le farfalle e le falene multicolori. In realtà il mio stile era spaventosamente dettagliato sotto ogni punto di vista, e ben presto una foresta inebriante e magica, realizzata con la tempera a uovo che conferiva all'insieme una lucentezza che in passato non sarei mai riuscito a ottenere, circondò la Madre e il Padre. Quando la esaminavo mi sentivo assalire da un lieve senso di vertigine, pensando al giardino di Botticelli, ma in realtà rivedevo persino il giardino che avevo sognato nell'antica Roma. A quel punto dovetti scuotermi e ricompormi perché non sapevo più dove mi trovavo. I Regali Genitori sembravano più solidi e remoti che mai. Ormai in loro era scomparsa ogni traccia del Grande Fuoco, infatti la pelle era di un bianco purissimo. Era passato così tanto tempo da quando si erano mossi, che cominciai a chiedermi se avevo sognato l'accaduto - se avevo soltanto immaginato il sacrificio di Eudoxia - ma ormai la mia mente era concentrata sullo sforzo di fuggire dal sacrario per lunghi periodi. Il mio ultimo dono ai Divini Genitori - dopo aver portato a compimento tutti gli affreschi e ornati Akasha ed Enkil con tutti i nuovi gioielli - fu una lunga fila di un centinaio di candele di cera d'api, che accesi tutte insieme con il potere della mente. Naturalmente non scorsi il minimo cambiamento negli occhi del re e della regina, ma mi procurò un enorme piacere offrire quel dono. Trascorsi le mie ultime ore con loro, lasciando che le candele si consumassero, mentre raccontavo, in tono sommesso, di tutte le meraviglie delle città di Firenze e Venezia che ero arrivato ad amare. Giurai di accendere le cento candele ogni qual volta fossi andato da loro. Sarebbe stata una piccola prova del mio eterno amore. Cosa mi spinse a un simile gesto? Non ne ho idea. Ma in seguito tenni sempre una abbondante scorta di candele nel sacrario, nascoste dietro le due figure, e dopo l'offerta ne sistemavo di nuove sul supporto di bronzo, portando via tutta la cera sciolta. Infine tornai a Firenze e a Venezia, quindi mi recai nella ricca e piccola città dalle alte mura, Siena, per studiare dipinti di ogni genere. Mi aggiravo in palazzi e chiese sparsi in tutta l'Italia, inebriato da quanto
vedevo. Come già accennato, si era verificata una grande fusione tra i temi cristiani e l'antico stile pagano, che si stava sviluppando ovunque. E, pur continuando a ritenere Botticelli il vero maestro, fui colto alla sprovvista dalla plasticità e dalla meraviglia di gran parte di quanto vidi. Le voci nelle taverne e nelle botteghe dei vinai mi dissero che avrei dovuto recarmi anche a nord per ammirare dei dipinti. Per me era una novità, perché il Nord aveva sempre rappresentato la terra dei meno civilizzati, ma la mia fame di nuovi stili era talmente immensa che seguii quei consigli. Trovai in tutta l'Europa settentrionale una ricca e intensa civiltà che avevo sicuramente sottovalutato, per lo più in Francia. Erano sorte grandi città e corti reali che sostenevano la pittura. C'era parecchio da studiare, per me. Non amai, tuttavia, l'arte che vidi. Le opere di Jan van Eyck, e Rogier van der Weyden, di Hugo van der Goes e di Hieronymus Bosch e molti altri maestri senza nome che esaminai suscitarono il mio rispetto, ma il loro lavoro non mi deliziò come quello dei pittori italiani. Il mondo del Nord non era altrettanto lirico, non era altrettanto dolce. Recava ancora il marchio grottesco delle opere d'arte puramente religiosa. Dopo breve tempo, perciò, tornai nelle città italiane, dove fui generosamente ricompensato per le mie peregrinazioni apparentemente senza fine. Scoprii ben presto che Botticelli aveva studiato con un grande maestro, Filippo Lippi, il cui figlio, Filippino Lippi, stava attualmente lavorando con Botticelli. Tra i pittori che amavo figuravano anche Gozzoli e Signorelli, e Piero della Francesca e, oltre a loro, così tanti altri che preferisco non nominare. Ma durante lo studio della pittura, i brevi viaggi, le lunghe notti di adorante attenzione rivolta a questa o quella parete, a questa o quella pala d'altare, non mi permisi mai di sognare di rendere immortale Botticelli, e non indugiai mai a lungo nelle vicinanze di qualsiasi luogo in cui lui si trovasse. Sapevo che prosperava, sapevo che dipingeva. E mi bastava. Un'idea, però, aveva preso a sobbollire dentro di me, un'idea vigorosa come il precedente sogno di sedurre Botticelli. E se fossi rientrato nel mondo per viverci in veste di pittore? Oh, non un pittore che accettava commissioni, sarebbe stato assurdo, ma un eccentrico gentiluomo che sceglieva di dipingere per il proprio piacere, invitando i
mortali perché cenassero al suo tavolo e bevessero il suo vino. Non lo avevo forse fatto, goffamente, durante le antiche notti che precedettero il primo sacco di Roma? Sì, avevo dipinto sulle mie pareti immagini rozze, frettolose, e lasciato che i miei bonari ospiti ridessero di me. Certo, da allora erano trascorsi mille anni, anzi, di più, e non potevo più farmi passare per un essere umano: ero troppo pallido e troppo pericolosamente forte. Ma non ero forse più furbo, più saggio, più consapevole dei miei poteri mentali e più disposto a mascherarmi la pelle con qualunque emolliente capace di attenuarne la luminosità preternaturale? Avrei tanto voluto farlo! Naturalmente non sarebbe successo a Firenze. Sarei stato troppo vicino a Botticelli. Avrei attirato la sua attenzione e, se lui avesse messo piede sotto il mio tetto, sarei stato portato a indicibili livelli di sofferenza. Ero innamorato di quell'uomo, non potevo negarlo. Ma avevo un'alternativa, assolutamente splendida. Fu la magnifica e rutilante città di Venezia ad attirarmi con i suoi palazzi indescrivibilmente imponenti, le finestre aperte sulle costanti brezze dell'Adriatico, e i suoi scuri canali serpeggianti. Apparentemente avrei dovuto ricominciare da là, in modo spettacoloso, acquistando la più bella dimora disponibile e procurandomi una frotta di apprendisti che mi preparassero i colori e le pareti della casa, a cui avrei infine dedicato i miei più strenui sforzi, dopo aver dipinto pannelli e tele per imparare di nuovo il mestiere. Quanto alla mia identità, sarei stato Marius de Romanus, un uomo misterioso e immensamente ricco. In parole povere, avrei corrotto chi di dovere per ottenere il diritto di rimanere a Venezia, e in seguito avrei speso a piene mani tra quanti entravano in contatto con me svolgendo i ruoli più umili, e ricompensato generosamente i miei apprendisti, che avrebbero ricevuto la migliore istruzione io potessi procurargli. Cerca di capire, ti prego, che all'epoca le città di Firenze e Venezia non facevano parte di un'unica nazione. Tutt'altro. Ognuna rappresentava uno Stato autonomo. Quindi, vivendo a Venezia, ero separato da Botticelli, e lì sarei stato soggetto alle leggi che tutti i cittadini di Venezia erano tenuti a rispettare. Quanto al problema del mio aspetto fisico, al riguardo mi ripromettevo di essere estremamente meticoloso. Immagina quale sarebbe stato l'effetto su un cuore mortale, se avessi dovuto mostrarmi in tutta la mia freddezza di un bevitore di sangue di circa millecinquecento anni, con la pelle candi-
da e brillanti occhi azzurri. Quindi la questione degli emollienti non era cosa da poco. Affittate alcune stanze in città, acquistai nelle botteghe di profumi le migliori pomate colorate che riuscii a trovare e me le applicai sulla pelle, studiando accuratamente i risultati nei migliori specchi disponibili. Ben presto creai una miscela di unguenti ideale, non solo per scurirmi l'incarnato niveo, ma anche per rendere nuovamente visibili le rughe più sottili. Io stesso non mi ero reso conto di aver conservato quelle piccole rughe d'espressione umane, quindi fui felicissimo di scoprirle; mi piacque l'immagine che presentavo allo specchio. Quanto al profumo, era gradevole e capii che, una volta insediatomi in una casa, avrei potuto farmi preparare gli unguenti adeguati e averli sempre a portata di mano. Mi ci vollero alcuni mesi, tuttavia, per portare a compimento i miei piani; ciò dipese principalmente dal fatto che mi ero innamorato di un determinato palazzo, una casa di straordinaria bellezza, la facciata rivestita di scintillanti mattonelle di marmo, gli archi in stile moresco e le immense stanze più lussuose di qualunque cosa io avessi mai visto nel corso di tutte le mie notti e persino dei miei giorni di tanto tempo prima. Gli altissimi soffitti mi lasciarono sbalordito. Nell'antica Roma non avevamo conosciuto nulla di simile, almeno non in una dimora privata. E in cima all'immenso tetto c'era un mirabile giardino da cui si vedeva il mare. Una volta asciugatosi l'inchiostro sulla pergamena, mi dedicai ad acquistare i più bei mobili immaginabili - letti a cassettoni, scrittoi, sedie, tavoli e tutti i consueti arredi, inclusi tendaggi ricamati in oro per ogni finestra - e assegnai il compito di gestire il tutto a un uomo anziano intelligente e gioviale chiamato Vincenzo, una creatura dalla salute ferrea che avevo acquistato, quasi fosse uno schiavo, da una famiglia che non lo riteneva più utile a educare i suoi rampolli e lo teneva in condizioni di vergognosa trascuratezza. Vidi in Vincenzo proprio il tipo di guardiano che mi sarebbe servito per tutti gli apprendisti che intendevo comprare dai rispettivi maestri, fanciulli che avrebbero affrontato grazie a competenze già apprese gli incarichi che avrei loro affidato. Apprezzavo anche il fatto che fosse già vecchio: significava che non avrei dovuto essere tormentato dallo spettacolo della giovinezza che moriva in lui. Potevo invece vantarmi, forse stoltamente, di assicurargli una splendida vecchiaia. Come trovai quella creatura? Presi a leggere le menti per individuare ciò che mi serviva.
Ormai ero più potente che mai. Riuscivo a trovare senza sforzo i malfattori. Riuscivo a udire i pensieri segreti di quanti cercavano di ingannarmi o amavano la mia mera visione. E quest'ultima era una cosa pericolosa. Perché pericolosa? potresti chiedere. La risposta è che ormai ero più suscettibile che mai all'amore, e quando venivo osservato con occhi amorevoli me ne accorgevo e rallentavo il passo. Che bizzarro stato d'animo si impadroniva di me, mentre passeggiavo nel porticato lungo la basilica di San Marco, se qualcuno mi guardava con ammirazione. Mi voltavo, prendendomela comoda, e magari ritornando sui miei passi, per poi allontanarmi solo con riluttanza, come un uccello in un clima settentrionale che assapora il tepore del sole sulle ali. Nel frattempo Vincenzo, con parecchio oro a disposizione, fu mandato a comprarsi abiti eleganti. L'avrei trasformato in un gentiluomo, nella misura in cui lo consentivano le leggi che limitavano gli eccessi di lusso. Seduto al mio nuovo scrittoio in una spaziosa camera con il pavimento di marmo e le finestre aperte sulla brezza che saliva dal canale, stilai elenchi degli altri beni di lusso che desideravo. Volevo farmi costruire in quella camera da letto una sontuosa stanza da bagno in stile Roma antica, così da potermi godere l'acqua calda in qualunque momento lo desiderassi. Volevo scaffali per i miei libri, e una sedia più elegante per lo scrittoio. Naturalmente avrei avuto bisogno di una nuova biblioteca. Cosa significava una casa per me, se non includeva una biblioteca? Volevo i vestiti più mirabili, i copricapi e le calzature di pelle alla moda. Feci alcuni disegni per aiutare quanti dovevano tradurre i miei piani in realtà. Fu un periodo eccitante. Ancora una volta facevo parte della vita e il mio cuore batteva con un ritmo umano. Fermata una gondola con un cenno, navigavo sui canali per ore, alzando gli occhi verso le spettacolari facciate che bordavano le vie d'acqua di Venezia. Ascoltavo le voci ovunque. Talvolta mi stendevo puntellandomi su un gomito e osservavo le stelle. In varie botteghe di orafi e pittori scelsi il primo gruppo di apprendisti, cogliendo ogni opportunità per selezionare i più brillanti, che per svariati motivi figuravano tra le vittime di torti, tra i dimenticati e tra gli oppressi. Essi mi avrebbero dimostrato una profonda lealtà e una sapienza non ancora sfruttata, e li mandai nella loro nuova casa con monete d'oro in mano. Naturalmente non potei fare a meno di procurarmi alcuni assistenti scal-
tri, perché essi mi sarebbero stati necessari, tenendo comunque ben presente che avrei riscosso un notevole successo con i più poveri di essi. La forza non era affatto richiesta. Nel frattempo, desideravo che i fanciulli venissero educati in vista degli studi universitari - cosa non certo consueta per l'apprendista di un pittore così scelsi alcuni precettori e diedi disposizioni perché venissero a casa mia durante le ore diurne per fornire l'istruzione richiesta. I ragazzi avrebbero studiato latino, greco, filosofia, i classici appena riscoperti e assai apprezzati, qualche nozione di matematica e qualunque cosa di cui avessero bisogno per farsi strada nella vita. Se eccellevano nella pittura e lo preferivano, potevano naturalmente rinunciare all'università per diventare pittori. Alla fine mi ritrovai con una casa piena di attività sana e rumorosa. C'erano cuochi in cucina, musici che insegnavano ai fanciulli a cantare e suonare il liuto. C'erano istruttori di danza e incontri di scherma sui pavimenti di marmo dei grandi saloni. Ma non aprii le porte al popolino come avevo fatto tanto tempo prima a Roma. Ero troppo cauto per seguire una simile strada a Venezia, troppo insicuro del mio stratagemma, troppo incerto su quali domande potesse suscitare il mio folle dipingere. No, avevo soltanto bisogno dei miei giovani assistenti, sia per tenermi compagnia sia per aiutarmi, perché c'era parecchio da fare per preparare le pareti per i miei affreschi e stendere le debite vernicette sui pannelli di legno e le tele che avrei dipinto. Invece, per alcune settimane nessuno ebbe molto da fare, perché durante quel periodo vagabondai nelle botteghe locali per studiare i pittori di Venezia, come non molto tempo prima avevo studiato quelli di Firenze. Dopo quell'accurato esame non ebbi alcun dubbio sulla mia capacità di eguagliare il lavoro mortale, almeno fino a un certo punto, ma non potevo certo sperare di superarlo. E paventavo il risultato che avrei ottenuto. Decisi di tenere la mia casa chiusa a chiunque, tranne i ragazzi e i loro istruttori, come stabilito. Rifugiandomi nella mia camera-studio, cominciai a tenere un diario dei miei pensieri, il primo dopo le notti nell'antica Roma. Scrissi dei comfort di cui godevo. E mi rimproverai più. esplicitamente di quanto non facessi nella mia mente. «Sei diventato uno zimbello dell'amore dei mortali...» scrissi,
... ben più di quanto tu abbia mai fatto nelle notti antiche. Perché sai di aver scelto questi ragazzi in modo da poterli istruire e plasmare, e in questo ci sarà amore e speranza, e l'intenzione di mandarli a studiare a Padova, come se fossero i tuoi figli mortali. Ma... e se dovessero arrivare a scoprire che sei una bestia nel cuore e nell'anima, e rifuggissero dal tuo tocco? Li massacrerai nella loro innocenza? Questa non è l'antica Roma con i suoi milioni di abitanti senza nome. Questa è la severa repubblica di Venezia, ed è qui che ti dedichi ai tuoi giochi, e per cosa? Per il colore del cielo serale sopra la piazza che vedi non appena ti alzi, per le cupole delle chiese sotto la luna? Per il colore dei canali che solo tu riesci a scorgere alla luce delle stelle? Sei una creatura malvagia e avida. L'arte ti appagherà? Vai a caccia altrove, nei paesini e nei villaggi vicini o addirittura in città lontane, perché puoi muoverti con la rapidità di un dio. Ma porti il male a Venezia perché tu sei il male, e nel tuo bel palazzo le menzogne vengono dette, le menzogne vengono vissute, le menzogne possono fallire. Posai la penna d'oca. Rilessi le mie parole, memorizzandole in eterno, come se fossero una voce estranea che mi parlava, e solo alla fine alzai gli occhi per scoprire Vincenzo, così educato e umile, e così dignitoso nei suoi nuovi abiti, che aspettava di parlarmi. «Cosa c'è?» chiesi gentilmente, perché non pensasse che disapprovavo il fatto che fosse entrato. «Maestro, lasciatemi soltanto dire...» cominciò. Aveva un'aria elegante con i nuovi vestiti di velluto, un po' come un principe a corte. «Sì, dimmi pure», lo sollecitai. «È solo che i ragazzi sono così felici. Ora sono tutti a letto e stanno dormendo. Ma sapete cosa significhi per loro avere cibo a volontà e abiti decenti, e studiare con uno scopo? Potrei raccontarvi molte storie, troppe, credo. Non c'è nemmeno uno sciocco tra loro. Una vera fortuna.» Sorrisi. «Benissimo, Vincenzo», replicai. «Vai pure a cenare. Goditi tutto il vino che desideri.» Dopo che lui fu uscito rimasi seduto immobile. Mi sembrava quasi impossibile aver creato quell'abitazione per me stes-
so, senza che nulla mi fermasse. All'alba mancavano alcune ore che avrei potuto trascorrere riposando sul letto, oppure leggendo tra i miei nuovi libri, prima di coprire il breve tragitto fino a un altro settore della città dove un sarcofago era nascosto nella camera decorata in oro in cui avrei dormito durante il giorno. Scelsi invece di raggiungere la grande stanza che avevo trasformato nel mio studio, e vi trovai pronti i pigmenti e altri materiali, inclusi parecchi pannelli di legno preparati dai giovani apprendisti, come da mie istruzioni, perché potessi dipingervi sopra. Fu un gioco da ragazzi mescolare le tempere e lo feci tanto rapidamente da ritrovarmi con una miriade di colori a disposizione; poi, lanciando continue occhiate allo specchio che avevo portato con me, dipinsi il mio autoritratto con rapide e precise pennellate, senza apportarvi quasi nessuna correzione. Non appena ebbi finito indietreggiai per ammirare il risultato delle mie fatiche, e mi ritrovai a fissare i miei stessi occhi. Quello che vidi non era l'uomo di tanto tempo prima, morto nella foresta su a nord, né il frenetico bevitore di sangue che aveva portato via dall'Egitto la Madre e il Padre. Non era neppure il vagabondo affamato e caparbio che aveva attraversato silenziosamente il tempo per molti secoli. A ricambiare il mio sguardo fu un immortale audace e orgoglioso, un bevitore di sangue che esigeva che il mondo gli concedesse finalmente un po' di requie; un'aberrante creatura dall'immenso potere che sosteneva insistentemente di poter trovare un posto tra l'umanità di cui, in un'epoca precedente, aveva fatto parte. Con il passare dei mesi scoprii che il mio piano stava funzionando discretamente, anzi, a meraviglia! Ero ossessionato dai miei nuovi abiti tipici del periodo, tuniche di velluto e calzamaglie, e magnifici mantelli foderati di pelliccia rara. In realtà, per me anche gli specchi erano diventati un'ossessione: non riuscivo a smettere di osservare il mio riflesso, mentre mi applicavo gli unguenti con estrema cura. Ogni sera, dopo il tramonto, mi alzavo completamente vestito e con la pelle debitamente celata, e arrivavo al mio palazzo per essere salutato con affetto da tutti i miei ragazzi, dopo di che, congedando i numerosi insegnanti e precettori, presiedevo a uno squisito banchetto, dove tutti gustavano con gioia il ricco cibo dei principi, al suono della musica. Poi, con fare pacato, interrogavo tutti gli apprendisti su ciò che avevano
imparato quel giorno. Le nostre conversazioni erano lunghe, complesse e colme di splendide rivelazioni. Mi era facile dedurre quale insegnante avesse avuto successo e quale invece non avesse ottenuto l'effetto che desideravo. Quanto ai ragazzi, capii ben presto quali fossero dotati di maggior talento, quali meritassero di frequentare l'università di Padova e quali invece andassero addestrati come orafi o pittori. Non si registrò alcun insuccesso. Cerca di capire: era un'impresa trascendentale. Te lo ripeto, avevo scelto tutti quei fanciulli tramite i miei poteri mentali e ciò che offrii loro durante quei mesi, che poi divennero anni, fu una cosa che non avrebbero mai ricevuto senza il mio intervento. Ero diventato un mago per loro, aiutandoli a ottenere trionfi che non avrebbero mai neppure sognato. Ed era indubbio che simili risultati suscitavano in me un'immensa soddisfazione, perché per quelle creature ero un insegnante, proprio come avevo desiderato esserlo per Avicus e Zenobia, a cui, in quel periodo, continuavo a pensare, non potendo fare a meno di ricordarli e di chiedermi cosa ne fosse stato. Erano sopravvissuti? Non avevo modo di saperlo. Ma sapevo una cosa su me stesso. Avevo amato sia Zenobia sia Avicus perché mi avevano consentito di far loro da maestro. E avevo litigato con Pandora perché non me lo aveva permesso. Lei era troppo colta e intelligente per essere altro che una fiera avversaria sia in campo verbale sia filosofico, e io l'avevo abbandonata, stupidamente, proprio per quel motivo. Una simile conoscenza di me stesso, tuttavia, per quanto profonda non mi impedì di provare nostalgia per la mia perduta Zenobia e per Avicus e di chiedermi quali sentieri avessero imboccato nel mondo. La bellezza di Zenobia aveva fatto vibrare dentro di me una corda più profonda rispetto a quella di Avicus, e non potevo rinunciare al semplice ricordo della morbidezza dei suoi capelli. A volte, quando ero solo nella mia camera di Venezia, quando sedevo allo scrittoio osservando le tende della finestra sospinte fuori dal vento, ripensavo ai capelli di Zenobia. Li rivedevo sparsi sul pavimento a mosaico di Costantinopoli, dopo che se li era tagliati per potersi aggirare nelle strade come un ragazzo. Avrei voluto allungare la mano superando un migliaio di anni per raccoglierli. Quanto ai miei capelli biondi, ormai potevo tenerli lunghi perché era quello lo stile del periodo, cosa che apprezzavo; mi piaceva spazzolarli
lentamente e andare a passeggio nella piazza quando il cielo era ancora purpureo, sapendo che la gente mi guardava, chiedendosi che tipo d'uomo fossi. Quanto alla pittura, mi ci dedicavo su alcuni pannelli di legno, con solo una manciata di apprendisti nel mio studio, isolato dal resto del mondo. Creai numerosi dipinti religiosi davvero riusciti: ritratti della Vergine Maria e dell'arcangelo Gabriele che le compariva davanti, perché il tema dell'annunciazione mi attirava. E rimasi stupito della mia capacità di imitare con successo lo stile dell'epoca. Poi mi imbarcai in una grande impresa che sarebbe stata un autentico test per le mie doti e per la mia ingegnosità di immortale. 18 Lasciami spiegare in cosa doveva consistere quell'impresa. A Firenze, all'interno del palazzo dei Medici, c'era una cappella, e sulle sue pareti il grande affresco di un pittore chiamato Gozzoli, che raffigurava la processione dei Magi - i tre saggi delle Sacre Scritture - che venivano a portare i loro preziosi doni a Gesù Bambino. Era un dipinto magnifico, pieno di nitidi dettagli, ed estremamente mondano nel senso che i Magi erano abbigliati come ricchi cittadini fiorentini, seguiti da un enorme corteo di uomini similmente vestiti e di ecclesiastici, tanto che l'insieme rappresentava un tributo a Gesù Bambino e, insieme, all'epoca in cui l'opera era stata realizzata. L'affresco occupava le pareti della cappella, oltre a quelle del recesso in cui si trovava l'altare, e la cappella era piuttosto piccola. Io ne ero affascinato per diversi motivi. Non mi ero innamorato perdutamente di Gozzoli come mi era successo con Botticelli, ma lo ammiravo profondamente e trovavo assolutamente fantastici i dettagli di quell'affresco. Non solo la processione era di per sé lunghissima, se non addirittura senza fine, ma il paesaggio alle sue spalle era magnifico, pieno di paesini e montagne, con uomini che andavano a caccia e animali che scappavano, castelli splendidamente realizzati e alberi dalla foggia delicata. Bene, scegliendo una delle stanze più ampie del mio palazzo, mi accinsi a duplicare l'affresco, in piano, su un'unica parete. Di conseguenza dovetti fare la spola tra Firenze e Venezia, memorizzando parti del dipinto per poi riprodurle con tutta la mia abilità soprannaturale.
Riuscii nel mio intento, in larghissima parte. «Rubai» la Cavalcata dei Magi, quella favolosa rappresentazione di un corteo tanto importante per i cristiani e soprattutto per i fiorentini, e la applicai con colori vividi e precisi sulla mia parete. Non aveva nulla di originale, ma avevo superato il test che mi ero imposto e, visto che nessuno sarebbe stato ammesso in quella camera, non ritenevo di aver davvero derubato Gozzoli. Anzi, se un mortale fosse riuscito a entrare nella stanza che tenevo chiusa a chiave, avrei spiegato che l'originale era opera di Gozzoli; in realtà, quando per me giunse il momento di mostrarlo ai miei apprendisti per le lezioni che racchiudeva, fu quella la spiegazione che diedi. Ma lasciami tornare per un attimo su quell'opera d'arte che avevo rubato. Come mai mi attirava così? Quale suo elemento faceva cantare la mia anima? Non saprei dirlo; so solo che doveva essere legato ai tre re che offrivano doni, come io immaginavo di offrirne ai fanciulli che abitavano in casa mia. Ma non sono sicuro che sia stato quello il motivo per cui scelsi l'affresco per la mia prima incursione nell'autentico lavoro di pennello. Non ne sono affatto sicuro. Forse dipendeva semplicemente dal fatto che i suoi dettagli erano tutti così affascinanti; ci si poteva benissimo innamorare dei cavalli del corteo o dei visi dei giovanotti. Adesso sto per abbandonare l'argomento provando in proposito la stessa perplessità, mentre racconto la mia storia, che sentivo allora. Subito dopo aver avuto conferma del mio successo con la riproduzione, allestii uno spazioso studio di pittura nel palazzo e cominciai a lavorare su grandi pannelli nottetempo, mentre i ragazzi dormivano. Non avevo bisogno del loro aiuto e preferivo non vedessero la rapidità o la determinazione con cui lavoravo. Il mio primo dipinto ambizioso fu drammatico e bizzarro. Raffigurai un gruppo di miei apprendisti in costume, intenti ad ascoltare un antico filosofo romano che portava solo una lunga tunica, mantello e sandali, il tutto sullo sfondo delle rovine di Roma. Era pieno di colori vividi e i miei ragazzi erano ritratti con maestria, questo me lo concedo, ma non sapevo se fosse davvero riuscito né se avrebbe riempito di orrore qualcuno. Lasciai aperta la porta dello studio nella speranza che gli insegnanti si spingessero fin là, durante il giorno, ma scoprii che erano troppo timidi per farlo. Passai a realizzare un altro dipinto, e stavolta scelsi la crocifissione - un
tema approvato per qualsiasi artista - e la raffigurai con tenera accuratezza, e ancora una volta usai come sfondo le rovine di Roma. Era un sacrilegio? Non avrei saputo dirlo. Ancora una volta ero sicuro dei miei colori, anzi, ero convinto dell'esattezza delle proporzioni e dell'espressione empatica sul viso di Cristo. Ma la composizione in sé era errata? Come potevo saperlo? Possedevo immani conoscenze, un potere apparentemente immenso, eppure non lo sapevo. Stavo forse creando qualcosa di blasfemo e mostruoso? Tornai al soggetto dei Magi. Conoscevo le convenzioni. Tre re, la mangiatoia, Maria, Giuseppe, il Bambin Gesù. Stavolta li ritrassi liberamente, attribuendo a Maria la bellezza di Zenobia, e gloriandomi dei colori come prima. In poco tempo il mio enorme studio si riempì di quadri. Alcuni erano appesi in maniera adeguata, altri semplicemente appoggiati al muro. Una sera, durante la cena a cui avevo invitato i più raffinati tra gli istruttori dei ragazzi, uno di loro, l'insegnante di greco, menzionò en passant di aver visto l'interno della mia bottega grazie a una porta aperta. «Oh, vi prego, ditemi cosa pensate dei miei dipinti», gli chiesi. «Davvero notevoli!» esclamò con franchezza. «Non ho mai visto nulla del genere! Insomma, tutte le figure nel quadro dei Magi...» Si interruppe, intimorito. «Vi prego, continuate», replicai subito. «Ditemelo. Voglio saperlo.» «Tutte le figure ci guardano, inclusi Maria, Giuseppe e i tre re. Non ho mai visto la scena raffigurata in quel modo.» «Ma è sbagliato?» «Non credo», si affrettò a dichiarare lui. «Ma chi può dirlo? Lo avete dipinto per voi stesso, vero?» «Sì», risposi, «però la vostra opinione è importante, per me. Talvolta mi scopro fragile come vetro.» Scoppiammo a ridere. Solo i ragazzi più grandi erano interessati alla conversazione, e mi accorsi che il più vecchio, Piero, aveva qualcosa da dire. Anche lui aveva visto i dipinti. Era entrato nella stanza. «Dimmi tutto, Piero», lo esortai, strizzandogli l'occhio e sorridendo. «Avanti, cosa ne pensi?» «I colori, Maestro, sono splendidi! Quando arriverà, per noi, il momento di lavorare con voi? Sono più abile di quanto potreste pensare.» «Lo rammento, Piero», dissi, riferendomi alla bottega da cui l'avevo preso. «Verrò a trovarvi presto.»
In realtà li andai a trovare la notte seguente. Nutrendo seri dubbi, soprattutto sul soggetto da scegliere, decisi di imitare Botticelli. Scelsi come tema il Compianto su Cristo morto. Rappresentai Cristo tenero e vulnerabile come potevo concepibilmente fare, e lo circondai di innumerevoli dolenti. Essendo pagano, non sapevo chi dovesse trovarsi con lui! Creai quindi una folla immensa e variegata di mortali in lacrime - tutti vestiti da fiorentini - che piangevano Gesù morto, e angeli nel cielo dilaniati dall'angoscia similmente a quelli ritratti da Giotto, di cui avevo ammirato l'opera in una città italiana di cui non rammentavo il nome. Gli apprendisti rimasero stupiti dal mio lavoro, così come gli insegnanti che invitai nella grande stanza per un primo esame. Ancora una volta, furono soprattutto i visi a suscitare commenti, ma anche le bizzarre doti del dipinto - la smodata quantità di colore e oro - e i piccoli tocchi originali da me aggiunti, quali gli insetti disseminati qua e là. Mi resi conto di una cosa: ero libero. Potevo dipingere ciò che volevo. Nessuno l'avrebbe saputo, ma, pensai, forse nemmeno quello era vero. Comunque, per me era disperatamente importante restare al centro di Venezia. Non volevo perdere il mio appiglio nel mondo tiepido, affettuoso. Nelle settimane seguenti tornai in tutte le chiese in cerca di ispirazione, studiando numerose immagini grottesche e bizzarre che mi sbalordirono quasi come il mio stesso lavoro. Un artista chiamato Carpaccio aveva realizzato un'opera intitolata Meditazione sulla Passione di Cristo che mostrava il corpo di quest'ultimo riverso su un trono davanti a un paesaggio fantastico, fiancheggiato da due santi canuti che fissavano la scena come se Cristo non si trovasse là! Nell'opera di un pittore chiamato Crivelli trovai un'immagine davvero grottesca del Salvatore morto, tra due angeli che sembravano mostri. E lo stesso pittore aveva ritratto una Madonna adorabile e realistica quasi come le dee o le ninfe di Botticelli. Mi alzavo ogni notte affamato non di sangue - anche se mi cibavo quando ne avevo bisogno - ma del tempo che trascorrevo nel mio studio, e nell'arco di poco tempo i miei quadri, dipinti su grandi pannelli lignei, si diffusero ovunque nell'enorme casa, appoggiati alle pareti. Alla fine, visto che non riuscivo più a tenerne il conto e passavo a nuove opere invece di perfezionare le vecchie, cedetti alle insistenze di Vincenzo che voleva farli incorniciare adeguatamente.
Nel frattempo il nostro palazzo, pur essendo ormai noto a Venezia come «un posto strano», rimase in un certo senso chiuso al mondo. Gli insegnanti al mio servizio parlavano sicuramente delle giornate e serate trascorse in compagnia di Marius de Romanus, e i nostri domestici spettegolavano, ma io non tentai di interrompere un simile flusso di informazioni. Non lasciai però entrare in casa mia i veri e propri cittadini di Venezia. Non feci montare il tavolo da banchetti, come nelle notti antiche. Non aprii le porte. Eppure lo desiderai costantemente. Volevo accogliere sotto il mio tetto il mondo alla moda della città. Ciò che feci, invece di diramare inviti, fu accettare quelli che ricevevo. Spesso, nelle prime ore della sera, quando non mi andava di cenare con i ragazzi e non sentivo il bisogno di dipingere furiosamente, mi recavo in altri palazzi in cui era in corso un banchetto. Entravo sussurrando il mio nome, quando me lo chiedevano, ma più sovente venendo accolto senza domande e scoprendo che gli ospiti erano ansiosi di avermi tra loro avendo sentito parlare dei miei quadri e della mia famosa piccola scuola, dove gli apprendisti non svolgevano quasi alcun lavoro. Naturalmente rimanevo nell'ombra, pronunciavo parole generiche ma garbate, leggevo le menti abbastanza a fondo per poter intavolare la più brillante delle conversazioni e in generale rischiavo di perdere la testa per l'intensità di quell'amore nei miei confronti, di quell'accoglienza conviviale che era semplicemente ciò che quasi tutti i nobili di Venezia davano per scontato ogni sera della loro vita. Non so quanti mesi trascorsero in quel modo. Due miei studenti si trasferirono a Padova. Andai in città a sceglierne quattro nuovi. Vincenzo non mostrava segni di malattia. Ogni tanto ingaggiavo nuovi insegnanti, migliori degli altri. Dipingevo con tenacia. Le cose continuarono così. Diciamo che passarono un paio d'anni prima che sentissi parlare di una giovane donna estremamente leggiadra e brillante la cui casa era sempre aperta a poeti, autori teatrali, geniali filosofi che venivano sempre ricompensati per averle fatto visita. Sappi che la ricompensa in questione non era di carattere pecuniario, solo che bisognava essere persone interessanti per vedersi accettare nella cerchia della donna; i poemi dovevano essere lirici e densi di significato, la conversazione doveva rivelarsi arguta, si poteva suonare il virginale o il liuto se lo si sapeva fare.
Ero molto incuriosito dall'identità di quella creatura e dalla generale dolcezza di quello che si raccontava di lei. Così, passando davanti alla sua casa, rimasi in ascolto e sentii la sua voce infilarsi tra quelle di chi le stava intorno, scoprendo che pur essendo solo una bambina era colma di angoscia e segreti che riusciva a celare con straordinaria abilità dietro maniere aggraziate e un viso splendido. Non avevo idea di quanto fosse splendida, finché non salii i gradini, entrai audacemente nelle sue stanze e la vidi con i miei occhi. Quando feci il mio ingresso nella sala lei mi dava le spalle, ma si girò subito come se il mio arrivo avesse prodotto qualche rumore, cosa che non era. La vidi di profilo e poi di fronte quando si alzò per salutarmi, e per un attimo non riuscii a parlare, tanto rimasi colpito dal suo corpo e dal suo volto. Che Botticelli non l'avesse dipinta era un semplice caso fortuito. Avrebbe potuto benissimo farlo. La giovane somigliava così tanto alle donne da lui ritratte che qualsiasi altro pensiero mi abbandonò. Vidi il suo volto ovale, gli occhi a mandorla, i folti e ondulati capelli biondi a cui erano intrecciati lunghi fili di minuscole perle, e la forma leggiadra del corpo, con braccia e seno squisitamente modellati. «Sì, come Botticelli», dichiarò, sorridendo come se lo avessi detto ad alta voce. Ancora una volta, rimasi senza parole. Ero io a saper leggere le menti, eppure quella bambina, quella donna di diciannove o vent'anni, sembrava aver letto la mia. Sapeva quanto amassi Botticelli? No, impossibile. Continuò a parlare gaiamente, tendendo entrambe le mani per prendere la mia. «Lo dicono tutti», spiegò, «e ne sono onorata. Si potrebbe sostenere che mi acconcio i capelli in questo modo proprio a causa di Botticelli. Io sono nata a Firenze, ma adesso non vale la pena di parlarne, qui a Venezia, vero? Siete Marius de Romanus. Mi chiedevo quanto avrei dovuto aspettare per vedervi entrare in casa mia.» «Grazie di avermi ricevuto», replicai. «Temo di essere venuto a mani vuote.» Ero ancora scioccato dalla sua bellezza, scioccato dal suono della sua voce. «Cos'ho da offrirvi? Non ho poemi, né brillanti racconti sullo stato delle cose. Domani vi farò portare dai miei domestici il vino migliore che ho in casa. Ma che importanza ha per voi?» «Vino?» ripeté. «Da voi non voglio un regalo del genere, Marius. Fatemi un ritratto. Dipingete le perle intrecciate nei miei capelli, lo adorerei.»
In tutta la stanza scoppiarono sommesse risate. Osservai gli altri ospiti con aria assorta. La luce delle candele era fioca persino per me. Come sembrava tutto intenso, quei poeti e studiosi dei classici tanto ingenui, la donna di indescrivibile bellezza, e la stanza stessa con tutti i consueti e sontuosi ornamenti. Il tempo passava lentamente, come se gli istanti avessero un significato e non fossero una sentenza di penitenza e dolore. Ero al settimo cielo. Me ne resi conto all'improvviso, poi fui colpito da un'altra consapevolezza: anche la giovane donna era al settimo cielo. Tuttavia c'era qualcosa di sordido e malvagio che si celava dietro il suo successo, anche se lei non mostrava segni della disperazione che sicuramente provava. Cercai di leggerle la mente, poi preferii non farlo! Non desideravo altro che quell'istante. Volevo vedere la donna come lei desiderava che la vedessi: giovane, infinitamente gentile, eppure perfettamente protetta; una compagna per le allegre riunioni serali, misteriosa padrona della sua dimora. C'era un altro grande salotto attiguo a quello in cui mi trovavo, e dietro di esso notai una camera da letto splendidamente decorata, con un letto fatto di cigni dorati e cortine di seta dai ricami dorati. A che scopo una simile esibizione, se non per dire a tutti che in quel letto dormiva da sola? Nessuno doveva mai avere la presunzione di varcare quella soglia, ma tutti potevano vedere dove la vergine si ritirava di sua spontanea volontà. «Perché mi fissate?» mi chiese. «Perché vi guardate intorno come se questo fosse per voi un luogo strano, quando sicuramente non lo è?» «Tutto, a Venezia, mi sembra splendido», risposi, in tono sommesso e confidenziale per non farmi udire da tutti i presenti. «Sì, vero?» ribatté lei, con un sorriso delizioso. «Anch'io la amo. Non tornerò mai a Firenze. Ma dipingerete il mio ritratto?» «Forse», dissi. «Non conosco nemmeno il vostro nome.» «Non dite sul serio», dichiarò, sorridendo di nuovo. All'improvviso mi resi conto di come fosse una donna di mondo. «Non siete sicuramente venuto qui senza neppure sapere come mi chiamo. Come potete pensare che creda una cosa simile?» «Oh, ma non lo so davvero», affermai, perché non avevo mai chiesto come si chiamasse e avevo saputo della sua esistenza da immagini vaghe, impressioni e stralci di conversazioni udite grazie ai miei poteri vampireschi, ed ero in imbarazzo perché preferivo non leggerle la mente.
«Bianca», disse. «Le mie stanze sono sempre aperte, per voi. E se dipingerete il mio ritratto vi sarò debitrice.» Stavano arrivando altri ospiti. Sapevo che lei voleva salutarli. Indietreggiai e presi posizione, per così dire, nell'ombra ben lontana dalle candele, e da lì la osservai, ne osservai le movenze immancabilmente aggraziate, e ascoltai la sua voce intelligente, squillante. Nel corso degli anni avevo visto un migliaio di mortali che non avevano significato nulla per me, ma adesso, fissando quell'unica creatura, sentii il mio cuore perdere un battito come quando ero entrato nella bottega di Botticelli, quando avevo visto i suoi quadri e lui, l'uomo. Oh, sì, l'uomo. Quella sera rimasi solo brevemente nel palazzo di Bianca, ma dopo meno di una settimana tornai con un suo ritratto. Lo avevo dipinto su un piccolo pannello e fatto incorniciare con oro e pietre preziose. Mi accorsi del suo shock quando glielo diedi: non si era aspettata una tale somiglianza. Ma poi temetti che vi scorgesse qualcosa di sbagliato. Quando mi guardò captai la sua gratitudine e il suo affetto e qualcosa di più grande che le si stava raccogliendo dentro, un'emozione che lei non concedeva nei suoi rapporti con altri. «Chi siete... in realtà?» mi chiese con un sussurro fioco, ritmato. «Chi siete voi... in realtà?» ripetei, sorridendo. Mi guardò con aria solenne, poi sorrise anche lei ma non rispose, e tutti i suoi segreti le si ripiegarono dentro: questioni sordide, questioni legate al sangue e all'oro. Per un attimo temetti di smarrire il mio potente autocontrollo. L'avrei abbracciata, che lo volesse o no, e con rapidità e forza l'avrei tolta dal centro delle sue stanze tiepide e sicure per condurla nel freddo e fatale dominio della mia anima. La vidi, la vidi davvero come se il Satana cristiano mi stesse inviando nuove visioni. La vidi trasformata dal Sangue Tenebroso. La vidi come se mi appartenesse, con tutta la sua giovinezza bruciata come sacrificio all'immortalità, conoscendo soltanto il tepore e le ricchezze che giungevano da me. Lasciai la sua casa. Non potevo restarvi. Non vi rimisi piede per varie notti, anzi, per vari mesi. In quel periodo ricevetti una sua lettera. Ne rimasi assai stupito e la lessi più e più volte, poi la infilai in una tasca interna della tunica, accanto al cuore. Mio caro Marius,
perché lasciarmi solo un magnifico ritratto, quando avrei desiderato anche la vostra compagnia? Qui siamo perennemente in cerca di svaghi, e si parla molto di voi, con gentilezza. Tornate da me. Il vostro quadro occupa un posto d'onore sulla parete del mio salone, così che io possa condividerne il piacere con chiunque venga qui. Com'era successo, com'ero arrivato a voler fare di un mortale il mio compagno? Dopo così tanti secoli, cos'avevo fatto per provocarlo? Nel caso di Botticelli avevo pensato che dipendesse dal suo incredibile talento e che io, con occhi acuti e un cuore così affamato, avessi desiderato di mescolare il Sangue con il suo inspiegabile dono. Ma quella bambina non era un tale miracolo, a prescindere da quanto la trovassi squisita. Oh, sì, mi piaceva come se l'avessi creata personalmente la figlia di Pandora - era come se l'avesse creata Botticelli, curandone persino l'espressione vagamente sognante. E racchiudeva un apparentemente impossibile miscuglio di ardore e compostezza. Nel corso dei miei lunghi e miserevoli anni avevo visto molti esseri umani bellissimi, ricchi e poveri, giovani e vecchi, eppure non avevo mai provato quell'intenso, quasi irrefrenabile desiderio di trasformarli, di accompagnarli nel sacrario, di renderli partecipi di qualsiasi sapienza possedessi. Cosa dovevo fare con quel dolore? Come avrei dovuto sbarazzarmene? Per quanto tempo mi avrebbe tormentato proprio lì nella città di Venezia, dove avevo scelto di cercare consolazione nei mortali e restituire al mondo, come segreta forma di pagamento, i miei fanciulli benedetti e colti? Alzandomi, mi ritrovai a scrollarmi di dosso i dolci sogni su Bianca, sogni in cui eravamo seduti nella mia camera e parlavamo mentre io le raccontavo di tutti i lunghi e solitari sentieri che avevo percorso, mentre lei mi spiegava come avesse tratto la sua incommensurabile forza da un dolore banale e sordido. Persino mentre partecipavo al banchetto con i miei studenti non riuscii a liberarmi di quei sogni. Mi assalivano come se mi stessi addormentando sopra il vino e le carni. I ragazzi facevano a gara per attirare la mia attenzione, pensando di aver deluso il Maestro. Quando mi ritirai nelle mie stanze per dipingere provai la stessa confusione. Dipinsi un grande quadro di Bianca nelle vesti della Vergine Maria, con un paffuto Bambin Gesù, ma non ero soddisfatto. Non potevo esserlo.
Allora posai i pennelli e uscii da Venezia per andare in campagna. Cercai e trovai un malfattore dal quale bevvi sangue fino a sentirmi completamente sazio, poi tornai nelle mie stanze, mi stesi sul letto e sognai di nuovo Bianca. Alla fine, prima dell'alba, annotai nel diario i miei moniti. Questo desiderio di creare un compagno immortale non è più giustificato qui di quanto lo fosse a Firenze. Nel corso della tua lunga esistenza sei sopravvissuto senza mai compiere questo passo malvagio, pur sapendo bene come farlo - te l'ha insegnato il druido - ed evitandolo continuerai a sopravvivere. Non puoi rendere uguale a te questa bambina, a prescindere da come ti raffiguri la cosa. Immagina che Bianca sia una statua. Immagina che la tua malvagità sia una forza che la manderebbe in frantumi. Cerca di vedere Bianca nei frammenti. Sappi che è questo che le faresti. Quando tornai a casa sua, fu come se non l'avessi mai vista prima, tanto ne rimasi colpito, tanto trovai dolce e irresistibile la sua voce, radiosi il viso e gli occhi terreni. Era uno strazio e insieme un immenso piacere stare con lei. Per mesi mi recai da lei, fingendo di ascoltare i poemi recitati, talvolta costretto a partecipare alle delicate discussioni imperniate su teorie di estetica o filosofia, ma per tutto il tempo desideravo semplicemente starle vicino, studiare i più minuti dettagli della sua bellezza, chiudendo di tanto in tanto gli occhi, mentre ascoltavo il canto della sua voce. I suoi ospiti andavano e venivano dalle sue famose riunioni. Nessuno osava mettere in dubbio la supremazia di Bianca all'interno del suo regno, ma mentre restavo seduto, mentre osservavo, mentre mi concedevo di sognare alla luce delle candele, mi accorsi della cosa più sottile e terribile che avessi mai visto. Alcuni degli uomini che entravano in quell'abitazione erano destinati a uno scopo oscuro e specifico. Alcuni, ben noti alla padrona di casa divinamente affascinante, ricevevano nel proprio vino un veleno che li avrebbe seguiti mentre lasciavano la gioviale compagnia e li avrebbe ben presto condotti alla morte! All'inizio, quando con i miei sensi preternaturali captai l'odore di quel veleno sottile ma indubbio, credetti di averlo immaginato. In seguito, però, grazie ai miei poteri mentali vidi cosa celava il cuore di quell'incantatrice e
come lei allettasse coloro che doveva avvelenare, sapendo poco o nulla del motivo per cui erano stati condannati a morte. Quella era la squallida menzogna che avevo captato sin dall'inizio. Un suo parente, un banchiere fiorentino, la teneva in uno stato di perenne terrore. In realtà era stato lui a portarla lì, a fornirle quella tana fatta di graziose sale, con tanto di musica. Era lui che le imponeva di versare il veleno nella coppa per sbarazzarsi di coloro che le indicava. Con quanta calma gli occhi di Bianca passavano su quelli che bevevano la pozione fatale; con quanta serenità osservava gli ospiti, mentre le venivano lette le poesie. Con quanta tranquillità sorrideva quando il suo sguardo si posava per caso sull'uomo alto e biondo che la fissava dall'angolo. E com'era profonda la sua disperazione! Armato di quella nuova consapevolezza, e reso folle da essa, uscii a vagare nella notte, perché adesso avevo la prova della sua incommensurabile colpa! Non bastava forse per portarla a me, per costringerla a bere il Sangue Tenebroso e poi dire: «No, mia cara, non ti ho preso la vita, ti ho donato l'eternità insieme a me!» Lasciai la città e camminai per ore sulle stradine di campagna, talvolta picchiandomi la mano sulla fronte. La voglio. La voglio. La voglio. Ma non riuscivo a costringermi a farlo. Alla fine tornai a casa a dipingere il suo ritratto, e continuai a dipingerlo notte dopo notte. La ritrassi come la Vergine dell'annunciazione, e la Vergine con il Bambin Gesù. La dipinsi come la Vergine del Compianto su Cristo morto; come Venere, come Flora, la dipinsi su piccoli pannelli che poi le portavo. La dipinsi finché non riuscii più a sopportarlo. Mi accasciai sul pavimento della stanza dove lavoravo e, quando gli apprendisti vennero da me nelle buie ore prima dell'alba, mi credettero malato e cominciarono a urlare. Ma non potevo farle del male, non potevo darle il mio Sangue Tenebroso. Non potevo renderla uguale a me, e ai miei occhi assunse una qualità estremamente splendida e grottesca. Era malvagia come lo ero io; quando la osservavo, la immaginavo una creatura simile a me. Per vivere, lei eliminava le sue vittime. Per vivere io bevevo sangue umano. E così quella tenera fanciulla, vestita di abiti costosi, con le lunghe ciocche bionde e le guance morbide, assunse ai miei occhi una cupa maestosità che mi affascinava.
Una notte divenne tanto intensa la mia sofferenza, tanto acuto il mio bisogno di separarmi da quella giovane donna, che salii sulla mia gondola, chiedendo al rematore di solcare avanti e indietro i canali più angusti della città e non riportarmi al palazzo finché non glielo ordinavo. Cosa stavo cercando? Il tanfo della morte e i ratti nelle acque più scure. Gli occasionali, misericordiosi bagliori di luce lunare. Mi sdraiai sulla barca e appoggiai la testa sul cuscino. Ascoltai le voci della città per non sentire la mia. All'improvviso, mentre imboccavamo di nuovo i canali più ampi ed entravamo in un determinato quartiere di Venezia, giunse una voce diversa da tutte le altre, perché legata a una mente disperata e sconvolta. In un lampo vidi un'immagine dietro il grido di quella voce, l'immagine di un viso dipinto. Anzi, vidi i colori applicati con magnifiche pennellate. Conoscevo quel volto: era quello di Cristo! Cosa significava? Immerso in un silenzio solenne, ascoltai. Nessun'altra voce contava, per me. Bandii una città piena di sussurri. Era un grido carico di afflizione: la voce di un giovane rinchiuso dietro spesse mura che, a causa delle sevizie subite, non riusciva a rammentare la sua lingua madre e nemmeno il suo nome. Eppure, con quell'idioma dimenticato pregava di essere liberato da quanti lo avevano gettato nel buio, quanti lo avevano torturato e rimproverato in una lingua a lui ignota. Mi giunse di nuovo l'immagine del Cristo che guardava fisso davanti a sé. Il Cristo dipinto in uno stile antichissimo, greco. Oh, come conoscevo a fondo quel modo di dipingere; oh, come conoscevo a fondo quell'espressione. Non l'avevo forse visto un migliaio di volte a Bisanzio, e in tutti i luoghi orientali e occidentali che il suo potere aveva raggiunto? Cosa significava quella voce mista a immagini? Cosa significava che il giovane pensasse ripetutamente a un'icona, senza accorgersi che stava pregando? Ancora una volta giunse la richiesta d'aiuto da chi si credeva totalmente silenzioso. Conoscevo la lingua in cui pregava, perciò fu facile decifrarla e disporre le parole nel giusto ordine, visto che conoscevo perfettamente numerosi idiomi di tutto il mondo. Sì, potevo comprendere la sua preghiera: «Caro Dio, liberami. Caro Dio, fammi morire». Un adolescente fragile, affamato, solo. Drizzandomi a sedere sulla gondola, rimasi in ascolto. Cercai le imma-
gini racchiuse nei suoi pensieri più inespressi. Quel giovane un tempo era stato un pittore; il viso di Cristo era stato opera sua. Un tempo aveva mescolato tuorlo d'uovo e pigmento proprio come facevo io. Un tempo aveva dipinto ripetutamente il viso di Cristo! Da dove giungeva quella voce? Dovevo scoprirne la fonte. Ascoltai con tutte le mie facoltà. In un luogo molto vicino a me, il giovane era tenuto prigioniero. In un luogo molto vicino a me, levava la sua preghiera con il poco fiato che ancora gli restava. Aveva realizzato le sue preziose icone nel lontano paese dell'innevata Russia. In realtà, aveva dimostrato uno straordinario talento nel dipingerle. Ma ormai non lo rammentava. Era quello il mistero, quella la complessità! Non riusciva nemmeno a vedere le immagini che stavo vedendo io, tanto aveva il cuore spezzato. Io riuscivo a capire ciò che lui non era in grado di comprendere. Usando un dialetto russo, stava supplicando silenziosamente il paradiso di liberarlo da chi lo aveva reso schiavo a Venezia e cercava di costringerlo a servire in un bordello, mediante atti che per lui rappresentavano peccati intollerabili della carne! Dissi al vogatore di fermarsi e rimasi in ascolto fino a individuare con precisione la fonte. Feci indietreggiare la gondola solo di qualche porta e individuai il posto giusto. Le fiaccole ardevano brillanti davanti all'ingresso dell'edificio. Sentii la musica all'interno. La voce del giovane era insistente, eppure avevo la nitida consapevolezza che lui non conosceva le proprie preghiere, la propria storia, la propria lingua. Fui salutato dai proprietari della casa con gran calore. Avevano sentito parlare di me. Mi dissero che dovevo assolutamente entrare; potevo avere ciò che desideravo, sotto il loro tetto. Subito dietro la porta c'era il paradiso. Mi bastava ascoltare le risate, e i canti. «Cosa desiderate, Maestro?» chiese un uomo dalla voce gradevole. «Potete dirmelo liberamente. Qui non abbiamo segreti.» Rimasi in ascolto. Dovevo apparire reticente: un uomo alto e biondo dai modi così freddi, che piegava la testa di lato e fissava il vuoto con gli occhi azzurri dallo sguardo assorto. Cercai di vedere il fanciullo, ma senza riuscirvi. Era chiuso in un luogo in cui nessuno lo vedeva. Come dovevo procedere? Interrogare tutti i ra-
gazzi della casa? Non sarebbe servito, perché il poverino si trovava in una stanza di punizione, intirizzito e solo. All'improvviso, captai la risposta come se l'avessero pronunciata gli angeli, oppure si trattava del diavolo? Giunse rapida ed esauriente. «Desidero comprare, naturalmente in oro, e subito, un ragazzo di cui volete sbarazzarvi. Uno giunto da poco che si rifiuta di fare quanto gli si ordina», replicai. In un lampo vidi il giovane negli occhi dell'uomo, ma non poteva essere vero, impossibile che avessi una simile fortuna: possedeva una bellezza straordinaria come quella di Bianca. Non ci credevo. «Giunto di recente da Istanbul», aggiunsi. «Sì, credo sia esatto, perché è stato indubbiamente prelevato da climi russi.» Non dovetti aggiungere altro. Tutti stavano correndo qua e là. Qualcuno mi aveva messo in mano un calice di vino. Ne annusai lo squisito profumo e lo posai sul tavolo. Sembrò che cominciassero a piovere petali, perché il profumo di fiori regnava ovunque. Mi portarono una sedia, ma non mi sedetti. All'improvviso l'uomo che mi aveva accolto tornò nella stanza. «Non potete desiderare quel ragazzo», si affrettò a dichiarare, estremamente agitato. Ancora una volta, vidi una nitida immagine del giovane steso su un pavimento di pietra. Sentii la sua preghiera: «Liberami». Vidi il volto di Cristo realizzato con scintillanti tempere a uovo. Vidi le pietre preziose incastonate nell'aureola. Vidi l'uovo e il pigmento mescolati. «Liberami.» «Non mi capisci?» chiesi. «Ti ho già spiegato cosa voglio. Voglio quel ragazzo, quello che si rifiuta di fare ciò che cercate di costringerlo a fare.» Poi capii: il proprietario del bordello pensava che il giovane stesse morendo. Aveva paura della legge, ed era terrorizzato. «Portami da lui», dissi. Gli feci pressioni con i miei poteri mentali. «Subito. So del ragazzo e non me ne andrò senza di lui. Inoltre ti pagherò. Non mi importa se è malato o moribondo. Mi senti? Lo porterò via con me. Non dovrai più preoccuparti di lui.» Quella in cui l'avevano rinchiuso era una stanza crudele e angusta; la luce di una lanterna si riversò sul giovane e mi rivelò la sua bellezza; una bellezza che era sempre stata la mia rovina, una bellezza come quella di Pandora, Avicus, Zenobia e Bianca, bellezza in una nuova forma celestiale.
Il cielo aveva scagliato su quel pavimento di pietra un angelo abbandonato, dai riccioli ramati e dalle membra perfettamente modellate, dal viso pallido e misterioso. Mi chinai per prenderlo tra le braccia; lo sollevai e guardai nei suoi occhi socchiusi. I morbidi capelli rossicci erano sciolti e pieni di nodi. La pelle era bianca e le ossa del viso affilate solo leggermente dal sangue slavo. «Amadeo», mormorai, il nome che mi saliva alle labbra come per volere degli angeli, gli stessi angeli a cui lui somigliava nella sua purezza e apparente innocenza, per quanto denutrito. Sgranò gli occhi mentre mi guardava. Nella maestà e nella luce dorata, rividi nella sua mente le icone che aveva dipinto. Si sforzò disperatamente di ricordare. Icone. Il Cristo che aveva ritratto. Con i capelli lunghi e gli occhi ardenti, io somigliavo al Cristo. Tentò di parlare, ma la lingua lo aveva abbandonato. Tentò di trovare il nome del suo Signore. «Non sono il Cristo, ragazzo mio», affermai, rivolgendomi alla parte di lui sepolta dentro la mente, la parte che il ragazzo ignorava. «Ma qualcuno che giunge con la propria salvezza. Amadeo, vieni tra le mie braccia.» 19 Lo amai immediatamente e in modo impossibile. Aveva al massimo quindici anni quando lo prelevai dal bordello, per portarlo a vivere nel palazzo con i miei fanciulli. Mentre me lo tenevo vicino sulla gondola, ebbi la certezza che quando l'avevo trovato fosse ormai condannato, strappato all'ultimo momento da una morte assurda. Benché la robustezza delle mie braccia lo confortasse, il battito del suo cuore era a stento sufficiente per trasmettere le immagini che captai mentre riposava sul mio petto. Raggiunto il palazzo, rifiutai l'aiuto di Vincenzo, mandandolo a prendere del cibo, e portai Amadeo nella mia camera. Adagiai sul letto quella creatura esangue e cenciosa, tra le pesanti cortine di velluto e i cuscini, e quando arrivò finalmente la zuppa gliela feci sorbire io stesso. Vino, zuppa, una pozione di miele e limone, cos'altro potevamo dargli? Lentamente, ammonii Vincenzo, per evitare che gli desse da mangiare
troppo, dopo l'inedia, e che il suo stomaco dovesse soffrirne. Alla fine congedai Vincenzo e tirai i chiavistelli della porta della mia stanza. Fu quello il momento fatidico? Fu quello il momento in cui compresi più a fondo la mia anima, il momento in cui ammisi che Amadeo sarebbe stato un figlio del mio potere, della mia immortalità, un allievo per tutto ciò che sapevo? Mentre osservavo il fanciullo steso sul letto, dimenticai il linguaggio del senso di colpa e della recriminazione. Ero Marius, il testimone dei secoli, Marius, il prescelto di Coloro-che-devono-essere-conservati. Portai Amadeo nella stanza da bagno, lo lavai e lo coprii di baci. Ottenni da lui la disinvolta intimità negata a tutti coloro che lo avevano torturato, tanto rimase stordito e confuso dalle mie semplici premure e dalle parole che gli sussurravo nelle tenere orecchie. Lo condussi rapidamente a conoscere piaceri che non si era mai concesso prima. Era intontito e silenzioso, ma le sue preghiere di essere liberato cessarono. Eppure, persino mentre si trovava nella sicurezza di quella camera, tra le braccia di qualcuno che considerava il suo Salvatore, nemmeno un briciolo della sua antica memoria riuscì a fluire dai recessi della sua mente al sancta sanctorum della ragione. In realtà, forse i miei abbracci schiettamente carnali resero ancora più saldo il muro che nel suo cervello separava il passato dal presente. Quanto a me, non avevo mai sperimentato una simile pura intimità con un mortale, se non con coloro che intendevo uccidere. Mi dava i brividi stringerlo tra le braccia, premergli le labbra sulle guance e sul mento, sulla fronte, sui teneri occhi chiusi. Sì, la sete di sangue giunse, ma ero in grado di dominarla. Mi riempii le narici del profumo della sua carne giovane. Sapevo di poter fare qualunque cosa volessi, con lui. Tra il paradiso e l'inferno non esisteva forza capace di fermarmi. E non avevo bisogno di un Satana che mi dicesse che potevo trasformarlo in vampiro ed educarlo nel Sangue. Lo asciugai delicatamente con le salviette, lo riportai sul letto, poi andai a sedermi allo scrittoio, girandomi in modo da poterlo guardare direttamente, e là fui assalito dall'idea perfettamente sviluppata, intensa come il desiderio di sedurre Botticelli, terribile come la mia passione per l'adorabile Bianca.
Quello era un trovatello che poteva essere istruito per il Sangue! Era un giovane totalmente estraniato dalla vita che poteva essere reclamato specificamente per il Sangue. Il suo addestramento sarebbe durato una notte, una settimana, un mese, un anno? Dovevo soltanto deciderlo. Comunque fosse, avrei fatto di lui una creatura del Sangue. La mia mente tornò rapida a Eudoxia e a quanto aveva dichiarato sull'età ideale in cui ricevere il Sangue. Rammentai Zenobia e il suo intelletto pronto e gli occhi saggi. Rammentai le mie riflessioni di tanto tempo prima sulla promessa rappresentata da una vergine, sulla possibilità di fare di una vergine ciò che si voleva, senza doverne pagare il prezzo. E quel ragazzo, quello schiavo salvato, era stato un pittore! Conosceva la magia dell'uovo e dei pigmenti, sì, conosceva la magia del colore applicato sul pannello di legno. Avrebbe ricordato, avrebbe ricordato un'epoca in cui nient'altro gli interessava. Certo, era accaduto nella lontana Russia, dove quanti lavoravano nei monasteri si limitavano allo stile dei bizantini, da me scartato tantissimo tempo prima quando avevo lasciato l'Impero Greco ed ero andato a costruirmi una dimora tra le lotte dell'Occidente. Ma guarda cos'era successo: l'Occidente aveva avuto le sue guerre, e i barbari lo avevano interamente conquistato, a quanto sembrava, eppure Roma era risorta grazie ai sublimi pensatori e pittori del Quattrocento! Lo vedevo nell'opera di Botticelli, di Bellini e di Filippo Lippi e di un centinaio d'altri. Omero, Lucrezio, Virgilio, Ovidio, Plutarco venivano tutti studiati di nuovo. Gli eruditi dell'«umanesimo» intonavano canti dedicati all'«antichità». In breve, l'Occidente era risorto con nuove e favolose città, mentre Costantinopoli, l'antica, aurea Costantinopoli, era caduta in mano ai turchi che l'avevano trasformata in Istanbul. Ma molto lontano da Istanbul c'era la Russia, dove quel ragazzo era stato fatto prigioniero, la Russia che aveva preso il proprio cristianesimo da Costantinopoli, tanto che quel ragazzo conosceva solo le icone dallo stile severo e sobrio e dalla bellezza rigida, un'arte diversa da quanto dipingevo come il giorno dalla notte. Eppure, a Venezia coesistevano entrambi gli stili: lo stile bizantino e il nuovo stile dell'epoca. Com'era successo? Grazie ai commerci, Venezia era stata un grande por-
to sin dagli inizi. La sua magnifica flotta aveva fatto la spola tra l'Est e l'Ovest, quando Roma era ancora un ammasso di rovine. E molte chiese veneziane conservavano l'antico stile bizantino che colmava la mente tormentata del ragazzo. Per me, quelle chiese bizantine non avevano mai avuto molta importanza, dovevo ammetterlo, nemmeno San Marco, la cappella del doge, ma adesso acquistavano rilievo perché mi aiutavano a comprendere di nuovo e più a fondo l'arte che quel giovane aveva amato. Lo osservai mentre dormiva. D'accordo, capivo qualcosa della sua natura, capivo la sua sofferenza. Ma chi era in realtà? Mi posi la stessa domanda che Bianca e io ci eravamo rivolti a vicenda. Non conoscevo la risposta. Dovevo scoprirla prima di procedere con il piano di preparare Amadeo per il Sangue. Ci sarebbe voluta una sola notte oppure cento? In ogni caso, non sarebbe stato un lasso di tempo illimitato. Amadeo era destinato a me. Mi voltai per scrivere sul diario. Non avevo mai contemplato un simile progetto: quello di educare un novizio per il Sangue! Descrissi tutti gli avvenimenti della nottata per non smarrirli mai a causa di una memoria sovreccitata. Disegnai schizzi del viso di Amadeo addormentato. Come posso descriverlo? La sua bellezza non dipendeva dal l'espressione facciale. Era già impressa sul volto, intrinseca nell'ossatura delicata, nella bocca serena, nei riccioli ramati. Scrissi appassionatamente sul diario. Questo fanciullo è giunto da un mondo così diverso dal nostro che non riesce a trovare un senso in ciò che gli è successo. Ma io conosco le terre innevate della Russia. Conosco la tetra esistenza dei monasteri russi e greci, e fu in uno di questi, ne sono convinto, che lui dipinse le icone di cui ora non riesce a parlare. Quanto al nostro idioma, Amadeo non ne ha alcuna esperienza, se non nella crudeltà. Forse, quando gli altri ragazzi lo trasformeranno in uno di loro, rammenterà il proprio passato. Vorrà impugnare il pennello e il suo talento tornerà a galla. Misi da parte la penna d'oca. Non potevo confessare tutto al mio diario. Certo che no. Talvolta scrivevo i grandi segreti in greco invece che in lati-
no, ma neanche in greco potevo rivelare tutto ciò che pensavo. Guardai Amadeo. Presi il candelabro, mi avvicinai al letto e lo osservai mentre dormiva, finalmente a suo agio, respirando come se fosse al sicuro. Improvvisamente aprì gli occhi e mi guardò. Non provava alcun timore. In realtà, sembrava che stesse ancora sognando. Mi affidai totalmente alle mie facoltà psichiche. Dimmelo, figliolo, dimmelo con il cuore. Vidi i cavalieri delle steppe calare su di lui e su un gruppo di suoi consanguinei. Vidi un involto cadere dalle sue mani ansiose. Il tessuto si aprì mettendo in mostra un'icona, e il ragazzo gridò di paura, ma i barbari crudeli volevano solo lui. Erano gli stessi barbari che non avevano mai smesso di compiere razzie lungo le frontiere settentrionali e orientali dell'Impero Romano, a lungo dimenticate. Il mondo non avrebbe mai visto estinguersi la loro razza? Quei malvagi avevano portato il ragazzo in una città orientale sede di mercato, forse Istanbul. E da lì a Venezia, dove era finito nelle mani di un tenutario di bordello che lo aveva comprato a caro prezzo, dati il suo viso e le sue forme. La crudeltà della situazione, il suo mistero, lo avevano prostrato. Nelle mani di un altro, forse non sarebbe mai guarito. Eppure, nella sua tacita espressione percepii una fiducia totale. «Maestro», mormorò, in russo. Sentii un brivido diffondersi in tutto il mio corpo. Avrei voluto toccarlo ancora una volta con le mie dita fredde, ma non osai. Mi inginocchiai accanto al letto, mi chinai e lo baciai affettuosamente sulla guancia. «Amadeo», gli dissi, per rivelargli il suo nuovo nome. Usando la stessa lingua russa che conosceva e al contempo non conosceva, gli spiegai che adesso era mio, che ero il suo Maestro, proprio come aveva appena detto. Gli feci capire che tutte le questioni erano risolte, che non doveva preoccuparsi e che non avrebbe mai più avuto paura. Era quasi mattina. Dovevo andarmene. Vincenzo venne a bussare. I più grandi tra gli apprendisti stavano aspettando là fuori. Avevano saputo dell'arrivo di un nuovo ragazzo. Li feci entrare in camera. Spiegai che dovevano prendersi cura di Amadeo. Dovevano fargli conoscere tutti i nostri comuni portenti. Dovevano lasciarlo riposare un poco, certo, ma poi potevano portarlo in città. Forse era la cosa migliore da fare. «Riccardo», dissi al più vecchio, «prendilo sotto la tua ala.»
