ROBIN HOBB IL RISVEGLIO DELL'ASSASSINO (Fool's Errand, 2001) Per Ruth e i suoi Striati, Alexander e Crusades Sono passat...
23 downloads
671 Views
2MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
ROBIN HOBB IL RISVEGLIO DELL'ASSASSINO (Fool's Errand, 2001) Per Ruth e i suoi Striati, Alexander e Crusades Sono passati quindici anni dalla fine della Guerra delle Navi Rosse con i terribili Isolani. Da allora Fitz ha vagato per il mondo, accompagnato solo dal suo lupo e compagno nello Spirito, Occhi-di-notte, stabilendosi infine in una casetta remotissima da Castelcervo e dai Lungavista. Ma ultimamente il mondo ha invaso di nuovo la sua vita. Gli Spirituali sono perseguitati a causa dei loro legami magici con gli animali; e il giovane principe Devoto è scomparso proprio prima del suo importantissimo fidanzamento diplomatico con una principessa Isolana. Fitz viene incaricato di riportare Devoto a casa in tempo per la cerimonia. Sembra la missione di un matto... e i pericoli che lo attendono potrebbero segnare la fine del regno dei Lungavista. 1 Umbra stella d'autunno Il Tempo è la ruota che gira, oppure il solco che si lascia dietro? Indovinello di Kelstar Arrivò verso la fine di un'umida primavera, e riportò il vasto mondo sulla mia soglia. Quell'anno compivo trentacinque anni. Quando ne avevo venti pensavo che un uomo di trentacinque vacillasse sull'orlo del rimbambimento. Ora non mi sentivo né giovane né vecchio, piuttosto sospeso tra i due. Non avevo più la scusa dell'inesperienza della gioventù, e non potevo ancora vantare le eccentricità della vecchiaia. In molti modi non sapevo più che pensare di me stesso. A volte mi sembrava che la mia vita scomparisse lentamente dietro di me come orme nella pioggia, fino a convincermi che forse ero sempre stato quell'uomo tranquillo che viveva una vita ordinaria in un casetta tra la foresta e il mare.
Quella mattina ero rimasto a letto ad ascoltare i suoni lievi che a volte mi portavano pace. Il lupo respirava regolarmente davanti allo scoppiettio sommesso del focolare. Cercai verso di lui con la nostra magia condivisa dello Spirito, e sfiorai con dolcezza i suoi pensieri dormienti. Sognava di correre con un branco di lupi su dolci colline levigate dalla neve. Per Occhi-di-notte era un sogno di silenzio, freddo e velocità. Allontanai piano il mio tocco e lo lasciai alla sua pace privata. Fuori dalla mia finestrella, gli uccelli di ritorno si sfidavano nel canto. Ogni volta che il vento lieve muoveva gli alberi una nuova doccia di pioggia notturna si riversava dai rami, tamburellando sul prato umido. Erano quattro betulle bianche, poco più che stecchi quando le avevo piantate. Ora il fogliame arioso gettava una fresca ombra leggera fuori dalla finestra della camera da letto. Chiusi gli occhi e riuscii quasi a sentire il barbaglio della luce sulle palpebre. Non volevo alzarmi, non ancora. Era stata una brutta notte, e avevo dovuto affrontarla da solo. Il ragazzo, Ticcio, era partito con Stornella quasi tre settimane prima, e ancora non era tornato. Come dargli torto? La mia vita solitaria e pacifica cominciava a pesare sulle sue giovani spalle. Con tutta la sua abilità di cantastorie, Stornella dipingeva la vita di Castelcervo in quadri troppo vividi perché Ticcio potesse ignorarli. Quindi le avevo permesso con riluttanza di portarlo in paese per vedere la Festa di Primavera, mangiare un dolce ai semi di carris, assistere a uno spettacolo di burattini, magari baciare una ragazza. Ormai Ticcio era troppo grande per accontentarsi di pasti regolari e un letto caldo. Mi dicevo che era tempo di lasciarlo andare, di trovargli un apprendistato da un buon falegname o ebanista. Si era mostrato incline a quell'arte; e prima un ragazzo si dedicava a un mestiere, meglio lo imparava. Ma non ero ancora pronto. Per ora mi godevo un mese di pace e solitudine, imparando di nuovo ad arrangiarmi. Occhi-di-notte e io ci facevamo compagnia a vicenda. Che altro ci mancava? Eppure, dopo la partenza di Ticcio, la casetta era subito sembrata troppo silenziosa. L'entusiasmo del ragazzo per il viaggio mi aveva rammentato troppo le mie antiche Feste di Primavera. Burattini e dolci di carris e ragazze da baciare, tutto richiamava ricordi vividi che pensavo di aver affogato da tempo. Forse erano quei ricordi che generavano sogni troppo intensi. Due volte mi ero svegliato sudato e tremante con i muscoli contratti. Per anni avevo avuto tregua da simili turbamenti, ma negli ultimi quattro anni la mia antica fissazione era tornata. Ultimamente andava e veniva senza un criterio che sapessi discernere. Era quasi come se la vecchia ma-
gia dell'Arte mi avesse all'improvviso reclamato, cercando di strapparmi alla mia pace e alla mia solitudine. Le mie giornate piatte e tutte uguali come perline su uno spago ora venivano sconvolte dal suo richiamo. A volte la fame d'Arte mi divorava come un cancro. Altre volte erano solo poche notti di brama, di sogni vividi. Se il ragazzo fosse stato a casa, probabilmente avrei saputo scrollar via quel richiamo persistente. Ma non c'era, e così la sera prima avevo ceduto alla dipendenza mai sconfitta che quei sogni risvegliavano. Ero sceso fino alle rupi sul mare, mi ero seduto sulla panca che il ragazzo aveva fabbricato per me, e avevo lanciato la mia magia sulle onde. Il lupo era rimasto seduto accanto a me per qualche tempo, guardandomi con ben noto rimprovero. Tentai di ignorarlo. «Non è peggio della tua propensione per i porcospini» gli feci notare. Solo che le spine si possono estrarre. Quello che ti tortura si propaga e marcisce. I suoi occhi profondi sfiorarono i miei mentre mi trasmetteva i suoi pensieri provocatori. Perché non vai a cacciare un coniglio? Hai mandato via il ragazzo e il suo arco. «Potresti prenderlo da solo, sai. Una volta lo facevi.» Una volta venivi con me a caccia. Perché non ci andiamo, invece di questo sterile cercare? Quando accetterai che là fuori nessuno può sentirti? È che devo... provare. Perché? La mia compagnia non ti basta? Mi basta. Tu mi basti sempre. Mi aprii al nostro legame nello Spirito e tentai di fargli sentire il richiamo dell'Arte. È la magia che lo vuole, non io. Basta. Non voglio vedere. E quando gli ebbi nascosto quella parte di me, chiese lamentosamente: Non ci lascerà mai in pace? Non ebbi risposta. Dopo qualche tempo il lupo si sdraiò, depose il testone sulle zampe e chiuse gli occhi. Sarebbe rimasto, perché temeva per me. Per due volte, l'inverno prima dell'ultimo, avevo esagerato con l'Arte, bruciando energia fisica in quella furiosa ricerca mentale finché non ero stato neanche capace di trascinarmi a casa con le mie gambe. Entrambe le volte Occhi-di-notte aveva dovuto correre a chiamare Ticcio. Questa volta eravamo soli. Sapevo che era sciocco e inutile. Sapevo anche che non potevo fermarmi. Come un affamato che mangia erba per placare il vuoto terribile nel
ventre, così mi tesi con l'Arte, toccando le vite che passavano entro la mia portata. Sfioravo i loro pensieri e placavo per un poco l'immensa brama che mi colmava di nulla. Riuscii a scoprire qualcosa della famiglia fuori a pesca in un giorno ventoso. Conobbi le preoccupazioni di un capitano con un carico un po' troppo pesante per la sua nave. Il primo ufficiale era preoccupato per l'uomo che sua figlia desiderava sposare; era pigro, malgrado i suoi modi gentili. Il mozzo malediceva la sfortuna; sarebbero arrivati a Borgo Castelcervo troppo tardi per la Festa di Primavera. Avrebbe trovato solo ghirlande appassite che si scolorivano nei fossi. La sua solita sfortuna. Quelle intuizioni mi portavano un vago conforto. Mi restituivano il senso che il mondo era più grande dei quattro muri di casa mia, più grande dei confini del mio orto. Ma non si trattava di vera Arte. Non era paragonabile a quel momento di completezza, quando le menti si univano e si percepiva il mondo intero come una grande entità in cui il proprio corpo non era più che un granello di polvere. I saldi denti del lupo sul polso mi avevano strappato alla mia ricerca. Vieni. Adesso basta. Se crolli qui, passerai una notte all'umidità e al freddo. Io non sono il ragazzo, non posso rimetterti in piedi. Vieni, ora. Mi ero alzato. Il buio ai margini della visuale era passato, ma non il susseguente buio dello spirito. Avevo seguito il lupo attraverso l'oscurità che si addensava sotto gli alberi gocciolanti, fino al mio fuoco consumato nel camino e alle candele colate sulla tavola. Mi ero preparato un infuso di efedra, nero e amaro, sapendo che mi avrebbe depresso ancor di più, ma avrebbe placato il mal di testa. Poi avevo bruciato l'energia nervosa dell'efedra lavorando a una pergamena sul gioco dei sassolini e le sue regole. Avevo già tentato molte volte di completare quel trattato, e ogni volta avevo finito con l'abbandonarlo senza speranza. Si imparava solo giocando, mi dicevo. Ora stavo aggiungendo al testo una serie di illustrazioni, per mostrare come si svolgeva una tipica partita. Lo avevo accantonato poco prima dell'alba, ed era sembrato solo il più stupido dei miei recenti sforzi. Ero andato a letto tardi... anzi, prestissimo. Mi risvegliai a metà mattina. In fondo al cortile le galline razzolavano e chiocciavano. Il gallo cantò una volta. Gemetti. Dovevo alzarmi. Dovevo raccogliere le uova e spargere una manciata di granaglie, per non inselvatichire il pollame. L'orto stava germogliando. C'era già bisogno di estirpare le erbacce, e dovevo riseminare il filare di crescione mangiato dalle lumache. Volevo raccogliere altro giaggiolo paonazzo mentre era ancora in fio-
re; il mio ultimo tentativo di ricavarne un inchiostro era andato a monte, ma volevo riprovare. C'era legna da tagliare e accatastare. Zuppa d'avena da preparare, il camino da ripulire. E dovevo scalare l'ontano sopra il pollaio e tagliare quel ramo rotto prima che un temporale lo abbattesse sul tetto. E dovremmo andare giù al fiume e vedere se i pesci hanno cominciato a saltare. Sarebbe bello avere pesce fresco. Occhi-di-notte aggiunse le sue aspirazioni al mio elenco mentale. L'anno scorso sei quasi morto per aver mangiato pesce marcio. A maggior ragione meglio andare ora, è fresco e vivace. Potresti usare la lancia del ragazzo. E inzupparmi e prendere freddo. Meglio zuppo e infreddolito che affamato. Mi girai dall'altra parte e mi rimisi a dormire. Ebbene, per una mattina avrei poltrito. A chi importava? Alle galline? Sembrò solo qualche attimo più tardi che i suoi pensieri mi sfiorarono. Fratello, svegliati. Arriva un cavallo sconosciuto. Fui subito vigile. L'angolo della luce nella finestra mi disse che erano passate ore. Mi alzai, infilai una veste, la legai con una cintura e mi infilai le calzature d'estate - poco più che suole di cuoio con lacci per tenerle ai piedi. Scostai i capelli dal viso e mi strofinai gli occhi insonnoliti. «Vai a vedere chi è» dissi a Occhi-di-notte. Vacci tu. È quasi alla porta. Non aspettavo nessuno. Tre o quattro volte l'anno Stornella veniva a trovarmi per alcuni giorni portando pettegolezzi, carta fine e buon vino, ma lei e Ticcio non potevano essere già di ritorno. Altri visitatori alla mia porta erano rari. Baylor aveva una capanna e alcuni maiali nella valle vicina, ma non possedeva un cavallo. Due volte l'anno veniva uno stagnino. Mi aveva scoperto per caso durante un temporale quando il suo cavallo si era azzoppato e la luce della mia finestra attraverso gli alberi lo aveva attirato. Da allora avevo avuto altre visite da viaggiatori come lui. Sul tronco di un albero accanto al sentiero che portava alla mia casetta lo stagnino aveva intagliato un gatto raggomitolato, simbolo di una casa ospitale. Lo avevo trovato e lo avevo lasciato lì, per attirare qualche altro visitatore occasionale alla mia porta. Dunque si trattava probabilmente di un viaggiatore che si era smarrito, o un mercante stanco per un lungo tragitto. Mi dissi che un ospite poteva essere una distrazione piacevole, ma il pensiero era poco convincente.
Sentii il cavallo fermarsi e i suoni lievi di un uomo che smontava. Il Grigio, ringhiò basso il lupo. Il cuore quasi mi si fermò in petto. Aprii lentamente la porta mentre il vecchio faceva per bussare. Mi scrutò, e poi il suo sorriso si aprì. «Fitz, figlio mio. Ah, Fitz!» Tese le braccia per abbracciarmi. Per un istante rimasi raggelato, incapace di muovermi. Non sapevo cosa provavo. Era spaventoso che il mio vecchio mentore mi avesse localizzato dopo tanti anni. Doveva esserci una ragione, al di là di una semplice visita. Ma sentii anche quel senso di parentela, l'improvviso fremito di curiosità che Umbra aveva sempre ridestato in me. Quando ero ragazzo a Castelcervo le sue convocazioni segrete arrivavano di notte, chiedendomi di salire la scala nascosta fino alla sua tana nella torre sopra la mia stanza. Là mescolava i veleni e mi insegnava il mestiere di assassino, e aveva conquistato la mia assoluta lealtà. Il mio cuore batteva più veloce all'apertura di quella porta segreta. Nonostante tutti gli anni e il dolore, Umbra mi faceva ancora quell'effetto. Grondava di segreti e promesse di avventura. Quindi mi trovai ad afferrargli le spalle curve e attirarlo in un abbraccio. Magro, stava diventando di nuovo magro, ossuto come quando lo avevo incontrato la prima volta. Ma ora ero io l'eremita in una vecchia veste di lana grigia. Lui indossava brache attillate blu e un farsetto dello stesso colore con inserti in un verde che metteva in risalto i suoi occhi. Stivali da cavallo in cuoio nero, come i guanti morbidi. Anche il mantello era verde, foderato di pelliccia. Ricchi sbuffi di merletto bianco al collo e ai polsi. Le cicatrici sparse di cui un tempo si era vergognato fino a nasconderle si erano affievolite in chiazze pallide sul viso segnato dagli anni. I capelli bianchi erano sciolti sulle spalle e arricciati sopra la fronte. Portava due smeraldi alle orecchie, e un altro nel centro del nastro d'oro al collo. Il vecchio assassino sorrise beffardo mentre osservavo il suo splendore. «Ah, il consigliere di una regina deve avere l'aspetto adatto, se vuole ottenere nelle trattative il rispetto che lui e la regina meritano.» «Capisco» dissi con voce flebile, e poi ritrovai la lingua. «Vieni, vieni dentro. Temo che troverai la mia casa un po' più rozza di ciò a cui sembri esserti abituato, ma sei benvenuto lo stesso.» «Non sono qui per cavillare sulla tua casa, ragazzo. Sono qui per vedere te.» «Ragazzo?» gli chiesi con un sorriso pacato mentre lo facevo entrare. «Eh già. Per me sei sempre un ragazzo, forse. È uno dei vantaggi dell'e-
tà, posso chiamare chiunque quasi come mi pare, e nessuno osa dirmi nulla. Ah, hai ancora il lupo, vedo. Occhi-di-notte, vero? Un poco invecchiato; non ricordavo quel bianco sul muso. Vieni qui, da bravo. Fitz, ti dispiace occuparti della mia cavalla? Sono stato in sella tutta la mattina, e ho passato la notte in una locanda disgraziata. Sono un po' contratto, sai. E porta dentro le mie borse da sella, vuoi? Bravo ragazzo.» Si chinò a grattare le orecchie del lupo, dandomi la schiena, fiducioso che gli avrei obbedito. Sorrisi e feci quel che mi aveva chiesto. La sua cavalla nera era una bella bestia, amabile e ben disposta. È sempre un piacere occuparsi di un bell'animale. Le diedi acqua in abbondanza e un poco del mangime dei polli, e la lasciai libera nel recinto vuoto del pony. Le tolsi due pesanti borse da sella; in una si udiva il promettente sciacquio di una bottiglia piena. Rientrai e trovai Umbra nel mio studio, seduto al mio scrittoio a leggere con attenzione le mie carte come se fossero state sue. «Ah, eccoti. Grazie, Fitz. Questo qui, questo è il gioco dei sassolini, vero? Quello che ti ha insegnato Ciottola, per aiutarti a distrarre la mente dalla strada dell'Arte? Affascinante. Mi piacerebbe averlo, quando sarà finito.» «Se lo desideri» dissi piano. Provai un momento di disagio. Umbra lasciava cadere parole e nomi che avevo seppellito e mai più disturbato. Ciottola. La strada dell'Arte. Li ricacciai nel passato. «Non sono più Fitz» dissi affabile. «Sono Tom lo Striato.» «Ah sì?» Mi toccai la striscia bianca nei capelli, causata dalla mia cicatrice. «Per questa. La gente ricorda il nome. Dico loro che sono nato così, e i miei genitori mi hanno dato quel nome.» «Capisco» disse Umbra evasivo. «Bene, è logico, ed è sensato.» Si mise comodo sulla mia sedia di legno, che cigolò. «C'è brandy in quelle borse, se hai qualche tazza. E qualche pan di zenzero della vecchia Sara... non ti aspettavi che mi ricordassi quanto ti piaceva, vero? Probabilmente è un po' schiacciato, ma è il sapore che conta.» Il lupo si era già messo seduto. Appoggiò il naso sul bordo del tavolo, puntando direttamente alle borse. «Allora. Sara è ancora cuoca a Castelcervo?» chiesi mentre cercavo due tazze presentabili. Le stoviglie sbreccate non erano un problema per me, ma ero all'improvviso riluttante a metterle fuori per Umbra. Umbra lasciò lo studio e si avvicinò al tavolo in cucina. «Oh, non proprio. I piedi le dolgono se ci sta sopra troppo a lungo. Ha uno scranno imbottito su una pedana nell'angolo della cucina, e sovrintende da lì. Prepara
i piatti che le piace cucinare, i pasticcini elaborati, le torte speziate e i dolci. Un giovane chiamato Duff ora svolge il grosso del lavoro quotidiano.» Stava svuotando le borse da sella. Tirò fuori due bottiglie con l'etichetta del brandy di Lungosabbia. Non riuscivo a ricordare l'ultima volta che lo avevo assaporato. Emersero i dolci allo zenzero, un po' schiacciati come previsto, spargendo briciole dal panno in cui li aveva avvolti. Occhi-dinotte annusò a fondo, poi cominciò a sbavare. «Sono anche i suoi preferiti, vedo» osservò ironico Umbra, e gliene lanciò uno. Il lupo lo prese al volo e lo portò via per divorarselo sul tappeto davanti al focolare. Le borse da sella rivelarono in fretta altri tesori. Un pacco di carta fine, vasetti di inchiostro blu, rosso e verde. Una grassa radice di zenzero, sul punto di germogliare, pronta per essere messa in vaso per l'estate. Pacchetti di spezie. Un lusso raro per me: un formaggio maturo e rotondo. E in una cassettina di legno, altri oggetti, inquietanti nella loro familiarità. Piccole cose che ritenevo perse da tempo. Un anello appartenuto al principe Rurisk del Regno delle Montagne. La punta di freccia che gli aveva trafitto il petto e ne aveva quasi causato la morte. Una scatoletta intagliata, fatta da me anni prima, per contenere i miei veleni. La aprii. Era vuota. Rimisi il coperchio alla cassettina e la deposi sul tavolo. Guardai Umbra. Non era solo un vecchio venuto a visitarmi. Si portava dietro tutto il mio passato, come una dama che attraversa una sala, seguita da uno strascico ricamato. Aprendogli la porta, avevo lasciato entrare con lui il mio vecchio mondo. «Perché?» chiesi quietamente. «Perché mi hai cercato dopo tanti anni?» «Oh, già.» Umbra avvicinò una sedia al tavolo e sedette con un sospiro. Stappò il brandy e lo versò per tutti e due. «Per una dozzina di ragioni. Ho visto il ragazzo con Stornella. E ho subito capito chi era. Non che ti assomigli, non più di quanto Urtica assomigli a Burrich. Ma ha i tuoi atteggiamenti, quel modo di tenersi indietro e guardare qualcosa, con la testa inclinata, prima di decidere se lasciarsi coinvolgere. Mi ha ricordato te a quell'età, così tanto che...» «Hai visto Urtica» lo interruppi con tranquillità. Non era una domanda. «Certo» rispose Umbra allo stesso modo. «Vorresti sapere di lei?» Non mi fidavo della mia lingua per rispondere. Tutte le mie antiche cautele mi avvertivano di non dimostrare troppo interesse in lei. Eppure sentivo, come una puntura nascosta, che Urtica, la figlia che non avevo mai visto se non nelle mie visioni, era la ragione per cui Umbra era lì. Guardai la mia tazza e soppesai i meriti del brandy a colazione. Poi pensai di nuovo a Urtica, la figlia illegittima abbandonata a malincuore prima che nascesse.
Bevvi. Avevo dimenticato come andava giù bene il brandy di Lungosabbia. Il suo calore si diffuse in me, rapido come lussuria adolescenziale. Umbra fu clemente, poiché non mi costrinse a esprimere il mio interesse. «Ti assomiglia molto, nella sua magrezza di ragazzina» disse, poi sorrise vedendomi sul chi vive. «Ma, strano a dirsi, assomiglia ancor di più a Burrich. Ha il suo modo di atteggiarsi e parlare, anche più dei suoi cinque figli.» «Cinque!» esclamai sbalordito. Umbra ghignò. «Cinque ragazzi, e tutti rispettosi e deferenti verso il loro padre come chiunque potrebbe desiderare. Non assomigliano affatto a Urtica. Lei ha imparato quell'occhiata torva di Burrich e gliela restituisce quando lui la guarda corrucciato. Il che avviene di rado. Non dirò che è la sua preferita, ma penso che conquisti il suo favore resistendogli, più dei ragazzi con il loro serio rispetto. Ha l'impazienza di Burrich, e il suo acuto senso del bene e del male. E tutta la tua caparbietà, ma forse ha imparato anche quella da Burrich.» «Allora hai visto Burrich?» Colui che mi aveva allevato, e ora allevava mia figlia come se fosse stata sua. Aveva preso in moglie la donna che avevo apparentemente abbandonato. Entrambi mi ritenevano morto. Le loro vite erano proseguite senza di me. Sentir parlare di loro mescolò il dolore all'affetto. Allontanai quel sapore con il brandy di Lungosabbia. «Sarebbe stato impossibile vedere Urtica senza vedere anche Burrich. Lui la sorveglia come, ebbene, come un padre. Sta bene. La sua gamba zoppa non è migliorata con gli anni. Ma di rado va a piedi, così non sembra dargli molto fastidio. Lui e i cavalli, sempre i cavalli, come al solito.» Si schiarì la gola. «Sai che la regina e io gli abbiamo fatto avere i puledri di Rosso e Fuliggine? Bene, ha fondato il suo sostentamento su quei due stalloni. La cavalla di cui ti sei occupato, Brace, l'ho avuta da lui. Alleva cavalli e li addestra. Non sarà mai un uomo ricco, perché non appena ha qualche soldo da parte, compra un altro cavallo o un altro pascolo. Ma quando gli ho chiesto come andava, mi ha risposto: 'Abbastanza bene.'» «E Burrich come ha reagito alla tua visita?» Ero orgoglioso di riuscire a parlare con voce non strozzata. Umbra ghignò di nuovo, ma c'era una vena di dolore. «Quando mi ha visto gli è quasi venuto un colpo. Poi è stato molto cortese e ospitale. E l'indomani mattina, mentre mi accompagnava al mio cavallo che uno dei gemelli - Les, penso - aveva sellato per me, ha promesso, con estrema calma, che mi ucciderà se tento di avere a che fare con Urtica. Lo ha detto con
rimpianto, ma con grande sincerità. Non ne ho dubitato, quindi non ho bisogno che tu me lo ripeta.» «Lei sa che Burrich non è suo padre? Sa qualcosa di me?» Le domande mi balzavano alla mente una dopo l'altra. Cercai di allontanarle. Odiai l'avidità con cui finii per chiedere, ma non potevo resistere. Era come la dipendenza dall'Arte, quella fame di sapere, finalmente sapere, dopo tanti anni. Umbra distolse lo sguardo e centellinò il brandy. «Non lo so. Lo chiama papà. Lo adora, senza riserve. Oh, non è d'accordo con lui, ma su certe cose, piuttosto che su Burrich stesso. Temo che con sua madre abbia un rapporto più tempestoso. Urtica non si interessa di api o candele, ma a Molly piacerebbe che la figlia la seguisse nel mestiere. Caparbia com'è Urtica, penso che Molly dovrà accontentarsi di un figlio o due.» Gettò uno sguardo fuori dalla finestra. Aggiunse sommesso: «Non abbiamo fatto il tuo nome mentre Urtica era presente.» Mi rigirai la tazza fra le mani. «Di che cosa si interessa?» «Cavalli. Falchi. Spade. A quindici anni mi aspettavo almeno qualche discorso di giovanotti, ma non sa cosa farsene, pare. Forse la donna in lei non si è ancora destata, o forse ha troppi fratelli per farsi illusioni romantiche sui ragazzi. Vorrebbe fuggire a Castelcervo e unirsi a una delle compagnie di guardia. Sa che un tempo Burrich era capo stalliere là. Una delle ragioni per cui sono andato a trovarlo era riferirgli che Kettricken gli ha offerto di nuovo quella posizione. Burrich ha rifiutato. Urtica non capisce perché.» «Io sì.» «Anch'io. Ma gli ho detto che potrei preparare un posto per Urtica, anche se Burrich sceglie di non andare. Potrebbe farmi da messaggera, se non altro, anche se sono sicuro che alla regina Kettricken piacerebbe averla con sé. Lasciale vedere come si vive in un castello e in una città, falle assaggiare la vita di corte, gli ho detto. Burrich ha rifiutato subito, ed è parso quasi offeso.» Senza volerlo, emisi un lieve respiro di sollievo. Umbra bevve un altro sorso di brandy e rimase seduto a guardarmi. In attesa. Conosceva quanto me la mia successiva domanda. Perché? Perché aveva cercato Burrich, perché si era offerto di portare Urtica a Castelcervo? Sorseggiai il mio brandy e scrutai il vecchio. Vecchio. Sì, ma non come invecchiano alcuni. I suoi capelli erano del tutto bianchi, ma il verde degli occhi sembrava ardere ancora di più sotto quei riccioli color neve. Mi chiesi quanto lottava
per impedire alla curva delle spalle di divenire una gobba, quali droghe prendeva per prolungare il suo vigore e che altre conseguenze avevano. Era più vecchio di re Sagace, e Sagace era morto da anni e anni. Bastardo reale del mio stesso lignaggio, sembrava nutrirsi di intrighi e conflitti come io non ero riuscito a fare. Io avevo abbandonato la corte e tutto ciò che conteneva. Umbra aveva scelto di restare, e di rendersi indispensabile a un'altra generazione di Lungavista. «Allora. Come sta Pazienza?» Scelsi la domanda con cura. Le notizie della moglie di mio padre non erano la cosa più urgente che desideravo sapere, ma potevo usare la risposta per avvicinarmi alla mia vera meta. «Dama Pazienza? Ah, ecco, non la vedo da diversi mesi. Più di un anno, ora che ci penso. Risiede a Guado dei Mercanti, sai. Governa il paese, e piuttosto bene. Strano, se ci pensi. Quando era regina-in-attesa e sposata a tuo padre, non è mai stata carismatica. Vedova, era ben contenta di essere l'eccentrica dama Pazienza. Ma quando tutti gli altri sono fuggiti, è diventata regina a Castelcervo, di fatto se non di nome. Kettricken è stata saggia a darle una signoria tutta sua, perché Pazienza non avrebbe più potuto dimorare a Castelcervo se non come regina.» «E il principe Devoto?» «Simile a suo padre come più non si potrebbe» osservò Umbra, scuotendo il capo. Lo osservai con cautela, chiedendomi come interpretare quel commento. Quanto sapeva? Il vecchio aggrottò le sopracciglia e continuò. «La regina deve lasciarlo uscire un po'. Il popolo parla di Devoto come parlava di tuo padre, Chevalier. 'Fin troppo corretto', dicono, e temo che sia quasi la verità.» C'era stato un lievissimo mutamento nella sua voce. «Quasi?» chiesi con calma. Umbra mi rivolse un sorriso che sembrava di scuse. «Ultimamente il ragazzo è strano. È sempre stato un ragazzo solitario, ma d'altra parte è l'unico principe. Ha sempre dovuto ricordare la sua posizione, evitare di favorire un compagno su un altro. Ciò lo ha reso introspettivo. Ma di recente il suo temperamento si è fatto più cupo. È distratto e volubile, così preso dai suoi pensieri che sembra del tutto inconsapevole di quello che accade nella vita di chi gli sta intorno. Non è scortese o indifferente; almeno, non di proposito. Ma...» «Quanti anni ha, quattordici?» chiesi. «Non sembra così diverso da Ticcio, negli ultimi tempi. Anch'io ho pensato che devo lasciarlo uscire. È ora che vada in giro a imparare qualcosa di nuovo, da qualcuno che non sono
io.» Umbra annuì. «Credo che tu abbia ragione. La regina Kettricken e io siamo giunti alla stessa conclusione sul principe Devoto.» Il suo tono mi fece sospettare di aver appena infilato la testa nel laccio. «Oh?» dissi con attenzione. «Oh?» mi imitò Umbra, e poi si chinò per versare altro brandy nel suo bicchiere. Sogghignò, e seppi che il gioco era finito. «Oh sì. Senza dubbio hai indovinato. Ci piacerebbe che tu tornassi a Castelcervo e istruissi il principe nell'Arte. E anche Urtica, se persuadiamo Burrich a lasciarla andare, sembra che sia portata.» «No.» Lo dissi in fretta prima di lasciarmi sedurre. Non sono sicuro di quanto suonasse definitivo. Già sentivo crescere il desiderio di accettare. Ecco la risposta, la risposta così semplice dopo tanti anni. Addestrare una nuova confraternita di adepti dell'Arte. Sapevo che Umbra aveva i rotoli e le tavolette sulla magia dell'Arte. Galen il mastro d'Arte e poi il principe Regal li avevano indebitamente nascosti tanti anni prima. Ora potevo studiarli, potevo imparare di più e addestrare altri, non come aveva fatto Galen, ma nel modo giusto. Il principe Devoto avrebbe avuto una confraternita di adepti dell'Arte per aiutarlo e proteggerlo, e io avrei posto fine alla mia solitudine. Ci sarebbe stato qualcuno a rispondere quando chiamavo. Ed entrambi i miei figli mi avrebbero conosciuto, come persona se non come padre. Astuto come al solito, Umbra dovette percepire la mia ambivalenza. Lasciò il rifiuto sospeso nell'aria tra noi. Contemplò il bicchiere fra le mani, ricordandomi bruscamente Veritas. Poi rialzò lo sguardo, e gli occhi verdi incontrarono i miei senza esitazione. Non fece domande, niente richieste. Doveva solo aspettare. Conoscere la sua tattica non mi aiutava. «Lo sai che non posso. Conosci tutti i motivi per cui non dovrei.» Umbra scosse leggermente il capo. «Non proprio. Perché al principe Devoto dovrebbe essere negato il suo diritto di nascita come Lungavista?» Più piano aggiunse: «O a Urtica?» «Diritto di nascita?» Tentai una risata amara. «È più come una malattia di famiglia, Umbra. È una fame, e quando ti insegnano come soddisfarla, diventa una dipendenza. Una dipendenza che alla fine può divenire abbastanza forte da condurti sui sentieri che portano oltre il Regno delle Montagne. Hai visto ciò che accadde a Veritas. L'Arte lo divorò. Lui la usò per i propri fini; scolpì il suo drago e vi riversò la sua essenza. Salvò i Sei Du-
cati. Ma sarebbe andato alle Montagne anche se non ci fossero state Navi Rosse da combattere. Quel luogo lo chiamava. È la fine inevitabile di qualsiasi adepto dell'Arte.» «Capisco i tuoi timori» confessò mesto Umbra. «Ma penso che tu abbia torto. Credo che Galen te li abbia instillati di proposito. Ha limitato quello che hai imparato, e ti ha martellato in testa la paura. Ma io ho letto i testi dell'Arte. Non li ho decifrati tutti, ma so che l'Arte è molto di più di una semplice comunicazione a distanza. Con l'Arte un uomo può prolungare la vita e la salute. L'Arte può migliorare i poteri di persuasione di un oratore. Il tuo addestramento... non so fin dove sia arrivato, ma scommetto che Galen ti ha insegnato il meno possibile.» Udivo l'entusiasmo crescere nella voce del vecchio, come se parlasse di un tesoro nascosto. «C'è così tanto nell'Arte, così tanto. Alcuni rotoli suggeriscono che possa essere usata come cura, non solo per scoprire esattamente cosa c'è che non va in un guerriero ferito, ma per incoraggiarne la guarigione. Un adepto potente può vedere attraverso gli occhi di un altro, sentire quello che l'altro sente e ode. E...» «Umbra.» La dolcezza nella mia voce lo interruppe. Quando aveva ammesso di aver letto i rotoli mi ero indignato. Non ne aveva il diritto... se non che glieli aveva dati la sua regina. Chi altro doveva leggerli? Non esisteva più un Mastro d'Arte. Quell'abilità si era spenta. No. L'avevo spenta io. Avevo ucciso, uno alla volta, gli ultimi adepti dell'Arte, l'ultima confraternita mai creata a Castelcervo. Erano stati infedeli al loro re, così li avevo distrutti, e la magia con loro. La parte razionale di me sapeva che era una magia che doveva rimanere morta. «Non sono un mastro d'Arte, Umbra. Non solo la mia conoscenza dell'Arte è incompleta, ma il mio talento è sempre stato erratico. Sono sicuro che hai scoperto dai rotoli o hai sentito da Kettricken che l'uso dell'efedra è terribile per un adepto. Sopprime o uccide il talento per l'Arte. Ho tentato di starne lontano; non mi piace l'effetto che mi fa. Ma anche la tristezza che porta è meglio della fame di Arte. A volte ho usato l'efedra regolarmente per giorni e giorni, quando la brama era forte.» Distolsi lo sguardo dalla preoccupazione sul suo viso. «Qualsiasi talento io abbia mai avuto è stato probabilmente soffocato in modo irreparabile.» Umbra osservò con gentilezza: «Mi sembra che la tua brama continua indichi il contrario, Fitz. Mi spiace sentire che soffri; davvero non ne avevamo idea. Pensavo che la fame di Arte fosse come la brama per il bere o il Fumo, e che diminuisse dopo un periodo di astinenza forzata.»
«No. Non è così. A volte rimane latente. Passano mesi, perfino anni. Poi, senza ragione apparente, si risveglia.» Serrai gli occhi per un istante. Parlarne, pensarci, era come stuzzicare una vescica. «Umbra, so che sei venuto fin qui a cercarmi per questo. E mi hai sentito dire di no. Ora possiamo parlare d'altro? Questa conversazione... mi addolora.» Per qualche tempo Umbra rimase silenzioso. C'era una falsa cordialità nella sua voce quando disse bruscamente: «Certo che possiamo. Ho detto a Kettricken che dubitavo che avresti accettato il nostro piano.» Emise un breve sospiro. «Dovrò solo fare il meglio che posso con quello che ho spigolato dai rotoli. Ecco. Ho detto la mia. Che cosa ti piacerebbe sapere?» «Stai dicendo che tenterai di insegnare l'Arte a Devoto da ciò che hai letto in quei vecchi rotoli?» All'improvviso ero quasi furibondo. «Non mi lasci alternativa» mi fece notare amichevolmente Umbra. «Capisci il pericolo a cui lo esporresti? L'Arte può sedurre, Umbra. Attira la mente e il cuore come una calamita. Spinge a voler divenire un tutt'uno con essa. Se il principe cede a quell'attrazione anche per un istante mentre sta imparando, sarà perduto. E non ci sarà nessun adepto per seguirlo, rimetterlo insieme e trascinarlo fuori dalla corrente.» Compresi dall'espressione di Umbra che non aveva la minima idea di quello che gli stavo dicendo. Rispose caparbiamente: «Quello che ho letto nei rotoli è che è pericoloso lasciare senza alcun addestramento uno con un forte talento per l'Arte. In alcuni casi, ragazzi così hanno cominciato quasi istintivamente a usare l'Arte, ma senza avere idea del pericolo o di come controllarla. Mi viene da pensare che anche un piccolo grado di conoscenza sarebbe meglio che lasciare il giovane principe nella completa ignoranza.» Aprii la bocca per parlare, poi la richiusi. Trassi un profondo respiro e lo esalai lentamente. «Non mi farò coinvolgere, Umbra. Mi rifiuto. Anni fa me lo ripromisi. Sedetti accanto a Fermo e lo guardai morire. Non lo uccisi. Perché mi ero imposto di non essere più un assassino, di non essere più uno strumento. Non mi farò manipolare e non mi farò usare. Ho fatto abbastanza sacrifici. Penso di essermi guadagnato il pensionamento. E se tu e Kettricken non siete d'accordo e non volete più mandarmi denaro, ebbene, saprò arrangiarmi.» Meglio parlarne apertamente. La prima volta che avevo trovato una borsa di monete accanto al letto dopo una visita di Stornella, mi ero sentito insultato. Avevo serbato l'indignazione per mesi finché non era tornata. Aveva riso di me, e mi aveva detto che non era una sua ricompensa per i
miei servizi, se avevo pensato a quello, ma una pensione dai Sei Ducati. Allora mi ero costretto ad ammettere che qualsiasi cosa Stornella sapesse di me, la sapeva anche Umbra. Era lui la fonte della carta fine e dei buoni inchiostri che a volte Stornella portava. Probabilmente riferiva a Umbra ogni volta che tornava a Castelcervo. Mi ero detto che non mi infastidiva. Ma ora mi chiedevo se tenendomi d'occhio in tutti quegli anni Umbra fosse stato in attesa che tornassi utile. Penso che me lo lesse in viso. «Fitz, Fitz, calmati.» Il vecchio tese la mano attraverso il tavolo per batterla rassicurante sulla mia mano. «Non si è parlato affatto di questo. Siamo entrambi ben consapevoli di ciò che ti dobbiamo, non solo noi ma tutti i Sei Ducati. Finché vivi, i Sei Ducati provvederanno a te. Quanto all'addestramento del principe Devoto, non pensarci più. Davvero non ti riguarda.» A disagio, mi chiesi ancora una volta quanto sapesse. Poi mi feci forza. «Come dici, non mi riguarda. Tutto quello che posso fare è avvertirti di essere cauto.» «Ah, Fitz, hai mai saputo che io fossi meno che cauto?» I suoi occhi mi sorrisero sopra l'orlo della tazza. Accantonai la questione, ma impedirmi di pensarci era come tentare di sradicare un albero. In parte temevo che la tutela inesperta di Umbra mettesse in pericolo il giovane principe. Ma soprattutto, addestrare una nuova confraternita era un modo di soddisfare la mia brama d'Arte. Riconosciuto questo, non mi era possibile infliggere senza rimorsi di coscienza quella dipendenza su un'altra generazione. Umbra tenne fede alla sua parola. Non parlò più di Arte. Chiacchierammo per ore di tutti coloro che avevo conosciuto un tempo a Castelcervo. Lama era nonno, e le giunture doloranti di Trina l'avevano infine costretta ad accantonare i suoi eterni merletti. Mani era capo stalliere a Castelcervo. Aveva sposato una donna dell'interno con fiammeggianti capelli rossi e un temperamento appropriato. Tutti i loro figli avevano i capelli rossi. La donna teneva Mani a un guinzaglio corto, e secondo Umbra lui ne sembrava felice. Ultimamente premeva per tornare ad Armento, la sua terra natia, e lui sembrava disposto ad accontentarla; da ciò il viaggio di Umbra per vedere Burrich e offrirgli la sua antica posizione. E così, proseguendo, raschiava il callo dai miei ricordi e riportava freschi alla mia mente tutti i visi di un tempo. Mi fece provare nostalgia per Castelcervo, e non riuscii a trattenere le domande. Quando esaurimmo le persone su cui spettegolare, gli feci da guida in casa mia, come se fossimo stati due vecchie zitelle in visita. Gli feci vedere i miei polli e le mie betulle, il mio orto e i miei sen-
tieri. Gli mostrai la stanza da lavoro, dove facevo le tinte e gli inchiostri colorati che Ticcio portava al mercato per me. Quelli, almeno, lo sorpresero. «Ti ho portato inchiostri da Castelcervo, ma forse i tuoi sono migliori.» Mi batté la mano sulla spalla, come ai tempi in cui mescolavo correttamente un veleno, e l'antica ondata di soddisfazione per il suo orgoglio mi percorse. Probabilmente gli mostrai più di quanto intesi. Senza dubbio notò la preponderanza di sedativi e antidolorifici fra le mie piante medicinali nell'orto. Quando gli feci vedere la mia panca sulle rupi affacciate sul mare, mormorò addirittura: «Sì, a Veritas sarebbe piaciuto.» Ma nonostante quello che vide e indovinò, non parlò più dell'Arte. Quella notte rimanemmo alzati fino a tardi, e gli insegnai le basi del gioco dei sassolini di Ciottola. Annoiato dalla nostra lunga conversazione, Occhi-di-notte andò a caccia. Percepii una vena di gelosia nel lupo, ma decisi che ne avrei discusso più tardi con lui. Quando accantonammo il gioco, chiesi a Umbra come stava. Il vecchio ammise sorridendo che apprezzava il ritorno alla corte e al bel mondo. Mi parlò, come di rado faceva, della sua gioventù. Aveva condotto una vita gaia, poi una pozione mal riuscita lo aveva sfregiato. Si era vergognato al punto da ritirarsi nella vita oscura e discreta di assassino di corte. In vecchiaia sembrava essere ridiventato quel giovane che aveva amato tanto le danze e le cenette private con signore argute. Ero contento per lui, e gli chiesi scherzando: «Ma allora, come riesci a conciliare il tuo 'lavoro silenzioso' per la corona con tutte queste cariche e divertimenti?» La sua replica fu franca. «Mi arrangio. E ho trovato qualcuno che mi segue con talento e acume. Fra non molto potrò lasciare tutti i vecchi compiti in mani più giovani.» Umbra aveva preso un altro apprendista al mio posto. Conobbi un inquietante momento di gelosia, poi riconobbi quanto era sciocco. I Lungavista avrebbero sempre avuto bisogno di un uomo capace di dispensare quietamente la Giustizia del Re. Io avevo rifiutato di continuare a essere un assassino di corte; ciò non significava che non ce ne fosse più bisogno. Tentai di mostrarmi indifferente. «Dunque gli antichi esperimenti e le lezioni continuano nella tua torre.» Umbra annuì, serio. «Sì. In effetti...» Si alzò all'improvviso dal suo posto accanto al fuoco. Per antica consuetudine avevamo ripreso le nostre abituali posizioni, lui su uno scranno davanti al fuoco e io accoccolato sulle pietre del focolare ai suoi piedi. Solo in quel momento compresi quanto
era strano, e mi meravigliai di come mi fosse sembrato naturale. Scossi il capo fra me mentre Umbra frugava nelle borse da sella sul tavolo. Estrasse una fiaschetta consumata di cuoio duro. «Volevo mostrarti questo, e con tutti i nostri discorsi me ne stavo dimenticando. Ricordi la mia passione per i fuochi e i fumi misteriosi?» Alzai gli occhi al cielo. La sua «passione» ci aveva scottati entrambi più di una volta. Rifiutai il ricordo dell'ultima volta che Umbra aveva usato il suo fuoco magico: aveva fatto ardere a Castelcervo le torce di fiamme azzurre e crepitanti la notte che il principe Regal si era ingiustamente dichiarato erede della corona dei Lungavista. Quella notte aveva visto anche l'assassinio di re Sagace e il mio conseguente arresto. Umbra non parve aver fatto lo stesso collegamento. Tornò in fretta al cantuccio del focolare con la fiaschetta. «Hai un pezzo di carta? Io non ne ho portata.» Ne trovai un poco, e lo guardai dubbioso mentre ne staccava una lunga striscia, la piegava per lungo, e poi giudiziosamente versava una certa quantità di polvere nell'incavo della piega. Con attenzione la coprì con la carta, la ripiegò e la assicurò con una torsione. «Ora guarda!» mi invitò, trepidante. Lo osservai con apprensione mentre metteva la carta nel fuoco. Forse doveva risplendere o scintillare o emettere fumo. Non accadde niente. La carta divenne marrone, prese fuoco e bruciò. Un vago fetore di zolfo. Nient'altro. Sollevai un sopracciglio, guardando Umbra. «Non è giusto!» protestò il vecchio, concitato. In fretta preparò un altro rotolo di carta, ma questa volta fu più generoso con la polvere. Mise la carta nel cuore più caldo del fuoco. Mi scostai dal focolare, pronto a tutto, ma di nuovo rimanemmo delusi. Vedendolo così sconfortato mi strofinai la bocca per coprire un sorriso. «Penserai che ho perso il mio tocco!» dichiarò Umbra. «Oh, no, mai» risposi, ma era difficile rimanere serio. Questa volta preparò una specie di grosso tubo di carta che perdeva polvere quando lo chiuse con una torsione. Quando lo mise sulle fiamme mi alzai e mi allontanai dal focolare. Di nuovo non fece altro che bruciare. Umbra emise un gran sbuffo di disgusto. Scrutò nel collo scuro della fiaschetta, poi la scosse. Con un'esclamazione di riprovazione, la tappò. «In qualche modo è entrata l'umidità. Bene. Mi ha rovinato lo spettacolo.» Lanciò la fiasca nel fuoco, un segno di grande indignazione per lui. Quando sedetti di nuovo accanto al focolare, avvertii quanto fosse acuta
la sua delusione e provai un moto di pietà per il vecchio. Tentai di sdrammatizzare. «Mi viene in mente quella volta che confusi la polvere di fumo con la radice di flebotomo. Ti ricordi? I miei occhi lacrimarono per ore.» Umbra emise una breve risata. «Ricordo.» Rimase silenzioso per qualche tempo, sorridendo fra sé. Capii che la sua mente vagava di nuovo verso i nostri antichi giorni insieme. Poi si piegò in avanti e mi mise la mano sulla spalla. «Fitz,» chiese sinceramente, guardandomi negli occhi «non ti ho mai ingannato, vero? Sono stato onesto. Ti ho spiegato cosa ti stavo insegnando, fin dall'inizio.» Scorsi la cicatrice non rimarginata tra noi. Coprii la sua mano con la mia. Nocche ossute, pelle sottile come carta. Gli parlai guardando le fiamme. «Sei sempre stato onesto con me, Umbra. Se qualcuno mi ha ingannato, sono stato io. Ciascuno di noi ha servito il nostro re, e ha fatto quello che doveva. Non tornerò a Castelcervo. Non per qualcosa che hai fatto tu, ma per quello che sono diventato. Non ti serbo alcun rancore.» Sollevai lo sguardo verso di lui. Il suo viso era molto serio, e vidi nei suoi occhi quello che non mi aveva detto. Gli mancavo. Qualsiasi altra ragione avesse per chiedermi di tornare a Castelcervo, era anche per lui. Scoprii una piccola dose di guarigione e di pace. Qualcuno mi voleva ancora bene, quantomeno Umbra. Ero commosso e sentii un nodo gola. Tentai di trovare parole più leggere. «Non hai mai detto che essere tuo apprendista sarebbe stata una vita tranquilla e sicura.» Come per confermare quelle parole, un bagliore improvviso eruppe dal mio focolare. Se il mio viso non fosse stato rivolto verso Umbra, suppongo che avrei potuto rimanere cieco. Invece fui solo assordato da uno schianto di tuono e fulmine insieme. Il fuoco ruggì all'improvviso come un animale selvaggio, cospargendomi di brace e scintille. Balzammo in piedi e ci allontanammo in fretta dal focolare. Un istante più tardi una pioggia di fuliggine dal mio camino trascurato spense la maggior parte del fuoco. Umbra e io ci precipitammo per la stanza, calpestando le scintille ardenti e calciando pezzi di fiaschetta in fiamme nel focolare prima che dessero fuoco alla casa. La porta si aprì di schianto sotto l'assalto di Occhi-di-notte. Il lupo piombò nella stanza, graffiando il pavimento mentre correva, scivolando fino a fermarsi. «Sto bene, sto bene» lo rassicurai, e poi compresi che stavo gridando per sovrastare il tintinnio nelle orecchie. Occhi-di-notte emise uno sbuffo disgustato per la puzza. Senza condividere neanche un pensiero con me, uscì di nuovo nella notte con passo sdegnato.
Umbra mi stava picchiando la mano sulla spalla. «Spengo un carbone ardente» mi assicurò rumorosamente. Impiegammo qualche tempo per ristabilire l'ordine e riaccendere il fuoco nel posto giusto. Comunque Umbra allontanò la sedia dal focolare, e io non mi ci sedetti più vicino. «Doveva funzionare così?» chiesi dopo un po', quando ci fummo rinfrancati con altro brandy di Lungosabbia. «No! Per le palle di El, ragazzo, pensi che lo avrei fatto di proposito nel tuo focolare? Volevo produrre un bagliore improvviso di luce bianca, quasi accecante. La polvere non doveva reagire in quel modo. Eppure... Mi chiedo perché. Cosa c'era di diverso? Maledizione. Se solo ricordassi cosa c'era in quella fiaschetta...» Aggrottò le sopracciglia e fissò le fiamme con sguardo feroce, e. capii che il suo nuovo apprendista sarebbe stato messo al lavoro per capire cosa aveva provocato l'esplosione. Non gli invidiai la serie di esperimenti che sarebbero indubbiamente seguiti. Umbra passò la notte nella mia casetta, dormendo nel mio letto mentre io mi arrangiavo con quello di Ticcio. Ma quando ci svegliammo il mattino dopo, era chiaro che la visita era finita. All'improvviso sembrava non esserci altro da discutere, e parlare non aveva senso. Una specie di malinconia si impadronì di me. Perché avrei dovuto chiedere di gente che non avrei mai più rivisto? Perché Umbra avrebbe dovuto parlarmi della più recente messe di intrighi politici, quando non avevano niente a che fare con la mia vita? Le nostre esistenze si erano intrecciate di nuovo per molte ore, ma adesso, mentre il giorno grigio albeggiava, Umbra mi guardò occuparmi dei miei semplici compiti; attingere acqua, dare il mangime alle galline, cucinare la colazione e lavare le stoviglie. Con ogni goffo silenzio sembravamo sempre più lontani. Cominciai quasi a desiderare che non fosse venuto. Dopo colazione Umbra disse che doveva andarsene, e non tentai di dissuaderlo. Gli promisi che avrebbe avuto la pergamena sul gioco dei sassolini quando sarebbe stata finita. Gli diedi diversi miei appunti sui dosaggi per le tisane sedative, e radici delle poche erbe del mio orto che non conosceva. Gli regalai molte fiale di inchiostri variopinti. Arrivò vicino a tentare di farmi cambiare idea solo quando osservò che a Castelcervo c'era un migliore mercato per tali articoli. Mi limitai ad annuire e dissi che avrei potuto mandare Ticcio. Poi sellai la sua bella cavalla, misi la briglia e gliela portai. Umbra mi salutò con un abbraccio, montò e se ne andò. Lo guardai allontanarsi lungo il sentiero. Accanto a me, Occhi-di-notte mi infilò la
testa sotto la mano. Ti dispiace? Mi dispiace per molte cose. Ma so che se lo seguissi e facessi come desidera, un giorno mi dispiacerebbe molto di più. Eppure non riuscivo a muovermi e continuavo a fissarlo. Non era troppo tardi. Tentazione. Un grido, e si sarebbe girato per tornare indietro. Strinsi le mascelle. Occhi-di-notte mi sollevò la mano con il naso. Vieni. Andiamo a caccia. Niente ragazzo, niente arco. Solo io e te. «Sembra una buona idea» mi sentii dire. Così facemmo, e prendemmo perfino un bel coniglio di primavera. Fu bello sciogliere i muscoli e provare che ne ero ancora capace. Decisi che non ero vecchio, non ancora. Dovevo uscire e intraprendere nuove attività, proprio come Ticcio. Imparare qualcosa di nuovo. Quella era sempre stata la cura di Pazienza contro la noia. Quella sera, mentre osservavo la mia casetta, mi parve soffocante, non più confortevole. Ciò che era stato familiare e intimo ora sembrava consumato e tedioso. Sapevo che era solo il contrasto tra le storie di Castelcervo raccontate da Umbra e la mia vita posata. Ma l'inquietudine, una volta risvegliata, è una forza potente. Tentai di pensare all'ultima volta in cui non avevo dormito nel mio letto. La mia era una vita sedentaria. Ogni anno, al tempo del raccolto, mi mettevo in viaggio per un mese, facendomi assumere per lavorare i campi di fieno o raccogliere il grano o le mele. Il denaro in più era benvenuto. Ero solito andare alla Baia di Hows due volte l'anno, a scambiare i miei inchiostri e tinture per stoffa con vestiti e terraglie e altri oggetti utili. Gli ultimi due anni ci avevo mandato il ragazzo e il vecchio pony grasso. La mia vita si era assestata in una consuetudine così radicata che non me n'ero neanche accorto. Allora. Cosa vuoi fare? Occhi-di-notte si stiracchiò e poi sbadigliò rassegnato. Non lo so, ammisi. Qualcosa di diverso. Ti piacerebbe girare un po' il mondo? Per un po' il lupo si ritirò in quella parte della mente che era solo sua. Poi chiese, piuttosto risentito: Tutti e due a piedi, o ti aspetti che io tenga il passo di un cavallo tutto il giorno? Giusta domanda. Se andassimo a piedi? Se proprio devi, concesse Occhi-di-notte di malavoglia. Stai pensando a quel luogo laggiù nelle Montagne, vero? La città antica? Sì.
Non fece obiezioni. Portiamo il ragazzo? Io lo lascerei qui a cavarsela da solo per un po'. Potrebbe fargli bene. Ed è necessario che qualcuno custodisca i polli. Quindi suppongo che non partiremo finché il ragazzo non torna? Annuii. Mi chiesi se fossi impazzito. Mi chiesi se saremmo mai tornati. 2 Stornella Stornella Dolcecanto, cantastorie della regina Kettricken, ispirò tante canzoni quante ne compose. Leggendaria compagna della regina durante la cerca degli Antichi per chiedere il loro aiuto contro le Navi Rosse, offrì il suo servizio al trono dei Lungavista per decenni durante la ricostruzione dei Sei Ducati. Capace di trovarsi a suo agio in compagnia di chiunque, fu indispensabile alla regina negli anni inquieti che seguirono la Purificazione del Cervo. Le furono affidati trattati e accordi tra nobili, e anche offerte di amnistia a bande di predoni e famiglie di contrabbandieri. Stornella trasse canzoni da molte di queste missioni, ma di certo ebbe altre avventure, condotte in segreto per il regno dei Lungavista, e troppo delicate per poter mai essere messe in rima. Stornella tenne Ticcio con sé per oltre due mesi. Il mio divertimento per la sua assenza divenne prima irritazione e poi fastidio. Il fastidio era soprattutto verso me stesso. Non avevo compreso quanto fossi giunto a dipendere dalla schiena robusta del ragazzo finché non dovetti piegare la mia ai compiti che ero solito delegare a lui. Ma durante quel mese in più di assenza non intrapresi solo i normali lavori domestici del ragazzo. La visita di Umbra aveva risvegliato qualcosa in me. Un sentimento senza nome, come se un demone mi avesse morso, mostrandomi la pochezza della mia piccola proprietà. La pace della mia casa isolata ora sembrava pigra indifferenza. Era passato davvero un anno da quando avevo infilato una pietra sotto il gradino sbilenco del portico, ripromettendomi di ripararlo in un secondo momento? No, era passato un anno e mezzo. Aggiustai il portico, e poi non solo ripulii il pollaio ma lo lavai con la lisciva e raccolsi canne fresche da spargere sul pavimento. Riparai il tetto della stanza da lavoro che perdeva, e finalmente praticai un'apertura nella parete e installai la finestra di pelle ingrassata come mi ripromettevo da
due anni. Le pulizie di primavera della casetta furono le più complete in anni e anni. Tagliai il ramo rotto del frassino, lasciandolo cadere sul tetto del pollaio appena ripulito. Rifeci il tetto del pollaio. Stavo proprio portando a termine quel compito quando Occhi-di-notte mi disse che sentiva cavalli. Scesi, raccolsi la tunica e girai sul davanti della casetta per salutare Stornella e Ticcio che si avvicinavano lungo il sentiero. Non so se fu la lunga separazione, o la mia recente inquietudine, ma all'improvviso Ticcio e Stornella mi parvero estranei. Non erano solo i vestiti nuovi di Ticcio che ne accentuavano le gambe lunghe e le spalle sempre più ampie. Sembrava comico in sella al vecchio pony grasso, e di sicuro ne era consapevole. Quel pony era poco adatto a un giovane che cresceva, come lo era il letto da ragazzino nella mia casetta e il mio placido modo di vivere. Percepii all'improvviso che non avevo il diritto di chiedergli di restare a custodire i polli mentre io andavo a caccia di avventure. Anzi, se non lo avessi mandato presto a cercare fortuna, la mite scontentezza che vedevo nei suoi occhi di colore diverso sarebbe presto diventata amara insoddisfazione per la sua vita. Ticcio era stato per me un buon compagno; forse quel trovatello che avevo adottato mi aveva salvato quanto io avevo salvato lui. Facevo molto meglio a mandarlo per il mondo mentre ancora ci piacevamo, senza attendere di diventare un dovere gravoso per le sue giovani spalle. Non solo Ticcio era cambiato ai miei occhi. Stornella era quanto mai briosa: scavalcò il dorso del cavallo con un gran sorriso e scivolo a terra. Eppure, mentre veniva verso di me a braccia aperte, compresi che ultimamente sapevo pochissimo della sua vita. Abbassai lo sguardo nei suoi allegri occhi scuri e notai per la prima volta le sottili rughe che cominciavano a formarsi agli angoli. Nel corso degli anni il suo abbigliamento era divenuto più ricco, la qualità dei cavalli migliore e i gioielli più costosi. Quel giorno i folti capelli scuri erano assicurati con un fermaglio di argento massiccio. Chiaramente prosperava. Tre o quattro volte all'anno piombava in casa mia, si fermava qualche giorno e metteva sottosopra la mia vita tranquilla con le sue storie e le sue canzoni. Insisteva per condire il cibo secondo il suo gusto, spargeva le sue cose su tavolo, scrittoio e pavimento, e il mio letto non era più un rifugio solitario quando ero sfinito. I giorni immediatamente successivi alla sua partenza mi ricordavano una strada di campagna dopo il passaggio di una carovana di burattinai, la polvere ancora densa nell'aria. Mi sentivo il respiro mozzato e la vista annebbiata finché non mi assestavo ancora una volta nella mia monotona consuetudine.
La abbracciai forte, odorando polvere e profumo nei suoi capelli. Si staccò da me, mi guardò in faccia e subito chiese: «Che succede? C'è qualcosa di diverso.» Sorrisi malinconico. «Te lo dico dopo» promisi, ed entrambi sapevamo che sarebbe stata una delle nostre conversazioni a notte alta. «Vai a lavarti» concordò lei. «Puzzi come il mio cavallo.» Mi diede una lieve spinta, e mi allontanai da lei per salutare Ticcio. «Allora, ragazzo, com'è andata? La Festa di Primavera a Castelcervo era all'altezza delle storie di Stornella?» «È stato bello» disse lui in tono neutro. Mi guardò in faccia, e i suoi occhi scompagnati, uno blu e uno castano, erano pieni di tormento. «Ticcio?» cominciai preoccupato, ma lui scrollò le spalle e si ritrasse prima che potessi toccargli la spalla. Si allontanò da me, ma forse si pentì del suo brusco saluto, perché disse con voce strozzata: «Vado al ruscello a lavarmi. Sono coperto di polvere.» Vai con lui. Non so cosa sia successo, ma ha bisogno di un amico. Preferibilmente uno che non può fare domande, riconobbe Occhi-dinotte. A testa bassa, la coda diritta e tesa, seguì il ragazzo. A modo suo era affezionato a Ticcio quanto me, e aveva contribuito in egual misura ad allevarlo. Quando furono lontani, mi rivolsi di nuovo a Stornella. «Sai di che si tratta?» La donna scrollò le spalle con un sorriso storto. «Ha quindici anni. A quell'età il malumore deve avere per forza un motivo? Non perderci il sonno. Potrebbe essere qualsiasi cosa: una ragazza che non lo ha baciato alla Festa di Primavera, o una che lo ha baciato. Andarsene da Castelcervo o tornare a casa. Una salsiccia guasta a colazione. Lascialo in pace. Starà bene.» Guardai il ragazzo che svaniva fra gli alberi insieme al lupo. «Forse ricordo i miei quindici anni in modo un po' diverso da te» commentai. Mentre Stornella entrava nella casetta mi occupai del suo cavallo e di Trifoglio il pony, riflettendo che, qualunque fosse il mio umore, Burrich mi avrebbe ordinato di badare al mio cavallo prima di andarmene. Ebbene, io non ero Burrich. Mi chiesi se applicava la stessa disciplina a Urtica, Chevalier e Les. Perché non avevo chiesto a Umbra i nomi degli altri bambini? Quando i cavalli furono sistemati mi trovai a desiderare che Umbra non fosse venuto. La sua visita aveva riportato a galla troppi vecchi ricordi. Li scacciai risolutamente. Ossa vecchie di quindici anni, mi avrebbe
detto il lupo. Sfiorai la sua mente. Ticcio si era spruzzato un po' d'acqua in faccia e avanzava nei boschi, borbottando e camminando così distrattamente che non avrebbero visto ombra di selvaggina. Sospirai per tutti e due, ed entrai nella casetta. Stornella aveva scaricato il contenuto delle borse da sella sul tavolo. Gli stivali che si era tolta giacevano di traverso sulla soglia; il mantello era drappeggiato su una sedia. Il bollitore cominciava a borbottare. La donna era in piedi su uno sgabello di fronte alla credenza. Mi tese un vasetto marrone. «Questo tè è ancora buono? Ha uno strano odore.» «È ottimo, quando sto abbastanza male da mandarlo giù. Scendi di lì.» La presi per la vita e la sollevai facilmente, anche se avvertii una fitta alla mia vecchia cicatrice sulla schiena quando la deposi sul pavimento. «Siediti. Preparo io il tè. Parlami della Festa di Primavera.» Stornella raccontò mentre tiravo fuori le mie poche tazze, tagliavo fette dalla mia ultima pagnotta e mettevo a scaldare lo stufato di coniglio. Le sue storie di Castelcervo erano quelle che mi ero abituato a sentire da lei: parlò di menestrelli che avevano cantato bene o male, spettegolò di signori e dame che non avevo mai conosciuto e condannò o lodò il cibo delle varie tavole nobiliari dove era stata ospite. Raccontava con arguzia, facendomi ridere o scuotere la testa a seconda del caso, senza una traccia del dolore che Umbra aveva destato in me. Forse era perché il vecchio aveva parlato di gente che avevamo conosciuto e amato, raccontando le sue storie da quella prospettiva intima. Non rimpiangevo Castelcervo o la vita di città, ma i giorni della mia fanciullezza e gli amici che avevo conosciuto. Di quello ero sicuro; impossibile tornare indietro. Solo alcuni di loro sapevano che ero ancora vivo, e così volevo che fosse. Lo dissi a Stornella: «A volte le tue storie toccano il mio cuore e mi fanno desiderare di tornare a Castelcervo. Ma quel mondo ora mi è precluso.» La donna aggrottò le sopracciglia. «Non vedo perché.» Risi ad alta voce. «Non pensi che qualcuno sarebbe sorpreso di vedermi vivo?» Stornella inclinò la testa e mi fissò con franchezza. «Penso che pochi, anche fra i tuoi vecchi amici, ti riconoscerebbero. La maggior parte ti ricorda come un fanciullo dal volto liscio. Il naso rotto, il taglio in faccia, il bianco nei capelli basterebbero a camuffarti. Allora vestivi come il figlio di un principe; ora porti gli abiti di un contadino. Allora ti muovevi con la grazia di un guerriero. Ora, ebbene, di mattina o in un giorno freddo, ti muovi con la cautela di un vecchio.» Scosse il capo con rammarico e ag-
giunse: «Non ti sei preso cura del tuo aspetto, e gli anni non sono stati clementi con te. Potresti aggiungere cinque o anche dieci anni alla tua età, e nessuno lo metterebbe in dubbio.» Quel giudizio schietto da parte della mia amante mi punse. «Bene, buono a sapersi» risposi ironico. Presi il bollitore dal fuoco, non volendo incontrare i suoi occhi. Stornella fraintese le parole e il tono. «Esatto. Se poi aggiungi che le persone vedono ciò che si aspettano di vedere, e non si aspettano di vederti vivo... penso che potresti correre il rischio. Stai pensando di tornare a Castelcervo?» «No.» Sentii quanto la risposta fosse brusca, ma non mi venne da aggiungere nulla. Stornella non parve infastidita. «Peccato. Perdi così tanto, vivendo da solo.» Subito si lanciò in una descrizione dei balli alla Festa di Primavera. Nonostante il mio malumore, dovetti sorridere quando raccontò che una giovane ammiratrice di sedici estati aveva chiesto un ballo a Umbra. Aveva ragione. Quanto mi sarebbe piaciuto esserci. Mentre preparavo da mangiare sorpresi la mia mente a vagare verso l'antico tormento dei «se». E se fossi tornato a Castelcervo con la mia regina e Stornella? E se fossi andato a cercare Molly e la nostra bambina? Ogni variante finiva in un disastro. Se fossi tornato vivo quando tutti mi credevano giustiziato per aver fatto uso dello Spirito avrei portato solo discordia, in un momento in cui Kettricken stava tentando di riunificare il paese. Una fazione avrebbe preferito me a lei, per quanto bastardo, perché ero di sangue Lungavista mentre lei regnava solo in virtù del suo matrimonio. Una fazione più forte avrebbe preferito giustiziarmi di nuovo, e in modo più efficace. E se fossi tornato da Molly e dalla bambina, per portarla via e tenerla con me? Suppongo che avrei potuto, se avessi pensato solo a me stesso. Molly e Burrich mi credevano morto. La donna che era stata mia moglie in tutto tranne che nel nome, e l'uomo che mi aveva allevato ed era stato mio amico, avevano trovato conforto reciproco. Lui aveva offerto a Molly casa e sostentamento mentre la mia bambina cresceva dentro di lei. Aveva fatto nascere con le proprie mani la mia figlia illegittima. Insieme avevano protetto Urtica dagli uomini di Regal. Burrich aveva rivendicato donna e bambina, non solo per proteggerle ma per amarle. Avrei potuto tornare da loro e farli sentire infedeli. Avrei potuto rendere disonorevole il loro legame. Burrich mi avrebbe lasciato Molly e Urtica. Il suo rigido senso dell'o-
nore non gli avrebbe lasciato alternative. E io mi sarei chiesto per sempre se Molly mi paragonava a lui, se l'amore che avevano diviso fosse stato più forte e più onesto di... «Stai bruciando lo stufato» indicò Stornella seccata. Infatti. Riempii i piatti e la raggiunsi a tavola. Allontanai il passato, vero e immaginato. Non avevo bisogno di pensarci. Avevo Stornella a tenere impegnata la mia mente. Come di consueto, io ascoltavo e lei raccontava. Si lanciò in un lungo resoconto di un cantastorie comparso dal nulla alla Festa di Primavera, che non solo aveva osato cantare una delle canzoni di Stornella, cambiando solo un verso o due, ma aveva affermato di averla composta lui. Stornella gesticolava con il pane mentre parlava, e riuscì quasi a interessarmi alla storia. Ma i miei ricordi di altre Feste di Primavera continuavano a intromettersi. Avevo perso ogni soddisfazione nella vita semplice che mi ero creato? Il ragazzo e il lupo mi erano bastati per molti anni. Cosa mi tormentava adesso? Quel pensiero me ne ispirò un altro spiacevole. Dov'era Ticcio? Avevo fatto il tè per tutti e tre, e preparato tre porzioni di cibo. Ticcio era sempre affamato dopo un lavoro o un viaggio. Mi preoccupava che fosse così abbattuto da non venire a mangiare con noi. Mentre Stornella parlava, i miei occhi cercavano di continuo la ciotola intatta di stufato. Lei se ne accorse. «Non preoccuparti per lui» mi disse, quasi irritata. «È un ragazzo, e in quanto tale ha delle maniere brusche. Verrà quando avrà abbastanza fame.» O rovinerà dell'ottimo pesce arrostendolo sul fuoco. Il pensiero del lupo arrivò in risposta al mio Spirito che lo cercava. Erano giù al torrente. Ticcio aveva usato un bastone come lancia rudimentale, e il lupo si era semplicemente tuffato per cacciare sotto le rive sporgenti. Dove il pesce era in banchi non gli era difficile intrappolarne uno, immergere la testa e afferrarlo. L'acqua fredda gli faceva dolere le giunture, ma presto il fuoco del ragazzo lo avrebbe scaldato. Stavano bene. Non preoccuparti. Consiglio inutile, ma finsi di ascoltarlo. Finimmo di mangiare e io misi via i piatti. Mentre sparecchiavo, Stornella sedette accanto al focolare del fuoco serale, toccando le corde dell'arpa finché le note casuali si trasformarono nella vecchia canzone sulla figlia del mugnaio. Quando tutto fu in ordine la raggiunsi con due tazze di brandy di Lungosabbia. Sedetti su una sedia, ma lei si accoccolò sul pavimento, vicina al fuoco. Appoggiò la schiena alle mie gambe mentre suonava. Guardai le sue mani sulle corde, notando le deformità dove una volta le avevano spezzato le dita, come av-
vertimento per me. Alla fine della canzone mi chinai e la baciai. Stornella mi ricambiò, accantonando l'arpa e approfondendo il bacio. Poi si mise in piedi e mi prese le mani per farmi alzare. Mentre la seguivo nella stanza da letto, osservò: «Stanotte sei pensieroso.» Emisi un vago suono di assenso. Dirle che prima aveva ferito i miei sentimenti sarebbe sembrato lagnoso e infantile. Volevo che mi mentisse, dicendomi che ero ancora giovane e bello quando evidentemente non lo ero? Il tempo non mi aveva risparmiato. Tutto qui. Bisognava aspettarselo. E Stornella continuava a tornare da me. Per tanti anni era sempre tornata a casa mia e nel mio letto. Doveva significare qualcosa. «Allora, cosa volevi dirmi?» mi esortò Stornella. «Più tardi» le dissi. Il passato cercava di afferrarmi, ma allontanai le sue dita avide, deciso a immergermi nel presente. Non era poi una brutta vita. Era semplice e ordinata, senza conflitti. Non era la vita che avevo sempre sognato? Una vita in cui prendevo le mie decisioni solo per me? E non ero davvero solo. Avevo Occhi-di-notte e Ticcio, e Stornella, quando veniva da me. Le aprii il corpetto e poi la tunica per scoprirle i seni mentre lei mi slacciava la tunica. Mi abbracciò, strofinandosi contro di me con il piacere senza vergogna di una gatta che fa le fusa. La strinsi a me e chinai il viso a baciarle la sommità del capo. Anche quello era semplice, e tanto più dolce per la semplicità. Sprofondammo nel mio materasso imbottito di fresco, soffice e fragrante come l'erba di prato e le foglie aromatiche che lo riempivano. Per qualche tempo smisi di pensare, mentre tentavo di persuadere tutti e due che nonostante le apparenze ero ancora giovane. Qualche tempo dopo indugiavo ai confini del torpore. A volte penso che ci sia più riposo in quel luogo tra sonno e veglia che nel vero sonno. La mente vaga nel crepuscolo di entrambi gli stati, e scopre verità nascoste allo stesso modo dal sole e dai sogni. Cose che non siamo pronti a conoscere dimorano lì, attendendo quello stato d'animo indifeso. Mi svegliai. A occhi aperti studiai i dettagli della mia stanza buia, prima di comprendere che il sonno era fuggito. Stornella aveva allungato un braccio attraverso il mio petto. Nel sonno aveva scalciato via la coperta da tutti e due. La notte nascondeva la sua nudità noncurante, coprendola con un manto d'ombre. Giacqui immobile, sentendola respirare e odorando il suo sudore mescolato al profumo, e mi chiesi cosa mi avesse destato. Non riuscivo ad afferrarlo, ma non potevo neppure richiudere gli occhi. Scivolai da sotto il suo braccio e mi alzai. Nell'oscurità brancolai cercando la tu-
nica e le brache che avevo lasciato cadere in terra. Le braci del focolare rischiaravano di una luce esitante la stanza principale, ma non mi attardai. Aprii la porta e avanzai a piedi nudi nella mite notte di primavera. Rimasi immobile un momento, lasciando che i miei occhi si abituassero, e poi mi allontanai dalla casetta e dall'orto, diretto alla riva del ruscello. Il sentiero era fango duro e freddo sotto i piedi, compresso dai miei viaggi quotidiani per prendere acqua. Gli alberi si incontravano sopra la mia testa, e non c'era la luna, ma i miei passi e il mio naso conoscevano la strada come i miei occhi. Dovevo solo seguire il mio Spirito fino al lupo. Presto scorsi il bagliore arancio del debole fuoco di Ticcio, e colsi l'odore persistente del pesce arrosto. Dormivano accanto al fuoco, il lupo appallottolato con il naso sulla coda e Ticcio acciambellato attorno a lui, il braccio intorno al suo collo. Occhidi-notte sollevò le palpebre mentre mi avvicinavo, ma non si mosse. Ti ho detto di non preoccuparti. Non sono preoccupato. Sono solo qui. Ticcio aveva lasciato alcuni rami vicino al fuoco. Li aggiunsi alla brace. Sedetti e guardai il fuoco che li afferrava. La luce crebbe insieme al calore. Seppi che il ragazzo era sveglio. Non si cresce con un lupo senza imparare un poco della sua cautela. Lo attesi. «Non sei tu. Non solo tu, in ogni modo.» Non lo guardai, neanche quando parlò. Certe cose è meglio dirle al buio. Attesi. Il silenzio può porre tutte le domande, mentre la lingua tende a scegliere quelle sbagliate. «Devo sapere» sbottò Ticcio all'improvviso. Il mio cuore trasalì alla domanda imminente. In un angolo della mia anima, l'avevo sempre temuta. Non avrei dovuto permettergli di andare alla Festa di Primavera, pensai angosciato. Se lo avessi tenuto a casa, il mio segreto non sarebbe mai stato minacciato. Ma la domanda non era quella. «Sapevi che Stornella è sposata?» Allora sì che lo guardai, e il mio viso dovette rispondere per me. Ticcio chiuse gli occhi, comprensivo. «Mi spiace» disse piano. «Dovevo immaginarlo che non lo sapevi. Dovevo trovare un modo migliore per dirtelo.» Il semplice conforto di una donna che cercava il mio abbraccio quando le andava, perché desiderava stare con me, e le sere dolci di racconti e musica accanto al fuoco, e i suoi allegri occhi scuri che guardavano nei miei erano all'improvviso colpevoli, bugiardi e furtivi. Ero stato stupido come
non mai, no, anche più stupido, perché l'ingenuità di un ragazzo è fatuità in un uomo. Sposata. Stornella era sposata. Diceva che nessuno avrebbe voluto sposarla perché era sterile, che doveva guadagnarsi da vivere con le sue canzoni perché nessun uomo si sarebbe preso cura di lei, nessun figlio avrebbe provveduto alla sua vecchiaia. Probabilmente, quando me lo aveva detto, aveva creduto che fosse vero. La mia follia era stata pensare che la verità non sarebbe cambiata mai. Occhi-di-notte si era alzato, stiracchiandosi rigido. Si distese accanto a me e mi mise la testa sul ginocchio. Non capisco. Sei malato? No. Solo stupido. Ah. Nulla di nuovo. Bene, di questo non sei ancora morto. Ma a volte ci sono andato vicino. Trassi un respiro. «Raccontami.» Non volevo sentirlo, ma sapevo che Ticcio doveva parlare. Meglio farla finita. Ticcio si avvicinò con un sospiro e sedette dall'altro lato di Occhi-dinotte. Raccolse un ramoscello e stuzzicò il fuoco. «Non voleva che lo scoprissi, penso. Suo marito non vive a Castelcervo. È arrivato per farle una sorpresa e passare la Festa di Primavera con lei.» Mentre parlava, il ramoscello si incendiò. Lo gettò nel fuoco. Le sue dita vagarono inquiete a lisciare il pelo di Occhi-di-notte. Mi immaginai un buon vecchio coltivatore, sposato a una cantastorie negli anni quieti della sua vita, forse con figli adulti da un primo matrimonio. La amava tanto da fare un viaggio fino a Castelcervo per farle una sorpresa. La Festa di Primavera era tradizionalmente per gli innamorati, vecchi e nuovi. «Si chiama Dewin» continuò Ticcio. «Dev'essere un parente del principe Devoto. Un lontano cugino o qualcosa di simile. È un uomo alto, sempre elegantissimo. Portava un mantello due volte più ampio del necessario, con il collo di pelliccia. E argento a entrambi i polsi. È forte, anche. Al ballo della Festa di Primavera ha sollevato Stornella e l'ha fatta girare, e tutti si sono fatti indietro per ammirarli.» Ticcio mi guardava in viso mentre parlava. Penso che trovasse consolante la mia evidente costernazione. «Dovevo immaginarlo che non lo sapevi. Non metteresti le corna a un nobile come quello.» «Non metterei le corna a nessuno» riuscii a dire. «Non di proposito.» Ticcio sospirò sollevato. «È quello che mi hai insegnato.» Come è tipico dei ragazzi, la sua mente tornò subito al suo sgomento. «Sono rimasto sconvolto quando li ho visti baciarsi. Non avevo mai visto nessuno baciarsi
così, tranne te e Stornella. Ho pensato che ti tradiva, e poi, quando l'ho sentito presentare come suo marito...» Alzò la testa e mi guardò. «Mi ha fatto davvero male. Ho pensato che tu lo sapessi e non ti importasse. Ho creduto che forse per tanti anni mi avevi insegnato una cosa e fatto un'altra. Mi sono chiesto se mi ritenevi così ottuso da non scoprirlo mai, se tu e Stornella ridevate di me perché ero così stupido. Ho continuato a pensarci finché non ho cominciato a mettere in dubbio tutto quello che mi hai insegnato.» Guardò di nuovo il fuoco. «Fa così male sentirsi traditi.» Ero contento che ragionasse in quel modo. Molto meglio che considerasse quello che significava per lui, non il dolore che provavo. Lo lasciai seguire i suoi pensieri. La mia mente si muoveva in un'altra direzione, cigolando come un vecchio carretto trascinato fuori da un capanno e ingrassato per la primavera. Resistetti alle ruote che mi conducevano a una conclusione inevitabile. Stornella era sposata. Perché no? Non aveva niente da perdere e tutto da guadagnare. Una casa comoda con il suo nobiluomo, un titolo minore senza dubbio, ricchezza e sicurezza per la vecchiaia; e per lui, una moglie bella e affascinante/famosa cantastorie, per crogiolarsi nella sua gloria riflessa e godere dell'invidia di altri uomini. E quando lei si stancava, le bastava rimettersi in viaggio, come fanno i cantastorie, e passare una notte con me, e nessuno dei due ne avrebbe saputo niente. Due? Eravamo solo in due? «Pensi che lei sia andata a letto solo con te?» Tipo diretto, Ticcio. Mi chiesi quali domande avesse posto a Stornella mentre tornavano a casa. «Suppongo di non averci mai pensato» ammisi. Tante cose erano più facili da affrontare se non ci si pensava troppo. Era logico che Stornella avesse altri uomini. Era. nello stile dei cantastorie. Così avevo giustificato la nostra relazione a me stesso, e indirettamente a Ticcio. Lei non ne aveva mai parlato, io non avevo mai chiesto, e i suoi altri amanti erano esseri ipotetici, senza volto e senza corpo. Ma di certo non mariti. Stornella era votata a lui, e lui a lei. Quello faceva per me la vera differenza. «Ora che farai?» Ottima domanda. Avevo accuratamente evitato di considerarla. «Non ne sono sicuro» mentii. «Stornella ha detto che non era affar mio, che non faceva male a nessuno. Ha detto che se te lo raccontavo sarei stato io quello crudele, avrei fatto male a te, non a lei. Ha detto che era sempre stata attenta a non ferirti, che avevi avuto abbastanza dolore nella tua vita. Quando ho detto che avevi il
diritto di sapere, ha risposto che avevi ancora più diritto a non sapere.» Stornella e la sua lingua pronta. Lo aveva condannato a sentirsi colpevole, qualunque cosa facesse. Ticcio ora mi guardò, i suoi due occhi scompagnati fedeli come quelli di un cane, e attese che lo giudicassi. Parlai sinceramente. «Preferisco sapere la verità da te che lasciarmi ingannare sotto i tuoi occhi.» «Ti ho fatto del male, allora?» Scossi lentamente il capo. «Me lo sono fatto da solo, ragazzo.» Era così. Non ero mai stato un cantastorie; non avevo diritto alla vita di un cantastorie. Quelli che si guadagnano da vivere con i loro strumenti e le loro canzoni hanno cuori più duri degli altri, suppongo. «È più facile trovare un orso aggraziato che un cantastorie fedele» dice il proverbio. Mi chiesi se il marito di Stornella lo conosceva. «Pensavo che ti saresti arrabbiato. Lei mi ha avvertito che potevi infuriarti abbastanza da farle male.» «E tu ci hai creduto?» Quello mi ferì quanto la rivelazione. Ticcio trasse un respiro rapido, esitò di nuovo, poi disse in fretta: «Ti arrabbi facilmente. E io non ho mai dovuto dirti qualcosa che ti facesse male. Qualcosa che ti facesse sentire stupido.» Ragazzo perspicace. Più di quanto pensassi. «Sono arrabbiato, Ticcio. Sono arrabbiato con me stesso.» Lui guardò il fuoco. «Mi sembra di essere egoista, perché ora mi sento meglio.» «Sono contento che tu stia meglio. Sono contento che le cose siano di nuovo a posto tra noi. Ora metti tutto da parte e parlami della Festa di Primavera. Che ne pensi di Borgo Castelcervo?» Così lui parlò e io ascoltai. Aveva visto Castelcervo e la Festa di Primavera con gli occhi di un ragazzo, e mentre parlava compresi quanto la rocca e il borgo fossero cambiati dai miei tempi. Dalle sue descrizioni scoprii che il borgo era riuscito a crescere, strappando spazio per costruire alle rupi aspre che lo sovrastavano, ed espandendosi su palafitte. Ticcio descrisse taverne ed empori galleggianti. Parlò di commercianti di Borgomago e delle isole al di là, e anche delle Isole Esterne. Borgo Castelcervo aveva assunto importanza come porto commerciale. Quando Ticcio descrisse la Sala Grande di Castelcervo e la stanza dove aveva alloggiato come ospite di Stornella, seppi che anche il castello era cambiato moltissimo. Il ragazzo parlò di tappeti e fontane, ricchi arazzi su ogni parete e sedie imbottite e candelieri sfavillanti. Le descrizioni mi ricordarono più la bella dimora di
Regal a Guado dei Mercanti che la severa fortezza che un tempo avevo chiamato casa. Sospettavo l'influenza di Umbra quanto di Kettricken. Al vecchio assassino erano sempre piaciute le cose belle, e anche le comodità. Avevo già deciso di non tornare più a Castelcervo. Perché doveva essere così sconcertante scoprire che il luogo che ricordavo, la fosca fortezza di pietra nera, non esisteva neanche più? Ticcio mi parlò anche dei paesi che avevano attraversato sulla via per Castelcervo. Mi raccontò una storia che mi gelò il sangue. «Mi sono spaventato a morte una mattina allo Spiedo di Hardin» cominciò, e non riconobbi il nome del villaggio. Sapevo vagamente che molti che avevano abbandonato la costa durante gli anni delle Navi Rosse erano tornati per fondare nuovi villaggi, non sempre sulle ceneri dei vecchi. Annuii come se conoscessi il luogo. Probabilmente, l'ultima volta che ci ero passato, non era stato più di uno slargo nella strada. Ticcio parlò con occhi sbarrati, e seppi che per il momento aveva dimenticato la doppiezza di Stornella. «Eravamo in viaggio per la Festa di Primavera. Avevamo passato la notte alla locanda: Stornella aveva cantato per pagarsi la cena e una stanza, e tutti erano così gentili e premurosi con noi che pensavo che lo Spiedo di Hardin fosse un gran bel posto. Nella stanza comune, mentre Stornella non stava cantando, sentii parole di rabbia contro una Spirituale che era stata catturata per aver gettato una magia sulle vacche in modo che non dessero più latte, ma non ci badai. Sembravano solo uomini che parlavano troppo forte dopo troppa birra. Il locandiere ci diede una stanza al piano di sopra. Mi svegliai presto, troppo presto per Stornella, ma non riuscivo più a dormire. Quindi sedetti alla finestra e guardai la gente che andava e veniva per le strade. Cominciarono a radunarsi in piazza. Pensai che forse era un mercato o una sagra di primavera. Ma poi trascinarono fuori una donna, tutta livida e sanguinante. La legarono a un palo, e pensai che l'avrebbero fustigata. Poi notai che alcuni avevano portato cesti pieni di pietre. Svegliai Stornella e le chiesi cosa stava succedendo, ma lei mi disse di stare zitto, perché non potevamo farci niente. Mi disse di venir via dalla finestra, ma non lo feci. Non potevo. Non riuscivo a credere che potesse accadere; continuavo a pensare che sarebbe venuto qualcuno e li avrebbe fermati. Tom, era legata lì, indifesa. Un uomo si fece avanti e lesse qualcosa da un rotolo. Poi indietreggiò, e loro la lapidarono.» Tacque. Sapeva che i villaggi infliggevano punizioni aspre per ladri di cavalli e assassini. Aveva sentito di fustigazioni e impiccagioni. Ma non aveva mai dovuto vederne una. Deglutì nel silenzio. Il gelo mi percorse.
Occhi-di-notte uggiolò, e tesi una mano verso di lui. Potevi essere tu. Lo so. Ticcio trasse un profondo respiro. «Pensavo di dover andare laggiù, che qualcuno doveva fare qualcosa, ma avevo troppa paura. Mi vergognavo, ma non potevo muovermi. Sono rimasto lì a guardare, mentre le pietre la colpivano. E lei continuava a tentare di nascondere la testa con le braccia. Mi veniva da vomitare. Poi udii un suono che non avevo mai sentito prima, come un fiume che scorre nell'aria. Il cielo della mattina si oscurò, come nubi di temporale in arrivo, ma non c'era vento. Erano corvi, Tom, un'invasione di uccelli neri. Non ne avevo mai visto così tanti. Gracchiavano e strillavano, proprio come quando trovano un'aquila o un falco e cercano di scacciarlo. Ma non stavano inseguendo un'aquila. Si levarono dalle colline dietro la città e riempirono il cielo, come una coperta nera stesa che si agita al vento. Poi piombarono all'improvviso sulla folla, planando e gracchiando. Ne vidi uno atterrare nei capelli di una donna e beccarle gli occhi. La gente correva dappertutto, urlando e cercando di colpirli con le mani. Spaventarono una coppia di cavalli che balzarono via come impazziti, trascinando il carro attraverso la folla. Tutti gridavano. Anche Stornella si alzò per venire alla finestra. Presto le strade furono vuote, a parte gli uccelli. Erano appollaiati dovunque, su tetti e davanzali, e gli alberi ne erano così gremiti che i rami si piegavano per il peso. La donna legata, quella dello Spirito, era scomparsa. Rimanevano solo le corde insanguinate, legate al palo. Poi, tutti insieme, gli uccelli si sollevarono e spiccarono il volo. E poi più nulla.» La voce si abbassò in un sussurro. «Il locandiere ha detto che secondo lui si era trasformata in uccello ed era volata via con gli altri.» Più tardi, mi dissi. Più tardi gli avrei detto che non era vero, che forse aveva chiamato gli uccelli per aiutarla a scappare ma che neppure gli adepti dello Spirito potevano cambiare forma. Più tardi gli avrei detto che non era un codardo per non essere andato laggiù, che lo avrebbero solo lapidato insieme a lei. Più tardi. La storia che raccontava era come veleno che scorre da una ferita. Meglio lasciarlo fluire senza ostacolo. Ripresi a seguire le sue parole. «...E si fanno chiamare Antico Sangue. Il locandiere ha detto che cominciano a credersi chissà chi. Vorrebbero il potere, dice, come quando regnava il Principe Pezzato. Ma se prendono il potere si vendicheranno di noi tutti. Quelli che non hanno la magia dello Spirito saranno loro schiavi. E se qualcuno proverà a sfidarli, sarà dato in pa-
sto alle loro bestie.» La sua voce si spense in un bisbiglio. Si schiarì la gola. «Stornella mi ha detto che era stupido, che gli adepti dello Spirito non sono così. Ha detto che vogliono solo essere lasciati in pace.» Fui sorpreso dall'immensa gratitudine che provai verso Stornella. «Certo. È una cantastorie. Loro incontrano gente di tutti i tipi, e apprendono cose strane. Quindi puoi crederle.» Mi aveva dato troppo da pensare. A malapena riuscii a concentrarmi sul resto dei suoi racconti. Era affascinato dalla insensata diceria che Borgomago allevava draghi e che presto le città avrebbero potuto comprare un drago di Borgomago per fare la guardia. Lo rassicurai: avevo visto i veri draghi e non bisognava credere a certe storie. Erano più realistiche le voci che la guerra di Borgomago con Chalced poteva diffondersi ai Sei Ducati. «Una guerra potrebbe arrivare qui?» volle sapere. Giovane com'era, aveva solo vaghi ma spaventosi ricordi della nostra lotta contro le Navi Rosse. E tuttavia era un ragazzo, e la guerra sembrava un evento interessante come la Festa di Primavera. «Prima o poi c'è sempre guerra con Chalced» risposi, citando un vecchio proverbio. «Anche quando non è guerra aperta, sono scaramucce di confine e una buona dose di pirateria e saccheggi. Non lasciarti angustiare. I ducati di Costabassa e Acquemosse sono sempre in prima linea, e ne sono ben contenti. Il duca di Costabassa sarebbe felice di annettere al suo regno un altro pezzo delle terre del duca di Chalced.» La conversazione si spostò su notizie più sicure e più prosaiche della sua Festa di Primavera. Mi raccontò di giocolieri che lanciavano bastoni fiammeggianti e lame nude da una mano all'altra, ripeté le battute migliori di uno spettacolo licenzioso di burattini, e mi disse che una bella fattucchiera di nome Jinna gli aveva venduto un amuleto contro i borsaioli e aveva promesso un giorno o l'altro di venirci a trovare. Risi ad alta voce quando mi disse che in meno di un'ora l'amuleto gli era stato sottratto da un borsaiolo. Aveva mangiato pesce in carpione e gli era piaciuto moltissimo, finché una sera non aveva bevuto troppo vino, vomitando tutto. Giurò che non sarebbe mai più riuscito a mangiarlo. Lo lasciai parlare, contento che finalmente si divertisse a dividere con me le sue avventure a Castelcervo. Eppure con ogni storia era sempre più chiaro che la mia vita semplice non era più adatta a Ticcio. Era ora di mandarlo a bottega e lasciare che se la cavasse da solo. Per un istante mi sentii sull'orlo di un abisso. Dovevo affidare Ticcio a un padrone che gli insegnasse un vero mestiere, e dovevo allontanare Stor-
nella dalla mia vita. Sapevo che se l'avessi cacciata via dal mio letto non si sarebbe abbassata a tornare come amica. Il semplice conforto della loro compagnia degli ultimi anni sarebbe svanito. La voce di Ticcio continuava vivace, le parole cadevano attorno a me come pioggia lieve. Il ragazzo mi sarebbe mancato. Sentii il caldo peso della testa del lupo sul ginocchio. Fissava il fuoco. Una volta sognavi un tempo in cui saremmo stati solo tu e io. Un legame nello Spirito lascia poco spazio per le garbate bugie. Non mi aspettavo di desiderare tanto la compagnia della mia razza, ammisi. Un breve sguardo guizzante dai suoi occhi profondi. La nostra razza siamo noi. È sempre stato il problema dei legami che abbiamo cercato di formare con altri. Erano lupi o erano umani. Ma non erano mai la nostra razza. Neppure quelli che si fanno chiamare Antico Sangue sono legati profondamente come noi. Sapevo che diceva la verità. Misi la mano sul largo testone e giocherellai con l'orecchio serico. Cercai di non pensare. Occhi-di-notte non lasciò cadere l'argomento. Il momento di cambiare si avvicina di nuovo, Cambiamento. Lo avverto appena oltre l'orizzonte, ne sento quasi l'odore. È come un predatore più grande entrato nel nostro territorio di caccia. Tu non lo senti? Non avverto niente. Il lupo percepì la bugia. Emise un profondo sospiro. 3 Congedi Lo Spirito è una magia sporca, che affligge soprattutto i bambini di una famiglia poco pulita. Anche se spesso viene attribuita all'unione con le bestie, ci sono altre fonti per questa sordida magia. Un genitore saggio non permetterà al suo bambino di giocare con cuccioli o gattini non ancora svezzati, né di dormire dove dorme un animale. La mente di un bambino addormentato è molto vulnerabile all'invasione dei sogni di una bestia, e quindi a prendere la lingua di un animale come linguaggio del cuore. Spesso questa sozza magia affligge generazioni di una famiglia a causa delle abitudini poco igieniche, ma non è ignoto che un bambino dotato dello Spirito appaia all'improvviso nelle famiglie di sangue migliore. Quando accade, i genitori devono indurire il cuore e fare ciò che va fatto, nell'interesse di tutti i bambini della famiglia. Dovrebbero anche cercare
fra i servitori quelli la cui malevolenza o incuria è fonte del contagio, e il colpevole andrebbe trattato di conseguenza. Sarcogin, Malattie e Afflizioni Poco prima che i primi uccelli dell'alba cominciassero a cantare, Ticcio scivolò di nuovo nel sonno. Sedetti per breve tempo accanto al fuoco, guardandolo. Il suo volto era di nuovo liscio, privo d'ansia. Ticcio era un ragazzo calmo e semplice a cui non erano mai piaciuti i contrasti. Non era tipo da segreti. Ero contento che l'avermi parlato di Stornella lo avesse riconciliato con sé stesso. Il mio percorso verso la pace sarebbe stato più accidentato. Lo lasciai addormentato nella prima luce del sole, vicino al fuoco morente. «Abbi cura di lui» dissi a Occhi-di-notte. Avvertivo l'indolenzimento nelle anche del lupo, un'eco del dolore divorante nella mia schiena sfregiata. Le notti all'aperto non erano più miti per noi due. Eppure sarei rimasto volentieri disteso sulla terra umida e fredda piuttosto che tornare e incontrare Stornella. Mi dissi che le cose sgradevoli andavano affrontate subito. Camminando come un vecchio decrepito, mi diressi verso la casetta. Mi fermai al pollaio per prendere le uova. Le mie galline razzolavano già. Il gallo volò sulla cima del tetto appena riparato, agitò due volte le ali e lanciò un vigoroso chicchirichì. Mattina. Già. Una mattina temuta. Nella casetta riattizzai il fuoco e misi a bollire le uova. Presi l'ultima pagnotta, il formaggio portato da Umbra e foglie di tè. Stornella non si alzava mai di buon'ora. Avevo tutto il tempo di pensare a cosa dire, e a cosa non dire. Mentre riordinavo la stanza, raccogliendo soprattutto gli sparsi averi di Stornella, la mia mente vagò attraverso gli anni che avevamo diviso. Più di dieci anni di conoscenza. O almeno credevo di conoscerla. No. Bugiardo. La conoscevo bene. Raccolsi il suo mantello abbandonato sulla sedia. La buona lana era intrisa del suo profumo. Qualità eccellente. Suo marito le offriva il meglio. La parte peggiore era che le azioni di Stornella non mi sorprendevano. Mi vergognavo solo di me stesso, perché non lo avevo previsto. Per sei anni, dopo la Purificazione del Cervo, avevo viaggiato da solo per il mondo, evitando chiunque mi avesse conosciuto a Castelcervo. La mia vita come Lungavista, come bastardo del principe Chevalier, come apprendista assassino di Umbra, era per me morta. Divenni Tom lo Striato,
e mi tuffai in quella nuova vita. Come avevo sognato a lungo, viaggiai, e le mie decisioni erano divise solo con il mio lupo. Trovai una sorta di pace dentro di me. Coloro che avevo amato a Castelcervo mi mancavano, a volte tremendamente. Ma nella loro assenza scoprii anche la libertà dal mio passato. Un uomo affamato può desiderare carne calda e sugo senza disdegnare i semplici piaceri di pane e formaggio. Mi costruii una vita, e se mancava molto di ciò che era stato dolce in quella precedente, mi offriva anche i semplici piaceri che mi erano stati negato a lungo. Ero soddisfatto. Poi, una mattina nebbiosa, circa un anno dopo essermi stabilito nella casetta vicino alle rovine di Forgia, il lupo e io tornammo da una caccia trovammo il cambiamento in agguato. Un cervo di un anno mi pesava sulle spalle, facendo pulsare di dolore l'antica cicatrice di freccia. Stavo tentando di decidere se il conforto di un lungo bagno caldo valesse il fastidio di portare in casa i secchi e l'attesa per scaldare l'acqua, quando udii il suono inconfondibile di uno zoccolo ferrato sulla pietra. Deposi la nostra preda per terra, e poi Occhi-di-notte e io percorremmo come fantasmi un largo cerchio intorno alla capanna. Non c'era niente da vedere tranne una cavalla, ancora sellata, legata a un albero vicino alla mia porta. Il cavaliere era probabilmente all'interno della nostra casa. La cavalla mosse leggermente le orecchie mentre ci avvicinavamo a lei strisciando, consapevole di me, ma non ancora certa del pericolo. Sta' indietro, fratello. Se la cavalla sente odore di lupo, nitrirà. Se io mi muovo in punta di piedi, potrei riuscire ad avvicinarmi abbastanza da guardare dentro prima che dia l'allarme. Silenzioso come la nebbia che ci avvolgeva entrambi, Occhi-di-notte si ritirò in un turbine di grigio. Io girai sul retro della nostra casetta e poi mi avvicinai fino ad addossarmi a un muro. Potevo udire l'intruso in casa. Un ladro? Rumorio di stoviglie, e acqua versata. Un tonfo, qualcuno aveva lanciato un ciocco sul fuoco. Aggrottai le sopracciglia, confuso. Chiunque fosse, sembrava che si stesse mettendo comodo. Un istante più tardi sentii una voce levarsi nel ritornello di una vecchia canzone, e il mio cuore fece una giravolta. Nonostante gli anni trascorsi, riconobbi la voce di Stornella. La femmina ululante, confermò per me Occhi-di-notte. Aveva sentito l'odore. Come sempre la definizione del lupo mi strappò una smorfia ironica. Lasciami andare per primo. Anche sapendo chi era, mi avvicinai alla porta con cautela. Non era un caso. Stornella mi aveva trovato. Perché? Cosa voleva da me?
Aprii la porta. «Stornella.» La donna si voltò a guardarmi, brandendo la teiera. I suoi occhi mi percorsero in fretta, poi incontrarono i miei e: «Fitz!» esclamò felice, e mi corse incontro. Mi abbracciò, e dopo un momento anch'io la circondai con le braccia. Mi strinse forte. Come la maggior parte delle donne di Cervo era piccola e scura, ma sentii la forza nervosa nel suo abbraccio. «Ciao» dissi incerto, guardandole la sommità del capo. La donna alzò il viso verso di me. «Ciao?» disse incredula. Rise ad alta voce alla mia espressione. «Ciao?» Si scostò da me per deporre la teiera sulla tavola. Poi mi afferrò il viso tra le mani e mi attirò a sé in un bacio. Ero appena entrato dall'umidità e dal freddo. Il contrasto con la calda bocca sulla mia era sbalorditivo, meraviglioso come avere una donna fra le braccia. Mi tenne stretto ed era come se la vita stessa mi abbracciasse di nuovo. Il suo profumo mi inebriava. Il calore mi percorse e il mio cuore cominciò a correre. Staccai la bocca dalla sua. «Stornella» cominciai. «No» disse ferma la donna. Gettò uno sguardo oltre la mia spalla, poi mi prese le mani e mi trascinò verso la stanzetta dove dormivo. La seguii vacillando, ubriaco di sorpresa. Si fermò accanto al mio letto e si sbottonò la tunica. Quando la fissai sbalordito, rise e si alzò in punta di piedi per slacciare la mia. «Non parlare ancora» mi avvertì. Mi prese la mano fredda e se la mise su un seno. In quel momento Occhi-di-notte spinse la porta con la spalla ed entrò nella casetta. Il freddo strisciava a sbuffi come nebbia nella stanza calda. Per un istante il lupo ci guardò. Poi scrollò l'umidità dalla pelliccia. Stornella era raggelata. «Il lupo. Avevo quasi dimenticato... ce l'hai ancora?» «Siamo ancora insieme, evidentemente.» Feci per togliere la mano dal suo seno, ma lei la prese e la tenne dov'era. «Non mi dà fastidio. Immagino.» Parve a disagio. «Ma deve proprio... restare qui?» Occhi-di-notte si scrollò di nuovo. Fissò Stornella e distolse lo sguardo. Il freddo nella stanza non veniva solo dalla porta aperta. La carne sarà fredda e dura se ti aspetto. Allora non aspettarmi, suggerii piccato. Il lupo scomparve di nuovo nella nebbia. Lo sentii chiudere la mente. Gelosia, o cortesia? Attraversai la stanza e chiusi la porta. Rimasi immobile, turbato dalla reazione di Occhi-di-notte. Le braccia di Stornella mi circondarono da dietro e quando mi voltai per aprirmi al suo abbraccio era nuda, in attesa.
Non avevo preso nessuna decisione. Quell'unione era accaduta tra noi quasi come la notte cala sulla terra. Ripensandoci, mi chiesi se Stornella lo avesse pianificato. Probabilmente no. Si era presa quella parte della mia vita con noncuranza, come una bacca colta lungo la strada. Era lì, era dolce, perché no? Eravamo diventati amanti senza una dichiarazione d'amore, come se la nostra unione fosse inevitabile. L'amavo, anche adesso, dopo tanti anni in cui era andata e venuta dalla mia vita? Pensarci era strano, come maneggiare gli oggetti che Umbra aveva portato dalla mia vecchia esistenza. Una volta quei pensieri mi erano sembrati così importanti. Questioni di amore e onore e dovere... Amavo Molly, Molly mi amava? L'amavo più di quanto amassi il mio re, era più importante per me del dovere? Da ragazzo mi ero tormentato con quelle domande, ma con Stornella non me le ero neanche poste, fino a quel momento. Eppure, come al solito, le risposte erano elusive. L'amavo, non come una persona scelta con attenzione per dividere la mia vita, ma come una parte familiare della mia esistenza. Perderla sarebbe stato come perdere il mio focolare. Ero giunto a contare sul suo saltuario calore. Lo sapevo: dovevo dirle che non potevo continuare come prima. Quel terrore mi ricordò la volta che mi avevano estratto la freccia dalla schiena, il tempo che si trascinava, l'anima rattrappita nell'attesa. Provai la stessa rigida apprensione per un grande dolore imminente. Sentii il frusciare delle mie coperte quando Stornella si svegliò. I suoi passi erano leggeri sul pavimento dietro di me. Non mi girai verso di lei mentre versavo l'acqua sul tè. All'improvviso non potevo guardarla. Eppure non mi si avvicinò, non mi toccò. Dopo una pausa, parlò. «E così Ticcio te lo ha detto.» «Sì» risposi con calma. «E sei deciso a lasciare che questo rovini tutto tra noi.» Non sembrava esserci risposta. La rabbia proruppe nella sua voce. «Hai cambiato nome, ma dopo tanti anni non hai cambiato modo di fare. Tom lo Striato è un bigotto intransigente come FitzChevalier Lungavista.» «Non farlo» la avvertii, non per il tono ma per il nome. Ci eravamo sempre sforzati perché Ticcio mi conoscesse solo come Tom. Stornella aveva pronunciato quel nome ad alta voce non per caso, ma per avvertirmi che conosceva il mio segreto.
«No» mi assicurò, ma era un coltello rinfoderato. «Ti ricordo solo che vivi due vite, e le vivi molto bene. Perché vorresti impedirlo a me?» «Ti sbagli. Questa adesso è l'unica vita che ho. E cerco solo di trattare tuo marito come vorrei che un altro uomo trattasse me. O mi dirai che sa di me, e non gli importa?» «Al contrario. Non lo sa, e quindi non gli importa. E se ci pensi bene, vedrai che è proprio la stessa cosa.» «Non per me.» «Ebbene, per qualche tempo è stato lo stesso per te. Finché Ticcio non ha deciso di rovinare tutto. Hai inflitto i tuoi rigidi principi a un altro giovane. Spero che tu sia orgoglioso di sapere che hai allevato un altro pedante moralista pronto a giudicare.» Le parole mi colpirono mentre Stornella cominciava a frugare di malagrazia per la stanza, sbattendo insieme le sue cose. Finalmente mi girai a guardarla. Era rossa in viso, i capelli aggrovigliati dal sonno. Indossava solo la mia tunica. L'orlo le sfiorava le cosce. Si fermò e mi fissò. Si impettì, come per mostrarmi tutto ciò che stavo rifiutando. «Che c'è di male?» «Tuo marito ne soffrirà, se lo viene a sapere» dissi quietamente. «Ticcio mi ha lasciato capire che è una specie di nobile. Il pettegolezzo può ferire quel genere di uomo più di un coltello. Considera la sua dignità, l'onorabilità della sua casa. Non fare di lui un vecchio sciocco infatuato di una donna più giovane.» «Un vecchio sciocco?» Stornella parve perplessa. «Io non... Ticcio ti ha detto che era vecchio?» Ero spiazzato. «Ha detto che era un uomo importante...» «Importante sì, ma non certo vecchio. Al contrario.» Un sorriso strano, tra orgoglio e imbarazzo. «Ha ventiquattro anni, Fitz. Un ballerino eccellente, e forte come un giovane toro. Cosa pensavi, che mi fossi venduta per scaldare il letto di qualche anziano nobile?» Infatti. «Pensavo...» All'improvviso Stornella era quasi provocatoria, come se l'avessi svilita. «È bello e affascinante, e avrebbe potuto avere qualsiasi donna. Ha scelto me. E a modo mio, lo amo davvero. Mi fa sentire giovane e desiderabile e capace di vera passione.» «Io come ti facevo sentire?» chiesi con riluttanza, a voce bassa. Sapevo che stavo invitando altro dolore, ma non potevo fermarmi. Questo la confuse per un momento. «Tranquilla» disse finalmente, senza curarsi dei miei sentimenti. «Accettata e considerata.» Sorrise all'improv-
viso, e la sua espressione mi ferì. «Generosa, perché ti davo ciò che nessuna ti avrebbe dato. E di più. Mondana e avventurosa. Come un brillante uccello canoro venuto a visitare uno scricciolo.» «Eri proprio questo per me» ammisi. Guardai la finestra. «Ora non più, Stornella. Mai più. Forse pensi che la mia vita sia poca cosa, ma è la mia vita. Non ruberò le briciole dalla tavola di un altro uomo. Ho abbastanza orgoglio.» «Non puoi permetterti quel genere di orgoglio» disse brusca Stornella. Si spinse via i capelli dal viso. «Guardati attorno, Fitz. Una dozzina d'anni da solo, e cosa ti rimane? Una casetta nella foresta, e un pugno di polli. Cosa può darti luce, calore o dolcezza? Solo io. Sono l'unica persona vera nella tua vita, anche se è solo per un giorno o due ogni tanto.» La sua voce si fece più dura. «Briciole dalla tavola di un altro uomo? Meglio che morire di fame. Hai bisogno di me.» «Ticcio. Occhi-di-notte» indicai freddo. Stornella li liquidò. «Un orfanello che ti ho portato io e un lupo decrepito.» Il suo disprezzo non solo mi indignò; mi costrinse ad affrontare il nostro modo diverso di percepire le cose. Se avessimo vissuto insieme, giorno dopo giorno, tali divergenze si sarebbero manifestate tempo prima. Ma negli interludi che avevamo diviso non c'erano state discussioni filosofiche o considerazioni pratiche. Ci incontravamo a suo piacere, per dividere il mio letto e la mia tavola. Stornella dormiva e mangiava e cantava e mi guardava lavorare in una vita che non era sua. I nostri piccoli contrasti venivano dimenticati tra una visita e la successiva. Mi aveva portato Ticcio come un gattino smarrito, e da allora non aveva dato alcun pensiero al rapporto che io e lui potevamo sviluppare. Quella disputa non solo stava ponendo fine a ciò che avevamo diviso; stava rivelando che avevamo diviso ben poco. Mi stava distruggendo due volte. Mi tornarono parole amare da una vita passata. Il Matto mi aveva avvertito: «Non prova vero affetto per Fitz, sai, vuole solo poter dire che ha conosciuto FitzChevalier.» Forse, nonostante tutti gli anni che avevamo condiviso, era ancora vero. Trattenni la lingua per paura di tutto quello che potevo dire; penso che Stornella scambiò il mio silenzio per incertezza. Trasse all'improvviso un respiro profondo. Mi sorrise stancamente. «Oh, Fitz. Abbiamo bisogno l'una dell'altro in modi che non ci piace ammettere.» Emise un lieve sospiro. «Prepara la colazione. Vado a vestirmi. Le cose sembrano sempre peggiori al mattino con lo stomaco vuoto.» Lasciò la stanza.
Una pazienza fatalista si impadronì di me. Preparai la colazione mentre si vestiva. Seppi che ero giunto alla mia decisione. Era come se le parole di Ticcio la notte prima avessero estinto una candela in me. I miei sentimenti per Stornella erano cambiati radicalmente. Sedemmo insieme a tavola, e Stornella tentava di far sembrare tutto come prima; ma io continuavo a pensare, Ecco, è l'ultima volta che la osservo far girare il tè nella tazza per raffreddarlo, o agitare il pane mentre parla. La lasciai chiacchierare, e lei si limitò ad argomenti vuoti, tentando di interessarmi ai suoi progetti futuri, e a cosa aveva indossato dama Concordia in una certa occasione. Più parlava, più mi sembrava lontana. Mentre la guardavo avevo una stranissima sensazione, come qualcosa di dimenticato, qualcosa di perduto. Prese un altro pezzo di formaggio, alternando bocconi con il pane. Un'intuizione improvvisa mi percorse come una goccia d'acqua fredda lungo la schiena. La interruppi. «Sapevi che Umbra sarebbe venuto a trovarmi.» Una frazione di secondo troppo tardi, Stornella alzò le sopracciglia in segno di sorpresa. «Umbra? Qui?» Erano abitudini mentali che credevo di aver abbandonato. Modi di pensare imparati meticolosamente da un abile mentore nelle ore tra il crepuscolo e l'alba negli anni della mia gioventù. L'addestramento a passare al setaccio i fatti e metterli insieme, per balzare a conclusioni che non erano congetture. Cominciando da una semplice osservazione. Stornella non aveva fatto commenti sul formaggio. Qualsiasi tipo di formaggio era un lusso per il ragazzo e me, figuriamoci un buon formaggio maturo come quello. Avrebbe dovuto essere sorpresa vedendolo sulla mia tavola, e invece no. La sera prima non aveva detto niente del brandy di Lungosabbia. Perché né formaggio né brandy l'avevano sorpresa. Ero sbalordito e compiaciuto, e anche sgomento, per la rapidità con cui la mia mente fece i collegamenti, finché non mi trovai all'improvviso a contemplare il panorama inevitabile formato dai fatti. «Non ti eri mai offerta di portare Ticcio da qualche parte. Hai condotto il ragazzo a Castelcervo affinché Umbra potesse vedermi da solo.» Una possibile conclusione mi raggelò. «Nel caso che dovesse uccidermi. Non ci sarebbero stati testimoni.» «Fitz!» mi rimproverò Stornella, arrabbiata e sconvolta. Quasi non la sentii. Una volta che i ciottoli del pensiero avevano cominciato a rotolare, seguì una valanga di conclusioni. «Tutti questi anni. Tutte le tue visite. Mi sorvegliavi per lui, vero? Dimmelo. Controlli anche Burrich e Urtica diverse volte l'anno?»
Stornella mi guardò fredda, senza negare. «Dovevo cercarli. Per dare a Burrich i cavalli. Lo hai voluto tu.» Sì. La mia mente continuò a correre. I cavalli erano una presentazione perfetta. Burrich avrebbe rifiutato qualsiasi altro regalo. Ma Rosso era suo di diritto, un dono di Veritas. Tanti anni prima, Stornella gli aveva detto che la regina aveva mandato anche il puledro di Fuliggine, come ricompensa dei servizi svolti per i Lungavista. La guardai, aspettando il resto. Era una cantastorie. Le piaceva parlare. Io dovevo solo fornire il silenzio. Stornella mise giù il pane. «Quando sono da quelle parti li vado a trovare, sì. E quando torno a Castelcervo, se Umbra sa che sono stata là, chiede di loro. Proprio come chiede di te.» «E il Matto? Sai dove si trova anche lui?» «No.» Una risposta succinta, e le credetti. Ma era una cantastorie, e per lei il potere di un segreto stava nel raccontarlo. Dovette aggiungere: «Ma penso che Burrich lo sappia. Un paio di volte, quando sono stata a trovarli, ho visto giocattoli più belli di qualsiasi cosa Burrich potrebbe permettersi per Urtica. Una era una bambola che mi ha ricordato moltissimo le marionette del Matto. Un'altra volta era una fila di perline di legno, ciascuna intagliata come un minuscolo volto.» Quello era interessante, ma non lo diedi a vedere. Le posi in modo diretto la domanda che più mi stava a cuore. «Perché Umbra mi considererebbe una minaccia per i Lungavista? È l'unica ragione che lo spingerebbe a uccidermi.» Qualcosa di simile alla pietà percorse il viso di Stornella. «Lo credi davvero, dunque? Che Umbra potrebbe ucciderti. Che io lo aiuterei portando via il ragazzo.» «Conosco Umbra.» «E lui conosce te.» Le parole erano quasi un'accusa. «Una volta mi disse che eri incapace di fidarti completamente di qualcuno. Che il desiderio e la paura di fidarti avrebbero diviso per sempre la tua anima. No. Penso che il vecchio volesse incontrarti da solo per parlarti liberamente. Per averti tutto per sé, e vedere come stavi, dopo tanti anni di silenzio.» Sapeva usare parole e voce da vera cantastorie. A sentire lei, la mia lontananza da Castelcervo era stata un atto sgarbato e crudele verso i miei amici, quando in verità si era trattato solo di sopravvivenza. «Di cosa hai parlato con Umbra?» chiese, con fare troppo disinvolto. Incontrai con fermezza il suo sguardo. «Penso che tu lo sappia» risposi, chiedendomi se lo sapeva davvero.
L'espressione di Stornella cambiò. Vidi la sua mente all'opera. Dunque Umbra non le aveva confidato la verità sulla sua missione. Comunque, era sveglia e rapida e possedeva molti pezzi del rompicapo. Attesi che li rimettesse insieme. «L'Antico Sangue» disse quietamente Stornella. «Le minacce dei Pezzati.» Molte volte nella mia vita sono stato costretto a nascondere lo sgomento. Penso che quella fu la più difficile. Stornella osservò con attenzione il mio viso. «Sono problemi che bollono in pentola da qualche tempo, e sembra che adesso siano giunti al punto di esplodere. Alla Festa di Primavera, nella Notte dei Cantastorie, dove tutti si esibiscono per la regina, un menestrello ha cantato la vecchia canzone del Principe Pezzato. La ricordi?» La ricordavo bene. Narrava di una principessa portata via da uno Spirituale in forma di stallone pezzato. Una volta soli, aveva assunto sembianze umane e l'aveva sedotta. La principessa aveva partorito un figlio bastardo, chiazzato chiaro e scuro come suo padre. Tramite slealtà e rappresaglie, il bastardo era salito al trono e aveva regnato crudelmente con l'aiuto dei suoi accoliti dello Spirito. Il regno intero aveva sofferto, finché, così dice la canzone, suo cugino, di puro sangue Lungavista, aveva chiamato sei figli di nobili alla sua causa. Al solstizio d'estate, quando il sole era a mezzogiorno e i poteri del Principe Pezzato erano più deboli, si erano gettati su di lui e lo avevano ucciso. Lo avevano impiccato, poi avevano tagliato il corpo a pezzi per poi bruciarli sull'acqua, per lavar via il suo spirito affinché non trovasse una casa nel corpo di qualche bestia. Il metodo descritto dalla canzone era divenuto il modo tradizionale di liberarsi definitivamente degli adepti dello Spirito. Regal era rimasto molto deluso per non essere riuscito ad applicarlo a me. «Non è la mia canzone preferita» dissi mesto. «Ti capisco. Comunque Slek la cantò bene, ottenendo molti applausi, più di quanto la sua voce davvero meriti. Ha quel gorgheggio alla fine delle note che alcuni trovano simpatico, ma in verità è segno di scarso controllo...» Comprese all'improvviso che stava divagando. «In questi giorni c'è molto rancore contro gli adepti dello Spirito. Gli Spirituali sono irrequieti, e circolano storie bizzarre. Ho sentito che in un villaggio uno dello Spirito è stato impiccato e bruciato, e tutte le pecore sono morte quattro giorni dopo. Stecchite nei campi. La gente dice che è stata una vendetta della famiglia. Ma quando sono andati a vendicarsi contro di loro, hanno scoperto che erano partiti da tempo. C'era un rotolo inchiodato alla porta di
casa. Diceva solo: 'Ve lo siete meritati.' E ci sono stati altri incidenti.» Incontrai i suoi occhi. «Ticcio me lo ha detto» ammisi. Stornella annuì secca. Si alzò da tavola e si allontanò di qualche passo. Cantastorie fino all'osso, aveva una storia da raccontare, ed esigeva un palcoscenico. «Bene. Dopo che Slek cantò Il Principe Pezzato, un altro cantastorie si fece avanti. Era molto giovane, e forse per quello fu così sciocco. Si tolse il berretto davanti alla regina Kettricken, e disse che avrebbe fatto seguire a Il Principe Pezzato un'altra canzone, di più recente origine. Quando disse che l'aveva udita per la prima volta in un piccolo villaggio di gente dello Spirito, un mormorio attraversò la folla. Tutti hanno sentito parlare di simili luoghi, ma non ho mai sentito nessuno affermare di esserci stato. Quando il mormorio si spense, il giovane si lanciò in una canzone che non avevo udito mai prima. Il motivo era tradizionale, ma le parole mi giungevano nuove, rozze come la sua voce.» Alzò la testa e mi guardò meditabonda. «Era la storia del Bastardo di Chevalier. Raccontava tutto ciò che aveva fatto prima che la macchia dello Spirito fosse rivelata. Ha perfino rubato una frase o due dalla mia canzone Isola Ramosa, ci credi? Che sfrontato! La storia diceva che il 'Figlio di Lungavista, benedetto dall'Antico Sangue, e dal suo sangue reale, selvaggio, sublime' non era morto nella segreta del Pretendente. Secondo la canzone, era sopravvissuto, ed era rimasto fedele alla famiglia di suo padre. Il cantastorie cantò che quando re Veritas era andato a cercare gli Antichi, il Bastardo era sorto dalla tomba per correre in aiuto del legittimo re. In una scena commovente, il Bastardo richiamava Veritas attraverso i cancelli della morte, per mostrargli un giardino di draghi di pietra che potevano essere ridestati alla causa dei Sei Ducati. Quello, almeno, suonava vero. Mi fece riflettere, anche se a quel punto la sua voce era quasi rauca.» Fece una pausa, ma io ero senza parole. Scrollò le spalle, poi osservò caustica: «Se volevi una canzone su quei giorni, potevi chiedere a me. Io c'ero, sai. Anzi, è il motivo per cui ero là. E sono una cantastorie molto migliore di quel ragazzo.» C'era un fremito di indignata gelosia nella sua voce. «Non ho niente a che fare con quella canzone, e lo sai. Vorrei che nessuno l'avesse mai sentita.» «Ebbene, non devi preoccuparti.» Lo disse con profonda soddisfazione. «Non avrà successo. Non era ben fatta, il motivo non si adattava al tema, le parole erano rozze, il...» «Stornella.» «Oh, d'accordo. Il cantastorie diede alla canzone il classico finale eroico.
Che se i Lungavista ne avranno bisogno, il fedele Bastardo dello Spirito tornerà per aiutare il regno. Alla fine della canzone, qualcuno nella folla lo ha insultato e qualcuno ha detto che probabilmente lui stesso possedeva lo Spirito e andava bruciato. La regina Kettricken li ha fatti tacere, ma a fine serata non gli ha dato una borsa di monete come agli altri cantastorie.» Rimasi in silenzio, sospendendo il giudizio. Quando non abboccai, Stornella aggiunse: «Perché era svanito quando venne il momento di ricompensare quelli che le erano piaciuti. Lo chiamò per primo, ma nessuno sapeva dove fosse andato. Il nome non mi era familiare. Tagsson.» Figlio di Tag, nipote di Ordito, avrei potuto dirle. Ordito e Tag erano stati membri molto capaci della guardia di Veritas a Castelcervo. La mia mente andò indietro negli anni per ritrovare il viso di Tag, in ginocchio davanti a Veritas nel Giardino di Pietra davanti ai cancelli della morte. Sì, doveva essergli sembrato così, Veritas che usciva dal nudo Pilastro dell'Arte di roccia nera e avanzava nel cerchio incerto della luce del fuoco. Tag aveva riconosciuto il re, sebbene la fatica avesse sfigurato Veritas. Gli aveva proclamato la sua lealtà, e Veritas lo aveva rimandato a Castelcervo per dire a tutti che il vero re sarebbe tornato. Ripensandoci, ero quasi sicuro che Veritas fosse arrivato a Castelcervo prima del soldato. Un drago in volo è ben più veloce di un uomo a piedi. Non sapevo che Tag avesse riconosciuto anche me. Chi mai avrebbe potuto prevedere che avrebbe tramandato quella storia, o addirittura che avrebbe avuto un figlio cantastorie? «Vedo che lo conosci» disse quietamente Stornella. Le gettai uno sguardo e scoprii i suoi occhi che leggevano avidamente il mio viso. Sospirai. «Non conosco nessun Tagsson. Temo che la mia mente sia tornata a qualcosa che mi hai detto prima. Gli adepti dello Spirito sono inquieti. Perché?» Stornella alzò un sopracciglio. «Pensavo che tu lo sapessi meglio di me.» «Conduco una vita solitaria, Stornella, come ben sai. Non sono in una buona posizione per sentire notizie, tranne quelle che mi porti tu.» Toccava a me studiarla. «E questa è un'informazione che non hai mai diviso con me.» La donna distolse lo sguardo. Aveva deciso lei di nascondermelo? Umbra le aveva ordinato di non parlarmene? O le era uscito di mente, dopo tanti racconti di nobili per cui aveva suonato, e di ovazioni che aveva ricevuto? «Non è una bella storia. Suppongo che cominciò un anno e mezzo
fa... forse due. Fu allora che iniziarono a circolare più spesso storie di Spirituali scoperti e puniti. O uccisi. Sai com'è la gente, Fitz. Per qualche tempo dopo la Guerra della Nave Rossa, si era saziata di sangue e uccisioni. Ma quando il nemico viene finalmente allontanato dalla tua spiaggia, e le tue case vengono ricostruite e i campi cominciano a produrre e le greggi ad aumentare, ecco, è tempo di riprendere a litigare con i vicini. Penso che Regal abbia destato una passione per gli sport sanguinosi nei Sei Ducati, con il suo Cerchio del Re e la prova delle armi. Mi chiedo se saremo mai davvero liberi da quel lascito.» Aveva toccato un vecchio incubo. Il Cerchio del Re a Guado dei Mercanti, le bestie in gabbia e l'odore di Antico Sangue, l'ordalia... Il ricordo mi sommerse, lasciando il disgusto sulla sua scia. «Due anni fa... sì» Stornella continuò. Si mosse inquieta per la stanza mentre rifletteva. «Fu quando l'antico odio per gli Spirituali divampò di nuovo. La regina lo condannò, per proteggere te, immagino. È una regina amata, e ha apportato molti cambiamenti durante il suo regno, ma in questo la tradizione è troppo radicata. La gente di campagna pensa: Già, ma cosa può saperne dei nostri modi, nata nelle Montagne? Quindi, anche se la regina Kettricken disapprovava, la caccia agli Spirituali continuò come sempre. Poi, a Trenury in Armento, circa un anno e mezzo fa, ci fu un incidente terribile. La storia arrivò a Castelcervo così. Una ragazza dotata dello Spirito era legata a una volpe, e non si curava dove cacciava, purché il sangue scorresse ogni notte.» La interruppi. «Una volpe?» «Non è comune, vero? Era ancor più sospetto perché la ragazza non era di famiglia nobile o abbiente. Che ci faceva una figlia di contadini con una volpe? Le voci si diffusero. Il pollame del popolo vicino a Trenury soffrì di più, ma il colpo finale fu quando qualcosa si introdusse nella voliera di messer Doplin e si mangiò i suoi uccelli canori e il pollame importato dalle Giungle della Pioggia. L'uomo spedì i cacciatori a inseguire la ragazza e la volpe che si diceva fossero alla radice di tutto. Le catturarono con brutalità e le portarono di fronte a messer Doplin. La ragazza giurò che non era stata la sua volpe, giurò che non possedeva lo Spirito, ma quando la volpe fu torturata con ferri incandescenti, si dice che lei urlò forte come la bestia. Poi, per chiudere il cerchio, Doplin fece strappare alla ragazza le unghie delle mani e dei piedi e la volpe ululò con lei.» «Un momento,» Le sue parole mi davano le vertigini. Potevo immaginarlo fin troppo bene.
«Finirò in fretta. Morirono, lentamente. Ma la notte successiva furono uccisi altri uccelli di Doplin, e un vecchio cacciatore disse che era stata una donnola, non una volpe, poiché una donnola beve solo il sangue mentre una volpe avrebbe fatto a pezzi gli uccelli. Penso che gli Spirituali insorsero contro di lui tanto per l'ingiustizia della morte della ragazza quanto per crudeltà con cui era stata uccisa. Il giorno dopo, il cane di Doplin cercò di morderlo. Doplin fece sopprimere il cane e i suoi guardiani. Disse che quando attraversava le stalle tutti i cavalli roteavano gli occhi al suo passaggio, schiacciavano le orecchie e scalciavano contro le pareti della stalla. Prese due giovani stallieri e li fece impiccare sull'acqua e bruciare. Disse che le mosche cominciavano a radunarsi nella sua cucina così che ogni giorno le trovava morte nel suo cibo, e...» Scossi il capo. «È la coscienza tormentata di un uomo, non il lavoro di alcuno Spirituale che io abbia mai conosciuto.» Stornella scrollò le spalle. «In ogni caso, il popolo invocò la giustizia della regina quando una ventina dei servitori più umili di Doplin furono torturati o uccisi. E lei mandò Umbra.» Mi lasciai andare sulla sedia e incrociai le braccia. Ecco. Il vecchio assassino era ancora il portatore della giustizia dei Lungavista. Mi chiesi chi lo avesse accompagnato per compiere quel lavoro silenzioso. «Cosa accadde?» chiesi, come se non lo sapessi. «Umbra trovò una semplice soluzione. In nome della regina proibì a Doplin di tenere nel suo castello cavalli, falchi o cani da caccia, o bestie o uccelli di qualsiasi genere. Non potrà cavalcare o cacciare, con il falco o in qualsiasi altro modo. Ha perfino proibito a lui e a tutti coloro che vivono con lui di mangiare carne o pesce per un anno.» «Diventerà un castello molto noioso.» «Fra i cantastorie si dice che nessuno si ferma più da Doplin se non è costretto, che i servitori sono pochi e maleducati, e che è scaduto nella considerazione degli altri nobili da quando la sua ospitalità è divenuta così misera. E Umbra lo ha costretto a pagare il guidrigildo alle famiglie, non solo a quelle dei servitori uccisi, ma anche della ragazza con la volpe.» «Hanno accettato?» «Le famiglie dei servitori sì. Era solo giusto. I familiari della ragazza con la volpe erano scomparsi, morti o fuggiti, chi può dirlo. Umbra ha richiesto che il tesoriere della regina custodisca il guidrigildo per la famiglia.» Stornella scrollò le spalle. «Sembrava tutto risolto. Ma da allora gli incidenti si sono moltiplicati. Non solo la persecuzione contro lo Spirito,
ma la vendetta degli Spirituali sui loro aguzzini.» Aggrottai le sopracciglia. «Non vedo perché gli Spirituali dovrebbero causare ulteriori sommosse. Mi sembra che Doplin sia stato punito secondo giustizia.» «E alcuni dicono con maggior severità di quanto meritasse, ma Umbra è stato inesorabile. E non si è fermato a quello. Poco dopo tutti e sei i Duchi ricevettero pergamene dalla regina Kettricken: possedere lo Spirito non è un crimine, a meno che non venga usato per scopi malvagi. La regina disse ai Duchi di impedire ai nobili e ai signori di giustiziare gli Spirituali, a meno che i loro crimini non siano provati con certezza, come i crimini di chiunque. L'editto non è stato accettato di buon grado, come puoi immaginare. A volte è ignorato; altre volte vengono sempre trovate numerose prove di colpevolezza... dopo la morte dell'accusato. Invece di calmare gli animi, la dichiarazione della regina sembra aver risvegliato tutti i vecchi sentimenti contro gli Spirituali. «Ma gli Spirituali sembrano averlo preso come una sfida. Non si lasciano giustiziare senza lottare. A volte si accontentano di liberare la loro gente prima dell'esecuzione, ma spesso colpiscono per vendicarsi. Quasi ogni esecuzione di uno Spirituale viene seguita da una catastrofe che colpisce il responsabile. Le mucche muoiono o un ratto malato morde i bambini. C'entra sempre con gli animali. In un villaggio, il pesce di fiume da cui dipendevano non migrò quell'anno. Le reti rimasero vuote e il popolo patì la fame.» «Ridicolo. Non è malevolenza, è un caso. Gli Spirituali non possiedono questi poteri.» Lo dissi con grande sicurezza. Stornella mi rivolse un'occhiata sdegnosa. «Allora perché i Pezzati si attribuiscono tali atti, se non è opera loro?» «I Pezzati? Chi sono i Pezzati?» La donna alzò una spalla. «Non lo sa nessuno. Non si annunciano. Lasciano messaggi inchiodati alle porte delle locande o agli alberi, e spediscono lettere ai nobili. Cantano sempre la stessa canzone con parole diverse: 'Il tale è stato ucciso ingiustamente per la sola colpa di possedere la magia dell'Antico Sangue. Ora la nostra collera piomba su di voi. Quando il Principe Pezzato tornerà, non avrà misericordia per voi.' Non sono firmate, a parte l'emblema di uno stallone pezzato. La gente è furiosa. «La regina ha rifiutato di mandare la sua guardia a dar loro la caccia. Così ora fra alcuni nobili circola la voce che l'aumento delle esecuzioni degli Spirituali è colpa sua, perché punendo messer Doplin li ha convinti
che hanno diritto alla loro magia perversa.» Al mio cipiglio, mi ricordò: «Un cantastorie ripete ciò che sente. Non creo le dicerie, né metto parole in bocca agli altri.» Si avvicinò e mi mise le mani sulle spalle da dietro. Si chinò, la guancia vicina alla mia. Con dolcezza aggiunse: «Dopo tanti anni insieme, lo sai che non ti considero contaminato.» Mi baciò la guancia. La conversazione aveva quasi indebolito la mia decisione. Fui sul punto di prenderla fra le braccia. Invece mi alzai, impacciato, perché lei stava proprio dietro alla mia sedia. Quando tentò di abbracciarmi, indurii il mio cuore. La tenni a distanza di un braccio. «Non sei mia» le dissi quietamente. «E neanche sua!» si infiammò Stornella all'improvviso. I suoi occhi scuri splendevano di rabbia. «Appartengo a me stessa, e decido con chi dividere il mio corpo. Se sto con tutti e due non fa male a nessuno. Non posso avere bambini. Se un uomo avesse potuto mettermi incinta, sarebbe già accaduto tempo fa. Quindi che importa con chi divido il letto?» Era sveglia, e sapeva usare le parole molto meglio di me. Non avevo una risposta scaltra. Quindi echeggiai le sue parole. «Anch'io appartengo a me stesso, e decido io con chi dividere il mio corpo. E non lo divido con la moglie di un altro.» Penso che finalmente ci credette. Avevo riposto i suoi averi in una pila ordinata accanto al focolare. Stornella si gettò in ginocchio e afferrò la borsa da sella. Cominciò a riempirla furiosamente. «Non so perché ho perso tanto tempo con te» borbottò. Pasticcio, fedele al suo nome, scelse quel momento per entrare nella casetta. Il lupo lo tallonava. Alla vista del viso adirato di Stornella, si rivolse a me. «Devo andarmene?» chiese esplicitamente. «No!» sputò Stornella. «Tu rimani. È me che sta buttando fuori. Merito tuo. Potresti riflettere per qualche istante, Ticcio, su cosa sarebbe stato di te se ti avessi lasciato a scavare in quel mucchio di immondizia. Meritavo la tua gratitudine, non un tradimento!» Il ragazzo sbarrò gli occhi. Nulla che Stornella avesse mai fatto, neppure il suo inganno, mi infuriò quanto il male che gli fece. Ticcio mi rivolse un'occhiata sconvolta, come se si aspettasse che anch'io lo aggredissi. Poi corse fuori. Occhi-di-notte mi guardò con disapprovazione, poi si girò per seguirlo. Vengo subito. Prima lasciami finire qui. Era meglio se non cominciavi neanche. Non c'era una risposta adatta a quel rimprovero. Stornella mi guardava
furibonda, e mentre anch'io la fissavo in cagnesco scorsi quasi un breve lampo di paura sul suo viso. Incrociai le braccia. «Meglio che tu te ne vada» dissi secco. Il suo sguardo diffidente mi insultò come la sua cattiveria verso Ticcio. Lasciai la casetta e andai a recuperare la sua cavalla. Bell'animale, ottima sella, indubbiamente doni di un buon giovane. La bestia avvertì la mia agitazione e si impennò inquieta mentre la sellavo. Trassi un respiro, mi controllai e misi la mano sulla cavalla. Le trasmisi la calma. Così facendo, io stesso mi placai. Lisciai il collo lucido. Lei si girò e mi strofinò il naso contro la tunica, sbuffando. Sospirai. «Abbi cura di lei, va bene? Perché lei non ha cura di sé.» Non avevo un legame con la creatura, e le mie parole erano solo suoni rassicuranti per lei. Avvertii in risposta la sua accettazione del mio dominio. La condussi sul davanti della casetta e mi fermai, tenendo le redini. In un momento Stornella apparve nel portico. «Non vedi l'ora che me ne vada, vero?» osservò amara. Gettò la borsa sulla sella, ancora una volta sconvolgendo la cavalla. «Non è vero e lo sai» risposi. Tentai di mantenere la voce piana e calma. Il dolore che avevo negato penetrò l'umiliazione per quanto ero stato ingenuo, e la rabbia per essere stato usato così. Il nostro legame non era stato un amore tenero e sincero; piuttosto una vicinanza che includeva la condivisione dei nostri corpi e la fiducia di dormire nelle braccia l'uno dell'altra. Il tradimento di un'amica è diverso dalla slealtà di un'amante solo nell'intensità del dolore, non nel genere. Seppi all'improvviso che le avevo appena mentito; volevo disperatamente che se ne andasse. Era come una freccia in una ferita; non poteva guarire finché non se ne fosse andata. Eppure tentai di pensare a qualche parola significativa, qualcosa che salvasse la parte buona di ciò che avevamo diviso. Ma non mi venne nulla, e alla fine rimasi lì muto mentre Stornella mi strappava le redini di mano e montava in sella. Mi guardò dalla groppa dell'animale. Sono sicuro che soffriva, ma il suo viso mostrava solo rabbia perché avevo interferito con la sua volontà. Scosse il capo. «Avresti potuto essere qualcuno. Malgrado la tua nascita, hai avuto tutte le opportunità di fare qualcosa di te stesso. Avresti potuto contare. Ma hai scelto questo. Ricordalo. Lo hai scelto tu.» Fece girare la testa della cavalla con uno strattone, non al punto da ferirle la bocca, ma più brusca del necessario. Poi la spronò al trotto con un calcio e cavalcò via da me. La guardai andare. Non si voltò. Nonostante il mio dolore, non sentivo il rimpianto di una fine, ma il presagio di un ini-
zio. Un brivido mi percorse, come se il Matto fosse stato al mio fianco, sussurrandomi all'orecchio. «Non lo senti? Un incrocio, un vertice, un vortice. Tutti i percorsi cambiano da qui.» Mi girai, ma non c'era nessuno. Gettai uno sguardo al cielo. Nubi scure si affrettavano dal sud; già le cime degli alberi fremevano per il temporale imminente. Stornella avrebbe cominciato il viaggio fradicia. Mi dissi che non ne traevo soddisfazione, e andai a cercare Ticcio. 4 La fattucchiera C'era una fattucchiera da quelle parti, Silva Fogliadirame. Creava amuleti così potenti che il loro influsso non durava solo da un anno all'altro ma continuava a proteggere i proprietari per generazioni. Si dice che avesse fatto per Balteo Lungavista un setaccio meraviglioso che purificava tutte le acque mentre le filtrava. Un grande vantaggio per un re minacciato così spesso dal veleno. Sopra alle porte della città fortificata di Eklse ella appese un amuleto contro la pestilenza, e per molti anni i barili di grano furono liberi dai ratti, e le stalle monde dalle pulci e altri parassiti. La città prosperò sotto quella protezione, finché gli anziani non costruirono scioccamente una seconda porta nelle mura, per favorire il passaggio delle merci. Questo aprì una via al contagio, e tutti in città perirono durante la seconda ondata della Peste di Sangue. Selkin, Viaggi nei Sei Ducati Il culmine dell'estate trovò Ticcio e me come ci aveva trovato negli ultimi sette anni. Bisognava occuparsi dell'orto e del pollame, salare e affumicare il pesce per le necessità dell'inverno. I giorni si succedevano in un ciclo di lavoro e pasti, sonno e risveglio. La partenza di Stornella, mi dissi, aveva estinto efficacemente l'inquietudine che la visita di Umbra aveva suscitato. Di tanto in tanto parlavo a Ticcio di mandarlo a bottega. Con un entusiasmo che mi sorprese, il ragazzo mi disse che ammirava molto il lavoro di un certo ebanista a Castelcervo. Ero riluttante, non avendo desiderio di visitare Borgo Castelcervo. Ticcio forse sospettò che non potessi pagare l'alto compenso che un bravo artigiano come Gindast poteva richiedere per un apprendista. In questo aveva probabilmente ragione. Quando gli
chiesi se aveva notato altri falegnami, rispose stoicamente che c'era un costruttore di barche a Cala Mazzuola, spesso lodato per il suo lavoro. Forse potevamo tentare con lui. Era un maestro molto più umile dell'ebanista di Castelcervo. Mi chiesi ansiosamente se il ragazzo non stesse adattando i suoi sogni alla portata delle mie tasche. Il suo apprendistato avrebbe determinato il corso della sua vita. Non volevo che la mia povertà lo condannasse a un mestiere che trovava solo tollerabile. Eppure nonostante l'interesse del ragazzo, l'apprendistato rimase poco più che un argomento da discorsi a tarda sera accanto al focolare. Oh, misi da parte come compenso di apprendista il gruzzoletto di monete che mi rimaneva. Dissi addirittura al ragazzo che potevamo mangiare meno uova se voleva far nascere qualche pulcino. C'era sempre un mercato per i polli, e poteva mettere da parte il ricavato per andare a bottega. Eppure mi chiedevo se sarebbe bastato per un buon posto. Vero, mani abili e una schiena forte potevano comprare un apprendistato a un ragazzo, ma i migliori artigiani e artisti di solito esigevano un compenso anche se il ragazzo era promettente. Così si faceva nel Cervo. I segreti del mestiere e il sostentamento che se ne ricavava non venivano rivelati incautamente a estranei. Se i genitori amavano i loro figli li addestravano al loro mestiere, o pagavano bene per vederli diventare apprendisti di maestri di altre arti. Noi due non eravamo ricchi, ma ero deciso a trovare un buon posto per Ticcio. Era quella la ragione dell'indugio, mi dissi: Raccogliere altro denaro. Non era il timore di separarmi dal ragazzo. Volevo solo il suo bene. Il lupo non mi chiese del viaggio che gli avevo proposto. Penso che in cuor suo fosse sollevato di vederlo posticipato. Certi giorni sentivo che le parole di Stornella avevano fatto di me un vecchio. In verità era il lupo che pativa il peso degli anni. Sospettavo che fosse molto vecchio per la sua razza, ma non avevo idea di quanto vivesse un lupo selvatico. A volte mi chiedevo se il nostro legame non gli conferisse una vitalità innaturale. Una volta pensai addirittura che potesse rubare i miei giorni per allungare i suoi. Eppure quel pensiero non generò alcun risentimento in me, piuttosto la speranza che avessimo ancora molto tempo da passare insieme. Una volta messo il ragazzo a bottega, chi altro avevo al mondo oltre a Occhi-di-notte? Per qualche tempo mi chiesi se Umbra sarebbe tornato a trovarmi, ora che conosceva la strada, ma i giorni lunghi dell'estate bollirono lentamente e il sentiero per la nostra casetta rimase vuota. Andai al mercato due volte con il ragazzo, portando polli adulti, i miei inchiostri e tinte, e radici ed er-
be che potevano costituire una novità. Occhi-di-notte fu contento di restare a casa: detestava la lunga camminata fino al crocevia del mercato, e anche la polvere e il rumore e la confusione della folla. La pensavo come lui, ma mi costrinsi ad andare. Non ottenemmo il successo sperato, perché la gente di quel piccolo mercato era più abituata a barattare che a comprare in denaro. Tuttavia fui piacevolmente sorpreso che tanti ricordassero Tom lo Striato, e commentassero che era bello rivedermi di nuovo al mercato. La seconda volta incontrammo per caso la fattucchiera di Ticcio venuta da Castelcervo. Avevamo messo le nostre merci sul retro del carrettino tirato dal pony. Verso metà mattina la donna ci trovò al mercato, esclamando di gioia alla vista di Ticcio. Rimasi quietamente in disparte, guardandoli parlare. Ticcio mi aveva detto che Jinna era bella, e lo era, ma confesso che fui sorpreso quando scoprii che era più vicina alla mia età che alla sua. Avevo immaginato una ragazza che lo aveva affascinato quando si erano incontrati a Castelcervo. Invece era una donna vicina alla mezza età, con occhi nocciola, lentiggini e capelli ricci che andavano dal ramato al castano. Aveva la figura florida e piacevole di una donna matura. Quando Ticcio le disse che l'amuleto contro i borsaioli gli era stato rubato prima di sera, rise ad alta voce, una risata cordiale e aperta. Poi rispose con calma che funzionava proprio così. Il ladro aveva preso l'amuleto invece della borsa, che era quindi stata protetta. Quando Ticcio girò lo sguardo per includermi nella conversazione, gli occhi di Jinna mi avevano già trovato. Mi osservava con l'espressione che di solito i genitori riservano a estranei potenzialmente pericolosi. Quando sorrisi e annuii alla presentazione di Ticcio e le diedi il buon giorno, si rilassò visibilmente e il suo sorriso si allargò. Si fece più vicina, scrutandomi in viso, e compresi che non aveva una vista acuta. Aveva portato a vendere le sue merci, e stese la stuoia all'ombra del nostro carretto. Ticcio la aiutò a sistemare amuleti e rimedi, e i due resero allegra la nostra giornata di mercato, aggiornandosi sulle loro avventure dalla Festa di Primavera in poi. Ticcio le raccontava i suoi piani di apprendistato. Mi divenne molto chiaro quanto avrebbe preferito l'ebanista a Castelcervo piuttosto che il costruttore di barche a Cala Mazzuola. Forse ci si poteva ancora organizzare in qualche modo per procurarsi il compenso più alto e un intermediario per negoziare l'apprendistato. Avrei potuto persuadere Umbra ad aiutarmi? E cosa mi avrebbe chiesto in cambio? Ero immerso in tali pensieri quando la gomitata di Ticcio nelle costole mi strappò dalle mie fantasie.
«Tom!» protestò, e percepii subito che in qualche modo lo avevo messo in imbarazzo. Jinna ci guardava, in attesa. «Sì?» «Vedi, te l'ho detto che sarebbe stato d'accordo» esultò Ticcio. «Bene, vi ringrazio, se siete sicuro che non sarà un problema» rispose Jinna. «È una strada lunga, con poche locande, e costose per una come me.» Annuii, e via via che la conversazione proseguiva compresi che Ticcio le aveva offerto l'ospitalità della nostra casetta la prossima volta che le capitava di passare da quelle parti. Sospirai dentro di me. Ticcio amava la novità dei nostri ospiti occasionali, ma io ancora consideravo ogni estraneo come un rischio potenziale. Mi chiesi per quanto tempo dovevo ancora vivere prima che i miei segreti fossero così antichi da non importare più. Sorrisi e annuii mentre chiacchieravano, ma partecipai poco. Mi trovai a studiare Jinna come mi aveva insegnato Umbra, ma nulla suggeriva che non fosse chi diceva di essere. In realtà sapevo ben poco di lei. Fattucchiere e stregoni sono abbastanza comuni in qualsiasi mercato, fiera o festa. Diversamente dall'Arte, la gente comune non associa un timore reverenziale a queste magie. Diversamente dallo Spirito, non condanna a morte chi le pratica. I più sembrano considerarle con tolleranza e scetticismo. Alcuni che affermano di possederle sono completi e spudorati ciarlatani, quelli che tirano fuori uova dalle orecchie dei creduloni, predicono enormi ricchezze e matrimoni nobili per le lattaie, vendono filtri d'amore fatti per lo più di lavanda e camomilla, e spacciano amuleti fortunati di zampe di coniglio. Abbastanza innocui, suppongo. Tuttavia Jinna non era di quelli. Non attirava la gente di passaggio con amichevoli chiacchiere, né sfoggiava i veli fastosi e i gioielli ostentati di solito da tali imbroglioni. Indossava gli abiti semplici di chi vive nella foresta, la tunica di varie tonalità di verde su pantaloni bruni di pelle di daino e scarpe comode. Gli amuleti che aveva esposto in vendita erano celati all'interno dei tradizionali sacchetti di stoffa colorata: rosa per amuleti d'amore, rosso per risvegliare le passioni intiepidite, verde per un buon raccolto, e altri colori dal significato che non conoscevo. Offriva anche pacchetti di erbe essiccate. Ne conoscevo la maggior parte, e l'etichetta descriveva correttamente le loro virtù: liscia corteccia di olmo per il mal di gola, foglie di lampone per le nausee mattutine e via dicendo. Mescolati alle erbe erano fini cristalli di qualcosa che secondo Jinna ne aumentava la potenza. Sospettavo sale o zucchero. Diversi piatti di ceramica sulla sua stuoia contenevano dischi levigati di giada o diaspro o avorio, incisi con
rune per propiziare la fortuna o la fertilità o la pace mentale. Erano meno costosi degli amuleti costruiti, perché erano semplici oggetti benauguranti, ma per una moneta di rame o due in più Jinna poteva 'sintonizzare' la pietra da tasca al desiderio del cliente. Man mano che la lunga mattina volgeva verso il pomeriggio, Jinna fece affari abbastanza buoni. Molte volte i clienti chiesero informazioni sugli amuleti nascosti, e almeno tre li comprarono con denaro sonante. Se c'era una magia negli aggeggi che vendeva, né il mio Spirito né la mia Arte sapevano rilevarla. Intravidi uno degli amuleti; era un assemblaggio intricato di brillanti perline e bastoncini di legno e, così mi parve, un ciuffo di penne. Lo vendette a un uomo che desiderava attirare la fortuna su di sé e sulla sua casa dal momento che cercava una moglie. Era robusto, muscoloso come un aratore e semplice come un tetto di zolle erbose. Sembrava avere la mia età, e gli augurai silenziosamente ogni bene nella sua ricerca. Il giorno di mercato era a buon punto quando arrivò Baylor. Venne con un carretto trainato da un bue, e sei porcellini legati da vendere. Non lo conoscevo bene, sebbene fosse l'unica persona che si potesse definire un nostro vicino di casa. Viveva nella valle vicina e allevava maiali. Lo vedevo di rado. In autunno a volte facevamo baratti, un maiale da macello in cambio di polli o lavoro o pesce affumicato. Baylor era un piccoletto ossuto ma forte e sempre diffidente. Ci salutò con un'occhiataccia. Poi, nonostante lo spazio angusto, costrinse il carretto accanto al nostro. Non mi piaceva la sua vicinanza. Lo Spirito conferisce un'empatia per le altre creature viventi. Avevo imparato a schermarmi, ma non potevo annullarlo del tutto. Sapevo che il bue era ulcerato dai finimenti troppo stretti, e avvertivo il terrore e il disagio dei porcellini immobilizzati e bruciati dal sole nel carretto. Quindi, tanto per autodifesa quanto per cortesia fra vicini, lo salutai: «Bello rivederti, Baylor. Bella figliata di porcellini. Dagli dell'acqua per rinvigorirli, e dovresti ricavarne un buon prezzo.» Baylor gettò uno sguardo indifferente ai maialetti. «Non ha senso farli agitare, o rischiare che scappino. Tanto saranno carne da macello prima di sera.» Trassi un respiro, e con uno sforzo evitai di parlare. A volte penso che lo Spirito sia più una maledizione che un dono. Forse la parte più dura sta nel conoscere così completamente la crudeltà indifferente degli uomini. Alcuni parlano della ferocia delle bestie. La preferirò sempre al disprezzo insensibile di certi uomini per gli animali.
Ero disposto a concludere la conversazione, ma Baylor venne a ispezionare le nostre merci. Emise un piccolo suono di disprezzo, come sorpreso che ci fossimo presi la briga di venire al mercato. Poi, cogliendo il mio sguardo, osservò con intenzione: «Questi sono buoni porcellini, ma ce n'erano altri tre nella figliata. Uno era ancora più grande di questi.» Fece una pausa, in attesa. I suoi occhi non avevano lasciato il mio viso. Non sapevo dove mirasse. «Sembra una bella figliata numerosa.» «Già. Lo era. Finché quei tre non sono scomparsi.» «Peccato» commentai. Quando tenne il suo sguardo su di me, aggiunsi: «Perduti vagando con la scrofa, vero?» Baylor annuì. «Un giorno ce n'erano dieci. Il giorno dopo, sette.» Scossi il capo. «Peccato.» Mi si avvicinò di un passo. «Tu e il ragazzo. Non li avete visti, per caso? So che a volte la mia scrofa vaga quasi fino al ruscello.» «No.» Mi rivolsi a Ticcio. Il ragazzo sembrava allarmato. Notai che Jinna e il suo cliente erano rimasti in silenzio, incuriositi dal tono intenso di Baylor. Odiavo essere al centro di tanta attenzione. Sentii il sangue ribollire, ma chiesi affabilmente al ragazzo: «Ticcio, hai visto qualche traccia dei porcellini di Baylor?» «Neanche una pista o un mucchio di sterco» rispose serio lui. Rimase perfettamente immobile mentre parlava, come se un movimento improvviso potesse far degenerare la situazione pericolosamente. Mi rivolsi di nuovo a Baylor. «Spiacente.» «Già.» L'uomo osservò in tono pesante: «Strano, vero? So che tu e il ragazzo e quel vostro cane vagate per tutte queste colline. Pensavo che aveste visto qualcosa.» Il commento era stranamente pungente. «E se dovesse capitarvi di vederli, sapreste che sono miei. Sapreste che non sono selvatici, a disposizione di tutti.» I suoi occhi continuavano a fissare il mio viso. Scrollai le spalle, sforzandomi di mantenere la calma. Ma ora altri interrompevano i loro affari per guardarci e ascoltarci. Gli occhi di Baylor vagarono all'improvviso sui presenti, poi tornarono a me. «Quindi sei sicuro che non hai visto i miei maiali? Non ne hai trovato uno immobilizzato o ferito da qualche parte? Non lo hai trovato morto e lo hai dato in pasto al tuo cane?» Toccò a me guardarmi attorno. Ticcio era diventato rosso. Jinna sembrava chiaramente a disagio. La mia rabbia crebbe al pensiero che quell'uomo osasse accusarmi di furto, sia pure in modo indiretto. Trassi un respiro e riuscii a mantenere la calma. A voce bassa, rauca ma civile, risposi: «Non
ho visto i tuoi maiali, Baylor.» «Sei sicuro?» Si avvicinò di un passo, scambiando la mia cortesia per passività. «Perché mi sembra strano, tre scomparsi tutti in una volta. È probabile che un lupo ne divori uno, o che la scrofa lo perda, ma non tre. Non li hai visti?» Ero appoggiato alla parte posteriore del carretto. Mi raddrizzai in tutta la mia altezza, i piedi ben piantati per terra. Nonostante il mio sforzo per controllarmi, sentivo il torace e il collo contrarsi di rabbia. Una volta, tempo prima, ero stato picchiato quasi a morte. Gli uomini sembrano reagire a una simile esperienza in due modi. Alcuni ne sono atterriti e non oppongono più resistenza. Per qualche tempo avevo conosciuto quella paura abietta. La vita mi aveva costretto a superarla: avevo imparato a reagire in modo diverso. L'uomo che diviene più crudele per primo è quello che quasi sempre rimane in piedi. Avevo imparato a essere così. «Mi sto stancando di questa domanda» lo avvertii in un ringhio basso. Nel mercato gremito, eravamo circondati da una cerchia silenziosa di persone. Non solo Jinna e il cliente tacevano, ma sull'altro lato della strada il commerciante di formaggio ci fissava, e il garzone di un panettiere con un carretto pieno di merci fresche stava in piedi silenzioso a bocca aperta. Ticcio era immobile, occhi sbarrati, volto bianco e rosso. Ma più rivelatore fu il cambiamento nella faccia di Baylor. Se un orso ringhioso lo avesse sovrastato all'improvviso, non avrebbe potuto sembrare più impaurito. Indietreggiò di un passo e guardò nella polvere. «Bene. Certo, se non li hai visti, allora...» «Non li ho visti.» Parlai con forza, interrompendolo. I suoni del mercato si erano affievoliti in un borbottio distante. Vedevo solo Baylor. Mi avvicinai di un passo. «Bene.» Baylor indietreggiò ancora, e girò attorno al bue in modo da metterlo tra noi. «Lo pensavo, certo. Se li avessi visti li avresti sicuramente rimandati dalla mia parte. Ma volevo dirtelo. Strano, vero, tre in una volta? Pensavo di fartelo sapere, nel caso ti fosse sparito qualche pollo.» Da conciliante la sua voce si fece all'improvviso complice. «Magari c'è gente dello Spirito nelle nostre colline, che ruba le mie bestie come solo loro sanno fare. Non hanno bisogno di cacciarli, basta che gettino un incantesimo sulla scrofa e i porcellini e possono portarseli via senza problemi. Lo sanno tutti. Magari...» Non ci vidi più. Riuscii a convertire la mia rabbia in parole. Parlai quietamente, pronunciando ogni parola come un morso. «Magari i porcellini
sono caduti in un torrente ripido e sono stati trascinati via, o sono rimasti separati dalla scrofa. Ci sono volpi e gatti e ghiottoni su quelle colline. Se vuoi essere sicuro del tuo bestiame, tienilo d'occhio meglio.» «Ho perso un vitello questa primavera» disse all'improvviso il commerciante di formaggio. «La vacca si è allontanata incinta, ed è tornata due giorni dopo, vuota come un barile.» Scosse il capo. «Nessuna traccia del vitello. Ma ho trovato i resti di un falò.» «Lo Spirito» intervenne saggiamente il ragazzo del panettiere. «Ne hanno presa una allo Spiedo di Hardin l'altro giorno, ma è scappata. Chissà dov'è adesso. O dov'era!» I suoi occhi luccicarono di esultanti sospetti. «Bene, questo spiega tutto» esclamò Baylor. Mi gettò un'occhiata trionfante, poi distolse in fretta lo sguardo dal mio viso. «È andata così, Tom lo Striato. E volevo solo avvertirti, da buon vicino. Tieni d'occhio i tuoi polli.» Annuì assennatamente, e dall'altra parte della strada anche il commerciante di formaggio fece un cenno di assenso con il capo. «Mio cugino era là, allo Spiedo di Hardin. Ha visto quella donnaccia dello Spirito mettere le penne e volar via. Le corde le sono cadute di dosso e se n'è andata.» Non girai neanche la testa per vedere chi aveva parlato. Il consueto andirivieni e il trambusto del mercato erano ricominciai intorno a noi, ma ora il pettegolezzo vibrava di odio per gli Spirituali. Rimasi isolato, il caldo sole d'estate mi picchiava sulla testa come sugli sfortunati porcellini nel carretto di Baylor. Il tumulto del mio cuore era un terremoto dentro di me. Il momento in cui avrei potuto ucciderlo era passato come una febbre. Vidi Ticcio asciugarsi il sudore dalla fronte. Jinna gli mise una mano sulla spalla e gli parlò pacatamente. Il ragazzo scosse il capo, le labbra bianche. Poi mi guardò e mi rivolse un sorriso tremante. Era finita. Ma le chiacchiere proseguivano. Tutto intorno a me, il mercato ridacchiava, sollevato dalla prospettiva di un nemico comune. Mi diede la nausea, e mi sentii piccolo e pieno di vergogna per non aver gridato contro quell'ingiustizia. Invece presi le redini di Trifoglio. «Bada alla nostra merce, Ticcio. Io do da bere al pony.» Ticcio, ancora silenzioso e grave, annuì. Sentii i suoi occhi su di me mentre conducevo via Trifoglio. Me la presi comoda, e quando tornai, Baylor fece in modo di sorridere e salutarmi. Riuscii solo a fare un cenno. Fu un sollievo quando un macellaio comprò tutti i porcellini a condizione che Baylor glieli consegnasse alla bottega. Mentre il bue dolente e i miseri porcellini se ne andavano, emisi un sospiro. La schiena mi doleva di ten-
sione controllata. «Simpatico» osservò Jinna quietamente. Ticcio rise ad alta voce, e anch'io mi aprii in un sorriso acido. Più tardi dividemmo con lei le nostre uova sode, pane e pesce salato. Jinna aveva un sacchetto di mele essiccate e una salsiccia affumicata. Ne venne fuori un pranzo sull'erba, e quando risi a una battuta di Ticcio, la donna mi fece arrossire: «Sembrate un uomo spietato quando aggrottate le ciglia, Tom lo Striato. E quando stringete i pugni, non vorrei conoscervi. Eppure, quando sorridete o ridete ad alta voce, i vostri occhi smentiscono quell'aspetto.» Ticcio ridacchiò vedendomi tutto rosso, e il resto del giorno passò in buona compagnia e amichevoli baratti. Jinna aveva fatto buoni affari. La sua scorta di amuleti era diminuita visibilmente. «Presto sarà ora di tornare a Borgo Castelcervo e farne altri. Costruirli mi piace più che venderli, anche se amo viaggiare e incontrare nuove persone» osservò mentre raccoglieva quello che rimaneva delle sue mercanzie. Ticcio e io avevamo scambiato la maggior parte dei nostri beni con merci da usare a casa, ma avevamo guadagnato pochi soldi per il compenso di apprendistato. Ticcio tentava di nascondere la delusione, ma vidi un'ombra di preoccupazione nei suoi occhi. E se le nostre monete non fossero bastate neanche per il costruttore di barche? Che ne sarebbe stato del suo apprendistato? La domanda tormentava anche me. Eppure nessuno di noi due la espresse. Dormimmo nel nostro carretto per risparmiare il costo di una locanda e l'indomani mattina ripartimmo per tornare a casa. Jinna venne a salutarci e Ticcio le rammentò la sua offerta di ospitalità. Lei l'assicurò che se ne sarebbe ricordata, ma i suoi occhi incontrarono i miei, come se non fosse certa di essere davvero benvenuta. Dovetti annuire e sorridere e aggiungere che mi auguravo di rivederla presto. Tornammo a casa in una splendida giornata. Le nubi alte e un vento leggero impedivano che il giorno d'estate fosse opprimente. Mangiucchiammo il favo ottenuto da Ticcio in cambio un pollo. Parlammo di cose insignificanti: il mercato era più grande della prima volta che ero stato là, il villaggio era cresciuto, la strada era più frequentata dell'anno prima. Non parlammo di Baylor. Superammo il bivio che un tempo ci avrebbe condotti a Forgia. L'erba cresceva sul sentiero. Ticcio mi chiese se pensavo che qualcuno sarebbe tornato a viverci. Dissi che speravo di no, ma il minerale
di ferro prima o poi avrebbe attirato gente di memoria corta. Passammo alle storie di ciò che era accaduto a Forgia, e alle fatiche della Guerra delle Navi Rosse. Raccontai come se lo avessi sentito da altri, non perché mi piacesse farlo, ma perché era una storia che il ragazzo doveva sapere. Tutti nei Sei Ducati avrebbero dovuto ricordarlo per sempre, e di nuovo mi decisi a tentare di scrivere una storia di quell'epoca. Pensai ai miei molti inizi coraggiosi, alle pergamene accatastate che rotolavano sulle mensole sopra al mio scrittoio, e mi chiesi se mai ne avrei completata qualcuna. Una domanda improvvisa di Ticcio mi strappò bruscamente dalle mie riflessioni. «Ero un bastardo delle Navi Rosse, Tom?» Rimasi a bocca spalancata. Tutto l'antico dolore per quella parola splendeva rinnovato negli occhi disuguali di Ticcio. Pasticcio, così sua madre lo aveva chiamato. Lo aveva trovato Stornella, un orfano che frugava nei rifiuti, nessuno al villaggio lo voleva. Era tutto ciò che sapevo di lui. Mi costrinsi all'onestà. «Non lo so, Ticcio. Forse sei un figlio di razziatori.» Usai il termine più gentile. Adesso il ragazzo guardava diritto davanti a sé, camminando a passi decisi mentre parlava. «Stornella ha detto di sì. Ho l'età giusta, e probabilmente è per quello che nessuno mi ha voluto tranne te. Vorrei saperlo. Vorrei sapere chi sono.» «Oh» dissi finalmente nel silenzio sospeso. Ticcio annuì brusco, due volte. Aggiunse con voce tesa: «Quando le ho detto che dovevo parlarti di lei, Stornella ha risposto che avevo lo stesso cuore Forgiato di quello stupratore di mio padre.» All'improvviso desiderai che fosse più piccolo, per poterlo afferrare a metà di un passo e abbracciarlo. Invece gli misi un braccio attorno alle spalle e lo costrinsi a fermarsi. Il pony proseguì piano senza di lui. Non lo obbligai a incontrare il mio sguardo né lasciai che la mia voce divenisse troppo grave. «Ti farò un regalo, figlio mio. Ci ho messo vent'anni a guadagnare questa conoscenza, quindi sii contento di riceverla da giovane.» Presi fiato. «Non importa chi è il padre di un uomo. I tuoi genitori hanno fatto un bambino, ma tocca a te creare l'uomo che sarai.» Trattenni il suo sguardo per un momento. Poi: «Vieni. Andiamo a casa.» Continuammo a camminare, e gli tenni il braccio sulle spalle per qualche tempo, finché non mi batté sulla spalla. Allora lo lasciai andare, perché camminasse da solo e concludesse in silenzio il suo pensiero. Era il meglio che potevo fare per lui. Lo seguii, pensando a commenti poco benevoli su Stornella.
La notte ci raggiunse prima che arrivassimo alla casetta, ma c'era la luna e tutti e due sapevamo la strada. Il vecchio pony avanzava placidamente, e il rumore degli zoccoli e il cigolio del carretto a due ruote erano una musica strana. Cominciò a cadere una pioggia estiva, inumidendo la polvere e raffreddando la notte. Non lontano da casa Occhi-di-notte venne a incontrarci con indifferenza, come se si fosse trovato da quelle parti solo per caso. Viaggiammo amichevolmente insieme, il ragazzo in silenzio, il lupo e io nella facile comunione dello Spirito. Assorbimmo le reciproche esperienze della giornata come in un respiro. Il lupo non capiva la mia preoccupazione per il futuro del ragazzo. Sa cacciare e sa pescare. Che altro gli serve? Perché mandar via uno dei nostri in un altro branco, per imparare i loro modi? La perdita della sua forza ci indebolisce. Non diventiamo più giovani, tu e io. Fratello, forse questa è la ragione più importante per lasciarlo andare. Deve cominciare a farsi strada nel mondo, così che quando prenderà una compagna potrà provvedere bene a lei e ai piccoli. E tu e io? Non lo aiuteremo a prendersi cura di loro? Non proteggeremo i piccoli mentre caccia, non porteremo le nostre prede da dividere? Non siamo un branco, noi tre? Nei branchi umani è così che si fa. Era una risposta che gli avevo dato molte volte nei nostri anni insieme. Sapevo cosa ne pensava. Era un'usanza umana senza senso: inutile perdere tempo tentando di capirlo. Che ne sarà di noi, allora, quando se ne sarà andato? Te l'ho detto. Forse viaggeremo di nuovo. Ah, sì. Lasciare una tana comoda e facili scorte di cibo. Ha senso quanto mandar via il ragazzo. Lasciai il suo pensiero senza risposta, perché aveva ragione. Forse l'inquietudine che Umbra aveva destato in me era l'ultimo anelito della mia gioventù. Forse avrei dovuto comprare l'amuleto di Jinna per trovare moglie. A volte avevo considerato l'idea di cercare una sposa, ma sembrava un modo troppo superficiale di prendere una compagna. Alcuni facevano così, lo sapevo, cercando solo una donna o un uomo con aspirazioni simili e abitudini non eccessivamente irritanti. Spesso tali sodalizi diventavano legami d'amore. Ma avendo una volta conosciuto una relazione non solo fondata sulla lunga conoscenza reciproca ma benedetta dall'ebbrezza impetuosa del vero amore, non pensavo di poter accettare qualsiasi altra cosa. Non sarebbe stato giusto chiedere a un'altra donna di vivere nell'ombra di Molly. In tanti anni che Stornella era stata con me a intervalli, non avevo
mai pensato di chiederle di sposarmi. Quel pensiero mi fece riflettere per un momento: forse Stornella lo aveva sperato? Poi il dubbio passò e sorrisi tetro fra me. No. Stornella avrebbe trovato incomprensibile tale offerta, se non ridicola. L'ultima parte del nostro viaggio avvenne fra le ombre, poiché il sentiero per la nostra casetta era stretto e oscurato dagli alberi su entrambi i lati. La pioggia gocciolava dalle foglie. Il carretto avanzava traballando. «Dovevamo portare una lanterna» osservò Ticcio, e io concordai con un grugnito. La nostra casetta era un rialzo più scuro nella valletta ombrosa che chiamavamo casa. Entrai, accesi il fuoco e misi via le merci che avevamo scambiato. Ticcio prese una lanterna e sistemò il pony. Occhi-di-notte subito si afflosciò accanto al focolare con un sospiro, vicino al fuoco quanto poteva senza bruciacchiarsi la pelliccia. Misi il bollitore a scaldare e aggiunsi al piccolo tesoro di Ticcio le poche monete che avevamo guadagnato. Non bastava, ammisi con riluttanza. Anche se per il resto dell'estate Ticcio e io avessimo lavorato a giornata per il raccolto del fieno e delle altre messi, non sarebbe bastato. E non potevamo lavorare tutti e due così, se non volevamo lasciar morire polli e orto. Ma se solo uno andava a giornata, poteva passare un altro anno, forse più, prima di aver risparmiato abbastanza. «Avrei dovuto cominciare a risparmiare anni fa» osservai acidamente mentre Ticcio rientrava. Mise la lanterna sulla mensola prima di crollare sull'altra sedia. Indicai con un cenno il bollitore e lui si versò una tazza di tè. Il mucchietto di monete sulla tavola era un patetico muro tra noi. «È tardi per pensare così» osservò Ticcio mentre prendeva la tazza. «Dobbiamo cominciare da adesso.» «Esatto. Pensi che tu e Occhi-di-notte potreste cavarvela qui per il resto dell'estate mentre io lavoro a giornata?» Ticcio incontrò con calma il mio sguardo. «Perché dovresti farlo tu? I soldi andrebbero per il mio apprendistato.» Provai uno strano, lieve spostamento nella percezione. Dire 'Perché sono più grande e più forte e potrei guadagnare di più' non era più vero. Le spalle di Ticcio erano larghe come le mie, e in qualsiasi prova di resistenza la sua giovane schiena poteva probabilmente reggere meglio. Sorrise comprensivo quando mi vide capire quello che già sapeva. «Forse perché è qualcosa che mi piacerebbe darti» dissi pacatamente, e lui annuì, comprendendo quello che davvero significavano quelle parole. «Mi hai già dato più di quanto potrei mai ripagare. Inclusa la capacità di
guadagnarmelo da solo.» Su quelle parole andammo a dormire, e sorridevo quando chiusi gli occhi. C'è una vanità mostruosa nell'orgoglio che proviamo per i nostri figli, mi dissi. Con Ticcio avevo brancolato nel buio, senza mai pensare molto a quello che gli stavo o non stavo insegnando sull'essere uomo. Poi una sera un giovane mi guarda negli occhi e mi dice che può cavarsela da solo se necessario, e io sento il caldo rossore del successo. Il ragazzo si era allevato da solo, mi dissi, eppure sorridevo mentre mi addormentai. Forse il mio umore espansivo mi lasciò più aperto del solito, perché quella notte ebbi un sogno d'Arte. Simili sogni arrivavano di tanto in tanto, provocando la mia dipendenza più che alleviandola, perché erano fenomeni incontrollabili che offrivano brevi occhiate senza la soddisfazione del pieno contatto. Eppure quel sogno era colmo di possibilità allettanti, perché sentivo di trovarmi in una mente individuale piuttosto che assaggiare i pensieri dispersi di una folla. Sembrava tanto un ricordo quanto una visione. Nel sogno fluttuavo attraverso la Sala Grande a Castelcervo. Decine di persone eleganti agghindate negli abiti migliori riempivano la sala. La musica si diffondeva nell'aria e scorgevo alcuni ballerini, ma mi muovevo lentamente attraverso gente che conversava in piedi. Alcuni si girarono a salutarmi mentre passavo, e mormorai le mie risposte, ma i miei occhi non si attardarono sui loro visi. Non desideravo essere lì; non avrei potuto essere meno interessato. Per un attimo una cascata di brillanti capelli color bronzo attrasse il mio sguardo. La ragazza mi dava le spalle. Molti anelli ornavano la mano sottile che raddrizzava nervosamente il colletto. Come avvertendo il mio sguardo, si girò. Incrociò i miei occhi, e arrossì chinandosi in una profonda riverenza. Mi inchinai, la salutai e proseguii attraverso la folla. Sentivo che mi fissava, e ne ero seccato. Ancor più irritante fu vedere Umbra, così alto ed elegante sul palco accanto alla sedia della regina, poco più indietro. Anche lui mi osservava. Si chinò a sussurrarle qualcosa, e gli occhi della regina si alzarono fissandosi su di me. Un piccolo cenno della mano mi invitò a raggiungerli. Il mio cuore sprofondò. Avrei mai avuto qualche momento tutto per me, per fare ciò che desideravo? Tetro e svogliato, mi mossi per obbedire. Poi il sogno cambiò, come fanno i sogni. Giacevo su una coperta davanti a un focolare. Mi annoiavo. Era così ingiusto. Di sotto tutti ballavano e mangiavano, e io ero lì... Un'increspatura nel sogno. No. Non era noia, solo inattività. Pigramente estrassi gli artigli e li ispezionai. Un ciuffo di
piumino di uccello vi era rimasto impigliato. Lo staccai, poi ripulii accuratamente l'intera zampa prima di appisolarmi di nuovo davanti al fuoco. Cos'era quello? Divertimento assonnato nel pensiero di Occhi-di-notte. Rispondergli avrebbe richiesto più sforzo di quanto fossi disposto a fare. Borbottai qualcosa, mi girai dall'altra parte e sprofondai di nuovo nel sonno. Al mattino pensai al sogno, ma solo per un attimo, liquidandolo come un misto di Arte incontrollata e ricordi d'infanzia a Castelcervo mescolati alle ambizioni che nutrivo per Ticcio. Mentre svolgevo i lavori domestici della mattina, la pila di legna da ardere che diminuiva attirò la mia attenzione. Bisognava rimpinguarla, non solo per cucinare durante l'estate e il conforto serale, ma per cominciare ad accumularla contro il freddo gelido dell'inverno. Entrai per fare colazione. Ci avrei pensato quel giorno stesso. La sacca da viaggio accuratamente preparata di Ticcio era appoggiata accanto alla porta. Il ragazzo stesso sembrava lavato e spazzolato di fresco. Mi rivolse un gran sorriso pieno di entusiasmo represso mentre versava la zuppa d'avena nelle nostre ciotole. Sedetti al mio posto, e lui di fronte a me. «Oggi?» gli chiesi, tentando di allontanare la riluttanza dalla voce. «È il momento migliore» spiegò allegro Ticcio. «Al mercato ho sentito che sta per iniziare la fienagione a Gormen. A soli due giorni da qui.» Annuii lentamente, senza parole. Aveva ragione. Anzi, non vedeva l'ora. Lascialo andare, mi dissi, e ingoiai le mie obiezioni. «Suppongo che rimandare non abbia senso» riuscii a dire. Ticcio lo prese come incoraggiamento e approvazione. Mentre mangiavamo, rifletté che poteva fare il fieno a Gormen, e poi forse proseguire per Divden e vedere se c'era altro lavoro. «Divden?» «A tre giorni da Gormen. Jinna ce ne ha parlato, ricordi? Ha detto che i loro campi di orzo sembrano un oceano quando il vento li agita. Quindi ho pensato che potrei tentare là.» «Sembra promettente» concordai. «E poi torneresti a casa?» Ticcio annuì lentamente. «Se non trovo altro lavoro.» «Certo. Se non trovi altro lavoro.» In poche ore, troppo brevi, Ticcio era andato via. Gli feci prendere altro cibo, e alcune monete in caso di bisogno estremo. La mia cautela lo spazientì. Avrebbe dormito lungo la strada, mi disse, non nelle locande. Mi informò che le pattuglie della regina Kettricken controllavano i banditi, e che
i ladri non avrebbero perso tempo con una preda povera come lui. Mi assicurò che sarebbe stato bene. Dietro l'insistenza di Occhi-di-notte, gli chiesi se non voleva portare il lupo. Ticcio sorrise indulgente, e fece una pausa sulla porta per grattargli le orecchie. «Potrebbe essere un po' troppo per il vecchietto» suggerì gentilmente. «Meglio che stia qui, dove potete badare l'uno all'altro finché non torno.» Mentre ci alzavamo insieme e guardavamo il nostro ragazzo percorrere il sentiero verso la strada principale, mi chiesi se fossi mai stato così insopportabilmente giovane e sicuro di me stesso, ma il dolore nel mio cuore aveva il tepore piacevole dell'orgoglio. Fu stranamente difficile occupare il resto del giorno. C'era lavoro da fare, ma non riuscii a impegnarmi. Molte volte tornai in me comprendendo che stavo semplicemente guardando lontano. Camminai due volte fino alle rupi, solo per contemplare il mare, e una volta fino alla fine del nostro sentiero per guardare su e giù la strada in entrambe le direzioni. Non c'era neppure polvere nell'aria. Tutto era immobile e silenzioso fin dove potevo vedere. Il lupo mi seguiva sconsolato. Cominciai una mezza dozzina di lavori e li lasciai tutti a metà. Mi trovai ad ascoltare e aspettare, senza sapere cosa. Mentre spaccavo e accatastavo la legna da ardere, mi interruppi. Evitando con cura di pensare, sollevai l'ascia e la conficcai nel blocco. Presi la tunica, me la gettai sulla spalla sudata e mi incamminai verso le rupi. Occhi-di-notte era all'improvviso di fronte a me. Cosa fai? Mi prendo una pausa. Non è vero. Stai andando giù alle rupi, per usare l'Arte. Mi strofinai i palmi delle mani lungo i lati delle brache. I miei pensieri erano informi. «Voglio solo godermi la brezza.» Una volta là, tenterai di usare l'Arte. Lo sai. Sento la tua fame chiaramente come te. Fratello, ti prego. Ti prego, non farlo. Accompagnò il pensiero con un uggiolio acuto. Non lo avevo mai visto così disperatamente deciso a dissuadermi. Ero perplesso. «Allora non ci vado, se ti preoccupa tanto.» Strappai l'ascia dal blocco e tornai al lavoro. Dopo poco fui consapevole che stavo attaccando il legno con ferocia ben oltre il necessario. Finii di spaccare il mucchio di tronchi e cominciai il compito tedioso di accatastarlo per farlo asciugare e insieme lasciar scorrere la pioggia. Fatto ciò raccolsi la tunica. Senza pensare mi diressi alle rupi sul mare. Subito il lupo mi bloccò la strada. Non farlo, fratello. Ti ho già detto che non lo farò. Mi distolsi da lui, negando la frustrazio-
ne. Strappai erbacce nell'orto. Presi acqua dal ruscello per riempire il barile in cucina. Scavai una nuova buca, spostai la ritirata e riempii la vecchia buca con terra pulita. Bruciai il lavoro come un incendio appiccato dal fulmine attraverso un prato estivo. Mi dolevano le braccia e la schiena, non solo per la stanchezza ma per le lagnanze di antiche ferite, e ancora non osavo fermarmi. La fame di Arte mi trascinava, rifiutando di lasciarsi ignorare. A sera il lupo e io andammo a pescare la cena. Cucinare per uno solo sembrò sciocco, eppure mi costrinsi a preparare un pasto decente e mangiarlo. Sparecchiai e poi mi sedetti. Le ore lunghe della sera si protendevano di fronte a me. Tirai fuori pergamena e inchiostri, ma non mi decisi a scrivere niente. I miei pensieri erano in disordine. Alla fine presi la scatola del lavoro e mi accanii a rappezzare, cucire o rammendare ogni indumento che ne avesse bisogno. Finalmente, quando la vista cominciò ad appannarsi, andai a letto. Giacqui sulla schiena, il braccio sul viso, e tentai di ignorare gli uncini che trascinavano la mia anima. Occhi-di-notte si lasciò cadere accanto al letto con un sospiro. Spenzolai l'altro braccio dal lato del letto, appoggiandogli la mano sulla testa. Mi chiesi quando avessimo attraversato il confine fra isolamento e solitudine. Non è la solitudine che ti divora così. Non parve esserci risposta. Trascorsi una notte difficile. Mi costrinsi a uscire dal letto poco dopo l'alba. Passai le mattine successive a tagliare legno di ontano per l'affumicatoio, e i pomeriggi a pescare pesci da affumicare. Il lupo si ingozzò di visceri, eppure mi osservava con sguardo avido mentre salavo i rossi filetti di pesce e li appendevo ai ganci sul fuoco lento. Misi altra legna verde per far addensare il fumo e chiusi ermeticamente la porta. Nel tardo pomeriggio ero al barile della pioggia a lavarmi le mani da limo, scaglie e sale, quando Occhi-di-notte girò all'improvviso il capo verso il sentiero. Arriva qualcuno. Ticcio? Speranza. No. La forza della mia delusione mi sorprese. La sentii echeggiata dal lupo. Mentre fissavamo il sentiero ombreggiato, apparve alla vista Jinna. Si fermò un attimo, forse allarmata dall'intensità dei nostri sguardi, poi alzò una mano. «Salve, Tom lo Striato! Vengo ad accettare la vostra offerta di ospi-
talità.» Un'amica di Ticcio, spiegai a Occhi-di-notte. Andai a incontrarla, mentre il lupo rimase indietro a osservarla con diffidenza. «Benvenuta. Non mi aspettavo di vederti così presto.» Parole goffe. «Un piacere inaspettato è sempre il più gradito» aggiunsi per rimediare, e poi compresi che era una galanteria altrettanto impropria. Avevo dimenticato del tutto come trattare le persone? Ma il sorriso di Jinna mi rilassò. «È raro udire tanta onestà espressa in parole così cortesi, Tom lo Striato. Quell'acqua è fresca?» Senza aspettare risposta andò al barile della pioggia, slacciandosi il fazzoletto dalla gola. Camminava come una donna abituata alla strada, stanca alla fine del giorno ma non eccessivamente sfinita dal viaggio. La sacca rigonfia sulle spalle era parte di lei. Inumidì il fazzoletto e si tolse la polvere dal viso e dalle mani. Bagnandolo più generosamente, se lo passò sulla nuca e sulla gola. «Oh, così va meglio» sospirò con gratitudine. Mi rivolse un sorriso che le arricciava gli angoli degli occhi. «Alla fine di una lunga giornata di cammino, invidio quelli come voi, con una vita regolare e un luogo da chiamare casa.» «Vi assicuro che quelli come me si chiedono altrettanto spesso se non sarebbe più dolce viaggiare. Non volete entrare e mettervi comoda? Stavo quasi per preparare la cena.» «Molte grazie.» Mentre mi seguiva alla porta della casetta, Occhi-dinotte ci tallonò a una distanza discreta. Senza girarsi a guardarlo direttamente, Jinna osservò: «Un po' insolito, un lupo come cane da guardia.» Spesso mentivo, insistendo che Occhi-di-notte era solo un cane che sembrava un lupo. Qualcosa mi disse che non dovevo insultare l'intelligenza di Jinna. Le offrii la verità. «L'ho adottato da cucciolo. È stato un buon compagno.» «Così mi ha detto Ticcio. E ha anche detto che non gli piace essere fissato da un estraneo, ma che verrà da me quando avrà deciso cosa pensa di me. E come al solito sto cominciando la storia a metà. Alcuni giorni fa ho incrociato Ticcio sulla strada, tutto felice. È convinto che troverà lavoro e se la caverà bene. Credo che sarà così; è un ragazzo così amichevole e simpatico, non riesco a immaginare che non venga accolto a braccia aperte. Mi ha ribadito che qui avrei trovato un'accoglienza calorosa, e chiaramente diceva il vero.» Mi seguì nella casetta. Si tolse la sacca e l'appoggiò contro il muro, poi si raddrizzò e inarcò la schiena con un gemito di sollievo. «Bene. Cosa
stiamo cucinando? Posso darvi una mano? Non so mai stare ferma in una cucina. Pesce? Oh, ho un'erba meravigliosa per il pesce. Avete una pentola pesante con un coperchio che chiude bene?» Con la spontaneità delle anime socievoli, si accollò metà della preparazione della cena. Non dividevo la cucina con una donna da quando avevo passato un anno con il popolo dello Spirito, e anche allora Spina era stata una compagna taciturna. Jinna chiacchierava, rumoreggiando con pentole e tegami e riempiendo la mia casetta di confusione e pettegolezzi amichevoli. Aveva l'abilità rara di saper entrare nel mio territorio e maneggiare le mie cose senza che mi sentissi fuori posto o a disagio. I miei sentimenti si trasmisero a Occhi-di-notte. Presto il lupo si avventurò nella casetta e si mise di guardia accanto alla tavola, come suo solito. Jinna non si lasciò agitare dal suo sguardo intenso, e apprezzò la sua abilità nell'afferrare gli avanzi di pesce che lanciava. Presto il pesce sobbolliva in una pentola con le sue erbe. Perquisii l'orto in cerca di carotine e verdure fresche mentre lei friggeva spesse fette di pane nel lardo. La cena parve apparire in tavola senza un vero sforzo da parte di alcuno. Jinna non aveva trascurato il pane per il lupo, sebbene penso che Occhi-dinotte lo mangiò più per farle piacere che per fame. Il pesce cotto era sapido e gustoso, aromatizzato dalla sua conversazione come dalle erbe. Jinna possedeva l'arte del conversare: le sue storie incoraggiavano risposte, e sapeva ascoltare con lo stesso apprezzamento che rivolgeva al cibo. Sparecchiammo la tavola senza fatica. Quando tirai fuori il brandy di Lungosabbia, esclamò con gioia: «Ecco, questa è la conclusione perfetta per un buon pasto.» Portò il brandy al focolare. Il fuoco si era smorzato. Jinna aggiunse un altro ciocco, più per la luce che per il calore, e si sistemò sul pavimento accanto al lupo. Occhi-di-notte non mosse neanche un orecchio. La donna centellinò il brandy, emise un sospiro di apprezzamento, poi gesticolò con la tazza. Il mio scrittoio ingombro di pergamene era appena visibile attraverso la porta aperta dello studio. «Sapevo che fabbricate inchiostri e tinte, ma da quello che vedo li usate anche. Siete una specie di scrivano?» Scrollai le spalle con noncuranza. «Più o meno» ammisi. «Niente di elaborato, anche se so realizzare semplici illustrazioni. La mia calligrafia è appena passabile. Per me è una soddisfazione affidare la conoscenza alla carta, in modo che sia accessibile a tutti.» «A chi sa leggere» mi corresse Jinna. «Vero» ammisi.
La donna inclinò la testa e mi sorrise. «Non so se è una buona idea.» Fui sorpreso che non fosse d'accordo, e che potesse dirlo così gentilmente. «Perché no?» «Forse la conoscenza non dovrebbe essere disponibile a tutti. Forse dovrebbe essere guadagnata, trasmessa solo da maestro a degno studente, piuttosto che affidata alla carta dove chiunque può attribuirla a sé stesso.» «Confesso di avere dubbi simili» risposi, pensando alle pergamene dell'Arte che Umbra studiava. «Eppure è capitato che una maestra morisse troppo presto, e tutto quello che sapeva scomparisse con lei prima che potesse riuscire a trasmetterlo al suo allievo prescelto. Conoscenze tramandate di generazione in generazione perse in un colpo solo.» Jinna rimase silenziosa per qualche istante. «Tragico» ammise infine. «I maestri di una disciplina possono condividere molta conoscenza, ma ciascuno ha i suoi segreti, destinati solo ai suoi apprendisti.» «Pensate a una donna come voi» proseguii, approfittando del mio vantaggio nella discussione. «Il vostro mestiere è molto simile a un'arte, intessuta di segreti e abilità condivise solo dagli altri praticanti di quelle magie. Non avete apprendisti, che io sappia. Scommetto che certi aspetti della vostra magia sono solo vostri, e morirebbero con voi se periste stasera.» Jinna mi guardò ancora un momento, poi bevve un altro sorso di brandy. «Bel pensiero prima di andare a dormire» rispose ironica. «Però c'è anche questo, Tom. Non so scrivere. Non posso trasmettere la mia conoscenza in tale forma, se uno come voi non mi aiuta. E anche in tal caso non sarei sicura che scrivereste quello che so, o quello che riterreste di aver capito. Metà dell'insegnamento a un apprendista consiste nell'assicurarsi che impari quello che ho detto, non quello che pensa che io abbia detto.» «Verissimo» riconobbi. Spesso avevo creduto di aver capito le istruzioni di Umbra, solo per fare un disastro quando tentavo di mescolare il composto da solo. Un'altra piccola increspatura di disagio mi percorse, pensando a Umbra che tentava di istruire il principe Devoto con le pergamene. Gli avrebbe insegnato quello che un dimenticato Mastro d'Arte aveva affidato alla carta, o solo quello che lui ne capiva? Distolsi i miei pensieri da quell'idea inquietante. Non era affar mio. Lo avevo avvertito; era tutto quello che potevo fare. Poi la conversazione rallentò, e Jinna cercò presto riposo nel letto di Ticcio. Occhi-di-notte e io uscimmo a chiudere il pollaio per la notte e a fare il giro serale della nostra piccola tenuta. Tutto era bello e calmo nella pacifica notte d'estate. Gettai un'occhiata bramosa verso le rupi. Quella
notte le onde dovevano essere argento bordato di pizzo. Smisi di pensarci e sentii il sollievo di Occhi-di-notte. Aggiungemmo altri rami verdi di ontano al fuoco lento nell'affumicatoio. «È ora di andare a letto» decisi. In notti come questa cacciavamo insieme. Sì. Sarebbe una buona notte per cacciare. La luna renderà le prede inquiete e facili da scorgere. Tuttavia il lupo mi seguì quando mi girai di nuovo verso la capanna. I nostri ricordi erano limpidi, ma non eravamo più giovani lupi. Avevamo la pancia piena, il focolare era caldo, e il riposo poteva alleviare il dolore sordo nei fianchi di Occhi-di-notte. Ci saremmo accontentati di sognare la caccia. Mi svegliai ai suoni mattutini di Jinna che versava mestolate d'acqua in un bollitore. Quando entrai in cucina aveva già messo il bollitore sul fuoco ravvivato. Mi guardò sopra la spalla mentre affettava il pane. «Spero di non comportarmi troppo come se fossi a casa mia.» «Per niente» risposi, ma era davvero insolito. Quando ebbi controllato gli animali tornando con le uova di giornata, il cibo caldo fumava in tavola. Dopo mangiato Jinna mi aiutò a sparecchiare. Mi ringraziò per l'ospitalità, e aggiunse: «Prima che me ne vada, potremmo fare qualche scambio. Vorreste un paio dei miei amuleti in cambio di qualcuno dei vostri inchiostri gialli e blu?» Scoprii che ero contento di rimandare la sua partenza, non solo perché la compagnia era piacevole, ma perché ero sempre stato incuriosito da quel genere di magia. Ecco l'occasione, forse, di dare un'occhiata da vicino ai suoi attrezzi del mestiere. Andammo prima al mio banco da lavoro, dove impacchettai vasetti di inchiostro giallo, azzurro e una piccola quantità di rosso. Mentre sigillavo i vasetti con tappi di legno e cera, Jinna mi spiegò che usare i colori su alcuni dei suoi amuleti sembrava aumentarne l'efficacia, ma che si trattava ancora di semplici esperimenti. Annuii, ma per quanto lo desiderassi mi trattenni dal chiedere dettagli. Non sembrava educato. Quando tornammo in casa, Jinna mise i vasetti di tinta sul tavolo, e aprì la sua sacca. Sparse una quantità dei suoi sacchetti di amuleti. «Cosa scegliete, Tom lo Striato?» chiese con un sorriso. «Ho amuleti per giardini rigogliosi, per la fortuna del cacciatore, per bambini sani - che a voi non serve a molto, lo rimetto via. Ah. Eccone uno che può tornarvi utile.» Tirò fuori un amuleto. Occhi-di-notte emise un ringhio basso. Con il pe-
lo dritto camminò deciso fino alla porta e l'aprì con il muso. Mi trovai a indietreggiare davanti all'oggetto svelato. Corte verghe di legno marcate da penetranti simboli neri, assicurate l'una all'altra ad angoli caotici, inframmezzate pericolosamente a perline funeste. Alcuni ciuffi torturati di pelliccia, intrecciati e fissati con la pece. L'oggetto mi offendeva e mi angosciava. Sarei fuggito se fossi riuscito a distogliere lo sguardo. Sentii all'improvviso il muro della casetta contro la schiena. Mi premetti contro di esso, sapendo che c'era una via di fuga migliore, ma incapace di trovarla. «Chiedo scusa.» Le parole gentili di Jinna mi giungevano da una distanza enorme. Sbattei le palpebre, e l'oggetto era scomparso, avvolto nella stoffa e nascosto alla mia vista. Fuori dalla porta, il ringhio basso di Occhidi-notte salì in un uggiolio acuto e cessò. Mi parve di riemergere da acque profonde. «Non ci avevo pensato» si scusò Jinna mentre cacciava l'amuleto in fondo alla sacca. «Serve ad allontanare i predatori da pollai e ovili.» Ricominciai a respirare. Jinna non mi guardò negli occhi. L'apprensione era sospesa come un miasma tra noi. Avevo lo Spirito, e ora lei lo sapeva. Come avrebbe usato tale conoscenza? Sarebbe stata solo disgustata? Spaventata? Spaventata abbastanza da causare la mia distruzione? Immaginai Ticcio tornare a una casetta bruciata. All'improvviso Jinna alzò lo sguardo e incontrò i miei occhi come se avesse udito i miei pensieri. «Un uomo è quello che è. Non c'è niente da fare.» «È così» mormorai in risposta, vergognandomi del sollievo che provavo. Riuscii a staccarmi dal muro e andai verso il tavolo. Jinna non mi guardò. Frugava nella sacca come se non fosse successo niente. «Allora basta trovare qualcosa di più adatto.» Cercò fra i sacchetti di amuleti, fermandosi di tanto in tanto per tastare il contenuto e rinfrescare la memoria. Scelse un sacchetto verde e lo mise sul tavolo. «Ne volete uno da appendere vicino all'orto, per incoraggiare le vostre piante verdi a prosperare?» Annuii senza parole. Stavo ancora riprendendomi dallo spavento. Poco prima avrei dubitato del potere dei suoi amuleti. Ora quasi lo temevo. Strinsi i denti quando scoprì l'amuleto per l'orto, ma mentre lo fissavo non provai niente. Incontrai i suoi occhi e vi trovai comprensione. Il suo sorriso gentile era rassicurante. «Desidero sintonizzarlo su di voi. Poi lo portiamo fuori e lo sintonizziamo sull'orto. Metà dell'amuleto è per l'orto, e metà per il coltivatore. Un orto è il rapporto tra il coltivatore e il suo pezzo di terra. Datemi le mani.»
Si accomodò alla mia tavola e mi tese le mani, a palmo in su. Sedetti di fronte a lei e dopo un'esitazione imbarazzata misi i palmi sui suoi. «Non così. La vita e le usanze di un uomo sono scritte nel palmo della mano, non sul dorso.» Voltai obbediente le mani. Nei miei giorni di apprendista, Umbra mi aveva insegnato a leggere le mani, non per predire il futuro di un uomo ma per leggerle. I calli di una spada erano diversi da quelli della penna di uno scrivano o della zappa di un contadino. Jinna si chinò sulle mie mani, fissandole intensamente da vicino. Mi chiesi se i suoi occhi avrebbero scoperto l'ascia che un tempo avevo brandito, o il remo che avevo maneggiato. Invece studiò intensamente la mano destra, aggrottò la fronte, poi spostò lo sguardo sulla sinistra. Quando mi guardò, il suo viso era un quadro. Il sorriso era malinconico. «Siete un tipo strano, Tom, non c'è dubbio! Se tutte e due le mani non fossero attaccate alle vostre braccia, direi che appartengono a due uomini diversi. Si dice che la sinistra riveli quello con cui si nasce, e la destra quello che si fa di noi stessi, ma anche così ho visto ben di rado tante differenze fra le mani di un uomo! Guardate cosa vedo in questa mano. Un ragazzo dal cuore tenero. Un giovane sensibile. E poi... La linea della vostra vita si interrompe bruscamente.» Mentre parlava aveva lasciato andare la mia destra. Mise l'indice sul palmo sinistro, e l'unghia mi solleticò tracciando una linea fino a dove la mia vita finiva. «Se aveste l'età di Ticcio, avrei paura di vedere un giovane sul punto di morire. Ma dato che siete lì seduto di fronte a me, e che la vostra mano destra reca una linea della vita bella lunga, seguiremo quella, va bene?» Lasciò la sinistra, e mi prese la destra fra le sue. «Suppongo di sì» concessi inquieto. Non solo le sue parole mi avevano messo a disagio. La semplice pressione calda delle sue mani sulle mie mi aveva all'improvviso reso compiaciuto di Jinna come donna. Stavo sperimentando una reazione molto adolescenziale. Mi spostai sulla sedia. Il sorriso consapevole che si accese per un momento sul suo viso mi inquietò ancora di più. «Dunque. Un giardiniere appassionato, vedo, dedito alla conoscenza di molte erbe e dei loro usi.» Emisi un suono neutro. Aveva visto il mio orto, forse faceva ipotesi basandosi su ciò che vi cresceva. Studiò ancora un poco la mia destra, passandovi il pollice per lisciare le linee più lievi, poi prendendo le dita e chiudendo leggermente la mia mano per approfondire le pieghe. «Destra o sinistra, non è facile da leggere, Tom.» Aggrottò le sopracciglia, e confrontò di nuovo le mani. «Dalla sinistra direi che avete avuto un amore dolce e
vero nella vostra breve vita. Un amore terminato solo nella morte. Eppure qui nella destra scorgo un amore che va e viene, intrecciandosi ai vostri lunghi anni. Un cuore fedele che è stato assente per qualche tempo, ma presto tornerà.» Alzò i limpidi occhi nocciola per vedere se aveva colpito nel segno. Scrollai una spalla. Forse Ticcio le aveva raccontato di Stornella? Tutt'altro che un cuore fedele. Dal momento che non risposi, riportò l'attenzione alle mie mani, spostando lo sguardo dall'una all'altra. Aggrottò leggermente la fronte, creando un solco tra le sopracciglia. «Guardate qui. Vedete? Rabbia e paura, intrecciate in una catena scura... segue la vostra linea della vita, un'ombra nera che la sovrasta.» Allontanai il disagio. Mi piegai in avanti a guardare la mano. «Probabilmente è solo sporco» suggerii. Jinna emise un piccolo sbuffo divertito e scosse di nuovo il capo. Ma non tornò alla sua minacciosa contemplazione. Coprì la mia mano con la sua e mi guardò negli occhi. «Non ho mai visto un uomo con due palmi così diversi. Sospetto che a volte voi stesso vi chiediate chi siete.» «Sono sicuro che ognuno se lo chiede di tanto in tanto.» Era stranamente difficile incontrare il suo sguardo miope. «Hmm. Ma forse le vostre ragioni di chiedervelo sono più oneste di quelle di tanti altri. Bene» sospirò. «Vediamo cosa posso fare.» Mi lasciò le mani, e io le tolsi dalle sue. Le strofinai assieme sotto il tavolo come per cancellare il solletico del suo tocco. Jinna prese il suo amuleto, lo rigirò molte volte e poi slegò uno spago. Cambiò l'ordine delle perline e ne aggiunse una marrone. Legò di nuovo lo spago, poi prese il vasetto di inchiostro giallo che le avevo dato. Intinse un pennello fine e ripercorse diverse rune nere su uno dei grani, curvandosi per guardare da vicino. Parlò mentre lavorava. «Quando torno, mi aspetto di sentire che questo è stato il vostro anno migliore per i frutti che maturano al sole.» Soffiò sull'amuleto per asciugare l'inchiostro, poi mise via vasetto e pennello. «Venite, adesso dobbiamo sintonizzarlo sull'orto.» Fuori, mi mandò a cercare e tagliare un ramo forcuto alto almeno quanto me. Quando tornai, aveva scavato un buco all'angolo sud-est del mio orto. Infilai il ramo secondo le sue istruzioni e riempii il buco. Jinna appese l'amuleto alla biforcazione destra del ramo. Quando il vento lo agitò, le perline si urtarono con dolcezza e una campanella risuonò armoniosa. La donna la sfiorò con la punta del dito. «Scoraggia alcuni uccelli.» «Grazie.» «Prego. Questo è un buon posto per uno dei miei amuleti. Mi fa piacere
lasciarlo qui. E quando torno, sarò curiosa di sapere come ha funzionato per voi.» Era la seconda volta che parlava di tornare. Il fantasma delle mie maniere di corte mi diede di gomito. «E quando tornate, sarete benvenuta come questa volta. Aspetterò con ansia la vostra visita.» Jinna mi rivolse un sorriso che accennò le fossette sulle sue guance. «Grazie, Tom. Sicuramente mi fermerò di nuovo.» Inclinò la testa e parlò con inaspettata franchezza. «So che siete un uomo solitario, Tom. Non sarà sempre così. Mi sono accorta che all'inizio dubitavate del potere dei miei amuleti. E dubitate ancora che possa vedere la verità nel palmo di un uomo. Io no. Il vostro vero amore entra ed esce e attraversa la vostra vita. L'amore tornerà da voi. Credeteci.» I suoi occhi nocciola incontrarono così seriamente i miei che non riuscii a ridere né ad aggrondarmi. Annuii in silenzio. Jinna si caricò in spalla la sacca e si avviò per il sentiero, e la guardai andare. Le sue parole mi elettrizzavano, e speranze da tempo negate lottavano per rialzare la testa. Le cacciai via. Molly e Burrich ora appartenevano l'una all'altro. Non c'era posto per me nelle loro vite. Raddrizzai le spalle. C'erano lavori da fare, legna da accatastare, pesci da ritirare, e un tetto da aggiustare. Era un altro bel giorno d'estate. Meglio usarlo finché ce l'avevo, perché l'estate sorride, ma l'inverno non è mai lontano. 5 Il fulvo Nelle più antiche cronache dei territori che un giorno divennero i Sei Ducati si trovano tracce del fatto che lo Spirito non è sempre stata una magia disprezzata. Sono racconti frammentari, e le traduzioni di queste vecchie pergamene sono spesso dubbie, ma la maggior parte dei mastri scrivani concorda che all'epoca esistevano insediamenti dove i più nascevano con lo Spirito e lo praticavano attivamente. Alcune pergamene indicherebbero che furono gli abitanti originari della zona. Può essere la fonte del nome che gli adepti dello Spirito applicano a sé stessi: Antico Sangue. A quell'epoca queste terre non erano molto popolate. Quel popolo confidava più sulla caccia e sulla raccolta dei doni della natura che sulle coltivazioni. Forse in quei giorni un legame tra un uomo e una bestia non
sembrava così misterioso, perché la gente provvedeva a sé stessa in modo molto simile alle creature selvatiche. Perfino in storie più recenti i racconti di adepti dello Spirito uccisi per aver praticato la magia sono rari. Il fatto stesso che queste esecuzioni fossero documentate sembra indicare che erano insolite, e quindi degne di nota. Solo dopo il breve regno di re Corsiero, il cosiddetto Principe Pezzato, lo Spirito comincia a essere nominato con ripugnanza e con l'idea che chi lo pratica meriti la morte. Dopo il suo regno cominciano i racconti di stragi generalizzate del popolo dello Spirito. In alcuni casi interi villaggi furono sterminati. Dopo quel tempo di eccidi la gente dell'Antico Sangue divenne rara, o troppo diffidente per ammettere di possedere la magia dello Spirito. I bei giorni d'estate si susseguirono come perline blu e verdi su una collana. Non c'era niente di sbagliato nella mia vita. Lavorai nell'orto, finii di riparare la mia casetta a lungo trascurata, e di prima mattina e nei crepuscoli d'estate cacciai con il lupo. Riempii le giornate di cose buone e semplici. Il tempo si mantenne bello. Lavoravo con il calore del sole sulle spalle, e il vento mi correva sulle guance quando passeggiavo di sera sulle rupi marine, e la terra del mio orto era ricca d'argilla. La pace aspettava solo che mi arrendessi a lei. Era colpa mia se mi trattenevo. In certi giorni ero quasi soddisfatto. L'orto era rigoglioso, i baccelli dei piselli si gonfiavano floridi, i fagioli correvano sul graticcio. C'era carne da mangiare e da affumicare, e ogni giorno la casetta diventava più comoda e ordinata. Ero orgoglioso dei miei risultati. Eppure a volte mi trovavo nell'orto accanto all'amuleto di Jinna, girando pigramente le perline fra le dita mentre fissavo il vialetto. In attesa. Non era brutto attendere Ticcio quando non mi accorgevo dell'attesa. Ma aspettare il ritorno del ragazzo divenne un'allegoria della mia intera vita. Sarebbe tornato, e poi? Non potevo ignorare la domanda. Se avesse avuto successo sarebbe ripartito subito. Avrei dovuto sperarlo. Se non fosse riuscito a guadagnare il denaro per diventare apprendista, avrei dovuto farmi venire un'altra idea. E per tutto il tempo avrei aspettato. Aspettare che Ticcio tornasse, poi aspettare che Ticcio ripartisse. E poi? Poi... qualcosa di più, mi suggeriva il cuore, poi sarebbe stato tempo per qualcosa di più, ma non riuscivo a individuare cosa mi suscitasse nell'anima quell'inquietudine. Nei momenti in cui mi accorgevo di quello stato di sospensione, tutta la vita diventava un'irritazione unica. Allora il lupo si rimetteva in piedi con un sospiro e veniva ad ap-
poggiarsi contro di me. Una spinta del muso e mi ritrovavo il suo testone sotto la mano. Smetti di desiderare. Avveleni la tranquillità dell'oggi, se ti proietti sempre verso il domani. Il ragazzo tornerà quando sarà tempo. A che serve angosciarsi? Non c'è niente che non va in noi due. Il domani verrà fin troppo presto, in un modo o nell'altro. Sapevo che aveva ragione, e di solito riuscivo a scuotermi e tornare ai miei lavori. Una volta, lo ammetto, scesi alla panca sul mare. Ma non feci altro che sedere e guardare oltre le onde. Non tentai di usare l'Arte. Dopo tanti anni, forse, stavo finalmente imparando che quel protendersi non portava conforto alla solitudine. Il tempo si manteneva bello, ogni mattina era un dono fresco e nuovo. E le sere, riflettevo togliendo lastre di pesce dai ganci dell'affumicatoio, erano più preziose di qualsiasi dono. Un riposo meritato e la fine del lavoro. Soddisfazione, quando me lo permettevo. Il pesce era proprio come mi piaceva, dura scorza rossa e luccicante, ma abbastanza umido all'interno per mantenere un buon sapore. Lasciai cadere l'ultimo filetto in una reticella. Già quattro borse simili pendevano dalle travi nella casetta. Con questo avevamo le provviste per l'inverno. Il lupo mi seguì in casa e mi guardò salire sul tavolo per appendere il pesce. Gli parlai da sopra la spalla. «Domani ci svegliamo presto e andiamo a cercare un maiale selvatico?» Io non ho perso nessun maiale selvatico. E tu? Guardai giù con sorpresa. Era un rifiuto, camuffato da umorismo, ma comunque un rifiuto. Mi ero aspettato un selvaggio entusiasmo. In realtà anch'io avevo poca voglia di una caccia sfibrante come quella al maiale. L'avevo proposta al lupo nella speranza di fargli piacere. Negli ultimi tempi mi sembrava inquieto, e sospettavo che sentisse la mancanza di Ticcio. Il ragazzo era stato per lui un compagno di caccia entusiasta. Temevo di essere piuttosto noioso, al confronto. Il lupo percepì la mia domanda, ma si ritirò nella propria mente, lasciando solo una foschia confusa di pensieri. «Stai bene?» gli chiesi preoccupato. Il lupo rivolse di scatto la testa verso la porta. Arriva qualcuno. «Ticcio?» Saltai giù sul pavimento. Un cavallo. Avevo lasciato la porta spalancata. Il lupo andò a guardar fuori, orecchie dritte. Lo raggiunsi. Dopo un istante udii il regolare tonfo sordo degli zoccoli. Stornella?
No, non la femmina ululante. Il lupo non nascose il suo sollievo. Quello mi ferì un poco. Solo di recente mi ero reso conto appieno di quanto l'avesse in antipatia. Non dissi nulla, né formulai il pensiero, ma lui capì. Mi gettò uno sguardo di scuse, poi scivolò fuori come un'ombra. Uscii nel portico e attesi, in ascolto. Un buon cavallo. Perfino a quell'ora tarda aveva un passo vivace. Quando cavallo e cavaliere apparvero, trattenni il respiro alla vista dell'animale. Ogni linea proclamava la qualità della razza. Era una cavalla bianca. La criniera e la coda come neve fluivano al vento, come pettinate pochi attimi prima. Fiocchetti di seta nera intrecciati nella criniera si accordavano al nero e argento dei finimenti. Non era grossa, ma c'era il fuoco nel modo in cui rivolse un occhio intelligente e un orecchio accorto verso il lupo invisibile che la tallonava nel bosco. Vigile senza timore, cominciò a sollevare di più gli zoccoli, come per assicurare Occhi-di-notte che aveva energia in abbondanza per fronteggiarlo o fuggire. Il cavaliere era in tutto degno del cavallo. Sedeva con eleganza, e intuii un uomo in armonia con la sua cavalcatura. Vestiva di nero con guarnizioni d'argento, fino agli stivali. Poteva sembrare una combinazione tetra, se il mantello estivo non fosse stato tutto ricamato bizzarramente d'argento, e l'argento non avesse orlato anche il merletto bianco ai polsi e alla gola. Un nastro d'argento legava i capelli biondi scoprendo la fronte alta. I bei guanti neri vestivano le mani come una seconda pelle. Era un giovane snello, ma come la leggerezza della cavalla faceva pensare alla rapidità, così la sua magrezza richiamava agilità piuttosto che vulnerabilità. La pelle era di un color oro baciato dal sole, come i capelli, e i lineamenti erano delicati. Il fulvo si avvicinò in silenzio, a parte il tonfo ritmico degli zoccoli. Quando fu vicino trattenne la bestia con un tocco, e rimase seduto, abbassando su di me occhi color ambra. Sorrise. Qualcosa mi mise in subbuglio il cuore. Mi inumidii le labbra, ma non trovai le parole, né il fiato per pronunciarle se avessi saputo cosa dire. Il mio cuore mi suggeriva una cosa, i miei occhi un'altra. Lentamente il sorriso svanì dal volto e dagli occhi dell'uomo, sostituito da una maschera immobile. Quando parlò la voce era bassa, le parole prive di emozione. «Non mi saluti, Fitz?» Aprii la bocca, poi allargai indifeso le braccia. Il gesto diceva tutto ciò per cui non avevo parole, e la risposta gli illuminò il viso, facendolo risplendere di luce interiore. Non smontò, balzò di sella con energia quasi eccessiva, aiutato dalla carica improvvisa di Occhi-di-notte dal bosco. La
cavalla sbuffò allarmata e si impennò: agile come sempre, il Matto controllò lo slancio e atterrò sulle punte dei piedi. La cavalla fece un passo di lato, ma nessuno le prestò attenzione. In un passo lo afferrai, lo avvolsi fra le braccia mentre il lupo saltellava intorno a noi come un cucciolo. «Oh, Matto» esclamai con voce strozzata. «Non può essere, eppure è così. E non mi importa come sia possibile.» Il Matto mi gettò le braccia al collo. Mi strinse ferocemente, l'orecchino di Burrich freddo contro il mio collo. Per un lungo istante mi si aggrappò come una donna, finché il lupo non si spinse tra noi con insistenza. Allora il Matto piegò un ginocchio nella polvere, incurante dei bei vestiti mentre abbracciava il collo del lupo. «Occhi-di-notte!» bisbigliò con fiera soddisfazione. «Non pensavo di rivederti. Ben trovato, vecchio amico.» Affondò il viso nella pelliccia del lupo, asciugando le lacrime. Non lo giudicai debole. Le mie scorrevano incontrollate lungo il viso. Il Matto si alzò in un movimento fluido: ogni sfumatura della sua grazia mi era familiare come il mio respiro. Mi prese la nuca e, come era solito fare un tempo, premette la fronte contro la mia. Il suo alito odorava di miele e brandy di albicocca. Si era fatto forza per incontrarmi? Dopo un momento si allontanò da me, ma mi tenne per le spalle. Mi fissò, sfiorando con gli occhi la striscia bianca nei miei capelli e percorrendo familiarmente le cicatrici sul mio viso. Lo guardai con altrettanta avidità, non solo per come era cambiato - il colorito passato da bianco a dorato - ma per come non era cambiato. Sembrava il ragazzino acerbo che avevo visto per l'ultima volta quasi quindici anni prima. Nessuna ruga gli segnava il volto. Si schiarì la gola. «Bene. Mi fai entrare?» «Certo, appena ci saremo occupati della cavalla» risposi rauco. Il largo sorriso che gli accese il volto annullò tutti gli anni e la distanza tra noi. «Non sei cambiato neanche un po', Fitz. Prima i cavalli, come sempre.» «Non sono cambiato?» Scossi il capo, attonito. «Sei tu che non sembri invecchiato di un giorno. Ma per il resto...» Andai verso la cavalla. Lei si scostò alzando gli zoccoli, mantenendo le distanze. «Sei diventato d'oro, Matto. E vesti riccamente come faceva una volta Regal. All'inizio ho avuto difficoltà a riconoscerti.» Il Matto emise un sospiro di sollievo, una mezza risata. «Allora non era come temevo, che non ti fidavi ad accogliermi?» La domanda non meritava risposta. Lo ignorai, avanzando di nuovo verso la cavalla. Lei girò la testa, mettendo le redini appena fuori dalla mia
portata. Teneva d'occhio il lupo. Sentivo il Matto osservarci divertito. «Occhi-di-notte, non sei di aiuto e lo sai!» esclamai seccato. Il lupo abbassò la testa e mi rivolse uno sguardo sveglio, ma smise di saltellare. La metto io nel granaio, se vuoi. Il Matto alzò leggermente la testa, rivolgendoci un'occhiata interrogativa. Avvertii qualcosa in lui: una consapevolezza condivisa, più sottile di una lama. Quasi dimenticai la cavalla. Senza volerlo, toccai il marchio che il Matto aveva impresso su di me tanto tempo prima; le impronte d'argento sul mio polso, da tempo sbiadite in un grigio pallido, Il Matto sorrise di nuovo e alzò una mano guantata, il dito teso verso di me come per rinnovare quel tocco. «Per tutto questo tempo» disse, e la voce si fece dorata come la sua pelle «sei stato con me, vicino come i miei polpastrelli, anche quando eravamo separati dagli anni e dagli oceani. La tua esistenza era come il fremito di una corda sfiorata ai confini del mio udito, o un profumo portato dalla brezza. Tu non lo sentivi?» Trassi un respiro, temendo che le mie parole lo ferissero. «No» dissi quietamente. «Avrei voluto. Troppo spesso mi sono sentito del tutto solo, a parte Occhi-di-notte. Troppo spesso mi sono seduto sull'orlo della rupe, protendendomi per toccare chiunque, dovunque, ma nessuno mi ha mai risposto.» Il Matto scosse il capo. «Se io avessi posseduto davvero l'Arte, avresti saputo che ero là. Sulla punta delle tue dita, ma muto.» Provai uno strano sollievo nel cuore alle sue parole, senza una ragione esprimibile. Il Matto emise un suono bizzarro, tra uno schiocco e un cinguettio, e la cavalla venne subito a premere il muso sulla sua mano tesa. Lui mi passò le redini, sapendo che avevo voglia di provarla. «Prendila. Vai alla fine del sentiero e torna indietro. Scommetto che non hai mai cavalcato una bestia simile in vita tua.» Nel momento in cui ebbi le redini in mano, la cavalla venne da me. Mi mise il naso sul petto, e inspirò ed espirò il mio odore allargando le nari. Poi alzò il muso e mi diede una lieve spinta alla mascella, come esortandomi a cedere alla tentazione del Matto. «Sapete da quanto tempo non monto in sella a un cavallo?» chiesi a tutti e due. «Troppo. Prendila» mi incoraggiò il Matto. Un'azione da fanciullo, quell'offerta immediata di dividere una proprietà preziosa, e il mio cuore rispose. Eravamo rimasti separati per anni, eravamo stati lontanissimi, ma nulla di ciò che contava davvero era cambiato tra noi. Non aspettai un altro invito. Misi il piede sulla staffa e montai, e nono-
stante gli anni trascorsi sentii tutta la differenza che c'era tra questa cavalla e la mia vecchia Fuliggine. Era più piccola, dall'ossatura fine, e più stretta tra le mie cosce. Mi sentii goffo e rozzo quando la spronai ad avanzare, poi la feci girare con un tocco delle briglie. Spostai il mio peso e tirai le redini e lei indietreggiò senza esitazione. Un sorriso sciocco mi si dipinse sul viso. «Potrebbe eguagliare i migliori cavalli di Castelcervo quando Burrich era capo stalliere» ammisi. Le misi la mano al garrese, e sentii la fiamma danzante di un cervellino vivace. Nessuna apprensione, solo curiosità. Il lupo sedeva nel portico, guardandomi solenne. «Portala sul sentiero» mi esortò il Matto, sorridendo anche lui. «E lasciala andare a briglia sciolta. Fatti mostrare cosa sa fare.» «Come si chiama?» «L'ho chiamata Malta. L'ho comprata a Costabassa, mentre ero diretto qui.» Annuii. A Costabassa allevavano cavalli piccoli e leggeri per solcare le loro vaste pianure battute dai venti. Doveva essere facile mantenerla: serviva poco cibo per tenerla in movimento giorno dopo giorno. Mi chinai un poco. «Malta» dissi, e la cavalla sentì il permesso nel nome. Balzò in avanti, ed eravamo partiti. Nessuno avrebbe detto che il viaggio di un giorno per arrivare alla mia casetta l'aveva stancata. Anzi, era come se ne avesse abbastanza del ritmo regolare e ora apprezzasse l'opportunità di distendere i muscoli. Corremmo sotto gli alberi che svettavano sopra di noi, e gli zoccoli come musica sulla terra battuta risvegliarono una simile canzone nel mio cuore. La fermai dove il mio sentiero incontrava la strada. Non ansimava neanche; anzi, inarcò il collo e diede un lievissimo strappo al morso per farmi sapere che sarebbe stata contenta di continuare. La trattenni, e guardai su e giù per la strada. Strano come quel piccolo cambiamento di prospettiva alterasse il mio intero senso del mondo attorno a me. A cavallo di quel bell'esemplare la strada era come un nastro sciolto di fronte a me. Il giorno stava svanendo, eppure sbattei le palpebre nella luce più dolce, scorgendo nuove possibilità nelle colline sempre più azzurre e le montagne che si perdevano nell'orizzonte della sera. La cavalla tra le mie cosce portava il mondo intero più vicino alla mia porta. Sedetti in silenzio e lasciai che i miei occhi percorressero la strada che un giorno poteva riportarmi a Castelcervo, o dovunque volessi andare. La mia vita tranquilla nella casetta con Ticcio sembrava angusta e limitante come una vecchia pelle. Volevo contorcermi come un serpente e lasciarla da parte, emergendo nuovo e luc-
cicante in un mondo più grande. Malta scrollò la testa, criniera e fiocchetti al vento, ricordandomi che ero seduto in contemplazione da troppo tempo. Il sole baciava l'orizzonte. La cavalla arrischiò un passo o due contro le redini tese. Aveva una volontà propria, ed era ben disposta a galoppare giù per la strada, non solo a tornare con calma alla mia casetta. Quindi facemmo un compromesso; la rivolsi di nuovo verso il sentiero, ma le lasciai scegliere il passo, che si rivelò un trotto ritmico. Quando la fermai di fronte alla soglia, il Matto gettò un'occhiata da dentro casa. «Ho messo a bollire l'acqua» gridò. «Prendi la mia borsa da sella, per favore. C'è dentro caffè di Borgomago.» Misi Malta nella stalla accanto al pony e le diedi acqua fresca e tutto il fieno che avevo. Non era molto; il pony sapeva pascolare da solo, e non disprezzava l'erba stentata sul pendio dietro alla casetta. I finimenti sontuosi del Matto luccicavano bizzarri sulle pareti rozze. Mi gettai la borsa da sella in spalla. Il crepuscolo d'estate stava addensandosi quando mi diressi di nuovo verso la casetta. C'erano luci alle finestre e il piacevole rumorio di pentole da cucina. Entrai per mettere la borsa sul tavolo; il lupo era sdraiato scomposto davanti al fuoco ad asciugare la pelliccia umida e il Matto gli girava attorno per appendere un bollitore al gancio. Sbattei le palpebre e per un istante mi ritrovai nella capanna del Matto nelle Montagne, mentre guarivo dalla mia vecchia ferita e lui si frapponeva tra me e il mondo per lasciarmi riposare. Allora come ora creava la realtà intorno a sé, portando ordine e pace in un'isoletta di calda luce del fuoco e semplice profumo di pane appena cotto. Abbassò gli occhi chiari per incontrare i miei, e l'oro delle iridi rispecchiò le fiamme. La luce gli accendeva gli zigomi e si perdeva fra i capelli. Scrollai lievemente il capo. «Nello spazio di un tramonto mi mostri il vasto mondo dalla groppa di un cavallo e l'anima del mondo fra le mie pareti.» «Oh, amico» disse quietamente il Matto. Una risposta sufficiente. Siamo completi. Il Matto alzò la testa a quel pensiero, come tentando di richiamare qualcosa di importante. Scambiai uno sguardo con il lupo. Aveva ragione. Come un frammento di vasellame incollato con tale precisione che le fenditure diventano invisibili, il Matto si era unito a noi, completandoci. La visita di Umbra mi aveva riempito di domande e necessità; la presenza del Matto era in sé stessa una risposta e una soddisfazione. Si era servito liberamente nell'orto e nella dispensa. Patate novelle e ca-
rote e mimolo purpureo e rape bianche bollivano a fuoco lento in una pentola. Strati di pesce fresco e basilico ribollivano facendo sussultare il coperchio quasi ermetico. Sollevai le sopracciglia, e il Matto si limitò a osservare: «Il lupo sembra ricordare la mia passione per il pesce fresco.» Occhi-di-notte tese indietro gli orecchi e spenzolò la lingua verso di me. Dolci cotti sul focolare e conserve di mora completavano il nostro semplice pasto. Il Matto aveva rintracciato il mio brandy di Lungosabbia. La bottiglia aspettava sulla tavola. Il Matto frugò nella borsa da sella e produsse un sacchetto di stoffa colmo di fagioli scuri che luccicavano d'olio. «Senti che profumo» mi disse, e poi mi mise a schiacciare i fagioli mentre riempiva d'acqua la mia ultima pentola e la metteva a bollire. Parlammo poco. Lui canticchiava a bocca chiusa e il fuoco scoppiettava mentre i coperchi borbottavano e gli schizzi occasionali sibilavano nel fuoco. Schiacciai i fagioli aromatici con il pestello nel mortaio, un suono casalingo. Ci muovemmo per un poco nel tempo del lupo, nell'appagamento del presente, senza preoccuparci di ciò che era passato o che sarebbe successo. Quella sera rimane per me un momento da serbare per sempre con amore, dorato e fragrante come brandy in bicchieri di cristallo. Con un'abilità che io non ho mai acquisito, il Matto preparò tutto il cibo in una volta, così che il caffè bruno e denso fumava accanto al pesce e alle verdure, e una pila di dolci si manteneva calda sotto una stoffa pulita. Sedemmo insieme a tavola, e il Matto preparò una fetta di pesce tenero per il lupo, che lo mangiò doverosamente anche se l'avrebbe preferito crudo e freddo. La porta della casetta rimase aperta sulla notte stellata; l'amicizia del cibo condiviso in una sera piacevolmente mite riempiva la stanza fino a traboccare. Accantonammo i piatti sporchi per pensarci più tardi, e portammo altro caffè sul portico. Era la mia prima esperienza di quella sostanza straniera. L'odore del liquido bruno e caldo era superiore al sapore, ma stimolava piacevolmente l'intelletto. In qualche modo ci trovammo a passeggiare insieme fino al ruscello, le tazze calde fra le mani. Il lupo bevve lunghi sorsi di acqua fresca, e poi tornammo indietro con calma, fermandoci vicino all'orto. Il Matto fece girare le perline dell'amuleto di Jinna mentre gli raccontavo la storia. Colpì leggermente la campanella con la punta del lungo dito, e un unico rintocco argentino si diffuse come un'onda lieve nella notte. Andammo a controllare la cavalla, e io chiusi la porta del pollaio per mettere le galline al sicuro per la notte. Camminammo di nuovo fino alla
casetta. Sedetti sui gradini del portico. Senza dire una parola il Matto portò in casa la mia tazza vuota. La riportò colma di brandy di Lungosabbia. Sedette accanto a me; il lupo pretese un posto sull'altro lato, e mi mise la testa sul ginocchio. Bevvi un sorso di brandy, accarezzai le orecchie del lupo e attesi. Il Matto emise un piccolo sospiro. «Sono stato lontano da te finché ho potuto.» Lo disse come per scusarsi. Alzai un sopracciglio. «Una tua visita non sarebbe mai giunta troppo presto. Mi sono chiesto spesso cosa fosse stato di te.» Lui annuì serio. «Sono andato lontano, sperando che finalmente avresti trovato una dimensione di pace e soddisfazione.» «È così» lo assicurai. «L'ho trovata.» «E ora sono tornato per portartela via.» Lo disse senza guardarmi. Fissò la notte, l'oscurità sotto gli alberi fitti. Dondolò le gambe come un bambino e bevve un sorso del brandy. Il mio cuore ebbe un lieve trasalimento. Pensavo che fosse venuto per il solo bisogno di vedermi. Con cautela chiesi: «Allora ti ha mandato Umbra? Per chiedermi di tornare a Castelcervo? Gli ho già dato la mia risposta.» «Davvero? Ah.» Il Matto tacque un momento, rigirando il brandy nella tazza mentre rifletteva. «Dovevo immaginare che era già stato qui. No, amico, non ho visto Umbra per tutti questi anni. Ma il fatto che ti abbia cercato conferma ciò che temevo. È giunto il momento in cui il Profeta Bianco deve utilizzare ancora una volta il suo Catalizzatore. Credimi, se ci fosse un altro modo, se potessi lasciarti in pace, lo farei. Credimi.» «Cosa vuoi da me?» gli chiesi a voce bassa. Ma il Matto non sapeva darmi una risposta diretta, proprio come quando era stato il giullare di re Sagace e io il nipote bastardo del re. «Voglio ciò che ho sempre voluto da te, da quando ho scoperto che esistevi. Se devo cambiare il tempo nel suo corso, se devo rimettere il mondo su un percorso più giusto, allora mi servi tu. La tua vita è il cuneo con cui dovrò scalzare il futuro dal suo solco.» Guardò il mio viso corrucciato e rise ad alta voce. «Ci provo, Fitz, davvero. Parlerò chiaro come posso, ma le tue orecchie non ci crederanno. Tanti anni fa giunsi per la prima volta nei Sei Ducati, alla corte di Sagace, per cercare di evitare un disastro. Non sapevo come, sapevo solo che dovevo farlo. E cosa trovai? Te. Un bastardo, ma un erede dei Lungavista. Non ti avevo mai scorto in nessun futuro; eppure, quando ricordai tutto ciò
che sapevo delle profezie della mia gente, trovai le tue tracce, più e più volte. Eri lì, in accenni impliciti e scaltri suggerimenti. E così feci tutto ciò che potevo per tenerti in vita, il che significava soprattutto spronarti a non farti ammazzare. Brancolai attraverso le nebbie, guidato appena dalla mia precognizione come la traccia luccicante di una lumaca. Agii basandomi sulla mia conoscenza di ciò che dovevo prevenire, che non dovevo far succedere. Sventammo tutti gli altri futuri. Ti spinsi nei pericoli e ti strappai alla morte, incurante di quanto ti costasse in dolore e cicatrici e sogni negati. Eppure sopravvivesti, e quando tutti i cataclismi della Purificazione del Cervo furono finiti, la linea dei Lungavista aveva un erede legittimo. Grazie a te. E all'improvviso fu come se io fossi stato portato in cima a un picco, sopra una valle ricolma di nebbia. Non dico che i miei occhi possano forare la nebbia; solo che mi trovo al di sopra e vedo, a enorme distanza, le vette di un futuro nuovo e possibile. Un futuro fondato su di te.» Mi guardò con occhi dorati che sembravano quasi splendere di luce propria nel fioco riverbero della porta aperta. Mi guardò e basta, e io mi sentii all'improvviso vecchio, e una fitta della cicatrice di freccia vicino alla spina dorsale mi tolse il respiro per un istante, seguita da un fremito, come un sordo presagio scarlatto. Mi dissi che ero rimasto seduto troppo a lungo in quella posizione; nient'altro. «Ebbene?» mi esortò il Matto. I suoi occhi percorsero il mio viso, quasi avidi. «Penso che mi servirà altro brandy» confessai, perché in qualche modo la mia tazza era vuota. Il Matto scolò la propria e prese la mia. Quando si alzò, il lupo e io lo imitammo. Lo seguimmo nella casetta. Lui rovistò nella sua borsa e prese una bottiglia piena per circa tre quarti. Riposi l'osservazione nella mia mente; dunque si era davvero fatto coraggio per l'incontro. Mi chiesi cosa avesse temuto. Stappò la bottiglia e riempì le tazze. La mia sedia e lo sgabello di Ticcio erano accostate al focolare, ma finimmo per sedere sulle pietre accanto al fuoco morente. Con un sospiro pesante il lupo si stese tra noi, mettendomi la testa in grembo. Lo grattai fra le orecchie, e colsi un'improvvisa fitta di dolore. Spostai la mano alle giunture delle anche e lo massaggiai con cautela. Occhi-di-notte emise un basso uggiolio mentre il tocco lo calmava. Fa molto male? Non è affar tuo. Tu sì che sei affar mio.
Soffrire in due non diminuisce il dolore. Non ci giurerei. «Sta diventando vecchio.» Il Matto interruppe i nostri pensieri intrecciati. «Anch'io» feci notare. «Tu invece sembri giovane come non mai.» «Eppure sono molto più vecchio di voi due messi insieme. E stasera mi sento tutti i miei anni.» Come per smentire le sue parole, attirò agilmente le ginocchia al petto e vi appoggiò il mento. Se bevi un po' di tisana di corteccia di salice, potresti sentirti meglio. Lascia perdere quella brodaglia e continua a massaggiare. Un lieve sorriso inarcò le labbra del Matto. «Riesco quasi a sentirvi. È come un moscerino che mi ronza accanto all'orecchio, o un prurito dimenticato. O cercare di richiamare un sapore dolce dal soffio passeggero di un profumo.» I suoi occhi dorati all'improvviso guardarono dritti nei miei. «Mi fa sentire solo.» «Mi spiace.» Non sapevo cosa dire. Non è che Occhi-di-notte e io comunicassimo in quel modo per escluderlo dal nostro cerchio. È che il nostro cerchio ci univa in un modo tale che non potevamo condividerlo. Eppure una volta ci siamo riusciti, mi ricordò Occhi-di-notte. Una volta lo abbiamo condiviso, ed è stato bello. Credo che non gettai neanche uno sguardo alla mano guantata del Matto. Forse lui ci era più vicino di quanto comprendessimo, perché alzò la mano e sfilò il guanto finemente tessuto. Comparve la mano elegante dalle lunghe dita. Una volta un suo tocco accidentale aveva sfiorato le mani di Veritas grondanti Arte. Quel tocco gli aveva inargentato le dita, e gli aveva conferito un'Arte tattile che gli permetteva di conoscere la storia degli oggetti semplicemente sfiorandoli. Girai il mio polso e lo guardai. Impronte grigio-violacee marcavano ancora l'interno, dove il Matto mi aveva toccato. Per qualche tempo le nostre menti erano state congiunte, quasi come se lui e Occhi-di-notte e io fossimo una vera confraternita d'Arte. Ma l'argento sulle sue dita si era affievolito, come le impronte sul mio polso e il legame che ci aveva uniti. Il Matto alzò un dito sottile come per avvertirmi. Poi girò la mano e la protese verso di me come per offrirmi un regalo invisibile sulla punta delle dita. Chiusi gli occhi per non cedere alla tentazione. Scossi lentamente il capo. «Non sarebbe saggio» dissi a fatica. «E si suppone che un Matto sia saggio?» «Sei sempre stato la creatura più saggia che io abbia conosciuto.» Aprii
gli occhi al suo sguardo intenso. «Lo vorrei come voglio il respiro stesso, Matto. Copriti le dita, per favore.» «Se ne sei sicuro... no, è una domanda crudele. Ecco, guarda, non ci sono più.» Infilò il guanto, alzò la mano per mostrarmela, e poi la strinse con l'altra mano scoperta. «Grazie.» Bevvi un lungo sorso del mio brandy, e sentii il sapore di un frutteto d'estate e api sospese nella calda luce del sole fra la frutta matura per terra. Una danza di miele e albicocche sulla lingua. Una dolcezza decadente. «Non ho mai assaggiato nulla di simile» osservai, lieto di cambiare argomento. «Ah, sì. Temo di essermi viziato, ora che posso permettermi il meglio. Ce n'è una nutrita scorta a Borgomago, in attesa che io comunichi dove inviarlo.» Alzai la testa, tentando di capire la battuta. Lentamente compresi che stava dicendo la pura verità. I bei vestiti, il purosangue, l'esotico caffè di Borgomago, e ora questo... «Sei ricco?» azzardai con prudenza. «A dir poco.» Una sfumatura rosea gli tinse le guance color ambra. Sembrava quasi vergognarsi ad ammetterlo. «Racconta!» lo invitai ridendo. Il Matto scosse il capo. «Storia troppo lunga. Ti farò un riassunto. Alcuni amici hanno insistito per dividere con me un'improvvisa ricchezza. Dubito che perfino loro conoscessero il pieno valore del tesoro che sono stato costretto ad accettare. Ho un'amica in una città commerciale, lontano a sud; lei lo vende ai prezzi migliori che beni così rari possono ottenere, e man mano mi spedisce lettere di credito a Borgomago.» Scrollò malinconico il capo, sconcertato dalla sua fortuna. «Non importa quanto spendo, sembra sempre essercene ancora.» «Sono contento per te» dissi con genuina sincerità. Il Matto sorrise. «Lo so. Eppure forse la parte più strana è che non cambia niente. Che io dorma su oro filato o paglia, il mio destino rimane lo stesso. Come il tuo.» C'eravamo di nuovo. Chiamai in causa tutta la mia energica determinazione. «No, Matto» dissi fermo. «Non mi lascio coinvolgere di nuovo nella politica di Castelcervo. Adesso ho la mia vita, ed è qui.» Il Matto inclinò la testa, e un'ombra del suo antico sorriso di giullare gli distese le labbra. «Ah, Fitz, hai sempre avuto la tua vita. È proprio quello il tuo problema. Hai sempre avuto un destino. Ma che sia qui...» Gettò un'occhiata rapida per la stanza. «Qui non è altro che dove siedi in questo
momento.» Trasse un lungo respiro. «Non sono venuto a trascinarti da nessuna parte, Fitz. È il tempo che mi ha condotto qui. Ha portato qui anche te. Come ha portato Umbra, e altre recenti svolte nelle tue sorti. O sbaglio?» Non si sbagliava. L'intera estate era stata un grande groviglio nell'ordinato gomitolo della mia vita. Non risposi, ma non ne avevo bisogno. Il Matto conosceva già la risposta. Si appoggiò alle pietre del focolare, tendendo le lunghe gambe. Mordicchiò pensierosamente il pollice scoperto, poi piegò indietro la testa e chiuse gli occhi. «Una volta ti ho sognato» dissi senza preavviso, senza sapere che avrei pronunciato quelle parole. Il Matto aprì un occhio giallo e felino. «Abbiamo già avuto questa conversazione, penso. Molto tempo fa.» «No. Stavolta è diverso. Non sapevo che fossi tu, fino a questo momento. O forse sì.» Era stata una notte insonne, anni prima, e al risveglio il sogno mi era rimasto addosso come pece sulle mani. Avevo capito che era significativo, eppure il frammento intravisto sembrava privo di senso. «Vedi, non sapevo che eri diventato dorato. Ma adesso, quando ti sei appoggiato indietro con gli occhi chiusi... Tu, o qualcun altro, giacevi su un pavimento di legno grezzo. Avevi gli occhi chiusi; eri malato o ferito. Un uomo si piegava su di te. Sentivo che voleva farti del male. Quindi...» Lo avevo respinto, usando lo Spirito come non lo avevo fatto per anni. Un urto violento di presenza animale per allontanarlo, per dominarlo in un modo che non poteva capire, ma che tuttavia odiava, odio proporzionato alla paura. Il Matto aspettava in silenzio. «Lo spinsi via da te. Era arrabbiato, ti odiava, voleva farti del male. Ma io gli impressi nella mente che doveva andare a cercare soccorsi. Doveva dire a qualcuno che avevi bisogno d'aiuto. Odiava quello che gli facevo, ma doveva obbedirmi.» «Perché glielo hai impresso con l'Arte» disse quietamente il Matto. «Può darsi» ammisi con riluttanza. Di certo il giorno successivo era stato un lungo tormento di mal di testa e fame di Arte. Il pensiero mi turbò. Mi ero detto che non ero in grado di usare così l'Arte. Altri sogni si agitarono inquieti nella mia memoria. Li repressi. No, mi dissi con forza. Non era la stessa cosa. «Era il ponte di una nave» mormorò il Matto. «Ed è molto probabile che tu mi abbia salvato la vita.» Prese fiato. «Immaginavo che fosse qualcosa del genere. Non capivo perché lui non si era liberato di me quando poteva
farlo. A volte, quando mi sentivo più solo, schernivo il mio bisogno di aggrapparmi a quella speranza. Di ritenermi tanto importante che qualcuno potesse viaggiare nei sogni per proteggermi.» «Avresti dovuto saperlo» dissi con calma. «Davvero?» La domanda era quasi una sfida. Mi diede l'occhiata più diretta che avessi mai ricevuto da lui. Non capivo il dolore nei suoi occhi, né la speranza. Aveva bisogno di qualcosa da me, ma non sapevo dire cosa. Cercai una risposta, ma prima di trovarla il momento sembrò passare. Il Matto distolse lo sguardo, sciogliendomi da quella strana invocazione. Quando i suoi occhi tornarono ai miei, cambiò espressione e argomento. «Allora. Cosa accadde dopo che volai via?» La domanda mi prese alla sprovvista. «Pensavo... ma hai detto che non vedi Umbra da anni. Come sapevi dove trovarmi?» In risposta, il Matto chiuse gli occhi e si toccò l'indice sinistro con il destro. Riaprì gli occhi e mi sorrise. Non avrebbe detto altro. «Non so da dove cominciare» dissi. «Lo so io. Da altro brandy.» Si levò in piedi senza sforzo. Gli lasciai prendere la mia tazza vuota. Misi una mano sulla testa di Occhi-di-notte e lo sentii sospeso tra sonno e veglia. Se i fianchi gli davano ancora fastidio, lo nascondeva bene. Stava migliorando, tenendosi separato da me. Mi chiesi perché celasse il dolore. Tu desideri dividere con me la tua schiena dolorante? Lasciami in pace e smettila di prendere i guai degli altri sulle tue spalle. Non tutti i problemi del mondo appartengono a te. Alzò la testa dal mio ginocchio e con un sospiro profondo si stirò lungo disteso davanti al focolare. Come una tenda che cadeva tra noi, si occultò ancora una volta. Mi alzai lentamente, premendomi una mano sulla schiena per placare l'indolenzimento. Il lupo aveva ragione. A volte condividere il dolore non aveva molto senso. Il Matto riempì di nuovo le tazze con il brandy all'albicocca. Sedetti a tavola e lui mi mise davanti la mia. Tenne in mano la sua mentre vagava per la stanza. Si fermò davanti alla mappa incompiuta dei Sei Ducati fatta da Veritas che tenevo appesa al muro, gettò uno sguardo nella nicchia dove di solito dormiva Ticcio, e poi guardò dentro la porta della mia camera da letto. Quando Ticcio era venuto a vivere con me avevo aggiunto un vano che consideravo il mio studio. Era dotato di un caminetto, oltre al mio scrittoio e ripiani per le pergamene. Il Matto si fermò sulla soglia, poi entrò con decisione. Lo osservai. Era come guardare un gatto che esplora una casa sconosciuta. Non toccò niente, eppure sembrava
vedere tutto. «Quante pergamene» osservò dallo studio. Alzai la voce per rispondergli. «Sto tentando di scrivere una storia dei Sei Ducati. Pazienza e Piuma me lo proposero anni fa, quando ero ragazzo. Mi aiuta a occupare le serate.» «Capisco. Posso?» Annuii. Il Matto sedette al mio scrittoio e srotolò la pergamena sul gioco dei sassolini. «Ah, sì, questo me lo ricordo.» «Umbra lo vuole quando avrò finito. Ogni tanto gli spedisco qualcosa tramite Stornella. Non lo vedevo da quando ci separammo nelle Montagne, poi un mese fa è riapparso.» «Ah. Ma vedevi Stornella.» Mi dava le spalle. Mi chiesi che espressione avesse. Il Matto e la cantastorie non erano mai andati d'accordo. Per qualche tempo c'era stata una tregua precaria, ma io ero sempre stato motivo di polemica tra loro. Il Matto non aveva mai approvato la mia amicizia con Stornella, ritenendo che la donna non avesse molto a cuore i miei migliori interessi. Non era facile fargli sapere che aveva sempre avuto ragione. «L'ho vista per qualche tempo. Ogni tanto, per, dunque, sette o otto anni. È lei che mi ha portato Ticcio, circa sette anni fa. Ha appena compiuto quindici anni. Adesso non è a casa; è andato a cercare lavoro nella speranza di guadagnare più soldi per pagarsi un apprendistato. Vuole fare l'ebanista. Lavora bene, per essere un ragazzo; il tavolo e gli scaffali li ha fatti lui. Ancora non so se ha la pazienza per i dettagli che serve a un buon artigiano. Tuttavia è ciò che desidera il suo cuore, e vuole mettersi a bottega da un maestro a Borgo Castelcervo. Si chiama Gindast. Perfino io ho sentito parlare di lui. Se avessi capito che Ticcio puntava così in alto, avrei risparmiato di più nel corso degli anni. Ma...» «Stornella?» La sua domanda mi sviò dalle mie riflessioni sul ragazzo. Era dura ammetterlo. «Ora è sposata. Non so da quanto. Il ragazzo lo ha scoperto quando è andato alla Festa di Primavera a Castelcervo con lei. È tornato a casa e me lo ha detto.» Alzai una spalla. «Stornella sapeva che se lo avessi saputo avrei chiuso con lei. Si è arrabbiata lo stesso. Non riusciva a capire perché non potesse continuare, purché suo marito non lo scoprisse.» «Stornella è così.» La voce del Matto era stranamente calma, come se partecipasse al mio rammarico per una malattia dell'orto. Si girò sulla sedia dello scrittoio per guardarmi da sopra la spalla. «E tu stai bene?» Mi schiarii la gola. «Mi sono tenuto occupato. E non ci ho pensato molto.»
«Dato che lei non si vergogna, pensi che debba toccare a te. Quelli come lei sono così bravi a scaricare la colpa. Che bell'inchiostro rosso. Dove lo hai trovato?» «L'ho fatto io.» «Davvero?» Curioso come un bambino, il Matto stappò una delle bottigliette di inchiostro sul mio scrittoio e vi intinse il mignolo. Ne uscì tinto di scarlatto sulla punta. Lui lo contemplò per un momento. «Ho tenuto l'orecchino di Burrich» ammise all'improvviso. «Non l'ho portato a Molly.» «Lo vedo. Sono contento. Meglio che nessuno di loro sappia che sono sopravvissuto.» «Ah. Un'altra domanda trova risposta.» Tirò fuori un fazzoletto candido dalla tasca e lo rovinò asciugando l'inchiostro rosso dal dito. «Allora. Vuoi raccontarmi tutti gli eventi nell'ordine, o devo cavarteli un pezzo per volta?» Sospirai. Avevo paura a ricordare quei momenti. Umbra era stato disposto ad accettare un resoconto dei fatti che si riferivano al regno dei Lungavista. Il Matto avrebbe voluto di più. Rabbrividivo al pensiero, ma non riuscivo a evitare l'idea che in qualche modo glielo dovessi. «Tenterò. Ma sono stanco, e abbiamo bevuto troppo brandy, ed è troppo da raccontare in una sera.» Il Matto inclinò la sedia all'indietro. «Ti aspettavi che me ne andassi domani?» «Lo pensavo.» Lo guardai in viso e aggiunsi: «Non lo speravo.» Il Matto accettò la mia parola. «Bene, perché avresti sperato invano. A dormire, Fitz. Io prenderò la branda del ragazzo. Domani non sarà troppo tardi per cominciare a riempire quasi quindici anni di assenza.» Il brandy all'albicocca del Matto era più potente del Lungosabbia, o forse ero semplicemente più stanco del solito. Barcollai verso la mia stanza, mi tolsi la tunica e mi lasciai cadere nel letto. Rimasi così, con la stanza che ondeggiava con dolcezza intorno me, e ascoltai i suoi passi leggeri per la stanza principale mentre spegneva candele e metteva il chiavistello. Forse solo io avrei potuto notare la lieve instabilità nei suoi movimenti. Poi sedette sul mio scranno e allungò le gambe verso il fuoco. Ai suoi piedi, il lupo uggiolò e si mosse nel sonno. Toccai con dolcezza la mente di Occhidi-notte; era profondamente addormentato e trasudava soddisfazione. Chiusi gli occhi, ma la stanza vorticò vertiginosamente. Li socchiusi appena e fissai il Matto. Sedeva immobile, contemplando il fuoco, ma la luce danzante delle fiamme dava vita ai suoi lineamenti. Gli angoli del viso ve-
nivano nascosti e svelati con il movimento delle ombre. L'oro della pelle e degli occhi sembrava un trucco della luce, ma sapevo che non lo era. Era difficile comprendere che non era più il giullare birichino che aveva servito e insieme protetto re Sagace per tanti anni. Fisicamente non era cambiato, se non per il colorito. Le mani aggraziate dalle lunghe dita penzolavano dai braccioli della sedia. I capelli, un tempo chiari e leggeri come lanugine di soffioni, ora lasciavano il viso scoperto, legati in una coda dorata. Chiuse gli occhi e appoggiò la testa allo schienale. La luce del fuoco tingeva di bronzo il suo profilo aristocratico. Forse i suoi abiti sontuosi richiamavano l'antico costume invernale a chiazze bianche e nere, ma potevo scommettere che non avrebbe mai più portato campanelli e nastri e uno scettro dalla testa di ratto. La sua intelligenza vivace e la lingua pungente non influenzavano più il corso di eventi politici. Ora la sua vita apparteneva a lui. Tentai di immaginarlo come un uomo ricco, in grado di viaggiare e vivere come gli pareva. Un pensiero improvviso mi scosse dalla mia sicurezza. «Matto?» chiamai ad alta voce nella stanza in penombra. «Cosa?» Non aprì gli occhi, ma la risposta pronta mostrò che non era ancora scivolato nel sonno. «Non sei più il Matto. Come ti chiamano in questi giorni?» Un sorriso lento curvò il profilo delle labbra. «Come mi chiama chi e quando?» Parlò nel tono esasperante del giullare che era stato. Se avessi tentato di districare quella domanda, mi avrebbe fatto ruzzolare con le sue acrobazie verbali, lasciandomi senza la speranza di una risposta. Rifiutai di farmi coinvolgere nel gioco. Riformulai la domanda. «Non dovrei più chiamarti Matto. Come vuoi che ti chiami?» «Ah, come voglio che mi chiami tu? Capisco. Tutta un'altra faccenda.» La derisione era una melodia nella sua voce. Trassi un respiro e semplificai il più possibile la domanda. «Qual è il tuo nome, il tuo vero nome?» «Ah.» Si era fatto all'improvviso serio. Inspirò lentamente. «Il mio nome. Cioè come mi chiamava mia madre quando nacqui?» «Sì.» E poi trattenni il fiato. Il Matto parlava della sua infanzia di rado. Mi resi conto all'improvviso dell'immensità di quello che gli avevo chiesto. Era l'antica magia dei nomi: se so come ti chiami davvero, ho potere su di te. Se ti dico il mio nome, ti concedo quel potere. Come tutte le domande dirette che avevo posto al Matto, temevo e desideravo la risposta.
«E se te lo dico, mi chiameresti così?» Il suo tono mi disse di soppesare la mia risposta. Riflettei. Il suo nome era suo, non mio da usare senza discrezione. «Solo in privato. E solo se lo desideri» proposi un impegno come un voto solenne. «Ah.» Il Matto si girò a guardarmi. Il suo viso si accese di gioia. «Certo che lo desidero» mi assicurò. «Allora?» chiesi di nuovo. Ero all'improvviso a disagio, certo di essere stato in qualche modo abbindolato un'altra volta. «Il nome che mia madre mi diede, ora lo do a te, per chiamarmi così in privato.» Prese fiato e si rivolse di nuovo al fuoco. Chiuse di nuovo gli occhi, ma il suo sorriso si fece ancor più largo. «Amore. Mi chiamò solo 'Amore.'» «Matto!» protestai. Lui rise, una risata soffocata, ricca e profonda di puro divertimento, pienamente compiaciuta. «Davvero» insisté. «Matto, dico sul serio.» La stanza aveva cominciato a girare lentamente intorno a me. Se non dormivo presto avrei vomitato. «E io no?» Sospirò in modo teatrale. «Ebbene, se non puoi chiamarmi 'Amore', allora suppongo che dovresti continuare a chiamarmi 'il Matto.' Perché io sarò sempre il Matto per il tuo Fitz.» «Tom lo Striato.» «Cosa?» «Ora sono Tom lo Striato. Mi conoscono così.» Il Matto rimase in silenzio per qualche attimo. «Non io» rispose infine con decisione: «Se insisti che entrambi dobbiamo assumere nomi diversi, allora ti chiamerò 'Amore.' E ogni volta che ti chiamo così, tu potrai chiamarmi 'Matto.'» Aprì gli occhi e girò la testa per guardarmi. Mi rivolse uno stucchevole sorriso da innamorato, poi sospirò con enfasi. «Buona notte, Amore. Siamo stati separati per troppo tempo.» Mi arresi. Quando era di quell'umore la conversazione era senza speranza. «Buona notte, Matto.» Mi girai dall'altra parte e chiusi gli occhi. Se mai mi diede una risposta, dormivo già. 6 Gli anni del silenzio Nacqui bastardo. Trascorsi i primi sei anni di vita nel Regno delle Mon-
tagne con mia madre. Non ho ricordi chiari di quel tempo. A sei anni mio nonno mi portò al forte di Occhio di Luna, e là mi consegnò a mio zio paterno, Veritas Lungavista. La rivelazione della mia esistenza fu il fallimento personale e politico che spinse mio padre a rinunciare al trono dei Lungavista e a ritirarsi del tutto dalla vita di corte. Fui affidato dapprima a Burrich, capo stalliere a Castelcervo. Più tardi re Sagace ritenne giusto pretendere la mia lealtà e farmi addestrare come assassino di corte. Con la morte di Sagace, dovuta al tradimento del figlio minore Regal, la mia lealtà passò a re Veritas. Lo seguii e lo servii fino al momento in cui lo vidi riversare la sua vita e la sua essenza in un drago scolpito nella pietra. Così si animò Veritas-il-drago, e così i Sei Ducati furono salvati dalle razzie dei Pirati delle Navi Rosse venuti dalle Isole Esterne, perché Veritas-ildrago guidò i draghi degli Antichi a ripulire i Sei Ducati dagli invasori. Dopo aver servito in tal modo il mio re, ferito nel corpo e nello spirito, mi ritirai da corte e società per quindici anni. Credevo che non sarei mai tornato. In quegli anni tentai di stendere una storia dei Sei Ducati, e un resoconto della mia vita. Inoltre ottenni e studiai diverse pergamene e scritti su una gran varietà di temi. Quelle ricerche eclettiche erano in realtà uno sforzo deliberato per scoprire la verità, per trovare ed esaminare le componenti e le forze che avevano plasmato la mia vita. Eppure, più studiavo e affidavo i miei pensieri agli scritti, più la verità mi sfuggiva. Ciò che la vita mi ha mostrato, nei miei anni lontani dal mondo, è che nessuno viene mai a sapere tutta la verità. Il tempo ha messo in una luce diversa tutto ciò che una volta avevo creduto riguardo alle mie esperienze e a me stesso. Ciò che pareva illuminato è stato immerso nell'ombra, e i dettagli che avevo considerato banali sono balzati in primo piano. Burrich il capo stalliere, l'uomo che mi aveva allevato, una volta mi avvertì: «Quando tagli via pezzi della verità per evitare di apparire sciocco, finisci per sembrare un idiota.» Ho scoperto che è vero, per esperienza di prima mano. Eppure, anche senza tagliare e scartare di proposito pezzi di una storia, anni dopo aver dato un resoconto completo e onesto, un uomo può scoprirsi bugiardo. Non sono bugie intenzionali: nascono puramente dai fatti di cui non era al corrente quando scrisse, o dalla sua ignoranza del significato di eventi banali. Nessuno è lieto di trovarsi in tale situazione, ma chi dice che non gli è mai successo sta solo sovrapponendo una nuova bugia alle altre. I miei sforzi per scrivere una storia dei Sei Ducati erano basati sulla
tradizione orale e su vecchie pergamene. Quando mi cimentai nella scrittura, capii che forse stavo perpetuando l'errore di un altro. Non avevo compreso che il tentativo di narrare la mia vita poteva avere lo stesso difetto. La verità, scoprii, è un albero che cresce mentre un uomo guadagna accesso all'esperienza. Un bambino vede la ghianda della sua vita quotidiana, ma un uomo si volta indietro a guardare la quercia. Nessuno può tornare ragazzo. Ma ci sono interludi nella vita di un uomo in cui, per qualche tempo, si può ricatturare la sensazione che il mondo sia un luogo clemente e che la vita sia eterna. Ho sempre creduto che quella fosse l'essenza della fanciullezza: pensare che gli errori non possano essere fatali. Il Matto risvegliò in me quel vecchio ottimismo, e anche il lupo sembrò stravagante come un cucciolo per i giorni che lui rimase con noi. Il Matto non si intromise nella nostra vita. Non dovemmo in alcun modo adattarci o cambiare le nostre abitudini. Semplicemente si unì a noi, regolando i suoi orari sui nostri e facendo suo il mio lavoro. Si svegliava puntualmente prima di me. Al risveglio trovavo le porte dello studio e della camera aperte, e magari anche la porta d'ingresso. Dal letto lo vedevo seduto a gambe incrociate come un sarto sulla mia sedia di fronte allo scrittoio. Era sempre lavato e vestito per affrontare la giornata. I suoi abiti eleganti scomparvero dopo il primo giorno, sostituiti da semplici farsetti e brache o il conforto serale di una veste. Era consapevole della mia presenza non appena mi svegliavo, e alzava gli occhi prima che parlassi. Lo trovavo sempre a leggere, le pergamene o i documenti che avevo faticosamente acquisito, oppure quelli composti da me. Alcuni erano i miei tentativi falliti di scrivere una storia dei Sei Ducati. Altri erano i miei sparsi sforzi di trarre un senso dalla mia vita mettendola per iscritto. Alzava un sopracciglio al mio risveglio, e poi rimetteva con cura la pergamena al suo posto esatto. Se avesse voluto, non avrebbe lasciato traccia di aver letto i miei diari. Invece mostrò il suo rispetto non facendo domande su ciò che leggeva. I pensieri privati che avevo affidato alla carta rimanevano tali, i miei segreti sigillati dietro alle labbra del Matto. Si inserì con disinvoltura nella mia vita, riempiendo un vuoto di cui non mi ero accorto. Con lui quasi dimenticai l'assenza di Ticcio, a parte il mio desiderio di mostrargli con orgoglio il ragazzo. So che parlavo spesso di lui. A volte il Matto lavorava con me nell'orto o mi aiutava a riparare il recinto di pietra e tronchi. Quando era un compito per un uomo solo, come scavare nuove buche per i pali, si appollaiava nelle vicinanze e osservava.
In quei casi i nostri discorsi erano semplici, relativi al lavoro del momento, o facili battute di uomini che hanno condiviso la fanciullezza. Se tentavo di indirizzare il discorso su questioni serie, schivava le mie domande con le sue facezie. Cavalcammo Malta a turno, dato che il Matto si vantava di poter saltare qualsiasi ostacolo, e una serie di barriere improvvisate attraverso il mio sentiero provò presto che era vero. La vivace cavallina parve divertirsi quanto noi. Dopo cena, a volte passeggiavamo sulle rupi, o scendevamo a camminare sulla spiaggia mentre la marea si ritirava Nella luce mutevole cacciavamo conigli con il lupo, e tornavamo a casa ad accendere un fuoco più per allegria che per il calore. Il Matto aveva portato varie bottiglie di brandy all'albicocca, e la sua voce era bella come non mai. A sera era il suo turno di cantare, e parlare, e raccontare storie sbalorditive e divertenti. Alcune sembravano tratte dalle sue avventure; altre erano evidentemente novelle popolari apprese lungo la strada. Le sue mani aggraziate erano più articolate dei burattini che un tempo aveva foggiato, e il suo volto mobile sapeva rappresentare ogni personaggio. Solo a tarda sera, quando il fuoco era ridotto a brace e il suo volto era più ombra che forma, il Matto conduceva il mio discorso dove voleva andare. Quella prima sera, in una voce quieta addolcita dal brandy, osservò: «Hai idea di quanto fu duro per me lasciare che Ragazza-sul-drago mi portasse via lasciandoti indietro? Dovevo credere che le ruote erano in moto, e che saresti vissuto. Volare via e lasciarti lì ha davvero messo alla prova la mia fiducia in me stesso.» «Fiducia in te stesso?» chiesi, fingendomi insultato. «Non avevi alcuna fiducia in me?» Il Matto aveva steso il giaciglio di Ticcio sul pavimento di fronte al focolare, e avevamo abbandonato le sedie per sdraiarci in quel dubbio conforto. Il lupo, muso sulle zampe, sonnecchiava alla mia sinistra, mentre alla mia destra il Matto si appoggiava sui gomiti, le mani a sostenere il mento. Fissava il fuoco, dondolando lievemente i piedi sollevati. Le ultime fiamme danzarono allegramente nei suoi occhi. «In te? Ecco, dirò solo che traevo grande conforto dalla presenza del lupo al tuo fianco.» In quello, la sua fiducia non era mal riposta, osservò ironico il lupo. Pensavo che dormissi. Ci provo. La voce del Matto era quasi trasognata. «Eri scampato a ogni cataclisma che avessi mai scorto per te. Quindi ti lasciai, costringendomi a credere che per te c'era in serbo un periodo di quiete. Forse addirittura di pace.»
«Sì. In un certo senso.» Trassi un respiro. Quasi gli dissi della mia veglia di morte accanto a Fermo. Fui sul punto di raccontargli di come avevo usato Fermo con la magia dell'Arte, prendendo tramite lui il controllo della mente di Regal e imponendogli la mia volontà. Esalai il respiro. Il Matto non aveva bisogno di sentirlo; io non avevo bisogno di riviverlo. «Ho trovato la pace. Un poco per volta. Pezzi di pace.» Sorrisi scioccamente. Strane, le piccole cose che divertono quando si è bevuto abbastanza. Mi trovai a parlare del mio anno nelle Montagne. Gli dissi del mio ritorno alla valle dove fluivano le sorgenti calde, e della semplice capanna che costruii all'arrivo dell'inverno. Le stagioni si susseguono più in fretta nei paesi alti. Una mattina le foglie di betulla sono venate di giallo, e l'ontano è diventato rosso durante la notte. Poche altre notti, e i rami sono dita nude, tese verso un freddo cielo azzurro. I sempreverdi si curvano contro l'inverno imminente. Poi giunge la neve, a coprire il mondo di un bianco mantello pietoso. Gli dissi dei miei giorni trascorsi cacciando, con Occhi-di-notte come unico compagno. La guarigione e la pace erano le prede più elusive. Vivevamo in modo semplice, come predatori, senza lealtà se non quella reciproca. Quella solitudine assoluta era il balsamo migliore per le ferite del mio corpo e della mia anima. Sono cicatrici che non guariscono davvero, ma imparai a conviverci, più o meno come Burrich un tempo aveva imparato a tollerare la gamba zoppa. Cacciammo cervi e conigli. Giunsi ad accettare che ero morto, che avevo perso la vita sotto ogni aspetto che fosse importante. I venti invernali soffiavano intorno al nostro piccolo ricovero, e io capii che Molly non era più mia. Furono brevi giorni di inverno, pause di sole su candida neve brillante prima che il lungo crepuscolo dalle dita livide tornasse ad attrarre la notte profonda. Imparai a smorzare la perdita sapendo che la mia figlioletta sarebbe cresciuta sotto la tutela di Burrich, come ero cresciuto io. Avevo tentato di liberarmi dei ricordi di Molly. Il dolore lacerante di aver tradito la sua fiducia era la gemma più luminosa di una sfavillante collana di ricordi tristi. Avevo sempre desiderato di essere sciolto dai miei doveri e dalle mie obbligazioni, ma troncare quei legami era stato uno strappo, più che un'emancipazione. Mentre i brevi giorni di inverno si alternavano alle lunghe notti fredde contai coloro che avevo perso. Quelli che ancora sapevano che ero vivo si contavano sulle dita di una mano. Il Matto, la regina Kettricken, Stornella la cantastorie, e attraverso di loro, Umbra: i quattro che sapevano della mia esistenza. Pochi altri mi avevano
visto vivo, fra cui Mani il capo stalliere e un certo Tag figlio di Ordito, una guardia, ma le circostanze di quei brevi incontri erano tali che qualsiasi racconto della mia sopravvivenza sarebbe stato difficilmente creduto. Tutti gli altri che mi avevano conosciuto, inclusi coloro che più mi avevano amato, mi credevano morto. E io non potevo tornare per dimostrare il contrario. Ero già stato giustiziato una volta per aver praticato la magia dello Spirito. Non volevo rischiare una morte più definitiva. Eppure, anche se avessi potuto cancellare quella macchia dal mio nome, non potevo tornare da Burrich e Molly. Altrimenti avrei distrutto tutti noi. Anche se Molly fosse stata capace di tollerare la mia Magia della Bestia e le molte volte che l'avevo ingannata, come potevamo rimediare al suo successivo matrimonio con Burrich? Rivelare a Burrich che aveva usurpato mia moglie e mia figlia lo avrebbe distrutto. Potevo fondare la mia felicità futura su questo? Poteva farlo Molly? «Tentai di confortarmi con il pensiero che erano felici e al sicuro.» «Non potevi raggiungerli con l'Arte, per assicurartene?» Le ombre della stanza erano più profonde e gli occhi del Matto erano fissi sul fuoco. Era come raccontare la mia storia a me stesso. «Potrei dire che imparai a rispettare la loro riservatezza. In verità penso che temessi di impazzire alla vista del loro amore.» Parlai di quei giorni guardando il fuoco, eppure sentii gli occhi del Matto rivolgersi a me. Non mi girai verso di lui. Non volevo vedere la sua pietà. Avevo superato il bisogno della pietà di chiunque. «Ho trovato la pace» gli dissi. «Un poco alla volta, ma è venuta a me. Una mattina Occhi-di-notte e io stavamo tornando da una caccia all'alba. Avevamo avuto successo, prendendo una capra di montagna che le nevi pesanti dell'inverno avevano spinto giù dalle cime. Scendevamo una collina ripida, la carcassa sbudellata era pesante, e la pelle del mio viso era rigida come una maschera per il freddo bruciante del pallido cielo azzurro. Scorgevo un filo sottile di fumo dal mio camino, e appena oltre la capanna, il vapore nebbioso saliva dalle vicine sorgenti calde. In cima all'ultima collina feci una pausa per riprendere fiato e rilassare la schiena.» Mentre raccontavo il ricordo mi tornò nitido alla mente. Occhi-di-notte fermo accanto a me, ansimando nuvole di vapore. Il mio viso avvolto nel mantello, ora mezzo congelato insieme alla barba. Guardando giù sapevo che avevamo carne per giorni, la nostra dimora era sicura contro la morsa fredda dell'inverno, ed eravamo quasi a casa. Per quanto fossi infreddolito e stanco, la soddisfazione prevaleva nella mia mente. Mi sistemai la preda
sulle spalle. Quasi a casa, dissi a Occhi-di-notte. Quasi a casa, aveva fatto eco il lupo. E nel condividere quel pensiero avevo avvertito un significato che nessuna voce umana avrebbe potuto esprimere. Casa. Una meta. Un luogo a cui appartenere. L'umile casetta era diventata una casa, una destinazione confortante dove mi aspettavo di trovare tutto ciò di cui avevo bisogno. Contemplandola dall'alto provai una fitta di coscienza, come per un dovere dimenticato. Mi ci volle un momento per capire cosa mancava. Era passata una notte intera e non avevo pensato neanche una volta a Molly. Dove erano finiti il mio desiderio ardente e il mio senso di perdita? Che genere di individuo insensibile poteva abbandonare quel lutto e pensare solo alla caccia dell'alba? Di proposito avevo rivolto i miei pensieri al luogo e alle persone che un tempo avevo incluso nella parola 'casa'. Quando io frugo in una cosa morta per ridestarne il sapore, tu mi rimproveri. Mi ero voltato verso Occhi-di-notte, ma il lupo aveva rifiutato di incontrare il mio sguardo. Sedeva nella neve, orecchie tese verso la casetta. Lo sgradevole venticello invernale agitava la folta pelliccia, ma non poteva penetrare fino alla pelle. Ovvero? avevo insistito, anche se il significato era chiarissimo. Dovresti smettere di annusare la carcassa della tua vecchia vita, fratello. Forse il dolore senza fine ti piace. A me no. Non c'è vergogna nell'allontanarsi dalle ossa, Cambiamento. Finalmente aveva girato la testa per fissarmi con occhi profondi. E non è particolarmente saggio continuare a farsi del male. Perché sei così fedele a quel dolore? Abbandonarlo non ti diminuirà. Poi si era alzato, scrollando la neve dalla pelliccia, ed era sceso di buon trotto giù per il pendio nevoso. Lo avevo seguito procedendo più lentamente. Infine gettai uno sguardo al Matto. Lui mi fissò, occhi indecifrabili nell'oscurità. «Penso che fu il primo pezzo di pace che trovai. Non mi attribuisco alcun merito per averlo trovato. Ha dovuto indicarmelo Occhi-dinotte. Forse per un altro sarebbe stato ovvio. Lasciare in pace i vecchi dolori. Quando smettono di farsi sentire, non invitarli di nuovo.» La sua voce era molto sommessa nella stanza in penombra. «Non c'è niente di disonorevole nell'abbandonare il dolore. A volte la pace si trova più in fretta quando si smette semplicemente di evitarla.» Si mosse appena
nel buio. «E non ti ritrovi più sveglio tutta la notte, fissando l'oscurità e pensando a loro.» Sbuffai leggermente. «Vorrei che fosse così. Ma posso dire solo che ho smesso di provocare di proposito quella malinconia. Quando l'estate finalmente arrivò e ripartimmo, fu come lasciarsi indietro una pelle scartata.» Lasciai che il silenzio seguisse le mie parole. «Quindi hai lasciato le Montagne e sei tornato al Cervo.» Sapeva che non era così; era solo una piccola provocazione per spingermi a continuare. «Non subito. Occhi-di-notte non approvava, ma sentivo che non potevo lasciare le Montagne prima di aver ripercorso parte del nostro viaggio. Tornai alla cava dove Veritas aveva scolpito il suo drago. Mi fermai nel punto esatto. Era solo un luogo piatto e brullo, bordato dai muri torreggianti della cava sotto un cielo grigio come lavagna. Nessuna traccia di tutto ciò che vi era accaduto, solo mucchi di schegge e alcuni attrezzi consumati. Attraversai il nostro campo. Sapevo che le tende schiacciate e gli oggetti sparsi erano un tempo appartenuti a noi, ma la maggior parte aveva perso ogni significato. Stracci sbiaditi, zuppi e informi. Trovai alcune cose che presi con me... i pezzi per il gioco dei sassolini di Ciottola. Presi quelli.» Trassi un respiro. «E andai dove era morto Carota. Il suo corpo era come l'avevamo lasciato, ridotto a ossa e resti di stoffa marcia. Nessun animale lo aveva disturbato. Non amano la strada dell'Arte, sai.» «Lo so» ammise quietamente il Matto. Sentii che aveva attraversato con me la cava abbandonata. «Rimasi a lungo a fissare quelle ossa. Tentai di ricordare Carota la prima volta che lo avevo incontrato, ma non riuscii. Ma guardare le sue ossa era come una conferma. Era davvero accaduto tutto, e tutto era davvero finito. Gli eventi, il luogo, potevo allontanarmene. Potevo lasciarmelo alle spalle, e non si sarebbe rialzato per seguirmi.» Occhi-di-notte gemette nel sonno. Gli misi una mano sul fianco, lieto di sentirlo così vicino nel contatto e nella mente. «Lui non approvò la mia visita alla cava. Non gli piacque viaggiare lungo la strada dell'Arte, anche se ero diventato più bravo a mantenere il mio senso di identità contro quel richiamo seducente. Fu ancor più seccato quando insistetti per tornare anche al Giardino di Pietra.» Un lieve suono, il tintinnio della bottiglia contro il bordo della tazza mentre il Matto la riempiva di brandy. Il silenzio era un invito a parlare. «I draghi erano tornati dove li trovammo per la prima volta. Andai a vi-
sitarli. La foresta stava gradualmente riprendendoseli, l'erba spuntava alta intorno a loro e i rampicanti cominciavano a ricoprirli. Erano belli e sconvolgenti come quando li scoprimmo. E altrettanto immobili.» Quando avevano interrotto il loro sonno e si erano levati a lottare per il Cervo, avevano aperto squarci nel baldacchino della foresta. Il loro ritorno non era stato più delicato, e così la luce del sole cadeva a fasci, penetrando la lussureggiante vegetazione per indorare ogni drago scintillante. Camminai fra loro, e come un tempo avvertii lo spettrale fremito della vita-Spirito all'interno delle statue immerse nel sonno. Trovai il drago cornuto di re Savio; osai mettere la mano nuda sulla sua spalla. Sentii solo scaglie finemente intagliate, fredde e dure come la pietra da cui erano state plasmate. Erano tutti là: il drago-cinghiale, il gatto alato, tutte le forme stravaganti e diverse scolpite da Antichi e confraternite d'Arte. «Vidi anche Ragazza-sul-drago.» Sorrisi alle fiamme. «Dorme bene. La figura umana ora è piegata in avanti, le braccia chiuse con amore attorno al collo del drago su cui siede ancora.» Non la toccai per timore; ricordavo troppo chiaramente la sua fame di ricordi, e come l'avevo alimentata con la mia. Forse temevo di riprendermi ciò che una volta le avevo dato volontariamente. Scivolai silenziosamente oltre, ma Occhi-di-notte le passò accanto con diffidenza, pelo dritto, mostrando i denti bianchi in un ringhio. Il lupo sapeva cosa cercavo davvero. «Veritas» disse piano il Matto, pronunciando il mio pensiero inespresso. «Veritas» confermai. «Il mio re.» Sospirai e ripresi la mia storia. Lo avevo trovato. Quando vidi le scaglie turchesi di Veritas luccicare nell'ombra screziata dell'estate, Occhi-di-notte sedette e arricciò la coda intorno alle zampe anteriori. Non volle avvicinarsi oltre. Avvertii il silenzio dei suoi pensieri mentre mi concedeva con cautela la riservatezza della mia mente. Mi avvicinai lentamente a Veritas-il-drago, con il cuore in gola. Là, in un corpo scolpito in Arte e pietra, dormiva l'uomo che era stato il mio re. Per amor suo avevo ricevuto ferite così gravi che la mia mente e il mio corpo ne avrebbero portato le cicatrici fino al mio ultimo giorno. Eppure, mentre mi avvicinavo alla forma immobile, sentii le lacrime pungermi gli occhi, e conobbi solo il desiderio della sua voce familiare. «Veritas?» chiesi rauco. La mia anima si tese verso di lui, parola, Spirito e Arte, cercando il mio re. Non lo trovai. Posi i palmi sulla spalla fredda, premetti la fronte contro quella forma dura, e mi protesi di nuovo, temerariamente. Allora lo sentii, ma era il fantasma lontano e sottile di ciò che era
stato. Come dire che si tocca il sole quando nella foresta si raccoglie un chiazza di luce nel palmo di una mano. «Veritas, ti prego» implorai, e mi protesi di nuovo con ogni goccia dell'Arte che era in me. Quando mi ripresi, ero accasciato accanto al drago. Occhi-di-notte non si era mosso da dove vegliava. «È andato» gli dissi, inutilmente, senza motivo. «Veritas se n'è andato.» Allora piegai il capo sulle ginocchia e piansi, piansi il mio re come non avevo fatto il giorno in cui il suo corpo umano era svanito nella sua forma di drago. Interruppi il racconto per schiarirmi la gola. Bevvi un po' del brandy del Matto. Misi giù la tazza e lo trovai che mi fissava. Si era fatto più vicino per udire le mie parole rauche, e la luce del fuoco indorava la sua pelle, ma non poteva rivelare ciò che era dietro ai suoi occhi. «Fu allora, penso, che ammisi pienamente che la mia vecchia vita era andata in cenere. Se Veritas fosse rimasto in qualche forma che potevo raggiungere, se ancora fosse esistito per essere mio compagno nell'Arte, penso che una parte di me avrebbe voluto rimanere FitzChevalier Lungavista. Ma lui non c'era più. La fine del mio re fu anche la mia fine. Quando mi alzai e mi allontanai dal Giardino di Pietra, compresi che avevo davvero ciò che desideravo da tanti anni: l'opportunità di decidere da solo chi ero, e il tempo di vivere la mia vita come volevo. Da quel momento solo io avrei deciso per me.» Il lupo quasi mi derise. Lo ignorai per parlare al Matto. «Mi fermai in un altro luogo prima di lasciare le Montagne. Penso che lo ricorderai. Il pilastro dove ti vidi cambiare.» Il Matto annuì silenziosamente e io continuai. Quando giungemmo al luogo dove un'alta pietra dell'Arte si ergeva a un incrocio, mi arrestai, assalito dalla tentazione. I ricordi mi travolsero. La prima volta che ero arrivato lì, ero con Stornella e Ciottola, con il Matto e la regina Kettricken, in cerca di re Veritas. Lì ci eravamo fermati, e in un lampo di sogno a occhi aperti avevo visto la foresta verde sostituita da un vivace mercato. Dove il Matto si era appollaiato su un pilastro di pietra, c'era una donna, di pelle bianca e occhi quasi incolori come lui. In quel luogo e tempo diverso era incoronata con un cerchietto di legno intagliato con teste di gallo e decorato con piume della coda di un gallo. Come il Matto, i suoi lazzi avevano attirato l'attenzione della folla. Avevo scorto ogni cosa in un momento, come un breve sguardo attraver-
so una finestra ultraterrena. Poi, in un batter di ciglia, tutto era cambiato di nuovo, e avevo visto il Matto sbalordito precipitare dal suo precario trespolo. Sembrava aver condiviso quella breve visione di un altro tempo e di un altro popolo. Il mistero di quel momento fu ciò che mi attrasse di nuovo in quel luogo. Il monolito nero che si ergeva su quel cerchio di pietre era impervio a muschi o licheni, i glifi intagliati nelle facce mi attiravano verso destinazioni ignote. Ora lo conoscevo per ciò che era, non come quando avevo incontrato per la prima volta uno dei portali dell'Arte. Gli girai attorno lentamente. Riconobbi il simbolo che mi avrebbe riportato alla cava di pietra. Un altro, ne ero quasi sicuro, mi avrebbe condotto alla città abbandonata degli Antichi. Senza pensare, alzai un dito per seguire la runa. Nonostante la sua taglia, Occhi-di-notte sapeva muoversi in fretta, e quasi in silenzio. Mi afferrò il polso fra le fauci balzando tra me e l'obelisco. Caddi con lui per evitare che mi lacerasse la carne con i denti. Finimmo a terra, con me sulla schiena. Il lupo mi stava mezzo addosso, stringendomi il polso. Non lo farai. «Non volevo usare la pietra. Solo toccarla.» Non c'è da fidarsi. Sono stato nel buio dentro la pietra. Se devo seguirti di nuovo, per salvarti la vita, sai che lo farò. Ma non chiedermi di seguirti per la curiosità di un cucciolo. Ti dispiacerebbe se andassi alla città per qualche tempo, da solo? Da solo? Sai che non c'è più un vero «da solo» per noi due. Io ti ho permesso di andare da solo con il branco dei lupi, a provare per un poco. Non è affatto lo stesso, e lo sai. Lo sapevo. Mi lasciò il polso. Mi alzai e mi scossi la polvere di dosso. Non ne parlammo più. È una delle cose più belle dello Spirito. Non c'è bisogno di lunghe discussioni dolorosamente dettagliate per essere certi di capirsi. Una volta, anni prima, il lupo mi aveva lasciato per correre con la sua specie. Quando era tornato, la sua conclusione inespressa era che stava meglio con me che con loro. Negli anni trascorsi da allora eravamo diventati ancora più vicini. Una volta mi aveva detto che io non ero più del tutto un uomo, né lui del tutto un lupo. Non eravamo entità davvero separate. Lui non aveva contestato la mia decisione. Era stato piuttosto come dibattere fra me sulla saggezza di un'azione. Eppure in quel breve confronto entrambi affrontammo ciò che avevamo evitato di considerare. «Il nostro legame stava diventando più profondo e complesso. Nessuno di noi era sicuro di come affrontarlo.»
Il lupo alzò la testa. Gli occhi profondi fissarono i miei. Condividemmo l'apprensione, ma lui lasciò la decisione a me. Dovevo raccontare al Matto dove eravamo andati in seguito, e tutto quello che avevamo imparato? La mia esperienza con il popolo dell'Antico Sangue mi apparteneva tanto da poterla condividere? I segreti che mantenevo proteggevano molte vite. Io ero disposto a mettere fiduciosamente la mia intera esistenza nelle mani del Matto. Ma avevo diritto a mettere altri a parte di segreti che non erano solo miei? Non so come il Matto interpretò la mia esitazione. Sospetto che la scambiò per qualcosa di diverso dall'incertezza. «Hai ragione» dichiarò all'improvviso. Alzò la tazza e scolò quel che rimaneva del brandy. La mise fermamente sul pavimento, poi ruotò una mano aggraziata, fermandola con un indice snello alzato in un gesto che mi era tanto familiare. Aspetta. Come sollevato dalle corde di un burattinaio, si alzò in un movimento fluido. La stanza era in penombra, eppure raggiunse senza difficoltà la sua borsa. Lo sentii frugare all'interno. Un attimo dopo tornò al focolare con un sacco di tela. Sedette molto vicino a me, come se stesse per rivelare segreti troppo intimi perfino per l'oscurità. Il sacco che aveva in grembo era liso e macchiato. Aprì l'imboccatura chiusa con una cordicella, ed estrasse un oggetto avvolto in una stoffa bellissima. Rimasi senza fiato mentre la srotolava. Non avevo mai visto una stoffa così liquida, né un disegno così intricato, tessuto in colori tanto brillanti. Anche nella luce bassa del fuoco morente, i rossi divamparono e i gialli brillarono. Con quella stoffa avrebbe potuto acquistare il favore di qualsiasi signore. Eppure non desiderava mostrarmi la stoffa meravigliosa. La svolse da ciò che proteggeva, incurante del tessuto prezioso che si afflosciava sul grezzo pavimento accanto a lui. Mi piegai più vicino, trattenendo il respiro, per scoprire quale meraviglia più grande potesse rivelare. L'ultima soffice piega scivolò via. Mi chinai, confuso, per essere sicuro di ciò che vedevo. «Pensavo di averla sognata» dissi infine. «È così. L'abbiamo sognata tutti e due.» La corona di legno fra le sue mani era consunta dagli anni. Le brillanti penne e la vernice che un tempo l'aveva colorata erano scomparse. Un semplice oggetto di legno intagliato, abilmente realizzato, ma austero nella sua bellezza. «L'hai fatta fare?» azzardai. «L'ho trovata» rispose il Matto. Prese fiato, poi disse con voce turbata:
«O forse lei ha trovato me.» Attesi, ma non aggiunse altro. Tesi una mano per toccarla, e lui fece un piccolo movimento come per tenerla per sé. Un istante più tardi me la porse. Quando la presi fra le mani, compresi che dividendola mi offriva molto più di sé stesso, anche più della sua cavalla. Girai fra le mani quell'oggetto antico, scoprendo ancora tracce di vernice brillante intrappolate nelle linee scolpite delle teste di gallo. Due teste avevano ancora occhi di gemme luccicanti. I fori lungo l'orlo della corona mostravano dove ogni penna della coda andava infilata. Non conoscevo il legno dal quale era stata intagliata. Leggero ma resistente, sembrava bisbigliare contro le mie dita, sibilando segreti in una lingua che non conoscevo. Gliela porsi di nuovo. «Mettila» mormorai. Il Matto prese la corona. Lo vidi deglutire. «Sicuro?» mi chiese piano. «L'ho provata, lo ammetto. Non è successo nulla. Ma se siamo qui tutti e due, il Profeta Bianco e il Catalizzatore... Fitz, potremmo provocare una magia che non capiamo. Molte volte ho frugato nella mia memoria, ma in nessuna profezia che mi sia stata insegnata ho trovato menzione di questa corona. Non so cosa significhi, ammesso che significhi qualcosa. Tu ricordi come mi hai visto nella visione; io ho solo il più vago dei ricordi, come una farfalla in un sogno, troppo fragile da ricatturare, ma meravigliosa nel volo.» Non dissi niente. Le sue mani, dorate come un tempo erano state candide, tenevano la corona di fronte a lui. In silenzio ci sfidammo a farlo, curiosità contro cautela. Alla fine, considerando chi eravamo, poteva esserci solo un risultato. Un sorriso lento, impudente, sbocciò sul viso del Matto. Così, ricordai, aveva sorriso la notte che aveva appoggiato le dita intrise d'Arte alla carne scolpita di Ragazza-sul-drago. Richiamando il tormento che avevamo involontariamente causato, conobbi un momento improvviso di apprensione. Ma prima che potessi parlare, il Matto alzò la corona e se la mise in testa. Trattenni il respiro. Non accadde nulla. Lo fissai, lacerato tra sollievo e delusione. Il silenzio continuò tra noi. Poi il Matto cominciò a ridacchiare. In un istante scoppiammo a ridere entrambi. Rotta la tensione, ridemmo fino alle lacrime. Quando l'allegria si placò, guardai il Matto, ancora incoronato di legno, ancora mio amico come era sempre stato. Si asciugò le lacrime dagli occhi. «Sai, il mese scorso il mio gallo ha perso la maggior parte della coda in una baruffa con una donnola. Ticcio ha raccolto le penne. Vogliamo prova-
re ad aggiungerle?» Il Matto si sollevò la corona dalla testa e la contemplò con finto rammarico. «Domani, forse. E forse ruberò anche alcuni dei tuoi inchiostri, e restaurerò i colori. Li ricordi almeno un poco?» Scrollai le spalle. «Mi fiderei più del tuo occhio per quello, Matto. Hai sempre avuto talento per queste cose.» Il Matto chinò la testa con esagerata solennità al complimento. Raccolse la stoffa dal pavimento e cominciò a riavvolgere la corona. Il fuoco, poco più che braci, gettava un bagliore rosso su di noi. Lo guardai per un lungo momento In quella luce potevo fingere che il suo colorito non fosse cambiato, che lui fosse il giullare dalla pelle candida della mia fanciullezza, e quindi che anch'io fossi giovane come lui. Mi gettò un'occhiata, sorprese il mio sguardo e mi fissò, un'avidità strana sul viso. La sua espressione era così intensa che distolsi gli occhi. Un momento più tardi, lui parlò. «Allora. Dopo le Montagne, sei stato...?» Raccolsi la mia tazza di brandy. Era vuota. Mi chiesi quanto avessi bevuto, e all'improvviso seppi che era più che abbastanza per una sera. «Domani, Matto. Domani. Dammi una notte per dormirci su, e pensare come meglio raccontarlo.» Una mano dalle lunghe dita si chiuse all'improvviso sul mio polso. Come sempre, la pelle era fresca contro la mia. «Pensa, Fitz. Ma mentre lo fai, non dimenticare...» Le parole parvero all'improvviso mancargli. I suoi occhi ancora una volta guardarono nei miei. Il tono divenne una quieta preghiera. «Dimmi tutto quello che puoi, in buona coscienza. Non so mai cosa ho bisogno di sentire finché non l'ho udito.» Di nuovo il fervore del suo sguardo mi inquietò. «Indovinelli» protestai, tentando di scherzare. Invece la parola parve una conferma delle sue. «Indovinelli» concordò il Matto. «Indovinelli ai quali noi siamo le risposte, se solo riusciamo a scoprire le domande.» Fissò la sua mano stretta sul mio polso, e mi lasciò. Si alzò all'improvviso, aggraziato come un gatto. Si stiracchiò, un contorcimento sinuoso come se disarticolasse le ossa dalle giunture per poi rimettersi insieme. Mi guardò con affetto. «Vai a dormire, Fitz» mi disse come se fossi stato un bambino. «Riposa fin che puoi. Io ho bisogno di stare sveglio un po' più a lungo e pensare. Se posso. Il brandy mi ha proprio dato alla testa.» «Anche a me» concordai. Mi tese una mano e io la afferrai. Mi mise facilmente in piedi, con una forza sempre sorprendente in un uomo così esile. Mossi un passo barcollante di lato e lui si mosse con me, poi mi prese il
gomito, raddrizzandomi. «Vuoi ballare?» scherzai debolmente mentre mi aiutava a riprendere l'equilibrio. «Lo stiamo già facendo» rispose il Matto, quasi serio. Come per dare addio a un compagno di ballo, si piegò in un inchino esageratamente nobile mentre staccavo la mia mano dalla sua. «Sogna di me» aggiunse in tono melodrammatico. «Buona notte» risposi, rifiutando stoicamente di lasciarmi provocare. Mentre andavo al mio letto, il lupo si alzò con un uggiolio e mi seguì. Raramente dormiva a più di un braccio da me. Nella mia stanza lasciai cadere i vestiti a casaccio, prima di infilarmi una camicia da notte e crollare nel letto. Il lupo già aveva trovato il suo posto sul pavimento fresco lì accanto. Chiusi gli occhi e lasciai penzolare il braccio a sfiorargli la pelliccia con le dita. «Dormi bene, Fitz» mi augurò il Matto. Socchiusi gli occhi. Aveva ripreso il suo posto di fronte al fuoco morente e mi sorrise attraverso la porta aperta della mia stanza. «Farò la guardia» promise con enfasi. Scossi il capo alle sue sciocchezze e agitai una mano verso di lui. Il sonno mi ingoiò. 7 Cuore di lupo Uno dei più diffusi malintesi sullo Spirito è che si tratti del potere di un umano su una bestia. In quasi tutte le storie ammonitrici sullo Spirito, una persona malvagia usa il suo potere su animali o uccelli per danneggiare altri umani. In molte il giusto fato del cattivo stregone è che i suoi schiavi animali insorgono contro di lui per trascinarlo al loro livello, rivelandolo così a coloro che ha danneggiato. La realtà è che la magia dello Spirito appartiene a umani e animali. Non tutti gli umani possiedono l'abilità di formare con un animale il legame speciale che è al cuore dello Spirito. Non tutti gli animali hanno la piena capacità per quel legame, e ancor meno desiderano legarsi a un umano. Per formarsi, il legame deve essere reciproco e paritario tra i due compagni. Fra le famiglie degli Spirituali, quando un ragazzo diventa maggiorenne, viene mandato in una specie di cerca per trovare un compagno animale. Non sceglie una bestia adatta per poi piegarla alla sua volontà. La speranza è che l'umano incontri una creatura simile a lui, selvatica o domestica, interessata a stabilire un legame nello Spirito. In parole
povere, per stabilire un legame nello Spirito, l'animale deve essere dotato come l'umano. Anche se un umano Spirituale può entrare in una specie di comunicazione con quasi ogni genere di animale, nessun legame si forma se l'animale non presenta un simile talento e inclinazione. Tuttavia in ogni relazione c'è sempre la possibilità di abuso. Proprio come un marito può picchiare la moglie, o una moglie affliggere l'anima del marito con il disprezzo, così un umano può opprimere il compagno nello Spirito. Forse la forma più comune è quando un umano Spirituale seleziona un compagno animale troppo giovane per comprendere l'importanza di quella scelta di vita. Più raro, ma non ignoto, è il caso in cui l'animale degrada o domina il compagno umano. Fra l'Antico Sangue si dice che la nota ballata di Bigio l'Errante nasca dalla vicenda di un uomo così sciocco da legarsi a un papero selvatico, che trascorse la vita seguendo le stagioni come il suo uccello. Lo Striato, Storie dell'Antico Sangue Giunse il mattino, troppo brillante e troppo presto, del terzo giorno della visita del Matto. Lui era sveglio prima di me, e non mostrava di aver risentito del brandy e delle ore piccole. Il giorno già si annunciava caldo, così aveva tenuto basso il fuoco della cucina, appena abbastanza per scaldare un bollitore per la zuppa d'avena. Uscii, liberai i polli e portai il pony e la cavalla del Matto su un pendio aperto affacciato sul mare. Lasciai il pony libero ma legai Malta a un picchetto. La cavalla mi rivolse un'occhiata di rimprovero, ma si mise a pascolare come se l'erba a ciuffi fosse proprio quello che desiderava. Rimasi per qualche tempo a contemplare il mare calmo. Sotto il brillante sole della mattina sembrava una lastra di metallo azzurro. Una lievissima brezza salì dalle onde e mi agitò i capelli. Mi sentivo come se qualcuno mi avesse parlato ad alta voce, e ripetei quelle parole. «Tempo di cambiare.» Tempo che cambia, fece eco il lupo. Non era esattamente ciò che avevo detto, ma sembrava più vero. Mi stiracchiai, sciogliendo le spalle e lasciando che il venticello scacciasse il mio mal di testa. Mi guardai le mani, poi le fissai con più attenzione. Erano le mani di un coltivatore, dure e incallite, brune di terra e tempo. Mi grattai il viso ispido; da giorni non mi prendevo la briga di radermi. I miei vestiti erano puliti e comodi, ma come le mani erano segnati dal lavoro Quotidiano, e anche rappezzati. Tutto ciò che era parso confortevole un momento prima sembrava all'improvviso un
travestimento, un costume indossato per proteggermi nei miei anni di tranquillo riposo. Improvvisamente bramai di sfuggire alla mia vita e diventare Fitz, non il Fitz che ero stato, ma il Fitz che avrei potuto essere, se non fossi morto per il mondo. Un brivido strano mi percorse. Ricordai all'improvviso una mattina d'estate della mia infanzia quando avevo guardato una farfalla contorcersi e lacerare la crisalide. Si era sentita così, come se la calma e l'involucro traslucido che l'avevano avvolta e protetta fossero divenuti all'improvviso troppo oppressivi? Trassi un profondo respiro e lo trattenni, poi lo emisi. Mi aspettavo che disperdesse la mia improvvisa scontentezza, e così avvenne, grosso modo. Un tempo che cambia, aveva detto il lupo. «In cosa ci stiamo trasformando, dunque?» Tu? Non lo so. So solo che stai cambiando, e a volte mi spaventa. Quanto a me, è più semplice. Sto diventando vecchio. Gettai uno sguardo al lupo. «Anch'io» gli feci notare. No. Tu no. Per te gli anni passano, ma non diventi vecchio come faccio io. È vero e lo sappiamo entrambi. Non aveva molto senso negarlo. «Quindi?» lo sfidai, mascherando con la spacconeria il mio disagio improvviso. Quindi ci avviciniamo a un tempo di decisione. E dovrebbe essere una nostra scelta, non qualcosa che lasciamo accadere. Penso che dovresti raccontare al Matto la nostra vita con l'Antico Sangue. Non perché lui voglia o possa decidere per noi, ma perché entrambi pensiamo meglio quando dividiamo i pensieri con lui. Era un pensiero strutturato con attenzione dal lupo, un ragionamento quasi fin troppo umano della parte di me che andava su quattro zampe. All'improvviso piegai un ginocchio accanto a lui e gli gettai le braccia al collo. Spaventato per ragioni che non osavo nominare, lo abbracciai stretto, come se potessi nasconderlo nel mio petto e tenercelo per sempre. Il lupo sopportò per un momento, poi abbassò la testa e si sottrasse. Balzò via da me, poi si fermò. Si scrollò tutto per rimettere in ordine il pelo stropicciato, poi fissò il mare come se fossero stati nuovi terreni di caccia. Presi fiato e parlai. «Glielo dirò. Stasera.» Il lupo mi rivolse uno sguardo da sopra la spalla, naso basso e orecchie in avanti. I suoi occhi erano luminosi, un lampo della sua antica birbanteria. So che lo farai, fratellino. Non temere. Poi, in un balzo elegante che smentiva i suoi anni canini, schizzò via da me, una striscia grigia che svanì all'improvviso fra gli arbusti stentati e i
monticelli erbosi del dolce pendio. I miei occhi non riuscivano a scorgerlo, era troppo furbo, ma il mio cuore andò con lui come sempre. Il mio cuore, mi dissi, sarebbe sempre stato capace di trovarlo, avrebbe sempre conosciuto un luogo dove poterci ancora incontrare, ed essere una cosa sola. Gli trasmisi il pensiero, ma lui non rispose. Tornai alla casetta. Raccolsi nel pollaio le uova di giornata e le portai in casa. Il Matto le fece cuocere a fuoco lento nei carboni sul focolare mentre io preparavo il tè. Portammo fuori il cibo nella mattina azzurra e facemmo colazione seduti sul portico. Il vento dal mare non giungeva nella mia valletta. Le foglie degli alberi pendevano immobili. Solo i polli chiocciavano e razzolavano nel cortile polveroso. Non mi ero accorto di quanto a lungo avessi taciuto finché il Matto non parlò. «Si sta bene, qui» osservò, agitando il cucchiaio verso gli alberi circostanti. «Il ruscello, la foresta, gli scogli vicini. Capisco perché lo preferisci a Castelcervo.» Era sempre stato bravissimo a rivoltare i miei pensieri. «Non sono sicuro di preferirlo» risposi lentamente. «Non ho mai pensato a paragonarli per scegliere dove avrei vissuto. La prima volta passai qui l'inverno perché fummo sorpresi da un brutto temporale, e cercando ricovero sotto gli alberi trovammo una vecchia pista di carretti. Ci condusse a questa casetta abbandonata, ed entrammo.» Scrollai una spalla. «Da allora siamo rimasti qui.» Il Matto inclinò la testa. «Quindi, con tutto il vasto mondo a tua disposizione, non hai scelto affatto. Un giorno hai semplicemente smesso di vagare.» «Suppongo di sì.» Quasi trattenni le parole che mi vennero alle labbra, perché sembravano irrilevanti. «Forgia è poco più oltre, lungo la strada.» «Ed è Forgia che ti ha chiamato qui?» «Non penso. Ci sono tornato, per guardare le rovine e ricordare. Non ci vive più nessuno. Di solito, in un luogo come quello, la gente avrebbe depredato i ruderi. Non a Forgia.» «Troppi brutti ricordi associati a quel luogo» confermò il Matto. «Forgia fu solo l'inizio, ma è rimasta nella memoria della gente, e ha dato il nome al flagello che è seguito. Mi chiedo quanti furono Forgiati in totale.» Mi agitai a disagio, poi mi alzai per prendere il piatto vuoto del Matto. Non mi piaceva richiamare quei giorni. Le Navi Rosse avevano depredato le nostre rive per anni, sottraendoci la nostra ricchezza. Fu solo quando cominciarono a rubare l'umanità della nostra gente che ci levammo in collera contro di loro. Cominciarono a Forgia, portando via gli abitanti e resti-
tuendoli alla famiglia come mostri senz'anima. Una volta fui incaricato di localizzare e uccidere i Forgiati; uno dei molti compiti silenziosi e sporchi per l'assassino del Re. Ma era stato anni prima, mi dissi. Quel Fitz non esisteva più. «È stato molto tempo fa» ricordai al Matto. «Adesso è finita.» «Così dicono alcuni. Altri non sono d'accordo. Altri ancora si aggrappano all'odio per gli Isolani e dicono che perfino i draghi che scatenammo su di loro furono troppo misericordiosi. Altri, certo, sostengono che dovremmo metterci quella guerra dietro le spalle, dato che Sei Ducati e Isolani hanno sempre alternato guerre e commerci. Venendo qui ho sentito dire nelle taverne che la regina Kettricken cerca di comprare la pace e un'alleanza commerciale con gli Isolani. Pare che farà sposare il principe Devoto a una narcheska delle Isole Esterne, per cementare il legame.» «Narcheska?» Il Matto sollevò le sopracciglia. «Una specie di principessa, presumo. Come minimo, la figlia di qualche nobile potente.» «Bene. Interessante.» Tentai di non mostrare l'ansia. «Non sarà la prima volta che si ricorre alla diplomazia. Pensa a come Kettricken divenne moglie di Veritas per rinsaldare la nostra alleanza con il Regno delle Montagne. Eppure si rivelò ben più di questo.» «Davvero» rispose amabilmente il Matto, ma le sue parole neutre mi fecero riflettere. Portai dentro le scodelle e le lavai. Mi chiesi come si sentisse Devoto, usato come merce di scambio per assicurarsi un trattato, poi allontanai il pensiero. Kettricken lo aveva di certo allevato nella tradizione delle Montagne: il re è sempre il servitore del popolo. Devoto avrebbe reagito, ecco, devotamente, mi dissi. Senza dubbio avrebbe accettato senza discussioni, proprio come Kettricken aveva accettato il matrimonio combinato con Veritas. Notai che il barile dell'acqua era già quasi vuoto. Il Matto era sempre entusiasta di lavarsi e strofinarsi, usando il triplo d'acqua di qualunque altro uomo conoscessi. Presi i secchi e tornai fuori. «Vado a prendere dell'acqua.» Il Matto balzò agilmente in piedi. «Vengo anch'io.» Mi seguì lungo il percorso screziato di ombre verso il ruscello, fino al luogo che avevo scavato e bordato di pietre per riempire più facilmente i secchi. Colse l'occasione di lavarsi le mani e bere a grandi sorsate la fresca acqua dolce. Si raddrizzò e si guardò intorno all'improvviso. «Dov'è Occhi-di-notte?» Mi alzai bilanciando i secchi. «Oh, a volte gli piace andarsene da solo.
Lui...» Poi il dolore mi trafisse. Lasciai cadere i secchi colmi e mi afferrai la gola, prima di capire che il disagio non era il mio. Lo sguardo del Matto incontrò il mio, la pelle dorata si fece giallastra. Penso che avvertì l'ombra della mia paura. Cercai Occhi-di-notte, lo trovai e scattai di corsa. Seguii un percorso nella foresta, e il sottobosco mi afferrava, cercando di sbarrare la mia corsa precipitosa. Lo attraversai di furia, incurante di vestiti e pelle. Il lupo non riusciva a respirare; il suo ansimare doloroso sembrava deridere le frenetiche boccate d'aria che ingoiavo. Lottai per non farmi travolgere dal panico. Estrassi il coltello mentre correvo, pronto ad affrontare un nemico. Ma quando sbucai dagli alberi nella radura vicino allo stagno dei castori, lo vidi contorcersi sulla spiaggia da solo. Con una zampa si artigliava le fauci; le mascelle erano spalancate. Metà di un grosso pesce giaceva sulla ghiaia della riva accanto a lui. Il lupo indietreggiava a scatti descrivendo un cerchio, scrollando il capo, tentando di espellere ciò che lo soffocava. Mi gettai in ginocchio accanto a lui. «Non ostacolarmi!» lo implorai, ma non penso che mi sentisse. Un panico scarlatto colmava i suoi pensieri. Tentai di mettergli un braccio intorno per bloccarlo, ma lui balzò via da me. Scosse selvaggiamente la testa, ma non riusciva a liberarsi la gola. Mi lanciai su di lui, gettandolo a terra. Gli piombai sulle costole, e gli salvai involontariamente la vita. L'urto sul suo torace spinse in bocca il pesce che gli si era bloccato in gola. Incurante dei denti, gli cacciai una mano fra le fauci e lo strappai via, scagliandolo lontano. Sentii il lupo trarre un respiro ansimante. Mi sollevai da lui. Si tirò in piedi barcollando. Io non avevo la forza di alzarmi. «Strozzarti con un pesce!» esclamai con voce tremante. «Dovevo immaginarlo! Questo ti insegni a non trangugiare così avidamente.» Trassi anch'io un profondo respiro, sollevato al di là delle parole. Ma il sollievo fu breve. Il lupo si alzò, mosse due passi vacillanti, poi crollò afflosciandosi a terra. Non soffocava più, ma il dolore sbocciava pesante in lui. «Cosa c'è? Che gli succede?» chiese il Matto dietro di me. Non mi ero neanche accorto che mi avesse seguito. Non avevo tempo per lui. Mi precipitai verso il mio compagno. Timorosamente lo toccai, e sentii che il contatto amplificava il nostro legame. Il dolore lo schiacciava in profondità nel torace. Faceva tanto male da impedirgli quasi di respirare. Il cuore gli rimbombava irregolare nelle orecchie. Le palpebre socchiuse rivelava-
no solo il bianco degli occhi. La lingua penzolava dalla bocca. «Occhi-di-notte! Fratello!» gridai, ma seppi che mi udiva appena. Mi protesi verso di lui, trasmettendogli la mia forza, e sentii una cosa incredibile. Il lupo mi sfuggì. Si sottrasse alla mia presa, rifiutando, per quanto la debolezza glielo permettesse, quel legame diviso per tanto tempo. Mentre mi celava i suoi pensieri, lo sentii scivolar via da me in un grigiore che non potevo penetrare. Era intollerabile. «No!» ululai, e gettai la mia consapevolezza all'inseguimento della sua. Non riuscii a forzare quella barriera grigia con lo Spirito, quindi la forzai con l'Arte, usando con avventatezza istintiva ogni magia che possedevo per raggiungerlo. E ci riuscii. All'improvviso ero con lui, la mia coscienza mescolata alla sua in un modo che non avevo mai conosciuto. Il suo corpo era il mio. Molti anni prima, quando Regal mi aveva ucciso, avevo abbandonato la scorza lacera della mia carne e mi ero rifugiato in Occhi-di-notte. Avevo diviso il corpo del lupo, percependo i suoi pensieri, vedendo il mondo attraverso i suoi occhi. Avevo corso con lui, un passeggero nella sua vita. Alla fine Burrich e Umbra ci avevano richiamati accanto alla mia tomba, e mi avevano restituito alla mia carne fredda. Adesso non era la stessa cosa. No. Adesso mi ero impadronito del suo corpo, sopraffacendo la sua essenza di lupo con la mia consapevolezza umana. Mi assestai in lui e imposi una calma forzata alla sua lotta frenetica. Ignorai il suo disgusto; era necessario, gli dissi. Altrimenti sarebbe morto. Smise di resistermi, ma non era una resa. Era come se avesse abbandonato sdegnosamente ciò che gli avevo preso. Ci avrei pensato più tardi. Offenderlo era l'ultima delle mie preoccupazioni. Era strano trovarmi così nel suo corpo, come indossare gli abiti di un altro uomo. Ero consapevole di ogni parte di lui, dalle unghie alla punta della coda. L'aria scorreva stranamente sulla lingua, e perfino nella mia angoscia i profumi del giorno mi parlavano chiaramente. Sentivo vicino il sudore della mia identità di Fitz, ed ero a stento consapevole del Matto piegato a scuotere quel corpo. Non c'era tempo per quello, ora. Avevo scoperto la fonte del dolore nel corpo in cui mi trovavo. Era concentrato nel cuore tremante. La mia calma forzata lo aveva già aiutato molto, ma il pulsare incerto e disuguale del sangue era un sinistro indizio di qualcosa andato terribilmente male. Guardare dentro una cantina dalle scale è molto diverso che scendere e dare un'occhiata intorno. È un misero paragone, ma è il meglio che posso
offrire. Invece di sentire il cuore del lupo, divenni all'improvviso il cuore del lupo. Non so come ci riuscii; era come appoggiarsi disperatamente contro una porta chiusa, sapendo che la salvezza è dall'altra parte, e la porta all'improvviso cede. Divenni il suo cuore e conobbi la mia funzione nel suo corpo, e seppi anche che tale funzione era impedita. Il muscolo si era indebolito con l'età, ed era affaticato. Nel ruolo del cuore, mi consolidai e cercai debolmente un battito più regolare. Quando ci riuscii il dolore si allentò, e mi misi all'opera. Occhi-di-notte si era ritirato in un angolo remoto della nostra consapevolezza. Lo lasciai là a fare il broncio, concentrandomi solo sul mio lavoro. Come descriverlo? Tessere una tela? Costruire un muro in mattoni? Forse era più come rammendare il tallone liso di una calza. Sentii che stavo costruendo, o piuttosto ricostruendo ciò che era stato indebolito. Seppi anche che non ero io, Fitz, a farlo, ma piuttosto che come parte del lupo lo guidavo in una danza familiare. Grazie alla mia concentrazione, il corpo svolgeva più in fretta il suo compito. Nient'altro, mi dissi a disagio, eppure sentii che da qualche parte qualcuno avrebbe pagato per aver accelerato il processo della natura. Quando sentii che l'opera era completa, mi tirai indietro. Non ero più 'cuore', ma avvertii con orgoglio la nuova forza e la stabilità dell'organo. E anche un fremito improvviso di paura. Non ero in me; non avevo idea di cosa fosse accaduto al mio corpo mentre ero dentro Occhi-di-notte. Non avevo idea di quanto tempo fosse passato. Perplesso, mi tesi verso Occhidi-notte, ma il lupo si tenne a distanza. L'ho fatto solo per aiutarti, protestai. Il lupo rimase in silenzio. Non riuscivo a distinguere i suoi pensieri, ma le emozioni erano chiare. Era avvilito e offeso come mai l'avevo sentito. Va bene, gli dissi gelido. Fa' come vuoi. Mi ritirai con rabbia. O almeno, tentai di ritirarmi. All'improvviso era tutto molto confuso. Sapevo di dover andare da qualche parte, ma 'da qualche parte' e 'andare' non sembravano concetti applicabili. Era piuttosto come essere travolto senza preavviso dalla piena inondazione dell'Arte. Quel fiume di magia poteva lacerare l'identità di un praticante inesperto, disperdere un uomo nelle acque della consapevolezza fino a togliergli ogni autocoscienza. In questo caso non mi sentivo disperso e lacerato, ma ero intrappolato in un groviglio di me stesso, a galla nella corrente senza sapere dove ancorarmi se non nel corpo di Occhi-di-notte. Udivo il Matto gridare il mio nome, ma non mi aiutava, perché sentivo la sua voce con le orecchie di Occhi-di-
notte. Lo vedi? osservò lugubre il lupo. Lo vedi ciò che ci hai fatto? Ho tentato di avvertirti, ho tentato di tenerti fuori. Posso rimediare, asserii con veemenza. Sapevamo entrambi che non era una bugia: era un desiderio che cercavo freneticamente di far avverare. Mi separai dal corpo del lupo. Abbandonai i suoi sensi, rifiutai tatto e vista e udito, negai la polvere sulla lingua e l'odore di Fitz lì accanto. Disgiunsi la mia consapevolezza dalla sua, ma poi rimasi bloccato, sospeso. Non sapevo come tornare nel mio corpo. Poi sentii qualcosa, un fremito impercettibile, meno di un filo staccato dalla mia tunica. Mi cercò, raggiungendomi a tentoni dal mio vero corpo. Afferrarlo fu come prendere al volo un raggio di sole. Lottai disperatamente per carpirlo, poi ripiombai nella mia essenza informe, sentendo che il tentativo aveva solo disperso quel debole contatto. Mantenni la mia consapevolezza facendomi piccolo e restando immobile, appostato come un gatto accanto a una tana di topi. Di nuovo il fremito, fioco come chiaro di luna fra le foglie. Mi forzai a rimanere immobile, costringendomi alla calma per permettergli di trovarmi. Come un sottile filo d'oro, finalmente mi toccò. Mi esaminò, e quando fu sicuro che ero io, mi prese, tirandomi esitante verso di lui. Era insistente, eppure non era più forte di un capello. Non potevo aiutarlo senza distruggerlo. Rimasi sospeso, temendo che il fragile contatto si spezzasse mentre mi trascinava via dal lupo e verso il mio corpo. Mi trasse più veloce, e all'improvviso fui in grado di muovermi di mia volontà. Riconobbi all'improvviso l'angusta forma del mio corpo. Fluii dentro di me, inorridito dai freddi e rigidi confini fisici della mia anima. I miei occhi erano rimasti spalancati senza battere le palpebre, appiccicosi e aridi. Dapprima non vidi nulla. E non potevo parlare, perché la bocca e la gola erano allo stesso modo secche come cuoio. Tentai di tirarmi su, ma i muscoli erano doloranti e irrigiditi. Potevo solo contorcermi debolmente. Eppure anche il dolore era una benedizione, perché era mio, la sensazione della mia carne connessa alla mia mente. Emisi un rauco gracchiare di sollievo. Le mani a coppa del Matto mi fecero gocciolare acqua sulle labbra e infine giù per la gola. La vista tornò, dapprima indistinta, ma abbastanza per rivelare che il sole era ben oltre lo zenit. Ero stato fuori dal mio corpo per ore. Dopo qualche tempo riuscii a mettermi seduto. Subito cercai Occhi-dinotte. Era ancora disteso scomposto accanto a me. Non dormiva. Era uno stato di incoscienza più profondo. Toccandolo lo percepii come un granel-
lo di consapevolezza, nascosto nel suo intimo. Sentii il forte pulsare del suo sangue e conobbi una soddisfazione immensa. Spinsi piano la sua mente. Va' via! Era ancora arrabbiato con me. Non mi importava. I polmoni funzionavano, il cuore ora batteva regolare. Lui era sfinito e io ero disorientato, ma ne valeva la pena se gli avevo salvato la vita. Poco più tardi localizzai il Matto. Era in ginocchio accanto a me, un braccio intorno alle mie spalle. Non mi ero accorto del suo sostegno. Girai con fatica la testa per guardarlo. Il suo viso era pesante di stanchezza e la fronte increspata dal dolore, ma riuscì a rivolgermi un sorriso sghembo. «Non sapevo se ne ero in grado. Ma è l'unica cosa che mi è venuta in mente.» Dopo alcuni momenti, le sue parole acquistarono un senso. Mi guardai il polso. Le sue impronte erano rinnovate; non argentee come la prima volta che mi aveva toccato con l'Arte, ma di un tono di grigio più scuro di quanto fossero state per diverso tempo. Il filo di consapevolezza che ci legava era un po' più forte. Fui atterrito da ciò che aveva fatto. «Immagino di doverti ringraziare» dissi brusco. Mi sentivo invaso. Mi infastidiva che mi avesse toccato in quel modo, senza il mio consenso. Era una reazione infantile, ma in quel momento non avevo la forza di andare oltre. Il Matto rise ad alta voce, ma avvertii una vena isterica. «Sapevo che non ti sarebbe piaciuto. Eppure, amico, non ho potuto evitarlo. Ho dovuto farlo.» Trasse un respiro tremante. Aggiunse con voce più gentile: «E così ricomincia, di già. Sono al tuo fianco da soli due giorni, e il fato cerca di afferrarti. Sarà sempre questo il prezzo? Dovrò sempre spenzolarti sopra le fauci della morte nello sforzo di deviare questo mondo su un sentiero migliore?» Accentuò la presa sulle mie spalle. «Ah, Fitz. Come puoi continuare a perdonare ciò che ti faccio?» Non potevo. Non lo dissi. Distolsi lo sguardo. «Ho bisogno di restare da solo un momento. Per favore.» Una bolla di silenzio incontrò le mie parole. Poi: «Certo.» Il Matto lasciò ricadere il braccio e si alzò all'improvviso. Fu un sollievo. Il suo contatto stava intensificando il legame d'Arte tra noi. Mi faceva sentire vulnerabile. Il Matto non sapeva come attraversarlo e depredare la mia mente, ma ciò non diminuiva la mia paura. Un coltello alla gola è una minaccia, anche se la mano che lo impugna ha le migliori intenzioni. Tentai di ignorare il rovescio della medaglia. Il Matto non aveva idea di quanto fosse aperto a me in quel momento. Quella sensazione mi provocò,
invogliandomi a cercare un'unione più completa. Dovevo solo chiedergli di porre ancora una volta le dita sul mio polso. Sapevo come avrei potuto servirmi di quel contatto. Avrei potuto fluire dentro di lui e perquisirlo, conoscere tutti i suoi segreti, prendere tutta la sua forza. Avrei potuto fare del suo corpo un'estensione del mio, usare la sua vita e i suoi giorni per i miei scopi. Era una fame vergognosa. Avevo visto cosa accadeva a chi si arrendeva a essa. Come potevo perdonarlo per avermela fatta provare? Il mio cranio pulsava del dolore familiare di un mal di testa da Arte, mentre il corpo doleva come se avessi combattuto una battaglia. Mi sentivo scuoiato davanti al mondo, e perfino il tocco del mio amico mi irritava. Mi alzai vacillando e barcollai verso il ruscello. Tentai di inginocchiarmi sulla riva, ma era più facile giacere bocconi e risucchiare l'acqua nella bocca riarsa. Calmata la sete, mi spruzzai acqua in faccia. Mi bagnai il viso e i capelli, e poi battei le palpebre fino a far scorrere le lacrime. L'umidità mi fece bene e la visuale si schiarì. Guardai il corpo afflosciato del mio lupo, poi gettai uno sguardo al Matto. Si era fatto piccolo, con le spalle curve e la bocca stretta. Lo avevo ferito. Mi dispiacque. Aveva solo voluto aiutarmi, ma una parte caparbia di me se ne risentiva. Cercai qualche giustificazione per aggrapparmi a quella stupidità. Non ne trovai. Ma sapere di non avere diritto alla rabbia spesso non serve a dissiparla. «Così va meglio» dissi, e scrollai i capelli bagnati, come per convincerci tutti e due che il problema era stato solo la mia sete. Il Matto non rispose. Portai una doppia manciata d'acqua al lupo e sedetti accanto a lui, lasciandola gocciolare sulla lingua penzoloni. Dopo un poco Occhi-di-notte si mosse debolmente, abbastanza per ritirare la lingua nella bocca. Feci un altro sforzo per il Matto. «So che lo hai fatto per salvarmi la vita. Grazie.» Ci ha salvati entrambi. Ci ha evitato di continuare in un modo che ci avrebbe distrutti. Il lupo non aprì gli occhi, ma il pensiero vibrava di passione. Però ciò che ha fatto... È peggio di ciò che hai fatto tu a me? Non avevo risposta. Non potevo rammaricarmi di averlo mantenuto in vita. Eppure... Era più facile parlare al Matto che seguire quel pensiero. «Ci hai salvati tutti e due. Ero andato... in qualche modo, ero andato in Occhi-di-notte.
Con l'Arte, penso.» Un bagliore di intuizione interruppe le mie parole. Era ciò di cui Umbra mi aveva parlato, l'Arte usata per guarire? Rabbrividii. Avevo pensato che si trattasse di una condivisione di forza, ma ciò che avevo fatto... Allontanai quella conoscenza. «Dovevo tentare di salvarlo. E... l'ho davvero aiutato. Ma poi non sapevo come uscire. Se tu non mi avessi tirato fuori...» Lasciai che le parole si spegnessero. Non c'era un modo semplice di spiegare da che cosa ci aveva salvati. Seppi con certezza, che gli avrei raccontato la storia del nostro anno fra la gente dell'Antico Sangue. «Torniamo a casa. Ho dell'efedra, per preparare un infuso. E ho bisogno di riposare quanto Occhi-di-notte.» «Anch'io» ammise a bassa voce il Matto. Gli lanciai un'occhiata, notando il grigiore della fatica che gli appesantiva il volto e i solchi profondi solchi sulla fronte. Il senso di colpa mi percorse. Non addestrato e senza aiuto, aveva usato l'Arte per riportarmi nel mio corpo. La magia non era nel suo sangue come nel mio; non aveva una predisposizione ereditaria. Possedeva solo gli antichi segni dell'Arte sulle dita, per aver sfiorato accidentalmente le mani di Veritas, incrostate d'Arte. Quello, e il debole legame che un tempo avevamo diviso attraverso quel tocco, erano gli unici strumenti con cui aveva messo a rischio sé stesso per riportarmi indietro. La paura e l'ignoranza non lo avevano fermato. Non era consapevole di tutti i rischi. Non riuscivo a decidere se quello rendeva la sua azione più o meno coraggiosa. E io non avevo fatto altro che rimproverarlo. Ricordai la prima volta che Veritas aveva usato la mia forza per potenziare la sua Arte. Ero crollato per lo sfinimento. Eppure il Matto era ancora in piedi, leggermente instabile, ma in piedi. E non si lagnava del dolore che doveva martellargli il cervello. Non per la prima volta, mi meravigliai della resistenza di quel corpo snello. Dovette avvertire il mio sguardo, perché si girò a fissarmi. Abbozzai un sorriso. Mi rispose con una smorfia ironica. Occhi-di-notte rotolò sulla pancia, poi si trascinò in piedi. Vacillante come un puledro appena nato, barcollò fino all'acqua e bevve. Placare la sete ci fece sentire meglio entrambi, eppure mi tremavano ancora le gambe dalla stanchezza. «Sarà una lunga camminata fino alla casetta» osservai. La voce del Matto era neutra, eppure quasi normale. «Ce la fai?» «Se mi aiuti.» Gli tesi la mano e lui si avvicinò e mi rimise in piedi. Mi
tenne il braccio e camminò accanto a me, ma penso che fosse più lui ad appoggiarsi a me che non io a lui. Il lupo avanzava lentamente dietro di noi. Strinsi i denti e rafforzai la mia risoluzione, e non lo cercai attraverso quel legame d'Arte che pendeva tra noi come una catena d'argento. Potevo resistere alla tentazione, mi dissi. Veritas c'era riuscito. Quindi potevo farlo anch'io. Il Matto ruppe il silenzio macchiato di sole della foresta. «All'inizio pensavo che fosse uno dei tuoi attacchi. Ma poi eri così immobile... Temevo che stessi morendo. Avevi gli occhi sbarrati e fissi. Non trovavo il polso. Ma di tanto in tanto il tuo corpo si contorceva e ansimava.» Fece una pausa. «Non riuscivo a ottenere risposta. È l'unica idea che mi è venuta, tuffarmi a cercarti.» Le sue parole mi fecero inorridire. Non ero sicuro di voler sapere cosa faceva il mio corpo quando ero fuori di me. «Probabilmente era l'unico modo di salvarmi la vita.» «E anche la mia» disse quietamente il Matto. «Perché, nonostante ciò che ci costa, devo tenerti in vita. Sei il cuneo che devo usare per spostare il futuro, Fitz. E non so esprimere quanto mi dispiaccia.» Girò la testa mentre mi parlava. La franchezza di quello sguardo dorato si combinò con il legame tra noi, oro e argento intrecciati. Riconobbi e rifiutai una verità che non volevo conoscere. Dietro di noi il lupo camminava lentamente, a testa china. 8 Antico sangue «...E confido che i cani da caccia ti arriveranno in buona salute insieme a questa lettera. Altrimenti, per favore, mandami un piccione con le notizie, e ti consiglierà una cura. Concludendo, ti chiedo per favore di trasmettere i miei rispetti a messer Chevalier Lungavista. Informalo, con i miei saluti, che il puledro che ha affidato alle mie cure patisce di uno svezzamento troppo brusco dalla madre. Per natura è ombroso e diffidente, ma speriamo che un trattamento gentile e paziente unito a una mano ferma lo guariranno. Ha anche una certa testardaggine, molto esasperante per il suo addestratore, ma credo che sia perché ha ereditato il temperamento del padre. La disciplina potrebbe trasformarla in forza di carattere. Rimango, come sempre, il suo servitore più umile. I miei migliori auguri anche a tua moglie e ai piccoli, Altuomo, e la prossima volta che ver-
rai a Castelcervo sono ansioso di risolvere la nostra scommessa su chi sia il più veloce su una traccia, la mia Volpina o il tuo Codamozza.» Burrich, Capo Stalliere, Castelcervo Da una lettera ad Altuomo, Capo Stalliere, Giuncheto Quando raggiungemmo la casetta il buio assediava i margini della mia visuale. Afferrai la spalla magra del Matto e lo indirizzai verso la porta. Lui incespicò sui gradini. Il lupo ci seguì. Spinsi il Matto verso una sedia e lui vi si lasciò cadere. Occhi-di-notte andò diritto alla mia camera da letto e si arrampicò sul mio letto. Raspò brevemente le coperte, poi si accomodò e cadde in un torpore stordito. Cercai verso di lui con lo Spirito, ma lo trovai chiuso. Dovetti accontentarmi di guardare il ritmico sollevarsi e abbassarsi delle costole mentre preparavo il fuoco e mettevo una pentola a bollire. Ogni passo del semplice compito richiedeva tutta la mia concentrazione. Il dolore che mi rimbombava nella testa mi ordinava di crollare dov'ero, ma non potevo permettermelo. Seduto a tavola, il Matto aveva appoggiato la testa sulle braccia, il ritratto dell'infelicità. Mentre prendevo la mia scorta di efedra girò la testa a guardarmi. Fece una smorfia al ricordo amaro della scura corteccia essiccata. «Allora hai una scorta sotto mano, vero?» gracchiò. «Sì» ammisi, misurando la corteccia. Cominciai a macinarla con mortaio e pestello. Appena ebbi ottenuto un poco di polvere vi intinsi il dito e me lo appoggiai sul lato della lingua. Provai un breve sollievo dal dolore. «E la usi spesso?» «Solo quando è necessario.» Il Matto trasse un profondo sospiro. Poi si alzò di malavoglia e prese due boccali. Quando l'acqua bollì preparai un robusto pentolino di infuso di efedra. La medicina avrebbe alleviato il mal di testa da Arte, lasciando i nervi tesi e lo spirito depresso. Avevo sentito che gli schiavisti di Chalced la davano agli schiavi, per aumentare la loro resistenza e insieme esaurire la loro volontà di fuga. Si dice che l'efedra crei dipendenza, ma non mi è mai sembrato. Forse se se ne abusa regolarmente, ma io l'ho sempre usata come cura. Si dice anche che estingua l'abilità all'Arte nei giovani, e che limiti gli adepti più esperti, forse irreparabilmente. Avrei potuto considerarlo una benedizione, ma la mia esperienza è che l'efedra può smorzare l'abilità all'Arte senza alleviarne il desiderio. Ne versai due boccali dopo aver lasciato la corteccia in infusione, e li
addolcii con miele. Pensai di andare nell'orto a prendere la menta. Sembrava troppo lontano. Misi un boccale davanti al Matto e sedetti di fronte a lui. Alzò il boccale in un brindisi beffardo. «A noi: il Profeta Bianco e il Catalizzatore.» Sollevai il mio. «Al Matto e al Fitz» lo corressi, e toccai il suo boccale con il mio. Bevvi un sorso. L'efedra mi lasciò un sapore amaro in bocca. La ingoiai e mi si strinse la gola. Il Matto mi guardò bere, poi mandò giù una boccata. Fece una smorfia, ma quasi subito le linee della fronte si rilassarono un poco. Aggrottò le sopracciglia guardando il boccale. «Non c'è altro modo di trarne beneficio?» Sorrisi acido. «Una volta sono stato abbastanza disperato da masticare la corteccia. Mi ha tagliato l'interno delle guance e mi ha lasciato la bocca così raggrinzita dall'asprezza che quasi non riuscivo a bere per liberarmi del gusto.» «Ah.» Il Matto aggiunse un'altra cucchiaiata abbondante di miele, bevve e corrugò di nuovo la fronte. Scese un breve silenzio. L'ombra del disagio ancora si librava tra noi. Le scuse non l'avrebbero dissolta, ma forse una spiegazione sì. Gettai uno sguardo al lupo addormentato sul mio letto. Mi schiarii la gola. «Dunque. Lasciato il Regno delle Montagne, tornammo ai confini del Cervo...» Il Matto alzò lo sguardo e mi fissò negli occhi. Appoggiò il mento su una mano e mi guardò, rivolgendomi la sua attenzione assoluta e silenziosa. Attese che trovassi le parole. Non mi venne facile. Pezzo per pezzo ricostruii per lui la storia di quei giorni. Occhi-di-notte e io non ci affrettammo. Vagammo per quasi un anno lungo un percorso molto tortuoso attraverso le Montagne e le grandi pianure di Armento prima di tornare nelle vicinanze di Corvocollo, nel ducato del Cervo. L'autunno aveva cominciato a farsi sentire quando giungemmo al basso tetto di tronchi e alla casetta di pietra costruita sul fianco della collina boscosa. I grandi sempreverdi si stagliavano imponenti e indifferenti alle minacce dell'autunno, ma il gelo aveva appena toccato le foglie dei cespuglietti e delle piante cresciute sul tetto muschioso, bordandone alcune in giallo e arrossandone altre. La larga porta era aperta sul pomeriggio fresco, e una spira di fumo quasi invisibile saliva dal tozzo camino. Non c'era
bisogno di bussare o chiamare. Il Popolo dell'Antico Sangue all'interno sapeva della nostra presenza, come io sentivo che lì si trovavano Rolf e Spina. Senza sorpresa, Rolf il Nero apparve sulla soglia. Si stagliò sul buio cavernoso della casetta e ci guardò corrucciato. «Dunque hai finalmente compreso che devi imparare ciò che posso insegnarti» ci salutò. La puzza di orso impregnava il posto, mettendo a disagio Occhi-di-notte e me. Tuttavia annuii. Rolf rise forte, e il suo sorriso di benvenuto divise la foresta della barba nera. Avevo dimenticato la taglia di quel colosso. Uscì pesantemente e mi sommerse in un amichevole abbraccio che per poco non mi ruppe le costole. Sentii quasi il pensiero che mandò a Hilda, l'orsa a cui era legato. «Antico Sangue saluta Antico Sangue.» Spina emerse a salutarci, composta. La moglie di Rolf era snella e silenziosa come la ricordavo. Aveva la sua bestia, Nevischio, appollaiata sul polso. Il falco mi fissò con un occhio brillante, poi spiccò il volo mentre la donna si avvicinava. Spina sorrise e scosse il capo guardandolo andare. Il suo saluto fu più contenuto di quello di Rolf, eppure in qualche modo più caldo. «Ben incontrati e benvenuti.» Girò leggermente la testa e ci gettò uno sguardo obliquo con gli occhi scuri. Un rapido sorriso le illuminò il viso malgrado avesse chinato la testa per celarlo. Si fermò accanto a Rolf, tanto sottile quanto lui era largo. Si lisciò i lucenti capelli corti, allontanandoli dal viso. «Entrate a dividere il cibo.» «E poi faremo una passeggiata, troveremo un buon posto per la tana, e cominceremo a costruirla» si offrì Rolf, franco e diretto come sempre. Gettò uno sguardo al cielo nuvoloso attraverso il tetto della foresta. «L'inverno si avvicina. Sei stato sciocco a rimandare tanto.» E così, semplicemente, divenimmo parte del popolo dello Spirito che viveva nella zona attorno a Corvocollo. Erano abitanti della foresta, andavano in città solo per ciò che non potevano fabbricare. Tenevano la loro magia celata agli abitanti della città, perché possedere lo Spirito significava invitare la corda e la lama. Non che Rolf e Spina o gli altri si facessero chiamare Spirituali. Quello era l'epiteto scagliato da coloro che odiavano e temevano la Magia della Bestia; era un insulto che valeva l'impiccagione. Fra loro si chiamavano Antico Sangue, e compativano i loro bambini che non potevano legarsi a una bestia, mente e anima, come la gente normale poteva compiangere un bambino cieco o sordo. Non c'erano molti dell'Antico Sangue; non più di cinque famiglie, sparse su un ampio territorio nelle foreste di Corvocollo. Le persecuzioni avevano
insegnato loro a non abitare troppo vicini. Si riconoscevano, e quello dava un senso sufficiente di comunità. Le famiglie dell'Antico Sangue praticavano i mestieri solitari che permettevano loro di vivere separati dalla gente normale, ma abbastanza vicini da barattare, e apprezzare i benefici di una città. Erano boscaioli, o cacciatori di pellicce. Una famiglia viveva con le sue lontre vicino a un banco di creta, e creava ceramiche squisite. Un vecchio, legato a un cinghiale, faceva fortuna con il denaro che i ricchi cittadini pagavano per i suoi tartufi. Erano un popolo essenzialmente pacifico, e accettavano il loro ruolo come membri del mondo naturale senza disprezzo. Non si poteva dire che pensassero lo stesso dell'umanità in generale. Da loro udii e percepii molta disapprovazione per quelli che vivevano accalcati nelle città e vedevano gli animali come semplici servitori o bestie da compagnia, creature «stupide». Disprezzavano anche quelli dell'Antico Sangue che negavano la loro magia per vivere con la gente normale. Molti credevano che fossi uno di quelli, ed era difficile smentire tali idee senza rivelare troppo di me. «E ci sei riuscito?» chiese quietamente il Matto. Avevo la scomoda sensazione che lo chiedesse perché sapeva che non, ci ero riuscito. Sospirai. «In effetti quella fu per me la linea più difficile da percorrere. Con il passare dei mesi mi chiesi se non avessi commesso un grave errore tornando fra loro. Anni prima, quando li avevo incontrati, Rolf e Spina avevano saputo che il mio nome era Fitz. Avevano saputo anche del mio odio per Regal. Da quello a riconoscermi come Fitz il Bastardo dello Spirito era un piccolo passo. So che Rolf ci arrivò, perché un giorno tentò di parlarmene. Gli dissi piatto che si sbagliava, che era un'incredibile, infelice coincidenza di nome e di bestia, che mi aveva provocato molti guai. Fui così inflessibile che anche quell'anima schietta comprese presto che non mi avrebbe mai convinto ad ammetterlo. Mentii, e lui sapeva che mentivo, ma resi chiaro che doveva essere considerato come verità tra noi, e tale rimase. Spina lo sapeva, ne sono sicuro, ma non ne parlò mai. Non penso che gli altri della comunità abbiano fatto il collegamento. Mi presentai come Tom, e così tutti mi chiamavano, anche Spina e Rolf. Pregavo che Fitz rimanesse morto e seppellito. «Quindi lo sapevano.» Il Matto confermò il sospetto. «Almeno quel gruppo sapeva che Fitz, il bastardo di Chevalier, non era morto.» Alzai una spalla. Mi sorprese che il vecchio epiteto facesse ancora tanto male, perfino sulle labbra del Matto. Pensavo di averlo superato. Una volta
mi consideravo solo «il bastardo.» Ma da tempo me l'ero lasciato alle spalle, comprendendo che un uomo è ciò che fa di sé stesso, non ciò che nasce. Ricordai all'improvviso che la fattucchiera era rimasta confusa dai miei palmi diversi. Resistetti all'impulso di guardarmi le mani, e invece versai al Matto e a me altro infuso di efedra. Poi mi alzai per cercare nella dispensa qualcosa che allontanasse il sapore amaro. Considerai il brandy di Lungosabbia, poi lo scartai con decisione. Trovai l'ultimo pezzo di formaggio, un po' duro ma ancora gustoso, e mezza pagnotta. Non avevamo mangiato niente dopo colazione. Ora che il mio mal di testa si stava placando, ero morto di fame. Il Matto condivideva il mio appetito: affettò spesse fette di pane mentre tagliavo il formaggio. La mia storia era rimasta sospesa e incompiuta nell'aria tra di noi. Sospirai. «Non potevo fare molto per quello che sapevano o non sapevano, se non negare. Occhi-di-notte e io avevamo bisogno della loro conoscenza. Solo loro potevano insegnarci quello che dovevamo imparare.» Il Matto annuì e mise il formaggio sul pane prima di affondare i denti. Attese che continuassi. Le parole mi venivano lentamente. Non mi piaceva ricordare quell'anno. Eppure avevo imparato molto, non solo dall'insegnamento deliberato di Rolf, ma dalla semplice esposizione alla comunità dell'Antico Sangue. «Rolf non era gran che come insegnante. Era irritabile e impaziente, soprattutto intorno all'ora di pranzo, molto incline alle sberle e ai ringhi, e a volte ruggiva di frustrazione se non ero pronto a capire. Non riusciva a concepire la mia completa ignoranza degli usi e costumi dell'Antico Sangue. Suppongo che la considerasse maleducazione, come se fossi un bambino sfrontato. Le mie conversazioni 'ad alta voce' con Occhi-di-notte rovinavano la caccia per altre coppie di predatori legati fra loro. Non sapevo che dovessimo annunciare la nostra presenza attraverso lo Spirito se cambiavamo territorio. Nei miei giorni a Castelcervo non avevo mai neanche saputo che esistesse una comunità di Spirituali, tanto meno che avessero usanze proprie.» «Aspetta» mi interruppe il Matto. «Stai dicendo che gli Spirituali possono comunicare con il pensiero, proprio come l'Arte.» Sembrava molto eccitato dall'idea. «No.» Scossi il capo. «Non è così. Io mi accorgo se un altro Spirituale sta parlando con la sua bestia... se sono imprudenti e liberi nella loro conversazione, come facevamo Occhi-di-notte e io. Allora so che viene usato lo Spirito, anche se non distinguo i pensieri. È come una corda di arpa che
vibra.» Sorrisi tristemente. «Era così che Burrich mi sorvegliava, per essere sicuro che non stessi usando lo Spirito, quando scoprì che ce l'avevo. Teneva le sue barriere ben salde contro di esso. Non lo usava, e tentava di proteggersi dalle bestie che cercavano di raggiungerlo con lo Spirito. Per questo non si accorse che lo possedevo, per molto tempo. Aveva eretto difese di Spirito simili alle difese di Arte che Veritas mi insegnò. Ma una volta compreso che possedevo lo Spirito, penso che le abbia abbassate, per sorvegliarmi.» Feci una pausa allo sguardo confuso del Matto. «Capisci?» «Non del tutto. Abbastanza per afferrare il concetto. Ma allora... riesci a udire una bestia che parla al suo compagno nello Spirito?» Scossi di nuovo il capo, poi quasi risi alla sua occhiata confusa. «A me sembra così naturale, è difficile metterlo in parole.» Riflettei. «Immagina che io e te dividiamo un linguaggio personale, che solo noi due capiamo.» «Forse è così» suggerì il Matto con un sorriso. Non gli badai. «I pensieri che Occhi-di-notte e io dividiamo sono solo nostri, e per lo più incomprensibili a chiunque ci senta tramite lo Spirito. Rolf ci insegnò a dirigere i nostri pensieri l'uno verso l'altro, piuttosto che spargere il nostro Spirito in lungo e in largo. Un altro Spirituale può accorgersi di noi se ci ascolta, ma in genere la nostra comunicazione si mescola con tutti i sussurri di Spirito del resto del mondo.» Il Matto increspò la fronte. «Così solo Occhi-di-notte può parlarti?» «Occhi-di-notte mi parla più chiaramente. A volte un'altra creatura, non legata a me, condivide i suoi pensieri con me, ma il senso è di solito difficile da seguire; un po' come tentare di comunicare con qualcuno che parla una lingua straniera ma simile. Ci si spiega con approssimazione, alzando la voce, ripetendo le parole, facendo gesti. Si afferra grosso modo il significato, ma non le sfumature.» Feci una pausa e riflettei. «Penso che sia più facile se l'animale è collegato a un altro Spirituale. Una volta l'orsa di Rolf mi parlò. E un furetto. E tra Occhi-di-notte e Burrich... dev'essere stato stranamente umiliante per Burrich permettere che Occhi-di-notte gli parlasse quando io ero nelle segrete di Regal. La comprensione era imperfetta, ma sufficiente per tramare insieme e salvarmi.» Vagai per un momento in quel ricordo, poi mi costrinsi a tornare al mio racconto. «Rolf mi insegnò la cortesia fondamentale del Popolo dell'Antico Sangue, ma non fu un insegnante amorevole; era pronto a castigarci anche prima che fossimo consapevoli dei nostri errori. Occhi-di-notte era più tol-
lerante di me, forse perché più sensibile alla gerarchia del branco. Penso che per me fosse più difficile imparare da Rolf, perché mi ero abituato a una certa dignità adulta. Se fossi andato da lui più giovane, avrei forse accettato più ciecamente i suoi bruschi insegnamenti. Date le mie esperienze passate, reagivo con violenza verso chiunque mi trattasse con aggressività. Penso che lo sconvolsi la prima volta che gli ringhiai dopo che alzò la voce con me per qualche errore. Fu freddo e distante con me per il resto del giorno, e sentii che dovevo chinare il capo ai suoi modi bruschi se volevo imparare da lui. E così feci, ma era come imparare di nuovo a controllare il mio temperamento. Spesso trovavo difficile reprimere la rabbia verso di lui. La sua impazienza verso la mia lentezza era frustrante per me quanto il mio 'pensiero umano' era assurdo per lui. Nei suoi giorni peggiori mi ricordava il Mastro d'Arte Galen, e mi sembrava altrettanto meschino e crudele quando mi diceva con disprezzo che ero stato istruito male fra i Senza Sangue. Mi infastidiva che parlasse così di un popolo che considero mio. Sapevo anche che mi riteneva sospettoso e diffidente perché non abbassavo mai del tutto le barriere verso di lui. Gli nascondevo molto, è vero. Pretese di sapere della mia educazione, di ciò che ricordavo dei miei genitori, della prima volta in cui avevo sentito il mio Antico Sangue fremere in me. Nessuna delle mie vaghe risposte lo soddisfaceva, eppure non potevo entrare nei dettagli senza tradire troppo chi e cosa sono stato. Il poco che gli dissi lo irritò a tal punto che di certo una storia più completa lo avrebbe disgustato. Approvò che Burrich mi avesse impedito di legarmi da fanciullo, eppure condannò tutte le sue ragioni. Che fossi riuscito a formare un legame con Ferrigno nonostante la vigilanza di Burrich lo convinse della mia natura subdola. Tornava sempre alla mia infanzia ribelle come se fosse la radice di tutti i miei problemi nel gestire la magia dell'Antico Sangue. Di nuovo, mi ricordò Galen che disprezzava il Bastardo perché tentava di dominare l'Arte, la magia dei re. In mezzo a un popolo dove finalmente pensavo di essere accettato, scoprii che ancora una volta non ero né carne né pesce. Se mi lamentavo con Occhi-di-notte per come ci trattava, Rolf mi ringhiava di non frignare con il mio lupo e applicarmi a imparare un comportamento migliore.» Occhi-di-notte imparava con maggior facilità, e spesso era lui a farmi capire ciò che Rolf non era riuscito a cacciarmi in testa. Sentiva anche più acutamente di me quanto Rolf lo compatisse, e non reagiva bene, perché la pietà di Rolf era basata sulla convinzione che io non trattassi Occhi-dinotte come meritava. Rolf non approvava che io fossi stato quasi un adulto
e Occhi-di-notte poco più che un cucciolo quando ci eravamo legati. Continuava a rimproverarmi che per me Occhi-di-notte era meno che mio pari, una distinzione che entrambi contestavamo. La prima volta che Rolf e io ci scontrammo su questo argomento fu quando si trattò di costruirci una casa per l'inverno. Scegliemmo un luogo vicino alla casa di Rolf e Spina, ma abbastanza isolato da non intralciarci. Quel primo giorno cominciai a costruire una casetta, mentre Occhi-di-notte andava a caccia. Quando Rolf passò, mi rimproverò perché costringevo Occhi-di-notte a vivere in un'abitazione del tutto umana. La struttura della sua casa incorporava una caverna naturale nel pendio, ed era intesa per essere tanto la tana di un orso quanto la casa di un uomo. Insisteva che Occhi-di-notte dovesse scavarsi una tana nel fianco della collina, e io dovevo poi costruire la mia capanna in modo da incorporarla. Quando ne parlai con Occhi-di-notte, lui rispose che era abituato alle abitazioni umane da quando era cucciolo, e gli sembrava normale che dovessi fare io tutto il lavoro per costruire un luogo comodo per tutti e due. Lo dissi a Rolf e lui esplose, dicendo a Occhi-di-notte che non trovava niente di sensato nel rinunciare alla sua natura per il conforto egoista del suo compagno. Era così lontano da ciò che entrambi sentivamo che fummo sul punto di lasciare Corvocollo in quel momento. Fu Occhi-di-notte a decidere che dovevamo rimanere e imparare. Seguimmo le indicazioni di Rolf: Occhi-di-notte scavò faticosamente una tana per sé e io costruii la mia capanna attorno all'imboccatura. Il lupo passava ben poco tempo nella tana, preferendo il calore del mio focolare, ma Rolf non lo scoprì mai. Molti dei miei disaccordi con Rolf avevano le stesse radici. Vedeva Occhi-di-notte troppo umanizzato, e scuoteva la testa perché in me c'era troppo poco lupo. Allo stesso tempo ci ammoniva che di esserci legati in un rapporto troppo stretto, che non riusciva a trovare un luogo in cui percepire uno e non l'altro. Forse la cosa più preziosa che ci insegnò fu come separarci. Attraverso di me, fece capire a Occhi-di-notte il bisogno di riserbo per questioni come l'accoppiamento o il lutto. Io non ero mai stato capace di spiegarglielo. Ancora una volta Occhi-di-notte imparò più in fretta, e meglio di me. Quando voleva, riusciva a svanire del tutto dai miei sensi. La sensazione di essere isolato "da' lui non mi piaceva. Mi sentivo dimezzato o anche meno, eppure entrambi capivamo la saggezza del provvedimento, e cercavamo di perfezionare le nostre abilità. Ma per quanto fossimo soddisfatti dei nostri progressi, Rolf insisté che perfino separati dividevamo ancora un'unità così fondamentale che non ne eravamo neanche più
consapevoli. Quando non ci diedi peso, Rolf quasi si infuriò. «E quando uno di voi morirà? La morte viene per tutti, prima o poi, e non si può ingannarla. Due anime non possono coesistere a lungo in un corpo solo prima che una prenda il controllo e l'altra divenga solo un'ombra. È una crudeltà, non importa chi dei due divenga il più forte. Quindi tutte le tradizioni dell'Antico Sangue condannano un attaccamento così avido alla vita.» Qui Rolf mi fissò con particolare severità. Sospettava che già una volta avevo evitato la morte con quell'artificio? Non poteva saperlo, mi dissi. Restituii innocentemente lo sguardo. Rolf aggrottò minacciosamente le sopracciglia scure. «Quando la vita di una creatura è finita, è finita. Estenderla è una perversione contro natura. Eppure solo l'Antico Sangue conosce la vera profondità del tormento di due anime che vengono separate dalla morte dopo che hanno diviso un legame. Deve essere così. Dovete riuscire a riprendere la vostra individualità quando verrà quel momento.» Ci guardò da sotto le folte sopracciglia. Occhi-di-notte e io mantenemmo immobili i nostri pensieri, riflettendo. Anche Rolf finalmente parve accorgersi che ci stava angosciando. La sua voce si fece più brusca, ma più gentile. «Il nostro costume non è crudele, almeno non più crudele del necessario. C'è un modo di conservare un ricordo di tutto ciò che si è diviso. Un modo di custodire la voce della saggezza e l'amore del cuore dell'altro.» «Quindi un compagno potrebbe continuare a vivere nell'altro?» chiesi, confuso. Rolf mi gettò un'occhiata disgustata. «No. Te l'ho appena detto, noi non facciamo così. Quando viene il tuo momento di morire, dovresti separarti dal tuo compagno e cessare di vivere, non cercare di aggrapparsi alla sua vita come un parassita.» Occhi-di-notte emise un flebile uggiolio. Era confuso quanto me. Rolf sembrò riconoscere che stava insegnando un concetto difficile, perché si fermò e si grattò rumorosamente la barba. «Mettiamola così. Mia madre è da tempo morta e sepolta. Ma ricordo ancora il suono della sua voce che mi canta una ninnananna, e sento i suoi ammonimenti quando tento di fare qualcosa di sciocco. Giusto?» «Suppongo di sì» concessi. Questo era un altro punto dolente tra Rolf e me. Non accettava che non avessi alcun ricordo della mia madre naturale, anche se avevo passato i primi sei anni della mia vita con lei. Alla mia risposta tiepida, Rolf socchiuse gli occhi. «Come molti» esclamò, come se il semplice volume della voce potesse persuadermi. «Ed è ciò
che potrai avere quando Occhi-di-notte non ci sarà più. O ciò che lui può conservare di te.» «Ricordi» concordai quietamente, annuendo. Discutere la morte di Occhi-di-notte era sconvolgente. «No!» esclamò Rolf. «Non solo ricordi. Chiunque può avere ricordi. Ma ciò che una creatura in un legame lascia al suo compagno è qualcosa di più profondo e ricco dei ricordi. È una presenza. Non è come vivere nella mente dell'altro, dividendo pensieri, decisioni ed esperienze. Ma significa essere lì. Vicino. Ora capisci» mi informò gravemente. No, stavo per dire, ma Occhi-di-notte si appoggiò pesantemente contro la mia gamba, così mi limitai a emettere un suono che poteva essere inteso come assenso. Nel mese successivo Rolf ci istruì duramente, ordinandoci di separarci, e poi permettendoci di tornare insieme, ma solo in un modo sottile, inconsistente. Lo trovai del tutto insoddisfacente. Ero convinto che stavamo sbagliando qualcosa, che quello non poteva essere il conforto e la 'presenza' di cui Rolf aveva parlato. Quando gli espressi i miei dubbi, mi sorprese concordando con me, ma poi dichiarò che eravamo ancora troppo mescolati, che il lupo e io dovevamo separarci di più. Lo ascoltammo e ci provammo sinceramente, ma tenemmo per noi ciò che avremmo fatto quando la morte sarebbe giunta per uno di noi. Sono sicuro che Rolf fosse consapevole della nostra ostinazione. Fece di tutto per 'dimostrarci' il nostro errore, e gli esempi che ci fornì erano davvero strazianti. Un'irresponsabile famiglia dell'Antico Sangue aveva lasciato che le rondini facessero il nido nella grondaia dove il loro figlio piccolo poteva non solo udire i loro cinguettii familiari, ma osservarli andare e venire. Ed era tutto ciò che faceva, anche adesso che era un adulto di circa trent'anni. A Borgo Castelcervo la gente lo avrebbe chiamato semplice, e così era, ma quando Rolf ci disse di cercarlo con più attenzione con lo Spirito, la ragione fu chiara a entrambi. Il ragazzo non si era legato solo a una rondine, ma a tutte le rondini. Nella sua mente era un uccello, e i suoi bagni nel fango e le mani svolazzanti e i tentativi di afferrare gli insetti erano l'opera della sua mente di uccello. «È quello che succede quando ci si lega troppo giovani» ci disse torvo Rolf. Ci mostrò un'altra coppia, ma solo da lontano. Un mattino presto, mentre la nebbia gravava pesante sulle vallate, ci stendemmo bocconi sull'orlo di una piccola valle, senza alcun suono o pensiero fra noi. Una cerva bianca
vagava nella foschia verso uno stagno, camminando non con la cautela di un cervo ma con la grazia languida di una donna. Sapevo che la sua compagna doveva essere vicina, nascosta nella nebbia. La cerva portò il muso all'acqua e bevve la frescura a lunghi sorsi lenti. Poi alzò piano la testa. Le grandi orecchie si protesero in avanti. La sentii sfiorarci mentre cercava. Battei le palpebre, tentando di concentrarmi su di lei, mentre il lupo emise un piccolo guaito interrogativo in fondo alla gola. Rolf si alzò all'improvviso, mostrandosi pieno di disprezzo. Rifiutò con freddezza il contatto. Avvertii il suo disgusto mentre si allontanava, ma noi restammo a osservarla. Forse lei percepì l'ambivalenza, perché ci guardò con una baldanza molto poco da cerva. Uno strano momento di vertigine mi scosse. Socchiusi le palpebre, tentando di separare la forma che mi stava di fronte nelle due identità che il mio Spirito mi indicava. Quando ero stato suo apprendista, Umbra aveva usato molti esercizi per insegnarmi a scorgere ciò che davvero vedevano i miei occhi, non ciò che la mia mente si aspettava di vedere. Si trattava per la maggior parte di esercizi semplici, come osservare un groviglio di spago e decidere se era annodato o solo buttato lì, o gettare uno sguardo a un mucchio di guanti e capire quali erano spaiati. Mi mostrò un trucco più particolare: scrivere il nome di un colore in un inchiostro non corrispondente, la parola «rosso» in brillanti lettere blu. Non pensavo che ci volesse tanta concentrazione per leggere un elenco di tali colori, dicendo correttamente la parola stampata piuttosto che il colore delle lettere. E così mi strofinai gli occhi e guardai di nuovo, e vidi solo una cerva. La donna era stata un'aspettativa della mia mente, basata sul mio Spirito. Non era là fisicamente. La sua presenza distorceva il mio senso Spirituale dell'animale. Mi ritrassi con un brivido da quell'ingiustizia. Rolf ci aveva lasciati indietro. Confusi, Occhi-di-notte e io ci affrettammo a seguirlo mentre si allontanava a grandi passi dalla piccola valle nascosta e dallo stagno silenzioso. Quando fummo lontani, gli chiesi: «Che cos'era?» Rolf si girò di scatto verso di me, indignato per la mia ignoranza. «Che cos'era? Eri tu, fra una dozzina d'anni, se non cambi modo di fare. Hai visto i suoi occhi! Non era una cerva, ma una donna nella pelle di una cerva. Volevo mostrarti quanto è sbagliato. La perversione completa di ciò che doveva essere fiducia condivisa.» Lo guardai in silenziosa attesa. Forse Rolf si aspettava che condividessi il suo giudizio, perché emise un rumore profondo nella gola. «Quella era Delayna, che scivolò attraverso il ghiaccio nello Stagno di Marple e affogò due inverni fa. Avrebbe dovuto mori-
re, ma no, si aggrappò a Parela. La cerva non ebbe il cuore o la forza per opporsi. Ora eccole là, una cerva con la mente e il cuore di donna, a malapena capace di pensare per sé. È contro natura, ecco cos'è. Quelli come Delayna sono alla radice di tutte le calunnie dei Senza Sangue. È lei che li spinge a volerci impiccare e bruciare sull'acqua. Lei meriterebbe un simile trattamento.» Distolsi lo sguardo dalla sua veemenza. Ero arrivato troppo vicino a quel fato per credere che chiunque potesse meritarlo. Avevo diviso la carne e la vita di Occhi-di-notte mentre il mio corpo freddo giaceva nella tomba per giorni. In quel momento fui sicuro che Rolf lo sospettasse. Mi chiesi perché mi addestrava, dato che mi disprezzava tanto. Come se avesse colto l'odore del mio pensiero, Rolf aggiunse brusco: «Qualunque principiante può sbagliare. Ma dopo che ha imparato, non ha nessuna scusa per ripetere l'errore. Nessuna.» Si girò e procedette lungo il sentiero. Lo seguimmo. La coda di Occhidi-notte era diritta e tesa dietro di lui. Rolf avanzava pesantemente borbottando fra sé. «L'avidità di Delayna ha distrutto entrambe. Parela non è più una cerva. Nessun compagno, nessun piccolo; quando morirà si fermerà e basta, e Delayna con lei. Delayna non poteva accettare la morte come donna, ma non accetta neanche la vita come cerva. Quando i maschi chiamano, non permette a Parela di rispondere. Probabilmente pensa di essere fedele al marito o qualche sciocchezza del genere. Quando Parela morirà, e Delayna con lei, cosa avranno guadagnato, se non alcuni anni di vita che nessuna di loro potrebbe chiamare completa?» Non potevo dargli torto. L'ingiustizia che avevo percepito mi dava ancora i brividi. «Eppure...» Mi sforzai di ammetterlo con il Matto. «Eppure dentro di me pensavo che forse solo loro due potevano capire pienamente la decisione che avevano preso. Forse, nonostante la nostra impressione, a loro era sembrato giusto.» Feci una pausa nel racconto. La storia di quelle due mi turbava sempre. Se Burrich non fosse stato capace di richiamarmi dal lupo e nel mio corpo, saremmo divenuti come loro? Se oggi il Matto non ci fosse stato vicino, Occhi-di-notte e io avremmo dimorato in un unico corpo? Non lo dissi ad alta voce. Sapevo che il Matto aveva già fatto quel passaggio logico. Mi schiarii la gola. «Rolf ci insegnò molto in quell'anno. Occhi-di-notte e io imparammo le
tecniche della nostra magia, ma non riuscimmo ad accettare tutte le usanze del Popolo dell'Antico Sangue. Sentivo che avevamo diritto a conoscere quei segreti in virtù di ciò che eravamo, ma non mi ritenevo vincolato ad accettare le regole che Rolf tentò di imporci. Forse sarei stato più saggio a dissimulare, ma ero stanco di inganni, e degli strati di bugie che vanno tessuti per proteggerli. Quindi mi tenni lontano da quel mondo, e Occhi-dinotte acconsentì a restare indietro con me. Osservammo la loro comunità, ma non prendemmo mai pienamente parte alla vita del popolo dell'Antico Sangue.» «Anche Occhi-di-notte si tenne lontano da loro?» La domanda del Matto era gentile. Tentai di non pensare che poteva contenere un celato rimprovero, il dubbio che fossi stato io a trattenerlo per ragioni egoiste. «Lui la pensava come me. Ci era dovuta la conoscenza della magia che è in noi per il nostro sangue. E quando Rolf ce la fece balenare come una ricompensa da ricevere solo dopo aver accettato il giogo delle sue regole ebbene, quella è una forma di esclusione, amico mio.» Gettai uno sguardo sul lupo grigio avvoltolato nelle mie coperte. Dormiva profondamente, pagando il prezzo della mia interferenza con il suo corpo. «Nessuno ti tese la mano da semplice amico?» La domanda del Matto mi riportò di nuovo alla mia storia. Ci pensai. «Spina ci provò. Penso che mi compatisse. Era timida e solitaria per natura; un tratto che ci accomunava. Nevischio e la sua compagna avevano un nido in un grande albero sul pendio sopra la casa di Rolf, e Spina era solita passare ore accovacciata su una piattaforma intrecciata non lontano dal nido. Non era ciarliera con me, ma mi riservò molte piccole gentilezze. Mi regalò un materasso di piume, un prodotto delle prede di Nevischio.» Sorrisi fra me. «E mi insegnò molte abilità utili per vivere da solo, che non avevo imparato a Castelcervo dove altri si occupavano delle mie necessità. C'è un piacere genuino nel fare il pane con il lievito, e mi insegnò a cucinare qualcosa di più delle zuppe e dei semolini d'emergenza di Burrich. Ero lacero e malridotto quando arrivai là. Volle tutti i miei vestiti, non per aggiustarli ma per insegnarmi ad averne cura. Sedetti accanto al suo fuoco, e imparai a rammendare le calze senza fare groppi, a girare gli orli dei polsini prima che si sfilaccino a tal punto da non potervi porre rimedio...» Scossi il capo, sorridendo ai ricordi. «E senza dubbio Rolf era felice di vedervi così spesso vicini a cucire?» La domanda era nel tono del Matto: gli avevo dato motivo di essere geloso e vendicativo?