Che menzogna! Rimasi fermo a pensarci. Era una menzogna consegnarlo alla luce del giorno a una compagnia che non fosse la mia, ma il sole nascente non mi permetteva di restare ancora nel palazzo. Cos'altro potevo fare? Raggiunsi il mio sarcofago e mi sdraiai nel buio sognando di lui. Avevo trovato una via di scampo dall'amore per Botticelli, una via di scampo dall'ossessione per Bianca e la sua tormentosa colpa. Avevo trovato qualcuno già segnato dalla morte e dalla crudeltà. Il Sangue sarebbe stato il riscatto. Sì, tutte le questioni erano risolte, in me. Oh, ma chi era Amadeo? Cos'era? Conoscevo i ricordi, le immagini, gli orrori, le preghiere, ma non la voce! E qualcosa mi tormentava ferocemente, persino nella mia dichiarata certezza. Non amavo troppo quel ragazzo per fare quanto progettavo di fare? La notte seguente, mi attendeva una magnifica sorpresa. Alla cena partecipava anche Amadeo, magnificamente fasciato di velluto blu, splendidamente vestito come gli altri ragazzi! Avevano affrettato la confezione dei suoi abiti per farmi felice e infatti lo ero, quasi al punto di sentirmi stordito. Mentre Amadeo si inginocchiava per baciarmi l'anello, rimasi senza parole, e con le mani lo sollecitai ad alzarsi, poi lo abbracciai, baciandolo rapidamente su entrambe le guance. Era ancora pallido e debole a causa delle tribolazioni patite, ma gli altri ragazzi e Vincenzo si erano fatti in quattro per dargli un po' di colore. Mentre cenavamo, Riccardo spiegò che Amadeo non sapeva dipingere. Anzi, aveva paura dei pennelli e delle ciotole di colore. Inoltre non conosceva nessuna lingua, ma stava imparando la nostra con incredibile rapidità. Il magnifico ragazzo dai riccioli ramati che era Amadeo mi fissò tranquillamente, mentre Riccardo parlava. Ancora una volta, usando la dolce lingua russa, mi chiamò Maestro, ma gli altri fanciulli non capirono. Tu appartieni a me. Fu quella la mia risposta, le dolci parole in russo che gli donai telepaticamente. Cerca di ricordare. Chi eri prima di venire qui, prima che ti facessero del male? Torna indietro. Torna all'icona. Torna al viso di Cristo, se necessario. Un'espressione impaurita gli balenò sul viso. Riccardo, non riuscendo a immaginarne il motivo, si affrettò a prendergli la mano. Cominciò a elencargli i nomi dei semplici oggetti posati sulla tavola, e Amadeo, come destandosi da un incubo, gli sorrise e ripeté le parole.
Com'era acuta e leggiadra la sua voce. Com'era sicura la pronuncia. Com'era rapido lo sguardo degli occhi castani. «Insegnategli tutto», chiesi a Riccardo e ai precettori riuniti. «Assicuratevi che studi la danza, la scherma e in particolare la pittura. Mostrategli ogni dipinto della casa e ogni scultura. Portatelo dappertutto. Fate in modo che impari tutto ciò che c'è da sapere di Venezia.» Poi mi ritirai, solo, nella stanza in cui dipingevo. Mescolai rapidamente le tempere e realizzai un piccolo ritratto di Amadeo come l'avevo visto a cena, con l'elegante tunica di velluto blu e i lucenti capelli ben pettinati. Ero indebolito dall'ardore dei miei miserabili pensieri. La convinzione mi stava abbandonando? Come potevo sottrarre quel ragazzo alla coppa che aveva a stento assaggiato? Era una creatura morta riportata alla vita. Mi ero visto rubare il mio Figlio del Sangue dai miei stessi sublimi progetti. Da quel momento e per vari mesi, Amadeo appartenne alla luce del giorno. Sì, doveva avere alla luce del sole tutte le possibilità e occasioni di diventare qualunque cosa desiderasse! Eppure, mentalmente, all'insaputa degli altri e sotto qualsiasi aspetto, si considerava, dietro mio ordine, segretamente e totalmente mio. Per me era una grande e terribile contraddizione. Rinunciai alle mie rivendicazioni su di lui. Non potevo condannarlo al Sangue Tenebroso, a dispetto di quanto fosse profonda la mia solitudine o fosse stata intensa la sua antica infelicità. Adesso doveva avere la sua occasione tra gli apprendisti e gli studiosi della mia casa, e nel caso si fosse dimostrato un piccolo principe - come mi aspettavo, vista la sua pronta intelligenza - avrebbe dovuto avere la possibilità di trasferirsi all'ateneo di Padova o di Bologna, dove ormai i miei studenti si stavano recando uno dopo l'altro, mentre la mia miriade di piani si realizzava sotto il mio capiente tetto. Eppure a tarda sera, quando le lezioni erano ormai terminate e i fanciulli più giovani erano stati messi a letto e quelli più grandi stavano portando a termine vari incarichi nel mio studio, non riuscivo a impedirmi di condurre Amadeo nella mia camera da letto, dove lo riempivo di baci carnali, baci dolci e privi di sangue, baci ispirati dal bisogno, e lui mi si donava senza riserve. La mia bellezza lo affascinava. È l'orgoglio a farmelo sottolineare? Non avevo dubbi in proposito. Non avevo bisogno di utilizzare i poteri mentali
per incantarlo. Mi adorava. E, benché i miei dipinti lo terrorizzassero, qualcosa nel profondo dell'anima gli permetteva di venerare il mio apparente talento, la maestria della composizione, i colori vibranti, l'aggraziata rapidità. Naturalmente non ne parlava mai agli altri. E loro, i ragazzi, che sapevano sicuramente che passavamo ore e ore chiusi in camera insieme, non osarono mai chiedersi cosa avvenisse tra noi. Quanto a Vincenzo, era troppo saggio per accennare in qualsiasi modo a quello strano rapporto. Nel frattempo, Amadeo non recuperò minimamente la memoria. Non riusciva a dipingere, non riusciva a toccare i pennelli. Era come se i colori, quando puri, gli facessero bruciare gli occhi. Ma il suo intelletto era più acuto di quello degli altri ragazzi. Imparò in fretta il greco e il latino, era un portento nella danza, amava fare pratica con lo stocco. Assorbiva prontamente le lezioni degli insegnanti più brillanti. Ben presto cominciò a scrivere in latino con mano ferma. La sera mi leggeva i suoi versi; cantava per me, accompagnandosi dolcemente con il liuto. Io sedevo allo scrittoio con il mento posato sul gomito, ascoltando la sua voce bassa e calibrata. I suoi capelli erano sempre perfettamente pettinati, gli abiti eleganti e immacolati, le dita piene di anelli come le mie. Lo intuivano tutti che lo amavo? Che era il mio favorito, il mio amante, il mio tesoro segreto. Persino nell'antica Roma, tra una pletora di voci, ci sarebbero stati mormorii, risate sommesse, qualche celia. Lì a Venezia, invece, per Marius de Romanus non emerse mai alcun commento. Tuttavia, Amadeo cominciava ad avere dei sospetti, che non riguardavano i baci che stavano rapidamente diventando troppo casti per lui, ma sull'uomo apparentemente di marmo che non mangiava mai alla propria tavola, né beveva una sola goccia di vino da una coppa, né appariva sotto il proprio tetto durante il giorno. Insieme a quei sospetti, notai in Amadeo una confusione crescente, dovuta ai ricordi che cercavano di palesarglisi. Ma lui li negava, soprattutto quando gli capitava di svegliarsi accanto a me, mentre sonnecchiavamo insieme, e mi copriva di baci. Una sera, nei primi splendidi mesi d'inverno, quando entrai per salutare i miei ansiosi studenti, Riccardo mi raccontò di averlo portato a visitare l'adorabile e squisita Bianca Solderini. Mi riferì che lei li aveva accolti con affetto, ed era rimasta deliziata dalla poesia di Amadeo e dalla sua capacità
di scriverle tributi estemporanei. Guardai il mio pupillo negli occhi e mi resi conto che anche lui era rimasto incantato dalla donna. Come non avrei potuto capirlo! Un bizzarro stato d'animo calò su di me, mentre i ragazzi parlavano della gradevole compagnia di Bianca e dell'affascinante gentiluomo inglese che adesso frequentava la sua casa. Attraverso Riccardo, Bianca mi aveva inviato un breve messaggio scritto. Marius, mi mancate. Venite presto e portate con voi i vostri ragazzi. Amadeo è intelligente come Riccardo. Ho sistemato ovunque i vostri ritratti. Sono tutti incuriositi dall'uomo che li ha dipinti, ma io non dico nulla perché in realtà non so nulla. Con affetto, Bianca Quando alzai gli occhi dal foglio, vidi Amadeo che mi osservava, in un certo senso sondandomi con gli occhi silenti. «La conoscete, Maestro?» mi chiese sobriamente, sorprendendo Riccardo, che non aprì bocca. «Lo sai, Amadeo. Bianca ti ha detto che sono andato a farle visita. Hai visto i miei ritratti sulle sue pareti.» Percepii in lui un'improvvisa sensazione di violenta gelosia, ma la sua espressione non mutò. Non andare da lei, mi disse la sua anima. Capii che avrebbe desiderato rimanere solo con me, che Riccardo si ritirasse, così da poter avere la nostra intimità nel letto immerso nell'ombra, con le sue cortine di velluto che ci nascondevano alla vista del mondo. C'era qualcosa di ostinato in lui, qualcosa che era diretto unicamente verso il nostro amore. E come mi tentava, come suscitava in me la più assoluta devozione! «Ma voglio che tu ricordi», gli dissi all'improvviso, in russo. Rimase scioccato dal mio tono, ma non capì. «Amadeo», aggiunsi in dialetto veneziano, «ripensa all'epoca che ha preceduto il tuo arrivo qui. Pensa al passato, Amadeo. Qual era il tuo mondo, a quei tempi?» Arrossì. Era infelice. Fu come se l'avessi picchiato. Riccardo allungò una mano consolatoria verso l'amico. «Maestro», disse, «è troppo difficile per lui.» Amadeo sembrava paralizzato. Allora mi alzai dallo scrittoio, lo abbracciai alle spalle e gli diedi un bacio sul capo. Lui rimase fermo sulla sua se-
dia. «Avanti, dimentica tutto. Andremo a trovare Bianca. Questa è l'ora della notte che preferisce.» Riccardo rimase sbalordito dal mio invito a uscire a quell'ora. Quanto ad Amadeo, era ancora intontito. Trovammo Bianca circondata da numerosi ospiti ciarlieri, tra cui figuravano alcuni fiorentini e anche un certo numero di inglesi, come mi avevano riferito. Quando mi vide entrare i suoi occhi si illuminarono. Mi venne incontro e mi fece allontanare dagli altri, accompagnandomi nella camera dove l'elaborato letto a forma di cigno era squisitamente addobbato come se dovesse essere mostrato su un palcoscenico. «Siete venuto, finalmente», disse. «Sono così felice di vedervi. Non potete immaginare quanto mi siete mancato.» Com'erano affettuose le sue parole! «Siete il solo pittore che esista nel mio mondo, Marius.» Voleva baciarmi, ma non potevo correre quel rischio. Mi chinai per premerle rapidamente le labbra sulla guancia, poi la tenni scostata da me. Ah, che radiosa dolcezza. Fissando i suoi occhi a mandorla entrai nei quadri di Botticelli. Tenevo tra le mani, per motivi che non avrei mai scoperto, le scure trecce profumate di Zenobia, raccolte nella memoria dal pavimento di un'abitazione al capo opposto del mondo. «Bianca, mia cara», dissi. «Sono pronto ad aprire la mia dimora se fungerete da padrona di casa al posto mio.» Che shock sentire quelle parole sgorgarmi dalle labbra. Non mi rendevo conto di cosa stavo per dire, eppure insistetti con il mio sogno. «Non ho né moglie né figlia. Venite, aprite la mia casa al mondo.» L'espressione di trionfo che fiorì sul suo viso rappresentò la conferma. L'avrebbe fatto. «Lo dirò a tutti», annunciò subito lei. «Sì, farò da padrona di casa in vece vostra, e lo farò con orgoglio, con gioia, ma sicuramente sarete lì anche voi, vero?» «Possiamo aprire le porte solo all'imbrunire?» domandai. «È mia abitudine arrivare la sera. La luce delle candele mi si addice più della luce del giorno. Scegliete una sera, Bianca, e io farò preparare tutto dai miei domestici. I quadri sono sparsi ovunque, ormai. Sapete che non offro nulla a nessuno. Dipingo solo per il mio piacere. E agli ospiti servirò cibo e bevande, come stabilirete voi.» Sembrava estasiata. Vidi Amadeo che, in disparte, la fissava, amandola,
e amando lo spettacolo di noi due insieme, pur trovandolo penoso. Riccardo stava venendo coinvolto nella conversazione da uomini più vecchi di lui che lo adulavano e ne adoravano il bel viso. «Ditemi cosa disporre sui miei tavoli», chiesi a Bianca. «Ditemi quali vini servire. I miei domestici saranno i vostri. Farò tutto quello che mi direte.» «Che meraviglia», ribatté lei. «Ci sarà tutta Venezia. Ve lo prometto, scoprirete la più magnifica delle compagnie. La gente è così curiosa su di voi. Oh, come mormora! Non potete immaginare che sublime piacere sarà.» Come lei aveva preannunciato, dopo meno di un mese il mio palazzo venne aperto all'intera città. E fu diverso dalle nottate ubriache nell'antica Roma, quando la gente si stendeva sui miei divani e vomitava nei miei giardini, mentre io dipingevo come un ossesso sulle pareti. Notai subito come apparivano composti i miei eleganti ospiti veneziani che mi rivolgevano migliaia di domande. Lasciai che mi si appannasse la vista, avvertendo intorno a me quelle voci mortali come fossero baci. Pensai: Ti trovi fra loro, come se fossi uno di loro, è davvero come se fossi vivo. Che importanza avevano le loro blande critiche ai quadri? Mi sarei sforzato di rendere perfetto il mio lavoro, sì, certo, ma quello che contava era la vitalità, l'impeto! E là, tra le mie opere migliori, c'era la mia bellissima Bianca dai capelli biondi, momentaneamente libera da chi la costringeva ad atti malvagi, riconosciuta da tutti come la padrona della mia casa. Amadeo osservò tutto con occhi silenti, riluttanti. I ricordi chiusi dentro di lui lo tormentavano come un cancro, eppure non riusciva a vederli e a riconoscerli per ciò che erano. Meno di un mese dopo, al tramonto, lo trovai in preda a un malore nell'imponente chiesa sulla vicina isola di Torcello, dove era entrato apparentemente da solo. Lo sollevai dal pavimento freddo e umido e lo riportai a casa. Naturalmente ne conoscevo il motivo: in quella chiesa aveva trovato delle icone caratterizzate dallo stesso stile che un tempo aveva utilizzato. Aveva trovato antichi mosaici risalenti a secoli passati, simili a quelli che ricordava di aver visto nelle chiese russe. Non aveva ricordato; si era semplicemente imbattuto in un'antica verità nel corso delle sue peregrinazioni i freddi, nudi dipinti bizantini - e adesso l'ardore del luogo lo aveva reso
febbricitante: gli sentii il gusto della febbre sulle labbra e gliela vidi negli occhi. Allo spuntar del sole, quando, quasi folle, lo lasciai alle cure di Vincenzo, non si era ancora ripreso, tuttavia mio malgrado dovetti allontanarmi. Al tramonto, però, ritornai di corsa al suo capezzale. Era la sua mente ad alimentare la febbre. Allora lo avvolsi nelle coperte, come si fa con i bimbi, e lo portai in una chiesa veneziana a vedere gli splendidi dipinti di figure robuste e naturalistiche realizzati negli ultimi anni. Purtroppo mi resi conto che non c'era nulla da fare; la sua mente non sarebbe mai stata dischiusa, mai modificata davvero. Quindi lo riportai a casa e lo adagiai di nuovo sui cuscini, tentando di capire più a fondo tutto quello che potevo. Il suo era stato un mondo punitivo di austera devozione, e il fatto di dipingere non aveva comportato la minima gioia. In realtà, tutta la sua esistenza trascorsa nella lontana Russia era stata così austera che non riusciva ad abbandonarsi al piacere che ormai lo attendeva a ogni piè sospinto. Era assediato dai ricordi eppure incapace di comprenderli: stava avanzando lentamente verso la morte, e io non potevo permetterlo. Scacciai quelli che lo assistevano, e cominciai a misurare la stanza a grandi passi. Vagavo per la camera sussurrando tra me e me, in preda alla rabbia. Non l'avrei permesso. Non l'avrei lasciato morire. Con decisione mi chinai su di lui e, mordendomi la lingua, mi riempii la bocca di sangue per poi fargliene colare un sottile rivoletto tra le labbra. Si rianimò subito, si leccò le labbra e prese a respirare più agevolmente, con le guance arrossate. Gli tastai la fronte: era più fresca. Aprì gli occhi e mi guardò, e come spesso faceva disse: «Maestro», dopo di che dormì, senza ricordi, senza sogni terribili. Era sufficiente. Lasciai il letto e andai a scrivere rapidamente nel mio voluminoso diario; la penna d'oca grattava, mentre vergavo in fretta le parole. Amadeo è irresistibile, ma cosa devo fare? L'ho reclamato ancora una volta, dichiarandolo mio, e adesso curo la sua infelicità con il sangue che vorrei potergli dare. Eppure, nel curare la sua infelicità, spero di curarlo non per me ma per il mondo intero. Chiusi il volume, disgustato con me stesso per il sangue che gli avevo dato. Ma lo aveva guarito. Lo sapevo. E se si fosse ammalato, glielo avrei
ridato. Il tempo passava troppo rapidamente. Gli eventi si succedevano troppo rapidamente. I miei primi giudizi vennero smentiti e la bellezza di Amadeo aumentò di notte in notte. Gli insegnanti portarono i ragazzi a Firenze per mostrare loro i dipinti là conservati. E tutti tornarono a casa più autenticamente ispirati allo studio di prima. Avevano visto gli splendidi lavori di Botticelli. Il maestro stava dipingendo? Sì, ma le sue opere ormai erano quasi interamente di carattere religioso. Dipendeva dalla predicazione di Savonarola, un monaco severo che condannava i fiorentini per il loro attaccamento al mondo terreno ed esercitava un forte ascendente sugli abitanti della città. Botticelli credeva in lui ed era considerato uno dei suoi seguaci. La notizia mi rattristò profondamente, anzi, mi fece quasi impazzire, ma poi capii che qualunque cosa Botticelli avesse dipinto sarebbe stata splendida. E il progresso di Amadeo mi confortò o mi confuse piacevolmente come prima. Ormai era l'allievo più brillante della mia piccola accademia. Fu necessario procurargli nuovi insegnanti di filosofia e diritto. Cresceva in altezza a un ritmo incredibile, era diventato rapido e affascinante nella conversazione, ed era il beniamino dei ragazzi più giovani. Andavamo a far visita a Bianca notte dopo notte. Mi abituai alla compagnia di sconosciuti raffinati, all'eterno flusso di europei del Nord che venivano in Italia per scoprirne il fascino antico e misterioso. Solo saltuariamente vedevo Bianca passare la coppa avvelenata a uno dei suoi sventurati ospiti. Solo occasionalmente percepivo il battito del suo cupo cuore e vedevo l'ombra del disperato senso di colpa negli abissi dei suoi occhi, mentre osservava la sfortunata vittima, mentre la guardava lasciare la compagnia, e alla fine mentre la salutava con un sorriso fioco. Quanto ad Amadeo, i nostri rapporti privati all'interno della mia camera da letto divennero sempre più intimi. Più di una volta, mentre ci abbracciavamo, gli diedi il Bacio di Sangue, osservando il suo corpo tremante e scorgendo il potere del bacio nei suoi occhi socchiusi. Cos'era quella follia? Amadeo era destinato al mondo o a me? Mentivo a me stesso, dicendomi che il ragazzo poteva ancora dimostrare il proprio valore e quindi guadagnarsi la licenza di lasciarmi, al sicuro e ricco, per puntare verso trionfi al di fuori della mia casa. Però gli avevo dato così tanto Sangue Tenebroso, che mi subissava di
domande: che tipo di creatura ero? Perché non tornavo mai a casa durante il giorno? Perché non consumavo mai cibo né bevande? Cingeva il mistero con le sue braccia tiepide. Affondava il viso nel collo del mostro. Lo spedii nei migliori bordelli a conoscere i piaceri delle donne e quelli dei ragazzi. La cosa lo spinse a odiarmi, eppure gli piacque, e tornava sempre da me bramoso di ricevere il Bacio di Sangue e nient'altro. Mi scherniva quando, da solo nel mio studio, dipingevo unicamente per lui, lavorando a ritmo febbrile, raffigurando un paesaggio o un gruppo di eroi antichi. Dormiva accanto a me quando crollavo sul letto per riposare durante le poche ore che mi separavano dall'alba. Nel frattempo aprimmo più volte il palazzo: Bianca, sempre intelligente e posata, si era ormai lasciata alle spalle la precoce bellezza, pur conservando il viso soave e i modi delicati, ora sfoggiava la raffinatezza di una donna piuttosto che la promessa di una fanciulla. Mi ritrovavo spesso a fissarla, chiedendomi cosa sarebbe successo se non avessi rivolto la mia attenzione su Amadeo. Perché l'avevo fatto, dopo tutto? Non sarei riuscito a corteggiarla e convincerla? Mentre riflettevo sulla questione mi resi conto, stupidamente, che potevo ancora scegliere quella strada. Potevo ancora consegnare Amadeo alla mortalità insieme al resto dei miei ragazzi, donandogli agiatezza e una buona posizione. E Bianca era salva, perché io desideravo solo Amadeo; lo stavo istruendo, addestrando. Era lo squisito studente del Sangue. Le notti trascorsero rapide, come in un sogno. Diversi ragazzi partirono alla volta dell'università. Uno degli insegnanti morì; Vincenzo cominciò a zoppicare, ma assoldai un assistente che sfacchinasse al posto suo; Bianca cambiò posto a diversi grandi dipinti. Quando l'aria era tiepida e le finestre potevano restare aperte, ci riunivamo nel giardino sul tetto per un grande banchetto, e i ragazzi cantavano. Neppure una volta, durante tutto quel tempo, dimenticai di spalmarmi la pomata sulla pelle per scurirla e sembrare quindi più umano, né tralasciai di applicarmela sulle mani; non una volta mancai di agghindarmi con gioielli raffinati e di mettere anelli che avrebbero distratto tutti; neppure una volta dimenticai di sottrarmi alla luce di un gruppo di candele o alle torce fissate alle soglie o sui pontili. Andai nel sacrario di Coloro-che-devono-essere-conservati e vi rimasi in meditazione. Illustrai la situazione ad Akasha: volevo quell'adolescente quel ragazzo che ormai aveva due anni in più di quando l'avevo trovato -
eppure desideravo che avesse tutto il resto, e la mia anima era dilaniata proprio come il suo cuore. Mai, prima d'allora, avevo provato il desiderio di creare un bevitore di sangue, perché diventasse il mio compagno, e nello stesso tempo educare un giovane mortale proprio per quello scopo, e istruirlo abilmente affinché rappresentasse la scelta migliore. Ma adesso lo provavo, e il desiderio monopolizzava i miei pensieri durante tutte le ore di veglia, e non mi consolava affatto osservare la Madre e il Padre, così freddi. Non ebbi risposta alla mia preghiera. Mi stesi a dormire nel sacrario, facendo sogni cupi e agitati. Vidi il giardino, lo stesso che avevo dipinto senza posa sulle pareti, e vi stavo passeggiando come sempre, e i rami incurvati verso il basso erano carichi di frutti. Poi apparve Amadeo che mi camminava accanto, e all'improvviso dalla bocca gli sgorgò una raggelante, crudele risata. «Un sacrificio?» chiese. «Per Bianca? Com'è possibile?» Mi svegliai di soprassalto e mi drizzai a sedere, sfregandomi la sezione posteriore delle braccia e scuotendo il capo, cercando di scrollarmi di dosso il sogno. «Non conosco la risposta», sussurrai, come se lui si trovasse al mio fianco, come se il suo spirito avesse viaggiato fino al luogo in cui sedevo. «So solo che era già una giovane donna quando mi sono imbattuto in lei», aggiunsi, «colta e costretta a un certo stile di vita, in realtà un'assassina; sì, proprio così, un'assassina, una donna-bambina colpevole di terribili crimini. Mentre tu, tu eri un bambino inerme. Potevo plasmarti e modificarti, tutte cose che ho fatto. «È vero, ho pensato che tu fossi un pittore», continuai, «che possedessi quel particolare talento, e so che è ancora racchiuso dentro di te, e anche questo mi ha influenzato. Ma alla fin fine, non so perché, mi hai distolto da Bianca, so solo che è successo.» Mi stesi nuovamente a dormire, girandomi su un fianco con indifferenza, fissando i scintillanti occhi di Akasha, le rughe severe del viso di Enkil. Con la mente tornai indietro nei secoli, fino a Eudoxia; rammentai la terribile morte; rividi il suo corpo che bruciava riverso sul pavimento del sacrario, nello stesso punto in cui ero sdraiato. Pensai a Pandora. Dov'è la mia Pandora? Poi, finalmente, scivolai nel sonno. Quando tornai nel palazzo, scendendo dal tetto come al solito, trovai un'atmosfera diversa da quella che avrei desiderato, perché tutta la compa-
gnia riunita per la cena era silenziosa e aveva un'aria solenne. Vincenzo mi informò ansiosamente che uno «strano uomo» era venuto a farmi visita, aspettava in anticamera, rifiutandosi di entrare. I ragazzi, che stavano dando gli ultimi ritocchi a uno dei miei affreschi nell'anticamera, l'avevano frettolosamente lasciato solo. Solo Amadeo era rimasto là, fingendo di svolgere con scarso entusiasmo un insignificante incarico, ma tenendo gli occhi fissi sullo «strano uomo» in un modo che impensieriva Vincenzo. Come se ciò non bastasse, Bianca era passata a trovarmi per consegnarmi un dono proveniente da Firenze, un piccolo dipinto di Botticelli, e aveva avuto una «sgradevole» conversazione con lo sconosciuto, chiedendo poi a Vincenzo di tenerlo d'occhio. Infine lei se n'era andata, ma lo «strano uomo» era rimasto. Mi recai subito da lui, percependo la presenza della creatura prima di vedere chi fosse. Era Mael. Lo riconobbi all'istante. Era immutato proprio come me, e non aveva prestato molta attenzione alla moda dell'epoca, non più di quanto avesse fatto con quella dei tempi passati. Aveva un aspetto orribile, in realtà, con un lacero giustacuore di pelle, calzamaglia piena di buchi e stivali legati con lo spago. I suoi capelli erano sporchi e aggrovigliati, ma il viso sfoggiava un'espressione incredibilmente piacevole, e quando mi vide venne subito ad abbracciarmi. «Sei davvero qui», sussurrò, come se sotto il mio tetto fosse costretto a bisbigliare. Parlò in latino antico. «L'ho sentito dire, ma non ci credevo. Oh, sono così contento di vederti. Sono contento che tu sia ancora...» «Sì, so cosa intendi dire», replicai. «Sono ancora l'osservatore degli anni che passano, sono ancora il testimone che sopravvive nel Sangue.» «Oh, hai espresso il concetto molto più elegantemente di quanto avrei potuto fare io», ribatté lui. «Ma lasciamelo ripetere, sono davvero felice di vederti, felice di sentire la tua voce.» Vidi che era coperto di polvere. Si stava guardando intorno nella stanza, osservando il raffinato soffitto dipinto, con i suoi cherubini disposti in cerchio e le foglie d'oro. Fissò il murale incompiuto. Mi chiesi se immaginava che fosse opera mia. «Mael, perennemente stupito», commentai, allontanandolo con garbo dalla luce delle candele. Emisi una fioca risata. «Sembri un vagabondo.» «Vuoi offrirmi di nuovo degli abiti?» chiese. «Non riesco davvero, sai, a
padroneggiare simili questioni. Ne ho bisogno, credo. Tu qui vivi splendidamente come hai sempre fatto. Nulla è mai un mistero per te, Marius?» «Tutto è un mistero, Mael», risposi. «Ma ho sempre bei vestiti. Se arriva la fine del mondo, la accoglierò abbigliato con cura, che succeda alla luce del giorno o nel buio della notte.» Lo presi per un braccio e lo accompagnai attraverso le varie, immense stanze che ci separavano dalla mia camera. Provò il debito timore reverenziale davanti ai dipinti sparsi ovunque, ma si lasciò guidare. «Voglio che tu rimanga qui, lontano dalla mia compagnia mortale», dichiarai. «Riusciresti solo a confonderla.» «Ah, hai organizzato tutto molto bene», commentò. «Per te era più facile nell'antica Roma, vero? Qui, però, hai una vera reggia. Ci sono sovrani che ti invidierebbero, Marius.» «Sì, così parrebbe», risposi con noncuranza. Aprii gli armadi adiacenti, che in realtà erano stanzini, e gli porsi abiti e calzature in pelle. Sembrava incapace di vestirsi da solo, ma mi rifiutai di aiutarlo. Quando ebbi steso sul letto di velluto i vari capi di vestiario nel debito ordine, come si fa per un bambino incapace, lui cominciò a esaminarli come se non sapesse da che parte cominciare. «Da chi hai saputo che ero qui, Mael?» gli chiesi. Mi lanciò un'occhiata, e per un attimo il suo viso parve freddo, il naso aquilino sgradevole come sempre, gli occhi infossati più brillanti di come li ricordavo, e la bocca disegnata molto meglio di quanto rammentassi. Forse il tempo gli aveva ammorbidito la piega delle labbra, anche se non sono sicuro che ciò sia possibile. Ma sembrava un immortale dall'aspetto interessante. «Hai detto di aver saputo che ero qui», ripetei, sollecitandolo. «Chi te l'ha detto?» «È stato uno stupido bevitore di sangue», rispose con un tremito. «Un fanatico adoratore di Satana, chiamato Santino. Non si estingueranno mai? È successo a Roma. Mi ha invitato a unirmi a lui, te lo immagini?» «Perché non l'hai annientato?» domandai tristemente. Com'era tetro il tutto, com'era lontano dai ragazzi che cenavano, dagii insegnanti impegnati nelle loro lezioni, dalla luce e dalla musica a cui bramavo ritornare. «Ai vecchi tempi, quando li incontravi li annientavi sempre. Cosa te l'ha impedito, stavolta?» Si strinse nelle spalle. «Perché dovrei interessarmi a ciò che accade a Roma? Non ci sono rimasto nemmeno una notte.»
Scossi il capo. «Come ha fatto quella creatura a scoprire che mi trovavo a Venezia? Qui non ho mai udito nemmeno un sussurro da parte della nostra razza.» «Io sono qui, eppure non mi hai sentito, vero?» ribatté brusco. «Non sei infallibile, Marius. Sei circondato da molte distrazioni mondane. Forse non resti in ascolto come dovresti.» «Sì, hai ragione, ma mi chiedo come facesse a saperlo.» «I mortali vengono a casa tua, parlano di te. Forse si spingono fino a Roma. Non si dice che tutte le strade portano a Roma?» Mi stava schernendo con naturalezza, ma si stava dimostrando gentile, quasi amichevole. «Marius, quel bevitore di sangue romano vuole il tuo segreto. Mi ha supplicato di spiegargli il mistero di Coloro-che-devono-essere-conservati.» «E tu non l'hai fatto, Mael, vero?» chiesi. Ricominciavo a odiarlo, come in passato. «No», rispose tranquillamente, «ma ho riso di lui, e non ho negato che quel segreto esistesse. Forse avrei dovuto, ma più invecchio e più trovo difficile mentire su qualunque questione.» «Come ti capisco», commentai. «Davvero? Con tutti questi bellissimi fanciulli mortali intorno a te? Menti sicuramente, Marius. Quanto ai tuoi dipinti, come osi esibire le tue opere tra mortali che dispongono solo di una breve vita con cui sfidarti? Sembra una terribile menzogna, se proprio vuoi saperlo.» Sospirai. Lui si aprì di scatto il giustacuore e se lo tolse. «Ti stai chiedendo perché accetto la tua ospitalità?» chiese. «Non lo so. Forse ho l'impressione che, essendoti concesso così tanti piaceri mortali, tu abbia il dovere di aiutare un altro bevitore di sangue che è smarrito nel tempo come sempre. Che vaga di paese in paese, talvolta sorprendendosi e altre volte ritrovandosi semplicemente con gli occhi pieni di polvere.» «Racconta pure a te stesso ciò che preferisci», replicai. «Ti offro volentieri abiti e un riparo. Ma dimmi subito cosa ne è stato di Avicus e Zenobia. Viaggiano insieme a te? Sai dove si trovano?» «Non ho idea di dove siano», affermò, «e sicuramente l'hai intuito ancor prima di chiedermelo. Non li vedo da così tanto tempo che non riesco a stabilire quanti armi o secoli siano trascorsi dall'ultima volta. È stato Avicus a convincere Zenobia, se ne sono andati insieme. Mi hanno lasciato a Costantinopoli e non posso dire di esserne rimasto stupito: tra noi regnava un'orribile freddezza, prima che ci separassimo. Avicus l'amava. Lei lo
amava più di quanto amasse me. Non serviva altro.» «Mi dispiace sentirlo.» «Perché?» chiese. «Ci hai abbandonati tutti e tre. E hai lasciato Zenobia con noi, quella è stata la cosa peggiore. Da tanto tempo eravamo solo noi due, poi tu ci hai imposto la compagnia di quella ragazza.» «Per l'amore dell'inferno, smettila di darmi sempre la colpa di tutto», bisbigliai. «Non la smetterai mai con le tue accuse? Sono io l'artefice di qualunque sventura ti sia mai capitata, Mael? Cosa devo fare per ottenere l'assoluzione, in modo che possa regnare il silenzio? Sei stato tu, Mael, a togliermi con la forza dalla mia vita mortale e a portarmi, in catene e inerme, nella tua dannata foresta di druidi!» La mia rabbia scaturiva, mentre cercavo di non alzare la voce. Lui ne parve sorpreso. «Quindi mi disprezzi, Marius», dichiarò, sorridendo. «Ti credevo troppo intelligente per un sentimento così elementare. Sì, ti ho fatto prigioniero e tu hai carpito i segreti, e da allora io sono sempre stato maledetto, in un modo o nell'altro.» Non desiderando uno scontro, rimasi silenzioso e immobile, finché la rabbia svanì. Al diavolo la verità. Per qualche misterioso motivo, la cosa lo rese più gentile. Mentre si levava gli stracci e li allontanava da lui con il piede, parlò di Avicus e Zenobia. «Sgattaiolavano sempre nel palazzo dell'imperatore, dove andavano a caccia nell'ombra», raccontò. «Zenobia si vestiva raramente da ragazzo, come le hai insegnato. Le piacevano troppo gli abiti sontuosi. Avresti dovuto vedere come si agghindava. E i suoi capelli, credo di averli amati più di quanto li amasse lei.» «Dubito che sia possibile», mormorai. Captai la visione di Zenobia nella sua mente, e la confusi con quella che custodivo nella mia. «Avicus continuava a essere l'eterno studente», continuò Mael con un tono di lieve disprezzo. «Ha imparato il greco. Leggeva qualsiasi cosa riuscisse a trovare. Tu rappresentavi sempre la sua fonte di ispirazione. Ti imitava. Comprava libri senza sapere cosa fossero. Leggeva di continuo.» «Forse lo sapeva», suggerii. «Chi può dirlo?» «Io», rispose Mael. «Vi ho conosciuto entrambi, e lui era un idiota che accumulava poesia e storia senza motivo. Non stava nemmeno cercando qualcosa di preciso. Abbracciava parole e frasi solo per le sensazioni che gli procuravano.»
«E tu dove e come passavi le ore, Mael?» volli sapere, con un tono molto più freddo di quanto sperassi. «Andavo a caccia sulle colline dietro la città», rispose. «Braccavo i soldati. Cercavo i brutali malfattori, come ben sai. Io ero il vagabondo, mentre loro erano agghindati come se facessero parte della corte imperiale.» «Hanno mai creato un altro vampiro?» chiesi. «No!» esclamò, beffardo. «Chi mai farebbe una cosa del genere?» Non risposi. «E tu l'hai mai creato?» domandai. «No», rispose. Si accigliò. «Come potrei trovare qualcuno abbastanza forte?» Sembrava sconcertato. «Come potrei accertarmi che un umano sia abbastanza resistente per sopportare il Sangue?» «Quindi giri il mondo da solo.» «Troverò un altro bevitore di sangue che diventi mio compagno», annunciò. «Non ho forse incontrato il maledetto Santino a Roma? Forse riuscirò ad allettare uno degli adoratori di Satana. È impossibile che a tutti loro piaccia condurre una vita miserabile nelle catacombe, portando tuniche nere e cantando inni latini.» Annuii. Vidi che era pronto per il bagno. Non volevo trattenerlo oltre. Quando parlai lo feci in maniera cordiale. «La casa è enorme, come vedi», dissi. «Al primo piano, all'estrema destra, c'è una stanza chiusa a chiave e priva di finestre. Durante il giorno puoi dormire lì, se vuoi.» Emise una bassa risata sprezzante. «I vestiti sono più che sufficienti, amico mio, mi basterà qualche ora di riposo.» «Non mi daresti il minimo disturbo. Resta qui, dove gli altri non possono scorgerti. Vedi la stanza da bagno laggiù? Usala pure. Verrò a prenderti quando tutti i ragazzi staranno dormendo.» Lo rividi fin troppo presto: si presentò nel grande salone dove stavo dando a Riccardo e Amadeo il permesso di uscire, con il severo monito che potevano trascorrere la serata a casa di Bianca e in nessun altro luogo. Amadeo lo vide. Lo vide di nuovo per diversi istanti fatali. E io capii che qualcosa, in fondo al suo animo, aveva riconosciuto Mael per la creatura che era. Tuttavia, così come altre cose nella mente del mio pupillo erano confuse, non si soffermò a pensarci. I due ragazzi mi salutarono con rapidi baci per andare a cantare per Bianca e farsi adulare da tutti i suoi ospiti. Ero seccato con Mael perché aveva lasciato la camera, ma non glielo dissi.
«Quindi vorresti trasformare quel giovane in un bevitore di sangue», disse lui, sorridendo e indicando la porta da cui i due ragazzi erano appena usciti. In preda a una furia silenziosa, lo guardai in cagnesco, come sempre in simili situazioni, incapace di parlare. Lui rimase lì a sorridermi in modo sinistro, poi parlò: «Marius dai tanti nomi e dalle tante dimore e dalle tante vite. Così hai scelto un bambino adorabile». Non gli badai. Come aveva fatto a leggermi nella mente il desiderio di Amadeo? «Sei diventato imprudente», mormorò. «Ascoltami, Marius. Non lo dico per offenderti, ma tu cammini tra i mortali con passo pesante. E quel ragazzo è molto giovane.» «Non aggiungere una sola parola», gli intimai, tirando con forza le redini della mia rabbia per dominarla. «Perdonami», disse, «ho detto solo quello che penso.» «Lo so, ma non voglio sentire altro.» Lo esaminai: gli abiti nuovi gli stavano bene, anche se alcuni piccoli dettagli erano assurdamente storti e sistemati in modo sbagliato, ma non toccava certo a me raddrizzarli. Ai miei occhi appariva non solo barbarico, ma perfino ridicolo, eppure sapevo che chiunque altro lo avrebbe giudicato un uomo notevole. Lo odiavo, ma non completamente. E mentre restavo lì con lui, cedetti quasi alle lacrime. All'improvviso, per arginare l'emozione, gli chiesi: «Cos'hai imparato in tutto questo tempo?» «È una domanda arrogante!» bisbigliò lui. «Tu cos'hai imparato?» Gli rivelai le mie teorie su come l'Occidente fosse risorto, attingendo ancora una volta ai classici che Roma aveva preso dalla Grecia. Raccontai come l'arte dell'antico impero venisse adesso ricreata in tutta l'Italia e parlai delle bellissime città del Nord Europa, prospere come quelle del Sud. Poi spiegai la mia impressione che l'impero orientale fosse crollato a causa dell'islam e ormai non esistesse più. Il mondo greco era andato irrimediabilmente perduto. «Abbiamo di nuovo l'Occidente, non capisci?» chiesi. Mi guardò come se fossi pazzo. «Allora?» aggiunsi. La sua espressione cambiò leggermente. «Testimone nel Sangue», disse, ripetendo le mie parole di poco prima,
«osservatore degli anni.» Protese le braccia come per stringermi. I suoi occhi erano limpidi e io non avvertii alcuna malizia. «Mi hai dato coraggio», affermò. «Per che cosa, se posso chiedertelo?» replicai. «Mi hai dato il coraggio di riprendere a vagabondare», rispose. Lasciò ricadere lentamente le braccia lungo i fianchi. Annuii. Cos'altro potevamo dire? «Hai tutto quello che ti serve?» domandai. «Possiedo una grande quantità di monete veneziane e fiorentine. Sai che la ricchezza non conta, per me. Sono felice di condividere ciò che ho.» «Non conta neppure per me», ribatté lui. «Prenderò quanto mi serve dalla prossima vittima: il suo sangue e il suo denaro mi permetteranno di resistere fino a quella seguente.» «Così sia», dissi, rivelando il mio desiderio di vederlo uscire. Ma persino mentre lui se ne rendeva conto, mentre si voltava per dirigersi alla porta, allungai una mano e lo presi per un braccio. «Perdonami per essere stato freddo con te», gli dissi. «Siamo stati compagni nel tempo.» Il nostro fu un forte abbraccio. Lo accompagnai giù all'ingresso principale, dove le fiaccole proiettavano su di noi una luce troppo intensa per i miei gusti, e lo vidi scomparire nel buio. Nel giro di pochi secondi, non riuscii a udire altro, di lui. Ringraziai silenziosamente, ma subito dopo cominciai a riflettere. Perché odiavo Mael, perché lo temevo. Eppure un tempo lo avevo amato; lo avevo amato persino quando eravamo entrambi mortali e io ero il suo prigioniero, e lui il druido che mi insegnava gli inni dei fedeli della foresta, per uno scopo che ignoravo. E lo avevo amato durante quel lungo viaggio fino a Costantinopoli, senza dubbio, e in quella stessa città quando avevo affidato Zenobia a lui e ad Avicus, augurando loro ogni bene. Tuttavia adesso non lo volevo vicino! Volevo la mia casa, i miei fanciulli, Amadeo, Bianca. Volevo la mia Venezia. Volevo il mio mondo mortale. Non avrei messo a repentaglio la mia dimora mortale nemmeno in cambio di qualche altra ora con lui. Desideravo ardentemente nascondergli i miei segreti. Ma eccomi lì fermo sotto la luce delle torce, distratto. C'era qualcosa che non andava. Vincenzo non era molto lontano, così mi voltai e gli annunciai: «Starò
via per alcune notti. Tu sai cosa fare. Tornerò presto». «Sì, Maestro», replicò. Riuscii ad accertare che non aveva notato assolutamente nulla di strano in Mael. Era pronto come sempre a ubbidire ai miei voleri. Ma poi indicò qualcosa. «Guardate là, Maestro, c'è Amadeo che aspetta di parlarvi.» Rimasi esterrefatto. Sulla riva opposta del canale, c'era Amadeo in piedi su una gondola che mi osservava. Pareva in attesa di un mio cenno. Sicuramente mi aveva visto con Mael. Come mai non l'avevo udito? Mael aveva ragione, ero diventato imprudente; troppo infiacchito dalle emozioni umane, troppo avido d'amore. Amadeo chiese al vogatore di portarlo davanti alla casa. «Perché non sei andato con Riccardo?» gli domandai. «Mi aspettavo di trovarti da Bianca. Devi ubbidirmi.» Vincenzo si era ritirato, perciò lui, sceso sul pontile, mi cinse con le braccia, stringendomi il corpo con tutta la sua forza. «Dove state andando?» chiese con un sussurro frettoloso. «Perché mi abbandonate di nuovo?» «Devo assentarmi», spiegai, «ma solo per poche notti. Sai che devo andare. Ho obblighi solenni da rispettare altrove, forse non torno sempre?» «Maestro, quella creatura, quella che è venuta qui e vi ha appena lasciato...» «Non chiedermelo», gli intimai severamente. Come avevo paventato una simile eventualità! «Tornerò da te fra poche notti.» «Portatemi con voi», mi implorò. La supplica mi colpì. Sentii qualcosa che si allentava dentro di me. «Non posso», dichiarai. E dalla bocca mi uscirono parole che non avrei mai immaginato di pronunciare. «Vado da Coloro-che-devono-essereconservati», aggiunsi, come se non potessi trattenere il segreto dentro di me. «Vado a vedere se sono tranquilli. Faccio ciò che ho sempre fatto.» Un'espressione sbalordita gli comparve sul viso. «Coloro-che-devono-essere-conservati», sussurrò. Lo disse come fosse una preghiera. Rabbrividii. Provai un gran senso di liberazione. Inoltre sembrava che, sulla scia di Mael, avessi attirato Amadeo più vicino a me. Mi chinai a baciare il ragazzo, e il calore del suo corpo mi infiammò. «Maestro, datemi il Sangue», mi bisbigliò all'orecchio. «Maestro, dite-
mi, cosa siete?» «Cosa sono, bambino? A volte penso di non saperlo. E altre volte penso di saperlo fin troppo bene. Studia, durante la mia assenza. Non sprecare nulla. Tornerò prima di quanto tu pensi. A quel punto parleremo di Baci di Sangue e segreti, e nel frattempo non dire a nessuno che appartieni a me.» «L'ho mai detto a qualcuno, Maestro?» ribatté lui. Mi baciò la guancia. Vi posò sopra la mano tiepida come se volesse capire quanto fossi inumano. Premetti le labbra sulle sue, facendo in modo che un rivoletto di sangue gli colasse in bocca. Lo sentii rabbrividire. Mi staccai. Amadeo mi si era afflosciato tra le braccia. Chiamai Vincenzo e glielo consegnai, poi mi allontanai nella notte. Lasciai la splendida città di Venezia con i suoi palazzi scintillanti e mi rifugiai nel freddo santuario tra le Alpi, sapendo che il destino di Amadeo era segnato. 20 Non so quanto a lungo rimasi con Coloro-che-devono-essere-conservati. Una settimana, forse più. Entrai nel sacrario, confessando il mio sbalordimento per aver confidato a un ragazzo mortale la semplice espressione «Coloro-che-devono-essereconservati». Ammisi, inoltre, che lo desideravo, volevo che condividesse la mia solitudine. Volevo condividere con lui tutto ciò che potevo insegnare e donare. Oh, quale dolore mi procurava! Tutto quello che potevo insegnare e donare! Gli Immortali Genitori si curavano della cosa? Niente affatto. Mentre spuntavo gli stoppini alle lanterne, mentre le riempivo d'olio, mentre aumentavo la luminosità intorno alle figure egizie eternamente silenziose, sperimentai la stessa penitenza di sempre. Per due volte, con una raffica del fuoco che avevo il potere di sprigionare, accesi la lunga fila di cento alte candele. Per due volte lasciai che si consumassero. Mentre pregavo, mentre sognavo, giunsi a una netta conclusione: volevo quel compagno mortale proprio perché mi ero insinuato nel mondo mortale. Se non avessi mai messo piede nella bottega di Botticelli, quella folle
solitudine non mi avrebbe mai assalito. Si era mescolata al mio amore per tutte le arti, e in particolare per la pittura, e al mio desiderio di stare vicino ai mortali che si cibavano graziosamente delle creazioni di quel periodo come io mi cibavo di sangue. Confessai anche che la mia educazione di Amadeo era quasi giunta al termine. Svegliandomi, ascoltai grazie alle mie potenti facoltà psichiche i movimenti e i pensieri di Amadeo, che distava solo poche centinaia di chilometri. Stava ubbidendo alle mie istruzioni: passava le ore notturne sgobbando sui libri senza mai andare da Bianca. In realtà rimaneva nella mia camera, perché non conosceva più il semplice cameratismo con gli altri ragazzi. Cosa potevo dargli per indurlo a lasciarmi? Cosa potevo dargli per insegnargli in modo più totale a essere il compagno che bramavo con tutta l'anima? Entrambi i quesiti mi tormentavano. Alla fine architettai un piano: Amadeo doveva superare un ultimo test, e nel caso avesse fallito lo avrei consegnato al mondo mortale con un'agiatezza e una posizione invidiabili. Non sapevo ancora come fare, ma non la ritenevo un'impresa difficile. Era maturata in me l'intenzione di rivelargli in quale modo mi nutrivo. Naturalmente la questione del test era una menzogna: una volta che mi avesse visto mentre mi cibavo, mentre uccidevo, come poteva passare incolume a un'esistenza mortale, per quanto fossero ampie la sua cultura, raffinatezza e ricchezza? Non appena mi posi quella domanda rammentai la mia squisita Bianca, che rimaneva saldamente al timone della propria nave a dispetto delle coppe avvelenate che distribuiva. Tutto ciò, malvagità e astuzia, costituiva la sostanza delle mie preghiere. Stavo chiedendo ad Akasha ed Enkil il permesso di trasformare il fanciullo in un bevitore di sangue? Stavo chiedendo il permesso di rivelargli i segreti di quel santuario antico e immutabile? Se lo feci, non ebbi risposta. Akasha mi donò solo la sua serenità senza sforzo, ed Enkil la sua solennità. L'unico suono fu quello prodotto dai miei movimenti, mentre mi alzavo, mentre baciavo i piedi di Akasha, mentre mi ritiravo e mi chiudevo alle spalle l'immenso portale e ne tiravo il chiavistello. Quella sera c'erano vento e neve sulle montagne. Tutto era gelido, candido e puro.
Fui felice di tornare a Venezia nel giro di pochi minuti, benché anche la mia amata città fosse fredda. Non appena raggiunsi la mia camera, Amadeo mi si gettò tra le braccia. Gli coprii di baci la testa e poi la bocca tiepida, lasciandolo senza fiato e infine, con il più minuscolo dei morsi, gli donai il Sangue. «Ti piacerebbe essere ciò che sono io, Amadeo?» chiesi. «Ti piacerebbe restare immutato per sempre? Ti piacerebbe vivere un segreto per l'eternità?» «Sì, Maestro», rispose con febbrile abbandono. Mi prese il viso tra le mani tiepide. «Datemelo, Maestro. Pensate che non vi abbia riflettuto sopra? So che leggete nelle nostre menti. Lo voglio, Maestro. Come si fa? Maestro, sono vostro.» «Trova il mantello più pesante che possa proteggerti dall'inverno», gli dissi. «Poi raggiungimi sul tetto.» Sembrò passare solo un istante, prima di vederlo arrivare. Guardai verso il mare. Soffiava un forte vento. Mi chiesi se Amadeo lo trovasse sgradevole; gli lessi la mente e misurai la sua passione. Guardandolo negli occhi castani capii che si era lasciato alle spalle il mondo mortale, forse più agevolmente di qualsiasi altro essere umano io avessi potuto cogliere dal mio giardino, perché quei ricordi continuavano a suppurargli dentro, nonostante la sua completa disponibilità a credere in me. Lo presi tra le braccia e, coprendogli il viso, lo portai in uno squallido quartiere di Venezia in cui ladri e mendicanti dormivano dove potevano. I canali puzzavano di immondizia e pesci morti. Dopo pochi minuti trovai una vittima mortale e, lasciando di stucco Amadeo, afferrai il miserabile con velocità soprannaturale, mentre cercava di pugnalarmi, e me lo accostai alle labbra. Lasciai che il ragazzo vedesse gli scaltri denti con cui forai la gola del disgraziato, poi chiusi gli occhi e divenni Marius il bevitore di sangue, Marius l'assassino dei malfattori, e il sangue fluì dentro di me, e non mi importò più che Amadeo fosse un testimone, che si trovasse lì. Alla fine, lasciai cadere silenziosamente il cadavere nelle sudice acque del canale. Mi voltai, sentendo il sangue nel viso e nel petto e facendomelo scorrere lentamente nelle mani. Avevo la vista offuscata e sapevo che stavo sorridendo, un sorriso non crudele, capisci, ma segreto e superiore a qualsiasi cosa il ragazzo avesse mai visto.
Quando alla fine lo guardai, vidi solo il suo sbalordimento. «Non hai lacrime da versare per quell'uomo, Amadeo?» chiesi. «Non hai domande sul destino della sua anima? È morto senza l'estrema unzione. È morto solo per me.» «No, Maestro», rispose, e un sorriso gli danzò sulle labbra come fosse una fiammella scaturita dal mio. «Quello che ho visto è meraviglioso, Maestro. Cosa mi importa del corpo o dell'anima di quell'uomo?» Ero troppo arrabbiato per replicare. Non aveva scorto alcuna lezione in quell'atto! Lui era troppo giovane, la notte troppo buia, l'uomo troppo disgraziato, e tutto ciò che avevo previsto si era ridotto a un niente. Lo avvolsi di nuovo nel mio mantello, coprendogli il viso perché non vedesse nulla mentre viaggiavamo silenziosi nell'aria, sorvolando i tetti e poi frantumando abilmente e silenziosamente una finestra ai piani alti, le cui imposte erano chiuse per tenere fuori la fredda aria notturna. Mi allontanai dall'apertura attraversando le stanze sul retro della casa, finché non ci ritrovammo nella camera semibuia e sontuosa di Bianca; grazie alle porte aperte dei saloni davanti a noi la vidi dare le spalle agli ospiti per dirigersi verso di noi. «Perché siamo qui, Maestro?» domandò Amadeo. Guardò verso i saloni, impaurito. «Lo rivedrai, così da poterlo capire», annunciai rabbiosamente. «Lo vedrai tra coloro che sosteniamo di amare.» «Ma come, Maestro?» chiese. «Cosa state dicendo? Cosa intendete fare?» «Do la caccia ai malfattori, figliolo», gli spiegai. «Scoprirai che qui c'è un male ricco come quello racchiuso nel poveretto che ho gettato nelle acque scure, senza che venisse confessato o compianto.» Bianca ci raggiunse, chiedendoci con estremo garbo come fossimo arrivati nelle sue stanze private. I suoi occhi chiari mi fissarono con aria interrogativa. Cominciai subito ad accusarla. «Diglielo, mia amata bellezza», la sollecitai, in tono sommesso, perché la compagnia riunita non si accorgesse di noi, «digli quali terribili atti si celano dietro la tua delicata compostezza. Digli quale veleno hanno bevuto gli ospiti sotto il tuo tetto.» Rimase imperturbabile mentre replicava: «Mi fate infuriare, Marius. Vi presentate qui in modo improprio. Mi accusate senza alcuna autorità. Lasciatemi e tornate con gli stessi modi gentili con cui siete venuto tante vol-
te, prima d'ora». Amadeo stava tremando. «Vi prego, Maestro, andiamocene. Non proviamo altro che amore per Bianca.» «Oh, ma io preferirei avere qualcosa di più dell'amore per lei», gli spiegai. «Vorrei avere il suo sangue.» «No, Maestro», sussurrò lui. «Vi supplico.» «Sì, perché è sangue malvagio», continuai, «e quindi ancora più gustoso, per me. Berrei la stoffa di cui sono fatti gli assassini. Raccontagli, Bianca, del vino misto a veleno e delle vite a cui hai messo fine per conto di coloro che ti hanno trasformato nello strumento dei loro piani più crudeli.» «Andatevene subito», ripeté lei, senza rivelare la benché minima traccia di paura. I suoi occhi lampeggiavano. «Marius de Romanus, non potete giudicarmi. Non voi con i vostri poteri magici, non voi con i vostri ragazzi. Non dirò null'altro, se non che dovete lasciare subito la mia casa.» Feci per prenderla tra le braccia. Non sapevo a che punto mi sarei fermato, sapevo solo che dovevo mostrare ad Amadeo l'orrore della cosa, che doveva vederlo, doveva vedere la sofferenza, il dolore. «Maestro», sussurrò lui, cercando di frapporsi tra noi. «Rinuncerò per sempre alle mie richieste, se soltanto non le farete del male. Capite? Smetterò di supplicarvi. Lasciatela andare.» La tenni stretta, guardandola e annusando il dolcissimo profumo della sua giovinezza, dei suoi capelli, del suo sangue. «Prendetela e io morirò con lei, Maestro», disse Amadeo. Era sufficiente, più che sufficiente. Mi allontanai da Bianca. Mi sentivo stranamente confuso. La musica nelle stanze divenne semplice rumore. Credo di essermi seduto sul letto. La mia sete di sangue era terribile. Avrei potuto ucciderli tutti, pensai, guardando gli ospiti riuniti, dopo di che parlai. «Tu e io siamo assassini insieme, Bianca.» Vidi che Amadeo stava piangendo. Dava le spalle alla compagnia riunita. Il suo viso scintillava di lacrime. E lei, la profumata e splendida giovane dalle trecce bionde, venne a sedermisi accanto, con estrema audacia, e mi prese la mano. «Siamo assassini insieme, mio signore», confermò, «sì, posso parlare per me stessa come avete richiesto. Ma, sapete, gli incarichi mi vengono assegnati da quanti mi manderebbero agevolmente all'inferno nello stesso modo. Sono loro che preparano le pozioni per il vino fatale, sono loro a scegliere chi lo berrà. Non ne conosco i motivi. So solo che se non ubbidi-
sco morirò.» «Allora dimmi chi sono, mio squisito tesoro», le chiesi. «Ho fame di loro. Non puoi nemmeno immaginare quanta.» «Sono miei parenti, signore», dichiarò. «Tale è stato il mio retaggio. Tale è stata la mia famiglia. Tali sono stati i miei guardiani qui.» Aveva cominciato a piangere, ma mi si aggrappò come se all'improvviso, per lei, la mia forza fosse l'unica verità, e mi resi conto che era davvero così. Le mie minacce di pochi istanti prima erano riuscite soltanto a legarla ancora più strettamente a me. Amadeo si avvicinò, incitandomi a uccidere chiunque la tenesse alla sua mercé, chiunque la rendesse infelice, a dispetto dei legami di sangue. La strinsi, mentre chinava il capo. Nella sua mente, che riusciva così spesso a confondermi, lessi i nomi come se fossero scritti a chiare lettere. Conoscevo quegli uomini, tutti fiorentini venuti spesso a farle visita. Quella sera avevano organizzato un banchetto in una casa vicina. Prestavano denaro, li si sarebbe potuti definire banchieri, ma gli uomini che uccidevano erano quelli da cui si erano fatti prestare soldi che non volevano restituire. «Ti sbarazzerai di loro, mio tesoro», le promisi. La sfiorai con le labbra. Bianca si voltò per darmi innumerevoli e violenti piccoli baci. «E cosa vi dovrò, in cambio?» chiese, mentre mi baciava, mentre allungava le mani per accarezzarmi i capelli. «Basterà che tu non dica nulla su quanto hai visto in me stasera.» Mi fissò con i tranquilli occhi a mandorla e chiuse la mente come se non intendesse rivelarmi mai più i suoi pensieri. «Avete la mia parola, mio signore», sussurrò. «E così la mia anima si fa ancora più pesante.» «No, mi farò carico io di quel fardello», replicai mentre ci preparavamo ad andarcene. Come parvero tristi le sue lacrime improvvise. La baciai, assaggiandole, rimpiangendo che non fossero sangue e giurando di rinunciare per sempre al sangue che scorreva dentro di lei. «Non piangere per chi ti ha usato», mormorai. «Torna alla gaiezza e alla musica. Lascia a me i cupi incarichi.» Trovammo i fiorentini ubriachi intorno ai resti del banchetto; non badarono a noi quando entrammo senza presentazioni né spiegazioni e ci sedemmo al tavolo ingombro. Una chiassosa banda di musici stava suonan-
do. Il pavimento era reso scivoloso dal vino versato. Amadeo era impaziente, colmo di eccitazione, attento alla mia lenta e metodica seduzione di ognuno di loro, mentre bevevo avidamente il sangue e lasciavo che i corpi crollassero in avanti sul tavolaccio scricchiolante. I musici si diedero alla fuga. Nel giro di un'ora avevo ucciso tutti i parenti di Bianca, e solo per l'ultimissimo di loro, quello che aveva parlato più a lungo con me, completamente ignaro di quanto gli stava succedendo intorno, solo per lui Amadeo supplicò e pianse. Dovevo forse mostrare pietà per quell'uomo quando aveva il cuore colpevole come tutti gli altri? Restammo seduti da soli nella sala devastata, i cadaveri disseminati tutt'intorno a noi, il cibo freddo sui piatti e sui vassoi d'oro e d'argento, il vino che gocciolava dai calici rovesciati, e per la prima volta, mentre Amadeo piangeva, gli lessi la paura negli occhi. Mi guardai le mani. Avevo bevuto talmente tanto sangue che sembravano umane e sapevo che, se mi fossi guardato allo specchio, avrei visto il viso florido di un uomo. Il calore dentro di me era delizioso e insopportabile, e il mio più grande desiderio era prendere Amadeo e renderlo subito uno di noi, eppure eccolo seduto lì davanti a me, con le lacrime che gli rigavano il viso. «Sono tutti scomparsi», dichiarai, «coloro che tormentavano Bianca. Vieni con me. Lasciamo questa scena cruenta. Mi piacerebbe passeggiare con te in riva al mare, prima che sorga il sole.» Mi seguì come potrebbe fare un bambino, le lacrime che gli macchiavano il volto mentre continuavano a scorrere. «Asciugati le lacrime», gli consigliai con foga. «Stiamo per uscire nella piazza. È quasi l'alba.» Infilò la mano nella mia, mentre scendevamo la scalinata di pietra. Lo cinsi con un braccio, riparandolo dal forte vento. «Maestro, erano malvagi, vero?» mi chiese in tono supplichevole. «Ne eravate sicuro. Lo sapevate.» «Sì, tutti», confermai. «Ma a volte uomini e donne sono sia buoni sia malvagi», aggiunsi, «e mi chiedo chi sono io per scegliere con chi di loro saziare il mio crudele appetito. Eppure lo faccio. Bianca non è forse buona e al contempo malvagia?» «Maestro, se bevo il sangue dei malvagi diventerò come voi?» domandò. Eravamo fermi davanti al portale chiuso di San Marco. Il vento soffiava spietato dal mare. Avviluppai ancora più strettamente Amadeo nel mio
mantello, e lui mi posò la testa sul petto. «No, figliolo», risposi, «la cosa è molto più magica di così.» «Dovete darmi il vostro sangue, Maestro, non è vero?» chiese, mentre mi guardava dal basso, con le lacrime limpide e scintillanti nell'aria gelida, i capelli arruffati. Non risposi. «Maestro», aggiunse, «molti anni fa, o almeno così mi sembra, in un luogo remoto dove ho vissuto prima di venire da voi, ero ciò che veniva definito un Giullare di Dio. Non lo ricordo bene e non ci riuscirò mai, come entrambi sappiamo. «Ma un Giullare di Dio era un uomo che si donava interamente a Dio, senza curarsi di quanto succedeva intorno a lui, che fossero canzonature, disprezzo o risate incessanti, e nemmeno del terribile gelo. Quello lo ricordo, rammento che a quell'epoca ero un Giullare di Dio.» «Eppure dipingevi quadri, Amadeo, dipingevi splendide icone...» «Ascoltatemi, Maestro», ribatté in tono deciso, riducendomi al silenzio, «qualunque cosa facessi ero un Giullare di Dio, e ora vorrei essere il vostro.» Si interruppe, rannicchiandosi ancor più contro di me, mentre il vento aumentava d'intensità. La nebbia avanzava sopra le pietre. Dalle navi giungevano segnali sonori. Cominciai a parlare, ma lui allungò una mano per fermarmi. Come sembrava ostinato e forte, seducente, totalmente mio. Ripensai a quanto aveva appena detto. «Adesso vai a casa, Amadeo», gli dissi. «Sai che sta per sorgere il sole, e io devo lasciarti quando spunta.» Annuì perplesso, come se per la prima volta lo giudicasse un dettaglio importante, anche se non sapevo come avesse fatto a non pensarci prima. «Vai a casa e studia insieme agli altri, parla con loro e guida i più piccini durante i giochi. Se ci riesci - se riesci a passare dal banchetto insanguinato alla risata dei bambini - quando torno, stasera, lo farò. Ti renderò uguale a me.» Lo guardai allontanarsi nella nebbia. Si diresse verso il canale dove avrebbe trovato la gondola lo avrebbe ricondotto fino alla nostra porta. «Un Giullare di Dio», sussurrai, abbastanza forte perché la mia mente potesse sentirlo, «sì, un Giullare di Dio. E in un miserabile monastero hai dipinto delle immagini sacre, convinto che la tua vita non contasse nulla se non fosse fatta di sacrificio e sofferenza. Adesso nella mia magia vedi una simile, ardente purezza, e sei disposto a rinunciare a tutte le ricchezze che
la vita ti può dare per quella purezza; rinunci a tutto ciò che un essere umano può avere.» Ma era davvero così? Amadeo ne sapeva abbastanza per prendere una simile decisione? Poteva rinunciare per sempre al sole? Non conoscevo la risposta. Ormai non era la sua decisione a contare, perché io avevo preso la mia. Quanto alla mia radiosa Bianca, in seguito i suoi pensieri mi furono sempre preclusi, come se conoscesse il trucco al pari di un'astuta strega. La sua devozione, amore e amicizia erano tutt'altra cosa. 21 A Venezia, il posto in cui dormivo durante il giorno era uno splendido sarcofago di granito, sistemato in una camera ben nascosta che si trovava appena sopra il livello dell'acqua, in un palazzo disabitato di mia proprietà. La stanza era rivestita d'oro, una magnifica celletta con tanto di torce e una scalinata che saliva fino a una porta che soltanto io potevo aprire. Uscendo dal palazzo si doveva scendere una rampa di scalini fino al canale... sempre che si stesse camminando, cosa che io, naturalmente, non facevo. Alcuni mesi prima avevo ordinato un altro sarcofago altrettanto bello e pesante, in modo che due bevitori di sangue potessero giacere insieme in quella sala, e fu da quel dorato luogo di riposo che mi alzai, la sera seguente. Capii immediatamente che la mia casa era in preda al tumulto. Sentii i lamenti lontani dei ragazzi più giovani e le frenetiche preghiere di Bianca. Sotto il mio tetto si era compiuta una carneficina. Naturalmente pensai che fosse legata ai fiorentini che avevo massacrato e, mentre correvo al mio palazzo, mi maledissi per non essere stato più cauto durante quell'azione spettacolare. Ma nulla avrebbe potuto essere più lontano dal vero. Mentre scendevo di corsa dal tetto, nessuno ebbe bisogno di spiegarmi che un lord inglese violento e ubriaco aveva fatto irruzione in casa mia cercando Amadeo, per il quale nutriva una passione proibita e in un certo senso alimentata dal flirtare a cui il ragazzo si era dedicato durante le saltuarie notti in cui non ero presente. Insieme a quella consapevolezza assimilai in fretta l'orribile notizia che lord Harlech aveva crudelmente e sfrenatamente ucciso bambini di non più
di sette anni prima di affrontare in duello lo stesso Amadeo. Naturalmente quest'ultimo sapeva usare sia la spada che il pugnale e aveva rapidamente battuto il malvagio, brandendoli entrambi. In realtà l'aveva ucciso, ma non prima che l'altro gli sfregiasse viso e braccia con una lama avvelenata. Entrai nella camera da letto dove trovai Amadeo privo di conoscenza e in preda a una febbre fatale. Dei preti lo assistevano e Bianca gli tergeva il viso con una pezzuola umida. C'erano candele accese ovunque. Amadeo indossava gli stessi abiti della notte precedente, con la manica tagliuzzata nel punto in cui era stato ferito al braccio. Non essendoci altro da fare, i preti gli avevano già impartito l'estrema unzione; Riccardo e gli insegnanti stavano piangendo. Non appena mi vide, Bianca mi venne incontro. Il suo bel vestito era macchiato di sangue e il suo viso era pallido. «Ha lottato per ore», disse. «Ha parlato di visioni. Ha attraversato un immenso mare e visto una fantastica città celeste. Ha visto che tutte le cose sono fatte d'amore. Tutte! Capite?» «Sì», risposi. «Ha visto una città di vetro, così l'ha descritta», continuò lei, «fatta d'amore come tutte le cose. Ha visto preti della sua terra natale, e questi preti gli hanno detto che non è ancora tempo che raggiunga la città. Lo hanno rimandato indietro.» Si appellò a me. «Hanno ragione i preti che ha visto, vero?» chiese. «Non è ancora giunta la sua ora.» Non le risposi. Bianca tornò accanto ad Amadeo e io mi piazzai dietro di lei. La osservai mentre gli tamponava di nuovo la fronte. «Amadeo», disse, con voce tranquilla e stentorea, «respira per me, respira per il tuo Maestro. Amadeo, respira per me.» Vidi che lui cercava di ubbidire. I suoi occhi si aprirono, ma non vedevano nulla. La pelle aveva lo stesso colore dell'avorio antico. I capelli erano pettinati all'indietro, scostati dal viso; la ferita sul volto causata dalla lama di lord Harlech appariva maligna. «Lasciatemi solo con lui», chiesi gentilmente a tutti i presenti. Nessuno protestò. Sentii chiudersi la porta a doppio battente.