Bevvi l'ultimo sorso tiepido di efedra e mi appoggiai allo schienale della poltrona. La malinconia familiare dell'erba stava impadronendosi di me. «Non era così, Matto. Ridi pure, ma era più come trovare una madre. Non che fosse molto più vecchia di me, ma la gentilezza, e l'accettazione, e il benvolere... Ma» mi schiarii la gola «hai ragione. Rolf era geloso, anche se non lo disse mai. Entrava dal freddo, e trovava Occhi-di-notte disteso comodo davanti al focolare, e le mie mani piene di matasse di lana mentre Spina lavorava su qualche progetto, e subito le dava altro da fare. Non che la trattasse male, ma faceva di tutto per sottolineare che era la sua donna. Spina non ne parlò mai con me, ma in un certo senso credo che lo facesse apposta, per ricordargli che sebbene stessero insieme da tanti anni, lei aveva una vita e una volontà sua. Non che abbia mai tentato di ingelosirlo davvero. «Prima che l'inverno fosse finito, Spina aveva fatto molti sforzi per inserirmi nella comunità dell'Antico Sangue. Invitò amici a casa, e si diede da fare per presentarmeli tutti. Molte famiglie avevano figlie da marito, e queste sembravano venire più spesso quando anch'io ero invitato a dividere un pasto con Rolf e Spina. Rolf beveva e rideva e diventava espansivo, ed era evidente che si divertiva. Spesso osservò ad alta voce che era l'inverno più allegro che ricordasse da molti anni, e ne dedussi che non apriva spesso casa sua a tanti ospiti. I suoi sforzi di trovarmi una compagna non furono mai troppo imbarazzanti. Era ovvio che considerava Rafia il miglior partito. Era una donna poco più vecchia di me, alta e bruna con profondi occhi blu. Aveva per compagno un corvo, allegro e birbante come lei. Divenimmo amici, ma il mio cuore non era pronto per qualcosa di più. Credo che suo padre, più di lei, disapprovasse la mia mancanza di ardore, perché spesso commentava solennemente che una donna non aspetta per sempre. Sentivo che Rafia non era altrettanto interessata a trovare un compagno come i suoi genitori supponevano. Rimanemmo amici per tutta la primavera e l'estate. Ollie, il padre di Rafia, spettegolando con Rolf, affrettò la mia partenza dalla comunità dell'Antico Sangue di Corvocollo. Disse a sua figlia che doveva smettere di vedermi, o spingermi a dichiarare le mie intenzioni. In risposta, Rafia espresse fortemente l'intenzione di non sposare nessuno che non le andasse a genio, figuriamoci 'un uomo tanto più giovane di me, in anni e cuore. Pur di avere nipoti, mi faresti sposare qualcuno cresciuto fra i Senza Sangue, e con la macchia dei Lungavista.» «Le parole mi furono riferite, non da Rolf ma da Spina. Me lo disse piano, occhi bassi, come se si vergognasse di tali dicerie. Ma quando mi
guardò, aspettando con tanta calma e dolcezza la mia smentita, le mie bugie pronte mi morirono sulle labbra. La ringraziai quietamente per avermi rivelato i sentimenti di Rafia, e le dissi che mi aveva dato molto su cui riflettere. «Rolf non c'era. Ero venuto a prendere in prestito l'ascia, perché d'estate si prepara la legna da ardere per l'inverno. Andai via senza chiederla: Occhi-di-notte e io sapemmo subito che non avremmo trascorso l'inverno fra l'Antico Sangue. Al sorgere della luna, il lupo e io ci eravamo lasciati ancora una volta alle spalle il Ducato del Cervo. Sperai che la nostra partenza improvvisa sembrasse la reazione a un corteggiamento finito male, non la fuga del Bastardo davanti a quelli che lo avevano riconosciuto.» Cadde il silenzio. Il Matto, credo, comprese che gli avevo parlato della mia paura più ossessiva. L'Antico Sangue conosceva la mia identità e il mio nome, e quindi aveva potere su di me. Spiegai a chiare lettere al Matto ciò che non avrei mai ammesso con Stornella. Un uomo non dovrebbe lasciare un tale potere in mano a chi non lo ama. Eppure era così, e non potevo farci niente. Avevo vissuto isolato dal Popolo dell'Antico Sangue, ma neanche per un istante avevo dimenticato la mia vulnerabilità. Pensai di raccontargli del cantastorie alla Festa di Primavera, menzionato da Stornella. Più tardi, mi ripromisi. Più tardi. Era come se desiderassi nascondere il pericolo a me stesso. Mi sentii all'improvviso cupo e stizzito. Alzai lo sguardo e trovai gli occhi del Matto sul mio viso. «E l'efedra» disse quietamente. «Già, l'efedra» dissi irritato, ma non seppi convincermi che la mia disperazione fosse solo l'effetto ritardato della medicina. Almeno in parte non scaturiva dall'inutilità della mia vita? Il Matto si alzò e passeggiò inquieto per la stanza. Andò due volte dalla porta al focolare alla finestra, e poi deviò verso la credenza. Portò in tavola il brandy e due tazze. Non sembrava una cattiva idea. Lo guardai versare. So che bevemmo quella sera e fino a notte alta. Il Matto prese la parola. Cercava di essere divertente e di migliorare il mio umore, penso, ma sembrava abbattuto quanto me. Dagli aneddoti dei Mercanti di Borgomago si lanciò in una storia folle di serpenti marini che si erano racchiusi in bozzolo per riemergere come draghi. Quando volli sapere perché non avevo visto nessun drago, scosse il capo. «Striminziti» disse malinconico. «Sono emersi alla fine della primavera, deboli e magri, come gattini nati troppo presto. Povere creature, un giorno forse saranno grandi, ma per ora si vergognano della loro fragilità. Non possono neppure cacciare da soli.» Ri-
cordo bene i suoi occhi spalancati, pieni di senso di colpa. Quello sguardo dorato si fissò su di me. «Potrebbe essere colpa mia?» chiese sommessamente alla fine, senza ragione. «Mi sono attaccato alla persona sbagliata?» Poi riempì di nuovo il bicchiere e lo buttò giù con una decisione che mi ricordò Burrich in uno dei suoi momenti neri. Quella notte non ricordo di essere andato a dormire, ma mi ritrovai disteso a letto, il braccio attorno al lupo addormentato, a guardare assonnato il Matto. Sedeva di fronte al fuoco e strimpellava un piccolo strumento bizzarro con tre corde, emettendo note discordi che addolciva con le parole di una canzone triste in una lingua che non avevo mai sentito. Mi toccai il polso. Nell'oscurità, potevo sentirlo lì. Non si girò a guardarmi, ma la consapevolezza fremette tra noi. La sua voce parve farsi più vera alle mie orecchie, e seppi che cantava la canzone di un esiliato che brama la terra natia. 9 I rimpianti di un morto Spesso si dice che l'Arte è la magia ereditaria dei Lungavista, e certamente sembra scorrere in loro con maggior costanza. Tuttavia si sa che può rispuntare come talento latente quasi ovunque nei Sei Ducati. Nei regni più antichi era consueto che il Mastro d'Arte che serviva il monarca Lungavista a Castelcervo cercasse regolarmente ragazzi che mostravano attitudine per l'Arte. Venivano portati a Castelcervo, istruiti nell'Arte se mostravano uno spiccato talento, e incoraggiati a formare confraternite: gruppi di sei che si sceglievano a vicenda e aiutavano il monarca regnante. Le informazioni su queste confraternite sono assai scarse, quasi come se le pergamene relative fossero state distrutte di proposito, ma la tradizione orale indica che di rado esistevano più di due o tre confraternite nello stesso momento, e che gli adepti potenti dell'Arte sono sempre stati rari. La procedura che i Mastri d'Arte usavano per localizzare i bambini dal talento latente si è persa nel tempo. Re Generoso, padre di re Sagace, cessò la pratica di riunire confraternite, forse convinto che restringendo la conoscenza dell'Arte all'uso esclusivo di principi e principesse avrebbe aumentato il potere di chi la possedeva. E così, quando la guerra giunse alle rive dei Sei Ducati durante il regno di re Sagace, non c'erano confraternite d'Arte per aiutare i Lungavista a difendersi.
Mi svegliai di soprassalto in piena notte. Malta. Avevo lasciato la cavalla del Matto legata sulla collina. Il pony sapeva tornare da solo, e probabilmente aveva trovato riparo all'interno del granaio, ma avevo lasciato la cavalla là fuori tutto il giorno, senza acqua. C'era solo una cosa da fare. Mi alzai in silenzio e lasciai la casetta, senza chiudere la porta dietro di me per non svegliare il Matto. Lasciai dormire anche il lupo e camminai nel buio da solo. Mi fermai brevemente al granaio. Come sospettavo, il pony era lì. Lo sfiorai con dolcezza con il mio senso dello Spirito. Dormiva, e lo lasciai dov'era. Salii la collina dove avevo legato la cavalla, felice che non fosse il buio profondo di una notte d'inverno. Le stelle e la luna piena sembravano molto vicine. Eppure la familiarità con il sentiero mi guidò più dei miei occhi. Raggiunsi Malta, e la cavalla emise uno sbuffo di rimprovero. Slegai la cavezza e la condussi giù per la collina. Quando il ruscello diretto al mare tagliò il nostro sentiero, mi fermai e la lasciai bere. Era una bella notte d'estate. L'aria era mite. I fruscii degli insetti notturni riempivano l'aria, accompagnati dal suono della cavalla che beveva. Lasciai vagare lo sguardo, facendomi invadere dalla notte. Il buio rubava i colori dell'erba e degli alberi, ma in qualche modo le crude ombre di nero e grigio rendevano il panorama più complesso. L'umidità nell'aria più fresca risvegliava tutti i profumi d'estate che di giorno sonnecchiavano. Aprii la bocca e trassi un respiro profondo, assaporando più pienamente la notte. Mi arresi ai miei sensi, abbandonando le preoccupazioni umane, lasciando che quel momento di presente si estendesse intorno a me all'infinito. Il mio Spirito si spiegò intorno a me e divenni una cosa sola con lo splendore notturno. C'è una naturale euforia nello Spirito, simile ma diversa dall'Arte. Con lo Spirito si è consapevoli di tutta la vita che ci circonda. Non sentivo solo il calore della cavalla vicina. Riconoscevo le scintillanti forme delle miriadi di insetti che popolavano l'erba, e percepivo anche l'ombrosa forza vitale della grande quercia che alzava le braccia tra me e la luna. Poco più in alto sul pendio, un coniglio si acquattava immobile fra le erbe d'estate. Avvertivo la sua presenza indistinta, non come un frammento di vita in un punto preciso, ma come a volte si coglie la nota di una sola voce nel frastuono di un mercato. Ma soprattutto provavo un senso di intimità fisica con tutto ciò che viveva nel mondo. Avevo diritto a essere lì. Ero parte di quella notte d'estate come gli insetti o l'acqua che gorgogliava accanto ai miei piedi. Penso che l'antica magia tragga molta della sua forza da quel riconosci-
mento: che siamo parte di quel mondo, non più ma certamente non meno del coniglio. Quell'intima unità mi percorse, lavando via la sgradevole brama d'Arte che poco prima aveva insudiciato la mia anima. Trassi un respiro più profondo e lo emisi come se fosse stato l'ultimo, imponendomi di essere parte di quella notte buona e pulita. La mia visione vacillò, si sdoppiò e poi si schiarì. Nel tempo di un respiro trattenuto, non ero io, non ero sul pendio estivo vicino alla mia casetta, e non ero solo. Ero di nuovo un ragazzo, fuggito dagli opprimenti muri di pietra e dalle lenzuola aggrovigliate. Correvo con calzature leggere attraverso un pascolo di pecore punteggiato da ciuffi di erbacce non ancora brucate, tentando invano di tenere il passo della mia compagna. Lei era bella come la notte punteggiata di stelle, il manto bronzeo macchiato di oscurità. Come la notte, si muoveva in silenzio. La seguii, non con occhi umani ma con il legame nello Spirito che ci univa. Ero ubriaco di amore per lei e per quella notte, inebriato dal fiotto impetuoso di quella selvaggia libertà. Sapevo di dover tornare prima del sorgere del sole. Lei sapeva con altrettanta forza che non era così, che non c'era momento migliore per fuggire insieme. E nel successivo respiro quella consapevolezza scomparve. La notte ancora fioriva e mi chiamava, ma ero un adulto, non un ragazzo perso nella meraviglia del primo legame nello Spirito. Non sapevo chi avessi sfiorato con i miei sensi, o dove fossero, né perché avessimo mescolato a tal punto la nostra identità. Mi chiesi se anche l'altro si fosse accorto di me. Non importava. Dovunque si trovassero, chiunque fossero, augurai loro una buona caccia notturna. Sperai che il loro legame durasse a lungo e fosse profondo come le loro ossa. Sentii uno strattone interrogativo alla cavezza. Malta aveva saziato la sete e non aveva nessuna voglia di stare lì a farsi divorare dagli insetti. Mi accorsi che anche il mio corpo caldo aveva attirato uno sciame di piccoli succhiasangue. La cavalla sferzò la coda e io agitai la mano attorno alla testa, poi ci avviammo di nuovo giù per la collina. La misi nella stalla, e scivolai in silenzio nella casetta, a cercare il mio letto per il resto della notte. Occhi-di-notte si era allungato, lasciandomi meno di mezzo letto, ma non ci badai. Mi distesi accanto a lui e gli appoggiai la mano lieve sulle costole. Il battito del cuore e il movimento del respiro erano più tranquillizzanti di qualsiasi ninnananna. Quando chiusi gli
occhi mi sentii in pace come non mi succedeva da settimane. Mi svegliai senza fatica al mattino presto. Il mio interludio sul pendio sembrava avermi riposato più del sonno. Al lupo non era andata altrettanto bene. Dormiva ancora profondamente, un sonno di guarigione. Provai una fitta di coscienza, ma la accantonai. Ciò che avevo fatto al suo cuore sembrava gravare sul resto del corpo, ma di certo era meglio che lasciarlo morire. Gli cedetti il letto e lo lasciai dormire. Il Matto non era in giro. La porta era spalancata: doveva essere uscito. Accesi un fuocherello, misi l'acqua a bollire e poi mi dedicai a lavarmi e radermi. Mi ero appena lisciato i capelli dietro le orecchie quando sentii i passi nel portico. Il Matto entrò con un cesto di uova. Alzai lo sguardo dopo essermi asciugato il viso, e lui si fermò dov'era. Un largo sorriso si aprì lentamente sul suo volto. «Ma guarda, è Fitz! Un po' più vecchio, un po' più logoro, ma è Fitz. Mi chiedevo com'eri sotto quella criniera.» Gettai di nuovo uno sguardo allo specchio. «Non mi curo più molto del mio aspetto, temo.» Feci una smorfia, poi tamponai una piccola macchia di sangue. Come al solito mi ero tagliato dove la vecchia cicatrice ricevuta nelle segrete di Castelcervo mi segnava il viso. Grazie, Regal. «Stornella dice che sembro molto più vecchio dei miei anni. Che potrei tornare a Borgo Castelcervo senza temere di essere riconosciuto.» Il Matto depose le uova sul tavolo con un breve suono di disgusto. «Stornella, come al solito, sbaglia su entrambi i fronti. Per il numero di anni e vite che hai vissuto, sembri notevolmente giovane. È vero che l'esperienza e il tempo hanno cambiato i tuoi lineamenti; quelli che ricordano il ragazzo Fitz non lo ravviserebbero nell'adulto che sei diventato. Eppure alcuni di noi, amico mio, ti riconoscerebbero anche se fossi scorticato e dato in pasto alle fiamme.» «Ma che bel pensiero.» Deposi lo specchio e mi dedicai alla colazione. «Tu hai cambiato colore» osservai un attimo dopo, rompendo le uova in una ciotola. «Ma non sembri invecchiato di un giorno dall'ultima volta che ti ho visto.» Il Matto stava riempiendo la teiera di acqua bollente. «La mia gente è così» disse piano. «La nostra vita è più lunga, quindi cresciamo più lentamente. Sono cambiato, Fitz, anche se vedi solo il colore della mia pelle. L'ultima volta che mi hai visto stavo appena avvicinandomi alla maturità. In me sbocciava ogni genere di nuovi sentimenti e idee, così tanti che a
malapena riuscivo a concentrarmi sui compiti del momento. Perfino io mi scandalizzo quando ricordo come mi comportavo. Ora, ti assicuro, sono molto più maturo. So che c'è un tempo e un luogo per tutto, e che ciò che sono destinato a fare ha la precedenza su qualsiasi cosa vorrei per me stesso.» Versai le uova sbattute in un tegame e le misi al margine del fuoco. Parlai lentamente. «Quando ti esprimi per indovinelli mi esasperi. Eppure, quando tenti di parlare chiaramente di te stesso, mi spaventi.» «Ragion di più per non parlare affatto di me» esclamò il Matto con falsa cordialità. «Allora. Quali sono i nostri compiti per la giornata?» Ci pensai mentre mescolavo le uova che si rapprendevano e le spingevo più vicine al fuoco. «Non lo so» dissi quietamente. Il Matto parve preoccupato dal cambiamento improvviso nella mia voce. «Fitz? Stai bene?» Non sapevo spiegare neppure io il soprassalto nel mio spirito. «All'improvviso tutto sembra così privo di senso. Quando sapevo che Ticcio sarebbe stato qui per l'inverno, facevo sempre attenzione a provvedere per tutti e due. Prima che arrivasse il ragazzo il mio orto era grande un quarto, e Occhi-di-notte e io cacciavamo giorno per giorno. Se non cacciavamo bene e digiunavamo per un giorno o due, non importava molto. Ora guardo tutto quello che ho già messo da parte e penso: Se il ragazzo non è qui, se Ticcio passa l'inverno con un padrone imparando il mestiere, ecco, allora ho già in abbondanza per Occhi-di-notte e per me. A volte sembra che sia tutto inutile. E poi mi chiedo se la mia vita è ancora utile a qualcosa.» Una ruga divise le sopracciglia del Matto. «Come sembri triste. O è l'efedra a parlare?» «No.» Presi le uova strapazzate e le portai in tavola. Era quasi un sollievo pronunciare i pensieri che cercavo di ignorare. «Penso che Stornella mi abbia portato Ticcio proprio per questo. Si era accorta che la mia vita aveva perso ogni scopo, e mi portò qualcuno per dare senso ai miei giorni.» Il Matto apparecchiò facendo un gran rumore e versò il cibo a cucchiaiate sdegnose. «Credo che tu sia troppo buono a pensare che Stornella abbia guardato al di là del suo naso. Sospetto che avesse preso con sé il ragazzo d'impulso, scaricandolo qui quando si è stancata di lui. È stato solo un caso fortunato che vi siate aiutati a vicenda.» Non risposi. La sua forte antipatia per Stornella mi sorprese. Sedetti a tavola e cominciai a mangiare. Ma il Matto non aveva finito. «Se Stornella voleva che qualcuno desse senso ai tuoi giorni, quel qualcuno era lei. Non
immaginava che tu potessi aver bisogno della compagnia di qualcun altro, credo.» Avevo il sospetto sgradevole che avesse ragione, soprattutto ricordando come Stornella aveva parlato di Occhi-di-notte e Ticcio l'ultima volta. «Bah. Ciò che pensava o meno non importa. In un modo o nell'altro, sono deciso a vedere Ticcio diventare un buon apprendista. Ma dopo...» «Dopo sarai libero di riprendere la tua vita. Ho la sensazione che ti richiamerà a Castelcervo.» «Hai 'la sensazione'?» chiesi ironico. «È la sensazione di un Matto, o di un Profeta Bianco?» «Dato che a quanto pare non hai mai creduto alle mie profezie, che ti importa?» Mi sorrise malizioso e cominciò a mangiare le uova. «Qualche volta è sembrato che le tue predizioni si avverassero. Ma erano sempre così nebulose che avresti potuto dar loro qualsiasi significato.» Il Matto mandò giù il boccone. «Non le mie profezie erano nebulose, ma la tua comprensione. Quando sono arrivato ti ho avvertito che sono tornato nella tua vita perché devo, non perché voglio. Non che non volessi rivederti. Ma se potessi in qualche modo risparmiarti il dovere che abbiamo da compiere, lo farei.» «Dimmi di preciso qual è il nostro dovere.» «Di preciso?» chiese il Matto con un sopracciglio sollevato. «Di preciso. E con chiarezza» lo rimbeccai. «Oh, molto bene, allora. Cosa dobbiamo fare, di preciso e con chiarezza. Dobbiamo salvare il mondo, tu e io. Di nuovo.» Si inclinò all'indietro, facendo dondolare la sedia. Le sopracciglia pallide risalirono verso l'attaccatura dei capelli mentre mi guardava con occhi sgranati. Appoggiai la fronte fra le mani. Ma lui sogghignava come un folle, e non riuscii a trattenere un sorriso. «Di nuovo? Non ricordo la prima volta.» «Certo. Sei vivo, no? E c'è un erede al trono dei Lungavista. Quindi abbiamo cambiato il corso di tutti i tempi. Tu eri un sasso nel solco del fato, mio caro Fitz. E hai spostato la pesante ruota in una nuova pista. Ora naturalmente dobbiamo fare in modo che ci rimanga. Può essere la parte più difficile.» «E come possiamo assicurarcene, di preciso e con chiarezza?» Sapevo che le parole erano un'esca per le sue celie, ma come al solito non seppi resistere. «È piuttosto semplice.» Il Matto mandò giù un altro boccone, gustandosi la mia ansia. «Semplicissimo.» Giocherellò con le uova nel piatto, raccolse
una cucchiaiata, poi depose il cucchiaio. Mi guardò, e il sorriso si affievolì. Quando parlò la voce era solenne. «Devo fare in modo che tu sopravviva. Di nuovo. E tu devi fare in modo che l'erede dei Lungavista salga al trono.» «E il pensiero della mia sopravvivenza ti rende triste?» chiesi perplesso. «Oh, no. Quello mai. Ma il pensiero di ciò che dovrai sopportare per sopravvivere mi riempie di presentimenti.» Spinsi via il piatto. Avevo perso l'appetito. «Ancora non ti capisco» risposi irritato. «Invece sì» mi contraddisse implacabile il Matto. «Suppongo che tu dica così perché è più facile, per tutti e due. Ma questa volta, amico mio, farò in modo che risulti molto chiaro. Ripensa all'ultima volta che ci siamo visti. Non ci sono stati momenti in cui la morte sarebbe stata più facile e meno dolorosa della vita?» Le sue parole erano schegge di ghiaccio nel mio ventre, ma io sono cocciuto. «Praticamente sempre.» Poche volte in vita mia sono stato capace di lasciare il Matto senza parole per lo sgomento. Quella fu una. Mi fissò, sgranando sempre di più i suoi occhi bizzarri. Poi un sorriso si aprì sul suo volto. Si alzò così di scatto che quasi rovesciò la sedia, e poi spiccò un balzo per afferrarmi in un abbraccio selvaggio. Emise un profondo respiro come se qualcosa che lo aveva oppresso si fosse all'improvviso sciolto. «È vero» bisbigliò al mio orecchio. E poi, in un grido che quasi mi assordò: «Certo che lo è!» Prima che potessi liberarmi dalla sua stretta soffocante, il Matto balzò via. Fece una capriola, tingendo i suoi sobri vestiti di immaginarie chiazze multicolori, e poi saltò con grazia sul tavolo. Aprì le braccia come se ancora una volta si esibisse per tutta la corte di re Sagace, e non un pubblico di uno. «La morte è sempre meno dolorosa e più facile della vita! Dici il vero. Eppure, giorno dopo giorno, non scegliamo la morte. Perché tutto sommato la morte non è l'opposto della vita, ma l'opposto della scelta. La morte è ciò che rimane quando non c'è più scelta. Ho ragione?» Per quanto il suo umore stravagante fosse contagioso, riuscii a scuotere il capo. «Non ne ho idea.» «Allora fidati di me. Ho ragione. Non sono il Profeta Bianco? E tu non sei il mio Catalizzatore, che viene a cambiare il corso di tutti i tempi? Guardati. Non l'eroe, no. Il Cambiamento. Colui che, con la sua esistenza, permette agli altri di essere eroi. Ah, Fitz, Fitz, siamo ciò che siamo e che dovremo sempre essere. E quando sono scoraggiato, quando mi perdo d'a-
nimo al punto di dire: 'Ma perché non posso lasciarlo qui, a trovare tutta la pace che può?' allora, meravigliosamente, tu parli con la voce del Catalizzatore, e cambi la mia percezione di tutto ciò che faccio. È mi permetti ancora una volta di essere ciò che devo essere. Il Profeta Bianco.» Rimasi seduto a guardarlo. Malgrado i miei sforzi, un sorriso mi torse la bocca. «Pensavo di dover spingere gli altri a essere eroi. Non profeti.» «Ah, ecco.» Il Matto balzò leggero sul pavimento. «Alcuni di noi devono essere entrambi, temo.» Si scrollò e si aggiustò il farsetto. Un poco di follia lo lasciò. «Allora. Torniamo alla mia domanda originaria. Quali sono i nostri compiti oggi? Tocca a me darti la risposta. Oggi il nostro primo compito è non pensare al domani.» Seguii il suo consiglio, almeno per quel giorno. Feci cose che di solito non mi concedevo, perché non erano i compiti seri che provvedevano al domani, ma semplici occupazioni che mi davano piacere. Lavorai sui miei inchiostri, non per portarli a vendere al mercato, ma per divertimento. Stavo tentando di creare un vero viola. Quel giorno non ebbi successo; tutti i miei viola diventavano marroni asciugandosi, ma era un lavoro che mi piaceva. Quanto al Matto, si divertì a intagliare i miei mobili. Alzai gli occhi al suono del mio coltello da cucina che raschiava il legno. Il movimento catturò la sua attenzione. «Scusa» disse subito. Mi mostrò il coltello tenuto tra due dita, e poi lo depose con attenzione. Si alzò dalla sedia e vagò alla sua borsa da sella. Frugò per un momento e tirò fuori un rotolo di fini attrezzi da intaglio. Canticchiando, tornò al tavolo e si dedicò alle sedie. Lavorava a mani nude, senza il guanto sottile che di solito nascondeva la sua mano macchiata di Arte. Mentre il giorno avanzava, le mie semplici sedie guadagnarono viticci frondosi che si attorcigliavano su per lo schienale, e faccine che sbirciavano di tanto in tanto dal fogliame. Quando alzai lo sguardo dal mio lavoro a metà pomeriggio, lo vidi entrare con alcuni pezzi di legno stagionato dalla mia legnaia. Mi scostai dallo scrittoio per guardarlo mentre li rigirava e li analizzava uno per uno, studiandoli e seguendo la grana con le dita macchiate d'Arte come se potesse leggervi segreti nascosti ai miei occhi. Alla fine ne scelse uno con una piega e cominciò a lavorare. Canticchiava a bocca chiusa, e lo lasciai fare. Occhi-di-notte si svegliò una volta durante il giorno. Scese pesantemente dal mio letto con un sospiro e uscì barcollando. Quando tornò gli offrii da
mangiare, ma lui girò il muso. Aveva bevuto a lungo, tutta l'acqua che poteva, e con un sospiro si accucciò sul pavimento fresco della casetta. Dormì di nuovo, ma non altrettanto profondamente. E così passai quel giorno nel divertimento, ovvero nel genere di lavoro che volevo fare e non quello che pensavo di dover fare. Umbra mi venne in mente spesso. Mi chiesi, come di rado mi accadeva, come il vecchio assassino avesse passato lunghe ore e lunghi giorni su nella sua torre isolata prima che io diventassi suo apprendista. Poi accantonai quell'immagine con uno sbuffo ironico. Ben prima che io arrivassi, Umbra era stato l'assassino reale, colui che portava la Giustizia del Re dovunque fosse necessaria, sotto forma di lavoro silenzioso. La nutrita biblioteca di pergamene nei suoi appartamenti e gli esperimenti senza fine con veleni e artifici mortali erano prova che aveva saputo occupare i suoi giorni. E lo scopo della sua vita era stato il benessere del regno dei Lungavista. Un tempo anch'io avevo condiviso quello scopo. Lo avevo accantonato per avere la mia indipendenza, ma nel far ciò mi ero strappato dalla vita e dagli affetti che avevo desiderato. Libero di godere della mia nuova vita, avevo troncato ogni legame con quella vecchia. Avevo perso i contatti con tutti coloro che mi avevano amato, e tutti coloro che avevo amato. Non era tutta la verità, ma si adattava al mio umore. Un istante più tardi compresi che mi stavo crogiolando nell'autocommiserazione. I miei ultimi tre tentativi di ottenere un inchiostro viola stavano asciugando e diventando marroni, sebbene uno avesse una graziosa sfumatura di rosa. Accantonai quel frammento di carta dopo aver preso nota di come avevo ottenuto il colore. Sarebbe stato utile per illustrazioni botaniche. Disincagliai le gambe dalla sedia e mi alzai, stiracchiandomi. Il Matto alzò lo sguardo dal suo lavoro. «Fame?» gli chiesi. Lui rifletté un momento. «Ma sì. Cucino io. Il tuo cibo riempie lo stomaco, ma non molto altro.» Accantonò la statuina a cui stava lavorando. Mi vide gettare uno sguardo e la coprì, quasi gelosamente. «Quando avrò finito» promise, e cominciò a frugare con metodo nella mia credenza. Mentre schioccava le labbra per la mancanza di alcune spezie interessanti, vagai fuori dalla casetta. Attraversai il ruscello che avrebbe potuto condurmi giù fino alla spiaggia. Pigramente risalii la collina, superando la cavalla e il pony che pascolavano liberi. Sulla cresta rallentai il passo finché non giunsi alla mia panca. Mi sedetti. A pochi passi la collina erbosa cedeva improvvisamente il posto a rupi di ardesia e alla spiaggia rocciosa al di sotto. Seduto sulla mia
panca scorgevo solo l'ampia distesa dell'oceano davanti a me. L'inquietudine mi percorse di nuovo le ossa. Pensai al sogno del ragazzo e della gatta da caccia nella notte, e sorrisi. Fuggiamo da ogni cosa, la gatta aveva esortato il ragazzo, e quel pensiero aveva tutta la mia comprensione. Eppure, anni prima, ero fuggito, ed ecco cosa avevo ottenuto. Una vita di pace e autosufficienza, una vita che avrebbe dovuto soddisfarmi; e invece mi trovavo lì seduto. Qualche tempo dopo, il Matto mi raggiunse. Occhi-di-notte lo tallonava, e si distese ai miei piedi con un sospiro drammatico. «È la fame di Arte?» chiese il Matto con quieta comprensione. «No» risposi, e quasi risi. La fame che il giorno prima lui aveva risvegliato inconsapevolmente in me era stata placata dall'efedra, per il momento. Potevo desiderare l'Arte, ma adesso la mia mente era impossibilitata a praticarla. «Ho messo la cena a cuocere a fuoco lento, perché il fumo non ci cacci fuori di casa. Abbiamo tempo in abbondanza» Fece una pausa, poi chiese con cautela: «E dopo che lasciasti il Popolo dell'Antico Sangue, dove andasti?» Sospirai. Il lupo aveva ragione. Parlare con il Matto mi aiutava a pensare. Forse anche troppo. Guardai indietro attraverso gli anni e ripresi i fili della mia storia. «Dappertutto. Non avevamo una meta. Vagammo.» Guardai lontano attraverso l'acqua. «Per quattro anni, vagammo attraverso i Sei Ducati. Vidi Riccaterra in inverno, quando la neve sulle grandi pianure è alta appena un palmo, ma il freddo sembra scendere fin nelle ossa della terra. Vidi tutto Armento, fino ad Acquemosse, e poi camminai lungo la costa. A volte lavoravo come un uomo, e compravo il pane, e a volte noi due cacciavamo come lupi e mangiavano carne sanguinolenta.» Gettai uno sguardo al Matto. Ascoltava con attenti occhi dorati. Se mi giudicava, il suo viso non diede alcun segnale. «Quando giungemmo alla costa, prendemmo una nave per il nord, anche se a Occhi-di-notte non piacque. Visitai il Ducato dell'Orso in pieno inverno.» «L'Orso?» Il Matto considerò. «Una volta eri promesso a dama Saetta dell'Orso.» La domanda era sul suo viso ma non nella sua voce. «Non per mia volontà, come ricorderai. Non andai a cercare Saetta. Ma scorsi dama Fede, duchessa dell'Orso, mentre cavalcava verso Forte Schiuma. Non mi vide, e se mi avesse visto sono sicuro che non avrebbe
riconosciuto messer FitzChevalier in quel logoro vagabondo. Ho saputo che Saetta ha fatto un matrimonio ricco d'amore e di terre, e ora è la Dama delle Torri di Ghiaccio vicino a Borgoghiaccio.» «Sono contento per lei» disse solenne il Matto. «Anch'io. Non l'ho mai amata, ma ammiravo il suo spirito, e mi piaceva. Sono contento della sua fortuna.» «E poi?» «Andai alle Isole Vicine. Di là volevo compiere la lunga traversata verso le Isole Esterne, per vedere con i miei occhi la terra del popolo che ci aveva depredati e afflitti per tanto tempo, ma il lupo rifiutò anche solo di considerare un viaggio per mare così lungo. «Quindi tornammo sul continente e andammo a sud. Viaggiammo soprattutto a piedi, anche se prendemmo una nave prima di arrivare a Castelcervo e non ci fermammo lì. Seguimmo la costa di Acquemosse e Costabassa, e uscimmo dai Sei Ducati. Chalced non mi piacque. Lì ce ne andammo per nave.» «Fin dove arrivaste?» mi esortò il Matto quando rimasi in silenzio. Sentii la bocca torcersi in un ghigno: «Giù fino a Borgomago» mi vantai. «Davvero?» Il suo interesse aumentò. «E come ti è sembrata?» «Vivace. Prospera. Mi ha ricordato Guado dei Mercanti. Gente elegante e case decorate, con vetri a ogni finestra. Vendono libri in chioschi per la strada, e in una via del mercato ogni bottega tratta il proprio genere di magia. Percorrere quella via mi stordì. Non saprei dirti che genere di magia fosse, ma premeva contro i sensi, disorientandomi come un profumo troppo forte...» Scossi il capo. «Mi sentivo uno zoticone straniero, e senza dubbio così mi giudicarono, con i miei vestiti rozzi e un lupo al fianco. Eppure, malgrado tutto quello che vidi, la città non è all'altezza della leggenda. Si dice che un uomo può trovare in vendita a Borgomago qualsiasi cosa gli venga in mente. Ebbene, là vidi molto che andava ben oltre la mia immaginazione, ma non necessariamente cose che volevo comprare. La trovai anche molto sgradevole. C'erano schiavi che scendevano da una nave, con grandi ulcere sulle caviglie per le catene. E vedemmo una delle loro navi parlanti. Credevo che fosse solo una leggenda.» Rimasi in silenzio per un istante, chiedendomi come trasmettere ciò che Occhi-di-notte e io avevamo percepito di quella cupa magia. «Non è una magia con cui sarei a mio agio» dissi infine. L'umanità concentrata della città aveva sopraffatto il lupo, e fu felice di andarsene appena lo suggerii. La visita a Borgomago mi fece sentire più
piccolo. Riconsiderai il selvaggio isolamento della costa del Cervo, e il rude militarismo di Castelcervo. Una volta avevo ritenuto Castelcervo il cuore di ogni civiltà, ma a Borgomago la definivano rozza e barbarica. I commenti che udivo per caso facevano male, eppure non potevo controbattere. Avevo lasciato Borgomago più umile, deciso a migliorare la mia istruzione e a scoprire la vera grandezza del mondo. Scossi il capo a quel ricordo. Avevo mai messo in pratica la decisione? «Non avevamo soldi per tornare via nave, se anche Occhi-di-notte avesse potuto sopportarla. Scegliemmo di viaggiare a piedi lungo la costa.» Il Matto mi guardò incredulo. «Ma non si può!» «Così ci dissero tutti. Pensai che fossero discorsi da cittadini, gente che non aveva mai viaggiato a lungo fra le difficoltà. Ma avevano ragione.» Ignorammo i consigli e ci avviammo a piedi. Nelle terre selvagge fuori da Borgomago trovammo stranezze che quasi superavano ciò che avevamo scoperto oltre il Regno delle Montagne. Quella costa è giustamente chiamata Rive Maledette. Ero tormentato da sogni incompleti, e a volte le mie fantasie da sveglio erano sconcertanti e minacciose. Il lupo era angosciato, perché camminavo sull'orlo della pazzia. Non so darne una ragione. Non soffrivo di febbri o di altri sintomi delle malattie che possono sconvolgere la mente di un uomo, eppure non ero me stesso mentre attraversavamo quel paese duro e inospitale. Sogni vividi di Veritas e dei nostri draghi tornarono a perseguitarmi. Anche da sveglio mi tormentavo senza posa con la stupidità di decisioni passate, e pensai spesso a porre fine alla mia vita. Solo la compagnia del lupo mi trattenne. Guardando indietro, non ricordo giorni e notti, ma una successione di sogni lucidi e inquietanti. Da quando avevo viaggiato sulla strada dell'Arte non avevo mai sofferto di un tale stravolgimento dei miei pensieri. Non è un'esperienza che ripeterei volentieri. Mai, prima o dopo di allora, vidi un tratto di costa tanto privo di umanità. Anche gli animali urtavano il mio senso dello Spirito in modo acuto e strano. Le caratteristiche fisiche della costa ci erano straniere come la sua atmosfera. C'erano paludi che fumavano e puzzavano e ci scottavano le narici, e acquitrini traboccanti di vegetazione dove tutte le piante sembravano distorte e deformi malgrado la straripante crescita odorosa. Giungemmo al Fiume Pioggia, che la gente di Borgomago chiama Fiume delle Giungle della Pioggia. Non so dire quale oscuro capriccio mi persuase a seguirlo nell'entroterra, ma ci provai. Le rive acquitrinose, le erbe putride e i sogni strani ci ricacciarono presto indietro. Qualcosa nel suolo consumava i pol-
pastrelli di Occhi-di-notte e indeboliva i miei stivali di cuoio duro fin quasi a ridurli a brandelli. Ci arrendemmo, ma poi facemmo un errore più grande nella nostra già caparbia ricerca, tagliando giovani alberi per costruire una zattera. Il naso di Occhi-di-notte ci aveva avvertiti di non bere l'acqua di fiume, ma non avevo compreso pienamente quale pericolo rappresentasse. La nostra zattera improvvisata durò appena per riportarci alla foce del fiume, e tutti e due ricavammo ulcere dolorose al contatto con l'acqua. Fummo sollevati di ritrovare la buona, onesta acqua salata. Bruciava, ma si rivelò ottima per le nostre ulcere. Anche se Chalced da tempo rivendica il possesso legittimo delle terre fino al Fiume Pioggia, e ha spesso asserito che anche Borgomago rientra nel suo dominio, non vedemmo tracce di insediamenti su quella costa. Fu un lungo viaggio disagevole verso nord. Tre giorni dopo aver oltrepassato il Fiume Pioggia credemmo di esserci lasciati alle spalle la stranezza, ma viaggiammo per altri dieci giorni prima di incontrare un insediamento umano. Ormai le regolari abluzioni in acqua salata avevano guarito molte delle nostre ulcere, e avevo la sensazione di essermi riappropriato dei miei pensieri, ma sembravamo un mendicante stanco e il suo cane rognoso. La gente non ci accolse cordialmente. Il doloroso viaggio a nord attraverso Chalced mi persuase che quel popolo è il più ostile del mondo. Apprezzai pienamente quanto Burrich mi aveva anticipato sulle piacevolezze del luogo. Neanche le magnifiche città mi commossero. Le meraviglie della sua architettura e le altezze della sua civiltà sono fondate sulla sofferenza umana. La realtà della schiavitù diffusa mi atterrì. Feci una pausa nella mia storia per gettare un'occhiata all'orecchino della libertà che il Matto portava. Era stato il premio duramente conquistato dalla nonna di Burrich, il marchio di uno schiavo affrancato. Il Matto alzò una mano per toccarlo con un dito. Era appeso accanto ad altri orecchini intagliati nel legno, e la filigrana d'argento attirava lo sguardo. «Burrich» disse piano il Matto. «E Molly. Questa volta te lo chiedo. Li hai mai cercati?» Chinai la testa per un momento. «Sì» ammisi infine. «Strano che tu me lo chieda adesso, perché fu proprio mentre attraversavo Chalced che mi colse il desiderio improvviso di vederli.» Una sera, mentre eravamo accampati ben lontano dalla strada, sentii il mio sonno nella morsa di un sogno potente. Forse le immagini vennero a me perché, in qualche angolo del suo cuore, Molly aveva ancora un posto
per me. Eppure non sognai Molly come un amante sogna la sua amata. Sognai di me, così pensavo, piccolo e riarso e mortalmente ammalato. Era un sogno cupo, un sogno di sensazioni senza immagini. Giacevo rannicchiato contro il torace di Burrich, e la sua presenza e il suo odore erano l'unico conforto al mio tormento. Poi mani insopportabilmente fresche toccarono la mia pelle febbricitante. Tentarono di sollevarmi, ma io mi dimenai e gridai, aggrappandomi a lui. Il braccio forte di Burrich si chiuse di nuovo intorno a me. «Lasciala stare» ordinò rauco. Udii la voce di Molly da lontano, mi giungeva a sprazzi e distorta. «Burrich, sei malato quanto lei. Non puoi occuparti di lei. Dalla a me, mentre riposi.» «No. Lasciala qui con me. Tu occupati di Chev e di te stessa.» «Tuo figlio sta bene. Noi non siamo malati. Solo tu e Urtica. Dalla a me, Burrich.» «No» gemette lui. La sua mano si posò protettiva su di me. «È così che cominciò la Peste di Sangue, quando ero ragazzo. Uccise tutti quelli che amavo. Molly. Non potrei sopportarlo se tu me la togliessi e lei morisse. Ti prego. Lasciala qui con me.» «Così morirete insieme?» chiese Molly, con voce stridula per la stanchezza. Una terribile rassegnazione nella voce di Burrich. «Se dobbiamo. La morte è più fredda quando ti trova da solo. La terrò fino all'ultimo.» Burrich non era razionale, e sentii la rabbia e la paura di Molly per lui. Gli portò dell'acqua, e mi agitai quando lo mise quasi a sedere per bere. Tentai di bere dalla tazza che Molly mi accostava alla bocca, ma le mie labbra erano screpolate e dolenti, la testa mi faceva troppo male, e la luce era troppo brillante. Quando la spinsi via l'acqua traboccò sul mio petto, fredda come il ghiaccio, e io urlai e cominciai a piangere. «Urtica, Urtica, shhh» mi disse Molly, ma le sue mani erano gelide. Non volevo mia madre in quel momento, e colsi un'eco della gelosia di Urtica perché un altro bambino ora occupava il trono del grembo di Molly. Mi aggrappai alla tunica di Burrich e lui mi tenne di nuovo stretta e canticchiò sommessamente nella sua voce profonda. Spinsi il viso contro di lui dove la luce non poteva toccare i miei occhi, e tentai di dormire. Mi sforzai così disperatamente di dormire che mi svegliai. Aprii gli occhi sentendo il respiro che raschiava dentro e fuori dai polmoni. Il sudore mi copriva come una cappa, ma non potevo dimenticare l'angustia della mia pelle calda e asciutta nel sogno d'Arte. Mi ero disteso per dormire av-
volgendomi nel mantello; ora mi liberai dai suoi confini. Avevamo scelto di dormire nel cuore della notte su una riva di torrente; barcollai fino all'acqua e bevvi a lunghi sorsi. Quando alzai il viso trovai il lupo seduto che mi guardava, la coda avvolta con cura attorno alle quattro zampe. «Sapeva già che dovevo andare da loro. Partimmo quella notte.» «E tu sapevi dove trovarli?» Scossi il capo. «No. Non sapevo niente, se non che quando avevano lasciato Castelcervo si erano stabiliti vicino a un villaggio chiamato Riva dei Cormorani. E avevo, come dire, la 'sensazione' di dove vivevano. Senza altre esitazioni, partimmo. Dopo anni di vagabondaggi era strano per me avere una destinazione, e soprattutto volerla raggiungere in fretta. Non pensai a ciò che facevamo, o a quanto era sciocco. Una parte di me ammetteva che non aveva senso. Eravamo troppo lontani. Non sarei mai arrivato in tempo. Li avrei trovati morti, o guariti. Eppure, una volta partito non potevo deviare. Dopo aver sfuggito per anni chiunque potesse riconoscermi, ero all'improvviso disposto a irrompere di nuovo nelle loro vite? Rifiutai di pensarci. Andai, e basta.» Il Matto annuì comprensivo. Temetti che potesse indovinare più di quanto volevo dirgli. Dopo anni di negazione e rifiuto delle attrazioni dell'Arte, mi ci immersi. La dipendenza mi afferrò e io l'abbracciai. Era sconcertante sentirla tornare con tale forza. Ma non lottai. Malgrado i feroci mal di testa che ancora accompagnavano i miei sforzi, cercai di raggiungere Molly e Burrich quasi ogni sera. I risultati non furono incoraggianti. La corrente impetuosa di due menti addestrate all'Arte che si incontrano è potentissima. Ma vedere con l'Arte è tutta un'altra questione. Non ero mai stato istruito in quell'applicazione dell'Arte; avevo guadagnato la mia conoscenza brancolando. Mio padre aveva chiuso la mente di Burrich all'Arte, affinché nessuno tentasse di usare il suo amico contro di lui. Molly non era portata, per quel che ne sapevo. Quando li scorgevo con l'Arte non poteva esserci alcuna vera unione di menti, ma solo la frustrazione di guardarli, incapace di palesarmi. Scoprii presto che non riuscivo a realizzare neanche quello in modo affidabile. Avendole scarsamente esercitate, le mie abilità si erano arrugginite. Perfino un breve sforzo mi lasciava esausto e debilitato dal dolore, eppure non sapevo resistere. Lottavo per ottenere quei brevi collegamenti e ne traevo tutte le informazioni possibili. Colline dietro la casa, l'odore del mare, greggi di pecore dal muso nero che pascolavano in lontananza... Feci teso-
ro di tutti i particolari, e sperai che bastassero a guidarmi. Non potevo decidere dove guardare. Spesso mi trovavo a osservare i compiti più umili, la fatica quotidiana di lavare e stendere una vasca di bucato, raccogliere e asciugare erbe, e sì, curare alveari. Intravidi un bambino che Molly chiamava Chev. Il suo volto rifletteva i fratti di Burrich e mi trafisse di gelosia e meraviglia. Alla fine trovai un villaggio chiamato Riva dei Cormorani. Scoprii la casetta abbandonata dove era nata mia figlia. Altri vi avevano vissuto da allora; non restavano tracce riconoscibili ai miei occhi, ma il naso del lupo era più acuto. Tuttavia Molly e Burrich se n'erano andati da tempo, e non sapevo dove. Non osavo fare domande dirette al villaggio, per timore che loro venissero a sapere che qualcuno li cercava. Il mio viaggio era durato mesi. In ogni villaggio vedevo tombe nuove. Qualsiasi epidemia fosse stata, si era diffusa e aveva fatto molte vittime. In nessuna visione avevo scorto Urtica; si era portata via anche lei? Mi spostai da Riva dei Cormorani descrivendo una spirale, visitando locande e taverne in villaggi vicini. Divenni un viaggiatore eccentrico, ossessionato dall'apicoltura, che si vantava di sapere tutto sull'argomento. Intavolavo discussioni in modo che altri mi correggessero, parlando di apicoltori che avevano conosciuto. Eppure tutti i miei sforzi per cogliere la minima menzione di Molly furono vani fino a quando, un tardo pomeriggio, seguii una strada stretta fino alla cresta di una collina, e riconobbi all'improvviso una macchia di querce. Tutto il mio coraggio svanì in quell'istante. Lasciai la strada e avanzai di nascosto fra le colline boscose che la fiancheggiavano. Il lupo mi seguiva, senza fare domande, evitando perfino che i suoi pensieri interferissero con i miei mentre davo la caccia alla mia vecchia vita. Al calar della sera ci trovammo su un pendio che dava sulla casetta. Era un posto ordinato e prospero, con polli che razzolavano nell'aia e tre alveari di paglia in fondo al prato. Un orto ben tenuto. Dietro alla casetta un granaio, chiaramente una struttura più recente, e vari piccoli recinti di tronchi scortecciati. Sentivo odore di cavallo. Burrich aveva provveduto bene alla sua famiglia. Sedetti nel buio e guardai il bagliore giallo della luce di candela all'unica finestra, che d'un tratto si spense. Quella notte il lupo cacciò da solo mentre io vegliavo. Non potevo avvicinarmi e non potevo andarmene. Ero intrappolato lì, una foglia sull'orlo del loro vortice. Capii all'improvviso tutte le leggende di fantasmi condannati a vagare per sempre nello stesso punto. Non importa quanto andavo lontano, una parte di me sarebbe rimasta incatenata lì per sempre.
All'alba Burrich emerse dalla porta della casetta. Zoppicava più di quanto ricordassi, e anche la riga bianca nei capelli era più pronunciata. Alzò il viso al giorno albeggiante e trasse un profondo respiro, e per un istante lupesco temetti che mi avesse fiutato. Invece si diresse al pozzo e prese un secchio d'acqua. Lo portò dentro, poi tornò a gettare granaglie ai polli. Il fumo di un focolare ravvivato si alzò dal camino. Quindi anche Molly era in piedi. Burrich andò al granaio. Seguii la sua consuetudine come se fossi stato accanto a lui. Dopo aver controllato ogni animale, sarebbe uscito. E infatti andò a prendere acqua, portando dentro un secchio dopo l'altro. Le parole mi soffocarono per un istante. Poi risi ad alta voce. I miei occhi erano pieni di lacrime, ma non ci feci caso. «Lo giuro, Matto, fu allora che fui sul punto di correre da lui. Sembrava la cosa più innaturale che avessi mai fatto, guardare Burrich lavorare e non aiutarlo.» Il Matto fece un cenno con il capo, silenzioso e rapito accanto a me. «Quando uscì, conduceva uno stallone roano. Ero sbalordito. Ogni linea del corpo proclamava 'Il meglio di Castelcervo'. C'era l'ardimento nell'arco del collo, la potenza nelle spalle e nei fianchi. Il mio cuore si gonfiò alla vista di quel cavallo, e sapere che Burrich l'aveva in custodia mi rallegrò. Lo lasciò libero in un recinto e versò altra acqua nell'abbeveratoio. «Quando poi condusse fuori Rosso, gran parte del mistero si chiarì. All'epoca non sapevo che Stornella lo aveva rintracciato e aveva fatto in modo che riavesse il suo cavallo e il puledro di Fuliggine. Era bello rivedere insieme uomo e cavallo. Rosso sembrava aver raggiunto una benevola pacatezza; malgrado questo, Burrich non lo mise nel recinto accanto all'altro stallone, anzi lo lasciò il più lontano possibile. Prese altra acqua per Rosso, gli diede una pacca amichevole e tornò nella casetta. «Poi Molly uscì.» Trassi un altro respiro e lo trattenni. Fissai l'oceano, ma non era ciò che vedevo. «L'immagine di colei che era stata la mia donna si mosse davanti ai miei occhi. I capelli scuri, una volta selvaggi e sparsi al vento, erano intrecciati e fissati con ordine sul capo, la corona di una dama. Un bimbetto trotterellava malfermo dietro di lei. Cestino al braccio, si mosse con grazia placida verso l'orto. Il grembiule bianco drappeggiava la pienezza della gravidanza. La scattante ragazza snella era scomparsa, ma trovavo quella donna non meno attraente. Il mio cuore bramava tutto ciò che rappresentava: un focolare accogliente e una dimora sicura, e la compagnia degli anni a venire mentre riempiva di bambini e calore la casa del suo uomo. «Sussurrai il suo nome. Era così strano. Molly alzò all'improvviso la te-
sta, e per un momento lacerante pensai che fosse consapevole della mia presenza. Ma invece di guardare la collina rise ad alta voce ed esclamò: 'Chevalier, no! Non è buono da mangiare.' Si chinò per strappare una manciata di fiori di pisello dalla bocca del bambino. Lo sollevò, e vidi lo sforzo che le costò. Chiamò verso la casetta: 'Amore mio, vieni a prendere tuo figlio prima che estirpi tutto l'orto. Di' a Urtica di raccogliere qualche rapa.' «Poi sentii Burrich esclamare: 'Un momento!' Un istante più tardi apparve sulla porta. Chiamò sopra la spalla: 'Finiremo più tardi di lavare le stoviglie. Vieni ad aiutare tua madre.' Lo guardai attraversare il recinto in poche falcate e afferrare suo figlio. Lo sollevò sopra la testa, e il bambino diede un grido di felicità quando Burrich se lo sistemò sulla spalla. Molly si mise una mano sul ventre e rise con loro, guardandoli con la gioia nei occhi.» Tacqui. Non vedevo più l'oceano. Le lacrime mi accecavano come una nebbia. Sentii la mano del Matto sulla mia spalla. «Non andasti da loro, vero?» Scossi il capo in silenzio. Ero fuggito. Ero fuggito dall'improvvisa invidia divorante che provavo, ero fuggito per timore di scorgere la mia bambina e correre da lei. Laggiù non c'era posto per me, neppure ai margini del loro mondo. Lo sapevo. Fin da quando avevo scoperto che si sarebbero sposati. Se fossi sceso fino a quella porta avrei portato con me distruzione e dolore. Non sono migliore degli altri. Provavo amarezza, e rabbia nei loro confronti, e la cruda consapevolezza di come il fato ci aveva traditi tutti. Non potevo biasimarli per aver trovato conforto l'uno nell'altra. Ma con quell'atto mi avevano escluso per sempre dalle loro vite, e non mi vergognavo del mio dolore. Era fatta, e il rimpianto era inutile. I morti, mi dissi, non hanno diritto al rimpianto. Tutto ciò che posso dire è che mi allontanai. Non lasciai che la mia angoscia avvelenasse la loro felicità, o compromettesse la casa di mia figlia. Ebbi almeno quella forza. Trassi un lungo respiro e ritrovai la voce. «E questa è la fine della mia storia, Matto. L'inverno successivo ci sorprese qui. Trovammo questa capanna e ci sistemammo. E qui siamo stati, da allora.» Sbuffai e pensai alle mie parole. All'improvviso non sembravano ammirevoli. Le parole del Matto mi scossero. «E l'altro tuo figlio?» chiese quietamente. «Cosa?» «Devoto. L'hai visto? Non è tuo figlio, proprio come Urtica è tua fi-
glia?» «Io... no. No, non lo è. E non l'ho mai visto. È il figlio di Kettricken e l'erede di Veritas. Così Kettricken ricorda gli eventi, ne sono sicuro.» Mi sentii arrossire, imbarazzato che il Matto avesse menzionato l'argomento. Gli misi la mano sulla spalla. «Amico, solo tu e io sappiamo come Veritas mi usò... usò il mio corpo. Quando chiese il mio permesso, non capii. Non ho memoria di come Devoto fu concepito. Di certo lo rammenti; ero con te, intrappolato nella carne consumata di Veritas. Il mio re fece ciò per avere un erede. Non lo biasimo, ma non desidero ricordarlo.» «Stornella non lo sa? E Kettricken?» «Stornella dormì quella notte. Sono sicuro che ne avrebbe parlato, se avesse avuto anche solo il minimo sospetto. Una cantastorie non rinuncerebbe a una tale canzone, per quanto possa essere imprudente. Quanto a Kettricken, ebbene, Veritas sfolgorava d'Arte come un falò. Lei vide solo il suo re nel suo letto quella notte. Sono sicuro che se fosse stato altrimenti...» Sospirai all'improvviso e ammisi: «Mi vergogno di aver partecipato a quella falsità. So che non tocca a me discutere la volontà di Veritas, eppure...» Le mie parole si spensero. Neppure con il Matto potevo ammettere la curiosità che provavo verso Devoto. Un figlio, mio e non mio. E come mio padre aveva fatto con me, così io avevo scelto di non conoscerlo, per proteggerlo. Il Matto mise la sua mano sulla mia e la premette con fermezza. «Io non ne ho parlato con nessuno. E non lo farò.» Trasse un respiro profondo. «Dunque giungesti qui, per stabilirti in pace. È davvero la fine della tua storia?» Lo era. Dall'ultima volta che avevo detto addio al Matto, avevo trascorso la maggior parte dei miei giorni fuggendo o nascondendomi. Questa casetta era il mio rifugio egoista. Lo dissi. «Dubito che Ticcio la vedrebbe così» replicò mitemente il Matto. «E i più riterrebbero che salvare il mondo una volta nella vita sia un credito sufficiente, e non penserebbero di dover fare di più. Eppure, dato che il tuo cuore sembra deciso, farò tutto ciò che posso per costringerti a riprovare.» Sollevò un sopracciglio invitante. Risi, ma a fatica. «Non ho bisogno di essere un eroe, Matto. Mi basterebbe sapere che ciò che ho fatto ogni giorno ha avuto un significato per qualcun altro oltre che per me.» Il Matto appoggiò la schiena sulla mia panca e mi considerò per un momento con serietà. Poi alzò una spalla. «Quello è facile. Quando Ticcio si
sarà sistemato come apprendista, vieni a trovarmi a Castelcervo. Lo prometto, sarai significativo.» «O sarò morto, se mi riconoscono. Non hai sentito quanto è forte l'odio contro lo Spirito in questi giorni?» «No. Però non mi sorprende affatto. Ma riconoscerti? Mi hai già detto che lo temevi, ma in modo diverso. Sono costretto a concordare con Stornella. Pochi ti noterebbero. Somigli poco al FitzChevalier Lungavista di quindici anni fa che forse ricordano. Il tuo viso rivela il lignaggio dei Lungavista, se uno sa dove scorgerlo, ma a corte tutti si sposano fra loro. Molti nobili recano tracce della stessa ascendenza. Potrebbe un osservatore fortuito paragonarti a un ritratto sbiadito in un corridoio buio? Sei l'unico adulto della tua dinastia ancora vivo. Sagace si consumò anni fa, tuo padre si ritirò a Giuncheto prima di essere ucciso, e Veritas divenne vecchio prima del tempo. Io so chi sei, quindi vedo la somiglianza. Non penso che tu corra pericoli dinanzi allo sguardo distratto di un cortigiano di Castelcervo.» Fece una pausa, poi mi chiese sinceramente: «Allora? Ti vedrò a Castelcervo prima della neve?» «Forse» tergiversai. Ne dubitavo, ma sapevo che era inutile sprecare il fiato con il Matto. «Ti vedrò» disse risoluto. Poi mi batté la mano sulla spalla. «Torniamo. La cena sarà pronta. E voglio finire il mio intaglio.» 10 Una spada e una lettera Forse ogni regno ha le sue storie di un protettore segreto e potente, che sorgerà in difesa della sua terra se il bisogno è grande e la supplica sincera. Nelle Isole Esterne parlano di Ardighiaccio, una creatura che dimora nel profondo cuore del ghiacciaio che copre il centro dell'Isola Aslevjal. Giurano che quando i terremoti scuotono la loro isola è Ardighiaccio che si rigira inquieto nei suoi gelidi sogni, sepolto in una tana di ghiaccio. Le leggende dei Sei Ducati si riferiscono sempre agli Antichi, razza remota e potente che dimora in qualche luogo oltre il Regno delle Montagne e fu nostra alleata in tempi lontani. Solo un re disperato come il re-in-attesa Veritas Lungavista avrebbe dato a tali leggende non solo credito, ma abbastanza importanza da lasciare il regno al padre malato e a una regina straniera per partire in cerca dell'aiuto degli Antichi. Forse fu quella fede disperata che gli diede il potere di risvegliare i draghi di pietra scolpiti
dagli Antichi e chiamarli in aiuto dei Sei Ducati, e di scolpire per sé un corpo di drago e guidarli a difendere la sua terra. Il Matto rimase, ma nei giorni che seguirono evitò con cura discussioni serie o lavori importanti. Io seguii il suo esempio, temo. Il racconto dei miei anni di silenzio sembrava aver placato quegli antichi fantasmi. Avrei dovuto accontentarmi di scivolare di nuovo nelle mie vecchie abitudini, e invece un genere diverso di inquietudine mi tormentava. Un tempo che cambia, e un tempo per cambiare. Cambiamento. Il Catalizzatore. Quelle parole, e i pensieri che le accompagnavano, si intrecciavano ai miei giorni e aggrovigliavano i miei sogni notturni. Il passato mi tormentava di meno; il futuro mi provocava. Guardando ciò che avevo fatto della mia gioventù, ero all'improvviso molto preoccupato per come Ticcio avrebbe vissuto. All'improvviso mi pareva di aver sprecato tutti gli anni in cui avrei dovuto preparare il ragazzo ad affrontare una vita da solo. Era un giovane di buon cuore, e non avevo dubbi sul suo carattere. Però temevo di avergli impartito solo la più elementare istruzione per vivere nel mondo. Non aveva particolari abilità da far fruttare. Sapeva tutto ciò che gli serviva per abitare una casetta isolata e coltivare e cacciare per i suoi bisogni primari. Ma lo stavo mandando nel vasto mondo; come se la sarebbe cavata? Il bisogno di trovargli una buona bottega cominciò a tenermi sveglio di notte. Se il Matto ne era consapevole, non lo dimostrava. I suoi attrezzi vagavano inarrestabili per la mia casetta, creando rampicanti che strisciavano lungo la mensola del camino. Lucertole sbirciavano giù dall'architrave della porta. Faccine bizzarre mi deridevano dagli angoli degli sportelli della credenza e dall'orlo dei gradini del portico. Se qualcosa era di legno, non era al sicuro dai suoi attrezzi affilati e dalle sue dita abili. Le attività degli spiritelli acquatici sul mio barile della pioggia avrebbero fatto arrossire un soldato della guardia. Anch'io mi trovai un'occupazione tranquilla, e lavorai molto in casa nonostante fosse bel tempo. In parte avevo bisogno di riflettere; ma soprattutto il lupo tardava a recuperare le forze. Sapevo che osservarlo non accelerava la guarigione, ma non riuscivo a scacciare l'ansia. Quando lo cercavo con lo Spirito, il suo silenzio aveva un che di cupo, molto strano per il mio vecchio compagno. A volte alzavo lo sguardo dal lavoro e lo trovo che mi fissa con occhi profondi e malinconici. Non gli chiesi a cosa pensava; se avesse voluto dirmelo mi avrebbe aperto la mente. Gradualmente riprese le antiche attività, ma aveva perso un poco di
slancio. Si muoveva con cautela, senza sforzarsi. Non mi seguiva nei lavori domestici: giaceva nel portico e osservava il mio andirivieni. Alla sera cacciavamo ancora insieme, ma più lentamente, fingendo entrambi di essere impediti dal Matto. Spesso Occhi-di-notte si accontentava di indicarmi la preda e aspettare la mia freccia, piuttosto che lanciarsi a ucciderla. Quei cambiamenti mi agitavano, ma facevo del mio meglio per reprimere la preoccupazione. Aveva solo bisogno di tempo per guarire, mi dissi, e ricordai che nei giorni caldi d'estate non era mai stato al suo meglio. Con l'autunno avrebbe recuperato l'antico vigore. Tutti e tre ci stavamo assestando in una tranquilla consuetudine. Di sera c'erano racconti e storie, un bilancio degli eventi minori nelle nostre vite. Finimmo il brandy, ma il discorso fluiva ancora liscio e caldo come il liquore. Riferii al Matto ciò che Ticcio aveva visto allo Spiedo di Hardin, e il discorso sugli Spirituali al mercato. Raccontai anche del cantastorie visto da Stornella alla Festa di Primavera, e il giudizio di Umbra sul principe Devoto, e ciò che mi aveva chiesto. Il Matto sembrava raccogliere tutte quelle storie come un tessitore unisce fili diversi per crearne un arazzo. Provammo le penne di gallo nella corona, ma le aste erano troppo sottili per i fori, così le penne si inclinarono in varie direzioni. Non c'era bisogno di dirlo, erano sbagliate. Un'altra volta il Matto posò la corona sul tavolo e selezionò pennelli e inchiostri dalle mie scorte. Sedetti accanto a lui per osservarlo. Sistemò tutto con attenzione davanti a sé, intinse un pannello nell'inchiostro blu, e poi fece una pausa, riflettendo. Rimanemmo immobili e silenziosi tanto a lungo che mi accorsi del crepitio del fuoco. Poi il Matto ripose il pennello. «No» disse quietamente. «È sbagliato. Non ancora.» Avvolse di nuovo la corona e la ripose nel suo bagaglio. Una sera, mentre mi asciugavo lacrime di ilarità alla fine di una canzone licenziosa, il Matto mise da parte l'arpa e annunciò: «Domani me ne vado.» «No!» protestai incredulo per la sua precipitazione, e poi: «Perché?» «Oh, lo sai» rispose svagato. «È la vita di un Profeta Bianco Predire il futuro, salvare il mondo, faccenduole così. Inoltre, non hai più mobili da intagliare.» «No, sul serio» protestai. «Non puoi restare almeno qualche altro giorno? Almeno finché Ticcio non torna. Così incontrerai il ragazzo.» Il Matto sospirò. «In effetti sono stato lontano più a lungo di quanto dovessi. Soprattutto dato che insisti che non puoi venire con me. A meno
che...» Raddrizzò la schiena, speranzoso. «Hai cambiato idea?» Scossi il capo. «No, e lo sai. Non posso abbandonare la mia casa. Devo essere qui quando Ticcio ritorna.» «Ah, sì.» Il Matto sprofondò di nuovo nello scranno. «Il suo apprendistato. E devi curare i polli.» La derisione nella sua voce mi ferì. «A te non sembrerà gran che, ma è la mia vita» feci notare, risentito. Il Matto ridacchiò della mia irritazione. «Non sono Stornella, mio caro. Non svilisco la vita altrui. Considera la mia, e dimmi da che altezza giudicherei. No. Ho i miei doveri, per quanto sembrino noiosi a uno che ha da badare ai polli e da zappare filari di fagioli. I miei compiti sono altrettanto importanti. Ho un mucchio di pettegolezzi da dividere con Umbra, e una sfilza di nuove conoscenze da coltivare a Castelcervo.» Provai una fitta di invidia. «Suppongo che saranno tutti contenti di rivederti.» Il Matto scrollò le spalle. «Alcuni, suppongo. Altri erano altrettanto contenti di vedermi partire. E i più non si ricordano chi sono. Diciamo pure tutti, se sono furbo.» Si alzò all'improvviso. «Vorrei restare» confessò quietamente. «Vorrei poter credere, come sembri credere tu, che posso disporre della mia vita. Purtroppo so che non è vero per nessuno di noi due.» Andò alla porta aperta e guardò fuori nella calda sera d'estate. Parve prendere fiato per parlare, poi sospirò. Rimase a osservare ancora un poco. Poi raddrizzò le spalle come se avesse preso una decisione e si rivolse di nuovo a me. C'era un sorriso tetro sul suo viso. «No, meglio che vada domani. Mi raggiungerai presto.» «Non contarci.» «Ah, ma devo» ribatté lui. «I tempi lo richiedono. A tutti e due.» «Lascia che questa volta sia qualcun altro a salvare il mondo. Di sicuro da qualche parte c'è un altro Profeta Bianco.» Lo dissi per scherzare. Il Matto sbarrò gli occhi, e lo sentii inspirare con un brivido. «Non nominare neanche quel futuro. Quale fosco presagio per me, che ci sia nella tua mente anche solo il seme di quel pensiero. Esiste davvero un'altra donna che vorrebbe il manto del Profeta Bianco, per mettere il mondo sulla rotta da lei prevista. Fin dall'inizio ho lottato contro la sua influenza. Eppure, in questa rivoluzione del mondo, la sua forza cala. Ora sai di che cosa esitavo a parlare più apertamente. Avrò bisogno della tua forza, amico. Noi due, insieme, potremmo bastare. Dopo tutto, a volte è sufficiente un sassolino in un solco per spingere una ruota fuori dalla pi-
sta.» «Mmm. Non sembra una bella esperienza per il sassolino, comunque.» Il Matto si voltò e fissò i suoi occhi nei miei. Un tempo erano stati pallidi; ora ardevano dorati e vi danzava la luce delle lanterne. Nella voce c'erano calore e stanchezza. «Oh, non temere, sopravvivrai. Perché so che devi sopravvivere. E quindi convoglio tutta la mia forza verso quella meta. Che tu sopravviva.» Finsi costernazione. «E mi dici di non temere?» Lui annuì, con volto troppo solenne. Cercai di cambiare discorso. «Chi è questa donna? La conosco?» Il Matto tornò nella stanza e sedette di nuovo al tavolo. «No, non la conosci. Ma io la conoscevo, un tempo. O piuttosto dovrei dire che sapevo di lei, anche se era una donna adulta mentre io ero solo un bambino...» Mi lanciò un'occhiata. «Molto tempo fa, ti dissi qualcosa di me. Ricordi?» Non attese risposta. «Nacqui lontano, al sud, da gente normale. Ammesso che qualcuno possa essere normale... Avevo una madre amorevole, e i miei padri erano due fratelli, come è costume in quel luogo. Ma dal momento in cui emersi dal ventre di mia madre, fu chiaro che in me viveva il lignaggio antico. In un lontano passato, un Bianco aveva mescolato il suo sangue con i miei antenati, e io nacqui per assumere i doveri di quel popolo antico. «Per quanto i miei genitori mi amassero teneramente, sapevano che il mio destino non era restare nella loro casa, né imparare i loro mestieri. Così fui mandato lontano, in un luogo dove venni istruito e preparato al mio fato. Là mi trattavano bene, più che bene. A modo loro, mi amavano. Ogni mattina venivo interrogato su ciò che avevo sognato, e tutto ciò che potevo ricordare veniva trascritto perché i saggi potessero esaminarlo. Man mano che crescevo e cominciavo ad avere sogni a occhi aperti, mi insegnarono l'arte della penna, per riportare le mie visioni, dato che nessuna mano è chiara come quella che appartiene allo stesso corpo dell'occhio che ha visto.» Rise imbarazzato e scosse il capo. «Che modo di allevare un bambino! Le mie minime frasi erano venerate come fonte di saggezza. Eppure, malgrado il mio sangue, non ero migliore di qualsiasi altro bambino. Facevo danno dove potevo, raccontando storie strampalate di cinghiali volanti e spettri di sangue reale, sempre più mirabolanti. Eppure scoprii una cosa strana. Anche se tentavo di trattenere la lingua, le mie parole nascondevano sempre la verità.» Mi rivolse un breve sguardo, come aspettandosi di trovarmi in disaccordo. Rimasi in silenzio.
Abbassò gli occhi. «Suppongo che sia stata solo colpa mia. Quando finalmente la verità più grande di tutte sbocciò in me, impossibile da reprimere, nessuno mi credette. Il giorno che proclamai di essere il Profeta Bianco atteso da questa era, i miei maestri mi dissero di tacere. 'Calma le tue folli ambizioni!' Come se qualcuno potesse mai ambire a un tale destino! Già un'altra donna, mi dissero, indossava quel manto. Era andata avanti prima di me, per plasmare il futuro del mondo come le sue visioni le indicavano. In ogni età, esiste un solo Profeta Bianco. Lo sanno tutti. Anch'io lo sapevo. Quindi cos'ero? Non seppero rispondermi, ma erano sicuri di ciò che non ero. Non ero il Profeta Bianco. Lei, l'avevano già preparata e mandata nel mondo.» Trasse un respiro e rimase in silenzio per ciò che parve un lungo momento. Poi scrollò le spalle. «Sapevo che avevano torto. Conoscevo a fondo la verità del loro errore, così come sapevo ciò che ero. Volevano che mi accontentassi della mia vita in quel luogo. Non immaginavano neanche che li avrei sfidati, credo. Ma lo feci. Fuggii. E venni a nord, attraverso sentieri e tempi che non posso neanche descriverti. A nord, sempre a nord, diressi la mia via, finché non giunsi alla corte di re Sagace Lungavista. Mi vendetti a lui, come facesti tu. La mia lealtà in cambio della sua protezione. E non passò neanche una stagione che le voci del tuo arrivo scossero la corte. Un bastardo. Un bambino inaspettato, un Lungavista illegittimo. Oh, com'erano tutti sorpresi. Tutti tranne me. Io avevo già sognato il tuo viso e sapevo che dovevo trovarti, anche se tutti mi assicuravano che non esistevi e non potevi esistere.» All'improvviso si piegò verso di me e mi mise la mano guantata sul polso. Mi afferrò per un solo istante, e la nostra pelle non si toccò, ma in quel momento sentii un lampo di unione. Non so descriverlo in nessun altro modo. Non era l'Arte; non era lo Spirito. Non era affatto magia, per come conosco la magia. Era come quel momento di reciproco riconoscimento che a volte si prova in un luogo sconosciuto. Sentivo che ci eravamo seduti insieme così, che avevamo già detto quelle parole, e che ogni volta le parole erano state suggellate con quel breve tocco. Distolsi lo sguardo, solo per incontrare gli occhi scuri del lupo che ardevano nei miei. Mi schiarii la gola e tentai di cambiare argomento. «Hai detto che la conosci. Allora ha un nome?» «Nessuno che tu possa aver udito. Eppure ne hai sentito parlare. Ricordi che durante la Guerra delle Navi Rosse conoscevamo il loro capo solo co-
me Kebal Panecrudo?» Annuii. Era stato un capo tribale degli Isolani, sorto a improvvisa e sanguinosa supremazia, e altrettanto in fretta precipitato con il risveglio dei nostri draghi. Alcune storie dicevano che il drago di Veritas lo aveva divorato, altre che era affogato. «Non hai mai sentito di qualcuno che lo consigliava? Una Donna Pallida?» Le parole mi erano stranamente familiari. Aggrottai le sopracciglia, tentando di ricordare. Sì. Era circolata una voce, ma nulla più. Di nuovo annuii. «Bene.» Il Matto si inclinò all'indietro. Parlò quasi con divertimento. «Era lei. E ti dirò ancora una cosa. Come crede di essere il Profeta Bianco, così è convinta che Kebal Panecrudo sia il suo Catalizzatore.» «Quello che viene a spingere gli altri a essere eroi per lei?» Il Matto scosse il capo. «Non lui. Il suo Catalizzatore viene a distruggere gli eroi. A convincere gli uomini di essere meno di ciò che dovrebbero essere. Dove io costruirei, lei distruggerebbe. Dove io unirei, lei dividerebbe.» Scosse il capo. «Lei crede che tutto debba finire prima che possa ricominciare.» Attesi che concludesse il parallelismo, ma rimase in silenzio. Finalmente lo esortai con discrezione. «E tu cosa credi?» Un lento sorriso illuminò il suo volto. «Credo in te. Tu sei il mio nuovo inizio.» Non sapevo cosa dire, e il silenzio crebbe nella stanza. Il Matto alzò lentamente la mano al lobo dell'orecchio. «Lo porto dall'ultima volta che ti lasciai. Ma penso che dovrei restituirtelo. Dove vado non posso portarlo. È troppo particolare. La gente potrebbe ricordare di aver visto un orecchino come questo addosso a te. O a Burrich. O a tuo padre. Potrebbe suscitare ricordi che non voglio ridestare.» Lo guardai armeggiare con la chiusura. L'orecchino era una filigrana d'argento con una gemma blu all'interno. Burrich lo aveva dato a mio padre. Poi lo avevo portato io. A mia volta lo avevo affidato al Matto, chiedendogli di darlo a Molly dopo la mia morte come segno che non l'avevo mai dimenticata. Nella sua saggezza, lui l'aveva tenuto. E ora? «Aspetta» dissi all'improvviso. «No.» Mi guardò confuso. «Nascondilo, se devi. Ma tienilo. Per favore.» Lentamente il Matto abbassò le mani. «Ne sei sicuro?» chiese incredulo.
«Sì» dissi, e lo ero. Quando mi alzai il mattino dopo, trovai il Matto lavato e vestito prima di me. Il suo bagaglio aspettava sul tavolo. Guardando per la stanza non vidi nessuna delle sue cose. Era di nuovo vestito da nobile. Il suo abbigliamento contrastava stranamente con il compito umile di mescolare la farina d'avena nel latte. «Allora te ne vai?» chiesi istupidito. «Subito dopo mangiato» disse quietamente il Matto. Dovremmo andare con lui. Era il pensiero più diretto che il lupo avesse diviso con me da giorni. Mi sbalordì, e lo fissai, come fece il Matto. «E Ticcio?» chiesi al lupo. Occhi-di-notte si limitò a guardarmi, come se già dovessi conoscere la risposta. Non la sapevo. «Devo restare» dissi a tutti e due. Non sembravano convinti. Contraddirli entrambi mi fece sentire calmo e posato, e quelle sensazioni non mi piacquero. «Qui ho le mie responsabilità» dissi, quasi con rabbia. «Non posso semplicemente andarmene e lasciare che il ragazzo torni a una casa vuota.» «No, non puoi» concordò subito il Matto, eppure anche questo pungeva, come se lo dicesse solo per ammorbidirmi. All'improvviso ero di umore nero. La colazione fu cupa, e quando ci alzammo da tavola odiai le ciotole appiccicose e la pentola di zuppa d'avena. Quei promemoria dei miei umili lavori quotidiani sembravano all'improvviso intollerabili. «Ti sello il cavallo» dissi brusco al Matto. «Non ha senso sporcare quei bei vestiti.» Lui non disse niente. Mi alzai da tavola e uscii. Malta parve avvertire l'entusiasmo del viaggio imminente, perché era irrequieta, anche se non scostante. Mi ritrovai a prendermela comoda con lei, così che quando fu pronta il manto luccicava, come i finimenti. Quasi mi calmai, ma mentre la conducevo fuori vidi il Matto sul portico, con una mano sulla schiena di Occhi-di-notte. L'infelicità mi attanagliò di nuovo, e diedi la colpa a lui, in modo infantile. Se non fosse venuto a trovarmi, non avrei ricordato quanto mi mancava. Avrei continuato a languire per il passato, ma non avrei cominciato a desiderare un futuro. Mi sentii acido e vecchio quando il Matto venne ad abbracciarmi. Sapere che non c'era niente di ammirevole nel mio atteggiamento non servì a mi-
gliorarlo. Rimasi rigido nel suo abbraccio d'addio, ricambiandolo appena. Pensai che avrebbe resistito, ma quando la sua bocca fu accanto al mio orecchio mormorò sdolcinato: «Addio, Amore.» Malgrado l'irritazione, dovetti sorridere. Gli diedi una stretta e lo lasciai. «Buon viaggio, Matto» dissi brusco. «Anche a te» rispose serio lui, balzando in sella. Lo fissai dal basso. Il giovane aristocratico a cavallo non somigliava per niente al Matto che avevo conosciuto da ragazzo. Solo quando il suo sguardo incontrò il mio scorsi il mio vecchio amico. Per qualche tempo rimanemmo a guardarci, senza parlare. Poi, sfiorando le redini e spostando il peso del corpo, lui fece girare la cavalla. Malta gettò indietro la testa e chiese la briglia sciolta. Il Matto la accontentò, e la cavalla impaziente balzò in avanti al piccolo galoppo. La coda serica fluttuava nell'aria smossa al suo passaggio come un vessillo. Lo guardai andare, e anche dopo che fu sparito continuai a fissare la polvere che si era sollevata sul sentiero. Quando finalmente tornai nella casetta trovai che aveva lavato tutti i piatti e la pentola e li aveva riposti. Al centro del tavolo, dove il suo fagotto lo aveva nascosto, era inciso a fondo il cervo dei Lungavista, le corna abbassate, pronto a caricare. Feci scorrere le dita sulla figura intagliata e il mio cuore sprofondò. «Cosa vuoi da me?» chiesi al silenzio. Vennero altri giorni dopo quello, e il tempo passò per me, ma non era facile. Ogni giorno sembrava ottusamente uguale all'altro, e le sere si estendevano senza fine di fronte a me. Avevo di che occupare le ore con i lavori di casa, e così facevo, ma notai anche che il lavoro sembrava solo generare altro lavoro. Cucinare un pasto voleva solo dire piatti da lavare, e piantare un seme significava solo strappare erbacce e annaffiare per giorni e giorni. La soddisfazione della mia vita semplice sembrava sfuggirmi. Il Matto mi mancava, e compresi che mi era mancato in tutti quegli anni. Era come una vecchia ferita che ricominciava a farsi sentire. Il lupo non mi aiutava. Era preda di una pensosità profonda, e le sere spesso ci trovavano intrappolati nelle nostre riflessioni private. Una volta, mentre sedevo ad aggiustare una tunica alla luce di una candela, Occhi-di-notte venne a mettermi la testa sul ginocchio con un sospiro. Tesi la mano per accarezzargli le orecchie e poi grattarle. «Stai bene?» gli chiesi. Non sarebbe bello che tu fossi da solo. Sono contento che il Senza Odore sia tornato. Sono contento che tu sappia dove trovarlo. Con un gemito, sollevò il mento dal mio ginocchio e andò ad accocco-
larsi sulla terra fresca del portico. L'ultima calura dell'estate si chiuse su di noi come una coperta soffocante. Due volte al giorno andavo a prendere acqua per l'orto, morendo di caldo. Le galline smisero di deporre uova. Tutto sembrava troppo torrido e troppo noioso per sopravvivere. Poi, nel mezzo del mio scontento, Ticcio tornò. Non mi aspettavo di rivederlo fino alla fine del raccolto, ma una sera Occhi-di-notte drizzò all'improvviso la testa. Si alzò, rigido, e andò alla porta a guardare il sentiero. Dopo un momento accantonai il coltello che stavo affilando e lo raggiunsi. «Cosa c'è?» Il ragazzo torna. Così presto? Ma nel momento in cui formulai il pensiero capii che non era affatto presto. I mesi passati con Stornella avevano divorato la primavera. Aveva diviso con me la piena estate, ma era stato lontano per quasi tutto il periodo del raccolto. Era passata solo una luna e mezza, eppure sembrava un tempo tremendamente lungo. Intravidi una figura laggiù in fondo al vialetto. Occhi-di-notte e io ci affrettammo a raggiungerlo. Ticcio ci vide e scattò in una corsa stanca per incontrarci a metà strada. Quando lo abbracciai seppi subito che era più alto e aveva perso peso. E quando lo lasciai andare e tesi le braccia per tenerlo a distanza e guardarlo, vidi vergogna e sconfitta nei suoi occhi. «Bentornato a casa» gli dissi, ma lui diede solo un'alzata di spalle addolorata. «Torno con la coda tra le gambe» confessò, e poi cadde in ginocchio per abbracciare Occhi-di-notte. «È tutto pelle e ossa!» esclamò costernato. «È stato malato per qualche tempo, ma ora sta guarendo.» Tentai di parlare con voce allegra e ignorare la fitta di preoccupazione. «Lo stesso si potrebbe dire di te» aggiunsi. «C'è carne sul piatto e pane sul vassoio. Vieni a mangiare, e poi ci dirai come ti è andata là fuori nel vasto mondo.» «Posso dirtelo mentre camminiamo, in poche parole» rispose Ticcio mentre avanzavamo a passo lento verso la casetta. La sua voce era profonda come quella di un uomo, e anche l'amarezza era da uomo. «Non bene. Il raccolto era buono, ma dovunque andavo ero l'ultimo a essere ingaggiato, perché volevano sempre assumere prima il cugino, o gli amici del cugino. Ero sempre lo straniero, messo a fare il lavoro più sporco e più pesante. Ho lavorato da uomo, Tom, ma mi hanno pagato da topo, con briciole e monetine. Ed erano anche diffidenti. Non volevano che dormissi nei loro granai, no, o che parlassi con le loro figlie. E tra un lavoro e l'altro, ebbene, dove-
vo mangiare, e tutto costava molto più di quanto pensavo. Sono tornato con solo una manciata di monete in più di quando sono partito. Sono stato uno sciocco ad andarmene. Avrei fatto bene a stare a casa e vendere polli e pesce salato.» Una raffica di parole dure. Non dissi niente, lo lasciai libero di esprimersi. A quel punto eravamo alla porta. Ticcio tuffò la testa nel barile dell'acqua che avevo riempito per l'orto mentre io andavo a mettere il cibo in tavola. Poi entrò nella casetta. Quando gettò uno sguardo intorno, senza dire niente, seppi che era diventata più piccola ai suoi occhi. «È bello essere a casa» disse. E nel successivo respiro, proseguì: «Ma non so cosa fare per il compenso di apprendistato. Andare a lavorare un altro anno, suppongo. Ma a quel punto alcuni mi riterrebbero troppo vecchio per imparare bene. Un uomo che ho incontrato per strada mi ha detto che non ha mai visto un mastro artigiano che ha cominciato l'addestramento dopo i dodici anni. Quello è miele?» «Sì.» Misi il barattolo sul tavolo con il pane e la carne fredda, e Ticcio ci si buttò come se avesse digiunato per giorni. Preparai il tè, e poi sedetti di fronte al ragazzo, guardandolo mangiare. Malgrado la fame, diede pezzi di carne al lupo accucciato accanto alla sedia. Occhi-di-notte mangiò senza appetito, per accontentare il ragazzo e dividere la preda con un membro del branco. Quando il pollo fu ridotto a ossa senza neanche abbastanza carne per fare il brodo, Ticcio si appoggiò allo schienale della sedia con un sospiro. Poi si piegò in avanti all'improvviso, sfiorando con le dita nervose il profilo del cervo alla carica sulla superficie del tavolo. «Che bello! Quando hai imparato a intagliare così?» «Non sono stato io. È passato un vecchio amico e ha trascorso parte della sua visita decorando la casetta.» Sorrisi fra me. «Quando hai un momento, dai un'occhiata al barile dell'acqua piovana.» «Un vecchio amico? Non credevo che tu avessi amici, a parte Stornella.» Non era sua intenzione, ma mi fece male. Le sue dita tracciarono di nuovo l'emblema. Un tempo FitzChevalier Lungavista aveva portato quel cervo a corna basse ricamato sul petto. «Oh, ne ho qualcuno. Non li sento spesso.» «Ah. E i nuovi amici? Jinna si è fermata mentre andava a Castelcervo?» «Sì. Ci ha lasciato un amuleto per far crescere meglio il nostro orto, in ringraziamento per l'ospitalità di una notte.» Ticcio mi guardò di sottecchi. «Si è fermata per la notte, dunque. È simpatica, vero?»
«Sì, lo è.» Il ragazzo attese che dicessi altro, ma io rimasi impassibile. Allora chinò la testa e tentò di soffocare un ghigno con la mano. Mi protesi e gli allungai scherzosamente un pugno. Ticcio parò il colpo, poi all'improvviso mi afferrò la mano. Il sorriso fuggì dal suo volto, sostituito dall'ansia. «Tom, Tom, cosa farò? Pensavo che fosse facile, e non lo è stato. Ero disposto a lavorare sodo per un salario equo, mi sono comportato bene e ho lavorato lunghe giornate, eppure tutti mi hanno trattato male. Cosa farò? Non posso vivere qui sull'orlo del nulla per tutta la vita. Non posso!» «No, non puoi.» E in quel momento percepii due cose. Primo, che la mia vita isolata non aveva preparato il ragazzo a diventare indipendente, e secondo, che Umbra doveva essersi sentito così quando avevo dichiarato che non sarei stato più un assassino. Strano pensare che quando si dà a un ragazzo ciò che davvero si ritiene il meglio di sé stessi in realtà lo si rovina. Lo sguardo frenetico di Ticcio mi fece sentire piccolo e vergognoso. Avrei dovuto fare di più per lui. Lo avrei fatto. Udii le parole prima di sapere che le avevo pensate. «Ho alcuni vecchi amici a Castelcervo. Posso prendere in prestito i soldi per mandarti a bottega.» Il mio cuore trasalì al pensiero della forma che l'interesse avrebbe preso, ma mi feci forza. Sarei andato prima da Umbra, e se quello che mi chiedeva in cambio era troppo, avrei cercato il Matto. Non sarebbe stato facile chiedere un prestito con umiltà, ma... «Lo faresti? Per me? Ma non sono davvero tuo figlio.» Ticcio sembrava incredulo. Gli afferrai la mano. «Lo farei. Perché sei la cosa più vicina a un figlio che probabilmente potrò mai avere.» «Ti aiuterò a pagare il debito, lo giuro.» «No. Il debito sarà solo mio, assunto liberamente. Mi aspetterò che tu ascolti con attenzione il tuo padrone e ti dedichi a imparare bene il mestiere.» «Lo farò, Tom, lo farò. E lo giuro, in vecchiaia non ti mancherà nulla.» Parlò con l'ardore devoto della gioventù ingenua. Presi le parole per come le intendeva, e ignorai il divertimento che luccicava nello sguardo di Occhi-di-notte. Vedi com'è edificante quando qualcuno ti vede già barcollare verso la morte? Io non ho mai detto che hai un piede nella fossa. No. Mi tratti solo come se fossi fragile come vecchie ossa di pollo.
Non lo sei? No. La mia forza sta tornando. Aspetta le foglie che cadono e il tempo più fresco. Camminerò con te finché non crolli. Come sempre. E se io dovessi partire prima? Il lupo abbassò la testa sulle zampe anteriori distese, con un sospiro. E se salti alla gola di un cervo e lo manchi? Non ha senso preoccuparsene finché non succede. «Stai pensando ciò che penso io?» Ticcio ruppe con ansia l'apparente silenzio della stanza. Incontrai il suo sguardo preoccupato. «Forse. Cosa stai pensando?» Il ragazzo disse esitante: «Prima parli ai tuoi amici a Castelcervo, prima sapremo cosa aspettarci per l'inverno.» Risposi lentamente. «Un altro inverno qui non ti andrebbe bene, vero?» «No.» La sua naturale onestà lo spinse a ribattere in fretta. Poi addolcì la risposta: «Non è che non mi piaccia stare qui con te e Occhi-di-notte. È solo che...» Annaspò per un momento. «Ti è mai capitato di sentire il tempo che ti scorre via fra le mani? Come se la vita ti passasse accanto, lasciandoti impelagato nell'acqua stagnante fra pesci morti e rami secchi?» Tu fai il pesce morto. Io sarò i rami secchi. Ignorai Occhi-di-notte. «Sì, mi pare di essermi sentito così, una volta o due.» Gettai uno sguardo alla mappa incompleta dei Sei Ducati realizzata da Veritas. Emisi il fiato e tentai di non trasformarlo in sospiro. «Partirò al più presto.» «Potrei essere pronto domani mattina. Una buona notte di sonno e sarò...» «No.» Lo interruppi, gentile ma fermo. Feci per spiegargli che dovevo vedere quelle persone da solo, ma sarebbe rimasto perplesso. Accennai a Occhi-di-notte. «Qui ci sono faccende da curare. Te le affido.» Ticcio apparve deluso, ma per acquistare credito trasse un respiro, squadrò le spalle e annuì. Accanto alla tavola, Occhi-di-notte rotolò su un fianco e poi sulla schiena. Toh, un lupo morto. Potresti anche seppellirlo, tanto è buono solo a starsene sdraiato in un'aia polverosa e a curare polli che non ha il permesso di mangiare. Agitò vagamente le zampe in aria. Idiota. È per i polli che chiedo al ragazzo di restare, non per te. Oh? Quindi se vi svegliate domani e i polli sono tutti morti, non ci sarebbe ragione per non partire tutti insieme? Attento a ciò che fai, lo ammonii. Il lupo aprì la bocca e lasciò penzolare
la lingua da un lato. Il ragazzo gli sorrise con affetto. «Quando fa così, penso sempre che stia ridendo.» Non partii l'indomani. Ero in piedi molto prima del ragazzo. Tirai fuori i vestiti buoni, che sapevano di stantio non essendo mai stati indossati per anni, e li appesi all'aria aperta. La tunica di lino era ingiallita per l'età. Era stato un regalo di Stornella, anni addietro. Credo di averla messa una volta, il giorno che me la diede. La guardai con rammarico, pensando che avrebbe atterrito Umbra e divertito il Matto. Ebbene, come per tante altre cose, non potevo farci niente. Fra le travi della mia stanza da lavoro c'era una scatola fabbricata anni prima. La tirai giù con fatica e la aprii. Malgrado gli stracci unti che l'avvolgevano, la spada di Veritas si era ossidata. Indossai la cintura e il fodero, notando che avrei dovuto praticare un nuovo foro per portarla comodamente. Tirai dentro la pancia e chiusi la fibbia così com'era. Passai uno straccio unto sulla lama e la rinfoderai al mio fianco. Quando la estrassi era pesante nella mia mano, eppure bilanciata alla perfezione. Riflettei se fosse saggio portarla. Mi sarei sentito stupido se qualcuno l'avesse riconosciuta e avesse fatto domande difficili. Mi sarei sentito anche più stupido se mi avessero tagliato la gola per non aver avuto un'arma al fianco. Trovai una soluzione di compromesso avvolgendo l'elsa ingioiellata con strisce di cuoio. Il fodero era consumato, ma poteva andare. Sembrava adatto alla mia condizione. La estrassi di nuovo e feci un affondo, sforzando i muscoli non più abituati a quello slancio. Ripresi la posizione e menai qualche fendente all'aria. Divertimento. Meglio che prendi un'ascia. Non ce l'ho più. Quella spada me l'aveva donata Veritas. Ma lui e Burrich mi avevano informato che il mio stile di combattimento era più adatto alla brutalità di un'ascia che a quell'arma aggraziata ed elegante. Provai un altro affondo. La mia mente ricordò tutto quello che Poiana mi aveva insegnato, ma il mio corpo aveva difficoltà a eseguire le mosse. Ne hai una per tagliare la legna. Non è un'ascia da battaglia. Sembrerei sciocco se la portassi. Rinfoderai la spada e mi girai a guardarlo. Occhi-di-notte sedeva sulla soglia della stanza da lavoro, la coda accuratamente arricciata sulle zampe. Il divertimento brillava nei suoi occhi scuri. Girò la testa per guardare innocentemente in lontananza. Penso che una
delle galline sia morta stanotte. Che peccato. Povera vecchia. La morte alla fine arriva per tutti. Mentiva, ma ebbe la soddisfazione di vedermi correre a controllare. Tutte e sei le mie galline chiocciavano e razzolavano al sole. Appollaiato su un paletto, il gallo teneva d'occhio le mogli. Che strano. Avrei giurato che ieri quella grassa gallina bianca non stava bene. Mi stenderò qui al fresco e la sorveglierò. E lo fece, sdraiandosi all'ombra chiazzata delle betulle e fissando intensamente i polli. Lo ignorai e tornai nella casetta. Stavo praticando un nuovo foro nella cintura quando Ticcio si svegliò. Venne al tavolo a guardarmi, assonnato. Si ridestò quando il suo sguardo cadde sulla spada nel fodero. «Non l'ho mai vista.» «Ce l'ho da molto tempo.» «Non la porti mai quando andiamo al mercato. Porti solo il coltello da cintura.» «Castelcervo è un po' diversa dal mercato.» La sua domanda mi fece pensare ai motivi che mi avevano indotto a prendere la spada. L'ultima volta che avevo visto Castelcervo diverse persone avevano cercato di uccidermi. Se ne avessi incontrato qualcuno e fossi stato riconosciuto, volevo essere pronto. «In una città come quella si trovano molti più vagabondi e canaglie che in un semplice mercato di paese.» Finii di praticare il nuovo foro e provai la cintura. Meglio. Estrassi la spada e sentii Ticcio trattenere il respiro. Anche con l'elsa avvolta nel cuoio, non si poteva scambiarla per una lama da poco prezzo. Era una spada creata da una grande maestra d'armi. «Posso provarla?» Gli diedi il permesso con un cenno, e Ticcio la prese con cautela. Aggiustò la presa quando sentì quanto pesava, e poi imitò goffamente la posizione di uno spadaccino. Non gli avevo mai insegnato a combattere. Mi chiesi per un istante se fosse stata una scelta sbagliata. Avevo sperato che non avesse mai bisogno delle abilità di un combattente. Ma non insegnargliele non lo proteggeva dagli scontri. Come rifiutare di insegnare l'Arte a Devoto. Accantonai quel pensiero e non dissi niente mentre Ticcio agitava la lama nell'aria. In pochi istanti si stancò. I muscoli duri di un contadino non erano quelli che servivano a maneggiare una lama. Quel tipo di resistenza richiedeva addestramento e pratica. La mise giù e mi guardò senza parlare. «Parto per Castelcervo domani all'alba. Devo ancora pulire la lama, un-
gere gli stivali, impacchettare vestiti e cibo...» «E tagliarti i capelli» intervenne quietamente Ticcio. «Mirati.» Attraversai la stanza e presi il nostro specchietto. Di solito me li tagliava Stornella quando veniva a trovarmi. Per un momento fui sbalordito da quanto erano cresciuti. Poi, come non facevo da anni, li legai dietro la nuca nella coda di un guerriero. Ticcio mi guardò con le sopracciglia sollevate, ma non disse niente sul mio aspetto marziale. Ben prima del crepuscolo ero pronto a partire. Rivolsi l'attenzione alla mia piccola fattoria. Il ragazzo e io ci affaccendammo per assicurarci che tutto andasse bene in mia assenza. Quando sedemmo per il pasto serale ci eravamo portati avanti su tutti i lavori domestici che mi erano venuti in mente. Ticcio promise di annaffiare l'orto e raccogliere il resto dei piselli. Avrebbe spaccato la legna rimanente e l'avrebbe accatastata. Mi sorpresi a dirgli cose che sapeva, cose che conosceva da anni, e finalmente mi costrinsi a stare zitto. Il ragazzo sorrise alle mie preoccupazioni. «Sono sopravvissuto da solo sulle strade, Tom. Starò bene qui a casa. Vorrei solo venire con te.» «Se tutto va bene, quando torno, andremo insieme a Castelcervo.» Occhi-di-notte si mise seduto all'improvviso, tendendo le orecchie. Cavalli. Andai alla porta con il lupo al fianco. Qualche attimo più tardi mi giunse alle orecchie il rumore di zoccoli. Gli animali si avvicinavano a un trotto regolare. Avanzai fin dove potevo vedere, in prossimità del punto in cui si trovava il nostro sentiero, e scorsi il cavaliere. Non era, come speravo, il Matto. Era uno sconosciuto. Montava uno snello cavallo roano e ne conduceva un altro. La polvere chiazzava le righe di sudore sui garresi del cavallo. Mentre li guardavo avvicinarsi crebbe in me un certo presentimento. Il lupo condivideva la mia trepidazione. I peli dritti sulla schiena e il ringhio profondo che gli saliva dalla gola portarono anche Ticcio alla porta. «Chi è?» «Non lo so. Ma non si tratta di un vagabondo o di un venditore ambulante.» Vedendomi, lo straniero trattenne il cavallo. Alzò la mano in un saluto, poi avanzò più lentamente. Vidi i due cavalli drizzare le orecchie all'odore del lupo, e avvertii tanto la loro ansia quanto la loro sete. «Ti sei perso, straniero?» gridai mentre era a distanza di sicurezza. Senza rispondere, l'uomo continuò ad avvicinarsi. Il ringhio del lupo si fece più intenso. Il cavaliere sembrava inconsapevole della minaccia im-
minente. Aspetta. Restammo immobili. Il cavallo che conduceva portava sella e finimenti. Aveva perso un compagno, o lo aveva rubato? «Basta così» lo avvertii all'improvviso. «Cosa cerchi qui?» L'uomo mi osservava intensamente. Non si fermò alle mie parole, ma si toccò orecchie e bocca. Tesi una mano. «Fermo.» Finalmente lui comprese cosa gli stavo intimando e obbedì. Senza smontare frugò in una borsa da messaggero che portava a tracolla. Estrasse un rotolo e me lo porse. Stai pronto, avvertii Occhi-di-notte mentre avanzavo per prenderlo. Poi riconobbi il sigillo. In uno spesso strato di ceralacca era impresso il mio cervo alla carica. Una nuova trepidazione mi percorse. Fissai la lettera, poi con un gesto diedi al sordomuto il permesso di smontare. Inspirai e parlai a Ticcio con voce decisa. «Portalo dentro e dagli da mangiare e da bere. Lo stesso per i cavalli. Per favore.» E a Occhi-di-notte: Tienilo d'occhio, fratello, mentre guardo cosa dice questo rotolo. Occhi-di-notte smise di ringhiare, ma seguì molto da vicino il messaggero mentre un confuso Ticcio gli indicava la nostra casetta. I cavalli stanchi rimasero dove li aveva lasciati. Poco dopo Ticcio emerse per portarli all'acqua. Rimasi davanti alla porta e fissai il rotolo chiuso nella mia mano. Finalmente ruppi il sigillo e nella luce del giorno che svaniva studiai la calligrafia inclinata di Umbra. Caro cugino, questioni di famiglia richiedono la tua presenza a casa. Non rimandare il tuo ritorno. Sai che non ti convocherei così se non ci fosse bisogno urgente. La firma che seguiva la breve lettera era indecifrabile. Non era il nome di Umbra. La vera comunicazione era il sigillo. Non l'avrebbe mai usato se il bisogno non fosse stato davvero urgente. Arrotolai di nuovo la missiva e guardai il sole calante. Quando entrai in casa il messaggero si alzò subito in piedi. Masticando, si asciugò la bocca con il dorso della mano e indicò che era pronto a ripartire subito. Sospettai che gli ordini di Umbra fossero molto specifici. Non c'era tempo da perdere in sonno o riposo per uomo o bestia. Gli feci cenno di tornare al cibo. Ero contento che il mio fagotto fosse già pronto. «Ho tolto la sella ai cavalli e li ho asciugati un po'» mi disse Ticcio entrando. «Sembra che oggi abbiano fatto molta strada.» Trassi un respiro. «Sellali di nuovo. Appena il nostro amico ha mangia-
to, vado via con lui.» Per un momento Ticcio fu stupefatto. Poi chiese con voce fioca: «Dove vai?» Tentai di sorridere in modo convincente. «Castelcervo, ragazzo. E più in fretta di quanto pensassi.» Considerai la questione. Non c'era modo di valutare quando o se sarei tornato. Una lettera di Umbra come quella significava di certo un pericolo. Fui stupito dalla facilità con cui decisi. «Voglio che tu e il lupo mi seguiate all'alba. Usate il pony e il carretto, così se lui è stanco può farsi portare.» Ticcio mi fissò come se fossi impazzito. «E i polli? E i lavori che dovevo fare in tua assenza?» «I polli dovranno arrangiarsi. No. Riuscirebbero a scampare a una donnola per non più di una settimana. Portali a Baylor. Li nutrirà e li terrà bene per avere le uova. Prenditi un giorno o due e chiudi ermeticamente la casa. Potremmo restare lontani tutti e due per qualche tempo.» Distolsi lo sguardo dallo smarrimento dipinto sul volto di Ticcio. «Ma...» La paura nella sua voce mi fece voltare di nuovo. Mi fissava come se fossi divenuto all'improvviso un estraneo. «Dove vado quando arrivo a Borgo Castelcervo? Ci incontreremo là?» Nella sua voce sentii un'eco del ragazzo abbandonato. Cercai nei miei ricordi di quindici anni prima il nome di una locanda decente. Prima di riuscire a tirarne fuori una, Ticcio disse speranzoso: «So dove vivono Jinna e sua nipote. Jinna ha detto che potevo farle visita la prossima volta che andavo a Castelcervo. La casa reca l'insegna di una fattucchiera, una mano con linee sul palmo. Potrei incontrarti là.» «Allora facciamo così.» Il volto di Ticcio si colmò di sollievo. Sapeva dove stava andando. Ero contento che avesse quella sicurezza. Io non l'avevo. Eppure, malgrado tutto il mio disagio, provai una strana esaltazione. Il vecchio incantesimo di Umbra mi catturò di nuovo. Segreti e avventure. Sentii il lupo spingere leggermente contro di me. Un tempo di cambiamento. Poi, brusco: Potrei tentare di tenere il ritmo dei cavalli. Castelcervo non è poi così lontana. Non so cosa significhi tutto ciò, fratello. E finché non lo so, preferisco che tu rimanga al fianco di Ticcio. Questo dovrebbe far bene al mio orgoglio? No, dovrebbe calmare le mie paure. Lo porterò sano e salvo a Borgo Castelcervo, allora. Ma dopo sarò al
tuo fianco. Certo. Sempre. Prima che il sole sfiorasse l'orizzonte in un bacio della buona notte ero in sella all'anonimo cavallo grigio. La spada camuffata di Veritas pendeva al mio fianco, e il mio fagotto era assicurato saldamente dietro di me. Seguii il mio compagno silenzioso mentre si affrettava sulla strada per Castelcervo. 11 La torre di Umbra Tra i Sei Ducati e le Isole Esterne c'è tanto sangue in comune quanto ne è stato sparso. Malgrado l'inimicizia della Guerra delle Navi Rosse e gli anni di razzie sporadiche che la precedettero, quasi ogni famiglia nei Ducati della Costa ammette di avere 'un cugino nelle Isole Esterne'. Tutti riconoscono che il popolo dei Ducati della Costa è di lignaggio misto. È ben documentato che i primi signori della stirpe dei Lungavista erano probabilmente razziatori dalle Isole Esterne che vennero per fare scorrerie e poi si stanziarono. La cronaca delle Isole Esterne, proprio come la storia dei Sei Ducati, è stata plasmata dalla geografia. La loro terra è più aspra della nostra. Il ghiaccio ricopre le loro isole montuose per tutto l'anno. Le isole sono spaccate da fiordi profondi e separate da acque burrascose. Noi le consideriamo immense, eppure il dominio dei ghiacciai lascia agli uomini solo le coste. La scarsa terra coltivabile è misera e avara di raccolti. Così nessuna grande città può sorgere, e pochi sono i villaggi. Le barriere e l'isolamento sono il marchio di quella terra, e la gente vive in villaggi e cittàstato assolutamente indipendenti. In passato erano razziatori per necessità quanto per inclinazione, e si derubavano a vicenda proprio come si avventuravano sul mare per tormentare le coste dei Sei Ducati. È vero che durante la Guerra delle Navi Rosse Kebal Panecrudo fu capace di plasmare con la forza una breve alleanza fra i popoli delle Isole, e da quell'alleanza mise insieme una potente flotta pirata. Solo la devastazione causata dai draghi dei Sei Ducati poté infrangere la morsa spietata di Kebal Panecrudo sul suo popolo. Avendo conosciuto il potere di quell'alleanza, i capivillaggio delle Isole Esterne compresero che quel potere poteva essere usato per scopi più nobili della guerra. Negli anni di ripresa che seguirono la fine della Guerra
delle Navi Rosse si formò l'Hetgurd, una scomoda alleanza di capi delle Isole Esterne. Dapprima cercarono solo di sostituire le scorrerie fra le Isole con trattati commerciali tra singoli capi. Arkon Lama-di-sangue fu il primo capo a far capire agli altri che l'Hetgurd poteva usare la sua forza unificata per normalizzare le relazioni commerciali con i Sei Ducati. Kenner il Gagliardo, Cronache delle Isole Esterne Umbra si era organizzato bene, come sempre. Il messaggero silenzioso era in tono con il suo stile. Prima di mezzogiorno del giorno successivo avevamo scambiato i nostri cavalli sfiancati con altri due in una fattoria decrepita. Viaggiammo attraverso pendii bruni riarsi dall'estate, e lasciammo i due cavalli alla capanna di un pescatore. Qui ci aspettava una barchetta, e l'equipaggio scorbutico ci fece risalire in fretta la costa. Sbarcammo in un piccolo porto di scambio, dove altri due cavalli attendevano in una locanda fatiscente. Rimasi in silenzio come la mia guida, e nessuno mi chiese alcunché. Se ci fu un passaggio di denaro, io non me ne accorsi. Meglio non vedere ciò che deve rimanere nascosto. I cavalli ci portarono a un'altra barca in attesa, dal ponte coperto di scaglie e olezzante di pesce. Mi colpì che ci stavamo avvicinando a Castelcervo non dal percorso più rapido, ma dal più improbabile. Se qualcuno ci aspettava sulle strade sarebbe rimasto deluso. La rocca di Castelcervo sorge su una striscia inospitale di costa. Si erge alta e nera sulle rupi, ma gode di una vista eccellente dell'estuario del Fiume Cervo. Chiunque controlli il castello controlla il traffico sul fiume. A questo è dovuta la sua posizione. Le alterne vicende della storia ne hanno fatto la reggia dei Lungavista. Borgo Castelcervo si aggrappa alle rupi sotto il castello come muschio alle rocce. Metà del borgo è costruita su moli e banchine. Da ragazzo avevo pensato che non potesse crescere oltre, data la sua posizione geografica, ma il pomeriggio che entrammo in porto vidi che avevo torto. L'ingegnosità umana aveva prevalso sulla durezza della natura. Ora passerelle sospese si arrampicavano sulle pareti a picco delle rupi, e minuscole casette e botteghe vi avevano trovato appiglio, simili a nidi di rondini. Mi chiesi quali batoste subissero durante i temporali d'inverno. Sulle spiagge dove un tempo avevo corso e giocato con Molly e gli altri bambini erano stati piantati piloni nella sabbia e nella pietra nera. Con l'alta marea si poteva attraccare sulla porta di magazzini e locande appollaiati
su quei trampoli. Così fece il nostro peschereccio, e io seguii 'a riva' la mia guida muta su una passerella di legno. Quando la barchetta mollò gli ormeggi e ci lasciò là, mi guardai intorno a bocca aperta come un contadino appena arrivato in città. Le tante nuove abitazioni e il vivace commercio sulle barche indicavano che Castelcervo prosperava, eppure non riuscivo a gioirne. L'ultima testimonianza della mia infanzia era stata cancellata. Il luogo che avevo temuto e desiderato era scomparso, ingoiato da quel porto fiorente. Quando cercai con lo sguardo la mia guida muta, era svanita. Mi attardai un poco dove mi aveva lasciato, già sospettando che non sarebbe tornata. Mi aveva riportato a Borgo Castelcervo. Da lì non mi serviva alcuna scorta. Umbra non aveva mai voluto che i suoi contatti conoscessero ogni collegamento dei percorsi serpeggianti che conducevano a lui. Mi misi sulle spalle la bisaccia e mi diressi verso casa. Forse, pensavo mentre risalivo le strade strette e tortuose di Castelcervo, Umbra aveva perfino indovinato che preferivo compiere quella parte del mio viaggio da solo. Non mi affrettai. Sapevo che non potevo contattarlo prima del crepuscolo. Esplorando le strade e i vicoli un tempo ben noti, non trovai nulla di familiare. Sembrava che fosse spuntato un secondo piano su ogni struttura che poteva permetterlo, e su alcune delle strade più strette i balconi quasi si incontravano, così che si camminava in un crepuscolo perpetuo. Trovai locande che avevo frequentato e botteghe dove avevo commerciato, e scorsi addirittura i volti di vecchie conoscenze, sotto gli strati di quindici anni di esperienza. Eppure nessuno esclamò di sorpresa o gioia alla mia vista; come straniero ero visibile solo ai ragazzi che vendevano tortini caldi in strada. Ne comprai uno per un soldo di rame e lo mangiai mentre camminavo. Il gusto del sugo pepato e i pezzi di pesce di fiume erano il sapore di Borgo Castelcervo. La bottega di candele che una volta era appartenuta al padre di Molly ora era il negozio di un sarto. Non entrai. Andai invece alla taverna che avevamo frequentato. Era buia, fumosa e affollata come la ricordavo. Il tavolo massiccio nell'angolo recava ancora le tracce delle incisioni svogliate di Kerry. Il ragazzo che mi portò la birra era troppo giovane per avermi conosciuto, ma dalla linea della fronte indovinai chi era suo padre, e fui felice che l'attività fosse rimasta in famiglia. Una birra divenne due, e poi tre, e la quarta se ne andò prima che il crepuscolo cominciasse ad avventurarsi lungo le strade della città. Nessuno aveva detto una parola allo straniero corrucciato che beveva da solo, ma tenni le orecchie aperte. Quale che fosse la
situazione disperata che aveva spinto Umbra a chiamarmi, tuttavia, non era nota ai più. Udii solo pettegolezzi sul fidanzamento del principe, proteste perché la guerra di Borgomago con Chalced interferiva con il commercio, e i borbottii sul clima bizzarro. In un cielo notturno limpido e sereno, un fulmine aveva colpito una rimessa abbandonata lungo la cerchia esterna del castello e aveva fatto saltare il tetto. Scossi il capo a quella storia. Lasciai un soldo di rame in più per il ragazzo, e ancora una volta mi rimisi la bisaccia in spalla. L'ultima volta che avevo lasciato Castelcervo ero stato un cadavere in una bara. Non sarei certo rientrato nello stesso modo, eppure avevo timore ad avvicinarmi alla porta principale della rocca. Un tempo ero stato un viso familiare nella sala delle guardie. Ero cambiato, ma non volevo correre il rischio di essere riconosciuto. Andai in un luogo che Umbra e io conoscevamo, un'uscita segreta dai terreni del castello che Occhi-di-notte aveva scoperto quando era solo un cucciolo. Attraverso quella piccola apertura nelle difese di Castelcervo, la regina Kettricken e il Matto erano un tempo sfuggiti alle trame del principe Regal. Quella notte sarei rientrato di lì. Ma quando arrivai trovai che il varco nelle mura che proteggevano Castelcervo era stato riparato molto tempo prima. Una fitta macchia di cardi copriva la zona dove era stato. A poca distanza dai cardi, seduto a gambe incrociate su un ampio cuscino ricamato, un giovane dai capelli dorati, di evidente lignaggio nobile, suonava un flauto di metallo con consumata abilità. Quando mi avvicinai, finì il motivo con un ultimo frullo di note e accantonò lo strumento. «Matto» lo salutai, con affetto e senza grande sorpresa. Lui inclinò il capo e mi fece il broncio. «Amore» strascicò in risposta. Poi sogghignò, balzò in piedi e fece scivolare il flauto nella tunica tutta nastri. Indicò il cuscino. «Sono contento di essermelo portato. Presentivo che avresti indugiato per un po' a Borgo Castelcervo, ma non credevo di aspettare tanto a lungo.» «Il borgo è cambiato» dissi desolato. «Non siamo cambiati tutti?» rispose il Matto, e per un momento nella sua voce si udì una fugace eco di pathos. Si lisciò meticolosamente i capelli lucenti e si tolse una foglia dalla calza. Indicò di nuovo il cuscino. «Prendilo e seguimi. Sbrigati. Siamo attesi.» Il suo tono di autorità petulante si adattava perfettamente a un nobile bellimbusto affettato. Estrasse un fazzoletto dalla manica e si accarezzò il labbro superiore, fingendo di asciugarsi il sudore.
Dovetti sorridere. Aveva assunto quel ruolo con grande abilità e disinvoltura. «Come entriamo?» «Dalla porta principale, è chiaro. Non temere. Ho sparso la voce che messer Dorato è molto insoddisfatto della qualità di servitori che ha trovato a Borgo Castelcervo. Nessuno mi è andato a genio, e così oggi sono sceso a incontrare una nave che mi portava un brav'uomo, sia pure un poco rustico, raccomandatomi dal primo valletto del mio secondo cugino. Tale Tom lo Striato.» Si avviò. Raccolsi il cuscino e lo seguii. «Dunque dovrò essere il tuo servitore?» chiesi divertito. «Naturalmente. È il travestimento perfetto. Sarai pressoché invisibile a tutta la nobiltà di Castelcervo. Solo gli altri servitori ti parleranno, e poiché farò in modo che tu sia il lacchè bistrattato, stanco e malvestito di un giovane signore altezzoso, arrogante e insopportabile, avrai poco tempo per socializzare.» Si arrestò all'improvviso e si voltò indietro. Con una mano affusolata si strinse il mento, guardandomi dall'alto in basso. Aggrottò le sopracciglia bionde e socchiuse gli occhi d'ambra. «E non osare guardarmi negli occhi, ragazzo! Non tollero impertinenze. Raddrizza la schiena, stai al tuo posto e non parlare senza il mio permesso. Ti sono chiare queste istruzioni?» «Perfettamente» sghignazzai. Il Matto continuò a guardarmi torvo. Poi all'improvviso il cipiglio fu sostituito dall'esasperazione. «FitzChevalier, il gioco è finito se non sai interpretare il tuo ruolo fino in fondo. Non solo quando siamo nella Sala Grande di Castelcervo, ma in ogni istante in cui c'è la remotissima possibilità che qualcuno ci veda. Sono messer Dorato da quando sono arrivato, ma sono ancora un nuovo venuto alla corte della regina, e la gente mi scruta. Umbra e la regina Kettricken hanno fatto il possibile per aiutarmi in questo artificio, Umbra perché ha percepito che può essere utile, e la regina perché ritiene davvero che merito di essere trattato come un signore.» «E nessuno ti ha riconosciuto?» lo interruppi incredulo. Il Matto inclinò la testa. «Cosa potrebbero riconoscere, Fitz? La mia pelle bianca e gli occhi incolori? La mia veste multicolore e la faccia dipinta da giullare? Capriole e piroette e arguzie salaci?» «Io ti ho riconosciuto subito» gli ricordai. Il Matto sorrise con calore. «Proprio come ti ho riconosciuto io, e ti riconoscerei se ti incontrassi fra una dozzina di vite. Ma pochi altri sanno chi sono. Umbra mi ha scoperto con i suoi occhi di assassino, e ha orga-
nizzato un'udienza privata in cui mi sono fatto riconoscere dalla regina. Altri mi hanno rivolto sguardi curiosi, ma nessuno osa avvicinare messer Dorato e chiedergli se quindici anni fa è stato il giullare di re Sagace in questa stessa corte. L'età non quadra, e neanche il colorito, il portamento, la ricchezza.» «Come possono essere così ciechi?» Il Matto scosse il capo e sorrise alla mia ignoranza. «Fitz, Fitz. Non mi hanno mai guardato. Vedevano solo un giullare, un fenomeno da circo. Per questo non assunsi un nome quando arrivai qui. Per la maggior parte dei nobili e delle dame di Castelcervo, ero solo il Matto. Ridevano ai miei scherzi e ammiravano le mie acrobazie, ma non mi hanno mai visto davvero.» Emise un piccolo sospiro. Poi mi rivolse un'occhiata pensierosa. «Tu mi hai dato un nome. Il Matto. E mi vedevi. Mi hai guardato negli occhi quando gli altri distoglievano lo sguardo, sconcertati.» Vidi la punta della sua lingua per un attimo. «Hai mai pensato quanto mi spaventava vedere che tutti i miei artifici erano inutili agli occhi di un bambino?» «Tu stesso eri solo un bambino» indicai a disagio. Il Matto esitò. Quando proseguì notai che non mi diede né ragione né torto. «Diventa il mio servo fedele, Fitz. Sii Tom lo Striato, ogni istante di ogni giorno che ti trovi a Castelcervo. È l'unico modo per proteggerci entrambi. E l'unica guisa in cui puoi aiutare Umbra.» «In che modo Umbra ha bisogno di me, esattamente?» «Meglio che tu lo senta dalle sue labbra. Vieni. Sta calando la sera. Borgo Castelcervo è cresciuta ed è cambiata, come Castelcervo stessa. Se tentiamo di entrare dopo il buio, potremmo essere cacciati via.» Si era fatto tardi mentre parlavamo, e il lungo giorno d'estate stava svanendo attorno a noi. Il Matto fece strada e io lo seguii mentre mi portava per una via collaterale alla strada ripida che conduceva alla porta principale della rocca di Castelcervo. Si attardò fra gli alberi per permettere a un commerciante di vino di svoltare una curva, poi uscimmo sulla strada. Messer Dorato avanzò e il suo umile servitore Tom lo Striato camminò stancamente dietro di lui, portando il suo cuscino ricamato. Alla porta fu ammesso senza domande e io lo seguii, passando inosservato. Le guardie portavano il blu di Castelcervo e i farsetti erano ricamati con il cervo balzante dei Lungavista. Una piccola cosa che mi strinse inaspettatamente il cuore. Sbattei le palpebre e poi tossii e mi strofinai gli occhi. Il Matto ebbe la cortesia di non guardarmi. Castelcervo era cambiata quanto la città che si aggrappava alle rupi sot-
tostanti. In generale approvavo i cambiamenti. Superammo una scuderia nuova e più grande. Dove un tempo correvano piste fangose ora c'era un pavimento lastricato. Anche se il castello era più affollato di quanto ricordassi, sembrava più pulito e curato. Mi chiesi se fosse la disciplina delle Montagne di Kettricken applicata alla rocca, o semplicemente il risultato della pace. Tutti gli anni che avevo vissuto a Castelcervo erano stati anni di incursioni degli Isolani, fino alla guerra aperta. La relativa pace aveva portato una ripresa dei commerci, e non solo con i paesi a sud dei Sei Ducati. La storia dei nostri rapporti commerciali con le Isole Esterne era lunga come quella delle nostre guerre. Al mio arrivo avevo visto navi Isolane, a remi e a vela, nel porto di Castelcervo. Entrammo attraverso la Sala Grande. Messer Dorato avanzò imperioso mentre io mi affrettavo a seguirlo con gli occhi bassi. Due signore lo trattennero brevemente per salutarlo. Mi fu molto difficile mantenere la mia maschera di domestico. Un tempo il Matto aveva inspirato disagio o autentico ribrezzo; messer Dorato fu salutato con uno sventolio di ventagli e ciglia. Le incantò entrambe con un ricamo di raffinatissimi complimenti su vestiti, acconciatura e profumi. Le dame si separarono da lui con riluttanza, e messer Dorato dichiarò che non sopportava di lasciarle, ma doveva mostrare i suoi doveri a un servitore, e certamente loro sapevano quanto ciò fosse spiacevole. Non si trovavano più buoni servitori, e anche se questo arrivava con alte raccomandazioni, si era già dimostrato un po' lento e tremendamente rustico. Ebbene, negli ultimi tempi bisognava adattarsi, e messer Dorato sperava di poter godere della loro compagnia l'indomani. Intendeva passeggiare fra le aiuole di timo dopo colazione, volevano forse raggiungerlo? Certo che avrebbero accettato l'invito, con grande gioia, e dopo molti altri scambi di piacevolezze ci lasciarono andare. Messer Dorato alloggiava nell'ala ovest della rocca. Ai tempi di re Sagace erano considerate le stanze meno appetibili, perché davano sulle colline dietro alla rocca e sul tramonto, piuttosto che sul mare e sull'alba. Erano arredate in maniera più semplice, e considerate adatte alla nobiltà minore. O la condizione delle stanze era migliorata, o il Matto era stato molto prodigo dei propri soldi. Al suo cenno aprii una porta di quercia massiccia e lo seguii in un alloggio dove gusto e qualità erano soddisfatti in pari misura. Verdi profondi e ricchi marroni predominavano nei tappeti folti e nelle sedie dai cuscini riccamente decorati. Attraverso una porta scorsi un letto immenso, pingue di guanciali e piumini, e con un baldacchino dai drappi tanto pesanti che perfino nell'inverno più freddo del Cervo nessuno spiffe-
ro avrebbe raggiunto il dormiente. In estate erano legati con corde infiocchettate, e una cortina di pizzo bastava a tenere lontani gli insetti. Bauli e guardaroba intagliati erano distrattamente aperti, e la gran quantità di indumenti all'interno rischiava di straripare nella stanza. C'era un'aria di disordine ricco e piacevole, diversissimo dalla stanza ascetica nella torre dove un tempo aveva vissuto il Matto. Messer Dorato si lasciò cadere in una poltrona mentre chiudevo la porta senza rumore. Un'ultima striscia di sole calante entrava dall'alta finestra e lo illuminava come per caso. Unì davanti a sé le dita aggraziate e appoggiò la testa sui cuscini, e all'improvviso percepii l'artificio intenzionale della posizione della poltrona e della sua posa. L'intera ricca stanza era uno scenario per la sua bellezza dorata. Ogni scelta di colore, ogni disposizione dei mobili tendeva a quel fine. In quel luogo e in quel momento, il nobiluomo splendeva nella luce di miele del tramonto. Alzai gli occhi per considerare la sistemazione delle candele, gli angoli delle poltrone. «Sembri una figura in un ritratto arrangiato con cura» osservai quietamente. Lui sorrise con evidente piacere per il complimento, una conferma delle mie parole. Poi si alzò agile come un gatto. Il braccio e la mano descrissero un'onda elegante per indicare ogni porta. «La mia stanza da letto. La ritirata. Il mio studio.» Quella porta era chiusa, come l'ultima. «E la tua stanza, Tom lo Striato.» Non gli chiesi del suo studio. Conoscevo da tempo il suo bisogno di solitudine. Attraversai la camera e aprii la porta dei miei alloggi. Sbirciai nella piccola stanza buia. Non c'era finestra. Quando i miei occhi si adattarono, intravidi una stretta branda nell'angolo, un portacatino e un piccolo baule. Una sola candela accanto al catino. Nient'altro. Rivolsi al Matto un'occhiata interrogativa. «Messer Dorato» disse lui con un sorriso ironico, «è un individuo frivolo e venale. È arguto e ha la lingua pronta, molto affascinante con i suoi pari e del tutto ignaro di quelli di minore estrazione. Quindi la tua camera rifletté la situazione.» «Niente finestra? Niente focolare?» «Non è diversa dalla maggior parte delle camere dei servitori su questo piano. Ha tuttavia un vantaggio singolare.» Gettai di nuovo uno sguardo nella stanza. «Qualunque cosa sia, non lo vedo.» «Proprio questo è il punto. Vieni.» Prendendomi il braccio, il Matto mi accompagnò nella piccola stanza
buia. Chiuse la porta dietro di sé. Fummo immersi subito nell'oscurità completa. Sussurrando accanto a me, osservò: «Ricorda sempre che la porta deve essere chiusa. Ecco. Dammi la mano.» Obbedii, e il Matto guidò la mia mano sulla pietra grezza del muro accanto alla porta. «Perché dobbiamo stare al buio?» chiesi. «Si impiega troppo tempo ad accendere candele. Inoltre ciò che sto mostrandoti non può essere visto, solo sentito. Ecco. Lo senti?» «Penso di sì.» Una lievissima irregolarità nella pietra. «Misurala con la mano, o comunque impara dove si trova.» Lo feci, scoprendo che era circa a sei spanne dall'angolo della stanza, e all'altezza del mio mento. «E adesso?» «Spingila. Piano. Non ci vuole molto.» Feci quanto mi indicava e sentii la pietra spostarsi impercettibilmente sotto la mia mano. Udii un lieve scatto, ma non nella parete. Dietro di me. «Da questa parte» mi disse il Matto, e nell'oscurità mi condusse alla parete opposta della stanzetta. Di nuovo mi mise la mano sul muro e mi disse di spingere. L'oscurità cedette su cardini lubrificati, la pietra era solo una facciata che si spalancò al mio tocco. «Molto silenziosa» osservò il Matto con approvazione. «L'avrà oliata.» Sbattei le palpebre mentre i miei occhi si adattavano a una luce tenue che filtrava dall'alto. In un momento scorsi una scala molto stretta che saliva parallela alla parete della stanza. Un corridoio altrettanto angusto si snodava nell'oscurità, seguendo il muro. «Credo che tu sia atteso» mi disse il Matto con il suo ghigno aristocratico. «Anche Messer Dorato, ma da una compagnia molto diversa. Ti sollevo dai tuoi doveri come mio valletto, almeno per stanotte. Puoi andare, Tom lo Striato.» «Grazie, signore» risposi con sarcasmo. Piegai il collo per guardare su per le scale. Erano di pietra, chiaramente costruite nel muro insieme al castello. Quel chiarore grigiastro faceva pensare alla luce del giorno piuttosto che a quella di una lanterna. La mano del Matto si fermò brevemente sulla mia spalla, trattenendomi. Con voce molto diversa disse: «Lascerò una candela accesa nella stanza per te.» Le dita si strinsero con affetto. «Bentornato a casa, FitzChevalier Lungavista.» Mi girai a guardarlo. «Grazie, Matto.» Chinammo il capo, un saluto stranamente formale, poi cominciai a salire le scale. Sul terzo gradino sentii uno scatto dietro di me, e mi voltai. La porta si era richiusa. Salii per un bel pezzo. Poi la scala cambiò direzione, e scorsi la fonte
della luce. Alcune aperture, più strette di feritoie, lasciavano filtrare il sole calante. La luce stava morendo, e compresi all'improvviso che dopo il tramonto sarei rimasto immerso nell'oscurità assoluta. In quel momento mi trovavo a un crocevia nel corridoio. Il labirinto di gallerie, scale e corridoi che Umbra usava all'interno della rocca di Castelcervo era molto più esteso di quanto pensassi. Chiusi gli occhi per un momento e visualizzai la pianta del castello. Dopo una breve esitazione, scelsi un percorso e proseguii. Mentre camminavo mi accorgevo ogni tanto di voci. Diversi spioncini mostravano stanze da letto e salotti, gettando strisce di luce in lunghi tratti bui di corridoio. In una rientranza trovai uno sgabello di legno impolverato. Sedetti e sbirciai attraverso una fenditura in una stanza privata delle udienze che riconobbi dal mio servizio con re Sagace. Evidentemente la magnifica decorazione in legno che incorniciava il focolare si prestava a quella postazione di spie. Mi orientai e procedetti in fretta. Alla fine scorsi in lontananza un bagliore giallastro. Affrettandomi trovai una curva, e una candela di sego accesa in un vasetto di vetro. In fondo a un altro lungo tratto scorsi una seconda candela. Da quel punto le piccole luci mi guidarono fino a una scala molto ripida. Raggiunta la sommità mi trovai in una stanzetta di pietra con una porta stretta. La porta si spalancò al mio tocco, e io uscii da dietro lo scaffale del vino nella stanza della torre di Umbra. Guardai la camera con occhi nuovi. In quel momento era deserta, ma un fuocherello che scoppiettava nel camino e una tavola apparecchiata mi dissero che davvero ero atteso. Il grande letto a baldacchino era carico di trapunte, cuscini e pellicce come sempre, ma un'elaborata ragnatela tra i drappi polverosi parlava di abbandono. Umbra usava ancora quella stanza, ma non dormiva più lì. Mi avventurai all'altra estremità dove c'era il laboratorio, superando i ripiani carichi di pergamene e le mensole ingombre di attrezzature arcane. A volte, quando si torna alla scena della propria infanzia, le cose sembrano più piccole. Ciò che sembrava misterioso, unico dominio degli adulti, appare all'improvviso comune e normale. Ma non il laboratorio di Umbra. I vasetti dalle accurate etichette scritte nella sua calligrafia decisa, i bollitori anneriti e i pestelli macchiati, le erbe sparse e gli odori persistenti gettavano ancora il loro incantesimo su di me. Spirito e Arte erano miei, ma le strane alchimie che Umbra praticava in quel luogo erano una magia che non avevo mai padroneggiato. Lì ero ancora un apprendista che conosceva solo le basi del sapere sofisticato del suo maestro. I miei viaggi mi avevano insegnato qualcosa. Una bassa ciotola lucci-
cante, coperta da un panno, serviva a scrutare l'acqua. Ne avevo viste fra le mani degli indovini nelle città di Chalced. Pensai alla notte che Umbra mi aveva destato dallo stordimento dell'ubriachezza per dirmi che Baia Ridente era sotto attacco dai razziatori delle Navi Rosse. Non c'era stato il tempo di chiedergli come era venuto a saperlo. Un piccione viaggiatore, avevo pensato. Ora mi sorgeva qualche dubbio. Il focolare da lavoro era freddo, ma più ordinato di quanto ricordassi. Mi chiesi chi fosse il suo nuovo apprendista, e se lo avrei incontrato. Poi le mie riflessioni furono interrotte dal suono di una porta che si chiudeva piano. Mi girai per vedere Umbra Stella d'Autunno in piedi accanto a uno scaffale di pergamene. Per la prima volta compresi che la stanza non aveva porte visibili. Anche lì tutto era inganno. Il vecchio mi salutò con un sorriso caldo, anche se stanco. «Eccoti, finalmente. Quando ho visto messer Dorato entrare sogghignando nella Sala Grande, ho capito che mi stavi aspettando. Oh, Fitz, non hai idea di quanto sia sollevato alla tua vista.» Gli sorrisi. «In tanti anni insieme non ricordo un saluto più funesto.» «Sono tempi di malaugurio, ragazzo mio. Vieni, siediti, mangia. Abbiamo sempre ragionato meglio davanti al cibo. Devo raccontarti così tanto, e farai meglio ad ascoltarmi a pancia piena.» «Il tuo messaggero non mi ha detto molto» ammisi, sedendo al tavolino riccamente fornito: formaggi, pasticcini, carni fredde, frutta fragrante e matura, e pane speziato. C'erano vino e brandy, ma Umbra cominciò a versarsi del tè da una teiera di terracotta tenuta in caldo sui mattoni del camino. Quando allungai la mano verso la teiera, lui la allontanò con un gesto brusco. «Metto a bollire altra acqua» propose, e appese un bollitore sul fuoco. Lo guardai sorseggiare la bevanda scura nella tazza con una smorfia. Non sembrava apprezzarla, e affondò di nuovo nello scranno con un sospiro. Tenni i miei pensieri per me. Mentre cominciavo a riempirmi il piatto, Umbra notò: «Il mio messaggero ti ha detto tutto quello che sapeva, cioè nulla. Uno dei miei compiti più difficili è stato mantenere nel più assoluto riserbo questo incontro. Ah, dove cominciare? Difficile decidere, perché non so cosa ha scatenato questa crisi.» Ingoiai un boccone di pane e prosciutto. «Parti dai fatti cruciali, e procederemo da lì.» Gli occhi verdi di Umbra erano turbati. «Molto bene.» Prese fiato, poi esitò. Versò il brandy per tutti e due. Quando mi mise davanti il mio bic-
chiere disse: «Il principe Devoto è scomparso. Pensiamo che possa essere scappato. In tal caso è probabile che qualcuno lo abbia aiutato. Forse è stato catturato, ma né la regina né io lo riteniamo probabile. Ecco qua.» Si appoggiò allo schienale della poltrona e osservò la mia reazione. Mi ci volle un momento per mettere in ordine i miei pensieri. «Come è successo? Di chi sospetti? Da quanto tempo è scomparso?» Umbra alzò una mano per fermare il flusso di domande. «Sei giorni e sette notti, contando stasera. Dubito che riapparirà prima della mattina, anche se ne sarei felice. Come è successo? Ebbene. Non critico la mia regina, ma spesso trovo le sue maniere delle Montagne difficili da accettare. Da quando aveva tredici anni il principe va e viene come gli pare dal castello e dalla rocca. Lei sembrava ritenere giusto che conoscesse il suo popolo da pari a pari. A volte ho pensato che fosse saggio, perché la gente gli si è affezionata. Di certo mi sembrava che ormai dovesse essere accompagnato da una sua guardia, o come minimo da un tutore muscoloso. Ma Kettricken, come ricorderai, sa essere inflessibile come la pietra. In quello ha fatto come ha voluto. Il principe andava e veniva come desiderava, e le guardie avevano ordini di lasciarlo fare.» L'acqua stava bollendo. Umbra teneva le tisane nel solito posto, e non fece commenti quando mi alzai a prepararmi il tè. Sembrava che stesse radunando i suoi pensieri, e lo lasciai fare, perché i miei correvano in ogni direzione come un gregge di pecore spaventate. «Potrebbe essere già morto» sentii che dicevo ad alta voce, e poi avrei voluto mordermi la lingua all'occhiata sconvolta di Umbra. «Potrebbe» ammise il vecchio. «È un ragazzo sano e vivace, e ama le sfide. Questa assenza potrebbe essere causata non da un complotto ma da un banale incidente. L'ho pensato. Un paio di uomini discreti ai miei ordini hanno percorso la base delle rupi e le rovine più pericolose dove gli piace cacciare. Ma penso che se fosse ferito la sua piccola gatta da caccia sarebbe tornata al castello. Sebbene sia difficile dirlo con i gatti. Un cane lo farebbe, penso, ma un gatto è inaffidabile. In ogni caso, per quanto l'idea sia sgradevole, ho fatto cercare il corpo. Non l'ho trovato.» Una gatta da caccia. Ignorai il mio pensiero insistente per chiedere: «Hai detto che è scappato, o forse è stato catturato. Cosa ti fa pensare a queste ipotesi?» «La prima, perché è un ragazzo che tenta di imparare a diventare uomo in una corte che non gli rende facile essere né ragazzo né uomo. La seconda, perché è un principe, appena fidanzato a una principessa straniera, e si
dice che possegga lo Spirito. Questo dà a varie fazioni diverse ragioni per controllarlo o distruggerlo.» Mi lasciò vari minuti in silenzio, a digerire la notizia. Non sarebbero bastati giorni. Il mio orrore doveva essere evidente, perché Umbra alla fine disse piano: «Anche se è stato catturato, pensiamo che sia più prezioso da vivo per i suoi rapitori.» Ripresi fiato e parlai con la bocca arida. «Qualcuno ha rivendicato la cattura? Hanno chiesto un riscatto?» «No.» Mi maledissi per non essermi tenuto al corrente della politica nei Sei Ducati. Ma non avevo forse giurato di non lasciarmi mai più coinvolgere? Mi sentivo all'improvviso un bambino che giura di non lasciarsi mai più sorprendere dalla pioggia. Parlai a bassa voce, perché mi vergognavo. «Dovrai istruirmi, Umbra, e in fretta. Quali fazioni? Cosa ricavano dal controllo del principe? Quale principessa straniera? E...» l'ultima domanda quasi mi strozzò «perché qualcuno penserebbe che il principe Devoto abbia lo Spirito?» «Perché ce l'avevi tu» disse laconico Umbra. Prese di nuovo la teiera e riempì la tazza. La bevanda scese ancor più nera, e colsi un aroma sciropposo ma venato di amaro. Il vecchio la trangugiò in un sol sorso e la fece seguire in fretta dal brandy. Mandò giù. I suoi occhi verdi incontrarono i miei, in attesa. Non dissi niente. Certi segreti ancora appartenevano solo a me. O almeno lo speravo. «Tu avevi lo Spirito» ricapitolò Umbra. «Alcuni dicono che tu l'abbia ricevuto da tua madre, chiunque fosse, e io, Eda mi perdoni, ho incoraggiato questa tesi. Ma altri pensano a un tempo più remoto, al Principe Pezzato, e a vari personaggi strani nella linea dei Lungavista, e dicono: 'No, la macchia è là, nelle radici, e il principe Devoto viene da quella linea.'» «Ma il Principe Pezzato morì senza prole; Devoto non è della sua linea. Perché la gente pensa che abbia lo Spirito?» Umbra mi guardò socchiudendo gli occhi. «Giochi al gatto e al topo con me, ragazzo?» Mise le mani sul bordo del tavolo. Vene e tendini risaltavano come corde mentre si chinava verso di me. «Pensi che stia diventando matto, Fitz? Te lo assicuro, non è così. Starò invecchiando, ragazzo, ma sono acuto come non mai. Te lo garantisco!» Fino a quel momento non ne avevo dubitato. Quello sfogo era così poco caratteristico di Umbra che mi trovai a tirarmi indietro e guardarlo con apprensione. Umbra notò il mio sguardo, perché si sistemò nello scranno e lasciò ri-
cadere le mani in grembo. Quando parlò di nuovo, udii il mio vecchio mentore. «Stornella ti ha detto del cantastorie alla Festa di Primavera. Sai certamente dell'agitazione fra gli Spirituali, e sai di quelli che si fanno chiamare Pezzati. C'è un nome più crudele per loro. Il Culto del Bastardo.» Mi indirizzò un'occhiata minacciosa, ma non mi lasciò il tempo di assorbire quelle informazioni. Agitò una mano, accantonando il mio sgomento. «Comunque si chiamino, di recente hanno una nuova arma. Denunciano le famiglie contaminate dallo Spirito. Non so se cercano di dimostrare quanto è diffuso lo Spirito, o se il loro scopo è la distruzione degli individui che non si alleano con loro. Appaiono cartelli in luoghi pubblici. 'Gere il figlio del conciapelli ha lo Spirito; la sua bestia è un cane da caccia giallo.' 'Dama Mirabile ha lo Spirito; la sua bestia è il suo merlo.' Ogni messaggio è firmato con il loro emblema, un cavallo pezzato. In questi giorni a corte si spettegola su chi ha lo Spirito e chi non lo ha. Alcuni negano le dicerie; altri fuggono nei loro possedimenti di campagna, o in mancanza d'altro verso un villaggio distante e un nome nuovo. Se i messaggi sono veri, molta più gente possiede la Magia della Bestia di quanto tu pensi. Oppure...» e inclinò la testa «ne sai molto più di me?» «No» risposi con calma. «Non lo so.» Mi schiarii la gola. «E non sapevo che Stornella ti avesse fatto un rapporto così dettagliato.» Umbra unì le dita sotto il mento. «Ti ho offeso.» «No» mentii. «Non è quello, è solo...» «Che io sia dannato. Sono divenuto un vecchio irascibile, malgrado tutto ciò che ho fatto per evitarlo! Io ti offendo e tu mi racconti bugie, e nonostante tu sia il solo a potermi aiutare ti allontano da me. Il mio buon senso mi abbandona proprio quando ne ho più bisogno.» I suoi occhi incontrarono all'improvviso i miei, colmi di orrore. Di fronte a me, il vecchio parve indebolirsi. La sua voce divenne un bisbiglio incerto. «Fitz, sono terrorizzato per il ragazzo. Terrorizzato. L'accusa non è stata affissa in pubblico. È stata mandata in un messaggio sigillato. Non era firmato, neppure con l'emblema dei Pezzati. 'Fate ciò che è giusto', diceva, 'e nessun altro lo saprà. Ignorate questo avvertimento, e agiremo per conto nostro.' Ma non avanzavano rivendicazioni specifiche, quindi cosa potevamo fare? Non lo abbiamo ignorato; abbiamo semplicemente aspettato altre comunicazioni. E poi lui è scomparso. La regina teme... la regina teme troppe cose per elencarle. Soprattutto è terrorizzata dall'idea che possano ucciderlo. Ma ciò che temo io è peggio. Non solo che lo uccidano, ma che lo riducano a... a ciò che eri tu quando Burrich e io ti tirammo fuori da
quella falsa tomba. Una bestia nel corpo di un uomo.» Si alzò all'improvviso e si allontanò dalla tavola. Forse si vergognava che il suo affetto per il ragazzo lo riducesse a un tale terrore, o cercava di risparmiarmi il ricordo di ciò che ero stato. Avrebbe potuto farne a meno. Ero divenuto esperto a rifiutare quei ricordi. Umbra fissò un arazzo per qualche istante senza vederlo, poi si schiarì la gola. Fu il consigliere della regina a parlare. «Il trono dei Lungavista non resisterebbe, FitzChevalier. Abbiamo avuto bisogno di un re troppo a lungo. Se il ragazzo si rivelasse dotato dello Spirito, credo che riuscirei a porre sotto una luce diversa perfino quello. Ma se fosse mostrato ai suoi duchi come una bestia, tutto finirebbe, e i Sei Ducati non diverrebbero mai i Sette Ducati, ma si ridurrebbero a litigiose città-stato, e a terre senza legge. Kettricken e io abbiamo percorso una strada lunga e faticosa, ragazzo mio, negli anni in cui sei stato lontano. Né lei né io possiamo davvero esercitare l'autorità incontestabile di un vero re Lungavista. Per anni abbiamo navigato un mare incostante di alleanze con questo o quell'altro duca, riuscendo sempre ad assicurarci la maggioranza necessaria a sopravvivere un'altra stagione. Ora siamo così vicini, così vicini. Altri due anni, e il principe Devoto non sarà più principe ma re-in-attesa. Un anno ancora, e penso che potrei persuadere i duchi a riconoscerlo come re a pieno titolo. Poi, pensa, potremmo sentirci al sicuro per qualche tempo. Quando re Eyod delle Montagne morirà, Devoto erediterà anche il suo trono. Avremo le Montagne alle spalle, e se va in porto questa alleanza matrimoniale che Kettricken ha negoziato con l'Hetgurd delle Isole Esterne, avremo l'amicizia dei mari del nord.» «Hetgurd?» «Un'alleanza di nobili. Non hanno un re, o un signore supremo. Kebal Panecrudo era un'anomalia. Ma questa Hetgurd riunisce diversi personaggi potenti, e uno di loro, Arkon Lama-di-sangue, ha una figlia. Abbiamo scambiato messaggi. Sua figlia e Devoto sembrano essere adatti l'uno all'altra. L'Hetgurd ha mandato una delegazione per riconoscere formalmente il fidanzamento. Sarà presto qui. Se il principe Devoto soddisfa le loro aspettative, il fidanzamento sarà ufficializzato con una cerimonia alla prossima luna nuova.» Si rivolse di nuovo a me, scuotendo la testa. «Temo che sia troppo presto per una simile alleanza. All'Orso non piace, né ad Acquemosse. Probabilmente trarrebbero profitto dalla ripresa dei rapporti commerciali, ma le ferite sono ancora troppo recenti. Io direi di aspettare ancora cinque anni, lasciare che il commercio cresca lentamente e che De-
voto prenda le redini dei Sei Ducati per proporre un'alleanza. Tramite qualcuno di rango inferiore, non il principe. La figlia di un duca, forse un figlio cadetto... ma questo è solo il mio consiglio. Io non sono la regina, e la regina ha comunicato la sua volontà. Vuole vedere la pace durante la sua reggenza. Penso che osi troppo: fondere il Regno delle Montagne ai Sei Ducati come settimo ducato, mettere una donna delle Isole sul nostro trono come regina - è troppo, e troppo presto...» Umbra sembrava essersi dimenticato di me. Pensava ad alta voce con una noncuranza che non aveva mai mostrato negli anni in cui Sagace era sul trono, quando non avrebbe mai aperto bocca contro una decisione del re. Forse riteneva la nostra regina straniera più fallibile, o forse ora mi considerava abbastanza maturo da poter conoscere i suoi dubbi. Sedette di fronte a me e i nostri occhi si incontrarono di nuovo. Il gelo mi risalì per la schiena quando mi resi conto di ciò che vedevo. Umbra non era l'uomo che era stato. Era invecchiato, e malgrado lo negasse, la sua mente acuta faticava a risplendere attraverso le tende svolazzanti dell'età. Ormai solo la sua rete di spie, costruita per anni con tanta accuratezza, sosteneva il suo potere. Qualunque droga ci fosse nella teiera non era abbastanza per mantenere la facciata. Accorgersene era come mancare un gradino su una scala ripida e buia. All'improvviso compresi quanto in basso potevamo cadere tutti, e quanto in fretta. Mi sporsi attraverso il tavolo per mettere la mano sulla sua. Lo giuro, cercai di infondergli forza. Catturai il suo sguardo con il mio e provai a dargli fiducia. «Comincia dalla notte precedente alla scomparsa del principe» suggerii con calma. «E dimmi tutto ciò che sai.» «Dopo tanti anni, dovrei fare io rapporto a te, e lasciarti trarre le conclusioni?» Pensai di averlo offeso, ma poi un sorriso albeggiò sul suo volto. «Ah, Fitz, ti ringrazio. Grazie, ragazzo. Dopo tanto tempo, è così bello riaverti al mio fianco. Così bello avere qualcuno di cui fidarmi. La notte prima che il principe Devoto svanisse. Bene. Vediamo.» Per qualche tempo quegli occhi verdi guardarono lontano. Per un attimo temetti di averlo distratto, ma poi mi fissò all'improvviso, e il suo sguardo era acuto. «Andrò ancora un poco più indietro. Quella mattina avevamo litigato, il principe e io. Ecco, non proprio. Devoto è troppo educato per litigare con un vecchio. Ma gli avevo fatto una predica, e lui era sulle sue, proprio come facevi tu. Davvero, quel ragazzo mi fa pensare a te così tanto che mi sbalordisce.» Emise un breve sospiro. «In ogni modo. Avevamo avuto una piccola divergenza. Era venuto da me per la lezione mattutina di
Arte, ma non riusciva a concentrarsi. Aveva gli occhi cerchiati, e capii che era stato di nuovo fuori fino a tardi con quella sua gatta da caccia. E lo avvertii, seccamente, che se non sapeva regolarsi da solo per arrivare riposato e pronto alle lezioni, qualcun altro poteva pensarci per lui. La gatta poteva essere messa nelle stalle con le altre bestie da caccia per assicurare che il mio principe facesse un buon sonno ogni notte. «Questo, chiaramente, non gli andava bene. Lui e quella gatta sono inseparabili da quando gliel'hanno regalata. Ma non parlò della gatta o delle sue avventure notturne - forse perché pensa che ne sappia meno di quanto ne so. Disse che l'errore stava nelle lezioni, e nel suo tutore. Disse che non ha testa per l'Arte, e non l'avrà mai, indipendentemente quanto riposa. Io gli risposi di non essere ridicolo, è un Lungavista, e l'Arte è nel suo sangue. Ebbe la sfrontatezza di dirmi che sono io quello ridicolo, perché mi basta guardarmi allo specchio per vedere un Lungavista privo dell'Arte.» Umbra si schiarì la gola e sistemò la schiena nello scranno. Mi ci volle un momento a comprendere che era divertito, non irritato. «Sa essere un cucciolo insolente» ringhiò, ma nella critica sentii l'affetto, e l'orgoglio per lo spirito del ragazzo. Divertì anche me, in modo diverso. Un mio commento molto più moderato a quell'età mi avrebbe procurato un bello scappellotto. Il vecchio si era addolcito. Sperai che la sua tolleranza per l'insolenza del ragazzo non lo rovinasse. Ai principi, pensai, serve più disciplina degli altri ragazzi, non meno. Fui io a distrarlo. «Dunque hai cominciato a insegnargli l'Arte.» Cercai di non esprimere alcun giudizio morale. «Ho cominciato a tentare» ringhiò Umbra, in tono sconfitto. «Mi sento una talpa che parla del sole a un gufo. Ho letto le pergamene, Fitz, e ho tentato le meditazioni e gli esercizi che suggeriscono. E a volte quasi sento... qualcosa. Ma non so se è ciò che dovrei sentire, o solo le fantasie ottimiste di un vecchio.» «Te l'ho detto.» Parlai con gentilezza. «Non si può imparare, o insegnare, con una pergamena. La meditazione può prepararti, ma poi qualcuno deve mostrarti come si fa.» «Per questo ti ho fatto chiamare» rispose Umbra, troppo in fretta. «Perché non sei soltanto l'unico che può insegnare l'Arte al principe. Sei anche l'unico che può servirsene per trovarlo.» Sospirai. «Umbra, l'Arte non funziona così. L'Arte...» «Di' piuttosto che non ti hanno mai insegnato a usarla a tal fine. È nelle pergamene, Fitz. Due che sono uniti nell'Arte possono trovarsi a vicenda
con l'Arte, se necessario. Tutti i miei altri sforzi di trovare il principe sono andati a vuoto. I cani messi sulle sue tracce hanno corso bene per metà mattina, e poi si sono messi a descrivere cerchi, uggiolando confusi. Le mie migliori spie non hanno niente da dirmi, con la corruzione non ho ottenuto nulla. L'Arte è tutto ciò che ci resta, ti dico.» Accantonai la mia curiosità risvegliata. Non volevo vedere le pergamene. «Anche se c'è scritto che si può fare, dici che accade tra due che sono uniti nell'Arte. Il principe e io non abbiamo alcun...» «Io credo di sì.» Umbra ha un certo tono di voce che può interrompere chiunque, avvertendo che sa molto più di quanto uno pensi, e scoraggiandolo dal raccontargli bugie. Era estremamente efficace quando ero piccolo. Fu piuttosto sconvolgente scoprire che non era meno efficace ora che ero un uomo. Respirai profondamente e piano, ma prima che potessi chiedere, lui mi rispose. «Certi sogni che il principe mi raccontò suscitarono i miei sospetti. Cominciarono in maniera occasionale quando era molto piccolo. Sognava di un lupo che abbatteva una cerva, e un uomo che correva a tagliarle la gola. Nel sogno era l'uomo, eppure poteva anche vederlo. Quel primo sogno lo entusiasmò. Per un giorno e mezzo non parlò quasi d'altro. Lo raccontava come qualcosa che aveva fatto lui.» Fece una pausa. «Devoto aveva solo cinque anni. I dettagli del sogno superavano di gran lunga la sua esperienza.» Ancora non dissi niente. «Trascorsero anni prima che avesse un altro sogno del genere. O forse dovrei dire che passarono anni prima che me ne raccontasse un altro. Sognò un uomo che guadava un fiume. L'acqua minacciava di trascinarlo via, ma alla fine riuscì ad attraversarlo. Era troppo bagnato e troppo raggelato per accendere un fuoco e scaldarsi, ma si distese al riparo di un albero caduto. Un lupo venne a sdraiarsi accanto a lui per scaldarlo. E di nuovo il principe mi raccontò questo sogno come una sua avventura. 'E bellissimo' mi disse. 'E quasi come se avessi un'altra vita, una vita lontana, libera dalle costrizioni di un principe. Una vita che appartiene solo a me, dove ho un amico che mi è vicino come la mia pelle.' Fu allora che sospettai: aveva avuto altri sogni d'Arte, ma non me li aveva raccontati.» Attese, e questa volta dovetti rompere il silenzio. Presi fiato. «Se ho condiviso quei momenti della mia vita con il principe, non lo sapevo. Ma è vero, sono eventi reali.» Mi arrestai, chiedendomi all'improvviso cos'altro
avessimo condiviso. Ricordai le critiche di Veritas perché non proteggevo bene i miei pensieri, perché i miei sogni e le mie esperienze a volte interferivano con i suoi. Pensai ai miei incontri con Stornella e pregai di non arrossire. Era passato molto tempo da quando mi ero preoccupato di alzare barriere d'Arte. Chiaramente dovevo ricominciare. Ma allora il mio talento nell'Arte non era così degradato come credevo! Un moto di esaltazione accompagnò il pensiero. Crudelmente, mi sentii come un ubriaco che scopre una bottiglia dimenticata sotto al letto. «E tu hai diviso momenti della vita del principe?» mi pressò Umbra. «Forse. Sospetto di sì. Ho spesso sogni realistici. Sognare di essere un ragazzo a Castelcervo non è lontano dalla mia esperienza. Ma...» Trassi un respiro e mi costrinsi a proseguire. «L'importante qui è la gatta, Umbra. Da quanto ce l'ha? Pensi che il principe abbia lo Spirito? È legato alla gatta?» Mi sentivo un bugiardo, facendo domande a cui già conoscevo le risposte. Percorsi in fretta i miei sogni degli ultimi quindici anni, soprattutto quelli così chiari da riuscire a ricordarli nitidamente dopo il risveglio. Alcuni potevano essere episodi dalla vita del principe. Altri... Mi tornò alla mente il sogno febbricitante con Burrich. Anche Urtica? Dividevo i sogni con Urtica? Quella nuova comprensione mi spinse a guardare il sogno con occhi diversi. Non avevo solo assistito agli eventi dalla prospettiva di Urtica. Avevo condiviso la sua vita tramite l'Arte. Era possibile che, come con Devoto, il flusso di Arte andasse nelle due direzioni. Ciò che era sembrato uno sguardo consolante sulla sua vita, una finestrella su Molly e Burrich, ora si rivelava come la sua vulnerabilità di fronte alla mia imprudenza. Mi distolsi dal pensiero con un fremito e decisi di innalzare una barriera più forte attorno ai miei pensieri. Come avevo potuto essere così incauto? Quanti miei segreti avevo sparso davanti a creature più vulnerabili? «Come faccio a sapere se il ragazzo ha lo Spirito?» rispose Umbra irritato. «Non ho mai saputo che lo avevi tu, finché non me lo hai detto. E anche allora, all'inizio, non sapevo di che stavi parlando.» Ero all'improvviso stanco, troppo stanco per mentire. Chi stavo cercando di proteggere con l'inganno? Sapevo troppo bene che le bugie non difendono a lungo, che alla fine diventano le crepe più grandi nell'armatura di un uomo. «Io sospetto che abbia lo Spirito e sia legato alla gatta. A causa di certi miei sogni.» Umbra invecchiò davanti ai miei occhi. Scosse il capo senza parole, e versò altro brandy per tutti e due. Scolai il mio mentre lui beveva in lunghi sorsi meditabondi. Quando finalmente parlò, disse: «Odio l'ironia. È una
catena che lega i nostri sogni alle nostre paure. Speravo che tu avessi un legame con il ragazzo, un vincolo che ti avrebbe permesso di usare l'Arte per trovarlo. E infatti è così, ma insieme mi hai rivelato che la mia peggior paura per Devoto è fondata. Lo Spirito. Oh, Fitz. Vorrei tornare a quando la mia paura era sciocca invece che reale.» «Chi gli ha dato la gatta?» «Uno dei nobili. Era un dono. Riceve troppi doni. Tutti cercano di conquistarsi il suo favore. Kettricken tenta di rifiutare i più preziosi. Teme che rovinino il ragazzo. Ma era solo una piccola gatta da caccia... eppure può essere il regalo che lo danneggerà per la vita.» «Chi gliel'ha data?» insistetti. «Dovrò guardare di nuovo nei miei diari» confessò Umbra. Mi diede un'occhiata torva. «Non puoi aspettarti che un vecchio abbia la memoria di un giovane. Faccio del mio meglio, Fitz.» Quello sguardo di rimprovero diceva tutto. Se io fossi tornato a Castelcervo, riprendendo il mio ruolo al suo fianco, avrei conosciuto quelle risposte vitali. Il pensiero mi portò una domanda nuova alla mente. «Dov'è il tuo nuovo apprendista in tutto questo?» Umbra mi guardò, soppesandomi. Dopo un momento disse: «Compiti come questi sono troppo difficili per un apprendista.» Lo fissai dritto negli occhi. «Sta forse riprendendosi da, vediamo, un fulmine a ciel sereno? Che ha fatto saltare il tetto di una vecchia rimessa?» Il vecchio sbatté le palpebre, ma controllò la sua espressione. Anche la voce rimase salda. Ignorò la mia frecciata. «No, FitzChevalier, questa missione è per te. Solo tu hai le abilità necessarie.» «Cosa vuoi da me di preciso?» La domanda era una resa. Già ero accorso alla sua chiamata. Sapeva che gli ero ancora fedele. E anch'io. «Trova il principe. Riportacelo, con discrezione, e, Eda lo voglia, incolume. E fallo mentre il mio pretesto per la sua assenza è ancora credibile. Riportalo sano e salvo a casa prima che la delegazione di Isolani arrivi per formalizzare il fidanzamento con la loro principessa.» «E cioè quando?» Umbra scrollò le spalle, desolato. «Dipende dai venti, le onde, la forza dei rematori. Sono già partiti dalle Isole Esterne. Ci hanno informato con un piccione. La cerimonia è prevista per la luna nuova. Se arrivano prima e il principe non è qui, potrei forse inventarmi che si è ritirato a meditare prima di questo evento fondamentale per la sua vita. Ma sarebbe una facciata fragile, che si sgretolerebbe se non apparisse per la cerimonia.»