Mi chinai e, lacerandomi la lingua come avevo fatto così spesso, lasciai colare il sangue sul taglio crudele. Mi meravigliai quietamente vedendolo rimarginarsi. Amadeo aprì di nuovo gli occhi. Mi vide e parlò. «È Marius», bisbigliò. Durante tutto il tempo che avevamo trascorso insieme non mi aveva mai chiamato per nome. «Marius è venuto. Perché i preti non me l'hanno detto? Mi hanno detto solo che non era ancora giunta la mia ora.» Gli sollevai il braccio dove la lama di lord Harlech aveva provocato un profondo taglio che baciai con il sangue curativo, assistendo di nuovo al miracolo. Il ragazzo fu scosso da un tremito. Stava soffrendo, e per un attimo fece una smorfia, poi si immobilizzò come se stesse dormendo più profondamente. Il veleno gli stava divorando le interiora. Riuscivo a scorgerne le crudeli tracce. Stava morendo, a dispetto di quanto sostenevano le visioni, e ormai nessun lieve e tenero bacio di sangue poteva salvarlo. «Hai creduto alle loro parole?» chiesi. «Hai creduto che non fosse ancora arrivata l'ora della tua morte?» Dolorosamente, aprì gli occhi. «Maestro, mi hanno restituito a voi», affermò. «Oh, se solo riuscissi a ricordare tutto quello che mi hanno detto, ma mi hanno avvisato che l'avrei dimenticato. Perché mai sono stato condotto qui, Maestro?» Parlare gli costava molta fatica, ma non riuscii a zittirlo. «Perché sono stato prelevato da una terra lontana e portato a voi? Ricordo di aver cavalcato nelle praterie. Ricordo mio padre. E tra le braccia, mentre cavalcavo, stringevo un'icona che avevo dipinto. Mio padre era un magnifico cavaliere e un grande guerriero, ma su di noi calarono gli uomini malvagi, i tartari, e mi catturarono, e Maestro... l'icona cadde tra l'erba alta. Ora lo so. Credo che abbiano ucciso mio padre, quando mi hanno portato via.» «L'hai visto, figliolo, mentre sognavi quelle cose?» chiesi. «No, Maestro, ma non ricordo bene.» All'improvviso cominciò a tossire, poi smise e respirò a fondo come se fosse l'unica cosa che aveva la forza di fare. «So che ho dipinto l'icona e che fummo inviati nelle praterie per sistemarla in un albero. Era un gesto sacro. Le praterie erano pericolose, ma mio padre vi andava sempre a caccia. Nulla lo spaventava, e io sapevo ca-
valcare bene quanto lui. Maestro, ora conosco la storia di tutta la mia vita, la conosco eppure non riesco a raccontarvela...» A un tratto tacque, e fu scosso nuovamente da un tremito. «Questa è la morte, Maestro», sussurrò, «eppure loro dicevano che non era ancora giunta la mia ora.» Sapevo che ormai la sua vita veniva misurata in secondi. Avevo mai amato qualcuno più di lui? Avevo mai messo più a nudo la mia anima per qualcuno? Se adesso versavo delle lacrime, Amadeo le avrebbe viste. Se tremavo, se ne sarebbe accorto. Molto tempo prima ero stato fatto prigioniero proprio come era successo a lui! Forse era proprio quello il motivo per cui l'avevo scelto: il fatto che alcuni ladri lo avessero prelevato dalla sua vita, come io ero stato prelevato dalla mia? Così avevo pensato di dargli il magnifico dono che era l'eternità! Non ne era forse degno sotto qualsiasi punto di vista? Sì, era giovane, ma poteva forse danneggiarlo il fatto di restare bello in eterno, con l'aspetto di un giovanotto? Non era Botticelli. Non era un uomo di smisurato talento e immensa fama; quello che stava morendo era un ragazzo che pochi avrebbero ricordato, oltre a me. «Come hanno potuto sostenere che non era giunta la mia ora?» sussurrò. «Ti hanno rimandato da me!» boccheggiai. Non riuscivo a sopportarlo. «Amadeo, hai creduto ai preti che hai visto? Hai creduto alla città di vetro? Dimmelo!» Sorrise. E, per quanto bellissimo, il suo sorriso non fu innocente. «Non piangete per me, Maestro», ribatté. Sgranò gli occhi, sforzandosi di sollevarsi lentamente dai cuscini. «Da quando l'icona è caduta, il mio destino è segnato, Maestro.» «No, Amadeo, non ci credo», replicai. Ma non c'era più tempo. «Vai da loro, figliolo, vai da loro!» gridai. «Chiedigli di prenderti adesso.» «No, Maestro. Possono anche essere creature senza sostanza», affermò. «Possono anche essere sogni della mia mente febbricitante. Fantasmi fasciati dagli abiti della memoria. Ma so cosa siete voi, Maestro. Voglio il Sangue. L'ho assaggiato. Voglio restare con voi. E se me lo negate, allora lasciatemi! Rimandate da me Bianca, la mia infermiera mortale, Maestro, perché mi conforta molto meglio di quanto facciate voi nella vostra fred-
dezza. Preferisco morire solo con lei.» La testa gli ricadde sui cuscini, esausta. Mi lacerai disperatamente la lingua riempiendomi la bocca di sangue. Glielo diedi. Ma il veleno si stava muovendo troppo in fretta. Lui sorrise mentre il sangue lo scaldava e una pellicola rossastra gli velava gli occhi. «Splendido Marius», disse, come se fosse molto più vecchio di quanto io sarei mai stato. «Splendido Marius che mi avete dato Venezia. Splendido Marius, datemi il Sangue.» Non avevamo più tempo. Io stavo piangendo pietosamente. «Vuoi davvero ricevere il Sangue, Amadeo?» chiesi. «Dimmelo, dimmi che rinuncerai per sempre alla luce del sole e che prospererai in eterno grazie al sangue dei malfattori, come me.» «Lo giuro», ribatté. «Vivrai per sempre, immutabile?» domandai. «Nutrendoti di mortali che non possono più essere tuoi fratelli e sorelle?» «Sì, per sempre immutabile», rispose, «tra loro, benché non siano più miei fratelli e sorelle.» Gli diedi di nuovo il bacio di sangue, poi lo presi in braccio e lo portai verso la vasca da bagno. Gli tolsi i pesanti e sudici vestiti di velluto e lo immersi nell'acqua tiepida dove, con il sangue che mi usciva dalla bocca, rimarginai tutte le ferite inferte da lord Harlech. Poi rasai per sempre qualunque barba potesse avere. Adesso era pronto per la magia come chi fosse stato preparato per un sacrificio. Il suo cuore batteva lentamente e le palpebre erano ormai troppo pesanti per consentirgli di aprire gli occhi. Gli infilai una semplice, lunga tunica di seta e lo portai fuori dalla stanza. Gli altri stavano aspettando ansiosamente. Non so quali bugie raccontai loro. Com'ero folle in quegli istanti. A Bianca affidai il solenne incarico di consolare e ringraziare tutti e spiegai che la vita di Amadeo era al sicuro nelle mie mani. «Ora lasciaci, mia cara», le chiesi. La baciai, mentre continuavo a stringere Amadeo. «Fidati di me e io farò in modo che tu non debba mai soffrire.» Vidi che credeva in me. Non provava più nessun timore. Dopo pochi istanti Amadeo e io restammo soli.
Lo condussi nel più maestoso salotto affrescato: era la stanza in cui avevo copiato lo splendido dipinto di Gozzoli, La cavalcata dei Magi, rubato all'originale di Firenze per testare la mia memoria e la mia abilità. Lo accostai agli intensi colori e variazioni dell'affresco, mettendolo in piedi sul freddo marmo e poi dandogli, tramite il bacio di sangue, la più cospicua quantità di sangue che io avessi mai donato. Con i miei poteri accesi i candelabri su un lato della stanza e poi sull'altro. Il dipinto venne inondato di luce. «Ora puoi reggerti in piedi, mio benedetto allievo», gli dissi. «Il mio sangue scorre dentro di te, cercando il veleno. Abbiamo cominciato.» Lui tremò, non osando staccarsi da me, la testa che ciondolava pesantemente in avanti, i folti capelli soffici sotto le mie mani. «Amadeo», continuai, baciandolo di nuovo, mentre il sangue scorreva sulle mie labbra e nella sua bocca, «qual era il tuo nome in quella terra perduta?» Mi riempii nuovamente la bocca di sangue e glielo diedi. «Recupera il passato, bambino, e rendilo parte del futuro.» Sgranò gli occhi. Mi scostai da lui. Lo lasciai in piedi. Mi slacciai il mantello di velluto rosso e lo gettai via. «Vieni da me», dissi. Tesi le braccia. Amadeo fece i primi passi, insicuro, talmente pieno del mio sangue da trovare sicuramente sbalorditiva la luce stessa, ma i suoi occhi si stavano muovendo sulla moltitudine di figure dipinte sul muro. Poi mi guardò. Com'era saggia e intelligente la sua espressione! Come sembrava improvvisamente trionfante, lui, nel suo silenzio e nella sua pazienza! Come sembrava totalmente dannato! «Vieni, Amadeo, vieni a prenderlo da me», lo sollecitai, con gli occhi colmi di lacrime. «Sei tu il vincitore. Prendi ciò che ho da dare.» Mi si gettò subito tra le braccia, e io lo strinsi con affetto, sussurrandogli all'orecchio. «Non aver paura, figliolo, nemmeno per un istante. Ora morirai mentre ti prendo il sangue e poi te lo restituisco. Non ti lascerò scivolare via.» Gli affondai i denti nella gola e sentii il gusto del veleno non appena il suo sangue fluì dentro di me. Il mio corpo eliminava la sostanza letale, consumava agevolmente il sangue di Amadeo come avrebbe potuto consumare una dozzina di giovani come lui, e la mente mi si riempì di visioni della sua fanciullezza: del monastero russo in cui aveva dipinto le sue icone perfette, delle gelide stanze in cui aveva vissuto.
Vidi monaci quasi sepolti vivi, che digiunavano, nutrendosi solo del minimo indispensabile per sopravvivere; sentii l'odore del terriccio, il tanfo della decomposizione. Oh, com'era spaventosa la strada verso la salvezza. E lui ne aveva fatto parte, parzialmente innamorato delle celle sacrificali e dei suoi abitanti che morivano di fame, se non fosse stato per il suo dono: sapeva dipingere. Poi, per un attimo, non vidi altro che i suoi dipinti, le immagini che si susseguivano rapidamente, volti rapiti di Cristo, la Vergine, vidi le aureole tempestate di gemme preziose. Ah, simili ricchezze in quel monastero buio e senza gioia. Subito dopo risuonò l'oscena risata di suo padre: voleva che lasciasse il monastero e che lo accompagnasse nelle praterie dove cavalcavano i tartari. Il principe Michail, il loro governante, voleva inviare il padre di Amadeo nelle praterie. Era una missione assurda. I monaci inveirono contro di essa, inveirono contro il fatto che il padre del ragazzo volesse esporlo a un simile pericolo. Avvolsero l'icona in una pezza di tessuto e la consegnarono ad Amadeo che, dall'oscurità e dall'aspra terra del monastero, uscì nella luce. Mi fermai. Mi ritrassi dal sangue e dalle visioni. Lo conoscevo. Conoscevo l'inesorabile e disperata tenebra dentro di lui. Conoscevo la vita che era stata prevista per lui, una vita all'insegna della fame e della rigida disciplina. Mi incisi la carne della gola e vi accostai la sua testa. «Bevi», ordinai. Gliela spinsi in avanti. «Posa la bocca sulla ferita. Bevi.» Finalmente mi ubbidì e, all'improvviso, succhiò il sangue con tutta la sua forza. Non ne aveva assaggiato abbastanza per desiderarlo? Adesso sgorgò copioso, e lui lo bramava. Chiusi gli occhi, provando una squisita dolcezza che non assaporavo sin dalla lontana notte in cui avevo dato il sangue alla mia benedetta Zenobia, per renderla ancora più forte. «Sii mio figlio, Amadeo», sussurrai in mezzo a quella dolcezza. «Sii mio figlio per sempre. Ho mai amato qualcuno più di te?» Lo staccai dalla ferita e, mentre urlava, gli affondai di nuovo i denti nella gola. Stavolta fu il mio sangue mescolato al suo a fluire dentro di me. Il veleno era scomparso. Vidi nuovamente le icone; vidi i bui corridoi del monastero e poi, sotto una nevicata, vidi ancora i due a cavallo: Amadeo e il padre. Amadeo stringeva l'icona; un prete gli correva accanto, spiegandogli che doveva sistemarla in un albero dove i tartari l'avrebbero trovata e considerata un miracolo. Amadeo appariva innocente per essere un cavaliere tanto audace,
per essere stato scelto per accompagnare il padre nella missione del principe Michail, mentre la neve cadeva fitta, mentre il vento gli sferzava i capelli. Quindi fu la tua rovina. Lasciatela alle spalle, adesso. L'hai vista per quello che era. Guarda il favoloso dipinto sul muro, Amadeo. Guarda le ricchezze che ti ho donato. Guarda la gloria e la virtù che risiedono nella bellezza, variegate e splendide come ciò che vedi qui. Lo lasciai andare. Fissò il dipinto. Mi premetti di nuovo le sue labbra sulla gola. «Bevi», ordinai. Ma non aveva bisogno di sentirselo dire. Mi si aggrappò con forza. Conosceva il sangue così come io conoscevo lui. Quante volte ci passammo il sangue a vicenda? Non lo so. So solo che, non avendolo mai fatto completamente dopo quella lontanissima notte nella foresta dei druidi, preferii non correre rischi e trasformai Amadeo nel novizio più forte che potessi creare. Mentre beveva nuovamente da me, gli impartii le mie lezioni, gli rivelai i miei segreti. Gli raccontai delle facoltà che una notte avrebbe potuto scoprire dentro di sé. Gli raccontai del mio antico amore per Pandora. Gli raccontai di Zenobia, di Avicus, di Mael. Gli rivelai tutto tranne il segreto finale. Quello preferii tenerglielo nascosto. Oh, ringrazio gli dei di non averglielo svelato, di essermelo tenuto vicino al cuore! Ben prima che giungesse il mattino era tutto finito. La pelle di Amadeo era straordinariamente pallida e gli occhi scuri fieramente brillanti. Gli passai le dita tra i capelli ramati. Ancora una volta mi sorrise con espressione saggia, con quieta aria di trionfo. «Ora è completo, Maestro», dichiarò, come se stesse parlando a un bambino. Tornammo insieme in camera, dove lui indossò gli eleganti abiti di velluto, poi andammo a cacciare. Gli insegnai come trovare le vittime, come usare le doti medianiche per assicurarsi che fossero malfattori, e rimasi con lui durante le poche ore della sua morte come essere umano. I suoi poteri erano semplicemente immensi. Non sarebbe passato molto tempo prima che riuscisse a volare, e non fui in grado di trovare un test che la sua forza non riuscisse a superare. Non era solo in grado di leggere le menti dei mortali, ma anche di incantare questi ultimi. La sua mente divenne per me inaccessibile, benché si trattasse di un fe-
nomeno che non riuscivo ancora ad accettare fino in fondo. Ovviamente era successo anche con Pandora, eppure speravo che non si verificasse con Amadeo e glielo spiegai solo con riluttanza. Ormai ero costretto a leggere le sue espressioni facciali, i suoi gesti, la profondità dei suoi occhi castani riservati e leggermente crudeli. Non era mai stato più bello, naturalmente. Dopo aver fatto tutto ciò, lo condussi alla mia stessa tomba, nella stanza dorata che ospitava i due sarcofagi che ci aspettavano, e gli mostrai come doveva dormire durante il giorno. Non si spaventò. In realtà, non aveva paura di nulla. «Cosa mi dici ora dei tuoi sogni, Amadeo?» gli chiesi, mentre lo stringevo tra le braccia. «Cosa mi dici dei tuoi preti e della lontana città di vetro?» «Maestro, ho raggiunto il paradiso», replicò. «Venezia in tutto il suo splendore cos'è stata per me se non il preludio al Sangue?» Come avevo già fatto un migliaio di volte, gli diedi il bacio di sangue, che lui ricevette per poi ritrarsi sorridendo. «Com'è diverso, ora», commentò. «Dolce o amaro?» chiesi. «Oh, dolce, dolcissimo, perché avete esaudito i desideri del mio cuore. Ora mi tirate insensibilmente dietro di voi grazie a un filo insanguinato.» Lo stritolai nel mio caldo abbraccio. «Amadeo, amore mio», sussurrai, e sembrò che i lunghi secoli da me sopportati non fossero stati altro che una preparazione per tutto ciò. Mi apparvero antiche immagini, brandelli di sogni. Nulla contava se non Amadeo. E Amadeo era lì con me. Scivolammo separatamente nel sonno, e mentre chiudevo gli occhi temevo soltanto una cosa: che quella beatitudine terminasse. 22 I mesi che seguirono trascorsero all'insegna di una libertà e di un piacere che non avrei mai potuto immaginare. Amadeo era davvero il mio compagno e anche il mio allievo. Lo costrinsi con dolce disciplina a imparare tutto ciò che pensavo dovesse sapere, il che includeva lezioni di diritto e arte del governo, di storia e filosofia, e anche le mie lezioni su come essere un bevitore di sangue, a cui lui si dedicava con un'allegra solerzia che superava persino i miei sogni.
Avevo temuto l'eventualità che, essendo giovane, volesse nutrirsi degli innocenti, ma quando gli spiegai che, in tal caso, il senso di colpa gli avrebbe ben presto annientato l'anima, scoprii che mi dava retta; seguì le mie istruzioni su come cibarsi del male senza permettergli di oscurare la sua anima. Era anche un allievo diligente quando gli insegnavo come frequentare gli esseri umani, e ben presto si sentì abbastanza forte da intavolare conversazioni con i ragazzi mortali. In realtà, divenne rapidamente abilissimo nell'ingannarli, proprio come me, e benché loro intuissero che qualcosa era cambiato in lui, non sapevano cosa fosse, né potevano saperlo, e non osavano mettere a repentaglio la pace della nostra splendida casa nemmeno con i dubbi più vaghi. Persino Riccardo, il più grande degli apprendisti, non nutriva veri e propri sospetti, se non quello che il suo Maestro fosse un potente mago e che la magia avesse salvato la vita di Amadeo. Ma adesso dovevamo affrontare la nostra amata Bianca, che non avevamo più visto dopo quella tragica notte, e sapevo che per lui sarebbe stata la prova più ardua. Cosa avrebbe pensato Bianca della rapida guarigione di Amadeo dopo averlo visto in punto di morte? Cosa avrebbe provato posando gli occhi su di lui, sulla sua pelle luminosa e gli occhi scintillanti? Come avrebbe reagito Amadeo quando l'avesse guardata negli occhi? Per me non era certo un segreto che lui l'adorava, anzi, che l'aveva amata tanto quanto me. Quindi dovevamo andare da lei. Avevamo già rimandato fin troppo a lungo quella visita. Una sera andammo a trovarla senza preavviso, dopo esserci nutriti a sazietà per poterci sentire caldi e poterlo sembrare. Non appena entrammo nella sua stanza, notai la tensione provocata in Amadeo dall'impossibilità di raccontarle cosa gli era successo, e solo in quel momento capii come trovasse arduo mantenere quel segreto e come, a dispetto di tutta la sua forza, fosse ancora giovane e persino debole. Il suo stato d'animo era motivo di allarme, molto di più di quello di Bianca, che parve soltanto felice di vederlo ristabilito. A vederli insieme sembravano fratello e sorella. Naturalmente ripensai al voto che avevo estorto ad Amadeo quando l'avevo trasformato in vampiro e desiderai di poterlo prendere da parte per rammentarglielo. Ma ci trovavamo nel salotto di Bianca ed erano presenti molti altri ospiti, con tutta la musica e la conversazione abituali.
«Venite nella mia camera», ci invitò lei. Il suo bel viso ovale era radioso. «Sono così felice di vedervi. Perché non siete venuti prima? Naturalmente tutti, qui a Venezia, sapevano che Amadeo era guarito e che lord Harlech era tornato in Inghilterra, ma avreste dovuto scrivermi se non potevate venire.» La subissai di scuse. Dissi che era stata colpa della mia sconsideratezza non averle mandato una lettera. Ma ero stato troppo preoccupato per la salute di Amadeo per curarmi d'altro. «Oh, vi perdono, Marius», dichiarò. «Vi perdonerei qualsiasi cosa, guardando Amadeo: è come se non fosse mai stato in fin di vita.» Accettai con gratitudine il suo abbraccio, ma notai la sofferenza di Amadeo quando Bianca lo baciò e gli prese la mano. Non riusciva a sopportare l'abisso che li separava, ma era costretto a farlo, quindi non diedi cenno di volermene andare. «Tu come stai, mia bellissima infermiera?» le chiesi. «Tu che hai tenuto la vita di Amadeo appesa a un filo finché non ho potuto raggiungerlo. Tu e i tuoi parenti siete felici?» Proruppe in una fioca risata. «Oh, sì, i miei parenti... alcuni di loro sono andati incontro a uno sventurato destino. Anzi, mi pare di capire che il Gran Consiglio di Venezia ritenga che siano stati assassinati da coloro a cui richiedevano cospicui pagamenti. I miei parenti non sarebbero mai dovuti venire a Venezia con i loro progetti malvagi. Ma io non ho alcuna colpa, come tutti sanno. Me l'hanno detto i membri del Gran Consiglio. E forse non ci crederete, ma sono più ricca a causa di tutto ciò.» Naturalmente lo capivo molto bene. Chiunque dovesse dei soldi ai suoi miserabili parenti le aveva portato ricchi doni, dopo il loro assassinio. Bianca era più ricca di quanto fosse mai stata. «Ora sono una donna felice», mormorò, guardandomi. «Sono una persona completamente diversa, perché assaporo una libertà che prima era inimmaginabile.» I suoi occhi esaminarono bramosamente Amadeo e me. Io percepii il desiderio che emanava. Lo percepii mentre ci guardava, intuii che bramava una nuova familiarità. Mi raggiunse e, cingendomi con le braccia, mi baciò. Mi affrettai a staccarla da me e a tenerla scostata, ma il gesto la spinse solo ad abbracciare Amadeo, che baciò sulle guance e sulla bocca. Indicò il letto. «Tutta Venezia si interroga sul mio mago e il suo apprendista», spiegò
con foga. «E loro vengono da me, soltanto da me.» Con lo sguardo le espressi tutto il mio amore, le indicai la mia disponibilità a oltrepassare i limiti, se lei non lo vietava categoricamente, e passandole accanto andai a sedermi sul letto. Non mi ero mai preso una simile libertà, ma conoscevo i suoi pensieri. Era abbagliata da noi, ci idolatrava. Com'era bella con i lucenti abiti di seta e i gioielli. Venne a sedermisi accanto, si rannicchiò contro di me e parve non aver timore per ciò che avrebbe potuto vedere guardandomi negli occhi. Amadeo rimase stupefatto, tuttavia prese posto alla sua destra. Anche se si era nutrito in abbondanza, avvertii la sua fame di sangue e il suo strenuo sforzo di dominarla. «Lascia che ti baci, mio squisito tesoro», dissi. E così feci, fidando che la luce tenue e le mie dolci parole l'avrebbero confusa; naturalmente, Bianca vedeva solo ciò che voleva vedere: non una terribile creatura che travalicava la sua comprensione, ma un uomo misterioso che le aveva reso un servigio incalcolabile e l'aveva trasformata in una donna ricca e libera. «Sarai sempre al sicuro, Bianca, fintanto che ci sono io», le assicurai. La baciai due, tre volte. «Aiutami ad aprire di nuovo la mia casa, Bianca, con cibo e intrattenimenti ancora più splendidi. Aiutami a organizzare il ricevimento più sontuoso che Venezia abbia mai visto. Allestiremo anche magnifici spettacoli e danze. Aiutami a riempire le mie numerose stanze.» «Sì, Marius, vi aiuterò», promise con fare assonnato, la testa appoggiata contro di me. «Sarò molto felice di farlo.» «Ti darò tutto il denaro necessario. E Vincenzo eseguirà le tue istruzioni alla lettera. Basta che tu mi dica quando vuoi che si tenga.» Mentre parlavo la guardai negli occhi, poi la baciai e, pur non osando farle assaggiare nemmeno una goccia del mio sangue, soffiai in lei il mio fiato freddo e le trafissi la mente con il mio desiderio. Nel frattempo, avevo infilato la mano destra sotto le sue gonne e trovato i suoi dolci, nudi segreti, accarezzandoli agevolmente con le dita, il che la infiammò subito di repentino e palese desiderio. Amadeo era confuso. «Baciala», sussurrai. «Baciala di nuovo.» Ubbidì e la riempì di baci. Mentre le mie dita la stringevano e accarezzavano, mentre i baci di Amadeo si facevano più ardenti, Bianca avvampò giungendo al culmine della passione e ricadde morbidamente sul braccio di lui.
Mi ritrassi, baciandole la fronte come se lei fosse di nuovo casta. «Ora riposa», le dissi, «e ricorda che sei al sicuro da quei parenti malvagi e che io ti sarò eternamente debitore perché hai tenuto in vita Amadeo fino al mio arrivo.» «È stato davvero merito mio, Marius?» chiese. «Non sono stati i suoi strani sogni?» Si rivolse ad Amadeo. «Hai parlato più e più volte di luoghi meravigliosi, di coloro che ti hanno ordinato di tornare da noi.» «Non erano che ricordi imprigionati in una ragnatela di paure», mormorò lui. «Prima di rinascere a Venezia ho vissuto a lungo un'esistenza austera e crudele. Sei stata tu a riportarmi indietro da un imprecisato margine di coscienza che precede la morte.» Lei lo fissò, stupita. Come soffriva, Amadeo, nel non poterle dire cos'era. Ma Bianca, avendone accettate le parole, ci permise di aiutarla a sistemarle l'abito e i capelli scompigliati, come fossimo comuni domestici. «Ora ti lasciamo», annunciai, «daremo subito inizio ai preparativi per il ricevimento. Lascia che ti mandi Vincenzo.» «Sì, e vi prometto che quella sera la vostra casa sarà più splendida persino del palazzo del doge, vedrete», ribatté. «Mia principessa», dissi prima di baciarla. Lei tornò ai suoi ospiti e noi scendemmo rapidamente le scale. Sulla gondola, Amadeo cominciò con le suppliche. «Marius, non sopporto questa separazione da lei, e il fatto di non poterglielo dire.» «Amadeo, non toccare più l'argomento!» gli intimai. Quando arrivammo in camera e chiudemmo la porta a chiave, iniziò a piangere disperatamente. «Maestro, non ho potuto dirle nulla di quanto mi è successo! A Bianca racconterei sempre tutto. Oh, non certo il segreto di voi e me, o i baci di sangue, no, ma altre cose. Spesso, durante il giorno, a vostra insaputa, mi sono recato da lei. Era mia amica, Maestro, non lo sopporto. La consideravo mia sorella.» Singhiozzava come un bambino. «Ti avevo avvisato, ricordi?» chiesi furibondo. «E ora piangi come un lattante?» In preda alla rabbia, lo schiaffeggiai. Lui ricadde all'indietro, scioccato, ma le lacrime divennero ancora più copiose. «Maestro, perché non possiamo renderla uguale a noi? Perché non pos-
siamo condividere il Sangue con lei?» Lo afferrai rudemente per le spalle. Non ebbe paura delle mie mani. Non gli importava. «Amadeo, ascoltami. Non possiamo cedere a questo desiderio. Ho vissuto per un migliaio di anni e più senza creare nessun bevitore di sangue e ora tu, a pochi mesi dalla tua metamorfosi, vorresti trasformare in vampiro il primo mortale per cui provi un amore smodato?» Stava piangendo amaramente. Cercò di sottrarsi alla mia stretta, ma non glielo permisi. «Avrei tanto voluto parlarle delle cose che vedo con questi nuovi occhi!» sussurrò. Le lacrime di sangue gli rigarono le guance da adolescente. «Avrei tanto voluto raccontarle come tutto il mondo è cambiato.» «Amadeo, conosci il valore di ciò che possiedi e il prezzo che devi pagare. Per due anni ti ho preparato per il Sangue, e anche così il suo dono è stato troppo rapido, stimolato dalla lama avvelenata di lord Harlech. E ora vorresti conferire un simile potere a Bianca? Perché? Perché vorresti farle sperimentare ciò che è successo a te?» Lo lasciai andare. Lasciai che cadesse in ginocchio accanto al letto, spargendo le sue lacrime, mentre mi andavo a sedere allo scrittoio. «Per quanto tempo pensi che io abbia vagato su questa terra?» domandai. «Sai quante volte mi si è affacciata alla mente, in maniera sconsiderata e sfrenata, l'idea di creare un altro bevitore di sangue? Eppure non l'ho fatto, Amadeo. Non finché ho posato gli occhi su di te. Te lo ripeto, Bianca non deve diventare ciò che noi siamo.» «Invecchierà e morirà!» sussurrò lui. I singhiozzi gli scuotevano le spalle. «Dobbiamo assistere a un simile orrore? Dobbiamo solo rimanere a guardare? E lei cosa penserà di noi, con il passare degli anni?» «Amadeo, smettila. Non puoi trasformarli tutti in ciò che siamo. Non puoi crearli uno dopo l'altro senza coscienza o immaginazione. Non puoi! Per tutti dev'esserci preparazione, apprendimento, disciplina. Per tutti dev'esserci cura.» Alla fine si asciugò le lacrime. Si alzò e si voltò a guardarmi. Sembrava pervaso da una calma terribile, una calma infelice e cupa. Dalle labbra gli sgorgò una domanda solenne: «Perché avete scelto me, Maestro?» chiese. Il quesito mi atterrì, e temo che lui se ne sia accorto prima che riuscissi a nasconderlo. E mi stupì scoprirmi del tutto impreparato a rispondere. All'improvviso non provai la benché minima tenerezza nei suoi confronti, perché sembrava così forte, in piedi lì, così sicuro di sé e della domanda
che aveva appena posto. «Non mi hai forse chiesto il Sangue, Amadeo?» replicai freddamente. Stavo tremando. Come lo amavo, e come desideravo che non lo sapesse. «Oh, sì, signore», replicò con voce fioca, tranquilla, «ve l'ho chiesto, ma è successo dopo numerosi assaggi del vostro potere, vero?» Si interruppe per un attimo. «Perché avete scelto me per quei baci? Perché avete scelto me per il dono finale?» «Ti amavo», dissi senza ulteriori sforzi. Lui scosse il capo. «Dubito che sia tutto qui», dichiarò. «Allora illuminami», risposi. Si avvicinò e mi guardò dall'alto, mentre restavo seduto alla scrivania. «In me c'è un gelo acuto», spiegò, «un gelo che arriva da una terra lontana. E nulla riesce mai a dissiparlo davvero. Nemmeno il Sangue. Sapevate di questo gelo. Avete tentato un migliaio di volte di attenuarlo per trasformarlo in qualcosa di più brillante, ma non ci siete mai riuscito. Poi, la notte in cui sono giunto vicino alla morte - no, in cui in realtà stavo morendo - avete contato sul fatto che quel freddo mi conferisse l'energia necessaria per il Sangue.» Annuii. Distolsi lo sguardo, ma lui mi posò la mano sulla spalla. «Guardatemi, signore, vi prego», disse. «Non è così?» Aveva un'espressione serena. «Sì», confermai. «Perché vi ritraete da me quando faccio questa domanda?» insistette lui. «Amadeo», replicai in tono fermo, «è una maledizione, questo Sangue?» «No», si affrettò a dichiarare. «Rifletti prima di rispondere. È una maledizione?» replicai. «No», ripeté lui. «Allora smettila con le domande. Non cercare di farmi infuriare o di amareggiarmi. Lascia che ti insegni quello che ho da insegnare.» Aveva perso quella piccola battaglia e si allontanò da me, sembrando ancora una volta un bambino, benché i diciassette anni come mortale lo avessero reso maturo. Si arrampicò sul letto e ripiegò le gambe sotto di sé, restando immobile nell'alcova di taffettà rosso e luce rossastra. «Riportatemi a casa, Maestro», mi chiese. «Riportatemi in Russia dove sono nato. Potete accompagnarmici, lo so. Avete quel potere. Potete trovare il luogo.»
«Perché, Amadeo?» «Devo vederlo per dimenticarlo. Devo sapere con certezza che esisteva... che cos'era.» Riflettei a lungo prima di rispondere. «Benissimo. Mi racconterai tutto quello che rammenti e io ti porterò dove vuoi andare. E nelle mani della tua famiglia umana potrai lasciare qualunque ricchezza tu desideri.» Non disse nulla. «Ma i tuoi segreti resteranno celati, come i nostri segreti restano celati per chiunque.» Annuì. «E poi torneremo.» Amadeo annuì di nuovo. «Tutto questo accadrà dopo il grande ricevimento che Bianca organizzerà. Quella sera danzeremo con i nostri invitati. Tu danzerai ripetutamente con lei. Dobbiamo usare tutta la nostra abilità per sembrare umani tra gli ospiti. E io conterò su di te, così come conto su Bianca o Vincenzo. Il ricevimento lascerà tutta Venezia in preda a un timore reverenziale.» Lui abbozzò un sorriso e mi rivolse un altro cenno d'assenso. «Ora sai cosa voglio da te», dichiarai. «Voglio che tu sia un amico ancora più affettuoso per i ragazzi. E voglio che tu vada da Bianca ancora più spesso, dopo esserti nutrito, certo, e quando hai la pelle rubizza, e che non le dica nulla, nulla della magia grazie alla quale sei stato salvato.» Annuì. «Pensavo...» sussurrò. «Cosa?» chiesi. «Pensavo che se avessi avuto il Sangue avrei avuto tutto», affermò. «E ora so che non è così.» 23 Qualunque sia la durata della nostra esistenza, serbiamo alcuni ricordi, momenti che il tempo non riesce a cancellare. La sofferenza può anche alterare gli sguardi che rivolgo al passato, ma ci sono ricordi che non perdono nemmeno un briciolo del loro fascino o del loro splendore a causa della sofferenza, ricordi che rimangono solidi come pietre preziose. È quello che capita a me riguardo alla notte del più sublime ricevimento di Bianca, e lo definisco così perché fu lei a crearlo, sfruttando semplice-
mente la ricchezza e le stanze del mio palazzo per il suo maggiore trionfo, a cui parteciparono tutti gli apprendisti e nel quale persino l'umile Vincenzo ebbe un ruolo di spicco. Tutta Venezia partecipò al nostro interminabile banchetto e si godette i canti e le danze, mentre i ragazzi davano vita a numerosi tableaux maestosamente rappresentati. Sembrava che ogni stanza disponesse di propri cantori e di magnifiche rappresentazioni, la musica del liuto, del virginale e di una dozzina di altri strumenti si fondeva per creare gli adorabili canti che cullavano e incantavano tutti, mentre i ragazzi più giovani, con indosso magnifici costumi, si aggiravano per la casa riempiendo le coppe con il vino contenuto in caraffe dorate. Amadeo e io danzammo senza posa, camminando con cura e grazia come prescriveva la moda dell'epoca - in realtà si passeggiava a tempo di musica, più che ballare - prendendo per mano numerose bellezze veneziane, come la nostra amata artefice della festa. Molte volte la allontanai dalla luce delle candele per dirle quanto la amassi per la sua capacità di creare una simile magia. A forza di suppliche, la spinsi a promettere che l'avrebbe rifatto ancora e ancora. Ma esisteva qualcosa di paragonabile a quella notte in cui danzai e mi aggirai tra ospiti mortali che commentavano gentilmente ed ebbramente i miei quadri, talvolta chiedendomi come mai avessi raffigurato questo o quel soggetto? Come in passato, nessuna parola critica mi colpì con forza il cuore. Sentivo solo il calore affettuoso di occhi mortali. Quanto ad Amadeo, non lo persi mai di vista, notando solo che era al settimo cielo, mentre osservava tutto quello splendore con gli occhi di un vampiro, divinamente eccitato dalle rappresentazioni teatrali in cui i ragazzi interpretavano magnificamente i loro ruoli. Aveva seguito il mio consiglio di continuare ad amarli, e quella sera, in mezzo ai candelabri sfavillanti e alla musica soave, era raggiante di felicità, e non appena poteva mi sussurrava all'orecchio che non poteva chiedere nulla di più splendido. Essendoci nutriti in precedenza, lontano da lì, eravamo riscaldati dal sangue e potevamo contare su una vista perfetta. Quindi la notte ci apparteneva, nella nostra forza e felicità, e la magnifica Bianca era nostra e soltanto nostra, come tutti gli uomini presenti sembravano sapere. Solo all'approssimarsi dell'alba gli ospiti cominciarono a congedarsi, salendo sulle loro gondole allineate davanti alla porta d'ingresso. Da parte
nostra, fummo costretti a sottrarci all'incombenza di salutarli, perché era giunto il momento di raggiungere la sicurezza della nostra tomba foderata d'oro. Amadeo mi abbracciò, prima di sdraiarci nei sarcofagi. «Vuoi ancora affrontare il viaggio per recarti nella tua terra natale?» gli chiesi. «Sì, voglio andarci», si affrettò a rispondere. Mi guardò con aria triste. «Vorrei poter dire di no. Stanotte, tra tutte le notti possibili, vorrei poter dire di no.» Era depresso, e io non potevo accettarlo. «Ti ci porterò.» «Ma non conosco il nome del luogo, non posso...» «Non hai alcun bisogno di torturarti, al riguardo», affermai. «L'ho scoperto grazie a tutto quello che mi hai raccontato. È la città di Kiev, e ti accompagnerò molto presto.» Sul viso gli apparve un'espressione di luminoso riconoscimento. «Kiev», disse, poi lo ripeté in russo. Ormai sapeva che quella era stata la sua casa. La notte seguente gli narrai la storia. Un tempo Kiev era una magnifica città dove sorgeva una cattedrale che era stata costruita per rivaleggiare con l'Hagia Sophia di Costantinopoli, da cui era giunto il cristianesimo. Il cristianesimo greco ne aveva plasmato le credenze e l'arte, che erano fiorite splendidamente in quel luogo stupendo. Poi erano arrivati i mongoli: avevano saccheggiato quella grande città e massacrato la sua popolazione, annientandone per sempre il potere e lasciandosi alle spalle qualche casuale superstite, tra cui i monaci. Cosa restava della magnifica Kiev eretta lungo la riva del fiume Dnepr? Solo un posto miserabile, dove la famosa cattedrale era rimasta in piedi ed era ancora abitata dai monaci. Amadeo ascoltò in silenzio quelle notizie e io gli lessi sul viso la pura infelicità. «Nel corso della mia lunga vita», spiegai, «ho già visto una simile rovina. Città magnifiche vengono create da uomini e donne che hanno dei sogni. Poi arrivano i cavalieri del Nord e dell'Est che calpestano e distruggono la loro magnificenza; tutto quello che è stato creato non esiste più. Paura e infelicità seguono la distruzione. E in nessun luogo è più chiaramente visibile che nelle rovine della tua patria, Kiev Rus.» Vidi che mi stava ascoltando. Intuii che voleva che continuassi a spiegare. «Esiste attualmente, nella nostra bella Italia, una terra che non sarà più
saccheggiata da quei barbari guerrieri, perché essi non minacciano più le frontiere settentrionali o orientali dell'Europa. Molto tempo fa si sono insediati nel continente diventando la popolazione della Francia, della Britannia e della Germania odierne. Coloro che volevano continuare con la devastazione e gli stupri sono stati respinti per sempre. Ora, in tutta Europa, la sola cosa che gli stranieri possono fare è di visitare e riscoprire le città. «Ma, nella tua terra, Amadeo, c'è ancora tristezza e una grande miseria. Le fertili praterie sono diventate inutili - migliaia di chilometri di praterie sono inutili! - se non per un cacciatore pazzo come doveva esserlo tuo padre. È il retaggio di Gengis Khan: un mostro!» Mi interruppi. Cominciavo ad accalorarmi troppo. «L'Orda Dorata, è così che chiamano quella terra, ora non è altro che una landa desolata di splendida erba.» Amadeo annuì. Rivide l'enorme distesa erbosa. Glielo lessi negli occhi solenni. «Vuoi ancora andarci?» gli chiesi insistentemente. «Vuoi ancora rivisitare il luogo in cui hai sofferto tanto?» «Sì», sussurrò. «Anche se non la rammento, avevo una madre. E senza mio padre, per lei non rimane niente. Lui è sicuramente morto il giorno in cui siamo stati assaliti. È sicuramente morto sotto la gragnuola di frecce. Ricordo le frecce. Devo andare da lei.» Si interruppe come se si stesse sforzando di ricordare. All'improvviso gemette, come se fosse stato umiliato da un acuto dolore fisico. «Com'è tetro e incolore il loro mondo.» «Sì», confermai. «Permettetemi di portare loro una piccola quantità...» «Rendili ricchi, se è questo che desideri.» Dopo un lungo istante di silenzio fece una breve confessione, mormorandola come se la indirizzasse a se stesso. «Devo vedere il monastero dove ho dipinto le icone. Devo vedere il luogo dove talvolta pregavo di trovare la forza di farmi murare vivo. Sapete che era quella la tradizione del luogo, vero?» «Lo so benissimo», affermai. «L'ho visto quando ti ho dato il Sangue. Ti ho visto percorrere i corridoi, fornendo sostentamento a quanti vivevano ancora nelle celle, quasi sepolti vivi e in attesa che la volontà di Dio li prendesse, mentre si lasciavano morire di fame. Ti chiedevano quando avresti trovato il coraggio di imitarli, benché tu sapessi dipingere icone assolutamente straordinarie.» «Sì.»
«E tuo padre li odiava perché non ti lasciavano dipingere, perché volevano fare di te soprattutto un monaco.» Mi guardò come se non l'avesse capito fino in fondo, prima di quell'istante, e forse era davvero così. Poi dalle labbra gli uscì una dichiarazione più energica. «Succede lo stesso in ogni monastero, e lo sapete, Maestro», ribatté. «La volontà di Dio viene prima di tutto.» Rimasi leggermente scioccato dalla sua espressione. Stava parlando a suo padre o a me? Impiegammo quattro notti per raggiungere Kiev. Avrei potuto coprire la distanza molto più rapidamente se fossi stato solo, ma trasportavo Amadeo stringendolo a me, sotto il mio mantello foderato di pelliccia che lo fasciava per ripararlo dal vento come meglio potevo. Finalmente, al tramonto del quinto giorno, raggiungemmo le rovine della città che un tempo era stata Kiev Rus. Avevamo gli abiti impolverati e i mantelli scuri e scialbi, il che ci avrebbe aiutato a passare inosservati tra gli umani. Una spessa coltre di neve ammantava gli alti bastioni abbandonati e copriva i tetti del palazzo di legno del principe; sotto i bastioni, semplici case di legno scendevano fino al Dnepr - la città di Podil. Non avevo mai visto un luogo più miserabile. Subito dopo essere penetrato nella dimora lignea del governante europeo e aver visto con soddisfazione quel lituano che versava un tributo al Khan per poter esercitare il suo potere, Amadeo volle raggiungere il monastero. Vi si infilò grazie alla sua straordinaria capacità di sfruttare le ombre e confondere chiunque potesse vederlo mentre restava addossato alle mura di fango. Gli rimasi sempre vicino, ma non spettava a me interferire o istruire. In realtà ero attanagliato dal terrore perché il posto sembrava infinitamente peggiore di quanto avessi immaginato sondando la mente febbricitante di Amadeo. Con silenziosa infelicità rivide la stanza in cui aveva creato le icone, con i tavoli e le ciotole di colore; rivide i lunghi corridoi di fango che aveva percorso quando era un giovane monaco, fornendo cibo e bevande ai sepolti vivi. Alla fine uscì, tremante, e mi si aggrappò. «Sarei morto in una cella di fango», sussurrò, guardandomi, supplican-
domi di capire com'era importante. Aveva il viso contorto dalla sofferenza. Poi si voltò e scese verso il fiume parzialmente gelato, in cerca della casa in cui era nato. La trovò senza problemi e vi entrò nelle sue vesti di splendido veneziano, abbagliando e confondendo la famiglia là riunita. Ancora una volta mi tenni a distanza, accontentandomi del silenzio e del vento, e delle voci che riuscivo a udire con le mie orecchie soprannaturali. Nel giro di pochi minuti Amadeo consegnò loro un autentico patrimonio in monete d'oro e uscì di nuovo sotto la neve. Allungai una mano per afferrargli un braccio e consolarlo, ma mi diede le spalle. Non voleva guardarmi. Qualcosa lo ossessionava. «C'era mia madre», sussurrò, mentre fissava ancora una volta il fiume sottostante. «Non mi ha riconosciuto. Così sia. Ho dato loro quello che avevo da dare.» Cercai nuovamente di abbracciarlo, ma si divincolò. «Cosa c'è che non va, allora?» chiesi. «Perché fissi il vuoto? Perché guardi il fiume? Cosa vorresti fare?» Quanto avrei voluto leggergli la mente! Ma la sua mente, e soltanto la sua, mi era preclusa! E come appariva rabbioso e determinato. «Mio padre non è stato ucciso nelle praterie», spiegò con voce tremula, mentre il vento gli sferzava i capelli ramati. «È vivo. Si trova nella taverna laggiù.» «Vuoi vederlo?» «Devo farlo. Devo dirgli che non sono morto! Non li avete ascoltati mentre parlavano con me?» «No», risposi. «Ti ho concesso un po' di tempo solo con loro. Ho sbagliato?» «Hanno detto che è diventato un ubriacone perché non è riuscito a salvare il figlio.» Mi guardò in cagnesco come se gli avessi arrecato un terribile torto. «Mio padre, Ivan l'audace, il cacciatore. Ivan, il guerriero, il cantore di canti che tutti amavano, è diventato un ubriacone perché non è riuscito a salvare il figlio!» «Stai calmo. Andremo nella taverna. Puoi raccontargli l'accaduto a modo tuo...» Mi liquidò con un gesto della mano, come se lo stessi irritando, e imboccò la discesa con passo deciso. Entrammo insieme nella taverna buia e pervasa dall'odore di olio che bruciava. Pescatori, commercianti, assassini stavano bevendo insieme.
Tutti si accorsero di noi per un attimo e poi ci ignorarono, ma Amadeo notò subito un uomo steso su una panca in fondo all'unico stanzone rettangolare che costituiva il locale. Ancora una volta desiderai lasciarlo solo a fare ciò che voleva, ma avevo paura per lui e rimasi in ascolto mentre si sedeva accanto all'uomo addormentato. Era l'uomo della memoria e l'uomo delle visioni, me ne resi conto non appena lo osservai. Lo riconobbi dai capelli rossi e dai baffi e dalla barba dello stesso colore. Il padre di Amadeo, il cacciatore che un lontano giorno lo aveva sottratto al convento per portarlo con sé in una missione pericolosa, in cerca di un forte che i mongoli avevano già distrutto. Mi ritrassi nell'ombra. Rimasi a guardare, mentre il ragazzo fulgido si sfilava il guanto destro e posava la fredda mano soprannaturale sulla fronte del padre addormentato. Vidi l'uomo barbuto svegliarsi. Li sentii parlare. Lanciandosi in un'incoerente confessione da ubriaco, il padre dispensò una profusione di senso di colpa, come se essa appartenesse a chiunque lo ascoltava. Aveva scoccato una freccia dopo l'altra; aveva inseguito i feroci tartari brandendo la spada. Tutti gli altri membri del gruppo erano morti. E suo figlio, Amadeo, era stato rapito, e ormai lui era Ivan l'ubriacone, sì, lo ammetteva. Riusciva a stento a uccidere abbastanza selvaggina per comprarsi da bere, ma ora non era più un guerriero. Amadeo gli parlò con pazienza, lentamente, mettendo fine alle sue farneticazioni, rivelando la verità mediante parole scelte con cura. «Sono tuo figlio, mio signore. Non sono morto quel giorno. Sì, mi hanno preso, ma sono vivo.» Non l'avevo mai visto così ossessionato dall'amore o dall'infelicità, dalla gioia o dalla sofferenza. Ma l'uomo era ostinato, ubriaco, e voleva soltanto una cosa dallo sconosciuto che lo stava toccando: altro vino. Acquistai una bottiglia di vino bianco spagnolo per quell'uomo che non voleva ascoltare, che non voleva guardare lo squisito giovane che cercava di attirarne l'attenzione. Consegnai la bottiglia ad Amadeo e mi scostai da lui, addossandomi alla parete da cui potevo vederlo meglio in viso, su cui non lessi altro che ossessione. Doveva assolutamente farsi capire da quell'uomo. Parlò con pazienza, finché le sue parole penetrarono la foschia ebbra dietro la quale l'altro lo guardava. «Padre, sono venuto a dirtelo. Mi hanno portato in un luogo lontano,
nella città di Venezia, e sono finito nelle mani di un uomo che mi ha reso ricco, padre, ricco, e mi ha istruito. Sono vivo, signore. Sono come tu mi vedi adesso.» Oh, come suonò strano quel discorso, uscendo dalle labbra di chi possedeva il Sangue. Vivo? Com'era possibile, Amadeo? Ma tenni per me i miei pensieri nell'oscurità. Non svolgevo alcun ruolo in quell'incontro. Finalmente l'uomo, drizzandosi a sedere per osservare il figlio, cominciò a capire. Amadeo stava tremando, gli occhi fissi in quelli del padre. «Ora dimenticami, padre, ti prego», lo implorò. «Ma rammenta una cosa, per l'amor di Dio. Non verrò mai sepolto nelle fangose grotte del monastero. No. Possono accadermi altre cose, ma non dovrò affrontare quel destino. Grazie a te, che non l'hai permesso; grazie a te, che quel giorno sei venuto a esigere che io partissi con te!» Cosa stava mai dicendo? Cosa significavano quelle parole? Era sul punto di versare le terribili lacrime di sangue che non riusciamo mai a nascondere completamente ma, mentre si alzava dalla panca su cui era seduto il padre, quest'ultimo gli afferrò con forza la mano. Riconobbe il figlio! «Andrei», lo chiamò. Lo aveva finalmente riconosciuto. «Padre, ora devo andare», gli disse Amadeo, «ma tu non devi mai dimenticare che mi hai visto. Non devi mai dimenticare le mie parole, vale a dire che mi hai salvato da quelle grotte buie e fangose. Padre, mi hai dato la vita, non la morte. Smetti di essere un ubriacone. Ritorna a essere il cacciatore. Porta al principe la carne per il suo desco. Sii il cantore di canti. Ricorda che sono venuto a dirtelo di persona.» «Voglio te, figlio mio, rimani con me», replicò l'altro. Il languore alcolico lo aveva abbandonato e stringeva forte la mano del figlio. «Chi mai crederà che ti ho visto?» Amadeo aveva cominciato a piangere. L'uomo riusciva a vedere il sangue? Alla fine Amadeo si staccò da lui, si tolse il guanto e si sfilò tutti gli anelli, mettendoglieli tra le mani. «Ricordami grazie a questi», disse, «e spiega a mia madre che ero io l'uomo che è andato da lei stasera. Non mi ha riconosciuto. Dille che l'oro è autentico.» «Resta con me, Andrei», lo supplicò il padre. «Questa è la tua casa. Chi
è che ti porta via, adesso?» Era più di quanto Amadeo potesse sopportare. «Adesso vivo nella città di Venezia, padre», dichiarò. «È la mia città, e ora devo andare.» Uscì dalla taverna tanto rapidamente che il padre non se ne accorse. Capendo subito quali fossero le sue intenzioni l'avevo preceduto, ritrovandoci insieme nella fangosa stradina coperta di neve. «È tempo che lasciamo questo luogo, Maestro», mi disse. Aveva dimenticato i guanti nella taverna e il freddo era intenso. «Oh, vorrei tanto non essere mai venuto qui e non averlo visto, né aver scoperto che ha sofferto per la mia perdita.» «Guarda, arriva tua madre», replicai. «Ne sono sicuro. Ti ha riconosciuto, eccola che viene.» Indicai la figura minuta che si avvicinava, con un involto tra le mani. «Andrei», disse la donna quando ci raggiunse. «È l'ultima che hai dipinto. Andrei, avevo capito che eri tu. Chi altri sarebbe potuto venire se non mio figlio? Questa è l'icona che tuo padre ha riportato a casa il giorno in cui sei scomparso.» Perché Amadeo non la prendeva? «Devi tenerla tu, madre», affermò, riferendosi all'icona che un tempo aveva collegato al proprio destino. Stava piangendo. «Tienila per i piccoli. Io non voglio prenderla, no.» Lei si rassegnò, paziente. Poi gli consegnò un altro piccolo dono, un uovo dipinto: uno dei tesori di Kiev che significano così tanto per chi li decora con elaborati disegni. Con rapidità e gentilezza lui glielo tolse di mano, poi la abbracciò e con un fervido sussurro le assicurò di non aver compiuto alcun atto malvagio per acquisire la ricchezza che le aveva donato, e che forse, una notte, sarebbe riuscito a tornare. Oh, che dolci bugie. Mi accorsi tuttavia che, pur amando la donna, non la riteneva tanto importante. Sì, le aveva dato dell'oro, perché per lui non significava nulla, ma era il padre a contare davvero. Suo padre era importante, come un tempo lo erano stati i monaci. Era stato lui a suscitare in Amadeo le emozioni più forti, a indurlo a pronunciare parole audaci. Rimasi sbalordito da tutto. Ma non lo era persino Amadeo? Aveva creduto morto quell'uomo, e anch'io. Trovandolo vivo e vegeto, però, gli aveva rivelato la sua ossessione: suo padre aveva combattuto contro i monaci per l'anima del figlio.
Mentre tornavamo a Venezia, sapevo che l'amore di Amadeo per il padre era di gran lunga più profondo di qualunque amore avesse mai nutrito per me. Non ne parlammo, capisci, ma sapevo che era la figura del padre a regnare nel suo cuore. Era la figura di quel possente uomo barbuto, che aveva lottato così vigorosamente per la vita invece che per la morte entro le mura del monastero, ad avere la supremazia su tutti i conflitti che Amadeo avrebbe mai sperimentato. L'avevo vista con i miei stessi occhi, quell'ossessione. L'avevo vista solo per pochi istanti in una taverna sulla riva del fiume, ma l'avevo riconosciuta per ciò che era. Prima di quel viaggio in Russia avevo sempre pensato che la spaccatura nella mente di Amadeo riguardasse la ricca e variegata arte di Venezia, contrapposta all'arte severa e stilizzata della Russia. Ormai sapevo che non era così. La frattura dentro di lui era quella tra il monastero con le sue icone e la sua penitenza da una parte, e il padre dall'altra, il forte cacciatore che in quel giorno fatidico l'aveva trascinato lontano dal convento. Amadeo non menzionò mai più i genitori. Non menzionò mai più Kiev. Sistemò il bellissimo uovo dipinto nel suo sarcofago, senza mai spiegarmene il significato. E talvolta, la notte, quando dipingevo nel mio studio, lavorando ferocemente su questa o quella tela, veniva a tenermi compagnia e sembrava esaminare il mio operato con nuovi occhi. Quando si sarebbe deciso a impugnare i pennelli per dipingere? Non lo sapevo, ma una simile domanda non aveva più alcuna importanza. Era mio, e mio per sempre. Poteva fare ciò che preferiva. Eppure, silenziosamente, nel profondo dell'anima, sospettavo che mi disprezzasse. Tutto ciò che gli insegnavo in fatto di arte, storia, bellezza e civiltà non significava nulla per lui. Quando i tartari lo catturarono, quando l'icona gli cadde dalle braccia, non fu il suo destino a restarne segnato, ma la sua mente. Potevo vestirlo con abiti eleganti, insegnargli lingue diverse; lui poteva amare Bianca e danzare in modo squisito con lei seguendo una musica lenta e ritmata, e poteva imparare a parlare di filosofia e anche a scrivere poesie, ma la sua anima non riteneva sacro null'altro che l'arte antica e l'uomo che passava le notti e i giorni a bere, sdraiato accanto al Dnepr, a Kiev. E io, malgrado il mio potere e le mie lusinghe, non avrei mai potuto sostitui-
re il padre nella mente di Amadeo. Perché ero così geloso? Perché quella consapevolezza mi addolorava tanto? Lo amavo come avevo amato Pandora. Lo amavo come avevo amato Botticelli. Amadeo figurava tra i grandi amori della mia lunga vita. Tentai di dimenticare o ignorare la gelosia. Dopo tutto, cosa ci potevo fare? Avrei dovuto rammentargli quel viaggio e tempestarlo di domande? Non potevo scegliere una strada simile. Ma intuivo che quelle preoccupazioni erano pericolose per me, in quanto immortale, e che mai, prima di allora, una cosa del genere mi aveva tormentato o indebolito a tal punto. Mi ero aspettato che Amadeo, il bevitore di sangue, osservasse la propria famiglia con distacco, invece era successo tutt'altro! Dovevo ammettere che il mio amore per lui era strettamente legato al mio coinvolgimento con i mortali, al fatto che mi fossi tuffato nella loro compagnia, e lui stesso era ancora così disperatamente vicino agli esseri umani che avrebbe impiegato secoli ad acquisire quella distanza da loro che io avevo sperimentato la sera stessa in cui ricevetti il Sangue per la prima volta. Non c'era stata alcuna foresta dei druidi, per Amadeo. Non c'era stato nessun infido viaggio in Egitto, nessun salvataggio del re e della regina. In realtà, mentre vi riflettevo sopra rapidamente, decisi di non confidargli il segreto di Coloro-che-devono-essere-conservati, benché quelle parole mi fossero sfuggite di bocca un paio di volte. Forse, prima di renderlo immortale, avevo pensato di portarlo subito nel tempio, di supplicare Akasha di riceverlo come una volta aveva ricevuto Pandora, ma ormai ero di diverso avviso. Preferivo aspettare che progredisse ancora, che rasentasse maggiormente la perfezione, che diventasse più saggio. Eppure, ormai non era per me una compagnia e una consolazione più preziose di quanto avessi mai sognato? Persino se era di malumore restava con me. Persino se aveva gli occhi vitrei come se non scorgessero alcun valore negli abbaglianti colori dei miei dipinti, non mi rimaneva forse vicino? Sì, dopo il viaggio in Russia rimase per qualche tempo taciturno, ma sapevo che quello stato d'animo sarebbe passato. E infatti fu così. Dopo alcuni mesi, smise di essere indifferente e lunatico e tornò a essere il mio compagno; riprese a partecipare ai vari ricevimenti e balli organiz-
zati dai cittadini più in vista che frequentavo regolarmente, e a scrivere brevi poemi per Bianca e a discutere con lei dei vari dipinti da me realizzati. Ah, Bianca, come l'amavamo. E quanto spesso le sondavo la mente per assicurarmi che, persino a quel punto, non sospettasse minimamente che non fossimo esseri umani. Era l'unico mortale a cui permettevo di entrare nel mio studio, ma naturalmente non potevo lavorare con tutta la mia velocità e forza, quando si trovava lì. Dovevo sollevare un braccio mortale per impugnare il pennello, ma ne valeva ampiamente la pena, visto che potevo ascoltare i piacevoli commenti che lei scambiava con Amadeo, che scorgeva anch'egli nei miei lavori un maestoso disegno che in realtà non esisteva. Stava procedendo tutto a meraviglia quando, una notte, mentre scendevo dal tetto del palazzo da solo, avendo lasciato Amadeo in compagnia di Bianca, percepii che un giovanissimo mortale mi stava osservando dal tetto dell'edificio sulla riva opposta del canale. Ero sceso così rapidamente che neppure Amadeo avrebbe potuto vedermi, se avesse osservato la scena, eppure quel mortale lontano si avvide della mia presenza. Quando me ne resi conto, capii anche molte altre cose. Era una spia mortale che sospettava che io non fossi umano. Era una spia mortale che mi stava tenendo d'occhio da tempo. Mai, nel corso della mia lunga esistenza, avevo conosciuto una simile minaccia alla mia segretezza. Naturalmente fui tentato di concludere subito che la mia vita a Venezia fosse stata un fallimento. Rischiavo di essere smascherato, proprio quando pensavo di aver ingannato l'intera città. Ma quel giovane mortale non aveva nulla a che fare con l'elegante cerchia sociale in cui mi muovevo. Lo seppi non appena penetrai nella sua mente. Non era un illustre veneziano, un pittore, un ecclesiastico, un poeta, un alchimista e sicuramente non un membro del Gran Consiglio cittadino. Anzi, era una creatura davvero bizzarra, uno studioso del soprannaturale, qualcuno che spiava le creature come me. Cosa poteva significare? Di cosa poteva trattarsi? A quel punto, con l'intenzione di affrontarlo e terrorizzarlo, raggiunsi il giardino sul tetto e osservai lo sconosciuto; ne individuai la sagoma furtiva e vidi come intendeva nascondersi nell'ombra, com'era atterrito eppure affascinato. Sì, sapeva che ero un bevitore di sangue. In realtà, aveva una definizione precisa per me: vampiro. Mi stava tenendo d'occhio da parecchi anni! Mi
aveva intravisto in imponenti saloni e sale da ballo, quindi avrei dovuto imputare la cosa alla mia imprudenza. E, la notte in cui avevo aperto per la prima volta la mia casa ai veneziani, lui vi era entrato. La sua mente mi rivelò agevolmente tutto ciò senza che il giovane se ne accorgesse, è ovvio, e subito dopo gli inviai un messaggio molto diretto, grazie alle mie doti medianiche. È una follia. Interferisci con me e morirai. Non ti darò un secondo avvertimento. Allontanati da casa mia. Lascia Venezia. Vale la pena di sacrificare la tua vita per scoprire ciò che vuoi sapere di me? Lo vidi palesemente stupefatto per il messaggio telepatico. Poi, con profondo shock, ne ricevetti uno altrettanto chiaro da lui. Non vogliamo farti del male. Siamo studiosi. Offriamo comprensione. Offriamo un rifugio. Osserviamo e ci siamo sempre. Subito dopo si arrese al terrore e fuggì. Lo udii scendere le scale del palazzo e sbucare accanto al canale dove salì su una gondola che lo portò via. Ero riuscito a osservarlo attentamente: era alto, magro, con la carnagione chiara, un inglese, e indossava abiti neri dalla foggia severa. Ed era estremamente spaventato. Non alzò nemmeno gli occhi verso di me, mentre la gondola lo conduceva via. Rimasi a lungo sul tetto, godendomi il vento e meravigliandomi della sua silenziosità, chiedendomi cosa fare riguardo a quella bizzarra scoperta. Ripensai al chiaro messaggio dell'uomo e al potere mentale grazie al quale me l'aveva inviato. Studiosi? Che tipo di studiosi? E le altre parole. Assolutamente incredibile. Non so dirti come lo trovassi strano. Fui assalito dalla violenta consapevolezza che durante la mia lunga vita c'erano stati momenti in cui avrei trovato irresistibile quel messaggio, tanto era stata profonda la mia solitudine, tanto era stato intenso il mio desiderio di essere capito. Ma adesso, con l'intera Venezia che mi accoglieva nella sua cerchia più elitaria, non provavo le stesse sensazioni. Avevo Bianca quando volevo cianciare dell'opera di Bellini o del mio amato Botticelli. Avevo Amadeo con cui dividere la mia tomba dorata. In realtà stavo assaporando la mia età dell'oro. Mi chiesi se tutti gli immortali ne sperimentassero una. Mi chiesi se corrispondesse al fiore degli anni per i mortali: il periodo in cui sei più forte e riesci a vedere tutto con estrema chiarezza, il periodo in cui puoi concedere più sinceramente la tua
fiducia agli altri e tentare di crearti una felicità totale. Botticelli, Bianca, Amadeo, erano quelli gli amori della mia età dell'oro. Tuttavia, quella fatta dal giovane inglese era una promessa sbalorditiva: «Offriamo comprensione. Offriamo un rifugio. Osserviamo e ci siamo sempre». Decisi di ignorare la faccenda, di attenderne gli eventuali sviluppi, di non permetterle di ostacolarmi in alcun modo, mentre mi godevo la vita. Eppure, nelle settimane seguenti rimasi in ascolto per sentire la strana creatura, lo studioso inglese, e tenni sempre gli occhi aperti per individuarlo, mentre partecipavamo ai consueti eventi mondani sontuosi e rutilanti. Mi spinsi addirittura al punto di interrogare Bianca su quel tizio e avvisare Vincenzo che un uomo di quel genere avrebbe potuto cercare di attaccare bottone con lui e gli consigliai di agire con saggezza, in proposito. Il domestico riuscì a scioccarmi, riferendo che quell'individuo - un inglese alto e snello, giovane ma con capelli brizzolati - era già passato da casa nostra e lo aveva interrogato per sapere se al padrone di casa poteva interessare l'acquisto di alcuni volumi originali. «Erano libri di magia», spiegò Vincenzo, temendo che mi arrabbiassi. «Gli ho risposto che, se intendeva offrirveli, doveva portarli e lasciarli qui per permettervi di esaminarli.» «Pensaci bene. Cos'altro vi siete detti?» «Gli ho spiegato che avevate già molti, moltissimi volumi, che facevate spesso visita ai librai. Ha... ha visto i dipinti nel portego e ha chiesto se erano opera vostra.» Cercai di adottare un tono rassicurante. «E tu gli hai detto che erano opera mia, vero?» «Sì, signore. Mi dispiace, mi dispiace tanto se ho parlato troppo. Lui voleva comprare un quadro. Gli ho risposto che era impossibile.» «Non importa. Basta che tu stia attento, con quell'uomo. Non dirgli altro. E quando lo vedi avvertimi subito.» Mi ero già voltato per andarmene, quando mi venne in mente un'altra domanda e, girandomi, scoprii il mio amato Vincenzo in lacrime. Naturalmente gli assicurai subito che mi aveva servito in modo perfetto e non aveva motivo di preoccuparsi. Ma poi gli chiesi: «Che impressione ti ha fatto quest'uomo? Era buono o malvagio, secondo te?» «Buono, credo», rispose, «anche se non so che tipo di libri di magia intendesse vendere. Sì, buono, direi, davvero buono, ma non saprei spiegare il perché. Rivelava una spiccata gentilezza. Ha ammirato i quadri e li ha
lodati. Era estremamente garbato e piuttosto serio, per essere così giovane. Aveva l'aria di uno studioso.» «È sufficiente», dichiarai. Era vero. Non riuscii a trovare io sconosciuto, pur perlustrando la città. Ma non ne avevo paura. Due mesi dopo, in circostanze assai favorevoli, lo incontrai di nuovo. Stavo partecipando a un sontuoso banchetto in mezzo a una miriade di veneziani ubriachi che osservavano i giovani davanti a noi, impegnati in una danza misurata e rilassata. La musica era intensa e le lampade giusto abbastanza brillanti per conferire il più incantevole bagliore alla grande stanza. Avevamo già assistito a numerose pregevoli esibizioni di acrobati e cantori, e mi sentivo leggermente intontito, credo. Ricordo che stavo pensando nuovamente che quella fosse la mia età dell'oro; avevo intenzione di annotarlo sul diario, non appena fossi rincasato. Ero seduto con il gomito posato sul tavolo e mi reggevo la testa con la mano destra, mentre la sinistra giocherellava oziosamente con il bordo di una coppa da cui fingevo saltuariamente di bere. A un tratto, alla mia sinistra comparve lo studioso inglese. «Maestro», sussurrò e, rivelando una perfetta padronanza del latino classico, aggiunse: «Consideratemi un amico e non un ficcanaso, ve ne supplico. Vi osservo da lontano da parecchio tempo». Fui scosso da un forte tremito, sbalordito nell'accezione più pura del termine. Mi voltai a guardarlo e vidi i suoi occhi acuti e limpidi che mi fissavano senza timore, mentre mi giungeva ancora una volta il messaggio telepatico, senza parole, che la sua mente inviò con sicurezza alla mia. Offriamo un rifugio. Offriamo comprensione. Siamo studiosi. Osserviamo e ci siamo sempre. Il tremito divenne profondo. Tutti gli invitati intorno a me non se ne accorsero, ma a quell'uomo non sfuggì: lui sapeva. Mi passò una moneta d'oro su cui era stampigliata un'unica parola. Talamasca. La esaminai, tentando di celare il mio shock, poi chiesi educatamente, usando lo stesso latino classico: «Cosa significa?» «Siamo un ordine», spiegò lui, il suo latino fluente e affascinante. «Quello è il nostro nome: Talamasca. Siamo talmente antichi che non conosciamo le nostre origini o il motivo per cui ci chiamiamo così.» Parlava in tono calmo. «Ma il nostro scopo in ogni generazione è sempre stato
chiaro. Abbiamo le nostre regole e le nostre tradizioni. Osserviamo coloro che altri disprezzano e perseguitano. Conosciamo segreti a cui persino i più superstiziosi degli uomini rifiutano di credere.» La sua voce e i suoi modi erano estremamente eleganti, ma il potere della mente dietro le sue parole era davvero notevole. Il suo autocontrollo era sbalorditivo. Non poteva avere più di vent'anni. «Come mi hai trovato?» volli sapere. «Noi osserviamo costantemente», rispose, «e vi abbiamo visto quando avete sollevato davanti agli occhi il mantello rosso, per superare la luce delle fiaccole e la luce di stanze come questa.» «Ah, quindi per voi è iniziato tutto qui a Venezia», dissi. «Ho commesso un errore.» «Sì, qui a Venezia», confermò. «Uno di noi vi ha visto e ha inviato una lettera alla nostra Casa Madre in Inghilterra, e io sono stato inviato a scoprire chi e cosa siete. Dopo avervi intravisto a casa vostra, ho capito che era vero.» Mi appoggiai allo schienale e lo studiai. Indossava eleganti abiti di velluto di un marrone rossiccio e un mantello foderato di ermellino, e semplici anelli d'argento alle dita. I capelli color cenere erano lunghi e ben pettinati, gli occhi grigi come i capelli, la fronte alta e levigata. Sembrava talmente lindo da brillare. «E qual è la verità di cui parli?» domandai con tutta la gentilezza possibile. «Cos'è che sai essere vero, di me?» «Siete un vampiro, un bevitore di sangue», rispose senza battere ciglio, la voce garbata come sempre, i modi pacati «Esistete da secoli. Non conosco la vostra età, non ho la presunzione di conoscerla. Vorrei che me la diceste. Non avete commesso errori. Sono io che sono venuto a salutarvi.» Era affascinante parlare in antico latino. E gli occhi del giovane, riflettendo la luce delle lampade, traboccavano di sincera eccitazione temperata solo dalla sua dignità. «Sono venuto a casa vostra quando l'avete aperta», aggiunse. «Ho accettato la vostra ospitalità. Oh, cosa non darei per sapere quanto a lungo avete vissuto e cosa avete visto.» «E cosa faresti con queste informazioni, se te le rivelassi?» chiesi. «Le affiderei alle nostre biblioteche. Le userei per accrescere il nostro sapere. Renderei noto che quella che alcuni definiscono leggenda è invece verità.» Si interruppe, poi precisò: «Una magnifica verità». «Ah, e hai qualcosa da annotare persino ora, vero?» domandai. «Puoi
annotare di avermi visto qui.» Distolsi deliberatamente lo sguardo da lui per osservare i danzatori che avevamo davanti, poi ripresi a fissarlo per scoprire che aveva seguito, ubbidiente, la direzione del mio sguardo. Osservò Bianca che girava in tondo, partecipando alla danza accuratamente modulata, con la mano stretta da quella di Amadeo che le sorrideva con la luce che gli baluginava sulle gote. Lei sembrava di nuovo una fanciulla quando la musica era così dolce, e Amadeo la guardava con occhi colmi di approvazione. «E cos'altro vedi qui, mio pregevole studioso del Talamasca?» chiesi. «Ne vedo un altro», dichiarò, riprendendo a osservarmi senza timore. «È un bellissimo ragazzo, che quando l'ho notato per la prima volta era umano, che sta ballando con una giovane donna che ben presto potrebbe essere trasformata anch'ella in vampiro.» Il cuore prese a battermi all'impazzata, mentre lo ascoltavo. Mi pulsava nella gola e nelle orecchie. Ma lui non formulò alcun giudizio su di me, anzi, non mi giudicava affatto. Per un attimo non potei fare altro che sondargli la giovane mente per assicurarmi che fosse vero. Scosse delicatamente il capo. «Perdonatemi», disse. «Non mi sono mai trovato vicino a qualcuno come voi.» All'improvviso arrossì. «Non ho mai parlato a qualcuno come voi. Prego di avere il tempo di annotare sulla pergamena quanto ho visto stasera, anche se vi giuro sul mio onore e sull'onore dell'ordine che se mi permettete di andarmene da qui vivo, non scriverò nulla finché non raggiungerò l'Inghilterra e che le parole non vi danneggeranno mai.» Smisi volutamente di ascoltare la dolce musica seducente. Pensavo solo alla mente del giovane: la sondai e vi trovai unicamente quanto mi aveva appena detto e, dietro, un ordine di studiosi come quello che aveva descritto, un apparente portento costituito da uomini e donne che desideravano solo conoscere e non distruggere. In realtà mi apparvero una dozzina di miracolosi esempi della loro disponibilità a offrire un rifugio a coloro che sapevano davvero leggere le menti, e ad altri che grazie alle carte riuscivano chissà come a predire la sorte con inquietante accuratezza, e ad altri ancora che avrebbero potuto finire sul rogo come streghe. E dietro tutto ciò, c'erano biblioteche in cui erano conservati antichissimi e venerabili volumi di magia. Sembrava impossibile che in quell'epoca cristiana potesse esistere una
tale forza secolare. Allungai una mano per prendere la moneta d'oro su cui era incisa la parola «Talamasca». Me la infilai in tasca, poi strinsi la mano del giovane. Adesso era estremamente spaventato. «Credi che io voglia ucciderti?» domandai in tono gentile. «No, non credo che lo farete», rispose. «Ma, vedete, vi ho studiato così a lungo e con tanto amore che non posso esserne sicuro.» «È amore?» chiesi. «Da quanto tempo il tuo ordine sa dell'esistenza di creature come noi?» Gli serravo con forza la mano. La sua fronte alta e liscia venne improvvisamente raggrinzita da un lieve cipiglio espressivo. «Da sempre; vi ho già detto che siamo molto antichi.» Ci pensai su per qualche istante, continuando a tenergli la mano. Gli sondai di nuovo la mente senza trovarvi alcuna menzogna. Osservai i giovani danzatori dalle movenze eleganti e lasciai che la musica mi colmasse di nuovo, come se quel bizzarro e sconvolgente imprevisto non si fosse mai verificato. Gli lasciai andare lentamente la mano. «Allora vai», dissi, «lascia Venezia. Ti concedo un giorno e una notte per farlo, perché preferisco non averti qui con me.» «Capisco», ribatté con gratitudine. «Mi osservi da troppo tempo», dichiarai in tono di rimprovero. Ma il rimbrotto, in realtà, era indirizzato a me. «So che hai già inviato alla Casa Madre lettere che mi descrivono. Lo so perché, se fossi in te, è così che avrei agito.» «Sì», confermò. «Vi ho studiato, ma l'ho fatto solo per conto di coloro che vorrebbero conoscere meglio il mondo e tutte le sue creature. Non perseguitiamo nessuno; i nostri segreti sono ben protetti e tenuti nascosti a chi li userebbe per fare del male.» «Scrivi ciò che vuoi, ma vattene», gli dissi, «e non permettere mai ai membri del tuo ordine di tornare in questa città.» Stava per alzarsi dal tavolo quando gli chiesi il suo nome. Come così spesso mi succedeva, non ero riuscito a leggerglielo nella mente. «Raymond Gallant», mormorò. «Se mai voleste contattarmi...» «Mai», affermai bruscamente, sottovoce. Lui annuì, ma poi, rifiutandosi di andarsene con quel monito, rimase al suo posto e disse: «Scrivetemi al castello, il cui nome è inciso sull'altra faccia della moneta».
Lo guardai lasciare la sala; non era tipo da attirare l'attenzione, ed era facile immaginarlo lavorare con quieta dedizione in una biblioteca dove tutto era schizzato d'inchiostro. Ma aveva un viso magnificamente attraente. Rimasi seduto al tavolo, pensieroso, scambiando qualche saltuaria parola con gli altri, quando non potevo evitarlo, meravigliandomi che quel mortale si fosse avvicinato tanto a me. Ormai ero troppo sbadato? Troppo perdutamente innamorato di Amadeo e Bianca per prestare attenzione ai più semplici dettagli che avrebbero dovuto far suonare un campanello d'allarme? Gli splendidi dipinti di Botticelli mi separavano troppo dalla mia immortalità? Non lo sapevo, ma in realtà le azioni di Raymond Gallant potevano essere spiegate facilmente. Mi trovavo in una stanza piena di mortali e lui non era che uno di loro, e forse era in grado di disciplinare la propria mente per evitare che i suoi pensieri lo precedessero. E nei suoi gesti o sul suo viso non si leggeva alcuna minaccia. Sì, era tutto semplicissimo, e quando fui di nuovo a casa, in camera mia, mi sentii molto più tranquillo al riguardo, a tal punto da dedicare all'avvenimento alcune pagine del mio diario, mentre Amadeo dormiva come un angelo caduto sul mio letto di taffettà rosso. Avrei dovuto temere quel giovanotto che sapeva dove vivevo? Ne dubitavo. Non percepivo alcun pericolo. Credevo alle sue affermazioni. All'improvviso, un paio d'ore prima dell'alba, un pensiero tragico mi attraversò la mente. Dovevo rivedere Gallant ancora una volta! Dovevo parlargli! Che sciocco ero stato. Uscii nella notte, lasciando Amadeo addormentato. Lo cercati per tutta Venezia, perlustrando i vari palazzi con i miei poteri mentali. Alla fine lo rintracciai in un modesto alloggio assai lontano dagli enormi edifici del Canal Grande. Scesi le scale partendo dal tetto e bussai alla sua porta. «Aprimi, Raymond Gallant», dissi. «Sono Marius e non voglio farti del male.» Nessuna risposta. Sapevo però di avergli causato un terribile spavento. «Raymond Gallant, posso sfondare la porta, ma non ho il diritto di fare una cosa del genere. Ti supplico di rispondermi. Aprimi.»
Alla fine lui fece scorrere il chiavistello; entrai in una stanzetta dalle pareti notevolmente umide, arredata semplicemente con una mediocre scrivania e un baule sul quale erano accatastati degli abiti. A un muro era appoggiato un piccolo dipinto che avevo realizzato diversi mesi prima per poi scartarlo. Il locale era illuminato dalla fiamma di diverse candele, il che permetteva al giovane di vedermi bene. Si ritrasse come un fanciullo spaventato. «Raymond Gallant, devi dirmi una cosa», affermai subito, sia per soddisfare me stesso che per metterlo a suo agio. «Farò del mio meglio per accontentarvi, Marius», ribatté lui con voce tremula. «Cosa potete mai desiderare da me?» «Oh, non è così difficile da immaginare», replicai. Mi guardai intorno. Non c'era un posto in cui sedersi. Amen. «Mi hai detto che avete sempre saputo della nostra razza.» «Sì», confermò. Stava tremando violentemente. «Mi stavo... mi stavo preparando a lasciare Venezia», si affrettò a precisare. «Come mi avete consigliato.» «Lo vedo, e ti ringrazio. Ma prima voglio farti una domanda.» Parlando molto lentamente, continuai: «Nel corso delle tue ricerche, hai mai sentito parlare di una bevitrice di sangue, una donna vampiro, come diresti tu: una donna dai lunghi e ondulati capelli castani... alta e dalle splendide forme, una donna trasformata quando era già nel fiore degli anni, più che una fanciulla sul punto di sbocciare... una donna dallo sguardo rapido, una donna che percorre da sola le strade notturne». Rimase impressionato e per un attimo distolse lo sguardo, assimilando le mie parole, poi riprese a fissarmi. «Pandora», disse. Trasalii. Non riuscii a evitarlo. Con lui non potevo interpretare il ruolo dell'uomo dignitoso. Mi sentii come se avessi ricevuto un colpo in pieno petto. Ero talmente sopraffatto che mi allontanai di qualche passo e gli diedi le spalle per impedirgli di vedere la mia espressione. Conosceva il suo nome! Alla fine mi voltai. «Cosa sai di lei?» domandai. Mentre parlava gli sondai la mente per accertarmi che dicesse la verità. «Nell'antica Antiochia, intagliate nella pietra», spiegò, «ho visto le parole: 'Pandora e Marius, bevitori di sangue, un tempo dimorarono felicemente in questa casa'.»
Non riuscii a ribattere. Ma si trattava soltanto del passato, il passato amaro e triste in cui l'avevo abbandonata. E lei, profondamente ferita, doveva aver inciso quella frase nella pietra. Il fatto che lui e i suoi colleghi studiosi avessero trovato una simile traccia mi umiliava e mi riempiva di rispetto per ciò che erano. «E adesso?» domandai. «Sai qualcosa di lei, adesso? Dove hai saputo della sua esistenza? Devi raccontarmi tutto.» «Nell'Europa settentrionale ci sono alcuni che sostengono di averla vista», spiegò. La sua voce cominciava a farsi più stentorea, ma si capiva che era ancora impaurito. «Una volta è venuto da noi un giovane vampiro, un giovane bevitore di sangue, uno di quelli che non sopportano la trasformazione...» «Sì, continua», dissi. «Lo so. Non stai dicendo nulla che mi offenda. Continua, ti prego.» «Il giovane venne da noi, sperando che possedessimo qualche magia che gli consentisse di annullare l'azione del Sangue e recuperare la sua vita mortale...» «Ed è lui che ha parlato di Pandora? È questo che intendi dire?» «Precisamente. Sapeva tutto di lei. Ci ha detto il suo nome. La considerava una dea tra i vampiri. Non era stata Pandora a crearlo, anzi, incontrandolo lo compativa e ne ascoltava spesso le farneticazioni. Ma il giovane vampiro l'ha descritta come avete fatto voi e ci ha raccontato delle rovine di Antiochia, dove avremmo trovato le parole che lei aveva scritto nella pietra. «Fu Pandora a parlargli di Marius. E così il nome giunse alla nostra attenzione. Marius, la creatura alta con gli occhi azzurri, Marius, la cui madre proveniva dalla Gallia e il cui padre era un romano.» Si fermò, palesemente impaurito. «Continua, ti prego, te ne supplico», dissi. «Ora questo giovane vampiro è scomparso, annientato di sua volontà senza la nostra acquiescenza. Si è esposto al sole del mattino.» «Quando l'avrebbe incontrata?» chiesi. «Dov'è che lei ascoltava le sue farneticazioni? Quando è accaduto tutto questo?» «Durante la mia vita», spiegò lui. «Anche se personalmente non ho mai visto quel bevitore di sangue. Vi prego, non fatemi troppe pressioni. Sto cercando di dirvi tutto ciò che so. Il giovane vampiro ha detto che lei era perennemente in viaggio, nei paesi del Nord, come vi ho detto, ma travestita da donna ricca e con un compagno orientale, un bevitore di sangue di
enorme bellezza e acre crudeltà, che sembrava tiranneggiarla ogni notte e costringerla a fare ciò che non voleva fare.» «Non lo sopporto!» esclamai. «Avanti, dimmelo, quali paesi del Nord? Non riesco a leggerti la mente più velocemente di quanto possa udire le tue parole. Raccontami tutto quello che ti ha detto il giovane.» «Non so in quali paesi viaggiasse», ribatté. La mia veemenza lo stava innervosendo. «Il giovane l'amava. Sperava che Pandora avrebbe respinto l'orientale, ma lei non voleva. La cosa lo faceva impazzire. E così, nutrendosi della popolazione di un piccolo paesino tedesco, il poveretto cadde presto tra le nostre braccia.» Si interruppe per radunare il coraggio necessario e rendere più fermo il proprio tono, mentre continuava. «All'interno della nostra Casa Madre, parlò continuamente di lei, ma il tema era sempre lo stesso: la dolcezza e la gentilezza di Pandora, e la crudeltà dell'orientale da cui lei non voleva separarsi.» «Dimmi sotto quali nomi viaggiavano», gli chiesi. «Usavano sicuramente dei nomi, nomi da mortali, perché altrimenti come avrebbero potuto spacciarsi per ricchi esseri umani? Dimmeli.» «Non li conosco», affermò lui. Fece appello a tutto il suo riserbo. «Lasciatemi un po' di tempo e forse riuscirò a scoprirli. Ma, in verità, dubito che l'ordine mi rivelerà una simile informazione perché io possa comunicarvela.» Gli diedi nuovamente le spalle. Sollevai la mano destra per ripararmi gli occhi. Quali gesti fa un mortale, in un momento del genere? Serrai la mano destra a pugno e mi strinsi saldamente il braccio con la sinistra. Lei viveva ancora. Non potevo accontentarmi di quello? Viveva! I secoli non l'avevano distrutta. Non bastava? Mi girai. Lo vidi fermo lì, con l'aria così coraggiosa, anche se le mani lungo i fianchi gli tremavano. «Come mai non sei terrorizzato da me?» sussurrai. «Perché non hai paura che io vada alla tua Casa Madre per procurarmi da solo questa informazione?» «Una simile iniziativa potrebbe non essere necessaria», si affrettò a ribattere. «Forse posso ottenerla per voi, se proprio vi serve, perché non viola alcun giuramento da noi prestato. Non è stata Pandora a cercare asilo presso di noi.» «Ah, sì, hai fatto una precisazione da avvocato, al riguardo», commentai.
«Cos'altro puoi dirmi? Cos'altro ha raccontato Pandora di me, a quel giovane?» «Nient'altro», rispose. «Il giovane ha parlato solo di Marius, avendone saputo il nome da Pandora?» «Sì, e poi vi abbiamo scoperto qui a Venezia. Vi ho raccontato tutto!» Mi ritrassi ancora una volta. Era stanco e così spaventato, che la sua mente era quasi sul punto di cedere. «Vi ho raccontato tutto», ribadì in tono solenne. «Lo so», dissi. «Vedo che sei capace di serbare segreti, ma incapace di raccontare bugie.» Non aprì bocca. Estrassi dalla tasca la moneta d'oro, quella che mi aveva dato. Lessi la parola. Talamasca. La girai. Sull'altra faccia c'era inciso il disegno di un alto castello ben fortificato, e sotto il suo nome: Lorwich, East Anglia. Alzai gli occhi. «Raymond Gallant», dissi. «Grazie.» Lui annuì. «Marius», dichiarò all'improvviso, come se si stesse appellando a tutto il suo coraggio, «non potete inviarle un messaggio, al di là di quanti chilometri sia distante?» Scossi il capo. «Sono stato io a trasformarla in una bevitrice di sangue, e la sua mente mi è preclusa sin dall'inizio. Lo stesso vale per il bellissimo ragazzo che hai visto danzare stasera. Il creatore e la sua creatura non possono leggere i pensieri l'uno dell'altro.» Lui ci pensò con calma, prima di replicare, come se stessimo parlando di semplici questioni umane. «Però, senza dubbio, con la vostra mente potente siete in grado di inviare il messaggio ad altri che possono vederla e dirle che la cercate e dove vi trovate.» Uno strano momento di tensione passò tra noi. Come confessargli che non potevo supplicarla di tornare da me? Come confessare a me stesso che dovevo incontrarla e prenderla tra le braccia e costringerla a guardarmi, che un'antica collera mi separava da lei? Mi era
impossibile ammettere quelle cose, anche con me stesso. Lo guardai; lui era fermo e mi fissava, sempre più calmo, ma indubbiamente incantato. «Lascia Venezia, ti prego», dissi, «come ti ho chiesto.» Slacciai il borsellino e posai numerosi fiorini d'oro sulla scrivania, proprio come avevo fatto due volte con Botticelli. «Vattene e scrivimi quando puoi.» Annuì di nuovo, con gli occhi chiari limpidi e determinati, il giovane viso volutamente tranquillo. «Sarà una lettera normalissima», aggiunsi, «giunta a Venezia tramite mezzi ordinari, ma conterrà la più meravigliosa delle informazioni, perché in essa potrei trovare notizie di una creatura che non abbraccio da più di mille anni.» Ne rimase scioccato, benché io non ne capissi il motivo. Conosceva sicuramente l'età delle pietre ad Antiochia. Ma vidi lo shock penetrare dentro di lui e scorrergli nelle membra. «Che cosa ho fatto?» chiesi ad alta voce, benché non stessi parlando con Gallant. «Lascerò presto Venezia, a causa tua e di molte altre cose, perché non cambio e quindi non posso fingermi un mortale molto a lungo. Me ne andrò presto a causa della donna che stasera hai visto danzare con il mio giovane apprendista, perché ho giurato che non verrà trasformata. Ma ho interpretato splendidamente il mio ruolo, qui. Scrivilo nelle tue cronache. Descrivi la mia casa come l'hai vista, piena di dipinti e lampade, piena di musica e risate, piena di gaiezza e tepore.» Gallant cambiò espressione. Divenne triste, agitato, non mosse nemmeno un muscolo e gli si riempirono gli occhi di lacrime. Come appariva saggio, nonostante la giovane età. Come appariva stranamente compassionevole. «Cosa c'è, Raymond Gallant?» chiesi. «Come puoi piangere per me? Spiegamelo.» «Marius», ribatté, «al Talamasca mi hanno spiegato che sareste stato bellissimo e avreste parlato con la lingua di un angelo e di un demone.» «Dov'è il demone, Raymond Gallant?» «Ah, avete colto nel segno. Non ho udito il demone. Mi sono sforzato di crederlo, ma non l'ho sentito. Avete ragione.» «Hai visto il demone nei miei dipinti?» «No, Marius.» «Dimmi che cosa hai visto.» «Incredibile maestria e colori meravigliosi», rispose, senza un attimo di
esitazione, come se vi avesse riflettuto a fondo. «Figure stupende e fervida fantasia, che suscitavano un enorme piacere in chiunque.» «Ah, ma sono più bravo di Botticelli, il fiorentino?» gli domandai. Si rannuvolò in viso. Si accigliò leggermente. «Lascia che risponda io per te», dissi. «No, non lo sono.» Lui annuì. «Pensaci», aggiunsi. «Io sono un immortale, mentre Botticelli è un semplice uomo. Eppure quali sono le meraviglie che Botticelli ha realizzato?» Era troppo doloroso per me restare lì. Allungai entrambe le mani e gli afferrai delicatamente la testa prima che potesse fermarmi. Le sue mani si sollevarono e afferrarono le mie, ma naturalmente non potevano fare nulla per allentare la mia presa. Mi avvicinai a lui e parlai in un sussurro. «Lascia che ti offra un dono, Raymond. Stai bene attento. Non ti ucciderò. Non ti farò alcun male. Voglio solo mostrarti i denti e il Sangue, e se me lo consenti - bada bene, chiedo il tuo permesso - ti poserò una goccia di Sangue sulla lingua.» Aprii la bocca in modo che potesse vedere le zanne e lo sentii irrigidirsi. Pronunciò una disperata preghiera in latino. «Vuoi questo sangue?» chiesi. Chiuse gli occhi. «Non sarò io a prendere la decisione al posto tuo, studioso. Sei disposto ad accettare questa lezione?» «Sì!» sussurrò, quando in realtà la sua mente rispondeva di no. Gli serrai la bocca in un bacio focoso. Il Sangue passò dentro di lui e Raymond fu scosso da violente convulsioni. Quando lo lasciai andare si reggeva a malapena in piedi. Ma non era un codardo, quell'uomo. Chinò il capo per un solo istante, poi mi guardò con occhi annebbiati. Rimase incantato, durante quei brevi istanti, e io aspettai pazientemente che passassero. «Ti ringrazio, Raymond», dissi. Mi preparai per andarmene dalla finestra. «Scrivimi tutto quello che sai di Pandora, e se non puoi farlo, capirò.» «Cercate di non vedere mai un nemico in noi, Marius», mi consigliò in fretta. «Non temere», replicai. «Non dimentico mai nulla di ciò che accade. Ricorderò sempre che mi hai parlato di lei.» Poi me ne andai. Tornai nel mio studio-camera da letto, dove Amadeo dormiva ancora
come fosse drogato di vino, quando invece si era trattato di semplice sangue mortale. Scrissi brevemente nel mio diario. Cercai di descrivere in modo assennato la conversazione di poco prima. Tentai di descrivere il Talamasca in base a ciò che Gallant mi aveva rivelato. Ma alla fine cedetti all'impulso di vergare più e più. volte il nome di Pandora, scioccamente, poi posai la testa sulle braccia ripiegate e sognai di lei, e le parlai con un sussurro, nei miei sogni. Pandora nei paesi del Nord, quali paesi, cosa poteva significare? Oh, se avessi dovuto scovare il suo compagno orientale, quale trattamento gli avrei riservato, con quanta rapidità e brutalità l'avrei liberata da una simile oppressione. Pandora! Come hai potuto permettere che succedesse? Non appena ebbi posto la domanda mi resi conto che stavo discutendo con lei come avevo fatto tanto spesso in passato. Quella notte, quando giunse il momento di lasciare la casa per raggiungere il nostro luogo di riposo, scoprii Bianca addormentata nel mio studio, su un ampio divano di seta. «Sei troppo adorabile», le dissi, baciandole teneramente i capelli e stringendole il braccio splendidamente ripiegato. La mia raffinata e bellissima ragazza. «Ti adoro», sussurrò lei, poi continuò a sognare. Ci recammo nella camera dorata dove ci aspettavano i nostri sarcofagi. Aiutai Amadeo a sollevare il coperchio del suo prima di alzare il mio. Era stanco. La danza lo aveva stremato, ma mi sussurrò qualcosa in tono sonnolento. «Cosa?» domandai. «Quando arriva il momento, darete il Sangue a Bianca?» «No», risposi, «smetti di parlarne, mi stai facendo infuriare.» Lui proruppe nella sua fredda risatina priva di compassione. «So che lo farete. L'amate troppo per cominciare a vederla appassire.» Negai strenuamente, poi scivolai nel sonno, senza immaginare neppure lontanamente che era l'ultima notte della nostra vita insieme, l'ultima notte del mio supremo potere, l'ultima notte di Marius de Romanus, cittadino di Venezia, pittore e mago, l'ultima notte della mia età dell'oro. 24 La notte seguente mi alzai come d'abitudine, attendendo per circa un'ora
che Amadeo aprisse gli occhi. Essendo giovane, non seguiva il tramonto con la mia stessa rapidità, oltretutto tra i bevitori di sangue l'ora del risveglio varia anche a prescindere dall'età. Rimasi seduto nella camera rivestita d'oro, immerso nelle mie riflessioni sullo studioso chiamato Raymond Gallant, e mi chiesi se avesse lasciato Venezia come gli avevo consigliato. Quale pericolo poteva rappresentare per me, anche volendo? Infatti, chi mai avrebbe potuto aizzare contro di me, e in base a quale accusa? Ero di gran lunga troppo forte per poter essere sopraffatto o imprigionato. Era assolutamente impossibile. Nella peggiore delle ipotesi, se quell'uomo mi avesse denunciato come un pericoloso stregone o addirittura un demone, avrei potuto prendere Amadeo e andarmene. Ma quei pensieri mi rattristavano, perciò, durante quegli istanti di quiete, scelsi di credere a Raymond Gallant, amarlo e fidarmi di lui, e di perlustrare con la mente la città per vedere se riuscivo a trovare tracce della sua presenza, il che mi avrebbe irritato profondamente. Avevo appena iniziato la ricerca, quando qualcosa di totalmente orrendo mi ottenebrò la ragione. Sentii grida provenienti dalla mia casa. E sentii l'urlo di bevitori di sangue! Sentii l'urlo degli adoratori di Satana - la salmodia delle condanne - e con gli occhi della mente vidi le mie stanze invase da un incendio sempre più ampio. Vidi il volto di Bianca nelle menti degli altri. Udii le grida dei miei ragazzi. Sollevai rapidamente il coperchio del sarcofago di Amadeo. «Vieni, Amadeo, ho bisogno di te», urlai in quel momento frenetico, assurdo. «Stanno bruciando la casa. Bianca è in pericolo. Vieni.» «Chi sono, Maestro?» chiese lui, salendo di corsa i gradini accanto a me. «Sono Coloro-che-devono-essere-conservati?» «No, Amadeo», risposi, sollevandolo per poi raggiungere in volo il tetto del palazzo. «È una banda di bevitori di sangue che adorano il demonio. Sono deboli. Li si può bruciare con le loro stesse torce! Dobbiamo salvare Bianca, dobbiamo salvare i ragazzi.» Non appena raggiunsi il palazzo, mi resi conto che stava subendo l'attacco di un incredibile numero di vampiri. Santino aveva tradotto in realtà i suoi folli sogni. In ogni stanza c'era un assalitore fanatico che appiccava il fuoco a tutte le suppellettili possibili.
L'intero edificio era in preda alle fiamme. Correndo verso la cima della scalinata principale, vidi Bianca urlare molto più sotto, circondata dai demoni vestiti di nero che la tormentavano con le torce. Il cadavere di Vincenzo era riverso davanti alla porta d'ingresso spalancata. Sentii le grida dei gondolieri che supplicavano le persone all'interno di uscire. Mi lasciai cadere ai piedi della scala e, grazie al dono del fuoco, bruciai i giovani e goffi aggressori di Bianca, che incespicarono quasi sulle loro tonache nere, mentre venivano divorati dalle fiamme. Alcuni dovetti semplicemente scacciarli con colpi fisici, non avendo il tempo di incanalare le mie potenti facoltà. Portai rapidamente Bianca al di là della cortina di denso fumo e fuori sul pontile. La depositai tra le braccia di un gondoliere che la condusse subito via. Non appena mi girai per salvare i ragazzi urlanti, una miriade di mostri nerovestiti mi circondò; li bruciai di nuovo con il dono del fuoco, colpendo nel contempo le loro goffe torce. La casa era in preda al caos. Le statue precipitavano al di là delle balaustre. Gli arazzi venivano consumati dal fuoco e i dipinti bruciavano senza fiamma, ma i ragazzi, cosa potevo fare per difendere i ragazzi? Non appena bruciavo un cerchio di mostri, ne arrivava un altro, e da ogni direzione giungevano le condanne. «Eretico, bestemmiatore, Marius l'idolatra, Marius il pagano. Santino ti condanna a bruciare.» Più e più volte scagliai lontano le fiaccole. Più e più volte bruciai gli intrusi. Più e più volte ne udii le grida mentre morivano. Il fumo mi accecava come avrebbe potuto fare con un mortale. I ragazzi stavano urlando in preda al panico, mentre venivano portati fuori dal palazzo e sopra i tetti. «Amadeo!» gridai. Lo sentii chiamarmi disperatamente dall'alto. Cominciai a innalzarmi, ma in corrispondenza di ogni pianerottolo loro mi aggredivano e io mi ritrovavo ad agitare convulsamente le braccia e a utilizzare la stessa combinazione di forza e dono del fuoco con la maggior rapidità possibile. «Amadeo, usa la tua forza», gli urlai. Non riuscivo a vederlo. «Usa i doni che ti ho dato.» Riuscivo solo a udire le sue urla.
Appiccai il fuoco a quanti erano assiepati vicino a me. Non vedevo altro che le creature in fiamme, poi altre torce scagliate verso di me, che prontamente rilanciavo indietro. «Volete bruciare!» esclamai, cercando di minacciarli, ma nessuna dimostrazione di potere riuscì a fermarli. Continuavano ad avanzare, infervorati. «Santino ti manda il suo fuoco sacro. Santino ti manda la sua giustizia. Santino reclama i tuoi allievi, reclama i tuoi novizi. È tempo che tu bruci.» All'improvviso, davvero all'improvviso, venni assalito da sette o otto di loro, disposti in cerchio e abbastanza rapidi da gettarmi addosso il fuoco, tanto che prese a divorarmi indumenti e capelli. Quel fuoco bruciava sul mio stesso corpo, avvolgendomi la testa e le membra. Per un istante pensai: Sopravvivrò, non è nulla, sono Marius, l'immortale. Poi dentro di me comparve, furioso, il terribile ricordo del sangue dell'Anziano in Egitto che aveva preso fuoco a causa di una lanterna, consumandosi con un fumo orrendo sul pavimento della mia stanza. Lo seguì il ricordo del sangue di Eudoxia a Costantinopoli, che ardeva sul pavimento del tempio. Il ricordo del dio dei druidi nella foresta, con la pelle carbonizzata e nera. E dopo un attimo capii, senza alcuna traccia di memoria o pensiero, che il mio sangue aveva preso fatalmente fuoco, che a prescindere da quanto fossero forti la mia pelle, le mie ossa e la mia volontà, ormai stavo bruciando, bruciando con una tale sofferenza e velocità che nulla poteva impedire il mio annientamento. «Marius», gridò Amadeo, terrorizzato. «Marius.» Udii là sua voce come fosse una campana. Non posso dire che la ragione mi spingesse a imboccare una qualsiasi direzione. Mi resi conto di aver raggiunto il tetto, e le grida di Amadeo e dei ragazzi si stavano affievolendo sempre più, in lontananza. «Marius», urlò Amadeo ancora una volta. Non vedevo coloro che continuavano a torturarmi. Non vedevo il cielo. Nelle orecchie sentivo l'antico dio della foresta che, la notte in cui ero stato trasformato in vampiro, mi spiegava che ero immortale, che potevo essere annientato solo dal sole o dal fuoco.
Nel tentativo di salvarmi mi appellai a tutto il potere rimastomi. E in quello stato mi imposi di raggiungere la debita balaustra del giardino sul tetto per poi piombare nel canale sottostante. «Sì, giù, giù, nell'acqua, sott'acqua», dissi ad alta voce, costringendomi a sentire le parole, poi nuotai il più speditamente possibile nelle acque fetide, aggrappandomi al fondo, rinfrescato, lenito e salvato dall'acqua sudicia, lasciandomi alle spalle il palazzo in fiamme da cui erano stati rapiti i miei fanciulli, in cui tutti i miei dipinti erano stati distrutti. Rimasi nel canale per un'ora, forse più. Il fuoco nelle mie vene si era spento quasi subito, ma il dolore era praticamente insopportabile, e quando alla fine riemersi fu per cercare la camera rivestita d'oro che ospitava il mio sarcofago. Non riuscii a raggiungerla camminando. Impaurito, procedendo carponi, cercai l'ingresso posteriore della casa e riuscii, grazie alle facoltà medianiche trasmesse alle dita, a far scorrere il chiavistello. Superando lentamente le numerose stanze, arrivai finalmente alla pesante barriera che avevo piazzato davanti alla tomba. Non so per quanto tempo mi sforzai di sollevarla, so solo che furono i miei poteri mentali a riuscirci, alla fine, non la forza delle mie mani bruciate. Finalmente strisciai giù per le scale, giungendo nella buia quiete della camera dorata. Mi sembrò un miracolo quando riuscii finalmente a sdraiarmi accanto al sarcofago. Ero troppo esausto per continuare, e con ogni respiro mi sentivo attanagliare dalla sofferenza. La visione delle mie braccia e gambe carbonizzate mi stordì. Quando sollevai una mano per tastarmi i capelli scoprii che ne restavano ben pochi. Mi tastai le costole sotto l'inspessita carne nera del torace. Non avevo bisogno di uno specchio per capire che ero diventato un autentico orrore, che non avevo più la faccia. Ma ciò che mi addolorò maggiormente fu che quando mi appoggiai al sarcofago e rimasi in ascolto, sentii i ragazzi che si lamentavano, mentre una nave li conduceva in un porto lontano, e sentii Amadeo che supplicava i suoi carcerieri di ragionare. Ma non vi fu alcun riaffiorare della ragione, solo le salmodie degli adoratori di Satana che venivano rivolte ai miei poveri bambini. E capii che quei fanatici li stavano portando a sud verso Roma, a sud verso Santino che io avevo stupidamente sottovalutato. Amadeo era ancora una volta prigioniero, ancora una volta in balia di
quanti volevano usarlo per scopi malvagi. Era stato sottratto ancora una volta a uno stile di vita, per essere condotto in un altro luogo inspiegabile. Oh, come mi odiai per non aver annientato Santino! Perché avevo tollerato che restasse in vita? E persino ora, mentre ti racconto questa storia, lo disprezzo! Oh, come lo disprezzo di cuore e in eterno per aver eliminato, in nome di Satana, tutto ciò che mi era caro, per avermi rubato Amadeo, per aver preso coloro che proteggevo, per aver bruciato il palazzo che racchiudeva i frutti dei miei sogni. Già, mi sto ripetendo, vero? Devi perdonarmi. Capisci sicuramente la pura arroganza e l'assoluta crudeltà del suo operato. Capisci sicuramente la mera forza distruttiva con cui ha modificato la rotta del viaggio di Amadeo... Sapevo che quel viaggio sarebbe stato cambiato. Lo sapevo, mentre restavo steso a terra, addossato a un lato del mio sarcofago; lo sapevo perché ero troppo debole per riprendermi il mio allievo, troppo debole per salvare gli sventurati ragazzi mortali che avrebbero subito indicibili sevizie, troppo debole persino per andare a caccia da solo. E se non potevo cacciare, come mi sarei procurato il sangue necessario per guarire? Mi stesi supino sul pavimento, tentando di lenire la sofferenza nella mia pelle bruciata. Cercando soltanto di riflettere e respirare. Riuscivo a sentire Bianca. Era sopravvissuta. Era viva. In realtà aveva portato altre persone con sé per cercare di salvare la nostra casa, che però era ormai impossibile salvare. Ancora una volta, come già per colpa della guerra o dei saccheggi, avevo perso gli splendidi oggetti che amavo, avevo perso i miei libri, avevo perso i miei scritti, per quel poco che valevano. Non so per quante ore rimasi là, ma quando mi alzai per sollevare il coperchio del sarcofago, scoprii che non riuscivo ancora a reggermi in piedi. Anzi, non riuscivo a spostarlo con le braccia carbonizzate, ma solo con i miei poteri mentali, e non di molto. Mi sdraiai di nuovo a terra. Soffrivo troppo per potermi muovere, e ci riuscii solo dopo parecchio tempo. Potevo sperare di percorrere i tanti chilometri che mi separavano dai Divini Genitori? Lo ignoravo, ma non potevo correre il rischio di lasciare quella stanza per scoprirlo.
Tuttavia mi raffigurai Coloro-che-devono-essere-conservati. Li pregai. Nel profondo dell'anima, vividamente, immaginai Akasha. «Aiutami, mia regina», sussurrai. «Aiutami. Guidami. Ricorda quando mi hai parlato in Egitto. Ricorda. Parlami. Non ho mai sofferto come sto soffrendo adesso.» Poi mi sovvenni di un'antica allusione maligna, antica come le preghiere stesse. «Chi baderà al tuo tempio, se non guarisco?» chiesi. Tremavo di infelicità. «Mia amata Akasha», mormorai, «chi ti adorerà, se vengo annientato? Aiutami, guidami, perché prima o poi, con il trascorrere dei secoli, potresti aver bisogno di me! Chi si è preso cura di te tanto a lungo?» Ma a cosa serve rinfacciare qualcosa a dei e dee? Inviai le mie facoltà mentali, in tutta la loro forza, verso le Alpi innevate dove avevo costruito e nascosto il sacrario. «Mia regina, dimmi come posso raggiungerti. Un evento terribile come questo potrebbe distoglierti dalla tua solitudine oppure chiedo troppo? Sogno di miracoli, ma non riesco a immaginarli. Prego di ottenere misericordia, eppure non riesco a immaginare come potrebbe giungermi.» Sapevo che era inutile, se non blasfemo, supplicarla di alzarsi dal trono per me. Ma era così potente da potermi donare una forza miracolosa superando la distanza che ci separava? «Come tornerò da te?» pregai. «Come potrò mai dedicarmi di nuovo alle mie incombenze, se non vengo sanato?» Mi rispose solo il silenzio della stanza dorata, fredda come il sacrario sulle montagne. Immaginai di sentire la neve delle Alpi sulla pelle bruciata. Lentamente, assimilai tutto l'orrore della situazione. Credo di aver emesso una fioca, mesta risatina. «Non posso raggiungerti», dichiarai, «non senza aiuto, e come posso ottenere quell'aiuto se non svelo il segreto di ciò che sono? Se non svelo il segreto della cappella di Coloro-che-devono-essere-conservati?» Alla fine mi sollevai in ginocchio e salii faticosamente, con estrema lentezza, i gradini di pietra; dolorosamente riuscii ad alzarmi in piedi e sigillare la porta di bronzo con i miei poteri mentali. La sicurezza era importante, essenziale. Devo sopravvivere a tutto questo, pensai, non devo disperare. Poi, stramazzando di nuovo a terra e strisciando giù per la scala fino alla camera dorata, alla maniera di una creatura abominevole e fosca, spinsi o-
stinatamente il coperchio del sarcofago fino a ottenere un'apertura sufficiente per potermici infilare a riposare. Non avevo mai provato simili ferite, non avevo mai conosciuto un dolore tanto atroce. Una mostruosa umiliazione si mescolava alla sofferenza. Oh, c'erano così tante cose che non avevo conosciuto, così tante cose che non avevo capito della vita! Ben presto le grida dei ragazzi lasciarono le mie orecchie, per quanto mi sforzassi di restare in ascolto. La nave li aveva portati lontano. Ma sentivo ancora Bianca. Piangeva. Afflitta dall'infelicità e dalla sofferenza, la mia mente perlustrò Venezia. «Raymond Gallant, membro del Talamasca», sussurrai, «ho bisogno di te. Raymond Gallant, prego che tu non abbia lasciato Venezia. Raymond Gallant del Talamasca, capta le mie preghiere, ti prego.» Non trovai traccia di lui, ma chi poteva sapere cosa fosse successo ai miei poteri? Forse erano scomparsi. Non riuscivo nemmeno a rammentare chiaramente la stanza di Gallant o dove si trovava. Ma perché speravo di rintracciarlo? Non gli avevo forse ordinato di lasciare il Veneto? Non gli avevo fatto capire chiaramente che doveva andarsene? Naturalmente aveva ubbidito. Doveva aver già superato di parecchi chilometri il punto in cui avrebbe potuto udire il mio appello. Eppure continuai a ripeterne il nome, ancora e ancora, come fosse una preghiera. «Raymond Gallant del Talamasca, ho bisogno di te. Ho bisogno di te adesso.» Alla fine, l'approssimarsi dell'alba mi procurò un gelido sollievo. Il dolore straziante si affievolì piano piano e cominciai a sognare, come sempre mi capita se mi addormento prima del sorgere del sole. Nei miei sogni vidi Bianca. Era circondata dai suoi domestici che la consolavano, e parlava. «Sono morti tutti e due, lo so. Sono periti nel fuoco.» «No, mio tesoro», dissi. Mi rivolsi a lei con tutta la forza delle mie facoltà psichiche. Bianca, Amadeo è scomparso, ma io sono vivo. Non avere paura quando posi gli occhi su di me, perché sono gravemente ustionato. Ma sono vivo. Negli occhi degli altri vidi la sua immagine riflessa, mentre si fermava e dava loro le spalle. La vidi alzarsi dalla sedia per raggiungere la finestra.
La vidi aprirla e guardare fuori, nella notte umida, verso la luce che si avvicinava. Stasera, al tramonto, ti chiamerò. Bianca, sono un mostro persino ai miei stessi occhi e sarò un mostro per i tuoi. Ma sopporterò questa sofferenza. Ti chiamerò. Non aver paura. «Marius», esclamò Bianca. I mortali riuniti intorno a lei la sentirono pronunciare il mio nome. Ma ormai il sonno del mattino mi aveva raggiunto. Non potevo resistergli. Finalmente il dolore era scomparso. 25 Quando mi svegliai, il dolore era ricominciato, lancinante. Per un'ora o più. rimasi sdraiato, immobile. Ascoltai le voci di Venezia. Ascoltai il moto delle acque sotto la casa e tutt'intorno a essa, e lungo i canali e fino al mare. Rimasi in ascolto per sentire i miscredenti di Santino, attanagliato dal quieto e dignitoso terrore che potessero trovarsi ancora nei paraggi e mi cercassero. Ma se n'erano andati tutti, almeno per il momento. Cercai di sollevare il coperchio del sarcofago senza riuscirvi. Ancora una volta, lo spinsi con i poteri mentali e poi, con l'aiuto delle mie deboli mani, fui in grado di spingerlo da parte. Davvero strano e magnifico, pensai, che la forza della mente superi quella delle mani. Lentamente riuscii a levarmi dal sarcofago freddo ed elegante che avevo creato per me stesso, e alla fine, dopo sforzi immani, mi sedetti sul pavimento di marmo, scorgendo il luccichio delle pareti dorate grazie al pizzico di luce che filtrava lungo i bordi della porta più in alto. Provai una pena e una stanchezza terribili. Fui sopraffatto dalla vergogna. Mi ero creduto invulnerabile, e oh, com'ero stato umiliato, com'ero stato scagliato contro il muro di pietra del mio orgoglio. Mi tornarono alla mente le accuse degli adoratori di Satana. Ricordai le grida di Amadeo. Dove si trovava adesso il mio bellissimo allievo? Mi misi in ascolto ma non sentii nulla. Chiamai ancora una volta Raymond Gallant, pur sapendo che era inutile. Lo immaginai in viaggio verso l'Inghilterra. Chiamai il suo nome ad alta voce, tanto che echeggiò sulle pareti della stanza dorata, ma non riuscii a
trovarlo. Sapevo che non l'avrei trovato, volevo solo assicurarmi che fosse ormai al di fuori della mia portata. Pensai alla mia cara e bellissima Bianca. Cercai di vederla come la sera prima, attraverso le menti di quanti le stavano intorno. Inviai i miei poteri mentali fino alle sue eleganti stanze. Nelle orecchie mi giunse il suono di musica gioiosa, e vidi subito i suoi numerosi ospiti abituali. Bevevano e parlavano come se la mia casa non fosse stata distrutta, o meglio come se lo ignorassero e io non fossi mai stato uno di loro; proseguirono con le loro consuete attività come fanno gli esseri umani, dopo che un mortale viene portato via. Ma dov'era Bianca? «Mostratemi il suo viso», sussurrai, dirigendo le misteriose facoltà medianiche con la mera semplicità della mia voce. Non mi apparve nessuna immagine. Chiusi gli occhi con forza, provocando un dolore squisito, e rimasi in ascolto, udendo il ronzio dell'intera città e poi supplicando i poteri mentali di darmi la voce di Bianca, i suoi pensieri. Nulla, poi finalmente la individuai. Ovunque si trovasse, era sola. Mi stava aspettando, e intorno non aveva nessuno che si prendesse cura di lei o le parlasse, quindi dovevo trovarla nel silenzio o nella solitudine, e alla fine le inviai la mia chiamata. Bianca, sono vivo. Sono mostruosamente ustionato, come ti ho già detto. Come una volta hai assistito Amadeo, puoi prestare anche a me la tua smisurata gentilezza? Trascorse meno di un istante prima che udissi distintamente il suo sussurro. «Marius, ti sento. Basta che tu mi guidi. Nulla riuscirà a spaventarmi. Ti benderò la pelle bruciata. Ti benderò le ferite.» Oh, che magnifica consolazione, ma cosa stavo progettando? Cosa avevo intenzione di fare? Sì, lei sarebbe venuta e mi avrebbe portato indumenti puliti con cui avrei potuto celare la mia orribile pelle, e magari anche un mantello con cappuccio che mi avrebbe nascosto la testa, e persino una maschera di carnevale per il mio viso. Sì, tutto ciò era verissimo, Bianca lo avrebbe fatto. Ma poi, quando scoprivo di non poter cacciare in quelle miserevoli condizioni? E se, riuscendo in qualche modo a cacciare, scoprivo che il sangue di uno o due mortali non significava nulla per me, che le mie lesioni erano troppo gravi?
In quel caso come dovevo dipendere dalla disponibilità di quella tenera e adorabile fanciulla ad assistermi? Quanto a fondo dovevo permetterle di penetrare negli orrori della mia debolezza? Ne sentii nuovamente la voce. «Marius, dimmi dove ti trovi», mi supplicò. «Io sono a casa tua. È gravemente danneggiata ma non distrutta. Ti aspetto nella tua vecchia camera da letto. Qui ci sono dei vestiti che ho preso per te. Puoi raggiungermi?» Per diversi minuti evitai di risponderle, non lo feci neppure per consolarla. Vi riflettei sopra nei limiti in cui si può riflettere quando si sta soffrendo in maniera così atroce. La mia mente non era la mia mente. Ne ero sicuro. Ebbi l'impressione di poter tradire Bianca, in preda a quel profondissimo turbamento. Di poterla tradire completamente, se me l'avesse permesso. Oppure potevo semplicemente accettare da lei un briciolo di compassione e lasciarla, infine, con un mistero che non sarebbe mai riuscita a comprendere. Il tradimento sarebbe stato più semplice, ovviamente. L'alternativa, prendere la sua compassione e lasciarle in cambio un mistero, avrebbe richiesto uno smisurato autocontrollo. Non sapevo se lo possedevo o no; non sapevo nulla di me stesso, infelice com'ero. Ricordai il giuramento che le avevo fatto molto tempo prima, assicurandole che sarebbe stata al sicuro fintanto che io restavo a Venezia, e rabbrividii di dolore rivedendo la creatura vigorosa che ero stato quella notte. Sì, avevo giurato di proteggerla in eterno per le amorevoli cure prestate ad Amadeo, per averlo salvato dalla morte nell'attesa che, al tramonto, io riuscissi a raggiungerlo e a levarglielo dalle braccia. Cosa significava tutto ciò, ormai? Dovevo infrangere il giuramento come se non avesse la minima importanza? I suoi appelli continuarono a raggiungermi, simili a preghiere. Mi si rivolgeva nello stesso modo in cui io mi ero rivolto ad Akasha. «Marius, dove sei? Riesci sicuramente a sentirmi. Marius, ti ho portato abiti morbidi che non ti feriranno. Ho strisce di lino per bendarti. Ho morbidi stivali per i tuoi piedi.» Piangeva, mentre parlava. «Ti ho portato una morbida tunica di velluto. Ho uno dei tuoi mantelli rossi. Lascia che ti porti queste cose e venga da te, così potrò fasciarti e aiutarti. Non sei un orrore, per me.» Rimasi steso lì ad ascoltare il suo pianto, e alla fine presi una decisione. Devi venire tu da me, mia adorata. Non posso muovermi da qui. Porta-
mi gli indumenti che hai descritto, ma anche una maschera, ne troverai parecchie nei miei armadi. Portane una fatta di cuoio scuro e decorata in oro. «Marius, ho tutte queste cose», ribatté lei. «Dimmi dove devo venire.» Le inviai un altro forte messaggio, identificando in modo quasi infallibile la casa in cui mi trovavo, e le spiegai come doveva entrarvi, cercare il portale fatto di lastre di bronzo e bussare. Il colloquio mi aveva stremato. Ancora una volta rimasi in ascolto, provando un quieto panico, per captare il suono dei mostri di Santino, chiedendomi se e quando sarebbero tornati. Eppure, attraverso gli occhi del gondoliere di Bianca vidi l'immagine della fanciulla che spuntava dalle macerie bruciate del mio palazzo. La gondola si stava dirigendo verso di me. Finalmente giunsero i sospirati colpi sul portale di bronzo. Appellandomi alle poche energie rimaste, cominciai a salire lentamente i gradini di pietra. Posai le mani sulla porta. «Bianca, mi senti?» chiesi. «Marius!» gridò. Cominciò a singhiozzare. «Marius, sapevo che eri tu. Non si trattava di uno scherzo della mia immaginazione. Sei davvero vivo, Marius. Sei qui.» L'odore del suo sangue mi eccitò. «Ascoltami, mio tesoro», dissi. «Sono rimasto ustionato, come puoi immaginare. Quando socchiudo questa porta devi passarmi gli abiti e la maschera. Non cercare di guardarmi, per quanto tu possa essere curiosa.» «Te lo prometto, Marius», replicò in tono risoluto. «Ti amo, Marius. Farò quello che dici.» Come suonarono tristi i suoi singhiozzi improvvisi. E com'era strano l'odore del sangue dentro di lei. Com'ero affamato. Con uno sforzo immane, le mie dita annerite riuscirono a far scorrere il chiavistello, dopo di che socchiusi la porta. L'odore del sangue di Bianca era penoso come tutto il resto. Per un attimo temetti di non poter andare avanti, ma gli indumenti tanto necessari mi vennero lanciati e capii di doverli prendere. In qualche modo dovevo mettermi in cammino verso la guarigione. Non potevo ripiombare nel tormento che avrebbe semplicemente alimentato altro tormento. Dovevo proseguire. Ecco la maschera di pelle nera, decorata in oro. Indumenti adatti a un ballo a Venezia, non a un essere miserabile e orrendo come me.
Allontanandomi dal minuscolo spiraglio, riuscii a vestirmi con un certo agio. Bianca aveva portato una tunica lunga invece di una corta, scelta davvero saggia, perché forse non sarei mai riuscito a infilarmi la calzamaglia. Quanto agli stivali, riuscii a calzarli, per quanto la cosa risultasse dolorosa, e mi legai la maschera dietro la nuca. Il mantello era di ampie proporzioni e dotato di cappuccio, cosa che apprezzai. Così mi ritrovai coperto dalla testa ai piedi. E ora, cosa avrei dovuto fare? Cosa dovevo dire a quel giovane angelo rimasto nel freddo e buio corridoio esterno? «Chi ti ha accompagnata?» le domandai. «Solo il gondoliere», rispose. «Non mi avevi detto di venire da sola?» «Forse sì», replicai. «Ho la mente ottenebrata dal dolore.» La sentii piangere. Mi sforzai di riflettere. Mi resi conto di una cruda, terribile verità. Non potevo andare a caccia da solo; non ero abbastanza forte per avventurarmi all'esterno con uno qualsiasi dei miei antichi poteri connessi alla velocità, all'ascesa o alla discesa. Non potevo contare sul fatto che la forza di Bianca mi aiutasse nella caccia perché lei era davvero troppo debole, e usare il suo gondoliere sarebbe stato stupido, se non impossibile. L'uomo avrebbe assistito a ciò che facevo, e sapeva che abitavo in quella casa! Oh, com'era assurda la situazione. Com'ero debole. Com'era probabile che i mostri di Santino tornassero. Com'era essenziale per me lasciare Venezia e cercare il sacrario di Coloro-che-devono-essere-conservati. Ma come potevo riuscirci? «Marius, ti prego, lasciami entrare», mi implorò sommessamente Bianca. «Non ho paura di vederti. Ti prego, Marius. Lasciami entrare.» «Benissimo», replicai. «Stai certa che non ti farò del male. Scendi le scale. Procedi con cautela. Stai certa che qualunque cosa io ti dica è la verità.» Con uno sforzo dolorosissimo, aprii la porta del tanto sufficiente perché lei potesse entrare. Una fioca luminosità inondò la scala e la camera sottostante. Bastava per i miei occhi, ma non per i suoi. Con la pallida mano delicata avanzò a tastoni dietro di me, e non riuscì a vedere come io strisciassi sorreggendomi con le mani alla parete. Alla fine arrivammo in fondo ai gradini, dove Bianca si sforzò vanamente di vedere qualcosa. «Marius, parlami», mi chiese.
«Sono qui, Bianca», dissi. Mi inginocchiai, poi mi sedetti sui talloni e, guardando le torce fissate alle pareti, cercai di accenderne una con il dono del fuoco. Indirizzai quel particolare potere con tutta la forza che avevo. Sentii un flebile crepitare, poi la fiaccola si accese e la luce esplose, ferendomi gli occhi. Il fuoco mi fece rabbrividire, ma non potevamo farne a meno. Il buio era stato ancora peggio. Bianca sollevò le tenere mani per ripararsi gli occhi dal bagliore, poi mi guardò, si coprì la bocca ed eruppe in un grido soffocato. «Cosa ti hanno fatto?» domandò. «Oh, mio bellissimo Marius. Dimmi come posso porre rimedio a tutto ciò, e lo farò.» Mi vidi nel suo sguardo, un essere incappucciato che aveva bastoncini anneriti al posto del collo e dei polsi, un paio di guanti come mani e una fluttuante maschera di pelle come viso. «E come credi che vi si possa riuscire, mia splendida Bianca?» chiesi. «Quale pozione magica può riportarmi indietro?» Nella sua mente regnava il caos. Captai un intrico di immagini e ricordi, di infelicità e speranza. Si guardò intorno, fissando le scintillanti pareti dorate. Osservò gli sfavillanti sarcofagi di marmo. Poi i suoi occhi tornarono su di me. Era orripilata, ma non atterrita. «Marius», disse, «posso essere un'accolita preziosa come Amadeo, per te. Basta che tu mi dica come fare.» Alla menzione di Amadeo, mi si colmarono gli occhi di lacrime. Oh, pensare che il mio corpo carbonizzato racchiudeva il sangue delle lacrime. Lei cadde in ginocchio per potermi guardare dritto negli occhi. Nel movimento le si aprì il mantello e io vidi le ricche perle che portava al collo e il suo seno pallido. Aveva indossato un abito elegantissimo per quell'impresa, non preoccupandosi del rischio che l'orlo assorbisse sudiciume o umidità. «Oh, mio adorabile gioiello», le dissi, «come ti ho amato sia nell'innocenza che nella colpa. Non sai quanto ti ho desiderato, in qualità sia di mostro che di uomo. Non sai come ho distolto da te la mia fame, quando era qualcosa che stentavo a controllare.» «Oh, lo so benissimo, invece», ribatté. «Non rammenti la notte in cui sei venuto da me, accusandomi dei crimini che avevo commesso? Non rammenti che hai confessato di aver sete del mio sangue? In seguito non sono certo diventata la damigella pura e innocente di una fiaba per bambini.»
«Forse sì, mia cara», dichiarai. «Forse sì. Oh, tutto il mio mondo è scomparso, vero? Scomparso! I ricevimenti, le feste in maschera, le danze, scomparsi tutti i miei dipinti bruciati!» Lei cominciò a piangere. «No, non piangere. Lascia che sia io a farlo. È stata tutta colpa mia, perché non ho ucciso una creatura che disprezzavo. Hanno preso prigioniero Amadeo. Hanno bruciato me, perché ero troppo forte per i loro piani, ma Amadeo l'hanno preso!» «Smettila, Marius, stai vaneggiando», disse impaurita. Allungò la mano per toccarmi le dita guantate. «Sì, ma ho bisogno di vaneggiare, solo per un attimo. L'hanno preso, e io l'ho sentito chiedere spiegazioni in tono implorante, e hanno preso anche tutti i ragazzi. Perché l'hanno fatto?» La fissai attraverso la maschera, incapace di immaginare cosa la sua mente sovreccitata vedesse o leggesse in quel bizzarro aspetto artificiale. L'odore del suo sangue era quasi soverchiante e la sua dolcezza sembrava appartenere a un altro mondo. «Perché ti hanno lasciato vivere, Bianca? Io non ero arrivato in tempo per salvarti.» «I tuoi allievi, erano loro che volevano», spiegò lei, «li hanno catturati con delle reti. Le ho viste. Ho urlato, e continuato a urlare fuori dalla porta d'ingresso, ma loro non hanno badato a me, se non per la mia capacità di attirarti lì e, quando ti ho visto, cosa potevo fare se non gridarti di aiutarmi contro di loro? Ho sbagliato? È sbagliato che io sia viva?» «No, non pensarlo nemmeno. No.» Allungai una mano con la maggior cautela possibile e presi la sua con le mie dita guantate. «Dimmi se la mia stretta è troppo forte.» «Mai troppo forte, Marius. Oh, fidati di me così come mi chiedi di fidarmi di te.» Scossi il capo. Il dolore era talmente straziante che per un attimo non riuscii a parlare. Sia la mia mente che il mio corpo erano puro dolore. Non sopportavo ciò che mi era successo. Non sopportavo la disperata salita che si stagliava di fronte a me e al mio Io futuro. «Restiamo qui insieme, tu e io», propose lei, «c'è sicuramente molto da fare per guarirti. Lascia che io serva la tua magia. Ti ho già detto che sono pronta a farlo.» «Cosa sai in proposito, Bianca? Hai davvero capito?» «Non si tratta di sangue, mio signore?» chiese. «Credi che io non ricordi
quando hai preso tra le braccia Amadeo morente? Nulla avrebbe potuto salvarlo se non la trasformazione che in seguito ho visto in lui. Sai che l'ho vista. Lo sapevo. Lo sai.» Chiusi gli occhi. Respirai lentamente. Il dolore era atroce. Le parole di Bianca mi stavano cullando e mi facevano credere di non essere orrendo, ma dove avrebbe portato quella strada? Cercai di leggerle la mente, ma ero troppo esausto per riuscirci. Desideravo toccarle il viso, e a un certo punto, confidando nella morbidezza del guanto, lo feci, accarezzandole la guancia. Le si colmarono gli occhi di lacrime. «Dov'è andato Amadeo?» domandò, disperata. «A sud, per mare», confessai, «e fino a Roma, credo, ma ora non chiedermi come mai. Posso solo dire che è stato un mio nemico a fare questo alla mia casa e a coloro che amo, ed è a Roma che vive, e quelli che ha mandato a colpire me e Amadeo vengono da là. «Avrei dovuto annientarlo, avrei dovuto prevedere quanto è successo. Ma per vanità gli ho mostrato i miei poteri e l'ho cacciato via, così lui ha inviato i suoi seguaci in gran numero, in modo che non potessi sconfiggerli. Oh, come sono stato sciocco a non capire cosa avrebbe fatto. Ma a che serve dirlo ora? Sono debole, Bianca. Non ho i mezzi per riprendermi Amadeo. In qualche modo devo recuperare la mia potenza.» «Sì, Marius, ti capisco.» «Prego con tutto il cuore che Amadeo usi i poteri che gli ho dato», ammisi, «perché erano immensi e lui è molto forte.» «Sì, Marius», ribatté. «Capisco cosa vuoi dire.» «È a Marius che guardo, ora», confessai di nuovo, tristemente e sentendomi in colpa. «È a Marius che guardo, perché devo.» Calò il silenzio. L'unico suono era il crepitare della torcia infilata nell'alto supporto sul muro. Cercai di nuovo di leggere la mente di Bianca, senza riuscirvi. Non dipendeva solo dalla mia debolezza, ma da un che di risoluto in lei: per quanto mi amasse, dentro di lei albergavano pensieri contrastanti, ed era stato eretto un muro per impedirmi di scoprire quali fossero. «Bianca», mormorai, «hai visto la trasformazione in Amadeo, ma hai davvero capito?» «Sì, mio signore», rispose. «Riesci a indovinare quale sia la fonte della sua forza eterna, dopo quella notte?»