Contai in fretta. «Mancano più di due settimane. Abbastanza perché un ragazzo recalcitrante cambi idea e torni a casa di corsa.» Umbra mi guardò tetro. «Ma se il principe è stato catturato, e non sappiamo ancora da chi o perché, e tanto meno come lo recupereremo, sedici giorni sembrano una miseria.» Mi presi la testa fra le mani per un momento. Quando alzai lo sguardo, il mio vecchio mentore mi fissava ancora speranzoso. Fiducioso che avrei trovato una soluzione che gli sfuggiva. Avrei voluto scappare; avrei voluto non saperne nulla. Trassi un respiro per farmi forza. Poi feci ordine nella mente di Umbra come un tempo lui aveva disciplinato la mia. «Ho bisogno di informazioni» annunciai. «Non presumere che io conosca qualcosa della situazione, perché è probabile che non sia così. Ho bisogno di sapere, prima di tutto, chi gli ha dato la gatta. E cosa pensa questa persona dello Spirito, e del fidanzamento del principe. Allarga il cerchio da lì. Il donatore ha rivali o alleati? Chi a corte è più accanito nel perseguitare gli Spirituali, chi si oppone più apertamente al fidanzamento del principe, chi lo sostiene? Quali nobili sono stati accusati più di recente di avere lo Spirito in famiglia? Chi avrebbe potuto aiutare la fuga di Devoto, se è fuggito? Se è stato catturato, chi ne aveva l'opportunità? Chi conosceva le sue abitudini notturne?» Ogni domanda sembrava generarne un'altra, eppure di fronte a quella raffica di interrogativi Umbra parve farsi più saldo. Erano domande alle quali poteva rispondere, e questo fortificava la sua convinzione che insieme avremmo avuto la meglio. Feci una pausa per respirare. «E io devo ancora riferirti gli eventi di quei giorni. Comunque, sembri dimenticare che l'Arte potrebbe risparmiarci ore di parole. Lascia che ti mostri le pergamene, e vedi se hanno più senso per te che per me.» Mi guardai attorno, ma Umbra scosse il capo. «Non porto qui il principe. Questa parte del castello rimane un segreto per lui. Tengo le pergamene dell'Arte nella vecchia torre di Veritas, ed è là che faccio lezione al ragazzo. La stanza della torre è ben protetta, e alla porta c'è sempre una guardia fidata.» «Allora come posso vederle?» Umbra inclinò la testa. «C'è un passaggio, da qui alla torre di Veritas. È una via stretta e tortuosa, con molti gradini, ma tu sei giovane, non avrai problemi. Finisci di mangiare. Poi ti mostrerò la strada.» 12 Amuleti
Kettricken delle Montagne sposò il re-in-attesa Veritas dei Sei Ducati prima del compimento del suo ventesimo anno. Il matrimonio fu un espediente politico, parte di un più ampio negoziato per consolidare un'alleanza di commercio e protezione tra i Sei Ducati e il Regno delle Montagne. La morte di suo fratello maggiore alla vigilia del matrimonio diede un beneficio inaspettato ai Sei Ducati: un figlio di Kettricken avrebbe ereditato la corona delle Montagne insieme a quella dei Sei Ducati. La transizione da principessa delle Montagne a regina dei Sei Ducati non fu facile, eppure Kettricken la affrontò con l'abnegazione che è il marchio dei monarchi delle Montagne. Venne a Castelcervo da sola, senza neanche una domestica. Portò con sé le sue regole personali, che le imponevano di essere sempre pronta a sacrificarsi ogni volta che la sua nuova posizione lo richiedesse. Nelle Montagne è quello il ruolo accettato del re: essere Sacrificio per il suo popolo. Bedel, Regina delle Montagne La notte declinava già verso il mattino quando ridiscesi la scala segreta per cercare il mio letto. Avevo la testa piena di fatti, e pochi sembravano utili a risolvere l'enigma. Decisi di andare a dormire. In qualche modo, al risveglio, la mia mente lo avrebbe dipanato. Giunsi al pannello che conduceva nella mia camera e feci una pausa. Umbra mi aveva già insegnato tutte le sue cautele nell'uso di quei passaggi. Trattenendo il respiro sbirciai attraverso la minuscola fenditura nella pietra. Mi permetteva una vista molto limitata. Scorgevo una candela che colava su un tavolino al centro della stanza. Nient'altro. Mi misi in ascolto, ma non udii niente. Azionai piano una leva che mise in moto contrappesi invisibili. La porta si aprì e scivolai di nuovo nella mia stanza. Con una lieve spinta la rimisi al suo posto. Osservai il muro. L'apertura era invisibile. Messer Dorato, previdente, aveva fornito un paio di coperte di ruvida lana per la stretta branda in quella stanzetta soffocante. Ero stanchissimo, eppure sembrava un giaciglio ben poco invitante. Mi ricordai che potevo tornare alla stanza nella torre e dormire nel magnifico letto di Umbra. Lui non lo usava più. Ma la prospettiva era altrettanto poco invitante, in un
modo diverso. Usato o meno, era il letto di Umbra. La stanza nella torre, le mappe e gli scaffali pieni di pergamene, l'arcano laboratorio e i due focolari: tutto apparteneva a Umbra, e io non avevo intenzione di appropriarmene. Così era meglio. Il letto duro e la stanza angusta erano un confortante promemoria che il mio soggiorno sarebbe stato molto breve. Dopo una sola sera di segreti e macchinazioni, ero già stanco della politica di Castelcervo. Il mio bagaglio e la spada di Veritas erano sul letto. Gettai il bagaglio sul pavimento, appoggiai la spada in un angolo, calciai i vestiti smessi sotto il tavolo, spensi la candela e cercai il letto a tentoni. Accantonai risolutamente Devoto e lo Spirito e tutto il resto. Mi aspettavo di addormentarmi subito, invece rimasi a occhi spalancati nella stanza buia. Preoccupazioni più personali mi assalirono e cominciarono a divorarmi. Quella notte il ragazzo e il lupo erano sulla strada per Castelcervo. Era inquietante comprendere che ora contavo su Ticcio per occuparsi del vecchio lupo che era sempre stato il suo protettore. Il ragazzo aveva l'arco, e lo sapeva usare. Se la sarebbero cavata. Se non venivano attaccati dai banditi. Ticcio probabilmente ne avrebbe eliminato un paio prima di essere catturato. Allora gli altri si sarebbero infuriati. Occhi-di-notte avrebbe lottato fino alla morte. Rimasi con l'immagine piacevole del mio lupo morto in mezzo alla strada e mio figlio catturato da banditi furiosi. E io troppo lontano per fare qualcosa. Le coperte di lana prudono ancor di più quando si suda. Mi girai per fissare un'altra parete di oscurità. Non volevo pensare a Ticcio in quel momento. Inutile preoccuparsi di disastri non ancora accaduti. Controvoglia, la mia mente tornò alle pergamene dell'Arte di Umbra e alla crisi presente. Mi aspettavo tre o quattro rotoli. Umbra mi aveva mostrato varie casse di pergamene, in vari gradi di conservazione. Neanche lui le aveva esaminate tutte, anche se riteneva di averle ordinate in qualche modo per argomento e livello di difficoltà. Mi aveva indicato un grande tavolo con tre pergamene aperte. Il mio cuore era sprofondato. La scrittura di due pergamene era così arcaica che potevo decifrarla a malapena. La terza sembrava più recente, ma conteneva parole e frasi senza senso. Raccomandava una «trance di anticula» e suggeriva un infuso di «Erba del Pastore». Mai sentita. Poi avvertiva di non «dividere la barriera personale del mio compagno» perché rischiavo di «diffondere la sua anma.» Avevo guardato Umbra, confuso. Lui aveva capito subito che c'era un problema. «Credevo che tu sapessi cosa vuol dire» aveva detto, abbattuto.
Avevo scosso il capo. «Se Galen lo sapeva, non me lo ha mai detto.» Uno sbuffo di disprezzo. «Scommetto che il nostro 'Mastro d'Arte' non sapeva neanche leggere i caratteri.» Un sospiro. «La metà di qualsiasi mestiere è imparare il vocabolario e l'idioma dei professionisti. Con il tempo potremmo metterlo insieme con indizi dalle altre pergamene. Ma il tempo è poco. Ogni momento che passa, il principe può essere più lontano da Castelcervo.» «O non ha mai neanche lasciato la città. Umbra, mi hai avvertito molte volte di non agire alla cieca. Se ci buttiamo a casaccio, potremmo intraprendere la direzione sbagliata. Prima pensare, poi agire.» Mi era sembrato così strano ricordare al mio maestro la sua saggezza. Umbra aveva annuito con riluttanza e si era messo a meditare sull'iscrizione arcaica, borbottando mentre la sua penna fluiva in una traduzione chiara sulla carta, mentre io leggevo con attenzione il rotolo più accessibile. Poi l'avevo riletto, sperando che avesse più senso. Al terzo tentativo il capo mi dondolava sulle vecchie iscrizioni confuse. Umbra si era chinato attraverso il tavolo per prendermi con dolcezza il polso. «Vai a dormire, ragazzo» era stato il suo ordine brusco. «La mancanza di sonno rende stupidi, e questa faccenda richiederà la tua intelligenza più acuta.» Mi ero arreso e l'avevo lasciato là, ancora curvo su carta e penna. Mi rigirai sulla schiena, indolenzito per tutte le scale che avevo percorso. Ebbene, se non riuscivo a dormire potevo fare qualcosa di utile. Chiusi gli occhi sull'oscurità opprimente e mi tranquillizzai. Svuotai la mente dalle preoccupazioni e tentai solo di richiamare il mio ultimo sogno del ragazzo e della gatta. Evocai il loro entusiasmo per la notte e la caccia. Richiamai il ricordo dei profumi che colmavano l'aria, e percepii l'aura indefinibile di un sogno che non era mio. Riuscivo quasi a entrarci, ma non era ciò che volevo. Tentai di richiamare il tenue collegamento d'Arte di cui non ero stato consapevole quando lo avevo sperimentato. Il principe Devoto. Il figlio del mio corpo. Puri titoli, a cui non erano collegate impressioni concrete. Eppure interferivano in modo bizzarro con ciò che tentavo di fare. I miei preconcetti su Devoto, come un'idealizzazione possessiva del mio figlio naturale, si paravano tra me e i fili fragili del collegamento d'Arte che cercavo di districare. Da qualche luogo le ossa di pietra del castello mi portavano un brano disperso di musica. Mi distraeva. Sbattei le palpebre nel buio. Avevo perso ogni senso del tempo; la notte si estendeva eterna attorno a me. Odiavo quella stanza senza finestre, isolata dal mondo naturale. Odiavo l'esilio che dovevo sopportare. Avevo
vissuto con il lupo troppo a lungo per tollerarlo. Frustrato, abbandonai l'Arte e mi tesi con lo Spirito verso il mio compagno. Teneva ancora alzate le barriere che ultimamente usava così spesso. Lo sentivo dormire, e quando mi appoggiai alle sue difese, avvertii il tuono sordo del dolore nei fianchi e nella schiena. Mi allontanai in fretta quando compresi che concentrandomi sul suo dolore lo portavo in primo piano nella sua mente. Non percepii paura o presentimenti in lui, solo stanchezza e giunture doloranti. Lo avvolsi nei miei pensieri, attingendo con gratitudine ai suoi sensi. Sto dormendo, mi informò il lupo, scontroso. Poi, Sei preoccupato per qualcosa? Niente. Voglio solo controllare che stiate bene. Oh, sì, stiamo bene. Abbiamo avuto una deliziosa giornata di cammino al caldo e alla polvere. Ora stiamo dormendo sul ciglio della strada. Poi, più gentile, aggiunse: Non preoccuparti di ciò che non puoi cambiare. Presto sarò con te. Proteggi Ticcio per me. Certo. Dormi. Sentivo l'odore di erba umida e il fumo sottile del bivacco, e perfino il sudore salato di Ticcio disteso lì accanto. Mi rassicurò. Tutto andava bene nel mio mondo. Lasciai andare ogni cosa tranne quelle semplici sensazioni e finalmente sprofondai nel sonno. «Posso ricordarti che tu devi servire me come valletto, non viceversa?» Le parole che mi strapparono dal sonno furono pronunciate con il ghigno arrogante di Messer Dorato, ma il sorriso era quello del Matto. Aveva sul braccio dei vestiti, e sentivo l'odore di acqua calda e profumata. Lui era già impeccabile in abiti ancor più discreti ed eleganti del giorno prima. I colori oggi erano crema e verde bosco, con un sottile orlo dorato su polsini e colletto. Portava un orecchino nuovo, un globo di filigrana dorata. Sapevo cosa conteneva. Sembrava fresco e vigile. Mi tirai a sedere e mi cullai la testa dolorante fra le mani. «Mal di testa da Arte?» chiese il Matto, comprensivo. Scossi il capo, e il dolore mi rimbombò nel cranio. «Magari» borbottai. Alzai gli occhi su di lui. «Sono solo stanco.» «Pensavo che avresti dormito nella torre.» «Non mi sembrava corretto.» Mi alzai e tentai di stiracchiarmi, ma la mia schiena contratta protestò. Il Matto mise i vestiti ai piedi del letto, poi sedette sulle coperte gualcite.
«Allora. Qualche idea su dove può essere il nostro principe?» «Troppe. Dovunque nel Ducato del Cervo, o anche oltre i confini. Troppi nobili vorrebbero prenderlo. Se è scappato, il numero di luoghi dove potrebbe essere aumenta.» L'acqua per lavarsi fumava ancora nel semplice catino di ceramica, e vi galleggiavano alcune fragranti foglie di limone. Vi immersi con gratitudine il viso e lo strofinai con le mani. Mi sentii più sveglio e consapevole del mondo. «Ho bisogno di un bagno. Ci sono ancora i bagni di vapore dietro agli alloggi delle guardie?» «Sì, ma i servitori non li usano. Dovrai stare attento a non ricadere nelle vecchie abitudini. I domestici in genere usano l'acqua del padrone o della padrona. O prendono la loro dalle cucine.» Gli lanciai un'occhiata. «Stasera andrò a prendermi la mia.» Mi lavai come potevo nel catino. Il Matto sedeva e mi guardava in silenzio. Mentre mi radevo osservò quietamente: «Domani dovrai svegliarti prima. Tutto il personale di cucina sa che mi alzo presto.» Lo guardai costernato. «E...» «E si aspettano che il mio servitore scenda a prendermi la colazione.» Il significato delle sue parole penetrò lentamente. Aveva ragione. Dovevo entrare meglio nel mio ruolo se volevo scoprire qualcosa di utile. «Ora vado.» Il Matto scosse il capo. «Non conciato così. Messer Dorato è un uomo orgoglioso e sensibile. Non vorrebbe un servitore così irsuto. Devi avere l'aspetto giusto per il tuo ruolo. Vieni qui e siediti.» Lo seguii nella luce e nello spazio aperto della camera padronale. Aveva disposto sul tavolo pettine, spazzola e forbici, e vi aveva appoggiato un grande specchio. Mi preparai a quell'umiliazione. Andai alla porta per essere sicuro che fosse chiusa contro qualsiasi intrusione inopportuna. Poi sedetti e attesi che mi tagliasse i capelli corti, come un servitore. Sciolsi la coda mentre Messer Dorato prendeva le forbici. Quando guardai nel suo specchio dall'elegante cornice vidi un uomo che riconobbi a stento. Un grande specchio in cui si vede tutto il viso fa uno strano effetto. Stornella aveva ragione. Sembravo molto più vecchio dei miei anni. Quando mi scostai dallo specchio e contemplai il mio viso, fui sorpreso di vedere che la mia cicatrice si era affievolita. La linea si scorgeva ancora, ma non era vistosa come sul volto liscio di un giovane. Il Matto mi permise di guardarmi in silenzio per qualche istante. Poi mi prese i capelli fra le mani. Gettai uno sguardo al suo viso nello specchio. Si mordeva il labbro in un'agonia di indecisione. All'improvviso sbatté di
nuovo le forbici sul tavolo. «No» esclamò. «Non posso farlo, e non penso che sia necessario.» Trasse un respiro, poi in fretta mi legò di nuovo i capelli nella coda da guerriero. «Provati i vestiti» mi esortò. «Ho dovuto indovinare la taglia, ma nessuno si aspetta che un servitore sia ben vestito.» Tornai nella stanzetta e guardai gli indumenti drappeggiati ai piedi della mia branda. Erano tagliati dal familiare, rozzo tessuto blu dei servitori di Castelcervo. Somigliavano all'abbigliamento che avevo portato da bambino, ma mentre li indossavo provai una diversa sensazione. Quei vestiti mi marchiavano agli occhi di tutti come un servo. Un travestimento, mi dissi. Non ero il servo di nessuno. Ma con una fitta improvvisa mi chiesi come si fosse sentita Molly la prima volta che aveva indossato le vesti blu di una domestica. Bastardo o no, ero il figlio di un principe. Non mi ero mai aspettato di portare gli indumenti di un servitore. Al posto del mio cervo alla carica dei Lungavista vi era ricamato il fagiano d'oro di Messer Dorato. Almeno mi andavano bene. «In effetti sono i vestiti di miglior qualità che abbia portato in anni» ammisi con riluttanza. Il Matto guardò dalla porta, e per un secondo credetti di scorgere ansia nei suoi occhi. Sorrise alla mia vista, poi mi girò attorno in un cerchio lento, ispezionandomi teatralmente. «Andrai bene, Tom lo Striato. C'è un paio di stivali vicino alla porta, circa tre dita più lunghi del mio piede, e anche più larghi. Meglio metter via le tue cose nel baule, così se a qualcuno viene la curiosità di guardare nelle nostre stanze non troverà nulla di sospetto.» Lo feci subito mentre il Matto riordinava in fretta la propria camera. La spada di Veritas finì sotto i vestiti nel mio baule. Ce n'erano appena abbastanza per coprirla. Gli stivali erano comodi come possono esserlo gli stivali nuovi. Col tempo sarebbero andati meglio. «Sono sicuro che ti ricordi come si arriva alle cucine. Faccio sempre colazione su un vassoio nella mia stanza; gli sguatteri saranno contenti di vedere che ti assumi tu il compito di portarmelo. Potrai cogliere l'occasione per qualche pettegolezzo.» Fece una pausa. «Di' loro che ieri sera ho mangiato poco e quindi questa mattina sono affamato. Poi porta su abbastanza cibo per tutti e due.» Era strano sentirlo dirigermi così minuziosamente, ma mi ricordai che facevo meglio ad abituarmi. Quindi mi inchinai e riuscii a dire «Sì, signore» prima di uscire. Il Matto cominciò a sorridere, si trattenne e mi rivolse un lento cenno del capo. Fuori dalla camera il castello era ben sveglio. Gli altri servitori erano oc-
cupati a sostituire candele e spazzar via giunchi sporchi o si affrettavano con lenzuola fresche e secchi di acqua per il bagno. Forse era la mia prospettiva nuova, ma mi sembrava che il numero dei servitori fosse molto aumentato. Non era l'unico cambiamento. Le usanze delle Montagne della regina Kettricken erano più che mai visibili. Nei suoi anni di permanenza l'interno del castello aveva raggiunto nuove vette di pulizia. Nelle sale che attraversavo regnava una sobria semplicità che aveva sostituito decenni di preziose cianfrusaglie. Gli arazzi e i vessilli rimasti erano puliti e liberi dalle ragnatele. Ma le cucine erano ancora il regno incontrastato di Sara la Cuoca. Avanzare nel vapore e nei profumi fu come rituffarmi nella mia fanciullezza. Come aveva detto Umbra, la vecchia cuoca non correva più dal focolare al tavolo e di nuovo al focolare: accomodata su uno scranno, controllava che il cibo fosse preparato secondo la tradizione delle cucine di Castelcervo. Strappai lo sguardo dall'ampia forma di Sara, prima che si accorgesse di me e in qualche modo mi riconoscesse. Tirai umilmente la manica di uno sguattero per comunicargli i desideri di messer Dorato riguardo alla colazione. Il ragazzo indicò vassoi, piatti e posate e fece un ampio gesto verso i fuochi di cottura. «Sei tu il suo servo, non io» rispose insolente, e ricominciò a tagliare rape. Aggrottai le sopracciglia, ma dentro di me ne fui grato. Presto avevo accumulato sul vassoio cibo sufficiente per due laute colazioni. Lo presi e scivolai fuori dalla cucina. Ero a metà strada sulle scale quando udii una voce familiare. Mi arrestai e mi sporsi dalla balaustra per guardar giù. Un sorriso involontario mi affiorò sulle labbra. La regina Kettricken attraversava la sala sotto di me, con una mezza dozzina di dame che lottava strenuamente per tenerle dietro. Non le conoscevo; tutte giovani, nessuna oltre i vent'anni. Erano bambine quando io ero stato per l'ultima volta a Castelcervo. Una mi parve avere un viso vagamente familiare, ma forse avevo conosciuto sua madre. Il mio sguardo si fissò sulla regina. I capelli splendenti di Kettricken, ancora gloriosamente dorati, erano avvolti e fissati in una corona di trecce. Portava un semplice cerchietto d'argento sul capo. Vestiva di marrone rossastro con una sovratunica gialla ricamata, e le gonne frusciavano al suo passo. Le dame imitavano il suo stile semplice senza essere capaci di catturarlo, perché era la grazia innata di Kettricken che dava eleganza al suo abbigliamento senza pretese. Malgrado gli anni trascorsi, il portamento era ancora regale, e il passo sciolto. Camminava con decisione, ma vidi sul suo viso un'immobilità forzata. Una
parte di lei era sempre consapevole del figlio disperso, eppure si muoveva attraverso la corte da vera regina. Il mio cuore si arrestò alla sua vista. Pensai che Veritas sarebbe stato tanto orgoglioso di quella donna e, «Oh, mia regina» sussurrai. Kettricken si bloccò a metà di un passo e quasi la sentii trattenere il respiro. Gettò uno sguardo intorno e poi verso l'alto, e i suoi occhi incontrarono i miei. Nell'ombra della Sala Grande non potevo scorgere il suo sguardo azzurro, ma in qualche modo lo percepii. Per un istante ci fissammo, ma il suo viso mostrava confusione, non riconoscimento. Un improvviso scappellotto sulla testa. Mi girai verso il mio aggressore, troppo sbalordito per arrabbiarmi. Un gentiluomo della corte, più alto di me, mi guardava con forte disapprovazione. Le sue parole furono brusche. «È chiaro che sei nuovo a Castelcervo, idiota. Ai servitori non è permesso fissare così sfacciatamente la regina. Svolgi i tuoi compiti. E ricorda il tuo posto, o presto non avrai nessun posto da ricordare.» Guardai il vassoio di cibo che stringevo, lottando per controllare il viso. La rabbia mi colmò. Sapevo di essere arrossito. Dovetti fare appello a tutta la mia forza di volontà per chinare la testa. «Chiedo perdono, signore. Me lo ricorderò.» Sperai che la mia voce strozzata sembrasse abietta umiliazione piuttosto che ira. Stringendo forte i lati del vassoio, continuai a salire le scale mentre il nobile scendeva, e non mi permisi di gettare uno sguardo oltre la balaustra per vedere se la mia regina mi guardava andare. Un servitore. Sono un servitore, sono un domestico fedele e ben addestrato. Sono venuto di recente dalla campagna, ma con buone referenze, quindi sono ben educato, abituato alla disciplina. Abituato all'umiliazione. O no? Avevo seguito messer Dorato a Castelcervo con al fianco la lama di Veritas nel suo semplice fodero. Certamente alcuni l'avevano notata. La mia carnagione e le cicatrici sulle mani mi identificavano come un uomo che viveva soprattutto all'aperto. Se dovevo ricoprire quel ruolo, dovevo essere credibile. Dovevo poterlo sopportare, non solo recitare con convinzione. Alla porta di messer Dorato, bussai, feci una pausa discreta, poi entrai. Il Matto guardava fuori dalla finestra. Richiusi con attenzione la porta dietro di me, misi il chiavistello e deposi il vassoio sul tavolo. Mentre apparecchiavo parlai alla sua schiena. «Sono Tom lo Striato, il vostro domestico. Vi sono stato raccomandato come un individuo istruito da un padrone indulgente più di quanto meritasse la mia condizione, ma valutato più per la mia lama che per le belle ma-
niere. Mi avete scelto perché volevate un domestico capace di essere una guardia del corpo oltre che un valletto. Avete sentito dire che sono lunatico e a volte irascibile, ma intendete mettermi alla prova per vedere se servo al vostro scopo. Ho... quarantadue anni. Ho ricevuto le mie cicatrici difendendo il mio ultimo padrone da un attacco di tre, no, sei banditi. Li uccisi tutti. Non sono un uomo da provocare a cuor leggero. Il mio ultimo padrone mi ha lasciato una piccola eredità che mi ha permesso di vivere in modo semplice. Ma ora mio figlio è maggiorenne, e vorrei metterlo a bottega a Borgo Castelcervo. Voi mi avete persuaso a tornare a servizio per sostenere le spese.» Messer Dorato aveva voltato le spalle alla finestra. Ascoltò il mio soliloquio serrando le mani aristocratiche. Quando ebbi finito, annuì. «Mi piace, Tom lo Striato. Un bel colpo per messer Dorato, un domestico lievemente pericoloso. Me ne vanterò così tanto! Andrai bene, Tom. Andrai benissimo.» Si avvicinò e io spostai la sedia per farlo sedere. Guardò la tavola apparecchiata e la disposizione dei piatti. «Eccellente. È esattamente quello che desidero. Continua così, Tom, e dovrò aumentarti lo stipendio.» Alzò lo sguardo a incontrare il mio. «Siedi e mangia con me» suggerì il Matto. Scossi il capo. «Meglio che io faccia pratica di buone maniere, signore. Tè?» Per un istante il Matto parve inorridire. Poi messer Dorato alzò un tovagliolo e se lo passo delicatamente sulle labbra. «Prego.» Gli versai una tazza. «Questo tuo figlio, Tom. Non l'ho incontrato. È a Borgo Castelcervo, vero?» «Gli ho detto di seguirmi qui, signore.» Compresi all'improvviso che non avevo detto a Ticcio molto di più. Sarebbe arrivato con un lupo attempato su un carretto traballante trainato da un vecchio pony stanco. Non ero andato dalla nipote di Jinna a chiederle di aspettarlo. E se si fosse offesa? La mia altra vita si schiantò su di me come un'onda. Non avevo preparato niente per lui. Non conosceva nessun altro a Borgo Castelcervo, tranne Stornella, e non sapevo neppure se la cantastorie fosse in città. Inoltre, dati i rapporti tesi tra noi, era improbabile che Ticcio si rivolgesse a lei in cerca di aiuto. Capii all'improvviso che dovevo cercare la fattucchiera ed essere sicuro che il ragazzo fosse ben accetto. Le avrei lasciato un messaggio per Ticcio. E dovevo subito chiedere a Umbra di pensare a lui. Alla luce di quanto sa-
pevo ora, sembrava insensibile nei confronti del vecchio, e mi si strinse il cuore. Potevo chiedere un prestito al Matto. Fremetti al pensiero. Qual era esattamente il mio stipendio? Cercai di convincermi a chiedere. Ma le parole non raggiunsero la lingua. Messer Dorato spinse indietro la sedia. «Sei silenzioso, Tom lo Striato. Quando arriva tuo figlio, mi aspetto che me lo presenti. Per ora penso che ti lascerò questa prima mattina tutta per te. Metti in ordine qui, impara a conoscere il castello e i giardini.» Mi guardò con occhio critico. «Trovami carta, penna e inchiostro. Ti scriverò una lettera di credito per Scrandon il sarto. Immagino che troverai facilmente la sua bottega. In passato la conoscevi. Fatti prendere le misure per altri vestiti: quelli per tutti i giorni e quelli per quando voglio vederti elegante. Dato che sei la mia guardia del corpo oltre che un valletto, ritengo giusto che tu stia dietro alla mia sedia alle cene ufficiali e mi accompagni quando cavalco. E vai anche da Croy. È un armaiolo vicino alla via dei fabbri. Trovati una lama utile fra le spade usate.» Annuii a ciascuno dei suoi ordini. Andai a un piccolo scrittoio nell'angolo a preparare penna e inchiostro per il mio padrone. Dietro di me, il Matto parlò pacatamente. «L'opera di Poiana e la lama di Veritas potrebbero essere ancora troppo riconoscibili qui a Castelcervo. Ti consiglio di tenere quella spada nella vecchia torre di Umbra.» Non lo guardai. «Lo farò. E chiederò anche al mastro d'armi di trovarmi un addestratore. Gli dirò che le mie abilità sono un po' arrugginite e che tu vuoi che le affini. Con chi si addestrava il principe Devoto?» Il Matto lo sapeva. Sapeva sempre quel genere di cose. Parlò mentre sedeva allo scrittoio. «Crescione era il suo istruttore, ma lo faceva combattere più spesso con una giovane di nome Delleree. Ma non puoi certo chiedere di lei… Mmm. Digli che cerchi qualcuno che lotta con due spade, per perfezionare le tue abilità di difesa. Credo che quella sia la sua specialità.» «Lo farò. Grazie.» Passarono alcuni momenti mentre la penna graffiava instancabile la carta. Una o due volte il Matto alzò lo sguardo, osservandomi con occhi pensierosi che mi misero a disagio. Andai alla finestra e guardai fuori. Era una bella giornata. Avrei voluto che appartenesse solo a me. Sentii l'odore della cera fusa e mi voltai a vedere messer Dorato che applicava il suo sigillo alle lettere. Lasciò raffreddare la cera, poi me le porse. «Vai dal sarto e dall'armaiolo. Quanto a me, penso che farò una passeggiata per i giardini, e poi sono stato invitato nel salotto della regina per...»
«L'ho vista. Kettricken.» Soffocai una risata amara. «Sembra tanto tempo fa, quando risvegliammo i draghi di pietra, e tutto il resto. E poi accadrà qualcosa, e sembrerà ieri. L'ultima volta che vidi Kettricken, sedeva a cavalcioni di Veritas-il-drago e ci diceva addio. Oggi l'ho rivista e all'improvviso tutto è diventato reale per me. Regna qui da più di dieci anni... Mi sono allontanato da tutto questo per guarire, e perché pensavo di non poterne più far parte. Ora che sono tornato, mi guardo attorno e penso: la mia vita mi è mancata. Mentre ero lontano e solo, è andata avanti qui, senza di me, e sono condannato a essere per sempre un estraneo in casa mia.» «Inutile rammaricarsi» rispose il Matto. «Tutto ciò che puoi fare è ripartire da dove ti trovi. E chi può dirlo? Forse l'esperienza del tuo esilio volontario sarà proprio ciò che ci serve.» «E il tempo vola, perfino mentre parliamo.» «Invero.» Messer Dorato accennò verso il guardaroba. «La mia sopravveste, Striato. Quella verde.» Aprii le ante del guardaroba ed estrassi l'indumento fra molti altri simili, poi le chiusi come meglio potevo su quell'eccesso debordante. Gli ressi la sopravveste come spesso avevo visto fare a Charim con Veritas, e lo aiutai a infilarla. Lui mi tese i polsi, e io aggiustai i polsini e raddrizzai le falde. Un guizzo di divertimento passò nei suoi occhi. «Molto bene, Striato» mormorò. Mi precedette alla porta e poi aspettò che l'aprissi per lui. Quando fu uscito misi il chiavistello e finii in fretta il resto della colazione che si raffreddava. Ammonticchiai di nuovo i piatti sul vassoio. Guardai l'entrata della stanza privata del Matto. Poi accesi una candela, andai nella mia stanzetta e mi chiusi la porta alle spalle. Senza la candela l'oscurità sarebbe stata assoluta. Mi ci volle qualche momento per trovare il meccanismo che rilasciava la serratura, e poi due tentativi prima di premere il punto esatto sul muro. Malgrado le gambe doloranti, portai la spada di Veritas su per la moltitudine di gradini fino alla torre di Umbra e la appoggiai nell'angolo vicino al focolare. Tornato negli alloggi del Matto, sparecchiai la tavola. Gettai uno sguardo nello specchio, con i resti della colazione fra le mani, e vidi un domestico di Castelcervo. Emisi un breve sospiro, mi ricordai di tenere gli occhi bassi e lasciai la stanza. Dunque avevo temuto che al mio ritorno a Castelcervo tutti mi riconoscessero? La realtà era che nessuno mi vedeva. Un'occhiata ai miei abiti da servitore e sguardo a terra, e venivo accantonato. Qualche altro domestico mi guardò con diffidenza, ma in gran parte erano occupati con le loro in-
combenze. Alcuni offrivano saluti frettolosi, e io risposi amabilmente. Dovevo coltivare i domestici, perché sanno molte cose degli avvenimenti di una grande casa. Riportai i piatti in cucina e lasciai il castello. Le guardie mi fecero passare senza una parola. Presto fui sulla via ripida verso il borgo. Era una bella giornata e la strada era frequentata. L'estate sembrava decisa a indugiare ancora un poco. Mi trovai a seguire un gruppo di domestiche che scendevano al borgo, cestini al braccio. Mi gettarono un paio di sguardi sospettosi, poi mi ignorarono. Ascoltai avidamente i loro pettegolezzi, ma non ne ricavai nulla. Parlavano delle festività per il fidanzamento del principe, e di ciò che avrebbero indossato le loro padrone. In qualche modo la regina e Umbra erano riusciti a tenere nascosta l'assenza di Devoto. In città andai subito a fare le commissioni per messer Dorato, ma tenni le orecchie tese, sperando di sentire qualcosa su Devoto. Trovai la sartoria senza difficoltà. Come messer Dorato mi aveva detto, la conoscevo da tempo, da quando era la bottega di candele di Molly. Era strano entrare in quel luogo. Il sarto prese la mia lettera di credito senza esitazione, ma schioccò la lingua all'ordine di fare in fretta. «E tuttavia mi ha pagato abbastanza bene, posso permettermi di perdere il sonno stanotte. I vestiti saranno pronti per domani.» Dai suoi commenti dedussi che messer Dorato si era servito da lui altre volte. Rimasi in piedi in silenzio su uno sgabello basso mentre mi prendeva le misure. Non mi chiese niente, dato che messer Dorato aveva specificato nella nota come doveva essere vestito il suo servitore. Ero libero di tacere e domandarmi se riuscivo ancora a sentire il profumo di cera d'api ed erbe profumate, o se mi ingannavo. Prima di uscire gli chiesi se sapeva di qualche fattucchiera a Castelcervo. Volevo scoprire se la mia nuova posizione faceva presagire bene per me. Il sarto scosse il capo per la mia superstizione da popolano, ma mi disse di chiedere vicino alla via dei fabbri. Mi andava a pennello, perché la successiva commissione mi portò da Croy. Mi stupii che messer Dorato conoscesse quella botteguccia strapiena di armi e armature malridotte. Ma di nuovo il proprietario prese la sua nota senza domande. Scelsi con calma una lama di mio gusto. La volevo semplice e ben fatta, ma chiaramente è ciò che sceglie ogni vero uomo d'armi, così Croy ne aveva ben poche. Dopo aver tentato di propormi varie spade vistose con guardie elaborate e lame banali, si arrese e mi lasciò frugare nella sua collezione. Mentre cercavo mantenni un flusso continuo di osservazioni su come Castelcervo era cambiata da quando ero stato là. Non fu
difficile spingere Croy al pettegolezzo, e poi farlo parlare di auspici e amuleti e di coloro che li vendevano. Non ebbi bisogno di menzionare Jinna per sentirla nominare. Alla fine scelsi una lama davvero degna delle mie abilità arrugginite. Croy non era contento. «Il tuo padrone ha oro da buttar via, buon uomo. Scegliti qualcosa di decorato, o un'elsa elegante.» Scossi il capo. «No, no, non voglio niente che si impiglia nei vestiti in un combattimento corpo a corpo. È questa che voglio. Ma prendo anche un coltello.» Lo trovammo in fretta, poi lasciai il negozio. Attraversai il clangore metallico e gli sbuffi di calore che caratterizzavano la via dei fabbri. I martelli facevano a gara, un assordante contrappunto al sole battente. Avevo dimenticato quanto fosse costante il rumore di una città. Frugai nella memoria mentre camminavo, tentando di ricordare se qualcosa che avevo detto a Jinna contrastasse con la mia nuova identità di domestico. Alla fine decisi di sperare in bene. Se non le tornava, ebbene, avrebbe pensato che ero un bugiardo. Aggrottai le sopracciglia comprendendo quanto ciò mi turbasse. Croy aveva descritto un'insegna verde scuro con dipinta una mano bianca. Le linee della mano erano tracciate in rosso con grande arte. Dalla grondaia bassa del tetto diversi amuleti tintinnavano e giravano alla luce del sole. Per mia fortuna, nessuno sembrava contro i predatori. Mi ci volle solo un attimo per indovinare il loro scopo. Un benvenuto. Mi attirarono alla casa e alla porta. Passò qualche tempo prima che qualcuno rispondesse al mio bussare, poi la metà superiore della porta si aprì e Jinna in persona mi salutò. «Striato!» esclamò scrutandomi, e fui contento che mi riconoscesse malgrado la coda da guerriero e i vestiti nuovi. Aprì subito la parte bassa della porta. «Entra! Benvenuto a Borgo Castelcervo. Mi permetterai di ricompensarti della tua ospitalità? Entra.» Poche cose nella vita rassicurano come un genuino benvenuto. Jinna mi prese la mano e mi condusse nell'oscurità fresca della casa come un ospite atteso. Il soffitto era basso e i mobili modesti. Un tavolo rotondo con molte sedie intorno. Accanto, le mensole contenevano i suoi attrezzi del mestiere, incluso un assortimento di amuleti avvolti in panno. In tavola c'erano piatti e cibo; avevo interrotto il suo pasto. Mi fermai, a disagio. «Non volevo disturbarti.» «Niente affatto. Siediti e mangia.» Sedette alla tavola mentre parlava, e io non potei fare altrimenti. «Forza. Dimmi cosa ti porta a Castelcervo.» Spinse il vassoio verso di me.
Conteneva dolcetti alla marmellata e pesce affumicato e formaggio. Presi un dolcetto per darmi il tempo di pensare. Jinna doveva aver notato il mio abbigliamento di servitore, ma voleva che gliene parlassi io. Mi piacque. «Ho trovato una posizione a Castelcervo come domestico di messer Dorato.» Anche sapendo che era falso, mi fu difficile dirlo. Dovendo fingermi servitore del Matto mi resi conto per la prima volta di quanto fossi orgoglioso. «Quando sono partito da casa ho detto a Ticcio di raggiungermi non appena poteva. Allora non ero sicuro dei miei piani. Penso che quando arriverà a Borgo Castelcervo potrebbe venire a cercarti. Posso lasciarti un messaggio, così lo manderai da me?» Mi preparai alle inevitabili domande. Perché avevo preso all'improvviso questo lavoro, perché non avevo portato semplicemente Ticcio con me, come conoscevo messer Dorato? Invece gli occhi di Jinna si illuminarono. «Con grande piacere!» esclamò. «Ma ho un'idea più semplice. Quando Ticcio arriva, lo terrò qui e ti manderò un messaggio al castello. C'è una stanzetta sul retro; era di mio nipote prima che crescesse e si sposasse. Lascia che il ragazzo passi qualche giorno a Borgo Castelcervo; gli era piaciuto tanto alla Festa di Primavera, e probabilmente i tuoi nuovi doveri non ti lasceranno il tempo di portarlo in giro.» «So che ne sarebbe felice» mi trovai a dire. Mi sarebbe stato molto più facile mantenere il mio ruolo come servitore di messer Dorato senza Ticcio con me. «Spero che qui a Castelcervo potrò guadagnare abbastanza per comprargli un buon apprendistato.» Salgo. Un grosso gatto rossiccio si annunciò così, balzandomi in grembo senza sforzo. Lo fissai sorpreso. Nessun animale mi aveva mai parlato con tanta chiarezza tramite lo Spirito, a parte quelli a cui ero stato legato. E nessun animale mi aveva mai ignorato così completamente dopo avermi parlato. Il gatto si alzò sulle zampe posteriori, mettendo le anteriori sulla tavola, e osservò il cibo. Una coda soffice ondeggiò di fronte al mio viso. «Sesamo! Vergogna, smettila. Vieni qui.» Jinna si sporse attraverso la tavola per togliermi il gatto di dosso. Intanto riprese la conversazione. «Sì, Ticcio mi ha detto delle sue ambizioni, ed è bello vedere un giovane con tanti sogni e speranze.» «È un bravo ragazzo» concordai con fervore. «E merita una buona occasione. Farei qualsiasi cosa per lui.» Sesamo si alzò in grembo a Jinna e mi fissò attraverso la tavola. Le piaccio più di te. Rubò un pezzo di pesce dal bordo del piatto.
Tutti i gatti sono così insolenti con gli estranei? lo rimproverai. Il gatto si appoggiò indietro e strofinò possessivamente il capo contro il petto di Jinna. Gli occhi gialli erano inquietanti. Tutti i gatti parlano quando vogliono. Con chi vogliono. Ma solo un umano maleducato parla quando non è interpellato. Zitto. Te l'ho detto. Le piaccio più di te. Girò la testa per guardare su verso il volto di Jinna. Ancora pesce? «Ma certo» riconobbe Jinna. Tentai di ricordare cosa le avevo detto mentre metteva un altro pezzo di pesce sul bordo della tavola per il gatto. Sapevo che Jinna non aveva lo Spirito. Mi chiesi se il gatto mi mentiva sul fatto che tutti i gatti parlano. Sapevo poco dei gatti. Burrich non li aveva mai tenuti nelle stalle. Per i parassiti avevamo i cani da topi. Jinna fraintese la mia preoccupazione. I suoi occhi si tinsero di comprensione: «Eppure deve essere difficile lasciare una casa e una vita indipendente per venire in città a fare il domestico, anche se messer Dorato è un uomo eccellente. Spero che sia generoso con il tuo salario come quando scende a Borgo Castelcervo per fare acquisti.» Mi costrinsi a sorridere. «Conosci messer Dorato?» Jinna annuì. «Per coincidenza è stato in questa stessa stanza il mese scorso. Voleva un amuleto per tenere lontane le tarme dal guardaroba. Gli dissi che non ne avevo mai fatto uno, ma potevo tentare. È stato così gentile, per essere un nobile. Mi ha pagato subito, sulla parola. E poi ha insistito per guardare ogni amuleto che avevo nella bottega, e ne ha comprati non meno di sei. Sei! Uno per fare dolci sogni, uno per essere di buon umore, un altro per attirare gli uccelli - oh, quello lo ha affascinato, come se fosse un uccellino lui stesso. Ma quando gli ho chiesto di guardargli le mani per sintonizzare gli amuleti, mi ha detto che erano tutti regali. Gli ho risposto che poteva mandarmi i destinatari, per sintonizzarli a loro piacimento, ma non è ancora venuto nessuno. Funzioneranno già abbastanza bene, però mi piace sintonizzare i miei amuleti. È questa la differenza che c'è tra un amuleto costruito come al solito e uno creato da un artista. E io mi considero un'artista, grazie mille!» Pronunciò le ultime parole con una traccia di divertimento nella voce in risposta alle mie sopracciglia sollevate. Ridemmo insieme, e non avevo diritto a sentirmi così bene con lei. «Mi hai tranquillizzato» dichiarai. «So che Ticcio è un bravo ragazzo, e che non ha quasi più bisogno delle mie cure. Eppure tendo sempre a immaginare il peggio per lui.» Non ignorarmi! minacciò Sesamo. Balzò sul tavolo. Jinna lo rimise a terra. Lui le saltò in grembo senza sforzo. La donna lo accarezzò con fare
assente. «Quella è solo una parte di ciò che significa essere un padre» mi assicurò. «O un amico.» Una strana espressione le apparve in viso. «Anche a me capita di preoccuparmi scioccamente. Anche quando non sono affari miei.» Mi diede un'occhiata franca e meditabonda che fece evaporare tutta la mia serenità. «Sarò sincera» mi avvertì. «Prego» la invitai, ma desideravo con ogni fibra che non lo facesse. «Possiedi lo Spirito.» Non era un'accusa. Era come un commento su una malattia invalidante. «Viaggio molto per il mio mestiere, forse più di quanto abbia fatto tu negli ultimi anni. L'umore del popolo è cambiato verso lo Spirito, Tom. Dovunque io sia stata di recente, va molto male. Non l'ho visto di persona, ma ho saputo che in una città di Armento hanno esposto i corpi smembrati degli Spirituali che avevano ucciso, ogni pezzo in una gabbia separata per impedire che tornassero in vita.» Mantenni il viso immobile ma sentii il ghiaccio strisciare lungo la spina dorsale. Il principe Devoto. Rapito o fuggito, ma comunque vulnerabile. Fuori dalle mura protettive di Castelcervo, dove la gente era capace di tali mostruosità, il giovane principe era in pericolo. «Sono una fattucchiera» disse piano Jinna. «So cosa significa nascere con la magia in corpo. Non puoi farci niente, anche se vorresti. E so com'è avere una sorella che non la possiede. A volte lei mi sembrava così libera. Guardava un amuleto fatto da mio padre, e per lei erano solo stecchi e perline. Non le sussurrava, non la provocava. Le ore che ho passato accanto a mio padre, imparando le sue abilità, lei le trascorreva con mia madre in cucina. Mentre crescevamo, l'invidia era reciproca. Ma eravamo una famiglia, e imparammo la tolleranza per la nostra diversità.» Sorrise ai ricordi, poi scosse il capo, e il suo volto si fece più grave. «Fuori, nel vasto mondo è diverso. Forse la gente non minaccia di farmi a pezzi o bruciarmi, ma ho visto odio e gelosia in molti sguardi. Pensano che non è giusto che io abbia qualcosa in più, o temono che in qualche modo lo userò per colpirli. Non si fermano a pensare che loro hanno talenti che io non dominerò mai. Magari mi trattano male, mi urtano per strada, o tentano di cacciarmi dal mio spazio al mercato, ma non mi ucciderebbero. Tu non hai quel conforto. Il più piccolo errore potrebbe significare la tua morte. E se qualcuno ti fa arrabbiare... Ecco, diventi un uomo diverso. Confesso che questo pensiero mi ha turbato dall'ultima volta che ti ho visto. Quindi, vedi... ti ho fatto qualcosa per mettermi l'animo in pace.» Deglutii. «Oh, grazie.» Non riuscii neanche a trovare il coraggio di chie-
dere cos'era. Il sudore mi colava per la schiena malgrado il fresco della stanza in penombra. Jinna non voleva minacciarmi, ma le sue parole mi ricordarono quanto ero vulnerabile. Scoprii che il mio addestramento di assassino andava in profondità. Uccidila, suggeriva quella parte di me. Conosce il tuo segreto e quindi è una minaccia. Uccidila. Incrociai le mani sul tavolo di fronte a me. «Penserai che sono strana» mormorò Jinna mentre si alzava e andava a una credenza. «Interferire così nella tua vita quando ci siamo incontrati solo un paio di volte.» Avvertivo il suo imbarazzo, ma era decisa a darmi il dono che aveva preparato per me. «Penso che tu sia gentile» dissi impacciato. Alzandosi aveva costretto Sesamo a scendere. Il gatto sedette sul pavimento, avvolse la coda intorno alle zampe e mi guardò male. Niente più grembo! Tutta colpa tua. Jinna aveva preso una scatola dalla credenza. Tornò al tavolo e l'aprì. Dentro c'era una struttura di perline e verghe su lacci di cuoio. Lei l'alzò e la scosse, e divenne una collana. La fissai, ma non sentii nulla. «Cosa fa?» Jinna ridacchiò. «Ben poco, temo. Non posso nascondere lo Spirito in te, né renderti invulnerabile agli attacchi. Non posso neppure darti qualcosa per frenare la collera. Ho tentato di creare un amuleto che ti avverta dei sentimenti negativi verso di te, ma era diventato così grande e ingombrante che era più una cintura di guerra che un amuleto. Mi perdonerai se ti dico che al primo sguardo mi sei sembrato un individuo piuttosto scontroso. Mi ci è voluto qualche tempo per apprezzarti, e se Ticcio non avesse parlato così bene di te, non ti avrei concesso un momento del mio tempo. Ti avrei ritenuto un uomo pericoloso. Così ti hanno giudicato molti quel giorno al mercato. E per dirla tutta, ti sei rivelato davvero pericoloso. Ma non cattivo, se perdoni il mio giudizio. Eppure la tua espressione mostra per abitudine quel tuo aspetto più severo. E ora, con una spada al fianco e i capelli legati come un guerriero, ecco, non hai un aspetto amichevole. Ed è più facile odiare qualcuno che si teme. Ecco. Questa è una variante di un antichissimo amuleto d'amore. Non l'ho fatto per procurarti innamorate, ma per rendere le persone ben disposte verso di te, se funziona come spero. Quando si tenta di creare una variante su un tema classico, spesso si perde in efficacia. Ora non muoverti.» Si portò dietro la mia sedia facendo dondolare la collana. La guardai mentre me la infilava, e senza che me lo dicesse chinai la testa perché potesse assicurarla dietro la nuca. L'amuleto non mi fece sentire diverso, ma
le dita fresche di Jinna sulla pelle mi causarono un brivido formicolante. La sua voce venne da dietro di me. «Sono stata brava, è della misura giusta. Non troppo lungo da penzolare, né così stretto da strozzarti. Ora fammi vedere come ti sta. Voltati.» Feci come mi diceva, girandomi sulla sedia. Jinna guardò la collana, poi il mio viso, e mi sorrise. «Oh, sì, andrà bene. Anche se sei più alto di quanto ricordassi. Avrei dovuto usare perline più strette... Ebbene, funzionerà. Pensavo di doverlo adattare, ma temo che se lo manometto annullerei le modifiche. Ora, portalo con il colletto tirato su, così, in modo che se ne veda solo una parte. Ecco. Se senti che potrebbe tornarti utile, trova una scusa per allentare il colletto. Lascia che si veda, e la gente ti troverà più persuasivo. Così. Anche i tuoi silenzi sembreranno affascinanti.» Mi guardava dall'alto mentre mi apriva il colletto attorno all'amuleto. La fissai e sentii il rossore accaldarmi d'un tratto il viso. I nostri occhi si incontrarono. «Funziona proprio bene» osservò Jinna, e senza vergogna abbassò il viso per offrirmi la bocca. Non baciarla era impensabile. Premette la bocca sulla mia. Le sue labbra erano calde. Ci separammo colpevolmente quando udimmo aprire la porta. La porta si spalancò grattando sul pavimento, e la sagoma di una donna si profilò contro la luminosità del giorno. Poi entrò, chiudendosi la porta alle spalle. «Fiuu. Qui è più fresco, grazie a Eda. Oh, chiedo scusa. Ho interrotto una lettura?» Aveva lo stesso spruzzo di lentiggini sul naso e sulle braccia. Chiaramente era la nipote di Jinna. Aveva una ventina d'anni, e portava un paniere di pesce fresco al braccio. Sesamo corse a salutarla, avvolgendosi intorno alle sue caviglie. Tu mi vuoi più bene. Lo sai. Prendimi in braccio. «Non era una lettura. Stavamo provando un amuleto. Sembra che funzioni.» La voce di Jinna mi invitò a condividere il suo divertimento. La nipote gettò uno sguardo da Jinna a me, sapendo che era stata esclusa dallo scherzo, ma la prese con spirito. Raccolse Sesamo, e il gatto strofinò il muso contro di lei, marcando il possesso. «E io dovrei andare. Temo di avere molte altre commissioni prima di tornare alla rocca.» Non ero sicuro di volermi congedare. Ma malgrado il mio interesse avevo troppo da fare a Castelcervo. Soprattutto sentivo il bisogno di qualche momento da solo per decidere cosa era appena accaduto, e cosa significava per me.
«Dovete andare subito?» mi chiese la nipote di Jinna. Sembrava sinceramente delusa vedendo che mi alzavo dalla sedia. «C'è pesce in abbondanza, se desiderate restare e mangiare con noi.» L'invito estemporaneo mi colse di sorpresa, come l'interesse nei suoi occhi. Il mio pesce. Lo mangerò presto. Sesamo si piegò per guardare con affetto il cibo nel paniere. «L'amuleto sembra davvero funzionare a meraviglia» osservò Jinna sottovoce. Mi trovai a cercare di chiudere il colletto. «Devo proprio andare, temo. Ho molto da fare, e mi aspettano alla rocca. Ma vi ringrazio per l'invito.» «Forse un'altra volta, allora» propose la nipote, e Jinna aggiunse: «Certamente, mia cara. Prima che se ne vada, ti presento Tom lo Striato. Mi ha chiesto di tener d'occhio suo figlio, un mio giovane amico di nome Ticcio. Quando arriva, potrebbe rimanere con noi per un paio di giorni. E Tom verrà certamente a cena qui. Tom lo Striato, mia nipote Miskya.» «Miskya, piacere.» Indugiai abbastanza per scambiare un garbato addio, poi corsi fuori nella luce del sole e nel trambusto della città. Mentre mi affrettavo verso Castelcervo, osservai le reazioni di quelli che incontravo. Sembrava che mi sorridessero più del solito, ma compresi che forse era solo dovuto al fatto che gli sguardi si incrociavano. Di solito distoglievo lo sguardo dagli estranei per strada. Un uomo che passa inosservato è un uomo che non viene ricordato, e quello è il meglio che un assassino può sperare. Poi mi ricordai che non ero più un assassino. Nondimeno decisi che avrei rimosso la collana appena tornato a casa. Tutti quegli estranei che mi guardavano benevoli senza ragione mi inquietavano più di qualsiasi diffidenza istintiva. Salii la via ripida fino alla porta della rocca e le guardie mi fecero entrare. Il sole era alto, il cielo azzurro e limpido, e se qualcuno era consapevole che l'unico erede alla corona dei Lungavista era svanito, non lo dava a vedere. Svolgevano i loro compiti quotidiani, badando alle preoccupazioni di una giornata lavorativa. Vicino alle stalle diversi ragazzi alti si erano radunati attorno a un giovane grassoccio. Dal volto piatto e le orecchie piccole e la lingua che spuntava dalla bocca compresi che era un poco ottuso. Una lenta paura cresceva nei suoi occhietti mentre i ragazzi lo circondavano. Uno degli stallieri più anziani li guardò irritato. No, no, no. Mi girai, cercando la fonte di quel pensiero galleggiante, ma senza risul-
tato. Un lontano brano di musica mi distrasse. Un giovane stalliere passò di corsa e mi urtò, poi alla mia occhiata sorpresa si sperticò in scuse. Senza pensare, avevo cercato l'elsa della spada. «Niente di grave» lo assicurai, e aggiunsi: «Dove posso trovare il mastro d'armi?» Il ragazzo si fermò all'improvviso, mi guardò più da vicino e sorrise. «Giù alle corti di addestramento, amico. Proprio dietro al granaio nuovo.» Fece segno con il dito. Lo ringraziai, e mentre mi giravo mi chiusi il colletto. 13 Baratti I gatti da caccia non sono del tutto ignoti nel Ducato del Cervo, ma sono rimasti per anni qualcosa di insolito. Il territorio del Cervo è più adatto alla caccia con i levrieri, bestie più adatte alle grosse prede preferite dai cacciatori a cavallo. Una bella muta di cani da caccia che corre latrando è un accompagnamento perfetto per una caccia reale. Il gatto, quando viene usato, è considerato un elegante compagno di caccia per una dama, adatto a prendere conigli o uccelli. La prima regina di re Sagace, Costanza, aveva una piccola gatta da caccia, ma più per piacere e compagnia che cacciare davvero. Il suo nome era Sputàcchiola. Sulinoa, Storia delle bestie da caccia «La regina desidera vederti.» «Quando?» chiesi, sorpreso. Non era il saluto che mi aspettavo da Umbra. Aprendo il pannello di accesso alla torre lo avevo trovato seduto davanti al focolare, ad aspettarmi. Si alzò subito. «Adesso, è ovvio. Vuole conoscere i nostri progressi, e naturalmente è ansiosa di parlarti al più presto.» «Ma io non ho fatto alcun progresso» protestai. Non avevo neppure avuto il tempo di riferire a Umbra il lavoro della giornata. Probabilmente puzzavo di sudore dopo la corte delle armi. «Allora vorrà sapere proprio questo» rispose Umbra deciso. «Vieni. Seguimi.» Attivò la porta e lasciammo la torre. Era sera. Avevo trascorso il pomeriggio come il Matto mi aveva consi-
gliato, interpretando il ruolo di un servitore che si ambienta in un posto nuovo. Avevo parlato con diversi altri domestici, mi ero presentato al mastro d'armi Crescione, ed ero riuscito a fare in modo che mi suggerisse di allenarmi con Delleree. La donna si rivelò una spadaccina formidabile, alta quasi come me, energica e agile. Ero contento che non riuscisse a superare la mia guardia, ma presto ero senza fiato per lo sforzo. Tentare di penetrare le sue difese era ancora fuori questione per me. L'addestramento ricevuto da Poiana tempo prima mi permise di farmi valere, ma il mio corpo non reagiva in fretta come la mia mente. Sapere come reagire sotto attacco non è come essere capace di farlo. Due volte dovetti chiedere una pausa per respirare, e Delleree me la concesse con la soddisfazione di chi è insopportabilmente giovane. Eppure le mie domande intenzionali sul principe servirono a poco, finché alla terza pausa allentai il colletto e aprii la tunica all'aria fresca. Quasi mi sentii colpevole, ma non nego che volevo provare se l'amuleto poteva renderla più loquace. Funzionò. Presi fiato appoggiandomi al muro nell'ombra della rimessa delle armi, e poi la guardai in viso. Quando i nostri sguardi si incontrarono, la giovane spalancò gli occhi castani, come se la mia vista fosse uno spettacolo piacevolmente desiderato. Infilai la mia domanda oltre la sua guardia, una spada dritta al bersaglio. «Dimmi, spingi così tanto anche il principe Devoto quando si addestra con te?» Delleree sorrise. «No, temo di no, perché di solito sono più occupata a mantenere le mie difese contro di lui. È un ottimo spadaccino, creativo e imprevedibile nelle tattiche. Appena invento un nuovo trucco, lo impara e me lo rivolta contro.» «Allora gli piace tirare di spada, come fanno di solito i buoni combattenti.» Una pausa. «No. Non penso che sia quello. È un giovane senza mezze misure, qualsiasi cosa faccia. Si sforza di essere sempre perfetto.» «Competitivo, dunque?» chiesi senza farla sembrare una domanda. Mi lisciai di nuovo i capelli spettinati in un codino. Delleree rifletté di nuovo. «No. Non nel senso comune. Alcuni con cui mi addestro pensano solo a battere l'avversario. Quell'assillo può essere usato contro di loro. Ma il principe non si cura della vittoria, solo di combattere alla perfezione. Non compete contro le mie abilità...» La sua voce si spense mentre pensava. «Sfida sé stesso, un avversario ideale.»
La mia esortazione parve sorprenderla per un istante. Poi, sorridendo: «È proprio così. Dunque lo hai incontrato?» «Non ancora. Ma ho sentito parlare molto di lui, e non vedo l'ora.» «Oh, non sarà molto presto» mi informò lei innocentemente. «In certe cose ha i modi delle Montagne di sua madre. Spesso sta lontano dalla corte per qualche tempo, a pensare. Si isola in una torre. Alcuni dicono che digiuna, ma quando torna alla vita normale non sembra patito.» «E allora cosa fa?» chiesi, sinceramente stupito. «Non ne ho idea.» «Non glielo hai mai chiesto?» Delleree mi diede un'occhiata strana, e quando parlò la sua voce era più fredda. «Sono solo la sua addestratrice, non la sua confidente. Sono una guardia e lui è un principe. Non mi permetterei mai di interrogare il mio principe sul tempo che passa da solo. Tutti sanno che è una persona riservata, con un gran bisogno di isolarsi.» Collana o no, seppi di aver esagerato. Tentai un sorriso disarmante e mi raddrizzai con un gemito. «Ebbene, come addestratrice non sei inferiore a nessuno che io abbia conosciuto. Il principe è fortunato a poter affinare le sue abilità contro di te. E lo sono anch'io.» «Ti ringrazio. E spero che potremo misurarci di nuovo.» Non insistetti oltre. Ottenni lo stesso risultato dagli altri servitori. Le mie domande, dirette o indirette, producevano poche informazioni. Non che i servitori rifiutassero di spettegolare; erano dispostissimi a chiacchierare su messer Dorato o dama Eleganza, ma del principe non sembravano sapere nulla. Mi formai un ritratto di Devoto come un ragazzo non antipatico, ma solitario per natura oltre che per la sua posizione. Non mi sentii incoraggiato. Se era scappato, poteva non aver rivelato i suoi piani a nessuno. Le sue abitudini discrete lo avrebbero anche lasciato solo e facile preda per un rapitore. Tornai con la mente alla nota ricevuta dalla regina. Diceva che il principe possedeva lo Spirito e richiedeva che lei agisse di conseguenza. Cosa significava 'di conseguenza'? Rivelare il suo Spirito e proclamare che gli Spirituali dovevano essere accettati? O purificare la stirpe dei Lungavista con la sua eliminazione? L'autore aveva contattato anche il principe? Il vecchio banco da lavoro di Umbra mi fornì i grimaldelli che mi servivano per la mia avventura dell'ora di cena. Il principe occupava i sontuosi appartamenti che erano stati di Regal. Quella serratura e io eravamo vecchi amici, e pensavo di poter entrare facilmente. Mentre il resto del castello
era a tavola, mi avvicinai alle stanze del principe. Qui vidi di nuovo l'influenza di sua madre, perché non solo non c'erano guardie alla porta, ma la porta non era chiusa a chiave. Scivolai in silenzio all'interno, chiudendola piano dietro di me. Poi mi guardai attorno, perplesso. Mi aspettavo lo stesso marasma di cianfrusaglie che Ticcio tendeva a lasciare sulla sua scia. Invece le poche proprietà del principe erano conservate con tale ordine che la grande stanza sembrava quasi vuota. Forse aveva un valletto fanatico, riflettei. Poi, ricordando l'educazione di Kettricken, pensai che forse non aveva nessun valletto. I domestici personali non erano un'usanza delle Montagne. Mi ci volle poco per esplorare le sue stanze. Trovai un modesto assortimento di abiti nei bauli. Impossibile dire se ne mancava qualcuno. Gli stivali da cavallo c'erano, ma Umbra mi aveva già detto che il cavallo del principe era ancora nella stalla. Spazzola, pettine, catino e specchio erano perfettamente allineati. Nello studio l'inchiostro era tappato ermeticamente e il tavolo non era mai stato macchiato. Nessuna pergamena in giro. La sua spada era appesa al muro, ma c'erano pioli vuoti dove forse mancavano altre armi. Niente carte personali, niente nastri o ciocche di capelli in un angolo del baule dei vestiti, neppure un bicchiere da vino appiccicoso o una tunica lanciata distrattamente sotto il letto. In breve, non mi parve affatto la camera di un ragazzo. Su un grande cuscino in un solido cesto vicino al focolare trovai ciuffi di pelo corto e fine. Il cesto recava i segni di artigli annoiati. Non ebbi bisogno del naso del lupo per sentire odore di gatto. Alzai il cuscino e trovai qualche giocattolo: una pelle di coniglio legata a uno spago robusto, un pupazzo di tela riempito di erba gatta. Sollevai le sopracciglia, chiedendomi se i gatti da caccia ne andavano pazzi come quelli da topi. La stanza mi fornì poco altro: nessun diario nascosto di pensieri principeschi, nessun messaggio finale di un fuggiasco sfrontato a sua madre, nulla che suggerisse che il principe era stato portato via contro la sua volontà. Mi ritirai quietamente dalle sue stanze, lasciando tutto come l'avevo trovato. I miei passi mi portarono a superare la porta della mia vecchia stanza di quando ero ragazzo. Feci una pausa, tentato. Chi ci dormiva, ora? Il corridoio era vuoto e cedetti all'impulso. La serratura era quella che avevo inventato io, e ci vollero tutte le mie abilità arrugginite per scassinarla. Era così rigida, sembrava che non la aprissero da anni. Richiusi la porta dietro di me e rimasi immobile, annusando la polvere.
L'alta finestra era chiusa, ma le imposte come sempre non combaciavano. La fioca luce del giorno riusciva a entrare, e dopo qualche momento i miei occhi si adattarono. Mi guardai attorno. Ecco il mio letto, con le tende familiari ricamate di ragnatele. Il baule di cedro ai piedi del letto era coperto da uno strato di polvere. Il camino era vuoto, nero e freddo. E sopra, l'arazzo sbiadito di re Savio davanti agli Antichi. Lo fissai. A nove anni mi aveva fatto venire gli incubi. Il tempo non aveva cambiato la mia opinione di quelle forme stranamente allungate. Gli Antichi dorati fissavano la stanza vuota e senza vita. All'improvviso era come aver disturbato una tomba. In silenzio come ero entrato me ne andai, richiudendo a chiave la porta. Pensavo di trovare messer Dorato nelle sue stanze, ma non c'era. «Messer Dorato?» Avanzai per bussare leggermente alla porta della sua camera privata. Giuro che non toccai la maniglia, ma la porta si spalancò al mio tocco. La stanzetta traboccava di luce. Il sole calante riempiva d'oro l'unica finestra. Era una camera piacevole, aperta, che sapeva di trucioli e vernice. Nell'angolo una pianta in una vasca saliva su un graticcio. Appesi alle pareti riconobbi amuleti come quelli di Jinna. Sul tavolo da lavoro in mezzo alla stanza, fra attrezzi sparsi e vasetti di vernice, c'erano pezzi di bastoncini, spago e perline, come se il Matto avesse smontato un amuleto. Mi accorsi di aver mosso un passo all'interno. Su una pergamena aperta sul tavolo erano disegnati vari amuleti, diversi da qualsiasi cosa avessi visto nel negozio di Jinna. Anche a un solo sguardo gli schizzi erano stranamente inquietanti. Me li ricordo, pensai, e poi, quando mi avvicinai, fui assolutamente sicuro di non aver mai visto niente del genere. Un brivido mi percorse la schiena. Ogni perlina aveva un volto; i bastoncini erano intagliati con spirali roteanti. Più li fissavo, più mi turbavano. Mi pareva quasi di non riuscire a respirare, come se mi stessero attirando all'interno. «Vieni via» disse piano il Matto dietro di me. Non riuscii a rispondere. La sua mano sulla spalla ruppe l'incantesimo. Mi girai. «Mi dispiace» dissi subito. «La porta era aperta e io...» «Non ti aspettavo così presto, o sarebbe stata chiusa a chiave.» Senza dire altro mi trasse fuori dalla stanza e chiuse fermamente la porta dietro di noi. Mi sentii come se mi avesse allontanato da un precipizio. Trassi un respiro tremante. «Cos'erano quelli?» «Un esperimento. Quando mi hai detto degli amuleti di Jinna mi sono
incuriosito, così, arrivato a Borgo Castelcervo, ho voluto vederli con i miei occhi. Poi ho voluto sapere come funzionano, se l'amuleto può essere creato solo da una fattucchiera, o se la magia sta nel modo in cui sono assemblati. E ho voluto capire se potevo migliorarli.» La sua voce era neutra. «Come riesci a sopportare di averli attorno?» Avevo ancora i capelli dritti sulla nuca. «Sono sintonizzati sugli umani. Dimentichi che io sono un Bianco.» L'affermazione mi lasciò ammutolito, come quei piccoli disegni insidiosi. Guardai il Matto e per un attimo fu come vederlo per la prima volta. Per quanto il colorito fosse attraente, non avevo mai visto nessuno come lui. C'erano altre differenze, il modo in cui le mani erano attaccate ai polsi, i capelli finissimi... ma quando i nostri occhi si incontrarono, stavo guardando di nuovo il mio vecchio amico. Era come piombare a terra dopo una caduta. Ricordai all'improvviso ciò che avevo fatto. «Mi dispiace. Non intendevo... so che hai bisogno della tua riservatezza.» Provai vergogna, e il sangue caldo mi corse al viso. Il Matto rimase silenzioso per un momento. Poi disse onestamente: «Quando sono venuto a casa tua, non mi hai nascosto nulla.» Sentii che l'affermazione rifletteva la sua idea di ciò che era giusto, piuttosto che le sue emozioni in proposito. «Non ci tornerò mai più» promisi con fervore. Quello suscitò un sorriso sottile. «Dubito che lo faresti.» All'improvviso volevo cambiare argomento, ma l'unico pensiero che mi venne in mente fu: «Oggi ho visto Jinna. Ha fatto questo per me.» Aprii il colletto della tunica. Il Matto fissò prima l'amuleto e poi il mio viso. Parve ammutolito. Poi si aprì in un largo sorriso fatuo. «Dovrebbe rendere la gente ben disposta verso di me» spiegai. «Per bilanciare il mio aspetto torvo, penso, anche se lei non è stata così scortese da dirmelo in faccia.» Il Matto trasse un respiro. «Coprilo» implorò ridendo, e mentre mi richiudevo il colletto mi diede le spalle. Andò quasi di corsa alla finestra e guardò fuori. «Non sono sintonizzati su quelli come me, ma ciò non vuol dire che io sia del tutto immune. Spesso mi fai ricordare che in vari modi sono ancora molto umano.» Slegai l'amuleto e glielo tesi. «Prendilo e studialo, se vuoi. Non sono del tutto sicuro che mi piaccia portarlo. Preferisco sapere onestamente cosa pensano di me.»
«In qualche modo ne dubito» mormorò il Matto, ma tornò indietro per prendere l'amuleto dalla mia mano. Lo tenne sollevato fra noi, lo studiò e poi mi gettò un'occhiata. «Sintonizzato su di te?» indovinò. Annuii. «Affascinante. Mi piacerebbe tenerlo per qualche giorno. Prometto di non smontarlo. Ma dopo, penso che dovresti portarlo. Sempre.» «Ci penserò» promisi, ma non provai alcun desiderio di metterlo di nuovo. «Umbra voleva vederti non appena fossi rientrato» disse il Matto all'improvviso, come se l'avesse ricordato solo allora. E là avevamo chiuso la questione, e sentii che, se non scusato, almeno ero perdonato per essere entrato dove non dovevo. Ora, mentre seguivo Umbra attraverso il corridoio stretto, gli chiesi: «Come fu costruito tutto questo? Come si può tenere segreto un labirinto che serpeggia per tutto il castello?» Umbra camminava di fronte a me con una candela. Parlò voltandosi un poco, in un sussurro. «Cominciarono a costruirlo già nelle ossa della rocca. I nostri antenati non erano gente fiduciosa. In parte era inteso come un sistema di nascondigli. Qualcuno è stato sempre usato per spiare. In parte sono scale per i domestici, incorporate nei passaggi segreti durante una fase di intensa ricostruzione dopo un incendio. E varie sezioni sono state create di proposito durante la tua vita. Ricordi che quando eri piccolo Sagace ordinò di ricostruire il focolare nella sala delle guardie?» «Vagamente. Allora non ci badai molto.» «Nessuno ci fece caso. Forse notasti che a due pareti fu aggiunto un rivestimento di legno.» «Il muro delle credenze? Pensavo che la cuoca volesse una dispensa più grande, per tener fuori i topi. Rendeva la stanza più piccola, ma più calda.» «E sopra alle credenze c'è un corridoio, e molti spioncini. A Sagace piaceva sapere cosa pensavano di lui le sue guardie, i loro timori, le loro speranze.» «Ma gli uomini che lo costruirono lo avrebbero saputo.» «Furono ingaggiati artigiani diversi per parti diverse. Io stesso aggiunsi gli spioncini. Se qualcuno trovò strano che i soffitti delle credenze fossero così robusti, non disse niente. Eccoci. Silenzio.» Alzò una piccola falda di cuoio sulla parete e guardò da un foro. Dopo un momento bisbigliò: «Vieni.»
La porta silenziosa ci introdusse in una camera privata. Là ci fermammo di nuovo. Umbra guardò attraverso un altro spioncino, poi bussò leggermente alla porta. «Entrate» rispose piano Kettricken. Seguii Umbra in un salottino accanto alla camera da letto della regina. La porta che conduceva alla camera era chiusa con una sbarra. La stanza senza finestre, illuminata da grosse candele profumate, era decorata sobriamente secondo il gusto delle Montagne. Il tavolo e le sedie erano di legno chiaro e privi di intagli. La stuoia sul pavimento e gli arazzi alle pareti erano intessuti di erba lavorata in una scena di cascate sul fianco di una montagna. Riconobbi l'opera di Kettricken. A parte questo, la camera era spoglia. Notai tutto ciò con la coda dell'occhio, perché la mia regina era in piedi al centro della stanza. Ci stava aspettando. Indossava una semplice veste color blu Cervo, con una sovratunica bianca e oro. I capelli dorati erano acconciati stretti contro il capo, e ornati solo di un semplice nastro di argento. Era a mani vuote. Un'altra donna avrebbe portato il ricamo o avrebbe disposto un piatto di cibo, ma non la nostra regina. Ci aspettava, ma non avvertii impazienza o ansia in lei. Sospettavo che avesse meditato, perché un'aura di calma la circondava ancora. I nostri occhi si incontrarono, e le rughe sottili agli angoli della bocca e degli occhi parvero un inganno, perché nello sguardo che ci scambiammo il tempo non era passato affatto. Il coraggio che avevo sempre ammirato splendeva in lei, e la sua disciplina era un'armatura. Eppure alla mia vista esclamò piano: «Oh, Fitz!» e nella sua voce c'era calda accoglienza e sollievo. Mi inchinai fino a terra, poi mi piegai su un ginocchio. «Mia regina!» Kettricken avanzò e mi toccò il capo, una benedizione. «Per favore, alzati» disse. «Sei stato al mio fianco attraverso troppe prove per volerti vedere in ginocchio di fronte a me. E ricordo che un tempo mi chiamavi Kettricken.» «È stato molti anni fa, mia signora» le ricordai mentre mi alzavo. Mi prese le mani fra le sue. Eravamo quasi alti uguali, e i suoi occhi blu guardarono in profondità nei miei. «Troppi anni, e ti rimprovero per questo, FitzChevalier. Ma tempo fa Umbra mi avvertì che avresti potuto scegliere solitudine e riposo. Quando lo facesti non ti biasimai. Avevi sacrificato tutto al tuo dovere, e dato che la solitudine era l'unica ricompensa che desideravi, fui felice di concedertela. Eppure confesso che sono ancor più felice di vederti tornare, soprattutto in questo momento di crisi.» «E io sono felice di essere qui se c'è bisogno di me» risposi, quasi senza
riserve. «Mi dispiace che tu cammini fra la gente di Castelcervo, e nessuno sappia quali sacrifici hai compiuto per loro. Meritavi un'accoglienza da eroe. Invece vivi in incognito fra loro nella sembianza di un servitore.» I suoi seri occhi blu cercarono nei miei. Mi sorpresi a sorridere. «Forse ho trascorso troppo tempo nelle Montagne, dove si sa che il vero re è il servo di tutti.» Per un momento i suoi occhi si allargarono. Poi un sorriso genuino si aprì sul suo viso come il sole attraverso nubi temporalesche, malgrado le lacrime improvvise nei suoi occhi. «Oh, Fitz, queste parole sono balsamo per il mio cuore. Davvero sei stato Sacrificio per la tua gente, e ti ammiro per questo. Tu sai che è stato tuo dovere, e ne hai tratto soddisfazione, e ciò mi dà gioia.» Non mi sembrava di aver detto proprio così, ma non nego che la sua lode alleviò parte del male antico in me. Evitai di guardare quel male troppo da vicino. «Devoto» dissi all'improvviso. «Sono qui per lui. Sono felice di questo incontro, ma lo sarei anche di più se scoprissi cosa è stato di lui.» La mia regina mi strinse forte una mano mentre mi traeva verso il tavolo. «Oh, sei sempre stato mio amico, anche prima che io arrivassi come straniera a questa corte. E anche ora il tuo cuore segue il mio.» Trasse un respiro profondo, e le sue paure e preoccupazioni di madre infransero il controllo della sua voce di regina. «Non importa quanto io dissimuli di fronte alla corte - e mi addolora ingannare così il mio popolo mio figlio non è mai lontano dai miei pensieri. FitzChevalier, mi assumo la colpa di ciò che è successo, ma non so se la mia colpa sia stata troppa disciplina o troppo poca, o se ho chiesto troppo al principe e non abbastanza al ragazzo, o...» «Mia regina, non possiamo accostarci al problema da questa direzione. Dobbiamo cominciare da dove siamo: cercare le colpe non serve. Dirò francamente che nella mia breve permanenza a Castelcervo non ho scoperto alcunché. Quelli che ho interrogato parlano bene del principe. Nessuno mi ha fatto capire che fosse infelice o scontento in alcun modo.» «Allora pensi che sia stato catturato?» L'abitudine di interrompere era così lontana dal modo di fare di Kettricken che finalmente capii quanto fosse profonda la sua angoscia. Spostai una sedia per lei, e mentre sedeva la guardai in viso e dissi con tutta la mia calma: «Non penso ancora nulla. Non ho abbastanza fatti per formarmi
un'opinione.» A un cenno impaziente della regina, Umbra e io sedemmo al tavolo. «E la tua Arte?» chiese Kettricken. «Non ti dice nulla di lui? Umbra sospetta che tu e il ragazzo siate collegati in qualche modo nei vostri sogni. Non capisco come possa accadere, ma se è così, certamente devi sapere qualcosa. Cosa ha sognato in queste ultime notti? «Non vi piacerà la mia risposta, mia regina, come non vi piacque tanti anni fa, mentre cercavamo Veritas. Il mio talento è come allora: erratico e inattendibile. Da ciò che Umbra mi ha detto, è possibile che io abbia diviso ogni tanto un sogno con il principe Devoto. Ma se è così, non ne ero consapevole. E non posso irrompere nei suoi sogni a mio piacimento. Se ha sognato in queste ultime notti, ha sognato da solo.» «O forse non ha sognato affatto» disse Kettricken, luttuosa. «Forse è già morto, o così tormentato che non può dormire.» «Mia regina, immaginate il peggio, e quando lo fate la vostra mente si ferma al problema e non considera la soluzione.» La voce di Umbra era quasi severa. Sapendo quanto era turbato dall'assenza del ragazzo, la sua rigidità mi sorprese, finché non vidi la reazione della regina. Kettricken prese forza dalla sua fermezza. «Certo. Avete ragione.» Trasse un respiro. «Ma quale può essere la soluzione? Noi non abbiamo scoperto niente, e neppure FitzChevalier. Mi avete consigliato di tenere segreta la sua scomparsa, per non spaventare il popolo e precipitare decisioni avventate. Ma non ci sono state richieste di riscatto. Forse dovremmo rivelare che il principe è scomparso. Qualcuno, in qualche luogo, deve sapere qualcosa. Dovremmo annunciarlo e chiedere aiuto.» «Non ancora» mi sentii dire. «È vero: qualcuno, in qualche luogo, deve sapere qualcosa. E se sanno che il principe è assente da Castelcervo, e non si sono fatti avanti, devono avere una ragione. E mi piacerebbe sapere quale.» «Allora cosa suggerisci?» mi chiese Kettricken. «Cosa ci rimane?» Sapevo di irritarla, eppure dissi: «Mi serve ancora un poco di tempo. Un giorno, al massimo due, per fare altre domande e annusare l'aria.» «Ma intanto potrebbe succedergli qualsiasi cosa!» «Potrebbe essere già successa» indicai con calma. Dissi piano le parole crudeli. «Kettricken, se lo hanno preso per ucciderlo, ormai è morto. Se lo hanno catturato per usarlo, attendono la nostra mossa. Se è fuggito, può ancora tornare a casa. Mantenendo segreta la sua assenza, la prossima
mossa appartiene a noi. Se parliamo, altri faranno la mossa al posto nostro. I nobili metteranno a ferro e fuoco le campagne per cercarlo, e non tutti avranno a cuore i suoi migliori interessi. Alcuni vorranno 'salvarlo' per ottenere il tuo favore, e altri possono pensare di strappare un premio dalle mascelle di un'altra donnola.» Kettricken chiuse gli occhi ma annuì con riluttanza. Quando parlò la sua voce era tesa. «Ma tu sai che abbiamo poco tempo. Umbra ti ha detto che una delegazione di Isolani viene a formalizzare il fidanzamento del principe Devoto? Quando arriveranno, fra due settimane, devo presentarglielo, o rischio di imbarazzarli e di insultarli. Rischio la fine di una tregua preparata con cura che speravo di trasformare in alleanza.» «Il cui prezzo è tuo figlio.» Le parole vennero fuori dalla mia bocca prima che sapessi di averle pensate. La regina aprì gli occhi e mi guardò in faccia. «Sì. Come l'alleanza delle Montagne con i Sei Ducati fu comprata con me.» Inclinò il viso. «Lo consideri un cattivo affare?» Meritavo il rimprovero. Chinai il capo. «No, mia regina. Lo considero il migliore affare che i Sei Ducati abbiano mai fatto.» Kettricken annuì al mio complimento e un debole rossore le colorò le guance. «Ascolterò il tuo consiglio, Fitz. Cerchiamo Devoto ancora per due giorni, prima di rivelare la sua assenza al popolo. In questi due giorni useremo ogni mezzo a nostra disposizione per scoprire che gli è successo. Umbra ti ha mostrato il labirinto nascosto nei muri di Castelcervo. Dobbiamo spiare la nostra gente. Mi piace poco ciò che questo espediente dice di noi, ma te ne do il permesso, FitzChevalier. So che non ne abuserai. Usalo come ti sembra saggio.» «Grazie, mia regina» risposi impacciato. L'accesso ai piccoli difetti meschini di signori e dame non era un dono gradito. Non guardai Umbra. Cosa gli era costato essere al corrente non solo degli immensi segreti del trono, ma di tutti gli sporchi peccatucci vergognosi della gente della rocca? Quali vizi aveva scoperto senza volere, quali dolorose carenze aveva intravisto, e come riusciva ogni giorno a guardare negli occhi quelle stesse persone nelle grandi sale illuminate della rocca? «...È tutto ciò che devi fare.» La mia mente stava vagando, ma lei mi guardava, in attesa. Le diedi l'unica possibile risposta. «Sì, mia regina.» Kettricken emise un gran sospiro come se avesse temuto il mio rifiuto. O come se odiasse ciò che stava per dire. «Allora fallo, FitzChevalier, amico
fedele. Non ti userei in questo modo se potessi evitarlo. Proteggi la tua salute. Attento alle medicine e alle erbe, perché il tuo antico maestro è meticoloso, ma non bisogna fidarsi ciecamente di alcuna traduzione.» Trasse un respiro, poi aggiunse in tono diverso: «Se Umbra o io ti spingiamo troppo, diccelo. La tua mente deve stare in guardia contro il mio cuore di madre. Non... non lasciare che io rechi vergogna a me stessa, chiedendoti più di quanto tu possa...» La sua voce si spense. Probabilmente confidava che io capissi cosa intendeva. Trasse un altro respiro. Girò la testa e distolse lo sguardo da me, come se quello potesse nascondermi le lacrime nei suoi occhi. «Comincerai stasera?» chiese con voce innaturalmente acuta. Sapevo cosa avevo appena accettato. Compresi che ero sull'orlo dell'abisso. Mi lanciai nel vuoto. «Sì, mia regina.» Come descrivere il lungo ritorno alla torre? Seguii la luce incerta della lanterna di Umbra che mi guidava attraverso i luoghi segreti della rocca. In me lottavano paura e desiderio. Mi sembrava di aver lasciato il mio stomaco di sotto, eppure desideravo che Umbra si affrettasse. Mi stavo avvicinando con entusiasmo a quella debolezza che mi era stata negata tanto a lungo. Le mie speranze avrebbero dovuto essere concentrate sul ritrovamento del principe, ma la prospettiva di affogare nell'Arte dominava tutti i miei pensieri. Mi terrorizzava e mi attirava. La mia pelle sembrava tesa e viva, e i miei sensi premevano contro i confini della carne. Una musica pareva muoversi nell'aria ai confini del mio udito. Umbra attivò l'apertura della porta, poi mi fece cenno di precederlo. Mentre lo superavo, osservò: «Sembri nervoso come uno sposino, ragazzo.» Mi schiarii la gola. «Sembra strano gettarsi a testa bassa in ciò che ho tentato di imparare a evitare.» Mentre il vecchio chiudeva la porta dietro di noi gettai uno sguardo nella stanza. Un piccolo fuoco ardeva nel camino. Anche in piena estate gli spessi muri di pietra della fortezza sembravano soffiare il freddo nella stanza. La spada di Veritas era appoggiata al focolare come l'avevo lasciata, ma qualcuno aveva tolto il cuoio dall'elsa. «L'hai riconosciuta» osservai. «Come potevo non riconoscerla? Sono contento che tu l'abbia protetta.» Risi. «Più che altro, lei ha protetto me. Allora. Cosa proponi esattamente?»
«Suggerisco che tu ti metta comodo e che tenti di contattare il principe con l'Arte. È tutto.» Cercai un luogo dove sedere. Non sulle pietre del focolare. Eppure, come sempre, c'era solo uno scranno comodo accanto al fuoco. «E le medicine e le erbe che la regina ha menzionato?» Umbra mi gettò uno sguardo obliquo. Mi parve di scorgervi diffidenza. «Non penso che ne avremo bisogno. La regina si riferiva a varie pergamene sull'Arte che suggeriscono infusi e tinture per gli adepti che trovano difficoltà nel raggiungere uno stato ricettivo. Avevamo considerato di usarli sul principe Devoto, ma non prima di essere sicuri che fossero necessari.» «Galen non ha mai utilizzato alcuna erba mentre ci istruiva.» Presi uno sgabello alto dal banco da lavoro e lo misi davanti allo scranno di Umbra. Mi ci appollaiai. Umbra si sistemò sullo scranno, ma doveva alzare gli occhi per guardarmi. Sospetto che ne fosse infastidito. Parlò in tono stizzito. «Galen non ha mai usato alcuna erba mentre istruiva te. Non hai mai sospettato che forse gli altri membri della confraternita d'Arte ricevevano attenzioni speciali che ti erano negate? Io sì. Naturalmente non potremo mai esserne certi.» Scrollai le spalle. Che altro potevo fare? Era stato anni prima e loro erano tutti morti, alcuni per mano mia. Che importava, ormai? Ma quei pensieri avevano risvegliato la mia antica avversione all'Arte. Dal desiderio ero passato d'un tratto al terrore. Cambiai argomento. «Hai scoperto chi ha regalato la gatta al principe?» Umbra parve sorpreso. «Sì, certo. Dama Bresinga di Borgo Bufera e suo figlio Urbano. Era un regalo di compleanno. Gli presentarono la gatta con una piccola cintura ingioiellata e un guinzaglio. Aveva circa due anni, una creatura a strisce dalle lunghe zampe, un muso piuttosto piatto e una coda lunga come il resto del corpo. A quanto pare sono gatti che non possono essere allevati: bisogna prendere un piccolo da una tana selvatica prima che apra gli occhi, se si vuole addestrarlo. È un animale esotico, adatto alla caccia solitaria. Il principe si è subito affezionato.» «Chi ha preso la gattina dalla tana?» «Non ne ho idea. Il loro capocaccia, immagino.» «Alla gatta è piaciuto il principe?» Umbra aggrottò le sopracciglia. «Non ci ho mai fatto attenzione. Ricordo che si avvicinarono al podio: dama Bresinga teneva l'estremità del guinzaglio e il figlio portava la creatura. Sembrava quasi stordita dalla luce e dal rumore della festa. Mi chiesi se l'avessero drogata perché non si spa-
ventasse e cercasse di scappare. Ma quando ebbero presentato i loro omaggi al principe, la dama gli mise in mano il guinzaglio e Urbano, il figlio, mise la gatta ai piedi di Devoto.» «La gatta tentò di scappare? Tirò il guinzaglio?» «No. Come ho detto, sembrava molto calma, in modo quasi innaturale. Credo che guardò il principe per qualche momento, poi gli urtò il ginocchio con la testa.» Gli occhi di Umbra si erano fatti distanti, e vidi la sua mente addestrata richiamare la scena nei dettagli. «Devoto si chinò per accarezzarla, e la gatta si tirò indietro. Poi gli annusò la mano. Fece una cosa strana: spalancò la bocca e respirò vicino alla mano, come per assaggiare il suo odore nell'aria. A quel punto parve accettarlo. Gli strofinò la testa sulla gamba, proprio come un gattino. Quando un servitore tentò di portarla via non volle andare, così le fu permesso di rimanere accanto alla sedia del principe per il resto della serata. Devoto parve molto contento.» «Quando cominciò a portarla a caccia?» «Credo che lui e Urbano la portarono fuori il giorno dopo. Urbano e il principe hanno quasi la stessa età, e il principe era ansioso di provare la gatta, come qualsiasi ragazzo. Urbano e sua madre rimasero a corte per il resto della settimana, e penso che lui e il principe portarono fuori la gatta ogni mattina. Era la sua opportunità di imparare a cacciare con un gatto, capisci, da gente già familiare con quel tipo di caccia.» «E cacciavano bene insieme?» «Oh, suppongo di sì. Chiaramente non va bene per la caccia grossa, ma sono tornati con, oh, fagiani, penso, e lepri.» «E dormiva sempre nella sua stanza?» «Mi pare di capire che deve stare vicino a un umano per rimanere domestica. E ovviamente nella stalla i cani da caccia non l'avrebbero lasciata in pace. Quindi, sì, dormiva nella sua stanza e lo seguiva per la rocca. Fitz, cosa sospetti?» Gli risposi in tutta onestà. «La stessa cosa che sospetti tu. Che il nostro principe dotato dello Spirito sia svanito con la sua compagna gatta. E che nulla è una coincidenza. Né il regalo, né il legame, né la scomparsa. Qualcuno ha organizzato tutto.» Umbra aggrottò le sopracciglia, non volendo ammettere ciò che credeva. «Forse la gatta è stata uccisa quando il principe è stato catturato. O è scappata.» «Così mi hai detto. Ma se il principe possiede lo Spirito, e la gatta è legata a lui, non sarebbe scappata.» Lo sgabello era scomodo, ma rimasi ca-
parbiamente appollaiato. Chiusi gli occhi per un momento. A volte, quando il corpo è stanco, la mente prende il volo. Lasciai che i miei pensieri vagassero dove volevano. «Io mi sono legato tre volte, lo sai. La prima volta a Nasuto, il cucciolo che Burrich mi portò via. E poi a Ferrigno quando ero ancora ragazzo. L'ultima a Occhi-di-notte. Ogni volta c'era quel senso istantaneo di collegamento. Con Nasuto mi legai prima ancora di esserne consapevole. Sospetto che accadde perché mi sentivo solo. Perché quando Ferrigno mi offrì amore, lo accettai senza condizioni. E quando sentii la rabbia del lupo e l'odio per la sua gabbia, così simili ai miei, non seppi più distinguere tra noi.» Aprii per un attimo gli occhi e incontrai lo sguardo sbalordito di Umbra. «Non avevo barriere, capisci.» Rivolsi lo sguardo verso il fuoco che andava spegnendosi. «Da ciò che mi è stato detto, nelle famiglie dello Spirito i bambini vengono protetti da questo tipo di atteggiamento. Imparano a erigere barriere da piccoli. Poi, da adulti, vengono mandati a cercare compagni adatti, quasi come un matrimonio.» «Cosa suggerisci?» chiese piano Umbra. Seguii il pensiero fin dove mi conduceva. «La regina ha scelto una sposa per il principe Devoto nell'interesse di un'alleanza politica. E se una famiglia di Antico Sangue avesse fatto lo stesso?» Un lungo silenzio seguì le mie parole. Guardai di nuovo Umbra. Fissava il fuoco, e potevo quasi vedere la sua mente che lavorava frenetica per enumerare tutte le implicazioni di ciò che avevo detto. «Una famiglia di Antico Sangue seleziona di proposito un animale che si leghi al principe. Allora si può supporre che dama Bresinga abbia lo Spirito, che addirittura tutta la sua famiglia sia, come dici tu, di Antico Sangue. Che sapessero o sospettassero in qualche modo che anche il principe possiede lo Spirito.» Fece una pausa, strinse le labbra e rifletté. «Forse la nota che diceva che il principe aveva lo Spirito veniva da loro... Ancora non capisco cosa ne ricaverebbero.» «Cosa ricaviamo noi facendo sposare Devoto a una ragazza Isolana? Un'alleanza, Umbra.» Umbra aggrottò le sopracciglia. «La gatta in qualche modo fa parte della famiglia Bresinga e mantiene legami con loro? Può influenzare in qualche modo le azioni politiche del principe?» Il modo in cui lo disse lo fece sembrare ridicolo. «Non mi è ancora del tutto chiaro,» ammisi «ma penso che ci sia sotto qualcosa. Anche se il loro unico scopo è provare che il principe ha lo Spirito, e quindi che gli altri
Spirituali non dovrebbero essere fatti a pezzi e bruciati. O guadagnare la comprensione del principe verso la gente dello Spirito, e attraverso di lui, quella della regina.» Umbra mi rivolse uno sguardo obliquo. «Ecco un motivo che posso comprendere. C'è anche un possibile ricatto. Una volta legato il principe a un animale, possono esigere favori politici minacciando di rivelare che possiede lo Spirito.» Distolse lo sguardo da me. «O tentare di ridurlo al livello di un animale, se non accettiamo le loro rivendicazioni politiche.» Come sempre la mente di Umbra sapeva essere molto più contorta della mia. Sentirlo elaborare le mie idee era quasi un sollievo. Non volevo che il mio mentore conoscesse il decadimento della mente o del corpo. In molti modi era ancora uno scudo tra me e il mondo. Annuii ai suoi suggerimenti. Umbra si alzò all'improvviso. «Quindi, a maggior ragione, dobbiamo andare avanti come previsto. Vieni, prendi il mio scranno. Appollaiato lassù sembri un pappagallo; non puoi stare comodo. Una cosa su cui tutte le pergamene fondamentali insistono è che un adepto dell'Arte dovrebbe trovare un luogo comodo per iniziare, in modo che il corpo sia rilassato e non interferisca con la mente.» Aprii la bocca per dire che era l'opposto di ciò che Galen ci aveva fatto. Addestrandoci, aveva torturato il nostro corpo al punto che la mente diventava l'unica fuga. Serrai le labbra, ingoiando le parole. Inutile lamentarmi o rimuginare su Galen. Quell'uomo contorto, senza piacere, ci aveva tormentati tutti, e quelli che era riuscito ad addestrare li aveva ridotti a una confraternita ciecamente fedele al principe Regal. Forse era stato per quello; forse aveva voluto spezzare la resistenza del corpo e il giudizio della mente prima di plasmarli nella confraternita desiderata. Lo scranno di Umbra tratteneva il calore e l'impronta del suo corpo. Sembrava strano sedere così in sua presenza Era come se stessi divenendo lui. Il vecchio prese il mio posto sullo sgabello e mi guardò dall'alto. Incrociò le braccia e si piegò in avanti, sorridendo furbescamente. «Comodo?» «No» ammisi. «Ti sta bene» borbottò. Poi, con una risata, scese dallo sgabello. «Dimmi cosa posso fare per aiutarti.» «Vuoi solo che mi sieda qui e usi l'Arte, sperando di trovare il principe?» «È così difficile?» Era una domanda sincera. «Ci ho provato per ore la notte scorsa. Non è successo nulla, a parte il
mio mal di testa.» «Oh.» Per un momento Umbra sembrò scoraggiato. Poi annunciò con fermezza: «Dovremo semplicemente tentare di nuovo.» A voce più bassa aggiunse: «Che altro ci resta?» Non seppi rispondere. Mi misi comodo nello scranno e tentai di rilassare il mio corpo. Fissai la mensola del camino, solo per notare un coltello da frutta conficcato nel legno. Ero stato io a mettercelo, anni prima. Non era il momento di pensarci. Eppure mi trovai a dire: «Oggi sono entrato nella mia vecchia stanza. Sembra che sia rimasta chiusa da quando ci dormivo io.» «Infatti. La tradizione del castello dice che è infestata dai fantasmi.» «Stai scherzando!» «No. Pensaci. Il Bastardo dello Spirito dormiva lì, e fu condotto alla morte nelle prigioni sotterranee del castello. È un'ottima base per una storia di fantasmi. Inoltre di notte si vedono tremolare luci azzurre attraverso le imposte, e una volta un giovane stalliere ha detto di aver visto il Butterato che guardava giù da quella finestra in una notte di luna.» «Sei stato tu a mantenerla vuota.» «So essere sentimentale. A lungo ho sperato che un giorno ci saresti tornato. Ma adesso basta. Abbiamo una missione.» Respirai profondamente. «La regina non ha menzionato il messaggio sul principe e lo Spirito.» «No.» «Sai perché?» Umbra esitò. «Forse alcune cose sono tanto spaventose che perfino la nostra buona regina non riesce a considerarle.» «Vorrei vederlo.» «Lo vedrai. Più tardi.» Fece una pausa, poi chiese serio: «Fitz? Ti decidi a fare questa cosa, o continui a indugiare?» Trassi un respiro deciso, lo emisi lentamente e fissai lo sguardo sul fuoco che andava spegnendosi. Guardai nel cuore delle fiamme, e a poco a poco liberai la mente dai miei pensieri. Mi aprii all'Arte. La mia mente cominciò ad allargarsi. Nel corso degli anni ho pensato molto a come descrivere l'Arte. Nessuna metafora riesce a rendere l'odio. Come un pezzo di seta piegato, la mente si apre, e si apre, e si apre di nuovo, divenendo più grande eppure in qualche modo più sottile. Oppure, l'Arte è come un grande fiume invisibile che fluisce in eterno, e quando ci si concentra consapevolmente si può essere afferrati dalla corrente e trascina-
ti via. Nelle sue acque turbinose le menti si toccano e si uniscono. Eppure le parole e le similitudini non rendono giustizia all'Arte, come non possono spiegare l'odore del pane fresco o il colore giallo. L'Arte è l'Arte. È la magia ereditaria dei Lungavista, eppure non appartiene solo ai re. Molti nei Sei Ducati ne hanno una vena. In alcuni arde così forte che un adepto può sentire i loro pensieri o addirittura influenzarli. Sono molto più rari quelli che sanno protendersi con l'Arte. Di solito si tratta solo di un debole brancolare, se il talento non è addestrato. Mi aprii e lasciai che la mia coscienza si espandesse, ma senza speranza di toccare qualcuno. Fili di pensiero si aggrovigliarono contro di me come alghe. «Odio il modo in cui guarda il mio fidanzato.» «Vorrei poterti dire un'ultima parola, papà». «Per favore, torna a casa presto, mi sento così male.» «Sei tanto bella. Ti prego, ti prego, voltati, guardami, concedimi almeno questo.» Scagliavano i loro pensieri con tale urgenza, ignorando in gran parte la loro forza. Nessuno sapeva che dividevo i loro pensieri, né io potevo trasmettere a loro i miei. Ognuno gridava nella sua sordità con voci che credevano mute. Nessuno era il principe Devoto. Da qualche luogo lontano della rocca giunse alle mie orecchie una musica, distraendomi per un attimo. La allontanai e continuai. Non so per quanto tempo vagai fra quelle menti indifese, né quanto lontano giunsi nella mia ricerca. La portata dell'Arte è determinata da quanto è forte il talento, non dalla distanza. Io non avevo misura della mia forza, e il tempo non esiste quando si è preda dell'Arte. Calcai di nuovo quello stretto sentiero, aggrappandomi alla consapevolezza del mio corpo malgrado la tentazione di lasciare che l'Arte mi trascinasse via per sempre. «Fitz» mormorai in risposta a qualcosa, e poi, «FitzChevalier» mi dissi ad alta voce. Un ceppo appena deposto nel camino crollò fra le braci, frantumando il cuore della vampa in singoli tizzoni. Per qualche tempo lo fissai, cercando di dare un senso a ciò che vedevo. Poi sbattei le palpebre e mi accorsi della mano di Umbra sulla mia spalla. Sentii l'odore di cibo caldo e girai lentamente la testa. Un vassoio era appoggiato su un tavolino basso accanto allo scranno. Lo fissai, chiedendomi come ci fosse arrivato. «Fitz?» disse di nuovo Umbra, e tentai di ricordare la domanda. «Cosa?» «Hai trovato il principe Devoto?» Ogni parola assunse significato poco a poco finché non afferrai cosa stava dicendo. «No» risposi mentre un'ondata di stanchezza mi travolgeva.
«No, nulla.» Mi accorsi della fatica: le mie mani cominciarono a tremare e la testa pulsava. Chiusi gli occhi, ma non trovai sollievo. Serpenti di luce tremolavano attraverso il buio. Quando riaprii gli occhi li vidi sovrapposti alla stanza. Mi sembrava che mi entrasse in testa troppa luce. Le ondate di dolore mi facevano rotolare in una risacca di confusione. «Ecco. Bevi questo.» Umbra mi mise un boccale caldo fra le mani e lo portai con gratitudine alle labbra. Bevvi un sorso, poi quasi lo sputai. Era brodo di manzo, non infuso di efedra per calmare il mal di testa. Lo ingoiai senza entusiasmo. «Efedra» gli ricordai. «Mi serve l'efedra. Non cibo.» «No, Fitz. Ricorda ciò che tu stesso mi hai detto. L'efedra blocca la propensione all'Arte, e ti rende insensibile al tuo talento. Non possiamo correre questo rischio proprio ora. Mangia qualcosa. Riprenderai forza.» Obbediente guardai il vassoio. Macedonia di frutta con panna, pane appena sfornato. Un bicchiere di vino e rosee fette di pesce di fiume al forno. Deposi con cautela il boccale di brodo accanto a quella roba disgustosa e distolsi lo sguardo. Il fuoco si stava ravvivando, lingue danzanti di fiamma, troppo luminose. Abbassai il viso fra le mani, cercando l'oscurità, ma le luci continuarono a ballare davanti ai miei occhi. Parlai contro le mani. «Ho bisogno di efedra. Non era così brutto da anni, non da quando Veritas era vivo, non da quando Sagace traeva forza da me. Per favore, Umbra. Non riesco neanche a pensare.» Umbra si allontanò. Rimasi seduto, contando i battiti del cuore. Ogni tonfo era un lampo di dolore nelle tempie. Sentii il fruscio dei suoi passi e alzai la testa. «Ecco» disse burbero Umbra, e mi mise un fresco panno umido sulla fronte. La sorpresa mi tolse il respiro. Lo tenni contro la fronte e sentii il rimbombo placarsi un poco. Odorava di lavanda. Guardai Umbra attraverso una nebbia di dolore. Era a mani vuote. «Efedra?» «No, Fitz.» «Umbra. Ti prego. Non ci vedo più dal dolore.» Ogni parola era uno sforzo. La mia voce era troppo forte. «Lo so» disse piano Umbra. «Lo so, ragazzo mio. Ma devi sopportarlo. Le pergamene dicono che a volte l'uso dell'Arte reca dolore, ma con il tempo e l'esercizio imparerai a dominarlo. Ancora una volta, la mia comprensione è imperfetta, ma sembra che c'entri con il doppio sforzo di protenderti fuori di te e tenerti stretto alla tua identità. Imparerai a riconciliare
quelle tensioni, e poi...» «Umbra!» Non volevo urlare ma lo feci. «Ho solo bisogno del dannato infuso di efedra. Per favore!» Mi controllai all'improvviso. «Per favore» aggiunsi sottovoce, mortificato. «Per favore, solo l'infuso. Aiutami ad alleviare questo dolore, e poi potrò ascoltarti.» «No, Fitz.» «Umbra.» Espressi la mia paura segreta. «Un dolore come questo potrebbe causarmi un attacco.» Vidi un lampo di incertezza nei suoi occhi, troppo breve. «Non penso. Inoltre sono qui accanto a te, ragazzo. Mi prenderò cura di te. Devi tentare di farcela senza la medicina. Per Devoto. Per i Sei Ducati.» Il suo rifiuto mi lasciò ammutolito dallo stupore. Il dolore e il senso di ribellione mi lacerarono. «Bene» dissi brusco. «Ne ho un poco nel fagotto in camera mia.» Tentai di trovare la volontà per alzarmi. Un momento di silenzio. Poi Umbra ammise con riluttanza: «Ce l'avevi. Non c'è più. Neanche l'erba carryme.» Mi tolsi lo straccio dalla fronte e lo folgorai con lo sguardo. La mia rabbia crebbe sulle fondamenta del mio dolore. «Non ne hai il diritto. Come osi?» Umbra trasse un respiro. «Oso ciò che richiede il mio bisogno. E il mio bisogno è grande.» I suoi occhi verdi incontrarono i miei con sfida. «Al trono serve il talento che tu solo possiedi. Non permetterò che qualcosa diminuisca la tua Arte.» Non distolse lo sguardo, ma io riuscivo a malapena a tenere gli occhi su di lui. La luce sfolgorava attorno a lui, pugnalandomi il cervello. Un esilissimo filo di controllo mi impedì di scagliargli addosso il panno. Umbra parve indovinare e me lo tolse, offrendomene uno fresco. Era un misero conforto, ma me lo misi sulla fronte e sprofondai nello scranno. Volevo piangere per la frustrazione e l'angoscia. Da dietro il panno gli dissi: «Dolore. Questo significa per me essere un Lungavista. Dolore, ed essere usato.» Umbra non rispose. Quello era sempre stato il suo peggior rimprovero, quel silenzio che mi costringeva a risentire più e più volte le mie parole. Quando mi tolsi il panno dalla fronte, lui era pronto con un altro. Mentre me lo premevo sugli occhi, disse mitemente: «Dolore ed essere usato. Come Lungavista, ne ho conosciuto la mia parte. Proprio come Veritas, e Chevalier, e Sagace prima di loro. Ma sai che c'è di più. Se non ci fosse, non saresti qui.»
«Forse» ammisi controvoglia. La fatica stava avendo la meglio. Volevo solo rannicchiarmi attorno al dolore e dormire, ma resistetti. «Forse, ma non è abbastanza. Non per questo.» «E che altro chiederesti, Fitz? Perché sei qui?» Era una domanda retorica, ma l'ansia mi aveva ossessionato troppo a lungo. La risposta era troppo vicina alle mie labbra, e il dolore mi spinse a parlare senza ritegno. Sollevai un angolo della stoffa per guardarlo. «Perché voglio un futuro. Non per me, ma per il ragazzo. Per Ticcio. Umbra, ho sbagliato tutto. Non gli ho insegnato niente, né a lottare né a guadagnarsi da vivere. Devo metterlo a bottega da un buon maestro. Gindast. È da lui che vorrebbe studiare. Vuole fare l'ebanista, e avrei dovuto risparmiare per fare in modo che il suo sogno si realizzasse, ma non l'ho fatto. Ed eccolo qui, ha l'età per imparare, e io non ho nulla da dargli. I soldi che ho messo da parte non bastano.» «Posso pensarci io» disse piano Umbra. Poi, quasi in collera, chiese: «Credevi che non lo avrei fatto?» Qualcosa nel mio viso mi tradì, perché si fece più vicino, la fronte corrugata, ed esclamò: «Credevi di dover fare tutto questo per ottenere il mio aiuto, vero?» Aveva ancora un panno umido in mano. Lo scagliò sul pavimento di pietra, infuriato. «Fitz» cominciò, poi le parole gli mancarono. Si alzò e si allontanò da me. Pensai che se ne sarebbe andato. Invece camminò fino al banco da lavoro e al camino inutilizzato all'altra estremità della stanza. Fece un lento giro del tavolo, guardandolo, osservando gli scaffali di pergamene e utensili come in cerca di qualcosa che aveva smarrito. Ripiegai il panno e me lo premetti sulla fronte, ma guardai Umbra da sotto la mano. Rimanemmo in silenzio per qualche tempo. Quando tornò, Umbra sembrava più calmo ma in qualche modo più vecchio. Prese un panno fresco da un piatto di ceramica, lo strizzò, lo piegò e me lo porse. Mentre scambiavamo i panni disse in tono leggero: «Farò in modo che Ticcio compia il suo apprendistato. Bastava chiedermelo quando sono venuto a trovarti. O avresti potuto portare il ragazzo a Castelcervo anni fa, e sarebbe stato istruito decentemente.» «Sa leggere e scrivere e far di conto» dissi in tono difensivo. «Gliel'ho insegnato io.» «Bene.» La risposta era fredda. «Sono contento di sapere che ti è rimasto un po' di buon senso.» Non sapevo cosa dire. Il dolore e la stanchezza mi stavano sommergendo. Lo avevo ferito, ma non mi sembrava che fosse colpa mia. Come pote-
vo prevedere che sarebbe stato tanto disposto ad aiutarmi? Tuttavia mi scusai. «Umbra, mi dispiace. Avrei dovuto fidarmi di te.» «Sì» concordò spietato Umbra. «Avresti dovuto. E ti dispiace. Non dubito che tu sia sincero. Eppure mi sembra di ricordare che ti ho avvertito, anni fa, che quelle parole funzioneranno solo fino a un certo punto, e poi suoneranno vuote. Fitz, mi fa male vederti così.» «Comincia a passare» mentii. «Non la testa, stupido somaro. Mi fa male vedere che sei ancora... come sei sempre stato da quando... maledizione. Da quando fosti preso a tua madre. Cauto e solitario e diffidente. Malgrado tutto quello che ho... Dopo tanti anni, ti sei mai fidato di qualcuno?» Rimasi in silenzio per un po', ponderando le sue parole. Avevo amato Molly, ma non le avevo mai confidato i miei segreti. Il mio legame con Umbra era essenziale come le mie ossa, ma no, non avevo pensato che si sarebbe impegnato per Ticcio solo in nome del nostro legame. Burrich. Veritas. Kettricken. Dama Pazienza. Stornella. Mi ero tenuto lontano da ciascuno di loro. «Mi fido del Matto» dissi, e poi mi chiesi se era vero. Sì, mi assicurai. Il Matto sapeva quasi tutto di me. Quella era fiducia, vero? Dopo un momento, Umbra disse pensieroso: «Bene, quello va bene. Hai fiducia in qualcuno.» Si distolse da me e parlò al fuoco. «Dovresti sforzarti di mangiare qualcosa. Il tuo corpo si ribella, ma sai che hai bisogno di cibo. Ricordi che dovevamo costringere Veritas a mangiare quando usava l'Arte?» L'indifferenza nella sua voce era quasi dolorosa. Sperava che dichiarassi di aver fiducia in lui. Non era vero, e non volevo mentirgli. Cercai nella mente qualcos'altro da dargli. Parlai senza pensare. «Umbra, ti voglio bene. È solo che...» Umbra si girò quasi di scatto verso di me. «Taci, ragazzo. Non dire altro.» La sua voce era quasi supplice. «Mi basta.» Mi mise la mano sulla spalla e premette quasi dolorosamente. «Non ti chiederò ciò che non puoi dare. Sei ciò che la vita ha fatto di te. Ciò che io ho fatto di te, Eda mi perdoni. Ora dammi retta. Mangia qualcosa. Costringiti, se devi.» Inutile dirgli che la vista e l'odore del cibo bastavano a farmi venire i conati di vomito. Respirai a fondo e trangugiai il brodo di manzo, senza prendere fiato finché non fu finito. La frutta con la panna sembrava viscida in bocca, il pesce puzzava, e il pane quasi mi strozzò, ma mi forzai a ingoiarlo mezzo masticato. Dopo un gran respiro bevvi il vino. Quando deposi la tazza, lo stomaco ebbe un sussulto e mi girò la testa. Il vino era più
forte di quanto pensassi. Guardai Umbra. Era rimasto a bocca aperta, costernato. «Non intendevo così» mormorò. Alzai una mano in un gesto rassegnato. Avevo paura ad aprire la bocca per rispondere. «Faresti meglio ad andare a dormire» suggerì Umbra con prudenza. Annuii e mi alzai in piedi. Umbra mi aprì la porta, mi diede una candela e si fermò in cima alla scala con una lanterna finché non sparii alla sua vista. La mia stanza sembrava assurdamente lontana, ma alla fine raggiunsi il passaggio. Per quanto stessi male, ricordai di spegnere la candela quando ero ancora distante e scrutai con attenzione dallo spioncino prima di attivare l'accesso alla mia stanza buia. Quella sera non vi ardeva alcuna fiamma. Non importava. Inciampai nell'oscurità soffocante e richiusi la porta dietro di me con una spinta. In pochi passi fui al mio letto e mi ci lasciai cadere. Avevo caldo e i vestiti mi opprimevano, ma ero troppo stanco per spogliarmi. Il nero era così assoluto che non sapevo dire se avevo gli occhi aperti o chiusi. Almeno le luci sotto le palpebre si erano spente. Fissai l'oscurità e desiderai la pace fresca della foresta. I muri spessi della stanza soffocavano ogni suono e mi chiudevano fuori dalla notte. Era come essere imprigionato in una tomba. Chiusi gli occhi nel buio e ascoltai il mal di testa pulsare con il battito del mio cuore. Il mio stomaco gorgogliava infelice. Trassi un respiro profondo, e «Foresta» dissi piano. «Notte. Alberi. Prato.» Cercai la familiarità confortante del mondo naturale. Me la figurai nei dettagli. Un vento leggero faceva fremere le cime degli alberi. Le stelle scintillavano fra frange di nubi in movimento. Il fresco, e i profumi ricchi della terra. La tensione si calmò, portando con sé il mio dolore. Vagai con l'immaginazione. Mi mossi leggero nell'oscurità sul terreno calpestato di una pista di selvaggina, seguendo la mia compagna. Lei avanzava più silenziosa della notte stessa, ogni passo sicuro e rapido. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a starle dietro. Non riuscivo a scorgerla. Sapevo del suo passaggio dal profumo nell'aria notturna, o dai cespugli fruscianti appena davanti a me. La mia gatta la seguiva, ma io non ero abbastanza rapido. «Aspettatemi!» chiamai. Aspettarti? mi derise lei. Aspettarti e rovinare la caccia della notte? No, non aspetto. Sbrigati, e in silenzio. Non hai imparato nulla da me? Sono Passo Leggero, e Amica della Notte, e Cacciatrice nelle Ombre. Sii come
me, e vieni, vieni, vieni a dividere la notte con me. La inseguii, ubriaco della notte e della sua presenza, attratto irresistibilmente come una falena a una candela. Aveva gli occhi verdi, lo sapevo, me lo aveva detto, e lunghi capelli neri. Volevo toccarla, ma era elusiva e provocante, sempre davanti a me, senza mai rivelarsi ai miei occhi e tanto meno al mio tocco. Potevo solo inseguirla nella notte, con il respiro che mi raschiava in petto mentre lei fuggiva davanti a me. Non mi lamentai. Mi sarei dimostrato degno di lei e l'avrei conquistata. Ma il mio cuore rimbombava e il respiro mi bruciava nei polmoni. Raggiunsi la cresta di una collina e mi fermai a respirare. Di fronte a me si apriva la valle del fiume. La luna galleggiava tonda e gialla. Eravamo arrivati così lontano, in una sola notte di caccia? Lontano, sotto di me, le mura di Borgo Bufera erano un cumulo scuro di pietre sulla riva del fiume. Alcune luci isolate ancora splendevano d'oro nelle finestre della rocca. Mi chiesi chi consumava candele mentre il resto della famiglia era immersa nel sonno. Vuoi dormire in una stanza soffocante sotto un cumulo di coperte? Vuoi sprecare così una notte come questa? Risparmia il sonno per quando la luce del sole ti scalda, risparmia il sonno per quando le prede sono nascoste nelle tane o nei cunicoli. Ora caccia, mio goffo amico. Caccia con me! Dimostra chi sei. Impara a essere una cosa sola con me, pensa come me, muoviti come me, o mi perderai per sempre. Feci per seguirla. I miei pensieri si impigliarono in qualcosa, trattenendomi. Qualcosa che dovevo fare, subito. Qualcosa che dovevo dire a qualcuno, subito. Spaventato, mi fermai. Il pensiero mi lacerò. Parte di me doveva andare, doveva cacciare con lei prima che mi lasciasse indietro. Ma un'altra parte di me rimaneva immobile. Dovevo dirlo a lui. Subito. Mi strappai dal sogno, separandomi mentre tenevo stretta la conoscenza guadagnata. Palpitava fra le mie mani, rischiando di trasformarsi nell'insensatezza di un sogno che svanisce. Afferrai quel pensiero, lasciando che tutto il resto si dissolvesse. Tienilo. Dillo ad alta voce. Aggrappati alla parola, aggrappati forte al pensiero. Non lasciarlo andare, non permettere che si sciolga con il sogno. «Borgo Bufera!» Lo dissi forte, tirandomi a sedere sul letto, nell'oscurità asfissiante. Il sudore mi aveva incollato addosso la tunica e il mal di testa da Arte era tornato come uno scampanio nelle orecchie. Non mi importava. Mi alzai barcollando e cominciai a tastare le pareti invisibili. «Borgo Bufera» dissi ad
alta voce, perché non mi sfuggisse. «Il principe Devoto caccia dalle parti di Borgo Bufera.» 14 Lora Nella loro architettura gli Antichi fecero ampio uso di una certa pietra nera, spesso con fini venature di bianco o argento. Almeno una cava di questa pietra si trova nelle terre selvagge oltre il Regno delle Montagne, ma è quasi sicuro che ce ne siano altre, perché altrimenti è difficile immaginare come potesse essere utilizzata per edifici così grandi e in luoghi così distanti. Servì per la costruzione delle loro dimore, ma anche per i monoliti che eressero a certi incroci. Si può dedurre che una forma di sabbia o ghiaia ottenuta dalla pietra fu utilizzata anche nella creazione delle strade degli Antichi, a causa delle numerose qualità bizzarre che si manifestano percorrendole. Dovunque gli Antichi costruirono, questa pietra fu uno dei loro materiali preferiti, e si trovano monumenti siffatti anche nei luoghi che sembrano aver visitato solo sporadicamente. Un attento esame delle Pietre Testimoni di Castelcervo, pur deturpate dal clima aspro o forse danneggiate di proposito in secoli passati, dimostrerà che è lo stesso tipo di pietra. Alcuni hanno suggerito che le Pietre Testimoni e altre «pietre di giuramento» in tutti i Sei Ducati siano state erette in origine dagli Antichi per uno scopo molto diverso. Mi svegliai nel grande letto a baldacchino di Umbra nella camera della torre. Conobbi alcuni attimi di disorientamento prima di decidere che non era un altro sogno. Ero davvero sveglio. Non ricordavo di essermi addormentato, solo di essermi seduto sulla sponda del letto per qualche momento. Avevo addosso gli stessi vestiti del giorno prima. Mi misi a sedere con cautela; martelli e incudini nella testa si erano ridotti a un monotono tambureggiare. La stanza sembrava vuota, ma qualcuno era entrato di recente. L'acqua per lavarsi fumava accanto al focolare, e un piattino coperto di zuppa d'avena era tenuto in caldo lì vicino. Feci buon uso di quegli oggetti. Il mio stomaco era ancora riluttante ad accettare il cibo, ma mangiai stoicamente, sapendo che era per il mio bene. Mi lavai, misi a bollire l'acqua per il tè, e poi vagai verso il tavolo da lavoro. Vi era stesa una grande mappa del Cervo. Gli angoli erano fissati con un mortaio, due pestelli e una tazza da tè. Sulla mappa stessa c'era un bic-
chiere da vino capovolto. Lo alzai e vi trovai Borgo Bufera. Sorgeva su un affluente del fiume Cervo, a nord ovest del ducato del Cervo e sull'altro lato del fiume rispetto a Castelcervo. Non vi ero mai stato. Tentai di richiamare in fretta ciò che sapevo di Borgo Bufera. Assolutamente nulla. Il mio Spirito mi avvertì della presenza di Umbra, e mi girai mentre la porta segreta si apriva. Umbra entrò in fretta, gli zigomi rosei per il fresco della mattina, e i capelli bianchi luccicanti d'argento. Nulla rinvigoriva il vecchio come un nuovo intrigo. «Ah, ottimo, sei sveglio» mi salutò. «Sono riuscito a organizzare una colazione con messer Dorato, malgrado l'assenza del suo domestico. Mi ha assicurato che sarà pronto a viaggiare in poche ore. Ha già escogitato un pretesto per il viaggio.» «Cosa?» gli chiesi, confuso. Umbra rise ad alta voce. «Penne di uccelli, figurati. Messer Dorato ha molti passatempi interessanti, ma la sua passione del momento sono le penne. Più sono grandi e brillanti, meglio è. Borgo Bufera confina con un altopiano boscoso, ed è famosa per fagiani, pernici e galli cedroni. Questi hanno un piumaggio alquanto stravagante, soprattutto le penne della coda. Ha già mandato un messaggero a dama Bresinga di Borgo Bufera, chiedendole ospitalità per compiere le sue ricerche. Non otterrà un rifiuto. Messer Dorato è la novità più popolare che la corte di Castelcervo abbia visto in un decennio. Averlo ospite al suo castello sarà un bel successo sociale per lei.» Fece una pausa, ma fui io a prendere fiato. Scossi il capo, sperando di aggiustarmi il cervello e riuscire a capire. «Il Matto va a Borgo Bufera a cercare Devoto?» «A-ha!» mi avvertì Umbra. «Messer Dorato va a Borgo Bufera a cacciare uccelli. Naturalmente il suo domestico Tom lo Striato lo accompagnerà. Spero che mentre date la caccia agli uccelli troverete la pista del principe. Ma quella è la nostra missione privata.» «Quindi vado con lui.» «Certo.» Umbra mi fissò. «Va tutto bene, Fitz? Questa mattina sembri stordito.» «Lo sono. Tutto sembra accadere così in fretta.» Non gli dissi che mi ero abituato a decidere la mia vita e i miei spostamenti. Sembrava strano regredire a vivere ogni giorno secondo i desideri di un altro. Ingoiai le proteste. Cosa mi aspettavo? Se volevamo ritrovare il principe Devoto, non c'era alternativa. Cercai di mettere ordine nei miei pensieri. «Dama Bresinga ha una figlia?»
Umbra rifletté. «No, solo un figlio, Urbano. Credo che abbia allevato una cugina per qualche tempo, Vispa Bresinga. Vediamo, penso che ora abbia quasi tredici anni. È tornata a casa in primavera.» Scossi il capo, dubbioso e meravigliato. Dalla sera prima, Umbra aveva evidentemente ripassato le sue informazioni sui Bresinga. «Io ho avvertito la presenza di una donna, non di una bambina. Una... donna attraente.» Avevo quasi detto «seducente.» Quando ripensai all'esperienza della notte il sogno divenne mio, e ricordai fin troppo bene come lei mi aveva rimescolato il sangue. Provocandomi. Sfidandomi. Gettai uno sguardo a Umbra. Mi guardava con aperto sgomento. Feci la successiva domanda. «Devoto ha espresso interesse per qualche donna? Potrebbero essere fuggiti insieme?» «Eda ci salvi» esclamò Umbra con fervore. «No.» Lo negò quasi con disperazione. «Non c'è una donna nella vita di Devoto, neppure una ragazza che gli piaccia. Siamo stati molto attenti a impedirgli ogni opportunità di sviluppare un legame. Kettricken e io abbiamo deciso tempo fa che sarebbe stato meglio.» Più piano aggiunse: «Non voleva vedere suo figlio lacerato come te, tra cuore e dovere. Ti sei mai chiesto come sarebbero andate le cose se non avessi amato Molly, se avessi accettato l'unione con dama Saetta?» «Sì. Ma non mi pentirò mai di aver amato Molly.» Penso che la veemenza nella mia voce persuase Umbra a cambiare approccio. «Non c'è un simile amore nella vita di Devoto» dichiarò con certezza. «Non c'era. Forse ora c'è.» «Allora prego che sia un'infatuazione fanciullesca, che possa rapidamente...» Cercò una parola. «Termina» disse infine, e fremette. «Il ragazzo è già fidanzato. Non guardarmi così, Fitz.» Distolsi obbediente lo sguardo. «Non penso che la conosca da molto. Parte del suo fascino era il mistero.» «Allora dobbiamo cercare di riportarlo a casa in fretta, finché il danno è limitato.» Posi la successiva domanda per me stesso. «E se non desidera tornare a casa?» domandai a voce bassa. Umbra restò in silenzio per un momento. Poi disse deciso: «Devi fare come ritieni meglio.» La mia sorpresa dovette essere evidente, perché il vecchio rise ad alta voce. «Non serve a molto fingere che farai altrimenti, vero?» Trasse un re-
spiro e sospirò. «Fitz. Ti chiedo solo questo. Pensa in grande. Il cuore di un ragazzo è prezioso, come la vita di un uomo. Ma il benessere di tutto il popolo dei Sei Ducati e delle Isole Esterne è ancor più prezioso. Quindi fa' ciò che ritieni sia meglio. Ma devi essere certo di averci davvero pensato.» «Non riesco a credere che tu mi permetta tanta libertà d'azione!» esclamai. «No? Ebbene, forse ti conosco meglio di quanto tu pensi.» «Forse» concessi. Mi chiesi se mi conosceva davvero così bene. «Bene, sei qui solo da pochi giorni, e già ti mando via» osservò d'un tratto Umbra. Mi batté la mano sulla spalla, ma il sorriso sembrava un poco forzato. «Pensi che sarai pronto a partire in un'ora?» «Non ho molto da preparare. Ma dovrò scendere a Borgo Castelcervo, lasciare a Jinna un messaggio per Ticcio.» «Posso pensarci io» propose Umbra. Scossi il capo. «Jinna non sa leggere, e Tom lo Striato non ha messaggeri a disposizione. Andrò io.» Non gli dissi che era una faccenda che volevo sbrigare da me. «Come vuoi» rispose Umbra. «Lasciami preparare una nota per il ragazzo da presentare a mastro Gindast quando va a parlargli dell'apprendistato. Il resto sarà fatto con discrezione, te lo prometto. L'ebanista crederà di prendere Ticcio per fare un favore a uno dei suoi clienti più generosi.» Umbra fece una pausa. «Lo sai, tutto ciò che possiamo offrire al ragazzo è un'opportunità di dimostrare il suo valore. Non posso costringere Gindast a tenerlo se Ticcio è maldestro o pigro.» Alla mia occhiata offesa, Umbra sorrise. «Ma sono sicuro che non lo è. Lasciami solo un attimo per scrivere il messaggio da dare a Ticcio.» Ci volle più di un attimo, ovviamente. Quando infine lo ebbi in mano, mi trovai a inseguire la mattina che fuggiva. Incontrai messer Dorato nelle sue stanze quando emersi dalla mia celletta buia. Ebbe da ridire sui vestiti con cui avevo dormito e mi ordinò di ritirare i miei nuovi indumenti dal sarto, per avere un abbigliamento adatto per il nostro viaggio. Mi informò che avremmo viaggiato da soli e in fretta. Messer Dorato si era già fatto una reputazione di eccentricità e amore dell'avventura. Nessuno si sarebbe insospettito. Mi disse anche che aveva scelto una cavalla per me, e che la stava facendo ferrare. Potevo andarla a prendere dal fabbro. Immaginava che avrei voluto scegliere i finimenti, e mi diede una lettera di credito anche per quello prima di mandarmi via. Non deviò neanche per un attimo dalle ma-
niere di messer Dorato, e io mantenni il comportamento di Tom lo Striato. Erano ruoli a cui dovevamo abituarci al più presto. Non potevamo fare errori dopo aver cominciato a muoverci in pubblico. Quando finalmente partii per Borgo Castelcervo ero carico di commissioni e il sole si muoveva troppo in fretta attraverso il cielo. Il sarto mi chiese di provare i miei vestiti nuovi nel caso fosse stata necessaria qualche modifica. Rifiutai, poiché la sua richiesta mi avrebbe fatto ritardare, e non aprii neanche il pacco di indumenti per ispezionarli. Capii che Scrandon era abituato a consegnare il lavoro finito con grandi cerimonie, ma gli dissi brusco che messer Dorato mi aveva ordinato di sbrigarmi nel più breve tempo possibile. Il sarto fece una smorfia di disprezzo e disse che non si sarebbe assunto alcuna responsabilità se gli indumenti non andavano bene. Lo assicurai che non mi sarei lamentato e corsi fuori dal negozio, intralciato da un ingombrante fagotto. Andai alla bottega di Jinna, ma rimasi deluso. Non era in casa, e la nipote non sapeva quando sarebbe tornata. Sesamo venne a salutarmi. Mi vuoi bene. Lo sai. Prendimi in braccio. Rifiutare sembrava privo di senso. Lo presi. Mi affondò gli artigli nella spalla, marcando metodicamente il mio farsetto con la fronte. «Jinna è andata sulle colline ieri sera e ha trascorso la notte là, per raccogliere funghi di prima mattina. Potrebbe tornare da un momento all'altro, ma potrebbe anche restar fuori fino a notte» mi disse Miskya. «Oh, Sesamo, smettila di fare la peste. Vieni qui.» Mi prese il gatto dalle braccia, mostrando disappunto alla vista dei tanti peli rossicci rimasti attaccati al mio farsetto. «Non importa, ve l'assicuro. Oh, ma adesso mi trovo in una situazione imbarazzante.» Mi scusai e le dissi che il mio padrone aveva deciso all'improvviso di fare un viaggio, e che dovevo accompagnarlo. Le lasciai la lettera di Umbra per Ticcio, insieme a una mia nota per il ragazzo. Occhi-dinotte non sarebbe stato contento di arrivare in città e non trovarmi. E non gli sarebbe piaciuto rimanere lì ad aspettarmi. Compresi con ritardo che non stavo lasciando a Jinna solo mio figlio, ma anche un lupo, un pony e un carretto cui badare fino al mio ritorno. Mi chiesi se Umbra poteva aiutarmi. Non avevo denaro da lasciare per loro, solo i miei migliori ringraziamenti e le più profonde rassicurazioni che avrei rifuso ogni spesa. «Me lo avete già detto, Tom lo Striato.» Miskya mi sorrise con gentile rimprovero, calmando la mia preoccupazione. Sesamo le infilò la testa sotto il mento e mi guardò con severità. «Avete ripetuto tre volte che tornere-
te presto e ci ricompenserete bene. State tranquillo, vostro figlio sarà in buone mani e sarà il benvenuto, che paghiate o meno. Dubito che abbiate chiesto denaro a mia zia quando l'avete accolta in casa.» Compresi che stavo chiocciando come una gallina apprensiva. Con un sforzo mi impedii di spiegare di nuovo quanto improvvisa e urgente fosse la mia missione. Nel ringraziarla in modo goffo, mi sentii del tutto spaesato e stordito. Disperso, come se parti di me fossero alla mia casetta abbandonata, e con Occhi-di-notte e Ticcio, e anche nella stanza della torre a Castelcervo. Mi sentii vulnerabile ed esposto. «Bene, arrivederci» dissi a Miskya. Dormire al sole è più bello. Fai un pisolino con il gatto, suggerì Sesamo mentre Miskya mi augurava buon viaggio. Mi allontanai dalla casa di Jinna, roso dal senso di colpa. Stavo abbandonando le mie responsabilità in mano a sconosciuti. E no, certo che non ero dispiaciuto per non averla vista prima di partire, proprio per niente. Il solo bacio che mi aveva dato rimaneva in attesa, come una conversazione interrotta, ma rifiutai di contemplare dove poteva condurre. Tutto era già abbastanza complicato senza aggiungere un altro groviglio alla mia vita. Eppure ero stato ansioso di rivederla, e non averla trovata offuscò il mio entusiasmo per la partenza. Già, ero entusiasta di rimettermi in viaggio. Il senso di colpa era uno strano riflesso del senso di liberazione che provavo per quell'impresa. A breve il Matto e io saremmo partiti, solo El sapeva per dove, e avremmo dovuto badare solo a noi stessi. Si prospettava una cavalcata piacevole, con il bel tempo e un buon compagno. Sapeva più di vacanza che di missione. Molte mie paure per il principe Devoto erano state placate dal sogno della notte. Il ragazzo non era in pericolo fisico. Inebriato dalla notte e dalla donna che inseguiva, solo il suo giovane cuore era in pericolo, e da quello nessuno poteva proteggerlo. A dire la verità, il mio compito non mi sembrava poi così difficile. Sapevamo dove cercare il ragazzo, e con o senza il mio lupo ero sempre stato un buon cacciatore. Se messer Dorato e io non avessimo trovato subito il giovane principe a Rocca Bufera, lo avrei cercato nelle colline circostanti. Non saremmo stati lontani a lungo. Calmai la mia coscienza con quel pensiero rassicurante e proseguii verso il fabbro. Non mi aspettavo una gran bellezza di cavalla. Temevo quasi che il senso dell'umorismo del Matto si esprimesse attraverso la scelta di messer Dorato. Trovai la ragazza del fabbro che si rinfrescava con l'acqua del barile
della pioggia e le dissi che ero venuto a prendere il cavallo che messer Dorato aveva lasciato da ferrare. Lei annuì e mi fece aspettare fuori. Il giorno era già abbastanza caldo. Non avevo intenzione di entrare nell'inferno rumoroso e rovente che era la bottega del fabbro ferraio. La ragazza tornò piuttosto presto, conducendo una robusta cavalla nera. Le girai attorno e la osservai, scoprendo che mi fissava con la stessa diffidenza. Sembrava sana e senza traccia di maltrattamenti. Cercai lievemente verso di lei. La cavalla sbuffò e non mi guardò, rifiutando il contatto. Non era interessata a fare amicizia con un umano. «Non è stato facile ferrarla» mi informò ad alta voce il fabbro quando uscì sudando dalla bottega. «Non le piace sollevare le zampe perché qualcuno ci armeggi. E scalcia appena può, quindi stai attento. Ha anche tentato di mordere la mia assistente. Ma solo mentre la stavamo ferrando. Per il resto si è comportata abbastanza bene.» Lo ringraziai e gli diedi la borsa promessa da messer Dorato. «Ha un nome, che voi sappiate?» Il fabbro strinse le labbra e scosse il capo. «Non l'avevo mai vista prima di stamattina. Se aveva un nome, lo avrà perso passando da un padrone all'altro. Chiamala come vuoi; probabilmente ti ignorerà.» Accantonai il problema del nome. La cavalla aveva addosso la sua cavezza logora, e con quella la condussi da un sellaio. Acquistai finimenti semplici e comodi, e malgrado il mio miglior mercanteggiare fui indignato dal prezzo che mi chiese. Lessi in faccia all'uomo che mi riteneva irragionevole. Mentre uscivo mi chiesi se fosse proprio così. Non avevo mai dovuto acquistare finimenti; forse l'ossessione di Burrich per il cuoio da riparare era fondata sul costo di quella roba. La cavalla si mostrò inquieta mentre le provavo varie selle, e quando tentai di montarla scartò. Una volta in sella, rispose alle redini e alla pressione delle ginocchia, ma svogliatamente. Aggrottai le sopracciglia ma mi costrinsi alla pazienza con lei. Forse dovevamo valutarci a vicenda, e poi mi avrebbe servito meglio. In caso contrario, ebbene, ci vuole pazienza per far disimparare a un cavallo le cattive abitudini. Tanto valeva che mi abituassi all'idea. Mentre la guidavo con attenzione sulle strade ripide di Borgo Castelcervo riflettei che forse in gioventù ero stato più viziato di quanto pensassi. Ottimi cavalli, finimenti di buona fattura, belle armi, abbigliamento dignitoso, cibo abbondante: avevo dato così tanto per scontato. Un cavallo? Io potrei insegnare a un cavallo tutto quello di cui ha bisogno. Perché ti serve un cavallo?
Occhi-di-notte era scivolato nella mia mente con tale facilità che quasi non mi ero accorto che condivideva i miei pensieri. Devo andare via. Con il Senza Odore. Per forza a cavallo? Non mi lasciò il tempo di rispondere. Avvertii il suo fastidio. Aspettami. Sono quasi arrivato. Occhi-di-notte, no, non venire da me. Stai con il ragazzo. Tornerò presto. Ma era andato, e il mio pensiero rimase senza risposta. Cercai verso di lui ma trovai solo nebbia. Non che volesse litigare. Semplicemente non voleva sentirsi dire di rimanere con Ticcio. Le guardie alla porta mi degnarono a stento di uno sguardo. Aggrottai la fronte e decisi di parlarne con Umbra. Solo perché portavo abiti blu non significava che avessi affari al castello. Cavalcai fino alle porte della stalla, smontai e poi mi bloccai, con il cuore in gola. Nella stalla un uomo istruiva affabilmente qualcun altro a pulire come si deve gli zoccoli di un cavallo. Gli anni avevano reso più profonda la sua voce, ma lo riconobbi. Mani, il mio amico d'infanzia e ora capo-stalliere a Castelcervo, era appena dentro le porte aperte. Mi si seccò la bocca. L'ultima volta che mi aveva visto, mi aveva preso per un fantasma o un demone ed era scappato chiamando le guardie. Era successo anni prima. Ero molto cambiato, mi dissi, ma non potevo fidarmi degli anni come unico travestimento. Mi rifugiai in Tom lo Striato. «Qui, ragazzo.» Chiamai uno stalliere che bighellonava fuori dalla stalla. «Occupati di questa cavalla per me. Appartiene a messer Dorato, quindi fa' in modo che sia trattata bene.» «Sì, signore» rispose il ragazzo. «Ci ha fatto sapere di aspettare Tom lo Striato e una cavalla nera, e di sellare il suo cavallo al vostro arrivo. Dice che vi aspetta nelle sue stanze.» Con questo portò via la mia cavalla senza un'altra parola. Respirai, sollevato di aver superato quell'ostacolo con facilità, e girai le spalle alla stalla. Prima di aver percorso una dozzina di passi un uomo mi superò, evidentemente impegnato in una sua commissione. Non mi rivolse neanche uno sguardo. Lo fissai. Mani aveva messo su peso con gli anni, ma d'altra parte era stato così anche per me. I capelli scuri stavano diradandosi, ma la peluria si arruffava più fitta che mai sulle braccia muscolose. In un attimo girò un angolo e scomparve alla vista. Rimasi a guardare, sentendomi davvero un fantasma, invisibile nel suo mondo. Poi inspirai e mi affrettai. Riflettei che prima o poi Mani avrebbe intravisto Tom lo Stri-
ato qua e là per la rocca, e se ci fossimo incontrati faccia a faccia avrei assunto così completamente quel nome e quell'identità nuovi che lui non si sarebbe posto domande. La mia vita come Fitz sembrava una serie di impronte su un pavimento polveroso, già spazzate via e calpestate da altri. Fu anche peggio quando oltrepassai la Sala Grande e sentii levarsi la voce di messer Dorato. «Ah, eccoti, Tom lo Striato! Scusatemi, signore, ecco il mio bravo servitore. Addio, state bene in mia assenza!» Lo guardai liberarsi da un branco di nobili dame. Lo lasciarono con riluttanza, agitando ventagli e ciglia nella sua direzione, una con una leggiadra smorfia delusa. Messer Dorato sorrise con affetto a tutte, sventolando un languido addio con una mano aggraziata mentre avanzava verso di me. «Tutto fatto? Eccellente. Allora finiamo di prepararci e saremo in viaggio mentre il sole è ancora alto.» Mi passò accanto e io lo seguii a debita distanza, annuendo mentre mi istruiva su come voleva che le sue cose fossero preparate. Ma quando arrivammo alle stanze e chiusi la porta dietro di noi, vidi le sue gonfie borse da viaggio già in attesa sulla sedia. Mi girai sentendolo mettere il chiavistello. Accennò alla mia stanza proprio mentre la porta si apriva e Umbra faceva il suo ingresso. «Eccovi, e al momento giusto. La regina ha ricevuto le notizie e ordina di partire subito. Non penso che si sentirà del tutto tranquilla finché il ragazzo non sarà di nuovo sotto questo tetto. Ebbene, nemmeno io.» Si morse il labbro inferiore e poi annunciò, più a messer Dorato che a me: «La regina ha deciso che la capocaccia Lora verrà con voi. Si sta preparando.» «Non abbiamo bisogno di lei» esclamò messer Dorato infastidito. «Meno persone sanno della faccenda, meglio è.» «È la capocaccia della Regina, e ha la sua fiducia in molte cose. La famiglia di sua madre vive a meno di un giorno a cavallo da Borgo Bufera. Dice di conoscere bene la zona per avervi passato l'infanzia, quindi potrà aiutarvi. Inoltre Kettricken è ferma nel suo proposito, la porterete con voi. So bene che è inutile discutere con la regina quando ha deciso qualcosa.» «Sì, me lo ricordo» rispose messer Dorato, ma c'era molto del Matto in quella voce afflitta. Sentii un sorriso piegarmi l'angolo della bocca. Anch'io sapevo cosa significasse tremare davanti alla determinazione azzurra dello sguardo della mia regina. Mi chiesi chi fosse questa Lora, e come avesse conquistato la fiducia della regina. Era forse una fitta d'invidia perché qualcuno mi aveva sostituito come confidente di Kettricken a
corte? Ebbene, erano passati quindici anni da quando avevo ricoperto quel ruolo. Mi ero aspettato che il posto rimanesse vacante? Il fastidio rassegnato di messer Dorato irruppe nei miei pensieri. «Bene, così sia, se bisogna. Può venire, ma non avrà ossequi da me. Tom, non hai ancora preparato il tuo bagaglio?» «Quasi finito» risposi, e mi ripresi abbastanza per aggiungere: «...mio signore. Solo un momento. Ho ben poco da portare.» «Eccellente. Prendi le merci di Scrandon, perché ti voglio vestito in modo adatto per assistermi a Rocca Bufera.» «Come volete, signore» risposi, e li lasciai per entrare in camera mia. Misi il pacco di vestiti nuovi nella nuova borsa da sella che vi trovai. Era marcata con il fagiano di messer Dorato. Aggiunsi alcuni dei miei vecchi indumenti per il lavoro notturno che mi aspettavo di compiere a Borgo Bufera, poi volsi lo sguardo intorno, nella stanza. Già portavo la mia pratica spada. Non c'era nient'altro da aggiungere al fagotto. Niente veleni, niente piccole armi ingegnose da nascondere addosso. Mi sentii all'improvviso stranamente nudo, anche se ne avevo fatto a meno per anni. Quando emersi con le mie borse sulla spalla, Umbra mi fermò con una mano alzata. «Ancora una cosetta» propose con aria innocente, e mi porse un rotolo di cuoio senza guardarmi negli occhi. Lo presi e riconobbi i contenuti senza aprirlo. Grimaldelli e altri delicati attrezzi del mestiere di assassino. Messer Dorato distolse lo sguardo quando feci scivolare il rotolo nel mio bagaglio. Un tempo il mio abbigliamento aveva contenuto tasche nascoste per simili accessori. Bene, sperai che la missione non durasse tanto da rendere tali preoccupazioni di nuovo necessarie. I nostri addii furono frettolosi e bizzarri. Messer Dorato si congedò da Umbra in modo formale, come se un pubblico intero di sconosciuti li stesse guardando. Pensando di dover seguire il loro esempio, mi inchinai a Umbra come un servitore, ma lui mi afferrò per le spalle e mi diede un rapido abbraccio. «Grazie, figliolo» mi mormorò all'orecchio. «Va' in fretta e riportaci Devoto. E sii comprensivo con il ragazzo. È colpa mia quanto sua.» Imbaldanzito, risposi: «Tieni d'occhio Ticcio per me, allora. E Occhi-dinotte. Non avevo pensato che lo avrei lasciato a Jinna, tanto meno insieme a un pony e un carretto.» «Farò in modo che stiano bene» dichiarò Umbra, e so che vide la gratitudine nei miei occhi. Poi mi affrettai a togliere il chiavistello alla porta per messer Dorato, e lo seguii portando le nostre borse mentre avanzava at-
traverso Castelcervo. Molti lo salutarono ad alta voce, e lui li ricambiò con sbrigativo calore. Se messer Dorato aveva davvero sperato di lasciare indietro Lora, la donna lo deluse. Ci aspettava sulla porta della stalla insieme a tutti i nostri cavalli, con evidente impazienza. Poteva avere dai venticinque ai trent'anni. Era solida in un modo che mi ricordava Kettricken, slanciata e muscolosa, eppure femminile. Non era del Cervo, perché le nostre donne tendono a essere piccole e brune, e Lora non lo era. Non era bionda come Kettricken, ma aveva gli occhi azzurri. Il sole aveva schiarito a ciocche i capelli castani, rendendoli quasi bianchi sulle tempie. Il viso e le mani erano abbronzate. Aveva un naso diritto e stretto sopra una bocca forte e un mento deciso. Portava gli abiti di cuoio di un cacciatore, e la sua cavalcatura era uno di quei cavallini magri che saltano qualsiasi ostacolo come un terrier e corrono come una donnola nel sottobosco più intricato, un castrato senza pretese dagli occhi splendenti di vitalità. L'esiguo bagaglio di Lora era assicurato dietro alla sella. Mentre ci avvicinavamo Malta alzò impaziente la testa e nitrì con entusiasmo verso il padrone. La mia cavalla non batté ciglio. Era stranamente umiliante. «Capocaccia Lora. Pronta a partire, vedo» la salutò messer Dorato. «Sì, mio signore. Aspetto solo voi.» Entrambi mi lanciarono uno sguardo. Ricordando all'improvviso che ero il servitore di messer Dorato, presi da Lora le redini di Malta e le tenni mentre messer Dorato montava. Assicurai entrambi i nostri fagotti sopra la mia nera, cosa che lei non approvò molto. Quando presi le mie redini da Lora, lei mi sorrise e mi tese una mano. «Lora dei Colli, vicino a Cavasabbia. Sono la capocaccia di sua maestà.» «Tom lo Striato, domestico di messer Dorato» risposi chinandomi in un baciamano. Messer Dorato aveva già avviato la cavalla con sublime noncuranza per le attività dei servitori. Montammo in fretta e lo seguimmo. «E la tua famiglia dov'è, Tom?» chiese Lora. «Mmm. Vicino a Forgia. Sul Torrente Rovo.» Ticcio e io lo chiamavamo così. Se il torrente vicino alla nostra casetta aveva qualche altro nome, non lo avevo mai sentito. Ma quell'indicazione topografica estemporanea parve soddisfare Lora. La nera mi assillava tirando le redini e tentando di passare avanti. Evidentemente non era abituata a seguire un altro cavallo. Aveva il passo più lungo di Malta. La tenni al suo posto, ma era uno scontro di volontà quasi continuo.
Lora mi rivolse un'occhiata carica di comprensione. «Cavalla nuova?» «Ce l'ho da meno di un giorno. Scoprire il suo temperamento in viaggio può non essere il miglior modo di conoscerla.» La donna sorrise. «No, ma forse è il più rapido. Inoltre, che scelta hai?» Lasciammo il castello dalla Porta Ovest. Nella mia fanciullezza a Castelcervo era stata quasi sempre chiusa, e dava accesso a una strada che era poco più di un sentiero di capre. Adesso era spalancata, con un piccolo corpo di guardia. Ci lasciarono passare senza intoppi, e ci trovammo su una strada trafficata che attraversava le colline dietro a Castelcervo prima di scendere verso il fiume. Il percorso dei tratti più ripidi era stato modificato, e la strada intera allargata. A giudicare dai solchi delle ruote quella via tortuosa era usata da carri, e mentre i tornanti ci portavano verso il fiume vidi giù in fondo moli e tetti di magazzini. Rimasi sbalordito quando cominciai a scorgere casette sotto gli alberi. «Una volta non ci abitava nessuno» dissi. Mi morsi la lingua prima di aggiungere che il principe Veritas amava cacciare per quelle colline. Dubitai che offrissero ancora molta selvaggina. Gli alberi erano stati abbattuti per coltivare orticelli. Asini e pony pascolavano in campi cespugliosi. Lora annui alla mia sorpresa. «Allora non sei stato qui da quando la Guerra delle Navi Rosse è finita. È tutto spuntato negli ultimi dieci anni. Quando il commercio è migliorato, la gente ha voluto tornare a vivere vicino a Castelcervo, nei pressi della rocca nel caso ricominciassero le incursioni.» Non seppi trovare una risposta intelligente, ma il nuovo centro abitato mi sorprese. C'era anche una taverna vicino al porto fluviale, e un ufficio dove assumere marinai. Oltrepassammo una fila di magazzini affacciati sul porto. I carretti tirati da asini sembravano il mezzo di trasporto preferito. Ai moli erano ormeggiate barche di fiume dalla prua schiacciata che scaricavano merci da Armento e Riccaterra. Superammo un'altra taverna, e poi vari alloggi economici come li preferiscono i marinai. La strada risaliva il fiume. A volte era largo e sabbioso; su certi tratti acquitrinosi erano state disposte passerelle di tronchi. Gli altri cavalli non parvero notare il cambiamento, ma ogni volta che ne attraversavamo una la mia nera rallentava il passo e schiacciava le orecchie. Non le piaceva il rimbombo degli zoccoli sul legno. Le misi la mano sulle spalle e cercai verso di lei, rassicurandola. La cavalla girò il capo per rivolgermi un mezzo sguardo, ma rimase distante come al solito. Probabilmente avrebbe rifiutato di andare avanti se non ci fossero stati altri due cavalli da seguire. Era chiaramente più inte-
ressata alla sua specie che a qualsiasi compagnia potessi offrirle io. Scossi il capo alla differenza tra lei e i cavalli amichevoli nella stalla di Burrich, e mi chiesi se lo Spirito del capo-stalliere avesse fatto la differenza. Ogni volta che una cavalla partoriva, Burrich era al suo fianco, e il puledro conosceva il tocco della sua mano quasi insieme alla leccata della madre. Era solo la presenza di un umano sin dalla loro nascita che aveva reso così disponibili le bestie nella stalla, o era il suo Spirito, represso ma ancora presente, che li aveva resi così ricettivi a me? Il sole del pomeriggio picchiava su di noi, riflettendosi sulla vasta superficie luccicante del fiume. Il rumore sordo degli zoccoli era un contrappunto piacevole ai miei pensieri. Burrich aveva considerato il mio Spirito una magia oscura e vile, una tentazione di farmi sopraffare dalla bestia nella mia natura. La voce popolare concordava con lui e andava oltre: lo Spirito era uno strumento del male, una magia vergognosa che conduceva i praticanti verso degradazione e malvagità. Morte e smembramento erano l'unica cura riconosciuta. La mia tranquillità sull'assenza di Devoto fu minacciata all'improvviso. Vero, il ragazzo non era stato rapito. Ma anche se l'Arte mi aveva permesso di trovarlo, era indubbiamente lo Spirito che il ragazzo usava nelle cacce notturne. Se si fosse tradito con qualcuno, poteva essere messo a morte. Forse neppure la sua condizione di principe sarebbe servita a proteggerlo. Dopo tutto, lo Spirito era bastato a farmi perdere il favore dei duchi della costa e finire diritto nelle prigioni sotterranee di Regal. Non c'era da stupirsi che Burrich avesse rinunciato all'uso dello Spirito, che avesse minacciato tanto spesso di farmelo passare a botte. Eppure non riuscivo a pentirmene. Maledizione o benedizione, mi aveva salvato la vita più spesso di quanto l'avesse messa in pericolo. E sapevo che il mio profondo senso di vicinanza con ogni forma di vita rendeva migliori i miei giorni. Trassi un respiro profondo e lasciai cautamente che il mio Spirito si aprisse a un senso generale della giornata intorno a me. La mia consapevolezza di Malta e del cavallo della capocaccia si fece più acuta, come la loro accettazione della mia presenza. Percepivo Lora non come un altro cavaliere accanto a me ma come una grossa creatura sana. Messer Dorato era inconoscibile al mio Spirito, come il Matto. Perfino da quel senso si scostava come acqua, eppure il suo stesso mistero mi era familiare. Gli uccellini sugli alberi sopra di noi erano brillanti fremiti di vita fra le foglie. Dal più grande degli alberi che oltrepassammo sentii un flusso verde e profondo, un'esistenza traboccante che era diversa dalla consapevolezza di un a-
nimale eppure era vita lo stesso. Era come se il mio senso del tatto si espandesse oltre la pelle per toccare tutte le altre forme di vita intorno a me. Tutto il mondo brillava di vita, e io ero parte di quella rete. Pentirmi di quell'unione? Negare quella tattilità estesa? «Sei un tipo silenzioso» osservò Lora. Trasalii e fui di nuovo consapevole di lei come persona. I miei pensieri erano andati così in profondità che avevo quasi dimenticato la donna che cavalcava accanto a me. Mi sorrise. I suoi occhi erano azzurro pallido, ma di un blu più scuro intorno all'iride. Notai che un'iride aveva una strana venatura verde che si irradiava dal centro. Non sapevo cosa rispondere quindi semplicemente scrollai le spalle e annuii. Il suo sorriso si fece più largo. «Sei la capocaccia della regina da molto?» chiesi, tanto per dire qualcosa. Lo sguardo di Lora si fece pensierose mentre lei contava. «Sette anni» disse tranquillamente. «Ah, allora la conosci bene» replicai, chiedendomi quanto davvero sapesse della nostra missione. «Abbastanza» rispose, e quasi la vidi chiedersi lo stesso di me. Mi schiarii la gola. «Messer Dorato va a Borgo Bufera in cerca di uccelli. Adora collezionare penne, sai.» Non le feci nessuna domanda diretta. Lora mi guardò con la coda dell'occhio. «Messer Dorato ha molte passioni, si dice» osservò a voce bassa. «E i mezzi per coltivarle tutte.» Mi rivolse un altro sguardo, come aspettandosi che difendessi il mio padrone, ma se c'era un insulto nelle sue parole, non lo colsi. La donna guardò avanti e continuò. «Quanto a me, vengo con voi per perlustrare terreni di caccia per la mia regina. Le piace cacciare gli uccelli d'autunno. Spero che nei boschi di Borgo Bufera troveremo le specie che preferisce.» «Lo speriamo tutti» concordai. Mi piacque la sua cautela. Saremmo andati abbastanza d'accordo. «È tanto che conosci messer Dorato?» mi chiese. «Non proprio» tergiversai. «Ho saputo che cercava un domestico, e sono stato contento quando un conoscente mi ha raccomandato.» «Allora hai già svolto questo genere di lavoro?» «Non negli ultimi tempi. Negli ultimi dieci anni ho vissuto una vita tranquilla, solo mio figlio e io. Ma adesso lui ha l'età per mettersi a bottega, e ci vuole denaro contante. Questo è il modo più veloce che conosco per guadagnarlo.» «E sua madre?» chiese Lora con franchezza. «Non si sentirà sola con
tutti e due in viaggio?» «Se n'è andata da molti anni» dissi. Poi, comprendendo che Ticcio poteva avventurarsi prima o poi a Castelcervo, decisi di tenermi il più vicino possibile alla verità. «L'ho adottato da piccolo. Non ho mai conosciuto sua madre. Ma lo considero mio figlio.» «Allora non sei sposato?» La domanda mi sorprese. «No.» «Neanch'io.» Lora mi rivolse un lieve sorriso, come se avessimo molto in comune. «Allora, ti piace Castelcervo?» «Abbastanza. Vivevo da quelle parti quando ero ragazzo. Da allora è molto cambiato.» «Io sono di Riccaterra. Sono cresciuta sui Colli di Branedee, anche se mia madre era del Cervo. La sua famiglia viveva non lontano da Borgo Bufera; conosco la zona, perché la esploravo da bambina. Ma per lo più vivevamo vicini ai Colli, dove mio padre era capocaccia per messer Distinto. Mio padre insegnò ai miei fratelli e a me le abilità di capocaccia. Quando morì, il maggiore di noi prese il suo posto. Il minore tornò a vivere fra la gente di mia madre. Io rimasi ad addestrare i cavalli da caccia nella stalla di messer Distinto. Ma quando anni fa la regina e il suo seguito vennero a cacciare là, andai ad assisterli, perché era una compagnia così grande. La regina mi prese in simpatia, e» sorrise orgogliosa «sono stata capocaccia sin da allora.» Stavo cercando qualche altro commento quando messer Dorato ci fece cenno di venire più vicini. Esortai la cavalla nera, e quando fummo al suo fianco, lui annunciò: «Per un bel pezzo non troveremo altre case. Non dovevano vederci cavalcare in gran fretta, ma non voglio perdere l'unico traghetto di questa sera da Guado Lanterna. Quindi ora, miei cari, facciamo sul serio. Striato, vediamo se quella nera è davvero veloce come dice chi me l'ha venduta. Statemi dietro come potete. Tratterrò il traghetto per tutti.» Dicendo questo, appoggiò i talloni ai fianchi di Malta e lasciò libere le redini. Al che la cavalla balzò in avanti, al galoppo. «Il mio Zampabianca può starle alla pari ogni giorno!» proclamò Lora, e lanciò anche il suo cavallo al galoppo. Prendili! suggerii alla mia nera, e fui quasi sconvolto dalla sua risposta combattiva. Da un passo tranquillo scattò in una corsa. I cavalli più piccoli erano davanti a noi. Schizzavano zolle di fango dagli zoccoli, e Malta conduceva solo perché la pista andava restringendosi. Le zampe più lunghe della mia nera ridussero la distanza finché non fummo proprio dietro di lo-
ro, prendendoci tutti gli schizzi. Ci udirono alle loro spalle e intensificarono lo sforzo, lasciandoci di nuovo indietro. Ma sentivo che la mia nera non era ancora al suo meglio. C'era una portata non realizzata nel suo passo, e il tempo del suo galoppo diceva che non aveva ancora raggiunto il limite. Tentai di trattenerla in modo che il fango non ci inzuppasse, ma lei non obbedì alle redini. Nel momento in cui la pista si allargò, la cavalla ridusse la distanza e in poche falcate li superò entrambi. Li sentii esortare i cavalli, e pensai che ci avrebbero raggiunti. Ma come un cane da caccia su una pista, la mia nera allungò ancor di più il passo, divorando la strada. Gettai uno sguardo indietro, scorgendo i loro volti accesi dalla sfida. Più veloce, esortai la mia nera. Non pensavo davvero che avesse altra velocità in lei, eppure balzò ancora una volta in avanti, come una fiamma sale ruggendo per un albero secco. Risi ad alta voce di pura gioia, e vidi le sue orecchie fremere in risposta. Nessun pensiero mi raggiunse la mente, ma sentii un esitante barlume di approvazione. Saremmo stati bene insieme. Arrivammo per primi al Traghetto di Guado Lanterna. 15 Borgo Bufera Fin dai tempi del Principe Pezzato la persecuzione degli Spirituali fu accettata nei Sei Ducati come i lavori forzati per i debitori o la gogna per i ladri. Così andava il mondo, senza mai esser messo in discussione. Negli anni seguiti alla Guerra delle Navi Rosse fu naturale che l'epurazione riprendesse slancio. La Purificazione del Cervo aveva liberato la terra dai Pirati delle Navi Rosse e dai Forgiati che avevano creato. La gente onesta sperava di purificare del tutto i Sei Ducati dalle contaminazioni innaturali. Alcuni furono, forse, troppo rapidi a punire con poche prove. Per qualche tempo l'accusa di possedere lo Spirito bastava a far temere un uomo per la sua vita, che fosse o meno colpevole. I cosiddetti Pezzati approfittarono di questo clima di sospetto e violenza. Senza rivelarsi, esposero pubblicamente figure note che possedevano lo Spirito ma non avevano mai condannato la persecuzione dei loro compagni più vulnerabili. Fu il primo tentativo degli Spirituali di esercitare un potere politico come gruppo. Eppure non fu lo sforzo di un popolo che si difende contro una persecuzione ingiusta, ma la tattica disonesta di una fazione sleale decisa a prendere il potere con qualsiasi mezzo. Non aveva-
no più lealtà l'uno per l'altro che un branco di cani. Delvin, La politica della cabala dei Pezzati La mia corsa servì a poco. Il traghetto era là, ormeggiato e così sarebbe rimasto, mi disse il capitano, fino all'arrivo di due carri di sale marino. Quando giunsero messer Dorato e Lora, cioè, per essere onesti, non molto dopo di me, il capitano si mostrò incorruttibile. Messer Dorato gli offrì una borsa sostanziosa di denaro per partire senza i carri ma il capitano scosse il capo con un sorriso. «Posso ricevere le vostre monete una volta sola, e spenderle una volta sola, per quanto abbiano un dolce suono. Aspetto i carri su richiesta di dama Bresinga. Il suo denaro mi arriva ogni settimana, e non farò nulla che possa scontentarla. Dovrete aspettare, buon signore, con le mie scuse.» Messer Dorato non fu entusiasta, ma non poteva farci niente. Mi disse di rimanere con i cavalli e andò alla locanda dell'approdo per bere un boccale di birra chiara in tutta tranquillità mentre aspettava. Era parte del nostro gioco, e non ne fui risentito. Me lo ripetei molte volte. Se Lora non fosse stata con noi, forse il Matto avrebbe trovato un modo per farmi compagnia senza compromettere i nostri ruoli pubblici. Avevo pregustato un viaggio amichevole con lui, un momento in cui non dovevamo mantenere la nostra facciata di padrone e servitore, ma mi rassegnai a ciò che era necessario. Tuttavia un'ombra di rammarico dovette apparire sul mio viso, perché Lora mi si affiancò mentre facevo camminare i cavalli in un campo accanto all'approdo. «Qualcosa ti preoccupa?». Le gettai uno sguardo, sorpreso dalla comprensione nella sua voce. «Sento la mancanza di un vecchio amico» risposi franco. «Capisco» disse Lora, e quando non aggiunsi altro, osservò: «Hai un buon padrone. Non se l'è presa perché lo hai battuto nella corsa. Molti avrebbero trovato il modo di farti pentire della vittoria.» L'idea mi spaventò, non come Tom lo Striato ma come Fitz. Davo per scontato che il Matto non si sarebbe risentito di una corsa vinta onestamente. Non mi ero del tutto calato nel mio ruolo. «È vero, suppongo. Ma la vittoria è tanto sua quanto mia. È lui che ha scelto la mia cavalla, e sulle prime non ne ero entusiasta. Ma sa correre, e ha mostrato uno spirito che non sospettavo in lei. Penso di poter farne una buona cavalcatura.» Lora fece un passo indietro per esaminare con occhio critico la mia nera.
«A me sembra già una buona cavalcatura. Perché ne dubitavi?» «Oh.» Cercai parole che non facessero pensare allo Spirito. «Sembrava indisponente. Certi cavalli sono accomodanti con il padrone. Il tuo Zampabianca, per esempio, o Malta. La mia nera non è così socievole. Ma forse andrà meglio man mano che ci conosciamo.» «Mianera? Si chiama così?» Scrollai le spalle e sorrisi. «Suppongo di sì. Non le ho ancora dato un nome, ma sì, immagino di chiamarla così.» Lora mi gettò uno sguardo obliquo. «Beh, è un po' meglio di Nerina o Reginella.» Sogghignai alla sua disapprovazione. «So cosa intendi. Ebbene, può ancora ispirarmi, mostrandomi le sue qualità, un nome più adatto, ma per ora è Mianera.» Per qualche tempo camminammo in silenzio. Lora continuava a gettare occhiate alle strade che portavano all'approdo del traghetto. «Vorrei che quei carri arrivassero. Non li scorgo neanche a distanza.» «La terra sale e scende molto. Potrebbero apparire in qualsiasi momento sopra una collina.» «Lo spero. Preferirei già essere in viaggio. Speravo di giungere a Borgo Bufera prima del buio. Vorrei salire al più presto sulle colline e dare un'occhiata attorno.» «In cerca della preda della regina» suggerii. «Sì.» Per qualche momento Lora non mi guardò. Poi parlò con franchezza, per essere sicura di farmi capire che non tradiva una confidenza. «La regina Kettricken mi ha detto che tu e messer Dorato siete degni di fiducia. Che non devo nascondervi nulla.» Chinai il capo. «La fiducia della regina mi onora.» «Perché?» «Perché?» Ero sorpreso. «Ecco, tanta considerazione da Parte di una gran signora per uno come me è...» «Incredibile. Soprattutto poiché sei arrivato a Castelcervo solo alcuni giorni fa.» Lora mi guardò dritto negli occhi. Kettricken aveva scelto bene la sua confidente. Eppure la sua stessa intelligenza poteva diventare una minaccia per me. Mi leccai le labbra, combattuto sulla risposta da dare. Un piccolo pezzo di verità, decisi. La verità era più facile da ricordare nelle conversazioni successive. «Conosco da tempo la regina Kettricken. L'ho servita in molti modi segreti durante la Guerra delle Navi Rosse.»