«La conosco, mio signore.» «Non ti credo», dichiarai gentilmente. «Sogni quando dici di conoscerla.» «Oh, ma è vero, Marius. E come ti ho appena rammentato, ricordo fin troppo bene quando sei entrato nella mia camera assetato del mio sangue.» Allungò le mani verso il mio volto per consolarmi. Sollevai un braccio per fermarla. «A quel punto ho capito che in qualche modo ti cibavi dei morti, che prendevi le loro anime o forse solo il loro sangue. A quel punto ho capito che si trattava dell'una o dell'altra cosa. Inoltre i musici fuggiti dal banchetto, durante il quale hai ucciso i miei parenti, mi hanno riferito che hai dato un bacio di morte ai miei sventurati cugini.» Proruppi in una bassa, fioca risata. «Sono stato imprudente, benché sul momento mi sia creduto tanto abile. Che strano. Ora non mi stupisco di essere caduto così in basso.» Inspirai di nuovo a fondo, sentendo la sofferenza in tutto il corpo e una sete insopportabile. Come avevo potuto essere la potente creatura capace di abbagliare così tanti mortali da poterne massacrare un intero gruppo, senza che nessuno osasse pronunciare accuse se non in un sussurro? Ero mai... ma c'erano troppe cose da ricordare, e per quanto tempo avrei ricordato, prima che una seppur minima parte del mio potere mi venisse restituita? Bianca mi stava fissando con occhi brillanti e inquisitori. Dalle mie labbra sgorgò la verità che non potevo tenere celata più a lungo. «Era il sangue dei vivi, mia splendida fanciulla, sempre il sangue dei vivi», precisai disperatamente. «È il sangue dei vivi e solo quello, e dev'essere il sangue dei vivi, capisci? È così che esisto e sono sempre esistito da quando mani malevole e disciplinate mi hanno sottratto alla vita mortale.» Lei si accigliò leggermente, mentre mi fissava, ma non distolse lo sguardo. Poi annuì come per segnalarmi che potevo continuare. «Avvicinati, Bianca», sussurrai. «Credimi quando dico che esistevo prima ancora che sorgesse Venezia. Quando Firenze non era ancora nata io ero vivo. E non posso restare qui a lungo, soffrendo. Devo trovare del sangue che possa sanarmi. Devo averlo. Il prima possibile.» Annuì di nuovo. Mi fissò con la stessa sicurezza di prima. Stava tremando, e dagli abiti estrasse un fazzoletto di lino con cui si asciugò le lacrime. Cosa potevano significare, per lei, quelle parole? Dovevano esserle sem-
brate simili a un antico poema. Come potevo aspettarmi che capisse quanto avevo detto? La determinazione nel suo sguardo non vacillò neppure per un attimo. «I malfattori», confessò all'improvviso. «Mio signore, me l'ha detto Amadeo», sussurrò. «Non posso continuare a fingere di non saperlo. Vi nutrite dei malfattori. Non infuriatevi. Amadeo mi ha confidato il suo segreto molto tempo fa.» Andai in collera. Subito e completamente, ma che importanza aveva? Quella terribile catastrofe non aveva abbattuto qualunque cosa avesse trovato sul suo cammino? Quindi Amadeo aveva svelato il segreto alla nostra bellissima Bianca, dopo tutte le lacrime e le promesse che mi aveva fatto! Ero stato stolto a confidarmi con un semplice bambino, così come lo ero stato a lasciare in vita Santino! Ma che importanza aveva, ormai? Bianca si era immobilizzata e mi stava fissando con gli occhi colmi della fiamma della torcia, il labbro inferiore tremante, e un sospiro che faceva sospettare che stesse per piangere. «Posso condurre un malfattore in questa camera», annunciò, con il viso che si rianimava. «Posso accompagnarlo giù. per questi stessi gradini.» «Immagina che costui riesca a sopraffarti prima che arriviate qui», mormorai. «In tal caso come potrei ottenere giustizia o vendicarmi? No, non puoi correre un simile rischio.» «Invece lo farò. Fidati di me.» Gli occhi le divennero più brillanti e sembrò guardarsi intorno, come se stesse assimilando la bellezza delle pareti. «Per quanto tempo ho custodito il tuo segreto? Non lo so, ma so che nulla avrebbe potuto strapparmelo. E, a prescindere dai sospetti altrui, non ti ho mai tradito nemmeno con una sola parola.» «Mia adorata, mio tesoro», sussurrai, «non voglio che tu corra simili rischi per me. Lasciami riflettere, ora, lasciami usare qualunque potere mentale mi rimanga. Restiamo seduti qui in silenzio.» Parve turbata, poi le si indurì il volto. «Dammi il Sangue, mio signore», mi chiese all'improvviso, in tono sommesso e concitato. «Dammelo. Rendimi uguale ad Amadeo. Fai di me una bevitrice di sangue, dopo di che avrò la forza di portarti un malfattore. Sai che è questa la soluzione.» Mi colse totalmente alla sprovvista. Non posso sostenere di non aver mai pensato, nella mia anima bruciata, a quella possibilità - l'avevo presa in considerazione subito, quando avevo
udito piangere Bianca - ma sentirlo dire direttamente da lei, e con un tale spirito, era più di quanto io avessi mai sognato, e capii, come l'avevo capito sin dall'inizio, che quello era il piano perfetto. Ma dovevo riflettere! Non solo per il bene di Bianca, ma anche per il mio. Una volta che la magia avesse operato in lei - sempre ammesso che io avessi la forza di donarla - come avremmo fatto, noi due deboli vampiri, a procurarci il sangue che ci serviva, cacciando a Venezia, per poi intraprendere il lungo viaggio verso nord? In veste di mortale lei avrebbe potuto portarmi fino al valico alpino di Coloro-che-devono-essere-conservati con l'aiuto di un carro coperto e di guardie armate, che avrei potuto abbandonare nelle prime ore del giorno per entrare da solo nel sacrario. Come bevitrice di sangue, invece, avrebbe dovuto dormire accanto a me durante il giorno, quindi saremmo stati entrambi alla mercé di coloro che trasportavano i sarcofagi. Nel mio dolore non riuscivo a immaginarlo. Non potevo affrontare tutti i passi necessari. In realtà, all'improvviso mi sembrò di non poter pensare a nulla, e scuotendo il capo cercai di impedirle di abbracciarmi, di spaventarsi ancora di più stringendomi e sentendo che creatura rigida e secca ero diventato. «Dammi il Sangue», mi chiese di nuovo, in tono pressante. «Hai la forza di farlo, vero, mio signore? A quel punto ti porterò tutte le vittime che ti servono! Ho visto il cambiamento in Amadeo; non ha avuto bisogno di mostrarmelo. Sarò anch'io così forte, vero? Rispondimi, Marius. Oppure spiegami in quale altro modo posso curarti, o guarirti o offrirti conforto in questa sofferenza che vedo.» Non riuscii a proferire parola. Stavo tremando di desiderio per lei, di rabbia per la sua giovinezza - per la congiura ordita da lei e Amadeo contro di me, visto che lui le aveva rivelato il suo segreto - ed ero consumato dal desiderio di prenderla all'istante. Non era mai sembrata più viva, più puramente umana, più completamente naturale nella sua rosea bellezza, una creatura da non devastare. Si rimise comoda come se sapesse di avermi fatto un po' troppe pressioni. La sua voce suonò più dolce, ma ancora insistente. «Raccontami di nuovo la storia dei tuoi anni», mi chiese, con gli occhi fiammeggianti. «Raccontami di nuovo come, benché Venezia e Firenze non esistessero ancora, tu fossi già Marius, raccontami di nuovo questa storia.»
Mi gettai su di lei. Non avrebbe mai potuto fuggire. In realtà, credo che abbia tentato di farlo. Sicuramente gridò. Nessuno, all'esterno, la sentì. La presi troppo rapidamente, e ci trovavamo troppo all'interno dell'edificio, nella stanza dorata. Spingendo da parte la maschera e coprendole gli occhi con la mano sinistra, le affondai i denti nella gola e il suo sangue mi zampillò in bocca. Il cuore prese a batterle sempre più forte. Subito prima che si fermasse mi staccai da lei, scrollandola violentemente e gridandole nell'orecchio. «Bianca, svegliati!» Mi incisi subito il polso essiccato finché vidi il filo di sangue e glielo premetti sulla bocca aperta, sulla lingua. La sentii sibilare, poi serrò la bocca di scatto, solo per emettere un gemito affamato. Ritrassi la mia carne carbonizzata e coriacea e la tagliai di nuovo per lei. Oh, non le bastava - ero troppo bruciato, troppo debole - e nel frattempo il suo sangue si scatenò dentro di me, insinuandosi con forza nelle cellule carbonizzate che un tempo erano state vive. Più e più volte mi incisi il polso contorto e ossuto per poi premerglielo sulla bocca, ma era inutile. Bianca stava morendo! E tutto il sangue che mi aveva dato era stato divorato. Oh, era mostruoso. Non lo sopportavo... no, non sopportavo di vedere la vita della mia Bianca spenta come una piccola candela. Sarei impazzito. Mi lanciai subito su per i gradini di pietra, incespicando, non badando al dolore o alla debolezza, forgiando la mia mente e insieme il mio cuore, e sollevandomi aprii ìl portale di bronzo. Una volta in cima alla scala sopra il pontile chiamai il gondoliere di Bianca. «Presto», poi tornai all'interno in modo che l'uomo mi seguisse, come infatti fece. Meno di un secondo dopo il suo ingresso nell'edificio mi lanciai sul povero, sventurato innocente e ne bevvi tutto il sangue; poi, stentando a respirare a causa del conforto e del piacere consolatorio che ne ricavai, tornai nella stanza dorata per trovare Bianca là dove l'avevo lasciata, moribonda, ai piedi della scala. «Ecco, Bianca, bevi, perché ho altro sangue da darti», le sussurrai all'orecchio, premendole di nuovo sulla lingua il mio polso tagliato. Stavolta il
sangue sgorgò impetuoso, non certo abbondante ma sufficiente; la sua bocca si chiuse sulla fonte e lei cominciò a premere sul mio petto. «Sì, bevi, mia Bianca, mia dolce Bianca», aggiunsi, e lei mi ubbidì sospirando. Il Sangue le aveva imprigionato il tenero cuore. L'oscuro viaggio nella notte era appena iniziato. Non potevo inviarla a cercare vittime! La magia in lei non era certo completata. Chino come un gobbo nella mia debolezza, la portai fuori e sulla gondola, soffrendo per ogni passo che facevo, i miei movimenti erano lenti e insicuri. Una volta che l'ebbi adagiata sui cuscini, parzialmente sveglia e capace di rispondermi, con il viso che non era mai stato più bello o più pallido, impugnai l'unico remo. Mi addentrai nelle zone più buie di Venezia, dove la nebbia era densa al di sopra dei canali, nei luoghi scarsamente illuminati in cui abbondavano i mascalzoni. «Svegliati, principessa», le dissi, «ci troviamo sul campo di battaglia silenzioso, e molto presto vedremo il nostro nemico, e la piccola guerra che tanto amiamo avrà inizio.» Soffrivo talmente tanto da reggermi a malapena in piedi ma, come sempre accade in simili frangenti, coloro che cercavamo uscirono per farci del male. Percependo nella mia postura e nella bellezza di Bianca la forma esatta della debolezza, persero subito la loro forza. Nelle braccia di Bianca attirai agevolmente un malfattore orgoglioso e giovane, «disposto a dare piacere alla signora, se era quello che desiderava», da cui lei sorbì agevolmente una sorsata fatale, mentre il suo pugnale cadeva sul fondo dell'imbarcazione. La vittima seguente, un ubriaco barcollante che ci fermò con promesse di un vicino banchetto a cui avremmo potuto partecipare tutti, si avvicinò fatalmente alla mia stretta. Scoprii di avere a stento la forza necessaria, e ancora una volta il sangue prese a scorrere sfrenatamente dentro di me, sanandomi con una magia così violenta da rasentare un dolore crescente. Il terzo a finire nelle nostre braccia fu un vagabondo che allettai con la promessa di una moneta che non possedevo. Bianca lo ghermì, farfugliando, delusa di trovarlo tanto fragile. Tutto ciò sotto il velo della notte nera come l'inchiostro, e lontano dalle
luci delle case simili alla nostra. Continuammo a lungo. Con ogni uccisione le mie facoltà medianiche si rafforzavano, la mia sofferenza veniva maggiormente lenita, la mia pelle si risanava sempre più completamente. Ma ci sarebbe voluta una miriade di uccisioni per guarirmi, un'inconcepibile miriade di vittime per restituirmi il vigore di un tempo. Sapevo che, sotto gli abiti, sembravo fatto di funi immerse nella pece e non riuscivo nemmeno a immaginare l'orripilante terrore in cui si era trasformato il mio viso. Nel frattempo Bianca si destò dal torpore e sperimentò le pene della morte come essere umano. Adesso bramava di passare da casa sua a prendere indumenti puliti per poter poi tornare con me nella stanza rivestita d'oro, con abiti adatti a renderla la mia sposa. Aveva bevuto fin troppo sangue delle vittime e doveva berne altro del mio, ma non lo sapeva e io non glielo dissi. Solo con riluttanza assecondai la richiesta, riportandola al suo palazzo e restando in attesa, a disagio, sulla gondola finché tornò, sontuosamente vestita, e con la pelle simile alle più pure delle sue perle bianche. Rinunciando per sempre alle sue numerose stanze, portò con sé parecchi fagotti, tutti gli abiti che desiderava tenere e tutti i gioielli, e parecchie candele in modo che potessimo restare insieme nel nostro nascondiglio senza il ruggito delle torce. Alla fine ci ritrovammo soli nella stanza dorata, e lei traboccava di felicità, mentre mi guardava, mentre guardava il suo sposo segreto e silenzioso, mascherato. Solo un'unica candela offriva la sua sottile luce per entrambi. Bianca aveva steso sul pavimento un mantello di velluto verde in modo che potessimo sederci, e così facemmo. Io tenevo le gambe incrociate, mentre lei era accovacciata. La mia sofferenza fisica era quieta eppure terribile, quieta nel senso che non sussultava ogni volta che tiravo il fiato, ma restava costante e mi concedeva di respirare come volevo. Bianca estrasse da uno dei suoi numerosi fagotti uno specchio con il manico d'osso. «Ecco, levati la maschera, se vuoi», disse, con i suoi occhi a mandorla estremamente coraggiosi e duri. «Non mi farai paura!» La fissai per qualche istante, assaporandone la bellezza, studiando tutti i sottili cambiamenti che il Sangue aveva operato in lei, osservando come
l'avesse trasformata in maniera stravagante e intensa nella copia della Bianca di un tempo. «Mi trovi attraente, vero?» mi chiese. «Sempre», risposi. «C'è stato un periodo in cui desideravo così tanto darti il Sangue, da non riuscire a guardarti. C'è stato un periodo in cui preferivo non venire a casa tua, per paura di attirarti verso il Sangue con tutto il mio fascino, per poco che sia.» Rimase sbalordita. «Non lo immaginavo nemmeno», dichiarò. Mi guardai allo specchio. Vidi la maschera. Pensai al nome dell'ordine: Talamasca. Pensai a Raymond Gallant. «Non riesci a leggermi la mente, vero?» le domandai. «No, per nulla», ribatté. Era estremamente sconcertata. «È normale», spiegai. «È perché ti ho creato io. Puoi leggere le menti altrui, sì...» «Infatti», confermò. «La mente delle vittime, sì, e quando il sangue scorre vedo cose...» «Certo. E le vedrai sempre, ma non innamorarti mai, con quello strumento, del fascino degli innocenti, altrimenti il sangue che bevi ti comparirà all'improvviso sulle mani.» «Capisco», disse, troppo rapidamente. «Amadeo mi ha raccontato tutto quello che gli avevi insegnato. Solo i malfattori, mai gli innocenti, lo so.» Provai di nuovo una terribile rabbia, perché quei due, quei benedetti bambini, mi avevano tagliato fuori. Mi chiesi quando e come Amadeo le avesse rivelato quei segreti. Ma sapevo di dover accantonare quella gelosia. La terribile, devastante tristezza era dovuta al fatto che Amadeo era ormai lontano da me. Lontano. E non potevo riportarlo indietro. Era nelle mani di coloro che intendevano fare cose indicibili. Non potevo pensarci. Non potevo. Sarei impazzito. «Guardati allo specchio», mi sollecitò di nuovo Bianca. Scossi il capo. Mi sfilai il guanto sinistro e fissai le dita ossute. Lei proruppe in un terribile gridolino, poi se ne vergognò. «Vuoi ancora vedere la mia faccia?» chiesi. «No, per il bene di entrambi», rispose. «Non prima che tu sia andato nuovamente a caccia e io abbia viaggiato di nuovo con te e sia diventata più forte, così da essere la tua brava allieva come ho promesso, come sarò.»
Mentre parlava, annuiva e aveva il tono di voce risoluto. «Adorabile Bianca», mormorai, «destinata a imprese così difficili e crude.» «Sì, e le compirò. Resterò sempre con te. Con il tempo arriverai ad amarmi come amavi lui.» Non risposi. Lo strazio di aver perso Amadeo era mostruoso. Come potevo negarlo con un'unica sillaba? «Cosa gli starà succedendo?» domandai. «Lo avranno semplicemente annientato in qualche maniera orrenda? Naturalmente saprai che possiamo essere uccisi solo dalla luce del sole o dal calore di un terribile fuoco.» «No, non morire, solo soffrire», si affrettò a precisare lei, guardandomi con aria interrogativa. «Non ne sei forse la prova vivente?» «No, morire», insistetti. «Nel mio caso dipende da quanto ti ho appena spiegato, dal fatto che io esista da più di un migliaio di anni. Ma nel caso di Amadeo? Per lui potrebbe giungere facilmente la fine. Prega che loro non progettino sevizie, ma solo orrori, che qualunque cosa abbiano in programma la facciano in fretta oppure non la facciano.» Era colma di paura, e mi stava osservando come se sulla mia maschera di pelle fosse stampata una vera e propria espressione. «Ora vieni, devi imparare ad aprire questo sarcofago», le dissi. «E, prima, devi bere ancora il mio sangue. Ho preso così tante vittime che ora posso dartene di più e tu devi berlo, altrimenti non diventerai forte come Amadeo, neanche lontanamente.» «Ma... mi sono cambiata gli abiti», affermò. «Non voglio sporcarli di sangue.» Scoppiai a ridere. Risi a lungo. L'intera camera dorata risuonò delle mie risate. Lei mi fissò senza capire. «Bianca», dissi in tono gentile, «te lo prometto. Non ne verserò nemmeno una goccia.» 26 Quando mi svegliai rimasi sdraiato per un'ora, debole e in preda ad atroci sofferenze. Il dolore era così intenso, che in realtà il sonno pareva preferibile alla veglia, e sognai cose antiche, tempi in cui Pandora e io eravamo insieme e sembrava impossibile che potessimo mai separarci. Ciò che finalmente mi riscosse dal mio torpore inquieto furono le urla di
Bianca. Gridò più e più volte, terrorizzata. Mi alzai, più forte della notte precedente, e dopo essermi assicurato che guanti e maschera fossero al loro posto mi rannicchiai accanto al suo sarcofago e la chiamai. All'inizio non mi sentì, tanto erano assordanti le sue urla frenetiche, ma finalmente si zittì, nonostante la disperazione. «Hai la forza di aprire il sarcofago», dissi. «Te l'ho spiegato la notte scorsa. Premi le mani sul coperchio e spostalo.» «Fammi uscire, Marius», mi supplicò, singhiozzando. «No, devi riuscirci da sola.» Da lei giunsero singhiozzi più flebili, ma seguì le mie istruzioni. Il marmo produsse un suono stridente e il coperchio si spostò di lato, poi Bianca si drizzò a sedere, spingendolo via, e uscì dal sarcofago. «Vieni da me», le chiesi. Mi ubbidì, sussultando per i singhiozzi, e con la mano guantata le carezzai i capelli arruffati. «Sapevi di avere la forza necessaria», aggiunsi. «Ti ho mostrato che potresti spostarlo persino con la mente.» «Ti prego, accendi la candela», mi implorò. «Ho bisogno della luce.» La accontentai. «Devi cercare di tranquillizzare la tua anima», dissi. Trassi un lungo e profondo respiro. «Ora sei forte, e dopo che avremo cacciato, stanotte, lo sarai ancor di più. E, a mano a mano che io divento più forte, ti darò ancora il mio sangue.» «Perdonami se ho avuto paura», sussurrò. Avevo ben poca energia con cui confortarla, ma sapevo che quella poca le serviva. Aveva ripreso ad assalirmi, come una serie di colpi violenti, la consapevolezza che il mio mondo era andato in frantumi, che la mia casa era un ammasso di macerie, che Amadeo mi era stato sottratto. Poi, in un semideliquio, vidi la Pandora di tanto tempo prima che mi sorrideva, non mi bersagliava di recriminazioni, né mi tormentava, ma si limitava a parlarmi, come se ci trovassimo insieme nel giardino, seduti al tavolo di pietra, e stessimo discutendo di vari argomenti, come eravamo soliti fare. Ma era tutto finito. Tutto finito. Amadeo era scomparso. I miei dipinti distrutti. Giunsero di nuovo la disperazione, l'amarezza, l'umiliazione. Non avevo mai pensato che mi si potessero fare cose del genere. Non avevo mai pen-
sato di poter essere così infelice. Mi ero creduto così potente, così intelligente, così superiore a quell'abietta sofferenza. «Ora vieni, Bianca», dissi. «Dobbiamo uscire. Dobbiamo cercare il sangue. Vieni.» La consolai, mentre consolavo me stesso. «Dov'è il tuo specchio? Dov'è il tuo pettine? Lascia che pettini la tua stupenda chioma. Guardati allo specchio. Botticelli ha mai dipinto una donna più splendida?» Si asciugò le lacrime rosse. «Ti sei ripresa?» domandai. «Immergiti nelle profondità del tuo animo. Di' a te stessa che sei immortale. Di' a te stessa che la morte non ha alcun potere su di te. Ti è accaduta una cosa magnifica, qui nell'oscurità, Bianca. Sarai giovane in eterno, bellissima in eterno.» Avevo una gran voglia di baciarla, ma non potevo farlo, così mi sforzai di trasformare le parole in baci. Lei annuì e, mentre mi guardava, un adorabile sorriso le illuminò il volto, e per un attimo scivolò in una fantasticheria che fece riemergere tutti i miei ricordi del genio di Botticelli e persino dell'uomo stesso, così al sicuro e lontano da tutti quegli orrori, intento a trascorrere la sua esistenza a Firenze come io non avrei mai potuto fare. Estrassi il pettine da uno dei suoi fagotti. Glielo passai tra i capelli. La vidi fissare la maschera che era il mio viso. «Cosa c'è?» domandai. «Voglio vedere quanto gravemente...» «No, non vuoi.» Ricominciò a piangere. «Ma come farai a guarire? Quante notti ci vorranno?» Tutta la sua felicità della notte precedente era andata in frantumi. «Vieni», le dissi. «Andiamo a caccia. Mettiti la cappa e seguimi su per la scala. Facciamo come abbiamo già fatto. Non dubitare della tua forza nemmeno per un istante, e fai sempre ciò che ti dico.» Si rifiutò di accontentarmi. Rimase vicino al sarcofago, con il gomito posato sul coperchio e l'espressione afflitta. Alla fine la raggiunsi e cominciai a pronunciare parole che non avrei mai pensato di dire. «Devi essere tu la più forte, Bianca», spiegai, «devi essere tu a guidarci. Al momento non ho abbastanza forza per tutti e due, ed è questo che mi stai chiedendo. Sono distrutto, dentro. Distrutto. No, aspetta, non interrompere ciò che intendo dire. E non piangere. Ascoltami. Devi donarmi la
tua piccola riserva d'energia perché ne ho bisogno. Ho poteri che vanno al di là della tua immaginazione, ma al momento non riesco ad attingervi. E, finché non ci riesco, sei tu che devi guidarci in avanti. Guidaci con la tua sete e con la tua meraviglia, perché sicuramente in questo stato vedi cose mai viste e sei colma di quella meraviglia.» Annuì. Gli occhi le si fecero più freddi e più splendidamente calmi. «Non vedi?» chiesi. «Se riesci a venire con me durante queste poche notti, significa che possiedi davvero l'immortalità.» Chiuse gli occhi e gemette. «Oh, adoro il suono della tua voce», dichiarò, «ma ho paura. Nel sarcofago, al buio, quando mi sono svegliata mi è sembrato tutto un sogno avvelenato, e ho paura di cosa possono farci se scoprono cosa siamo, se cadiamo nelle loro mani e se... se...» «Se cosa?» «Se tu non riesci a proteggermi.» «Ah, certo, se io non riesco a proteggerti.» Tacqui, restando seduto. Ancora una volta non mi sembrò possibile che fosse capitato a me. La mia anima era stata bruciata, il mio spirito anche. La mia forza di volontà era ferita e la mia felicità rovinata. Ricordai il primissimo ballo, quello organizzato da Bianca a casa nostra, e ricordai le danze e i tavoli con i vassoi dorati pieni di frutta e carni speziate, il profumo del vino e il suono della musica, e le numerose stanze piene di anime appagate tra i dipinti che svettavano su tutto, e non mi sembrò possibile che qualcuno fosse riuscito a togliermi tutto ciò, quando ero piazzato così saldamente nel regno dei mortali ignari. Oh, Santino, pensai, come ti odio. Come ti disprezzo. Lo rividi mentre si avvicinava a me, a Roma. Lo rividi con la sua tunica nera che odorava di terriccio, i capelli neri tenuti lunghi e puliti in modo vanitoso, e il viso estremamente espressivo con i grandi occhi scuri, e lo odiai. Avrei mai avuto la possibilità di annientarlo? Oh, sicuramente sarebbe giunto un tempo in cui non sarebbe stato circondato da così tanti seguaci, quando avrei potuto averlo saldamente tra le mani e, grazie al dono del fuoco, costringerlo a pagare per ciò che mi aveva fatto. E Amadeo, dov'era il mio Amadeo, e dov'erano i miei ragazzi che erano stati rapiti così brutalmente eppure meticolosamente? Rividi di nuovo il cadavere del mio povero Vincenzo assassinato, steso sul pavimento. «Marius, mio Marius», disse tutt'a un tratto Bianca. «Ti prego, non resta-
re seduto insieme a me così silenzioso.» Allungò una mano, una mano pallida e fluttuante, non osando toccarmi. «Scusa se sono così debole. Credimi, mi dispiace. Cos'è che ti rende tanto silenzioso?» «Nulla, mia cara, pensavo solo al mio nemico che mi ha fatto assalire dai suoi seguaci col fuoco e che mi ha distrutto.» «Ma tu non sei distrutto», mi contraddisse lei, «e in qualche modo io troverò la forza necessaria.» «No, rimani qui, per ora», la pregai. «Hai già fatto abbastanza. E il tuo povero gondoliere ha dato la vita per me, la notte scorsa. Rimani qui fino al mio ritorno.» Lei rabbrividì e allungò la mano come per afferrarmi. La costrinsi a restare a distanza. «Non puoi abbracciare quello che sono, non ancora. Ma uscirò e andrò a caccia finché sarò abbastanza forte per portarti via da qui, in un luogo che sia sicuro e dove io possa guarire completamente.» Chiusi gli occhi, anche se naturalmente lei non poteva accorgersene a causa della maschera, e pensai a Coloro-che-devono-essere-conservati. Mia regina, ti prego, sto per venire da te e quando lo farò mi darai il Sangue, pensai. Ma non avresti potuto inviarmi una fugace visione per avvertirmi? Oh, prima non ci avevo nemmeno pensato, eppure adesso mi esplose nella mente. Sì, dal suo trono distante lei avrebbe potuto farlo, avrebbe potuto mettermi in guardia. Ma come potevo chiedere una cosa del genere a chi non si muoveva, né parlava da mille anni? Non avrei mai imparato? Cosa dire a Bianca, tuttavia, che stava tremando e supplicandomi di badare a lei? Mi destai dal mio torpore. «No, io verrò con te», dichiarò pietosamente. «Scusa se sono stata debole. Ti ho promesso di essere forte come Amadeo. Voglio esserlo. Ora sono pronta a venire con te.» «No, non sei pronta», affermai. «Ma hai più paura di restare qui sola che di uscire con me. Hai paura di non vedermi tornare.» Annuì come se l'avessi costretta ad ammetterlo, invece non era così. «Ho sete», ammise sommessamente. Lo disse con eleganza, poi con stupore. «Ho sete di sangue. Devo venire con te.» «Benissimo, allora», replicai. «La mia adorabile, dolce compagna. Acquisterai forza. La forza ti si insedierà nel cuore. Non temere. Ho tanto da insegnare, e mentre trascorrono queste notti, quando saremo tranquilli, ti
racconterò degli altri che ho conosciuto, della loro forza e bellezza.» Annuì di nuovo, sgranando gli occhi. «Sono quella che ami di più?» ribatté. «È questa l'unica cosa che voglio sapere, e puoi anche mentirmi.» Sorrise, persino mentre le lacrime le rigavano le gote. «Certo», risposi. «Ti amo più di chiunque altro. Tu, trovandomi annientato, mi hai donato la tua forza per salvarmi.» Era una risposta fredda, priva di adulazione o gentilezza, eppure parve bastarle, e rimasi colpito da come Bianca fosse diversa da coloro che avevo amato in precedenza, da Pandora nella sua saggezza o da Amadeo nella sua astuzia. Sembrava dotata in egual misura di dolcezza e intelletto. La portai su per i gradini insieme a me. Lasciammo accesa la piccola candela come se potesse rappresentare un faro per il nostro ritorno. Prima di aprire la porta rimasi in ascolto per udire l'eventuale suono di uno o più seguaci di Santino. Non sentii nulla. Avanzammo silenziosamente lungo i più stretti canali dei quartieri più pericolosi della città. E là trovammo di nuovo le nostre vittime, lottando poco, bevendo molto e gettando i cadaveri nell'acqua sudicia. Quando Bianca si sentì sufficientemente dissetata e scaldata dalle numerose vittime, io non ero ancora soddisfatto. Mi sentivo ancora riarso, ardente e afflitto da un atroce dolore. Perciò continuai la caccia; non ero ancora sazio del sangue consolatorio che mi riempiva braccia e gambe. Tornammo a casa verso l'alba. Non avevamo incontrato alcun pericolo. Io ero stato notevolmente sanato, ma le mie membra continuavano a sembrare bastoncini, e quando infilai una mano sotto la maschera tastai un viso che sembrava irrimediabilmente deturpato. Quanto tempo ci sarebbe voluto? Non ero in grado di dirlo, né a Bianca e nemmeno a me stesso. Sapevo che a Venezia non potevamo contare su troppe notti di quel genere. Si sarebbe sparsa la voce su di noi. Ladri e assassini avrebbero cominciato a tenere gli occhi aperti per individuare la bella donna dal viso bianco e l'uomo con la maschera di pelle nera. Dovevo mettere alla prova la mia facoltà di volare. Sarei riuscito a portare Bianca con me fino al tempio? Avrei dovuto essere tanto forte da coprire la distanza in una sola notte, altrimenti avrei fallito e ci saremmo ritrovati nella disperata necessità di trovare un nascondiglio prima dell'alba. Lei andò a dormire tranquillamente, questa volta senza temere il sarcofago. Sembrava che volesse mostrarmi la propria forza per confortarmi e,
pur non potendomi baciare il viso, si posò un bacio sulle dita sottili e lo soffiò verso di me. Mi rimaneva ancora un'ora prima dell'alba, allora uscii dalla stanza dorata, salii sul tetto e sollevai le braccia. Nel giro di pochi istanti mi ritrovai molto al di sopra della città, spostandomi senza sforzo, come se la mia capacità di volare non fosse mai stata minata; mi allontanai notevolmente da Venezia, voltandomi a guardare la città con le sue numerose luci dorate e lo scintillio serico del mare. Il mio ritorno fu rapido e accurato. Scesi silenziosamente nella stanza dorata con tutto il tempo di stendermi a riposare. Il vento mi aveva sferzato dolorosamente la pelle carbonizzata, ma non importava. Ero felicissimo della scoperta di poter ancora spiccare il volo con la maestria di sempre. Ora sapevo che presto avrei potuto affrontare il viaggio fino a Coloro-che-devono-essere-conservati. La notte seguente, la mia bellissima compagna non si svegliò atterrita, com'era accaduto nella prima. Mentre solcavamo i canali, le raccontai la storia della foresta dei druidi e di come ci ero stato portato, di come la magia mi fosse stata donata all'interno della quercia. Le parlai di Mael, spiegandole che continuavo a disprezzarlo; riferii che qualche tempo prima era venuto a trovarmi a Venezia, e che quella visita mi era sembrata stranissima. «L'ho visto», commentò lei in tono smorzato, ma il suo sussurro echeggiò comunque sulle pareti. «Ricordo la sera in cui è venuto da te, era quella in cui sono tornata da Firenze.» Non riuscivo a pensare chiaramente a quegli eventi. Ed era una consolazione, per me, sentirne parlare da Bianca. «In quella occasione ti avevo portato un piccolo, ma molto grazioso, dipinto di Botticelli, ricordi?» aggiunse. «Quell'essere alto e biondo ti stava già aspettando, quando sono arrivata, ed era cencioso e sporco.» Le immagini mi apparvero chiaramente, mentre parlava. I ricordi si rianimarono, mentre cominciavamo la caccia, i fiotti di sangue, la morte, i cadaveri lasciati cadere nel canale, e ancora una volta il dolore sovrastò la soavità della cura e mi fece accasciare all'indietro nella gondola, indebolito dal piacere. «Devo farlo ancora», le spiegai. Bianca era appagata, ma proseguimmo comunque. Riuscii a far uscire da una casa l'ennesima vittima che mi piombò direttamente tra le braccia, a cui spezzai il collo nella mia goffaggine. Ne presi un'altra e poi un'altra ancora, e alla fine fu solo la spossatez-
za a fermarmi, perché la mia sofferenza non era mai sazia di sangue. Poi, ormeggiata la gondola, presi Bianca tra le braccia, l'avviluppai nel mantello e stringendomela al petto come avevo fatto così spesso con Amadeo, mi innalzai sopra la città e volai a lungo e ben in alto, fino a non vedere più Venezia. Sentii le sue lievi grida disperate contro di me, ma con un fioco sussurro la sollecitai a stare ferma e fidarsi di me; poi tornai indietro e la depositai dolcemente sui gradini di pietra del pontile. «Eravamo tra le nubi, mia principessina», spiegai. «Volavamo insieme ai venti, e alle cose più pure dei cieli.» Mi accorsi che stava tremando di freddo, allora la portai giù nella camera dorata. Il vento le aveva trasformato i capelli in un viluppo di nodi. Aveva le guance arrossate e le labbra color sangue. «Ma cosa hai fatto?» mi chiese. «Hai spiegato le ali come un uccello, per trasportarmi?» «Non ho bisogno d'ali», dichiarai, mentre accendevo diverse candele una dopo l'altra, fino a conferire una parvenza di tepore alla stanza. Quindi infilai una mano sotto la maschera e me la tolsi, poi mi girai a guardare Bianca. Per un attimo lei rimase scioccata, poi si avvicinò, mi guardò negli occhi, e mi baciò sulle labbra. «Marius, ora posso vederti di nuovo», disse. «Sei tu!» Sorrisi e presi lo specchio. Non riuscii a vedere il mio precedente aspetto in quella mostruosità, ma finalmente le labbra mi coprivano i denti, il naso aveva assunto una forma ben distinta e gli occhi erano nuovamente forniti di palpebre. I capelli erano folti e bianchi e corposi come un tempo, e mi arrivavano alle spalle. Mi facevano sembrare il viso ancora più nero. Soddisfatto, posai lo specchio. «Dove andremo quando lasceremo questo posto?» volle sapere lei. Appariva decisa, intrepida. «In un luogo magico, un luogo a cui non crederesti, se te ne parlassi, mia principessa dei cieli.» «Sono in grado di farlo?» chiese. «Di salire nel cielo?» «No, mio tesoro», spiegai, «non ci riuscirai ancora per secoli. Servono tempo e sangue per creare una simile forza. Una notte, però, otterrai questa facoltà e avvertirai la sua stranezza, il senso di solitudine che crea.» «Lascia che ti abbracci», disse.
Scossi il capo. «Parlami, raccontami storie», mi pregò. «Raccontami di Mael.» Ci sedemmo contro la parete, scaldandoci a vicenda. Cominciai a parlare, lentamente, credo, narrando antiche storie. Le parlai ancora della foresta dei druidi e di come ne ero stato il dio per poi fuggire da chi voleva tenermi in trappola, e la vidi strabuzzare gli occhi. Le raccontai di Avicus e Zenobia, della nostra caccia nella città di Costantinopoli. Le dissi come avevo tagliato i magnifici capelli di Zenobia. Narrandole quelle storie mi sentii più tranquillo e meno triste, soprattutto meno debole, e in grado di fare tutto il necessario. Mai, durante tutto il tempo trascorso con Amadeo, le avevo raccontate; mai, con Pandora, era stato così semplice. Con quella creatura, invece, sembrava naturale parlare e trovare consolazione nella cosa. Ricordai che quando avevo posato gli occhi per la prima volta su Bianca, avevo desiderato proprio quello: che fosse con me nel Sangue e che riuscissimo a parlare con lo stesso agio. «Ma ora lasciami passare a storie più piacevoli», dissi, e le raccontai di quando avevo vissuto nell'antica Roma e avevo affrescato le pareti, dei miei ospiti che avevano riso e bevuto vino e si erano rotolati sull'erba del mio giardino. La feci ridere, e sembrò che il mio dolore svanisse per un attimo, svanisse nel suono della voce di Bianca. «C'era una creatura che amavo moltissimo», affermai. «Dimmi di lui», mi chiese. «No, era una donna», precisai. Il fatto che ne stessi parlando sbalordì persino me, eppure continuai. «La conobbi quando entrambi eravamo mortali. Io ero già un giovane uomo e lei solo una bambina. A quei tempi, i matrimoni venivano combinati quando le donne erano soltanto ragazzine, ma suo padre rifiutò di concedermi la sua mano. Non l'ho mai dimenticato. «In seguito, dopo che il Sangue fu dentro di me, ci ritrovammo e...» «Continua, devi dirmelo. Dove vi siete ritrovati?» «Il Sangue entrò in lei», raccontai, «e noi due restammo insieme. Restammo insieme per duecento anni.» «Oh, un periodo tanto lungo?» «Sì, un periodo lungo, anche se non sembrò tale, all'epoca. Ogni notte era nuova; io l'amavo e lei mi amava, naturalmente, e litigavamo così spesso...» «Ma erano litigi benevoli?» chiese Bianca.
«Sì. Hai avuto ragione a porre quella domanda», replicai, «erano sempre litigi benevoli, tranne l'ultimo.» «Quale fu l'ultimo?» «Le feci una cosa crudele e sbagliata. Commisi l'errore di abbandonarla senza preavviso e senza risorse, e da allora non sono più riuscito a trovarla.» «Vuoi dire che la cerchi persino adesso?» «Non la cerco perché non so dove cercare», replicai, mentendo soltanto in parte, «ma guardo sempre...» «Perché l'hai fatto?» domandò Bianca. «Perché l'hai abbandonata?» «Per amore e per rabbia», risposi. «Fu la prima volta che gli adoratori di Satana vennero da noi. Erano creature identiche a quelle che hanno bruciato la mia casa e rapito Amadeo. Solo che è successo secoli fa, capisci? Quella volta non vennero per conto del mio nemico Santino, che all'epoca non esisteva ancora, ma erano della stessa tribù, gli stessi che credono di essere stati posti qui sulla terra come bevitori di sangue per poter servire il Dio cristiano.» Avvertii il suo shock, anche se per qualche attimo non aprì bocca. «Quindi era per questo che ti accusavano di empietà», disse poi. «Sì, dissero cose simili; ci minacciarono e volevano... volevano farci rivelare quello che sapevamo.» «Ma in che modo questo riuscì a dividere te e la donna?» «Li annientammo, era necessario. Lei sapeva che dovevamo farlo, e dopo mi sentii abbattuto e svogliato e mi rifiutai di parlare, allora lei si arrabbiò con me, e io con lei.» «Capisco.» «Dopo quel litigio, l'ho abbandonata. E l'ho fatto perché era risoluta e forte: era stata convinta che gli adoratori di Satana andassero uccisi, mentre io non ne ero sicuro, e persino ora, dopo tutti questi secoli, sono ricaduto nello stesso errore. «A Roma sapevo che esistevano, quelle creature; quel Santino è venuto da me e avrei dovuto distruggere lui e i suoi seguaci, ma non ho voluto averci niente a che fare, capisci, così lui mi ha attaccato, e ha bruciato la mia casa e tutto ciò che amavo.» Bianca era sotto shock e rimase a lungo in silenzio. «La ami ancora, quella donna», dichiarò. «Sì, ma vedi, io non smetto mai di amare nessuno. Non smetterò mai di amare te.»
«Ne sei sicuro?» «Sicurissimo», risposi. «Ti ho amato sin dalla prima volta che ti ho vista. Non te l'ho detto?» «In tutti questi anni non hai mai smesso di pensare a lei?» «No, non ho mai smesso di amarla. Impossibile smettere di pensare a lei e di amarla. Persino i particolari restano con me: solitudine e desolazione me l'hanno impressa a fuoco nella mente. La vedo, sento la sua voce. Aveva un'adorabile voce limpida», spiegai in tono assorto. «Era alta, aveva occhi castani con folte ciglia castane. I capelli erano lunghi e ondulati e castano scuro. Li portava sciolti quando vagava. Naturalmente la ricordo con gli abiti morbidamente drappeggiati di quell'epoca antica, e non riesco a immaginarla come potrebbe essere oggi. Così mi sembrava una dea o una santa, non so bene quale delle due...» Bianca rimase in silenzio poi, finalmente, parlò: «Mi lasceresti per lei, se potessi?» «No, se la trovassi resteremmo tutti e tre insieme.» «Oh, sarebbe troppo bello», commentò lei. «So che è possibile, so che è possibile e che sarà davvero così, tutti e tre insieme. Lei vive, prospera, vaga, e verrà un tempo in cui noi tre saremo insieme.» «Come fai a sapere che è viva? E se... ma non voglio che le mie parole ti feriscano.» «Spero che viva.» «Mael, quella creatura bionda, è stato lui a dirtelo?» «No, Mael non sa nulla di lei. Nulla. Non credo di avergli mai detto una sola parola su di lei. Non provo amore per Mael. In quelle terribili notti di sofferenza non l'ho invocato perché ci aiutasse. Preferisco che non mi veda come sono ora.» «Non arrabbiarti», disse Bianca in tono consolatorio. «Non soffrire per questa cosa. Capisco. Stavi parlando dolcemente della donna...» «Sì», replicai. «Ho la certezza che è viva, perché so che non si annienterebbe mai senza prima avermi trovato ed essersi assicurata di salutarmi; non avendomi trovato, non avendo alcuna prova del fatto che io sia perduto, non può farlo. Mi capisci?» «Sì», ribatté. Mi si avvicinò strisciando, ma la mia mano guantata la tenne delicatamente a distanza. «Come si chiama?» chiese. «Pandora», risposi.
«Non sarò mai gelosa di lei», annunciò sommessamente. «No, non devi mai esserlo, ma come puoi fare una simile affermazione così in fretta? Come lo sai?» Bianca rispose con calma, dolcemente. «Parli di lei con troppa reverenza, perché io possa esserne gelosa», spiegò, «e so che puoi amarci entrambe perché amavi Amadeo e me. L'ho visto con i miei occhi.» «Oh, sì, hai ragione», sussurrai. Stavo quasi piangendo. Nel profondo del cuore pensai a Botticelli, all'uomo in piedi nel suo studio che mi fissava, mentre si chiedeva impotente che tipo di strano mecenate fossi, senza nemmeno immaginare che la mia rabbia e la mia adorazione fossero mischiate, non si sognava nemmeno del pericolo che gli si era avvicinato tanto. «È quasi l'alba», ribatté lei. «Ora ho freddo. E nulla ha più importanza. Provi la stessa sensazione?» «Presto ce ne andremo da qui», annunciai a mo' di risposta. «Avremo intorno a noi lampade dorate e un centinaio di belle candele. Sì, un centinaio di candele bianche. E staremo al caldo laddove c'è la neve.» «Ah, mio amore», mormorò, «credo in te con tutta l'anima.» La notte seguente andammo di nuovo a caccia, e stavolta come dovesse essere l'ultima, a Venezia. Sembrava non esserci fine al sangue che potevo bere. Senza confessarlo a Bianca, rimasi perennemente in ascolto per percepire il segno dei seguaci di Santino, sicuro che potessero tornare da un momento all'altro. Dopo averla riportata nella stanza dorata, e averla lasciata lì in tutta sicurezza, rannicchiata là tra i suoi fagotti di abiti e le molli candele accese, uscii di nuovo a cacciare, muovendomi rapido sopra i tetti e catturando i peggiori malfattori della città. Ero stupito che la mia fame non avesse ancora instaurato un clima di pace a Venezia, tanto fui selvaggio nell'eliminare quanti propendevano verso il male. Quando fui sazio di sangue, mi recai nei luoghi segreti del mio palazzo bruciato e recuperai l'oro che altri non erano riusciti a trovare. Alla fine salii sul tetto più alto; guardai verso Venezia, e le dissi addio. Avevo il cuore spezzato e non sapevo come sarei riuscito a guarirlo. L'età dell'oro per me si era conclusa nel tormento, e nella catastrofe per Amadeo. E forse era finita anche per la mia dolce Bianca. Capii, grazie alle mie membra scarne - non del tutto sanate da tante ucci-
sioni - che dovevo insistere con Coloro-che-devono-essere-conservati e condividere il segreto con Bianca, perché, per quanto lei fosse giovane, non avevo altra scelta. Nella mia tremenda infelicità, trovavo eccitante la possibilità di condividere il segreto, finalmente. Sapevo che sarebbe stato terribile porre un tale fardello su spalle tanto fragili, ma ero stanco del dolore e della solitudine. Ero stato sconfitto. E desideravo solo raggiungere il sacrario, con Bianca tra le braccia. 27 Infine giunse il momento di metterci in viaggio. Era troppo pericoloso restare a Venezia, e ormai sapevo di poter raggiungere il sacrario con Bianca. Portando con noi un fagotto di abiti e tutto l'oro che potevo, la avvolsi accuratamente nel mantello, la strinsi a me e, prima che quella notte fosse trascorsa per metà, attraversai le montagne, affrontando venti gelidi e neve. Ormai Bianca si era abituata a determinati miracoli, e sentirsi depositare su un valico montano pieno di neve non la spaventò. Io, invece, fui assalito dalla dolorosa consapevolezza di aver commesso un gravissimo errore di giudizio: infatti, nelle mie condizioni non ero abbastanza forte per aprire il portale del sacrario. Ero stato io, naturalmente, a creare quella porta di pietra profilata in ferro per bloccare qualsiasi attacco umano, e dopo diversi patetici tentativi di aprirla dovetti confessare che l'impresa era superiore alle mie forze; dovevamo trovare un altro rifugio prima dell'alba. Bianca cominciò a piangere, e io mi arrabbiai con lei. Tentai un nuovo attacco: indietreggiai e, utilizzando tutti i miei poteri mentali, ordinai alla lastra di spostarsi. Non ottenni alcun risultato; il vento e la neve ci sferzavano con violenza, e le lacrime di Bianca mi infuriarono a tal punto che urlai: «Ho creato io questa porta e riuscirò ad aprirla», dichiarai. «Dammi solo il tempo di decidere cosa fare.» Mi voltò le spalle, palesemente ferita dalla mia collera, poi mi fece una domanda con voce triste eppure umile. «Cosa c'è lì dentro? Sento giungere un suono terribile da dietro la porta, simile a quello del battito del cuore. Perché siamo venuti? Dove andremo se non possiamo trovare riparo qui?»
Tutte quelle domande mi fecero infuriare ancora di più, ma quando la guardai, quando la vidi seduta sulla roccia dove l'avevo depositata, la neve che le cadeva su testa e spalle, il capo chino, le lacrime scintillanti e rosse come sempre, mi vergognai di averla trattata male, nella mia debolezza, e di essermi arrabbiato con lei. «Stai tranquilla, la aprirò», le dissi. «Non puoi sapere cosa c'è all'interno, ma fra poco lo scoprirai.» Emisi un profondo sospiro, strinsi le mani bruciate sulla maniglia di ferro e tirai con tutta la mia forza, senza però riuscire a muovere la porta. A un tratto mi resi conto della totale assurdità della situazione: non riuscivo a entrare! Ero troppo debole e non sapevo quanto a lungo avrei potuto resistere. Eppure tentai ancora e ancora, solo per convincere Bianca che ero in grado di proteggerla, che potevamo entrare in quello strano luogo. Alla fine diedi la schiena al sancta sanctorum, la raggiunsi e la strinsi a me, coprendole la testa col mantello per scaldarla come meglio potevo. «Molto presto ti racconterò tutto», le promisi, «troveremo un riparo per stanotte, non dubitarne. Per ora posso solo dirti che questa è una cappella che ho costruito io, ed è nota solo a me, ma sono troppo debole per entrare, come hai visto.» «Perdonami se ho pianto», ribatté dolcemente lei. «Non mi vedrai versare altre lacrime. Ma cos'è il suono che sento? Gli esseri umani non riescono a udirlo?» «No, non possono», risposi. «Ma stai tranquilla, mio coraggioso tesoro.» In quel preciso istante sentimmo un rumore nuovo e completamente diverso, talmente forte che avrebbe potuto essere udito da chiunque. Era inconfondibile, lo riconobbi subito e mi girai, incredulo e spaventato tanto quanto esterrefatto: la pesante porta di pietra si stava aprendo alle mie spalle. Mi affrettai a stringere Bianca e restammo fermi davanti alla porta mentre si apriva. Il cuore mi batteva all'impazzata; riuscivo a stento a respirare. Sapevo che soltanto Akasha avrebbe potuto fare una cosa del genere e, mentre la porta si spalancava completamente, vidi un altro miracolo di pari gentilezza e bellezza che non avrei mai neppure sognato: una luce intensa e copiosa sgorgava dall'apertura del corridoio di pietra! Per un attimo rimasi troppo sbalordito per muovermi, poi fui invaso dalla pura felicità, mentre fissavo quell'inondazione di splendida luce. Apparentemente non potevo averne paura né dubitare del suo significato. «Vieni, Bianca», le dissi, guidandola in avanti, accanto a me.
Lei si strinse il fagotto al petto come se, lasciandolo andare, rischiasse la morte, e io la tenni stretta, quasi temendo di cadere senza il suo appoggio. Imboccammo il passaggio e avanzammo lentamente nel chiarore brillante e guizzante della cappella. Tutte le numerose lanterne di bronzo erano accese. Le cento candele sfavillavano magnificamente. Non appena notai quei particolari che mi pervasero di gioia, la pesante porta si richiuse dietro di noi con un enorme fragore di pietra che cozzava contro la pietra. Alla luce delle cento candele, mi trovai a fissare i volti dei Divini Genitori, vedendoli forse come li vedeva Bianca, e sicuramente con occhi nuovi e grati. Mi inginocchiai, e anche lei si inginocchiò al mio fianco. Stavo tremando. In realtà ero talmente sbalordito che per un attimo dimenticai di respirare. Era assolutamente impossibile, per me, spiegarle l'autentica portata di quanto era appena successo; sarei solo riuscito a spaventarla, se ci avessi provato. E parole imprudenti pronunciate davanti alla mia regina sarebbero state imperdonabili. «Non parlare», le sussurrai alla fine. «Sono i nostri progenitori. Hanno aperto loro la porta, quando io non ci riuscivo. Hanno acceso le candele e le lanterne per noi. Non puoi nemmeno immaginare il significato di questa benedizione. Ci hanno dato il benvenuto, e noi possiamo rispondere solo con le preghiere.» Bianca annuì. Aveva il viso colmo di pietà e meraviglia. Akasha approvava che avessi condotto ai suoi piedi una bevitrice di sangue squisita? Con voce sommessa e reverenziale le narrai la storia dei Divini Genitori, ma solo nei termini più semplici e nobili. Le spiegai come fossero diventati i primissimi bevitori di sangue, migliaia di anni prima, in Egitto, e che ormai non avevano più fame di sangue e nemmeno parlavano o si muovevano. Io ero il loro custode e guardiano, lo ero stato durante tutta la mia esistenza come bevitore di sangue e lo sarei stato sempre. Le spiegai tutto in modo che non avesse paura di nulla e non temesse le due figure immobili che guardavano fisso davanti a sé, immerse in un orripilante silenzio, e sembravano non battere nemmeno le ciglia. Così avvenne che la tenera Bianca fu iniziata a quei potenti misteri con estrema cura e li considerò magnifici e nulla più. «Era in questa cappella che venivo, quando lasciavo Venezia», spiegai, «accendevo le lanterne per il re e la regina e portavo loro fiori freschi. Vedi, ora non ce ne sono, ma li porterò appena posso.» Ancora una volta mi resi conto che, a dispetto del mio entusiasmo e del-
la mia gratitudine, non riuscivo a rivelarle come fosse miracoloso che Akasha ci avesse aperto la porta e acceso le lampade. Anzi, non osavo farlo e, dopo aver concluso la rispettosa litania, chiusi gli occhi e in silenzio ringraziai Akasha ed Enkil per averci lasciato entrare nel sacrario e averci accolto con il dono della luce. Offrii ancora e ancora le mie preghiere, forse incapace io stesso di afferrare il fatto che mi avessero dato il benvenuto in quel modo e non riuscendo a capirne il significato fino in fondo. Ero amato? Ero necessario? Apparentemente dovevo accettare tutto senza alcuna presunzione. Apparentemente dovevo essere grato senza immaginare cose che non esistevano. Rimasi a lungo inginocchiato, in silenzio, e Bianca doveva sicuramente avermi osservato perché tacque anche lei, ma a un certo punto non riuscii a sopportare oltre la sete. Fissai Akasha. Desideravo il Sangue. Non riuscivo a pensare ad altro. Tutte le mie lesioni erano come ferite aperte. E le mie ferite sanguinavano per il Sangue. Dovevo tentare di bere quello onnipotente della regina. «Mia cara», dissi, posando la mano guantata sul tenero braccio di Bianca, «voglio che tu vada a sederti in quell'angolo. Rimani tranquilla e non dire nulla su quello che vedi.» «Ma cosa succederà?» sussurrò lei. Per la prima volta sembrava spaventata. Si guardò intorno, osservando il fumo tremolante delle lanterne, le candele sfavillanti, le pareti dipinte. «Fai come dico», replicai. Doveva allontanarsi, perché non potevo sapere se la regina mi avrebbe permesso di bere. Non appena Bianca fu nell'angolo, avviluppata nel suo pesante mantello e il più lontano possibile da me, pregai silenziosamente per chiedere il Sangue. «Puoi vedere me e ciò che sono», dissi, «sai che sono stato bruciato. Ecco perché mi hai aperto la porta e lasciato entrare, perché hai visto che non potevo farlo da solo, e sicuramente vedi che mostro sono diventato. Abbi pietà di me e lasciami bere da te come hai fatto in passato. Ho bisogno del Sangue, ne ho bisogno più che mai. E quindi mi presento a te con rispetto.» Mi tolsi la maschera di pelle e la posai di lato. Ero orrendo come gli antichi dei ustionati che una volta, quando si erano recati da lei, Akasha aveva annientato. Mi avrebbe negato il Sangue nella stessa maniera? Oppure aveva sempre saputo cosa mi era successo? Aveva capito tutto, ancor prima che la porta si aprisse?
Mi alzai lentamente, andai a inginocchiarmi ai suoi piedi e le posai la mano sulla gola, in stato di perenne tensione per paura del braccio di Enkil, che però non si mosse. Le baciai la gola, sentendo i suoi capelli intrecciati contro di me e vedendo la sua pelle candida davanti a me, e udendo solo il pianto sommesso di Bianca. «Non piangere, Bianca», sussurrai. Affondai i denti all'improvviso, crudelmente, come avevo fatto così spesso, e il sangue denso zampillò dentro di me, brillante e caldo come la luce delle lanterne e quella delle candele, riversandosi dentro come se il cuore di Akasha lo stesse pompando deliberatamente in me, accelerandomi il battito cardiaco. Sentivo la testa leggera. Sentivo il corpo leggero. In lontananza, Bianca piangeva. Perché aveva paura? Vidi il giardino. Vidi il giardino che avevo dipinto dopo essermi innamorato di Botticelli, ed era pieno degli aranci e dei fiori di Botticelli, eppure era il mio giardino, quello della casa di mio padre alla periferia di Roma, tanto tempo prima. Come avrei mai potuto dimenticare il mio giardino? Come avrei mai potuto dimenticare quel luogo dove avevo giocato per la prima volta da bambino? Con la memoria tornai ai giorni che avevo trascorso a Roma come mortale. Mi rividi mentre camminavo in giardino sull'erba morbida, ascoltando il suono della fontana, poi sembrò che nel corso del tempo il giardino cambiasse pur rimanendo immutato, ed era sempre lì per me. Mi stesi sull'erba, e i rami degli alberi si mossero sopra di me. Sentii una voce che mi parlava, rapida e dolce, ma non capivo cosa stesse dicendo, poi seppi che Amadeo era ferito, si trovava nelle mani di chi lo avrebbe fatto soffrire crudelmente, e seppi che adesso non potevo andare da lui, altrimenti sarei semplicemente caduto nelle loro trappole, quindi dovevo rimanere dov'ero. Ero il custode del re e della regina come avevo spiegato a Bianca, sì, il loro custode, e dovevo lasciare che Amadeo entrasse nel tempo, e forse, se avessi fatto ciò che dovevo, forse Pandora mi sarebbe stata restituita, la mia Pandora che adesso viaggiava attraverso le città del Nord Europa. Il giardino era verdeggiante e profumato; la vidi chiaramente, con il suo morbido abito bianco, i capelli sciolti come li avevo descritti a Bianca. Pandora sorrise. Mi si avvicinò. Mi parlò: La regina vuole che stiamo insieme, disse. I suoi occhi erano grandi e avevano un'espressione interrogativa, e io seppi che era vicina, vicinissima, tanto che potevo quasi toccarle
la mano. È impossibile che io lo stia solo immaginando, impossibile, pensai. E captai di nuovo, vividamente, il suono della sua voce che discuteva con me, durante la nostra prima notte come sposi: Persino mentre questo nuovo sangue mi sfreccia nelle vene, mi divora e mi trasforma, non mi aggrappo alla ragione o alla superstizione per salvarmi. Posso attraversare un mito e uscirne! Hai paura di me perché non sai chi sono. Sembro una donna, parlo come un uomo, e la ragione ti dice che è impossibile. La stavo guardando negli occhi. Era seduta sulla panca del giardino, togliendosi qualche petalo di fiori dai capelli castani, nuovamente ragazza nel Sangue, una donna-fanciulla in eterno, così come Bianca sarebbe rimasta in eterno una giovane donna. Allungai le mani accanto a me e tastai l'erba. All'improvviso caddi all'indietro, fuori dal giardino di sogno, fuori dall'illusione, e mi ritrovai steso sul pavimento della cappella, tra l'alta fila di candele perfette e i gradini della pedana dove la coppia sul trono manteneva il suo antico posto. Sembrava tutto immutato, intorno a me. Persino il pianto di Bianca era rimasto lo stesso. «Ora taci, mia cara», le dissi. Ma i miei occhi erano incatenati al viso di Akasha sopra di me, e al suo seno sotto la seta dorata della tunica egizia. Era come se Pandora fosse stata lì con me, come se fosse stata nella cappella. E la sua bellezza pareva connessa all'avvenenza e alla presenza di Akasha, in una maniera intima che non potevo comprendere. «Cosa sono questi portenti?» sussurrai. Mi drizzai a sedere per poi inginocchiarmi. «Dimmi, mia amata regina, cosa sono? Un tempo hai condotto Pandora da me perché volevi che stessimo insieme? Ricordi quando Pandora mi ha detto quelle parole?» Mi zittii, ma la mia mente continuò a parlare con Akasha. La mia mente la supplicò: Dov'è Pandora? La riporterai da me? Dopo parecchio tempo mi alzai. Girai intorno alla fila di candele e trovai la mia preziosa compagna profondamente turbata dal semplice miracolo a cui aveva assistito: il fatto che avessi bevuto dalla regina immobile. «Subito dopo sei crollato all'indietro, come privo di vita», raccontò. «Non ho osato raggiungerti perché mi avevi detto di non muovermi.» La consolai. «Alla fine ti sei svegliato, e hai parlato di Pandora, e ho visto che eri co-
sì... così risanato.» Aveva ragione. Ero più forte che mai, con braccia e gambe più massicce e pesanti, e con i lineamenti naturali più marcati. Ero ancora gravemente ustionato, ma comunque un uomo alto e apparentemente robusto, e in realtà percepivo più distintamente il mio antico vigore nelle membra. Ma ormai mancavano solo due ore all'alba e, non essendo in grado di aprire la porta, né dell'umore adatto per pregare Akasha di operare un miracolo per chicchessia, sapevo di dover dare il mio sangue a Bianca, e così feci. La regina avrebbe trovato oltraggioso che, avendo appena bevuto da lei, io offrissi quel sangue potente a un novizio? Non potevo fare altro che attendere per scoprirlo. Non spaventai Bianca con moniti o dubbi in proposito, ma le indicai a gesti di raggiungermi e sdraiarsi tra le mie braccia. Mi incisi il polso e le dissi di bere. La sentii boccheggiare per lo shock causato dal sangue potente, e le dita delicate le si irrigidirono trasformandole le mani in artigli. Alla fine, di sua volontà, si staccò e si drizzò lentamente a sedere al mio fianco, gli occhi vitrei e pieni di luce riflessa. Le baciai la fronte. «Cosa hai visto nel Sangue, mio tesoro?» chiesi. Scosse il capo come se non sapesse esprimerlo a parole, poi mi posò la testa sul petto. Nella cappella regnavano serenità e pace. Mentre ci stendevamo per dormire insieme, le lanterne si spensero lentamente. Alla fine rimasero accese solo pochissime candele. Sentii avvicinarsi l'alba, e il sacrario era tiepido come avevo promesso e reso scintillante dagli ornamenti preziosi, ma soprattutto dai solenni sovrani. Bianca aveva perso conoscenza. Mi restavano forse tre quarti d'ora prima che il torpore diurno venisse a reclamare anche me. Alzai lo sguardo verso Akasha, assaporando l'ultimo scintillio delle candele morenti riflesso nei suoi occhi. «Sai come sono mendace, vero?» le chiesi. «Sai come sono stato malvagio. E con me giochi al mio stesso gioco, vero, mia sovrana?» Mi sembrò di udire una risata. Forse stavo impazzendo. Sarei stato pienamente giustificato, considerando quanta sofferenza e quanta magia c'erano state, quanta fame e quanto sangue.
Abbassai gli occhi su Bianca, che riposava così fiduciosa tra le mie braccia. «Le ho impresso nella mente l'immagine di Pandora, vero?» sussurrai. «Così, ovunque mi accompagni, la cercherà. Inoltre, nella sua mente angelica, Pandora non può mancare di cogliere la mia immagine. Così potremmo ritrovarci, Pandora e io, attraverso di lei. Bianca non sa cosa ho fatto. Pensa solo a consolarmi con il suo ascolto e io, pur amandola, la porto su a nord con me, nelle terre dove Raymond Gallant mi ha detto che Pandora è stata vista per l'ultima volta. «Oh, è un atto davvero malvagio, ma cosa è necessario per sostenere la vita, quando è gravemente contusa e bruciata come lo è stata la mia? A me serve questa ambizione stravagante e fiacca, a causa della quale abbandono Amadeo, che invece dovrei salvare non appena riacquisto le forze.» Nel sacrario si udì un debole suono. Cos'era? Il gocciolio della cera dell'ultima candela? Sembrava che una voce mi stesse parlando senza suono. Non puoi salvare Amadeo. Sei il custode della Madre e del Padre. «Sì, ho sempre più sonno», bisbigliai. Chiusi gli occhi. «So queste cose, le ho sempre sapute.» Continua, cerca Raymond Gallant, devi ricordare. Guardalo di nuovo in faccia. «Sì, il Talamasca», replicai. «E il castello chiamato Lorwich nell'East Anglia. Il luogo chiamato Casa Madre. Sì. Ricordo entrambe le facce della medaglia.» Ripensai, sognante, alla cena durante la quale Gallant mi aveva raggiunto di soppiatto e mi aveva scrutato con occhi innocenti e indagatori: ripensai alla musica e a come Amadeo sorrideva a Bianca mentre danzavano insieme. Ripensai a tutto. Nella mia mano rividi la moneta d'oro e l'immagine incisa del castello, e mi chiesi se non stessi sognando. Ma sembrava che Raymond Gallant mi stesse parlando, molto distintamente. «Ascoltami, Marius, ricordami. Sappiamo di lei, Marius. Osserviamo e ci siamo sempre.» «Sì, a nord», sussurrai. E sembrò che la regina del silenzio dichiarasse, senza parole, che era soddisfatta. 28
Mentre ripenso al passato, adesso, sono sicuro che Akasha mi abbia distolto dal tentativo di salvare Amadeo, e mentre rifletto su quanto ti ho appena rivelato, sono sicuro che sia intervenuta nella mia vita anche in altre occasioni. Se avessi cercato di andare verso Roma, sarei caduto nelle mani di Santino e sarei stato annientato. Ma quale esca sarebbe stata più efficace, per me, della promessa di poter rivedere presto Pandora? Naturalmente il mio incontro con Raymond Gallant era reale, e i suoi dettagli vividi nella mia mente. Akasha si impadronì indubbiamente di quei dettagli grazie al suo immenso potere. Anche la descrizione di Pandora che avevo fatto a Bianca era reale, e la regina avrebbe potuto scoprire anche quella, se avesse aperto le orecchie per ascoltare le mie lontane preghiere, quando ero a Venezia. Comunque fosse, dalla notte in cui giungemmo nella cappella imboccai una strada che aveva come meta la guarigione e la ricerca di Pandora. Se qualcuno mi avesse detto che entrambe le cose avrebbero richiesto circa duecento anni, forse mi sarei lasciato prendere dalla disperazione, ma non lo sapevo. Sapevo solo che ero al sicuro all'interno del sacrario, e avevo Akasha a proteggermi e Bianca a rendermi felice. Per più di un anno bevvi dalla fonte della Madre. E per sei di quei dodici mesi diedi il mio potente sangue a Bianca. Durante quelle notti, quando non ero in grado di aprire la porta di pietra, mi vidi assumere un aspetto sempre più vigoroso dopo ogni banchetto divino, e trascorsi le lunghe ore parlando con Bianca in rispettosi sussurri. Cominciammo a usare con parsimonia l'olio per le lanterne e risparmiammo le pregiate candele da me sistemate dietro i Divini Genitori perché non avevamo idea di quanto tempo sarebbe passato prima che riuscissi ad aprire il portale per poi andare a caccia con Bianca nelle lontane città o paesini alpini. Alla fine giunse una notte in cui l'idea di avventurarmi all'esterno mi si affacciò alla mente con particolare forza, e fui tanto saggio da capire che non era casuale: mi era stata suggerita da una serie di immagini. Ormai potevo aprire la porta, potevo uscire e portare Bianca con me. Quanto all'aspetto che mostravo al mondo mortale, la pelle era nera come il carbone e costellata di grosse cicatrici come se fossi stato colpito con un attizzatoio rovente. Ma il volto che vidi nello specchio di Bianca era perfettamente formato, con l'espressione serena che mi era sempre stata
cosi familiare. Il corpo era ridiventato vigoroso, e le mani di cui vado così fiero erano quelle di uno studioso, con lunghe dita agili. Per un altro anno non osai spedire una lettera a Raymond Gallant. Portando con me Bianca in cittadine molto lontane, cercavo frettolosamente e goffamente i malfattori. Visto che simili creature si spostano spesso in branco, assaporavamo un ghiotto banchetto, dopo di che toglievo ai morti gli indumenti e l'oro, e tornavamo nel sacrario molto prima del sorgere del sole. Quando ci ripenso, credo che almeno dieci anni siano trascorsi in quel modo. Ma il tempo è così strano, per noi, come posso esserne sicuro? Ciò che ricordo è che tra me e Bianca esisteva un legame fortissimo, un legame che sembrava assolutamente indistruttibile. Con il passare degli anni lei divenne la mia compagna nel silenzio, tanto quanto lo era stata nella conversazione. Ci muovevamo come una cosa sola, senza bisogno di discutere o consultarci. Bianca era diventata una cacciatrice fiera e spietata, devota alla maestà di Coloro-che-devono-essere-conservati, e beveva sempre da più di una vittima, ove possibile. In realtà, sembrava non vi fossero limiti al sangue che poteva sorseggiare. Voleva la forza, sia da me che dai malfattori che prendeva con virtuosa freddezza. Cavalcando i venti tra le mie braccia, volgeva gli occhi verso le stelle senza alcun timore. E spesso mi parlava sommessamente e agevolmente della sua vita mortale a Firenze, raccontandomi della sua gioventù e di come aveva amato i fratelli, che nutrivano una grande ammirazione per Lorenzo il Magnifico. Aveva visto diverse volte il mio caro Botticelli e mi descrisse dettagliatamente dipinti che io non avevo ammirato. Di tanto in tanto mi cantava canzoni da lei composte. Parlava con tristezza della morte dei fratelli e di come era caduta in balia dei parenti malvagi. Mi piaceva ascoltarla, tanto quanto mi piaceva parlarle. In realtà, la conversazione tra noi era talmente fluida che ancora me ne stupisco. E anche se spesso, al mattino, si pettinava i magnifici capelli e li intrecciava con i fili di minuscole perle, non si lamentava mai del nostro destino e portava, come me, le tuniche e i mantelli smessi degli uomini che uccidevamo. Ogni tanto, insinuandosi con discrezione dietro il re e la regina, estraeva dal suo prezioso fagotto un magnifico abito di seta e lo indossava con cura, il tutto per dormire tra le mie braccia, dopo che l'avevo coperta di affettuo-
si complimenti e baci. Non avevo mai assaporato una simile pace, con Pandora. Non avevo mai assaporato una simile amorevole semplicità. Eppure era Pandora a riempirmi la mente: Pandora che si spostava nelle città del Nord, Pandora con il suo compagno orientale. Alla fine giunse una sera in cui, dopo una caccia furiosa che l'aveva stremata e saziata, Bianca chiese di essere riportata in anticipo al tempio, e io potei godere di tre ore inestimabili, prima dell'alba. Sì, perché nel frattempo ero entrato in possesso di una nuova dose di forza che le avevo tenuto nascosta, forse senza volerlo. Allora mi recai in un distante monastero alpino che aveva risentito notevolmente della recente nascita di quella che gli studiosi definivano la Riforma protestante. Sapevo di potervi trovare monaci spaventati che avrebbero accettato il mio oro e mi avrebbero aiutato a spedire una lettera in Inghilterra. Entrando nella cappella deserta, presi tutte le candele di cera d'api che trovai, con lo scopo di rimpinguare la scorta del sacrario, e le infilai in un sacco che avevo portato. Raggiunsi poi lo scnptorium, dove trovai un anziano monaco intento a scrivere molto rapidamente alla luce di un'unica candela. Alzò lo sguardo verso di me non appena avvertì la mia presenza. «Sì», dissi subito nel suo dialetto tedesco. «Sono uno strano uomo, giunto fino a voi in modo strano, ma credetemi quando dichiaro che non sono malvagio.» Aveva i capelli grigi, con la tonsura, portava un saio marrone ed era leggermente intirizzito nella sala di scrittura deserta. Non provò il minimo timore mentre mi fissava. Ma in fin dei conti, mi dissi, non ero mai sembrato più umano. Avevo la pelle nera come quella di un moro e portavo abiti grigi e piuttosto scialbi sottratti a un miscredente condannato. Mentre lui continuava a guardarmi, non manifestando la benché minima intenzione di dare l'allarme, eseguii il vecchio trucco di posargli davanti un sacchetto di monete d'oro per il bene del monastero, che ne aveva un gran bisogno. «Devo scrivere una lettera», spiegai, «e fare in modo che raggiunga un determinato luogo in Inghilterra.» «Un luogo cattolico?» chiese, mentre mi guardava inarcando le folte sopracciglia.
«Credo di sì», risposi con un'alzata di spalle. Naturalmente non potevo rivelargli la natura secolare del Talamasca. «Allora vi conviene ripensarci», commentò lui. «L'Inghilterra non è più cattolica.» «Cosa volete dire?» domandai. «Sicuramente la Riforma non ha raggiunto una terra del genere.» Scoppiò a ridere. «No, non proprio la Riforma», spiegò, «ma piuttosto la vanità di un re che voleva divorziare dalla moglie spagnola e cattolica, e ha negato al papa il potere di legiferare contro di lui.» Ero così abbattuto che mi sedetti su una panca vicina pur non essendo stato invitato a farlo. «Cosa siete?» chiese l'anziano monaco. Posò la penna d'oca. Mi fissò con aria estremamente meditabonda. «Non ha importanza», replicai in tono stanco. «Pensate che non vi sia alcuna possibilità che una lettera possa raggiungere un castello chiamato Lorwich, nell'East Anglia?» «Non lo so», ammise il monaco. «Potrebbe anche succedere perché vi sono alcuni che si oppongono a Enrico VIII e altri che non lo fanno. Ma in generale il re ha distrutto i monasteri dell'Inghilterra. Quindi, qualunque lettera voi scriviate, attraverso di me non può giungere a nessun monastero che possa occuparsi del recapito, se però siete fortunato, potrebbe arrivare direttamente al castello. Ma come si può riuscire? Devo rifletterci sopra. Posso sempre tentare.» «Sì, vi prego, tentiamo.» «Ma prima ditemi cosa siete», mi chiese di nuovo lui. «In caso contrario non scriverò la lettera. Voglio anche sapere perché avete rubato tutte le candele pregiate nella cappella, lasciando solo quelle scadenti.» «Sapete che le ho prese?» domandai. Cominciavo a sentirmi molto in ansia. Pensavo di essere stato silenzioso come un topo. «Non sono un uomo comune», ammise lui. «Sento e vedo cose di cui la gente non si accorge. So che non siete umano. Cosa siete?» «Non posso dirvelo», risposi. «Ditemi cosa pensate che io sia. Ditemi se riuscite a trovare tracce di autentica malvagità nel mio cuore. Ditemi cosa vedete in me.» Mi fissò a lungo. Aveva occhi di un grigio intenso, e mentre scrutavo il suo anziano viso riuscii facilmente a raffigurarmi il giovanotto che era stato, piuttosto risoluto anche se la sua forza di carattere era di gran lunga maggiore adesso, nonostante lui avesse sofferto delle infermità umane.
Alla fine distolse lo sguardo e fissò la candela come se avesse concluso l'esame. «Leggo strani libri», ammise in tono sommesso ma chiaro. «Ho studiato alcuni dei testi usciti dall'Italia che trattano di magia e astrologia e argomenti spesso definiti proibiti.» Il mio battito cardiaco accelerò. Quello era un autentico colpo di fortuna. Preferii non interrompere. «Sono convinto che esistano angeli scacciati dal paradiso», continuò il monaco, «e che non sappiano più cosa sono. Vagano in stato confusionale. Voi sembrate una di quelle creature benché, se ho ragione, non siate in grado di confermarlo.» Rimasi talmente colpito dalla bizzarria del concetto da non riuscire a parlare. Alla fine dovetti rispondere. «No, non lo sono. Lo so per certo. Ma vorrei tanto esserlo. Lasciate che vi confidi un terribile segreto.» «Benissimo», replicò lui. «Potete confessarvi con me, se volete, perché sono un prete e non semplicemente un monaco, ma dubito che potrò concedervi l'assoluzione.» «Ecco il mio segreto: esisto sin dall'epoca in cui Cristo camminò sulla Terra, anche se non ne ho mai sentito parlare.» Il monaco rifletté a lungo e tranquillamente sulla mia dichiarazione, guardando i miei occhi e poi la candela, come se per lui fosse un piccolo rituale. «Non vi credo», dichiarò poi. «Ma siete una creatura che confonde, con la vostra pelle nera e gli occhi azzurri, con i vostri capelli biondi, e con l'oro che mi posate così generosamente dinanzi. Lo prenderò, è ovvio. Ne abbiamo bisogno.» Sorrisi. Lo amavo. Naturalmente non glielo avrei mai detto. Cosa avrebbe significato, per lui? «D'accordo», aggiunse. «Scriverò la lettera per voi.» «Posso farlo da solo», precisai, «se solo mi date la pergamena e la penna d'oca. Ho bisogno che voi la spediate e indichiate questo monastero come il luogo a cui inviare la risposta. Perché è la risposta quello che conta.» Mi diede quello che avevo chiesto, e io mi misi all'opera. Sapevo che mi stava osservando mentre scrivevo, ma non mi importava. Raymond Gallant, sono rimasto vittima di una terribile catastrofe, che ha fatto se-
guito alla notte in cui ti ho conosciuto e ho parlato con te. Il mio palazzo di Venezia è stato distrutto dal fuoco, e io sono stato ferito al di là di ogni immaginazione. Ti prego, stai certo che non è stata opera di mani mortali; una notte, se mai dovessimo incontrarci, ti spiegherò più che volentieri cosa è successo. In realtà, mi procurerebbe un'enorme soddisfazione rivelarti nei dettagli l'identità di chi ha inviato i suoi emissari ad annientarmi. Per il momento sono troppo debole per tentare di vendicarmi, sia a parole, sia con azioni. Sono anche troppo debole per viaggiare fino a Lorwich nell'East Anglia e, grazie a forze che non posso descrivere, godo di un rifugio simile a quello che mi hai offerto tu. Ti supplico, però, di dirmi se hai avuto notizie recenti della mia Pandora. Ti supplico di dirmi se ti si è mostrata. Ti supplico di dirmi se puoi aiutarmi a raggiungerla per via epistolare. Marius Terminata la missiva, la consegnai al prete che aggiunse rapidamente l'indirizzo del monastero, la piegò e la sigillò. Restammo seduti in silenzio per qualche istante. «Come posso contattarvi, quando arriva una risposta?» mi chiese. «Quando succede lo saprò», replicai, «così come voi avete saputo che ho preso le candele. Perdonatemi per averle rubate. Sarei dovuto andare in qualche città a comprarle da un mercante, ma sono diventato un viaggiatore della notte e non mi sarebbe stato possibile procurarle, se non in modo casuale.» «Lo vedo», ribatté il monaco, «perché pur essendovi inizialmente rivolto a me in tedesco, ora state parlando nel latino con cui avete scritto la lettera. Oh, non infuriatevi. Non ne ho letta una sola parola, ma sapevo che era in latino. Un latino perfetto. Un latino che nessuno parla più, oggigiorno.» «La mia ricompensa in oro è sufficiente?» domandai. Mi alzai dalla panca. Per me era giunto il momento di andarmene. «Oh, sì, e non vedo l'ora che torniate. Farò in modo che la missiva venga spedita domani. Se il signore di Lorwich, nell'East Anglia, ha giurato fedeltà a Enrico VIII, riceverete senza dubbio una risposta.» Partii in modo così repentino da dare sicuramente al mio nuovo amico l'impressione di essere improvvisamente scomparso. Mentre tornavo al sacrario, notai per la prima volta le tracce di un inse-
diamento che stava sorgendo troppo vicino a noi. Naturalmente, noi eravamo nascosti in una minuscola vallata al di là di uno strapiombo dall'aria minacciosa, ma quel gruppetto di capanne aveva attirato la mia attenzione, e capii cosa sarebbe potuto succedere. Quando entrai nel tempio, trovai Bianca ancora sveglia, ma non mi fece alcuna domanda su dove ero stato, tuttavia dovetti fare degli sforzi per non parlarle della lettera. Mi chiedevo se sarei riuscito a raggiungere l'Inghilterra, nel caso avessi solcato i cieli da solo. Ma cosa le avrei detto, in tal caso? Non l'avevo mai lasciata sola e sembrava sbagliato farlo. Trascorse poco meno di un anno, periodo durante il quale passai ogni notte vicino al monaco a cui avevo affidato la missiva, abbastanza vicino per poterlo udire. Ormai Bianca e io eravamo già andati a caccia spesso nelle strade di piccole città alpine in una veste diversa da quella con cui, nel frattempo, compravamo merci dai mercanti del posto. Di tanto in tanto affittavamo delle stanze per poterci godere banali comodità, ma avevamo troppa paura di fermarci di mattina, in un luogo che non fosse il sacrario. Intanto continuavo ad avvicinarmi saltuariamente alla regina. Non so in base a cosa scegliessi i momenti in cui farlo. Forse lei mi parlava. Tutto quello che posso dire è che sapevo quando potevo bere da lei e lo facevo, e in seguito arrivava sempre la rapida guarigione, il vigore rinnovato e il desiderio di condividere con Bianca le mie facoltà reintegrate. Finalmente giunse la notte in cui, dopo aver lasciato nuovamente Bianca nel tempio perché era esausta, mi avvicinai al monastero alpino e vidi il mio monaco in piedi nel giardino, con le braccia levate verso il cielo in un gesto talmente romantico e compassionevole che per poco non piansi. Fluidamente, senza produrre il benché minimo rumore, entrai nel chiostro, alle sue spalle. Si voltò subito verso di me, come se vantasse poteri straordinari come i miei. Il vento gli agitò la spessa tonaca marrone, mentre mi si avvicinava. «Marius», sussurrò. Mi indicò di tacere e mi condusse nello scriptorium. Quando vidi com'era voluminosa la lettera che prese dal suo scrittoio, rimasi sbalordito. Il fatto che fosse aperta, con il sigillo spezzato, mi diede da pensare. Lo guardai. «Sì, l'ho letta», ammise. «Pensavate che ve l'avrei consegnata senza far-
lo?» Non potevo perdere altro tempo. Dovevo leggere il contenuto della missiva. Mi sedetti e dispiegai subito le pagine. Marius, che queste parole non ti inducano alla collera o a una decisione avventata. Quello che so di Pandora è quanto segue. È stata vista da quanti tra noi si intendono di simili questioni nelle città di Norimberga, Vienna, Praga e Gutenberg. Viaggia in Polonia. Viaggia in Baviera. Lei e il suo compagno sono estremamente scaltri, disturbando di rado la popolazione umana in mezzo a cui si muovono, ma saltuariamente mettono piede nella corte di determinati regni. Chi li ha visti è convinto che traggano un certo piacere dal pericolo. I nostri archivi sono pieni di resoconti su una carrozza nera che viaggia durante il giorno, trasportando due enormi sarcofagi smaltati in cui si presume dormano queste creature, protette da un drappello di pallide guardie umane che sono riservate, spietate e devote. Persino l'approccio più benevolo o astuto nei confronti di questi umani è seguito da una morte certa, come alcuni dei nostri membri hanno imparato a loro spese quando hanno tentato di capire il mistero di questi viaggiatori oscuri. È opinione di alcuni di noi che le guardie abbiano ricevuto un'esigua porzione del potere di cui il loro padrone e la loro padrona dispongono in abbondanza, il che li ha legati irrevocabilmente a Pandora e al suo compagno. Il nostro ultimo avvistamento della coppia si è verificato in Polonia, tuttavia quelle creature si spostano con estrema rapidità, senza fermarsi a lungo in nessun luogo, e in realtà sembrano felici di fare la spola in Europa, visitandola in lungo e in largo, senza sosta. Si sa che hanno attraversato la Spagna nei due sensi e hanno viaggiato in tutta la Francia, ma senza mai fermarsi a Parigi. Riguardo a quest'ultima città, mi chiedo se tu sappia per quale motivo non vi restino mai a lungo o se devo essere io a illuminarti. Voglio dirti quello che so. A Parigi, attualmente, esiste un folto e devoto gruppo della specie che entrambi sappiamo, in realtà
talmente numeroso che viene da chiedersi se persino Parigi riuscirà ad accontentarlo. E avendo accolto tra le nostre braccia un miscredente disperato uscito da tale gruppo, abbiamo appreso parecchie informazioni sulle caratteristiche di queste insolite creature parigine. Non posso affidare alla pergamena ciò che so di loro. Lasciami dire soltanto che esibiscono un fanatismo sorprendente, convinti di servire Dio stesso tramite il loro energico appetito. E se altri della stessa specie si avventurano nel loro regno, non esitano a distruggerli, dichiarandoli empi. Il miscredente di cui parlo ha ammesso più di una volta che i suoi fratelli e sorelle figuravano tra coloro che hanno provocato la tua immensa perdita e le tue lesioni. Soltanto tu puoi darmene conferma, visto che non so quanto di tutto questo sia mera follia, vanteria o magari un misto delle due cose, e puoi ben immaginare come ci confonda avere sotto il nostro tetto un essere così loquace e ostile, tanto ansioso di rispondere alle domande, quanto atterrito all'idea di restare privo di protezione. Lasciami anche aggiungere un'ultima informazione in mio possesso, che per te potrebbe avere più importanza, adesso, di qualunque notizia sulla tua Pandora. Colui che guida questa vorace e misteriosa banda di creature parigine non è altri che il tuo giovane compagno di Venezia. Conquistato dalla disciplina, dal digiuno, dalla penitenza e dalla perdita del suo antico Maestro - così sostiene il giovane miscredente - il tuo ex compagno si è dimostrato un capo di forza incommensurabile e perfettamente in grado di scacciare qualunque membro della sua specie che cerchi di insediarsi a Parigi. Vorrei poterti dire di più di queste creature. Lasciami ripetere quanto ho suggerito poc'anzi. Si credono al servizio di Dio Onnipotente e da questo principio ricavano una miriade di regole. Marius, non riesco a immaginare l'effetto che simili informazioni avranno su di te. Qui scrivo solo ciò di cui sono sicuro. Ora consentimi di interpretare un ruolo insolito, date le nostre rispettive età. Qualunque sia la tua reazione alle rivelazioni che ti ho appena fatto, non dirigerti in nessun caso verso nord, via terra, per vedermi. Non dirigerti in nessun caso a nord per trovare Pandora.
Non dirigerti in nessun caso a nord per trovare il tuo giovane compagno. Ti metto in guardia da tutto ciò per due motivi. Al momento, come sicuramente saprai, ci sono guerre in corso in tutta Europa. Martin Lutero ha fomentato un notevole tumulto. E in Inghilterra il nostro re Enrico VIII si è dichiarato indipendente da Roma, a dispetto di una strenua resistenza. Naturalmente, noi qui a Lorwich siamo fedeli al nostro sovrano e le sue decisioni si meritano solo il nostro rispetto e onore. Ma questo non è un periodo adatto per viaggiare in Europa. E consentimi di metterti in guardia riguardo a un'altra faccenda che potrebbe stupirti. In tutta Europa, al momento, ci sono persone pronte a perseguitarne altre per stregoneria basandosi su motivi di scarso rilievo, vale a dire che in villaggi e cittadine regna una superstizione relativa alle streghe che sarebbe stata liquidata come assurda persino un centinaio di anni fa. Non puoi permetterti di viaggiare in simili luoghi. Scritti imperniati su stregoni, sabba e l'adorazione del diavolo offuscano la filosofia umana. E sì, temo per Pandora, temo che lei e il suo compagno non badino a simili pericoli, ma ci è stato comunicato diverse volte, che per quanto lei viaggi via terra, lo fa con estrema rapidità. Si sa che i suoi servi hanno acquistato cavalli freschi due o tre volte nello stesso giorno, richiedendo che gli animali freschi fossero di qualità sopraffina. Marius, ti invio i miei più sinceri auguri. Ti prego, scrivimi di nuovo il prima possibile. Ci sono così tante domande che voglio farti. Non oso elencarle in questa lettera. Non so nemmeno se oserò porle. Lasciami soltanto esprimere il desiderio e la speranza di un tuo invito. Devo confessarti che sono l'invidia dei miei fratelli e sorelle, visto che ho ricevuto la tua comunicazione. Non mi monterò la testa, per questo. Nei tuoi confronti provo un timore reverenziale, e ne ho ben donde. Tuo nel Talamasca Raymond Gallant Alla fine mi appoggiai allo schienale della panca, con i numerosi fogli di
pergamena che tremavano nella mia mano sinistra. Scossi il capo, non sapendo quasi cosa pensare, perché la mia mente era in subbuglio. In realtà, dopo la notte della catastrofe a Venezia, mi ero spesso ritrovato senza parole, e non me ne accorsi mai intensamente come in quel momento. Abbassai lo sguardo sulle pagine. Con la mano destra toccai diverse parole, poi la ritrassi, scuotendo di nuovo il capo. Pandora, che si aggirava per l'Europa, alla mia portata, ma forse eternamente irraggiungibile. E Amadeo, conquistato al credo di Santino e inviato a istituirne il culto a Parigi! Oh, sì, riuscivo facilmente a immaginarlo. Mi si riaffacciò alla mente, ancora una volta, la vivida immagine di Santino come l'avevo visto quella sera a Roma, vestito di nero, i capelli puliti in modo vanitoso, mentre mi si avvicinava per sollecitarmi ad accompagnarlo nella sua disgraziata catacomba. Adesso avevo la prova che non aveva annientato il mio splendido novizio, ma lo aveva trasformato in una vittima. Lo aveva conquistato, aveva portato Amadeo a sé! Mi aveva sconfitto completamente, più di quanto avessi mai potuto pensare. E Amadeo, il mio benedetto e bellissimo pupillo, era passato dalla mia incerta tutela a quella perenne cupezza. E sì, oh sì, riuscivo facilmente a immaginarlo. Cenere. In bocca sentii il gusto della cenere. Un brivido freddo mi attraversò. Mi strinsi le pagine al petto, con forza. Poi, all'improvviso, mi resi conto che di fianco a me sedeva il monaco dai capelli grigi, che mi guardava, calmissimo, con il mento appoggiato alla mano sinistra. Scossi di nuovo il capo. Piegai le pagine per farne un plico che potessi portare via. Guardai i suoi occhi grigi. «Perché non fuggite via da me?» chiesi. Ero amareggiato e avrei voluto piangere, ma quello non era il posto adatto per farlo. «Mi siete debitore», dichiarò sommessamente. «Ditemi cosa siete, non foss'altro che per permettermi di capire se ho perso la mia anima servendovi.» «Non l'avete persa», mi affrettai a rassicurarlo, la mia infelicità troppo evidente nel tono di voce. «La vostra anima non ha nulla a che fare con me.» Inspirai a fondo. «Cosa pensate di quanto avete letto nella missiva?»
«State soffrendo come un uomo mortale», disse, «ma non siete mortale. Invece questo tizio in Inghilterra è mortale, ma non ha paura di voi.» «È vero», confermai. «Soffro, e soffro per chi mi ha arrecato un torto, ma non assaporo vendetta, né giustizia. Ma non parliamo di simili questioni, vi prego. Ora vorrei restare solo.» Tra noi calò il silenzio. Per me era giunto il momento di andarmene, ma non avevo ancora la forza di farlo. Gli avevo dato il solito sacchetto pieno d'oro? Dovevo farlo adesso. Infilai una mano sotto la tunica per prenderlo. Lo posai e ne feci uscire le monete per mostrargliele alla luce della candela. Nella mia mente turbinavano pensieri vaghi ed eccitati, legati ad Amadeo e alla brillantezza dell'oro, a com'ero furibondo e a come in me ardesse il desiderio di vendicarmi di Santino. Vidi icone con aureole dorate, vidi la moneta del Talamasca fatta d'oro. Vidi i fiorini d'oro di Firenze. Vidi i bracciali d'oro un tempo sfoggiati da Pandora sulle splendide braccia nude. Vidi i bracciali dorati che avevo messo ad Akasha. Oro, oro, oro. E Amadeo aveva scelto la cenere! Bene, ritroverò Pandora, pensai. La troverò! E soltanto se impreca contro di me la lascerò andare, le permetterò di restare con il suo misterioso compagno. Tremai mentre ci pensavo, mentre giuravo, mentre sussurravo quei pensieri senza parole. Pandora, sì! E una notte, in nome di Amadeo, ci sarebbe stata la resa dei conti con Santino! Seguì una lunga pausa di silenzio. Il prete seduto al mio fianco non aveva paura. Mi chiesi se potesse immaginare seppure lontanamente quanto gli fossi grato perché mi aveva lasciato rimanere lì, immerso in una quiete tanto preziosa. Alla fine, feci correre le dita della mano sinistra sulle monete d'oro. «Bastano per comprare dei fiori?» chiesi. «Fiori e alberi e graziose piante per il vostro giardino?» «Bastano per rifornire i nostri giardini per l'eternità», replicò lui. «Ah, l'eternità!» esclamai. «Provo un tale amore per quella parola, eternità!» «Sì, è una parola senza tempo», commentò lui, inarcando le folte e ispide sopracciglia, mentre mi guardava. «Il tempo è nostro, ma l'eternità appartiene a Dio, non credete?» «Sì, avete ragione», confermai. Mi girai a guardarlo. Gli sorrisi, e notai
che la cosa ebbe il potere di scaldarlo come se gli avessi appena rivolto delle parole gentili. Non riuscì a nasconderlo. «Siete stato buono con me», gli confessai. «Scriverete di nuovo al vostro amico?» domandò lui. «Non da qui. Per me è troppo pericoloso. Da un altro luogo. E ve ne supplico, dimenticate tutto.» Scoppiò a ridere nel modo più schietto e semplice. «Dimenticare!» esclamò. Mi alzai per andarmene. «Non avreste dovuto leggere la missiva», dissi. «Può solo causarvi preoccupazioni.» «Dovevo farlo, prima di darvela», ribatté lui. «Non riesco a capire come mai», ammisi. Mi diressi lentamente verso la porta dello scriptorium. Il prete mi raggiunse. «Quindi ve ne andate, Marius?» volle sapere. Mi voltai. Alzai una mano per salutarlo. «Sì, né angelo né demone, me ne vado», annunciai. «Né buono né malvagio. E vi ringrazio.» Come in precedenza, mi allontanai da lui con tanta rapidità che il monaco non riuscì a vederlo, e poco dopo mi ritrovai solo con le stelle, a fissare la sottostante vallata davvero troppo vicina alla cappella, laddove una città stava prendendo forma ai piedi del mio alto precipizio che tutta l'umanità aveva trascurato per più di un millennio. 29 Aspettai a lungo prima di mostrare la lettera a Bianca. Non gliela nascosi perché lo ritenevo disonesto, tuttavia, mentre lei non mi chiedeva il significato delle pagine che tenevo tra i miei pochi effetti personali, io non le fornii alcuna spiegazione al riguardo. Era troppo penoso, per me, condividere il dolore che provavo per Amadeo. Quanto all'esistenza del Talamasca, era un racconto troppo bizzarro e troppo intrecciato al mio amore per Pandora. Da quel giorno lasciai sempre più spesso Bianca sola nel sacrario. Naturalmente non la abbandonai mai nelle prime ore della sera, quando dipendeva totalmente da me per raggiungere i luoghi in cui potevamo andare a caccia. Anzi, a notte inoltrata - dopo che ci eravamo nutriti - la riaccompagnavo nella sicurezza del tempio per poi andarmene da solo, testando i li-
miti dei miei poteri. Nel frattempo mi stava succedendo una cosa strana. Mentre bevevo dalla Madre il mio vigore cresceva, ma scoprii anche quello che scoprono tutti i bevitori di sangue feriti: mentre guarivo stavo diventando più forte di quanto fossi stato prima delle lesioni. Naturalmente davo a Bianca il mio sangue ma, a mano a mano che la mia forza aumentava, il divario tra noi divenne enorme e io lo vedevo ampliarsi sempre più. In diverse occasioni, naturalmente, chiesi ad Akasha se era disposta a ricevere Bianca, ma sembrava che la risposta fosse negativa, così non trovai mai il coraggio di farle fare un tentativo. Ricordavo fin troppo bene la morte di Eudoxia, e il momento in cui Enkil aveva levato il braccio contro Mael, e non potevo far correre a Bianca quel rischio. Nel giro di breve tempo riuscii facilmente a portarla con me, nottetempo, fino alle vicine città di Praga e Ginevra, dove ci godemmo qualche visione della civiltà che un tempo avevamo conosciuto a Venezia, dove non intendevo tornare, a prescindere dalle suppliche di Bianca. Naturalmente lei non era in grado di volare e dipendeva da me, come Amadeo e Pandora non avevano mai fatto. «Sarebbe troppo doloroso per me», dichiarai. «Quindi non ho intenzione di tornare a Venezia. Hai vissuto qui, così a lungo, come mia splendida compagna. Cos'è che ti manca?» «Voglio l'Italia», ammise con voce fioca, mortificata. Sapevo fin troppo bene cosa voleva dire, ma non le risposi. «Se non posso avere l'Italia, Marius», aggiunse alla fine, «devo avere un altro luogo.» Si trovava nell'angolo sul davanti del sacrario quando pronunciò quelle parole fin troppo eloquenti, e lo fece sottovoce, come se percepisse la presenza di un pericolo. Ci comportavamo sempre con reverenza, in quel santuario. Non sussurravamo alle spalle dei Divini Genitori, lo giudicavamo sgarbato, se non irrispettoso. È una cosa strana, ora che ci penso, ma non potevamo presumere che Akasha ed Enkil non ci udissero, quindi parlavamo spesso nell'angolo vicino all'ingresso, soprattutto quello a sinistra, che Bianca privilegiava, sedendovisi spesso avvolta nel suo mantello più caldo. Quando mi disse quelle parole, alzò gli occhi verso la regina come per
ammettere l'interpretazione. «Mi auguro che lei non voglia vedere il suo sacrario contaminato dal nostro ozio», disse. Annuii. Cos'altro potevo fare? Eppure, erano passati così tanti anni che mi ero abituato a quel luogo più che a qualsiasi altro. E la quieta lealtà di Bianca nei miei confronti era una cosa che davo per scontata. Mi sedetti al suo fianco, prendendole la mano nella mia, e notai, forse per la prima volta da parecchio tempo, che ormai la mia pelle era intensamente abbronzata invece che nera, e le rughe erano meno evidenti. «Voglio confessarti una cosa», dissi. «Non possiamo vivere in una semplice casa, come facevamo a Venezia.» Lei mi ascoltava, con lo sguardo tranquillo. Continuai: «Temo quelle creature, Santino e la sua stirpe demoniaca. Sono passati decenni dall'incendio, ma continuano a minacciarci con i loro nascondigli». «Come lo sai?» chiese lei. Apparentemente aveva molte altre cose da dirmi, ma la pregai di pazientare. Mi avvicinai ai miei effetti personali e presi la lettera di Raymond Gallant. «Leggila», la esortai. «Ti dirà, tra le altre cose, che hanno diffuso le loro abominevoli abitudini fino a Parigi.» Rimasi a lungo in silenzio, mentre leggeva, poi i suoi singhiozzi improvvisi mi fecero sobbalzare. Quante volte l'avevo vista piangere? Come mai ero così impreparato alle sue lacrime? Sussurrò il nome di Amadeo. Non riusciva quasi a costringersi a pronunciarlo. «Cosa significa?» domandò. «Come vivono? Spiegami queste parole. Cosa gli hanno fatto?» Mi sedetti accanto a lei, implorandola di stare calma, poi le raccontai in che modo vivevano i demoni che adoravano Satana - come monaci o eremiti, assaggiando la terra e la morte - e che immaginavano che il Dio cristiano avesse riservato loro un posto preciso nel suo regno. «Hanno imprigionato e lasciato senza cibo il nostro Amadeo», raccontai, «lo hanno torturato. È evidente. E quando lui ha rinunciato a ogni speranza, credendomi morto e ritenendo valida la loro forma di pietà, è diventato uno di loro.» Lei mi guardò con aria solenne, gli occhi colmi di lacrime. «Oh, ti ho visto piangere spesso», dissi. «Ma non di recente, e non amaramente come ora piangi per lui. Ti assicuro che neanch'io l'ho dimentica-
to.» Scosse il capo, come se i suoi pensieri non coincidessero con i miei, ma non potesse rivelarmeli. «Dobbiamo essere scaltri, mio tesoro», continuai. «Qualunque dimora scegliamo, dobbiamo essere al sicuro da loro, per sempre.» Bianca mi guardò come se volesse liquidare i miei timori. «Possiamo trovare un luogo sicuro», suggerì. «Lo sai. Dobbiamo farlo. Non possiamo restare in eterno così come siamo ora. Non fa parte della nostra natura. Se ho imparato qualcosa dalle tue storie è che hai vagato per la terra in cerca di bellezza e di sangue.» Non mi piacque la sua serietà. «Siamo soltanto in due», aggiunse Bianca, «e se quei demoni dovessero tornare con i loro tizzoni ardenti, ti sarà facile condurmi su nei cieli, a una notevole altezza, laddove non possano farmi del male.» «Ammesso che sia con te, mio amore», precisai, «ma nel caso non ci fossi? Per tutti questi anni, da quando ci siamo lasciati alle spalle la nostra splendida Venezia, hai vissuto entro queste mura, dove loro non possono toccarti. Se invece dovessimo trasferirci altrove e fissare là la nostra dimora, io dovrò stare perennemente in guardia. Non è una cosa naturale?» Trovavo terribile quella conversazione. Con lei non avevo mai sperimentato nulla di così arduo. Non mi piaceva l'espressione imperscrutabile sul suo viso, né il modo in cui le tremava la mano. «Forse è ancora troppo presto», commentò. «Ma devo dirti una cosa molto importante, che non posso più nascondere.» Esitai prima di rispondere. «Di cosa si tratta, Bianca?» domandai, scivolando rapidamente nella tristezza, una tristezza profonda. «Credo che tu abbia commesso un grave errore», affermò lei. Rimasi sbalordito. Bianca non aggiunse altro, allora attesi. Ma lei rimase in silenzio, seduta con la schiena addossata alla parete, gli occhi fissi sui Divini Genitori. «Vuoi dirmi quale sarebbe quell'errore?» chiesi. «Devi assolutamente dirmelo! Ti amo. Voglio saperlo.» Lei non parlò. Fissò il re e la regina. Apparentemente non stava pregando. Raccolsi le pagine di pergamena della lettera. Le esaminai e poi guardai di nuovo Bianca. Le sue lacrime si erano asciugate e la bocca appariva rilassata, ma negli
occhi aveva una strana espressione che non riuscivo a spiegarmi. «È il Talamasca a spaventarti?» domandai. «Ti spiegherò tutto. Ma sappi che la lettera che ho mandato loro, l'ho scritta e fatta partire da un monastero lontano, nel quale ho lasciato ben poche orme, mia cara. Ho viaggiato sui venti mentre tu dormivi qui.» Mi rispose solo il suo silenzio. Non sembrava cupo o gelido, semplicemente riservato e assorto. Ma quando lei spostò lo sguardo su di me, il cambiamento sul suo volto fu lento e minaccioso. Con parole pacate mi affrettai a narrarle il mio strano incontro con Raymond Gallant, l'ultima sera del mio periodo di autentica felicità a Venezia. Spiegai il più semplicemente possibile come avesse cercato informazioni su di noi e mi avesse detto che Pandora era stata avvistata nell'Europa settentrionale. Parlai di tutte le questioni trattate nella lettera. Parlai ancora una volta di Amadeo. Parlai del mio odio per Santino, spiegai che mi aveva sottratto tutto ciò che amavo, tranne lei, che proprio per quel motivo era diventata per me la cosa più preziosa. Alla fine preferii non aggiungere altro. Cominciavo ad arrabbiarmi, perché mi sentivo trattato ingiustamente e non riuscivo a comprenderla. Il suo silenzio mi feriva sempre più, però capii che Bianca riusciva a leggermelo sul viso. Finalmente notai un cambiamento: i suoi occhi smisero di essere vitrei, quindi parlò: «Non capisci il grave errore che hai commesso?» chiese. «Non lo hai mai percepito nelle lezioni che mi hai impartito? Secoli fa, i giovani adoratori di Satana sono venuti da te, per quello che avevi da dare quando vivevi con Pandora. Ma tu hai negato loro il tuo prezioso sapere. Invece avresti dovuto rivelargli il mistero della Madre e del Padre!» «Per l'amor del cielo, come hai potuto dire una cosa del genere?» «E quando Santino te l'ha chiesto a Roma, avresti dovuto portarlo in questo stesso sacrario! Avresti dovuto mostrargli i misteri che hai rivelato a me. Se tu l'avessi fatto, lui non ti sarebbe mai stato nemico.» Ero furioso. La fissai: quella era la mia Bianca, tanto intelligente? «Non capisci!» continuò. «Quegli inarrestabili sciocchi hanno creato un culto basato sul nulla, mentre tu avresti potuto mostrargli la giusta via!» Mi rivolse un gesto sprezzante, come se le ispirassi un profondo disgusto. «Quanti decenni abbiamo trascorso qui? Quanto sono forte, ormai? Oh, non hai bisogno di rispondere. Conosco il mio vigore, conosco il mio temperamento.
«Oh, non vedi? La mia comprensione dei nostri poteri è rafforzata dalla bellezza e maestà dei Divini Genitori! So da dove proveniamo! Ti ho visto bere dalla regina. Ti ho visto destarti dal deliquio. Ho visto la tua pelle guarire. «Amadeo, invece, cos'ha mai visto? Santino cos'ha mai visto? E poi ti stupisci della portata della loro eresia.» «Non chiamarla eresia!» esclamai all'improvviso, le parole che sgorgavano impetuose dalle labbra. «Non parlare come se questo fosse un culto! Ti ho detto che esistono cose segrete, e cose che nessuno è in grado di spiegare! Ma noi non siamo adoratori!» «Questa è una verità che tu stesso mi hai svelato!» disse Bianca. Il suo tono di voce si alzò, adirato e del tutto anomalo, per lei. «Avresti potuto spazzare via l'infondata crociata di Santino con una mera, fugace visione dei Divini Genitori.» La fissai in cagnesco. Un accesso di follia si impadronì di me. Mi alzai. Mi guardai intorno nel sacrario, furiosamente. «Raccogli tutte le tue cose», le intimai tutt'a un tratto. «Sto per buttarti fuori da qui!» Lei non si mosse, ma rimase a guardarmi con fredda aria di sfida. «Mi hai sentito? Raccogli i tuoi preziosi abiti, lo specchio, le perle, i gioielli, i libri, qualunque cosa tu voglia. Sto per portarti fuori di qui.» Per qualche istante mi fissò, accigliata, come se non mi credesse. Tutt'a un tratto si animò, ubbidendomi con una serie di rapidi gesti. Dopo pochi istanti mi si piazzò davanti, con il mantello sulle spalle e il suo fagotto stretto al seno, con lo stesso aspetto che aveva avuto innumerevoli anni prima, quando l'avevo portata lì per la prima volta. Non so se si voltò a guardare il viso della Madre e del Padre. Io non lo feci. Non pensai neppure per un attimo che uno di loro avrebbe impedito quella terribile espulsione. Dopo pochi istanti stavo già viaggiando sul vento, senza sapere dove avrei condotto Bianca. Mi spinsi più in alto e più velocemente di quanto avessi mai osato fare, e scoprii di riuscirci senza problemi. In realtà, la mia rapidità mi sbalordì. Le terre davanti a me erano state bruciate nel corso di guerre recenti e sapevo che erano costellate di castelli in rovina. Fu in uno di quelli che la portai, assicurandomi che la cittadina circostante fosse stata saccheggiata e ormai deserta, poi la deposi in una stanza di pietra all'interno della fortezza fatiscente e andai a cercare, nel cimitero
semidistrutto, un luogo dove potesse dormire durante il giorno. Non impiegai molto a trovarlo e a convincermi che Bianca potesse sopravvivere in quel posto. La cappella bruciata comprendeva alcune cripte sotterranee, e c'erano ovunque ottimi nascondigli. Tornai da lei; era rimasta dove l'avevo lasciata. Mi fissò con i suoi brillanti occhi a mandorla e con espressione solenne. «Non voglio più saperne di te», dichiarai. Stavo tremando. «Tu mi hai ferito mortalmente, affermando che è colpa mia se Santino mi ha sottratto il figlio! Non posso più avere nulla a che fare con te. Non potrai mai capire quale fardello abbia portato sulle spalle nel corso dei secoli, e quante volte me ne sono lamentato! Cosa credi che farebbe il tuo prezioso Santino se avesse tra le mani la Madre e il Padre? Quanti demoni potrebbe portare a bere da loro? E chi può sapere cosa sarebbero disposti a tollerare la Madre e il Padre, nel loro silenzio? Chi può sapere cosa hanno mai desiderato?» «Ti stai dimostrando un fratello malvagio e negligente, nei miei confronti», ribatté lei in tono freddo, guardandosi intorno. «Perché non lasciarmi ai lupi della foresta? Vattene. Neanch'io voglio più avere nulla a che fare con te. Rivela ai tuoi studiosi del Talamasca dove mi hai abbandonato, forse loro mi offriranno un adeguato riparo. Però vattene. Comunque sia, vattene! Non ti voglio qui!» Anche se fino a quel momento pendevo dalle sue labbra, la lasciai lì. Le ore passarono: solcai i cieli senza sapere dove andavo, meravigliandomi di come apparisse indistinto il paesaggio sotto di me. I miei poteri erano molto più grandi di quanto fossero mai stati! Se avessi tentato, avrei potuto raggiungere agevolmente l'Inghilterra. Vidi le montagne, poi il mare, e all'improvviso la mia anima provò un dolore così straziante che non potei fare altro che ordinarmi di tornare da lei. Bianca, cos'ho fatto? Bianca, prego che tu mi abbia aspettato. Lasciando i cieli alti e bui, tornai indietro. La trovai nella stanza di pietra, seduta nell'angolo, composta e immobile, proprio come lo era stata nel sacrario, e quando mi inginocchiai davanti a lei sollevò le braccia e me le gettò al collo. Singhiozzai mentre l'abbracciavo. «Mia bellissima Bianca, mio splendido tesoro, mi dispiace tanto, amore mio», dissi. «Marius, ti amo con tutto il cuore, in eterno.» Pianse senza freni e copio-
samente come me. «Mio prezioso Marius. Non ho mai amato nessuno come amo te. Perdonami.» Non potemmo fare altro che piangere a lungo, dopo di che la riportai nel sacrario e la consolai spazzolandole i capelli come amavo fare e ornandoli con i fili di perle, finché tornò a essere la mia perfetta, adorabile compagna. «Non so cosa volevo dire», mormorò in tono implorante. «Naturale che non avresti potuto fidarti di nessuno di loro. Inoltre, se tu avessi mostrato loro la regina e il re, avrebbe potuto scaturirne un'orribile anarchia!» «Sì, hai usato il termine giusto», replicai, «una terribile anarchia.» Lanciai una rapida occhiata ai visi immoti, impassibili. «Devi comprendere... oh, ti prego, se davvero mi ami cerca di comprendere quale potere racchiudano.» Mi interruppi di colpo. «Non capisci? Per quanto io lamenti il loro silenzio, mi rendo conto che forse per loro rappresenta una forma di pace che hanno scelto per il bene di tutti.» Era il succo stesso della questione e probabilmente lo sapevamo entrambi. Temevo ciò che sarebbe potuto succedere se mai Akasha si fosse alzata dal trono, se mai avesse dovuto muoversi o parlare. Lo temevo con tutta la mia ragione. Eppure, durante quella notte, come in ogni altra, mi convinsi che, se e quando si fosse destata, da lei non sarebbe sgorgata nient'altro che una divina dolcezza. Una volta addormentatasi Bianca, mi inginocchiai davanti alla regina nel modo abietto che ormai mi era così abituale e che non avrei mai mostrato a Pandora. «Madre, ho fame di te», sussurrai. Allargai le braccia. «Lascia che ti tocchi con amore. Dimmi se ho sbagliato. Avrei dovuto condurre gli adoratori di Satana nel tuo sacrario? Avrei dovuto mostrarti a Santino in tutta la tua avvenenza?» Chiusi gli occhi. Li riaprii. «Immutabili», bisbigliai, «parlatemi.» Mi avvicinai e le posai le labbra sulla gola. Forai la fragile pelle bianca con i denti, e il sangue denso entrò lentamente in me. Il giardino mi circondò. Oh, sì, ecco cosa amo più di ogni altra cosa. Ed era il giardino del monastero, in primavera, una meraviglia, e il mio monaco si trovava là. Stavamo passeggiando insieme nel chiostro appena spazzato. Quello era il sogno supremo, perché i colori erano intensi e riuscivo a
vedere le montagne intorno a noi. Sono immortale, confessai. Il giardino scomparve. Vidi i colori svanire gradualmente da un muro. Poi mi ritrovai in una foresta, in piena notte. Alla luce della luna, vidi una carrozza nera che avanzava sulla strada, trainata da numerosi cavalli neri. Mi superò, le sue enormi ruote che creavano nuvole di polvere. La seguiva un drappello di guardie, tutte con indosso una livrea nera. Pandora. Quando mi svegliai ero adagiato sul seno di Akasha, la fronte premuta sulla sua gola, la mano sinistra che le serrava la spalla destra. Provavo un tale senso di benessere, che non volevo muovermi, e nei miei occhi tutta la luce presente nel tempio era diventata un unico scintillio dorato, un po' come succedeva alla luce in quelle lunghe stanze dei banchetti veneziani. Alla fine la baciai teneramente e mi ritrassi, poi mi sdraiai e abbracciai Bianca. I miei pensieri erano bizzarri e colmi d'ansietà. Sapevo che era tempo di cercare una dimora diversa dal sacrario, e sapevo anche che degli sconosciuti si stavano addentrando fra le nostre montagne. La piccola città ai piedi del nostro strapiombo ormai stava fiorendo. Ma la più terribile rivelazione di quella notte fu che Bianca e io potevamo litigare, che la salda pace che regnava tra noi poteva essere spezzata in maniera violenta e dolorosa. E che io, davanti alle prime parole dure pronunciate dal mio gioiello, potevo crollare mentalmente. Come mai ero rimasto tanto stupito? Non rammentavo più i miei penosi litigi con Pandora? Devo rendermi conto che, nella collera, Marius smette di essere Marius. Devo rendermene conto e non dimenticarlo mai. 30 La notte seguente braccammo un paio di briganti che stavano percorrendo i valichi più bassi delle nostre montagne. Il sangue si rivelò squisito, e dopo quel rapido banchetto ci spostammo in una piccola cittadina tedesca dove potevamo cercare una taverna. Ci sedemmo nel locale, sembrando una qualunque coppia sposata, e parlammo per ore davanti a un boccale di vino caldo aromatizzato. Raccontai a Bianca tutto quello che sapevo su Coloro-che-devonoessere-conservati. Le narrai le leggende dell'Egitto: come la Madre e il Padre, secoli prima, fossero stati imprigionati e angariati da quanti volevano rubarne il sangue prezioso. Le spiegai come la stessa Akasha mi fosse ap-
parsa, supplicandomi di portarla via dall'Egitto. Le raccontai delle poche occasioni in cui Akasha mi aveva parlato nel Sangue. E finalmente, finalmente, le dissi quale puro miracolo aveva rappresentato il fatto che i Divini Genitori ci avessero aperto la porta del tempio alpino, quando ero andato da loro troppo debole per riuscirci da solo. «Hanno bisogno di me?» chiesi. Guardai Bianca negli occhi. «Non posso saperlo. È questo l'orrore. Vogliono essere visti da altri? Lo ignoro. «Ma lasciami fare un'ultima confessione. La notte scorsa mi sono infuriato in quel modo, perché secoli fa, quando Pandora bevve per la prima volta il sangue della Madre, sognò di riportare i Divini Genitori all'antico culto. Mi riferisco a un culto che includeva gli dei druidici della foresta, una religione che risaliva ai templi dell'Egitto. «Mi rendeva furioso che Pandora potesse credere a una cosa del genere, e la notte stessa in cui venne creata, distrussi i suoi sogni con la mia logica stringente. E andai oltre. Picchiai il pugno sul seno della Madre intimandole di parlarci.» Bianca rimase esterrefatta. «Riesci a immaginare cosa è successo?» chiesi. «Nulla. La Madre non diede alcuna risposta.» Annuii. «E non giunse nemmeno un rimprovero o un castigo. Forse era stata la Madre a condurre Pandora da me. Non potremo scoprirlo mai. Ma ti prego, cerca di capire come mi spaventi l'idea che i Divini Genitori non possano essere adorati. «Bianca, siamo immortali, sì, e possediamo il nostro re e la nostra regina, ma non dobbiamo presumere nemmeno per un istante di capirli.» Lei si limitò ad annuire. Soppesò a lungo le mie parole prima di parlare. «Avevo semplicemente torto, quando ti ho detto quelle cose», dichiarò. «Non del tutto», replicai. «Perché, se Amadeo avesse visto il re e la regina, sarebbe fuggito dai bevitori di sangue romani per tornare da noi. Eppure c'è un altro modo di guardare la cosa.» «Dimmi quale.» «Se fosse stato al corrente del segreto della Madre e del Padre, forse sarebbe stato costretto a rivelarlo a Santino, e i demoni sarebbero tornati a cercarmi. Avrebbero potuto trovarci entrambi.» «Ah, sì, è verissimo», commentò lei. «Comincio a rendermene conto.» Eravamo perfettamente a nostro agio l'uno con l'altra, là nella taverna. I mortali non badavano a noi. Continuai a parlare sottovoce, raccontandole come una volta Mael avesse tentato, con il mio permesso, di bere il sangue
di Akasha e come Enkil si fosse mosso per fermarlo. Le narrai la terribile storia di Eudoxia. Le spiegai come avevo lasciato Costantinopoli. «Non so da quale tua caratteristica dipenda, mio tesoro», affermai, «ma riesco a dirti tutto. Non è mai stato così con Pandora; non è mai successo con Amadeo.» Bianca allungò la mano sinistra e me la posò sulla guancia. «Marius», ribatté, «parla sempre liberamente di Pandora. Non dubitare mai che io non riesca a capire il tuo amore per lei.» Ci pensai su per diversi lunghi istanti. Le strinsi la mano destra e le baciai le dita. «Ascoltami, mio tesoro», dissi. «In ogni mia preghiera chiedo alla regina che tu possa bere da lei, ma non ottengo mai una risposta chiara. Dopo quello a cui ho assistito con Eudoxia e Mael non posso accettare che tu vada da lei, quindi continuerò a darti il mio sangue fintanto che riuscirà a renderti forte, ma...» «Capisco», dichiarò. Mi chinai sopra il tavolo e la baciai. «La notte scorsa, durante il mio attacco di collera, ho capito diverse cose. Una è che non posso vivere senza di te. Ne ho scoperta anche un'altra: ormai posso coprire agevolmente enormi distanze. E sospetto che anche gli altri miei poteri siano aumentati rispetto a qualche tempo fa. Devo metterli alla prova. Devo appurare con quanto agio posso sconfiggere quei demoni, se mai dovessero avvicinarsi a me. E stanotte voglio testare soprattutto la mia capacità di volare.» «Quindi stai dicendo che vuoi riportarmi subito al sacrario, per poi dirigerti verso l'Inghilterra.» Annuii. «Stanotte c'è la luna piena, Bianca. Devo vedere l'isola della Britannia alla luce della luna. Devo vedere con i miei occhi questo ordine del Talamasca. È quasi impossibile credere in una simile purezza.» «Perché non mi porti con te?» «Devo essere rapido», risposi. «E, in caso di pericolo, devo essere ancora più veloce nel fuggire. Sono mortali, dopo tutto. E Raymond Gallant è soltanto uno di loro.» «Allora fai attenzione, mio caro», mi sollecitò lei. «Ormai sai benissimo che ti adoro.» Sembrava che non avremmo mai più litigato, che una simile eventualità fosse assurda. E sembrava essenziale che io non perdessi mai Bianca.
Mentre uscivamo nell'oscurità e la avvolgevo nel mio mantello, mentre la portavo tra le nubi e sulla strada di casa le premetti le labbra sulla fronte. Quando la lasciai mancavano due ore a mezzanotte e avevo intenzione di vedere Raymond Gallant prima dello spuntar del sole. Erano passati diversi anni da quando l'avevo incontrato a Venezia. All'epoca era solo un giovanotto, ma forse adesso aveva già raggiunto la mezza età. Perciò mi resi conto, all'inizio del viaggio, di non poter escludere che non fosse più in vita. Era una prospettiva davvero orribile. Ma credevo a tutto ciò che mi aveva detto del Talamasca, quindi, se lui non ci fosse più stato, ero in ogni caso deciso a contattarne gli altri membri. Mentre puntavo verso le stelle, il piacere di saper volare fu talmente divino che rischiai di smarrirmi nell'estasi dei cieli, sognando al di sopra dell'isola della Britannia, scendendo in picchiata là dove potevo vedere perfettamente la terraferma stagliarsi contro il mare, preferendo non toccare il suolo così presto, per vagarvi tanto goffamente. Negli ultimi anni, tuttavia, avevo consultato numerose mappe per scoprire dove si trovasse l'East Anglia, e ben presto vidi sotto di me un immenso castello con dieci torri arrotondate che riconobbi come quello stampigliato sulla moneta d'oro donatami molto tempo prima da Raymond Gallant. Le mere dimensioni dell'edificio mi colmarono di dubbi, perciò mi imposi di posarmi sul ripido pendio di una collina poco distante. Un profondo istinto preternaturale mi diceva che mi trovavo nel posto giusto. Quando mi incamminai, l'aria era fredda, fredda come quella delle montagne da cui ero partito. Gli alberi del bosco erano in parte ricresciuti dopo essere stati indubbiamente tagliati moltissimo tempo prima per garantire la sicurezza del castello, e apprezzai la conformazione del terreno e la possibilità di camminarci sopra. Portavo un ampio mantello foderato di pelliccia sottratto a una delle mie vittime. Avevo con me le armi consuete, una corta spada massiccia e un pugnale. Indossavo una tunica di velluto piuttosto lunga che all'epoca andava di moda, ma il dettaglio mi lasciava indifferente. Le mie calzature erano nuove, acquistate da un artigiano di Ginevra. Osservando lo stile architettonico del castello, immaginai che risalisse a circa cinquecento anni prima e fosse stato eretto ai tempi di Guglielmo il Conquistatore, con tanto di fossato e ponte levatoio, due strumenti di dife-
sa abbandonati ormai da tempo. Infine davanti a me vidi un enorme portone fiancheggiato da torce. Lo raggiunsi e tirai la campanella, sentendo un sonoro fragore all'interno del cortile. Non dovetti aspettare a lungo prima che arrivasse qualcuno, e solo a quel punto mi resi conto dell'anomala correttezza della mia condotta: data la reverenza che provavo per quell'ordine di studiosi, non avevo «ascoltato» dall'esterno per scoprire chi fossero, non mi ero appostato accanto alle finestre illuminate delle loro torri per vederli. Adesso, rappresentando indubbiamente una figura bizzarra, con i miei occhi cerulei e la pelle scura, mi ritrovai davanti a un giovanotto che non poteva avere più di diciassette anni e appariva sia assonnato che indifferente, come se il mio suonare lo avesse svegliato. «Sono venuto a cercare Lorwich, nell'East Anglia», spiegai. «Mi trovo nel posto giusto?» «Sì», rispose, sfregandosi gli occhi e appoggiandosi alla porta. «Posso sapere per quale ragione?» «Cerco il Talamasca», dichiarai. Il ragazzo annuì. Spalancò il portone e io entrai in un enorme cortile che ospitava carri e carrozze. Sentii il flebile movimento dei cavalli nelle scuderie. «Cerco Raymond Gallant», spiegai. «Ah», ribatté lui, come se quelle fossero le parole magiche che aveva bisogno di sentirmi pronunciare. Mi condusse ancora più all'interno e chiuse dietro di noi il gigantesco portone di legno. «Vi accompagnerò là dove forse dovrete aspettare», annunciò. «Credo che Raymond Gallant stia dormendo.» Allora è vivo, pensai, è questo che conta. Captai l'odore di numerosi mortali, e il profumo di cibo cucinato da poco. Captai l'aroma di fuochi alimentati da legno di quercia e, alzando gli occhi, vidi il tenue fumo dei comignoli che si stagliavano contro il cielo e che prima non avevo notato. Senza dover rispondere ad altre domande venni accompagnato rapidamente su per una scala a chiocciola di pietra, fino a una delle tante torri, nella quale, attraverso le finestrelle, vidi il fioco profilo di una cittadina vicina. Riuscii anche a distinguere i riquadri rappresentati dai campi dei contadini. Sembrava tutto così tranquillo! Il ragazzo infilò la torcia in un supporto fissato al muro, si accostò e ac-
cese una candela, quindi aprì una porta a doppio battente, rivelando un'enorme stanza dall'arredamento elegante. Era da moltissimo tempo che non vedevo tavoli e sedie riccamente intagliati, arazzi pregiati, ricchi candelabri d'oro e splendidi mobili con drappi di velluto. Tutto sembrava una festa per gli occhi. Stavo per sedermi, quando nella stanza entrò con passo veloce un uomo anziano, ma agile, con fluenti capelli grigi e un lungo e pesante camicione da notte bianco, che mi fissò con brillanti occhi grigi gridando: «Marius!» Era Raymond Gallant, Raymond nei suoi ultimi anni, e provai un terribile shock di piacere e dolore quando lo guardai. «Raymond», dissi, poi spalancai le braccia e lo strinsi delicatamente. Come risultava fragile al tatto! Lo baciai sulle guance. Lo tenni scostato da me, dolcemente, per poterlo osservare. I capelli erano ancora folti e la fronte levigata come tanti anni prima, e quando sorrideva la bocca sembrava quella del giovanotto che ricordavo. «Marius, che miracolo vederti», gridò. «Perché non mi hai più scritto?» «Sono venuto di persona, Raymond. Non sono in grado di spiegare il tempo e cosa significa per noi. Sono venuto, e sono qui, e sono felice di essere con te.» Lui si bloccò, voltandosi improvvisamente a destra e a sinistra, poi piegò il capo. Appariva agile e rapido come sempre. Stava ascoltando. «Sanno tutti che ti trovi qui», spiegò, «ma non temere. Non oseranno entrare in questa stanza. Sono troppo disciplinati per farlo. Sanno che non glielo permetterò.» Rimasi in ascolto per un attimo e trovai conferma alle sue parole. I mortali disseminati nell'immenso castello avevano captato la mia presenza. Alcuni di loro sapevano leggere nel pensiero, altri sembravano possedere un udito particolarmente acuto. Non percepii, tuttavia, alcuna presenza soprannaturale. Non trovai traccia del «miscredente» che Raymond aveva menzionato nella sua lettera. E non captai il minimo segno di minaccia da parte di chicchessia. Notai la finestra vicina e vidi che era protetta da una massiccia inferriata, ma per il resto era aperta sulla notte. Mi chiesi se avrei potuto sfondarla senza problemi e conclusi di poterci riuscire. Non avevo paura. In realtà non provavo il minimo timore nei confronti del Talamasca, perché dava l'impressione di non aver paura di me e mi aveva lasciato entrare tanto innocentemente.
«Vieni, siediti qui con me, Marius», disse Raymond. Mi portò vicino a un enorme caminetto. Cercai di non fissargli preoccupato le mani tremanti o le spalle magre. Ringraziai gli dei di essere andato là quella sera e del fatto che lui si trovasse ancora nel castello ad accogliermi. Raymond si rivolse al ragazzo assonnato, che rimase fermo sulla soglia. «Edgar, ti prego, accatasta la legna nel caminetto e accendi il fuoco. Marius, perdonami», affermò. «Ma sono molto intirizzito dal freddo. Ti spiace? So cosa ti è successo.» «Non mi dispiace affatto, Raymond», replicai. «Non posso temere il fuoco in eterno, a causa di quell'avvenimento. Ormai non sono semplicemente guarito, ma anche diventato più forte di quanto lo sia mai stato. È un vero mistero. E tu, quanti anni hai? Dimmelo, ti prego, non riesco a indovinarlo.» «Ottanta, Marius», rispose. Sorrise. «Non sai quanto ho sognato che tu venissi qui. Avevo così tante altre cose da dirti. Non osavo metterle per iscritto in una lettera.» «Hai fatto bene», ribattei, «perché la tua missiva è stata letta, e chi può dire cosa sarebbe potuto succedere? Data la situazione, il monaco che l'ha ricevuta per mio conto non è riuscito a capirci granché. Io capisco tutto, però.» Lui indicò la porta. Due giovani entrarono nella stanza, e io immaginai che appartenessero alla categoria degli ingenui, come l'indaffarato Edgar che stava impilando nel caminetto i ceppi di quercia. Sopra il fuoco spiccavano gargolle di pietra elegantemente scolpite. Mi piacquero. «Due sedie», chiese Raymond ai ragazzi. «Parleremo, Marius. Ti dirò tutto quello che posso.» «Perché sei così generoso con me, Raymond?» chiesi. Avrei tanto voluto confortarlo, metter fine alla sua agitazione. Però, mentre mi sorrideva come per rassicurarmi, mentre mi posava delicatamente la mano sul braccio e mi accompagnava verso le due sedie di legno che i ragazzi avevano accostato al caminetto, vidi che non aveva bisogno del mio conforto. «Sono solo molto eccitato, mio vecchio amico», spiegò. «Non devi preoccuparti per me. Ecco, siediti. È abbastanza comoda?» Le sedie erano elegantemente intagliate come ogni altra suppellettile nella stanza, e avevano braccioli a forma di zampe di leone. Le trovai bellissime oltre che confortevoli. Mi guardai intorno, osservando le numerose scaffalature piene di libri e mi chiesi, come ho fatto spesso, per quale motivo tutte le biblioteche riuscissero a soggiogarmi e sedurmi. Pensai a vo-
lumi bruciati e volumi perduti. Mi augurai che il Talamasca fosse un asilo sicuro per i libri. «Vivo da decenni in una stanza di pietra», spiegai sottovoce. «Sono comodissimo. Potresti mandare via i ragazzi, adesso?» «Sì, sì, certo, lascia solo che mi portino del vino caldo», ribatté lui. «Ne ho bisogno.» «Scusa. Come ho potuto essere tanto sconsiderato?» Eravamo rivolti l'uno verso l'altro, e il fuoco aveva cominciato a scoppiettare emanando un profluvio di intenso profumo di legno di quercia e un tepore che, dovevo confessarlo, apprezzai davvero. Uno dei ragazzi aveva portato a Raymond una vestaglia di velluto rosso e, una volta che lui se la infilò e prese posto sulla sedia, non sembrò più così fragile. Aveva il volto radioso, dopo tutto, e le guance rosee, e riuscii facilmente a intravedere in lui il giovane che avevo conosciuto un tempo. «Amico mio, nel caso qualcosa si frapponga tra noi», dichiarò, «lascia che ti dica subito che lei continua a spostarsi nel modo consueto, rapidamente e attraversando numerose città europee. Non vengono mai in Inghilterra, perché ritengo che preferiscano non viaggiare via mare, anche se sono sicuramente in grado di farlo, contrariamente a quanto sostiene il folklore.» Scoppiai a ridere. «È questo che sostiene il folklore? Che non possiamo attraversare l'acqua? È assurdo», commentai. Avrei voluto aggiungere qualcos'altro, ma mi trattenni, chiedendomi se fosse opportuno. Raymond non parve notare la mia esitazione e riprese a parlare. «Negli ultimi decenni ha viaggiato sotto il nome di marchesa De Malvrier, e il suo compagno è il marchese con lo stesso cognome, benché sia lei a recarsi più spesso a corte. Sono stati visti in Russia, Baviera, Sassonia - paesi dove le antiche cerimonie vengono onorate - dando l'impressione di sentire saltuariamente il bisogno dei balli di corte e dei sontuosissimi riti della Chiesa di Roma. Ma cerca di capire, ho ricavato il mio resoconto da molti rapporti diversi. Non sono sicuro di nulla.» In quel momento il vino tiepido venne posato sul tavolino accanto a lui. Raymond prese la coppa tra le mani tremanti e bevve. «Come ti sono giunti questi rapporti?» chiesi. Ero affascinato. Non avevo dubbi sul fatto che mi stesse dicendo la verità. Quanto al resto della casa, ne udivo i numerosi abitanti tutt'intorno a noi, ad aspettare in silenzio, apparentemente, qualche tipo di convocazione. «Dimenticali», mi esortò lui. «Cosa possono apprendere dal nostro in-
contro? Sono tutti membri fedeli. Per rispondere alle tue domande, talvolta ci avventuriamo all'esterno travestiti da preti in cerca di informazioni su coloro che chiamiamo vampiri. Indaghiamo su morti misteriose. In questo modo raccogliamo notizie che per noi sono significative pur potendo benissimo non esserlo per altri.» «Ah, certo. E prendete nota del nome quando viene citato in Russia, Sassonia o Baviera.» «Esattamente. Ti confermo che è De Malvrier. A loro piace. E voglio dirti un'altra cosa.» «Ti prego, devi.» «Abbiamo trovato ripetutamente il nome Pandora scritto sul muro di chiese.» «Ah, lei ha fatto questo», dissi, cercando disperatamente di celare la mia emozione. «Vuole che io la rintracci.» Mi interruppi. «È doloroso, per me», ammisi. «Mi chiedo se il suo compagno di viaggio la conosce con quel nome. Ah, è penoso. Ma tu perché mi aiuti?» «Ti giuro che non lo so», rispose, «so solo che in un certo senso credo in te.» «Cosa vuoi dire? Mi credi un portento? Mi credi un demone? Cosa pensi, Raymond? Dimmelo. Oh, lascia perdere, non importa, vero? Facciamo le cose perché il nostro cuore ci spinge a farle.» «Marius, amico mio», ribatté lui, piegandosi in avanti per toccarmi il ginocchio con la mano destra, «molto tempo fa, a Venezia, quando ti spiavo, sai che ti ho parlato con la purezza della mia mente. Ho letto anche i tuoi pensieri. Sapevo che uccidevi solo chi commetteva crimini.» «È vero, Raymond, ed era così anche per Pandora. Ma sarà così anche adesso?» «Sì, credo di sì», disse, «perché ogni orrendo crimine attribuito ai vampiri è collegato a chi aveva notoriamente commesso numerosi omicidi. Quindi vedi che per me non è difficile aiutarti.» «Ah, quindi lei tiene fede al nostro voto», sussurrai. «Ho creduto il contrario, quando ho saputo del suo crudele compagno.» Scrutai Raymond, vedendo sempre più nitidamente il giovanotto che un tempo avevo conosciuto per un periodo tanto breve. La cosa mi rattristò. Era terribile. E più provavo quella sensazione, più cercavo di nasconderla. Cosa contava la mia sofferenza in confronto a quel lento trionfo della vecchiaia? Nulla. «Dov'è stata vista, l'ultima volta?» domandai.