«Allora sei venuto a Castelcervo per lei, non per messer Dorato?» «Penso sia giusto dire che sono venuto per me stesso.» Ci fu silenzio. Insieme conducemmo i cavalli al fiume e li facemmo bere. Mianera non mostrò alcun timore e si spinse nell'acqua più profonda per bere a sazietà. Mi chiesi come avrebbe reagito sul traghetto. Era grossa, e il fiume era largo. Se decideva di creare problemi poteva rendere sgradevole la mia traversata. Bagnai un fazzoletto nell'acqua fredda e me lo passai sul viso. «Pensi che il principe sia solo fuggito?» Lasciai cadere il fazzoletto dagli occhi per fissare Lora con sorpresa. La donna era schietta. Non distolse lo sguardo. Gettai un'occhiata intorno per assicurarmi che nessuno ci sentisse. «Non lo so» dissi, altrettanto brusco. «Sospetto che possa essere stato plagiato, piuttosto che catturato. Penso che altri siano coinvolti nella sua scomparsa.» Poi mi morsi la lingua e mi rimproverai per essere stato troppo schietto. Come sostenere quell'opinione? Rivelando che possedevo lo Spirito? Meglio ascoltare che parlare. «Allora potremmo incontrare resistenza.» «È possibile.» «Perché pensi che lo abbiano attirato fuori da Castelcervo?» «Oh, non lo so.» Cominciavo a suonare vago, e lo sapevo. Lora mi guardò dritto in faccia. «Bene. Anch'io penso che sia stato portato via, se non addirittura catturato. Immagino che quelli che lo hanno preso non approvino il piano della regina di farlo sposare con la narcheska delle Isole.» Distolse lo sguardo e aggiunse: «Nemmeno io lo approvo.» Quelle parole mi fecero pensare. Era il primo segno che Lora, pur nella sua lealtà alla regina, fosse capace di critica. Tutto l'antico addestramento di Umbra riemerse mentre cercavo di capire quanto fosse profonda la sua riprovazione. Aveva qualcosa a che fare con la scomparsa del principe? «Anch'io non sono sicuro di essere del tutto d'accordo» risposi, per invitarla a dire di più. «Il principe è troppo giovane per fidanzarsi con chiunque» disse francamente Lora. «E non ho fiducia che le Isole Esterne siano i nostri migliori alleati, tanto meno che rimarranno fedeli. Come è possibile? Sono poco più che città-stato sparse lungo la costa di una terra spietata. Nessun signore ha un vero potere, e si scontrano di continuo. Un'alleanza con loro ci attirerà in una delle loro meschine guerricciole, piuttosto che favorirci nel commercio.» Ero colpito. Lora ci aveva pensato molto, e con una profondità che non
mi aspettavo da un capocaccia. «Cosa preferiresti, allora?» «Se la decisione fosse mia, e so bene che non lo è, lo terrei indietro, diciamo in riserva, fino a vedere con chiarezza cosa succede, non solo nelle Isole Esterne ma al sud, anche a Chalced e Borgomago e le terre al di là. Laggiù si è parlato di guerra, e di altre vicende bizzarre. Dicono di aver visto draghi. Non credo a tutto quello che sento, ma i draghi furono visti anche nei Sei Ducati durante la Guerra delle Navi Rosse. Ho sentito troppo spesso quelle storie per accantonarle. Forse sono attirati dalla guerra e dalle prede.» Ci sarebbero volute ore per illuminarla in proposito. Chiesi solo: «Allora tu faresti sposare il nostro principe a una nobildonna di Chalced, o alla figlia di un Mercante di Borgomago?» «Forse sarebbe meglio per lui sposarsi all'interno dei Sei Ducati. Alcuni mormorano che una seconda regina straniera potrebbe non essere una buona cosa.» «E tu sei d'accordo?» Lora mi gettò un'occhiata. «Dimentichi che sono la capocaccia della Regina? Meglio una straniera come lei di certe nobildonne di Armento che ho dovuto servire in passato.» Rimanemmo in silenzio per qualche tempo mentre allontanavamo i cavalli dal fiume. Tolsi i morsi e li lasciai brucare. Avevo fame anch'io. Come se leggesse i miei pensieri, Lora frugò nella borsa da sella e tirò fuori mele per tutti e due. «Ho sempre cibo con me» disse, porgendomene una «Alcuni per cui ho cacciato trattano i loro cacciatori come cavalli o cani.» Mi trattenni dal difendere messer Dorato da quell'accusa. Meglio lasciare che il Matto decidesse come desiderava presentarsi. Ringraziai e diedi un morso alla mela. Era acre e al tempo stesso dolce. Mianera alzò all'improvviso la testa. Vuoi? le proposi. La cavalla fece fremere sdegnosamente le orecchie e riprese a brucare. Qualche giorno senza di me, e parla con i cavalli. Dovevo immaginarlo. Il lupo usò lo Spirito senza sottigliezza, facendo trasalire me e i tre cavalli. «Occhi-di-notte!» esclamai sbalordito, girando attorno lo sguardo. «Chiedo scusa?» «Il mio... cane. Mi ha seguito da casa.» Lora mi guardò come se fossi pazzo. «Il tuo cane? Dove?» Fortunatamente per me, il grosso lupo era appena apparso alla vista, scivolando fuori dal riparo degli alberi. Ansimava, e andò dritto al fiume per
bere. Lora lo fissò. «Quello è un lupo.» «È vero, sembra proprio un lupo» concordai. Battei le mani e fischiai. «Qui, Occhi-di-notte. Qui, bello.» Sto bevendo, idiota. Ho sete. Avresti sete anche tu se avessi corso fin qui invece di andare a cavallo. «No» rispose Lora con calma. «Quello non è un cane che sembra un lupo. Quello è un lupo.» «L'ho adottato quando era molto piccolo.» Occhi-di-notte stava ancora bevendo. «È stato davvero un buon compagno per me.» «Dama Bresinga potrebbe non accogliere volentieri un lupo in casa sua.» Occhi-di-notte alzò all'improvviso la testa, si guardò intorno, e senza rivolgermi neanche uno sguardo si infilò di nuovo nei boschi. Stanotte, mi promise allontanandosi. Stanotte sarò sull'altra sponda del fiume. Anch'io. Fidati di me. Stanotte. Mianera aveva colto l'odore di Occhi-di-notte e lo osservò allontanarsi. Nitrì a disagio. Guardai di nuovo Lora e la trovai che mi fissava con curiosità. «Mi sarò sbagliato. Era proprio un lupo. Però assomigliava moltissimo al mio cane.» Mi hai fatto passare per scemo. Non ci vuole molto. «Strano modo di comportarsi per un lupo» osservò Lora. Lo seguiva ancora con lo sguardo. «Erano anni che non vedevo lupi da queste parti.» Offrii il torsolo della mela a Mianera. Lei lo prese e mi lasciò sul palmo della bava verde d'erba. Il silenzio sembrava la scelta più saggia. «Striato! Capocaccia!» Messer Dorato ci chiamò dalla strada. Con gran sollievo condussi i cavalli verso di lui. Lora ci seguì. Mentre ci avvicinavamo attraverso il prato, la donna emise un piccolo suono gutturale di apprezzamento. La osservai costernato. Fissava messer Dorato, ma al mio sguardo interrogativo mi rivolse un sorrisetto. Guardai di nuovo messer Dorato. Consapevole della nostra attenzione, lui si mise quasi in posa. Conoscevo troppo bene il Matto per lasciarmi ingannare dalla noncuranza artificiosa di messer Dorato. Sapeva che il vento del fiume giocava con i suoi capelli dorati. Aveva scelto bene i colori, toni di azzurro e bianco, e il suo abbigliamento elegante era tagliato per far risaltare la figura snella. Sembrava una creatura di sole e cielo. Perfino con in mano un tovagliolo di li-
no bianco pieno di cibo e una brocca, riusciva ad apparire elegantemente aristocratico. «Ti ho portato da mangiare e da bere, così non sarai tentato di lasciare i cavalli incustoditi.» Mi diede il tovagliolo e la brocca imperlata di umidità. Poi guardò Lora dalla testa ai piedi e le rivolse un sorriso di approvazione. «Se la capocaccia gradisce, sarei lieto di dividere un pasto con lei mentre attendiamo quei dannati carri.» Lo sguardo fugace che Lora mi rivolse era carico di sottintesi. Si scusava di lasciarmi solo, ma voleva farmi capire che non poteva perdere quella rara opportunità. «Certo che gradisco, messer Dorato» rispose, inclinando la testa. Presi le redini di Zampabianca prima che lei pensasse di porgermele. Messer Dorato le offrì il braccio come a una dama. Con una minuscola esitazione, Lora mise la mano abbronzata sul pallido azzurro della sua manica. Subito lui la coprì con le sue lunghe dita eleganti. Prima che fossero lontani tre passi erano immersi in una conversazione su uccelli e stagioni e penne. Rimasi in silenzio. La realtà mi apparve diversa. Messer Dorato, compresi all'improvviso, era una persona completa e reale proprio come lo era stato il Matto. Il Matto era stato un piccolo scherzo di natura senza colore, un beffeggiatore dalla lingua tagliente che tendeva a suscitare amore cieco o timorosa ripugnanza. Io ero fra quelli che avevano fatto amicizia con il giullare di re Sagace, e avevo valutato la sua amicizia come il più vero legame che due ragazzi potessero dividere. Quelli che avevano temuto le sue battute perfide ed erano stati disgustati da pelle pallida e occhi incolori erano la stragrande maggioranza della gente al castello. Ma proprio ora una giovane donna intelligente e, dovevo ammetterlo, molto attraente aveva preferito la compagnia di messer Dorato alla mia. «Tutti i gusti sono gusti» dissi a Zampabianca, che con aria addolorata guardava la padrona allontanarsi. Cosa c'è nel tovagliolo? Sapevo che non saresti andato lontano. Un momento. Misi i cavalli a pascolare assicurati a una corda e andai dove il campo incontrava un roveto fra gli alberi. Stesi il tovagliolo su un grande masso di fiume coperto di muschio. Quando stappai la brocca scoprii che conteneva sidro dolce. Nel tovagliolo c'erano due pasticci di carne. Uno è mio. Occhi-di-notte non uscì del tutto dal roveto. Gli lanciai un pasticcio e subito diedi un morso al mio. Era quasi fumante, e la carne e il sugo erano
bruni e saporiti. Una delle belle cose dello Spirito è che si può mantenere una conversazione mentre si mangia, senza strozzarsi. Allora. Come mi hai trovato, e perché? gli chiesi. Ti ho trovato come troverei un morso di pulce. Perché? Cos'altro dovevo fare? Non potevi aspettarti che rimanessi a Borgo Castelcervo. Con un gatto? Ma per favore. È già brutto che tu puzzi di gatto. Non avrei sopportato di convivere con quella bestia. Ticcio si preoccuperà quando scoprirà che sei scomparso. Forse, ma ne dubito. Era così emozionato di tornare a Borgo Castelcervo. Non so come possa piacere a un ragazzo. C'è solo rumore e polvere, nessuna preda degna di questo nome, e troppi umani accalcati nello stesso posto. Allora mi hai seguito solo per risparmiarti la seccatura. Non perché eri preoccupato per me o sentivi la mia mancanza. Se tu e il Senza Odore andate a caccia, allora dovrei cacciare con voi. È puro buon senso. Ticcio è un bravo ragazzo, ma non è un gran cacciatore. Meglio lasciarlo al sicuro in città. Ma noi siamo a cavallo, e tu, amico, non sei agile come una volta, e non hai la resistenza di un lupetto. Meglio che torni a Borgo Castelcervo e tieni d'occhio il ragazzo. O forse potresti scavare un buco proprio qui e seppellirmi. «Cosa?» La sua amarezza mi fece esclamare ad alta voce. Mi strozzai con il sidro che stavo bevendo. Fratellino, non trattarmi come se fossi già morto o morente. Se è così che mi vedi, preferirei essere morto sul serio. Rubi il presente della mia vita quando temi di continuo che il domani porti la mia morte. Le tue paure gelide mi afferrano e mi strappano tutto il piacere del calore del giorno. Come non aveva fatto da tempo, il lupo lasciò cadere tutte le barriere tra noi. Percepii all'improvviso ciò che stavo nascondendo a me stesso. La recente reticenza tra noi non era tutta opera di Occhi-di-notte. Per metà era mia, la mia fuga da lui per timore che la sua morte fosse insopportabilmente dolorosa per me. Ero io che lo avevo allontanato; ero io che gli avevo nascosto i miei pensieri. Eppure erano filtrati attraverso le barriere, abbastanza da ferirlo. Ero stato sul punto di abbandonarlo. Il mio lento allontanarmi da lui era stata la mia rassegnazione alla sua mortalità. Dal giorno in cui lo avevo strappato alla morte non lo avevo più visto come del tutto vivo. Sedetti per un poco, sentendomi piccolo e meschino. Non avevo bisogno
di dirgli che mi vergognavo. Un legame nello Spirito rende inutili molti chiarimenti. Mi scusai ad alta voce. «Ticcio è grande abbastanza per prendersi cura di sé D'ora in poi saremo insieme, succeda quel che succeda.» Avvertii la sua approvazione. Allora. Cosa stiamo cacciando? Un ragazzo e una gatta. Il principe Devoto. Ah. Il ragazzo e la gatta del tuo sogno. Bene, almeno li riconosceremo quando li troviamo. Era piuttosto sconcertante che facesse così in fretta il collegamento, e che ammettesse con tanta facilità ciò che io tentavo di ignorare. Avevamo diviso i pensieri con quei due, e più di una volta. Allontanai quel disagio. Ma come attraverserai il fiume? E come terrai dietro ai cavalli? Non preoccuparti, fratellino. E non mi tradire con quell'aria intontita. Sentii che si divertiva a lasciarmi nel dubbio, così lasciai perdere. Finii il pasto e mi sdraiai contro il masso che era stato la mia tavola. Aveva assorbito il calore del giorno. Negli ultimi tempi avevo dormito poco, e sentii le palpebre farsi pesanti. Schiaccia un sonnellino. Io terrò d'occhio i cavalli per te. Grazie. Fu un tale sollievo chiudere gli occhi e abbandonarmi al sonno. Il mio lupo faceva la guardia. Il collegamento profondo tra noi fluì di nuovo senza ostacoli. Mi portò più pace che la pancia piena e la luce del sole. Arrivano. Aprii gli occhi. I cavalli brucavano ancora pacifici, ma le ombre si erano allungate sull'erba del prato. Messer Dorato e Lora erano ai margini del campo. Agitai la mano, poi mi alzai di malavoglia. La posizione mi aveva irrigidito la schiena, eppure mi sarei rimesso volentieri a dormire. Più tardi, mi dissi. Scorgevo i carri di merce che si avvicinavano alla rampa del traghetto. Zampabianca e Malta accorsero al mio richiamo. Solo Mianera andò il più lontano possibile e dovette essere trascinata indietro con la cavezza. Una volta che ebbi le redini in mano si arrese e mi seguì come se non avesse mai contemplato nient'altro. Li condussi a incontrare i carri in arrivo. Quando notai quattro grigie zampe di lupo sotto uno dei carri, guardai altrove. Il traghetto era una grande imbarcazione piatta di assi scheggiate, assicurata da una grossa cima a ciascuna sponda. Era trascinato avanti e indietro da squadre di cavalli, ma era anche equipaggiato da marinai con robusti pali. Caricarono i carri di dama Bresinga, poi i passeggeri e i cavalli. Fui l'ultimo a salire. Mianera non voleva saperne. Alla fine penso che venne
solo per la compagnia degli altri cavalli, piuttosto che per le mie lodi e blandizie. Il traghetto si staccò dal molo e cominciò la lunga traversata del Fiume Cervo. Il fiume sciabordava e gorgogliava lungo il bordo della chiatta carica. Era notte fatta quando raggiungemmo la riva nord del fiume Cervo. Scendemmo per primi dal traghetto, poi aspettammo che scaricassero i carri. Messer Dorato decretò che li avremmo seguiti al castello di dama Bresinga a Borgo Bufera piuttosto che passare la notte alla locanda. I carrettieri sapevano la strada a memoria. Appesero lanterne accese alle sponde, così fu facile seguirli. La tonda luna splendeva su di noi. Ci tenevamo lontani dai carri, ma la polvere era ancora sospesa nell'aria al nostro passaggio e mi si appiccicava alla pelle. Ero molto più stanco di quanto mi aspettassi. Il dolore alla schiena era più acuto intorno alla vecchia cicatrice di freccia. All'improvviso desiderai una chiacchierata tranquilla con il Matto, che mi riportasse in qualche modo al giovane sano che ero stato un tempo. Ma mi rammentai che né Fitz né il Matto erano lì. Solo messer Dorato e il suo domestico, lo Striato. Prima me lo cacciavo in testa, meglio era per tutti e due. Lora e Messer Dorato conversavano sottovoce. La donna era lusingata dalla sua attenzione, e non tentava di nascondere il piacere che ne traeva. Non mi escludevano, ma mi sarei sentito a disagio ascoltandoli. Arrivammo infine a Borgo Bufera. Dopo diverse colline rocciose e valli di querce giungemmo in cresta a un'altra dolce collina, e le luci palpitanti di una cittadina splendettero sotto di noi. Borgo Bufera sorgeva su un affluente del Cervo chiamato Fiume Corno, troppo piccolo per essere navigabile dalle grandi barche. La maggior parte delle merci per Borgo Bufera compivano l'ultimo tratto del viaggio via terra. Il Corno forniva acqua al bestiame e ai campi, e pesce alla gente che viveva sulle sue rive. Il castello dei Bresinga sorgeva su un piccolo rialzo sopra la cittadina. Nel buio era impossibile scorgere l'estensione della dimora, ma la grandezza delle finestre illuminate dalle candele mi convinse che era assai vasta. I carri entrarono da un portale in un lungo muro di pietra e noi li seguimmo senza incontrare ostacoli. Quando i conducenti si fermarono nel piazzale accanto al castello, diversi inservienti uscirono a incontrarli reggendo torce. Notai l'assenza di latrati di cani, e mi parve strano. Messer Dorato condusse Lora e me all'ingresso principale del castello. La porta si aprì prima che smontassimo e i servitori si riversarono fuori ad accoglierci. Eravamo attesi. Un messaggero ci aveva preceduti sul traghetto del mat-
tino. Dama Bresinga stessa apparve a salutarci, dandoci il benvenuto in casa sua. I servitori condussero via i nostri cavalli e portarono dentro il nostro bagaglio. Io seguii messer Dorato e la capocaccia della Regina nell'atrio spazioso del castello dei Bresinga. La dimora imponente era costruita in quercia e pietra di fiume. Travi spesse e massicce pietre dominavano lo spazio, facendo sembrare rimpicciolita la gente che riempiva la stanza. Messer Dorato era il centro dell'attenzione. Dama Bresinga gli aveva preso il braccio in segno di benvenuto. Bassa e paffuta, gli rivolgeva dal basso uno sguardo di approvazione mentre chiacchierava. Il suo sorriso arricciava gli angoli degli occhi e tendeva il labbro superiore sui denti. Il ragazzo allampanato accanto a lei era probabilmente Urbano Bresinga. Era più alto di Ticcio ma aveva all'incirca la stessa età, e portava i capelli scuri spazzolati all'indietro, rivelando una marcata attaccatura a punta. Mi rivolse uno strano sguardo, poi riportò l'attenzione su sua madre e messer Dorato. Un bizzarro brivido di consapevolezza mi percorse la pelle. Lo Spirito. Qualcuno là era Antico Sangue, e lo nascondeva con consumata abilità. Sussurrai un avvertimento al lupo. Fatti piccolo. Il suo assenso fu più sottile del profumo dei fiori notturni quando nasce il giorno, eppure vidi dama Bresinga girare leggermente il capo, come per cogliere un suono distante. Non potevo esserne ancora certo, ma sentii che i sospetti miei e di Umbra erano fondati. La capocaccia della Regina aveva la propria cerchia di ammiratori che si contendevano la sua attenzione. Il capocaccia dei Bresinga era già al suo fianco e le diceva che al mattino sarebbe stato lieto di mostrarle i migliori altopiani per cacciare gli uccelli. I suoi assistenti gli facevano corona con solerzia. Più tardi l'avrebbe scortata a una cena con dama Bresinga e messer Dorato. Nell'imminenza di una caccia, i capicaccia potevano aspettarsi di dividere tavola e vino con i nobili. Nel mezzo della confusione del benvenuto, pochi mi prestavano attenzione. Rimasi in piedi da buon servitore, in attesa di ordini. Un domestica si affrettò a raggiungermi. «Ti mostro le stanze che abbiamo preparato per messer Dorato, così puoi sistemarle a suo piacimento. Questa sera vorrà fare un bagno?» «Non c'è dubbio» risposi alla giovane mentre la seguivo. «E uno spuntino leggero nelle sue stanze. A volte gli viene appetito in piena notte.» Una mia invenzione per accertarmi di non restare a stomaco vuoto. Era previsto che mi occupassi della comodità del mio padrone prima che della mia. La visita inaspettata di messer Dorato aveva richiesto una bella camera
grande come la mia intera casetta. Vi campeggiava un letto immenso, coperto di trapunte e morbidi guanciali. Mazzi enormi di rose profumavano l'ambiente, e un'autentica foresta di candele di cera d'api aggiungeva luce e profumo delicato. Di giorno la stanza si affacciava sul fiume e sulla vallata, ma quella notte le finestre erano chiuse. Ne aprii una 'per cambiare l'aria' e poi assicurai la domestica che avrei tirato fuori i vestiti del mio padrone se lei si fosse preoccupata dell'acqua per il bagno. Un'anticamera accanto alla stanza di messer Dorato era destinata al mio uso. Era piccola, ma meglio arredata di molte camere di servitori che avevo visto. Mi ci volle molto più tempo del previsto per disporre gli abiti di messer Dorato. Mi stupii che fosse riuscito a far stare tanta roba nei fagotti. Dalle compatte borse emersero non solo vestiti e stivali, ma gioielli, profumi, sciarpe, pettini e spazzole. Misi tutto in ordine come meglio potevo Tentai di ricordare Charim, il domestico e valletto del principe Veritas. Trovarmi al suo posto mi portò all'improvviso a considerare tutto il suo lavoro. Quel brav'uomo era stato sempre presente, sempre impegnato a garantire il benessere o la comodità di Veritas. Mai invadente, ma sempre pronto agli ordini del padrone. Tentai di immaginare cosa avrebbe fatto al mio posto. Feci accendere un fuocherello in modo che il mio padrone stesse al caldo mentre si asciugava dopo il bagno. Voltai l'angolo del lenzuolo di messer Dorato e vi disposi la camicia da notte. Poi, con un sorrisetto, mi ritirai nella mia camera, chiedendomi cosa il Matto avrebbe pensato di tutto questo. Mi aspettavo che disfare i miei fagotti sarebbe stato semplice, e lo fu finché non arrivai al pacco di vestiti del sarto. Slegai lo spago e gli indumenti parvero esplodere come un fiore che sboccia. Il Matto si era rimangiato la promessa di messer Dorato di lasciarmi vestire modestamente. I vestiti del sarto erano della migliore qualità che avessi mai posseduto. C'era un completo blu da domestico, tagliato meglio di quello che indossavo, e di tessuto più fine. Le due candide camicie di lino erano più eleganti di ciò che portava la maggior parte dei servitori. C'era un farsetto di un ricco blu, accompagnato da brache scure con una striscia grigia, e un altro di un'intensa tonalità di verde. Mi appoggiai quello verde sul petto. La balza mi arrivava quasi alle ginocchia, più lunga di quanto fossi abituato, stracolma di ricami gialli. Calze gialle. Scossi il capo. Una larga cintura di cuoio. Il fagiano d'oro di messer Dorato era ricamato sul petto. Spostai lo sguardo, fissandomi allo specchio. Il Matto si era espresso al suo meglio. Ritirai doverosamente i vestiti. Senza dubbio avrebbe trovato presto una
scusa per farmeli indossare. Avevo appena finito di disfare i miei fagotti quando udii rumore di passi nel corridoio. Qualcuno bussò alla porta annunciando che la vasca di messer Dorato era arrivata. La portarono dentro due ragazzi, seguiti da altri tre con secchi d'acqua calda e fredda. Ci si aspettava che li mescolassi per ottenere la temperatura preferita da messer Dorato. Poi un altro ragazzo arrivò con un vassoio di oli profumati, e un altro ancora con una pila torreggiante di asciugamani. Due uomini portarono i paraventi dipinti che lo avrebbero protetto dalla corrente mentre si godeva le sue abluzioni. Non sono sempre stato rapido a valutare le situazioni sociali, eppure, per quanto ottuso, stavo comprendendo la statura sociale di messer Dorato. Un benvenuto così espansivo era più degno della regalità che di un nobile senza terra di origine equivoca. Evidentemente la sua popolarità a corte superava di molto la mia valutazione iniziale. Mi dispiacque di non averla percepita prima. Poi, con certezza infallibile, ne compresi la ragione. Io sapevo chi era. Conoscevo il suo passato, o comunque molto più dei suoi ammiratori. Per me non era l'esotico nobile leggendariamente ricco discendente da qualche lontana famiglia di Jamaillia. Per me era il Matto nel mezzo di uno dei suoi scherzi elaborati, e mi aspettavo che da un momento all'altro cessasse i giochi di destrezza e lasciasse cadere a terra con fragore tutti i suoi magici arnesi volanti. Ma non ci sarebbe stato alcun momento di rivelazione. Messer Dorato era reale, come il Matto era stato reale per me. Rimasi immobile un momento, vacillando per quella scoperta. Messer Dorato era reale come il Matto. Dunque il Matto era stato reale come messer Dorato. E allora chi era quest'uomo che avevo conosciuto per così tanti anni? La percezione di una presenza, più un odore che un pensiero, mi portò alla finestra. Non guardai verso il fiume, ma giù nei cespugli. La mente di Occhi-di-notte sfiorò leggermente la mia, avvertendomi di tenere sotto controllo il nostro legame nello Spirito. Un paio di occhi profondi guardò su e incontrò i miei. Gatti, confermò quel tocco delicato prima che pensassi di chiedere. Puzza di pipì di gatto agli angoli della stalla, e sotto i cespugli sul retro. Cacca di gatto seppellita in giardino. Gatti dappertutto. Più di uno? La gatta di Devoto era un regalo di questa famiglia. Forse li preferiscono come animali da caccia. Di sicuro. Il fetore è ovunque. Mi infastidisce. Non ho molta voglia di incontrarne uno. Tutto ciò che so di loro l'ho imparato questo pomeriggio, quando Ticcio mi ha proposto di fare amicizia con un gatto. Ho messo il
naso nella porta e quella furia arancione mi è volata addosso, graffiando e soffiando. Ne so quanto te. Burrich non ha mai tenuto gatti nella stalla. Era più saggio di quanto non immaginassimo. Una porta si chiuse delicatamente dietro di me. Mi girai, ma era solo messer Dorato che entrava nella stanza. Che fosse il Matto o Dorato, era ancora uno dei pochi al mondo che sapeva cogliermi di sorpresa. Ricordai il mio ruolo, mi raddrizzai e mi inchinai. «Padrone, ho fatto sistemare le vostre cose. Il bagno vi attende.» «Ben fatto, Striato. E l'aria serale è riposante. La vista è piacevole?» «Meravigliosa, signore. Si vede gran parte della valle del fiume. Ed è una bella notte, con una luna pressoché piena che farebbe ululare quasi qualsiasi lupo.» «Davvero?» Messer Dorato andò in fretta alla finestra e guardò giù, scorgendo Occhi-di-notte. Il sorriso che gli illuminò il volto era genuino. Trasse un profondo respiro soddisfatto, come assaporando l'aria. «Bella notte, davvero. Di certo molte creature notturne sono in caccia. Possa la nostra spedizione di domani andar bene come la loro al chiaro di luna. Anzi, è un peccato che io debba rimandare la mia caccia fino a domani. Stasera sono invitato a cena tardi con dama Bresinga e suo figlio Urbano. Ma mi hanno concesso un momento per rinfrescarmi. Tu, naturalmente, mi assisterai a cena.» «Naturalmente, signore» concordai, deluso. Avevo sperato di scivolare fuori dalla finestra e andare in ricognizione con Occhi-di-notte. Nulla che non possa fare meglio da solo. Posso annusare ed esplorare. Vedi di fare lo stesso al castello. Prima portiamo a termine questa missione, prima saremo di nuovo a casa. Vero, riconobbi, ma mi domandai cosa fosse quel lieve sgomento del cuore. Non volevo forse lasciare Castelcervo e riprendere al più presto la mia vita? Forse cominciavo ad apprezzare il mio ruolo di domestico per un ricco bellimbusto, mi dissi sarcastico. Presi la sopravveste di messer Dorato, poi gli tolsi gli stivali. Come avevo visto Charim fare così spesso senza badarci spazzolai e appesi la giacca, e diedi agli stivali una veloce spolverata prima di accantonarli. Quando messer Dorato mi offrì i polsi slacciai i polsini di merletto della tunica e accantonai i fronzoli luccicanti. Lui si appoggiò all'indietro nella poltrona. «Stasera metterò il giustacuore azzurro. E la tunica di lino con la striscia azzurra fine. Le brache blu scuro, penso, e le scarpe con l'orlo di catena ar-
gentata. Preparami tutto. Poi versa i secchi, Striato, e sii generoso con l'olio di rosa. Infine drizza i paraventi e lasciami ai miei pensieri per un poco. Oh, e per favore, porta un po' d'acqua in camera tua e fanne uso. Quando ceniamo voglio sentire l'odore del cibo, non di te in piedi alle mie spalle. Oh. E indossa il completo blu. Farà risaltare meglio i miei vestiti, penso. Un'altra cosa. Metti anche questo, ma ti consiglio di tenerlo coperto, a meno che tu non ne abbia bisogno davvero.» Dalla tasca estrasse l'amuleto di Jinna. Lo lasciò cadere nella mia mano tesa. Annunciò tutto questo con aria di cordiale buon umore. Messer Dorato era un uomo soddisfatto di sé stesso, che si aspettava una serata di discorsi piacevoli e cibi sani. Feci come mi ordinava, e poi mi ritirai con gratitudine nella mia stanza con l'acqua per lavarmi e un poco di olio alla mela. In breve udii messer Dorato che sguazzava vigorosamente canticchiando un motivo che non conoscevo. Il mio bagno fu più contenuto ma altrettanto apprezzato. Mi affrettai, sapendo che presto i miei servizi sarebbero stati richiesti di nuovo. Lottai con il mio farsetto, scoprendo che era molto più attillato di quelli a cui ero abituato. C'era appena lo spazio per nascondere il rotolo di attrezzi di Umbra, tanto meno il coltellino che avevo deciso di portare. Non potevo certo avere una spada al fianco nella sala da pranzo in un'occasione sociale, ma decisi che non desideravo andare del tutto disarmato. Quella sera l'uso discreto dello Spirito da parte del lupo mi aveva trasmesso la cautela. Allacciai la cintura che assicurava il farsetto e mi legai di nuovo i capelli nella coda da guerriero. L'olio alla mela fece sì che rimanessero in ordine. Mi accorsi che da qualche momento non sentivo schizzare acqua, e mi affrettai di nuovo in camera di messer Dorato. «Messer Dorato, richiedete la mia assistenza?» «Non penso.» C'era un'ombra del Matto in quel velato sarcasmo. Emerse da dietro a un paravento, completamente vestito, aggiustandosi la cascata di merletto ai polsini. Alzò gli occhi a guardarmi e un piccolo sorriso di piacere per avermi stupito danzò sulle sue labbra. All'improvviso il sorriso si spense. Per un istante mi fissò con la bocca socchiusa. Poi i suoi occhi si illuminarono. Avanzò verso di me con la soddisfazione che gli splendeva in viso. «Perfetto» disse. «Proprio come avevo sperato. Oh, Fitz, ho sempre immaginato che, data l'opportunità, potevo mostrarti nella maniera che ti si addice. Guardati.» Il fatto che mi avesse chiamato col mio nome era sbalorditivo, come il
modo in cui mi afferrò le spalle e mi spinse verso l'immenso specchio. Per un momento guardai solo il riflesso del suo viso dietro la mia spalla, illuminato da orgoglio e compiacimento. Poi spostai lo sguardo e fissai un uomo che riconoscevo appena. Le sue istruzioni per il sarto dovevano essere state molto precise. Il bianco della tunica appariva al collo e ai polsi. Il giustacuore mi vestiva bene le spalle e il torace. Era blu Cervo, il mio colore di famiglia, e anche se ora lo portavo da servitore, il taglio non era da servitore ma da soldato: mi faceva le spalle larghe e il ventre piatto. Il bianco contrastava con il bruno della mia pelle e di occhi e capelli. Contemplai il mio viso, costernato. Il rilievo delle cicatrici era andato via via perdendosi, insieme alla mia gioventù. Le rughe sulla fronte e quelle che cominciavano ad apparire agli angoli degli occhi riducevano in qualche modo la gravità della cicatrice lungo il viso. Avevo accettato da tempo il naso rotto. La striscia bianca fra i capelli era più visibile con la coda da guerriero. L'uomo che mi guardava dallo specchio mi ricordò vagamente Veritas, ma soprattutto il ritratto del re-in-attesa Chevalier, ancora appeso nella sala di Castelcervo. «Sembro mio padre» dissi piano. La prospettiva mi rese felice e allarmato. «Solo a chi cercasse la somiglianza» rispose il Matto. «Solo uno che ne sa abbastanza per guardare oltre le cicatrici vedrebbe il Lungavista in te. Soprattutto, amico mio, sembri te stesso, ma più del solito. Sembri il FitzChevalier che sei sempre stato, tenuto nascosto dalla saggezza e dai sotterfugi di Umbra. Non ti sei mai chiesto perché i tuoi vestiti fossero semplici e quasi rozzi, per farti sembrare più stalliere e soldato che il bastardo di un principe? Madama Presta, la sarta, pensò sempre che gli ordini venissero da Sagace. Anche quando le era permesso di indulgere in fronzoli alla moda, servivano solo ad attirare l'attenzione su sé stessi e sull'abilità della sarta, non su di te. Ma è così, Fitz, è così che ti ho sempre visto. E come tu non ti sei visto mai.» Guardai di nuovo lo specchio. Penso che sia vero quando dico che non sono mai stato vanitoso. Mi ci volle un momento per accettare che, sebbene invecchiato, si trattava più di maturità che di declino. «Non sono così brutto» riconobbi. Il sorriso del Matto si allargò. «Ah, amico mio, sono stato in luoghi dove le donne avrebbero lottato a coltello per te.» Alzò una mano scarna e si strofinò pensierosamente il mento. «E ora mi chiedo se il mio capriccio non sia riuscito fin troppo bene. Non passerai inosservato. Ma forse è me-
glio. Amoreggia un po' con le sguattere, e chissà cosa ti diranno.» Alzai gli occhi al cielo. Lo sguardo del Matto incontrò il mio nello specchio. «Mai ospiti più belli di noi due hanno cenato in queste sale» proclamò con enfasi. Mi premette la spalla, poi si raddrizzò: all'improvviso era di nuovo messer Dorato. «Striato. La porta. Ci aspettano.» Scattai per obbedire al mio padrone. In qualche modo quei pochi momenti con il Matto mi avevano reso più sopportabile quella nostra nuova commedia. Provai addirittura un ritorno di interesse. Se il principe Devoto era lì a Borgo Bufera, come sospettavamo, lo avremmo scoperto prima dell'alba. Messer Dorato mi precedette attraverso la porta e io lo seguii, due passi indietro e sulla sua sinistra. 16 Artigli Le razzie della Guerra delle Navi Rosse pesarono particolarmente sui Ducati della Costa. Antiche fortune furono dissipate, diverse linee di famiglia si interruppero, e tenute un tempo rigogliose furono ridotte a rovine incenerite e cortili invasi dalle erbacce. Eppure alla fine della guerra, proprio come le pianticelle germogliano in primavera dopo un incendio, molti nobili minori scoprirono che le loro fortune erano in ascesa. Molte delle tenute più umili erano scampate all'attenzione dei razziatori. Greggi e raccolti sopravvissero, e ciò che un tempo era considerato una proprietà secondaria si trasformò in un luogo di abbondanza. Dame e signori minori di quelle terre divennero partiti desiderabili per gli eredi di famiglie più antiche ma all'improvviso meno facoltose. Così il signore vedovo delle terre dei Bresinga vicino a Borgo Bufera prese una sposa molto più giovane e più ricca dalla famiglia Agarico di Picco Minore, nel Cervo. Gli Agarico erano un'antica e nobile dinastia ormai decaduta. Eppure negli anni della Guerra delle Navi Rosse la loro valle nascosta prosperò, e la famiglia divise i raccolti con la gente impoverita delle confinanti terre dei Bresinga. Questa gentilezza portò frutto per gli Agarico quando Jaglea Agarico divenne dama Bresinga. Diede al suo anziano marito un erede, Urbano Bresinga, poco prima che lui morisse di febbre. Scrivano Duvlen, Storia della Famiglia Agarico
Messer Dorato si mosse con la grazia e la sicurezza che si suppone innata nella nobiltà. Mi condusse direttamente a un'anticamera elegante dove lo attendevano la padrona di casa e suo figlio. C'era anche Lora, in una sobria veste morbida color crema, bordata di pizzo. Era immersa in una conversazione con il capocaccia dei Bresinga. Pensai che il vestito le donava meno della semplice tunica e dei calzoni da cavallerizza, perché le braccia e il volto abbronzato erano in stridente contrasto con il vezzoso merletto al collo e le maniche scampanate. Dama Bresinga era tutta balze e ricchi drappeggi, e le sue vesti elaborate accentuavano così tanto il busto e le anche. C'erano altri tre ospiti: una coppia sposata e la loro figlia di circa diciassette anni, esponenti della nobiltà minore locale. Tutti aspettavano messer Dorato. La reazione quando entrammo fu quella prevista dal Matto. Dama Bresinga si girò per salutare l'ospite, sorridendo. I suoi occhi lo percorsero dalla testa ai piedi, allargandosi di gioia. «Il nostro onorato ospite è qui» annunciò. Messer Dorato rivolse leggermente la testa da un lato, piegando il mento con aria innocente, come ignaro della propria bellezza. Lora lo fissò con franca ammirazione mentre dama Bresinga lo presentava a messer e dama Temolo dei Poggi di Cotter e alla loro figlia Sydel. I nomi non mi erano familiari, ma mi parve di ricordare i Poggi di Cotter, una piccola tenuta nelle colline di Armento. Sydel arrossì, quasi agitata vedendosi inclusa nell'inchino di messer Dorato; da quel momento lo sguardo della giovane gentildonna fu fisso su di lui. Gli occhi di sua madre vagarono verso di me e mi ammirarono con una franchezza che avrebbe dovuto farla arrossire. Distolsi lo sguardo solo per trovare Lora che mi guardava con un sorriso perplesso, come se avesse dimenticato chi ero. Quasi avvertivo la soddisfazione radiosa di messer Dorato per averli così tanto affascinati. Offrì il braccio a dama Bresinga, e suo figlio Urbano accompagnò Sydel. I Temolo li seguirono, e poi vennero i capocaccia. Seguii i miei superiori in sala da pranzo e presi posto dietro alla sedia di messer Dorato. La posizione mi proclamava come guardia del corpo oltre che servitore. Dama Bresinga mi gettò uno sguardo interrogativo, ma non incontrai i suoi occhi. Se pensava che messer Dorato avesse abusato della sua ospitalità permettendomi di accompagnarlo, non fece commenti. Il giovane Urbano semplicemente mi fissò per un momento o due, poi liquidò la mia presenza con un sommesso commento alla sua compagna. Dopo di ciò, divenni invisibile. Penso che fu il punto di vantaggio più curioso in cui mi fossi mai trovato
nella mia carriera di spia. Non era comodo. Avevo fame, e la tavola di dama Bresinga era colma di piatti salati e dolci. I servitori che mettevano in tavola i vassoi e li portavano via mi passavano proprio davanti. Ero anche stanco e indolenzito per la lunga cavalcata, eppure mi costrinsi a rimanere in piedi immobile, evitando di strascicare i piedi, e tenendo occhi e orecchie ben aperti. L'intera conversazione a tavola ebbe a che fare con caccia e selvaggina. I Temolo erano avidi cacciatori, ed evidentemente erano stati invitati per questo. Quasi subito emerse un altro tema di discussione. Cacciavano con i gatti, non con i cani. Messer Dorato dichiarò di non conoscere affatto quel genere di diporto e li implorò di illuminarlo. Ne furono fin troppo felici: presto la chiacchierata si impantanò in disquisizioni intricate su quale razza di gatto da caccia andasse meglio con gli uccelli, e furono scambiati vari aneddoti per illustrare l'abilità delle diverse razze. I Bresinga sostenevano a gran voce una razza dalla coda corta chiamata ealince; messer Temolo scommise a gran voce ingenti somme che i suoi fieropardi avrebbero avuto la meglio sia che cacciassero uccelli o lepri. Messer Dorato era un ascoltatore assai attento, poneva domande avide e accoglieva le risposte con stupore ammirato. I gatti, scoprì anche a mio beneficio, non erano bestie da inseguimento, almeno non come i segugi. Ogni cacciatore aveva con sé un singolo felino su un cuscino speciale, assicurato dietro alla sella del padrone. I fieropardi, più grossi, potevano essere scatenati contro prede della taglia di un giovane cervo. Contavano su uno scatto di velocità per catturare la preda, e poi la soffocavano con una presa alla gola. L'ealince veniva più spesso lasciata libera nell'erba alta o nel sottobosco, dove si avvicinava furtiva alla preda fino a saltarle addosso. Preferiva stordirla con un colpo rapido della zampa, o spezzarle il collo o la schiena con un solo morso. Scoprimmo che si divertivano a scatenare le ealinci su uno stormo di piccioni domestici o colombe, per vedere quanti riuscivano ad abbatterne prima che tutto lo stormo prendesse il volo. Spesso quei gatti più piccoli dalla coda corta venivano fatti competere nell'abbattimento degli uccelli, con ingenti scommesse sui preferiti. I Bresinga vantavano non meno di ventidue gatti di entrambi i tipi nelle loro stalle. I Temolo avevano solo fieropardi, e solo sei nel loro allevamento, ma dama Bresinga assicurò messer Dorato che il suo amico aveva la fortuna di possedere alcune delle migliori linee di riproduzione che avesse mai visto. «Dunque questi gatti da caccia vengono allevati? Mi hanno detto che vanno catturati, che non si riproducono se sono domestici.» Messer Dorato
concentrò l'attenzione sul capocaccia dei Bresinga. «Oh, i fieropardi si riproducono, ma solo se possono svolgere senza interferenza i combattimenti fra rivali e i corteggiamenti burrascosi. Messer Temolo ha destinato a questo scopo un grande recinto dove nessun umano può entrare. Siamo piuttosto fortunati che gli sforzi abbiano avuto successo. Prima, come forse saprete, tutti i fieropardi venivano da Chalced o dalle regioni di Lungosabbia in Armento, con grandi spese, è ovvio. Erano piuttosto rari in questa zona quando ero ragazzo, ma nel momento in cui ne ho visto uno ho saputo che è la bestia da caccia che fa per me. E spero di non sembrare un fanfarone se dico che, siccome i fieropardi erano così costosi, fui fra i primi che pensarono di addomesticare le nostre ealinci locali. Nessuno cacciava con l'ealince nel Cervo finché mio zio e io non catturammo le prime due. Le ealinci vanno prese da adulte, di solito con trappole scavate nel terreno, e addestrate per cacciare come compagne.» Tutto questo scaturì dal capocaccia dei Bresinga, un individuo alto che si curvava in avanti con entusiasmo mentre parlava. Si chiamava Avoin. Il tema era chiaramente la sua passione. Messer Dorato lo lusingò rivolgendogli la piena attenzione. «Affascinante. Devo scoprire come si fa a domare queste creaturine letali. E non sapevo che i gatti da caccia avessero tanti nomi. Credevo che ci fosse solo una razza. Dunque, vediamo. Mi hanno detto che l'animale da caccia del principe Devoto è stato preso dalla tana quando era un gattino. Allora deve essere un fieropardo?» Avoin scambiò uno sguardo con la padrona, quasi per chiedere permesso prima di parlare. «Ah, ecco. La gatta del principe non è una ealince né un fieropardo, messer Dorato. È una creatura più rara. Lo chiamano foscogatto. Vive più in alto nelle montagne, ed è noto per cacciare tra i rami degli alberi come sul terreno.» Avoin aveva assunto il tono erudito dell'esperto. Una volta che cominciava a condividere la sua competenza, avrebbe continuato finché gli occhi degli ascoltatori non si facevano vitrei. «Sa affrontare prede ben più grandi di lui, lasciandosi cadere su cervi e capre selvatiche per cavalcarli fino allo sfinimento, o spezzargli il collo con un morso. A terra non è rapido come il fieropardo né silenzioso come l'ealince, ma combina le tecniche di entrambi con successo contro le piccole prede. Ma è vero quello che avete sentito del foscogatto. Bisogna prenderlo dalla tana prima che apra gli occhi se si vuole addomesticarlo. Anche così può avere un temperamento volubile, ma quelli che vengono presi e addestrati correttamente diventano i più fedeli compagni che un cacciatore possa desidera-
re. Tuttavia cacciano per un padrone solo. Dei foscogatti si dice: 'dalla tana al cuore, sempre insieme.' Chiaramente significa che solo chi è astuto abbastanza da trovare la tana possiederà un foscogatto. Averne uno è un'impresa. Quando vedete un cacciatore con un foscogatto, sapete di avere di fronte un maestro della caccia con il gatto.» La voce di Avoin all'improvviso vacillò. Se era passato un segnale tra lui e la padrona, non l'avevo visto. Dunque il capocaccia era coinvolto nell'incontro della gatta con il principe? Messer Dorato ignorò disinvoltamente le implicazioni di ciò che aveva udito. «Un regalo sontuoso per il nostro principe, invero» disse entusiasta. «Ma le mie speranze di avere un foscogatto per la caccia di domani sono infrante. Posso almeno sperare di vederne uno in azione?» «Temo di no, messer Dorato» rispose con grazia dama Bresinga. «Non ne abbiamo. Sono piuttosto rari. Per vedere un foscogatto in caccia, dovrete chiedere al principe stesso di portarvi in una battuta. Sono sicura che ne sarebbe felice.» Messer Dorato scosse allegramente il capo, abbassando il mento in segno di sorpresa. «Oh, no, cara signora, ho sentito che il nostro illustre principe caccia con la sua gatta a piedi, di notte, con qualunque clima. Un'impresa troppo strenua per me, temo. Non è il mio stile, per niente!» Le risatine caddero dalle sue labbra come cerchi nelle mani di un giocoliere. Tutt'intorno alla tavola gli altri si unirono alla sua allegria. Salgo. Sentii la puntura di minuscoli artigli e guardai giù. Da qualche parte si era materializzata una gattina a strisce. Si alzò sulle zampe posteriori, le anteriori aggrappate saldamente con gli artigli alle mie brache. Gli occhi giallo-verdi mi guardarono intenti. Vengo su! Rifiutai il tocco della sua mente senza parere, o così speravo. A tavola, messer Dorato aveva guidato la conversazione sui tipi di gatti che potevano usare l'indomani, e sul rischio che potessero danneggiare il piumaggio delle prede. Le penne, ricordò a tutti, erano ciò che cercava, sebbene gli piacessero i pasticci di quaglia. Spostai la gamba, sperando di sloggiare la giovane arrampicatrice. Non funzionò. Salgo! insisté, e balzò su. Ora mi stava appesa con tutte e quattro le zampette, gli artigli affondati nelle brache fino alla carne. Reagii come un normale servitore, o così speravo. Trasalii e poi discretamente mi chinai a staccare la creatura, una zampetta pungente alla volta. Avrei potuto passare inosservato, se lei non si fosse lamentata pietosamente per essere stata
bloccata. Avevo sperato di rimetterla con dolcezza a terra, ma la voce divertita di messer Dorato fece puntare tutti gli occhi su di me: «Allora, Striato, cosa hai preso?» «Solo una gattina, signore. Sembrava decisa ad arrampicarsi sulla mia gamba.» Era un ciuffetto di lanugine nella mia mano. La profondità ingannevole del manto soffice nascondeva una minuscola gabbia toracica. Spalancò la piccola bocca rossa e cominciò a chiamare la mamma. «Oh, eccoti!» esclamò la figlia di messer Temolo, balzando in piedi. Incurante del decoro, Sydel corse a prendere la gattina che si contorceva nella mia mano. Se la cullò sotto il mento con entrambe le mani. «Oh, grazie, l'avete trovata.» Tornò al suo posto. «Non sopportavo di lasciarla a casa da sola, ma deve essere scivolata fuori dalla mia stanza dopo colazione, perché non l'ho vista per tutto il giorno.» «E quello è dunque un cucciolo di gatto da caccia?» chiese messer Dorato mentre la ragazza si sedeva. Sydel colse l'opportunità di rivolgersi a messer Dorato. «Oh, no, messer Dorato, questo è il mio animaletto, la mia gattina da grembo, Tibbits. È un disastro, non è vero, amore? Eppure non sopporto di separarmi da lei. Quanto mi hai fatto preoccupare questo pomeriggio!» Baciò la gattina sulla testa e poi se la mise in grembo. Nessuno dei commensali sembrò considerare insolito il suo comportamento. Mentre il pasto e la conversazione ricominciavano, vidi la testolina tigrata spuntare dall'orlo della tavola. Pesce! pensò felice la gattina. Un attimo più tardi, Urbano le offrì una scaglia di pesce. Decisi che voleva dire poco; poteva essere una coincidenza, o una semplice reazione istintiva che perfino chi non ha lo Spirito può avere ai desideri di animali che conosce bene. La gattina si impadronì del boccone con un colpo di zampetta, e poi lo portò in grembo alla padrona per divorarlo. I servitori entrarono per portare via piatti e vassoi, mentre una seconda fila di domestici sopraggiunse con dolci e vini di bacche. Messer Dorato aveva monopolizzato l'attenzione. Le sue storie di caccia erano invenzioni favolose, oppure indicavano che la sua vita negli ultimi dieci anni era stata molto diversa da ciò che immaginavo. Quando parlò di trafiggere mammiferi marini da una barca di pelle trascinata da delfini imbrigliati, perfino Sydel apparve alquanto incredula. Ma come sempre, se una storia è raccontata bene, gli ascoltatori la seguono fino alla fine. Così fecero anche questa volta. Messer Dorato finì la recita con uno sventolio della mano e uno scintillio perfido nello sguardo. Non avrebbe mai ammesso di aver ab-
bellito la sua avventura. Dama Bresinga fece portare il brandy, e la tavola fu sparecchiata di nuovo. Il brandy fu accompagnato da una gran varietà di leccornie per tentare gli ospiti già sazi. Alcuni sguardi luccicavano di vino e allegria, e altri dell'appagamento che il buon brandy produce dopo un pasto eccellente. Le gambe e le reni mi dolevano terribilmente, avevo fame, ed ero così stanco che se avessi potuto stendermi sul pavimento lastricato mi sarei addormentato di sasso. Raschiai le unghie contro i palmi perché il dolore mi svegliasse. Era l'ora in cui le lingue erano più sciolte e le chiacchiere più espansive. Malgrado il modo in cui messer Dorato si reclinava sulla sedia, dubitai che fosse inebriato come sembrava. Il discorso era tornato sui gatti e la caccia. Mi pareva di aver imparato tutto quello che mi serviva sull'argomento. La gattina era riuscita, dopo sei tentativi sventati, a salire sul tavolo. Si era appallottolata e aveva sonnecchiato per un poco, ma ora vagava fra bottiglie e bicchieri e minacciava di rovesciarli strofinandovisi contro. Mio. E mio. Anche questo è mio. E mio. Con la fiducia totale dei giovanissimi, reclamò il possesso di ogni oggetto sul tavolo. Quando Urbano tese la mano verso la caraffa del brandy per riempire di nuovo il suo bicchiere e quello della compagna, la gattina inarcò la schiena snella e corse verso di lui in punta di piedi, decisa a rivendicare le sue pretese. Mio! «No, mio» le disse affabilmente Urbano, e la scansò con il dorso del polso. Sydel rise. L'entusiasmo crebbe lentamente in me mentre mantenevo lo sguardo opaco sulla spalla del mio padrone. Lo Spirito. In tutti e due. Ora ne ero sicuro. E dato che tendeva a essere ereditario... «Allora. Chi ha preso il foscogatto per il regalo del principe?» chiese all'improvviso messer Dorato. La domanda scaturì quasi spontaneamente dalla conversazione, eppure fu abbastanza mirata da far girare tutte le teste dei presenti. Messer Dorato emise un piccolo singhiozzo, al limite del rutto discreto: insieme al suo sguardo leggermente allucinato, bastò a togliere la tensione dalla domanda. «Scommetto che siete stato voi, capocaccia.» La mano aggraziata trasformò le parole in un complimento ad Avoin. «No, non io.» Avoin scosse il capo ma stranamente non fornì altre informazioni. Messer Dorato sprofondò nella sedia, battendosi l'indice sulle labbra come se fosse stato un indovinello. Fece scorrere lo sguardo intorno a sé, poi ridacchiò astutamente e indicò Urbano. «Allora voi, giovanotto. Ho sentito che siete stato voi a offrire la gatta al principe Devoto.»
Il ragazzo lanciò un'occhiata a sua madre, poi scosse solennemente il capo. «No, messer Dorato.» Di nuovo quel silenzio insolito, colmo di informazioni trattenute. Un fronte unito, decisi. La domanda non avrebbe avuto risposta. Messer Dorato abbandonò la testa contro lo schienale, trasse un lungo respiro rumoroso e sospirò. «Gran bel regalo, dannazione» osservò con sfrontatezza. «Mi piacerebbe averne uno, da tutto quello che mi è stato raccontato. Ma sentire non è come vedere. C... credo che chiederò al principe Devoto di accompagnarlo una di queste notti.» Sospirò di nuovo e lasciò ricadere la testa da un lato. «Se mai torna dal suo ritiro di meditazione. È innaturale, se volete il mio parere, che un ragazzo della sua età passi tanto tempo da solo. Del tutto i... innaturale.» Messer Dorato sembrava faticare sempre più a esprimersi. Dama Bresinga intervenne con voce ferma. «Così il nostro principe si è di nuovo ritirato dallo sguardo pubblico, per seguire i propri pensieri per qualche tempo?» «Sì, invero» affermò messer Dorato. «E questa volta è lontano da un bel pezzo. C... certo, ha tanto a cui pensare in questi giorni. Il fidanzamento imminente e tutto il resto, la delegazione di Isolani in arrivo. È molto per un ragazzo. Voglio dire, voi come reagireste, giovane signore?» Agitò un dito in direzione di Urbano. «Fidanzato a una donna che non avete mai incontrato... anzi, non è neanche una donna, se le voci sono vere. Più una ragazzina sul punto di sbocciare. Cos'ha, undici anni? Così giovane. Molto giovane, non pensate? E poi non capisco i vantaggi dell'unione. Non capisco proprio.» Le parole erano indiscrete, quasi una critica diretta della decisione della regina. Scambi di sguardi intorno al tavolo. Era ovvio che messer Dorato aveva bevuto più brandy di quanto ne reggesse, eppure si stava riempiendo ancora il bicchiere. Le parole rimasero sospese nell'aria, senza risposta. Forse Avoin pensò di deviare la conversazione verso un argomento più sicuro quando chiese: «Il principe si ritira a meditare spesso, dunque?» «Sono le usanze delle Montagne» confermò messer Dorato. «O così mi dicono. C... che ne so? A Jamaillia non si fa così. I giovani nobili della mia bella patria sono più mondani. E questo è incoraggiato, badate bene, perché dove può un giovane nobile imparare le maniere e i modi del mondo, se non v... vivendoci a contatto? Il principe Devoto farebbe meglio a m... mescolarsi di più con la sua corte. Sì, e cercare una consorte adatta più vicino a casa.» L'accento di Jamaillia aveva cominciato a tingere le parole
impastate di messer Dorato, come se l'ebbrezza lo riportasse al patrio modo di parlare. Sorseggiò dal bicchiere e lo rimise giù così goffamente che una minuscola goccia d'ambra balzò oltre l'orlo. Si strofinò la bocca e il mento come per allontanare l'intorpidimento del brandy. Sospettai che avesse appena appoggiato il bicchiere colmo contro il labbro. Nessuno aveva reagito ai commenti, ma messer Dorato parve non accorgersene. «E questa è in assoluto l'assenza più lunga!» insisté. «È tutto ciò che si sente a corte in questi giorni. 'Dov'è il principe Devoto? Come, ancora in isolamento? Quando tornerà? Come, nessuno lo sa?' Molto d... deprimente per la corte che il nostro giovane signore s... sia assente così a lungo. Scommetto che anche la gatta non lo sopporta. Che ne pensate, Avoin? Un gatto da caccia languisce quando il padrone è lontano?» Avoin sembrò riflettere. «Un padrone devoto al suo gatto non lo lascerebbe a lungo da solo. La lealtà di un gatto non va data per scontata, va conquistata giorno per giorno.» Prese fiato per continuare, ma Dama Bresinga lo interruppe con disinvoltura. «Ecco, i nostri gatti cacciano meglio quando l'alba non è ancora svanita. Quindi, se vogliamo mostrare a messer Dorato le nostre bellezze nelle ore migliori, faremo bene a ritirarci, per poterci alzare presto.» A un suo piccolo cenno, un servitore si fece avanti per spostarle la sedia. Tutti si alzarono, messer Dorato barcollando lievemente. Mi parve di udire una risatina di Sydel, ma non era molto stabile neanche lei. Conoscendo il mio ruolo, mi mossi per offrire a messer Dorato un braccio saldo. Lui lo sdegnò con alterigia, allontanandomi e aggrottando le sopracciglia alla mia impertinenza. Rimasi in piedi impassibile mentre la nobiltà si dava la buona notte, e poi seguii messer Dorato nelle sue stanze. Gli aprii la porta e lo feci passare. Una volta dentro, capii che i servitori si erano affaccendati nelle nostre camere. Gli arnesi del bagno messi via, candele fresche nei supporti, e la finestra chiusa. Sulla tavola un vassoio di carni fredde, frutta e dolcetti. La prima cosa che feci dopo avere chiuso la porta fu aprire la finestra. La barriera solida tra Occhi-di-notte e me sembrava semplicemente sbagliata. Gettai uno sguardo fuori, ma non scorsi alcuna traccia del lupo. Indubbiamente stava esplorando la tenuta, e non mi azzardai a cercare verso di lui. Feci un giro rapido delle nostre stanze. Nessuna traccia di perquisizione, niente intrusi sotto i letti e nei guardaroba. Quella notte i Bresinga e i loro ospiti erano stati cauti. O sapevano perché eravamo venuti, o si aspettavano che qualcuno come noi sarebbe arrivato lì per cercare il principe. Ma non trovai spie nelle coperte del letto, né
alcun segno che qualcuno avesse rovistato tra i miei indumenti appesi. Non lasciavo mai una stanza in perfetto ordine. È facile riassettare una stanza, più difficile ricordare con precisione il modo in cui le maniche dell'indumento gettato sulla sedia toccavano il pavimento. Completai un'analoga ispezione della camera di messer Dorato mentre lui aspettava in silenzio. Quando ebbi finito mi rivolsi di nuovo al mio padrone. Lui si lasciò cadere pesantemente in poltrona ed emise un sospiro immenso. Gli occhi si chiusero e il mento ricadde sul petto. I suoi lineamenti si afflosciarono nell'ebbrezza. Emisi un piccolo suono costernato. Come poteva essere stato così incosciente da ubriacarsi? Mentre lo guardavo, tese le gambe una dopo l'altra facendo sbattere i talloni sul pavimento. Obbediente, andai a togliergli gli stivali. «Ce la fai ad alzarti?» gli chiesi. «C... cosa?» Gli gettai uno sguardo da dove ero accovacciato ai suoi piedi. «Ho detto, ce la fai ad alzarti?» Aprì gli occhi di una fenditura, e un sorriso lento gli distese le labbra. «Sono così bravo» si congratulò in un bisbiglio. «E tu sei un pubblico così soddisfacente, Fitz. Hai idea di quanto possa essere faticoso assumere pose quando nessuno sa che lo sono, interpretare un personaggio del tutto diverso quando non c'è nessuno che può apprezzarlo?» Un bagliore della vecchia birbanteria del Matto splendette negli occhi dorati. Poi si affievolì e la sua espressione divenne seria. Parlò molto piano. «Certo che riesco ad alzarmi. E ballare e saltare, se serve. Ma stanotte non serve. Stanotte devi andare alle cucine e lamentarti che sei affamato. Bello come sei, non dubito che verrai nutrito. E guarda dove riesci a portare la conversazione. Vai, ora, vai. Sono perfettamente in grado di andare a letto da solo. Lascio la finestra aperta?» «Lo preferirei» suggerii. Anch'io. Il pensiero di conferma da Occhi-di-notte era più sommesso di un respiro. «E sia» decretò messer Dorato. La cucina era ancora piena di servitori, perché la fine del pasto non è la fine del lavoro. In effetti pochi lavorano più sodo o più a lungo di coloro che nutrono un castello, perché di solito, quando si finisce di riordinare e lavare dopo cena, è quasi ora di mettere il pane a lievitare per colazione. Era vero a Borgo Bufera come a Castelcervo. Andai alla porta e mi azzardai a cacciar dentro la testa con un'occhiata interrogativa e speranzosa.
Quasi subito una delle donne ebbe pietà di me. La riconobbi, aveva servito a tavola. Dama Bresinga l'aveva chiamata Lebven. «Devi essere morto di fame. Tutti là seduti a mangiare e bere, e tu trattato come una statua. Bene, entra. Nonostante tutto quello che hanno mangiato, ce n'è ancora in abbondanza.» In breve mi trovai appollaiato su uno sgabello alto a un angolo del tavolo del pane, coperto di farina e pieno di graffi. Lebven mi mise a portata di mano una schiera di piatti, e davvero ce n'era in abbondanza. Un vassoio pieno a metà di fette di cacciagione affumicata, circondate da un elegante anello di piccole mele sottaceto. Albicocche dolci come grassi cuscini dorati su riquadri di pasta, così fragranti che si sbriciolavano in un morso. Non mi piacquero le decine di fegatini d'uccello marinati con spicchi d'aglio in un intruglio oleoso, ma accanto c'erano scuri petti d'anatra guarniti di fette sciroppose di zenzero. Sguazzai in quell'indulgenza culinaria. C'era buon pane nero e burro da spalmare. Lebven mi portò un boccale di birra chiara fredda e una brocca per riempirlo di nuovo. Me lo mise davanti e la ringraziai con un cenno del capo, poi si mise all'altra estremità del tavolo, lo spolverò generosamente di farina e ci riversò una forma lievitata di pane. Cominciò a batterla e girarla, aggiungendo manciate di farina mentre lavorava la pasta finché non assunse l'aspetto della seta. Per qualche tempo mi limitai a mangiare, osservare e ascoltare. I soliti discorsi da cucina: pettegolezzi e piccole rivalità tra servitori, una disputa su un secchio di latte inacidito, e il lavoro per l'indomani. I nobili della casa si sarebbero alzati presto, ma si aspettavano di trovare il cibo pronto, e abbondante come la cena della sera. Volevano scorte da portare via, che incantassero l'occhio oltre a riempire lo stomaco. Guardai Lebven mentre tirava la pasta, la ungeva di burro, la piegava e la schiacciava di nuovo, per imburrarla e piegarla ancora. Si accorse che la fissavo e alzò gli occhi sorridente. «In questo modo i rotoli hanno tanti strati, tutti friabili e croccanti. Ma è un gran lavoro per qualcosa che ingoieranno in meno di un minuto.» Dietro di lei un servitore mise sul banco un cesto coperto. Lo aprì, stese all'interno un tovagliolo di lino e poi cominciò a riempirlo di cibo: pagnottelle fresche, un vasetto di burro, un piatto con fette di carne e qualche mela in agrodolce. Mentre annuivo e rispondevo a Lebven, lo osservai con la coda dell'occhio: «Certo che loro non si accorgono quasi mai di tutto il nostro lavoro.» Ci furono mormorii d'assenso in cucina. «Be', basta guardare te.» Lebven ricambiò la comprensione. «Fare la guardia per tutta la cena, come se
qualcuno potesse minacciare il tuo padrone in una casa dove è ospite. Sono le idee ridicole di Jamaillia. Non fosse stato per quello, stasera avresti potuto avere un pasto e un po' di tempo per te.» «Mi sarebbe piaciuto» risposi sinceramente. «Volevo dare un'occhiata intorno. Non sono mai stato in un luogo dove tengono i gatti invece dei cani.» Il servitore portò il cesto alla porta sul retro. Un uomo in attesa lo prese. Un oggetto peloso dondolava floscio dall'altra mano. Colsi solo uno sguardo prima che la porta si richiudesse. Volevo saltar su e seguire quel cibo, ma Lebven stava ancora parlando. «Ecco, è solo da una decina d'anni, da quando il vecchio padrone morì. Prima avevamo soprattutto segugi, e solo un gatto o due per la caccia della mia signora. Ma il giovane padrone preferisce i gatti, e così ha lasciato che i segugi morissero di vecchiaia. Non che mi manchi l'abbaiare e gli ululati, e averli sempre fra i piedi! I grossi gatti stanno nelle loro gabbie, salvo quando cacciano. Quanto ai piccoli, ecco, sono dei tesori, parola mia. Nessun ratto di fiume osa più mettere il naso in questa cucina.» Gettò un'occhiata affettuosa a uno screziato gatto di casa sul focolare. Malgrado la sera mite, si scaldava al fuoco che andava spegnendosi. Finalmente Lebven smise di ripiegare la sfoglia e prese a battere gli strati di pasta finché non cominciarono a gonfiarsi. Ciò rese la conversazione difficile e la mia partenza più naturale. Andai alla porta sul retro e la aprii. L'uomo con il cibo era scomparso. Lebven mi chiamò. «Se cerchi la ritirata, è di là, dietro l'angolo. Poco prima delle gabbie dei conigli.» La ringraziai e uscii obbediente dall'altra porta. Diedi una lunga occhiata intorno, ma non vidi nessuno. Girai l'angolo, ma un'ala del maniero mi impediva la vista. La luna mi mostrò file di gabbie di conigli tra la casa e la stalla. Ecco cosa portava quell'uomo, un coniglio appena ucciso. Il perfetto pasto notturno per un gatto da caccia. Ma non c'era traccia dell'uomo, e non osavo protendermi verso Occhi-di-notte, né allontanarmi troppo dalla cucina. Ringhiai fra me per la frustrazione, sicuro che quel pasto era stato preparato per il principe e la gatta. Mi era sfuggita un'occasione. Tornai al calore e alla luce della cucina. La stanza si era fatta più silenziosa. I piatti erano quasi tutti lavati, e gli sguatteri erano andati a dormire. Solo Lebven rimaneva a impastare, e un uomo taciturno sorvegliava una pentola di carne che sobbolliva. Ripresi il mio posto e versai nel boccale il fondo della birra chiara. Di certo gli altri
avrebbero dormito finché potevano, prima di doversi alzare e preparare il successivo pasto. Il gatto chiazzato si stiracchiò bruscamente, si alzò e venne a esaminarmi. Finsi di ignorarlo mentre mi annusava le scarpe e poi il polpaccio. Girò la testa e spalancò la bocca come per esprimere disgusto, ma sospettai che stesse solo assaggiando il mio odore. Puzza come quel cane là fuori. Una sdegnosa voluta di pensiero. Senza sforzo saltò su, atterrò sul tavolo accanto a me e puntò il naso verso il piatto di cacciagione. Lo allontanai con il polso. Lui non si offese, anzi parve non accorgersene neanche: mi scavalcò il braccio per afferrare la fetta desiderata. «Oh, Tups, che maniere con il nostro ospite. Non badargli, Tom, è un gran viziato.» Lebven lo prese con le mani infarinate. Il gatto si tenne in bocca la carne mentre veniva deposto sul pavimento, poi si piegò sulla preda, girando la testa per strappar via i bocconi. Diede a Lebven un'occhiata di rimprovero. Non dovresti nutrire i cani alla tavola, donna. Difficile non immaginare la malevolenza nel suo sguardo giallo. Come un bambino lo fissai a mia volta, sapendo bene che quasi tutti gli animali odiano essere fissati. Il gatto borbottò una minaccia in gola, afferrò la carne e sparì sotto il tavolo. Finii lentamente la mia birra chiara. Il gatto lo sapeva. Forse tutta la famiglia era a conoscenza del mio collegamento con Occhi-di-notte? Malgrado i monologhi di Avoin per tutta la sera, sapevo ancora troppo poco dei gatti da caccia. Avrebbero considerato Occhi-di-notte un intruso, o ne avrebbero ignorato l'odore nel cortile? Avrebbero ritenuto l'informazione abbastanza significativa da comunicarla agli umani dotati dello Spirito? Non tutti i legami nello Spirito erano intimi come quello che dividevo con Occhi-di-notte. Il suo interesse per gli aspetti umani della mia vita aveva sconvolto Rolf il Nero fin quasi a disgustarlo. Forse quei gatti si legavano agli umani solo per la gioia della caccia. Non era impossibile. Improbabile, ma non impossibile. Bene, non avevo imparato molto più di quanto già non sospettassimo, ma avevo apprezzato un lauto pasto. Il sonno sembrava l'unica altra cosa che potevo ottenere quella notte. Ringraziai Lebven e le diedi la buona notte, e sgombrai i miei piatti dal tavolo malgrado lei insistesse che se ne sarebbe occupata di persona. Nel maniero regnava la quiete mentre tornavo in silenzio alla mia stanza. Solo una luce fioca splendeva da sotto la porta. Misi la mano alla maniglia, aspettandomi di trovarla chiusa. Non lo era. Con tutti i nervi frementi all'improvviso, la aprii piano sulla stanza buia.
Poi trattenni il respiro e rimasi immobile. Lora indossava un lungo mantello scuro sopra la camicia da notte, i capelli sciolti sulle spalle. Messer Dorato portava una vestaglia ricamata. Il fuoco basso luccicava sul ricamo brunito di uccellini sulla schiena e le maniche della vestaglia, ed evidenziava le ciocche più chiare nei capelli fluenti di Lora. Lui indossava guanti di merletto. Stavano molto vicini accanto al fuoco, le teste piegate. Rimasi in silenzio, sbalordito come un bambino, chiedendomi se avessi interrotto un abbraccio. Messer Dorato mi gettò uno sguardo voltandosi verso Lora, e poi mi fece un piccolo cenno di entrare e chiudere la porta. Quando Lora si girò a guardarmi, i suoi occhi sembravano enormi. «Pensavo dormissi» disse piano. Era delusa? «Ero giù in cucina a mangiare» spiegai. Mi aspettavo che rispondesse, ma si limitò a guardarmi. Provai il desiderio improvviso di essere altrove. «Ma sono sfinito. Penso che andrò subito a letto. Buona notte.» Mi girai verso la mia stanza, ma la voce di messer Dorato mi fermò. «Tom. Hai scoperto qualcosa?» Scrollai le spalle. «Qualche dettaglio delle vite dei servitori. Nulla che sembri utile.» Ancora non sapevo quanto potessi parlare liberamente di fronte a Lora. «Bene. Lora sembra aver fatto di meglio.» Si girò verso di lei, invitandola a parlare. Qualunque donna sarebbe stata lusingata dalla sua intensa attenzione dorata. «Il principe Devoto è stato qui» annunciò Lora in un bisbiglio senza fiato. «Prima di ritirarmi per dormire, ho chiesto ad Avoin di mostrarmi le stalle e lo spazio destinato ai gatti. Volevo vedere come erano alloggiati gli animali.» «Il suo foscogatto era là?» indovinai incredulo. «No. Nulla di così ovvio. Ma il principe ha sempre insistito per badare di persona alle necessità della gatta. Ha certe strane abitudini, modi di piegare le gualdrappe o appendere i finimenti. È molto meticoloso su tali cose. C'era un recinto vuoto lì. Sulla mensola c'erano spazzole e roba simile, sistemate proprio come fa lui. Era stato il principe. Lo so.» Ricordai la camera del principe a Castelcervo, e sospettai che avesse ragione. Eppure... «Pensi che il principe avrebbe lasciato laggiù la sua preziosa gatta? A Castelcervo la creatura dorme nelle sue stanze.» «C'è tutto il necessario per il conforto di un gatto: tronchi per farsi le unghie, le erbe che piacciono ai gatti, verzura fresca in una fontana, giocatto-
li, perfino prede vive per i pasti. I Bresinga tengono infinite gabbie di conigli, così i loro gatti non hanno mai bisogno di mangiare carne fredda. Sono davvero viziati come re e regine.» Mi parve che la mia successiva domanda scaturisse naturalmente. «Magari il principe dormiva nelle stalle per essere più vicino alla gatta?» Forse il cesto non aveva compiuto un viaggio troppo lungo. Lora alzò un sopracciglio. «Il principe, dormire tra i gatti?» «Sembrava molto affezionato all'animale. Ho pensato che avrebbe potuto farlo, piuttosto che separarsene.» Avevo quasi rivelato la mia conclusione: che il principe possedeva lo Spirito e non si sarebbe lasciato dividere dalla sua compagna animale. Ci fu un breve silenzio. Lo ruppe messer Dorato. La sua voce dolce raggiunse solo noi due. «Bene, almeno abbiamo scoperto che il principe è stato qui, anche se ora non c'è. E il domani potrà fornirci ulteriori informazioni. I Bresinga giocano al gatto e topo con noi. Sanno che il principe ha lasciato la corte con il gatto. Possono sospettare che siamo venuti a cercarlo. Ma manterremo i nostri ruoli, e balleremo graziosamente per qualunque cosa ci spenzolino davanti al naso. Non dobbiamo rivelare ciò che sappiamo.» «Odio queste cose» dichiarò piatta Lora. «Odio la falsità, odio farmi vedere garbata. Vorrei semplicemente andare a scrollare quella donna e chiederle dov'è Devoto. Quando penso all'angoscia che ha provocato alla nostra regina... Vorrei aver chiesto di vedere lo spazio destinato ai gatti prima di cena. Avrei fatto domande diverse, ve l'assicuro. Ma vi ho portato le notizie appena ho potuto. I Bresinga mi hanno dato una domestica che ha insistito per aiutarmi a prepararmi per la notte, e poi non mi sono fidata a scivolare fuori dalla mia stanza finché non sono stata certa che la maggior parte degli inquilini del maniero si fosse addormentata.» «Fare domande dirette non ci aiuterà, e neppure scrollare le nobildonne. La regina vuole che Devoto torni con discrezione. Dobbiamo ricordarcelo tutti.» Messer Dorato incluse anche me. «Farò del mio meglio» mormorò Lora, rassegnata. «Bene. E ora cerchiamo di riposarci prima della caccia di domani. Buona notte, Tom.» «Buona notte, messer Dorato, capocaccia Lora.» Dopo un momento o due di silenzio, mi resi conto di qualcosa. Mi aspettavo che Lora se ne andasse, per chiudere la porta dietro di lei. Volevo dire al Matto del cesto e del coniglio morto. Ma Lora e messer Dorato si aspet-
tavano che me ne andassi io. La donna studiava un arazzo con un'intensità che non meritava, mentre messer Dorato contemplava soddisfatto la cascata luccicante dei capelli di Lora. Mi chiesi se dovevo chiudere a chiave la porta esterna, poi decisi che sarebbe stato sgarbato. Se messer Dorato la voleva chiusa, ci avrebbe pensato lui. «Buona notte» ripetei, tentando di sembrare assonnato e non imbarazzato. Presi una candela e andai in camera mia, chiudendo piano la porta di passaggio. Mi spogliai e mi misi a letto, rifiutando di lasciar vagare la mente oltre quella porta chiusa. Non provavo invidia, mi dissi, solo il morso più acuto della mia solitudine in contrasto a ciò che forse loro stavano condividendo. Mi dissi che ero egoista. Il Matto aveva sopportato anni di solitudine e isolamento. Gli invidiavo il tocco gentile della mano di una donna ora che era messer Dorato? Occhi-di-notte? Lasciai galleggiare il pensiero, leggero come una foglia asciutta nel vento. La mente che sfiorò la mia fu un conforto. Percepivo querce e vento fresco che soffiava sulla pelliccia. Non ero solo. Dormi, fratellino. Caccio la nostra preda, ma non credo che scopriremo niente di nuovo prima dell'alba. Si sbagliava. 17 La caccia Fra la gente dell'Antico Sangue si narrano storie edificanti che servono come insegnamento per i giovanissimi. Sono semplici favole per istruire un bambino sulle virtù raccontando di animali che esemplificano una qualità ammirevole. Gli estranei all'Antico Sangue sono sorpresi di sentire il Lupo lodato per la dedizione alla famiglia, o il Topo per la saggezza nel provvedere al freddo inverno con mesi di anticipo. Il Papero che fa la guardia mentre lo stormo si nutre è lodato per l'altruismo e il Porcospino per l'indulgenza nel ferire solo chi lo attacca per primo. La caratteristica del Gatto è l'indipendenza. Si racconta di una donna che desidera legarsi a una gatta. La gatta le offre di provare la sua compagnia per un giorno o due, per vedere se la donna svolgerà bene i compiti che le vengono dati. La storia riferisce i doveri con cui la gatta mette alla prova la donna: lisciarle la pelliccia, divertirla con lo spago, portarle panna fresca e così via. La donna esegue ogni compito con gioia e abilità. Alla fine del perio-
do di prova, la donna dello Spirito propone di nuovo il legame, perché ha sentito che sono chiaramente adatte l'una all'altra. La gatta rifiuta, dicendo: «Se mi legassi a te, saresti più povera, perché perderesti ciò che ami di più in me: il fatto che non ho bisogno di te, eppure tollero la tua compagnia.» Dice l'Antico Sangue che è una favola ammonitrice, per avvertire un bambino di non cercare di legarsi a una bestia che non può ricevere dalla relazione tanto quanto dà. Lo Striato, Storie dell'Antico Sangue Lascia solo che io ti veda. Mi hai visto. Mi sono mostrata a te. Smetti di seccarmi, e fai attenzione. Hai detto che avresti imparato per me. Me lo hai promesso. Per questo ti ho portato qui, dove non ci sono distrazioni. Devi essere la gatta. È troppo difficile. Lascia che ti veda con i miei occhi. Per favore. Quando sarai pronto. Quando saprai essere la gatta così come sei te stesso. Allora sarai pronto a conoscermi. Era davanti a me. Correvo su per la collina dietro di lei, ogni cespuglio mi graffiava, ogni fosso e ogni pietra mi facevano inciampare. Avevo la bocca arida. La notte era fresca, ma la polvere e il polline nell'aria rischiavano di soffocarmi mentre avanzavo attraverso il sottobosco. Aspetta! La preda non aspetta. Una gatta non grida 'Aspetta' a ciò che caccia. Sii la gatta. Per un istante quasi la scorsi. Poi l'erba alta si chiuse attorno a lei, ed era scomparsa. Nulla si muoveva, non udivo il minimo suono. Non sapevo più da che parte andare. La notte era profonda sotto la luna dorata, le luci di Borgo Bufera distanti dietro di me fra le colline basse. Presi fiato, poi chiusi la bocca, deciso a respirare in silenzio anche se soffocavo. Avanzai, un passo agile per volta. Non allontanavo i rami, ondeggiavo attorno a essi. Scivolai fra l'erba, sforzandomi di scostarla con il piede piuttosto che calpestarla con energia. Spostai il peso da un passo attento al successivo. Cosa mi aveva ordinato? «Sii la notte. Non il vento che muove gli alberi, neppure il silenzioso gufo in volo o il topolino acquattato immobile. Sii la notte che fluisce su tutto, toccando senza essere sentita. Perché la notte è una gatta.» Molto bene, allora. Ero la notte, lucente e nera e silenziosa. Mi fermai al riparo dei rami di una quercia. Le foglie erano immobili. Spalancai gli occhi il più possibile, cercando di catturare tutta la luce che potevo.
Lentamente girai il capo. Allargai le narici e trassi un respiro silenzioso e profondo dalla bocca, tentando di sentire il suo odore nell'aria. Dov'era, da che parte era andata? Sentii un peso improvviso, come se un uomo muscoloso mi avesse battuto le mani sulle spalle e poi fosse balzato indietro. Mi girai di scatto, ma era solo Gatta. Si era lasciata cadere su di me come una foglia e poi era balzata a terra. Ora si acquattava nell'erba asciutta e le foglie antiche sotto l'albero. Ventre a terra, mi guardò per un attimo. Mi accovacciai accanto a lei. «Da che parte, Gatta? Da che parte è andata?» Qui. Lei è qui. Lei è sempre qui, con me. Dopo la profonda voce gutturale del mio amore, il pensiero di Gatta era un brontolio sottile. Le volevo bene, ma sentirla toccare la mia mente quando invece desideravo il mio amore era quasi intollerabile. Con dolcezza la allontanai. Tentai di ignorare la sua protesta indignata. «Qui» bisbigliai. «So che è vicina. Ma dove?» Più vicina di quanto tu non creda. Ma non mi conoscerai mai se continui ad allontanare la gatta. Apriti alla gatta. Sii la gatta. Dimostrami che mi ami. Gatta fluì via da me senza rumore. Non la vedevo più. Era notte che scivolava nella notte, ed era come tentare di scorgere l'acqua versata in un ruscello. Trassi un respiro silenzioso e mi preparai a seguirla, non solo con i piedi ma con il cuore. Allontanai la paura e mi aprii alla gatta. D'un tratto Gatta tornò, scivolando fuori dall'oscurità per divenire un'ombra più densa. Si spinse contro le mie gambe. Inseguimento. «Sì. Inseguiamola, inseguiamo la donna, amore mio.» No. Siamo inseguiti. Qualcosa ci fiuta, qualcosa dà la caccia a Gatta-eRagazzo nella notte. Su. Sali. Veloce come il pensiero fluì su per la quercia. Da un albero all'altro. Non può seguirci quassù. Passa da un albero all'altro. Era ciò che stava facendo, e si aspettava che la seguissi. Ci provai. Mi gettai sulla quercia, ma il tronco era troppo grande per salire a cavalcioni; e troppo liscio per le mie dita prive di artigli. Per un istante rimasi aggrappato, ma non riuscivo a scalarlo. Scivolai di nuovo a terra, piegando le unghie e impigliandomi con i vestiti mentre l'albero mi rifiutava. Ora udivo il predatore avvicinarsi. Ero la preda una sensazione nuova, che non mi piaceva. Dovevo trovare un albero migliore. Mi girai e fuggii, sacrificando la furtività per la velocità, ma senza trovare né l'una né l'altra. Scelsi di correre in salita. Alcuni predatori come gli orsi non correvano
bene su un pendio. Se era un orso avrei potuto distanziarlo. Non sapevo immaginare chi altri osasse darci la caccia. Un'altra quercia, più giovane e con rami più bassi. Corsi, spiccai un balzo e afferrai il ramo più vicino. Ma mentre mi tiravo su, il mio inseguitore raggiunse la base dell'albero. Avevo scelto male. Non c'erano altri alberi nei paraggi su cui saltare. I pochi che sfioravano il mio con i rami erano sottili, inaffidabili. Ero in trappola. Un ringhio. Guardai giù verso il mio inseguitore. Guardai i miei occhi che guardavano i miei occhi che guardavano i miei occhi... Mi tirai a sedere di scatto, strappato dal sonno, coperto di sudore, la bocca arida come polvere. Balzai dal letto e rimasi in piedi, disorientato. Dov'era la finestra, dov'era la porta? Poi ricordai che non ero nella mia casetta, ma in una stanza sconosciuta. Vagai nel buio fino a un portacatino. Afferrai la brocca e bevvi l'acqua tiepida. Bagnai la mano in ciò che rimaneva e me la strofinai sul viso. Lavora, cervello, dai ordini alla mia mente rallentata. Poi compresi. Occhi-di-notte aveva intrappolato il principe Devoto su un albero, in qualche luogo sulle colline dietro a Borgo Bufera. Mentre dormivo, il mio lupo lo aveva trovato. Ma temevo che anche il principe ci avesse scoperti. Quanto sapeva dell'Arte? Era consapevole del contatto fra noi? Poi ogni riflessione fu accantonata. Come il temporale imminente si scatena all'improvviso con un lampo, così il bagliore di luce che parve riempirmi gli occhi annunciò l'esplosione del mal di testa da Arte che mi gettò in ginocchio. E non avevo con me neanche una briciola di efedra. Ma forse il Matto sì. Era l'unico pensiero che avrebbe potuto rimettermi in piedi. Trovai a tentoni la porta ed entrai incespicando nella camera. L'unica luce veniva da un piccolo nido di braci morenti nel camino e dal baluginare delle torce notturne accese in giardino fuori dalla finestra aperta. Barcollai verso il letto. «Matto?» chiamai piano con voce rauca. «Matto, Occhi-di-notte ha intrappolato Devoto. E...» Le parole mi morirono sulle labbra. Il sogno aveva allontanato dalla mia mente gli eventi della serata. E se quella sagoma rannicchiata sotto le coperte non era un corpo ma due? Un braccio gettò indietro il copriletto e rivelò un'unica forma che occupava il grande letto. Il Matto si girò per guardarmi e poi si tirò a sedere. La preoccupazione gli corrugò la fronte. «Fitz? Stai male?» Sedetti pesantemente sulla sponda del letto, mi presi la testa fra le mani e premetti, tentando di tenere insieme il cranio. «No. Sì. È l'Arte, ma non
c'è tempo per quello. So dov'è il principe. L'ho sognato. Cacciava nella notte con una gatta sulle colline dietro Borgo Bufera. Poi qualcosa ci stava inseguendo, e la gatta è salita su un albero e io - e il principe su un altro. E poi ha guardato giù e ha visto Occhi-di-notte sotto l'albero. Il lupo lo ha bloccato da qualche parte fra le colline. Se ci andiamo subito lo troveremo.» «Non possiamo. Usa il buon senso.» «Non ci riesco. La mia testa si sta sbriciolando come un guscio d'uovo.» Mi curvai in avanti, gomiti sulle ginocchia, testa fra le mani. «Perché non possiamo andare a prenderlo?» chiesi pietosamente. «Considera la situazione, amico mio. Ci vestiamo e sgusciamo fuori dalla stanza, prendiamo i cavalli evitando gli stallieri, cavalchiamo di notte attraverso una campagna sconosciuta finché non troviamo il principe su un albero con un lupo accucciato sotto di lui. Uno di noi sale sull'albero e lo costringe a scendere. Poi lo convinciamo a tornare con noi. Messer Dorato appare miracolosamente a colazione con un principe Devoto molto seccato; oppure, messer Dorato e il suo domestico abbandonano l'ospitalità di dama Bresinga senza una parola di chiarimento. In ogni caso, in pochi giorni sorgeranno molte domande scomode su messer Dorato e il suo domestico Tom lo Striato, per non dire sul principe Devoto.» Aveva ragione. Già sospettavamo che i Bresinga fossero coinvolti nella 'scomparsa' del principe. Riportarlo a Rocca Bufera era sciocco. Dovevamo ricondurlo a Castelcervo senza che nessuno se ne accorgesse. Mi premetti le dita sugli occhi. Sembrava che la pressione nel cranio stesse per farli schizzare dalle orbite. «Allora cosa facciamo?» chiesi con voce impastata. Non volevo saperlo davvero. Volevo buttarmi per terra, raggomitolandomi nel mio dolore. «Il lupo tiene d'occhio il principe. Domani, durante la caccia, ti rimanderò indietro a prendere qualcosa che ho dimenticato. Una volta solo, andrai dal principe e lo convincerai a tornare a Castelcervo. Ti ho scelto una cavalla robusta. Prendilo subito con te e riportalo a Castelcervo. Io troverò un modo di spiegare la tua assenza.» «Come?» «Non ci ho ancora pensato, ma lo farò. Non preoccuparti. Qualsiasi storia io racconti, i Bresinga dovranno crederci, per paura di offendermi.» Considerai un'altra lacuna nel piano. Era difficile tenere i pensieri in ordine. «Io... dovrei convincerlo a tornare a Castelcervo?» «Sei capace di farlo» rispose il Matto con grande fiducia. «Saprai cosa
dire.» Ne dubitavo, ma non avevo più la forza di obiettare. Vedevo luci dolorosamente brillanti dietro agli occhi chiusi. Strofinarli era peggio. Aprii gli occhi sulla stanza illuminata debolmente, ma i lampi di luce danzavano ancora nel mio sguardo, frantumandolo. «Efedra» implorai con voce sommessa. «Ne ho bisogno.» «No.» La mia mente non concepiva che avesse rifiutato. «Per favore.» Pronunciai le parole a forza. «Il dolore è peggio di ogni descrizione.» A volte sapevo prevedere quando stavo per avere un attacco. Non ne avevo avuto uno da molto tempo. Stavo solo immaginando quella strana tensione nel collo e nella schiena? «Fitz, non posso. Umbra me lo ha fatto promettere.» A voce più bassa, come temendo di offrire troppo poco, il Matto aggiunse: «Starò qui con te.» Il dolore mi travolse come un'onda, mescolato alla paura. Devo venire? No. «Stai lì. Sorveglialo.» Mi sentii pronunciare le parole ad alta voce mentre le pensavo. Era qualcosa che avrebbe dovuto preoccuparmi. Ricordai perché. «Ho bisogno di efedra» riuscii a dire. «O non sarò in grado di mantenere le barriere. Dello Spirito. Sapranno che sono qui.» Il letto si mosse sotto di me mentre il Matto si alzava, uno sballottamento terribile che mi fece rimbalzare il cervello contro la parete del cranio. Lo sentii andare al portacatino per lavarsi. Un momento più tardi tornò con una stoffa umida. «Sdraiati.» «Non posso» mormorai. Qualsiasi movimento faceva male. Volevo tornare nella mia stanza, ma non potevo. Se dovevo avere un attacco, non volevo perdere il controllo di fronte al Matto. Il panno freddo sulla fronte fu un trauma. Mi venne da vomitare, poi cominciai ad ansimare per dominare i conati. Più che vederlo, sentii il Matto accovacciarsi davanti a me ancora seduto sulla sponda del letto. Mi prese la mano fra le sue mani guantate e le dita cercarono le mie. Un istante più tardi mi pizzicarono tra le ossa della mano. Gettai un urlo inarticolato e tentai di liberarmi, ma come sempre lui era più forte di me. «Solo un momento» mormorò come per rassicurarmi. Il dolore nella mano divenne in fretta insensibilità. Un attimo dopo il Matto mi afferrò il braccio appena sopra al gomito con entrambe le mani, e di nuovo le dita cercarono e poi strinsero con forza.
«Per favore» implorai, e tentai di sottrarmi alla presa. Lui si mosse con me e il dolore nella mia testa era tale che non potevo scappare. Perché mi stava facendo male? «Non lottare» mi pregò il Matto. «Fidati di me. Penso di poterti aiutare. Fidati di me.» Di nuovo le mani si mossero, questa volta alla spalla, e di nuovo le dita implacabili premettero duramente. Ansimai, e poi le mani erano ai lati del mio collo, e le dita lo comprimevano spingendo verso l'alto come per staccarmi la testa. Gli afferrai i polsi ma non trovai forza nelle mani. «Un istante» mi implorò di nuovo il Matto. «Fitz, Fitz, fidati di me. Fidati di me.» Poi qualcosa uscì da me. La testa mi ricadde in avanti sul petto, ciondolante. Il dolore non era scomparso, ma era molto diminuito. Crollai su un fianco e il Matto mi girò sulla schiena. «Ecco, a posto» disse, e per un momento fissai l'oscurità benedetta. Poi le mani guantate tornarono a farsi sentire, i pollici sulla fronte, i polpastrelli aperti che cercavano punti sulle tempie e sui lati del viso, e poi schiacciavano impietosamente, i mignoli affondati nell'articolazione della mascella. «Respira, Fitz» lo sentii dire, e compresi che non stavo respirando. Ansimai, e tutto si alleviò all'improvviso. Volevo piangere per il sollievo. Invece sprofondai subito in un sonno senza sogni. Feci un sogno strano. Sognai che ero al sicuro. Prima dell'alba riemersi in una veglia confusa. Trassi un profondo respiro e compresi che ero nel letto del Matto. Penso che si fosse appena alzato. Si muoveva in silenzio per la stanza, preparandosi i vestiti. Dovette sentire il mio sguardo, perché tornò al lato del letto. Mi toccò la fronte, spingendomi di nuovo la testa sul cuscino. «Torna a dormire. Puoi riposare ancora un poco, e penso che tu ne abbia bisogno.» Due dita guantate tracciarono linee gemelle dalla sommità della testa all'attaccatura del naso. Dormii di nuovo. Mi risvegliai mentre il Matto stava scuotendomi con dolcezza. I miei vestiti blu da domestico erano disposti sul letto accanto a me. Lui era già vestito di tutto punto. «È ora di andare a caccia» mi disse quando vide che ero sveglio. «Temo che dovrai sbrigarti.» Mossi con cautela la testa. Ero tutto indolenzito lungo la spina dorsale e il collo. Sedetti rigido. Mi sentivo come se avessi fatto una rissa... o avessi avuto uno dei miei attacchi. C'era un punto dolente nella guancia come se l'avessi morso. Distolsi lo sguardo dal Matto e chiesi: «La notte scorsa ho
avuto un attacco?» Un breve silenzio precedette le sue parole. Il Matto mantenne la voce noncurante. «Piccolo, forse. Hai agitato la testa e tremato per qualche istante nel sonno. Ti ho tenuto fermo. È passato.» Non voleva parlarne neanche lui. Mi vestii lentamente. Mi faceva male tutto. Il braccio sinistro recava i segni delle dita del Matto, piccoli lividi scuri. Non avevo immaginato la forza della sua presa. Mi vide ispezionare il braccio, e rabbrividì comprensivo. «Lascia il segno, ma a volte sembra funzionare» fu tutto il chiarimento che mi diede. Le mattine di caccia a Rocca Bufera erano molto simili alle mattine di caccia a Castelcervo. L'entusiasmo represso vibrava nell'aria. La colazione fu frettolosa, in piedi nel cortile, e gli sforzi meticolosi dei cuochi furono a malapena notati. Io bevvi solo un boccale di birra perché non osavo mangiare nient'altro. Comunque ebbi la previdenza di fare come Lora: misi da parte del cibo nella borsa da sella e mi assicurai che l'otre dell'acqua fosse pieno. Scorsi Lora nel trambusto, ma era molto occupata a parlare con almeno quattro persone. Messer Dorato gironzolava fra la folla, salutando tutti con un caldo sorriso. La figlia di messer Temolo era sempre al suo fianco. Sorrideva e chiacchierava di continuo, e messer Dorato rispondeva con attenta cortesia. Forse il giovane Urbano appariva un poco irritato? I cavalli furono portati dalle stalle, sellati e splendenti. Mianera non sembrava colpita dall'eccitazione nell'aria, e di nuovo mi meravigliai della sua apparente mancanza di slancio. L'adunata mi sembrava stranamente sobria, e poi sorrisi fra me. Non c'era l'abbaiare eccitato dei cani a sollevare lo spirito ed entusiasmare i cavalli. Mi mancavano i segugi. I cacciatori e i loro attendenti montarono, e poi furono portati i gatti al guinzaglio. I gatti erano creature lucenti, a pelo corto, con corpi allungati. A un primo sguardo le teste apparivano piccole. I manti erano bronzei, ma sotto certi angoli di luce si scorgevano lievi chiazze. La coda lunga e aggraziata sembrava vivere di vita propria. Avanzavano fra i cavalli accalcati con la calma di cani fra le pecore. Erano i fieropardi, e sapevano molto bene cosa significava quella folla di gente e cavalli. Quasi senza esortazione ogni gatto trovò il padrone a cavallo. Sorpreso e sbalordito guardai i guinzagli che venivano sciolti, e ogni gatto balzò agilmente al suo posto. Osservai dama Bresinga girarsi sulla sella per mormorare parole affettuose al suo gatto, mentre il fieropardo di Urbano gli mise una zampa pesante sulla spalla e tirò indietro il ragazzo per strofinargli il muso sul viso. Aspettai
invano qualche manifestazione dello Spirito. Ero quasi sicuro che entrambi i Bresinga lo possedessero, ma era controllato a un livello che non immaginavo possibile. In quelle circostanze, non importa quanto desiderassi il suo tocco, non osavo cercare verso Occhi-di-notte. Il suo silenzio era per me così assoluto che lo sentivo come un'assenza. Presto, mi ripromisi, presto. Ci avviammo verso le colline dove Avoin ci prometteva buoni uccelli da sottobosco, molto divertenti da cacciare. Io cavalcavo dietro con gli altri attendenti, respirando polvere. Era presto ma il giorno già si annunciava troppo caldo per la stagione. La polvere lieve del nostro passaggio rimaneva sospesa nell'aria immobile. Il suolo delle colline era strano: quando il sottile tappeto erboso veniva rotto da una pista diventava una striscia di fine terra polverizzata. Presto desiderai un fazzoletto per coprirmi la bocca e il naso, e la polvere sospesa scoraggiava la conversazione e smorzava il rumore degli zoccoli; e senza cani che abbaiavano, mi sembrava che procedessimo quasi in silenzio. Ci lasciammo alle spalle la sponda del fiume e la pista e cavalcammo lungo il pendio della collina invasa dal sole attraverso cespugli grigio-verdi quasi secchi. Serpeggiammo per dolci colline e rigagnoli che sembravano tutti ingannevolmente simili. Superammo una collina e scorgemmo i cacciatori parecchio davanti a noi, in movimento costante. Lo stormo di fagiani che alzammo dovette sorprendere perfino Avoin, ma tutti reagirono in fretta. Io ero troppo indietro per vedere se i gatti furono incitati da un segnale o se reagirono alla vista della preda. I grossi uccelli pesanti corsero battendo le ali aperte prima di staccarsi dal terreno. Alcuni non ce la fecero, e ne vidi almeno due abbattuti in volo dal balzo dei fieropardi. La velocità dei gatti fermava il cuore. Fluirono dai cuscini, balzarono al suolo con leggerezza e corsero dietro ai fagiani in fuga come il morso di un serpente. Una gatta addirittura ne abbatté due, afferrandone uno fra le fauci mentre con gli artigli ne stringeva un altro al petto. Avevo notato quattro o cinque ragazzi che cavalcavano dietro di noi in sella a pony. Si fecero avanti con le borse aperte per raccogliere le prede. Solo un fieropardo era riluttante ad abbandonare la preda, e capii che era una giovane cacciatrice, ancora non del tutto addestrata. Gli uccelli furono mostrati a messer Dorato prima di essere messi nelle borse. Sydel, che cavalcava accanto a lui, spinse il cavallo più vicino per vedere i trofei e lanciare esclamazioni. Messer Dorato prese le penne della coda di diversi fagiani, e poi mi chiamò al suo fianco. Mentre prendevo le penne conquistate, mi istruì: «Mettile subito nella custodia, per non dan-
neggiarle.» «La custodia?» «La custodia delle penne. Te l'ho mostrata mentre facevamo i bagagli a Castelcervo... Per il respiro di Sa, uomo, non l'avrai dimenticata, vero? Ah! Ebbene, dovrai tornare a prenderla. Lo sai, quella di cuoio rosso lavorato con una fodera di feltro. Molto probabilmente è fra le mie cose a Rocca Bufera, a meno che tu non l'abbia lasciata a Castelcervo. Ecco, dai alla capocaccia Lora le penne, le porterà lei finché non torni. Ora sbrigati, Tom lo Striato. Ho bisogno di quella custodia!» Messer Dorato non nascose la sua irritazione per l'inettitudine del suo servitore. In effetti c'era una custodia fra le cose di messer Dorato, ma lui non mi aveva detto che era per le penne, né mi aveva chiesto di portarla. Annuii, mostrandomi adeguatamente umiliato per la mia negligenza. Così, semplicemente, mi trovai tagliato fuori dalla caccia. Obbediente al mio padrone, feci girare Mianera e le toccai i fianchi con i talloni. Misi due basse colline tra noi e la partita di caccia prima di protendermi cautamente verso Occhi-di-notte. Arrivo. Meglio tardi che mai, suppongo, fu la burbera replica. Trattenni la cavalla e rimasi immobile. Qualcosa non andava. Chiusi gli occhi, e guardai attraverso quelli del lupo. Era una zona indefinita, proprio come ogni collina e valletta che avevo attraversato quella mattina. Querce lungo i rigagnoli e arbusti polverosi ed erba gialla sui pendii. Ma in qualche modo seppi dov'era e come arrivarci. Era come Occhi-di-notte lo aveva descritto: sapevo dove mi prudeva prima di grattarmi. Sapevo anche, senza che me lo dicesse che c'era una ragione per la sua immobilità. Smisi di cercare verso di lui, spronai Mianera con i talloni e mi piegai in avanti per esortarla. Era fatta per correre in piano, non su quelle colline ondulate, ma se la cavò abbastanza bene. Presto mi trovai a guardar giù nella valle dove sapevo che Occhi-di-notte aspettava. Volevo correre da lui. La sua calma era sinistra come le mosche che ronzano attorno al sangue. Mi costrinsi a fare un ampio giro attorno alla valle e a procedere a un'andatura lenta, ispezionando il terreno e respirando a fondo in cerca di odori persistenti. Trovai le tracce di due cavalli ferrati, e un attimo più tardi le incontrai in direzione opposta. Due cavalli erano andati e tornati dal boschetto di querce, e non molto tempo prima. Non mi trattenni più. Cavalcai nell'ombra accogliente degli alberi come per infilare la testa in un laccio. Occhi-di-notte. Eccomi. Shhh.
Giaceva ansimando nell'ombra asciutta delle querce. Le vecchie foglie erano appiccicate alle ferite sanguinanti sul muso e sul fianco. Balzai di sella e corsi da lui. Misi le mani sulla sua pelliccia e i suoi pensieri fluirono senza rumore nei miei nella più silenziosa condivisione dello Spirito. Hanno lavorato insieme contro di me. Il ragazzo e la gatta? Fui sorpreso che ne fosse sorpreso. Erano legati nello Spirito. Ovvio che agissero insieme. La gatta e l'uomo che ha portato i cavalli. Stavo sorvegliando il ragazzo sull'albero. Non ho sentito niente da lui, neppure la sua richiesta di aiuto alla gatta. Ma poco dopo lo spuntare dell'alba, la dannata gatta mi ha attaccato. Mi è caduta addosso da un albero, e io non l'ho neanche sentita arrivare. Probabilmente ha viaggiato da albero ad albero come uno scoiattolo. Mi si è aggrappata come un riccio. Ho pensato di averla sconfitta quando l'ho gettata a terra, ma lei mi ha afferrato con le zampe anteriori e ha tentato di sbudellarmi con le posteriori. Ci è quasi riuscita. In quel momento è arrivato l'uomo con i cavalli. Il ragazzo si è lasciato cadere sulla sella da un ramo, e poi in un lampo la gatta era a cavallo dietro di lui. Si sono allontanati al galoppo e mi hanno abbandonato qui. Fammi vedere la pancia. Dammi da bere, prima di cominciare a manipolarmi. Mianera mi infastidì scartando due volte prima che riuscissi ad afferrare le redini. La legai ben bene a un cespuglio e portai acqua e cibo a Occhidi-notte. Gli feci bere dalle mani a coppa, e poi dividemmo il cibo. Volevo lavare il sangue dalle ferite, ma sapevo che non me l'avrebbe permesso. Lascia che si chiudano da sole. Le ho già leccate per bene. Almeno fammi vedere quelle sulla pancia. Non gli piacque, ma acconsentì. Quel danno era molto peggiore, perché la gatta gli si era evidentemente aggrappata, e alla pancia mancava la pelliccia spessa che gli aveva protetto in qualche modo la schiena. Non erano tagli puliti, ma strappi frastagliati già in suppurazione. L'unica cosa positiva era che gli artigli non gli avevano lacerato il ventre. Avevo temuto di vedere i visceri fuoriuscire: vidi solo carne lacerata. Mi maledissi per non aver portato una pomata per le ferite. Era passato troppo tempo da quando avevo dovuto preoccuparmi di cose del genere; ero diventato poco avveduto nel prendere precauzioni. Perché non hai chiamato aiuto? Eri troppo lontano per arrivare in tempo. E... I suoi pensieri si tinsero di inquietudine. Forse volevano che ti chiamassi. L'uomo sul grande cavallo
e la gatta. Erano in ascolto, come se la mia chiamata fosse selvaggina da stanare. Non il principe. No. Fratello, qui c'è qualcosa di molto strano. Il principe era sorpreso quando l'uomo è arrivato con un cavallo in più. Eppure io ho percepito che la gatta non lo era, la gatta aspettava l'uomo e i cavalli. Il principe non sente tutto ciò che sente la sua compagna. È cieco nel suo legame. E... sbilanciato. Uno si impegna e l'altra accetta l'impegno, ma non lo ricambia del tutto. E la gatta è... sbagliata. Non riuscì a spiegarsi meglio. Sedetti per qualche tempo, le dita affondate nella sua pelliccia, riflettendo su cosa fare. Il principe era scomparso. Qualcuno che non aveva chiamato era arrivato per sottrarlo a Occhi-dinotte, proprio nel momento in cui la gatta distraeva il lupo. Per portarlo dove? Li ho inseguiti per qualche tempo. Ma è come hai detto tu. Non riesco più a tener dietro a un cavallo al galoppo. Non ci sei mai riuscito. Già, ma neanche tu. Non riuscivi neanche a tener dietro a un lupo in corsa. Vero. Verissimo. Gli lisciai il pelo, e tentai di staccare una foglia morta da una crosta. Lascia stare! O ti stacco la mano! Avrebbe potuto farlo. Rapido come un serpente, mi afferrò il polso fra le fauci. Premette, poi mi lasciò andare. Non sanguina, quindi lascia stare. Smettila di assillarmi e inseguili. Per fare cosa? Comincia a uccidere la gatta. Era un suggerimento vendicativo, senza convinzione. Sapeva quanto me cosa sarebbe successo al principe se avessimo ucciso la sua compagna. Sì, lo so. Peccato che lui non condivida i tuoi scrupoli quanto a uccidere tuo fratello. Lui non sa che sei legato a me. Sapevano che sono legato a qualcuno, e avrebbero voluto scoprire chi. Questo non li ha dissuasi dal farmi del male. Sentii i suoi pensieri correre più veloci dei miei, analizzando una situazione che ancora non avevo decifrato. Sii cauto, Cambiamento. Riconosco questo tuo antico modo di fare. Tu pensi che sia una sorta di gioco, con limiti e regole. Cerchi di ricondurre indietro il principe come una madre riporta un cucciolo errante alla tana. Non hai considerato che per riuscirci potresti essere costretto a ferirlo, o a uccidere la gatta. Non ti ha nemmeno sfiorato l'idea che possano
ucciderti per impedirti di riportarlo indietro. Quindi ti do un consiglio. Non inseguirli da solo. Concedimi stanotte per farmi passare il dolore. E quando li avremo localizzati, prenderemo con noi il Senza Odore. È intelligente, per essere un umano. Pensi che il principe potrebbe farlo? Uccidermi per impedirmi di riportarlo a Castelcervo? Il pensiero mi atterrì. Eppure ero stato più giovane del principe Devoto quando avevo ucciso per la prima volta su ordine di Umbra. Non mi era particolarmente piaciuto, ma non avevo ponderato a fondo se fosse giusto o sbagliato. Umbra allora era la mia coscienza, e mi ero fidato della sua decisione. Quello mi fece riflettere. C'era nella vita del principe una persona così, il cui consiglio bastava a fargli sospendere il proprio giudizio? Smetti di pensare che stai trattando con un giovane principe. Non è così. E non è la gatta che dobbiamo temere. Qui c'è qualcosa di più profondo e più strano, fratello, e faremmo meglio a essere molto, molto cauti. Bevve il resto della mia acqua. Poi lo lasciai là sotto le querce, anche se non mi piacque. Non tentai di seguire la loro pista: tornai al castello dei Bresinga a Borgo Bufera, trovai la custodia delle penne, e ritornai alla caccia. Erano andati avanti, ma fu facile trovarli. Quando gli presentai la custodia, messer Dorato osservò: «Hai impiegato parecchio, Striato.» Volse lo sguardo sui suoi compagni di caccia e aggiunse: «Ebbene, almeno non è come temevo. Già mi aspettavo che fosse tornato davvero a Castelcervo.» Ci fu una risata generale alla mia supposta ottusità. Scrollai il capo in docile accordo. «Chiedo scusa, padrone. Non era dove mi aspettavo che fosse.» Messer Dorato accettò le mie scuse con un cenno, poi mi rese la custodia. «Prendi le penne dalla capocaccia Lora. Fa in modo di riporle con attenzione.» Lora aveva una grossa manciata di penne. La custodia rossa si apriva come un libro. All'interno era rivestita di feltro per proteggere il contenuto. Tenni la custodia mentre la donna sistemava con attenzione ogni penna al suo posto. Gli altri cacciatori ci superarono, apparentemente ignorandoci. «I gatti cacciano bene?» le chiesi mentre disponeva le penne. «Molto bene. Sono uno spettacolo straordinario. Avevo già visto cacciare il foscogatto del principe, ma questa è la mia prima esperienza con i fieropardi. Da quando ci hai lasciati li hanno aizzati due volte contro degli uccelli e una volta contro un branco di lepri.»
«Pensi che andranno avanti molto?» «Ne dubito. Messer Dorato ha confidato che il sole di mezzogiorno è troppo aggressivo sulla sua pelle e può causargli mal di testa. Penso che presto torneranno indietro.» «Andrebbe bene anche a me.» Ora gli altri erano a una certa distanza da noi, immersi in conversazione. Lora chiuse la custodia delle penne e me la restituì. Cavalcammo fianco a fianco finché non raggiungemmo la partita di caccia. La donna si girò sulla sella per guardarmi negli occhi. «Ieri sera, Tom lo Striato, sembravi un uomo diverso. Dovresti prenderti più cura del tuo aspetto ogni giorno. Il risultato vale lo sforzo.» Rimasi senza parole. Lora sorrise, poi mi lasciò indietro con gli altri attendenti e spronò il cavallo per cavalcare accanto a messer Dorato. Non so se si dissero qualcosa, ma presto la compagnia decise di tornare a Rocca Bufera. Le borse erano pesanti per la selvaggina, il sole battente stava diventando insopportabile, e i gatti sembravano irritabili e meno interessati alla caccia. I nobili girarono i cavalli e li spronarono, affrettandosi verso il fresco benvenuto degli spessi muri di pietra di Rocca Bufera. Noi li seguimmo come potevamo. Mianera tenne facilmente il ritmo, anche se dovevo cavalcare nella loro polvere. Giunti al maniero, gli ospiti si ritirarono nelle loro stanze per lavar via la polvere e indossare abiti puliti. I domestici si occuparono dei cavalli sudati e dei gatti spazientiti. Seguii messer Dorato mentre avanzava esuberante attraverso le sale. Mi affrettai ad aprirgli la porta, e poi a chiuderla dietro di noi. Misi il chiavistello. Mi girai e lo trovai che già si lavava la polvere dal viso e dalle mani. «Che è successo?» mi chiese. Glielo dissi. «Starà bene?» chiese con ansia. «Il principe? Non ne ho idea.» «Occhi-di-notte» chiarì impaziente il Matto. «Quanto è possibile. Gli porterò acqua e carne quando torno. Gli faceva male, ma è improbabile che muoia per le ferite.» E tuttavia non mi era piaciuto l'aspetto dei graffi infiammati. Il Matto quasi parve rispondere ai miei pensieri. «Ho una pomata che può calmare il dolore, se ti permetterà di usarla.» Dovetti sorridere. «Ne dubito, ma sarò contento di portarla con me.» «Bene. Devo solo trovare un motivo per abbandonare Rocca Bufera su-
bito dopo pranzo. Non possiamo lasciar raffreddare la pista. E non ritengo probabile che torneremo qui.» Mentre parlava si stava cambiando la sopravveste, spazzolando la polvere dai pantaloni e lucidando gli stivali con un panno. Considerò il suo riflesso nello specchio, poi si passò in fretta una spazzola fra i capelli fini. Pallidi fili d'oro si sollevarono e si attaccarono alla spazzola. Le ciocche più corte sporgevano dalle tempie come le vibrisse di un gatto. Il Matto gettò un'esclamazione infastidita e si allacciò sulla nuca un fermaglio di argento pesante. «Ecco. Dovrà bastare. Fa' i bagagli, Tom lo Striato. Stai pronto a partire quando torno dal pranzo.» E se ne andò. Sul tavolo erano rimasti frutta e formaggio e pane dalla sera prima. Il pane era un poco stantio ma avevo tanta fame che non ci feci caso. Mangiai mentre riponevo in fretta le mie cose. Il guardaroba di messer Dorato mi diede più problemi. Non ricordavo come riuscisse a far stare tanti vestiti in una borsa così piccola. Alla fine riuscii a infilare dentro tutto, ma mi chiesi che aspetto avrebbero avuto le sue belle camicie al momento di tirarle fuori. Il pranzo era ancora in corso quando finii. Ne approfittai per scivolare in cucina a prendere birra fredda e salsicce piccanti. Le mie antiche abilità mi servirono: me ne andai con diverse fette spesse di carne fredda nascoste nella mia tunica da servitore. Tornai alle nostre stanze e trascorsi il primo pomeriggio attendendo con impazienza il ritorno di messer Dorato. Volevo contattare il lupo, e non osavo. A ogni istante il principe poteva essere più lontano. Il pomeriggio mi stava sfuggendo fra le dita. Mi gettai sul mio letto ad aspettare. Malgrado l'ansia, mi appisolai. Mi svegliai quando messer Dorato aprì la porta. Balzai in piedi, ancora insonnolito ma ansioso di andarmene. Il Matto chiuse la porta e in risposta alla mia occhiata disse tetro: «Svincolarsi dalla compagnia si sta dimostrando difficile. C'erano ospiti a pranzo, e non solo quelli con cui abbiamo cacciato. I Bresinga sembrano decisi a esibirmi a tutti i vicini facoltosi. Hanno organizzato cene e tè e altre cacce con mezza campagna. Non sono stato capace di inventare una ragione abbastanza urgente per giustificare la nostra partenza. È dannatamente seccante. Se solo potessi tornare al mio abito multicolore e a una forma più onesta di giochi di destrezza e passeggiate sulla corda.» «Non ce ne andiamo?» osservai istupidito. «No. Stasera c'è una grande cena in mio onore. Partire all'improvviso sa-
rebbe un insulto. E quando ho suggerito che forse avrei dovuto interrompere la mia visita e andar via domani mattina, mi è stato detto che messer Crias, che sta oltre il fiume, ha organizzato una caccia mattutina per me, e un pranzo al suo castello.» «Ti trattengono di proposito. I Bresinga sono coinvolti nella scomparsa del principe. Sono certo che ieri notte hanno procurato il cibo per lui e la gatta. E Occhi-di-notte è sicuro che la gatta che lo ha attaccato sa che è legato a qualcuno. Hanno tentato di stanarmi.» «Forse. Ma anche se ne avessimo la certezza, non potrei lanciare accuse. E non ce l'abbiamo. Forse cercano solo di fare carriera a corte, o di presentarmi le loro varie figlie in età da marito. Suppongo che sia per questo che la ragazza era a cena ieri sera.» «Credevo che fosse la fidanzata di Urbano.» «Durante la caccia ha fatto di tutto per dirmi che erano amici di infanzia senza alcun interesse romantico.» Sospirò e sedette al tavolino. «Mi ha detto che anche lei raccoglie penne. Stasera dopo cena desidera mostrarmi la sua collezione. Sono sicuro che sia una finta per passare più tempo con me.» Se non fossi stato così in ansia, avrei sorriso alla sua costernazione. «Bene, dovrò cavarmela come posso. E forse può tornare a nostro vantaggio, ora che ci penso. Oh, ho una commissione per te. Oggi, mentre cacciavamo, credo di aver perso una catena d'argento. A pranzo ho scoperto che mancava. È una delle mie preferite. Dovrai ripercorrere i nostri passi e vedere se la trovi. Mettici tutto il tempo che serve.» Mentre parlava tirò fuori una collana di tasca, la avvolse nel fazzoletto e me la diede. La misi in tasca. Lui aprì il fagotto dei vestiti, mi gettò un'occhiata accusatrice per il disordine che avevo creato, e poi frugò finché non trovò il vasetto di pomata. Me lo diede. «Devo tirarti fuori i vestiti per la cena prima di andarmene?» gli chiesi. Il Matto alzò beffardamente gli occhi al cielo, sfilando una tunica spiegazzata dal fagotto. «Penso che tu abbia già fatto abbastanza per me, Striato. Sparisci.» Mentre mi muovevo verso la porta, la sua voce mi bloccò. «La cavalla ti va bene?» «È brava» lo assicurai. «Una bella bestia sana e veloce, e ne ha dato prova. Hai scelto una buona cavalcatura.» «Ma avresti preferito sceglierla tu.» Fui sul punto di dire di sì. Poi, ripensandoci, compresi che non era vero. Se avessi dovuto scegliere io, avrei cercato un compagno che mi affiancasse per anni. Ci avrei messo settimane, se non mesi. E ora che stavo consi-
derando con riluttanza la possibilità che il lupo morisse, sentii una strana esitazione a offrire tanto di me stesso a un animale. «No» risposi onestamente. «Molto meglio che l'abbia scelta tu. È una buona cavalla. Hai scelto bene.» «Grazie» disse il Matto. Sembrava molto importante per lui. Se non fosse stato per il lupo che mi attendeva, mi sarei fermato a riflettere. 18 Il bacio del Matto Molte storie narrano di Spirituali che assumono la forma della loro bestia per causare danni ai vicini. Le leggende più cruente parlano di Spirituali in pelli di lupo che fanno a pezzi le famiglie confinanti e i loro greggi. Meno sanguinose sono le storie di innamorati Spirituali che assumono forma di uccelli, gatti o perfino orsi ballerini per ottenere accesso a una camera da letto nel corso di un corteggiamento. Tutte queste storie sono sciocchezze fantasiose, perpetuate da chi cerca di alimentare l'odio verso gli Spirituali. Anche se una persona dotata dello Spirito può dividere la mente della sua bestia e quindi le sue percezioni fisiche, non può trasformarsi in un animale. È vero che alcuni Spirituali a lungo associati con il loro animale possono assumere la sua postura, il modo di mangiare e i comportamenti. Ma un uomo che vive in una tana, mangia rifiuti e puzza come un orso non diventa un orso. Se quel mito di mutaforma potesse essere sconfitto, sarebbe un grande passo per ristabilire la fiducia tra chi ha lo Spirito e chi ne è privo. Lo Striato, Storie dell'Antico Sangue Il lupo non era dove l'avevo lasciato. Mi preoccupai, e mi ci volle qualche momento per convincermi che non avevo sbagliato posto. Ma ecco le macchie di sangue dove si era sdraiato sulle foglie cadute l'anno prima, ed ecco gli schizzi nella polvere dove aveva bevuto l'acqua dalle mie mani. Era stato lì, e ora non c'era. Una cosa è localizzare due cavalli ferrati con cavalieri, un'altra è seguire l'odore di un lupo sulla terra asciutta. Non aveva lasciato traccia del suo passaggio, ed ero restio a protendermi verso di lui. Seguii le tracce dei cavalli attraverso le colline immerse nel sole, pensando che lui avrebbe fatto
lo stesso. Scendevano in un avvallamento e traversavano un rigagnolo. Si erano fermati ad abbeverare i cavalli. E là nella riva fangosa c'era l'impronta della zampa di un lupo sopra allo zoccolo del cavallo. Li stava seguendo anche lui. Dopo aver superato tre colline lo raggiunsi. Sapeva che mi stavo avvicinando. Non si fermò ad aspettarmi. Fui colpito dal suo passo. Non era il suo consueto procedere deciso. Camminava. Mianera non fu eccessivamente felice di avvicinarsi al lupo, ma non si ribellò. Occhi-di-notte si fermò al riparo di alcuni alberi e mi aspettò. «Ho portato la carne» gli dissi, smontando. Percepii la sua consapevolezza di me, ma non mi rivolse alcun pensiero. Bizzarro. Presi la carne dalla tunica e gliela diedi. Il lupo la trangugiò e poi venne a sedersi accanto a me. Estrassi la pomata dalla borsa. Lui sospirò e si sdraiò. I graffi lungo il ventre erano creste livide di carne lacerata, calde al tatto. Quando applicai la pomata il dolore divenne una barriera affilata tra noi. Pur toccandolo con la massima cautela, feci un lavoro accurato. Il lupo lo tollerò, ma non di buon grado. Sedetti per qualche tempo accanto a lui, con la mano sulla sua pelliccia. Annusò la pomata. Miele e grasso di orso, gli dissi. Lui leccò i lunghi graffi e glielo lasciai fare. La lingua avrebbe spinto l'unguento più a fondo nelle ferite e non gli avrebbe fatto male. Inoltre non avevo modo di impedirglielo. Già sapeva che dovevo tornare a Rocca Bufera. Sarebbe più saggio che io continuassi a seguirli, anche se non mi muovo in fretta. Più ti trattengono, più la pista sarà fredda. Per te è più facile trovare me che tentare di seguire tracce sempre più impercettibili. Non c'è dubbio. Non espressi il mio timore che in quel momento non poteva né cacciare né difendersi. Io lo sapevo, lui lo sapeva, e aveva preso la sua decisione. Ti raggiungo appena posso. Sapeva anche questo, ma non potevo non dirlo. Fratello. Attento a cosa sogni stanotte. Non tenterò di sognare con loro. Temo che possano cercarti. L'apprensione mi offuscò la mente come fumo, ma di nuovo non c'era nulla da dire. Desiderai invano di essere cresciuto con maggiore conoscenza dello Spirito. Forse, se avessi capito meglio l'Antico Sangue, avrei saputo con cosa avevo a che fare. No, non penso. Quello che fai, il modo in cui ti colleghi a lui, non è solo
Arte. È l'incrocio delle vostre magie. Apri la porta con una e viaggi con l'altra. Come quando io attaccai Giustino dopo che lui aveva creato un ponte in te con l'Arte. La sua Arte creò il ponte, ma io usai il mio legame con te per attraversarlo. Aveva diviso di proposito quel pensiero con me, riconoscendo una preoccupazione che cresceva in me da qualche tempo. Magia dei cani, così Giustino aveva chiamato il mio Spirito, e mi aveva detto che ne sentiva il fetore nel mio uso dell'Arte. Veritas non se n'era mai lamentato. Ma Veritas, ammisi con riluttanza, aveva ricevuto come me un'istruzione incompleta nell'Arte. Forse non aveva scoperto la macchia dello Spirito nella mia Arte, o forse era stato troppo gentile per rimproverarmi. Ora mi preoccupavo per il mio lupo. Non seguirli troppo da vicino. Cerca di non far capire che li inseguiamo. Cosa temi? Che attaccherei una gatta e un ragazzo a cavallo? No. Quella è la tua battaglia. Io seguirò la preda; tocca a te intrappolarla e abbatterla. Il suo pensiero creò immagini sgradevoli nella mia mente mentre tornavo a Rocca Bufera. Avevo accettato la missione di localizzare un ragazzo, scappato o forse rapito. Ora stavo affrontando non solo un ragazzo che non voleva tornare a Castelcervo, ma anche i suoi alleati. A quanto sarebbero serviti i miei sforzi di riportarlo dalla regina? Deciso a fare a modo suo, Devoto me lo avrebbe impedito? E i suoi compagni avrebbero avuto scrupoli a usare ogni mezzo per tenerlo con loro? Sapevo che messer Dorato era saggio a continuare la nostra commedia. Per quando desiderassi abbandonare ogni pretesa e semplicemente dare la caccia al principe e trascinarlo di nuovo a Castelcervo, ne vedevo le conseguenze. Se i Bresinga capivano che lo stavamo inseguendo, certamente lo avrebbero avvertito. Sarebbe fuggito più in fretta e si sarebbe nascosto meglio. Peggio, i Bresinga potevano interferire direttamente con la nostra ricerca. Non volevo che ci capitasse un inopportuno 'incidente' mentre cercavamo il principe Devoto. Per come stavano le cose, potevamo ancora sperare di muoverci in segreto per riprendere il principe e riportarlo con discrezione a Castelcervo. Aveva abbandonato Rocca Bufera al nostro arrivo, ma inizialmente non era andato molto lontano. Ora era di nuovo in movimento, ma ancora non aveva ragione di collegare messer Dorato alla ricerca. Se il Matto riusciva a sganciarci dall'ospitalità di dama Bresinga senza suscitare sospetti, potevamo seguirlo di nascosto e avere migliori
probabilità di raggiungerlo. Rientrai a Rocca Bufera accaldato, impolverato e morto di sete. Mi faceva sempre uno strano effetto lasciare la mia cavalla a uno stalliere. Trovai messer Dorato che sonnecchiava nei suoi alloggi. Le tende chiuse per proteggersi dal calore e dalla luce gettavano la camera nella semioscurità. Gli passai accanto in punta di piedi ed entrai nella mia stanza per lavar via la maggior parte della polvere e del sudore. Stesi la tunica sulla testiera del letto ad asciugare e prendere aria, e mi gettai quella fresca sulla spalla. I servitori avevano riempito la ciotola di frutta nella camera di messer Dorato. Presi una susina e la mangiai vicino alla finestra, scrutando il giardino fra le tende. Mi sentivo stanco e al tempo stesso irrequieto. Non sapevo pensare a qualcosa di costruttivo, o a un modo di passare il tempo. La frustrazione e l'ansia mi tormentavano. «Hai trovato la mia catena, Striato?» Il tono aristocratico di messer Dorato interruppe il flusso dei miei pensieri. «Sì, mio signore. Proprio dove pensavate di averla persa.» Tolsi il delicato gioiello dalla tasca e glielo portai fino al letto. Lo accettò con gratitudine, come un vero nobile che lo aveva perso sul serio. Abbassai la voce. «Occhi-di-notte segue la pista per noi. Quando riusciamo ad abbandonare questo posto possiamo andare diritti da lui.» «Come sta?» «Rigido. Dolorante. Ma penso che si riprenderà.» «Ottimo.» Messer Dorato si mise a sedere sul bordo del letto. «Ho scelto i nostri abiti di stasera, e li ho preparati nella tua stanza. Davvero, Striato, devi imparare a trattare i miei indumenti con maggior attenzione.» «Farò del mio meglio, mio signore» mormorai, ma senza convinzione. All'improvviso ero stanco di tutta quella pantomima. «Hai trovato un modo discreto per andarcene?» «No.» Passeggiò fino alla tavola. Gli avevano lasciato una caraffa di vino. Si versò un bicchiere e bevve, poi ne versò un altro. «Ma ne ho trovato uno non molto discreto, e questo pomeriggio ho già gettato le basi. Non senza rammarico, comprometterò un poco la reputazione di messer Dorato, ma cos'è un nobile senza un po' di scandalo? Probabilmente aumenterà la mia popolarità a corte. Ognuno vorrà sapere la mia versione, e farà ipotesi su cosa sia successo davvero.» Sorseggiò il vino. «Penso che, se mi riuscirà, convincerò dama Bresinga che le sue paure sono infondate. Nessun emissario della regina si comporterebbe così male.» Mi rivolse un sorriso
incerto. «Cos'hai fatto?» «Ancora niente. Ma immagino che domattina la nostra partenza verrà facilitata al di là di ogni nostro desiderio.» Bevve di nuovo. «A volte detesto quello che mi tocca fare» osservò, con una nota lamentosa nella voce. Scolò il bicchiere come per prepararsi a un'ordalia. Non mi volle dire altro. Si preparò con cura per la cena, e io dovetti subire la vergogna del farsetto verde con calze gialle. «Forse è un filo troppo vistoso» concesse messer Dorato in risposta al mio sguardo esasperato, ma sogghignava troppo per essere davvero dispiaciuto. Non sapevo se era il vino, o uno dei suoi momenti stregati. «Smetti di fare quella faccia, Striato» mi rimproverò mentre si sistemava i polsini di una sobria sopravveste verde. «Mi aspetto che i miei servitori abbiano un atteggiamento gradevole. Inoltre quel colore mette in risalto il colore dei tuoi occhi, della pelle e dei capelli. Mi ricordi molto un pappagallo esotico. Forse tu non apprezzi il figurone che fai, ma le signore sì.» Il dover obbedire mise alla prova tutta la mia abilità di dissimulazione. Lo seguii dove la nobiltà si era radunata per cena. Era un gruppo più numeroso della sera prima, perché dama Bresinga aveva esteso l'invito a quelli che avevano cacciato con lei. Avrebbero potuto essere invisibili per tutta l'attenzione che ricevettero da messer Dorato. Sydel sedeva a un tavolo basso con il giovane Urbano. Sembrava che stessero discutendo della gran varietà di penne sparse davanti a lei su un panno. Evidentemente la ragazza teneva d'occhio la porta, perché all'ingresso di messer Dorato cambiò espressione. Splendeva come una lanterna nel buio. La trasformazione del giovane Urbano non fu altrettanto piacevole. Non poteva certo ringhiare a un ospite nella casa di sua madre, ma il suo volto si fece immobile e freddo. La costernazione mi prese allo stomaco. No. Non volevo averci nulla a che fare. Ma messer Dorato, sorridente e fascinoso, puntò dritto sulla coppia. I saluti ai presenti furono brevi fino a sconfinare nel menefreghismo. Senza nemmeno scusarsi per quell'intrusione sedette tra i due giovani, obbligando Urbano a spostarsi per fargli spazio. Da quel momento ignorò chiunque altro nella stanza e rivolse interamente la sua attenzione alla ragazza. Le loro teste si chinarono insieme sulle penne. Ogni movimento del nobiluomo era un corteggiamento. Le lunghe dita lisciarono le penne colorate sulla stoffa. Ne scelse una e ne saggiò la morbidezza sulla guancia, poi si chinò in avanti, accarezzando con dolcezza il braccio di Sydel. La ragazza ridacchiò
nervosamente e si ritrasse. Messer Dorato sorrise. Lei arrossì. Lui rimise la penna sul panno e scosse un dito a mo' di rimprovero come se fosse stata colpa sua. Poi ne scelse un'altra. Audacemente la appoggiò alla manica del vestito di Sydel, mormorando un paragone fra i colori. Ne raccolse altre dal panno e le dispose in una specie di mazzolino di penne. Con la punta dell'indice girò il volto della ragazza affinché lo guardasse, e con un trucco che non riuscii a vedere le assicurò le penne nei capelli in modo che pendessero seguendo la linea della guancia. Urbano si alzò all'improvviso e si allontanò a lunghi passi. Sua madre parlò a una dama al suo fianco, che si mosse in fretta per intercettarlo prima che lasciasse la sala. Scambiarono parole sommesse, ma il tono del giovane non era calmo. Non riuscii a seguire ciò che disse, perché la voce di messer Dorato si levò sulla conversazione generale per proclamare: «Vorrei avere uno specchio per mostrarvelo, ma dovrete accontentarvi di vedere come vi sta bene guardando nei miei occhi.» Quel giorno ero rimasto atterrito alla vista di Sydel che tallonava con sfacciataggine messer Dorato, disposta a scartare il suo giovane pretendente per l'eccentrico nobile. Ora quasi la compativo. Si sente parlare di uccellini incantati dai serpenti, anche se io non l'ho mai visto accadere. Sydel era più come un fiore che si inclina verso la luce. Assorbiva le sue attenzioni e sbocciava al suo calore. In pochi momenti la sua infatuazione da ragazzina per la ricchezza e le belle maniere del maturo messer Dorato si era trasformata in un calore e un'attrazione più femminile verso di lui. Seppi con inquietante certezza che era sua, se la voleva. Se avesse bussato alla sua porta quella notte, Sydel lo avrebbe accolto senza esitazione. «Sta esagerando.» Un bisbiglio senza fiato di Lora, venato di disgusto mentre mi passava accanto. «È la sua specialità» mormorai in risposta. Scrollai le spalle, costrette nell'abbigliamento vistoso. Quella notte la finzione di guardia del corpo di messer Dorato rischiava di diventare reale. Certamente l'occhiata che Urbano gli lanciò era piena di un odio omicida. Quando dama Bresinga annunciò che era ora di cena, Urbano commise l'errore sciocco di esitare. Non ebbe neanche la possibilità di ignorare Sydel, rifiutando sgarbatamente di accompagnarla a tavola, perché subito il suo rivale offrì il braccio alla ragazza e lei lo prese. Urbano fu costretto dal dovere a scortare in sala da pranzo la madre trascurata, dietro al loro stimato ospite e alla sua preda. Tentai di imbrigliare le mie emozioni e di osservare stoicamente quella
cena. La tattica di messer Dorato mi aveva rivelato molto. I genitori di Sydel apparivano fortemente combattuti tra la cortesia verso i Bresinga e la prospettiva allettante che la loro figlia conquistasse l'attenzione di quel facoltoso nobiluomo. Messer Dorato era una preda molto più desiderabile del giovane Urbano, eppure non erano insensibili al rischio che la giovane figlia correva. Attirare lo sguardo di un nobile non è come ottenere una promessa di matrimonio. C'era la pericolosa possibilità che giocasse con lei e ne compromettesse l'onorabilità e un futuro matrimonio. Sydel doveva affrontare una situazione piena di insidie, e nel modo in cui dama Temolo faceva a pezzi il pane vidi chiaramente i suoi timori di madre che la ragazza non ne fosse capace. Avoin e Lora tentarono disperatamente di avviare una conversazione sulla caccia della giornata, e il discorso proseguì a fatica, ma messer Dorato e Sydel erano troppo assorti nella loro quieta conversazione. Urbano, seduto accanto a Sydel, fu ignorato da entrambi. Avoin si dilungava sugli usi della ruta nell'addestramento dei gatti, perché tutti sapevano che un gatto avrebbe evitato qualunque oggetto marcato con l'essenza dell'erba. Lora disse che a volte la cipolla era usata per lo stesso scopo. Messer Dorato offrì a Sydel un bocconcino dal suo piatto, poi la fissò rapito mentre lei lo mangiava. Quella sera stava bevendo molto, un bicchiere dietro l'altro, come se si versasse il vino in gola. Ero in preda all'ansia. Il Matto ubriaco era sempre stato imprevedibile e capriccioso. Forse messer Dorato aveva più ritegno quando era alticcio? La rabbia di Urbano doveva essere ribollente, perché avvertii da qualche parte un'eco interrogativa nello Spirito. Non colsi il pensiero, solo l'emozione. Qualcosa era ben disposto a fare messer Dorato a brandelli per Urbano. Non dubitai che il suo gatto da caccia fosse la sua bestia dello Spirito. In quel momento di furia accecante, il collegamento tra loro vibrò di sete di sangue. Si spense in un istante, ma era impossibile sbagliarsi. Il ragazzo possedeva lo Spirito. E dama Bresinga? La guardai con la coda dell'occhio: non colsi alcuna traccia di Spirito, solo disapprovazione materna per la mancanza di controllo del figlio. Era perché aveva rivelato il suo Antico Sangue a chiunque ne fosse consapevole, o semplicemente perché il suo fastidio era troppo visibile? Tradire le proprie emozioni così palesemente non era educato. Come la sera prima, rimasi dietro alla sedia di messer Dorato per tutta la cena. Dedussi poco dai discorsi, ma molto dagli sguardi. Il comportamento scandaloso di messer Dorato affascinava e inorridiva gli altri ospiti. Furo-
no scambiate parole sommesse e occhiate sgomente. A un certo punto messer Temolo respirò attraverso le narici pallide e tese, mentre la moglie gli parlava concitatamente in tono sommesso. Sembrava disposta a giocarsi il favore dei Bresinga per il possibile beneficio di un'unione migliore. Soppesai espressioni e dialoghi, cercando di capire chi possedeva lo Spirito. Non erano informazioni che potessi quantificare, ma prima che la cena fosse finita sapevo con certezza che Urbano e dama Bresinga lo avevano, e il loro capocaccia no. Degli altri ospiti alla tavola, sospettavo di una certa dama Jerrit che aveva qualcosa del gatto nei suoi atteggiamenti. Forse non si accorgeva che aspirava il profumo di ogni piatto prima di decidersi ad assaggiarlo. Il suo sposo, un uomo robusto e cordiale, aveva un modo di girare lateralmente la testa rosicchiando una coscia di tacchino, come se là avesse avuto denti più acuti per strappare la carne. Piccole abitudini, ma rivelatrici. Il principe aveva già abbandonato Castelcervo per Rocca Bufera; allontanato da Rocca Bufera, poteva trovare un'altra tenuta amica dello Spirito. Questi due vivevano a sud. La pista del principe conduceva a nord, ma non significava che non sarebbe ridisceso. Notai anche un'altra cosa. Gli occhi di dama Bresinga mi cercavano spesso, e non pensai che ammirasse il mio completo sgargiante. Sembrava che tentasse di ricordare qualcosa. Ero quasi sicuro di non averla mai incontrata nella mia altra vita come FitzChevalier. Ma essere quasi sicuro lascia sempre un dubbio inquieto nel fondo della mente. Per qualche tempo tenni la testa abbassata leggermente guardando di sottecchi. Solo dopo aver osservato gli altri mi resi conto di quanto fosse un atteggiamento da lupo. Quando dama Bresinga mi guardò di nuovo incontrai con franchezza il suo sguardo. Non fui così sfrontato da sorriderle, ma allargai di proposito gli occhi, fingendo interesse. La sua indignazione verso il servitore insolente di messer Dorato fu chiara. Come una gatta, sgranò gli occhi e guardò attraverso di me. Da quello sguardo finalmente ne fui sicuro. Antico Sangue. Mi chiesi se fosse lei la donna che aveva catturato la fantasia del mio principe. Di certo era attraente. Le labbra piene suggerivano sensualità. Devoto non sarebbe stato il primo giovane a cadere vittima di una donna più vecchia ed esperta. Era per quello che gli aveva donato la gatta? Per sedurlo e vincere il suo giovane cuore, così che, chiunque sposasse, dama Bresinga avrebbe sempre avuto un'influenza su di lui? Questo spiegava perché Devoto si era rifugiato lì dopo aver abbandonato Castelcervo, ma non la sua passione insoddisfatta. No. Se la dama avesse voluto sedurre il
principe, si sarebbe mossa subito per adescarlo. C'era qualcos'altro, qualcosa di strano, come aveva detto il lupo. Un breve cenno di messer Dorato alla fine del pasto mi congedò. Me ne andai, ma con riluttanza. Volevo vedere le reazioni al suo abominevole comportamento. Gli ospiti sarebbero passati ad altri divertimenti; musica, giochi d'azzardo e conversazione. Andai in cucina, e di nuovo mi fu offerta una scelta degli avanzi del banchetto. Avevano servito per cena un maialino cucinato intero, e fra le ossa sul vassoio rimaneva una gran quantità di carne tenera e pelle croccante, accompagnata da una salsa di mele acide e bacche. Insieme a pane e formaggio bianco e soffice, e diversi boccali di birra chiara, costituiva un pasto più che adeguato. Avrebbe potuto essere anche più piacevole se il servitore di messer Dorato non fosse stato rimproverato per il comportamento del suo padrone. Fui informato severamente da Lebven che Urbano e Sydel erano fidanzati quasi dalla nascita. Ecco, se non formalmente, almeno era idea comune fra i membri di entrambe le famiglie che i due erano destinati l'uno all'altra. La casata dei Bresinga e la famiglia di messer Temolo erano state sempre in ottimi rapporti, e le due tenute erano confinanti. Perché la figlia di messer Temolo non doveva beneficiare dalla rapida ascesa di dama Bresinga? I vecchi amici dovrebbero aiutarsi a vicenda. Cosa pensava il mio padrone, mettendosi tra loro? Potevano le sue intenzioni essere onorevoli? Avrebbe rubato la giovane sposa a Urbano, per portarla a corte e a una ricchezza al di sopra della sua posizione? Era un donnaiolo a Castelcervo, stava solo giocando con il suo affetto? Era bravo con una spada? Perché si sapeva che Urbano aveva un cattivo carattere, e, ospitalità o no, poteva sfidarlo per Sydel. Mi professai all'oscuro di tutto questo. Avevo preso di recente servizio con messer Dorato alla corte di Castelcervo. Sapevo ancora poco dei modi o del temperamento del mio padrone. Ero curioso quanto loro di vedere cosa gli sarebbe successo. L'euforia suscitata da messer Dorato era tale che non riuscii a portare la conversazione sull'Antico Sangue o Devoto o alcun tema utile. Mi attardai abbastanza per rubare un grosso pezzo di carne. Poi accampai il pretesto dei miei doveri e tornai nella mia stanza, frustrato dall'ignoranza e profondamente preoccupato per la sicurezza di messer Dorato. Appena rientrato mi cambiai indossando il mio più umile completo blu. Nascondendo la carne avevo sporcato il farsetto verde. Poi sedetti ad attendere il ritorno del mio padrone. Fremevo d'ansia. Se esagerava con il
suo ruolo poteva davvero trovarsi ad affrontare la lama del giovane Urbano. Dubitavo che messer Dorato fosse uno spadaccino migliore del Matto. Naturalmente sarebbe stato scandaloso se si fosse giunti allo spargimento di sangue, ma un giovane nella posizione di Urbano non era incline a preoccuparsi di tali finezze. Gli abissi della notte erano passati e ci stavamo avventurando verso le secche dell'alba quando sentii bussare piano alla porta. Una domestica dal volto severo mi informò che il mio padrone richiedeva la mia assistenza. Con il cuore in gola la seguii, per scoprire messer Dorato ubriaco fradicio su una panca in un salottino. Sedeva scomposto come un indumento smesso. Se altri avevano assistito al crollo, se n'erano andati. Anche la domestica alzò il mento quando mi lasciò solo a badare a lui. Appena fu scomparsa, mi aspettavo quasi che il Matto si svegliasse e mi strizzasse l'occhio per farmi capire che era tutta una farsa. Non fu così. Lo tirai in piedi, ma nemmeno quello lo riscosse. Trascinarlo o portarlo a braccia? Ricorsi all'espediente poco dignitoso di caricarmelo in spalla come un sacco di grano e trasferirlo in camera. Lo scaricai sul letto senza cerimonie e chiusi la porta. Poi gli tolsi gli stivali e gli sfilai la giacca. Quando ricadde sul letto, disse: «Bene, l'ho fatto. Ne sono sicuro. Domani mi scuserò abiettamente con dama Bresinga. Poi ce ne andremo subito. E tutti saranno sollevati. Nessuno ci seguirà, nessuno sospetterà che cerchiamo il principe.» La sua voce vacillò. Non aveva ancora aperto gli occhi. Con fatica aggiunse: «Penso che vomiterò.» Gli portai il catino e lo misi sul letto accanto a lui. Lui lo circondò con un braccio, come una bambola. «Cos'hai fatto di preciso?» «Oh, Eda, fa' che tutto si fermi.» Serrò le palpebre. «Ha accettato un bacio da me. Sapevo che avrebbe funzionato.» «Hai baciato Sydel? La promessa sposa di Urbano?» «No» gemette lui, e conobbi un fugace momento di sollievo. «Ho baciato Urbano.» «Cosa?» «Ero uscito a pisciare. Quando sono tornato lui mi aspettava fuori del salottino dove gli altri giocavano d'azzardo. Mi ha afferrato il braccio e mi ha praticamente trascinato in una saletta dove mi ha affrontato. Quali erano le mie intenzioni verso Sydel? Non capivo che erano legati?»
«E tu cos'hai detto?» «Ho detto...» Fece una pausa e i suoi occhi si sgranarono. Si chinò verso il catino, ma dopo un momento emise un rutto e si distese di nuovo. Gemette, poi continuò: «Ho detto che avevo ben compreso che tra loro c'era un'intesa, e che speravo che potessimo intenderci anche noi. Gli ho preso la mano. Gli ho detto che non vedevo difficoltà. Sydel è una bella ragazza, lui è un bel ragazzo, e tutti e tre possiamo diventare amici intimi e amorevoli, così gli ho detto.» «E poi lo hai baciato?» Ero incredulo. Messer Dorato strinse forte gli occhi. «Sembrava un po' ingenuo. Volevo essere sicuro che comprendesse appieno ciò che intendevo.» «Eda ed El avvinghiati» imprecai. Mi alzai e messer Dorato gemette quando il letto si mosse sotto di lui. Andai alla finestra e guardai fuori. «Come hai potuto?» Lui trasse un respiro e la derisione forzata serpeggiò nella sua voce. «Oh, avanti, Amore. Non essere geloso. È stato il bacio più breve e casto che tu possa immaginare.» «Oh, Matto» lo rimproverai. Come faceva a scherzarci sopra? «Neanche sulla bocca. Solo una calda pressione delle mie labbra sul palmo della mano, un colpetto della lingua.» Sorrise debolmente. «Ha strappato via la mano come se lo avessi scottato.» All'improvviso emise un sonoro singulto e fece una smorfia. «Puoi andare. In camera tua, Striato. Stasera non ho più bisogno di te.» «Ne sei sicuro?» Annuì, un breve cenno deciso. «Vattene» disse, scandendo il suo ordine. «Se devo vomitare, non voglio che tu mi veda.» Capii il suo bisogno di preservare almeno quella dignità. Gliene rimaneva già abbastanza poca. Mi ritirai nella mia stanza e chiusi la porta. Sistemai le mie cose nella sacca. Poco dopo, quando lo sentii star male, non andai da lui. Ci sono cose che un uomo deve affrontare da solo. Non dormii bene. Volevo sfiorare la mente del mio lupo, ma non osavo permettermi quel conforto. Mi sentivo sporcato dalle manipolazioni politiche del Matto, per quanto necessarie. Volevo la vita schietta e pulita di un lupo. Verso l'alba uscii da un sonno leggero sentendo il Matto che si muoveva per la camera. Lo trovai seduto al tavolino, stralunato. In qualche modo i vestiti freschi di bucato lo facevano apparire ancor più sgualcito. Anche i
capelli sembravano sudati e spettinati. Aveva davanti una scatoletta e uno specchio. Mentre lo guardavo, confuso, intinse il dito in qualcosa e se lo passò sotto l'occhio. L'ombra si approfondì in una borsa. Poi il Matto sospirò. «Odio ciò che ho fatto ieri notte.» Non aveva bisogno di spiegare. Tentai di alleviargli il rimorso di coscienza. «Forse è stata un'opera buona. Forse è meglio che abbiano scoperto, prima di sposarsi, che il cuore di Sydel non è costante come Urbano credeva.» Il Matto scosse il capo, rifiutando il conforto. «Se io non avessi condotto, lei non mi avrebbe seguito in quella danza. I suoi primi tentativi erano solo un vezzo di fanciulla. Penso che per una ragazza civettare sia istintivo come sfoggiare muscoli e audacia per i ragazzi. Le ragazze della sua età sono come gattini che attaccano i fili d'erba per allenarsi alla caccia. Non conoscono ancora il significato dei loro comportamenti.» Sospirò, poi tornò alla scatoletta di polveri colorate. In silenzio lo guardai mentre accentuava l'aspetto malaticcio e si aggiungeva dieci anni evidenziando le rughe sul suo viso. «Pensi che sia necessario?» gli chiesi mentre chiudeva la scatoletta e me la tendeva. La infilai nel suo fagotto, e notai che era già accuratamente confezionato per il viaggio. «Sì. Desidero essere sicuro che l'incantesimo che ho gettato su che Sydel sia del tutto infranto prima che io parta. Deve vedermi come un vizioso attempato. Si chiederà cosa stava pensando, e fuggirà di nuovo da Urbano. Spero che lui la riprenda. Non voglio che lei languisca per me.» Emise un sospiro melodrammatico, ma seppi che il ridicolo era diretto a lui stesso. Quella mattina la facciata di messer Dorato si era incrinata e il Matto splendeva dalle crepe. «Un incantesimo?» chiesi scettico. «Certo. Nessuno resta indifferente a me se scelgo di incantarli. Nessuno tranne te, voglio dire.» Girò dolorosamente gli occhi verso di me. «Ma non ho tempo per piangere su quello. Ora devi precedermi e far sapere che desidero un momento privato con dama Bresinga. Poi vai a bussare alla porta di Lora e dille che partiamo fra poco.» Quando sbrigai entrambe le commissioni, messer Dorato era uscito per l'incontro con dama Bresinga. Fu un incontro molto breve, e quando tornò indicò che dovevo subito portare giù le nostre borse. Non si fermò a mangiare, ma io avevo già rubato tutta la frutta che c'era nella stanza. Saremmo sopravvissuti, e lui probabilmente faceva bene a evitare il cibo ancora per
un po'. Ci portarono i nostri cavalli. Dama Bresinga scese per accomiatarsi con un gelido addio. Neppure i servitori si degnarono di notare la nostra partenza. Messer Dorato offrì di nuovo le sue scuse, attribuendo gran parte del suo comportamento alla qualità eccellente dei loro vini. Se l'adulazione era intesa per placarla, fallì. Uscimmo dal cortile cavalcando lentamente: messer Dorato ci impresse un passo molto tranquillo. Ai piedi della collina svoltammo verso il traghetto. Solo quando la linea di alberi lungo la strada ci nascose dalla vista del maniero si arrestò e mi chiese: «Da che parte?» Lora cavalcava in un silenzio mortificato. Non aveva detto niente, ma compresi che umiliandosi messer Dorato l'aveva coinvolta nella sua disgrazia. Ora parve sgomenta quando dissi: «Di qui» e voltai Mianera per lasciare la strada entrando nella foresta macchiata di sole. «Non aspettarci» mi disse brusco messer Dorato. «Corri più che puoi per ridurre il distacco. Noi ti seguiremo come possiamo, anche se la mia povera testa potrebbe costringerci a rallentare. Ora il rischio è perdere la pista. Sono certo che Lora può seguire la tua. Ora vai.» Non mi serviva altro. Vidi subito lo scopo del suo ordine. Mi avrebbe permesso di raggiungere da solo Occhi-di-notte e conferire in privato con lui. Annuii e spronai Mianera con i talloni. La cavalla balzò in avanti di buon grado, e lasciai che fosse il mio cuore a condurci. Non tornai dove avevo visto per l'ultima volta il lupo, ma la diressi a nordest dove sapevo che si trovava quel giorno. Lo tirai con un minuscolo filo di consapevolezza per fargli sapere che stavo arrivando e sentii il fremito della sua risposta. Esortai Mianera ad accelerare. Occhi-di-notte aveva coperto una distanza sorprendente. Non mi preoccupai se Lora sarebbe riuscita a seguirmi con facilità. Volevo ritrovare il mio lupo, accertarmi che stesse bene e proseguire in cerca del principe. La mia ansia per lui continuava a crescere. Il giorno era caldo, l'ultimo sprazzo d'estate sulla terra, e il sole batteva su di noi filtrando attraverso l'ombra lieve degli alberi. L'aria asciutta sembrava carica di polvere che mi risucchiava l'umidità dalla bocca e mi si appiccicava alle ciglia. Non cercavo neanche più le piste: spingevo Mianera attraverso le colline boscose e giù nelle valli. Dove scorrevano piccoli torrenti la vegetazione era più verde, ma adesso le loro acque erano filtrate sotto la superficie. Attraversammo due ruscelli, e ogni volta mi fermai per abbeverare Mianera e dissetarmi a mia volta. Poi continuammo. Nel primo pomeriggio ebbi la certezza istintiva che Occhi-di-notte era
vicino. Prima di scorgerlo o fiutarlo, cominciai a provare la sensazione bizzarra di aver già visto quella zona: quegli alberi mi erano stranamente familiari. Trattenni la cavalla e studiai con attenzione le colline intorno a me, solo per vederlo sbucare da una macchia di bassi ontani a un tiro di sasso. Mianera trasalì e poi concentrò su di lui la sua piena attenzione. Le misi una mano sul collo. Calma. Niente paura. Calma. Sono troppo stanco e non abbastanza affamato per inseguirti, aggiunse Occhi-di-notte. «Ti ho portato carne.» Lo so. Sento l'odore. L'avevo a malapena scartata che era già sparita. Volevo dare un'occhiata alle sue ferite, ma sapevo che era meglio non infastidirlo mentre mangiava. E appena ebbe finito si scrollò. Andiamo. Lascia che ti controlli... No. Magari stasera. Ma loro viaggiano finché c'è luce, e così dobbiamo fare noi. Hanno già un buon vantaggio, e il suolo asciutto trattiene poco gli odori. Andiamo. Aveva ragione. La terra asciutta resisteva alle impronte e all'odore. Prima che il pomeriggio fosse finito perdemmo due volte le tracce, e le ritrovammo solo descrivendo un ampio cerchio. Le ombre si allungavano quando messer Dorato e Lora ci raggiunsero. «Vedo che il tuo cane ci ha ritrovati» osservò ironica la donna, e non seppi cosa rispondere. «Messer Dorato dice che stai cercando il principe, che una sguattera ti ha detto che il principe è fuggito a nord?» La voce era interrogativa, la bocca stretta dalla disapprovazione. Forse sperava di cogliere messer Dorato in una bugia, o supponeva che avessi sedotto qualcuno per ottenere le informazioni. «Lei non sapeva che era il principe. Ha detto solo che era un ragazzo con un gatto da caccia.» Cercai il modo di schivare altre domande. «La pista è scarsa. Qualsiasi aiuto sarà ben accetto.» Funzionò. Lora si dimostrò una brava inseguitrice. Mentre la luce calava colse piccoli segnali che io avrei potuto non notare, e così continuammo a seguirli ben oltre il momento in cui avrei giudicato la luce troppo scarsa per proseguire. Giungemmo a un torrente dove si erano fermati a bere. Le tracce di due uomini, due cavalli e la gatta erano visibili sul terreno umido lungo la riva. Là decidemmo di accamparci per la notte. «Meglio smettere di cercare mentre sappiamo che siamo sulla pista giusta, piuttosto che aspettare di essere in dubbio e confondere le loro tracce con le nostre. Domani partiremo presto» annunciò Lora.
Ci accampammo, poco più di un piccolo fuoco e le nostre coperte. Avevamo poco cibo, ma c'era acqua in abbondanza. La frutta che avevo preso dalla nostra stanza era calda e ammaccata, ma la apprezzammo. Lora portava per abitudine alcune strisce di carne essiccata e pane da viaggio. Ce n'era ben poca, e senza saperlo lei si guadagnò molta simpatia da me quando annunciò: «La carne serve più al cane che a noi. Noi abbiamo frutta e pane.» Un'altra, pensai, avrebbe ignorato la fame del lupo e avrebbe tenuto da parte la carne per il giorno dopo. Occhi-di-notte, da parte sua, si degnò di prenderla dalla sua mano. E poi, quando insistetti per guardargli i graffi, non ringhiò quando Lora mi raggiunse, anche se fu saggia abbastanza da non tentare di toccarlo. Come sospettavo, aveva leccato via la maggior parte dell'unguento. I graffi si erano cicatrizzati e la carne intorno non sembrava troppo irritata. Decisi di non mettere altro unguento. Mentre ritiravo il vasetto ancora chiuso, Lora annuì in silenzioso accordo. «Meglio asciutto e chiuso che unto troppo bene e con la crosta troppo morbida.» Messer Dorato si era già disteso sulla coperta. Dedussi che la testa e lo stomaco gli davano ancora fastidio. Aveva parlato poco mentre montavamo il campo e consumavamo il magro pasto. Nel buio crescente non sapevo dire se i suoi occhi erano chiusi o se fissava il cielo. «Bene, suppongo che abbia ragione lui» dissi, indicandolo. «Presto a letto e presto in piedi. Se siamo fortunati, forse li raggiungeremo.» Lora dovette pensare che messer Dorato fosse già addormentato. Abbassò la voce. «Ci vorrà una bella cavalcata, e parecchia fortuna. Loro cavalcano con sicurezza, sapendo dove vanno, mentre noi dobbiamo procedere con cautela per non perderli.» Lora alzò la testa e mi studiò attraverso il piccolo fuoco. «Come sapevi quando lasciare la strada per trovare la loro pista?» Presi fiato e scelsi a caso una bugia. «Fortuna» risposi tranquillo. «Avevo la sensazione che andassero da questa parte, e quando ho trovato la pista l'abbiamo seguita.» «E il cane ha avuto la stessa sensazione, e quindi è andato avanti?» La guardai. Le parole mi vennero alle labbra senza volere. «Forse possiedo lo Spirito.» «Oh, sì» rispose Lora, sarcastica. «E per questo la regina conta che tu vada a cercare suo figlio. Perché sei uno di quelli che lei teme di più. Non hai lo Spirito, Tom lo Striato. Ho già conosciuto gente dello Spirito; ho sopportato il disdegno e l'indifferenza per chi non divide la loro magia. Dove sono cresciuta ce n'erano molti, e all'epoca facevano poco per na-
sconderlo. Tu non hai lo Spirito più di me, anche se sei uno dei migliori cacciatori con cui ho cavalcato.» Non la ringraziai per il complimento. «Parlami della gente dello Spirito con cui sei cresciuta» suggerii. Lisciai una piega della mia coperta e mi distesi su di essa. Chiusi quasi del tutto gli occhi, come se fossi solo vagamente interessato alla sua risposta. La luna, quasi piena, ci guardava attraverso gli alberi. Ai margini della luce del fuoco, Occhi-di-notte si leccava con cura. Lora trafficò per un momento con la coperta, togliendo sassolini da sotto. Poi la spianò di nuovo per terra e si sdraiò. Rimase silenziosa per qualche momento e pensai che non mi avrebbe detto niente. Poi disse: «Oh, non erano così male. Non come dicono le storie. Non si trasformavano in orsi o cervi o foche alla luna piena, né mangiavano carne cruda e rubavano bambini. Comunque sapevano essere maligni.» «Come?» «Oh.» Lora esitò. «Non era giusto, ecco» sospirò infine. «Immagina di non essere mai sicuro di essere solo, perché qualche uccellino o volpe in agguato potrebbe essere gli occhi e gli orecchi del tuo vicino. Approfittavano dello Spirito, perché i loro compagni animali scoprivano sempre dove la caccia era migliore o le bacche maturavano prima.» «Erano così aperti riguardo allo Spirito? Non ho mai sentito di un villaggio simile.» «Non è che fossero aperti su ciò che erano, è che io ero esclusa per ciò che non ero. I bambini non sanno essere diplomatici.» L'amarezza delle sue parole mi sgomentò. Ricordai all'improvviso che il resto della confraternita di Galen mi aveva trattato con disdegno quando sembravo non riuscire a dominare l'Arte. Tentai di immaginare cosa significasse crescere tra tale disprezzo. Poi un pensiero si intromise. «Credevo che tuo padre fosse capocaccia per messer Distinto. Allora non sei cresciuta nella sua tenuta?» Volevo sapere dove si trovava quel posto in cui lo Spirito era così comune che i bambini lo davano per scontato nei compagni di gioco. «Oh. Certo, ma quello fu più tardi.» Non ero sicuro se mentiva allora o se lo aveva fatto prima, ma la falsità rimase sospesa, quasi palpabile tra noi. Nacque un silenzio scomodo. La mia mente correva fra le possibilità. Che Lora avesse lo Spirito, che fosse una bambina senza Spirito in una famiglia con fratelli o genitori Spirituali, che avesse inventato tutto, che l'intero feudo di messer Distinto brulicasse di servitori Spirituali. Forse messer Distinto stesso era dell'Antico Sangue.
Non erano ipotesi del tutto inutili. Preparavano la mente a catalogare tra le varie possibilità qualsiasi altra informazione che Lora poteva lasciar cadere. Ripensai a una vecchia conversazione che avevamo avuto, e ricordai un commento casuale che mi fece venir freddo giù per la schiena. Aveva detto che conosceva bene quelle colline, avendo passato diverso tempo non lontano da Borgo Bufera, fra la sua gente. Anche Umbra aveva detto qualcosa di simile. Cercai un modo di riprendere la conversazione. «Allora sembra che tu non condivida l'attuale odio dello Spirito. Forse non desideri vederli tutti bruciati e fatti a pezzi.» «È un vizio schifoso» disse Lora, in un modo che mi fece sentire come se fuoco e lama fossero troppo poco. «Penso che i genitori che insegnano ai bambini a coltivarlo dovrebbero essere frustati. Quelli che scelgono di praticarlo non dovrebbero sposarsi né avere figli. Hanno già una bestia per dividere la loro casa e la loro vita. Perché ingannare una donna o un uomo sposandosi? Quelli che hanno lo Spirito dovrebbero scegliere in gioventù se legarsi a un animale o a un altro essere umano. Ecco tutto.» La sua voce si era alzata nella veemenza della replica. Sulle ultime parole si spense, come se avesse ricordato all'improvviso che messer Dorato dormiva. «Buonanotte, Tom lo Striato» aggiunse dopo poco. Tentò di ammorbidire il tono, forse, ma era chiaro che la conversazione era finita. Come a volerlo sottolineare, si girò sulla coperta e mi diede le spalle. Occhi-di-notte si alzò con un gemito e venne da me a passo rigido. Mi si sdraiò accanto con un sospiro. Appoggiai la mano sulla sua pelliccia. I nostri pensieri condivisi fluirono segreti come il nostro sangue. Lo sa. Allora pensi che abbia lo Spirito? Penso che sappia che tu hai lo Spirito, e non le piace molto. Per qualche tempo giacqui in silenzio, riflettendo. Ma ti ha dato da mangiare. Oh, be', io penso di piacerle. È di te che non è sicura. Dormi. Stasera cercherai di contattarli? Non volevo. Se ci fossi riuscito ne avrei ricavato un mal di testa terribile. Il solo pensiero del dolore mi dava la nausea. Eppure sfiorando il principe potevo ottenere informazioni per aiutarci a raggiungerlo più in fretta. Dovrei tentare. Avvertii la sua rassegnazione. Allora fallo. Io sarò qui. Occhi-di-notte. Quando io uso l'Arte e poi... Tu condividi il dolore?
Non proprio. È difficile per me rimanere separato, ma ci riesco. Solo che mi sento un codardo quando lo faccio. Non sei affatto un codardo. A che serve se soffriamo tutti e due? Non mi rispose, ma sentii che teneva per sé qualche pensiero sull'argomento. Qualcosa nella mia domanda quasi lo divertiva. Tolsi la mano dalla sua pelliccia e me la misi sul petto. Poi chiusi gli occhi, mi concentrai e cercai di entrare in una trance di Arte. La paura del dolore continuava a mescolarsi ai miei pensieri, disturbando la mia pace costruita con attenzione. Finalmente riuscii a trovare un punto di equilibrio e lì mi fermai, in qualche luogo tra il sogno e la veglia. Mi protesi nella notte. Quella notte sentii, come non avevo fatto per anni, la dolcezza del collegamento puro dell'Arte. Mi protesi ed era come se qualcuno si sporgesse verso di me e mi accogliesse prendendomi le mani. Era un'unione semplice, dolce, confortante, come tornare a casa dopo un lungo viaggio. C'era il collegamento dell'Arte, e qualcuno che sonnecchiava in un letto morbido in una soffitta sotto un tetto di paglia. I semplici odori di una casetta mi avvolsero, l'aroma persistente di un buon stufato cucinato quella notte, e il profumo di miele di una candela di cera vergine che ardeva fino a tardi da qualche parte al piano di sotto. Udivo un uomo e una donna che parlavano, le voci in sordina per non disturbare il mio riposo. Non distinguevo le parole, ma sapevo che ero a casa al sicuro e che là nulla poteva farmi del male. Mentre il nostro collegamento nell'Arte si affievoliva, sprofondai nel sonno più placido che avessi conosciuto da molti anni. 19 La locanda Durante gli anni della Guerra delle Navi Rosse, quando il principe Regal, il Pretendente, si autoproclamò re dei Sei Ducati, introdusse un sistema di giustizia chiamato Cerchio del Re. La prova delle armi non era sconosciuta nei Sei Ducati. Si dice che se due uomini combattono davanti alle Pietre Testimoni, gli dèi stessi guardano giù e la vittoria ricompensa colui la cui causa è giusta. Regal portò l'idea un passo più oltre. Nelle sue arene gli accusati affrontavano i suoi Campioni del Re o le bestie selvatiche. Quelli che sopravvivevano erano giudicati innocenti. Molti Spirituali incontrarono la loro fine in quei Cerchi. Eppure le vittime di quelle prove sanguinose furono solo la metà del male che vi fu compiuto. Quegli scontri diedero origine a una diffusa tolleranza della violenza e della morte che
presto divenne una fame. Divennero uno spettacolo e un divertimento, non solo un giudizio. Anche se uno dei primi atti di Kettricken come regina e reggente per il giovane Devoto fu di porre fine a tali prove e distruggere i Cerchi, nessuna decisione reale poteva estinguere la brama di sangue che gli spettacoli di Regal avevano risvegliato. Mi svegliai molto presto il mattino dopo con un senso di benessere e pace. La nebbia mattutina si stava diradando. La rugiada luccicava sulla mia coperta. Per qualche tempo contemplai il cielo attraverso i rami della quercia sopra di me, senza pensare. Nel mio stato mentale il disegno nero sul blu era tutto ciò che mi serviva. Dopo un poco, quando la mia mente insisté per riconoscere quella vista come rami d'albero contro il cielo, tornai a me, e a dov'ero, e a ciò che dovevo fare. Non avevo mal di testa. Avrei potuto allegramente girarmi dall'altra parte e dormire per il resto della giornata, ma non sapevo decidere se ero davvero stanco o se volevo solo tornare alla sicurezza dei miei sogni. Mi costrinsi a mettermi a sedere. Occhi-di-notte era sparito. Gli altri dormivano ancora. Attizzai il fuoco e lo alimentai prima di ricordarmi che non avevamo niente da cuocere. Dovevamo stringere la cinghia e seguire il principe e la sua compagna. Con un poco di fortuna, qualcosa di commestibile avrebbe incrociato il nostro percorso. Bevvi dal ruscello e mi lavai il viso nell'acqua fresca. Il giorno stava già scaldandosi. Mentre bevevo, il lupo tornò. Carne? chiesi speranzoso. Un nido di topi. Non te li ho portati. Hai fatto bene. Non ero così affamato. Non ancora. Il lupo bevve accanto a me per un po', poi alzò il muso. Dove sei andato la notte scorsa? Sapevo cosa intendeva. Non lo so bene. Ma mi sentivo al sicuro. Era bello. Sono contento che tu possa andare in un luogo come quello. C'era malinconia in quel pensiero. Lo guardai più da vicino. Per un istante lo vidi come poteva vederlo un altro. Un vecchio lupo dal muso grigio e i fianchi scheletrici. Il recente incontro con la gatta lo limitava ancora. Ignorò la mia preoccupazione per guardare nel ruscello. Pesce? Gli lasciai percepire la mia irritazione. «Neanche l'ombra» mormorai. «E ci dovrebbe essere. Molte piante, moscerini ronzanti. Dovrebbe essere pieno di pesci. Ma non ce ne sono.»
Sentii la sua rassegnazione. La vita era così. Sveglia gli altri. Dobbiamo muoverci. Non voleva che mi preoccupassi. Era un peso inutile per lui, un'ansia da non incoraggiare. Quando tornai al campo gli altri si stavano già alzando. C'era poco da dire. Messer Dorato sembrava essersi ripreso dai suoi eccessi. Nessuno parlò della mancanza di cibo. Pensarci non sarebbe servito. In un tempo brevissimo eravamo di nuovo in sella e seguivamo la pista sempre più indistinta del principe. Si spostava dritto verso nord. A mezzogiorno trovammo un bivacco, la cenere fredda. La terra intorno al fuoco era tutta calpestata, come se qualcuno si fosse accampato per diversi giorni. Fu facile risolvere il mistero. Due alberi recavano il segno di un recinto improvvisato. Qualcuno aveva atteso in quel luogo. All'arrivo del principe, della gatta e del loro compagno, erano ripartiti insieme. Verso nord. Lora e io discutemmo il numero di cavalli nel nuovo gruppo, e infine decidemmo che erano quattro. Avevano raccolto altri due compagni. Procedemmo, accelerando il ritmo: era più facile seguire le piste multiple. Il cielo si coprì, e poi si addensò di nubi. Per fortuna il sole non picchiava più, ma Occhi-di-notte ansimava ancora per tenere il nostro ritmo. Lo guardai con preoccupazione crescente. Avrei voluto collegarmi più strettamente con lui, essere sicuro che non continuasse malgrado il dolore, ma con Lora che cavalcava con noi non osavo. Mentre le ombre si allungavano e il giorno cominciava a rinfrescare, uscimmo dalla foresta, e dal crinale di una collina guardammo costernati un'ampia strada gialla che attraversava il nostro percorso. Se il principe e i suoi compagni avevano scelto di imboccarla, seguirli poteva diventare molto difficile. Giungemmo al margine della strada. Le loro piste vi convergevano. Il lupo diede mostra di cercare, ma senza molto entusiasmo. La pista del principe si mescolava nella spessa polvere asciutta con vecchi solchi di carro e impronte di ferri di cavallo quasi cancellate. Tracce e odori non sarebbero durati a lungo. Una brezza pomeridiana poteva annullare ogni traccia del loro passaggio. «Bene» osservò volonteroso messer Dorato. Mi guardò alzando un sopracciglio. Sapevo cosa suggeriva. Non era per questo che Umbra mi aveva mandato? Chiusi gli occhi e trassi un respiro, poi mi aprii all'Arte senza pensare a proteggermi. Dove sei? chiesi al mondo che scorreva attorno a me. Forse ci fu un fremito in risposta, ma non avevo la certezza che fosse il principe. Dopo quella notte sapevo che qualcun altro là fuori reagiva alla mia Arte,
qualcuno che non era il principe. Potevo quasi toccarlo. Mi costrinsi a distogliermi da quel rifugio che mi chiamava, e mi protesi di nuovo verso il principe. Ma lui e la gatta mi sfuggivano. Non so per quanto tempo rimasi in sella a Mianera, aprendomi al vasto mondo. Il tempo si ferma in quella ricerca. Sentivo quasi il Matto che mi aspettava; anzi, lo sentivo davvero. Un brillante filo d'Arte mi diceva che tratteneva l'impazienza. Sospirai e mi ritirai da quell'invito pacifico e dalla mia ricerca infruttuosa. Non avevo notizie per messer Dorato. Aprii gli occhi. «Stavano andando a nord. Seguiamo la strada verso nord.» «La strada va più a nord-est che a nord» indicò messer Dorato. Scrollai le spalle. «L'alternativa è sud-ovest.» «E nord-est sia» concordò lui, e spronò Malta con i talloni. Lo seguii, poi guardai indietro per vedere cosa tratteneva Lora. Con un'espressione confusa spostava lo sguardo da me a messer Dorato, perplessa. Dopo un momento ci raggiunse. Ripassai mentalmente il dialogo con il mio padrone e mi venne voglia di prenderci a calci tutti e due. Non mi ero neppure ricordato di chiamarlo 'messere', figuriamoci usare il tono corretto di un servitore con il padrone. La scelta della direzione era stata evidentemente mia. Decisi che il miglior modo di comportarsi era non parlarne, e sperare di rimediare con un eccesso di servilità futura, anche se il mio cuore sprofondò a quel pensiero. Desideravo tanto una conversazione e una compagnia spontanea. Cavalcammo finché ci fu luce. Messer Dorato apparentemente ci guidava, ma in realtà seguivamo la strada. Mentre il giorno svaniva cominciai a cercare un buon posto per accamparci. Occhi-di-notte parve cogliere il mio pensiero, perché corse davanti ai nostri cavalli per superare un dosso nella strada. Quando sparì, seppi che voleva che lo seguissimo. «Andiamo solo un po' più oltre» suggerii malgrado l'oscurità crescente. E in cima alla collina fummo ricompensati dalle luci sparse di un villaggetto nelle pieghe della valle di fronte a noi. Un fiume lo lambiva; ne sentivo l'odore, e il fumo di cucine. Il mio stomaco si svegliò dalla sua rassegnazione e brontolò rumorosamente. «Laggiù c'è una locanda, scommetto» annunciò messer Dorato con entusiasmo. «Veri letti. E possiamo trovare provviste per domani.» «Proviamo a chiedere del principe?» domandò Lora. I nostri cavalli stanchi sembravano avvertire la prospettiva di qualcosa di meglio dell'erba e dell'acqua di torrente. Accelerarono il ritmo scendendo la collina. Non
vidi traccia di Occhi-di-notte, ma non me lo aspettavo. «Indagherò con discrezione» decisi. Immaginavo che Occhi-di-notte lo stesse già facendo. Se avevano attraversato il villaggio e si erano fermati anche solo per poco, la gatta avrebbe lasciato qualche traccia. Con fiuto infallibile, messer Dorato ci condusse a una locanda. Era un edificio piuttosto grande per quel villaggio, costruito in pietra nera e dotato di un piano superiore. L'insegna mi gelò il cuore. Era il Principe Pezzato, raffigurato come una testa umana con un corpo stilizzato diviso in quattro quarti. Non era la prima volta che lo vedevo effigiato così; era la rappresentazione più comune, ma ebbi uno strano presentimento. Se messer Dorato o Lora notarono l'insegna, non lo diedero a vedere. La luce si riversava dalla porta spalancata della locanda, e con essa le chiacchiere e il buon umore. Sentivo odore di cibo e Fumo e birra. Le risa e la conversazione giungevano a noi in un ruggito piacevole. Messer Dorato smontò e mi disse di portare i cavalli allo stalliere. Lora lo accompagnò nella rumorosa stanza comune mentre io conducevo gli animali sul retro buio della locanda. In pochi istanti si spalancò una porta, e una lama di luce trapassò il cortile polveroso. Lo stalliere apparve con una lanterna, pulendosi le labbra dal pasto interrotto. Prese i cavalli e li condusse verso la stalla. Avvertii Occhi-di-notte, più che vederlo, nell'oscurità più profonda all'angolo della locanda. Mentre mi avvicinavo alla porta un'ombra si staccò e mi passò accanto, sfiorandomi. In quel breve tocco conobbi i suoi pensieri. Erano qui. Stai attento. C'è odore di sangue umano nella strada di fronte alla locanda. E puzza di cani. Qui tengono cani, ma non stasera. Si confuse nella notte prima che potessi chiedere dettagli. Entrai dalla porta posteriore con cuore inquieto e pancia vuota. Il locandiere mi informò che il mio padrone aveva già preso la sua stanza migliore, e io dovevo portare su tutte le borse. Stancamente tornai fuori. Apprezzavo l'artificio di messer Dorato per permettermi di dare una bella occhiata nelle stalle, ma ero afflitto all'improvviso da una stanchezza quasi infinita. Cibo e sonno. Non mi serviva neanche un letto. Sarei stato felice di crollare lì. Lo stalliere stava versando altre granaglie nelle mangiatoie dei nostri cavalli. Forse perché c'ero lì io, ottennero una manciata più generosa di avena. Nelle stalle non vidi niente di insolito. C'erano tre ronzini, di quelli che si noleggiano spesso in simili posti, e un carretto traballante. Una vacca in uno stallo forniva probabilmente il latte per la zuppa d'avena degli ospiti. Deplorai le galline appollaiate fra le travi. Il loro guano avrebbe contaminato il cibo e l'acqua dei cavalli, ma non potevo farci molto. C'erano solo
altri due cavalli, pochi per appartenere alle nostre prede. Niente gatti da caccia legati in stalli vuoti. Ebbene, nulla era mai facile. Lo stalliere era competente, ma non ciarliero e neanche curioso. I suoi vestiti emanavano un pungente aroma di Fumo; sospettai che le erbe lo avessero illanguidito fino a renderlo indifferente. Presi le nostre borse e, carico come un somaro, tornai alla locanda. La stanza migliore era in cima a una scala tarlata. Salire mi stancò più del normale. Bussai alla porta, poi riuscii ad aprirla da solo. Era la stanza migliore nel senso che era il miglior salottino della locanda. Messer Dorato si era accomodato in una poltrona imbottita a capo di una tavola logora. Lora sedeva alla sua destra. Avevano davanti boccali e una grande brocca di terracotta. Sentivo l'odore di birra chiara. Riuscii a mettere giù le borse accanto alla porta invece di lasciarle cadere. Messer Dorato si degnò di osservarmi. «Ho ordinato da mangiare, Tom lo Striato. E ho richiesto stanze per noi. Appena avranno preparato i letti ti mostreranno dove portare le borse. Fino ad allora siediti, sei stato bravo. Oggi ti sei guadagnato la paga. Ecco un boccale per te.» Accennò a un posto alla sua sinistra, e sedetti. Qualcuno mi aveva già versato la birra chiara. Scolai quel primo boccale come puro sostentamento dopo un lungo giorno. Non era la birra migliore o peggiore che avessi mai assaggiato, ma poche birre furono benvenute come quella. Misi il boccale vuoto sulla tavola e messer Dorato accennò alla brocca. Mentre riempivo di nuovo i nostri boccali, arrivò il cibo. C'era una pernice arrosto, una grande ciotola di piselli al burro, un pasticcio di melassa e panna, trota arrostita su un vassoio, pane, burro e altra birra chiara. Prima che il ragazzo di servizio se ne andasse, messer Dorato aggiunse un'altra richiesta. Quella mattina si era fatto male alla spalla; desiderava una fetta di carne cruda dalla cucina per ridurre l'indolenzimento. Lora servì messer Dorato e sé stessa e poi mi passò i piatti. Mangiammo quasi in silenzio, tutti molto concentrati sul cibo. In breve la selvaggina e il pesce erano ridotti a ossa sui vassoi. Messer Dorato fece chiamare i servitori della locanda per sparecchiare. Portarono una torta di bacche con panna rappresa, e altra birra chiara. Insieme arrivò la fetta di carne cruda. Appena il servitore fu uscito, messer Dorato la avvolse accuratamente nel tovagliolo e me la diede. Mi chiesi con stanca gratitudine se qualcuno ne avrebbe notato la scomparsa. A un certo punto mi accorsi che avevo mangiato più del dovuto, e bevuto più di quanto fosse saggio. Mi sentivo ubriaco e strapieno, una sensazione così deprimente dopo aver avuto fame per tutto il giorno. La stan-
chezza si impadronì di me. Tentai di nascondere gli sbadigli con la mano e di ascoltare la conversazione sommessa tra messer Dorato e Lora. Le loro voci sembravano distanti, come se un fiume chiassoso scorresse tra loro e me. «Uno di noi dovrebbe dare un'occhiata discreta qui attorno» insisteva Lora. «Magari facendo qualche domanda di sotto scopriremmo dove stavano andando, o se sono conosciuti da queste parti. Forse sono vicini.» «Tom?» mi pungolò messer Dorato. «Già fatto» dissi piano. «Erano qui. Ma sono già partiti, o sono in una locanda diversa. Ammesso che un paesino di queste dimensioni abbia più di una locanda.» Mi abbandonai sulla sedia. «Tom?» mi chiese messer Dorato con un certo fastidio. Chinandosi verso Lora osservò: «Probabilmente è il Fumo. Non ha mai saputo reggerlo. Gli basta sentire l'odore e non capisce più niente.» Mi costrinsi ad aprire gli occhi. «Prego?» La mia voce sembrava impastata e distante. «Come sai che erano qui?» chiese Lora. Lo aveva già chiesto? Ero troppo stanco per pensare a una buona risposta. «Lo so» risposi laconico, e poi mi rivolsi a messer Dorato come se fossimo stati interrotti. «È stato anche versato sangue nella strada fuori della locanda. Dovremo fare attenzione.» Messer Dorato annuì saggiamente. «Penso che sia meglio andare a letto presto per alzarci di buon'ora domani.» Senza lasciare a Lora il tempo di obiettare, suonò di nuovo la campana dei servitori. Gli dissero che le sue stanze erano pronte. Lora aveva una stanzetta tutta sua in fondo al corridoio. Messer Dorato aveva una camera più importante, con lo spazio per la branda del suo domestico. La cameriera che accorse al suono della campana insisté che avrebbe portato la borsa di Lora su alla sua camera, così ci salutammo lì. Evitai gli occhi della donna. Ero all'improvviso tremendamente stanco, troppo stanco per tentare di mantenere i nostri ruoli. Riuscii solo a caricarmi in spalla parte delle nostre borse e seguire il servitore fino alle stanze di messer Dorato. Lui rimase indietro, a chiacchierare con il locandiere sul rifornimento delle nostre provviste prima della partenza l'indomani. La nostra stanza era sul retro della locanda, a pianterreno. Trascinai dentro il bagaglio, chiusi la porta dietro al servitore e spalancai la finestra. Trovai una camicia da notte per messer Dorato e la distesi sul letto dopo aver girato un angolo del lenzuolo. Mi infilai la fetta di carne nella tunica,
per portarla più tardi a Occhi-di-notte. Poi sedetti sulla mia branda ad attendere messer Dorato. Mi svegliai mentre qualcuno mi scuoteva con dolcezza la spalla. «Fitz? Stai bene?» Uscii lentamente dal sogno. Mi ci volle un momento o due per ricordarmi chi ero. Nel sogno ero stato in un'altra città, popolosa, ben illuminata. C'erano musica e molte torce e luci. Una celebrazione. E io non ero un servitore, ero... «È scomparso» dissi assonnato al Matto. Sentii uno strano grattare e poi un tonfo. Occhi-di-notte che si arrampicava sul davanzale e si lasciava cadere nella stanza. Mi cacciò il naso in faccia. L'accarezzai assente. Mi sentivo così assonnato. Mi ronzavano le orecchie. Il Matto mi scosse di nuovo. «Fitz. Sta' sveglio e parlami. Cosa succede? È il Fumo?» «Niente. Si stava così bene. Voglio solo tornare a dormire.» Il sonno mi allettava come una marea che si ritira. Volevo lasciarmi trascinare. Occhidi-notte mi urtò un'altra volta con il naso. Stupido. È la pietra nera, come la strada degli Antichi. Ti stai perdendo di nuovo. Vieni fuori. Mi costrinsi a spalancare gli occhi. Vidi il volto preoccupato del Matto, e poi, stordito, fissai i muri che mi circondavano. Pietra nera. Venata d'argento. E quando la guardai la riconobbi per ciò che era, pietra rubata da un edificio molto più vecchio. Le pietre del muro interno della stanza combaciavano bene, ma il muro esterno era più rozzo. No, compresi all'improvviso, non era esatto. L'edificio era più antico del paese, ma era una rovina ricostruita dalle stesse antiche pietre. Pietre di memoria, lavorate dalle mani degli Antichi. Non so cosa pensò il Matto quando mi rimisi in piedi barcollando. «Pietre. Pietre di memoria» gli dissi con voce impastata, cercando aria fresca. Mi buttai dalla finestra nel cortile polveroso, seguito dal suo grido sbalordito. Il lupo atterrò più agilmente accanto a me. Un istante più tardi Occhidi-notte svanì fra le ombre mentre qualcuno si sporgeva da una finestra: «Che succede laggiù?» «È quell'idiota del mio domestico!» ribatté disgustato messer Dorato. «Così ubriaco che è caduto dalla finestra mentre tentava di chiuderla. Può rimanere lì. Gli sta bene, a quella spugna senza cervello.» Rimasi disteso nella polvere del cortile e sentii svanire quei sogni sedu-
centi. Fra poco avrei potuto alzarmi e mi sarei allontanato dai muri di pietra. Avevo solo bisogno di un momento o due. La stanchezza terribile che mi aveva oppresso tutta la sera si dissolse gradualmente. Galleggiai nel sollievo. Fissai il cielo notturno e mi parve di potermi levare verso di esso. Da qualche parte una coppia stava litigando. Lui era infelice, ma lei era insistente. Troppa fatica concentrarsi sulle parole, ma poi si avvicinarono, e non potei evitare di ascoltarli. «Dovrei tornare a casa» diceva lui. Sembrava molto giovane. «Dovrei tornare da mia madre. Se non l'avessi lasciata, questo non sarebbe accaduto. Arno sarebbe ancora vivo. E anche gli altri.» Lei gli infilò la testa sotto il braccio, e poi gliela appoggiò sul petto. Vero. E saremmo divisi, tu dato a un'altra per sempre. E davvero ciò che vuoi? Si erano avvicinati. Con lui, odoravo il profumo dolce di lei, muschiato e selvatico. Lui la teneva stretta. Il vento soffiò attraverso il mio sogno, sfilacciando gli orli. Lui le lisciò la pelliccia; lunghi capelli scuri tra le sue dita. «Non è ciò che voglio. Ma forse è il mio dovere.» Il tuo dovere è verso la tua gente. E verso di me. Lei gli avvolse la mano attorno al braccio. Le unghie premettero la carne come artigli. Lo trascinò. Vieni. Tempo di ripartire. Non possiamo rimanere, dobbiamo cavalcare. Lui guardò nei suoi occhi verdi. «Amore mio, devo tornare. Là sarei più utile a tutti noi. Potrei parlare chiaro, potrei spingere per il cambiamento. Potrei...» Saremmo divisi. Lo sopporteresti? «Troverei il modo per rimanere insieme.» No. Lei gli colpì lievemente la guancia, e il palmo raschio la pelle, così ispida da far pensare ad artigli. No. Non capirebbero. Ci costringerebbero a separarci. Ucciderebbero me, e forse anche te. Ricorda la storia del Principe Pezzato. Il sangue reale non bastò a proteggerlo. Il tuo non ti difenderebbe. Una pausa, poi: Solo io mi preoccupo davvero di te. Solo io posso salvarti. Ma non oso venire da te del tutto, finché non avrai dimostrato di essere uno di noi. Ti trattieni sempre. Ti vergogni dell'Antico Sangue? No. Mai. Allora apriti. Sii ciò che sai di essere. Lui rimase silenzioso a lungo. «Ho un dovere» disse piano. C'era un infinito rammarico nella sua voce. «Fallo alzare!» La voce dell'uomo venne da dietro di me. «Non possia-
mo tardare. Dobbiamo guadagnare terreno.» Mi girai per vedere chi parlava, ma non scorsi nessuno. Gli occhi verdi fissarono i miei. Avrei potuto sprofondare in quegli occhi per sempre. Fidati di me, lei lo implorò, e lui dovette fare come chiedeva. Più tardi penserai a queste cose. Più tardi penserai al dovere. Per ora, pensa a vivere. E a me. Svegliati. Il Matto mi prese il braccio e se lo mise sulle spalle. «Alzati» disse in tono persuasivo, e mi tirò in piedi. Era interamente vestito di nero. Doveva essere passato più tempo di quanto credessi. Risate e chiacchiere si riversavano ancora dalla stanza comune della locanda insieme alla luce. In piedi, scoprii che potevo camminare, ma il Matto ancora insisteva a tenermi per il braccio mentre mi guidava in un angolo scuro del cortile. Mi appoggiai contro il legno grezzo del muro delle stalle e mi riscossi. «Ti senti bene?» mi chiese di nuovo il Matto. «Penso di sì.» La mia mente stava riemergendo dalle ragnatele. Ma erano ragnatele conosciute. Sentii le fitte familiari di un mal di testa da Arte, ma meno decise del solito. Trassi un respiro profondo. «Starò bene. Ma non penso che stanotte dovrei tentare di dormire nella locanda. È costruita in pietra di memoria, Matto, come la strada nera. Come la pietra nella cava.» «Come il drago che Veritas scolpì» aggiunse lui. Respirai di nuovo. Le idee mi si stavano schiarendo in fretta. «È piena di ricordi. È così strano trovare pietra come questa qui nel Cervo. Non pensavo che gli Antichi fossero arrivati fin qui.» «Ma certo. Pensaci. Cosa credi che siano le vecchie Pietre Testimoni, se non il lavoro degli Antichi?» Le parole mi sgomentarono. Poi divenne così ovvio che non persi tempo a dargli ragione. «Sì, ma le pietre erette sono una cosa. Quella locanda è il rudere ricostruito di una struttura degli Antichi. Non mi aspettavo di vederne una nel Cervo.» Il Matto rimase silenzioso per qualche tempo. Mentre i miei occhi si adattavano all'oscurità più profonda in cui eravamo nascosti, notai che si rosicchiava l'angolo dell'unghia del pollice. Dopo un momento comprese che lo guardavo e si tolse la mano dalla bocca. «A volte mi faccio coinvolgere tanto nell'enigma immediato che trascuro di considerare il problema più grande nei suoi tanti aspetti» disse, come confessando una colpa. «Allora. Stai bene adesso?»
«Penso che starò bene. Troverò un posto vuoto nella stalla e dormirò lì. Se lo stalliere fa domande, gli dirò che sono in disgrazia.» Mi girai per andare, poi pensai di chiedere: «Riesci a rientrare nella locanda, vestito così?» «Solo perché a volte porto i vestiti di un nobile, non pensare che abbia dimenticato tutti i trucchi di un acrobata.» Sembrava quasi offeso. «Rientrerò come sono uscito: dalla finestra.» «Bene. Magari farò un giro in paese, per 'schiarirmi le idee'. E vedere cosa posso scoprire. Se ti capita l'occasione, vai alla stanza comune. Incoraggia i pettegolezzi e senti se qualcuno sa di stranieri con un gatto da caccia passati di qui ieri.» Fui sul punto di aggiungere qualcosa riguardo al sangue nella strada, ma mi fermai. Difficile che avesse a che fare con noi. «Molto bene. Fitz. Stai attento.» «Non hai bisogno di ricordarmelo.» Feci per allontanarmi, ma il Matto mi prese all'improvviso il braccio. «Ancora un attimo. È tutto il giorno che aspetto di parlarti.» Mi lasciò all'improvviso e incrociò le braccia. Trasse un respiro a fatica. «Non pensavo che sarebbe stata così dura. Ho avuto molti ruoli nella mia vita. Credevo che sarebbe stato facile, che poteva perfino essere divertente giocare al padrone e al servo. Non lo è.» «No. È difficile. Ma penso che sia saggio.» «Abbiamo commesso troppi errori con Lora.» Scrollai le spalle, rassegnato. «Non possiamo farci niente. Lei sa che siamo stati entrambi scelti dalla regina. Forse possiamo lasciarla nel dubbio e permetterle di trarre le sue conclusioni. Potrebbe essere più convincente di qualsiasi invenzione.» Il Matto alzò la testa e sorrise. «Sì. La tattica mi piace. Per ora scopriamo tutto quel che è possibile stasera, e alziamoci presto domattina.» Ci separammo con quelle parole. Il Matto si ritirò nell'oscurità, svanendo abilmente come Occhi-di-notte. Aspettai che traversasse il cortile, ma non lo vidi. Lo scorsi mentre saltava nella finestra buia. Non udii un rumore. Occhi-di-notte si appoggiò pesantemente contro la mia gamba. Che notizie? gli chiesi. Il nostro Spirito era silenzioso come il calore del suo corpo contro di me. Cattive notizie. Fai silenzio e seguimi. Non mi condusse attraverso le vie principali, ma lontano dal centro. Mi chiesi dove stavamo andando, ma non osavo sfiorare la sua mente. Tenni a freno il mio Spirito, anche se non dividere la consapevolezza del lupo ottundeva i miei sensi.
Finimmo in un campo sassoso vicino al fiume. Mi portò sulla riva, dove crescevano grandi alberi. Lì l'alta erba asciutta era stata calpestata. Colsi l'odore di carne cotta e cenere fredda. Poi i miei occhi collegarono il tratto di corda ancora appeso a un albero e il fuoco consumato ai suoi piedi. Rimasi immobile. Il vento serale che spirava dal fiume smuoveva le ceneri, e all'improvviso l'odore di carne cotta mi diede la nausea. Misi la mano sui tizzoni spenti. Erano zuppi e freddi. Un fuoco acceso di proposito e spento di proposito. Frugai fra i tizzoni e sentii l'unto rivelatore del grasso fuso. Erano stati più che completi. Impiccato, squartato, bruciato, e i resti gettati nel fiume. Mi allontanai dal fuoco, portandomi al riparo degli alberi. Sedetti su una grande pietra. Il lupo venne a prendere posto accanto a me. Dopo qualche momento, ricordai la carne e gliela diedi. La mangiò senza cerimonie. Sedetti con la mano sulla bocca, riflettendo. Anziché il sangue mi scorreva dentro il gelo. I paesani avevano fatto questo, e ora mangiavano e ridevano e cantavano alla locanda. Avevano appena fatto questo a uno come me. Forse al figlio del mio corpo. No. Il sangue non ha l'odore giusto. Non era lui. Scarso conforto. Voleva solo dire che non era morto oggi. Forse i paesani lo tenevano prigioniero da qualche parte? La notte allegra alla locanda era un'anticipazione di altri divertimenti sanguinosi l'indomani? Mi accorsi di qualcuno che camminava a passi leggeri nella notte verso di noi. Veniva dalla direzione delle luci del paese, ma non camminava sulla strada. Attraversava gli alberi lungo il ciglio, muovendosi quasi in silenzio. Cacciatrice. Lora avanzò dall'ombra degli alberi. La guardai mentre si muoveva con decisione verso la chiazza bruciata. Come avevo fatto io, si inginocchiò, annusando e poi toccando le ceneri. Mi alzai, facendo un lievissimo rumore per avvertirla della mia presenza. Lei trasalì, girandosi per affrontarci. «Quanto tempo fa?» chiesi alla notte. Lora emise un piccolo respiro quando ci riconobbe. «Solo questo pomeriggio» rispose piano. «Me lo ha detto la mia domestica. Anzi, si è vantata che il suo fidanzato era fra quelli che si sono liberati del Pezzato. Così li chiamano in questa valle. Pezzati.» Il vento dal fiume soffiò tra noi. «Quindi sei venuta qui...?» «Per vedere cosa rimaneva da vedere. Non è molto. Temevo che fosse il
nostro principe, ma...» «No.» Occhi-di-notte premeva contro di me, e le dissi ciò che entrambi sospettavamo. «Ma penso che fosse uno dei suoi compagni.» «Se lo sai, sai anche che gli altri sono fuggiti.» Non ne ero al corrente, ma ne fui vergognosamente sollevato. «Sono stati inseguiti?» «Sì. E gli uomini che li hanno inseguiti non sono ancora tornati. Gli altri sono rimasti per uccidere quello che avevano preso. Il piano è che coloro che hanno fatto questo» - e indicò la corda e il cerchio di fuoco con un calcio sdegnoso - «partiranno al mattino. Temono per i loro amici che non sono tornati. Stasera berranno, per incamerare coraggio e rabbia. Domani cavalcheranno.» «Allora meglio partire prima di loro, e più in fretta.» «Sì.» Il suo sguardo andò da me a Occhi-di-notte per poi fissarsi di nuovo su di me. Guardammo la terra calpestata e la corda penzolante e il terreno bruciato. Mi sembrava che avremmo dovuto fare qualcosa, qualche gesto, ma non sapevo cosa. Tornammo insieme alla locanda, quasi in silenzio. Notai gli indumenti scuri e gli stivali dalla suola morbida di Lora, e ancora una volta pensai che la regina Kettricken aveva scelto bene. Sporcai la notte con una domanda di cui temevo la risposta. «La ragazza ti ha rivelato molti dettagli? Come o perché furono attaccati, se il ragazzo e la gatta erano con loro?» Lora trasse un respiro profondo. «Quello che hanno ucciso non era uno straniero. Era uno dei loro, e da molto tempo lo sospettavano della Magia della Bestia. Le solite storie stupide... quando altri agnelli morirono di dissenteria, i suoi sopravvissero. Un uomo gli fece perdere la pazienza, e i polli dell'uomo morirono. Oggi è arrivato con due stranieri, un uomo grosso su un cavallo da guerra, e un altro con un gatto che cavalcava dietro di lui. Anche gli altri del gruppo erano noti a questa gente, ragazzi cresciuti nelle fattorie circostanti. Il figlio del locandiere tiene diversi segugi da conigli, ed era appena tornato dalla caccia. I cani erano ancora eccitati. Alla vista del gatto sono impazziti. Hanno circondato il cavallo, balzando e cercando di mordere. L'uomo con il gatto, probabilmente il nostro principe, ha estratto la lama per difendere la bestia, e ha menato fendenti ai cani, tagliando l'orecchio a uno. Ma non solo. Ha spalancato la bocca e ha ringhiato, soffiando come un gatto. «Sentendo la confusione, altri uomini sono corsi fuori dalla locanda. Qualcuno ha gridato 'Pezzati!' Un altro ha chiesto una corda e una torcia.
L'uomo sul cavallo da guerra ha riso, e ha spronato il cavallo a prendere a calci cani e uomini. Un uomo è stato buttato a terra. La folla ha risposto con pietre e maledizioni, e altri sono usciti dalla taverna. I Pezzati hanno rotto il cerchio e hanno tentato di allontanarsi al galoppo, ma una pietra fortunata ha colpito uno dei cavalieri alla tempia e lo ha sbalzato di sella. La folla gli è corsa addosso, e lui ha gridato agli altri di scappare. La ragazza li ha chiamati tutti codardi per essere fuggiti, ma sospetto che il prigioniero abbia trattenuto la folla per permettere ai compagni di fuggire.» «Ha comprato la vita del principe con la propria.» «A quanto pare.» Rimasi in silenzio per un momento, riconsiderando i fatti. Non avevano negato ciò che erano. Non avevano tentato di placare la folla. Era un comportamento aggressivo, un presagio di ciò che sarebbe accaduto in futuro. E uno della compagnia si era sacrificato, e gli altri lo avevano accettato come un atto necessario e giusto. Quello indicava non solo il valore che davano al principe, ma una lealtà profonda a una causa comune. Devoto era stato del tutto conquistato? Mi chiesi quale ruolo questi 'Pezzati' avessero assegnato al principe, e se lui fosse d'accordo. Aveva accettato che l'uomo rimasto indietro doveva morire per lui? Era scappato sapendo che quell'uomo avrebbe affrontato una morte orribile? Avrei dato molto per scoprirlo. «Ma non hanno riconosciuto il principe?» Lora scosse il capo. Il buio si infittiva attorno a noi e sentii il movimento più che vederlo. «Quindi se lo raggiungessero non esiterebbero a ucciderlo.» «Anche sapere che è il principe non li dissuaderebbe. L'odio per l'Antico Sangue è profondo in questi luoghi. Penserebbero di ripulire la stirpe reale, non di distruggerla.» Una piccola parte di me notò che adesso li chiamava 'Antico Sangue'. Non mi sembrava di averle sentito usare prima la frase. «Bene. Penso che il tempo sia ancor più prezioso.» «Dovremmo partire stanotte.» Il solo pensiero mi fece sentir male. Non avevo più l'elasticità della gioventù. Nei quindici anni passati mi ero abituato a pasti regolari e riposo ogni notte. Ero stanco e tormentato dal terrore di ciò che sarebbe successo una volta raggiunto il principe. E il mio lupo era stremato dalla stanchezza. Lo muoveva una forza falsa. Presto il suo corpo avrebbe dovuto riposare, non importa quanto fosse dura la situazione. Aveva bisogno di cibo e tempo per guarire, non di essere trascinato con noi stanotte.
Terrò il passo. Oppure mi lascerai indietro e farai ciò che devi. Il suo fatalismo mi fece vergognare. Era un sacrificio troppo vicino a ciò che un uomo aveva fatto oggi per un principe. La verità indiscutibile era che ancora una volta stavo spendendo tutta la nostra forza per un re e una causa. Il lupo mi donava i giorni della sua vita per una fedeltà che capiva solo in termini di amore per me. Rolf il Nero aveva avuto ragione, tanti anni prima. Sbagliavo a usarlo così. Mi feci la promessa di un bambino: alla fine di quella missione, lo avrei ripagato in qualche modo. Saremmo andati da qualche parte, avrebbe deciso lui dove, avremmo fatto qualcosa che voleva fare lui. La nostra casetta e il focolare. Mi basterebbe. Sono tuoi. Lo so. Tornammo alla locanda scegliendo un tragitto più complicato, evitando le strade del villaggio più frequentate. Nel buio del cortile Lora mi mise la bocca vicino all'orecchio. «Mi infilerò nella mia stanza per preparare le mie cose. Sveglia messer Dorato e digli che dobbiamo partire.» Scomparve fra le ombre vicino alla porta posteriore. Feci il mio ingresso dal davanti, traversando in fretta la stanza principale con il volto accigliato di un servitore. Era tardi e l'umore era più meditativo che festoso. Nessuno badò a me. Raggiunsi la nostra stanza. Fuori dalla porta aperta udii l'eco di una discussione. La voce di messer Dorato si levava in furia aristocratica. «Cimici, signore! Dense come sciami di api. Ho la pelle così delicata. Non posso stare in un posto infestato da tali parassiti!» Il nostro padrone di casa, in runica e cuffia da notte e candela in pugno, sembrava inorridito. «Per favore, messer Dorato, ho altre lenzuola, se volete...» «No. Non passerò la notte qui. Preparate il conto, subito.» Bussai. Al mio ingresso messer Dorato scaricò su di me la sua indignazione. «Eccoti, canaglia indegna! Fuori a gozzovigliare, senza dubbio, mentre io ho dovuto fare i miei bagagli e anche i tuoi. Bene, renditi utile! Corri a bussare alla porta della capocaccia Lora e dille subito che dobbiamo andare via. Poi sveglia lo stalliere e fai preparare i nostri cavalli. Non posso passare la notte in una locanda infestata di parassiti!» Mi allontanai di corsa dal locandiere, che insisteva sulla pulizia della sua locanda. In un batter d'occhio eravamo fuori, pronti a cavalcare. Avevo sellato io i cavalli; lo stalliere non aveva risposto ai miei tentativi di svegliarlo. Il locandiere aveva seguito messer Dorato nel cortile, protestando
che quella notte non avremmo trovato altra locanda, ma il nobiluomo fu inflessibile. Montò, e senza rivolgerci la parola spronò Malta al passo. Lora e io lo seguimmo. Per qualche tempo tenemmo un ritmo tranquillo. La luna era sorta, ma le case ammassate la nascondevano, e le sporadiche lanterne che filtravano fra le imposte gettavano più ombre che luce. La voce di messer Dorato arrivò sommessa a me e a Lora. «Ho sentito le dicerie alla mescita e ho deciso che era meglio partire subito. Sono fuggiti sulla strada.» «Al buio corriamo il grosso rischio di perdere la pista» commentai. «Lo so. Ma se aspettiamo potremmo arrivare giusto in tempo per seppellirlo. Inoltre nessuno di noi riusciva a dormire, e in questo modo siamo in vantaggio rispetto a quelli che partiranno domani.» Occhi-di-notte ci raggiunse come un fantasma. Cercai verso di lui, e quando lo trovai la notte sembrò più leggera intorno a noi. Starnutì per la polvere che avevamo sollevato, poi trottò avanti per aprire la strada. Collegato dallo Spirito, non poteva nascondermi lo sforzo che gli costava. Fremetti, ma accettai la sua decisione. Spinsi leggermente Mianera per tenere il passo con lui. «Le nostre borse da sella sembrano più grosse di quando siamo arrivati» osservai mentre Mianera si affiancava a Malta. Messer Dorato alzò una spalla con noncuranza. «Coperte. Candele. Tutto quello che mi sembrava utile. Quando ho capito che dovevamo partire in fretta ho fatto un giro silenzioso in cucina, così c'è anche pane. E mele. Se ne avessi preso molto di più, sarebbe stato notato. Cerca di non schiacciare le pagnotte.» «Si potrebbe pensare che voi due abbiate già fatto cose simili, messer Dorato.» La tensione nel tono di Lora e la vena interrogativa nel pronunciare titolo onorifico ci riscossero entrambi. Quando nessuno di noi seppe cosa dire, la donna aggiunse: «Non ritengo giusto dividere i rischi di questa impresa senza sapere nulla di voi.» Messer Dorato parlò nel suo miglior tono aristocratico. «Avete ragione, capocaccia. Non è giusto, ma così deve rimanere per qualche tempo. Perché se non sbaglio abbiamo bisogno di procedere spediti. Il nostro principe ha lasciato questo paese al galoppo, e così dovremo fare noi.» Mentre parlava mise i talloni ai fianchi di Malta, che balzò avanti gioiosamente per sfidare Mianera in testa alla fila. Lora fu al suo fianco in un istante. A più tardi, fratello. Sentii Occhi-di-notte separarsi da me, mentalmente e fisicamente. Sapeva di non poter tenere il passo dei cavalli in mar-
cia. Ci avrebbe seguiti al suo ritmo e sul suo percorso. Quel distacco mi lacerò, anche se sapevo che era una sua scelta, e il modo d'agire più saggio. Privato di lui, orbato della sua visione notturna, cavalcai lasciando che fosse Mianera a scegliere la via mentre galoppavamo fra le case addossate le une alle altre. Il villaggio era piccolo. Giungemmo in fretta alla periferia. La luce della luna inargentava il nastro della strada. Malta si lanciò al galoppo, e gli altri due cavalli scattarono in avanti per tenersi al passo. Superammo fattorie, campi già mietuti, raccolti ancora intatti. Cercai tracce di cavalli veloci che lasciavano la strada, ma non vidi nulla. Facemmo correre i cavalli finché non rallentarono per respirare. Appena Malta tirò il morso messer Dorato la lasciò ripartire, ed eravamo di nuovo al galoppo. I due erano più in sintonia di quanto pensassi. Malta traeva quella sicurezza sfacciata dalla fiducia completa del suo padrone. Cavalcammo attraverso ciò che rimaneva della notte, e messer Dorato stabilì il ritmo con cui procedere. Mentre l'alba ingrigiva i cieli, Lora pronunciò ad alta voce i miei pensieri. «Almeno abbiamo un bel vantaggio su quelli che volevano partire all'alba per raggiungere i loro compagni nella caccia ai Pezzati. E abbiamo menti più lucide.» Non pronunciò la paura che tutti condividevamo; che avevamo perso la pista del principe nella nostra fretta di seguirlo. Il giorno nascente occultò la luna alla nostra vista, continuammo a cavalcare. A volte bisognava fidarsi della fortuna, o credere nel fato, come faceva il Matto. 20 Pietre Esistono varie tecniche per affrontare la tortura. Per esempio imparare a separare la mente dal corpo. Metà dell'angoscia che un abile torturatore infligge non è il dolore fisico, ma la conoscenza del danno subito. Il torturatore deve oltrepassare un confine sottile se vuole far parlare la vittima. Se spinge la distruzione oltre al punto in cui la vittima sa di poter guarire, la vittima perde ogni incentivo a parlare. Vuole solo morire più in fretta. Ma se l'aguzzino riesce a mantenere il dolore entro quel confine, allora può fare della vittima un complice della propria tortura. Per una vittima sospesa nel dolore, l'angoscia sta nel chiedersi per quanto tempo può mantenere il silenzio senza spingere il torturatore oltre il danno irreparabile. Finché la vittima rifiuta di parlare, il torturatore si spinge sempre più
oltre. Una volta che un uomo è stato spezzato dal dolore, rimane una vittima per sempre. Non dimenticherà mai quel luogo che ha visitato, il momento in cui ha deciso di arrendersi del tutto piuttosto che sopportare altro dolore. È una vergogna dalla quale nessuno si riprende completamente. Alcuni tentano di negarla infliggendo un dolore simile e creando una nuova vittima che sopporti quella vergogna per loro. La crudeltà è un'abilità insegnata non solo dall'esempio ma dall'esperienza. dalla pergamena Usi del Dolore di Versaay Mentre si levava il sole, cavalcammo. Fattorie, campi coltivati e pascoli divennero meno frequenti e poi svanirono sostituiti da pendii rocciosi e foresta aperta. La mia ansia nasceva tanto dalla paura per il mio lupo quanto da quella per il mio giovane principe. Tutto sommato ritenevo che il mio compagno quadrupede sapesse badare a sé stesso meglio di Devoto. Con una fermezza che Occhi-di-notte avrebbe approvato, lo allontanai dai miei pensieri e mi concentrai sulla strada. Il calore crescente del giorno era accresciuto dalla pesantezza dell'aria. Sentivo avvicinarsi un temporale. Una pioggia fitta poteva cancellare ogni traccia. La tensione mi logorava. Senza esserci messi d'accordo, Lora e io cavalcavamo ai due lati della strada. Cercavamo tracce di cavalli che si allontanavano; in particolare, almeno tre cavalli che fuggivano al galoppo. Al loro posto il mio primo pensiero sarebbe stato di abbandonare la strada e inoltrandomi nei boschi, dove era più facile seminare gli inseguitori. Immaginai che il principe e i suoi compagni avrebbero fatto lo stesso. La mia paura di aver perso la pista nel buio cresceva, ma all'improvviso Lora gridò che li aveva trovati. Mi bastò un'occhiata alle tracce per essere sicuro che aveva ragione. Un'abbondanza di zoccoli ferrati che lasciavano la strada, tutti di fretta. Le grosse tracce del grande cavallo da guerra erano chiare. Di certo avevamo scoperto il punto in cui il principe aveva deviato con i compagni, e dove la marmaglia del villaggio li aveva inseguiti. Mentre messer Dorato e Lora seguivano la pista, mi fermai e smontai giusto il tempo di assicurare meglio il nostro bagaglio alla sella di Mianera. Colsi l'occasione per orinare sul ciglio della strada, sapendo che Occhidi-notte avrebbe cercato tracce del mio passaggio. Rimontato, raggiunsi in fretta gli altri. All'orizzonte si addensava l'oscu-
rità. Udimmo in lontananza lunghi brontolii minacciosi di tuono. Le piste degli inseguitori dei Pezzati erano ben visibili, ed esortammo le nostre bestie stanche a un piccolo galoppo. Seguimmo le tracce oltre due colline aperte, fra erba e arbusti. Mentre risalivamo la terza collina una foresta di querce e ontani scese a incontrarci. Là trovammo gli inseguitori. Erano una mezza dozzina, abbandonati nell'erba alta fra le ombre degli alberi. I Pezzati in agguato avevano ucciso anche cavalli e cani. Era sensato; se i cavalli fossero tornati al villaggio senza cavaliere, la ricerca sarebbe scattata subito. Eppure l'atto mi disgustava, soprattutto perché era stato compiuto dall'Antico Sangue. Quella spietatezza mi spaventò. Gli animali non avevano fatto niente per meritare la morte. Con che razza di gente cavalcava il principe? Lora si coprì la bocca e il naso con la mano e rimase così, senza scendere di sella. Messer Dorato sembrava stanco e nauseato, ma smontò con me. Insieme ci muovemmo fra i morti, ispezionandoli. Erano tutti giovani, l'età giusta per farsi trascinare in quella pazzia. Il pomeriggio del giorno prima erano balzati a cavallo ed erano partiti per uccidere i Pezzati. La sera stessa erano morti. Là distesi non sembravano crudeli o maligni o perfino stupidi. Sembravano solo morti. «C'erano arcieri su quegli alberi» affermai con certezza. «Ed erano qui in attesa. Penso che il gruppo del principe sia passato in mezzo, sapendo che erano già in posizione per proteggerli.» Trovai solo una freccia spezzata, gettata via. Le altre erano state recuperate dai corpi, alla bell'e meglio e con estrema freddezza. «Questa non è una ferita di freccia.» Messer Dorato indicò un corpo che giaceva isolato. C'erano profondi fori nella gola. Potenti zampe posteriori artigliate lo avevano sbudellato. Gli intestini erano infestati da insetti, e grappoli di mosche nascondevano l'orrore nei suoi occhi. «Guarda i cani. Anche loro attaccati da gatti. Tutti i Pezzati si sono radunati qui e hanno ucciso gli inseguitori.» «E poi hanno proseguito.» «Sì.» La gatta del principe aveva ucciso quest'uomo? Le loro menti erano state congiunte in quell'istante? «Quanti saranno adesso?» Lora era andata avanti di poco. Sospetto che volesse allontanarsi dai corpi tumefatti, oltre che studiare la pista. Non potevo darle torto. Rispose a voce bassa: «Direi almeno otto.» «Dobbiamo seguirli» disse messer Dorato. «Subito.»
Lora annuì. «Gli altri staranno partendo dal villaggio chiedendosi perché questi non sono tornati. Quando troveranno i cadaveri la rabbia li farà impazzire. Bisogna portar via il principe prima che i due gruppi si scontrino.» Lo faceva sembrare così semplice. Tornai da Mianera, che mi infastidì sgusciando via due volte prima che potessi prendere le redini. Bisognava addestrarla, ma non era il momento. Mi ricordai che il sangue innervosisce l'animale più calmo, e che essere paziente non avrebbe comportato molti benefici. «Un altro cavaliere ti darebbe un pugno tra le orecchie per questo» le dissi con calma dopo che fui montato. Il suo brivido di apprensione mi sorprese. Evidentemente era più consapevole di me di quanto pensassi. «Non preoccuparti. Io non faccio cose del genere» la rassicurai. Come fanno i cavalli, ignorò il mio commento. Il tuono rimbombò di nuovo in lontananza, e Mianera schiacciò le orecchie all'indietro. Penso che dispiacesse a tutti andarsene e lasciare i corpi a decomporsi al caldo. Da un punto di vista pratico era la cosa più saggia da fare. I loro compagni li avrebbero trovati presto, e sarebbero stati loro a seppellirli. Quel ritardo sarebbe andato a nostro favore. Saggio o meno, non sembrava giusto. Le tracce che ora seguivamo erano i solchi profondi di cavalli spinti al limite. Il suolo sotto il riparo della foresta era più umido e conservava meglio la pista. Dapprima avevano cavalcato a tutta velocità per guadagnare terreno, e anche un bambino avrebbe potuto seguirli. Ma dopo un poco la pista scese in una ravina e seguì un ruscello tortuoso. Cavalcai con lo sguardo agli alberi sopra di noi, confidando che Mianera avrebbe seguito Malta mentre io cercavo di sventare una possibile imboscata. Una preoccupazione inespressa occupava la mia mente. I Pezzati con cui il principe cavalcava sembravano molto organizzati, quasi a livello militare. Quello era il secondo gruppo di uomini che lo aveva aspettato per poi cavalcare con lui. Almeno un membro del gruppo non aveva esitato a sacrificarsi per gli altri, ne avevano avuto scrupoli a massacrare tutti gli inseguitori. Tanta prontezza e ferocia parlavano di una grande determinazione a tenersi il principe e a portarlo in qualunque luogo avessero in mente. Salvarlo era molto probabilmente al di là delle nostre capacità, eppure non vedevo altra alternativa se non seguirli. Rimandare Lora a Castelcervo per convocare la guardia non era possibile. Sarebbe tornata troppo tardi. Avremmo perso tempo, e anche la segretezza della nostra missione. La ravina si allargò e divenne una piccola valle. La nostra preda aveva
lasciato il ruscello. Prima di allontanarci anche noi facemmo una breve sosta per riempire gli otri e dividere parte del pane e delle mele rubate dal Matto. Comprai un po' del favore di Mianera con il torsolo della mia mela. Poi eravamo di nuovo in sella e via al galoppo. Il lungo pomeriggio stava per cedere il posto alla notte. Nessuno di noi parlava molto. C'era poco da dire, se non dar voce alle nostre preoccupazioni. Il pericolo cavalcava anche dietro di noi. Eravamo inferiori di numero, e mi mancava terribilmente il mio lupo al fianco. La pista lasciò il fondovalle e salì a tornanti fra le colline. Gli alberi divennero radi e il terreno roccioso. La terra dura rendeva l'inseguimento più difficile, e procedemmo più lentamente. Oltrepassammo le fondamenta sassose di un villaggetto abbandonato da tempo. Passammo accanto a strane collinette che sporgevano dal pendio disseminato di massi. Messer Dorato vide che le osservavo e disse pacatamente: «Tombe.» «Troppo grandi» ribattei. «Non per quella gente. Costruivano dimore di pietra per i loro morti, e spesso intere famiglie vi furono sotterrate.» Lo guardai incuriosito. Alta erba morta ondeggiava sui tumuli. Se c'era pietra sotto quelle zolle, era ben coperta. «Come lo sai?» Non incontrò i miei occhi. «Lo so e basta, Striato. Vantaggi di un'istruzione aristocratica.» «Ho sentito raccontare storie di questi luoghi» intervenne Lora con voce sommessa. «Dicono che a volte fantasmi alti e sottili sorgano da quei tumuli, per catturare bambini vaganti e... Oh, Eda ci salvi. Guardate. La pietra eretta delle storie.» Alzai gli occhi per seguire il suo dito. Un brivido mi percorse la schiena. Nera e luccicante, la pietra era alta due volte un uomo, venata d'argento. Nessuna traccia di muschio. Le brezze dell'entroterra erano state più gentili delle tempeste salate che avevano consumato le Pietre Testimoni vicino a Castelcervo. A quella distanza non vedevo quali segni fossero intagliati nelle facce, ma sapevo che c'erano. Quella pietra era come le Pietre Testimoni e il pilastro nero che una volta mi aveva trasportato alla città degli Antichi. Lo fissai, e seppi che era stato tagliato dalla stessa cava che aveva partorito il drago di Veritas. Erano stati magia o muscoli a trasportarlo tanto lontano? «Le tombe hanno a che fare con la pietra?» chiesi a messer Dorato. «Cose vicine non sono sempre legate» osservò lui con disinvoltura, e seppi che aveva eluso la domanda.
Mi girai leggermente sulla sella per chiedere a Lora: «Cosa dice la leggenda della pietra?» Lora alzò una spalla e sorrise, ma penso che l'intensità della mia domanda la mise a disagio. «Ci sono molte storie, ma il tema è sempre lo stesso.» Trasse un respiro. «Un bambino vagabondo, o un pastore pigro, o due innamorati fuggiti da genitori severi vengono ai tumuli. In quasi tutte le storie siedono accanto ai tumuli per riposare, o trovare un po' d'ombra in un giorno caldo. Poi i fantasmi sorgono dai tumuli e li conducono alla pietra eretta. E loro seguono i fantasmi all'interno, in un mondo diverso. Secondo alcune storie non fanno mai ritorno. Altri tornano vecchi e consumati dopo essere stati via solo una notte, oppure il contrario: cento anni più tardi gli innamorati tornano, mano nella mano, giovani come non mai, e trovano che i loro genitori litigiosi sono morti e loro sono liberi di sposarsi.» Avevo la mia opinione su tali storie, ma non dissi niente. Una volta avevo attraversato un pilastro simile, ritrovandomi in una lontana città morta. I muri di pietra nera mi avevano parlato, e la città aveva preso vita intorno a me. Monoliti e città in pietra nera erano opera degli Antichi, da tempo scomparsi dal mondo. Credevo che gli Antichi fossero abitanti di un lontano reame, nell'interno delle regioni montuose dietro al Regno delle Montagne di Kettricken. Due volte ormai avevo visto le prove che avevano percorso anche le colline dei Sei Ducati. Ma quante estati prima? Tentai di cogliere lo sguardo di messer Dorato, ma lui guardava diritto davanti a sé e mi parve che spronasse la cavalla. Seppi dalla piega della bocca che avrebbe risposto a qualsiasi domanda con un'altra domanda o una divagazione. Concentrai i miei sforzi su Lora. «Strano che tu abbia sentito storie di questo posto in Armento.» Lora diede di nuovo quella piccola alzata di spalle. «Erano storie di un posto simile in Armento. E poi te l'ho detto. La famiglia di mia madre veniva da un luogo non lontano dalle terre dei Bresinga. Spesso andavamo a trovarli, quando era ancora viva. Ma scommetto che la gente di qui racconta le stesse storie su quei tumuli e quel pilastro. Se mai qualcuno ci abita ancora.» Quello sembrava improbabile, man mano che il giorno avanzava. Più cavalcavamo, più la campagna diventava selvaggia. L'orizzonte si scurì e il temporale mormorò minaccioso, ma non si avvicinò. Se quelle valli avevano conosciuto l'aratro, se quelle colline avevano nutrito bestiame al pa-
scolo, lo avevano dimenticato da molti anni. La terra era arida, i sassi spuntavano fra grovigli di erbacce secche e arbusti stentati. I versi degli insetti e il cinguettio degli uccelli erano gli unici segni di vita animale. La pista divenne più difficile da seguire e fummo costretti a rallentare l'andatura. Gettavo frequenti sguardi indietro. Le nostre tracce sovrapposte alle tracce che seguivamo avrebbero aiutato i nostri inseguitori a raggiungerci, ma non conoscevo alternativa. Il ronzio continuo degli insetti cessò d'un tratto alla nostra sinistra. Mi girai, cuore in gola, ma un istante più tardi sentii la presenza di mio fratello. Due respiri e lo vidi. Come sempre mi meravigliai per come si nascondeva bene anche nella copertura più scarsa. Mentre si avvicinava la mia gioia divenne sgomento. Trottava con determinazione testa bassa e lingua fino alle ginocchia. Senza dire una parola agli altri, fermai Mianera e smontai, prendendo il mio otre. Il lupo venne da me, a bere dalle mie mani a coppa. Come ci hai raggiunti così in fretta? Tu segui le piste, andando piano per trovare la via. Io ho seguito il cuore. Mentre il tuo percorso serpeggiava fra queste colline, il mio mi ha portato diritto da te, su un terreno che un cavallo non apprezzerebbe. Oh, fratello. Non c'è tempo per compatirmi. Vengo ad avvertirti. Ho superato quelli che vi inseguono. Si sono fermati ai corpi. Erano infuriati, gridavano al cielo. La rabbia li farà ritardare per qualche tempo, ma quando verranno, cavalcheranno veloci e furibondi. Puoi tenere il nostro passo? Posso nascondermi molto più facilmente di te. Invece di pensare a ciò che farò io, pensa a ciò che dovresti fare tu. C'era ben poco che potevamo fare. Rimontai, spronai Mianera e raggiunsi gli altri. «Dovremmo affrettarci.» Lora mi gettò un'occhiata, ma non disse niente. Solo un cambiamento nella postura di messer Dorato mi fece capire che mi aveva sentito, ma in risposta Malta accelerò. Mianera decise all'improvviso che non si sarebbe fatta lasciare indietro. Balzò in avanti, e in quattro falcate ci trovammo in testa. Tenni gli occhi a terra mentre correvamo. Sembrava che il principe e i suoi compagni avessero cercato la protezione di alcuni alberi; applaudii la loro decisione. Non vedevo l'ora di guadagnare il riparo. Spronai Mianera e condussi tutti nell'imboscata. Un grido mentale di Occhi-di-notte mi spinse a tirare le redini da un lato.
Lora fu colpita da una freccia, cadendo a terra con un grido. Il colpo era diretto a me. Pieno di furia e d'orrore, spinsi Mianera nella macchia di alberi. Per mia fortuna c'era solo un arciere, e non aveva avuto tempo di incoccare un'altra freccia. Mentre passavamo sotto i rami bassi mi alzai sulle staffe, afferrai miracolosamente un ramo e mi tirai su. L'arciere stava tentando di girare il braccio per prendermi di mira, ma i rametti glielo impedivano. Non c'era tempo di pensare alle conseguenze. Mi lanciai su di lui, balzando come un lupo. Precipitammo a terra in un ammasso confuso, due uomini e un arco. Un ramo sporgente mi ruppe quasi la spalla senza interrompere la nostra caduta. Ci fece girare nell'aria. Atterrammo, il giovane arciere sopra di me. L'impatto mi tolse il respiro. Riuscivo a pensare ma non ad agire. Non ce n'era bisogno. Occhi-di-notte si lanciò in un lampo di artigli e denti che spinsero il giovane via da me. Sentii il suo tentativo sorpreso di respingere Occhi-di-notte. Penso che fosse troppo sconvolto per metterci sufficiente forza. Giacqui a terra mentre lottavano accanto a me, tentando freneticamente di immagazzinare aria nei polmoni. L'arciere sferrò un pugno, ma Occhi-di-notte lo evitò e gli azzannò il polso. Il giovane gridò e colpì il lupo con un calcio violento. Sentii l'impatto brutale. Occhi-di-notte mantenne la presa, ma senza più forza. Mentre l'uomo strappava il polso lacerato dalle fauci del lupo, trovai abbastanza fiato per agire. Da dove giacevo, calciai l'arciere alla testa, poi mi gettai su di lui. Le mie mani trovarono la sua gola mentre Occhi-di-notte gli afferrava un polpaccio con i denti. L'uomo si dibatté selvaggiamente tra noi ma non poteva scappare. Occhi-di-notte gli mordeva la gamba. Io gli strinsi la gola e insistetti finché non sentii che smetteva di lottare. Continuai a tenerlo con una mano mentre l'altra trovava il mio coltello alla cintura. Il mondo intero si era ristretto al cerchio arrossato che era la sua faccia. «...ucciderlo! Non ucciderlo! Non ucciderlo!» Le grida di messer Dorato penetrarono infine la mia mente. Tenevo il coltello alla gola del nostro assalitore. Non ero mai stato meno incline ad ascoltare. Eppure, mentre la foschia rossa della battaglia svaniva dalla mia visione, mi trovai a guardare un ragazzo poco più vecchio di Ticcio. Gli occhi azzurri sporgevano dalle orbite per il terrore della morte e la mancanza di aria. Qualcosa nella caduta gli aveva graffiato la faccia, e il sangue gli rigava la guancia. Allentai la presa e Occhi-di-notte gli lasciò la gamba. Ma rimasi seduto sul torace del giovane, coltello alla gola. Non mi
facevo illusioni sull'innocenza dei ragazzini. Avevo già visto che questo sapeva usare l'arco. Mi avrebbe ucciso senza pensarci su. Continuando a fissarlo, chiesi al Matto: «Lora è morta?» «Figuriamoci!» Una voce esasperata di donna. Lora barcollò verso di noi. Un'occhiata mi mostrò la mano stretta sulla spalla. Il sangue filtrava fra le dita. Aveva già estratto la freccia. «Hai tirato fuori la punta?» chiesi in fretta. «Non l'avrei estratta se non fossi stata sicura di toglierla tutta intera» rispose acida Lora. Il dolore non migliorava il suo temperamento. Era pallida, ma due brillanti chiazze rosee spiccavano sulle guance. Guardò il ragazzo sotto di me e spalancò gli occhi. La sentii trarre un respiro tremante. In piedi accanto a me, Occhi-di-notte ansimava pesantemente. Dovremmo andarcene di qui. Il pensiero era rallentato dal dolore. Possono arrivarne altri. Quelli che seguono o quelli che sono andati avanti. Vidi il ragazzo aggrottare la fronte. Gettai uno sguardo a Lora. «Puoi cavalcare? Dobbiamo andarcene. Abbiamo bisogno di interrogarlo, ma questo non è il momento. Non dobbiamo farci catturare dagli inseguitori del villaggio, o dai suoi amici che tornano a cercarlo.» Compresi guardando dai suoi occhi che Lora non conosceva la risposta, ma mentì coraggiosamente. «Posso cavalcare. Andiamo. Anch'io vorrei chiedergli qualcosa.» L'arciere la fissò con orrore per il veleno nella sua voce. All'improvviso si agitò sotto di me, tentando di scappare. Lo colpii con il dorso della mano libera. «Non riprovarci. Mi è molto più facile ucciderti che portarti con me.» Seppe che dicevo la verità. I suoi occhi si spostarono su messer Dorato e poi su Lora prima di tornare a me. Mi scrutò, perdendo sangue dal naso, e riconobbi il suo sguardo sgomento. Quello era un giovane che aveva ucciso ma non si era mai trovato di fronte al rischio di una morte imminente. Mi sentii stranamente qualificato a fargli scoprire quella sensazione. Senza dubbio una volta avevo avuto la stessa espressione. «In piedi.» Quindici anni prima avrei accompagnato l'ordine tirandolo su di peso. Ora gli tenni il davanti della tunica ma gli permisi di alzarsi da solo. Ero senza fiato dopo lo scontro, e poco incline a sprecare le mie riserve in una prova di forza. Occhi-di-notte giaceva sul muschio sotto l'albero, ansimando senza vergogna. Scompari, gli suggerii. Fra un momento. L'arciere guardò da me al mio lupo e di nuovo a me, con confusione cre-
scente negli occhi. Rifiutai di incontrare il suo sguardo. Tagliai la striscia di cuoio che teneva chiuso il colletto della sua tunica. Lui trasalì quando la lama diede uno strappo. Sfilai la striscia dal colletto e lo feci girare rudemente. «Le mani» ordinai, e senza indugiare lui le mise dietro la schiena. Sembrava aver perso la voglia di lottare. I segni dei denti nel polso sanguinavano ancora. Gli legai strettamente le mani. Alzai lo sguardo e trovai Lora che guardava in cagnesco il mio prigioniero. Evidentemente ne stava facendo un caso personale. Forse nessuno aveva mai tentato di ucciderla. La prima volta è sempre un'esperienza memorabile. Messer Dorato aiutò Lora a montare in sella. Sapevo che la donna voleva rifiutare il suo aiuto, ma non osava. Mancare il cavallo starebbe stato più umiliante che accettare il suo appoggio. Rimaneva Mianera per portare me e il mio prigioniero. Né la mia cavalla né io eravamo entusiasti. Raccolsi l'arco dell'arciere, e dopo l'esitazione di un momento, lo gettai fra i rami dell'albero, dove rimase impigliato. Con un po' di fortuna nessuno lo avrebbe visto accidentalmente. Da come il giovane lo fissò seppi che gli era stato caro. Presi le redini di Mianera. «Adesso monto in sella» dissi al mio prigioniero. «Poi ti afferro e ti tiro su dietro di me. Se non collabori, ti stendo e ti lascio per quegli altri. Sai quali intendo. Quelli che pensavi che fossimo, gli assassini dal villaggio.» Il giovane si leccò le labbra. Un lato intero della faccia aveva cominciato a gonfiarsi e illividirsi. Per la prima volta parlò. «Non siete con loro?» Lo fissai freddo. «Non ci hai neanche pensato, prima di cercare di uccidermi?» Montai a cavallo. «Stavate seguendo la nostra pista» rispose il giovane. Guardò la donna che aveva colpito, e la sua espressione era quasi sconvolta. «Pensavo che foste gli abitanti del villaggio che venivano a ucciderci. Davvero.» Cavalcai Mianera fino a lui e tesi la mano. Dopo l'esitazione di un istante, il giovane alzò la spalla verso di me. Gli afferrai saldamente l'omero. Mianera sbuffò e girò in cerchio, ma dopo due salti lui riuscì a gettarle una gamba sulla groppa. Gli diedi un momento per sistemarsi dietro di me, poi gli dissi: «Stai fermo. È una cavalla alta. Se ti butti giù, probabilmente ti romperai una spalla.» Gettai uno sguardo verso la via da cui eravamo arrivati. Ancora nessun segnale di inseguimento, ma avevo la sensazione che la nostra fortuna stesse esaurendosi. Mi guardai attorno. La pista degli Spirituali saliva, ma non volevo seguirli più oltre prima di aver estorto al ragazzo tutto quello
che sapeva. I miei occhi scorsero una possibile soluzione. A valle vidi un ruscello in secca, che probabilmente scorreva d'inverno. Il suolo più umido avrebbe conservato a lungo le nostre tracce. Avremmo seguito il vecchio letto del ruscello per qualche tempo, poi lo avremmo lasciato. Su per la sponda opposta, attraverso un pendio roccioso e di nuovo al riparo. Poteva funzionare. Le nostre tracce sarebbero state più fresche, ma forse gli inseguitori avrebbero solo pensato che ci stavano raggiungendo. Potevamo attirarli lontano dal principe. «Da questa parte» annunciai, e misi in azione il piano. La mia cavalla non era contenta del duplice carico. Avanzò goffamente, decisa a mostrarmi che era una cattiva idea. «Ma la pista...» protestò Lora mentre abbandonavamo le deboli tracce che avevamo seguito per tutto il giorno. «Non ci serve la pista. Abbiamo lui. Saprà dove sono diretti.» Lo sentii trarre un respiro. Poi sussurrò a denti stretti: «Non dirò nulla.» «Ma certo che lo farai.» Spronai Mianera, comunicandole con fermezza di obbedirmi. Sorpresa, la cavalla avanzò, e malgrado il peso aggiunto ci portò bene entrambi. Era una cavalla forte e veloce, ma solo quando le andava. Dovevamo trovare un'intesa. La feci scendere in fretta dalla collina e poi la spinsi lungo il ruscello finché non trovammo un corso d'acqua asciutto che lo incontrava. Era pietroso, proprio come volevo. Lo imboccammo, e quando giunsi a un pendio sassoso cominciammo a salire. Dietro di me l'arciere si teneva fermo stringendo le ginocchia. Mianera sembrava affrontare la sfida senza troppo sforzo. Sperai di non tenere un ritmo e un percorso troppo difficile per Lora. Esortai la cavalla su per la collina ghiaiosa a un angolo ripido. Se avevo spinto la marmaglia del villaggio a seguirci, sperai di dar loro filo da torcere. In cima alla collina feci una pausa per aspettare gli altri. Occhi-di-notte era svanito. Sapevo che ora riposava, raccogliendo le forze per seguirci. Volevo il lupo al mio fianco, ma sapevo che era meno in pericolo da solo che con me. Esaminai il terreno circostante. La notte si avvicinava, e volevo che ci trovasse nascosti e in un luogo difendibile, sopraelevato. Verso l'alto, decisi. La collina sulla quale ci trovavamo era parte di un crinale di gobbe erbose. Quella che gli era accanto, più alta e più ripida, mostrava più chiaramente le sue ossa pietrose. «Da questa parte» dissi agli altri, come se sapessi ciò che stavo facendo, e li condussi verso l'alto. Discendemmo brevemente in un avvallamento
con radi alberi, e poi salimmo di nuovo, seguendo un ruscello asciutto. Il caso e la fortuna ci benedissero. Sul successivo pendio incontrai una stretta pista di selvaggina, evidentemente tracciata da un animale più piccolo e agile dei cavalli. La seguimmo. Per essere così grossa, Mianera se la cavò bene, ma sentii il mio prigioniero trattenere spesso il respiro mentre la pista saliva attraverso il fianco ripido della collina. Seppi che Malta non avrebbe avuto problemi. Non osai girarmi a vedere come andava Lora. Dovevo contare su Zampabianca per portare la sua padrona. Il mio prigioniero osò parlarmi. «Sono Antico Sangue.» Lo disse a voce bassa e intensa, come se dovesse significare qualcosa per me. «Davvero?» risposi con tono sorpreso venato di sarcasmo. «Ma tu...» «Zitto!» lo interruppi ferocemente. «La tua magia non mi interessa. Sei un traditore. Parla di nuovo, e ti butto giù dal cavallo.» Il ragazzo piombò nuovamente in un silenzio sbalordito. Mentre il percorso continuava a salire, mi chiesi se avevo scelto bene. Oltrepassammo pochi alberi, contorti e gracili, le foglie flaccide nell'aura sospesa del temporale. La carne della terra lasciò il posto a pietre come ossa. Riconobbi il riparo quando lo vidi. Non era una vera caverna, piuttosto una rientranza profonda in una rupe. Dovemmo smontare per convincere i cavalli a salire fin lì. Feci entrare Mianera. Era più fresco sotto la rientranza, e l'acqua filtrava dalla parete di roccia sul fondo. Forse in qualche momento dell'anno l'acqua era così abbondante da aver scavato la rientranza, ma adesso era poco più di un'umida striscia verde sul pavimento della caverna prima di gocciolare giù per il pendio. Non c'era cibo per i cavalli. Non potevo farci niente. Ci offriva il miglior ricovero e appariva difendibile. «Passeremo la notte qui» annunciai quietamente. Mi asciugai il sudore dalla fronte e dal collo. Il temporale si stava addensando e l'aria era colma di minaccia di pioggia. Indicai un punto verso il fondo della caverna. «Scendi e siediti lì» dissi al mio prigioniero. Il ragazzo non rispose e rimase seduto in groppa a Mianera, a guardarmi. Non gli diedi una seconda occasione. Tesi la mano, lo afferrai per il davanti della tunica e lo strappai giù dalla cavalla. La rabbia ha sempre moltiplicato la mia forza. Lo lasciai quasi recuperare l'equilibrio, poi lo spinsi via con tale violenza che colpì il muro posteriore della caverna e poi scivolò seduto sul pavimento, mezzo stordito. «È solo l'inizio» gli promisi brutalmente. Lora ci fissava con occhi sbarrati, pallida, probabilmente sgomenta al
vedermi prendere il comando. Afferrai le redini del suo cavallo e messer Dorato la aiutò a smontare. Il mio prigioniero non sembrò voler fare il benché minimo tentativo di fuga, e così lo ignorai mentre toglievo le selle ai cavalli e montavo un campo improvvisato. Mianera sfiorò con le labbra le tracce di umido e poi succhiò un po' d'acqua. Raschiai via la sabbia per approfondire l'avvallamento ai piedi della parete e fui soddisfatto di vedere l'acqua cominciare ad accumularsi. Messer Dorato stava occupandosi della spalla di Lora. Abile come era stato sempre il Matto, aveva tagliato gli abiti, allontanando i lembi di stoffa dalla ferita. Ora vi appoggiò una stoffa umida. Il sangue sulla stoffa sembrava scuro piuttosto che brillante. Le loro teste erano chine insieme in una quieta conversazione. Mi avvicinai. «È molto grave?» chiesi piano. «Abbastanza» rispose laconico messer Dorato, ma fu lo sguardo di Lora a colpirmi. Mi fissava come se fossi stato una bestia rabbiosa. Era ben più dell'indignazione verso uno che aveva sgarbatamente interrotto una conversazione privata. Mi allontanai, chiedendomi se le dava fastidio scoprire la spalla di fronte a me. Eppure non sembrava avere problemi se la toccava messer Dorato. Ebbene, avevo altro a cui pensare, e non mi sarei intromesso ulteriormente. Considerai l'esigua scorta di cibo che rimaneva. Soprattutto pane e mele. Era poco per tre, e non bastava per quattro. Decisi con freddezza che il nostro prigioniero poteva farne a meno. Probabilmente aveva avuto le sue scorte, e quel giorno aveva mangiato meglio di noi. Mi decisi a controllare come stava. Sedeva impacciato, le mani ancora legate dietro la schiena, a guardare la gamba ferita. Diedi un'occhiata alla lacerazione, ma non offrii comprensione. Rimasi in silenzio davanti a lui finché non parlò. «Posso avere dell'acqua?» «Girati» ordinai, e rimasi impassibile mentre si sforzava di obbedire. Gli slegai i polsi. Emise un lieve suono quando staccai la striscia di cuoio dal sangue raggrumato. Lentamente si portò le mani di fronte a sé. «Puoi bere là, quando i cavalli hanno finito.» Il ragazzo annuì lentamente. Sapevo bene quanto gli dolevano le spalle. La mia pulsava ancora dopo l'urto contro il ramo. Il suo viso graffiato era livido e pieno di croste per i danni riportati nella caduta. Un occhio azzurro era iniettato di sangue. In qualche modo le ferite lo facevano sembrare ancor più giovane. Studiò il polso azzannato dal lupo. Da come stringeva i denti seppi che aveva paura anche di toccarlo. Lentamente alzò gli occhi versa di me, e poi guardò alle mie spalle.
«Dov'è il tuo lupo?» Quasi lo schiaffeggiai. Lui si ritrasse al mio gesto abortito. «Non fare domande» gli dissi freddo. «Rispondi. Dove stanno portando il principe?» Mi guardò assente, e maledissi la mia stoltezza. Forse non conosceva l'identità del principe. Ebbene, troppo tardi per rimangiarsi le parole. Probabilmente avrei dovuto ucciderlo comunque. Riconobbi quel pensiero come appartenente a Umbra, e lo accantonai. «Il ragazzo che cavalca con la gatta» chiarii. «Dove lo stanno portando?» L'arciere deglutì con la gola arida. «Non so» mentì torvo. Volevo strangolarlo per farlo parlare. Era una minaccia per me, in troppi modi. Mi alzai di scatto per non cedere alla rabbia. «Sì che lo sai. Ti darò qualche istante per pensare a tutti i modi in cui potrei farti parlare. Poi tornerò.» Mi allontanai di alcuni passi, poi forzai un ghigno sul mio viso e mi girai. «Oh. E se pensi che sia un buon momento per tentare di fuggire... bene, fuori dalla caverna non ti chiederai più dov'è il mio lupo.» Una scarica bianca di luce arse all'improvviso nel nostro ricovero. I cavalli nitrirono, e un attimo più tardi il tuono scosse la terra. Sbattei le palpebre, momentaneamente accecato, e poi, fuori dalla bocca della caverna, la pioggia scrosciò come se qualcuno avesse rovesciato un secchio. All'improvviso era buio. Una folata di vento sospinse la pioggia all'interno, poi l'allontanò. Il calore del giorno era scomparso. Portai un poco di cibo a messer Dorato e Lora. La donna sembrava lievemente stordita. Lui le aveva avvicinato una sella e una coperta per farla appoggiare. Lora spinse indietro i capelli spettinati con la mano sinistra. La destra giaceva in grembo. Aveva perso più sangue di quanto pensassi, perché c'era sangue raggrumato tra le dita e attorno alle unghie. Messer Dorato accettò il pane e le mele per tutti e due. Gettai uno sguardo all'acquazzone fuori dalla caverna e scossi il capo. «Questo temporale laverà via ogni traccia. Il lato positivo è che forse gli abitanti del villaggio prenderanno i loro morti e torneranno a casa. Il lato negativo è che anche noi perdiamo la pista del principe. Far parlare il nostro assalitore è l'unica speranza di trovarlo. Ci penserò quando torno.» Mi slacciai la cintura della spada e la tesi. Quando nessuno la prese, estrassi la lama e la misi a terra accanto a loro. Abbassai la voce. «Potreste essere costretti a usarla. In tal caso non esitate. Uccidetelo. Se scappa e riesce ad avvertire i suoi amici, non avremo speranze di ritrovare il principe. Lo lascio lì a pensarci su. Poi gli farò confessare la verità. Intanto vado fuori a cercare legna da ardere finché non è ancora del tutto bagnata. E controllo
se qualcuno sta seguendo le nostre tracce.» Lora alzò la mano sana per coprirsi la bocca. Sembrava all'improvviso nauseata. Lo sguardo di messer Dorato andò al prigioniero, e poi incontrò il mio. I suoi occhi erano turbati, ma di certo sapeva che dovevo cercare Occhi-di-notte. «Prendi il mio mantello» suggerì. «Si bagnerebbe e non servirebbe a ripararmi dalla pioggia. Mi cambio quando torno.» Non mi disse di stare attento, ma lessi quell'esortazione nel suo sguardo. Annuii, mi feci forza e uscii nella pioggia torrenziale. Era fredda e sgradevole come mi aspettavo. Rimasi con gli occhi socchiusi e le spalle curve, scrutando attraverso l'acquazzone grigio. Poi trassi un respiro e risolutamente cambiai le mie aspettative. Come Rolf il Nero mi aveva mostrato, molte situazioni sembrano disagevoli perché non rispondenti alle aspettative umane. Come uomo davo per scontato di poter stare al caldo e all'asciutto quando volevo. Gli animali non hanno simili convinzioni. Ebbene, pioveva. Quella parte di me che era lupo poteva accettarlo. La pioggia significava freddo e umidità. Una volta che lo accettavo e smettevo di paragonarlo a ciò che avrei voluto, le condizioni diventavano molto più tollerabili. Uscii. La pioggia aveva trasformato il sentiero verso la caverna in un ruscello lattiginoso. Scendendo rischiai di scivolare. Anche sapendo dov'erano le nostre tracce, faticavo a scorgerle. Mi permisi di sperare che la pioggia, il buio e la mancanza di una pista da seguire avrebbero rispedito i nostri inseguitori al villaggio. Alcuni sarebbero indubbiamente tornati indietro portando la notizia delle morti. Potevo sperare che fossero tornati tutti, portando con loro i corpi? Ai piedi della collina mi fermai. Con cautela cercai tutt'intorno. Dove sei? Nessuna risposta. Un lampo crepitò in lontananza, e il tuono brontolò qualche attimo più tardi. La furia della pioggia si rinnovò con un ruggito. Pensai al mio lupo come lo avevo visto l'ultima volta, malridotto e vecchio e stanco. Accantonai ogni cautela e ululai la mia paura al cielo. Occhi-dinotte! Sta' zitto. Arrivo. Disgusto, come verso un cucciolo che piagnucola. Chiusi il mio Spirito, ma sospirai per l'intimo sollievo. Se era così irritato con me, non stava male come temevo. Cercai legna e ne trovai di quasi asciutta al riparo di un albero precipitato da tempo. Presi manciate del legno midolioso dal tronco marcio e spez-
zai i rami morti in una lunghezza maneggevole. Mi tolsi la tunica e vi legai l'esca e la legna nella speranza di non infradiciarle del tutto. Mentre risalivo a fatica la collina verso la caverna, la pioggia cessò all'improvviso così come era cominciata. Il gocciolio della pioggia dai rami e il lieve gorgoglio dell'acqua che cercava di filtrare nella terra riempirono la sera. Non lontano un uccello notturno cantò due note caute. «Sono io» dissi piano mentre mi avvicinavo al riparo di pietra. Mianera sbuffò sommessamente in risposta. Scorgevo appena gli altri all'interno, ma dopo alcuni momenti i miei occhi si adattarono. Messer Dorato aveva preparato la mia scatola di selce. La fortuna era con me, e in pochi istanti un minuscolo fuocherello ardeva in fondo alla caverna. Il fumo strisciò lungo il soffitto di pietra finché non trovò l'uscita. Tornai fuori per controllare che non fosse troppo visibile dal pendio. Soddisfatto, rientrai per alimentare il fuoco. Lora si tirò a sedere e si fece più vicina alla luce amichevole. Sembrava stare meglio, ma il dolore era ancora evidente sul suo viso. La vidi gettare uno sguardo obliquo all'arciere. C'era un'accusa nei suoi occhi, ma anche pietà mal riposta. Sperai che non tentasse di interferire. Messer Dorato stava già frugando nel suo bagaglio. Un momento più tardi estrasse una delle mie tuniche blu da servitore e me la porse. «Grazie» mormorai. Ai margini della luce del fuoco, il mio prigioniero sedeva con le spalle curve. Osservai le bende pulite intorno alla gamba e al polso e riconobbi i nodi del Matto. Ebbene, non avevo detto di lasciarlo stare; avrei dovuto sapere che lo avrebbe curato. Lasciai cadere la tunica zuppa sul pavimento. Mentre scrollavo quella asciutta, Lora parlò sommessamente dalle ombre. «Bella cicatrice.» «Quale?» chiesi senza pensare. «Al centro della tua schiena» rispose la donna, altrettanto piano. «Oh. Quella.» Tentai di sdrammatizzare. «Una punta di freccia che non è uscita con l'asta.» «Allora ti preoccupavi per quello, prima. Grazie.» Mi sorrise. Era quasi come chiedermi scusa. Non seppi rispondere. Le parole e il sorriso gentile mi avevano imbarazzato. Poi mi accorsi dell'amuleto di Jinna che avevo appeso al collo. Ah. Ecco. Finii di infilarmi la tunica asciutta. Poi presi le brache che messer Dorato mi porse e andai fra le ombre dietro ai cavalli per cambiarmi. Il gocciolio dalla parete interna era diventato un sottile flusso costante, e un ruscelletto ora si avventurava oltre i cavalli e verso la bocca della caverna. Ebbene, almeno stasera avrebbero avuto ac-
qua, se non erba. Ne assaggiai un poco nel palmo. Era terrosa ma non marcia. Quando tornai al fuoco messer Dorato mi offrì solennemente un pezzo di pane e una mela. Non mi ero accorto di quanta fame avessi finché non diedi il primo morso. Non mi sarei saziato neppure se avessi mangiato tutto, ma consumai solo la mela e mezzo pane. All'ultimo morso ero affamato come prima. Lo ignorai, come avevo ignorato la pioggia. Il diritto a una pancia piena a intervalli regolari era un'altra pretesa umana. Un'idea confortante, ma non davvero necessaria per la sopravvivenza. Me lo ripetei molte volte. Alzai lo sguardo dalle fiamme e trovai messer Dorato che mi fissava. Lora si era avvolta in una coperta e si era appisolata. Parlai sottovoce. «Ha detto qualcosa mentre lo bendavi?» Messer Dorato considerò. Poi il sorriso del Matto penetrò la facciata. «Ha detto 'ahi'.» Gli restituii il sorriso, poi mi costrinsi ad affrontare la situazione. Malgrado gli occhi chiusi di Lora abbassai la voce, parlando solo per le orecchie del Matto. «Devo scoprire tutto quello che sa dei loro piani. Sono organizzati e spietati. Non sono solo gente dello Spirito che aiuta un ragazzo fuggiasco. Devo fargli dire dove hanno portato il principe.» Il sorriso svanì dal volto del Matto, ma l'alterigia di messer Dorato non lo rimpiazzò. «Come?» chiese spaventato. «In qualunque modo sia necessario» risposi freddo. Ero irritato e disgustato che il Matto mi rendesse le cose più difficili. Il principe e il suo benessere erano ciò che importava. Non la schifiltosità del mio amico, né la vita del ragazzo di Antico Sangue che sedeva contro la parete della caverna. Neanche i miei sentimenti contavano. Lo facevo per Umbra, per la mia regina, per i Lungavista, per il principe stesso. Quel compito sporco e meschino era il mio mestiere; era parte del «lavoro silenzioso» di un assassino. Mi si contrasse lo stomaco. Allontanai lo sguardo dagli occhi ansiosi del Mattò e mi alzai. Dovevo farla finita. Costringerlo a parlare. Poi ucciderlo. Non osavo lasciarlo andare, e di certo portarlo con noi sarebbe stato un impedimento. Non sarebbe stata la prima volta che uccidevo per i Lungavista. Non avevo mai dovuto estorcere informazioni dalla vittima, ma sapevo fare anche quello. Avevo imparato quella lezione di prima mano nelle prigioni di Regal. Avrei solo voluto che le circostanze mi avessero lasciato una scelta. Girai le spalle alla luce e andai nell'oscurità dove il giovane aspettava.
Sedeva per terra, contro la parete della caverna. Per qualche tempo rimasi in piedi davanti a lui, a guardarlo, sperando che il suo terrore fosse forte quanto il mio. Quando finalmente cedette e alzò lo sguardo su di me, ringhiai: «Dove lo stanno portando?» «Non lo so» disse il ragazzo, ma le parole non avevano forza. Gli sferrai un calcio violento e la punta dello stivale lo colpì sotto le costole. L'avevo calibrato per togliergli il fiato senza infliggere danni permanenti. Non era ancora il momento. Lui gemette e si piegò in due. Prima che potesse riprendersi mi chinai, gli afferrai il davanti della tunica e lo trascinai in piedi. Avevo il vantaggio dell'altezza, così strinsi i denti e lo tenni sospeso sulle punte dei piedi. Mi afferrò i polsi e tirò debolmente. Stava ancora ansimando. «Dove?» chiesi piatto. Fuori la pioggia riprese con un improvviso scroscio. «Loro... non lo... hanno detto» ansimò il ragazzo, e tutta la misericordia di Eda mi fece desiderare di credergli. Non osavo. Lo sbattei forte contro la parete, facendogli rimbalzare la testa. L'impatto fece urlare la mia spalla tumefatta. Lo vidi mordersi il labbro per il dolore. Alle mie spalle udii un'esclamazione smorzata di Lora, ma non mi girai. «Puoi dirmelo ora o puoi dirmelo più tardi» lo avvertii, spingendolo con forza contro il muro. Odiavo ciò che stavo facendo, eppure in qualche modo la sua stupida resistenza alimentava la mia rabbia verso di lui. Ne trassi forza, tentando di costruire la volontà che mi serviva per continuare. Più rapido era più gentile; più duro era più misericordioso. Prima parlava, prima sarebbe finita. Aveva scelto lui il percorso che lo aveva portato qui. Era un traditore, in combutta con quelli che avevano allontanato il figlio di Kettricken dal suo fianco. L'erede al trono dei Sei Ducati poteva essere in pericolo mortale in quell'istante, e ciò che quel giovane sapeva poteva aiutarmi a liberarlo. Tutto quello che gli avrei fatto, l'aveva voluto lui. Una specie di singhiozzo infantile lo scosse. Prese fiato. «Per favore» disse piano. Indurii il mio cuore e tirai indietro il pugno. Ma avevi promesso. Mai più. Basta uccisioni che non portano carne e forgiano il cuore. Occhi-di-notte era atterrito. Stanne fuori, fratello. Devo farlo. No, non devi. Arrivo. Arrivo più in fretta che posso. Aspettami, fratello, per favore. Aspetta. Mi staccai dai pensieri del lupo. Era ora di finirla. Di spezzarlo. Ma il
traditore caparbio sembrava solo un ragazzo che lottava disperatamente per mantenere un segreto. Le lacrime gli rigavano le guance. I pensieri del lupo avevano indebolito la mia determinazione. Scoprii che lo avevo rimesso in piedi. Non avevo mai avuto passione per quel genere di cose. Alcuni, lo sapevo bene, provavano piacere nello spezzare lo spirito altrui, ma la tortura che avevo sopportato nelle segrete di Regal mi aveva imprigionato per sempre nel ruolo di vittima. Qualunque cosa facessi a quel giovane, l'avrei provata anch'io. Peggio, mi sarei visto attraverso i suoi occhi mentre diventavo per lui ciò che Chiodo era stato per me. Distolsi lo sguardo prima che potesse vedere la debolezza nei miei occhi, ma non servì, perché il Matto era a un braccio da me, e trasudava tutto l'orrore che tentavo di reprimere. La sua pietà mescolata all'orrore mi trafisse. Lui mi vedeva. Lui vedeva, malgrado gli anni trascorsi, il ragazzo sconfitto che era ancora rintanato dentro di me, per sempre. Da qualche parte mi nascondevo per sempre, da qualche parte ero spezzato in eterno da ciò che mi era stato fatto. Era intollerabile che qualcuno dovesse saperlo. Perfino il mio Matto. Forse soprattutto lui. «Non interferire» gli dissi duro, con una voce che non sapevo di possedere. «Occupati della capocaccia.» Fu come se lo avessi colpito. Il Matto aprì la bocca, ma non emise alcun suono. Strinsi i denti e mi costrinsi a essere freddo. Accentuai gradualmente la presa sul colletto del mio prigioniero. Lui lottò per deglutire e poi il respiro sibilò in gola. Gli occhi azzurri guizzarono sulla mia cicatrice e il naso rotto. Non era la faccia di un uomo misericordioso, civilizzato. Traditore, mi ricordai mentre lo fissavo. Hai tradito il tuo principe, proprio come Regal tradì Veritas. Quanto spesso avevo fantasticato su ciò che avrei fatto a Regal se avessi avuto l'occasione di vendicarmi? Quel ragazzo meritava la mia vendetta quanto Regal. Avrebbe estinto la stirpe dei Lungavista se gli avessi permesso di mantenere il segreto. Respirai con lentezza, fissandolo, lasciando che i pensieri salissero alla superficie della mia mente. Sentii la mia bocca e i miei occhi cambiare espressione. La mia decisione si rinsaldò. Ora di finirla, in un modo o nell'altro. «Ultima occasione» avvertii impietoso mentre estraevo il coltello. Guardai le mie mani come se appartenessero a qualcun altro. Appoggiai la punta della lama scoperta sotto il suo occhio sinistro. La lasciai affondare nella pelle. Lui serrò le palpebre, ma entrambi sapevamo che quello non l'avrebbe protetto. «Dov'è?» «Fermatelo» implorò Lora con voce tremante. «Per favore, messer Dora-
to, fermatelo.» Alle sue parole, sentii l'uomo nella mia presa cominciare a tremare. Perfino i miei compagni temevano ciò che volevo fargli, e questo lo terrorizzava. Un sorriso si impadronì del mio volto e lo gelò in un ghigno. «Tom lo Striato!» Messer Dorato si rivolse a me in tono imperioso. Non mi girai neanche. Mi ci aveva trascinato dentro lui, proprio come avevano fatto Umbra e Kettricken. Ora era tutto inevitabile. Doveva stare a guardare dove portava la sua strada. Se non gli piaceva, poteva sempre distogliere lo sguardo. Io non potevo. Dovevo viverlo. No. Non devi. E io mi rifiuto. Non sarò legato a una cosa simile. Non lo permetterò. Lo sentii prima di vederlo. Un attimo dopo la debole luce del fuoco rivelò la sua sagoma, e poi il mio lupo entrò barcollando. Era tutto gocciolante; i peli più lunghi e forti del manto erano punte piegate verso il basso. Avanzò ancora di qualche passo nella caverna, e poi si fermò a scrollarsi. Il tocco della sua mente sulla mia era come una mano salda sulla spalla. Rivolse i miei pensieri a sé, e a noi, accantonando ogni altra preoccupazione. Fratello. Cambiamento. Sono così stanco. Ho freddo e sono fradicio. Per favore. Ho bisogno del tuo aiuto. Si fece ancora più vicino e si appoggiò contro la mia gamba, chiedendo quietamente: Cibo? Con il contatto fisico allontanò un'oscurità che non sapevo di avere dentro, per riempirmi con il suo essere, con il presente. Lasciai andare il mio prigioniero, e il giovane si accasciò trascinandosi lontano da me. Tentò di stare in piedi, ma le ginocchia cedettero e finì di peso a terra. La testa ricadde in avanti e pensai di udire un singhiozzo soffocato. Ora non importava. Allontanai quel FitzChevalier Lungavista e divenni il compagno del lupo. Trassi un respiro. Il sollievo alla vista di Occhi-di-notte quasi mi stordiva. Mi aggrappai alla sua presenza e lo sentii sostenermi. Ti ho messo da parte un po' di pane. Meglio di niente. Il lupo schiacciò il corpo tremante contro la mia gamba mentre mi conduceva verso il fuoco e il suo accogliente calore. Aspettò con pazienza che trovassi il suo pezzo di pane. Sedetti vicino a lui, incurante della pelliccia bagnata, e gli diedi il pane poco per volta. Quando ebbe finito di mangiare gli passai la mano lungo la schiena. Il mio tocco allontanò la pioggia. L'umido non aveva penetrato il suo manto, ma percepivo dolore e stanchezza. Eppure il suo amore immenso per me mi avvolse e mi rese di nuovo me stesso.
Trovai un pensiero da condividere. Come stanno guarendo quei graffi? Lentamente. Gli feci scivolare la mano sotto la pancia. Schizzi di fango avevano infettato le ferite. Il lupo aveva freddo, ma i graffi gonfi scottavano. Stavano suppurando. Il vasetto di unguento di messer Dorato era ancora nella mia borsa da sella. Lo recuperai, e incredibilmente Occhi-di-notte mi permise di applicarlo alle lunghe vesciche in rilievo. Sapevo che il miele tende a lenire l'infiammazione. Forse avrebbe assorbito il calore malsano dalle ferite. Alzai lo sguardo, all'improvviso consapevole del Matto accanto a noi. Si inginocchiò e mise entrambe le mani sulla testa del lupo, come una benedizione. Guardò nei suoi occhi: «Sono così contento di vederti, vecchio amico.» Nella sua voce tremava la commozione. Con cautela tormentosa mi chiese: «Quando hai finito, posso averne un po' di unguento per la spalla di Lora?» «Certo» dissi piano. Spalmai ancora uno strato su Occhi-di-notte, poi diedi il vasetto al Matto. Mentre si chinava per prenderlo, bisbigliò: «Non ho mai avuto tanta paura in vita mia. E non potevo far niente. Penso che solo lui avrebbe potuto riportarti indietro.» Mentre si alzava mi sfiorò la guancia con il dorso della mano. Non so se cercasse di rassicurare me o sé stesso. Provai per un istante disperazione per entrambi. Non era finito, era solo rimandato. Con un sospiro, Occhi-di-notte si distese all'improvviso accanto a me. Mi appoggiò la testa sulla gamba. Fissò oltre l'ingresso della caverna. No. È finito. Te lo proibisco, Cambiamento. Devo trovare il principe. Lui sa dov'è. Non ho alternativa. Sono io l'alternativa. Fidati di me. Localizzerò il principe per te. Dubito che questo temporale abbia lasciato piste da seguire. Fidati di me. Lo troverò per te. Lo prometto. Solo, non farlo. Occhi-di-notte, non posso lasciarlo vivere. Sa troppo. Il lupo ignorò quel pensiero, in apparenza. Poi mi avvertì: Prima di ucciderlo, pensa a ciò che gli togli. Ricorda cosa significa essere vivo. Prima che potessi rispondere, mi intrappolò nei suoi sensi e mi portò nel suo 'presente' di lupo. FitzChevalier Lungavista e tutte le sue preoccupazioni furono banditi. Guardammo fuori nella notte nera oltre l'ingresso della caverna. Il temporale aveva destato tutti i profumi delle colline e il lupo li lesse per me. La pioggia era un brusio continuo sulla terra che copriva tutti gli altri suoni. Accanto a noi il fuoco stava spegnendosi. Ero remota-
mente consapevole del Matto che lo alimentava, aggiungendo ciocchi per tenerlo vivo ma conservando la scorta di legna per la lunga notte che stava sopraggiungendo. Annusai il fumo, i cavalli, gli altri umani... Occhi-di-notte voleva portarmi via dall'essenza di uomo, con le preoccupazioni di un uomo, e ricondurmi a essere lupo. Ci riuscì meglio del previsto. Forse era più stanco di quanto credesse, o forse la pioggia frusciante ci cullò nella vicinanza dei cuccioli che non hanno barriere. Vagai dentro di lui, nella sua mente e nel suo spirito e poi nel suo corpo. A poco a poco divenni consapevole della carne che lo racchiudeva. Non aveva più riserve. La stanchezza lo colmava, allontanando tutto il resto. Stava spegnendosi, come il fuoco, assumendo sostentamento eppure facendosi sempre più piccolo. La vita è un equilibrio. Tendiamo a dimenticarcelo mentre andiamo avanti allegramente di giorno in giorno. Mangiamo e beviamo e dormiamo, pensando che ci alzeremo sempre l'indomani, che i pasti e il riposo ci ristoreranno sempre. Ci aspettiamo che le ferite guariscano, e che il dolore diminuisca mentre il tempo passa. Anche quando certe ferite guariscono più lentamente, e certi dolori diminuiscono di giorno solo per tornare più forti che mai al crepuscolo, anche quando il sonno non ci dà ristoro, ci aspettiamo che l'indomani tutto tornerà in qualche modo in equilibrio e che andremo avanti. Ma in qualche momento il delicato equilibrio si è sbilanciato, e malgrado tutti i nostri sforzi affannosi cominciamo il lento declino da un corpo che ci sostiene a un corpo che lotta con le unghie e con i denti per aggrapparsi a ciò che era. Fissai l'oscurità di fronte a noi. Sembrava all'improvviso che ogni respiro che il lupo esalava fosse più lungo di quello che inalava. Come una nave che affonda, ogni giorno sprofondava sempre di più in un'accettazione del dolore quotidiano e della diminuita vitalità. Ora dormiva profondamente, ogni cautela dimenticata, il testone sul mio grembo. Trassi un cauto respiro e poi gli misi con dolcezza la mano sulla fronte. Da ragazzo ero stato una fonte di forza per Veritas. Il re mi aveva messo la mano sulla spalla e con la sua Arte aveva assorbito l'energia che gli serviva disperatamente per lottare contro le Navi Rosse. Ripensai a quel giorno lungo il torrente, e a ciò che avevo fatto al lupo. Lo avevo raggiunto con lo Spirito, ma lo avevo curato con l'Arte. Sapevo da tempo che le due magie potevano mescolarsi. Avevo perfino temuto che il mio uso dell'Arte sarebbe sempre stato contaminato dallo Spirito. Ora quella paura divenne
speranza di poter usare insieme le due magie per il mio lupo. Perché con l'Arte non si prende solo forza; la si può anche dare. Chiusi gli occhi e resi il mio respiro regolare. Le barriere del lupo erano abbassate, le mie preoccupazioni di Lungavista lontane dalla mia mente. Solo Occhi-di-notte importava. Mi aprii e gli trasmisi la mia forza, il mio vigore, i giorni della mia vita. Era come una lunga esalazione di respiro, un flusso di vita che lasciava il mio corpo e passava nel suo. Mi sentii stordito, eppure avvertii che la forza in lui cresceva, come uno stoppino acceso a cui viene aggiunto olio. Gli trasmisi un altro soffio vitale, sentendo la fatica penetrare in me. Non mi importava. Ciò che gli avevo dato lo aveva rinvigorito, ma non riportato alla salute; gli serviva altra forza. Potevo mangiare e dormire e riguadagnare più tardi la mia vitalità. Ora il suo bisogno era più grande. Poi la sua consapevolezza divampò come una fiamma, e No! Me lo impedì, scrollandomi via. Si staccò da me, erigendo barriere che quasi mi chiusero fuori. Poi i suoi pensieri irruppero nella mia mente. Se ci riprovi, ti lascerò. Del tutto e per sempre. Non mi vedrai più, non toccherai i miei pensieri, e non sentirai il mio odore vicino alle tue tracce. Mi capisci? Mi sentii come un cucciolo, scrollato e gettato da parte. La brusca interruzione mi lasciò disorientato. Il mondo vacillò intorno a me. «Perché?» chiesi scosso. Perché? Sembrava sbalordito che potessi chiederlo. In quel momento udii un furtivo rumore di passi sul terriccio. Mi girai e scorsi il mio prigioniero che correva fuori dalla caverna. Balzai in piedi e mi lanciai all'inseguimento. Nel buio e nella pioggia lo urtai e rotolammo giù per il pendio roccioso davanti alla caverna. Gemette una volta mentre cadevamo. Poi lo afferrai e non lo lasciai finché non ci fermammo scivolando fra arbusti e ghiaia ai piedi del pendio. Illividiti e scossi, giacemmo ansimando mentre le pietre smosse rimbalzavano attorno a noi. Il mio coltello era sotto di me, l'elsa mi affondava nell'anca. Afferrai l'arciere alla gola. «Dovrei ucciderti adesso» ringhiai. Su nell'oscurità udii voci interrogative. «Silenzio!» ruggii, e le voci cessarono. «Alzati» dissi brusco al mio prigioniero. «Non posso.» La sua voce tremava. «Alzati!» ordinai. Mi tirai su barcollando, senza lasciarlo andare, e lo misi in piedi quasi di peso. «Muoviti!» gli dissi. «Su per la collina, rientra nella caverna. Tenta di fuggire ancora e ti massacro di botte.»
Mi credette. La verità era che il mio sforzo per Occhi-di-notte mi aveva sfinito. Riuscivo appena a tenergli dietro mentre risalivamo il pendio liscio di pioggia, arrampicandoci e scivolando. Un mal di testa da Arte dipinse lampi dietro le mie palpebre. Quando riguadagnammo la caverna eravamo entrambi imbrattati di fango. All'interno ignorai l'espressione ansiosa di messer Dorato e le domande di Lora mentre assicuravo saldamente i polsi del mio prigioniero dietro la schiena e gli legavo le caviglie. Lo trattai con brutalità, spronato dal dolore martellante nel cranio. Sentivo Lora e il Matto che mi osservavano. Mi fecero infuriare e vergognare. «Dormi bene» sibilai quando ebbi finito. Mi allontanai da lui ed estrassi il coltello dal fodero. Udii l'ansito di Lora e il prigioniero emise un singhiozzo improvviso. Ma andai solo al rivoletto d'acqua per pulire il fango dall'elsa e dal fodero. Mi lavai le mani e mi strofinai il viso con acqua fredda. Mi ero preso uno strappo alla schiena nella lotta. Occhi-di-notte uggiolò piano, preoccupato per il mio dolore. Strinsi i denti e tentai di non trasmetterglielo. Mentre mi alzavo il mio prigioniero parlò. «Traditore della tua gente.» La paura di morire gli dava un falso coraggio. Mi scagliò contro quell'insulto, ma non lo guardai neanche. La sua voce si alzò in un'accusa stridula. «Quanto ti hanno pagato? Che ricompensa c'è per te e il tuo lupo se riporti il principe? Hanno un ostaggio? Una madre? Tua sorella? Giurano che se lo fai lasceranno vivere te e la tua famiglia? Mentono, lo sai. Mentono sempre.» La voce tremante cresceva in volume. «L'Antico Sangue caccia l'Antico Sangue, e per che cosa? Perché i Lungavista possano negare che il sangue del Principe Pezzato scorre nelle loro vene? O lavori per quelli che odiano la regina e suo figlio? Lo riporterai indietro perché sia denunciato come Antico Sangue, e i Lungavista spodestati da chi crede di poter governare meglio di loro?» Avrei dovuto concentrarmi su ciò che diceva dei Lungavista. Invece udii solo la sua denuncia di ciò che ero. Parlava con certezza. Lo sapeva. Tentai di ignorare le sue parole. «Le tue folli accuse non significano niente. Ho giurato fedeltà ai Lungavista. Servo la mia regina.» Risposi sapendo che era stupido lasciarmi provocare. «Salverò il principe, non importa chi sono quelli che lo hanno catturato, o ciò che significano per me...» «Salvarlo? Ha! Riportarlo alla schiavitù, vuoi dire.» L'arciere aveva trasferito il suo sguardo torvo a Lora, come per convincerla. «Il ragazzo con la gatta cavalca con noi verso la salvezza, non come un prigioniero ma come uno che torna a casa dalla sua gente. Meglio un Pezzato libero che
un principe in gabbia. Quindi lo tradisci due volte, perché è un Lungavista che hai giurato di servire, ed è Antico Sangue come te. Lo riporterai indietro di forza per essere impiccato e squartato e bruciato, come tanti di noi? Come hanno ucciso mio fratello solo due notti fa?» La sua voce si strozzò all'improvviso. «Arno aveva solo diciassette anni. Non aveva neanche la magia. Ma era Antico Sangue, e scelse di lottare con noi, anche a costo di dare la vita per noi. Si dichiarò Pezzato e cavalcò con noi. Perché sapeva che era uno di noi, anche se la magia non era in lui.» Mi guardò di nuovo. «Eppure eccoti lì, Antico Sangue come me, con il tuo lupo dello Spirito accanto, e ci cacceresti fino alla morte. Menti quanto vuoi, rechi vergogna solo a te stesso. Pensi che non ti senta quando gli parli?» Lo fissai. La mia testa rimbombante calcolò ciò che mi aveva appena fatto. Tradendomi di fronte a Lora, non mi aveva solo messo in pericolo; ancora una volta mi aveva portato via Castelcervo. Ora non potevo tornarci; non se Lora sapeva ciò che ero. L'orrore l'aveva sbiancata. Sembrava sofferente. Vidi un cambiamento nei suoi occhi, un riconsiderare la sua opinione di me. Il viso del Matto era del tutto immobile, come se lottasse per celare così tante emozioni che non gli rimaneva alcuna espressione. Aveva già capito ciò che dovevo fare? Era come un veleno che si propagava. Sapevano che avevo lo Spirito. Ora non dovevo uccidere solo l'arciere, ma anche Lora. Altrimenti sarei stato sempre vulnerabile. Eppure, se lo avessi fatto, avrei distrutto tutto ciò che c'era tra il Matto e me. La conclusione dell'assassino era di uccidere anche lui, perché non mi guardasse mai con quelle morti negli occhi. E poi potresti uccidere me, e poi te stesso, e nessuno saprebbe mai tutto ciò che abbiamo diviso. Rimarrebbe il nostro vergognoso segreto, che ci porteremo nella tomba. Uccidici tutti, piuttosto che ammettere a chiunque ciò che siamo. Infallibile come un freddo dito che mi indicava, il pensiero penetrò nella terribile spaccatura che mi aveva afflitto da quando avevamo catturato l'arciere... no, da quando avevo compreso che, per il mio giuramento ai Lungavista, dovevo oppormi all'Antico Sangue e ai desideri del principe. «Possiedi lo Spirito?» Lora mi chiese lentamente. La sua voce era quieta, ma la domanda mi risuonò nelle orecchie. Mi fissavano ancora. Cercai la bugia, ma non riuscii a pronunciarla. Avrei dovuto rinnegare il lupo. Ero alienato dall'Antico Sangue, ma c'era un legame più profondo dell'emozione o della lealtà acquisite. Potevo non vivere come l'Antico Sangue, ma la minaccia che incombeva sulla loro testa
minacciava anche me. Ma avevo giurato fedeltà ai Lungavista, e quello era anche il mio lignaggio. Cosa devo fare? Ciò che è giusto. Sii quello che sei, Lungavista e Antico Sangue. Anche se ci porterà alla morte, sarà più facile di questi eterni dinieghi. Preferirei morire mentre siamo fedeli a noi stessi. Fu come tirar fuori la mia anima da un acquitrino. Il dolore del Mal di testa da Arte diminuì all'improvviso, come se prendere una decisione mi avesse liberato da qualcosa. Trovai la voce. «Possiedo lo Spirito» ammisi con sommessa semplicità. «E ho giurato fedeltà ai Lungavista. Servo la mia regina. E il mio principe, anche se forse ancora lui non lo riconosce. Farò tutto ciò che devo per mantenere il mio giuramento.» Fissai il ragazzo con occhi da lupo, e dissi ciò che entrambi sapevamo. «L'Antico Sangue non lo ha preso per lealtà o amore per lui. Non cercano di 'liberarlo'. Lo hanno preso nel tentativo di farlo proprio. Poi lo useranno. Saranno spietati come lo sono stati nel catturarlo. Ma io non lo permetterò. Farò qualsiasi cosa per impedirlo. Troverò dove l'hanno portato e lo riporterò a casa. A qualunque costo.» Vidi l'arciere sbiancare. «Sono un Pezzato» dichiarò con voce tremante. «Sai cosa vuol dire? Vuole dire che rifiuto di vergognarmi del mio Antico Sangue. Che mi dichiarerò e asserirò il mio diritto a usare la mia magia. E non tradirò la mia gente. Anche se significa affrontare la mia morte.» Lo disse per mostrare che la sua determinazione era pan alla mia? Allora si sbagliava. Evidentemente aveva preso le mie parole come una minaccia. Un altro errore... non mi importava. Non mi curai di chiarire il suo equivoco. Una notte trascorsa nella paura non lo avrebbe ucciso, e forse al mattino sarebbe stato pronto a dirmi dove stavano portando il principe. Altrimenti, il mio lupo e io lo avremmo trovato. «Taci» gli dissi. «Dormi finché puoi.» Gettai uno sguardo agli altri che seguivano con attenzione il nostro scambio. Lora mi fissava con ripugnanza e incredulità. Le rughe sul volto del Matto lo invecchiavano. La sua bocca era piccola e immobile, il suo silenzio un'accusa. Chiusi il mio cuore contro di esso. «Dobbiamo dormire tutti finché possiamo.» E all'improvviso la fatica era una marea che saliva intorno a me. Occhidi-notte era venuto a sedersi accanto a me. Mi si appoggiò contro, e la sua stanchezza fino alle ossa era anche la mia. Sedetti, infangato e fradicio com'ero, sul pavimento sabbioso della caverna. Avevo freddo, ma era una
notte in cui tutti dovevano aspettarsi di aver freddo. E mio fratello era accanto a me, e tra noi avevamo calore da dividere. Mi distesi, misi un braccio su di lui ed emisi un sospiro. Volevo solo restare così per un momento prima di alzarmi per il primo turno di guardia. Ma in quell'istante il lupo mi trasse giù e mi avvolse nel suo sonno. 21 Devoto A Choky c'era una vecchia abilissima nella tessitura. Sapeva tessere in un giorno ciò che ad altri richiedeva una settimana, e tutto lavoro eccellente. Mai un punto sbagliato, e il filo che filava per i suoi migliori arazzi era così forte che non poteva essere spezzato con i denti ma andava tagliato con una lama. Abitava sola in un luogo isolato, e sebbene il lavoro le fruttasse molto, viveva una vita semplice. Quando non venne al mercato settimanale per la seconda volta, una gentildonna che aspettava da lei un mantello cavalcò fino alla capanna per vedere se qualcosa non andava. La vecchia sedeva al telaio, la testa china sul lavoro, ma le mani erano ferme, e non si mosse quando la donna bussò alla porta. Allora il domestico della gentildonna andò a toccarla sulla spalla, perché di certo sonnecchiava. Ma quando lo fece, la vecchia cadde ai suoi piedi, morta stecchita. E dal suo petto balzò fuori un bel ragno grasso, grande come il pugno di un uomo, e corse sul telaio, trascinando uno spesso filo di ragnatela. Allora tutti conobbero il segreto della sua tessitura. Il corpo lo tagliarono in quattro pezzi e lo bruciarono, e con lei diedero alle fiamme tutto il lavoro che si sapeva provenire dal suo telaio, e poi la sua casetta e il telaio stesso. Lo Striato, Storie dell'Antico Sangue Mi svegliai prima dell'alba, con la sensazione terribile di aver dimenticato qualcosa. Giacqui immobile per un momento nell'oscurità, riconsiderando le ragioni del mio disagio. Assonnato, tentai di richiamare cosa mi aveva destato. Attraverso i veli laceri del mal di testa costrinsi la mia mente a funzionare. I fili di un incubo aggrovigliato tornarono lentamente a me, inquietanti. Ero una gatta. Come nelle peggiori delle antiche storie dello Spirito, in cui il portatore dello Spirito viene gradualmente dominato dalla sua bestia finché un giorno non si sveglia come mutaforma, condannato ad as-
sumere le sembianze della bestia, per sempre preda dei suoi impulsi più bassi. Nel mio sogno ero la gatta, ma in un corpo umano. C'era anche una donna, che divideva la mia consapevolezza con la gatta, mescolati così completamente che non sapevo dire dove cominciava l'una e l'altro finiva. Angosciante. Il sogno mi aveva preso, mi aveva afferrato con i suoi artigli, e mi aveva tenuto sommerso. Eppure una parte di me aveva sentito... cosa? Bisbigli? Il tintinnio sommesso di finimenti, il calpestio di stivali e zoccoli sul terriccio? Mi misi a sedere e sgranai gli occhi nell'oscurità. Il fuoco era una macchia rosso scuro lì vicino. Anche senza vederci, già sapevo che il mio prigioniero era scomparso. In qualche modo si era liberato, e ora era andato avanti ad avvertire gli altri. Scrollai la testa per schiarirla. Probabilmente aveva anche preso la mia dannata cavalla. Fra i nostri cavalli, solo Mianera era così stupida da farsi rubare senza un rumore. Ritrovai la voce. «Messer Dorato! Sveglia. Il nostro prigioniero è scappato.» Lo sentii sollevarsi fra le coperte, ad appena un braccio da me. Lo sentii procedere a tentoni nel buio e gettare una manciata di pezzi di legno sul fuoco. Diventarono incandescenti, e poi balzò su una piccola lingua di vera fiamma. Arse solo un attimo, ma ciò che mostrò fu abbastanza per confondermi. Non solo era scomparso il nostro prigioniero, ma anche Lora e Zampabianca. «Lo ha inseguito» tirai a indovinare, inebetito. «Se ne sono andati insieme.» Il Matto indicò lo scenario più probabile. Da solo con me, abbandonò del tutto la voce e la posa di messer Dorato. Nel bagliore calante del fuoco sedette sulla coperta, le ginocchia piegate sotto il mento e le braccia attorno alle gambe mentre rifletteva. Scosse il capo per la propria stupidità. «Quando ti sei addormentato, lei ha insistito per fare il primo turno di guardia. Ha promesso di svegliarmi. Se non fossi stato così preoccupato per il tuo comportamento, forse mi sarei accorto che l'offerta era molto insolita.» La sua occhiata di rammarico era quasi un'accusa. «Lo ha sciolto, e poi se ne sono andati di proposito, in silenzio. Così in silenzio che neppure Occhi-di-notte li ha sentiti.» C'era una domanda nelle sue parole, se non nella voce. «Occhi-di-notte non sta bene» dissi, e ingoiai ogni altra spiegazione. Forse il lupo mi aveva trattenuto di proposito in un sonno profondo per lasciarli scappare? Dormiva ancora pesantemente al mio fianco, un sonno grondante sfinimento e malessere. «Perché Lora è andata con lui?» Il silenzio durò troppo. «Forse pensava che lo avresti ucciso, e non vole-
va che si giungesse a quello» ipotizzò il Matto con riluttanza. «Non lo avrei ucciso» risposi irritato. «Ah no? Bene, per fortuna almeno uno di noi ne era sicuro. Perché, in tutta sincerità, la stessa paura aveva attraversato la mia mente.» Mi scrutò attraverso l'oscurità, poi parlò con disarmante franchezza. «Ieri sera mi hai spaventato, Fitz. No. Mi hai terrorizzato. Quasi mi sono chiesto se ti conoscevo.» Non volevo parlarne. «Pensi che si sia liberato e poi abbia costretto Lora a seguirlo?» Il Matto rimase in silenzio per un po', poi mi lasciò cambiare argomento. «È possibile, ma non troppo. Lora è... molto ingegnosa. Avrebbe trovato il modo di fare rumore. E non so immaginare perché lui avrebbe dovuto portarla con sé.» Aggrottò le sopracciglia. «Non ti è parso che si guardassero in modo strano? Quasi come se condividessero un segreto?» Aveva scorto qualcosa che mi era sfuggito? Tentai di pensarci, poi ci rinunciai. Era un compito senza speranza. Allontanai la coperta di malavoglia. Parlai piano, non volendo ancora svegliare il lupo. «Dobbiamo seguirli. Ora.» I miei abiti bagnati e infangati erano appiccicosi e rigidi. Ebbene, almeno non dovevo vestirmi. Mi alzai. Mi allacciai la cintura della spada, un foro più vicino all'antica posizione. Poi mi fermai, fissando la coperta. «Ti ho coperto io» ammise quietamente il Matto. «Lascia dormire Occhi-di-notte, almeno fino all'alba. Avremo bisogno di luce per trovare la pista.» Fece una pausa, poi chiese: «Dici che dovremmo seguirli perché pensi... cosa? Che lui andrà dov'è il principe? Pensi che vi porterebbe Lora?» Mi morsi un angolo lacerato dell'unghia del pollice. «Non so cosa pensare» ammisi. Per qualche tempo entrambi riflettemmo nel silenzio e nel buio. Trassi un respiro. «Dobbiamo seguire il principe. Nulla deve distrarci. Dovremmo tornare dove ieri abbiamo abbandonato la pista e tentare di ritrovarla, se le piogge hanno lasciato qualcosa. È l'unico percorso che sicuramente conduce a Devoto. Se non funziona, proveremo a seguire Lora e il Pezzato e sperare che anche quella pista porti al principe.» «Sono d'accordo» rispose piano il Matto. Mi sentii stranamente colpevole per il sollievo che provai. Perché era d'accordo con me, perché il Pezzato era fuori dalla mia portata, ma soprattutto, senza Lora e il prigioniero, potevamo abbandonare la finzione ed es-
sere solo noi stessi. «Mi sei mancato» dissi piano, sapendo che avrebbe capito cosa intendevo. «Anche tu.» La voce venne da una direzione nuova. Nel buio si era alzato e si muoveva con la grazia silenziosa di un gatto. Quel pensiero mi riportò all'improvviso al mio sogno. Afferrai quei frammenti laceri. «Penso che il principe sia in pericolo» ammisi. «Ti viene in mente solo ora?» «Un pericolo diverso da ciò che mi aspettavo. Sospettavo che gli Spirituali lo avessero attirato lontano da Kettricken e dalla corte, e corrotto con una gatta come compagna nello Spirito, per portarlo via e farne uno di loro. Ma questa notte ho sognato, e... era un sogno malvagio, Matto. Il principe non era più sé stesso, la gatta esercitava tanta influenza sul loro legame che lui ricordava appena la propria identità.» «Potrebbe dimenticarla?» «Vorrei saperlo per certo. Era tutto così strano. Era la sua gatta, eppure non lo era. C'era una donna, ma non l'ho mai vista. Quando sono il principe, la amo. E la gatta, amo anche la gatta. Penso che la gatta mi ami, ma è difficile dirlo. Come se la donna fosse... tra noi.» «Quando sei il principe.» Capii che non riusciva neanche a decidere come porre la domanda. L'ingresso della caverna ora era una chiazza più chiara nell'oscurità. Il lupo dormiva. Annaspai in cerca di una spiegazione. «A volte, di notte... non è proprio Arte. Né è del tutto Spirito. Penso che perfino nella mia magia sono l'incrocio bastardo di due linee, Matto. Forse è per quello che l'Arte a volte fa tanto male. Forse non ho mai imparato a usarla davvero. Forse Galen aveva ragione riguardo a me...» «Quando sei il principe» mi ricordò fermamente il Matto. «Nei sogni divento lui. A volte ricordo chi sono davvero. A volte divento semplicemente lui e so dov'è e cosa sta facendo. Divido i suoi pensieri, ma lui non è consapevole di me, né posso parlargli. O forse sì. Non ho mai provato. Nei sogni non mi viene mai in mente di tentare. Divento lui, e lo seguo.» Il Matto emise un lieve suono, come un respiro meditabondo. L'alba giunse come fa quando cambia la stagione, passando dal buio al grigio perlaceo in un istante. E in quel momento sentii l'odore della fine dell'estate, affogata e spazzata via dal temporale della sera prima, e i giorni di autunno incombevano innegabilmente su di noi. C'era nell'aria l'odore delle foglie sul punto di cadere, e delle piante che abbandonano il verde per ritirarsi
nelle radici, e perfino dei semi nel vento che cercano disperatamente un luogo per fermarsi e affondare nella terra prima che li trovi il gelo dell'inverno. Mi girai dall'ingresso della nostra caverna e trovai il Matto, già in abiti puliti, che sistemava il nostro bagaglio. «Rimane solo un pezzo di pane e una mela» mi disse. «E non penso che Occhi-di-notte aspiri alla mela.» Mi lanciò il pane per il lupo. Quando la luce del giorno gli raggiunse il muso, Occhi-di-notte si mosse. Badò a non pensare a nulla mentre si alzava, si stiracchiava cautamente, e andava a lappare acqua dalla pozza in fondo alla caverna. Quando tornò si lasciò cadere accanto a me e accettò il pane mentre glielo spezzavo. Allora. Da quanto tempo se ne sono andati? gli domandai. Lo sai che li ho lasciati andare. Perché me lo chiedi? Rimasi in silenzio per qualche tempo. Avevo cambiato idea. Non lo sentivi? Avevo deciso che non gli avrei fatto del male, tanto meno ucciderlo. Cambiamento. La notte scorsa ci hai portati entrambi troppo vicini a un luogo molto pericoloso. Nessuno di noi sapeva davvero cosa avresti fatto. Ho scelto di lasciarli andare piuttosto che scoprirlo. Era la scelta sbagliata? Non lo sapevo. Era quella la parte spaventosa, che non lo sapevo. Non gli avrei chiesto di aiutarmi a localizzare Lora e l'arciere. Invece gli chiesi: Pensi che possiamo ritrovare la pista del principe? Te l'ho promesso, vero? Facciamo solo ciò che dobbiamo, e poi andiamo a casa. Chinai la testa. Mi sembrava una buona idea. Il Matto giocherellava con la mela in una mano. Una volta che Occhi-dinotte ebbe finito di mangiare, si fermò, afferrò la mela in entrambe le mani e le impresse una torsione improvvisa. La spezzò facilmente in due metà, e me ne lanciò una. La presi e scossi il capo, sorridendo. «Ogni volta che penso di conoscere tutti i tuoi trucchi...» «Scopri che ti sbagli» terminò il Matto. Mangiò in fretta la sua metà, conservando il torsolo per Malta, e io feci lo stesso per Mianera. Le cavalle affamate non erano entusiaste del giorno che le aspettava. Lisciai un poco i loro manti irsuti prima di sellarle e assicurare i nostri fagotti a Mianera. Poi le portammo fuori, e giù per il pendio ghiaioso, ora sdrucciolevole per il fango. Il lupo ci seguiva zoppicando. Come spesso accade dopo un buon temporale, il cielo era azzurro e limpido. I profumi del giorno erano forti mentre il sole nascente riscaldava la
terra bagnata. Gli uccelli cantavano. Uno stormo di anatre volava verso sud nella luce del mattino. Ai piedi della collina montammo in sella. Riesci a seguirci? chiesi preoccupato a Occhi-di-notte. Farai meglio a sperarlo. Perché senza di me non hai alcuna possibilità di seguire il principe. Una sola fila di tracce equine andava nella direzione da cui eravamo venuti. Impronte pesanti. Cavalcavano in due, veloci quanto Zampabianca poteva portarli. Dove andavano, e perché? Accantonai Lora e il Pezzato. Stavamo cercando il principe. Le tracce di Zampabianca tornavano dove eravamo caduti nell'imboscata il giorno prima. Passando notai che il Pezzato aveva recuperato il suo arco. Poi si erano diretti verso la strada. Le impronte erano ancora profonde nel suolo umido. Dunque avevano proseguito insieme. Le loro non erano le uniche tracce fresche sotto l'albero. Altri due cavalli erano passati dopo la pioggia della notte. Le loro piste incrociavano quelle di Zampabianca. Aggrottai le sopracciglia. Non erano gli inseguitori dal villaggio. Non erano arrivati fin lì; almeno non ancora. Decisi di sperare che la morte degli amici e il tempo pessimo li avessero spinti a tornare indietro. Quelle tracce fresche venivano da nord-ovest, poi giravano e tornavano in quella direzione. Riflettei per qualche tempo, poi la soluzione ovvia mi colpì come una martellata: «Ma certo. L'arciere non aveva un cavallo quando lo abbiamo preso. I Pezzati hanno mandato qualcuno a riprendere la loro sentinella.» Sorrisi ironico. «Almeno ci hanno lasciato una pista chiara da seguire.» Gettai uno sguardo al Matto, ma il suo viso era immobile. Non condivideva la mia esaltazione. «Che succede?» gli chiesi. Mi rivolse un sorriso incerto. «Stavo immaginando come ci sentiremmo se ieri sera avessimo ucciso quel ragazzo, costringendolo a confessare la loro destinazione con la violenza.» Non volevo seguire quel pensiero. Non dissi niente e mi concentrai sulle tracce. Occhi-di-notte e io aprimmo la strada, e il Matto ci seguì. Le cavalle avevano fame, e questo rendeva Mianera particolarmente indisciplinata. Cercava di afferrare foglie di salice venate di giallo e ciuffi d'erba asciutta ogni volta che poteva, e provavo troppa compassione per correggerla. Se fossi stato capace di riempirmi la pancia in quel modo avrei afferrato una manciata di foglie anch'io. Mentre avanzavamo vidi tracce della fretta del cavaliere mentre tornava ad avvertire la compagnia che la sentinella era stata catturata. Ora le im-
pronte seguivano i sentieri ovvi, la via più facile su per una collina, il percorso più chiaro attraverso una lingua di bosco. Il giorno era ancora giovane quando trovammo i resti di un campo al riparo di un boschetto di querce. «Avranno trascorso una notte umida e tormentata» ipotizzò il Matto, e io annuii. Il letto del fuoco mostrava i resti di ciocchi bruciati, spenti dall'acquazzone e mai riaccesi. Una coperta aveva lasciato la sua impronta sulla terra zuppa; chiunque avesse dormito lì aveva dormito bagnato. La terra era calpestata dovunque. Altri Pezzati li avevano attesi lì? Le tracce che si allontanavano si incrociavano tutte. Inutile perdere tempo a cercare di capire. «Se avessimo insistito ieri dopo aver incontrato l'arciere, li avremmo trovati qui» dissi dispiaciuto. «Avrei dovuto immaginarlo. Lo hanno lasciato lì, sapendo che non sarebbero andati molto lontano. Lui non aveva un cavallo. Ora è così ovvio. Dannazione, Matto, ieri il principe era a portata di mano.» «Allora probabilmente lo è anche oggi. Meglio così, Fitz. Il fato ha giocato a nostro favore. Oggi viaggiamo leggeri, e possiamo ancora sperare di sorprenderli.» Aggrottai le sopracciglia mentre studiavo le tracce. «Nulla lascia pensare che Lora e l'arciere siano andati da loro. Quindi loro hanno rimandato indietro qualcuno a prendere la sentinella, e questi è tornato da solo, con le notizie che la sentinella era stata catturata. Difficile dire cosa ne dedurranno, ma decisamente se ne sono andati in fretta, senza l'arciere. Dovremmo presumere che ora stiano in guardia.» Trassi un respiro. «Combatteranno quando tenteremo di prendere il principe.» Mi morsi il labbro, poi aggiunsi: «Meglio supporre che anche il principe lotterà. Anche se non lo fa, non ci aiuterà molto. Era così vago ieri notte...» Scossi il capo e allontanai le preoccupazioni. «Allora qual è il nostro piano?» «Sorprenderli se possiamo, colpirli duro, prendere ciò che vogliamo e scappare in fretta. E cavalcare per Castelcervo a tutta velocità, perché non saremo al sicuro finché non arriveremo lì.» Il Matto seguì il pensiero più oltre di quanto fossi disposto a fare io. «Mianera è forte e veloce. Potresti dover lasciare indietro Malta e me quando avrai il principe. Non esitare.» E anche me. Il Matto lanciò uno sguardo a Occhi-di-notte come se l'avesse udito.
«Non penso di poterlo fare» dissi con cautela. Non temere. Lo proteggerò per te. Sentii una terribile pesantezza nel cuore. Nascosi severamente la preoccupazione: Ma chi proteggerà te? Non avrei permesso che si giungesse a quello, mi promisi. Non avrei lasciato nessuno dei due. «Ho fame» commentò il Matto. Non era una protesta, solo un'osservazione, ma desiderai che non l'avesse detto. Certe cose sono più facili da ignorare che da riconoscere. Proseguimmo, seguendo tracce molto più chiare nella terra inumidita dalla pioggia. Avevano limitato i danni ed erano partiti senza l'arciere, proprio come avevano lasciato uno dei loro a morire quando avevano abbandonato il villaggio. Quella fredda determinazione mi disse chiaramente quanto fosse prezioso il principe per loro. Sarebbero stati disposti a lottare fino alla morte. Potevano anche uccidere il principe, piuttosto che permetterci di prenderlo. Il fatto che sapessimo così poco delle loro motivazioni mi avrebbe costretto a essere totalmente spietato. Scartai l'idea di tentare di parlare con loro. Sospettavo che la loro risposta sarebbe stata lo stesso saluto che l'arciere ci aveva rivolto il giorno prima. Pensai con nostalgia ai tempi in cui avrei mandato avanti Occhi-di-notte per controllare la strada. Ora, con la pista così chiara, il lupo ansimante stava rallentandoci. Riconobbi il momento in cui se ne rese conto, perché sedette all'improvviso accanto alla pista. Trattenni Mianera, e anche il Matto si arrestò. Fratello? Andate avanti senza di me. La caccia è per gli abili e i veloci. Allora devo proseguire senza i miei occhi e il mio naso? E anche senza il tuo cervello, ahimè. Vai, fratellino, e risparmia la tua adulazione per qualcuno che ci crede. Un gatto, magari. Si alzò, e in pochi passi era scomparso fra gli arbusti circostanti nel suo modo ingannevolmente facile, malgrado la stanchezza. Il Matto mi guardò con la coda dell'occhio. «Andiamo avanti senza di lui» dissi piano. Distolsi lo sguardo dai suoi occhi turbati. Spronai leggermente Mianera e proseguimmo, ora più veloci. Spingemmo le cavalle, e le tracce di fronte a noi si fecero più visibili. A un ruscello ci fermammo ad abbeverare le cavalle e riempire gli otri. C'erano more tardive, acide e dure, come quelle che maturano all'ombra, senza il calore diretto del sole ad addolcirle. Malgrado questo ne mangiammo a manciate, contenti di masticare e ingoiare qualcosa, qualsiasi cosa. A ma-
lincuore ne lasciammo qualcuna fra i cespugli, montando appena le cavalle ebbero saziato abbastanza la sete. Proseguimmo. «Io ne distinguo sei» osservò il Matto mentre cavalcavamo. Annuii. «Almeno sei. C'erano tracce di gatto vicino all'acqua. Due taglie diverse.» «Sappiamo che uno ha un cavallo da guerra. Dobbiamo aspettarci almeno un grosso guerriero?» Scrollai le spalle con riluttanza. «Penso che dobbiamo aspettarci di tutto. Anche più di sei avversari. Cavalcano verso un luogo sicuro, Matto. Forse un insediamento di Antico Sangue, o una roccaforte di Pezzati. E forse proprio ora ci stanno sorvegliando.» Gettai uno sguardo verso l'alto. Non avevo osservato uccelli che ci prestassero attenzione indebita, ma non voleva dire che non ce ne fossero. Con quelli che inseguivamo, un uccello in volo o una volpe in un cespuglio poteva essere una spia. Non potevamo dare nulla per scontato. «Da quanto ti capita?» chiese il Matto mentre cavalcavamo. «Di condividere i sogni con il principe?» Non avevo l'energia per tentare di fingere con lui. «Oh, da diverso tempo.» «Anche prima della notte in cui sognasti che era a Rocca Bufera?» Risposi con riluttanza. «Avevo già fatto qualche sogno strano. Non avevo capito che era il principe.» «Non me lo avevi detto. Solo che avevi sognato di Molly e Burrich e Urtica.» Si schiarì la gola e aggiunse: «Ma Umbra mi aveva fatto cenno ad alcuni dei suoi sospetti.» «Davvero?» Non fui contento di saperlo. Non mi piacque pensare che Umbra e il Matto parlassero di me alle mie spalle. «Era sempre il principe? Solo lui? Ci sono stati altri sogni?» Il Matto tentò di celare la profondità del suo interesse, ma lo conoscevo da troppo tempo. «A parte i sogni che già conosci?» temporeggiai. Riflettei in fretta su quanta verità condividere. Mentire al Matto era fatica sprecata. Se ne accorgeva sempre e riusciva a dedurre la verità. Limitare la sua conoscenza era la migliore tattica. E non mi feci scrupoli, perché era il sistema che spesso lui usava contro di me. «Sai che ho sognato di te. E come ti ho detto, una volta ho sognato Burrich con chiarezza, tanto che quasi sono andato da lui. Sono come i sogni che ho fatto sul principe, direi.» «Allora non sogni draghi?»
Credevo di sapere cosa intendeva. «Veritas-il-drago? No.» Distolsi lo sguardo dai suoi occhi gialli e acuti. Piangevo ancora il mio re. «Anche quando ho toccato la pietra che lo aveva contenuto non ho sentito alcuna traccia di lui. Solo quel distante ronzio dello Spirito, come un alveare nelle viscere della terra. No. Neppure nei miei sogni riesco a trovarlo.» «Allora non sogni draghi?» insisté il Matto. Sospirai. «Probabilmente non più di chiunque altro. O di chiunque visse quell'estate e li guardò volare nei cieli dei Sei Ducati. Chi avrebbe potuto vedere una cosa simile, e non sognarla mai?» E quale bastardo drogato di Arte avrebbe potuto guardare Veritas intagliare il drago ed entrarci, e non sognare una fine così? Fluire nella pietra, assumerla come carne, e spiccare il volo per solcare i cieli del mondo. Certo, a volte sognavo di essere un drago. Sospettavo, no, sapevo che giunto alla vecchiaia avrei compiuto un futile viaggio nelle Montagne e sarei tornato alla cava. Ma come Veritas, non avrei avuto una confraternita per assistermi nell'intaglio del mio drago. Sapevo di non poter riuscire, e in qualche modo non mi importava. Non potevo immaginare altra morte che una dedicata al tentativo di scolpire un drago. Proseguii confuso, cercando di ignorare le strane occhiate che il Matto mi indirizzava. Non meritavo il successivo colpo di fortuna, ma ne fui contento lo stesso. Quando giungemmo all'imboccatura di una valletta, uno scherzo del terreno mi lasciò intravedere la nostra preda. La stretta valle boscosa era divisa da un rumoroso corso d'acqua gonfiato dal temporale della notte. Loro stavano guadando. Per vederci avrebbero dovuto girarsi sulla sella e guardare in alto. Tirai le redini, facendo segno al Matto di fare altrettanto, e osservai in silenzio la compagnia sotto di noi. Sette cavalli, uno senza cavaliere. Due donne e tre uomini, uno su un cavallo immenso. Tre gatti, non due, anche se, a discolpa delle mie abilità di cacciatore, due erano di dimensioni simili. Viaggiavano dietro alle selle dei proprietari. La più piccola cavalcava dietro a un ragazzo dai capelli scuri, avvolto in un ampio mantello color blu di Castelcervo. Il principe. Devoto. Il disgusto della gatta per l'acqua era evidente dalla posa rigida e dagli unghioli conficcati nel cuscino. Li scorsi solo per un istante, e provai uno strano stordimento. Poi i rami degli alberi li nascosero. Mentre osservavo, la donna in coda e il suo cavallo uscirono barcollando dal letto roccioso del torrente e proseguirono sulle lisce rive argillose. Svanirono nella foresta, e mi chiesi se era lei l'amata del principe. «Sul grosso cavallo c'era un uomo altrettanto grosso» osservò il Matto
con riluttanza. «Sì. E lotteranno come una cosa sola. Sono legati, quei due.» «Come fai a dirlo?» chiese lui, curioso. «Non lo so» risposi onestamente. «È come vedere una vecchia coppia sposata al mercato. Non c'è bisogno che qualcuno te lo dica. Lo vedi e basta, da come si muovono insieme e come si parlano.» «Un cavallo. Bene, questo può presentare una sfida che non mi ero aspettato.» Toccò a me gettargli un'occhiata confusa, ma lui distolse lo sguardo. Li seguimmo, ma più cauti. Volevamo tenerli d'occhio senza essere visti. Non sapevamo dove andavano, quindi non potevamo superarli e intercettarli, neppure se il terreno selvaggio e dissestato ce lo avesse permesso. «Meglio aspettare che si fermino per la notte, e poi prendere il principe» suggerì il Matto. «Due problemi» risposi. «Al crepuscolo potremmo raggiungere la loro meta, ma potrebbe essere un luogo fortificato, o con molti più compagni. E se si accampano di nuovo metteranno sentinelle, proprio come hanno fatto prima. Dovremmo superarli.» «Quindi qual è il tuo piano?» «Aspettiamo che si fermino» ammisi cupo. «Se prima non vediamo una migliore occasione.» La mia premonizione di disastro crebbe mentre il pomeriggio passava. La pista che seguivamo mostrava tracce che non erano solo cervi e conigli. Quel sentiero conduceva da qualche parte, una città o un villaggio, o almeno un luogo di incontro. Non osavo più aspettare che si accampassero al crepuscolo. Ci avvicinammo come ombre. Il terreno irregolare ci favoriva: appena loro cominciarono a scendere dal crinale, riuscimmo ad avventurarci più vicino. Diverse volte dovemmo lasciare il sentiero battuto per stare nascosti sotto il crinale, ma le nostre prede sembravano fiduciose di trovarsi in territorio più sicuro. Non si voltavano spesso. Studiai il loro ordine di marcia mentre apparivano e sparivano fra gli alberi. L'uomo sul grosso cavallo apriva la strada, seguito dalle due donne. La seconda conduceva il cavallo senza cavaliere. Il nostro principe era quarto, con la gatta dietro di lui sulla sella. Lo seguivano gli altri due uomini con i loro gatti. Cavalcarono come gente determinata a coprire molta distanza prima del crepuscolo. «Assomiglia a te da ragazzo» osservò il Matto mentre ancora una volta li guardavamo sparire alla vista.
«A me ricorda Veritas» ribattei. Era così. Il ragazzo sembrava Veritas, ma sembrava ancor di più il ritratto di mio padre. Come decidere se somigliava a me alla sua età? A quell'epoca avevo visto di rado uno specchio. Aveva i capelli scuri e folti, ribelli come i miei e quelli di Veritas. Mi chiesi brevemente se mio padre avesse mai lottato per lisciarli con un pettine. Nel suo ritratto, l'unica immagine che conoscevo di lui, era in perfetto ordine. Come mio padre, il giovane principe era longilineo, più magro del tarchiato Veritas, ma forse si sarebbe irrobustito crescendo. Sedeva bene a cavallo. E proprio come avevo notato l'uomo sul grande cavallo, notai il legame con la gatta che cavalcava dietro al principe. Devoto teneva la testa inclinata indietro, come per essere sempre consapevole dell'animale. La gatta era la più piccola dei tre, ma più grossa di quanto mi aspettassi. Aveva le zampe lunghe e il colorito bronzeo, un pelo fremente screziato. Seduta sul cuscino della sella, ben aggrappata con gli artigli, la cima della testa raggiungeva la nuca del principe. Girava la testa da un lato all'altro mentre cavalcavano, osservando tutto ciò che superavano. La sua posa diceva che era stanca di cavalcare, che avrebbe preferito attraversare quella terra da sola. Sbarazzarsi di lei poteva essere la parte più difficile dell'intero «salvataggio». Eppure neanche per un istante considerai di riportarla indietro a Castelcervo con il principe. Per il suo bene, Devoto andava separato dalla sua bestia, proprio come Burrich aveva un tempo costretto Nasuto e me a dividerci. «Non è un legame saldo. Non sembra tanto legato quanto catturato. O incantato, suppongo. La gatta lo domina. Eppure... non è la gatta. C'entra una di quelle donne, forse una maestra dello Spirito come Rolf il Nero era per me, che lo incoraggia a gettarsi nel suo legame dello Spirito con intensità innaturale. E il principe è così infatuato che ha sospeso ogni giudizio. È quello che mi preoccupa.» Guardai il Matto. Avevo pronunciato ad alta voce il pensiero, senza preambolo, ma come spesso sembrava fra noi, la sua mente aveva seguito la stessa pista. «Dunque. Sarà più facile buttar giù la gatta e prendere principe e cavallo, o afferrare il principe e tenerlo su Mianera con te?» Scossi il capo. «Te lo dirò dopo che l'avremo fatto.» Era un tormento seguirli così, confidando in un'occasione che poteva non arrivare. Mi sentivo stanco e affamato, e il mio mal di testa della notte non si era placato del tutto. Sperai che Occhi-di-notte fosse riuscito a trovare cibo e riposo. Volevo raggiungerlo con il pensiero, ma non osavo,
perché temevo che i Pezzati si accorgessero di me. Il nostro percorso ci aveva condotti su per le colline accidentate. La dolce pianura del fiume Cervo era lontana dietro di noi. Mentre il tardo pomeriggio rubava al giorno la forza del sole, vidi quella che poteva essere la nostra unica occasione. La compagnia di Pezzati cavalcava stagliandosi contro un crinale. La loro pista portava a un sentiero ripido che scendeva lungo la parete a picco di una nuda collina rocciosa. Alzandomi sulle staffe e osservando nella luce calante, decisi che i cavalli avrebbero dovuto imboccarlo in fila indiana. Lo feci notare al Matto. «Dobbiamo raggiungerli prima che il principe cominci a scendere» gli dissi. Sarebbe stato un rischio. Li avevamo già lasciati allontanare troppo nello sforzo di rimanere nascosti. Misi i talloni ai fianchi di Mianera, e la cavalla balzò in avanti, con la piccola Malta dietro di noi. Certi cavalli sono veloci solo su un tratto piano e diritto. Mianera si dimostrò altrettanto capace sul terreno accidentato. I Pezzati avevano preso la via più facile, seguendo il crinale. Una gola dalle pareti ripide, densa di arbusti e alberi, si apriva tra loro e noi. Potevamo tagliar via un bel pezzo di strada scendendo per poi risalire. Toccai Mianera con le ginocchia e lei aggredì il pendio pieno di erbacce, traversò il torrente in fondo fra gli schizzi e si arrampicò sull'altro lato attraverso un'erba muschiosa che cedeva sotto gli zoccoli. Non guardai indietro per vedere come se la cavavano Malta e il Matto. Cavalcai basso sulla sua groppa, evitando i rami che mi avrebbero disarcionato. Ci sentirono arrivare e accelerarono. Indubbiamente sembravamo più una mandria di alci o una truppa intera di guardie che un solo cavaliere deciso a intercettarli. Li raggiungemmo all'ultimo momento. Il grosso cavallo di testa aveva appena cominciato a discendere la cornice stretta e ripida attraverso il fianco della collina, seguito dalle due donne e dal cavallo senza cavaliere. Gli ultimi tre portavano i gatti dietro la sella. Il cavaliere in coda si girò per incontrare la mia carica con un grido, mentre il penultimo spingeva avanti il principe per fargli imboccare più in fretta la cornice. Mi schiantai contro il cavaliere, più per caso che per tattica. Il pietrisco rendeva infido il terreno montuoso. Mentre Mianera, più grossa, dava una spallata al cavallo, il gatto balzò dal cuscino ululando minaccioso, atterrò più in basso rispetto a noi e annaspò scivolando per sottrarsi agli zoccoli pesanti dei cavalli agitati. Avevo estratto la spada. Spronai Mianera, che allontanò facilmente il cavallo dal sentiero, e trafissi il cavaliere mentre tentava di estrarre un
brutto coltello seghettato. L'uomo lanciò un grido, echeggiato dal gatto, e cominciò a cadere lentamente di sella. Non ci fu tempo per rimorsi o ripensamenti, perché mentre avanzavamo il secondo cavaliere si girò per affrontarci. Udivo grida confuse di donne, e in alto volteggiava un corvo, gracchiando furiosamente. La stretta cornice correva fra una parete di pietra nuda a monte e un pendio sdrucciolevole di pietrisco a valle. L'uomo sul cavallo da guerra gridava domande a cui nessuno rispondeva, e ordinava che le donne indietreggiassero e gli lasciassero spazio per combattere. Il sentiero era troppo stretto per girare il grosso cavallo, che tentava di arretrare lungo la cornice affollata mentre le donne sui cavalli più piccoli dietro di lui tentavano di superarlo e togliersi dalla mischia. Il cavallo senza cavaliere stava tra le donne e il principe. Una donna gridò a Devoto di affrettarsi proprio mentre l'uomo sul grande cavallo chiedeva spazio. La bestia evidentemente condivideva la sua opinione. I massicci quarti posteriori opprimevano il cavallo più piccolo dietro di lui. Qualcuno doveva spostarsi, e la direzione migliore era verso il basso. «Principe Devoto!» tuonai, e mentre Devoto si girava verso di me, Mianera urtò con il petto il sedere del cavallo che stava fra me e lui. Il gatto dietro alla sella aprì le fauci in un ringhio ululante e cercò di colpire il muso di Mianera. Indignata e allarmata, la cavalla si impennò e gettò indietro la testa. La schivai per un pelo. Quando ricadde colpì con gli zoccoli i quarti posteriori dell'altro cavallo. Fece poco danno, ma innervosì il gatto, che saltò dal cuscino. Il cavaliere si era girato per affrontarci, ma la sua spada era troppo corta per colpirmi. La cavalla del principe era ferma all'imboccatura della stretta cornice. Il cavallo senza cavaliere di fronte a lui tentava di indietreggiare, ma il principe non aveva spazio. La sua gatta ringhiava di rabbia, senza sapere dove sfogarsi. La guardai, e provai la strana sensazione di vederci doppio. Per tutto il tempo l'uomo sul grande cavallo urlava e imprecava, chiedendo furiosamente che gli altri si levassero dai piedi. Non potevano obbedirgli. Il cavaliere con cui lottavo riuscì a girare il cavallo sul magro lembo di terra che portava alla cornice, ma quasi calpestò il gatto. La bestia soffiò e tentò ferocemente di colpire Mianera, che si allontanò con grazia dagli artigli minacciosi. Il gatto sembrava atterrito; di certo la mia cavalla e io eravamo molto più grandi delle sue prede abituali. Approfittai di quell'esitazione, spronando Mianera. Il gatto indietreggiò proprio sotto gli zoccoli del cavallo del suo compagno, e la bestia, riluttante a calpestare la creatura familiare, a sua volta arretrò urtando contro la cavalla del principe.
Sulla cornice il cavallo di una delle donne nitrì in preda al panico, echeggiato dal grido della proprietaria, e perse l'equilibrio tentando di non farsi buttare di sotto dal cavallo da guerra che indietreggiava deciso verso di noi. La giovane calciò via le staffe e cercò di smontare, la schiena premuta contro la parete di roccia; nel tentativo frenetico di riguadagnare il terreno solido, il cavallo spaventato inciampò di lato e poi cadde oltre l'orlo. Scivolò giù per il pendio ripido, dapprima piano, annaspando per fermare la caduta e riuscendo solo ad allentare un'altra cascata di ghiaietto. I fragili alberelli che avevano messo radici nel suolo scarso e nelle fessure delle pietre si spezzarono mentre il cavallo precipitava. L'animale gridò orrendamente quando un alberello più robusto degli altri lo trafisse e arrestò la sua caduta. La povera bestia lottò per liberarsi e si strappò via, solo per scivolare di nuovo. Udii altri rumori dietro di me. Senza girarmi capii che il Matto era arrivato, e che lui e Malta stavano impegnando l'altro gatto. Contavo che il suo compagno fosse ancora a terra. Il mio colpo di spada era andato a fondo. La mia spietatezza divampò. Non riuscivo a colpire il cavaliere, ma il suo gatto che soffiava e minacciava Mianera era alla mia portata. Chinandomi gli menai un affondo. La creatura balzò via, ma gli avevo inflitto una lunga ferita poco profonda lungo il fianco. Fui ricompensato da grida di rabbia e dolore da lui e dal compagno umano. L'uomo vacillò per il dolore del suo gatto, e per uno strano momento percepii le maledizioni dello Spirito che mi scagliavano. Chiusi la mente, spronai Mianera e andai a urtare il cavallo. Cercai di trafiggere il cavaliere; questi tentò di schivare la mia lama ma cadde di sella. Senza cavaliere, spaventato, il suo cavallo fu fin troppo contento di fuggire nel momento in cui Mianera gli lasciò spazio. A sua volta la cavalla del principe indietreggiò dalla lotta e passò dal sentiero ripido alla piccola lingua di terra. La gatta del principe aveva gonfiato il pelo e ora mi affrontava con un ringhio incollerito. C'era qualcosa di sbagliato in lei, qualcosa di deforme che mi atterrì. Mentre cercavo di capire cosa fosse, il principe girò la cavalla e mi trovai faccia a faccia con il giovane Devoto. Ho sentito persone descrivere momenti in cui il tempo sembra fermarsi. Se solo fosse stato così per me. All'improvviso affrontavo un giovane che fino a quel momento era stato per me poco più che un nome associato a un'idea. Quello era il mio viso. Era il mio viso al punto che conoscevo la zona
sotto il mento dove la barba cresceva in una strana direzione e sarebbe stata difficile da radere, una volta cresciuto abbastanza per radersi. Aveva la mia mascella, e il naso che avevo avuto da ragazzo, prima che Regal me lo fracassasse. I denti, come i miei, erano scoperti in un ringhio bellicoso. L'anima di Veritas aveva piantato il seme nella sua giovane moglie per concepire quel ragazzo, ma la sua carne era stata plasmata dalla mia. Guardai in viso il figlio che non avevo mai visto o rivendicato, e un legame si formò all'improvviso come lo scatto freddo di una manetta. Se il tempo si fosse fermato, sarei stato pronto per il gran fendente che mi allungò. Ma mio figlio non condivise il mio attimo di sbalordito riconoscimento. Attaccò come sette demoni, e il suo grido di battaglia era il miagolio ululante di un gatto. Quasi caddi di sella per evitare la lama. Anche così mi lacerò la tunica, lasciando un filo pungente di dolore sulla sua scia. Mentre mi raddrizzavo la gatta mi saltò addosso, urlando come una donna. Mi girai verso il suo assalto furioso e la colpii a mezz'aria con il gomito e il braccio. Urlai di orrore quando mi arrivò addosso. Prima che potesse aggrapparsi la scagliai in faccia al cavaliere che avevo appena disarcionato. La gatta ululò e cadde con lui. Emise uno strillo acuto quando l'uomo le crollò addosso, poi si tirò fuori con le unghie per allontanarsi zoppicando dai tonfi degli zoccoli di Mianera. Lo sguardo del principe seguì con orrore la sua gatta. Era l'apertura che mi serviva. Gli strappai la spada di sorpresa. Devoto si aspettava che lo aggredissi. Non era pronto quando afferrai le redini e presi il controllo della sua cavalla. Toccai Mianera con le ginocchia, e incredibilmente lei rispose, girandosi. La spronai e balzò al galoppo. La cavalla del principe ci seguì di buon grado. Era ansiosa di sfuggire al rumore e al combattimento, e andare dietro a un altro cavallo le stava benissimo. Penso che gridai al Matto di scappare. Non so come, ma sembrava tenere a bada il Pezzato che era stato graffiato dalla gatta. L'uomo sul cavallo da guerra tuonò che stavamo portando via il principe, ma il grappolo di persone in lotta, cavalli e gatti non poteva far niente. Con la spada ancora in pugno, fuggii. Non potevo permettermi di voltarmi a guardare se il Matto mi seguiva. La cavalla del principe, a collo teso, non poteva tener dietro a Mianera, ma la costrinsi ad andare veloce come poteva. Allontanai Mianera dal sentiero e la condussi a rompicollo giù per una proda ripida e poi attraverso la campagna. Cavalcammo attraverso arbusti
che ci graffiavano, e ci arrampicammo su per erte colline rocciose e giù per terreni dove uno sano di mente sarebbe smontato e avrebbe condotto il cavallo a piedi. Sarebbe stato un suicidio se il principe fosse balzato dal cavallo. Il mio solo piano era mettere quanta più distanza possibile tra noi e i suoi compagni. Quando riuscii a gettare uno sguardo indietro, Devoto si teneva fieramente aggrappato alla sua cavalla, la bocca piegata in una smorfia ringhiosa e lo sguardo distante. Da qualche parte, lo sentivo, una gatta furibonda ci inseguiva. Mentre scendevamo un pendio ripido in una serie di salti e scivolate, sentii un frastuono tra gli arbusti dietro e sopra di noi. Udii un grido di incoraggiamento, e riconobbi la voce del Matto che esortava Malta ad accelerare. Il mio cuore sobbalzò di sollievo. Ai piedi della collina trattenni Mianera per un istante. La cavalla del principe era già fradicia, la schiuma bianca gocciolava dal morso. Dietro di lei, il Matto fermò Malta. «Sei tutto intero?» chiesi in fretta. «Così sembra» riconobbe il Matto. Si raddrizzò il colletto e lo allacciò. «E il principe?» Entrambi guardammo Devoto. Mi aspettavo rabbia e sfida. Invece il ragazzo vacillò sulla sella, gli occhi spenti. Il suo sguardo vagò dal Matto a me e di nuovo al Matto. Osservò il mio viso, e corrugò la fronte come se vi avesse visto un enigma. «Mio principe?» chiese preoccupato il Matto, e in quell'istante il tono era quello di messer Dorato. «State bene?» Per un momento Devoto si limitò a fissarci. Poi il suo viso si animò. «Devo tornare indietro!» gridò all'improvviso, disperato. Fece per togliere il piede dalla staffa. Spronai Mianera, e ripartimmo. Sentii il suo grido costernato, e voltandomi lo vidi aggrapparsi freneticamente alla sella mentre tentava di tenersi in arcioni. Con il Matto alle calcagna, fuggimmo. 22 Scelte Le leggende del Catalizzatore e del Profeta Bianco non sono originarie dei Sei Ducati. Anche se alcuni studiosi nei Sei Ducati sono al corrente delle scritture e della sapienza di quella tradizione, le sue radici affondano nelle lontane terre del sud, perfino oltre i territori di Jamaillia e delle Isole delle Spezie. Non è propriamente una religione, è più un concetto di storia e di filosofia. Secondo coloro che ci credono, il tempo è una grande
ruota che gira in un solco di eventi predeterminati. Lasciato a sé stesso scorre in eterno, e tutto il mondo è condannato a ripetere un ciclo di eventi che ci conduce sempre più nel cuore dell'oscurità e della degradazione. I seguaci del Profeta Bianco credono che in ogni era nasca uno che ha la visione per indirizzare il tempo e la storia in un corso migliore. Lo si riconosce dalla pelle bianca e dagli occhi incolori. Si dice che nel Profeta Bianco si esprima di nuovo il sangue delle linee antiche dei Bianchi. Per ogni Profeta Bianco c'è un Catalizzatore. Solo il Profeta Bianco di quella particolare era può predire chi è il Catalizzatore. Il Catalizzatore è nato in una posizione unica per alterare, sia pure di poco, eventi prestabiliti che a loro volta convogliano il tempo su altri percorsi, facendo divergere sempre di più le possibilità. Insieme a questo Catalizzatore, il Profeta Bianco opera per deviare il corso del tempo su un cammino migliore. Caterhill, Filosofie Non potevamo mantenere quel ritmo all'infinito, era ovvio. Ben prima che mi sentissi al sicuro, la condizione dei cavalli ci costrinse a farli riposare. I suoni dell'inseguimento si erano affievoliti dietro di noi; un cavallo di guerra non è un corridore. Mentre la sera si trasformava in vero buio intorno a noi facemmo andare i cavalli al passo lungo un torrente serpeggiante. La cavalla del principe riusciva appena a tenere la testa ritta. Una volta disperso il calore con la camminata, avremmo dovuto fermarci per un po' di tempo. Cavalcavo chino sulla sella per evitare gli ampi rami dei salici che fiancheggiavano il ruscello. Gli altri mi seguivano. Quando avevamo fatto rallentare i cavalli, avevo temuto che il principe tentasse una rapida fuga. Ma non lo aveva fatto. Sedeva in sella in un torvo silenzio mentre io conducevo la sua cavalla. «Attenti al ramo» avvertii Devoto e messer Dorato quando mi impigliai in un ramo basso sotto cui si era spinta Mianera. Tentai di evitare che colpisse in faccia al principe. «Chi siete?» chiese d'un tratto Devoto a voce bassa. «Non mi riconoscete, mio signore?» chiese messer Dorato con ansia. Notai il suo sforzo di distrarre da me l'attenzione del principe. «Non voi. Lui. Chi è? E perché avete assaltato così me e i miei amici?» C'era un'accusa sorprendentemente profonda nella sua voce. All'improvvi-
so sedette più diritto in sella, come scoprendo solo allora la rabbia. «Abbassate la testa» lo avvertii mentre lasciavo andare un altro ramo. Devoto obbedì. Messer Dorato parlò. «Quello è il mio servitore, Tom lo Striato. Siamo venuti per riportarvi a casa a Castelcervo, principe Devoto. La regina vostra madre è stata molto preoccupata per voi.» «Non desidero tornarci.» Con ogni frase il giovane stava riprendendosi. C'era dignità nella sua voce. Aspettai che messer Dorato rispondesse, ma i tonfi e gli schizzi degli zoccoli nel ruscello e il fruscio e lo scricchiolio dei rami erano gli unici suoni. Alla nostra destra si aprì all'improvviso un prato. Alcuni tronchi anneriti e contorti erano i soli segni di un incendio in quella zona, anni prima. Erbe alte dalle spighe di semi bruniti si mescolavano alla lanugine dei soffioni. Allontanai i cavalli dal ruscello e li condussi nell'erba. Quando guardai il cielo, era buio abbastanza per mostrare una manciata di prime stelle. La luna calante non sarebbe apparsa fino a notte fonda, ma l'oscurità sempre più fonda sottraeva colore al giorno, trasformando la foresta in un nero groviglio impenetrabile. Li condussi al centro del prato, ben lontani dal confine della foresta, prima di trattenere Mianera. Qualsiasi assalitore avrebbe dovuto attraversare una zona allo scoperto prima di raggiungerci. «Meglio fermarsi finché non sorge la luna» osservai a messer Dorato. «Sarà già abbastanza difficile procedere allora.» «Sarà sicuro?» Scrollai le spalle. «Sicuro o no, penso che sia necessario. I cavalli sono quasi sfiniti, e sta venendo buio. Penso che abbiamo guadagnato un buon vantaggio. Quel cavallo da guerra è forte, ma non rapido o agile. Il terreno che abbiamo coperto lo sgomenterà. E i Pezzati dovranno abbandonare i feriti, dividere il gruppo o seguirci più lentamente. Abbiamo un momento di respiro.» Guardai di nuovo il principe prima di smontare. Sedeva con le spalle curve, ma la rabbia nel suo sguardo rivelava che non era affatto sconfitto. Aspettai finché non rivolse gli occhi scuri ai miei, poi gli parlai. «Sta a voi. Possiamo trattarvi bene e semplicemente riportarvi a Castelcervo. O potete comportarvi da bambino testardo e tentare di tornare dai vostri amici dello Spirito. In tal caso vi darò la caccia, e vi riporterò a Castelcervo con le mani legate. Scegliete.» Il principe mi fissò, un piatto sguardo di sfida, la cosa più sfrontata che un animale possa fare a un altro. Non parlò. Mi offese a tanti livelli che
riuscii a malapena a controllare la rabbia. «Rispondete!» ordinai. Devoto socchiuse gli occhi. «E voi chi siete?» Il tono trasformò in insulto la domanda ripetuta. In tutti gli anni in cui lo avevo curato e allevato, Ticcio non mi aveva mai provocato tanta rabbia come quel ragazzo aveva subito suscitato in me. Feci girare Mianera. Ero più alto di Devoto, per cominciare, e la differenza nelle nostre cavalcature faceva sì che lo sovrastassi. Urtai lui e la sua cavalla, chinandomi su di lui per guardarlo dall'alto come un lupo che impone la sua autorità su un cucciolo. «Sono quello che vi sta riportando a Castelcervo. In un modo o nell'altro. Accettatelo.» «Striato» cominciò messer Dorato in tono ammonitore, ma era tardi. Devoto si mosse, un piccolo flettere di muscoli che mi avvertì. Senza pensare a niente mi lanciai su di lui dalla groppa di Mianera. Il mio impeto ci scaraventò entrambi giù dalle cavalle. Atterrammo nell'erba folta, fortunatamente per Devoto, perché gli caddi addosso, bloccandolo abilmente come se fosse stata una mossa prevista. Le cavalle sbuffarono e si scostarono, ma erano troppo stanche per scappare. Mianera trottò per alcuni passi, a ginocchia alte, mi sbuffò un secondo rimprovero e lasciò cadere il muso nell'erba. La cavalla del principe, che quel giorno aveva sempre seguito la mia, seguì il suo esempio. Mi misi a cavalcioni sul torace del principe, bloccandogli entrambe le braccia. Sentii che messer Dorato smontava, ma non girai neanche la testa. Fissai in silenzio Devoto. Da come si sollevava il suo petto sentivo che lo avevo lasciato senza fiato, ma si ostinò a non proferire parola. E non volle incontrare i miei occhi, neppure quando gli presi il coltello e lo gettai sdegnosamente nella foresta. Fissò il cielo finché non gli afferrai il mento e lo costrinsi a guardarmi in faccia. «Scegliete» gli dissi di nuovo. Mi guardò negli occhi, distolse lo sguardo, poi incontrò di nuovo il mio. Quando guardò altrove una seconda volta, sentii che parte del desiderio di lottare lo stava abbandonando. Poi il suo volto si contorse in una maschera di disperazione mentre fissava dietro di me. «Ma devo tornare da lei» ansimò. Inspirò a fatica, e tentò di spiegare. «Non mi aspetto che capiate. Siete solo un cane da caccia mandato a ritrovarmi e trascinarmi indietro. Sapete solo fare il vostro dovere. Ma io devo andare da lei. Lei è la mia vita, il mio respiro... la mia completezza. Dobbiamo essere insieme.» Bene, non sarà così. Per poco non lo dissi, ma mi trattenni. In tono
pragmatico risposi: «Capisco, davvero. Ma questo non cambia ciò che devo fare. Non cambia ciò che voi dovete fare.» Lo lasciai andare mentre messer Dorato si avvicinava. «Striato, quello è il principe Devoto, erede al trono dei Lungavista» mi ricordò brusco. Decisi di recitare il ruolo che mi suggeriva. «Ed è per quello che ha ancora tutti i denti, mio signore. La maggior parte dei ragazzi che mi minacciano con un coltello sono fortunati se gliene rimane qualcuno.» Tentai di sembrare torvo e spietato. Il ragazzo doveva pensare che messer Dorato mi tenesse a un guinzaglio corto. Doveva temere che non fossi del tutto sotto il controllo del nobiluomo. Avrei avuto un certo potere su di lui. «Io penso ai cavalli» li informai, e mi allontanai a lunghi passi nel buio. Tenni un occhio e un orecchio verso il Matto e il principe mentre toglievo le selle e i morsi e asciugavo le cavalle con manciate d'erba. Devoto si alzò lentamente, disdegnando la mano che messer Dorato gli offriva. Si spazzolò i vestiti, e quando Dorato chiese se era ferito, rispose con fredda cortesia che stava bene quanto si poteva immaginare. Messer Dorato si allontanò un poco, per studiare la notte e permettere al ragazzo di ritrovare la dignità ferita. In breve le cavalle pascolavano avidamente come se non avessero mai visto l'erba. Misi le selle in fila. Presi le coperte dalla borsa da sella di Mianera e cominciai a preparare i giacigli vicino ai cavalli. Se possibile avrei rubato un'ora di sonno. Il principe mi guardava. Dopo un momento chiese: «Non accendete il fuoco?» «Così i vostri amici ci troveranno più facilmente? No.» «Ma...» «Non fa così freddo. E non abbiamo cibo da cuocere, comunque.» Scossi l'ultima coperta, poi gli chiesi: «Avete coperte nella vostra borsa da sella?» «No» ammise tristemente Devoto. Disposi le coperte per fare in modo di ottenere tre giacigli invece di due. Lo vedevo riflettere. Poi aggiunse: «Io ho cibo. E vino.» Trasse un respiro, poi disse: «Sembra uno scambio equo per una coperta.» Lo tenni d'occhio mentre si avvicinava e cominciava ad aprire le borse da sella. «Mio principe, ci giudicate male. Non penseremmo di farvi dormire sulla nuda terra» protestò con orrore messer Dorato. «Voi forse no, messer Dorato. Ma lui sì.» Mi gettò uno sguardo ostile e aggiunse: «Non mi concede neanche una normale cortesia, tanto meno il rispetto che un servitore dovrebbe avere per il suo sovrano.»
«È un uomo grezzo, mio principe, ma un buon domestico.» Messer Dorato mi diede un'occhiata ammonitrice. Abbassai volutamente gli occhi, ma mormorai: «Rispettare un sovrano? Forse. Ma non un ragazzo fuggiasco che abbandona il suo dovere.» Devoto prese fiato come per rispondere con rabbia. Poi emise un sibilo, ma trattenne l'ira. «Non sapete di cosa parlate» disse freddo. «Non sono fuggito.» Il tono di messer Dorato era molto più gentile del mio. «Perdonatemi, mio signore, ma così ci è sembrato. Dapprima la regina temeva che foste stato rapito. Ma non sono arrivate richieste di riscatto. Lei non voleva allarmare i nobili, o offendere la delegazione di Isolani in arrivo per il trattato. Certamente non avete dimenticato che fra nove notti la luna nuova annuncerà il vostro fidanzamento? La vostra assenza sarebbe un insulto. La regina dubita che questa sia la vostra intenzione. Non ha mandato le guardie a cercarvi, come avrebbe potuto fare. Preferendo la discrezione, mi ha chiesto di trovarvi e riportarvi a casa sano e salvo. E quello è il nostro unico scopo.» «Non sono fuggito» si ostinò a ripetere il principe, e vidi che l'accusa l'aveva colpito più di quanto sospettassi. Nondimeno aggiunse testardo: «Ma non ho alcuna intenzione di tornare a Castelcervo.» Aveva preso una bottiglia di vino dal fagotto. Poi tirò fuori il cibo. Pesce affumicato avvolto nel lino, diverse fette di torta di miele dalla crosta dura e due mele; non erano razioni da viaggio, piuttosto il pasto gustoso che compagni fedeli avrebbero fornito per il ristoro di un principe. Spiegò il lino sull'erba e, pulito come un gatto, divise il cibo in tre porzioni e lo dispose sul tovagliolo. Mi parve un bel gesto, una manifestazione di natura cortese in un ragazzo in una situazione sgradevole. Stappò il vino e lo mise in mezzo. Con un cenno ci invitò, e non esitammo ad accettare. Era poco, ma assai gradito. La torta di miele era pesante, grassa e ricca di uvetta. Mi riempii la bocca con metà della mia fetta e tentai di masticare piano. Avevo una fame feroce. Eppure, perfino mentre addentavamo il cibo, il principe, meno affamato, parlò seriamente. «Se tentate di costringermi a tornare con voi, finirete male. I miei amici verranno a cercarmi, sapete. Lei non mi abbandonerà così facilmente, né io abbandonerò lei. E non desidero vedervi feriti. Neppure voi» aggiunse, incontrando il mio sguardo. Avevo pensato che intendesse le parole come una minaccia. Invece sembrava sincero quando disse: «Devo andare con lei. Non sono un ragazzo che fugge dal suo dovere, né un uomo che rinun-
cia a un matrimonio organizzato. Non sto evitando un'imposizione spiacevole. Sto cercando l'unione che mi è destinata... fin dalla nascita.» La sua circostanziata spiegazione mi fece pensare a Veritas. I suoi occhi si spostarono lentamente da me a messer Dorato per poi tornare a fissarsi su di me. Sembrava cercare un alleato, o almeno un orecchio comprensivo. Si leccò le labbra, come per prepararsi a correre un rischio. Molto quietamente chiese: «Avete mai sentito la storia del principe Pezzato?» Tacemmo entrambi. Ingoiai il cibo che aveva perso ogni sapore. Era impazzito? Poi messer Dorato annuì, una sola volta, lentamente. «Io sono di quella linea. Come a volte accade nella linea dei Lungavista, sono nato con lo Spirito.» Non sapevo se ammirare la sua onestà o inorridire alla sua ingenua convinzione di non essersi appena condannato a morte. Rimasi impassibile e proibii ai miei occhi di tradire i miei pensieri. Disperatamente mi chiesi se lo avesse rivelato ad altri a Castelcervo. Penso che la nostra mancanza di reazione lo snervò più di qualsiasi cosa avremmo potuto fare. Entrambi sedevamo in silenzio, guardandolo. Devoto prese fiato, come un giocatore d'azzardo. «Quindi ora capite perché sarebbe meglio per tutti se mi lasciate andare. I Sei Ducati non seguiranno un re dotato dello Spirito, né io posso rinnegare il mio sangue. Non negherò ciò che sono. Sarebbe codardia, e falsità verso i miei amici. Se tornassi sarebbe solo questione di tempo e poi tutti lo saprebbero. Se mi trascinate indietro ne nascerà solo conflitto e divisione fra i nobili. Dovreste lasciarmi andare, e dire a mia madre che non mi avete trovato. È meglio per tutti.» Guardai il mio ultimo boccone di pesce. Quietamente chiesi: «E se decidessimo che è meglio per tutti uccidervi? Impiccarvi e squartarvi e bruciarvi vicino a un torrente? E poi dire alla regina che non vi abbiamo trovato?» Distolsi lo sguardo dal terrore nei suoi occhi. Mi vergognavo, ma bisognava insegnargli la cautela. Dopo un momento: «Dovete conoscere gli uomini prima di metterli a parte dei vostri segreti più profondi» lo consigliai. O la tua preda. Occhi-di-notte mi si avvicinò silenzioso come un'ombra, il pensiero lieve come il vento sulla pelle. Lasciò cadere accanto a me un coniglio malandato. Aveva già mangiato gli intestini. Con indifferenza mi prese il pesce affumicato dalle mani, lo ingoiò, poi si distese accanto a me con un pesante sospiro. Lasciò cadere la testa sulle zampe anteriori. Quel coniglio è balzato su sotto il mio naso. La preda più facile che abbia mai
trovato. Il principe sbarrò gli occhi e vidi il bianco tutto attorno. Il suo sguardo corse dal lupo a me e di nuovo al lupo. Non penso che avesse colto il nostro pensiero, ma capì lo stesso. Balzò in piedi con un grido di rabbia. «Dovreste capire! Come potete strapparmi non solo dalla mia bestia ma dalla donna che divide con me quel legame di Antico Sangue? Come potete tradire uno di voi?» Io avevo domande più importanti. Come hai fatto a coprire una così grande distanza così in fretta? Come farà la sua gatta, e per la stessa ragione. Un lupo può andare diritto dove un cavallo deve fare il giro. Sei pronto per il loro arrivo? Con la mano sulla sua schiena, sentivo pulsare in lui la stanchezza. Si scrollò di dosso la mia preoccupazione come mosche dalla pelliccia. Non sono così decrepito. Vi ho portato il coniglio. Avresti dovuto mangiarlo tutto tu. Una traccia di umorismo. L'ho mangiato tutto. Il primo. Non penserai che sia così sciocco da seguirvi fin qui a pancia vuota? Quello è per te e per il Senza Odore. E per il cucciolo, se lo vuole. Dubito che lo mangerà crudo. Dubito che abbia senso evitare di accendere il fuoco. Verranno comunque, e non hanno bisogno di luce per guidarli. Il ragazzo la chiama; è come il suo respiro. Lo urla come un richiamo di accoppiamento. Non lo sento. Il tuo naso non è l'unico senso che non è acuto come il mio. Mi alzai, poi spinsi leggermente il coniglio eviscerato con il piede. «Accendo il fuoco e lo cucino.» Il principe mi fissava in silenzio. Era ben consapevole che lo avevo escluso da una conversazione privata. «E se attiriamo gli inseguitori?» chiese messer Dorato. Malgrado la domanda, sapevo che sperava nel conforto di un fuoco e di carne cotta. «Li sta già attirando lui.» Accennai al principe con il mento. «Accendere un fuoco per il tempo di preparare una cena calda non peggiorerà la situazione.» «Come potete tradire la vostra gente?» chiese di nuovo Devoto. Avevo già riflettuto sulla risposta la sera prima. «Qui ci sono diversi livelli di lealtà, mio principe. E la mia lealtà più grande è verso i Lungavista. Come dovrebbe essere la vostra.» Mi era più legato di quanto avessi il coraggio di dirgli, e soffrivo per lui. Eppure le mie azioni non mi sembravano un tradimento. Piuttosto gli stavo imponendo confini sicuri. Come
Burrich aveva fatto una volta per me, pensai con tristezza. «Cosa vi dà il diritto di dirmi a chi dovrei essere leale?» chiese Devoto. La rabbia nella sua voce mi fece capire che avevo insinuato il dubbio dentro di lui. «Avete ragione. Non è mio diritto, principe Devoto. È mio dovere. Ricordarvi ciò che sembrate aver dimenticato. Vado a cercare legna. Voi riflettete su ciò che sarà del trono dei Lungavista se rifiutate semplicemente il vostro dovere e svanite.» Malgrado la stanchezza, il lupo si tirò in piedi e mi seguì. Tornammo alla riva del ruscello. Prima bevemmo, e poi mi inumidii il torace con acqua dove la lama del principe mi aveva graffiato. Un altro giorno, un'altra cicatrice. O forse no. Non aveva neanche sanguinato molto. Poi andai a cercare legna portata da acque più profonde e rimasta ad asciugare tutta l'estate. La vista di Occhi-di-notte, più acuta nel buio, aiutò i miei sensi più deboli, e presto ne raccolsi una certa quantità. Ti somiglia molto, osservò il lupo mentre tornavamo indietro. Aria di famiglia. È l'erede di Veritas. Solo perché tu hai rifiutato di esserlo. È sangue nostro, fratellino. Tuo e mio. Mi lasciò senza parole. Poi notai: Sei molto più consapevole delle faccende umane. Una volta non te ne curavi affatto. Vero. E Rolf il Nero ci avvertì che siamo intrecciati troppo strettamente, e che sono più uomo di quanto un lupo dovrebbe essere, e tu più lupo. La pagheremo, fratellino. Non avremmo potuto farci niente, ma questo non cambia le cose. Soffriremo della profonda mescolanza delle nostre nature. Cosa stai cercando di dirmi? Lo sai già. E lo sapevo. Come me, il principe era cresciuto fra gente che non usava lo Spirito. E come me, senza una guida, sembrava che non solo fosse precipitato nella sua magia, ma ci si crogiolasse. Io, privo di istruzione, mi ero legato troppo profondamente. Prima a un cane quando eravamo entrambi giovani e troppo immaturi per considerare le implicazioni del legame. Burrich ci aveva separati a forza. Allora lo avevo odiato per questo, un odio durato anni. Ora guardavo il principe, del tutto ossessionato dalla gatta, e mi ritenni fortunato che quella volta solo il cucciolo fosse stato coinvolto. In qualche modo l'attaccamento del principe alla gatta aveva cominciato a includere una giovane dell'Antico Sangue. Riportandolo a Castelcervo gli avrei fatto perdere non solo la compagna, ma anche una donna che credeva
di amare. Quale donna? Parla di una donna, una dell'Antico Sangue. Probabilmente una di quelle che cavalcavano con lui. Parla di una donna, ma non odora di donna. Non ti sembra strano? Ci pensai mentre tornavo al campo. Lasciai cadere la legna in una piccola fossa. Mentre la disponevo e poi grattavo un bastone asciutto per ottenere l'esca, guardai il ragazzo. Aveva riposto nella sacca il tovagliolo ma aveva lasciato fuori la bottiglia di vino. Ora sedeva cupo su una coperta, le ginocchia sotto il mento, fissando la notte sempre più buia. Lasciai cadere tutte le mie difese e lo cercai. Il lupo aveva ragione. Chiamava disperato la sua compagna nello Spirito, ma non ero certo che ne fosse consapevole. Era un triste, sottile appello, come un cucciolo smarrito che chiama la mamma. Mi dava sui nervi, una volta che ne fui consapevole. Non solo avrebbe attirato i suoi amici su di noi; era il tono piagnucoloso che mi atterriva. Mi faceva venire voglia di dargli una sberla. Invece, mentre lavoravo con esca e selce, chiesi cinico: «Pensi alla tua ragazza?» Devoto si girò verso di me, sorpreso. Messer Dorato trasalì alla schiettezza della domanda. Mi chinai a soffiare appena sulla minuscola scintilla che avevo suscitato. Splendette, poi divenne una pallida fiamma ondeggiante. Il principe trovò una misura di dignità. «Ci penso sempre» disse piano. Appoggiai diversi bastoncini inclinati sul mio fuocherello. «Allora. Com'è?» Parlai con l'interesse rozzo di un soldato, l'inflessione imparata durante molti pasti con le guardie a Castelcervo. «È...» Feci il gesto universale, inequivocabile, «...brava?» «Zitto!» sputò selvaggiamente Devoto. Guardai messer Dorato con un ghigno astuto. «Ah, sappiamo tutti e due cosa vuol dire. Vuol dire che non lo sa. Almeno, non di prima mano. O forse lo sa solo la sua mano.» Mi appoggiai all'indietro e gli sorrisi furbescamente, con aria di sfida. «Striato!» mi rimproverò messer Dorato. Penso che lo avessi davvero scandalizzato. Non colsi il suggerimento. «Beh, è sempre così, vero? Per lei è solo un ragazzino infatuato. Scommetto che non l'ha mai neanche baciata, figuriamoci...» Ripetei il gesto. La provocazione ebbe l'effetto desiderato. Mentre aggiungevo bastoni
più robusti alle fiamme, il principe si alzò indignato. La luce del fuoco rivelò il suo rossore e le narici fremetti di rabbia. «Non è così!» disse rauco. «Lei non è una... Ma tanto voi non capite altro che le prostitute! È una donna per cui vale la pena di aspettare, e quando finalmente ci uniremo sarà un'esperienza più esaltante e più dolce di quanto tu possa immaginare. Il suo è un amore che va conquistato, e mi dimostrerò degno di lei.» Dentro di me sanguinavo per lui. Erano le parole di un ragazzo, prese dai cantastorie, la fantasia di qualcosa che non aveva mai sperimentato. L'innocenza della sua passione ardeva in lui, e le sue aspettative idealistiche splendevano nei suoi occhi. Tentai di tirar fuori qualche altra villania crudele degna del ruolo che mi ero scelto, ma non riuscii a pronunciarla. Il Matto mi salvò. «Striato!» disse brusco messer Dorato. «Ora basta. Cucina la carne e taci.» «Mio signore» obbedii burbero. Rivolsi a Devoto un ghigno obliquo che lui rifiutò di vedere. Mentre raccoglievo il coniglio rigido e il coltello, messer Dorato parlò con più dolcezza al principe. «Ha un nome, questa dama che ammirate tanto? L'ho incontrata a corte?» Era garbatamente curioso. In qualche modo il calore nella sua voce rese la domanda lusinghiera. Devoto fu subito incantato, malgrado la sua irritazione verso di me, o forse a causa di essa. Ecco un'occasione per dimostrarsi un gentiluomo beneducato, ignorare il mio rozzo interesse e rispondere cortesemente come se io non esistessi. Sorrise e si guardò le mani, il sorriso di un ragazzo con una innamorata segreta. «Oh, non a corte, messer Dorato. Non c'è una come lei a corte. È una signora dei boschi selvaggi, cacciatrice ed esploratrice. Non ricama fazzoletti in giardino, né si nasconde fra le mura, vicino a un focolare, quando soffia la bufera. È libera nel vasto mondo, i capelli sciolti al vento, gli occhi pieni dei misteri della notte.» «Capisco.» La voce di messer Dorato era calda dell'indulgenza di un uomo di mondo verso il primo amore di un giovane. Venne a sedersi sulla sua sella, accanto al giovane eppure leggermente più in alto di lui. «E questa meraviglia della foresta ha un nome? O una famiglia?» chiese paterno. Devoto lo guardò e scosse stancamente la testa. «Ecco, vedete cosa chiedete? Ecco perché sono così stanco della corte. Come se mi importasse della sua famiglia o della sua fortuna! È lei che amo.» «Ma deve avere un nome» protestò tollerante messer Dorato mentre infilavo la lama del coltello sotto la pelle del coniglio per separarla. «Altri-
menti cosa sussurrate di notte alle stelle quando la sognate?» Staccai la pelle dal coniglio mentre messer Dorato strappava strati di segreti dalla storia d'amore del ragazzo. «Coraggio. Come l'avete incontrata?» Messer Dorato raccolse la bottiglia di vino, bevve con grazia e la passò al principe. Il ragazzo la girò pensierosamente fra le mani, gettò uno sguardo al sorriso di Dorato e bevve. Poi sedette, la bottiglia fra le mani inerti, rivolta verso il piccolo fuoco che dipingeva i suoi lineamenti contro la notte. «La mia gatta mi portò da lei» confidò infine. Bevve un altro sorso di vino. «Ero scivolato fuori una notte per andare a caccia. A volte sento il bisogno di stare da solo. Sapete com'è a corte. Se dico che cavalcherò all'alba, mi alzo e ci sono sei gentiluomini pronti ad accompagnarmi, e una dozzina di signore a dirci addio. Se dico che camminerò nei giardini dopo cena, non posso girare un angolo senza trovare una signora che scrive poesie sotto un albero, o un nobile che desidera che io metta una buona parola con la regina per lui. È opprimente, messer Dorato. In verità non so perché tanti scelgano di venire a corte quando non sono costretti. Se avessi il privilegio della libertà, me ne andrei.» Si distese all'improvviso e volse lo sguardo alla notte. «E me ne sono andato» dichiarò all'improvviso, quasi sorpreso. «Sono qui, lontano da tutte quelle ostentazioni e quei condizionamenti. E sono felice. O ero felice, finché non siete venuti voi a riportarmi indietro di forza.» Mi guardò male, come se fosse tutta opera mia, e messer Dorato solo uno spettatore innocente. «Allora. Una notte siete andato a caccia con la vostra gatta, e questa dama...?» Messer Dorato raccolse abilmente i fili che lo interessavano. «Sono andato a caccia con la mia gatta, e...» Come si chiama la gatta? intervenne Occhi-di-notte con urgenza improvvisa. Grugnii beffardo. «A me sembra che la gatta e la dama abbiano lo stesso nome, 'Nonsidice'.» Infilzai il coniglio sulla spada. Non mi piaceva cucinare sulla punta della mia lama; danneggiava la tempra. Ma per trovare un ramo verde avrei dovuto lasciare la conversazione e andare ai margini della foresta, e volevo sentire cosa diceva Devoto. Il principe rispose aspro. «Pensavo che voi, in quanto Pezzato, sapeste che le bestie hanno i loro nomi, e li rivelano al momento che ritengono giusto. La mia gatta non ha ancora condiviso il suo vero nome con me. Quando sarò degno di quella fiducia, lo farà.» «Non sono un 'Pezzato'» asserii brusco. Devoto mi ignorò. Trasse un respiro e parlò a messer Dorato con tra-
sporto. «E lo stesso è vero della mia signora. Non ho bisogno di conoscere il suo nome quando amo la sua essenza.» «Certo, certo» lo confortò messer Dorato. Si fece più vicino al principe e proseguì. «Ma gradirei sentire del primo incontro con la vostra bella. Perché confesso che nel cuore sono un languido romantico come qualsiasi signora di corte che piange ascoltando un cantastorie.» Parlò come se ciò che Devoto aveva detto fosse senza importanza. Ma un senso di ingiustizia profonda mi percorse. Era vero che anche Occhi-di-notte non aveva subito condiviso il suo vero nome con me, ma la gatta e il principe erano insieme da mesi. Girai la spada, ma il coniglio ruotò sulla lama attorno alla cavità squarciata del corpo, e il lato cotto si rivolse di nuovo alle fiamme. Borbottando lo tirai via dal fuoco e mi scottai le dita infilzandolo più fermamente con la lama. Lo spinsi di nuovo sulle fiamme e lo tenni fermo. «Il nostro primo incontro» rifletté Devoto. Un sorriso malinconico gli curvò le labbra. «Temo che non sia ancora accaduto, in un certo modo. In tutti i modi che contano, l'ho incontrata. La gatta me l'ha mostrata, o piuttosto lei si è rivelata a me attraverso la gatta.» Messer Dorato alzò il capo e diede al ragazzo un'occhiata interessata, per quanto confusa. Il sorriso di Devoto si allargò. «Difficile spiegarlo a qualcuno che non ha esperienza dello Spirito. Ma tenterò. Attraverso la mia magia posso dividere i pensieri con la gatta. I suoi sensi affinano i miei. A volte giaccio a letto, di notte, e cedo la mia mente alla sua, e divento una cosa sola con lei. Vedo ciò che lei vede, sento ciò che sente. È meraviglioso, messer Dorato. Non abietto e bestiale come alcuni credono. Ha fatto vivere il mondo intorno a me. Se potessi condividere l'esperienza con voi lo farei, così capireste.» Il ragazzo era così ansioso di convincerlo. Io scorsi un bagliore di divertimento negli occhi di messer Dorato, ma sono sicuro che il principe vide solo la sua calda comprensione. «Dovrò immaginarlo» mormorò. Devoto scosse il capo. «Ah, ma non potete. Chi non è nato con questa magia non può immaginarlo. Ecco perché tutti ci perseguitano. Perché, non avendo la magia, sono pieni di invidia che si trasforma in odio.» «Direi che anche la paura c'entra qualcosa» mormorai, ma il Matto mi gettò uno sguardo che mi ordinava di tacere. Rampognato, distolsi lo sguardo e feci girare il coniglio fumante. «Penso di poter immaginare la vostra comunione con la gatta. Come deve essere meraviglioso condividere i pensieri di una creatura così nobile! Che meraviglia sperimentare la notte e la caccia con un animale così in
armonia con il mondo naturale! Ma lo confesso, non capisco come abbia potuto rivelarvi l'esistenza di questa signora straordinaria… forse vi ha guidato da lei?» Che meraviglia sentire i suoi luridi artigli che ti graffiano la pancia! Shhh. Creature nobili, i gatti? Imbroglioni sputacchianti dall'alito di carogna. A fatica ignorai i commenti di Occhi-di-notte e mi concentrai sulla conversazione, fingendomi impegnato a cuocere del coniglio. Il principe sorrideva e scuoteva la testa, totalmente rapito dalla descrizione del suo amore. Ero mai stato così giovane? «Non è andata in questo modo. Una notte, mentre la gatta e io attraversavamo una foresta di alberi neri, inargentata dal chiarore della luna, percepii che non eravamo soli. Non era la sensazione spiacevole di essere osservato. Era più come... Immaginate che il vento sia il respiro di una donna sulla nuca, che il profumo della foresta sia il suo, il gorgogliare di un ruscello la sua risata. Non c'era nulla che non avessi visto o udito o percepito cento volte, eppure quella notte era più di quanto fosse mai stata prima. All'inizio credetti di immaginarla, e poi, attraverso la gatta cominciai a conoscerla meglio. La sentivo che ci guardava mentre cacciavamo insieme, e seppi che ci approvava. Quando dividevo con la gatta la carne fresca della preda sentivo che la donna ne condivideva il sapore. I sensi della gatta affinano i miei, ve l'ho detto. Ma all'improvviso vedevo le cose, non come la gatta o come me stesso, ma come le vedeva lei. Vidi un crollo in un muro di pietra come una cornice per un alberello stentato, vidi l'infinito disegno delle increspature della luna sulla corrente di un ruscello, vidi... vidi il mondo notturno come la poesia di lei.» Il principe Devoto sospirò lentamente, perso nella sua romanticheria. Il graduale sospetto che si stava formando nella mia mente mi diede un brivido lungo la schiena. Sentii il lupo drizzare le orecchie e tendere i muscoli, partecipe della mia premonizione. «Fu così che cominciò. Come sguardi condivisi della bellezza del mondo. Ero così sciocco. Dapprima pensavo che dovesse essere vicina a noi, a guardarci da un nascondiglio. Continuavo a chiedere alla gatta di portarmi da lei. E la gatta lo fece, ma non come mi aspettavo. Era come appressarsi a un castello nella foschia. Banchi su banchi di nebbia si alzavano come veli. Più mi avvicinavo, più desideravo contemplarla nella carne. Ma lei mi insegnò che era più nobile aspettare. Prima dovevo completare le mie lezioni nello Spirito. Dovevo imparare ad abbandonare i miei confini umani
e me stesso, e lasciarmi possedere dalla gatta. Quando lascio entrare la gatta, quando divengo del tutto la gatta, sono più consapevole della mia signora. Perché siamo entrambi legati alla stessa creatura.» Può accadere? La domanda del lupo era incredula e brusca. Non lo so, ammisi. Poi, più deciso: Ma penso di no. «Non funziona così» dissi ad alta voce. Non volevo suonare minaccioso, ma era necessario che il Matto lo sapesse subito. Il principe si irritò. «Ho detto di sì. Mi date del bugiardo?» Curvai le spalle e ripresi il mio atteggiamento brutale. «Se volevo darvi del bugiardo» - moderai le parole minacciose - «avrei detto che siete un bugiardo. Non l'ho detto. Ho detto che non funziona così.» Sorrisi, mostrando i denti. «Voglio dire che secondo me non sapete di cosa parlate. State solo ripetendo parole che qualcuno altro vi ha cacciato in testa.» «Per l'ultima volta, Striato, taci. Stai interrompendo una storia affascinante, e né al principe né a me importa molto che ci creda o no. Voglio solo sentire come finisce. Allora. Quando vi siete finalmente incontrati?» Il tono di messer Dorato lasciava intendere che pendeva dalle labbra del principe. Il caldo romanticismo nella voce di Devoto sprofondò all'improvviso in una disperazione angosciata. «Non ci siamo incontrati. Non ancora. È là che stavo andando. Lei mi chiamò, e lasciai Castelcervo. Promise che avrebbe mandato qualcuno per aiutarmi a raggiungerla. E lo fece. Promise che imparando la mia magia, man mano che il mio legame con la gatta si approfondiva e diveniva più vero, l'avrei conosciuta sempre meglio. Dovevo dimostrarmi degno, certo. Il mio amore sarebbe stato messo alla prova, come la mia vera volontà di essere una cosa sola con il mio Antico Sangue. Dovevo imparare a lasciar cadere tutte le barriere tra la gatta e me. Mi disse che sarebbe stato arduo, mi avvertì che avrei dovuto cambiare modo di pensare. Ma una volta pronto» - scorsi il rossore salire alle guance del principe, malgrado l'oscurità - «promise che ci saremmo uniti, in un modo più meraviglioso e vero di qualsiasi cosa potessi immaginare.» La sua giovane voce si abbassò su quelle ultime parole. Una lenta rabbia cominciò a crescere in me. Sapevo cosa stava immaginando, ed ero quasi sicuro che ciò che la donna gli offriva non c'entrava nulla. Devoto pensava di consumare la loro relazione. Io temevo che stesse per esserne consumato. «Capisco» disse messer Dorato, e c'era compassione nella sua voce. Da parte mia, ero sicuro che non capiva affatto.