«A questo riguardo lascia che ti fornisca la mia interpretazione del suo comportamento», ribatté. «Lei e il compagno seguono uno schema ben preciso, nel corso dei loro vagabondaggi. Descrivono rudimentali cerchi, tornando ripetutamente in una determinata città, e dopo esservi rimasti per un certo tempo, ricominciano a viaggiare fino a raggiungere la lontana Russia. La città centrale di cui parlo è Dresda.» «Dresda!» esclamai. «Non la conosco. Non ci sono mai stato.» «Oh, non può certo competere con le magnifiche città italiane, e neppure può eguagliare Parigi o Londra, ma è la capitale della Sassonia ed è situata sul fiume Elba. È stata sontuosamente decorata dai vari duchi che vi hanno regnato. E invariabilmente, dico invariabilmente, Pandora e il compagno tornano a Dresda. Possono anche aspettare vent'anni, ma poi tornano.» Tacqui, in preda all'eccitazione. Quel particolare schema veniva seguito perché io lo interpretassi, perché lo scoprissi? Era come un'immensa ragnatela circolare volta a intrappolarmi, presto o tardi? Per quale altro motivo Pandora e il compagno avrebbero dovuto condurre una simile esistenza? Non riuscivo a immaginarlo. Ma come osavo pensare che lei si ricordasse di me? Nelle pietre delle chiese aveva inciso il suo nome, non il mio. Alla fine proruppi in un profondo sospiro. «Come posso spiegarti cosa significa tutto questo per me?» chiesi. «Mi hai dato delle splendide notizie. La troverò.» «Ora», disse lui con estrema sicurezza di sé, «vogliamo affrontare l'altra questione che ho menzionato nella lettera?» «Amadeo», sussurrai. «Cosa ne è stato del miscredente? Non avverto la presenza di nessun bevitore di sangue, in questo edificio. Mi sbaglio? La creatura si trova molto lontano da qui oppure vi ha lasciato.» «Il mostro ci ha abbandonato subito dopo che ti ho scritto. Quando ha capito di poter dare la caccia alle sue vittime in aperta campagna se n'è andato. Non potevamo fare niente per controllarlo. I nostri appelli per convincerlo a nutrirsi unicamente dei malvagi non significavano nulla, per lui. Non so nemmeno se esiste ancora.» «Dovete proteggervi da quell'individuo», lo avvisai. Mi guardai intorno nell'ampia stanza di pietra. «Questo sembra un castello di dimensioni e robustezza ragguardevoli, ma stiamo parlando di un bevitore di sangue.» Lui annuì. «Qui siamo ben protetti, Marius. Non lasciamo entrare nessuno come abbiamo lasciato entrare te, credimi. Ma ora vuoi sapere cosa ci ha raccon-
tato?» Chinai la testa. Sapevo cosa stava per dirmi. «Gli adoratori di Satana», affermai, usando i termini più specifici, «gli stessi che hanno bruciato la mia casa a Venezia, scelgono come loro prede gli umani a Parigi. E il mio brillante apprendista dai capelli ramati, Amadeo, è ancora il loro capo?» «Sì, per quanto ne sappiamo», ribatté lui. «Sono estremamente scaltri. Danno la caccia ai poveri, agli ammalati, ai reietti. Il traditore che ci ha fornito queste informazioni ha spiegato che temono i 'luoghi di luce'. Sono giunti a credere di non dover portare abiti sontuosi o mettere piede nelle chiese, per rispettare la volontà di Dio. E ormai il tuo Amadeo si fa chiamare Armand e, secondo il traditore, sfoggia il tipico zelo del neoconvertito.» Ero troppo infelice per proferire parola. Chiusi gli occhi con forza, e quando li riaprii stavo fissando il fuoco che ardeva violento nel profondo caminetto. Lentamente, il mio sguardo si posò su Raymond Gallant, che mi stava osservando con attenzione. «Ti ho raccontato tutto, davvero», dichiarò. Gli rivolsi un fioco, triste sorriso e annuii. «Sei stato davvero generoso. E spesso, in passato, quando qualcuno si dimostrava generoso con me estraevo da sotto la tunica un sacchetto pieno di monete d'oro. Ma sarebbe sufficiente in questo caso?» «No», rispose lui in tono gradevole, scuotendo il capo. «Non abbiamo bisogno d'oro, Marius. Ne abbiamo sempre posseduto in abbondanza. Cos'è la vita senza l'oro? Ma noi lo abbiamo.» «Allora cosa posso fare per te?» domandai. «Ti sono debitore. Ti sono debitore sin dalla sera in cui abbiamo conversato a Venezia.» «Parla con diversi membri del Talamasca», ribatté Raymond. «Lasciali entrare in questa stanza. Lascia che ti vedano. Lascia che ti facciano domande. Ecco cosa puoi fare per me. Di' loro soltanto quello che vuoi, ma crea per loro una verità che possa essere archiviata perché altri la studino.» «Naturalmente. Sarò felice di farlo, ma non in questa biblioteca, Raymond, per quanto sia bella. Dobbiamo riunirci all'aperto. Nutro un istintivo timore per i mortali che sanno cosa sono.» Mi interruppi. «In realtà non sono nemmeno sicuro di essermi mai trovato circondato da tante creature che sapessero cosa sono.» Dopo un attimo di riflessione, lui propose: «Il nostro cortile sarebbe
troppo rumoroso, troppo vicino alle scuderie. Opteremo per una delle torri. Farà freddo lì, ma consiglierò a tutti di mettere abiti pesanti.» «Vogliamo scegliere la torre sud, per il nostro scopo?» chiesi. «Non portate torce. Il cielo è limpido e la luna piena, quindi riuscirete tutti a vedermi chiaramente.» Sgattaiolai fuori dalla stanza, scendendo in fretta le scale e uscendo agevolmente da una delle strette finestre di pietra. Con velocità preternaturale raggiunsi i bastioni della torre sud e rimasi ad aspettare, nella lieve brezza, che tutti mi si radunassero intorno. Naturalmente diedi l'impressione di essermi spostato per magia, ma che non fosse affatto così era uno dei particolari che intendevo rivelare. Dopo meno di un quarto d'ora erano già tutti riuniti, una ventina di uomini eleganti, giovani e vecchi, e due donne avvenenti, e io mi ritrovai al centro di un cerchio. Niente torce, no. Non correvo alcun pericolo. Per qualche istante lasciai che mi guardassero e si facessero di me l'opinione che preferivano, poi parlai. «Dovete spiegarmi cosa volete sapere. Da parte mia, vi dico semplicemente che sono un bevitore di sangue. Vivo da centinaia di anni e ricordo chiaramente l'epoca in cui ero un mortale. Fu nella Roma imperiale. Potete annotarlo. Non ho mai separato la mia anima da quel tempo mortale, mi rifiuto di farlo.» Ci fu un attimo di silenzio, poi Raymond cominciò con le domande alle quali risposi come potevo. Sì, avevamo un «inizio», dichiarai, ma non ero in grado di fornire spiegazioni al riguardo. Sì, diventavamo molto più forti con il passare del tempo. Sì, tendenzialmente eravamo creature solitarie oppure sceglievamo con estrema cura i nostri compagni. Sì, potevamo crearne altri. No, non eravamo istintivamente malvagi, e per i mortali provavamo un profondo amore che decretava spesso la nostra rovina spirituale. Mi posero una miriade di altri quesiti. Risposi a tutti come meglio potevo. Non accennai alla nostra vulnerabilità al sole o al fuoco. Quanto alla «congrega di vampiri» di Parigi e Roma, ne sapevo ben poco. «È tempo che vada», annunciai alla fine. «Percorrerò centinaia di chilometri, prima dell'alba. La mia dimora è in un'altra nazione.» «Ma in che modo viaggi?» chiese uno di loro. «Sul vento», risposi. «È un dono che ho ottenuto con il passare dei secoli.»
Mi avvicinai a Raymond e lo abbracciai di nuovo, poi mi rivolsi ai presenti e li esortai a venirmi a toccare per accertarsi che fossi una creatura reale. Indietreggiai, estrassi il coltello e mi tagliai la mano, poi la allungai in avanti perché potessero vedere la ferita che si rimarginava. Rimasero senza fiato. «Ora devo andare. Raymond, ti ringrazio e ti voglio bene», affermai. «Aspettate», disse uno degli uomini più anziani. Era sempre rimasto leggermente in disparte, appoggiandosi a un bastone da passeggio, ascoltandomi con la stessa attenzione degli altri. «Ho un'ultima domanda da farvi, Marius.» «Fatemela pure», replicai subito. «Sapete qualcosa delle nostre origini?» Per un attimo rimasi sconcertato, non riuscivo a immaginare cosa volesse dire. Raymond intervenne. «Sai qualcosa su come è nato il Talamasca? Ecco cosa ti stiamo chiedendo.» «No», risposi, in preda a un silenzioso sbalordimento. Una cappa di silenzio calò su tutti i presenti, e ben presto capii che nemmeno loro sapevano in che modo fosse sorto il loro ordine. Rammentai che Raymond aveva accennato alla cosa, quando lo avevo incontrato per la prima volta. «Vi auguro di trovare le risposte che cercate», dissi. Poi mi allontanai nel buio. Non rimasi però lontano dal castello. Feci ciò che non avevo fatto arrivando lì. Indugiai vicino a loro, leggermente al di fuori della portata delle loro orecchie e dei loro occhi, e grazie alle mie potenti facoltà psichiche li ascoltai, mentre si aggiravano nelle numerose torri e biblioteche. Com'erano misteriosi, devoti, diligenti! Forse una notte, in un futuro lontano, sarei tornato, solo per apprendere qualcosa di più su di loro, ma per il momento dovevo tornare al sacrario e da Bianca. La trovai ancora sveglia quando entrai nel luogo benedetto. Vidi che aveva acceso le cento candele. Era un cerimoniale che talvolta mancavo di espletare, e fui felice di vederle. «Sei soddisfatto della tua visita al Talamasca?» mi chiese con la sua vo-
ce schietta. Sfoggiava quell'accattivante espressione di semplicità che mi induceva sempre a raccontarle ogni cosa. «Estremamente soddisfatto. Ho scoperto che sono realmente gli studiosi sinceri che sostengono di essere. Ho dato loro le informazioni che potevo fornire, ma non tutte quelle che avrei potuto dare, sarebbe stato troppo stupido. Ma tutto ciò che cercano è il sapere, e li ho lasciati più che appagati.» Lei strinse gli occhi come se non riuscisse a immaginare cos'era il Talamasca, e la capii. Mi sedetti al suo fianco, la strinsi a me e avvolsi il mantello di pelliccia intorno a entrambi. «Hai l'odore del vento freddo, profumato», disse lei. «Forse siamo fatti per essere soltanto creature del sacrario, creature del cielo gelido e delle montagne inospitali.» Non dissi nulla; pensavo solo a una cosa: alla lontana città di Dresda. Prima o poi, Pandora tornava sempre a Dresda. 31 Sarebbero trascorsi circa cento anni prima di trovare Pandora. Durante quel periodo i miei poteri aumentarono a dismisura. Quella notte, dopo essere tornato dalla visita al Talamasca, li misi tutti alla prova per assicurarmi che non mi sarei più trovato in balia dei miscredenti di Santino. Per molte notti lasciai Bianca da sola, mentre mi accertavo delle mie facoltà. Una volta completamente sicuro della mia rapidità, della mia capacità di appiccare il fuoco e del mio incommensurabile potere di annientare con forza invisibile, mi recai a Parigi con l'unico scopo di spiare la congrega di Amadeo. Prima di partire per quella piccola impresa, confessai le mie mire a Bianca, che mi supplicò subito di non sfidare la sorte in quel modo. «No, lasciami andare», replicai. «Forse ormai riuscirei a sentire la sua voce al di sopra dei chilometri che ci separano, se scegliessi di farlo, ma devo essere sicuro di ciò che sento e vedo. E voglio dirti un'altra cosa: non ho alcun desiderio di riprenderlo con me.» Lei ne fu rattristata, ma parve capire. Rimase al suo solito posto nell'angolo del sacrario, limitandosi ad annuire e strappandomi la promessa che sarei stato molto attento. Non appena raggiunsi Parigi, mi cibai di uno dei numerosi assassini, u-
sando la mia potente facoltà di incantare per indurlo a uscire da un'accogliente locanda, poi cercai rifugio in un alto campanile di Notre-Dame per ascoltare i miscredenti. Si trattava di un enorme branco delle più disprezzabili e odiose delle creature, e per la loro esistenza a Parigi avevano scelto una catacomba proprio come avevano fatto secoli prima nell'antica Roma. La catacomba si trovava sotto il Cimitero degli Innocenti, parole che parvero tragicamente appropriate quando captai i loro giuramenti sventati e le loro salmodie prima che si riversassero fuori nella notte per seminare crudeltà e morte tra la popolazione parigina. «Tutto per Satana, tutto per la Bestia, tutto per servire Dio e tornare poi alla nostra esistenza penitenziale.» Sondando parecchie menti diverse, dopo circa un'ora dal mio arrivo a Parigi, non mi fu difficile scoprire dove si trovasse il mio Amadeo: lo individuai in una stretta stradina medievale. Non immaginava neppure lontanamente che lo osservavo dall'alto, immerso in un silenzio carico d'amarezza. Era vestito di stracci, i capelli incrostati di sudiciume. Quando trovò la sua prima vittima le arrecò una morte dolorosa che mi lasciò sgomento. Poi, per un'ora lo seguii mentre procedeva. Si cibò di un'altra sventurata creatura, quindi, descrivendo un ampio cerchio tornò nell'enorme cimitero. Appoggiato alla fredda pietra della torre campanaria, lo sentii riunire nella sua cella sotterranea la «congrega» - come la chiamava - e chiedere a ognuno di loro come avesse tormentato, per l'amore di Dio, la popolazione locale. «Figli delle Tenebre, è quasi l'alba. Adesso ognuno di voi mi aprirà la sua anima.» Com'era ferma, com'era limpida la sua voce! Sembrava sicuro di ciò che diceva, pronto a redarguire qualunque Figlio di Satana non avesse ucciso spietatamente uno o più mortali. Eppure era la voce di un uomo quella che sentii uscire dalle labbra del ragazzo che un tempo conoscevo. Ne rimasi raggelato. «Perché ti è stato concesso il Dono Tenebroso?» chiese a un pigro adepto. «Domani notte devi colpire due volte. E se tutti voi non mi mostrate una maggiore devozione, vi punirò per i vostri peccati e farò in modo che altri siano accolti nella congrega.» Alla fine non riuscii ad ascoltarlo oltre. Ero disgustato. Sognai di scendere nel suo mondo sotterraneo, di trascinarlo via, dopo
aver bruciato i suoi seguaci, e di costringerlo a uscire nella luce per portarlo insieme a me nel sacrario di Coloro-che-devono-essere-conservati, e supplicarlo di rinunciare alla sua vocazione. Ma non lo feci. Non potevo. Per anni e anni era stato uno di loro. Ora la sua mente, la sua anima, il suo corpo appartenevano a coloro che governava, e nulla di quanto gli avevo insegnato gli aveva dato la forza di combatterli. Non era più il mio Amadeo. Ero venuto a Parigi per appurarlo, e ormai ne avevo la certezza. Mi sentivo infelice e disperato, ma forse furono la rabbia e la repulsione a farmi lasciare Parigi quella notte stessa, mentre mi dicevo che doveva essere lui stesso a sbarazzarsi della tetra mentalità della congrega. Non potevo farlo io per lui. A Venezia avevo faticato duramente per cancellargli dalla memoria il monastero da cui proveniva. Ora lui aveva trovato un altro luogo caratterizzato da severi rituali e da una cruda abnegazione. Gli anni passati con me non lo avevano protetto da tutto ciò. Adesso era diventato il Giullare di Satana, cosi come un tempo era stato il Giullare di Dio nella lontana Russia. Il periodo trascorso a Venezia insieme a me non aveva significato nulla. Quando raccontai tutto a Bianca, cercando di spiegarglielo come meglio potevo, lei si intristì, ma sul momento non mi fece domande. Invece parlammo con l'agio di sempre; lei, dopo avermi ascoltato, ribatté tranquillamente: «Forse, con il passare del tempo, cambierai idea», ipotizzò. «Tu hai il potere di recarti là, per combattere coloro che cercherebbero di opporsi se tu tentassi di riprenderlo. A mio parere, è proprio questo che dovresti fare: portarlo via di forza e insistere che venga qui per stare con te e vedere i Divini Genitori. Io non ho il potere di compiere simili atti. Ti chiedo solo di pensarci su, prima di prendere l'amara e irremovibile decisione di non farlo.» «Ti giuro che non ho fatto nulla del genere», le assicurai. «Ma dubito che la visione dei Divini Genitori cambierebbe il cuore di Amadeo.» Mi interruppi. Rimuginai su tutto per un lungo istante, poi le parlai in modo più esplicito. «Tu condividi questa conoscenza con me solo da breve tempo», dichiarai. «E nei Divini Genitori vediamo entrambi un'enorme bellezza. Ma lui potrebbe benissimo vedere qualcosa di diverso. Rammenta cosa ti ho rac-
contato dei lunghi secoli che ho alle spalle. I Divini Genitori non parlano, non salvano, non chiedono nulla.» «Capisco», mormorò lei. Invece non capiva. Non aveva trascorso abbastanza anni con il re e la regina; non poteva comprendere l'effetto globale della loro passività. Ma continuai in tono mite. «Amadeo possiede un credo, e un posto apparente nell'ambito del piano di Dio», affermai. «Potrebbe benissimo vedere nella Madre e nel Padre un enigma risalente a un'epoca pagana. Questo non gli riscalderebbe il cuore, non gli darebbe affatto la forza che trae adesso dal suo gregge, e credimi, Bianca, è lui il capo, là. Il nostro ragazzo di tanto tempo fa è vecchio, ormai: è un saggio dei Figli delle Tenebre, come si definiscono.» Sospirai. Un fugace lampo di amari ricordi mi assalì: Santino che mi chiedeva, durante il nostro incontro a Roma, se Coloro-che-devono-essere-conservati erano sacri o profani. Lo raccontai a Bianca. «Ah, dunque hai parlato con lui? Non me l'avevi detto.» «Oh, sì, gli ho parlato e l'ho disprezzato e insultato. Ho fatto tutte queste cose stupide quando invece sarebbe stato necessario un gesto più crudele. In realtà, avrei dovuto annientarlo non appena gli è uscita di bocca l'espressione 'Coloro-che-devono-essere-conservati'.» Lei annuì. «Ne sono sempre più convinta, eppure continuo a sperare che con il tempo tornerai a Parigi, che almeno ti mostrerai ad Amadeo. Loro sono deboli, vero? E tu potresti avvicinarlo in un luogo aperto dove saresti in grado di...» «So benissimo cosa intendi dire», spiegai. «Non mi lascerei mai circondare da esseri armati di torce. Forse seguirò il tuo consiglio, però ho sentito la voce di Amadeo, e dubito che ora si possa operare qualche cambiamento, in lui. E c'è un altro dettaglio che vale la pena di menzionare: Amadeo sa come liberarsi dalla sua congrega.» «Ne sei sicuro?» «Sì. Sa come vivere nel mondo illuminato, e grazie al mio sangue antico è dieci volte più forte di tutti quelli che ubbidiscono ai suoi ordini. Potrebbe staccarsi da loro quando vuole, ma sceglie di non farlo.» «Marius», replicò lei in tono supplichevole, «sai quanto ti amo e come detesto contraddirti.» «Di' quello che devi dire», la sollecitai subito. «Pensa a cosa ha sofferto Amadeo», mi ricordò. «Era solo un bambino,
quando è successo.» Ero pienamente d'accordo. «Be', ormai non è più un bambino, Bianca», replicai. «Può anche essere bello come quando l'ho reso immortale, ma è un patriarca nella polvere. E intorno ha tutta Parigi, la splendida città di Parigi. L'ho osservato percorrere le strade, dove non c'era nessuno a trattenerlo. Avrebbe potuto cercare dei malfattori come facciamo noi, invece non l'ha fatto. Ha bevuto una gran quantità di sangue innocente, non una, ma due volte.» «Ah, capisco. Ecco cosa ti ha amareggiato tanto.» Ci pensai su. «Sì, hai ragione. E questo che ha suscitato la mia repulsione, benché non me ne sia nemmeno reso conto, sul momento. Ho creduto dipendesse dal modo in cui si è rivolto ai suoi adepti. Ma hai ragione, sono state quelle due innocenti creature, da cui lui ha tratto il suo ardente festino, quando Parigi brulicava di mortali malfattori che avrebbe potuto uccidere agevolmente.» Bianca posò la mano sulla mia. «Se scelgo di strappare dalla sua tana uno qualsiasi di quei Figli delle Tenebre», dichiarai, «questo sarà Santino.» «Non devi andare a Roma. Non sai nemmeno se quella congrega includa o no degli anziani.» «Una notte ci andrò», annunciai. «Quando sarò più sicuro di un potere immenso, e più sicuro della furia spietata che esso richiede per sterminarne molti altri.» «Ora stai calmo», mi consigliò lei. «Perdonami.» Tacqui per un attimo. Sapeva per quante notti avevo vagabondato da solo. Adesso dovevo confessare cosa avevo fatto durante quelle notti. Dovevo dare inizio al mio piano segreto. Dovevo - per la prima volta in tutti gli anni trascorsi insieme - frapporre un cuneo tra lei e me, mentre le davo precisamente ciò che desiderava. «Ma ora basta parlare di Amadeo», dissi. «La mia mente è rivolta verso cose più liete.» Destai subito il suo interesse. Allungò una mano per carezzarmi viso e capelli, come d'abitudine. «Dimmi.» «Quanto tempo è passato da quando mi hai chiesto se non possiamo avere una dimora tutta nostra?»
«Oh, Marius, non stuzzicarmi a questo riguardo. So che non è possibile!» «Mia cara, è più che possibile», dichiarai, riscaldato dal suo sorriso radioso. «Ho trovato un luogo magnifico, un'adorabile piccola città sulle rive dell'Elba, in Sassonia.» Fui ricompensato con il più dolce dei baci. «Durante le numerose notti in cui sono rimasto solo mi sono preso la libertà di acquistare un castello nei pressi della città, un edificio cadente, e spero mi perdonerai...» «Marius, è una notizia incredibile!» «Ho già speso una somma considerevole per il restauro: pavimenti e scale di legno nuovi, finestre di vetro e parecchi mobili.» «Oh, ma è magnifico», esclamò lei, abbracciandomi. «Mi riempie di sollievo che tu non sia arrabbiata, perché ho agito senza consultarti», ammisi. «Ma mi sono innamorato del posto, e subito ho portato lì numerosi artigiani e carpentieri dando loro tutte le disposizioni perché i lavori vengano eseguiti come desidero.» «Oh, ma come potrei essere arrabbiata? Lo desidero più di qualunque altra cosa al mondo.» «C'è un altro aspetto di quel castello che dovrei sottolineare», spiegai. «Benché l'edificio oggi si presenti più come un palazzo, piuttosto che un castello, le fondamenta sono molto antiche. In realtà, gran parte di esse risale a molti secoli fa. E sotto ci sono enormi cripte, e un autentico sotterraneo.» «Hai intenzione di spostare i Divini Genitori?» volle sapere lei. «Sì. È arrivato il momento di farlo. Sai anche tu che tutt'intorno a noi stanno sorgendo piccole città e paesini. Quindi ora non siamo più isolati in questo posto. Sì, voglio spostarli.» «Naturalmente, se lo dici tu, ti asseconderò.» Era troppo felice per nasconderlo. «Ma saranno al sicuro, là? Non li hai forse portati in questo luogo remoto per evitare il rischio che venissero scoperti?» Risposi dopo una lunga pausa di riflessione. «Saranno al sicuro. Con il trascorrere dei secoli, intorno a noi il mondo dei Non Morti si modificherà. Inoltre non sopporto più questo posto, quindi li trasferisco altrove. Là non vi sono bevitori di sangue; li ho cercati in lungo e in largo. Non ce ne sono. Non ne ho avvertito la presenza, né di giovani né di vecchi. Credo sia un posto sicuro. Ma forse, la risposta più autentica è che voglio portarli là perché desidero un posto nuovo. Voglio
nuove montagne e una nuova foresta.» «Capisco», ribatté Bianca. «Oh, capisco benissimo. E sono convinta più che mai che siano in grado di difendersi. Oh, certo, hanno bisogno di te, non ho dubbi, ecco perché quella notte di tanto tempo fa ti hanno aperto la porta e hanno acceso le candele. Lo ricordo ancora vividamente. Qui ho passato innumerevoli ore a guardarli, mentre riflettevo a fondo, e sono convinta che si difenderebbero da chiunque cercasse di far loro del male.» Non la contraddissi. Non mi presi il disturbo di rammentarle che, secoli prima, si erano lasciati esporre al sole. A che pro? Inoltre, per quanto ne sapessi, aveva perfettamente ragione. I Divini Genitori avrebbero annientato chiunque tentasse di oltraggiarli. «Avanti», disse, vedendomi scivolare in cupe riflessioni. «Sono troppo felice per questa bella notizia. Sii felice insieme a me.» Mi baciò come se non riuscisse a trattenersi. Era così innocente, in quei momenti! E io... io le stavo mentendo, le stavo mentendo per la prima volta in tutti i nostri anni insieme. Stavo mentendo, perché non le avevo detto nemmeno una parola su Pandora. Stavo mentendo perché non credevo davvero che non potesse nutrire alcuna gelosia nei suoi confronti. E perché non potevo dirle che il mio amore per Pandora risiedeva nel cuore stesso di quanto facevo. Quale creatura sarebbe stata disposta a rivelare un simile piano a un'amante? Perciò finsi che fosse per lei che avevo scelto quella splendida casa, e forse era davvero così: lo avevo fatto per renderla felice, certo, ma non si trattava solo di quello. Dopo meno di un mese cominciammo a lavorare sul nuovo sacrario, trasformando drasticamente i sotterranei del castello in Sassonia per renderli una sede adatta al re e alla regina. Fabbri, pittori e scalpellini operarono senza posa per modificare il sotterraneo, finché non divenne la più magnifica delle cappelle private, con il trono e la pedana su cui poggiava rivestiti di foglie d'oro, e tutt'intorno vennero posate nuove lanterne di bronzo e ricchi candelabri d'oro e d'argento. Faticai da solo sulle massicce porte di ferro e sui loro complicati sistemi di chiusura. Quanto al castello, che, come ho detto, era più che altro un palazzo, essendo stato ricostruito a più riprese, appariva splendido nella sua posizione sulle rive dell'Elba. Inoltre era circondato da una graziosa foresta di faggi,
querce e betulle. Inoltre, da una grande terrazza si poteva ammirare il fiume, mentre da numerose grandi finestre si vedeva la lontana città di Dresda. Naturalmente avremmo evitato di andare a caccia a Dresda o nei villaggi circostanti; ci saremmo spinti a una notevole distanza da lì, com'era sempre stata nostra abitudine. E avremmo teso agguati ai briganti della foresta, attività che era diventata un passatempo consueto, per noi. Bianca, che appariva preoccupata, mi confessò con riluttanza di aver paura di vivere in un luogo dove non poteva andare a caccia senza di me. «Quella regione è abbastanza grande per poter saziare il tuo appetito, se io non fossi in grado di condurti altrove. Poi vedrai Dresda, che è una bellissima città, una città nuova che sotto il duca di Sassonia si sta sviluppando in modo magnifico.» «Ne sei sicuro?» chiese. «Oh, sì, sicurissimo, e come ti ho già spiegato sono anche sicuro che le foreste della Sassonia e della vicina Turingia ospitino un gran numero di malfattori e di assassini che per noi hanno sempre rappresentato un pasto speciale.» Lei ci rifletté, senza rispondere. «Lascia che ti ricordi, mia cara», aggiunsi, «che puoi scegliere in qualsiasi notte di tagliarti quei magnifici capelli biondi con l'assoluta certezza che ricresceranno durante il giorno, e puoi uscire vestita da uomo, viaggiando con velocità e forza preternaturali per cacciare le tue vittime. Forse dovremmo dedicarci a questo gioco subito dopo essere arrivati là.» «Me lo permetteresti?» domandò. «Certo.» Rimasi sbalordito dalla sua gratitudine. Mi riempì nuovamente di baci riconoscenti. «Ma devo metterti in guardia su una cosa», proseguii. «La zona in cui ci trasferiamo comprende parecchi piccoli villaggi dove regna una salda credenza nella stregoneria e nei vampiri.» «Vampiri», ripete lei. «È il termine usato dal tuo amico del Talamasca.» «Sì», confermai. «Dobbiamo sempre coprire le tracce del nostro banchetto, per evitare di alimentare la leggenda.» Scoppiò a ridere. Finalmente il castello, o Schloss come vengono definiti simili edifici in quella parte del mondo, fu pronto e per noi arrivò il momento di dedicarci ai preparativi. Nella mia mente, però, c'era una cosa che mi tormentava, e una notte,
mentre Bianca dormiva nel suo angolino, decisi di occuparmi della questione. Mi inginocchiai sul marmo nudo e pregai la mia immota e bellissima Akasha, chiedendole in termini estremamente chiari se avrebbe permesso a Bianca di bere da lei. «Questa tenera creatura è stata tua compagna durante tutti questi anni», dissi, «e ti ha amato senza riserve. Le do ripetutamente il mio forte sangue. Ma cos'è il mio sangue in confronto al tuo? Ho paura per lei, nel caso venissimo separati. Ti prego, lasciala bere. Donale la tua preziosa forza.» Seguì solo il soave silenzio, accompagnato dallo sfavillio di tante minuscole fiammelle, dal profumo della cera e dell'olio, dal riverbero della luce negli occhi della regina. Vidi però un'immagine, in risposta alla mia preghiera. Mentalmente vidi la mia graziosa Bianca adagiata sul seno della regina, e per un unico, divino istante non ci trovammo nel sacrario, ma in un immenso giardino. Sentii la brezza che scuoteva gli alberi. Percepii il profumo dei fiori. Poi mi ritrovai nuovamente nel santuario, inginocchiato, le braccia allargate. Chiamai subito Bianca con un sussurro e le indicai di raggiungermi. Lei ubbidì, senza sapere cosa progettassi, e io la guidai fino alla gola della regina, facendole scudo con il mio corpo: in quel modo, se Enkil avesse dovuto sollevare il braccio, me ne sarei accorto. «Baciale la gola», sussurrai. Bianca tremava. Credo fosse sul punto di piangere, ma ubbidì, e subito dopo le vidi affondare le piccole zanne nella pelle della regina e sentii il suo corpo irrigidirsi tra le mie braccia. L'atto venne compiuto. Bevve per diversi istanti; mi parve di sentire i loro battiti cardiaci che lottavano, uno tonante e l'altro più flebile, poi Bianca ricadde all'indietro, e io la presi tra le braccia, vedendo i due minuscoli fori che si richiudevano nella gola di Akasha. Era finito. La riportai nell'angolo e la strinsi tra le mie braccia. Lei emise una serie di sospiri, vacillò, si girò verso di me e mi si rannicchiò contro. Poi allungò una mano e la guardò: notammo entrambi che era diventata più bianca, pur conservando il colore della carne umana. La mia anima fu meravigliosamente confortata da quell'avvenimento. Sto confessando soltanto ora cosa significò per me. Perché, avendo menti-
to a Bianca, ero afflitto da un insopportabile senso di colpa, e in quel momento, avendole donato il Sangue della Madre, ne traevo un enorme sollievo. Speravo che la Madre le permettesse di bere di nuovo, e fu così. Accadde spesso. E con ogni sorso di Sangue Divino, Bianca divenne immensamente più forte. Ma, lasciami narrare i fatti nel debito ordine. Il viaggio dal sacrario fu difficoltoso. Come in passato, fui costretto ad affidarmi ai mortali per trasportare i Divini Genitori, chiusi in massicci sarcofagi di pietra. Provavo una certa trepidazione, ma non così profonda come quella che mi aveva tormentato in epoche precedenti, essendo convinto che Akasha ed Enkil fossero in grado di difendersi. Non so cosa mi desse quell'impressione. Forse dipendeva dal fatto che mi avevano aperto il tempio e avessero acceso le lanterne quando ero stato così debole e miserevole. Comunque fosse, vennero trasferiti nella nostra nuova casa senza problemi, dove li estrassi dai sarcofagi per sistemarli sul trono. I loro movimenti placidi e ubbidienti, la loro indolente plasticità suscitarono in Bianca un lieve orrore, ma ormai lei aveva bevuto il Sangue della Madre, quindi mi raggiunse e mi aiutò a sistemare la veste di tessuto pregiato di Akasha e il gonnellino di Enkil. Poi mi aiutò a lisciare i capelli intrecciati, e a disporre adeguatamente i bracciali della regina. Quando finimmo, ci inginocchiammo per pregare che il re e la regina trovassero soddisfacente la loro nuova dimora. Alla fine andammo nella foresta a cercare i briganti dei quali avevamo già sentito le voci. Captammo rapidamente il loro odore, e rapidamente nel bosco ebbe luogo un gradevole banchetto, reso ancor più splendido dal loro gruzzoletto di oro. Tornati a casa, Bianca disse che finalmente eravamo tornati nel mondo, e festeggiò la cosa danzando e piroettando nell'immenso salone del castello. Era entusiasta di tutto il mobilio che riempiva le nostre nuove stanze, entusiasta dei nostri eleganti letti a cassettoni e di tutte le cortine colorate. Ne ero entusiasta anch'io. Eravamo pienamente d'accordo, tuttavia, sull'impossibilità di vivere nel mondo dei mortali, come avevamo fatto a Venezia. Era semplicemente troppo pericoloso. Perciò, assistiti solo da pochi domestici, iniziammo a condurre un'esistenza appartata, e a Dresda si diceva che la nostra casa appartenesse a una coppia di nobili che vivevano altrove.
Quando ci assaliva il desiderio di visitare grandi cattedrali - che erano numerose - o grandi corti reali, ci spostavamo a una certa distanza dal castello, in città quali Weimar o Eisenbach o Leipzig, e ci ammantavamo di una ricchezza e di un mistero davvero assurdi. Era tutto estremamente confortevole, dopo la nostra vita spartana trascorsa sulle Alpi, e lo apprezzavamo enormemente. A ogni tramonto, però, i miei occhi erano fissi su Dresda. A ogni tramonto rimanevo in ascolto per cogliere il suono di una potente bevitrice di sangue arrivata in città. E così trascorsero gli anni. Con essi giunsero radicali cambiamenti in fatto di abbigliamento che per noi furono motivo di grande divertimento. Cominciammo a portare elaborate parrucche che trovavo ridicole, così come disprezzavo i calzoni che divennero di moda, e le scarpe dal tacco alto e le calzamaglie bianche che li accompagnavano. Nel nostro quieto isolamento non potevamo includere abbastanza cameriere per Bianca, quindi toccava a me allacciarle lo stretto corsetto, godendo dello spettacolo di vederla con quei bustini che le coprivano a stento il seno e le ampie crinoline oscillanti. In quel periodo scrissi diverse volte al Talamasca. Raymond morì all'età di ottantanove anni, ma riuscii a stabilire un legame con una giovane donna di nome Elizabeth Nollis a cui erano state affidate le missive che avevo spedito a lui. Questa mi confermò che Pandora continuava a essere vista con il suo compagno orientale. Mi supplicò di rivelarle tutto ciò che potevo sui miei poteri e le mie abitudini, ma io non fui troppo comunicativo, al riguardo. Le parlai della lettura del pensiero e della sfida alla forza di gravità, ma la facevo impazzire con la scarsità dei dettagli che fornivo. Il successo principale e più misterioso ottenuto da quella nostra relazione epistolare fu che lei mi parlò diffusamente del Talamasca. Mi informò che l'Ordine possedeva una ricchezza che superava anche i sogni più sfrenati, ed era quella la fonte dell'immensa libertà dei suoi membri. Di recente avevano fondato una Casa Madre ad Amsterdam, e una anche a Roma. La cosa mi stupì, perciò la misi in guardia nei confronti della «congrega» di Santino. Mi inviò una risposta che mi lasciò esterrefatto. «Sembra che le strane signore e gli strani gentiluomini di cui abbiamo scritto in passato non si trovino più all'interno della città in cui dimoravano
con un piacere tanto palese. Risulta anzi molto arduo per la nostra Casa Madre trovare qualsiasi notizia su attività come quelle che ci si potrebbe aspettare da simili individui.» Cosa significava? Santino aveva forse abbandonato la sua congrega? Si erano trasferiti tutti a Parigi? E se era così, perché lo avevano fatto? Senza fornire spiegazioni alla mia quieta Bianca - che andava sempre più spesso a caccia da sola - mi recai a esplorare la Città Santa, visitandola per la prima volta dopo duecento anni. Fui prudente, in realtà, molto più prudente di quanto sarei stato disposto ad ammettere con chiunque. A dire il vero, la paura del fuoco che mi attanagliava era talmente forte che, arrivando a Roma, non potei fare altro che restare in cima alla basilica di San Pietro a guardare la città con occhi freddi e colmi di vergogna; per diversi istanti non riuscii a sentire alcunché con le mie orecchie da bevitore di sangue, per quanto mi sforzassi di riacquistare il controllo di me stesso. Ma ben presto appurai, grazie ai miei poteri mentali, che a Roma restavano solo pochi bevitori di sangue, e si trattava di cacciatori solitari che non godevano della consolazione di un compagno. Erano anche deboli: mentre ne sondavo le menti, mi resi conto che sapevano ben poco di Santino! Com'era successo? Come aveva fatto colui che aveva distrutto tanta parte della mia vita a sbarazzarsi della propria miserabile esistenza? Furibondo, mi avvicinai a uno di quei bevitori di sangue solitari e, quando lo abbordai, rimase a ragione terrorizzato. «Cosa puoi dirmi di Santino e della congrega romana?» chiesi. «Spariti, tutti spariti, ormai da anni», rispose. «Chi sei tu per sapere di simili cose?» «Santino! Dov'è andato?» esclamai. «Dimmelo.» «Nessuno conosce la risposta. Non ho mai posato gli occhi su di lui», ribatté. «Ma qualcuno ti ha creato. Dimmelo.» «Il mio creatore vive ancora nelle catacombe dove soleva riunirsi la congrega. È pazzo. Non può aiutarti.» «Preparati a incontrare Dio o il diavolo», gli intimai, e lo annientai all'istante. Lo feci con tutta la misericordia possibile. Di lui non rimase altro che una macchia di grasso sulla terra battuta, su cui sfregai il piede prima di dirigermi verso le catacombe. Aveva detto la verità: ci trovai solo un bevitore di sangue, in un antro
pieno di teschi, proprio come l'avevo visto un migliaio di anni prima. Era un idiota ciarliero, che quando mi vide con i miei eleganti abiti da gentiluomo mi fissò e puntò il dito. «Il diavolo arriva con stile», affermò. «No, è arrivata la morte», lo corressi. «Dimmi, perché hai creato l'altro che ho annientato stanotte?» Le mie parole lo lasciarono del tutto indifferente. «Ne creo altri perché siano miei compagni. Ma a cosa serve? Mi si rivoltano contro.» «Dov'è Santino?» chiesi. «Svanito da tempo», rispose. «Chi l'avrebbe mai immaginato?» «Guardami. Quando l'hai visto l'ultima volta?» «Oh, decenni fa», replicò. «Non ricordo in quale anno. Cosa significano gli anni, qui?» Non riuscii a estorcergli altre informazioni. Mi guardai intorno, osservando quel posto miserabile con le poche candele che facevano colare la cera su teschi ingialliti, poi, voltandomi verso di lui, lo annientai mediante il dono del fuoco, con la stessa misericordia che avevo mostrato all'altro. E credo sia stato davvero un atto misericordioso. Ne restava soltanto uno, che conduceva un'esistenza nettamente più raffinata, rispetto agli altri due. Lo trovai in una ricca dimora, un'ora prima del sorgere del sole. Non mi fu difficile scoprire che aveva un nascondiglio sotto la casa, ma trascorreva le ore d'ozio leggendo nelle sue stanze eleganti e si vestiva in modo discreto. Scoprii anche che non riusciva a percepire la mia presenza. Aveva l'aspetto di un mortale sulla trentina, ed era stato trasformato in un bevitore di sangue da circa trecento anni. Quando aprii la sua porta, spezzando la serratura, e mi parai di fronte, lui si alzò di scatto dalla scrivania e mi guardò terrorizzato. «Santino, cosa ne è stato di Santino?» domandai. Pur essendosi certamente nutrito in abbondanza, era magro, con ossa massicce e lunghi capelli neri, e, benché portasse con notevole eleganza gli abiti in voga nel 1600, i suoi merletti apparivano sudici e impolverati. «In nome dell'inferno, chi sei?» sussurrò. «Da dove vieni?» Giunse di nuovo la terribile confusione mentale che sgominava la mia capacità di sottrarre pensieri o informazioni a un cervello. «Te lo spiegherò», replicai, «ma prima devi rispondere alla mia domanda. Santino. Cosa ne è stato di lui?»
Feci diversi passi risoluti verso la creatura, che piombò in un parossismo di terrore. «Stai tranquillo», gli consigliai. Cercai di nuovo e invano di leggergli la mente. «Non cercare di fuggire, non ci riuscirai. Rispondi alle mie domande.» «Ti dirò tutto quello che so», promise, impaurito. «Dovrebbe essere più che sufficiente.» Scosse il capo. «Sono venuto qui da Parigi», disse. Stava tremando. «Sono stato inviato da un vampiro di nome Armand che è il capo di quella congrega.» Annuii, come se mi fosse tutto chiaro e come se non stessi soffrendo atrocemente. «È successo circa cento anni fa, forse di più. Armand non riceveva notizie da Roma ormai da parecchio tempo. Sono venuto a scoprirne il motivo. Ho trovato la congrega romana in preda al caos.» Si interruppe per riprendere fiato, indietreggiando. «Parla in fretta e dimmi di più», gli ordinai. «Sono impaziente.» «Solo se giuri sul tuo onore che non mi farai del male. Io non te ne ho fatto, dopo tutto. Non ero un figlio di Santino.» «Cosa ti fa pensare che vi sia onore, in me?» chiesi. «Lo so», ribatté. «Riesco a percepire certe cose. Giuramelo sul tuo onore e ti racconterò tutto.» «Benissimo, lo giuro. Ti lascerò vivere, il che è più di quanto abbia fatto stasera con gli altri due che infestavano le strade romane come fantasmi. Ora parla.» «Sono venuto qui da Parigi, come ti ho già detto. La congrega romana era debole. Tutte le cerimonie erano cessate. Un paio degli anziani si erano gettati deliberatamente nel fuoco. Altri erano semplicemente fuggiti, e Santino non aveva fatto nessun tentativo di catturarli per punirli. Quando divenne chiaro che la fuga era possibile, molti altri scapparono, e ormai la congrega versava in condizioni disastrose.» «Santino, lo hai visto?» «Sì. Aveva cominciato a portare abiti e gioielli eleganti, e mi ricevette in un palazzo molto più vasto di questo. Mi disse delle cose strane. Non le ricordo tutte.» «Devi ricordarle.» «Disse che aveva visto degli antichi, troppi, e la sua fede in Satana ne era stata scossa. Parlò di creature che parevano fatte di marmo, benché lui
sapesse che potevano essere bruciate. Disse che non poteva più essere il capo della congrega. Mi consigliò di non tornare a Parigi, di fare ciò che volevo, e così ho fatto.» «Gli antichi», dissi, ripetendo la parola che lui aveva usato. «Non ti ha detto niente di loro?» «Parlò del grande Marius e di una creatura chiamata Mael. E di donne bellissime.» «Come si chiamavano queste donne?» «Non me ne ha rivelato i nomi. Ha detto solo che una di loro aveva raggiunto la congrega la notte della danza cerimoniale, una donna simile a una statua vivente, e aveva camminato attraverso il fuoco per dimostrare che esso non aveva alcun effetto su di lei. Poi annientò molti dei novizi che la attaccarono. «Quando Santino le riservò attenzione e pazienza, lei gli parlò per molte notti, raccontandogli delle sue peregrinazioni. In seguito lui smise di amare la sua congrega... «... ma fu l'altra donna ad annientarlo davvero.» «Chi era?» chiesi. «Non riesci a parlare abbastanza in fretta per me.» «Era una donna di mondo, vestita con estrema eleganza, e viaggiava in carrozza insieme a un orientale dalla pelle scura.» Rimasi di stucco; mi esasperò che lui non aggiungesse altro. «Cos'è successo con lei?» chiesi infine, anche se un migliaio di altre parole mi inondarono la mente. «Santino desiderava disperatamente il suo amore. Naturalmente l'uomo orientale minacciò di annientarlo se non rinunciava a quel proposito, ma furono le parole di biasimo della donna a rovinarlo.» «Quali parole di biasimo? Cosa disse lei, e perché?» domandai. «Non ne sono sicuro. Santino le parlò della sua antica pietà e del suo fervore nel guidare la congrega. Lei lo criticò con violenza, disse che il tempo lo avrebbe punito per quanto aveva fatto alla sua stessa specie, e se ne andò disgustata.» Sorrisi, un sorriso amaro. «Capisci queste cose?» chiese lui. «Sono quelle che desideravi sentire?» «Oh, sì, le capisco», risposi. Mi voltai e raggiunsi la finestra. Sganciai il fermo di uno degli scuri e osservai la strada sottostante. Non vidi nulla, ma non riuscivo a riflettere lucidamente. «Cosa ne è stato della donna e del suo compagno orientale?» chiesi.
«Non lo so. Li ho visti una volta a Roma, forse cinquant'anni fa. È facile riconoscerli perché lei è pallidissima e il suo compagno ha la pelle di un marrone intenso, lei si veste sempre da gran dama, mentre lui indossa abiti orientali.» Trassi un bel respiro, agevolmente. «E Santino? Dov'è andato?» volli sapere. «Non te lo so dire, so solo che era estremamente abbattuto, quando gli ho parlato. Desiderava l'amore della donna, nient'altro. Disse che gli antichi gli avevano tolto il gusto dell'immortalità e lo avevano spaventato riguardo alla morte. Non gli restava più nulla.» Trassi un altro profondo respiro, poi mi voltai a fissare il vampiro, imprimendomi nella mente tutti i suoi notevoli dettagli. «Ascoltami», dissi. «Se mai dovessi rivedere questa creatura, la gran dama che viaggia in carrozza, devi dirle una cosa da parte mia, una soltanto.» «Benissimo.» «Dille che Marius vive e la sta cercando.» «Marius!» esclamò lui, boccheggiando. Mi guardò con rispetto; i suoi occhi mi soppesarono dalla testa ai piedi, poi ribatté con palese esitazione: «Ma Santino ti crede morto. Credo sia questo che ha detto alla donna, attraverso gli adepti che aveva mandato a nord con l'incarico di annientarti». «Sono convinto anch'io che le abbia detto proprio questo. Tu, invece, ricorda che mi hai visto vivo e che la cerco.» «Ma dove può trovarti?» «Non posso fidarmi per questa informazione», replicai. «Sarebbe stupido, da parte mia. Però ricorda quanto ti ho detto. Se la vedi parlale.» «Benissimo», disse. «Ti auguro di trovarla.» Senza aggiungere altro, me ne andai. Uscii nella notte e vagai a lungo per le strade di Roma, notando com'era cambiata con il passare dei secoli e quante cose fossero invece rimaste invariate. Mi stupii di trovare ancora in piedi diroccati monumenti della mia epoca. Sfruttai le poche ore a mia disposizione per addentrarmi tra le rovine del Colosseo e dei fori imperiali. Mi arrampicai sulla collina dove un tempo avevo abitato. Trovai blocchi di pietra che avevano fatto parte della mia casa. Vagabondai intontito, fissando le cose senza vederle, perché il mio cervello era febbricitante. In verità stentavo a contenere l'eccitazione per quanto avevo appena sa-
puto, eppure ero infelice perché Santino mi era sfuggito. Ma che ironia che si fosse innamorato di lei! E che lei lo avesse respinto! E pensare che Santino le aveva confessato i suoi atti omicidi, che orrore. Si era vantato, quando le aveva parlato? Alla fine riacquistai il controllo sulla mia mente. Quello che avevo appreso dal giovane vampiro mi consentiva di continuare la ricerca, ed ero sicuro che ben presto avrei incontrato Pandora. Ne ero sicuro. Quanto all'altra antica, quella che aveva camminato nel fuoco, a quel tempo non riuscivo a capire chi potesse essere, ma ora credo di saperlo. Anzi, ne sono quasi certo. Mi chiedo cosa l'abbia distolta dalla sua esistenza così riservata per indurla a donare una pietosa liberazione ai seguaci di Santino. Alla fine la notte volse al termine, e io tornai dalla mia sempre paziente Bianca. Quando scesi i gradini di pietra del sotterraneo la trovai addormentata accanto al suo sarcofago, come se mi stesse aspettando. Indossava una lunga camicia da notte di sottile seta bianca, con i polsini stretti da nastri, e i suoi capelli erano lucidi e sciolti. La presi in braccio, le baciai gli occhi e la adagiai nel sarcofago, poi la baciai di nuovo. «Hai trovato Santino?» chiese con voce assonnata. «L'hai punito?» «No», risposi. «Ma una notte lo farò, negli anni a venire. Solo il tempo può privarmi di un piacere tanto squisito.» 32 Fu Bianca a darmi la notizia. Si era a inizio serata, e io stavo scrivendo una lettera da spedire alla mia nuova confidente presso il Talamasca. Le finestre erano aperte sulla brezza che saliva dall'Elba. Bianca corse nella stanza e me lo annunciò. «È Pandora. Lo so. L'ho vista.» Mi alzai. La presi tra le braccia. «Come fai a saperlo?» chiesi. «Stanno danzando al ballo di corte, lei e il suo amante orientale. Tutti stavano parlando di loro, bisbigliando commenti sulla loro bellezza. Il marchese e la marchesa De Malvrier. Ho sentito i loro battiti cardiaci non
appena sono entrata nel salone delle danze. Ho colto il loro strano odore vampiresco. Come lo si può descrivere?» «Lei ti ha visto?» «Sì, e io mi sono impressa nella mente un tuo ritratto, mio amore», rispose Bianca. «I nostri sguardi si sono incrociati. Vai da lei. So quanto desideri vederla.» La fissai per qualche istante. Scrutai nei suoi adorabili occhi a mandorla e poi la baciai. Era vestita in modo magnifico, con un bellissimo abito di seta viola, e non era mai apparsa più splendida. La baciai più affettuosamente che mai. Raggiunsi subito gli armadi e mi vestii per il ballo, indossando la mia più pregevole redingote scarlatta con tutti i suoi pizzi, e infine mi misi sul capo la voluminosa parrucca ricciuta tanto in voga all'epoca. Scesi di corsa le scale raggiungendo la mia carrozza. Quando guardai indietro, vidi Bianca che mi osservava dalla balconata. Si portò una mano alle labbra e mi mandò un bacio. Non appena entrai nel palazzo ducale avvertii la presenza dell'orientale, e prima ancora che raggiungessi le porte del salone delle danze, lui emerse dall'ombra di un'anticamera e mi posò la mano sul braccio. Oh, da tanto tempo avevo sentito parlare di quella creatura malvagia, e adesso me la trovavo di fronte. Era un indiano davvero bellissimo, con grandi e liquidi occhi neri, e pelle di un marrone intenso e perfetta. Mi sorrise con la bocca liscia, seducente. Sfoggiava una redingote di satin blu scuro, e merletti elaborati e stravaganti, tempestati di enormi diamanti provenienti dall'India, dove quelle pietre preziose sono oggetto di adorazione. I suoi anelli dovevano valere una vera fortuna, così come i vari fermagli e bottoni. «Marius», mi chiamò, rivolgendomi un piccolo inchino formale, come se si stesse togliendo il cappello quando in realtà non lo portava. «Naturalmente stai andando a trovare Pandora.» «Hai intenzione di fermarmi?» chiesi. «No», rispose con un'alzata di spalle indolente. «Come puoi pensare una cosa del genere?» Il suo tono era garbato. «Marius, te lo assicuro, lei ne ha respinti molti altri.» Sembrava assolutamente sincero. «Così mi hanno detto», replicai. «Devo vederla. Tu e io possiamo parlare in seguito. Ora devo andare da lei.» «Benissimo», ribatté lui. «La pazienza non mi manca.» Si strinse di nuovo nelle spalle. «Sono sempre paziente. Mi chiamo Arjun. Sono felice
che finalmente ci siamo incontrati. Sono stato paziente persino con quella canaglia romana, Santino, che sosteneva di averti annientato. In quel momento lei era terribilmente infelice e io avrei voluto punirlo. Eppure non l'ho fatto. Ho assecondato i desideri di Pandora e l'ho lasciato vivere. Che creatura avvilita era. Come l'amava. Mi sono piegato al volere di Pandora, come ti ho appena detto. Lo farò anche stasera, come sempre.» «È davvero gentile da parte tua», dichiarai, con un groppo alla gola che mi impediva quasi di parlare. «Ora lasciami andare. Ho aspettato questo momento più a lungo di quanto tu possa immaginare. Non riesco a rimanere qui a conversare con te, come se lei non si trovasse a pochi passi di distanza.» «Posso benissimo immaginare com'è stata lunga la tua attesa», mi corresse. «Sono più vecchio di quanto tu creda.» Annuii e mi allontanai lentamente, non potendo attendere oltre. Entrai subito nell'immenso salone delle danze, dove l'orchestra stava suonando uno dei dolci e fluidi balli così popolari a quei tempi, senza neppure un pizzico della vivacità che la musica avrebbe avuto in seguito. La sontuosa stanza traboccava di visi radiosi e figure danzanti, e di una miriade di colori. Scrutai la folla felice, costeggiando lentamente una parete e poi un'altra. All'improvviso la vidi. Non sapeva che ero lì. Il suo compagno non le aveva inviato alcun avvertimento telepatico. Era seduta da sola, vestita ad arte con abiti alla moda, il corpetto di satin molto aderente e grazioso, la gonna ricamata ed enorme, e il suo adorabile viso pallido era incorniciato dai capelli castani raccolti sopra la testa in un'acconciatura in voga, ornata da rubini e diamanti. Mi appoggiai al clavicordo, sorridendo con benevolenza al musicista che lo suonava con tanta maestria, poi mi voltai a fissare Pandora. Com'era triste la sua espressione, com'era distaccata, com'era indicibilmente bella! Stava osservando i colori della stanza come li osservavo io? Provava il mio stesso soave amore per i mortali? Cosa avrebbe fatto quando si sarebbe accorta che ero lì e la stavo guardando? Non potevo immaginarlo, ma provai paura. Non potevo sapere nulla finché non sentivo il suono della sua voce. Continuai a guardare. Continuai ad assaporare quell'istante di beatitudine e sicurezza. All'improvviso mi vide, individuandomi tra le centinaia di volti. I suoi occhi si fissarono su di me; vidi il sangue affluire sulle splendide guance, e la sua bocca si aprì per pronunciare il mio nome.
Lo sentii al di sopra della musica tenue, dolce. Mi portai le dita alle labbra, proprio come Bianca aveva fatto poco prima, e le mandai un bacio. La sua espressione divenne immediatamente triste e insieme felice, la bocca socchiusa in un mezzo sorriso, mentre mi osservava. Sembrava impietrita, come me. Ma la situazione era intollerabile. Cos'era quell'immenso silenzio che ci divideva? Attraversai rapidamente la stanza e mi inchinai di fronte a lei. Prendendole la mano bianca e fredda la portai a ballare, senza alcuna resistenza da parte sua. «Non opporti. Sai che appartieni a me?» sussurrai. «Non staccarti.» «Marius, ho paura di lui: è forte», mi mormorò all'orecchio. «Devo spiegargli che ci siamo ritrovati.» «A me non fa paura. Inoltre lo sa già. Ma cosa importa?» Stavamo danzando come se non stessimo parlando di cose tanto importanti. La strinsi forte e la baciai sulle guance. Non badai a cosa potessero pensare i mortali che ci stavano intorno, per quel gesto sconveniente. La sola idea era assurda. «Pandora, mio adorato tesoro, se soltanto tu potessi sapere quanto a lungo ho aspettato. A cosa serve dirti adesso che sin dall'inizio ho sentito la tua mancanza, e quanto ho sofferto atrocemente? Pandora, ascoltami, non chiudere gli occhi, non distogliere lo sguardo. Ho capito dopo nemmeno un anno, sì, dopo meno di un anno, di aver commesso un terribile errore!» Mi accorsi che la stavo facendo roteare con troppa violenza, le stavo stringendo la mano con troppa forza. Avevo smesso di seguire il ritmo della danza. La musica era uno strano rumore acuto nelle mie orecchie. Avevo perso il controllo di tutto. Lei si staccò per guardarmi negli occhi. «Portami fuori, in giardino», disse. «Possiamo parlare nella brezza del fiume. La musica mi fa girare la testa.» La condussi subito al di là di un'enorme porta a doppio battente, e andammo a sederci su una panca di pietra rivolta verso il fiume. Non dimenticherò mai com'era limpido quel cielo notturno, come le stelle sembrassero favorirmi e come la luce della luna brillasse sull'Elba. Tutt'intorno a noi c'erano fiori in vaso, e altre coppie di mortali usciti a respirare una boccata d'aria prima di tornare nel salone delle danze. Ma noi eravamo nascosti dall'ombra che sembrava tutta per noi, perciò
cominciai subito a baciarla senza timore di essere visto. Sentii le sue gote perfette sotto le mie labbra, le baciai la gola, e accarezzai gli splendidi capelli castani, che avevo tanto spesso dipinto sulle ninfe selvagge che correvano nel mio lussureggiante giardino. Avrei voluto scioglierli per godermeli maggiormente. «Non lasciarmi di nuovo», la pregai. «Al di là di quello che ci diremo stanotte, ti prego, non lasciarmi mai più.» «Marius, sei stato tu a lasciare me», dichiarò lei, e nella voce le sentii un tremito che mi spaventò. «È successo così tanto tempo fa», disse tristemente. «Marius, ho vagato in lungo e in largo, cercandoti.» «Sì, sì, ammetto tutto», replicai. «Ammetto ogni errore. Come potevo immaginare cosa avrebbe significato troncare il nostro legame? Pandora, non lo sapevo! Oh, dei, non lo sapevo! Credimi, non lo sapevo. Dimmi che lascerai quell'Arjun, e tornerai da me. Pandora, non desidero altro! Non so coniare parole leggiadre, non so declamare antichi poemi. Pandora, guardami.» «Ti sto guardando!» esclamò. «Non vedi, mi accechi! Marius, non pensare che non abbia sognato anch'io questa riunione. E ora mi vedi in preda a questa vergogna, a questa debolezza.» «Cosa? Non mi importa! Quale vergogna e debolezza?» «Quella di essere schiava di Arjun, e di permettere che mi porti in giro per il mondo, quella di non possedere la minima forza di volontà, il minimo slancio. Marius, ormai non sono nulla.» «No, non è vero, ma adesso non ha più importanza. Ti libererò di Arjun, io non ho paura di lui, poi rimarrai con me e ritroverai il tuo antico spirito.» «Tu sogni», ribatté lei, con una traccia di freddezza che per la prima volta le si insinuò sul volto, nella voce, e le brillò negli occhi castani: una freddezza che nasceva dall'infelicità. «Mi stai dicendo che intendi lasciarmi di nuovo per questa creatura? Credi che lo permetterò?» «E tu cosa mi stai dicendo, Marius, che mi costringerai con la forza?» Il suo tono era sommesso, distaccato. «Ma mi hai appena detto che sei debole, che sei una schiava. Questo non equivale a chiedermi di aiutarti?» Lei scosse il capo. Stava per piangere. Desiderai nuovamente di poterle sciogliere i capelli, di vederglieli sparsi sulle spalle, di togliere le pietre preziose. Volevo prenderle il viso tra le mani.
Lo feci. Glielo strinsi fin troppo rudemente. «Pandora, ascoltami», dissi. «Un centinaio di anni fa, ho appreso da uno strano mortale che, nel corso dei tuoi vagabondaggi con quella creatura, giravi ripetutamente intorno alla città di Dresda. E, sapendolo, mi sono trasferito in questa città per aspettarti. Non c'è stata nemmeno una notte in cui non mi sia svegliato per perlustrare Dresda alla tua ricerca. E ora che ti ho tra le braccia non intendo abbandonarti.» Scosse di nuovo il capo. Per un attimo parve incapace di parlare. Sentii che era imprigionata nei suoi strani indumenti alla moda e persa in una fantasticheria dolorosa. «Ma io cosa posso darti, Marius, se non quello che già sai? Forse la consapevolezza che vivo, che resisto, che vago? Con o senza Arjun, che importanza ha?» Volse lo sguardo verso di me, con espressione interrogativa. «E cosa apprendo da te, se non che anche tu vai avanti, e resisti - che quei demoni di Roma non ti hanno annientato col fuoco, come sostenevano - sì, lo vedo nel colore della tua pelle, ma sei sopravvissuto. Marius, cos'altro c'è?» «Cosa stai dicendo?» chiesi. All'improvviso ero furibondo. «Pandora, ognuno di noi due ha l'altro! Signore benedetto, abbiamo il tempo. Quando saremo insieme, il tempo per noi ricomincerà da capo!» «Davvero? Non ne sono sicura», ribatté lei. «Marius, non sono abbastanza forte.» «Pandora, è una follia!» «Oh, adesso tu sei arrabbiato e tutto somiglia così tanto ai nostri antichi litigi!» «Non è vero!» protestai. «Non somiglia affatto ai nostri antichi litigi perché non è così. Ora ti porto via da qui. Ti porto nel mio palazzo, dopo di che mi occuperò di Arjun come meglio potrò.» «Non puoi fare una cosa del genere», disse bruscamente lei. «Marius, sono con lui da centinaia di anni. Credi di poterti frapporre tra noi come se niente fosse?» «Ti desidero, Pandora. Non mi accontenterò di nient'altro. E se giungerà il momento in cui vorrai lasciarmi...» «Sì, e se arriverà quel momento...» esclamò lei, rabbiosamente, «allora cosa farò, se non ci sarà nessun Arjun?» Tacqui. Ero furioso. Pandora mi stava fissando. Il suo viso era carico d'emozione. Il seno le si alzava e abbassava ritmicamente sotto il satin at-
tillato. «Mi ami?» chiesi. «Con tutto il cuore», rispose con voce irata. «Allora vieni con me!» La presi per mano. Nessuno si mosse per fermarci, mentre lasciavamo il palazzo. Non appena l'ebbi aiutata a salire sulla carrozza, la baciai sfrenatamente come si baciano i mortali; avrei voluto affondarle i denti nella gola, ma me lo impedì. «Lasciami godere di quell'intimità!» la supplicai. «Per l'amor del cielo, Pandora, è Marius che ti sta parlando. Ascoltami. Condividiamo sangue e sangue.» «Credi che io non lo desideri?» chiese lei. «Ma ho paura.» «Paura di cosa?» domandai. «Dimmi cosa ti spaventa. Lo farò scomparire.» La carrozza lasciò Dresda e cominciò ad attraversare la foresta, diretta al mio palazzo. «Oh, non lo farai, invece», disse lei. «Non puoi. Non capisci, Marius? Sei la stessa creatura che eri all'epoca in cui abbiamo vissuto insieme. Sei forte e appassionato come allora, e io no. Marius, lui si prende cura di me.» «Si prende cura di te? Pandora, è questo che vuoi? Lo farò io. Mi prenderò cura di ogni minuscolo dettaglio della tua esistenza, come se fossi mia figlia! Dammi solo una possibilità. Dammi l'opportunità di ricreare nell'amore ciò che abbiamo perduto.» Avevamo raggiunto il cancello, che i domestici stavano aprendo. Stavamo per entrare quando Pandora mi chiese di fermare la carrozza. Stava guardando fuori dal finestrino, su verso le finestre del palazzo. Forse riusciva a vedere il padiglione. Ubbidii. Vidi che era paralizzata dalla paura. Impossibile nasconderlo. Fissò l'edificio come se fosse colmo di minaccia. «Di cosa può mai trattarsi, in nome del cielo?» chiesi. «Qualunque sia la cosa che ti spaventa, dimmela. Pandora, non c'è nulla che non possa essere cambiato. Dimmela.» «Oh, hai un temperamento così violento», mormorò. «Non riesci a indovinare cosa provoca in me questa abominevole debolezza?» «No, so solo che ti amo con tutto il cuore. Ti ho ritrovata e sono disposto a tutto, pur di tenerti con me.»
I suoi occhi rimasero fissi sul palazzo. «Persino a rinunciare alla compagna che si trova all'interno di questa stessa dimora, ad aspettarti?» Non risposi. «L'ho vista al ballo», aggiunse lei; aveva gli occhi vitrei, la voce tremante. «L'ho vista e ho capito cos'era: potente, aggraziata. Non avevo immaginato che fosse la tua amante, ma ora lo so. La sento all'interno. Capto le sue speranze e i sogni che ripone in te.» «Smettila, Pandora. Non è necessario che io rinunci a lei. Non siamo mortali! Possiamo vivere tutti e tre insieme.» La presi per le braccia. La scrollai. I suoi capelli si sciolsero, e io li tirai con violenza e crudeltà, affondandovi il viso. «Pandora, se me lo chiedi lo farò. Dammi solo un po' di tempo, dammi il tempo di assicurarmi che Bianca si trovi in un luogo dove può sopravvivere con agio e felice. Lo farò per te, capisci, se solo smetti di combattermi!» Mi ritrassi. Lei sembrava frastornata e infreddolita. I magnifici capelli le coprivano le spalle. «Cosa c'è?» mi chiese in tono lento, pigro. «Perché mi guardi così?» Ero sul punto di piangere, ma me lo impedii. «Perché immaginavo che questo incontro sarebbe stato molto diverso. E pensavo che saresti venuta con me spontaneamente. Pensavo che potessimo vivere in armonia con Bianca. Ho creduto in queste cose, ci ho creduto a lungo. Invece ora sono seduto qui con te e tutto è discussione e tormento.» «È sempre stato così, Marius», precisò lei con il suo tono sommesso e avvilito. «Ecco perché mi hai lasciata.» «No, non è vero», dichiarai. «Pandora, il nostro era un grande amore. Devi ammetterlo. C'è stata una separazione terribile, sì, ma avevamo un grande amore, e possiamo riaverlo, se tentiamo di recuperarlo.» Pandora fissò la casa, poi riportò lo sguardo su di me, quasi furtivamente. Qualcosa scattò dentro di lei, e all'improvviso mi afferrò il braccio con le nocche bianche. Sul viso le riapparve quell'espressione terrorizzata. «Entra in casa con me», le proposi. «Vieni a conoscere Bianca. Prendile le mani nelle tue. Pandora, ascoltami. Rimani in casa mentre io vado a sistemare le cose con Arjun. Non mi ci vorrà molto, te lo prometto.» «No», gridò. «Non capisci? Non posso entrare in questa casa. Non ha niente a che vedere con Bianca.» «Allora di cosa si tratta? Cosa c'è, adesso? Cos'altro c'è?» chiesi.