La speranza divampò nel ragazzo. «Allora capite perché dovete lasciarmi andare? Devo tornare da lei. Non chiedo che mi riportiate dalle mie guide. Sono furiosi e costituiscono una minaccia per voi. Chiedo solo che mi diate la mia cavalla e mi lasciate andare. È facile. Tornate a Castelcervo; dite che non mi avete trovato. Nessuno saprà la verità.» «Io lo saprò» indicai soavemente mentre presi il coniglio dal fuoco. «La carne è cotta» aggiunsi. Direi carbonizzata. Il principe mi rivolse un'occhiata velenosa. Quasi scorsi il lampo di un'ovvia soluzione nella sua mente. Uccidi il servitore. Fallo tacere. Ero pronto a scommettere che il figlio di Kettricken non fosse stato educato a tale ferocia prima di incontrare i Pezzati. Eppure era un'idea davvero degna dei suoi antenati Lungavista. Incontrai il suo sguardo, e curvai leggermente le labbra, provocandolo. Lo vidi gonfiare il petto, e poi dominarsi. Distolse lo sguardo, velando il suo odio. Autocontrollo ammirevole. Mi chiesi se avrebbe tentato di uccidermi nel sonno. Continuai a guardarlo, sfidandolo a incontrare i miei occhi mentre laceravo il coniglio in pezzi fumanti. Grasso e fuliggine mi insozzarono le dita. Passai una porzione a messer Dorato, che la prese con nobile disgusto. Sapendo quanto era affamato il Matto, compresi che era solo una finzione. «Carne, mio principe?» gli chiese Messer Dorato. «No, grazie.» La voce era fredda. Era troppo orgoglioso per accettare qualcosa da me, perché lo avevo deriso. Il lupo rifiutò un pezzo di carne troppo cotta, così Messer Dorato e io la divorammo in silenzio fino a spolpare le ossa. Il principe sedette discosto da noi mentre mangiavamo, fissando l'oscurità. Dopo qualche tempo si distese sulla coperta. Sentii il suo lamento di Spirito crescere di intensità. Messer Dorato ruppe l'osso della coscia che aveva in mano, succhiò il midollo e lo lanciò nei tizzoni ardenti. Nella luce calante mi guardò con gli occhi del Matto. Quello sguardo conteneva una tale mistura di compassione e rimprovero che non seppi come reagire. Entrambi guardammo il ragazzo. Sembrava addormentato. «Vado a vedere i cavalli» proposi. «Voglio controllare Malta di persona» rispose il Matto. Ci alzammo entrambi. La mia schiena si contrasse per un momento, poi si rilassò. Non ero più abituato a quel tipo di vita. Lo tengo d'occhio io, si offrì stancamente il lupo. Con un sospiro si alzò e camminò con passo rigido fino alle coperte, le selle e il principe addor-
mentato. Senza tentennamenti scelse la coperta che avevo preparato per me. La distese per bene e poi si sdraiò. Mi guardò sbattendo le palpebre, poi trasferì lo sguardo al ragazzo. Le cavalle stavano bene, considerando come le avevamo trattate. Malta raggiunse impaziente il Matto, strofinandogli la testa contro la spalla mentre lui l'accarezzava. Mianera sembrava non vedermi neanche: riuscì a sgusciare via ogni volta che tentavo di avvicinarmi. La cavalla del principe era indifferente: non mi accolse con gioia ma si lasciò toccare. Dopo che l'ebbi accarezzata per qualche momento, Mianera fu all'improvviso dietro di me. Mi diede una lieve spinta, e quando mi girai mi permise di lisciarle il pelo. Il Matto parlò quietamente, a Malta piuttosto che a me. «Deve essere dura per te, incontrarlo per la prima volta così.» Non volevo rispondere. Sembrava che non ci fosse nulla da dire. Poi mi ritrovai a dire: «Non è davvero mio figlio. È l'erede di Veritas, e il figlio di Kettricken. Il mio corpo era là, ma non io. Veritas era nel mio corpo.» Tentai di sviare la mente da quel ricordo. Quando Veritas mi aveva detto che c'era un modo per risvegliare il suo drago, che la mia vita e la mia passione erano la chiave, avevo pensato che il mio re mi stesse chiedendo di morire per lui. Nella mia sconsolata lealtà ne sarei stato felice. Invece usò l'Arte per prendere il controllo del mio corpo, lasciandomi intrappolato nel traballante rottame del suo mentre lui andava dalla giovane moglie e concepiva un erede con lei. Non avevo memoria delle ore che avevano trascorso insieme. Ricordavo solo una lunga notte vissuta da vecchio. Neanche Kettricken era del tutto consapevole di ciò che era accaduto. Solo il Matto sapeva del concepimento di Devoto. Ora la sua voce mi strappò dai miei pensieri dolorosi. «Ti somiglia tanto quando avevi quell'età che mi fa male il cuore.» Sapevo che non c'era risposta. «Mi fa venire voglia di stringerlo e tenerlo al sicuro. Di proteggerlo da tutte le cose terribili che ti hanno fatto nel nome dei Lungavista.» Il Matto fece una pausa. «Sto mentendo» ammise. «Lo proteggerei da tutte le cose terribili che ti sono state fatte perché io ti ho usato come mio Catalizzatore.» La notte era troppo nera e i nostri nemici troppo vicini per voler sentire di più. «Dovresti dormire accanto a lui, vicino al fuoco» dissi. «Anche il lupo starà là. Tieni pronta la spada.» «E tu?» chiese il Matto dopo un istante. Era deluso che avessi cambiato argomento con tanta fermezza?
Accennai alla fila di alberi lungo il torrente. «Ne scalerò uno e farò la guardia. Dovresti prenderti qualche ora di sonno. Se tentano di attaccarci dovranno attraversare tutto il prato. Li vedrò contro la luce del fuoco in tempo per agire.» «Agire come?» Scrollai le spalle. «Se sono pochi, combattiamo. Se sono molti, scappiamo.» «Una strategia complessa. Umbra ti ha istruito bene.» «Riposa finché puoi. Partiamo al sorgere della luna.» E ci separammo. Avevo la sensazione ossessiva che qualcosa fosse rimasto non detto tra noi, qualcosa di importante. Ebbene, ci sarebbe stato un momento migliore più tardi. Chiunque pensi che sia facile trovare un buon albero da scalare nel buio non ci ha mai provato. Al terzo tentativo ne trovai uno che aveva un ramo largo abbastanza per sedercisi sopra e che mi permetteva di sorvegliare il nostro campo senza ostacoli. Avrei potuto riflettere sui capricci del fato che mi aveva reso padre di due figli e genitore di nessuno. Invece decisi di preoccuparmi per Ticcio. Sapevo che Umbra avrebbe mantenuto la parola, ma Ticcio avrebbe fatto la sua parte? Gli avevo insegnato a lavorare abbastanza bene, avrebbe svolto il suo lavoro con scrupolo, sarebbe stato capace di ascoltare bene e sopportare con umiltà le correzioni? L'oscurità era nera come la pece. Attesi invano che sorgesse la luna calante. La sua tenue luce sarebbe apparsa solo nel cuore della notte. Contro la chiazza nero-rossastra del nostro bivacco scorgevo solo le forme di messer Dorato e del ragazzo avvolti nelle coperte. Passò qualche tempo. Un amichevole moncone di ramo mi si era conficcato nelle reni e mi impediva di mettermi troppo comodo. Scendi. Mi ero appisolato. Non vidi il lupo, ma sapevo che era fra le ombre ai piedi del mio albero. Qualcosa non andava. Scendi. Fai piano. Scesi, ma non silenziosamente come speravo. Mi dondolai e mi lasciai cadere, solo per scoprire che c'era un incavo sotto l'albero e che la caduta fu più lunga di quanto pensassi. L'urto mi fece sbattere i denti e incassare il collo. Sono troppo vecchio per queste cose. No, vorresti esserlo. Vieni. Lo seguii, stringendo i denti. Mi riportò al campo in silenzio. Il Matto si tirò a sedere senza rumore mentre mi avvicinavo. Anche nel buio distinsi
la sua occhiata interrogativa. Feci un lieve cenno di tacere e osservai. Il lupo andò dove il principe era rannicchiato come un gattino nelle coperte. Gli appoggiò il muso vicino all'orecchio. Gli feci cenno di non svegliare il ragazzo, ma mi ignorò. Anzi, cacciò il naso sotto la guancia del principe e lo spinse leggermente. Il ragazzo girò il capo senza nerbo, rilassato come un morto. Il cuore mi si fermò, e poi sentii il sibilo del suo respiro addormentato. Il lupo lo spinse di nuovo. Ancora non si svegliò. Incontrai gli occhi sbarrati del Matto, poi andai a inginocchiarmi accanto al ragazzo. Occhi-di-notte mi guardò in viso. Stava cercandole, cercandole e protendendosi, e poi all'improvviso era andato. Non lo sento. Occhi-di-notte era ansioso. È andato lontano, nel profondo. Considerai un momento. Questo non è lo Spirito. «Fai tu la guardia» chiesi al Matto. Poi mi distesi accanto a Devoto. Chiusi gli occhi. Facendomi forza come per tuffarmi in acque profonde, misurai ogni respiro. Adeguai il ritmo a quello del ragazzo. Veritas, pensai, senza motivo, se non che quel nome sembrava darmi stabilità. Esitai, poi brancolando trovai la mano di Devoto. La presi, e fui assurdamente felice che il palmo mostrasse i calli del lavoro manuale. Trassi un ultimo respiro e mi immersi nel flusso dell'Arte. Pelle a pelle, lo trovai subito. Unii la mia coscienza alla sua e fluii con lui. Era così, compresi all'improvviso, che la confraternita di Galen aveva spiato re Sagace tanti anni fa. Allora avevo disprezzato quel furto di conoscenza. Ora l'afferrai implacabile e seguii il mio principe. C'era stato un trauma di riconoscimento, una scossa di vicinanza quando avevo visto il ragazzo. Non era paragonabile a ciò che provai in quel momento. Conobbi la ricerca selvaggia di quel ragazzo, la sua Arte senza esperienza e senza paura. Era come la mia un tempo, un protendersi selvaggio senza sapere come ci riuscivo, o in quali pericoli incorrevo. Cercava con lo Spirito e non sapeva di usare anche l'Arte. Per un momento spaventoso compresi che, come la mia, la sua magia dell'Arte era contaminata con lo Spirito. Avendo imparato da solo a usare l'Arte, sarebbe mai stato capace di usarla in modo puro? Poi quella considerazione fu accantonata del tutto. Nascosto all'interno dell'Arte, lo vidi usare lo Spirito, e ne fui atterrito. Il principe Devoto era la gatta. Non era solo legato all'animale; fluiva del tutto in lei, senza conservare nulla di sé stesso. Sapevo che il lupo e io avevamo intessuto la nostra coscienza a un livello profondo e pericoloso,
ma era ancora superficiale a paragone della resa completa del principe. Ancora peggio era l'accettazione completa della sottomissione del ragazzo da parte della creatura. Poi, come sbattendo le palpebre, percepii che non era affatto una gatta. La gatta era solo uno strato sottile. Sotto c'era una donna. Turbinai confuso, e quasi persi la presa sul principe. Lo Spirito non andava da umano da umano. Quella era l'Arte. Allora Devoto stava usando l'Arte con la donna? No. Quell'unione non era Arte. Tentai di comprendere e non riuscii. Non potevo distinguere la donna dalla gatta, e Devoto era sommerso in entrambe. Non aveva senso. La donna stava sondando la mente del ragazzo. No. Era lì, colmava il suo corpo come densa acqua fredda. La sentii fluire in lui, esplorare la forma della sua carne intorno a sé. Le era ancora estranea. C'era un erotismo strano in quel gelido tocco interiore. La loro unione nella gatta non era ancora abbastanza completa, ma presto, presto, prometteva lei, presto l'avrebbe conosciuta del tutto. Stavano venendo a prenderlo, lo assicurò, e lei sapeva dov'era. Guardai Devoto trasmetterle tutto ciò che conosceva di messer Dorato e me, la resistenza e le condizioni delle nostre cavalle, il lupo che mi seguiva, e sentii la furia e il ribrezzo della donna per un Antico Sangue che tradiva la sua gente. Stavano arrivando. Li vidi con gli occhi della gatta, e riconobbi il Pezzato che avevamo combattuto prima. La gatta li guidava zoppicando. L'omone la seguiva lentamente, a piedi, conducendo il suo enorme cavallo mentre si aprivano a fatica la strada attraverso la foresta buia. Le due donne cavalcavano lentamente dietro di loro. L'uomo dalla faccia graffiata con il gatto ferito veniva per ultimo. Ora conducevano due cavalli senza cavalieri, quindi avevamo ucciso o ferito gravemente uno di loro. Arriviamo, amore mio. E un uccello è stato mandato a chiamare altri in aiuto. Presto sarai di nuovo con noi, promise. Non correremo nessuno rischio di perderti. Quando gli altri saranno vicini, attaccheremo e ti prenderemo. Ucciderete messer Dorato e il suo servitore? chiese con ansia il principe. Sì. Vorrei che non uccideste messer Dorato. È necessario. Mi dispiace, ma così deve essere, perché messer Dorato si è addentrato troppo nel nostro territorio. Ha visto i volti della nostra gente, e ha cavalcato i nostri sentieri. Deve morire. Non potete lasciarlo andare? È sensibile alla nostra causa. Vedendo la nostra forza, potrebbe semplicemente tornare dalla regina e dire di non
avermi... Dov'è la tua lealtà? Come puoi fidarti di lui tanto facilmente? Hai dimenticato quanti del nostro popolo sono stati uccisi dai Lungavista? O desideri veder morire me e tutta la nostra gente? La domanda scattò come una frusta, e mi addolorò sentir Devoto tremare di paura. Il mio cuore è con te, amore mio. Bene. Così va bene. Allora fidati solo di me, e lasciami fare ciò che devo. Non pensarci. Non sentirti responsabile per ciò che gli uomini attirano su di sé. Non è colpa tua. Hai cercato di andartene in silenzio. Sono loro che ti hanno inseguito e attaccato. Dimenticali. Poi lo avvolse nel suo amore, un'ondata crescente di calda emozione che sopraffece ogni pensiero appartenente solo a Devoto. Ma la donna sembrava essere solo ai margini di quel flusso. Era amore di gatto, l'amore feroce di un felino, tutto artigli e denti. La sensazione mi sommerse, e malgrado la mia cautela quasi cedetti anch'io. Sentii il principe accettare che lei avrebbe solo fatto il suo dovere, solo perché potessero essere insieme. C'era un prezzo troppo alto da pagare? Lei è morta. Il pensiero del lupo fu come una voce nella stanza di un dormiente. Per un momento lo incorporai nei miei sogni. Poi il senso mi colpì come un pugno nello stomaco. Ma certo. È morta. Vive nella gatta. E in quello sciocco momento di comunicazione con il lupo, lei fu consapevole di me. Cos'è questo? La sua paura e indignazione non erano nulla a paragone della sua assoluta sorpresa. Non aveva mai sperimentato una cosa simile. Era del tutto fuori dalla sua magia, e nel suo crudo stupore tradì molto di sé stessa. Mi strappai da ogni contatto prima che potesse capire davvero che qualcuno era stato là a guardarla, e in quel momento la sentii accentuare la presa su Devoto. Mi ricordò un grosso gatto che afferra un topo nelle mascelle e lo paralizza con un morso. Provai quello stesso senso di possesso e fame. Per un momento sperai che il principe la percepisse chiaramente come facevo io. Era un giocattolo per lei, una proprietà e uno strumento. Non provava amore per lui. Ma la gatta sì, mi fece notare Occhi-di-notte. E in quella disparità contorta, tornai in me. Fu come il mio brusco salto dall'albero. Sbattuto di nuovo nella mia carne, mi tirai a sedere, ansimando in cerca di aria e spa-
zio. Accanto a me il principe rimase inerte, ma Occhi-di-notte fu subito con me, cacciandomi il testone sotto il braccio. Tutto bene, fratellino? Ti ha fatto male? Tentai di rispondere, ma invece crollai in avanti, gemendo mentre un mal di testa da Arte mi esplodeva nel cranio. Ero letteralmente accecato, isolato in una notte nera squarciata da ardenti lampi bianchi. Sbattei le palpebre, poi mi strofinai gli occhi, cercando di allontanarlo. Esplose in colori nauseanti. Curvai le spalle e mi rannicchiai contro il dolore. Un momento più tardi sentii una stoffa fredda sulla nuca. Il Matto era accanto a me, meravigliosamente silenzioso. Deglutii e trassi molti respiri profondi, poi parlai coprendomi la bocca con le mani. «Stanno arrivando. I Pezzati che abbiamo combattuto oggi, e altri. Il principe ha rivelato dove siamo. È come un faro. Non possiamo nasconderci, e sono troppi per lottare e sopravvivere. Fuggire è la nostra unica possibilità. Non possiamo aspettare il sorgere della luna. Occhi-di-notte ci condurrà.» Il Matto parlò molto piano, come indovinando il mio dolore. «Sveglio il principe?» «Non perdere tempo. È lontano nel profondo di sé stesso, e non penso che lei gli permetterà di tornare subito al suo corpo. Dovremo portarlo come un peso morto. Vuoi caricare i cavalli?» «Va bene. Fitz, tu ce la fai a cavalcare?» Aprii gli occhi. Schegge galleggianti di luce ancora laceravano la mia visione, ma ora scorgevo il prato buio al di là. Mi costrinsi a sorridere. «Dovrò cavalcare, proprio come il mio lupo dovrà correre. E tu potresti dover combattere. Non è ciò che vorremmo, ma è così. Occhi-di-notte. Vai. Sceglici un percorso, e allontanati da noi quanto puoi. Non so da che direzione arriveranno gli altri assalitori. Esplora il terreno.» Cerchi di allontanarmi dal pericolo. Il pensiero era quasi un rimprovero. Lo farei se potessi, fratello, ma la verità è che potrei cacciarti nelle fauci del pericolo. Esplora il terreno. Vai, ora. Occhi-di-notte si alzò rigidamente e si stiracchiò. Si scrollò e partì, non a grandi passi, ma al trotto che usava per le lunghe distanze. Quasi all'istante divenne invisibile, un lupo grigio nel prato grigio. Stai attento, mio cuore, gli augurai, ma piano, piano, perché non sapesse quanto temevo per lui. Mi alzai, muovendomi con grande cautela, come se la mia testa fosse un bicchiere troppo pieno. Non credevo davvero che il mio cervello si sarebbe riversato fuori dal cranio se non fossi stato attento, ma quasi ci speravo. Mi tolsi dalla nuca il fazzoletto bagnato del Matto e me lo premetti sulla fron-
te e sugli occhi. Quando guardai il principe, non si era mosso. Se mai, il suo corpo era ancor più raggomitolato. Sentii il Matto raggiungermi con le cavalle e mi girai cautamente a guardarlo. «Puoi spiegarmi?» chiese piano, e compresi quanto poco sapeva. Era ancor più sorprendente che avesse esaudito così ciecamente le mie richieste. Trassi un respiro. «Sta usando l'Arte e lo Spirito. E non è addestrato in nessuna delle due magie, così è vulnerabile, molto vulnerabile. È troppo giovane per capire quanto rischia. Adesso la sua coscienza è nella gatta. A tutti gli effetti, lui è la gatta.» «Ma si sveglierà e tornerà al suo corpo?» Scrollai le spalle. «Non lo so. Lo spero. Matto, c'è di più. Qualcuno altro è legato alla gatta. Io, cioè noi, Occhi-di-notte e io, sospettiamo che sia la precedente compagna della gatta.» «Precedente? Pensavo che la gente dello Spirito si legasse a un animale per la vita.» «È così. Ora dovrebbe essere morta. Ma la sua coscienza vive nella gatta, usa la gatta.» «Ma pensavo che il principe...» «Sì. C'è anche il principe. Non capisce che la donna che ama non esiste più come donna. Non ha idea di quanto potere abbia su di lui. E sulla gatta.» «Cosa possiamo fare?» Il rimbombo nella testa stava per farmi vomitare. Parlai più duramente di quanto volessi. «Separare a forza il ragazzo dalla gatta. Uccidere la gatta, e sperare che il ragazzo non muoia.» «Oh, Fitz!» Era sgomento. Non avevo tempo di curarmene. «Metti la sella solo a Malta e Mianera. Io terrò il ragazzo davanti a me. Poi andiamo.» Non feci niente mentre il Matto si occupava delle cavalle. Non preparai fagotti, perché non intendevo prendere nulla con me. Sedetti immobile e tentai di persuadere la mia testa a calmarsi. Era più difficile che mai, perché ero ancora legato al ragazzo nell'Arte. Sentivo più la sua assenza che la presenza. Avvertivo la pressione su di lui, un impulso dello Spirito. Non riuscivo a decidere se la donna stesse tentando di saperne di più di me, o di possedere il corpo del ragazzo. Non desideravo rispondere; avevano già scoperto troppo da quel primo tocco accidentale. Quindi sedetti, testa fra le mani, e guardai il figlio di Kettricken. Come Veritas mi aveva insegnato tanto tempo prima, eressi con cura le mie barriere d'Arte. Questa volta le
disposi in modo da includere il ragazzo ai miei piedi. Non considerai ciò che stavo tentando di tenere fuori. Mi concentrai per tenere aperto lo spazio che era la mente di Devoto, proteggendola perché potesse rientrarci. «Pronti» disse piano il Matto, e mi alzai di nuovo. Montai Mianera, che rimase incredibilmente salda sotto di me mentre il Matto mi passava il ragazzo. Come sempre, la forza di quell'uomo snello mi sorprese. Sistemai il principe di fronte a me in modo da sorreggerlo con un braccio e tenere le redini con l'altra mano. Doveva bastare. In un istante il Matto fu in sella a Malta accanto a me. «Da che parte?» Occhi-di-notte? Mantenni il mio cercare piccolo e segreto come potevo. Erano capaci di percepire il nostro Spirito, ma dubitavo che potessero usarlo per seguirci. Fratello. La risposta fu altrettanto discreta. Spinsi leggermente Mianera e ci muovemmo. Non avrei potuto dire dove fosse Occhi-di-notte, ma sapevo di muovermi verso di lui. Il principe era inerte fra le mie braccia. Mi sentivo già stanco. Cedendo alla frustrazione per il mio dolore e il suo peso morto, gli diedi un brusco strattone. Devoto emise un debole suono di protesta, ma forse era solo aria che usciva dai polmoni. Per qualche tempo viaggiammo attraverso la foresta, chinando il capo sotto i rami bassi e avanzando attraverso grovigli di sottobosco. La cavalla del principe, priva di finimenti, ci seguiva. Non andavamo in fretta. Il terreno era infido per le cavalle stanche, e gli alberi erano fitti. Seguii la presenza elusiva del lupo giù per una ravina. I cavalli rumoreggiarono lungo un ruscello che scorreva su pietre bagnate e sdrucciolevoli. La ravina divenne una valle, poi si allargò e cavalcammo sotto la luna attraverso un prato. Mettemmo in fuga alcuni cervi spaventati. Di nuovo nella foresta, i nostri zoccoli emettevano un rumore sordo su uno spesso manto di antiche foglie schiacciate. Poi giungemmo a un luogo scosceso che non riconobbi, ma quando arrivammo sul crinale la notte ci riversò sulla strada. Il percorso del lupo aveva tagliato la campagna selvaggia e ci aveva rimessi sulla stessa via che avevamo percorso quella mattina. Trattenni Mianera e la feci respirare. Davanti a noi, sulla collina successiva, la luce fioca del quarto di luna mi mostrò la sagoma di un lupo che ci aspettava. Appena ci vide si girò, trottò giù dalla collina e scomparve alla vista. Tutto libero. Sbrigatevi. «Ora corriamo» avvertii il Matto a voce bassa. Mi chinai e dissi una parola a Mianera, spronandola con le ginocchia. Quando la sentii indolente, le suggerii con il mio Spirito da predatore: Gli inseguitori sono proprio
dietro di noi. Si muovono in fretta. Mianera fece scattare le orecchie all'indietro. Penso che fosse un poco scettica, ma si controllò. Quando Malta minacciò di superarci, sentii i muscoli potenti contrarsi e poi distèndersi sotto di me, e galoppammo. Ingombra del nostro peso duplice e stanca del lavoro del giorno, la cavalla correva con fatica. Malta tenne arditamente il suo passo, e la sua presenza spronava Mianera. La cavalla del principe rimase indietro. Il lupo sfrecciava di fronte a noi, e fissai gli occhi su di lui come un'ultima speranza. Sembrava aver dimenticato la sua età; correva a balzi come un lupetto di un anno. Alla nostra sinistra apparve l'orizzonte mentre l'alba cominciava a strisciare timida verso il giorno. Accolsi la luce che rendeva il nostro terreno più sicuro, e intanto la maledissi perché ci avrebbe rivelato ai nostri nemici. Insistemmo, variando il ritmo mentre la mattina avanzava, tentando di razionare la resistenza delle nostre cavalle. Gli ultimi due giorni erano stati pesanti per entrambe. Farle correre fino a sfinirle non avrebbe aiutato la nostra situazione. «Quando sarà sicuro fermarsi?» mi chiese il Matto mentre rallentavamo per far riprendere fiato ai cavalli. «Quando saremo a Castelcervo. Forse.» Non aggiunsi che avrei dovuto tornare indietro a uccidere la gatta prima che il principe fosse davvero al sicuro. Avevamo solo il suo corpo in custodia. I Pezzati possedevano ancora la sua anima. A metà mattina oltrepassammo l'albero dove l'arciere ci aveva teso un agguato. Compresi quanto mi fidavo del lupo. Aveva deciso che da quella parte era sicuro e gli stavo dietro senza muovere obiezioni. Non siamo un branco? Devi seguire il capo. Il divertimento nel pensiero non copriva del tutto la stanchezza. Eravamo tutti stanchi; uomini, lupo e cavalle. Il meglio che ora potevo ottenere da Mianera era un trotto sostenuto. Devoto era un peso morto fra le braccia mentre avanzavamo traballando. Il dolore nella schiena e nelle spalle per lo sforzo di sostenerlo gareggiava con il pulsare sordo nella mia testa. Il Matto sedeva ancora dritto in sella ma non faceva alcun tentativo di conversazione. A un certo punto si offrì di prendere il principe su Malta con lui, ma declinai. Non pensavo che a lui o alla sua cavalla mancasse la forza. Non sapevo dire con esattezza perché sentissi di dover tenere con me il corpo di Devoto. Mi preoccupavo che rimanesse insensibile tanto a lungo. In qualche luogo, sapevo che la sua mente lavorava, che vedeva con
gli occhi della gatta, sentiva con il corpo della gatta. Prima o poi, avrebbe compreso... Il principe si riscosse fra le mie braccia. Rimasi in silenzio. Gli ci volle qualche momento per tornare in sé. Mentre riprendeva i sensi trasalì sgradevolmente, ricordandomi uno dei miei attacchi. Poi raddrizzò la schiena con un respiro rauco e improvviso. Un respiro affannoso, mentre girava con veemenza la testa da una parte all'altra, tentando di capire cosa gli stava succedendo. Lo sentii deglutire. Con voce arida e spezzata chiese: «Dove siamo?» Inutile mentire. Sopra di noi, sulla collina, le misteriose pietre erette di Lora gettavano le loro ombre. Le avrebbe certamente riconosciute. Non persi tempo a rispondergli. Messer Dorato cavalcò più vicino. «Mio principe, state bene? Siete rimasto a lungo privo di sensi.» «Sto bene. Dove mi state portando?» Arrivano! In un attimo, la nostra situazione era cambiata. Vidi il lupo correre verso di noi. Sulla strada dietro di lui erano apparsi all'improvviso alcuni cavalieri. Ne contai cinque a un primo sguardo. Due cani da caccia, entrambe bestie dello Spirito, correvano con loro. Mi girai sulla sella. Due colline più indietro gli altri cavalieri stavano comparendo su un crinale. Vidi uno alzare un braccio, con un saluto trionfante all'altro gruppo. «Ci hanno presi» dissi con calma al Matto. Lui sembrava sconvolto. «Sulla collina. Mettiamoci uno di quei tumuli alle spalle.» Allontanai Mianera dalla strada, e i miei compagni mi seguirono. «Lasciatemi andare!» mi ordinò il principe. Lottò fra le mie braccia, ma la lunga insensibilità lo aveva lasciato debole. Non era facile tenerlo fermo, ma non dovevamo andare lontano. Appena raggiungemmo il tumulo e la vicina pietra eretta, trattenni Mianera. Smontai senza grazia, ma tirai giù il principe con me. Mianera si allontanò a passo stanco, poi si girò a darmi un'occhiata di rimprovero. In un istante il Matto fu accanto a noi. Schivai il pugno di Devoto, gli afferrai il polso e passai dietro di lui. Gli presi l'altra spalla e lo tenni con fermezza, un braccio torto in alto dietro la schiena. Non fui più violento del necessario, ma lui non cedette facilmente. «Spezzarvi il braccio o slogarvi la spalla non vi ucciderebbe» gli dissi duro. «Ma vi impedirebbe di darci fastidio per qualche tempo.» Il principe si arrese, grugnendo dal dolore. Il lupo era un lampo grigio che risaliva la collina verso di noi.
«Ora che facciamo?» mi chiese il Matto guardandosi attorno con occhi sbarrati. «Ora resistiamo» dissi. I cavalieri sotto di noi già si aprivano per accerchiarci. Il tumulo alle nostre spalle era una misera barriera contro un attacco sferrato alle spalle, anzi ci impediva la vista. Il lupo era in piedi in mezzo a noi, ansante. «Morirete qui» disse il principe a denti stretti. Lo tenevo ancora stretto. «Molto probabile» concessi. «Morirete, e io andrò con loro.» La sua voce era tesa dal dolore. «Non siate stupidi. Lasciatemi andare. Mi unirò a loro. Voi potete fuggire. Prometto che chiederò di lasciarvi andare.» I miei occhi incontrarono quelli del Matto sopra la testa del ragazzo. Io sapevo cosa rispondere, ma d'altra parte ero anche consapevole di cosa sarebbe successo al principe se lo avessi lasciato andare. Forse ci avrebbe procurato un'occasione per seguirli di nuovo, ma ne dubitavo. La donnagatto ci avrebbe fatto inseguire e uccidere. Aspettare e morire resistendo, o morire dopo la fuga? Non volevo scegliere io la fine dei miei amici. Sono troppo stanco per fuggire. Io muoio qui. Lo sguardo del Matto si fissò su Occhi-di-notte. Non so se avesse capito quel lampo di pensiero, o se avesse semplicemente visto la stanchezza del lupo. «Restiamo e lottiamo» disse debolmente. Estrasse la spada dal fodero. Sapevo che non aveva mai combattuto in vita sua. Alzò la lama, molto incerto. Poi trasse un respiro, e compose il volto nell'espressione di messer Dorato. Squadrò le spalle e una luce di fredda competenza si accese nei suoi occhi. Non sa combattere. Non essere stupido. I cavalieri stavano per raggiungerci. Risalivano la collina verso di noi, al passo, permettendoci di contemplare l'arrivo della nostra morte. Hai un'alternativa? «Non puoi tenermi fermo e combattere!» esclamò Devoto, accalorato. Evidentemente credeva che avessero già vinto. «Nell'istante in cui mi lasci andare, scapperò. Morirete per niente! Lasciatemi libero, lasciate che gli parli. Forse posso salvarvi la vita». Non lasciarlo a lei. Uccidilo prima che lo prendano. Mi sentii un gran codardo, ma gli trasmisi lo stesso il pensiero. Non so se ce la faccio. Devi farlo. Entrambi sappiamo cosa vogliono da lui. Se non puoi ucciderlo, allora... portalo nel pilastro. Il ragazzo sa usare l'Arte, e tu una vol-
ta sei stato legato al Senza Odore. Può bastare. Va' nel pilastro. Portali con te. I cavalieri sotto di noi conferirono brevemente, poi ripresero ad allargarsi in cerchio mentre salivano. Come aveva promesso la donna, non volevano correre rischi. Ridevano e si lanciavano richiami. Come il principe, credevano di averci intrappolati. Non funzionerà. Non ricordi come è stato? Ci è voluta tutta la mia forza per tenerti insieme nel passaggio, ed eravamo strettamente collegati. Potrei tenere insieme il ragazzo attraverso il viaggio, o te, ma non tutti e due. Non so neppure se potrei portare con me il Matto. Il nostro collegamento nell'Arte è antico e sottile. Potrei perdervi tutti. Non devi scegliere. Io non posso venire con te. Sono troppo stanco, fratello. Ma starò qui e li tratterrò mentre voi starete scappando. «No» gemetti, proprio mentre il Matto diceva all'improvviso: «Il pilastro. Hai detto che il ragazzo stava usando l'Arte. Non puoi farlo anche tu?» «No!» gridai. «Non lascerò Occhi-di-notte a morire da solo! Come puoi pensarlo?» «Da solo?» Il Matto parve confuso. Un sorriso molto strano gli torse la bocca. «Ma non sarà da solo. Ci sarò io qui con lui. E...» Drizzò la schiena, squadrò le spalle. «Morirò prima di lasciare che lo uccidano.» Ah ecco, adesso sì che mi sento meglio. Ogni pelo di Occhi-di-notte era dritto mentre guardava la schiera di uomini e cavalli che avanzavano, ma i suoi occhi mi cercarono con un lampo di allegria. «Mandateci il ragazzo!» gridò un uomo alto. Lo ignorammo. «Pensi che quello sarebbe meglio per me?» chiesi al Matto. Erano pazzi, tutti e due. «Forse riuscirei a entrare nel pilastro. Potrei anche riuscire a trascinare il ragazzo con me, anche se non so se la sua mente rimarrebbe intatta. Ma dubito di poterti portare con me, Matto. E Occhi-di-notte rifiuta di andare.» «Andare dove?» chiese Devoto. Tentò di scrollar via la mia presa e gli torsi con maggior forza il braccio. Smise di lottare. «Per l'ultima volta, volete darcelo?» gridò il cavaliere alto. «Sto cercando di ragionare con lui!» chiamò messer Dorato. «Dammi tempo, uomo!» C'era panico nella sua voce. Poi il Matto mi mise la mano sulla spalla. «Amico mio.» Mi spinse leggermente verso la pietra. Indietreggiai, trascinando Devoto con me. Gli occhi del Matto non lasciarono mai i miei. Parlò piano e con attenzione, co-
me se fossimo soli e avessimo tutto il tempo del mondo. «So che non posso venire con te. Mi addolora che il lupo non voglia. Ma ti ripeto che devi andare e portar via il ragazzo. Non capisci? È ciò per cui sei nato, il motivo per cui sei rimasto in vita contro ogni previsione per tanti anni. Il motivo per cui ti ho costretto a rimanere in vita, malgrado tutto quello che ti hanno fatto. Ci deve essere un erede dei Lungavista. Salvalo e riportalo a Castelcervo, solo questo importa. Facciamo procedere il futuro sul percorso che ho scelto, anche se deve proseguire senza di me. Ma se falliamo, se lui muore...» «Ma di che parlate?» chiese adirato il principe. La voce del Matto si spense. Guardò giù per la collina gli uomini che avanzavano inesorabili, ma il suo sguardo sembrava andare più lontano. La mia schiena era quasi contro il monolito. Devoto era all'improvviso inerte nella mia presa, come ipnotizzato dalla voce dolce del Matto. «Se tutti moriamo qui...» continuò debolmente il Matto. «Allora... è la fine. Per noi. Ma non è l'unico cambiamento che provocheremo... il tempo deve cercare di scorrere come ha sempre fatto, spazzando via tutti gli ostacoli. Quindi... il fato trova Urtica. In tutti i tempi, il fato si scontra con l'ultimo Lungavista sopravvissuto. Qui e ora, noi proteggiamo Devoto. Ma se tutti cadiamo, se Urtica diventa l'ultimo centro di quella battaglia...» Sbatté le palpebre più volte, poi trasse un respiro logoro prima di rivolgersi di nuovo a me. Sembrava tornare da un lungo viaggio. Parlò con voce sommessa, come per darmi brutte notizie con dolcezza. «Non trovo nessun futuro in cui Urtica sopravvive dopo che il principe è morto.» Il suo viso si fece giallognolo e i suoi occhi erano vecchi quando ammise: «Nessuna morte rapida e dolce per lei.» Trasse un respiro profondo. «Se ti importa di me, fallo. Prendi il ragazzo. Tienilo in vita.» Ogni pelo del mio corpo era dritto per l'orrore. «Ma» dissi con voce strozzata. Tutti i sacrifici che avevo fatto per tenerla al sicuro? Tutto per niente? La mia mente completò il quadro. Burrich, Molly e i loro figli avrebbero resistito al suo fianco, sarebbero caduti con lei. Non riuscivo a respirare. «Per favore, vai» implorò il Matto. Non so cosa capì il ragazzo del nostro discorso. Era un peso che stringevo, immobilizzandolo con fermezza mentre il mio cervello correva furiosamente. Sapevo che non c'era scampo da quel labirinto in cui il fato ci aveva messi. Il lupo formulò il mio pensiero per me. Se rimani, moriamo tutti. Se il ragazzo non muore, la gente dello Spirito lo prenderà e lo userà per i pro-
pri scopi. Morire sarebbe più dolce. Non puoi salvarci, ma puoi salvare il ragazzo. Non posso lasciarti qui. Non possiamo finire così, tu e io. Le lacrime mi accecavano proprio quando avevo bisogno di vedere con maggior chiarezza. Non solo possiamo, dobbiamo. Il branco non muore se il cucciolo sopravvive. Sii lupo, fratello. Così è tutto più chiaro. Lasciaci qui a combattere e salva il cucciolo. Salva anche Urtica. Vivi bene, anche per me, e un giorno o l'altro, racconta a Urtica di me. E poi non c'era più tempo. «Troppo tardi!» gridò qualcuno. La linea di uomini e cavalli aveva curvato per circondarci. «Mandateci il ragazzo, e vi finiremo subito! Altrimenti...» E rise ad alta voce. Non temere per noi. Li costringerò a ucciderci in fretta. Il Matto sciolse le spalle. Alzò la spada con entrambe le mani. La abbassò una volta, per provare, poi la tenne in alto. «Vattene in fretta, Amore.» In posa, sembrava più un ballerino che un guerriero. Potevo estrarre la spada o tener fermo il principe. La pietra eretta era proprio dietro di me. Le gettai uno sguardo rapido. Non riuscivo a identificare il simbolo inciso su quel lato, eroso dal vento. Dovunque mi portasse, doveva andar bene. Non riconobbi la mia voce quando chiesi al mondo: «Come può la cosa più dura che io abbia mai fatto essere anche la più vigliacca?» «Che state facendo?» chiese il ragazzo. Sentiva che qualcosa stava per accadere, e pur non indovinando cosa, cominciò a lottare selvaggiamente. «Aiutatemi!» gridò ai Pezzati che ci circondavano. «Liberatemi subito!» Il tuono dei cavalli alla carica fu la risposta. Un'ispirazione mi colpì. Mentre stringevo il ragazzo che si dibatteva, dissi al Matto: «Tornerò. Lo porterò dall'altra parte e tornerò.» «Non mettere a rischio il principe!» Il Matto era inorridito. «Stai con lui e proteggilo. Se tornassi per noi e venissi ucciso, lui rimarrebbe da solo in... dovunque sia. Vai! Ora!» L'ultimo sorriso che mi rivolse era il vecchio sorriso del Matto, tremulo eppure beffardo, in spregio a tutto il male che il mondo poteva fargli. C'era una follia nei suoi occhi dorati che non era paura della morte, piuttosto accettazione. Non sopportavo di guardarla. Il cerchio sempre più stretto di cavalieri ci travolse. Il Matto menò un colpo di spada, tagliando un arco luccicante nel giorno azzurro. Poi un Pezzato caricò tra noi, agitando la lama e gridando. Trascinai indietro il principe con me.
Colsi un ultimo sguardo del Matto in piedi davanti al lupo, la spada in entrambe le mani. Era la prima volta che lo vedevo reggere un'arma come se davvero avesse intenzione di usarla. Sentii il clangore del metallo contro il metallo e il ringhio crescente del lupo mentre si avventava sulla gamba di un cavaliere. Il principe urlò selvaggiamente, un grido di furia senza parole, più felino che umano. Un cavaliere ci caricò con la spada alzata. Ma la pietra nera e torreggiante era contro la mia schiena. «Tornerò!» promisi. Poi strinsi un braccio intorno a Devoto, tenendomelo contro il petto. Gli parlai all'orecchio. «Tieniti saldo!» Fu l'unico avvertimento che potei dargli. Poi mi girai, e premetti la mano contro il simbolo inciso sulla pietra. 23 La spiaggia L'Arte è molto grande, eppure intimamente piccola. È immensa come il mondo e il cielo sopra di esso, e minuscola come il cuore segreto di un uomo. L'Arte scorre, e la si può seguire, o sentirla fluire, o includerla tutta in sé stessi. Il medesimo senso di immediatezza pervade tutti. Per questo bisogna dominare sé stessi prima di dominare l'Arte. Lapillo, Mastro d'Arte della regina Frugale Mi aspettavo oscurità e disorientamento. Mi aspettavo di essere attirato dall'Arte, e costretto a lottare per tenere insieme il principe e me. Mi forzai a essere consapevole di entrambi, e a tenerlo intatto. Stringerlo all'interno delle mie barriere d'Arte era come afferrare una manciata di sale in un diluvio. Se avessi anche solo allentato la presa lui sarebbe gocciolato via da me. Era tutto questo, e la sensazione disorientante che stavamo cadendo verso l'alto. Strinsi a me Devoto, promettendomi che presto sarebbe finita. Non mi aspettavo di precipitare dal pilastro in un mare gelato. Ansimai sconvolto e l'acqua salata mi invase la bocca e il naso. Turbinammo insieme fra le onde. Colpii qualcosa con la spalla. Devoto lottò ferocemente, e quasi persi la presa. L'acqua ci risucchiava, e poi, proprio quando scorsi la luce attraverso uno strato di verde torbido e dedussi da che parte era la superficie, un'onda ci travolse e ci scagliò su una spiaggia rocciosa.
L'impatto mi fece perdere la presa sul principe. L'ondata ci fece rotolare sulle rocce, impedendoci di prendere fiato. Gli scogli incrostati di mitili e cirripedi mi lacerarono. Poi, mentre l'onda si ritirava, il mio corpo si impigliò nelle rocce, agganciato per la cintura, e l'acqua mi lasciò in secca. Alzai la testa, tossendo e vomitando acqua e sabbia. Sbattei le palpebre, tentando di scorgere Devoto, e vidi che era ancora in acqua. Disteso a pancia in giù, cercava di afferrare gli scogli mentre l'onda ritirandosi lo trascinava. Scivolò verso acque più profonde, poi riuscì a trovare una presa e giacque immobile, ansimando. Riuscii a prendere fiato. «Alzati!» gridai. L'ordine venne fuori come un gracchiare rauco. «Prima della prossima onda. Alzati.» Mi guardò senza capire. Mi tirai in piedi e mi gettai verso di lui. Afferrandolo per il colletto lo trascinai sui cirripedi frantumati e sulla spiaggia rocciosa verso la costa più elevata. Un'onda ci prese e mi gettò in ginocchio, ma non era abbastanza potente per trascinarci di nuovo al largo. Quando si ritirò, Devoto riuscì a mettersi in piedi. Aggrappati l'uno all'altro, superammo barcollando le pietre aguzze fino a una striscia di sabbia nera drappeggiata di viscide alghe aggrovigliate. Non appena giungemmo alla sabbia asciutta lasciai andare Devoto. Il principe mosse forse tre passi e poi crollò. Per qualche tempo giacque sul fianco, ansimando. Poi sedette, sputò sabbia e si asciugò il naso nella manica bagnata. Si guardò intorno senza comprendere, e quando i suoi occhi tornarono a me aveva il volto di un bambino confuso. «Cosa è successo?» La sabbia mi scricchiolava tra i denti ogni volta che muovevo la bocca. Sputai. «Abbiamo superato un Pilastro d'Arte.» Sputai di nuovo. «Un che?» «Un Pilastro d'Arte» ripetei. Mi girai per farglielo vedere. Non c'era niente là fuori, solo l'oceano. Un'altra onda si infranse, arrivando più in alto sulla spiaggia. La schiuma bianca e sporca bordò la sabbia mentre l'acqua si ritirava. Mi alzai impacciato e fissai la marea entrante. Acqua. Onde in movimento. Gabbiani che strillavano. Nessun Pilastro d'Arte in pietra nera rompeva la rigonfia superficie verde. Nessuna traccia di dove ci aveva depositati. Nessun modo di tornare indietro. Avevo lasciato i miei amici a morire. Malgrado ciò che aveva detto il Matto, avevo deciso di riattraversare subito il pilastro. Altrimenti non me ne sarei andato, non se avessi pensato di non fare ritorno. Dirmelo non mi
fece sentire meno codardo, neanche un poco. Occhi-di-notte! Lo cercai disperatamente, scagliando il richiamo con tutta la mia forza. Nessuno rispose. «Matto!» La parola mi fu strappata, un grido futile di Spirito e Arte e voce. I gabbiani in lontananza parvero riecheggiarlo beffardi. La mia speranza si affievolì con le loro grida fioche sul mare battuto dai venti. Immobile, fissai l'acqua finché un'onda entrante non lambì i miei piedi. Il principe non si era mosso, se non per crollare di nuovo sul fianco sulla sabbia bagnata. Giacque con sguardo assente, rabbrividendo. Mi distolsi lentamente dalle onde e osservai la zona. Rupi nere sorgevano di fronte a noi. La marea stava salendo. La mia mente assommò tutto. «Alzati. Dobbiamo muoverci prima che la marea ci intrappoli.» A sud le rupi rocciose finivano in una mezzaluna di sabbia nera. Dietro si stendeva una piana erbosa. Mi chinai e afferrai il braccio del principe. «Avanti» ripetei. «A meno che tu non voglia affogare qui.» Il ragazzo si alzò barcollando, senza protestare. Camminammo a fatica lungo la spiaggia mentre le onde salivano verso di noi. La desolazione era un peso freddo dentro di me. Non osavo soffermarmi su ciò che avevo appena fatto. Era troppo mostruoso. Forse, mentre camminavo su quella spiaggia, il loro sangue fluiva sulle spade dei nemici? Fermai la mente. Come per alzare barriere contro un'intrusione, bloccai ogni sentimento. Arrestai tutti i pensieri e divenni lupo, preoccupato solo del presente. «Cos'era?» chiese Devoto all'improvviso. «Quella... sensazione. Quell'attrazione...» Gli mancarono le parole. «Era l'Arte?» «In parte» risposi brusco. Sembrava fin troppo interessato a ciò che aveva appena sperimentato. Lo aveva chiamato così intensamente? L'attrazione dell'Arte era una trappola terribile per gli imprudenti. «Io... lui ha tentato di insegnarmi, ma non poteva dirmi com'è. Non sapevo se ci sarei riuscito, e neanche lui. Ma quello!» Si aspettava che il suo entusiasmo meritasse risposta. Non ne diedi. L'Arte era l'ultima cosa di cui volevo parlare in quel momento. Non ne volevo parlare affatto. Non volevo infrangere l'insensibilità che mi avvolgeva. Giunti alla spiaggia, mantenni il principe in movimento. I suoi vestiti bagnati sventolavano contro il corpo, e lui si stringeva le braccia intorno al busto per difendersi dal freddo. Ascoltai i suoi respiri tremanti. Una lucentezza verdastra sulla sabbia si rivelò un ruscello d'acqua dolce diretto al
mare. Lo percorsi controcorrente, allontanandomi dalla spiaggia sabbiosa in un campo di ruvida saggina, fino a un luogo dove era abbastanza profondo per prendere acqua nelle mani a coppa. Mi lavai molte volte la bocca e poi bevvi. Stavo schizzandomi acqua sul viso per togliermi la sabbia dagli occhi e dalle orecchie quando il principe parlò di nuovo. «E messer Dorato e il lupo? Dove sono, cosa è successo?» Guardò l'acqua come aspettandosi di vederli là. «Non sono potuti venire. Ormai immagino che i tuoi amici li abbiano uccisi.» Mi stupii che potessi parlare così semplicemente. Niente lacrime, niente singhiozzi. Era un pensiero troppo terribile per essere vero. Non potevo permettermi di considerarlo. Gli scagliai quelle parole, sperando di vederlo trasalire. Ma il principe scosse il capo, come se non avessero alcun senso, poi chiese stordito: «Dove siamo?» «Siamo qui» risposi, e risi. Non sapevo che la rabbia e la disperazione potessero far ridere. Non era un suono piacevole, e il principe si ritrasse da me per un istante. Poi raddrizzò la schiena e puntò un dito accusatore verso di me. «Chi sei?» chiese, come se avesse scoperto all'improvviso l'unico mistero dietro a tutte le sue domande. Ancora chino vicino all'acqua, alzai lo sguardo su di lui. Bevvi un'altra sorsata prima di rispondere. «Tom lo Striato.» Mi lisciai indietro i capelli con le mani bagnate. «Per questo. Nacqui con questa riga bianca sulla tempia, e così mi chiamarono i miei genitori.» «Bugiardo.» Devoto pronunciò la parola con piatto disprezzo. «Sei un Lungavista. Non hai l'aspetto di un Lungavista, ma possiedi l'Arte. Chi sei? Un lontano cugino? Il bastardo di qualcuno?» Molti mi avevano dato del bastardo, ma mai qualcuno che avrei potuto chiamare figlio. Guardai Devoto, l'erede di Veritas e Kettricken dal seme del mio corpo. Bene, se sono un bastardo, tu cosa sei? Invece dissi: «Ha importanza?» Mentre Devoto lottava per trovare una risposta, esaminai i dintorni. Ero bloccato lì con lui, almeno finché la marea non fosse calata. Se fossi stato fortunato avrebbe scoperto il pilastro che ci aveva portati lì, e io lo avrei usato per ritornare. Se non avessi avuto fortuna, l'acqua non sarebbe scesa di livello fino a quel punto, e avrei dovuto scoprire dove eravamo e come tornare a Castelcervo. Il principe parlò con rabbia per mascherare l'improvvisa incertezza.
«Non possiamo essere così lontani. Ci è voluto solo un momento per arrivare.» «La magia che abbiamo usato non si cura della distanza. Potremmo anche non essere più nei Sei Ducati.» All'improvviso decisi che non aveva bisogno di sapere altro. Probabilmente la donna avrebbe sentito tutto quello che gli dicevo. Più tacevo, meglio era. Con calma flemmatica Devoto sedette per terra. «Ma» disse, e rimase in silenzio. Aveva l'espressione di un bambino apprensivo alla ricerca disperata di qualcosa di familiare. Ma non mi commosse. Anzi, repressi l'impulso di dargli una sberla sulla nuca. Per quel lagnoso ragazzino egocentrico avevo dato le vite del mio lupo e del mio amico. Sembrava l'affare peggiore che avessi mai fatto. Urtica, mi ricordai. Salvare Devoto poteva tenere lei al sicuro. Erede dei Lungavista o no, era l'unico valore che riuscissi a vedere in lui. Ero deluso da mio figlio. Esaminai quel pensiero, e mi ripetei che Devoto non era mio figlio, e dato che non avevo accettato alcuna responsabilità per la sua educazione, non avevo diritto a essere deluso o soddisfatto di lui. Mi allontanai. Lasciai prevalere il lupo in me, e il lupo mi disse di pensare ai bisogni immediati. Il vento lungo la spiaggia, costante e gelido, schiaffeggiava gli indumenti bagnati contro il mio corpo. Trovare legna, accendere un fuoco, se possibile. Asciugarsi. Intanto cercare qualcosa di commestibile. Inutile tormentarsi per ciò che era stato di Occhi-di-notte e del Matto. La marea stava ancora salendo. Quindi il riflusso sarebbe probabilmente tornato nel buio della notte. Il successivo sarebbe arrivato in un qualche momento del mattino. Dovevo rassegnarmi al fatto che ci voleva quasi un giorno intero per tentare di tornare dai miei amici. Quindi, per ora, meglio recuperare le forze riposandosi. Guardai la foresta oltre la piana erbosa. Lì gli alberi erano ancora nel rigoglio dell'estate, eppure in qualche modo mi colpì come un luogo ostile e senza vita. Decisi che non aveva senso attraversare il prato e cacciare sotto gli alberi. Non avevo cuore per una caccia e un'uccisione. Le piccole creature della spiaggia dovevano bastare. Era una pessima decisione da prendere durante una marea montante. C'era legna per accendere un fuoco, abbandonata poco più avanti lungo la spiaggia da un temporale, fuori dalla portata della marea; ma i mitili blu e altri molluschi erano già sommersi. Scelsi un luogo dove le rupi digradavano nella piana, abbastanza protetto dal vento, e accesi un fuocherello.
Poi mi tolsi stivali e calze e tunica, e strizzai tutta l'acqua che potevo. Appesi gli indumenti ad asciugare su lunghi pezzi di legno vicino al fuoco, e rovesciai gli stivali su due bastoni per svuotarli. Sedetti accanto al fuoco, stringendomi le braccia attorno al corpo contro il freddo del giorno morente. Non aspettandomi nulla, mi avventurai a cercare di nuovo. Occhi-dinotte? Nessuna risposta. Non significava niente, mi dissi. Se lui e il Matto erano riusciti a scappare, il lupo non avrebbe cercato di contattarmi per paura di essere scoperto dai Pezzati. Poteva significare solo che sceglieva di essere silenzioso. O poteva significare che era morto. Mi avvolsi le braccia intorno e mi tenni stretto. Non dovevo pensare così, o il dolore mi avrebbe fatto a pezzi. Il Matto mi aveva chiesto di tenere in vita il principe Devoto. Lo avrei fatto. E i Pezzati non avrebbero osato uccidere i miei amici. Avrebbero voluto sapere cosa era stato del principe, come aveva potuto scomparire sotto i loro occhi. Cosa avrebbero fatto al Matto per ottenere risposte? Non dovevo pensarci. Di malavoglia, mi alzai per cercare il principe. Il ragazzo non si era mosso da dove l'avevo lasciato. Mi avvicinai da dietro, e poiché non si girò minimamente verso di me, lo spinsi senza cerimonie con un piede. «Ho acceso un fuoco» dissi brusco. Non rispose. «Principe Devoto?» Non riuscii a trattenere la derisione nel tono della mia voce. Non si mosse. Mi accovacciai accanto a lui e gli misi una mano sulla spalla. «Devoto.» Mi chinai a guardarlo in faccia. Non era li. Il volto inespressivo, gli occhi spenti, le labbra socchiuse. Brancolai verso il nostro tenue legame nell'Arte. Era come tirare una lenza spezzata. Nessuna resistenza, come se non ci fosse mai stato qualcuno all'altro capo. Mi giunse l'eco terribile di un'antica lezione. «Se cedete all'Arte, se non resistete alla sua attrazione, l'Arte vi consumerà, e diventerete un bambino bavoso in forma di adulto, che non vede niente, non sente niente...» Mi si drizzarono i capelli sulla nuca. Scossi il principe, ma la testa dondolò sul collo. «Dannazione!» ruggii al cielo. Dovevo prevedere che avrebbe tentato di raggiungere la gatta, dovevo sapere che poteva succedere. Tentai di calmarmi a ogni costo. Chinandomi, gli presi il braccio e me lo misi sulle spalle. Gli cinsi la vita e lo tirai in piedi. Mentre lo trascinavo
lungo la spiaggia i suoi piedi rigavano la sabbia. Raggiunsi il fuoco e lo distesi lì vicino. Lui crollò scomposto sul fianco. Trascorsi un po' di tempo ad alimentare le fiamme con i detriti trovati nei dintorni. Feci un fuoco grande e caldo, senza pensare a chi o cosa poteva attirare. Dimenticai fame e stanchezza. Tolsi gli stivali al principe, versai fuori l'acqua e li misi capovolti ad asciugare. La mia tunica ora fumava di calore. Sfilai la tunica bagnata di Devoto e l'appesi. Gli parlai per tutto il tempo, dapprima rimproverandolo e provocandolo, poi supplicandolo. Nessuna risposta. La pelle era fredda. Gli infilai a fatica le braccia nelle maniche e gli misi addosso la mia tunica calda. Gli sfregai le braccia, ma la sua immobilità sembrava invitare il freddo a riempirlo. A ogni momento che passava, il suo corpo sembrava sempre meno vivo. Non era il respiro affannoso o il cuore che batteva più lentamente: il mio senso della sua presenza nello Spirito stava svanendo, proprio come se stesse allontanandosi da me. Finalmente sedetti dietro di lui. Lo attirai a me, la schiena contro il mio petto, e lo circondai con le braccia nello sforzo vano di scaldarlo. «Devoto» gli dissi all'orecchio. «Torna indietro, ragazzo. Torna. Hai un trono da ereditare, e un regno da governare. Non puoi andartene così. Torna, ragazzo. Non può essere stato tutto inutile. Il Matto e Occhi-di-notte non possono essere morti invano. Cosa dirò a Kettricken? Cosa mi dirà Umbra? Dèi, dèi, cosa mi direbbe ora Veritas?» Non era tanto quello che Veritas mi avrebbe detto, quanto quello che Veritas avrebbe fatto per me. Tenni vicino suo figlio e accostai il viso alla sua guancia senza barba. Trassi un respiro profondo e lasciai cadere tutte le mie barriere. Chiusi gli occhi, e scivolai nell'Arte a cercarlo. Quasi mi persi io stesso. Ci sono stati momenti in cui riuscivo a malapena a raggiungere il flusso dell'Arte, e in altri tempi e luoghi ho sperimentato l'Arte come un fluido fiume di potere, incredibilmente rapido e forte. Da ragazzo mi ero quasi perso in quel fiume, sostenuto e liberato solo dall'intervento di Veritas. Da allora ero cresciuto in forza e controllo. O così credevo. Provai la sensazione di tuffarmi in una rapida corrente di Arte. Non l'avevo mai sentita così poderosa e seducente. Nella mia attuale condizione mentale sembrava propormi la risposta più completa e perfetta. Lasciati andare. Cessa di essere questo Fitz intrappolato in un corpo coperto di cicatrici. Cessa di sanguinare dolore per la morte dei tuoi amici più cari. Lasciati andare. L'Arte mi offriva esistenza senza pensiero. Non era la tenta-
zione del suicida, fare in modo che il mondo si fermasse per lui. Era molto più allettante. Cambia la forma del tuo essere e lasciati indietro tutte quelle considerazioni. Immergiti. Se avessi dovuto pensare solo a me stesso, so che avrei ceduto. Ma il Matto mi aveva ordinato di non lasciarlo morire invano, e il mio lupo mi aveva chiesto di vivere e raccontare di lui a Urtica. Kettricken voleva che le riportassi suo figlio. Umbra contava su di me. E anche Ticcio. Così mi trovai in quella corrente spumeggiante di sensazioni fluide, e lottai per rimanere me stesso. Non so quanto mi ci volle. Il tempo non ha significato in quel luogo. Quello è uno dei pericoli dell'Arte. Una parte di me sapeva che stavo bruciando la forza del mio corpo, ma quando si è immersi nell'Arte è difficile pensare alle cose fisiche. Quando fui sicuro di me, mi tesi cautamente in cerca di Devoto. Avevo pensato che sarebbe stato facile trovarlo. La notte prima non mi ci era voluto alcuno sforzo. Gli avevo solo afferrato la mano, e lo avevo trovato all'interno dell'Arte. Quella sera, anche se sapevo che da qualche parte cullavo il suo corpo sempre più freddo, non riuscivo a trovarlo. Difficile descrivere come lo cercai. L'Arte non è davvero un luogo o un tempo. A volte penso che possa essere descritta come trovarsi all'esterno dei confini dell'identità. Altre volte sembra una definizione troppo limitante, perché l'identità non è l'unico confine che diamo ai modi in cui sperimentiamo l'esistenza. Mi aprii all'Arte e la lasciai fluire attraverso di me come acqua in un setaccio, eppure non trovai traccia del principe. Mi allargai sotto il flusso dell'Arte come un pendio pieno di minuscole erbe alla luce del sole e lasciai che toccasse ogni filo e ogni foglia, e ancora non lo sentivo. Mi intrecciai in tutta l'Arte, attorcigliandomi in essa come edera, eppure non riuscivo a separare il ragazzo dal flusso. Aveva lasciato un senso di sé stesso nell'Arte, ma, come un'impronta nella polvere fine in un giorno ventoso, quella traccia stava sbriciolandosi in granelli insignificanti che fluivano con l'Arte. Radunai ciò che potevo di lui, ma non era il principe Devoto più di quanto il profumo di un fiore sia il fiore. Tuttavia strinsi a me i pezzi che riconoscevo e li trattenni ferocemente. Si faceva più difficile per me richiamare quale fosse esattamente l'essenza del principe. Non l'avevo mai conosciuto bene, e il corpo che il mio corpo reggeva materialmente stava perdendo in fretta il collegamento con la sua identità. Nello sforzo di trovare il ragazzo, mi unii del tutto all'Arte. Non mi arre-
si, ma mi staccai da tutti gli appigli di sicurezza a cui mi ero sempre aggrappato. Che sensazione bizzarra. Ero un aquilone che volava con il filo spezzato, una barchetta senza timoniere. Pur senza perdere il senso di me stesso, avevo rinunciato alla certezza assoluta di riuscire a tornare al mio corpo. Eppure non ero più vicino a trovare Devoto. Divenni solo più consapevole della vastità che mi circondava e di quanto il mio compito fosse senza speranza. Sarebbe stato più facile catturare in una rete il fumo di un fuoco spento che rimettere insieme il ragazzo. E per tutto il tempo l'Arte mi sfiorava, sussurrando promesse. Era fredda e veloce solo finché resistevo. Se avessi ceduto, sapevo che sarebbe diventata calore e conforto e appartenenza. Se mi fossi arreso, mi sarei immerso in un'esistenza pacifica senza consapevolezza individuale. Che c'era di così terribile? Occhi-di-notte e il Matto erano andati. Avevo fallito nella mia missione di riportare Devoto a Kettricken. Molly non mi aspettava; aveva una vita e un amore. Ticcio, mi dissi, tentando di risvegliare un senso di responsabilità. Che sarebbe stato di Ticcio? Ma sapevo che Umbra si sarebbe occupato dei bisogni di Ticcio, dapprima per senso del dovere verso di me, ma ben presto per amore del ragazzo stesso. E Urtica? Che le sarebbe successo? La risposta era terribile. L'avevo già rovinata. Sapevo di non poter ritrovare Devoto, e senza di lui Urtica era condannata. Volevo forse tornare e assistere alla sua fine? Potevo esserne consapevole e rimanere sano di mente? Poi ebbi un pensiero peggiore. In quel luogo senza tempo, era già accaduto tutto. In quel momento Urtica era già morta. Quello mi convinse. Lasciai andare i frammenti di Devoto e li guardai fluire via da me. Come potrei descriverlo? Era come trovarmi su un pendio soleggiato e liberare un arcobaleno che tenevo imprigionato fra le dita. Mentre si allontanava, compresi che quelle tracce di lui si erano aggrovigliate con la mia essenza. La mia identità fluiva via con la sua. Non importava. FitzChevalier Lungavista si strappava da me, il filo di me stesso si dipanava, impigliato nel flusso dell'Arte. Una volta avevo riversato i miei ricordi in un drago di pietra. Avevo abbandonato con gratitudine il dolore e l'amore senza speranza e una dozzina di altre esperienze. Avevo ceduto quella parte della mia vita in modo che il drago avesse abbastanza essenza per prendere vita. Quello sembrava diverso. Un'emorragia piacevole eppure non meno mortale. Assistetti passivo al prosciugamento. Ora smettila. Caldo divertimento femminile nella voce che mi riempì la mente. Non riuscii a impedirle di avvolgere il filo del mio essere attorno a
me come lana in una matassa. Avevo dimenticato quanto gli umani sanno essere appassionatamente drammatici al colmo della loro stoltezza. Per questo ci piacevate tanto. Animaletti così ardenti. Chi? Non seppi raffinare il pensiero più di così. La sua presenza mi lasciò vacillante di felicità. E anche questo è tuo, suppongo. No, aspetta, questo è uno diverso. Siete in due, e vi state disfacendo! Vi siete persi? Persi. Le ripetei il pensiero, incapace di formularne uno autonomamente. Ero un infante cullato, adorato per la mia sola presenza, e questo mi lasciava invadere dalla gioia. Il suo amore mi pervase di calore. Non ero mai stato neanche capace di immaginarlo: ero amato a sufficienza, e valutato a sufficienza, e non avevo bisogno di altro. Era una «sufficienza» più generosa dell'abbondanza, più ricca del tesoro scintillante di un re. Mai in vita mia avevo sperimentato quella sensazione. Torna indietro. La prossima volta stai più attento. Molti altri non si sarebbero neanche accorti di averti attirato. Come staccare un grumo di lana da un abito, pensai con lieve delusione. Mentre ancora mi teneva ero troppo ubriaco di piacere per oppormi, anche se sapevo che stava per fare l'impensabile. Aspetta aspetta aspetta, riuscii a dire, ma il pensiero era senza peso e lei non mi prestò attenzione. Per meno di un battito di ciglia fui consapevole di Devoto accanto a me. Poi ero tornato negli orridi confini del mio miserabile corpicino. Doleva, era freddo e danneggiato, danni vecchi, danni nuovi, non aveva mai funzionato bene in primo luogo, e peggio di tutto, era privo di tutto. Era crivellato di mancanze e necessità grandi come abissi. Lì non avevo e non avrei mai avuto abbastanza amore o considerazione o... Mi scaraventai fuori di nuovo. Semplicemente, il mio corpo diede un grande scossone e crollò sulla sabbia. Non ne potevo uscire. Ero compresso e soffocato nella carne malformata che mi rivestiva e mi confinava, e non riuscivo a trovare un'uscita. Il disagio era acuto e allarmante, come sentirsi disarticolare una giuntura o essere strangolato. Più lottavo, più precipitavo nelle membra che si dibattevano, finché non fui disperatamente affondato nel mio essere sudato e tremante. Mi arresi al fastidio di un corpo fisico. Freddo. Sabbia nella cintura bagnata delle brache, sabbia nell'angolo di un occhio e nel naso. Assetato. Affamato. Coperto di lividi e tagli. Non amato. Mi tirai lentamente a sedere. Il fuoco era quasi spento; ero stato lontano
per parecchio tempo. Mi alzai rigido e lanciai l'ultimo pezzo di legno sui tizzoni. Il mondo tornò al suo posto attorno a me. Le mie perdite mi sommersero del tutto come la notte che mi circondava. Rimasi immobile, piangendo il Matto e Occhi-di-notte, ma ancor più devastato per essere stato abbandonato da... da qualunque cosa fosse stata. Non era come svegliarsi da un sogno, piuttosto il contrario. In lei c'erano state verità e immediatezza e la semplicità dell'essere. Ero immerso di nuovo in questo mondo, un intrico di distrazioni e seccature, illusioni e trucchi. Avevo freddo e la spalla doleva e il fuoco si stava spegnendo, e tutti quei malesseri mi tormentavano. Sopra a ogni cosa incombeva il problema del principe Devoto, e di come tornare al Cervo, e del fato di Occhi-di-notte e del Matto. Eppure perfino quelle cose ora sembravano solo divagazioni che danzavano davanti ai miei occhi per distogliere la mia attenzione dalla realtà immensa al di là. Tutta questa esistenza era fatta di dolori banali e sofferenze strazianti, e ognuno era solo un'altra maschera tra me e il volto dell'eterno. E tuttavia gli strati di maschere erano tornati, e andavano accettati. Il mio corpo rabbrividì. La marea stava calando di nuovo. Non vedevo nulla oltre il cerchio del nostro fuoco, ma sentivo le acque ritirarsi nel ritmo delle onde. Nell'aria c'era l'odore inconfondibile della bassa marea, alghe scoperte e molluschi. Il principe giaceva sulla schiena a fissare il cielo. Lo guardai e dapprima pensai che fosse svenuto. Nella luce mutevole del fuoco morente vidi solo cavità nere dove dovevano essere i suoi occhi. Poi parlò. «Ho fatto un sogno.» Meraviglia e incertezza nella voce. «Ma che bello.» Parlai con indifferente derisione. Ero incredibilmente sollevato che fosse di nuovo nel suo corpo e potesse parlare. Allo stesso tempo odiavo essere intrappolato di nuovo nel mio corpo e doverlo ascoltare. Devoto sembrava insensibile alla mia sgarbatezza. La voce si era addolcita. «Non ho mai fatto un sogno come quello. Potevo sentire... tutto. Ho sognato che mio padre mi teneva insieme e mi diceva che sarei stato bene. Nient'altro. Ma la parte più strana era che mi bastava.» Il ragazzo mi sorrise. Era un sorriso luminoso, saggio e giovane. Lo faceva assomigliare a Kettricken. «Devo trovare altra legna» dissi infine. Voltai le spalle alla luce e al fuoco e al ragazzo sorridente e mi allontanai nell'oscurità. Non andai a cercare legna. Ritirandosi, le onde avevano lasciato la sabbia bagnata e compatta sotto i miei piedi nudi. Era sorta una falce evane-
scente di luna. La guardai, poi guardai il cielo, e il mio stomaco sprofondò. Secondo le stelle eravamo molto più a sud dei Sei Ducati. La mia esperienza con i Pilastri d'Arte era che potevano risparmiare alcuni giorni di viaggio. Questa prova del loro potere non era rassicurante. Se la bassa marea dell'indomani non avesse scoperto la pietra, avremmo dovuto affrontare un lungo viaggio verso casa, senza nessun aiuto. La luna mi ricordò anche che il tempo stava per scadere. Ancora otto notti e la luna nuova avrebbe annunciato la cerimonia di fidanzamento di Devoto. Il principe sarebbe stato al fianco della narcheska? Mi era difficile dare importanza alla domanda. Ci sono momenti in cui non pensare richiede tutta la concentrazione. Non so fin dove camminai prima di calpestare la cosa. Si spostò nella sabbia bagnata sotto il mio piede, e per un istante pensai di aver trovato una lama di coltello piatta sulla sabbia. Nell'oscurità mi chinai e la tastai. La raccolsi. Era lunga come la lama di un macellaio, e di forma simile. Era dura e fredda, non sapevo se di pietra o metallo. Ma non era un coltello. La percorsi cautamente con le dita. Non aveva un orlo affilato. Aveva una specie di venatura in rilievo, una leggera cresta longitudinale e solchi paralleli che si dipartivano ad angolo da entrambi i lati della cresta. Un'estremità finiva in una specie di tubicino. Era pesante, ma non quanto avrebbe dovuto essere. La strinsi nell'oscurità, sicuro di sapere cosa fosse, ma incapace di richiamare quella conoscenza. Era familiare in modo misterioso, come se avessi raccolto un oggetto che mi era appartenuto molto tempo prima. La cosa misteriosa mi distrasse gradevolmente dai miei pensieri. La tenni in mano mentre continuavo lungo la spiaggia. Prima di una dozzina di passi ne calpestai un'altra. La raccolsi. Le paragonai al tatto. Non erano esattamente identiche: una era di poco più lunga. Le soppesai fra le mani. Quando trovai la terza non ne fui sorpreso. La sollevai dalla sabbia e la ripulii dal terriccio bagnato. Poi rimasi immobile dov'ero. Era come se qualcosa mi stesse aspettando. Si librava incapace di prendere forma senza la mia volontà. Avevo la stranissima sensazione di trovarmi in piedi sull'orlo di una rupe. Ancora un passo, e sarei precipitato verso la morte, o avrei scoperto di saper volare. Indietreggiai. Mi voltai e camminai di nuovo verso il fuoco morente sulla spiaggia. Vidi la sagoma di Devoto passare di fronte alle fiamme, e le scintille balzarono su nella notte mentre lasciava cadere altra legna sul fuoco. Ebbene, almeno sapeva tenersi al caldo. Fu difficile tornare al cerchio di luce. Non volevo affrontarlo, non vole-
vo le sue domande e le sue accuse. Non volevo raccogliere le redini della mia vita. Ma quando raggiunsi il fuoco, Devoto era disteso lì accanto e fingeva di dormire. Indossava la sua tunica, e la mia era drappeggiata sui rami a scaldarsi e asciugarsi. La indossai in silenzio. Mentre chiudevo il colletto le mie dita incontrarono l'amuleto di Jinna. Ah, ecco. Quello spiegava il sorriso e le parole gentili. Mi distesi dal mio lato del fuoco. Prima di chiudere gli occhi, esaminai gli oggetti che avevo trovato. Erano penne. Di pietra o metallo, ancora non sapevo dirlo. Nella luce ingannevole del fuoco erano color grigio scuro. Capii subito dove andavano. Dubitai che vi sarebbero mai state poste. Le deposi in terra accanto a me e chiusi gli occhi, rifugiandomi nel sonno. 24 Scontri Allora Jack si fa avanti e si ferma davanti all'Altro, dondolandosi sfacciatamente sui talloni. «Oh, ho» dice, e solleva il sacchetto di ciottoli rossi che ha raccolto. «Dunque tutto quello che giace su questa spiaggia è tuo? Bene, io dico che quello che ho raccolto è mio, e chi vuole ciò che è mio non lo avrà senza che io mi prenda in cambio un pezzo della sua carne.» E Jack mostra all'Altro tutti i denti, bianchi quelli davanti e neri quelli di dietro, e stringe il pugno come il nodo di un albero. «Ti batterò» dice, «e ti strapperò le orecchie.» E di certo lo avrebbe fatto, solo che gli Altri non hanno più orecchie di un rospo, come sanno anche i bambini. Ma l'Altro sapeva che non avrebbe avuto il sacchetto di ciottoli rossi senza lottare. Quindi in un attimo brillò e tremolò. Non puzzava più di pesce rancido, ma emanava il profumo di ogni fiore che sboccia in piena estate. Fece fremere la pelle fino a scintillare, e agli occhi di Jack si offrì all'improvviso una fanciulla, nuda come una foglia nuova, che si leccava le labbra come se avesse sentito il sapore del miele. Dieci viaggi con Jack, Quarto Viaggio Penso che per qualche tempo dormii un sonno senza sogni. Di certo ero abbastanza stanco. Troppo mi era accaduto e troppo in fretta. Il sonno non era solo riposo, era una tregua dal pensiero. Eppure dopo un poco i sogni mi reclamarono e mi avvolsero. Salivo i gradini della torre di Veritas. Lui
sedeva alla finestra, usando l'Arte. Il mio cuore balzò di gioia alla sua vista, ma quando si girò verso di me il suo volto era addolorato. «Non hai addestrato mio figlio, Fitz. Per questo dovrò prendere tua figlia.» Urtica e Devoto erano sassolini su un panno da gioco, e con una sola mossa della mano Veritas scambiò le loro posizioni. «Tocca a te» disse. Ma prima che potessi fare qualcosa, Jinna afferrò tutti i sassolini dal panno. «Ne farò un amuleto» mi promise. «Per proteggere tutti i Sei Ducati.» «Mettilo via» la implorai, perché ero il lupo e l'amuleto era contro i predatori. Mi dava la nausea e mi atterriva solo a guardarlo. Era potente, molto più potente di tutti gli altri amuleti che mi aveva mostrato. Era magia ridotta alla sua forma più basilare, privata di ogni sentimento umano. Proveniva da tempi e luoghi più antichi, e non si curava delle persone. Era implacabile come l'Arte. Affilata come coltelli e bruciante come veleno. «Mettilo via!» Il Senza Odore non poteva sentirmi. Non ne era mai stato capace. Portava l'amuleto alla gola, e aveva aperto il colletto. Riuscivo solo a restare immobile e proteggergli le spalle. Perfino dietro di lui ne avvertivo l'aspra radianza. Odoravo il sangue, suo e mio. Sentivo ancora il mio sangue colare caldo e lento lungo il fianco, gocciolare via insieme alla mia forza. Un uomo con un cane uggiolante ci faceva la guardia, accigliato. Alle sue spalle ardeva un fuoco, e i Pezzati dormivano tutt'intorno. Dietro di loro c'era l'ingresso del rifugio, e le primissime avvisaglie di alba nel cielo, orrendamente lontana. La faccia della nostra guardia era contorta non solo di rabbia ma di paura e frustrazione. Voleva farci del male, ma non osava avvicinarsi. Non era un sogno. Era lo Spirito ed ero con Occhi-di-notte e lui era vivo. Il mio slancio di gioia lo divertì, ma solo per un istante. Se stai a guardare non sarà più facile per nessuno di noi due. Avresti dovuto rimanere lontano. «Fai sparire quella dannata cosa!» ringhiò la guardia. «Vieni a prenderla!» suggerì il Senza Odore. Udii la risposta melodiosa del Matto con le orecchie del lupo. L'antica derisione danzò con lo scatto di una frusta. Una parte di lui era divertita dalla sfida. Gli avevano portato via la spada quando lo avevano catturato, eppure sedeva diritto e sfrontato, la gola scoperta a mostrare un amuleto che ardeva di fredda magia. Si era messo tra il lupo e quelli che volevano tormentarlo. Occhi-di-notte mi mostrò un luogo con pareti di roccia e pavimento di terra. Una caverna, forse. Lui e il Matto erano in un angolo. Il sangue era
colato lungo un lato del volto bronzeo del Matto, e asciugandosi si era screpolato, come un vaso di ceramica smaltato male. Erano prigionieri, catturati con la violenza ma tenuti in vita, il Matto perché poteva sapere dove era andato il principe e come, e il lupo a causa del suo legame con me. Hanno capito che siamo legati? Temo che fosse ovvio per tutti. La gatta emerse dalle ombre. Camminò impettita verso di noi. I baffi vibravano e il suo sguardo intenso fissò Occhi-di-notte. Quando il cane della guardia si girò a guardarla, lei soffiò e cercò di graffiarlo. Il cane balzò indietro con un guaito e il cipiglio della guardia si accentuò, ma la lasciarono passare. Gironzolava avanti e indietro, rigida sulle zampe, gettando sguardi obliqui al Matto e brontolando una minaccia in gola. La coda fluttuava dietro di lei. L'amuleto la tiene a bada? Sì. Ma non per molto, temo. Il successivo pensiero del lupo mi sorprese. La gatta è una creatura infelice, infestata dalla donna come un cervo malato è infestato dai parassiti. Vaga con uno sguardo umano negli occhi. Non si muove neanche più come un vero gatto. La gatta si arrestò all'improvviso e spalancò la bocca come per aspirare il nostro odore. Poi si girò all'improvviso e corse via con decisione. Non dovevi venire. Lei sente che sei con me. È andata a cercare l'uomo robusto. Lui è legato a un cavallo. L'amuleto non turba le prede, né gli uomini legati a loro. Il pensiero del lupo vibrava di disprezzo per i mangiatori d'erba, ma c'era un certo che di timore. Riflettei. L'amuleto del Matto era contro i predatori; logico che non infastidisse l'uomo legato al cavallo da guerra. Prima che potessi proseguire quel pensiero, la gatta tornò, seguita dall'uomo. Sedette al suo fianco, insopportabilmente compiaciuta, e ci fissò con uno sguardo molto poco felino. Anche l'uomo robusto fissava il mio lupo dietro al Matto indomito. «Eccoti. Ti stavamo aspettando» disse lentamente. Occhi-di-notte non voleva incontrare il suo sguardo, ma le parole dell'uomo raggiunsero le sue orecchie e arrivarono fino a me. «Ho i tuoi amici, codardo infido. Li tradirai come hai tradito l'Antico Sangue? So che sei da qualche parte con il principe. Non so come hai fatto a svanire, e non mi importa. Ti dico solo questo. Riportalo indietro, o moriranno lentamente.»
Il Matto si alzò frapponendosi tra l'uomo e il mio lupo. Sapevo che parlava con me: «Non ascoltare. Stai lontano. Tienilo al sicuro.» Da dietro al Matto non potevo vedere, ma l'ombra dell'uomo incombeva all'improvviso su di loro. «Il tuo amuleto di fattucchiera non significa niente per me, messer Dorato.» Poi il corpo del Matto crollò all'improvviso sul mio lupo malridotto, e il mio legame con lui nello Spirito svanì. Mi svegliai di scatto. Balzai in piedi, ma vidi solo il grigiore dell'alba e la spiaggia vuota. Udii le grida degli uccelli marini che volteggiavano in cielo. Nel sonno mi ero raggomitolato cercando il calore, ma ora tremavo per qualcosa che non era freddo. Coperto di sudore, respiravo affannosamente. Il sonno era svanito. Fissai il mare, il sogno ancora vivido nella mia mente. Non dubitai che fosse vero. Trassi un lungo respiro tremante. La marea saliva di nuovo, ma non era ancora al culmine. Cercai invano le tracce di un Pilastro d'Arte che si levava dalle onde. Dovevo aspettare il pomeriggio, quando l'acqua sarebbe stata più bassa. Non osavo chiedermi cosa sarebbe successo al Matto e a Occhi-di-notte nel frattempo. Se la fortuna mi favoriva, il riflusso avrebbe scoperto il pilastro che ci aveva portati lì, e io sarei tornato da loro. Il principe avrebbe dovuto cavarsela da solo, e poi sarei tornato a prenderlo. Se il riflusso non rivelava il pilastro... Rifiutai di considerare le conseguenze. Mi concentrai sui problemi che potevo risolvere. Trovare cibo e mangiare. Ricostituire le forze. E spezzare la presa della donna sul principe. Mi rivolsi al ragazzo ancora addormentato e lo spinsi con il piede, piano ma con fermezza. «Sveglia!» dissi brusco. Sapevo che riscuoterlo dal sonno non avrebbe necessariamente interrotto il collegamento nello Spirito con la gatta, ma gli avrebbe reso più difficile concentrarsi solo su di esso. Quando ero ragazzo avevo trascorso le mie ore di riposo «sognando» cacce con Occhi-di-notte. Da sveglio ero ancora consapevole del lupo, ma non in modo così immediato. Quando Devoto gemette e rotolò via da me, aggrappandosi con ostinazione ai suoi sogni di Spirito, mi chinai, lo afferrai per il colletto e lo tirai in piedi. «Svegliati!» «Lasciami in pace, brutto bastardo» disse rauco il principe. Mi rivolse lo sguardo feroce di un gatto, testa inclinata, bocca spalancata. Quasi mi aspettavo che soffiasse e mi graffiasse. Poi l'irritazione mi sopraffece. Gli diedi un violento scrollone e lo allontanai da me. Inciampò all'indietro, perse l'equilibrio e quasi crollò nelle braci del fuoco. «Non chiamarmi così» lo ammonii. «Non chiamarmi mai più così!»
Il principe si ritrovò seduto sulla sabbia a guardarmi sbalordito. Dubito che qualcuno gli avesse mai parlato in quel modo, figuriamoci scrollarlo. Essere il primo mi fece vergognare. Mi girai e gli parlai da sopra la spalla. «Alimenta il fuoco. Vado a vedere se la marea ritirandosi ha scoperto qualcosa da mangiare, prima che lo copra di nuovo.» Mi allontanai senza guardarlo. Dopo tre passi mi venne in mente di tornare a prendere gli stivali, ma non lo feci. Non volevo affrontarlo di nuovo in quel momento. La mia rabbia era ancora troppo accesa, troppo forte la mia furia impotente verso i Pezzati. La marea non aveva ancora raggiunto l'arenile. Avanzai cautamente sulle pietre nere scoperte, tentando di evitare i cirripedi. Raccolsi mitili neri e alghe per cuocerli. Un grasso granchio verde era incuneato sotto uno scoglio sporgente. Tentò di difendersi pizzicandomi il dito. Mi lasciò un livido, ma lo presi e lo avvolsi nella tunica con i mitili. La mia ricerca mi portò un poco più oltre lungo la spiaggia. La giornata fredda e la semplicità della raccolta del cibo smorzarono la mia rabbia verso il principe. Lo stavano usando, mi ricordai, gente che avrebbe dovuto essere più saggia. L'orrore di ciò che faceva la donna avrebbe dovuto dimostrare che i congiurati non avevano una morale. Non dovevo accusare il ragazzo. Era giovane, non stupido o cattivo. Bene, forse giovane e stupido, ma non ero stato così anch'io un tempo? Mentre tornavo al fuoco calpestai la quarta penna. Mi chinai a raccoglierla e vidi la quinta luccicare al sole, a meno di una dozzina di passi. Splendeva di colori straordinari, sgargianti, ma quando la raggiunsi decisi che era stato un trucco della luce e dell'umidità, perché era di un grigio opaco come le altre. Quando tornai, il principe non era accanto al fuoco, anche se lo aveva alimentato prima di andarsene. Misi le due penne insieme alle tre trovate la sera prima. Mi guardai intorno e vidi il ragazzo camminare verso di me. Evidentemente era stato al ruscello, perché aveva il viso umido e i capelli tirati indietro lasciavano libera la fronte. Giunto al fuoco rimase in piedi a guardarmi per qualche tempo mentre uccidevo il granchio e lo avvolgevo con i mitili nelle piatte strisce di alghe. Con un bastone allontanai leggermente parte della legna che bruciava e appoggiai con cautela il pacchetto sulle braci scoperte. Sfrigolò. Devoto mi osservò spingere le braci attorno a esso. Parlò con voce piatta, quasi si trattasse di un commento sul tempo. «Ho un messaggio per te. Se non mi riporti indietro prima del tramonto li uccideranno entrambi, l'uomo e il lupo.»
Non diedi neanche a vedere di averlo udito. Tenni d'occhio il cibo, avvicinando le braci. Quando finalmente parlai fui altrettanto freddo. «Forse, se non liberano l'uomo e il lupo prima di mezzogiorno, io ucciderò te.» Alzai il viso e gli mostrai i miei occhi di assassino. Devoto indietreggiò di un passo. «Ma sono il principe!» esclamò. Un istante più tardi vidi che disprezzava quelle parole. Non poteva richiamarle. Rimasero sospese vibrando nell'aria tra noi. «Avrebbe importanza solo se ti comportassi da principe» osservai cinico. «Ma non è così. Sei uno strumento, e non lo sai neanche. Peggio, sei uno strumento usato contro tua madre e tutti i Sei Ducati.» Distolsi lo sguardo e pronunciai le parole necessarie. «Non sai neanche che la donna che adori non esiste. Non come donna, in ogni caso. È morta, principe Devoto. Ma quando è morta, invece di lasciarsi andare, si è insinuata nella mente della gatta, per continuare a vivere. Vive nella gatta, un atto vergognoso per qualsiasi persona di Antico Sangue. E ha usato la gatta per adescarti e ingannarti con parole d'amore. Non so cosa intenda fare alla fine, ma sarà terribile per te e per la gatta. E costerà la vita ai miei amici.» Dovevo capirlo che lei era con Devoto. Dovevo immaginare che quella era l'unica cosa che non mi avrebbe permesso di dirgli. Devoto soffiò come un gatto a bocca aperta. Spiccò un balzo, ma il lieve suono mi mise immediatamente allerta. Mi spostai di lato mentre si gettava su di me. Mi girai, lo afferrai per il davanti della tunica e lo strattonai verso di me. Lo bloccai in un abbraccio. Il principe gettò indietro la testa nel tentativo di spaccarmi la faccia, ma colpì solo la mascella di lato. Conoscevo da tempo quel trucco, essendo uno dei miei preferiti. Non fu un gran combattimento. Devoto era in quella fase della crescita in cui si è goffi, essendo ossa e muscoli non ancora bilanciati, e lottava con la frenesia incurante della gioventù. Io ero da tempo a mio agio nel mio corpo, e avevo il peso di un uomo e anni di esperienza. Con le braccia bloccate, il ragazzo non poteva fare molto di più che agitare la testa e scalciare. Compresi all'improvviso che nessuno lo aveva mai afferrato così. Ma certo. Un principe veniva addestrato a usare la spada, non i pugni. E non aveva fratelli o un padre con cui fare la lotta. Non sapeva come reagire a quel trattamento. Mi respinse, l'equivalente dello Spirito di una spinta mentale. Come Burrich aveva fatto così tanto tempo prima con me, la deviai contro di lui. Sentii la sua sorpresa. Subito raddoppiò i suoi sforzi, fremente di furia. Era come lottare contro me stesso, e sapevo che non avrebbe avuto scrupoli a ferirmi. La sua cieca
ferocia era limitata solo dall'inesperienza. Tentò di buttarci entrambi a terra, ma ero troppo saldo sulle gambe. I suoi tentativi di sgusciare dal mio abbraccio mi spinsero solo a stringere la presa. Rosso in viso, d'un tratto Devoto chinò la testa. Per un momento rimase accasciato e ansimante fra le mie braccia. Poi bisbigliò con voce cupa: «Basta. Hai vinto.» Lo lasciai, aspettandomi che crollasse nella sabbia. Invece si girò di scatto con il mio coltello in mano e me lo cacciò nel ventre. O almeno ci provò. La fibbia della mia cintura deviò il colpo, il coltello scivolò sul cuoio della cintura e poi mi sfiorò, impigliandosi nella tunica. Sentire la lama così vicina alla carne risvegliò la mia rabbia. Gli presi il polso, lo piegai bruscamente all'indietro e il coltello volò via. Con un colpo al lato del collo lo feci crollare in ginocchio. Devoto ululò di rabbia mentre cadeva, e il suono mi fece drizzare i capelli sulla testa. Lo sguardo furibondo che mi rivolse non era quello del principe, ma una terribile combinazione di gatta, ragazzo e di una donna che li voleva dominare entrambi. Fu la volontà della donna a farlo scattare in piedi e balzare verso di me. Tentai di bloccare la sua carica e controllarlo, ma lottava come una creatura impazzita, artigliando e sputando e strappandomi i capelli. Lo colpii duramente in mezzo al petto e ciò avrebbe dovuto almeno rallentarlo, ma Devoto mi attaccò di nuovo con furia raddoppiata. Compresi che la donna lo controllava del tutto, e che non si curava del dolore che gli infliggevo. Avrei dovuto fargli del male per fermarlo, e perfino in quel momento non potevo spingermi fino a tanto. Quindi mi gettai in avanti per accogliere la sua carica, lo presi fra le braccia e usai il mio peso per trascinarlo a terra. Quasi crollammo nel fuoco, ma io ero sopra di lui, e deciso a restarci. I nostri visi erano vicinissimi e consolidai la presa su di lui. Devoto agitò selvaggiamente la testa e tentò di colpirmi in faccia con la fronte. Gli occhi che guardavano nei miei non erano quelli del principe. La donna mi sputò in faccia e mi maledisse. Sollevai Devoto e lo sbattei di nuovo al suolo, facendogli rimbalzare la testa. Avrebbe dovuto essere quasi stordito, eppure cercò di mordermi il braccio. Sentii un fiotto di furia sgorgare da un punto così profondo che era fuori di me. «Devoto!» ruggii. «Non opporti!» Il principe si afflosciò fra le mie braccia. La donna-gatto mi guardò con rabbia, ma lentamente svanì dai suoi occhi. Devoto mi guardava terrorizzato. Poi anche quello svanì. Mi fissò come un morto. Il sangue gli rigava i denti. Era suo, colava dal naso. Il principe giaceva immobile. Mi sentii male. Mi staccai da lui e mi alzai lentamente, ansimando. «Eda ed El, miseri-
cordia» pregai, come di rado mi capitava, ma gli dèi non erano interessati ad annullare la mia azione. Sapevo di che si trattava. Lo avevo fatto in precedenza, freddamente e di proposito. Avevo usato l'Arte per imprimere a forza su mio zio, il principe Regal, un'improvvisa, adamantina fedeltà alla regina Kettricken, e al bambino che portava in grembo. Avevo voluto che quell'impronta di Arte fosse permanente, e lo era stata, anche se la morte prematura del principe Regal alcuni mesi più tardi mi aveva impedito di sapere per quanto tempo quel comando imposto sarebbe rimasto in vigore. Questa volta avevo agito con rabbia, senza pensare alle conseguenze. Il mio ordine furioso si era impresso nella mente di Devoto con tutta la forza della mia Arte. Non aveva deciso di smettere di lottare. Indubbiamente parte di lui desiderava ancora uccidermi. La sua occhiata confusa mi disse che non capiva ciò che gli avevo fatto. E neanch'io, in realtà. «Puoi alzarti?» chiesi con cautela. «Posso alzarmi?» ripeté bizzarramente Devoto, con voce impastata. I suoi occhi roteavano come se cercasse una risposta dentro di sé, poi il suo sguardo tornò a me. «Puoi alzarti» azzardai timoroso. Alle mie parole fu in grado di farlo. Si tirò in piedi malsicuro, vacillante come se gli avessi fatto perdere conoscenza. La forza del mio ordine sembrava aver scacciato il controllo della donna, ma sostituirlo con il mio non era una vittoria. Devoto si alzò, spalle un poco curve, come concentrato su un intimo dolore. Dopo qualche momento alzò gli occhi a guardarmi. «Ti odio» disse con voce priva di rancore. «È comprensibile» mi udii rispondere. A volte condividevo quel sentimento. Non riuscivo a guardarlo. Trovai il mio coltello sulla sabbia e lo rimisi nel fodero. Il principe barcollò intorno al fuoco, poi sedette dall'altra parte. Lo osservai senza parere. Si passò la mano sulla bocca e poi si guardò il palmo insanguinato. Si tastò i denti con la lingua dietro le labbra socchiuse. Temetti che ne avrebbe sputato fuori qualcuno, ma non fu così. Non si lamentò. Sembrava tentare disperatamente di richiamare qualcosa. Umiliato e confuso, fissava il fuoco. Mi chiesi a cosa pensasse. Per qualche tempo sedetti, avvertendo il dolore di tutti i nuovi lividi che mi aveva causato. Molti non erano fisici. Dubitavo che fossero pari a ciò che gli avevo fatto io. Non sapevo cosa dire, così mossi il cibo nel fuoco. Le alghe in cui lo avevo avvolto si erano raggrinzite ed essiccate al calore
e cominciavano a bruciare. Spinsi il pacchetto fuori dalla brace. All'interno i mitili si erano aperti e la carne del granchio era diventata da opaca a bianca. Sembrava cotta, per i miei gusti. «C'è cibo qui» annunciai. «Non ho fame» rispose il principe, voce e sguardo distanti. «Mangia lo stesso, finché ce n'è.» Le mie parole suonarono come un ordine cinico. Non sapevo se fu il mio comando d'Arte o il suo buon senso, ma dopo che io ebbi preso la mia parte dal pacchetto di alghe, Devoto girò cautamente attorno al fuoco a prendere la sua. In un certo modo mi ricordava Occhi-di-notte quando lo avevo trovato. Il cucciolo era stato diffidente e sfrontato, eppure abbastanza pragmatico da comprendere che dipendeva da me per il suo sostentamento. Forse il principe sapeva che senza di me non aveva speranze di tornare facilmente al Cervo. O forse il mio comando d'Arte si era impresso così a fondo che anche un mio suggerimento andava rispettato. Il silenzio durò quanto il pasto, e un poco più a lungo. Lo infransi. «La notte scorsa ho guardato le stelle.» Il principe annuì. Dopo un momento ammise: «Siamo molto lontani da casa.» «Potremmo dover affrontare un lungo viaggio con poche risorse. Sai vivere di ciò che offre la terra?» Di nuovo un silenzio seguì le mie parole. Non voleva parlarmi, ma aveva un disperato bisogno di risposte che solo io conoscevo. Fece la domanda con riluttanza. «Come siamo arrivati qui? Non possiamo tornare allo stesso modo?» Un cipiglio gli corrugò la fronte. «Come hai imparato quella magia? È l'Arte?» Spezzai un piccolo pezzo di verità e glielo offrii. «Re Veritas mi insegnò a usare l'Arte. Molto tempo fa.» Prima che potesse chiedere altro lo informai: «Voglio percorrere la spiaggia e scalare quelle rupi. Potrebbe esserci una città nelle vicinanze.» Se dovevo lasciare il ragazzo lì da solo, avrei fatto del mio meglio per trovargli un rifugio sicuro. E se il Pilastro d'Arte non fosse emerso dall'acqua, dovevo prepararmi a una lunga camminata verso casa. La mia decisione era irrevocabile. Sarei tornato al Cervo, a costo di arrivarci strisciando. E una volta là, avrei dato la caccia a ciascun Pezzato e lo avrei ucciso lentamente. La promessa diede nuova decisione ai miei movimenti. Raccolsi calze e stivali. Le penne giacevano ancora sulla sabbia. Con un rapido gesto delle
dita le infilai nella manica. Più tardi le avrei assicurate meglio. Non desideravo parlarne con il principe. Devoto non replicò, ma quando mi alzai e mi allontanai dal fuoco mi seguì. Mi fermai al ruscello di acqua dolce, per lavarmi le mani e la faccia e bere. Il principe mi guardò, e quando ebbi finito risalì di qualche passo il ruscello per bere a sua volta. Intanto io strappai una striscia di tessuto dalla tunica e mi assicurai le penne all'avambraccio. Quando Devoto sollevò lo sguardo dopo aver lavato via il sangue dalla faccia, la mia manica le nascondeva ancora una volta. Procedemmo insieme. Il silenzio era un pesante fardello di cui condividevamo il peso. Sapevo che Devoto meditava su ciò che gli avevo detto della donna. Volevo fargli la predica, scuoterlo con quelle parole finché non avesse capito esattamente ciò che la donna cercava di fare. Volevo chiedere se lei era ancora nella sua mente con lui. Mi morsi la lingua e mi trattenni. Non era stupido, mi dissi. Gli avevo detto la verità. Ora dovevo lasciargli il tempo di capire cosa significava per lui. Procedemmo. Fui sollevato di non trovare altre penne sulla sabbia. C'era poco di utile, anche se sulla spiaggia sembrava esserci una quantità insolita di relitti. Pezzi di corda putrida, fasciame tarlato. I resti di un verricello giacevano non lontano da uno scalmo. Mentre camminavamo la rupe nera si fece sempre più grande, fino a torreggiare sopra di noi: prometteva di essere un buon punto di osservazione. Avvicinandomi vidi che la facciata era tutta bucherellata. In uno sperone di arenaria avrei pensato a nidi di rondine, ma non in una roccia nera. Sembravano troppo regolari e troppo uniformemente distanziati per essere opera di forze naturali. Il sole pareva risvegliare bagliori in alcuni di essi. Fui spinto dalla curiosità. La realtà era più strana di qualsiasi cosa avessi potuto immaginare. Quando giungemmo ai piedi della rupe i buchi si rivelarono come nicchie di diverse dimensioni. Molte contenevano un oggetto. Ammutoliti dalla meraviglia, il principe e io camminammo guardando le file più basse di nicchie. La varietà degli oggetti mi fece venire in mente il tesoro di qualche re pazzo. Una conteneva un calice incrostato di pietre preziose, la successiva una tazza di porcellana di delicatezza sorprendente. In una grande nicchia c'era una specie di elmo di legno per un cavallo, solo che gli occhi di un cavallo stanno ai lati del capo, non sulla fronte. Una rete a maglie d'oro ornata di minuscole gemme blu era drappeggiata su una pietra grande come la testa di una donna. Una scatolina di legno luccicante con decorazioni di fiori, una lampada scolpita in rilucente pietra verde, un foglio di
metallo con incisi strani caratteri, un delicato fiore di pietra in un vaso... vi erano esposti tesori su tesori. Fui preso dalla meraviglia. Chi mai avrebbe messo in mostra tali ricchezze su una rupe isolata dove il vento e le onde potevano danneggiarle? Ogni oggetto splendeva come una gemma custodita con cura. Il metallo non era ossidato, il legno non era incrostato di sale. A chi appartenevano, e come e perché si trovavano lì? Guardai la spiaggia dietro di me, ma non vidi tracce di abitanti. Nessuna impronta sulla sabbia, tranne le nostre. Tutte quelle meraviglie erano incustodite. Fortemente tentato, tesi un dito per toccare il fiore nel vaso, solo per incontrare resistenza. Era come se un vetro morbido coprisse l'apertura dell'alcova. Scioccamente curioso, premetti la mano contro la superficie cedevole. Più premevo, più la barriera invisibile diventava rigida. Riuscii a toccarlo con un dito; si mosse, e un suono delicato dai petali mi sfiorò le orecchie. Ma non sapevo spingere abbastanza forte per afferrare il fiore. Ritrassi la mano, e mentre la tiravo fuori dalla nicchia le dita formicolarono spiacevolmente. Fu come sfiorare un'ortica, solo che la sensazione non durò altrettanto a lungo. Il principe mi aveva osservato. «Ladro» commentò con voce sommessa. Mi sentii come un bambino colto in un atto imprudente. «Non volevo prenderlo. Volevo solo toccarlo.» «Ma certo» osservò sarcastico Devoto. «Pensala come vuoi.» Distolsi gli occhi dai tesori e guardai su per la rupe. Compresi che una serie di fori verticali era una scala, piuttosto che una successione di nicchie. Non dissi una parola al principe e mi avvicinai. Studiandoli, dedussi che erano stati intagliati per un uomo più alto di me, ma probabilmente ce l'avrei fatta. Devoto mi guardò con curiosità, ma decisi che non meritava una spiegazione. Cominciai ad arrampicarmi. Ero costretto a tendermi verso l'alto e sollevare i piedi per raggiungere ogni appiglio. A circa un terzo della rupe compresi quanto sarebbe stata faticosa l'intera scalata. Le nuove contusioni causatemi dal principe pulsavano di un dolore sordo. Se fossi stato da solo, probabilmente avrei rinunciato. Continuai a salire, anche se l'antica ferita alla schiena cominciò a gridare di protesta ogni volta che cercavo di afferrare un appiglio. Quando arrivai in cima avevo la tunica incollata alla schiena dal sudore. Mi sollevai oltre l'orlo della rupe strisciando sul ventre e rimasi immobile per un momento o due, riprendendo fiato. Lassù il vento era più violento, e più freddo. Mi al-
zai lentamente e osservai i dintorni. Acqua ovunque. La riva oltre il punto in cui mi trovavo era rocciosa e aspra. Niente spiagge. Dietro di me vidi foreste. Oltre la piana dietro la nostra spiaggia c'erano altre foreste. Eravamo su un'isola o una penisola. Non vidi tracce di abitazioni, neppure un filo di fumo, o una nave sul mare. Se dovevamo lasciare la spiaggia a piedi, bisognava superare la foresta. Il pensiero mi causò un brivido di disagio. Dopo un poco percepii un flebile suono. Andai all'orlo della rupe e guardai giù. Il principe Devoto si voltò verso di me e gridò una domanda, ma mi giunsero solo delle parole indistinte. Feci un cenno vago, irritato. Se era tanto curioso di sapere cosa vedevo, poteva salire anche lui. La mia mente era occupata da altri pensieri. Qualcuno aveva scavato quelle nicchie e raccolto quei tesori. Avrei dovuto scorgere qualche traccia di insediamenti umani. Era solo logico. Finalmente scorsi ciò che sembrava un sentiero, laggiù sulla spiaggia. Attraversava la piana verso la foresta. Non sembrava molto battuto. Forse era solo una pista di selvaggina, ma me lo fissai in mente nel caso avessimo dovuto usarlo. Poi guardai l'acqua che si ritirava, cercando tracce di pietra lavorata. Non si vedeva nulla, ma una zona sembrava promettente. Ogni volta che un'onda rifluiva, intravedevo qualcosa che potevano essere pietroni neri con bordi netti. Erano appena sotto la superficie dell'acqua. Sperai che non fosse solo una stranezza geologica. C'era un groviglio di detriti sulla spiaggia, con un ramo drappeggiato di alghe che puntava verso le pietre. Lo presi come punto di riferimento. Non ero sicuro che la marea avrebbe scoperto del tutto le pietre, ma quando fosse giunta al minimo sarei andato a vedere. Infine, con un sospiro, mi distesi bocconi, gettai le gambe oltre l'orlo e cercai il primo appiglio. Scendere fu anche più sgradevole che salire, perché dovevo procedere alla cieca. Quando giunsi a terra le gambe mi tremavano per la stanchezza. Saltai gli ultimi due gradini, lasciandomi cadere sulla sabbia e quasi crollando in ginocchio. «Bene, cosa hai visto?» chiese il principe. Lo lasciai aspettare mentre riprendevo fiato. «Acqua. Pietre. Alberi.» «Niente città? Nessuna strada?» «No.» «Allora cosa faremo?» Sembrava irritato, come se fosse tutta colpa mia. Io sapevo cosa fare. Sarei tornato attraverso il Pilastro d'Arte, anche se fosse stato necessario tuffarmi per trovarlo. Ma dissi solo: «Lei sa tutto
quello che ti dico. Non è vero?» Lo lasciai senza parole. Rimase per qualche tempo a fissarmi. Quando mi avviai verso la spiaggia, Devoto mi seguì, inconsapevole di avermi ceduto così tanta autorità. Il giorno non era caldo, ma camminare sulla sabbia richiede più sforzo che sulla terra battuta. Ero stanco per la scalata e immerso nelle mie preoccupazioni, così non mi sforzai di fare conversazione. Fu Devoto a rompere il silenzio. «Hai detto che è morta» mi accusò all'improvviso. «È impossibile. Se è morta, come fa a parlarmi?» Trassi un respiro per dirglielo, sospirai e poi respirai di nuovo. «Quando hai lo Spirito, ti leghi a un animale. È più che una condivisione di pensieri, è una condivisione dell'essere. Dopo qualche tempo vedi attraverso gli occhi dell'animale, senti la vita alla sua stessa maniera, percepisci il mondo come lui. Non è solo...» «Lo so. Sono Pezzato, lo sai.» Sbuffò in segno di disprezzo. Non penso che un'interruzione mi avesse mai irritato di più. «Antico Sangue» lo corressi brusco. «Dimmi ancora che sei un Pezzato, e ti farò passare la voglia a suon di botte. Non ho rispetto per ciò che fanno con la loro magia. Ora. Da quanto tempo sai di avere lo Spirito?» chiesi all'improvviso. «Io... perché...» Lo vidi lottare per non pensare alla mia minaccia. Dicevo sul serio, e lui lo sapeva. Trasse un respiro. «Da circa cinque mesi. Da quando mi diedero la gatta. Quasi nel momento in cui mi misero il guinzaglio in mano, sentii...» «Sentisti una trappola chiudersi su di te, ma eri troppo ingenuo per accorgertene. Ti hanno dato la gatta perché altri sapevano che avevi lo Spirito, prima che lo sapessi tu. Ne hai mostrato i segni senza esserne consapevole. Qualcuno lo ha notato, qualcuno ha deciso di usarti. Quindi ti hanno offerto un animale a cui legarti. Non è così che funziona, sai. Due genitori con lo Spirito non danno un animale al loro figlio, ecco qua, questo sarà il tuo compagno finché vivrete. No. Di solito il bambino è ben addestrato nello Spirito e le sue conseguenze prima di legarsi. Va in cerca di un animale compatibile. Quando trova quello giusto, è come un matrimonio. Questo non lo è. Non sei stato istruito sullo Spirito da persone che ti volevano bene. Un gruppo di Spirituali ha intravisto uno spiraglio, e ne ha approfittato. La gatta non ti ha scelto. Questo è già di per sé abbastanza brutto. Ma penso che non le sia stato neanche permesso di scegliere la donna. Lei l'ha rubata da piccola, dalla tana della madre, e ha forzato il legame.
Poi la donna è morta, ma ha continuato a vivere nella gatta.» Gli occhi di Devoto mi fissavano, larghi e scuri. Distolsi appena lo sguardo e sentii lo Spirito passare tra lui e la donna. «Non ti credo. Lei dice che può spiegare tutto, che stai tentando di confondermi.» Le parole si riversarono in fretta, come se tentasse di nascondersi dietro di esse. Gettai uno sguardo al ragazzo. Scetticismo e confusione gli avevano incupito il volto. Trassi un respiro e trattenni la rabbia. «Guarda, ragazzo. Non conosco tutti i dettagli. Ma posso immaginarli. Forse la donna sapeva che stava morendo; forse è per quello che scelse una creatura indifesa e forzò il legame. Quando un legame è sbilanciato come quello, il compagno più forte può controllare il più debole. Lei poteva dominare la gattina, entrare e uscire, dividendo il suo corpo come voleva. E quando morì, invece di morire insieme al proprio corpo, si trasferì in quello della gatta.» Smisi di camminare. Attesi che Devoto incontrasse i miei occhi. «Tu sei il prossimo» dissi calmo. «Sei pazzo! Lei mi ama!» Scossi il capo. «Sento grande ambizione in lei. Vuole di nuovo un corpo umano, non essere una gatta, non morire quando i giorni della gatta sono finiti. Deve trovare qualcuno. Qualcuno che possegga lo Spirito, e allo stesso tempo ne ignori i segreti. Perché non qualcuno in una posizione di potere? Perché non un principe?» Sul viso di Devoto guizzarono espressioni contraddittorie. Una parte di lui sapeva che dicevo la verità, e si vergognava di essere stato ingannato così. Lottava per non credermi. Tentai di calibrare le parole, per non farlo sentire così sciocco. «E così ha voluto te. Non hai mai avuto scelta, non più della gatta. Sei legato alla donna-gatto, non alla gatta. E non lo ha fatto per amor tuo, non più di quanto amasse la gatta. No. Da qualche parte, qualcuno ha un piano molto accurato, e tu sei solo uno strumento per realizzarlo. Uno strumento per i Pezzati.» «Non ti credo!» gridò Devoto. «Sei un bugiardo!» Su quelle parole la voce si spezzò. Sollevò le spalle prendendo respiro. Quasi sentii il mio comando d'Arte trattenerlo dall'attaccarmi. Per qualche tempo mantenni un silenzio prudente. Quando giudicai che si era controllato, parlai con grande pacatezza. «Mi hai chiamato bastardo, ladro e ora bugiardo. Un principe dovrebbe stare più attento agli insulti che lancia, a meno che non pensi che il suo ti-
tolo lo proteggerà. Quindi ecco un insulto per te, e un avvertimento. Nasconditi dietro al tuo titolo di principe per offendermi, e io ti chiamerò codardo. E la prossima volta il tuo lignaggio non fermerà il mio pugno.» Lo fissai dritto negli occhi finché non distolse lo sguardo, un cucciolo atterrito da un lupo. Abbassai la voce, costringendolo ad ascoltare con attenzione per cogliere le mie parole. «Non sei stupido, Devoto. Sai che non mento. Lei è morta, e ti stanno usando. Non vuoi che sia vero, ma non è come non credermi. Probabilmente continuerai a sperare e pregare che qualcosa dimostri che ho torto. Non accadrà.» Trassi un respiro profondo. «Posso solo dirti che non è davvero colpa tua. Qualcuno avrebbe dovuto proteggerti. Qualcuno avrebbe dovuto insegnarti cos'è l'Antico Sangue quando eri piccolo.» Nessuno di noi due fu in grado di ammettere che quel qualcuno ero io. Lo stesso che gli aveva fatto conoscere lo Spirito e tutto quello che poteva essere, attraverso i sogni d'Arte quando aveva quattro anni. Camminammo per molto tempo senza parlare. Tenevo lo sguardo sul ramo coperto di alghe. Una volta lasciato lì il principe, non potevo prevedere per quanto tempo sarei stato lontano. Sapeva cavarsela da solo? I tesori nelle nicchie mi rendevano inquieto. Quella ricchezza apparteneva a qualcuno, che magari non apprezzava un intruso sulla sua spiaggia. Eppure non potevo riportarlo con me. Sarebbe stato un ostacolo. Passare qualche tempo da solo, prendendosi cura di sé stesso, gli avrebbe fatto bene, decisi. E se io fossi morto tentando di salvare il Matto e Occhi-di-notte? Ebbene, almeno i Pezzati non avrebbero avuto il principe. Strinsi i denti, avanzai attraverso la sabbia e nascosi i miei pensieri cupi. Eravamo quasi giunti al ramo quando Devoto parlò. La sua voce era molto bassa. «Hai detto che mio padre ti ha insegnato a usare l'Arte. Ti ha insegnato anche a...» Poi inciampò in qualcosa. Mentre cadeva sulla punta dello stivale si impigliò una catenella d'oro sepolta nella sabbia. Devoto si tirò a sedere, imprecando, e poi si chinò per liberare lo stivale. Rimasi a guardare a bocca aperta mentre estraeva volute di catenella dalla sabbia. Era un intreccio di fili, ciascuno sottile come un crine di cavallo. Devoto l'avvolse nella mano, una collana che gli riempiva il palmo. Diede ancora un lieve strappo per liberare l'ultima voluta, e una figurina balzò fuori dalla sabbia, assicurata alla catena come un amuleto a forma di ciondolo. Era lunga come il mignolo di Devoto. Il metallo era smaltato a brillanti colori. Era l'immagine di una donna. Contemplammo il suo volto orgoglioso.
L'artista le aveva dato occhi neri, e lo splendore dell'oro scuro era il colorito della pelle. I capelli erano neri con un alto ornamento blu che la incoronava. Le vesti drappeggiate scoprivano un seno. Piedi nudi color oro scuro spuntavano dall'orlo. «È bella» dissi. Devoto non replicò. Ne era affascinato. Si rigirò la figurina nella mano e tracciò la cascata di capelli lungo la schiena. «Non so di che cosa è fatta. Non pesa quasi niente.» Alzammo la testa nello stesso istante. Forse era il nostro Spirito che ci avvertiva della presenza di un altro essere vivente. Avevo annusato nell'aria qualcosa di indicibilmente orribile. Eppure, perfino mentre mi giravo per cercare la fonte del puzzo, fui quasi persuaso che fosse un dolce profumo. Quasi. Certe cose non si dimenticano. Una è l'insidioso filamento di un tocco mentale. Un sussulto di terrore mi percorse ed eressi le barriere d'Arte intorno alla mia mente con un riflesso che pensavo di aver dimenticato. Come ricompensa percepii la piena intensità del puzzo nauseabondo mentre mi giravo ad affrontare una creatura da incubo. La porzione del corpo che si drizzava era alta quanto me. Non riuscivo a decidere se mi ricordava un rettile o un mammifero marino. Gli occhi piatti da coda di rospo sul davanti della faccia erano orientati innaturalmente. Il cranio rigonfio che alloggiava il cervello sembrava mostruosamente grande. La mandibola ricadde come una botola mentre ci osservava. La bocca avrebbe potuto ingoiare un coniglio. Fece guizzare una lingua rigida, da pesce. Mentre la fissavamo ritirò la lingua all'improvviso e chiuse le mascelle con uno scatto. Con orrore vidi il principe, come paralizzato, sorridere confusamente alla creatura. Avanzò di un passo barcollante. Gli misi una mano salda sulla spalla e strinsi forte. Appoggiai il pollice sulla carne e tentai di invocare il legame nell'Arte che avevo creato con lui senza aprire una breccia nelle mie barriere. «Vieni con me» dissi con quieta fermezza. Lo trassi di nuovo verso di me; non obbedì attivamente, ma almeno non mi oppose resistenza. La cosa si drizzò ancor di più. Due sacchi ai lati della gola si gonfiarono mentre alzava le membra simili a pinne. All'improvviso aprì larghe mani palmate. Artigli come spine di pesce-toro sporgevano all'estremità delle dita. Poi parlò, ansimando ed eruttando le sillabe. Quelle parole distorte colpivano come sassate. «Non siete arrivati dal sentiero. Come siete giunti fin qui?»
«Veniamo da...» «Silenzio!» avvertii il principe, e gli diedi un brusco strattone. Stavo indietreggiando dalla creatura, ma essa trascinò il corpo privo di grazia sulla sabbia verso di noi. Da dove era arrivata? Gettai attorno uno sguardo disperato, temendo di vederne altre, ma c'era solo quella. Si buttò all'improvviso in avanti, frapponendo il corpo enorme tra la piana e noi. Reagii ritirandomi verso l'acqua. Era dove volevo andare, in ogni modo, l'unica possibile fuga che sapevo immaginare. Pregai che la marea scoprisse il Pilastro d'Arte. «Devi lasciarlo!» ruttò la creatura. «Ciò che l'oceano getta sulla spiaggia del tesoro deve rimanere qui per sempre. Lascia cadere ciò che hai trovato.» Il principe aprì la mano, ma la catena si aggrovigliò alle dita molli e la figurina dondolò come una marionetta. «Lasciala!» ripeté con maggiore urgenza la creatura. Decisi che il tempo per la diplomazia era passato. Estrassi goffamente la spada con la sinistra, per non lasciar andare il principe. «Indietro» avvertii. Stavo calpestando i cirripedi sulle pietre irregolari. Diedi uno sguardo furtivo dietro di me. Scorgevo le mie pietre nere squadrate, ma affioravano appena dall'acqua. La creatura fraintese la mia occhiata. «La vostra nave vi ha lasciati qui! Non c'è niente là fuori, solo oceano. Lascia cadere il tesoro.» Parole come un sibilo, inquietanti. L'essere non aveva labbra, come una lucertola, ma i denti nella bocca aperta erano numerosissimi e affilati. «I tesori di questa spiaggia non sono per gli umani! Ciò che il mare porta qui è perso per l'umanità! Non ne eravate degni.» Indietreggiammo schiacciando alghe viscide. Il principe scivolò e quasi cadde. Mantenni la presa sulla sua spalla e lo trascinai di nuovo in piedi. Altri tre passi e l'acqua lambì i miei stivali. «Non potete allontanarvi a nuoto!» ci avvertì la creatura. «La spiaggia avrà le vostre ossa!» Come un vento lontano, avvertii debolmente le ondate di paura che dirigeva verso di noi. La mente del principe non era protetta, e il ragazzo emise un'improvvisa esclamazione di selvaggio terrore. «Non voglio affogare!» gridò. «Per favore, non voglio affogare!» Quando si girò verso di me vidi il bianco tutto intorno alle iridi. Non lo giudicai un codardo. Sapevo fin troppo bene cosa significa sentire un'altra mente che impone il panico su pensieri indifesi. «Devoto. Devi avere fiducia in me. Fidati di me.»
«Non posso!» gridò il ragazzo, e gli credetti. Era lacerato: il mio comando d'Arte lottava contro le ondate insidiose di paura che la creatura riversava su di lui. Strinsi la presa e lo trascinai con me mentre indietreggiavo. L'acqua ci arrivava alle ginocchia. Ogni onda ci sospingeva. La creatura sguazzante non esitò a seguirci. Di certo sarebbe stata più a suo agio in mare. Lanciai un altro rapido sguardo dietro di me. Il Pilastro d'Arte era vicino. Sentii quella vaga confusione che la nera pietra di memoria mi causava sempre. Strano, spingersi verso la vertigine in cerca di salvezza. «Datemi il tesoro!» ordinò la creatura, e velenose goccioline verdi brillarono all'improvviso sulla punta degli artigli levati minacciosamente. In un solo movimento rinfoderai la spada, misi il braccio sinistro attorno a Devoto e caddi all'indietro con lui nell'acqua. Mentre la creatura si tuffava verso di noi, credetti di scorgere un bagliore improvviso di comprensione in quegli occhi inumani, ma era troppo tardi. Crollammo lunghi distesi nella fredda acqua salata, e le mie dita frenetiche cercarono e trovarono la superficie smussata del pilastro crollato. Non ebbi il tempo di avvertire il principe quando ci ingoiò. Uscimmo incespicando in un pomeriggio quasi caldo. Il principe si lasciò cadere, sfibrato dalla mia presa, su una strada lastricata nel getto di acqua salata che ci aveva accompagnati. Trassi un respiro profondo e mi guardai intorno. «Faccia sbagliata!» Sapevo che poteva accadere, ma ero stato troppo intento a scappare dalla cosa sulla spiaggia per pensarci. Su ogni faccia di un Pilastro d'Arte era incisa una runa che diceva dove portava quella superficie. Era un sistema meraviglioso, per chi sapeva decifrare le rune. Con un fremito capii all'improvviso quanto avevo appena rischiato. E se questo pilastro fosse stato seppellito sotto la pietra, o in mille pezzi? Non osavo pensare cosa sarebbe stato di noi. Scosso, fissai il panorama ignoto. Ci trovavamo fra le rovine di una città di Antichi abbandonata, spazzata dal vento. Sembrava vagamente familiare e mi chiesi se fosse la stessa città dove mi aveva portato una volta un pilastro simile. Ma non c'era tempo per l'esplorazione o le ipotesi. Era andato tutto male. Il mio piano originale era stato attraversare il pilastro da solo e correre senza ostacoli in aiuto dei miei amici. Ma non potevo abbandonare Devoto stordito e isolato in quel luogo sterile, come non avrei potuto lasciarlo sulla spiaggia ostile. Dovevo portarlo con me. «Dobbiamo tornare indietro» dissi al principe. «Dobbiamo tornare al Cervo esattamente come
ne siamo usciti.» «Non mi è piaciuto per niente.» La voce di Devoto tremava, e seppi d'istinto che non parlava della creatura sulla spiaggia. Passare attraverso un pilastro era un'esperienza angosciante per una mente non addestrata. Regal aveva usato avventatamente i pilastri per trasportare i suoi giovani adepti dell'Arte, non curandosi di quanti impazzivano nel processo. Io non volevo trattare con tanta imprudenza il mio principe. Solo che non avevo altra scelta né tempo. «Lo so» dissi con dolcezza. «Ma dobbiamo andare ora, prima che la marea salga.» Devoto mi fissò senza comprendere. Soppesai la sua padronanza di sé contro ciò che la donna poteva scoprire attraverso di lui. Poi accantonai quella preoccupazione. Il ragazzo doveva capire, almeno un poco, o sarei emerso dal pilastro con un idiota sbavante. «Dobbiamo tornare al pilastro sulla spiaggia. Sappiamo che una faccia ci riporterà al Cervo. Dovremo scoprire quale.» Il ragazzo parve avere un conato di vomito. Era accovacciato sulle pietre e si premeva i palmi delle mani sulle tempie. «Non penso di farcela» disse debolmente. Il mio cuore trasalì. «Attendere non migliorerà le cose» lo avvertii. «Ti terrò insieme come meglio posso. Ma ora dobbiamo andare, mio principe.» «Forse quella cosa ci sta aspettando!» gridò sconvolto Devoto, ma penso che temesse il passaggio più che la creatura in agguato. Mi chinai e lo circondai con le braccia, e sebbene lottasse selvaggiamente lo trascinai di nuovo nel pilastro con me. Non avevo mai usato due volte un pilastro in rapida successione. Non mi aspettavo quella sensazione acuta di calore. Quando emergemmo inspirai accidentalmente calda acqua salata dal naso. Mi alzai, reggendo la testa di Devoto sopra la superficie. L'acqua intorno al pilastro ribolliva per il calore della pietra. E il principe aveva ragione. Mentre tenevo il suo corpo indebolito fra le braccia e scrollavo acqua dal mio viso, udii grugniti sorpresi dalla spiaggia. Non una, ma quattro sgraziate creature. Alla nostra vista caricarono, strisciando attraverso la sabbia e fra le onde. Non c'era tempo di pensare o guardare o scegliere. Il principe sembrava privo di sensi. Lo strinsi a me e mi azzardai ad abbassare le barriere d'Arte per tentare di tenere intatta la sua mente. Mentre un'onda entrante mi gettava in ginocchio, picchiai la mano sulla superficie fumante del Pilastro d'Arte. Fui trascinato all'interno. Il transito questa volta parve insopportabile. Giuro che sentii un odore
strano, bizzarramente familiare eppure nauseabondo. Devoto. Devoto, principe. Erede al trono dei Lungavista. Figlio di Kettricken. Avvolsi i suoi brandelli di pensiero nei miei e lo chiamai con ogni nome a cui potevo pensare. A un certo punto mi rispose. Ti conosco. Fu tutto quello che sentii da lui, ma dopo si tenne stretto a sé stesso e a me. C'era una passività strana nel nostro legame, e quando alla fine fummo scagliati sull'erba verde sotto un cielo coperto, mi chiesi se la mente del principe fosse sopravvissuta alla nostra fuga dalla spiaggia del tesoro. 25 Riscatto Da questi segnali riconoscerete chi ha il potenziale per l'Arte: Un bambino che viene da genitori che possiedono l'Arte. Un bambino che vince spesso a giochi di abilità fisica, e i suoi avversari inciampano, si arrendono o giocano male contro di lui. Un bambino che possiede ricordi non suoi. Un bambino che sogna, sogni dettagliati che contengono conoscenze al di là della sua esperienza. Aghetto il Bruno, Mastro d'Arte di re Brando Il tumulo tozzo si ergeva sul pendio sopra di noi. Pioveva, un'acquerugiola insistente. L'erba alta era fradicia. D'un tratto non avevo la forza di stare in piedi da solo, tanto meno sorreggere il principe. Crollammo insieme e mi ritrovai in ginocchio sulla terra bagnata. Distesi Devoto sul prato. I suoi occhi erano aperti ma sembravano ciechi. Solo il respiro rauco mi diceva che era vivo. Ci trovavamo di nuovo nel Cervo, ma la nostra situazione non era molto migliorata da quando ce n'eravamo andati. Eravamo entrambi zuppi. Poco dopo mi accorsi di uno strano odore e compresi che il pilastro dietro di noi irradiava calore. L'odore era l'umidità che evaporava dalla pietra. Preferivo avere freddo, piuttosto che avvicinarmi troppo. La figurina penzolava ancora dalla catenella aggrovigliata fra le dita del principe. Sciolsi quel groviglio e me la misi nella borsa alla cintura. Il principe non reagì. «Devoto?» Mi chinai più vicino e lo guardai negli occhi. Non seppe
metterli a fuoco. La pioggia cadeva sul suo volto e sugli occhi aperti. Gli picchiettai le dita sulla guancia. «Principe Devoto? Mi senti?» Devoto sbatté lentamente le palpebre. Non era gran che come risposta, ma meglio di niente. «Fra poco starai meglio. Riposati.» Chissà se era vero. Lo lasciai sull'erba bagnata e salii in cima al tumulo. Osservai le terre circostanti, ma non scorsi alcuna presenza umana. Non c'era molto da vedere, solo campagna ondulata e qualche macchia di alberi. In cielo uno stormo di passeri volteggiò come una cosa sola e atterrò, contendendosi qualcosa da mangiare. Oltre il prato incolto era tutta foresta. Non c'era niente che sembrasse una minaccia immediata, ma neanche cibo, acqua o riparo. Ero abbastanza sicuro che a Devoto servissero tutti e tre, altrimenti sarebbe sprofondato ulteriormente nell'insensibilità, ma ciò che serviva a me era ancor più basilare. Volevo sapere se i miei amici erano ancora vivi. Oltre ogni razionalità, volevo protendermi verso il mio lupo. Volevo chiamarlo ululando, mettere tutto il mio cuore in quel cercare. Sapevo che era la cosa più sciocca e imprudente che potessi fare. Non solo avrei avvertito della mia presenza tutti gli Spirituali nei dintorni, avrei anche annunciato che stavo per venirli a cercare. Mi costrinsi a riordinare i pensieri. Mi serviva un rifugio, e in fretta. Era probabile che la donna e la gatta cercassero il principe di continuo. Forse si stavano avvicinando proprio in quel momento. Il pomeriggio già volgeva verso la sera. Devoto mi aveva detto che i Pezzati avrebbero ucciso Occhi-di-notte e il Matto al tramonto se non lo avessi restituito. In qualche modo dovevo mettere al sicuro il principe prima che la donna ci trovasse, poi scivolare via da solo per scoprire dove i Pezzati tenevano i miei amici, e liberarli. Prima del tramonto. Mi spremetti il cervello. La locanda più vicina che conoscevo era il Principe Pezzato. Dubitavo che Devoto sarebbe stato accolto con affetto. Ma Castelcervo era distante e bisognava attraversare il fiume. Riflettei, ma non seppi pensare a un altro rifugio. Nelle sue condizioni non potevo certo lasciarlo lì da solo, e un altro viaggio nel pilastro avrebbe distrutto la sua mente, anche se fossimo emersi fisicamente illesi. Ancora una volta esaminai il paesaggio vuoto. Ammisi con riluttanza che avevo varie scelte, ma nessuna era buona. Decisi infine che dovevamo muoverci, e pensare a qualcosa di meglio lungo la strada. Diedi un ultimo sguardo intorno prima di scendere dal tumulo. Il mio occhio colse qualcosa, non una forma ma un movimento oltre un grappolo di alberi. Mi accucciai e lo fissai, tentando di capire cosa avevo visto. In
pochi istanti l'animale emerse. Un cavallo. Nero e alto. Mianera. Mi fissò. Lentamente mi rialzai. Era troppo lontana per inseguirla. Doveva essere fuggita quando i Pezzati avevano catturato Occhi-di-notte e il Matto. Mi chiesi cosa ne era stato di Malta. La osservai ancora per un momento, ma lei rimase lì a guardarmi. Le girai le spalle e mi chinai sul principe. Devoto non era tornato in sé, ma almeno aveva reagito alla gelida pioggia raggomitolandosi e rabbrividendo. La mia apprensione per lui era mescolata a una colpevole speranza: forse nelle sue condizioni non poteva usare lo Spirito per far sapere ai Pezzati dove eravamo. Gli misi la mano sulla spalla e tentai di addolcire la voce: «Tirati su e muoviti. Ci scalderemo tutti e due.» Non so se le mie parole avessero senso per lui. Continuò a fissare il vuoto mentre lo rimettevo in piedi. Poi si piegò sulle braccia incrociate. Il tremito non accennò a diminuire. «Camminiamo» suggerii, ma Devoto rimase immobile finché non lo cinsi con un braccio e gli dissi: «Cammina con me. Ora.» Allora si mosse, ma incerto, vacillante. A passo di lumaca traversammo il pendio bagnato. Poco a poco mi accorsi del tonfo di zoccoli dietro di me. Uno sguardo alle mie spalle mi mostrò Mianera che ci seguiva, ma quando mi fermai si fermò anche lei. Lasciai andare il principe, lui si accasciò a terra e la cavalla subito divenne diffidente. Lo tirai su di nuovo. Mentre avanzavamo a fatica udii di nuovo lo scalpiccio irregolare. Ignorai Mianera finché non ci ebbe quasi raggiunti. Poi sedetti e feci appoggiare Devoto contro di me. Infine la curiosità della cavalla superò la sua innata cautela. Non le badai finché non sentii il suo fiato caldo sulla nuca. Neanche allora mi rivolsi a lei, ma insinuai di nascosto la mano per afferrare le redini penzolanti. Penso che fu quasi contenta di essere presa. Mi alzai lentamente e le lisciai il collo. Il manto era rigato di schiuma essiccata, e i finimenti erano fradici. Aveva pascolato malgrado il morso. Un lato della sella era incrostato di fango dove aveva tentato di rotolarsi. La condussi in un cerchio lento e confermai ciò che temevo. Era zoppa. Qualcosa, forse i segugi dello Spirito, aveva tentato di inseguirla, ma la sua velocità l'aveva salvata. Fui stupito che fosse rimasta in zona, e addirittura che vedendomi fosse venuta a cercarmi. Ma non avremmo potuto cavalcare furiosamente verso la salvezza. Il meglio che potevo ottenere era una camminata zoppicante. Trascorsi qualche tempo tentando di convincere il principe ad alzarsi e montare a cavallo. Mi obbedì solo quando persi la pazienza e gli ordinai di
salire sulla dannata cavalla. Devoto non rispondeva ai tentativi di conversazione, ma obbediva a semplici ordini. Compresi quanto a fondo era andato il comando dell'Arte, e quanto saldamente eravamo legati. «Non opporti a me» gli avevo ordinato, e una parte di lui lo interpretava come «non disubbidirmi». Anche con la sua collaborazione, farlo montare fu una manovra goffa. Mentre lo sollevavo in sella temetti che sarebbe caduto dall'altro lato. Non tentai di cavalcare dietro di lui. Dubitavo che Mianera avrebbe resistito. La condussi a piedi. Il principe vacillava a ogni passo incespicante della cavalla, ma non cadde. Aveva un aspetto terribile. Tutta la maturità era stata strappata dal suo viso, lasciando un bambino ammalato, gli occhi sbarrati e cerchiati di scuro, la bocca socchiusa. Sembrava in punto di morte. Il pieno impatto di quella possibilità mi strinse il cuore in una morsa agghiacciante. Il principe morto. La fine della linea dei Lungavista e la distruzione dei Sei Ducati. Una morte lenta e dolorosa per Urtica. Non potevo permetterlo. Entrammo in una striscia di boschi radi e spaventammo un corvo che si levò, gracchiando come un profeta di sventura. Parve un cattivo auspicio. Mi trovai a parlare al principe e alla cavalla mentre camminavamo. Parlai con la cadenza pacata di Burrich, usando le sue parole rassicuranti, in un rituale calmante che ricordavo dall'infanzia. «Adesso andiamo, staremo tutti bene, ecco, ecco, il peggio è passato, proprio così, proprio così.» Da quello passai a canticchiare, e di nuovo era il motivo che Burrich spesso cantava a mezza voce quando curava i cavalli feriti o le cavalle in travaglio. Penso che la canzone familiare calmasse e rinvigorisse me più che la cavalla o il principe. Dopo un poco mi trovai a parlare ad alta voce, rivolgendomi tanto a me quanto a loro. «Bene, sembra che Umbra avesse ragione. Userai l'Arte, che tu sia addestrato o no. E temo che sia lo stesso per lo Spirito. È nel tuo sangue, ragazzo e diversamente da alcuni, non penso che sia possibile fartelo passare a botte. Non penso che dovrebbe accadere. Ma non devi neanche esagerare come hai fatto finora. Non è poi così diverso dall'Arte, davvero. Un uomo deve porre dei limiti alla sua magia e a sé stesso. Farlo è parte dell'essere uomo. Quindi se ne usciremo sani e salvi ti addestrerò. Immagino che dovrò imparare anch'io. Probabilmente è tempo che io legga tutte quelle vecchie pergamene d'Arte e scopra cosa contengono davvero. Ho paura, tuttavia. Negli ultimi due anni, l'Arte è tornata a me come una specie di ulcera che si allarga. Non so dove mi stia portando. E temo ciò che non so. E il lupo in me, immagino. E per il respiro di Eda, spero che il
lupo stia bene, e anche il mio Matto. Spero che non stiano soffrendo o morendo solo per avermi conosciuto. Se accade qualcosa a quei due... strano, non sai quanto qualcuno è parte di te finché non rischi di perderlo, vero? E poi pensi di non farcela ad andare avanti senza di loro, ma la parte più terribile è che in realtà andrai avanti, dovrai andare avanti. Solo che non sai cosa diventerai. Cosa sarò, se Occhi-di-notte non c'è più? Guarda Furettino, tanti anni fa. Lui è andato avanti, anche se l'unica cosa rimasta nella sua testolina era uccidere...» «E la mia gatta?» La voce di Devoto era sommessa. Fui travolto dal sollievo: era abbastanza sano di mente da parlare. Allo stesso tempo ripassai in fretta le mie avventate divagazioni e sperai che non vi avesse prestato troppa attenzione. «Come stai, mio principe?» «Non sento la mia gatta.» Seguì un lungo silenzio. Finalmente dissi: «Anch'io non sento il mio lupo. A volte ha bisogno di essere separato da me.» Devoto rimase silenzioso così a lungo che temetti che non avrebbe risposto. Poi disse: «Non è la stessa cosa. Lei ci sta tenendo separati. Come se volesse punirmi.» «Punirti per cosa?» Mantenni la voce controllata e leggera, come se stessimo parlando del tempo. «Per non averti ucciso. Per non aver neanche tentato di ucciderti. Non riesce a capire perché non lo faccio. Non posso spiegarlo. Ma è arrabbiata con me.» Le sue parole erano semplici e sincere, come se, dietro a tutte le belle maniere e gli artifici della vita sociale, fossi riuscito a entrare in contatto con la persona. Sentivo che il nostro viaggio attraverso il Pilastro d'Arte gli aveva strappato via molti strati di protezione. Adesso era vulnerabile. Parlava e ragionava come i soldati quando provano grande dolore, o i malati che tentano di dire qualcosa in preda alla febbre. Aveva abbassato tutte le difese. Sembrava aver fiducia in me. Facevo meglio a non crederci, a non sperarci neanche. Si era aperto con me solo per le difficoltà che aveva attraversato. Solo per quello. Scelsi con attenzione le parole. «Adesso è con te? La donna?» Devoto annuì lentamente. «È sempre con me. Non mi permette di pensare da solo.» Deglutì e aggiunse esitando: «Non vuole che ti parli. O che ti ascolti. È difficile. Lei continua a spingermi.» «Vuoi davvero uccidermi?» Ci fu di nuovo quella pausa, come se dovesse digerire le mie parole, non
semplicemente udirle. Quando parlò non rispose alla mia domanda. «Tu dicesti che era morta, e lei si arrabbiò.» «Perché è vero.» «Disse che mi avrebbe spiegato. Più tardi. Disse che per il momento doveva bastare.» Non mi guardava, ma quando lo fissai si girò del tutto dall'altra parte come per essere sicuro di non vedermi. «Poi lei... lei è diventata me. E ti ha attaccato con il coltello. Perché io... non lo avevo fatto.» Non sapevo dire se era confuso o imbarazzato. «Non volevi?» suggerii. «Non volevo» ammise il principe. Fui stupito dalla gratitudine che provavo per quella piccola rivelazione. Aveva rifiutato di uccidermi. Pensavo che solo il mio comando d'Arte lo avesse fermato. «Non ho obbedito. A volte l'ho delusa. Ma ora è davvero arrabbiata con me.» «Così ti puniscono per la disubbidienza. Lasciandoti solo.» Devoto scosse il capo una volta, solennemente. «No. Alla gatta non interessa se ti uccido o no. Lei vorrebbe sempre essere con me. Ma la donna... è delusa che io non sia più fedele. Quindi... ci tiene separati. Me e la gatta. La donna pensa che avrei dovuto dimostrarmi degno di lei. Come possono avere fiducia in me se rifiuto di provare la mia lealtà?» «Provare la tua lealtà uccidendo quando ti dicono di uccidere?» Devoto rimase in silenzio a lungo. Mi diede il tempo di riflettere. Io avevo ucciso quando mi era stato ordinato di farlo. Era parte della mia lealtà verso il mio re, parte del mio accordo con mio nonno: essergli fedele in cambio della mia educazione. Scoprii che non volevo che il figlio di Kettricken fosse così leale a qualcuno. Il principe sospirò. «Non è... solo quello. Lei vuole decidere. Tutto. Ogni volta. Proprio come diceva alla gatta cosa cacciare, e quando, e le portava via le prede. Quando ci tiene vicini, sembra amore. Ma può anche tenersi lontana da noi, eppure siamo ancora prigionieri...» Vedeva che non capivo. Dopo qualche tempo aggiunse pacato: «Non mi è piaciuto quando ha usato il mio corpo contro di te. Non mi sarebbe piaciuto anche se non avesse tentato di ucciderti. Mi ha messo da parte, proprio come...» Non voleva ammetterlo. Si costrinse, e lo ammirai per questo. «Proprio come mette da parte la gatta, quando non vuole fare cose da gatta. Quando è stanca di pulirsi, o non vuole giocare. Anche alla gatta non piace, ma non sa come respingerla. Io sì. Io l'ho respinta e non le è piaciuto. Non le è piaciuto neanche che la gatta si sia accorta della mia ribellione. Penso che quella sia la ragione principale. Mi punisce perché l'ho respinta.» Scosse il capo, confu-
so. «È così reale. Come fai a essere tanto sicuro che è morta?» Scoprii che non potevo mentirgli. «Io... lo sento. Anche Occhi-di-notte. Dice che la gatta è infestata da lei, come parassiti che strisciano nella sua carne. Gli dispiace per la gatta.» «Oh!» Era una piccola esclamazione. Gli gettai uno sguardo, e lo vidi più grigio che pallido. I suoi occhi si fecero distanti e i suoi pensieri cercarono nel passato. «Quando me la diedero, adorava che la spazzolassi. Mantenevo il suo pelo come seta. Ma dopo che abbiamo lasciato Castelcervo... a volte la gatta voleva essere spazzolata, ma la donna diceva sempre che non c'era tempo. La gatta perse peso e le si rovinò la pelliccia. Io mi preoccupavo, ma la donna non mi dava retta. Diceva che era solo la stagione, che sarebbe passato. E io le credevo. Anche se la gatta voleva essere spazzolata.» Sembrava sconvolto. «Non mi ha fatto piacere dirti che è morta.» «Suppongo che ora non importi.» Per qualche tempo condussi la cavalla in silenzio mentre tentavo di capire cosa significavano le sue ultime parole. Non importava che mi dispiacesse, o non importava che fosse morta? «Ho creduto a così tante cose che mi ha detto. Ma sapevo già che... stanno arrivando. Il corvo li ha chiamati.» Una nota improvvisa di rimorso venò la sua voce. Incespicò sulle parole. «Sapevano di dover sorvegliare la pietra eretta. A causa delle leggende. Ma lei non mi ha permesso di dirtelo. Finora. Quando non ha più importanza. Lo trova divertente, adesso.» All'improvviso si raddrizzò sulla sella. Il suo viso si rianimò. «Oh, Gatta!» disse d'un fiato. Il panico mi percorse. Tentai di reprimerlo. Un esame rapido dell'orizzonte non mostrò nessuno, nulla. Ma Devoto aveva detto che stavano arrivando, ed ero sicuro che non aveva mentito. Finché era con me e legato alla gatta, non potevo sperare di nascondermi. Potevo montare Mianera dietro di lui e correre fino a ucciderla, eppure non saremmo sfuggiti. Eravamo troppo lontani da Castelcervo, e non avevo nessun altro rifugio sicuro, niente alleati. E un corvo ci osservava. Avrei dovuto indovinarlo. Abbandonai ogni controllo e mi protesi verso il mio lupo. Almeno avrei saputo che era vivo. Lo toccai. Mi sommerse un'ondata di dolore bruciante. Avevo scoperto l'unica cosa peggiore di essere ignaro del suo fato. Era vivo e soffriva, eppure mi escludeva dai suoi pensieri. Mi scagliai contro le sue barriere, ma mi aveva chiuso fuori. Mi chiesi se nella fierezza della sua difesa era con-
sapevole di me. Mi ricordò un soldato che stringe la spada al di là dell'abilità di usarla, o dei lupi che muoiono insieme, ciascuno con le mascelle serrate sulla gola dell'altro. In un momento, il tempo di un respiro tormentato, apparvero i Pezzati. Superarono la collina sopra di noi, e alcuni emersero dalla foresta alla nostra sinistra. Dietro di noi arrivarono attraverso i prati incolti, forse in sei. L'uomo robusto sul cavallo da guerra cavalcava con loro. Il corvo ci sorvolò, e questa volta il suo gracchiare era beffardo. Cercai invano un varco. Nel tempo di montare Mianera e correre verso un'apertura, l'avrebbero chiusa senza sforzo. La morte cavalcava verso di me da ogni parte. Mi fermai ed estrassi la spada. Mi venne il pensiero sciocco che avrei preferito morire con in mano la spada di Veritas. Attesi. Non galopparono. Vennero a passo regolare, come un cappio che si chiude lentamente. Forse li divertì pensare che stavo lì a guardarli avvicinarsi. Mi diedero troppo tempo per riflettere. Rinfoderai la spada e presi il coltello. «Smonta» dissi piano. Devoto mi fissò con un certo smarrimento. «Scendi da cavallo» gli ordinai, e il principe obbedì, anche se dovetti sostenerlo prima che il secondo piede toccasse terra. Gli misi un braccio intorno alle spalle e gli puntai il coltello alla gola con precisione. «Mi dispiace» gli dissi con grande sincerità. La condanna correva nelle mie vene come acqua ghiacciata. «Ma meglio la morte di ciò che la donna progetta per te.» Devoto rimase immobile nella mia presa. Non voleva rischiare una resistenza, o non desiderava resistere? «Come lo sai?» mi chiese calmo. «Perché so ciò che farei io.» Non era del tutto vero. Io non avrei mai preso il corpo e la mente di un'altra persona semplicemente per estendere la mia vita. Ero troppo nobile. Così nobile che avrei ucciso il mio principe prima di lasciare che lo usassero in quel modo. Così nobile che lo avrei ucciso sapendo che anche mia figlia doveva morire. Non volli considerare come reale quella eventualità. Tenni il coltello alla gola dell'unico erede di Veritas e guardai i Pezzati avvicinarsi. Aspettai finché non furono a portata di voce, poi gridai: «Venite più vicino e lo uccido.» L'uomo robusto sul cavallo da guerra era il capo. Alzò la mano per fermare l'avanzata degli altri, ma poi cavalcò lentamente verso di me come per mettere alla prova la mia determinazione. Accentuai la presa sul principe. «Un movimento della mia mano e il principe è morto.»
«Oh, suvvia, sei ridicolo» rispose l'uomo. Continuò ad avanzare al passo. Mianera sbuffò una domanda alla sua bestia. «Cosa fai se ti obbediamo e ci fermiamo qui? Rimani in mezzo a noi e muori di fame?» «Lasciaci andare, o lo uccido» mi corressi. «Altrettanto stupido. Dov'è il vantaggio? Se non possiamo averlo, tanto vale che muoia.» La voce profonda e tonante si propagava bene. L'uomo aveva una bella faccia bruna e stava in sella come un guerriero. In un altro momento, in un altro luogo, lo avrei giudicato degno della mia amicizia. Ora gli uomini al suo seguito deridevano ad alta voce i miei patetici sforzi di sfidarlo. L'uomo avanzò; il grande cavallo camminava a passo di parata e i suoi occhi splendevano del loro legame nello Spirito. «E pensa a cosa accadrà se lo uccidi mentre mi avvicino. Saremo tutti molto irritati con te. E non avrai possibilità di fuga. Dubito che riuscirai a farti uccidere combattendo. Quindi ecco la mia controproposta. Dacci il ragazzo e ti ucciderò in fretta. Hai la mia parola.» Era un'offerta nobile. I suoi modi solenni e le parole attente mi convinsero che l'avrebbe onorata. Una morte rapida sembrava molto allettante se confrontata con le alternative. Ma odiavo morire senza avere l'ultima parola. «Molto bene» ammisi. «Ma il principe vi costa più della mia vita. Liberate il lupo e il fulvo. Poi vi darò il principe, e potrete uccidermi.» Devoto rimaneva immobile nel mio abbraccio e sotto la minaccia del coltello. Lo sentivo a mala pena respirare, eppure sapevo che ascoltava, come se le mie parole filtrassero in lui come acqua nella terra asciutta. La rete sottile di Arte tra noi mi avvertì che stava succedendo qualcos'altro. Si stava protendendo verso qualcuno con la sua empia combinazione di Spirito e Arte. Mi preparai a fronteggiare l'eventualità che la donna prendesse il controllo del suo corpo. «Stai mentendo?» chiese Devoto, così piano che lo udii appena. Ma la domanda veniva da Devoto o dalla donna-gatto? «È la verità» mentii con estrema naturalezza. «Se rilasciano Messer Dorato e il lupo, ti libererò.» Dalla vita. E poi mi sarei tagliato la gola. L'omone sul grande cavallo emise una specie di risata soffocata. «Troppo tardi per quello, temo. Sono già morti.» «No. Non lo sono.» «No?» Si avvicinò ancora. «Se il lupo fosse morto lo saprei.» Ormai l'uomo non doveva più gridare per farsi sentire. Mi parlò in con-
fidenza. «Ed ecco perché è così innaturale che tu ti opponga a noi. Lo confesso, udire questa tua risposta è abbastanza per farmi posticipare la tua morte.» I suoi occhi si accesero di calore per me e una genuina curiosità vibrò nella sua voce. «Perché, in nome della vita e della morte che Eda ed El abbracciano, ti opponi così alla tua gente? Ti piace ciò che ci fanno? Le frustate, le impiccagioni, gli squartamenti e i roghi? Perché li sostieni?» Lasciai risuonare la mia voce per tutti loro. «Perché ciò che cercate di fare a questo ragazzo è sbagliato! Ciò che la donna ha fatto alla sua gatta è sbagliato! Vi fate chiamare Pezzati e vi dichiarate orgogliosi del vostro lignaggio, eppure andate contro gli insegnamenti dell'Antico Sangue. Come potete condonare ciò che ha fatto alla sua gatta, per non dire ciò che vuole fare al principe?» La luce negli occhi dell'uomo si fece fredda. «È un Lungavista. Qualsiasi cosa gli facciamo, la merita mille volte.» A quelle parole il principe si irrigidì nella mia presa. «Lodoin, è davvero così che la pensi?» La gioventù e l'incredulità nella sua voce mi fecero male. «Mi dicevi belle parole mentre cavalcavo con voi. Dicevi che alla fine sarei diventato il re che avrebbe unito tutto il popolo sotto una giustizia uguale per tutti. Dicevi...» Lodoin scosse il capo, deridendo l'ingenuità di Devoto. «Ti avrei detto qualsiasi cosa per farti venire con noi senza problemi. Ho preso tempo con le belle parole finché il legame non è stato abbastanza forte. La gatta mi ha fatto sapere che il lavoro è compiuto. Ora Peladine può prenderti in qualsiasi momento. Ti avrebbe già preso, se non avessi un coltello alla gola. Non intende morire due volte. Una è sufficiente. La sua fu una morte lenta; ansimava, indebolendosi di giorno in giorno. Perfino la morte di mia madre fu più rapida. Fu impiccata, ma non era ancora morta quando la squartarono per alimentare il fuoco. Quanto a mio padre, ebbene, sono sicuro che per lui passarono anni, mentre guardava i soldati di Regal Lungavista sbarazzarsi di mia madre.» Rivolse a Devoto un sorriso orribile. «Quindi, vedi, la mia famiglia ha una relazione di vecchia data con i Lungavista. Un antico debito, principe Devoto. Gli unici momenti piacevoli di Peladine nel suo ultimo anno di vita furono le ore che trascorremmo a far piani su di te. È giusto che un Lungavista paghi con la vita per quelle che mi sono state sottratte.» Eccolo. Il seme di odio dal quale nasceva tutto. Ancora una volta i Lungavista non avevano bisogno di guardare lontano per sapere da dove veniva la loro sfortuna. La fossa del principe era stata scavata dall'arrogante
crudeltà di suo zio. L'odio era il lascito che Regal aveva trasmesso anche a me, ma il mio cuore si chiuse contro la comprensione che divampava in me. I Pezzati erano i miei nemici. Malgrado ciò che avevano sofferto, non avevano diritti su quel ragazzo. «E cos'era Peladine per te, Lodoin?» chiesi piano. Sospettavo di conoscere la risposta, ma l'uomo mi sorprese. «Era la mia sorella gemella, simile a me come una donna può essere simile a un uomo. Senza di lei sono l'ultimo della mia linea. È una ragione sufficiente per te?» «No. Ma lo è per te. Faresti qualsiasi cosa per vederla rivivere in un corpo umano. La aiuteresti a rubare il corpo di questo ragazzo per ospitare la sua mente. Anche se va contro tutti gli insegnamenti dell'Antico Sangue che abbiamo cari.» Lasciai che la mia voce risuonasse di giusta indignazione. Se qualcuno dei suoi guerrieri fu colpito dalle mie parole, lo nascose bene. Lodoin fermò il cavallo alla lunghezza di una spada da me. Si chinò per fissarmi. «Non è solo il dolore di un fratello. Spezza i tuoi legami servili con i Lungavista e pensa con la tua testa. Pensa per la tua gente. Dimentica le nostre vecchie usanze limitate. L'Antico Sangue è un dono di Eda, e dovremmo usarlo! Abbiamo una grande occasione, l'occasione di farci sentire. I Lungavista dovranno ammettere che le antiche leggende sono vere; lo Spirito scorre nel loro sangue come l'Arte. Questo ragazzo un giorno sarà re. Possiamo farlo nostro. Quando prenderà il potere porrà fine alla persecuzione che abbiamo sopportato tanto a lungo.» Mi morsi il labbro, mostrandomi pensieroso. Lodoin non immaginava quale decisione stessi davvero prendendo. Se avessi fatto come desiderava, i Lungavista avrebbero avuto un erede, almeno nel corpo. Urtica avrebbe potuto vivere la sua vita, libera dalla trappola inesorabile del fato. E poteva venirne qualcosa di buono, per l'Antico Sangue e i Sei Ducati. Dovevo solo consegnare Devoto a una vita di tormento. Il Matto e il mio lupo sarebbero stati liberi, e Urtica sarebbe vissuta, e forse alla fine le persecuzioni contro l'Antico Sangue sarebbero cessate. Perfino io potevo vivere. Rinunciare a un ragazzo che conoscevo appena, in cambio di tutto questo. Una sola vita in cambio di tutte le altre. Presi la mia decisione. «Se pensassi che dici il vero» cominciai, e poi mi interruppi. Fissai Lodoin. «Passeresti dalla nostra parte?» Credeva che fossi un uomo in trappola tra morte e compromesso. Mo-
strai incertezza, e poi diedi un brevissimo cenno. Alzai una mano e allentai il colletto, lasciando occhieggiare le perline di Jinna. Ti piaccio, lo implorai. Hai fiducia nelle mie parole. Desideri la mia amicizia. Poi parlai da codardo. «Potrei esserti utile, Lodoin. La regina si aspetta che messer Dorato le riporti il principe. Se lo uccidi e il principe torna indietro da solo, si chiederanno cosa è successo a Dorato, e perché. Se ci lasci vivere, e le riportiamo il principe, potrò spiegare i cambiamenti nel suo comportamento. Lo riprenderanno senza domande.» Gli occhi di Lodoin mi studiarono, riflettendo. Stava cercando di convincersi. «E messer Dorato confermerà la tua versione?» Emisi un breve sbuffo di scherno. «Lui non ha lo Spirito. Ha solo gli occhi per dirgli che abbiamo ritrovato il principe vivo e incolume. Penserà solo al suo benvenuto da eroe a Castelcervo. Crederà che ho negoziato la libertà del principe. Addirittura, mi vedrà mentre lo faccio, e sarà ben contento di assumersene il merito a corte. Portaci da lui. Gli offriremo un bello spettacolo. Lascialo partire con il mio lupo, assicurandolo che il principe e io lo seguiremo.» Annuii saggiamente come confermando il pensiero a me stesso. «Anzi, meglio che messer Dorato non sia presente quando la donna si impadronirà del ragazzo. Potrebbe notare qualcosa di strano. Lascialo partire prima.» «Sembri molto interessato alla sua sicurezza» indagò Lodoin. Scrollai le spalle. «Mi paga bene per fare molto poco. E tollera il mio lupo. Stiamo diventando vecchi tutti e due. Non si trova facilmente un posto come questo.» Lodoin ghignò, ma nei suoi occhi vidi il suo muto disprezzo per la mia filosofia da servo. Aprii di più il colletto. L'uomo gettò uno sguardo a Devoto. Gli occhi del ragazzo erano fissi sul suo viso. «C'è un problema» osservò pensieroso. «Il ragazzo non ricava niente dal nostro affare. Può tradirci con messer Dorato.» Sentii Devoto prendere fiato. Strinsi la presa su di lui, chiedendo il suo silenzio mentre riflettevo, ma lui parlò. «Ci tengo a vivere» disse con voce chiara. «Perfino una vita miserabile. E tengo alla mia gatta. Perché mi è fedele, anche se tua sorella è falsa sia con me che con lei. Non le lascerò la gatta. E se si prende il mio corpo, forse è il prezzo che devo pagare per aver lasciato che i Pezzati mi imbrogliassero con promesse di amicizia. E amore.» La sua voce era ferma, e andava lontano. Oltre la spalla di Lodoin vidi due cavalieri distogliere lo sguardo, come se le parole di Devoto li addolorassero. Ma nessuno parlò in sua difesa.
Un sorriso sottile torse la bocca di Lodoin. «Allora affare fatto.» Tese la mano libera verso di me come per siglare l'accordo, con slancio disarmante. «Togli il coltello dalla gola del ragazzo.» Gli restituii il sorriso di un lupo. «Non penso, non ancora. Hai detto che Peladine può prenderlo in qualsiasi momento? Forse, se lo fa, penserai di non avere bisogno di me. Potresti uccidermi, dare il ragazzo a tua sorella e poi consegnarlo a messer Dorato, l'ostaggio libero di tornare a corte. No. Faremo a modo mio. Inoltre il ragazzo potrebbe cambiare idea. Il coltello gli ricorderà che sarà la mia volontà a prevalere.» Mi chiesi se Devoto udisse la promessa nascosta in quelle parole. Tenni gli occhi fissi su Lodoin e non cambiai il tono. «Aspetterò che messer Dorato riparta a cavallo, con il mio lupo al fianco. Poi, quando vedrò che hai mantenuto la parola, il principe e io saremo nelle tue mani.» Piano debole, debole. La mia strategia arrivava solo fino all'incontro con il Matto e Occhi-di-notte, non oltre. Mantenni il sorriso e lo sguardo su Lodoin, ma ero consapevole che gli altri avvicinavano a poco a poco i cavalli. La mia presa sul coltello era salda. A un certo punto il principe mi aveva afferrato il polso. Quasi non mi ero accorto del tocco: sembrava che resistesse alla mia lama, ma non era così. In verità era come se tenesse il coltello fermo contro la gola. «Faremo a modo tuo» concesse finalmente Lodoin. Fu faticoso montare Mianera tenendo il coltello alla gola del principe, ma ci riuscimmo. Devoto era una vittima fin troppo disponibile; temetti che Lodoin se ne accorgesse. Avrei dato qualsiasi cosa perché il principe fosse stato addestrato nell'Arte. Il filo che ci univa era troppo sottile perche potessi conoscere i suoi pensieri, e lui non sapeva focalizzare la mente verso la mia. Percepivo solo la sua ansia e la sua determinazione. La determinazione a fare cosa? Non potevo dirlo. Mianera non fu contenta del doppio carico, e il mio cuore temeva per lei. Non solo rischiavo di peggiorare o rendere permanente il suo danno, ma se si fosse reso necessario fuggire, non ne sarebbe stata capace, essendo già stanca e dolente. Ogni suo passo incespicante suonava come un rimprovero per me. Ma non avevo alternative. Ci avviammo dietro a Lodoin, e i suoi compagni si strinsero intorno a noi. Non sembravano ben disposti verso di me. Riconobbi una donna dalla nostra breve battaglia. Non vidi nessuno dei due uomini contro cui avevo lottato. Gli ex compagni del principe ora non mostravano alcuna traccia di comprensione o amicizia per lui. Devoto non sembrava vederli: cavalcava guardando avanti con la punta del
mio coltello premuta in alto contro le costole. Tornammo indietro tagliando per le colline, oltre i tumuli e verso la foresta. Il terreno era stranamente irregolare, e compresi che anni prima vi era sorta una città. Prati e boschi si erano ripresi la terra, ma i campi dove è passato l'aratro rimangono sempre più livellati. Il muschio aveva rivestito i muretti di pietra che un tempo separavano i pascoli, e l'erba cresceva tra i cardi e i rovi che amano i luoghi brulli. «Nessuno vive per sempre» sembravano dire i muretti. «Quattro pietre accatastate sopravvivranno a tutti i vostri sogni e saranno ancora in piedi quando i vostri discendenti avranno dimenticato da tempo che siete vissuti qui.» Devoto era silenzioso. Gli tenni il coltello contro le costole. Credo che se avessi sentito la donna prendere il suo corpo avrei affondato la lama. La sua mente sembrava lontana. Sfruttai il tempo della cavalcata per valutare i nostri catturatori. Erano una dozzina, incluso Lodoin. Finalmente giungemmo a una caverna tagliata nel fianco di una collina. Tempo prima qualcuno aveva aggiunto muri di pietra per ampliarla. I resti di un cancello di legno dondolavano sghembi. Pecore, pensai. Un buon posto per tenerci le pecore di notte, con la caverna per ricovero in caso di pioggia o neve. Mianera alzò la testa e salutò con un nitrito Malta e gli altri tre cavalli impastoiati. Contai quindici persone, un rispettabile contingente da attaccare, anche se non fossi stato da solo. Smontai con gli altri e tirai giù il principe. Devoto barcollò quando mise piede a terra, e io lo sorressi. Le sue labbra si muovevano come se sussurrasse fra sé, ma non udii niente. I suoi occhi erano vitrei e distanti. Gli misi con fermezza il coltello alla gola. «Se lei tenta di prenderlo prima che gli altri siano liberi, lo uccido» li avvertii. Lodoin parve sorpreso dalla mia minaccia. Poi tuonò: «Peladine!» In risposta, la gatta da caccia uscì di corsa dalla caverna. Mi fissò con sguardo d'odio. Il suo lento avanzare verso di me era il passo adirato di una donna frustrata, non la camminata di una gatta. Il principe abbassò lo sguardo sulla gatta. Non disse niente, ma udii il sospiro esausto che gli sfuggì. Lodoin si avvicinò alla gatta e si piegò su un ginocchio per parlarle pacatamente. «Ho fatto un accordo» le disse. «Se lasciamo andare i suoi amici, ci dà il principe illeso. Anzi, ti scorta a Castelcervo e ti aiuta a farti accettare.» Non so se passò un qualche segnale di assenso fra loro, o se semplicemente Lodoin desse per scontato il suo beneplacito. Quando si alzò parlò ad alta voce. «Entra. I tuoi compagni sono là.»
Ero fortemente riluttante a seguirlo in quella caverna. All'aperto avevamo qualche possibilità di fuga. Dentro saremmo stati circondati. Potevo solo promettere a me stesso che non avrebbero avuto Devoto. Tagliargli la gola avrebbe richiesto un istante. Non ero così sicuro di poter dare a me stesso una morte rapida, tanto meno a Occhi-di-notte o al Matto. All'interno della caverna ardeva un fuocherello, e il mio stomaco protestò all'odore della carne arrostita. Era stato montato una specie di campo, ma ai miei occhi sembrava più una tana di briganti che un accampamento militare. Quel pensiero mi mise sul chi vive: non dovevo dare per scontato che Lodoin avesse il controllo della sua gente. Lo seguivano, ma ciò non significava che gli obbedissero. Quel pensiero allegro mi intrattenne mentre perlustravo l'interno della caverna in penombra e Lodoin conferiva sottovoce con quelli che aveva lasciato di guardia. Non aveva messo nessuno a sorvegliarci. Tutti gli occhi erano su di lui, e io sgattaiolai via dalla folla. Alcuni osservarono il mio movimento, ma nessuno protestò. L'amuleto di Jinna pendeva fuori dalla mia tunica, e io distribuii sorrisi disarmanti: sto andando verso il fondo della caverna, non cerco di scappare, vedete? Era un'altra indicazione di quanto fosse informale il comando di Lodoin. Il mio timore che i Pezzati fossero una specie di esercito dello Spirito si dissolse nel sospetto disgustato che fossero in realtà una marmaglia dello Spirito. Il mio cuore trovò i miei amici prima dei miei occhi. Vidi due forme rannicchiate sul pavimento in fondo alla caverna. Non chiesi il permesso. Con il coltello alla gola di Devoto camminai fino a loro. Verso il fondo il soffitto si abbassava e le pareti di roccia si restringevano. I due dormivano in quel piccolo spazio. Il letto era il mantello del Matto, o ciò che rimaneva di quel fine indumento. Occhi-di-notte era sdraiato sul fianco, immerso in un sonno esausto. Il Matto giaceva accanto a lui, piegato protettivamente intorno al lupo. Erano entrambi luridi. Il Matto aveva una benda legata intorno alla fronte. L'oro della pelle si era fatto giallastro e un lato del viso era deturpato da contusioni. Qualcuno gli aveva preso gli stivali, e i suoi piedi pallidi erano lividi. La gola del lupo era incrostata di sangue e saliva, e il respiro sì era ridotto a un sibilo. Volevo cadere in ginocchio accanto a loro, ma temevo di togliere il coltello dalla gola di Devoto. «Svegliatevi» dissi piano. «Svegliatevi, voi due. Sono tornato per voi.» Gli orecchi del lupo fremettero, poi aprì un occhio. Si mosse, tentando di alzare la testa, e il movimento svegliò anche il Matto. Aprì gli occhi e mi
fissò, incredulo, il viso contratto dalla disperazione. «Dovete alzarvi» li avvertii sottovoce. «Ho fatto un accordo con i Pezzati, ma dovete alzarvi ed essere pronti a muovervi. Potete camminare? Tutti e due?» Il Matto aveva lo sguardo stralunato di un bambino che è stato svegliato in piena notte. Si tirò rigidamente a sedere. «Io... Che genere di accordo?» Guardò l'amuleto alla mia gola, emise un piccolo suono e distolse di proposito gli occhi. In fretta chiusi il colletto. Nessun amuleto doveva offuscargli la mente, nessun affetto artificiale doveva renderlo riluttante ad andarsene quando poteva. Lodoin veniva verso di noi, con la gatta di Devoto al fianco. Non sembrava contento che fossi riuscito a discutere con i prigionieri senza di lui. Parlai in fretta, lasciando che mi sentisse. «Voi due ve ne andate, o io uccido il principe. Ma una volta liberi, il principe e io vi seguiremo. Fidatevi di me.» E il mio momento in privato con loro era finito. Il lupo si mise seduto con fatica, sollevandosi dal pavimento. I quarti posteriori ondeggiarono e lui barcollò di lato prima di riprendere l'equilibrio. Puzzava di sangue vecchio e pipì e infezione. Non avevo una mano libera per toccarlo. Ero troppo occupato a minacciare la vita di Devoto. Venne ad appoggiarmi la testa insanguinata contro una gamba, e i nostri pensieri fluirono nel contatto. Oh, Occhi-di-notte. Fratellino. Stai mentendo. Sì. Ho mentito a tutti loro. Puoi riportare il Senza Odore a Castelcervo per me? Probabilmente no. È un sollievo sentirtelo dire. È molto meglio se 'moriremo tutti qui'. Preferirei restare e morire accanto a te. Non vorrei vedere una cosa simile. Mi distrarrebbe da ciò che devo fare. E Urtica? Quel pensiero era più difficile da dividere con lui. Non posso rubare la vita di uno per salvare l'altra. Non ne ho il diritto. Se tutti dobbiamo morire, allora... I miei pensieri si spensero. Ricordai gli strani momenti che avevo condiviso nel flusso dell'Arte con quell'altra immensa presenza. Brancolai in cerca di una specie di conforto. Forse il Matto si sbaglia, e il tempo non può essere deviato dal suo corso. Forse è tutto deciso da prima che nasciamo. O forse il prossimo Profeta Bianco sceglierà un miglior Catalizzatore.
Lo sentii accantonare le mie riflessioni filosofiche. Dagli una morte indolore, allora. Ci proverò. Fu solo un sottile gocciolio di pensiero tra noi, filtrato attraverso il suo dolore e la sua cautela. Era come pioggia dopo una siccità. Mi maledissi per tutti gli anni in cui avevo lasciato che la mia anima bramasse l'Arte mentre già dividevamo quel legame. E solo ora che la fine incombeva su di me percepivo la piena dolcezza di tutto ciò che avevamo conosciuto. Il mio lupo barcollava verso la morte. Io probabilmente mi sarei ucciso, o sarei stato ucciso, prima che il pomeriggio fosse finito. Il dilemma di cosa avrebbe fatto uno di noi quando l'altro fosse morto era stato fugato, e sostituito con la realtà. Nessuno di noi avrebbe vissuto per sempre. Il Matto era riuscito ad alzarsi. I suoi occhi dorati percorsero disperatamente il mio viso, ma non osai mostrargli nulla. Drizzò la schiena, e divenne messer Dorato quando Lodoin cominciò a parlare. La voce del capo dei Pezzati era ricca e morbida, i suoi poteri di persuasione simili a un mantello caldo. Dietro di lui i suoi seguaci si disposero in semicerchio per assistere. «Il tuo amico ti ha fatto un riassunto. Gli ho dimostrato che non intendevamo fare del male al principe, solo mostrargli che quelli che chiamate Spirituali non sono creature malvagie da fare a pezzi, ma semplici umani con un dono speciale di Eda. Era tutto ciò che volevamo, che il nostro principe potesse vederlo. Ci pentiamo del grave malinteso, e dei danni che avete subito nel tentativo di chiarirlo. Ma ora potete prendere il cavallo e andare, siete libero. Anche il lupo. Il vostro amico e il principe vi seguiranno. Tornerete tutti a Castelcervo, dove speriamo di cuore che il principe Devoto parlerà in nostro favore.» Gli occhi di messer Dorato andarono da Lodoin a me e di nuovo a lui. «Perché il coltello?» Il sorriso di scuse di Lodoin diceva tutto. «Il vostro uomo ha scarsa fiducia in noi, temo. Malgrado le nostre rassicurazioni, sente di dover minacciare il principe Devoto finché non sarà sicuro che siate liberato. I miei complimenti per un servitore così fedele.» Avrei potuto far passare un'intera mandria attraverso il buco nella sua logica. Un lieve guizzo negli occhi di messer Dorato mi rivelò i suoi dubbi, ma al mio cenno lento annuì. Non sapeva a che gioco stavo giocando, ma si fidava di me. Prima di sera avrebbe maledetto quella fiducia. Chiusi il cuore contro quel pensiero. Quel pessimo affare era il meglio che potevo
ottenere per tutti noi. Mi costrinsi a pronunciare le parole di tradimento. «Mio signore, se prendete il mio buon cane e ve ne andate, vi seguirò presto con il principe.» «Dubito che oggi andremo lontano o veloci. Come vedi, il tuo cane è gravemente ferito.» «Non c'è bisogno di affrettarsi. Vi raggiungerò presto, e ce ne andremo insieme verso casa.» Il viso di messer Dorato rimase preoccupato ma calmo. Forse solo io ero consapevole del conflitto dentro di lui. Non afferrava la situazione, ma capiva che gli chiedevo di prendere il lupo e andarsene. Quasi lo vidi fare la sua scelta. Si chinò a raccogliere il mantello un tempo sontuoso, ora macchiato di sangue e terra. Lo scosse e se lo gettò sulle spalle come il più lussuoso degli indumenti. «Mi ridarete gli stivali, ovviamente? E la mia cavalla?» Era di nuovo la voce del nobile, consapevole della sua superiorità per nascita. «Ovviamente» concordò Lodoin, ma vidi molti aggrottare le sopracciglia nella folla dietro di lui. Malta era una cavalla eccellente, un ricco premio per chiunque avesse catturato messer Dorato. «Allora ce ne andremo. Tom, mi aspetto che tu mi segua subito.» «Certo, signore» mentii umilmente. «Con il principe.» «Non me ne andrò se lui non mi precede» promisi convinto. «Eccellente» approvò messer Dorato, imperturbabile. Annuì, ma il Matto mi indirizzò uno sguardo agitato. L'occhiata che rivolse a Lodoin era gelida. «Mi avete trattato come comuni bricconi e banditi. Non potrò celare la mia condizione alla regina e alle sue guardie. Siete davvero fortunati che Tom lo Striato e io siamo disposti a confermarle che avete riconosciuto i vostri errori. Altrimenti sono sicuro che manderebbe le sue truppe a darvi la caccia come parassiti.» Era l'incarnazione perfetta del nobile indignato, eppure quasi gli urlai di star zitto e andarsene finché potevano. Per tutto il tempo, il foscogatto guardava Devoto come un gatto di casa guarda una tana di topi. Avvertivo quasi la fame della donna di possederlo del tutto. Non contavo che si sentisse vincolata all'accordo di Lodoin, non più della sua marmaglia. Se cercava di prenderlo, se Devoto dava cenno di essere soggiogato, avrei dovuto ucciderlo, che il Matto fosse scappato o meno. Volevo disperatamente che se ne andassero. Sorrisi, sperando che non sembrasse troppo un ringhio. Messer Dorato fissava Lodoin. Poi osò volgere il suo sguardo dorato
sulla folla. Non so cosa pensassero, ma seppi che memorizzò ogni viso. Vidi la rabbia accendersi in molti di loro al suo sguardo. E per tutto il tempo il principe rimase nel mio abbraccio, il mio coltello alla gola, riscatto per le vite dei miei amici. Immobile, come se non pensasse a nulla. Incontrò con calma lo sguardo della gatta. Non osai indovinare cosa passasse tra loro, neppure quando la gatta distolse gli occhi e fissò con risolutezza un punto indefinito dietro di lui. L'ira indurì il viso di Lodoin per un momento, ma poi l'uomo si controllò. «Dovrete fare rapporto alla regina, è ovvio. Ma quando avrà avuto da suo figlio un resoconto delle sue esperienze con noi, forse sarà più comprensiva verso la nostra posizione.» Fece un piccolo cenno, e dopo un attimo i suoi seguaci fecero ala. Non invidiai a messer Dorato il passaggio attraverso quel viale di animosità. Guardai Occhi-di-notte. Il lupo si appoggiò alla mia gamba e premette forte per un momento. Focalizzai la mente come la punta di uno spillo. Sparisci appena puoi. Portalo via dalla strada e nascondetevi come meglio potete. Mi rivolse un'occhiata così dolorosa. Poi le nostre menti si divisero e Occhi-di-notte seguì barcollando il Matto, rigido ma dignitoso. Non sapevo fin dove sarebbe arrivato, ma almeno non sarebbe morto in quella caverna, circondato da segugi e gatti da caccia che lo odiavano. Il Matto sarebbe stato accanto a lui. Era tutto il conforto che riuscivo a trovare. La bocca della caverna era un arco di luce. In quell'alone vidi Malta portata al Matto. Lui prese le redini ma non montò. La condusse in una camminata lenta, pari al ritmo che Occhi-di-notte poteva sostenere. Li guardai, un uomo e una cavalla e un lupo che si allontanavano da me. Le loro sagome si fecero più piccole, e divenni consapevole di Devoto immobile nel mio abbraccio, il respiro armonizzato al mio. La vita si allontanava da me, e abbracciai la morte in quel luogo. «Mi dispiace tanto» gli sussurrai all'orecchio. «Farò in fretta.» Lo sapeva già. La replica di mio figlio fu appena un fremito d'aria. «Aspetta. Un angolino è ancora solo mio. Posso trattenerla per qualche tempo, penso. Li lasceremo andare il più lontano possibile.» 26 Sacrificio Anche se viene chiamato comunemente Regno delle Montagne, quel ter-
ritorio e i suoi governanti non corrispondono affatto al concetto dei Sei Ducati di ciò che costituisce un vero regno. Un regno è di solito definito come un singolo popolo, in un territorio comune, dominato da un monarca. Le Montagne non soddisfano alcuna di queste tre condizioni. Piuttosto che un solo popolo, sono cacciatori erranti, pastori nomadi, commercianti e viaggiatori su determinati percorsi, e gente che sceglie di guadagnarsi da vivere in piccole fattorie sparse per tutta la regione. Facile capire che questa gente ha ben pochi interessi in comune. È naturale, quindi, che il loro «signore» non sia un re nel senso tradizionale. La linea cominciò con un mediatore, un saggio esperto nell'arbitrare le dispute che necessariamente sorgevano tra gente così disparata. Le leggende dei «re» dei Chyurda abbondano di re disposti a offrirsi come ostaggi, a rischiare non solo la ricchezza ma anche la vita per il popolo. Da questa tradizione viene il titolo onorifico che la gente delle Montagne conferisce al loro monarca. Non re o regina, ma Sacrificio. Chevalier Lungavista, Il Regno delle Montagne Entrarono strisciando come fango, la gente di Lodoin, sagome buie tra la luce e me. Osservai il cerchio curioso dei miei nemici. La luce del giorno dietro di loro rendeva difficile distinguere i loro lineamenti nella caverna in penombra, ma mentre i miei occhi si adattavano studiai ogni viso. Erano quasi tutti giovani, e fra loro quattro donne. Nessuno sembrava più vecchio di Lodoin. Niente anziani di Antico Sangue; i Pezzati erano una causa per i giovani. Quattro degli uomini avevano simili dentoni squadrati: fratelli, o almeno cugini. Alcuni sembravano quasi indifferenti, nessuno amichevole. Gli unici sorrisi erano compiaciuti e ostili. Allentai di nuovo il colletto. Se l'amuleto di Jinna fece qualche differenza, non lo percepii. Mi chiesi se qualcuno di loro era imparentato con l'uomo che avevo ucciso sul sentiero. C'erano animali con loro, anche se non tanti come mi aspettavo. Due segugi e un gatto; e un uomo aveva un corvo sulla spalla. Rimasi in silenzio, in attesa. Non sapevo cosa sarebbe successo. La gatta del principe era acquattata sul pavimento davanti a noi, immobile. La vidi gettare vari sguardi laterali, ma ogni volta i suoi occhi tornavano al ragazzo, ardendo con una fissità particolare che li faceva sembrare umani. Lodoin era andato all'ingresso della caverna a dare il suo falso addio a messer Dorato. Ora tornò da noi, sorridendo fiducioso.
«Penso che possiamo fare a meno del tuo coltello» osservò con calma. «Io ho mantenuto la mia parte dell'accordo.» «Non sarebbe saggio.» Mentii. «Un attimo fa il ragazzo ha tentato di scappare. L'unica cosa che lo ha bloccato è stato il coltello. Meglio che io lo controlli finché lei non sarà...» Cercai le parole. «Entrata del tutto» conclusi debolmente. Vidi smorfie di disagio su un paio di visi. Di proposito aggiunsi: «Finché Peladine non si impadronirà completamente del suo corpo.» Una donna deglutì. Lodoin sembrava ignaro che alcuni dei suoi seguaci fossero turbati. I suoi modi affabili non cambiarono minimamente. «Non penso che sia necessario. Mi addolora vederti minacciare una gola che apparterrà presto alla mia gente. Il coltello, signore. Qui sei fra i tuoi simili, lo sai. Non hai niente da temere.» Tese la mano. L'esperienza mi aveva insegnato che i miei simili costituivano per me la minaccia peggiore. Ma lasciai che un sorriso lento si aprisse sul mio viso e tolsi il coltello dalla gola del principe. Non lo diedi a Lodoin, ma lo rinfoderai in cintura. Lasciai la mano sulla spalla di Devoto, tenendolo al mio fianco. Lì, dove la caverna si restringeva, potevo spingerlo dietro di me se era il caso. Dubitai che ce ne sarebbe stato bisogno. Volevo ucciderlo. Vent'anni prima, Umbra mi aveva fatto esercitare costantemente in tutti i vari modi di uccidere un uomo a mani nude. Avevo imparato modi silenziosi, e modi veloci, e modi lenti. Sperai di essere rapido e accurato come lo ero stato un tempo. La tattica più soddisfacente era aspettare che Peladine prendesse il corpo del ragazzo, e poi uccidere Devoto così in fretta che la donna sarebbe morta con lui, incapace di fuggire di nuovo nel corpo della sua gattina. Avrei avuto il tempo di uccidermi prima che mi saltassero addosso? Ne dubitavo. Meglio non pensarci. All'improvviso il principe parlò. «Non lotterò.» Scrollò via la mia mano e drizzò la schiena, per quanto glielo permetteva il soffitto basso. «Sono stato stupido. Forse merito questo fato per la mia stupidità. Ma pensavo...» Il suo sguardo percorreva i visi che ci circondavano. I suoi occhi sembravano sapere dove fermarsi, e vidi l'incertezza accendersi in alcuni. «Pensavo davvero che mi riteneste uno di voi. Il vostro benvenuto e il vostro aiuto sembravano così sinceri. Il mio legame con la gatta... non avevo mai provato una cosa del genere. E quando la donna entrò nella mia mente e mi disse che, che mi amava...» La voce esitò su quelle parole, ma Devoto si costrinse a proseguire. «Pensai di aver trovato qualcosa di vero, qualcosa che valeva più della corona o della famiglia o perfino del mio dovere verso
il popolo. Sono stato uno sciocco. Si chiamava Peladine, dunque? Non mi disse mai il suo nome, e chiaramente non la vidi mai in viso. Bene.» Piegò le ginocchia e sedette a gambe incrociate. Aprì le braccia alla gatta che lo fissava. «Vieni, Gatta. Almeno tu mi hai amato per me stesso. So che questo non ti piace, come non piace a me. Facciamola finita tutti e due.» Mi gettò uno sguardo rapido, carico di un significato che non seppi discernere. Mi raggelò. «Non disprezzarmi come un completo idiota. La gatta mi ama, e io amo la gatta. Almeno questo è sempre stato vero.» Sapevo che il contatto con la creatura avrebbe rafforzato il legame. La donna sarebbe entrata facilmente in lui. Gli occhi scuri di Devoto erano fissi nei miei. Vidi d'un tratto Kettricken nel suo viso, nella calma accettazione di ciò che stava per succedere. Le sue parole erano per me. «Se facendo questo liberassi la gatta da lei, ne sarei felice. Invece vado a dividere la sua prigione. Saremo due a cui lei si è legata, semplicemente per usare il nostro corpo. Non ha mai avuto bisogno del nostro cuore, se non per usarlo contro di noi.» Devoto Lungavista distolse lo sguardo da me, chiudendo gli occhi. Chinò la testa verso l'animale che avanzava. Nella caverna non si udiva il minimo suono, neppure un respiro trattenuto. Tutti guardavano, tutti aspettavano. Molte facce erano pallide e tese. Un giovane girò la testa, rabbrividendo, mentre la gatta si avvicinava al principe. Premette la fronte striata contro la sua, marcandolo come fanno i gatti. Mentre strofinava il muso contro di lui, il suo sguardo verde incontrò il mio. Uccidimi ora. L'acuto contatto da mente a mente fu così inaspettato che non reagii. Cosa mi aveva detto il gatto di Jinna? Che tutti i gatti possono parlare, ma che scelgono quando e a chi. Fu la mente di una gatta a toccare la mia, non di una donna. Fissai la piccola gatta da caccia, senza muovermi. Lei spalancò le mascelle in silenzio, come trapassata da una fitta di dolore troppo grande per esprimerlo. Poi scrollò la testa. Stupido fratello-di-un-cane! Sprechi la nostra occasione. Uccidimi ora! Mi colpì la mente come un pugno. «No!» urlò Devoto, e compresi con ritardo che non ero stato il solo a udirla. Il ragazzo cercò di afferrare il foscogatto, ma lei si lanciò dal pavimento alla spalla di Devoto a me, incurante di graffiarlo nel balzo. Si scagliò su di me, artigli scoperti e fauci spalancate. Cosa c'è di più candido dei denti di un gatto contro la bocca rossa? Tentai di afferrare il coltello, ma lei fu troppo veloce. Mi atterrò sul petto e gli artigli curvi delle zampe anteriori si conficcarono nella mia car-
ne mentre le posteriori mi laceravano il ventre. Vidi solo i denti che calavano sul mio viso mentre cadevo all'indietro in un angolo della caverna. Altre voci gridarono. «Peladine!» ruggì Lodoin, e sentii il grido angosciato del principe: «No, no!» ma ero occupato a proteggermi gli occhi. Spinsi la gatta con una mano mentre prendevo l'elsa del coltello con l'altra, ma gli artigli erano ben conficcati nella mia carne. Non potevo spostarla. Girai la testa mentre cadevamo, offrendo involontariamente la gola alle sue zanne. Lei letteralmente afferrò l'occasione, e mentre sentivo i denti affondare nella carne, deviati solo dalle perline dell'amuleto di Jinna, riuscii a estrarre il coltello. Non sapevo se lottavo contro la donna o la gatta, solo che la creatura intendeva uccidermi. La differenza era importante, ma non fermò la mia mano. Fu difficile pugnalarla mentre mi stava aggrappata al petto, perché la spina dorsale e le costole deviarono due volte la lama. Alla terza, finalmente, riuscii ad affondare il coltello. La gatta mi lasciò andare la gola per lanciare il suo ululato di morte, ma gli artigli rimasero ben piantati nel mio petto. Le zampe posteriori mi avevano lacerato la tunica, rigandomi di fuoco il ventre. Staccai il suo corpo da me, imprecando, ma quando feci per gettarla via, Devoto l'afferrò. «Gatta, oh, Gatta!» gridò, e strinse il corpo esanime come se fosse stata la sua bambina. «L'hai uccisa!» mi accusò. «Peladine?» chiamò selvaggiamente Lodoin. «Peladine!» Forse, se la sua bestia non fosse stata appena uccisa, Devoto avrebbe avuto la presenza di spirito di fingere che la mente della donna fosse entrata in lui. Ma non ce la fece, e prima che potessi rimettermi in piedi vidi lo stivale di Lodoin volare verso la mia testa. Mi gettai di lato, rotolai e balzai in piedi in un spettacolo degno del giovane Matto di un tempo. Il mio coltello era ancora nel corpo della gatta, ma avevo la spada alla cintura. La estrassi e aggredii Lodoin. «Corri!» gridai al principe. «Scappa. Ha comprato la tua libertà con la sua vita. Non sprecarla!» Lodoin era più grosso di me, e lo spadone che stava estraendo gli avrebbe dato un notevole vantaggio. Strinsi la mia spada con entrambe le mani e gli troncai l'avambraccio prima che la sua arma uscisse dal fodero. L'uomo stramazzò a terra con un urlo, afferrando il moncone che sprizzava sangue come una tazza levata in un brindisi. Lo spettacolo traumatico paralizzò la folla per un istante. Ebbi appena il tempo di fare due passi e spingere Devoto nella nicchia dietro di me. Non era fuggito e ora era troppo tardi. Forse era sempre stato troppo tardi. Crollò in ginocchio, la gatta fra le braccia.
Agitai la spada descrivendo un arco come un folle, costringendoli a indietreggiare. «Alzati!» ruggii. «Usa quel coltello!» Ero vagamente consapevole che Devoto si era tirato in piedi dietro di me. Non sapevo se aveva estratto il coltello dal corpo della gatta. Fugacemente mi chiesi se me lo avrebbe piantato nella schiena. Poi la folla avanzò, qualcuno in prima linea spinto da quelli dietro di lui. Due afferrarono Lodoin e trascinarono il suo corpo irrigidito fuori dalla mia portata. Uno balzò davanti a loro per affrontarmi. Eravamo troppo vicini per le raffinatezze. Il mio primo colpo di spada gli squarciò il ventre e poi tagliò la faccia di un altro. L'attacco rallentò per un attimo, poi i Pezzati si strinsero attorno a me. Erano ostacolati dal loro stesso numero. Quando fui costretto a indietreggiare sentii il principe farsi da parte, e all'improvviso avevamo entrambi la schiena contro la parete della caverna. Devoto mi superò per attaccare un uomo che era riuscito a scivolare oltre la mia guardia, e poi roteò per difendersi. Urlando come un gatto selvatico colpì l'uomo, che rispose con un grido di dolore. Sapevo che non avevamo speranze, così non fui troppo sorpreso quando la freccia mi sfiorò l'orecchio per infrangersi sul muro dietro di me. Qualche idiota sprecò il fiato suonando un corno. Lo ignorai, come ignorai le grida degli uomini che cadevano di fronte a me. Uno stava morendo e ne finii un altro con lo stesso colpo. Roteai la lama, e incredibilmente indietreggiarono di fronte a me. Ruggii il mio trionfo e avanzai nell'apertura. Ora proteggevo Devoto con il mio corpo. «Venite a morire!» ringhiai. Con la mano libera li incoraggiai ad avanzare. «Giù le armi!» gridò qualcuno. Menai di nuovo un colpo di spada, ma quelli che mi affrontavano indietreggiarono, gettando le spade a terra. Aprirono la strada a un arciere che avanzò su di me. Altri arcieri lo coprivano, ma la sua freccia incoccata puntava diritta al mio petto. «Mettila giù!» gridò di nuovo. Era il ragazzo che ci aveva teso un agguato, che aveva ferito Lora e poi era fuggito con lei. Mentre mi fermavo respirando affannosamente, chiedendomi se dovevo costringerlo a uccidermi, Lora parlò dietro di lui. Tentò di usare un tono rassicurante, ma la sua voce tremava. «Giù la spada, Tom lo Striato. Sei fra amici.» La battaglia rende il mondo minuscolo, la tua vita non è più grande della portata della tua spada. Mi ci volle qualche momento per rientrare in me, e per fortuna me lo concessero. Mi guardai attorno, tentando di capire cosa vedevo, l'arciere e Lora e la gente dietro di lei. Erano sconosciuti, più vecchi della banda di Lodoin. Sei uomini, due donne. La maggior parte bran-
diva archi, ma certi avevano solo bastoni. Alcune frecce erano puntate ai seguaci di Lodoin, che avevano lasciato cadere le spade ed erano in trappola quanto me. Lodoin si contorceva sul pavimento in mezzo a loro, stringendosi ancora il moncone. Due passi e potevo finire almeno lui. Trassi un respiro. Poi sentii la mano di Devoto premere sul mio braccio con fermezza. «Giù la spada, Tom» disse con calma, e per un momento fu la voce tranquillizzante di Veritas al mio orecchio. La forza mi abbandonò il braccio e abbassai la punta della mia arma verso il suolo. Ogni mio respiro ansimante era un flusso di tormento nella mia gola riarsa. «Buttala a terra!» ripeté l'arciere. Avanzò più vicino, e sentii gli impercettibili scricchiolii di un arco che veniva teso ancor di più. Sentii il cuore ricominciare a pulsare. Calcolai la distanza fra me e lui. «Fermi!» intervenne all'improvviso messer Dorato. «Dategli un momento per tornare in sé. Quando è in preda alla furia della battaglia, perde la testa.» Avanzò fra gli arcieri accalcati e si parò tra loro e me assolutamente noncurante delle frecce ora puntate alla sua schiena. Non gettò neanche uno sguardo ai Pezzati che si scostarono con riluttanza per farlo passare. «Tranquillo, Tom.» Mi parlò come per calmare un cavallo. «È finito. È tutto finito.» Mi raggiunse e mi mise la mano sul braccio, e un mormorio corse fra la folla come se avesse fatto qualcosa di straordinariamente eroico. Al suo tocco la spada mi cadde di mano. Accanto a me Devoto crollò all'improvviso in ginocchio. Lo guardai. C'era sangue sulla sua mano e sul davanti della tunica, ma non sembrava suo. Lasciò cadere il mio coltello e raccolse la gatta inerte dal pavimento. Se la strinse al petto come una bambina e si dondolò avanti e indietro, gemendo. «Gatta, amica mia.» Una terribile preoccupazione contrasse il viso di messer Dorato. «Mio principe» cominciò con timore. Si chinò a toccare il ragazzo, ma io lo fermai e lo trassi da parte. «Lascialo in pace» suggerii piano. «Permettigli di piangere.» Poi attraverso la folla apparve il mio lupo, barcollando rigidamente. Arrivò al mio fianco, e toccò a me crollare accanto a lui. Prestarono poca attenzione a Tom lo Striato e al suo lupo. Ci lasciarono lì rannicchiati mentre allontanavano i seguaci di Lodoin dal principe. Ci andava bene, perché avevamo il tempo di essere insieme, e io potevo guardarmi intorno. Osservammo soprattutto il principe. L'arciere, di nome Cerbiatto, aveva portato con sé una vecchia guaritrice. La donna depose l'arco
che portava e si accovacciò accanto al principe. Non tentò di toccarlo, si limitò a sedere accanto a lui e lo guardò piangere. Occhi-di-notte e io lo sorvegliammo dall'altro lato. La donna mi guardò un'unica volta. Quando i nostri occhi si incontrarono il suo sguardo era vecchio e stanco e ammalato di tristezza. Temo che il mio fosse uguale. I corpi dei Pezzati che avevo ucciso furono trascinati fuori e gettati sui loro cavalli. Troppo tardi sentii l'acciottolio di zoccoli che si allontanavano e compresi che ai sopravvissuti era stato permesso di fuggire. Strinsi i denti. Non potevo impedirlo. Lodoin se ne andò per ultimo, non più il loro capo, vacillando in sella al cavallo da guerra schiumante e sostenuto da un giovane cavaliere dietro di lui. Quello mi inquietò più di ogni altra cosa. Non solo gli avevo strappato il principe, ma avevo ucciso la bestia che conteneva l'anima di sua sorella, e lo avevo mutilato. Non avevo bisogno di altri nemici, ma non potevo farci niente. Era libero, e sperai di non dovermene pentire. La guaritrice lasciò che il principe piangesse la gatta, stringendola a sé finché il sole non toccò l'orizzonte. Poi mi guardò. «Prendigli il corpo della gatta» disse piano. Non era un compito che desideravo assolvere, ma obbedii. Fu difficile convincere Devoto a lasciar andare il corpo sempre più freddo della gatta. Scelsi le mie parole con grande cura. Non volevo che il comando d'Arte lo costringesse a fare ciò che non era pronto a compiere. Quando finalmente mi permise di prendergli il foscogatto dal grembo, fui stupito che sembrasse così leggero. Di solito un animale morto, flaccido e inerte, sembra pesare più di uno vivo, ma la morte aveva rivelato le condizioni patetiche della gattina. «Come se fosse divorata dai vermi» aveva detto Occhi-di-notte, e non era lontano dalla verità. La gatta era una creaturina sciupata, la pelliccia un tempo lustra e ora asciutta e fragile, e così rada da lasciar vedere le ossa della spina dorsale. Le pulci la stavano abbandonando, troppe per un animale sano. La guaritrice mi prese la gatta, con un lampo di rabbia sul viso. Parlò a bassa voce. Non so se Devoto la sentì, ma io sì. «Lei non le permetteva neanche di curarsi come fanno i gatti. L'aveva posseduta completamente, e aveva tentato di essere una donna nella pelliccia di una gatta.» Peladine aveva imposto al foscogatto un comportamento umano. Le aveva impedito le lunghe dormite, le mangiate a quattro palmenti e le sessioni di pulitura a cui aveva diritto una gattina vivace. Il gioco e la caccia le erano stati negati. Era il modo dei Pezzati di usare lo Spirito solo per i
loro scopi umani. Mi disgustò. La guaritrice portò fuori il corpo della gatta e il principe e io la seguimmo, con Occhi-di-notte che camminava tra noi. Un cumulo di pietre non del tutto completato attendeva il piccolo cadavere. Tutta la gente di Cerbiatto uscì per assistere all'inumazione. I loro occhi erano rattristati, ma colmi di rispetto. Parlò la guaritrice, perché Devoto era annichilito dal dolore. «Lei va avanti senza di te. È morta per te, per liberarvi entrambi. Conserva in te le impronte di gatto che ha impresso nella tua anima. Lascia andare con lei l'umanità che hai diviso con lei. Ora siete separati.» Il principe vacillò mentre deponevano le ultime pietre sulla gatta, coprendo il suo ringhio di morte. Gli misi una mano sulla spalla per sostenerlo, ma lui scrollò via il mio tocco come se fossi stato contaminato. Non potevo biasimarlo. La gatta mi aveva ordinato di ucciderla, aveva fatto tutto il possibile per costringermi, eppure non mi aspettavo che Devoto mi perdonasse per averle obbedito. Appena la gatta fu sotterrata, la guaritrice di Antico Sangue portò una bevanda al principe. «La tua parte della sua morte.» Devoto la mandò giù prima che messer Dorato o io potessimo interferire. Poi la guaritrice mi fece cenno di riportarlo nella caverna. Là il principe si distese dove la sua gatta era morta, e scoppiò di nuovo in pianto. Non so cosa ci fosse in quella bevanda, ma i singhiozzi affranti del ragazzo si placarono lentamente nel respiro rauco del sonno di un ubriaco. Non c'era alcun riposo nel suo giacere abbandonato accanto a me. «Una piccola morte» mi confidò la guaritrice, spaventandomi. «Gli do una piccola morte, un tempo di assenza. Sai, è morto anche lui quando la gatta è stata uccisa. Ha bisogno di questo tempo vuoto per essere morto. Non tentare di sottrarglielo.» Lo immerse davvero in un sonno vicinissimo alla morte. Lo distese su un giaciglio, arrangiandolo come un cadavere. Intanto mormorava con voce aspra: «Tutte quelle contusioni sul collo e sulla schiena. Come hanno potuto picchiare un ragazzo?» Mi vergognavo ad ammettere che gli avevo procurato io quei lividi. Rimasi in silenzio e la donna lo coprì bene, scuotendo la testa. Poi si girò e mi fece un brusco segno di avvicinarmi. «Anche il lupo. Ho tempo per te, ora che ho badato ai mali del ragazzo. Il suo male era molto più doloroso di una ferita sanguinante.» Con acqua tiepida ci lavò le ferite e applicò un unguento denso. Occhi-
di-notte non reagì al suo tocco. Tratteneva così ermeticamente il dolore che percepivo appena la sua presenza. La donna si occupò dei graffi sul mio petto e sul ventre, borbottando con severità. Forse solo l'amuleto di Jinna la spinse a degnarsi di parlare con un rinnegato come me. Il suo unico commento fu che la collana probabilmente mi aveva salvato la vita. «La gatta voleva ucciderti, non c'è dubbio» osservò. «Ma non era sua intenzione o colpa sua, ne sono sicura. E non era colpa del ragazzo. Guardalo. Per noi è ancora un bambino, troppo giovane per legarsi.» Mi parlò con durezza, come se la responsabilità fosse mia. «Ignora le nostre usanze, e questo gli ha causato danni terribili. Non ti dirò bugie. Potrebbe morirne, o essere affetto da una pazzia malinconica che lo affliggerà fino alla fine dei suoi giorni.» Strinse la benda intorno al mio ventre con uno strattone. «Qualcuno dovrebbe insegnargli la via dell'Antico Sangue. Il modo giusto di affrontare la sua magia.» Mi guardò torva, ma non reagii. Mi infilai quello che rimaneva della mia tunica in brandelli. Mentre la donna mi dava le spalle la sentii sbuffare di disprezzo. Occhi-di-notte alzò stancamente la testa e me la mise sul ginocchio, imbrattandomi di unguento e sangue raggrumato. Guardò il ragazzo addormentato. Gli insegnerai? Dubito che voglia imparare qualcosa da me. Ho ucciso la sua gatta. Chi lo farà, allora? Lasciai la domanda in sospeso. Mi distesi nell'oscurità accanto al lupo. Giacemmo tra l'erede dei Lungavista e il mondo esterno. Non lontano, nella parte centrale del ricovero, Cerbiatto sedeva a colloquio con messer Dorato. Lora era seduta tra loro. La guaritrice li raggiunse, e altri due anziani erano presenti nel cerchio più vicino al fuoco. Li guardai da sotto le ciglia. Gli altri dell'Antico Sangue sembravano indifferenti, impegnati nel resto della caverna a compiere i normali lavori serali di un accampamento. Alcuni giacevano sulle loro coperte dietro a Cerbiatto. Sembravano contenti di lasciar parlare il giovane, ma capii che forse erano i veri detentori del potere nel gruppo. Uno fumava una lunga pipa. Un altro, un individuo barbuto, affilava con cura il coltello. Lo sfregamento della cote sulla lama faceva da monotono sottofondo alla conversazione. Per quanto apparissero disinvolti, sentivo che ascoltavano con attenzione. Cerbiatto forse parlava per loro, ma volevano accertarsi che dicesse quello che doveva. Quei cavalieri di Antico Sangue non trattavano con Tom lo Striato, ma con messer Dorato. Cos'era Tom lo Striato se non un traditore della sua
gente, un lacchè della corona? Era di gran lunga peggio di Lora, perché tutti sapevano che, sebbene la donna fosse nata in una famiglia di Antico Sangue, il talento in lei era morto. Ci si aspettava che vivesse come poteva, per sempre mezza cieca a tutta la vita che fioriva e ronzava e ardeva intorno a lei. Non era un disonore che fosse capocaccia della Regina. Sentii addirittura in loro uno strano orgoglio per lei, così menomata eppure arrivata tanto in alto. Io invece avevo scelto chi tradire, e tutto il popolo dello Spirito mi evitava. Un uomo portò alcuni spiedi di carne e li fissò sopra il fuoco. L'odore era piuttosto allettante. Cibo? chiesi a Occhi-di-notte. Troppo stanco, declinò, e fui d'accordo con lui. Ma per me c'era l'ulteriore riluttanza di chiedere cibo a gente che ci emarginava. Quindi riposammo, ignorati, fuori dal cerchio della luce. Rifiutai di soffrire per l'indifferenza del Matto. Messer Dorato non poteva curarsi delle ferite di un servitore, non più di quanto Tom lo Striato potesse agitarsi per le contusioni del padrone. Avevamo ancora i nostri ruoli da impersonare. Quindi finsi il sonno, ma li osservai di sottecchi e li ascoltai. Dapprima parlarono in generale, e misi insieme i fatti da frammenti e ipotesi. Cerbiatto diede a Lora notizie di uno zio in comune. Erano vecchie notizie, di figli cresciuti e sposati. Cugini alienati, separati per anni. Logico. Lora aveva ammesso di avere parenti in quella zona, dicendo in tutta onestà che possedevano lo Spirito. Il resto venne fuori in un chiarimento a messer Dorato. Cerbiatto e Arno cavalcavano con i Pezzati di Lodoin da un'estate. Erano entrambi disgustati e furiosi per il trattamento riservato al Popolo dell'Antico Sangue. Alla morte di sua sorella, Lodoin si era dedicato alla causa del suo popolo ed era diventato un capo. Non aveva niente da perdere se non sé stesso, e il cambiamento richiedeva sacrificio, così aveva detto ai due ragazzi. Era ora che l'Antico Sangue esigesse la pace che meritava. Lodoin li faceva sentire forti e intrepidi, quei figli e figlie di Antico Sangue che insorgevano audacemente per prendere ciò a cui i genitori non osavano aspirare. Avrebbero cambiato il mondo. Ancora una volta era tempo di vivere come un popolo unito nella comunità dell'Antico Sangue, era tempo di lasciare che i bambini riconoscessero apertamente la loro magia. Tempo di cambiare. «Lo faceva sembrare così naturale. E così nobile. Sì, avremmo dovuto ricorrere a misure estreme, ma non volevamo più di ciò che era nostro di diritto. Pace e riconoscimento. Nient'altro. È chiedere troppo?» «Si direbbe un'aspirazione legittima» mormorò con cautela messer Dora-
to. «Anche se i mezzi di Lodoin sembrano...» Lasciò in sospeso la frase, costringendoli a immaginare una conclusione. Disgustosi. Crudeli. Immorali. La mancanza di descrizione metteva in evidenza la vera bassezza morale del piano. Cadde un breve silenzio. «Non sapevo che Peladine era nella gatta» Cerbiatto asserì in tono difensivo. Un silenzio scettico seguì le sue parole. Il ragazzo guardò quasi con rabbia gli anziani. «Lo so, avrei dovuto percepirla, ma non l'ho fatto. Forse non mi è stato insegnato bene. O forse lei era più abile a nascondersi di quanto pensiate. Ma giuro che non lo sapevo. Arno e io portammo la gatta ai Bresinga. Sapevano che era un dono dell'Antico Sangue, destinato al principe Devoto, per conquistarlo alla nostra causa. Ma giuro sul mio Antico Sangue che non sapevano altro. E neanch'io. Altrimenti non avrei accettato.» La vecchia guaritrice scosse il capo. «Così dicono molti di un atto malvagio, dopo che è successo» lo accusò. «Solo una cosa mi lascia perplessa. Sai che un foscogatto va preso da piccolo, e che caccia solo per colui che lo prende. Non ci hai pensato?» Cerbiatto arrossì ma insisté: «Non sapevo che Peladine era nella gatta. Sì, sapevo che erano state legate. Ma Peladine era morta. Credevo che la gatta fosse sola, e attribuivo il suo strano comportamento al lutto. Che altro si poteva fare? Non sapeva sopravvivere nelle colline; non aveva mai vissuto una vita selvatica. E così la portai ai Bresinga, un dono adatto a un principe. Pensavo che forse» - e l'imbarazzo nella voce lo tradì - «avrebbe voluto legarsi di nuovo. Ne aveva il diritto, se lo desiderava. Ma quando il principe giunse da noi, credetti a Lodoin quando disse che veniva di propria volontà, per imparare le nostre usanze. Pensate che altrimenti lo avrei aiutato, pensate che Arno avrebbe sacrificato la vita per questo?» Credo che alcuni dubitassero della sua storia quanto me. Ma non era il momento delle accuse. Tutti sorvolarono e Cerbiatto continuò. «Arno e io cavalcammo con Lodoin e i Pezzati, come scorta per il principe. Volevamo portarlo al Bosco di Seffers, dove avrebbe potuto vivere fra i Pezzati e imparare le nostre usanze. Così ci disse Lodoin. Quando Arno fu preso a Hallerby, fuori dalla locanda del Principe Pezzato, capimmo che dovevamo fuggire. Non sopportavo di lasciarlo, ma era ciò che avevamo giurato come Pezzati: che ognuno di noi avrebbe sacrificato la vita per gli altri se necessario. Il mio cuore era pieno di furia quando ci fermammo e tendemmo l'imboscata ai codardi che ci inseguivano. Non mi pento di una sola di quelle morti. Arno era mio fratello! Poi proseguimmo,
e quando trovammo un altro buon posto, Lodoin mi lasciò a sorvegliare la pista. 'Fermali', mi disse. 'Se ti costerà la vita, così sia.' E io accettai.» Fece una pausa e i suoi occhi cercarono Lora. «Giuro che non ti ho riconosciuta, cugina. Neppure quando la mia freccia ti ha colpita. Volevo solo sterminare tutti quelli che avevano preso parte all'uccisione di Arno. Solo quando lo Striato mi ha trascinato giù dall'albero e ti ho guardato mi sono reso conto di ciò che avevo fatto. Ho versato altro sangue della mia famiglia.» Deglutì e all'improvviso fu silenzioso. «Ti perdono.» La voce di Lora era dolce ma chiara. Guardò la gente di Antico Sangue. «Chiamo tutti a testimoni. Cerbiatto mi ha fatto del male senza saperlo, e lo perdono. Non c'è alcun debito di vendetta o riparazione tra noi. Quando mi feristi non sapevo nulla di tutto questo. Pensavo solo che, siccome mi mancava la tua magia, mi avevi giudicato degna di essere uccisa.» Un'amara risata gutturale. «Solo quando lo Striato ti stava massacrando mi sono resa conto che... che non importava.» Si girò all'improvviso a guardarlo. Imbarazzato, Cerbiatto si costrinse a incontrare il suo sguardo serio. «Sei mio cugino, sangue del mio sangue» affermò piano Lora. «Ciò che condividiamo supera di molto le nostre differenze. Temevo che ti avrebbe ucciso per farti parlare. E sapevo che, malgrado ciò che avevi fatto, malgrado la mia lealtà alla regina, non potevo permetterlo. Quindi mi sono alzata di notte mentre messer Dorato e il suo uomo dormivano, e ho portato via mio cugino.» Lora spostò lo sguardo su messer Dorato. «Mi avevate detto che dovevo fidarmi di voi quando mi escludevate dalle confidenze scambiate con lo Striato. Decisi che avevo il diritto di esigere lo stesso da voi. Quindi vi lasciai dormire, e feci ciò che ritenevo necessario per salvare il mio principe.» Messer Dorato chinò la testa per un momento, poi annuì, solenne. Cerbiatto si strofinò una mano sugli occhi. Parlò come se non avesse neanche sentito le parole di Lora a messer Dorato. «Ti sbagli, Lora. Sono in debito con te, e non lo dimenticherò mai. Da bambini ti trattavamo male quando venivi a visitare la famiglia di tua madre. Ti abbiamo sempre esclusa. Perfino tuo fratello ti chiamava talpa, perché scavavi alla cieca sotto terra mentre noi correvamo liberi e saggi. E io ti ho ferito. Non avevo alcun diritto di aspettarmi il tuo aiuto. Ma sei venuta da me. Mi hai salvato la vita.» La voce di Lora era tagliente. «Arno» disse. «L'ho fatto per Arno. Era cieco e sordo quanto me a quella 'magia di famiglia' che ci escludeva. Era il mio unico compagno di giochi quando venivo a trovarvi. Ma lui ti ha
sempre voluto bene, e alla fine ha pensato che valevi la sua vita.» Scosse il capo. «Non potevo permettere che fosse morto per niente.» Quella notte erano fuggiti insieme dalla caverna. Lora lo aveva convinto che la cattura del principe Devoto poteva solo attirare un'aspra persecuzione sull'Antico Sangue, e gli aveva chiesto di trovare anziani abbastanza potenti da costringere Lodoin a liberarlo. Kettricken aveva già parlato contro coloro che linciavano gli Spirituali; era la prima regina da generazioni che prendeva le loro parti, e Lodoin voleva attirarsi la sua ira? Lora aveva convinto Cerbiatto che, poiché i Pezzati avevano preso il principe, l'Antico Sangue doveva restituirlo. Era l'unico modo per riparare. Lora si rivolse a messer Dorato con voce implorante. «Siamo tornati ad aiutarvi appena possibile. Non è colpa dell'Antico Sangue se devono vivere dispersi e silenziosi. Abbiamo cavalcato di casa in fattoria, radunando persone influenti disposte a far ragionare Lodoin. È stato difficile, perché non è il modo dell'Antico Sangue. Si suppone che ogni uomo domini sé stesso, che ogni famiglia abbia la propria integrità. Pochi volevano opporsi a Lodoin ed esigere che facesse ciò che è giusto.» Il suo sguardo lasciò messer Dorato e percorse gli altri presenti. «Voi che siete venuti, vi ringrazio. E se me lo permettete farò conoscere i vostri nomi alla regina, così saprà con chi è in debito.» «E da chi portare la corda e la spada?» chiese piano la guaritrice. «Non sono ancora tempi abbastanza tranquilli per fare nomi, Lora. Abbiamo il tuo. Se avremo bisogno dell'orecchio della regina, potremo raggiungerla attraverso di te.» Quelli che si erano riuniti erano il popolo dell'Antico Sangue, ma non si definivano Pezzati, né condonavano le azioni dei Pezzati. Rimanevano legati ai vecchi insegnamenti, disse schiettamente Cerbiatto a messer Dorato. Il giovane si vergognava di aver seguito Lodoin. Giurò che lo aveva spinto la rabbia, non il desiderio di dominare gli animali e usarli per i propri scopi come facevano i Pezzati. Negli ultimi due anni aveva visto troppi della sua gente impiccati e squartati. Era abbastanza per far impazzire chiunque, ma lui aveva capito i suoi errori, grazie a Eda. E grazie a Lora. Sperava che sua cugina gli avesse perdonato la crudeltà della loro infanzia. La conversazione mi lambiva con il ritmo delle onde. Tentai di stare sveglio e dare un senso alle parole di Cerbiatto, ma eravamo così stanchi, il mio lupo e io. Occhi-di-notte giaceva accanto a me e non sapevo distinguere dove finiva il suo dolore e cominciava il mio. Non mi importava. Anche se ormai potevamo dividere solo il dolore, lo accettavo volentieri.
Ciascuno aveva ancora l'altro. Il principe non era così fortunato. Girai la testa per guardarlo, ma dormiva, il respiro affaticato come se soffrisse anche nei sogni. Alternavo momenti di lucidità a momenti di incoscienza. Il sonno pesante del lupo mi trascinava, un'attrazione piacevole. Il sonno è il grande guaritore, mi aveva sempre detto Burrich. Pregai che avesse ragione. Come le note di una musica lontana, avvertii i sogni di caccia di Occhi-di-notte, ma non potevo ancora cedere alla brama di dividerli. Il Matto poteva fidarsi di Lora e Cerbiatto e dei loro compagni, ma io no. Avrei fatto la guardia, mi dissi. Avrei fatto la guardia. Nel mio sonno apparente, mi mossi per osservarli. Notai distrattamente che Lora sedeva tra messer Dorato e Cerbiatto, ma più vicina al nobiluomo che a suo cugino. Il discorso si era spostato dai chiarimenti ai negoziati. Ascoltai con attenzione le parole misurate e ragionevoli di messer Dorato. «Temo che non capiate del tutto la posizione della regina Kettricken. Chiaramente non posso presumere di parlare per lei. Sono solo un ospite alla corte dei Lungavista, un nuovo venuto e per giunta uno straniero. Eppure forse proprio queste limitazioni mi lasciano vedere con maggior chiarezza ciò che è difficile scorgere a causa della familiarità. La corona e il nome dei Lungavista non proteggeranno il principe Devoto dalla persecuzione come Spirituale. Anzi, saranno come olio su un falò; lo immoleranno. Voi ammettete che la regina Kettricken ha fatto molto più di tutti i suoi predecessori per bandire le persecuzioni della vostra gente. Ma se rivelate che suo figlio possiede lo Spirito, non solo entrambi potrebbero essere detronizzati, ma i suoi sforzi di proteggere il vostro popolo saranno considerati un tentativo sospetto di difendere suo figlio.» «La regina Kettricken ha bandito le condanne a morte per gli 'Spirituali', è vero» rispose Cerbiatto. «Ma ciò non significa che abbiamo smesso di morire. La realtà è chiara. Quelli che cercano di sterminarci ci accusano di falsi crimini e inventano offese inesistenti. Un uomo mente, un altro lo sostiene, e un padre o una sorella di Antico Sangue viene impiccato e squartato e bruciato. Forse, se la regina vede suo figlio minacciato come mio padre vede il proprio, si impegnerà di più per noi.» Dietro a Cerbiatto, un uomo annuì lentamente. Messer Dorato aprì le mani con grazia. «Farò ciò che posso, ve lo assicuro. La regina riceverà un resoconto dettagliato di tutto ciò che avete fatto per salvare suo figlio. E Lora è più che una semplice capocaccia. È anche amica e confidente della regina Kettricken. Le dirà tutto. Di più non posso
fare. Non ho l'autorità di fare promesse in nome della regina.» L'uomo che aveva annuito dietro a Cerbiatto si inclinò in avanti. Toccò il ragazzo sulla spalla, esortandolo a proseguire. Poi si raddrizzò e attese. Cerbiatto parve a disagio. Si schiarì la voce e parlò. «Osserveremo la regina e ascolteremo ciò che dirà ai suoi nobili. Sappiamo meglio di tutti la minaccia che il principe Devoto affronterebbe, se si sapesse che ha l'Antico Sangue nelle vene. Sono i rischi a cui i nostri fratelli e sorelle vanno incontro ogni giorno. Vorremmo che la nostra gente non fosse in pericolo. Se la regina ritiene giusto tendere la mano e difendere il nostro popolo dalla persecuzione, allora l'Antico Sangue difenderà il segreto di suo figlio. Ma se ignora la nostra situazione, se distoglie lo sguardo dallo spargimento di sangue... ebbene...» «Comprendo» rispose in fretta messer Dorato. La sua voce era fredda, ma non aspra. Trasse un respiro. «In queste circostanze è forse il massimo che possiamo chiedervi. Ci avete già restituito l'erede dei Lungavista. Questo disporrà bene la regina verso di voi.» «È quello che ci aspettiamo» rispose cupo Cerbiatto, e l'uomo dietro di lui annuì solenne. Il sonno mi chiamava. Occhi-di-notte era già immerso nel torpore. Il suo manto era appiccicoso di unguento, come il mio petto e il ventre. Ci faceva male quasi dappertutto, ma appoggiai la fronte contro la sua nuca e lo circondai con un braccio cauto. La pelliccia mi si attaccava alla pelle. Le parole della conversazione attorno al fuoco si affievolirono e divennero insignificanti mentre mi aprivo a lui. Affondai la mia coscienza oltre il dolore rosso che lo confinava finché non trovai il calore e l'umorismo della sua anima. Gatti. Peggio dei porcospini. Molto peggio. Ma il ragazzo amava la gatta. La gatta amava il ragazzo. Povero ragazzo. Povera gatta. La donna era egoista. Più che egoista. Malvagia. La sua vita non era abbastanza per lei. È stata una gattina coraggiosa. Ha resistito e ha portato la donna con sé. Gatta coraggiosa. Una pausa. Pensi che verrà mai il giorno in cui il popolo dello Spirito potrà dichiarare apertamente la sua magia? Non lo so. Sarebbe bello, suppongo. Guarda come la segretezza e la cattiva reputazione hanno plasmato le nostre vite. Ma... ma è stato bello an-
che così. Le nostre vite. La tua e la mia. Sì. Ora riposa. Riposa. Non sapevo decidere quali pensieri fossero miei e quali del lupo. Non ne avevo bisogno. Affondai nei suoi sogni con lui e sognammo bene insieme. Forse il dolore di Devoto per la perdita della gatta ci aveva fatto pensare a tutto ciò che ancora avevamo, e tutto ciò che avevamo avuto. Sognammo un cucciolo che cacciava i topi sotto il pavimento marcio di un vecchio magazzino, e sognammo un uomo e un lupo che abbattevano insieme un grosso cinghiale. Sognammo di inseguirci l'un l'altro nella neve profonda, azzuffandoci per gioco e ululando e strepitando. Il sangue del cervo, caldo in bocca, e il fegato morbido e ricco da contenderci. E poi sprofondammo oltre quei ricordi antichi in un perfetto e confortante riposo. La guarigione comincia con sonni profondi come quello. Il lupo si mosse per primo. Quasi mi svegliai quando si alzò, si scosse con cautela e poi si stiracchiò più deciso. Il suo odorato più fine mi disse che c'era nell'aria il profumo dell'alba. Il debole sole sfiorava appena l'erba umida di rugiada, ridestando gli odori della terra. La selvaggina stava svegliandosi. La caccia sarebbe stata buona. Sono così stanco, protestai. Non posso credere che tu voglia alzarti. Riposa ancora un poco. Cacceremo più tardi. Tu sei stanco? Io sono così stanco che il riposo non mi aiuterà. Solo la caccia. Sentii il naso bagnato sulla guancia. Era freddo. Non vieni? Ero sicuro che volessi seguirmi. Certo. Certo. Ma non ancora. Dammi ancora un po' di tempo. Molto bene, fratellino. Ancora un poco. Seguimi quando vuoi. Ma la mia mente corse con la sua, come era successo tante volte. Lasciammo la caverna, densa di puzza di uomo, e superammo il cumulo di pietre della gatta. Sentimmo l'odore della sua morte, e la traccia muschiata di una volpe che l'aveva seguito ma era stata allontanata dal fuoco. In fretta ci lasciammo il campo alle spalle. Occhi-di-notte scelse il pendio aperto invece della valle boscosa. Il cielo sopra di noi era blu e profondo, e l'ultima stella stava svanendo. La notte era stata più fredda di quanto avessi pensato. Le punte dell'erba erano ancora gelate qua e là, ma quando il sole nascente le sfiorò, il ghiaccio fumò per un attimo e si dissolse. Rimaneva il fresco dell'aria, ogni odore acuto come una lama pulita. Con il naso di un lupo, fiutai tutto e conobbi tutto. Il mondo era nostro. Il tempo gira, gli dissi.
Esatto. Tempo di cambiare, Cambiamento. C'erano topi grassi che raccoglievano in fretta ciuffi di semi nell'erba alta, ma li lasciammo stare. In cima alla collina ci fermammo. Percorremmo il crinale, annusando il mattino, assaggiando il giorno nuovo. Ci sarebbero stati cervi in fondo alle valli boscose dei torrenti, sani e forti e grassi, una sfida per qualsiasi branco, tanto più per un solo lupo. Occhi-di-notte aveva bisogno di me per cacciarli. Doveva tornare più tardi. Tuttavia si arrestò sul crinale. Il vento mattutino gli arruffava la pelliccia e le orecchie dritte mentre guardava giù dove sapeva che c'erano i cervi. Buona caccia. Ora vado, fratello. Parlò con grande determinazione. Da solo? Non puoi abbattere un cervo da solo! Sospirai rassegnato. Aspetta, mi alzo e ti seguo. Aspettarti? Figuriamoci. Ho sempre dovuto correre avanti e mostrarti la via. Rapido come il pensiero, scivolò via da me, correndo giù per il pendio come l'ombra di una nube quando il vento è forte. Il contatto con lui si sfilacciò mentre si allontanava, disperdendosi e fluttuando come lanugine di soffioni. Non più piccolo e segreto, sentii il nostro legame allargarsi e spalancarsi, come se il lupo avesse invitato tutte le creature dello Spirito nel mondo a dividere la nostra unione. Tutta la rete della vita sul pendio si gonfiò all'improvviso nel mio cuore, legata e mescolata e intrecciata in sé stessa. Era troppo glorioso per trattenersi. Dovevo andare con lui; una mattina così meravigliosa andava condivisa. «Aspetta!» gridai, e così facendo mi svegliai. Lì accanto il Matto si tirò a sedere, i capelli in disordine. Sbattei le palpebre. Avevo la bocca piena di unguento e peli di lupo, le dita affondate nel suo manto. Lo strinsi a me, e sotto la mia presa il suo ultimo respiro immobile uscì in un sospiro dai polmoni. Occhi-di-notte se n'era andato. La pioggia fredda scrosciava oltre l'ingresso della caverna. 27 Lezioni Prima di poter insegnare l'Arte bisogna eliminare la resistenza all'insegnamento. Alcuni Mastri d'Arte affermano di dover conoscere ciascuno studente per un anno e un giorno ancor prima di cominciare a istruirlo. Alla fine di quel periodo il maestro saprà quali studenti sono pronti a essere addestrati. Gli altri, non importa quanto sembrino dotati, vengono re-
stituiti alla loro vita. Altri maestri affermano che questa tecnica è uno spreco di prezioso talento e potenziale. Scelgono un percorso più diretto per eliminare la resistenza dello studente, concentrandosi non tanto sulla fiducia quanto sull'acquiescenza alla volontà del maestro. Un regime severo di austerità diviene la base per concentrare la volontà dello studente sulla soddisfazione del maestro. Gli strumenti per ottenere un'adeguata umiltà sono il digiuno, il freddo, la privazione del sonno e le punizioni. L'uso di questo metodo è raccomandato in tempi di bisogno quando le confraternite vanno addestrate e formate in fretta e in gran numero. La qualità degli adepti dell'Arte così creati può non essere altrettanto apprezzabile, ma quasi tutti gli studenti con un certo talento possono essere costretti a funzionare in questo modo. Wemdel, assistente del Mastro d'Arte Quilo, Osservazioni Per un giorno e una notte la guaritrice dell'Antico Sangue mantenne il principe Devoto in stato catatonico. So che spaventò messer Dorato, nonostante Lora si sforzasse di rassicurarlo che lo aveva già visto accadere e che la guaritrice stava facendo ciò che andava fatto. Io invidiavo Devoto. Non mi fu offerto nessun conforto, e pochi mi parlarono. Forse in parte si trattava di ostracismo; quando uno si astiene dal sostenere una società, ne perde lui stesso il sostegno. Ma non penso che fosse solo cinica crudeltà. Ero un adulto e un esule, e si aspettavano che gestissi la mia situazione a modo mio. Come estraneo, potevano dirmi ben poco, e non potevano fare assolutamente nulla per aiutarmi. Ero consapevole della comprensione del Matto, ma in un modo remoto. Messer Dorato non aveva conforto da offrire. La morte del mio lupo mi isolava e mi stordiva. La perdita della sua compagnia era già abbastanza dolorosa, ma con lui avevo perso anche l'accesso ai suoi sensi più acuti. I suoni sembravano ovattati, la notte più buia, i profumi e i sapori meno pungenti. Era come se il mondo fosse stato privato di ogni luce. Il lupo mi aveva lasciato solo in un luogo buio e stantio. Eressi una pira funebre e bruciai il corpo del mio lupo. Questo angosciò visibilmente il popolo dell'Antico Sangue, ma era il mio modo di piangerlo. Con il coltello mi tagliai i capelli e li bruciai con lui, folte matasse nere
striate di bianco. Con lui andò anche una lunga ciocca leggera d'oro bronzeo. Come Burrich aveva fatto un tempo per Volpina, rimasi tutto il giorno accanto al fuoco, combattendo la pioggia che si sforzava di estinguerlo, aggiungendo legna ogni volta che cominciava a morire, finché anche le ossa del lupo non furono che cenere. La seconda mattina, la guaritrice permise al principe di svegliarsi. Sedette accanto a lui, guardandolo uscire dal suo stordimento drogato. Io rimasi in piedi in disparte, ma lo vegliai a modo mio. Vidi la consapevolezza tornare a poco a poco in lui, prima nei suoi occhi e poi sul suo viso. Cominciò nervosamente a impastare il vuoto con le mani, ma la guaritrice gliele strinse nella sua. «Non sei la gatta. La gatta è morta. Sei un uomo, e devi continuare a vivere. La benedizione dell'Antico Sangue è che loro condividono la loro vita con noi. La maledizione è che di rado quella vita è lunga come la nostra.» Poi si alzò e lo lasciò, senza dargli altro su cui riflettere. Presto Cerbiatto e i suoi compagni montarono in sella e se ne andarono. Notai che il giovane trovò un momento per parlare in privato con Lora prima di andarsene. Forse avevano riallacciato i legami di famiglia. Sapevo che Umbra mi avrebbe chiesto cosa avevano detto, ma ero troppo prostrato per tentare di spiarli. I Pezzati erano fuggiti lasciandosi indietro molti cavalli. La gente dell'Antico Sangue ne diede uno al principe. Era una piccola creatura grigio spento, dallo spirito scialbo come il suo colore. Era perfettamente adatto al principe Devoto, come il continuo piovigginare. Prima di mezzogiorno montammo in sella e riprendemmo il nostro viaggio verso Castelcervo. Cavalcai accanto al principe su Mianera. La cavalla aveva quasi smesso di zoppicare. Lora e messer Dorato erano davanti a noi. Discutevano fra loro, ma non riuscivo a seguire la conversazione. Non penso che parlassero piano e in privato; piuttosto, anche in quello il mio mondo era come morto. Mi sentivo intirizzito e stordito, mezzo cieco. Sapevo di essere vivo perché le ferite facevano male e la pioggia era fredda. Ma tutto il resto del mondo, ogni senso e sentimento, era offuscato. Non camminavo più impavido nell'oscurità; il vento non mi parlava più di un coniglio su un pendio o di un cervo che aveva attraversato di recente la strada. Il cibo aveva perso ogni sapore. Il principe non stava molto meglio. Affrontava il dolore altrettanto male, in un silenzio scostante. C'era, suppongo, un muro di colpe inespresse tra noi. Non fosse stato per lui, il mio lupo poteva essere ancora vivo, o alme-
no sarebbe morto in circostanze più pacifiche. Io avevo ucciso la sua gatta, proprio sotto i suoi occhi. In qualche modo la rete di Arte che ancora ci legava peggiorava le cose. Non potevo guardarlo senza essere consapevole della sua assoluta infelicità. Sospetto che potesse percepire la mia accusa non detta. Sapevo che non era giusto, ma soffrivo troppo. Se il principe avesse rispettato il suo nome e il dovere, se fosse rimasto a Castelcervo, la sua gatta sarebbe stata ancora viva, e anche il mio lupo. Non lo dissi ad alta voce. Non ne avevo bisogno. Il ritorno a Castelcervo fu infelice per tutti. Quando arrivammo alla strada la seguimmo verso nord. Nessuno desiderava visitare di nuovo Hallerby e la locanda del Principe Pezzato. E nonostante le assicurazioni di Cerbiatto che dama Bresinga e famiglia non erano coinvolti nei piani dei Pezzati contro il principe, ci tenemmo alla larga dalle sue terre e dalla fortezza. La pioggia continuava a cadere. Il popolo dell'Antico Sangue ci aveva lasciato tutte le provviste possibili, ma non era molto. Al primo paesino che incontrammo, passammo la notte in una squallida taverna. Là messer Dorato pagò generosamente un messaggero per far arrivare al più presto una pergamena a suo «cugino» a Borgo Castelcervo. Poi attraversammo la campagna, diretti al successivo insediamento che offriva un traghetto attraverso il fiume Cervo. La deviazione ci richiese due giorni in più. Ci accampammo sotto la pioggia, consumammo le nostre scarse razioni e dormimmo al freddo e all'umido. Sapevo che il Matto contava con ansia i giorni che mancavano alla luna nuova e alla cerimonia di fidanzamento del principe. Tuttavia procedevamo lentamente, e sospettavo che messer Dorato volesse dare il tempo al messaggero di giungere a Castelcervo e avvertire la regina delle circostanze del nostro ritorno. Forse tentava anche di dare al principe e a me il tempo di affrontare la nostra perdita prima di tornare al trambusto e alla vita sociale di Castelcervo. Se non si muore di una ferita si guarisce in qualche modo, e così avviene con una perdita. Dal dolore acuto del recentissimo lutto, il principe e io passammo nei giorni grigi della confusione stordita e dell'attesa. Così il dolore mi era sempre sembrato, una lunga attesa: non che il male passasse, ma che ci facessi l'abitudine. Messer Dorato e Lora non trovavano la strada tediosa e solitaria come noi, e questo non aiutò il mio umore. Cavalcavano di fronte a noi, staffa a staffa, e sebbene non ridessero ad alta voce o cantassero allegre canzoni di viaggio, conversavano quasi di continuo e sembravano trarre molto piacere dalla reciproca compagnia. Mi dissi che non avevo bisogno di una balia e
che c'erano ottime ragioni se il Matto e io non tradivamo la profondità della nostra amicizia a Lora o a Devoto. Ma soffrivo della perdita e della solitudine, e il risentimento era l'emozione meno dolorosa che provavo. Tre giorni prima della luna nuova eravamo a Guado Nuovo. Come il nome rivelava, si trattava di un guado e un traghetto che non esistevano al tempo del mio ultimo viaggio da quelle parti. C'era un grande porto dove era ormeggiata una nutrita flotta di chiatte di fiume. Il paesino intorno era nuovo, crudo come una cicatrice fresca, con le case in legno grezzo e i magazzini. Non ci attardammo: andammo diritti al molo e aspettammo nella pioggia finché il traghetto serale non fu pronto alla traversata. Il principe tenne le redini del suo cavallo anonimo e fissò silenziosamente l'acqua. Il fiume era gonfio per le recenti piogge e torbido di limo, ma non riuscivo ad amare abbastanza la vita per temere la morte. I sobbalzi e la fatica mentre i traghettatori lottavano contro la corrente sembravano solo un ritardo più irritante. Ritardo? mi chiesi sarcastico. E verso cosa mi affrettavo? Casa e focolare? Moglie e figli? Avevo ancora Ticcio, mi ricordai, ma subito seppi che non era così. Ticcio era un giovane che stava costruendo la propria vita. Aggrapparsi a lui e farne il centro della mia esistenza sarebbe stato da sanguisuga. Quindi cos'ero, una volta da solo, privato di tutti gli altri? Domanda difficile. Il traghetto sussultò quando il fondo raschiò la ghiaia, e poi gli uomini lo spinsero più vicino alla riva. Eravamo passati. Castelcervo era a un giorno di cavallo. Da qualche parte sopra alle nubi fitte si attardava una falce di luna calante. Avremmo raggiunto Castelcervo prima della cerimonia di fidanzamento del principe Devoto. Ce l'avevamo fatta. Eppure non provavo alcun senso di esaltazione o perfino soddisfazione. Volevo solo che quel viaggio finisse. La pioggia scrosciava a torrenti quando giungemmo all'approdo, e messer Dorato dichiarò fermamente che quella sera non saremmo andati oltre. La locanda era più antica del paese sull'altro lato del fiume. La pioggia nascondeva gli altri edifici del villaggio, ma pensai di scorgere una piccola stalla, e più oltre un grappolo di case. L'insegna della locanda era un remo dipinto su un vecchio timone, e il legno delle pareti era di un grigio stinto dove l'intonaco si era scrostato. La notte di temporale aveva quasi riempito la locanda. Messer Dorato e la sua compagnia erano troppo malridotti per continuare la pretesa di nobiltà, ma per fortuna lui aveva denaro sufficiente a comprarsi il rispetto e il timore riverenziale del locandiere. Il mercante Gheppio, così si presentò, ottenne due stanze per noi, anche se una era un
piccolo soppalco sotto le travi del tetto. Sua «sorella» dichiarò arditamente che le andava benissimo, e il mercante e i suoi due servitori avrebbero preso l'altra. Se il principe aveva remore a viaggiare in incognito, non le diede a vedere. Incappucciato e avvolto nel mantello gocciolante, rimase in piedi sul portico con me finché un servitore non uscì a dirci che la stanza del nostro padrone era pronta. Come varcai la soglia, sentii dalla stanza comune la voce limpida di una donna levarsi in una canzone. Ma certo, pensai. Ma certo. Chi poteva sorvegliare una locanda meglio di una cantastorie? Stornella cantava la vecchia leggenda dei due innamorati che sfidarono le famiglie e si uccisero per amore. Non gettai neanche uno sguardo nella stanza, anche se vidi Lora fermarsi ad ascoltare sulla porta. Il principe mi seguì apatico su per le scale fino a una camera grande ma rustica. Messer Dorato ci aveva preceduti. Un ragazzo stava accendendo il fuoco; altri due preparavano una vasca e paraventi nell'angolo. C'erano due grandi letti e un giaciglio vicino alla porta. In fondo alla stanza c'era una finestra. Il principe si affacciò e fissò la notte, cupo. Accanto al fuoco c'era una rastrelliera, e io svolsi il mio ruolo aiutando messer Dorato a togliersi il mantello fradicio e sporco. Scrollai via il mio, li appesi ad asciugare, e poi gli tolsi gli stivali bagnati mentre assistevo a un andirivieni di servitori con secchi di acqua calda e una cena di pasticci di carne, frutta cotta, pane e birra chiara. Si muovevano con tale precisione che mi ricordarono una compagnia di giocolieri mentre irrompevano come un'onda e allo stesso modo si ritiravano. Quando ancora una volta furono fuori dalla stanza, chiusi la porta a chiave dietro di loro. L'acqua calda nella vasca riempì la stanza dell'aroma di erbe per il bagno, e all'improvviso avrei voluto immergermi e cercare l'oblio. Le parole di messer Dorato mi richiamarono alla realtà. «Mio principe, il bagno è pronto. Desiderate aiuto?» Il principe si alzò. Lasciò cadere il mantello bagnato sul pavimento con un rumore secco. Lo guardò un momento, poi lo raccolse e lo portò alla rastrelliera per farlo asciugare. Lo stese con il fare di un ragazzo abituato a badare a sé stesso. «Nessun aiuto, grazie» disse piano. Gettò uno sguardo al cibo fumante in tavola. «Non aspettatemi. Non mi curo delle formalità. Non ha senso che soffriate la fame mentre mi lavo.» «In quello siete figlio di vostro padre» osservò con compiacimento messer Dorato. Il principe chinò serio la testa al complimento, ma non disse altro.
Messer Dorato attese che il principe Devoto svanisse dietro i paraventi. Dal padrone di casa aveva ottenuto carta, inchiostro e penna. Sedette a un tavolino e scrisse in silenzio per qualche momento. Io andai al focolare con un pasticcio di carne. Lo mangiai in piedi, mentre il calore del fuoco sulla schiena asciugava parte dell'umidità dai miei vestiti. Messer Dorato mi parlò mentre la penna graffiava un'ultima riga. «Bene, almeno siamo al riparo dal maltempo per un po'. Penso che ci faremo una bella dormita e proseguiremo domani, ma non troppo presto. Ti va bene, Tom?» «Come desiderate, messer Dorato.» Lui soffiò sulla lettera, poi la arrotolò. La legò con un filo strappato dal mantello un tempo elegante. Me la diede, con un sopracciglio sollevato. Non fraintesi la sua intenzione. «Preferirei di no» dissi molto piano. Messer Dorato lasciò lo scrittoio e andò alla tavola dove era disposto il cibo. Cominciò a servirsi, facendo rumore di proposito con piatti e pentole. Mormorò con voce comprensiva: «E io preferirei che tu non dovessi andare. Ma non ho scelta. Perfino nello stato in cui sono, qui c'è ancora gente che può riconoscere messer Dorato e notare il suo interesse per una cantastorie. In questo viaggio ho attirato abbastanza scandalo sul mio nome. Hai dimenticato le mie azioni a Rocca Bufera? Dovrò già spiegare quello quando torno a Castelcervo. Devoto non può andare, e per quel che ne so, Lora non sa del collegamento. Forse Stornella la riconoscerebbe, ma diffiderebbe di un messaggio consegnato da lei. Quindi devi essere tu, temo.» Lo temevo anch'io, e temevo di più la parte traditrice di me stesso che in realtà sperava di dover scendere le scale e attirare lo sguardo della cantastorie, quella parte in ognuno di noi che farebbe qualsiasi cosa per allontanare la solitudine. Non è necessariamente la parte più codarda, ma ho visto molti compiere azioni vergognose per placarla. Peggio, mi chiesi se il Matto non stesse mandandomi di proposito da lei. Già una volta, quando la solitudine minacciava di divorare il mio cuore, le aveva detto dove poteva trovarmi. Fra le sue braccia avevo ottenuto un incauto conforto. Avevo giurato di non farlo mai più. Eppure presi dalla mano di messer Dorato il minuscolo messaggio arrotolato e me lo infilai nella manica sfilacciata con la disinvoltura di lunghi anni di finzioni. Le piume della spiaggia del tesoro erano ancora là, assicurate al mio avambraccio. Quel segreto, almeno, rimaneva solo mio, finché non avessi trovato il tempo per dividerlo in privato con lui. Ad alta voce, messer Dorato disse: «Vedo che sei inquieto nonostante la lunga giornata. Vai, Tom. Il principe e io possiamo arrangiarci per una se-
ra, e tu meriti qualche canzone e una birra in pace. Ora vai, ti ho visto gettare un'occhiata bramosa da quella parte. A noi non importa.» Mi chiesi chi pensasse di ingannare. Il principe sapeva che il mio cuore non conosceva altro che il dolore. Nel campo dei Pezzati aveva visto messer Dorato obbedire al mio ordine e andarsene con il lupo. Tuttavia ringraziai ad alta voce il mio padrone e lasciai la stanza. Forse era un dramma che tutti recitavamo l'uno per l'altro. Scesi lentamente le scale. Lora stava salendo. Mi rivolse un'occhiata piena di curiosità. Cercai qualcosa da dire, ma non mi venne nulla. La superai in silenzio: non volevo mancarle di rispetto, ma non mi importava se si offendeva. Sentii che si fermava sulla scala dietro di me come se volesse parlarmi, ma continuai a scendere. La stanza comune era gremita. Alcuni probabilmente erano venuti per la musica, poiché ormai la reputazione di Stornella era smisurata, ma molti sembravano viandanti bloccati dall'acquazzone e che non avevano i mezzi per permettersi una stanza. Avrebbero trovato riparo per la notte, e dopo le canzoni avrebbero atteso la fine del temporale sonnecchiando su tavoli e panche. Riuscii a ottenere cibo e un boccale di birra, assicurando che il mio padrone avrebbe pagato l'indomani. Poi, andai al focolare in fondo alla sala e sedetti a un tavolo d'angolo affollato, proprio dietro al gomito di Stornella. Sapevo che non era lì per caso. Aveva atteso il nostro ritorno, e probabilmente disponeva di un piccione per riferire di noi a Castelcervo. Quindi non fui sorpreso quando finse di non vedermi e continuò a suonare e a cantare. Dopo altre tre canzoni dichiarò che doveva far riposare la voce e bere qualcosa. Il servitore che le portò il vino lo mise all'angolo del mio tavolo. Quando Stornella sedette accanto a me per bere, le passai la nota di messer Dorato sotto il tavolo. Poi mandai giù l'ultimo sorso di birra e mi diressi alla latrina che era all'esterno. Quando tornai alla locanda Stornella mi aspettava sotto la grondaia gocciolante. «Il messaggio è partito» mi disse a mo' di saluto. «Lo dirò al mio padrone.» Feci per proseguire, ma la donna mi afferrò per la manica. Mi bloccai. «Raccontami» disse pacatamente. L'antica cautela mi spinse a misurare le parole. Non sapevo quante informazioni avesse ricevuto da Umbra. «Missione compiuta.» «Quello l'avevo capito» rispose acida Stornella. Poi sospirò. «E so che chiederti qual era la missione di messer Dorato sarebbe inutile. Ma dimmi di te. Hai un aspetto terribile... i capelli corti, i vestiti laceri. Cosa è succes-
so?» Di tutto quello che avevo passato, solo un evento era mio da condividere o meno come mi pareva. «Occhi-di-notte è morto.» La pioggia riempì il silenzio. Poi Stornella emise un profondo sospiro e mi circondò con le braccia. «Oh, Fitz» disse piano. Chinò la testa sul mio petto graffiato. Scorsi la riga pallida fra i capelli scuri, e odorai il suo profumo mescolato all'aroma del vino che aveva bevuto. Le sue mani si mossero dolcemente sulla mia schiena, confortanti. «Di nuovo da solo. Non è giusto. Davvero. La tua è la canzone più triste che io abbia mai conosciuto.» Le raffiche di vento colmo di pioggia ci sferzavano, ma Stornella mi tenne stretto, e sentii il tepore dei nostri corpi. Per molto tempo non disse altro. Alzai le braccia e la circondai. Proprio come una volta, sembrava inevitabile. La donna parlò contro il mio petto. «Ho una stanza, nell'ala verso il fiume. Vieni da me. Lasciami portare via il tuo dolore.» «Io... grazie.» Non servirà, volevo dirle. Se mi conosceva almeno un poco, lo avrebbe capito. Altrimenti le parole sarebbero state comunque inutili. Apprezzai all'improvviso il silenzio e la distanza del Matto. Lui aveva capito. Nessun'altra vicinanza poteva ripagarmi della mancanza del mio lupo. La pioggia continuava a cadere. Stornella allentò la presa e mi guardò in viso. Un cipiglio divise le fini sopracciglia. «Non verrai da me, vero?» Sembrava incredula. Strano. Vacillavo nella mia risoluzione, ma il suo modo di porre la domanda mi aiutò a rispondere come dovevo. Scossi lentamente la testa. «Apprezzo l'invito. Ma non servirebbe.» «Sicuro?» Stornella tentò di parlare con leggerezza e fallì. Si mosse, e i seni mi sfiorarono in un modo che poteva essere fortuito ma non lo era. Indietreggiai un poco, lasciando ricadere le braccia. «Sì. Non ti amo, Stornella. Non così.» «Mi sembra che tu me lo abbia già detto una volta, molto tempo fa. Ma per anni è servito. Ha funzionato.» I suoi occhi percorsero il mio viso. Sorrise fiduciosa. Non era così. Era solo sembrato. Avrei potuto dirglielo, ma sarebbe stata sincerità gratuita. Quindi dissi solo: «Messer Dorato mi aspetta. Devo tornare su da lui.» Stornella scosse lentamente la testa. «Che fine dolorosa per una storia triste. E sono la sola che la conosce per intero, eppure non mi è permesso cantarla. Che tragica canzone sarebbe. Il figlio di un re che sacrificò tutto
per la famiglia del padre e finì come il servitore maltrattato di un arrogante nobile straniero. Non ti veste nemmeno bene. La vergogna deve ferirti come una lama.» Guardò nel profondo dei miei occhi, cercando... cosa? Risentimento? Offesa? «Non è un problema, davvero» risposi, confuso. Poi, come se qualcuno avesse aperto una tenda lasciando entrare la luce, compresi. Stornella non sapeva che messer Dorato era il Matto. Mi vedeva davvero come un semplice servitore che passava una comunicazione per conto del padrone. Malgrado tutta la sua abilità di cantastorie, quando lo guardava vedeva solo il ricco messere di Jamaillia. Mi sforzai per nascondere un sorriso. «Sono soddisfatto della mia posizione presso di lui e sono grato a Umbra per avermela procurata. Sono soddisfatto di essere Tom lo Striato.» Per un momento Stornella sembrò incredula. L'espressione divenne disappunto. Scosse lievemente il capo. «Dovevo immaginarlo. È ciò che hai sempre voluto, vero? Una vita modesta. Nessuna responsabilità per il tuo lignaggio o per ciò che accade a corte. Un umile popolano che alla fine non conta nulla.» Tutti i miei sforzi di risparmiare i suoi sentimenti ora sembravano sciocchi. «Devo andare» ripetei. «Corri dal tuo padrone.» Stornella mi congedò. La sua voce era un talento addestrato, e il disprezzo mi colpì come uno scorpione. Feci un enorme sforzo di volontà per non rispondere. Mi girai e mi allontanai da lei, rientrando nella locanda. Salii le scale dei servitori fino ai nostri alloggi, bussai ed entrai. Devoto alzò la testa dal cuscino per guardarmi. I capelli scuri erano lisciati all'indietro, la pelle arrossata dal bagno. L'effetto lo faceva sembrare giovane. Il letto del Matto era vuoto. «Mio principe» lo salutai. «Messer Dorato?» chiamai verso la vasca dietro i paraventi. «È uscito.» Devoto abbandonò la testa sul cuscino. «Lora ha bussato alla porta, voleva parlargli in privato.» «Ah.» Quasi mi fece sorridere. Stornella sarebbe rimasta affascinata se lo avesse saputo. «Mi ha chiesto di farti sapere che ti abbiamo lasciato l'acqua per il bagno. E metti i vestiti fuori della porta. Un servitore li laverà e li riporterà domattina.» «Grazie, mio principe. È gentile da parte vostra.» «Ha detto di chiudere la porta a chiave. Busserà e ti sveglierà quando
torna.» «Come desiderate, mio principe.» Andai alla porta e la chiusi. Dubitavo che messer Dorato avrebbe fatto ritorno prima dell'alba. «Vi serve qualcos'altro prima che io mi lavi, mio principe?» «No. E non parlarmi così.» Mi girò le spalle, sprofondando nel letto. Mi spogliai. Mi tolsi la tunica e slegai le penne che avevo al braccio. Sedetti per un momento sul mio giaciglio basso prima di sfilarmi gli stivali. Le penne scivolarono dalla manica sotto la coperta leggera. Rimossi l'amuleto di Jinna e lo misi sul cuscino. Mi alzai, misi i vestiti fuori dalla porta, la chiusi di nuovo e andai alla vasca dietro i paraventi. Mentre mi immergevo nell'acqua, mi giunse la voce di Devoto. «Non mi chiedi perché?» L'acqua nella vasca era ormai tiepida, ma sempre più calda della pioggia. Mi staccai dal collo la benda della guaritrice. I graffi sul ventre e sul petto bruciarono quando mi immersi. Poi il dolore si calmò. Affondai ancora di più per mettere a bagno anche il collo. «Ho detto, non mi chiedi perché?» «Suppongo che sia perché non volete che vi chiami 'mio principe', principe Devoto.» L'unguento sulle ferite stava sciogliendosi nell'acqua, profumando l'aria con la sua essenza aromatica. Echinacea. Mirra. Chiusi gli occhi e misi la testa sott'acqua. Quando riemersi pescai nella piccola ciotola di sapone che era stata portata per il principe. Sfregai il sapone sui capelli e guardai la schiuma marrone gocciolare nell'acqua. Immersi nuovamente la testa per sciacquarmi. «Non devi ringraziarmi e servirmi e obbedirmi. So chi sei. Il tuo sangue è nobile quanto il mio.» Fui sollevato di essere dietro il paravento, di non essergli di fronte. Sguazzai un poco e tentai di riflettere. Forse pensava che non l'avessi sentito. «Quando cominciò a insegnarmi, Umbra mi raccontava di un altro suo allievo, di quanto era cocciuto, e anche intelligente. 'Quando il mio primo pupillo aveva la vostra età', diceva, e poi raccontava che facevi gli scherzi ai lavandai, o nascondevi le forbici della sarta per confonderla. Avevi una donnola domestica, non è vero?» Parlava di Quatto, la donnola di Umbra. E avevo rubato le forbici di madama Presta dietro suo ordine, come parte del mio addestramento da assassino nel furto e nella segretezza. Certamente Umbra non gli aveva detto questo. Avevo la bocca asciutta. Smossi rumorosamente l'acqua e aspettai. «Sei suo figlio, vero? Il figlio di Umbra, e quindi mio secondo cugino?
Illegittimo, ma sempre cugino. E penso di sapere anche chi fosse tua madre. Si parla ancora molto di lei, sebbene nessuno sembri saperne molto. Dama Maggiorana.» Scoppiai a ridere, poi finsi di tossire. Il figlio di Umbra e dama Maggiorana. Ecco un albero genealogico adatto a me. Dama Maggiorana, quella vecchia arpia velenosa, era stata un'invenzione di Umbra, un astuto travestimento per quando desiderava viaggiare in incognito. Mi schiarii la gola e quasi recuperai la flemma. «No, mio principe. Temo che vi sbagliate di grosso.» Devoto rimase in silenzio mentre finivo di lavarmi. Emersi dalla vasca, mi asciugai e uscii da dietro al paravento. C'era una camicia da notte sul giaciglio. Come al solito il Matto aveva pensato a tutto. Mentre me la infilavo dalla testa bagnata e ispida, il principe osservò: «Hai molte cicatrici. Come te le sei procurate?» «Facendo domande a persone irritabili. Mio principe.» «Parli anche come Umbra.» Mai cosa più ingiusta ed errata fu detta di me, ne sono sicuro. «E da quando sei così ciarliero?» ribattei. «Da quando non c'è in giro nessuno a spiarci. Sai che messer Dorato e Lora sono spie, vero? Lui di Umbra e lei di mia madre?» Si riteneva così astuto. Doveva imparare la cautela se si aspettava di sopravvivere a corte. Mi girai e gli rivolsi uno sguardo diretto. «Cosa ti fa credere che io non sia una spia?» Devoto emise una risata scettica. «Sei troppo rozzo. Non ti importa di piacermi; non tenti di conquistare la mia fiducia o il mio favore. Sei irrispettoso. Non mi aduli mai.» Intrecciò le dita dietro la testa. Mi rivolse uno strano sorrisetto. «E non sembri preoccupato che io ti faccia impiccare per avermi malmenato su quell'isola. Solo un parente potrebbe trattare così male qualcuno e non aspettarsi conseguenze.» Alzò la testa verso di me, e nei suoi occhi vidi ciò che più temevo. Dietro alle ipotesi c'era un nudo bisogno. I suoi occhi stillavano una solitudine insopportabile. Anni prima, quando Burrich mi aveva separato a forza dal primo animale con cui mi ero legato, mi ero attaccato a lui. Temevo il capo stalliere e lo odiavo, ma ne avevo bisogno ancora di più. Avevo bisogno di sentirmi connesso a qualcuno che fosse presente e disponibile. Ho sentito dire che tutti i ragazzi hanno tali necessità. Penso che le mie andassero al di là del semplice desiderio di stabilità. Avendo conosciuto il legame completo dello Spirito, non potevo più sopportare l'isolamento del mio cervello. Mi dissi che il
cambiamento di Devoto verso di me probabilmente c'entrava più con l'amuleto di Jinna che con un sincero riguardo. Poi compresi che era ancora appoggiato sul mio cuscino. «Faccio rapporto a Umbra.» Lo dissi in fretta, senza giri di parole. Non trattavo in falsità e tradimento. Non gli avrei permesso di attaccarsi a me, di credermi qualcuno che non ero. «Certo. Ti ha mandato a chiamare. Per me. Ha detto che mi avrebbe trovato qualcuno, e devi essere tu. Quello che può insegnarmi l'Arte meglio di lui.» Davvero, la lingua di Umbra era diventata sciolta in vecchiaia. Il principe si mise seduto nel letto e cominciò a ragionare contando sulle dita. Lo osservai con attenzione. La fatica e il dolore ancora gli incupivano lo sguardo e gli scavavano le guance, ma a un certo punto, nel corso di quella giornata, aveva compreso che sarebbe vissuto. Sollevò un dito. «Hai tratti da Lungavista. Gli occhi, il profilo della mascella... non il naso, quello non so da chi l'hai ereditato, ma non è di famiglia.» Alzò un secondo dito. «L'Arte è una magia dei Lungavista. Ti ho sentito usarla almeno due volte.» Terzo dito. «Chiami Umbra 'Umbra', non 'messer Umbra' o 'consigliere Umbra'. E una volta ti ho udito menzionare la mia signora madre come Kettricken. Neanche regina Kettricken, ma Kettricken. Come se foste stati amici d'infanzia.» Forse era così. E il mio naso, ecco, anche quello veniva da un Lungavista. Era un promemoria permanente dei giorni trascorsi nella prigione sotterranea di Regal. Andai alle candele sul tavolo e le spensi tutte con un soffio tranne una. Sentii gli occhi di Devoto che mi seguivano mentre tornavo al giaciglio e mi sedevo. Era basso e duro, vicino alla porta, dove potevo proteggere i miei buoni padroni. Mi sdraiai. «E allora?» mi chiese il principe. «E allora adesso dormo.» Fine della conversazione. Devoto sbuffò con disprezzo. «Un vero servitore mi avrebbe chiesto il permesso di spegnere le candele e andare a dormire. Buona notte, Tom lo Striato Lungavista.» «Dormite bene, mio grazioso principe.» Un altro sbuffo ironico. Poi silenzio, a parte la pioggia che picchiava sul tetto e schizzava sul fango del cortile. Silenzio, a parte il crepitio sommesso del fuoco, e la musica distante dalla stanza comune sotto di noi. Silenzio, tranne i passi incerti che superavano la nostra porta. Ma soprattutto il grande silenzio nel mio cuore
dove la consapevolezza di Occhi-di-notte era stata così a lungo un faro a cui guardare con fiducia nella mia oscurità, un calore nel mio inverno, una stella per guidarmi nella mia notte. I miei sogni ora erano cose umane e sottili, illogiche, che si sfilacciavano al momento di svegliarsi. Le lacrime calde mi inondarono gli occhi sotto le mie palpebre chiuse. Aprii la bocca per respirare in silenzio attraverso la gola serrata e mi distesi sulla schiena. Udii il principe agitarsi fra le lenzuola, e poi muoversi di nuovo. In gran silenzio si alzò dal letto e andò alla finestra. Per qualche tempo guardò la pioggia che cadeva nel cortile fangoso. «Passerà?» Fu una domanda molto sommessa, ma seppi che era rivolta a me. Trassi un respiro e mi imposi di parlare con fermezza. «No.» «Mai?» «Un giorno potrà esserci un altro per te. Ma non si dimentica mai il primo.» Devoto non si mosse dal davanzale. «Con quanti animali sei stato legato?» Quasi non risposi. «Tre.» Il principe diede le spalle alla notte e mi guardò attraverso l'oscurità. «Ce ne sarà un altro per te?» «Ne dubito.» Devoto lasciò la finestra e tornò al letto. Lo sentii sollevare le coperte e infilarsi sotto. Pensai che avrebbe dormito, invece parlò di nuovo. «Mi insegnerai anche lo Spirito?» Qualcuno doveva insegnargli qualcosa, se non altro a non fidarsi subito. «Non ho detto che ti insegnerò.» Devoto rimase in silenzio per qualche tempo. Poi disse, quasi imbronciato: «Bene, sarebbe meglio che qualcuno lo facesse.» Seguì un lungo silenzio, e sperai che si fosse addormentato. Le sue parole avevano echeggiato il mio pensiero in modo misterioso, inquietante. La pioggia colpiva gli spessi riquadri di vetro piombato, e il buio fluì nella stanza. Chiusi gli occhi e mi concentrai. Cauto come se avessi avuto un vetro rotto fra le mani, mi protesi verso di lui. Era lì, immobile e teso come un gatto in agguato. Lo sentii che mi aspettava e guardava, ancora ignaro che fossi ai confini della sua mente. Il suo grezzo senso dell'Arte era un goffo strumento spuntato. Mi trassi indietro e lo studiai da tutti gli angoli, come un puledro che pensavo di domare. La sua cautela era un misto di apprensione e aggressività. In lui l'Arte era un'arma e uno scudo, e lui non sapeva usarla. E non era Arte pura. È diffici-
le da descrivere, ma la sua Arte era un faro candido bordato di oscurità verde. La sua consapevolezza di me nello Spirito era ciò che usava per focalizzarsi. Lo Spirito non va da una mente all'altra, ma può percepire il corpo animale in cui abita quella mente. Così era con Devoto. Privato della gatta come fulcro, il suo Spirito era una rete gettata a caso, in cerca di un'affinità. Come il mio, compresi all'improvviso. Balzai indietro e mi ritrovai nella mia carne. Eressi le mie barriere contro il brancolare non addestrato della sua Arte. Perfino mentre lo facevo, tuttavia, c'erano due cose che non potevo negare. Il filo d'Arte che mi legava a Devoto si faceva più forte ogni volta che osavo percorrerlo. E non avevo idea di come troncarlo, tanto meno di come rimuovere il mio comando d'Arte dalla sua mente. Vi era un terzo frammento di conoscenza, amaro quanto gli altri erano inquietanti. Cercavo. Non avevo alcun desiderio di formare un legame con un altro animale. Ma senza Occhi-di-notte a contenerlo, il mio Spirito si allargava come radici avide. Come acqua che trabocca da un vaso e deve fluire da qualche parte, lo Spirito usciva da me, silenzioso eppure esteso. Prima avevo scorto il bisogno negli occhi del principe, una brama disperata di contatto e appartenenza. Irradiavo la stessa privazione? Chiusi il cuore e mi costrinsi all'immobilità. Il tempo avrebbe guarito il mio dolore. Mi ripetei quella bugia finché il sonno non si impadronì di me. Mi svegliai con la luce che filtrava dalla finestra che mi sfiorava il viso. Aprii gli occhi ma rimasi immobile. Nel tenue chiarore che riempiva la stanza dopo il buio del temporale era come essere immerso in acqua limpida. Mi sentii curiosamente vuoto, come un malato che comincia a guarire dopo tanto tempo. Cercai di afferrare un sogno sfuggente, ma colsi solo gli orli di una brillante mattina, il mare sotto di me e il vento sul viso. Il sonno mi aveva lasciato, ma non avevo nessuna voglia di alzarmi e affrontare la giornata. Mi sentivo racchiuso in una bolla protettiva, e mi sembrava che se fossi rimasto immobile avrei potuto aggrapparmi a quel momento di pace. Giacevo sul fianco, il braccio sotto il cuscino piatto. Dopo qualche istante divenni consapevole delle penne sotto la mano. Alzai la testa per guardarle, ma la stanza vacillò all'improvviso intorno a me come se avessi bevuto troppo. La realtà del giorno che ci attendeva, la lunga cavalcata verso Castelcervo, l'incontro con Umbra e Kettricken, la ripresa della mia vita come Tom lo Striato, tutto mi crollò addosso. Mi tirai lentamente a sedere.
Il principe dormiva nel suo letto. Mi girai e trovai il Matto che mi guardava assonnato. Era disteso sul fianco nel letto, il mento appoggiato al pugno. Sembrava stanco, ma stranamente soddisfatto per qualcosa. L'effetto lo ringiovaniva di anni e anni. «Non mi aspettavo di trovarti nel tuo letto questa mattina» lo salutai. «Come sei entrato? Ieri notte ho messo il chiavistello.» «Davvero? Interessante. Ma neanch'io mi aspettavo di trovarti nel tuo.» Ignorai la frecciata. Mi graffiai la peluria sulla guancia. «Dovrei radermi» dissi, temendo l'idea. Non avevo toccato una lama da quando avevamo lasciato Rocca Bufera. «Dovresti proprio. Mi piacerebbe che fossimo presentabili quando torniamo a Castelcervo.» Pensai alla mia tunica lacerata dalla gatta, ma annuii. Poi ricordai le penne. «Ho qualcosa da mostrarti» cominciai, cercando sotto il cuscino, ma proprio allora il principe trasse un respiro più profondo e aprì gli occhi. «Buon giorno, mio principe» lo salutò messer Dorato. «'Giorno» rispose stancamente Devoto. «Messer Dorato, Tom lo Striato.» L'aspetto e la voce sembravano lievemente migliori che alla fine della cavalcata del giorno prima. Era di nuovo formale con me. Mi sentii sollevato. «Buona giornata, mio principe» lo salutai. E così il giorno cominciò. Mangiammo nella nostra stanza. Le nostre vesti pulite e inamidate arrivarono poco dopo colazione. Messer Dorato era quasi tornato al suo abituale splendore, e il principe sembrava ordinato, se non propriamente regale. Come sospettavo, lavare i miei vestiti non li aveva resi molto più presentabili. Chiesi ago e filo al servitore che portò il cibo, dicendo che desideravo stringere la manica della tunica. In realtà volevo applicare una tasca. Messer Dorato mi guardò e sospirò. «Farti vestire decentemente può rivelarsi la parte più costosa di averti a servizio, Tom lo Striato. Bene, vedi cosa puoi fare con il resto di te stesso.» Ero l'unico che doveva radersi. Messer Dorato ordinò per me acqua calda, rasoio e specchio. Sedette alla finestra, guardando la cittadina portuale mentre io mi radevo. Avevo appena cominciato quando mi accorsi che il principe mi studiava con attenzione. Per qualche tempo ignorai il suo sguardo intenso. La seconda volta che mi tagliai, repressi un'imprecazione. «E allora? Non hai mai visto nessuno radersi?» Devoto arrossì leggermente. «No.» Distolse lo sguardo. «Ho trascorso poco tempo in compagnia di altri uomini. Oh, ho cenato con i nostri nobili,
e ho cacciato con loro, e ho preso lezioni di spada con altri giovani di buona famiglia. Ma...» Parve d'un tratto confuso. Altrettanto brusco, messer Dorato si alzò dal suo posto alla finestra. «Mi piacerebbe vedere un po' questo villaggio prima che partiamo. Penso che farò una passeggiata. Con il permesso del mio principe.» «Certo, messer Dorato. Come desiderate.» Quando uscì mi aspettavo che il principe lo seguisse. Invece rimase con me. Mi guardò mentre finivo di radermi, e quando sciacquai il sapone dal mio viso dolorante chiese con viva curiosità: «Allora fa male?» «Punge un po'. Solo se si fa in fretta, come mi capita sempre, e ci si taglia.» I miei capelli accorciati per il lutto si drizzavano in ciuffetti. Stornella me li avrebbe pareggiati, pensai, e poi maledissi il pensiero e me li schiacciai in testa con l'acqua. «Non stanno giù. Una volta asciutti si drizzeranno di nuovo» commentò il principe volonterosamente. «Lo so. Mio principe.» «Mi odi?» Lo chiese con tanta disinvoltura che mi prese alla sprovvista. Accantonai l'asciugamano e incontrai il suo sguardo serio. «No. Non ti odio.» «Se mi odiassi lo capirei. A causa del tuo lupo e tutto il resto.» «Occhi-di-notte.» «Occhi-di-notte.» Devoto pronunciò con attenzione il nome. All'improvviso distolse lo sguardo. «Non ho mai conosciuto il nome della mia gatta.» Compresi che le lacrime minacciavano di soffocarlo. Sedetti attento, immobile e silenzioso, concedendogli del tempo. Dopo un momento, trasse un alito profondo. «Non ti odio nemmeno io.» «Buono a sapersi» ammisi. Poi aggiunsi: «La gatta mi ha detto di ucciderla.» Nonostante il mio sforzo, le parole sembrarono difensive. «Lo so. L'ho sentita.» Tirò su con il naso, poi tentò di mascherarlo con un colpo di tosse. «E ti avrebbe costretto a ucciderla. Era assolutamente decisa.» «Lo avevo capito» risposi amaro, e toccai le bende fresche alla gola. Il principe sorrise, e mi trovai a restituire il sorriso. Devoto pose in fretta la successiva domanda, come se fosse importante, così importante che temeva la risposta. «Rimarrai?» «Dove?» «Ti vedrò a Castelcervo?» Sedette all'improvviso a tavola di fronte a me e incontrò direttamente i miei occhi con lo sguardo schietto di Veritas.
«Tom lo Striato. Mi addestrerai?» Umbra, il mio vecchio maestro, me lo aveva chiesto, ed ero stato capace di dire di no. Il Matto, il mio più vecchio amico, mi aveva supplicato di tornare a Castelcervo, e avevo rifiutato. Se la regina stessa me lo avesse ordinato, avrei potuto dire di no. Il meglio che riuscii a dire a quell'erede dei Lungavista fu: «Non ho molto da trasmetterti. Ciò che tuo padre mi insegnò, me lo insegnò in segreto, e di rado aveva tempo per le lezioni.» Devoto mi guardò contrito. «C'è qualcuno che conosce l'Arte meglio di te?» «No, mio principe.» Li avevo uccisi tutti io, ma non glielo dissi. Non so perché aggiunsi il titolo. Qualcosa nel suo modo di fare lo esigeva. «Allora sei Mastro d'Arte. Automaticamente.» «No.» Quello riuscii a dirlo, la lingua veloce come i miei pensieri. Trassi un respiro. «Ti addestrerò» affermai. «Ma sarà come tuo padre ha addestrato me. Quando posso e come posso. E in segreto.» Senza una parola, Devoto tese una mano attraverso la tavola, per siglare l'accordo con un contatto. Due cose accaddero quando le nostre mani si incontrarono. «Spirito e Arte» stabilì Devoto. Quando il mio palmo toccò il suo, il sussulto della scintilla d'Arte tra noi cantò. Per favore. Era un appello incerto, spinto dallo Spirito, non dall'Arte. «Vedremo» dissi ad alta voce. Me ne stavo già pentendo. «Potresti cambiare idea. Non sono un buon insegnante, e non ho pazienza.» «Ma mi tratti da uomo, non da principe. Come se le tue aspettative per un uomo fossero più alte di quelle per un principe.» Non risposi. Lo guardai, in attesa. Devoto parlò esitando, come vergognandosi della risposta. «Per mia madre, sono un figlio. Ma sono anche, pur sempre, il principe e il Sacrificio per la mia gente. E per tutti gli altri sono il principe. Sempre. Non sono fratello di nessuno. Non sono il figlio di nessun uomo. Non sono il migliore amico di nessuno.» Rise. «La gente mi tratta molto bene come principe. Ma c'è sempre un muro. Nessuno mi parla come, ecco, come se parlasse con me.» Alzò una spalla e la bocca si torse in un mezzo sorriso ironico. «Nessuno mi ha mai detto che ero stupido, anche quando mi sono comportato come tale, tranne te.» Capii all'improvviso perché era caduto così in fretta nella trappola dei Pezzati. Essere amato, in modo familiare, senza paura. Essere il migliore amico di qualcuno, anche se era solo una gatta. Ricordai il tempo in cui pensavo che solo Umbra in tutto il mondo potesse darmi quel contatto umano, e il terrore di perderlo. Qualsiasi ragazzo, principe o mendicante, ne
aveva bisogno. Ma non ero sicuro di essere una scelta saggia. Umbra, perché non poteva scegliere Umbra? Stavo cercando di formulare una risposta quando qualcuno bussò alla porta. Andai ad aprire e trovai Lora. Di riflesso cercai messer Dorato dietro di lei. Non c'era. La donna si gettò alle spalle uno sguardo con un lieve cipiglio, e poi mi guardò in faccia. «Posso entrare?» chiese. «Certo, mia signora. Ho solo pensato...» Lora entrò e io chiusi la porta dietro di lei. Scrutò il principe Devoto per un momento, e una specie di sollievo affiorò sul suo volto mentre gli faceva una riverenza. Sorrise salutandolo: «Buona giornata, mio principe.» «Buona giornata, capocaccia.» Sia pure con cortese freddezza, ma aveva risposto. Gettai uno sguardo al ragazzo, e mi resi conto di ciò che Lora vedeva. Il principe era tornato in sé. Il volto era rabbuiato, le occhiaie profonde, ma era con noi. Non fissava più all'interno di sé in una distanza che nessun altro poteva scorgere. «È bello vedere che vi siete ripreso bene, mio principe. Vengo a chiedere come e quando desiderate partire per Castelcervo. Il sole sta salendo e il giorno sembra bello, anche se freddo.» «Sono soddisfatto di lasciare la decisione a messer Dorato.» «Ottima scelta, mio principe.» Lora volse lo sguardo intorno a sé nella stanza e chiese: «Messer Dorato non è qui?» «Ha detto che stava uscendo» risposi. Le mie parole la fecero trasalire, quasi come se avesse parlato una sedia, e allora mi resi conto pienamente del mio errore. In presenza del principe, un semplice servitore come me non avrebbe mai osato parlare. Mi guardai i piedi, così nessuno avrebbe scorto il disappunto nei miei occhi. Ancora una volta mi imposi di concentrarmi con più attenzione sul ruolo che dovevo ricoprire. Avevo dimenticato tutto dei primi addestramenti di Umbra? Lora rivolse uno sguardo a Devoto, ma quando il principe non aggiunse niente alle mie parole, disse lentamente: «Capisco.» «Naturalmente siete benvenuta ad aspettare qui il suo ritorno, capocaccia.» Le parole di Devoto dicevano una cosa, il tono un'altra. Non l'avevo sentito fare così bene fin da quando Sagace era re. «Grazie, mio principe. Ma se me lo permettete, penso che tornerò nella mia stanza finché non mi chiamate.» «Come desiderate, capocaccia.» Devoto si era girato a guardar fuori dalla finestra. «Grazie, mio principe.» Lora fece una riverenza. Incontrai i suoi occhi
per un istante mentre andava alla porta, ma non vi lessi niente. Quando la porta si richiuse alle sue spalle, il principe si rivolse di nuovo a me. «Ecco. Vedi cosa intendo, Tom lo Striato?» «Non è stata scortese, mio principe.» Devoto mi fece cenno di sedere a tavola. Mentre prendevo una sedia davanti a lui, disse: «Non è stata proprio niente per me. Mi tratta come fanno tutti. 'Come vi piace, mio principe.' Ma in tutti i Sei Ducati non ho un vero amico.» Trassi un respiro, poi chiesi: «E i vostri compagni? Gli amici che cavalcano e cacciano con voi?» «Ne ho anche troppi. Devo chiamarli tutti amici, e non mostrare favore a nessuno, affinché il padre di un altro non si senta trascurato. E in nome di Eda, guai se sorrido a una fanciulla. Al mio minimo tentativo di creare un'amicizia, lei viene allontanata, affinché la mia attenzione non sia interpretata come un corteggiamento. No, sono solo, Tom lo Striato. Solo per sempre.» Sospirò pesantemente e si guardò le mani posate sul bordo del tavolo. Un po' troppo drammatico per un ragazzo così giovane. Parlai prima di pensare. «Oh, povero piccolo incompreso.» Devoto alzò il capo e mi guardò male. Restituii l'occhiata con calma. Poi un sorriso lento gli affiorò sulle labbra. «Parole da vero amico.» Un momento più tardi messer Dorato varcò la soglia. Con un lampo delle lunghe dita mi mostrò il tubicino della comunicazione via piccione, poi lo fece sparire subito nella manica. Ma certo. Era andato da Stornella, a vedere se avevamo ricevuto risposta da Castelcervo. E così era. Senza dubbio Umbra stava preparando tutto per il nostro ritorno. In un attimo i nostri occhi colsero il principe seduto all'altro capo del tavolo. Se messer Dorato trovò strano vedere l'erede dei Lungavista a tavola con me, che mi guardava cucire la manica della mia tunica, non lo diede a vedere. Neppure un guizzo degli occhi tradì che mi aveva salutato per primo. Tutta la sua attenzione sembrava concentrata su Devoto. «Buona giornata, mio principe. Se lo desiderate, possiamo cavalcare appena pronti.» Il principe trasse un lungo respiro. «Mi piacerebbe, messer Dorato.» Messer Dorato si girò verso di me e mi rivolse un sorriso come non vedevo sul suo viso da giorni. «Hai sentito il nostro principe, Tom lo Striato. Forza, prepara le nostre cose. E smetti di cucire, brav'uomo, almeno per ora. Che non si dica che sono un padrone gretto, anche per un servitore disgraziato come te. Mettiti questa, per non far fare brutta figura a tutti noi
mentre torniamo a Castelcervo.» Mi lanciò un fagotto legato. Si rivelò una tunica di stoffa grezza, molto più resistente dell'indumento lacero che avevo in mano. Non avrei avuto bisogno di una tasca nella manica. «Vi ringrazio, messer Dorato» risposi con umile gratitudine. «Mi sforzerò di averne più cura di quanta ne ho avuta delle ultime tre.» «Sarà meglio. Mettetela, e poi correte da madama Lora, informatela che partiremo presto. E mentre andate giù alle stalle per far preparare i cavalli, fermatevi in cucina e procuratevi la colazione. Un paio di quaglie fredde e un tortino di carne, due bottiglie di vino e un poco del pane fresco di cui ho sentito l'odore quando sono entrato.» «Come desiderate, padrone.» Mentre mi infilavo la tunica nuova dalla testa, sentii il principe chiedere in tono risentito: «Messer Dorato, mi considerate un idiota? O questa messinscena è stata richiesta da Tom lo Striato?» Cacciai fuori la testa perché non volevo perdermi la faccia di messer Dorato. E invece trovai il Matto. Il sorriso non era meno che abbagliante mentre rivolgeva un profondo inchino da cantastorie a Devoto, sfiorandosi le ginocchia con un immaginario cappello. Quando si raddrizzò, mi rivolse un'occhiata di trionfo. Confuso, mi trovai tuttavia a ricambiarlo con un sorriso simile mentre rispondeva: «Mio buon principe, non è su mia richiesta né di Tom lo Striato, ma di messer Umbra. Desidera che ci addestriamo più che possiamo, perché guitti come noi hanno bisogno di molte prove se vogliono imbrogliare anche solo un paio di spettatori.» «Messer Umbra. Avrei dovuto saperlo che eravate tutti e due suoi.» Non rivelò che glielo avevo già detto, e mi piacque. Finalmente stava imparando la discrezione. Rivolse al Matto un'occhiata penetrante, piena di diffidenza. Guardò di lato includendo anche me in quello sguardo. «Ma chi siete?» domandò a voce bassa. «Chi siete, voi due?» Senza pensare, il Matto e io ci scambiammo un'occhiata. Il fatto che stabilissimo un'intesa prima di rispondere esasperò il principe. Lo capii dalle lente chiazze che gli colorarono le guance. Al di là della rabbia, nascosta dietro ai suoi occhi c'era la paura di essersi reso ridicolo con me. Avevo conquistato la sua fiducia con uno spettacolo artificioso? L'affetto tra il Matto e me precludeva l'amicizia che potevo dividere con lui? Vidi il suo candore ricominciare a chiudersi mentre si parava dietro a un muro di regalità. Mi sporsi in fretta attraverso il tavolo e violai ogni protocollo aristocratico che sia mai esistito afferrandogli la mano. Lasciai fluire l'onestà in quel tocco, convincendolo con l'Arte proprio come Veritas aveva con-
quistato un tempo la fiducia di sua madre. «Lui è un amico, mio principe. Il più caro amico che io abbia mai avuto, e potrà essere anche il vostro.» I miei occhi restarono fissi sul viso del principe mentre tendevo la mano libera verso il Matto. Lo sentii avanzare accanto a Devoto. Un istante più tardi lo sentii posare le dita senza guanti sulle mie. Avvicinai la sua mano alle nostre, e le lunghe dita si chiusero sulla nostra stretta. «Se mi volete» si offrì umilmente il Matto, «vi servirò come servii vostro padre, e vostro nonno prima di lui.» 28 Ritorno a casa Fin dalle nostre più antiche tradizioni, c'è sempre stato commercio e guerra tra i Sei Ducati e le Isole Esterne. Come il regolare flusso e riflusso delle maree, abbiamo commerciato, ci siamo imparentati e poi abbiamo combattuto e ucciso i nostri consanguinei. Ciò che distingue la Guerra delle Navi Rosse in questa tradizione lunga e sanguinosa è che per la prima volta gli Isolani furono uniti sotto un solo signore della guerra. Kebal Panecrudo era il suo nome. I resoconti differiscono, ma secondo quasi tutte le versioni cominciò come pirata e razziatore. Era un eccezionale marinaio e guerriero, e chi lo seguì fece fortuna. Le notizie dei suoi successi e la ricchezza del bottino spinsero uomini di simile inclinazione a unirsi a lui. Comandò presto una flotta di navi pirata. Anche così, forse non sarebbe stato più che un pirata prospero che faceva scorrerie ovunque lo portasse il vento. Invece cominciò a costringere le Isole Esterne sotto il suo dominio. La sua forma di coercizione era notevolmente simile alla Forgiatura che usò più tardi contro la gente dei Sei Ducati. Più o meno in quel periodo decretò che tutti gli scafi delle navi pirata dovevano essere dipinti di rosso, e che le loro incursioni si sarebbero concentrate solo sulla costa dei Sei Ducati. È interessante notare che, proprio mentre questi cambiamenti di tattica si verificavano nella flotta di Kebal Panecrudo, nei Sei Ducati si cominciò per la prima volta a sentir parlare di una Donna Pallida che lo affiancava. Piuma, Storia della Guerra delle Navi Rosse
Arrivammo a Borgo Castelcervo mentre il pomeriggio declinava. Avremmo potuto procedere molto più rapidamente, ma il Matto ci fece ritardare di proposito. Ci fermammo molto a lungo su un argine sabbioso per pranzare nel tardo pomeriggio. Credo che volesse guadagnare un giorno in più di quiete per il principe, prima che si immergesse di nuovo nel turbinio della corte. Nessuno di noi menzionava il caos e la gaiezza della cerimonia di fidanzamento che la luna nuova avrebbe portato. Devoto si divertì a partecipare alla nostra finzione, e nel viaggio verso casa cavalcò accanto a Malta, sdegnoso del rozzo servitore di messer Dorato come qualsiasi giovane di buona famiglia. Si lasciò intrattenere dai discorsi aristocratici di messer Dorato su cacce e balli e viaggi esotici, ma non rinunciò mai al suo portamento principesco. Lora cavalcava all'altra staffa di messer Dorato, ma era quasi sempre silenziosa. Il principe sembrava apprezzare il suo nuovo ruolo. Percepivo il suo sollievo al sentirsi incluso nel nostro gruppo. Non era un ragazzo caparbio trascinato a casa dagli adulti, ma un giovane che tornava da una disavventura, insieme ai suoi amici. La sua disperata solitudine era diminuita. Eppure, man mano che ci avvicinavamo a Castelcervo, avvertivo anche la sua ansia sempre più forte, palpitante nel nostro collegamento d'Arte. Mi chiesi di nuovo se ne fosse consapevole quanto lo ero io. Penso che la povera Lora fosse confusa dal cambiamento in Devoto. Sembrava aver recuperato tutto il suo buon umore, mettendosi dietro le spalle la disavventura fra i Pezzati. Non so se la donna sentisse la fragilità nella sua risata, o si accorgesse che messer Dorato sosteneva abilmente la conversazione quando il principe sembrava non riuscire a concentrarsi. Io me ne accorgevo. Ero sollevato che il ragazzo si fosse legato tanto a messer Dorato. Quindi cavalcai da solo, finché, nel primo pomeriggio, la capocaccia rimase indietro per affiancarsi a me, lasciando il principe e messer Dorato alla loro recente sintonia. «Sembra un giovane del tutto diverso» osservò Lora quietamente. «È vero.» Tentai di stemperare il cinismo della mia voce. Ora che Devoto e messer Dorato erano occupati, Lora si degnava di parlarmi di nuovo. Sapevo di non doverla biasimare per aver scelto saggiamente dove rivolgere la sua attenzione e il suo amore. Essere onorata dall'attenzione di messer Dorato era cosa di non poco conto. Mi chiesi se avrebbe tentato di restare in contatto con lui una volta tornati a Castelcervo. Sarebbe stata l'invidia di tutte le signore. Mi chiesi anche quanto fosse profondo l'affetto del Matto per lei. Il mio amico stava davvero lasciandoci il cuore? Considerai il pro-
filo silenzioso della donna mentre cavalcava accanto a me. Il Matto non avrebbe potuto trovare di meglio. Lora era sana e giovane, e una brava cacciatrice. Sentii all'improvviso l'eco dei valori del lupo nei miei pensieri. Trattenni il respiro per un momento, e poi lasciai che il dolore passasse. Lora era più acuta di quanto pensassi. «Mi spiace.» Parlò sommessamente, e le parole mi sfiorarono appena. «Sai che non ho l'Antico Sangue. In qualche modo mi ha evitato, per passare invece ai miei fratelli e a mia sorella. Però posso indovinare quanto soffri. Vidi mia madre quando il suo papero morì. Quell'uccello aveva quarant'anni, ed era sopravvissuto a mio padre... In effetti è per questo che considero l'Antico Sangue tanto una maledizione quanto una benedizione. E lo confesso, quando penso al rischio e al dolore, non so perché pratichiate questa magia. Come potete lasciare che un animale si impadronisca del vostro cuore, quando la loro vita è così breve? Cosa ne ricavate, in cambio di tanta sofferenza ogni volta che un compagno muore?» Non avevo una risposta. La compassione che mi stava offrendo era in verità dura come la pietra. «Mi spiace» disse di nuovo Lora dopo poco. «Mi giudicherai crudele, come dice mio cugino Cerbiatto. Ma posso solo ripeterti quello che ho detto a lui. Non capisco. E non posso approvare. Riterrò sempre che l'Antico Sangue sia una magia che è meglio lasciar stare.» «Se avessi una scelta, forse la penserei allo stesso modo» risposi. «Ma sono quello che sono.» «Come il principe» disse Lora dopo una lunga pausa di riflessione. «Eda ci salvi tutti, e tenga al sicuro il suo segreto.» «Così sia» dissi serio. «E anche il mio.» Le gettai uno sguardo di traverso. «Non penso che messer Dorato ti tradirebbe. Tiene troppo a te come servitore.» Era rassicurante: non considerò neppure che forse stavo pensando alla sua lingua sciolta. Un attimo più tardi fece deviare i miei pensieri su tutt'altro argomento aggiungendo con delicatezza: «E che la mia parentela non diventi dominio comune.» Risposi come aveva fatto lei. «Messer Dorato tiene a te come un'amica e come la devota capocaccia della Regina, quindi non direbbe mai una parola che possa screditarti o metterti in pericolo.» Lora mi guardò in tralice, poi chiese timidamente: «Come un'amica? Lo credi davvero?» Qualcosa nei suoi occhi e agli angoli della bocca mi avvertì di non ri-
spondere alla leggera. «Così mi pare» dissi, piuttosto rigido. Le spalle di Lora si risollevarono come se le avessi offerto un dono. «E lo conosci bene, e da molto tempo.» Ricamò sulle mie parole. Rifiutai di confermare quella speculazione. Distolse lo sguardo per qualche attimo, e dopo non parlammo molto, ma lei si mise a canticchiare. Sembrava più leggera. Davanti a me, notai che la voce del principe si era spenta. Messer Dorato continuava a chiacchierare, ma Devoto cavalcava guardando avanti, in silenzio. La rocca di Castelcervo era una sagoma scura sulle rupi di pietra nera contro un banco di nubi fosche quando arrivammo a Borgo Castelcervo. Il principe si tirò il cappuccio sul viso e rimase indietro per cavalcare accanto a me. Lora ora cavalcava vicina a messer Dorato, e sembrava ben contenta del cambio. Devoto e io parlammo poco, ciascuno immerso nei propri pensieri. Il nostro viaggio ci avrebbe riportati a Castelcervo attraverso il sentiero ripido fino alla Porta Ovest, che veniva usata di rado. Come ce n'eravamo andati, così rientravamo. Superammo ancora una volta le sparse casette in fondo alla salita. Quando vidi il primo serto di foglie sull'architrave di una porta, pensai che fosse opera di un festaiolo entusiasta. Ma poi ne vidi un altro, e cavalcando trovammo a un certo punto un gruppo di operai che preparavano un arco celebrativo. Poco lontano alcuni cittadini intrecciavano accuratamente edera e tralci di gelsomino, pronti a drappeggiare l'arco. «Non è un po' presto?» gridò allegramente messer Dorato mentre passavamo. Una guardia sputò e rise ad alta voce. «Presto, messere? Siamo indietro da morire! Tutti pensavano che i temporali avrebbero ritardato la nave della promessa sposa, ma gli Isolani sembrano abituati a volare fin qui sulle ali del vento. Le galee degli ambasciatori sono arrivate a mezzogiorno con la guardia d'onore della principessa. Abbiamo sentito che lei approderà prima del tramonto, e tutto deve essere pronto.» «Davvero?» esclamò affascinato messer Dorato. «Bene, non voglio arrivare tardi alla celebrazione.» Si voltò a Lora con un sorriso. «Mia signora, temo che dovremo accelerare. Voi ragazzi potete seguirci al vostro ritmo.» E con questo toccò Malta con i talloni, e la cavalla balzò agilmente in avanti. Lora lo seguì. Il principe e io proseguimmo, ma a passo più calmo. Messer Dorato e Lora continuarono sulla serpeggiante strada principale ed entrarono dalla porta. Io attesi una macchia più densa di boschi e poi feci
uscire Mianera dal sentiero, facendo cenno al principe di seguirmi. Era poco più di una pista di selvaggina, ma spinsi Mianera attraverso l'intrico di arbusti lungo un percorso che ricordavo appena, e Devoto rimase indietro. Procedemmo rasente il muro della rocca finché non giungemmo al punto che il lupo mi aveva mostrato tanto tempo prima. Fitti cardi coprivano ancora quell'antica crepa nel muro, ma avevo i miei sospetti. Smontammo al riparo del muro. «Cos'è questo luogo?» Devoto spinse indietro il cappuccio e si guardò intorno con curiosità. «Un luogo di attesa. Non voglio rischiare di farti passare dalle porte. Umbra manderà qualcuno a prenderci, e sono sicuro che inventerà un espediente per farti rientrare in modo che sembri che tu sia sempre stato qui. Ti è parso giusto passare questi giorni in meditazione, e ora emergerai per incontrare la tua fidanzata. Nessuno ha bisogno di sapere altro.» «Capisco» rispose cupo il principe. In alto le nubi si infittivano, e il vento cominciava ad alzarsi. «Che facciamo ora?» chiese piano. «Aspettiamo.» «Aspettiamo.» Devoto sospirò. «Se si può raggiungere la perfezione in qualcosa con la pratica, ormai dovrei essere perfetto nell'aspettare.» Sembrava stanco e più vecchio dei suoi anni. «Almeno ora sei a casa» lo consolai. «Sì.» Non sembrava convinto. Dopo un momento disse: «Sembra un anno da quando ho lasciato Castelcervo, e non è neanche un mese intero. Ricordo che giacevo sul letto e contavo i giorni prima della luna nuova, quando avrei affrontato questo fidanzamento. Poi per qualche tempo pensai che forse non avrei dovuto affrontarlo mai. Mi sembrava strano, oggi, sapere che stavo tornando alla mia vecchia vita, che avrei raccolto tutti i fili, tutti i pezzettini, e sarei andato avanti come se non fossi mai partito. Era sconvolgente. Ogni giorno, cavalcando, mi promettevo un paio di giornate tranquille. Volevo rimanere da solo, per rendermi conto di quanto sono cambiato. E adesso... questa stessa sera arriva la delegazione dalle Isole Esterne per formalizzare il mio fidanzamento. Questa sera mia madre e i nobili Isolani decideranno il resto della mia vita.» Tentai di sorridere, ma mi sembrava di consegnarlo al boia. Una volta mi ero trovato a un pelo da un fato simile. Mi inventai un commento. «Devi essere molto emozionato all'idea di vedere la tua futura sposa.» Devoto mi lanciò un'occhiata. «Apprensivo forse è un termine più adatto. C'è qualcosa di piuttosto terrificante nell'incontrare la ragazza che sposerò
quando le mie preferenze non hanno avuto alcuna influenza sulla situazione.» Emise una risatina acida. «Non che io abbia combinato niente di buono quando ho cercato di scegliere qualcosa per me stesso.» Sospirò. «Ha undici anni. Undici estati.» Distolse lo sguardo. «Di cosa parlerò con lei? Bambole? Lezioni di ricamo?» Incrociò le braccia e si appoggiò al freddo muro di pietra. «Non penso che nelle Isole Esterne insegnino alle donne a leggere. E neanche agli uomini, quanto a quello.» «Oh.» Cercai disperatamente una risposta, ma non la trovai. Commentare che quattordici anni non erano molto più di undici sembrava una crudeltà. Aspettammo in silenzio. Senza preavviso, la pioggia annunciata scrosciò su di noi. Cominciò all'improvviso, uno di quegli acquazzoni che inzuppano i vestiti e riempiono le orecchie con il rombo dell'acqua che precipita. Ero quasi grato che rendesse la conversazione impossibile. Rimanemmo miseramente accalcati contro il muro, i cavalli con le teste unite e chine sotto il diluvio. Eravamo entrambi fradici e gelati quando Umbra apparve per scortare il principe nel castello. Parlò poco, un saluto frettoloso nell'acquazzone e una promessa di vedermi presto, e poi sparirono. Sorrisi acido fra me mentre mi lasciavano all'umido. Come pensavo. La vecchia volpe non aveva chiuso il passaggio segreto, ma non mi avrebbe mostrato l'ingresso. Trassi un respiro profondo. Bene. La mia missione era compiuta. Avevo riportato il principe a Castelcervo sano e salvo, in tempo per il fidanzamento. Esaminai le mie emozioni. Trionfo. Gioia. Esaltazione. No. Bagnato, stanco, e affamato. Gelato fin nelle ossa. Solo. Vuoto. Montai in sella a Mianera e cavalcai attraverso l'acquazzone, conducendo la cavalla del principe. La luce si affievoliva e gli zoccoli scivolavano sugli strati di foglie bagnate. Ero costretto a procedere con cautela. Traversammo cespugli carichi di pioggia. Pensavo che fosse impossibile infradiciarmi di più, ma mi sbagliavo. E quando arrivai alla strada principale per la rocca la trovai invasa da uomini e cavalli e lettighe. Dubitai che mi avrebbero permesso di passare, o di unirmi al corteo di fidanzamento. Quindi sedetti in sella a Mianera nella pioggia, tenni le redini della misera cavalla grigia e li guardai passare. Prima vennero i portafiaccola, reggendo in alto le torce per illuminare la via. Erano seguiti dalle Guardie della Regina, in porpora e bianco con l'emblema della volpe, su cavalli bianchi, molto appariscenti e bagnati fradici. Passarono aprendo la strada, seguiti da un gran numero di Guardie del Principe e guerrieri Isolani. Le Guardie del Principe indossavano la divisa
blu di Castelcervo con lo stemma del cervo dei Lungavista, ed erano a piedi, suppongo per rispetto verso gli Isolani. Le guardie della narcheska erano marinai e combattenti, non cavalieri. Pellicce e vesti di cuoio gocciolavano, e sospettai che quella sera la Sala Grande si sarebbe riempita del puzzo di pelliccia bagnata mentre i visitatori si asciugavano dinanzi ai camini. Avanzarono in fila, una dopo l'altra, con il passo ondeggiante di uomini che erano stati a lungo per mare e ancora si aspettavano che la tolda sorgesse a salutarli a ogni passo. Portavano le armi come gioielli, e i gioielli come armi. Gemme splendenti sui baltei, manici di asce listati d'oro. Pregai che quella sera non scoppiasse una rissa fra i vari corpi di guardia. Là avanzavano insieme veterani da entrambi gli schieramenti della Guerra delle Navi Rosse. Seguirono i nobili Isolani, notevolmente a disagio in sella a cavalli presi in prestito. Vidi un gran numero di nobili dei Sei Ducati che cavalcano fra loro in segno di benvenuto. Li riconobbi più dagli stemmi che dai volti. Il duca di Riccaterra era molto più giovane di quanto mi aspettassi. Due giovani donne portavano l'insegna dell'Orso: riconobbi i lineamenti di famiglia, ma non le avevo mai viste prima. E il corteo solenne e marziale continuò, e io rimasi nella pioggia a guardarli. Infine giunse la lettiga della fidanzata del principe Devoto. Galleggiava come una nube addomesticata, immensa e candida, sorretta sulle spalle dal Fiore della Corte. I giovani nobili che camminavano accanto alla lettiga con le torce erano bagnati e schizzati di fango fino alle ginocchia. I fiori e le ghirlande che la drappeggiavano erano sciupati dal vento e dalla pioggia. Quella lettiga sbattuta dal temporale poteva sembrare un funesto presagio, non fosse stato per la ragazza all'interno. Le tende non erano chiuse contro il bacio rozzo del vento, ma spalancate. Le tre signore dei Sei Ducati insieme a lei sembravano fradice e molto preoccupate della pioggia che gocciolava dalle acconciature e inzuppava i vestiti. Ma in mezzo sedeva una ragazzina che sembrava trovarsi perfettamente a suo agio nel temporale. I capelli neri come l'inchiostro erano lunghi e sciolti. La pioggia li aveva lisciati come la pelliccia di una foca, e anche i suoi occhi mi ricordarono una foca, immensi e scuri e liquidi. Mi fissò mentre mi passava accanto, i denti bianchi che un sorriso emozionato metteva in risalto. Come aveva detto il principe, era una bambina di undici anni. Una piccola creatura robusta, dagli zigomi pronunciati e le spalle squadrate, evidentemente decisa a non perdersi un momento del suo viaggio fino al castello sulla collina. Forse per onorare il promesso sposo, ve-
stiva il blu del Cervo, con uno strano ornamento blu nei capelli, ma la sovratunica dal colletto alto era di fine cuoio bianco ricamato in oro con narvali balzanti. La fissai, pensando di averla già vista, o di aver incontrato qualcuno della sua famiglia, ma prima che potessi afferrare il ricordo il palanchino mi superò salendo la collina. E ancora dovetti aspettare sotto la pioggia, perché dietro vennero altre file dei suoi uomini, e dei nostri, per onorarla. Quando finalmente tutta la nobiltà e le guardie furono passate, esortai Mianera sulla strada piena di fango. Ci unimmo a una fiumana di commercianti e mercanti diretti alla rocca. Alcuni portavano le merci in spalla, ruote di formaggio rivestite di cera o barilotti di ottimo liquore, e altri conducevano carretti. Divenni parte del flusso ed entrai dalla porta principale di Castelcervo con loro, ignorato. Gli stallieri stavano prendendo i cavalli, lottando per tener dietro all'afflusso di animali. Diedi loro la cavalla grigia del principe ma dissi che volevo occuparmi io di Mianera, e ne furono felici. Forse era un rischio sciocco. Suppongo che avrei potuto incontrare Mani e finire per essere riconosciuto. Ma in quella confusione di stranieri e animali da sistemare non mi sembrava probabile. Gli stallieri mi dissero di portare Mianera alla «vecchia stalla», ora assegnata ai cavalli dei domestici. Scoprii che era la stalla della mia infanzia, il regno di Burrich, dove ero stato il suo braccio destro. I vecchi compiti familiari per sistemare la cavalla prima di lasciarla nella stalla portarono una strana pace al mio cuore. L'odore di animali e fieno, la luce fioca delle lanterne su ogni stallo e i suoni delle bestie che si preparavano alla notte mi calmarono. Avevo freddo ed ero bagnato e stanco, ma le stalle di Castelcervo erano la cosa più simile a una casa che avessi conosciuto da tempo. Tutto era cambiato nel mondo, ma lì nelle stalle ben poco era diverso. Mentre avanzavo con passo pesante attraverso il cortile in pieno fermento ed entravo dalla porta dei servitori, il pensiero non mi abbandonò. Tutto era cambiato, eppure molto rimaneva uguale a Castelcervo. Passando davanti alle cucine fui investito come al solito da calore e rumore e chiacchiere. L'entrata lastricata alla sala delle guardie era ancora fangosa, e ancora odorava di lana bagnata e birra chiara e carne fumante. Dalla Sala Grande giungevano musica e risate e rumore di piatti e conversazione. Le signore mi sfioravano in un frusciare di vesti, le domestiche aggrottavano le sopracciglia come se rischiassi di gocciolare sulle loro padrone. Fuori dell'ingresso alla Sala Grande, due giovani nobili stavano esortando un ter-
zo a decidersi a parlare con una certa ragazza. Le maniche della tunica di uno dei ragazzi erano bordate di code di ermellino dalla punta nera, e un altro portava un colletto così intessuto di anelli d'argento che poteva appena girare la testa. Ricordai come madama Presta un tempo mi aveva tormentato per i miei vestiti, e riuscii solo a compatirli. La mia tunica era rozza, ma almeno potevo muovermi liberamente. Un tempo mi sarei aspettato di partecipare alla festa, anche se ero solo un bastardo. Quando Veritas e Kettricken sedevano alla tavola alta, a volte venivo fatto accomodare quasi vicino a loro. Nella mia vita di FitzChevalier Lungavista avevo mangiato prelibatezze, conversato con dame nobili e ascoltato i migliori musici dei Sei Ducati. Ma quella sera ero Tom lo Striato, e sarei stato il più grande sciocco del mondo se mi fossi rammaricato di camminare nel mio anonimato fra tanta gaiezza. Immerso nei ricordi, quasi salii i gradini che portavano alla mia vecchia camera, ma mi trattenni in tempo, e mi diressi agli alloggi di messer Dorato. Bussai e poi entrai. Lui non c'era, ma era uscito da poco. Doveva essersi lavato e cambiato, con evidente fretta. Una scatola di gioielli era ancora sul tavolo: aveva preso qualcosa e il resto era sparso sul legno levigato. Aveva provato quattro camicie, gettandole poi sul letto. Molte paia di scarpe scartate ingombravano il pavimento. Sospirai e rimisi in ordine, sistemando due camicie nel guardaroba, riponendone altre due in un baule e chiudendo la porta della camera sui vestiti e i mucchi di scarpe. Alimentai il fuoco, misi candele nuove nei supporti nel caso in cui fosse tornato tardi, e spazzai il focolare. Poi gettai uno sguardo intorno. La stanza piacevole sembrava all'improvviso terribilmente vuota. Trassi un respiro profondo e di nuovo esplorai lo spazio nella mia mente dove il lupo non c'era. Un giorno, mi dissi, quel posto vuoto sarebbe stato naturale. Ma in quel momento non volevo restare solo con me stesso. Presi una candela ed entrai nella mia stanzetta scura. Tutto era proprio come l'avevo lasciato. Chiusi a chiave la porta dietro di me, attivai il meccanismo e cominciai a salire stancamente la scala stretta verso la torre di Umbra. Quasi mi aspettavo di trovarlo lì, ansioso del mio rapporto. Ovvio che non ci fosse; partecipava ai festeggiamenti. Ma anche se Umbra non c'era, le stanze mi accolsero lo stesso. C'era una vasca accanto al focolare e un grande bollitore fumava sul gancio. Sulla tavola c'era del cibo, evidentemente le stesse vivande che i nobili stavano consumando di sotto, e una bottiglia di vino. Un piatto. Un bicchiere. Avrei potuto consolarmi. Ma no-
tai un secondo scranno comodo accanto al suo davanti al fuoco, e su di esso una pila di asciugamani e una veste di lana blu. Umbra aveva lasciato anche garza e bende, e un vasetto di unguento dall'odore nauseabondo. Nel mezzo di tutti i suoi impegni, aveva pensato a me. Facevo bene a ricordarmelo. Comunque non poteva aver portato su i secchi d'acqua da solo. Quindi aveva un servitore, o era il suo apprendista? Era un mistero che non avevo ancora risolto. Versai l'acqua fumante nella vasca e aggiunsi acqua fredda da un secchio per regolare la temperatura. Riempii un piatto di cibo e lo misi vicino alla vasca, insieme alla bottiglia aperta di vino. Tolsi i vestiti zuppi, misi l'amuleto di Jinna sul tavolo e nascosi le mie penne dentro una delle pergamene più polverose di Umbra. Poi staccai la fasciatura dal collo e mi immersi nella vasca. Mi rilassai, piegando la testa indietro. Mangiai immerso nell'acqua calda, bevvi un bicchiere di vino e mi lavai alla meglio. Lentamente il freddo cominciò ad abbandonare le mie ossa. La tristezza che ancora gravava su di me sembrava una sensazione stanca e familiare. Mi chiesi se Stornella suonava e cantava nella Sala Grande. Mi chiesi se messer Dorato ballava con la capocaccia Lora. Mi chiesi cosa pensava il principe Devoto della sposa bambina che il temporale sul mare aveva portato alla sua soglia. Mi distesi nella vasca, bevvi dalla bottiglia, e penso che mi assopii. «Fitz?» La voce del vecchio era preoccupata. Mi svegliai di scatto e mi tirai a sedere nella vasca, schizzando acqua. Avevo ancora in mano la bottiglia. Umbra la prese prima che la rovesciassi e la mise sulla tavola con un rumore sordo. «Stai bene?» «Credo di essermi addormentato.» Ero disorientato. Fissai i suoi bei vestiti di corte, la luce del fuoco morente che luccicava sui gioielli agli orecchi e alla gola. Mi parve all'improvviso un estraneo, e mi vergognai per essermi fatto sorprendere assopito, nudo e mezzo ubriaco in una vasca di acqua quasi fredda. «Lasciami uscire» borbottai. «Prego» mi incoraggiò Umbra. Alimentò il fuoco mentre uscivo dalla vasca, mi asciugavo e indossavo la veste blu. Avevo le mani e i piedi raggrinziti per la lunga immersione. Umbra riempì un bollitore più piccolo e lo mise sul focolare, e poi prese teiera e tazze dalla mensola. Lo guardai mescolare foglie di tè da una fila di vasi con tappi di sughero. «Che ore sono?» chiesi intontito. «Burrich direbbe che è mattina presto.» Umbra mise un tavolino tra gli
scranni davanti al focolare e vi sistemò teiera e tazze. Sedette al suo logoro posto accanto al tavolino e mi indicò l'altro. Obbedii e studiai Umbra. Era stato evidentemente in piedi tutta la notte, eppure non sembrava stanco, semmai rinvigorito. Gli occhi brillavano e le mani erano ferme. Piegò le dita in grembo e per un momento rimase a guardarle in silenzio. «Mi dispiace» disse piano. Incontrò il mio sguardo. «Non fingerò di capire del tutto la tua perdita. Era una creatura eccellente, il tuo lupo. Senza di lui la regina Kettricken non sarebbe mai fuggita da Castelcervo tanti anni fa. E la regina mi ha raccontato spesso che lui procurò il cibo per tutti voi durante il viaggio attraverso il Regno delle Montagne.» Alzò gli occhi fino a fissarli nei miei. «Hai pensato che, se non fosse stato per il lupo, nessuno di noi due sarebbe qui?» Non volevo parlare di Occhi-di-notte in quel momento, non volevo i bei ricordi che gli altri avevano di lui. «Allora» dissi quando il momento di silenzio imbarazzato passò. «È andato tutto bene questa sera? La cerimonia di fidanzamento e il resto?» «Oh, quella era solo la cerimonia di benvenuto. Il fidanzamento ufficiale avrà luogo alla luna nuova. Dopodomani sera. Devono ancora arrivare tutti i duchi. Castelcervo sarà gremita fino alle travi del soffitto, e anche Borgo Castelcervo.» «L'ho vista. La narcheska. È solo una bambina.» Un sorriso strano accese il volto di Umbra. «Se dici che è 'solo' una bambina, dubito che tu l'abbia vista davvero. È... una regina in boccio, Fitz. Vorrei che tu potessi incontrarla e parlarle. È un'incredibile fortuna che gli Isolani ci abbiano offerto una sposa straordinaria per il nostro principe.» «E Devoto è d'accordo?» lo provocai. «Lui...» Umbra drizzò la schiena. «Che succede? Fai domande al tuo padrone? Fai rapporto, giovane arrivista!» Il sorriso privò di ogni malizia le parole. Obbedii. Quando l'acqua bollì, Umbra fece il tè e lo versò dal pentolino, pungente e forte. Non so cosa contenesse, ma la foschia della stanchezza e del vino si diradò dalla mia mente. Gli raccontai tutto fino al nostro arrivo alla locanda del traghetto. Come sempre ascoltò impassibile. Se qualcosa lo sconvolse o lo costernò, lo nascose bene. Fremette solo una volta, quando gli raccontai di aver lottato con Devoto sulla spiaggia. Quando ebbi finito emise un lungo sospiro attraverso il naso. Si alzò e passeggiò senza fretta per la stanza. Poi tornò e si lasciò cadere sullo scranno.
«Quindi il nostro principe possiede lo Spirito» disse con lentezza. Di tutte le cose che avrebbe potuto dire, quella mi sorprese. «Ne dubitavi?» Scrollò lievemente il capo. «Speravo che avessimo torto. Se l'Antico Sangue lo sa, è un coltello alla gola dei Lungavista. In qualunque momento i Pezzati potrebbero scegliere di distruggerlo, semplicemente rivelando ciò che sanno.» Il suo sguardo si fece pensoso. «I Bresinga andranno sorvegliati. Oh sì, penso che la regina Kettricken chiederà a dama Bresinga di prendere in casa una certa giovane donna, una ragazza di sangue nobile ma scarse prospettive. E io controllerò i legami di famiglia di Lora. Sì, so cosa ne pensi, ma non possiamo essere troppo prudenti quando si tratta del principe. Peccato che tu abbia lasciato andare i Pezzati, ma capisco che non potevi farci niente. Se fosse solo un uomo, o due, o anche tre, potremmo eliminare il pericolo. Ma lo sanno una dozzina di persone dell'Antico Sangue, e i Pezzati.» Rifletté un momento. «Si può comprare il loro silenzio?» Sentirlo tramare mi rattristò, ma sapevo che era la sua natura. Tanto valeva avercela con uno scoiattolo perché nascondeva le noci. «Non con l'oro» decisi. «Le buone azioni potrebbero farli contenti. Fa' come chiedono. Mostra buona volontà. Esorta la regina a muoversi con più determinazione per proteggere la gente dello Spirito dalle persecuzioni.» «Lo ha già fatto!» rispose Umbra, sulla difensiva. «Per amor tuo ha parlato chiaro, e più di una volta. La legge dei Sei Ducati impedisce che uno Spirituale venga ucciso solo per quello che è. Altri crimini devono essere dimostrati.» Trassi un respiro. «E la legge è stata applicata?» «Tocca a ogni duca applicare le leggi all'interno del proprio ducato.» «E nel Cervo?» chiesi piano. Umbra rimase silenzioso per qualche tempo. Lo guardai mordicchiarsi il labbro, gli occhi persi nelle profondità del nulla. Soppesava la domanda. Infine chiese: «Pensi che quello li accontenterebbe? Applicazioni più severe della legge all'interno del Ducato del Cervo?» «Sarebbe un inizio.» Umbra trasse un profondo respiro e sospirò. «Ne discuterò con la regina. Non dovrò spronarla molto. In verità finora ho fatto il contrario, esortandola a rispettare le tradizioni del popolo che governa, perché...» «Tradizioni!» sbottai. «Assassinio e tortura come 'tradizioni'?» «La regina gestisce un'alleanza scomoda!» terminò Umbra con più forza.
«Dalla fine della Guerra delle Navi Rosse, mantenere l'equilibrio nei Sei Ducati è stato un lavoro da giocoliere. Ci vuole mano leggera, Fitz, e il buon senso di sapere quando prendere posizione e quando lasciar correre.» Pensai all'odore vicino al fiume, e alla corda tagliata appesa all'albero. «Penso che su questo farebbe meglio a prendere posizione.» «Nel Cervo.» «Nel Cervo, come minimo.» Umbra si coprì la bocca e poi si pizzicò il mento. «Molto bene» concordò, e per la prima volta percepii che stavo negoziando con lui. Non avevo fatto un buon lavoro, ma avevo creduto di dover semplicemente fare rapporto. Eppure, chi mi aspettavo che parlasse per l'Antico Sangue? Messer Dorato? La capocaccia Lora, che avrebbe preferito non aver nulla a che fare con loro? Avrei voluto essere più energico. Poi riflettei che ero ancora in tempo. Avrei parlato con la regina Kettricken. «Allora. Cosa pensa la nostra regina della sposa del principe Devoto?» Umbra mi guardò per un lungo istante. «Vuoi una relazione?» Qualcosa nella sua voce mi fece esitare. Una trappola? Una delle sue domande trabocchetto? «Tanto per sapere. Non ho il diritto di...» «Ah. Allora Devoto si sbagliava, e tu non hai accettato di insegnargli?» Tentai di capire cosa c'entrava. Poi ci rinunciai. «E se avessi accettato?» chiesi cauto. «In tal caso non solo avresti diritto alle informazioni, ma ne avresti bisogno. Se istruirai il principe, devi sapere tutto ciò che lo riguarda. Ma se intendi tornare alla tua capanna da eremita, se lo chiedi solo per conoscere i pettegolezzi di famiglia...» Lasciò che le parole si spegnessero. Conoscevo il suo vecchio trucco. Lascia una frase in sospeso, e qualcuno si affretterà a completarla, magari tradendo i propri pensieri. Sedetti guardando la mia tazza di tè e mordendomi l'unghia del pollice finché Umbra non si sporse attraverso la tavola esasperato e mi allontanò la mano dalla bocca. «E allora?» mi chiese. «Cosa ti ha detto il principe?» Toccò a lui rimanere in silenzio per qualche tempo. Lo attesi, guardingo come un lupo. «Nulla» ammise infine con riluttanza. «Speravo che avresti accettato, tutto qui.» Mi misi comodo sullo scranno, trasalendo quando toccai lo schienale con la schiena dolorante. «Oh, vecchio.» Scossi il capo. Poi mi sorpresi a sorridere, nonostante tutto. «Pensavo che gli anni avessero smussato le tue
asprezze, e invece no. Perché mi tratti così?» «Perché ora sono il consigliere della regina, non il tuo mentore, ragazzo mio. E perché temo che ci siano giorni in cui, per usare le tue parole, le mie asprezze sono fin troppo smussate, e dimentico le cose, e tutti i fili che manovro con attenzione si aggrovigliano all'improvviso fra le mie mani. Quindi tento di essere accurato, più che accurato, in ogni minima cosa che faccio.» «Cosa c'era nel tè?» chiesi all'improvviso. «Erbe nuove che sto provando. Menzionate dalle pergamene d'Arte. Niente efedra, te lo assicuro. Non ti darei nulla che possa danneggiare le tue abilità.» «Ma ti rendono più acuto?» «Sì. Ma c'è un prezzo, come già hai immaginato. Tutto ha un prezzo, Fitz. Lo sappiamo entrambi. Tutti e due passeremo il pomeriggio a letto, non dubitarne. Ma per ora siamo ben concentrati. Allora. Parlami.» Trassi un respiro, chiedendomi come dirlo. Gettai uno sguardo alla mensola sopra il camino. Al centro era ancora conficcato il coltello. Soppesai la fiducia e le confidenze giovanili e tutto ciò che un tempo avevo promesso a re Sagace. Lo sguardo di Umbra seguì il mio. «Molto tempo fa» cominciai piano «tu mi chiedesti di rubare qualcosa al re, per fargli uno scherzo. Sapevi che ti volevo bene. Mi hai costretto a scegliere fra quell'amore e la mia lealtà al mio re. Lo ricordi?» «Sì» rispose solenne Umbra. «E ancora me ne pento.» Trasse un respiro, e sospirò. «E superasti la prova. Non avresti tradito il tuo re neppure per amor mio. So che ti ho fatto passare attraverso il fuoco, FitzChevalier. Ma il mio re voleva metterti alla prova.» Annuii lentamente. «Lo capisco. Ebbene. Anch'io ho giurato fedeltà ai Lungavista, Umbra. Proprio come te. Tu non hai giurato di essermi leale, né io a te. C'è amore tra noi, ma non un giuramento di fedeltà.» Umbra mi osservava con attenzione, aggrottando le sopracciglia bianche. Trassi un respiro. «La mia lealtà è verso il mio principe, Umbra. Penso che tocchi a lui decidere cosa dirti.» Respirai a fondo, e con grande rammarico troncai una porzione della mia vita. «Come hai detto, vecchio amico, ora sei il consigliere della Regina, non più il mio mentore. E io non sono il tuo apprendista.» Guardai la tavola e mi feci forza. Erano parole difficili da pronunciare. «Deciderà il principe cosa sono per lui. Ma non ti riferirò mai più i miei discorsi privati con il mio principe, Umbra.» Umbra si alzò all'improvviso. Con orrore vidi le lacrime colmare i suoi
pungenti occhi verdi. Per un momento la sua bocca tremò. Poi girò attorno alla tavola, mi afferrò la testa fra le mani e si chinò a baciarmi la fronte. «Grazie a Eda ed El» bisbigliò rauco. «Appartieni a lui. E lui sarà al sicuro quando non ci sarò più.» Ero troppo sbalordito per parlare. Umbra girò lentamente intorno alla tavola e riprese il suo posto. Versò altro tè per tutti e due. Distolse il viso per asciugarsi gli occhi, e poi mi guardò di nuovo. Spinse la mia tazza verso di me e disse: «Molto bene. Posso farti rapporto, ora?» 29 Borgo Castelcervo Una buona aiuola di sesamo è un'ottima aggiunta per qualsiasi orto, anche se bisogna stare attenti che non si sparga. Bisogna tagliarlo ogni autunno, e raccogliere i semi prima che gli uccelli li disperdano per tutto il giardino, o passerete la primavera a sradicare fitti cespugli. Tutti ne conoscono il sapore dolce, ma questa pianta ha anche usi medicinali. Semi e radici aiutano la digestione. Un bambino in preda a una colica trarrà molto giovamento da una tisana di sesamo. Masticato, il seme rinfresca la bocca. Un cataplasma calma gli occhi indolenziti. Come dono, il sesamo può significare «Forza» o, secondo altri, «Adulazione.» Erbario di Meribuck Come Umbra mi aveva avvertito, dormii non solo per tutto il pomeriggio, ma anche per parte della prima sera. Mi svegliai nell'oscurità assoluta della mia stanzetta, nella solitudine totale, e temetti all'improvviso di essere morto. Rotolai giù dal letto, trovai la porta a tastoni e mi buttai fuori. Fui investito da luce e folate d'aria. Messer Dorato, impeccabile, sedeva al suo scrittoio. Gettò uno sguardo distratto al mio ingresso improvviso. «Oh. Finalmente sveglio» osservò tutto pimpante. «Vino? Biscotti?» Indicò un tavolo con sedie accanto al focolare. Andai al tavolo strofinandomi gli occhi. Il cibo era disposto in modo coreografico. Mi lasciai cadere sulla sedia più vicina. Avevo la lingua spessa, gli occhi cisposi. «Non so cosa ci fosse nel tè di Umbra, ma non penso di volerlo provare di nuovo.» «E io non so di cosa stai parlando, ma sospetto che sia meglio così.» Si alzò e venne al tavolo, versò il vino per tutti e due e mi rivolse uno sguar-
do di sufficienza. Scosse il capo. «Sei senza speranza, Tom lo Striato. Guardati. Dormi tutto il giorno, e compari con i capelli dritti e una vecchia veste tarmata. Mai avuto un servitore peggiore.» Prese l'altra sedia. Non seppi pensare a una risposta. Centellinai con gratitudine il vino. Osservai il cibo ma scoprii che non avevo appetito. «Come è andata la serata? Hai ballato con la capocaccia Lora?» Il Matto sollevò un sopracciglio, come se la domanda lo confondesse e lo sorprendesse. All'improvviso era di nuovo il mio Matto, con un sorriso storto sulle labbra. «Ah, Fitz, ormai dovresti sapere che trascorro ogni momento della mia vita danzando. E con ogni compagno seguo un tempo diverso.» Poi, abile come sempre, cambiò argomento: «E tu stai bene questa sera?» Sapevo cosa intendeva. «Come ci si potrebbe aspettare» lo assicurai. «Ah. Eccellente. Allora andrai giù a Borgo Castelcervo?» Conosceva il mio pensiero prima ancora che lo formulassi. «Vorrei andare a trovare Ticcio e vedere come va il suo apprendistato. Se non hai bisogno di me qui.» Il Matto studiò il mio viso per un momento, come aspettandosi che dicessi di più. Poi affermò: «Vai in paese. Mi sembra un'ottima idea. Ovviamente stasera ci sono altri festeggiamenti, ma vedrò di arrangiarmi senza di te. Per favore, cerca solo di renderti un po' più presentabile prima di lasciare i miei appartamenti. Ultimamente la reputazione di messer Dorato è abbastanza compromessa senza che si dica anche che tiene servitori sciatti.» Sbuffai divertito. «Ci proverò.» Mi alzai lentamente dalla tavola. Il mio corpo aveva riscoperto i suoi dolori. Il Matto si sistemò in uno dei due scranni di fronte al focolare. Si appoggiò all'indietro con un sospiro e protese le lunghe gambe verso il tepore. La sua voce mi raggiunse mentre mi dirigevo verso la mia camera. «Fitz. Lo sai che ti voglio bene, vero?» Mi fermai dov'ero. «Mi spiacerebbe doverti uccidere» continuò. Riconobbi un'abile imitazione dell'inflessione della mia voce. Lo fissai, confuso. Raddrizzò la schiena e mi gettò uno sguardo da sopra lo schienale dello scranno con un sorriso addolorato. «Non tentare mai più di mettere via i miei vestiti» mi avvertì. «La seta veruleana va appesa. Non appallottolata.» «Cercherò di ricordarlo» promisi umilmente. Il Matto si riaccomodò nello scranno e raccolse il bicchiere di vino.
«Buona notte, Fitz» mi disse piano. In camera trovai una delle mie vecchie tuniche e un paio di brache. Mi vestii e poi aggrottai le sopracciglia. Le brache mi pendevano sui fianchi; le privazioni e le fatiche costanti della nostra spedizione mi avevano smagrito. Spazzolai la tunica, e poi inorridii alla vista delle macchie. Non era peggiorata da quando ero venuto a Castelcervo, ma era cambiato il mio metro di giudizio. Andava bene per la mia casetta nel bosco, ma se dovevo rimanere nel Cervo e far da tutore al principe, dovevo vestirmi di nuovo da cittadino. La conclusione era inevitabile, eppure sembrava stranamente frivola. Mi lavai il viso con l'acqua vecchia nella brocca. Nel mio specchietto tentai invano di lisciarmi i capelli, poi ci rinunciai. Era una causa persa. Presi il mantello e spensi la candela. Traversai come un fantasma la camera di messer Dorato, ora illuminata solo dalla luce guizzante del fuoco. Passai accanto allo scranno vicino al focolare. «Buona notte, Matto.» Lui non rispose, ma alzò la mano aggraziata in un saluto, con un vago cenno dell'indice verso la porta. Scivolai fuori, con la strana sensazione di aver dimenticato qualcosa. Alla fortezza c'era un'atmosfera di festa mentre tutti si preparavano per un'altra sera di banchetti, musica e danze. Le arcate delle porte erano decorate da ghirlande, e i corridoi erano molto più frequentati del solito. La voce di un cantastorie si diffondeva dalla sala minore, e tre giovani nei colori di Armento chiacchieravano vicino alla porta. I miei vestiti vecchi e i capelli ispidi attirarono qualche sguardo perplesso, ma in genere passai inosservato fra i visitatori e i domestici, e lasciai Castelcervo indisturbato. Scesi verso il paese. Lungo la strada ripida c'era ancora un viavai di gente, e nonostante la pioggia incessante Borgo Castelcervo era più vivace del solito. Qualsiasi occasione su alla fortezza incoraggiava il commercio, e il fidanzamento di Devoto era un'opportunità unica. Mi feci largo fra commercianti e mercanti e domestici in missione. Incrociai nobili a cavallo e dame in lettiga, diretti alla fortezza per le festività della sera. Quando arrivai a Borgo Castelcervo la calca divenne ancora più fitta. Le taverne traboccavano, la musica si riversava in strada dalle porte aperte per attirare i passanti, e i bambini correvano, entusiasti per la presenza di tanti stranieri in città. L'aria di festa era contagiosa, e mi sorpresi a sorridere e ad augurare la buona sera a completi sconosciuti mentre scendevo verso la bottega di Jinna. Ma superando un portone vidi un giovane che cercava di convincere una domestica a restare e parlare con lui ancora un poco. Occhi brillanti e sor-
riso allegro, la fanciulla scuoteva i riccioli scuri in dolce rimprovero. Le gocce di pioggia ingioiellavano i loro mantelli. Lui sembrava così serio e così giovane nella sua supplica che distolsi gli occhi e affrettai il passo. Mi fece male il cuore quando compresi che il principe Devoto non avrebbe mai conosciuto un momento come quello, non avrebbe mai assaggiato la dolcezza di un bacio rubato, o l'esaltazione e l'ansia di chiedersi se la sua signora gli avrebbe accordato un altro momento della sua compagnia. No. Sua moglie era stata scelta per lui, e gli anni più freschi della sua virilità sarebbero passati ad attendere che lei diventasse donna. Non osavo sperare che fossero felici. Il meglio che potevo desiderare era che non si rendessero infelici a vicenda. Tali erano i miei pensieri mentre scendevo la stradina serpeggiante che conduceva alla porta di Jinna. Mi fermai fuori, in preda a un imbarazzo improvviso. La porta era chiusa, le imposte accostate. Un lieve bagliore di candela filtrava attraverso un'imposta che non chiudeva bene, ma non sembrava accogliente. Piuttosto parlava dell'intimità casalinga fra quelle pareti. Era più tardi di quanto pensassi; sarei stato un intruso. Mi lisciai nervosamente i capelli tagliati male e mi promisi che non sarei entrato: mi sarei fermato sulla porta e avrei chiesto di Ticcio. Potevo portarlo in una taverna per una birra e quattro chiacchiere. Sarebbe stato bello, mi dissi, un buon modo di mostrargli che lo consideravo un uomo adulto. Trassi un respiro e bussai leggermente alla porta. Sentii il raschiare di una sedia all'interno, e il tonfo di un gatto sul pavimento. Poi la voce di Jinna filtrò dalle imposte. «Chi è?» «Fit... Tom lo Striato.» Maledissi la mia lingua goffa. «Guarda, mi dispiace per l'ora, sono stato via, e ho pensato di passare a...» «Tom!» La porta si spalancò sulle mie scuse frettolose, quasi colpendomi in faccia. «Tom lo Striato, entra, entra!» Jinna aveva una candela in mano, e con l'altra mi prese la manica e mi tirò dentro. La stanza era poco illuminata, rischiarata soprattutto dal fuoco. C'era una tavola bassa tra due sedie. Una teiera fumante accanto a una tazza vuota. Su una sedia, una pila di lavoro a maglia con i ferri infilati. Jinna chiuse a chiave la porta dietro di me, poi indicò il focolare. «Ho appena fatto il tè di sambuco. Vuoi una tazza?» «Non intendevo disturbare, volevo solo salutare Ticcio e vedere come...» «Ecco, dammi il mantello bagnato. Ah, è fradicio! Lo appendo qui. Ecco, siediti. Dovrai aspettare, perché il giovane malandrino non è qui. A dire il vero stavo proprio sperando che tu tornassi presto, per dirgli due paro-
le. Non voglio parlare dietro le sue spalle, ma ci vuole qualcuno che lo tratti con mano ferma.» «Ticcio?» chiesi incredulo. Mossi un passo verso il fuoco, ma il gatto scelse quel momento per acciambellarsi all'improvviso intorno alla mia caviglia. Mi fermai bruscamente, stando attento a non calpestarlo. Fai un grembo. Vicino al fuoco. La vocina decisa risuonò nella mia mente. Guardai giù e il gatto alzò gli occhi su di me. Per un istante i nostri sguardi si sfiorarono, poi entrambi guardammo altrove per cortesia istintiva. Ma già Sesamo aveva scorto le rovine della mia anima. Mi strofinò il muso sulla gamba. Prendi in braccio il gatto. Ti sentirai bene. Non credo. Lui insisté. Prendi il gatto. Non voglio prendere il gatto. Sesamo si drizzò all'improvviso sulle zampe posteriori e mi piantò le unghia affilate anteriori nelle brache e nella carne. Non rispondere! Prendi il gatto. «Sesamo, smettila! Che maniere sono queste?» esclamò Jinna costernata. Si piegò verso la peste di pelo rosso, ma io mi chinai in fretta per sganciare gli artigli dalla mia carne. Mi liberai, ma prima di potermi raddrizzare il gatto mi balzò sulla spalla. Malgrado la sua taglia, Sesamo era sorprendentemente agile. Atterrò con leggerezza, come se qualcuno mi avesse messo un'amichevole manona sulla spalla. Tieni in braccio il gatto. Ti sentirai meglio. Tenerlo fermo mentre mi alzavo fu più facile che staccarmelo di dosso. Jinna cominciò a chiocciare e protestare, ma la rassicurai che era tutto a posto. La donna prese una delle sedie di fronte al caminetto e sprimacciò il cuscino. Sedetti, e quasi mi ribaltai. Era una sedia a dondolo. Non appena fui stabile, Sesamo mi scese in grembo e si raggomitolò al caldo. Piegai le mani sopra di lui, facendo finta di ignorarlo. Mi rivolse un sorriso felino a occhi socchiusi. Trattami bene. Sono io il suo preferito. Mi ci volle un momento per riordinare i pensieri. «Ticcio?» ripetei. «Ticcio» confermò Jinna. «Che dovrebbe essere già a letto, perché domani il padrone lo aspetta prima dell'alba. E dov'è? Fuori a fare la corte alla figlia di mastro Ammonio, che è troppo sveglia per la sua età. È una distrazione per lui, quella Svanja, e anche sua madre dice che starebbe meglio a casa, a lavorare e imparare il mestiere.»
Chiacchierava, seccata e insieme divertita. Il livello della sua preoccupazione mi stupì. Provai una fitta di gelosia: Ticcio era figlio mio, non toccava a me preoccuparmene? Mentre parlava, Jinna mi mise una tazza accanto al gomito, versò il tè per tutti e due, si sedette e riprese il suo lavoro. Quando si fu messa comoda mi gettò uno sguardo e i nostri occhi si incontrarono per la prima volta da quando avevo bussato. Jinna trasalì, e poi si chinò facendosi più vicina, guardandomi fisso. «Oh, Tom!» esclamò con profonda comprensione. Si sporse verso di me, studiando il mio viso. «Povero amico mio, che ti è successo?» Vuoto come un tronco cavo quando i topi sono stati divorati. «Il mio lupo è morto.» Mi sconvolse pronunciare così brutalmente la verità. Jinna mi fissava in silenzio. Sapevo che non poteva capire. Non mi aspettavo che capisse. Ma poi, mentre il suo silenzio impotente si prolungava, compresi che capiva benissimo, perché non offrì inutili parole di conforto. All'improvviso lasciò cadere il lavoro in grembo e si protese per mettermi la mano sull'avambraccio. «Starai bene?» mi chiese. Non era una vuota domanda; attese sinceramente la mia risposta. «Con il tempo» le dissi, e per la prima volta riconobbi che era vero. Per quanto il pensiero sembrasse sleale, seppi che con il passare del tempo sarei tornato me stesso. E in quel momento provai per la prima volta la sensazione che Rolf il Nero aveva tentato di descrivermi. La parte lupesca della mia anima fremette, e, Sì, sarai di nuovo te stesso, e così deve essere, sentii con chiarezza, quasi come se Occhi-di-notte avesse davvero diviso quel pensiero con me. Come un ricordo, e di più, mi aveva detto Rolf. Sedetti immobile, assaporando la sensazione. Poi passò, e un brivido mi percorse. «Bevi il tè, stai prendendo freddo» mi consigliò Jinna, e si chinò per gettare un altro pezzo di legno sul fuoco. Seguii il suggerimento. Quando posai la tazza, gettai uno sguardo all'amuleto sopra al camino. La luce mutevole dalle fiamme indorò e poi nascose le perline. Ospitalità. Il tè era caldo e dolce e tranquillizzante, il gatto mi faceva le fusa in grembo, e una donna mi guardava con affetto. Era solo l'effetto dell'amuleto su di me? Se così era, non me ne curai. Qualcosa in me si allentò ancora un poco. Accarezza il gatto. Ti fa sentire bene, asserì Sesamo compiaciuto. «Al ragazzo si spezzerà il cuore. Sapeva che il lupo ti avrebbe seguito.
Quando il lupo scomparve ero preoccupata, ma quando non tornò, Ticcio mi disse: non temere, è andato dietro a Tom. Oh, non so come farai a dirglielo.» All'improvviso arginò il flusso di parole. Poi dichiarò con forza: «Ma anche lui si riprenderà col tempo, come te. Oh, ormai dovrebbe essere a casa» aggiunse preoccupata. «Cosa farai con lui?» Pensai a me, tanti anni prima, e a Veritas, e anche al giovane Devoto. Pensai a tutti i modi in cui il dovere ci aveva plasmati e legati e aveva trattenuto i nostri cuori. Davvero, il ragazzo ormai avrebbe dovuto essere a casa, a riposarsi per meglio servire il padrone l'indomani. Era ancora un apprendista, e le sue prospettive non erano ancora certe. Non era il momento di interessarsi a una ragazza. Dovevo trattarlo con mano ferma e ricordargli il suo dovere. Mi avrebbe ascoltato. Ma Ticcio non era il figlio di un re, e neanche un bastardo reale. Ticcio poteva essere libero. Mi appoggiai comodo alla mia sedia. Mi dondolai e accarezzai distrattamente il gatto. «Nulla» dissi dopo un momento. «Penso che non farò nulla. Penso che gli permetterò di essere un ragazzo. Penso che lo lascerò innamorarsi di una ragazza, e tirar tardi la sera, e avere un mal di testa martellante l'indomani quando il padrone lo sgrida perché è in ritardo.» Mi girai a guardare Jinna. La luce del fuoco danzava sul suo volto gentile. «Penso che lo lascerò essere un ragazzo per qualche tempo.» «Credi che sia saggio?» chiese Jinna sorridendo. «No.» Scossi lentamente là testa. «Penso che sia sciocco e meraviglioso.» «Ah. Bene. Allora rimani? Vuoi un'altra tazza di tè? O devi tornare subito alla rocca e ai tuoi doveri?» «Stasera non ho doveri. Nessuno sentirà la mia mancanza.» «Bene.» Jinna mi versò un'altra tazza di tè con lusinghiera alacrità. «Rimani un poco. Qui si è sentita la tua mancanza.» Centellinò il suo tè, sorridendomi da sopra l'orlo della tazza. Sesamo sospirò e cominciò un profondo brontolio. Epilogo Ci fu un tempo in cui pensavo che il lavoro significativo della mia vita sarebbe stato scrivere una storia dei Sei Ducati. Ho iniziato tante volte, ma mi è sempre sembrato di deviare da quella grande storia in una narrazione dei giorni e dei dettagli della mia modesta esistenza. Più studiavo i racconti di altri, scritti o trasmessi a voce, più mi sembrava che intrapren-
diamo tali resoconti non per preservare la conoscenza, ma per fissare in eterno il passato. Come un fiore schiacciato ed essiccato, tentiamo di conservarlo per dire: è proprio come il giorno in cui lo vidi. Ma come il fiore, il passato non può essere intrappolato così. Perde la sua fragranza e vitalità, la sua delicatezza diviene fragilità e i colori si spengono. E quando si guarda di nuovo il fiore, si comprende che non è affatto quello che si era cercato di catturare, che quel momento è fuggito per sempre. Avevo scritto le mie storie e le mie osservazioni. Avevo fissato pensieri, idee e ricordi su pergamena e carta. Avevo raccolto così tanto, e pensavo che mi appartenesse. Avevo creduto che cristallizzandolo in parole fosse possibile trarre un senso da tutto ciò che era accaduto, che l'effetto seguisse alla causa, e che la ragione per ogni evento mi sarebbe stata chiara. Forse cercai di giustificarmi, per tutto ciò che non solo avevo fatto ma che ero divenuto. Per anni scrissi puntualmente quasi ogni sera, spiegando con attenzione il mio mondo e la mia vita. Ordinai le mie pergamene su una mensola, fiducioso di aver catturato il significato dei miei giorni. Ma poi venne la volta che tornai a casa e trovai tutti i miei accurati appunti ridotti in frammenti di pergamena in un cortile pesticciato, coperti di neve umida. Rimasi seduto sulla mia cavalla, guardando a terra, e seppi che, come sempre, il passato era sfuggito al mio sforzo di definirlo e capirlo. La storia non è più fissa e morta del futuro. Il passato non è più lontano del respiro di un momento fa. FINE