«È il suono che sento, il suono dei loro cuori che battono!» «Il re e la regina! Sì, si trovano nel sotterraneo dell'edificio. A una notevole profondità, Pandora. Sono immobili e silenziosi come sempre. Non sei nemmeno obbligata a vederli.» Un'espressione di puro terrore le modificò i lineamenti. La cinsi con le braccia, ma si limitò a distogliere lo sguardo. «Immobili e silenziosi come sempre», disse con un fil di voce. «È impossibile. Non dopo tutto questo tempo. Marius!» «Oh, ma è così, invece. E non dovrebbe importarti. Non hai bisogno di scendere i gradini fino al sacrario. È un dovere mio. Pandora, smetti di guardare altrove.» «Non farmi male, Marius», mi ammonì lei. «Mi tratti rudemente come se fossi una concubina. Trattami con gentilezza.» Le tremarono le labbra. «Trattami con compassione», aggiunse tristemente. Cominciai a piangere. «Rimani con me», la implorai. «Vieni dentro. Parla con Bianca. Impara ad amarci entrambi. Lascia che il tempo cominci in questo preciso istante.» «No, Marius», disse. «Portami lontano da quel terribile suono. Riportami nel luogo in cui vivo. Riportami indietro, altrimenti vado a piedi. Non lo sopporto.» La accontentai. Restammo in silenzio mentre lei ci guidava verso l'ampia e bellissima casa di Dresda le cui numerose finestre erano buie. Una volta là, la tenni stretta, baciandola, rifiutandomi di lasciarla andare. Alla fine presi il fazzoletto e mi asciugai il viso. Inspirai a fondo e cercai di parlare con calma. «Sei spaventata», affermai, «e io devo capirlo e pazientare.» Negli occhi aveva un'espressione inebetita, fredda, un'espressione che non le avevo mai visto e che mi riempiva d'orrore. «Domani sera ci rivedremo», annunciai, «magari qui nella casa in cui abiti, dove sei al sicuro dal suono della Madre e del Padre. Ovunque tu desideri. Ma ovunque tu possa abituarti a me.» Annuì. Sollevò una mano e mi accarezzò la guancia con le dita. «Come sei bravo a fingere», commentò. «Sei bello come sei sempre stato. E pensare che quei demoni a Roma credevano di aver spento la tua luce brillante. Avrei dovuto ridergli in faccia.» «Sì, e la mia luce brilla solo per te», sussurrai, «ed è te che ho sognato quando sono stato bruciato dal fuoco inviato da quel demoniaco Santino. E
te che ho sognato mentre bevevo dalla Madre per riacquistare la forza, mentre ti cercavo in tutti i paesi d'Europa.» «Oh, mio amore», sussurrò. «Mio grande amore. Se solo io potessi ridiventare la creatura forte che tu ricordi.» «Ma lo sarai», insistetti. «Lo sei. Mi prenderò cura di te, sì, proprio come desideri. Tu, io e Bianca... ci ameremo a vicenda. Domani notte parleremo. Escogiteremo piani. Parleremo di tutte le grandi cattedrali che dobbiamo visitare, delle finestre di vetro istoriato, parleremo dei pittori di cui dobbiamo ancora ammirare i capolavori. Parleremo del Nuovo Mondo, delle sue foreste e dei suoi fiumi. Pandora, parleremo di tutto.» Continuai a cianciare senza sosta. «E imparerai ad amare Bianca», aggiunsi. «Arriverai ad apprezzarla. Conosco il cuore e l'anima di Bianca come conoscevo i tuoi, te lo giuro. Vivremo insieme in pace, credimi. Non hai idea della felicità che ti aspetta.» «Felicità?» chiese lei. Mi guardò come se capisse a stento le mie parole. «Marius», annunciò poi, «lascio la città stanotte. Niente può impedirmelo.» «No, no, non puoi dirmi una cosa del genere!» esclamai. La presi di nuovo per le braccia. «Non farmi male, Marius. Lascio la città stanotte, te l'ho detto. Hai aspettato per un centinaio di anni di vedere una sola cosa, e una soltanto: che vivo. Ora lasciami all'esistenza che ho scelto.» «No. Non lo permetterò.» «Sì, invece», sussurrò lei. «Marius, non capisci cosa sto cercando di dirti. Non ho il coraggio di lasciare Arjun. Non ho il coraggio di vedere la Madre e il Padre. Marius, non ho più il coraggio di amarti. Il suono stesso della tua voce irata mi spaventa. Non ho il coraggio di conoscere la tua Bianca. Il solo pensiero che tu possa amarla più di quanto ami me mi atterrisce. Tutto questo mi atterrisce, non vedi? E persino ora desidero disperatamente che Arjun possa portarmi via da tutto ciò. Con Arjun c'è una grande semplicità, per me! Marius, ti prego, lasciami andare con il tuo perdono.» «Non ti credo», replicai. «Ti ho detto che sono disposto a rinunciare a Bianca, per te. Buon Dio, Pandora, cos'altro posso fare? Non puoi volermi abbandonare.» Le diedi la schiena. La sua espressione era troppo bizzarra. Non potevo sopportarla.
Mentre restavo seduto lì al buio, sentii aprirsi lo sportello della carrozza. Sentii il rapido passo di Pandora sulle pietre del selciato, e mi lasciò. La mia Pandora, che mi lasciava per sempre. Non so per quanto tempo rimasi ad aspettare. Per almeno, un'ora, probabilmente. Ero troppo sconvolto, troppo disperato. Preferivo non vedere il suo compagno, e quando pensai di picchiare i pugni sulla porta di casa sua, lo giudicai un atto troppo umiliante. Inoltre, a dire il vero, mi aveva convinto. Non sarebbe rimasta con me. Stavo per dire al conducente di riportarmi a casa, quando captai un suono. Erano le urla e il pianto di Pandora, e il frastuono di oggetti che andavano in frantumi all'interno dell'abitazione. Non avevo bisogno d'altro per entrare in azione. Scesi dalla carrozza e mi lanciai verso la porta di Pandora. Scoccai un'occhiata malvagia ai suoi domestici mortali, un'occhiata che li rese praticamente impotenti, e spalancai da solo la porta a doppio battente. Salii di corsa i gradini di marmo. La trovai che si lanciava follemente contro i muri, picchiando i pugni sugli specchi; la trovai che spargeva lacrime di sangue e tremava. Tutt'intorno a lei erano disseminati cocci di vetro. Le afferrai i polsi. Questa volta tenendoli dolcemente. «Rimani con me», dissi. «Rimani con me!» All'improvviso, alle mie spalle, avvertii la presenza di Arjun. Udii il suo passo tranquillo, poi lui entrò nella stanza. Pandora si era accasciata sul mio petto. Stava tremando violentemente. «Non preoccuparti», mi disse Arjun con lo stesso tono paziente con cui mi si era rivolto nel palazzo del duca. «Possiamo parlare della situazione in maniera garbata. Non sono una creatura selvaggia, incline ad atti violenti.» Sembrava un perfetto gentiluomo, con il suo fazzoletto di pizzo e le scarpe dal tacco alto. Si guardò intorno, osservando i frammenti di specchio sparsi sul tappeto pregiato, e scosse il capo. «Allora lasciami solo con lei», replicai. «È questo che desideri, Pandora?» domandò lui. Lei annuì. «Per un poco, mio caro», gli rispose. Non appena lui lasciò la stanza e chiuse dietro di sé l'alta porta a doppio battente, io le carezzai i capelli e la baciai di nuovo. «Non posso lasciarlo», confessò.
«Perché?» chiesi. «Perché l'ho creato io», spiegò. «È mio figlio, il mio sposo e il mio guardiano.» Quella rivelazione mi lasciò scioccato. Non avevo mai immaginato una cosa del genere. Per tutti quegli anni lo avevo ritenuto una creatura dispotica che teneva Pandora in suo potere. «L'ho creato affinché si prendesse cura di me», aggiunse lei. «L'ho portato via dall'India, dove ero venerata come un'autentica dea, dai pochi mortali che avevano posato gli occhi su di me. Gli ho insegnato gli usi e costumi europei. Gli ho affidato il compito di badare a me in modo che mi controllasse nella mia debolezza e disperazione. Ed è la sua fame di vita che ci spinge ad andare avanti. Senza di essa avrei potuto languire per secoli in qualche tomba sotterranea.» «Benissimo», replicai, «è tuo figlio. Lo capisco. Ma Pandora, tu appartieni a me! Appartieni a me, e ora sei tornata in mio possesso! Oh, perdonami, perdonami se parlo in modo così avventato, se uso parole come 'possesso'. Cosa voglio dire? Voglio dire che non posso perderti!» «So cosa vuoi dire», ammise, «ma vedi, non posso scacciarlo. Si è dimostrato troppo abile in ciò che gli ho chiesto di fare, e mi ama. E non può vivere sotto il tuo tetto, Marius. Ti conosco troppo bene. Dove Marius vive, Marius comanda. Non sopporteresti mai che un maschio come Arjun abitasse insieme a te, né per causa mia, né per qualsiasi altra ragione.» Ero talmente ferito che per un attimo non riuscii a ribattere. Scossi il capo come per negare le sue affermazioni, ma in verità non sapevo se avesse ragione o no. Avevo sempre pensato solo ad annientare Arjun. «Non puoi negarlo», mormorò lei. «Arjun è troppo forte, troppo caparbio, e da troppo tempo indipendente.» «Deve pur esserci un modo», affermai in tono supplichevole. «Sicuramente, una notte giungerà il momento in cui Arjun si separerà da me. Lo stesso potrebbe accadere per te e la tua Bianca. Ma quel momento non è ancora arrivato. Quindi ti supplico, lasciami andare, Marius, dimmi addio e promettimi di perseverare in eterno, e io ti farò la stessa promessa.» «Questa è la tua vendetta, vero?» chiesi quietamente. «Eri la mia creatura, e prima che fossero trascorsi duecento anni io ti ho lasciata. Così ora mi dici che non intendi fare la stessa cosa con lui...» «No, mio bellissimo Marius, non si tratta di vendetta, ma solo della veri-
tà. Ora lasciami sola.» Sorrise amaramente. «Oh, che dono è stato per me questa notte, il fatto di averti visto vivo, di sapere che il bevitore di sangue romano, Santino, si sbagliava. Questa notte mi consentirà di affrontare i secoli!» «Ti consentirà di separarti da me», dissi, annuendo. Poi le sue labbra mi colsero di sorpresa. Fu lei a baciarmi con ardore, e sentii i suoi minuscoli denti aguzzi forarmi la gola. Rimasi immobile, a occhi chiusi, lasciandola bere, sentendo l'inevitabile strattone al cuore, la testa improvvisamente colma di visioni della foresta buia in cui lei e il compagno cavalcavano, e non riuscii a stabilire se fossero le sue visioni o le mie. Continuò a bere a lungo, come se stesse morendo di fame, e io creai volutamente, per lei, il sontuoso giardino dei miei sogni più cari, e immaginai che ci trovassimo là insieme. Il mio corpo non era altro che desiderio di lei. In ogni nervo sentivo l'azione violenta del suo bere e non opposi resistenza. Ero la sua vittima. Non usai la minima cautela. Apparentemente non ero più in piedi. Dovevo essere caduto. Non mi importava. A un certo punto sentii le sue mani sulle braccia, e capii che mi aveva aiutato a rialzarmi. Pandora si staccò. Con occhi incapaci di mettere a fuoco vidi che mi fissava. I capelli le coprivano le spalle. «Sangue così forte», sussurrò. «Il mio Figlio dei Millenni.» Era la prima volta che sentivo usare un simile appellativo per quanti di noi vivevano da così tanto tempo, e ne rimasi incantato. Ero intontito, a causa dell'energia che Pandora mi aveva sottratto, ma che importanza aveva? Ero disposto a darle qualsiasi cosa. Mi feci forza. Cercai di schiarirmi la vista. Lei si era spostata al capo opposto della stanza. «Che cos'hai visto nel sangue?» sussurrai. «Il tuo amore puro», rispose. «C'erano forse dei dubbi?» domandai. Stavo diventando di secondo in secondo più forte. Lei aveva il viso radioso grazie all'afflusso di sangue, e i suoi occhi ardevano, come li avevo sempre visti durante i nostri litigi. «No, nessun dubbio», dichiarò. «Ma ora devi lasciarmi.» Non dissi nulla. «Avanti, Marius. Se non lo fai, non potrei sopportarlo.» La fissai come se stessi fissando una creatura selvaggia del bosco, e sembrava davvero tale, quell'essere che amavo con tutto il cuore.
Ancora una volta, capii che era finita. Lasciai la stanza. Nell'ampio corridoio della casa mi fermai, stordito, e nell'angolo vidi Arjun che mi fissava. «Mi dispiace tanto, Marius», affermò, riuscendo a sembrare sincero. Lo guardai, chiedendomi se esistesse qualcosa capace di scatenare in me una collera sufficiente per annientarlo. Se lo avessi fatto, Pandora sarebbe stata costretta a rimanere con me. Oh, come mi divampò nella mente, quella prospettiva! Eppure sapevo che lei mi avrebbe odiato totalmente e completamente, per quello. E io avrei odiato me stesso. Perché cosa avevo, in fondo, contro quella creatura che non era lo spregevole padrone di Pandora come avevo sempre creduto, ma suo figlio: un novizio di circa cinquecento anni, giovane nel Sangue e colmo di amore per lei? Ero assai lontano da una simile eventualità. E che essere sublime sembrò Arjun, mentre leggeva sicuramente quei pensieri nella mia anima disperata e dischiusa, eppure restava immobile con un atteggiamento così pacato, limitandosi a guardarmi. «Perché dobbiamo separarci?» sussurrai. Si strinse nelle spalle. Fece un gesto eloquente con le mani. «Non lo so», ammise, «so solo che lei vuole così. È lei che preferisce essere sempre in movimento, è lei che stabilisce gli itinerari. È lei che traccia i cerchi che seguiamo viaggiando, facendo saltuariamente di Dresda il centro dei nostri vagabondaggi, scegliendo ogni tanto un'altra città come Parigi o Roma. È lei che sostiene che dobbiamo spostarci continuamente. Quindi cosa posso dire, Marius, se non che la cosa mi delizia?» Mi avvicinai a lui, e per un attimo Arjun temette che volessi fargli del male e si irrigidì. Gli afferrai un polso prima che potesse muoversi. Lo studiai. Che creatura nobile era, la maestosa parrucca bianca in netto contrasto con la lucente pelle marrone, gli occhi neri che mi fissavano con un tale zelo e apparente comprensione. «Restate qui con me», gli proposi. «Restate con me e la mia compagna, Bianca.» Sorrise e scosse il capo. Non c'era traccia di disprezzo nei suoi occhi. Eravamo due maschi a confronto, e non c'era alcun disprezzo. Mi rispose semplicemente di no. «Lei non accetterà», spiegò, in tono estremamente conciliante e pacato. «La conosco. Conosco tutte le sue abitudini. Mi ha preso con sé perché la
adoro. E, una volta ricevuto il suo sangue, non ho mai smesso di adorarla.» Rimasi fermo lì, continuando a stringergli il polso e guardandomi intorno, come se fossi pronto a invocare a gran voce gli dei. Avevo l'impressione che il mio eventuale urlo avrebbe infranto le pareti stesse di quella casa. «Com'è possibile?» sussurrai. «Com'è possibile che io la trovi e la veda solo per una notte, una preziosa notte di litigi?» «Tu e lei siete simili, sullo stesso livello», commentò lui. «Io non sono che uno strumento.» Chiusi gli occhi. All'improvviso la sentii piangere e, quando quel suono mi raggiunse le orecchie, Arjun si sciolse delicatamente dalla mia stretta e spiegò con la sua voce sommessa e gentile che doveva andare da lei. Uscii lentamente dall'atrio, scesi i gradini di marmo e sbucai nella notte. Ignorando la carrozza che mi aspettava, tornai a casa attraversando la foresta. Quando raggiunsi il mio palazzo, entrai in biblioteca, mi tolsi la parrucca indossata per il ballo, la gettai a terra e mi sedetti alla scrivania, posando la testa sulle braccia ripiegate e piansi silenziosamente come non facevo sin dalla morte di Eudoxia. Piansi. Le ore passarono, e finalmente mi accorsi che Bianca era ferma accanto a me. Mi stava accarezzando i capelli, poi mi sussurrò: «È tempo di scendere i gradini fino alla nostra fredda tomba, Marius. Per te forse è presto, ma io devo andare e non posso lasciarti in queste condizioni». Mi alzai. La presi tra le braccia e versai le lacrime più terribili, mentre lei continuava a stringermi in silenzio e affettuosamente. Poi scendemmo insieme fino ai nostri sarcofagi. La notte seguente mi recai subito nella casa in cui avevo lasciato Pandora. La trovai deserta; perlustrai tutta Dresda e i numerosi palazzi o Schloss intorno a essa. Lei e Arjun erano partiti, non c'erano dubbi. Salendo al palazzo ducale dove si stava tenendo un piccolo concerto, appresi subito la versione «ufficiale» su come l'elegante carrozza nera dei marchesi De Malvrier fosse partita prima dell'alba alla volta della Russia. Russia! Non essendo dell'umore adatto per ascoltare musica, porsi le mie scuse alle persone riunite nel salone e tornai a casa, più infelice di quanto fossi mai stato nel corso della mia esistenza. Con il cuore spezzato.
Mi sedetti alla scrivania. Guardai fuori verso il fiume, respirando la tiepida brezza primaverile. Pensai alle tante cose che lei e io avremmo dovuto raccontarci, alle tante cose che avrei potuto dichiarare con spirito più quieto, per convincerla. Mi dissi che Pandora non era irraggiungibile. Mi dissi che sapeva dove mi trovavo, e che poteva scrivermi. Mi dissi qualunque cosa mi consentisse di non perdere la ragione. Non sentii Bianca quando entrò nella stanza. Non la sentii neppure quando si sedette in una grande poltrona rivestita di tessuto, vicino a me. Quando alzai gli occhi mi parve una visione: un ragazzo perfetto con guance di porcellana, i capelli biondi legati da un nastro nero, la redingote ornata di ricami in oro, le belle gambe fasciate da un'immacolata calzamaglia bianca, i piedi infilati in scarpe con fibbie di rubini. Oh, che travestimento divino! Bianca in veste di giovane nobile, nota come il fratello di se stessa ai pochi mortali che contavano. E com'erano tristi gli impareggiabili occhi azzurri, mentre mi guardava. «Mi dispiace per te», dichiarò quietamente. «Davvero?» chiesi. Pronunciai quelle parole con il cuore spezzato. «Lo spero, mio prezioso tesoro, perché ti amo, ti amo più di quanto ti abbia mai amato, e ho bisogno di te.» «Ma è proprio questo il punto, capisci?» ribatté in tono pacato e compassionevole. «Ho sentito le cose che le hai detto. E sto per lasciarti.» 33 Mentre si occupava dei preparativi, per tre lunghe notti la supplicai di non andarsene. La pregai in ginocchio. Le giurai che lo avevo detto semplicemente per convincere Pandora a restare con me. Le dissi in ogni modo possibile che l'amavo e non l'avrei mai abbandonata; l'avvertii che non sarebbe mai riuscita a sopravvivere da sola, e che avevo paura per lei. Ma niente riuscì a farle cambiare idea. Solo alla fine mi resi conto che se ne sarebbe andata davvero. Fino a quel momento avevo giudicato assolutamente inconcepibile una simile eventualità. Non potevo perderla. No, una cosa del genere non poteva succedere. La implorai di sedersi ad ascoltarmi, mettendo a nudo il mio cuore, confessandole ogni cosa sgradevole che avevo detto, ogni meschino tentativo
di rinnegarla che mi era uscito dalle labbra, ogni affermazione disperata e stupida che avevo fatto, mentre discutevo con Pandora. «Ma quello che desidero ora è parlare di te e me», spiegai, «e di come è sempre stato il nostro rapporto.» «Puoi farlo se lo desideri, se attenua il tuo dolore», ribatté lei, «ma io me ne vado, Marius.» «Sai com'era tra me e Amadeo», dichiarai. «L'ho accolto in casa mia quando era giovanissimo, e gli ho dato il Sangue quando la mortalità non mi ha lasciato, altra scelta. Siamo sempre stati Maestro e novizio, anche se nel nostro rapporto c'erano ironia e un cupo divario. Forse non l'hai mai notato, ma c'erano, te l'assicuro.» «L'ho notato», disse lei. «Però sapevo che il tuo amore era più grande.» «Infatti», confermai. «Ma lui era un adolescente, e il mio cuore di uomo ha sempre saputo che esisteva qualcosa di più raffinato e magnifico. Per quanto lo amassi, per quanto il semplice fatto di vederlo mi deliziasse, non potevo confessargli i miei più intimi timori o dolori. Non potevo raccontargli le storie della mia vita. Erano troppo grandi per lui.» «Ti capisco, Marius», replicò gentilmente Bianca. «Ti ho sempre capito.» «E con Pandora, l'hai visto con i tuoi occhi, c'è stato un nuovo penoso litigio, proprio come era successo tanti secoli fa: una lotta in cui non si può scoprire nessuna autentica verità.» «L'ho visto», disse lei nel suo modo quieto. «Capisco cosa intendi dire.» «Hai visto la sua paura della Madre e del Padre», aggiunsi in tono supplichevole. «L'hai sentita dire che non poteva entrare in questa casa. L'hai sentita parlare della sua paura di tutto.» «Sì.» «E cos'è stata quest'unica notte tra me e Pandora se non un momento di infelicità, così come tanto tempo prima, infelicità e malintesi?» «Lo so, Marius», replicò lei. «Invece, Bianca, cosa c'è mai stato tra noi due se non armonia? Ripensa ai lunghi anni durante i quali abbiamo dimorato nel sacrario, quando uscivamo librandoci sui venti notturni fin dove riuscivo a portarti. Pensa alla pace che regnava tra noi o alle lunghe conversazioni durante le quali io parlavo di così tante cose e tu mi ascoltavi. Due creature avrebbero potuto essere più vicine di noi?» Lei chinò il capo. Non rispose. «E ripensa a questi ultimi anni», la implorai. «Pensa a tutti i piaceri che
abbiamo condiviso, alle nostre battute di caccia segrete nella foresta, alle nostre visite alle sagre di campagna, alla nostra quieta presenza nelle grandi cattedrali, quando le candele si consumano e i cori cantano, alle nostre danze di corte. Ripensa a tutto questo.» «Lo so, Marius, però mi hai mentito. Non mi hai detto per quale motivo venivamo a Dresda.» «Lo confesso, è vero. Dimmi cosa posso fare per rimediare.» «Niente», rispose. «Me ne vado.» «Ma come farai a sopravvivere? Non puoi vivere senza di me. È una follia.» «No, riuscirò a vivere anche senza di te. Ora devo andare. Devo percorrere molti chilometri prima dell'alba.» «E dove dormirai?» «È un mio problema.» Ero quasi sull'orlo della pazzia. «Non seguirmi, Marius», mi intimò lei, come se riuscisse a leggermi la mente, cosa che non poteva fare. «Non posso accettarlo», replicai. Su di noi calò il silenzio. Mi resi conto che Bianca mi stava guardando e la fissai, non riuscendo a nascondere nemmeno un briciolo della mia infelicità. «Bianca, non farlo», la supplicai. «Ho visto la tua passione per lei», mormorò, «ho capito che mi avresti messo da parte senza nemmeno pensarci. Oh, non negarlo, l'ho visto. E qualcosa, dentro di me, è crollato. Non sono riuscita a proteggerlo, non sono riuscita a impedirne la distruzione. Eravamo troppo vicini, tu e io. E pur avendoti amato con tutto il cuore, pur essendo convinta di conoscerti a fondo, non conoscevo la creatura che eri con lei. Non conoscevo la creatura che ho visto riflessa nei suoi occhi.» Si alzò e si allontanò da me. Guardò fuori dalla finestra. «Vorrei tanto non aver sentito quelle parole», ammise, «ma abbiamo poteri così straordinari, noi bevitori di sangue. Credi non sappia che non mi avresti mai trasformato nella tua creatura, se non avessi avuto bisogno di me? Se non fossi stato bruciato e ritrovato inerme, non mi avresti mai dato il Sangue.» «Sei disposta ad ascoltarmi quando ti assicuro che non è così? Ti ho amato sin dalla prima volta che ti ho visto. È stato solo per rispetto verso la tua vita mortale che non ho condiviso questi maledetti poteri con te! Sei
stata tu a riempirmi gli occhi e il cuore prima che trovassi Amadeo. Te lo giuro. Non ricordi i tuoi ritratti che ho dipinto? Ricordi le ore che ho trascorso a casa tua? Ripensa a tutto quello che ci siamo donati a vicenda.» «Mi hai ingannato», dichiarò lei. «Sì», confermai. «E lo ammetto, e giuro di non rifarlo mai più. Né per Pandora, né per altri.» Continuai a implorarla. «Non posso restare con te», disse Bianca. «Ora devo andare.» Si voltò a guardarmi. Sembrava ammantata di calma e risolutezza. «Ti supplico», ripetei. «Senza orgoglio, senza riserve, ti supplico di non lasciarmi.» «Devo andare. E ora, ti prego, lascia che io vada a prendere congedo dalla Madre e dal Padre. Preferirei farlo da sola, se non ti dispiace.» Annuii. Passò parecchio tempo prima che tornasse dal sacrario, quindi mi confermò tranquillamente che sarebbe partita al tramonto. E, tenendo fede alla sua parola, così fece: la sua carrozza tirata da quattro cavalli varcò il cancello e Bianca iniziò il suo viaggio. Rimasi fermo in cima alle scale a guardarla; rimasi fermo ad ascoltare finché la carrozza raggiunse il folto della foresta. Continuavo a non crederci, ero incapace di accettare che mi avesse abbandonato. Come poteva essersi verificato quell'orrendo disastro, come avevo potuto perdere sia Pandora sia Bianca? Come ero potuto restare solo? E non potevo fare nulla per impedirlo. Per molti mesi stentai a credere a quanto mi era successo. Mi dissi che presto sarebbe arrivata una lettera di Pandora, che lei sarebbe tornata con Arjun, che Pandora avrebbe voluto così. Mi dissi che Bianca si sarebbe accorta di non poter vivere senza di me. Sarebbe tornata a casa, ansiosa di perdonarmi, oppure mi avrebbe inviato una lettera frettolosa per chiedermi di raggiungerla. Ma non accadde nulla di tutto ciò. Passò un anno senza che accadesse nulla. Poi un altro anno e infine cinquanta, senza notizie. E durante tutto quel tempo, pur trasferendomi più. all'interno dei boschi intorno a Dresda, in un altro castello maggiormente fortificato, rimasi sempre nei paraggi, nella speranza che uno dei miei amori, o entrambi, tornassero da me. Per mezzo secolo rimasi lì, in attesa, incredulo e oppresso da una tristez-
za che non potevo condividere con nessuno. Con ogni probabilità avevo smesso di pregare nel sacrario, pur curandolo fedelmente. E avevo iniziato a parlare ad Akasha in maniera confidenziale. Avevo cominciato a raccontarle le mie pene in modo più informale di prima, a raccontarle come avessi mancato nei confronti di coloro che avevo amato. «Ma non mancherò mai nei tuoi confronti, mia regina», promisi, e lo ripetei spesso. In seguito, agli inizi del 1700, mi preparai a un audace trasferimento in un'isola del mar Egeo, dove avrei regnato sovrano, circondato da mortali che mi avrebbero accettato agevolmente come loro signore, in una casa di pietra che avevo approntato grazie a un numeroso gruppo di servitori mortali. Chiunque abbia letto il racconto del vampiro Lestat sulla sua vita, conosce quel luogo immenso e insolito perché lui l'ha descritto in modo vivido. In fatto di grandeur superava nettamente qualunque altro palazzo in cui avessi mai vissuto, e la sua lontananza rappresentava una sfida per la mia ingegnosità. Ma ormai ero estremamente solo, solo com'ero sempre stato prima dell'amore di Amadeo o di Bianca, e non avevo speranze di trovare un compagno immortale. Forse, in realtà, non lo desideravo. Da secoli non avevo notizie di Mael. Non sapevo nulla di Avicus e Zenobia. Non sapevo nulla di nessun altro Figlio dei Millenni. Desideravo solo un enorme e splendido sacrario per la Madre e il Padre e, come ho detto, parlavo continuamente con Akasha. Ma prima di continuare a descrivere l'ultima e la più importante di tutte le mie dimore europee, devo includere un tragico dettaglio nella storia di coloro che avevo perduto. Mentre i miei numerosi tesori venivano trasportati in quel palazzo nel mar Egeo, mentre i miei libri, sculture, arazzi e tappeti pregiati e altre suppellettili simili venivano spediti ed estratti dalle casse da ignari mortali, venne alla luce un ultimo frammento della storia della mia amata Pandora. In fondo a una cassa, uno dei facchini scoprì una lettera redatta su pergamena e piegata in due, indirizzata semplicemente a Marius. Mi trovavo sul terrazzo di quella nuova casa, osservando il mare e le numerose isolette che mi circondavano, quando la missiva mi venne consegnata. Il foglio di pergamena era rivestito da uno spesso strato di polvere, e non
appena lo aprii lessi una data vergata con vecchio inchiostro: significava che il messaggio era stato scritto la notte in cui mi ero separato da Pandora. Fu come se i cinquant'anni che mi separavano da quel dolore non significassero nulla. Mio amato Marius, è quasi l'alba e mi restano solo pochi istanti per scriverti. Come ti ho preannunciato, la nostra carrozza partirà fra meno di un'ora, portandoci via da qui e verso la destinazione finale, Mosca. Marius, non c'è nulla che io desideri di più che venire da te, ora, ma non posso farlo. Non posso cercare rifugio nella stessa casa che ospita gli Antichi. Ma ti supplico, mio amato, vieni a Mosca. Ti prego, vieni ad aiutarmi a liberarmi da Arjun. In seguito potrai giudicarmi e condannarmi. Ho bisogno di te, Marius. Resterò nei pressi del palazzo dello zar e della grande cattedrale fino al tuo arrivo. Marius, so che ti chiedo di affrontare un viaggio lunghissimo, ma ti prego, vieni. Qualunque cosa io abbia detto sul mio amore per Arjun, ormai sono completamente sua schiava, e vorrei appartenere di nuovo a te. Pandora Per ore rimasi seduto con la lettera in mano, poi mi alzai lentamente e andai dai miei domestici a chiedere dove fosse stata trovata. Era stata rinvenuta in una cassa piena di libri prelevati dalla biblioteca. Come mai non l'avevo ricevuta? Bianca l'aveva nascosta? Non riuscivo a crederlo. Sospettai che si fosse trattato di una casuale crudeltà: un domestico doveva averla posata sulla mia scrivania nelle prime ore del giorno, e io l'avevo spinta da parte, tra un cumulo di volumi, senza nemmeno vederla. Ma quale importanza aveva, a quel punto? Il terribile danno era fatto, ormai. Lei mi aveva scritto, e io non l'avevo saputo. Mi aveva supplicato di raggiungerla a Mosca e io, ignorandolo, non c'ero andato. E non sapevo dove trovarla. Avevo il suo giuramento d'amore, ma era troppo tardi.
Nei mesi seguenti perlustrai la capitale russa nella speranza che lei e Arjun, per qualche motivo, vi si fossero stabiliti. Ma non trovai traccia di Pandora. Il vasto mondo l'aveva inghiottita, come aveva fatto con la mia Bianca. Cos'altro posso dire per esprimere l'angoscia di quelle due perdite: quella di Pandora che avevo cercato così a lungo e quella della mia dolce e adorabile Bianca? Con quelle due perdite la mia storia giunge al termine. O forse dovrei dire che siamo tornati al punto di partenza. Torniamo ora alla storia della Regina dei dannati e del vampiro Lestat che la destò. Sarò breve, mentre ripercorro quella vicenda, perché credo di vedere con estrema chiarezza cos'è che potrebbe guarire la mia anima infelice più di qualsiasi altra cosa. Prima che io possa passare a quell'argomento, però, dobbiamo rivisitare le follie di Lestat e la storia di come ho perso il mio ultimo amore, Akasha. 34 IL VAMPIRO LESTAT Come ben sa chiunque legga le nostre cronache, mi trovavo sull'isola nel mar Egeo, a capo di un pacifico mondo di mortali, quando Lestat, un novizio di nemmeno dieci anni, cominciò a chiamarmi. Ormai ero estremamente bellicoso nella mia solitudine e nemmeno la recente ascesa di Amadeo, uscito dall'antica congrega di Parigi per diventare il capo del nuovo e bizzarro Teatro dei Vampiri, riuscì a sottrarmi al mio isolamento. Perché, pur avendolo spiato più di una volta, in Amadeo non vedevo altro che la stessa tristezza da crepacuore che avevo conosciuto a Venezia. Preferivo la solitudine alla possibilità di corteggiarlo. Quando udii l'appello di Lestat, tuttavia, percepii in lui un'intelligenza potente e priva di pastoie, così lo raggiunsi subito, salvandolo dal suo primo vero eremitaggio come bevitore di sangue, e lo portai a casa mia, rivelandogliene l'ubicazione. Provavo per lui un amore profondo e forse troppo impetuosamente lo accompagnai subito nel sacrario. Rimasi a guardare, affascinato, mentre si avvicinava alla madre e lo osservai sbalordito mentre la baciava. Non so se fu l'audacia di Lestat o l'immobilità di Akasha a ipnotizzarmi, ma ti assicuro che ero pronto a intervenire nel caso Enkil cercasse di fargli
del male. Quando Lestat si ritrasse, quando mi confessò che la Madre gli aveva rivelato il proprio nome, fui colto alla sprovvista e attanagliato da un'improvvisa fitta di terribile gelosia. Negai quel sentimento, però. Ero troppo innamorato di Lestat e mi dissi che quell'apparente miracolo nel tempio aveva solo un significato positivo: indicava che quel giovane bevitore di sangue poteva in qualche modo far scoccare una scintilla di vita nei Divini Genitori. Così lo accompagnai nel mio salone, come ho raccontato - e come ha raccontato lui - e gli narrai la lunga storia dei miei albori. Gli narrai la storia della Madre e del Padre e della loro eterna quiete. Sembrò un magnifico allievo durante tutte le ore in cui parlammo. In realtà, dubito di essermi mai sentito più vicino a qualcuno, in vita mia. Non mi ero mai sentito più vicino di così nemmeno a Bianca. Lestat aveva vagato per il mondo, durante i suoi dieci anni nel Sangue, aveva divorato la grande letteratura di numerose nazioni, e aveva portato alla nostra conversazione un'energia che non avevo mai trovato in nessuno di coloro che avevo amato, nemmeno in Pandora. Ma la notte seguente, mentre ero fuori a occuparmi di faccende legate ai miei numerosi sudditi mortali, scese nel sacrario portando con sé un violino un tempo appartenuto al suo amico Nicolas, un altro bevitore di sangue. Mimando la bravura del compagno perduto, suonò quello strumento per i Divini Genitori, in modo appassionato e magnifico. Sentii la musica al di sopra dei pochi chilometri che ci separavano, poi udii un'acutissima nota di canto che nessun mortale avrebbe mai potuto emettere. Sembrava il canto delle sirene della mitologia greca e, mentre restavo immobile a chiedermi di cosa potesse trattarsi, esso si spense. Cercai di gettare un ponte sulla distanza che mi separava da casa mia, e quello che vidi attraverso la mente dischiusa di Lestat mi lasciò assolutamente incredulo. Akasha si era alzata dal trono e lo stringeva tra le braccia, e mentre Lestat beveva da lei, Akasha beveva da lui. Mi voltai e sfrecciai verso la casa e il sacrario, ma in quel mentre la scena mutò fatalmente. Enkil si era levato e aveva strappato Lestat dalle braccia della Madre, e lei stava urlando - nel tentativo di salvare il giovane - con toni capaci di assordare qualunque mortale. Correndo giù per i gradini di pietra, trovai la doppia porta del santuario
volutamente chiusa contro di me. Cominciai a picchiarci sopra i pugni con tutta la mia forza. Nel frattempo riuscii a osservarne l'interno, attraverso gli occhi di Lestat, e vidi che Enkil lo aveva spinto sul pavimento e, nonostante le grida di Akasha, intendeva schiacciarlo. Oh, come suonavano lamentose le sue urla, nonostante il loro alto volume! Mi rivolsi a Enkil, in tono disperato. «Enkil, se fai del male a Lestat, se lo uccidi, la porterò per sempre lontano da te e lei mi aiuterà a farlo. Mio re, è questo che lei vuole!» Stentavo a credere di aver urlato quelle parole, ma mi si erano affacciate subito alla mente, senza aver avuto il tempo di riflettere. La porta del tempio si spalancò di colpo, mostrandomi uno spettacolo impossibile e terrificante: le due rigide creature bianche in piedi, con i loro abiti egizi, lei con il sangue che le colava dalla bocca ed Enkil immobile come se fosse immerso in un profondo torpore. Orripilato, vidi che aveva il piede posato sul petto di Lestat, ma quest'ultimo era ancora vivo, illeso. Di fianco a lui era posato il violino, in frantumi. Akasha guardava fisso davanti a sé come se non si fosse mai destata, osservando un punto alle mie spalle. Mi spostai rapidamente e posai le mani sulle spalle di Enkil. «Torna sul trono, mio re», dissi. «Torna indietro. Hai raggiunto il tuo scopo. Ti prego, fa' ciò che ti chiedo. Sai come rispetto il tuo potere.» Lui tolse lentamente il piede dal torace di Lestat, impassibile, i movimenti torpidi come sempre, e lentamente riuscii a condurlo fino ai due gradini della pedana. Lentamente si voltò, raggiunse il trono e si sedette, e io con mani rapide gli risistemai con cura gli abiti. «Lestat, corri», intimai. «Non mettere in dubbio nemmeno per un attimo quanto ti sto dicendo. Scappa.» Mentre Lestat ubbidiva, mi girai verso Akasha. Era in piedi, immobile come se fosse smarrita in un sogno. Le posai molto cautamente le mani sulle braccia. «Mia bellissima Akasha», sussurrai, «mia sovrana. Lascia che ti riporti sul trono.» Come aveva sempre fatto, mi ubbidì. Dopo pochi istanti, entrambi erano tornati quelli di sempre, come se l'arrivo di Lestat fosse stato una semplice illusione, come se la musica che l'aveva destata fosse stata una semplice illusione. Sapevo però che non era così, e mentre fissavo Akasha, mentre le parla-
vo nella mia maniera tanto intima, fui attanagliato da un nuovo timore che preferii non rivelarle. «Sei splendida e immutabile», dissi, «e il mondo non è degno di te. Non è degno del tuo potere. Ascolti così tante preghiere, vero? E perciò hai ascoltato questa magnifica musica e ne sei rimasta deliziata. Forse, prima o poi, potrò portarti della musica... portarti coloro che la sanno suonare e credono che tu e il re siate semplici statue...» Interruppi quel folle discorso. Cosa stavo cercando di fare? In verità ero terrorizzato. Lestat aveva provocato una violazione dell'ordine: non mi sarai mai sognato che potesse accadere. Mi chiesi cosa sarebbe potuto accadere in futuro, se qualcun altro avesse tentato una simile impresa! Ma la cosa principale, quella a cui mi aggrappavo nella mia rabbia, era un'altra: io avevo ristabilito l'ordine. Grazie alle minacce fatte al mio regale sovrano, lo avevo costretto a tornare sul trono, e lei, la mia amata regina, lo aveva seguito. Lestat aveva operato l'impensabile, ma Marius aveva rimediato alla situazione. Alla fine, quando la mia paura e la mia collera si affievolirono, scesi sugli scogli in riva al mare per incontrare Lestat e rimproverarlo, e scoprii di possedere meno autocontrollo del previsto. Chi, se non io, sapeva per quanto tempo quei genitori erano rimasti seduti in silenzio? E adesso quel giovane che avevo tanto desiderato amare, istruire, abbracciare, quel giovane aveva suscitato in loro un movimento che serviva solo a renderlo ancora più sfrontato. Lestat voleva liberare la regina, ed era convinto che dovessimo imprigionare Enkil. Probabilmente scoppiai a ridere. Di certo non riuscii a esprimere a parole quanto li temessi entrambi. Più tardi, quella notte, mentre Lestat andava a caccia nelle isole più lontane, sentii provenire strani suoni dal sacrario. Scesi e scoprii vari oggetti in frantumi. Vasi e lanterne erano rotti o rovesciati. Le candele erano state scagliate in ogni dove. Quale dei due Divini Genitori lo aveva fatto? Nessuno dei due si mosse. Non ero in grado di stabilirlo, e ancora una volta il mio timore crebbe. Per un istante disperato ed egoista, guardai Akasha e pensai: Ti consegnerò a Lestat, se è questo che vuoi! Dimmi solo come fare. Ribellati a Enkil insieme a me! Ma quelle parole non mi si formarono davvero nella mente.
Nell'anima avveravo una fredda gelosia, una tristezza plumbea. Infine, però, potevo sempre dirmi che dipendeva dalla magia del violino, vero? Quando mai, nei tempi antichi, si era udito un simile strumento? E lui, un bevitore di sangue, le si era presentato davanti proprio per suonare, con ogni probabilità straziando follemente la musica. Ma non trovai alcuna consolazione in tutto ciò. Akasha si era svegliata per lui! Mentre restavo fermo, nel silenzio del tempio, fissando tutti gli oggetti frantumati, un pensiero mi si affacciò alla mente come se ce lo avesse inserito lei. L'amavo come tu l'amavi e desideravo averlo qui come lo desideravi tu, ma ciò non è possibile. Rimasi paralizzato. Poi mi avvicinai a lei, come avevo fatto un centinaio di volte, avanzando lentamente per permetterle di rifiutare, se voleva, per permetterle di negarmi il dono anche con la più irrisoria esibizione di potere. E alla fine bevvi da lei, forse dalla stessa vena nella sua gola bianca, non lo so, e in seguito mi allontanai a ritroso, fissando il viso di Enkil. I suoi lineamenti freddi non mostravano altro che indifferenza. La notte seguente, quando mi svegliai, sentii altri rumori provenienti dal sacrario. Trovai rotti altri oggetti pregiati. Capii di non avere altra scelta se non scacciare Lestat. Non conoscevo altri possibili rimedi. Fu un'altra separazione penosa, terribile, triste come la mia separazione da Pandora, o da Bianca. Non dimenticherò mai com'era bello Lestat, con i famosi capelli biondi e gli impenetrabili occhi azzurri, come appariva eternamente giovane, pieno di speranza frenetica e sogni meravigliosi, e come rimase ferito e addolorato nel vedersi mandare via. E come mi addolorava doverlo fare. Desideravo soltanto tenermelo vicino: il mio allievo, il mio amante, il mio ribelle. Avevo così amato il suo eloquio sommesso, le sue domande schiette, i suoi audaci appelli in favore del cuore e della libertà della regina. Non potevamo salvarla in qualche modo da Enkil? Non potevamo in qualche modo rianimarla? Ma era pericoloso anche solo parlare di simili questioni, e lui non riusciva a capirlo. Così fui costretto a rinunciare a quel giovane che avevo tanto amato, a dispetto del mio crepacuore, a dispetto della solitudine nel mio animo, a dispetto del mio intelletto e spirito contusi. Ma ormai avevo davvero paura di quello che avrebbero potuto fare Aka-
sha ed Enkil se fossero stati svegliati di nuovo, e non potevo rivelargli quel timore, non volevo spaventarlo o incitarlo ulteriormente. Vedi, capivo com'era irrequieto persino allora, e com'era infelice nel Sangue, e ansioso di trovare uno scopo nel mondo mortale e acutamente consapevole di non averne nessuno. E io, solo nel mio paradiso nell'Egeo dopo la sua partenza, mi chiesi davvero se dovevo annientare la Madre e il Padre. Chiunque abbia letto le nostre cronache sa che tutto ciò avvenne nel 1794, quando il mondo era ricco di portenti. Come potevo continuare a ospitare quelle creature che potevano minacciarlo? Però non volevo morire. No, non ho mai voluto davvero morire. Così non annientai il re e la regina. Continuai a badare a loro, a sommergerli di simboli di adorazione. E mentre ci inoltravamo fra le molteplici meraviglie del mondo moderno, temevo la morte più che mai. 35 L'ASCESA E LA CADUTA DI AKASHA Fu forse vent'anni fa che portai la Madre e il Padre oltreoceano, in America e nelle lande gelate del Nord, dove creai sotto il ghiaccio la casa splendida e tecnologicamente avanzata descritta da Lestat ne La Regina dei dannati e in cui Akasha si destò. Lascia che sorvoli rapidamente su quanto è già stato menzionato in precedenza, vale a dire su come allestii per il re e la regina un grande sacrario moderno, con uno schermo televisivo che potesse portare loro la musica e altre forme di intrattenimento e «notizie» provenienti da tutto il pianeta. Quanto a me, vi abitavo da solo, godendomi una lunga serie di stanze e biblioteche ben riscaldate, mentre mi dedicavo alla mia eterna lettura e alla mia eterna scrittura, mentre guardavo film e documentari che mi affascinavano profondamente. Ero entrato un paio di volte nel mondo mortale in veste di cineasta, ma per lo più avevo condotto un'esistenza solitaria e sapevo poco o nulla degli altri Figli dei Millenni. Fino al momento in cui Bianca o Pandora avessero deciso di tornare da me, cosa mi importava degli altri? Quanto al vampiro Lestat, quando salì alla ribalta con la sua possente musica rock, giudicai la cosa estremamente divertente. Quale travestimento più riuscito, per un vampiro, di quello di
un musicista rock? Quando apparvero i suoi numerosi video musicali, però, mi resi conto che stava narrando in quella forma tutta la storia che gli avevo rivelato. E capii che anche altri bevitori di sangue, sparsi in tutto il mondo, stavano puntando i propri cannoni contro di lui. Si trattava di giovani creature a cui non avevo fatto caso, e rimasi sbalordito sentendo i messaggi che inviavano con i poteri mentali, cercando diligentemente i propri simili. Tuttavia non vi badai granché. Non immaginavo che la musica di Lestat potesse avere un qualsiasi effetto sul mondo, né sul mondo dei mortali, né sul nostro... ...fino alla notte in cui scesi nel sacrario sotterraneo, dove scoprii il mio re Enkil ridotto a un involucro vuoto, un mero guscio, una creatura completamente dissanguata, seduto sul trono in modo così precario. Quando lo toccai, cadde sul pavimento di marmo, la sua treccia di capelli neri che andava letteralmente in briciole. Sotto shock, fissai la scena. Chi avrebbe potuto fare una cosa del genere, chi aveva potuto sottrargli fino all'ultima goccia di sangue, chi mai avrebbe potuto distruggerlo? E dov'era la mia regina? Era andata incontro allo stesso destino? L'intera leggenda di Coloro-che-devono-essere-conservati era stata un inganno sin dall'inizio? Sapevo che non era una menzogna, e sapevo chi era l'unico essere che avrebbe potuto riservare quel trattamento a Enkil, l'unico essere al mondo che potesse contare su una simile astuzia, intimità, sapienza e su un simile potere. Nel giro di pochi secondi, diedi le spalle ai resti di Enkil per scoprirla a meno di dieci centimetri da me. I suoi occhi neri erano socchiusi e animati. Gli abiti regali erano quelli che le avevo infilato io. Le labbra rosse erano incurvate in un sorriso beffardo e da esse sgorgò una risata crudele. La odiai per quella risata. La temetti e la odiai per aver riso di me. Tutto il mio senso di possesso venne alla ribalta: la sensazione che lei fosse mia e adesso osasse ribellarsi a me. Dov'era la dolcezza di ciò che avevo sognato? Mi trovavo nel bel mezzo di un incubo. «Mio caro servitore», dichiarò lei, «non hai mai avuto il potere di fermarmi!»
Era inconcepibile che la creatura che avevo così protetto nel corso del tempo potesse rivoltarsi contro di me. Era inconcepibile che la creatura che adoravo tanto adesso mi torturasse. Una domanda frettolosa e patetica mi uscì dalle labbra. «Cosa vuoi?» chiesi, mentre cercavo di capire cosa stava succedendo. «Cosa intendi fare?» Fu davvero miracoloso che lei si degnasse di darmi una risposta derisoria. Le parole si persero nel boato dello schermo televisivo che esplodeva, nel fragore del metallo che si squarciava, nel rumore del ghiaccio che cadeva. Con incommensurabile potere Akasha si innalzò dalle profondità della casa, facendo ricadere sopra di me le pareti, i soffitti e il ghiaccio circostante. Mi ritrovai sepolto, a invocare aiuto. Il regno della Regina dei dannati era iniziato, benché lei non avesse mai scelto quel nome per se stessa. L'hai vista mentre si aggirava per il mondo? L'hai vista mentre uccideva bevitori di sangue in ogni dove? L'hai vista mentre eliminava i bevitori di sangue che non servivano ai suoi scopi? L'hai vista quando ha preso Lestat come suo amante? L'hai vista quando cercava di spaventare i mortali con le sue meschine esibizioni di antiquato potere? E per tutto quel tempo io rimasi sepolto sotto il ghiaccio - risparmiato per uno scopo che non riuscivo a immaginare - inviando a Lestat l'avvertimento che era in pericolo, inviando il mio avvertimento a tutti quelli che erano in pericolo. E anche implorando qualunque Figlio dei Millenni in grado di farlo di venirmi a salvare dal crepaccio in cui ero stato sotterrato. Tuttavia, mentre lanciavo appelli con la mia voce potente, cominciai a risanarmi. Allora iniziai a spostare il ghiaccio che mi imprigionava Alla fine due bevitori di sangue giunsero ad aiutarmi. Captai l'immagine di uno di loro nella mente dell'altro. Mi parve impossibile, ma quella che vidi così radiosamente nella visione del suo compagno non era altri che la mia Pandora. Con il loro aiuto, frantumai finalmente il ghiaccio che mi teneva bloccato sotto la superficie, e uscii sotto il cielo artico, prendendo Pandora per mano e poi stringendola tra le braccia, rifiutando per un attimo di pensare a qualsiasi cosa, persino alla mia selvaggia regina e ai suoi violenti atti letali.
Non ci furono parole, voti, dinieghi. La strinsi con amore e lei lo sapeva. Quando alzai lo sguardo, quando mi liberai gli occhi dal dolore e dall'amore e dalla paura, mi resi conto che il bevitore di sangue che era venuto a nord con lei, quello che aveva risposto ai miei appelli, non era altri che Santino. Per un attimo fui invaso da un tale odio che pensai di annientarlo all'istante. «No», disse Pandora. «Marius, non puoi. Siamo tutti necessari, ora. Perché credi che lui sia venuto, se non per ripagarti?» Era fermo lì tra la neve con i suoi eleganti abiti neri, il vento che gli sferzava i capelli corvini. Mi accorsi che era divorato dalla paura, ma non voleva ammetterlo. «Questo non è un risarcimento per ciò che mi hai fatto», dichiarai. «Ma so che Pandora ha ragione, che siamo tutti necessari, e per questo motivo ti risparmio.» Guardai la mia amata Pandora. «Si sta riunendo un concilio», spiegai. «Lo si tiene in una grande villa nella foresta costiera, un luogo con le pareti di vetro. Ci andremo insieme.» Sai cosa accadde poi? Ci riunimmo intorno al grande tavolo tra le sequoie - come se fossimo dei nuovi e appassionati fedeli della foresta - e, quando la regina venne da noi con il suo piano di devastare il mondo intero, cercammo tutti di indurla a più miti consigli. Il suo sogno era quello di essere la regina del paradiso per l'umanità, di massacrare miliardi di bambini maschi e trasformare il mondo in un «giardino» di donne dallo spirito tenero. Era un concetto orrendo e impossibile. Nessuno più della tua Creatrice dai capelli rossi, Maharet, cercò di distoglierla dai suoi piani, condannandola perché osava cambiare il corso della storia umana. Io stesso, pensando amaramente agli splendidi giardini, visti quando avevo bevuto il suo Sangue, rischiai più volte di essere annientato dal suo potere letale, supplicandola di lasciare al mondo il tempo di compiere il proprio destino. Oh, era agghiacciante vedere quella statua vivente che adesso mi parlava con tanta freddezza, eppure con una simile forza di volontà e un tale temperamento sprezzante. Com'erano maestosi e crudeli i suoi progetti, uccidere i bambini maschi, riunire le donne in un culto superstizioso. Cosa ci diede il coraggio di combatterla? Non lo so, so solo che sapeva-
mo di doverlo fare. E mentre lei ci minacciava ripetutamente di morte, continuai a pensare: Avrei potuto impedire tutto questo, avrei potuto impedire che accadesse, se avessi annientato lei e tutti noi? Stando così le cose, invece, la regina ci distruggerà e poi passerà ad altro; chi glielo potrà impedire? A un certo punto mi scagliò all'indietro con il braccio, tanto fu subitanea la sua collera nel sentire le mie parole. E fu Santino che venne ad aiutarmi. Lo odiai per quello, ma non c'era il tempo di odiare lui o chiunque altro. Alla fine Akasha pronunciò la sua sentenza, condannandoci tutti. Visto che non volevamo associarci a lei, saremmo stati annientati uno dopo l'altro. Avrebbe cominciato da Lestat, perché riteneva che l'oltraggio che lui le aveva arrecato fosse il più grave. Lestat le aveva resistito, aveva preso audacemente le nostre parti, implorandola di ragionare. In quel terribile momento, gli anziani si alzarono, i membri della Prima Stirpe che erano stati trasformati in bevitori di sangue mentre Akasha era ancora viva, e i Figli dei Millenni quali Pandora, io, Mael e altri. Ma prima che la piccola lotta omicida potesse iniziare, in mezzo a noi comparve qualcun altro; salì rumorosamente i gradini metallici del complesso nella foresta dove ci eravamo riuniti, finché sulla soglia vedemmo Mekare, la gemella di Maharet: la sorella muta, quella a cui Akasha aveva strappato la lingua. Fu lei che, ghermendo i lunghi capelli neri della regina, le sbatté la testa contro la parete di vetro, spaccandogliela, e poi la staccò dal corpo. Furono lei e sua sorella a inginocchiarsi per recuperare dalla regina decapitata il Sacro Nucleo di tutti i vampiri. Non so se il Sacro Nucleo - quella radice fatale - fosse alimentato dal cuore e dal cervello, so soltanto che la muta Mekare ne divenne il nuovo tabernacolo. Dopo qualche attimo di crepitante oscurità, in cui tutti ci chiedemmo se la morte stesse per coglierci, recuperammo le forze e alzammo gli occhi per vedere le gemelle in piedi davanti a noi. Maharet cinse la vita di Mekare con il braccio, e lei, sottrattasi al suo brutale isolamento in un luogo imprecisato, si limitò a fissare il vuoto, come se sperimentasse un vago senso di pace, ma nulla più. Dalle labbra di Maharet uscirono le parole: «Guardate. La Regina dei dannati». Era tutto finito. Il regno della mia amata Akasha - con tutte le sue speranze e i suoi sogni
- era giunto bruscamente al termine. E io non portavo più in giro per il mondo il fardello di Coloro-chedevono-essere-conservati. L'ASCOLTATORE 36 Marius rimase fermo davanti alla finestra, osservando la neve. Thorne, seduto accanto al fuoco morente, lo stava semplicemente a guardare. «Hai tessuto per me un lungo e bellissimo racconto», dichiarò, «e io mi sono ritrovato splendidamente catturato da esso.» «Davvero?» chiese Marius in tono sommesso. «Forse io, invece, sono prigioniero del mio odio per Santino.» «Ma Pandora era insieme a te, vi eravati ritrovati», puntualizzò Thorne. «Come mai non è con te, adesso. Cos'è successo?» «Ho ritrovato Pandora e Amadeo», raccontò Marius. «È successo tutto durante quelle notti. E da allora li ho visti spesso. Ma sono una creatura ferita. E sono stato io a lasciare la loro compagnia. Ora potrei andare da Lestat, e da coloro che vivono con lui, eppure non lo faccio. «La mia anima soffre ancora per le perdite che ho subito. Non so cosa mi causi più dolore, se la perdita della mia dea o il mio odio per Santino. Lei è ormai al di fuori della mia portata, ma Santino vive ancora.» «Perché non ti sbarazzi di lui?» domandò Thorne. «Ti aiuterò a trovarlo.» «Sono in grado di trovarlo, ma non posso fare niente senza il suo permesso.» «Ti riferisci a Maharet? Perché mai?» «Perché ora è la più anziana di noi, così come la sua gemella muta, e noi dobbiamo avere un capo. Mekare non può parlare e non ha lo spirito per farlo, nemmeno se potesse, quindi si tratta di Maharet. E anche se lei rifiuta di autorizzare o giudicare, devo porle la domanda.» «Capisco», disse Thorne. «Nella mia epoca ci riunivamo per risolvere simili questioni, e un uomo poteva esigere un risarcimento da chi lo aveva ferito.» Marius annuì. «Credo che dovrei esigere la morte di Santino», sussurrò. «Sono in pace
con tutti gli altri, ma a lui farei volentieri violenza.» «E dovresti davvero, stando a tutto quello che mi hai raccontato», commentò Thorne. «Ho inviato un messaggio a Maharet», spiegò Marius. «L'ho informata che tu sei qui e la stai cercando. L'ho informata che devo chiederle notizie di Santino. Ho fame delle sue sagge parole. Forse voglio vedere i suoi stanchi occhi mortali che mi fissano con compassione. «Ricordo la brillante resistenza che ha opposto alla regina. Ricordo la sua forza e forse adesso ne ho bisogno... Forse ormai si è trovata gli occhi di un bevitore di sangue e non ha più bisogno di soffrire con le sue vittime umane.» Dopo un lungo istante di riflessione, Thorne si alzò dal divano. Si avvicinò alla finestra, fermandosi accanto a Marius. «Riesci a sentire la sua risposta?» chiese. Era incapace di celare la propria emozione. «Voglio andare da lei. Devo andare da lei.» «Non ti ho insegnato niente?» domandò Marius. Si girò a guardarlo. «Non ti ho insegnato a ricordare con amore quelle tenere e complesse creature? Forse no. Pensavo che fosse quella la lezione dei miei racconti.» «Oh, sì, me l'hai insegnato», ribatté Thorne, «ma la amo, fintanto che è tenera e complessa, e per usare la tua espressione, così soave, tuttavia io sono un guerriero, capisci, e non sono mai stato adatto all'eternità. L'odio che tu nutri per Santino è identico alla passione che io nutro per lei. E la passione può essere negativa o positiva. Non posso evitarlo.» Marius scosse il capo. «Se ci guida fin da lei», disse, «io ti perderò. Come ti ho già spiegato, non puoi farle del male.» «Forse sì e forse no», replicò Thorne. «Ma qualunque sia la verità, devo vedere Maharet. Lei sa perché sono venuto, e farà ciò che vuole, al riguardo.» «Ora seguimi», lo sollecitò Marius, «è tempo che andiamo a riposare. Sento strane voci nell'aria del mattino. E provo un disperato bisogno di dormire.» Quando Thorne si svegliò, scoprì di essere dentro una liscia bara di legno. Senza paura ne sollevò agevolmente il coperchio, lo spinse da parte e si drizzò a sedere per poter vedere la stanza in cui si trovava. Era una sorta di caverna, e all'esterno sentì il coro tonante di una foresta
tropicale. Tutte le fragranze della giungla verdeggiante gli assalirono le narici con il loro profumo delizioso e strano. Capì che poteva significare soltanto una cosa: Maharet l'aveva portato nel suo nascondiglio. Uscì dalla bara con tutta la grazia possibile e si ritrovò in un'enorme stanza piena di panche di pietra sparse qua e là. Su tre lati, la giungla cresceva rigogliosa e vitale contro una sottile reticella metallica, e dalla reticella soprastante filtrava una pioggerellina leggera che lo rinfrescò. Guardando a destra e a sinistra vide gli ingressi di altri luoghi simili, all'aperto. Seguendo i suoni e gli odori, come potrebbe fare qualsiasi bevitore di sangue, si spostò sulla destra fino a entrare in un'immensa sala dove la sua Creatrice sedeva, proprio come lui l'aveva vista agli inizi della sua lunga vita, con un elegante abito di lana viola, staccandosi i capelli rossi dalla testa e trasformandoli in filo con la rocca e il fuso. Per molti istanti si limitò a fissarla, come se non riuscisse a credere ai suoi occhi. Maharet, vista di profilo, e sicuramente consapevole della presenza di Thorne, proseguì con il suo lavoro, senza dire una parola. Al capo opposto della stanza lui vide Marius seduto su una panca, poi notò la donna bellissima e dall'aria regale seduta al suo fianco. Era senza dubbio Pandora, la riconobbe dai capelli castani. E accanto a Marius, sul lato opposto, c'era il ragazzo dai capelli ramati da lui descritto: Amadeo. Ma nella stanza c'era anche un'altra creatura, e si trattava indubbiamente del bruno Santino. Era seduto non lontano da Maharet, e quando Thorne entrò, parve farsi piccino e poi, lanciando un'occhiata a Marius, indietreggiò ulteriormente e infine guardò Maharet come se fosse in preda alla disperazione. Codardo, pensò Thorne, ma non disse nulla. Maharet girò lentamente la testa in modo da poterlo vedere e al contempo mostrargli i suoi occhi: occhi umani, tristi e pieni di sangue, come sempre. «Cosa posso darti, Thorne, per restituire la quiete al tuo animo?» chiese. Lui scosse il capo. Le indicò di tacere, non per costringerla, ma semplicemente per supplicarla. In quell'intervallo Marius si alzò, subito imitato da Pandora e Amadeo, che gli rimasero accanto. «Ci ho pensato a lungo e strenuamente», dichiarò Marius, gli occhi posati su Santino. «E non posso annientarlo se tu me lo proibisci. Non di-
struggerò la pace con una simile azione. Sono troppo convinto che dobbiamo vivere seguendo alcune regole precise, altrimenti moriremo tutti.» «Allora la cosa finisce qui», affermò Maharet, e la sua voce era tanto familiare che dava i brividi a Thorne, «perché non ti concederò mai il permesso di annientare Santino. Sì, ti ha ferito ed è stata una cosa terribile. Ti ho sentito, ieri notte, descrivere le tue sofferenze a Thorne. Ho ascoltato le tue parole colme di dolore. Ma non puoi annientarlo. Te lo proibisco. Se ti opporrai a me, allora non ci sarà nessuno che potrà trattenere qualcun altro.» «Non può essere così», disse Marius. Aveva un'espressione cupa e infelice. Guardò Santino in cagnesco. «Dev'esserci assolutamente qualcuno che frena gli altri, eppure non sopporto che lui continui a vivere dopo quello che mi ha fatto.» Con profondo sbalordimento di Thorne, il viso giovanile di Amadeo sembrava semplicemente sconcertato. Quanto a Pandora, appariva triste e ansiosa, come temendo che Marius non tenesse fede alla sua parola. Ma Thorne la pensava diversamente. Mentre valutava quella creatura dai capelli scuri, Santino si alzò dalla panca e si allontanò da lui camminando a ritroso, indicandolo con un dito, terrorizzato. Non fu abbastanza rapido, però. Thorne puntò tutta la sua forza contro di lui, e l'unica cosa che Santino poté fare mentre crollava in ginocchio fu gridare «Thorne» più e più volte, il corpo che esplodeva, il sangue che gli sgorgava da ogni orifizio, il fuoco che gli erompeva dal petto e dalla testa, mentre lui si contorceva e stramazzava sul pavimento di pietra, tra le fiamme che infine lo consumavano. Maharet aveva emesso un terribile lamento di infelicità, e nella grande stanza era entrata sua sorella, i cui occhi azzurri cercavano la fonte del dolore della gemella. Maharet si alzò. Abbassò lo sguardo sul miscuglio di grasso e cenere davanti a lei. Thorne guardò Marius e gli vide un sorriso amaro sulle labbra, poi Marius lo fissò e annuì. «Non ho bisogno che mi ringrazi», dichiarò Thorne. Osservò Maharet che stava piangendo, la sorella che adesso le stringeva con forza le braccia e la supplicava silenziosamente di spiegarsi. «Wergeld, mia Creatrice», disse Thorne. «Come succedeva ai miei tem-
pi, ho riscosso il Wergeld o risarcimento per la mia stessa vita, che tu hai preso quando mi hai trasformato in un bevitore di sangue. Me lo sono procurato tramite la vita di Santino, che ho preso sotto il tuo tetto.» «Sì, e contro la mia volontà», gridò Maharet. «Hai compiuto un'azione terribile! Eppure Marius, il tuo amico, ti ha spiegato che devo dominare, qui.» «Se vuoi dominare qui, fallo da sola», le disse Thorne. «Non guardare Marius perché ti dica come fare. Ah, osserva il tuo fuso e la tua rocca, così preziosi. Come proteggerai il Sacro Nucleo, se non hai la forza di lottare contro quanti si oppongono a te?» Lei non fu in grado di rispondergli; vide che Marius era arrabbiato e che Mekare lo osservava minacciosa. Si avvicinò a Maharet, fissandola attentamente, guardando il volto liscio che ormai non recava alcuna traccia di vita umana, i floridi occhi umani apparentemente inseriti in una scultura. «Vorrei avere un coltello», dichiarò, «vorrei avere una spada, vorrei avere qualsiasi arma che io possa usare contro di te.» Poi fece l'unica cosa che poteva fare. La afferrò per il collo con entrambe le mani e cercò di scagliarla a terra. Fu come stringere con forza del marmo. Da lei eruppe subito un grido frenetico. Thorne non riuscì a capirne le parole, ma, quando la sorella di Maharet lo tirò delicatamente indietro, si rese conto che era stato un avvertimento per proteggerlo. Allungò entrambe le mani in avanti, sforzandosi di liberarsi, ma fu inutile. Quelle due erano invincibili, divise o unite che fossero. «Smettila, Thorne», gridò Marius. «Basta così. Lei sa cos'hai nel cuore. Non puoi chiedere di più.» Maharet crollò sulla panca e vi rimase seduta, piangendo, con accanto la sorella, che teneva gli occhi fissi stancamente su Thorne. Thorne si accorse che avevano tutti paura di Mekare, tutti tranne lui, e quando ripensò a Santino, quando guardò la chiazza scura sulle pietre, provò un intenso piacere. Con movimenti rapidi raggiunse la gemella muta e le sussurrò frettolosamente qualcosa all'orecchio, qualcosa che era rivolto solo a lei, chiedendosi se ne avrebbe capito il senso. Dopo meno di un secondo vide che aveva capito. Mentre Maharet stava a guardare, sbalordita, Mekare lo costrinse a inginocchiarsi. Gli afferrò il viso e lo inclinò verso l'alto, dopo di che Thorne
sentì le sue dita conficcarglisi nelle orbite ed estrargli gli occhi. «Sì, sì, questa benedetta oscurità», disse, «e poi le catene, ti supplico, le catene. Altrimenti sbarazzati di me.» Attraverso la mente di Marius vide l'immagine di se stesso che annaspava nella cecità. Vide il sangue che gli colava copioso sul volto. Vide le due donne alte e delicate con le braccia intrecciate, l'una che lottava, ma non abbastanza, e l'altra che insisteva per portare a termine il suo compito. Sentì gli altri riunirsi intorno a lui. Sentì il tessuto dei loro abiti, sentì le loro mani lisce. E, solo in lontananza, sentì il pianto di Maharet. Gli stavano sistemando le catene intorno al corpo. Ne sentì gli anelli massicci e capì di non potersi liberare. Mentre veniva trascinato via non disse nulla. Il sangue continuava a sgorgargli dalle orbite, lo sapeva. Adesso era legato e lasciato in un luogo quieto e deserto, proprio come aveva sognato. Solo che lei non gli era vicina. Niente affatto. Udì i suoni della giungla. Bramò il gelo invernale, quel luogo gli sembrava troppo tiepido e troppo pieno del profumo dei fiori. Ma si sarebbe abituato alla calura. Si sarebbe abituato alle intense fragranze. «Maharet», sussurrò. Vide di nuovo ciò che vedevano gli altri: erano in un'altra stanza, e si guardavano, mentre parlavano con voce smorzata del suo destino che non riuscivano a capire fino in fondo. Seppe che Marius stava implorando per lui e che ora Maharet - che vide così vividamente attraverso i loro occhi era bella come quando l'aveva creato. All'improvviso Maharet si staccò dal gruppo. E loro parlarono nell'ombra, senza di lei. Thorne sentì la sua mano sulla guancia. La riconobbe. Riconobbe la morbida lana del suo vestito. Riconobbe le sue labbra quando lei lo baciò. «Hai i miei occhi», disse. «Oh, sì», ribatté lei. «Vedo magnificamente attraverso di essi.» «Queste catene, sono fatte con i tuoi capelli?» «Sì. Da capello a filo, da filo a fune, da fune ad anelli, le ho intrecciate io.» «La mia tessitrice», disse lui, sorridendo. «E quando riprenderai a tesserle, mi terrai vicino a te?» «Sì», rispose Maharet. «Sempre.»
FINE